RAPPORTO SECONDGEN “SECONDGEN”: SECOND GENERATIONS: MIGRATION PROCESSES AND MECHANISMS OF INTEGRATION OF FOREIGNERS AND ITALIANS (1950 – 2010) Regione Piemonte - Bando Scienze umane e sociali Settore: Scienze Sociali PARTECIPANTI: ¾ Università degli Studi del Piemonte Orientale - Dipartimento di Ricerca Sociale ¾ Università degli Studi di Torino - Dipartimento di studi Politici ¾ Università degli Studi di Torino - Dipartimento di Storia ¾ FIERI - Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull’ Immigrazione ¾ Associazione Gruppo Abele ONLUS RAPPORTO FINALE aprile 2014 L’interdisciplinarietà nei metodi e nella costruzione teorica è il tratto caratterizzante della ricerca che si è sviluppata in un processo di integrazione e di interazione di competenze, saperi e metodologie. Il lavoro dei vari partecipanti alla ricerca è così presentato nella sua reale unità. Il presente rapporto intende illustrare i molteplici approcci e l’uso delle fonti quantitative e qualitative che sono state fatte interagire con l’obiettivo di interpretare i dati quantitativi e di chiarire i meccanismi sociali in gioco nei fenomeni migratori. Si è voluto fornire al lettore sia un quadro delle varie operazioni svolte durante il lavoro di ricerca, sia alcuni risultati selezionati. Questi ultimi sono esposti in modo sintetico, l’elenco delle pubblicazioni rimanda alle esposizioni più complete. In generale, nell’organizzazione del testo, la descrizione del lavoro svolto è separata dalla presentazione dei risultati e si alterna con essa. RAPPORTO SECONDGEN INDICE 1. PERCHE’ STUDIARE LE MIGRAZIONI DEL PASSATO E DEL PRESENTE............................... 3 1.1 La specificità dei processi migratori........................................................................................................ 3 1.2. Oltre la prospettiva nazional culturale.................................................................................................... 5 1.3. Un approccio focalizzato sulle relazioni e sulle reti sociali ................................................................... 6 2. PERCORSI NELLA SCUOLA E NELL’AVVIAMENTO AL LAVORO ........................................... 9 2.1. Seconde generazioni delle migrazioni interne del passato .................................................................... 9 Il lavoro svolto........................................................................................................................................... 9 Alcuni risultati ......................................................................................................................................... 11 2.2. Seconde generazioni delle migrazioni internazionali contemporanee.................................................. 28 Il lavoro svolto......................................................................................................................................... 28 Alcuni risultati ......................................................................................................................................... 38 2.3. Analisi................................................................................................................................................... 61 Vie di radicamento e scelte di vita: migranti italiane e straniere a confronto - A.Badino ....................... 61 L’istruzione dei figli nei progetti delle famiglie immigrate. Elementi per una comparazione tra anni Sessanta e oggi - F.Ramella .................................................................................................................... 78 Allievi stranieri nelle circoscrizioni torinesi - R.Ricucci......................................................................... 91 Ricette per il futuro: gli studenti di seconda generazione negli istituti alberghieri - E.Allasino ............. 96 Effetti d’origine nel sistema di istruzione piemontese - L.Donato ........................................................ 108 I consigli orientativi agli studenti di origine straniera. Un caso a parte? - M.Romito ........................... 114 Famiglie immigrate e interazioni con le scuole - M.Perino, E.Allasino................................................ 127 Le relazioni scuola-famiglia nelle rappresentazioni dei genitori migranti - A.Santero ......................... 138 Legami matrimoniali e di convivenza. Le pratiche transnazionali - C.Bergaglio, M.Perino, M.Eve ... 158 Discorsi sulle seconde generazioni in Italia e prospettiva identitaria nazional-culturale - M.Perino.... 175 3. GIOVANI, STRADE, QUARTIERI. OSSERVAZIONE ETNOGRAFICA E PARTECIPAZIONE ALLE DINAMICHE DI GRUPPO............................................................................................................ 185 3.1. La ricostruzione della vita di quartiere dei figli di immigrati interni negli anni Settanta a Torino. ... 185 3.2. L’osservazione partecipante in un giardino pubblico di Torino: giovani non inseriti in circuiti ricreativi, culturali, educativi e sportivi istituzionali e con percorsi di vita “devianti”. ............................ 186 3.3. L’osservazione partecipante e le interviste ai ragazzi incontrati attraverso attività educativa di strada in un giardino pubblico di Torino. .................................................................................................. 187 3.4. Analisi................................................................................................................................................. 189 Giovani e vita di strada nella Torino della grande migrazione interna - D.Basile ................................ 189 Anatomia di un contesto “deviante”: reti e carriere di Fahmi e dei suoi amici - S.Caristia.................. 200 L’osservazione partecipante e le interviste ai ragazzi incontrati attraverso attività educativa di strada in un giardino pubblico di Torino - S.Randino, F.Rascazzo, M.Reynaudo et al. .................................. 250 4. INTERVENTI PER IMMIGRATI? ...................................................................................................... 262 APPENDICE - Alcune pubblicazioni sui risultati di ricerca................................................................... 263 2 RAPPORTO SECONDGEN 1. PERCHE’ STUDIARE LE MIGRAZIONI DEL PASSATO E DEL PRESENTE 1.1 La specificità dei processi migratori La ricerca Secondgen indaga la collocazione sociale e le carriere scolastiche e lavorative dei figli degli immigrati in Piemonte. Lo fa in un’ottica insolita in quanto mette a confronto i percorsi dei figli degli immigrati regionali arrivati attorno agli anni Sessanta con quelli dei figli degli immigrati stranieri oggi. L’obiettivo di base infatti è di esaminare alcune condizioni strutturali associate alle migrazioni di massa anche indipendentemente dalle specificità culturali e origini nazionali delle famiglie immigrate. Perché comparare l’immigrazione regionale e quella internazionale? Nel dibattito pubblico odierno il confronto tra l’immigrazione regionale del passato e quella degli immigrati stranieri in Italia di tanto in tanto viene accennato, spesso con l’intento implicito di ricordare le sofferenze sperimentate dagli immigrati italiani ed di evocare la solidarietà con gli immigrati di oggi. Come illustrazione della vasta diffusione di una simile prospettiva un po’ “miserabilista”, è pertinente ricordare quanto sono note le immagini degli immigrati dal Sud in arrivo alla stazione torinese di Porta Nuova con le valigie di cartone legate con lo spago. Le rappresentazioni della durezza dell’esperienza di molti immigrati hanno un chiaro senso politico e civile, ma l’intento dell’attuale ricerca è diverso. Nel nostro caso il confronto serve soprattutto per capire meglio i meccanismi sociali in atto: infatti l’esistenza di profonde similarità tra l’esperienza dei figli degli immigrati regionali e di quelli internazionali nella scuola, nei quartieri, negli spazi pubblici, all’interno della stessa famiglia, suggerisce che le cause di tali similarità non si trovano unicamente nelle caratteristiche culturali degli immigrati e nemmeno nel loro status giuridico. Riconosciamo, naturalmente, l’importanza di molti aspetti tradizionalmente al centro del dibattito sull’integrazione degli immigrati e dei loro figli, come appunto lo status giuridico (fondamentale infatti il dibattito in corso sull’accesso alla cittadinanza dei figli degli immigrati). Ma l’impostazione della ricerca Secondgen, spostandosi tra migrazioni regionali e internazionali, costringe a focalizzare l’attenzione sull’immigrazione in sé, su ciò che si può chiamare “il processo migratorio”. Cosa si intende con questa espressione? Innanzitutto va notato quanto le migrazioni, comprese quelle regionali, hanno effetti duraturi. Come si vede nelle pagine che seguono, l’esame dei dati censuari e anagrafici per la città di Torino mostra quanto le migrazioni regionali abbiano inciso sulla stratificazione sociale della città. E’ ben conosciuto che gli immigrati stessi arrivati negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta si sono inseriti prevalentemente in posizioni di operai generici (nelle fabbriche, ma anche nei servizi e nell’edilizia), quindi in fondo alla gerarchia sociale e del mercato del lavoro. Ma è meno conosciuta l’esistenza di una “seconda generazione” di figli di immigrati regionali, anch’essi sovente in posizioni meno avvantaggiate rispetto ai figli dei locali. Infatti nel 2001 (momento in cui gli immigrati stranieri erano ancora relativamente pochi), la grande maggioranza degli operai e assimilati a Torino tra i quarantenni, trentenni e ventenni era costituita da figli di immigrati meridionali. Invece nelle professioni più qualificate, retribuite e prestigiose i figli di immigrati regionali (soprattutto meridionali) si trovavano fortemente sottorappresentati. La ragione principale di questo svantaggio relativo dei figli degli immigrati regionali riguarda il basso titolo di studio raggiunto, soprattutto da chi è nato al Sud (o, negli anni precedenti, al Nord Est) e da chi è arrivato in città da ragazzo. Non si tratta semplicemente di un effetto delle 3 RAPPORTO SECONDGEN caratteristiche individuali dei genitori: la sociologia ha spesso dimostrato il legame tra genitori operai o genitori poco istruiti e titoli di studio i dei figli inferiori rispetto a figli di genitori delle classi medio-alte. La regressione logistica condotta da questa ricerca permette di separare questi “normali” effetti di classe, dimostrando uno svantaggio specifico: si vede che i figli degli immigrati regionali non sono stati svantaggiati solo dal fatto che i genitori erano spesso operai con poca istruzione, ma anche dal fatto di essere figli di immigrati e si vede che lo svantaggio è maggiore per chi arriva in città da ragazzo. Le dimensioni dello svantaggio scolastico dei figli degli immigrati regionali e gli effetti che questo ha sulla vita adulta trovano un forte parallelo nello svantaggio dei figli di immigrati stranieri in Italia oggi, come del resto in molti dati internazionali. E’ proprio l’esistenza di molti casi di difficoltà scolastiche, emersi tra popolazioni immigrate molto differenti tra loro in termini di caratteristiche culturali (e posizione giuridica), che spinge ad indagare a fondo il rapporto tra la famiglia immigrata e la scuola. Nel dibattito pubblico attorno all’immigrazione, la scuola è spesso vista come una formidabile macchina di integrazione dei figli degli immigrati. Tuttavia vanno distinte diverse dimensioni. Da una parte la scuola è l’ambiente in cui i bambini socializzano, formano amicizie, imparano una lingua come veicolo di comunicazione quotidiana e così via. Dall’altra parte è ciò che ha definito Sorokin (1927): “in primo luogo un’agenzia di selezione e smistamento degli allievi”, quindi un’istituzione che crea e consolida disuguaglianze. Attirare l’attenzione su questo aspetto della scuola non è abbracciare utopistici progetti di uguaglianza totale. Si tratta più concretamente di capire come migliorare il capitale umano della forza lavoro futura che sarà molto probabilmente cruciale per la crescita economica (Hanushek 2013; Cipollone, Sestito 2010) e come contenere profonde diseguaglianze che possono avere vaste conseguenze non solo per i singoli interessati ma per il funzionamento della società e dell’economia nel suo complesso. I risultati scolastici dei figli degli immigrati delle molte migrazioni nei vari paesi d’immigrazione sono abbastanza variabili (Portes, Rumbaut 2001; Marks 2009; Crul et al. 2012). Proprio per questo sembra importante capire i meccanismi sociali in gioco. L’attenzione ai “fattori di rischio di esclusione” dei giovani di origine immigrata non è una novità nell’ambito della ricerca e delle politiche. Le cause che possono produrre percorsi di integrazione “verso il basso” sono ampiamente discusse e generalmente condivise, tuttavia le indagini in merito presentano frequentemente due limiti fondamentali. Si ricorre spesso a una spiegazione culturalista e non si spiegano concretamente il processo di selezione e i meccanismi sociali che lo caratterizzano. E’ infatti facile constatare che la ricerca frequentemente considera lo svantaggio etnico, costituito dall’origine nazionale, dalla religione, o da tratti somatici, come chiave esplicativa dei percorsi, soffermandosi quindi su elementi dati, ascritti, assunti in modo non problematico come scontati, piuttosto che sull’interazione e sulla azione delle persone. Poca attenzione viene rivolta alla posizione e al percorso fatto di azioni e interazioni nella società di arrivo e determinato dalle risorse relazionali, dai tempi sociali, dalle caratteristiche della famiglia immigrata. Nella scuola e nel mercato del lavoro i giovani di origine immigrata si inseriscono in determinate posizioni non tanto per le loro origini nazionali e le loro specificità culturali, ma per altre specificità delle reti sociali, del mercato del lavoro, dei quartieri e della famiglia (Wimmer, 2009). Una domanda di fondo che percorre tutto il lavoro potrebbe essere così sintetizzata: quali aspetti delle migrazioni comportano svantaggi? 4 RAPPORTO SECONDGEN 1.2. Oltre la prospettiva nazional culturale L’approccio che la ricerca adotta, basato sull’attenzione dettagliata al modo in cui le migrazioni incidono sulle relazioni sociali tessute nel luogo di immigrazione (i quartieri, le scuole, i luoghi di lavoro, i luoghi del tempo libero) distingue Secondgen da molti studi, più focalizzati sulle identità nazionali e sulla specificità culturale. Nel dibattito pubblico sulle migrazioni, in Italia come altrove, esiste una tendenza molto diffusa a classificare le persone a partire dalle loro origini, utilizzando le categorie etniche o nazionali come se fossero delle entità naturali con potenzialità euristiche e efficaci chiavi di lettura per ordinare le informazioni e spiegare comportamenti e processi sociali. Malgrado le perplessità da più parti espresse nei confronti delle interpretazioni culturaliste, le pratiche metodologiche spesso forgiano l’analisi al punto di spiegare ciò che invece dovrebbe essere spiegato, come nel caso, per esempio, delle interpretazioni che riconducono ad una presunta natura intrinseca di determinate comunità nazionali i diversi risultati ottenuti a scuola dai minori di origine straniera o la concentrazione in una certa attività lavorativa. Raramente tali nozioni vengono esplicitate con chiarezza; ci si limita quasi sempre alla semplice constatazione della differenza. Il risultato però è di dare l’impressione a chi legge che la nazionalità in se stessa abbia un valore esplicativo. Lo “sguardo nazionale” e il criterio della discendenza sono adoperati anche per leggere la realtà riferita al mondo dei minori di origine straniera. I giovani immigrati, o figli di immigrati, si trovano ad essere sovraccaricati di attribuzioni di significati culturali, acquisiti “naturalmente” dai genitori (Marazzi, 2006). Nell’ambito degli studi sulle immigrazioni, importanti filoni di ricerca dalla teoria assimilazionistica, anche nella variante dell’assimilazione segmentata, al multiculturalismo e agli ethnic studies - ritengono infatti che sia analiticamente proficuo pensare le società divise in gruppi etnici/nazionali caratterizzati da una specifica cultura, dense reti di solidarietà e un’identità condivisa. Benché l’attenzione sia da tempo orientata ai meccanismi di costruzione dei confini, tuttavia non solo nel senso comune il riferimento all’appartenenza nazionale è un frequentissimo rimando al quale si danno poteri esplicativi, ma anche la ricerca sociale continua ad essere influenzata dal “nazionalismo metodologico” (Wimmer, Glick Schiller, 2002) che presuppone la corrispondenza tra stato, nazione, società entro i confini di un territorio, con conseguenze fondamentali sulla concettualizzazione delle migrazioni come movimenti di appartenenti ad “altri popoli” che si inseriscono in una unitaria comunità solidale di cittadini. I figli degli immigrati sarebbero pertanto in una situazione di tensione tra adesione alla cultura nazionale della maggioranza e riferimento alle tradizioni familiari, secondo la frequente immagine del giovane di seconda generazione “sospeso” tra due culture e dei gruppi nazionali, i gruppi etnici, come realtà omogenee, costituenti della vita sociale, protagonisti dei conflitti sociali e fondamentali unità di analisi. Questo senso comune così pervasivo, invece di essere oggetto di analisi sistematiche, è un diffuso quadro interpretativo (Brubaker, 2004) che stabilisce nello “sguardo nazionale” e nella discendenza i criteri per leggere la realtà del fenomeno migratorio e dei giovani di origine straniera. Nella prospettiva che abbiamo chiamato "nazional culturale" (Eve, Perino, 2011), si tende a focalizzare l’attenzione sulle reciproche influenze e contatti tra persone di diverse origini nazionali, sul grado di mescolamento o separazione tra due unità-comunità immaginate in termini essenzialmente nazionali (o nel caso delle migrazioni regionali, unità regionali con tratti culturali differenti). Nel concreto, l'attenzione dei ricercatori è quindi su questioni come il numero di amici connazionali che un giovane ha, sul grado di endogamia, sulla specificità del modo di vestirsi o di pensare in termini nazionali, sull'intensità dei legami con il paese di origine. Nonostante l'interesse di domande del genere, esse tendono a lasciare nell'ombra altri aspetti più cruciali. Infatti, dal punto di vista dell'impatto che l'immigrazione ha sulla società locale, e sulle vite dei singoli, ciò 5 RAPPORTO SECONDGEN che è fondamentale non è necessariamente la nazionalità delle persone con cui si fa amicizia ma piuttosto le attività e le capacità sviluppate con queste persone. 1.3. Un approccio focalizzato sulle relazioni e sulle reti sociali L'idea che i figli degli immigrati si integrino in un'indifferenziata "società" nazionale ("la società americana", "la società italiana", ecc.) è una semplificazione ingannevole. Ciò che conta dal punto di vista della carriera effettivamente seguita da un giovane è piuttosto in "quale parte" della società (in questo caso, la società italiana) si inserisce. Per questo motivo l'attuale ricerca si è focalizzata sugli ambienti sociali: in quali scuole, spazi pubblici, associazioni, gruppi amicali i giovani sono presenti, e quali azioni e interazioni sviluppano? Il tentativo della ricerca Secondgen è stato quindi quello di esplorare il modo in cui "il processo migratorio" abbia inciso sulle relazioni costruite dai giovani e dalle famiglie. Le migrazioni hanno profondi effetti su molti aspetti della vita. Come si vedrà, incidono sul quartiere in cui si va ad abitare, sull’esperienza scolastica (basti ricordare che, per molti bambini, le migrazioni implicano diversi cambiamenti di scuola, che possono avere conseguenze sulla scolarità, in particolare a determinate età), ma anche sul modo in cui si organizza la vita familiare e la cura dei figli, su alcuni aspetti del tempo libero dei giovani. Gli spostamenti geografici provocano una generale riorganizzazione della rete sociale che ha vaste conseguenze sociali. A sua volta, il carattere delle reti sociali create nel luogo di immigrazione ha profonde conseguenze per le informazioni di cui le famiglie dispongono, per esempio, rispetto alla scuola e al mercato del lavoro. E ha conseguenze anche sugli atteggiamenti e orientamenti che i giovani sviluppano. Con la sua domanda di fondo, “Quali aspetti accomunano l’esperienza dei figli degli immigrati regionali e internazionali?”, la ricerca Secondgen ha cercato di individuare i molti modi in cui le migrazioni in sé plasmano le vite delle persone. Com’è noto, in tutte le immigrazioni di massa (Piore 1979), gli immigrati tendono ad inserirsi in nicchie abbastanza specifiche del mercato del lavoro, quelle in cui esiste una domanda di lavoro non interamente soddisfatta dai lavoratori locali. I lavoratori immigrati si distinguono anche per i tempi necessari per trovare una certa stabilità: la scarsità di contatti nel locale mercato del lavoro e l’inadeguatezza delle informazioni tendono a richiedere tempi lunghi prima di arrivare ad un inserimento stabile anche per chi non ha i molteplici problemi legati alla regolarizzazione della propria posizione giuridica. Tipicamente infatti, l’immigrato si inserisce in primo luogo in un posto di lavoro piuttosto marginale, poi cambia diverse volte prima di accedere a una maggiore stabilità (spesso sempre a livelli modesti). La specificità di questo tipo di inserimento lavorativo osservato tra gli immigrati di epoche e contesti storici diversi ha importanti conseguenze anche per la storia abitativa delle famiglie immigrate. Infatti anche l’inserimento degli immigrati nel tessuto urbano tende ad essere molto caratteristico. L'analisi dei dati censuari torinesi ha permesso di illustrare un modello che è probabilmente valido, nei suoi termini più generali, anche per altre città. Come si vede dalle mappe riprodotte per la ricerca, una prima fase di concentrazione nel vecchio centro storico, in case spesso disagevoli e sovraffollate ma ad affitti bassi, è stata seguita (magari dopo diversi traslochi) dal trasferimento in zone di forte connotazione popolare, abitate prevalentemente da altre famiglie immigrate. Questo modello di movimento attraverso il tessuto urbano (prima in quartieri degradati poi tendenzialmente verso quartieri popolari, che in alcuni casi corrispondono a complessi di edilizia popolare) è stato descritto da molti resoconti di migrazioni internazionali. E negli anni recenti, l'immigrazione straniera a Torino e in altre città piemontesi ha seguito traiettorie simili. Infatti il tipo di percorso è così simile che non di rado gli stessi palazzi abitati trenta o quaranta anni fa da immigrati meridionali sono ora occupati da famiglie straniere. Ma il fatto che il modello emerga con tanta chiarezza anche nel caso 6 RAPPORTO SECONDGEN dell'immigrazione regionale sembra suggerire che si tratta di dinamiche del mercato immobiliare legate all'immigrazione stessa, ai prezzi degli affitti, poco accessibili agli immigrati nella prima fase dell'immigrazione, ai criteri di accesso alle case popolari (che tendono a favorire gli immigrati se abitano case sovraffollate o degradate), alla relativa mancanza di canali alternativi, di cui i locali spesso godono, come l'accesso a case di parenti. Vale la pena riflettere sulle conseguenze sociologiche di questa dinamica urbana per le famiglie e per le carriere scolastiche dei figli. Innanzitutto va ricordato che la scuola elementare e anche media è normalmente quella del quartiere: l’analisi dei dati comunali torinesi conferma quanto questo localismo rimanga forte anche oggi nonostante il fatto che i genitori abbiano margini di scelta maggiore rispetto al passato. La scuola frequentata è importante per le competenze che fornisce (e non tutte le scuole forniscono le stesse competenze, come si vede anche oggi dai dati Invalsi piemontesi analizzati per l’attuale ricerca). E’ importante anche per i legami amicali che si formano, perché gli interessi e le aspirazioni dei giovani si formano in attività e conversazioni con altri. Da questo punto di vista, ciò che è cruciale per i nostri obiettivi non sono tanto le origini nazionali degli amici, tema su cui si tende a focalizzare l’attenzione in modo anche eccessivo, ma piuttosto le capacità e gli orientamenti verso un tipo di carriera sociale piuttosto che un altro. Va ricordato inoltre che il palazzo e il quartiere dove abita la famiglia non sono importanti solo perché abitando in una certa via si frequenterà quella scuola. Alcuni intervistati, soprattutto maschi, sia tra i figli di immigrati regionali sia tra i figli di immigrati stranieri, hanno raccontato di una vita sociale estremamente locale, centrata su un giardino davanti casa e amicizie con compagni di scuola che sono anche vicini di casa. Altri intervistati hanno costruito a partire dall’università o dalla scuola superiore frequentata, o da un’associazione reti sociali assai poco localizzate. Non a caso le carriere di queste persone sono diverse. Anche i rapporti familiari e parentali tendono a cambiare proprio a causa dello spostamento geografico. Nelle migrazioni è frequente che un nucleo familiare si sposti solo a tappe. Questo era vero anche per le migrazioni regionali: le interviste con i figli degli immigrati regionali e con i loro genitori dimostrano che in generale partiva un membro della famiglia, e solo dopo aver trovato un posto di lavoro più stabile e un alloggio adatto ad accomodare altri membri, si procedeva al ricongiungimento, magari gradualmente. Queste storie trovano riscontro anche nei racconti degli intervistati stranieri, suggerendo che le separazioni e successivi ricongiungimenti dipendono in parte dalle difficoltà strutturali di inserimento nel mercato del lavoro e in quello immobiliare. Tuttavia, gli stranieri hanno dovuto superare anche i notevoli ostacoli giuridici e burocratici posti dalle leggi sull’immigrazione. I costi elevati del viaggio, i problemi di regolarizzazione del primo membro della famiglia che arriva, le difficoltà di ottenere e dimostrare di avere una casa e un reddito sufficiente per poter chiedere il ricongiungimento familiare, sono fattori che complicano enormemente il problema del ricongiungimento. Così in alcuni casi un ragazzo che arriva ricongiunto, oltre ad inserirsi in una nuova scuola e in un nuovo contesto linguistico, deve anche adattarsi a nuovi rapporti familiari con genitori (e a volte fratelli) con cui, in alcuni casi, non ha convissuto da anni. Tali separazioni e ricombinazioni non sono necessariamente negative: come hanno ricordato molti sociologi della famiglia, esiste una grande varietà di forme familiari funzionali. E le nostre interviste con figli di immigrati che hanno sperimentato separazioni e ricongiungimenti non hanno fatto emergere rapporti familiari patologici, tuttavia tra le varie specificità della famiglia immigrata vanno tenuti in conto anche i periodi di distacco dai genitori. Le migrazioni cambiano anche i rapporti con altre figure al di fuori del nucleo genitori-figli. In generale i nonni non si trasferiscono e quindi non è possibile un modello di cura quotidiana dei bambini in cui la nonna funge da perno fondamentale. E’più facile che le catene migratorie portino gli zii e i cugini al nuovo posto d’immigrazione; ma ci sono molti casi in cui le migrazioni tagliano anche questi scambi quotidiani. 7 RAPPORTO SECONDGEN La trasformazione che accompagna lo spostamento geografico è ancor più generale in quanto tendono a cambiare anche una serie di rapporti con figure che, nel luogo di emigrazione, erano significative nel mantenimento di un determinato stile di rapporti familiari. Basti pensare ai vicini di casa, che magari tenevano d’occhio i ragazzi quando erano fuori casa e esercitavano un po’ di controllo, oppure agli amici del marito che costituivano il centro della sua vita sociale. A volte, come testimoniato da alcune interviste, la perdita di questi legami favorisce uno stile di vita molto più centrato sulla casa e sul nucleo familiare. Senza dubbio i possibili cambiamenti sono molti. Il corpus delle interviste testimonia, sia con figli di immigrati regionali sia con figli di immigrati internazionali, che raramente i rapporti all’interno della famiglia restano immutati quando la famiglia cambia il suo contesto. 8 RAPPORTO SECONDGEN 2. PERCORSI NELLA SCUOLA E NELL’AVVIAMENTO AL LAVORO 2.1. Seconde generazioni delle migrazioni interne del passato Il lavoro svolto Fonti archivistiche Gli archivi scolastici di alcune scuole elementari e medie situate in quartieri della vecchia periferia operaia cittadina che all’epoca hanno accolto molti immigrati al loro arrivo: l’archivio della scuola Padre Gemelli – anch’essa di Torino (quartiere Lucento) - che negli anni Sessanta e Settanta era una scuola speciale e differenziale. Sono stati rilevati dati e informazioni di vario genere relativi al periodo 1959-1974: in particolare sono state consultate: − le “Schede alunni”, anni campione − le “Relazioni medico-psico-pedagogiche”, anni campione − le “Relazioni degli alunni inseribili in scuola normale”, anni campione. I registri scolastici − delle seconde e quinte elementari delle scuole del circolo didattico Pestalozzi (quartiere di Barriera di Milano) a Torino per gli anni scolastici 1961-62, 1962-63, 1963-64, 1964-65 e 196970. Lo stesso lavoro è stato compiuto nella scuola elementare Margherita di Savoia (quartiere Lucento) a Torino, dove sono stati consultati i registri scolastici delle classi dal 1960 al 1972. − della scuola media Viotti di Torino (quartiere Barriera di Milano) degli anni 1978-79, 1979-80 e 1980-81. Ricerche e inchieste, soprattutto sociologiche e pedagogiche, condotte negli anni Settanta Il corpus di indagini inedite costituito dalle tesi di ricerca della Scuola per assistenti sociali di Torino (UNSAS). Si tratta di casi di studio, frutto di osservazione diretta su diversi aspetti della realtà urbana realizzati tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Ottanta dalle studentesse al termine di un tirocinio sul campo. Le tesi forniscono minuziose descrizioni delle situazioni studiate e a esse sono sovente allegati in versione integrale preziosi materiali di ricerca, come interviste in profondità, relazioni di operatori nel campo dei servizi sociali e verbali di riunioni. Lo Studio Longitudinale Torinese E’ stato stipulato un accordo di collaborazione di ricerca con il Servizio regionale di epidemiologia (SEPI) dell’ASL TO3, titolare della custodia e del trattamento dei dati per conto del Comune di Torino, grazie al quale i ricercatori di Secondgen hanno potuto accedere ai dati censuari e anagrafici dello Studio longitudinale torinese (Slt). L’obiettivo di questa collaborazione sta nell’approfondire il rapporto tra migrazioni, stratificazione sociale e indicatori correlati. Iscrizioni e cancellazioni anagrafiche Sono state rilevate dagli Annuari statistici del Comune di Torino le iscrizioni e le cancellazioni anagrafiche, che corrispondono agli immigrati in città e agli emigrati dalla città, nei venti anni compresi tra il 1956 e il 1975, distinti in base al sesso per provenienza geografica e per fasce di età. 9 RAPPORTO SECONDGEN Le schede di famiglia del censimento della popolazione di Torino del 1971 Su questa fonte, utile a studiare l’inserimento di individui e famiglie meridionali nella società urbana, sono stati compiuti sondaggi: sono state rilevate le informazioni contenute nelle schede di famiglia del censimento della popolazione di Torino del 1971 relative a cinque campioni di individui residenti in caseggiati in altrettanti quartieri della città per un totale di più di 7000 persone: Barriera di Milano, Borgo S. Paolo, Vanchiglia, Mirafiori Sud, Mirafiori Nord. I dati raccolti, che distinguono gli individui per origine geografica (intendendo per origine geografica il luogo di nascita dei genitori) e per sesso, hanno riguardato per ogni gruppo: il numero medio di componenti della famiglia, la composizione per fasce di età, il titolo di studio dei maggiori di 14 anni, la condizione professionale dei maggiori di 14 anni, il titolo di studio e la condizione professionale degli individui tra 14 e 19 anni. E’ stato possibile mettere a confronto i profili sociali e demografici degli abitanti immigrati e locali e formulare ipotesi sulle reali possibilità di integrazione e interazione tra le due popolazioni che in certi quartieri si trovavano a vivere a stretto contatto. Le interviste in profondità per ricostruire i percorsi biografici dei figli dell’immigrazione meridionale e ottenere informazioni che il dato statistico non è in grado di fornire – soprattutto sotto il profilo delle relazioni sociali degli individui: sono state realizzate 30 interviste in profondità a uomini e donne di origine meridionale nati tra gli anni Cinquanta e i primi anni Settanta del Novecento, alcuni arrivati a Torino in età infantile o adolescenziale, altri nati in città da genitori immigrati. La maggior parte dei testimoni è cresciuta nel quartiere della vecchia periferia operaia in cui è situato il circolo scolastico di cui si è consultato l’archivio − altre 14 interviste sono state realizzate per una tesi di laurea (relatori Anna Badino e Michael Eve) mirata a indagare le migrazioni familiari negli anni sessanta e settanta e i percorsi dei figli in un contesto di provincia, quella astigiana. − sono state realizzate 30 nuove interviste a protagonisti dell’immigrazione meridionale a Torino, che si aggiungono alle oltre cinquanta interviste raccolte da Anna Badino dal 2004 al 2008, andando a costituire un ricco corpus donne della prima generazione di immigrate meridionali di testimonianze relative all’esperienza dei genitori immigrati. Grazie a tali materiali biografici in alcuni casi si è potuto mettere in relazione le vicende di fratelli e sorelle, mogli e mariti, genitori e figli all’interno di una stessa famiglia e contestualizzare con maggiore precisione il mondo sociale in cui si sono sviluppati i percorsi di vita delle seconde generazioni di immigrati. − attualmente è in corso la realizzazione di una serie di interviste a immigrati e figli di immigrati regionali piemontesi nati tra gli anni Cinquanta e i primi anni Settanta del Novecento. Questo ulteriore materiale biografico dovrebbe servire ad approfondire il confronto tra i percorsi sociali delle seconde generazioni di meridionali e quelli delle seconde generazioni di piemontesi. − 10 RAPPORTO SECONDGEN Alcuni risultati Uno sguardo ravvicinato sulla realtà scolastica delle elementari I registri scolastici hanno permesso due tipi di analisi. In primo luogo, la rilevazione di dati relativi al decennio Sessanta e ai primi anni del decennio successivo (1961-1972) ha consentito di analizzare da vicino per più anni le forme in cui in quel periodo storico si manifestava lo svantaggio scolastico dei bambini nati in famiglie di immigrati dal Sud rispetto a quello dei coetanei di altra origine: sono gli alunni meridionali a registrare il maggior numero di bocciature, di ritardi scolastici di uno o più anni e di iscrizioni nelle classi in corso d’anno. Quest’ultimo fattore rendeva più difficile sia il loro inserimento dal punto di vista relazionale tra i nuovi compagni sia, sul piano dell’apprendimento, il mettersi in pari con il programma scolastico. In secondo luogo, i ricchi appunti delle maestre presenti nella sezione dei registri denominata “cronaca di vita della scuola” hanno fornito informazioni molto interessanti sul tipo di accoglienza riservata ai bambini meridionali da parte del corpo insegnante, oltre a notizie sulle situazioni familiari degli alunni immigrati. Da questi commenti emergono: - Una frenetica mobilità territoriale delle famiglie immigrate (per l’arrivo a Torino o per il trasferimento in un quartiere diverso) che potevano comportare per i bambini l’abbandono della classe frequentata nel corso dell’anno. Scrive un’insegnante di una seconda elementare nel marzo 1962: «C., iscritta in questa scuola ad anno inoltrato e proveniente dalle Puglie, stenta ancora a mettersi in carreggiata. Legge sempre sillabando e scrive in modo disordinato e con moltissimi errori». - Il ricorso da parte dei genitori immigrati ai collegi a Torino per affrontare difficoltà che sono accentuate dalla specifica condizione della migrazione, in primis l’impoverimento della rete famigliare. «8 febbraio 1962: per la seconda volta si assenta per un lungo periodo. La casa (a Torino) è chiusa. Ho saputo dalle compagne che tutta la famiglia era andata in Sicilia e che la bambina era stata messa in collegio. È tornata accompagnata dalla mamma che non ha saputo rispondere in quale collegio la bambina era stata e cosa avesse fatto». ‐ Specificità di genere nelle responsabilità familiari e nelle aspettative nei confronti dell’istruzione. Le bambine erano spesso investite dai genitori di responsabilità di cura nei confronti dei fratelli minori. Scrive una maestra: «12 dicembre 1964. La mamma (di T., nata a Brindisi, che fa troppe assenze e per questo è stata fatta chiamare la madre, n. d. r.) si scusa dicendo che è sfrattata dall’alloggio e le è molto difficile trovarne un altro perciò è costretta a lasciare i fratellini più piccoli in custodia alla sorella maggiore per poter darsi con tranquillità alla ricerca di una casa». Inoltre, maschi e femmine sembrano distinguersi nei comportamenti verso la scuola. Le descrizioni delle maestre riportano spesso condotte degli uni e delle altre molto diverse. Le bambine si dimostrano in generale più tranquille, ubbidienti e volenterose. - Un atteggiamento ostile di insegnanti poco preparati ad affrontare il fenomeno migratorio, che finisce per demotivare bambini e famiglie. Spesso i figli di meridionali appaiono “diversi” agli occhi di certi insegnanti, compagni e, non raramente, della stessa istituzione scolastica. Nei 11 RAPPORTO SECONDGEN registri scolastici appaiono frequentemente lamentele sulla loro scarsa disciplina ed educazione, sulla loro poca pulizia. Scrive una maestra di una seconda elementare nel 1961: «L’alunno C. (nato a Barletta) non ha fatto l’antivaiolosa. Viene accompagnato dalla sorella che mi ha detto che loro non possono recarsi all’ufficio di Igiene perché vanno a lavorare tutti. In realtà queste sono soltanto delle scuse». - Il biasimo nei confronti delle famiglie e delle madri in particolare: soprattutto se lavorano, queste donne sono accusate di trascurare i figli e di tenere in scarsa considerazione la scuola: ogni occasione è buona per rimarcare che il lavoro fuori casa arreca danno ai figli e alla scuola. Scrive una maestra nel febbraio del 1962 che molte mamme, pur di parcheggiare i figli nella classe per essere libere di andare a lavorare (nella sua interpretazione), li mandano «febbricitanti e con qualche malessere» e in questo modo contribuirebbero a diffondere tra gli alunni i germi di «malattie infettive come il morbillo o la varicella...» «25 gennaio 1964. Visita del direttore che mi ha consigliato per quanto riguarda i bambini provenienti da altre scuole e che sono arrivati in seconda senza saper leggere e scrivere di fare tutto ciò che è nelle mie possibilità. Sono una quindicina (su 33) le cui mamme non si fanno mai vedere e non s’interessano minimamente dei loro figli con la scusa che vanno a lavorare ». - Retrocessioni e classi differenziali, diffusa pratica che colpisce, al momento dell’arrivo, invariabilmente coloro che hanno già frequentato una o più classi al paese di origine. Lo svantaggio dei figli di immigrati meridionali sembra confermarsi nella scuola media riformata della fine degli anni Settanta. Qui colpisce l’effetto di dissuasione dal continuare gli studi giocato dal giudizio che gli insegnanti erano tenuti a esprimere al termine della scuola dell’obbligo. Dai nostri sondaggi realizzati i giudizi scritti frequentemente sono: «Si consiglia l’immediata immissione nel mondo del lavoro»; «Non lo si ritiene idoneo al proseguimento degli studi»; «Si consiglia un breve corso di formazione professionale». Emerge una significativa differenza tra maschi e femmine a favore di queste ultime: le ragazze che sono invitate a proseguire gli studi sono il 26% sul totale delle studentesse; i ragazzi solo il 16%. 12 RAPPORTO SECONDGEN Lo svantaggio nei titoli di studio Non meno dei figli degli immigrati stranieri oggi, i figli degli immigrati regionali erano nettamente svantaggiati in termini di titolo di studio raggiunto. È quanto emerge dalle analisi realizzate sui dati dell’Slt, in cui è stato operato un doppio confronto che ha accostato, da un lato, i percorsi scolastici dei figli di meridionali e dei coetanei locali e di altra origine e, dall’altro, quelli di maschi e femmine all’interno dei diversi gruppi. Sintetizziamo di seguito i principali risultati emersi. Vediamo i titoli di studio conseguiti dai giovani che al censimento del 1981 hanno tra i 20 e i 25 anni (tabella 1). Gli appartenenti a questa coorte (nati tra il 1956 e il 1961) entrano nella scuola elementare nel corso degli anni Sessanta e accedono alla scuola media trasformata dalla riforma del 1962 che è ormai funzionante a pieno regime da tempo. Hanno potuto cioè beneficiare di opportunità di istruzione inedite per le classi popolari poiché si è aperta la strada a gradi di scolarizzazione a cui i bambini e i ragazzi appartenenti alle famiglie collocate più in basso nella gerarchia sociale non avevano mai avuto un accesso generalizzato nella storia del Paese. I nostri dati mostrano che a Torino di questa opportunità i figli degli immigrati meridionali hanno approfittato molto meno degli altri. Il loro svantaggio scolastico rispetto ai coetanei di diversa provenienza è molto netto. Tra i giovani di famiglie del Sud e delle isole addirittura un individuo su cinque dichiara al censimento un titolo di studio che non va oltre la licenza elementare (e in qualche caso non ha neppure avuto quella), mentre i coetanei di altra origine in questa condizione sono in numero assolutamente irrisorio. Se si guarda alle superiori (comprese le scuole oltre la media inferiore che danno una qualifica professionale) il divario tra i figli degli immigrati meridionali e gli altri gruppi è tale da balzare agli occhi: tra chi ha continuato e terminato gli studi oltre la licenza media, un abisso separa i giovani di famiglie del Mezzogiorno e i figli di padre nato in città e di padre arrivato a Torino dalla regione. Ma la distanza è grande anche con i giovani delle altre origini. Tab. 1 - Grado di istruzione al 1981 dei 20-25enni residenti a Torino per origine geografica e per sesso origine geografica* Torino e Piemonte Sud e isole n. % n. % altre provenienze** n. % titolo di studio licenza elementare F 217 2,1 3166 20,3 282 4,6 O meno M 273 2,4 3416 19,1 373 5,4 licenza media F 2127 20,4 6431 41,3 1828 29,9 Inferiore M 2818 24,5 9122 51,0 2431 35,2 diploma o qualifica F 7882 75,5 5930 38,0 3920 64,0 Professionale M 8225 71,5 5292 29,6 4026 58,2 Laurea F 214 2,0 64 0,4 88 1,5 M 192 1,6 48 0,3 82 1,2 Totale F 10440 100 15591 100 6118 100 M 11508 100 17878 100 6912 100 Fonte: elaborazioni del gruppo di ricerca Secondgen su dati SLT. * In questa tabella e in quella successiva per “origine geografica” s’intende l’area di nascita del padre. **Per “altre provenienze” si intendono le altre regioni italiane e i Paesi esteri. 13 RAPPORTO SECONDGEN La scolarità dei giovani di origine meridionale sorprendentemente bassa della coorte 1956-1961 suggerisce l’ipotesi che una certa quota di giovanissimi di entrambi i sessi si siano scolarizzati a livelli minimi al Sud e siano emigrati al Nord in età da lavoro e quindi non siano neppure passati per la scuola a Torino. Ma un certo numero di figli di immigrati meridionali ha cominciato la scuola al paese e l’ha poi continuata in città: sono fra coloro che hanno incontrato le maggiori difficoltà scolastiche (documentate anche dai dati che abbiamo raccolto attraverso l’analisi dei registri scolastici e attraverso le interviste in profondità). Con il passare del tempo questa componente si riduce a vantaggio dei figli che nascono in città. Vi è quindi da chiedersi quanto queste peculiarità della coorte 1956-1961 abbiano inciso sui livelli medi di scolarità così abnormi al 1981 generando le dimensioni dello svantaggio dei figli degli immigrati meridionali nei confronti dei coetanei che abbiamo sottolineato. In realtà, i dati relativi alla coorte successiva, quella dei nati tra il 1966 e il 1971 che hanno da 20 a 25 anni al censimento del 1991 (tab. 2), ci dicono che la situazione denunciata al censimento precedente non è molto cambiata nella sostanza. Tab. 2 - Grado di istruzione al 1991 dei 20-25enni residenti a Torino per origine geografica e per sesso origine geografica* Torino e Piemonte n. % Sud e isole n. altre provenienze** % n. % titolo di studio licenza elementare F 109 0,9 635 3,4 86 1,4 O meno M 151 1,2 1149 5,6 155 2,4 licenza media F 2480 19,7 9480 50,3 1816 30,3 Inferiore M 3601 27,3 12272 2600 39,8 diploma o qualifica F 9506 75,8 8510 45,2 3952 65,8 Professionale M 9177 69,5 6689 33,8 3679 56,4 Laurea F 452 3,6 209 1,1 150 2,5 M 270 2,0 100 0,5 93 1,4 F 12547 100 18834 100 6004 100 M 13199 100 20420 100 6527 100 Totale 60,1 Fonte: idem. Al 1991 si riscontra un innalzamento del livello di scolarità dei giovani meridionali che va collocato nel contesto di tendenziale aumento del grado di istruzione generale a Torino (e in Italia). Ma i 20-25enni di questa origine che non vanno oltre la licenza media sono a quella data ben più della metà tra i maschi e la metà tra le femmine. Dunque, nonostante il raggiungimento della licenza media sia diventato un obiettivo largamente acquisito dalle famiglie immigrate dal Mezzogiorno e dai loro figli, perdura il loro svantaggio scolastico: il proseguimento degli studi alle superiori fino al loro completamento riguarda ancora una minoranza, a differenza di quanto si 14 RAPPORTO SECONDGEN verifica nei giovani delle altre origini: la continuazione degli studi oltre la licenza della scuola dell’obbligo arriva – sia al 1981 che al 1991 – ad interessare fino ai tre quarti (tra le ragazze) dei figli di torinesi e piemontesi. L’interpretazione dello svantaggio con la regressione logistica Grazie all’accordo di collaborazione di ricerca con il Servizio regionale di epidemiologia (SEPI) dell’ASL TO3, la ricerca Secondgen ha potuto accedere ai dati censuari e anagrafici dello Studio longitudinale torinese (Slt) che contiene dati provenienti dai censimenti 1971, 1981, 1991 e 2001 e dall’anagrafe per il comune di Torino. I dati possono essere messi in relazione fornendo una fonte semi-longitudinale per i censiti nel comune di Torino nel periodo fra il 1971 e il 2001. Questo strumento di lavoro si rivela prezioso per tracciare le carriere scolastiche e occupazionali dei residenti della città ed analizzare le condizioni abitative e altri aspetti. La struttura di relazione delle informazioni consente non solo di sapere quale sia il luogo di nascita dei soggetti ma anche quello dei genitori. Si tratta di informazioni particolarmente utili per gli scopi della nostra ricerca perché consentono di individuare chi è nato a Torino da genitori meridionali ad esempio come “figlio di immigrati”, mentre gran parte delle fonti statistiche permettono di distinguere le persone solo in base al luogo di nascita del soggetto. Per procedere all’elaborazione dei dati è stato tuttavia necessario compiere alcune operazioni di predisposizione della matrice dati. La fonte ha richiesto un trattamento preventivo di riorganizzazione delle informazioni e l’istituzione di controlli di congruenza che sono stati effettuati per consolidare statisticamente ogni singola variabile utilizzata nelle analisi. Il numero di casi esclusi o mancanti non eccede mai le consuete soglie di significatività statistica I ricercatori di Secondgen, con la collaborazione dei colleghi del SEPI, hanno così costruito un nuovo file relazionale a partire dalle informazioni disponibili che permette di definire con maggiore precisione la provenienza e la collocazione sociale degli immigrati regionali e internazionali a Torino. In questo modo non solo è stato possibile distinguere fra immigrati di prima e seconda generazione (nati a Torino), ma anche fra differenti ondate migratorie: quelle italiane dal Nord Est e dalle regioni del Sud e quella internazionale. Così è stato possibile descrivere lo svantaggio educativo dei migranti (fig.1). . 15 RAPPORTO SECONDGEN Figura 1 - Lo svantaggio educativo dei migranti (1971-2001). Rapporto fra percentuale di persone che hanno un titolo superiore o universitario contro coloro che hanno completato al massimo le scuole medie (distribuito per piemontesi e migranti appartenenti alle differenti ondate migratorie). Come mostra il grafico, fra i piemontesi l’incidenza relativa di titoli di scuola superiore o universitari cresce nel tempo molto più velocemente rispetto a tutte le altre popolazioni prese in considerazione. Invece i bambini nati al Sud e arrivati con i genitori (indicati nel grafico come Born in South) hanno il rapporto meno favorevole fin dall’inizio e questo svantaggio dura nel tempo e rimane assai forte anche nel 2001. I figli dei meridionali nati a Torino (G2.0 South) sono meno svantaggiati ma la loro posizione migliora solo gradualmente tra i vari censimenti. La situazione dell’ondata migratoria del Nord Est è intermedia fra quella dei piemontesi e quella dei figli degli immigrati dal Sud. Coerentemente con le nostre ipotesi, queste differenze potrebbero essere lette come un effetto del grado di stabilizzazione dei flussi migratori. Infatti l’ondata dal Nord Est si è stabilita prima a Torino e per questo ha gradatamente avuto il tempo di colmare parte dello svantaggio strutturale rispetto ai piemontesi, quella dal Sud è più recente e quindi il percorso di integrazione strutturale è in una fase più arretrata. Nel grafico non sono ancora inseriti i flussi dall’estero perché la loro numerosità negli anni presi in considerazione è troppo ridotta. Per capire meglio quali siano i fattori che influenzano lo svantaggio educativo raggiunto dai figli degli immigrati meridionali rispetto ai figli dei locali piemontesi abbiamo costruito modelli di regressione logistica. Questa tecnica di analisi dei dati è stata utilizzata per poter isolare l’effetto dovuto al fatto di provenire da una famiglia immigrata al netto di altri fattori che sono già noti per la loro capacità di influenzare i risultati scolastici. In particolare, sono state prese in considerazione la coorte di nascita; il genere; la classe sociale della famiglia; il titolo di studio del padre e della madre; il numero dei fratelli. Le regressioni costruite per i vari anni di censimento mostrano gli effetti tipici sull’istruzione di tutte queste variabili, in conformità con i risultati consolidati della ricerca nazionale e internazionale sui determinanti sociali dell’istruzione. I modelli tuttavia mostrano anche un significativo effetto riconducibile al fatto di essere immigrato in città al netto di tutte questi altri fattori. La tecnica ci ha consentito di stimare alcune misure di 16 RAPPORTO SECONDGEN questo svantaggio relativo. Ancora nel 2001, un trentenne figlio di meridionali nato al Sud, a parità di tutte le altre condizioni, ha circa un terzo in meno (- 34 %) delle probabilità rispetto al figlio di un piemontese di ottenere la laurea e un quarto in meno di ottenere il diploma superiore. Il modello mostra inoltre come lo svantaggio dei figli degli immigrati colpisce maggiormente chi è arrivato in città da ragazzo o bambino, mentre lo svantaggio è molto minore per chi nasce a Torino. Per i figli di immigrati dal Sud nati a Torino la differenza di probabilità di conseguire la laurea rispetto ai piemontesi nel 2001 si riduce a solo il 10% in meno e appena al 7% per il diploma superiore. Questi effetti sono depurati da quelli di classe e da quelli del capitale culturale dei genitori che comunque hanno un’influenza piuttosto forte: ad esempio il fatto di avere un genitore laureato raddoppia le probabilità di conseguire la laurea. Ma l’esistenza di effetti significativi e piuttosto grossi al netto di queste ben note variabili sociologiche sottolinea l’importanza del processo migratorio in sé. Infine i modelli di regressione fanno vedere come lo svantaggio cambia nel tempo. Così lo svantaggio dei figli degli immigrati delle province dell’Italia nord-orientale non è più statisticamente significativo (al netto di altre fattori) nel 1991 per i ragazzi nati a Torino. Lo svantaggio dei figli dei meridionali – le famiglie dei quali sono generalmente arrivate in anni successivi rispetto ai veneti – rimane consistente nel 2001 ma è comunque molto meno forte rispetto al 1991. Questa regolare diminuzione dello svantaggio nel tempo sembra compatibile con l’ipotesi di uno svantaggio che, in media, tende a smorzarsi man mano che le famiglie si stabilizzano, migliorano la loro capacità di accedere alle informazioni rispetto alle possibilità di istruzione e di collocazione sul mercato del lavoro locale in modo da adottare le strategie educative e formative più opportune. Per ulteriori dettagli sul modello di regressione e sul ragionamento, si rimanda al paper di M. Eve e F. Ceravolo, A case of second generation disadvantage in internal migration: a challenge to theory? scaricabile dal sito http://www.norface-migration.org (voce: Programme, Friday, April 12, 2.00-4.00, Session E12, Second Generation - 3) oppure più direttamente da: https://cream.conference-services.net/resources/952/3365/pdf/MGDNF2013_0328.pdf Tra i passi compiuti per capire meglio l’effetto dei percorsi migratori sull’istruzione dei figli, abbiamo voluto indagare in quali quartieri della città le famiglie hanno abitato. Come già accennato nell’introduzione, si ipotizza che la zona di residenza abbia potuto avere effetti significativi sulle competenze acquisite a scuola e anche sulla rete sociale costruita localmente. Sono state costruite delle mappe per sezione di censimento (un’unità territoriale di dimensioni variabili in corrispondenza alla densità della popolazione, ma comunque piccola e in molti casi con solo un paio di isolati). Dalle mappe riprodotte a titolo esemplificativo, che mostrano la distribuzione sul territorio torinese delle famiglie operaie meridionali nel 1971 e nel 1991, si può vedere la tendenza ad un insediamento prima concentrato nel centro storico, all’epoca zona degradata di case a basso affitto, e in seguito in quartieri di marcata connotazione popolare. A volte si tratta di quartieri prevalentemente di edilizia pubblica (Le Vallette, Falchera, Mirafiori Sud), a volte prevalentemente privata (Barriera di Milano). Ma in entrambi i casi, si tratta di zone ben connotate sia in termini delle professioni svolte dai residenti (in prevalenza professioni manuali) sia in termini di provenienza geografica. Molti figli di immigrati meridionali sono pertanto cresciuti in quartieri abitati in gran parte da operai o assimilati, ma anche da quegli operai specifici che erano 17 RAPPORTO SECONDGEN gli immigrati meridionali. Frequentando scuole dove molti iscritti provenivano da famiglie con caratteristiche simili, formando amicizie e magari fidanzandosi con vicini di quartiere, sembra possibile che le aspirazioni professionali siano state plasmate in questi contesti e che la creatività e le competenze delle persone si sono orientate in direzione diverse dalla scuola. Le mappe per gli operai piemontesi invece mostrano una distribuzione molto più uniforme (indicata nelle mappe dai colori meno intensi) sul territorio cittadino, senza la forte concentrazione in zone popolari abitate in gran parte da famiglie immigrate. Sembra probabile insomma che il figlio di un piemontese, anche se operaio, tendesse a crescere in un quartiere dove non mancavano persone che potevano rappresentare un modello di altre possibilità rispetto alla vita di fabbrica. 18 RAPPORTO SECONDGEN DISTRIBUZIONE NELLE SEZIONI DI CENSIMENTO TORINESI DEGLI OPERAI PIEMONTESI E MERIDIONALI. Elaborazione dati Slt Censimento 1971 Fig. 2 - Operai piemontesi Fig. 3 – Operai meridionali 19 RAPPORTO SECONDGEN Censimento 1981 Fig. 4 – Operai piemontesi Fig. 5 – Operai meridionali 20 RAPPORTO SECONDGEN Il vantaggio femminile nel gruppo dei meridionali: un salto di genere e generazionale Nel corso degli anni Sessanta e Settanta anche a Torino comincia ad accentuarsi il fenomeno del prolungamento degli studi delle donne oltre la licenza media: nelle scuole superiori il loro numero tende a crescere in una misura maggiore rispetto a quanto avviene tra gli uomini. La tabella 3, costruita sui dati forniti dall’Annuario statistico della città (che non fanno distinzioni in base all’origine geografica), mostra chiaramente la progressione della presenza femminile nei licei e alle magistrali ma anche negli istituti tecnici e professionali di vario grado. Tra il 1961-62 e il 1975-76 i maschi che proseguono oltre la licenza media raddoppiano di numero ma le femmine quasi quadruplicano: le iscritte a istituti tecnici e professionali (dove si concentra la seconda generazione di meridionali) passano da 4.433 a circa 16 mila mentre i maschi passando da 11.000 circa a 22.945. Tab. 3 - Iscritti nei diversi ordini di scuola per sesso a Torino (valori assoluti). Anni scolastici 1961-62, 1966-67, 1971-72, 1975-76 1961/62 Elementari Medie inferiori Licei e magistrali Istituti tecnici e professionali 1966/67 Elementari Medie inferiori Licei e magistrali Istituti tecnici e professionali 1971/72 Elementari Medie inferiori Licei e magistrali Istituti tecnici e Professionali 1975/76 Elementari Medie inferiori Licei e magistrali Istituti tecnici e Professionali M F 32.044 16.743 4.291 11.005 29.586 14.049 3.185 4.433 38.946 17.684 5.673 18.318 35.616 16.355 6.357 6.117 46.081 24.599 7.293 21.003 43.730 21.933 8.213 11.235 45.812 28.073 7.813 22.945 43.756 26.049 9.308 16.010 Fonte: Annuario statistico della città di Torino Il grande balzo nei livelli di istruzione femminili è un fenomeno noto (Pisati 2002), segnalato dagli studiosi per l’intero territorio nazionale, e che si svilupperà in modo crescente negli anni successivi fino ad arrivare al sorpasso. Questa tendenza aveva cominciato a investire all'epoca anche la seconda generazione di immigrati meridionali? La nostra documentazione sembra mostrarlo: una quota di ragazze consegue titoli di studio più elevati di quelli che raggiungono i loro fratelli. In altre parole, sembra comparire un fenomeno notato da alcuni studi internazionali sulla scolarità di figlie e figli di immigrati stranieri (Feliciano, Rumbaut, 2009): in alcuni casi registrati negli ultimi anni, il divario di genere a favore delle femmine sembra più pronunciato tra i figli degli immigrati che non tra la popolazione locale. 21 RAPPORTO SECONDGEN Nel complesso di una bassa scolarità media, emerge che una parte – anche se minoritaria - dei figli di immigrati meridionali a Torino ottiene un diploma o una qualifica professionale, ma tra questi la percentuale di ragazze risulta nettamente maggiore di quella dei maschi. Il dato che più colpisce è l’entità del divario. Al 1981 (tab. 1) sono quasi 9 i punti che dividono le femmine dai maschi (il 38% delle prime ha il diploma contro il 29% dei secondi) mentre negli altri gruppi regionali le differenze sono più contenute (75% delle femmine e 72% dei maschi tra piemontesi e torinesi). Al 1991 (tab. 2) questa tendenza si è accentuata: la percentuale di ragazze con diploma è salita al 45% mentre i ragazzi non arrivano al 34%. I punti che li dividono sono diventati 11. È un dato per nulla scontato. Il salto rispetto alla scolarità delle madri è molto forte ed è dovuto anche al fatto che la scolarizzazione delle donne delle classi popolari nel Mezzogiorno era tradizionalmente molto bassa e più bassa di quella degli uomini. Le madri meridionali delle ragazze della coorte 1956-1961 che non superano la licenza elementare (spesso fermandosi prima) sono più del 90%. Il grado di scolarità delle madri al 1991 è ancora bloccata a questo livello nel 75% dei casi. È un salto tra generazioni più netto di quello realizzato dai maschi. Ed è naturalmente un salto generazionale molto più radicale rispetto alle ragazze piemontesi. Che cosa è avvenuto a Torino? Quali nuove aspirazioni si sono fatte strada fra le figlie degli immigrati, come e perché? I dati statistici non sono in grado di fornire elementi di spiegazione di questo fenomeno. Per formulare delle ipotesi occorre esplorare altre fonti che permettano di indagare i percorsi biografici di maschi e femmine. Sono le storie di vita di immigrati di seconda generazione a mostrare chiaramente itinerari maschili e femminili assai differenziati. 22 RAPPORTO SECONDGEN Femmine e maschi: traiettorie a confronto Fin da bambini figli e figlie di meridionali a Torino conducono vite molto segnate dalle appartenenze di genere: l’educazione ricevuta in famiglia assegna loro competenze, diritti e doveri nettamente distinti. Alle prime sono affidati compiti di cura da cui i secondi sono tendenzialmente esclusi: accudire i fratelli minori, svolgere mansioni domestiche, sbrigare commissioni. Le figlie hanno un ruolo di fondamentale supporto alle madri immigrate che nel nuovo contesto cittadino non possono contare su una rete di solidarietà femminile, nella parentela e nel vicinato, come invece avveniva nei luoghi di origine. Un dato cruciale di cui è indispensabile tenere conto per comprendere i comportamenti delle famiglie immigrate è proprio questo: l’impoverimento delle reti di relazione che avviene a seguito della mobilità geografica. Tale impoverimento ha un effetto particolarmente pesante sulla quotidianità delle donne sposate con figli che hanno qualche tipo di occupazione extradomestica. Come in tutte le migrazioni, le nonne per lo più non emigrano con i figli in età da lavoro (per ulteriori dettagli, vedasi Badino, 2008) e nelle abitazioni in cui vanno a risiedere gli immigrati al loro arrivo non è automatico che si creino subito reti di vicinato tali da garantire la custodia reciproca dei figli. La costruzione di tali rapporti richiede del tempo (Badino, 2011). L’esperienza dei figli maschi è distante da quella delle femmine, anche se ugualmente condizionata dalle reti di relazione rarefatte delle loro famiglie: l’identità maschile che essi sviluppano fuori da una possibilità di controllo dei genitori è basata sulla cultura della strada (Lepoutre, 1997; Mandich, 2010) che è centrale nella loro socializzazione e finisce per avere importanti ripercussioni sui loro destini sociali. Essa infatti valorizza atteggiamenti che sono in antitesi alla scuola (come il rifiuto dell’autorità e manifestazioni di ribellione nei confronti dell’istituzione scolastica) e li porta a entrare molto presto nel mondo del lavoro: è in questo diverso contesto che finiscono per ricercare gratificazione e realizzazione personale quando si sentono respinti dagli insegnanti che ripetutamente ne sanzionano i comportamenti “indisciplinati”. Tali atteggiamenti sono ripetutamente segnalati dalle maestre elementari nei registri scolastici dell’epoca da noi esaminati nella parte dedicata alle “cronache di vita della classe”. La disciplina, al contrario, non manca alle ragazze, fin da bambine socializzate all’etica della responsabilità e della cura (Belotti, 1975). La scuola sembra premiare alcuni comportamenti che vengono sviluppati in questo modello educativo e che finiscono per essere considerati “tipicamente femminili”, come l’ordine, la precisione, la pulizia, l’atteggiamento responsabile e l’ubbidienza (Gasperoni, 1996). Come accade nel caso di altre migrazioni (Beaud, 2002), le femmine sono estranee alla cultura della strada, o almeno lo è la maggior parte di esse. Le famiglie immigrate infatti, che non possono contare sul controllo di un vicinato allargato per sapere cosa succede alle loro figlie, sono insicure e sembrano avere come principale preoccupazione quella di tenerle lontane dalla strada e dai potenziali pericoli che essa rappresenta. Le responsabilità familiari di cui sono investite fin da piccole, oltre a servire da supporto alle madri, limitano notevolmente il loro tempo libero e fanno sì che la loro esistenza si svolga prevalentemente entro le mura domestiche, all’opposto di quanto avviene ai coetanei maschi. Con la crescita il maggiore controllo esercitato sulle figlie si rafforza e va a distanziare sempre di più l’esperienza di maschi e femmine. Ed è nella transizione all’età adulta che si definiscono in modo più netto alcune differenze di genere capaci di portare ragazzi e ragazze su strade diverse nei percorsi scolastici e lavorativi. 23 RAPPORTO SECONDGEN Di seguito proponiamo, in estrema sintesi, una serie di temi che sono stati ampiamente approfonditi nel volume di Anna Badino: Strade in salita. Figlie e figli dell’immigrazione meridionale al Nord, Carocci, Roma 2012. Una situazione in apparenza penalizzante per le femmine non porta necessariamente a esiti più modesti dal punto di vista scolastico o professionale. Al contrario, la diffusione tra ragazze di origine meridionale degli studi oltre la licenza media e alcuni fattori legati alle caratteristiche del mercato del lavoro dell’epoca portano non di rado le giovani di questa generazione su traiettorie professionali più qualificate rispetto ai loro coetanei maschi: l’ingresso nelle professioni impiegatizie. Ma la strada verso questo traguardo è tutt’altro che lineare: non sempre l’atteggiamento dei genitori è orientato a investire sull’istruzione delle figlie e sulla loro mobilità professionale. Al contrario, non mancano i casi in cui le famiglie privilegiano l’istruzione dei figli maschi a scapito delle figlie femmine anche sulla base dei progetti che hanno nei loro confronti: la meta principale è il matrimonio. Il raggiungimento di un’autonomia economica o l’affermazione professionale sono elementi molto marginali rispetto al primo. La reazione delle ragazze a questo modello educativo familiare basato da un lato sul controllo e dall’altro su una scarsa valorizzazione dei loro percorsi scolastici può andare in due opposte direzioni: la fuga nel matrimonio in età precoce, per liberarsi da un controllo familiare vissuto cme oppressivo. Tale tendenza nei percorsi biografici delle immigrate di seconda generazione a Torino è ben evidenziata dai dati dello Studio longitudinale torinese. Rispetto alle coetanee locali, le ragazze di origine meridionale si sposano in un’età più precoce. Al censimento del 1981 tra le giovani di età compresa tra 20 e 22 anni più di una meridionale su quattro è già sposata, una percentuale quasi tre volte superiore a quella delle piemontesi, che sono meno di una su dieci. desideri di riscatto: un diverso tipo di reazione, non necessariamente in antitesi con il primo, ma capace di porre le basi per una loro futura mobilità professionale. Anche quando s’interrompe precocemente la scuola dopo l’obbligo, spesso la volontà di proseguire gli studi si realizza attraverso altre strade: dopo essere entrare in un mercato del lavoro manuale che non richiede particolari titoli di studio e che permette di contribuire al bilancio domestico, si moltiplicano le ore lavorate e si risparmia il denaro necessario a pagare gli studi. Le scuole serali, o anche più semplici corsi professionali brevi molto diffusi nella Torino dell’epoca, permettono la realizzazione di tale progetto e sono un’opportunità colta da molte ragazze lavoratrici. Riportiamo, a titolo di esempio, la testimonianza di Carmela, nata a Melfi nel 1962 e arrivata a Torino in seconda elementare, figlia di un lavoratore manuale e di una casalinga. «Ho ricominciato a lavorare verso i 16-17 anni. Quindi subito dopo il lavoro, la sera andavo a fare i corsi serali. Mi sono iscritta alle serali, ho finito di fare la segretaria d’azienda e facevo dattilografia, stenografia perché allora si usava tantissimo. (…) sono andata anche a scuola di inglese, sempre private; me le pagavo io. (…) Perché io ho sempre - come anche mia sorella voluto crescere e non rimanere così come sono; invece gli altri (familiari. ndr) stanno bene nella loro ignoranza; sia io che lei, nel nostro piccolo, abbiamo sempre voluto qualcosa di più». Un’altra testimone, Gemma, ci fa comprendere l’entità di quel “desiderio di riscatto” di cui si è scritto sopra: «Una cosa che recrimino a mio padre è che aveva un concetto suo tutto particolare. Eravamo 2 femmine e 3 maschi e, finita la terza media, dice: “Guardate ragazze che purtroppo a voi due non vi posso pagare gli studi perché siete due donne e le donne sono i mariti che devono mantenerle, quindi con voi sprecherei i miei soldi. Preferisco far studiare i maschi perché con un titolo in mano hanno una vita più agiata e loro devono mantenere una famigli. Ma con quei soldini che ci dava (il negozio di fiori dove siamo andate a lavorare) nella settimana e la domenica noi ci 24 RAPPORTO SECONDGEN pagavamo il corso di stenodattilografia e paghe e contributi in una scuola privata (…) La scuola era di un anno soltanto, perché era una specializzazione. Ti davano un attestato del corso di dattilografia, stenografia. Io avevo fatto contabilità meccanizzata e paghe e contributi, ma un’infarinatura; quindi quell’anno lì avevo fatto full immersion. Noi praticamente avevamo fatto un corso accelerato per segretaria d’azienda; in più, era a pagamento». Grazie ai corsi serali frequentati, la testimone e la sorella raggiungeranno posizioni migliori in ambito professionale rispetto ai fratelli maschi, e ai rispettivi mariti: «Io e mia sorella in banca. Noi abbiamo avuto una carriera migliore. Infatti è quello che dicevamo a mio padre: “Tu non ci hai fatto studiare, però alla fine eravamo quasi noi che mantenevamo i mariti”. Dico esagerando, ma il nostro stipendio era il doppio dei nostri mariti; perché mio cognato era nell’Arma e mio marito era operaio». Se per le ragazze di origine meridionale non è raro che si riprendano gli studi in un momento successivo all’ingresso nel mercato del lavoro manuale, il percorso di molti coetanei di sesso maschile sembra andare esattamente in direzione opposta: anche chi è motivato dalle famiglie a intraprendere una scuola superiore subisce il più forte richiamo del mercato del lavoro e finisce per abbandonare presto gli studi. La socializzazione avvenuta principalmente attraverso la cultura della strada unita alla facilità con cui i ragazzi riescono a trovare un’occupazione manuale (come quella dei loro padri) nella Torino a vocazione industriale finisce per rivelarsi un boomerang per i loro destini sociali, disincentivando la prosecuzione degli studi oltre l’obbligo scolastico. Questo mondo, fatto di occupazioni manuali (dall’industria all’artigianato e al commercio fino alla ristorazione) fornisce a ragazzi appena adolescenti quelle soddisfazioni sia in termini di guadagno sia sotto il profilo dell’autostima che non traggono dalla scuola. Si passa da un lavoro all’altro con estrema facilità, alla ricerca di condizioni sempre migliori. Ma il panorama economico del capoluogo piemontese muta radicalmente negli anni successivi con la crisi del modello industriale che lo alimentava e l’abbondanza di lavoro poco qualificato improvvisamente si esaurisce. Sono molti i figli di immigrati che si ritrovano a quarant’anni senza un’occupazione stabile e in una condizione di grave precarietà economica. I bassi titoli di studio che, come si è visto, caratterizzano questa generazione di ragazzi rendono difficile il loro reinserimento in settori di lavoro non manuale che richiederebbero competenze più qualificate (Avonto et al, 2007). Tale svantaggio farà sentire i suoi effetti soprattutto quando la crisi e il continuo declino dell’industria locale causerà la perdita di un gran numero di posti di lavoro operaio e risparmierà invece le posizioni occupazionali superiori. Secondo i dati dei censimenti tra il 1981 e il 1991 la percentuale di occupati nell’industria passa dal 45% circa a meno del 40%. Il settore perde nell’arco del decennio circa 106 mila addetti e il tasso di disoccupazione sale dal 10,1% al 12,4% (Unione Industriale di Torino 2010; Castagnoli, 1998). La tendenza continua negli anni successivi. Il terziario in crescita invece rende disponibili molti posti di lavoro non manuali aperti a chi ha la qualificazione necessaria. È soprattutto la manodopera femminile ad approfittarne, facendosi trovare preparata, come abbiamo mostrato, a cogliere questa nuova opportunità. 25 RAPPORTO SECONDGEN Esperienze femminili. Una comparazione tra il passato e oggi L’analisi condotta sull’esperienza dei figli dei meridionali a Torino ha mostrato come, anche per le migrazioni interne, si possa parlare a tutti gli effetti di una seconda generazione, che deve affrontare specifiche sfide rispetto ai coetanei di origine locale. Al di là del fatto che la loro storia migratoria si è svolta all’interno di uno stesso confine nazionale e al di là delle mutate condizioni economiche e sociali in cui avviene la migrazione dei bambini e dei ragazzi stranieri di oggi, ci sembra che si possano individuare alcuni aspetti che caratterizzano l’esperienza di entrambe queste seconde generazioni. Il confronto tra i due casi presenta delle evidenti difficoltà, derivanti dalla necessità di tenere in considerazione numerose differenze di contesto. Tuttavia, ci sembra utile tentare di riflettere su quali possano essere le costanti legate alla mobilità geografica nei percorsi di bambini e ragazzi di origine immigrata e quali le discontinuità principali in fenomeni migratori che avvengono a distanza di diversi decenni. L’analisi è concentrata sul processo di inserimento e radicamento nella società locale, a partire dal primo impatto con l’ambiente scolastico, e cerca di mettere a fuoco le ricadute di questo processo sui percorsi sociali delle seconde generazioni. Per rendere più semplice il confronto, l’attenzione è stata focalizzata sull’esperienza femminile che, in entrambe le migrazioni, presenta delle specificità di genere da cui non è possibile prescindere. (per approfondire vedi l’analisi a pag 61) 26 RAPPORTO SECONDGEN Ruolo dell’istruzione nelle famiglie immigrate. Una comparazione tra il passato e oggi E’ noto che contributi importanti allo sviluppo della ricerca sulle migrazioni sono venuti dagli studi comparativi. Questo è vero in particolare per l’analisi dei processi di integrazione delle seconde generazioni e in questo quadro delle diverse strategie che le famiglie hanno adottato riguardo alla scuola dei figli. Il confronto è spesso avvenuto tra immigrati della stessa origine in contesti diversi o tra immigrati di origine diversa negli stessi contesti ma vi sono state anche ricerche che hanno comparato flussi migratori di massa lontani tra di loro nel tempo, come ad esempio negli Stati Uniti1. Tutte – pur, come è ovvio, con risultati scientifici diseguali - hanno mostrato la fecondità dell’approccio. In questa prospettiva, proponiamo nelle note che seguono una comparazione tra la grande migrazione interna del dopoguerra a Torino e la migrazione internazionale a cavallo tra fine 900 e inizio del nostro secolo con la stessa destinazione2. E’ il ruolo assegnato dai genitori all’istruzione nelle loro aspettative nei confronti dei figli a differenziare nettamente le due ondate migratorie. E’ noto che in grande maggioranza le famiglie provenienti dal Mezzogiorno che si sono insediate (o si sono formate) a Torino nel corso del lungo miracolo economico non hanno investito nella scolarità della nuova generazione, la quale spesso non è andata oltre la scuola dell’obbligo3. Lo scenario offerto dall’immigrazione internazionale su questo piano è radicalmente diverso. E’ molto raro che i genitori stranieri giunti in Piemonte negli ultimi anni non prevedano la continuazione degli studi dei figli dopo la licenza media: le famiglie ritengono pressoché scontata l’iscrizione ad una scuola superiore, anche se gli indirizzi che vengono scelti variano considerevolmente. Il confronto tra strategie così divergenti e nel contempo – come vedremo - le numerose e sorprendenti somiglianze nell’esperienza del rapporto dei genitori (e dei loro figli) con l’istituzione scolastica, aprono interrogativi e suggeriscono ipotesi di lavoro che possono contribuire a riproporre da angolazioni inusuali nodi di ricerca al centro, come abbiamo detto, degli studi, arricchendo la varietà delle nostre domande. (per approfondire vedi l’analisi a pag 78) 1 La letteratura è amplissima. Ci limitiamo a citare lo studio classico di A. Portes and R. Rumbaut, Legacies: the story of the Immigrant Second Generation, California University Press, Berkeley 2001 per I confronti tra gruppi all’interno di un contesto nazionale e quello di M. Crul, J. Schneider, F. Lelie , The European Second Generations Compared. Does the Immigration context matter?, Amsterdam University Press, Amsterdam 2012 per confronti tra la situazione in diversi contesti nazionali. La comparazione tra immigrati a cavallo del 900 e immigrati dopo il 1965 a New York è al centro del noto lavoro di N. Foner, From Ellis Island to JFK. New York’s Two Great Waves of Immigration, Yale University Press, New Haven, Russell Sage Foundation, New York 2000. 2 Non è inutile rilevare – anche se non possiamo discutere qui la questione – che nella storiografia italiana la comparazione tra migrazioni interne e migrazioni internazionali non ha finora suscitato grande interesse. Su questo piano gli storici avrebbero probabilmente molto da imparare dai sociologi. E qualora la ricerca si sviluppasse non è impensabile che i sociologi possano in futuro trarre vantaggio dalla ricerca storica. Ciò che sembra certo è che allo stato attuale in Italia la contaminazione nel campo degli studi sulle migrazioni tra storici e sociologi si realizza assai meno di quanto sarebbe auspicabile. 3 Le differenze nei livelli di istruzione a Torino tra seconde generazioni di origine meridionale e coetanei locali o immigrati dal Piemonte o da altre aree sono forti. I dati relativi al titolo di studio dei giovani torinesi delle diverse provenienze al 1981, 1991 e 2001 sono stati elaborati sulla base della banca dati dello Studio Longitudinale Torinese nel quadro della ricerca Secondgen e pubblicati in A. Badino, Strade in salita. Figlie e figli dell’immigrazione meridionale al Nord, Carocci, Roma 2012. 27 RAPPORTO SECONDGEN 2.2. Seconde generazioni delle migrazioni internazionali contemporanee L’analisi dei percorsi di giovani di origine straniera presenti oggi in Piemonte è costituita da un’ indagine qualitativa mediante interviste in profondità e osservazione etnografica, in connessione stretta con gli altri segmenti del progetto. Il gruppo di ricerca infatti si è riunito regolarmente per discutere e condividere le fondamentali prospettive di analisi pur nella specificità degli ambiti e dei compiti. Il lavoro svolto Interviste e osservazione etnografica: Realizzazione delle tracce di intervista − individuazione del quadro teorico: cosa studiare e con quali aspettative − aree tematiche da esplorare − costruzione della traccia dell’intervista − definizione della modalità dell’intervista − realizzazione di alcune interviste “test” a seguito delle quali sono state apportate alcune modifiche e integrazioni alla traccia L’intervista ai giovani è stata organizzata partendo dall’assunto che nelle scelte scolastiche e lavorative intervengano i diversi ambienti che i giovani frequentano. E quindi, ad esempio, nella carriera scolastica interviene la famiglia ( nella scelta o meno di proseguire gli studi, nel tipo di percorso scelto..), così come l’ambiente scolastico (politiche delle singole scuole, dotazioni laboratoriali, comportamento degli insegnanti …) etc. Ogni percorso è caratterizzato da vincoli (giuridici, familiari, economici ...), opportunità, svolte. L’intervistatore ha svolto l’intervista non standardizzata, suddivisa in sezioni tematiche e organizzata secondo lo schema seguente: AMBIENTI (conflittualità, isolamento, continuità) Vincoli, opportunità, svolte Famiglia Amici Luoghi (oratorio, ass. sportive, ricreative…) Scuola Lavoro Scuola (come carriera) Strutture/carriere Lavoro …… Æ Legami mediati/strumentali/casuali L’intervista ai genitori dei giovani era finalizzata a sollecitare il racconto dell'esperienza nei diversi gradi scolastici, specialmente riguardo all’ambiente e ai rapporti con gli insegnanti. I principali temi esplorati sono stati i seguenti: 28 RAPPORTO SECONDGEN la storia migratoria della famiglia, i primi lavori e gli sviluppi professionali; le prospettive e i luoghi del futuro. − la scelta della scuola superiore: com’è avvenuta, opzioni considerate e opzioni escluse, criteri di scelta, informazioni , consigli e figure di riferimento. l’orientamento scolastico: come si è svolto, è stato o no seguito, le eventuali discussioni familiari, le aspettative verso la scuola. eventuali cambiamenti: i motivi, come si è arrivati e le strategie e competenze eventualmente acquisite con quell’esperienza. − gli anni di scuola: i rapporti con la scuola, lo svolgimento dei colloqui e le relazioni /interazioni con gli insegnanti; le azioni e le reazioni nei momenti difficili. − il controllo: sulla preparazione, sul tempo libero, le regole familiari, gli impegni casalinghi, gli amici dei figli, lavoretti . − la partecipazione all’associazionismo: informazioni, rapporti con gli organizzatori. − figure “modello” − i rapporti col paese d’origine e i progetti sui figli : cambiamenti nel tempo − le difficoltà maggiori, le fatiche affrontate nell’educazione dei figli − differenze di educazione tra i figli (maschi/femmine, primogeniti/secondogeniti) − Sono state realizzate 170 interviste, rivolte a ragazze e ragazzi di origine immigrata di età compresa tra i 18 e i 30 anni, in Italia da almeno sette anni, che hanno quindi sviluppato in Italia un parte significativa della loro carriera formativa Rispetto al noto approccio di Rumbaut (1997) che propone il concetto di “generazione 1,25” per coloro che emigrano in età compresa tra i 13 e i 17 anni; “generazione 1,5” per coloro che cominciano l’educazione scolastica primaria nel paese d’origine per poi completarla nel paese d’accoglienza, “generazione 1,75” per quanti emigrano in età pre-scolare (fino a 5 anni) e “generazione 2” per coloro che sono nati, cresciuti e scolarizzati in Italia, i giovani intervistati di Secondgen sono della generazione 1,50 e 1,75, con alcuni casi di generazione 2. Gli intervistati sono stati contattati direttamente - spesso dopo numerosi tentativi che in alcuni casi sono serviti a costruire una relazione di fiducia - nelle scuole, ai giardini, nei posti di lavoro, nei luoghi di aggregazione, nei centri per l’impiego, nei bar. In questo modo si è tentato di raggiungere persone al di fuori degli ambienti e delle reti sociali in contatto con le associazioni o con le istituzioni. Si è deciso inoltre di non selezionare le persone da intervistare in base alla nazionalità, preferendo appunto una selezione casuale, al fine di evitare un’eccessiva strutturazione a priori dei risultati secondo il criterio delle “origini” delle persone in questione. 20 interviste rivolte ai genitori Le strategie di campionamento adottate per la presa di contatto sono state le seguenti: giovani intervistati; testimoni qualificati; esponenti di associazioni, volontariato, terzo settore. Le ragioni del tasso di caduta dalla presa di contatto attraverso la prima strategia (genitori di giovani già intervistati) sono state: difficoltà di trovare il tempo per l’intervista in particolare nel caso di genitori con orari di lavoro lunghi, genitori single e genitori con titolo di studio non elevato; mediazione e “filtro” da parte dei figli intervistati; disagio nei confronti dello strumento intervista da parte dei genitori; cambi di residenza e numeri di telefono e rientri al paese da parte di figli già intervistati o genitori (o entrambi). Per correggere gli eventuali processi di autoselezione del campione così prodotti sono state seguite le altre due strategie per la presa di contatto, cercando di mantenere l’eterogeneità del campione per titolo di studio, condizione occupazionale e paese di origine dei genitori. In particolare sono state coinvolte madri mediatrici interculturali, in modo da 29 RAPPORTO SECONDGEN avere sia informazioni derivate dalla loro esperienza professionale come osservatori privilegiati nell’ambito dell’accompagnamento delle relazioni scuola-famiglia sia informazioni relative alla loro personale esperienza rispetto all’inserimento a scuola dei figli e alle relazioni con il personale scolastico e con l’istituzione scuola nei diversi ordini e gradi. (per approfondire vedi l’analisi a pag.138) Un’osservazione partecipante tra ragazzi di seconda generazione non inseriti in circuiti ricreativi, culturali, educativi e sportivi e con percorsi di vita “devianti”. Il lavoro ha richiesto la costruzione di un rapporto di fiducia con un giovane che ha dato la disponibilità ad aiutare nella ricerca di pari amici e conoscenti che frequentano i giardini dove passa gran parte del suo tempo libero nelle giornate di sole, i quali potessero rispondere alle finalità previste dal progetto Secondgen. Pertanto, si è deciso di investire tempo insieme con il giovane - che ha assunto una posizione di mediatore rispetto ai potenziali informatori - e con i suoi amici, nella speranza di poter con il tempo arrivare a raccogliere alcune storie di vita e informazioni sensibili che potrebbero essere facilmente celate dall’informatore per questioni di “sicurezza personale” e di desiderabilità sociale. Ovviamente il processo di costruzione della fiducia ha i suoi tempi, spesso molto dilatati, soprattutto quando si parla di attori devianti o semplicemente “svantaggiati”, per tre mesi infatti le uscite ai giardini e nella zona limitrofa non hanno prodotto i risultati attesi . Tuttavia, una serie di pratiche messe in atto e riconducibili all’osservazione partecipante, e la competenza sulle dinamiche relazionali osservate hanno tranquillizzato i giovani avvicinati sulla presenza e sulle oneste intenzioni di ricerca della ricercatrice che ha condotto il lavoro e che ha redatto un diario puntuale. La maggior parte delle informazioni sono state raccolte informalmente attraverso colloqui collettivi e individuali per lo più dettati dal caso (incontrare uno di loro da solo che è uscito di casa prima dell'appuntamento con gli amici, ad esempio), e questo ha impedito di avere per ogni ragazzo informazioni complete relative alla traccia d'intervista. Informazioni interessanti sono invece state raccolte durante i colloqui individuali o collettivi informali, avvenuti prima dell'intervista o nei giorni successivi. Chi ha accettato di fare l'intervista formale, spesso ha accettato in virtù dell'anonimato e per la solidarietà che questi ragazzi hanno nei confronti dei figli degli immigrati ora più giovani di loro . "Beh, se può servire a migliorare la vita di chi ora è bambino, allora ti aiuto e accetto!" è una frase ricorrente. E’ stato inoltre compiuto un focus specifico negli istituti alberghieri con interviste a 38 studenti, incontri con insegnanti e dirigenti, e dieci mattine di osservazione diretta del lavoro in aula e nei laboratori di cucina. L'obiettivo della focalizzazione era approfondire situazioni e percorsi di studenti di seconda generazione nelle classi terminali di istituti professionali, ormai prossimi alla transizione al lavoro o all'università. Le interviste hanno ricostruito in particolare il percorso scolastico precedente (compresi gli eventuali cambiamenti di scuola), le ragioni della scelta dei corsi professionali, gli eventuali lavoretti o tirocini collegati al corso scolastico e le intenzioni e aspettative per il prossimo futuro. L'osservazione diretta di alcune lezioni ha avuto come obiettivo da un lato di cogliere eventuali differenze di comportamento o di trattamento degli studenti di origine straniera, dall'altro di avere una visione diretta della realtà scolastica in cui essi vivono. La scelta dell'istituto Alberghiero nasce dall'ipotesi che esso consenta di studiare un segmento della frontiera scuola/lavoro che offre sbocchi articolati sui servizi e sulla industria diversi dalle più studiate occupazioni nel metalmeccanico e nel manifatturiero. Anche il ciclo congiunturale e alcune logiche nel reclutamento e nell’organizzazione della manodopera si dovrebbero distinguere da quelle dell’impresa manifatturiera. Anche se pochi diplomati saranno destinati a lavorare nei ristoranti blasonati o negli hotel a cinque stelle, da diversi anni la ristorazione di qualità è diventata un ramo della cultura creativa, con la valorizzazione dell’arte di cucinare, delle produzioni locali e 30 RAPPORTO SECONDGEN tradizionali, degli stili di vita ecologici, dei prodotti biologici ecc. nonché delle cucine dette etniche. Gli allievi hanno occasione di fare stage o visite all’estero, anche in paesi lontani. Questo potrebbe rendere più ricco e stimolante l’approccio alle materie pratiche e forse aprire qualche spiraglio su un approccio culturalmente più ricco e stimolante al mestiere. Queste ipotesi di partenza sono state solo parzialmente confermate. Infatti le interviste descrivono i lavori nella ristorazione, nei bar e negli alberghi molto vari e diversificati, con gerarchie professionali articolate, con un forte turn over e un alternarsi di cicli stagionali che richiedono mobilità territoriale (le “stagioni” al mare o nelle stazioni invernali). Sono frequenti le possibilità di lavoro (o di lavoretti) a persone prive di formazione specifica. Questo mercato del lavoro estremamente aperto rende debole la posizione del diplomato all’istituto alberghiero, diversamente da quando accade ad esempio in Germania dove l’accesso alla professione è fortemente regolato . Diventa quindi fondamentale l’indagine sulle reti di conoscenze, sulle strategie individuali per orientarsi, sulle aspettative e sulle prospettive. (per approfondire vedi l’analisi a pag.96) Altri contatti con ex allievi di istituti professionali per meccanici e per odontotecnici sono stati realizzati per capire i meccanismi di inserimento professionale e il legame con la formazione ricevuta. Contatti e testimoni privilegiati A Torino sono stati realizzati numerosi colloqui con insegnanti, dirigenti nelle scuole e nei centri di formazione professionale, operatori e funzionari pubblici nella Circoscrizione3 che a vario titolo si occupano di giovani per esplorare temi e problemi che sarebbero stati inseriti nella traccia dell’intervista. Da ciò sono scaturiti anche i primi contatti con i giovani che si sono poi estesi ad altre zone e realtà della città e della provincia. In particolare si ringraziano per la collaborazione: Istituto Professionale per il Commercio Plana, Istituto Professionale Albe Steiner Succursale, Istituto Professionale per il Commercio BossoMonti, Istituto Magistrale Berti, Istituto Tecnico Attività Sociali Santorre di Santarosa, Istituto Professionale Boselli, Formazione Professionale MarioEnrico, punto internet di via Vigone, Servizi Sociali Circoscrizione3, CTP di via Drovetti, oratorio salesiano via Luserna, UISP, sportello lavoro Hatun Wasi, struttura di accoglienza via Pacini, associazione CEntroPEr, GMI, Ufficio Pace Moncalieri, C.I.S.S.A. (Consorzio Intercomunale Servizi Socio Assistenziali) Moncalieri, centro Asai, Unicredit, Intesa San Paolo, CNA Progetto Dedalo World Torino, Ufficio J.P. Facoltà di Economia di Torino, Ufficio J.P. Politecnico di Torino, L.V.I.A. Torino, Ufficio Rappresentanza Camera di Commercio di Tirana (Torino), Consolato del Marocco a Torino, RdB- USB (Unione Sindacale di Base, UIL Torino (via Bologna), Ufficio del Comune di Torino per il Servizio Civile dei Giovani Immigrati, Centro Per l'Impiego di Venaria, C.I.S.S.A. (Consorzio Intercomunale Servizi Socio Assistenziali) di Pianezza, Associazione Mosaico, Ufficio Immigrazione della Provincia di Torino, Casa Valdese di Torino, Mc Donald di Alpignano e Rivoli, Burger King di Collegno, Moschea di Via Chivasso a Torino, Caffè Basaglia a Torino, Centro Giovani Centro Anch'io e Idea Donna onlus a Torino. Nell'area di Alessandria e provincia inizialmente è stata svolta una ricognizione attraverso colloqui con testimoni privilegiati dei servizi del territorio quali: la referente del Consiglio territoriale per l'immigrazione della Prefettura di Alessandria, la responsabile dello Sportello per cittadini stranieri del Comune, un'assistente sociale del Consorzio servizi sociali di Alessandria. Per il reperimento di contatti per le interviste sono stati utilizzati come canali, inizialmente, alcuni mediatori interculturali di Alessandria, in parte attivi presso lo Sportello per cittadini stranieri del Comune, in parte presso cooperative sociali e associazioni. Di grande utilità in fase iniziale sono stati inoltre i contatti forniti da una studentessa universitaria di origine straniera che ha preso parte alla ricerca come stagista. Si è ricorso agli Sportelli Immigrazione dei sindacati CISL e CGIL e a 31 RAPPORTO SECONDGEN realtà associative ad esse collegate, come l'Auser di Alessandria. Un altro canale è stato il Centro per l'impiego che ha fornito contatti su Alessandria e Casale. Per quanto riguarda l'ambito educativo, importanti canali di contatto sono stati il centro di formazione professionale CNOSFAP e, in parte, la Scuola edile di Alessandria. Ulteriori contatti sono stati forniti dalle educatrici del progetto di quartiere Habital nel quartiere Cristo che hanno permesso di intercettare una fascia di ragazze di origine marocchina, altrimenti difficilmente raggiungibile. In ambito sportivo, ci si è avvalsi dei contatti forniti dalla sezione arbitri A.I.A. di Alessandria. Nello specifico per le interviste svolte a Novi Ligure, gli intervistati sono stati reperiti attraverso una mediatrice marocchina, il Focus Group Immigrati del Comune e il CTP. Per tutti gli intervistati, si è cercato di procedere al reperimento di nuovi contatti attraverso la modalità “palla di neve”, ma non sempre ciò è stato efficace per un certo “protezionismo” messo in atto dagli stessi nei confronti della propria rete amicale e, soprattutto, parentale, nel caso di fratelli e sorelle. L’obiettivo, raggiunto, di questo paziente lavoro non era la realizzazione di un campione rappresentativo ma il “carotaggio” di diverse categorie di giovani, anche di coloro che sono difficilmente raggiungibili. Si pensi ad esempio a giovani ragazze che hanno terminato gli studi e si sono sposate o sono in attesa del matrimonio, o ai ragazzi che hanno abbandonato gli studi e poi vi sono rientrati, o a quanti vivono ai margini o dentro la devianza . L’analisi delle interviste le interviste sono state trascritte integralmente, tranne le poche interviste brevi o non registrate per ragioni contingenti o desiderio dell’intervistato/a, rispetto alle quali l’intervistatore ha trascritto gli appunti raccolti nel corso dell’intervista • • all’inizio di ogni intervista è stata inserita una sintetica “scheda- intervistato” sintetica rispetto ad alcune informazioni socio-demografiche le trascrizioni sono state inserite nella pagina on line predisposta nel sito dell’Università del Piemonte Orientale • il gruppo di ricerca si è regolarmente incontrato per riunioni di analisi e discussione delle interviste che venivano realizzate e della letteratura scientifica italiana e internazionale • analisi delle interviste effettuata con Atlas.ti5 • Il processo di codifica L’analisi si è svolta con rapporto circolare tra teorie di riferimento, domande di ricerca e confronto con la documentazione empirica e si è sviluppata attraverso diverse fasi (v. fig. 6). 32 RAPPORTO SECONDGEN Fig. 6 - Le fasi dell’analisi La fase 1 è stata svolta collegialmente nel gruppo di ricerca e individualmente da ogni ricercatore oppure in piccoli gruppi in base al tema che si voleva sviluppare, attraverso il confronto costante con il gruppo di ricerca per aspetti tecnici e analitici. La struttura del libro codice I codici sono stati pensati per etichettare brani di interviste in modo che siano estrapolabili specifiche porzioni di testo in base al tema e che sia possibile visualizzarli all’interno dell’intervista nella quale si collocano e in relazione ad altre interviste o parti di interviste (fig. 7). Fig.7 - Esempio di brano di intervista codificato in Atlas.ti5 Il libro codice del progetto Secondgen è stato organizzato gerarchicamente per macro aree. Il gruppo di ricerca ha stabilito di definire codici tematici generali e principalmente relativi a pratiche e comportamenti in modo da garantire l’intersoggettività nelle fasi 1-3 (fig. 6), una piccola parte di codici riguarda percezioni, atteggiamenti e valutazioni ( tab. 4). 33 RAPPORTO SECONDGEN Tab. 4 – La struttura del libro codice (fase due) Codice 1 info 2 scuola 3 lavoro 4 lavoretti 5 famiglia 6 amici 7 immagini del futuro 8 figure modello, punti di riferimento 9 impegno in ass, sport, ecc 10 consumi Sottocodici 1.1 info: posizione giuridica 1.2 info: luogo di residenza 2.1 scuola:scelta 2.2 scuola:percorso 2.3 scuola:relazioni 2.4 scuola:struttura 2.5 scuola:aspettative 2.6 scuola: cosa si fa dopo 2.7 scuola:intervento genitori 3.1 lavoro:percorso 3.2 lavoro:perché scelta e rete info 3.3 lavoro:relazioni, ambiente 3.4 lavoro:valutazione 3.5 lavoro:congruenza con scuola infermier 5.1 famiglia:storia 5.2 famiglia:educazione genitori 5.3 famiglia:lavoro genitori 5.4 famiglia:fratelli e cugini 5.5 famiglia:controllo e relazioni 10.1 consumi:abitazione 10.2 consumi:auto e altri mezzi 10.3 consumi:culturali 10.5 consumi:investimenti 10.6 consumi:ristorazione 10.8 consumi:tecnologia 10.9 consumi:viaggi e turismo 10.10 consumi:cura persona Discriminazione Devianza identità e lingua il ritorno? Matrimonio uso territorio La lista delle famiglie e le caratteristiche del campione Le famiglie sono pensate per classificare intere interviste (Primary Documents) laddove le informazioni siano presenti. L’unità ermeneutica completa (HU II gen) è dunque costituita dalle interviste realizzate con i giovani migranti, i codici applicati ai brani di intervista e la classificazione di ogni intervista secondo la lista delle famiglie (tab. 5). Per ragioni di comparabilità sono state escluse dalla documentazione empirica analizzata con Atlas.ti5 le interviste brevi o non registrate per ragioni contingenti o desiderio dell’intervistato/a, le interviste collettive, i focus group e le interviste con i genitori. In totale sono state analizzate 148 interviste. 34 RAPPORTO SECONDGEN Tab. 5- HU IIgen, lista di famiglie e numero di primary documents per famiglia Primary Doc Families Primary Docs Esecutore Età genitori conviventi in Italia da Lavoro Luogo origine genitori scolarità interrotta Sesso stato civile Studio 35 <18 18‐24 25‐29 >29 No Si uno si entrambi <7 anni 7‐10 anni >10 anni no (disoccupato) Si al cit al prov to cit to prov Albania Brasile Cina Congo costa d'avorio Croazia (148) (3) (107) (31) (7) (37) (31) (78) (20) (49) (79) (27) (39) (31) (7) (94) (16) (15) (1) (6) (1) (2) (1) Ecuador (2) Egitto Filippine Ghana Kazakistan Libano Macedonia (1) (3) (3) (1) (1) (1) Marocco Mauritius Nigeria nuova zelanda Perù Polonia Romania Russia Senegal (49) (2) (3) (1) (17) (2) (32) (1) (1) sierra leone (1) Sudan No Si Femmina Maschio celibe/nubile Convivente Sposato No (1) (127) (16) (79) (69) (128) (3) (15) (58) RAPPORTO SECONDGEN titolo > tra genitori titolo acquisito ultima scuola di iscr si studio e lavoretti si studio e lavoro si solo studio Laurea Diploma Qualifica Obbligo Nessuno Laurea Diploma Qualifica corso di formazione Obbligo Medie triennio qualif Superiori Università (50) (7) (30) (24) (41) (6) (34) (14) (13) (63) (33) (6) (37) (1) (8) (62) (45) L’analisi di dati quantitativi Una parte delle attività è stata dedicata a verificare se nel capoluogo piemontese si stia assistendo a fenomeni di concentrazione etnica in alcune scuole dell’obbligo. A tal fine, in collaborazione con i Servizi Educativi del Comune di Torino, sono stati raccolti i dati relativi alle iscrizioni degli allievi, italiani e di origine straniera, nei diversi plessi delle scuole primarie e secondarie di I grado per alcuni anni. La collaborazione con l’Ente ha favorito una disamina puntuale e articolata dei dati (ad esempio, scorporando gli allievi nati in Italia da coloro che vi sono arrivati per ricongiungimento familiare), che sta permettendo di approfondire la distribuzione degli alunni con cittadinanza straniera nelle scuole cittadine, anche tenendo conto della circoscrizione di residenza. Per capire meglio i risultati scolastici dei figli degli immigrati, il gruppo di ricerca ha richiesto i file dati della rilevazione Invalsi 2010-2011 e 2011-2012. (per approfondire vedi l’analisi a pag 108) Oltre ai risultati dei test di comprensione dell'italiano e di competenze matematiche, i file contengono anche i dati dei questionari somministrati agli studenti delle scuole elementari, medie e superiori. Questi dati permettono di capire meglio le specificità degli studenti stranieri, le differenze tra stranieri nati in Italia e all'estero e possono aiutare a capire alcuni meccanismi sottostanti lo svantaggio scolastico. I dati in questione riguardano ragazzi più giovani dei nostri interlocutori delle interviste qualitative, arrivati in momenti storici differenti (per esempio, in un momento in cui gli allievi stranieri erano più numerosi e le scuole più abituate alla presenza di ragazzi stranieri). Ciò nonostante, la possibilità di spostarsi tra ipotesi derivate da interviste discorsive e i dati di un questionario somministrati a ragazzi più giovani offre diversi spunti per capire l'esperienza dei figli degli immigrati e le tendenze attualmente in corso. L'analisi dei dati, ancora nelle prime fasi, impiega una gamma di tecniche dalla semplice analisi di tabelle incrociate alla regressione e all'analisi multilivello. Tale analisi multivariata chiarirà il rapporto tra la riuscita scolastica (misurata dai punteggi ottenuti nei test Invalsi o dai voti) e da una parte varie caratteristiche individuali e familiari (regolarità negli studi, status sociale della famiglia, cittadinanza, numero fratelli, strategie di apprendimento, ecc.) e dall’altra alcune caratteristiche della classe e della scuola frequentata dallo studente. Le analisi preliminari hanno anche rilevato alcuni limiti delle informazioni presenti nella base dati, in particolare per quanto riguarda le informazioni sullo status sociale delle famiglie. Questi limiti saranno tenuti in conto nell'interpretazione dei dati. 36 RAPPORTO SECONDGEN Per capire meglio le cause e le conseguenze demografiche delle migrazioni sono stati inoltre elaborati dati dei censimenti 1951-2011. Al fine di illustrare il contesto demografico delle migrazioni in vari anni, sono stati utili le piramidi d’età e il calcolo di vari indici demografici (tasso di fecondità totale, tasso di fecondità per fasce d’età, indice di dipendenza senile e giovanile, ecc.). I dati censuari sono stati preziosi anche per mostrare gli effetti delle migrazioni sulla struttura d’età delle varie province del Piemonte. 37 RAPPORTO SECONDGEN Alcuni risultati Uguaglianza e disuguaglianza tra scuole Autoselezione degli studenti e “effetto scuola” La ricerca sociologica sulla scuola ha dimostrato negli ultimi anni gli effetti sulla riuscita scolastica non solo di caratteristiche individuali dello studente e della sua famiglia (es. classe sociale, livello di istruzione dei genitori) ma anche delle caratteristiche medie della classe o della scuola. Così, ad esempio, le prestazioni in test standardizzati tendono ad essere più elevate in media in una classe in cui lo status medio dei genitori è più elevato anche indipendentemente dell'effetto dello status familiare del singolo studente. In altre parole, anche uno studente proveniente da una famiglia modesta tenderà ad avere punteggi più elevati in una classe in cui la media dello status sociale è elevata. Questo risultato della ricerca italiana e internazionale degli ultimi anni ha evidenti implicazioni per le riflessione sulla situazione dei figli degli immigrati in Piemonte. Le interviste qualitative analizzate dalla nostra ricerca hanno reso evidenti l'importanza della scuola frequentata e della scelta scolastica nei percorsi dei giovani e l'analisi dei dati Invalsi potrà dare un ulteriore contributo per precisare e testare la solidità di alcune conclusioni nel tentativo di capire meglio l'importanza di "dove" si studia. Gran parte dei giovani stranieri sono o sono stati dirottati in istituti tecnico/professionali. Nel 2011 in Italia, secondo i dati ministeriali, solo il 18,7% degli studenti stranieri si trovava nei licei, contro il 43,9% degli studenti italiani. Secondo i dati Invalsi elaborati dalla nostra ricerca, nelle classi seconde delle scuole superiori piemontesi presenti al momento dei test 2011, il 46% degli studenti italiani era in un liceo, contro il 22% degli studenti stranieri nati all'estero e il 32% di quelli nati in Italia. Gli istituti professionali invece sono stati scelti dal 18% degli italiani, contro il 37% degli stranieri nati all'estero e il 26% di quelli (meno numerosi) nati in Italia. Una distribuzione così differente nei diversi tipi di scuola inevitabilmente avrà conseguenze sulla stratificazione sociale dell'Italia del futuro. La concentrazione in filiere tendenzialmente più brevi ovviamente non è negativa in sé: molto dipende dal livello di preparazione fornito e dalla successiva capacità di inserimento nel mercato del lavoro. Rispetto alle competenze degli studenti formati, va notato che le medie dei punteggi rilevati dai test Invalsi mostrano scarti molto netti tra i vari indirizzi: Tab. 6 - Risultati test Invalsi 2011 Liceo Ist. Tecnico Ist. Professionale Punteggio italiano 77,9 67,9 57,3 Punteggio matematica 55,6 51,7 37,7 Fonte: Rilevazione Invalsi 2010- 2011, questionario studente Questo ha evidenti implicazioni per la formazione del capitale umano della futura forza lavoro piemontese. La sovra-rappresentazione degli stranieri nelle scuole che attualmente forniscono 38 RAPPORTO SECONDGEN competenze meno adeguate rappresenta uno spreco di capacità che l'economia italiana avrebbe invece bisogno di utilizzare (Cipollone, Sestito 2010, Hanushek 2013). Come già affermato, il problema non è la concentrazione in filoni professionali in sé, ma piuttosto la concentrazione in scuole che non forniscono competenze adeguate o legami utili per la carriera futura. Mentre in alcuni contesti geografici e storici la formazione professionale ha certamente fornito un ottimo inserimento nel mercato del lavoro, le nostre interviste con ex-studenti degli istituti professionali indicano che la proporzione di studenti che lavorano nel settore per cui sono stati formati è molto bassa. A determinare questa distribuzione possono intervenire anche delle forme di “adattamento” alla realtà sociale e scolastica, la percezione, plasmata dalla stessa scuola, delle opportunità a cui si può realisticamente accedere, cosicché certe possibilità non sono neppure prese in considerazione. Alcune domande erano orientate a capire se certe scuole o certi indirizzi non erano stati presi in considerazione e perché. I racconti non sempre sono espliciti, molte risposte sono molto brevi e generiche, altre sono più articolate e denotano una complessa analisi delle opzioni. Forse la scelta o non scelta scolastica hanno a che fare anche con aspetti impliciti e ignoranza delle opportunità che non emergono nelle interviste, tuttavia è evidente che il numero delle alternative prese in considerazione è normalmente ridotto. Molti giovani delle famiglie meno istruite accolgono il criterio dalla scuola che orienta i ragazzi di origine straniera a indirizzi più facili e più brevi, quelli invece che provengono da famiglie più istruite non vedono un ostacolo nella difficoltà e nella lunghezza di un indirizzo, anzi, queste esprimono una gerarchia scolastica nella quale si vogliono occupare le posizioni più prestigiose. François Dubet (2008) sostiene che la scuola di massa, di principio fondata sull’uguaglianza delle opportunità, dovrebbe mirare a un insegnamento secondario che riduca al massimo gli effetti delle disuguaglianze sociali nei percorsi scolastici. Tuttavia, secondo l’autore, tale apertura e le ambizioni di cui essa è caricata fanno di questo tipo di scuola un agente di disuguaglianze, se non la loro causa. Infatti, la massificazione ha rafforzato la partecipazione promuovendo lunghi percorsi di scolarità e selezioni tardive e progressive lungo il corso degli studi, ma non ha sensibilmente accresciuto l’uguaglianza a causa del permanere dell’effetto scuola, dell’effetto insegnanti e, come si vede anche dalle interviste di Secondgen, dell’importanza che viene ad avere la capacità di orientarsi nel sistema. Le filiere restano, restano i frazionamenti gerarchizzati delle qualifiche scolastiche ma sono cambiati i meccanismi della selezione: questa oggi si situa durante il percorso scolastico, con l’orientamento. Tutti entrano ma poi prendono direzioni diverse che selezionano gli studenti. Gli allievi inoltre possono essere orientati a scuole che non desiderano, o ripiegare per un corso a causa della disoccupazione, per “passare il tempo”, in un contesto i cui individui ritenuti uguali sono impegnati in una competizione continua (analoga a quella sportiva) ma spostata nel tempo, si gioca sempre più tardi e i posti offerti “in alto” sono sempre meno. 39 RAPPORTO SECONDGEN Concentrazione scolastica? Il caso torinese delle scuole primarie e secondarie di primo grado Lo scenario regionale si inserisce appieno in quello nazionale: anche il Piemonte ha visto aumentare la componente minorile e giovanile straniera fra i residenti e fra gli studenti (Nanni, 2012). Guardando a quest’ultimo collettivo, come si coglie nella tabella successiva, è in crescita la quota di studenti stranieri nati in Italia: dato significativo per i noti risvolti nella composizione delle aule (cfr. questione del tetto del 30% di allievi con cittadinanza non italiana, dal cui computo escono coloro che son nati in Italia) e per la gestione quotidiana dei programmi e delle attività (ad esempio, si riduce il numero di richieste di corsi di lingua italiana per neo-arrivati). Tab.7 - Percentuale di nati in Italia fra gli studenti stranieri, per ordine di scuola. A.s. 2011/2012 Piemonte Italia Infanzia Primarie 81,8 80,4 57,8 54,1 Secondaria I liv. 28 27,9 Secondaria II liv 9,1 10,2 Totale 46,7 44,2 Fonte: elaborazione su dati MIUR Nell’ambito di Secondgen si è analizzata la situazione torinese come “caso studio” per verificare se siano in corso fenomeni di concentrazione della presenza straniera (o di origine straniera) in alcuni istituti scolastici. Si tratta di un tema di grande interesse e centrale nel dibattito scientifico, nonché utile per offrire indicazioni di policy sul tema. (per approfondire vedi l’analisi a pag.91) 40 RAPPORTO SECONDGEN I problemi dell’apprendimento dell’italiano Un elemento concreto di specificità degli immigrati stranieri e dei loro figli, connesso al tema delle competenze sociali necessarie a rapportarsi con la scuola, è rappresentato dalla lingua italiana, un fattore ancora oggi sottovalutato e non affrontato con adeguati approcci e strumenti. Le interviste (ricordiamo che riguardano giovani tra i 18 e i 30) evidenziano che le lezioni scolastiche di lingua italiana non sono state concepite per l’apprendimento o il consolidamento delle competenze di base, né si ammette (con alcune lodevoli eccezioni) che uno studente di origine straniera possa utilizzare altre lingue per lo studio delle materie tecnico-scientifiche. La conoscenza della lingua dei genitori (arabo, rumeno, albanese…) non viene valutata come una risorsa scolastica. L'apprendimento della lingua è un processo graduale che richiede tempo, mentre gli interventi più diffusi descritti dagli intervistati tendono a focalizzarsi sul raggiungimento di una competenza comunicativa minima che rischia di incrementare l’“inclusione subalterna”, trascurando le conseguenze scolastiche di un italiano magari efficace per rispondere in modo apparentemente appropriato all'insegnante in classe ma non sufficiente per comprendere adeguatamente le lezioni o i testi. Ancora scarsi investimenti sono dedicati a percorsi formativi di italiano per lo studio e il potenziamento delle competenze linguistiche ad un livello più elevato. D’altra parte le famiglie immigrate hanno poche risorse per ricorrere a lezioni o corsi privati: non resta che il volontariato. La scuola italiana stenta ad affrontare in modo sistematico e con programmi strutturati l'insegnamento dell'italiano per gli alunni di origine straniera, essendo caratterizzata da interventi discontinui, frammentati, disomogenei, in molti casi lasciati alla buona volontà e all'iniziativa dei singoli docenti. Nel complesso, dunque, l'insegnamento linguistico continua ad essere sottovalutato e questo può costituire un elemento di penalizzazione per i figli degli immigrati, la cui mancata formazione linguistica di alto livello può comportare serie difficoltà di studio nella prosecuzione delle carriere formative. Il quadro che si delinea dalle nostre interviste è variegato, ma conferma che l’insegnamento dell’italiano ai giovani studenti stranieri non è strutturato uniformemente secondo un piano comune a tutte le scuole. Capitare in un istituto o in un altro fa differenza. Ci sono scuole organizzate, con iniziative programmate e sistematiche, in cui si riesce anche a compensare l’eventuale presenza di insegnanti indisponibili; in altri casi, non solo non sono previsti corsi, ma la condizione di giovane straniero arrivato da poco in Italia è equiparata a una disabilità che richiede l’insegnante di sostegno. Oppure si cerca di arrangiarsi con iniziative improvvisate. La mancanza o la brevità di corsi specifici fa aumentare considerevolmente il peso della sensibilità personale degli insegnanti nella relazione con lo studente straniero. È ricorrente la descrizione di esperienze positive che non riguardano le caratteristiche dei corsi ma la disponibilità di un singolo insegnante, il quale diventa un punto di riferimento al di là dell’apprendimento linguistico. 41 RAPPORTO SECONDGEN L’orientamento Nel sistema scolastico italiano, la scelta di un indirizzo di scuola superiore piuttosto che un altro è in gran parte "libera" (le famiglie non sono vincolate dai voti o dal giudizio della scuola). Come ha dimostrato Cecchi (2008, 2010), nelle sue analisi delle diseguaglianze di classe nella scuola italiana, tali diseguaglianze sono dovute più alle scelte familiari che alle prestazioni alla scuola media inferiore. Infatti, l'iscrizione a un liceo piuttosto che a un istituto tecnico o professionale è poco correlata al voto nell'esame di terza media o ad altri risultati scolastici o misure di competenze. In questo contesto, le procedure di orientamento messe in atto dalla scuola media inferiore, insieme con i consigli forniti da singoli insegnanti nel corso di conversazioni informali con gli studenti, meritano attenzione in quanto meccanismi che determinano in modo significativo il futuro scolastico. Lo studio etnografico di due classi della scuola media (per approfondire vedi l’analisi a pag 114) suggerisce che gli insegnanti tendono a ridimensionare le ambizioni di molti studenti (italiani e stranieri); infatti nelle classi osservate da Romito, il numero di studenti orientati a scegliere un liceo diminuisce considerevolmente nel corso dell'anno, in parte in corrispondenza ai consigli degli insegnanti. All'inizio dell'anno, gli studenti tendevano ad orientarsi rispetto al prestigio percepito di un indirizzo scolastico ("il professionale è per zombie") mentre man mano che si avvicinava il momento della scelta tendevano a prevalere i criteri della "difficoltà" dei vari indirizzi, e paure rispetto alle proprie capacità. In questa modifica dei criteri di scelta, gli insegnanti sembrano avere un ruolo significativo. Qual è la situazione tra gli studenti stranieri? A prima vista si potrebbe immaginare che la sovrarappresentazione nei percorsi tecnico professionali sia una scelta delle famiglie, ansiose della sicurezza economica e desiderose di un inserimento lavorativo precoce. Ma questo non sembra vero. Le nostre interviste con studenti e genitori evidenziano che le famiglie raramente prediligono percorsi scolastici brevi: al contrario tendono ad incoraggiare percorsi piuttosto "ambiziosi" e a spingere i figli a persistere negli studi anche in presenza di difficoltà e di poca motivazione. Scartata l'immagine di famiglie che per motivi economici preferiscono percorsi brevi, come si può spiegare la sovra-rappresentazione degli studenti stranieri negli istituti professionali e nei corsi di formazione professionale, scelta "cruciale" che può avere conseguenze importanti sul futuro? Contano molti fattori, tra cui le inadeguate informazioni dei genitori e degli stessi giovani sul significato della scelta, le difficoltà incontrate a scuola negli anni precedenti, le scelte di amici e talvolta di fratelli. Tuttavia tra i vari fattori che spiegano le scelte, sono senza dubbio importanti anche l'orientamento formale e informale offerto dalla scuola media. Le nostre interviste forniscono esempi abbastanza numerosi di un certo "orientamento verso il basso" . Così diversi intervistati ricordano i consigli di insegnanti che sottolineano la presenza del latino come deterrente per l’iscrizione a un liceo. «Ero un po' indecisa, perché volevo fare lo Scientifico, mi piaceva la matematica, perché poi con lo Scientifico è più facile entrare a Medicina... però non l'ho fatto per... latino! C'era latino per 5 anni e questo mi ha bloccato. Allora ho fatto il Sociale» (Int. 106). Al latino si aggiungono le difficoltà con l’italiano. «Il mio obiettivo, sinceramente era il linguistico, però siccome c’era il latino e io comunque mi sarei trovata svantaggiata perché non parlavo molto bene l’italiano, ho detto “Va beh, vado all’alberghiero che comunque si impara un’altra lingua”, [...] cioè, per fortuna io avevo avuto un orientamento che ci seguiva molto, nel 42 RAPPORTO SECONDGEN senso che parlavano direttamente con noi, nei singoli colloqui di che cosa vuoi fare, cosa ti piacerebbe e allora, cioè, è uscito fuori ‘sto problema che a me piaceva andare in una scuola dove si imparassero le lingue, che però il latino non l’avrei potuto imparare così facilmente perché.. e allora mi hanno dato la opzione di “l’alberghiero potrebbe essere l’eventuale scelta” e allora l’ho scelto» (Int.48). Oppure si sottolinea la generica "difficoltà" di un tipo di scuola. «Come hai scelto le superiori? Anche lì tramite i professori, diciamo che tra virgolette un po' me ne sono pentita. Quando finisci le medie non hai la maturità tale da poter scegliere cosa vuoi fare dopo. Le superiori ti indirizzano nella tua vita... anche lì è stata una scelta mia, mi hanno consigliato e io non sapendo ancora bene cosa volevo sono andata lì alle Scienze sociali. Avevi preso in considerazione altre scuole? [...] Avevo preso in considerazione anche il Linguistico , però me l'hanno un po' sconsigliato per la difficoltà, adesso mi sono un po' pentita di non averlo fatto. Sicuramente ci voleva più impegno, più studio, però l'avrei fatto» (Int. 135). Il problema dell’orientamento scolastico, come terreno che può generare disuguaglianze, si pone pertanto come una questione di assoluta rilevanza nei percorsi dei giovani di seconda generazione e tocca trasversalmente famiglie, ragazzi e istituzioni scolastiche. Molti intervistati ricordano che da parte dei docenti la conoscenza dell’italiano a scapito delle potenzialità personali e la presunta necessità/volontà di un inserimento precoce nel mondo del lavoro sono stati criteri di orientamento verso i corsi professionali. Può essere fatto in buona fede, per evitare cocenti delusioni e ripetenze, ma indirizza comunque verso corsi considerati “facili” dagli stessi studenti e per questo svalutati e svalutanti ai loro occhi. Nelle scuole secondarie di primo grado frequentate dagli studenti da noi intervistati esistono da tempo procedure ufficiali e formali per l’orientamento scolastico (test, presentazioni e visite delle scuole superiori, colloqui orientativi) ma queste procedure non sembrano in grado di incidere in profondità sul risultato finale che vede i giovani di origine immigrata indirizzati verso corsi tecnico professionali in misura maggiore dei coetanei italiani. Dalle interviste risulta che l’orientamento scolastico non ha fornito informazioni molto chiare o, almeno, non sembra essere avvenuto nella maggior parte dei casi con modalità realmente incisive sulla scelta della scuola superiore. In alcuni casi le famiglie resistono all’orientamento della scuola. A volte accade grazie all’intervento di una figura esterna che diventa cruciale, spesso è il datore di lavoro di uno dei familiari, utile per acquisire informazioni e per avere consigli. Questo può essere un vantaggio che apre opportunità alternative all’orientamento “verso il basso” quando il datore di lavoro è aggiornato sulla reputazione delle scuole secondo i parametri della classe media locale (distinzione tra scuole di centro/scuole di periferia, a cui corrisponde la differenza tra scuole che funzionano e scuole problematiche). La fiducia verso i datori di lavoro può così superare l’indicazione della scuola. Tuttavia, per molti studenti con percorsi non brillanti, l’orientamento alla scuola secondaria di secondo grado sembra semplicemente confermare l’idea di non essere adatti a una “scuola difficile”. Alcune domande delle interviste erano infatti orientate a capire se certe scuole o certi indirizzi non erano stati presi in considerazione e perché. I racconti non sempre sono espliciti, alcune risposte sono molto brevi e generiche ma si può affermare che il numero delle alternative effettivamente prese in considerazione è circoscritto e generalmente basso. Se si è figli di genitori istruiti l’analisi delle opzioni è più articolata, ci si informa, si discute ed è più facile intraprendere percorsi diversi da quelli consigliati dalla scuola. La famiglia può vivere una mobilità occupazionale discendente ma essere culturalmente attrezzata nel seguire e consigliare i figli inducendoli ad esempio a scegliere scuole migliori e “più difficili” . 43 RAPPORTO SECONDGEN Le esperienze degli intervistati sembrano suggerire che non bastano le azioni di orientamento effettuate alla fine del percorso scolastico della scuola media: i test, le visite alle scuole, gli opuscoli informativi forniscono elementi per la scelta ma hanno dei limiti: innanzitutto sono difficili da interpretare, inoltre si presentano come “sommativi”, “ufficiali”, rispetto alle discussioni informali tra ragazzi e tra allievi e insegnanti in aula. Queste avvengono quotidianamente e si sviluppano nel tempo, sono influenzate dalle impressioni degli insegnanti che si combinano con l’andamento scolastico e con i comportamenti, fanno emergere pregiudizi, paure, plasmano meccanismi di rinuncia e di ridimensionamento delle ambizioni, e saranno determinanti nella scelta della scuola superiore. 44 RAPPORTO SECONDGEN “Navigare il sistema” Uno dei cambiamenti più netti tra l’esperienza dei figli degli immigrati stranieri contemporanei rispetto ai figli degli immigrati regionali del passato riguarda la centralità della scuola: la partecipazione di massa e l’aumento della durata media della scolarità fanno sì che le competenze nell’orientarsi in un sistema, che nel frattempo è diventato più vario e complesso, siano determinanti per le carriere. Nella scuola, e ancor prima, nelle modalità di scelta dell’indirizzo, della sezione, si producono processi di selezione che occorre analizzare nel dettaglio poiché condizionano i percorsi successivi. Un’attenzione particolare è stata pertanto posta ai meccanismi della scelta al termine del ciclo della scuola secondaria di primo grado nel tentativo di individuare che cosa influenza le scelte scolastiche, come avvengono, come intervengono i genitori, il valore percepito della scuola intesa come struttura che ha una funzione rispetto al futuro, e come ambiente nel quale si sviluppano relazioni e interazioni. Sono emersi elementi ricorrenti i quali confermano, com’è stato detto, il ruolo cruciale che questa istituzione gioca nella riproduzione e produzione delle disuguaglianze sociali e come i processi di selezione possano essere innescati da pratiche e interazioni quotidiane che interessano alunni italiani e stranieri e questi ultimi con delle particolarità specifiche. Consideriamo innanzitutto i criteri di scelta. Un aspetto fondamentale è costituito dalle informazioni adeguate possedute. I genitori non sono informati bene sul funzionamento della scuola e sono consapevoli che non basta sapere quali indirizzi e corsi sono offerti, quindi molto spesso il fratello, la sorella maggiori o altri parenti guidano nella scelta oppure si rivolgono a figure esterne alla famiglia, ai datori di lavoro, a un conoscente che diventa modello per il lavoro che svolge, a un insegnante che sembra particolarmente degno di fiducia, a una persona amica di famiglia, al materiale pubblicitario delle scuole (per approfondire vedi l’analisi a pag.127) Il caso di Juan è una sintesi esemplare di fattori che hanno determinato un percorso che si rivela una scelta sbagliata. “Per me è stato un casino, perché io avevo sbagliato la scelta. Io volevo fare il meccanico, ma il meccanico d’auto volevo fare. Perché mi piacevano e mi piacciono ancora le macchine, aggiustare le macchine e così. Però ho scelto 'operatore meccanico' che era tutta un’altra cosa. Ci hai messo tre anni per capirlo? Eh sì, perché io da solo… cioè mia madre mi seguiva a scuola, però non è che lei col lavoro che fa, sempre al lavoro sempre al lavoro ha tutto il tempo per sapere che meccanica è, se manco io me ne sono accorto. Poi quando sono arrivato in terza mi sono accorto che non era la meccanica che io volevo, ho voluto cambiare scuola, però mia madre mi ha detto “Ormai sei in terza…”. Poi anche a me era iniziato a piacere, ho iniziato a farlo sono arrivato fino in quinta e ho fatto l’esame di maturità e poi… niente. Disgrazia mia sono uscito col diploma di maturità a cercar lavoro, però era già iniziata la crisi, quindi… soprattutto in questo settore qua della meccanica qua a Torino sono andato a cercare lavoro ma non c’era. [...] Cioè mi avevano detto 'Tu vedi di scegliere cosa ti piace, liceo artistico, liceo linguistico…' ma io non ne capivo bene allora, non sapevo bene cos’era un liceo artistico o linguistico, non sapevo nemmeno la differenza tra un liceo e un istituto tecnico… non sapevo nemmeno la differenza tra un liceo e un istituto tecnico… non la sapevo. Io son andato lì, uno perché era vicino a casa mia e due perché, siccome era meccanica, io volevo fare il meccanico” (int. 5). Vari elementi sembrano intrecciati. Innanzitutto il non sapere, che non è solo mancanza di informazioni ma soprattutto estraneità al sistema scolastico italiano pur avendolo frequentato fin dalla quinta elementare. Questo aspetto evidenzia che il tempo di permanenza in Italia non significa una lineare e progressiva integrazione ma che contano gli ambienti in cui si cresce e che l’assimilazione non è generica né nelle forme né nei tempi. Nel racconto di Juan emergono anche ulteriori fattori che condizionano il percorso scuola – lavoro: i timori della madre per un cambio di scuola (altri genitori, invece, sembrano non turbati dai passaggi da una scuola all’altra e da un indirizzo a un altro. Bisognerà approfondire che cosa fa la differenza), la vicinanza a casa come elemento a favore di una certa scuola, la valutazione, in base 45 RAPPORTO SECONDGEN alle esperienze o soprattutto ai racconti, di alcuni amici, che il diploma quinquennale non solo non dà opportunità di lavoro, ma rappresenta uno svantaggio in momenti di crisi economica. In tanti racconti entrano in gioco la casualità, il “sentito dire”, malintesi su che cosa significhi un corso, conformità al percorso dei fratelli maggiori, assenza del sostegno della famiglia che in molti casi esercita una pressione generica a continuare gli studi e lascia scegliere. “fai quello che vuoi tu”, “fai quello che ti piace”, “basta che ti impegni” sono frasi frequenti nelle interviste che denotano incompetenza nell’affrontare l’istituzione scolastica più che una particolare fiducia nelle capacità decisionali dei figli. Le famiglie istruite insistono di più per continuare gli studi e discutono, si informano e valutano diverse possibilità. Anche tra gli italiani accade che nelle famiglie più istruite si insista di più per continuare gli studi e si mettano in atto energie e strategie per acquisire informazioni sulle scuole. Tuttavia, gli immigrati, comprese le famiglie dotate di elevato capitale umano, con progetti migratori centrati sul futuro dei figli, devono affrontare i problemi specifici che sono stati illustrati: la lingua, l’impoverimento della rete sociale e quindi la maggiore difficoltà ad avere informazioni su determinati indirizzi scolastici e sulla reputazione di alcuni istituti, l’orientamento al ribasso della scuola, che lascia poco tempo per acquisire padronanza nella lingua italiana, e che utilizza questo limite come motivo per evitare il liceo. Non basta avere accesso alle informazioni “ufficiali” (siti web, opuscoli, locandine), magari tradotte per i genitori, ciò che manca alla famiglia immigrata o che fatica ad avere è ciò che si acquisisce mediante le reti sociali, cioè una chiara visione di quella scuola, se quanto enunciato, e formalmente corretto, sugli sbocchi professionali o le opportunità di accesso all’università è realisticamente praticabile, se ci sono differenze tra sezioni, se il corpo docente è stabile e competente, se ha connessioni col mondo del lavoro, se occupa una buona posizione nella gerarchia locale degli istituti. Nel contesto scolastico italiano questo tipo di informazioni conta. 46 RAPPORTO SECONDGEN Aspirazioni educative e segnali di traiettorie diverse In quale direzione stanno andando i figli degli immigrati stranieri in Piemonte? Le informazioni raccolte dalla ricerca non possono essere prese come definitive in quanto quasi tutte i giovani incontrati sono ancora “in cammino”, pochissimi hanno già raggiunto una consolidata posizione all’interno di una professione. Questo rispecchia semplicemente i tempi straordinariamente lunghi dell’inserimento lavorativo in questo momento storico: la situazione sarebbe la stessa anche per i figli di italiani. Tuttavia è possibile conoscere i passi già compiuti nella “carriera” e l’orientamento dei giovani e adolescenti intervistati. Infatti, come emerge anche dall’attuale ricerca, proprio la gradualità e i tempi lunghi dell’inserimento in una comunità professionale richiedono molte esperienze di formazione, stages, contratti temporanei, frequentazione di un ambiente professionale anche nel tempo libero, l’accumulazione di contatti, reti sociali e di un linguaggio. Le interviste contengono abbondanti informazioni su questi punti, e permettono una valutazione della probabile “direzione” intrapresa dalle persone. E’ chiaro che le persone incontrate durante la ricerca sono molto differenziate tra loro in termini di “carriere” attualmente imboccate. Da una parte ci sono giovani che sono già ben avviati su traiettorie verso il ceto medio, in quanto occupano una posizione qualificata e sono inseriti in reti e organizzazioni che forniranno possibilità di crescita professionale. Si può dire quindi che è in corso di formazione un ceto medio di origine immigrata (Allasino, Eve 2010). Al polo opposto ci sono giovani che hanno intrapreso i primi passi di quello che, per alcuni, rischia di diventare una “carriera” criminale. Di nuovo, va sottolineato che le informazioni ottenute dalle interviste costituiscono una “fotografia” scattata in un determinato momento; infatti gli studi sulla devianza e sulla criminalità dimostrano che per la grande maggioranza le attività devianti sono solo una fase, che può essere abbandonata quando si trovano un lavoro stabile e un “serio” impegno sentimentale. Tuttavia al momento dell’intervista, tale era la situazione di alcuni giovani . Tra questi poli estremi sta la grande maggioranza degli intervistati. Molte persone hanno intrapreso percorsi scolastici lunghi, che non assicurano certo il raggiungimento della sicurezza economica né della soddisfazione professionale, ma tuttavia forniscono risorse che potranno essere usate sul mercato del lavoro. Dall’altra parte un buon numero di giovani ha seguito fino a ora percorsi erratici, sia nella scuola sia nei tentativi di ottenere lavoro, spesso alternando tentativi di formazione, abbandoni, brevi o brevissimi lavori temporanei e periodi di inattività. Consideriamo prima i percorsi scolastici lunghi. Al momento dell’intervista solo 13 giovani si erano già laureati, ma questo dipende anche dal fatto che molti intervistati erano troppo giovani per aver concluso. Altri 45 erano iscritti all’università ma non avevano ancora terminato, a volte a causa di difficoltà, a volte semplicemente per motivi di età. Inoltre molti intervistati non ancora diplomati o appena diplomati hanno l’intenzione di iscriversi all’università. Senza dubbio nei prossimi anni le università piemontesi sperimenteranno un forte aumento delle iscrizioni di giovani di origine straniera nello stesso modo in cui i diversi gradi di scuola, dalle elementari alle superiori, hanno visto negli anni precedenti un’impennata delle iscrizioni di studenti stranieri. Questo è confermato anche dall’analisi dei dati del questionario Invalsi (2010-2011) somministrato nelle classi seconde delle scuole superiori piemontesi. Gli studenti che hanno risposto a questo questionario hanno qualche anno in meno rispetto ai giovani delle interviste qualitative, ma i dati sono utili per mostrare quanto sono diffusi i progetti di frequentare l’università. Innanzitutto va notato che le aspirazioni dipendono in primo luogo dall’indirizzo di scuola frequentata. Nello stesso modo in cui la grande maggioranza degli studenti liceali pensa di 47 RAPPORTO SECONDGEN continuare all’università, così accade anche per gli stranieri (anche se con qualche punto percentuale in meno). Agli istituti tecnici invece, e ancora di più agli istituti professionali, le percentuali sono nettamente più basse, con gli stranieri che si muovono - pur con qualche differenza - in linea con i compagni italiani. Tale generale omogeneità all’interno dei singoli indirizzi ricorda l’importanza dell’ambiente scolastico nel definire che cos’è un percorso realistico e desiderabile. Questo a sua volta rammenta l’importanza della scelta compiuta alla fine della scuola media e dell’orientamento. Come si può vedere dalla tabella sotto, quasi 7 su 10 liceali stranieri prevedono di ottenere almeno una laurea triennale e più del 40% pensa di continuare per ottenere anche il titolo magistrale. La proporzione di stranieri che aspira a una seconda laurea è più bassa di quanto lo è tra gli italiani, ma non dissimile; controllando per classe sociale, gli stranieri appaiono non meno “ambiziosi” e orientati all’istruzione dei compagni italiani. Tab. 10 - Percentuali studenti italiani e stranieri iscritti ai licei che prevedono di laurearsi: risposte alla domanda “Qual è il titolo di studio più alto che pensi di conseguire?” italiani Laurea triennale Laurea magistrale 2749 25% 5644 51% Stranieri nati all’estero 128 26% 204 42% stranieri nati in Italia 67 26% 113 44% Fonte: Invalsi 2010-11, questionario studente. Negli istituti tecnici la percentuale di studenti, siano italiani o stranieri, che pensano di laurearsi è nettamente più bassa rispetto ai licei, a conferma non solo della selezione degli studenti all’entrata ma anche del modo in cui i diversi indirizzi plasmano le identità e i progetti degli studenti. Tuttavia,come si vede dalla seguente tabella, la proporzione di studenti stranieri che pensa di continuare all’università è simile a quella tra gli italiani e rispetto agli stranieri nati in Italia un po’ più alta. Tab11 - Percentuali degli studenti italiani e stranieri iscritti agli istituti tecnici che prevedono di laurearsi: risposte alla domanda “Qual è il titolo di studio più alto che pensi di conseguire?” italiani Laurea triennale Laurea magistrale 3654 19% 1472 17% Stranieri nati all’estero 172 19% 146 16% stranieri nati in Italia 77 23% 76 22% Fonte: idem Negli istituti professionali circa la metà degli studenti - sia stranieri sia italiani - pensa di fermarsi al diploma o, per uno su nove, alla qualifica. Così gli studenti che pensano di laurearsi rappresentano una minoranza. Ma all’interno di questa minoranza, gli stranieri, soprattutto quelli nati in Italia, sono più propensi a voler continuare. 48 RAPPORTO SECONDGEN Tab12 - Percentuali degli studenti italiani e stranieri iscritti agli istituti professionali che prevedono di laurearsi: risposte alla domanda “Qual è il titolo di studio più alto che pensi di conseguire?” Italiani Laurea triennale Laurea magistrale 495 11% 321 7% stranieri nati all’estero 99 12% 64 8% stranieri nati in Italia 25 12% 34 16% Fonte: idem Va notato quindi che nonostante le considerevoli difficoltà scolastiche degli studenti stranieri, evidenti nei risultati di questa ricerca come in quelli di molte altre e nei dati del ministero dell’istruzione, vi è una certa tendenza nel persistere negli studi. I dati meritano considerazione anche perché sembrano simili ai risultati di ricerche svolte all’estero, che hanno riscontrato, anch’esse, una combinazione di difficoltà scolastiche e aspirazioni relativamente elevate, almeno in confronto alle famiglie native della stessa classe sociale. Gli autori di queste ricerche hanno parlato di “ottimismo e realizzazione” (Kao, Tienda 1995), di “ambizione e persistenza” (Brinbaum, Kieffer 2005), di “scelte coraggiose” (Jackson 2012) e di “determinazione compresente con prestazioni deboli” (Jonsson, Ridolphi 2011). Risultati del genere appaiono interessanti per diversi motivi. Innanzitutto sembrano degni di nota in Italia in un momento in cui molti esperti dello sviluppo economico esprimono preoccupazione per i livelli relativamente bassi dell’ istruzione in Italia (Cipollone, Sestito 2010). In secondo luogo la combinazione di carriere scolastiche talvolta accidentate e “aspirazioni” o “determinazione” sembra prevedere percorsi lunghi e tortuosi (cfr. Kasinitz et al. 2004 per gli esempi americani) che forse richiederà una certa flessibilità organizzativa da parte dell’università. Si può prevedere che alcuni studenti passando per “la via lunga” (Crul 2013) cercheranno di qualificarsi, anche se potranno avere difficoltà nella realizzazione della meta (Beaud 2008). Infine va notato che, come emerge anche dalle nostre interviste qualitative e da altre ricerche (Minello e Barban 2012), la scelta di un istituto professionale alla fine della scuola media non è necessariamente una rinuncia all’università. Infatti, almeno per gli stranieri, la scelta delle professionali non andrebbe interpretata sempre come una mancanza di ambizione o come un progetto di scolarità breve. Va precisato che l’orientamento a un percorso d’istruzione lungo non è necessariamente segno di “ambizione” in quanto potrebbe essere anche semplicemente l’effetto della mancanza di opportunità di lavoro. E’ possibile infatti che gli studenti nativi, avendo reti sociali migliori, ricevano più offerte di lavoro sufficientemente appetibili da tentarli di abbandonare gli studi. Questo è un nodo interpretativo importante, che la ricerca internazionale e italiana deve ancora sciogliere. Le aspirazioni dichiarate in un questionario o durante un’intervista non corrispondono, ovviamente, a titoli di studio effettivamente perseguiti e raggiunti. E come già accennato, non mancano tra gli intervistati, giovani iscritti all’università o al politecnico che stanno sperimentando delle difficoltà o hanno già abbandonato gli studi. Comunque le aspirazioni espresse meritano considerazione perché la ricerca internazionale ha spesso trovato una correlazione abbastanza buona tra aspirazioni dichiarate e risultati effettivamente raggiunti e anche perché sembrano interessanti indicatori delle prospettive. 49 RAPPORTO SECONDGEN Infine va ricordato che anche quei giovani che avranno ottenuto un titolo universitario non avranno certo il futuro professionale assicurato. Tuttavia anche nel caso che la rendita del titolo sia più bassa di quanto sperato, anche se non si riesce a realizzare la professione sognata, tutti i dati indicano che la loro posizione sul mercato del lavoro sarà comunque ben più forte rispetto a quella dei giovani descritti sotto. Sono numerosi infatti tra i nostri intervistati i percorsi poco coerenti e erratici, vaghi, indeterminati. La richiesta da parte dei genitori di abbandonare nettamente l'istruzione per trovare subito un lavoro è rara. Certamente siamo in una situazione molto diversa rispetto alla prima metà del Novecento quando era frequente che in famiglia si sollecitasse il figlio a lasciare la scuola, se i risultati non erano positivi (Eve, 2012). Sono cambiati sia le aspettative rispetto alla normale durata della scolarità sia il calcolo del costo economico accettabile per la famiglia e per il "futuro" dei figli. Ma è cambiato anche il mercato del lavoro: le nostre interviste testimoniano il rischio di cadere nella posizione del neet, non inserito né in un lavoro né a scuola, o di passare da un lavoretto temporaneo a un altro, con periodi di disoccupazione in cui si trascorre molto tempo a casa a dormire, o ai giardini, in una situazione che può diventare depressiva o “deviante”. Se il lavoro precario e frammentato non protegge dai pericoli della strada” e dalle “cattive compagnie”, per alcuni genitori può svolgere questa funzione un corso di formazione professionale. “Meglio il corso che niente”. Nei casi in cui gli svantaggi si accumulano - particolare debolezza delle reti sociali, il fatto che alcuni giovani abbiano una reputazione locale che rende difficile l’accesso a un lavoro stabile, i problemi col permesso di soggiorno, l’adesione a forme di “cultura di strada” che comportano il “rifiuto” del lavoro - si possono produrre carriere nella devianza, come sta emergendo dalle storie di vita raccolte con l’osservazione etnografica. A parte questi casi piuttosto atipici, i percorsi erratici diffusi tra gli intervistati sono di altra natura e hanno a che fare con gli aspetti già evidenziati in questo rapporto, come le difficoltà da parte dei giovani e dei genitori a “navigare il sistema” scolastico italiano, o l’abbondanza di offerta formativa apparentemente allettante rispetto a sbocchi lavorativi ma che risulteranno difficilmente praticabili. La storia scolastica di Marco esemplifica un percorso erratico. Marco si muove tra scuole diurne e serali; da un istituto tecnico a un altro a seguito di una rissa in cui era stato coinvolto e dell’intervento della madre che vuole proteggerlo da altre esperienze simili e dalla cattiva reputazione. Al momento dell’intervista sta frequentando due scuole contemporaneamente, e porta delle motivazioni molto deboli e vaghe. «Faccio l’*; fino a un mese fa facevo il diurno al *, terza, aereonautica, e adesso faccio il serale, meccanica, perché non c’era tempo tra questa e l’altra, neanche il tempo per mangiare. Quindi fai due scuole contemporaneamente? Sì, qui faccio impianti, ma è solo pratica. Di là è tutta teoria, qui no, così non devo stressare troppo il cervello.[…] Lì (nel primo istituto tecnico frequentato) si faceva meccanica generale, stavo bene, ho fatto tre anni. Solo che ho conosciuto degli amici... anche mio fratello era lì... […] un giorno a scuola c’è stata una rissa tra ragazzi, […] E allora i miei hanno detto che era meglio cambiare, mia madre non accettava più che andassi n quella scuola, dato che aveva coinvolto così mio fratello, e ho deciso di cambiare e sono andato al *, aereonautica, perché all’* era meccanica molto generale, anche meccanica delle microonde, e invece là era più specifico. Mi piaceva, era semplice, mi piaceva, ma richiedeva tanto tempo e non potevo fare anche qui, e allora dopo pochi mesi sono andato via. Ma perché hai voluto aggiungere l’impegno di questo corso? La mia ragazza aveva fatto qui un corso di ristorazione e mi ha consigliato di venire, fatti un corso, boh...» (Int.9) 50 RAPPORTO SECONDGEN Probabilmente Marco spera di avere maggiori opportunità muovendosi lungo due percorsi, ma in generale, le esperienze temporanee di lavoro raramente costruiscono una carriera, gli stage/tirocini durante la formazione per alcuni giovani sono un’esperienza professionale positiva e di socializzazione al lavoro, per pochi diventano un effettivo inserimento lavorativo. In queste situazioni anche i lavoretti eventualmente svolti non sono un ingresso nel mondo del lavoro ma possono diventare una condizione di lungo termine, alternata a periodi di disoccupazione. L'apparente assenza di "progresso" tende a scoraggiare. Si sono infatti colti due diversi significati dell’esperienza dei diversi lavoretti svolti da alcuni intervistati (benché in molte famiglie, pur indigenti, prevalga durante gli anni di scuola la richiesta dell’impegno nello studio): a) successioni di lavori, lavoretti, lavori non-pagati, corsi di formazione, attività di volontariato o di tempo libero che, nonostante tutto, potrebbe costituire un'accumulazione di esperienze, di capitale umano, in un determinato ambiente lavorativo b) lavori, lavoretti che sembrano portare in direzioni del tutto diverse tra loro e che non potrebbero essere in nessun modo pensati come "carriera" in nessun specifico “ambiente” lavorativo, ma che rispondono esclusivamente al desiderio/bisogno di guadagnare senza strategie orientate all’integrazione in un ambiente lavorativo. Risulta interessante, anche in questo caso, una comparazione con i figli degli immigrati interni del passato. Negli anni dell’immigrazione meridionale l’abbandono degli studi (in età molto precoce) sembra spesso lo sbocco di un percorso di progressivo rifiuto di una scuola che non dà alcuna gratificazione (ma spesso umilia) e di un percorso di integrazione in un altro (e diverso) ambiente sociale (quello del lavoro). Tuttavia, tra i ragazzi di origine meridionale che avevano interrotto precocemente la scuola (la grande maggioranza) sembra prevalere ampiamente una successione di lavoretti fatti durante la scuola dell’obbligo che sono del tipo b) il cui significato, cioè, starebbe esclusivamente nel reddito che procurano (da spendere in consumi per la loro socialità) e che quindi non comportano alcuna “crescita” professionale attraverso l’apprendimento del mestiere o un percorso di specializzazione. Come forse avveniva - o era avvenuto - per i figli degli operai piemontesi, nel mondo operaio “tradizionale”, in cui l’apprendistato “vero” era quello del ragazzo messo “a bottega” a imparare senza percepire nessuna remunerazione ma addirittura in certi casi era la sua famiglia che pagava. Nei casi ‘di successo’ emersi dalle interviste, si è rivelata importante la successione di esperienze, magari positive e motivanti, che portano a una determinata ricerca di esperienze ulteriori. E' chiaro, anche indipendentemente dalle differenze tra periodi storici, che alcune esperienze lavorative, come già detto, portano ad accumulare 'capitale sociale', mentre altre sembrano prolungare il limbo, la galère", forse addirittura peggiorando la prospettiva di inserimento nel mercato del lavoro e la possibilità di presentarsi come candidato credibile a un datore di lavoro. La ricerca mira a indagare non solo le carriere scolastiche, ma più in generale i processi e i meccanismi di inserimento lavorativo dei figli degli immigrati, e tra questi anche quelli che conducono in posizioni tipiche del ceto medio (Donatiello, 2013). Un aspetto, quello della transizione al mondo del lavoro e alla successiva carriera occupazionale, meno indagato dagli studiosi anche in ragione del fatto che la presenza stabile di seconde generazioni nel nostro paese è un fenomeno relativamente recente: nel dibattito pubblico così come in sede di elaborazione delle politiche sta crescendo l’attenzione in questa direzione e ormai il problema dell’inserimento lavorativo di questi giovani è percepito come una questione centrale per valutare il loro livello di integrazione, non soltanto dal punto di vista economico ma anche da quello sociale. In particolare, i meccanismi di inserimento dei giovani immigrati in posizioni sociali di ceto medio sono stati indagati adottando una prospettiva processuale e relazionale che tenesse conto delle traiettorie di vita e degli effetti di lungo termine della migrazione secondo l’idea di partenza che il processo migratorio produce conseguenze sulle vite individuali dei primo-migranti – i genitori, coloro che 51 RAPPORTO SECONDGEN hanno deciso di emigrare – ma anche sulle carriere biografiche, educative e occupazionali dei figli, che l’onda lunga della migrazione dei genitori possa investire in qualche modo le traiettorie sociali dei figli influenzando l’orientamento ai percorsi educativi e la riuscita scolastica, le strategie di ingresso nel mercato del lavoro, la definizione di aspettative e aspirazioni che condizionano le decisioni. Sono stati individuati giovani di seconda generazione in posizione di ceto medio allo scopo di ricostruire le sequenze salienti delle loro traiettorie di vita descrivendo snodi, condizioni e situazioni fattuali che le caratterizzano. Un interesse più generale è stato quello di sottolineare eventuali svolte – positive e negative – e riorientamenti tanto sul piano dei progetti quanto sul piano delle carriere effettivamente intraprese per illustrare come sono diventati ceto medio. Un ulteriore aspetto, utile soprattutto per indagare gli effetti di lungo periodo del processo migratorio, è dato dalla combinazione tra risorse di capitale economico, umano e sociale a disposizione dei giovani e la capacità di attingervi attraverso le reti sociali in cui sono inseriti. Si è quindi cercato di ricostruire le dinamiche di definizione dei principali networks di riferimento e i processi di costruzione di nuovi tessuti relazionali in una prospettiva che va oltre i riferimenti generici alle "reti etniche". L’obiettivo è stato quello di individuare i contesti sociali in cui si sono formate relazioni significative con persone che hanno svolto un ruolo importante dal punto di vista dello scambio di informazioni, delle decisioni e delle azioni: un’ipotesi era che comportamenti interpretabili di primo acchito come espressione della differenza culturale potessero invece essere connessi a vincoli/opportunità messi a disposizione dalle reti sociali di riferimento (scuola, famiglia, reti amicali, luogo di lavoro, ecc.). L’idea di base è che anche per questi soggetti i progetti fossero frequentemente influenzati dagli ambienti a cui essi sono stati socializzati: anche le stesse prospettive di studio, lavoro e carriera possono sembrare interessanti, realistiche, vaghe o nemmeno essere prese in considerazione a seconda delle diverse cerchie sociali con cui si entra in relazione. L’analisi di queste traiettorie ha fatto emergere come gli effetti di lunga durata del processo migratorio si intrecciano con altri elementi (dalla capacità di agency dei singoli attori ai networks di riferimento) e influenzano alcune "scelte cruciali" (tipo di scuola, abbandono degli studi, una determinata professione, transizione al lavoro autonomo). In questa direzione è possibile interpretare l’ingresso nel ceto medio dei figli degli immigrati come un percorso di affermazione individuale, o in alternativa come forma di riscatto familiare, al di là delle motivazioni e aspirazioni di mobilità personali, ma anche all’opposto come percorso di emancipazione dalla famiglia e dalla sua influenza. 52 RAPPORTO SECONDGEN L’associazionismo I risultati di Secondgen permettono di delineare un continuum di aggregazioni che va dalle più informali - un gruppo occasionale di conoscenti, la formazione di squadre di calcio improvvisatea quelle via via più strutturate - frequentare un oratorio, un’associazione, un’attività sportiva, sino alla piena appartenenza a un gruppo molto coinvolgente come sono alcune organizzazioni religiose o politiche. E’ stata inoltre riscontrata una gamma di sfumature e posizioni intermedie (attività semi strutturate, ad esempio: l'oratorio come cornice in cui non è detto che si facciano attività strettamente strutturate sotto la supervisione di educatori, è anche uno spazio per attività informali e spontanee dei ragazzi). Pochi intervistati sono iscritti o frequentano regolarmente associazioni e luoghi di aggregazione strutturati. Le differenze generazionali tra i ragazzi di “seconda generazione” (età all'arrivo, il numero di anni in Italia, le differenze tra generazione 2.0 e 1.5) sono significative, per esempio per quanto riguarda la frequentazione di giardini, parchi, luoghi pubblici aperti, così come dell'associazionismo sportivo (calcio in particolare) che sono specifici contesti di socializzazione per i neorrivati o arrivati da relativamente pochi anni. Al momento non risulta dal materiale empirico l’esistenza di bande strutturate fra i giovani immigrati, come nel caso dei latinos di Genova (Queirolo Palmas 2006, Melossi 2007). E’ possibile che questo derivi dall’azione delle stesse amministrazioni locali che hanno favorito l’incontro dei giovani di Genova con loro presunti omologhi organizzati in bande negli Usa, ma anche forse dalla necessità di interpretare certi comportamenti sulla base di una appartenenza identitaria forte. Nessun giovane intervistato per la ricerca si definisce come appartenente a una banda. Ogni organizzazione ha propri criteri di esclusione e di selezione (ad es. le squadre di calcio possono essere organizzate per gruppi di età e di abilità omogenea). Come, per quali canali, i giovani entrano in contatto con gruppi e associazioni e come possono restarvi coinvolti? Soprattutto: come ne possono ricavare una spinta positiva in termini di autostima, di aumento della fiducia e della capacità relazionali ecc... contro invece un coinvolgimento che li frustra e ne limita la libertà di scelta? Il nodo fondamentale sta proprio nella possibilità che il soggetto resti nelle aggregazioni o associazioni e ne ricavi un qualche orientamento significativo per il suo percorso. L’incontro casuale con gruppi è frequente (ad esempio il caso che abbiamo individuato degli arbitri che presentano sistematicamente la loro attività nelle scuole), molti forse transitano in oratori o squadrette sportive ma poi ne escono senza alcuna conseguenza rilevabile nelle interviste. Altri invece paiono influenzati in modo più rilevante, almeno secondo le dichiarazioni fatte: apprezzano le responsabilità di cui sono investiti, frequentano un mondo di adulti, maturano scelte e decisioni che forse in altre situazioni non avrebbero compiuto. Sembra che la frequentazione di adulti e di persone di diverse origini sia un fattore fondamentale per valutare gli effetti della partecipazione a gruppi, associazioni e attività sportive. Ne deriva una conoscenza di ambienti diversi e una socializzazione a pratiche che possono essere molto utili per la ricerca del lavoro e per il passaggio all’età adulta, nuovi contatti, acquisizione di competenze interpersonali, sociali e, in alcuni casi, professionalizzanti. Chi invece frequenta solo coetanei di analoga estrazione sociale e nazionale potrà maturare competenze relazionali anche significative, potrà diventare un leader, ma difficilmente queste competenze saranno estensibili ed esportabili in altri ambienti, specialmente di adulti. Per i genitori, l'associazionismo rappresenta una forma di controllo/custodia del tempo libero dei figli. «Allora, ci ero andato d’estate perché era morto mio zio e non era il caso di 53 RAPPORTO SECONDGEN andare in vacanza in Albania con lo zio morto, e mia madre mi ha detto: vai a lavorare nell’oratorio! E ho fatto l’animatore, ma non ti pagano e boh... e ho conosciuto un gruppo di gente nuova...» (Int. 56). In altri casi l’esperienza associativa seleziona le amicizie, fornisce risorse sociali e sviluppa valori consonanti con quelli familiari, spesso mediante figure di riferimento, consiglieri, modelli.«(L’associazione ) la conosco da tanto tempo. Mia sorella ci andava, già dieci anni fa. Io sono andata alle medie una o due volte e poi non ci sono andata più. Alla fine della terza superiore mia cugina andava e allora io sono andata qualche volta con lei per curiosità. Una volta sono andata a un convegno e mi ha colpito molto vedere che intervenivano persone di un certo tipo ...una donna ingegnere con il velo, di successo e molto attiva, ad esempio ...persone che erano dei modelli» (Int. 80). Talvolta madri mediatrici culturali e parenti o genitori coinvolti nell’associazionismo religioso o nazionale spingono i figli e le figlie a frequentarlo o forniscono informazioni su realtà associative locali, “progetti” per i giovani di cui vengono a conoscenza. Anche gli insegnanti possono indirizzare verso l’associazionismo giovanile che controlla lo svolgimento dei compiti, assiste nell’apprendimento dell’italiano, organizza attività nel periodo estivo, diventa il luogo del tempo libero, delle amicizie e di esperienze di volontariato o di piccoli lavoretti. I giudizi degli intervistati su queste esperienze sono generalmente positivi ma non mancano le critiche alle pratiche di controllo e alle chiusure comunitarie di alcune associazioni religiose o nazionali. Dal materiale empirico raccolto sembra che chi frequenta attività e associazioni di tipo più strutturato abbia le caratteristiche del “bravo ragazzo” con una carriera scolastica in positivo. Solitamente si pensa che la rete dell'associazione sia differente dalla rete della famiglia/parentela, dalle interviste emerge invece una certa prossimità e commistione. 54 RAPPORTO SECONDGEN Percorsi transnazionali? Negli ultimi anni la nozione di “transnazionalismo” ha esercitato un’influenza significativa sulla ricerca, evocando l’immagine di persone che si spostano fluidamente tra due paesi e partecipano alla vita civile e sociale di entrambi. La nozione di transnazionalismo in questo senso non è parsa appropriata e analiticamente proficua per spiegare le esperienze e i rapporti col paese di origine descritti dai giovani intervistati. Al di là delle obiezioni teoriche riguardanti la scarsa definitezza e conseguente ambiguità del termine (Kivisto,2001), condivise dal gruppo di ricerca, la maggior parte dei nostri intervistati vive, in vari modi, l’esperienza dei ritorni periodici al paese d’origine, in una dimensione “micro”, familiare e non comunitaria, con significati diversi, e “deboli” rispetto a quello di un “processo mediante il quale i migranti si costruiscono campi sociali che legano insieme il paese d’origine e quello di insediamento” (Glick Schiller et al. 1992). Qualche intervistato ha fatto l’ipotesi di un trasferimento nel paese di origine se ci fosse la possibilità di un inserimento lavorativo, ha costruito o mantenuto relazioni familiari e di conoscenti in vista di questa possibilità. Tuttavia è difficile sapere le effettive possibilità di realizzazione di questi progetti. Altre persone ritengono che sia probabile un ritorno dei genitori e in certi casi questo era già avvenuto al momento dell’intervista. I genitori che hanno fatto questa scelta hanno investito i propri risparmi in terreni o abitazioni, in attività con altri familiari che l’età pensionistica permette di seguire direttamente. Per alcuni giovani tornare durante le ferie o le vacanze può significare “sentirsi a casa”, circondati dall’affetto della famiglia allargata, tra molti amici. Ma per divertirsi servono “tanti soldi” e i compaesani hanno certe aspettative rispetto a chi è immigrato. «Vedevo connazionali che in Italia si sono fatti tanti soldi, si sono comprati macchinoni enormi e hanno aperto delle belle attività in Marocco. [...] i pettegolezzi della gente che è rimasta là in Marocco. La gente dice: “tanti anni che stai in Italia e non hai fatto nulla!”. In Marocco c’è l’idea che se vieni qua e non fai soldi, non sei un buon migrante. A loro non interessa come li hai fatti, importante è tornare con tanti soldi. Anche se la religione non lo permette, la gente cerca i soldi facili con attività illegali, lo fa lo stesso» (Int.160). Altri intervistati vivono il ritorno con un senso di estraneità agli ambienti che non sono più o non sono mai stati familiari. «Io faccio difficoltà quando vado per le vacanze, stare lì, la prima settimana mi devo ancora abituare al posto dove sto ma anche il modo di parlare con le persone, il modo in cui loro reagiscono, la battuta che loro fanno, le altre cose, io lo vedo sempre anche se ultimamente sto andando molto spesso però mi ci vuole sempre tempo per riuscire a capire…» (Int. 151) Emerge in molte interviste il desiderio di andare in altri paesi, ma nella maggior parte dei casi non si tratta di progetti definiti. Per alcuni ragazzi marocchini andare in Francia, stabilmente o praticare un transnazionalismo circolatorio, rappresenta una possibilità concreta grazie alla presenza di parenti già inseriti. Altri intervistati citano il Belgio o l’Inghilterra per la maggiori opportunità lavorative e le maggiori garanzie sociali, ma sono affermazioni spesso basate solo sul “sentito dire”, denotano una vaga disponibilità, se l’occasione si presentasse. Chi ha valorizzato la competenza linguistica e i contatti con il paese d’origine per attività giornalistiche o diplomatiche tenta di costruire una carriera internazionale più che un progetto transnazionale. 55 RAPPORTO SECONDGEN Tra le ragazze, alcune vivono o hanno vissuto il ritorno periodico come il momento del fidanzamento o della celebrazione del matrimonio con un connazionale che in tal modo potrà avere il permesso di soggiorno in Italia. «La casa l'avevo presa da gennaio, perché avevo spedito i documenti a mio marito e ho detto “se arriva tra poco, prendo la casa un po' prima così la sistemo”. Ho comprato la camera da letto, degli oggetti per la cucina, un forno, mi mancano pochissime cose... mio padre mi ha trovato un tavolo e delle sedie da un'altra casa. Pian piano ho iniziato a mettere i mobili, mi manca solo un divano, ho comprato il frigorifero. Lui è arrivato ad aprile, ci eravamo sposati agosto 2011, sono rimasta lì due mesi e sono tornata a ottobre l'anno scorso» (Int. 131). In questo caso la conseguenza di un matrimonio voluto dai genitori comporta di fatto un’inversione di ruoli per la giovane moglie lavoratrice. Tornare d’estate, può significare essere “preda” dei tentativi di tanti giovani maschi che vedono nel matrimonio, specialmente con una giovane che lavora, un’opportunità di trasferimento “garantito“ in Italia. Una giovane diciottenne, sposata con un connazionale e madre, racconta che quando tornava la infastidivano i ragazzi che si avvicinavano «solo per i documenti […] Fanno vivere cose brutte alle ragazze arabe che lavorano, si sposano con questi giovani che si fermano poco in Italia e poi tornano in Marocco e magari sposano altre donne» (Int. 129) . In qualche intervista c’è il racconto dei pettegolezzi subiti e della decisione di non tornare periodicamente al paese di origine dove le ragazze possono subire forti pressioni per il matrimonio. «Mi trovo un pesce fuor d’acqua! No, soltanto che .... tante persone mi volevano e io non volevo nessuno. La gente inizia a parlare e i miei .... erano un po’ diversi da quelli che sono qua ... la gente: non ha accettato questo, non ha accettato quello, non ha accettato l’altro, chissà cos’ha! E loro (i genitori): che cosa è successo? Cos’hai? Se è successo qualcosa, dillo ... ma .... mi sono trovata in una situazione difficile per me. Avevi 18 anni e questi ragazzi che ti presentavano tu li conoscevi? Li conoscevo , però non mi piacciono, cioè io non posso legare la mia vita alla sua . niente da fare. Ho giurato di non andare più. Ho sofferto. Mi hanno giudicato male .... La gente, boh: chissà cos’ha fatto, chissà cos’ha combinato , forse ha qualcuno. Hanno girato delle voci che ... mi sono sentita proprio male» (Int. 119). (per approfondire vedi l’analisi a pag. 158) E’ importante sottolineare anche le migrazioni interne, dal Sud al Nord Italia e la mobilità territoriale in Piemonte e in Nord Italia di molte famiglie. In questi casi gli effetti degli spostamenti si sono accumulati determinando situazioni di svantaggio nell’inserimento scolastico dei figli e nell’inserimento lavorativo dei genitori. Il rapporto con il paese d’origine è raramente segno di reti che scavalcano le frontiere e che contribuiscono a definire in senso bifocale e bilocalizzato le pratiche sociali e i percorsi lavorativi. Vi sono tuttavia possibili e significative eccezioni: in particolare alcuni hanno parenti nei paesi di origine o in altri paesi di emigrazione che si sono offerti di aiutarli a trovare lavoro o almeno di assisterli in una nuova migrazione. E' difficile dire se queste reti siano davvero in grado di offrire alternative o se restino una vaga speranza: nella crisi attuale potrebbe essere comunque una risorsa. 56 RAPPORTO SECONDGEN Permessi di soggiorno e cittadinanza La conquista del “permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo” è una tappa cruciale nel percorso di stabilizzazione, mentre il diventare cittadini sembra rappresentare una meta lontana. Entrambi sono utili “per stare tranquilli”, per potersi muovere più agevolmente in Europa. «Lei è cittadina italiana? No, perché per avere la cittadinanza bisogna avere un certo reddito e essendo io fino a poco tempo fa, quando ho fatto la domanda, minorenne avrebbero dovuto guardare il reddito di mia madre che però non è abbastanza, cioè la maggior parte del reddito non è regolare quindi nel Cud ciò che guadagna non è abbastanza e … non posso ottenerla. E pensa che questo possa crearle qualche problema? No, non particolarmente... La cittadinanza non è esattamente quello che mi serve, perché per viaggiare in Europa ho il passaporto, salvo che in Inghilterra dove ho bisogno del visto. Per altri paesi d'Europa no. Comunque ho la carta di soggiorno, ho i documenti che mi garantiscono.. due o tre anni fa sono riuscita a ottenerla, prima era a scadenza, andavo e rinnovavo. Magari avrei qualche agevolazione, ma neanche tante. Forse ho più agevolazioni a non essere cittadina italiana. Quindi va bene così» (Int. 95). In molti casi abbiamo riscontrato carenza di informazioni sulle procedure e sui requisiti per l’acquisizione della cittadinanza. «Ho la carta di soggiorno con scadenza illimitato.... la cittadinanza no, non l'ho ancora chiesta, devo informami per capire la mia situazione, forse a fine del 2012... sono nell'anno dei 18, ma non so bene, devi avere anche il requisito del lavoro» (Int. 128). Tutto ciò può essere letto come uno scollamento rispetto al dibattito in corso in Italia, che non coinvolge gran parte dei giovani, e come inconsapevolezza che la piena partecipazione consiste non solo nel diritto al voto ma anche nell’accesso ai concorsi pubblici, per ora riservati ai cittadini italiani o in certi casi dell’unione europea. Alcuni nostri intervistati l’hanno infatti scoperto “tardi” , anche in questo caso la mancanza di informazioni precise è determinante per le traiettorie. «Anche durante l’orientamento non te lo dicevano. diciamo, come stranieri, proprio in quella facoltà, in quel corso, sono pochissimi [...] Quando facevano l’orientamento davano per scontato che fossimo italiani e quindi non…» (Int. 124). E’ diffusa l’idea che “basti” il permesso per lungo residenti, perché il problema maggiore sta nella scadenza del permesso di soggiorno, benché ci siano “aree grigie” entro le quali alcune famiglie e giovani si muovono per ottenerne il rinnovo. «Come fai ad avere il permesso di soggiorno se non lavori? Adesso ho due anni. Ho fatto la richiesta per quello a tempo indeterminato. L'ho fatta quando lavoravo, sto aspettando la risposta. Se proprio va male sicuramente un lavoro lo troverò. Ci sono tante soluzioni che si può fare, basta pagare ma ci sono. Ci sono i contratti finti... » (Int.117). Ciò che infatti viene evidenziato nei racconti dei giovani è soprattutto il problema del meccanismo del permesso di lavoro legato al contratto di lavoro. Dice un giovane uscito dal carcere: «Ora sto cercando lavoro ma senza i documenti è difficile trovare qualcuno che ti assuma, senza lavoro regolare non posso rifare il permesso di soggiorno! » (Int.160). In alcuni casi il mancato rinnovo del permesso di soggiorno ha contribuito al processo di accumulazione dello svantaggio e allo scivolamento nell’economia sommersa e nell’illegalità. Le forme contrattuali a progetto sono un altro elemento di difficoltà di posizionamento giuridico: « I miei ce l’hanno a tempo indeterminato il permesso di soggiorno, chi ha un lavoro fisso, sì a 57 RAPPORTO SECONDGEN tempo indeterminato lo può prendere, chi ha un contratto a tempo determinato in base alla durata del contratto… io adesso avevo questo contratto a progetto per due anni e ho avuto lo stesso per un anno il permesso in attesa di occupazione e non per motivi di lavoro» (Int.151) Ciò rende più lungo il percorso per poter richiedere il permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo e la cittadinanza italiana. «Ho fatto domanda (di cittadinanza) ormai 4 anni fa perché in quel momento avevo tutti i requisiti, lavoro, entrate, eccetera, ma in mezzo a un blocco, che vedo anche in altre persone. Perché la devo chiedere? Certo che è comoda, ma poi ci mette tanti anni e io non so dove sarò ... la carta di soggiorno sarebbe comoda, ma in realtà bisogna avere avuto un contratto di lavoro almeno di un anno e io non ho mai avuto un contratto che sia durato un anno e quindi alla fine ho fatto domanda di cittadinanza ma ho molti dubbi perché per ora non si prospettano possibilità di lavoro stabile per il 2012, e non so ...» (Int. 104). La precarietà lavorativa che caratterizza molti nostri intervistati impedisce progetti di vita di lungo periodo, e tra questi anche il vedersi italiani. 58 RAPPORTO SECONDGEN Forme di identificazione e ambienti sociali Quali sono le forme di classificazione usate dai giovani per spiegare e interpretare la propria situazione, le scelte, il proprio mondo sociale? Esaminando il materiale empirico raccolto, si può notare che i confini e i sistemi categoriali di classificazione per definire la propria posizione sono appresi e costruiti negli ambienti sociali in cui si è inseriti. Ad esempio: cabinotti/ non cabinotti; fighi e sfigati in base al consumo di droghe e all’atteggiamento verso i professori; tamarri/non tamarri; tamarri/squatter; i finocchietti/quelli che dicono parolacce; metallari/rappusi sono categorizzazioni ricorrenti nei racconti degli intervistati e proprie di ambienti adolescenziali-giovanili, locali, che definiscono la differenza tra noi/loro ma non su basi nazionali. Le interazioni tra giovani intervistati e giovani “locali” non sono pertanto riconducibili a interazioni tra membri di gruppi nazionali (o “etnici”) poiché nei processi di identificazione contano, più che la cultura di origine, le relazioni e gli ambienti in cui si cresce. Le interviste non prevedevano una sezione specificatamente dedicata a esplorare la questione dell’ “identità”, del “sentirsi” più o meno italiano, che avrebbe potuto indurre il ricorso a categorie etniche/nazionali, pertanto le narrazioni dei giovani possono risultare interessanti per l’evidenza di discorsi articolati su diversi schemi cognitivi e sistemi categoriali. Se l’intervista avesse previsto di esplorare esplicitamente la dimensione identitaria, si sarebbe rischiato di indurre un discorso essenzialistico, astratto dalle esperienze concrete. Invece, sono emersi complessi processi di formazione dei gruppi e forme di autoidentificazione e di eteroidentificazione molto legate agli ambienti specifici, al quotidiano e alle persone che si conoscono, che si frequentano o che si evitano Inoltre, interrogarsi sui processi di categorizzazione può assumere particolare rilievo in un contesto, Torino e l’Italia in generale, dove è diffuso, sia con intenti di valorizzazione della differenza, sia in termini xenofobi, il riconoscimento ai migranti e in parte ai loro figli di un’identità ascritta e fondata sulle origini, che definirebbe delle “comunità” coese e omogenee (per approfondire vedi l’analisi a pag 175). Il senso della prossimità e della distanza che invece emerge dai racconti dei giovani intervistati non è centrato sull’origine nazionale ma sugli ambienti sociali. L’analisi delle nostre interviste evidenzia che i giovani apprendono e costruiscono categorie, schemi discorsivi e cognitivi negli ambienti sociali in cui si trovano. La differenziazione tra radicati e esterni (Elias e Scotson, 2004) - che non corrisponde a quella tra italiani e stranieri - tra disciplinati e pigri, tra responsabili e irresponsabili, tra devianti e non devianti, tra quelli che lavorano molto e quelli che lavorano poco esprime codici morali, culture giovanili, etichette, criteri di classificazione appresi in Italia. Con questo materiale fornito dalle esperienze e dalle interazioni quotidiane, i giovani intervistati tracciano confini, valutano e descrivono se stessi e gli altri. Certamente esiste in Italia un’ampia letteratura (Colombo, 2010) sui processi di costruzione identitaria che evidenzia l’eterogeneità delle situazioni, i differenti modelli di appartenenza a disposizione dei giovani per rappresentarsi e agire, e le forme di identificazione molteplici, deboli, strategiche, “ibride”, “meticce”. Questi discorsi rischiano tuttavia di rimanere nell’orizzonte di un’identità declinata in termini culturali tra appartenenza originaria e adesione al paese d’arrivo. 59 RAPPORTO SECONDGEN Invece, le specificità sociologiche dei figli degli immigrati, da come emerge in tutta la ricerca, stanno in altro. Dalle interviste di Secondgen, mediante l’analisi dei dati empirici, si è cercato di esplorare come nella prassi relazionale quotidiana in contesti e ambienti sociali variabili, mediante discorsi spontanei, i giovani costruiscano appartenenze, identificazione e confini. Appare infatti più promettente dal punto di vista interpretativo l’analisi delle categorie che sono usate dai singoli individui per distinguersi, per identificarsi e caratterizzare sé e gli altri e dare senso alla propria posizione, nei processi quotidiani di formazione dei gruppi, tra interazioni, reti e risorse personali (Wimmer 2004, 2009). Questa prospettiva, applicata al materiale empirico di Secondgen, permette di evidenziare che le persone in certe circostanze usano certe categorie. Queste esprimono una specifica esperienza migratoria, specifiche esperienze personali, posizione sociale, obiettivi, interessi, sono utilizzate per avvicinarsi o prendere le distanze. Ed è interessante analizzare come sono selezionate nella prassi quotidiana di costruzione di confini, nei discorsi e nelle reti sociali, con risultati diversi. Possono emergere comunità etniche, o identificazioni in base al genere, al livello di istruzione o di classe, a elementi delle “culture giovanili”. Tra le categorie utilizzate dagli intervistati ci sono anche quelle etniche o nazionali. I giovani dispongono, infatti, del riferimento alle origini in quanto categoria di classificazione alla quale applicano stereotipi negativi o positivi, con la funzione di marcatore nelle interazioni a scuola, al lavoro, negli spazi pubblici, nei luoghi di ritrovo e di divertimento. E spesso affermano nette differenziazioni interne alla comune origine, volendo distinguersi, prendere le distanze dai connazionali secondo diversi criteri. Tra questi abbiamo riscontrato il momento di arrivo in Italia (vecchi e nuovi arrivati), la provenienza dalla città o dalla campagna, i diversi obiettivi dell’emigrazione, il rapporto con le tradizioni locali, l’origine sociale. 60 RAPPORTO SECONDGEN 2.3. Analisi Vie di radicamento e scelte di vita: migranti italiane e straniere a confronto Anna Badino La costruzione di nuovi legami: una questione di genere e di generazioni Essere figli di immigrati è una condizione che incide sulle opportunità, i vincoli, le aspettative e i progetti individuali, come sugli ambienti fisici e sociali frequentati, le scelte e i percorsi biografici. Ma cos’è che differenzia gli immigrati dagli autoctoni? L’emigrazione comporta la perdita di alcuni rapporti e impoverisce la rete di relazioni di chi lascia il luogo di origine per trasferirsi in un altro. Pertanto, la prima cruciale sfida che qualsiasi immigrato deve affrontare è quella della costruzione di una propria rete sociale nel nuovo contesto di arrivo (Eve 2010). A seconda delle modalità con cui questo processo di radicamento si realizza si possono avere ricadute diverse su scelte di vita cruciali come quelle che riguardano il bivio tra lavoro da un lato e la prosecuzione degli studi dopo l’obbligo dall’altro, i progetti migratori, i progetti legati alla vita di coppia. Sarà questo il punto intorno al quale tenteremo una riflessione. Le condizioni e i modi di radicamento dipendono dal ruolo sociale che si riveste al momento dell’arrivo nel nuovo contesto. Come per altri processi sociali, le differenze di genere condizionano tipo e varietà di ambienti frequentati e tempo a disposizione da dedicare all’attività sociale. Per la prima generazione di immigrati meridionali al Nord, ad esempio, il luogo di lavoro e il vicinato rappresentavano le due sfere tipiche, anche se non esclusive, in cui intrecciare nuovi rapporti (Ramella 2003, Gribaudi 1981), ma il primo lo era soprattutto per gli uomini e il secondo per quelle donne che trascorrevano una buona parte della loro giornata in casa (Badino 2009). Per queste donne, anche il mercato di quartiere frequentato regolarmente, o i giardini pubblici vicino casa dove ci si recava con i figli piccoli potevano rappresentare altri ambienti in cui fare nuove conoscenze, al di là dell’eventuale parentela presente in città, che costituiva un punto di riferimento fondamentale per tutti i nuovi arrivati e poteva fare da ponte per la costruzione di nuovi rapporti sociali. Oltre al genere è però utile considerare anche il peso dell’elemento generazionale e della fase del ciclo di vita in cui ci si ritrova nel condizionare la costruzione di nuovi rapporti: chi emigra da bambino (ma ciò vale anche per i figli degli immigrati di oggi che arrivano da adolescenti) entra in contatto con i coetanei locali principalmente attraverso la scuola. È oggi abbastanza diffusa la convinzione secondo la quale negli anni del miracolo economico proprio questa istituzione avrebbe favorito l’integrazione di una generazione di meridionali al Nord. In realtà, diverse fonti e una serie di studi condotti all’epoca testimoniano per quel periodo un quadro tutt’altro che idilliaco (Badino 2012). L’inserimento nell’ambiente scolastico rappresenta, oggi come allora, un momento delicato nell’esperienza dei piccoli o giovani immigrati. Nel caso dei bambini meridionali arrivati a Torino negli anni Sessanta, i dati che abbiamo raccolto1 mostrano che l’impatto con la scuola locale è stato traumatico: retrocessioni in classi inferiori all’arrivo, bocciature ripetute e confinamento nelle classi differenziali sono fenomeni che hanno allarmato gli osservatori dell’epoca per la loro straordinaria diffusione (Deva e Pepe 1963; Quadrio 1967; Quadrio e Ravaccia 1967; Aymone 1972; Fofi 1976) e che segnalano seri problemi di adattamento. Oltre alle difficoltà prettamente legate all’attività didattica, testimoniate dagli appunti degli insegnanti sui registri di classe, anche l’intreccio di legami amicali con i nuovi compagni torinesi non è stato per tutti facile. 1 Oltre agli studi di carattere pedagogico condotti durante gli anni Sessanta dedicati al tema dell’inserimento dei bambini meridionali nelle scuole al Nord, per il caso specifico di Torino sono stati esaminati i registri di alcune scuole elementari appartenenti a un circolo didattico di un quartiere della vecchia periferia operaia cittadina che all’epoca ha accolto molti immigrati al loro arrivo. Tali registri hanno permesso due tipi di analisi. In primo luogo, la rilevazione di dati relativi al decennio Sessanta e ai primi anni del decennio successivo (1961-1972), ha consentito di analizzare da vicino bocciature e ritardi scolastici. In secondo luogo, i ricchi appunti delle maestre presenti nella sezione dei registri denominata “cronaca di vita della scuola” hanno fornito informazioni interessanti sul tipo di accoglienza riservata ai bambini meridionali da parte del corpo insegnante, oltre a notizie sulle situazioni familiari degli alunni immigrati. Un’altra importante fonte è rappresentata dalle interviste in profondità realizzate tra il 2010 e il 2014 a circa 50 figli di immigrati di allora e a figli di piemontesi e torinesi. 61 RAPPORTO SECONDGEN Questo problema emerge da diverse interviste ai bambini di allora che abbiamo realizzato nella nostra ricerca. Emblematico è il quadro tracciato da Enzo, nato nella provincia di Enna nel 1951 e arrivato a Torino a 6 anni con i familiari. Della sua esperienza migratoria iniziale il testimone ricorda con turbamento soprattutto la cattiva accoglienza ricevuta a scuola da compagni e insegnanti: L’aspetto della scuola è stato drammatico nel senso che ho fatto fino alla quarta elementare e poi non ho fatto più niente. (…) al momento che sono andato a scuola, non sono riuscito a legare con gli altri. I compiti erano veramente diversi. Al paese ci davano delle cose diverse, ci aiutavano di più. (…) (Quando arrivavi qui) eri un persona diversa, dai professori, dalle mamme, le torinesi. Per loro, eravamo persone diverse, ignoranti… io ci ho litigato. Ho litigato con gli alunni, il maestro, le mamme. Non mi tenevo le cose, quando uno mi diceva “Questo siciliano di merda”, dicevo ancora in siciliano: “Di merda sarai tu, tua mamma…”. Reagivo magari malamente, da violento, però era così. Non ti venivano incontro, nel senso “aspettiamo, diamo il tempo…”. Niente! Dicevano: “Questi ragazzi qui sono tutti maleducati”. Sono andato in seconda, poi ho fatto la terza e l’ho ripetuta due anni, perché poi non andava. La quarta l’ho ripetuta e poi ho lasciato stare. Mi ricordo che c’era il cortile dove stavo meglio, dove si andava a giocare. Era il momento che riuscivi ad esser più di compagnia perché giocavi e non c’era la scuola di mezzo, c’era il compagno; invece la scuola era più drammatica. Forse per la lingua, non riuscivi a spiegarti nell’italiano giusto. L’inserimento poteva risultare più difficile se si arrivava in una classe in cui gli immigrati erano pochi. Ce n’erano due o tre immigrati, ma non tutti; c’era l’altro che faceva la quarta elementare e in quella classe c’era un altro ragazzo di Reggio Calabria; non ce n’erano tanti (immigrati) in quella scuola. In corso Belgio ce n’erano due. Degli amici me li sono fatti poi nel palazzo, ma per quello che riguarda la scuola non ho fatto amicizie. (Era) un ambiente ostile; per me è stato ostile; forse per il fatto di avere più compiti da fare che poi magari non capivi, ti trovavi… non dico emarginato, ma sapendo che l’indomani mattina trovavi che avevano da dire; chiedevi aiuto alla mamma e la mamma aveva altro da fare e la sorella non c’era, il fratello nemmeno… Questa esperienza di spaesamento, vissuta dai figli di meridionali durante gli anni Sessanta, ritorna anche nei racconti di alcune ragazze straniere arrivate in Piemonte da bambine negli anni Novanta o nei primi anni Duemila, quando la presenza di immigrati nelle scuole italiane era ancora sporadica. La vicenda riportata da Elsa, oggi ventiduenne, immigrata da Valona quando ne aveva 7, appare straordinariamente simile a quella di molte bambine e bambini immigrati dal Meridione con la famiglia negli anni del miracolo economico. Il primo impatto con la nuova città e il nuovo Paese avviene anche per lei alla scuola elementare. Di questo periodo iniziale la ragazza ricorda il dileggio dei compagni per il fatto di non parlare correttamente l’italiano, nonostante lo avesse già in parte appreso dalla televisione in Albania. Solo in un secondo momento la bambina riesce a inserirsi, ma forse non del tutto, nel gruppo dei compagni. Quando sono andata a scuola c’erano i miei compagni di classe che mi prendevano in giro perché non sapevo parlare bene, così il primo impatto è stato un po’ brusco, poi quando mi sono trasferita (in un’altra scuola) non ho avuto nessun problema, perché sapevo parlare meglio, non ero straniera straniera e mi facevano giocare con loro, e non mi escludevano più tanto. Le maestre penso che non sempre si accorgevano , a volte sì. Alina, arrivata dalla Romania nel 2004, va ad abitare con la famiglia in un piccolo comune in provincia di Torino e anche lei ha il ricordo di un impatto difficile con i compagni della scuola media: L’impatto non è stato proprio bellissimo, perché sono stata a scuola in un paesino dove non c’erano tanti stranieri, e magari ero tanto accettata. E mi sono impegnata a studiare l’italiano, infatti dopo i primi due mesi più o meno… parlavo… perché volevo proprio capire quello che dicevano i miei compagni. (…) Era un po’… non lo so mi trovavo fuori luogo, mi sembrava strano. All’inizio è stato tranquillo, però poi andando avanti magari era un po’ difficile, visto che non sapevo la lingua… parlavo in inglese… che è stata l’unica lingua che mi ha aiutato a capirmi un po’ con i compagni. Oppure mi davano un dizionario e io facevo vedere la parola e la facevo vedere a una persona… così. (…) a scuola… c’era solo una compagna che era rumena… moldava. Dopo che se n’è andata lei è stato difficile me ne stavo sempre da sola… quasi sempre. Mi dava fastidio che i compagni parlavano, magari… cioè io non so che cosa dicevano su di me, ma parlavano di me (qualcosa lo sentivo!). E mi dava molto fastidio. L’inserimento le sembra invece più semplice alla scuola superiore, dove ritrova altri figli di immigrati: 62 RAPPORTO SECONDGEN e’ stato molto diverso, perché qui c’erano tantissimi ragazzi stranieri, e allora non ho sentito questo peso di essere straniera, anzi mi sono sentita molto ben accolta. Accolta perché ho cominciato a fare amicizie… magari alla scuola media non tanto. Solo con una ragazza avevo iniziato a fare amicizia. Invece qui è stato molto più facile. Se alcuni riescono, dopo un periodo, a superare le difficoltà iniziali, per altri queste difficoltà possono perdurare e tramutarsi in una condizione di isolamento sociale dalla quale si fatica a uscire. Tristana, coetanea della precedente testimone ma originaria del Perù, arriva a Torino all’età di 5 anni assieme alla madre per ricongiungersi al padre emigrato un paio d’anni prima. La storia del suo inserimento nella società torinese è caratterizzata per molti anni dalla difficoltà di entrare in relazione con i coetanei di origine locale e di stringere con loro veri rapporti significativi. Il quartiere in cui la famiglia trova casa è quello di Barriera di Milano, oggi come ieri caratterizzato da alloggi a basso costo e perciò approdo di immigrati (Cingolani 2012). A differenza di Elsa, che presto supera la condizione di isolamento iniziale a scuola, per Tristana le cose non migliorano nel tempo, ma al contrario peggiorano: il momento più difficile, racconta, sono le scuole superiori, un istituto tecnico industriale in cui è l’unica non italiana della classe. Trascorre il primo anno emarginata e osteggiata dai compagni, che smettono di prenderla in giro solo dopo l’intervento di suo padre. I professori, a suo dire, “o non volevano vedere le cose o non se ne accorgevano veramente”: (l’esperienza dell’Istituto Tecnico) è stata un po’ dura per me per il fatto che passavo a un ambiente dove non conoscevo nessuno, la mia classe era piena di italiani… e comunque senti sempre questa… ovunque dove vai c’è sempre questa differenza tra stranieri e italiani. (Io l’ho sempre sentita). Alla fine, l’ho sentita più da grande che da piccolina, perché da piccolina si gioca (…) elementari, medie, così, non ci pensavo tanto. Invece ho sentito questo cambio tra medie e superiori. (…) Io non pensavo che.. forse perché ero tanto innocente, credevo che la gente fosse tanto buona, ecc. Ho avuto dei problemi nel primo e nel secondo anno perché avevo tanta gente che mi parlava dietro anche se davanti facevano i buoni, così. Io ero tanto buona, anche tipo passare gli appunti, imprestare i quaderni, durante le verifiche, io tranquilla, io aiutavo, così, però poi hanno iniziato a ridermi in faccia, io mi sono un po’ svegliata, neanche svegliata, mi sono detta “qua c’è qualcosa che non va”. Essendo l’unica straniera in classe, perché ero l’unica, poi mi hanno un po’ emarginata. Sono stata da sola il primo anno, sono stata male, hanno iniziato a offendermi, poi piano piano mi sentivo sempre più presa in giro, quindi sempre più mi allontanavo, mi chiudevo sempre di più. Il primo anno mi sono tenuta tutto per me. Poi, il secondo, le cose iniziavano a essere molto pesanti perché anche tipo a educazione fisica, cominciavano a offendermi, a ridere, anche con parole grosse, i miei compagni. Quindi una volta… poi mio padre cominciava a vedermi un po’ strana, un po’ così, ha iniziato a dirmi “Va tutto bene?”, perché, comunque, non per colpa loro, per carità, non mi hanno seguito tantissimo, non dico che non mi conoscono, però certe cose non riuscivano a intuirle. E quindi poi ad un certo punto io dico “si, si va tutto bene, tutto bene”, poi però ad un certo punto un giorno è successa una scena in palestra in cui i miei compagni hanno iniziato a dirmi sei una merda, sei una cacca schifosa, cose del genere, no, e quindi mi sono sentita male. Sono arrivata a casa e mi sono messa a piangere, mi sono messa a piangere e poi ho dovuto raccontare tutto a mio padre. Mio padre si è arrabbiato da morire, il giorno dopo è venuto a prendermi a scuola. E’ venuto a prendermi a scuola e gli ha messo la macchina, perché mio padre era venuto a prendermi a scuola con la macchina e gli ha messo davanti la macchina a questo qua che mi aveva chiamato così e questo ragazzo qua non mi ha detto mai più niente, si è spaventato da morire, non mi ha detto mai più niente. Poi alla fine, sono andata avanti così tutti i cinque anni…. Sono andata avanti così, a isolarmi, però non ho mai fatto amicizia con i miei compagni delle superiori” (…) Ho avuto una ragazza italiana che siamo molto amiche, siamo ancora amiche, però da quando lei ha iniziato a frequentare me in terza gli altri non hanno più, cioè, non hanno più frequentato neppure lei. Come la testimone sottolinea, l’isolamento sociale è aggravato dal fatto di avere in città una rete parentale povera di coetanei. Mi sono trovata da sola senza… uno, sono figlia unica e già quello… poi non avevo neanche cugini, non avevo parenti che abbiano la mia stessa età. Una povertà di rapporti che si contrappone al mondo sociale “caldo”, costituito da una fitta parentela, che invece avrebbe in Perù. (Invece in Perù ) Ci sono un sacco di cugini che hanno la mia stessa età, infatti quando sono andata in Perù l’anno scorso ero felicissima perché avevo tutti i miei parenti, i miei zii, tutti. Sono stata lì cinque mesi. Sono stati bellissimi, sono stata bene. Sono stata bene, sono stata bene perché comunque c’erano i miei cugini, c’erano gli zii, c’erano tutti i miei parenti, mio nonno, mia nonna, quindi… stavo ore e ore a parlare con mia nonna … 63 RAPPORTO SECONDGEN Il futuro della ragazza sarà segnato dall’esperienza negativa vissuta a scuola. Più avanti ritorneremo sulle conseguenze relazionali di questo difficile inserimento. Il rischio di isolamento e le difficoltà di radicamento sociale si possono acuire se l’abitazione in cui la famiglia si stabilisce è lontana dalla scuola e da altri centri di socialità giovanile, come i gruppi sportivi o altre attività pomeridiane. L’esperienza di due testimoni mette in rilievo le conseguenze di una simile condizione sulla formazione delle proprie reti di relazione. Dopo le medie Alina riceve dai professori il consiglio di iscriversi a un liceo linguistico. Ma la scuola risulta molto lontana dal comune in cui vive: mi hanno mandato qua e (…) sono più di 35 chilometri. Quindi parto al mattino… al mattino verso le cinque e mezza mi sveglio… La mia professoressa di italiano aveva detto che era abbastanza vicino a casa mia, ma non è vero! Ha sbagliato un po’ i conti… Buona parte della giornata di Alina è spesa negli spostamenti e difficilmente può frequentare le compagne di classe in orario extrascolastico. Per lei una valvola di sfogo è rappresentata dai rapporti sociali che riesce a intrecciare attraverso internet. Lorena arriva dal Perù all’età di 17 anni. Il punto di riferimento in Piemonte sono alcuni parenti acquisiti che abitano a Leinì (un comune della provincia torinese) e che procurano una casa ai nuovi arrivati nella stessa zona. È qui che la ragazza va a vivere con la madre e il marito di lei, ma da subito percepisce il peso dell’isolamento: quando siamo arrivati non c’erano servizi, non c’era internet o un internet point per comunicare con gli altri. (…) Purtroppo non era nemmeno nel centro città, era fuori in mezzo alla campagna e a volte io mi annoiavo tantissimo. Mia madre faceva fatica a conoscere persone perché lavorava tanto e non c’era quasi nessuno dal Perù. Come per Alina, anche Lorena è molto vincolata dagli spostamenti tra Torino, dove frequenta un istituto turistico, e il comune in cui abita, in cui non riesce a costruire delle amicizie. mi dovevo alzare preso e rientrare presto perché non c’erano i mezzi. Meno male che il marito di mia madre mi veniva a prendere alla fermata perché casa mia non era tanto vicina. Al problema della lontananza da scuola per la ragazza si somma il fatto di doversi inserire in una classe di compagne più piccole di età, esperienza vissuta da molti figli di immigrati2: io avevo 18 anni, loro ne avevano 15-16. Erano molto immature, quindi ho patito questa cosa. Purtroppo non mi sono trovata bene. (…) io ero molto chiusa, parlavo con poche persone. A un certo punto ho deciso di pensare: “Io vengo qui per il diploma, non me ne frega niente delle persone”. Inoltre, anche Lorena si ritrova a essere una delle poche straniere della scuola: ho avuto un’amica rumena: eravamo le uniche due immigrate e ci facevamo un po’ di compagnia. C’era anche un altro gruppetto di ragazze a cui ci appoggiavamo, ma non sono rimasta in contatto praticamente con nessuno delle superiori. Non si è creato nessun legame forte. Per i bambini di meridionali a Torino, lo ricordava la testimonianza di Enzo sopra citata, una risorsa importante alternativa alla scuola come luogo per intrecciare rapporti con i coetanei era il vicinato: nelle aree urbane in cui le case costavano meno, i palazzi erano abitati da molte famiglie immigrate e con un alto numero di figli piccoli. Bambini e ragazzini trascorrevano il loro tempo extrascolastico nei cortili o per le strade del quartiere; le femmine tendevano a essere più controllate dalle famiglie rispetto ai maschi (Badino 2014), ma ugualmente entravano in relazione con bambine o ragazze che vivevano negli stessi palazzi. Per le immigrate straniere che arrivano negli medesimi quartieri torinesi negli anni Novanta e Duemila l’importanza del vicinato come fonte di nuove amicizie sembra essere più sfumata: nei decenni il profilo demografico della città è cambiato, così come si è ridotto il grado di libertà di circolazione concessa ai bambini da parte della famiglie (Belloni 2005). I giovani immigrati, a differenza dei loro predecessori, non 2 Un problema analogo emerge dalle interviste alle immigrate meridionali: le retrocessioni e le bocciature a cui molte erano sottoposte nelle scuole elementari facevano sì che alcune bambine si ritrovassero al momento dello sviluppo in classi di bambine più piccole con cui la differenza di età si percepiva molto forte. Il disagio causato da questa situazione spingeva alcune ad abbandonare la scuola (Badino 2012). 64 RAPPORTO SECONDGEN trovano cortili e vie popolati da bambini con cui fare amicizia. La vita extrascolastica delle giovani immigrate, soprattutto nel primo periodo dopo l’arrivo, sembra svolgersi principalmente in casa. Si può ipotizzare che negli anni successivi alle grandi migrazioni interne alcune condizioni rendessero più facile la creazione di nuovi legami anche per chi aveva superato l’età infantile: la città in quel periodo conosce, proprio grazie all’arrivo delle famiglie meridionali, un’iniezione di giovani che vanno ad animare strade e quartieri della vecchia periferia operaia (Olagnero 1985). Diverse testimoni raccontano di avere stretto amicizie importanti con vicine di casa conosciute conversando da un balcone all’altro (Petruzzi 1987), o di aver conosciuto il futuro marito perché questi lavorava in un’officina affacciata su una via che si percorreva tutti i giorni. Altre riferiscono che all’uscita dalla fabbrica di confezioni in cui erano occupate tante ragazze nubili (il Gruppo finanziario tessile con uno stabilimento nella Barriera di Milano) si radunavano nugoli di scapoli desiderosi di fare conoscenza con le giovani operaie. Se paragonata alla mobilità interna dalle regioni meridionali che ha caratterizzato gli anni del boom economico, la migrazione straniera a Torino dei decenni successivi non presenta la stessa connotazione di massa: specialmente negli anni Novanta e i primi anni Duemila, gli immigrati rappresentano ovunque una minoranza rispetto alla popolazione locale. Inoltre, il fatto di provenire da Paesi e continenti diversi può in alcuni casi rappresentare una barriera alla creazione di legami tra immigrati che abitano negli stessi quartieri. La cerchia sociale all’interno della quale trovare le amicizie e un partner è più ristretta e non di rado rimane circoscritta al gruppo dei connazionali. La frequentazione di associazioni su base nazionale, che rappresentano per alcuni un rifugio di fronte alla difficoltà di entrare in relazione con i locali, può facilitare questo processo di segregazione. Certi luoghi di frequentazione giovanile in cui oggi avvengono incontri e si formano legami tra coetanei sono gli stessi che emergono dai racconti dei ragazzi degli anni Sessanta e Settanta: le sale da ballo (oggi discoteche), i giardini pubblici. Ma dalle testimonianze che abbiamo raccolto, sembra che anche in questi luoghi non sia così facile la mescolanza tra gruppi nazionali diversi o tra stranieri e italiani. Le discoteche latine richiamate dalle nostre testimoni, che a Torino sono frequentate principalmente da peruviani, sono forse il caso più estremo di questa tendenza di certi gruppi all’autoconfinamento. Un ulteriore fattore che non favorisce la costruzione di relazioni localizzate nel quartiere di residenza o a scuola è il ripetuto sradicamento causato dai frequenti i trasferimenti delle famiglie per cercare di migliorare la condizione abitativa iniziale. Un movimento vorticoso che caratterizza tanto l’esperienza dei bambini meridionali negli anni Sessanta (Ramella 2011) come quella degli immigrati di oggi. Najet arriva dal Marocco ad Alessandria all’età di 10 anni. Il passaggio dal suo piccolo paese di origine alla cittadina piemontese è da lei vissuto inizialmente in modo traumatico, ma nella quinta elementare in cui la bambina è inserita, senza perdere anni di scuola, trova una buona accoglienza da compagni, tutti italiani, e maestre. Anche il successivo passaggio alla scuola media, un anno dopo, è vissuto serenamente, poiché la maggior parte dei vecchi compagni si ritrova insieme nella nuova classe. Con loro la bambina riesce a consolidare l’amicizia, anche grazie al fatto di abitare nella stessa zona: abitavamo in centro all’epoca, abbiamo avuto un bel rapporto. Eravamo anche vicini di casa, io andavo da oro, loro venivano da me, abbiamo costruito tipo una compagnia, perché i loro genitori conoscevano mio padre e mio fratello. Il trasferimento della famiglia dopo appena un anno in un quartiere più lontano comporta un nuovo sradicamento per la testimone, che si vede separata dalle amicizie che aveva appena costruito: i miei hanno preso una casa popolare al quartiere Cristo e ho dovuto cambiare scuola… e sono tornata al punto da capo! Lì di nuovo non volevo andare, mi ero appena ambientata e di nuovo un cambiamento. Non come quello di prima, però avevo appena creato il mio “giro” e in seconda media mi sono dovuta di nuovo trasferire. Lì c’è voluto un po’ per inserirmi di nuovo. I casi fin qui presentati, in cui una serie di condizioni sfavorevoli rendono difficile la creazione di legami con i coetanei locali, non sono rappresentativi dell’esperienza di tutte le giovani immigrate, ma hanno una certa ricorrenza nelle testimonianze raccolte. Ci concentriamo su questo tipo di vincoli che possono caratterizzare la condizione immigrata per ragionare sulle ricadute che questo tipo di difficoltà rischiano di avere, in modo più o meno diretto, sul piano delle scelte personali delle ragazze e, in ultima analisi, sui loro percorsi sociali. 65 RAPPORTO SECONDGEN Le conseguenze dell’isolamento sociale Quali sono le strategie adottate dalle figlie degli immigrati quando l’inserimento nel contesto relazionale della scuola locale è difficoltoso? L’ambiente di più facile accesso è spesso quello dei connazionali immigrati, con cui si entra in contatto attraverso la parentela o le associazioni su base etnica. Ma il fatto di frequentare principalmente ambienti socialmente omogenei può avere delle conseguenze importanti sulla formazione delle aspettative personali per il futuro e per le informazioni sulle opportunità formative e lavorative a disposizione. Per comprendere questo processo nelle sue sfumature riprendiamo alcune delle vicende che abbiamo introdotto precedentemente. Alina, che come si ricorderà abita in un comune lontano dalla scuola, si mette alla ricerca di nuovi amici attraverso internet e approda a un sito di ragazzi immigrati come lei dalla Romania. Da qui scaturiranno molte delle sue future relazioni amicali ed è attraverso lo stesso canale che conoscerà l’attuale fidanzato. Il ragazzo, anche lui immigrato, frequenta l’ultimo anno di un istituto professionale e dopo il diploma ha come unico orizzonte il mercato del lavoro. Al momento dell’intervista la nostra testimone, iscritta al quinto anno del liceo linguistico, confessa di essere attratta dalla stessa prospettiva, che comporterebbe l’interruzione dei suoi studi. Come vedremo meglio in seguito, non è dalla famiglia che arriva la pressione a trovare presto un’occupazione. La madre e il padre di Alina, che lavorano rispettivamente come colf e come idraulico, al contrario sembrano auspicare per lei una laurea scientifica, come medicina o farmacia. L’esempio del fidanzato, e forse degli altri amici dello stesso giro, ha probabilmente un effetto sui progetti che la testimone sta maturando. Le ricadute che un certo tipo di frequentazioni possono avere sulle aspirazioni delle ragazze sono ancora più evidenti nel caso di Tristana, la testimone peruviana di cui si è precedentemente parlato. Trovandosi isolata nell’ambito scolastico, la ragazza s’inserisce nell’unico canale di contatti sociali con coetanei di cui dispone: il gruppo di peruviani in cui la introduce un’amica connazionale conosciuta attraverso il padre: La mia prima, prima amica è stata la figlia di un amico di mio padre, quindi ho conosciuto così lei. E quello è stato il primo contatto. Tutti i miei amici, tutti, erano peruviani, e alla fine, da lì, cominciando a uscire con lei, diciamo così, in discoteca, un po’ in centro, un po’ in giro, un po’… Anche il primo fidanzato, che al momento dell’intervista rimane l’unico rapporto sentimentale importante, è un ragazzo peruviano che frequenta la discoteca in cui regolarmente si recano i suoi amici. Nel caso di Tristana sembra evidente l’influenza del tipo di rete sociale in cui si inserisce sull’atteggiamento che progressivamente matura nei confronti della scuola: I ragazzi peruviani che frequenta, racconta, non hanno lo studio nel proprio orizzonte di vita, e lei finisce per esserne condizionata. Mi ero accorta che non frequentavo buoni ambienti. Nel senso che, comunque, un po’ tutto… tutto il mondo latino che c’è qua a Torino, è un po’ tutto che non ha tanta voglia di fare, di andare avanti. I genitori li portano qua per farli studiare, per lavorare, ecc. però loro non lo capiscono, anch’io, non lo capiamo. E quindi cioè, vogliamo solo uscire, vogliamo solo divertirci, andare in discoteca, stare con gli amici, giocare di qua e di là e quindi alla fine ci perdiamo. Ci perdiamo, diciamo bugie ai genitori, vado a scuola invece non ci vanno, vado di qua, vanno alle feste, bevono anche, ecc. Alla fine del terzo anno delle superiori la ragazza viene bocciata e al momento del diploma si ritrova completamente demotivata nei confronti dello studio. Sotto la spinta delle ambizioni dei genitori, che vorrebbero per lei un futuro da laureata, si iscrive all’università, alla facoltà di chimica, ma priva di convinzione. Nessuno dei suoi amici del momento frequenta l’università, né ha in programma di andarci. Presto la ragazza si ritira e comincia a cercare lavoro. Come cercheremo di mostrare nei paragrafi successivi, la tensione verso il lavoro, visto soprattutto come fonte di reddito prima che di gratificazione personale, sembra rappresentare un elemento costante nelle storie delle figlie di immigrati che abbiamo raccolto. Tale tensione non sembra essere vissuta soltanto come alternativa al proseguimento degli studi, ma come scelta che riveste molteplici significati legati alla percezione della condizione migratoria familiare e che entra nelle vite di queste ragazze già durante le scuole superiori. 66 RAPPORTO SECONDGEN Una responsabilizzazione precoce Nella varietà di esperienze che abbiamo raccolto attraverso le nostre interviste, un tratto ricorrente che sembra di poter individuare è il fatto di aver sviluppato uno spiccato senso di responsabilità nei confronti della famiglia di origine3. Nel raccontare la propria storia familiare le figlie appaiono molto colpite dai sacrifici affrontati da madri e padri impegnati in lavori faticosi, prolungati, precari e che non di rado sono molto al di sotto dei titoli di studio da loro posseduti: ex maestre che si adattano a lavorare come colf o badanti, professori che diventano idraulici o muratori e così via. Talvolta, l’epopea migratoria dei genitori è evocata dalle testimoni con sfumature eroiche, come nel caso di Elsa, che racconta con sentita ammirazione i sacrifici affrontati dal padre, originariamente maresciallo in Albania, immigrato per primo per aprire la strada agli altri familiari: Mio padre ... ha faticato tanto .... è uno di quelli che è arrivato col gommone, non mi vergogno a dirlo, sono esperienze difficili, tanti sacrifici. Mio padre ha fatto tanti sacrifici per noi e non mi vergogno a dire che è arrivato col gommone. Per quattro mesi, non mi vergogno neanche di dire questo, aveva un parente che spacciava e .... comunque .... era .... come si dice .... nel giro della prostituzione .... e questo parente gli poteva offrire qualsiasi cosa e mio padre ha preferito dormire per terra, sulle panchine tipo un barbone... Poi è riuscito a trovare un lavoro e, mi pare in Valle d’ Aosta, e questo qua gli ha dato anche la casa e si è ambientato meglio, a guadagnare soldi, mi pare facesse cose col cartongesso ... non so ... Mio padre è sempre uno che cerca ... poi questo qua è andato in fallimento e mio padre è riuscito ad andare a pulire scale in un ‘impresa di pulizia, qua a Torino, ha cercato casa, ha messo i documenti per congiunzione familiare e ... siamo arrivati noi. Mio papà adesso lavora da un bel po’ di anni ...come si chiama? ... prima lavorava alla “Galbani” come magazziniere, però hanno fallito e adesso è in un'altra impresa sempre come magazziniere. Le ragazze intervistate sembrano aver maturato un sentimento di riconoscenza e rispetto nei confronti dei genitori, che si manifesta principalmente in due direzioni: la responsabilizzazione verso il lavoro domestico e il desiderio di non gravare sul bilancio familiare con le proprie spese personali (comprese quelle relative agli studi). È l’esperienza familiare di mobilità che condiziona le tappe di questo processo di maturazione: la maggiore precarietà, economica ma anche organizzativa, rende necessario che ogni membro della famiglia sia responsabilizzato e non rimanga troppo a lungo in una condizione di totale dipendenza. Padri e madri sono impegnati nel lavoro per molte ore al giorno e i figli, in assenza di altre figure che si prendano cura di loro, devono, prima dei loro coetanei locali, imparare ad essere autonomi in molte azioni quotidiane. Una di queste è andare e tornare da scuola, fin dalle elementari. Un’esperienza che ritroviamo nelle interviste alle figlie di immigrati meridionali degli anni Sessanta. Carmela, una testimone arrivata da Melfi a 6 anni nel 1969, ricorda di aver vissuto male questa forzata autonomia, che la rendeva diversa, ai suoi occhi, dalle compagne di classe locali: sono rimasta alcuni mesi con la sorella perché mia mamma è tornata giù, ché doveva finire di chiudere tutta la casa, tutte le cose così…, è tornata giù e io sono stata con loro. Io avevo queste sorelle, però il problema è che loro lavoravano già, tutte. (…) lavoravano fino alle 10. Mi ricordo che rimanevo da sola; facevano il turno dalle 2 alle 10 e io rimanevo da sola e mi addormentavo sul tavolo ad aspettare che arrivasse mia sorella da lavorare. E quindi tutti lavoravano e io ero sempre sola. (di pomeriggio stavo da sola in casa) se loro non c’erano che erano a lavorare, oppure andavo a casa di qualcuno a fare i compiti. Ecco, questa (essere accompagnata a scuola) è un’altra cosa che io ho sempre patito, perché non era lontana, ma non era neanche vicina (…) Allora non c’erano le macchine, non c’era traffico, anche perché poi abitando in corso Regio Parco - allora poi era periferia. A parte quando mi poteva accompagnare mia sorella che non andava a lavorare, sono sempre andata da sola; e questo mi dava anche fastidio perché vedevo che tutti i bambini andavano con le mamme e io da sola. 3 In una recente inchiesta su “La condizione giovanile in Italia. Rapporto giovani 2013” si rileva una tendenza contraria: i giovani di oggi, iperprotetti e aiutati dalle famiglie, rischierebbero di rallentare il processo di responsabilizzazione nelle scelte di vita (www.rapportogiovani.it). Gli studi sociologici individuano oggi una tendenza a posticipare la transizione all’età adulta, al punto che è stata coniata una nuova categoria definita “fase del giovane adulto”, come prolungamento dell’adolescenza. Si può ipotizzare che i figli degli immigrati siano meno soggetti a questo processo di prolungamento della giovinezza e che, rispetto alla popolazione locale, tendano a diventare adulti più in fretta. Se così fosse il fenomeno sarebbe in continuità con l’esperienza dei figli dell’immigrazione meridionale al Nord (Badino 2012). 67 RAPPORTO SECONDGEN Tre decenni più tardi, anche Tristana si ritrova a trascorrere gran parte della giornata da sola in casa. Ma la sensazione di solitudine è per lei accentuata dal fatto di essere figlia unica: Le elementari le ho fatte dietro a casa mia perché dovevo andare da sola perché mia mamma lavorava, lavorava sempre, mio padre anche, quindi io dovevo andarci da sola, 6 anni da sola. (…) io sono stata tanto da sola, non ho né fratelli, niente. I miei non c’erano mai.(…) Un po’ studiavo, i miei non mi stavano dietro perché non avevano tempo, quindi quello che potevo facevo, cioè me la sono sempre cavata, alla fine ce l’ho fatta a fare tutto, però è sempre… Nelle famiglie straniere di oggi, un ulteriore elemento che può contribuire ad accelerare il processo responsabilizzazione delle figlie è la necessità di far fronte alle procedure burocratiche legate alla migrazione. Può essere più semplice per loro orientarsi di fronte alle richieste amministrative, grazie a una migliore conoscenza della lingua italiana e di alcuni processi amministrativi magari appresi attraverso la scuola superiore. È quanto emerge dall’intervista di Ada, arrivata dall’Albania a Susa all’età di 16 anni assieme ai genitori e al fratello minore. Il padre da qualche anno lavorava stagionalmente nella valle e il progetto iniziale della famiglia era di rimanere in Italia alcuni mesi in attesa che la situazione politica del Paese di origine si stabilizzasse. Il prolungarsi del clima di incertezza spinse però i genitori a rinunciare al ritorno: siamo venuti con la nave o il gommone, come viene detto, semplicemente per quei mesi lì da maggio a settembre, sperando che la situazione in Albania si aggiustasse. Poi è successo che a settembre ci hanno iscritto a scuola sia me che mio fratello perché la situazione giù non cambiava. E ormai siamo qui da 15 anni. Negli anni successivi sarà sempre Ada, figlia maggiore, a occuparsi dei documenti di soggiorno di tutti i familiari. Ci riporta un lungo episodio in cui ha dovuto assistere indignata all’umiliazione del padre negli uffici della questura, e dal quale emerge uno spiccato senso di protezione nei confronti del genitore. Un paio d’anni prima aveva accompagnato il padre a presentare la richiesta della cittadinanza: Siamo entrati in due, ma io semplicemente perché se a mio padre non gli veniva in mente qualche parola, qualche cosa… Il funzionario, subito indispettito dalla presenza della ragazza, aveva cominciato ad alzare la voce, tempestando di domande l’uomo, che aveva finito per andare in confusione: Ha iniziato a dire “eh ma lei chi è?” e mio padre fa “è mia figlia e ha lei i documenti” - Nel senso che di solito sono sempre stata io a seguire i documenti della famiglia - “eh ma lei deve sapere parlare italiano se vuole richiedere la cittadinanza!” Ne scaturisce un battibecco tra il funzionario, che diventa sempre più aggressivo, e la testimone, che prova inutilmente a prendere le difese del padre: veramente qua è lui che mi ha insegnato l’italiano. Sa parlare benissimo, meglio di me, ma io sono qua semplicemente perché da quando siamo in Italia sono io che seguo per i documenti e tutto. Purtroppo, nel preparare i documenti, la ragazza non si era accorta che occorreva allegare una copia del contratto d’affitto dell’abitazione. Io ho controllato diverse volte prima di andare in questura. Ci passo settimane a controllare tutti i documenti, alla fine cerco di evitare tutte queste cose qua. Quella mancanza fornisce il pretesto al suo interlocutore per rincarare la dose: Ha cominciato a sbattere tutto quello che aveva sulla scrivania: “voi vivete sotto un ponte insomma che gente siete?”- ma in questi termini! Io ero lì sbalordita. … Gli faccio “guardi, io è la prima volta che capito in questa situazione”. 68 RAPPORTO SECONDGEN La vicenda si conclude con l’invio del documento mancante da parte del fratello minore, e con un ulteriore rimprovero al padre per il fatto di non avere la situazione dei documenti dell’intera famiglia sotto controllo. L’episodio avvilisce profondamente la ragazza. quando sono tornata c’era mio padre che c’aveva una faccia che stava proprio… poi mio padre è anche lui una persona sensibile ma nello stesso modo cerca di far scivolare le cose non vuole poi soprattutto noi abbiamo sempre avuto paura di chi c’è dall’altra parte della scrivania e noi… sia dall’inizio con il permesso di soggiorno con i carabinieri con i poliziotti ci fanno un po’ ce ti dico mi mettono un po’ di ansia quando li vedo sin dall’inizio… Praticamente gli hanno chiesto quando c’era l’intervista mia e di mia madre e mio padre gli aveva detto che non si ricordava la data. “Lei non sa niente ma dove vive? Di cosa parla in famiglia quando vi vedete la sera?” Che poi mio padre è una persona di 60 anni, non è neanche un ragazzino che ti puoi permettere di parlare in questo modo… L’aiuto domestico delle figlie Una specificità della famiglia immigrata, ieri come oggi, consiste nel fatto che la rete di relazioni su cui può contare è ristretta e che sul posto spesso manca un’importante risorsa su cui le famiglie locali fanno grande affidamento: le nonne che si dedichino alla cura dei nipoti e forniscano un aiuto domestico alle madri che lavorano (Abburrà 2007). Inoltre, il progetto migratorio, volto all’accumulazione di risparmi e alla riduzione delle spese quotidiane, non prevede (o non permette) di richiedere aiuti esterni a pagamento, strategia a cui invece ricorrono molte coppie locali a doppio reddito. Nell’organizzazione familiare degli immigrati entrano dunque in gioco altre risorse: il contributo delle figlie risulta fondamentale. Nel caso dell’immigrazione meridionale, il fenomeno è testimoniato da più di una fonte. Lo segnalano, ad esempio, le maestre sui registri scolastici dell’epoca, mal celando un certo biasimo nei confronti delle madri che fanno affidamento sull’aiuto delle figlie per poter lavorare fuori casa. Anche nei racconti delle figlie stesse è messo orgogliosamente in rilievo il loro contributo in casa a partire dall’infanzia; mentre il loro ruolo non emerge dalle testimonianze delle madri4. In queste interviste è svelato più frequentemente l’innescarsi di una redistribuzione dei carichi di cura tra moglie e marito nei casi in cui il lavoro regolare della madre rientrava in una strategia di coppia (Badino 2008). Le ragioni di una simile omissione possono forse essere ricercate nel fatto che all’epoca l’intervento casalingo richiesto alle figlie era ritenuto “normale” e che quindi non si consideri degno di nota; mentre risulta più eccezionale il mutamento radicale nelle abitudini dei padri che prima della migrazione non si occupavano della sfera domestica. Inoltre, va tenuto in considerazione che negli anni è mutata l’idea di ciò che è lecito chiedere ai figli: come mostrano le più recenti inchieste sociologiche, oggi il lavoro domestico e di cura tende ad essere considerato competenza esclusiva dei membri adulti della famiglia (Todesco 2014)5. Forse le madri di allora, intervistate oggi, provano qualche imbarazzo nel rivelare di aver contato sull’aiuto domestico delle figlie. Nell’ambito delle famiglie straniere immigrate il fenomeno sembra ripresentarsi, sempre come risposta a una mancanza di risorse sociali adulte disponibili, e coinvolge quasi esclusivamente l’esperienza delle figlie; mentre l’aiuto domestico ai figli maschi è richiesto solo in situazioni eccezionali. È Elsa a rimarcare la differenza tra l’educazione impartita a lei nei confronti dei lavori domestici e quella impartita al fratello di poco più giovane; ma la testimone è altrettanto colpita dalla minore abitudine ad aiutare in casa che riscontra nella fidanzata italiana di lui: Adesso c’è (…) la ragazza di mio fratello, la prima che ha presentato ai genitori, lei studia psichiatria... all’università, sotto medicina; è di un anno più grande di lui, italiana, è già venuta con noi l’anno scorso in Albania, ecco, per me lei adesso è diventata come una sorella. E mia madre, essendo che è albanese... proprio perché è albanese... Per esempio, io a casa faccio tutto: pulisco, stiro, faccio da mangiare, e lo faccio anche per aiutare mia mamma, sono stata educata così, e lo faccio, non è un problema per me farlo. La ragazza di mio fratello è figlia unica, non ha mai fatto niente, e questa cosa a mia mamma ... non è che gli dà fastidio, ma pensa al futuro di mio fratello, ha paura che faccia qualcosa. Perché se io faccio qualcosa e lo vedo che sta seduto, gli dico: 4 A differenza delle interviste fatte alle figlie, raccolte appositamente per la ricerca sulle seconde generazioni, le interviste alle madri sono state raccolte tra il 2005 e il 2006 per una ricerca precedente (Badino 2008). Altre interviste utilizzate per ricostruire la divisione del lavoro in famiglia sono quelle raccolte alla fine degli anni Sessanta dalle studentesse della scuola per assistenti sociali e allegate alla tesi di diploma (Crivelli, Gallione, Mirone, Prada 1969). 5 Gli studi contemporanei sulla divisione del lavoro familiare rivelano in tutta Europa una scarsissima diffusione del contributo dei figli al lavoro domestico e di cura. In questo quadro però persiste una marcata differenza di genere: sono le bambine e le ragazze ad aiutare di più a in casa. 69 RAPPORTO SECONDGEN no, scusa, tu ti alzi e sparecchi; e lo fa. Ma mia mamma, figuriamoci se gli dice qualcosa!! Mai toccarlo! Comunque io sono gelosa di mio fratello: magari il fatto di uscire, lui ha avuto più libertà, molto! Ma non è che sono gelosa per mio fratello, ma per i miei genitori, sono gelosa perché mi scaricano tutto a me. Per le figlie di immigrati, ieri come oggi, il fatto di essere utili in famiglia, non sembra vissuto come un’imposizione: c’è coscienza della condizione familiare e si ritiene giusto dare un contributo al menage domestico. Ma anche se assunto volentieri, questo impegno può avere qualche implicazione sul piano della costruzione delle relazioni delle ragazze. Si può ipotizzare che il tempo dedicato agli impegni familiari sia in parte sottratto alla socialità con i coetanei e contribuisca, in qualche misura, ad accentuare l’isolamento o il confinamento in ambienti di connazionali. Analizziamo, a titolo d’esempio, il caso di Tristana. Dopo aver abbandonato l’università, la ragazza avrà un ripensamento, grazie all’intervento della madre che troverà il modo di allontanarla dalla compagnia di connazionali poco inclini allo studio. Al momento dell’intervista la testimone è iscritta al primo anno del corso di laurea in infermieristica, frequenta i corsi tutti i giorni dal lunedì al venerdì e continua a vivere con i genitori. Alla famiglia riserva quasi per intero le uniche due giornate che le rimangono: il sabato mattina, quando madre e padre sono al lavoro, si dedica alle pulizie della casa; nel pomeriggio, si reca con loro al centro commerciale per aiutarli nella spesa settimanale. I miei continuano a lavorare tutto il giorno, quindi sono sola a casa. Il sabato mattina pulisco, durante la settimana non c’è mai nessuno a casa, ci vediamo tutti quanti diciamo di sera, mangiamo. Mia mamma… dipende da chi arriva prima, io o mia mamma, cucina, o io o lei, mangiamo, io lavo i piatti. Sabato invece si pulisce tutto. Pulisco io perché i miei lavorano al mattino, pulisco tutta la casa, arrivano i miei, andiamo a fare la spesa. Appena siamo arrivati, quando abbiamo avuto la prima casa andavamo a fare la spesa all’Auchan e la facevamo senza macchina, un mese intero di spesa, e invece da quando abbiamo la macchina andiamo ogni settimana.. (…) Io non esco mai al sabato pomeriggio perché mia mamma arriva alle due, mio padre arriva all’una e mezza, quindi facciamo da mangiare, mangiamo, andiamo a fare la spesa tutte e tre, sempre tutte e tre. Poi dopo la spesa ci vuole un po’ di … a casa arriviamo cinque e mezza, sei, e noi di sera mangiamo presto, di sabato. Quindi appena arriviamo a casa ci mettiamo a cucinare io e mia mamma, mangiamo. Il tempo libero dagli impegni famigliari comincia per Tristana solo dopocena, quando si concede, e le è concesso, di uscire con le amiche, alcune connazionali che come lei si sono staccate dal gruppo di peruviani. poi o mi metto a studiare o esco. (…) Ma non tutti i sabati posso uscire. (…) se usciamo di domenica andiamo al cinema. Se usciamo di sabato andiamo in discoteca. Ma di sabato sera ci sono sempre discoteche latine, quindi non ci piace tanto. Anche la domenica mattina è trascorsa con i genitori: Tutte le mattine a messa, tutte e tre. Al Duomo. Poi facciamo un giro, in macchina, così, andiamo da qualche parte, sempre con i miei genitori la domenica mattina, sempre. Poi a volte dipende, se abbiamo voglia di mangiare fuori andiamo mangiamo fuori sennò cuciniamo e mangiamo e poi la domenica pomeriggio di solito se sono uscita al sabato non mi fanno uscire la domenica, quindi la domenica pomeriggio sto a casa a studiare. E se invece non sono uscita sabato mi fanno uscire domenica. Al pomeriggio vado ai giardini, prendiamo un po’ di sole alla Pellerina o alla Colletta. Le ricerche disponibili sull’uso del tempo nelle famiglie italiane sembrano delineare altri stili di vita per i giovani non immigrati. In particolare, non si registra un’analoga dedizione al lavoro familiare. Di conseguenza, si può ipotizzare che abbiano più tempo libero da dedicare alla propria vita sociale e ad attività ricreative di vario genere che rappresentano occasioni importanti di socialità con gruppi di pari ( Belloni 2005; Belloni 2007). Il ruolo del lavoro negli anni della scuola Oltre all’aiuto fornito in casa, un secondo sbocco del senso di responsabilità maturato nei confronti della famiglia di origine è rappresentato dal desiderio di pesare il meno possibile sul bilancio familiare, nella speranza di alleviare il già intenso sforzo lavorativo dei genitori. Tale preoccupazione spinge le giovani a considerare il lavoro sempre presente nel proprio orizzonte di vita, anche negli anni della scuola superiore, 70 RAPPORTO SECONDGEN durante i quali la maggior parte dei coetanei locali non svolge attività lavorativa. Dopo il diploma, poi, sembra perdurare una tensione tra le aspirazioni a un lavoro qualificato da un lato e la volontà di ridurre al minimo il percorso di studi per non pesare sulla famiglia dall’altro. È il modello di spesa e di risparmio osservato in casa, tipico di molte famiglie immigrate, che forse contribuisce a formare questa visione: ieri come oggi, i genitori immigrati conducono una vita sacrificata non solo nei tempi di vita, ma anche in termini economici, poiché il denaro guadagnato è generalmente risparmiato in vista di un progetto familiare (come l’acquisto di un immobile in Italia o al Paese di origine). L’etica del risparmio che le ragazze acquisiscono in famiglia domina in tutte le testimonianze che abbiamo raccolto, incide sulle spese per la vita sociale e segna la differenza da loro percepita nei confronti delle coetanee non immigrate. Racconta Ioana: io una vacanza non l'ho mai fatta, a parte quando vado in Romania... non sono come le mie compagne che sono andate in Spagna, in vacanza con le amiche, queste cose qua. Uno perchè pur avendo tante amiche, nel senso che non ho mai litigato con nessuno, non ho mai avuto una compagnia con tante amiche... massimo tre eravamo, magari le mie compagne di liceo erano in 6-7 e sono andate a farsi la vacanza in Croazia. Io non ho mai avuto il gruppone di amiche e per questo l'imput di organizzare una vacanza. E poi sempre per i soldi, i miei sì lavorano, però... all'inizio non riuscivo a capire, facevo sempre storie, voglio soldi, voglio soldi. Poi come mi ha sempre detto papà, noi siamo venuti qui per problemi economici, se stavamo bene lì, non saremmo venuti qua... Poi comunque i miei genitori hanno preso la casa. Prima abitavamo in un appartamento in affitto, hanno preso questa casa qua che ci sono tanti lavori da fare. Mio padre appena usciva dal lavoro veniva a fare i lavori qua, ha fatto tutto lui, Questa casa era totalmente un'altra roba prima... poi i miei genitori hanno un'altra mentalità, loro preferiscono risparmiare adesso, mettere dei sodi da parte e non viziarci tanto adesso perchè pensano “metti che un giorno sta male mamma o papà, voi rimanete qua da soli...” ok che adesso mio fratello lavora. Mio padre mi ha sempre detto “io potrei benissimo farti fare una bella vita, darti 100 euro a weekend, farti andare in vacanza, ma se mai domani succede qualcosa, non abbiamo niente”. Anche Tristana racconta di ricevere dai genitori una somma molto limitata per le proprie spese personali: non ho mai avuto soldi miei, comunque paghette o ‘ste cose qua, non ne ho mai avute, non mi hanno mai dato niente, cioè solo quando avevo bisogno chiedevo a mia mamma “dammi 5 euro”, lei me li dava, con il resto anche, non ho mai avuto niente. E adesso è ancora così. Tipo adesso, all’Università, mangio in mensa quindi mi dà 5 euro al giorno, 5 euro mi costa poi non mi dà più niente.. L’ingresso precoce nel mondo del lavoro caratterizza tanto l’esperienza delle immigrate straniere quanto quella delle immigrate di origine meridionale, ma tra i due casi sembra possibile riscontrare un’importante differenza. Negli anni Sessanta e Settanta tendevano ad essere i genitori stessi a fare in modo che figlie e figli approfittassero, appena possibile, dell’abbondante domanda di lavoro manuale presente all’epoca. Il reddito guadagnato dai ragazzi che vivevano in famiglia era generalmente consegnato alla madre e se ne tratteneva, quando era concesso, solo una minima parte per le spese personali. Non sappiamo molto sulle strategie di utilizzo di questo denaro da parte dei genitori immigrati, ma il fatto che questi riservassero un significativo aiuto economico ai figli al momento del matrimonio fa supporre che fosse in gran parte accantonato a questo fine. In tale quadro, le spese per l’istruzione oltre la scuola dell’obbligo potevano apparire per alcuni genitori un peso, se non le si riteneva un investimento per il futuro professionale dei figli. Dalle testimonianze raccolte oggi e da altre raccolte all’epoca (AA.VV., 1969), sembrano essere state soprattutto le ragazze a soffrire di questa strategia familiare. Le figlie che maturavano il desiderio di proseguire gli studi oltre l’obbligo scolastico, imitando i percorsi delle coetanee piemontesi, si dovevano spesso scontrare con l’indifferenza o la contrarietà dei genitori. È ancora la vicenda di Carmela a testimoniare questa situazione: per i miei genitori andare a scuola era una cosa che non era nella loro cultura. Dopo tante peripezie, sono riuscita a convincerli ad andare a scuola; (…) Però poi, il primo anno, sono stata bocciata. Siccome poi i miei genitori non mi davano la paghetta, non mi davano niente, non mi davano i vestiti, alla fine, visto che non ero tanto brava, sono andata a trovarmi un lavoro. Visto che sono stata bocciata, mia madre ha detto: “Vatti a trovare un lavoro”. E così sono andata a lavorare e qui avevo 15-16 anni. Ho fatto tre lavori insieme, come tutte le mie sorelle, comunque: la fioraia, la pettinatrice e la commessa, nello stesso periodo. La fioraia la facevo il sabato e la domenica. Per madri e padri immigrati dal Mezzogiorno il lavoro manuale sicuro trovato a Torino aveva rappresentato un netto miglioramento rispetto alle precarie condizioni occupazionali di partenza, mentre alcune figlie 71 RAPPORTO SECONDGEN cominciavano ad aspirare a posizioni di tipo impiegatizio. Era dunque diverso il modo in cui le due generazioni guardavano alle opportunità di mobilità sociale offerte dalla città industriale e ciò poteva rappresentare un punto critico nei rapporti tra genitori e figlie. Diverso sembra il discorso per i ragazzi, i quali finivano per essere attratti molto presto dalla possibilità di guadagnare un reddito, anche in continuità con le occupazioni manuali svolte dai padri (Badino 2012). Come emerge dal racconto di Carmela, le figlie potevano essere introdotte precocemente nel mondo del lavoro anche per essere preservate dai pericoli di una vita sociale di strada, tipica dell’esperienza maschile dell’epoca: Dopo le medie… nella mentalità dei miei genitori una donna non doveva andare a scuola, non doveva andare a lavorare perché poi tanto si sposava e c’era il marito che ci pensava. Già che io non ero tanto brava, già che comunque questa mentalità che io ho dovuto bisticciare in casa per iscrivermi alle superiori, io volevo in ogni caso andare perché noi cosa facevamo con mia madre? Quando finivano le scuole, da giugno a ottobre, io lavoravo, andavo a fare o la pettinatrice o andavo a fare la fioraia, dall’età di 10 anni, sì (già alle elementari). Ecco perché io non ho tante amicizie: perché invece di stare a giocare come facevano tutti gli altri bambini, io andavo (a lavorare). Anche perché mia mamma pur di non vedermi in mezzo alla strada, preferiva vedermi in un negozio a raccogliere o scopare i capelli, o comunque passare il bigodo piuttosto che stare in mezzo alla strada! La maggior parte dei genitori stranieri di oggi sembra invece favorevole a sostenere le figlie in un percorso scolastico lungo e a credere nel valore di un titolo di studio oltre l’obbligo scolastico. Le testimonianze che abbiamo raccolto fanno piuttosto ipotizzare che siano le figlie stesse a limitare, in alcuni casi, le proprie ambizioni, confrontandosi con la vicenda migratoria familiare. Gli intensi ritmi di lavoro dei genitori, la loro propensione al risparmio e la precarietà di molte occupazioni in cui padri e madri sono impiegati lasciano il segno sulle ragazze e le portano a sviluppare un’etica del lavoro che può allontanarle dalla scuola. Il diverso atteggiamento dei genitori immigrati nei confronti dell’istruzione dei figli non è facile da interpretare, ma può essere contestualizzato tenendo conto di alcuni fattori. Se la grande maggioranza degli adulti immigrati al Nord negli anni Sessanta aveva alle spalle pochi anni di scuola elementare (con le donne mediamente meno scolarizzate degli uomini), molti immigrati di oggi, soprattutto quelli provenienti dall’Europa dell’Est, arrivano in Italia con titoli di studio elevati. La parabola occupazionale e sociale che questi immigrati vivono in prima persona è quasi sempre discendente: essendo passati da lavori non manuali in patria a lavori manuali e meno qualificati nel nostro Paese. Questa esperienza li porta probabilmente a sperare in un riscatto attraverso il futuro professionale figli. Gli immigrati degli anni Sessanta, al contrario, percepiscono la propria esperienza migratoria come un percorso di successo che può, o deve, essere replicato dai figli. Ma questa spiegazione basata sui titoli di studio dei genitori immigrati non funziona nei molti casi di immigrati stranieri che oggi arrivano in Italia con pochi anni di scuola alle spalle e che ugualmente sperano nel conseguimento della laurea per i propri figli. Sembra che l’intera generazione dei genitori immigrati oggi condivida la fiducia nel valore del titolo di studio per il raggiungimento di una solida posizione sociale. Il fatto di sostenere le figlie negli studi sembra rientrare nella normalità. La vicenda migratoria familiare, però, osservata con gli occhi delle figlie, sembra avere importanti effetti sulla formazione delle loro aspettative per l’età adulta. Le difficoltà incontrate dai genitori nell’inserimento nella nuova società, con la necessità di adattarsi a lavori poco qualificati, sommati alla precarietà legata a questo tipo di occupazioni, contribuiscono a creare un senso di insicurezza nelle ragazze. Alina racconta di essere stata molto turbata dall’improvvisa disoccupazione in cui il padre si era trovato quando lei era iscritta al quinto anno del liceo linguistico. Spaventata dalla situazione, aveva cominciato a cercare lavoro attraverso internet e, senza comunicarlo in famiglia, aveva smesso di frequentare la scuola. Dopo il primo colloquio in un’azienda telefonica, i genitori l’avevano scoperta e l’avevano convinta a ritornare agli studi, ma l’interruzione le era costata una bocciatura. mio padre ha avuto problemi col lavoro, infatti lui prima lavorava come giardiniere, e adesso ha trovato (però lavora in nero) … e io quando ho sentito, perché magari discutevano di questa cosa, ci sono rimasta molto male infatti sono caduta anche nella depressione, e ho cercato lavoro, e non andavo più a scuola. Ho fatto tante assenze… e per quello che mi hanno bocciato. (…) i miei genitori… perché loro non sapevano cosa facevo, quando mi hanno scoperto, allora mio padre c’è rimasto molto male e… siamo andati avanti. Io sono rimasta molto traumatizzata da questa cosa, sono uscita difficilmente dalla depressione, però per fortuna ci sono stati i miei genitori. 72 RAPPORTO SECONDGEN Ci sembra di poter ipotizzare che la fiducia nel miglioramento sociale, personale e familiare, che le figlie di immigrati stranieri oggi maturano sia minore rispetto a quella che potevano nutrire le figlie dell’immigrazione meridionale agli inizi degli anni Settanta. In quel periodo, la mobilità sociale per le classi popolari era ritenuta possibile e il mercato del lavoro locale, ancora dinamico rispetto al presente, poteva far conservare parte dell’ottimismo che aveva spinto i genitori a emigrare al Nord. Le ragazze immigrate di oggi sembrano avere progetti più misurati rispetto ai loro genitori e appaiono guidate da un forte senso di pragmatismo nella scelta della scuola dopo le medie (anche se non sempre le loro previsioni sulle opportunità occupazionali si rivelano esatte). Tristana, fin dalla scelta delle scuole superiori, ridimensiona le proprie aspirazioni rispetto a quelle dei genitori: loro volevano che facessi il liceo. Perché come esempio puntavano sempre in alto, tutti i genitori puntano sempre in alto per i figli e pensavano che comunque fare un liceo era, ti preparava meglio alla vita, ecc. però comunque io ho sempre avuto questa idea che almeno con un tecnico, un professionale, almeno puoi fare qualcosa poi quando esci. (…) Li ho convinti perché… li ho anche delusi, quello sì, poi ho detto, ho iniziato a dirgli “comunque se finisco ho già qualcosa in mano, posso già andare a lavorare, se invece faccio il liceo ho tutta la cultura che vuoi, però poi non posso lavorare”. E quindi abbiamo un po’ parlato così con i miei e alla fine mi hanno detto “va bene, scegli tu”. Una volta conseguito il diploma da perito chimico, tuttavia, si accorge che questo titolo di studio non le apre le abbondanti prospettive lavorative che aveva sperato e finisce per assecondare le ambizioni dei genitori che sperano di vederla laureata. Adesso me ne pento un po’ per il fatto che quando ho finito le superiori… ho avuto poi io una crisi mia, di adolescente, dove non volevo più far niente, ero proprio… infatti ho avuto problemi con i miei genitori, un po’ disordinata, un po’… sono cose che succedono. E poi sono stata un anno ferma, così. Sono stata un anno ferma perché cercavo lavoro ma volevano sempre gente con esperienza, quindi io ero appena diplomata, non è che posso… Nel caso di Ioana, alla fine delle medie, i genitori riescono ad avere la meglio sulle preoccupazioni lavorative della figlia e a convincerla a scegliere il liceo in vista dell’università. Arrivata dalla Romania in provincia di Alessandria in terza media, questa ragazza ha un inserimento dolce nella scuola italiana, anche grazie alle lezioni integrative di italiano offerte dall’istituto. Il giudizio che ottiene all’esame di fine ciclo è ottimo, ma la sua scelta sarebbe ricaduta su un istituto per geometri, con il quale pensava di poter entrare direttamente nel mondo del lavoro. La determinazione dei genitori, che aspirano per lei a un percorso universitario, è tale da supportare la ragazza anche di fronte alle prime difficoltà incontrate nella nuova scuola, a cui si iscrive appena un anno dopo essere arrivata in Italia: ricordo che dopo il primo anno volevo smettere perché dicevo “è difficile! Non ce la farò mai!” Poi mi ha incoraggiato mio padre. Ma le ambizioni dei genitori di vedere la figlia laureata vanno in direzione contraria al clima che la ragazza respira nella compagnia di amici del paese che costantemente la fa vacillare rispetto al progetto universitario. Questi ragazzi non hanno frequentato il liceo e sono già entrati nel mondo del lavoro manuale: nella mia compagnia quasi tutti, anzi tutti, lavorano tranne io che studio (…). Gente che lavora e ha i soldi, cioè normali... che si possono permettere delle cose. (…) Uno fa il saldatore, uno il fresatore, il mio ragazzo lavora in una fabbrica metalmeccanica (…), poi un altro sempre in fabbrica... non ho persone laureate in compagnia, la maggior parte sono maschi. Le uniche femmine che ci sono, due fanno le mantenute dei genitori perché sono piene di soldi, una è la mia migliore amica Francesca, ha fatto 3 mesi di Economia e Commercio a Casale e poi ha smesso... ma lei è piena di soldi, ora sta aprendo un'attività con suo padre, lei non ha problemi per il futuro, sarà sua l'attività, un bar tabacchi, tra un mese aprono, suo padre le dà una mano, ma è tutto intestato a lei, sua madre ha già una panetteria. Io se volessi smettere di studiare non potrei mai farlo, i miei genitori non hanno un'attività da dire “sono a posto”. Un’unica amica si accinge ad affrontare con convinzione un percorso universitario, ma la testimone vede in questa ragazza una motivazione più forte rispetto alla sua: 73 RAPPORTO SECONDGEN Poi c'è un'altra ragazza albanese, lei è intelligentissima, ha iniziato Economia insieme a Francesca, lei va anche in America perché ha dei parenti lì, infatti vuole poi andare là a cercare lavoro perché si trova di più, è una persona ambiziosa. Negli anni del liceo la ragazza intreccia relazioni soprattutto con ragazzi conosciuti nel paese in cui risiede, mentre ha meno occasioni di frequentare i compagni di scuola o di fare attività sportive a causa della lontananza da Alessandria: il pomeriggio perdevo già tanto tempo con i trasporti ad arrivare a casa, finivo alle 13 e arrivavo a casa alle 14.15, dovevo farmi da mangiare perchè i miei erano al lavoro e iniziavo a studiare per le 16 quindi non mi permettevo di fare attività. Avevo il fidanzato a Castellazzo e quindi avevo la compagnia. Con le mie compagne del liceo uscivo magari il sabato pomeriggio ad Alessandria ma non più di tanto perchè non avevo la macchina, uscivo più qua. In quel periodo avevo il fidanzato rumeno quindi frequentavo più gente rumena che italiana. Con le amiche del liceo giusto qualche volta il weekend al pomeriggio o alla sera quando papà ci portava a ballare e ci aspettava fuori all'uscita (ride)! Durante i 5 anni sport niente (…). Per me abitando qua e avendo i miei che lavoravano era difficile spostarsi su Alessandria, tipo anche fare palestra alla sera, ai tempi ero piccolina, non avevo la patenta e non potevo chiedere ai miei dopo una giornata di lavoro di portarmi. Nel caso di questa testimone risulta fondamentale il ruolo dei genitori nell’indirizzarla su un percorso scolastico lungo. In altre situazioni, dove le ragazze sono meno controllate dai familiari, l’attrazione verso il lavoro, portata dal senso del dovere nei confronti della famiglia, può avere il sopravvento e spingerle a mettere in secondo piano la scuola. Riprendiamo, a questo proposito, la vicenda di Elsa, che oggi ha 22 anni. Similmente a molte ragazze meridionali durante gli anni Settanta, la testimone fa il suo ingresso nel lavoro retribuito al raggiungimento dei 14 anni, cominciando ad aiutare in un negozio da parrucchiera proprio sotto casa: era lì, era una signora sola parrucchiera, un po’ anziana e io andavo lì, pulivo, mettevo i bigodini. A questo primo lavoretto ne fanno seguito molti altri negli anni successivi: da lì ho sempre fatto la babysitter, anche per un’impresa di pulizie, perché mia mamma , oltre a fare la custode ha sempre avuto delle signore che andava a pulire, di pomeriggio, ha sempre fatto la signora delle pulizie, conosceva donne in gravidanza, che partorivano, e io andavo a fare la babysitter. Tuttora faccio la babysitter, mi adorano, io adoro loro. Ho fatto anche la dog sitter, la cat sitter, perché lì dove abito io sono persone ricche e il cane lo prendevo con me, il gatto gli portavo da mangiare in casa. adesso faccio la babysitter in tre famiglie diverse, quattro bambini, qualche ora al pomeriggio Per questa ragazza il lavoro part-time negli anni delle superiori finisce per dilatarsi a tal punto da assorbire anche parte delle ore scolastiche e a incidere pesantemente sul percorso di studi: in quella scuola ci ho fatto 7 anni, perché sono stata bocciata in terza superiore e in quinta. (…)(…) poi lavoravo, io ho sempre lavorato nella mia vita, i miei genitori mi possono dare tutto, ma per non affaticarli, ho sempre voluto non chiedere a loro e quell’anno (in quinta) lavoravo tantissimo, pure qua vicino al caffè * dove lavorava un amico di mio fratello. Era un po’ faticoso, dalle 11 di mattina alle 9 di sera, tre volte alla settimana. A scuola potevo uscire prima, e così il martedì e il sabato arrivavo verso le 11,30. Anche nel caso di questa testimone, la spinta a lavorare non proviene dalle pressioni familiari. Al contrario, la madre avrebbe voluto che la figlia puntasse sullo studio: Mia mamma l’ha presa malissimo, ha pianto. Loro non sono mai d’accordo per lavorare, anche adesso, vorrebbero che studiassi, però io no .... (…) l’anno scorso io mi volevo ritirare e andare a lavorare , mia mamma ha detto: no, devi prenderlo, devi prenderlo; e io ho detto: va bé, facciamolo per mia mamma, mi sono messa sotto e l’ho preso. Come nel caso precedente, sulle scelte della ragazza sembrano pesare piuttosto altri due fattori: da un lato il timore di pesare economicamente sulla famiglia, dall’altro l’influenza di un gruppo di amici del quartiere (la Borgata Parella) all’interno del quale il valore della scuola sembra essere poco condiviso: 74 RAPPORTO SECONDGEN In generale io sono sempre stata una che studiava, poi ho cominciato a uscire un po’ troppo, non avere proprio la testa neanche a prendere il ritmo. (uscivo con) qualche compagno ... ragazzi di zona .... amici di amici ... con la mia migliore amica. E cioè, ho sempre avuto amici che si facevano di cose, ma io ... le ho provate, però non mi facevano un effetto che mi piaceva. Però ho sempre avuto amici che si drogavano, droghe leggere, che se le fanno tuttora. Si andava a ballare, di nascosto, perché ero piccola: io dicevo che andavo a dormire dalla mia amica, lei diceva che veniva a dormire da me!! Si andava a ballare ... in posti bruttissimi, che adesso non andrei (…), con amici di amici, ragazzi di zona, compagnie ... per un certo periodo quelli, poi si cambia. Anche il ragazzo con cui la testimone ha avuto una relazione importante nell’ultimo anno, conosciuto attraverso il gruppo di amici, era tutt’altro che orientato allo studio e per questo preoccupava la madre della ragazza: Mia mamma (…) a pelle, lei capisce le persone. Ha sempre detto che non dovevo fidarmi tanto di lui, secondo lei era falso e poi non fa niente; anche per quello diceva che non era un ragazzo che era da apprezzare perché non lavorava, ha lavorato due mesi al Mac e l’hanno licenziato, aveva smesso la scuola, e adesso non fa niente, si sta rovinando la vita. La fedeltà al progetto migratorio familiare Il senso di obbligo che si avverte nei confronti delle famiglie si può riscontrare anche in altri frangenti della vita personale. Nel caso delle ragazze di origine marocchina, ad esempio, la fedeltà al progetto migratorio familiare può coinvolgere la sfera della scelta del partner e portare le ragazze a non opporsi alla pratica del matrimonio combinato. Questo evento, programmato generalmente alla fine delle scuole superiori, in anticipo rispetto alle tendenze in atto tra i coetanei italiani (Barbagli, Castiglioni, Dalla Zuanna 2003), finisce inevitabilmente per condizionare anche la scelta del percorso di studi e di quello lavorativo. Najet dopo il diploma da odontotecnico, prende in considerazione l’idea di iscriversi alla facoltà di medicina, forse incoraggiata dai consigli di alcuni insegnanti che la invitano a puntare in alto. Anche il padre, impresario edile, sembra favorevole all’idea che la figlia studi per diventare dentista. Ma qualcosa, che nell’intervista la testimone stenta a rivelare, scoraggia la ragazza al punto di non tentare neppure il test di ammissione e di ripiegare, un anno dopo, sul corso di laurea in infermieristica. La testimone non parla esplicitamente di matrimonio combinato, ma si dimostra oltremodo sintetica nel fornire informazioni sul suo matrimonio con un connazionale, che non sappiamo come abbia conosciuto: Mi sono sposata quando avevo 20 anni, prima di iscrivermi all’università. Lui è venuto, ho fatto il ricongiungimento familiare, lavora, fa l’idraulico. Abitiamo insieme, in una casa da soli. Non abbiamo figli… basta. In molte testimonianze raccolte alle immigrate di oggi sembra che prevalga nelle scelte sul proprio futuro la lealtà al progetto familiare piuttosto che la volontà di una realizzazione individuale. Un’abnegazione che pare andare in senso contrario rispetto all’atteggiamento delle figlie di immigrati meridionali. Le loro testimonianze, infatti, manifestano una volontà di percorrere strade in autonomia dalla famiglia, se non addirittura in contrasto con le aspettative dei genitori. In molte interviste, infatti, abbiamo riscontrato il bisogno di fuggire dal controllo familiare e di cercare vie di riscatto personale. Uno sbocco per molte era la fuga nel matrimonio con il primo ragazzo conosciuto (Petruzzi 1987), nella speranza che, fondando una famiglia propria, aumentasse l’autonomia personale e la libertà di scelta. Una seconda strada per cercare un riscatto era perseguire un progetto di istruzione superiore contando unicamente sulle proprie forze, al di là dell’indifferenza o della contrarietà dei genitori. Entrambe le strategie erano volte ad affermare un distacco rispetto alla famiglia di origine: o in termini di progressione sociale, attraverso il passaggio al lavoro impiegatizio, o in termini di indipendenza nelle scelte personali. Questo desiderio di distacco sembra collegato anche a un forte desiderio di entrare a far parte a pieno titolo della società locale, lasciandosi alle spalle la condizione immigrata da cui si proviene. Nelle parole di Carmela questo desiderio di distacco dalla famiglia di origine è più che mai evidente e sembra avere origine fin dal primo impatto con le famiglie torinesi e piemontesi: Io mi vergognavo della mia casa. Io ho sofferto tantissimo. Ecco, quello che ho sofferto nella mia adolescenza è proprio il fatto di notare la differenza della mia famiglia con la famiglia che c’era qua; perché la casa era strutturata in modo diverso - e già questo mi dava fastidio - perché la mia casa era la classica casa di meridionali: camera, 75 RAPPORTO SECONDGEN cucina e bagno fuori. Noi vivevamo non so quanti in casa, per cui non è che avevamo la nostra stanza, la nostra cucina. Invece, notavo che quando andavo nelle case degli altri avevano il tinello, la camera; comunque, se non altro, avevano uno spazio loro e il bagno dentro. E poi il fatto che mia madre non parlava l’italiano… io ho sempre sofferto e infatti forse io sono l’unica che non sa parlare il dialetto, che invece le altre parlano. Io l’ho sempre detestato. E quindi mi dava fastidio che le mie compagne venissero a conoscenza della mia realtà, perché volevo sempre assomigliare a loro, non a quelli come me. (…) Io mi ricordo anche che, in quel periodo, questa cosa anche mi pesava; io volevo andarmene via di casa, quando facevo le elementari. Volevo andare a vivere da sola. Pensa cosa pensavo! “Adesso prendo due scatole di tonno, 2 di simmenthal, una casetta piccolina e io vado a dormire lì da sola”, perché non mi piaceva la mia famiglia, la struttura non mi piaceva: che mia mamma fosse severa, che parlasse il dialetto, che non si adeguasse alla realtà e, comunque, che lei pensasse solo a lavorare. E non l’ho mai vista sorridere; (…) Era troppo severa, troppo. Se nelle famiglie meridionali abbiamo riscontrato situazioni di attrito tra genitori e figlie (soprattutto sulla libertà concessa e sul tema della prosecuzione degli studi), per le ragazze straniere che abbiamo intervistato la relazione con i genitori si presenta meno conflittuale: non emergono grandi dissidi sulla libertà di uscita e soprattutto non sembrano esserci indicazioni rigide da parte di madri e padri sulle scelte relative allo studio. Ancora una volta, merita ribadire come siano le figlie stesse a porsi dei limiti, spesso deludendo le aspettative più ambiziose dei genitori. Sembra prevalere un ponderato esame di realtà, che scoraggia le ragazze di fronte a percorsi scolastici lunghi e impegnativi. Giada, peruviana, al suo arrivo in Italia è iscritta dai genitori al liceo scientifico, con l’idea che la ragazza prosegua gli studi fino alla laurea. Dopo il diploma, conseguito senza grandi problemi, la testimone si iscrive al Politecnico, ma ancora prima di conseguire la laurea di primo livello si mette in cerca di un lavoro il più possibile stabile. Grazie alle sue competenze in campo informatico si trova a poter scegliere tra due proposte occupazionali e si indirizza verso quella che appare più duratura, anche se più scomoda dal punto di vista degli spostamenti, perché richiede di recarsi giornalmente da Torino a Ivrea. Il lavoro la gratifica e le fornisce quel senso di sicurezza economica che sentiva necessario. Ma lo stesso lavoro sembra progressivamente allontanarla dall’idea di continuare gli studi fino al conseguimento della laurea specialistica, con grande delusione dei genitori che la volevano ingegnere: “è troppo per me”, conclude la ragazza. 76 RAPPORTO SECONDGEN Riferimenti bibliografici AA.VV., 1969, I lavoratori studenti. Testimonianze raccolte a Torino, Introduzione di V. Foa, Einaudi, Torino. L. Abburrà, Relazioni tra le generazioni nella quotidianità: anziani come percettori o come produttori di assistenza e di welfare?, in M. C. Belloni, Andare a tempo. Il caso di Torino: una ricerca sui tempi della città, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 181-93. T. Aymone, La scuola dell’obbligo. Città operaia, Laterza, Roma-Bari 1972. Badino A., 2009, Tutte a casa? Emigrazione femminile e lavoro a Torino negli anni Sessanta, Viella, Roma. A. Badino, Generazioni e genere nel processo di integrazione urbana, in AA.VV. Dalle Ferriere alla Spina 3. Torino che cambia, una difficile transizione, Angolo Manzoni, Torino 2009. A. Badino, “Figli di immigrati nella città del boom: differenze di genere tra spazi fisici e spazi sociali”, in “Territorio” 2014. A. Badino, Strade in salita. Figlie e figli dell’immigrazione meridionale al Nord, Carocci, Roma 2012. M. Barbagli, M. Castiglioni, G. Dalla Zuanna, Fare famiglia in Italia. Un secolo di cambiamenti, Il Mulino, Bologna 2003. M. C. Belloni, Andare a tempo. Il caso di Torino: una ricerca sui tempi della città, Franco Angeli, Milano 2007. M. C. Belloni (a cura di), Vite da bambini. La quotidianità dai 5 ai 13 anni, Archivio storico della città di Torino, Torino 2005. P. Cingolani, Dentro la Barriera. Vivere e raccontare la diversità nel quartiere, inF Pastore e I. Ponzo, Concordia Discors. Convivenza e conflitto nei quartieri di immigrazione, Carocci, Roma 2012. M. T. Crivelli, L. Gallione, A. Mirone, A. Prada, La presa di coscienza e la composizione dei ruoli tipici della donna lavoratrice in un’area altamente industrializzata del Nord Italia, Tesi di diploma UNSAS Torino AA 1969/1970. F. Deva, M. Pepe., L’adattamento dei ragazzi immigrati nella scuola elementare, in “Scuola e città”, 7-8, 1963. EVE M., Integrating via networks: foreigners and others, in “Ethnic and Racial Studies”, n. 33, 2010, pp. 1231-1248. G. Fofi, L'immigrazione meridionale a Torino, Feltrinelli, Milano 1976; G. Gribaudi, Reticoli sociali e immigrazione: relazioni di scala, in Feltrami, Cavallo, Gennuso, Gentile, G.Gribaudi, M.Gribaudi, Relazioni sociali e strategie individuali in ambiente urbano: Torino nel Novecento, Cuneo 1981, pp. 209 –244. M. Olagnero, La gente di Torino, in E. MARRA, Per un atlante sociale della città, Milano 1985, pp. 309 – 405. C. Petruzzi, La famiglia giovane a Torino, Tesi di diploma UNSAS Torino AA 1987-1988. A. Quadrio, Giudizi e pregiudizi degli insegnanti sugli alunni immigrati, in “Contributi dell’Istituto di psicologia”, vol 29, Unversità Cattolica del Sacro Cuore, Vita e Pensiero, Milano 1967. A. Quadrio, F. Ravaccia, La difficoltà di integrazione scolastica degli alunni immigrati nelle scuole milanesi, in “Contributi dell’Istituto di psicologia”, vol 29, Unversità Cattolica del Sacro Cuore, Vita e Pensiero, Milano 1967. F. Ramella, Immigrazione e traiettorie sociali in città. Salvatore e gli altri negli anni sessanta, in A. Arru e F. Ramella (a cura di), L’Italia delle migrazioni interne, Donzelli, Roma 2003 F. Ramella, La città fordista: un crocevia di movimenti, in M. C. Belloni (a cura di), Torino. Luoghi urbani e spazi sociali, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, pp. 19-34. L. Todesco, Quello che gli uomini non fanno. Il lavoro familiare nelle società contemporanee, Carocci, Roma 2013. 77 RAPPORTO SECONDGEN L’istruzione dei figli nei progetti delle famiglie immigrate. Elementi per una comparazione tra anni Sessanta e oggi Franco Ramella Non c’è nessun motivo che autorizzi a pensare che i genitori meridionali di mezzo secolo fa fossero meno interessati dei genitori stranieri di oggi all’avvenire dei loro figli. L’assenza (o la carenza) di aspettative fondate sull’ottenimento di credenziali scolastiche non va interpretata come un segno di mancanza di ambizioni sociali di queste famiglie o di una loro incapacità di elaborare dei progetti su cui motivare la seconda generazione. In realtà ci troviamo di fronte a strategie che ruotano intorno all’idea che sono altre le competenze da acquisire e le strade da seguire per conquistarsi una posizione rispettabile nella società. Ma ciò che va spiegato è come si formano progetti in cui il ruolo degli studi è così marginale. La questione si pone anche per le famiglie straniere che, al contrario, riservano all’istruzione un posto centrale. La letteratura non ci aiuta molto. Non mancano ricerche importanti che sottolineano quanto siano diffuse le aspirazioni scolastiche fra i genitori delle migrazioni internazionali e ne mostrano gli effetti sulle carriere dei figli negli studi. Per autori come Brinbaum e Kieffer 1, in Francia le aspirazioni dei genitori immigrati esercitano una funzione positiva sul percorso scolastico dei figli. Per Vallet e Caille2 rappresentano “l’explication principale” del successo nelle scuole d’Oltralpe di tanti giovani di origine immigrata, a volte superiore a quello dei loro coetanei autoctoni appartenenti a famiglie con lo stesso status socio-economico. Stabilire un rapporto tra le aspettative dei genitori e le carriere scolastiche dei figli, come indicano gli studi che mostrano l’esistenza di una correlazione tra aspirazioni dei genitori, aspirazioni dei figli e risultati di questi ultimi è plausibile (anche se nel caso italiano il rapporto è spesso assai poco lineare – e si pone il problema di individuarne i motivi). Ma ciò che non è ben chiaro nella letteratura è da dove nascano queste aspettative3. E’ evidente che non si può ignorare il fatto che nelle nostre società viviamo in un regime di studi lunghi. L’importanza dell’istruzione (e la sua utilità) è oggi riconosciuta a tutti i livelli della società - e quindi in generale da tutte le componenti dell’immigrazione internazionale. Anche gli stessi grandi mutamenti che si sono verificati nel mercato del lavoro hanno contribuito a creare la consapevolezza che un diploma dopo l’obbligo è diventato quasi indispensabile per garantirsi l’accesso a un impiego – a maggior ragione con la prolungata crisi occupazionale degli ultimi anni che colpisce duramente in particolare i giovani meno scolarizzati. Tuttavia, se per avanzare delle ipotesi sui fattori che concorrono a formare i progetti delle famiglie della migrazione internazionale, distinguendoli in modo così radicale da quelli delle famiglie della migrazione interna, ci limitiamo a prendere atto di aspetti generali come lo spettacolare aumento della scolarizzazione di massa degli ultimi decenni o i cambiamenti nella struttura dell’offerta di lavoro, corriamo il rischio di impoverire l’analisi. Per fare un esempio, costituisce un problema il fatto che questi fenomeni, come si è detto, non avrebbero la stessa incidenza (o perlomeno non nella stessa misura) sui genitori autoctoni che si trovano in una situazione occupazionale simile, le cui aspirazioni per la scolarità dei figli risulterebbero spesso inferiori a quelle degli stranieri. Occorre quindi sondare altre piste che, come vedremo, ci portano in più direzioni. La ricerca Secondgen ha lavorato molto sul rapporto che le famiglie straniere a Torino e in Piemonte costruiscono con la scuola dei figli, producendo conoscenze rilevanti4. Sono stati invece esaminati con minore profondità gli atteggiamenti delle famiglie immigrate dal Sud. Ci proponiamo di cominciare a colmare la lacuna e per questo motivo daremo più spazio in queste note all’analisi delle aspettative dei genitori meridionali. 1 Y. Brinbaum et A. Kieffer, “Les scolarités des enfants d’immigrés, de la sixième au baccalauréat: différenciation et polarisation des parcours”, Population, vol 64, 3, 2009, pp. 561-610. 2 L. A. Vallet et J.P. Caille, “La scolarité des enfants d’immigrés”, in A. van Zanten (dir.), L’école: l’état des savoirs, La Découverte, Paris 2000, pp. 293-300 3 A volte sembrerebbe che la migrazione abbia selezionato alla partenza genitori con aspirazioni di questo tipo, cioè individui con un chiaro progetto di mobilità sociale. 4 I vari contributi di Michael Eve, Enrico Allasino e Maria Perino in questo Rapporto e sul sito web della ricerca forniscono analisi approfondite sia sulle aspirazioni scolastiche delle famiglie dell’immigrazione internazionale sia sull’esperienza dei figli nella scuola e nel mercato del lavoro a Torino e in Piemonte. 78 RAPPORTO SECONDGEN Il nostro intento è quello di cercare di suggerire alcuni elementi di riflessione che nascono dalla comparazione tra migrazione interna del dopoguerra e migrazione internazionale di questi anni. Il confronto andrebbe sviluppato più estesamente e in un modo più sistematico perché solleva un nodo centrale: come e in che termini la condizione comune di famiglie immigrate contribuisce a rendere specifici i meccanismi e i processi attraverso i quali aspirazioni che svolgono una parte cruciale nel modellare i destini sociali delle seconde generazioni prendono forma, si definiscono, ne sono condizionate e si modificano. Le traiettorie migratorie: quale mobilità sociale ? Allo scopo di dare una prima risposta alle nostre domande proponiamo di portare l’attenzione sui percorsi sociali compiuti dagli immigrati di prima generazione (i genitori) nel trasferimento dalle località di origine a quelle di arrivo e di insediamento. I fattori che agiscono sulla formazione dei progetti per l’avvenire dei figli sono molteplici, come vedremo, e la loro azione si esercita combinandosi insieme. La nostra ipotesi è che uno di questi vada ricercato nella traiettoria migratoria che i genitori hanno vissuto. Si tratta di una ipotesi convincente se la riferiamo a una specifica componente della migrazione internazionale5. E’ noto che una parte non secondaria degli immigrati stranieri di prima generazione giunti (e rimasti) in Italia – provenendo soprattutto da Paesi dell’Europa dell’est e dell’America Latina e dalle Filippine e arrivati in particolare negli anni Novanta - ha un livello di istruzione medio-alto o alto. Il contrasto su questo piano con l’immigrazione interna degli anni sessanta è stridente. Solo una componente minoritaria degli immigrati internazionali di oggi probabilmente ha un grado di scolarità che si avvicina a quello schiacciato verso il basso della grande maggioranza degli immigrati interni dell’epoca. Si tratta di cose conosciute ma ciò che per noi è importante rilevare è che in genere una istruzione elevata nella prima generazione di immigrati stranieri ha corrisposto nel Paese di origine a una posizione sociale di classe media, prima che la situazione cambiasse generando la scelta della partenza. Il punto è che, emigrando in Italia con lo scopo di costruire una vita migliore per sé e per i propri familiari, la posizione occupazionale a cui questi immigrati hanno avuto accesso e in cui sono rimasti bloccati è avvenuta, in grande prevalenza, in basso nella piramide occupazionale. In questi casi, in sostanza, l’emigrazione ha comportato una discesa nella scala sociale6. Se la nostra domanda riguarda la parte svolta dai percorsi compiuti dai genitori nel modellarne i progetti, non è difficile vedere quanto pesi il desiderio di recupero di una posizione familiare perduta e quale sia nelle loro strategie il ruolo assegnato ai figli. Le loro aspirazioni vanno collocate in questo contesto: ci si aspetta che i figli si impegnino in un percorso scolastico lungo che possa aprire l’accesso a una professione di prestigio. L’obiettivo è che conquistino per questa via una posizione sociale che segni il successo della scelta migratoria per tutta la famiglia – un traguardo che la prima generazione ha mancato. Anche se naturalmente l’ingresso all’università non è riservato esclusivamente a chi fa parte di famiglie scolarizzate e gli indirizzi di scuola in cui si entra dopo la licenza media non sono sempre all’altezza delle attese, vicende di ragazzi e ragazze incoraggiati a intraprendere studi di grande impegno da genitori che hanno vissuto traiettorie migratorie come quelle a cui abbiamo fatto cenno sono frequenti nei materiali raccolti da Secondgen. Colpisce nelle testimonianze la determinazione e la caparbietà con cui le famiglie perseguono questi obiettivi. L’ottica di individuare nelle traiettorie migratorie dei genitori una chiave di lettura delle loro aspettative per l’avvenire dei figli sembra particolarmente utile per l’immigrazione meridionale. Proviamo dunque, come abbiamo fatto per i genitori stranieri scolarizzati e con posizioni di classe media nei Paesi di origine, a valutare in questa luce i progetti delle famiglie per la seconda generazione presenti nella migrazione interna. Non si può certo dire che i percorsi compiuti dagli immigrati arrivati dal Sud a Torino non abbiano compreso anche processi di declassamento sociale ma sembra fondato sostenere 5 Spunti utili a questo riguardo sono in E. Santelli, La mobilité sociale dans l’immigration, Presses universitaires du Mirail, Toulouse 2001. 6 Nel suo lavoro citato alla nota precedente, E. Santelli accenna a genitori algerini che sono emigrati in Francia, dove hanno trovato un’occupazione in fabbrica, avendo lasciato una posizione di status elevato nel sistema sociale della società di origine, non indicato dal loro grado di istruzione né assimilabile a una posizione “di classe media”. E’ un’indicazione importante che ci fa capire che per valutare il segno e la direzione della traiettoria migratoria può essere fuorviante generalizzare arbitrariamente i nostri criteri di classificazione sociale. 79 RAPPORTO SECONDGEN che in grande prevalenza le traiettorie migratorie sono state di segno opposto rispetto a quello emerso per i genitori stranieri scolarizzati di oggi che abbiamo sopra considerato. Mentre costoro, come si è detto, hanno subìto uno scivolamento di status verso il basso, nell’immigrazione meridionale del dopoguerra avrebbe infatti prevalso un modello radicalmente diverso: il trasferimento a Torino avrebbe spesso comportato un percorso di mobilità sociale ascendente. E’ il “salto di qualità” che molti immigrati dal Mezzogiorno di prima generazione avrebbero realizzato, secondo l’immagine efficace con cui all’epoca un militante sindacale descriveva lo spostamento dalla “campagna del Sud” alla città industriale del Nord: qui avevano trovato “la sicurezza, il lavoro 12 mesi all’anno ecc.”7. Si tratta di una interpretazione della migrazione che gli stessi studi di quegli anni avanzano. Per esempio Paci, discutendo della mobilità geografica degli anni del miracolo economico, definisce i “passaggi fra il settore agricolo e quello urbano, che ha coinvolto la maggior parte dei migranti provenienti dagli ampi strati agricoli del latifondo meridionale” come un fenomeno di” evidente mobilità sociale”8. Ma è importante rilevare che in quel periodo storico di grandi movimenti di popolazione verso le città in tutta l’Europa occidentale l’idea che l’entrata nell’industria degli immigrati da aree di agricoltura potesse essere percepita come un passo decisivo lungo un percorso di ascesa nella scala sociale è presente fuori d’Italia in ricerche sociologiche illustri. E’ il caso, ad esempio, dell’inchiesta di Alain Touraine e Orietta Ragazzi che studiano in profondità alla fine degli anni Cinquanta un piccolo campione di “ouvriers d’origine agricole” entrati da poco (da sei mesi a due anni) in due grandi stabilimenti dell’industria dell’automobile dell’agglomerazione parigina e provenienti in generale dalla Bretagna9, mettendolo a confronto con altri gruppi di lavoratori delle stesse fabbriche (operai non qualificati di origine urbana, operai qualificati e specializzati). Secondo i due sociologi francesi, “le déplacement réalisé est jugé comme une mobilité ascendante” da questi immigrati, partiti in gran parte – secondo gli autori - con l’obiettivo dichiarato di migliorare la propria posizione (“ils ont voulu s’élever, changer de condition”), alla ricerca “de la sécurité et un bon revenu”10. Il “salto di qualità” nella testimonianza torinese che abbiamo citato sopra è quello compiuto dal bracciante pugliese - una figura d’altronde molto presente nell’immigrazione al Nord di quegli anni e in particolare verso la metropoli piemontese – che è diventato nella città industriale operaio della grande fabbrica11. E’ scontato che i flussi migratori dal Meridione non abbiano coinvolto solo “la campagna” (né solo il latifondo, né naturalmente solo il bracciantato). Questi movimenti di massa hanno coinvolto una popolazione la cui eterogeneità non è riducibile solo alla presenza – accanto a una predominanza di individui di estrazione genericamente popolare – di uomini e donne di ceto medio (molti di questi nell’impiego pubblico, ma non soltanto). Occorrerebbe insomma guardarsi dal rischio di uniformare arbitrariamente e quindi di appiattire su uno stesso comun denominatore profili sociali diversi e storie individuali e familiari diverse, che possono essere all’origine di differenze significative nei percorsi. Ma per il nostro tema a noi interessa in queste note mettere in luce (potremmo dire: selezionare) un aspetto che sembra caratterizzare in modo significativo la vita prima della partenza di numerosi immigrati: l’instabilità del lavoro, spesso la sua intermittenza, in una parola la sua precarietà. Una condizione che è appunto tipica del bracciantato ma che coinvolge ampi strati sociali popolari, in campagna e in città. Il suo superamento, in questi casi, è al centro delle speranze riposte nell’emigrazione. 7 G. Girardi (a cura di), Coscienza operaia oggi, De Donato, Bari 1980, p. 161. M. Paci, Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Il Mulino, Bologna 1973, p. 132. 9 A. Touraine et O. Ragazzi, Ouvriers d’origine agricole, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris 1961. 10 Ibidem, pp. 47 e 118. Gli autori scrivono (p. 19) che gli operai di origine agricola oggetto della loro ricerca, tutti figli di contadini e che hanno essi stessi lavorato nell’agricoltura prima di trasferirsi, “sont venus à Paris et dans leur usine attirés par ce type de travail ou par la perspective d’une situation matérielle meilleure et de débouchés professionnelles plus vaste”. Si distinguono nettamente dagli intervistati di altre categorie di lavoratori dichiarando in una forte percentuale che il motivo principale che li ha indotti a partire è stato (come indicava la domanda dell’inchiesta) “gout, recherche de débouchés ou d’amélioration”. Solo in seconda e terza battuta (e a distanza in termini di percentuale di risposte), la ragione indicata è “hasard” e “influence du milieu” (p. 19, “question 54”). 11 Occorrerebbe riflettere di più sulla posizione dell’operaio dell’industria, in particolare della grande industria, nella gerarchia del prestigio delle occupazioni dell’epoca e più in generale nel mondo sociale locale (e non solo locale). 8 80 RAPPORTO SECONDGEN Aspirazioni alla stabilità Ciò che va notato, a questo riguardo, è che il trasferimento a Torino non produce di per sé alcun mutamento sostanziale di quella condizione. L’idea che la migrazione rappresenti essenzialmente il passaggio da un punto A a un punto B nello spazio geografico e in quello sociale è spesso implicita negli studi. Non è così nella realtà: l’arrivo dal Sud a Torino segna l’inizio di un percorso in genere accidentato e tortuoso che porta l’immigrato a spostarsi da un’occupazione a un’altra e da un’abitazione a un’altra. L’ingresso nel mercato del lavoro locale avviene in genere attraverso la porta stretta delle posizioni più periferiche. Si comincia a lavorare nei numerosi cantieri edili, nei servizi del terziario urbano che richiedono manovalanza, nei laboratori artigianali, nella miriade di boite che utilizzano le braccia a buon prezzo degli ultimi arrivati. Il lavoro è spesso al nero per salari al di sotto della media; non ci sono forme di protezione, né sindacale né di legge; gli orari sono prolungati a dismisura, gli infortuni all’ordine del giorno12. Questi segmenti del mercato del lavoro locale sono affollati da immigrati perché all’inizio del loro itinerario a Torino i nuovi arrivati, tipicamente, hanno scarse informazioni sulle occupazioni offerte dalla città, così come sul suo mercato immobiliare (ed è per questo motivo che, per gli affitti che sono in grado di pagare - e che sono disposti a pagare, le prime sistemazioni abitative sono spesso in case vetuste o degradate) .Sono soprattutto gli immigrati che provengono dal Sud a trovarsi in questo stato di povertà di connessioni con le opportunità che, in teoria, sono disponibili nel mondo urbano. E’ dunque facile che per loro le condizioni di precarietà lasciate al paese si riproducano in nuove forme in città. La prima occupazione è spesso presto lasciata. Comincia, nell’esperienza più comune, un percorso nel mercato del lavoro locale (a cui si accompagna un percorso tra le abitazioni della città) alla ricerca di un miglioramento del proprio stato. E’ un movimento apparentemente erratico ma che in realtà si svolge secondo una logica sociale precisa: esprime una forte tensione al superamento della condizione di precarietà. Il traguardo a cui puntano gli immigrati che vivono questa fase iniziale più o meno lunga del loro insediamento in città è il raggiungimento di una posizione di stabilità: un posto di lavoro sicuro, che offra un buon salario e dia la garanzia di una protezione sindacale a difesa dei diritti conquistati in quegli anni di grandi lotte sociali, e una casa dignitosa per la propria famiglia, se possibile all’altezza degli standard di confort che si stanno affermando all’epoca. La sicurezza dell’impiego ha un ruolo centrale nella realizzazione delle loro aspirazioni: è una conquista che segna il successo dell’emigrazione e distingue chi si è fatto strada nella società urbana da chi è solo all’inizio della sua vicenda migratoria (o ha fallito). Non è dunque sorprendente che tra gli immigrati dal Mezzogiorno di quegli anni rappresenti un valore fondamentale da trasmettere alla nuova generazione. Coloro che hanno vissuto il percorso di integrazione di cui abbiamo detto la indicano come l’obiettivo su cui concentrare gli sforzi perché lo ritengono la condizione basilare per costruirsi un futuro. L’entrata precoce nel mercato del lavoro manuale – caratterizzato all’epoca da una grande abbondanza di domanda di lavoro - ne è una conseguenza. E’ importante rimarcare che in queste strategie l’interruzione degli studi non è vissuta come un fallimento dai genitori, e tantomeno dai figli i quali si incanalano lungo una strada in cui molte delle competenze che contano sono acquisite al di fuori della scuola. All’epoca, tra chi era più a contatto con gli immigrati appena arrivati – in particolare gli insegnanti della scuola dell’obbligo dei quartieri in cui le famiglie immigrate transitavano o si insediavano e gli assistenti sociali - questo atteggiamento era interpretato come una conferma di un’opinione piuttosto comune in questi ambienti (con diverse eccezioni, naturalmente): che vi fosse da parte di molti genitori meridionali una sostanziale indifferenza nei confronti dell’istruzione. Un’indifferenza che si manifestava, secondo il loro parere, fin dai primi anni di scuola dei figli. Era infatti in primo luogo tra le maestre e i maestri elementari che l’accusa circolava, come risulta dai commenti annotati sui registri scolastici: le famiglie sembravano non occuparsi di quanto i bambini e i ragazzi facevano a scuola13. Questa opinione trovava ripetute conferme nel fatto che molti genitori immigrati ignoravano sistematicamente le richieste di convocazione che nelle intenzioni avevano lo scopo di correggere i comportamenti dei loro figli e di rimediare alle troppe insufficienze. In realtà, non era un presunto 12 E’ l’altra faccia del fordismo che spesso appare occultata oggi negli studi a causa della tendenza a contrapporre l’integrazione “difficile” dell’immigrazione straniera a una presunta integrazione “facile” che avrebbe contraddistinto l’immigrazione dei tempi del boom economico. 13 Sui registri scolastici degli anni Sessanta nelle scuole elementari di Torino si veda Badino, op. cit. 81 RAPPORTO SECONDGEN disinteresse nei confronti dell’istruzione alla radice di questi comportamenti. Di fronte alla tendenza degli insegnanti ad attribuire alle famiglie la responsabilità del cattivo rendimento scolastico degli alunni, queste cercavano di sottrarsi a incontri che temevano si sarebbero trasformati in processi ai loro metodi educativi, come in effetti spesso succedeva. “Sembra che vogliano dare il voto a me”, dicevano le madri immigrate che subivano con grande disagio i rimbrotti dei maestri dei figli14. Non mancano del resto le evidenze che attestano la grande considerazione in cui la scuola era tenuta dalle famiglie che avevano i loro figli nelle classi dell’obbligo. Una maestra che aveva insegnato a lungo all’epoca in una scuola elementare piena di immigrati di una zona particolarmente “difficile” della periferia di Torino, molto empatica con i suoi alunni, spiega il significato della delega che i genitori le davano: “Con le famiglie avevo ottimi rapporti, li ho visti poco, erano genitori che magari accompagnavano i propri figli il primo giorno di scuola e mi dicevano: ‘maestra, questi sono i bambini e li gestisca come lei crede’ (…) devo dire che ci tenevano che la scuola insegnasse ai propri figli qualcosa di diverso da quello che apprendevano nella strada”15. Tra saperi di base e scuola lunga Una documentazione in grado di fornire informazioni preziose per conoscere le reazioni dei genitori - e i conflitti che ne nascevano in famiglia – di fronte a figli che avevano abbandonato la scuola dell’obbligo prima di arrivare alla licenza media o che, bocciati, stavano per lasciarla, è quella prodotta nell’ambito di una vasta (e pressoché unica in questo campo, a mia conoscenza) inchiesta svolta all’inizio degli anni Settanta nelle medie inferiori di un importante centro industriale lombardo16. Emerge dai numerosi colloqui dei ricercatori con le famiglie, quasi tutte di origine meridionale, un acuto disagio di fronte al fallimento scolastico precoce dei figli. Ma ciò che colpisce è la resistenza opposta dai genitori, nella quasi totalità dei casi presi in considerazione, alla volontà dei ragazzi di interrompere gli studi. E’ una dimostrazione di quanto fosse diffusa tra le famiglie immigrate la consapevolezza dell’importanza di acquisire i saperi di base che la scuola dell’obbligo aveva il compito di fornire. Ha dunque scarso fondamento l’idea che tra i genitori meridionali che mostravano di non avere per i figli aspirazioni scolastiche simili a quelle dei genitori stranieri di oggi vi fosse un atteggiamento di noncuranza e di apatia nei confronti della scuola in quanto tale. Era invece molto diffusa – questo è il punto - una grande incertezza sulla praticabilità della scelta della scolarità lunga, quella che aveva come orizzonte e come traguardo un diploma (o addirittura una laurea). E’ il proseguimento degli studi dopo l’obbligo che era guardato con diffidenza: in molti casi era escluso drasticamente, in altri sollevava forti perplessità. Come mostrano le schede di famiglia dei censimenti della popolazione (che registrano gli anni e il tipo di scuola frequentati, oltre al titolo di studio posseduto), sembra tutt’altro che raro il caso di figli di immigrati meridionali che fanno un anno o due di scuola superiore e poi abbandonano. Si può allora pensare che in una parte forse ampia di famiglie immigrate non vi fosse una chiusura pregiudiziale nei confronti della continuazione degli studi ma appunto scarsa convinzione e un’esitazione forte a far prendere questa strada ai figli. Va anche aggiunto che all’epoca vi era un canale di mobilità sociale praticabile e praticato dalla seconda generazione di origine meridionale che non richiedeva nessun particolare titolo di studio: l’impianto di una piccola attività autonoma industriale o commerciale. Richiedeva competenze e soprattutto una dotazione di risorse che non potevano certo venire dalla scuola: la capacità di reggere un grande dispendio di energie personali, la mobilitazione piena di familiari disponibili, la possibilità di reperire credito nella cerchia della parentela. Il percorso dal lavoro salariato al lavoro autonomo si dimostrava spesso reversibile ma era un progetto di ascesa sociale che non passava attraverso l’acquisizione di credenziali scolastiche. 14 E’ significativo che questi fenomeni siano largamente presenti nelle scuole dell’obbligo frequentate soprattutto da alunni di famiglie immigrate anche fuori d’Italia e in periodi più recenti. Si veda tra gli altri ad esempio, per la Francia, D. Thin, Quartiers populaires. L’école et les familles, Presses universitaires de Lyon, Lyon 1998, e P. Périer, Ecole et familles populaires, Presses universitaires de Rennes, Rennes 2005.. 15 A.Castrovilli e C. Seminara, Mirafiori, la città oltre il Lingotto. Storie di via Artom e dintorni, Mentelocale, Torino 2000, p.134. 16 T. Aymone, Scuola dell’obbligo. Città operaia, Laterza, Roma-Bari 1972. 82 RAPPORTO SECONDGEN Riguardo all’istruzione, sembra che le famiglie avessero, in generale, le idee chiare solo quando si trattava delle figlie femmine. Era il matrimonio il futuro che ci si augurava per loro e quindi l’alternativa tra proseguire gli studi oltre l’obbligo o interromperli praticamente non si poneva neppure. Forse una delle differenze più radicali con l’immigrazione internazionale di oggi sta, su questo piano, proprio nelle aspirazioni scolastiche dei genitori per le figlie femmine. Ma va notato che le strategie delle famiglie meridionali di mezzo secolo fa non significavano – nelle intenzioni - una mortificazione del ruolo femminile nella coppia che si sarebbe formata. Le madri originarie del Sud, d’altronde, spesso scolarizzate ancora meno dei padri, avevano saputo svolgere una parte cruciale (seppure poco visibile, perlomeno agli occhi degli studiosi) nel progetto migratorio e nella sua realizzazione. Paradossalmente, come è stato messo in luce, nelle seconde generazioni di origine meridionale saranno le ragazze, più che i loro fratelli, a perseguire e conquistare titoli di studio oltre l’obbligo17. Ma le scelte compiute dai figli e la loro coerenza o incoerenza con le aspettative dei genitori non sono l’argomento di questa analisi. Naturalmente le aspirazioni degli uni e degli altri si condizionavano a vicenda in varie forme ma in questa sede le teniamo distinte. Il nostro interesse è focalizzato sui progetti della prima generazione per il futuro della seconda. Ambizioni sociali e progetti incerti La stessa indeterminatezza nel decidere del futuro scolastico dei figli esistente tra gli immigrati dal Sud la ritroviamo nei progetti degli operai di origine agricola entrati nella grande industria parigina studiati da Touraine e Ragazzi. Ma con qualche elemento interessante in più, che ci aiuta a decifrarne il significato e le motivazioni che le stanno dietro, pur nelle differenze tra i due contesti. Gli immigrati interni francesi – con un grado di scolarità bassa, senza qualificazione, giunti direttamente dalla campagna alla catena di montaggio – dichiarano di avere ambizioni sociali per i loro figli ma le loro aspirazioni appaiono generiche e vaghe, di difficile lettura. Alcuni non sanno dire cosa concretamente intendono quando auspicano per i figli una vita di successo; altri insistono soprattutto sul fattore economico: “riuscire” significa “fare soldi”, ma non si capisce in quali modi né se ne dà una qualche misura18. Gli intervistati appaiono incapaci di indicare quali possano essere le strade su cui indirizzare i figli per affermarsi nella società urbana e tantomeno i mezzi da utilizzare per realizzare le loro aspettative. E’ la conseguenza, secondo i due ricercatori (che rilevano la cosa con una certa sorpresa) del fatto che non riconoscono - in netta maggioranza - nell’istruzione lo strumento di promozione sociale coerente con lo scopo. Il significato della scelta di escludere la scuola lunga dai progetti per l’avvenire dei figli sembra diventare più complicato da interpretare quando gli autori dell’inchiesta cercano di capire con una serie di domande specifiche quale sia la concezione prevalente delle divisioni sociali e quali i criteri che nella loro visione della società differenzierebbero le varie classi. Notano i due sociologi che le risposte dei loro intervistati sono apparentemente contraddittorie. Dichiarano infatti in grande maggioranza (i due terzi) che è il grado di istruzione posseduto (a cui viene aggiunto il “milieu”, l’ambiente di appartenenza) a distinguere tra di loro le diverse classi sociali; inoltre – e coerentemente – che è attraverso l’istruzione che un “giovane operaio” cambia classe, cioè passa ad una classe collocata più in alto nella scala sociale19. Il carattere contraddittorio di queste affermazioni sta nel fatto che - come viene giustamente rilevato sono in aperto contrasto con la minimizzazione dell’importanza degli studi lunghi come mezzi da indicare ai figli per farsi strada nella società urbana in cui cresceranno. E tuttavia è forse proprio in questa ambiguità, a nostro parere, che può essere cercata una chiave di lettura del senso delle strategie di questi genitori. Non sembra esserci contraddizione per loro tra un avvenire di successo dei figli e una continuità di appartenenza all’ambiente sociale di appartenenza: è all’interno del mondo sociale conosciuto (così sembrerebbe) che si ritiene che i figli possano realisticamente - e quindi debbano giocare le loro carte. Al contrario, un percorso di mobilità che comporti di uscirne verrebbe giudicato una scelta azzardata, fuori della loro portata. Vi è forse tra questi “operai di origine agricola” la convinzione che scegliere la strada dell’istruzione lunga proietti i loro figli su un terreno che non conoscono e non controllano ? 17 Ne discute ampiamente Badino in op. cit. e nei contributi a questo Rapporto di ricerca. Touraine et Ragazzi, op. cit., pp. 100 e 111. 19 Ibidem, pp. 75 e 76. 18 83 RAPPORTO SECONDGEN E’ una ipotesi suggerita da questa inchiesta ma che può essere applicata anche al nostro caso: nell’immigrazione originaria del Sud la diffusa diffidenza nei confronti della scuola lunga di cui abbiamo detto e la conseguente esitazione, più o meno marcata, a spingere i figli in quella direzione trovano alimento anche nell’idea che i sentieri su cui si avventurerebbero sono incerti e i loro sbocchi nebulosi. Uno dei motivi per cui molti genitori meridionali non investono nell’istruzione dei figli oltre l’obbligo è che - se la nostra ipotesi è fondata - non hanno una chiara percezione del tipo di attività (e di status) verso cui conducono gli studi lunghi. Non sono quindi motivati a incoraggiare i figli in quella direzione perché hanno difficoltà a individuare con sufficiente lucidità il nesso tra un titolo di studio di scuola superiore e le opportunità vantaggiose di lavoro a cui darebbe accesso, tra l’acquisizione di determinate credenziali scolastiche e una loro traduzione in posizioni corrispondenti nel mercato del lavoro locale. Quali informazioni da quali cerchie sociali ? Occorre tenere presente che in genere gli immigrati meridionali di prima generazione hanno acquisito nel tempo molte informazioni sul mercato del lavoro manuale locale ma ne possiedono poche su quello non manuale. Tutto ciò è evidente se guardiamo alla rete sociale in cui risultano essersi inseriti nel loro percorso di integrazione in città e concentriamo l’attenzione sui meccanismi che hanno presieduto alla sua formazione: è una rete sociale di individui – spesso corregionali – che condividono posizioni occupazionali affini e quindi assicurano connessioni soprattutto con i segmenti bassi dell’offerta locale di posti di lavoro nell’industria e nei servizi in cui possono pensare di collocare i figli. Non vi è niente di predeterminato dalle origini geografiche in questi processi: quali legami sociali e con chi vengono costruiti sul posto è affare che dipende principalmente dagli spazi urbani frequentati dai nuovi arrivati. In primo luogo da ambiti di interazione come i luoghi di lavoro attraverso cui passano e i vicinati in cui transitano o si fissano, e dalle persone con cui entrano in contatto rendendo possibile il consolidamento di rapporti. E’ per questo motivo che tra gli immigrati meridionali che si sono stabilizzati a Torino in quegli anni avendo compiuto il percorso tra le occupazioni e i quartieri della città che conosciamo è facile trovare reti connotate da una forte omogeneità sociale e professionale dei loro componenti. E’ una omogeneità che risulta ulteriormente rafforzata dalla parentela presente in loco quando, come di solito avviene, si concentra - per l’azione delle catene migratorie - negli stessi settori del mercato del lavoro (e a volte negli stessi quartieri). L’influenza esercitata dalla rete sociale in cui gli immigrati si trovano a vivere in città sulle loro aspettative emerge chiaramente anche tra i genitori stranieri di oggi per esempio nei casi in cui esercitano pressioni sui figli perché si iscrivano a una scuola professionale “che dia un mestiere” e garantisca l’accesso al più presto, nelle loro speranze, a un lavoro (manuale). E quindi mostrano l’esistenza di un atteggiamento verso gli studi che non sembra molto lontano da quello dei genitori meridionali: anche qui infatti ritroviamo l’incertezza di fronte a strade che sono considerate poco praticabili, fuori della loro portata e che non si sa prevedere dove possano parare. Progetti di questo tipo sono in genere di immigrati con una bassa scolarità ma è lo spostamento del fuoco dell’analisi sulle loro cerchie sociali che ci permette di capire come e perché questi progetti prendono forma: le loro relazioni sul posto sono in gran parte con conterranei nella loro stessa situazione, con compagni di lavoro che condividono attività di scarso prestigio, con vicini dal profilo sociale simile al loro. La ricerca Secondgen mette in luce un atteggiamento nei confronti della scelta della scuola dei figli piuttosto diffuso tra i genitori dell’immigrazione internazionale che potrebbe sembrare in contraddizione con la considerazione in cui viene tenuta l’istruzione seppure, come abbiamo visto, dentro a strategie diverse per le ambizioni sociali che esprimono. Le famiglie tendono a non intervenire attivamente nella scelta del tipo di scuola superiore da frequentare; si astengono dal dare indicazioni ai figli e si affidano a loro. In realtà non vi è alcuna contraddizione. Questi comportamenti infatti sono chiaramente imputabili alla loro condizione di immigrati: hanno grande difficoltà ad orientarsi in un sistema scolastico opaco ai loro occhi e non sono in grado di raccogliere informazioni utili a superare questa situazione di minorità perché le reti sociali in cui si sono integrati sono inadeguate a questo scopo. Il rapporto tra le famiglie dell’immigrazione straniera e la scuola tende ad essere caratterizzato da questi aspetti, con numerose implicazioni: le scelte che vengono fatte dopo l’obbligo possono rivelarsi nel tempo sbagliate, con ricadute molto negative sulla scolarità e sugli sbocchi lavorativi dei figli. La divaricazione molto frequente tra il livello delle aspirazioni scolastiche dei genitori e la realtà 84 RAPPORTO SECONDGEN dei corsi di studio in cui i giovani si avviano che hanno potenzialità non corrispondenti ai progetti familiari – un aspetto su cui ritorneremo più avanti – si spiega anche in questo quadro. E’ molto significativo, a questo proposito, che il disagio di fronte alla scelta della scuola a cui iscrivere i figli non riguarda soltanto gli immigrati con bassa scolarità e quindi poca dimestichezza con gli studi superiori nelle stesse aree di origine, ma anche spesso gli immigrati scolarizzati con grandi ambizioni sociali per i figli da perseguire con un’istruzione di alto livello. La loro incertezza, che può portare di fatto a un netto ridimensionamento delle aspettative, deriva dalla povertà di informazioni sull’organizzazione degli studi in Italia su cui poter contare – una conseguenza specifica, come si è detto, della migrazione. Ambienti sociali di integrazione in città e formazione delle aspettative Riprendiamo ora a discutere il tema, su cui abbiamo sopra insistito, degli effetti che l’ambiente di appartenenza, definito dalle cerchie sociali nelle quali le famiglie immigrate si sono integrate in città, produce sulla formazione delle loro aspettative. Ciò che va tenuto presente è che l’ambiente offre dei modelli di carriere sociali da seguire. Sono modelli che, in quanto presenti nel mondo sociale di cui si è parte, vengono percepiti come la norma e quindi la loro realizzabilità non è in discussione. L’auspicio di tanti genitori meridionali che i figli perseguano carriere urbane il cui coronamento sia una posizione di lavoro manuale stabile è pienamente coerente con ambienti come quelli che abbiamo descritto. E lo stesso può essere detto, come si è accennato, dei genitori stranieri le cui aspettative di studi lunghi in realtà non vanno oltre qualche anno di un modesto istituto professionale. Ma il primato dell’ambiente sociale nel tracciare gli orizzonti su cui orientare i figli è anche più evidente quando genitori poco scolarizzati manifestano aspirazioni scolastiche elevate e ripongono grandi speranze nel futuro professionale della nuova generazione. A questo riguardo è utile richiamare gli spunti offerti da un’ampia ricerca recente sui percorsi scolastici e lavorativi delle seconde generazioni di immigrati internazionali all’inizio degli anni Duemila a New York e sulle aspettative delle loro famiglie20. Esaminando l’atteggiamento verso l’istruzione, gli autori discutono l’anomalìa dei cinesi di New York, tra i quali genitori con un livello di scolarità molto basso mostrano, a differenza di altri gruppi di immigrati nella stessa condizione, di attendersi dalla scuola dei figli grandi risultati e quindi li indirizzano verso studi prestigiosi. C’è una specificità che distingue i cinesi della grande metropoli americana, in quanto sembra non riscontrarsi in altri gruppi immigrati, e che secondo gli autori ha una parte decisiva nella formazione delle aspettative anche di chi non possiede un capitale culturale: è la tendenziale sovrapposizione tra comunità cinese e aree di residenza in cui questa si concentra. Questo fenomeno in genere non si verifica nell’immigrazione in cui prevalgono largamente altri meccanismi: la ricerca dell’abitazione è fortemente condizionata dallo status socio-economico che quindi seleziona e distribuisce le famiglie in aree nettamente distinte dello spazio urbano. Una delle implicazioni della specificità dell’immigrazione dalla Cina è dunque che anche i nuovi arrivati con una bassa scolarità e posizioni occupazionali molto modeste si stabilizzano nei quartieri della metropoli americana abitati prevalentemente da connazionali, la cui composizione sociale è molto mista e in cui la presenza di famiglie di classe media e medio-alta dotate di titoli di studio importanti è significativa. Si trovano così nella condizione di integrarsi in un nuovo ambiente sociale. Il quartiere etnico, in questo caso, presenta a chi vi arriva e vi risiede modelli di percorsi professionali di successo fondati sull’acquisizione di credenziali scolastiche e consente non solo di osservare direttamente queste traiettorie ma anche di entrare in contatto con gli individui che le incarnano. Gli effetti sui nuovi arrivati con bassa istruzione sono che i progetti per i loro figli tendono ad allinearsi a quelli presenti nella comunità. In questo modo i cinesi di New York si differenziano nettamente da altri gruppi immigrati con il loro stesso livello di scolarità e in occupazioni analoghe: ai loro occhi l’utilità e l’efficacia di percorrere la strada di studi molto impegnativi per affermarsi nella società locale sono dimostrate da chi nella comunità l’ha già percorsa, rendendola così ai loro occhi realisticamente praticabile. E’ la dimostrazione che l’ambiente sociale in cui i genitori entrano in città rappresenta un fattore cruciale nel definire le aspettative nei confronti dei figli. E’ fuori di dubbio che ci sia poco di paragonabile tra la comunità cinese della grande metropoli americana così come ci viene descritta da 20 P. Kasinitz, J. Mollenkopf, M. Waters, J. Holdaway, Inheriting the City. The Children of Immigrants Come of Age, Russell Sage Foundation, New York 2008 85 RAPPORTO SECONDGEN questi autori e l’immigrazione internazionale di oggi a Torino o quella meridionale di mezzo secolo fa. Né gli immigrati stranieri né quelli interni arrivati dal Sud si inseriscono nella società urbana in una comunità di residenza con quelle caratteristiche, la quale dunque non esercita alcuna funzione in termini di proposizione di modelli ambiziosi. Ma in questo importante lavoro è l’indicazione su dove posare la lente che va colta. E va rimarcato, come già abbiamo detto, che i meccanismi all’opera negli ambienti sociali di appartenenza (con le loro implicazioni sulle strategie degli individui) sono gli stessi anche quando le famiglie non mostrano di perseguire grandi traguardi ma esprimono aspirazioni modeste. Percorsi inattesi Si è visto come la grande maggioranza degli immigrati meridionali si radichi in reti sociali che limitano le loro informazioni e i loro orizzonti e come dinamiche analoghe siano largamente presenti nelle traiettorie della prima generazione di immigrati stranieri. Ma i processi di integrazione in città non hanno esiti scontati. Non è infatti impossibile che, qualora esistano o se ne creino le condizioni, la migrazione, cioè il trasferimento in un nuovo spazio in cui si devono intessere nuovi legami, favorisca incontri e contatti capaci di condurre in direzioni impreviste. Alcune delle nuove relazioni che si intrecciano in loco, infatti, possono funzionare da tramiti che portano a inserirsi progressivamente in ambienti popolati da figure eterogenee sia per le loro occupazioni sia per il loro profilo sociale. Nell’immigrazione meridionale di mezzo secolo fa questi casi sono forse poco visibili (e certamente poco studiati nella nostra ottica) ma sono tutt’altro che eccezionali. I nuovi ambienti in cui si entra dischiudono nuovi orizzonti, mutano la percezione delle opportunità aperte e fanno nascere ambizioni per sé e per il futuro dei propri figli. Fra i genitori stranieri oggi una spia di tutto ciò nei materiali di Secondgen sembrerebbe apparire quando, ad esempio, incontriamo persone senza o con poca istruzione che sono passate da una condizione di lavoro subordinato a una carriera imprenditoriale di successo e hanno così sviluppato relazioni e stretto legami al di fuori dell’ambiente di appartenenza iniziale. Una delle chiavi esplicative delle aspirazioni scolastiche elevate per i figli da cui risultano essere animati potrebbe proprio essere trovata nei loro percorsi di integrazione. Ma occorre guardarsi dalle risposte univoche: aspettative analoghe sono condivise da genitori di varie posizioni occupazionali, oltre che di varie estrazioni sociali. Questo fa pensare che i meccanismi in gioco siano più di uno. E’ nel confronto tra i titoli di studio delle seconde generazioni di immigrati dal Meridione nel dopoguerra e di immigrati di classe operaia dal Piemonte negli stessi anni a Torino, indicativi di progetti familiari maturati nello stesso periodo storico in cui l’istruzione è valutata con metri molto diversi da oggi, che la linea interpretativa che abbiamo proposto dimostra la sua utilità. Le differenze di scolarizzazione dei figli degli uni e degli altri tendono ad essere spiegate nell’opinione comune (ma con una eco significativa anche in una parte della comunità scientifica) con le differenze di grado di scolarità dei genitori. In realtà, come è stato accertato, il divario su questo piano tra gli immigrati dal Sud e quelli provenienti dalla regione che ricoprivano posizioni occupazionali simili non era tale da dare conto di risultati scolastici e di aspettative delle famiglie così divergenti21. Le famiglie operaie con basso capitale culturale originarie del Piemonte mostravano spesso di saper sfruttare le opportunità educative offerte dalla grande città assai di più di quelle provenienti dal Mezzogiorno collocate nella stessa classe occupazionale. Per quali motivi ? Più che i livelli di istruzione, ciò che distingue l’immigrazione di operai, artigiani e contadini piemontesi nel capoluogo regionale da quella meridionale in quegli anni è il contesto in cui si sviluppa: è un contesto la cui specificità per il nostro tema risiede nella lunga consuetudine di rapporti e di scambi tra città capoluogo e regione e nella loro continuità nel tempo. E’ su questo aspetto, apparentemente ovvio ma carico di conseguenze, che dobbiamo concentrarci. Tra i vari effetti che l’intensità e il volume dei movimenti di individui tra la campagna, la montagna e i centri urbani minori del Piemonte e Torino avevano prodotto ve ne è uno di particolare significato nella nostra ottica: il costituirsi e il consolidarsi negli anni (e nelle generazioni) di una trama di legami tra membri di parentele dislocati in parte in città e in parte nelle varie località della regione. E’ su questa trama e sulle opportunità offerte in termini di 21 M. Eve e F. Ceravolo dimostrano, sulla base di dati dello Studio Longitudinale Torinese, questo assunto in “A case of ‘second generation’ disadvantage in internal migration: a challenge to theory ?”, paper presentato al convegno Norface, “Migration: global developmen, new frontiers”, University College London, 10-13 aprile 2013 (paper disponinbile sul sito http://secondgen.rs.unipmn.it/). 86 RAPPORTO SECONDGEN informazioni e di sostegno a chi vi era inserito e decideva in quegli anni di spostarsi nel capoluogo che va posto l’accento. Alcune differenze essenziali tra immigrati di breve distanza (dalla regione) e immigrati di lunga distanza (dal Sud) - ma chiaramente il discorso riguarda anche gli immigrati stranieri oggi - stavano infatti nella possibilità dei primi di utilizzare canali che ne facilitavano l’entrata nel tessuto sociale e produttivo di Torino riducendo drasticamente i costi e le incognite dello spostamento e allargando fin dall’arrivo le opportunità. L’entrata nel mercato del lavoro avveniva in questi casi saltando la fase – tipica dell’immigrazione dal Sud, come abbiamo visto – della lunga trafila in occupazioni precarie; le abitazioni a cui si aveva accesso consentivano di stabilirsi in quartieri diversi da quelli affollati di immigrati meridionali appena arrivati, e così via. La possibilità di fare affidamento a Torino su persone già radicate, spesso da tempo, nel mondo urbano assicurava vantaggi cruciali, decisivi nel differenziare i percorsi migratori da quelli prevalenti tra i meridionali. Indirizzava i nuovi venuti su una strada di integrazione in ambienti sociali che aprivano nuove prospettive. E’ in questo quadro che va visto il maturare di progetti familiari per i figli in cui l’istruzione superiore – un salto rispetto alla generazione precedente – diventava essenziale per continuare il percorso di mobilità sociale avviato con l’insediamento nella società urbana dei padri. Nella scuola dell’obbligo: i dilemmi dell’istituzione di fronte alla migrazione E’ al termine della terza media che i genitori immigrati (e i loro figli) devono decidere fra l’interruzione o la continuazione degli studi - come spesso avveniva in passato - oppure fra i vari indirizzi di scuola e quindi fra percorsi scolastici più o meno impegnativi (e più o meno carichi di promesse), come avviene oggi. Fin qui abbiamo cercato di individuare alcuni dei fattori che influenzano le posizioni dei genitori ieri e oggi, mostrando che si tratta in prevalenza di posizioni che si definiscono in un quadro aperto nei fatti a soluzioni diverse perché è l’incertezza in genere a dominare. Vi è ora da chiedersi quanto conti in questo contesto - e in che termini - un fattore che finora non abbiamo ancora preso in considerazione: ci riferiamo ai risultati scolastici ottenuti dai figli nei primi due cicli di studi. E’ un fattore che sembra contare molto, e spesso con l’effetto di modificare le aspettative iniziali delle famiglie. Nell’immigrazione interna del dopoguerra, la qualità dei risultati ottenuti durante la scuola dell’obbligo non ha una grande incidenza sulle aspirazioni scolastiche. Solo nei casi di famiglie di classe media e con scolarità elevata, l’istruzione dei figli rappresenta un obiettivo irrinunciabile, da perseguire comunque, indipendentemente dall’impegno e dalle abilità mostrate (un comportamento che le accomuna alle classi medie locali)22. Ne ha invece molta tra le famiglie immigrate di classe operaia, in particolare fra quelle (la grande maggioranza, come sappiamo) che risultano integrate in città in reti sociali limitate: risultati mediocri, disastrosi o buoni possono infatti contribuire in modo determinante a superare, in una direzione o in un’altra, i dubbi e le esitazioni sulle decisioni da prendere per il futuro dei figli. Rafforzando quindi la scarsa propensione dei genitori a investire nella loro scolarità oppure, al contrario, rendendoli consapevoli della possibilità di una carriera scolastica fuori della norma dell’ambiente sociale di cui sono parte. L’evenienza di una conclusione stentata del corso di studi della scuola dell’obbligo di ragazzi di famiglie operaie di origine meridionale è molto frequente all’epoca: costituisce un motivo decisivo per convincere i genitori che la strada migliore per il figlio è l’entrata precoce nel mercato del lavoro. Il successo o l’insuccesso negli studi che precedono il momento in cui deve essere compiuta la scelta di quali percorsi seguire esercita una influenza importante, come è intuibile, anche sulla formazione degli orientamenti dei genitori stranieri e dei loro figli, intervenendo a modificare in vari modi progetti e aspettative. Negli anni dell’obbligo il potere della scuola e dei suoi operatori di precostituire le condizioni per confermare o – come accade più spesso – frustrare aspirazioni e ambizioni e quindi di influire sui percorsi dei figli condizionando le strategie delle famiglie immigrate è dunque grande. La comparazione dell’atteggiamento dell’istituzione verso questa parte della popolazione scolastica ieri e oggi mette in luce, tra vari aspetti che varrebbe la pena di analizzare in modo approfondito, un punto cruciale per noi: il ripetersi, in una misura sorprendente, di fenomeni analoghi a distanza di decenni e con protagonisti diversi per provenienza, possesso di diritti di cittadinanza, culture e così via (a conferma che è la migrazione in sé a rendere simili certi processi). Nell’incontro tra l’istituzione scolastica e le seconde generazioni di immigrati molti nodi non sono stati sciolti, rimanendo in larga 22 D. Gambetta, Per amore o per forza ?.Le decisioni scolastiche individuali, Il Mulino, Bologna 1990 (prima edizione Cambridge University Press 1987). 87 RAPPORTO SECONDGEN parte irrisolti. La natura di integrazione o di esclusione della scuola fin dai primi due cicli di studi continua ad essere carica di conseguenze. Anche per questo motivo le politiche attuali di intervento nei confronti degli alunni di origine immigrata hanno probabilmente da trarre lezioni utili dalle esperienze passate. Il rendimento a scuola è naturalmente condizionato da molti elementi. Ma per le seconde generazioni la condizione di immigrati implica l’esigenza - che si manifesta fin dall’ingresso nel sistema scolastico italiano - di affrontare ostacoli strettamente connessi al processo migratorio e quindi estranei all’esperienza dei coetanei locali. La reazione dell’istituzione e dei suoi operatori di fronte ai problemi specifici che questa popolazione scolastica pone nei primi anni di studi è dunque di particolare rilevanza: ne può derivare un aiuto prezioso ad arginare le conseguenze negative degli handicap iniziali oppure un aggravamento, con l’accumulazione progressiva di penalità, delle difficoltà che ne derivano. Gli effetti sono di lungo termine, cioè si prolungano nel tempo perché possono compromettere o favorire i successivi percorsi scolastici. Quanto sia importante in generale l’atteggiamento della scuola risulta chiaro, come ci insegna la sociologia dell’istruzione, nei casi in cui l’intervento degli insegnanti sui genitori porta a modificare destini sociali che appaiono già in qualche modo segnati. Genitori poco o niente motivati sono incoraggiati a far intraprendere ai figli percorsi scolastici che la loro posizione occupazionale e il loro livello di scolarità (oltre al loro ambiente sociale) avrebbero escluso. Ma per le seconde generazioni di immigrati e le loro famiglie il ruolo dell’istituzione e dei suoi operatori ha implicazioni peculiari a causa, come si è detto, della specificità della condizione migratoria. Nei materiali raccolti da Secondgen, dietro a carriere scolastiche brillanti non raramente vi sono maestri e docenti che hanno operato attivamente per aiutare i ragazzi a rimuovere gli ostacoli legati alla migrazione. Ma più frequenti sono i casi di risultati scolastici mediocri o anche pesantemente negativi, dovuti in gran parte all’incapacità della scuola di farsene carico. In questo modo l’istituzione concorre a dare un fondamento a scelte di rinuncia dei genitori alla continuazione degli studi oltre l’obbligo, come in genere succedeva nell’immigrazione meridionale, o a ridimensionare più o meno seccamente le loro aspirazioni scolastiche, come spesso succede oggi. Gli handicap dovuti alla condizione migratoria e come (non) vengono affrontati La descrizione dell’impatto dei figli degli immigrati meridionali negli anni Sessanta a Torino con una scuola ostile perché del tutto impreparata ad accoglierne l’urto ci dà indicazioni dettagliate sul tipo di handicap che la migrazione genera. Sono quelli che, significativamente, ritroviamo diversi decenni dopo con la seconda generazione di immigrati stranieri. Come abbiamo già anticipato, è la difficoltà della scuola ad attrezzarsi per farvi fronte che colpisce, considerando la portata delle conseguenze. Negli anni Sessanta erano molti i figli di immigrati meridionali che entravano nelle scuole dell’obbligo della città affollate all’inverosimile dopo aver già frequentato una o più classi al paese. Costituivano la cosiddetta generazione uno e mezzo, quella che – come molti studi hanno dimostrato – è spesso (anche se non sempre) la più svantaggiata23. Lo spostamento geografico aveva sconvolto la vita relazionale dei ragazzi della generazione uno e mezzo imponendo perdite dolorose (dai compagni a molti parenti adulti, in particolare i nonni); il loro spaesamento era inoltre aggravato dal fatto che venivano iscritti spesso in corso d’anno, che si trovavano a cambiare scuola perché le famiglie cambiavano spesso abitazione e quartiere nella prima fase dell’insediamento, che dovevano adattarsi nello stesso tempo al nuovo contesto urbano di Torino e a nuovi metodi di insegnamento, e così via. Una delle risposte della scuola all’epoca ai problemi che questi ragazzi immigrati presentavano era la retrocessione alla classe 23 Lo svantaggio della generazione uno e mezzo è stato analizzato nel caso di Torino nel saggio pionieristico di F. Ceravolo. M. Eve e C. Meraviglia, Migrazioni e integrazione sociale: un percorso a stadi, in M. L. Bianco (a cura di), L’Italia delle disuguaglianze, Carocci, Roma 2001. Sull’immigrazione meridionale del dopoguerra nel suo complesso un saggio che conferma i risultati su Torino è R. Impicciatore e G. Dalla Zuanna, “A different social mobility: the education of children of Southern parents emigrated to Central and North Italy”, Genus, 2006. Il rendimento scolastico peggiore dei ragazzi di seconda generazione rispetto ai coetanei della generazione uno e mezzo (fra i messicani, ad esempio) è analizzato in molta letteratura, soprattutto nord-americana, sulla “downward assimilation”. Una delle indicazioni che questi studi suggeriscono è l’importanza cruciale delle specifiche condizioni sociali in cui crescono le seconde generazioni. I quartieri di residenza in cui si sviluppano le reti amicali dei figli degli immigrati che alimentano la loro cultura anti-scuola diventano centrali nell’analisi. 88 RAPPORTO SECONDGEN precedente a quella che avrebbero dovuto frequentare. Un declassamento che non sempre teneva conto delle reali competenze dell’alunno. Le intenzioni erano le migliori perché si riteneva che questo provvedimento potesse facilitare l’inserimento del nuovo arrivato nel nuovo ambiente. In realtà la perdita di un anno (a volte addirittura due) al primo impatto con la nuova scuola non solo non assicurava nessun recupero ma al contrario poteva spesso produrre - aggiungendosi a tutti i numerosi motivi di disagio - effetti irrimediabili: si avviava una spirale negativa che portava ad accumulare ritardi e contribuiva a generare demotivazione e disaffezione. Con il risultato di spingere i ragazzi a voler uscire dalla scuola appena possibile e a convincere i genitori della inopportunità di tenerceli oltre l’età dell’obbligo. Il declassamento è spesso anche oggi la soluzione adottata per gli alunni stranieri che emigrano con la famiglia, o la raggiungono, in età scolare. Uno dei motivi che ne sono alla base è la nulla o scarsa conoscenza dell’italiano di ragazzi appena arrivati da un altro Paese. Il problema, ovviamente, è reale. E’ la risposta dell’istituzione ad essere di dubbio esito dato che il declassamento non è in grado di portare i nuovi alunni ad acquisire dimestichezza con un italiano utile non solo per comunicare ma per gli studi24. Anche in questo campo, l’istituzione sembra contare sulla buona volontà di singoli insegnanti e sulle iniziative di singoli istituti: mancano corsi di sostegno e programmi specifici di insegnamento della lingua. Accenniamo alla questione dell’italiano perché è esemplare per il tema che stiamo trattando: proprio la sua padronanza più o meno incerta infatti è il motivo principale e ricorrente addotto dagli insegnanti in terza media per un “consiglio di orientamento” che nei fatti penalizza i ragazzi immigrati oggi – come ieri gli studenti di origine meridionale – in quanto li esclude (“per il loro bene”) dagli studi più impegnativi25. E’ un fenomeno molto diffuso di fronte a cui spesso le stesse famiglie dell’immigrazione internazionale che avevano nutrito grandi ambizioni per le carriere scolastiche dei figli sono indotte a rinunciare a perseguire i loro progetti. La condizione migratoria è a questo riguardo determinante. Genitori di classe media al Paese di provenienza con progetti centrati sull’istruzione universitaria si trovano disarmati di fronte a indicazioni espresse da operatori di un sistema scolastico su cui non dispongono di informazioni puntuali che li metta in grado di contestarle (come in genere fanno le famiglie locali di classe media). Non porsi in modo programmatico fin dall’inizio il problema cruciale della specificità della condizione degli alunni immigrati crea situazioni difficili da modificare in seguito. Come i dati ufficiali dimostrano, gli studenti di origine straniera in Italia sono distribuiti nei vari indirizzi di studi superiori in modo anomalo rispetto ai loro coetanei autoctoni: sono infatti concentrati soprattutto negli istituti tecnici e in quelli professionali26. Su questo fenomeno, che come già abbiamo rilevato contrasta nettamente con le aspirazioni elevate di un gran numero di genitori dell’immigrazione internazionale, incidono in buona parte percorsi scolastici accidentati nella scuola dell’obbligo. E’ una conferma del peso esercitato fin dai primi cicli di studio dall’istituzione: i modi con cui accoglie i figli delle famiglie immigrate da altri Paesi ne condiziona i destini sociali più di quanto non venga in genere riconosciuto. In un contesto diverso da quello di oggi, tutto ciò si è già verificato per l’immigrazione meridionale. A differenza di molti ragazzi di origine straniera che, come abbiamo detto, sono entrati nella scuola italiana con gli handicap tipici della generazione uno e mezzo, l’esperienza dei figli degli immigrati dal Sud è anche l’esperienza di bambini e ragazzi nati e socializzati a Torino (la “vera” seconda generazione) che quindi non hanno dovuto subire l’onere di alcuni degli handicap della generazione uno e mezzo. Non per questo l’origine migratoria delle loro famiglie ha cessato di influenzare le loro carriere scolastiche, che hanno continuato ad essere caratterizzate da uno svantaggio nel confronto con quelle dei coetanei locali, ma ha agito in modi diversi. Diventano così visibili ulteriori aspetti connessi alla loro condizione di figli di genitori immigrati che esercitano un ruolo nel definirne i percorsi scolastici. Li ritroviamo anche nelle testimonianze di ragazzi stranieri raccolte dalla ricerca Secondgen ed è probabile che siano destinati ad assumere importanza crescente in futuro. Ne accenniamo ad alcuni molto sommariamente, concludendo queste note. 24 Fra i figli degli immigrati meridionali era il dialetto uno dei motivi ritenuti responsabili del loro scarso rendimento in italiano, sicuramente a ragione. L’istituzione non si poneva l’obiettivo di affrontare con misure adeguate ed efficaci il problema, che veniva così affidato interamente ai singoli insegnanti. Questi spesso tendevano a scaricarlo sulle famiglie: “parlate l’italiano in casa”, era l’esortazione rivolta a genitori che, probabilmente, conoscevano l’italiano ancor meno dei figli. 25 Si veda sul tema il contributo di M. Romito a questo Rapporto di ricerca. 26 I dati ufficiali sono quelli del MIUR. 89 RAPPORTO SECONDGEN Tra gli alunni meridionali il grado di preparazione acquisito al termine della scuola dell’obbligo dipendeva anche, come è scontato, dalla qualità dell’insegnamento. Nelle scuole dei quartieri affollati di immigrati una serie di fattori concorrevano ad abbassare il livello dell’istruzione impartita. Ad esempio, fenomeni come in primo luogo il turnover degli insegnanti (massimo dove la popolazione scolastica era carica di problemi) - che si aggiungeva alla piaga dei doppi turni (maggiore nelle periferie) - contribuivano a compromettere gli standard dell’insegnamento. All’epoca le famiglie non potevano scegliere le elementari e le medie inferiori in cui iscrivere i figli27 ma erano tenute a inviarli in quelle del quartiere di residenza. Avveniva molto spesso che nelle scuole frequentate anche da alunni di famiglie non immigrate, queste facessero pressioni (in genere con successo) su direttori e presidi affinché i loro figli fossero dirottati in classi non “zavorrate” dalla presenza di bambini e ragazzi la cui origine faceva presupporre un abbassamento del livello della classe. Forme più o meno accentuate di segregazione in questo campo erano piuttosto comuni in molti quartieri di Torino28. Le disuguaglianze all’interno della popolazione scolastica che si generavano erano forti: il confronto al termine della scuola dell’obbligo tra il grado medio di preparazione degli alunni immigrati e quello dei coetanei locali ne era la dimostrazione. Le scelte residenziali delle famiglie immigrate - che venivano effettuate dentro a limiti definiti dalla migrazione stessa - finivano dunque per essere una delle cause dei cattivi risultati dei figli, dato che l’istituzione non avvertiva l’esigenza di intervenire a modificare le disparità. Sono molti gli indizi che attestano il riprodursi di fenomeni analoghi. Risulta dalle testimonianze di Secondgen che spesso i genitori stranieri tendono a scegliere le scuole elementari e medie sulla base del criterio della loro vicinanza a casa. In linea generale, non sembra che i genitori italiani si comportino diversamente (la scelta della scuola è in questi casi chiaramente subordinata all’esigenza che l’accompagnamento quotidiano dei figli si concili con le varie incombenze della famiglia – e per questo motivo a volte è la vicinanza al lavoro e non a casa il motivo della predilezione di una scuola rispetto a un’altra). Tuttavia non sembrano siano pochi i casi - perlomeno a giudicare dall’eco che ne hanno sui media - di genitori locali che vorrebbero evitare le scuole o, più frequentemente, le classi affollate di alunni immigrati. A volte ne ritirano i figli per questo motivo oppure, più frequentemente, premono sui dirigenti scolastici come risulta facessero in passato i genitori locali. L’eventualità che nelle aree urbane in cui famiglie di origine straniera transitano (trovando un’abitazione spesso provvisoria, poiché è probabile che in questi quartieri che non sono di edilizia pubblica il turnover sia alto) si creino isole di segregazione scolastica per i loro figli può facilmente verificarsi. Non è che uno dei tanti aspetti che mostra come le sfide poste ieri dall’immigrazione alla scuola dell’obbligo si ripetano oggi, con le implicazioni determinanti sul futuro delle seconde generazioni a cui abbiamo accennato. 27 Potevano naturalmente decidere di scegliere in alternativa scuole private. Spesso la decisione – comunque minoritaria - di mandare i propri figli in una scuola privata (in genere confessionale) è chiaramente motivata dal desiderio di dare un’educazione scolastica migliore di quella che si ritiene dispensi la scuola pubblica del quartiere. E’ una scelta che in genere va di pari passo con la volontà di sottrarre i figli alla frequentazione di compagni di scuola di cui i genitori diffidano. 28 Una documentazione molto utile a questo riguardo è quella contenuta in Giovani a bassa scolarità in due quartieri torinesi. Testimonianze e storie di vita, Quaderni di ricerca IRES, 73, febbraio 1995, Torino. 90 RAPPORTO SECONDGEN Allievi stranieri nelle circoscrizioni torinesi Roberta Ricucci L’attenzione sul tema dell’inserimento scolastico degli allievi stranieri è da lungo tempo al centro delle riflessioni di insegnanti e operatori nella città subalpina, teatro di diverse proposte e sperimentazioni (Ricucci e Ponzo 2011; Zincone 2009). La presentazione del caso torinese però non vuole essere intesa come emblematica delle diverse situazioni regionali, quanto piuttosto usata come “caso studio” per verificare se siano in corso fenomeni di concentrazione della presenza straniera (o di origine straniera) in alcuni istituti scolastici. Si tratta di un tema di grande interesse e centrale nel dibattito scientifico, nonchè utile per offrire indicazioni di policy sul tema. Il tema della concentrazione scolastica degli allievi stranieri non solo in alcune filiere, ma anche in specifici istituti scolastici, sino ad arrivare alla distinzione fra sede centrale (dedicata agli alunni nazionali) e altri plessi (in cui concentrare gli studenti stranieri) è oggetto di analisi da parte degli studiosi. Numerosi sono infatti gli studi internazionali che hanno indagato gli effetti di tale concentrazione sui risultati e sui percorsi scolastici dei figli dell’immigrazione contribuendo a spostare l’attenzione dalle sole caratteristiche degli alunni (biografie e background familiare) a quelle delle scuole, dei quartieri e degli ambienti in cui si sviluppano i percorsi di vita dei giovani stranieri. L’attenzione alla non equa dispersione degli alunni stranieri a livello di scuola primaria e secondaria di I grado è entrata nel dibattito pubblico torinese alla fine degli anni Novanta con il ‘caso’ della scuola Manzoni nel quartiere di San Salvario (Ricucci, Premazzi 2010) Da quell’episodio eclatante perché richiamava l’attenzione su un’area cittadina già al centro di polemiche per la significativa presenza di cittadini stranieri, il calo degli iscritti italiani a seguito di un ingresso significativo di allievi con cittadinanza diversa ha rappresentato un ritornello per alcuni istituti scolastici situati nelle zone dove la concentrazione di famiglie immigrate era più alta (Luciano, Demartini, Ricucci 2009). I timori che si stessero ponendo le basi per una progressiva concentrazione degli studenti stranieri in alcuni istituti sembrano però oggi fugati da un’attenta lettura dei dati degli scolastici più recenti. 91 RAPPORTO SECONDGEN Tab. 1 – Confronto fra % stranieri nelle scuole primarie nelle 10 circoscrizioni. A.s. 2011/2012 Circ. Scuole Primarie Alunni stranieri v.a. A.s. 2012/2013 % sul tot popolazione scolastica Alunni stranieri v.a. % sul tot popolazione scolastica 8 2,3 7 2,0 144 108 13,1 19,8 139 101 12,6 18,0 77 10,7 72 9,7 2 D.D. C. CASALEGNO P. GOBETTI D.D. F. MAZZARELLO G. MAZZINI D.D. L. SINIGAGLIA 75 60 100 107 77 9,3 7,2 18,5 19,3 11,1 77 51 112 134 74 9,5 6,1 19,7 22,5 11,0 3 D.D. R. OTTINO AGAZZI I.C. VIA PALMIERI (ex V. ALFIERI) D.D. BARICCO I.C. TORINO - c. Racconigi (ex D.D. CASATI) I.C. M.L. KING (Primarie) D.D. S. DI SANTAROSA C.D. E. SALGARI A. TOSCANINI 78 63 89 205 60 187 83 83 20,3 9,3 12,6 36,1 17,4 42,7 13,6 10,0 102 67 99 225 61 191 79 76 25,9 9,5 13,8 38,3 18,3 41,9 13,4 9,1 4 D.D. DUCA D'AOSTA D.D. A. GAMBARO D.D. KENNEDY (ex KENNEDY - DEWEY) MANZONI (Sede) I.C. PACINOTTI (Primarie) 214 37 80 133 215 28,6 8,5 9,8 28,2 34,6 203 41 86 129 315 25,9 9,6 10,6 27,2 49,5 5 D.D. S. ALERAMO C.D. G. ALLIEVO I.C. CASTELDELFINO (ex DON MURIALDO) D.D. COSTA (ex N. COSTA) I.C. PADRE GEMELLI (Primarie) D.D. F. PARRI I.C. U. SABA (Primarie) I.C. D.M. Turoldo (Primarie) 249 264 73 116 175 144 88 93 29,1 34,5 18,3 17,7 25,2 23,8 18,4 21,8 256 279 77 126 167 166 103 82 30,9 36,2 18,5 19,1 23,4 27,1 21,5 20,0 6 I.C. G. CENA (Primarie) D.D. A. FRANK D.D. A. GABELLI I.C. L. DA VINCI (Primarie) D.D. A.S. NOVARO D.D.S. A. SABIN (ex A. SABIN) S.P.S. I. ALPI (ex D.D. VIA CIMAROSA) 121 164 454 85 197 282 210 25,7 26,8 64,9 28,9 26,1 47,4 23,9 142 158 493 90 227 309 238 32,8 25,3 68,4 31,4 30,2 52,1 27,2 7 I.C. MARCONI - ANTONELLI (ex VERCELLESE) I.C. GOZZI - OLIVETTI (Primarie) D.D. PARINI I.C. REGIO PARCO - EX LESSONA (Primarie) I.C. VIA RICASOLI - (ex RICASOLI - MURATORI) I.C. SPINELLI - SC. INTER. EU. (succ.) 49 44 453 332 173 21 11,0 8,9 75,8 63,8 33,3 6,0 47 43 421 346 180 21 11,1 8,7 68,5 62,7 35,4 6,2 8 D.D. R. D'AZEGLIO I.C. MANZONI - RAYNERI (Primarie) D.D. S. PELLICO 28 167 173 5,1 38,5 18,9 41 169 193 7,1 36,3 21,5 9 D.D. C. COLLODI I.C. VIA SIDOLI (ex D.D. DOGLIOTTI) I.C. VIA MONTEVIDEO (ex D.D. D. ABRUZZI) D.D. RE UMBERTO I D.D. VITTORINO DA FELTRE 53 109 87 171 151 5,7 24,7 13,8 26,7 37,4 59 118 178 181 165 6,1 26,5 28,0 28,9 42,2 10 I.C. A. CAIROLI (Primarie) I.C. CASTELLO DI MIRAFIORI I.C. SALVEMINI 132 52 61 32,4 16,6 15,8 125 65 73 30,2 21,5 18,6 I.C. CONV. UMBERTO I D.D. M. COPPINO D.D. PACCHIOTTI - SCLOPIS 1 I.C. TOMMASEO (Primarie) Fonte: elaborazione su dati Servizi Educativi, Comune di Torino. 92 RAPPORTO SECONDGEN I dati presentati mostrano una presenza diffusa degli allievi con cittadinanza non italiana nelle diverse circoscrizioni, con punte significative all’interno di quei quartieri dove il dato si concentra il maggior numero di residenti stranieri: Barriera di Milano, Vanchiglia, Madonna di Campagna, San Salvario. Non si può tuttavia negare la presenza di scuole (soprattutto fra quelle primarie) con una presenza che supera il 30%, ma esse si collocano in quartieri in cui il peso demografico dei minori stranieri è alto (al contrario di un decremento di quello degli italiani). Risulta quindi fisiologica una maggiore incidenza degli allievi stranieri in alcuni istituti. Tab. 2. Stranieri: Confronto fra iscritti in anagrafe e iscritti nelle scuole primarie a.s. 2011‐2012 a.s. 2012‐2013 6‐11 anni iscritti nelle 6‐11 anni iscritti nelle CIRCOSC. (iscritti in scuole (iscritti in scuole anagrafe) primarie anagrafe) primarie 399 319 1 397 399 419 448 2 521 565 927 900 3 983 1050 674 774 4 908 1041 1.198 1.256 5 1253 1402 1.583 1.657 6 1722 1875 1.096 1.058 7 1254 1362 367 403 8 465 486 584 701 9 703 733 250 263 10 306 339 7.497 7.779 TOTALE 8512 9252 Fonte: ufficio statistica Comune di Torino; dati Servizi Educativi Comune di Torino Ovviamente, il dato anagrafico non è l’unica determinante nello spiegare la scelta della scuola, soprattutto per quanto concerne la scuola secondaria di I grado. Infatti, è a tale livello che – secondo quanto emerso da alcuni ricerche (Gilardoni 2009) – si gettano le basi per la carriera scolastica. Diventano quindi importanti variabili da considerare nella scelta la reputazione della scuola, il ‘pubblico’ di riferimento, le informazioni raccolte e a disposizione dei genitori stranieri sull’offerta educativa, sui programmi e sulla didattica. I casi infatti già accennati di “fuga degli italiani” da plessi scolastici dove la presenza di allievi stranieri è in crescita riguardano soprattutto le scuole medie. I timori di un abbassamento della qualità dell’insegnamento e un rallentamento dei programmi di insegnamento a causa delle energie da dedicare ad allievi neo-arrivati dall’estero, privi di competenze linguistiche sono stati i timori maggiori. Gli allarmi sono però rientrati e i casi in cui i numeri fanno ipotizzare fenomeni di concentrazione/ghettizzazione vanno inquadrati in uno scenario più ampio che tiene conto della distribuzione abitativa delle famiglie straniera e di una progressiva riduzione del peso percentuale dei minori italiani nelle fasce di età considerate. L’evoluzione della presenza straniera nella città, unitamente alla sua progressiva stabilizzazione, ha favorito un processo di diffusione residenziale. Sebbene vi siano delle aree cittadine in cui si coglie una caratterizzazione etnica (si pensi all’area nei dintorni di Porta Palazzo e di Barriera di Milano), le iscrizioni scolastiche non sembrano delineare significative aree di ghettizzazione scolastica. Anche quando si osserva la distribuzione degli allievi a livello di scuola secondaria di I grado, come indica il grafico seguente. 93 RAPPORTO SECONDGEN Fonte: elaborazione su dati Servizi Educativi, Comune di Torino. Il dato interessante riguarda proprio la dispersione territoriale della presenza a conferma di come i cittadini stranieri siano parte integrante del tessuto cittadino, in cui cresce la quota di minori nati in Italia, i cui riflessi si colgono sia nella composizione delle scuole: nell’a.s. 2012/2013, il 70% degli alunni con cittadinanza non italiana è nato in Italia. L’incontro fra le domande di istruzione delle famiglie e le offerte delle istituzioni scolastiche richiede una particolare attenzione a tre elementi, che rappresentano i pilastri su cui – per quanto si è colto dalle discussioni con docenti e operatori del Settore Servizi Educativi del Comune di Torino - definire i nuovi percorsi di istruzione: 1) le caratteristiche socio-demografiche e il background culturale degli allievi, unitamente alle condizioni e alle problematiche che vivono, ai consumi, agli stili di vita che si intrecciano nei modi con cui si inseriscono all’interno del contesto in cui risiedono: tale conoscenza va compresa e aggiornata per superare visioni stereotipate e, magari, proprie di fasi dell’immigrazione già superate; 2) il contesto scolastico, valutato sia nelle caratteristiche tecnico-strutturali (ad esempio aule poco attrezzate, mancanza di docenti di ruolo) sia sul suo ruolo educativo (metodologie attive e capaci di stimolare una costruttiva dialettica fra docente e discente). In particolare, risulta importante sviluppare un’attenzione nuova alle trasformazioni sociali che interessano la popolazione scolastica che diventi, nel tempo, trasversale alle diverse discipline e non sia affidata, per competenza, agli insegnanti referenti per l’accoglienza e l’inserimento degli allievi stranieri, ma coinvolga tutto il corpo docente; 3) il territorio di riferimento, in quanto contesto entro cui gli studenti si muovono e dove partecipano come destinatari e fruitori di iniziative, o nel quale sono attivamente inseriti attraverso il coinvolgimento in associazioni sportive, ricreative, culturali o religiose. Si tratta di tre elementi che presentano delle criticità su cui riflettere per migliorare sia l’offerta formativa sia i risultati degli stessi studenti coinvolti. A questi aspetti si accompagna quello delle proposte educative specificatamente rivolte agli studenti stranieri (corsi di lingua, sostegno allo studio, orientamento, ecc.), che rischiano – dato il contesto di riduzione delle risorse – di diventare sempre più scarse, condizionando sia il versante dell’offerta sia quello della domanda di istruzione. 94 RAPPORTO SECONDGEN Riferimenti bibliografici Barban N., White M.J. (2011), “Immigrants’ children’s transition to secondary school in Italy”, International Migration Review, 45: 702-726. Luciano, A., Demartini, M., Ricucci, R. (2009), L’istruzione dopo la scuola dell’obbligo. Quali percorsi per gli alunni stranieri? In Zincone G. (a cura di), Immigrazione: segnali di integrazione. Sanità, scuola e casa, Bologna, Il Mulino, pp. 113-156. Molina S. (2012), Tre scommesse educative per l’Italia di domani, in Livi Bacci M. (a cura di), Per un’Italia che riparta dai giovani: analisi e politiche, report pubblicato su www.neodemos.it, 55-78. Mussino, E. e Strozza, S. (2012), “The Delayed School Progress of the Children of Immigrants in LowerSecondary Education in Italy”, Journal of Ethnic and Migration Studies, 38, 1, pp. 41-57. Musset, P. (2012), School choice and Equity: Current Policies in OECD Countries and a Literature Review, Paris, OECD. Ponzo I., Ricucci R. (2011), Second-generations: a new actor on the scene of intercultural policies?, paper presentato alla IX Conferenza IMISCOE, Varsavia, 9-10 settembre. Ricucci, R. (2012a), Giovani stranieri, fra scuola e lavoro, in “Informaires”, anno XXIII, n. 1 “numero speciale”, maggio 2012, pp. 82-95. Ricucci, R. (2012b), Il liceo all’orizzonte? Studenti stranieri, famiglie e insegnanti a confronto, in “Mondi Migranti”, n. 2, 2012, pp. 123-148. Ricucci R., Premazzi (2010), Il caso “San Salvario”. Prospetto dei protagonisti e delle iniziative, Torino, FIERI Rapporto di ricerca Zincone G. (a cura di), Immigrazione: segnali di integrazione. Sanità, scuola e casa, Bologna, Il Mulino 95 RAPPORTO SECONDGEN Ricette per il futuro: gli studenti di seconda generazione negli istituti alberghieri Enrico Allasino L’individuazione della problematica L’idea di studiare gli allievi stranieri1 di alcuni istituti tecnico-professionali, in particolare degli istituti alberghieri, si basa sull’ipotesi che questi istituti, fortemente orientati al lavoro e con sbocchi occupazionali relativamente numerosi e variegati, consentano di analizzare le difficoltà e le situazioni specifiche, rispetto ai loro compagni italiani, che i giovani di seconda generazione possono incontrare nella formazione professionale e nella transizione scuola-lavoro. All’inizio della ricerca i dati (tab. 1) indicavano che gli istituti alberghieri non avevano una alta incidenza di stranieri sugli iscritti totali, ma in numeri assoluti essi erano oltre 600, pari al 5% di tutti gli studenti stranieri delle scuole superiori piemontesi2. Si può ipotizzare che vi siano molte somiglianze fra gli studenti di questo indirizzo e quelli degli istituti tecnici e professionali industriali. L’orientamento vocazionale dalle medie inferiori non dovrebbe differire di molto: gli istituti alberghieri potrebbero essere egualmente considerati adatti per allievi ritenuti meno capaci e comunque con sbocchi occupazionali “adatti agli stranieri”. Si può presumere che siano frequenti le possibilità di “lavoretti” durante l’anno scolastico e le vacanze, anche prima di conseguire il diploma. Tab. 1 Studenti stranieri nella scuola secondaria di II grado per indirizzo in Piemonte. A.S. 2008/2009(I.P.=Istituto professionale; I.T.= Istituto tecnico) Femmine I.P. Agricoltura e Ambiente I.P. Industria e Artigianato I.P. Serv. Comm. Turismo Pubblicità I.P. Servizi Alberghieri I.P. Servizi Sociali I.P. Atipico I.P. Sanitario e Ausiliario I.T. Agrario I.T. Industriale I.T. Commerciale I.T. Per Geometri I.T. Per il Turismo I.T. Periti Aziendali I.T. Attività Sociali I.T. Aeronautico Ex Istituto/Scuola Magistrale Liceo Scientifico Liceo Classico 1 Maschi Totale 9 186 1.436 10 1.204 397 19 1.390 1.833 Incidenza percentuale su totale degli iscritti 1,1 18,0 17,5 357 290 53 104 6 447 915 140 76 342 131 5 681 800 190 270 31 37 103 13 1.595 495 519 23 82 26 12 67 492 33 627 321 90 207 19 2.042 1.410 659 99 424 157 17 748 1.292 223 6,8 12,4 7,2 18,4 0,7 8,4 10,1 7,9 9,0 11,2 13,3 6,0 5,0 3,4 1,8 Come è avvenuto in tutta la ricerca, ho intervistato anche giovani che non sono di seconda generazione in senso proprio (cioè, nati in Italia da genitori stranieri). Mi riferirò a essi complessivamente come “seconde generazioni” o “giovani di origine immigrata”. 2 Gli stranieri iscritti nei licei, in particolare allo scientifico, sono comunque numerosi (cfr. tab. 1): comprendendo tutti gli indirizzi, oltre uno straniero su cinque li frequenta. Però essi sono una piccola quota percentuale degli iscritti totali. 96 RAPPORTO SECONDGEN Liceo Linguistico 109 14 123 Istituto d'Arte 69 33 102 Liceo Artistico 90 55 145 Altri 20 13 33 Totale 6.456 5.524 11.980 Fonte: Rilevazione Scolastica della Regione Piemonte. Elaborazioni Ires 6,2 6,1 3,6 37,9 7,3 Gli istituti alberghieri consentono di studiare un segmento della frontiera tra scuola e lavoro che offre sbocchi articolati sui servizi alberghieri e di ristorazione, ma anche sulla industria alimentare, diversi dalle più studiate occupazioni nel metalmeccanico e nel manifatturiero. Anche il ciclo congiunturale e alcune logiche nel reclutamento e nell’organizzazione della manodopera si dovrebbero distinguere da quelle di altri tipi di imprese. Pochi diplomati andranno a lavorare nei ristoranti blasonati o negli hotel di lusso, ma da tempo la ristorazione di qualità è considerata parte della cultura creativa, con la valorizzazione dell’arte di cucinare, delle produzioni locali e tradizionali, degli stili di vita ecologici, dei prodotti biologici, del made in Italy, ma anche delle cucine dette etniche. Gli allievi hanno occasione di fare stage o visite all’estero, anche in paesi lontani. Questo potrebbe rendere più ricco e stimolante l’approccio alle materie pratiche e prospettare un approccio culturalmente più ricco e stimolante al mestiere. La letteratura e le ipotesi Esiste una letteratura sociologica su questi lavori con studi risalenti anche a molti decenni or sono3, e non mancano testimonianze giornalistiche o letterarie basate sull’esperienza personale, come The Woman Who Waits di Frances Donovan (1920) e Down and Out in Paris and London di George Orwell (1933)4. Si tratta di occupazioni diversificate, con gerarchie professionali articolate e rigide5, con un forte turn over e un alternarsi di cicli stagionali (le “stagioni” al mare o nelle stazioni invernali) che richiedono mobilità territoriale. Le relazioni fra clienti, camerieri, personale di cucina, cuochi esigono continue negoziazioni e vi è una forte distinzione tra scena e retroscena. Questo potrebbe favorire l’indagine sulle reti di conoscenze, sulle strategie individuali per orientarsi, sulle aspettative e sulle prospettive e quindi aiutare a far risaltare le differenze fra italiani e stranieri, se ve ne sono. La letteratura sulle professioni della ristorazione fornisce però solo uno sfondo, per quanto ricco di suggestioni. Per analizzare la situazione di giovani ancora a scuola, o appena usciti da essa, e impegnati a diventare professionisti (o a fallire nel tentativo) sono necessarie teorie e ipotesi più legate alla situazione della formazione professionale, del vocational education and training. Questo però non in riferimento al processo generale di apprendimento o all’organizzazione dei sistemi formativi nazionali, temi sui quali esiste una vasta letteratura, ma che non sembrano pertinenti per una analisi comparativa dei percorsi di studenti di diversa origine, che è il nostro problema. Sappiamo, ad esempio dai risultati del progetto TIES: The Integration of the European Second Generation, che i diversi sistemi scolatici e formativi nazionali fanno sì che i giovani di origine straniera abbiano risultati e percorsi significativamente diversi, anche se originari dello stesso paese e nella stessa situazione socioeconomica familiare: permane comunque qualche svantaggio rispetto agli autoctoni. Ma la ricerca Secondgen si svolge in un solo paese (e in una sola regione) e il problema che dobbiamo affrontare non è tanto quello di documentare la diversità statistica dei risultati, ma di capire come questa diversità fra immigrati e autoctoni si realizzi, di gettare uno sguardo sui micromeccanismi che spiegano la diversità degli esiti. Provando ad attingere idee e ipotesi ecletticamente da varie ricerche, è parsa inizialmente promettente la proposta teorica di Lave e Wenger (1991) basata sui concetti di legitimate peripheral participation e di community of practice che mette in evidenza il processo di socializzazione al gruppo professionale e alle sue procedure in luogo del semplice apprendimento di nozioni e tecniche6. Anche una vecchia ricerca sugli studenti di medicina di Becker, Geer, Hughes e Strauss (1961), aiuta a distinguere il processo sociale per cui 3 Cfr. Fine, 1992, 1996, 2003; Liming, 2009; Ó Brien, 2010; Whyte, 1949. Sull’utilizzo dei testi letterari per analizzare le organizzazioni cfr. Kaneklin e Olivetti Manoukian, 1990, cap. 3 “L’organizzazione nelle rappresentazioni dei letterati”. 5 Come sottolinea la nomenclatura professionale: chef, sous chef, maitre, brigata, plongeurs. 6 Suggestioni in qualche modo convergenti possono derivare anche dall’approccio basato sull’ hidden curriculum (Kentli, 2009). 4 97 RAPPORTO SECONDGEN si diventa buoni studenti da quello per cui si diventa, in seguito, professionisti, nonché le diverse situazioni che portano alla scelta delle specializzazioni. A questi riferimenti si sono aggiunti alcuni studi sulle relazioni fra docenti e studenti e sulle interazioni nella scuola. L’indagine nelle scuole La realizzazione di interviste mirate è avvenuta secondo la traccia di intervista basata su quella utilizzata da tutti i ricercatori del quarto work package, ma più approfondita su alcuni temi, in particolare: il percorso scolastico precedente (compresi gli eventuali cambiamenti di scuola), le ragioni della scelta dei corsi professionali (orientamento scolastico, posizione dei genitori in merito, indicazioni da parte di amici e compagni, soddisfazione per la scelta), gli eventuali lavoretti svolti, la valutazione dei tirocini collegati al corso scolastico e le intenzioni e aspettative per il prossimo futuro. In complesso sono stati intervistati 38 studenti (singolarmente o in piccoli gruppi) e una decina di dirigenti e insegnanti di varie materie in istituti tecnico-professionali. Inoltre ho assistito ad alcune ore di lezione in aula e in laboratorio di cucina o sala. L'osservazione aveva come obiettivo da un lato di ottenere una visione diretta della realtà scolastica e dall’altro di cogliere eventuali differenze di comportamento o di trattamento degli studenti di origine straniera. Ho potuto inoltre leggere alcuni componimenti delle classi prime in cui agli alunni veniva richiesto di spiegare la scelta dell’indirizzo alberghiero. Queste attività si sono svolte nell’anno scolastico 2011/2012. Alcune considerazioni generali e sul metodo Il tentativo di analizzare come, o almeno in quali fasi della formazione professionale avvengono processi di discriminazione o di selezione che colpiscono in specifico i giovani seconda generazione ha incontrato alcuni problemi. Un primo problema, come già accennato, è che su questi argomenti esiste una letteratura vastissima, organizzata in prospettive teoriche diverse, che si confrontano da tempo senza trovare sintesi e comunque segnata dalle persistenti barriere disciplinari, in particolare tra sociologia dell’educazione e dell’immigrazione. In sintesi, da un lato abbiamo molti studi empirici che mostrano come i giovani immigrati o di seconda generazione risultino svantaggiati all’uscita dai diversi sistemi scolatici, formativi, di ricerca della prima occupazione, sia pure con molte differenze a seconda dei casi nazionali. In genere però queste ricerche non analizzano i meccanismi che generano questi svantaggi o li attribuiscono alla discriminazione diretta nei confronti della diversità etnica o culturale da parte del sistema o di alcuni attori (il che può essere vero in molti casi, ma non basta come spiegazione). Dall’altra abbiamo una vasta letteratura sui processi di selezione all’interno del sistema scolastico e formativo che analizza il processo di selezione soprattutto nelle dimensioni basate sull’origine sociale degli studenti. Vi sono poi studi etnografici sulle relazioni quotidiane tra docenti e discenti. Vi sono studi che analizzano le logiche più profonde del processo: è tutto il filone di ricerche di Bourdieu, ma non solo. Vi è un rilevante, ma forse sempre marginale, filone critico che coinvolge l’istituzione scolastica stessa (Illich, per citare un nome). Mi sembra escluso che esista una spiegazione del processo di selezione/discriminazione basata su pochi fattori ben individuati, ma piuttosto una interrelazione di molteplici fattori e meccanismi in un quadro istituzionale complesso e sovente ambiguo. D’altra parte mi pare che il confronto tra una visione funzionalista e una visione critica dell’educazione permanga e si riproduca. Come due facce della stessa medaglia, c’è una visione positiva del ruolo integratore della scuola, che cerca di trasformare i giovani in cittadini che aderiscono a determinati valori e adottano certi comportamenti, e una visione critica che sottolinea invece la violenza simbolica e la dominazione di classe insite nel processo. Mi pare che molti studi sulle seconde generazioni a scuola restino bloccati sul dilemma tra azioni didattiche specifiche che cercano di favorire l’inserimento e le pari opportunità per tutti i giovani e dall’altro la coscienza di un processo di selezione che gerarchizza e respinge inevitabilmente certe forme di diversità. La scuola e il sistema formativo sono intrinsecamente basati su processi di selezione e di esclusione e il compito di individuare e correggere tutti i fattori non basati sul “merito” individuale sono frustrati dal fatto che il merito è definito socialmente nelle lotte per l’egemonia culturale ed economica. Non sostengo che dai tempi di Lettera a una professoressa (che erano anche quelli della migrazione regionale interna) non sia cambiato nulla: la coscienza del problema è più diffusa, ma lo stesso innalzamento del livello di scolarizzazione è positivo e il fatto che oggi trattiamo fenomeni di discriminazione difficili da individuare indica che molto è cambiato. Ma la logica di fondo, e il rischio del riaffiorare di logiche espulsive, non è cambiata così in profondità. 98 RAPPORTO SECONDGEN Alla fine resta la tensione irrisolta fra una istituzione, la scuola, che deve offrire pari opportunità a tutti, garantire basi minime comuni e premiare il merito e le doti individuali e il fatto che questo processo deve comunque selezionare certi valori, atteggiamenti, comportamenti che sono culturalmente e socialmente molto marcati e parte di un sistema di potere. Ciò che si può fare, se non si vuole rovesciare il sistema o descolarizzare la società, è rendere il più trasparenti e condivise possibile queste procedure, aumentando la capacità di intervenire nel processo da parte dei ceti subalterni e delle minoranze dominate. E’ ovvio che questo limitato tentativo non pretende di affrontare e chiarire questioni così complesse. Inoltre, la scelta di studiare gli stranieri iscritti agli ultimi anni di istituti tecnico-professionali ha rivelato il limite che la eventuale discriminazione e la selezione scolastica nei loro confronti fossero già stati attuati e quelli relativi all’inserimento nel mercato del lavoro siano ancora all’inizio. La selezione in base alla conoscenza della lingua, le difficoltà di orientamento scolastico, la caduta della motivazione hanno già avuto modo di esercitare i loro effetti. Le materie pratiche possono permettere ai giovani di dimostrare le proprie capacità al di là della lingua e della origine. E’ possibile che in queste classi gli iscritti di origine straniera siano in una fase di minore discriminazione. Da questo punto di vista è probabilmente più interessante studiare i mesi a cavallo tra la fine delle medie inferiori e l’inizio delle superiori perché, come gli stessi intervistati testimoniano, è lì che avviene il grosso della selezione. Chi frequenta gli ultimi anni di scuola secondaria superiore è già sopravvissuto alla selezione: forse è stanco e demotivato, ma ormai è stato accettato dal ed ha accettato il sistema scolastico. E’ vero che a questo punto tutti hanno incontrato il mondo del lavoro attraverso tirocini e lavoretti, ma è un contatto iniziale, anche se significativo e destinato a pesare per il futuro, come noto. L’inchiesta sulla scuola dovrebbe estendersi alla situazione di lavoro, che presenta evidenti discontinuità. Qualche considerazione dal confronto tra generazioni di migranti interni e internazionali. “Solo una scuola perfetta può permettersi di rifiutare la gente nuova e le culture diverse. E la scuola perfetta non esiste.” scriveva la Scuola di Barbiana in Lettera a una professoressa. Si parlava di contadini del Mugello, a pochi chilometri da Firenze, di madrelingua toscana. Difficile immaginare qualcuno più italiano. Eppure erano considerati di diversa cultura, come per altro avveniva anche altrove: nello stesso testo si testimonia la discriminazione della classe operaia londinese che parlava cockney invece dell’inglese dei ceti superiori. Ovviamente Lorenzo Milani non era un naif, né un isolato, dietro queste sintetiche affermazioni vi era tutto il dibattito marxista e gramsciano sulle cultura subalterne in una società. Dall’altro sappiamo dal noto filone teorico bartiano (Barth, 1969)che i confini culturali sono relativi, che definiscono differenze e distanze, non contenuti. Il figlio del contadino del Mugello poteva allora essere discriminato nella scuola come, se non più, del figlio del commerciante cinese di Prato oggi. Questo dovrebbe portare a una riflessione sulla posizione delle diverse nazionalità in rapporto alla divisione del lavoro e ai rapporti di egemonia a livello globale. Il quadro economico e sociale in cui si sono inserite le due seconde generazioni esaminate in Secondgen è cambiato profondamente e questo rende difficili i confronti diretti e forse anche la comprensione reciproca tra queste generazioni. Negli anni sessanta - settanta un titolo di studio aveva ancora un forte effetto sulle possibilità di mobilità sociale, legato all’espansione del lavoro qualificato nelle imprese e soprattutto del terziario. D’altra parte la “scelta” di andare subito a lavorare permetteva di accedere a occupazioni che, sebbene precarie e mal pagate, erano ritenute i primi passi per un inserimento lavorativo lungo la via maestra7. In ogni caso il passaggio nel corso di una generazione, o nella vita di un individuo, da bracciante a operaio a impiegato era una evidente e diffusa mobilità sociale. Ma la congiuntura economica e occupazionale che aveva richiesto e permesso la grande migrazione interna non è durata a lungo e molti giovani di seconda generazione meridionali entrati nelle imprese industriali negli anni settanta hanno poi subito la crisi degli anni ottanta. In qualche modo ciò sta accadendo anche ai giovani di seconda generazione immigrati dall’estero. Le condizioni che avevano consentito ai genitori di venire in Italia e di stabilirsi sono in larga misura venute meno ed essi si trovano ad esplorare una situazione nuova e ignota, in cui l’esperienza familiare pregressa può servire a poco. Un elemento da tener presente nelle analisi, spesso confuso con la origine nazionale o culturale tout court, è proprio l’esperienza generazionale dei diversi flussi migratori. Sappiamo che i nuclei più consistenti di arrivi 7 L’enfasi sul “lavoro a vita” del passato fordista potrebbe derivare da una eccessiva generalizzazione se non da prese di posizione ideologiche (su opposti fronti): è stata una condizione che ha riguardato una parte, sia pure rilevante, dei lavoratori e solo per l’arco di alcuni decenni. 99 RAPPORTO SECONDGEN da una data area si sono in genere concentrati in pochi anni, in corrispondenza con crisi o opportunità specifiche che hanno interessato non un’intera nazione, ma alcuni ceti o gruppi. Anche l’origine geografica è quasi sempre molto più limitata dell’intero paese. I marocchini di Torino, per esempio, arrivarono in maggioranza da un’area precisa negli anni in cui si verificò una particolare congiuntura economica e approfittando di un quadro amministrativo favorevole. Poi la catena migratoria fece il seguito. L’esperienza della prima generazione si ripercuote probabilmente anche sulla seconda e continua a condizionarla in qualche misura, anche se in modo complesso. Si resta in qualche modo figli di una specifica esperienza migratoria avvenuta in un tempo e in uno spazio sociale ed economico preciso. I risultati della indagine Quando un giovane di origine immigrata si iscrive a una scuola media superiore, per scelta o per caso, informato o mal consigliato, che cosa significa la sua “integrazione” a scuola in questa prospettiva? Anche negli anni delle scuole superiori le famiglie - i parenti emigrati e quelli che vivono in patria o in altri paesi, con le loro reti di relazioni più o meno frammentate e limitate - continuano a influenzare il percorso dei giovani. In questa fase però cresce la rilevanza delle reti che il soggetto stesso riesce a costruire: con amici e conoscenti, compagni di scuola, colleghi di lavoro. L’influenza delle persone che compongono queste reti si esercita su un attore sociale calato in un sistema (scolastico) in cui esso compie scelte e trova vincoli o risorse. Il gruppo di pari che costruisce una alternativa antagonista alla scuola (Willis, 1977) o l’insegnante che aiutano a superare le difficoltà nello studio, il parente che presenta a un potenziale datore di lavoro, i compagni di squadra nello sport agiscono su attori sociali calati in una esperienza formativa che ha proprie logiche, che vanno comprese. Il processo migratorio del giovane o della sua famiglia ne condizionano in qualche misura anche il percorso scolastico: l’integrazione fra le ricerche sulle seconde generazione di immigrati e le ricerche sulla scuola può diventare più sistematica e proficua. La scuola non restituisce semplicemente diversità e difficoltà che si generano e si riproducono altrove (Dubet et al., 2010), ma è parte attiva nel mantenimento della struttura di classe e della diseguaglianza; oppure può consentire mobilità sociale e forme di promozione sociale che vanno in direzione di una maggiore equità ed eguaglianza. Seguendo la consolidata prospettiva di indagine sui processi formativi alla quale si è accennato, riteniamo che apprendere non significa interiorizzare un sistema di nozioni, di informazioni o di schemi comportamentali, ma entrare gradualmente in una relazione sociale complessa nel corso della quale avviene una integrazione in una comunità di pratica e una costruzione dell'identità. L'apprendista, il novizio, la matricola apprendono a muoversi in una rete di relazioni, a rispettare le gerarchie e le prassi, a fare propria la cultura del gruppo e a riprodurla (ma introducendo variazioni di generazione in generazione). Questo processo avviene tramite procedure interattive, negoziali, anche conflittuali fra gli attori: nel caso della scuola insegnanti e discenti, vecchi e nuovi allievi, genitori, dirigenti, personale non docente, compagni, professionisti esterni. Una delle dimensioni fondamentali di questo processo di partecipazione è l'interiorizzazione dei processi di distinzione sociale e culturale (Bourdieu e Passeron, 1964). Si apprende la distinzione fra cultura alta e bassa, l'ordinamento gerarchico dei saperi e delle competenze e la capacità di mantenere e creare distanza. E’ probabile che le tensioni nel rapporto fra membri della comunità di pratica si accentuino quando si presentano outsider: donne, ceti subalterni, stranieri, minoranze etniche e razziali8. La soluzione più frequente era (ed è ancora in molti casi) che a costoro sia semplicemente negata la possibilità di diventare legitimate peripheral participants: ad esempio le donne non sono ammesse nei seminari cattolici. Se invece l’ammissione è formalmente possibile, questi outsider possono essere sottoposti a una serie di prove, di procedure, di selezioni che, anche solo come effetto indiretto, ne riducono il numero o ne limitano l'accesso alle posizioni centrali e più prestigiose. Il problema è mostrare come ciò avvenga esattamente in istituzioni la cui ideologia ufficiale vuole che si selezioni sulla base di doti individuali e non ascritte. Ancor più problematico considerando che le dimensioni di classe sociale e di origine nazionale risultano di fatto strettamente intrecciate. Occorre precisare che la comunità di pratica a cui si accede nel caso delle scuole, anche di quelle professionali da noi studiate, non è quella delle professioni a cui lo studente dovrebbe essere formato, ma quella della scuola stessa. Come già avevano individuato Becker, Geer, Hughes e Strauss (1961), le 8 La tensione può anche sorgere dall’esigenza di far cooperare membri di classi sociali molto diverse allo svolgimento dicompiti tecnici complessi. Si veda a proposito degli ufficiali di marina (Elias, 2010) . 100 RAPPORTO SECONDGEN matricole devono imparare a essere buoni studenti, non professionisti in erba. Lo studente deve apprendere le nozioni che servono a superare gli esami, deve districarsi fra le discipline scolastiche e rispondere alle richieste dei docenti. Essi non sono ancora in grado di conoscere la professione, ma devono accettare le regole e le logiche dell'istituto di istruzione. Anticipare il giudizio su ciò che è utile per il lavoro è fuorviante e può causare insuccessi scolastici. Anche quando sono previste lezioni pratiche, tirocini e, comunque, molti studenti svolgono attività lavorative più o meno coerenti con il corso di studi, le due sfere restano concettualmente distinte. D’altra parte l’integrazione in una comunità di pratica non ha implicazioni solo positive perché essa può divenire un ghetto (ma in certi casi anche una “torre d’avorio”) in cui ci si trova rinchiusi perdendo la capacità di comprendere e avere relazioni con altre comunità, di modificare la propria identità professionale o di trasferire competenze relazionali9. I corsi professionali alberghieri Raramente la scelta di un istituto professionale risponde alla precisa conoscenza e all’interesse per il mestiere che in esso si apprende. Nel caso degli istituti alberghieri c’è l’apparente vantaggio che tutti conoscono la preparazione domestica dei cibi e possono quindi ritenere di conoscere l’attività che impareranno. In alcuni casi il fatto che il giovane si dedicasse alla preparazione domestica del cibo, soprattutto nel caso dei maschi, viene indicato come la ragione per la scelta dell’alberghiero. Le matricole scoprono rapidamente che vi è una netta differenza tra la attività domestica e quella professionale. Essi seguono il percorso già descritto da Becker e colleghi che porta gradualmente a considerare la professione da un punto di vista interno – almeno per quanto possibile a uno studente – abbandonando la visione esterna dei profani. Non solo apprendono a usare un linguaggio tecnico, ma parlano poco di argomenti che interessano i dilettanti e vedono invece aspetti positivi e negativi delle diverse attività e opportunità lavorative in termini di contenuto professionale, di prospettive di sviluppo e di carriera, di arricchimento delle competenze. D’altra parte molti figli di immigrati iscritti agli istituti alberghieri e da noi intervistati conoscono la cucina del paese di origine, ma la scelta tra le diverse cucine nazionali resta sul piano tecnico, non dà luogo a particolari considerazioni culturali o affettive nelle interviste, confermano anche in questo caso che non sembrano reggere spiegazioni culturaliste. Queste valutazioni sono segno di integrazione nella comunità di pratica. Una prova a contrario può essere che invece le studentesse cinesi che hanno superato una selezione per poter venire a completare gli studi in Italia all’alberghiero di Pinerolo, si soffermano di più sulle differenze tra la cucina dei due paesi: in qualche misura quella è la loro missione. La scuola può essere noiosa. Ma non è facile. Bisogna districarsi fra lezioni pratiche, ove si lavora manualmente, lezioni teoriche in cui si deve invece ascoltare e l'insegnante mantiene strettamente la disciplina e altre ore in cui si attende il trascorrere del tempo mentre nessuno sembra prestare attenzione alla cattedra. Questa potrebbe essere un'ulteriore difficoltà, per tutti, ma in particolare per i giovani immigrati: imparare ad affrontare e dare senso a questo alternarsi di situazioni eterogenee e contraddittorie che pure sono tutte parte integrante del loro essere studenti. Ma c'è anche chi invece capisce perfettamente la situazione e riesce a utilizzare la scuola senza credere ai suoi riti. E' il caso di Mun. Marocchino, di famiglia povera, si iscrive a un istituto alberghiero, ma dopo pochi mesi il padre perde il lavoro e il ragazzo deve guadagnarsi da vivere. Allora abbandona gli studi e inizia a lavorare nelle cucine di alcuni locali, grazie alla presentazione di un insegnante. Accetta orari gravosi e appare molto determinato: riesce per anni a mantenere se stesso e a inviare denaro ai genitori rientrati in Marocco. Frequenta alcuni corsi di formazione brevi, legati alla ristorazione: mentre per altri questi corsi appaiono come tentativi di migliorare le scarse possibilità di impiego, nel suo caso ne rinforzano il profilo professionale. Ora è cuoco in un ristorante e gode di buona reputazione, ma si è nuovamente iscritto al terzo anno di un istituto alberghiero, dopo aver recuperato anni da privatista, perché vuole irrobustire il suo curricolo “e poi per farmi più cultura, cioè ingrandirmi in questo lavoro, saperne di più.” Lavorare e studiare è molto gravoso per lui, vorrebbe fare quarta e quinta in un anno solo, ma gli sono chiari i meccanismi scolastici: “Ho fatto la richiesta ma penso di non farcela perché poi trovarmi a fare la maturità 9 Infatti Wenger ha in seguito accantonato il concetto di legitimate peripheral participation sviluppando una prospettiva più centrata sulle possibilità di sviluppare in senso creativo le comunità di pratica negli ambienti di lavoro (Wenger, 1998). 101 RAPPORTO SECONDGEN di fronte, mi sono informato, di fronte alla commissione che guarda il tuo curriculum scolastico dice: questo com'è che ha fatto cinque anni in due anni? Ti tartassano e magari non passi” (int. 127). In un certo senso egli ha già superato la comunità scolastica, ne ha compreso logiche e limiti e sa utilizzarle in modo strategico, senza farsi illusioni sulla possibilità di ignorare le regole del sistema e di far valere le proprie competenze professionali direttamente nella sfera scolastica. La scuola non si può quindi limitare a prendere atto del possesso di abilità e competenze acquisite sul lavoro o con brevi corsi di formazione, ma richiede la conoscenza e l’accettazione di proprie regole e logiche. La giustificazione ufficiale è che l’istituto alberghiero non forma dei meri esecutori, ma fornisce una formazione professionale completa (comprendete nozioni di igiene, di diritto, di lingua straniera, ecc…) non solo per specialisti ma per potenziali imprenditori del settore, in grado di creare e gestire autonomamente un’attività. Questa enfasi sull’imprenditorialità è legata al tipo di professione, che offre numerose possibilità di lavoro autonomo, ma forse anche alla rivalutazione dell’imprenditoria come possibile soluzione alla crisi (se non c’è lavoro dovete crearvelo) e alla necessità di marcare la differenza con i corsi di formazione professionale regionali. Nelle ore di lezione in classe a cui abbiamo potuto assistere si notava la costanza con la quale gli studenti si sentono valutare negativamente: il loro rendimento è scarso, il comportamento scorretto, i risultati finali dubbi, sono necessari sempre nuovi sforzi. Non mancano riferimenti ad altre classi o istituti in cui i risultati sono migliori e la presenza di stranieri è segnalata come una possibile fonte di problemi. E' quella chaîne du mépris di cui parlano Dubet e Martuccelli (1996: 250). Non si tratta di accusare gli insegnanti di insensibilità: è una questione strutturale, la scuola si propone anche negli anni terminali di istituti non particolarmente problematici dal punto di vista della disciplina come una struttura di sorveglianza, disciplinamento e punizione. Sarebbe necessaria una osservazione più lunga e sistematica per valutare se questa pressione si eserciti in modi o quantità differenti sugli alunni stranieri10 ma l'effetto di un trattamento eguale su giovani di origine immigrata che hanno già fronteggiato difficoltà di inserimento ed episodi di discriminazione può essere comunque più negativo. Anche se gli studenti sembrano indifferenti a queste valutazioni negative, è difficile pensare che esse abbiano il solo effetto di incitarli a comportarsi secondo le richieste. Piuttosto possono confermare il loro scarso valore come studenti, l’inutilità della scuola e dell’investimento in essa, l’ineluttabilità di una integrazione subalterna. Un ragazzo rumeno si è fatto fama di ribelle scomparendo semplicemente un giorno dal liceo, mentre veniva accompagnato a un corso di italiano. “Non avevo neanche capito cosa volessero” sostiene. Ora è iscritto all'alberghiero, all'ultimo anno. Non si può dire un caso di dispersione scolastica o di insuccesso, ma durante le lezioni il suo sguardo è assente, sembra considerare dall’esterno le piccole vicissitudini della classe. Pochi riescono a invertire questa logica: come Anka (int. 118) che ha un lavoro, studia a casa e viene a scuola solo per superare le interrogazioni, opponendo il suo ottimo profitto ai rimproveri per le numerose assenze e alla richiesta di recuperare le lezioni perse. Come Norman (int. 123) che supera le interrogazioni e l’esame di maturità grazie alla sua abilità dialettica pur avendo fama di alunno distratto e indisciplinato. L'altro elemento notato nelle ore di osservazione diretta, abbondantemente descritto in letteratura (Geer, 1968), è la continua negoziazione dell'ordine in classe. Vi è una costante trattativa sui comportamenti, a partire dalle ripetute richieste di uscire dall’aula, ai richiami agli alunni indisciplinati, ma anche un frequente ricorso all'umorismo e alle battute11. I figli di immigrati, ancora una volta, non si distinguono in modo evidente in questa negoziazione, o almeno non sulla base di una breve osservazione. Alcuni sembrano perfettamente in grado di apprendere e applicare le regole del gioco. Altri sembrano invece ai margini, taciturni e indifferenti. Andrebbe valutato quanto la 10 Ma alcune indagini empiriche recenti confermano, nei casi studiati, che questa differenza esiste, anche se può intrecciarsi alla dimensione di classe sociale (Rapari, 2007; Delay, 2011). 11 I motti di spirito e gli scherzi verbali hanno un ruolo significativo nell'interazione fa allievi e insegnanti e tra gli studenti. Questo comportamento può essere analizzato nei termini del joking behaviour di Radcliffe-Brown: il joking behaviour è tipico di strutture di relazione fra persone tra le quali vi è al contempo legame e separazione. In questi casi si può avere sia rispetto esagerato, sia burla. Sono modi alternativi di mantenere una particolare relazione che l’antropologo britannico definisce di consociation in cui vi è una tensione non risolvibile tra le parti, che deve essere controllata per non esplodere in conflitto (Radcliffe-Brown, 1940). E' anche una “tecnica di sopravvivenza” degli insegnanti per controllare il conflitto, che pure adombra una potenziale aggressività (Woods, 1977). 102 RAPPORTO SECONDGEN negoziazione e gli scherzi possano apparire loro estranei, forse pericolosi (la battuta xenofoba è sempre in agguato), forse infantili. Impara l'arte e mettila da parte, perché non serve? Gli istituti da noi studiati prevedono nei loro programmi sia lezioni pratiche, sia stage presso imprese. L'esperienza del lavoro – quello a cui dovrebbe prioritariamente destinare il corso – è quindi parte integrante del curricolo scolastico. Qui avviene, ma non per tutti e non nello steso modo, il primo contatto con una nuova comunità di pratiche, con i professionisti. Gli insegnanti sono reclutati sulla base di esperienze significative di lavoro e non di rado continuano a praticare la professione. Le lezioni di cucina e sala non sono simulazioni: già al primo anno gli alunni preparano e servono i pasti che vengo consumati nelle mense dell'istituto. Non è sempre ovvio, per l'osservatore esterno, quali siano le dinamiche: vi sono relativamente poche indicazioni verbali (anche perché le istruzioni – ricette, divisione dei compiti - sono fornite in una precedente lezione in aula), lunghi minuti di apparente inattività, in cui gli studenti parlano fra loro o osservano altri che manipolano cibi e attrezzature, si alternano a momenti di lavoro frenetico in cui ognuno svolge un compito preciso. Si nota che alcuni studenti si muovono con maggiore abilità e precisione. Gli insegnanti, che circolano fra i gruppi di lavoro e partecipano alla preparazione, non esercitano un controllo visivo “panoptico” su tutto il gruppo, come nelle lezioni frontali in classe. Confermano però di saper valutare rapidamente gli studenti. Questa valutazione – in cui contano certamente la precisione, l’attenzione, l’abilità manuale – probabilmente utilizza anche criteri più legati alla sfera professionale: l’affidabilità, la capacità di cooperazione, la responsabilità per il compito assegnato. Sembra avvenire una doppia selezione. Anche nelle discipline pratiche alcuni studenti sono respinti, ma, inoltre, i docenti di materie tecniche individuano fra gli allievi quelli che sembrano possedere competenze e interesse per diventare professionisti, e li segnalano ai locali che offrono migliore qualità del lavoro e prospettive di carriera, giocando così un ruolo rilevante, forse fondamentale, nell’integrazione lavorativa. Queste lezioni sembrano molto basate su quelle competenze e capacità “artigianali” di cui parla Sennett (2008): pare difficile che i giovani di seconda generazione siano direttamente ed evidentemente discriminati o svantaggiati. Solo una lunga e attenta osservazione, che richiederebbe specifiche competenze tecniche, potrebbe rilevare eventuali differenze di trattamento da parte dei docenti. E’ possibile che l’attività pratica si presti meno a discriminazioni e valutazioni non oggettive. O meglio, la violenza simbolica (Bourdieu, Passeron, 1970) si esercita più sulla padronanza di simboli, linguaggi, valutazioni estetiche e meno sulle competenze e sulla padronanza di tecniche corporali. E’ possibile però che il pregiudizio si insinui in forme sottili: l’aspetto fisico potrebbe precludere alcune posizioni lavorative o caratteristiche individuali potrebbero essere interpretate come elementi culturali che limitano l’affidabilità e l’efficienza come lavoratore12. Una studentessa ganese (int. 37) lamenta esasperata che il lavoro le viene rifiutato per mancanza di esperienza: “Io quest'anno ho chiamato più di 30 alberghi per fare solo uno stage e nessuno mi prende: hai un'esperienza? hai un'esperienza? sempre mi chiedono! Eh, ho fatto tre settimane in un albergo. No, noi vogliamo esperienza! Ma se non mi fate iniziare voi, cioè se non imparo qualcosa praticamente o fisicamente da voi, piano piano, l'esperienza dove la trovo? Se non volete nessuno che non ha esperienza chi non ha esperienza non lavora? Cioè sta a casa... non lo so.” Questo circolo vizioso è certamente tipico di chi cerca prima occupazione (Becker et al. 1961: 271), ma può nascere il sospetto che sia anche una scusa neutrale (chiunque potrà avere esperienza in futuro) per rifiutare un candidato per ragioni razziali. Con i tirocini in azienda gli studenti entrano formalmente in contatto con il mondo del lavoro. Nel caso degli istituti industriali o per odontotecnici, il giudizio espresso dagli studenti è che si tratti di una esperienza poco utile. I materiali e i macchinari sono costosi e delicati e le imprese non vogliono rischiare errori o guasti affidandoli a giovani apprendisti. Gli stagisti lamentano di essere utilizzati per fare pulizie o per altre attività marginali. L'eccezione in questo caso è uno studente di origine cilena che invece è riuscito a farsi presentare 12 Una ricerca sulla discriminazione nel mercato del lavoro in Italia ha in effetti evidenziato una diffusa resistenza ad assumere camerieri marocchini, anche se qualificati. Dato che gli stranieri in queste attività sono comunque numerosi, la resistenza potrebbe essere attribuita, in ipotesi, a una percezione pregiudiziale di inadeguatezza dei magrebini a queste professioni a contatto con il pubblico, eventualmente attribuita ai clienti piuttosto che ai datori di lavoro. Cfr Allasino et al, 2006. 103 RAPPORTO SECONDGEN a un laboratorio odontotecnico e da alcuni anni fa pratica regolarmente. Egli conferma però l’idea, condivisa dai compagni, che vi sia una distanza notevole fra le tecnologie insegnate dalla scuola, che considera limitate e antiquate, e il ben più complesso e aggiornato lavoro richiesto nei laboratori (int. 91). L'istituto alberghiero, a detta anche dei dirigenti, soffre meno di questo gap tecnologico. Interrogati sulle loro impressioni, praticamente tutti gli stagisti di questi istituti dicono che la maggiore differenza sono i ritmi e i carichi di lavoro. A scuola si ha molto tempo a disposizione per preparazioni programmate, il personale è sovrabbondante e c'è modo di rimediare agli errori. Sul posto di lavoro si deve reggere un ritmo molto intenso e per un lungo tempo. Ancora una volta invece i contenuti tecnici del lavoro sembrano meno problematici: anche se lo stile di servizio o il tipo di cucina variano molto fra un hotel di lusso e una pizzeria di quartiere, ci sia adatta rapidamente alle richieste (ma forse i meno abili non sono inviati ai locali più esigenti). E’ più una questione di relazioni con i colleghi e i proprietari che di tecniche apprese da mettere in pratica. I buoni rapporti dichiarati con i datori di lavoro possono, in certi casi, celare una divisione di ruoli che non esclude tensioni e ostilità (Perrotta, 2011): il “buon padrone” è semplicemente colui che non si comporta peggio di quanto ci si aspetti. In genere però i giovani intervistati sembrano apprezzare la possibilità di lavorare con colleghi o con chef relativamente giovani che hanno con loro un rapporto collaborativo, li incoraggiano e non esercitano su di loro un controllo scolastico. Gli orari di lavoro risultano presto un punto cruciale, confermato anche dai docenti dell'istituto e dalla letteratura sociologica sulle attività di ristorazione (White, 1949; Fine, 1996; 2003). Le ore di lavoro contrattuali sono sovente superate – dovendo restare nel locale dopo l’uscita degli ultimi clienti, per riordinare e pulire, anche sino a notte fonda. Il tempo di lavoro poi coincide con quello in cui normalmente si frequentano amici e si ha una vita familiare: le ore dei pasti e le festività. Questo fa sì che i professionisti finiscano per avere una scarsa vita di relazioni, se non con colleghi di lavoro e che il lavoro possa interferire con la vita familiare. Alcune attività poi sono ritenute sostenibili solo dai giovani: è difficile trovare lavoro come cameriera o reggere certi ritmi nei locali notturni dopo una certa età. D'altra parte è necessario crearsi progressivamente una buona reputazione prima con gli insegnanti di materie pratiche, poi con i datori di lavoro, i maître o gli chef per poter trovare nuove occupazioni (o migliorarle): i legami, anche deboli, con amici e colleghi di lavoro possono a loro volta servire per trovare e impieghi più o meno occasionali anche al di fuori del circuito strettamente professionale. Nella costruzione di questa rete di relazioni possono pesare molti fattori: dalla abilità professionale alla capacità relazionale, alla disponibilità ad accettare occasioni senza preavviso e in condizioni non ottimali, ma contano anche situazioni di fatto e propensioni personali. Ana, (int. 115), diplomata con buoni voti all'alberghiero e con esperienza di sala e bar, non può accettare lavori nei locali che chiudono a notte fonda perché non può usare l'auto del padre13 e non osa rientrare a casa da sola. Questo le preclude una serie di possibili impieghi. Norman (int. 123) invece si è diplomato in un istituto professionale per grafici, ma lavora da tempo nelle birrerie, ove è apprezzato il fatto che è di madre lingua inglese: il lavoro di notte in questi locali affollati si concilia con le sue reti di amicizie personali e con il desiderio di fare nuove conoscenze, ed è uno stile di vita che gli è congeniale, anche se non esente da rischi. Molti studenti hanno esperienze di lavoro anche al di fuori degli stage. Alcuni sono figli di ristoratori. Fra gli immigrati sono pochi e la scelta è meno ovvia del previsto. Manuele è figlio del gestore di un ristorante cinese, ma quando gli chiedo se pensa di continuare l'attività di famiglia, dice che hanno ceduto il ristorante da qualche anno e ora gestiscono un negozio di abbigliamento. Anche il fratello, studente universitario, lavora in un negozio (int. 15). Quello che conta è la redditività, non una inesistente tradizione familiare. Altri svolgono attività occasionali. In alcuni casi esse hanno poco o nulla a che fare con il corso di studi (assistente domiciliare, pulizie domestiche, baby sitter; all'istituto industriale alcuni hanno lavorato in fabbrica, ma con mansioni non attinenti al corso di studi). Molti lavorano come camerieri o aiuto cuoco. In questo caso il problema per gli studenti degli istituti alberghieri può derivare dal trovarsi a lavorare con altre persone che non hanno alcuna formazione o hanno seguito solo brevi corsi. Gli studenti intervistati da un lato accolgono la visione ufficiale della scuola: che essi acquisiscono competenze li preparano ad assumere maggiori responsabilità in futuro. Dall'altro essi non polemizzano con i colleghi non professionisti. L'atteggiamento verso il lavoro occasionale sembra molto pragmatico: serve a guadagnare, può servire a conoscere e farsi conoscere, ma non è il luogo per rivendicare maggior prestigio rispetto ai colleghi non qualificati. Quando si entra invece in una comunità di lavoro professionale, la relazione fra compenso, compiti e posizione nella 13 La vecchia automobile del padre ha una cilindrata superiore a quella che la giovane neopatentata può guidare: una norma pensata per impedire l’utilizzo di potenti automobili da parte di giovani benestanti ha l’effetto di limitare le possibilità di occupazione per altri giovani con redditi familiari modesti. 104 RAPPORTO SECONDGEN gerarchia interna contano molto e riaffiora il tema della competenza. Gabriel, studente rumeno, lavora da tempo nelle discoteche, dopo aver fatto un breve corso di formazione professionale come American Bartender. E’ un ambiente difficile e faticoso in cui però sembra trovarsi a suo agio o, almeno, in cui accetta la sfida di relazioni talora tese e potenzialmente conflittuali con gli avventori. “All’* ho lavorato in nero. All’** sono andato tre volte e poi mi hanno fatto il contratto. Perché mi vedevano: ero da solo al bar, avevo mille persone, e riuscivo in due ore a fare tutto! E poi tutti i miei compagni di lavoro lavorano senza corsi, senza niente; solo io faccio come si deve, loro fanno a occhio, come gli pare... come hanno imparato a casa...! [ride] [Quindi serve a fare il corso?] Eh già! Vieni in discoteca. Ti faccio io un cocktail, ti fa un mio amico un cocktail e poi vediamo! [E come mai quelli dell'** allora hanno preso tutti gli altri senza il corso?] Perché li pagano di meno![Quindi è strano che abbiano preso te! Ti dovevano pagare di più...] Ma loro non sapevano che io avevo il corso. […] Non gliel'ho detto io! [apposta] Così...! Volevo che mi vedessero come lavoravo. Se tu vai lì e non sai fare, a cosa ti serve il corso?! [a niente] Gli altri lavorano senza diploma. No, non c'entra niente! Ti devono vedere che sei bravo e riesci a sparigliare la clientela.” (Int. 167) L’apparente contraddizione tra l’aver seguito un corso scolastico pluriennale per poi trovarsi in diretta concorrenza con altri giovani senza alcuna preparazione specifica potrebbe essere dovuta alla numerosità e varietà di lavori disponibili. E’ relativamente facile trovare un’occupazione adatta anche per i più inesperti, ma poi la precarietà delle situazioni, il rapido turn over, le difficoltà di orario, nelle relazioni personali, le fatica fisica o semplicemente la visione di questo come un lavoro puramente occasionale si occupano di selezionare rapidamente chi è in grado e interessato a tentare un’attività professionale o a mettersi in proprio. Non necessariamente riuscendoci. L’approssimarsi dell’esame di maturità ripropone il problema della scelta. Molti escludono di proseguire all'università. Una delle ragioni più spesso addotte è l'età. Dopo anni persi per bocciature o inserimenti in classi di età inferiori, a oltre venti anni si desidera uscire da un ormai lungo percorso scolastico. Molti intervistati parlano dell’università come prosecuzione del precedente percorso scolastico, con i suoi limiti e le sue incertezze, più che come accesso a una formazione superiore e a un futuro lavorativo migliore. Anche la presenza di corsi universitari a numero chiuso scoraggia. In molte interviste raccolte nel progetto emerge l’impressione che i test di accesso alle facoltà a numero chiuso siano un ostacolo particolarmente arduo per giovani di famiglie con mezzi modesti e senza solide relazioni. La preparazione al test sembra un investimento di tempo e di energie emotive notevole, a fronte di esiti che sospettano viziati da favoritismi e comunque notevolmente aleatori: dipende dalle sedi e dai corsi scelti, dall’anno, dalle domande. Qualche studente dell’alberghiero pensa comunque di iscriversi a scienze dell'alimentazione o a economia. La presenza di sbarramenti iniziali ai corsi universitari a numero chiuso sembra avere l'effetto (si spera non voluto) di scoraggiare in partenza questi studenti, non meno preparati dei loro compagni italiani, ma su cui hanno già gravato difficoltà varie – ritardi, ostilità, famiglie con redditi bassi – facendo loro rinunciare a tentare. Con un sistema più aperto forse alcuni avrebbero comunque abbandonato nei primi anni, ma avrebbero avuto almeno la possibilità di mettersi alla prova. Becker e colleghi (1961: 416-417) mettono in luce un altro meccanismo che diversifica la scelta (della specializzazione medica, nel loro caso): le scelte precoci possono essere fatte solo per specializzazioni più note ai profani e in genere gli studenti di ceto medio inferiore si orientano verso la professione di medico di famiglia, che conoscono e che gode di prestigio nelle piccole comunità. Gli studenti di ceto medio superiore non vogliono fare i medici generici e possono permettersi di cercare con calma ciò che li interessa ed esplorare più corsi. Dimostrando interesse per specialità meno note innescano un circolo virtuoso con i docenti, che li coinvolgono e forniscono più informazioni sulle opportunità. Questi meccanismi potrebbero operare anche nei contesti qui esaminati. Per quasi tutti comunque la fine della scuola non è attesa come il passaggio netto al lavoro, ma in qualche modo come la continuazione di attività incerte, precarie e frammentate che si erano già sperimentate negli anni precedenti. Lo status giuridico non sembra la prima preoccupazione dei giovani di origine straniera, come si poteva immaginare: molti hanno la carta di soggiorno, se non la cittadinanza italiana, e gli altri ritengono comunque di poter far fronte al rischio del rinnovo del permesso di soggiorno, se troveranno una qualunque occupazione. Più preoccupante sembra il fatto che la aspirazione a lavori “non da immigrato”, alla mobilità sociale ascendente rispetto ai genitori, sovente indicata come una caratteristica di questi giovani, si scontri con un mercato del lavoro che continua a offrire occupazioni poco qualificate e precarie per tutti e costringe, realisticamente, ad accettare queste opportunità. Se per i figli degli immigrati meridionali a Torino negli anni sessanta e settanta ottenere un diploma significava quasi sempre poter abbandonare il lavoro manuale (sovente per le donne come casalinga) dei genitori, per questi giovani immigrati la situazione è più 105 RAPPORTO SECONDGEN complessa: i cattivi lavori, il precariato, le attività senza prospettive di sviluppo si possono annidare ovunque. Non è possibile per essi tracciare un solco netto con l’esperienza dei genitori. Vi sono possibili e significative eccezioni: in particolare alcuni hanno parenti nei paesi di origine o in altri paesi di emigrazione che si sono offerti di aiutarli a trovare lavoro o almeno di assisterli in una nuova migrazione. Emergono nuove destinazioni, come Dubai, o percorsi di possibile emigrazione che prescindono dalle origini nazionali. E' difficile dire se queste reti transnazionali siano davvero in grado di offrire alternative o se restino una speranza, un sogno nel cassetto: nella crisi attuale questa potrebbe già essere per essi una risorsa. Diventerebbero invece un problema, almeno per l’Italia, se alimentassero l’idea che conviene scommettere solo su un altrove, che qui non c’è futuro. 106 RAPPORTO SECONDGEN Riferimenti bibliografici ALLASINO, E., REYNERI, E., VENTURINI, A., ZINCONE, G., (2004), Labour market discrimination against migrant workers in Italy - La discriminazione degli immigrati nel mercato del lavoro italiano, International migration papers 67, Geneva, ILO. BARTH, F. (ed), (1969), Ethnic groups and boundaries: The social organization of culture difference, Oslo, Universitetsforlaget. BECKER, H. S., GEER, B., HUGHES, E. C., STRAUSS, A. L., (1961), Boys in White. Student Culture in Medical School, Chicago, University of Chicago Press. BOURDIEU, P., PASSERON, J.C., (1970), La reproduction. Eléments pour une théorie du système d’enseignement, Paris, Les éditions de Minuit. - (1964), Les héritiers. Les étudiants et la culture, Paris, Les Editions de Minuit DELAY, C., (2011), Les classes populaires à l’école. La rencontre ambivalente entre deux cultures à légitimité inégale, Rennes, Presses Universitaires de Rennes. DONOVAN, F., (1920), The Woman Who Waits, Boston, R. Badger, TheGorham Press. DUBET F., DURU-BELLAT, M., VERETOUT, A., (2010), Les Sociétés et leur école. Emprise du diplôme et cohésion sociale, Paris, Seuil. DUBET, F., MARTUCCELLI D., (1996), À l'école: sociologie de l'expérience scolaire, Paris, Seuil. ELIAS, N., 2010 (1950), Marinaio e gentiluomo. La genesi della professione navale, Bologna, il Mulino ("Studies in the genesis of the naval profession", British Journal of Sociology, I, n.4, pagg. 291-309). FINE, G.. A., (2003), “Occupational Aesthetics: How Trade School Students Learn to Cook” in Douglas A. H., Doug H., Helene M. L. (eds) The cultural study of work, Oxford, Rowman & Littlefield. - (1996), Kitchens: The Culture of Restaurant Work, Berkeley, University of California Press. GEER, B., (1968), “Teaching” in International encyclopedia of the social sciences, New York, Free Press, vol. xv, pagg. 560-565. KANEKLIN, C., OLIVETTI MANOUKIAN, F., (1990), Conoscere l'organizzazione. Formazione e ricerca psicosociologica, Roma, La nuova Italia scientifica. KENTLI, F. D., (2009), “Comparison of Hidden Curriculum Theories”, European Journal of Educational Studies, I, n.2, pagg. 83-88. LAVE, J., WENGER, E., (1991), Situated learning. Legitimate peripheral participation, Cambridge University Press. PERROTTA, D., (2011), Vite in cantiere: migrazione e lavoro dei rumeni in Italia, Bologna, Il Mulino. RADCLIFFE-BROWN, A. R., (1940), “On Joking Relationships”, Africa: Journal of the International African Institute, Vol. 13, No. 3., July, pagg. 195-210. RAPARI, S., (2007), “L'osservazione delle relazioni multiculturali nei contesti scolastici” in Maggioni Guido e Vincenti Alessandra, Nella scuola multiculturale ricerca sociologica in ambito educativo, Roma, Donzelli, pagg. 169-215. SCUOLA DI BARBIANA, (1967), Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria editrice fiorentina. SENNETT, R., (2008), The craftsman, Yale, Yale University Press. Tr. it. L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli, 2008. WENGER, E.,(1998), Communities of practice. Learning, communities, and identity, Cambridge, Cambridge University Press. WHYTE, W. F., (1949), “The Social Structure of the Restaurant”, The American Journal of Sociology, LIV, n. 4, January, pagg. 302-302. WILLIS, P., (1977), Learning to labour. How working class kids get working class jobs, Aldershot, Gower (1981). WOODS, P., (1977), “Teaching for survival” in Woods Peter e Hammersley Martyn (eds) School Experience. Explorations in the Sociology of Education, London, Croom Helm, pagg. 271-293. 107 RAPPORTO SECONDGEN Effetti d’origine nel sistema di istruzione piemontese Luisa Donato In Piemonte, lungo il percorso del sistema d’istruzione, come si associano l’origine degli studenti e i risultati ai test di valutazione degli apprendimenti del servizio nazionale di valutazione (INVALSI)? Per trovare risposta a quest’interrogativo abbiamo analizzato i risultati del ciclo d’indagine SNV 2011-2012, il primo in cui i risultati delle prove sono riportati su una scala di punteggio analoga a quella utilizzata nelle ricerche internazionali (OCSE-PISA, IEA-TIMSS, IEA-PIRLS) e non più in termini di percentuali di risposte corrette, come nei cicli precedenti. I livelli interessati sono la V primaria del primo ciclo, la I secondaria di primo ciclo e la II secondaria di secondo ciclo, nel suo complesso e per indirizzi di studio (Licei, Istituti Tecnici e Istituti Professionali). Grazie alla struttura gerarchica dei dati è stato possibile lavorare con modelli di analisi multilivello che permettono di assegnare la variabilità dei risultati alle differenze tra gli individui o tra le classi che essi frequentano e che permettono di associare le variabili ai differenti livelli con i risultati ai test1, mostrando, al netto dei fattori considerati nelle analisi, le associazioni tra variabili e risultati. Le variabili prese in considerazione nelle analisi sono: • A livello individuale: il genere, l’origine dello studente, lo status socioeconomico della famiglia d’origine, le risorse materiali, educative e culturali2 a disposizione dello studente in famiglia, l’aver frequentato l’asilo nido e la scuola dell’infanzia, essere in ritardo nel percorso di studi, vivere con entrambi i genitori, il numero di fratelli e sorelle, la lingua parla in casa differente dall’italiano e, solo per la classe II secondaria di secondo grado, l’aspettativa di titolo di studio. • A livello classe: lo status socioeconomico medio e la percentuale di studenti stranieri (di prima e seconda generazione) per classe. Per il secondo ciclo è stato inoltre inserito l’indirizzo di studio. V primaria La prima informazione che emerge dai nostri modelli di analisi è la distribuzione della variabilità dei risultati. In V primaria il 92% delle differenze nei risultati di italiano dipendono dalle differenze tra individui mentre l’8% dipende dalla differenze tra classi. Ciò significa che nella V primaria del primo ciclo il sistema d’istruzione non appare un fattore differenziale per quel che riguarda la variabilità dei risultati. L’intercetta dei modelli si riferisce ad uno studente maschio di origine italiana. Osservando l’associazione tra le variabili e i risultati emerge che, al netto di tutti fattori inseriti nei modelli, le variabili a livello classe, ossia lo status socioeconomico medio e la percentuale di studenti stranieri per classe, non mostrano coefficienti significativi. Al livello individuale appaiono significativi e con segno positivo: il genere (essere una studentessa mostra un coefficiente di +7 punti), lo status della famiglia d’origine (all’aumentare di una unità dell’indice ESCS si osserva un coefficiente di +8 punti), le risorse culturali (all’aumentare del numero di libri in casa, inteso come numerosità di scaffali occupati da libri, si osserva un coefficiente di +6 punti), aver frequentato la scuola dell’infanzia (essere andati alla scuola materna mostra un coefficiente di +5 punti) e vivere con entrambi i genitori (con un coefficiente di +8 punti). Risultano significativi e di segno negativo: il numero di fratelli e sorelle (all’aumentare si osserva un coefficiente di -4 punti) e parlare un’altra lingua in casa (con un coefficiente di -8 punti). Non risultano significative le associazioni tra risultati e origine straniera dello studente, risorse materiali, risorse educative e l’essere in ritardo con il percorso scolastico. Il modello completo, in cui sono prese in considerazione tutte le variabili, spiega un 16% della variabilità dei risultati dovuta alle differenze tra gli studenti e un 45% di quella attribuita alle differenze tra le classi. 1 Le analisi sono state svolte sul campione completo e pesato della regione Piemonte. I valori mancanti sono stati imputati tramite sintassi di preparazione per l’elaborazione dei modelli multilivello. La variabile dipendente sono i risultati in italiano al test SNV 2011-2012. La scelta dell’italiano, come ambito su cui osservare le associazioni tra origine e risultati, è dovuto al fatto che la comprensione dell’italiano si ritiene alla base anche della capacità di affrontare in maniera consapevole i problemi matematici. 2 Le risorse materiali sono calcolate a partire dalla disponibilità in casa di un collegamento ad internet e una camera tutta per lo studente; le risorse educative sintetizzano informazioni sulla disponibilità di un posto tranquillo in cui studiare, di un computer, di una scrivania per fare i compiti e di una enciclopedia; per risorse culturali s’intende la numerosità di libri presenti nella casa dello studente. 108 RAPPORTO SECONDGEN Fig. 1 MODELLI MULTILEVEL V PRIMARIA PIEMONTE 2011-2012 prova italiano: studente nativo V primaria 2011-2012 Piemonte parla in casa un’altra lingua numero di fratelli vive con i genitori posticipatario materna nido risorse culturali risorse educative risorse materiali status socioeconomico della famiglia di origine Prima generazione Seconda generazione genere femminile Percentuale di studenti stranieri per classe status socioeconomico medio -10 -8 -6 -4 -2 0 2 4 6 Fonte: SNV-INVALSI 2011-2012 elaborazioni nostre. Nota: tratteggiati gli istogrammi che mostrano associazioni non significative. 8 10 I secondaria A conferma della prima informazione emersa dai risultati dei modelli sulla V primaria, anche nella I secondaria di primo grado la variabilità dei risultati è per il 92% dovuta alle differenze tra studenti e per l’8% alle differenze tra classi. Lo studente di riferimento è un maschio di origini italiane. A livello classe se lo status socioeconomico medio non mostra un’associazione con i risultati, come in V primaria, un aumento percentuale della numerosità di studenti stranieri in classe risultata associata in maniera significativa e negativa con i risultati ma con un coefficiente molto basso (-0,2 punti). A livello individuale si conferma l’associazione positiva tra il genere femminile e risultati in italiano (+5 punti) così come quella con lo status socioeconomico della famiglia di origine (+7 punti), quello con la maggior disponibilità di risorse culturali in casa (+6 punti) e del vivere con entrambi i genitori (+4 punti). Risultano significative e di segno negativo le associazioni tra i risultati e essere di prima generazione (-14 punti), di seconda generazione (-10 punti), aver un ritardo scolastico (-22 punti) e il numero di fratelli (-4 punti). Non mostrano associazioni significative con gli studenti l’aver frequentato il nido e la materna, le risorse materiali e educative e una lingua parlata in casa differente dall’italiano. Dalle nostre elaborazioni abbiamo osservato che se il ritardo scolastico non viene inserito nei modelli aumentano gli effetti negativi dovuti all’origine straniera dello studente, mentre assumono valori significativi e positivi l’aver frequentato la scuola materna e la disponibilità di risorse materiali in casa. Il modello completo arriva a spiegare un 21% delle differenze di risultato tra gli studenti e un 65% delle differenze di risultato dovute alla differenze tra classi. 109 RAPPORTO SECONDGEN Fig. 2 MODELLI MULTILEVEL I SECONDARIA PIEMONTE 2011-2012 prova italiano: studente nativo I secondaria 2011-2012 Piemonte parla in casa un’altra lingua numero di fratelli vive con i genitori posticipatario materna nido risorse culturali risorse educative risorse materiali status socioeconomico della famiglia di origine Prima generazione Seconda generazione genere femminile Percentuale di studenti stranieri per classe status socioeconomico medio -25 -20 -15 -10 -5 0 5 Fonte: SNV-INVALSI 2011-2012 elaborazioni nostre. Nota: tratteggiati gli istogrammi che mostrano associazioni non significative. 10 II secondaria Nel secondo ciclo d’istruzione, e precisamente per gli studenti della II secondaria di secondo grado, la variabilità dei risultati risulta per un 55% dovuta alle differenze tra gli studenti e per un 45% alle differenze tra le classi. Quindi, rispetto al primo ciclo del sistema d’istruzione, il secondo, suddiviso in tre indirizzi di studio, mostra un effetto differenziale per quasi la metà della variabilità dei risultati. L’intercetta dei modelli si riferisce ad uno studente maschio, di origine italiana che frequenta un Istituto Tecnico. A livello classe lo status socioeconomico medio mostra un coefficiente positivo e significativo (+14 punti) così come frequentare un Liceo (+6 punti) piuttosto che un Tecnico. Se si frequenta un Istituto professionale il coefficiente diventa significativo e negativo (-16 punti). Non appare significativa, invece, l’associazione tra un aumento percentuale di studenti con origine straniera nella classe e i risultati in italiano. A livello individuale mostrano associazioni positive e significative con i risultati ai test le risorse educative e culturali delle famiglie, l’aver frequentato la scuola dell’infanzia e l’aspettativa di titolo di studio. Di segno negativo e significativo risultano le associazioni tra risultati e origine straniera dello studente (-14 punti per la prima generazione e -15 per la seconda), l’aver frequentato il nido (-4 punti, anche se tale associazione può essere fuorviante perché tra gli studenti che ora frequentano la secondaria di II grado l’effetto è significativo solo per gli studenti dei professionali e dei tecnici, mostrando quindi più un effetto socioeconomico che uno legato alla partecipazione al sistema pre-scolastico), essere posticipatari (-6 punti) e il numero di fratelli (-1 punti). Il modello completo spiega un 10% delle differenze di risultato dovute alle differenze tra gli studenti e un 77% delle differenze dovute alle differenze tra classi. 110 RAPPORTO SECONDGEN Fig. 3 MODELLI MULTILEVEL II SECONDARIA PIEMONTE 2011-2012 prova italiano: studente nativo al tecnico II secondaria 2011-2012 Piemonte aspettativa titolo di studio parla in casa un’altra lingua numero di fratelli vive con i genitori posticipatario materna nido risorse culturali risorse educative risorse materiali status socioeconomico della famiglia di origine Prima generazione Seconda generazione genere femminile Percentuale di studenti stranieri per classe professionale liceo status socioeconomico medio -20 -15 -10 -5 0 5 10 15 20 Fonte: SNV-INVALSI 2011-2012 elaborazioni nostre. Nota: tratteggiati gli istogrammi che mostrano associazioni non significative. II secondaria per indirizzo di studi Le analisi per gli studenti della II secondaria di II grado sono state effettuate anche per specifico indirizzo di studi che, nella base dati SNV, coincidono con le generiche etichette di Liceo, Istituto Tecnico e Istituto Professionale. Prendendo in considerazione lo specifico indirizzo si osserva come la variabilità dei risultati tra Licei, Istituti Tecnici e Professionali sia in buona parte dovuta alle differenze tra gli studenti (nei Licei il 76%, negli Istituti Tecnici e Professionali l’80%). Quindi fa più differenza quale Liceo si frequenta rispetto a quale Istituto Tecnico o Professionale. 111 RAPPORTO SECONDGEN Fig. 4 MODELLI MULTILEVEL II SECONDARIA PIEMONTE 2011-2012 prova italiano: studente nativo per indirizzo di studi. Liceo, Istuto Tecnico e Istituto Professionale 2011-2012 Piemonte aspettativa titolo di studio parla in casa un’altra lingua numero di fratelli vive con i genitori posticipatario materna nido risorse culturali risorse educative risorse materiali status della famiglia di origine Prima generazione Seconda generazione genere femminile percentuale di studenti stranieri per classe status socioeconomico medio -25 -20 -15 Liceo -10 -5 Tecnico 0 5 10 15 20 Professionale Fonte: SNV-INVALSI 2011-2012 elaborazioni nostre. Nota: tratteggiati gli istogrammi che mostrano associazioni non significative. Per ogni indirizzo l’intercetta dei modelli si riferisce ad uno studente maschio di origine italiana. A livello classe si osserva un coefficiente positivo e significativo solo per lo status socioeconomico medio nei Licei (motivo per cui osserviamo una differenza nello studiare in un Liceo piuttosto che in un altro), mentre la percentuale di studenti con origine straniera non mostra associazioni significative in nessuno degli indirizzi. A livello individuale la variabili che mostrano un’associazione positiva e significativa con i risultati ai test di italiano sono: il genere femminile negli Istituti Professionali (+4 punti), la disponibilità di risorse educative in famiglia sempre per gli studenti dei professionali (+7 punti), la disponibilità di risorse culturali in famiglia per gli studenti dei Licei e degli istituti Tecnici (rispettivamente +2 punti e più +4 punti) e le aspettative d titolo di studio in tutti e tre gli indirizzi (+4 punti nei Licei, +3 punti negli Istituti Tecnici e +4 punti negli Istituti professionali). Mostra, invece, un’associazione negativa e significativa con i risultati l’origine degli studenti in tutti gli indirizzi di studio. La differenza è minore nei Licei in cui il coefficiente per la prima generazione è -8 punti e per la seconda -11 punti, che negli Istituto Tecnici, in cui è -16 punti per la prima generazione e -19 per la seconda, e negli Istituti Professionali in cui è -23 per la prima generazione e -15 per la seconda. Una prima considerazione necessaria è che nel secondo ciclo si osserva un effetto selezione (sia 112 RAPPORTO SECONDGEN cognitiva che socioeconomica) per cui la quota di studenti con origini straniere è maggiore negli indirizzi tecnici e professionali rispetto ai licei3, da questo consegue la minor associazione negativa con i risultati nei Licei. Una seconda riflessione è che nella II secondaria di secondo grado la quota di studenti di seconda generazione è ancora molto bassa (rispetto alla presenza nel primo ciclo) e per questo nei Licei e negli istituti Tecnici l’associazione negativa con i risultati è maggiore per questi studenti rispetto a quelli di prima generazione. Solo nell’indirizzo professionale, in cui gli studenti con origine straniera di prima generazione sono il 16%, rispetto ad un 5% di quelli di seconda, si osserva uno svantaggio maggiore per gli studenti di prima generazione. A mostrare un’associazione negativa con i risultati sono anche la frequenza del nido per studenti di tecnici e professionali (rispettivamente -4 e -10 punti) che, come commentato in precedenza, rappresenta più un effetto di selezione socioeconomica, l’aver accumulato un ritardo nel percorso di studi al Liceo o nel Tecnico (-8 punti e -7 punti) e il numero di fratelli ma solo se si frequenta un Liceo (-2 punti). Le variabili che non mostrano associazioni significative con i risultati in nessuno degli indirizzi sono lo status della famiglia di origine, le risorse materiali, aver frequentato la scuola dell’infanzia, vivere con entrambi i genitori e parlare in casa una lingua differente dall’italiano. I modelli completi arrivano a spiegare nei Licei il 7% della variabilità dei risultati dovuta alle differenza tra individui e il 46% della variabilità dovuta alla differenza tra classi mentre negli Istituti Tecnici il 9% della variabilità dei risultati dovuta alle differenza tra individui e l’8% della variabilità dovuta alla differenza tra classi. Infine, negli Istituti Professionali il 17% della variabilità dei risultati dovuta alle differenza tra individui e il 41% della variabilità dovuta alla differenza tra classi. L’origine nel percorso del sistema d’istruzione in Piemonte Le nostra analisi ci hanno quindi permesso di metter in evidenza come in Piemonte, lungo il percorso del sistema d’istruzione, l’origine si associ in maniera differente con i risultati ai test di valutazione dell’apprendimento dell’INVALSI nel ciclo 2011-2012. Se nella V primaria sia la numerosità degli studenti con origine straniera nella classe che lo status di studente di prima e di seconda generazione non mostrano associazioni significative con i risultati ai test, nella classe I secondaria di primo grado si iniziano ad osservare le prime differenze. Infatti, un aumento di studenti con origine straniera mostra un’associazione significativa e negativa, seppur di valore molto modesto. Ciò che cambia è l’associazione tra lo status di origine dello studente e i risultati ai test. In I secondaria di primo grado essere di prima e seconda generazione comporta uno svantaggio per lo studente, al netto di tutti i fattori di controllo presi in considerazione nelle analisi (-14 punti per la prima e -10 per la seconda). Da un lato stupisce che ad un solo anno di distanza (tra V primaria e I secondaria di primo grado) si osservino delle differenze così evidenti, dall’altro il fatto di essere al termine di un ciclo nel caso della V primaria e di essere, invece, all’inizio del successivo nella I secondaria di primo grado può in parte essere una possibile spiegazione della differente associazione osservata. Nella classe II secondaria di secondo grado, sia che siano osservati gli studenti nel complesso che per specifico indirizzo di studio, la numerosità degli studenti di origine straniera in classe non risulta associata significativamente con i risultati ai test INVALSI. Tuttavia, lo status di studente straniero (sia di prima che di seconda generazione) mostra una relazione negativa e significativa con i risultati. Come detto, ciò è il risultato sia di un effetto di selezione che della conseguente differente distribuzione degli studenti di origine straniera tra gli indirizzi. Infatti, nella classe II secondaria di secondo grado degli Istituti Professionali, in cui gli studenti di prima generazione arrivano al 16% del totale degli studenti (generazione per ora più presente nel secondo ciclo), si osserva un’associazione con i risultati in italiano, al netto di tutti i fattori di controllo, particolarmente negativa (-23 punti). 3 Nei modelli relativi al Piemonte SNV 2011-2012 nei Licei risultano un 6% di studenti prima generazione e un 2% della seconda, negli Istituti Tecnici un 9% di prima e un 2% di seconda e nei Professionali un 16% di prima generazione e un 5% di seconda. 113 RAPPORTO SECONDGEN I consigli orientativi agli studenti di origine straniera. Un caso a parte? Marco Romito Nella scuola secondaria di primo grado, solitamente nei giorni che precedono le vacanze natalizie, tutti gli alunni che si apprestano a transitare verso la scuola superiore, ricevono un consiglio di orientamento. Si tratta di una decisione formale del corpo docente che, riunito in un consiglio di classe, esprime il suo parere circa il tipo di scuola superiore maggiormente appropriato a ciascuno dei loro studenti. Questa decisione viene comunicata successivamente alle famiglie e ha una finalità di supporto e accompagnamento al difficile compito di scegliere tra le diverse filiere formative che caratterizzano il secondo ciclo della scuola secondaria italiana. Il consiglio di orientamento, istituito da una delle norme che hanno accompagnato la Riforma della scuola media unica del 1962, è «un parere non vincolante»1. Alle famiglie e agli studenti, l’ordinamento garantisce infatti la libertà di scegliere verso quale scuola superiore indirizzarsi anche in contrasto con il parere ricevuto dagli insegnanti. Tuttavia, questo atto amministrativo rappresenta un tassello centrale del processo attraverso cui gli studenti si orientano nell’offerta della scuola superiore. Si tratta infatti di un momento in cui l’azione orientativa degli insegnanti si cristallizza e si formalizza in un documento ufficiale2 e può essere visto come il punto di arrivo di un percorso di accompagnamento alla scelta della scuola superiore che si realizza perlopiù nella quotidiana attività scolastica attraverso discussioni e interazioni informali tra studenti e insegnanti. Il consiglio di orientamento ha un ruolo importante soprattutto per quegli studenti e per quelle famiglie che si muovono con più difficoltà nel sistema di istruzione italiano, per coloro che dispongono di scarse informazioni sulle diverse scuole e filiere formative del secondo ciclo della scuola secondaria e dunque, si può ipotizzare, per le famiglie immigrate (Conte 2012; cfr. Allasino and Perino 2012) Come è noto, il passaggio dal primo al secondo ciclo della scuola secondaria ha ricadute importanti sulle probabilità di abbandono scolastico, su quelle di accedere e su quelle di completare l’istruzione universitaria (Cavalli e Facchini 2001; Ballarino e Checchi 2006 Cavalli e Argentin 2007; Montanaro, Mariani, e Paccagnella 2013)3. L’assetto stratificato della scuola secondaria superiore italiana fa sì che gli studenti potranno accedere ad ambienti molto differenti a seconda del tipo di filiera verso cui si indirizzano offrendo loro opportunità relazionali, orizzonti culturali e sociali fortemente differenziati (Checchi 2010). Se i liceali hanno probabilità superiori dei diplomati negli istituti professionali di conseguire una laurea, ciò non avviene infatti solo in ragione del tipo di preparazione cui hanno avuto accesso, ma anche in virtù del fatto che questi due gruppi di studenti hanno passato cinque anni della loro vita scolastica all’interno di contesti sociali dominati da orizzonti di azione e pensiero talvolta radicalmente differenti4. 1 L’unico riferimento normativo al consiglio di orientamento lo si trova nell'ambito delle norme che hanno accompagnato il processo di unificazione della scuola media del 1962 e la disciplina che regola il passaggio alla scuola media superiore attraverso il possesso della licenza media: «il consiglio di classe […] esprime, per gli ammessi all'esame, un consiglio di orientamento sulle scelte successive dei singoli candidati, motivandolo con un parere non vincolante» (art. 2 comma 2, D. P. R. 14 maggio 1966, n 362: norme di esecuzione della Legge n. 1859/1962, concernenti l'esame di Stato della licenza di scuola media). 2 Cosa sia scritto concretamente nei consigli orientativi è soggetto ad un’estrema variabilità tra le scuole. Generalmente tuttavia i docenti si limitano a indicare (talvolta aggiungendovi un breve commento) la filiera formativa ritenuta più adeguata (liceo; tecnico; istruzione professionale; formazione professionale) ma hanno anche facoltà di esprimere indicazioni più specifiche ad esempio sottolineare il tipo di liceo, il tipo di istruzione tecnica o professionale. 3 Nell’Indagine sui percorsi di studio e di lavoro dei diplomati dell’Istat pubblicata più di recente (2010), e relativa ai dati del 2007, si mostra che la quasi totalità degli studenti liceali (il 95%) si è iscritta ad un percorso di studio universitario. Per contro, il 75 % dei diplomati in un istituto professionale e circa uno studente su due dei diplomati presso gli istituti tecnici hanno abbandonato gli studi dopo il diploma. 4 Occorrerebbe sottolineare che la distinzione tra filiere formative (liceale, tecnica, istruzione professionale, e formazione professionale) non esaurisce in alcun modo tutte le differenze che attraversano il mondo delle scuole superiori italiano. Non solo all’interno di ciascuna filiera formativa ci sono indirizzi diversi, ma ciascuna scuola, per la propria storia e per la sua collocazione geografica, si interfaccia con utenze specifiche. Manca in Italia una letteratura che consenta uno sguardo più ravvicinato e sottile sui numerosi processi di distinzione e differenziazione che attraversano il sistema scolastico (ma si veda Pitzalis, 2012). Le principali ricerche di taglio quantitativo si fermano generalmente a un livello di aggregazione dei dati che non consentono osservazioni più dettagliate di quelle consentite dalla distinzione tra filiere. La ricerca qualitativa, potenzialmente in grado di raccontare gli universi simbolici e sociali che permeano contesti di apprendimento specifici è poco presente nelle scuole. Tuttavia, i dati quantitativi segnalano la 114 RAPPORTO SECONDGEN In questo quadro, può essere importante interrogarsi sugli orientamenti ricevuti dagli studenti immigrati da parte dei loro insegnanti al termine della scuola media. Se questi studenti accedono con maggiore difficoltà a informazioni pertinenti e accurate sul mondo della scuola superiore, se con più fatica possono comprendere le poste in gioco in qualche modo implicate in questa transizione scolastica, occorre chiedersi se l’orientamento scolastico imprima alle loro carriere educative una direzione particolare e quale essa sia. Le seconde generazioni di fronte ai consigli orientativi. Le ricerche che si sono occupate della transizione alla scuola superiore degli studenti di origine straniera hanno mostrato come questi ultimi – sia che si tratti di seconde generazioni in senso stretto che di minori ricongiunti – hanno maggiori probabilità dei colleghi italiani, di scegliere un percorso professionale, anche a parità di istruzione dei genitori, classe sociale e risultati scolastici (Canino 2010; Barban e White 2011; Azzolini 2011; Azzolini e Barone 2012). A differenza di quanto è accaduto in altri paesi dove fin dagli anni ’60 la letteratura sociologica ha indagato le ripercussioni delle pratiche degli insegnanti in termini di disuguaglianza sociale e di discriminazione etnico- razziale (Becker 1952; Rist 1970; Rist 1977; Ball 1981; Mac an Ghaill 1988; Alexander, Entwisle, e Thompson 1987; Dunne e Gazeley 2008; Devine 2005), in Italia, la ricerca empirica non ha sinora indagato nel dettaglio se, e in che modo, gli orientamenti che gli studenti ricevono dalla scuola media contribuiscono ai processi di riproduzione delle disuguaglianze sociali5. Si tratta di una carenza rilevante, dal momento che è ormai lampante che ci si sta muovendo nella direzione di una sempre maggiore concentrazione dei figli dell’immigrazione lungo canali formativi spesso di bassa qualità e spesso orientati a settori del mercato del lavoro poco qualificati. Chiedersi se, e in che modo, l’istituzione scolastica contribuisca a questo processo è di fondamentale importanza non solo da un punto di vista analitico ma, soprattutto, per ripensare alcuni aspetti delle pratiche orientative più comuni. A questo proposito, alcune ricerche recenti condotte in Lombardia hanno messo in luce che i consigli orientativi formulati dagli insegnanti possono essere condizionati da fattori in qualche modo legati alle provenienze sociali e geografiche degli studenti. Checchi (2010b) ha analizzato la differenziazione delle carriere formative degli alunni in uscita dalle scuole medie, considerando per la prima volta anche la variabile relativa al consiglio orientativo fornito dagli insegnanti. I risultati della sua ricerca mostrano come il consiglio orientativo risenta sia dei risultati scolastici sia, a parità di questo, del titolo di studio dei genitori: al crescere di queste due variabili aumenta le probabilità di ricevere un consiglio orientativo per il liceo. Una seconda recente ricerca condotta su otto scuole medie milanesi (Conte 2012), è riuscita a mettere in luce le relazioni tra votazione all'esame di licenza media, consiglio orientativo, nazionalità e scelte scolastiche mostrando disparità significative tra studenti italiani e studenti con genitori stranieri. Tali disparità sono particolarmente evidenti per gli alunni che si assestano su risultati scolastici intermedi (e che sono la maggioranza). Infatti, tra coloro che hanno avuto 8 come giudizio in sede di esame finale, quasi l'80% degli italiani viene indirizzato verso un percorso liceale contro poco più del 30% degli studenti di origine non italiana. Questi ultimi, con la medesima votazione, vengono invece più spesso spinti verso il tecnico (il 52%, contro il 19% degli italiani), ma anche verso l'istruzione professionale (il 16% contro l'1% degli italiani). Le differenze si riducono in presenza di votazioni particolarmente elevate – con il 9 o il 10 né gli italiani né gli stranieri ricevono il consiglio di intraprendere l'istruzione professionale – e tuttavia i figli degli immigrati hanno una maggiore probabilità di essere indirizzati verso gli istituti tecnici piuttosto che verso i licei rispetto agli italiani. Con la votazione media del 9, ad esempio, quasi la totalità degli italiani (il 95%) viene indirizzato verso un liceo. Tra i figli di immigrati vi è, invece, quasi un equa distribuzione tra percorsi tecnici e liceali, il 43% viene indirizzato verso i primi e il 57% verso i secondi. Infine, se una votazione particolarmente bassa come il 6 aumenta per tutti le probabilità di essere indirizzati verso la Formazione Professionale, tra gli italiani si rileva comunque rilevanza della filiera formativa frequentata per i conseguimenti educativi e sociali futuri e, sia da parte degli insegnanti, sia da parte degli studenti, questo tipo di differenziazione evoca paesaggi culturali, sociali e formativi distinti. Nel corso di questo breve contributo, sembra ragionevole dunque semplificare la realtà scolastica assumendo che la differenziazione tra filiere formative sia perlomeno la più rilevante per i destini scolastici degli studenti e per gli assunti che in qualche modo fondano l’attività orientativa degli insegnanti. 5 Sebbene non tratti del tema dell’orientamento verso la scuola superiore, va segnalato a questo proposito il lavoro di Barbagli e Dei in cui le pratiche didattiche e valutative degli insegnanti vengono analizzate nei termini di un tentativo di resistenza ai processi di apertura delle opportunità educative per le classi popolari (Barbagli e Dei 1969). 115 RAPPORTO SECONDGEN un 10% di studenti che riceve il liceo come consiglio orientativo. Percentuale che è quasi nulla tra gli studenti stranieri. Inoltre, sia il lavoro di Checchi (2010) sia quello di Conte (2012) mostrano che il peso del consiglio orientativo sulle scelte effettivamente intraprese al termine della scuola media è particolarmente elevato soprattutto per quegli studenti e per quelle famiglie che hanno una minore familiarità con il mondo dell’istruzione secondaria. Il primo mette in luce che avere dei genitori scarsamente istruiti aumenta la probabilità di “seguire” il consiglio degli insegnanti; il secondo sottolinea la più elevata propensione delle famiglie immigrate a indirizzarsi verso le filiere formative indicate dai docenti rispetto a quelle italiane. E’ noto che gli studenti di seconda generazione6, soprattutto se non nati in Italia e se arrivati a un età scolare avanzata, devono fare i conti con tutta una serie di fattori di svantaggio capaci di incidere significativamente sui loro risultati scolastici ( Queirolo-Palmas 2006; Dalla Zuanna, Farina, e Strozza 2009; Ravecca 2009; Ricucci 2010). E’ stato sottolineato che, anche mettendo tra parentesi le problematiche relative agli effetti della discriminazione su base etnica o culturale, il processo migratorio espone a necessità di ridefinizione dei reticoli sociali nei luoghi di arrivo e dunque al rischio di accedere a circuiti relazionali particolarmente privi delle risorse necessarie per facilitare la riuscita scolastica delle seconde generazioni (Eve 2010). Difficoltà tipiche delle famiglie immigrate, soggette a un’elevata precarietà abitativa e a un inserimento residenziale nelle aree urbane periferiche (Borlini e Memo 2009; Saraceno, Sartor, and Sciortino 2013), possono avere un impatto decisivo sui percorsi scolastici. Le caratteristiche dei circuiti relazionali in cui crescono, le scarse risorse economiche su cui possono contare nell’età dell’adolescenza, i processi di stigmatizzazione di cui sono spesso oggetto e le scarse gratificazioni ricevute a scuola, facilitano l’emergere di scelte e comportamenti che spesso preludono un precoce abbandono scolastico poiché votate alla ricerca di un’affermazione personale che passa attraverso l’indipendenza economica, l’accesso ai consumi, la ricerca dello “stile” e della “popolarità” all’interno del gruppo dei pari (Willis 1977; Lepoutre 1997; Bourgois 2003; Jamoulle 2005; Archer, Hollingworth, e Halsall 2007; Queirolo-Palmas 2009; Guerzoni e Antonelli 2009; Giliberti 2011). Inoltre, i processi in gioco nella produzione di questa situazione di svantaggio definiscono un quadro molto complesso che coinvolge responsabilità importanti del funzionamento e dell’organizzazione del sistema scolastico. Si pensi alle scarse risorse fornite alle scuole per i compiti di mediazione interculturale, di insegnamento dell’italiano come seconda lingua o di italiano per lo studio ad alunni neoarrivati, alla scarsa preparazione degli insegnanti ad operare in contesti sempre più plurali, agli imperativi dei programmi scolatici e alla crescente richiesta ministeriale di standardizzare i risultati al fine di valutazione comparativa che, di fatto, rende particolarmente difficile una didattica capace di includere e valorizzare le diversità socioculturali (McNail 2000)7. Come hanno mostrato recenti ricerche internazionali, aspetti dell’organizzazione scolastica che possono differire da paese e paese e che attengono al suo funzionamento routinario (diffusione della scuola dell’infanzia, selettività delle transizioni scolastiche, modalità di ripartizione del tempo dedicato allo studio tra scuola e contesto familiare), hanno anch’essi un impatto importante sugli esiti scolastici dei figli di immigrati e possono rendere più o meno rilevante il peso delle origini familiari sulle loro traiettorie educative (Crul 2013). Appare dunque particolarmente preoccupante se, all’interno di un processo scolastico in cui l’essere figlio di genitori immigrati rappresenta già, di per sé, un elemento che va a detrimento delle competenze acquisite e delle votazioni conseguite a scuola, le seconde generazioni risultino ostacolate, questa volta dalle pratiche di orientamento dei loro insegnanti, nel transitare verso le filiere formative maggiormente capaci di incoraggiarne la mobilità sociale (Cappellari 2005; Ballarino e Checchi 2006; Mocetti 2008; Montanaro, Mariani, and Paccagnella 2013). Per comprendere le logiche sottostanti, i processi coinvolti nel far sì che l’orientamento scolastico finisca per rappresentare un ulteriore meccanismo capace di produrre e riprodurre disuguaglianze sociali, si è scelto di entrare in alcune scuole medie, osservarne le pratiche orientative e di discutere approfonditamente con insegnanti e dirigenti scolastici. L’obiettivo è stato quello di comprendere, dalla prospettiva degli insegnanti, 6 In questo scritto il termine “seconde generazioni” viene usato in un’accezione volutamente lasca più vicina a quello usato comunemente nel dibattito pubblico. Talvolta, quando una maggiore distinzione analitica risulterà necessaria si useranno alcune specificazioni per chiarire l’età di arrivo in Italia dei soggetti di cui si parla. Si veda Rumbaut (1997) per un noto articolo in cui si afferma la necessità di spacchettare la nozione di seconde generazioni in sotto-insiemi a seconda della fase del ciclo di vita in cui si innesta l’arrivo nel paese di destinazione. 7 Si veda anche il recente numero monografico della rivista di educazione e intervento sociale Gli Asini (anno IV n. 18, 2013). 116 RAPPORTO SECONDGEN i fattori in gioco nella formulazione dei consigli orientativi cercando di capire quali siano i condizionamenti e le logiche in grado di dar conto delle specificità registrate a proposito dell’orientamento degli studenti di seconda generazione. La ricerca Il materiale empirico su cui si basano le riflessioni proposte nelle pagine seguenti è il frutto di una ricerca etnografica condotta nell’ambito di un dottorato di ricerca in sociologia all’Università degli Studi di Milano. Lo studio ha riguardato due scuole medie scelte, nel contesto urbano, perché in grado di rispecchiare, sia pur parzialmente, realtà scolastiche abbastanza frequenti nei comuni di grandi dimensioni dell’Italia settentrionale. Si tratta di una scuola situata in un contesto di ceto medio con una popolazione studentesca piuttosto eterogenea per provenienze sociali e geografiche e di una scuola situata in un area popolare in cui, nonostante gli studenti provenienti dai ceti medi e alti non siano del tutto assenti, vi è una maggioranza di studenti di origine immigrata e provenienti da famiglie caratterizzate da disagio socioeconomico. In queste due scuole è stata condotta un’osservazione partecipante che ha consentito di raccogliere dati sulla didattica e sulle pratiche orientative formali e informali condotte dai docenti e da alcuni esperti di orientamento. Sono state condotte trenta interviste in profondità a un campione di studenti e sono stati intervistati i loro genitori. In particolare, per ciò che riguarda il materiale empirico analizzato di seguito, si sono raccolte interviste semi-strutturate con i docenti delle due scuole che sono servite per ricostruire le logiche e le retoriche attraverso cui hanno spiegato le loro pratiche orientative. Questa ricerca si inserisce all’interno di un’indagine più ampia condotta attraverso una campagna di interviste in profondità che ha riguardato i docenti e i dirigenti scolastici di dodici scuole milanesi. I risultati di questo lavoro, condotto da Cristina Cavallo e Paola Bonizzoni, saranno pubblicati a breve e corroborano i dati e le riflessioni elaborate a partire dalla ricerca etnografica qui presentata8. Uno studio in grado di mappare le pratiche orientative in un numero più elevato di scuole ha il vantaggio di poter individuare una maggiore variabilità dei discorsi e delle “politiche” che informano l’orientamento scolastico. Questo studio permette altresì di far emergere alcune linee di tendenza generali che attraversano tutte le scuole studiate ed è su queste che ci si soffermerà in questo saggio. L’importanza del “vocabolario” Rabeeha è una ragazza di origine pachistana. E’ nata in Italia. Sua madre e suo padre provengono da famiglie di un ceto piuttosto elevato, lei è laureata in medicina, lui in ingegneria. Arrivato in Italia nei primi anni Novanta, il padre di Rabeeha ha sempre avuto impieghi precari. Adesso è operaio. Sua madre, casalinga, si occupa della cura dei suoi tre figli e della casa, un appartamento di due stanze in un edificio di proprietà del Comune. Rabeeha ha sempre avuto, fin dalla scuola elementare risultati scolastici buoni, anche se non eccellenti. E’ sempre stata riconosciuta dai suoi insegnanti una ragazza diligente, attenta, con molta voglia di imparare. Una sua insegnante nel corso di un colloquio le ha detto «si vede che tu hai sempre voglia di mostrare che ci tieni alla scuola, che ti impegni». La stessa insegnante, nel corso di un’intervista, mi ha raccontato quanto la madre di Rabeeha fosse presente nelle questioni scolastiche di sua figlia, quanto facesse di tutto per farle ottenere dei buoni risultati scolastici. A riprova di questo tipo di attitudine mi è stato raccontato che sua madre ha scelto di utilizzare con la figlia l’italiano come lingua veicolare anziché la sua lingua d’origine nella convinzione che questo l’avrebbe facilitata nel suo percorso scolastico9. All’inizio della terza media sia Rabeeha, che i suoi genitori, hanno espresso con sicurezza e in più occasioni la loro volontà di indirizzarsi verso la filiera liceale. Rabeeha vuole fare una scuola che la prepari bene per poi accedere all’Università. Vuol studiare medicina, come sua madre, e vuole diventare medico, cosa che sua 8 Bonizzoni P., Cavallo C. e Romito M. 2014. L’orientamento nella scuola media: una concausa della segregazione etnica nella scuola superiore? In Educazione Interculturale (in via di pubblicazione). 9 Sebbene molti tra gli insegnanti intervistati hanno apprezzato questa scelta in quanto indice di una forte volontà di “integrazione” nel contesto di arrivo, ne andrebbero sottolineate piuttosto le conseguenze negative sul piano linguistico e cognitivo. Rabeeha in questo modo ha infatti acquisito una scarsa competenza nella lingua italiana (che veniva parlata dai suoi genitori come seconda lingua) e ha al contempo abbandonato la possibilità di familiarizzare con la lingua del suo paese di origine. 117 RAPPORTO SECONDGEN madre non ha potuto fare anche a causa delle circostanze legate all’immigrazione in Italia. Tuttavia, nonostante i risultati scolastici di Rabeeha siano piuttosto buoni, nonostante le venga riconosciuta l’ambizione e la voglia di impegnarsi molto nello studio, nonostante le vengano riconosciute alcune indubbie virtù scolastiche, i suoi insegnanti ritengono che la filiera liceale non le sia appropriata. Riuniti in consiglio di classe delibereranno un orientamento verso l’istruzione tecnica. Nei casi di studenti che hanno ottenuto fino ad allora risultati scolastici mediocri, poco preparati o poco capaci di mostrare una significativa dedizione allo studio, una simile scelta del consiglio di classe può risultare facilmente comprensibile. Nel caso di Rabeeha, come in quello di altri suoi colleghi di origine non italiana, le decisioni del consiglio di classe richiedono un approfondimento ulteriore, richiedono di sollecitare maggiormente la riflessione degli interlocutori per raccogliere il senso e la logica delle loro pratiche. Così, nel corso dei consigli di classe a cui si è avuto modo di assistere e nel corso delle interviste, è emerso che «l’ampiezza del vocabolario» può rappresentare in molti casi uno dei fattori, non necessariamente legati ai risultati scolastici, di cui gli insegnanti tengono conto nella formulazione dei consigli orientativi. E, in particolare, che può fungere da fattore dirimente in caso di indecisione tra l’istruzione tecnica e quella liceale. Prof. C: Rabeeha ci tiene, ci tiene molto. Se prende dei voti bassi si dispera. Anche troppo secondo me. Sua madre le sta molto dietro. E riesce, se si impegna riesce, infatti ha una media buona […] però il liceo… lei è povera, povera di vocabolario, fa fatica quando deve esprimere qualcosa di un po’ più complesso. Le interviste con gli insegnanti hanno messo in luce che l’«ampiezza del vocabolario» è un elemento più sottile attraverso cui gli insegnanti stabiliscono una relazione di coerenza tra ciascuno dei loro studenti e le diverse filiere formative di cui si compone il secondo ciclo della scuola secondaria. Ma cosa vuol dire essere «ricchi» di vocabolario? Rabeeha si esprime perfettamente in Italiano, mostra alcune esitazioni e incertezze, ma sono quelle tipiche dei ragazzi e delle ragazze della sua età. Perché dunque viene considerata così «povera» dal punto di vista linguistico dal non essere ritenuta adatta a intraprendere un’istruzione liceale? La risposta a questa domanda può essere esplorata confrontando il caso di Rabeeha con quello di Riccardo, un suo compagno di classe, che nonostante sia stato spesso descritto dai suoi insegnanti come uno studente «pigro e svogliato» e nonostante in molte materie, tra cui l’italiano, abbia conseguito una votazione più bassa di quella di Rabeeha, è stato orientato verso un liceo. Orientatore: Riccardo, io non lo capisco, ho la sensazione che potrebbe veramente essere un piccolo genio. Ma secondo me è estremamente confuso. Il modo in cui si intromette nella discussione usando parole difficili per la sua età Prof N: ti dico, al test di inizio anno [per essere ammesso al corso di latino], ha fatto un disastro. Tant'è che non lo volevano prendere. Orientatore: sicuramente ha delle potenzialità, però se le gioca male. Prof. N: se dovessi basarmi su quello che ha fatto con me quest'anno lo manderei al professionale! (ridendo). Orientatore: ma sicuramente è uno che il liceo te lo fa, e magari te lo fa anche bene! Prof. N: sicuramente. In questa conversazione, registrata nel corso di un momento di confronto tra gli insegnanti e un'esperta di orientamento, si può notare con chiarezza che rispetto allo studente di cui si sta parlando si ritiene che i risultati scolastici sottostimino le sue «reali potenzialità». Il fatto che utilizzi «parole difficili per la sua età» fa addirittura supporre che possa trattarsi di un «piccolo genio» e che quindi Riccardo sarà in grado di affrontare brillantemente un percorso liceale. Ma su cosa si basano queste «sensazioni»? Come ha mostrato un corposo filone di studi, la selezione scolastica si fonda su criteri che classificano gli studenti non solo sulla base dei meriti acquisiti lungo il percorso scolastico, ma anche in relazione a tratti culturali e linguistici che non sono “insegnati” nelle aule di scuola (Bourdieu 1966; Bourdieu e Passeron 1970; Keddie 1971). Nel campo scolastico sarebbero valorizzati stili linguistici, modalità espressive e vocabolari che sono in qualche modo tipici di alcuni raggruppamenti sociali. Alle spalle del giudizio sulle potenzialità scolastiche di Riccardo, che proviene da una famiglia di professionisti, vi è dunque il riconoscimento di una relazione di affinità tra la sua hexis verbale e le qualità che sono solitamente premiate in un percorso di studi prestigioso come quello liceale. Da questo punto di vista, dunque, la situazione nella quale si trovano le seconde generazioni nate in Italia (in forte crescita negli ultimi anni per via della progressiva “maturazione” flusso migratorio, MIUR 2013) è 118 RAPPORTO SECONDGEN molto simile a quella degli studenti provenienti dalle famiglie di ceto popolare. Si tratta in entrambi i casi di collettivi che non hanno avuto modo di familiarizzare nel corso della socializzazione primaria con gli specifici “vocabolari” a cui viene riconosciuto un valore più elevato nel campo scolastico e che quindi vengono ritenuti inadatti a percorrere le sue filiere più prestigiose. Il caso degli studenti arrivati in Italia a un’età più avanzata rappresenta un caso estremo del processo appena descritto. Le loro difficoltà linguistiche sono evidenti e gli insegnanti sospendono molto spesso ogni giudizio sulle loro capacità e potenzialità scolastiche poiché ritengono che una buona conoscenza dell’italiano sia «data per acquisita» dagli insegnanti della scuola superiore. In questo quadro, dunque, l’orientamento giudicato più appropriato è quasi sempre la Formazione Professionale, cioè un percorso in cui l’impegno «pratico», «laboratoriale», «manuale» predomina sulle modalità di apprendimento propriamente scolastiche. Soprattutto nei confronti di coloro che sono arrivati in Italia nel corso delle scuole medie, molti insegnanti sembrano nutrire la convinzione che il loro percorso scolastico sia in qualche modo già segnato. Attraverso i loro consigli orientativi sembrano infatti accettare l’idea che i gap linguistici non possono essere recuperati all’interno del ramo liceale poiché i processi di selezione che caratterizzano questo tipo di scuola finirebbero per espellerli precocemente. Prof. E: noi insegnanti dobbiamo assolutamente evitare le frustrazioni. Quindi il nostro giudizio orientativo non è, come dire, limitato o cattivo ma è... se è basso come tipo di orientamento è proprio legato a evitare le frustrazioni. […] La ragazzina neoarrivata, che studia, che si impegna, magari anche con fatica, perché le devo consigliare un classico dove so che le segheranno le gambe appena arriva? Nel formulare i consigli orientativi, gli insegnanti provano a tener conto delle forze che definiscono il mondo delle scuole superiori e il successo o l’insuccesso degli studenti che lo attraversano e mirano a evitare che studenti pur meritevoli possano incappare in future frustrazioni. Così facendo, tuttavia, gli insegnanti scoraggiano i loro studenti di seconda generazione dall’assumersi il rischio necessario per innescare processi di mobilità (e dunque di cambiamento) sociale. Per quanto riguarda gli studenti nati in Italia, gli orientamenti ricevuti dai loro insegnanti fanno da spia a meccanismi più generali di selezione sociale attraverso la scuola. Come mostra bene il caso di Rabeeha, non basta saper parlare correttamente l’italiano per essere considerati adatti a frequentare i percorsi di studio più prestigiosi. E’ necessario infatti aver acquisito un vocabolario, uno stile linguistico e delle modalità espressive che sono proprie dei ceti più istruiti. Da questo punto di vista, dunque, la posizione delle seconde generazioni non differisce molto da quella dei ceti popolari con cui, molto spesso, condividono ambienti di vita e reti sociali. Per quanto riguarda invece gli studenti arrivati in Italia più di recente, gli insegnanti sembrano sottovalutare l’importanza dei contesti sociali di apprendimento nella riduzione progressiva dei gap linguistici. E, soprattutto, sembrano accettare (e dunque rafforzare) un assetto scolastico che non riesce a valorizzare i “talenti” dei suoi studenti qualora non si esprimano (ancora) nella stessa lingua usata dai docenti. Un orientamento a 360 gradi Non è tuttavia solo sotto la dimensione del capitale linguistico e culturale che gli studenti di seconda generazione risulterebbero svantaggiati nell’ottenere un orientamento verso l’istruzione liceale. Rendendo ancora più lasca la relazione tra risultati ottenuti e consigli orientativi, molti docenti ritengono che il loro ruolo in questa fase di transizione debba privilegiare un «approccio a 360 gradi». Da questo punto di vista, dunque, le indicazioni orientative sono il frutto di considerazioni che non riguardano solo gli studenti nella loro individualità, le loro caratteristiche, qualità, capacità, attitudini, ma anche una valutazione dell’ambiente di vita che li circonda. L’attività orientativa si trova dunque al centro di una specifica concezione del ruolo della scuola nel suo rapporto con la società e con il sistema di stratificazione sociale10. Molti docenti, nel formulare i consigli orientativi, sembrano pronti a far propri schemi di giudizio e valutazione in qualche modo estranei al campo strettamente scolastico quando, ad esempio, tengono conto della possibile “spendibilità” dei diversi tipi di diploma a cui gli studenti possono accedere, oppure quando si interrogano 10 Si veda il recente lavoro di Christian Laval per uno sguardo teorico più ampio sulla tendenza dei soggetti situati nel campo scolastico a far propri gli imperativi e le esigenze del campo economico neoliberale nella definizione dell’organizzazione scolastica e delle pratiche pedagogiche (Laval, Clement, e Dreux 2012). 119 RAPPORTO SECONDGEN sulla volontà e sulla capacità delle famiglie di origine di sostenere finanziariamente a lungo gli studi dei loro figli. Prof. P: il classico io non lo consiglierei a nessuno. Perché non ha senso, oggi, una scuola di quel tipo, che non ti da nessuno sbocco. Se non alla ragazzina o al ragazzino che ha una vena letteraria e che magari la matematica non la può proprio soffrire. E che comunque, diciamocelo, ha una famiglia dietro che può permetterselo… di mantenere i figli a scuola per un periodo di studi molto lungo. Al di là dei meriti e dei demeriti di ciascuno studente, al di là delle sue possibili attitudini e potenzialità scolastiche, i docenti ritengono, o meglio, «sanno», che le carriere scolastiche possono essere condizionate da altri fattori riconducibili alle loro provenienze sociali. Così, i docenti credono opportuno che, in alcuni casi, occorra «farsi carico» degli eventuali elementi di fragilità delle famiglie di origine dei loro studenti e dei possibili rischi associabili ai diversi canali di istruzione secondaria. Tuttavia, nel tentativo di predire le future chances di successo o di insuccesso, le possibili difficoltà e rischi connessi a ciascun percorso di studi, nel «farsi carico» della complessiva situazione di vita dei loro studenti, si fa spazio la possibilità di un orientamento tagliato su misura per le seconde generazioni, un orientamento condizionato da immagini, rappresentazioni e stereotipi che tende a relegarle nelle filiere meno prestigiose del secondo ciclo dell’istruzione secondaria. Prof. E: lo sforzo più grosso che noi stiamo facendo è quello di riuscire a dare a ciascuno uno sbocco adeguato... quindi accanto al discorso delle attitudini, c'è poi comunque un discorso di ordine economico […] perché alcuni nostri studenti sono partiti già dalla prima con il bonus libri, per cui, alle elementari libri gratis, alle medie libri gratis, si troveranno alle superiori a pagare una barca di soldi per i libri! Poi tutte le richieste, con i laboratori eccetera. E bisogna stare attenti perché molti genitori non se ne rendono conto […] E' brutto dirlo perché questo è discriminante, però va detto. Cioè io quando ho una ragazzina che mi viene a dire “vado all'Einstein” [un liceo scientifico] voglio dire, al di là delle difficoltà sue, che potrebbe avere, è anche un discorso di difficoltà economiche. Perché poi mi dice “ma ci sono borse di studio?” dico “figlia mia... e poi se fai un liceo scientifico si presuppone che tu fai l'Università perché sennò non è completo. E quindi sono ulteriori soldi! e quindi significa ulteriormente spostare l'inserimento nel mondo del lavoro”. Come si evince da questo estratto, da parte di molti docenti, vi è l’esplicita consapevolezza della necessità di ritagliare un «orientamento su misura» di alcune categorie di studenti che tenga conto della loro situazione di vita complessiva. La rilevanza della dimensione economica per la definizione dei consigli di orientamento emerge particolarmente evidente nel corso di una conversazione tra due insegnanti raccolta ai margini di un consiglio di classe. Prof B: Carmen dice che vuole fare il liceo… Prof G: il liceo… (ridendo) Prof. B: prima ha detto il classico Prof G: il classico poi! Prof. B: poi è passata a scienze umane… perché vuole fare criminologia… non so dove l’abbia sentito… Prof. G: poverina....[rivolgendosi al ricercatore presente alla conversazione] il padre muratore, i suoi genitori si fanno un mazzo così per andare avanti... lei deve scegliere qualcosa che le permetta anche di NON andare all'Università, e non qualcosa che la obblighi a fare un percorso così lungo. Per lei andrebbe meglio una scuola tecnica. Prof: B: sì una scuola tecnica. L’apparente tendenza degli insegnanti a praticare un orientamento «su misura» per le seconde generazioni, va letta, come si evince dagli stralci appena riportati, a partire dalla stretta relazione tra background migratorio e una specifica situazione di classe. A partire cioè dal tipo di lavori in cui gran parte dei genitori immigrati sono impiegati, i loro stipendi, la precarietà del loro impiego, la vulnerabilità dei segmenti del mercato del lavoro in cui si sono inseriti (Ambrosini 2001). Ma, a questi dati, per così dire oggettivi, si sommano le rappresentazioni che gli insegnanti hanno della situazione di vita ed economica da cui provengono i loro studenti. E tali rappresentazioni tendono ad associare la famiglia immigrata ad un immaginario di forte deprivazione e precarietà che non è detto corrisponda al vero. Come si evince dai seguenti estratti, gli insegnanti utilizzano le informazioni spesso scarne e frammentarie informazioni a loro disposizione sulle famiglie di origine degli studenti per provare a “indovinare” le ambizioni genitoriali. 120 RAPPORTO SECONDGEN Prof. G: la mamma conosce pochissimo l'italiano, poi so che fanno fatica… per cui secondo me una carriera lunga li preoccupa” Orientatore: il mio timore è sempre quello che magari il progetto familiare vada in una direzione di una concretezza più veloce... però lei potrebbe averle le carte da giocarsi in un liceo. Prof. A: Loro [gli immigrati] stanno risentendo moltissimo di questa crisi. Quindi dobbiamo tenere conto anche di questo quando andiamo ad orientare i ragazzi. Ricercatore: quindi per tutelare, in un certo senso, le “seconde generazioni” crede l’istruzione tecnica o professionale sia da preferirsi? Prof. A: Sì… forse si cerca anche di aiutare le famiglie. Perché, sai, i ragazzi vedono “liceo” e dicono “che bello” vogliono fare quello, e questo magari mette anche la famiglia in difficoltà. Se i genitori per esempio preferiscono una scuola che dia anche delle opportunità di lavoro. […] soprattutto in questo periodo, noi sappiamo, che molti dei genitori dei nostri ragazzi sono in difficoltà. Le rappresentazioni che gli insegnanti hanno delle aspirazioni scolastiche delle famiglie immigrate paiono tuttavia distanti da quelle rilevate nel corso della ricerca. Infatti, in accordo con quanto emerso nelle interviste sulle seconde generazioni in Piemonte, il materiale empirico raccolto nel corso del progetto di dottorato su cui si fonda questo scritto, mette molto chiaramente in luce che le famiglie immigrate nutrono spesso ambizioni elevate nei confronti dell’istruzione dei propri figli anche in presenza di difficoltà socioeconomiche11. Papà Carmen: io sono qui per lei (Carmen). Lavoro giorno e notte solo per vederla, poterle dare un futuro migliore. Io non ho avuto la possibilità, mia moglie no, quindi io... sennò prendo me ne vado a casa mia, lavoro la terra e basta. È inutile che sto qui. Ricercatore: cosa vuol dire un futuro migliore? Papà Carmen: un futuro migliore nel senso... un futuro migliore è studiare, diventare qualcuno, nel senso un lavoro un po' più. Non la domestica, non lavorare in una fabbrica, non.. per me questo. Non fare sacrifici che ho fatto io per comprare una casa, perché io ho già preparato tutto. Se vuole stabilirsi in Italia, dopo che ha finito il liceo, l'università, io vendo tutto quello che c'ho nel mio paese e le compro la casa qua. C'è già tutto pronto... lei deve solo studiare. Le risorse economiche e le condizioni di vita degli studenti non incidono dunque direttamente sulle ambizioni scolastiche familiari. Condizionano invece il modo attraverso cui gli insegnanti percepiscono e tematizzano le aspirazioni educative delle famiglie immigrate, il modo attraverso cui immaginano ciò che ritengono essere più appropriato per loro e dunque il modo attraverso cui la scuola orienta gli studenti. Il coinvolgimento delle famiglie nell’orientamento Nonostante la normativa che regola la procedura di formulazione dei consigli orientativi non preveda un coinvolgimento attivo delle famiglie12, nonostante gli insegnanti rivendicano una sostanziale autonomia nelle decisioni prese e la loro indifferenza alle preferenze e alle aspirazioni delle famiglie, l’osservazione etnografica ha messo in luce quanto sovente l’orientamento ricevuto dagli studenti sia, in realtà, l’esito di una negoziazione e di una mediazione tra le preferenze e le aspirazioni familiari e il punto di vista del corpo docente13. Quest’ultimo infatti, in caso di indecisione, tende ad «accontentare» le famiglie che hanno aspettative scolastiche precise per evitare motivi di disappunto o di conflitto capaci di rovinare le relazioni scuola-famiglie nel corso dell’ultima parte dell’anno scolastico. 11 Conclusioni simili sono ricavabili a partire da diversi studi sulle scelte scolastiche condotti in altri paesi. Questi lavori mostrano che, a parità di origine sociale e di rendimento scolastico degli studenti, da parte di molti gruppi immigrati vi sia una tendenza a intraprendere percorsi più ambiziosi e “rischiosi” rispetto alla popolazione autoctona (Van De Werfhorst and Van Tubergen 2007; Brinbaum e Kieffer 2009, 567-569; Jonsson e Rudolphi 2010). 12 Differente è, ad esempio, il caso francese in cui in corrispondenza delle transizioni scolastiche è previsto un momento istituzionalizzato in cui le famiglie di origine devono esprimere le proprie preferenze sui percorsi da intraprendere (cfr. Barg 2013) 13 Un capitolo a parte meriterebbe la disamina dei conflitti e delle negoziazioni che si devono raggiungere all’interno del consiglio di classe. Su questo si veda ad esempio Masson (1997) 121 RAPPORTO SECONDGEN Nel corso della ricerca sono stati intervistati i dirigenti scolastici di alcune scuole dell’area milanese e, alcuni tra loro, coerentemente con una prassi in realtà molto comune, hanno esplicitamente riconosciuto che il consiglio orientativo deve essere concepito come l’esito di un «confronto» tra famiglie e docenti. Questa prassi può generare conflitti nei casi in cui i diversi punti di vista non giungano ad una sintesi condivisa da entrambe le parti, tuttavia, è sempre aperta la possibilità che i docenti, fin dove ragionevole, provino di accomodare le preferenze espresse dalle famiglie. Ora, è necessario sottolineare che la misura del coinvolgimento delle famiglie nella co-costruzione del consiglio orientativo dipende dalle risorse su cui queste ultime possono contare e, come viene riconosciuto tra i docenti, le famiglie immigrate in questo processo sono molto spesso assenti. Prof. Q: Per noi è molto difficile raggiungere queste famiglie [immigrate]. Non so se per gli orari che fanno, molte mamme sono badanti, domestiche… hanno meno tempo da dedicare a… e poi anche se vengono, molto spesso è difficile la comunicazione. Ti guardano, dicono “sì, sì” ma non hanno capito niente. I grossi problemi con le famiglie ci sono se non parlano l’italiano, e se non si hanno i mediatori è difficile, ci si attrezza con alunni grandi o particolarmente competenti, però sappiamo che non è la cosa migliore per fare i colloqui con i genitori. (Funzione intercultura S_I_11) Vincoli legati alla disponibilità di tempo libero e barriere linguistiche che l’istituzione scolastica spesso per carenza di risorse è incapace di superare, rendono la partecipazione delle famiglie immigrate alle pratiche orientative molto marginale. Vi è una letteratura internazionale consolidata che mostra come le famiglie maggiormente coinvolte e presenti nelle questioni scolastiche dei loro figli sono quelle che possono contare su di un elevato capitale culturale; cioè quelle che si muovono con agio nel campo scolastico, che conoscono il modo più proficuo per interagire con gli insegnanti e che, in virtù di un’esperienza biografica segnata dal successo educativo, sono in grado di rapportarvisi da pari a pari (Lareau 1987; 1989; 2003; Reay 1998). La nostra ricerca è giunta a conclusioni analoghe e gli insegnanti intervistati hanno mostrato di avere bene in mente l’identikit dei genitori più partecipativi. Prof. C: Ci sono genitori che quando si comincia a parlare di orientamento vengono qui ogni settimana perché vogliono essere sicuri che, alla fine, il consiglio orientativo sia quello che si aspettano. Ricercatore: Chi sono questi genitori? Prof. C: Mah, lo sai, sono sempre i soliti… quelli che magari sono laureati e che vogliono che i loro figli vadano al liceo a tutti i costi, quelli che, insomma, anche per mantenere il loro status, manderebbero i figli al liceo anche se sono delle capre. Se le famiglie maggiormente coinvolte nel processo orientativo, che gli insegnanti indentificano con quelle italiane di classe media e alta, riescono molto spesso ad ottenere un consiglio orientativo coerente con le loro elevate aspettative scolastiche, quelle immigrate molto spesso accettano passivamente l’orientamento degli insegnanti perché carenti delle informazioni necessarie anche solo per definire un ordine di preferenze (cfr. Allasino and Perino 2012). Particolarmente istruttiva, a questo proposito, è stata l’intervista con i genitori di Nicole, originari delle filippine e in Italia da 10 anni. Sono entrambi laureati nel loro paese di origine, ma in Italia lavorano come domestici. Parlano un italiano sufficiente per le questioni relative al lavoro e alla vita quotidiana, ma molto incerto per ciò che riguarda le questioni scolastiche della loro figlia. Nel corso di un’intervista, all’inizio dell’ultimo anno di terza media, ho chiesto loro se avessero idea di dove avrebbero voluto iscrivere Nicole l’anno successivo. Ciò che mi ha stupito della risposta non è stata l’assenza di una preferenza o di un ambizione ben definita, ma il riconoscere come per alcune famiglie, soprattutto immigrate, fosse sfumato e incerto l’intero quadro di conoscenze necessarie per muoversi consapevolmente in questa fase di transizione. Mamma Nicole: io le ho dato un consiglio che è: «quello che vuole lei». Perché lei è la prima che deve studiare. Però prima lei dice «voglio fare l'artistico » e le chiedo, che cos'è l'artistico Nicole? E io non capisco niente! [ride] poi ha detto il linguistico, poi adesso vuole fare Amministrazione finanza e marketing... cos'è!?? [risate] Ricercatore: è una cosa più relativo alle materie economiche, però ci sono anche le lingue, il diritto... Mamma Nicole: sì tipo internazionale, le lingue... R: senti, ma tu hai capito qual'è la differenza tra istituti professionali, tecnico e un liceo? MN:: [fa di no con la testa] sì me l'ha spiegata... ma poi dopo io non capisco niente. Non lo so è bello quello [si riferisce al tecnico turistico]? 122 RAPPORTO SECONDGEN R: Eh non lo so! [ridendo] MN: perché alcune maestre hanno detto che... io ho parlato con una maestra.. ha detto «non farla andare a turistico, non è adatta». R: e cosa sarebbe meglio? MN: E quello che vuole lei, io non lo so... anche mio marito, non sa niente... tra gli amici... lei parla con gli amici... quella, quella... le due amiche fanno il linguistico, quell'altra fa Amministrazione... quella lì... e gli altri scientifico.. il Volta.. ma lei non vuole quello... è così tutto tra gli amici... Come si evince da questo estratto, la strategia della madre di Nicole di lasciare la decisione nelle mani di sua figlia è legata a filo doppio con la sua incapacità di destreggiarsi nell’offerta formativa disponibile. Al di fuori dell’Italia, non è così scontato che gli studenti debbano scegliere all’età di 13-14 anni tra percorsi formativi così differenziati. Barriere linguistiche e molto spesso l’impossibilità di poter contare su reticoli sociali in grado di veicolare informazioni accurate sul mondo scolastico fanno sì che i genitori immigrati assumano una posizione marginale nell’orientamento scolastico. Come si è avuto modo di registrare nel corso della ricerca, e come spesso mi hanno ripetuto gli stessi insegnanti, in molti casi le famiglie «non hanno idea di quali siano le poste in gioco». Nell’assenza di una conoscenza diretta del sistema formativo italiano, e talvolta nell’impossibilità di poter contare su informazioni ricche e attendibili reperite attraverso i loro reticoli sociali, i genitori immigrati tendono a «fidarsi» dei consigli degli insegnanti e delle informazioni ricevute dai loro figli. In questo quadro, dunque, il consiglio orientativo più che l’esito di una mediazione tra il punto di vista degli insegnanti e quello delle famiglie è uno strumento utilizzato da queste ultime per gestire una fase di passaggio di fronte a cui si sentono smarrite. Conclusioni Ci sono diversi motivi per ritenere che l’orientamento ricevuto dagli studenti al termine delle scuole medie abbia un peso significativo sulle scelte di indirizzo nella scuola superiore soprattutto per gli studenti di origine straniera. Per la specificità della loro biografia familiare e per i meccanismi connessi all’esperienza migratoria, le seconde generazioni non possono affrontare il passaggio verso le scuole secondarie come qualcosa da dare per scontato o con la stessa ricchezza di informazioni da cui emergono le preferenze degli studenti italiani, specie se di ceto medio e alto. Questi figli di immigrati, nella loro famiglia, sono infatti la prima generazione che avrà un’esperienza diretta nel secondo ciclo della scuola secondaria italiana. Nessuno, se non un fratello o una sorella maggiore, prima di loro ha frequentato un liceo, un istituto tecnico o professionale, e così non possono attingere a informazioni e conoscenze di prima mano su questi tipi di scuola. Allo stesso modo, le famiglie immigrate faticano ancora di più a immaginare le poste in gioco connesse con la transizione scuola-lavoro o scuola-università al termine dell’istruzione superiore poiché, per loro, il quadro dei benefici, dei pro e dei contro, associabili a ciascun tipo di percorso di studio è sfumato. Per queste ragioni, l’orientamento scolastico può svolgere un ruolo centrale nel ridurre o rafforzare la segregazione, già evidenziata da molte ricerche, delle seconde generazioni lungo le filiere tecniche e professionali (Queirolo-Palmas 2002; Ricucci 2010; Dalla Zuanna, Farina, and Strozza 2009). Nel corso delle pagine precedenti sono state messe in luce le logiche e gli assunti che sottendono le pratiche orientative degli insegnanti e, in particolare, quelle in grado di spiegare per quali motivi, a parità di risultati scolastici ottenuti, gli studenti di seconda generazione vengano indirizzati verso filiere formative meno ambiziose dei loro colleghi italiani. Dalla ricerca è emerso che un primo elemento che spinge i docenti a praticare un orientamento «al ribasso» nei confronti dei figli di genitori stranieri ha a che fare con la sfera linguistica. I docenti conoscono i principi più o meno espliciti che determinano la riuscita scolastica nel secondo ciclo delle scuole superiori. Sanno che i licei, in particolar modo il classico e lo scientifico, possono rappresentare percorsi particolarmente escludenti per i figli di genitori stranieri perché richiedono una competenza linguistica e un’attitudine culturale che è quella tipica dei ceti medio-alti italiani. Il «liceale ideale», secondo i docenti intervistati, non è solo uno studente o una studentessa che si impegna, ma è anche, e forse soprattutto, una persona che si esprime con fluidità e proprietà di linguaggio, che ha un vocabolario «ricco» e che, in sostanza, ha avuto modo di assorbire lentamente, nel corso della sua socializzazione familiare, quelle competenze e quelle doti «naturali» che, per chi non le ha ereditate, possono essere acquisite solo attraverso un faticoso percorso di acculturazione (Bourdieu 1966; Bourdieu and Passeron 1970; Bourdieu 1989). 123 RAPPORTO SECONDGEN Le logiche sottese a questa sorta di orientamento «su misura» per le seconde generazioni emergerebbero anche qualora si analizzassero gli orientamenti ricevuti dagli studenti provenienti dai ceti popolari italiani che, come i figli di immigrati, alla fine della terza media difficilmente mostrerebbero la stessa ampiezza di vocabolario e fluidità di linguaggio dei loro colleghi provenienti da famiglie più istruite. Tuttavia, le seconde generazioni si trovano in una condizione di particolare svantaggio a causa dei meccanismi connessi al processo migratorio. Immaginando di disporre i figli di genitori immigrati lungo un continuum, ad un estremo troveremmo coloro che sono nati in Italia e che hanno frequentato scuole e contesti sociali capaci di farli familiarizzare con il linguaggio tipico dei ceti più istruiti (cosa tutt’altro che scontata a causa dei fattori che conducono le famiglie immigrate a insediarsi nei contesti più deprivati dal punto di vista socioeconomico); a quello opposto si troveranno gli studenti arrivati in Italia nel corso delle scuole medie che saranno dirottati verso l’istruzione professionale per il solo fatto di non conoscere ancora bene l’italiano. Questa dimensione rappresenta dunque una condizione di specifico svantaggio per moltissimi studenti di origine immigrata che attraversano il nostro sistema di istruzione e che vengono scoraggiati dal competere con i loro colleghi italiani nei percorsi formativi più prestigiosi. Una seconda dimensione capace di dar conto del modo specifico attraverso cui vengono orientati gli studenti di seconda generazione rispetto ai loro colleghi autoctoni ha a che fare con la loro situazione di vita complessiva e con il modo attraverso cui essa viene percepita e rappresentata dagli insegnanti. Gli impieghi precari dei loro genitori, la scarsa disponibilità finanziaria, le difficili condizioni abitative, hanno infatti un impatto sul modo attraverso cui gli insegnanti ipotizzano le loro chances di riuscita scolastica. Come nel caso precedente considerazioni simili possono riguardare anche il caso delle famiglie italiane di ceto popolare. Tuttavia, la ricerca ha messo in luce che spesso gli insegnanti utilizzano rappresentazioni stereotipiche delle famiglie immigrate che le relegano in un immaginario di forte deprivazione anche quando ciò non corrisponde al vero. Spesso, a partire da questo immaginario e in ragione delle difficili comunicazioni con le famiglie, gli insegnanti assumono che un orientamento verso indirizzi formativi maggiormente “spendibili” sul mercato del lavoro sia preferito dagli stessi genitori immigrati. E questo fa sì che la loro pratica orientativa venga svolta nella convinzione di assecondare un progetto familiare condiviso. Come si è accennato, vi sono invece evidenze empiriche sufficienti per affermare che questi fattori sembrano incidere poco sulle aspirazioni educative di questi ultimi, che appaiono elevate anche in presenza di difficoltà socioeconomiche. Da questo punto di vista, dunque, l’orientamento scolastico sembra svolgere la funzione di scoraggiare studenti e famiglie immigrate a travalicare i confini dello spazio sociale in cui si muovono. Infine va anche sottolineato che parte della spiegazione dell’orientamento «al ribasso» delle seconde generazioni va letto a partire dalle strategie delle famiglie italiane, soprattutto quelle di ceto medio e alto, che riescono in alcuni casi a negoziare un orientamento «al rialzo». Queste famiglie sono maggiormente coinvolte nel processo orientativo e riescono a far sì che gli insegnanti si facciano carico, fin dove possibile, delle loro elevate aspirazioni educative. Nella loro attività di interazione quotidiana con studenti e famiglie, i docenti raccolgono una significativa messe di informazioni sulle caratteristiche, sulle condizioni di vita, sulle difficoltà, sulle risorse e sulle aspirazioni dei loro alunni e delle loro famiglie. In alcuni casi, i docenti sono consapevoli di ricoprire un ruolo orientativo cruciale. Soprattutto gli studenti di seconda generazione non possono contare su genitori capaci di maneggiare con agio il linguaggio specialistico e burocratico attraverso cui leggere l’offerta formativa. In questo quadro gli insegnanti si fanno carico della responsabilità di dover «tutelare» questi studenti dai possibili rischi connessi con il loro futuro scolastico. I consigli orientativi non si limitano dunque a prendere atto dei risultati scolastici ottenuti fino a quel momento, ma incorporano una sorta di previsione o di anticipazione dei possibili eventi e circostanze che potranno incidere sulle carriere scolastiche dei loro studenti. Così facendo, tuttavia, l’orientamento scolastico diventa uno spazio in cui possono riverberarsi le disuguaglianze sociali e dunque un meccanismo di indirizzo che finisce per rafforzare il peso del background familiare sulle traiettorie educative degli individui. Rafforzando la segregazione degli studenti di seconda generazione nelle filiere formative meno capaci di far loro intraprendere un percorso di mobilità sociale, la scuola corre così il rischio di rinunciare alla sua funzione di garantire eguali opportunità educative e soprattutto di essere lo specchio di quell’integrazione subalterna che colpisce le prime generazioni nella sfera lavorativa. 124 RAPPORTO SECONDGEN Riferimenti bibliografici Alexander, K., D. Entwisle, M. Thompson. 1987. School Performance, Status Relations, and the Structure of Sentiment: Bringing the Teacher Back in," American Sociological Review", 52 (5): 665–683. Allasino, E., M. Perino. 2012. I giovani di seconda generazione tra famiglia, scuola e lavoro: reti sociali e processi di selezione,…. Ambrosini, M. 2001. La Fatica Di Integrarsi: Immigrati E Lavoro in Italia. Bologna: Il Mulino. Azzolini, Davide. 2011. “A New Form of Educational Inequality? What We Know and What We Still Do Not Know about the Immigrant-Native Gap in Italian Schools.” Italian Journal of Sociology of Education 7 (1). Azzolini, D., C. Barone. 2012. Tra vecchie e nuove disuguaglianze: la partecipazione scolastica degli studenti Immigrati nelle scuole secondarie superiori in Italia, "Rassegna Italiana Di Sociologia": 687–718. Ball, S. 1981. Beachside Comprehensive, Cambridge University Press, Cambridge. Ballarino, G., D. Checchi. 2006. Sistema Scolastico e Disuguaglianza Sociale. Scelte individuali e vincoli strutturali, Il Mulino, Bologna. Barbagli, M., M. Dei. 1969. Le vestali della classe media, Il Mulino, Bologna. Barban, N., M. White. 2011. Immigrants’ Children’s Transition to Secondary to Secondary School in Italy, "International Migration Review" 45 (3): 702–726. Barg, K. 2013. The Influence of Students’ Social Background and Parental Involvement on Teachers’ School Track Choices: Reasons and Consequences, "European Sociological Review", 29 (3): 565–579. doi:10.1093/esr/jcr104. Becker, H. 1952. Social-Class Variations in the Teacher-Pupil Relationship, "Journal of Educational Sociology", 25 (8): 451–465. Borlini, B., F. Memo. 2009. L’insediamento degli immigrati nello spazio urbano. Un’analisi esplorativasSulla concentrazione degli alunni di origine straniera a Milano, "Sociologia Urbana e Rurale", 90: 89–115. Bourdieu, P. 1966. L’école conservatrice. Les inégalités devant l’école et devant la culture, "Revue Francaise de Sociologie" 7 (3): 325–347. ———. 1989. La Noblesse d’état: Grandes Écoles et Esprit de Corps, Editions de Minuit, Paris. Bourdieu, P., J.Passeron. 1970. La Reproduction. Eléments pour une théorie du système d’enseignement, : Editions de Minuit, Paris. Canino, P. 2010. Stranieri si nasce...e si rimane? Differenziali nelle scelte scolastiche tra giovani italiani e stranieri, Fondazione Cariplo. Cappellari, L. 2005. L’importanza di scegliere bene la scuola, in Brucchi L. (a cura di) Per un'analisi critica del mercato del lavoro, Il Mulino, Bologna. Checchi, D. 2010a. Percorsi scolastici e origini sociali nella scuola italiana, "Politica Economica", 26 (3): 359–386. ———. 2010b. “Il passaggio dalla scuola media alla scuola superiore, "RicercAzione", 2: 215–235. Conte, M. 2012. Passaggi. Ragazzi e ragazze dalla scuola media alla scuola superiore, Codici, Milano. Crul, M., 2013. Snakes and Ladders in Educational Systems: Access to Higher Education for SecondGeneration Turks in Europe, "Journal of Ethnic and Migration Studies", 39 (9) (July): 1383–1401. doi:10.1080/1369183X.2013.815388. Dalla Zuanna, G., P. Farina, S. Strozza. 2009. Nuovi Italiani, Il Mulino, Bologna. Devine, D. 2005. Welcome to the Celtic Tiger? Teacher Responses to Immigration and Increasing Ethnic Diversity in Irish Schools," International Journal of Sociology of Education", 15 (1): 49–68. Dunne, M., L. Gazeley. 2008. Teachers, Social Class and Underachievement, "British Journal of Sociology of Education", 29 (5) (September): 451–463. doi:10.1080/01425690802263627. Jamoulle, P. 2005. Des hommes sur le fil. La construction de l’identité masculine en milieux précaire, La Découverte, Paris. Keddie, N. 1971. Classroom Knowledge, in Young M. (a cura di) Knowledge and Control, CollierMacmillan, London. Lareau, A. 1987. Social Class Differences in Family-School Relationships: The Importance of Cultural Capital, "Sociology of Education" 60 (2): 73–85. ———. 1989. Home Advantage. Falmer Press, London. 125 RAPPORTO SECONDGEN ———. 2003. Unequal Childhoods. Class, Race, and Family Life, University of California Press, Berkeley and Los Angeles. Laval, C., P. Clement, G. Dreux. 2012. Le Nouvelle École Capitaliste, La Découverte, Paris. Lepoutre, D. 1997. Coeur de Banlieue. Codes, Rites et Langages, Odile Jacob, Paris. Mac an Ghaill, M. 1988. Young, Gifted and Black, Open University Press. Masson, P. 1997. Elèves, parents d’élèves et agents scolaires dans le processuss d’orientation, "Revue Française de Sociologie" 38 (1): 119–142. McNail, L. 2000. Contradictions of School Reform. Educational costs of standardized testing, Routledge, New York. MIUR. 2013. Gli alunni stranieri nel sistema scolastico italiano. A.S. 2012/2013, Ministero dell'istruzione, Roma. Mocetti, S. 2008. Educational Choices and the Selection Process before and after Compulsory Schooling, 691. Banca d’Italia, Roma. Montanaro, P., V. Mariani, M. Paccagnella. 2013. Le immatricolazioni nell’università Italiana: evidenze recenti e spunti di riflessione, "Scuola Democratica. Learning for Democracy", 2: 325–352. Pitzalis, M. 2012. Effetti Di Campo. Spazio Scolastico E Riproduzione Delle Disuguaglianze, "Scuola Democratica" 6: 26–46. Queirolo-Palmas, L. 2002. Etnicamente Diversi? Alunni di origine straniera e scelte scolastiche, "Studi Di Sociologia", 60: 199–213. ———. 2009. Dentro Le Gang. Giovani, Migranti E Nuovi Spazi Pubblici, Ombre Corte, Verona. Queirolo-Palmas, L. (a cura). 2006. Prove Di Seconde Generazioni, F.Angeli, Milano. Ravecca, A. 2009. Studiare Nonostante. Capitale Sociale E Successo Scolastico Degli Studenti Di Origine Immigrata Nella Scuola Superiore, F. Angeli, Milano. Reay, Diane. 1998. Class Work. Mothers’ Involvement in Their Children’s Primary Schooling, UCL Press, London. Ricucci, R. 2010. Italiani a Metà. Giovani Stranieri Crescono, Il Mulino, Bologna. Rist, R. 1977. On Understanding the Process of Schooling: The Contributions of Labeling Theory, in C. Halsey, Karabel, Power and Ideology in Education, Oxford University Press, New York. Rist, R. 1970. Expectations: The Self-Fulfilling Prophecy in the Ghetto Education, "Harvard Educational Review", 40 (3): 441–451. Rumbaut, R. 1997. Assimilation and Its Discontents: Between Rhetoric and Reality, "International Migration Review", 31 (4) (December): 923–960. doi:10.2307/2547419. Saraceno, C., N. Sartor, G. Sciortino (a cura di) 2013. Stranieri e Disuguali: le disuguaglianze nei diritti e nelle condizioni di vita degli immigrati, Il Mulino, Bologna. Van De Werfhorst, H., F. van Tubergen,F. 2007. Ethnicity, Schooling, and Merit in the Netherlands. "Ethnicities", 7 (3) (September), pagg. 416–444. doi:10.1177/1468796807080236. Willis, P. 1977. Learning to Labour. How Working-Class Kids Get Working-Class Jobs, Saxon House, Farnborough. 126 RAPPORTO SECONDGEN Famiglie immigrate e interazioni con le scuole.1 Maria Perino, Enrico Allasino Le specificità delle seconde generazioni: eredità culturale o effetti delle migrazioni? La letteratura scientifica nordamericana ed europea ha sovente interpretato i percorsi di integrazione dei migranti e dei loro discendenti, le seconde generazioni, a partire dal fatto che essi originano da popolazioni di storia, lingua e cultura diverse e che le differenze nazionali (o “etniche”) rispetto alla popolazione “autoctona” spiegherebbero in larga misura il grado di successo e le caratteristiche della loro integrazione nella società di arrivo. Il doppio sguardo adottato dalla nostra ricerca, tanto sul presente quanto sul passato storico, ci permette di cogliere similitudini e continuità, oltre che differenze, dei processi di inserimento che caratterizzano e hanno caratterizzato le famiglie migranti e i loro figli nel nuovo contesto di arrivo, spostando l’attenzione dalla questione delle diverse culture nazionali a quella dei meccanismi sociali propri del processo migratorio come tale (Ceravolo, Eve e Meraviglia, 2001; Eve, 2010). I risultati confermano l’ipotesi iniziale che sia l'effetto “migrazione” a incidere in modo specifico sulle traiettorie degli individui e dei gruppi che la sperimentano, e non tanto la presunta “cultura di origine”. Riteniamo infatti che la popolazione migrante e i suoi discendenti abbiano delle specificità legate appunto alla migrazione e che lo spostamento geografico, in sé, abbia importanti e duraturi effetti sull’accesso al mercato del lavoro, sulle reti sociali che devono essere ricostruite, sulla struttura familiare che viene trasformata dalle separazioni e dai ricongiungimenti. In particolare, le famiglie, oggi come un tempo, sono ristrutturate dalla migrazione e questo obbliga a dividere diversamente i compiti e i carichi familiari (la lontananza dei nonni, ad esempio, ha degli effetti molto importanti sull’organizzazione della cura dei figli piccoli), e a stabilire relazioni che non sono né quelle della situazione di origine, né quelle del paese di arrivo (Grillo ed. 2008). La famiglia immigrata è diversa. Come indicano Elias e Scotson (1964), le differenze tra le configurazioni a cui si dà il nome di “famiglia” stanno nelle “unità più vaste di cui le famiglie fanno parte”, cioè nel nostro caso nei contesti di inserimento. Per questo motivo i nostri intervistati non sono classificati in base alle origini, e lo svantaggio o il vantaggio non sono analizzati risalendo ai “tratti originari”, ma si è cercato di spiegare la collocazione all’interno della scuola italiana partendo dall’esperienza quotidiana, dagli ambienti sociali e dalle risorse tipiche di chi è dentro direttamente o indirettamente - a un “processo migratorio”. Il processo migratorio è un processo di lungo termine che contribuisce a una collocazione specifica nel sistema di stratificazione sociale poiché ha diversi effetti sulla vita degli individui, sulle carriere formative e occupazionali dei figli (e forse dei nipoti). Esso influenza il percorso sociale degli immigrati – di diverse origini e diverse generazioni – agendo sulle reti familiari e personali, costringe a esplorare gli ambienti di inserimento con mappe che sono deformate e generiche non perché sono determinate dalla cultura o dal peso di una indefinita tradizione, ma perché attingono a reti ristrette e povere di informazioni, a legami avviati all’inizio della migrazione e che possono condizionare quelli che si formeranno successivamente. Un aspetto centrale di questi processi è costituito dalle carriere scolastiche e professionali dei figli degli immigrati, nelle quali sono in gioco non tanto questioni di differenza culturale e resistenze della popolazione locale alla diversità culturale, ma altri meccanismi sociali. Le conseguenze dello spostamento geografico sulle reti sociali e sui tempi sociali sono note e riconosciute (Grieco, 1987; Werbner, 1990, Portes e Sensenbrenner, 1993; Bourdieu e Wacquant,1992) ma ciò che a noi pare ancora poco affermato è che le condizioni sociali create dalla migrazione strutturano sistematicamente la vita delle famiglie, il capitale sociale, le modalità di accesso alle informazioni e alle opportunità effettivamente disponibili. Nel dibattito sulle politiche per l’integrazione si riscontra invece una propensione radicata e diffusa per interpretazioni e spiegazioni di tipo culturalista, che fanno della cultura d’origine dei migranti la chiave esplicativa dei comportamenti e dei percorsi d’inserimento. In questa prospettiva, le “reti comunitarie” di connazionali sarebbero la conseguenza dell’immigrazione e sarebbero principalmente le differenze culturali dei migranti, 1 Dal paper presentato a Esa, European Sociological Association, 11th Conference: Crisis, Critique and Change, Torino, 28 - 31 August 2013 127 RAPPORTO SECONDGEN la presunta distanza tra la “nostra” e la “loro” cultura a dar conto dei processi di esclusione e marginalità sociale e delle traiettorie verso il basso dei giovani di origine immigrata. Anche la ricerca frequentemente considera il cosiddetto svantaggio etnico, costituito dall’origine nazionale, dalla religione, o dai tratti somatici, come spiegazione dei percorsi, soffermandosi quindi su elementi ascritti, assunti in modo non problematico – di solito identificati in modo omogeneo per cittadinanza o confessione religiosa predominante – piuttosto che sull’interazione e sull’azione delle persone, sui meccanismi d’inserimento e di selezione che caratterizzano i migranti nelle società di arrivo. Nella scuola e nel mercato del lavoro invece, i giovani di origine immigrata si inseriscono in determinate posizioni non tanto in conseguenza delle loro origini nazionali e delle loro specificità culturali, ma per le specificità delle reti sociali, del mercato del lavoro, dei quartieri e della famiglia, degli ambienti sociali frequentati. Tutti a scuola Da un punto di vista scolastico, grande parte dei dati e delle ricerche recenti conferma che in Italia un’elevata percentuale di giovani di origine immigrata si concentra nei segmenti dell’istruzione professionale e tecnica e ha risultati inferiori alla media degli italiani, ma non dei compagni di classe (Miur, Fondazione Ismu, 2011). Chi sono dunque i compagni di classe? Nelle aule delle scuole superiori i figli degli immigrati si siedono spesso accanto a ragazzi italiani provenienti da famiglie meno abbienti e meno scolarizzate della media, in cui i genitori svolgono professioni manuali o piccole attività autonome2. Si può ipotizzare che sia una conseguenza del sistema scolastico italiano se i ragazzi stranieri e i loro specifici compagni di classe italiani si trovano in percorsi meno prestigiosi in termini di credenziali scolastiche. E la collocazione in percorsi che sembrerebbero più facili fa sì che i giovani di origine straniera si adattino al livello dei risultati “locali” stabilito dalla classe, in una socializzazione fra pari che rende comportamenti e atteggiamenti degli allievi stranieri simili a quelli di coetanei meno dotati di capitale culturale, sociale ed economico. La concentrazione nei corsi professionali dei figli di immigrati è spesso interpretata con una spiccata tendenza all’inserimento precoce nel mondo del lavoro che caratterizzerebbe le famiglie straniere. Dalle nostre interviste emerge, diversamente da quanto si potrebbe immaginare, che anche nei casi di indigenza economica le famiglie straniere, come le famiglie italiane, vogliono che i figli vadano a scuola o che riprendano percorsi interrotti. L’esperienza scolastica è centrale, sia per coloro che hanno una traiettoria lineare, sia per coloro che, non rinunciando agli studi, hanno percorsi accidentati, erratici e situazioni di stagnazione caratterizzati da ripetenze, ritardo scolastico e passaggi da una scuola all’altra3. Dalle interviste risultano molto numerosi i percorsi incerti e disorganizzati, concentrati nell’istruzione professionale, dalla quale spesso si esce e si entra inseguendo corsi senza sviluppi in una carriera lavorativa. La storia di Hasnaa4 è esemplare: “Allora, in terza media ho fatto uno sbaglio... cioè non è un mio sbaglio, non so chi mi doveva dire che c'era la scuola professionale e la scuola regionale no? Io non sapevo la differenza... sono andata prima all'* per fare la cuoca e non mi hanno accettato perché ero troppo piccola, allora mi sono iscritta al *, odontotecnico, ho fatto 15 giorni e non mi piaceva, i compagni erano belli, ma i professori non mi andavano, era tutto strano lì, non era come le altre scuole... Sono uscita e ho incontrato un'amica di mia madre, a mia madre non ho detto che cambiavo scuola, questa qui era appena arrivata dal Marocco e non sapeva l'italiano, le ho detto che mia madre non c'era, se poteva firmarmi delle cose. L'ho portata allo *, lì mi ha firmato tutto e mi ha iscritta. Poi mia madre mi ha scoperto e le ho spiegato tutto ma non mi ha detto niente! (ride) . Lì ho fatto 3 anni di “Commessa segreteria” e poi lo stage al *. Quando ho finito, avevo quasi 17 anni ma non potevo ancora andare a lavorare perché non avevo ancora 18 anni e 2 Molti di questi compagni di banco italiani sono i nipoti degli immigrati arrivati durante la grande immigrazione interna attorno agli anni ’60, come è emerso da una precedente ricerca condotta nelle scuole superiori delle province di Asti, Alessandria e Torino. Questo sembra confermare gli effetti di lungo termine dell'immigrazione regionale del passato sul sistema di stratificazione scolastica e sociale cfr. Eve, Perino (2011). 3 Anche in un’altra recente ricerca italiana (Lagomarsino, Ravecca, 2012, p 115-116) si evidenzia che gli intervistatori hanno avuto difficoltà a incontrare ragazzi non inseriti in nessun tipo di percorso. Anche nei casi di abbandono, è frequente un reinserimento nei corsi regionali di formazione professionale, magari mentre si fanno lavoretti. Questo è confermato dalle nostre interviste nelle quali non si trovano dei “no” definitivi alla scuola, e neppure, in molti casi, nette distinzioni tra lavoratori - precari, saltuari, irregolari - e studenti . 4 I nomi degli intervistati sono di fantasia. I nomi delle scuole sono sostituiti da un asterisco. 128 RAPPORTO SECONDGEN boh... mi sono iscritta l'anno scorso all'* con una mia amica, ora sto facendo il secondo anno, è un corso di 2 anni. […] Non c'era più niente da fare, poi ho incontrato ‘sta mia amica e le ho detto: Devo iscrivermi da qualche parte al posto di stare ferma, per prendere un'altra qualifica visto che posso. Così sono andata di nuovo all'* per iscrivermi al corso di cuoca, ma non mi hanno accettato perché ero troppo grande sta volta! Allora una prof. mi ha detto che c'è un altro corso da cameriera, è la stessa cosa più o meno, ci ho pensato... e alla fine ci siamo iscritte io e ‘sta mia amica.”(Intervista 154). Le famiglie, nella quasi totalità, anche nei casi di madri sole, sostengono e appoggiano la scelta di studiare – talvolta come alternativa al “non fare niente” – e sono disposte ad affrontare difficoltà economiche ritenendo che le spese per l’istruzione, secondaria e in alcuni casi universitaria, siano una priorità. Persino alcuni tra coloro che hanno carriere ai margini o nell’illegalità sono iscritti a scuola. Andare a scuola, continuare a studiare, è un “riparo” o un modo per evitare di “finire a fare un lavoro come il mio” ossia un lavoro manuale sottopagato “da immigrati”. Questo è un elemento di differenziazione dei percorsi scolastici e professionali dei giovani di seconda generazione delle migrazioni contemporanee rispetto alle traiettorie dei figli degli immigrati regionali del passato. Diversamente da quanto accadeva per le famiglie immigrate dal Meridione negli anni ‘60, sembra rarissimo che le famiglie straniere chiedano ai figli di abbreviare il percorso scolastico per contribuire con un proprio salario. I figli raccontano di essere stati incoraggiati a proseguire gli studi o a rimanere a scuola anche nei casi di insuccesso scolastico. «I tuoi genitori come hanno reagito alle bocciature? Alla prima male, perché io studiavo prima ma dalla terza ho lasciato e l’hanno presa un po’ male, soprattutto mia mamma. Mia mamma l’ha presa malissimo, ha pianto. Loro non sono mai d’accordo per lavorare, anche adesso, vorrebbero che studiassi, però io ... Poi [dopo la seconda bocciatura ] i miei non mi volevano più fare uscire, solo con le mie migliori amiche, però poi sono stata promossa e si sono ammorbiditi ....» (Intervista 75). La famiglia vede nella scuola e nell’investimento in una scolarità lunga un possibile canale di mobilità sociale, in alcuni casi ha ostacolato anche i “lavoretti” che i figli volevano fare per avere una disponibilità economica ai propri consumi, poiché avrebbero rischiato di distrarsi dallo studio: «mia madre non ha mai preteso che io facessi qualcosa. Lei mi dice: Io lavoro, guadagno e spendo anche per te, tu studi e fai quello che devi .... Ognuno ha il suo ruolo. Lei e anche mio padre sentono che il loro ruolo è mantenerci e il nostro è quello di studiare. Quindi non ho mai sentito l'esigenza di guadagnare qualcosa ...loro non me l'hanno mai chiesto e anzi, se avesse preso troppo tempo sono sicura che non mi avrebbero permesso di farlo» (Intervista 80). Per i ragazzi ciò può generare una situazione di paradosso dal momento che il supporto finanziario e morale da parte delle famiglie sembra scontrarsi in alcuni casi con l’effetto, che vedremo, di scoraggiamento e di demotivazione esercitato dall’istituzione scolastica nei confronti di chi ha risultati scolastici negativi o tempi di apprendimento diversi a causa delle difficoltà linguistiche. La scuola di massa e l’aumento della durata media della scolarità sono uno dei cambiamenti più netti tra l’esperienza dei figli degli immigrati stranieri contemporanei rispetto ai figli degli immigrati regionali del passato. Mentre per le seconde generazioni di immigrati interni degli anni ’60-’70 il lavoro era un’alternativa allo studio, per le seconde generazioni di oggi non sembra messa in discussione l’utilità o l’opportunità di provare comunque a proseguire la formazione: è una novità rilevante, almeno per l’Italia. In realtà, nei racconti dei giovani degli anni sessanta figli di immigrati meridionali, il lavoro disponibile per chi abbandonava la scuola era quasi sempre precario, mal pagato e poco professionalizzante, ma intanto era percepito come un primo passo che avrebbe condotto prima o poi a un inserimento definitivo nel lavoro operaio e comunque la scuola era vista come destinata ad altri, “non fatta per loro”. La somiglianza col passato sta invece nel fatto che le famiglie immigrate hanno cercato nell’avviamento al lavoro, e oggi nella scuola, anche un riparo da esperienze di devianza, uno strumento di formazione e di controllo rispetto a un ambiente che non si conosce e che presenta potenziali rischi di devianza (in particolare tossicodipendenza e microcriminalità). D’altra parte l’effettiva barriera per l’accesso alle occupazioni più prestigiose si è spostata in avanti, dall’istruzione secondaria superiore all’università, e oggi è soprattutto l’ammissione all’ università a bloccare la prosecuzione del percorso formativo. Pochi dei giovani stranieri da noi intervistati che hanno un lavoro, come gran parte dei giovani italiani, sono stabilmente inseriti in una posizione che prevede definiti passaggi di carriera, o che sia coerente con le competenze acquisite a scuola. Non sappiamo quali conseguenze ne deriveranno rispetto alla collocazione di classe, tuttavia è chiaro, dai racconti dei giovani, che una scolarità lunga non garantisce un percorso di “integrazione riuscita”, anzi, talvolta produce, come vedremo, un disorientamento che si manifesta 129 RAPPORTO SECONDGEN specialmente nella scelta dell’università, quando avviene “perché non ci sono posti di lavoro”, “tanto per provare”, senza progetti e conoscenze dell’istituzione. Come si arriva in quella classe? Informazioni e scelta scolastica Quali sono i meccanismi che determinano una concentrazione dei figli degli immigrati nelle scuole secondarie superiori dove si trovano gli italiani più svantaggiati e “problematici”? In passato il problema era soprattutto la selezione precoce nelle scuole inferiori, anche se la scuola superiore era chiaramente stratificata in una gerarchia di qualità e prestigio. Oggi la selezione non avviene più nei corsi inferiori e tutti i diplomi consentono l’iscrizione all’università, ma alle superiori molti studenti sono respinti, abbandonano gli studi o vengono instradati in percorsi di bassa qualità, con poche prospettive di lavoro e che non preparano a superare le prove di ammissione e i primi anni di corso all’università. L’aumento della durata media della scolarità fa sì che le competenze nell’orientarsi in un sistema, siano determinanti per le carriere. Nella scuola, e ancor prima, nelle modalità di scelta dell’indirizzo, della sezione, si producono processi di selezione che condizionano i percorsi successivi. Pensiamo al tipo di informazioni che possono circolare all’interno delle reti sociali di famiglie migranti e su come esse possono influenzare l’iscrizione a determinate scuole o l’inserimento in certe carriere lavorative. «Che cosa hai scelto di fare dopo le medie? Ecco, questo è il grosso errore che ho fatto, avendo dei genitori che non hanno studiato, qua in Italia, non sanno come funzionava la scuola italiana, io ero uscito con “distinto” dalle medie e mio papà, così per sentito dire, io volevo fare magari geometra perché mi piaceva molto disegno tecnico o liceo scientifico, mio papà ha detto: ma no, vai a fare un istituto professionale che ti insegna un mestiere per andare a lavorare. Ed è stato il più grosso errore della mia vita che ho fatto. Anche i professori ... non mi hanno indirizzato ... io ero uscito benissimo e loro mi hanno detto: vai a fare l’istituto professionale; non capisco il perché; anche mio papà ha insistito per questa cosa qua che poi ti trovi un lavoro, un mestiere, io allora pensavo che le scuole fossero uguali, cambiava solo l’indirizzo, non riuscivo a visualizzare questa cosa del liceo, istituto tecnico, professionale» (Intervista 64). Il padre, di fronte a un sistema che non conosce, orienta a un percorso che gli pare chiaro nelle finalità e che lascia aperta l’opzione universitaria. Sua figlia non propone un’alternativa perché pure lei, nonostante abbia frequentato in Italia la scuola media, non è informata sulle differenze tra indirizzi di studio. I genitori stranieri incontrano maggiore difficoltà a conoscere quali corsi sono offerti, ad avere informazioni su determinati indirizzi scolastici e sulla reputazione di alcuni istituti, a valutare se l’orientamento scolastico è avvenuto “al ribasso”, nonostante i risultati nettamente positivi, come in questo caso, o perché si lascia poco tempo per acquisire padronanza nella lingua italiana e la si usa come criterio, come è accaduto a Costel e a Filippa. Costel: «La scuola media mi aveva orientato verso un professionale, certamente non un liceo. Mi dicevano che era troppo difficile per me per la questione della lingua, ed infatti non l’ho fatt.» (Intervista 3). «In terza media, come hai deciso di andare al *?» Filippa: «Io in quel momento non sapevo le scuole, di cosa di tratta. I professori dovevano aiutarci un po' e la mia professoressa di italiano mi ha consigliato questa “Per te va bene questa dato che non sai ancora l'italiano e non puoi fare una scuola difficile» (Intervista 84). Le interviste raccolte consentono di mettere a fuoco i meccanismi sociali a livello micro che contribuiscono a plasmare le scelte e i percorsi scolastici, a) per esempio le informazioni trasmesse mediante “passaparola” tra i giovani e tra famiglie migranti rispetto alla reputazione di una scuola: «Quella scuola lì, (l’istituto professionale per elettricista.) non andava bene... vedendo i ragazzi che sono usciti da quella scuola, gli esempi, sono ancora in giro adesso […] è sempre una scuola professionale, t'insegna il lavoro, però per andare a rovinarmi tre anni... per la gente che ci va! Ovviamente cerco sempre di andare nella scuola dove non studi molto, ma dove almeno cerco di non “rovinarmi” diciamo...non esagerare. Se sei in una classe dove diciannove fanno casino, non puoi stare lì a non fare niente, proprio non puoi... » (Intervista 114). b) In qualche caso una scuola può aver fama di essere “accogliente e ben disposta verso gli stranieri” (Kasinitz et al. 2008): 130 RAPPORTO SECONDGEN «Io sinceramente all'inizio non sapevo neanche di cosa si trattasse quando sono venuta qua, poi pian piano ho capito... avrei scelto un'altra scuola di sicuro, ma è andata così, pazienza! Sicuramente non la rifarei, però da una parte sono anche contenta, ho conosciuto delle amiche... Se fossi andata in un'altra scuola, forse non sarei stata così accolta... questa scuola è anche un po' per stranieri, diciamo che ci vanno soprattutto stranieri, invece andare al liceo classico non ce ne sono così tanti, sono due o tre e basta. Invece lì eravamo metà italiani e metà stranieri, allora ci capivamo» (Intervista 84). c) Talvolta, se si verificano azioni di dirottamento verso scuole e indirizzi “da immigrati” lo si capisce tardi, come testimonia la madre di Pilar: « E’ andata al * . Me lo ricordo bene, perché non sapevo bene come fare. Io sono un’insegnante e per me la scuola è importante. Quando sei in un paese straniero, non sai molte cose. Così ho chiesto un po’ in giro e una mia amica mi ha parlato di questa scuola, ci andava sua figlia. Mi ha detto che poteva essere utile per trovare un lavoro. Adesso so che il * non è una buona scuola. Ci vanno tanti stranieri. E secondo Lei per questo non è una buona scuola? Si sa che agli stranieri non si lasciano i posti migliori. Nel lavoro e nella scuola. Dovevo informarmi di più. La colpa è mia. Mi sono fidata» (Intervista 55). d) Una giovane ha seguito le indicazioni dell’insegnante di italiano che le ha suggerito di fare l’istituto professionale di servizio sociale perché spendibile nella “comunità di emigrati”. I genitori erano totalmente disinformati. «Ma guarda, i miei genitori non sono, cioè, non hanno… cioè, ti dico, non hanno gli strumenti anche per poter fare un confronto tra un istituto e l’altro. Anzi, i miei genitori, forse, magari con la poca conoscenza… Beh, tieni conto, mio padre è da tanti anni che vive in Italia però non ha, diciamo, la conoscenza approfondita di tutti i servizi sul territorio oppure sai di questioni amministrative» (Intervista 124). e) Il materiale diffuso nelle scuole o in internet può dare degli orientamenti alle famiglie ma talvolta è visto con diffidenza dai ragazzi: «sono tutte pubblicità, siamo tutti bravi a scrivere, poi alla fine non fanno nulla di ciò che dicono» (Intervista 7) i quali sono consapevoli che non basta sapere quali indirizzi e corsi sono offerti, bisogna conoscere bene il sistema. Nella scelta entrano in gioco anche la casualità, il “sentito dire”, i malintesi su che cosa significhi un corso, la conformità al percorso dei fratelli maggiori, l’assenza del sostegno della famiglia che in molti casi esercita una pressione generica a continuare gli studi e lascia scegliere. “Fai quello che vuoi tu”, “fai quello che ti piace”, “basta che ti impegni” sono frasi ricorrenti nelle interviste e denotano incompetenza nell’affrontare l’istituzione scolastica più che una particolare fiducia nelle capacità decisionali dei figli. L’intervista a un ragazzo marocchino (Intervista 101) illustra differenti difficoltà che si rinforzano reciprocamente: «…e alla fine mi sono iscritto al *, meccanica, professionale, e sto facendo il quarto anno. Perché hai scelto meccanica? perché ho saputo di meccanica, e credevo che era l’unica più facile che riuscivo affrontare. L’ho deciso io questo. Ci avevano pure dato un libro arancione con le altre scuole [orientamento della scuola], ma ho deciso io, poi mi hanno parlato, e hanno fatto loro l’iscrizione. Delle medie solo uno [compagno] è venuto al *, altri, tipo liceo scientifico, istituti tecnici Mio padre? Niente. [assenza di indicazioni dai genitori], era l’unica cosa che potevo fare. Ma non avevi in mente altre altre idee? L’idea di diventare un giocatore, quello sì !!! in Marocco già giocavo a calcio, mi piace il calcio, mi piace lo sport, lo faccio comunque. […] Non sapevo che c’erano delle scuole sportive, non lo sapevo, [mancanza di informazioni], ho pensato solo a meccanica ma sinceramente pensavo un’altra cosa. Tipo, quando si guasta una macchina tu vai dal meccanico, invece è totalmente un’altra cosa: calcolo numerico, autocad ... non me l’aspettavo, mi aspettavo un’altra tipo chance, quando siamo scesi a veder le macchine e ... no, no, non ho pensato di cambiare scuola [difficoltà a cambiare scuola], ormai ero lì, e anche i miei fratelli, uno fa elettricista, quello più grande, sempre lì al *, ultimo anno, e l’altro ha fatto un anno tipo il dentista, ecco sì, odontotecnico, sempre lì al *, si è trovato in difficoltà, non sapeva proprio fare, l’hanno bocciato e boh, ha deciso di passare a meccanico. Siamo pure tutti e tre in classe, sia io che mio cugino, che lui.” Continua anche dopo la qualifica con queste motivazioni, benché non abbia alcuna voglia di studiare e abbia dovuto ripetere un anno: la scuola è comunque un’ alternativa alla strada: “Tu però, alla fine del terzo anno avresti potuto smettere. Sì, però, visto che dicono : la crisi, e altri miei compagni che avevano finito la quinta non sono riusciti a trovare lavoro, quindi, meglio che continuo, tutto ok anche se studiare ... niente, non mi piace niente.” Il problema dell’orientamento scolastico, come terreno che può generare disuguaglianze, si pone dunque come una questione di assoluta rilevanza nei percorsi dei giovani di seconda generazione che tocca trasversalmente famiglie, ragazzi e istituzioni scolastiche. L’orientamento verso i corsi professionali da parte dei docenti può essere fatto in buona fede, per evitare cocenti delusioni e ripetenze, ma indirizza comunque verso corsi considerati “facili” dagli stessi studenti e 131 RAPPORTO SECONDGEN per questo svalutati e svalutanti ai loro occhi. Nelle scuole secondarie di primo grado frequentate dagli studenti da noi studiati esistono da tempo procedure ufficiali e formali per l’orientamento scolastico (test, presentazioni e visite delle scuole superiori, colloqui orientativi) ma queste procedure non sembrano in grado di incidere in profondità sul risultato finale che vede i giovani di origine immigrata indirizzati verso corsi tecnico professionali in misura maggiore dei coetanei italiani. Dalle interviste risulta che l’orientamento scolastico non ha fornito informazioni molto chiare o, almeno, non sembra essere avvenuto nella maggior parte dei casi con modalità realmente incisive sulla scelta della scuola superiore. In alcuni casi le famiglie resistono all’orientamento della scuola. A volte accade grazie all’intervento di una figura esterna che diventa cruciale, spesso è il datore di lavoro di uno dei familiari, utile per acquisire informazioni e per avere consigli. Questo può essere un vantaggio che apre opportunità alternative all’orientamento “verso il basso” quando il datore di lavoro è aggiornato sulla reputazione delle scuole secondo i parametri della classe media locale: «Mi ha indirizzato la signora dove lavorava mia mamma, che aveva i figli che avevano fatto quella scuola, e comunque io le avevo detto che cosa volevo fare giù e lei conosceva il liceo scientifico e ha detto che corrispondeva» (Intervista 105). La fiducia verso i datori di lavoro può così superare l’indicazione della scuola: “I miei non conoscono bene come funziona la scuola in Italia e quando ho dovuto scegliere abbiamo chiesto alla famiglia dove lavora mia nonna di aiutarci a capire. Io avevo le idee chiare, volevo diventare ingegnere. Nella nostra comunità c’è un signore che è un ingegnere, ha lavorato nelle Filippine. Allora con la signora abbiamo guardato il catalogo delle suole superiori e abbiamo scelto. E gli insegnanti: cosa ti hanno suggerito alla fine della scuola media? La mia insegnante aveva detto a mia madre di scegliere per me un istituto tecnico, così posso scegliere se andare all’università o cercarmi un lavoro. Mi avevano suggerito il *, ma il marito della signora di mia nonna ci ha consigliato l’*, perché migliore. Il *, adesso, lo so è una scuola di periferia, mentre questa è centrale; lì si sente che ci sono molti stranieri» (Intervista 7). Questo caso mette in luce i criteri adottati dai datori di lavoro condivisi dalla famiglia e dal ragazzo che ha progetti scolastici ambiziosi. La scelta di una scuola rispetto a un’altra nell’ambito dello stesso indirizzo di studio è motivata con una distinzione tra scuole di centro/scuole di periferia, a cui corrisponde la differenza tra scuole che funzionano e scuole problematiche, sostenendo che in queste ultime ci sono molti stranieri e che per questo i datori di lavoro le avevano sconsigliate. Tuttavia per molti studenti con percorsi non brillanti l’orientamento alla scuola secondaria di secondo grado sembra semplicemente confermare l’idea di non essere adatti a una “scuola difficile”: «Io chiedevo... perché non sapevo neanche che scuole c’erano qua. Il livello scolastico che avevo in terza media non era proprio buonissimo per un liceo. Se tornassi indietro io farei un liceo, anche con quella media che avevo [votazioni basse].... però va bene anche così, non mi pento. Ho scelto la scuola superiore non per tanti motivi, perché avessi una preferenza sulla singola scuola, ma perché era la più vicina a casa mia, - perché mi dicevano che era più facile rispetto al liceo... poi a quell’epoca avendo quei pensieri di bassezza, che non potevo farcela, come mi dicevano quelle streghe là [le compagne]... “Tu non ce la fai a fare un liceo”. Alcune di loro si l’han fatto, ma se le paragoni a me ora non sanno niente perché non studiano. I professori mi dicevano “Ma fai questa scuola [un istituto professionale], è nello stesso edificio [delle scuole medie], è una bella scuola, poi dopo cinque anni se non vai all’università hai già una professione in mano, ti fai due soldi”. Non mi hanno indirizzato verso altre scuole» (Intervista 69). Alcune domande delle interviste erano infatti orientate a capire se certe scuole o certi indirizzi non erano stati presi in considerazione e perché. I racconti non sempre sono espliciti, alcune risposte sono molto brevi e generiche ma si può affermare che il numero delle alternative effettivamente prese in considerazione è circoscritto e generalmente basso. Se si è figli di genitori istruiti l’analisi delle opzioni è più articolata, ci si informa, si discute ed è più facile intraprendere percorsi diversi da quelli consigliati dalla scuola. La famiglia può vivere una mobilità occupazionale discendente ma essere culturalmente attrezzata nel seguire e consigliare i figli inducendoli ad esempio a scelte scolastiche nelle scuole migliori e “più difficili” . Genitori e insegnanti: informarsi e negoziare Le interazioni con la scuola e le istituzioni, che influenzano i percorsi scolastici dei figli, sono difficili ma non tanto per differenze culturali o per un orario di lavoro particolarmente gravoso dei genitori di origine straniera. Nei racconti dei figli la capacità di negoziazione delle famiglie risulta scarsa, e talvolta comporta 132 RAPPORTO SECONDGEN l’abbandono del giovane alla burocrazia del sistema. Alì viene iscritto a una scuola professionale e tenta dopo due anni di cambiare: « Già dal secondo anno vedendo cosa c’era in giro, scientifico, tecnico, un po’ i compagni, che erano persone che gliene fregava poco o niente della scuola, in classe andavamo bene in tre, e quindi lì ho deciso di cambiare istituto, di andare dal professionale a un tecnico. Sono andato a parlare a scuola e mi hanno detto di fare il serale. No, io voglio fare il diurno. E con quali argomenti ti proponevano il serale? Dicevano che è più difficile l’integrazione al diurno, c’erano tante materie, che al serale era meno difficile, ma io non è che potevo fare il serale e fare niente di giorno, allora nel parlare, il preside ha detto: ti preparo la documentazione e tutto. Io ho aspettato perché dovevo fare gli esami integrativi delle tre materie col programma di due anni che non avevo fatto. Io sono andato, perché ero deciso di fare questo cambiamento, ma quando sono tornato, si era dimenticato che doveva prepararmi i documenti. ... io mi sono sentito un po’ .... non .... non rispettato, e allora, va be’, ho continuato il professionale» (Intervista 64) La tendenza dei genitori a delegare l’educazione ai docenti e a intervenire poco nei colloqui e negli incontri può venire scambiata per disinteresse per l’istruzione dei figli e attribuita alla loro cultura o al maggiore autoritarismo del sistema scolastico del paese di origine. In realtà questo apparente distacco deriva non solo da problemi oggettivi (gli impegni di lavoro, le difficoltà linguistiche), ma in particolare dal fatto che gli insegnanti stessi rinviano una immagine negativa del rendimento scolastico dei figli e della influenza dei genitori su di essi, attribuendo loro pratiche educative errate (Delay, 2011). Anche quando i genitori stranieri interloquiscono con gli insegnanti, di rado hanno le risorse culturali e sociali per negoziare attivamente le pratiche educative, i giudizi e gli orientamenti vocazionali. Questo è un limite di tutti i genitori delle classi medio basse nei confronti del sistema scolastico5. I genitori di ceto medio superiore (compresi i casi di immigrati) sono meno subalterni alla dominazione simbolica e culturale del sistema scolastico e sanno controbattere gli argomenti e le proposte dei docenti. Ottengono quindi condizioni più favorevoli per i figli e mantengono un maggior controllo del loro percorso (Lareau, 2011). In effetti, anche fra i nostri intervistati, come abbiamo visto, vi è qualche caso di giovani di seconda generazione che ha rifiutato il consiglio di iscriversi a corsi professionali e si sono iscritti ai licei ottenendo risultati positivi. Tuttavia, la minore capacità delle famiglie immigrate di orientarsi nel sistema scolastico italiano non risente solo di fattori di classe, comuni con gli italiani delle classi popolari, o di discriminazioni dirette e indirette da parte della scuola. Vi è una serie di fattori specifici della condizione di migranti che agiscono con gli stessi meccanismi dei fattori di classe . Anche quando le famiglie immigrate appartenevano ai ceti medi del paese di origine, la situazione conosciuta è diversa da quella del nuovo paese di residenza e soprattutto la migrazione ha troncato molti rapporti e comportato per tanti il declassamento . La situazione dei genitori di classe media immigrati è ben illustrata da un padre colto e che ha elevate aspettative rispetto all’istruzione del figlio :«io ricordo che andai dal preside, a parlare con il preside. non sono riuscito a parlargli, lui era molto secco. Io gli volevo dire delle difficoltà del ragazzo, non sono riuscito» E succede la stessa cosa con un’insegnante . «Non sono riuscito a parlare, ha solo detto dei voti, che non aveva una buona preparazione...». Ripensando a quelle difficoltà, riconosce la sconfitta. Avevano scelto scuole prestigiose frequentate dalla borghesia locale ma “l’integrazione” non è avvenuta. « Siamo stati un po’ vanitosi. Avevamo chiesto in giro: qual è la scuola migliore a * senza fare domande precise. Dove stavamo eravamo vicini alla scuola * dove ci dicevano che andava tutta l’élite di *, sai che chi arriva dall’estero come noi ha l’idea fissa dell’istruzione, della scuola....» Un altro padre, insegnante, si adatta, sceglie di apparire “modesto” nei colloqui con gli insegnanti che probabilmente si aspettano dai genitori immigrati la docilità o l’opposizione diretta. «Le è mai capitato di sentirsi a disagio nei rapporti con gli insegnanti di suo figlio in Italia? Non a disagio, mai, mai, anzi essendo 5 “The evidence shows that class position influences critical aspects of family life: time use, language use, and kin ties.[…] Differences in family dynamics and the logic of childrearing across social classes have long-term consequences. As family members moved out of the home and interacted with representatives of formal institutions, middle-class parents and children were able to negotiate more valuable outcomes than their workingclass and poor counterparts. In interactions with agents of dominant institutions, working-class and poor children were learning lessons in constraint while middle-class children were developing a sense of entitlement” (Lareau, 2002, p. 772 -774). L’autrice inoltre sottolinea che “Thus my data indicate that on the childrearing dynamics studied here, compared with social class, race was less important in children’s daily lives” (p. 773). Anche i risultati di una recente survey su famiglie di classe media e di classe operaia a Torino (Bonica, Olagnero,2011) confermano che le traiettorie della classe operaia appaiono costantemente più critiche di quelle della classe media riguardo alla scelta della scuola, agli insuccessi scolastici, ai difficili rapporti con gli insegnanti. 133 RAPPORTO SECONDGEN che anche io sono stato insegnante, si è stabilita subito una linea di dialogo, anche perché mi piace di essere sempre una persona modesta e non fare caso agli studi perché è il comportamento che conta» . Questo padre non può condividere esperienze e informazioni con gli insegnanti del figlio e costruire una relazione collaborativa paritaria, poiché non è effettivamente un loro “collega”. Gli anni intercorsi da quando hanno terminato gli studi, oltretutto in sistemi scolastici differenti, rendono sovente obsolete o poco utili le competenze e le informazioni possedute dai genitori. Vite familiari più o meno centrate sulla casa, frequentazioni limitate a una cerchia di connazionali, di colleghi di lavoro o di vicini limitano fortemente la possibilità di esplorare la società in cui ci si inserisce. Se i giovani stanno molto in strada o ai giardinetti si trovano comunque a frequentare cerchi di giovani con conoscenze simili Un risultato diffuso è che questi giovani hanno più probabilità di conoscere in modo parziale e distorto il mercato del lavoro e il sistema formativo, avendo rapporti solo con pochi italiani lavoratori manuali o datori di lavoro anziani. Anche gli amici e i parenti eventualmente presenti in Italia si concentrano in professioni, aree geografiche, reti di relazioni piuttosto limitate e specializzate. Questo fa sì che a molti giovani di seconda generazione manchi una percezione più ampia delle opportunità disponibili e delle vie migliori per coglierle. Anche se non si pensa di fare lo stesso lavoro “da immigrati” dei genitori, si tende a restare in attività affini (infermiere, ristorazione, metalmeccanica) perché non è facile conoscere le alternative e avere testimonianze concrete (amici, parenti, vicini di casa) della loro praticabilità. Una madre che assiste anziani può conoscere infermieri e ispirare ai figli la scelta di questa professione come concreta opportunità di occupazione, ma più difficilmente questi immigrati conosceranno, per esempio, tecnici di laboratorio, biologi o altri specialisti in campo sanitario che possano fornire un esempio di percorsi alternativi e più promettenti e fornire concrete risorse per intraprenderli. Conclusioni: aspetti strutturali e micro interazioni Aldilà delle politiche specifiche adottate “per l’integrazione degli stranieri” sembrano ancora più importanti per il futuro della seconda generazione le direzioni che prenderà la scuola italiana in generale. Si pensi, ad esempio, al rischio della crescita delle disuguaglianze tra scuole e tipi di scuola nel fornire competenze (e un avvio verso il lavoro) così come la svalutazione di alcuni indirizzi. Se si analizzano i vari tipi di scuola (centri di formazione professionale, istituti professionali, istituti tecnici, licei) le differenze sono chiare. In tal senso queste disuguaglianze daranno cruciali per l’integrazione futura. Pertanto sono necessari interventi non solo rivolti specificatamente a contenere la segregazione etnica ma anche a contenere in generale le disuguaglianze tra scuole. Ciò che può danneggiare il futuro del figlio dell’immigrato non è solo non fare amicizia con figli di italiani ma anche, e forse soprattutto, il fatto di frequentare scuole scadenti, dove si impara poco. La scuola produce e riproduce differenza. La scuola non è (solo) strumento principale di integrazione dei giovani, in particolare dei giovani immigrati, in un’ottica universalista e basata sulle pari opportunità, ma (anche) di discriminazione e di riproduzione di una stratificazione di classe. Il fatto che giovani di origine immigrata e/o di ceti popolari siano svantaggiati nel sistema scolastico è prevedibile e connaturato all’attuale sistema. Le numerose e approfondite ricerche sui fattori che influenzano il rendimento scolastico finiscono per ribadire che chi possiede caratteristiche e comportanti più vicini a quelli di un idealtipo di ceto medio superiore ha maggiori possibilità di venire inserito in percorsi che consentono l’accesso o la permanenza in questo ceto. Non si mette in discussione il fatto che la scuola non dovrebbe limitarsi a riprodurre e conservare la struttura di classe, ma promuovere attivamente il riconoscimento e la promozione di doti individuali, della diversità culturale e delle capacità innovative. E’ vero che la scuola pubblica italiana è più universalista e di migliore qualità media che in altri paesi sviluppati e che si è organizzata bene per inserire gli immigrati nelle scuole primarie. Ma non nelle secondarie. Le dinamiche che stanno dietro a difficoltà e carenze non dipendono dalla presenza degli stranieri e non possono essere affrontate da politiche e interventi indirizzati solo a loro. Per esempio, le difficoltà e le sfide che la scuola professionale deve affrontare oggi in Italia (Santagati, 2011) non sono il risultato delle difficoltà di adattamento culturale degli studenti stranieri, né delle difficoltà degli studenti stranieri e italiani a stare insieme. Sono piuttosto il risultato di uno stress strutturale dovuto a diversi fattori, come il cambiamento dell’assetto industriale e gli effetti di questo sulle carriere nel lavoro manuale e artigianale (ad esempio le minori possibilità di mettersi in proprio), essenziale per motivare gli studenti. È interessante notare che anche gli studi che confrontano il destino scolastico e professionale in contesti nazionali differenti (Crul and Holdaway 2009; Crul and Schneider 2010; Crul and Vermeulen 2003) sembrano indicare che assetti istituzionali - l’età in cui inizia la formazione scolastica; il numero di ore quotidiane di attività in aula, 134 RAPPORTO SECONDGEN a contatto con gli insegnanti, durante la scuola dell’obbligo; i meccanismi di selezioni delle scuole - ben lontani da misure pensate per, o contro, gli immigrati e i loro figli sono quelli che hanno gli effetti maggiori sulle seconde generazioni. Attualmente, si tende ad immaginare le “politiche per gli immigrati” come un campo di intervento specifico e focalizzato su temi “etnico-culturali”. Invece, se immaginiamo l’immigrazione come un processo che può portare a posizioni specifiche nel sistema di stratificazione locale, si capisce la necessità di un approccio più “integrato” che consideri il rischio dell’emergenza di nette disuguaglianze etniche negli anni futuri non in primo luogo come una questione di discriminazione e di incomprensione culturale, ma piuttosto di cambiamenti nel mercato del lavoro, nel sistema scolastico, nelle aree urbane ecc. Se quindi ragioniamo non in termini di “popoli” che devono essere integrati, ma soprattutto di specifiche posizioni nella struttura di classe locale, le implicazioni politiche derivanti sono significative. Pensiamo, ad esempio, a politiche che prendono in considerazione aspetti come i ritmi temporali della famiglia immigrata e la corrispondenza con i tempi dell’istituzione scolastica. Le ricerche che confrontano la riuscita scolastica dei figli dei migranti in diverse nazioni suggeriscono, infatti, che le seconde generazioni ottengono risultati migliori in quei sistemi in cui la scelta della scuola superiore arriva più tardi, dove è facile cambiare tipo di scuola dove l’orario scolastico è prolungato e dove, specialmente nei primi anni di inserimento, non è richiesto studio individuale a casa. Una maggiore sensibilità generalizzata agli effetti strutturali dei processi migratori sarebbe importante. In quest’ottica, sul futuro delle seconde generazioni incideranno in maniera rilevante i cambiamenti del mercato del lavoro o del sistema scolastico in generale (cioè non solo per quanto riguarda le diseguaglianze tra stranieri e locali), che probabilmente tendono a penalizzare in modo sproporzionato i figli degli immigrati, in molti casi concentrati nei filoni meno prestigiosi del sistema scolastico e nei settori del mercato del lavoro meno protetti. È importante intervenire non tanto con la prospettiva del “dialogo tra culture” e dell’appartenenza nazionale, ma raccogliere dati sugli effetti sociali della migrazione, e agire su questi. In questo senso l’”integrazione” dipenderà maggiormente da misure generali per contenere le diseguaglianze sociali che non da misure “per gli immigrati” o da azioni “interculturali”. Proprio il fatto di riconoscere le famiglie immigrate e i loro figli come parte costituente della società italiana (anche in tempi di crisi) dovrebbe spostare l’attenzione a questioni più vaste, che includono gli immigrati e i loro figli in un quadro più generale. 135 RAPPORTO SECONDGEN Riferimenti bibliografici Badino, A. (2009). Tutte a casa? Emigrazione femminile e lavoro a Torino negli anni Sessanta. Roma: Viella. Badino, A. (2012). Strade in salita. Figlie e figli dell’immigrazione meridionale al Nord. Roma: Carocci. Ballarino, G., Bernardi, F., Raquena, M., Schadee, H. (2009). Persistent Inequalities? Expansion of Education and Class Inequality in Italy and Spain. European Sociological Review, 1, 123-138. Bonica, L., Olagnero, M. (2011). Come va la scuola? Genitori e figli di fronte a scelte e carriere scolastich. Roma: Infantiae.org ed. Bourdieu, P., Wacquant, L. (1992). An invitation to reflexive sociology. Chicago: University of Chicago Press. Ceravolo, F., Eve M., Meraviglia, C. (2001). Migrazioni e integrazione sociale: un percorso a stadi. In M. L. Bianco (Ed), L’Italia delle diseguaglianze. Roma: Carrocci. Checchi, D. (2008). Il passaggio dalla scuola media alla scuola superiore. In http://checchi.economia.unimi.it/pdf/un48.pdf Checchi, D., Fiorio, C.V., Leonardi M. (2006). Sessant'anni di istruzione in Italia. Rivista di Politica Economica", Luglio - Agosto . Crul, M., Holdaway, J. (2009). Children of immigrants in schools in New York and Amsterdam: the factors shaping attainment. Teachers College Record, 6, 1476-1507. Crul, M., Schneider, J. (2010). Comparative integration context theory: participation and belonging in new diverse European cities. Ethnic and Racial Studies, 7, 1249-1268. Crul, M., Vermeulen H. (2003). The second generation in Europe. International Migration Review, 37(4), 965-86. Delay, Ch. (2011). Les classes populaires à l’école. La rencontre ambivalente entre deux cultures à légitimité inégal. Rennes: Presses Universitaires de Rennes. Elias, N., Scotson R. J. (1964). The Established and the Outsiders. A Sociological Enquiry into Community Problems. London: Frank Cass & Co. Eve, M. (2010). Integrating via networks: foreigners and others. Ethnic and Racial Studies, 33(7), 12311248. Eve, M., Perino, M. (2011). Seconde generazioni: quali categorie di analisi?. Mondi Migranti, 2, 175-193. Gibson, M.A., Ogbu, J.U., (Eds.), (1991). Minority status and schooling: a comparative study of immigrant and involuntary minorities. New York: Garland. Grieco, M. (1987). Keeping in the family, social networks and employment chance. London: Tavistock Publications. Grillo, E.D. (a cura di.), (2008). The Family in Question: immigrant and Ethnic Minorities in Multicultural Europe. Amsterdam: Amsterdam University Press. Holdaway, J., Crul, M., Roberts, C. (2009). Cross National Comparisons of Provision and Outcomes for the Education of the Second Generation. Teachers College Record, 6, 1381-1403. Kasinitz, Ph., Mollenkopf, J., Waters, M., Holdaway, J. (2008). Inheriting the City. The Children of Immigrants Come of Age. New York: Russel Sage Foundation. Lagomarsino, F., Ravecca, A. (2012). Percorsi interrotti: le migrazioni come evento critico nella capitalizzazione e spendibilità del capitale umano. Mondi Migranti, 2, 105-132. Lareau, A. (2002). Invisible Inequality: Social Class and Childrearing in Black Families and White Families. American Sociological Review, 67, 747–776. Lareau, A. (2011). Unequal Childhoods. Class, Race, and Family Life. Second Edition with an Update a Decade Later. Berkeley: University of California Press. Myers, S. (1999). Childhood Migration and Social Integration in Adulthood. Journal of Marriage and the Family, 61, 774-789. MIUR , ISMU. (2011). Alunni con cittadinanza non italiana. Scuole statali e non statali. Anno scolastico 2010/2011. Anticipazione dei dati della Ricerca. Retrieved from www.istruzione.it PISA in Focus. (2012). How do immigrant students fare in disadvantaged schools? 22. OECD. Portes, A., Rumbaut R. (2001). Legacies. The story of the immigrant second generation. Berkeley: University of California Press. Portes, A., Sensenbrenner, J. (1993). Embeddedness and Immigration: Notes on the Social Determinants of Economic Action. American Journal of Sociology, 98, (6), 1320-1350. 136 RAPPORTO SECONDGEN Santagati, M. (2011). Formazione chance di integrazione. Gli adolescenti stranieri nel sistema di istruzione e formazione professionale. Milano: FrancoAngeli Editore. Werbner, P. (1990). The Migration Process. New York: Berg. 137 RAPPORTO SECONDGEN Le relazioni scuola-famiglia nelle rappresentazioni dei genitori migranti Arianna Santero Introduzione Questo capitolo analizza le relazioni scuola-famiglia dal punto di vista dei genitori migranti in Italia, e in particolare in Piemonte, focalizzandosi sulle pratiche e sulle rappresentazioni attraverso cui la discontinuità sociale e culturale è mantenuta, re-inventata e trasformata in disuguaglianze. Dagli esordi della sociologia come sguardo sul (non) inserimento dei giovani appartenenti a minoranze socio-culturali, il tentativo di dar conto delle loro difficoltà di inclusione fa riferimento al rapporto tra genitori e figli. Già nel 1902, ad esempio, Hapgood aveva rilevato che i giovani ebrei russi del ghetto di New York si vergognavano dei genitori, del loro modo di parlare, vestirsi e comportarsi, vivendo un distacco dai loro ideali (in Barbagli e Schmoll, 2011). Anche Thomas e Znaniecki (1918), nel loro noto lavoro sugli immigrati di origine polacca, attribuivano le difficoltà di integrazione delle “seconde generazioni” ai cambiamenti nei rapporti tra genitori e figli, in particolare dovuti al fatto che negli Stati Uniti per i genitori non fosse possibile mantenere modalità di socializzazione del paese di origine. La famiglia, e in particolare il processo di socializzazione alle istituzioni attuato dai genitori nei confronti dei figli in seguito all’emigrazione, è però accantonata negli anni seguenti, con la specializzazione delle ricerche sociologiche per sotto-temi e approcci metodologici. Rimane, certo, citata spesso come fattore che influenza il percorso sociale delle seconde generazioni, sottolineandone talvolta gli effetti inclusivi, ad esempio attraverso norme e valori, sostegno economico o relazionale, talaltra evidenziando piuttosto gli effetti di esclusione, etichettamento, demotivazione, stress (Acocella, 2011; Sen, 1992). Tuttavia, con il concentrarsi degli studi sulle migrazioni su aspetti più relativi a mercato del lavoro e, successivamente, istruzione, la famiglia intesa nel suo complesso sembra rimanere al margine. È stato solo più tardi, con il contributo degli studi di genere sulla mobilità geografica, che il punto di vista più ampio sulle relazioni familiari torna in primo piano, ma rimane confinato nel filone di ricerche sulle migrazioni femminili (es. Favaro e Tognetti Bordogna, 1991). Diversi studi quantitativi hanno mostrato una associazione tra risorse socio-economiche e svantaggi dei figli degli immigrati rispetto ai figli dei nativi in istruzione e mercato del lavoro della società di destinazione, tentando di pesare i fattori esplicativi secondo la nazione di origine dei genitori. All’interno di questo schema teorico raramente la famiglia è compresa come una unità di analisi nel suo complesso. Si considera l’individuo (in questo caso lo studente/la studentessa migrante) come unità di analisi e le risorse famigliari vengono trattate come attributi individuali, ovviamente ascritti. Le famiglie sono categorizzate secondo variabili che riguardano la struttura famigliare o la “coloritura culturale”, desunta dalla cittadinanza o dall’“etnia”. Queste categorie sono impiegate come proxy di una serie di dotazioni di tipo socio-culturale, che comprendono anche valori, impostazioni educative e credenze rispetto al ruolo dell’istruzione, oltre che elementi economici, senza però mostrare i processi sociali attraverso cui queste caratteristiche plasmino l’interazione scuola-famiglia. Prospettive che tendono a considerare come “normali” strutture familiari costituite da madre, padre e figli coresidenti finiscono per imputare le eventuali difformità di riuscita scolastica a forme familiari diverse, eludendo lo sforzo analitico necessario per provare a mettere in luce i meccanismi attraverso il nesso tra origine nazionale dei genitori e riuscita a scuola del figlio. Guardando alla letteratura sull’inserimento sociale dei giovani migranti degli anni 2000, mentre sono numerose le indagini empiriche che mostrano un’associazione tra risorse familiari (capitale culturale, capitale sociale, capitale economico, norme e valori) e inclusione sociale dei figli (operativizzata come riuscita scolastica soprattutto, e in subordine integrazione occupazionale), sono pochi i lavori che si concentrano sui processi attraverso cui il fatto di essere genitori migranti, in determinati contesti istituzionali e sociali, plasmi aspetti specifici di inserimento nella società di destinazione dei figli. Questo limite può essere dovuto al fatto che raramente nelle scienze psico-sociali la famiglia venga intesa nel suo complesso, come unità d’analisi (Suárez-Orozco e Carchill, 2011; Berry e Sam, 2011), anche per difficoltà metodologiche dovute alla prospettiva etnocentrica che impedisce di cogliere le differenze culturali delle forme famigliari, e dunque, stabilirne i confini (Hughes et.al., 1993). In questo senso, la famiglia è stata per lungo tempo ai margini degli studi sulle migrazioni (Grillo, 2008; Foner, 2009). La mobilità geografica e l’inserimento nel paese di destinazione dei bambini, tuttavia, è una questione familiare. Il progetto migratorio dei genitori assume nuovi significati e limiti temporali in base a idee relative al “meglio per i figli”. Il confronto generazionale sulle aspirazioni di inclusione e di mobilità sociale può 138 RAPPORTO SECONDGEN spiegare come la perdita di status dei genitori primomigranti (dovuta alla loro omologazione verso il basso nel mercato del lavoro) sia legittimata dalle aspettative di ascesa sociale delle seconde generazioni (Santero, 2012). Le famiglie al loro interno, e all’interno di gruppi che condividono la stessa origine nazionale, si differenziano rispetto a tratti sociologicamente rilevanti come atteggiamenti nei confronti dell’istruzione, risorse comunicative e linguistiche da impiegare nella negoziazione con insegnanti e educatori, modalità di presentazione del sé e delle proprie intenzioni educative/di apprendimento. Descrivere le caratteristiche dell’interazione tra genitori e funzionari scolastici a partire da informazioni raccolte soltanto attraverso la testimonianza dai figli/figlie restituisce un quadro necessariamente incompleto, soprattutto per quanto riguarda i primi anni di istruzione, durante i quali, malgrado il ruolo di “bambino mediatore” dei figli degli immigrati spesso citato in letteratura, la gestione della vita scolastica, per mandato istituzionale, è affidata ai tutori legali degli alunni, e non agli alunni stessi. Prospettiva teorica e obiettivi della ricerca: famiglia come unità d’analisi e ricostruzione dei microprocessi di interazione dei genitori con la scuola Gli studiosi sottolineano come i genitori migranti nutrano “elevate aspirazioni” nei confronti della riuscita scolastica dei figli, ma poi questo non si traduca in un sostegno adeguato all’apprendimento e alla motivazione allo studio. È proprio così? Perché questo accade? Nelle pagine che seguono tenteremo di rispondere a queste domande ricostruendo i processi di interazione tra i genitori migranti e le istituzioni scolastiche italiane, nei vari ordini e gradi e nelle diverse fasi di inserimento scolastico. In questo modo proveremo a superare il “nazionalismo metodologico” (Eve e Perino, 2011) e considerare la famiglia come unità di analisi per esaminare i micro-processi di interazione scuola-famiglia. Sarà utile esaminare le loro differenze tra famiglie, una volta inserite nel contesto sociale italiano, e all’interno della famiglia, tra membri delle convivenze familiari i quali, a seconda della loro posizione e del loro ruolo, contribuiscono attivamente a selezionare quali processi e quali comportamenti attuare in un dato momento e rispetto a diverse situazioni. Solo considerando gli aspetti più direttamente connessi con l’emigrazione insieme a altri fattori, come la propensione individuale di ogni bambino/a nei confronti dello studio, insieme a ideali educativi delle famiglie, è possibile provare a distinguere processi che riguardano tutti, e dunque non solo, o non nello specifico, le famiglie migranti, e aspetti invece propriamente legati al fatto di frequentare la scuola in un paese diverso da quello in cui sono nati e hanno studiato i genitori. I contributi dell’etnografia dell’educazione che si concentrano sulle differenti modalità in cui le famiglie in diverse posizioni sociali, indipendentemente dall’origine nazionale, si rapportano con la scuola e socializzano i bambini ai comportamenti e ai rituali previsti dall’istituzione scolastica forniscono documentazione empirica e analitica dei processi sociali su cui focalizzare l’attenzione. Un lavoro utile in questo senso è lo studio condotto da Lahire con famiglie di bambini iscritti a scuole primarie in Francia (Lahire, 1995). Non basta, secondo lo studioso, affermare che il titolo di studio basso dei genitori offre ai bambini minori risorse, ma occorre indagare attraverso quali meccanismi di interazione quotidiana le differenze nei comportamenti e negli stili di apprendimento incoraggiati o meno dai genitori e dagli insegnanti si traducono in diseguali esiti in istruzione formale. Occorre quindi problematizzare il concetto di “trasmissione” di capitale culturale (e relativi vantaggi e svantaggi connessi alle differenze tra classi medie e classi popolari), mettendo in primo piano le pratiche di accompagnamento allo studio attuate dai genitori rispetto alle aspettative e alle richieste implicite e esplicite degli insegnanti. Il caso dei genitori immigrati con titolo di studio alto e le loro narrazioni potranno offrire materiale empirico interessante in questo proposito. Le pratiche che in particolare risulta utile indagare, almeno per i primi anni di scuola dell’obbligo, sono quelle relative a: compiti, pause, valorizzazione delle attività scolastiche attraverso valutazioni positive e applicazioni di quanto appreso anche nell’extrascuola, monitoraggio dell’andamento scolastico (non solo frequenza ma anche modalità e contenuti dei controlli attuati dai genitori, modalità di socializzazione e razionalizzazione delle regole disciplinari (Lahire, 1995). Dalla ricerca longitudinale svolta dal gruppo di ricerca coordinato da Lareau (2011) negli Stati Uniti emerge inoltre che i genitori di classi popolari considerano il loro agire educativo tendenzialmente più separato e parallelo rispetto a quello portato avanti dalla scuola mentre quelli di classe media sono più propensi a immaginare i compiti dei genitori e degli insegnanti come integrati. Per questa ragione, sostiene Lareau, i padri e le madri di classe media partecipano più attivamente alla gestione dei processi formativi e di apprendimento che hanno luogo a scuola o tramite la scuola, acquisendo attraverso costanti micro-interventi e confronti formali e informali con gli insegnanti molte informazioni utili per riorientare gli insuccessi scolastici dei figli verso l’ottenimento di migliori valutazioni. Lo studio mostra che queste pratiche di 139 RAPPORTO SECONDGEN controllo fanno sentire i genitori di classe media più sicuri e efficaci dei genitori di classe popolare nel rispondere e negoziare le richieste delle scuole, non solo per le loro competenze formalizzate, ma anche per le relazioni che istaurano con insegnanti e altre persone qualificate - sempre in termini di istruzione formale, riconosciuta dalle istituzioni scolastiche - come ad esempio altri genitori di classe media. Ipotizziamo dunque che per i genitori migranti le relazioni con le regole e le procedure scolastiche e il rapporto con gli insegnanti siano influenzate non solo dalle loro risorse cognitive e economiche, ma anche dalle loro risorse relazionali, in un processo cumulativo e quotidiano di creazione di asimmetrie passando da un ordine di scuola all’altro. L’obiettivo dello studio qui presentato è duplice: 1) investigare come i genitori tentano di socializzare i loro figli a pratiche culturali e valori educativi sia della famiglia sia della scuola – e di gestire le eventuali contraddizioni emergenti; 2) esplorare come i genitori immaginano possa avvenire l’inclusione socioeconomica dei loro figli nel paese ricevente, in questo caso l’Italia. In Italia molti degli studenti ora al termine della scuola superiore sono nati all’estero, per cui sarà interessante ricostruire le diverse transizioni scolastiche che hanno costituito la carriera educativa, dal punto di vista dei genitori. Le informazioni normalmente raccolte su questo tema, infatti, derivano dai racconti dei figli, e quindi sono necessariamente lacunose. Inoltre cercheremo di restituire in queste pagine la rappresentazione che i genitori hanno di alcuni momenti di incontro predisposti dalle organizzazioni scolastiche (colloqui con gli insegnanti, assemblee, consegna delle pagelle), per fare emergere i processi di negoziazione della definizione della situazione e i modi attraverso cui i genitori (non) hanno tentato di condizionare la carriera educativa dei figli. Documentazione empirica e metodo: un approccio qualitativo La ricerca sul campo si è svolta in Piemonte tra il 2011 e il 2014. Le caratteristiche della presenza degli studenti con cittadinanza non italiana nelle scuole italiane e piemontesi, dove è avvenuto il campionamento, è stata ricostruita attraverso dati del Miur (livello nazionale) e della Edilizia scolastica (livello regionale e comune capoluogo di regione). Lo studio si concentra sul Piemonte, regione dove la presenza delle “seconde generazioni” sul territorio e anche nelle scuole superiori è più elevata rispetto alla media italiana, in modo da poter considerare tutto il percorso scolastico. Tab. 1 – Prospetto genitori intervistati Paese di ID Cognome origine dei famiglia alias genitori 1 Pecher Romania 2 Fianu Romania 3 Azergui Marocco 4 Pinilla Perù 5 Treska Albania 6 Santos Filippine 7 Ouattara Costa d'Avorio 8 M'Barka Tunisia 9 Edeleanu Romania 10 Giosan Romania 11 Diaz Argentina 12 Vidal Perù 13 Alioski Macedonia 14 Lena Macedonia 15 Galai Romania 16 Fedor Romania 17 Kodra Albania 18 Niko Albania 19 Vata Albania 20 El Maleh Marocco N. genitori intervistati 2 2 1 1 1 1 1 2 2 1 2 1 2 2 1 1 1 1 1 1 Genitore intervistato entrambi entrambi padre madre padre madre madre entrambi entrambi madre entrambi madre entrambi entrambi madre padre padre madre madre madre Figlio/a int. sì sì sì sì sì sì sì sì sì sì sì sì sì (2) sì sì sì sì sì no no Primo contatto con i genitori figlio/a figlio/a figlio/a figlio/a figlio/a figlio/a figlio/a figlio/a figlio/a figlio/a figlio/a figlio/a associazioni/volontariato associazioni/volontariato figlio/a figlio/a figlio/a figlio/a testimoni qualificati testimoni qualificati 140 RAPPORTO SECONDGEN 21 22 23 24 25 26 Famiglie coinvolte: 26 Cerruti Perù Pulgar Albania Mosaoud Egitto Oufkir Marocco Chebel Algeria Roble Perù Famiglie per paese: Romania 6, Albania 5, Perù 4, Macedonia 3, Marocco 3, altri 1 1 1 1 1 1 1 Genitori intervistati: 33 padre padre madre madre padre madre Di cui madri 19, padri 14 no no no sì no sì Figli intervistati: 21 testimoni qualificati testimoni qualificati associazioni/volontariato figlio/a associazioni/volontariato associazioni/volontariato Famiglie contattate tramite: figli 17, altri canali 9 Le interviste hanno coinvolto 26 famiglie per un totale di 54 persone provenienti dai paesi di origine più rappresentati nel territorio considerato (v. Tab. 1) e sono state condotte nell’ambito del progetto Secondgen e della Tesi di Dottorato “Portami con te lontano”. Istruzione e inserimento sociale dei giovani migranti al termine della scuola secondaria di II grado. Sono stati intervistati 33 genitori nati all’estero con almeno un figlio o una figlia scolarizzati in Italia con più di 18 anni, di cui 7 coppie intervistate contemporaneamente, madre e padre. Sono stati intervistati anche 21 figli, tranne in due casi è stato possibile scegliere con loro un momento e uno spazio separati rispetto all’incontro con i genitori. Le interviste alle coppie nei casi in cui le competenze in italiano come L2 erano simili hanno permesso di osservare differenze tra ruoli dei genitori nella negoziazione di alcuni aspetti della relazione scuola-famiglia e fra componenti della famiglia rispetto alla riuscita dei figli, nei casi di diseguali fluidità in italiano uno dei genitori ha interagito maggiormente per cui si è deciso di privilegiare nella composizione del campione le interviste individuali. Le strategie di coinvolgimento impiegate per la presa di contatto con i genitori sono state le seguenti: 1) comunicazione attraverso figli già intervistati; 2) indicazione di testimoni qualificati; 3) primo contatto con l’aiuto di esponenti di associazioni, volontariato, terzo settore. Il campionamento a partire dalla prima strategia è avvenuto sulla base delle interviste già rivolte ai figli nell’ambito dei due progetti di ricerca, in particolare nella città di Torino a partire dai sei istituti scolastici frequentati dai figli (due istituti professionali, due istituti tecnici e due licei caratterizzati da diversa composizione degli studenti e attività interculturali), e nella Regione Piemonte (province di Alessandria, Asti, Cuneo e Torino) sulla base delle indicazioni dei testimoni qualificati coinvolti per massimizzare l’eterogeneità del campione secondo il criterio del tipo di percorso scolastico dei figli e del titolo di studio nel paese di origine dei genitori. Le ragioni del tasso di caduta dalla presa di contatto attraverso la prima strategia (genitori di giovani già intervistati) sono state: difficoltà di trovare il tempo per l’intervista in particolare nel caso di genitori con orari di lavoro lunghi, genitori single e genitori con titolo di studio non elevato; mediazione e “filtro” da parte dei figli intervistati; disagio nei confronti dello strumento intervista da parte dei genitori; cambi di residenza e numeri di telefono e rientri al paese da parte di figli già intervistati o genitori (o entrambi). Per correggere i processi di autoselezione del campione così prodotti sono state seguite le altre due strategie per la presa di contatto, cercando di mantenere l’eterogeneità del campione per percorso scolastico in Italia dei figli e paese di origine dei genitori. In particolare sono state coinvolte madri mediatrici interculturali, in modo da avere sia informazioni derivate dalla loro esperienza professionale come osservatori privilegiati nell’ambito dell’accompagnamento delle relazioni scuola-famiglia sia informazioni relative alla loro personale esperienza rispetto all’inserimento a scuola dei figli e alle relazioni con il personale scolastico e con l’istituzione scuola nei diversi ordini e gradi. Il materiale è stato integrato con colloqui informali e interviste non strutturate con insegnanti e educatori attivi nella regione, consultati come testimoni qualificati sia per la presa di contatto con gli intervistati sia per tratteggiare alcune “difficoltà di inserimento” scolastico nella definizione delle istituzioni italiane riceventi. La traccia di intervista con i genitori ha seguito un canovaccio contenente i seguenti punti da trattare, non necessariamente in questo ordine, con tutti i genitori intervistati: percorsi migratori famigliari e la decisione di partire per/con i figli; genitorialità durante il periodo della separazione del nucleo famigliare; rinegoziazione dei ruoli di genitori e figli dopo la riunione in Italia, partecipazione e controllo; percorso scolastico dei figli dal punto di vista dei genitori: ‐ ruolo dei genitori nel (non) indirizzare il globale percorso di istruzione dei figli, ‐ inserimento scolastico dei figli: relazioni con gli insegnanti, valutazioni dell’offerta formativa, 141 RAPPORTO SECONDGEN ‐ scelte scolastiche dal punto di vista dei genitori, ‐ aspettative e immagini dei genitori rispetto al ruolo della carriera scolastica/universitaria sulla successiva carriera occupazionale/di inserimento sociale dei figli; rappresentazioni di futuro: aspettative su vincoli e opportunità di inclusione e mobilità sociale e geografica per sé e per i figli. L’analisi è avvenuta con la tecnica “carta e penna” e attraverso il software Atlas.ti7 e è consistita nell’individuazione di temi e narrazioni ricorrenti all’interno dei racconti dei genitori migranti sul loro rapporto con le istituzioni scolastiche e nel successivo inquadramento dei brani così tratti dai testi di intervista intorno a processi “tipo”. Infine si è tentato di identificare gli aspetti dell’interazione tra scuola e famiglia, tra genitori e figli e tra genitori e funzionari scolastici da un lato influenzate nello specifico dal processo migratorio e dall’altro lato, pratiche legate a altri processi, tra cui in particolare la percezione delle proprie competenze di genitori rispetto all’istruzione formale e gli ideali educativi sul ruolo e i compiti degli insegnanti. Vediamo dunque nel paragrafo seguente i risultati dell’analisi. Il percorso scolastico dei figli dal punto di vista dei genitori migranti Diverse ricerche svolte in Italia1 hanno imputato le difficoltà di seguire il percorso scolastico dei figli dei genitori immigrati a problemi linguistici e limitata esperienza dei programmi italiani, con conseguente richiesta ai figli stessi di “mediare” il rapporto con le istituzioni educative, rarefatte interazioni genitoriinsegnanti (Acocella, 2011; Ambrosini, 2006) e incapacità dei genitori immigrati di stimolare l’interesse per lo studio dei figli e aiutarli a superare le difficoltà scolastiche quotidiane (Colombo, 2004; Besozzi e Tiana, 2005). Orari di lavoro lungo di entrambi i genitori (in Italia segnalata come situazione anomala) e assenza della parentela allargata sono altri elementi che diminuirebbero il tempo per seguire il percorso scolastico dei figli (Impicciatore, 2008; Ambrosini, 2006; Barban e Dalla Zuanna, 2008). Specie nel caso delle madri, e soprattutto se madri sole, l’assenza da casa per motivi di lavoro è interpretato come negligenza dagli assistenti sociali (Lostia, 1999) e indubitabile segno di carenza genitoriale di sostegno scolastico. Inoltre la “dissonanza tra i modelli educativi” specie per le madri di “cultura araba” produrrebbe disorientamento, anche in caso di madri che non lavorano fuori casa, con conseguente incapacità di seguire i figli (Acocella, 2011). La poca conoscenza dei servizi sul territorio, anche dopo lunghe permanenze in Italia, sembra ridurre le competenze che i genitori possono mettere a disposizione per il sostegno scolastico dei loro bambini (Ambrosini, 2006). Questi studi, condotti in altre regioni italiane, restituiscono quanto emerso dalle interviste a insegnanti e educatori sul punto di vista dei servizi educativi e sociali anche in Piemonte. Nelle pagine seguenti vedremo quali sono le rappresentazioni della situazione dei genitori rispetto a questi temi. L’inserimento a scuola tra senso di inadeguatezza e percezione di accoglienza I racconti del primo ingresso dei figli a scuola sono caratterizzati da timore di non avere gli strumenti adeguati per comprendere le regole della scuola, innanzitutto per le difficoltà linguistiche. Ma lei si ricorda di questa questione della scuola? Ne avevate parlato in famiglia, era un problema per voi? Problema, sì, tanti i problemi in famiglia. Quando vorrei qualcosa miei figli piccoli anche portati per parlare, come adesso. (Figlia): Quando chiamavano gli insegnanti lei non sapeva parlare molto bene (fam. Oufkir, madre e figlia). Inoltre ritardi di iscrizione o iscrizione in corsi inferiori rispetto all’età possono dipendere anche da difficoltà di conciliazione, e il conseguente appoggio a aiuto di amici o conoscenti. Lei si ricorda, comunque, come mai suo marito aveva scelto proprio quella scuola media per iscrivere G. e suo fratello? Perché il marito prima anche non è capito tante cose. Il problema, il problema è anche quando faccio la… 1 Una delle peculiarità del caso italiano rispetto ad altri paesi è che la maggior parte dei genitori di studenti con background di immigrazione siano primomigranti. I modi in cui lo status migratorio plasma le carriere scolastiche dei figli nei paesi a recente immigrazione dunque ha caratteristiche in parte strutturalmente diverse rispetto ai paesi in cui le scuole sono frequentate da terze e quarte generazioni migratorie, nei quali tendenzialmente le ricerche evidenziano differenze tra gruppi nazionali, o “etnie”, più che per fasi del processo migratorio. 142 RAPPORTO SECONDGEN (Figlia): Lavora tutta la notte, poi la mattina va e doveva chiamare qualche suo amico capace di scrivere tutte le… compilare i moduli. Infatti per l’iscrizione è venuto un signore con noi, quindi non è… era sempre accompagnato da qualcuno (fam. Oufkir, madre e figlia). Non avendo le famiglie, cioè i genitori che ti aiutano, se non si trovano queste modalità non riesci poi neanche a lavorare (fam. Niko, Albania, madre). Uno dei motivi per cui i genitori non interagiscono in queste fasi iniziali con i docenti è il timore di infrangere norme non scritte, di palesare “accento, ascendenza, appartenenza” (Zanfrini, 2004) e in questo modo danneggiare la valutazione data dagli insegnanti al figlio/a, o di essere etichettati secondo visioni stereotipate. Ci sono dei casi in cui sono gli insegnanti che sono stanchi, sono stufi, e quindi conoscere il bambino non è che si impegnano tanto, e quindi tagliano con gli schemi mentali, i pregiudizi che si sono già creati. […] E poi dall’altra c’è anche dalla parte dei genitori che partono dal pregiudizio che l’insegnante mi vede subito come straniero, che io sono straniero, e quindi partono già con appunto il piede sbagliato diciamo. Temono di essere visti come stranieri. Sì, sì, temono molto, temono molto. Ma in che cosa? Allora, già appunto essere visto come albanese o marocchino. Allora sei un albanese, testardo, cocciuto, questi sono, che non hai voglia di fare, serie B, un bambino di serie B, insomma, si vedono queste (fam. Vata, Albania, madre). Hanno sempre paura i genitori di far qualcosa che potrebbe istigare il professore a fare male ai loro figli, quindi cercano di prendere le distanze. Piuttosto non vanno agli incontri e non partecipano più di tanto? Sì, sì, sì. Purtroppo è questo (fam. El Maleh, Marocco, madre). Inoltre una serie di procedure date per scontate, come i tempi scolastici e l’utilizzo di strumenti come il diario per la comunicazione scuola-famiglia, devono essere spiegati ai nuovi arrivati, ma l’ansia di apparire “bravi genitori” nello spazio pubblico scolastico può inibire la richiesta di spiegazioni. Nella scuola albanese il diario non esiste. Invece qui il diario c’è eccome, ed è una delle trovate molto belle come strumento di comunicazione tra scuola e famiglia, e spesso sono i genitori che sanno parlare ma non sanno scrivere e quindi su questo c’è un disguido diciamo, un problema, perché a volte non firmano gli avvisi, le notizie, le comunicazioni che devono susseguire durante l’anno scolastico e lì quindi ci sono un po’ di scintille. […] E si vergognano di conoscere… il genitore ammettere davanti all’insegnante che non ha capito cosa ha scritto lì dentro. Mi è capitato di vedere diverse volte genitori che non capivano dentro il proprio diario che cosa c’era scritto, con un livello bassissimo anche nella propria lingua, figuriamoci con l’italiano, perché poi va anche… insieme (fam. Vata, Albania, madre). Prassi informali e strategie di interazioni basate su assunti diversi Si può riscontare una differenza tra il gruppo dei genitori con alta scolarità e collocazione professionale, almeno nel paese di origine, media, e il gruppo dei genitori con bassa scolarità e collocazione lavorativa non qualificata. Dal primo gruppo di interviste emerge un processo di graduale socializzazione dei genitori migranti alle prassi informali della scuola italiana, passando da un figlio all’altro e da un ordine di scuola all’altro. Com’era all’inizio l’interazione con queste insegnanti? Si ricorda se era stato strano o…? No… strano no, perché… va beh, con quelli di mia figlia ero io abbastanza, mi trovavo io abbastanza in difficoltà e quindi cercavo di non… cioè… di non relazionarmi troppo con loro. Perché non mi sentivo in… ° inadeguata o… capace di interloquire con loro, perciò cercavo di non parlare tanto con loro ° (sorride). Questo i primi due mesi. E poi a settembre con l’insegnante di mio figlio ho avuto l’esperienza piena, no? Perché già all’inizio della’anno scolastico eravamo tutti i genitori, quindi a parlare con la maestra che dice: “Questa è una classe in cui ci sono anche dei bambini stranieri per cui i genitori devono essere attenti all’inizio”. Cioè a me già questa attenzione delle maestre mi è piaciuta. Poi più avanti, facendo il corso, cioè… un avviso così ti mette a disagio perché… ma in quel momento no, comunque ho capito che sono delle persone sensibili che capiscono con chi stanno lavorando e che ci sono delle novità. Non è la solita 143 RAPPORTO SECONDGEN classe con solo genitori e bambini italiani, ma anche… e è stato bello perché facevamo le riunioni, era proprio anche un interagire con i genitori, abbiamo mangiato le pizze insieme, ho tenuto dei rapporti con i genitori, sempre della classe di mio figlio. […] poi ho lavorato come mediatrice sempre nella scuola di mio figlio, quindi è stato un rapporto stretto e bello con loro […] Ero cresciuta (sorride). No, no. Non avevo più problemi poi. Né a comunicare con gli insegnanti, né a comunicare con i genitori. Ma anche perché… è dal 2003 che lavoro qui. Poi ho conosciuto abbastanza genitori, insegnanti… e quindi… cioè mi sentivo sicura, non ho avuto poi paura di dire la mia (fam. Niko, Albania, madre). Per il secondo gruppo di interviste invece le differenze rilevate dai genitori nell’interazione con gli insegnanti sono solo legate alle competenze linguistiche. Non emerge una esplicita riflessione e consapevolezza sul fatto che le norme dell’interazione tra genitori e insegnanti si basano su assunti diversi. Iniziamo a esaminare ad esempio il racconto dei coniugi Alioski. Innanzitutto per Goran Alioski gli insuccessi scolastici sono normali, dato che i suoi figli sono stranieri. Lui e la moglie si aspettano che i figli proseguano con gli studi e sono disposti a garantirgli la sicurezza economica necessaria, ma solo se la motivazione dei figli è elevata. Int.: E come voti come andava? Donjeta: Mah, non tutti ottimo, però… Int.: Come tutti i ragazzi, così e così… Goran: Io come uno straniero non pretendo che sta tutto… liscio. Donjeta: Noi siamo contenti se vanno avanti. Anche se non è tutto ottimo e ottimo, però… se ha voglia di andare avanti va (fam. Alioski, Macedonia, genitori) L’idea di base dei coniugi Alioski è che il sostegno allo studio dei genitori non possa essere efficace per aumentare la motivazione interiore all’apprendimento dei figli, ma piuttosto fornire vincoli esterni e regole materiali. Gli insuccessi scolastici di due dei tre figli sono collegati alla scelta della scuola superiore lasciata ai figli stessi – e viste le bocciature tale scelta si è dimostrata “sbagliata”, mentre il contatto dei genitori con i docenti è percepito come ininfluente. Il signor Alioski pensa quindi di avere “sbagliato” a non orientare diversamente il figlio, ma continua a pensare che comunque la scelta della scuola spettasse al ragazzo e che il suo insuccesso è dovuto alla frequentazione di cattive compagnie e alla mancanza di impegno, dimostrato invece autonomamente dalla sorella. È già successo che qualcuno dei vostri figli fosse bocciato? Donjeta: Eh sì. Il più piccolo. E come era andata? Alle medie? O alle superiori? Donjeta: Anche alle medie, e poi alle superiori di nuovo. Voi siete andati a parlare con gli insegnanti prima, lo sapevate? Donjeta: Ma sì! Però… Goran: A dire la verità abbiamo provato tutto per lui, però… [...] Perché con lui, il mio grande sbaglio, non lo so. Lui dalla quinta elementare, ha deciso: «Vado a fare il liceo artistico». Perché disegna bene. Donjeta: Ma disegna, disegna! Però… non è solo quello eh? Goran: E adesso, quando è andato il primo anno, ha trovato… amici […] Martina (l’altra figlia, Ndr) è andata a scuola ad Alba. Per quei cinque anni che è stata ad Alba, io sono andato due o tre volte, non sono andato diciamo come per il piccolo. Ogni momento io vado a scuola, lascio il lavoro magari per andare a scuola. Donjeta: In cinque anni siamo andati due volte per Martina. Quando uno studia studia. Se non studia anche se stai tutti i giorni lì, non aiuta niente (fam. Alioski, Macedonia, genitori). Dalle considerazioni dei coniugi Alioski sulle differenze di riuscita scolastica tra i loro figli sembra emergere l'idea che la riuscita scolastica non dipenda dal controllo esercitato dai genitori, né dal coordinamento e dal contatto dei genitori con gli insegnanti, ma piuttosto dalla motivazione individuale. Anche la scelta scolastica non sembra basarsi su una valutazione effettuata dai genitori delle possibilità di riuscita dei figli, ma dalla loro richiesta ai figli di auto-valutarsi e stabilire da sé le proprie capacità e i propri desideri. Vi hanno spiegato bene, e avevate chiesto a loro? Come era andato? Vi ricordate? Goran: Ma noi parliamo chiaro in casa. «Cosa vuoi studiare?» Donjeta: Da noi è sempre stato così. Perché se non ha voglia di andare… Goran: Non si nasconde proprio niente. Quello che lo so io… 144 RAPPORTO SECONDGEN Donjeta: … è inutile andare a studiare quello che non gli piace. Goran: … lo sa anche il più piccolo. Non è… Allora avete chiesto a loro cosa piaceva? Donjeta: Sì, sì. Goran: Loro hanno scelto questo, e sono andati (fam. Alioski, Macedonia, genitori) Le considerazioni simili a quelle espresse della famiglia Alioski accomunano altri genitori che, oltre a ritenere i figli responsabili della loro carriera educativa, si auto-definiscono non esperti delle regole e dei contenuti della scuola secondaria. Stefan: Mi dispiace per lui, però… (0.02) non puoi fare niente, in queste condizioni non puoi fare niente, non puoi stargli dietro, di mandarlo a scuola, di chiedergli sempre… e alla fine… ti trovi che… lo bocciano di nuovo e… non fai niente. Diceva che non si può stare dietro perché… Stefan: No, con la forza non puoi… Non puoi costringerlo? Stefan: No, non puoi costringerlo, con la forza non si può fare niente. Ha deciso di non andare avanti con gli studi. Voi cosa gli avevate detto? Stefan: Gli abbiamo consigliato di andare avanti, però se non vuole, non posso andare io al posto suo a scuola. […] Ha preso subito un lavoro, non con lui, ma con un altro, però subito ha iniziato a lavorare, e io sono contento. Quello che poteva fare, contemporaneo con il lavoro, la sera poteva fare il serale, poteva fare un corso di… ma neanche quello (voce triste). Sempre attaccato al computer, sempre con amici in giro… adesso è comodo per lui. Più tardi, si pentirà. Quando arriverà problemi di famiglia, che avrà anche lui un figlio, deve pagare una casa… io spero che si aggiusta così, come va avanti. Però un pezzo di carta che ti giustifica una preparazione in questa vita, un mestiere… non faceva male (fam. Fianu, Romania, padre). Lei partecipa, controlla il suo andamento scolastico? L’aiuta a scegliere un indirizzo o l’altro? Quando era minorenne, vado di là a parlare con insegnanti, così. Però adesso può fare da sola, dopo 20 anni può fare da sola. No! Lei ha fatto tutto ha scelto tutto! Non io. Perché io non capisco niente! Lei sa tutto quello che le serve. Sì, sta chiedendo cosa ha fatto, cosa c’è bisogno, solo quello, e non hai niente (fam. Santos, Filippine, madre). I miei figli sono come noi, perché a noi i nostri genitori non hanno mai detto di studiare. Noi, figli, lì a studiare (fam. Fianu, Romania, madre). Il signor Chebel invece, algerino laureato in Italia alla Facoltà di Agraria, segue da vicino il percorso del figlio anche durante le scuole secondarie. Nel suo caso la valutazione della riuscita del figlio avviene giorno per giorno. Dalle sue parole, tuttavia, non emergono tentativi di negoziazione con la scuola sulle valutazioni negative attribuite dagli insegnanti al figlio, per una sostanziale condivisione dei giudizi espressi dagli insegnanti. A lei è capitato che uno dei suoi figli fosse bocciato? Sì, a mio figlio è capitato. Voi avete provato a parlare con i professori? Parlo per conto mio. Io penso che quell’anno dovesse essere bocciato. Per fortuna io riesco a valutare lo studio dei miei figli anche al di fuori del voto della scuola. So cosa sta facendo a casa, come ragiona e cosa studia. Per cui se prende un certo voto, più o meno so che sarà un mezzo punto in più o in meno, ma più o meno… E in quella occasione non aveva trovato ingiusto? No, no. Le sono successi casi in cui il rapporto con gli insegnanti è stato difficile o ci sono stati momenti di disagio per lei? No, no, neanche quell’anno con quei due insegnanti no no (fam. Chebel, Algeria, padre). La signora Niko, mediatrice culturale laureata in pedagogia, spiega che non ha mai provato a negoziare con gli insegnanti sui voti perché interessata più alle conoscenze e competenze acquisite dai figli che alla valutazione attribuita dai docenti. 145 RAPPORTO SECONDGEN Non sono mai stata una tanto… che rompe. Comunque anche i ragazzi quando prendevano dei brutti voti ed erano arrabbiati perché pensavano che non era meritato, soprattutto lei perché se prendeva un brutto voto diceva “Ah..” io dicevo “Ma non ha importanza il voto che prendi. Perché se tu hai studiato e sai le cose, ti serviranno poi dopo, cioè se proseguirai alle superiori, se tu hai studiato non importa se oggi hai preso sette o otto, quando arriverai alle superiori lo sai già e quindi il tuo impegno sarà minore e è una conoscenza che rimane a te, il voto è oggi, finisce lì”. […] Sì, sì, ci sono dei genitori che voglio capire il voto, lo vogliono capire. Io vedevo alle superiori che c’erano dei genitori arrabbiati là fuori in fila con me e dicevano “No, mia figlia ha preso il sette, io voglio capire perché ha preso il sette” perché avevano il compito in mano e… o perché erano arrabbiati perché tutti i ragazzi avevano preso voti bassi e allora dicevano: “A questo punto non è colpa dei ragazzi ma è dell’insegnante che non ha spiegato bene, che non doveva andare avanti visto che il voto è questo (fam. Niko, Albania, madre). I genitori laureati raccontano di motivare all’apprendimento i figli attraverso un continuativo rinforzo di attribuzioni positive alla riuscita scolastica, con modalità che secondo la letteratura etnografica sulle disuguaglianze educative sono tipiche delle classe alte e conformi alle richieste scolastiche. E fin da piccole sì sempre le ho incentivate a... voler questa voglia di... avere i migliori voti, la si valuto da 0 a 20, e dicevo devi avere 20, che venti fosse il massimo. Perché anche quando stavano all'asilo nido li mettevano dei delle formine, con... si vedeva, come si chiama, una corona con un sorrisino, cosi diceva che era il massimo, l'eccellente così. E a loro piaceva questo da piccoline. Io mi ricordo. E poi li invitavo ad avere dei voti migliori. Ma non in modo negativo, nel senso che se tu non hai i voti migliori io ti devo punire. No. Una cosa che anche a lei dà soddisfazione. Una volta che loro hanno acquisito, si sentono felici, contente, hanno un voto alto, a volte si sforzano di più per averlo sempre, cosa che per loro diventa non un carico pesante, non di dover avere un buon voto che mamma sia contenta, no. Per loro stesse. E allora da piccoli li ho sempre incentivai così. E allora arrivando qua ovviamente mi sono dedicata a loro al millimetro, nel senso che ogni giorno gli chiedevo come sei stata oggi? Chi è davanti a te? Accanto a te? Cosa ti hanno parlato? Cosa dice l'insegnante? Cosa ti ha detto? Per sapere cos'era a loro intorno […] Certamente, sono cose, possono parere, possono sembrare non utili, però alla fine aiutano moltissimo perché se non sei vicino a loro poi alla fine loro possono avere anche una conclusone sbagliata, no? (fam. Pinilla, Perù, madre). Io come genitore […] vado a fare la coda e sentire dai professori, cosa sta facendo. Non perché non mi fido di lei, è una consolazione mia che sai, anche lei vuole, lei apprezza, che sono suoi passi, che partecipo al suo progetto. È un dato morale, non che dai i conti sui voti, ma dai sostegno psicologico, anche io ho bisogno, no? Di qualcuno che mi dice “stai facendo male o bene” (fam. Diaz, Argentina, padre). Il ricorso al tema dei ritorni occupazionali dell’istruzione per motivare i figli a conseguire buoni risultati a scuola emerge soprattutto nelle famiglie che hanno subìto un processo di mobilità sociale discendente dopo l’arrivo in Italia. Poi dice che gli ha anche fatto vedere dove lavora, per capire… Valeriu: Sì. L’ho portato sul posto di lavoro, per capire se lui… no, ma io ripeto. Lui è capace. Può andare avanti con la scuola perché si vedono i risultati che lui tira fuori, no? Ho detto guarda, ma prima volta gli ho chiesto io se vuole venire con me. È venuto, non mi ha detto niente. Ma le altre volte è venuto lui a vedere, quando abbiamo fatto lavori un po’ più sporchi, un po’ più pesanti, no. “Questo è il mio lavoro, se non studi, arrivi qua, in questo punto”. Nicoleta: Se lo trovi, se lo trovi. Valeriu: Se lo trovi, arrivi in questo punto. Nicoleta: O magari lo trovi e non sei pagato. Perché è capitato. Valeriu: In questi giorni non lo trovi, perché è difficilissimo (fam. Pecher, Romania, genitori). Dalle interviste tuttavia non emerge un confronto tra insegnanti di scuola secondaria e genitori sulle pratiche concrete attraverso cui sostenere la motivazione all’apprendimento dei figli, a parte l’invito generico a seguirli di più sui compiti (che, così esplicitato, rimanda però a dimensioni esterne e coercitive più che a processi di valorizzazione positiva e piacevole dell’apprendimento). Nel caso dei genitori scolarizzati nel paese di origine si può cogliere una riflessione sulla corrispondenza o meno dei presupposti educativi alla base dell’impostazione didattica della scuola, rispetto a quelli dei genitori. Dal primo brano che segue l’intervistata descrive una sostanziale corrispondenza di impostazione 146 RAPPORTO SECONDGEN (non riscontrata dagli altri genitori italiani), nel secondo brano invece il padre spiega come le differenze culturali siano oggetto di uno sforzo di mediazione – unilaterale – da parte sua. Nelle medie ho avuto e ho ancora oggi ottimi rapporti con delle insegnanti, una è l’insegnante di italiano, che ora è andata in pensione, e poi quella di storia non ancora, che è stata bravissima perché le ha insegnato il metodo di studio. È quello che io insisto tantissimo anche quando arrivano i ragazzi qui dall’Albania, importante è il metodo di studio, perché se tu riesci a dare lo strumento del come studiare, hai risolto più del 60% del problema. Quella era un’insegnante bravissima, molto rigida, aveva lamentele dai genitori in modo pazzesco, quella insegnante è stata abbastanza… criticata diciamo, per non dire altro (sorride), ma lei grazie a lei ha imparato come studiare e le è servito molto al classico, al liceo (fam. Vata, Albania, madre). Il contenuto che si insegna qua, non le materie scientifiche, ma tipo storia o quelle cose lì, molte cose o la maggior parte delle cose vanno in contrasto con le nostre tradizioni, con la nostra visione, proprio come… come viene studiato e come viene spiegata. Allora lì diventa non dico proprio fatica ma un doppio lavoro per me. […] Mi impegno di più a convincere mia figlia che quello che studia, un argomento che studia a scuola, va bene che lo studia in quel modo, va bene per il voto, ma diciamo secondo il nostro pensiero, secondo il nostro paese o nella nostra abitudine, quella cosa noi la vediamo in un altro modo. Allora lei si trova a studiare ogni argomento in due visioni diverse (ride) e è anche difficile per noi (ride). […] Quindi lei quando studia un argomento me lo dice prima come l’ha imparato a scuola, e io gli dico: adesso permettimi che questo qua io non lo posso accettare, va bene per l’insegnante, per lo studio a scuola, per l’insegnante che lo dice in questo modo, però noi crediamo molto, adesso ti spiego il modo in cui lo intendiamo noi. Su questo ha provato a parlare con le insegnanti? No. Perché non credo che la pensano… cioè non penso che lo fanno solo per me, perché piace così a me, non so se lei me lo può, cioè per due o tre bambini cambia tutto… già così dice che non ha tempo (ride). Poi magari le da anche una forma in modo sbagliato, anche in buona fede, in buona fede però va bene, magari la farà anche in modo sbagliato. […] Per lei cosa si potrebbe fare? Degli incontri con i genitori per capire i diversi punti di vista sugli argomenti o… No, per me sono quelli lì che decidono i percorsi, perché questi insegnanti… se vogliono fare qualcosa possono farlo, ma se non vogliono farlo… Deve essere deciso dall’alto di cambiare il programma (fam. Chebel, Algeria, padre). Anche in questo caso il signor Chebel non tenta di negoziare con le docenti approcci diversi: non si sente della posizione di poter inviare richieste individualmente, ma auspica un cambiamento istituzionale più ampio. La percezione di modelli educativi diversi è espressa anche da un padre che racconta la sua esperienza di rappresentante dei genitori. Ci sono i termini, orientativi, questi… io non li capivo questi. Io era li, per un termine diceva “ma scusa, cosa vuol dire questo termine qua”. Io segnava, andava a casa, vedeva il vocabolare. Eh, si. Arrivavo a casa, noi abbiamo a casa di più di 15 vocabolari (ride) […] andavo lì, dicevo “Cos’è questa parola, Ivo?”. Eh così, sinonim e antinonim, sinonim o antinonim, cosa devo dire? Ero un po’ di difficoltà, per me, perché mi sentivo anche un po’ in pressione, perché quando si facevano le riunioni io dovevo stare lì con… con la maestra e tutti italiani lì e… Mi sentiva un po’… anzi, una volta mi sono sudato. Per l’emozione. Ho detto io: porca puttana! Però perché i rappresentanti dei genitori devono anche parlare, cioè devono anche dire cose. Devono parlare, devono dire delle cose, poi io avevo la mia mentalità. Io sono un po’ duro come mentalità. Eh, per l’educazione. A me non mi scappa niente, se sbagli io... no, no, io ti dico “Oh, cosa fai? Vieni qua. Non si fa questa”. E poi a me non mi piace ° come si vestono, come i vestiti, come parlano ° . […] No, no, non avevano la presenza di un’insegnante. Deve essere una presenza, essere seria, bella, distinta, pulita, invece loro… Eh, una volta ho fatto una, diciamo… Io ho detto “Ma, per me bisogna iniziare da zero in questa scuola, perché non va bene così, non va bene” - ho detto io – “non sappiamo che strada prendono i nostri figli domani”. Fanno loro “Oh! Come non sai?!”. E io “Eh, non lo sai, se un figlio di 12 anni, una figlia di 12 anni, scusa la parola ma ti manda a vanfanculo, mica è giusto, quando arriva a 25 cosa fa questa qua? Ti ammazza” ho detto. “Eh, no”, faceva questa signora. “Per me funziona così “ ho detto io, “per questo dico di iniziare da zero”. “Torniamo più indietro” – ho detto io – “i nostri genitori, i nostri nonni, che educazione avevano loro? Come andavano loro, fra loro, marito e moglie, fra figli, che differenza c’era fra zio, zia”. Loro “Eh, no, no, non ci torniamo più di la, perché era i tempi così, i tempi di là”. […] E quindi questo, cioè quindi questo era stato un po’ un momento di rottura fra lei e la scuola. 147 RAPPORTO SECONDGEN Sì. Fra me e… Proprio questo giorno qua, e poi io quando faceva riunione non parlava più. Ah, dopo quella volta. No, non parlava più io perché già ho visto, erano contrari a queste mie idee, non volevano questa, volevano la libertà. Beh, la libertà c’è – ho detto io – libertà, però fino a un certo punto. Eh, no, mi fanno, ai tempi di Mussolini siamo qua? Quindi era stato proprio uno scontro molto forte… Eh sì, molto forte, molto forte. Da questo giorno poi io ho detto no… Però era stato comunque molto chiaro, poi anche con una lingua che non è la sua lingua madre. Eh… Per trovare la parola giusta.., Eh, si. Per trovare la parola giusta, è questo, anch’io sono rimasto, non so cosa, che parola usa adesso. Non sapeva la parola giusta. Può darsi anche questo, che la parola che ho usato io era un po’ brutta, un po’ pesante, può darsi se era un’altra parola più dolce, invece io ho detto diretto così “dove siamo qua, cosi non si fa” (ride) (fam. Kodra, Albania, padre). Sentirsi inappropriati (forse similmente ai genitori di classe operaia) e cogliere le diverse sensibilità educative come stigmatizzanti frena anche i più competenti in L2 a candidarsi come rappresentati dei genitori negli organismi decisionali delle istituzioni scolastiche come consigli di classe o di istituto. L’orientamento subìto, l’orientamento gestito e l’orientamento non percepito La consapevolezza dei servizi di orientamento forniti dalla scuola è diversa anch’essa in base alle risorse educative dei genitori, così come la capacità di aggiornarsi sui mutamenti istituzionali che caratterizzano i percorsi di istruzione superiore. Lei sapeva che lo scientifico era una buona scuola, perché aveva già conoscenze del sistema scolastico italiano? La verità no. Ma ho chiesto così “Per me basta mia figlia va a studiare” io non sapevo neanche quanti anni saranno cinque o saranno dieci. Per me basta che vanno avanti negli studi. Grazie alla maestra, buonanima della maestra che mi ha spiegato. Mi ha detto al liceo ha più probabilità di andare avanti, con l’altro è un po’ più… ci vanno quelli che studiano di meno, mi ha detto così (fam. Arzegui, Marocco, padre). La disinformazione rispetto alla scelta della scuola secondaria di II grado, in questo senso, non sembra tanto, o non solo, esito del fatto che i genitori scolarizzati in altri paesi applicano schemi diversi, relativi al sistema scolastico del paese di origine (anche perché in alcuni casi è simile) ma piuttosto il fatto che i genitori migranti, soprattutto se con titoli educativi bassi e lavori manuali, tendono a pensare al rapporto con gli insegnanti e all'orientamento come a qualcosa per cui l’attivazione dei genitori è richiesta in situazioni istituzionali, non come a un processo in cui è necessario raccogliere, anche informalmente e attraverso altri momenti e incontri e fonti, il più possibile delle informazioni. In terza media i professori avevano dato dei consigli, avevano spiegato i diversi tipi di scuola? Goran: Sì, sì. Donjeta: Sì. Goran: Come tutti gli anni fanno, anche in quegli anni. Donjeta: Siamo andati tutti i genitori insieme, in assemblea. Vi hanno spiegato la differenza tra liceo, istituto tecnico, istituto professionale? Perché in Macedonia è diverso… Goran: Ma adesso è così anche da noi. Cioè voi sapevate che il liceo è diverso dall’istituto tecnico e professionale oppure era una cosa che non… Goran e Donjeta: Sì, sì, sì. Goran: Lo sapevamo quello […] Loro hanno scelto questo, e sono andati. La grande cosa aveva detto che voleva fare? Donjeta: Informatica Tatiana. Ma cos’era? Un istituto tecnico o… Donjeta: A Nizza (M.to, Ndr). Come si chiamava già? Informatico-tecnologico mi sembra. Ma era liceo scientifico oppure un corso professionale…? 148 RAPPORTO SECONDGEN Martina: No, no, proprio scientifico no, era un’altra cosa, sai quello della M. (nome gergale della scuola, Ndr)? (fam. Alioski, Macedonia, genitori e figlia). Nel caso del sig. Chebel, invece, è più chiara la varietà dei tipi di scuola, il fatto di avere intrapreso un percorso diverso da quello suggerito a scuola e la prospettiva dell'istruzione terziaria. Dalle sue parole emerge inoltre, rispetto alle scelte dei connazionali degli istituti tecnici e professionali per i figli, anche un orientamento verso il paese di origine e il rientro eventuale anche dei figli con una qualifica spendibile nel mercato del lavoro locale. Il tema del “far scegliere la scuola ai figli” appare un tema narrativo più legato agli ideali sul “the best for the child” che alle pratiche, dato che in questo caso il padre è stato molto coinvolto nella decisione di non seguire il consiglio degli insegnanti delle medie. Rispetto alla scelta della scuola superiore, l’orientamento ricevuto dalla scuola media secondo lei come era stato? Vi hanno dato un elenco di scuole, dei consigli? Hanno fatto un test, hanno fatto delle valutazioni per mostrare le sue possibilità, e in base al risultato gli hanno consigliato di andare al (nome istituto tecnico). Però lui ha deciso di andare a… ha deciso di andare qua vicino al liceo scientifico. Con il latino però… non si è trovato (ride). Lei cosa ne pensava di questo? Io gli avevo dato la libertà di scegliere lui, di provare cosa voleva proprio lui. Anche se dicevano che il tecnico era più tranquillo, io gli avevo dato la libertà di scegliere. Io in Algeria ho studiato e poi ho rifatto l’università qui a Torino. Dato che ho fatto anche l’università, ho fatto anche il liceo ma in Algeria, e quindi non avevo un’idea di come era fatto qua in Italia da questo punto di vista. Abbiamo sentito gli insegnanti suoi della scuola. E anche alcuni amici, e tutti dicevano di lasciarlo scegliere lui. Prima faceva il liceo scientifico qui a Torino come prima scelta? Sì. Adesso fa quello lì, sempre scientifico ma normale. Era tecnologico, era tecnologico e poi la Gelmini ha fatto… tecnico. […] Rispetto a questa scelta di scuola superiore, voi pensavate che il liceo dava accesso all’università come qualcosa di quasi obbligatorio per entrare nel mondo del lavoro, avevate già l’idea che poi lui avrebbe fatto l’università? Cioè avevate questa idea: liceo uguale università dopo oppure non avevate pensato a questo? No, io… cioè io già non volevo che lui facesse l’altro istituto lì. Volevo che lui facesse un liceo così poteva andare, andata più avanti per andare all’università. Se io diciamo, il mio obiettivo, è quello di andare all’università. Poi il mercato del lavoro… abbiamo pensato più alla formazione. […] Io vedo anche gli amici di mio figlio, o figli di amici miei, tutti sono andati… all’istituto. […] Perché, parlo per conto mio, c’è sempre quella diciamo sirena che richiama, magari è meglio fare qualcosa per tornare più al mio paese. Però gli anni passano e io sono sempre qua. Io sono 30 anni che sono qua. Allora ti accorgi a un certo punto che è meglio pensare al presente. Se capita di andare al paese, in Algeria, vedremo quando capita. Magari gli altri stranieri pensato: magari se lì c’è uno che fa meccanica, ad esempio questo è il pensiero di questo amico di mio figlio, pensa che magari può aprire una officina o una scuola di meccanica al suo paese. E ho diciamo… l’orientamento, come la pensiamo… non dico che mi sto sacrificando per il loro, però… viviamo qua, e quindi sfruttare al massimo la situazione per dargli il massimo di istruzione finche ce la facciamo, e poi tra cinque anni, fra dieci anni, non si sa. Allora io mi oriento non in senso economico, ma da padre, di dar loro tutti i premi, tutti gli strumenti, di farli istruire al massimo possibile, poi…(fam. Chebel, Algeria, padre) Rispetto alla scelta scolastica, il gruppo di genitori con maggiori risorse educative precedenti all’emigrazione racconta di essersi attivato per reperire informazioni aggiuntive rispetto a quelle istituzionali. Io non so ma però direi una cosa: tutti i ragazzi devono avere l'opportunità di fare una buona scuola superiore, perché io ricordo che alla scuola media c'erano delle insegnanti, quelle di matematica non so, che li indirizzavano alle mamme, dicevano “signora suo figlio non può pensare neanche di metterlo in un istituto tecnico, deve andare in una scuola professionale. Perché in un istituto tecnico non ce la farà. Un liceo non si parla neanche. E le mamme accettavano questo. Mamme italiane. Io non ho avuto di questi problemi, perché le mie figlie andavano molto bene a scuola. [...] Che cosa fanno i genitori, che non conoscono, è importantissimo conoscere come è il sistema di studio italiano. […] è importantissimo che appena arrivano il genitore chieda il sistema di studio e quali sono le percorsi di studio per i figli, che possono immaginare anche quello, perché importantissimo allora non sanno, io quando sono arrivata qua ho chiesto ma nessuno mi sapeva dire della superiore com'era, un istituto tecnico, quell'altro aziendale, chi questo? Alla fine lo sono andato a cercare al ministero dell'istruzione, e ho visto lì. Ho visto leggendo da sola, perché nessuno mi sapeva dire (fam. Santos, Perù, madre). 149 RAPPORTO SECONDGEN La negoziazione con i figli e con gli insegnanti I genitori Alioski non si confrontano quotidianamente con gli insegnanti sulla riuscita della figlia alle scuole secondarie. Per questa ragione la comunicazione dell'insuccesso e del rischio di bocciatura arriva inattesa. La comunicazione con tutor e insegnanti avviene dopo una convocazione formale da parte della scuola, prima della quale i genitori non avevano chiesto informazioni o colloqui individuali per monitorare l'andamento scolastico della figlia. Le aspettative del sig. Alioski sono che la scuola debba avvertire in caso di difficoltà. Goran: L’ultimo mese, come si dice? Sette o otto… materie non sufficienti. Sette o otto! E io sono andato con… a ricevimento, quando ho saputo quello. L’ho detto anche alla direttrice «Perché mi chiama adesso? All’ultimo momento. Ora cosa volete?» e quella insegnante che è sulla classe, preside di quella scuola e in più professoressa di Tatiana, di quella classe. […] Erano quelle tre, e io sono andato. E ho chiesto «Ma cosa volete adesso?». Ho chiamato la direttrice eh? «Dovevate chiamare due o tre mesi prima!» hanno detto «Ah, io non so». Adesso devo prendere con le stampelle e darle in testa a tutte e tre? E come ha fatto? Donjeta: Eh, ha cominciato a studiare e si è fatta un culo così! (ride). Goran: L’ho chiusa in casa a studiare!" (fam. Alioski, Macedonia, genitori) Per la maggior parte dei genitori intervistati, anche quelli con titoli di studio elevati, la negoziazione con gli insegnanti sulle loro decisioni didattiche è una pratica “da genitori italiani”. In altri paesi è diverso quello che la scuola si aspetta dai genitori? Sì, sì. Ci sono le udienze, ma una volta al… sono di meno e non c’è questo… questo modo di andare spesso alle udienze personali, andare al mattino, parlare con il professore… io faccio quello che può fare un genitore anche al Marocco, nel senso vado nelle udienze che sono essenziali. Quando mi chiamano i professori, quando c’è questa udienza tre volte all’anno, vado perché faccio vedere che mi occupo di mio figlio, perché se no, se non vado, ti etichettano, rischi di essere etichettato come un genitore che non si occupa dei propri figli. Il problema di tanti genitori è che non capiscono questo, che rischiamo di essere etichettati, ma non è vero, perché magari lei si occupa, ma non ha quell’idea che il professore o la scuola la vedrà in quel modo lì (fam. El Maleh, Marocco, madre). E quando avete capito che G. avrebbe perso un paio di anni e che l’avrebbero messa nella stessa classe del fratello, voi avete reagito? Che cosa avete fatto? Avete provato a convincere il preside? Non mi piace, però è andata così. Non mi piace questa, però non… […] Si ricorda degli episodi in cui era andata a scuola per parlare con gli insegnanti? No. (Figlia): Solo le pagelle, la consegna delle pagelle (fam. Oukfir, Marocco, madre e figlia). La signora Oukfir segue da vicino la vita scolastica e sociale dei figli, e quando il minore dei tre, l’unico nato in Italia, ha difficoltà di riuscita e ripete due anni lo manda in Francia dallo zio per cercare di separarlo dal gruppo di amici italiani, con “mamme tutte dottoresse” che lei non conosce e che hanno stili di vita e consumi per lei rischiose come frequentare le discoteche, uscire in orari notturni e usare sostanze stupefacenti. Poi iscrive il figlio alla scuola tecnica che aveva frequentato il fratello maggiore. La signora Oukfir prova a attuare una forma di controllo fisico coercitivo, ma ha compreso il disagio adolescenziale del figlio, nato in Italia e quindi, come racconta la sorella maggiore, più “solo” senza l’appoggio della rete migratoria dei pari per riorientare il proprio tempo libero anche nell’ottica di trovare lavoretti da unire allo studio. La madre racconta che avrebbe voluto dagli insegnanti una maggiore comprensione del bisogno di sostegno educativo del figlio, forse quello di cui lei non può godere dopo il trasferimento in Italia per l’assenza di altri adulti come nonni, zii, né associazioni. Tuttavia non esprime agli insegnanti questo sentimento e non descrive il figlio dal suo punto di vista durante i colloqui con le insegnanti, anzi tende a mostrare, insieme alla figlia maggiore che la accompagna per tradurre, un adeguamento della famiglia alle richieste e alle immagini del figlio restituite dalle docenti, come emerge dal brano seguente. E come sono andati questi incontri? Non fa i compiti, sempre l’ultimo. E lei che cosa diceva? 150 RAPPORTO SECONDGEN Non mi piace così, piace faccia a casa compiti. Anche maestri non ha capito il ragazzo… vorrei capiscano il ragazzo. Il ragazzo in questo momento di adolescenza non si è capito. Vorrei andato fuori, vorrei giocare, vorrei tante cose. Quando andato maestra ha detto così. Ha detto «faccio, faccio, io mamma faccio tante cose, lei non piace cosa faccio». Allora, lei mi sta dicendo che suo figlio ha passato un periodo dell’adolescenza un po’così e c’è stata poca comprensione da parte dei professori? Sì. (Figlia): Sì, c’è stata poca comprensione. Anche ragazzi non è tranquilli. […] Ma lei come si sentiva durante questi colloqui con i professori? Messo così io non mi sta bene, non mi è sentito bene. E che cosa vorrebbe? Vorrei professore fosse come papà. Non è così il professore, come papà. Non è… (Figlia): Lei vorrebbe che i ragazzi avessero rispetto. Quando andiamo non è che diciamo «ah, no la professoressa non ha ragione, mio figlio è bravo» No. A casa, poi. No, anzi, prima di uscire dalla scuola cominciamo a martellarlo. «Come mai hai fatto questo, come mai…» Quindi a casa poi si parla, ma non davanti… Abbiamo sempre dato ragione ai professori. E comunque in questi incontri con i professori lei come si è sentita? Cioè, lei dà ragione ai professori, ma si è sempre sentita a suo agio? Non è che posso dare torto al professore, non posso dirlo però anche lei capisce, ragazzi, avevamo sempre…. (Figlia): Nei colloqui con i professori lei voleva una comprensione maggiore dato il suo orgoglio. […] Con i professori non abbiamo mai avuto discussioni. Io ho visto tanti italiani urlano ai professori. No, così noi no, perché anche in Marocco è così. Il professore è grande, qualcosa di grande (fam. Oukfir, Marocco, madre e figlia). Malgrado la signora Oufkir controlli ogni giorno i compiti del figlio, durante i colloqui non ha provato a negoziare l’immagine di lei come una madre disattenta né a far notare ai docenti il momento di difficoltà del figlio. Anche il sig. Adeleanu, il quale accompagna i figli nella comprensione dell’organizzazione scolastica, non prova a negoziare con la scuola le valutazioni. E ho dovuto fare, non proprio così, come insegnante, ma quasi ai figli, perché anche loro a scuola non capivano come era… (fam. Adeleanu, Romania, padre). Nei casi di grande insoddisfazione e non condivisione delle scelte didattiche dei docenti, ad esempio in seguito a ripetenze inattese o legate dagli intervistati a atteggiamenti propriamente di chiusura degli insegnanti nei confronti degli studenti migranti e dei loro bisogno specifici di apprendimento, come quella espressa di seguito dalla signora Fianu, i genitori intervistati hanno cambiato scuola invece di tentare una negoziazione delle valutazioni ricevute dai figli, dei programmi o delle procedure di comunicazione scuolafamiglia. Nicoleta: Non ci siamo trovati per niente al liceo, e mi dispiace se devo dirlo, uno per cento dei docenti meritano essere nominati docenti. Non avete… Nicoleta: Non io, ma ci sono tanti genitori italiani che… io l’ho già detto, in nostro paese, tutti i professori, anche insegnanti delle elementari, ogni due o tre anni, hanno un esame di verifica delle conoscenze! Qua no. Io le dico, al liceo A. erano dei professori malati di mente. Se io, è vero che non so l’italiano, che non sono andata a scuola, ma quello che va a scuola non ti capisce, come vuoi che studi. Qua purtroppo… mi dispiace, peccato. Non si era trovato bene. Nicoleta: Ma non solo mio figlio! Anche molti altri, che hanno rinunciato al liceo. Ma arrivi all’ultimo anno, cinque o sei allievi? Molti vanno via… Nicoleta: Sì, vanno via, perché non ce la fanno. Valeriu: Sì, ma non è sempre colpa degli insegnanti. Nicoleta: No, ci sono anche loro. Però se tu vai a colloquio dai docenti, a me non piace quando si dice prof, da noi si dice signora. Non esiste prof, non è bello. Non riesco a capire quello. Ma il libro? Ma allora tu che cavolo fai qua? No, no, purtroppo non sono preparati. Valeriu: È un altro… sono preparati. 151 RAPPORTO SECONDGEN Nicoleta: No. Magari questi giovani sono preparati, ma… no (fam. Fianu, Romania, genitori). Ha bocciato in modo non giusto, hanno fatto un po’ la vigliaccheria. Io conoscevo la nostra responsabilità, non avere una esperienza… ma c’erano troppe famiglie piemontesi, eliminiamo qualcosa che è un po’ diverso, e il diverso era mio figlio e questo suo amico. Ma tu non devi lasciare occasioni a un professore di bocciarti. Se sei bravo non possono bocciarti. Basta cambiare ambiente, è lo stesso liceo scientifico, uguale, ha trovato posto e subject… simili a questa qua (fam. Treska, Albania, padre). Milena: Per esempio alle medie avevo fatto lo stesso punteggio di una ragazza italiana, il suo voto era più alto e il mio era più basso. Cioè c’erano gli stessi errori? Milena: Sì, c’era lo stesso punteggio e lei aveva un voto più alto, a me aveva tolto un voto. Tu avevi protestato? Milena: No, me n’ero stata zitta. Lidja: Finche c’era [nome della dirigente scolastica precedente a quella in carica attualmente] non succedevano quelle cose (sottovoce). Perché controllano le insegnanti? Milena: Sì, per esempio nei Consigli di classe per quanto ne ho io la dirigente è presente e i compiti dei ragazzi si tirano fuori. Una direttrice che è attenta nota poi se due compiti hanno lo stesso punteggio “Come mai questa ragazza ha il voto più basso e questa più alto?” Perché non avevi detto nulla? Milena: Ma perché sinceramente l’ho sempre pensata così: molto italiani discriminavano. Compagni di classe? Milena: In generale. Ma succede ancora adesso. Lidja: Quando eri stata bocciata, quel ragazzo come si chiamava? [nome di un ragazzo italiano] Lui con otto materie insufficienti non l’hanno bocciato, lei invece con quattro sì. Milena: Eh però vedendo oggi, per i ragazzi macedoni, gli facilitano un po’ le cose. Quindi c’è già un appoggio in più. Che tanto tempo fa. A scuola. […] Lidja: Non lo so, ma no pensato sempre così. Siamo venuti NOI a casa vostra. Dobbiamo adattarci NOI alla vostra cultura. Non voi alla nostra. L’ho pensata sempre così (fam. Lena, Macedonia, madre e figlia). Anche i conflitti tra compagni sono oggetto di negoziazione tra genitori e insegnanti, ma, nel caso dei migranti intervistati, tendenzialmente le questioni sono risolte tra genitori e figli. Per il primo anno ha faticato un po’, ma adesso è al secondo… alla grande. Sono andato a 7-8 colloqui con i professori e mi hanno consolato tantissimo, mi hanno detto “è molto, molto attento in rispetto ai suoi compagni!” perché quello che ho saputo da lui, pensa, ° ci sono bambini che a quell’età, rientrano alle dieci, dieci e mezza di sera, ubriachi a casa ° il professore mi ha detto “Se avessero un’educazione come il tuo, sarebbero promossi tutti!”. A parte che i genitori se ne fregano! Come non fosse suo figlio! Purtroppo io dico: “Questa scuola la devi continuare, perché siamo qua, e le tue capacità lavorative e tutto… lascia perdere il mondo dei tuoi compagni casinisti e segui i professori e i tuoi risultati, e per il resto prega che arrivino al risultato a cui sei arrivato te”. Un po’ meno succedeva con Saloua perché lavoravano, studiavano, è un altro mondo il liceo, ma all’istituto professionale è proprio così, c’è tutto questo menefreghismo diciamo, sia dei genitori che da parte dei professori (fam. M’Barka, Tunisia, padre). Solo una mediatrice culturale racconta di avere il desiderio di costruire un piano formativo comune con gli insegnanti e di essere entrata nel merito di scelte specifiche didattiche, non solo legate a aspetti più relativi alla cura, invece più negoziati durante la scuola dell’infanzia e primaria. Anch’io ero così. Perché per noi l’insegnante è quasi un profeta si dice nel nostro… io sono del Marocco. Adesso purtroppo i professori non sono più quelli di una volta. Io vedo adesso con la prof. di mio figlio di italiano. Lui è nato qua. Non parla l’arabo, parla solo l’italiano. Lei per offenderlo, gli ha dato il libro di italiano, per stranieri. Gli ha detto “Guarda, deve imparare l’italiano”. Ma…? È nato qua, lui è italiano! (fam. El Maleh, Marocco, madre). 152 RAPPORTO SECONDGEN Il rapporto tra pari, compagni e genitori, è segnato anche dalla dimensione dell’origine sociale, oltre che geografica, aspetto che, nel momento in cui è vissuto come asimmetrico, diminuisce il senso di fiducia in sé e nella propria capacità negoziale. Ha studiato a Savigliano, e allora li vedevo, andavano anche ben vestiti, anche le mamme fuori da scuola, e così poi non si è trovata bene, ed è andata a Torino, e poi più stranieri, e vestiti anche normale, anche come genitore ho notato quello, anche io, io eh? Prima a Savigliano non lo notavo, invece a Torino anche all’uscita da scuola, con gli altri genitori, le altre mamme… ho visto che ero più trattata… alla pari. Mi sono resa conto. Invece a Savigliano no, i genitori andavano più per le sue, io non ci facevo caso, andavo e venivo solo per quello che dovevo fare e non guardavo, non lo notavo… ma poi andando a Torino, ho capito. Perché [sott.: a Savilgiano] erano piemontesi, sai… Invece a Torino c’è tutta una mischia, no? Erano più abituati ad avere stranieri, e mi sono trovata a mio agio, e ho detto “adesso ho capito mia figlia” (fam. Vidal, Perù, madre). Lui era considerato una creatura inferiore, era circondato da ragazzi di buona famiglia, non c’era un altro straniero nel suo gruppo, era un po’ ciccione, sentiva qualche presa in giro per il suo fisico, e aveva questo handicap di essere albanese. Le professoresse non hanno mai valutato veramente il problema, lui ha sofferto così tanto che dopo il secondo anno abbiamo dovuto trasferirlo nella scuola media *** là era a un livello sociale a portata di mano, e ha chiuso la terza media lì. Bene, con gli amici, si è fatto gli amici là. Mi sembra di avere capito che nei colloqui che tu hai avuto avresti voluto dire qualcosa di tuo figlio, e non ci sei riuscito. E’ così? Sì, volevo raccontare un po’ delle sue difficoltà precedenti, che secondo me venivano proprio da come avevano fatto gli insegnanti, quindi la diversità e gli insegnanti. (Al preside, Ndr) volevo dirgli: a te hanno dato quell’incarico che potevano dare a un altro... ero arrabbiato... ma non l’ho detto, e... quindi .... non sono riuscito stabilire un dialogo... anche perché non capivo tante cose... […] se non eravamo vanitosi di scegliere scuole di élite, se l’avessimo lasciato stare tranquillo con altri stranieri, con altri ragazzi ... e non abbiamo neanche ascoltato *** (il figlio), mia moglie insisteva, gestiva lei e io non le toglievo il primato, per non creare contrasti, lasciavo fare (fam. Pulgar, Albania, padre). La presentazione di sé come genitori nello spazio pubblico scolastico quindi è segnato da episodi che collegano scuola e extrascuola, e anche il senso di maggiore o maggiore adeguatezza nei confronti degli altri genitori influenza la propensione a partecipare attivamente alla vita scolastica. Quando c’è stato il compleanno di mio figlio è stato bellissimo, perché sono venute anche le mamme. ° i primi due anni no, perché avevo paura. Ha presente, no? Sa, mi portano, non mi portano i loro figli, sono straniera, hanno paura, cioè sono le nostre difficoltà, no? Perché non sappiamo se siamo accettati o no. E quindi non l’ha organizzata per i primi due anni? Perché avevo paura: e se la organizzo e non viene nessuno? Avevo paura di deludere mio figlio e di rimanere male e quindi boh. […] Invece i bambini si sono divertiti, sono stati bene. È stato bello. Cioè è un ricordo che io… cioè ce l’ho… Forse è stato un po’ un evento che superato quello… E allora vuol dire che sei accettato dagli altri. Diventi più forte, diventi più… cioè non è solo che gli altri ti mettono in difficoltà. Siamo anche noi che abbiamo questa come posso dire, chiusura per la paura di non essere accettati dagli italiani (fam. Niko, Albania, madre). Le relazioni tra insegnanti e genitori migranti sono dunque caratterizzate da processi di negoziazione delle regole del gioco all’interno dei quali gli attori coinvolti non hanno – o non percepiscono di avere – una posizione simmetrica. Perché c’è la timidezza dalla parte di… la timidezza uno e poi il genitore straniero si vede sempre un po’ come un sottomesso. Non si vede come un cittadino uguale all’altro, di serie A. Sempre ha questo… giudizio sopra la sua testa che è sempre un cittadino B, di serie B. quindi non partono a pari livello. Ma anche se nella scuola non percepisce razzismo? Perché è un razzismo che si percepisce nel resto della società? Sì. Nel complesso, nel complesso, sì sì. È tutto il percorso migratorio che uno ha vissuto qua. Poi dipende da che vita fa. Come dicevo io ho avuto tantissime difficoltà ma sono stata facilitata dal modo… da fattori che io facevo parte della società molto attiva nel mio paese. E quindi questo mi ha aiutato di saper stare con… ma ci sono persone che sono state chiuse, casa e chiesa tra virgolette, e quindi trovarsi qui non è facile, 153 RAPPORTO SECONDGEN perché gli aiuti sono se li vai a trovare, ma se non li vai a trovare nessuno ti bussa alla tua porta (fam. Vata, Albania, madre). “Ormai sono grandi”. Prospettive universitarie e lavorative Beh, però sarà una soddisfazione sapere che ora prende il diploma. Eh sì, certo! Sì, sì, certo!!! Proprio, proprio contenta! Ma speriamo eh! [ride]. Anche per trovare lavoro buono dopo. Speriamo, speriamo, speriamo. [ride] È quello! Facciamo per studiare per fare più bello il lavoro, non come me, lavorare come anziani, lavorare come domestica! Speriamo che lo studio porta un lavoro più bello per lei (fam. Santos, madre, Filippine). Gli studi sulle migrazioni nei diversi approcci disciplinari (economia, antropologia, sociologia, psicologia e demografia) per lungo tempo hanno mantenuto un’ottica retrospettiva (Suárez-Orozco e Carchill, 2011). Nelle interviste abbiamo chiesto ai genitori di descrivere le loro aspirazioni di mobilità sociale dei figli, evidenziando che, contrariamente all’assunto spesso presente in letteratura, non sempre sono elevate. Dal punto di vista del loro compito di genitori, emerge prevalentemente il desiderio di aiutare i figli a conseguire una qualifica secondaria. È questa una abitudine da noi, l’importante è che i figli finiscono l’istruzione, così abbiamo fatto il nostro dovere di genitore. E i genitori hanno la voglia così, anche se i genitori non sono laureati o non hanno il diploma così, però hanno la voglia sempre che il loro figlio finisce una cosa bella, una cosa buona. Anche se poi non hanno trovato il lavoro, l’importante è che finisci il diploma, finisci la laurea, così io ho fatto il mio lavoro (fam. Mosaoud, Egitto, madre). Interrogandosi sulle prospettive occupazionali, in primo piano viene messa la possibilità di trovare lavoro e quindi anche l’attenzione a settori lavorativi simili a quelli in cui sono impiegati i genitori. Perché dice che sua figlia ha patito di più? Allora, lei ha scelto la scuola perché nel sociale c’è più lavoro. Lei voleva fare il turistico, ma cosa vai nel turismo? Sei anche straniera, puoi fare infermiera, che hanno bisogno tanto, o l’assistente sociale, l’educatore professionale, nel settore sociale cercano tanto, hanno bisogno tanto (fam. Vidal, Perù, madre). Compare anche la dimensione del prestigio, legata al titolo conseguito e non necessariamente al lavoro svolto. Secondo lei perchè un diploma può essere utile? Stefan: Perché da tutte le parti te lo chiedono, no? Anche se sei capace di fare quel lavoro, però devi avere un pezzo di carta. O no? Ho capito. Quindi proprio per trovare lavoro, per… Stefan: Anche per tua personalità. Quando dici a qualcuno quante classi hai fatto “No, non ho fatto niente” lo guardi dall’alto in b… lo guardi in un altro modo. No? (sorride) (fam. Fianu, Romania, padre). Accanto al desiderio che i figli concludono l’istruzione secondaria c’è anche l’aspirazione al fatto che possano emanciparsi economicamente e formare una loro famiglia, in tempi non così lunghi come accade ai giovani italiani. C’è una differenza perché i figli perché quando ti sei sposato i figli, cresci insieme con i figli. Più o meno io sono cresciuta con i miei figli, insieme, no. Io ho 53 anni, mia figlia ce ne ha 35. Ce l’hanno anche la nipotina, già. Ah, si, è già nonna. Si, io sono già nonna, così io posso aiutare i miei figli, che si sposano, ci sono i nipoti, sono ancora in gamba per aiutare i miei figli, no. Sono una nonna giovane, ma se si sposa a 40 anni, i genitori sono vecchi e devi mettere un baby sitter, per forza. Si è un sistema meno, cioè.. A mio paese tutti sono giovani, aiuta anche i figli, crescono i figli (ride). Si, è un sistema più… Io conosco una signora che ha la mia età, ha un figlio piccolo di 6 anni lei e sua figlia ha anche lei un nipote di 4 anni. Hanno la stessa età, simile.. si, si… Crescono in due. 154 RAPPORTO SECONDGEN Quindi per lei andrebbe bene se i suoi figli si sposassero anche giovani e facessero… Si, mio figlio questo grande si è sposato giovane però… un po’ la mentalità è cambiata. Perché adesso come qua, che si pensa prima la casa, prima la macchina e dopo mi sposo. Prima studio e puoi fare tutto insieme. Una volta devi rischiare! altrimenti… Passano gli anni, poi ti prendi una casa, ti prendi niente, tanto che aggiusti la casa, diventi vecchio, dopo vai al dottore per vedere cosa fai, non fai niente. Hai già 40 anni, dopo i bimbi non arrivano più, dopo 40 anni (fam. Galai, Romania, madre). Soltanto nel gruppo di interviste con genitori altamente qualificati è in primo piano la valenza espressiva del titolo di studio e l’insieme delle risorse personali ad esse collegate. Una persona che non sa scrivere, che non sa niente come fa? A girare nel mondo, non si può! Eh? L’istruzione è tutto, è tutto, no? Si può avere i soldi o fare tanti soldi o lasciare tanti soldi e per quello io ho fatto tutti i sacrifici per mio figlio qua, che accetto tutto quello che sto facendo per la signora, perché io so che va bene, una persona può lasciare tanti soldi per i bambini e POI UNA NOTTE LORO POSSONO BUTTARE TUTTI VIA, ANCHE TRENTA MINUTI POSSONO BUTTARE TUTTI VIA, INVECE QUANDO UNO DA ISTRUZIONE È PER TUTTA LA VITA. Eh? è per tutta la vita. È per questo che io faccio tutto questo. Mi sono sacrificata per loro. Per dare istruzione a loro (fam. Ouattara, Costa d’Avorio, madre). Conclusioni Abbiamo provato a rispondere alle seguenti domande: come i genitori migranti influenzano le carriere educative dei loro bambini, (non) negoziando con insegnanti e genitori specifici aspetti della vita scolastica quotidiana come processi di valutazione, orientamento scolastico, norme formali e informali relative al rapporto scuola-famiglia? È vero, come diversi studiosi hanno evidenziato, che i genitori migranti nutrono “alte aspirazioni” nei confronti dell’istruzione dei loro figli, ma non riescono a tradurle in supporto all’apprendimento adeguato? Se è così, quali processi sociali sono coinvolti? Abbiamo cercato di fare emergere i meccanismi alla base del “disagio” delle relazioni scuola-famiglia. Si tratta da un lato di problemi legati alla conciliazione dei tempi, in particolare quando sorgono problemi a scuola, dall’altro lato a disagio nella presentazione del sé e delle proprie competenze socio-linguistiche dei genitori nei confronti degli insegnanti, infine di una serie di assunti alla base delle caratteristiche che dovrebbero avere le relazioni scuola-famiglia, differenti tra genitori e insegnanti. I rinforzi della motivazione e i ri-orientamenti in caso di fallimento scolastico sono resi più difficili dalla difficoltà dei genitori migranti a negoziare le responsabilità educative con gli insegnanti. Soprattutto i genitori che godono di minori risorse in istruzione formale hanno una doppia difficoltà a porsi come “bravo genitore”: da un lato considerano il loro ruolo in subordine rispetto a quello degli insegnanti e dei figli stessi nell’indirizzare il percorso scolastico degli studenti, sia rispetto alle competenze necessarie sia rispetto alla legittima capacità di essere efficaci; dall’altro fondano la collaborazione scuola-famiglia su un presupposto diverso rispetto ai ruoli che insegnanti e genitori dovrebbero avere. Le relazioni con gli insegnanti, specie di scuola secondaria di II grado, improntate sulla fiducia e su valutazioni generalmente positive dell’offerta formativa possono essere scambiate dai docenti per assenza e incapacità a sostenere l’apprendimento. Inoltre le micro-pratiche quotidiane di monitoraggio e controllo dello svolgimento dei compiti e dell’andamento della frequenza alle lezioni, nella scuola secondaria, sono intese solo dai genitori scolarizzati come momenti “cruciali”. Le aspettative dei genitori rispetto al ruolo della carriera scolastica/universitaria sulla successiva carriera occupazionale/di inserimento sociale dei figli sono caratterizzate da una consapevolezza dei vincoli materiali posti nell’attuale contesto economico all’inclusione nel mercato del lavoro dei più giovani, anche considerando le risorse economiche familiari in molti casi ridotte dalla crisi. Le aspirazioni di mobilità sociale inoltre si intrecciano a quelle relative ai tempi per l’ingresso dei figli nell’età adulta, intesa come raggiungimento di una loro piena autonomia finanziaria. I progetti dei figli che vorrebbero lavorare date le situazioni economiche della convivenza familiare malgrado l’incoraggiamento dei genitori a proseguire l’istruzione terziaria possono leggersi anche come “desiderio di adultità”. Raggruppando le interviste in base alle risorse educative dei genitori e alla loro collocazione occupazionale nel paese di origine, si possono cogliere due modelli idealtipici di interazione delle famiglie migranti con le scuole italiane. Il primo gruppo di intervistati, dopo un lungo momento iniziale di socializzazione alle procedure informali che caratterizzano le interazioni scuola-famiglia nel paese di destinazione, in questo caso l’Italia, e in parte sono diverse da quelle attuate nel paese di origine, esprimono una maggiore sicurezza 155 RAPPORTO SECONDGEN dell’interazione negoziale con le figure educative. La loro esperienza formativa precedente e le risorse relazionali e linguistiche collegate permette a questi genitori di “sentirsi alla pari” e di esprimere e utilizzare più competenze e più fluidità nel rapporto scuola famiglia, che aumentano passando da un ordine di scuola all’altro e dai figli maggiori a quelli minori, sulla base dell’esperienza precedente maturata in Italia e dagli scambi con altri genitori. In questo gruppo i racconti contengono anche più riflessioni sul fatto che, mentre sul piano della motivazione all’apprendimento, si possa cogliere una sostanziale coerenza tra il modello educativo familiare e quello scolastico, sul piano degli orientamenti valoriali specificamente legati al ruolo dell’insegnante e più ampiamente attinenti ai contenuti curricolari si manifestino non corrispondenze, e in alcuni casi visioni in conflitto, tra orientamento dei genitori e orientamento dei docenti. In questi casi i genitori raramente negoziano con la scuola approcci più interculturali, per una generale sfiducia nella possibilità di cambiare metodo di insegnamento e per una diffusa credenza che alcuni aspetti educativi spettino alla famiglia. Nel secondo gruppo di interviste, realizzate con genitori con percorsi più brevi in istruzione nel paese di origine, si rilevano le difficoltà evidenziate dagli studi sull’effetto della classe sociale sulle capacità di gestire il rapporto con le istituzioni educative. Inoltre questi sono i casi in cui gli effetti della mobilità geografica sull’organizzazione familiare (assenza di parentela allargata, orari di lavoro dei genitori molto lunghi, situazioni abitative e economiche poco incoraggianti la prosecuzione degli studi dopo l’obbligo, rete migratoria costituita da persone collocate in basso nella stratificazione occupazionale, difficoltà linguistiche, ecc.), si manifestano più direttamente come ostacoli all’accompagnamento allo studio, sia sul piano del rapporto dei genitori con i figli per motivarli alla riuscita scolastica, sia sul piano delle aspettative, sia infine ma non meno importante, sulla percezione di incompetenza da parte dei genitori, e conseguente evitamento di situazioni interattive fonte di disagio. 156 RAPPORTO SECONDGEN Riferimenti bibliografici Acocella I., 2010, I figli dell’immigrazione. Ovunque “fuori luogo”, Roma, Bonanno. Ambrosini M., 2006, Nuovi soggetti sociali: gli adolescenti di origine immigrata in Italia, in Valtolina G. e Marazzi A., a cura di, Appartenenze multiple. L’esperienza dell’immigrazione nelle nuove generazioni, Milano, Fondazione ISMU, FrancoAngeli, pp. 85-104. Barbagli M. e Schmoll C., 2011, Introduzione, in M. Barbagli e C. Schmoll, a cura di, Stranieri in Italia. La generazione dopo, il Mulino, Bologna, pp. 7-25. Barban N. e Dalla Zuanna G., 2008, Le seconde generazioni in Veneto, in O. Casacchia, L. Natale, A. Paterno e L. Terzera, a cura di, Studiare insieme, crescere insieme? un’indagine sulle seconde generazioni in dieci regioni italiane, Milano, Franco Angeli, pp. 45-61. Berry J. e Sam D. L., 2011, Acculturazione e adattamento dei giovani immigrati, in M. Barbagli e C. Schmoll, a cura di, 2011, Stranieri in Italia. La generazione dopo, il Mulino, pp. 53-74. Besozzi E. e Tiana, 2005, Insieme a scuola 3. La terza indagine regionale, Milano, Fondazione ISMU. Colombo M., 2004, Relazioni interetniche fuori e dentro la scuola: i progetti del comune di Brescia Milano, Fondazione ISMU. Eve M. e Perino M., 2011, Seconde generazioni: quali categorie di analisi?, in «Mondi Migranti», 2, pp. 175-193. Favaro G. e Tognetti Bordogna M., 1991, Donne dal mondo. Strategie migratorie al femminile, Milano, Guerini. Foner N., 2009, a cura di, Across generations: immigrant families in America: New York University Press, New York – London. Grillo R., a cura di, 2008, The family in question: immigrant and ethnic minorities in multicultural Europe, Amsterdam, Amsterdam University Press. Hughes D., Seidman E., Williams N., 1993, Cultural phenomena and the research enterprise: toward a culturally anchored methodology, in «American Journal of Community Psychology», Vol. 21, n. 6, pp. 687703. Impicciatore R., 2008, Seconde generazioni in Emilia Romagna, in O. Casacchia, L. Natale, A. Paterno e L. Terzera, a cura di, Studiare insieme, crescere insieme? un’indagine sulle seconde generazioni in dieci regioni italiane, Milano, Franco Angeli, pp. 63-82. Lahire B., 1995, Tableaux de familles. Heurs et malheurs scolaires, Gallimard/Le Seuil, Paris. Lareau A., 2011, Unequal Childhoods. Class, Race, and Family Life, With an Update a Decade Later, California University Press, Berkeley. Lostia A., 1999, Le condizioni materiali per il ricongiungimento familiare, rapporto intermedio, Commissione per l’integrazione, Roma, Dipartimento degli Affari Sociali, Presidenza del Consiglio. Santero A., 2012, “Portami con te lontano”. Istruzione e inserimento sociale dei giovani migranti al termine della scuola secondaria di II grado, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Torino. Suárez-Orozco C. e Carchill A., 2011, Andare avanti: la ricerca sui giovani immigrati e le loro famiglie, in M. Barbagli e C. Schmoll, a cura di, 2011, Stranieri in Italia. La generazione dopo, il Mulino, pp. 29-51. Sen A., 1992, Inequality Reexamined, Oxford, University Press, trad. it., 1994, La disuguaglianza, il Mulino, Bologna. Thomas W.I. e Znaniecki F., 1918, The polish peasant in Europe and America, University of Chicago Press, Chicago (trad. it. 1968, Il contadino polacco in Europa e in America, Comunità, Milano). Zanfrini L., 2004, Sociologia della convivenza interetnica, Bari, Laterza. 157 RAPPORTO SECONDGEN Legami matrimoniali e di convivenza. Le pratiche transnazionali. Chiara Bergaglio, con Maria Perino e Michael Eve Tra i diversi nodi tematici indagati, il tema delle relazioni affettive e di coppia, pur non costituendo una questione cardine della ricerca Secondgen, è inevitabilmente emerso nelle interviste con i ragazzi e ragazze di seconda generazione, in alcuni casi in modo marginale, in altri come aspetto centrale del proprio percorso di vita. La formazione di relazioni di coppia di tipo più o meno stabile e/o istituzionalizzato (convivenza o matrimonio) insieme alla conclusione della carriera formativa e all'ingresso nel mondo del lavoro, costituiscono infatti delle tappe essenziali nei percorsi di vita che scandiscono la transizione all'età adulta. Seguendo l'impianto teorico e metodologico generale della ricerca, la nostra prospettiva nell'esplorare questo tema ha privilegiato l'analisi delle reti sociali dell'intervistato: quali ambienti sociali frequenta? In quali di questi è stato conosciuto il partner? Il legame affettivo a quali reti sociali ha dato accesso o ha precluso? Inoltre, si è cercato di indagare quali implicazioni ha avuto la relazione, in particolare di tipo coniugale, sulla carriera formativa e lavorativa dell'intervistato. Quando si affronta il tema delle relazioni affettive e coniugali dei giovani di seconda generazione, con riferimento, in particolare, a quelli che vengono definiti matrimoni combinati, spesso si adotta una interpretazione culturalista che ritiene che la provenienza dei genitori da Paesi di tradizione arabomussulmana sia sufficiente da sola a giustificare e a spiegare il fenomeno, senza prendere in considerazione la complessità di tale istituto, le trasformazioni che sono in atto nel contesto di partenza e quelle prodotte dal processo di migrazione, come invece cercheremo di illustrare. Partendo infatti dall’ipotesi di fondo di tutta la ricerca Secondgen, e cioè che essere figlio di genitori immigrati comporti delle specificità nella strutturazione delle reti sociali e nei percorsi scolastici e lavorativi, ci siamo chiesti se tali meccanismi sono all'opera anche nella scelta del partner e nella formazione di coppie. Tra le interviste analizzate, abbiamo riscontrato una notevole varietà di situazioni: relazioni più o meno stabili e durature, fidanzamenti, coppie cosiddette “omoetniche”, coppie miste, convivenze, matrimoni, presenza di figli, separazioni e divorzi. Dopo qualche considerazione iniziale su questa varietà presente nella ricerca nel suo complesso, si focalizzerà l’attenzione su una situazione particolare, quella di matrimoni “transnazionali” contratti da alcune intervistate marocchine. Nonostante il fatto che i legami di questo tipo interessino solo poche intervistate della ricerca (e quindi non riflettono l’esperienza della maggior parte delle figlie dei migranti in generale e nemmeno delle figlie di migranti maghrebini) meritano attenzione a causa della mancanza di letteratura sul tema in Italia e a causa dell’interesse che suscitano. Se gli studi sulle seconde generazioni in Italia hanno conosciuto solo recentemente un certo sviluppo rispetto ad altri contesti nazionali, il tema specifico delle relazioni affettive e coniugali è stato finora decisamente poco indagato e si configura come una nuova e innovativa area di indagine. In Italia segnaliamo lo studio del 2009 “Per forza, non per amore. Rapporto di ricerca sui matrimoni forzati in Emilia-Romagna” condotto nell'ambito del privato sociale dall'associazione Trame di Terra, per altro incentrato non sulle seconde generazioni, ma sulle donne di origine immigrata in generale, caratterizzato da un'impostazione di genere non scevra da culturalismo. L'indagine ha tuttavia il merito di essere tra le prime a sollevare la questione in Italia su quelli che vengono definiti, anche da un punto di vista legislativo, come “matrimoni forzati”. Anche nel panorama internazionale, sebbene il dibattito a riguardo sia presente da più tempo, abbiamo riscontrato una certa lacunosità nella letteratura scientifica e una scarsità di studi specifici sulla matrimonialità delle seconde generazioni. Un filone di studi che ci è parso proficuo per orientarci in questo campo sono state le indagini condotte dalle sociologhe francesi Hamel, Collet, Santelli e Streiff-Fenart sulle formazione di coppie coniugali dei figli degli immigrati in Francia, con un focus particolare sulle famiglie di origine maghrebina. Sebbene tali ricerche fotografino situazioni e tendenze che da un punto di vista empirico si discostano parzialmente da quelle rilevate dalla nostra ricerca, esse ci hanno fornito stimolanti spunti comparativi e sguardi interpretativi sul fenomeno. L'approccio comparativo ha infatti costituito una asse portante della nostra ricerca per quanto riguarda la comparazione sistematica tra le migrazioni contemporanee e le migrazioni interne dell'Italia degli anni '60. Anche rispetto al tema specifico delle relazioni affettive e coniugali, si è cercato di mettere a confronto le strategie matrimoniali delle famiglie e dei giovani di seconda generazione di oggi con quelli delle famiglie meridionali immigrate al Nord, (Badino 2012) nel tentativo di trovare analogie, differenze e possibili quadri 158 RAPPORTO SECONDGEN interpretativi comuni. Un altro termine di confronto sono state le ricerche di Wessendorf (2008) sulle famiglie italiane emigrate in Svizzera riguardanti scelte educative e modalità di relazione con i figli. Pochi matrimoni e convivenze Nonostante gli intervistati ci abbiano parlato anche di altri tipi di relazioni affettive e sentimentali più transitorie (fidanzamenti, “storie”, “relazioni”) del presente o del passato, in questa analisi prenderemo in considerazione solo le relazioni più stabili e strutturate, quali appunto i casi di matrimonio e di convivenza, specificatamente 14 casi di matrimonio e 7 di convivenza. Anche se non si tratta di numeri elevati, la gamma di situazioni, percorsi e significati che abbiamo riscontrato è ampia. Può essere d'aiuto per un inquadramento iniziale del fenomeno, la tipologia recentemente proposta da Collet e Santelli (2012) relativa alle opzioni matrimoniali “a disposizione” dei figli degli immigrati: - coppie miste - coppie endogamiche - coppie transnazionali, dove uno dei due partner ha intrapreso un percorso migratorio. Nella nostra indagine, nella maggior parte dei casi si tratta di coppie endogamiche e transnazionali, in cui l'accezione “transnazionale” acquisisce inediti significati come vedremo, mentre le coppie miste sono in numero esiguo. Tra i 21 casi presi in considerazione tra coppie sposate e conviventi, abbiamo 19 femmine e solo due maschi. Chi sono dunque queste ragazze? Come è avvenuto il processo di scelta o non scelta del partner? All'interno di quali ambienti sociali – famiglia, rete amicale, rete parentale - è avvenuto? Quali sono le strategie famigliari sottese alla formazione della coppia coniugale? Quali sono state le ripercussioni sulla carriera formativa e lavorativa di queste giovani? Qual è il margine tra vincoli e propria agency? Come ricordano Collet e Santelli (2012:7): le lien conjugal comme un des liens sociaux fondamentaux de notre existence, se construise entre les conditions structurantes et les décisions individuelles qui interviennent au cours de tout processus social. Il nostro focus verterà su ragazze di seconda generazione principalmente di origine marocchina, ma non solo, nate o cresciute in Italia, dove hanno frequentato la scuola, in alcuni casi interrompendola, spesso fino al conseguimento del diploma o fino all’università, che si sposano con partner conosciuti nel Paese di origine. In queste situazioni è molto problematico il ricongiungimento famigliare del neo-marito che vive in Marocco con la moglie in Italia e molte volte costringe la coppia a lunghi periodi, talvolta anche anni, di separazione. Proprio la questione dell'ingresso legale del marito in Italia apre inquietanti interrogative sul ruolo di queste ragazze di seconde generazione “lascia passare” per l'Italia. Inoltre, sembra essere in atto un evidente ribaltamento dei ruoli di genere: se prima era l'uomo, padre di famiglia e primomigrante, ad occuparsi del ricongiungimento della moglie e/o dei figli che vivevano in Marocco, ora è la giovane moglie ad accollarsi la responsabilità di trovare un lavoro e una casa che soddisfino tutti i requisiti necessari per il ricongiungimento del marito. Tale fenomeno ci ha colpito per la sue caratteristiche di originalità e per il fatto che sembra non essere ancora stato oggetto di specifici studi e approfondite analisi in letteratura. Ne sono una dimostrazione le ricerche di Collet e Santelli che da anni si occupano di questi temi in Francia. Le due studiose hanno rilevato quattro opzioni coniugali a disposizione dei figli degli immigrati a seconda del tipo di partner (Collet, Santelli, 2012:.6): 1. un discendente di immigrati dello stesso Paese o area geografica d'origine dei genitori nato o arrivato in Francia prima degli 11 anni d'età; 2. una persona immigrata dal Paese di origine dei genitori o dalla stessa area geografica arrivata in Francia dopo i 10 anni di età; 3. un francese senza ascendenza immigratoria; 4. qualsiasi altra persona con un'ascendenza immigratoria. Nonostante la differenza di criteri utilizzati per la definizione di “seconda” e “prima” generazione riconducibile alla diversa anzianità del fenomeno migratorio in Francia rispetto all'Italia, si nota come non sia contemplata l'opzione “persona che vive nel Paese di origine dei genitori e non emigrata” che costituisce invece la peculiarità dei casi da noi riscontrati. Ma andiamo con ordine, quali sono le scelte o non scelte individuali e famigliari, quali i meccanismi sociali più ampi che portano alla formazione della coppia coniugale per le ragazze di seconda generazione? Come hanno dimostrato Bozon e colleghi in vari lavori sul matrimonio e sulla formazione della coppia in Francia nel secondo Novecento e nel 2000 (Bozon e Héran 2006; Bozon e Rault, 2012), è determinante la frequenza 159 RAPPORTO SECONDGEN di ambienti sociali (dagli incontri parentali alle feste, dal vicinato agli ambiti universitari) che, in determinati momenti storici, per i giovani di un determinato ambito sociale, possono portare alla costituzione di un legame sentimentale e al matrimonio. Ambienti e reti sociali Per indagare dunque la pratiche matrimoniali di queste ragazze più che rivolgerci ai concetti di cultura e identità culturale, di matrimonio tradizionale, ci baseremo su altri strumenti interpretativi, quali l'analisi della composizione delle reti sociali e degli ambienti frequentati, le forme di controllo e le strategie messe in atto dalle famiglie, strumenti che si rivelano decisamente più proficui ai fini della comprensione del fenomeno. Collet e Santelli hanno identificato alcuni ambienti sociali di riferimento intesi come possibili occasioni d'incontro del proprio partner: - la sphère familiale, - les relations amicales, - les lieux sélectifs, - les lieux festifs - les lieux publics Dalle interviste analizzate in questo testo emerge chiaramente come gli ambienti sociali più importanti siano costituiti in primis dalla sfera famigliare e parentale, dove si sviluppano anche buona parte delle relazioni amicali (cugine, figlie di amici di famiglia). L'unico contesto che sembra fare da contrappeso alla famiglia è, come si può intuire, la scuola dove si ha la chance di costruire amicizie che esulano dalla cerchia famigliare Come spiega Karima, 20 anni, diplomata, parlando delle sue amicizie: Dunque amici amici.. ho un'amica marocchina che è propria mia amica, la prima da quando sono arrivata in Italia. Pensa le coincidenze: abitavamo vicine quando stavamo in centro, ci conosciamo da 11 anni, stavamo sempre insieme (….) poi lei si è trasferita al Cristo due anni e ci vedevamo meno. Poi quando ci hanno dato la casa popolare anche a noi, siamo finite di nuovo vicine! Io sotto, lei sopra, i casi della vita. (...) Poi ci sono pure altre amiche strette. Un'amica italiana che conosco da 6 anni, ci siamo conosciuti alle superiori, io vado a casa sua, lei viene a casa mia, usciamo insieme. Poi ho un'altra amica che però è tornata in Sicilia da quattro anni, ma siamo sempre in contatto (...) Poi ho un'altra amica marocchina, che non conoscevo tanto, cioè le nostra famiglie si, per me era la figlia di amici dei miei genitori, venivano da noi, andavamo da loro, non ci consideravamo tanto, poi dalle medie siamo diventate più amiche, poi abbiamo fatto le superiori insieme, compagne di banco, siamo diventate molto strette. In determinate condizioni di segregazione abitativa della popolazione immigrata 2 il vicinato acquisisce una centralità come ambiente sociale in cui le famiglie immigrate e i loro figli costruiscono e mantengono le loro relazioni sociali. Da alcune interviste emerge anche come le famiglie e la rete parentale allargata siano in grado di esercitare un notevole controllo sociale, in particolare sulle figlie femmine, riproducendo, pur con le dovute differenze, dinamiche e meccanismi all'opera anche nei quartieri e nei villaggi di origine. I parchi e i giardini presenti nel quartiere diventano luoghi di incontro e aggregazione caratterizzati da una certa segregazione di genere: vi sono spazi riservati alle donne e alle ragazze. Ecco due diversi punti di vista a riguardo. Per Hasnaa, 18 anni, la frequentazione di questi ambienti soprattutto d'estate è molto gratificante dal punto di vista relazionale: 2 L'intervista citata, come la maggior parte di quelle seguenti, è stata raccolta ad Alessandria e implicitamente fa riferimento ai processi d'insediamento e alle trasformazioni urbanistiche proprie di questa cittadina. Dalla seconda metà degli anni '90 fino al 2000 circa, infatti, si è assistito ad una certa segregazione abitativa della popolazione immigrata in una particolare zona del centro storico della città, dove le famiglie recentemente ricongiunte si sistemavano in alloggi per lo più fatiscenti. Dai primi anni del 2000, a seguito di politiche urbanistiche e sociali, tali famiglie sono diventate assegnatarie di case popolari in un quartiere periferico della città, “il Cristo” appunto citato nell'intervista . All'interno del quartiere tali famiglie sono state collocate in alcune specifiche vie e isolati, ricreando dunque una nuova e evidente forma di segregazione abitativa. 160 RAPPORTO SECONDGEN D'estate ci vediamo nel giardino vicino a casa mia, lì è pieno di gente straniera sia marocchini che albanesi, italiani e spagnoli, tutto mischiato! Ci vediamo lì per parlare, giocare a calcio... anche con le donne! ci divertiamo un casino! L'anno scorso mi ricordo stavamo lì fino alle 3, alle 2 di notte... perché facevamo il Ramadan di giorno, di giorno non usciamo per il sole... di sera mangiavamo verso le otto e poi uscivamo per camminare un po' perché non puoi stare in casa. Stavamo lì e giocavamo. Quindi anche di sera è considerato un luogo in cui vi fanno uscire, “sicuro” diciamo? Sì, sì i miei mi fanno uscire da sola, le altre vengono con le loro madri... ma mio padre sa come siamo, si fida di noi, io vado sempre da sola, delle volte con le mie sorelle, altre volte con la mia amica. Mounia, 20 anni, recentemente diplomata e in cerca di occupazione, invece, sente il quartiere come “troppo stretto” e sembra adottare una strategia di diplomatico distacco: Abito al Cristo, lì ci sono tante famiglie marocchine, conoscenti tanti, ma amicizie amicizie no... a parte questa mia amica marocchina con cui ho fatto le superiori, poi altre due... Di vista ne conosco tanti, anche perché fa parte della nostra cultura se vedi un'altra persona musulmana è buona educazione salutarla anche se non la conosci. Esci nel quartiere, nei giardinetti....? Non tanto, non mi piace tanto perché io sono una persona diretta, odio la falsità, essendo comunque che quelle persone lì non mi piacciono, sono false, ti fanno il sorrisetto... questo non mi piace, piuttosto “un ciao ciao”, una distanza che un'amicizia falsa. Quindi non frequenti i luoghi del quartiere? C'è un parco in via …., ci vanno tanto le ragazze che abitano in quella via e poi ce n'è un altro … io ci vado spesso con mio nipotino, mia sorella, mia mamma, lo portiamo un po' a giocare. Lo frequento più con la famiglia che con le ragazze... piuttosto che andare lì e ascoltare cose, poi io mi conosco, non tengo niente, invece di fare scenate, preferisco stare tranquilla Le reti sociali di alcune donne intervistate sono caratterizzate da una certa carenza in termini di ampiezza ed eterogeneità dei contatti, nonché da specificità legate al vissuto migratorio della famiglia d'origine (collocazione sociale, reti sociali, situazione abitativa...). Quindi una ragazza come Mounia che sembra rifiutare i contatti e le conversazioni nei giardini non ha un giro d’amicizie alternativo ma è semplicemente un po’ isolata. Solo uno studio approfondito, con interviste mirate o un’etnografia, potrebbero far capire quanto sia capillare il controllo sui contatti formati non attraverso la famiglia ma, per esempio, attraverso le amiche del quartiere. Tuttavia, almeno per alcune intervistate, i contatti con persone (uomini, ma anche donne) al di fuori dell’ambito parentale sembrano limitati. Non solo le intervistate residenti in questo tipo di contesto di edilizia popolare, ma anche altre hanno conosciuto il partner all'interno della cerchia di amici del fratello o di un cugino, comunque attraverso la mediazione e il controllo di un parente maschio, ancora una volta ad indicare la scarsa autonomia nella creazione di proprie reti amicali, come per le seguenti ragazze coniugate o conviventi: Luisa, albanese di 27 anni, sposata con un connazionale, lavora nella pasticceria di famiglia e contemporaneamente fa l'università: Ci conoscevamo da quattro anni Avete un giro di amicizie in comune tu e tuo marito? Sì sì... anche perché l'ho conosciuto tramite mio fratello, era un suo amico. Sì, abbiamo amici in comune. Li vediamo ogni due settimane, diciamo, anche perché mio marito lavora anche il sabato e la domenica... Elena, 20 anni di origine rumena, apprendista in un negozio di parrucchiera, ha conosciuto il suo convivente in questo modo: Tramite mio fratello, il migliore amico di mio fratello... diciamo che (ride) gli ho rovinato l’amicizia, perché, diciamo, la sorella adesso si è messa in mezzo (ride), e boh, ci siamo conosciuti quattro anni non è che ci siamo subito messi insieme, prima abbiamo visto, poi boh... lui è qua da otto anni, andava sempre nella stessa scuola e faceva il corso di elettricista, ha finito i cinque anni, e adesso lavora come frigorista. 161 RAPPORTO SECONDGEN Naturalmente, anche molte italiane conoscono il marito attraverso i fratelli o cugini3. E’ possibile comunque che questo canale sia più frequente tra le immigrate, magari come conseguenza della relativa ristrettezza delle reti sociali. Siccome tale ristrettezza delle reti sociali sembra particolarmente caratteristica delle persone che arrivano in Italia già adolescenti, sembra ipotizzabile che si tratti di un fenomeno in cui incide il percorso migratorio e l’età all’arrivo. I ritorni estivi nel Paese d'origine La rete famigliare e parentale riveste un ruolo centrale nella selezione del partner non solamente in Italia, ma anche nel Paese d'origine, in occasione dei ritorni estivi. Per molte delle ragazze sposate all'epoca dell'intervista i ritorni estivi nel Paese d'origine hanno rappresentato una tappa fondamentale del percorso che le ha condotte al matrimonio, come contesto in cui è stato conosciuto il futuro marito, è avvenuto il fidanzamento e in qualche modo è maturata la decisione di sposarsi, non senza subire pressioni e attraversare forti tensioni. Sulla centralità dei ritorni periodici nel paese d'origine finalizzati alla ricerca di una moglie o di un marito per il propri figli da parte delle famiglie immigrate vi sono molti riscontri in letteratura tanto per le migrazioni del passato quanto per quelle del presente. Wessendorf (2008) cita a riguardo i ritorni estivi in Italia delle famiglie italiane immigrate in Svizzera negli anni '60 e '70 del Novecento, caratterizzati da visite ai nonni e alla rete parentale allargata. In tali occasioni i genitori nutrivano forti aspettative nei confronti dei figli affinché si adeguassero alle norme di comportamento ritenute appropriate al contesto, in particolare una maggior ubbidienza e pudore da parte delle figlie femmine, anche se in contrasto con la condotta normalmente tenuta nel Paese di immigrazione, in modo da mantenere intatta la reputazione famigliare. Così anche Badino (2012) nella sua ricerca sulle seconde generazioni di origine meridionale a Torino, focalizzata su una dimensione di genere, rileva una forte omogamia sociale e territoriale nella formazione delle coppie coniugali raggiunta attraverso il mantenimento di legami tra il luogo di immigrazione e il luogo di origine: Un aspetto che evidenzia particolarmente il ruolo della parentela nel condizionare la formazione delle reti sociali e, in ultima analisi, delle giovani coppie, nell’ambito della stessa origine territoriale sono i lunghi periodi di vacanza trascorsi dai figli degli immigrati meridionali nei luoghi di origine dei genitori. Durante questi soggiorni si formano coppie che sovente hanno come unico modo di superare la fase del fidanzamento “a distanza” quello di passare direttamente alle nozze, spesso senza avere avuto sufficiente tempo per conoscersi a fondo. Certamente l’omogamia regionale rilevata da Badino ha diverse radici (tra cui la concentrazione negli stessi quartieri e nelle stesse scuole a Torino) ma senza dubbio i ritorni estivi erano importanti per la formazione di alcune unioni. Se nel caso delle migrazioni interne in Italia, era sopratutto un ragazzo di seconda generazione che era cresciuto al Nord a sposare una ragazza non emigrata che viveva al Sud, nel caso delle migrazioni contemporanee è presente anche la tendenza opposta, ovvero ragazze di seconde generazioni che vivono in Italia che si sposano con giovani non emigrati che risiedono nel Paesi d'origine dei genitori. Venendo a studi sulla realtà migratoria attuale, Brouwer (2006) si è concentrato sulle seconde generazioni di origine marocchina in Olanda e su come esse mantengano rapporti sociali e culturali con il Marocco, mettendo in luce l'esistenza di un “immaginario transnazionale” fatto di siti web e community digitali. All'interno di questo spazio transnazionale, virtuale e non, vengono annoverati anche i ritorni estivi come occasioni propizie per i matrimoni, complici ormai anche le nuove tecnologie con spazi dedicati alla ricerca del proprio partner. Vediamo attraverso alcune delle testimonianze raccolte nella ricerca, quali sono le dinamiche matrimoniali durante tali ritorni estivi e quali le conseguenze. Naima, 23 anni, di origine marocchina, diplomata, lavora come operaia e all'epoca dell'intervista era da pochi mesi andata a vivere con il marito che era finalmente riuscita a ricongiungere in Italia: Io conoscevo già lui ma segretamente perché sai come sono i genitori nostri, più difficili di quelli italiani. Lui era in Marocco e lo vedevo solo una volta l'anno, quando tornavo in Marocco. Si, torniamo tutti gli anni (...) 3 In Francia Bozon e Rault hanno trovato che il 7% delle donne francesi che hanno cominciato una vita di coppia tra il 1984 e il 2006 hanno conosciuto il partner attraverso la famiglia (Bozon e Rault, 2012, tabella 1, pag, 460) 162 RAPPORTO SECONDGEN Siamo di Fes, abita lì vicino a noi, siamo rimasti sempre in contatto, però non così strettamente, da lontano è difficile essere proprio fidanzata fidanzata. Non uscivo con ragazzi qua... italiani, non mi sono mai interessati come fidanzati. Amici si, ma non mi è mai venuto in mente di interessarmi a un italiano, non so, non c'è stato il caso. (…) Non ho mai pensato di avere qualcuno italiano. Questo qua era il ragazzo che mi interessava di più, quando andavo giù mi raccontava cosa faceva, (…) . Ci siamo conosciuti sempre di più e poi mi ha detto “Sei fidanzata? Ti vuoi sposare? Voglio venire a chiedere la mano a tuo papà, se sei d'accordo... vuoi?” Io ho detto si. Questo è successo l'estate 2010, poi nel 2011 abbiamo fatto il matrimonio. (...) No, non era mai emigrato prima, era andato solo un periodo in Tunisia. Naima dice: “non ho mai pensato di avere un italiano”. Evidentemente, non è mai stata con italiani in situazioni che possano portare a un fidanzamento o anche solamente sviluppare affettività. Più problematica la relazione coniugale di Fouzia, 30 anni, due figli piccoli, operaia che al momento dell'intervista era in fase di separazione dal marito, ricongiunto Nel 2000 dovevo scendere giù e sposarmi, matrimonio combinato! (pausa di silenzio).... Purtroppo è uno sbaglio che ha fatto mio papà. Sono andata giù e mi sono sposata, così avevo bisogno di un lavoro fisso in una fabbrica per poter fare il ricongiungimento famigliare a mio marito (….). Ho trovato lavoro a San Germano... ho fatto tutti i documenti, sono andata ad affittare una casa e boh... ho iniziato la mia vita, ero la prima a sposarmi nella mia famiglia. Erano tempi duri, proprio duri, ma ho tirato avanti. (….) Praticamente mio padre vedendo che eravamo cresciute aveva paura che seguivamo quella strada lì... di uscire, quindi ha fatto quest'errore qua... matrimonio combinato giù in Marocco, mi ha fatto sposare questo qua, poi ha capito che è stato un grandissimo errore, infatti ai miei fratelli ha detto “Non metto neanche un dito nei vostri matrimoni, scegliete da soli”. Amina, 18 anni, di origine marocchina, ha sposato un uomo rimasto in Marocco il quale per motivi di lavoro viaggia tra il Paese d'origine e l'Europa. La ragazza al momento dell'intervista era incinta e viveva ancora in casa della sua famiglia. Racconta di quanto i ritorni estivi prima del matrimonio non siano stati facili: La mia città è molto religiosa e non si può uscire di sera, io lo facevo lo stesso perché uscivo con i miei fratelli e un mio cugino che è come mio fratello, e mio padre si fidava. Questo destava le gelosie delle altre ragazze. Si sentiva isolata e “strana” e soprattutto la infastidivano i ragazzi che si avvicinavano “solo per i documenti”. Fouzia e Amina sono tra le poche intervistate che parlano esplicitamente di “matrimonio combinato”. Amina racconta infatti che a 16 anni è stata promessa in matrimonio a seguito di un viaggio del padre in Marocco e di accordi presi tra le famiglie. Alla reazione di rabbia e sgomento della figlia, il padre reagiva con calma dicendole “nessuno ti obbliga, se ti va lo sposi, altrimenti no”. Dopo i primi contatti avvenuti al cellulare, il fidanzamento è durato circa un anno. In Italia il fenomeno dei matrimoni combinati, solo recentemente apparso nell'orizzonte dell'opinione pubblica, è stato oggetto più che di specifiche indagini, di alcuni dibattiti pubblici il più delle volte impostati su una visione culturalista. Se quello dei matrimoni combinati è un “fatto sociale” riscontrabile, nella sua complessità e mutevolezza, in molte realtà migratorie, occorre prestare attenzione agli strumenti concettuali e interpretativi che si utilizzano per “leggere” tale fenomeno. La deriva essenzialista, ovvero ricondurre tali matrimoni in modo esclusivo all'appartenenza a determinate tradizioni culturali o alla provenienza da determinate Paesi o aree geografiche, è dietro l'angolo. Sotto questa luce, i matrimoni combinati sarebbero un tratto culturale tipico dei migranti originari dei Paesi arabo-musulmani che, nonostante la migrazione e il contatto con le società occidentali, permane e si ripercuote sulle seconde generazioni. E' implicito in questa visione un giudizio etnocentrico sulla superiorità dei “nostri” modelli matrimoniali, fondati sulla libera scelta individuale, contrapposti all'arretratezza e in alcuni casi alla barbarie dei “loro” matrimoni combinati, frutto di costrizioni e violenze. Inoltre, tale istituto matrimoniale viene spesso visto come un unico, atavico, modello che si ripete in maniera identica e “quasi” meccanica dal Marocco al Senegal al Pakistan senza alcuna differenziazione tra i vari contesti culturali. I molteplici rischi contenuti in queste prospettive, che spesso predominano all'interno delle policies pubbliche e dell'operato del terzo settore, sono di “fossilizzare” questo fenomeno come fosse un retaggio culturale del passato e, di conseguenza, non vederne le trasformazioni di cui è oggetto proprio a seguito dei processi migratori. Si ammetterà che è ben diverso un matrimonio combinato tra due partner in loco da un matrimonio combinato tra due partner di cui uno o 163 RAPPORTO SECONDGEN entrambi sono emigrati fuori dal Paese d'origine. Quest'ultimo avrà senz'altro dinamiche sociali e significati culturali diversi e assumerà nuove, inedite forme. Per una ricognizione basilare sul dibattito che si è sviluppato a riguardo a livello europeo e internazionale, può essere utile rifarsi al già citato studio “Per forza, non per amore” che s'inscrive, è bene precisarlo, in una cornice concettuale discorsiva e metodologica di “contrasto alla violenza sulle donne” ed è finalizzato a delineare policies e pratiche di intervento per arginare il fenomeno nelle sue derive più violente. E’ bene introdurre una distinzione di fondo che sembra essersi consolidata sia dal punto di vista legislativo sia da quello del movimento antiviolenza femminile, ovvero quella tra matrimonio imposto/forzato (forced marriage) e matrimonio combinato (arranged marriage). Il matrimonio forzato o imposto è ritenuto dagli organismi internazionali preposti alla tutela dei diritti umani, quali l'ONU, una violazione dei diritti umani4 e inscritto tra le forme di violenza contro le donne. In questa prospettiva, la controversa e delicata linea di confine tra matrimoni forzati e matrimoni combinati risiederebbe nel grado di consenso della donna. Su questo punto si apre un ampio dibattito su concetti di fondo quali quelli di “scelta individuale”, “libertà del soggetto”, sui concetti stessi di “amore” e “matrimonio” che in un’ epoca di globalizzazione e pluralismo non possono più essere dati per scontati. Il confronto e il dialogo con tradizioni culturali diverse da quella occidentale e un approccio maggiormente relativista diventano l'unica strada percorribile. La sociologa francese Hamel (2011) utilizzando i dati dell’ indagine Trajectoires et Origines propone di inquadrare la questione del consenso come una sorta di continuum, in cui sono possibili vari gradi, individuandone tre livelli: 1) le unioni scelte, con il consenso di entrambe le parti; 2) i “matrimoni non consenzienti” espressione che la studiosa ritiene preferibile rispetto a “matrimonio forzato”, quindi i casi di matrimonio senza consenso, non voluti; 3) situazioni intermedie che racchiudono les situations moins tranchées, mêlant acceptation et contraintes, sans que l’on puisse bien déterminer si la personne était pleinement désireuse de se marier. (...) Cette catégorie englobe donc des situations diverses où le mariage a certes été accepté, mais dans des circonstances où la volonté individuelle a pu être fortement influencée voire contrainte, que ce soit par le conjoint, par la famille ou par le poids des normes sociales en général. En d’autres termes, le consentement a pu être altéré. Quest'area grigia si presta bene a cogliere il fenomeno nella sua complessità, poiché tiene in considerazione contemporaneamente norme sociali, pressioni e vincoli famigliari da un lato e margini per l'azione individuale dall'altro. Tra strategie famigliari e scelte individuali Dalle nostre interviste sembrano delinearsi specifiche strategie matrimoniali messe in atto dalle famiglie immigrate di origine marocchina per le figlie di seconda generazione che prevedono il reperimento del partner nel proprio contesto sociale di origine in Marocco, tra i giovani che non sono ancora emigrati in Europa, ma che coltivano tale progetto migratorio e vedono in tali ragazze una via d'accesso facilitata, come illustreremo più avanti. Tali dinamiche si discostano da quello che capita in Francia e che è stato evidenziato dalle già citate ricerche sulle famiglie immigrate di origine maghrebina. In questo caso i modelli matrimoniali preferenziali prevedono l'unione delle figlie femmine con giovani di seconda generazione della cerchia parentale o della rete di connazionali che vivono in Francia e che in Francia hanno trascorso la maggior parte dell'esistenza.. Si tratta di una differenza non da poco, in quanto nel contesto francese per la neo coppia è probabile che vi sia una certa condivisione di esperienze comuni, ovvero l'essere cresciuti in Francia come “figli d'immigrati”, non si presentano ostacoli al ricongiungimento e sarà più facile andare direttamente a coabitare. Ben diverso è il caso italiano, in cui ragazze cresciute e scolarizzate in Italia, che conoscono il Paese di origine attraverso i ritorni estivi o attraverso quell'”immaginario transnazionale” che si sta sviluppando nella rete di cui parla Brouwer, si fidanzano o sposano ragazzi nati e vissuti in Marocco che non hanno un vissuto 4 Riferimenti legislativi: l’Art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti umani afferma che “Il matrimonio potrà essere concluso solo con il libero e pieno consenso dei futuri sposi” e lo stesso principio è ribadito nella Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW). Inoltre nel 1962 Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Convenzione sul consenso al matrimonio, l’età minima per il matrimonio e la registrazione dei matrimoni (CCM). 164 RAPPORTO SECONDGEN migratorio di lunga durata alle spalle. Da qui il problema di ricongiungere il marito in Italia e la coabitazione ritardata, per cui a volte la neocoppia è costretta a vivere separata anche per alcuni anni, anche in presenza di figli piccoli. Nei casi delle nostre intervistate, per i genitori il mercato matrimoniale di riferimento è costituito principalmente dalla rete parentale e sociale rimasta in Marocco, all'interno della quale si cerca di reperire il futuro marito per le figlie femmine. Un'interessante lettura di tali strategie famigliari ci viene da Streiff-Fenart, in particolare dal suo studio di caso su una rete famigliare-parentale di ca. 300 persone che si estende tra un paesino del sud della Francia e un villaggio della Tunisia. La studiosa mostra come i matrimoni combinati tra parenti tra le due sponde del Mediterraneo e la conseguente proibizione di matrimoni misti rappresenti lo strumento principale per il mantenimento e la riproduzione dell'unità della rete parentale dislocata tra Francia e Tunisia a seguito delle migrazioni. Anche dopo 30 o 40 anni trascorsi in Francia, essa rimane le réfèrent principal et le groupe dont on attend la reconnaissance sociale mentre la région d'origine reste l'espace privilégié des investissements sociaux et financiers (Streiff-Fenart, 1999b) dove avviare piccole imprese commerciali ed economiche, comprare e ristrutturare case, attività che senza la presenza di famigliari di fiducia in loco sarebbero difficilmente gestibili e controllabili. Se la cerchia famigliare e parentale che si estende in maniera transnazionale rimane la fonte principale di riconoscimento sociale, i capofamiglia di prima generazione emigrati all'estero si trovano di fronte alla preoccupazione di mantenere la rispettabilità, minacciata dalla disorganizzazione sociale e valoriale che può portare la migrazione in Europa. Streiff-Fenart ci dice che misura della propria onorabilità diventa la costruzione di una “buona famiglia” all'estero che “tiene” rispetto alle molteplici spinte disgreganti. Una buona famiglia si contraddistingue innanzitutto dalla buona condotta dei figli e in particolare delle figlie femmine, dalla loro adesione alle norme valoriali e di comportamento del gruppo e dai risultati scolastici dei figli. Un buon padre di famiglia è colui che riesce tenere lontani i figli maschi dalla delinquenza delle periferie e le figlie femmine dal matrimoni misti. Da qui discende lo stretto controllo famigliare a cui sono sottoposte le figlie e che traspare anche dalle nostre interviste. Su questo fronte possiamo trovare interessanti analogie con le famiglie di origine meridionale immigrate al Nord negli anni ’60. In entrambi i casi la nuova città, il nuovo quartiere di residenza rappresenta per i genitori un luogo che non si conosce e potenzialmente pieno di pericoli per le ragazze anche proprio perché non possono contare sul controllo sociale esercitato da reti di parentela, di vicinato o amicali, come invece avveniva nei luoghi di origine” (Badino, 2012). Ciò è testimoniato anche da alcune ragazze intervistate che confrontano le restrizioni a cui sono sottoposte in Italia in fatto di uscite, orari, amicizie, rispetto alla maggior “libertà” di cui godono quando tornano nei Paese d'origine. Badino evidenzia in proposito marcate differenze di genere nella gestione educativa dei figli, che sembrano riproporsi anche nelle famiglie straniere di oggi. Ai figli maschi, liberi da obblighi famigliari di accudimento di fratelli minori e compiti domestici, è concessa un'ampia libertà di movimento e di frequentazione che spesso li porta a contatto con la cosiddetta “cultura della strada” e il conseguente rischio di coinvolgimento in reti devianti (spaccio, piccoli furti) come abbiamo riscontrato in varie interviste a ragazzi di seconda generazione. Le figlie femmine sono invece sottoposte a un controllo famigliare decisamente più intenso e “capillare” rispetto ai loro fratelli maschi. Aldina, 22 anni, diplomata come Operatore di moda e attualmente in cerca di occupazione, sembra accettare e ritenere giusto tale controllo: Ad esempio, che cosa non vogliono che tu faccia? Che sto con qualcuno, non vogliono che vada a ballare, non vogliono che bevo , non vogliono che vado scoperta. Ma non dico che loro mi obbligano, perché è stata la mia scelta anche mettere il velo, alla fine loro ti danno le dritte e tu ... alla fine tutti noi sbagliamo, non c’è nessuno che non sbaglia, perché alla fine loro vogliono solo il mio bene. Prima non potevo uscire di sera, hanno ragione su questo. Dall’anno scorso uscivo, a mangiare la pizza con i compagni. Una volta sono andata in discoteca con la scuola, per curiosità, per vederli, però ci sono delle cose che non riesci ad accettarle, ci sono delle persone che appena le conosci ... quindi i miei genitori avevano ragione! Dalla nostra ricerca emerge come il controllo famigliare messo in atto dai genitori immigrati nei confronti delle figlie possa assumere varie forme e avere obiettivi diversi. Per esempio nei casi di cui abbiamo appena trattato è evidente una finalità di protezione rispetto alle reti sociali cosiddette “eteroetniche”, siano esse autoctone o di altre provenienze nazionali, impedendo soprattutto la frequentazione di determinati ambienti sociali (esempio la discoteca, locali notturni). In altri casi, invece, esistono forme di controllo sociale che 165 RAPPORTO SECONDGEN agiscono nella direzione opposta, ovvero rispetto alle reti sociali e amicali “omoetniche”, tenendo lontane le figlie dalla frequentazione di propri connazionali, non ritenuti moralmente o socialmente “all'altezza”, come spiega Elisabeth, 25 anni, originaria dall'Ecuador: Perché io qua non ho mai avuto amici stranieri, sempre e solo italiani... non so come dire... sono stata così protetta da non relazionarmi con persone del mio Paese, forse è stato un bene, ma forse anche un po' un male (….). Anche questo modo di protezione di mia madre è stato un bene perché non so se avessi frequentato ragazze dell'Ecuador che vengono qua con l'idea di lavorare, sarei andata a lavorare e non avrei avuto questo percorso, sarei stata inserita in un giro diverso... Uno dei timori principali dei genitori riguarda gli ambienti sociali ritenuti “pericolosi” per le figlie femmine; preoccupa, oltre che l'assunzione di comportamenti non accettabili (per esempio il bere), soprattutto la possibilità per le figlie di conoscere potenziali partner ritenuti non adeguati. Se finora abbiamo considerato alcune delle strategie famigliari che ruotano attorno alla vicenda del matrimonio, ci concentreremo ora sui punti di vista dei giovani di seconda generazione sia femmine che maschi, che si trovano direttamente implicati in questo, per comprendere quali siano gli spazi per le scelte individuali e come esse possano o meno articolarsi con i vincoli e le pressioni famigliari. Dalle nostre interviste sono emerse alcune categorizzazioni e preferenze che sembrano orientare la scelta del futuro marito e moglie all'interno del mercato matrimoniale, in particolare riguardo ai coetanei di seconda generazione in Italia. Per esempio Mounir, 21 anni, con una burrascosa carriera scolastica alle spalle e il coinvolgimento in reti devianti in passato, da cui sembra ora essere uscito, esprime così la sua esperienza e la sua visione: Sono stato con un'italiana due anni, sono già molti, lei aveva anche intenzioni di convivere, ma io non me la sentivo, non ho un lavoro, non ho niente, poi mi ha fatto conoscere tutta la sua famiglia, io invece no e lei è rimasta un po'... quello anche è stato un errore, potevo fargliela conoscere. E' finita lì, ma comunque ci sentiamo come amici. Io non ho problemi se italiana, se è senegalese, l'importante è che ti trovi, che siamo innamorati, perchè l'importante è l'amore, anche se i miei genitori mi dicono di sposare una del mio Paese, una marocchina, non una di qua. Preferisco sposare un'italiana se ci mettiamo insieme e ci troviamo benissimo. Non mi sposo con una marocchina che conosco da un mese o due e tuo padre ti dice devi sposarla. Fanno tipo tanti anni fa, i nonni o i bisnonni dicevano ti devi sposare quella, spesso tua cugina, la maggioranza si sposa con sua cugina. Come funzionano i matrimoni? Adesso la maggioranza che è in Italia si sposa con gente del suo Paese, che è nata lì, come è tradizione nostra, che la donne migliori sono nel tuo Paese (ride). Perché magari se sei in Italia e anche lei è venuta in Italia, è una che si monta più la testa, da noi si dice così. Mounir, in quanto maschio, rispetto alle coetanee femmine di seconda generazione, gode di una ben maggiore libertà nel scegliere e gestire le proprie reti sociali e fare esperienza di relazioni affettive, che comunque deve tenere nascoste ai genitori. Abbiamo riscontrato dinamiche simili anche tra altri ragazzi di origine marocchina, ai quali la famiglia sembra in qualche modo concedere e tollerare un periodo prematrimoniale di “sperimentazione” di relazioni sentimentali più libere non finalizzate al matrimonio. Mounir vorrebbe “prorogare” questo spazio di autonomia anche per il futuro, appellandosi a una concezione di matrimonio fondata appunto sulla libera scelta del partner, opponendosi al matrimonio combinato voluto dal padre e che sembra essere la norma tra i suoi coetanei. Significativa è la considerazione che fa sulle sue coetanee femmine, ragazze di seconda generazione cresciute in Italia come lui: sono ragazze “che si montano la testa”, che dunque non sembrano avere le caratteristiche adeguate per diventare partner coniugali e a cui si preferiscono le ragazze nate e vissute in Marocco. Questa affermazione trova il suo corrispettivo nelle parole della già citata Naima, che così parla dei suoi coetanei maschi di origine marocchina cresciuti in Italia: Ma perché qua non si trova marito! Qua anche se vedevo dei ragazzi, su Internet ne conosci, però hanno sempre qualcosa che... pensano troppo in maniera diversa, non so, quando vivi qua hai cultura diversa, ti incroci, ti sbandi... la tua cultura s'incontra con l'altra e ne nasce una terza che è fatta metà della tua e metà di quella nuova e cambi molto. Certi ragazzi cercano di diventare completamente italiani, secondo me non è giusto, le tue origini non devi cancellarle, se cancelli le tue origini cancelli i tuoi antenati, per me non è giusto, è una cosa troppo sbagliata rinnegare le tue 166 RAPPORTO SECONDGEN origini, è come non essere te stesso, cambi, sei una persona diversa, hai una seconda faccia. Se invece vivi normalmente, sempre comunque integrandoti, ce la fai. Invece i ragazzi qua entrano nella cultura italiana, non che sia sbagliata, per me ogni cultura è bellissima, non è sbagliata o giusta, per me è normale... però quando loro diventano così come gli italiani si comportano in un altro modo con i loro compaesani, e come se ti dicessero “tu sbagli” ed abbiamo la stessa origine! A volte prendono il peggio degli italiani, questo non lo sopporto proprio, prendere il peggio... era meglio se rimanevi nelle tue origini. Appellandosi ad argomentazioni di tipo culturalista (“entrare in una cultura”, “cultura giusta/cultura sbagliata”) Naima ritiene che vi sia incompatibilità tra ragazzi e ragazze di seconda generazioni in Italia nel poter costruire relazioni affettive. Secondo lei, ciò è dovuto al fatto che i suoi coetanei vogliono “diventare italiani” a tutti i costi, spesso prendendo il “peggio” e mascherando le proprie presunte origini culturali. Riguardo alla scelta del partner preferenziale e la formazione di coppie coniugali nel contesto italiano da noi indagato si delinea dunque una tendenza differente rispetto a quella messa in luce in Francia (Collet e Santelli, Streiff-Fenart) in base a cui le ragazze di seconda generazione di origine maghrebina tenderebbero a sposare prevalentemente i loro coetanei di seconda generazione. Solo in futuro si potrà vedere se ci sarà un’evoluzione in tal senso anche in Italia. Se la pratica dei matrimoni combinati è presente tra le seconde generazioni in Italia, ci siamo interrogati di conseguenza sugli “spazi di resistenza” possibili, in particolare per le ragazze, per fronteggiare, negoziare o respingere le pressioni famigliari, le quali possono essere intese come un continuum che va da suggerimenti, proposte più o meno insistenti a decisioni già prese. Tra le testimonianze raccolte vi sono alcuni casi interessanti: Aldina ha deciso di non seguire più la famiglia nei ritorni estivi in Marocco, a seguito di esperienze negative che ha avuto e temendo le conseguenze per il suo futuro. I genitori sembrano aver accettato la scelta della figlia: Tu hai detto che non torni in Marocco, e i tuoi famigliari? Perché non torni in Marocco? Mi dicono di venire! Cioè, i miei genitori tornano ogni anno, dalla famiglia di mia mamma (...) Mia sorella fa la casalinga. Io però non vorrei mai fare la casalinga (…). Cioè, alla fine dipende da te. Non è che mio padre dice: devi prendere quello e punto e basta. Lui cioè dice: se vuoi, se siete d’accordo, altrimenti bon. Però c’è gente che obbliga i suoi figli , però questa gente secondo me non può dire che è musulmana, perché l’Islam non dice mai ‘sta cosa. Dice che deve chiedere prima alla figlia se vuole. Se lei vuole, va bene, altrimenti niente. Secondo me non funziona neanche. Perché quando sei obbligata a prendere una persona che non vuoi, è molto brutto, non è piacevole (….). Ecco , torniamo a questo: che tu non torni in Marocco Sinceramente io sono cresciuta qua e oggi ho una mentalità più aperta. Invece, io non dico che tutti sono chiusi, però, la maggior parte ... è così. Non riuscirei mai ad ambientarmi lì. Loro vanno d’estate, io resto qua un mese con mio fratello e poi vado in Francia (…). I tuoi genitori sono d’accordo che non vai giù? Alla fine, cioè, loro rispettano la mia decisione perché sta a me decidere, non mi sento di andare e boh, loro capiscono (...). Il motivo per cui non ti senti di andare è perché, come hai detto, c’è una mentalità chiusa? Sì, che non mi capiscono. Mi trovo un pesce fuor d'acqua! Quando hai fatto questa esperienza? in che cosa consiste? Tre anni fa, e da lì .... io non dico che il mio paese è brutto, è bello, ok, ma .... eh .... ci sono stati dei problemi. Silenzio Puoi raccontarli? Mah... no Ricorda che nessuno ti giudica No, soltanto che.... tante persone mi volevano e io non volevo nessuno. La gente inizia a parlare e i miei .... erano un po’ diversi da quelli che sono qua ... la gente: non ha accettato questo, non ha accettato quello, non ha accettato l’altro, chissà cos’ha! E loro (i genitori): che cosa è successo? Cos’hai? Se è successo qualcosa, dillo ... ma .... mi sono trovata in una situazione difficile per me Avevi 18 anni e questi ragazzi che ti presentavano tu li conoscevi? Li conoscevo, però non mi piacciono, cioè io non posso legare la mia vita alla sua. Niente da fare. Ho giurato di non andare più. Ho sofferto. Mi hanno giudicato male .... Silenzio 167 RAPPORTO SECONDGEN La gente, boh: chissà cos’ha fatto, chissà cos’ha combinato, forse ha qualcuno. Hanno girato delle voci che ... mi sono sentita proprio male Aldina espone, non senza reticenze, il malessere e la frustrazione sperimentati a causa delle pressioni al matrimonio e del suo rifiuto di varie proposte durante i fatidici ritorni estivi nel Paese d'origine. La sua decisione di non tornare più non è stata priva di conseguenze per lei e per la famiglia, anzi ha alimentato spiacevoli dicerie sul suo conto. Eva, 23 anni, di origini albanesi, con un percorso scolastico interrotto e una carriera lavorativa precaria che si divide tra il lavoro di cameriera, addetta alla pulizie e commessa, si oppone al matrimonio che la famiglia le aveva combinato in Albania, rompendo il fidanzamento quando il futuro sposo è già in Italia: Il problema è questo, che io non ho finito la scuola... Ho fatto la quarta, sono arrivata fino in quinta ma non ho finito la quinta. Perché ho avuto un po’ di problemi , diciamo che non riuscivo più a continuare, e diciamo che è stato lì che ho lasciato anche il lavoro al ristorante, diciamo che ho lasciato quasi tutti e due contemporaneamente. Non ce la facevo. Perché.... perché io diciamo che... ero promessa sposa giù... non che la mia famiglia è stata rigida con me, per carità, mio padre è uno dei migliori padri che ci siano al mondo, però... ormai era fatto il fidanzamento... quando avevo 12 anni... tutte le estati tornavo... e io non ero tanto contenta di questa cosa, finché è arrivato ... più cresci più te ne rendi conto di questa cosa. Finché sei ragazzina dici: sì, c’ho il fidanzato giù, non te ne frega niente, io sono qua. Più cresci, più ti rendi conto che lui è l’uomo della tua vita, anche se non l’hai scelto... a me questa cosa qui ... ha cominciato darmi un grande sbandaggio ... me ne sono andata di casa. Ho lasciato prima lui. L’ho fatto venire in Italia, con la scusa, perché la mia famiglia aveva già preso la casa, con la scusa che l’avevano comprata con lui perché erano rimasti senza soldi... di qua e di là ... gli ho detto: guarda, io a te non ti amo, gli ho fatto i bagagli, gli ho fatto il biglietto del treno perché lui doveva andare in Svizzera per lavorare. Gli ho detto: parti, non dire niente, diciamo che abbiamo litigato. Perché diciamo che lui era innamorato, era lui che aveva voluto il fidanzamento, un po’ più grande di me, 31 anni, lavorava a Tirana ... Guarda che ci ripenserai, di qua e di là, fa , perché tu... poi in casa mia si sono animati un po’ gli animi, perché giù è un po’ una vergogna lasciare un fidanzamento... e me ne sono andata... c’è una ragazza C., è stata una delle mie migliori amiche, poi anche lei aveva bisogno di stare con me, andiamo, prendiamo una casa in affitto ... invece le cose sono andate in modo diverso... ho conosciuto mio marito... da quella sera che ci siamo messi insieme, diciamo che lui mi ha preso un po’ sotto la sua protezione, lui è 8 anni più grande di me, lui aveva 27 anni e io 19 quando ci siamo messi insieme, e mi ha fatto stare da lui e tutto quanto. E adesso abbiamo una bambina. Ancora diverso è il caso, già presentato, di Fouzia, 30 anni, operaia con due figli piccoli a carico che al momento dell'intervista stava attraversando una problematica quanto “liberatoria” separazione dopo 12 anni di matrimonio: (…) Ora nel 2012 sono arrivata a un bivio, la separazione Come sei arrivata a questa decisione? Mah, se fosse stato per la mia famiglia, l'avrei già fatto da tempo, io ci tenevo... non volevo mollare, speravo in questo marito che sarebbe cambiato, che quando avrebbe fatto abbastanza soldi si sarebbe accorto anche della famiglia, invece niente! Lui più li faceva, più li voleva. Lui lavorava e li mandava tutti giù in Marocco... vedevo che la sua vita era segreta, i suoi soldi erano solamente i suoi, invece i miei erano di tutti e due, ero obbligata a dire cosa facevo con i miei soldi, dove li portavo (…) Allora lì mi sono stufata e ho detto basta. Gli ho detto o i tuoi genitori o me, ma lui niente, i genitori sono i miei genitori, non devi toccarli. Ho visto che se n'è fregato talmente dei suoi figli, della sua famiglia... ultimamente ha perso il lavoro, ha iniziato a fare tanti viaggi giù in Marocco, ne fa talmente tanti che non chiede neanche più dei figli al telefono, sa che non lavoro e non mi chiede neanche come faccio a mantenermi, se con l'assistente sociale o i miei fratelli, niente! Poi in questi dieci anni maltrattamenti fisici... psichici... ecco, è arrivato il momento di dire basta! Poi c'è tutta la mia famiglia con me... mio padre per primo, mi ha sostenuto sin dal primo giorno, sapendo lo sbaglio che ha fatto. Infatti lui mi chiama “mio figlio” e non “mia figlia” sapendo del mio carattere forte per andare avanti tutto sto tempo. Finchè sono andata a fare denuncia per maltrattamento.... (si commuove), mio padre mi ha detto “io ti conosco bene, se sei andata a farlo, è perchè eri al limite, io speravo che lo facessi da tempo, ma non volevo mettere le mani in queste cose. 168 RAPPORTO SECONDGEN Il matrimonio, un affare? Ricongiungimenti e vita di coppia in Italia Una delle valenze di tali matrimoni transnazionali che emergono chiaramente dalle interviste raccolte e a cui vogliamo dare il giusto rilievo è quella strumentale, legata a strategie opportunistiche per agevolare l'ingresso legale in Europa di migranti. Per tanti giovani rimasti nei Paesi di origine che coltivano il progetto di migrare il contrarre matrimonio con ragazze di seconda generazione che vivono in Italia, con o senza cittadinanza italiana, costituisce senza dubbio una via privilegiata di accesso legale all'Europa. Le ragazze sembrano ben consapevoli di questi meccanismi e non celano la paura di essere vittima di questi accordi utilitaristici tra famiglie e reti parentali allargate, finendo per essere considerate dei “lasciapassare” per l'Italia. Vari sono stati i riferimenti a riguardo. Fouzia ad esempio dice: Quest'uomo che ho sposato... sapendo che vai in Italia, che hai lì la famiglia di tua moglie... ti sposano perchè sei una banca aperta! Prima gli dicevano che in Italia i soldi piovono dal cielo, allora lui più che sposare una donna per fare una famiglia, ha sposato una donna che gli facessi i documenti per venire, per aprirgli quella porta... gli uomini se ne approfittano tantissimo! Già adesso tutte le ragazze marocchine che sono cresciute in Italia o sono venute qua e non sono ancora sposate, hanno questo terrore di andare a sposarsi giù in Marocco perchè non sanno che l'uomo che sposano le vuole per se stesse oppure solo per venire in Italia... come dico è stato un errore mio, ma anche mia sorella che ha scelto da sola, ha fatto tutto da sola le è andata lo stesso male! (...) Anche lui vedeva in lei solo una porta d'ingresso per l'Italia. O lo fa tramite il mare o tramite il matrimonio. Tramite il mare devi pagare un sacco di soldi e non sai se arrivi, se arrivi sei senza documenti, invece sposandoti con una ragazza già in Italia... per esempio mio marito ha trovata già la casa a posto, tutto a posto, la moglie che lavorava, soldi da parte. Fouzia parla senza mezzi termini: vi sono uomini che approfittano di tali matrimoni non solo per entrare legalmente in Italia tramite ricongiungimento famigliare ma per godere di tutta una serie di vantaggi che ne derivano, ovvero usufruire delle risorse economiche, del capitale sociale e culturale della moglie e della sua famiglia per un inserimento “agevolato” nella nuova realtà di arrivo. Pensiamo solo alla casa già pronta allestita dalla moglie, alla sua mediazione linguistica e culturale per i documenti e per accedere ai vari servizi, ai contatti per trovare un lavoro. Anche Mounir sembra conoscere bene tali situazioni e quasi voler mettere in guardia le sue coetanee, accennando anche alle conseguenze che tali matrimoni di comodo hanno sul lungo periodo: Se invece tu sei donna e vuoi sposarti uno del Marocco, l'uomo in Marocco dice “anche se non mi piace la sposo, così vengo in Italia, mi fa i documenti”. Infatti la donna deve stare più attenta, perché ci son tanti che le sposano anche se non gli piacciono, anche se non c'è amore, poi infatti sono matrimoni che quando sei in Italia si vede, si creano molti problemi, per la donna, per la famiglia, magari fai un bambino, poi la madre litiga tutto il giorno con il marito. Quindi la donne secondo me preferibilmente si deve sposare... se è in Italia con uno che è in Italia, ma l'uomo che è in Italia dice che la donna che è in Italia si monta la testa, quindi sono sempre problemi. Anche Amina è convinta che questa pratica del matrimonio finalizzato al permesso di soggiorno sia ricorrente: “fanno vivere cose brutte alle ragazze arabe” che lavorano, “si sposano con questi giovani che si fermano poco in Italia e poi tornano in Marocco e magari sposano altre donne” . Sembrerebbe dunque che le giovani di seconda generazione abbiano acquisito una posizione privilegiata all'interno del mercato matrimoniale in Marocco, divenendo quindi particolarmente ambite dai giovani locali e oggetto di richieste pressanti durante i cruciali rientri estivi. Lo descrive bene Naima: Le ragazze che vengono da fuori sono sempre più ben viste in Marocco, sono ammirate... in Marocco comunque c'è ancora il pensiero che andare in Europa sia molto meglio che stare lì, anche se poi quando vengono qua ci ripensano. Anche mio cugino ha una storia... è arrivato qua i primi mesi e diceva era meglio il mio Paese. Ma quando vedono una ragazza che arriva dalla Francia o dall'Italia o da qualsiasi posto basta che non sia il Marocco... a parte che si nota, sei sempre vestita meglio, in un certo modo, ti notano... Per le giovani di seconda generazione il matrimonio combinato in Marocco rischia di diventare un affare, 169 RAPPORTO SECONDGEN inserito all'interno di più vaste logiche di potere e di scambio tra famiglie e cerchie parentali in cui la posta in gioco diventa la possibilità di un ingresso legale in Europa per il futuro marito. Ma quali sono le implicazioni che tali inedite dinamiche matrimoniali hanno dal punto di vista dei ruoli di genere e delle relazioni di coppia nella migrazione? Innanzitutto sembra delinearsi un nuovo “modello” migratorio basato sul ricongiungimento famigliare che ha come protagonisti una seconda generazione immigrata (la moglie) e un primomigrante (il marito). Fino a tempi recenti è prevalso, specie dai Paesi del Maghreb, il modello del “breadwinner”, in cui l'uomo come primomigrante si trasferiva in Europa in cerca di lavoro e, una volta sistematosi, provvedeva al ricongiungimento della moglie e di eventuali figli, accollandosi tutte le responsabilità riguardanti i documenti, la casa, la sussistenza, l'inserimento dei famigliari in Italia, poiché era inizialmente l'unico “mediatore” linguistico e culturale tra la famiglia e il nuovo contesto d'arrivo. Questo è il tipico processo migratorio attraverso cui sono giunti o sono nati in Italia gran parte dei giovani di seconda generazione di cui ci siamo occupati. Quello che vediamo abbozzarsi tramite la nostra indagine è una tendenza che sembra collocarsi all'opposto di quella precedente: è una ragazza di seconda generazione che vive in Italia a sposare un partner che vive in Marocco e a diventare la “testa di ponte” del suo ricongiungimento e inserimento in Italia. Ciò comporta una grossa assunzione di responsabilità da parte della giovane, che deve attivarsi per trovare e mantenere un lavoro che soddisfi i requisiti del ricongiungimento famigliare, seguirne le procedure burocratiche, nonché accantonare le risorse economiche per preparare la casa per la neocoppia. Inoltre nella fase iniziale d'inserimento del marito, sarà lei la principale figura di riferimento e di mediazione, da un punto di vista linguistico, culturale e sociale, per l'integrazione nel nuovo contesto. Naima riassume in modo esemplare tali dinamiche, raccontando del brusco passaggio da “figlia”, quando suo padre decideva tutto per lei, a “moglie” con tutta una serie di nuove responsabilità che le sono inaspettatamente piovute addosso: E' difficile, io non mi sono mai trovata a dirigere qualcosa, mi rendo conto che ora ho molte più responsabilità, prima ce le aveva mio papà, faceva tutto lui, decideva tutto lui, prima dicevo “ma perché deve decidere tutto lui?”, ora dico “magari decidesse qualcuno per me!”, è cambiato tutto completamente per me, da quanto decideva tutto mio padre ed era meglio, secondo me, perché erano cose che andavano benissimo anche se a volte sembravano strane o... non le capivo.(...) Ora devo decidere io ed è molto più difficile... per esempio mio cugino si è sposato, dovrebbe venire sua moglie tra qualche mese e mi ha detto se andiamo a vivere insieme, tutte e quattro così facciamo un po' di soldi da parte, dividiamo l'affitto. (…) Dobbiamo decidere se vivere insieme o no. (….) Da quanto tempo abiti con tuo marito nella casa nuova? Da un mese e due settimane, ma la casa l'avevo presa da gennaio, perché avevo spedito i documenti a mio marito e ho detto “se arriva tra poco, prendo la casa un po' prima così la sistemo”. Ho comprato la camera da letto, degli oggetti per la cucina, un forno, mi mancano pochissime cose... mio padre mi ha trovato un tavolo e delle sedie da un'altra casa. Pian piano ho iniziato a mettere i mobili, mi manca solo un divano, ho comprato il frigorifero. Fouzia, che si sta separando dal marito, ripercorre retrospettivamente i momenti del suo arrivo in Italia, molto simili a quelli di Naima, ma alla luce di una visione decisamente più disincantata, dato che i tanti sacrifici fatti non sono stati corrisposti: Appena entrato in Italia, mi dispiaceva vederlo meno dei miei fratelli e compragli la macchina giusta, come i miei fratelli, fagli fare la vita in modo che non sentisse quella differenza “i tuoi fratelli sono cresciuti in Italia, hanno più di me”, è stato uno sbaglio anche mio, gli ho dato tutto e subito, come tutte le donne, quando una si sposa, fa tutto per la famiglia. Perché la donna cosa vuole da un maschio? Una vita sicura... io pensavo la stessa cosa (voce rotta dal pianto). Mio marito mi ha chiesto di andare sempre a lavorare e portare lo stipendio a casa, poi ultimamente ho deciso di tenerlo da parte perchè lui lo prendeva e lo metteva via, e io mantenevo la casa e tutto. Quando ho deciso “Basta! Tu sei l'uomo! Dovresti tu mantenere la casa, la famiglia e tutto”... Queste ragazze si trovano dunque ad assumere ruolo direttivo assolutamente cruciale nella gestione del ricongiungimento e della nuova vita di coppia in Italia, prendendo decisioni, lavorando e procurandosi i soldi, diventando di fatto i nuovi “capofamiglia”, anche se questo ruolo non viene facilmente accettato e riconosciuto nella coppia. I ruoli di genere tradizionali vengono intaccati in un duplice senso. Sia rispetto ai ruoli di genere e ai modelli di coppia predominanti nel Paese d'origine, sia rispetto a modelli famigliari consolidati nella migrazione in cui il marito nei panni del breadwinner è l'unico ad occuparsi del sostentamento famigliare, mentre la donna ha il ruolo di casalinga. Nonostante queste giovani donne di 170 RAPPORTO SECONDGEN seconda generazione detengano nelle loro mani un potere di tipo decisionale ed economico, un capitale culturale e sociale potenzialmente destabilizzante nei confronti dell'autorità del marito, occorre interrogarsi su quali siano i margini per un reale cambiamento nei rapporti di genere. La storia di Fouzia non è molto rincuorante a riguardo e, a livello generale, forse è troppo presto per valutare. Sta di fatto, che a seguito dei processi migratori nuovi scenari si stanno aprendo e nulla può essere dato per scontato. Un altro aspetto problematico che emerge dalla ricerca sono i tempi e le modalità del ricongiungimento del marito: in molti casi la neocoppia è costretta a vivere separata per molto tempo, anche per anni, lui nel Paese d'origine e lei in Italia, con la famiglia d'origine, anche quando sono ormai nati dei figli. Il motivo di queste situazioni risiede nel fatto che la moglie non ha un lavoro fisso tale da garantire il ricongiungimento del marito e nell'attuale congiuntura di crisi economica questi casi sembrano destinati a crescere. Zahra, 22 anni, diplomata perito odontotecnico, sposata, al momento dell'intervista era incinta e molto preoccupata perché passando da un lavoro precario all'altro non poteva richiedere il ricongiungimento del marito: Io d'altronde sono anche sposata, da 3 anni... adesso sto cercando un contratto a tempo indeterminato per avere l'opportunità di portare mio marito che purtroppo adesso è in Marocco. Purtroppo non ho ancora avuto quest'opportunità, ho avuto solo lavori distaccati, certi con il contratto, certi no... Lui ha intenzione di venire qua? Si... in realtà è quella la speranza, ma nelle condizioni in cui sono qua lo trovo molto difficile (….). Che progetti avete per il futuro? Lui venire qua, avere una nostra casa propria e vivere una vita tranquillamente. Potrebbe venire qua con un contratto di lavoro, cosa che non sono riuscita a trovargli. Ho provato con il permesso da turista, ma non sono riuscita... e niente... Ci aiutiamo a vicenda, anche dal punto di vista economico. Ricontattata circa un anno dopo l'intervista, la sua situazione è apparsa ancora più complicata: Zahra, infatti, non era ancora riuscita a ricongiungere il marito e aveva affidato il figlio piccolo ai suoi genitori che nel frattempo si erano trasferiti in Francia da alcuni parenti, in modo da poter essere libera di lavorare. Era rimasta così in Italia con i fratelli maggiori in una persistente condizione di precarietà occupazionale, dividendosi tra lavori stagionali in fabbrica e il lavoro di badante. Amina, al momento dell'intervista, viveva con il figlio piccolo a casa dei genitori, dopo aver interrotto la scuola a causa della gravidanza e anche tutte le relazioni amicali ad essa collegata, trovandosi quindi in una situazione di isolamento. La giovane non ha intenzione di trasferirsi in Marocco perché ormai “è abituata qui” e non vuole rinunciare alla qualità dei servizi in Italia. Il marito, imprenditore edile a Tangeri, viaggia per lavoro tra Francia e Spagna e perciò sono giunti al compromesso di affittare una casa a Tangeri dove passare insieme i mesi estivi. Gli ostacoli alla stabilizzazione di tali coppie sono di tipo burocratico-legale ed economico e danno origine a quelle che sono state definite “famiglie transnazionali”, ovvero families that live some or most of the time separated from each other, yet hold togheter and create something that can be seen as a feeling of collective welfare and unity, namely “familyhood”, even across national borders (Bryceson e Vuorela, 2002: 3). Conseguenze sulle carriere scolastiche e lavorative Uno dei nodi tematici della ricerca condotta sono state le carriere scolastiche e professionali dei giovani di seconda generazione. Particolare attenzione è stata dunque posta sulle implicazioni che tale fenomeno dei matrimoni può avere sui percorsi scolastici e lavorativi di queste ragazze. Nella maggior parte dei casi incontrati, le ragazze si sono sposate dopo aver terminato la scuola superiore e aver ottenuto un diploma. Najet, 26 anni, infermiera, ha proseguito gli studi universitari da sposata, frequentando i 3 anni di Scienze Infermieristiche dopo il matrimonio avvenuto a 20 anni dopo il diploma in perito odontotecnico. La relazione tra carriera scolastica e pratiche matrimoniali delle ragazze di seconda generazione offre un ulteriore terreno di confronto tra migrazioni contemporanee e migrazioni storiche dal Meridione. Il già citato studio di Badino (2012) evidenzia come le famiglie immigrate dell'epoca investissero prioritariamente nell'istruzione dei figli maschi, incoraggiandoli a terminare la scuola o a proseguire gli studi, mentre le figlie femmine venivano in genere dissuase dall'intraprendere percorsi scolastici qualificanti. L'atteggiamento delle famiglie immigrate di oggi riguardo i percorsi d'istruzione dei figli è decisamente differente, dal momento che tali genitori si mostrano intenzionati a investire nelle carriere formative dei figli, sia maschi che 171 RAPPORTO SECONDGEN femmine, in termini di sostegno economico e morale. Le aspettative che essi ripongono rispetto alla riuscita scolastica dei figli e al conseguimento di diplomi o lauree sono anzi molto elevate poiché l'innalzamento dei titoli di studio è visto come un canale di mobilità sociale. Tra i 21 casi di donne e uomini sposati o conviventi nelle nostre interviste, non sono particolarmente numerose le persone che hanno interrotto il percorso scolastico prima del diploma. Tuttavia abbiamo già citato il caso di Amina, che, dopo essersi sposata, viene bocciata al terzo anno della scuola superiori per le troppe assenze dovute a una gravidanza difficile con continui ricoveri e che decide così di lasciare la scuola. Eva abbandona il quinto anno di ragioneria e contemporaneamente anche il lavoro di cameriera perché sta passando un periodo travagliato dovuto al rifiuto del matrimonio combinato dai genitori nel Paese d'origine. Le pressioni famigliari verso il matrimonio sembrerebbero intensificarsi dunque al termine della scuola superiore e al conseguimento del diploma, in particolare se il percorso scolastico pregresso non è stato molto brillante e l'opzione di proseguire gli studi all'università sembra essere troppo rischiosa economicamente. E' il caso di Naima, la cui sorella minore Hanane racconta che il padre ha escluso l'università per la primogenita poiché nella sua carriera scolastica era stata bocciata tre volte e quindi non era a suo giudizio portata per lo studio. Per quanto riguarda invece le carriere lavorative delle ragazze di seconda generazione coniugate emerge come il matrimonio abbia delle implicazioni più dirette sui percorsi professionali. Spesso infatti l'inserimento precoce in segmenti del mercato del lavoro a bassa qualificazione e precari, “i lavori delle 5 P” di cui parla Ambrosini (2005) come tipici della collocazione professionale della prima generazione, sembra essere una tappa obbligatoria per poter garantire il ricongiungimento del marito e provvedere al sostentamento iniziale della coppia. Il divario tra titoli di studio conseguiti e posizione occupazionale è quanto mai evidente, se pensiamo che molte di queste ragazze sono diplomate e svolgono lavori operai o comunque manuali. Naima è diplomata in segretaria d'azienda e fa l'operaia in una piccola fabbrica di prodotti cosmetici e dice apertamente che “non era il mio sogno fare questo lavoro, però mi è capitato, adesso ne ho bisogno perciò lo tengo” e ne ha bisogno per poter ricongiungere il marito e per la sussistenza economica dato che lui arrivato da poco non lavora. Anche Zahra con un diploma ha smesso di fare stage sottopagati con la speranza di essere assunta, abbandonando dunque la carriera lavorativa per cui ha studiato. La giovane ha accettato qualsiasi lavoro che le capitasse, dall'operaia stagionale alla badante, per le stesse ragioni di Naima: la possibilità di ricongiungere il marito in Marocco. Nel suo caso però la situazione lavorativa non si è ancora stabilizzata in modo tale da consentire l'avvio delle procedure burocratiche. La sottoccupazione rispetto ai titoli di studio ottenuti nel percorso formativo e l'inserimento in segmenti non qualificati e precari del mondo lavoro, da cui spesso è poi difficile uscire, sembra essere un tratto caratteristico delle attuali seconde generazioni in Italia. Nei casi delle ragazze coniugate la ricerca di un lavoro tale da permettere il ricongiungimento del marito si fa particolarmente cogente e urgente e comporta una ridimensionamento delle proprie aspettative d'impiego. Esse accantonano progressivamente ambizioni e progetti per la propria carriera professionale e spesso sono costrette ad accettare il primo lavoro che capita, senza avere la possibilità di rifiutare in attesa di offerte migliori. Le ragazze di seconda generazione implicate in tali matrimoni sperimentano rispetto alle loro coetanee italiane un passaggio piuttosto brusco all'età adulta almeno su due fronti: da un lato, l'ingresso nel mercato del lavoro, dall'altro, l'assunzione di obblighi e responsabilità coniugali, resi particolarmente ardui dalle condizioni legislative connesse all'essere migrante. Se, come dimostra Badino (2012), il matrimonio in età precoce per le ragazze figlie di immigrati meridionali rappresentava essenzialmente una via di fuga dalla famiglia e dal rigido controllo a cui erano sottoposte, un modo per conquistare quell'autonomia e indipendenza, anche economica, di cui erano prive, una lettura analoga non può essere data ai matrimoni che hanno come protagoniste le giovani di seconde generazioni di oggi. Per le ragazze di origine meridionale sposarsi e uscire dalla famiglia significava godere di una maggiore libertà, la possibilità di ampliare le proprie reti sociali e di gestire le risorse economiche guadagnate con il proprio lavoro, che spesso venivano investite nella formazione personale, precedentemente negata dai genitori. Frequentando corsi professionalizzanti serali, animate da un desiderio di riscatto e autodeterminazione, queste giovani intraprendevano carriere lavorative ascendenti, passando dal lavoro operaio al quello impiegatizio. Tenendo in considerazione le mutate condizioni strutturali ed economiche dell’attuale contesto di crisi, i matrimoni di cui abbiamo trattato assumono per le ragazze di seconda generazione significati alquanto differenti rispetto alle migrazioni interne passate, soprattutto non sembrano rappresentare un veicolo di emancipazione o realizzazione della propria condizione. Il matrimonio non è mai presentato dalle intervistate come una tappa di un progetto di vita, come qualcosa di voluto e ricercato attivamente, quanto piuttosto 172 RAPPORTO SECONDGEN come un inevitabile “accadimento” del proprio percorso evidentemente voluto da altri, dai genitori, se non addirittura un cedimento alle pressioni famigliari. Dal punto di vista della carriera lavorativa, sembra essere un fattore di spinta verso un inserimento nei segmenti non qualificati del mondo del lavoro. Inoltre, sotto il profilo del capitale sociale, ne consegue spesso un'interruzione o comunque un indebolirsi delle già esigue relazioni sviluppate al di fuori dalla cerchia parentale o del vicinato, ovvero in ambito scolastico, generando un ulteriore impoverimento della propria rete sociale. Le ragazze che sono sposate raccontano di aver perso i precedenti contatti con le compagne della scuola superiore e di non avere più tempo per tali frequentazioni. Il tema delle pratiche matrimoniali dei giovani di seconda generazione merita sicuramente di essere approfondito attraverso ricerche mirate volte a produrre una migliore comprensione del fenomeno. Questo per due ordini di motivi. Innanzitutto da un punto di vista scientifico, in quanto si tratta di un fenomeno sociale emergente non ancora indagato in Italia e indagato poco anche negli altri contesti europei sul quale occorre potenziare tanto gli studi empirici quanto la riflessione teorico-interpretativa. La scarsità di letteratura esistente che abbiamo riscontrato sull'argomento ne è la principale spia. In secondo luogo, le ricerche future su questo tema potranno fornire utili orientamenti e indicazioni per le policies pubbliche in materia di coesione sociale e integrazione. La sfera delle relazioni affettive e della matrimonialità dei giovani di seconda generazione può aprire interessanti prospettive di osservazione e analisi dei loro processi di “posizionamento” sociale in Italia e sui loro futuri percorsi di vita. Come abbiamo visto, il fenomeno dei cosiddetti matrimoni combinati può generare tensioni all'interno delle famiglie di origine immigrata tra genitori e figli e diventare un terreno più o meno aperto di conflitto intergenerazionale con tutte le conseguenze che ne possono derivare. Nell'affrontare tali argomenti, il pericolo di una deriva culturalista tanto nel dibattito pubblico quanto in quello scientifico è molto concreto, come ho già cercato di evidenziare. Il rischio di alimentare visioni stereotipate o, peggio, facili allarmismi (per cui tutte le ragazze di origine maghrebina che si sposano hanno alle spalle vicende di matrimoni forzati e sono vittima di violenza psicologiche e fisiche) può indurre a interventi politici e sociali avventati e non corrispondenti a un reale bisogno, per cui sono più che mai necessari cautela e un approccio di fondo pluralista e interculturale. 173 RAPPORTO SECONDGEN Riferimenti bibliografici Ambrosini M., 2005, Sociologia delle migrazioni, Bologna, Il Mulino. AA.VV., senza data, Per forza, non per amore. Rapporto di ricerca sui matrimoni forzati in Emilia Romagna, Imola, Trama di Terre.org. Badino A., 2012, Strade in salita. Figlie e figli dell'immigrazione meridionale al Nord, Carocci Bozon M., Héran F., 2006 La formation du couple: textes essentiels pour la sociologie de la famille, Paris, La découverte. Bozon M., Rault, W., 2012 De la sexualité au couple. L’espace des rencontres amoureuses durant la jeunesse, “Population”, 3, 2012, pagg. 453-490. Brouwer, L., 2006 Dutch Moroccan Websites: A Transnational Imagery? “Journal of Ethnic and Migration Studies”, 32:7, 1153-116 Bryceson D. and Vuorela U. (a cura di), 2002, The transnational family: New European frontiers and global networks, Oxford, Berg. Collet, B., Santelli, E. 2012 Couples d’ici, parents d’ailleurs. Parcours de descendants d’immigrés, “Revue Française de Sociologie”, 53-4. Collet, B., Santelli, E., 2012 Les descendants d'immigrés en couple mixte au prisme de l'enquête « Trajectoires et Origines », “EFG, Revue internationale Enfances Familles Générations”, 17, pagg. 75-97. Hamel C., 2011, Immigrées et filles d’immigrés: le recul des mariages forcés in “Population et Sociétés”,479. Santelli, E., Collet, B., 2008, Refuser un mariage forcé ou comment les femmes réagissent à l’imposition parentale, “Migrations Société”, 20(19), pagg. 209-227. Santelli, E., Collet, B., 2011, De l’endogamie à l’homogamie socio-ethnique. Réinterprétations normatives et réalités conjugales des descendants d’immigrés maghrébins, turcs et africains sahéliens, “Sociologie et societies”, vol. 43, n.2, pagg. 329-354. Streiff-Fenart J., 1985 Le mariage: un moment de vérité de l'immigration familiale maghrébine, “Revue européenne des migrations internationales”, vol.1, 2, décembre, pagg.. 129-141. Streiff-Fenart J. (1999a) Negotiations on culture in immigrant families" in Crul M., Lindo F., Lin Pang C.(a cura di) , Culture, Structure, and Beyond. Changing identities and social positions of immigrants and their children, Amsterdam, Het Spinhuis. Streiff-Fenart J., 1999b, Construction d'un réseau de parenté transnational, “Revue européenne des migrations internationales”, 15, 3. Wessendorf S., (2008), Italian Families in Switzerland: Sites of Belonging or “Golden Cages”? Perceptions and discourses inside and outside the Migrant Family, in Grillo R. (a cura di), The family in question, Amsterdam University Press, Amsterdam. 174 RAPPORTO SECONDGEN Discorsi sulle seconde generazioni in Italia e prospettiva identitaria nazionalculturale. Maria Perino La prospettiva nazional culturale si fonda sulla nozione di popolo considerato come una comunità con legami stretti tra i suoi membri, con coscienza di sé e un’identità basata su un destino condiviso nella continuità storica, dotato di una propria cultura e lingua che definiscono un’unitaria visione del mondo. Secondo questa prospettiva gli individui sono legati naturalmente e in modo uniforme alla loro comunità di appartenenza, considerata come qualcosa di naturale. Tale concezione di popolo come dato naturale è stata ampiamente criticata di essenzialismo, di astoricità, e di naturalizzazione dei rapporti politici e sociali. Tuttavia è possibile sostenere che, in forma implicita, la prospettiva nazional-culturale continua ad essere presente nel dibattito pubblico sulle migrazioni, in Italia come altrove, e le persone che migrano continuano ad essere considerate come un’eccezione all’isomorfismo tra popolo, sovranità, cittadinanza, nazione, culturalmente “altre”, uno speciale oggetto delle politiche e della ricerca (Wimmer, Glick Shiller, 2002). E’ facile infatti constatare un’organizzazione del discorso fondata sugli assunti del culturalismo: che gli immigrati siano classificabili a partire dalle loro origini, utilizzando categorie etniche o nazionali, che ci sia una corrispondenza tra l’origine nazionale1 e una specificità culturale, che queste abbiano valore esplicativo2. Parole scivolose, equivoche, come popolo, nazione, identità, etnia – prevalentemente in senso inferiorizzante o specifico di una lontananza esotica – danno forma alla rappresentazione e auto rappresentazione degli immigrati e costituiscono una cornice accessibile entro la quale collocare i discorsi sulle migrazioni e suddividere le società di immigrazione per linee etniche, assumendo che i gruppi etnici siano unità di analisi auto-evidenti. Si tratta della Herder’s social ontology che Wimmer (2009) ha ben descritto come prospettiva che considera il mondo sociale composto da popoli, evidenziando come, nell’ambito degli studi sulle immigrazioni, importanti filoni di ricerca3 ritengano analiticamente proficuo pensare le società divise in gruppi etnici/nazionali caratterizzati da una specifica cultura, reti di solidarietà e identità condivisa. Certamente, a partire dai lavori di Moerman (1965) e di Barth (1969), e in successivi orientamenti di ricerca (Wimmer, ibid: 254) si è andati oltre l’approccio della Herder’s social ontology spostando l’attenzione alla costruzione dei confini e alla natura relazionale delle identità etniche. Tuttavia, non solo nel senso comune il riferimento all’appartenenza nazionale è un frequentissimo rimando al quale si danno poteri esplicativi, ma anche molta ricerca continua ad accogliere non problematicamente la suddivisione in gruppi etnici/nazionali. A parere di Brubaker (2004: 3) infatti è diffuso tra gli studiosi un clichéd constructivism (ad esempio, i riferimenti “obbligati” a Barth, alle identità “ibride “ e meticce”, al fatto che si considera la dimensione interazionistica dei processi culturali), in cui i concetti di ibridazione, fluidità che sono richiamati per prendere le distanze, apparentemente, dall’essenzialismo nazional-culturale, non sempre mettono in discussione il groupism, cioè la tendenza a considerare i gruppi etnici o nazionali come entità sostanziali, basi costituenti della vita sociale, protagonisti dei conflitti sociali e fondamentali unità di analisi (ibid: 7-10) . 1 Molto spesso si intende addirittura con origine nazionale la semplice provenienza da uno stato, presumendo l’unità nazionale. 2 “Following the Dutch anthropologist Vermeulen we summarise this culturalist approach in four points: first, the tendency to understand cultures as homogeneous and fixed entities with sharp boundaries without paying attention to ‘internal’ diversity and ‘external’ influences; secondly, the tendency to reify cultures, that is to see cultures as fixed things that exist independently from their specific ‘bearers’, rather than as processes involving human agency and creativity; thirdly, and as a consequence of the latter point, cultural continuity, rather than change, is depicted as the ‘normal situation’; fourthly, these homogeneous, reified and static cultures are depicted as determining human behaviour: people do things because it is their culture (Vermeulen 1992 and 2000; Baumann & Sunier 1995). This conception of the relationship of culture and human behaviour is a ‘culturalistic fallacy’ (Bidney 1953). Culture is not a fixed and autonomous entity, but something that is constantly produced and reproduced by human agency. It cannot be used to explain human behaviour, nor can religion. On the contrary, it is these terms – culture and religion – that need explaining, and it is from human behaviour that we get our clues” (Snel, Stock, 2008). 3 L’autore fa riferimento alla teoria assimilazionistica, anche nella variante dell’assimilazione segmentata, al multiculturalismo e agli ethnic studies. 175 RAPPORTO SECONDGEN Ne derivano discorsi e retoriche che insistono sulla centralità della comunità etnica o nazionale come riferimento per gli immigrati, e sulla cultura nazionale come universo di senso che definisce la maggioranza e le minoranze. I figli degli immigrati sarebbero pertanto in una situazione di tensione tra adesione alla cultura nazionale della maggioranza e riferimento alle tradizioni familiari, secondo la frequente immagine del giovane di seconda generazione “sospeso” tra due culture o “ponte” tra un “là” e un “qua”. Alla base c’è sempre il groupism. Questo senso comune così pervasivo è una diffusa risorsa interpretativa (ibidem:7-27) focalizzata sulla “differenza”, sulla “diversità” nazional-culturale utilizzata da accademici, politici, amministratori, operatori sociali, educatori. La ricognizione di documenti governativi e di lavori della recente letteratura italiana sui giovani di seconda generazione ha evidenziato, pur nella differenza delle posizioni, lessico, struttura del discorso, temi che rimandano alla prospettiva nazional-culturale. Vediamone alcuni esempi. Nella metà degli anni duemila, in una situazione italiana caratterizzata da polemiche sulla necessità di riaffermare con forza le radici cristiane e l’identità culturale italiana, e discorsi sull’integrazione piegati sulla dimensione culturale, fu stabilito un quadro di regole e valori di riferimento a cui gli immigrati - islamici soprattutto - dovrebbero aderire esplicitamente, mediante la sottoscrizione della Carta dei valori della Cittadinanza e dell’Integrazione redatta da un comitato scientifico nominato dall’allora ministro dell’Interno Amato del governo Prodi (Cnel, 2012). In essa all’inizio si legge che “L´Italia è uno dei Paesi più antichi d´Europa che affonda le radici nella cultura classica della Grecia e di Roma. Essa si è evoluta nell´orizzonte del cristianesimo che ha permeato la sua storia e, insieme con l´ebraismo, ha preparato l´apertura verso la modernità e i principi di libertà e di giustizia”, e poco oltre, “la posizione geografica dell´Italia, la tradizione ebraico-cristiana, le istituzioni libere e democratiche che la governano, sono alla base del suo atteggiamento di accoglienza verso altre popolazioni. Immersa nel Mediterraneo, l´Italia è stata sempre crocevia di popoli e culture diverse, e la sua popolazione presenta ancora oggi i segni di questa diversità”. Il documento avrebbe dovuto inserirsi nel quadro di una riforma della cittadinanza, invece è diventato uno degli elementi del cosiddetto “accordo di integrazione”, un dispositivo introdotto nel “pacchetto sicurezza” nel 2009 che accentua ulteriormente la dimensione culturale delle politiche di integrazione. Nel successivo Piano per l’integrazione nella sicurezza. Identità e incontro (2010) a cura dei Ministeri del Lavoro, dell’Interno e dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, si delinea nelle prime pagine un “modello italiano “ di integrazione che dovrebbe esprimersi in tre parole chiave: identità, incontro ed educazione. Si legge: “diffidiamo, dunque, dell’approccio culturale per cui il confronto avvenga tra categorie sociali, etniche o religiose, tagliando fuori, in modo ideologico, la responsabilità di ciascuno nell’essere protagonista dell’incontro con l’altro. Il presupposto di ogni interazione è la capacità di comunicare se stessi, di trasmettere la propria identità. L’Italia, per storia e posizionamento geografico, è da sempre terra di incontro tra culture e tradizioni differenti che hanno saputo mantenersi – salvo poche e brevi eccezioni – in un equilibrio di rispetto e di pace. Per costruire una convivenza civile stabile, in un contesto di crescente pressione sociale, non possiamo non riscoprirne nel nostro passato le condizioni essenziali, rivitalizzandone le radici. L’identità del nostro popolo è stata plasmata dalle tradizioni greco-romana e giudaico-cristiana, che unendosi in maniera originale hanno saputo fare dell’Italia un Paese solidale nel proprio interno e capace di ospitalità e gratuità rispetto a chiunque arrivi dentro i suoi confini. Il rispetto della vita, la centralità della persona, la capacità del dono, il valore della famiglia, del lavoro e della comunità: questi sono i pilastri della nostra civiltà, traendo origine e linfa vitale direttamente da quella apertura verso l’altro e verso l’oltre che ci caratterizza” (p.8). Se l’avvio del discorso sembra andare nella direzione di un altro approccio, poche righe dopo, con il richiamo alla “cultura italiana”, si impone la prospettiva nazional-culturale, spinta a formule retoriche sulle specificità del popolo italiano, capace di solidarietà, ospitalità e gratuità, sui valori che lo connotano, fino ad affermarne come tratto distintivo l’apertura “verso l’altro e verso l’oltre”, una ’Identità Aperta” (p.10, maiuscolo nel testo), “premessa per un incontro sincero e per una accoglienza all’interno dell’alveo tramandato dai nostri padri”. “Il soggetto adeguato che rende possibile l’interazione necessaria all’integrazione è il popolo, una esperienza umana viva, con la sua tradizione, la sua cultura e i suoi valori” (p.10). La nozione di popolo come dato naturale, con forza affermata in questo documento governativo di indirizzo, è proposta come riferimento fondamentale per comprendere e governare le migrazioni. Negli stessi anni sono stati formulati documenti più specifici di orientamento delle politiche scolastiche. 176 RAPPORTO SECONDGEN Nelle Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri del 2006 4 si legge: “Si sta delineando in Italia una scuola delle cittadinanze, europea nel suo orizzonte, radicata nell’identità nazionale, capace di valorizzare le tante identità locali e, nel contempo, di far dialogare la molteplicità delle culture entro una cornice di valori condivisi”. Tali affermazioni esprimono categorie poco accurate e risultano problematiche. La cittadinanza, se non viene chiarita nella sua dimensione civica, non può essere partecipata da chi non ha un passato condiviso. Anche la nozione di “identità locali” da “valorizzare” non è ovvia né riguardo alla definizione, né riguardo al riconoscimento, anzi, richiama proprio quella riproduzione culturale che in altri passaggi di questo e di altri documenti ministeriali è rifiutata. Ma soprattutto il ricorso al “dialogo” nasconde la stessa logica, lo stesso paradigma dello “scontro” tra culture, tra universi omogenei e compatti in cui non è affatto scontato che si possa ravvisare una “cornice di valori condivisi”. Il “riconoscimento” identitario e il “dialogo tra culture” rimandano a una concezione rigida e reificata delle appartenenze nazionali, entro le quali si dovrebbero rintracciare “valori condivisi” . Un altro documento, La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri (2007)5, sembra prendere le distanze dalla prospettiva che “tende a confrontarsi con le culture d’origine in quanto tali, e che rischia di assolutizzare l’appartenenza etnica degli alunni, predeterminando i loro comportamenti e le loro scelte”. Ma si può interpretare come un esempio di quel clichéd constructivism di cui abbiamo detto. Si afferma infatti che la scuola italiana sceglie di adottare la prospettiva interculturale, ricondotta alla “promozione del dialogo e del confronto tra le culture”. Benché più avanti nel testo si legga che “le strategie interculturali evitano di separare gli individui in mondi culturali autonomi ed impermeabili”, e si esorti a orientare l’attenzione alla persona e alla singolarità dell’alunno, la prospettiva interculturale che vorrebbe essere l’alternativa al multiculturalismo “essenzialistico” e “separatista”, non è concettualmente chiara6. Le Linee guida del 2014 richiamano i precedenti documenti e ribadiscono che l’educazione interculturale costituisce “lo sfondo da cui prende avvio la specificità di percorsi formativi rivolti ad alunni stranieri”. Si ritrovano le solite formule: “favorire il confronto, il dialogo, il reciproco riconoscimento e arricchimento delle persone nel rispetto delle diverse identità ed appartenenze e delle pluralità di esperienze spesso multidimensionali di ciascuno, italiano e non” (pag.4). In che cosa consiste quindi l’orientamento interculturale in pedagogia, nato in Italia sotto la spinta migratoria?7 Tra i vari testi, in Morcellini (2012:12) si legge che è la “disponibilità a uscire dai confini della 4 le C.M. 301/89; 205/90 e 73/94 avevano già affrontato il tema degli alunni appartenenti “a una diversa etnia” e del compito educativo di “mediazione tra le diverse culture di cui sono portatori gli alunni”. La C.M. 73/94 introduceva il tema dell'educazione interculturale come strumento e risposta “ più alta e globale al razzismo e all'antisemitismo”, nella “consapevolezza della propria identità e delle proprie radici come base essenziale per il confronto”. Si sottolineava inoltre “di questa identità, la struttura composita, il carattere dinamico e l'articolazione secondo livelli diversi di appartenenza:locale, regionale, nazionale, europeo, mondiale”. Il rituale richiamo al carattere dinamico e multidimensionale dell’identità non modifica la visione della storia presentata come l’insieme degli incontri/scontri tra “popoli”: l'insegnamento della storia deve riconoscere gli apporti e i valori autonomi delle diverse culture e liberarsi da rigide impostazioni a carattere etnocentrico o eurocentrico, per un'analisi obiettiva dei momenti di incontro e di scontro tra popoli e civiltà. Allo stesso tempo la storia può aprirsi alle problematiche della pacifica convivenza tra i popoli e affrontare il tema del razzismo, nelle sue manifestazioni e nei suoi presupposti e il tema delle migrazioni, come vicenda storica ricorrente”. Le caratteristiche del lessico e della struttura del discorso presenti in questi testi si ritrovano nei documenti successivi e in molta letteratura sull’argomento. 5 A cura dell’Osservatorio Nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale. 6 La questione si allarga al dibattito sul “fallimento del multiculturalismo” che si è sviluppato tra il 2008 e il 2011 e che ha contribuito a presentare l’interculturalismo come una “narrativa” alternativa all’assimilazionismo e al multiculturalismo e come strategia per politiche inclusive. Per una analisi critica di questo dibattito cfr. Vertovec, Wessenfdorf (2010) e W. Kymlicka (2012), e l’ampia discussione che ha coinvolto diversi autori, apparsa in Intercultural Studies (2012), al termine della quale Tariq Modood e Nasar Meer (p.242) evidenziano un generale accordo su un punto: “that for the objectives of the integration and recognition of various migration-related minorities in contemporary Europe, political interculturalism as it is currently being discussed is an unpersuasive alternative to modes of multiculturalism”. 7 In una ricerca sulle pratiche interculturali nella scuola italiana (Serpieri, Grimaldi, 2013) è stata proposta l’immagine del “concetto ombrello” sotto il quale si sarebbero sviluppati dagli anni ’90 un processo di costruzione di policy framework europeo e la “via italiana all’educazione interculturale”. Tuttavia gli autori, nell’osservazione dettagliata dei curricula, delle pratiche di educazione interculturale e di valutazione che le scuole sperimentano, sostengono che le retoriche apparentemente progressiste e attente alla differenza (e alla differenziazione delle strategie), possono avere effetti di mascheramento intrinseco all’educazione interculturale che contribuiscono alla riproduzione delle disuguaglianze su base etnica e culturale (61-67). 177 RAPPORTO SECONDGEN propria cultura, per entrare nei territori di altre culture e imparare a conoscere e interpretare la realtà secondo schemi e sistemi simbolici differenti e molteplici, [quindi] un progetto di educazione interculturale comporta, come obiettivo fondamentale, lo sviluppo di un pensiero aperto, capace di decentrarsi, di allontanarsi dai propri riferimenti cognitivi e valoriali senza per questo ripudiarli, dirigersi verso quelli di altre culture per scoprire e comprendere le differenze e le connessioni tra culture diverse, e capace, inoltre, di tornar nella propria cultura arricchito dall’esperienza del confronto”. Il ricorso a termini come “uscire”, “entrare”, “confini delle culture”, propri di una prospettiva fondata sull’incontro o scontro di popoli “portatori” (altro termini frequente) di una cultura, evidenzia quanto resti costante il riferimento a culture pensate essenzialmente in termini nazionali. I giovani immigrati o figli di immigrati sarebbero infatti “portatori” della “cultura di origine”, del paese di provenienza. Nel discorso interculturale si ricorre spesso a simili metafore (Gobbo, 2008)8, diventate senso comune che trascura la grossa eterogeneità dei valori, norme, stili di vita, esistenti all'interno di un qualsiasi paese, i differenti quadri concettuali, le pratiche, il linguaggio, le esperienze che possono differenziare profondamente uomini e donne, gente di città o di campagna, giovani o vecchi, soggetti collocati in ambienti sociali diversi. Inoltre, l’attenzione è totalmente focalizzata sulle differenze culturali le quali sarebbero motivo di conflitto se non mediate col “dialogo” e lo “scambio”, come si legge in Caneva (2012: 35) : “il sistema educativo italiano, utilizzando il concetto di interculturalismo, cerca di sottolineare l’importanza del dialogo e dello scambio tra persone che sono culturalmente differenti, al fine di evitare conflitti e favorire la convivenza”. La vaghezza della definizione può essere un motivo di spiegazione del fatto che tra gli insegnanti che promuovono progetti interculturali si intrecciano e si confondono visioni diverse dell’educazione interculturale, da quella che insiste sulla “conoscenza e valorizzazione delle altre culture”, alla formula dello “scambio e rielaborazione culturale”, a un “approccio più efficace per promuovere atteggiamenti di apertura, rispetto e attenzione nei confronti degli altri”, a un approccio metodologico per “ trattare temi e argomenti da diversi punti di vista” (Favaro 2004, 28-29). La pratica della didattica e le difficoltà quotidiane incontrate nell’affrontare i vari problemi della classe, evidenziano l’incertezza concettuale che non viene risolta dal richiamo al prefisso “inter” il quale servirebbe a “indicare la centralità, non tanto delle singole culture e delle differenze, ma delle relazioni e interazioni tra gruppi, individui, identità” (pag. 34). Queste frequenti modalità di rappresentare l’eterogeneità che caratterizza i contesti educativi, cioè, da un lato “le rappresentazioni di tipo multiculturalista che si focalizzano sulle caratteristiche e sulle rivendicazioni di determinate “comunità” culturali”, dall’altro le “rappresentazioni che elogiano e promuovono varie forme di meticciamento e ibridazione” (Zoletto, 2012: 19) si prestano entrambe, come già abbiamo sottolineato, a un doppio equivoco. “Che un individuo sia per così dire completamente o ampiamente sovra determinato da una cultura, e che le nostre società fossero (o che le società in generale possano mai essere) monoculturali prima dell’arrivo dei migranti” (ibidem: 22). Un testo esemplare che utilizza in forma esplicita il repertorio concettuale nazional culturale, e nel quale è evidente l’uso scontato del termine “etnia” come gruppo e degli immigrati come “Altro”, è l’indagine Io e gli altri: i giovani italiani nel vortice dei cambiamenti promossa dalla Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome del 2010, e quindi presumibilmente finalizzata e fornire strumenti di intervento ai politici locali . Vediamone alcuni aspetti particolarmente significativi: uno degli obiettivi era il sondaggio delle “reazioni emotive suscitate da una serie di categorie di persone (etnie o minoranze)” (pag. 6), da cui sembrerebbe emergere che le motivazioni della “maggiore simpatia “ per certi gruppi sono dovute alla vicinanza ai giovani intervistati, in quanto “appartenenti – malgrado le indubbie differenze – alla medesima cultura occidentale” (pag.7). La nozione di “cultura occidentale “ che accomunerebbe i giovani italiani a certi gruppi etnici non è affatto chiara, così come la nozione di minoranza e di etnia, che più avanti nel testo diventano sinonimi di “gruppo sociale”. Si dice infatti che “un livello di tolleranza leggermente inferiore caratterizza un’eterogenea serie di gruppi sociali […]. Si tratta: degli ebrei, degli italiani di origine diversa rispetto all’intervistato (settentrionali o meridionali), di alcune etnie considerate evidentemente meno “aggressive” nei confronti della nostra società, provenienti dall’Africa nera, filippini, indiani (pag. 8). E si prosegue, elencando “etnie e gruppi che destano apprensioni e tendenzialmente allarme”, “etnie e gruppi con tassi rilevanti di “antipatia”, “etnie e gruppi che suscitano 8 Per un’interessante analisi dell’impianto metaforico del discorso che promuove la differenza culturale, la diversità e l’incontro tra culture, cfr. Baroni (2013), in particolare il secondo capitolo, Retorica dei saperi interculturali, in cui vengono presi in considerazione diversi testi italiani che appartengono alle aree della pedagogia, della psicologia e della comunicazione interculturale. 178 RAPPORTO SECONDGEN un’intensa antipatia “, fino alla minoranza “più odiata”, i Rom (pag.10). Il frequente ricorso alla formula “l’Altro da sé” per indicare gli immigrati e “ altre minoranze” serve anche a identificare le paure dei giovani (p.43). E così via per oltre cento cinquanta pagine, in cui meccanismi di etichettamento basati sulle categorie etniche e la logica nazional-culturale, secondo la quale gli immigrati sono un’eccezione all’unità del popolo, producono “stereotipi e macchiette etniche”e “semplificazioni razziste” (Baroni, 2013). La burocrazia scolastica e le statistiche ufficiali utilizzano la categoria giuridica, facilmente identificabile da parte delle scuole, di “alunno con cittadinanza non italiana”, cioè figlio di due genitori stranieri, per definire i minori di origine straniera presenti nelle aule. E poi si procede con distinzioni più specifiche in base al criterio nazionale ( “i marocchini”, “i cinesi”, “gli albanesi” …). Dal punto di vista dello studio delle specificità migratorie, sarebbe certamente importante poter conoscere il paese di nascita dei genitori, cosicché si otterrebbe il quadro della popolazione che ha avuto un’esperienza familiare di migrazione internazionale, comprendente anche coloro che non sono classificati come stranieri dal punto di vista giuridico in quanto figli di genitori naturalizzati. Tuttavia, tra le specificità che caratterizzano questi ragazzi, risulta molto spesso predominante, e quindi oggetto di analisi e di progettazione di interventi, il fatto che vivono in “un contesto familiare intriso dei riferimenti culturali del paese di origine, che non possono essere cancellati dal documento che ne attesta la cittadinanza italiana” (Mantovani, 2011:72) 9. Secondo questo punto di vista, è rischioso utilizzare il requisito della cittadinanza come criterio per distinguere gli ”italiani “ dagli “stranieri”, poiché porta a classificare come “italiani” degli studenti “che vivono in nuclei familiari dove si parla un’altra lingua, si celebrano altre ricorrenze e festività, si cucinano altre pietanze, e si professa un’altra religione” (ibidem: 90). Sono qui espresse come evidenti e scontate la differenziazione culturale su base nazionale, la corrispondenza tra lingua e cultura, e quindi l’alterità culturale delle famiglie immigrate, permanente nel tempo come elemento distintivo sostanziale. Su queste specificità delle migrazioni, più che sugli effetti sociali degli spostamenti, si tende spesso a formulare la domanda di ricerca e le ipotesi di intervento, ponendo al centro dell’attenzione i temi riferibili alla “cultura” e all’”identità”. In alcune ricerche italiane10 sui giovani di origine immigrata, la prospettiva nazional culturale è sottoposta a critica ma si resta con l’impressione che si tratti in certi casi del “clichéd constructivism". In Marzulli (2009: 198-202) si legge: “lo straniero, in generale, è portatore di un universo valoriale fortemente connotato…”, ma poi si sottolinea che non si deve insistere sull’eterogeneità e incompatibilità tra culture piuttosto che sulla loro capacità di ibridazione e si prendono le distanze dall’essenzialismo e da una concezione reificata delle culture, intese invece come “sistemi complessi e permeabili, all’interno dei quali avvengono processi di comunicazione, scambio e innovazione”. L’analisi dei processi di costruzione identitaria dovranno pertanto assumere, secondo l’autore, una prospettiva interculturale, che “sottolinea i processi di ibridazione tra culture e il riconoscimento delle differenze all’interno di un orizzonte comune”, avvalendosi degli studi sui processi di acculturazione. Questo dovrebbe permettere di cogliere “la complessità di una condizione che può oscillare tra gli estremi del disorientamento (come nel caso del profilo marginale), della perdita di radici (come nel caso dell’assimilazione) o della multi appartenenza (come nel caso dell’integrazione)”. I marginali sono infatti definiti in base alla distanza rispetto alla “cultura di origine” e a quella “autoctona”, mentre gli integrati adottano una strategia di “doppia etnicità caratterizzata da comportamenti di apertura nei confronti delle due culture”. Invece, “coloro che sono assorbiti nella cultura prevalente” compiono un processo di piena assimilazione (p. 201). Ciò che caratterizza questo discorso, oltre alle debolezze del concetto di interculturalità di cui si è già detto, è che la condizione del giovane di origine immigrata è comunque connotata in base alle diverse forme che può assumere la relazione cultura d’origine cultura autoctona, nominate come fossero cose evidenti, con un significato noto e condiviso. 9 Nelle già citate Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri del 2014 viene proposto un ampliamento delle “locuzioni” utili nella didattica: gli alunni con cittadinanza non italiana vengono distinti in “alunni con ambiente familiare non italofono”, “minori non accompagnati”, “figli di coppie miste”, “alunni arrivati per adozioni internazionale”, “alunni rom, sinti e camminanti”, “studenti universitari con cittadinanza straniera” (pagg.5-6), cosicché il criterio della differenza culturale si mescola con considerazioni sul disagio psicologico e sociale. E’ significativo inoltre che si affermi la necessità di formazione e di specifiche competenze “per il personale delle aree a rischio o a forte processo migratorio o frequentate da nomadi"(pag.14). La sequenza delle parole rischio (di che cosa?), migrazioni, nomadi (ma sono tali?) induce a metterle in relazione. 10 Per una rassegna delle ricerche italiane cfr. Santagati (2012). 179 RAPPORTO SECONDGEN Nella prospettiva del nazionalismo metodologico, come già detto, le persone che migrano sono infatti una eccezione alla corrispondenza tra popolo e nazione, culturalmente “altre”, uno specifico oggetto delle politiche e della ricerca. Questa immagine dell’immigrato è palese nelle pagine conclusive del rapporto Cnel del 2009, Aspettative delle famiglie immigrate nei confronti del sistema scolastico italiano (a cura di Cotesta e Tognonato). Riportiamo, in forma di elenco, alcune espressioni riferite ai giovani di origine immigrata: “diverso; mette in gioco l’individualità solida delle persone e delle culture; frequenterà il gruppo di amici ma in lui resterà sempre il segno di un taglio, di una scissione e infine di un destino mancato; io diviso tra due mondi; difficoltà a trovare un’identità che non sia estranea né al contesto né segnata da un tradimento delle proprie origini; rischiano di diventare stranieri perfino per i loro genitori; se rompono con la tradizione si produce uno strappo culturale che può essere vissuto come tradimento; in molti casi i figli assumono il ruolo dell’ interprete, di mezzo di trasmissione, di collegamento tra le due culture” (94-102). Le ultime affermazioni sono particolarmente significative del fatto che la distinzione loro/noi, cultura di origine/ cultura della società di arrivo si declina frequentemente nella distinzione tradizione/modernità, la prima ancora presente nei genitori, la seconda propria dei figli “acculturati” in Italia e motivo di contrasti familiari. La contrapposizione genitori-figli in termini di dissonanze culturali che producono conflitti si ritrova in molti lavori, qui basti citare Ambrosini, Caneva (2009) in cui si afferma che “genitori e figli sono chiamati a operare sintesi tra esigenze diverse e talora contrapposte: tra l’adesione al contesto ricevente, con i suoi stili di vita da una parte, e i riferimenti identitari e valoriali originari dall’altra, tra mantenimento della rispettabilità nella comunità e desiderio di accettazione nella società più ampia” (p. 31); e ritorna la diffusa definizione dei figli “adultizzati”, “genitori dei genitori” (p.32). Eppure ciò che sappiamo sui rapporti genitori-figli nelle famiglie immigrate non evidenzia la prevalenza di conflitti di questo tipo. Esistono senza dubbio alcuni conflitti che si potrebbero classificare come conflitti tra culture: sul modo di vestirsi, sui matrimoni combinati, ecc. Ma questi sembrano meno numerosi e spesso meno gravi rispetto ai conflitti che derivano dalla situazione all'interno dei contesti quotidiani, rispetto alla scuola, alle "cattive compagnie", alle uscite serali, alla partecipazione alla vita familiare. Non raramente invece, si presuppone che il problema principale affrontato dalle famiglie immigrate sia quello dell'incompatibilità tra la "cultura italiana" che sarebbe trasmessa dalla scuola, dai media, ecc. e la "cultura dei genitori" propria del luogo di origine11. In un testo italiano abbiamo trovato una critica a questo approccio, “e in generale [a] nozioni aprioristiche o reificate di concetti come cultura, nazione, maggioranza, minoranza, etnicità” (Caneva 2011, p.49), ma il tentativo di prenderne le distanze si concretizza in questo caso nel proporre il transnazionalismo e il cosmopolitismo come quadro teorico alternativo, pensati come sviluppo di “ progetti di vita orientati qui e là” che permettono di “evitare la rottura con i contesti di partenza”. In questi termini il nazionalismo metodologico ritorna nella forma del “nazionalismo a lunga distanza” che lega comunque persone residenti in luoghi diversi a un comune riferimento nazionale. Rimangono salienti tutti i caratteri e i legami che contraddistinguono i gruppi nella prospettiva del nazionalismo metodologico, pur fuori da confini territoriali congruenti. “In short, approaching migrant transnational social fields and networks as communities tends to reify and essenzialise these communities in a similar way that previous approaches reified national communities” (Wimmer, 2009, p. 323 -324). La distinzione per nazionalità frequentemente è usata per descrivere i comportamenti scolastici. In Terzera (2011) si legge: “C’è una maggiore concentrazione di rendimenti scarsi o appena discreti tra gli studenti di origine latino americana che evidenzia una particolare debolezza di questi ragazzi malgrado la minor distanza rispetto alla cultura italiana (non solo dal punto di vista linguistico, ma anche, ad esempio, da quello religioso)”. Si dice cioè che la debolezza degli studenti latino americani deve essere ricercata in altri elementi, “malgrado” la minor distanza di questi allievi dalla cultura italiana. Nella prospettiva nazionalculturale infatti, le affinità linguistiche e religiose risultano sinonimo di affinità culturali e dovrebbero 11 Cfr. i lavori di Lahire (1995) dai quali, mediante un esame preciso e minuzioso dei comportamenti nelle famiglie, emergono elementi legati non tanto al contesto d'origine ma piuttosto al contesto attuale, e relativamente trasversali nelle classi popolari. Questo indica, a nostro avviso, la necessità di sviluppare un'analisi centrata sulla situazione delle famiglie nel contesto in Italia più che sulle caratteristiche nazionali. Nella ricerca di Lahire inoltre “le interviste realizzate volte a capire le radici del successo/insuccesso scolastico nelle pratiche e interazioni familiari contengono diversi esempi di figli che hanno un ruolo di intermediari tra gli uffici o la scuola e i genitori che non leggono il francese. Eppure in molte famiglie questo ruolo sembra istituire scambi gratificanti tra genitori e figli, valorizzando le competenze scolastiche: infatti Lahire menziona queste situazioni proprio come una pratica che motiva l'impegno a scuola inserendo la lettura e la scrittura nel contesto relazionale” (Eve, Perino, 2011: 187) 180 RAPPORTO SECONDGEN garantire inserimenti più facili. Il caso segnalato dall’autrice da una parte sollecita la ricerca di altri elementi esplicativi dei rendimenti scolastici di quei ragazzi ma dall’altra sembra rappresentare un’eccezione alla forza esplicativa della “appartenenza culturale”, talvolta declinata per genere. Questo porta ad affermare, rispetto alle relazioni con gli insegnanti: “tra le ragazze che criticano maggiormente le professoresse troviamo ecuadoriane e romene … Le ragazze marocchine e filippine mostrano valori più elevati di difficoltà con insegnanti di genere maschile”. Lo stesso tipo di descrizione ricorre molto spesso anche nei discorsi degli insegnanti. (M. Colombo, 2009: 109-115) La prospettiva nazional-culturale caratterizza anche i discorsi sull’integrazione, che molti lavori italiani definiscono con la formula, di successo12, secondo la quale “l’integrazione è un processo multidimensionale finalizzato alla pacifica convivenza, entro una determinata realtà sociale, tra individui e gruppi culturalmente ed etnicamente differenti, fondato sul rispetto della diversità a condizione che queste non mettano in pericolo i diritti umani fondamentali e le istituzioni democratiche” (Cesareo, 2009:23). La centralità delle nozioni di differenza culturale/etnica e di rispetto, condizionato, di tali differenze si impone come chiave interpretativa e normativa, orientando le politiche a interventi che favoriscano l’incontro e il dialogo. La questione dell’integrazione è infatti frequentemente correlata ai discorsi sull’identità che in Italia, come già detto, connotano da tempo un’ampia letteratura (Colombo, 2010). Da una parte la ricerca focalizzata sui processi di costruzione identitaria insiste sull’eterogeneità delle situazioni e dei differenti modelli di appartenenza a disposizione dei giovani per rappresentarsi e agire, sottolineando che le forme di identificazione sono molteplici, strategiche, “ibride”, più o meno sensibili alla dimensione globale. Dall’altra parte, questa ortodossia dell’identità “fluida” che critica la reificazione della nozione di immigrato, di seconda generazione e di paese provenienza, rimane comunque nell’orizzonte di un’identità declinata in termini nazional culturali, senza metterne in questione l’impostazione etnica. In Giovani stranieri, nuovi cittadini. Le strategie di una generazione ponte (Besozzi e al. 2009), il paragrafo 1.1.2 (20-26) si intitola: “la questione dell’integrazione come questione identitaria”, perché si ritiene che questo aspetto abbia una particolare rilevanza per i giovani stranieri, con un richiamo all’“appartenenza”, in senso “molteplice e interdipendente”. Si ritrova quindi la solita critica al multiculturalismo, al quale sarebbero preferibili la “concezione dialogica e negoziale dell’incontro” (p. 22), e “il modello dialogico e aperto alla reciprocità e al riconoscimento” poiché “si può osservare come sia proprio la dimensione culturale a essere in primo piano nei processi di inclusione o acculturazione” (p. 23). Segue una tabella sui “modelli di acculturazione, concezione dell’identità e trattamento della diversità etnica”, concludendo che nell’ambito dei processi di globalizzazione si arriverà ad avere, a seconda delle politiche di trattamento della differenza, un’omogeneità culturale globale, un mosaico di culture e civiltà immutabilmente diverse o un mescolamento continuo e illimitato. E’ evidente in queste affermazioni la densità della prospettiva nazional-culturale e del groupism. Questo apparato concettuale informa ovviamente innanzitutto i questionari e le interviste realizzati nella ricerche. Scegliamo due lavori esemplari in tal senso. Il cap 7 del già citato Giovani stranieri nuovi cittadini studia “l’acculturazione dei giovani migranti in un contesto di pluralismo di valori” (M. Marzulli: 195-218) mediante intervista, per comprendere “come sia vissuta la condizione tra due culture”(p. 212). Alcune domande poste sono basate sulla solita alternativa cultura di origine-cultura di residenza. Queste sono date come unitarie e autoevidenti, alcuni ragazzi riescono a farne una “costruzione originale, capace di prendere elementi delle due culture, porli a confronto e sottoporli a rielaborazione personale”, come se i “riferimenti plurimi” fossero propri soltanto delle seconde generazioni, in quanto non è prevista, in questa prospettiva, una pluralità di produzioni culturali entro lo stesso territorio nazionale: ti senti più italiana o più rwandese? ti senti più italiana o più africana? seguite le feste della vostra tradizione? (ibidem 214-215). Chiaramente la forma dell’interrogazione condizionerà la risposta (Bichi, 2002). E ancora, in Caneva (2011a): ”Secondo voi ci sono problemi di convivenza tra italiani e stranieri (139) , e poi nel capitolo che esplora la vita in Italia ricorrono domande di questo tipo: ma lei (la madre) vuole anche che tu magari mantieni certe tradizioni, certi valori? Ci sono delle situazioni in cui ti senti italiano? Ci sono delle situazioni in cui ti senti straniero? Per te la nazionalità , il fatto che vieni da … , è importante?, secondo te in Italia c’è razzismo? Secondo voi la convivenza è possibile oppure no? (158 -243). 12 Cfr altri lavori che hanno condiviso questa definizione di integrazione : Gilardoni (2012); Caselli ( 2009); Berti e Valzania (2010). 181 RAPPORTO SECONDGEN E’ evidente che gli intervistati saranno indotti a rispondere utilizzando le stesse categorie concettuali, confermando l’impianto culturalista dei ricercatori, come quando, chiedendo se “avere in classe compagni di altri paesi è positivo”, si constata che gli stranieri che rispondono “sì” sono proporzionalmente più numerosi, e si afferma che questo indica che “essi, in quanto promotori in prima persona della multiculturalità, ne sono anche convinti sostenitori” (M. Colombo, 2012:159). Il nazionalismo metodologico e la prospettiva culturalista diventano così forme di rappresentazione e di autorappresentazione, alimentate dai discorsi (e dalle domande della ricerca) sull’identità. Non vogliamo dire che il tema dell’identità non sia rilevante, ma che l’indagine sugli strumenti prevalenti fra i giovani immigrati per definirsi e su come si sviluppino le loro identità, spesso ricorre a un’attribuzione categoriale basata sull’origine nazionale e sul background culturale, tanto da far dire che “i confini coincidono con l’appartenenza nazionale, alla quale vengono collegate dai soggetti precise caratteristiche e stili di vita” (Caneva, 2011b, 202). Secondo l’autrice questa tesi è confermata dal fatto che “da alcune interviste è emerso che la socialità dei ragazzi si è sviluppata anche grazie a cugini e fratelli, tramite i quali gli intervistati hanno conosciuto altri connazionali e formato il gruppo dei pari con cui trascorrono il tempo libero” (ibidem, 222). Invece che in termini nazional culturali questo fenomeno si potrebbe spiegare mediante altri meccanismi di formazione dei legami e dei confini: le amicizie con connazionali sono infatti spesso facilitate dalle reti parentali, e i ragazzi stanno con certi coetanei non perché sono connazionali, ma perché sono parenti o figli di conoscenti della famiglia. La socialità dei ragazzi si sviluppa anche grazie a cugini e fratelli, e tramite loro si conoscono altri connazionali secondo la tendenza a frequentare gli amici degli amici, che è diversa dalla “omofilia etnica” (Wimmer e Lewis, 2010). Nelle interviste di Secondgen, che non prevedevano una sezione specificatamente dedicata a esplorare la questione dell’ “identità”, del “sentirsi” più o meno italiano, le narrazioni dei giovani risultano interessanti per l’evidenza di discorsi articolati su diversi schemi cognitivi e sistemi categoriali. Sono emersi complessi processi di formazione dei gruppi e forme di autoidentificazione e di eteroidentificazione molto legate agli ambienti specifici, al quotidiano e alle persone che si conoscono, che si frequentano o che si evitano. Il senso della prossimità e della distanza non è quindi centrato sull’origine nazionale ma sugli ambienti sociali. Dall’analisi delle nostre interviste emerge infatti che i giovani apprendono l’uso di categorie, di schemi discorsivi e cognitivi negli ambienti sociali in cui si trovano. “La differenziazione tra “radicati” e “esterni” che non corrisponde a quella tra italiani e stranieri, tra disciplinati e pigri, tra responsabili e irresponsabili, tra devianti e non devianti, tra quelli che lavorano molto e quelli che lavorano poco, espressa in una varietà di forme, esprime codici morali, etichette, criteri di classificazione appresi in Italia. Con questo materiale fornito dalle esperienze e dalle interazioni quotidiane i giovani intervistati delineano confini, descrivono e valutano” (Perino, 2013). Vogliamo pertanto sottolineare che il ricorso a categorie nazional culturali nel dibattito pubblico e nello studio delle migrazioni, e delle seconde generazioni in particolare, rischia di non essere appropriato, di insistere eccessivamente sui problemi culturali e di deviare l’attenzione dai meccanismi e processi di stratificazione sociale e dalle logiche connesse alla migrazione, allo spostamento geografico, che di per sé ha degli effetti sociali. 182 RAPPORTO SECONDGEN Riferimenti bibliografici Ambrosini M., E. Caneva, 2009, Le seconde generazioni: nodi critici e forme di integrazione, in Sociologia e politiche Sociali:25-46. Barbagli M. (a cura di), 2006, L’integrazione delle seconde generazioni di stranieri nelle scuole secondarie di I grado della Regione Emilia Romagna, Bologna,Regione Emilia Romagna, Ufficio Scolastico Regionale. Baroni W., 2013, Contro l’intercultura. Retoriche e pornografia dell’incontro, Verona, Ombre Corte. Berti F., Valzania A. (a cura di), 2010, Le nuove frontiere dell’integrazione. Gli immigrati stranieri in Toscana, Milano, Franco Angeli. Besozzi E. (a cura di), 2009, Tra sogni e realtà. Gli adolescenti e la transizione alla vita adulta. Roma, Carocci. Besozzi E., Una generazione strategica, in Besozzi E., Colombo M., Santagati M., (a cura di), 2009, Giovani stranieri, nuovi cittadini. Le strategie di una generazione ponte. Milano, Franco Angeli: 13-56. Bichi R., 2002, L’intervista biografica. Una proposta metodologica, Milano, Vita e Pensiero. Brubaker R.,2004, Ethnicity without groups, Cambridge, London, Harvard University Press. Bosisio R., Colombo E., Leonini L., Rebughini P., 2005, Stranieri & Italiani. Una ricerca tra gli adolescenti figli di immigrati nelle scuole superiori, Roma, Donzelli Editore. Caneva E. 2012, Interculturalism in the classroom. The strengths and limitations of teachers in managing relations with children and parents of foreign origin, in Italian Journal of Sociology of Education, 3: 34-58. Caneva E. 2011a, Mix generation. Gli adolescenti di origine straniera tra globale e locale, Milano, FrancoAngeli. Caneva E., 2011b, Adolescenza e migrazione:una ricerca sui processi di identificazione e le relazioni sociali dei giovani stranieri, in Stranieri in Italia. La generazione dopo, Bologna Il Mulino: 197-231. Caselli M., 2009, Vite transnazionali? Peruviani e peruviane a Milano, Milano, Franco Angeli. Cesareo V., 2009, Quale integrazione?, in V.Cesareo, G. C. Blangiardo (a cura di), Gli Indici di integrazione. Un’indagine empirica sulla realtà migratoria italiana, Milano, Franco Angeli. Cnel e Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2012, Dall’immissione all’inclusione. Verso un approccio integrato? a cura di Fieri Colombo E., 2007, Molto più che stranieri, molto più che italiani. Modi diversi di guardare ai destini dei figli di immigrati in un contesto di crescente globalizzazione, in Mondi Migranti, n.1: 63-85. Colombo E., (a cura di), 2010, Figli di migranti in Italia. Identificazioni, relazioni,pratiche. Torino. Utet Università. Colombo E., Leonini L., Rebughini P., 2009, Nuovi italiani. Forme di identificazione tra i figli di immigrati inseriti nella scuola superiore, in Sociologia e politiche sociali, 12, 1: 59-78. Colombo M., 2012, Relazioni scolastiche nelle classi ad elevata concentrazione di alunni di origine immigrata. Riflessioni da un’indagine in Lombardia, in Mondi Migranti, 2: 149-165. Colombo M., 2009, Differenze e disuguaglianze di genere nei percorsi di inclusione sociale dei giovani stranieri, in Besozzi E., Colombo M., Santagati M., (a cura di), Giovani stranieri, nuovi cittadini. Le strategie di una generazione ponte, Milano, Franco Angeli:91-116 Cotesta V., Di Franco G., Tognonato C.,2009, Le aspettative delle famiglie immigrate nei confronti del sistema scolastico italiano, Roma, Cnel. Eve M., Perino M., 2011, Seconde generazioni: quali categorie di analisi? In Mondi migranti, 2: 175-193. Favaro G., Napoli M., (a cura di), 2004, Ragazze e ragazzi nella migrazione. Adolescenti stranieri: identità, racconti, progetti, Milano, Guerini. Favaro G., 2004, L’educazione interculturale in Italia. Una scelta possibile e necessaria, in G. Favaro, L. Luatti ( a cura di) L’intercultura dalla A alla Z, Milano, Franco Angeli: 21-37. Gilardoni G., 2012, I processi di integrazione delle nuove generazioni letti attraverso il capitale sociale (New Generations’ Integration Paths seen Through Social Capital), in Sociologia e Politiche Sociali 15, 1: 81103. Gobbo F., 2008, L’uso di alcune metafore in pedagogia interculturale, in F. Gobbo (a cura di), L’educazione al tempo dell’intercultura, Roma, Carocci: 147-172. Conferenza dei Presidenti delle Assemblee Legislative delle Regioni e delle Province, Istituto SWG, Iard RPS (a cura di), 2010, Io e gli altri: i giovani italiani nel vortice dei cambiamenti Kymlicka W., 2012, Multiculturalism: Success, Failure, and the Future, in www.migrationpolicy.org Lahire B., 1995, Tableaux de familles, Paris, Gallimard-Le Seuil. 183 RAPPORTO SECONDGEN Mantovani D., 2011, Italiano o straniero? Considerazioni sui criteri di classificazione degli studenti nella ricerca sociale, in Polis XXV, 1: 65-95. Meer N., Modood T., 2012, Rejoinder: Assessing the Divergences on our Readings of Interculturalism and Multiculturalism, in Journal of Intercultural Studies, 33:2, 233-244. Morcellini M., Prefazione. La multiculturalità come display dei tempi moderni, in Onorati M. G. (a cura di), 2012, Generazioni di mezzo. Giovani e ibridazione culturale nelle società multietniche, Milano, Franco Angeli. Marzulli M., 2009, L’acculturazione dei giovani migranti in un contesto di pluralismo di valori, in Besozzi E., Colombo M., Santagati M., (a cura di), Giovani stranieri, nuovi cittadini. Le strategie di una generazione ponte, Milano, Franco Angeli: 195-217. Perino M., 2013, Da dove vieni? Quanto contano le categorie etnonazionali? in Quaderni di Sociologia, LVII: 63-85. Rinaldi E., 2009, Giovani stranieri tra studio e lavoro, in Besozzi E., Colombo M., Santagati M., (a cura di), Giovani stranieri, nuovi cittadini. Le strategie di una generazione ponte, Milano, Franco Angeli: 179-194. Santagati MG., 2009, Dentro il progetto migratorio familiare: opportunità e rischi per le nuove generazioni, in Besozzi E., Colombo M., Santagati M., (a cura di), Giovani stranieri, nuovi cittadini. Le strategie di una generazione ponte, Milano, Franco Angeli: 57-89. Santagati MG., 2011, Scuola, terra d’immigrazione. Stato dell’arte e prospettive di ricerca in Italia, in Mondi Migranti, 2: 41-.85 Snel E., Stock F., Debating Cultural Differences: Ayaan Hirsi Ali on Islam and Women, in R. Grillo (ed.), 2008, Immigrant Families in Multicultural Europe: Debating Cultural Difference, Amsterdam: Amsterdam University Press: 113-133. Serpieri R., Grimaldi E. ( a cura di), 2013, Che razza di scuola. Praticare l'educazione interculturale, Milano, Franco Angeli. Terzera L., 2010, Seconde generazioni crescono, in Sospiro G, (a cura di). Tracce di G2. Le seconde generazioni negli Stati Uniti, in Europa e in Italia. Milano, FrancoAngeli: 111-123. Vertovec S. and Wessendorf S. (eds), 2010, The Multiculturalism BackLash. European discourses and practices , London, Routledge. Zoletto D., 2012, Dall’intercultura ai contesti eterogenei, Milano, Franco Angeli. Wimmer A., Glick Shiller N., 2002, Methodological nationalism and beyond: nation-state building, migration and the social sciences, in Global Networks 2, 4: 301-334. Wimmer A., Lewis K., 2010, Beyond and Below Racial Homophily: ERG Models of a Friendship Network Documented on Facebook, in American Journal of Sociology, 116, 2: 583 -642. 184 RAPPORTO SECONDGEN 3. GIOVANI, STRADE, QUARTIERI. OSSERVAZIONE ETNOGRAFICA E PARTECIPAZIONE ALLE DINAMICHE DI GRUPPO. I contributi derivano da tre specifici filoni della ricerca. 3.1. La ricostruzione della vita di quartiere dei figli di immigrati interni negli anni Settanta a Torino. Fonti utilizzate: − interviste informali per orientare l'indagine con seconde generazioni di immigrati interni e con osservatori privilegiati − 40 interviste qualitative a seconde generazioni di immigrati interni − dati statistici provenienti dai censimenti e da pubblicazioni dell'ufficio statistico del comune di Torino; dati dell’Archivio Storico della Città di Torino − censimento di tutti gli ingressi nell’Istituto Penale per i Minori Ferrante Aporti di Torino, dal 1° gennaio al 31 dicembre 1979 (sono di quell’anno i fascicoli più vecchi presenti nell’archivio del carcere) − archivi giornalistici − fonti private, di associazioni e di parrocchie Campo principale dell’indagine sono stati i quartieri periferici e di edilizia popolare del comune di Torino. La ricerca sul campo e la raccolta delle interviste e delle storie di vita dei figli di immigrati è servita a tracciare le traiettorie sociali delle seconde generazioni di immigrati interni. La ricerca ha ripercorso le storie di alcune strade, che negli anni hanno acquisito una “cattiva fama” e che nella memoria collettiva sono associate alla delinquenza minorile, alla droga, al degrado. I risultati dicono che i ragazzi entrati all’interno del carcere minorile di Torino in quell’anno hanno in prevalenza un’origine meridionale e un’età compresa fra i sedici e i diciassette anni. Sono di gran lunga più numerosi i reati contro il patrimonio, in particolare i furti d’auto e i furti su auto. I ragazzi in maggioranza sono poco scolarizzati e sono disoccupati. La città di Torino è quella con il numero di ingressi più alto rispetto al resto delle città della regione. Nel capoluogo piemontese, i quartieri con un numero maggiore di minori arrestati sono in prevalenza quelli periferici, con ampie zone di edilizia pubblica. Come emerso dalle testimonianze di molti degli intervistati questi pezzi di città furono per molti aspetti pezzi di una città “lontana”, soprattutto nelle prime fasi di insediamento. Poche strutture ricreative a disposizione dei più giovani, che scelgono la strada come luogo principale di interazione. L’alto numero di bambini e di adolescenti è una caratteristica comune di tutti i quartieri di recente immigrazione. E così negli anni Sessanta e Settanta negli isolati appena edificati le strade, le piazze ed i giardini sotto casa divengono il luogo di incontro per molti figli maschi della migrazione interna. Questi giovani iniziano a costruire il loro mondo in strada. Un mondo fatto di attività autogestite, con una tendenza ad essere separato dal mondo adulto. La migrazione modifica le relazioni familiari ed il controllo sociale sui più giovani può diminuire. Tutto questo non favorisce le carriere scolastiche e lavorative ed in alcuni quartieri si diffonde tra i ragazzi una “cultura di strada”, che si manifesta sotto forma di una crescente sfiducia nei 185 RAPPORTO SECONDGEN confronti delle istituzioni e di una certa insofferenza verso le regole e verso le attività gestite dagli adulti, come la scuola. Il “rispetto” che si può guadagnare in strada di fronte agli amici non ha spesso nulla a che vedere con i risultati ottenuti tra i banchi di scuola. Talvolta i giochi di strada finiscono per diventare reati e la sfida alle istituzioni viene considerata più affascinante rispetto alla carriera del “bravo ragazzo”. (per approfondire vedi l’analisi a pag 189) 3.2. L’osservazione partecipante in un giardino pubblico di Torino: giovani non inseriti in circuiti ricreativi, culturali, educativi e sportivi istituzionali e con percorsi di vita “devianti”. Le interviste e l’osservazione partecipante con giovani coinvolti in attività devianti o comunque “a rischio” forniscono preziosi elementi sugli atteggiamenti di questi giovani rispetto alle proprie azioni illegali, alla polizia e all’ambiente in cui sono inseriti. Forniscono inoltre informazioni, pur parziali, rispetto al background familiare, ai progetti futuri e al modo in cui questi giovani passano il tempo insieme negli spazi pubblici e alle forme di interazione che sviluppano. Le forme di vita giovanile raccontate in questa fase della ricerca come possono essere messe in relazione con le migrazioni? Innanzitutto, va notato semplicemente che l’esame dei comportamenti devianti, come quello di tanti altri aspetti della vita documentati in questa ricerca, fa emergere forti rassomiglianze tra ondate migratorie differenti. Infatti, l’esplorazione tramite lo spoglio della stampa periodica degli anni settanta e ottanta, le interviste con magistrati e operatori attivi in quegli anni, nonché l’esame di registri dell’Istituto Ferrante Aporti del 1979, mostra, come si è detto, la forte sovrarappresentazione dei figli degli immigrati regionali tra i giovani caduti nella rete dell’azione giudiziaria. Questo parallelismo costringe a riflettere sulle possibili cause legate al processo migratorio. Innanzitutto va ricordato che la presenza in statistiche giudiziarie o anche nella cronaca della stampa rappresenta la fine di un percorso, in cui hanno un ruolo gli amici, la famiglia ma anche la polizia e le autorità giudiziarie. Gli studi etnografici sull’operato della polizia nella sua azione di controllo del territorio (Reiner 1997; Fassin 2011) mostrano che i giovani di determinati quartieri popolari sono molto più soggetti a controlli da parte della polizia. Questo determina da una parte lo sviluppo collettivo di atteggiamenti di indifferenza e di resistenza, dall’altra parte, nei casi in cui gli atti devianti sono rilevati dalla polizia e conducono ad azioni penali, trasforma il significato di comportamenti giovanili assai diffusi - le survey trovano percentuali estremamente elevate di giovani di tutti gli strati sociali che hanno commesso piccoli furti, sono stati coinvolti in risse, ecc. - da una “bravata” in un atto criminale con conseguenze ben diverse. Vale la pena richiamare questo risultato consolidato della criminologia per ricordare l’importanza del quartiere in cui crescono i figli degli immigrati e dell’ambiente sociale frequentato dai giovani. Sembra abbastanza frequente che i figli degli immigrati (ieri come oggi) facciano un uso intenso dei giardini, degli spazi davanti ai condomini, dei pezzi di terrain vague che possono esistere nel vicinato, dei parcheggi dei supermercati e dei centri commerciali. Anche questi spazi si distinguono per l’attenzione che possono ricevere da parte della polizia e per la visibilità da parte dei cittadini locali. Fumare o bere in un giardino pubblico ha un altro significato rispetto a fare lo stesso in uno spazio privato. 186 RAPPORTO SECONDGEN Qualche elemento dell’osservazione etnografica e delle interviste svolte in questa parte della ricerca sembra confermare quanto accadeva nel passato, cioè le difficoltà sperimentate dalle famiglie nel controllo degli adolescenti. Colpisce la madre di un ragazzo, appena arrivato in Italia, che lo invita a scendere nei giardini sotto casa, quando questi giardini sono un noto luogo di spaccio e di traffici vari. Emerge inoltre l’importanza dei giardini e degli spazi informali nella formazione di competenze e conoscenze, nonché nella costruzione di contatti (con venditori, compratori, intermediari) necessari per il coinvolgimento nelle attività devianti. In questo senso è rilevante che molti figli di immigrati crescano in quartieri in cui ci sono gruppi che fanno acquisire le tecniche necessarie per gestire il confronto con la polizia. (per approfondire vedi l’analisi a pag 200) Conta infatti l’inserimento in reti sociali in cui sono presenti persone che hanno già sviluppato delle attività illegali. E’ illuminante il confronto tra i giovani intervistati durante l’osservazione etnografica e quelli di un altro giardino dove l’Uisp aveva organizzato tornei di calcio e dove c’era la presenza regolare di una mediatrice culturale che è diventata un punto di riferimento per i giovani. Molti dei ragazzi di questo secondo giardino hanno un percorso scolastico disorganizzato, raccontano di risse, amici in carcere, abuso di alcool ma al momento dell’intervista non avevano intrapreso una carriera nello spaccio e nelle rapine, probabilmente perché si era prospettata la possibilità di altre reti - sportive, dell’associazionismo ( ma di un genere “leggero”, poco strutturato e con ridottissimi momenti etero diretti), di “accompagnamento” - in cui inserirsi. In particolare, l’importanza dell’ambiente aggregativo è stata analizzata dalla sezione seguente della ricerca. 3.3. L’osservazione partecipante e le interviste ai ragazzi incontrati attraverso attività educativa di strada in un giardino pubblico di Torino. La parte di ricerca condotta dal Gruppo Abele ha maggiormente focalizzato l’attenzione sull’analisi degli ambienti di vita di ragazzi di origine straniera incontrati in una specifica area della città di Torino situata all’interno della V circoscrizione, nel quartiere Borgo Vittoria, più precisamente nella zona che comprende e circonda i giardini Don Gnocchi, comunemente conosciuti in quartiere con il nome di giardini Sospello. In quest'area agisce l’Educativa di Strada del Gruppo Abele grazie al progetto Stradivaris, finanziato dalla Compagnia di San Paolo di Torino. Due le macrofasi previste dalla ricerca: la prima di osservazione con uscite in giardino (come una parte del quartiere) e redazione di 45 diari etnografici è stata centrale per descrivere l’utilizzo del giardino pubblico come luogo di aggregazione informale, il ruolo che tale luogo assume per i ragazzi di origine straniera, eventuali “effetti di vicinato” rilevati attorno alla frequentazione del luogo con relativi elementi di eventuale segregazione. La seconda fase ha previsto il coinvolgimento dei ragazzi in intervista biografica. La peculiarità dell’azione di ricerca curata dal Gruppo Abele è consistita nel cercare di intercettare quei ragazzi talvolta sfuggenti ai circuiti educativi formali, ma a pieno titolo oggetto di interrogativo per la progettazione di efficaci politiche di inclusione. In merito al contesto “quartiere”, è stato ritenuto importante rilevare anche quegli elementi che portano i ragazzi a spostarsi da una zona all’altra della città, e che possono essere utili ad evidenziare dinamiche di emancipazione, desideri di inclusione, ecc. In aggiunta, in merito agli argomenti affrontati in sede di intervista, si è posta attenzione anche all’area dei diritti (lavoro, casa, cittadinanza..), al tema della formazione/conoscenza, al tema della partecipazione ed al 187 RAPPORTO SECONDGEN tema dell’ambizione e delle attese dei ragazzi. Il lavoro di ricerca, in sintesi, si è proposto di far luce sul modo in cui possono costruirsi percorsi di svantaggio per giovani figli dell’immigrazione, siano essi di generazione 1.25, 1.50, 1.75 e/o 2.00. L'analisi dei dati rilevati nel corso della fasi di ricerca ha consentito di caratterizzare il territorio “quartiere” come spazio di vita secondo alcune direttrici: è “il primo luogo” della città in cui giungono i ragazzi immigrati e si concretizza nelle strade e nei giardini pubblici vicini alla propria casa. Il giardino in quartiere è il luogo dove si possono trovare ragazzi con la stessa esperienza di disorientamento, timore e desiderio di conoscenza, che parlano però la medesima lingua, con i quali si può parlare e giocare gratuitamente. Queste relazioni possono cambiare la qualità della giornata, e da quel momento il giardino diventa un appuntamento fisso. Al giardino stesso si incrociano alcuni fattori influenti sulle traiettorie di vita di questi giovani: vi può essere interazione con ragazzi di età differenti, più grandi o più piccoli, e si può accedere a vari tipi di informazioni. Essendo però il giardino un luogo pubblico, si incontrano regole di condotta comuni per tutti, ma al contempo si innescano conflitti tra utilizzatori degli spazi di gioco e con gli abitanti della zona. In quei casi si confrontano direttamente con l’immagine negativa dello straniero dalla quale prendono le distanze. I conflitti in giardino però possono condizionare il loro rapporto con quel luogo, sino all’allontanamento, per virare su altri posti. Ciò può significare cambiare giro, amicizie, e talvolta portarsi dietro un’esperienza di esclusione. Le ragazze, soprattutto se di origine araba sono raramente presenti negli spazi pubblici. In generale paiono più concentrate sullo studio, e probabilmente protette dalle famiglie, poiché la città è luogo di opportunità, ma anche di pericolo. Talvolta le regole familiari si ridefiniscono proprio nel paese di arrivo, e i ragazzi perdono una certa libertà di movimento che avevano invece nel paese d’origine. Se da un lato, forse, le ragazze sviluppano maggiormente competenze legate alla formazione e allo studio, e sembrano progettare e sognare “un po’ più in là” dei ragazzi, esse sembrano avere però reti di relazioni più ridotte. Stare con i connazionali o con gli italiani, e cosa “convenga” di più in termini di occasioni di inserimento è un’altra delle questioni analizzate. I gruppi di ragazzi che frequentano il giardino sono molto eterogenei sotto questo punto di vista. Probabilmente lo spazio del gioco, dello scambio con i pari, del divertimento è sostanzialmente vissuto alla pari tra i ragazzi, ma lievemente diverso è il loro racconto in merito alla reti e relazioni utilizzate dai familiari sul quartiere o nella città. Non sempre la comunità di origine è elemento di supporto nell’uso del quartiere: una funzione solidaristica della comunità d’origine non è scontata per quello che i ragazzi raccontano. Resta l'interrogativo se stare con gli italiani sia una strategia delle famiglie, per avere maggiori opportunità, anche per i figli, perché siano a contatto con possibilità di inclusione maggiori e con occasioni di vita di maggiore successo e ascesa sociale. (per approfondire vedi l’analisi a pag 250) 188 RAPPORTO SECONDGEN 3.4. Analisi Giovani e vita di strada nella Torino della grande migrazione interna Dario Basile Perché i figli delle grande migrazione interna? Ci si potrebbe chiedere che senso abbia parlare oggi di immigrazione interna, oggi che sono passati circa cinquant’anni dall’apice del fenomeno. Ci sono per lo meno due buone risposte a questa domanda; la prima, forse banale, è che non se ne è parlato abbastanza. Esiste a tutt’oggi poca letteratura socio-antropologica sulla migrazione interna in Italia ed ancora più scarsa è l’attenzione rivolta alle seconde ed alle terze generazioni di questi immigrati. In realtà tali e tanti sono i fenomeni correlati agli straordinari movimenti di popolazione che, come ha scritto Enrico Pugliese, parlare di migrazioni interne significa affrontare un fenomeno che compendia in sé alcune delle più importanti trasformazioni della società italiana (Pugliese, 2002 : 41). Esiste poi almeno una seconda ragione per affrontare questi temi: capire cosa sia successo nel nostro recente passato può gettare una luce su alcuni fenomeni del presente. L’ottica di un confronto tra vecchie e nuove immigrazioni può essere utile, per comprendere meglio alcuni meccanismi sociali, che sono tutt’oggi in atto. Adottare questa prospettiva comparativa - tra immigrazione del recente passato e del presente - presuppone l’implicita considerazione che l’immigrazione interna sia stata una “vera immigrazione”; e che sia possibile indagarla servendosi delle recenti teorie elaborate per lo studio delle migrazioni internazionali e delle sempre stimolanti opere classiche nel campo dell’antropologia urbana. Si potrebbe dire che ciò che unisce il passato ed il presente è il “processo migratorio in sé”, da indagare tralasciando i concetti di nazionalità, cittadinanza e di differenza culturale. La migrazione è un processo di lungo termine, che ha diversi effetti autonomi non solo sulla vita degli individui che emigrano, ma anche sulle carriere formative e occupazionali dei figli e forse persino dei nipoti (Ceravolo, Eve, Meraviglia, 2011; Badino, 2012). Quelli che vanno indagati sono, dunque, i meccanismi sociali che generano tali effetti e studiando le migrazioni regionali del passato, si ha l’indubbio vantaggio di avere una prospettiva di lungo o medio termine. Con la mia ricerca ha voluto analizzare un aspetto particolare di questi complessi fenomeni: ho cercato di capire se, anche in seguito alla grande migrazione interna a Torino che ebbe il suo apice a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, si formarono fenomeni come le gang giovanili o quella fiorente vita di strada, sapientemente narrata in alcune opere classiche dell’antropologia urbana (Whyte, 1943; Thrasher, 1966; Shaw e McKay, 1942); fenomeni tutt’oggi esistenti e che, il alcuni casi, vedono protagonisti giovani migranti e di seconda generazione in Europa (Queirolo Palmas, 2010: 7). Per fare questo ho condotto un’indagine sul campo - durata circa tre anni – durante la quale ho condotto una serie di lunghe interviste in profondità e numerose chiacchierate informali. La fonte orale non è stata, però, l’unica mia risorsa a disposizione, i ricordi delle persone sono stati supportati da una parte di ricerca archivistica. Infatti, a differenza del passato, in cui gli antropologi consideravano gli archivi come un luogo “pericoloso”, dove era possibile smarrire la strada della propria ricerca, oggi è dato quasi per scontato un dialogo ed un connubio tra antropologia e storia (Viazzo, 2004). I dati da me ricavati provengono da fascicoli giudiziari, da sentenze del Tribunale dei Minori di Torino, da archivi pubblici e privati. L’indagine sul campo si è, invece, concentrata essenzialmente nei quartieri periferici di Torino, con una particolare attenzione ad alcuni isolati di edilizia popolare. In questi luoghi ho incontrato persone, le ho intervistate e ho cercato di ricostruire tramite i loro ricordi la storia di quelle realtà. Mi interessavano in modo particolare quelle zone della città o quelle vie divenute note alla cronaca cittadina per numerosi atti di criminalità minorile. Ero incuriosito da alcune strade, che negli anni avevano acquisito una “cattiva fama” e che nella memoria collettiva erano associate alla delinquenza, alla droga, al degrado. Un ricordo probabilmente selettivo, forse influenzato dai mezzi di informazione e dalle azioni delle forze dell’ordine, ma che comunque era interessante da indagare. Negli anni Sessanta a Torino, con l’allargamento della città verso le periferie si vennero a creare, in modo particolare in alcuni isolati formati da sole case popolari, degli ambienti socialmente omogenei, abitati quasi esclusivamente da immigrati interni e per lo più provenienti dal Sud Italia. I quartieri appena costruiti, specie nei negli anni Sessanta, risultarono particolarmente isolati dal resto della città, anche per mancanza di infrastrutture e collegamenti. E così questi pezzi di “città di edilizia pubblica” furono, nei decenni passati, 189 RAPPORTO SECONDGEN per molti aspetti pezzi di “una città altra”. Un mosaico non ancora perfettamente riuscito, dove i quartieri più periferici non apparivano pienamente integrati con il resto della struttura urbana. In questi luoghi tantissimi ragazzi, figli della grande immigrazione interna, divennero adulti. È sembrato quindi utile condurre la ricerca in questi spazi della città, per provare a capire in che modo i rapporti sociali e le risorse offerte dal vicinato influenzarono le carriere dei loro giovani abitanti, in gran parte figli di immigrati. La vita in strada Le strade del capoluogo piemontese negli anni Sessanta e Settanta pullulavano di ragazzi ed alcuni dati descrivono bene il fenomeno: basti pensare che nelle scuole elementari di Torino si passò dai 48.725 iscritti del biennio 1955/56 ai 91.805 iscritti del 1973/74 (Annuario statistico della città di Torino, ad annum). Una buona parte di questi giovani erano figli della grande immigrazione interna, bambini nati altrove e trasferitisi in tenera età (la cosiddetta generazione uno e mezzo) o nuovi torinesi già nati al Nord (le seconde generazioni). L’alto numero di bambini e di adolescenti è una caratteristica comune di tutti i quartieri di recente immigrazione. L’età degli immigrati è infatti generalmente situata nelle fasce di età più fertili: questo fa sì che i nuovi arrivati mettano alla luce i figli nei primi anni del loro insediamento o portino con sé bambini in tenera età dalla città o dal Paese di origine. Per tale motivo le città e i quartieri che ricevono un numero consistente di immigrati vedono contemporaneamente aumentare il numero dei bambini; l’immigrazione va a modificare la struttura di età locale. Anche a Torino tra il 1962 ed il 1973, invertendo una secolare tendenza, si registrò un aumento della natalità (Musso, 2002: 47). Come si può notare dalla tabella 1, analizzando i dati di censimento dal 1951 al 1981, la percentuale di ragazzi di età inferiore ai 14 anni sul totale della popolazione residente a Torino aumenta negli anni successivi al grande afflusso migratorio, avvenuto a partire della fine degli anni Cinquanta. Tabella 1. Minori di anni 14 sul totale delle popolazione residente a Torino al censimento del 1951, 1961, 1971, 1981. ( Fonte ISTAT) Censimento 1951 Censimento 1961 Censimento 1971 Censimento 1981 Fino a 14 anni 105.420 166.421 242.676 201.499 Popolazione totale Percentuale 719.300 15% 1.025.822 16% 1.167.968 21% 1.117.154 18% In quegli anni si cominciarono a vedere molti ragazzi sotto la Mole e in modo particolare nei quartieri di edilizia pubblica, anche perché le famiglie numerose sono privilegiate nell’assegnazione di una casa popolare. Le strade, le piazze ed i giardini sotto casa divennero i luoghi di interazione principale per diversi ragazzi, che in strada iniziarono a costruire il loro mondo. Il ricordo di un giovane immigrato di allora ci descrive molto bene questa realtà: “Io abitavo in via Roveda e nella mia scala c’erano più di sessanta ragazzi, dopo pranzo si scendeva a giocare a pallone e c’era un tornado: uuuuuhhhh… Tutti ci si bussava: dai, dai scendiamo. Nascono delle aiuole, tempo sei mesi non c’è più niente. Attila è passato! Si giocava, non è che si guardava il verde e le cose. Erano solo aiuole invase da bambini che giocano in qualsiasi modo, perché hai solo quello”. In questi microcosmi abbastanza isolati, pezzi di una città “lontana” e privi di strutture ricreative e aggregative, una delle poche vere alternative alla strada o al bar è rappresentata dalla parrocchia. Così nel 1972 si scrive su un giornalino parrocchiale: “Frotte di ragazzi sono lasciati indisturbati per ore e ore sulla strada, ci rendiamo tutti conto come la strada non sia affatto maestra di virtù. Alcuni genitori, pochi in realtà, hanno orientato i propri figli all’oratorio. Questo non risolve tutto il problema, sia perché le ore di oratorio sono poche, sia perché lo spazio è ristretto” (Mirafiori Sud, 1972: 4). Nei quartieri di recente immigrazione i ragazzi riescono a ricostruire, probabilmente molto prima dei loro genitori, delle dense reti di relazione con il proprio gruppo di pari. In Borgo Cina – uno degli isolati di edilizia popolare a Torino - i ragazzi elaborano addirittura un proprio linguaggio, un gergo. Vi sono delle caratteristiche morfosintattiche comuni ai vari gerghi: una di queste caratteristiche è proprio la tecnica utilizzata dai ragazzi di Borgo Cina (un isolato di edilizia popolare nella periferia sud di Torino): l’inversione delle sillabe o l’anagramma di parole (sia gergali sia non gergali) (Sanga, 1993: 162). Ricorda Saverio: “Quando comincio a prendere possesso del corpo di Borgo Cina cominciai a capire che quelli più vecchi parlavano strano, parlavano all’incontrario. Ad 190 RAPPORTO SECONDGEN esempio, ciao come stai. “ocia meco ista”, cioè metà della parola all’incontrario ed eravamo diventati bravissimi tutti a parlare così”. La tecnica consiste nel dividere le parole in sillabe: cia-o, co-me sta-i, e poi ricomporre le stesse parole, ma invertendo le sillabe: cia-o = ocia, co-me = meco, sta-i = ista, anche se possono esistere delle eccezioni. Come scrive Sanga, il gergo serve a farsi riconoscere: parli il nostro gergo? Sei uno dei nostri. È interessante notare come la stessa tecnica di invertire le sillabe viene utilizzata nel linguaggio “verlan”, usato oggi dai ragazzi nelle banlieue delle città francesi (Lepoutre, 2001). In alcuni ambienti, quindi, si sviluppa una vita giovanile così intensa e autonoma dalla “società” adulta da generare un linguaggio proprio. L’autonomia dal mondo adulto e la mancanza di attività organizzate sono due costanti, che tornano ripetutamente nei racconti degli abitanti di questi quartieri popolari negli anni Sessanta e Settanta. Lì molti ragazzi passano buona parte della loro giornata in strada, la presenza degli adulti c’è, ma non è costante. Nei quartieri di recente immigrazione il tessuto relazionale può risultare lacerato, soprattutto nella prima fase dell’insediamento, perché la comunità adulta non ha ancora sviluppato quei legami necessari ad esercitare un forte controllo sociale sui più giovani. Con le partenze, la parentela si divide; ed anche se spesso ci si riunisce - attraverso le catene migratorie - non sempre la famiglia emigrata dispone delle risorse sociali ed economiche necessarie ad assistere i più giovani durante tutto l’arco della giornata. Diversamente dal paese di origine, dove spesso i ragazzi sono inseriti in legami a maglie strette e possono contare sul supporto di vari gradi di parentela, nei quartieri di recente insediamento i giovani sono più indipendenti e questo favorisce la formazione di una loro socialità separata: da una parte i ragazzi con il proprio mondo e dall’altra gli adulti. Le migrazioni, anche se non annullano le reti di relazioni parentali e amicali, sicuramente, le modificano. I più anziani difficilmente partono: viene quindi a mancare, tra le altre cose, il prezioso supporto dei nonni nella cura dei figli. Come già notato da Norbert Elias e John Scotson, per i nuovi arrivati la relativa mancanza di rapporti di vicinato stretti e di legami di parentela locali crea specifici problemi in quasi ogni sfera della vita, in modo particolare nell’accudire e controllare i figli (Elias e Scotson, 2004). E così può capitare che, tra i ragazzi che si autogestiscono la giornata senza la supervisione degli adulti, il confine tra il lecito e l’illecito penale appaia molto vago e talvolta i giochi divengano dei veri atti di vandalismo. Ricorda Toni: “Noi per divertimento si spaccava i vetri dei portoni, cazzatelle di tutti i ragazzini. Partivamo scherzando e ridendo, dai facciamo gli scherzi? Mettevamo gli stuzzicadenti nei campanelli, e dovevano scendere, e dietro i cespugli facevamo le pernacchie. Erano stupidaggini, per ridere… Addirittura se dico che eravamo ragazzini qua e acchiappavamo i gatti e gli davamo fuoco, per ridere. Era un modo per passare la giornata”. Tra i ragazzi maschi che vivono la strada si sviluppa con facilità uno scetticismo nei confronti delle istituzioni e nei confronti dell’istruzione; ciò è confermato indirettamente dal fatto che esiste spesso una differenza di genere nei rendimenti scolastici delle seconde generazioni, con le figlie degli immigrati generalmente avvantaggiate rispetto ai coetanei maschi, vantaggio forse ricollegabile ad un maggiore controllo esercitato sulle ragazze, che vengono protette da un certo tipo di relazioni di strada (Ramella, 2013; Badino, 2012). Ci sono poi alcuni giovani che finiscono per sviluppare un vero risentimento verso la scuola in quanto istituzione, che diviene così un simbolo da combattere, piuttosto che un luogo di promozione del sapere (Willis, 1977). L’allora giudice di sorveglianza e per la rieducazione presso il Tribunale dei Minorenni di Torino Graziana Calcagno, da me intervistata, ricorda: “Alla fine degli anni Settanta, c’erano stati non pochi reati commessi ai danni degli istituti scolastici o addirittura ai danni degli insegnanti. E interessante è la motivazione di questi comportamenti: erano ragazzi che avevano frequentato quegli istituti e che si erano sentiti trattati male. O non capiti, castigati ingiustamente, bocciati ingiustamente. Ingiustamente non perché il loro livello di preparazione avrebbe giustificato la promozione, bocciati ingiustamente perché non capiti. Era una sorta di rivendicazione dei loro diritti, se non di vendetta, per quelle che avevano percepito come ingiustizie, maltrattamenti.” Il rifiuto di sottostare ad un qualche tipo di autorità si esprime, talvolta, con assalti alla proprietà privata; ma questo rifiuto viene altresì manifestato con attacchi diretti a simboli concreti del sistema istituzionale stesso (come la scuola) e con sfide ai rappresentanti di esso (insegnanti, polizia) (Emler e Reicher, 2000: 223). Il frequentare la strada, piuttosto che attività organizzate e gestite da adulti, può però rivelarsi un fattore negativo per la carriera professionale di un giovane (Lareau, 2011). Ben inteso, anche in strada si possono apprendere delle competenze e dei codici comportamentali, ma questi sono meno funzionali al mondo della scuola prima e del lavoro specializzato poi. Una delle regole della strada sembra essere quella di “farsi rispettare”. Come scritto da Philippe Bourgois nella sua etnografia sul ghetto di East Harlem, i giovani dello slum, aderendo orgogliosamente alla cultura di strada, vanno in cerca di un’alternativa alla marginalizzazione sociale cui sono destinati (Bourgois, 2005: 156-157). Tutti temi che riemergono costantemente nei ricordi dei 191 RAPPORTO SECONDGEN miei intervistati, come ricorda Gianni: “Quando arrivavano le giostre, c’era la rivalità perché venivano anche ragazzi di altre zone. Si finiva a cazzottate. Però la cosa di bello era che erano solo mani, che poi magari oggi ti menavi e domani diventavi amici. All’epoca ti potevi dare uno schiaffo, un pugno, il giorno dopo eravamo di nuovo amici. Una volta… insomma hai vinto tu o ho vinto io, ti rispetto”. I giovani ragazzi di quelle strade spesso però non si sentono rispettati al di fuori dell’ambito giovanile del quartiere. Sembrano soffrire il fatto di provenire da una determinata zona della città, che nel tempo ha acquisito una cattiva fama. Essere nato in un certo quartiere poteva divenire nel tempo uno stigma, capace di influire negativamente anche sulle carriere professionali. Nei curricula spesso non veniva indicata la via di residenza per paura di essere giudicati male dal possibile datore di lavoro. I ragazzi venivano quindi giudicati, e in un certo senso loro stessi si giudicavano, secondo l’immagine negativa che la collettività aveva affibbiato loro (Elias e Scotson, 2004). Ricorda Massimo, un mio intervistato: “C’era rabbia, perché tu ti rendevi conto che eri diverso rispetto a quello che c’era oltre il quartiere. Cioè noi se camminavamo per strada ci fermavano gli sbirri, come oggi fermano gli immigrati. Perché eravamo riconoscibili, come gli albanesi, gli albanesi eravamo noi. Perché eravamo a volte vestiti male o vestiti bene in maniera pacchiana, come chi ha il soldo ma non ha lo stile, oppure è eccessivo nel seguire la moda”. I ragazzi sembrano percepire una distanza tra il proprio quartiere ed il resto della città ed è forse per questo che quando si recano in centro dicono di recarsi “a Torino”, come se il loro quartiere non appartenesse alla città. Si verifica però paradossalmente anche un meccanismo inverso: i luoghi ritenuti negativi dal resto della città assumono valore positivo per i loro giovani abitanti. Lo stigma diviene emblema, come avviene anche oggi con alcuni figli di immigrati sudamericani: in contesti dove essere latinos può rappresentare uno svantaggio, i soggetti che ne sono portatori operano una trasformazione che acquista un significato positivo capace di esprimere orgoglio (Cerbino e Rodriguez, 2010: 55 ). I luoghi nei quali i ragazzi vivevano, seppur degradati e marginalizzati, erano rassicuranti perché rappresentavano - in un gioco di specchi - l’intensa vita sociale dei ragazzi. E così i più giovani e i gruppi di adolescenti spesso si identificavano con la propria zona di appartenenza. La città diviene così il terreno dell’alterità, dove si sviluppano delle forti identità di quartiere. Microcosmi che corrispondono pressappoco ad un isolato, a quattro vie che si intersecano in mezzo a grossi edifici popolari; luoghi non presenti nella toponomastica ufficiale e spesso marginali, ma che assumono per i loro giovani abitanti un importante valore identitario. Questi ragazzi si sentono in qualche modo diversi, hanno la percezione, forse confusa, dell’esistenza di una società che tende ad escluderli, ma ritrovano nella solidarietà reciproca un modo per affrontare la realtà. I giovani si uniscono, solidarizzano fra di loro, si organizzano, nascono dei gruppi ed anche alcune bande che quasi sempre sono composte da ragazzi provenienti dalla stessa zona di residenza. In una ricerca sul disagio giovanile a Torino nella metà degli anni Ottanta (Bajardi e Guglielminotti, 1987) si stimarono, con una buona dose di approssimazione, 220 bande giovanili presenti in città. Secondo gli autori alcuni di questi gruppi erano impegnati in azioni di piccola delinquenza come scippi e furti. Altri gruppi avevano, semplicemente, un atteggiamento provocatorio e violento. Altri ancora erano principalmente impegnati in atti vandalici, spesso contro le istituzioni. Non sappiamo con quale base scientifica sia stata condotta questa indagine né se le bande mappate fossero dei veri gruppi organizzati dotati, ad esempio, di un nome e di una struttura gerarchica o delle semplici aggregazioni di ragazzi; ma il dato ci dà comunque un’indicazione di un fenomeno presente in quegli anni. Ricorda Antonio, un mio intervistato: “Non esisteva la banda intesa come organizzazione capillare, con una divisione dei ruoli, era tutto molto anarcoide, non so come dire. Le cose chiare erano che non ci si infamava, ci si aiutava, c’era un senso di appartenenza”. Si pianificano piccoli o grandi atti delinquenziali: vengono chiamati “i lavori” e sono principalmente scippi e furti d’auto. Le azioni vengono effettuate in piccoli gruppi di tre, al massimo cinque partecipanti, gruppi che vengono chiamati dai ragazzi “batterie”. Ricorda ancora Antonio: “Le prime cose che abbiamo fatto è stato scassinare i flipper, le macchinette, quelle cose lì. Oppure entravamo in una panetteria, distraevamo la padrona e uno gli faceva la cassa. Poi gli appartamenti delle altre zone. E così prendevamo e che facciamo? Andiamo a farci un appartamento? O andiamo a farci qualche stappo (in gergo rapina ndr)? Per comprarti i vestiti, il motorino, avere i soldi in tasca da spendere così, andare a mangiare, andare al bar, ai videogiochi”. Di conseguenza molti di questi giovani, prima di aver compiuto la maggiore età, iniziano ad avere problemi con la legge. I ragazzi del carcere minorile I dati da me raccolti negli archivi del carcere minorile Ferrante Aporti di Torino sembrano evidenziare una correlazione quantitativa tra migrazione interna e criminalità minorile. Prima, però, di presentare i risultati 192 RAPPORTO SECONDGEN ottenuti, è bene fare alcune considerazioni. La prima di tipo metodologico. Vengono infatti mosse varie obiezioni alle ricerche sulla devianza basate sulle statistiche ufficiali: una è quella che questi dati non tengono conto, ad esempio, di quei reati commessi da autori che sono più capaci di altri a nascondere il comportamento tenuto (Ferraris, 2012: 36); un’altra obiezione è che le statistiche ufficiali forniscono più informazioni sulla natura dell’amministrazione statale che definisce il reato penale, piuttosto che su coloro che l’hanno commesso. Questi dati, cioè, non forniscono solo informazioni sulla criminalizzazione primaria ma anche sulle modalità con cui viene esercitato il controllo sociale (criminalizzazione secondaria). Vi è infatti l’idea che il sistema istituzionale non sia indifferente all’identità del colpevole del reato: i membri cioè di certe categorie sociali sarebbero trattati con maggiore clemenza nelle indagini di polizia, nei processi e nelle condanne loro comminate (Emler e Reicher, 2000: 100-01). Non è naturalmente la sola discrezionalità di chi esercita il controllo ad influenzare risultati, ma è comunque bene tenere presente che le statistiche ufficiali sono anche il risultato di determinate procedure amministrative. Secondo queste considerazioni, quindi, la possibilità di sfuggire o meno alle pene della legge può essere non solo influenzata dal tipo di reato che viene commesso, ma anche da altri fattori; chi ad esempio passa molto tempo in strada ha più probabilità di essere sottoposto a controlli di polizia, la presenza delle forze dell’ordine è più costante in alcune della città rispetto ad altre. E così - anche per questi motivi - i ragazzi appartenenti ad alcuni ambienti sociali più svantaggiati hanno maggiori probabilità di essere presenti nelle statistiche ufficiali sulla criminalità. Fatte queste doverose premesse, pensiamo sia comunque interessante notare che in quegli anni a venire maggiormente in contatto con l’istituzione carceraria fossero proprio i figli degli immigrati interni. I dati che sto per illustrare sono stati ricavati dagli archivi dell’Istituto Penale per i Minori Ferrante Aporti di Torino dove sono stati registrati tutti gli ingressi nell’istituto di pena, dal 1° gennaio al 31 dicembre 1979. I dati sono stati rilevati dai fascicoli dei ragazzi entrati nell’Istituto durante questo intervallo di tempo. Di norma in quell’anno entrano nell’Istituto di pena i soli ragazzi maschi arrestati in Piemonte o in Valle D’Aosta. All’epoca, gran parte dei ragazzi varca le soglie del carcere a seguito di arresto operato dalle forze di polizia in flagranza di reato, dunque prima dell’intervento di un magistrato. Le statistiche penitenziarie che sto per presentare sono, dunque, differenti da analoghe statistiche italiane odierne, perché diversa era la procedura penale1. Ho scelto l’anno 1979 per due motivi: il primo perché in quell’anno molti dei figli degli immigrati interni da me studiati hanno raggiunto l’età tra i quattordici e diciotto anni2; il secondo perché sono di quell’anno i fascicoli più vecchi presenti nell’archivio del carcere. I dati che ho potuto ricavare da ciascun fascicolo sono: la data e la città di nascita dell’arrestato, il luogo di residenza, il titolo di studio, il mestiere, la data di arresto e di scarcerazione ed il reato per il quale il ragazzo è stato incarcerato. Inoltre, cosa importante, sono riuscito a ricavare l’origine di uno dei due genitori. In molte fonti statistiche, spesso le seconde generazioni di immigrati interni rimangono “nascoste” in quanto non è possibile risalire al luogo di nascita dei genitori: tuttavia nei casi da me esaminati è stato possibile ottenere questo dato grazie ad un documento, presente all’interno di ciascun fascicolo, in cui vengono riportati i dati anagrafici del genitore al quale è stato affidato il minore rilasciato. Oltre a questi dati ricavabili per tutti gli arrestati, spesso dai fascicoli è stato passibile desumere qualche informazione aggiuntiva sul ragazzo grazie ad altri documenti: il verbale di arresto delle forze di polizia giudiziaria o il mandato di cattura del pubblico ministero, eventuali rapporti disciplinari, talvolta una scheda biografica redatta dai servizi sociali e, nei casi più gravi, la sentenza di condanna. Veniamo dunque all’analisi dei dati, cominciando col dire che il totale degli ingressi in quell’anno è di 621, ricordando che, quando parliamo di ingressi, non ci riferiamo ai singoli individui, per cui un minore entrato più volte nel corso dell’anno viene considerato tante volte quanto sono i suoi ingressi. Iniziamo col dire che esiste una correlazione progressiva tra età e numero di ingressi. Con l’aumentare dell’età aumentano gli ingressi e le fasce di età più presenti all’interno della struttura sono quelle relative ai sedici e ai diciassette anni, le quali rappresentano il 66,5% degli ingressi totali. Al netto dei recidivi abbiamo 547 ragazzi entrati nell’Istituto nel corso dell’anno, con 57 ragazzi che sommano più ingressi. La maggior parte dei recidivi totalizza due ingressi nell’anno, anche se non mancano gli ingressi multipli: tra i casi limite segnaliamo un ragazzo nomade iugoslavo che colleziona sei ingressi in un anno e due ragazzi italiani che ne collezionano quattro. Non sappiamo invece se qualcuno degli arrestati nel 1979 sia già stato arrestato negli anni precedenti. 1 In Italia il nuovo codice di procedura penale è entrato in vigore nel 1989. Articolo 98 Codice Penale. È imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità d’intendere e di volere; ma la pena è diminuita. 2 193 RAPPORTO SECONDGEN Per tutti i dati che riportiamo nelle tabelle qui di seguito abbiamo sempre considerato una sola volta il ragazzo che ha effettuato più ingressi in un anno ad eccezione della tabella sui reati. Circa la residenza dei ragazzi, quasi la metà dei ragazzi arrestati proviene da Torino città (45%), dove sembra concentrarsi maggiormente la devianza minorile, o dove questa viene più severamente sanzionata. Ad incidere su questo dato ci potrebbe, infatti, essere un atteggiamento diverso da parte delle forze dell’ordine in Torino città, rispetto alle realtà di paese. A seguire, ai primi posti di questa classifica si collocano alcuni paesi della cintura torinese, dove molti immigrati interni sono andati ad abitare. Segnalo, ad esempio, che i diciassette ragazzi di Settimo Torinese sono tutti di origine meridionale. I ragazzi di Rivoli provengono invece quasi tutti da edifici di edilizia popolare; la relazione dei servizi sociali su uno di loro dice: “Il ragazzo vive in un quartiere di case popolari alla periferia di Rivoli, fuori da ogni contesto culturale e sociale, dove quotidianamente si verificano episodi di devianza. Alla luce delle esperienze fatte dal minore si comprende come fosse quasi inevitabile il suo inserimento in gruppi di giovani con tendenze devianti; gruppi che hanno avuto un ruolo quasi determinante nell’avviarlo ad un certo tipo di vita da cui Vincenzo non riesce a sottrarsi da solo, seppure in un certo modo si renda conto di dovere uscire”. Di un altro ragazzo di Rivoli i servizi sociali scrivono: “Un altro elemento positivo è costituito senz’altro dal fatto che i genitori del minore sono arrivati alla decisione di tornare al loro paese di origine per sottrarlo all’ambiente estremamente negativo in cui vivono adesso, un ambiente di violenza e di abbandono sociale e culturale costituito da un agglomerato di case popolari alla periferia di Rivoli, dove quotidianamente si verificano episodi di violenza”. L’invito a tornare al paese di origine torna spesso nella letteratura, già negli anni Venti il celebre esponente della Scuola Sociologica di Chicago W. I. Thomas riportava una sentenza, nella quale il giudice scriveva di una ragazza figlia di immigrati: “Penso che ci siano scarse possibilità di adattarla ai costumi americani. […] Sento che il suo Paese è il posto migliore per lei e che lì sarà molto più adatta a vivere una vita normale e dritta, con i vincoli della sua famiglia e delle relative norme per aiutarla, che non qui.” (Thomas, 2012: 143 ) Quale era, invece, l’origine dei ragazzi arrestati e residenti a Torino? Per stabilire l’origine regionale del ragazzo ho fatto riferimento alla regione di nascita di un genitore. Nel caso in cui non sia stato possibile risalire all’origine del padre o della madre, pochi casi in percentuale, abbiamo considerato la regione o la città di nascita del ragazzo. Tabella 2. Origini dei ragazzi presenti nel carcere minorile Ferrante Aporti e residenti a Torino nel 1979. Origine Sud e isole Torino e prov. Piemonte Nord - est Altra origine Totale Numero 192 30 7 7 12 248 Percentuale 77,4 % 12,0 % 02,8% 02,8% 04,8% Come si può vedere dalla tabella 2, il 77,4% dei ragazzi arrestati e residenti a Torino ha un’origine meridionale. Bisogna inoltre tener presente che una buona parte di questi giovani è nata nel Sud Italia: potrebbero essere le cosiddette “generazioni uno e mezzo”, ovvero nate in un luogo ed emigrate in un altro in tenera età. È però anche possibile che molti di questi ragazzi siano solo nati in Meridione, nonostante entrambi i genitori si fossero già trasferiti stabilmente al Nord. Esisteva, infatti, l’usanza da parte di molte madri meridionali di andare a partorire nel paese d’origine per avere il supporto dei parenti o anche semplicemente per ragioni affettive: “anche mio figlio è nato al mio paese”. Se sommiamo ai meridionali il quasi 3% di ragazzi che hanno un’origine del Nord-Est, scopriamo che gran parte di questi ragazzi del Ferrante Aporti hanno una storia migratoria di lungo raggio alle spalle. Di contro, i figli dei piemontesi (Torino e provincia inclusa) rappresentano solo il 14,8% del totale. Bisogna tener presente che, al censimento del 1981 e nella fascia di età 14-17 anni, i ragazzi di origine piemontesi tra i residenti a Torino sono il 34,01%, mentre i meridionali (nati al Sud e Isole o nati a Torino da genitori meridionali) sono il 54,07% della popolazione. (Elaborazione su dati SLT - Studio Longitudinale Torinese per il censimento 1981). In termini di odds ratio, dunque, i figli di meridionali hanno 2,9 volte più probabilità di essere incarcerati dei figli dei piemontesi. 194 RAPPORTO SECONDGEN Tabella 3. Residenza in Torino per quartieri dei ragazzi arrestati nel 1979. Quartiere Numero 32 Le Vallette - Lucento 28 Barriera di Milano 27 Mirafiori Sud 23 Centro 19 San Paolo 18 San Salvario -Valentino 12 Barca Bertolla Regio Parco 12 Mirafiori Nord 10 Aurora Rossini Valdocco 10 Pozzo Strada Crocetta - San Secondo - Santa Teresina 9 9 Parella 7 Lanzo - Madonna di Campagna 7 Vanchiglia - Vanchiglietta 6 Borgata Vittoria 6 Falchera - Rebaudengo 5 Campidoglio - San Donato 3 Millefonti - Nizza 3 Santa Rita 1 Lingotto - Mercati Generali 0 Borgo Po 0 Cenisia - Cit Turin 0 Madonna del Pilone 247 Totale Con la tabella 3 vediamo invece in quali quartieri risiedano i ragazzi di Torino, arrestati. Come era immaginabile, questi giovani provengono maggiormente dai quartieri periferici della città, abitati in prevalenza da immigrati. Anche nel 1977 - due anni prima - i quartieri che davano più ragazzi al carcere erano Vallette e Mirafiori Sud (il dato proviene da una ricerca condotta nello stesso anno presso il Tribunale per i Minorenni di Torino. È bene, ancora una volta, ricordare che le cifre segnalano anche processi di controllo da parte della polizia e più in generale delle autorità. Quindi non riflettono solo diversità di comportamenti dei ragazzi, ma anche differenze nei comportamenti delle forze dell’ordine, che sono probabilmente più presenti nei quartieri popolari. Inoltre molti di questi giovani sono più vulnerabili all’eventualità dell’arresto, a causa della loro intensa vita di strada e del fatto di passare molto tempo fuori casa e negli spazi pubblici. Anche a Milano i ragazzi entrati nel carcere minorile dal 1976 al 1980 provengono prevalentemente da quartieri popolari. Nel capoluogo lombardo le sette zone con il tasso più alto di ingressi nell’Istituto Cesare Beccaria rientrano nelle zone a preminenza operaia - abitati in quegli anni presumibilmente da molti immigrati interni - mentre tra le sette zone con i tassi inferiori se ne rinviene solo una a preminenza operaia (Gatti - Fossa - Lagazzi - Verde, 1988: 49). A Genova nel 1973 è stato rivelato che i quartieri ove il tasso di devianza giovanile è più alto sono quelli in cui si è verificata una più intensa immigrazione interna. Ad esempio i quartieri del centro storico e di Cornigliano, particolarmente colpiti dal problema del disadattamento e della delinquenza minorile, sono anche i due quartieri che si discostano in modo rilevante dagli altri per l’alto numero di immigrati (Bandini e Gatti, 1979: 188). Circa l’istruzione dei ragazzi risulta ampiamente documentata una relazione tra insuccesso scolastico e criminalità minorile (Bandini - Gatti - Marugo - Verde, 1991: 445). I nostri dati lo confermano: un ragazzo su tre ha raggiunto al massimo la licenza elementare e pochi hanno continuato dopo la scuola media. Segnaliamo, inoltre, che alcuni dei ragazzi frequentanti le scuole superiori sono stati arrestati durante manifestazioni di piazza o scioperi. Gli analfabeti sono invece praticamente tutti “nomadi” jugoslavi. A conferma di quanto appena detto sopra, si nota che soltanto 50 ragazzi su 547 sono studenti al momento dell’arresto. Più della metà di loro invece non studia e non lavora; non stupisce questo dato: infatti la maggior parte delle ricerche empiriche svolte in questo campo rivela una relazione tra criminalità ufficiale e disoccupazione. Sembra esistere una relazione di tipo circolare tra i due fattori: la disoccupazione induce alla 195 RAPPORTO SECONDGEN criminalità e questa conduce a sanzioni penali. A loro volta, queste ultime peggiorano l’inserimento nel mercato del lavoro e favoriscono perciò la disoccupazione (Ivi, p. 453). La stragrande maggioranza dei ragazzi nel 1979 entra nel carcere minorile di Torino a seguito di arresto operato dalle forze di polizia; dopo pochi giorni vengono poi scarcerati con la concessione della libertà provvisoria per scadenza dei termini, per perdono giudiziale o con una condanna, ma con il beneficio della sospensione condizionale della pena. Tabella 4 Reato dei ragazzi arrestati nel 1979 e presenti presso le carceri minorili Ferrante Aporti di Torino e Cesare Beccaria di Milano. Tipo di reato Torino Milano Contro la persona Omicidio volontario 4 2 Omicidio tentato 2 2 Omicidio preter. e colposo 0 0 Lesioni personali 11 5 Altri reati contro la persona 3 12 Totale contro la persona 20 21 Contro il patrimonio Furto 469 544 Rapina 64 87 Estorsione 10 5 Sequestro di persona 1 0 Danneggiamento 1 6 Ricettazione 12 36 Altri reati contro il patrimonio 3 1 Totale contro il patrimonio 560 679 Reati sessuali Violenza carnale 6 0 Atti di libidine 0 0 Atti osceni 0 0 Altri reati sessuali 0 0 Totale reati sessuali 6 0 Altri reati 13 14 Violenza res.oltraggio p.u. 0 0 Altri contro p.a. 7 6 Stupefacenti 46 45 Detenzione armi 0 0 Contro pers. Stato 1 0 Contro amm. Giustizia 0 0 Contro incolumita' pubblica 1 0 Contro la fede pubblica 0 0 Contro l'economia pubblica 0 0 Contrabbando 3 4 Associazione a delinquere 0 0 Altri contro l'ordine pubblico 0 13 Altri 771 668 Totale Nella tabella 4 possiamo vedere i reati commessi dai ragazzi reclusi nel carcere Ferrante Aporti di Torino; il numero totale dei reati è superiore agli ingressi, perché ci sono giovani arrestati per aver commesso più reati contemporaneamente. I reati vengono generalmente commessi in concorso fra due o più minori e talvolta anche con maggiorenni. Come si può vedere, il reato di gran lunga più comune è il furto: in modo particolare sembra essere molto diffuso il furto d’auto e il furto su auto (autoradio, ruote di scorta, pezzi d’auto). Numerosi sono anche i furti di motocicli, a seguire vengono gli scippi e i borseggi. Si finisce per essere arrestati anche per furti di poco valore: segnaliamo i casi di un arresto per il furto di un cappotto da un’auto e di un gruppo di ragazzi arrestati per aver sottratto alcuni gettoni da un autoscontro. Il furto in appartamento è 196 RAPPORTO SECONDGEN commesso quasi esclusivamente dai giovani iugoslavi senza fissa dimora; è curioso notare come i pochi italiani a commettere questo tipo di reato siano i ragazzi di via Artom. Il numero di rapine è invece nettamente inferiore rispetto ai furti: questo potrebbe essere dovuto all’età dei ragazzi (la rapina richiede quasi sempre uno scontro fisico violento) ed al fatto che le rapine portano maggiori sanzioni sia da parte del vicinato sia da parte della giustizia. Il terzo reato più diffuso è quello della detenzione di armi: si tratta generalmente di coltelli anche se non mancano le armi da fuoco. Segnaliamo che 10 dei 13 reati alla voce “altri” sono di guida senza patente: gli esecutori sono quasi sempre ragazzi sorpresi in flagranza alla guida di auto appena rubate. Abbiamo voluto, infine, comparare i reati commessi dai ragazzi detenuti presso il carcere minorile di Torino con quelli dei ragazzi detenuti nello stesso anno presso il carcere minorile di Milano. Come si può constatare, sia il numero sia il tipo di reati commessi è molto simile. [Per un’analisi dei dati milanesi si rimanda a (Gatti - Fossa - Lagazzi - Verde, 1988)]. Riassumendo, i ragazzi entrati all’interno del carcere minorile nel 1979 di Torino hanno in prevalenza un’origine meridionale ed una età compresa fra i sedici e i diciassette anni. Sono di gran lunga più numerosi i reati contro il patrimonio, in particolare i furti d’auto e i furti su auto. I ragazzi hanno in maggioranza un basso tasso di scolarità e sono disoccupati. La città di Torino è quella con il tasso di ingressi più alto rispetto al resto delle città della regione. Nel capoluogo piemontese, i quartieri con un numero maggiore di minori arrestati sono in prevalenza quelli periferici, con ampie zone di edilizia pubblica. 197 RAPPORTO SECONDGEN Riferimenti bibliografici Badino A., 2012 Strade in salita. Figlie e figli dell’immigrazione meridionale nel Nord, Carocci, Roma. Bajardi M., 1987 Guglielminotti B., Le mappe del disagio giovanile a Torino, Comitato permanente cittadino contro la droga e l’indifferenza, Torino. Bandini T., Gatti U., Marugo M. I., Verde A., 1991, Criminologia, Giuffrè Editore, Milano . Bandini T., Gatti U., Delinquenza giovanile, 1979, Giuffrè Editore, Milano. Bourgois P., 2005, Cercando rispetto, DeriveApprodi, Roma. Ceravolo F., M. Eve, C. Meraviglia, 2011, Migrazioni e integrazione sociale: un percorso a stadi” in Bianco M. L. (a cura di), L’Italia delle diseguaglianze, Carrocci, Roma. Cerbino M., Rodriguez A., La nazione immaginata dei Latin King: mimetismo, colonialismo, e transnazionalismo, in Queirolo Palmas L. (a cura di), Atlantico latino: gang giovanili e culture transnazionali, cit. Elias N., Scotson J. L., 2004, Strategie dell’esclusione, Il Mulino, Bologna. Emler N., Reicher S., 2000, Adolescenti e devianza, Il Mulino, Bologna. Ferraris V., 2012, Immigrazione e criminalità, Carocci Editore, Roma. Lareau A., 2011, Unequal Childhoods, California University Press, Berkeley . Lepoutre D., 2001, Cœur de banlieue. Codes, rites et langages, Odile Jacob, Parigi. Musso S., 2002, Lo sviluppo e le sue immagini. Un’analisi quantitativa. Torino 1945-1970 in Levi F. , Maida B. (a cura di), La città e lo sviluppo, Franco Angeli, Milano. Pugliese E., 2002, L’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, Il Mulino, Bologna. Queirolo Palmas L. (a cura di), 2010, Atlantico latino: gang giovanili e culture transnazionali, Carocci, Roma. Ramella F., 2013, Sulla diversità della famiglia immigrata. Note intorno a un dibattito americano sul vantaggio scolastico delle ragazze di seconda generazione in Quaderni storici n. 1. Sanga G., 1993, Gerghi in Sobrero A. (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo, la variazione e gli usi, Editori Laterza, Roma-Bari. Shaw C. R., McKay H. D., 1942, Juvenile Delinquency in Urban Areas, Chicago University Press, Chicago . Thomas W. I., 2012, La ragazza disadattata, Edizioni Kurumuny, Calimera. Fossa G., Gatti U., Lagazzi M., Verde A., 1988, Adolescenti in prigione. Una ricerca sul carcere minorile a Milano negli anni 1976 - 1985 in Rassegna di criminologia n. 19. Thrasher F. M., 1927 I ediz, 1966 II ediz., The gang, a study of 1.313 gangs in Chicago, The University of Chicago Press, Chicago. Viazzo P. P., 2004, Introduzione all’antropologia storica, Laterza, Roma-Bari. Willis P. E., 1977, Learning to labour, Saxon House, Farnborough. Whyte W. F., 1968, 1a ed. 1943, Street Corner Society, The University of Chicago Press, Chicago, trad. It. Little Italy, Editori Laterza, Bari. 198 RAPPORTO SECONDGEN RAPPORTO SECONDGEN Anatomia di un contesto “deviante”: reti e carriere di Fahmi e dei suoi amici Silvia Caristia Nel tentativo di indagare la collocazione sociale, le carriere scolastiche e lavorative dei figli degli immigrati in Piemonte, si è voluto dare spazio anche alla comprensione dei meccanismi sociali che potrebbero influire su percorsi devianti. Per pratiche devianti si intendono comportamenti, azioni e modalità d’interazioni che deviano dalle norme, dai valori e dagli atteggiamenti dell’ordine sociale dominante (Matza e Sykes, 1961) e per questo sono condannate (legalmente e/o socialmente): il consumo e di sostanze legali e illegali, i furti, le rapine, lo spaccio di sostanze, l’uso della violenza89. In questa sede, si vogliono presentare le storie di figli di immigrati coinvolti in attività illegali cercando di evidenziare il ruolo del capitale sociale nella società di arrivo nel plasmare stili di vita paralleli e non accettati come “normali percorsi d’integrazione”. È interesse dimostrare che non sia tanto l’origine sociale o etnico-nazionale della famiglia ad influenzare le carriere e i percorsi di integrazione e mobilità sociale. Piuttosto sembrano essere fondamentali le relazioni sociali in cui le famiglie si inseriscono all’arrivo e quelle che i giovani costruiscono durante la scuola dell’obbligo, ovvero prima di scegliere se accedere al mercato del lavoro o continuare con un percorso scolastico in vista di progetti futuri “più ambiziosi”. Si è cercato, quindi, di capire come la rete sociale in cui si inseriscono i figli degli immigrati influenzi e plasmi le loro carriere scolastiche e lavorative, il tempo libero e la scelta dei luoghi di socialità, le pratiche e, infine, le stesse interazioni sociali quotidiane e future. Note metodologiche La raccolta delle informazioni e delle storie dei giovani è avvenuta attraverso un approccio non-standard, utilizzando l’osservazione partecipante come principale strumento di studio della realtà. Al fine di poter conoscere giovani di seconda generazione non inseriti in circuiti ricreativi, culturali, educativi e sportivi istituzionali e con percorsi di vita “devianti” è stato contattato Fahmi90, un giovane marocchino conosciuto anni prima in occasione di una precedente ricerca etnografica sugli adolescenti di Barriera di Milano91, un quartiere storicamente operaio di Torino. Fahmi ha dato immediatamente la sua disponibilità nella ricerca di suoi pari che potessero rispondere alle finalità previste dal progetto di ricerca, amici e conoscenti di seconda generazione che frequentano il giardino dove lui passa gran parte del suo tempo libero nelle giornate di sole. L’osservazione ha inizio a settembre 2012 ed è stata conclusa a settembre 2013; gran parte del materiale è stato raccolto in modo sistematico tra maggio e settembre 2013. Fahmi, durante questi mesi, è stato fondamentale come mediatore con i potenziali informatori. Lui, infatti, ha occupato un ruolo fondamentale nel mediare l’entrata nel campo e nella costruzione del rapporto di fiducia con i giovani d’interesse. Sono stati due gli ostacoli più grandi incontrati: il tempo necessario per la costruzione del rapporto di fiducia e il “genere dell’osservatore”. Ovviamente il processo di costruzione della fiducia ha i suoi tempi, spesso molto dilatati quando si parla di attori “devianti” o semplicemente “svantaggiati” socialmente e/o giuridicamente92. La fiducia è stata costruita: attraverso pratiche riconducibili all’osservazione partecipante; rendendo “scoperta” l’identità e il ruolo professionale ricoperto dall’osservatore; attivando un atteggiamento empatico e normalizzante delle pratiche sociali devianti messe da loro in atto. Un altro ostacolo imponente è legato al genere dell’osservatore: essere una giovane donna sola che cerca di raccogliere storie di vita in uno spazio fisico (la strada) e sociale (il contesto deviante) non culturalmente e socialmente abitato dal genere femminile. Questo ha rallentando la raccolta delle 89 Tale definizione è adottata nel testo per il concetto di devianza o di pratiche devianti. Tutti i nomi degli informatori, giovani e non, incontrati sono nomi di fantasia. 91 Si rimanda al progetto di ricerca “Street Monkeys” svolto con la collaborazione del Dipartimento dell’Asl TO2 e dell’Associazione Gruppo Abele onlus (Centro Studi, Documentazione e Ricerche e educativa di strada che opera nel quartiere Barriera di Milano). 92 La fatica più grossa è stata quella di convincerli di non essere una poliziotta. In molti di loro la paura del controllo delle forze dell'ordine non è legata solo al fatto di essere "attori devianti" ma anche alla condizione di immigrato. Una condizione a volte denigrata dalle pratiche messe in atto dalle istituzioni deputate al controllo e al mantenimento dell' "ordine". Questo accade anche a giovani regolarmente presenti in Italia e che non attivano pratiche devianti, ma in virtù dell’ origine straniera e della loro frequenza abituale di alcuni luoghi noti come “luoghi dello spaccio e della microcriminalità” (Dal Lago e Quadrelli, 2003; Queirolo Palmas e Torre, 2005). 90 RAPPORTO SECONDGEN informazioni soprattutto nei primi momenti di osservazione, avvenuti inizialmente solo in presenza di Fahmi. Tuttavia, l’essere una donna sola non vista prima ha permesso di avvicinare questi giovani con molta facilità, anche con atteggiamenti tipici del corteggiamento adolescenziale (spesso erano loro che rivolgevano per primi la parola), sebbene molti sparissero senza “lasciare traccia”93 una volta compresi i fini professionali e non “sentimentali” della presenza sul campo. La raccolta delle informazioni è avvenuta partecipando alle loro discussioni, a volte stimolandole e altre volte assecondandole. Si è sempre tentato di rispettare la loro tendenza ad alternare l'uso dell'italiano e della lingua di origine come fosse una sola lingua, chiedendo una traduzione senza essere eccessivamente intrusivi e rispettando anche la volontà di escludere la ricercatrice da alcune conversazioni. La maggior parte delle informazioni sono state raccolte informalmente attraverso colloqui collettivi e individuali per lo più dettati dal caso (incontrare uno di loro da solo che è uscito di casa prima dell'appuntamento con gli amici, ad esempio). Tuttavia, anche quando è stata accettata l'intervista, difficilmente questa è stata registrata, così come difficilmente sono state raccolte informazioni sulle pratiche devianti in questi momenti di colloquio formale. Chi ha accettato di fare l'intervista spesso ha accettato in virtù dell'anonimato e dopo essere stato assicurato di non finire in prima pagina sulla stampa94, ma anche grazie alla solidarietà che questi giovani hanno nei confronti dei figli degli immigrati ora più giovani di loro o per la possibilità di raccontare finalmente agli italiani come loro stanno vivendo qui in Italia. Marocchini, ma non solo I giovani che si sono raccontati durante l’osservazione sul campo non sono nati in Italia da genitori stranieri, ma giunti qui tra i 7 e i 13 anni tramite ricongiungimento familiare. Nonostante non si possa propriamente parlare di seconde generazioni, sono tuttavia giovani arrivati durante la scuola dell’obbligo e che hanno subito, più che scelto e condiviso, il progetto migratorio iniziale dei genitori. Al momento dell’osservazione alcuni di loro hanno dato vita a progetti migratori distinti e diversi da quelli che li hanno portati in Italia, restando momentaneamente a Torino da soli o con i fratelli mentre i genitori sono tornati al paese di origine, e progettando a volte il proprio futuro in altri paesi europei. Di seguito presento i veri protagonisti della ricerca. I giovani di seconda generazione incontrati e conosciuti durante l’osservazione sono per lo più di origine marocchina, maschi, tra i 14 e i 30 anni. Tra i più e meno giovani di origine straniera incontrati presso il “giardino di Fahmi”95, quelli nati in Italia da genitori immigrati sono adolescenti o bambini con meno di 18 anni. Per questo motivo non si sono raccolte informazioni direttamente su di loro. Trascorrere diversi pomeriggi presso il Giardino anche senza la presenza e la mediazione di Fahmi ha permesso di conoscere e parlare anche con adulti e giovani adulti, magrebini e dell’Africa sub-sahariana, che lo abitano quotidianamente. I risultati di ricerca di seguito presentati si rifanno per lo più ai racconti di sei giovani dei quali sono state raccolte informazioni durante i colloqui informali e attraverso interviste semistrutturate. Le informazioni raccolte da altri abitanti del Giardino, di seconda o prima generazione, sono usate per delineare con più precisione il contesto sociale di vita dei protagonisti e per comprendere le loro carriere. Fahmi ha 20 anni, è nato in Marocco dove ha vissuto con sua mamma e i suoi due fratelli fino all’età di 13 anni. In Italia è arrivato con il ricongiungimento familiare richiesto dal padre, a Torino da diversi anni. Ho venti anni sono nato in Marocco a *** [città di 172.000 abitanti] e sono rimasto lì fino a 13 anni. Era venuto mio padre qua che ha fatto il carico familiare. A dire la verità non pensavo di venire qua, non avevo mai… hm, non ho mai sognato di venire in Italia! Quando sono arrivato, ho iniziato la seconda media [...] Non so, io stavo studiando in Marocco tranquillamente e solo che mio padre non gli piaceva la situazione che eravamo lontani da lui, ci chiamava solo per telefono, si sentiva solo e visto che lui era qui ha fatto il ricongiungimento familiare e siamo venuti [Fahmi, 20 anni]. 93 Sono molti i giovani che hanno dato subito la disponibilità all’intervista ma poi pochi quelli che hanno realmente speso parte del loro tempo libero raccontando la loro storia. 94 Esclusa l’ipotesi della “poliziotta in borghese”, la paura di raccontare la propria storia alla stampa emerge quando si comincia ad indagare sulla disponibilità all’intervista. Il fatto che questo emerga solo tra chi ha raccontato esplicitamente di aver attivato pratiche devianti porta a pensare che anche il giornalista sia evitato per tutelare l’“invisibilità” delle pratiche stesse. 95 Il nome del giardino è celato per la tutela e il rispetto della privacy dei suoi abituali frequentatori e per evitare processi ulteriori di stigmatizzazione di chi lo “abita”. Da qui in avanti sarà nominato “Giardino”. RAPPORTO SECONDGEN Il padre aveva lasciato il Marocco quando Fahmi era molto piccolo e i ricordi sul padre prima dell’arrivo in Italia sono legati a quei brevi periodi di vacanza quando tornava a casa. I genitori non hanno studiato nel paese di origine, il padre ha frequentato le 150 ore a Torino per prendere la licenza media, mentre la madre continua a non sapere né leggere né scrivere. Il padre in Marocco era muratore, mestiere che ha continuato come lavoratore dipendente in Italia, mentre la madre ha sempre fatto la casalinga, anche a Torino. Durante l’estate del 2013, Fahmi racconta che i genitori sono tornati in Marocco definitivamente: il padre ha deciso di aprire un locale nel paese di origine e tornare a “casa” con la moglie. Al momento del primo contatto con Fahmi, settembre 2012, i suoi genitori erano ancora a Torino e la famiglia viveva in un appartamento nei pressi di corso Giulio Cesare96, dove ora Fahmi vive con la sorella e il fratello. La sorella, di un anno più grande e con la qualifica da aiuto cuoco, lavora in modo saltuario anche in settori non coerenti con il suo titolo di studio; il fratello di un anno più piccolo, ha preso una qualifica presso l’Enaip e ancora nell’estate 2013 era l’unico che stava lavorando presso un’azienda torinese97. Al momento dell’intervista Fahmi, avendo la qualifica da operatore elettrico (CAD), stava per iniziare il quinto anno per prendere il diploma e diventare un tecnico. Nell’estate del 2013 Fahmi si è diplomato e dopo qualche mese di ricerca (novembre 2013) è stato preso con un contratto di tirocinio presso un’azienda che si occupa di installare cavi della rete ADSL. Un amico di Fahmi incontrato diverse volte durante l’osservazione è Mufeed, anche lui nato in Marocco. Mufeed ha più volte rifiutato l’intervista e quindi molte informazioni sono state raccolte durante i colloqui informali di gruppo a cui lui partecipava. Un giorno, Mufeed decide di raccontarmi la sua storia: mi chiamo Mufeed, ho quasi 20 anni, li compio a dicembre, sono arrivato in Italia a Torino nel 2006 con mia mamma e mio fratello, il secondo, raggiungendo mio padre. Ho tre fratelli, due maschi e una femmina, gli ultimi due sono gemelli e sono nati qui in Italia. Mio padre è venuto in Italia nei primi anni ‘90, è stato un paio d’anni poi è tornato in Marocco, ha sposato mia madre e sono nato io e poi mio fratello. Mio padre in Marocco aveva un bar, andava anche bene sai? Il problema è che lui spendeva quasi tutti i soldi nell’alcol, aveva il problema del bere e questo ci ha messo un po’ in difficoltà. Visto che il bar andava bene, un giorno si è messo in società con mio zio, suo fratello che era sposato con la sorella di mia madre. Allora andava mio zio a lavorare nel bar insieme a mio padre, ma lui beveva e aveva le mani bucate, spendeva tutti i soldi, così ha deciso di partire per venire in Italia. […] Mio padre ogni tanto tornava in Marocco ma lo vedevamo poco, finché siamo riusciti a venire qui anche noi. Io avevo 13 anni, mi sembra […] Quando sono arrivato mi hanno iscritto alla scuola qui [indica la scuola media affianco al Giardino], ho fatto le medie, ho preso la licenza […] Ora sto ancora andando a scuola, quest’anno devo prendere la qualifica come tecnico meccanico [Mufeed, 20 anni]. Ziyad si è avvicinato il giorno che sono riuscita a raccogliere la storia di Mufeed. Ziyad è nato in Marocco, ha 22 anni ed è a Torino da quando ne aveva 11 anni. Ziyad è un ragazzo chiacchierone, simpatico, molto intelligente, parla molto bene l’italiano senza accento straniero, non sembra marocchino, una caratteristica che sottolinea anche lui quando parla dei colloqui di lavoro. Ha il diploma da perito meccanico. Nell’estate 2013 Ziyad dice di essere disoccupato. Abed è un altro amico di Fahmi che non appena viene a sapere della ricerca si mette subito a disposizione. Impressionò la sua voglia di aiutare. Come con altri giovani, Abed alla fine accetta l’intervista formale grazie all’insistenza di Fahmi, anche se molte informazioni sono state raccolte durante colloqui “spontanei” di gruppo, come se la presenza degli altri lo mettesse più a suo agio. Lui stesso ha detto di essere un ragazzo riservato, che fatica a parlare in confidenza sulla sua vita privata anche con chi considera amici. Abed non ha voluto parlare di suo padre e ha esplicitato il fastidio che gli crea parlare della sua famiglia. Mi chiamo Abed, ho 19 anni, sono nato in Marocco, sono venuto qui in Italia… mi ha portato mia madre quando avevo 9 anni. Siamo venuti qua perché c’era mio zio, il fratello di mia madre, ho due fratelli che ora stanno in Marocco, sono più piccoli, uno di 4 anni e uno di 8 anni. In questo momento vivo da solo, mia mamma non sta più qua, ora è in Marocco con i miei fratelli. Mia mamma è venuta qua prima, mi sembra nel 1999, nel ‘98, sì credo di sì. Quando poi sono venuto io nel 2003, lei lavorava in una fabbrica di biciclette. Lei è venuta qualche anno prima e poi mi ha portato anche a me, io ero rimasto in Marocco con i nonni. Lei non è venuta subito a Torino ma a Milano, mio zio sta lì, in una città in provincia di Milano, mio zio stava lì prima di mia madre. Siamo arrivati qui a Torino, 96 Indicazione molto approssimativa per la tutela e il rispetto della privacy. Secondo il racconto di Fahmi, è riuscito ad entrare in questa azienda attraverso lo stage curriculare svolto prima di prendere la qualifica. Attualmente ha un contratto di lavoro sempre nell’azienda. 97 RAPPORTO SECONDGEN abbiamo cambiato casa perché mia mamma aveva perso l’altro lavoro e ne aveva trovato un altro a Torino… qui a Torino lavorava per un’impresa di pulizie, c’erano degli amici di mio zio che stavano qui e hanno detto che qui c’era un’impresa di pulizie che cercava donne per lavorare e siamo venuti cinque anni fa mi sembra… più o meno cinque, sei anni. I miei fratelli, tutti e due, sono nati qua [Abed, 19 anni]. Abed è arrivato a Milano ed è stato subito inserito nella seconda elementare, anche se aveva già frequentato quella classe in Marocco. Finite le elementari, sua mamma ha trovato lavoro a Torino e sono andati a vivere a pochi passi dal giardino, ha frequentato la scuola media del quartiere e dopo un percorso scolastico tortuoso durato circa tre anni durante il quale ha cambiato due scuole professionali, ha preso un attestato di frequenza del primo anno da elettricista. Al momento dell’intervista Abed dice di essere disoccupato da due anni. Rajab è un ragazzo di origine tunisina conosciuto tramite Fahmi in un giardino vicino, nei pressi di corso Vercelli, dove Fahmi è solito recarsi per comprare la marijuana da fumare “dai boss negri della zona” [Fahmi], ovvero da giovani adulti e adulti provenienti dall’Africa sub-sahariana dai quali si rifornisce per i suoi consumi personali e non solo. Anche Rajab è un abituale frequentatore del Giardino. Sono Rajab, ho 18 anni, sono nato in Tunisia. Mio padre è qui in Italia da circa venticinque anni, è venuto subito a Torino, qui c’erano due suoi fratelli che lavoravano. Io sono arrivato otto anni fa, avevo dieci anni, sono arrivato tramite ricongiungimento familiare. Quattro anni prima del mio arrivo in Italia, mio padre era riuscito a far venire qui mia madre e i miei due fratelli, quello più grande di 20 anni e quello più piccolo di 14. Io sono rimasto quattro anni in Tunisia con mia nonna, lì ho terminato la scuola elementare e poi sono venuto qui [Rajab, 18 anni]. Rajab ha fatto la scuola media a Torino e, al momento dell’intervista, aveva appena conseguito la qualifica da elettricista. Racconta di non aver più voglia di studiare e per questo di aver deciso di non prendere il diploma: vuole cominciare a cercare lavoro. Altri giovani magrebini di seconda generazione incontrati durante l’osservazione, dei quali tuttavia non si hanno complete informazioni personali, hanno caratteristiche biografiche simili: ricongiunti al padre con la madre e i fratelli in tarda infanzia/prima adolescenza, riorganizzazione della famiglia attraverso la migrazione, venuti ad abitare in una zona di Torino dove gli affitti sono accessibili (tra Porta Palazzo e il quartiere di Barriera di Milano), i genitori spesso hanno poca istruzione e a Torino si inseriscono nel settore dei lavori manuali non qualificati o semi-qualificati. Inoltre, la maggior parte di loro ha conseguito la licenza media a Torino nella scuola del quartiere che spesso coincide con quella che si affaccia sul Giardino. Qualcuno di questi ha interrotto gli studi senza conseguire il diploma o la qualifica (pochi non hanno conseguito nemmeno la licenza media) e tutti si stanno inserendo nel mercato del lavoro in modo precario, con difficoltà e spesso accumulando brevi esperienze in diversi settori manuali non qualificati (magazziniere, ristorazione, volantinaggio, edilizia) che non sempre coincidono con il titolo di studio professionale conseguito. Nessuno per ora si è inserito in modo stabile nel mercato del lavoro. Spazi fisici e sociali quotidiani: “il giardino e il quartiere sono casa mia” Il Giardino, conosciuto in altre zone limitrofe come “il giardino dei marocchini”, è un enorme piazzale cementificato e incorniciato da alberi lungo tutto il suo perimetro che si situa immediatamente oltre il confine sud-est del quartiere Barriera di Milano, a pochi passi da Porta Palazzo, a Torino. È abitato quotidianamente da differenti gruppi di popolazione che si danno il cambio o convivono più o meno pacificamente in base alle ore della giornata e alle condizioni metereologiche. Al mattino, nel periodo scolastico e nelle giornate fredde, il giardino è abitualmente frequentato da adulti e giovani adulti magrebini e dell’Africa sub-sahariana disoccupati, non sempre regolari e, a volte, impegnati in attività di spaccio. Nelle prime ore pomeridiane, molto meno nei mesi invernali, la popolazione cresce e si diversifica per poi tornare ad essere luogo privilegiato di aggregazione e di attività illegali nelle ore serali, anche se queste non si fermano durante le ore centrali del giorno. Le diverse popolazioni che vivono il Giardino danno vita a gruppi più o meno numerosi, flessibili e distinti sulla base dell’età, del sesso e dell’origine nazionale Ogni gruppo occupa quotidianamente un preciso spazio andando a sedersi quasi sempre sulle stesse panchine. Il Giardino si estende come un enorme rettangolo: in una prima metà vi è un parco giochi per bambini recintato che si situa al centro, nella seconda metà un grosso spiazzale di cemento con panchine ogni due, tre metri. Lungo tutto il suo perimetro vi sono altre panchine ogni cinque metri circa, intervallate da grandi alberi, e un passaggio che costeggia il suo perimetro, usato dagli abitanti della zona che portano a passeggio i propri cani. RAPPORTO SECONDGEN Il parco giochi è occupato, soprattutto nei periodi primaverili ed estivi, dalle mamme italiane e straniere con i propri bambini. Sul lato opposto, vi sono le panchine solitamente occupate da giovani e adulti dell’Africa sub-sahariana, quelle occupate da adulti magrebini, quelle del gruppo dei giovani marocchini tra i 20 e i 30 anni circa (anche di seconda generazione), quelle del gruppo dei marocchini di seconda generazione più piccoli, quelle solitamente occupate da anziani pensionati italiani. Le panchine poste sul lato del parco giochi sono occupate da popolazioni differenti: a volte dalle mamme che accompagnano i figli o da qualche spacciatore “solitario”. Diario etnografico: 7 marzo 2013, ore 14.30 Faccio un giro dei giardini e dell’isolato, fuori per strada ci sono solo giovani per lo più magrebini, qualche giovane dell’Africa sub-sahariana seduto sulle solite panchine vicino alla scuola, qualche mamma e un gruppetto di giovani (penso rumeni) al parco giochi con i bambini, qualche anziano che passeggia e scambia due chiacchiere. Dal lato della scuola ma dalla parte opposta al gruppo degli africani, tre adulti, sembra del nord Africa, con aria malandata. Mi siedo su una panchina vicino al parco giochi, apro il mio libro e leggo mentre aspetto. Verso le 15.00 arrivano un gruppetto di adolescenti italiani e marocchini di 13 anni circa che cominciano a giocare a pallone usando come porta proprio quei due alberi davanti a me… io li guardo e sapendo di essere presto vittima dello sbaglio del portiere, mi sposto più in là. Lo spazio pubblico di questo giardino urbano ospita gruppi di popolazioni differenti che ne fanno un uso sociale diverso a seconda dei propri interessi. I bambini lo vivono come gioco, le mamme come luogo di socializzazione e di divertimento per i figli, gli adolescenti e i pensionati come luogo di aggregazione e socializzazione, qualche giovane e giovane-adulto come luogo di affari e, in generale, gli abitanti della zona come luogo di passaggio o di passeggio. Il dover condividere lo stesso spazio con chi dà a questo un diverso significato, può portare a conflitti più o meno manifesti. Dall’osservazione sono emersi due tipi di conflitti spesso letti dai giovani incontrati in termini di conflitti etnico-nazionali; tuttavia, entrambi sono conflitti che nascono per usi differenti dello stesso spazio pubblico. Diario etnografico: 26 marzo 2013, ore 14.00 Sono le 14.00 circa, faccio un giro per i giardini. Non c’è nessuno, vuoti. Mi incammino verso corso Giulio e vado verso il famoso bar della cinese. All’angolo mi fermano due giovani magrebini che mi chiedono se ho una sigaretta. Gli dico che fumo tabacco e se vogliono gliene avrei lasciato un po’. Loro accettano e mi chiedono anche se volessi comprare dell’hashish. Gli ringrazio e gli dico di no… e uno di loro “e… con questa crisi si smette di fumare!” e l’altro “ma fuma tabacco!” e il primo “sì ma costa meno!” io sorrido, lascio loro tutto il pacchetto di tabacco che stava finendo, ci saranno state due sigarette dentro. Loro me lo ridanno dicendo che son gentile ma di tenermelo dato che era alla fine. Io gli dico “nessun problema, ne sto andando a comprare un altro”. Entro in tabaccheria e poi vado verso il bar, entro per un caffè ma ci sono solo adulti. Prendo un caffè ed esco un po’ triste. Mi incammino verso i giardini dove avevo lasciato la macchina ed ecco che su una panchina incontro i due magrebini di prima che si erano appena girati una grossa e ricca canna. Hanno difficoltà ad accendere, così ridendo gli dico “avete bisogno anche dell’accendino?” “sì grazie!”… glielo porgo, accendono e me lo ridanno. Mi invitano a sedermi lì con loro. Io mi siedo e comincio a scambiare due parole con loro. Dicono di essere egiziani, non marocchini e sembra che ne vadano fieri perché dicono che qui i marocchini hanno una brutta reputazione, anche se i cattivi si trovano in tutto il mondo. Sono in Italia da un anno, sono disoccupati adesso anche se uno fa il muratore e l’altro il decoratore. Il problema è che nel periodo invernale non lavorano perché, a causa del freddo, c’è meno lavoro. Così cercano di vivere spacciando un po’ di hashish, facendo i commercianti al dettaglio. Diario etnografico: 9 maggio 2013, ore 16.30 Arrivo ai giardini alle 16.30, faccio un giro veloce e noto che ci sono sempre i soliti tre uomini adulti magrebini seduti sulla solita panca e due giovani più giovani, sempre magrebini, seduti su una panca vicina. Non li avevo visti prima. Mi incammino in direzione del parco giochi, finalmente pieno di vita: questa bella giornata di sole ha permesso ai più piccini di passare qualche ora all’aperto, mentre le loro mamme chiacchierano tra di loro e vigilano sui figli. Inoltre, non mancano i soliti padroni dei cani della zona che passeggiano lungo il perimetro dello spazio “verde” (per essere un giardino urbano, a mio parere c’è troppo cemento e poco verde, tipico degli spazi verdi nelle zone periferiche della città) con i loro “fedeli compagni”. Vicino al parco giochi, su una panchina vi è un gruppetto di quattro/cinque adolescenti che avranno 12/13 anni, mentre su un’altra panchina due giovani magrebini, uno di circa 40 anni, l’altro sicuramente ventenne […] il più giovane mi chiede una sigaretta, io rispondo che ho il tabacco e lui accetta dicendo “va benissimo anche il tabacco!”. Mentre gli passo il tabacco, l’uomo seduto accanto a lui, un magrebino sui 40 anni e più, tira la mano fuori dalla tasca e mi fa vedere un 5 g circa di hashish “Ne vuoi?” mi chiede, “No, grazie!” rispondo io. Mette l’hashish in tasca e mi chiede se può farsi anche lui una sigaretta “Certo!” gli dico sorridendo, “oggi offri tu, domani ti offriamo qualcosa noi! Ma siediti un po’ qua!” mi dice il più giovane. RAPPORTO SECONDGEN Il primo conflitto è quello che nasce tra anziani e giovani adolescenti. Il fatto che i confini intergenerazionali in questo caso coincidano con quelli etnico-nazionali, porta i giovani interessati a leggere questo conflitto in termini di rapporti “etnici”: “quei vecchi lì seduti, italiani, ci guardano male perché siamo stranieri e ora guardano male anche te perché stai con noi”. Il secondo conflitto invece contrappone la popolazione residente ai giovani adulti di origine straniera che attivano pratiche devianti (spaccio e altre attività micro-criminali) e di controllo territoriale, soprattutto quando cala il sole. In entrambi i casi, il motivo dello scontro sta nei differenti interessi legati al contesto fisico e sociale del Giardino e a differenti percezioni dello spazio pubblico come luogo di opportunità d’azione e di costruzione di relazioni sociali. Interessi e percezioni differenti che creano “lo spazio della differenza”, ovvero quello spazio urbano che ospita apparizioni, azioni, rivendicazioni da parte degli attori che lo vivono e dal quale traggono possibilità di esprimersi (Colombo e Semi, 2007). Qualsiasi spazio, esistendo in virtù dell’azione sociale (Simmel), comporta una tensione nel processo di individuazione delle specifiche forme di interazione lì ammesse. In qualsiasi spazio, l’interazione sociale quotidiana basata su rapporti di potere stabilisce le cose che si possono fare, quelle che si devono fare e le forme del controllo dello spazio stesso: è l’esistenza di pratiche spaziali legittime che delinea i confini di quelle illegittime (ibidem, 2007). Nel primo conflitto, gli anziani che passano il loro tempo libero chiacchierando sulle panchine del Giardino si pongono come controllori dello spazio abitato quotidianamente mentre i giovani usano questo spazio come luogo privilegiato per dare forma ad una socialità “adolescenziale”. Da una parte, la visibilità delle pratiche dei giovani, come quella del fumare hashish e del consumo di alcolici, e la rumorosità delle loro conversazioni in lingua; dall’altra, la non comprensione dei linguaggi e delle forme di socialità adolescenziale porta gli anziani a non tollerare le pratiche “chiassose” dei più giovani, considerandole illegittime e inadeguate al contesto. L’incontro, e lo scontro, di questi due modi di vivere lo stesso spazio si manifesta con sguardi giudicanti e qualche mala parola da entrambe le parti. Gli anziani si sentono “disturbati” dalle pratiche degli adolescenti, mentre questi si sentono controllati dagli anziani. Infine, sembra emergere una tendenza a rivendicare la legittimità della propria presenza e dell’uso dello spazio fatto dal proprio gruppo, cercando di negare la legittimità delle pratiche spaziali messe in atto dall’altro gruppo. La negazione avviene etichettando l’altro come “piccolo criminale” che, illegittimamente, si esprime nello spazio pubblico con pratiche inadeguate al contesto (i giovani secondo gli anziani); oppure, come razzista che non tollera la presenza degli stranieri e si infastidisce per la loro presenza nel luogo pubblico (gli anziani secondo i giovani). Entrambi i gruppi rivendicano il potere e il diritto di definire cosa è legittimo o meno nello spazio del Giardino, luogo sentito da tutti come familiare e nel quale hanno sviluppato un senso di appartenenza. Anche nel secondo caso non è corretto parlare di conflitti etnico-nazionali anche se di nuovo i confini tra i gruppi in gioco coincidono. Da una parte ci sono gli anziani che vedono il giardino come luogo dove incontrarsi e prendere il fresco nei caldi pomeriggi estivi e che interpretano come legittimo un uso “normale” dello spazio pubblico, ovvero come un luogo di incontro e socializzazione, di passeggio e passaggio, di gioco e di divertimento secondo forme e regole accettate socialmente. Dall’altra parte, vi sono giovani adulti magrebini e africani che usano questo spazio per “fare affari” e “vivere la giornata”, definendo il Giardino come territorio di una socialità tra pari dove si mescolano opportunità aggregative e “professionali”. Diario etnografico: 30 maggio 2013 Arrivo ai giardini verso le 14.30, faccio un giro attorno con l’auto e appena trovo un posto all’ombra mi fermo. Subito si affianca una camionetta della polizia con una decina di poliziotti dentro e penso “adesso cosa vogliono da me?”… spengo l’auto mentre loro mi superano e parcheggiano davanti alla mia macchina. Dietro di loro c’era anche un jeep dell’esercito italiano con due militari dentro. Attraverso il giardino e vado verso il corso mentre i poliziotti e i militari si dividono in gruppetti verso i pochi giovani magrebini e africani (Africa sub-sahariana) che sono seduti a piccoli gruppi sulle panchine. Non mi fermo lì, non ho voglia di farmi controllare, portando i dread potrebbero fermarmi pensando a me come una cliente degli spacciatori del posto! Mi dirigo verso il bar della cinese, prendo un caffè ed esco. Ritorno ai giardini, sono comunque curiosa di sapere cosa succede. Vado verso il parco giochi e su una panchina in fondo trovo seduto da solo Mufeed, uno dei giovani conosciuti la scorsa volta. Mi saluta, io lo saluto, gli chiedo “come va?” “bene, grazie!” risponde lui sorridendo “e tu?” “bene, bene!”. Racconta che stava andando alle solite panchine quando sono arrivati i poliziotti e per evitare controlli si è fermato lì. Gli chiedo se posso sedermi lì con lui, lui acconsente e ne approfitto per farmi spiegare il motivo della presenza delle forze dell’ordine. Lui mi racconta che ultimamente stanno sempre passando il pomeriggio presto, o di mercoledì o giovedì, per fare controlli perché la gente del posto si lamenta per la presenza di giovani che fumano e di spacciatori, così fanno vedere che ci sono. “ma non fanno niente sai? Controllano i documenti e si caricano chi non li ha, normalmente fanno così, quando RAPPORTO SECONDGEN vengono con la camionetta però è perché si portano via qualcuno senza documenti e lo rimandano in Africa!” lo dice con una normalità come se la presenza della polizia, i controlli e i rimpatri fossero all’ordine del giorno! Non sembra essere preoccupato, come se sapesse che su quella panchina al lato opposto dello stesso giardino ora controllato, la polizia non sarebbe mai venuta. “e tu hai paura che sei rimasto qui?” chiedo con discrezione “no, non mi fanno paura. Mi hanno fermato tante volte! È che non ho i documenti perché sto aspettando il rinnovo del permesso di soggiorno! Se mi fermano, prendono il mio nome e controllano chi sono e che cosa ho fatto, di chi sono figlio e basta! Meglio però stare qui!” Il luogo di arrivo in Italia, e in particolare in Torino, è fondamentale nel plasmare le carriere future dei giovani di seconda generazione e nel riprodurre diseguaglianze nel momento in cui i confini territoriali dei quartieri, o di parte di questi, coincidono con quelli socio-economici. In particolare, importante è il contesto sociale di “partenza” nella società di arrivo (Ceravolo, Eve e Meraviglia, 2001). A Torino non si può parlare di processi di ghettizzazione etnico-nazionale, così come è avvenuto in molte altre città europee meta di immigrazione esterna antecedente alla realtà italiana e torinese. Tuttavia, il mercato della casa e la politica dell’edilizia pubblica stanno favorendo processi di concentrazione spaziale degli stranieri in alcune zone più o meno periferiche della città. Chiunque passi da Porta Palazzo o dal cuore del quartiere di Barriera di Milano non può non notare una moltitudine di colori, suoni e lingue diverse nelle persone che abitano queste zone: basterebbe semplicemente soffermarsi a leggere i campanelli dei condomini. Molti giovani incontrati durante l’osservazione dichiarano di abitare nei pressi del Giardino fin dal primo arrivo in Torino e di essere entrati nel suo spazio sociale poco tempo dopo perché attirati dall’elevata presenza di coetanei connazionali. Il Giardino e la scuola media affianco si presentano dunque come i primi luoghi sociali di approdo nella società di arrivo, offrendo loro possibilità relazionali e di inserimento nel nuovo contesto di vita. Tutti i giovani raccontano che le prime conoscenze sono avvenute in Giardino e a scuola, tuttavia da quasi tutti emerge un’immediata presa di distanza dalla scuola come luogo in cui sono riusciti a costruire legami con coetanei che vadano oltre il suo contesto. Dopo le prime esperienze negative a scuola, tutti hanno sperimentato la facilità di inserimento e adattamento al nuovo contesto di vita socializzando e imparando norme e valori sociali, pratiche di vita quotidiana, gusti, stili di vita e preferenze da connazionali incontrati nello spazio pubblico. I motivi che spingono questi giovani a limitare i rapporti con i compagni di scuola al contesto scolastico sono legati alla classe d’inserimento, alla difficoltà linguistica e al senso di estraneità che provano in mezzo a coetanei italiani o stranieri in Italia da molto tempo. Innanzi tutto, il fatto che spesso i giovani stranieri ricongiunti siano inseriti in classi inferiori rispetto all’età che hanno, li costringe a doversi relazionare con giovani più piccoli di uno, due, tre anni in un momento, l’adolescenza, in cui piccole differenze di età implicano esperienze molto diverse. Il problema linguistico è un altro fattore che emerge dai loro racconti, e che in parte è legato al senso di estraneità provato. Come sottolinea Colombo (2005b), l’italiano si configura fin da subito come la lingua delle istituzioni, della scuola e delle relazioni occasionali e superficiali mentre la vita quotidiana, del piacere e delle relazioni amicali e intime è «vissuto attraverso l’utilizzo della lingua madre» (Colombo, 2005b, pag. 91). La mancanza di momenti extrascolastici con chi si conosce a scuola favorisce contesti sociali dove la lingua di origine rappresenta il collante più forte, almeno inizialmente. Io: Quindi gli amici che hai conosciuto all’inizio erano di origine marocchina? Fahmi: Sì perché non parlavo la lingua e cercavo quelli che parlavano la mia lingua, con cui sapevo esprimermi perché con quelli italiani, uscivo con loro, con quelli che andavo a scuola dello stesso quartiere, sai la scuola era vicina a casa nostra, uscivamo dal viale e io mi sedevo con loro e ridevano e io dicevo nella mia mente “ma per cosa ridono, per cosa ridono!” cè, ti senti strano, ti senti uno straniero in mezzo a loro, però dopo che hai imparato la lingua sai, inizi anche a capire delle cose. Io: Quindi all’inizio ti sentivi a tuo agio con i tuoi connazionali, con cui riuscivi a comunicare? Fahmi: Sì, parlavano la mia lingua [Fahmi, 20 anni]. Quando sono arrivato in Italia, mia mamma mi ha detto “vai in giardino, così conosci qualcuno!” e sono andato e mi è piaciuto subito, c’erano tanti marocchini, va beh, non sono connazionali ma con loro riuscivo a comunicare almeno! [Rajab, 18 anni]. Pertanto, il giardino si configura come il primo luogo di costruzione di reti sociali con alcune caratteristiche tipiche degli spazi pubblici periferici urbani, almeno dal punto di vista socio-economico98. 98 Cfr. analisi a pag. 189 RAPPORTO SECONDGEN Il Giardino si presenta come il luogo privilegiato dai nuovi arrivati in quanto offre una socialità centrata sulla comune appartenenza nazionale, linguistica e, spesso, sulla comune esperienza di migrazione. Al Giardino si conoscono coetanei connazionali, e non, che con il tempo diverranno amici o rimarranno semplicemente conoscenti. Nonostante oggi vi siano precise ubicazioni spaziali proprie di ogni gruppo, è frequente anche osservare la compresenza in uno stesso gruppo di panchine di marocchini e originari dell’Africa sub-sahariana, di grandi e piccoli. Questo aspetto è importante perché gli abituali abitanti del Giardino si conoscono tutti, spesso per nome, e il fatto di condividere, anche se in zone separate, lo stesso spazio del giardino porta i diversi gruppi ad entrare in relazione - passandosi semplicemente una “canna” – e quindi, a scambiare informazioni, conoscenze, esperienze. Inoltre, a differenza dei luoghi strutturati, lo spazio pubblico è aperto allo scambio, all’incontro e allo scontro di informazioni, modelli comportamentali e valoriali, credenze, preferenze e gusti diversi, ovvero di parte del frame culturale che sostiene e legittima l’azione. Tuttavia, i processi di emulazione e apprendimento che si attivano nello spazio pubblico usato come luogo di aggregazione informale, prendono forma da interazioni asimmetriche dove la distanza generazionale si presenta come ciò che struttura i rapporti di potere e regola i processi stessi. Infatti, configurandosi come spazio pubblico aperto a tutte le età, il giardino si presenta come un luogo privilegiato di insegnamento e apprendimento di pratiche di “sopravvivenza” quotidiana, dove i più piccoli emulano i più grandi osservandoli, mentre i più grandi insegnano e, nello stesso tempo, agiscono da controllo sociale nei confronti dei più piccoli. I trentenni sono un modello comportamentale e identitario per i ventenni, a loro volta modelli per i più piccoli. Sebbene i pre-adolescenti osservino quotidianamente pratiche sociali devianti e, pertanto, siano esposti già da piccoli ad un elevato rischio di emulazione e di apprendimento di “tecniche alternative di sopravvivenza”, tuttavia questi sono nello stesso tempo protetti e controllati dai più grandi. Il controllo si attiva con la segregazione spaziale dei gruppi d’età, dove i più grandi impediscono ai piccoli di sedere sulle stesse panchine: i bambini sono in questo modo esclusi dai discorsi dei più grandi, non ricevono informazioni e non vedono direttamente gli scambi che prendono forma tra gli adolescenti e i giovani adulti. Così, i più piccoli continuano a usare lo spazio del giardino come luogo nel quale giocare a pallone con i coetanei, anche se è possibile che presto cambino anche per loro le forme del divertimento, oltre alle modalità dell’uso dello spazio stesso. Dalle storie dei giovani incontrati emergono due trasformazioni legate all’uso sociale dello spazio del Giardino e come questo viene da loro percepito. Cambiamenti legati alla crescita (adolescenza), ma nello stesso tempo appresi in Giardino osservando i più grandi. Da una parte si trasformano le forme del divertimento, passando dal gioco al divertimento basato sullo stare sulle panchine a raccontarsi la giornata e a sperimentare le prime alterazioni psichiche consumando alcolici e cannabis. Le nuove forme di divertimento e di socialità con i pari sono accompagnate da una diversa percezione del giardino: dallo spazio urbano protetto dal traffico per giocare a pallone, allo spazio protetto dagli sguardi inopportuni per “sballare con gli amici”. Più avanti, lo stesso spazio può essere oggetto di un’ulteriore trasformazione, assumendo un significato professionale oltre a quello ludico-ricreativo, uno “spazio dove si possono fare affari” con pratiche devianti. Ecco che, giorno dopo giorno, i nuovi arrivati si inseriscono in questo spazio di aggregazione informale costruendo le prime reti sociali che, per qualcuno, rimarranno le uniche per molto tempo. È in questa cerchia sociale che i giovani si integrano e si “acculturano”, imparando le norme e i valori sociali che regolano la vita quotidiana di chi parte svantaggiato, oltre alle strategie di neutralizzazione dello svantaggio iniziale99. Oltre alla scuola, alcuni di questi giovani sono passati almeno una volta da uno spazio di aggregazione formale e strutturato, come l’oratorio o un’associazione sportiva. Quando parlano di quelle esperienze, emerge da una parte la loro difficoltà a stare in posti strutturati, ad accettare le regole di questi luoghi e l’autorità degli adulti che li gestiscono; dall’altra, la rigidità delle norme e dei criteri di accesso a questi spazi e l’incapacità degli educatori a interagire con chi “devia” dalla norma socialmente accettata, preferendo la via dell’esclusione. Diversi giovani incontrati in strada tra Porta Palazzo e Barriera di Milano raccontano di essere stati cacciati dagli oratori o dalle associazioni sportive. La difficoltà a rispettare ed accettare le norme sociali e le regole dei luoghi strutturati è legata all’abitudine nel frequentare uno spazio sociale, quello della “strada”, nel quale le norme e i modelli veicolati, e appresi, sono “devianti” rispetto alle norme che regolano l’accesso e l’uso degli spazi strutturati. Le 99 Si rimanda a pag. 219. RAPPORTO SECONDGEN norme sociali e i modelli a cui sono socializzati in strada appaiono più accattivanti perché offrono visibilità e occasioni d’interazione facilmente accessibili, lasciando margini di scelta più ampi nei processi di individuazione e identificazione (costruzione dell’identità). Inoltre, in strada le compagnie sono scelte e i legami non sono imposti dalla condivisione di uno spazio chiuso comune (come l’oratorio o la scuola) o di un’attività del tempo libero (come uno sport). Nonostante la capacità d’influenza dei pari non si esprima in modo assoluto e totale, ma ogni ragazzo tenda a privilegiare dei legami come vettori d’influenza (Bidart, 2010), la pressione dei pari assume comunque un ruolo importante soprattutto in un periodo in cui si è alla ricerca di un proprio posto nella società. Un momento della vita, l’essere giovane, in cui è fondamentale il micro-mondo dei pari come spazio in cui articolare i propri ruoli sociali (ibidem, 2010). In questo caso i pari che agiscono da vettori d’influenza, non sono coetanei che frequentano quotidianamente l’oratorio e conoscono le “regole dello stare” in luoghi di questo tipo, ma sono giovani conosciuti in strada e che interagiscono secondo altri modelli e norme sociali. Il tentativo “fallito” di accedere a luoghi strutturati del quartiere li spinge ad auto-escludersi: sono esclusi in quanto portatori di un’alterità irriducibile che si manifesta con la “devianza” dalla norma socialmente accettata nel luogo strutturato, come se fossero portatori di norme e modelli comportamentali “inconvertibili” e “immodificabili” (cultura percepita come essenza anziché come processo); si autoescludono andando alla ricerca di spazi fisici e sociali accoglienti, attraenti e nei quali imparano ad identificarsi. Fahmi un giorno raccontò di quando era più piccolo e andava all’oratorio con un gruppetto di suoi coetanei connazionali conosciuti al giardino, tra i quali vi era Mufeed. Da lì furono cacciati perché avevano rubato delle merendine, il giorno dopo tornarono e furono di nuovo invitati ad andarsene, così tornarono il giorno dopo ancora finché non tornarono più. Fahmi ammette tuttavia di essere ritornato più volte perché era con un gruppetto di amici: da solo non avrebbe ritentato100. Un altro ambito dal quale questi giovani marocchini si sentono esclusi e, pertanto, tendono ad autoescludersi, sono i luoghi del divertimento notturno giovanile torinese. Molti di quelli intervistati e incontrati, sia nel contesto del Giardino sotto osservazione sia fuori dai suoi confini101, raccontano di essere discriminati e percepire una forma di razzismo quando tentano di raggiungere alcune discoteche e 100 Il fatto che siano stati esclusi dall’oratorio non è un caso. Infatti in molti contesti urbani gli oratori sono ancora oggi gli unici luoghi strutturati e “controllati” che offrono alternative alla strada per bambini e adolescenti. 101 La ricerca ha permesso di entrare in contatto anche con giovani marocchini di seconda generazione cresciuti nell’hinterland torinese (Safy è uno di questi) e in un piccolo paese di provincia a circa 50 km da Torino. Molti di loro hanno dei legami con Torino e in particolare con la zona di Barriera di Milano e Porta Palazzo perché vi hanno vissuto o perché attirati in questi luoghi per motivi di consumo legale (mercato di Porta Palazzo) e illegale (per lo più sostanze stupefacenti). Inoltre, raccontano di essere andati in passato a ballare nei locali del centro (Murazzi e Valentino) ma di essersi allontanati perché stigmatizzati o perché i gestori impediscono loro l’accesso. Safy: molti che vengono qua, che vedo che scippano… ai Murazzi, ai Murazzi! È da quello che so io un posto come questo non c’è in tutto il Piemonte, non ci sarà neanche in tutta Italia ed è ridotto uno schifo perché appunto, uno non può scendere, l’italiano c’ha paura della sua collana […] Io: Ma tu pensi di essere mai stato trattato diversamente perché c’è qualche tuo connazionale che ha fatto cavolate? Safy: Sì sì uh! Uh! Guarda io non sono il tipo che va in discoteca, però va beh quando c’era tutto il gruppo che andava in discoteca io andavo, non è che mi attaccavo come un coglione, a me bastava solo divertirmi, non mi facevano entrare a me! Io me la sono pure sentita dire che… uh! Alla Rotonda! Poi sono locali che a me non piacciono però boh! Rotonda… quasi tutte le discoteche… è successo due tre settimane fa che il mio amico è sceso ai Muri [Murazzi], io ero a casa, siamo scesi ai Muri, io e la mia amica non c’avevamo voglia, abbiamo preso minchia un ventino [20 euro] d’erba. Siamo tornati a casa, ci siamo fumati un paio di canne, lei si è messa a dormire, io mi sono messo lì! Il ragazzo cosa ha fatto? È ritornato a casa, mi ha trovato sveglio e mi fa “dai Safy scendi!” “dai” io faccio “no, non c’ho voglia” “dai scendi frocio, te lo sto chiedendo io” “va boh scendo!” andiamo alla Zoccola minchia, posto bellissimo [ironico] eh! Andiamo alla Zoccola, tanto a me che cazzo me ne frega, che io con un secchiello sono a posto [intende un recipiente di circa un litro di cocktail] che poi io neanche volevo bere perché avevo passato un paio di giorni un po’ letali… boh! Sta di fatto che vado là davanti “no, non puoi entrare!” “ah sì!” boh! Poi quando mi dicono ste cose io non sono uno di quello che “come minchia, non mi fai entrare!” io aspetto quando c’è il momento giusto chiedo di nuovo, con calma e tranquillità te lo dico di nuovo, tu mi dici di nuovo “no” io sono là muto a braccia conserte, zitto. Quando sono andato a chiederlo mi fa “eh non ti faccio entrare perché non possono entrare più marocchini! Scippano, scappano, vanno via” e io boh gli faccio “ma io che c’entro? Devo pagare per loro scusami!” lui fa “eh lo so, non è colpa tua!” e dai ancora con sta cosa che non è colpa mia, perché io devo pagare anzi io ti pago pure per entrare… costa 3 euro [Safy, 26 anni] RAPPORTO SECONDGEN alcuni locali del centro città. Molti di loro raccontano di non andare più ai Murazzi102 a ballare o perché viene negato loro l’accesso o perché percepiscono forme di discriminazioni legate ad una tendenza dei giovani autoctoni e dei gestori dei locali a stigmatizzare “il marocchin” presenti in questi luoghi come ladro e spacciatore. In questo caso lo stigma è in parte legato al basso status sociale veicolato, agli occhi degli osservatori (gestori, buttafuori e altri utenti dei locali), dallo stile di abbigliamento e dal tipo di compagnia (prevalentemente maschile). Processo che probabilmente non subirebbe un calciatore magrebino per la diffusione nel senso comune del mito pauperista dell’immigrato, ovvero l’idea che vi sia una relazione tra povertà e immigrazione e quindi se non sei povero non sei immigrato: la ricchezza sbianca (Ambrosini e Buccarelli, 2009); inoltre, per un’altra idea comunemente diffusa sulla presenza di una relazione tra criminalità e classi povere e popolari, idea strategicamente costruita all’interno del processo di criminalizzazione gestito dalla classe dominante (Cottino, Prina e Sarzotti, 1991). Ad ogni modo, anche per questi giovani la discriminazione, stigmatizzazione e violenza simbolica subita prendono forma non nei pochi contesti istituzionali a cui hanno accesso (come la scuola) ma nei luoghi pubblici di transito (bus, vie del centro città), di aggregazione informale e del divertimento giovanile (Queirolo Palmas e Torre, 2005; Queirolo Palmas, 2006a; Queirolo Palmas, 2006b). Io: Ma ad esempio vai a ballare ai Murazzi? Fahmi: No, ai Murazzi non ci vado più perché ti prendono per uno spacciatore o un ladro [Fahmi, 20 anni]. Se da una parte le storie di questi giovani fanno emergere una tensione tra esclusione e auto-esclusione da luoghi aggregativi, culturali e del divertimento, dall’altra emerge in loro una richiesta di inclusione che si manifesta in termini di “accessibilità” (Colombo, 2005a). Nei loro racconti prendono forma, in modo più o meno esplicito, rivendicazioni del diritto all’accesso a particolari contesti sociali, senza tuttavia che questo ingresso si presenti come piena partecipazione, condivisione degli obblighi di fedeltà o assunzione di responsabilità collettive. Si rivendica quindi il diritto a non essere bloccati sulla soglia, ma nello stesso tempo il diritto a scegliere i termini della partecipazione (le norme che regolano l’accesso) e dell’exit. Come evidenzia bene Colombo, la questione dell’inclusione è andata oltre la sfera pubblica e politicoamministrativa: oggi investe principalmente l’interazione quotidiana tra noi e loro (Ibidem, 2005a). La difficoltà di accedere ai luoghi strutturati, spinge i giovani incontrati a tornare sulla “strada” idealizzando questo spazio fisico e sociale come se fosse casa loro. Il giardino diventa un luogo sociale talmente familiare che più di uno ammette il senso di disagio e estraneità che prova quando è fuori dalla “sua zona”. Disagio legato in parte ad un senso di inferiorità riscontrato anche in altri, autoctoni o seconde generazioni, cresciuti in contesti simili e omogenei rispetto allo status socio-economico e culturale (Foote Whyte, trad., 2011). Senso di inferiorità legato alla consapevolezza di vivere in un contesto svantaggiato e di non riuscire a raggiungere il mondo sociale esterno. Probabilmente Chick, giovane italo-americano di Cornerville la cui storia è stata raccolta da Foote White a metà del secolo scorso, ha ragione quando in merito alla bassa autostima dice: «Penso che l’unica maniera per vincere quel senso di inferiorità sia di andare in giro e mescolarsi con altra gente, perché finché non ti senti amalgamato non riesci a perdere quella sensazione» (Foote Whyte, trad., 2011, pag. 105)103. L’accesso ad altri “mondi sociali” alimenta un circolo virtuoso nel momento in cui permette interazioni che insegnano modelli comportamentali e norme sociali adatte a produrre e riprodurre relazioni con mondi diversi, favorendo in questo modo la crescita della propria autostima. Ed è di nuovo lo stesso Chick che evidenza come abbia imparato a muoversi in mondi sociali esterni a quello di Cornerville dove è cresciuto, osservando e imitando tutto ciò che faceva una ragazza conosciuta in un contesto sociale altro. Fahmi: Tutti i giorni mi svegliavo e venivo qua direttamente senza saperlo, camminavo, arrivavo qua 102 Con i Murazzi del Po a Torino si identificano gli approdi e le rimesse delle barche localizzate sulla sponda del Po nel centro della città. L’origine del nome è legata ai margini (muri) costruiti nel XIX secolo per arginare il fiume e proteggere la città dalle sue piene. All’interno di questi margini vi sono dei locali che fino al secondo dopoguerra erano usati per il rimessaggio delle barche da pesca, convertiti in locali (per lo più notturni) per il divertimento giovanile con la riqualificazione degli anni settanta in seguito al progressivo abbandono della pesca a causa dell’inquinamento fluviale. Oggi, con il termine Murazzi a Torino e provincia si intendono i locali notturni del divertimento giovanile. 103 Lo stesso senso di inferiorità è emerso in molti giovani adolescenti di Barriera di Milano incontrati durante la ricerca Street Monkeys, già citata. RAPPORTO SECONDGEN Ragazzo marocchino sui 30 anni: No, ma anche se sei fuori, per esempio sei a Milano, non vedi l’ora di tornare per venire qua, veramente! Fahmi: Non si sa perché! Ragazzo marocchino sui 30 anni: Perché siamo abituati, trovi gente che conosci, ti sei già ambientato qui in questo posto Fahmi: È il nostro habitat Ragazzo marocchino sui 30 anni: Questa è la favelas di Torino. Perché ti dico la verità, noi che fumiamo le canne, così, quando tu esci ti allontani da Barriera di Milano, esci e ti senti un altro, ti senti strano, non ti senti come le altre persone vero? Fahmi: Sì! Ragazzo marocchino sui 30 anni: Perché l’altra gente ti guarda in un modo strano e tu dici “Vaffanculo! Non esco più da lì, rimango qua, almeno che mi sento bene!” capito? [Fahmi, 20 anni]. Il Giardino, così come anche il quartiere, si configura quindi come un posto familiare perché ci si passa tanto tempo. Da un lato, è uno spazio che evoca frustrazione e consapevolezza della ristrettezza della propria vita, essendo un luogo vissuto quotidianamente anche perché non si hanno le risorse economiche e relazionali per raggiungerne altri (anche esterni al quartiere) che si vorrebbero frequentare. Non conoscono luoghi e modi alternativi di passare il tempo libero quotidiano perché non accedono alle informazioni su questi posti e, quando li conoscono, non hanno il denaro per accedervi. Dall’altro lato, emerge un forte attaccamento al quartiere e agli amici/conoscenti della strada che costituiscono gran parte della vita. È uno spazio in cui si è rispettati, riconosciuti e in cui si sta bene, ci si diverte. È uno spazio dove ognuno ha acquisito un ruolo, un’identità e nel quale le stesse pratiche attivate con i pari si caricano di senso e significato, sono riconosciute ed elevano il loro nome. Al di fuori di questo spazio, tutto è più labile ed incerto e i giovani si sentono spaesati, mentre le stesse pratiche di gruppo attivate rischiano di perdere il loro potere simbolico nel veicolare status e riconoscimento sociale, per essere etichettate semplicemente come “devianti”. Le stesse pratiche che tra i “pari” in Giardino, e in parte in quartiere, sono fonte di riconoscimento e rispetto, al di fuori diventano espressione di criminalità, violenza, non integrazione nella società di arrivo. Nonostante presentino sentimenti simili ai coetanei autoctoni della zona appartenenti a classe sociali basse, tuttavia questi non sono spiegabili unicamente dal tipo di capitale sociale in cui sono inseriti i giovani che vivono le nostre periferie urbane e sociali. Infatti, sentimenti contrastanti verso le proprie relazioni sociali quotidiane e il Giardino, di frustrazione ma nello stesso tempo di attaccamento, di attrazione ma nello stesso tempo di rifiuto, compaiono in molte storie di figli di immigrati presentate nella letteratura (Lepoutre, 1997; Dubet, 1987; Foote Whyte, trad., 2011) e possono essere connessi anche alla migrazione. In particolare, alle difficoltà scolastiche specifiche dei figli di immigrati, alle specificità familiari associate proprio al percorso migratorio, alle difficoltà dei genitori immigrati di controllare i figli o anche semplicemente di sapere come vivono fuori di casa, alla consapevolezza di essere identificabile come appartenente a un gruppo di basso status in virtù dell’integrazione subalterna dei loro genitori, della loro origine nazionale o semplicemente della loro residenza in zone della città prevalentemente abitate dalla popolazione straniera. Io: Quindi vi siete conosciuti così ai giardini? Fahmi: Ai giardini, in discoteche, in centro, dappertutto… sai conosci gente se per esempio sei uno che spacca, ti conoscono tutti! Io: In che senso “che spacca”? Fahmi: Un bullo diciamo, eh! Che tutti hanno paura di te, queste cose qua… ti conoscono… chi ti manca di rispetto lo pesti, se un tuo amico ha bisogno di te vai con lui, queste cose qua da ragazzini! [Fahmi, 20 anni]. Nel momento in cui lo spazio sociale del giardino si presenta come privilegiata, e a volte unica, fonte di socializzazione e “acculturazione” alla società di arrivo, esso diventa anche luogo nel quale prendono forma i processi di identificazione collettiva e di costruzione di una propria identità individuale e di un proprio posto nella società. Pertanto, in Giardino e in altri spazi pubblici della zona questi giovani imparano a farsi rispettare, anche con la forza facendo a pugni quando qualcuno li umilia pubblicamente, o quando bisogna aiutare un amico a difendere il proprio nome: solo se si fanno rispettare diventano qualcuno e il loro nome conta qualcosa. E quando sei uno che “spacca” allora conosci tante persone anche in luoghi diversi dal Giardino e di cerchie sociali diverse, nonostante spesso siano posizionate sullo stesso livello della scala sociale (Bianco, 2001). L’uso della forza e della violenza, individuale e di gruppo, per regolare i rapporti di potere RAPPORTO SECONDGEN interpersonale tra pari e ottenere rispetto e riconoscimento, comportamenti e norme sociali che si accompagnano ad altri atteggiamenti da macho, come la giustizia fai-da-te, sono emersi anche tra diversi adolescenti e giovani italiani incontrati nel quartiere Barriera di Milano e zone limitrofe. Ma il Giardino è un luogo che offre anche uno spazio “etnicizzato” con risorse identificative comuni (Queirolo Palmas e Torre, 2005) facendo emergere tra i giovani magrebini osservati una tensione tra la socialità “etnicizzata” degli spazi pubblici e quella degli spazi educativi o aggregativi strutturati. I gruppi e le compagnie quotidiane che si strutturano attorno al Giardino sono costituiti da giovani di prima o seconda generazione provenienti dal Marocco, al massimo da altri paesi del Maghreb, come se i processi di esclusione dai luoghi strutturati e ibridi alimentassero in loro il bisogno di una comunanza etnico-nazionale/linguistica (auto-esclusione), alimentando un circolo vizioso di esclusione e auto-esclusione. Altro aspetto connesso alla loro storia migratoria: la delocalizzazione obbligata dallo spazio sociale e culturale d’origine è seguita dall’inserimento in un contesto straniero che in parte esclude (molti contesti aggregativi e del divertimento giovanile autoctono) e in parte include (la scuola, alcuni contesti aggregativi strutturati “multiculturali” o che rispondono a logiche di mercato, i connazionali conosciuti nei luoghi pubblici). Ed è proprio la “presunta” appartenenza ad una società e cultura altra che ostacola la loro inclusione in determinati ambienti sociali, favorendola in altri, ovvero in quei luoghi dove emerge (ai loro occhi) una prossimità negli stili di vita, nella lingua e nelle credenze. Infine, legata sempre al processo migratorio vissuto, c’è l’incapacità delle famiglie di offrire loro risorse sociali e culturali diverse da quelle offerte dalla scuola e dalla “strada” e di accompagnarli verso quei luoghi che offrirebbero tali alternative. Sebbene si creino anche contatti in luoghi esterni, come quelli del divertimento notturno, fuori dai confini della propria zona difficilmente si sentono “qualcuno”, né negli spazi pubblici più anonimi come le piazze o le vie del centro città, né nei luoghi di aggregazione e del divertimento. Il senso di disagio e di estraneità emerge in tutti quei contesti aperti e chiusi, formali e informali dove le norme sociali di acquisizione di status e identità sono diverse da quelle del proprio Giardino e delle aree limitrofe. Infatti, non solo il giardino, ma anche altre zone di Barriera di Milano, Porta Palazzo, i corsi principali e le vie limitrofe con i loro giardinetti, bar, call center, internet-points e fast food “etnici” diventano spazi fisici e sociali di vita che offrono senso di appartenenza e identità. Diario etnografico: 5 settembre 2012, ore 16.30 [camminando da piazza della Repubblica verso Barriera di Milano su corso Giulio Cesare] Mentre parliamo delle sue ultime novità, camminiamo lungo corso Giulio Cesare in direzione Barriera Di Milano. Mi dice che questa zona di Torino non gli piace, che è brutta, sporca e degradata, ma almeno qui si sente tranquillo, si sente a casa. Mentre camminiamo il suo racconto è continuamente interrotto da saluti e da qualche parola in lingua scambiata di fretta con diversi gruppi di giovani marocchini, più o meno grandi, che incrociamo lungo la strada. Ad un certo punto saluta anche due poliziotti di una volante ferma lungo il corso. Qui lui conosce molte persone e anche gli “sbirri”, così come loro conoscono lui: è un vantaggio secondo Fahmi, perché quando sei conosciuto anche dalle forze dell’ordine, queste non ti fermano in continuazione per chiedere documenti. Di fronte all’incapacità di stare in spazi strutturati, l’esclusione e l’auto-esclusione da questi luoghi spingono verso il contesto della “strada” con conseguenze importanti sulle capacità di “costruire” opportunità sociali e di carriera, contribuendo all’immobilismo e alla segregazione territoriale e, di conseguenza, sociale (Bianco, 2001). Capacità che, come si cercherà di dimostrare, non non si apprendono se si resta segregati nelle cerchie sociali della “strada”, ovvero del Giardino e del quartiere. Non uscendo dalla zona, le reti locali di questi giovani, man mano che crescono e diventano più “duri”, diventano più dense ma non si diversificano. Lo status dei nodi delle loro reti rischia di rimanere lo stesso e non si avvia un processo di differenziazione della specializzazione e della localizzazione delle reti stesse, fondamentale per avviare un processo di ascesa accettato socialmente come “carriera di successo” (Bianco, 2001). Carriere di “seconda generazione” L’analisi delle reti sociali in cui l’attore è inserito, e delle risorse e vincoli derivanti, permette di superare alcuni limiti delle teorie classiche e moderne sulla mobilità sociale (neo-marxiste, neo-weberiane, riformiste e teorie dell’ideologia meritocratica), facilitando la comprensione dei casi di successo, ad esempio, tra i figli degli operai. Il superamento della classe sociale (concepita come blocco omogeneo) o dell’idea di meritocrazia (vista come movente individuale) come modelli per spiegare le carriere individuali, avviene nel momento in cui ci si focalizza sul capitale sociale individuale inteso come RAPPORTO SECONDGEN l’insieme delle risorse a cui gli attori accedono entrando in interazione ripetuta nel tempo con altri soggetti. Come evidenzia Bianco (2001), il concetto di capitale sociale permette di restituire all’attore un ruolo attivo e capacità di scelta perché il sistema di interazioni in cui gli attori sono inseriti è il luogo di produzione di cultura e preferenze individuali, oltre che di produzione e valutazione delle risorse e dei vincoli. L’individuo, pertanto, non è ridotto a qualcosa di passivo la cui carriera è determinata dall’appartenenza di classe. Piuttosto è un agente che sceglie sulla base delle informazioni sulla condotta passata dell’Altro con cui interagisce, cercando di non compromettere il futuro dell’interazione, e sulla base delle aspettative positive sui comportamenti futuri dell’Altro, ovvero sulla base della fiducia (Bianco, 2001). Inoltre, l’analisi delle reti sociali in cui è immerso un attore per comprendere, in questo specifico caso, i meccanismi d’integrazione dei giovani di seconda generazione, permette di far emergere quanto in realtà questi siano integrati nella cultura dei giovani autoctoni torinesi o, meglio, del quartiere, ma non sul piano sociale ed economico104, almeno apparentemente. Infatti, come si cercherà di dimostrare con il presente scritto, sebbene le carriere lavorative dei giovani incontrati, anche se appena avviate, sembrino essere molto distanti da quello che normalmente si definisce un’integrazione di successo ma molto vicine al concetto di assimilazione verso il basso (Portes, Fernandez-Kelly e Haller, 2004), rispetto agli obiettivi di breve periodo e al loro spazio sociale di vita, i giovani incontrati sono più integrati socialmente105 ed economicamente. Infatti, parafrasando Merton, raggiungono i loro scopi legittimi presenti con mezzi illegittimi, e nell’attivare pratiche considerate devianti dalla società dominante, acquisiscono status sociale, identità e “capacità d’acquisto”. La questione, pertanto, non è se sono integrati o meno nella nostra società ma in quale contesto sociale sono integrati: quali sono le norme e i valori sociali, le preferenze, i gusti e gli stili di vita a cui sono stati socializzati e che crescendo stanno interiorizzando come normali per il loro contesto di vita quotidiana? E ancora, con quali forme e contenuti si manifestano queste norme, valori, preferenze, gusti e stili di vita appresi in strada? In quale modo la normalità della “cultura di strada” e il loro essere immersi in cerchie sociali segregate influiscono sulle capacità di avviare un processo d’integrazione sociale ed economica socialmente accettato? Quali sono le strategie di neutralizzazione delle pratiche devianti che legittimano socialmente le pratiche stesse, rendendole possibili? Come si manifesta la tensione tra valori e norme apprese in famiglia e nella società, e quelli appresi in strada? Come queste carriere “devianti” influiscono sulle progettualità future? La scuola tra scelta e costrizione: puntare all’ascesa sociale sognando di fare l’elettricista Come avviene per quasi tutti i giovani italiani, anche tra i giovani magrebini incontrati, la scuola elementare e media frequentata in Italia è quella della circoscrizione dove vivono, spesso la più vicina alla residenza. La scelta se proseguire o meno gli studi dopo la licenza media e, nel caso, la scelta del tipo di scuola superiore presentano dinamiche non dissimili a quanto osservato in altri contesti sociali, nonché tra molti giovani autoctoni. Emerge il ruolo centrale dei professori della scuola media, dell’orientamento fatto a scuola, della famiglia e del gruppo dei pari. I giovani incontrati hanno quasi tutti cominciato una scuola professionale, scegliendo istituti in cui si imparano mestieri (meccanico, elettricista, idraulico). Qualcuno, dopo alcuni insuccessi nell’avanzamento della carriera scolastica, ha deciso di abbandonare per tentare l’entrata nel mercato del lavoro con la licenza media. Altri, con molta fatica e tempi abbastanza dilatati per bocciature e cambi di scuola, hanno raggiunto la qualifica o il diploma. Ma come hanno scelto la scuola superiore da frequentare e come questa scelta influisce in parte sull’orientamento allo studio, sulle loro carriere scolastiche e sulle opportunità di entrare nel mercato del lavoro? Quanto conta la famiglia nella scelta di proseguire gli studi e del tipo di scuola scelta? 104 La non menzione dell’integrazione politica è voluta nel momento in cui, trattandosi di immigrati non comunitari, la mancata integrazione politica è determinata, in modo più forte rispetto alle altre dimensioni d’integrazione dell’individuo in una società, da fattori strutturali connessi alla Legge sull’immigrazione italiana e molto meno al capitale sociale. 105 Per integrazione si intende: processi specifici e micro-sociali attraverso i quali un esterno accede e diventa parte di una determinata cerchia sociale (Ceravolo, Eve e Meraviglia, 2001). RAPPORTO SECONDGEN Tutti i magrebini incontrati, sia quelli intervistati sia quelli con i quali è capitato casualmente di “chiacchierare” anche su questo tema, dichiarano quanto sia importante la scuola e il proseguimento degli studi per le loro famiglie. Quasi tutti motivano questa enorme aspettativa delle famiglie nei loro confronti come un modo per avviare un processo di mobilità in vista di un riscatto sociale generazionale. Tanti raccontano di avere madri analfabete, o con la licenza elementare, che spesso non sono mai entrate nel mercato del lavoro né nel paese di origine né in Italia; di avere padri che, anche quando hanno un titolo di scuola secondaria, a Torino diventano operai, manovali e muratori o artigiani vari (elettricisti, idraulici, falegnami, etc.) alle dipendenze di qualcuno, anche in virtù delle competenze ed esperienze professionali accumulate al paese. Mio padre è diplomato, in Tunisia faceva l’artigiano e quando è venuto qua ha sempre fatto il falegname che io sappia. Ora lavora sempre come falegname come dipendente presso una ditta. Mia mamma ha solo la licenza media e sia in Tunisia sia qui ha sempre fatto la casalinga, occupandosi della casa e di noi [Rajab, 18 anni]. Io: Per loro è importante che tu studi? Fahmi: Sì! Fino adesso sto studiando grazie ai miei! Insistono perché comunque mio padre non ha studiato e vuole darci questa possibilità a noi. Mio padre ha preso la terza media qui, non ha mai studiato Io: In Marocco non è mai andato a scuola? Fahmi: Mai! Adesso sa scrivere… però non tanto! [Non ha fatto] neanche le elementari! Mia mamma non ha studiato proprio, non sa scrivere niente, invece mio padre grazie alla Parini ha studiato, lo hanno aiutato un po’… hm… nel 2010 pure lui ha preso la terza media! È uscito con buono! Però mio padre c’ha la testa buona, sa leggere il disegno, sai il disegno tecnico del lavoro? Lo sa leggere visto che fa il muratore, lo sa leggere e costruisce i muri! Ho lavorato con lui, è abbastanza bravo! Io: E tuo padre cosa faceva in Marocco? Fahmi: Il muratore Io: Arrivato qua ha fatto sempre il muratore? Fahmi: Sì! Anche se non ha diploma o qualifica l’ha imparato sul lavoro, sul campo di lavoro Io: E tua mamma invece cosa faceva? Fahmi: Un bel lavoro: la casalinga! [Fahmi, 20 anni] Lo studio sembra essere importante per i genitori di questi giovani che investono molto nella loro istruzione nel momento in cui non chiedono ai figli di andare a lavorare per contribuire all’economia familiare e, addirittura, li incoraggiano a proseguire la scuola anche quando questi non sono molto motivati. Ho finito le elementari a Milano poi sono venuto qua e ho iniziato le medie in quella scuola lì [indica la scuola media vicino al giardino] e boh! Poi… sempre qua mi sono iscritto in un’altra scuola, al Birago qua, di meccanica e poi… poi mi sono iscritto al Mario Enrico che è per elettricisti, ho preso un attestato di qualifica di un anno che dice che, boh, ho frequentato quella scuola e ho fatto un anno di elettricista e boh! [Al Birago] ho fatto due anni però non ho finito, ho deciso di cambiare perché ho fatto un anno e sono rimasto bocciato, ho fatto un altro anno e sono rimasto di nuovo bocciato e poi ho cambiato. Ho capito che non era la scuola che mi piaceva! Avevo scelto la scuola sbagliata! … sono venuti da noi a scuola alle medie, boh sono venuti ci hanno spiegato com’è la scuola “bla bla bla” … e poi ho scelto quella scuola perché ci andava un mio amico e sono andato anche io, così non è che… come fanno tutti penso! E poi ho deciso di andare a fare l’elettricista perché lo faceva lui [indica Fahmi] eheheh [ridiamo] e lì ho fatto un anno e mi hanno dato questa qualifica, poi basta […] non è che avevo voglia di studiare… pochissima voglia di studiare! Pochissima! Non mi impegnavo niente, neanche per passare l’anno… qualcosina ma proprio poco… non ho imparato molto a scuola! Ma ci andavo perché mia madre rompeva le scatole, diceva “Vai, vai, vai, vai, se no cosa vuoi fare?” lei ci teneva che andavo a scuola, per lei era importante e allora andavo ma non facevo nulla! Preferivo molto di più andare a lavorare [Abed, 19 anni]. Inoltre, in qualcuno emerge la preoccupazione dei genitori nel momento in cui il figlio comincia a mostrare il bisogno di indipendenza economica manifestando la volontà di trovare un lavoretto durante il periodo scolastico. Il lavoretto, anche se occasionale, viene percepito come un ostacolo allo studio nel momento in cui porta via tempo e rischia di stimolare il ragazzo ad abbandonare la scuola per entrare prima nel mercato del lavoro. Io: Senti i tuoi genitori ti hanno mai chiesto un aiuto di qualche tipo? Fahmi: No mai… mai… in Marocco sì, in casa mi chiede mio padre di aiutarlo, a verniciare le porte, a fare ste cose qua, ma mai, mai mio padre mi ha chiesto soldi o… vai a lavorare… a lui quando sente che devo andare a lavorare si arrabbia perché pensa che mollo la scuola e lui vuole che io studi RAPPORTO SECONDGEN Io: Quindi lui ha paura che il lavoro ti distragga dallo studio? Fahmi: Sì… che non riesco più ad andare a scuola. Gli ho detto a mio padre “voglio fare il serale” si è incazzato mi fa “ma no! cosa ti manca? cosa vuoi?”… un sacco di cose Io: Lui non capisce quello che ti manca? Fahmi: Sì… ma mi mancano i soldi a me [ridendo] [Fahmi, 20 anni]. Altri, nel tentativo di stimolare il ragazzo a proseguire gli studi, di fronte alla sua incertezza lo stimolano a provare a lavorare, con il padre o con parenti, in settori del mercato del lavoro manuale più o meno qualificato, al fine di sperimentare cosa significhi davvero lavorare senza un titolo di studio. Un’esperienza volta a educare il figlio e a responsabilizzarlo nella speranza che capisca quanto alla sua età sia meglio andare a scuola. Mio fratello più grande, lui è stato un po’ stupido perché presa la licenza media non ha voluto più studiare. Ha iniziato a lavorare a 15 anni come tubista e idraulico, ha iniziato a lavorare perché i miei genitori vedendo che non voleva studiare gli hanno detto “Se non vuoi studiare vai a lavorare, non pensare di stare tutto il giorno sul divano a fare niente! […] Alla fine della terza media, mia mamma essendo stufa di vedermi sempre sul divano a non fare nulla davanti alla TV o alla playstation, e per paura che finissi come mio fratello passando un anno a non fare nulla, mi ha detto “Senti, è ora che ti dai da fare, cercati un lavoretto, vai a lavorare con lo zio o con tuo padre, comincia ad imparare cosa significa lavorare, magari ti viene lo stimolo per studiare!”. Non sapendo se continuare a studiare e quale scuola scegliere, ho ascoltato mia mamma e mio papà pensando che così avrei capito anche quale lavoro o mestiere mi sarebbe piaciuto imparare. Allora ho fatto un paio di settimane come magazziniere da mio zio e poi da mio padre, aiutandolo con il suo lavoro da falegname. Sia mio padre sia mio zio mi davano di tasca loro 20 euro al giorno, così, non avevo nessun contratto di lavoro con i loro datori ma avevano un accordo con loro “Lo faccio lavorare con me, gli insegno qualcosa e i soldi glieli do di tasca mia, dal mio stipendio!” e i datori hanno accettato. Quando ho lavorato con mio padre, ho conosciuto un ragazzo italiano, simpatico, che faceva l’elettricista e che mi ha consigliato di fare quella scuola perché è un lavoro ben retribuito e che non richiede eccessivo lavoro, in termini di ore giornaliere. Così, mi ha convinto e ho scelto quella scuola! [Rajab, 18 anni]. Non sembra quindi che siano le famiglie a indirizzare i figli verso percorsi scolastici professionali brevi, almeno non tutte. Tra i giovani incontrati nessuno ha raccontato di essere stato indirizzato o consigliato dai genitori, piuttosto hanno scelto sulla base delle informazioni raccolte a scuola dai professori delle medie e da quelli delle superiori, durante gli orientamenti, così come da amici o conoscenti. Le famiglie di questi giovani da una parte li stimolano a continuare gli studi, dall’altra non hanno informazioni sul tipo di scuola adatta ad avviare un percorso professionale utile all’ascesa sociale, anche in virtù del funzionamento del mercato del lavoro italiano e locale. Nello stesso tempo non stimolano i giovani a sognare una professione diversa da quella dei padri e da quella che osservano nei contesti sociali quotidiani (il quartiere e il Giardino)106. L’incapacità delle famiglie a indirizzare i figli nella scelta della scuola ha inizio già nelle prime fasi del ricongiungimento: nonostante i padri siano in Italia da molti anni non hanno acquisito informazioni utili per l’inserimento dei figli nella società di arrivo, probabilmente perché rimangono isolati nelle cerchie sociali attraverso le quali sono giunti a Torino (compaesani già presenti), a quelle legate al lavoro che svolgono e alla zona di residenza. E se il quartiere è, come nel caso specifico di Barriera di Milano, caratterizzato dall’avere una popolazione con i titoli di studio più bassi della città e dall’avere sul territorio una moltitudine di scuole tecniche e professionali rispetto ai licei, è facile immaginare il tipo di informazioni rispetto alle possibilità formative per i figli a cui accedono i padri “vivendo” lo spazio urbano di residenza. L’incapacità dei padri non è poi colmata dalle madri che, ricongiungendosi con i figli al marito, spesso rimangono “rinchiuse” nello spazio domestico, in quanto casalinghe, accedendo all’esterno solo per espletare il lavoro di relazione che connette la famiglia ai servizi, spesso socioassistenziali. Il risultato è che le famiglie lasciano completamente “liberi” e soli i giovani nella scelta della scuola, dicendo loro “scegli quello che vuoi, importante è che studi!”. La ridotta dimensione e l’elevata omogeneità e localizzazione delle reti sociali dei genitori è legata al processo migratorio che stanno vivendo. Importante sono le reti sociali in cui si inseriscono all’arrivo, ma anche il fatto che il loro progetto migratorio non sempre è orientato alla permanenza stabile e definitiva in Italia, come mostrano alcune storie dei giovani incontrati, con genitori che sono oggi tornati al paese di origine. Tale progetto migratorio potrebbe spiegare, in parte, anche la segregazione e localizzazione delle reti sociali in cui sono 106 Cfr. analisi a pag. 127 RAPPORTO SECONDGEN inseriti i genitori: si inseriscono in determinate reti all’arrivo senza sviluppare progetti di cambiamento, ampliamento e diversificazione delle reti stesse nel tempo. Pertanto, da una parte i genitori tendono a responsabilizzare precocemente i figli (Queirolo Palmas e Torre, 2005) lasciando loro la scelta sul tipo di scuola superiore da frequentare, dall’altra i figli imparano in famiglia quanto sia importante studiare per trovare un buon lavoro ma non imparano a sognare percorsi “ambiziosi”. Tutti sperano in un percorso di ascesa sociale attraverso occupazioni qualificate manuali scegliendo di diventare elettricista, meccanico piuttosto che idraulico specializzato. Il liceo e l’università non sono sentiti come delle possibilità, non perché non sappiano che questo tipo di percorso scolastico sia utile per la mobilità sociale, ma perché i loro contesti sociali quotidiani (in particolare la famiglia e il gruppo dei pari) non offrono loro modelli culturali adatti a creare preferenze di questo tipo. L’università è sentita come qualcosa che non appartiene al proprio mondo, non è un percorso normale nel momento in cui nessuno tra parenti, conoscenti e amici è laureato. E per questo spesso è idealizzata, così come lo è il laureato che, anche se oggi fatica a trovare un lavoro qualificato e compatibile con il suo titolo di studio, acquisisce status solo in virtù del titolo di studio che possiede. Ecco dunque come «le carriere dei genitori (a qualunque livello sociale esse si collochino) influenzano duplicemente il destino dei figli: prima concorrendo a plasmare le preferenze occupazionali e le competenze sociali, poi consentendo l’accesso alle informazioni giuste al momento giusto (su opportunità di mercato, posti vacanti, caratteristiche della domanda, aspettative nei confronti dei lavoratori, ecc.)» (Bianco e Eve, 1999, pag. 177). Quindi, anche se durante l’orientamento scolastico fatto alle scuole medie si offrono informazioni sul liceo, questo non viene preso in considerazione. Tra i giovani incontrati non è emersa una tendenza dei professori a ridimensionare i sogni verso carriere scolastiche meno impegnative, ma questo non esclude il fatto che possano non aver ricevuto la giusta quantità e qualità di informazioni. Ad ogni modo, la scelta è spesso condizionata da quella dell’amico, che raramente è un compagno di classe italiano107, ma spesso un connazionale conosciuto in Giardino. Altre volte da qualcuno con cui si è entrati in relazione in modo casuale perché conoscente di un amico o di un parente. Le informazioni acquisite tramite l’orientamento scolastico e le reti sociali non sono quindi sufficienti ad offrire una gamma di carriere formative possibili, indirizzando spesso gli adolescenti verso percorsi scolastici non desiderati. Il fatto che siano lasciati soli nella scelta, li spinge a scegliere percorsi brevi non solo perché quelli lunghi non rientrano nelle loro possibilità immaginabili, ma anche perché nel gruppo dei pari tutti scelgono percorsi brevi, poco impegnativi al di fuori dell’orario scolastico e perché in Giardino tanti non vanno più a scuola. L’unico che ha parlato della possibilità di andare all’università è Fahmi, una possibilità nata mentre frequentava il quinto anno per diventare tecnico elettrico, su stimolo di un suo professore108. Fahmi, presa la maturità, non si è iscritto all’università ma ha preferito entrare nel mercato del lavoro. [Parlando dei ragazzi che frequentano il giardino] hanno studiato ma non hanno mai finito. La licenza media ce l’hanno… tipo lui [indica un ragazzo marocchino sui 20 anni] è arrivato con la famiglia, adesso è qui con i fratelli. Ha studiato un po’, poi ha preso questa brutta strada, ha mollato la scuola e rimane lì a scaldare le panchine [Fahmi, 20 anni]. Mio fratello più piccolo per ora sta studiando, sta facendo la scuola per tornitori, lui è quello che studia un po’ di più, che va meglio a scuola! Quando sono arrivato qua, ho iniziato le medie e poi ho fatto tre anni nella scuola professionale per elettricisti, il terzo anno l’ho appena finito, ho appena preso la qualifica. Ora non ho più voglia di studiare quindi non andrò avanti per il diploma ma ho deciso che cercherò lavoro [Rajab, 18 anni]. Diario etnografico: 7 marzo 2013 Alle 15.30 mi sento chiamare dal centro dei giardini e vedo Fahmi che agita le braccia. È in compagnia di tre ragazzi marocchini. Arrivo, lo saluto e mi presento agli altri tre: Feisal, Hassan e Hadi (nomi di fantasia). Feisal si presenta subito dicendo di avere 19 anni, la cittadinanza italiana anche se ha origini marocchine. Feisal è il più chiacchierone, sembra non abbia problemi a raccontare e raccontarsi. Afferma inoltre che sono quasi tutti disoccupati, come loro 107 Il fatto, tuttavia, di essere un coetaneo italiano conosciuto nella scuola del quartiere non esclude che anche questo non sia stimolato a progettare percorsi di formazione ambiziosi a causa del suo inserimento in una rete sociale simile a quella dei giovani magrebini incontrati, con genitori e pari che non aiutano a sognare percorsi e carriere diverse dalle loro. Questo, infatti, è emerso durante la ricerca Street Monkeys, anche tra giovani italiani residenti nella zona e appartenenti a contesti familiari e sociali deprivati. 108 Anche tra i giovani di Foote Whyte (2011) emerge il ruolo del professore che stimola e consiglia l’iscrizione all’Università a quei giovani particolarmente brillanti e interessati allo studio rispetto alla media dei figli degli immigrati italiani che vivono in Cornerville (Boston). RAPPORTO SECONDGEN d'altronde. Feisal gira una canna e la fuma assieme a Fahmi e a Hadi. Gli chiedo che cosa hanno studiato e subito Feisal mi dice ridendo di essersi fermato alla scuola che dà sul giardino. Io gli dico “Ma non è una scuola media?” e lui mi risponde “Appunto! Anzi non ho nemmeno preso il titolo!” “Quindi non hai la licenza media?” “No” sempre ridendo. Subito però mi dice che si è informato per prenderla con le 150 ore ma dice che costa 400 euro e quindi questo lo sta scoraggiando. Non solo la scelta della scuola, ma anche l’orientamento verso lo studio, la voglia di studiare e i risultati scolastici sono in parte condizionati dai pari e dall’elevata disponibilità di tempo libero che osservano nei disoccupati del Giardino; tuttavia, sono anche spiegati dalla loro età sociale, un periodo in cui si cresce, cambiano i bisogni e le priorità e, se non seguiti e accompagnati da una figura adulta, lo studio rischia di essere spostato agli ultimi posti nella scala delle preferenze, soprattutto tra i maschi. Se, infatti, da una parte i genitori non chiedono aiuti ai figli affinché si concentrino negli studi, dall’altra non li seguono e non li controllano nell’andamento scolastico, abbandonandoli al loro senso di responsabilità e volontà di studio, spesso entrambi carenti negli adolescenti. Infine, se la scelta dell’istituto scolastico superiore è legata più a quello che fanno i pari e meno a ciò che si desidera studiare e “diventare da grandi”, il rischio è che il ragazzo non abbia il giusto stimolo ad impegnarsi nello studio, approcciandosi a questo più come a un obbligo (“i miei genitori vogliono che studi”) e meno come a una scelta. In generale si può affermare che, nonostante tanti di loro abbiano interrotto gli studi presto per mancanza di volontà di impegnarsi, tanti altri hanno continuato a studiare fino alla qualifica se non al diploma, anche se tutti hanno concluso o stavano concludendo il percorso scolastico in ritardo, o perché bocciati o perché inseriti in classi inferiori all’arrivo in Italia. La bocciatura avviene a volte per il mancato impegno nello studio, altre volte per le frequenti assenze motivate dalla cosiddetta “tagliata perché il prof. interroga e io non ho studiato”, perché “i miei amici che non vanno a scuola e non lavorano, oggi hanno organizzato una gita fuori Torino e non posso perdermela”, per uscire con delle amiche o per un viaggio lungo nel paese di origine per motivi familiari. La volontà di continuare fino al conseguimento del titolo viene spiegata dall’idea che la scuola serva per il proprio futuro. Tuttavia, questa consapevolezza appresa dai genitori, si trasforma in un stimolo emotivo a proseguire gli studi nonostante le difficoltà, se supportata dal gruppo dei pari, dalla famiglia e dagli insegnanti. Tra i magrebini incontrati questo, per i motivi già detti, avviene raramente. Per avviare una carriera scolastica di successo, non è solo necessario impegnarsi nello studio ma anche conoscere le norme che regolano le condotte in classe e le regole istituzionali della scuola. Questi giovani non motivano gli insuccessi scolastici con fenomeni di discriminazione e razzismo, ma piuttosto con la loro incapacità a rispettare la disciplina attesa dagli insegnanti e le regole della scuola e, in alcuni casi, con lo scarso impegno nello studio. L’incapacità di accettare il ruolo dell’insegnante e la sua autorità, così come l’incapacità di “stare in classe” in modo consono e accettato dal corpo docente, non è un’incapacità appresa nel paese di origine, ma nelle scuole della società di arrivo. La vivacità di alcuni di loro durante le ore di lezione, l’indifferenza verso quello che spiega il professore e atteggiamenti anche provocatori nei suoi confronti possono essere letti come simbolo dell’integrazione nella cultura giovanile locale, composta da giovani italiani e di origine straniera. Infatti alcuni marocchini incontrati raccontano della diversità osservata e vissuta nel rapporto tra insegnante e alunno in Italia (per lo più in Barriera di Milano a Torino) e in Marocco. Dove in Marocco la relazione insegnante-alunno è fortemente e marcatamente asimmetrica e autoritaria, con ricordi di punizioni corporali e di insegnanti che “avevano sempre ragione”, mentre in Italia è maggiormente improntata sull’ autorevolezza intellettuale e morale dell’insegnante non mantenuta in modo coercitivo, sul rispetto dell’alunno e, spesso, sulle capacità degli insegnanti di attirare l’attenzione anche di alunni poco orientati a “stare in classe”. Inoltre, i compagni italiani sono giovani che, soprattutto alle medie, sono residenti nello stesso quartiere (Barriera di Milano e zone limitrofe), con un origine socio-economica bassa, con genitori con bassi titoli di studio, con famiglie spesso seguite dai servizi sociali e con una socialità spesso appresa in strada, nei campetti e nei giardini pubblici locali109. Emerge pertanto il ruolo della scuola come luogo sociale di apprendimento di modelli culturali utili all’integrazione dei giovani nelle classi (Ceravolo, Eve e Meraviglia, 2001), dove l’apprendimento si trasmette tra pari (italiani e non) che crescono e sono esposti a modelli e norme sociali tipiche dello spazio urbano vissuto quotidianamente, il quartiere. Entrando nelle 109 Tra alcuni di giovani incontrati nella zona anche durante la precedente ricerca in Barriera di Milano (Street Monkeys) è cool tagliare la scuola, non studiare, non obbedire al professore e sfidarlo con atteggiamenti provocatori, non ascoltare o passare la lezione fuori dalla classe fumando tabacco e cannabis, tutti comportamenti apprezzati che conferiscono prestigio e fama tra i pari nella scuola e negli spazi pubblici del quartiere. RAPPORTO SECONDGEN aule italiane, imparano un altro modo di stare in classe e di relazionarsi con gli insegnanti e, nel tentativo di integrarsi tra i pari, acquisiscono e adottano comportamenti e atteggiamenti che permettono di essere riconosciuti dai compagni e magari diventare dei leader. Dalle loro pratiche emerge un bisogno di inclusione tra i compagni di classe e di ottenere riconoscimento. Proprio in relazione a questo bisogno, l’incapacità di “stare in classe” o di ascoltare la volontà dell’insegnante mostra una abilità di adattamento e di “apprendimento” delle norme sociali che regolano le interazioni tra pari. Si tratta di norme che si basano su precisi modelli comportamentali orientati ad ottenere riconoscimento e rispetto dai compagni, quali la sfida dell’autorità e la ricerca della trasgressione (tipico del periodo adolescenziale) piuttosto che l’uso della forza come regolatore dei rapporti di potere tra pari (molto diffuso nella loro zona di residenza). Tuttavia, le norme che regolano le interazioni tra compagni di classe, e l’acquisizione di riconoscimento, spesso non coincidono con quelle accettate e attese dal corpo insegnante. Così, il bisogno di integrarsi nella classe ed essere riconosciuti spinge ad adottare comportamenti ammirati dai pari, ma condannati dai docenti. Se rispondere ad un professore con tono arrogante, burlarsi di lui mentre spiega, “tagliare” l’interrogazione o fare a pugni con un pari a scuola fa loro guadagnare reputazione da macho tra i coetanei, agli occhi degli insegnati il giovane viene etichettato come indisciplinato, maleducato, violento, come un problema. Oppure addirittura come leader trascinatore che crea disordine in classe, come racconta bene Rajab di seguito. A scuola andavo volentieri perché mi divertivo, sai, ero un po’ vivace in classe, non facevo casino, diciamo come tutti! C’erano i professori che non sapevano tenere la classe e allora ce ne approfittavamo un po’, ma ci divertivamo. In particolare con un’insegnante, quando c’era lei volava di tutto per la classe, lei spiegava e nessuno l’ascoltava […]. Con un’altra professoressa, quella di italiano, la più bella, è proprio figa quella lì, comunque quando c’era lei, le tiravo le palline di carta con la penna, sai come una cerbottana, e le si fermavano sul sedere… che ridere, belle giornate ho passato a scuola. Il professore di tecnica, che ridere, questo è calabrese quindi parla tutto così sai [fa l’accento calabrese e lo fa anche bene] al momento delle pagelle, dice ai miei genitori “Signori *** [cognome di Rajab], quando c’è Rajab la classe cambia da così a così!” eheheh [ride] e mia madre che doveva dire? Mi dava degli scappellotti leggeri sgridandomi, mio padre invece sembrava quasi divertito… ma alla fine me la sono sempre cavata con lo studio, per quello non se la sono mai presa! Inoltre, avevano capito che i professori ce l’avevano un po’ con me, non so bene perché, non penso per razzismo anche perché non ero l’unico straniero in classe ma perché mi consideravano un po’ il trascinatore della classe, quello che istigava al casino durante le lezioni! È un po’ avevano ragione! Sono rimasto bocciato solo un anno, il primo anno delle superiori ma non è stata colpa mia! Il fatto è che ho fatto tre mesi di assenza perché sono finito all’ospedale, ma non è stata colpa mia! Vedi qui? [mi fa vedere una grossa cicatrice sul polso della mano destra] il motivo è che mi sono picchiato o meglio ho picchiato un razzista, uno della mia scuola, e sono finito all’ospedale, ma anche lui mi hanno detto sai? Questo qui non veniva in classe con me, ma tutti i giorni mi diceva “tornate al tuo paese, non ti vogliamo qui in Italia, tuo padre è venuto a rubarci il lavoro e ora usi i soldi degli italiani per studiare” tutti i giorni, tutti i giorni così, ogni volta che mi vedeva “tunisino di merda!” fino a che io non l’ho più retto e l’ho aspettato davanti alla scuola e l’ho picchiato, gli ho rotto il naso, il labbro e poi non so, perché poi è scappato e quando è scappato, io per l’arrabbiatura ho tirato un pugno contro il muro e mi è uscito l’osso del polso, vedi? […] Avevo l’osso di fuori, sono stato più di un mese all’ospedale.[…] I miei genitori quando hanno saputo che ero stato bocciato ci sono rimasti male ma sapevano anche qual era il motivo, quindi non mi hanno costretto ad andare a lavorare come con mio fratello, ma mi hanno dato un’altra possibilità [Rajab, 18 anni]. In questi casi, cominciano i problemi con i professori che non vengono accusati di essere razzisti ma di non saper tenere la classe. Ad ogni modo, non emergono grandi conflitti con i professori che possano spiegare gli insuccessi scolastici. Quando si diventa un leader in classe è facile che si instaurino legami con i compagni che vanno oltre il contesto scolastico, anche se il Giardino e gli amici della propria zona continuano ad essere il gruppo dei pari privilegiato con cui passare il tempo, soprattutto nel periodo di interruzione estiva della scuola. Un altro aspetto interessante che emerge è la scarsa conoscenza delle regole istituzionali della scuola e la scarsa volontà di informarsi su queste. Anche in questo caso i genitori sembrano lasciare i figli soli nella gestione della loro vita scolastica. Tuttavia, non sempre i giovani sono così responsabili, non interessandosi personalmente su quando riapre la scuola o su come vengono calcolate le assenze, comportamenti che possono portare alla bocciatura. La non supervisione della famiglia non è indicatore di disinteresse nei confronti della condotta scolastica dei figli, ma piuttosto di una difficoltà di controllo, in parte legata alla loro storia migratoria. In particolare, la specificità del processo migratorio familiare, l’integrazione subalterna dei genitori e il loro inserimento in reti sociali segregate e localizzate non RAPPORTO SECONDGEN permettono di accedere alla giusta quantità/qualità di informazioni sul “nuovo” contesto nel quale si muovono i figli. Come emerge nella letteratura (Ambrosini, 2004; Queirolo Palmas e Torre, 2005;), la loro capacità di controllo viene meno anche per la perdita di autorità nei confronti dei figli in seguito alla distanza vissuta prima del ricongiungimento. Questi autori parlano di delegittimazione e perdita dell’autorità genitoriale durante il percorso migratorio, soprattutto quando uno o entrambi i genitori sono partiti molto tempo prima, lasciando i figli in patria. Questo processo emerge in parte anche tra i magrebini incontrati. Infatti, molti di loro raccontano di avere rapporti difficili con il “genitore apri-pista” della migrazione. Nelle loro storie sottolineano che, essendo partiti quando ancora molto piccoli, sono cresciuti con la madre e, soprattutto all’inizio del ricongiungimento, faticano a riconoscere la figura genitoriale del padre una volta giunti a Torino. Una perdita dell’autorità genitoriale che fatica ad essere recuperata quando il genitore delegittimato è anche quello che nel nuovo contesto è più assente, perché impegnato nel mercato del lavoro110. Inoltre, l’incapacità del padre non è compensata dalla madre che, nonostante sia il punto di riferimento principale per tutti i giovani magrebini incontrati, non ha le risorse necessarie (riconoscimento dell’autorità genitoriale, informazioni e a volte capacità linguistiche) per seguire il figlio nel sistema scolastico. Questo non significa che le famiglie non si interessano, ma che non accedono alle risorse per farlo nel modo corretto e, magari, si fidano “eccessivamente” delle informazioni che raccolgono direttamente dai figli, almeno fino alla loro prima bocciatura. Di fronte alla mancata guida dei genitori, i figli si “arrangiano” sulla base delle informazioni che raccolgono nel gruppo dei pari. Esemplare è il caso di Fahmi presentato sotto. Diario etnografico: 22 maggio 2013 Fahmi mi racconta che non sta andando tanto bene, che rischia di essere rimandato a scuola perché quest’anno ha superato i 52 giorni di assenza previsti in un anno. Dato che è stato in carcere un mese, quando è uscito il padre ha voluto che cambiasse scuola per evitare che si spargesse la voce e lui avesse difficoltà con i docenti “A mio padre non piace che si sappia che io sono stato arrestato per spaccio e mi sono fatto un mese dentro!”. Così, da settembre ha iniziato a non andare più a scuola, in attesa di iscriversi in un’altra, perché pensava che i giorni di assenza glieli avrebbero contati iniziando dal primo giorno di frequenza nella nuova scuola. Però a scuola si è iscritto a novembre e, dal momento che il conteggio lo fanno nell’anno scolastico e non per scuole, ora rischia di non essere promosso e non diplomarsi a causa delle troppe assenze. Gli insegnanti, vedendo i risultati positivi e sopra la sufficienza di Fahmi, gli dicono tuttavia che deve in qualche modo giustificare i due mesi di assenza, in modo da poter essere ammesso all’esame. “L’unico problema è che ho paura che il medico non me lo faccia il certificato perché lo scorso giugno me lo ha già fatto per l’anno scorso e mi ha detto che non mi voleva più vedere perché non mi avrebbe più aiutato!” dice Fahmi preoccupato. “Ma sì, non si ricorda di te! Poi quello che c’è lì” Hadi indica il corso che passa di fianco “è un ubriacone! Non si ricorda nulla, stai tranquillo!” ribatte sicuro Hadi111. La discussione sul da farsi continua per un bel po’, con Hadi che offre informazioni su come comportarsi e ottenere una giustificazione falsa dei giorni d’assenza e Fahmi che sembra essere preoccupato anche perché sa che non può chiedere aiuto a suo padre: “a lui non piace fare le cose non oneste!”. Il fatto che Hadi abbia delle informazioni utili per superare questo ostacolo improvviso al raggiungimento della meta scolastica, è indicatore del fatto che non è la prima volta che loro necessitano di soluzioni per “riparare” ad errori nelle condotte e nel rispetto delle regole della scuola. Soluzioni che si trovano grazie alle informazioni acquisite nel gruppo dei pari in virtù di esperienze già vissute. E sarà di nuovo un amico di Fahmi che lo accompagnerà dal suo datore di lavoro, il quale per soldi sarà disposto a rilasciare un certificato che giustifichi i mesi di assenza a scuola. Il Giardino, permettendo di incontrare giovani più grandi che hanno già vissuto determinate esperienze, si presenta anche come il luogo nel quale acquisire informazioni e imparare le strategie di sopravvivenza al fine di riparare al mancato rispetto delle regole scolastiche e riuscire a concludere gli studi. Nei racconti emerge quella tensione tra “scuola come investimento per il futuro” e “scuola come obbligo” imposto dai progetti che i genitori hanno sul loro futuro, già emersa tra i giovani latino-americani a Genova (Queirolo Palmas, 2006a; Queirolo Palmas, 2006b). Una tensione che spesso si manifesta: con un impegno nello studio che possa permettere di superare l’anno e ottenere il titolo di studio, con la scelta di 110 L’incapacità del controllo dei genitori sui figli adolescenti, la difficoltà dei rapporti tra genitori e figli ricongiunti e la perdita della funzionalità genitoriale per il mancato riconoscimento dei figli, sono elementi emersi anche tra i giovani rumeni incontrati per la ricerca “Street Monkeys” nei confronti delle madri o di entrambi i genitori partiti anni prima di loro. 111 Hadi è un amico di Fahmi, anche lui di seconda generazione, di origine marocchina e sui 20 anni. RAPPORTO SECONDGEN un percorso scolastico breve112, con la tendenza a seguire gli amici “disoccupati” “tagliando” la scuola e con l’attivazione delle proprie reti sociali per riparare il danno quando si rischia la bocciatura, con la credenza che studiare e ottenere un diploma sia importante per trovare lavoro perché serve il “pezzo di carta”. Tutti i giovani che ho incontrato e con cui ho potuto affrontare questo tema, ammettono che la scuola professionale che hanno frequentato non sia utile in sé per entrare nel mercato del lavoro ma nel momento in cui permette di costruire un capitale sociale sfruttabile per le proprie scelte future. È a scuola che si costruiscono una serie di relazioni che offrono risorse materiali e sociali utili ad accedere e ad adattarsi all’ambiente sociale a cui si aspira (Ceravolo, Eve e Meraviglia, 2001). Come avviene questo nell’esperienza dei magrebini incontrati? Attraverso lo stage obbligatorio richiesto dalla scuola prima di ottenere la qualifica e il diploma. Lo stage sembra essere importante per tre motivi: in primo luogo, cominciano a conoscere aziende o professionisti del proprio campo di studi che altrimenti non raggiungerebbero; in secondo luogo, permette loro di fare esperienza pratica e di imparare il lavoro per il quale si stanno formando; terzo, offre loro visibilità facendosi conoscere direttamente dal datore di lavoro; infine, offre occasioni per costruire relazioni utili per entrare nel mercato del lavoro una volta conseguito il titolo. Tutti ammettono che la scuola non ha insegnato come cercare lavoro, come presentarsi, come mettere in pratica quello che studiano, se non nelle poche ore di laboratorio. Ciò che è stato davvero utile è lo stage, anche solo nel fare capire quanto poi le scelte scolastiche fatte siano state corrette in base alle preferenze personali che, crescendo, possono cambiare. [Parlando dello stage] Sì ho fatto, sì ho fatto quattro mesi, con la scuola quella di elettricista, l’ho fatto in un’azienda e sono serviti quei mesi, per forza, è lì che impari un po’ il lavoro, diciamo molto più che a scuola, sì! [lo dice con un tono come se fosse scontato che la scuola non ti prepara per lavorare] è per questo che se andavo prima a lavorare imparavo prima e anche… mi veniva quella voglia di imparare non come a scuola [Abed, 19 anni]. Fahmi: Ho fatto dei lavoretti… quest’anno finito lo stage mi ha preso a lavorare con lui, mi ha fatto un contratto occasionale cè, solo quando c’è da lavorare però lavoravo tutti i giorni […] Io: Hai lavorato nel settore in cui ti stai diplomando? Fahmi: Sì ho fatto due impianti civili, abbiamo allestito un ufficio, abbiamo montato prese, lampade, torrette internet, abbiamo fatto praticamente tutto quello che si trova in ufficio. Lavoravo dalle nove fino alle cinque e facevano due ore di pranzo… io non li facevo perché mangiavo e iniziavo direttamente a lavorare, loro andavano a mangiare, mi diceva “fai quello! fai quello!” Io: Quindi lavoravi anche di più di quello che avresti dovuto? Fahmi: Eh sì, nello stage lavoravi anche di più! Dovevi fare sei ore di stage al giorno invece noi a volte uscivamo alle otto, cè, non dicevo niente… per imparare io… anche io volevo cè, lui mi ha sfruttato di più, anche io l’ho sfruttato nel senso che volevo imparare Io: E lo stage non era retribuito? Fahmi: No, non era retribuito però lui mi dava venti euro ogni venerdì… una cortesia da lui, diciamo [con tono ironico]… mi ha mandato la scuola… la scuola ci ha chiesto se conoscevamo qualcuno che fa il nostro mestiere, se conoscevamo potevamo andare a fare lo stage da lui. La scuola faceva l’assicurazione, faceva quelle cose là, boh! Non conoscevo nessuno, ho affidato alla scuola questa cosa e mi hanno mandato qui, anche se il datore di lavoro mi trattava bene, mi rispettava, però solo nel lavoro! Cè, mi teneva di più mi… per esempio mi ha fatto montare degli scaffali, pulire la cantina… nello stage! Non potevi dire niente perché in fondo tanto lui scriveva il suo rapporto “è normale, così, qua, di là” e ti rimaneva sempre nel… Sì le mie dita mi facevano male qua per avvitare le vite [viti], i bulloni con la mano… pazzesco! A volte mi sentivo sfruttato da matti però… quello è il mondo del lavoro, devi lavorare… l’unica cosa che passa per la mente la impari e boh! Io: Lo stage è durato quanto? Fahmi: È durato… un mese Io: Lui dopo ha cominciato a farti dei contratti? Fahmi: Sì dei contratti occasionali… ti fa cinque giorni di contratto, poi ti fa altri cinque giorni o quattro giorni che lui anche aveva paura che se non c’era più lavoro non riusciva poi a pagarmi Io: Lui ti ha detto così? Fahmi: Eh sì! [Fahmi, 20 anni]. Io: Senti un po’, ma secondo te la scuola italiana serve per entrare nel mercato del lavoro? Rajab: hm… no! Nessuno a scuola ti insegna cosa vuol dire lavorare e come cercare il lavoro, la teoria serve poco soprattutto se non studi e comunque quello che ti serve dopo è l’esperienza pratica ma a scuola si fa poca pratica, pochi laboratori, l’unica cosa positiva è che ti fanno fare lo stage obbligatorio, lì sì che impari qualcosa e ti crei anche i contatti per dopo. Ad esempio, io ho fatto lo stage presso un’azienda che sta qui a Torino, qui vicino [azienda 112 Molti di quelli che si fermano alla qualifica, all’inizio della scuola superiore erano orientati al raggiungimento del diploma. RAPPORTO SECONDGEN manifatturiera italiana, che produce apparecchiature e macchine elettriche vendute nell’area mediterranea presso clienti appartenenti al comparto oil&gas, produzione e distribuzione di energia, centrali petrolchimiche in genere, raffinerie, altre aziende] e lì mi sono trovato bene, ho imparato delle cose, più di quello che ho imparato a scuola. Ora mi hanno detto che per il periodo estivo hanno bisogno, un part time, a me va benissimo, mi hanno detto di mandare il curriculum con copia della qualifica per vedere se prendermi [Rajab, 18 anni]. Lo spazio di apprendimento delle pratiche “devianti”: il Giardino e i suoi abitanti I giovani incontrati in Giardino, così come quelli incontrati in altri contesti torinesi o della provincia, sono accomunati dal fatto di essere bene integrati nella cultura giovanile italiana locale. Come emerge dagli studi sui giovani latinos di Genova e da altri studi sulle seconde generazioni (Dal Lago e Quadrelli, 2003; Colombo, 2005b; Queirolo Palmas e Torre, 2005; Queirolo Palmas, 2006a, 2006b), le aspettative, gli orientamenti di valore, le preferenze e i gusti di questi giovani coincidono con quelli dei loro coetanei autoctoni di tutte le classi sociali. Dai racconti emerge quanto già confermato da autori come Queirolo Palmas, Colombo, Quadrelli: il consumo e l’accesso al denaro si configurano come simbolo ed espressione di identità e integrazione sociale, mentre l’indipendenza, l’autonomia e la libertà individuale sono valori considerati fondamentali per una piena realizzazione di sé. Per questi giovani, è fondamentale avere l’ultimo modello di smartphone uscito sul mercato, l’ultimo modello di scarpe Nike o Adidas, l’ultimo modello d’auto di una precisa casa automobilistica oltre che l’andare in discoteca e poter “tirare fuori i soldi” per consumare o offrire un cocktail alla ragazza che interessa. L’abbigliamento, così come l’attività del consumo centrata sul divertimento e sulle relazioni sociali, sono simboli che veicolano identità e status ricercati da molti adolescenti di qualunque origine nazionale, soprattutto quando è percepita una deprivazione relativa e per il carico simbolico che assumono alcuni beni e stili di consumo (Colombo, 2005b; Queirolo Palmas e Torre, 2005). Come è emerso precedentemente, sono principalmente due i luoghi frequentati quotidianamente all’arrivo in Italia da questi giovani, luoghi che si presentano come i primi “mondi sociali” ai quali accedono: la scuola e gli spazi pubblici urbani del quartiere di residenza. L’“acculturazione” ai modelli valoriali e agli stili di vita dei magrebini incontrati comincia nella scuola dell’obbligo quando, giunti in Italia, entrano in contatto con un ambiente sociale “ibrido”, formato da coetanei italiani e seconde generazioni arrivate prima (Bourdieu, 2001; Ceravolo, Eve e Meraviglia, 2001; Queirolo Palmas, 2006a, 2006b). È a scuola che questi giovani imparano gusti, preferenze e modelli culturali di inclusione e di ascesa sociale, acquisiscono informazioni utili a muoversi nella società più ampia ma soprattutto quelle utili ad integrarsi tra i pari della società di arrivo. Loro non solo imparano le norme e le regole del funzionamento della società italiana, imparando ad esserne cittadini, ma soprattutto imparano ad essere “giovani italiani” di quartieri periferici apprendendo gusti e preferenze da chi proviene da contesti socio-economici simili. Tuttavia, come si cercherà di mostrare, anche in Giardino apprendono e, soprattutto, danno forma e manifestano gusti, preferenze, valori attraverso la scelta dell’abbigliamento, della musica, dei luoghi e delle forme del divertimento. Durante l’osservazione sono emersi due stili prevalenti tra i giovani italiani e di origine straniera residenti nella zona113. Uno stile è quello del “tamarro di Barriera”, molto diffuso in diversi contesti periferici urbani, come quelli dell’hinterland torinese. Il dizionario italiano definisce, il tamarro come “giovane dei quartieri periferici, che segue gli aspetti più appariscenti e volgari della moda” (Hoepli.it), mentre l’enciclopedia Treccani lo definisce come “voce regionale, in uso nell’Italia meridionale, e da lì diffusa anche altrove nel gergo giovanile per indicare persona, per lo più di periferia, dai modi e dall’aspetto rozzi, volgari, villani” (Treccani.it). Conosciuto anche come truzzo, zarro o zama nel contesto torinese, il tamarro si distingue dal “fighetto” perché quest'ultimo acquista ogni capo d’abbigliamento originale e a prezzo pieno. Al contrario, il truzzo privilegia marche diffuse ma non necessariamente pregiate ed elitarie (come la Nike) e spesso indossa abiti “taroccati” che riproducono quelli originali di firme quali Prada, Gucci, Lacoste, Louis Vuitton oppure originali acquistati al mercato di Porta Palazzo a basso costo114. Inoltre, ha la tendenza ad apparire ed esporre in modo sfarzoso capi d’abbigliamento e accessori vari, risultando tuttavia pacchiano e non 113 Il fatto che in quartiere è possibile osservare due stili ai quali ricondurre secondo una logica fuzzy gran parte dei giovani, non significa che non ci siano giovani che si esprimono con stili differenti. 114 Al mercato di Porta Palazzo accedono sia a beni contraffatti sia a quelli originali rubati e rivenduti a prezzi inferiori e accessibili alla popolazione del luogo sul mercato nero. RAPPORTO SECONDGEN sempre “all’ultima moda”, anche a causa di un’impossibilità economica e culturale (il gusto appreso nel contesto sociale di vita) ad accedere a beni di lusso. L’abbigliamento tipico del tamarro della zona è composto da jeans molto stretti o pantaloni della tuta un po’ larghi ma stretti alla caviglia, maglietta aderente meglio se con la firma ben stampata davanti, poco importa se originale, e scarpe da ginnastica alte Nike o Adidas. A volte portano visibile una spilla con la scritta “Barriera domina”, amano ricoprirsi il corpo con tatuaggi tribali e girano su auto con l’assetto basso tanto da toccare i dossi, luci possibilmente blu e impianto stereo super tecnologico e potente: il “tamarro di Barriera” prima si sente e poi si vede. Ascoltano per lo più musica pop, techno115, latino-americana e tutta quella musica offerta dai mass media. Altri hanno un abbigliamento più vicino allo stile del rapper, richiamando elementi dell’hip hop116, dove la marca è sempre ricercata, ma solo quella dello stile: da Majestic a Franklin & Marshall, da Nikita a Puma, da Nike ad Adidas. Indossano pantaloni più o meno larghi, portati rigorosamente bassi e a volte al di sotto del sedere in modo che possano essere visibili gli indumenti intimi, anche questi di marca, magliette e canotte molto larghe che spesso riproducono quelle da baseball “New York Yankees” o da basket, felpe molto grosse, giubbotti da baseball e berretti con la visiera “Starter”. Spesso hanno catene al collo o collane molto grosse. Girano o aspirano a girare con auto potenti e costose, nelle quali è importante l’impianto stereo per ascoltare la musica. Ascoltano per lo più musica rap, spesso anche improvvisata (freestyle) che esprime sentimenti e storie vicine al contesto sociale in cui sono inseriti i giovani del quartiere. Oltre al vestiario e alla musica, si atteggiano da rapper con i movimenti del corpo che accompagnano le loro interazioni verbali. Può capitare di trovare giovani che hanno uno stile intermedio tra quello “tamarro” e quello hip hop. Infatti, i giovani magrebini osservati in Giardino non hanno appreso in modo passivo gusti, preferenze e modelli identificativi, ma li hanno reinterpretati in base anche ai pari frequentati quotidianamente. I magrebini incontrati si collocano a metà tra il tamarro e il rapper, creando un ibrido particolare. Tra di loro ci si veste con abiti che ricordano entrambi gli stili, ascoltano sia musica pop sia musica rap e qualche brano famoso reggae. Spesso è musica di cantanti e gruppi del paese di origine, in lingua araba o marocchina. Si tratta di uno stile ibrido che nasce dall’incontro di ciò che trovano nella micro-società di arrivo (nelle scuole e nei luoghi di aggregazione del quartiere) e ciò che i più grandi del giardino indossano, diventando dei modelli del gusto117. I gusti per un determinato abbigliamento, per la musica ascoltata ad alto volume nel luogo pubblico, i movimenti del corpo e le interazioni fisiche legate al saluto, così come il gergo parlato, sono appresi in Giardino, ovvero un contesto socio-culturale che a sua volta è inserito in altri contesti più ampi (quello del quartiere di Barriera di Milano e Porta Palazzo, quello urbano di Torino, ma anche quello mediatico italiano). Contesti dai quali i giovani prendono spunti per poi acquisire una propria specificità. A scuola e in Giardino hanno conosciuto stili musicali e di abbigliamento, ma è in Giardino che apprendono le norme e le regole d’interazione tra pari, così come i linguaggi verbali e del corpo usati durante l’interazione, come specifici del loro gruppo. La lingua che parlano è un ibrido che nasce dal marocchino e da forme dialettali specifiche e dal gergo giovanile diffuso in Barriera di Milano118. Le conversazioni sono spesso 115 La musica techno è un genere musicale nato a Detroit, Michigan (USA), negli anni ‘80 e appartenente alla electronic dance music, suddivisa in innumerevoli sottogeneri, a seconda di varie caratteristiche di tipo ritmico, melodico e sonoro. È un genere elettronico da ballo dove la musica è prodotta da suoni sintetici, ovvero è generata da segnali e non da vibrazioni acustiche. 116 L’hip hop è un movimento culturale che nasce nei primi anni '70 del secolo scorso nelle comunità afroamericane e latinoamericane del Bronx, quartiere “ghetto” di New York di fama mondiale. L’hip hop è caratterizzato dalla musica rap introdotta dagli afroamericani, il Djing introdotto dai giamaicani, dai Block party (feste di strada), dal writing (l’arte urbana che simboleggia l’appropriazione del territorio urbano come spazio di vita e spazio di espressione), dal B-boying ovvero uno stile molto dinamico e acrobatico di ballo nato direttamente nel Bronx, il Beatboxing ovvero l’arte di creare melodie e ritmi utilizzando esclusivamente la voce, infine, dall’attivismo politico, la moda nell’abbigliamento, lo slang utilizzato. 117 Questo stile ibrido è stato osservato anche tra alcuni gli adolescenti rumeni e italiani incontrati durante la precedente ricerca in Barriera di Milano “Street Monkeys”. 118 Ad esempio è molto diffuso l'uso dell'intercalare “cè” e del “minchia” nelle conversazioni in lingua o di termini specifici che hanno imparato nel luogo, come “ciocchi” per indicare le pratiche illegali attivate per guadagnare denaro o risparmiarne in caso ci si trovi di fronte ad un problema. Un esempio è il mettere in scena un incidente stradale fasullo al fine di prendere soldi dall'assicurazione per aggiustare l'auto danneggiata per altri motivi. RAPPORTO SECONDGEN intercalate da parole italiane, per lo più provenienti dal linguaggio triviale, e da parole gergali diffuse tra i giovani della zona. Tra i ciondoli appesi al collo, vi sono sovente simboli religiosi e l’abbigliamento del rapper/tamarro spesso è accompagnato dalla kefiah, altro indumento simbolico conosciuto spesso nella società di arrivo. Si osserva la creazione di uno stile specifico che evoca sia l’identificazione con un gruppo definibile, sia una certa “auto-sufficienza” nei riferimenti culturali rispetto ai consumi. Si tratta di un processo molto vicino a quello descritto da Roy (2003) sui giovani beur delle periferie francesi. Anche qui si intravede un processo di “etnicizzazione di uno spazio di esclusione sociale” (Roy, 2003, pag. 62), dove l’essere magrebini e arabi è scoperto e costruito nel contesto urbano periferico della società di arrivo. L’abbigliamento, i gusti culinari (fast food occidentali e “etnici”), la musica, la lingua, la “sete” di consumo, le norme sociali che regolano l’interazione tra pari sono marcatori di un’identità costruita in Giardino in modo creativo e contestuale allo spazio sociale, culturale ed economico in cui vivono quotidianamente: quello italiano e, nello specifico, quello torinese. È in giardino che si apprende l’appartenenza al mondo arabo, imparando a solidarizzare con il popolo palestinese e a indossare la kefiah oppure conoscendo i gruppi musicali magrebini. Come sottolinea l’autore francese, i contenuti della costruzione etnica sono molto più vicini a quelli che caratterizzano l’identità dei gruppi di giovani italiani e di origine straniera che vivono in contesti sociali simili a quello osservato, piuttosto che a quelli dei giovani connazionali rimasti al paese d’origine. Sono più vicini ai giovani dell’Africa sub-sahariana che frequentano il giardino e ad alcuni giovani italiani e rumeni incontrati in quartiere, che ai coetanei rimasti al paese con quali hanno difficoltà ad identificarsi e interagire quando, ad esempio, tornano al paese di origine. [Parlando dell’Italia] E mi piace anche perché oramai la mia vita è costruita qua, i miei amici sono qua… Lì la vita inizia da 13 anni, 14 in poi inizi a conoscere… io in Marocco non ho tanti amici, cè, quelli della scuola non li conosco, ormai sono cresciuti, sono sposati pure [Fahmi, 20 anni]. Questi sono solo alcuni elementi che permettono ai giovani incontrati di ottenere riconoscimento nel gruppo dei pari, prima ancora che al di fuori, quando si esce dal Giardino, dal quartiere e dal suo spazio sociale. Se in centro a Torino non è possibile girare con le “scarpe dei cinesi” (Fahmi), perché questo sottolinea la povertà confermando lo stereotipo pauperista dell’immigrato (povero e bisognoso), lo è ancora di più nel quartiere e nel Giardino dove loro hanno reali possibilità di ottenere riconoscimento sociale e status, a differenza di quanto possa avvenire nelle strade più anonime del centro. Per questo quando si esce in quartiere, ma soprattutto in Giardino, ci si veste bene e non si mette quello che capita, si fa attenzione a cosa si indossa, agli accessori di accompagnamento e a come ci si è pettinati per evitare di diventare oggetto di battute e scherni degli amici. Come tanti coetanei, anche loro raccolgono informazioni utili, apprendono modelli culturali e formano le proprie preferenze, credenze e i propri gusti in famiglia, tra i compagni di scuola, tra i pari e attraverso i mass media. Tuttavia, come molti coetanei italiani e stranieri di bassa classe sociale, questi giovani sono accomunati dal fatto di vivere con un capitale economico e sociale ridotto119: le famiglie non sostengono i loro gusti e preferenze sia economicamente sia culturalmente. I genitori di questi giovani non hanno disponibilità economica da offrire per i consumi, i divertimento e spesso non comprendono che questi sono bisogni importanti per l’età sociale che vivono (l’adolescenza) e l’inclusione nella società di arrivo (il mondo dei pari). Il tentativo di raggiungere i modelli culturali, valoriali e stili di vita appresi non è spiegato dalla volontà di distinguersi, come succede tra le classi elitarie (Bourdieu, 2001), ma di uguagliarsi al gruppo dei pari e al mondo della società dominante - la classe media -, della quale condividono norme, valori e atteggiamenti. Così come le classi medie emulano la borghesia (Ibidem, 2001), i giovani incontrati lo fanno emulando quelli della classe media italiana nell’ottica di poter avviare un percorso di ascesa sociale, cominciando dall’ottenere riconoscimento attraverso il consumo: il potere del possedere e il potere di spendere. Tuttavia, questo tentativo di uguagliarsi non significa emulare passivamente gusti e preferenze. Al contrario, le preferenze e il gusto sono adattati, modellati e interpretati in base alle individualità, alle appartenenze di gruppo e anche alle reali possibilità. Si ricerca il bene di marca, ma lo si personalizza accostandolo a qualche indumento più umile che fanno risaltare consapevolmente, come le mutande con la scritta “Abibas” anziché “Adidas”. 119 Caratteristica che accomuna i magrebini qui presentati a molti italiani appartenenti alle classi più basse residenti nel quartiere di Barriera di Milano e incontrati durante la ricerca Street Monkeys. RAPPORTO SECONDGEN Sebbene qualcuno tenda a “fare di necessità virtù”, quando la credenza che un determinato bene sia fondamentale per acquisire status, posizione sociale, identità e inclusione si scontra con le reali opportunità a disposizione, questo attiverà pratiche e scelte conformi a quelle opportunità d’azione e a quei desideri (Hedström, 2006). Pratiche che, nel caso di alcuni giovani incontrati, sono etichettate come devianti e illegali: guadagnano soldi durante la scuola dell’obbligo (medie e superiori) attraverso spaccio di strada, furti, scippi, rapine e ricettazione, e li spendono nel mercato nero dei beni rubati e/o contraffatti. Tuttavia, come sostengono Matza e Sykes (1961), i “devianti” sono parte della società che li etichetta come tali: condividono norme, valori e atteggiamenti dell’ordine sociale dominante e l’approccio che i magrebini incontrati hanno con il denaro e con il lavoro non “devia” da quello della società dominante. Né la volontà di accumulare denaro né quella di spenderlo fa di loro degli “stranieri” della società dominante: il deviante è conforme alla società nel momento in cui incorpora il denaro nel suo sistema di valore (Ibidem, 1961). Fahmi: io conosco lo spacciatore, glielo vado a prendere dallo spacciatore in prestito, io lo vendo, gli vado a dare allo spacciatore i suoi soldi e mi guadagno una parte… faccio da intermediario… sei seduto qua, arriva uno che ha bisogno di fumo, tu glielo vai a prendere dallo spacciatore che lo conosci, visto che fumo anch’io, poi se c’avevo del fumo mio che compravo io vendevo una parte e mi rimaneva una parte gratis… Io: Ho capito… quindi così riesci a metterti dei soldi da parte per i tuoi consumi Fahmi: Esatto […] Io: Ma questo bisogno di indipendenza economica dai tuoi genitori da dove nasce? Fahmi: Non è che i miei genitori mi devono mantenere a vita sai, ho vent’anni! Mi devono mantenere gli studi, la scuola. Sai, a volte mi viene fame a scuola, mi devo comprare i panini, mi devo comprare le sigarette, mi devo comprare i vestiti, sai tuo padre mica ti compra le scarpe che costano duecento, cento euro… no! Ti compra delle scarpe normali che costano meno Io: Quindi i tuoi consumi personali non sono soddisfatti dai tuoi genitori e tu di conseguenza senti il bisogno di avere dei soldi tuoi? Fahmi: Sì non vengono soddisfatti come voglio io cè, mangiare, comprarmi dei vestiti, vestirmi normalmente, andare a scuola quello sì, però… non mi manca niente a casa, nel senso che non mangio, non ho vestiti, però sai, mica ti compra vestiti che costano tanto, no? Non spende tutto lo stipendio solo per me! Scarpe che costano cento, vestiti che costano cento, e mio fratello la stessa cosa, mia sorella la stessa cosa, paga l’affitto, che cosa gli rimane? Cosa fa? [ridendo] […] lui per i soldi, se io voglio comprare un libro, se gli dici che costa cento euro ti dà cento euro… per le scarpe no, per le scarpe ti dice “Compra scarpe normali, cosa ti servono quelle da cento euro?” invece tu vuoi scarpe firmate, vuoi i vestiti firmati sai, no?... è questo il problema! [Fahmi, 20 anni]. Diario etnografico: 30 maggio 2013 [chiacchierando con Mufeed e Ziyad] “I giovani italiani non fanno più figli, e fanno bene in un certo senso, e se ne vanno da qui, tra poco gli unici giovani e bambini saremo noi immigrati!” dice Ziyad con tono serio, Mufeed annuisce. Io allora chiedo: “Ma cosa intendete quando dite che gli italiani non fanno figli e fanno anche bene? “Perché qui non si può vivere e pensare di fare una famiglia, non c’è lavoro e non ci sono soldi, come puoi fare figli se non puoi garantire nulla a loro per dopo? Da noi fanno figli anche se non hanno certezze, è sbagliato! Ecco poi come andiamo a finire, che noi spacciamo per vivere perché i nostri genitori non hanno i soldi nemmeno per loro!” dice Mufeed con un tono angoscioso e arrabbiato. Queste pratiche rispondono al desiderio di inclusione sociale, economica e in parte giuridica dei magrebini incontrati, e sono cariche di valenza simbolica. Il processo di “integrazione” mostra in parte la loro capacità di “adattamento” e apprendimento di valori, credenze, norme e modelli comportamentali proprie della società di arrivo. Infatti, i giovani incontrati agiscono sulla base di valori presenti nella società dominante italiana, sia quando “deviano” mettendo in pratica attività illecite di guadagno e pratiche trasgressive di divertimento, sia quando fanno emergere il loro “senso di colpa” legato all’atto “deviante” compiuto. I giovani “devianti” non fanno altro che mettere in pratica i valori presenti e in parte condivisi anche da parte della classe dominante (Matza e Sykes, 1961), ma celati in spazi privati, in contesti e luoghi protetti, dove questi sono accettati. In effetti Veblen (1999) ha evidenziato molto bene quali fossero già a fine Ottocento i valori della classe agiata: il rifiuto della disciplina del lavoro, il gusto per la lussuria e per i consumi corposi, l’enfasi sul coraggio e l’avventura, il rispetto per la forza come simbolo di virilità. La dimostrazione della “appartenenza” al sistema valoriale dominante emerge nei racconti dei giovani incontrati quando valutano l’atto “deviante” come moralmente sbagliato, ammirano chi rispetta la legge e, infine, frequentano anche altri ambienti sociali (famiglia e scuola) nei quali ricevono pressioni verso la conformità alle norme, valori e atteggiamenti dell'ordine sociale, anziché verso la devianza. Elementi fondamentali utilizzati da autori come Sutherland, Matza e Sykes per smentire la teoria delle sub-culture RAPPORTO SECONDGEN come modello comprensivo ed esplicativo della devianza stessa: questi giovani non sono portatori di una cultura della devianza perché le loro norme, valori, atteggiamenti non rientrano in tale cultura. Sono parte della società dominante e sono “integrati” in questa apprendendone i valori attraverso la mediazione delle cerchie sociali in cui sono inseriti e agiscono (famiglia, scuola, pari e altri incontrati negli spazi di aggregazione informale). Avendo incorporato norme e valori della società dominante, nessuno dei giovani incontrati sostiene che spacciare o rubare sia una forma di lavoro. Questo, infatti, è definito come un’attività onesta e utile alla società, che non danneggia altri, che piace, che da soddisfazioni personali, riconoscimento sociale e monetario adeguato ad una vita dignitosa. Tutti raccontano che spacciare, bere alcolici, rubare, rapinare sono pratiche non buone perché implicano un guadagno personale danneggiando l’altro. Queste pratiche possono essere lette come un tentativo di ribellione all’accettazione della condizione di emarginazione in quanto poveri e stranieri (giuridicamente e perché così percepiti), rivendicando la possibilità e la libertà di mettere anche in pratica quei valori appresi dalla società (guadagno e spesa). Infatti, da un lato sono pratiche che rispondono al bisogno di dare forma, specificità e visibilità120 al proprio essere, cercando di costruire una propria identità e visibilità nel gruppo dei pari e nella società più ampia. Dall’altro lato, il consumo diventa un sostituto del mancato riconoscimento dei diritti di cittadinanza, un modo per manifestare la propria presenza rivendicando partecipazione in una società dove il consumo non solo ti rende visibile (essere) ma ti rende anche una persona e un “cittadino” nel momento in cui permette il riconoscimento (esistenza) (Quadrelli, 2003; Queirolo Palmas e Torre, 2005; Dal Lago, 2006). Il bisogno di riconoscimento e inclusione emerge tra i pari incontrati a scuola e nel tempo libero, ovvero tra coetanei autoctoni e di origine straniera. Tuttavia, il bisogno di liquidità da spendere, la “sete” di consumo come mezzo per ottenere riconoscimento, prestigio e integrazione tra i pari, prendono forma nell’esperienza extra-scolastica. È in Giardino che apprendono la necessità di avere una grossa quantità di soldi a disposizione per il consumo, per il divertimento e per la costruzione delle relazione sociali, nonché per il loro mantenimento nel tempo. Fahmi: Eh vedi i ragazzi che sono vestiti con la roba firmata, dipende dalla gente che frequenti… se ti vedono con delle scarpe… per esempio, se vai in centro mica vedi uno che c’ha scarpe cinesi sai? [Mio padre] dice: “Cosa ti servono questi soldi! Stai mangiando, hai i vestiti cosa vuoi questi soldi?” però se c’hai soldi è un’altra cosa! Magari se esci compri una cosa che ti piace, mica vai a chiedergli “Oh! Voglio comprare quello, quello e quello!” no! non mi piace chiedere i soldi a mio padre, non mi piace perché so che lui ha sudato, già paga l’affitto, paga le bollette, paga queste cose qua… non mi piace chiedergli i soldi! […] Se gli dico “Vado in discoteca” mi dice “No, non andare” non vuole ha paura che litigo con qualcuno e vado in galera, e queste cose qua! Lui pensa sempre al negativo [Fahmi, 20 anni]. Non solo il bisogno, ma anche il comportamento “deviante” è appreso nei gruppi primari (Sutherland e Cressey, 1986). Nel contesto sociale quotidiano del Giardino si impara che lo spaccio di strada è utile per guadagnare la propria parte di consumo della sostanza o per avere soldi per altri consumi; il furto nel supermercato per poter avere tutto ciò che serve per divertirsi (come ad esempio l’alcol per fare serata); il consumo di Rivotril121 per ottenere il coraggio per fare una rapina; la ricettazione di beni rubati al fine di guadagnare qualche soldo. Beni più o meno costosi (Tablet, i-Phon, smartphone, biciclette, pc, ecc.) passano continuamente dalle loro mani, sono usati per esigenze personali contingenti e spariscono non appena trovano un potenziale acquirente. Io: Senti nei posti che frequenti, per esempio questi giardini, cosa hai imparato? Fahmi: Hm… ho imparato ad apprezzare il lavoro se lo trovo non lo mollo più… qualsiasi lavoro legale, se lo volevo illegale lo facevo, non è difficile… non ho bisogno di un datore di lavoro eheheh [ride] 120 Visibile anche nel gusto espresso in termini di abbigliamento, accessori, musica e luoghi del divertimento scelti e che si è tentato di descrivere sopra. 121 Dalla precedente ricerca a cui ho partecipato, Street Monkeys, è emerso l’importante uso del Rivotril tra i giovani marocchini. Il Rivotril, al quale sembra accedano nel mercato nero in uno scambio tra spacciatori e consumatori di sostanze che spesso non hanno denaro per acquistare la sostanza, è un anti-epilettico che, se usato da chi non ha bisogno, provoca degli stati di incoscienza forti. Usato tradizionalmente in Marocco in pratiche autolesioniste di alcuni giovani della capitale, in Italia spesso è usato per dimenticare momenti dolorosi o la situazione difficile che molti di loro sperimentano (uno degli effetti della sostanza è il cancellare completamente la memoria) e/o per avere il coraggio e la forza necessaria per fare rapine. RAPPORTO SECONDGEN Io: Dici che è più facile fare un lavoro illegale? Fahmi: Sì… come spacciare o rubare… ed è facile Io: Ma rubare cosa fai, poi vai a rivendere quello che rubi? Fahmi: Eh sì… [Fahmi, 20 anni]. Interessante, inoltre, come non solo apprendano la pratica illegale che permette di accedere al consumo e, quindi, avere quei beni status symbol che implicano riconoscimento sociale, ma anche come intraprendere una “carriera nella devianza”. Tutti iniziano con piccoli furti nei supermercati, passano al piccolo spaccio di strada (la sostanza spacciata è l’hashish) e piano piano, grazie ad una crescita delle loro reti sociali locali più specializzate nelle pratiche illegali, imparano le norme e le pratiche che permettono di accedere ad un percorso di mobilità sociale ascendente nella devianza. Apprendono, ad esempio, che per fare una rapina è bene uscire dalla propria “zona” affinché non si venga riconosciuti dalle vittime, da altri residenti e dalle forze dell’ordine del quartiere. Inoltre, che il furto nel supermercato è semplice rispetto allo scippo, e ancora di più alla rapina, perché quest’ultima richiede più coraggio per entrare in interazione fisica e verbale con la vittima (Barbagli, 1995), coraggio dato dal Rivotril. Infine, imparano che per poter vivere di queste pratiche devono puntare a qualcosa di più remunerativo che possa effettivamente bilanciare i rischi dell’atto illegale. Solo diventando corriere o “commerciante” di grosse quantità di droga si può guadagnare quel capitale sociale ed economico che permette di mantenere una famiglia e di “sopravvivere” nel sistema giudiziario in caso di arresto. Infatti, tutti quelli che sono già incappati nel sistema penale, si scontrano con una realtà più dura: quella del carcere, dei processi, del potersi permettere l’avvocato giusto e dell’avere i giusti contatti per sopravvivere all’esperienza di detenzione. Quando iniziano i processi, i soldi guadagnati fino a quel momento non sono sufficienti per pagare un avvocato, spesso i genitori non possono sostenerli economicamente e, per alcuni, emerge anche il rischio di perdita delle relazioni sociali (la paura di essere “abbandonato” dalla famiglia di origine e di perdere legami amicali importanti e non centrati sulla devianza) oltre che di capitale economico. Si tratta di riflessioni che, tuttavia, emergono tra i più grandi d’età e per questo concordo con quanto detto sui giovani latinos di Genova (Queirolo Palmas e Torre, 2005): molte attività e modi di passare il tempo con i pari sono riconducibili anche all’età sociale che stanno vivendo (l’adolescenza), in contesti sociali particolarmente svantaggiati. Sono ragazzi che si divertono anche come gli autoctoni: consumano sostanze insieme ai pari, iniziando con l’hashish e l’alcol in quanto facilmente accessibili sia da un punto di vista culturale, sia in termini di disponibilità del bene ricercato e quindi di offerta sul mercato. L’hashish si trova con facilità anche a credito senza spostarsi dal proprio spazio urbano quotidiano, mentre l’alcol è facilmente accessibile ovunque, anche quando non ci sono soldi. Diario etnografico: 12 giugno 2013 [Fahmi racconta] un giorno che ero sempre con Abed, quel giorno abbiamo tagliato scuola e siamo andati con due ragazze, una era quella con cui stava uscendo lui, siamo andati al Lingotto. Come spesso succedeva in quel periodo avevamo gli zaini pieni di alcol. Quando siamo arrivati, dopo qualche giro, abbiamo tirato fuori le bottiglie e abbiamo cominciato a bere. Sai, le ragazze non hanno bevuto tanto ma io e Abed… soprattutto io, mi sono scolato quasi una bottiglia di Pampero, da allora non riesco più berlo. Non so come ho fatto, io non ero abituato a bere, sai, erano le prime volte e non avevo mai bevuto Pampero prima ma soprattutto non sapevo che conviene mischiarlo con Coca-cola o succo di frutta e non berlo così, liscio. Invece io continuavo a buttare giù, sai c’erano anche le ragazze! Facevo anche un po’ il figo! Avevo sedici anni mi pare! Comunque alla fine mi hanno di nuovo raccontato tutto, io che mi strisciavo sulle scale mobili, non mi reggevo in piedi e pure verso sera, quando sono tornato di qua con il bus, ho incontrato *** [giovane marocchino di seconda generazione coetaneo di Fahmi] che mi ha riportato a casa e poi mi ha raccontato lo stato in cui ero! Comunque, quando succede così, non sono più io!!!. Quante cazzate abbiamo fatto insieme, sai? Andavamo in giro, rubavamo nei supermercati super alcolici, bevevamo, facciamo cavolate… ma tu non sai che cavolate! Quando bevi o prendi le pastiglie, ad esempio, non sei più tu! Fai delle cose che altrimenti non avresti mai fatto! Comunque, solo di tre volte non mi ricordo proprio nulla, come se avessi cancellato quelle giornate, so quello che è successo sulla base di quello che mi raccontano gli altri! Una volta era un capodanno, eravamo nel pomeriggio in giro io e Abed, abbiamo rubato diverse bottiglie di Vodka al supermercato, avevamo gli zaini pieni di bottiglie e poi siamo venuti qui, siamo stati qui con altri amici, altri ragazzi, abbiamo bevuto e poi siamo andati in giro per il centro di Torino tutta la notte. Ma non ricordo niente di quel capodanno! So che mi sono divertito però! Un’altra volta che ho completamente cancellato dalla mia memoria è stato quando oltre a bere ho preso una pastiglia, mi sembra una, sì. Ma non quelle di anfetamine o cose così, una pastiglia di Rivotril, sai, l’antiepilettico. Lì dopo poco sono stato male, ero a terra e non mi alzavo più, hanno chiamato l’ambulanza, è venuto il 118 e i carabinieri, mi hanno portato al pronto soccorso sai! I miei amici avevano detto che ero solo ubriaco, dicevo cazzate ma non ricordo. Mi hanno raccontato che non volevo dare loro il portafoglio, nemmeno ai mie amici! Quelli RAPPORTO SECONDGEN dell’ambulanza e poi all’ospedale hanno chiesto i documenti per registrarmi, sai, ma io dicevo che non glieli avrei dati perché non mi fidavo di nessuno e avevo paura che me lo avrebbero rubato. Quello era il mio portafoglio, non avevo niente, solo i documenti, ma per me i documenti erano molto importanti! Poi sono scappato dal pronto soccorso e quando due settimane dopo sono tornato casualmente nello stesso ospedale perché mia sorella doveva essere operata di appendicite, quello della sicurezza mi dice “sei di nuovo ubriaco?” ridendo. Io subito non capivo e comunque facevo finta di nulla, sai ero con mio papà! Sospettando la cosa, non volevo che mio padre scoprisse cosa avessi combinato! Poi da solo mi sono avvicinato a lui e gli ho chiesto e lui mi ha raccontato che cosa avevo combinato! Il Giardino, quindi, non crea solo la necessità ma offre anche la soluzione, insegnando ai “nuovi” arrivati le pratiche per guadagnare soldi facilmente, così come i significati dati alle pratiche stesse. In Giardino imparano a legittimare l’azione deviante, interiorizzando le tecniche di neutralizzazione (Sykes e Matza, 1957): apprendono dai pari quelle strategie discorsive messe in atto per minimizzare, giustificare, scusare le implicazioni morali e psicologiche dell’atto deviante. Si tratta di negazioni giustificative (Vidoni Guidoni, 2000) che, agendo prima dell’azione, la rendono possibile in quanto accettabile al ragazzo stesso e agli altri con cui interagisce. Si tratta di un processo di neutralizzazione delle norme giuridiche e sociali dominanti a cui anche il deviante parzialmente aderisce, al fine di infrangerle senza compromettere la sua identità sociale (Sykes e Matza, 1957). Tra i ragazzi incontrati sono emersi due tipi di negazioni giustificative: le giustificazioni e le scuse. Giustificazioni e scuse utilizzano vocabolari motivazionali (Mills, 1940), ovvero modelli di spiegazione dei comportamenti dominanti nella società, appresi e situati socialmente. Solo se le motivazioni sono accettate dal discorso dominante in quando parte di questo, quindi se hanno senso in un determinato gruppo o contesto sociale, possono legittimare l’atto e renderlo possibile: una negazione giustificativa è “tanto più accettata più è coerente con l’insieme dei vocabolari motivazionali prevalenti in una certa situazione sociale” (Vidoni Guidoni, 2000, pag. 79). Infine, non sempre è possibile distinguere in modo netto e chiaro le giustificazioni e le scuse perché i confini tra queste due forme di negazioni giustificative possono essere molto labili, sfocati e difficilmente individuabili nei racconti dei ragazzi. Le giustificazioni sono negazioni dove non si nega la responsabilità individuale dell’atto deviante, ma la sua connotazione negativa. Osservando cosa fanno i più grandi e attraverso le informazioni che circolano tra i pari, imparano a rivendicare la legittimità morale delle pratiche attivate di fronte ad una dichiarazione contraria (Scott e Lyman, 1968). Si tratta, pertanto, di un processo discorsivo che modifica la percezione che gli altri (il pubblico) possono avere dell’accaduto, attraverso la minimizzazione delle regole violate e invocando altre norme che trasformano l’atto deviante in qualcosa di buono, giusto, normale (Sykes e Matza, 1957; Scott e Lyman, 1968; Vidoni Guidoni, 2000). I magrebini incontrati si rifanno a giustificazioni come la diffusione della responsabilità o cinismo (Vidoni Guidoni, 2000). Un esempio è il tentativo di minimizzare l’azione deviante presentandola come un comportamento diffuso, normale nell’ambiente sociale quotidiano: “in quartiere e in giardino fanno tutti così!”. In questo caso, l’esistenza di una normalità percepita nel contesto di vita extra-familiare, il gruppo dei pari e chi si incontra in quartiere, autorizza l’atto che diventa legittimo. Io: Senti ma cosa vi spinge a scegliere di farvi soldi spacciando o rubando? Mufeed: Il problema è questo posto, sai? Io vivo lì [indica un palazzo che si affaccia nel giardino], andavo a scuola lì [indica le scuole medie] e i primi amici che ho conosciuto stavano qui in giardino. Tutti facevano e fanno queste cose qua, e ho imparato anch’io a farle. È questo posto che ti insegna a vivere così, anche perché non ci sono altre possibilità per ragazzi come noi! Io uscivo dalla scuola media, lasciavo lo zaino a mio fratello “portalo a casa!” gli dicevo, e poi stavo qui qualche ora a spacciare hashish! È il posto e anche gli amici sai? Loro non sono come un fratello che tiene alla tua vita, loro lo fanno e ti coinvolgono, visto che hanno scelto quella strada, sapendo che è sbagliato, è come se si sentissero più sicuri se lo fai anche tu! Così cominci, tanto è facile e ti fai anche tanti soldi, solo quando ti beccano cominci a capire che stai facendo delle cazzate! Soltanto che altre possibilità non ci sono e come fai vivere senza soldi? [Mufeed, 20 anni]. Un altro esempio è la percezione dei comportamenti devianti attivati come normali per l’età sociale che stanno vivendo, ovvero l’adolescenza: “ora sono giovane, poi metterò la testa a posto, anche mio padre fumava e beveva quando era giovane e adesso è un brav’uomo!”. Loro non negano la propria responsabilità ma la legano ad una fase della vita antecedente a quella adulta, dove è più diffuso il comportamento deviante, percependo la devianza come parte di un percorso normale di crescita. In questo RAPPORTO SECONDGEN caso, la devianza è legittimata trasformando l’atto illegale in “una cavolata da ragazzi!” che non pregiudica l’onestà futura del ragazzo, una volta adulto. Altre giustificazioni a cui si rifanno i ragazzi incontrati al fine di trasformare l’atto deviante in qualcosa di non negativo e sbagliato, sono quelle che ricadono nella categoria richiamo a lealtà superiori (Vidoni Guidoni, 2000), ovvero l’appello a valori, norme, imperativi del gruppo sociale a cui appartengono: l’amicizia, la solidarietà, la reciprocità, la sopravvivenza. Tra queste vi sono tutte quelle razionalizzazioni che definiscono l’atto deviante come una scelta “obbligata” dalla mancanza di alternative all’azione. Un esempio è la motivazione ampiamente diffusa che la loro appartenenza di classe, così come la disoccupazione e la difficoltà a trovare lavoro, non permettono di trovare altre forme di guadagno e di accedere ai beni del consumo e del divertimento: “i miei genitori non mantengono i miei consumi e desideri, loro mi danno da mangiare e da vestire ma non mi comprano le scarpe da 200 euro”; “la crisi e il razzismo mi ostacolano nel trovare un posto di lavoro, devo pur sopravvivere!”. Oppure affermare che l’atto deviante è praticato per essere accettati in un gruppo, l’unico gruppo al quale si crede che si possa accedere in virtù delle caratteristiche personali che si pensa di avere, sottolineando come probabilmente tutto questo non sarebbe successo se si fosse incontrato qualcun altro prima,. In questi casi, i ragazzi non negano la responsabilità dell’atto deviante, ma semplicemente percepiscono l’azione come inevitabile di fronte alla mancanza di alternative. Il vincolo che costringe alla violazione non è unicamente materiale ma anche valoriale, come il richiamo al bisogno di essere accettati nel gruppo dei pari, al legame di amicizia o all’imperativo della sopravvivenza. Io prima ho iniziato a fumare le canne, cè, a fare come gli altri, all’inizio ti sembra tutto bello, figo! Fai il gaggio, poi dopo solo la salute e il tuo futuro che stai distruggendo, nient’altro! Marinavo la scuola, andavo in altri posti, per esempio andavo al Lingotto a giocare, a fumare, a uscire con le ragazze. Io non andavo più a scuola perché volevo andare con gli altri, volevo fare parte di un gruppo per essere… per far parte di quel gruppo dovevo fumare anch’io, dovevo fare come facevano loro, per esempio, vedere delle persone, fare i prepotenti e tante altre cose! Farsi vedere gaggi, poi andare in centro, il nostro gruppo con altri gruppi a volte ci picchiavamo, è brutto! Perché non avevo nessun gruppo e stavo da solo, non volevo stare da solo, è brutto stare da solo! Cè, se ho [avessi] avuto delle persone che mi fossero venute incontro, a farmi fare altre cose, non avrei nemmeno conosciuto quel mondo lì! Conosco spacciatori, conosco ladri, conosco… li conosco tutti! È stato inevitabile conoscere loro, c’erano solo loro! [Fahmi, 20 anni]. Una giustificazione che alcuni autori, come Vidoni Guidoni (2000), fanno rientrare in questa categoria è la rivendicazione di un diritto, visibile nelle parole che seguono: Diario etnografico: 7 marzo 2013 [Parlando di furti in appartamento] “Rubare ai ricchi per dare ai poveri, alle banche, ai ricchi, come Robin Hood” dice Feisal! “Il mio cartone preferito fin da bambina” gli dico io, “Anche il mio!” risponde lui. […] “Ma chi sono questi ricchi?” e Feisal risponde “Le banche” continuando “facciamo una cosa, riuniamo un centinaio di ragazzi, andiamo in centro a Torino e spacchiamo tutto, derubiamo banche e negozi di lusso, spacchiamo e bruciamo!” con tono scherzoso! Nonostante il tono di Feisal fosse ironico, tuttavia manifesta il bisogno di partecipare ad un’azione collettiva forte con chiare connotazioni di classe (Roy, 2003). Lui non parla infatti delle condizioni critiche dei giovani di origine straniera in quanto stranieri, ma dei problemi di chi ha poco capitale economico e sociale utile per muoversi nella società e che rivendica una vita dignitosa e degna di essere vissuta. Ironicamente comunica uno stato di disagio collettivo, prima che individuale, che accomuna molti giovani della zona. Usando la metafora della “guerriglia urbana” e alludendo alla leggenda di Robin Hood, Feisal utilizza una giustificazione per legittimare l’atto deviante trasformando la pratica in un atto rivendicativo di un diritto: l’uguaglianza socio-economica. Ed ecco come il furto, lo spaccio e la rapina diventano forme “non convenzionali” di protesta e ribellione nei confronti di una società che esclude, emargina, innalza confini ostacolando le carriere e i percorsi di vita di chi sta oltre questi confini. Ecco come la pratica deviante assume un significato diverso e legittimo, rendendola possibile. Altre giustificazioni sono quelle che tendono a negare la vittima, che assegnano la responsabilità dell’azione deviante alla vittima stessa ponendo l’attenzione sulla legittimità della propria azione in virtù di determinate circostanze. Un esempio è il pensare che si possa rapinare i non appartenenti alla comunità musulmana, come i cristiani. In questo caso, la rapina praticata verso di loro perde la sua connotazione negativa in quanto la vittima è “straniera” alla propria comunità religiosa, e per questo può essere RAPPORTO SECONDGEN percepita come qualcuno che non riceve un’offesa o che si può offendere senza perdere reputazione e prestigio. Infine, vi sono giustificazioni che rientrano nella categoria condanna chi ti condanna, ovvero quando il “deviante” sposta l’attenzione dal proprio atto a chi lo sta sanzionando, al fine di screditare e ridurre l’autorevolezza del sanzionatore. Un esempio è giustificare il non rispetto dell’autorità dei docenti a scuola e il comportamento non adeguato tenuto in classe, dando la colpa agli insegnanti che “non sanno tenere la classe”122. Tra i ragazzi incontrati, infine, sono diffuse anche delle scuse a cui si appellano per legittimare l’azione deviante. Le scuse sono strategie di negazione in cui il deviante ammette la scorrettezza dell’atto ma ne nega la piena responsabilità, presentandosi come l’opposto delle giustificazioni. Nel tentativo di ridurre la relazione tra l’atto deviante e l’attore, con le scuse si cerca di diminuire la responsabilità personale o di spostare l’attribuzione di causalità da elementi dell’identità quali l’intenzionalità e la personalità, ad elementi esterni (Vidoni Guidoni, 2000). I ragazzi magrebini incontrati utilizzano scuse che tendono a negare la responsabilità o volontà personale, mentre nessuno usa scuse che negano l’intenzionalità dell’atto (Ibidem, 2000). Infatti, molti di loro affermano di non essere responsabili quando attribuiscono la propria azione deviante all’influenza di forze esterne che li guidano indipendentemente dalla loro volontà. Due esempi sono emersi dai racconti. Molto diffuso è il richiamo all’influenza delle cattive compagnie o amicizie del giardino: si inizia a fumare perché lo fanno gli altri, poi si comincia a tagliare la scuola per andare con gli amici in giro per Torino, infine, si prova a rubare, spacciare o rapinare perché la vicinanza di pari che attivano questi comportamenti aiutano a “definire la situazione come favorevole alla violazione”, trasmettendo i valori e le motivazioni necessari (Sutherland e Cressey, 1986). Se fumi per gli altri, per essere accettato fumi per gli altri, è brutto! Fumi, tossisci, loro ti ridono dietro, ehm, devi fare quello che ti piace, quello che pensi, non so come spiegarlo! Devi essere libero: nessuno deve dirti, per esempio, “tu vai là!”. Se dici “io cerco lavoro”, non lo trovi, vai al giardino a stare con degli amici e uno comincia a contare vicino a te i soldi, devi anche avere la buona volontà perché c’è quello che ruba, c’ha i soldi, tu lo vedi, provi a fare come lui. Però è brutto, non si fa! Non è una libertà perché i soldi poi dove vanno? Mica li porti a casa, i tuoi non hanno bisogno di soldi, tu quei soldi li sprechi in cose da niente! Forse all’altra persona che ce li aveva li servivano però tu gli togli tutto! Devi trattare gli altri come ti piace essere trattato, questo sto comprendendo adesso, spero che non è troppo tardi! [...] per esempio, a me se solo qualcuno mi prende qualcosa mi sento male cè, ti senti inutile, ti senti una merda, ehm, non sai proteggerti capito? E costringi quella persona ad andare a comprare una pistola, magari spara ad un altro. Questo è il brutto! [Fahmi, 20 anni]. Un altro motivo emerso è il richiamo all’alterazione psichica dovuta al consumo di Rivotril: “non volevo farlo, è colpa delle pastiglie”. Fahmi, a tal proposito, parla di suo fratello e di alcuni amici che hanno avuto dei comportamenti sbagliati e non controllati sotto effetto dell’anti-epilettico, come fare una rapina, rispondere in modo maleducato e irrispettoso al padre o non obbedire ai genitori e stare fuori casa senza dare proprie notizie per alcuni giorni. Come confermato da parte della letteratura sulla devianza (Matza e Sykes, 1961), Fahmi non è l’unico ragazzo incontrato che sottolinea come queste pratiche siano moralmente sbagliate. Spesso il giudizio negativo è presentato alludendo a precetti religiosi: la contrapposizione tra Halal e Haram nella religione islamica emerge in continuazione nei loro discorsi quando raccontano il comportamento “deviante”, sottolineando come queste pratiche siano cattive per la religione a cui dicono di appartenere. Inoltre, tutti hanno interesse a esplicitare che questi comportamenti sono condannati dalle loro famiglie, nelle quali ricevono pressioni alla conformità a norme, valori e atteggiamenti della società dominante. Emerge dai racconti un senso di colpa non completamente neutralizzato dalle giustificazioni e scuse alle quali imparano a credere in Giardino e in quartiere, utili per legittimare l’atto deviante e compierlo. Per noi musulmani è un problema perché i soldi guadagnati così non sono soldi buoni, sono sporchi perché non guadagnati con il lavoro onesto e la fatica. I miei genitori sono onesti, sai? Anche se hanno passato brutti momenti come adesso che nessuno dei due lavora, non hanno mai accettato soldi sporchi provenienti da attività illegali. Mai! […] Io non voglio più spacciare o rubare perché i miei genitori ci stanno male, li ho delusi e loro non hanno mai accettato i soldi che portavo a casa dopo che hanno saputo come li guadagnavo [Mufeed, 20 anni]. Le continue allusioni al loro essere “musulmani” sembrano essere più un riflesso dei valori e credenze apprese in famiglia, indipendentemente dal loro grado di religiosità individuale, e declinate parlando di 122 Si rimanda al paragrafo a pagina 211. RAPPORTO SECONDGEN “cosa sia giusto e sbagliato per un musulmano”. Infatti, tutti raccontano di avere famiglie oneste, di padri che sono partiti per assicurare loro un futuro migliore e che hanno sempre lavorato nel mercato del lavoro legale insegnando l’importanza del lavoro onesto e l’illusione dei soldi facili. È come se quello che apprendono in famiglia, in strada valga soltanto in termini di “ciò che dice il Corano”. Un senso di colpa che potrebbe essere spiegato con il concetto di costo morale, ovvero l’utilità persa dalla messa in pratica di una violazione a una norma a cui si crede, o il cui rispetto conferisce reputazione e prestigio in un determinato contesto sociale. In questo caso, il comportamento “deviante” è percepito come tale là dove i valori civili, quali l’onestà e il rispetto delle leggi, sono sostenuti, come avviene nelle loro famiglie (Vidoni Guidoni, 2000). L’atto deviante implica una perdita di reputazione e prestigio nella rete parentale che, rappresentando una cerchia di legami fondamentali e di socializzazione primaria, causa il senso di colpa. Inoltre, il fatto che alludano alla religione non significa che credano necessariamente alla validità e legittimità della norma religiosa. Infatti, per non violare una norma è sufficiente che il giovane si senta obbligato a seguirla e a mostrare che la osserva o a legittimare socialmente il suo non rispetto. Pena, la perdita di riconoscimento e reputazione (Ibidem, 2000). È interessante come si esprima in questo caso la specificità locale, ovvero il fatto di passare gran parte del loro tempo libero in una periferia italiana con altri giovani di origine araba e, molto probabilmente, musulmani. Questo permette di trovare un collante, quello religioso, che spesso viene fatto risaltare come espressione della appartenenza ad un gruppo con precisi confini sociali e spaziali: i magrebini che vivono nella zona. In questo caso, l’essere musulmani emerge come uno dei tanti marcatori del gruppo del Giardino, insieme all’abbigliamento, alla musica, al linguaggio, al modo di passare il tempo, al bisogno di consumare, al loro essere arabi o magrebini-italiani. Tutti elementi che permettono di dare senso allo stare insieme, alle norme sociali e alle pratiche svolte e apprese in Giardino. Tutti elementi che marcano un’identità collettiva come risultato della storia migratoria e dell’inserimento in un preciso contesto socioeconomico e culturale della società di arrivo. È in Giardino, dove apprendono le pratiche devianti, che imparano a legittimarle utilizzando le risorse valoriali e normative che hanno in comune e che arrivano in parte dalla loro storia migratoria ma anche dal contesto sociale e culturale vissuto quotidianamente oggi. È in Giardino che imparano ad usare queste risorse in modo creativo e contingente alla situazione, incontrando giovani che arrivano per lo più dallo stesso paese di origine, ma che hanno rapporti diversi con la religione e il suo sistema normativo e valoriale. Ma anche giovani e adulti di altra origine, come i sub-sahariani. Infine, imparano ad usare la religione in modo contingente alla cultura giovanile italiana, utilizzando giustificazioni che legittimano la violazione di una norma religiosa, come l’avere il cane in casa piuttosto che il bere alcolici. Apprendono come usare la religione islamica come una fonte normativa che ridimensiona le loro aspettative sulla possibilità di avviare una carriera criminale: “non si può mantenere una famiglia con i soldi Haram (sporchi)”. Nello stesso tempo, la religione è vissuta come qualcosa di contingente, che può essere reinterpretata a seconda delle situazioni e dei bisogni del momento. Un esempio è la razionalizzazione che qualcuno dà al consumo di alcol e agli altri atti devianti. Sanno che, ad esempio, l’alcol è vietato ma lo bevono ugualmente perché sono giovani, solo quando avranno una famiglia queste indicazioni diventeranno più vincolanti moralmente. Io credo in Dio, un giorno mi perdonerà, un giorno smetterò di fare ste cose, un giorno smetterò di fare tutto [Fahmi, 20 anni]. Anche se sono consapevoli che come stanno vivendo non è accettabile per motivi religiosi, imparano a mettere in discussione i “precetti islamici” nel momento in cui una situazione è da loro definita come favorevole alla violazione. E le motivazioni, razionalizzazioni e atteggiamenti che contribuiscono a definire la situazione come tale, sono appresi nei “gruppi primari” (Sutherland e Cressey, 1986) incontrati a Torino semplicemente “scendendo” nel giardino sotto casa. Un luogo dove il giovane se viola la norma religiosa per le ragioni accettate nella cerchia dei pari (e adulti del Giardino), acquisisce reputazione e prestigio sociale. Diario etnografico: 7 marzo 2013 [Se vincessi tanti soldi…] Alla mia affermazione “Beh, io con 20 milioni di euro non saprei cosa fare, sono talmente tanti!” Hadi conferma la mia posizione mentre Feisal123 dice “Con il cazzo, io saprei come usarli, andrei subito a 123 Feisal è un giovane di seconda generazione, di origine marocchina, intorno ai 20 anni e conosciuto all’inizio in quanto amico di Fahmi. Feisal si accompagna spesso ad altri due amici, tra i quali vi è Hadi. Feisal sembra quello con più potere d’acquisto, ha i vestiti firmati stile rapper, occhiali da sole costosi, uno smartphone e altri due telefonini più vecchi che tira fuori continuamente. Feisal parla perfettamente italiano, racconta di non aver preso nemmeno la licenza RAPPORTO SECONDGEN Santo Domingo dove comincerei a fare venire qui le donne per farle lavorare come prostitute, darei loro però degli appartamenti dove vivere e lavorare. E poi farei venire i trasportatori di droga, avanti e indietro dall’Italia a Santo Domingo! Sai quanti soldi ti fai?” e Fahmi con tono di disprezzo e quasi incredulo “Capisco fare cazzate perché non hai soldi e cerchi di vivere, ma se hai già 20 milioni che cosa ti metti ancora a guadagnare soldi sporchi? Investiresti soldi sporchi per fare altri soldi sporchi? Vuoi proprio andare in carcere e non uscire più!”. Feisal a quel punto si corregge dicendo che Fahmi in fondo aveva ragione, anche perché i soldi guadagnati con una vincita o con una pratica illegale sono soldi sporchi per l’Islam, sono il simbolo del diavolo, l’unico modo per purificarli è darli in beneficienza ai poveri […] Io chiedo loro quali siano i soldi puliti, loro rispondono “quelli che guadagni con il lavoro e la fatica, in modo onesto!”. Diario etnografico: 12 giugno 2013 [Fahmi parla di un giovane marocchino sui 30 anni che arriva in Giardino] “Davvero è cambiato! Prima di partire spacciava, fumava, beveva e faceva un sacco di cazzate. Poi è stato un paio di mesi in Marocco e si è avvicinato di nuovo a Dio, è tornato cambiato, sai? Ora non fa più niente, non fuma nemmeno più una sigaretta, si sta facendo crescere la barba, sai è molto importante per l’Islam!”. Da un lato, il Giardino è il luogo sociale nel quale acquisiscono i mezzi per soddisfare i propri scopi, apprendono i modelli culturali e valoriali che li legittimano, fino a farli diventare “normali mezzi di sostentamento quotidiano”: interagendo con i più grandi e con i pari, imparano ad essere “buoni devianti” interiorizzando gusti e preferenze dello spazio sociale quotidianamente vissuto e valori, credenze, norme e strategie discorsive che legittimano l’atto deviante. Nello stesso tempo, come emerge dal dialogo tra Fahmi e Feisal sul vivere intraprendendo una carriera criminale o dall’ammirazione verso il trentenne “riavvicinato a Dio”, lo spazio sociale del Giardino, con le sue credenze e valori, funziona anche come controllo sociale ridimensionando eventuali ambizioni di ascesa nella carriera criminale. La presenza di marcatori identitari, dall’abbigliamento al linguaggio, dalle pratiche devianti ai vocabolari motivazionali usati per legittimarle, mostrano un processo di etnicizzazione di uno spazio sociale emarginato legato al processo migratorio: delocalizzazione dallo spazio sociale e culturale dell’infanzia (nel paese di origine); inserimento obbligato in un contesto sociale e culturale straniero; esclusione da alcuni spazi sociali del contesto di arrivo (come gli oratori) e attrazione per pari che hanno una prossimità negli stili di vita, nella lingua e nelle credenze; incapacità delle famiglie ad offrire risorse sociali e culturali alternative a quelle della scuola e della “strada”. Come sottolineano alcuni autori, l’etnicità può portare a forme di valorizzazione e di successo nei percorsi d’inserimento oppure può diventare il propulsore di un’assimilazione verso il basso, come per i magrebini incontrati o gli ecuadoregni di Genova (Roy, 2003; Feixa, 2005; Queirolo Palmas e Torre, 2005). In questo caso, l’apprendimento di nuovi riferimenti culturali e identitari e l’ingresso sociale nella società italiana dei giovani magrebini sta avvenendo in un preciso spazio fisico (il Giardino e il quartiere) e sociale che non conduce a percorsi di mobilità ascendente e accettati dalla società dominante (Portes, Fernandez-Kelly e Haller, 2004). Tuttavia, non si tratta di un’etnicità che implica appartenenza esaustiva, ma riconoscimenti e forme di solidarietà instabili e mutevoli a seconda delle situazioni d’azione e del contesto d’interazione (Colombo, 2005a). Innanzi tutto, marcano la loro specificità e differenza (l’essere magrebino, arabo e musulmano) soprattutto quando sono insieme e nel contesto quotidiano del quartiere e dei suoi spazi pubblici. In contesti esterni rivendicano il diritto a non essere etichettati come stranieri o come chi non vuole integrarsi, perché si sentono italiani. Esemplificativo è il discorso tra Mufeed e Ziyad quando si lamentano della tendenza, ad esempio degli insegnanti, a pensare che non vogliano includere i compagni quando capita loro di parlare in marocchino con un connazionale: “a noi viene naturale farlo se c’è un connazionale, non vogliamo escludere o essere esclusi, non è cattiveria!”. Inoltre, non si tratta di un gruppo o di una banda che richiede partecipazione, identificazione e fedeltà esclusiva. Siamo di fronte ad un gruppo flessibile, mobile, mutevole che offre possibilità d’azione e d’identificazione ma lascia libertà di exit. Capita che qualcuno di loro frequenti, sebbene solo per brevi momenti, altre compagnie anche di altra nazionalità, conosciute in discoteca o girando per il quartiere. Non c’è un gruppo istituito, strutturato gerarchicamente, denso di rituali e organizzato attorno ad un’identità collettiva forte (Foote Whyte, trad., 2011; Queirolo Palmas e Torre, 2005). Tra i frequentatori media anche se sta pensando di conseguirla con le 150 ore perché ha sempre più difficoltà a trovare lavoro. Racconta di avere la cittadinanza italiana e che viaggia spesso – altre regioni del nord e in Svizzera - per lavoro (movimenti agevolati dall’aver la cittadinanza). Tuttavia, non ha mai esplicitato che tipo di lavoro svolga per vivere, a parte i furti in casa e le rapine. RAPPORTO SECONDGEN del Giardino nascono nel tempo degli obblighi e forme di reciprocità che in qualche modo li legano, anche se non sviluppano legami basati sull’affettività e l’intimità (Bidart, 2010). Nonostante la precarietà, i legami e le forme identificative che ne derivano, sono significativi e a volte richiedono l’accettazione dei valori e delle pratiche “devianti”: se vuoi far parte del gruppo, sei costretto e nello stesso tempo attratto dal provare “nuove esperienze” e rispettare le sue norme sociali (come il consumo di sostanze, lo spaccio, l’uso della forza, i furti e le rapine). Esemplificative sono le giustificazioni e scuse usate da molti che chiamano in causa l’influenza degli amici del Giardino e, nello stesso tempo, l’attrazione/costrizione a emulare i pari al fine di essere accettati nel gruppo e per non rimanere soli. Sono pronti ad aiutare un membro del gruppo nel momento del bisogno, ma sono anche pronti a lasciare il gruppo e chi lo forma quando si intravedono altre possibilità, come quando anni fa Fahmi e altri due suoi amici si sono allontanati per circa un anno su stimolo di alcuni educatori di strada che operavano nella zona proponendo alternative al Giardino. Molte delle attività illegali sono per lo più svolte individualmente o con un paio di amici più stretti, dei quali ci si fida, amici che con il tempo saranno importanti nell’influenzare le scelte future sul proseguire una carriera deviante. Come ha messo bene in evidenza Bidart (2010), la socializzazione in cerchie sociali non composte esclusivamente da amici intimi è un tratto che caratterizza i rapporti amicali dei giovani, i quali danno vita a forme di socialità flessibili per lo più fondate sull’abitudine delle frequentazioni di determinati luoghi in determinate ore della giornata, piuttosto che socialità fondate su legami personali. E infatti, proprio come spiega l’autrice francese, anche i giovani incontrati sanno bene che andando in Giardino a quell’ora incontreranno quelle precise persone: sanno chi è seduto alle solite panchine e chi vicino alla fontana in un preciso momento della giornata. Il fatto di sapere chi si incontra quando si va al Giardino, di sapere che anche se non ci sono gli amici più intimi, si può parlare con qualcuno ugualmente, si può passare il tempo e accedere ad informazioni, rende il luogo attrattivo e di difficile abbandono: Io vado lì per stare con i miei amici, è l’unico posto in cui ci vanno loro, magari proviamo a cambiare posto, non ci riusciamo, abbiamo provato tante volte! Non ci riusciamo perché non c’è la gente che vediamo ogni giorno, cè, per esempio andare in un altro giardino stai là, non conosci nessuno, vi conoscete solo voi tre, parlate, parlate, e poi nessuno viene a dirvi una novità, capisci? [Fahmi, 20 anni]. Il gruppo dei magrebini incontrati al Giardino è un insieme flessibile fatto di amici, amici di amici e conoscenti, tutte persone a cui loro in qualche modo assomigliano (visibile ad esempio nella pratica del fumo della cannabis, che offre molte occasioni di socializzazione in Giardino anche con altri giovani e adulti non parte del gruppo) e con cui chiacchierano, scambiano informazioni e pratiche, e nell’interazione quotidiana formano credenze, valori e atteggiamenti. Come ribadisce Bidart (2010), la loro cerchia sociale assume la forma più di una nuvola anziché di una rete, fatta di relazioni poco particolarizzate e poco personali: capita che fumino una canna e parlino con persone di cui non sanno o ricordano il nome, ma con cui sanno che si può stare insieme. All’interno di questa cerchia fatta di pari, giovani più grandi e adulti (come alcuni adulti spacciatori), vi è un altro cerchio concentrico più piccolo degli amici vicini, più protetto, omogeneo e caratterizzato da giudizi più morbidi in virtù dell’affetto e dell’intimità (ibidem, 2010). Non esiste il gruppo del Giardino con cui si fanno delle cose assieme, dalla pratica deviante all’andare in discoteca, ma solo qualche amico. Gli altri del Giardino sono conoscenti o amici che portano sulla “cattiva strada”, ma i veri amici sono quelli che vengono a casa, che conoscono i genitori, che ti accompagnano ad un colloquio di lavoro o a fare una commissione, che ascoltano quello che hai da dire, che ti consigliano e ti aiutano quando hai bisogno e con i quali insieme si decide di uscire dall’ambiente sociale “sbagliato”. I “magrebini del Giardino” esistono solo nel momento in cui condividono lo stesso spazio pubblico e, spesso, una simile condizione giuridica, sociale ed economica. Quando si viene arrestati, loro non ci sono; quelli che restano sono gli “amici veri”. Io: Senti ma qualche amico o conoscente che ha fatto cose più gravi? Fahmi: Molti ce n’è! […] Siamo amici capito? Ci conosciamo, ci parliamo, sorridiamo, ti dai il numero però quando sei in difficoltà mica ti… per esempio, non come la nostra amicizia che tu adesso hai bisogno di me e io ti aiuto, capito? Se hai bisogno di me in qualcosa basta che non sia soldi io ci sono… Io: Quindi è un’amicizia o forse meglio una conoscenza legata al fatto che frequentate lo stesso luogo come questi giardini Fahmi: Sì RAPPORTO SECONDGEN Io: Magari fumate anche assieme passate delle ore assieme ma non è un’amicizia vera? Fahmi: Sì! Io: Un amico, amico chi è? Fahmi: Ti sta accanto sempre, ti consiglia delle cose, ce, sente le stesse cose che senti. Non so! Quando hai un amico lo vuoi sempre a fianco, quando hai bisogno di andare in una parte va con te, se devi fare una commissione viene con te, così! Non è che deve fare chissà che cosa! Non sono quelli qua del giardino! Per esempio qua al giardino siamo amici, ci salutiamo, parliamo però se devo andare in una parte mica viene con te, ti dice “no troppo lontano! Tu vai poi torni qua, tanto è la stessa cosa!” [Fahmi, 20 anni]. I miei amici, beh ne ho sette/otto italiani, della mia età più o meno, tutti compagni di classe con cui però mi vedo anche fuori la scuola: andiamo a ballare, andiamo a mangiare una pizza, a giocare a calcetto. Loro sono miei amici. Poi milioni di marocchini, più piccoli e più grandi, tutti conosciuti ai giardini. Quando sono arrivato in Italia, mia mamma mi ha detto “Vai in giardino, così conosci qualcuno!” e sono andato e mi è piaciuto subito, c’erano tanti marocchini, va beh non sono connazionali ma con loro riuscivo a comunicare almeno! E poi mi sono fermato qui, normalmente sto qui o agli altri giardini, qualche volta esco anche con i miei amici italiani della scuola. Qui ho imparato a fumare le canne, ho imparato che non ti puoi fidare dei rumeni, gli unici che non sopporto perché sono sempre ubriachi, violenti e molesti. La sera ai giardini sono sempre lì che bevono e poi infastidiscono e sono attaccabrighe soprattutto con noi nord-africani e di pomeriggio non è possibile vederli sdraiati sulle panchine ai giardini con il gin affianco e le mamme che portano i bambini ai giardini devono stare in piedi e i bambini giocare davanti a questi, ma che esempi dai ai bambini! [si riferisce ad un altro giardino vicino il Giardino, dove si è fatta l'intervista] Non fanno nulla tutto il giorno se non bere ed essere rompi coglioni! Mi danno proprio fastidio, non tutti eh! I ragazzi e gli uomini, le ragazze rumene no, quelle sono tranquille, simpatiche e belle! [Rajab, 18 anni]. Tuttavia è il cerchio più grande ad essere più importante per la socializzazione dei giovani, presentandosi come lo spazio sociale più diversificato e critico a cui accedono, lo spazio del conflitto e dell’adattamento identitario. L’identità, in questo caso, è fondamentale nella strutturazione del legame, più dell’affettività o della condivisione di un’attività (Bidart, 2010). Il fatto che tra di loro si conoscano ma non abbiano instaurato legami di gruppo basati sull’affettività, non significa che non vi siano tuttavia forme di identificazione e solidarietà con chi è percepito condividere la stessa condizione e lo stesso “destino”. Tutto questo, infatti, è visibile nel linguaggio usato e nei vestiti indossati come marcatori di appartenenza ad un gruppo. È visibile nella teatralità dei saluti, apparentemente confidenziali e sinceri, anche quando l’altro è un conoscente che si critica, ma che si saluta “affettuosamente” solo perché è “uno del Giardino”. È visibile nella ricerca della prossimità degli stili di vita quando si sceglie con chi passare il tempo libero, che permette di identificare e distinguere il proprio gruppo da un altro. Pertanto, si tratta di forme di identificazione dove il luogo frequentato e la classe di appartenenza, prima ancora della loro origine nazionale o appartenenza religiosa, è la condizione che li accomuna e li fa sentire uguali. Da questo punto di vista, infatti, sembrano costruire nel contesto del Giardino un’identità di quelle con il “trattino” (Colombo, 2005b), sentendosi italiani ma nello stesso tempo marocchini piuttosto che tunisini. E ancora, sono musulmani ma anche giovani adolescenti, studenti, amanti della musica, del ballo e del divertimento con i pari e, infine, sono cresciuti in Italia dove hanno passato almeno metà delle loro vite imparando ad essere come i giovani torinesi. Tuttavia, il loro essere marocchino (o tunisino, ecc.), così come il loro essere musulmano nasce nel momento in cui si scontrano con la difficoltà a integrarsi nel mondo sociale accettato come normale, fatto di studio, progetti futuri, divertimento e alternative alla “strada”. Quel mondo sociale il cui accesso permette di definire l’inserimento nella società come “un’integrazione di successo”. È la loro appartenenza di classe e la credenza che non ci siano possibilità di ascesa – credenza appresa in Giardino, e non in famiglia124 – che li spinge a sentirsi come parte di una condizione comune che rischia di trasformarsi in un reale “destino comune”. Il fatto che non vi sia una “banda” nei termini dei latinos di Genova o dei ragazzi italo-americani di Cornerville (Foote Whyte, trad., 2011), non significa che i loro atti devianti non possano essere letti come un tentativo di rivendicare il diritto al riconoscimento e che non si possa arrivare nel prossimo futuro a forme di ribellione estrema, come successe qualche anno fa nelle banlieue parigine e nelle periferie londinesi. Infine, il fatto che non si parli di una banda, non significa che questi legami non siano attrattivi e significativi nella costruzione dell’identità, degli atteggiamenti e per l’interiorizzazione delle sue norme sociali (Bidart, 2010). Come è stato esposto in questo paragrafo, i pari e i grandi del Giardino (la cerchia 124 Come ho sostenuto nel paragrafo precedente dedicato alla scuola, non sono le famiglie a ridimensionare i progetti scolastici lunghi dei figli e a non investire sulla loro istruzione, ma sono i legami sociali in cui sono inseriti a non fornire loro le giuste e corrette informazioni su quali percorsi scolastici portano a determinati settori del mercato del lavoro. RAPPORTO SECONDGEN sociale più ampia) diventano dei modelli nell’influenzare attitudini e comportamenti: il fatto che non siano legami basati sull’intimità e l’affettività, non implica che questi legami non siano importanti nella strutturazione delle loro interazioni quotidiane e delle opportunità d’azione che a loro si presentano, come si è cercato di mostrare fino adesso. Ma che cosa li differenzia dal caso degli ecuadoregni di Genova? Osservando i marocchini durante questa ricerca e anche gruppi di adolescenti di altre nazionalità (rumeni e italiani) durante quella precedente, sono emerse delle differenze che possono essere in parte spiegate dal processo migratorio vissuto e dal tipo di inserimento dei genitori nella società e nel mercato del lavoro locali. Entrambi sembrano essere fondamentali nel determinare il tipo di rapporto tra genitori e figli e la legittimità genitoriale. Infatti, a differenza di ciò che si è osservato tra i giovani rumeni i cui processi migratori sono simili a quelli degli ecuadoregni125, tra i marocchini non emerge quell’indebolimento della funzione genitoriale causata dall’integrazione subalterna dei genitori, almeno non ai livelli osservati da Queirolo Palmas e Torre (2005). Infatti, a differenza degli ecuadoregni, loro hanno vissuto sempre con la madre che rappresenta il punto di riferimento più importante che hanno nella società di arrivo, anche quando questa è tornata nel paese di origine. Io: E visto che adesso non c’è tua mamma se avessi bisogno di qualcosa tu sai dove andare a chiedere o hai qualcuno da cui andare, un parente vicino o un amico? Abed: A mia madre eheheh [ride] Che è in Marocco! Eheheh [ride] una telefonata e chiedo e mia mamma mi dice come fare anche qui, mi dice dove devo andare, i posti, dipende quello che mi serve! Se devo andare all’ASL lei sa, i servizi sociali beh ora li conosco, dipende! Qua sono solo, poi dipende da quello che mi serve, ci sono cose che so che su alcuni amici posso contare ma non c’è nessuno su cui posso contare sempre e per qualsiasi cosa a parte mia madre che so che qualsiasi cosa succedesse lei mi aiuterebbe sempre. A parte mia madre non c’è nessuno Io: Senti ma secondo te chi è un amico? Abed: Ehm, un amico è un amico! Tu stai diventando un’amica, ti conosco, sei un’amica, a lui lo conosco è un amico ma però ci sono quelli che sono conosciuti di più che è con loro che vado a fare serata, è con loro che ehm, che a volte parlo, racconto quello che passo, sono cinque o quattro ragazzi, tutti connazionali e più o meno della mia età, come Fahmi Io: Quindi con loro passi del tempo assieme e racconti cose che magari a qualcuno che conosci meno non diresti? Abed: Sì ma solo quando sono ubriaco parlo e racconto [Abed, 19 anni]. Anche i ragazzi marocchini tendono a delegittimare l’autorità e la funzione genitoriale del padre che è partito e con il quale non hanno vissuto da bambini, spesso conoscendolo davvero solo in Italia. Ma loro hanno avuto una figura adulta importante durante l’infanzia trascorsa nel paese di origine, al momento dell’arrivo in Italia e nel presente. La mamma marocchina che emigra insieme a loro ricongiungendosi al padre è idealizzata da questi ragazzi al punto da essere presentata come una “santa”. La madre è inoltre quella che spesso non entra nel mercato del lavoro in Italia, occupandosi dei figli e attivando forme di mediazione tra i figli e il padre: tra la tendenza dei figli a disobbedire al padre perché non riconosciuto e la tendenza del padre ad essere autoritario e, spesso, chiuso nei confronti dei loro bisogni per paura che i figli prendano “la strada sbagliata”. Dove la strada sbagliata non è l’acculturazione dei figli alla società italiana (non si tratta di conflitti interculturali tra generazioni cresciute in contesti diversi) ma l’acculturazione dei figli alle pratiche devianti (consumo di droghe e altre attività illegali). Infine, la madre è anche quella che, scoperte le attività illegali del figlio, agisce da controllo sociale dandogli i soldi di nascosto dal marito per evitare che li vada a guadagnare illegalmente. [Parlando di quando, da poco in Italia, scappò in Francia da solo] stavamo dicendo che volevi cambiare vita perché qua non ti piaceva? Fahmi: Sì ma anche non ero abituato a mio padre, lo conoscevo, è normale è mio padre però lui veniva, quando tornava dall’Italia nelle vacanze, veniva in Marocco, però veniva, ci trattava bene, sai ci comprava le cose belle però 125 I giovani rumeni incontrati durante la ricerca Street Monkeys in Barriera di Milano avevano un processo migratorio simile agli ecuadoregni di Genova (Queirolo Palmas e Torre, 2005), dove la madre ha fatto da apri-pista nella migrazione inserendosi nel settore del lavoro di cura agli anziani, lavorando spesso come badante fissa presso famiglie italiane. I padri, quando anche loro in Italia, sono inseriti nell’edilizia; altre volte i padri spariscono dalla vita dei figli presto e questi crescono con i nonni fino al momento del ricongiungimento. I giovani rumeni incontrati imparano a conoscere la madre, che spesso si è unita ad un altro uomo in Italia, nell’esperienza del ricongiungimento. La lunga assenza della madre o di entrambi i genitori per la migrazione e la successiva assenza quotidiana per motivi lavorativi una volta che i figli arrivano in Italia, porta questi ultimi a delegittimare e a non riconoscere nelle loro madri e padri la funzione genitoriale (Ambrosini, 2004; Ambrosini in Molina, 2004). RAPPORTO SECONDGEN non ero abituato alle sue regole sai? Mia mamma non mi dice “torna a casa quest’ora” mio padre invece mi dice sempre “torna a casa a quest’ora, fai questo, vai a scuola, non frequentare amici così, non frequentare amici così!” e a me non andava che qualcuno, non ero abituato a questo controllo! Io: Tuo papà ti controlla di più? Fahmi: Sì! Non ero abituato alle sue regole! […] Cè, lui non voleva che frequentassi dei miei amici marocchini qua, “Gli amici marocchini ti portano sulla brutta strada” era vero anche! In fondo adesso ho capito che quello che diceva era giusto, se lo seguivo dall’inizio non avrei avuto mai problemi […] Io: Ok… senti tornando sui tuoi genitori, com’è il rapporto con loro? Fahmi: Bello, bellissimo adesso che sono io, che ho maturato, bello! Tanto non ti chiedono niente loro! Vogliono solo che hai un futuro pulito, sicuro, che sono sicuri del tuo futuro, che se loro muoiono o vanno via, ti lasciano che sono tranquilli di te cè, non ti lasciano fuori: per esempio che non hai scuola, non hai niente, tipo quel ragazzo che c’era qua! C’è suo padre, solo che non ha voluto parlare, è sposato con un’altra donna e non c’ha mai pensato a loro e lui andava in comunità, in questi posti qua e allora i miei non vogliono ste cose, vogliono che sono sicuri di avermi cresciuto bene, di avermi istruito, cè, vogliono sentirsi soddisfatti, non avermi fatto così “Vai via, fai quel che cazzo vuoi!” e boh Io: Quindi anche l’autorità di tuo papà è legato a questo, secondo te? È un modo di controllarti? Fahmi: Sì, sì, la paura che divento un cattivo ragazzo, un monello! [tono ironico] Io: Senti ma a chi racconti di più quello che ti succede quello che provi? Fahmi: A mia madre, sa tutto di me, a mio padre a volte le cose non gliele racconto perché so che anche se non dice niente lo farò sentire male cè, se faccio per esempio qualche cazzata la racconto a mia madre e dice “Non lo fare più, non dire questo, non lo dire a tuo padre perché si arrabbia!” […] Mia madre sai, non le piace il fumo, però che vado a prendere i soldi da un’altra parte non vuole e dice “Piuttosto te li do io, chiedo a tuo padre, te li do” tanto dice “vado a fare quello, vado a fare la spesa” […] Io: Quindi quando prima mi dicevi che tua mamma preferisce darti i soldi anziché sapere che tu fai queste cose… le cazzate di cui parlavi prima erano queste? [si intende spaccio e furti, è stato tagliato un pezzo] Fahmi: Eh sì, anziché arrivare a fare queste cagate, per niente andavo in carcere, non vuole, dice “Piuttosto li prendo io da tuo padre” o anche mia sorella quando lavorava ci dava cinquanta euro per andarci a comprare vestiti [intende a lui e suo fratello] [Fahmi, 20 anni]. La figura e il ruolo della madre tuttavia non sono sufficienti al controllo sociale e ad evitare non tanto che questi ragazzi non sperimentino alcune di queste pratiche come eventi unici e limitati all’età giovanile, ma piuttosto che non intraprendano una “carriera criminale”. La mamma, quando casalinga, è anche quella che accede a poche informazioni ed è meno inserita nella società. Spesso questi ragazzi sono lasciati soli nelle proprie scelte legate alla scuola e a chi “essere da grandi”, ma anche in quelle legate a come passare il tempo libero. Non sono accompagnati dai genitori a cercare alternative al Giardino - e al suo mondo sociale - quando sono appena adolescenti, anche se a volte vengono rimproverati di frequentare le persone “sbagliate”. E quando i genitori, ma soprattutto il padre, si accorgono come il figlio si guadagna i soldi o come si diverte126, cominciano i conflitti familiari che non ruotano attorno alla “cattiva strada”, non a questioni di identità: il pericolo non sono l’italianizzazione e la perdita dell’identità etnico-nazionale di origine, ma i giovani connazionali che portano su una brutta strada. Tuttavia, questi non sempre hanno gli strumenti culturali e le giuste informazioni per accompagnare il figlio verso un altro stile di vita e altri “mondi” sociali e culturali. Esemplificativo è il caso di Fahmi che, nell’estate 2012, racconta di essere stato in Marocco con i suoi genitori e che suo padre lo ha “fregato” organizzando un matrimonio combinato con una ragazza compaesana che vive in Marocco. Il matrimonio è l’unico strumento a disposizione del padre per responsabilizzare il figlio, accelerando la sua crescita, nel tentativo di dissuaderlo dal frequentare “cattive amicizie”. La risposta del padre è legata alla sua capacità di affrontare il problema, connessa al suo capitale culturale (ignoranza in materia di consumi di sostanze) e sociale. Scarse informazioni e incapacità di comprendere i figli adolescenti e i loro gusti, portano quest’uomo a scelte che, paradossalmente, potrebbero generare l’effetto che intendeva evitare con le scelte stesse: Diario etnografico: settembre 2012 Fahmi mi racconta di essere appena tornato dal Marocco (due giorni prima) dove si è sposato. Io gli faccio gli auguri, lui ride e con un po’ di tristezza mi dice di essere stato incastrato da suo padre che ha combinato il matrimonio all’improvviso. Si è sposato con una ragazza che vive in Marocco e con la quale stava uscendo durante questo mese trascorso giù. Quando suo padre scoprì che si vedeva con questa ragazza, lo convinse prima a fidanzarsi ufficialmente e poi a sposarla. Dal racconto emerge la sua preoccupazione legata alle responsabilità del matrimonio: 126 Spesso i genitori scoprono le attività illegali del figlio quando questo, minorenne, viene arrestato la prima volta. RAPPORTO SECONDGEN Fahmi racconta che sposarsi in Marocco significa mantenere la moglie e occuparsi di lei. Sposarsi significa dover crescere, diventare adulto. “Come faccio se io sono qui e lei è in Marocco? E come faccio a mantenere lei, i suoi bisogni e desideri se non lavoro?”. Queste domande compaiono continuamente durante il suo racconto. Mi confida di non sentirsi pronto per queste responsabilità, che deve ancora finire di studiare e che ora è costretto a trovare un lavoro non per sé stesso e i suoi bisogni di ventenne a Torino ma per sua moglie rimasta in Marocco. Racconta di sentirsi ancora piccolo per queste responsabilità da uomo, da adulto. Cercando di concludere, i giovani magrebini incontrati non sono completamente soli perché non hanno entrambi i genitori inseriti in settori del mercato del lavoro che richiede orari lunghi ed estesi all’intero arco della giornata. Hanno quotidianamente un punto di riferimento nel mondo degli adulti diverso da ciò che offre il contesto del Giardino, che è la madre. La madre, più del padre, agisce in parte da controllo sociale, ma anche da mediatrice con il padre e con i servizi socio-assistenziali. Parte del controllo sociale è attivato anche dall’importanza che i giovani incontrati danno alla famiglia, ancora prima degli amici o dei pari. Emerge nei loro racconti la centralità della famiglia dove la madre è la figura cardine, il padre è la fonte economica e i fratelli più piccoli sono il motivo per i quali si decide di smettere di deviare dalle norme della società dominante – per dare loro un buon esempio – e da controllare quando cominciano a frequentare anche loro la “strada”. Ed è proprio la centralità dei legami familiari che potrebbe spiegare il perché i giovani adolescenti incontrati non abbiano dato vita ad una banda. Infine, come accade in molti contesti sociali simili (Queirolo Palmas e Torre, 2005; Queirolo Palmas, 2006a; Queirolo Palmas, 2006b; Foote Whyte, trad., 2011) e come accennato in parte sopra, queste pratiche sono anche spiegate dall’età sociale che stanno vivendo, oltre che dal processo migratorio e dal contesto sociale e culturale d’inserimento nella società di arrivo. Infatti, trovato lavoro nel mercato formale e legale, questi ragazzi tendono ad allontanarsi dal Giardino, dal suo contesto sociale e dalle sue pratiche. Fahmi: Adesso tutti ormai sono cresciuti, ci siamo conosciuti da minorenni, adesso siamo tutti maggiorenni e tutti, sinceramente, sono cambiati, pensano al loro futuro, sai? Non pensano più alle cazzate, inizi a capire che quella strada non ti porta da nessuna parte, rimani bloccato anche se continui a correre, come se stai correndo su una macchina sai quelle che vai in palestra che corri? Il tapis roulant, quello là! Che sei sempre nello stesso posto, corri, corri, ma sei nello stesso posto! […] Per esempio la gente che ha cominciato a lavorare, dei nostri amici, non frequenta più qui, non ci frequenta più, hai capito? Adesso ha fatto i soldi e pensa a fare delle cose, hai capito? Io: Quindi chi comincia a lavorare tende a andarsene? Fahmi: Non andarsene, allontanarsi, sì, perché ha capito che stare al giardino non gli da niente, stare ai giardini tutto il giorno cosa ti da? Niente! Tanto quando inizi a lavorare inizi a guadagnare soldi, boh, dici “Eh! Esco e spendo soldi, no! Magari faccio questo!” inizi a fare dei progetti così la vita diventa semplice, più bella e diventi felice. Non come noi adesso, sei triste, non c’è lavoro, ti senti abbandonato dal mondo, ti senti solo [Fahmi, 20 anni]. Chi riesce ad uscire dalle reti sociali costruite in strada, entrando nel mercato del lavoro legale (e magari formale), tende a non frequentare più i contesti informali pubblici nei quali è cresciuto e nei quali ha centrato la sua socialità durante “l’adolescenza”. Come già messo in evidenza da studi simili svolti in altri contesti (il recente studio di Queirolo Palmas e Torre sui giovani ecuadoregni di seconda generazione a Genova) e in altri tempi (come lo studio di Foote Whyte della prima metà del ‘900 sui giovani italiani di seconda generazione a Boston), il contesto sociale della strada è in continua evoluzione. In circa un anno di osservazione, la popolazione giovanile che frequenta quotidianamente il giardino è cambiata molte volte. I più grandi, sopra i venticinque anni, una volta trovato un lavoro cominciano a fare progetti sulla loro vita da “adulti” orientando le loro scelte in base alla possibilità di costruire una carriera professionale e una famiglia propria. L’entrata nel mercato del lavoro legale e, crescendo, la costruzione di una propria famiglia corrisponde a nuovi interessi che vanno oltre lo spazio sociale del Giardino. Più di sessant’anni fa, Foote Whyte spiegava così il cambiamento del contesto sociale della strada, parole che descrivono bene anche la situazione oggi osservata: «In realtà dei cambiamenti ce ne sono continuamente, e il gruppo stesso pare avviato a disgregarsi allorché gli individui che lo compongono arrivano a toccare la trentina. Alcuni mettono su famiglia e, pur continuando a bighellonare agli angoli delle strade allargano la sfera dei loro interessi oltre i limiti di quell’area sociale» (Foote Whyte, trad., 2011, pag. 82). I ventenni incontrati sentono il peso del “diventare grandi” manifestando una tensione tra le aspettative delle famiglie volte a responsabilizzare i figli affinché diventino adulti, a volte precocemente rispetto a quanto avvenga tra i giovani autoctoni, e il bisogno dei giovani stessi di “vivere un’adolescenza RAPPORTO SECONDGEN prolungata” come fanno i loro coetanei. Quasi tutti dicono che lo stile di vita che stanno vivendo non sia compatibile con una vita da adulto, fatta di responsabilità per le scelte prese, lavoro onesto, casa, mogli e figli. Molti di loro sostengono che una carriera criminale, nonostante possa portare guadagni maggiori rispetto a quanto ricavino dalle pratiche illegali messe in atto nel presente o quanto si possa guadagnare con un lavoro onesto, non può essere la base per realizzare i progetti futuri in quanto eticamente sbagliata. Emerge una contrapposizione tra il mondo adulto, dove la violazione (la devianza) implica perdita di prestigio e reputazione, e quello giovanile, dei pari e degli adulti con cui passano il tempo libero, dove questi sono acquisiti anche grazie la violazione. “Uscire dalla strada” ed entrare nel mercato del lavoro significa sicuramente accedere ad una nuova cerchia sociale, in questo caso di tipo professionale. Tuttavia, non tutti quelli che cominciano a lavorare, una volta finita la scuola, abbandonano il Giardino, il suo mondo sociale e le sue pratiche di “sopravvivenza quotidiana”. Molti, infatti, continuano a muoversi attraverso il confine legale-illegale a causa della precarietà che caratterizza il mercato del lavoro legale e, sicuramente, a causa della loro difficoltà a trovare nuova occupazione alla fine di un contratto di lavoro a termine. A cosa è legata la capacità di alcuni di chiudere definitivamente con le pratiche illegali per dare finalmente forma alla loro vita da adulti, così come l’hanno sognata? Da dove nasce la scelta di altri di continuare a “guadagnare soldi facili” anche quando riescono ad accedere a lavori onesti, legali e accettati dalla società più ampia? Entrare nel mercato del lavoro, significa che questi ragazzi sono riusciti ad attivare un processo di differenziazione e delocalizzazione delle loro interazioni sociali, oppure significa rinchiudersi in cerchie sociali professionali di altro tipo – legate al settore lavorativo legale in cui si sono inseriti – rischiando di riattraversare il confine dell’illegalità ogni volta che scade un contratto o si perde il posto? Quanto contano i legami familiari, parentali e comunitari per entrare nel mercato del lavoro in modo esclusivo o per aver nuove opportunità di guadagno al termine di un contratto di lavoro? Infine, quando l’entrata nel mercato del lavoro significa avviare un processo di mobilità sociale e quando questo coincide invece con l’immobilismo? Entrare nel mercato del lavoro o “navigare” in spazi di frontiera? Nessuno dei giovani incontrati abitualmente in Giardino al momento dell’osservazione stava lavorando. Alcuni di loro stavano ancora studiando mentre altri erano disoccupati. Tutti, con poche eccezioni tra chi ancora studente, erano pronti ad iniziare un’attività lavorativa anche nell’immediato. Tuttavia, non tutti al momento dell’osservazione stavano cercando attivamente lavoro. Parlando delle difficoltà incontrate nella ricerca del lavoro legale, a volte emerge un razzismo percepito in quanto stranieri che, per alcuni, è aumentato con la crisi economica, mentre per altri è legato allo stereotipo del marocchino criminale, che spaccia e ruba: Io: Ma quali sono le difficoltà che stai incontrando nel trovare lavoro qui? Ashraf: Beh, prima di tutto perché sono marocchino per questo mi scartano sempre “Sai ci sono tanti marocchini qua che fanno i delinquenti e così poi tutti pagano per causa loro!” e poi l’Italia ha una mentalità troppo chiusa […] la difficoltà oggi del lavoro è anche legata alla crisi, infatti nemmeno i miei connazionali mi chiamano! Gli lascio il curriculum e i miei contatti, loro dicono che mi chiameranno ma non lo fanno mai! Sai io parlo anche tre lingue: arabo, italiano e francese, eppure non riesco a trovare lavoro! [Ashraf, 24 anni].127 Pensa che una volta sono andato a fare un colloquio di lavoro in un’azienda di meccanici con un mio ex compagno di classe, lui italiano, diplomato con 60, il minimo, lo avevano diplomato per farlo uscire perché non ne potevano più di questo ragazzo! Non sapeva fare nulla, nemmeno cambiare una gomma, gliel’ho insegnato io! Eppure hanno preso lui e non me. Quando siamo arrivati per il colloquio, mi hanno fatto entrare prima a me. Sai, quando hanno visto il mio nome mi hanno chiesto “Ma che nome è Ziyad?” “Sono marocchino!” non se lo aspettavano, non so, tante volte succede che pensano che sia italiano! Comunque mi hanno chiesto le solite cose, sai “Sei disposto a fare i turni o preferisci lavorare con l’orario normale?” io subito gli ho detto che a me andava bene tutto, che se mi avrebbero chiamato alle tre del mattino per andare a lavorare l’avrei fatto perché avevo bisogno di lavorare per aiutare i miei 127 Ashraf ha 24 anni, anche lui nato in Marocco e arrivato in Italia all’età di 7 anni. Ashraf parla un italiano senza accento straniero, anche se sbaglia a volte qualche tempo verbale. È vestito secondo la moda dei giovani della zona, con scarpe e maglietta della Nike, berettino da baseball, si aggira con un iPhon che spesso tira fuori dalla tasca. Ashraf è solito girare con un signore sui 40 anni (Mustafà). Non fa parte degli amici/conoscenti di Fahmi anche se è un abituale frequentatore del Giardino. Ashraf, come gli altri giovani incontrati, è disoccupato e si “arrangia” vendendo hashish insieme a Mustafà. RAPPORTO SECONDGEN genitori a mantenere la famiglia. Loro mi hanno liquidato in due secondi dicendo che mi avrebbero fatto sapere. Dopo di me entra il mio ex compagno italiano e, dopo un po’ esce sorridendo “Mi hanno preso per una settimana di prova, ho già firmato!”. Io ci sono proprio rimasto male perché lui non solo era uscito con un voto più basso ma non aveva neanche nessuna esperienza e ho capito che il problema era la mia nazionalità marocchina, un problema che mi porto avanti ancora adesso [Ziyad, 22 anni]. La crisi economica e del lavoro in Italia sicuramente non permette a tanti giovani di trovare facilmente nuova occupazione, in caso si perda il lavoro, o di entrare nel mercato del lavoro per la prima volta. Inoltre, probabilmente il razzismo percepito è reale, ma da solo non spiega come mai in giardino ho incontrato giovani che, nonostante abbiano cercato attivamente lavoro, non sono mai entrati nel mercato del lavoro legale e altri che in passato hanno accumulato diverse esperienze che, seppur brevi, hanno permesso di attraversare anche solo temporaneamente il confine legale-illegale. L’esperienza maturata anche solo con lo stage curriculare o con temporanee occupazioni svolte in passato, non sembra essere sufficiente a permanere nel mercato del lavoro legale. Ragazzi come Ziyad, Ashraf, Fahmi e in parte Abed, hanno accumulato nel passato alcune esperienze lavorative sia nel settore di loro formazione (tramite lo stage curriculare) sia in altri settori. Eppure, cosa spiega la difficoltà di Abed e Ashraf oggi a trovare nuova occupazione e l’abilità di Fahmi e Ziyad a lavorare, seppur occasionalmente, in modo precario e non sempre in settori conformi alla loro formazione e ai loro progetti? Io: E tu non lavori, ma stai cercando e non trovi nulla? Abed: No, non sto cercando, cercavo lavoro, cercavo ma adesso no perché mi sono stufato, non trovo nulla! Ma neanche qualcuno che ti fa venire la voglia di continuare a cercare! Io: E come cercavi lavoro? Abed: Mandavo curriculum, andavamo insieme io e lui [indica Fahmi] la mattina, lasciavamo il curriculum, sono andato direttamente alle fabbriche a lasciare curriculum, niente! Non mi ha mai chiamato nessuno, nemmeno per un colloquio, mai! Sì, mi hanno chiamato a fare porta a porta per vendere le cose, come si chiamano? Ma a me quelle cose lì non mi piacciono! E ho lasciato stare, ho cercato in tutte le fabbriche andavo anche fuori Torino, qualsiasi fabbrica che vedevo entravo e lasciavo perché c’avevo scritto anche nel curriculum che facevo il magazziniere e gli lasciavo il curriculum, poi l’ho lasciato anche alle agenzie, le solite cose ma nessuno mi ha mai chiamato, mai! [Abed, 19 anni]. Io: Ma Fahmi tu dici che c’è più razzismo rispetto a prima? Fahmi: Sì [giovane marocchino frequentatore del giardino]: sì adesso dicono “ci rubano i posti di lavoro” Fahmi: Sì perché tutti - anche gli italiani - hanno iniziato a non lavorare [Fahmi, 22 anni]. Siamo stati qui fino a quando io facevo la terza media, poi siamo tornati in Marocco per un periodo; insieme alla mia famiglia abbiamo deciso che io dovevo raggiungere dei miei parenti in Francia e ho vissuto per un po’ a Grenoble e poi a Lione, poi sono tornato a Torino dove ho fatto terza, quarta e quinta superiore e mi sono diplomato da elettricista. In Italia ho vissuto prima a Torino con i miei genitori ma sono stato anche qualche mese a Roma, Milano, Novara, Vercelli e Biella. Mi spostavo presso connazionali, conoscenti miei o dei miei genitori per cercare lavoro. [Ashraf, 24 anni]. Il capitale sociale è utile per comprendere e spiegare le diverse traiettorie che stanno percorrendo i giovani incontrati. Come teorizzato dalla letteratura sul capitale sociale e sulla mobilità, l’efficacia delle reti in cui un attore è inserito nell’ascesa sociale è legata alle caratteristiche delle loro trame più che all’intensità dei legami: più sono diversificate dal punto di vista sociale e occupazionale e meno sono segregate, più è probabile che questo favorisca prima la formulazione e poi la realizzazione di progetti di mobilità sociale (Bianco, 2001). Prima di parlare di possibilità di mobilità sociale, difficilmente valutabile a causa della giovane età degli intervistati128, è bene riflettere sulle possibilità di accedere al lavoro legale e formale e di permanervi. Dato il livello odierno di precarietà delle forme contrattuali in tutti i settori occupazionali, per riuscire a raggiungere una stabilità occupazionale garantita da un contratto scritto, oltre che dalla fiducia, si deve imparare a “sopravvivere” nella precarietà contrattuale e dei posti di lavoro. Un’abilità non tanto legata all’esperienza – e capacità – professionale, ma alle risorse – informazioni, fiducia, influenza – provenienti dalle proprie reti sociali e all’esperienza acquisita nell’interazione con i nodi di queste reti. Quali sono le 128 Sono tutti giovani che, quando già conseguita, hanno ottenuto la qualifica o il diploma recentemente e perciò sono da poco entrati nel mercato del lavoro. Pertanto quando si parlerà di mobilità sociale, si deve intendere in termini di probabilità futura e non di certezza di evoluzione delle loro carriere professionali. RAPPORTO SECONDGEN caratteristiche del capitale sociale dei giovani di seconda generazione osservati e che tipo di risorse utili per entrare e permanere nel mercato del lavoro legale derivano da queste reti? Dai colloqui informali e dalle interviste sono emerse tre fonti di rete diverse, dalle quali deriva il capitale sociale individuale di questi ragazzi: familiari/parenti, amici/conoscenti, insegnanti/mondo scuola. Come confermato già dalla letteratura, le reti dei giovani incontrati sono simili a quelle di molti figli di operai italiani: sono per lo più private, ovvero reti parentali e amicali costruite in ambito non lavorativo (il quartiere), spesso composte esclusivamente da connazionali (stessa origine geografica) di diversa età, con una buona preminenza di giovani e adulti in età da lavoro. Sono reti che permettono ai giovani magrebini incontrati di trovare lavoro in modo mediato (lavorare insieme al padre o allo zio nella piccola impresa per la quale sono dipendenti) o indiretto (avere un contratto a termine da una grande azienda per la quale lavora anche lo zio o dopo lo stage curriculare). Ho studiato qui in Italia, ho preso il diploma meccanico e nonostante abbia anche esperienza di lavoro ora non riesco a trovare niente. Ho lavorato tre mesi in posta, smistavo la posta, avevo lasciato a loro il curriculum tramite mio zio che lavora lì e mi hanno chiamato per tre mesi, ora fanno solo contratti così! Ho lavorato anche in un bar-ristorante qui vicino e in un supermercato come magazziniere, ho fatto anche qualche mese da un meccanico e nonostante l’esperienza e gli studi fatti ora non trovo nulla! Ho studiato anche molto e mi sono diplomato anche bene, sono uscito con 76! [Ziyad, 22 anni]. Sì, con mio padre ho fatto il manovale anche se mi sembrava difficile, invece è stato facilissimo, ci sono degli strumenti che ti facilitano il lavoro. È meglio fare il manovale che il muratore, sì il manovale sembra una brutta parola però quando sei lì […] facevo dei lavoretti tipo al signore a cui avevamo venduto la casa, gli abbiamo verniciato la villa, gli abbiamo costruito dei muri, e boh! Avevo sedici anni […] Mi pagava il suo datore di lavoro, mio padre era dipendente, ho lavorato, tipo facevo le pulizie, portavo la carriola piena di calce, era facile il lavoro cè, ho lavorato per due mesi e boh! [Fahmi, 20 anni]129. Io: Senti, ma quali sono le difficoltà che incontri nel trovare lavoro? Abed: Qua secondo me devi avere delle conoscenze che un po’ ti aiutano a trovare sto lavoro se no boh, rimani così come sono io, come siano tutti noi qua! Devi conoscere le persone che possono farti entrare nei posti di lavoro Io: Ma quali sono le tue conoscenze? Abed: Tutti quelli che stanno qua! Quelli che incontro qua, con loro passo del tempo, passo il tempo fumando io, passo il tempo con lui [Fahmi] passo il tempo con altri amici e altre persone che stanno qua, sono tutti connazionali, hanno la mia età e anche più grandi, tra i 20 e i 30 anni più o meno, più piccoli no, nel gruppo sono io il più piccolo Io: E come li hai conosciuti? Abed: Venendo qua, non frequento quelli che ho conosciuto a scuola, venendo qua li ho conosciuti, sono persone che frequentano questi giardini e la zona qui, il quartiere. Alcuni di loro ora stanno ancora studiando, come Fahmi, altri lavorano, c’è uno che fa il muratore, uno che fa il tornitore fresatore, uno che fa il saldatore, ehm c’è l’idraulico… di quello che hai bisogno c’è in questo gruppo! [Abed, 19 anni]. [Parlando della scuola] l’unica cosa positiva è che ti fanno fare lo stage obbligatorio, lì sì che impari qualcosa e ti crei anche i contatti per dopo. Ad esempio, io ho fatto lo stage presso un’azienda che sta qui a Torino qui vicino [azienda manifatturiera italiana che produce apparecchiature e macchine elettriche] e lì mi sono trovato bene, ho imparato delle cose, più di quello che ho imparato a scuola. Ora mi hanno detto che per il periodo estivo hanno bisogno, un part time, a me va benissimo, mi hanno detto di mandare il curriculum con copia della qualifica per vedere se prendermi [Rajab, 18 anni]. Quasi tutti i ragazzi incontrati sono riusciti ad avere almeno un’esperienza di lavoro attraverso le loro reti in modo mediato, attraverso familiari/parenti, o indiretto dove lo stage obbligatorio previsto per conseguire la qualifica permette al ragazzo di conoscere il mestiere per il quale si sta formando e di creare legami professionali. Come sostiene la letteratura, lo status sciale non è utile di per sé affinché si trovi lavoro, ma conta l’omogeneità occupazionale - rispetto ai fini - delle reti sociali in cui un attore è inserito. In vista dei progetti lavorativi, le loro reti sociali sembrano coerenti e pertanto, come spiegare la loro difficoltà a permanere, seppur in modo precario, nel mercato del lavoro? Abed, nella citazione precedente, presenta la situazione in modo esplicito. Non si tratta solo di omogeneità occupazionale delle reti sociali, ma anche di alcune caratteristiche morfologiche delle reti in cui si è 129 Fahmi, inoltre, circa tre anni fa ha fatto un tirocinio con borsa presso un centro di aggregazione giovanile comunale e gestito da un’associazione del privato sociale. Il centro è nato per l’intercettazione dei minori stranieri non accompagnati “caduti” nel mondo della droga – spaccio e consumo – spesso scappati dalle comunità per minori soli. Gli educatori, che hanno lavorato in strada per anni, hanno incontrato anche giovani di seconda generazione del quartiere Barriera di Milano e della zona di Porta Palazzo. Alcuni dei primi giovani seguiti, oggi trentenni, lavorano stabilmente nel mercato del lavoro. RAPPORTO SECONDGEN inseriti130. È vero che grazie all’omogeneità accedono molto facilmente anche solo a informazioni su dove portare un curriculum o sull’esistenza di un posto vacante: infatti, il problema di questi ragazzi non è dove mandare il curriculum. Sanno muoversi nella ricerca del lavoro, iscrivendosi alle agenzie interinali e ai centri per l’impiego e tutti raccontano di avere passato giornate andando a consegnare direttamente curriculum alle aziende. Tuttavia, quando hanno lavorato, le occupazioni le hanno trovate quasi esclusivamente attraverso capitale privato (parenti, amici e conoscenti in contesti extra-lavorativi). Le reti di questi ragazzi sono casuali e disordinate (Bianco, 2001), ovvero sono reti senza una traiettoria strutturata ma che si formano in virtù di incontri/opportunità contingenti ai luoghi frequentati (quotidianamente e occasionalmente) e allo “status dei nodi” a cui sono legati e che li collegano ad altre cerchie in base ai loro bisogni momentanei (come la ricerca di occupazione piuttosto che della sostanza da consumare). Se da un lato succede che incontrino casualmente chi appartiene a cerchie sociali diverse e con i quali possono attivare forme di scambio vantaggiose (come ad esempio avere più informazioni sul funzionamento del mercato del lavoro locale), tuttavia le reti dei giovani magrebini incontrati portano per lo più a lavori occasionali. Innanzi tutto, il fatto che non abbiano un capitale sociale diretto131, soprattutto per il tipo di professioni che cercano, ostacola in parte un loro inserimento stabile. Nessuno, infatti, ha dichiarato di lavorare per la piccola ditta del padre o dello zio, ma al massimo di lavorare per il datore di lavoro del padre o dello zio. Questo rischia di essere uno svantaggio nel momento in cui le aziende che assumerebbero meccanici o elettricisti, solo per fare alcuni esempi, spesso sono piccole aziende a conduzione familiare, quindi aziende che vivono grazie ad un capitale sociale diretto, per lo più formato da contatti informali (parenti, amici e conoscenti nel mondo extra-lavorativo). Inoltre, sebbene la scuola permetta di “mettere un piede” oltre il confine dell’illegalità, tuttavia sono pochi, se non assenti, i nodi delle reti che insegnano loro a presentarsi nel modo più appropriato al futuro datore di lavoro. Tutti raccontano di non sapere scrivere un curriculum o la lettera di presentazione per rispondere ad un annuncio o per presentarsi in cerca di un posto. Inoltre, pochi accedono e conoscono i servizi gratuiti comunali come l’informa-giovani, che offrono informazioni utili non solo sul campo lavorativo ma anche sul divertimento, sui viaggi all’estero o sulla scuola e la cultura presentando alternative al contesto del Giardino e del quartiere di residenza. Per di più, hanno scarse conoscenze delle norme sociali che regolano l’incontro tra l’offerta e la domanda di lavoro, non tanto quelle legate all’abbigliamento - sono ragazzi abbastanza curati dal punto di vista estetico - quanto quelle legate al tipo di linguaggio da usare durante un colloquio o all’importanza di uscire dallo spazio sociale quotidiano per aprirsi ad altri mondi ed esperienze, utili spesso anche a fini lavorativi. Infine, questi ragazzi subiscono in parte le conseguenze sociali del processo di criminalizzazione causato dalla definizione di determinati atti come criminali e accompagnato dalle continue azioni di controllo della polizia (fermi e arresti effettuati in strada, autobus e giardini pubblici) di alcune precise nazionalità in precisi spazi urbani dove la micro-criminalità visibile è incarnata dalla popolazione magrebina e dell’Africa sub-sahariana (si intendono alcune zone della città come Barriera di Milano, Porta Palazzo, San Salvario, Murazzi). Infatti, i magrebini incontrati parlano di razzismo percepito in relazione ai luoghi del divertimento, delle aree pubbliche di passaggio e nella fase “ricerca del lavoro”. In relazione alla discriminazione nel trovare un’occupazione, atteggiamenti razzisti di questo tipo sono emersi soprattutto quando cercano lavoro in queste “zone calde”, dove la divisione del lavoro legale, così come di quello illegale, è fortemente etnicizzata (Becucci, 2006). È come se la (quasi) esclusiva presenza in strada di spacciatori di origine magrebina e africana, trasformasse automaticamente tutti coloro che vengono ricondotti a quella nazionalità-etnia in spacciatori e criminali. Ma se davvero così fosse, come mai non cercano lavoro fuori? Molti raccontano di essere andati fuori dal quartiere e dalla città di Torino a cercare lavoro nelle imprese e nelle fabbriche, senza spesso riuscire nemmeno a fare un colloquio. Tuttavia, se lo erano in passato durante il benessere economico (MacLeod, 130 Per caratteristiche morfologiche delle reti si intende la forza dei legami, lo status dei nodi, la presenza o meno di buchi strutturati (Burt), la specializzazione e la localizzazione delle reti in cui un attore è inserito (Bianco, 2001). 131 La letteratura classifica il capitale sociale in base alla fonte della rete da cui proviene il capitale sociale attivato (contatti informali di amici, parenti e conoscenti nell’ambito extra-lavorativo, e contatti formali o professionali) e in base alla lunghezza delle catene di contatti usate dagli attori. Sulla base della lunghezza delle catene vi è il capitale sociale diretto, ovvero quando ad esempio si è stati assunti direttamente dal proprio contatto di rete (catena corta); il capitale sociale mediato, quando si è avuta un’informazione importante o si è stati segnalati da chi conosceva personalmente il futuro datore di lavoro (catena di media lunghezza) e, infine, il capitale sociale indiretto, ovvero quando si è trovato lavoro in virtù di un contatto che non ha legami con il datore di lavoro (catena lunghe, ovvero catene professionali) (Bianco, 2001). RAPPORTO SECONDGEN 1987), oggi con la crisi e la diffusione della precarietà le conoscenze risultano essere ancora più importanti, e se non si riesce a creare legami al di fuori della proprie cerchie parentali e comunitarie, queste reti non fanno altro che consolidare le diseguaglianze sociali ostacolando processi di mobilità (Bianco, 2001). Mobilità sociale sia verticale, avviando carriere professionali in ascesa, sia orizzontale, che non permettono una crescita di status ma garantiscono l’occupazione, permettendo di “adattarsi” alla precarietà. Dal momento che è difficile costruire un legame sociale nuovo partendo dal nulla, ma è molto più semplice ampliare la propria rete sociale sulla base dei nodi – e dei legami – già esistenti, diventa basilare riuscire ad occupare un «buco strutturale» (Burt, 1992) instaurando legami con altre cerchie sociali precedentemente non in contatto (Eve, 2001). Chi è riuscito ad accedere al lavoro legale molto più frequentemente aprendosi una strada alternativa alla micro-criminalità, ha acquisito anche la possibilità di scegliere più liberamente di altri se avviare o meno una carriera criminale. Questa possibilità è legata proprio alla capacità di uscire dalle cerchie sociali private legate alla famiglia e al contesto del Giardino/quartiere, ovvero da quei contesti sociali per lo più informali in cui sono ben integrati ma che non stimolano percorsi e progettualità di mobilità sociale e, pertanto, d’integrazione anche in altri contesti (Ceravolo, Eve e Meraviglia, 2001). Una capacità non innata, ma acquisita giorno dopo giorno frequentando attori provenienti da altri mondi sociali: si impara dalle reti non solo a muoversi nella società ma anche a muoversi nelle e tra le reti. Solo frequentando nodi di altri mondi sociali si acquisiscono quelle informazioni utili a sviluppare credenze e preferenze che permettono di scegliere, ad esempio che tipo di lavoro cercare o se cercare lavoro. Giovani come Mufeed e Abed, che hanno contatti per lo più privati con connazionali (contatti familiari e amicali/di conoscenza costruiti per lo più in ambito extra-lavorativo), non hanno mai iniziato a cercare lavoro, o hanno perfino smesso come Abed, perché dalle loro reti arrivano informazioni scoraggianti: “senza un diploma non trovi lavoro” o “con la crisi non prendono me perché sono marocchino, non mi hanno mai chiamato nemmeno per un colloquio!”. E se non trovano lavoro a condizioni dignitose, o pensano che non lo troveranno almeno nel presente, ma hanno bisogno di soldi per vivere – Mufeed ha entrambi i genitori disoccupati e Abed attualmente è rimasto solo in Italia – allora non resta loro che tornare a spacciare e rubare. Tutto questo è visibile nelle esperienze dei magrebini incontrati. Io ora non ho un lavoro onesto e pulito, non l’ho mai cercato e per ora non intendo cercalo perché tanto non avendo nemmeno un titolo di studio come la qualifica o il diploma nessuno mi prenderebbe e poi sono marocchino. Questo lo so perché ho diversi amici che non trovano lavoro perché non hanno nessun titolo. E sai quanti miei amici faticano a trovare un lavoro perché sono marocchini? Ora con la crisi preferiscono dare prima il lavoro agli italiani e noi… a noi rimane la strada brutta, lo spaccio, le rapine e i furti. […] Ecco perché mi hanno già arrestato tre volte per spaccio. Ora devo finire di scontare una pena, ho fatto già due anni di lavori socialmente utili in un centro anziani, ora mi mancano ancora delle ore da scontare e con l’assistente sociale abbiamo stabilito di fare due ore alla settimana così posso andare a scuola e cominciare un lavoro con una borsa lavoro. Ma lei mi ha già detto che mi pagheranno poco, dovrei fare quattro ore al giorno presso un auto-officina o anche un super mercato, dove trovo, solo che se mi danno 300/400 euro al mese sono troppo pochi, posso farne molti di più in una serata rubando! [Mufeed, 20 anni]. Inoltre, è attraverso le reti che si impara a costruire nuovi legami sociali e più queste reti sono diversificate e delocalizzate più è facile costruire nuovi legami, non solo per la “proprietà transitiva” delle reti132, ma anche perché si apprendono le norme sociali e i modelli di comportamento di altri mondi sociali. Solo così è possibile creare nuovi contatti ed accedere a mondi sociali che, se prima erano estranei, diventano in questo modo meno distanti e più familiari. Pertanto, hanno reti sociali specializzate e localizzate in precisi settori del mercato del lavoro legale (reti familiari e parentali) e illegale (reti amicali di tipo residenziale) che permettono loro di “vivere la giornata” ma non di progettare un futuro. Le informazioni e le influenze acquisite in virtù delle loro reti sono deboli ed estremamente specializzate, impedendo loro non solo di muoversi in verticale nella scala sociale ma anche in orizzontale. Fino a quando non trovano un lavoro stabile continuano a vivere attraversando il confine legale-illegale in modo casuale – perché si è aperta una possibilità – e disordinato, senza un preciso progetto di vita. Quando non si trova più lavoro, il rischio di non oltrepassare più quel confine restando segregato nell’illegalità e nell’informalità aumenta, anche se non sempre è percepito 132 Per proprietà transitiva delle reti si intende che se l’individuo A conosce due individui B e C, che appartengono a due cerchie sociali differenti e non in contatto, allora è molto probabile che B e C entreranno in interazione, creando un legame, in virtù del loro legame con A. In questo caso, A occuperebbe un buco strutturale (Burt) in quanto mette in contatto B e C, ovvero due nodi di cerchie sociali altrimenti non in relazione. RAPPORTO SECONDGEN come tale dai ragazzi stessi. Infatti, nello spazio sociale del Giardino si acquisiscono anche informazioni sulla possibilità di lavorare facendo attività che occupano una posizione di frontiera tra la legalità e illegalità, la formalità e l’informalità, come mostrano le parole che seguono. Io: Senti ma come fai a vivere se non lavori? Ashraf: Cerco i soldi per sopravvivere la giornata, anche per questo sto qui, sai? [intende che va lì in giardino per spacciare] Vorrei accumulare i soldi per comprarmi una vespa [intende un Ape], sai quella a tre ruote con dietro lo spazio per trasportare le cose? Così con quella potrei andare in giro a raccogliere il ferro e il rame e rivenderlo, lo pagano bene sai? 0,30 euro al kg e il rame anche di più! Conosco diversi ragazzi che fanno questo. Almeno così farei un lavoro onesto perché io cerco quello, un lavoro onesto solo un lavoro onesto! Ma non so come acquistare una vespa! [Ashraf, 24 anni]. È curioso come, nel tentativo di abbandonare lo spaccio, Ashraf stia tentando di risparmiare per comprare un mezzo di trasporto al fine di avviare un’attività redditizia informale, come quella della vendita del rame e del ferro in nero come “libero professionista”, che tuttavia sta al confine tra la legalità – compra vendita del rame e del ferro – e l’illegalità – gran parte del rame/ferro che circola in questo modo è rubato. Ma in virtù delle informazioni a cui accede, lui pensa in questo modo di cominciare a fare un lavoro onesto. Pertanto, da una parte hanno famiglie che non hanno le capacità e le risorse per pensare ad un futuro per i propri figli diverso dal loro, non li stimolano ad essere ambiziosi nel progettare la loro “vita da grandi” e hanno pochi contatti e capacità di influire sulla loro entrata nel mercato del lavoro; dall’altra, hanno conoscenze e amicizie fatte di coetanei che si adattano alle difficoltà adolescenziali e sociali attivando pratiche illegali, e di giovani-adulti che hanno acquisito beni status symbol grazie a queste pratiche. Configurandosi in questi termini, il capitale sociale individuale a disposizione è assolutamente efficace per i fini di breve periodo, ovvero avere la liquidità necessaria per consumi centrati sul divertimento e sulle relazioni sociali o per vivere la giornata. È efficace anche dal punto di vista culturale, offrendo modelli e stili di vita, valori, preferenze e credenze utili per orientare le proprie scelte. Infine, è efficace anche dal punto di vista identitario, offrendo simboli e pratiche sociali utili ai processi di individuazione e identificazione con un gruppo. Infatti, sono reti che permettono di attivare facilmente forme di guadagno alternative a quelle lecite nei momenti di disoccupazione. Quindi, la buona integrazione in contesti sociali privati e comunitari (famiglia, connazionali e vicini di casa) può alimentare il processo di (auto)segregazione sociale, confermando che per molti giovani stranieri la sola forma di integrazione certa rischia di essere quella nella “devianza” (Dal Lago e Quadrelli, 2003). Questo avviene perché faticano a creare legami al di fuori delle loro cerchie sociali, legami che influiscono già durante la scelta del percorso scolastico, predeterminando in qualche modo la futura possibilità di ascesa (Bianco, 2001). Il contesto sociale familiare e “residenziale” di vita ha importanti conseguenze nel plasmare i progetti futuri di questi giovani. Come è già emerso prima, loro non sognano percorsi professionali ambiziosi in termini di retribuzione monetaria e simbolica. Sognano di poter trovare un lavoro stabile, che piaccia, gratifichi e che sia onesto. Un lavoro che li faccia sentire utili e, nello stesso tempo, che dia un posto nella società italiana a cui sentono di appartenere. Inoltre, sognano un lavoro che permetta loro di costruire una propria famiglia, di avere una casa dignitosa e tutti quei beni che li facciano sentire “come gli altri”. E tutto questo lo sognano in Italia, a Torino e non nel paese di origine133. Pochissimi vorrebbero tornare al paese di origine, opzione tra l’altro non possibile senza aver soldi a sufficienza per poter aprire un’attività che permetta di vivere. 133 Come evidenziato da altri studi, da un lato emerge il mito del ritorno (Anwar, 1979): tutti hanno nostalgia del paese e delle relazioni lasciate alla partenza, ricordano bene la sofferenza iniziale nell’aver abbandonato amici e parenti e le difficoltà d’inserimento a Torino ma nessuno dichiara con convinzione di poter mai tornare in Marocco. Hanno passato almeno metà della loro vita in Italia, sono diventati giovani italiani almeno da un punto di vista culturale e, quando tornano in Marocco per le vacanze, vivono un forte spaesamento (Ambrosini, 2004; Queirolo Palmas, 2006a; Queirolo Palmas, 2006b). Non si riconoscono nel paese lasciato anni prima, gli amici sono cresciuti e diventati adulti con proprie famiglie, mentre loro stanno ancora cercando di avviare i loro progetti. Non si sentono più parte del paese di origine, anche se hanno la cittadinanza, si sentono emigrati. Questa tensione si manifesta dando vita spesso a progetti migratori propri, diventando i veri attori di questi progetti. Progetti orientati alla costruzione di una famiglia e di una vita in Italia, anche se a causa delle elevate difficoltà economiche e di inserimento nel mercato del lavoro, sempre più emergono progetti di vita in altri paesi europei, dove è possibile trovare un occupazione onesta e dignitosa e, soprattutto, dove “lo Stato aiuta”, come in Francia, consapevolezza acquisita tramite le reti di connazionali. Progetti, infine, che spesso si slegano da quelli dei genitori orientati al ritorno nel paese di origine. RAPPORTO SECONDGEN Fahmi: Ah io mi vedo con un lavoro, con una famiglia, con una bella macchina ed una bella casa, parto alla mattina, torno alla sera, mangio insieme a mia moglie, guardo i miei figli! Sempre qua, se non qua in Europa, sai in Svizzera o in Francia o in Belgio o in Olanda o in Svezia, non Svizzera, Svezia. Sì basta che ho un lavoro e la famiglia, mi basta Io: E qua a Torino resteresti sempre in questa zona? Fahmi: Sì magari a Torino se trovo un lavoro anche qua che c’è di male? Se trovo un lavoro sto qui, basta che sono utile alla società e a me stesso [Fahmi, 20 anni]. Appena prendo la qualifica voglio andarmene di qui, voglio andare a Modena o Bologna ma non in città, nei villaggi [intende dire in campagna] perché nelle città c’è più povertà e più persone che non lavorano e cercano, invece nelle campagne c’è più lavoro e meno persone! Oppure vorrei andare in Francia o in Canada, lì sì che si sta bene! Oppure in Norvegia, c’è lavoro e lo Stato ti aiuta se hai bisogno, qui non ti aiuta nessuno! [Mufeed, 20 anni]. Io: E tu sai come tua mamma ha scelto di tornare in Marocco? Abed: Ha scelto di tornare in Marocco perché volevamo che i miei fratelli studiano in Marocco, e boh, finché sono loro in Marocco che sono piccoli sta lei là… Io: E tu come hai scelto di rimanere qua? Abed: Io ehm, sta cazzo di abitudine di stare qui, mi piace tornare giù in vacanza però poi voglio tornare qui, se non torno qui è un casino, non ce la faccio a stare sempre in Marocco, è troppo tempo che non vivo più lì! [Abed, 19 anni]. Quasi nessuno progetta, invece, una carriera criminale anche se tutti sanno che questa potrebbe portare molti soldi e potere. Una consapevolezza che nasce anche osservando quello che succede nella società più ampia, osservando i modelli culturali trasmessi attraverso i media. In questo caso, è curioso come gran parte dei magrebini incontrati ammirino il percorso di ascesa sociale, seppur illegale, di Silvio Berlusconi lodandolo per le sue capacità imprenditoriali, non politiche134. Infatti, Berlusconi rappresenta il simbolo che l’ascesa sociale è in qualche modo possibile: è riuscito a passare dal “nulla”, condizione in cui loro pensano di trovarsi, ad essere uno degli uomini più ricchi e influenti del mondo. Non importa con quali mezzi, almeno non per tutti. In fin dei conti, chi quotidianamente si vede ridurre le possibilità di integrazione e ascesa secondo le norme sociali accettate e percepisce alcune pratiche illegali di guadagno come normali e unico mezzo di sopravvivenza, perché dovrebbe rifiutare pratiche di ascesa sociale accettate da parte della popolazione italiana? Infatti, anche loro sono stati socializzati alla cultura dominante della nostra società, e questi valori “devianti” sono parte di questa, come ricordato nel paragrafo precedente (Matza e Sykes, 1961). Tuttavia, nel caso della carriera deviante, questi ragazzi hanno poche occasioni di intraprendere un’ascesa sociale nella criminalità nel momento in cui non hanno i legami e i contatti giusti. Come è emerso finora, non hanno le capacità di passare da un mondo sociale all’altro. Infatti, a differenza di alcuni criminali di origine nigeriana, albanese, dominicana e italiana, solo per fare degli esempi, gran parte di quelli di origine magrebina (per lo più marocchini, algerini e tunisini) non sono né organizzati e strutturati né hanno elevato potere economico, sociale e politico sul territorio di azione (Becucci, 2006)135. I magrebini, come altre nazionalità citate da Becucci (2006), sono inseriti nelle occupazioni più marginali, rischiose in quanto più visibili - e meno retribuite anche nel mercato delle attività illegali. Questi infatti fanno gli spacciatori di strada o i corrieri ma non occupano posizioni elevate e redditizie e non sono affiliati a nessuna organizzazione. Per questo motivo, anche chi tra loro progetta una carriera criminale deve riuscire a costruire legami di questo tipo oltre lo spazio del giardino, altrimenti rischia di rimanere immobile nell’economia parallela. 134 Non è un caso che ammirino le sue capacità imprenditoriali e non politiche. Infatti, Silvio Berlusconi è per loro, sul piano politico, quello che ha permesso una legge sull’immigrazione ingiusta rendendo difficile l’integrazione politica ma anche sociale ed economica degli immigrati non comunitari. Inoltre, qui il paragone non è con la classe sociale di partenza (bassa per molti dei giovani incontrati e media per il leader politico) piuttosto con il percorso di ascesa sociale compiuto. 135 Secondo alcuni dati riferiti al 2005, in Italia le percentuali più alte di arresti per spaccio riguardano marocchini (73%), algerini (88%), tunisini (79%) e senegalesi (86%), a differenza del 40% dei nigeriani, del 45% degli albanesi e del 71% dei dominicani, arrestati perché coinvolti per lo più nel traffico e nella produzione, o per associazione finalizzata al traffico (18% degli albanesi arrestati per droga). Magrebini e senegalesi sono molto meno coinvolti nella produzione e traffico (con una media del 15% sulle quattro nazionalità) e nell’associazione finalizzata al traffico (media del 3%). (Becucci, 2006, pag. 85). RAPPORTO SECONDGEN Come uscire da quel mondo sociale? Con questa analisi l’obiettivo non è quello di connotare i luoghi pubblici aperti e informali, o meglio la strada, come spazi sociali necessariamente devianti. Questi luoghi, soprattutto nei contesti urbani più periferici, sono ancora oggi territori significativi di socialità e costruzione di identità, appartenenza e occasioni d’interazione che plasmano la quotidianità di popolazioni diverse per origine sociale, culturale, nazionale, generazionale. Possono essere luoghi “positivi” nel contribuire a intrecciare relazioni sociali fondamentali per gestire il quotidiano e sostenere nei momenti di crisi. Tuttavia, possono diventare anche luoghi “negativi” in cui si apprendono e sperimentano assimilazioni verso il basso. Il positivo e il negativo sono legati a ciò che la società dominante accetta come normale stile di vita e, nel caso di chi ha origini straniere, come il “giusto modo di integrarsi” nella società di arrivo. Il punto non è tanto il luogo privilegiato nel quale si costruiscono le proprie reti sociali, né lo status dei nodi con cui si entra in relazione o l’intensità dei legami. Se vi è omogeneità e congruenza nelle reti sociali rispetto ai propri obiettivi futuri, è molto probabile che si creino quelle possibilità che permettono di raggiungere “un’integrazione di successo” (Bianco, 2001). Declinato secondo le esperienze presentate, il punto non è la strada come luogo quotidiano di vita, ma il tipo di spazio sociale che “abita” quella strada. Da diversi studi, più o meno recenti che hanno osservato i ghetti statunitensi, è emersa l’importanza del capitale sociale di partenza nella riproduzione delle diseguaglianze sociali, anche se gli autori non parlano esplicitamente di reti sociali. Autori come Foote Whyte (trad., 2011) e Wilson (1987; 1996) hanno contributo a dimostrare che indipendentemente dall’orientamento personale o dalle proprie ambizioni, dal ruolo della famiglia e da aspetti discriminatori di tipo etnico o razziale, chi nasce in un contesto sociale emarginato dovrà riuscire a colmare uno svantaggio di partenza: l’essere nato o cresciuto in una zona con elevata povertà economica, sociale, culturale e spesso istituzionale/associativa. Entrare in relazione quotidiana con soggetti socialmente svantaggiati (disoccupati, immigrati irregolari, con bassi livelli di istruzione e basse ambizioni) significa limitare la gamma delle scelte possibili con effetti nella progettualità futura e nella sua realizzazione (MacLeod 1987), e quindi con effetti nella riproduzione delle diseguaglianze sociali. L’ambiente sociale e di lavoro dei genitori, l’eterogeneità sociale del contesto di vita (quartiere) e scolastico dei figli offrono immagini di futuri alternativi creando aspettative di ascesa sociale e favorendo percorsi di integrazione nella società di arrivo (Bianchi et al., 2001; Bianco, 2001; Ceravolo, Eve e Meraviglia, 2001). Parafrasando Bianco (2001), sono i quartieri misti a fare la differenza perché permettono di differenziare le reti di relazioni in cui le famiglie e i loro figli sono inseriti quotidianamente. Per illustrare meglio questa tesi, mi limiterò a presentare brevemente la storia di Igor, un ragazzo di origine russa nato a Torino e cresciuto in una città della cintura, che può servire da punto di confronto con i giovani descritti finora. Igor ha 24 anni, la cittadinanza italiana ed è stato arrestato circa tre anni prima con un carico di hashish - sopra al kg - mentre lo trasportava in Toscana. Faceva il corriere come “libero professionista”, si riforniva da spacciatori di Barriera di Milano conosciuti tramite coetanei che ha frequentato durante un periodo – coincidente con la quarta superiore – fatto di serate in discoteca, sballo e consumi legati al divertimento. A differenza dei giovani magrebini del Giardino, Igor ha una madre laureata, risposata con un italiano, con buone risorse sociali, economiche e culturali, e che nell’infanzia lo ha accompagnato anche in contesti sociali strutturati e chiusi. Igor ha scelto di frequentare il liceo perché lì andavano tanti suoi amici e, fino alla quarta superiore, ha sempre frequentato coetanei appartenenti alla classe media, italiani e con ambiziosi progetti futuri. Sono tre gli elementi che lo differenziano dai giovani magrebini incontrati: i motivi dell’atto deviante, il contesto sociale di crescita e lo status giuridico. Igor non ha cominciato a fare il corriere perché aveva bisogno di soldi, anche se questa attività è molto più redditizia dello spaccio in strada. I genitori di Igor mantenevano i suoi consumi e suoi bisogni di adolescente e l’atto riflette un malessere diverso da quello dei “ragazzi di strada”, un malessere legato al rapporto con i genitori e non alle diseguaglianze di classe vissute quotidianamente. Igor: È in questo periodo, frequentando delle persone che ho conosciuto a Torino e impegnate in traffici più grossi, ho capito che con un viaggio in Toscana puoi davvero guadagnare più di quello che un ragazzo della mia età qualunque può guadagnare in un mese lavorando otto ore al giorno. Così, ho cominciato a trasportare kili di hashish in Toscana, un kilo qui lo paghi circa 1200 euro e lì lo rivendi a 3000 euro, capisci? Perché dovrei lavorare 8/10 ore al giorno, spaccarmi il culo per nemmeno 1000 al mese?. In realtà non avevo bisogno di soldi perché i miei, soprattutto mia mamma, mi avrebbero dato tutto quello che volevo, vestiti, telefono, soldi per uscire. La situazione pesante in casa, i litigi dei miei genitori mi hanno spinto ad allontanarmi da casa e da loro alla ricerca di una mia RAPPORTO SECONDGEN indipendenza. Non volevi più dipendere da loro, non volevo più chiedergli niente. Infatti, non stavo più a casa, ero spesso in giro e non chiedevo più nulla a loro. Diciamo che appunto guadagnando tanto per quattro ore di lavoro, tra virgolette, cè, andare anche a chiedere quattro soldi, se lo facevo lo facevo proprio per non farmi sgamare, per non dare troppo nell’occhio però cercavo di far capire loro che non facevo una vita dispendiosa legata al divertimento e alle sostanze ma in realtà non era così… poi in quel momento avevo anche la ragazza quindi equilibravo anche abbastanza bene il tutto… Io: Senti ma come è nata questa cosa di guadagnare i soldi così, come sei arrivato a dire “boh, così si guadagna bene io ci provo, lo faccio!”? Igor: E quando ti vedi i soldi in mano, cè, nel senso alla fine se ti vedi in cinque ore 6000 euro in mano di guadagno dici “perché devo mandare i curriculum in giro!” [ridendo] cè, purtroppo è così! Io: Come hai preso informazioni sulla possibilità di guadagnare così tanti soldi in poco tempo? Igor: Queste persone che avevano traffici più grossi che ho conosciuto a Torino mi hanno spiegato che c’era questa possibilità di fare soldi così, io lì in Toscana avevo un gancio Io: E questo era legato a queste persone? Igor: Sì, non è che andavo in giro con un chilo a chiedere chi lo volesse comprare! Io facevo il trasportatore e avevo anche dei miei chili dai quali prendevo il mio guadagno, io ero incensurato avevo la patente e diciamo che non davo troppo nell’occhio… ero perfetto per loro! Il fatto è che se tu dai a un diciottenne 1.500 euro in mano non penserai mai alla gravità della situazione capito? Non pensi alla gravità della situazione, non pensi che ci siano delle reali conseguenze, non hai una visione… ti dicono “sì ma sei incensurato ma se dovesse succedere non ti succede un cazzo” hai capito? Io: E tu quanti viaggi hai fatto prima di essere preso? Igor: E ne ho fatti un po’, non mi ricordo il numero però ne ho fatti un po’ che non sono due o tre ma di più e avevo qualcosa come 30mila euro, 40mila euro, che ci stanno! [Igor, 24 anni, origine russa]. Inoltre, Igor ha vissuto l’esperienza economica e ricreativa del “mondo droga” con coetanei conosciuti fuori dal suo contesto sociale quotidiano. Una volta arrestato e scelto di allontanarsi da quel mondo sociale, lui aveva un altro mondo pronto ad accoglierlo, familiare, e grazie al quale ha imparato a muoversi nella società. Una volta diplomato, Igor si è trovato con tutte quelle risorse e capacità acquisite dalla differenziata trama del capitale sociale a lui disponibile. Infine, particolare da non sottovalutare, Igor è anche cittadino italiano, status che gli ha permesso di vivere due anni a Londra dove ha potuto conoscere e apprendere nuove realtà e fare scelte più libere, non avendo la preoccupazione del permesso di soggiorno. Pertanto, lui non è costretto né a trovare immediatamente lavoro una volta terminati gli studi, né a trovare un altro modo per vivere in caso di disoccupazione prolungata. Per Igor l’attività illegale intrapresa per un breve periodo della sua adolescenza e lo stile di vita basato sul divertimento e sullo sballo, sono parte di quello che per molti suoi coetanei è una condizione di passaggio all’età adulta (Queirolo Palmas, 2006a; Queirolo Palmas, 2006b). Anche per molti giovani del Giardino probabilmente questa si configurerà come una fase della vita, ma non è così scontato. Anche loro hanno iniziato con queste pratiche durante il periodo scolastico, come mezzi per raggiungere quel “diritto al consumo” non soddisfatto dai genitori (Quadrelli, 2003). Inoltre, ho già sottolineato come questo mondo sociale, e le pratiche che ne derivano, tenda ad essere abbandonato non appena i ragazzi escono dalla scuola e si inseriscono nel mercato del lavoro. Tuttavia, ad oggi tra i giovani magrebini incontrati disoccupati solo Fahmi ha trovato nuova occupazione136. Ma chi non trova lavoro? Chi non trova lavoro invece non ha molte probabilità di “successo”, rischia di rimanere segregato in quel mondo sociale continuando a vivere in una zona di frontiera economica, sociale, culturale e giuridica. Significa, molto probabilmente, continuare a passare in modo casuale e instabile il confine legale-illegale dei mezzi di sostentamento, delle forme di socialità e della condizione giuridica. In questo caso, per chi è uscito dalla scuola e non trova lavoro (come Abed, Ashraf), rimane la “strada” con le sue pratiche illegali di guadagno che permettono di vivere la giornata. Se per riuscire ad entrare nel mercato del lavoro è importante che questi ragazzi sperimentino relazioni nuove che vadano oltre lo spazio sociale del Giardino e del quartiere, come “ridurre il danno” provocato dall’omogeneità sociale di alcuni contesti urbani? Se per prevenire processi di “assimilazione verso il basso” e per favorire processi di mobilità sociale, indipendentemente dalla classe di origine, si dovrebbero promuovere quartieri misti nelle origini sociali, culturali, economiche e nazionali, come aiutare chi sta crescendo in spazi sociali emarginati ed escludenti? 136 Tramite una Onlus locale aveva mandato il curriculum a un’azienda che lo ha chiamato per fargli fare una prova presso questa azienda. Dopo una settimana di prova e un mese di tirocinio, lo hanno assunto per sei mesi con un contratto a tempo determinato. RAPPORTO SECONDGEN Sono giovani che hanno da una parte famiglie che li acculturano a valori e stili di vita accettati socialmente, che li stimolano a studiare e a costruirsi un posto nella società di arrivo, ma che non hanno sufficienti risorse sociali ed economiche per accompagnarli nel sognare e vivere futuri alternativi, anche con percorsi di mobilità ascendente. Inoltre, sono inseriti in contesti extra-scolastici (luoghi di aggregazione e socializzazione tra pari) che offrono possibilità relazionali, economiche e risorse identitarie che non permettono di avviare un processo di inserimento accettato socialmente. Un grosso problema di questi giovani è il fatto che non sperimentano relazioni “positive” negli spazi quotidiani di vita, mentre la scuola o non si presenta come luogo significativo di costruzione di relazioni sociali (in quanto non è un luogo dove acquisiscono riconoscimento e prestigio) o contribuisce a riprodurre quell’attitudine alla “devianza” a causa di un’elevata concentrazione di coetanei provenienti da contesti sociali simili. Sebbene sia importante il contesto scolastico, tuttavia è fondamentale anche il tipo delle relazioni intrecciate nel contesto quotidiano extra-scolastico. È qui che i giovani magrebini incontrati dovrebbero conoscere altri modelli culturali, valori e norme sociali che li aiutino a formare credenze, preferenze e gusti diversi. È anche qui che dovrebbero sperimentare come si interagisce con mondi sociali diversi, come si creano nuove relazioni. Bisognerebbe inoltre puntare ad un processo di “acculturazione” al luogo strutturato e istituzionale, alla costruzione di alternative alla strada e ad interventi finalizzati a far sì che la strada non sia vissuta solo da pratiche e interazioni sociali devianti. Innanzi tutto, è importante apprendere il modo di stare nei luoghi strutturati, adattandosi alle loro norme e regole sociali, e imparare a sentirli come spazi sociali significativi per la costruzione e il mantenimento di relazioni sociali. Bisognerebbe veicolare il messaggio che l’inclusione non passa solo attraverso il consumo centrato sul divertimento e su relazioni sociali circoscritte, ma anche attraverso la partecipazione e l’interazione in realtà istituzionali (associazioni, centri di aggregazione giovanile, eccetera). Luoghi, oltre la scuola, nei quali si imparano le norme sociali che regolano la società più ampia, ovvero quelle regole del gioco utili a muoversi nella società. Questo implica interiorizzare meccanismi di
© Copyright 2024 Paperzz