UNIVERSITÀ POLITECNICA DELLE MARCHE Facoltà di Agraria Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali Dottorato di Ricerca in Scienze Agrarie – 10° ciclo Curriculum Gestione Sostenibile dei Sistemi Collinari e Montani Dinamismi strutturali e auxometrici in faggete dei Monti della Laga Candidato: Tutore: Dott. Emidia Santini Prof. Carlo Urbinati Coordinatore: Prof.ssa Adele Finco Gennaio 2012 Riassunto Questa ricerca nasce dalla necessità di analizzare i dinamismi strutturali e di evoluzione delle faggete abbandonate di origine agamica dell’Appannino centrale, tramite l’utilizzo di indici strutturali, per poter comprendere i possibili interventi di gestione futura in funzione della loro multifunzionalità. La ricerca è stata eseguita in tre popolamenti caratterizzanti il versante marchigiano dei Monti della Laga; in particolare sono state analizzate le cenosi del limite altitudinale del bosco, le faggete miste con abete bianco e quelle in conversione all’alto fusto. L’analisi è stata eseguita tramite l’applicazione di indicatori della struttura verticale, componente fondamentale di un ecosistema forestale, ed i cui risultati possono diventare validi strumenti di supporto nella scelta degli interventi gestionali. Nelle aree miste con abete bianco sono stati applicati anche indici geostatistici per poter realizzare una completa analisi della dinamica di evoluzione spaziale delle due specie. Infine tramite analisi dendrocronologiche e dendroclimatiche sono stati studiati i dinamismi di accrescimento delle faggete del limite superiore del bosco, in relazione alla variabilità climatica dell’ultimo secolo e ad altri fattori di disturbo come gli interventi selvicolturali. Gli indici strutturali hanno messo in evidenza la maggiore complessità strutturale dei popolamenti misti con abete bianco, che però necessitano di interventi urgenti atti a liberare i nuclei di abete dalla forte concorrenza del faggio. Inoltre i cedui invecchiati risultano avere una migliore struttura rispetto a quelli avviati all’alto fusto; in particolare le cenosi dell’ecotono bosco-prateria sono meglio strutturate a causa della minore concorrenza tra le ceppaie. Quest’area è anche caratterizzata da un migliore dinamismo auxometrico rispetto ai popolamenti più densi che hanno maggiore competizione e accrescimenti più ridotti. Infine l’analisi dendroclimatica ha indicato risposte differenti tra l’area aperta e quella ad elevata copertura e ha messo in evidenza la suscettibilità del faggio ai problemi di embolia xilematica. 2 Abstract This work aims to analyze structural and evolution dynamics of store-coppiced beech forests in Central Appennines, in order to understand the possible future management actions according multifunctional and sustainable criteria. Forest structure indicators and dendrochronological analysis were mainly used for this scope. The research was performed in several stands situated in Laga Mountains (Marche region). In particular we analyzed the forest structure in stands located at the timberline, in mixed beech-silver fir forests and in pure coppiced beech stands, partly in conversion to high forest. The analysis was performed by the application of some vertical structure indices, considering also their scarce application in Apennines forests. The results obtained can become valuable tools to support sustainable management options. In mixed beech-fir forests, geostatistical indices were also applied to assess the two species’ spatial evolution dynamics. Finally by means of dendrochronological and dendroclimaticatological analysis, the growth dynamics of the upper limit of beech forest in relation to climate variability of the last century, and other nuisance factors such as silvicultural treatments have been studied. Structural indexes highlighted the greater structural complexity of mixed beech-fir stands that, however, require urgent actions to free the fir dominated clusters from the excessive competition from beech. In addition, aged deciduous tree seem to have a better start than the high trees; in particular ecotonal groups are better structured because of the minor competition among the stumps. This area is also featuring a better dynamic growth than that of the denser populations, more affectedby a higher competition. Finally dendroclimatical analysis showed different responses between open and dense forest areas and highlighted the climate sensitivity of beech that can lead also to xylem embolism problems. 3 INDICE 1. INTRODUZIONE 6 1.1 Contestualizzazione e scopi della ricerca 6 2. AREA DI STUDIO 10 2.1 Inquadramento territoriale 10 2.2 Caratteri geolitologici 12 2.3 Aspetti geomorfologici 16 2.4 Assetto climatico 18 2.5 Vincoli ambientali ed istituzioni 19 2.6 Caratteri vegetazionali 22 2.7 I pascoli 24 2.8 Il comprensorio forestale e le faggete 26 2.9 La Comunanza Agraria di Montacuto 29 2.9.1 La Comunanza Agraria: una proprietà collettiva 29 2.9.2 Cenni storici e usi pregressi 31 3. STRUTTURA DELLE CENOSI FORESTALI 39 3.1 La struttura verticale 40 3.2 L’influenza della struttura verticale sulla fauna ornitica con elevata importanza ecologica. 46 3.3 Analisi della struttura verticale mediante indici 51 4. MATERIALI E METODI 70 4.1 Localizzazione e descrizione delle aree di studio 70 4.1.1 Le faggete del limite superiore del bosco 71 4.1.2 Le faggete del processo di conversione 73 4.1.3 Le faggete miste con abete bianco 75 4.2 Analisi della struttura orizzontale 77 4.3 Analisi della struttura verticale 81 4.4 Analisi della struttura cronologica e dendrocronologica 88 4.4.1. Descrizione della dinamica di accrescimento e dei fattori che la influenzano 92 4.4.2. Standardizzazione delle serie cronologiche e analisi dendroclimatica 94 4.4.2.1. Le relazioni clima - accrescimento 98 4 4.4.3 Analisi degli anni caratteristici 102 5. RISULTATI E DISCUSSIONE 104 5.1 Risultati dell’analisi della struttura orizzontale 104 5.2 Risultati dell’analisi della struttura verticale 110 5.2.1 Faggete del limite superiore del bosco 111 5.2.2 Faggete rappresentante il processo di conversione 136 5.2.2.1 Analisi dell’organizzazione strutturale dei polloni costituenti la ceppaia 127 5.2.3 Faggete con abete bianco 145 5.2.4 Discussione di sintesi della struttura verticale 159 5.3 Risultati dell’analisi della struttura cronologica e dendrocronologia 162 5.3.1 Analisi delle relazioni clima-accrescimento 169 5.3.2 Analisi degli anni caratteristici 176 6. CONCLUSIONI 178 BIBLIOGRAFIA 182 5 1. INTRODUZIONE 1.1 Contestualizzazione e scopi della ricerca Nelle Marche le faggete occupano 20.126 ha corrispondenti al 7,8% della superficie forestale regionale (IPLA, 2001). Dopo i castagneti sono le formazioni più produttive e l’unica categoria forestale dove proprietà pubblica e collettiva, insieme, prevalgono su quella privata; infatti il 40% (oltre 8000 ha) sono di proprietà di Comunanze e Università Agrarie ed il 26% di proprietà comunale e del demanio regionale . Le faggete dell’alta valle Tronto ed in particolare quelle del versante marchigiano dei Monti della Laga sono caratterizzate da elevatissima valenza ambientale (dovuta anche alla natura pelitico-arenacea dei suoli) e storico-culturale la cui gestione sostenibile diventa necessaria per garantirne la loro conservazione ed il loro corretto utilizzo. Esse appartengono in prevalenza a proprietà collettive, dove sono ancora praticati diversi usi civici (legnatico, fungatico, ecc.) e sono: i) fra le più estese e fertili della regione e dell’Italia centrale, ii) quelle che raggiungono le quote più elevate nella Regione oltre i 1800 m slm) iii) l’unica stazione delle Marche di abete bianco autoctono (sebbene oggi presente in condizioni piuttosto critiche), variante della “faggeta acidofila” caratterizzata dalla presenza di mirtillo nero (Vaccinum myrtillus L.). Tutto ciò ha contributo a caratterizzarne la grande valenza ecosistemica testimoniata dalla loro recente inclusione nel Parco Nazionale Gran Sasso e Monti della Laga ed nella Rete Natura 2000. Da un’iniziale conduzione mista dei soprassuoli (fustaia e ceduo) per garantire contemporaneamente tutti i diversi assortimenti necessari alla vita rurale (legname da opera, frutti per il bestiame, legna da ardere, paleria e carbone vegetale), presumibilmente dopo l’unità d’Italia (Sansa, 2003), gran parte di tali boschi sono stati progressivamente utilizzati a ceduo, che per turni di taglio brevi garantiva una maggiore produzione periodica di assortimenti necessari come legna da ardere e carbone. Negli anni seguenti la Seconda Guerra Mondiale le condizioni sociali si sono modificate rapidamente, ed il passaggio da un’economia prevalentemente agricola ad una sempre più industriale, il forte e progressivo spopolamento delle zone montane, che il “boom” economico ha favorito dal facile reperimento dei combustibili fossili, hanno causato l’abbandono colturale di queste foreste. 6 Tale condizione li caratterizza oggi come cedui “invecchiati”, termine che identifica quelli che hanno abbondantemente superato l’età del turno, ma non la funzionalità perché i soprassuoli, dopo un periodo di rallentamento dell’accrescimento, sarebbero in grado di produrre incrementi crescenti in tempi medio-lunghi (Amorini e Fabbio, 1983, 1991; Bernetti, 1981; Gambi, 1986). Il processo sincrono di abbandono colturale ha inoltre determinato, oggi, la presenza di estese superfici di cedui invecchiati coetanei e scarsamente matricinati, per i quali il regolamento forestale regionale prevede scelte selvicolturali obbligate, che consentono unicamente di procedere con l’evoluzione naturale o con l’avviamento a fustaia. Gli interventi di conversione a fustaia coetanea sono iniziati negli anni Settanta del secolo scorso e sono serviti a continuare la produzione come uso civico di legna da ardere e sono stati realizzati in prevalenza nei soprassuoli facilmente raggiungibili con la viabilità esistente. Oggi è ormai ampiamente condiviso il concetto che i boschi abbandonati all’evoluzione naturale non assicurano sempre e comunque le diverse funzioni che ad essi vengono richieste e che possono essere garantite solo con una corretta gestione selvicolturale. Infatti la multifunzionalità, pilastro del processo di gestione sostenibile, trova un’applicazione pratica solo se si segue un approccio multiscala, in quanto non sempre allo stesso soprassuolo è possibile assegnare più funzioni contemporaneamente. Questa ricerca, iniziata nell’ambito di un progetto MIUR-PRIN dal titolo “Limitazioni ambientali e fisiologiche dell'accrescimento degli alberi al limite superiore del bosco nelle Alpi e negli Appennini” e proseguita in parte in un successivo progetto LIFE+ (LIFE NAT/IT/000371 RESILFOR (REstoringSILver-firFORest) sulla “Ricostituzione di boschi a dominanza di faggio con Abies alba nell’Appennino Tosco-Marchigiano”) ha quindi come obiettivo primario la necessità di comprendere i dinamismi strutturali e funzionali dei cedui di faggio in fase post-colturale per individuare i più efficaci indirizzi di gestione a garanzia della loro conservazione e multifunzionalità, in un ambito territoriale in cui coesistono, sebbene con qualche contrasto, la funzione produttiva necessaria per le popolazioni locali e quella naturalistica richiesta dal Parco e dalla collettività. Le analisi sono state condotte, con modalità differenziate, all’interno di cenosi di faggio ubicate nel medesimo versante, ma distinte per ubicazione altitudinale (fra 1400 e 1800 m slm), assetto compositivo (faggete pure e miste con abete bianco), e stadio evolutivo del processo di conversione (ceduo invecchiato, 1 diradamento e 2 diradamenti). La 7 caratteristica comune a tutti i soprassuoli è l’origine agamica e la quasi totale assenza di matricine che testimonia la loro destinazione pregressa per la produzione di carbone da legna. In questo lavoro di ricerca, uno degli elementi caratterizzanti è l’analisi di alcune componenti della struttura verticale delle cenosi forestali, troppo spesso negletta, soprattutto in Italia, sia negli approcci tradizionali di caratterizzazione dendrometrica, sia in quelli finalizzati alla valorizzazione della biodiversità. In Italia sono pochissimi gli studi sull’analisi della struttura verticale (Bianchi, et al., 2005a; Marzano, 2005; Marziliano, et al., 2009), probabilmente anche per la difficoltà di applicazione ai boschi cedui. L’acquisizione di una maggiore resilienza globale delle cenosi forestali e l’aumento di disponibilità di nicchie ecologiche in particolare, passa anche attraverso una maggiore eterogeneità strutturale soprattutto in formazioni come le faggete, che naturalmente o meno tendono alla scarsa diversità dendrologica. Secondo Corona et al. (2005) la diversità strutturale nei soprassuoli forestali può essere sinteticamente descritta da tre componenti principali: quella spaziale orizzontale, quella dendrologica (ovvero la mescolanza delle specie arboree) e quella dimensionale intesa come differenziazione diametrica dei fusti arborei (e che simula quella cronologica). La tesi si caratterizza in tre parti principali in relazione alla tipologia dell’area di studio, all’interno delle quali sono state eseguite analisi calibrate alle caratteristiche dei soprassuoli presenti: 1. Le faggete del limite superiore del bosco 2. Le faggete del processo di conversione 3. Le faggete miste con abete bianco Le analisi sulla struttura verticale, utili per orientare gli interventi di diradamento nel processo di conversione, hanno interessato tutte e tre i tipi di cenosi; quelle relative alla struttura orizzontale già applicate alle faggete del limite superiore, sono state applicate anche a quelle miste con abete bianco per stimare la dinamica evolutiva delle due specie principali. Le analisi della struttura cronologica e della sensitività climatica hanno riguardato invece, solo le aree del limite superiore per comprendere i dinamismi di accrescimento del faggio, in relazione alla variabilità climatica dell’ultimo secolo e ad altri fattori di disturbo, come gli interventi selvicolturali. 8 Dopo un’approfondita ricerca bibliografica relativa agli indici di struttura verticale e la relativa verifica di applicabilità ai dati dendrometrici delle aree di studio, è stata anche sperimentata l’applicazione di un indice che valorizzasse in modo più efficace la funzione ecologica delle chiome. 9 2. AREA DI STUDIO 2.1 Inquadramento territoriale Il territorio oggetto di studio è situato all’estremità settentrionale del Parco Nazionale Gran Sasso e Monti della Laga; è di proprietà della Comunanza Agraria di Montacuto e amministrativamente appartiene alla provincia di Ascoli Piceno (regione Marche) ed al comune di Acquasanta Terme. La Comunanza Agraria di Montacuto è una delle 11 proprietà collettive (tab. 2.1.1) gravate dal diritto collettivo che costituiscono il Comprensorio forestale delle Comunanze Agrarie dei Monti della Laga e afferente alla Comunità Montana del Tronto. Proprietà collettiva Comunanza Agraria di Montacuto Sez. A Sup. ha 1076.50 Comunanza Agraria di Umito Sez. B Sup. ha 499.80 Comunanza Agraria di S.Martino in Monte Calvo Sez. C Sup. ha 135.50 Comunanza Agraria di S.Giovanni Sez. D Sup. ha 653.10 Comunanza Agraria di Pozza Sez. E Sup. ha 136.90 Comunanza Agraria di Fleno Sez. F Sup. ha 69.50 Comunanza Agraria di S.Gregorio Sez. G Sup. ha 33.60 Comunanza Agraria di Lopreia Consorzio Sez. H Sup. ha 77.10 Comunanza Agraria di Quarto Farneto Trisungo Sez. I Sup. ha 234.50 Comunanza Agraria di Spelonca Sez. L Sup. ha 264.60 Comunanza Agraria di Colle d’Arquata Sez. M Sup. ha 239.10 Tot. ha 3420,20 Tab. 2.1.1 - Sezioni del Comprensorio forestale delle Comunanze Agrarie con specifica lettera identificativa (citazione Piano Particolareggiato di Assestamento Forestale delle Comunanze Agrarie dei Monti della Laga 2006-2015). La Comunanza Agraria di Montacuto occupa principalmente la parte centrale del complesso montuoso del Consorzio Forestale dei Monti della Laga istituito nel 1997 e attualmente unisce 6 Comunanza Agrarie, alcune delle quali hanno parte del loro territorio nella provincia di Teramo (Abruzzo). Le proprietà collettive che costituiscono il Consorzio sono quella di Montacuto, la più importante per estensione, quelle di Pozza, Umito, San Giovanni, San Martino in Montecalvo e Fleno, per un’estensione totale di 2571,3 ha, rappresentando la parte settentrionale del Parco Nazionale Gran Sasso e Monti della Laga nonché una delle più importanti aree forestali dell’Appennino centrale. Con la forma di triangolo rovesciato la 10 Comunanza in oggetto è situata a cavallo delle regioni Marche, Abruzzo e Lazio (i confini amministrativi confluiscono a est del monte Macera della Morte sul Termine a quota 2022 m, che un tempo faceva da confine tra lo Stato Pontificio ed il Regno di Napoli). Essa si estende per una superficie di 1076,5 ha e rappresenta la parte più a monte del bacino imbrifero del Fosso della Montagna; è delimitata da confini naturali ben visibili, i quali sono situati a sud-est della cresta che da Prato Lungo e Costa la Tana (1773 m) risale fino a Monte Cesarotta (1800 m), a sud passano per Cima Fonteguidone (1863 m) e Macera della Morte (2073 m) e proseguono a ovest verso la costa di Piangrande (1976 m) fino ad arrivare al Monte Scalandro (1649 m). A nord il confine è meno evidente rispetto la cresta del circo iniziale del bacino imbrifero dove si origina il Rio Volpara, ed attraversa le Vene dell’Altare (1139 m) e il Fosso della Montagna per risalire fino a Costa Capo d’Umito. Il Complesso Forestale si estende sulla dorsale nord dei Monti della Laga, e cioè su quella catena montuosa interna dell’Appennino con andamento da N-NO a S-SE, a confine con la dorsale sud umbro-marchigiana (Sibillini). I Monti della Laga hanno una struttura costituita da un sinuoso asse portante con allineamento nord-sud lungo circa 30 Km, che raggiunge i 2000 m poco prima della Macera della Morte (2073 m), e tocca punte massime come la quota di Pizzo di Sevo (2419 m), di Cima Lepri (2445 m) e del Monte Gorzano (2458 m). Dalla dorsale principale verso est si diramano a pettine creste secondarie che partono dal Monte Scalandro e dalle altre vette della catena; quella che dalla Macera della Morte si dirige a Nord-Est per circa 25 Km divide la Valle del Tronto da quella del Castellano, ad ovest invece ci sono creste secondarie brevi e ripide, che formano tumultuosi corsi d’acqua i quali confluiscono tutti nel fiume Tronto, su questo versante solo due si allungano in quota formando il Monte Comunitore ed il Monte le Vene tra i quali nasce il torrente Chiarino che divide la regione Marche dalla regione Lazio. Le valli del gruppo montuoso sono generalmente aperte e rigate da fossi i quali creano gole strette e profonde di notevole imponenza dove l’acqua supera il dislivello con cascate, a volte spettacolari, come quelle del Rio Volpara e Rio della Prata presenti all’interno del Consorzio Forestale. Il territorio del complesso forestale è costituito da quattro piani altitudinali (fig. 2.2.1) ognuno con determinate caratteristiche ecologiche e vegetazionali: • il piano collinare che va dai fondovalle (200-300 m) fino ai 900-1000 m; • il piano montano compreso tra i 900-1000 m ed i 1850 m; • il piano subalpino, da 1850 m ai 2300 m; 11 • il piano alpino che dai 2300 m si spinge sino alle creste dei rilievi montuosi. Fig. 2.2.1 - Carta derivata della quota ottenuta da curve di livello della Carta Tecnica Regionale (regione Marche) in scala 1:10000. In rosso è indicata la parte del versante oggetto di studio. 2.2 Caratteri geolitologici Il complesso dei Monti della Laga, è costituito da una successione di sedimenti torbidici silicoclastici denominata “Formazione della Laga” la quale costituisce un ciclo sedimentario di tipo regressivo. Nei primi lavori sui depositi torbiditici di questa formazione (Moscatelli et al., 2004) sono state riconosciute una serie di litofacies, che hanno permesso di distinguere un complesso basale arenaceo, con caratteri di flysch prossimale, e un sovrastante complesso argilloso, con caratteri di flysch distale. Gli studi stratigrafico sedimentologici condotti successivamente hanno permesso di suddividere questa unità in tre membri: preevaporitico (Messiniano inferiore), evaporitico (Messiniano medio) e post-evaporitico (Messiniano superiore). I dati delle paleocorrenti indicano una principale dispersione dei sedimenti (in senso longitudinale) da NW verso SE, per i membri pre-evaporitico ed 12 evaporitico; paleocorrenti dirette verso i quadranti settentrionali caratterizzano, invece, i depositi del membro post-evaporitico (Centamore, et al., 1991; Morelli, 1994). L’assetto deposizionale del bacino della Laga è stato ricostruito, principalmente, grazie allo studio stratigrafico-sedimentologico e strutturale della successione calcareo marnosa pretorbiditica (Cantalamessa, et al., 1986; Centamore, et al., 1991). Il bacino della Laga è caratterizzato da un substrato calcareo-marnoso sul quale poggiano emipelagiti e torbiditi silicoclastiche. I depositi silicoclastici costituiscono la Formazione della Laga e registrano, durante il Messiniano, l’evoluzione ad avanfossa del bacino omonimo (Fig. 2.2.1). Essi mostrano un assetto deposizionale condizionato dalla tettonica sin-sedimentaria (Tavernelli et al., 1999; Scisciani et al., 2000; 2001, 2002a, b; de Feyter & Delle Rose, 2002: in Moscatelli et al., 2004)) che determina l’articolazione del substrato secondo strutture a sviluppo longitudinale e trasversale. Fig. 2.2.2 – Schema geologico del settore Marchigiano-Abruzzese. 1) Depositi marini e continentali pliocenicoquaternari; 2) Formazione Cellino; 3) Marne del Vomano; 4) Marne a Pteropodi e Formazione della Laga (dal basso verso l’alto: membro pre-evaporitico, evaporitico e post-evaporitico); 5) pelagiti del bacino MarchigianoAbruzzese; 6) Conglomerati di Monte Coppo; 7) carbonati della piattaforma Laziale-Abruzzese; 8) pelagiti del acino Umbro; 9) faglia diretta; 10) thrust; 11) anticlinale; 12) sinclinale. (Moscatelli et al., 2004, modificato da Ghisetti e Vezzani, 1988; Centamore et al., 1991, 1993). Negli anni ’70 e ’80 gli studi a carattere stratigrafico-sedimentologico sui depositi torbiditici del bacino della Laga sono stati molto intensi. Ad oggi, tuttavia, non c’è ancora accordo né sui rapporti stratigrafici che intercorrono tra i vari membri della Formazione della Laga, né 13 sulla natura del contatto tra quest’ultima e i depositi torbiditici del Pliocene inferiore (Moscatelli, et al., 2004). Inseguito all’orogenesi della catena del Gran Sasso e dei Sibillini, già terminata nel Miocene superiore (Moscatelli, et al., 2004), si è creato un affossamento con la formazione di un bacino marino profondo, nel quale ebbe inizio la sedimentazione della Formazione della Laga. Durante la fase di disseccamento del Mediterraneo, nota come “crisi di salinità”, la sedimentazione arenaceo-marnosa è accompagnata dalla deposizione di alcuni livelli di gesso clastico. La fonte di tali clasti era costituita da cristalli di gesso che si andavano formando a settentrione del bacino della Laga (Formazione gessoso-folfifera). La sedimentazione nel bacino della Laga è durato fino al Pliocene inferiore, momento in cui è iniziato il processo di sollevamento che ha determinato l’emersione e la formazione della catena dei Monti della Laga. Le spinte tettoniche compressive, dirette dal Tirreno verso l’Adriatico, determinarono il sovrascorrimento della catena calcarea dei Sibillini sulla Formazione della Laga e la formazione dell’anticlinale dei Monti della Laga e delle altre strutture tettoniche come la sinclinale di Valle Castellana e l’anticlinale rovesciata e sovra scorsa (sempre verso est) della dorsale Montagna dei Fiori – Montagna di Campli – Cima Alta. Nel Pleistocene inferiore-medio, una linea tettonica distensiva completò l’evoluzione strutturale della catena e generò, ai piedi del versante occidentale, la vasta depressione tettonica di Campotosto (Adamoli, 1991). Per quanto riguarda i caratteri composizionali della Formazione della Laga, Moscatelli et al. (2004) hanno menzionato che alcuni autori (Corda e Morelli, 1996; Morelli, 1994) hanno riconosciuto tre principali petrofacies litiche che, dal basso verso l’alto, evidenziano un aumento di frammenti di rocce silicee e carbonatiche. Inoltre Valloni et al. (2002) raggruppando queste petrofacies, hanno suddiviso la successione della Laga in due unità petrostratigrafiche: quella inferiore comprenderebbe i due membri pre-evaporitico ed evaporitico, mentre quella superiore solo il membro post-evaporitico. Moscatelli et al. (2004) continuano scrivendo che secondo questi autori i cambi di petrofacies sarebbero imputabili a variazioni nell’estensione geografica delle aree di drenaggio dei corsi d’acqua, connessa principalmente all’attività tettonica e, secondariamente a quella eustatica. L’unità petrostratigrafica inferiore, in particolare, sarebbe stata alimentata da flussi torbiditici provenienti da settori settentrionali, che si muovevano lungo l’asse del bacino di avanfossa. L’unità petrostratigrafica superiore, invece, avrebbe avuto la principale fonte di alimentazione da settori trasversali alla catena, sebbene lo scorrimento dei flussi all’interno 14 dell’avanfossa sarebbe avvenuto, comunque, in senso assiale. La riorganizzazione del reticolo di drenaggio del sistema d’avanfossa dovrebbe essere avvenuta ben prima della deposizione del membro post-evaporitico. Proprio la superficie Ι2 del membro preevaporitico (fig. 2.1.1.2), dovrebbe marcare l’inizio del coinvolgimento delle strutture più esterne della catena (Sibillini), con un probabile riciclo di materiale silicoclastico già deposto più ad ovest. Moscatelli et al. (2004) hanno condotto studi soprattutto sulla porzione inferiore della successione torbiditica, storicamente definita come membro pre-evaporitico, evidenziando una un’organizzazione stratigrafica della successione esaminata caratterizzata da due principali unità stratigrafiche, interpretabili come UBSU o allounità (Laga 1 e Laga 2), a loro volta delimitate da tre superfici di inconformità Ι1, ( Ι2, Ι3), al cui interno si possono riconoscere una serie di cicli deposizionali torbiditici sviluppati su differente scala fisica e temporale (fig. 2.2.2). La superficie I1 marca la base della Formazione della Laga. La superficie I2 marca un cambio di tendenza evolutiva nell’ambito dell’intera unità e una netta variazione nei caratteri deposizionali dei sedimenti torbiditici. In particolare, questa superficie potrebbe marcare l’inizio della strutturazione della dorsale di Acquasanta, che avrebbe condizionato anche la direzione di scorrimento delle correnti di torbida. La superficie I3 assumerebbe un significato ancora più importante, e sarebbe da ricondurre a quella che in letteratura è conosciuta come “fase tettonica infra-Messiniana”. Fig. 2.2.3 - Schema stratigrafico del membro pre-evaporitico della Formazione della Laga. 15 2.3 Aspetti geomorfologici L’evoluzione geomorfologica del rilievo della Laga inizia alla fine del Pleistocene inferiore. In seguito al sollevamento della Catena è iniziata l’azione di erosione selettiva che ha determinato le differenze morfologiche tra le aree caratterizzate da un diverso rapporto sabbia/argilla. Dove prevalgono gli strati e banchi di arenarie, più resistenti all’erosione, si hanno morfologie più aspre con valli più strette ed incassate, dove invece sono maggiori le frequenze e gli spessori degli strati marnoso-argillosi, le forme del paesaggio risultano più dolci, con valli più ampie e versanti meno acclivi (Adamoli, 1991). La morfologia a gradini è infatti dovuta all’alternarsi di strati arenacei con strati marnoso-argillosi. Molto evidente è l’influenza esercitata dall’assetto tettonico che ha determinato una morfologia asimmetrica legata alle sue condizioni strutturali di tipo monoclimatico: la Laga ha la particolarità di avere un versante poco inclinato, verso il quale gli strati tendono a scivolare (franapoggio), e un versante molto più ripido dove gli strati sono inclinati verso la montagna (reggipoggio). La giacitura a franapoggio (es. lungo la valle del Tronto) è tale per cui gli strati sono inclinati verso valle e quindi non conferiscono una grande stabilità al sistema, determinando frane per scivolamento lungo le superfici di stratificazione che nel lungo termine provocano un abbassamento dell’angolo del profilo del versante (minore pendenza). Nei versanti a reggipoggio invece si possono verificare frane di crollo che consistono in distacchi di blocchi arenacei di dimensioni variabili dalle pareti verticali caratterizzate da un’intensa fratturazione. Una particolarità dei Monti della Laga è la roccia caratterizzata da una scarsa permeabilità primaria a causa della presenza di strati argillosi che impediscono l’assorbimento dell’acqua. Infatti, in assenza di fratture profonde, l’acqua scorre in superficie con velocità più o meno elevata in base alla pendenza e al tipo di vegetazione, e contemporaneamente erode ed approfondisce l’alveo. Ciò determina la formazione di numerose sorgenti, scivoli d’acqua e cascate che rendono affascinante la catena della Laga. L’arenaria inoltre, consente il mantenimento di un elevato grado di umidità del terreno che favorisce la presenza di castagno, di cenosi neutrofile o addirittura acidofile e di pascoli in quota, rispetto alla formazione calcarea dei Monti Sibillini e del Gran Sasso. Inoltre la diversità della formazione arenacea rispetto alla calcarea mette in evidenza la moltitudine di specie ad areale più settentrionale ed il fatto che molte di queste, dopo le glaciazioni, presentino ecotipi capaci di resistere a latitudini inferiori (Paparelli, 2007). 16 Un altro aspetto particolare si verifica quando l’acqua si infiltra al di sotto della superficie topografica per la presenza di fatturazioni negli strati arenacei. In questi casi l’acqua scorre quasi orizzontalmente, anche per varie centinaia di metri riemergendo più a valle o addirittura nel versante opposto, in base alla giacitura dei versanti. Il processo d’infiltrazione avviene nei versanti con giacitura a reggipoggio, mentre la riemersione delle acque avviene in quelli a franapoggio. Le pareti di arenaria meno cementate e sottoposte all’azione di gelo e disgelo, favorisce la dilatazione e contrazione delle rocce che insieme all’erosione eolica determinano la fatturazione meccanica delle rocce attraverso una lenta desquamazione superficiale degli strati arenacei in lastre e scaglie, per poi lasciare in superficie un alone bianco (fig. 1.3.1.a,b) Questo processo, indicato dalla popolazione come la tendenza a “salare” della roccia, determina la formazione di cavità, impropriamente chiamate grotte, utilizzate in passato come riparo da uomini e animali, che per limiti geomeccanici non può essere molto spinta in orizzontale per il rischio di crollo. L’unica zona con cavità di rilievo ricade in un’area dallo sviluppo geologico molto particolare e comunque unico sulla Laga, situata nell’area del Rio Garrafo, dove sono presenti grotte carsiche dovute alla locale presenza di rocce calcaree e alla risalita dal basso di acque solfuree. a b Fig. 2.3.1.a,b – a) Cavità formate in seguito alla desquamazione superficiale degli strati arenacei; b) Particolare della tendenza a “salare” dell’arenaria. 17 2.4 Assetto climatico Dal punto di vista climatico i Monti della Laga sono caratterizzati da una maggiore continentalità rispetto all’omologo versante occidentale degli Appennini; sono infatti caratterizzati da forti escursioni termiche giornaliere, temperature minime e massime elevate. Il numero di giorni dell’anno con temperatura giornaliera sotto lo zero è inferiore a quello che si riscontra nei versanti occidentali e minore è l’effetto delle gelate tardive. Vi sono periodi prolungati con bassissime precipitazioni, con improvvise e abbondanti precipitazioni nevose. L’area è interessata principalmente da venti di tramontana (N), grecale (E), scirocco (S-E) e forti correnti provenienti da Sud-Ovest (libeccio). I danni da vento sulla vegetazione si localizzano principalmente sulle gemme esterne alla chioma con smerigliamento delle stesse, avvizzimento dei getti e delle foglie e schianti nelle zone più esposte. Relativamente alla stazione di Arquata del Tronto (720 m slm), con periodo di osservazione 1960-2003, la classificazione di Rivas-Martinez evidenzia un macroclima di tipo temperato, termotipo supratemperato superiore, ombrotipo umido inferiore (fig. 2.4.1). Il bilancio idrico evidenzia un periodo di deficit compreso tra la metà di luglio e l’inizio di settembre, ma senza comportare rilevanti stress idrici, visto che i valori di evapotraspirazione potenziale non superano quelli delle precipitazioni totali (fig. 2.4.2). L’andamento delle precipitazioni mensili è tendenzialmente di tipo sub-equinoziale autunnale con valori medi annui intorno ai 1000 mm. La serie temporale sull’intero periodo di osservazione (1929-2005) indicano una tendenziale diminuzione delle precipitazioni totali annue, mentre l’andamento stagionale in due sub-periodi temporali (1929-1962 e 19632005) evidenzia una tendenza verso l’aumento delle precipitazioni primaverili e autunnali ed una diminuzione estiva. 18 Fig. 2.4.1 - Diagramma termo pluviometrico per la stazione di Arquata del Tronto (AP) Fig. 2.4.2 – Diagramma del bilancio idrico per la stazione di Arquata del Tronto (AP). 2.5 Vincoli ambientali ed istituzioni Il territorio in esame è soggetto ad una serie di istituzioni e vincoli riguardanti sia la difesa del suolo che la conservazione paesaggistica-ambientale. La legge forestale del Serpieri (n°3267 del 1923) e il successivo regolamento hanno istituito il vincolo idrogeologico con lo scopo di tutelare i territori di qualsiasi natura e destinazione da eventuali perdite di stabilità; gli interventi vengono disciplinati, ai fini della difesa del suolo, attraverso l’attuazione della normativa contenuta nelle Prescrizioni di Massima e Polizia Forestale. 19 Per quanto riguarda la protezione paesaggistica-ambientale la normativa di riferimento comprende: • la Legge Nazionale n°1497 del 1939, indicante le aree soggette a vincolo paesaggistico e la Legge Nazionale n°431 del 1985 “Legge Galasso” indicante le aree da sottoporre a vincolo paesistico entrambe raccolte nel Testo Unico Dlgs 490/99 a sua volta sostituito dal Codice Urbani Dlgs n°42 del 2004; • la Legge Nazionale n°394 del 1991 “Legge quadro sulle aree protette” con la quale è stato istituito il Parco Nazionale Gran Sasso e Monti della Laga; • il Piano Paesistico Ambientale Regionale (PPAR) che recepisce i contenuti della legge n°431 e riconosce inoltre una serie di emergenze naturalistiche e culturali da sottoporre a particolareggiata normativa di salvaguardia. I territori della Comunanza Agraria di Montacuto sono inoltre caratterizzati dalla presenza di: • Siti di Interesse Comunitario: IT5340008 Valle della Corte e IT5340009 Macera della Morte; • Una Zona di Protezione Speciale IT7110128; • Aree Floristiche: Valle della Corte e Macera della Morte. L’istituzione di queste ultime è legata alla L.R. n°52 del 1974 integrata con DGR n°3986 del 1996 “Delimitazione delle Aree Floristiche Protette” e della L.R. n°15 del 1994 “Norme per l’istituzione e la gestione delle Aree Protette Naturali”. Il SIC IT5340009 Macera della Morte (fig.2.5.1) si estende per una superficie di 421 ha nella zona settentrionale dei Monti della Laga che culmina sulla Macera della Morte (2073 m) ed appartiene interamente alla regione biogeografica continentale . La parte inferiore è caratterizzata da boschi di faggio mentre quella sommitale da pascoli a Nardus stricta; inoltre sono presenti numerose entità floristiche di grande interesse naturalistico tra cui l’orchidea Nigritella widderi. All’interno di questo SIC sono presenti sia habitat di interesse comunitario che prioritario (*): • 4060 Lande alpine e boreali; • *6230 Formazioni erbose e Nardus, ricche di specie, su substrato siliceo delle zone montane (e delle zone submontane dell’Europa continentale); • 6430 Bordure planiziali, montane e alpine di megaforbie igrofile; • 9110 Faggeti di Luzulo-Fagetum; • 9150 Faggeti calcioli dell’Europa Centrale del Cephalanthero-Fagion. 20 L’unica specie di particolare interesse fitogeografico è la Viola eugeniae mentre per quanto riguarda l’avifauna sono presenti: Aquila chrysaetos* (aquila reale), Pyrrhocorax pyrrhocorax* (gracchio corallino), Buteo buteo (poiana), Falco tinnunculus (ghrppio) e Prunella collaris (sordone). Il sito Macera della Morte rappresenta un’area di importanza rilevante per la presenza dell’aquila reale e del lupo (Canis lupus) iscritti rispettivamente nell’allegato I della Direttiva 79/409/CEE e II della Direttiva 92/94/CEE. Il SIC IT5340008 Valle della Corte (fig.2.5.1), all’interno del quale sono presenti i popolamenti del presente studio, è situato a sud-ovest dell’abitato di Umito e si estende per una superficie di 744 ha compresa nella fascia altimetrica tra i 600 e i 1600 m. La zona è costituita principalmente da boschi di faggio in purezza e, in un’area limitata (Colle dell’Abete), in mescolanza con Abies alba, di eccezionale interesse in quanto costituiscono le uniche formazioni autoctone di questa specie per la regione Marche; a quote inferiori si trovano castagneti sia cedui che da frutto. Il sito, per le sue caratteristiche ecologiche, viene attribuito alla regione biogeografia continentale anche se è compreso per il 21% nella regione alpina. Gli habitat di interesse comunitario e prioritario presenti in questo SIC sono: • 4060 Lande alpine e boreali; • *6230 Formazioni erbose e Nardus, ricche di specie, su substrato siliceo delle zone montane (e delle zone submontane dell’Europa continentale); • 6430 Bordure planiziali, montane e alpine di megaforbie igrofile; • 9150 Faggeti calcioli dell’Europa Centrale del Cephalanthero-Fagion; • *9210 Faggeti degli Appennini con Taxus e Ilex; • *9220 Faggeti degli Appennini con Abies alba e faggeti con Abies nebrodensis; • 9260 Foreste di Castanea sativa. Tra le specie di particolare interesse fitogeografico ritroviamo l’Arabis rosea, Botrychium matricariiefolium, Epipogium aphyllum e Pinguicula vulgaris. Per quanto riguarda l’avifauna sono presenti le seguenti specie: Pernis apivorus (falco pecchiaiolo), Lanius collirio (averla piccola), Accipiter gentilis (astore), Accipiter nisus (spalviere), Buteo buteo (poiana), Fringilla coelebs (fringuello), Pyrrhula pyrrhula (ciuffolotto), Picus viridis (picchio verde), Dendrocopos major (picchio rosso maggiore), Turdus viscivorus (tordela), Sitta europaea (picchio muratore), Streptopelia turtur (tortora), Carduelis chloris (verdone) e Coccothraustes coccothraustes (frosone). 21 Infine le specie faunistiche elencate nell’allegato I e II della Direttiva Habitat sono il Canis lupus (lupo) e gli anfibi Salamandrina terdigitata (salamandrina dagli occhiali) e Bombina variegata (ululone dal ventre giallo). Fig. 2.5.1 – Rappresentazione dei SIC situati nel versante marchigiano del Parco Nazionale dei Monti della Laga (in verde). 2.6 Caratteri vegetazionali Le faggete acidofile della Comunanza Agraria di Montacuto appartengono, secondo la classificazione di Rivas-Martinez, al piano bioclimatico supratemperato inferiore e supratemperato superiore. Nel primo è presente la faggeta macroterma che si estende su morfologie acclivi ma con scarsa presenza di rocciosità affiorante tra i 950 e 1300 m s.l.m. Si differenzia dalle analoghe cenosi del piano supratemperato superiore per l’ingresso di specie provenienti dal piano bioclimatico mesotemperato quali: Acer opalus subsp. obtusatum, Ostrya carpinifolia, Lathyrus venetus, Sorbus aria, Cyclamen hederifolium subsp. hederifolium, ecc. L’associazione di riferimento è la Dactylorhizo fuchsii-Fagetum sylvaticae Biondi & Izco 1992, le cui specie caratteristiche presenti sono: Carex sylvatica, Prenanthes purpurea e Melica uniflora oltre a quelle sopra citate. Secondo studi relativi agli Habitat diinteresse Comunitario (Allegrezza, et al., 2007) la faggeta acidofila del piano bioclimatico supratemperato superiore si sviluppa in una fascia compresa tra i 1300 e 1870 m s.l.m. circa, risulta pressoché monospecifica e contraddistinta da numerose specie circumboreali, eurosiberiane e orofite sud-europee. Dal punto di vista 22 fitosociologico appartiene all’associazione vegetale Solidagini-Fagetum sylvaticae (Longhitano & Ronsisvalle 1974) Ubaldi et al., ex Ubaldi 1995; di questa sono stati individuati due aspetti principali indicati dalla subass. abietosum albae e dalla variante a Polystichum lonchitis che si riferiscono rispettivamente alle faggete con Abies alba e a quelle microterme del limite superiore del bosco chiuso. Le specie caratteristiche e differenziali dell’associazione di riferimento sono: Adenostyles australis, Sorbus aucuparia, Vaccinum myrtillus, Daphne mezereum, Prenanthes purpurea, Oxalis acetosella e Veronica urticifolia. Le faggete miste con Abete bianco (Solidagini-Fagetum subass. abietosum albae = VeronicoFagetum Pedrotti 1982 non Montacchini 1972) appartengono all’habitat prioritario *9220 “Faggeti degli Appennini con Abies alba e faggeti con Abies nebrodensis”. Sono ubicate in località Colle dell’Abete, su blocchi di arenarie in posizione edafoxerofila alla quota media di 1400 m. Sono boschi avviati ad alto fusto dove l’abete bianco è presente sottocopertura nel piano dominato, mentre quello dominante è costituito esclusivamente dal faggio; in queste condizioni la rinnovazione dell’abete è quasi completamente assente. Localmente nella faggeta sono presenti nuclei di Abies alba di limitata estensione considerati relitti di una formazione un tempo molto più diffusa. Questa sub-associazione si differenzia dalla variante a Polysticum lonchitis per un gruppo di specie alcune delle quali provenienti dal piano bioclimatico supratemperato inferiore (*): Abies alba, Calamagrostis arundinacea, Carex digitata*, Carex sylvatica, Cirsium erisithales, Dafne laureola*, Erica arborea*, Juniperus communis, Luzula forsteri*, Melica uniflora* e Orthilia secunda. Inoltre è presente l’Epipogium aphyllum (Schmidt) Swarz una geofita saprofita estremamente rara e sporadica nonché esclusiva di questo tipo di ambiente. Le faggete microterme del limite superiore (Solidagini-Faetum sylvaticae variante a Polystichum lonchitis) occupano una fascia compresa tra i 1400-1500 m ed il limite attuale del bosco chiuso che arriva a 1870 m s.l.m. Si sviluppano su morfologie molto acclivi con pendenze medie di 35° e suoli spesso poco profondi caratterizzati da rocciosità affiorante. Sono costituiti principalmente da cedui abbandonati in cui l’ultimo taglio, almeno nella fascia di limite, risale alla metà degli anni ’40. Le condizioni topografiche, microclimatiche e litologiche favoriscono nel sottobosco la presenza di numerose felci: Polysticum aculeatum, Polysticum lonchitis, polysticum setiferum, Dryopteris filix-mas, Athyrium filix-femina, Cystopteris fragilis e Gymnocarpium dryopteris; quest’ultima è di particolare interesse fitogeografico ed è presente esclusivamente nelle faggete di limite. Questa faggeta rientra nell’habitat prioritario *9210 “Faggeti degli Appennin con Taxus e Ilex”. 23 L’Habitat *6230 “Formazioni erbose e Nardus, ricche di specie, su substrato siliceo delle zone montane (e delle zone submontane dell’Europa continentale)” comprende le praterie acidofile che nell’Appennino centro-meridionale vengono inquadrate nell’alleanza Ranunculo-Nardion strictae Bonin 1972 (Allegrezza et al., 2007). Nel territorio oggetto di studio sono state individuate (Allegrezza et al., 2007) le associazioni Poo violaceae-Nardetum strictae Pedrotti 1982, Potentillorigoanae-Festucetumpaniculatae Bonin1978 corr. Di Pietro et al., 2005 e Taraxaco-Trifolietum thalii Biondi et al., 1992. Nell’Habitat *6210 “Formazioni secche seminaturali e facies coperte da cespugli su substrato calcareo (Festuco-Brometalia)” sono state individuate (Allegrezza et al., 2007) due associazioni di prateria a Sesleria nitida: Astragalo sempervirentis-Seslerietum nitidae e Seslerionitidae-Brometum erecti della suballeanza Brachypodenion genuensis e alleanza Phleo ambigui-Bromion erecti, che sulla base dei dati pubblicati non erano state segnalate per i substrati arenacei dell’intero comprensorio dei Monti della Laga solo da Allegrezza et al. (2007). Al di sopra dei 1900 m nei settori dove si verifica il prolungato innevamento che i periodici fenomeni di crioturbazione, sono presenti dense praterie primarie di limitata estensione a Kobresia myosuroides mai indicata in precedenza per il territorio marchigiano. 2.7 I pascoli I pascoli presenti nel territorio della Comunanza Agraria di Montacuto sono considerati secondari in quanto l’uomo li ha favoriti a discapito del bosco, infatti il limite altitudinale delle faggete supera i 1500 m solo sulle pendici settentrionali di Cima Fonteguidoni e Monte Le Vene dove raggiunge e oltrepassa i 1800 m. Oggi, in seguito al minor sfruttamento delle risorse silvo-pastorali, l’evoluzione del bosco è indirizzata alla progressiva ricolonizzazione delle aree un tempo antropizzate (figg. 2.7.1 e 2.7.2). 24 Fig. 2.7.1 – Ortofoto del 1952 in scala 1:25000 Fig. 2.7.2 – Ortofoto del 1998 in scala 1:25000 Nella maggior parte dei pascoli la flora è costituita sia da graminacee spontanee che da leguminose che apportano un buon contenuto proteico fissando l’azoto per le graminacee e consolidando il terreno. Nei versanti occidentali è molto diffusa la presenza del nardo 25 (Nardus stricta) una graminacea poco appetita dal bestiame domestico; i nardeti presentano un cotico erboso compatto e la loro presenza arriva fino alla Macera della Morte. I luoghi a morfologia più aspra sono caratterizzati dalla dominanza di graminacee come Festuca spodicea e Brachypodium rupestre; la presenza di questo tipo di pascolo e del nardeto sono legate all’ampliamento delle aree pascolive da parte dell’uomo. Sono presenti anche le brughiere costituite da un tappeto folto, basso e arbustivo formato prevalentemente dal mirtillo nero (Vaccinum myrtillum) insieme all’iperico di Belleval (Hyppericus richeri), al falso mirtillo (Vaccinum gaultheroides) ed al lichene islandico (Citraria islandica) (Allegrezza, et al., 2007). Le praterie di origine primaria sono presenti oltre i 2300 m di quota, quindi prevalentemente nella parte abruzzese del Parco Nazionale dei Monti della Laga; queste sono suddivise in due tipi: uno è caratterizzato dalla presenza di Luzula italica che forma un manto continuo tra il monte Pizzitello e Cima della Laghetta fino ai 2100 m; l’altro tipo è presente solo sulle pendici sommatali, soleggiate e ventose ed è caratterizzato dalla diffusione di Elyna myosuroides ed altre piperacee (Allegrezza, et al., 2007). Le superfici pascolive costituiscono un patrimonio territoriale di notevole ricchezza che deve essere recuperato alle sue originarie capacità produttive perché, il loro utilizzo contribuisce alla difesa del suolo ed alla valorizzazione del passaggio vegetale in quanto forniscono produzioni biologiche altamente apprezzate ed inoltre rappresentano l’habitat per numerose entità floristiche di grande interesse naturalistico. 2.8 Il comprensorio forestale e le faggete Nella regione Marche i nuclei più estesi di faggeta si trovano sui principali massicci montuosi (Monte Catria, Monti Sibillini e Monti della Laga) con la dominanza di Faggete eutrofiche sui substrati carbonatici e Faggete mesoneutrofile sui substrati arenacei. Le categorie forestali (fig. 2.8.1) maggiormente rappresentate nel territorio consortile, oltre alle faggete, sono i castagneti e secondariamente gli orno-ostrieto ed i querceti di roverella. Per quanto riguarda i castagneti, solo quelli del comune di Acquasanta Terme rappresentano più del 50% della superficie castanicola della regione Marche, in quanto si sviluppano prevalentemente in presenza dei substrati arenacei e pelitico-arenacei presenti nella zona in esame. Oltre 1000 26 ha sono gestiti a castagneto da frutto mentre gli altri sono classificati secondo l’Inventario Forestale Regionale (IPLA, 2001) come: Castagneto neutrofilo ceduo a struttura irregolare (CA20) e Castagneto acidofilo ceduo a struttura irregolare (CA30); quest’ultimo tipo si trova esclusivamente nei medi ed alti versanti della valle di Umito ed in alcuni siti dei Sibillini (Montegallo, Rigo). Fig. 2.8.1 – Carta delle Categorie forestali (IPLA) in scala 1:50000. Le faggete presenti nella Comunanza Agraria di Montacuto appartengono alle seguenti tipologie (IPLA, 2001) (fig. 2.8.2): - Faggeta mesofite submontana (FG20) sottotipo su arenaria (FG21X) È presente nelle parti medio-basse dei versanti e negli impluvi con quote inferiori ai 900 m. I suoli generalmente profondi presentano un grado evolutivo variabile in funzione della posizione morfologica. Questa tipologia di faggeta è in continuità con popolamenti in prevalenza di castagno (sia da frutto che ceduo) e latifoglie mesofile (acero, frassino e pioppo). Sono prevalentemente cedui matricinati o popolamenti invecchiati a struttura irregolare la cui conversone è a scopo naturalistico. 27 - Faggeta mesoneutrofila (FG10) con variante con Abete bianco (FG10A) È presente esclusivamente sui substrati arenacei del Flysh del massiccio dei Monti della Laga a quote comprese tra gli 800-1000 e 1300-1400 m e predilige i medi e bassi versanti con esposizioni settentrionale. Ai limiti superiori viene a contatto con la Faggeta acidofila con la quale può essere confusa, ma a differenza di quest’ultima non presenta specie differenziali come il mirtillo e le graminoidi estese in ampi tappeti; mentre ai limiti inferiori viene a contatto con la Faggeta mesofila submontana da cui se ne differenzia per l’assenza di castagno, carpino nero, orniello e acero a foglie ottuse. I popolamenti di questa faggeta sono classificati come cedui in conversione nei quali sono previsti quindi dei diradamenti; sono presenti anche aree che per morfologia vengono definite “boschi senza gestione per condizionamenti ambientali” da lasciare alla libera evoluzione. - Faggeta acidofila (FG50) e Faggeta acidofila variante con Abete bianco (FG50A) Questo tipo è esclusivo dei flysh della Laga (a Valle della Corte e Macera della Morte (var. con Abete bianco)) e di alcuni siti del territorio di Acquasanta presente su substrati arenacei e marnoso-arenacei (Pizzo Cerqueto e Monte Ceresa). Sono faggete pressoché in purezza localizzate al di sopra dei 1300 m nel piano montano mediano e superiore dove prediligono alti versanti, dossi e crinali. Spesso sono confuse con la Faggeta mesoneutrofila con la quale si trovano a contatto ma che non presenta un corteggio floristico di specie mesofile come dentarie e felci. Anche in questo caso i boschi sono caratterizzati da cedui in conversione con destinazione naturalistica nei quali le prime conversione vennero realizzate negli anni Settanta. 28 Fig. 2.8.2 - Carta dei tipi forestali (IPLA) in scala 1:50000. 2.9 La Comunanza Agraria di Montacuto 2.9.1 La Comunanza Agraria: una proprietà collettiva Le Comunanze Agrarie sono proprietà collettive e quindi terre che appartengono alla popolazione che vi abita, dove ciascun membro può godere di tutte le utilitates che da esse si possono ottenere, sia come singoli (uti singuli) che come partecipanti della collettività stessa (uti cives). Il territorio in esame è in gran parte interessato da diritti di uso civico, ovvero diritti di godimento del territorio che derivano da antiche concessioni, riconosciute nel corso dei secoli dai vari ordinamenti politici e ricondotti ad unità con la legge n°1766 del 1927, la quale aggrega la loro definizione a quella di proprietà collettiva e che tuttora li regola e li disciplina. L’origine degli usi civici deriva dal diritto naturale secondo il quale la sopravvivenza degli utenti e delle comunità era legata all’utilizzazione collettiva delle terre ed al godimento dei prodotti da parte di tutti fin dalle epoche più remote, precedenti ad ogni forma di diritto civile; infatti essi derivano dai principi collettivistici del diritto delle antiche popolazioni 29 barbariche che occuparono l’Italia alla caduta dell’Impero Romano. Oggi le terre gravate da questi diritti sono oltre 3 milioni di ettari di cui 31 000 ha sono presenti nel territorio della regione Marche e rappresentano il 12.3% della superficie forestale regionale. La legge del 1927 distingue due classi di usi civici: • “essenziali” quando sono legati al soddisfacimento dei bisogni necessari per la vita come gli usi che abbiano per oggetto i diritti di raccogliere legna per uso domestico e di personale lavoro, di pascere e abbeverare il proprio bestiame, di semina ecc…; • “utili” quando l’utente ricava vantaggi economici che eccedono l’uso personale e famigliare e quindi può farne commercio. Con la medesima legge il Ministero dell’Agricoltura e Foreste aveva ripartito i compiti amministrativi in materia di usi civici in 5 commissariati e le proprietà collettive della regione Marche facevano riferimento a quello di Bologna. Successivamente con il decentramento delle funzioni ministeriali degli anni Settanta tutte le competenze sono passate alle regioni; oggi il Ministero si limita a partecipare ai procedimenti amministrativi riguardanti la legittimazione delle terre di uso civico. Questi diritti posseggono la fondamentale caratteristica di gravare sul bene così da impedire che esso possa essere sottratto alla sua destinazione (uso e godimento collettivo) infatti, le proprietà collettive sono caratterizzate dai principi di inalienabilità, inusucapibilità, imprescrittibilità e indisponibilità nonché del vincolo perpetuo di destinazione d’uso che hanno permesso alle generazioni passate di consegnarci un grande patrimonio naturale, paesaggistico e culturale che dobbiamo tramandare, possibilmente intatto, alle generazioni future. In passato le Comunanze Agrarie hanno rappresentato un punto di riferimento per tutte le società rurali in cui si sono sviluppate e storicamente hanno contribuito al superamento di momenti difficilissimi per le comunità locali, inoltre hanno svolto e tuttora continuano a farlo, un’importante funzione di servizio a vantaggio della collettività e della tutela dell’ambiente montano riducendo l’abbandono, i costi sociali, le perdite culturali. La Comunanza Agraria, come ente, è titolare dei poteri di amministrazione, di gestione e di rappresentanza delle proprietà collettive ma la proprietà dei beni civici spetta sempre agli utenti delle comunità di abitanti. L’amministrazione ha autonomia statutaria e nello statuto gli articoli prevedono: • costituzione e scopi • gli aventi diritto • diritti e doveri degli utenti 30 • organi della Comunanza: Consiglio di Amministrazione e Assemblea degli utenti. Quest’ultima è costituita da tutti gli utenti (capi famiglia) che vivono sul territorio e, nella Comunanza Agraria di Montacuto ci sono 91 famiglie di utenti appartenenti alle frazioni di Umito, Pozza, Pito, Pomaro e Vallecchia. Il Consiglio di Amministrazione viene eletto dall’Assemblea degli utenti, rimane in carica 4 anni ed è formato dal presidente, vice presidente e tre consiglieri. I diritti di uso civico esercitati attualmente nella Comunanza Agraria di Montacuto sono il legnatico, il pascolo ed il fungatico mentre fino agli anni Sessanta veniva esercitato anche quello di semina. Un obiettivo importante per i locali è stato raggiunto con la regolamentazione della raccolta dei funghi per gli utenti e la vendita a terzi (delegata con apposita delibera al Consorzio Forestale dei Monti della Laga). Per quanto riguarda l’uso di legnatico il Consiglio di Amministrazione una volta individuata la zona da destinare al taglio, emana la delibera di applicazione dando l’incarico al direttore tecnico del Consorzio Forestale (a cui la Comunanza Agraria di Montacuto appartiene) di redigere il progetto con la stima della massa legnosa e di eseguire la martellata appena ottenuta l’autorizzazione dalla Comunità Montana del Tronto; tale progetto viene inviato anche all’ufficio Usi Civici della regione Marche. Inoltre se l’area destinata al taglio cade all’interno di un SIC il tecnico deve realizzare anche la Valutazione d’Incidenza. Se il Piano Particolareggiato di Assestamento Forestale delle Comunanze Agrarie nel Comprensorio Forestale dei Monti della Laga sarà approvato, per poter applicare l’uso civico del legnatico basterà inviare una semplice comunicazione alla Comunità Montana del Tronto in quanto delegata dalla regione. Nella delibera viene fissata la quantità di legname da attribuire ad ogni famiglia (circa 100 q), le modalità di divisione del bosco in lotti e le penalità da attribuire agli utenti che non rispettano il regolamento o quanto già scritto nello statuto. I 91 utenti (capifamiglia) sono divisi in 9 gruppi ed in ognuno di questi viene deciso il “capo-lotto” che lo rappresenta; questi ultimi con il presidente della Comunanza procedono alla divisione del bosco in parti omogenee. Successivamente i capi-lotto firmano il verbale in cui sono riportate le liste delle famiglie appartenenti al proprio gruppo, infine tramite l’estrazione a sorte viene effettuata l’assegnazione dei lotti all’interno del quale le famiglie si dividono le porzioni da tagliare. I beneficiari sono tenuti a rispettare le zone assegnate e ad eseguire i tagli secondo le Prescrizioni di Massima e Polizia Forestale. Anche il pascolo seppur esercitato in misura inferiore rispetto al passato contribuisce a mantenere elevata la biodiversità ambientale, rappresentando un supporto alle attività degli allevatori ed una fonte di reddito per la 31 Comunanza che li affitta a terzi, riservandone comunque una porzione agli utenti che ne richiedono il diritto d’uso. 2.9.2 Cenni storici e usi pregressi Le risorse forestali hanno sempre rappresentato la principale fonte di reddito per le popolazioni locali e ne sono testimonianza i tagli furtivi ed il pascolo abusivo frequentemente praticato negli anni passati e soprattutto le numerose vertenze giudiziare che la Comunanza Agraria di Montacuto ha dovuto subire per difendere i propri terreni in quanto nei primi anni del 1800 “la Reverenda Camera Apostolica” li vendette, in modo illegittimo, per pagare i debiti di guerra dello Stato Pontificio (Cognoli, 1995). Nonostante oltre 100 anni di cause gli utenti, per tornare in possesso delle loro terre collettive, nel 1932 dovettero riacquistarle dai nuovi proprietari (i quali si preservarono comunque la migliori zone) contraendo un mutuo ipotecario con la Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno pari a 360.000 lire. Nel 1941 per estinguere il credito rimanente di 110.000 lire gli utenti dovettero auto tassarsi ipotecando anche i beni privati per evitare che la banca espropriasse l’intera proprietà collettiva. In passato, per sopravvivere la popolazione sfruttava i beni agro-silvopastorali: i castagneti venivano coltivati per la produzione dei frutti ed utilizzati anche per far pascolare i suini, mentre i boschi di faggio venivano utilizzati per ricavarne legna e soprattutto per produrre carbone. I pascoli sommitali le cui superfici venivano aumentate a discapito del bosco, erano utilizzati nei mesi estivi per la transumanza del bestiame costituito soprattutto da ovini, mentre era vietato ai bovini e ai caprini. Inoltre all’interno del bosco venivano ricavate superfici più o meno grandi utilizzate per la coltivazione; infatti in passato gli utenti esercitavano anche l’uso civico della semina e ad ogni famiglia veniva consegnata una porzione di terreno da coltivare. Tra le diverse attività, una delle più importanti era la produzione di carbone sia perché nella seconda metà del secolo scorso rappresentava la fonte energetica delle industrie, ma soprattutto perché era più facile da trasportare rispetto alla legna: gli abitanti del luogo testimoniano che le donne, sopra le loro teste portavano a valle i sacchi di carbone con due o tre viaggi al giorno in base alla distanza da percorrere. La trasformazione del legname in carbone era considerata un’arte perché richiedeva molta esperienza in quanto, il rischio di ritrovare solo un cumulo di cenere era molto elevato e per evitare che questo potesse accadere le carbonaie dovevano essere sorvegliate sia di giorno 32 che di notte. All’interno delle faggete sono ancora visibili le aie carbonili sulle quali venivano bruciati circa 150 quintali di legna per ricavarne 30 di carbone. Durante i periodi di maggiore carestia si verificarono pesanti tagli abusivi da parte degli utenti nonostante il presidente della Comunanza Agraria di Montacuto invitasse la popolazione a non deturpare la montagna; esistono ancora oggi manifesti del tempo in cui si faceva richiamo all’osservanza della legge 2 Giugno 1920 N. 227 sul Demanio forestale con testuali parole: “…nel civile intento di ridare ai nostri boschi il verde eterno delle foreste secolari…” (Comunanza Agraria di Montacuto, documento del 15 marzo 1911). Inoltre già allora esistevano aiuti pubblici per chi realizzava rimboschimento nei terreni coltivati, ai quali era concessa l’esenzione delle imposte per 15 o 40 anni in base alla tipologia d’impianto: se a bosco ceduo o ad alto fusto oltre ai premi in denaro, alla distribuzione gratuita delle piantine e all’assistenza e consulenza dell’Autorità Forestale. Con il successivo spopolamento dalle zone montane si è passato dall’eccessivo sfruttamento al quasi totale abbandono delle risorse silvo-pastorali. Un contributo importante per lo sviluppo dell’economia locale venne apportato negli anni ’50 del secolo scorso, dall’impresa forestale I.B.E.A., di proprietà del signor Zenobbio Zenibbi di Roma, che realizzò l’apertura di cantieri forestali e la costruzione di vie di comunicazione che hanno permesso lo sfruttamento dei boschi ed il sostentamento delle popolazioni locali. Tramite tecnici esperti della provincia di Belluno, venne realizzata una teleferica fissa (fig. 2.9.2.1 a,b) che partiva dalla località chiamata Ravetta (proprietà della Comunanza Agraria di San Giovanni), situata sotto al monte Pelone e attraversava il territorio del Consorzio Forestale dal quale il legname veniva fatto arrivare ad Acquasanta Terme quindi alla strada statale Salaria (fig. 2.9.2.2). Questa industria ha utilizzato le fustaie di faggio situate nel territorio della Comunanza Agraria di San Giovanni (località Ravetta) per ricavare toppi di faggio di qualità (fig.2.9.2.3) mentre con gli scarti si produceva carbone. Quest’ultimo veniva prodotto dagli utenti della Comunanza proprietaria e di quelle vicine, tra cui molti utenti della Comunanza Agraria di Montacuto. 33 Fig. 2.9.2.1.a – Foto della stazione, situata in località Salceto (C. A. San Giovanni) della linea di esbosco (foto fornita da Parlamenti G.) Fig. 2.9.2.1.b - Foto della linea di esbosco durante il trasporto di sacchi di carbone (foto fornita da Parlamenti G.) 34 Fig. 2.9.2.2 – Linea di esbosco dalla località Ravetta ad Acquasanta Terme. Le bandiere indicalo le probabili posizioni dei pilastri. Fig. 2.9.2.3 – Foto dei toppi di faggio utilizzati dall’IBEA per produrre sfogliati (foto fornita da Parlamenti G.) Testimonianze storiche degli anziani del comune di Acquasanta Terme, tra cui mio nonno, raccontano dei proventi e dei rischi che questa industria ha portato: i proventi legati al 35 maggior reddito anche se la stagione di lavoro partiva da giugno e finiva a novembre; mentre i rischi erano causati dai pericoli della linea stessa che attraversava il paese di Pozza dove era presente l’ultima stazione prima di arrivare ad Acquasanta. Qui il legname (fig.2.9.2.4) veniva lavorato per produrre tavolame (fig. 2.9.2.5) e soprattutto sfogliati (fig. 2.9.2.6). Fig. 2.9.2.4 – Legname accatastato ad Acquasanta Terme, pronto per essere lavorato (foto fornita da Parlamenti G.) Fig. 2.9.2.5 - Foto di tavole prodotte dallo stabilimento situato ad Acquasanta Terme (foto fornita da Parlamenti G.) 36 Fig. 2.9.2.6 – Foto della macchina utilizzata per produrre sfogliati (foto fornita da Parlamenti G.) Negli anni Ottanta ci furono i primi finanziamenti comunitari per l’avviamento all’alto fusto, anche se le prime conversioni realizzate nella Comunanza Agraria di Montacuto avvennero senza l’intervento pubblico; tra questi ultimi sono inclusi anche i popolamenti oggetto di studio della località Maolaro che subirono il primo taglio di conversione negli anni Settanta. Un ulteriore aiuto allo sviluppo socio-economico è stato apportato con i finanziamenti dell’Obbiettivo 5B per il recupero dei castagneti da frutto che dominano la valle di Umito fino al confine con le faggete, creando così una castanicoltura sostenibile dal punto di vista economico. Oggi però essa rischia di scomparire a causa di importanti problemi fitosanitari che ancora sono causa di deperimento e morte dei castagni secolari che caratterizzano tutta la valle. Nel 1992 venne istituito il Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga del quale il territorio del Consorzio Forestale ne rappresenta la parte settentrionale includendo anche la zonizzazione a riserva integrale e riserva generale orientata. Nel 1997 la Comunanza Agraria di Montacuto insieme a quella di Pozza, San Martino in Montecalvo, San Giovanni e Fleno hanno istituito il Consorzio Forestale dei Monti della Laga con lo scopo di gestire al meglio le risorse del territorio; due anni più tardi venne inglobata anche la Comunanza Agraria di Umito raggiungendo una superficie di 2571,3 ha. Sono state realizzate importanti attività anche a livello culturale e sociale oltre che gestionale come ed esempio l’organizzazione, a carattere formativo, di giornate dimostrative riguardanti sia la coltivazione del castagneto da frutto (innesti, potature, difesa da alcune fitopatie) che l’esbosco del legname. Negli ultimi anni però le attività del Consorzio si sono limitate alla sola gestione dell’uso civico del fungatico in seguito alla delega emanata con delibera dalla Comunanza Agraria di Montacuto, oltre a quello del legnatico e ad alcuni interventi di 37 sistemazione idrauliche. A mio avviso questo ente potrebbe continuare a svolgere un’importante funzione di servizio in seguito ad un cambio generazionale all’interno della sua amministrazione. 38 3. STRUTTURA DELLE CENOSI FORESTALI Nella letteratura ecologica, l’ecosistema forestale è descritto da due componenti: gli attributi e la complessità (McElhinny, et al., 2005). I primi sono rappresentati dalla struttura, dalla composizione e dalla funzione (Franklin, et al., 2002), mentre la complessità è essenzialmente una misura del numero dei differenti tipi di attributi strutturali e della loro presenza relativa. La composizione è la quantità di organismi (viventi e non viventi) che sono presenti in una foresta ed è frequentemente descritta dalla presenza e/o dominanza delle specie cha le caratterizzano e a volte anche da indici relativi (Stone e Porter, 1998). La funzione si riferisce ai vari processi ecosistemici e alla loro interazione tra le componenti forestali biotiche e abiotiche. La struttura è il modo con cui le diverse parti di una comunità (popolazioni o parti di esse) si caratterizzano nello spazio, nel tempo e si organizzano funzionalmente (Kimmins, 1987), in stretta relazione con le risorse disponibili, le interazioni tra fattori bio-ecologici e l’attività antropica (Piussi, 2000). La struttura è influenzata dai processi fisici, biochimici, ecologici e socio-economici che avvengono nei popolamenti stessi determinando la disponibilità di habitat e la diversità delle specie animali e vegetali. L’analisi strutturale permette di evidenziare diverse caratteristiche dei soprassuoli forestali, come la composizione specifica, la distribuzione orizzontale e cronologica degli alberi e la loro stratificazione verticale, l’ampiezza e la geometria delle chiome, la presenza di necromassa, la dinamica dei gap e le variazioni microclimatiche (Oliver e Larson, 1990; Zenner e Hibbs, 2000). La struttura è un elemento importante per valutare anche gli effetti delle perturbazioni sui principali processi ecosistemici in quanto è legata alle forze naturali come il vento, il fuoco e le successioni (Spies, 1998); inoltre influenza la competizione tra gli individui per l’uso delle risorse, la produzione delle biomassa, la condizioni di crescita della vegetazione erbacea e della fauna e svolge un ruolo centrale nei processi di rinnovazione. Per tutti questi motivi la diversità strutturale è anche un importante elemento caratterizzante la diversità dei popolamenti (Larson, 2001; MacArthur e MacArthur, 1961) e secondo rappresenta uno dei principali aspetti della biodiversità dei soprassuoli forestali (Brokaw e Lent, 1999; Oliver e Larson, 1990). A livello ecosistemico la diversità è suddivisa in alfa, beta, gamma e delta (Whittaker, 1972). Alfa-diversità è quella che opera all’interno dei popolamenti forestali; beta-diversità è riferita alle variazioni tra i popolamenti forestali lungo un gradiente temporale o spaziale; gamma e delta operano ad una scala più ampia, ad esempio a livello di paesaggio. La 39 diversità specifica contribuisce in modo importante alla struttura dell’ecosistema soprattutto quando sono presenti specie con differenti forme di vita ed autoecologia, come ad esempio conifere e latifoglie e specie con comportamento sciafilo ed eliofilo (Franklin, et al., 2002). Sia a scala di popolamento che di paesaggio la struttura è controllata anche dalla gestione forestale (McComb, et al., 2002), quindi il suo studio consente di comprendere le conseguenze degli interventi selvicolturali avvicendatisi nel tempo, costituendo un valido punto di partenza per la definizione di modalità di gestione da adottare al fine di valorizzare le varie funzioni richieste oggi ai sistemi forestali (Kuuluvainen, et al., 1996). Anche Susmel (1981) ha evidenziato che “… tutti i servigi mediati e immediati che noi ci attendiamo dal bosco restano a dipendere di fatto dalla sua struttura. Se questa è alterata o degradata, ogni funzione verrà male o poco compiuta, se invece è equilibrata, tanto i servigi ecologici quanto quelli economici avranno adeguata risposta”. Nonostante gli studi effettuati a tale riguardo, non si è ancora arrivati ad una completa conoscenza sulle relazioni tra la struttura, la diversità specifica di piante e animali e la stabilità ecologica, comunque le attuali conoscenze indicano che la diversità aumenta all’aumentare della differenziazione strutturale (Pretzsch, 2009). 3.1 La struttura verticale La struttura deriva dall’organizzazione della comunità nello spazio in senso orizzontale (tessitura) e verticale (stratificazione) (fig. 3.1.1). Inoltre essa è estremamente legata alle forme biologiche delle specie presenti ed alla proporzione con cui gli individui le rappresentano (Piussi, 2000). 40 Stratificazione Tessitura Fig. 3.1.1 – Struttura verticale (stratificazione) ed orizzontale (tessitura) di un popolamento (da Piussi, 2000). La tessitura, è la distribuzione spaziale degli individui arborei (fusti e chiome) all’interno di una superficie di riferimento ed è influenzata dalla densità del popolamento. Essa è stimata in base al numero di alberi o di area basimetrica per ettaro, oppure come dispersione degli individui ed anche come percentuale di copertura delle chiome. Queste ultime determinano anche la presenza e la distribuzione dei gap, che possono influire sulla quantità di precipitazioni e di luce che giunge agli strati inferiori, inoltre la loro struttura è correlata con l’età del popolamento, con la storia dei disturbi e con le condizioni del sito (Bradshaw e Spies, 1992). La struttura orizzontale è stata ampiamente studiata in letteratura anche attraverso l’applicazione di indici statistici e geostatistici che consentono di analizzare le dinamiche di occupazione dello spazio e di verificare la casualità o meno dei fenomeni aggregativi, caratterizzandone l’eventuale modalità di aggregazione. La distribuzione, che può essere uniforme, casuale, aggregata e uniformemente aggregata (fig.3.1.2) (Odum, 1973; Susmel, 1990) è influenzata sia da cause endogene della specie e sia da cause esterne (ambientali e antropiche). Tra le prime rientrano i meccanismi riproduttivi (ad esempio una disseminazione barocora favorisce l’aggregazione degli individui) oppure il grado di tolleranza nei confronti dell’ombra. Mentre tra i meccanismi esterni, sono molto importanti le condizioni edafiche e la morfologia del territorio, nonché l’attività dell’uomo: un esempio sono i diradamenti effettuati nelle faggete transitorie di origine agamica dell’Italia centrale, 41 come quelle oggetto di studio, realizzati con l’obiettivo di uniformare la distribuzione degli alberi. Fig. 3.1.2 – Distribuzione spaziale degli individui Relativamente alla struttura verticale, i boschi possono essere invece classificati in: • monoplani se gli alberi hanno altezze simili tra loro e le chiome sono disposte tutte sullo stesso piano; • biplani se le chiome sono distribuite prevalentemente su due piani distinti; • stratificati se non si possono individuare piani distinti dal momento che i fusti hanno altezze scalari e le chiome, disposte ai diversi livelli, saturano lo spazio verticale occupato dal soprassuolo. All’interno di un popolamento gli individui possono essere classificati anche in base alla posizione sociale rispetto agli alberi vicini e, in relazione al loro portamento, sviluppo e condizione vegetativa si possono individuare alberi dominanti, codominanti, intermedi o dominati (Smith, 1962). Le piante dominanti, che quindi hanno vinto la competizione, sono maggiormente sviluppate, riescono a conquistare lo strato più alto della copertura e le loro chiome emergono rispetto a quelle delle altre piante; dunque esse avranno un fusto colonnare, delle condizioni vegetative migliori e di conseguenza, accrescimenti diametrici maggiori dovuti ad un’attività fotosintetica più efficace. Al contrario, le piante dominate sono sottoposte a tutte le altre, l’esito della competizione è a loro sfavorevole e per questo rimangono sottoposte e presentano chiome rade, inoltre i loro accrescimenti sono scarsi dal momento che vengono raggiunte solo dalla poca luce che filtra dagli strati sovrapposti. 42 È importante sottolineare come il tempo svolga un ruolo fondamentale nella caratterizzazione della struttura verticale di una cenosi infatti, i rapporti competitivi non sono mai stabili e definiti, ma si evolvono nel corso del ciclo vitale del popolamento e dei singoli alberi; oltre a ciò, una qualsiasi perturbazione può modificare le posizioni sociali delle piante che permangono, in base agli spazi creati e alle risorse cedute da quelle che soccombono (fig. 3.1.3). Ad esempio, una pianta co-dominante può elevarsi allo strato dominante o declinare a quello intermedio, una dominata può diventare intermedia o viceversa, con variazioni tanto più concrete e attive quanto più i piani di stratificazione sono ravvicinati. La componente cronologica può influenzare il livello di stratificazione anche attraverso le modalità e i tempi di insediamento della rinnovazione che determina la formazione di TEMPO strutture coetanee o disetanee. Fig. 3.1.3 - Classificazione di Smith (1962); D=dominanti, C=codominanti, I=intermedie, S=sottoposte (dominate). In questa tesi verrà approfondita l’analisi della struttura verticale in quanto quella orizzontale è già stata ampiamente documentata in letteratura sebbene non bisogna dimenticare che le due strutture sono interconnesse e ad esempio il grado di organizzazione orizzontale in un popolamento può variare in funzione della sua posizione verticale. La struttura verticale viene spesso descritta come la disposizione delle chiome in un popolamento forestale, e come attributo importante per la gestione delle risorse e processi 43 forestali come la crescita, la provvigione, il rischio d’incendio e la suscettibilità ai disturbi e agli attacchi di insetti (Baker e Wilson, 2000; Latham, et al., 1998; O’Hara, et al., 1996). La struttura verticale viene definita anche con il termine di “stratificazione”, sebbene sia stata evidenziata la grande varietà di significati, non sempre convergenti, esistente in letteratura per tale termine. Applicando le varie definizioni di “stratificazione” ad un bosco misto di querce nel sud-est della Virginia (USA) è stato dimostrato che né la presenza, né il numero o la localizzazione degli strati risultanti coincidevano, attribuendo il risultato alla presenza di specie con differente comportamento nei confronti della luce, che creano una copertura continua delle chiome dagli alberi più alti fino al terreno (Parker e Brown, 2000). Smith (1973) evidenzia che il termine stratificazione è stato usato per descrivere tre distinte condizioni distributive, anche se strettamente interconnesse: 1) la distribuzione verticale della massa fogliare (MacArthur e MacArthur, 1961; Odum, et al., 1963); 2) la distribuzione verticale degli individui (Grubb et al., 1963 in Smith, 1973) e la distribuzione verticale delle specie, quest’ultima definita dall’altezza media degli individui maturi di una determinata specie (Sawyer and Lindsey, 1971 in Smith, 1973). La maggior parte degli studi che considerano la struttura verticale in combinazione con osservazioni qualitative, indicano che gli individui di un popolamento possono essere stratificati in funzione della massa fogliare e dell’altezza totale e che il numero degli strati aumenta al diminuire della latitudine (Smith, 1973). Infatti è noto che le foreste maggiormente strutturate sono quelle tropicali perché caratterizzate da molte specie arboree e dalla distribuzione delle chiome su più piani sovrapposti (fig. 3.1.4). Anche Brokaw e Lent (1999) affermano che la complessità aumenta passando dalle foreste boreali di conifere, dove gli individui hanno profili di chioma più semplici, alle zone temperate caratterizzate da latifoglie con chioma espansa o, ancor più a quelle tropicali aventi alberi con chiome emergenti e molto espanse. 44 Fig. 3.1.4 – Struttura verticale di una foresta tropicale. Alla sinistra del grafico è indicata la quantità di energia ricevuta in funzione dell’altezza dal suolo (da Piussi, 2000). La struttura verticale oltre ad essere influenzata dal clima, dal suolo e dalla specie, si modifica anche durante le fasi di sviluppo dei popolamenti forestali: quelli giovani hanno strutture generalmente semplici che poi, con l’accrescimento verticale tendono a stratificarsi in modo più complesso. Durante lo sviluppo lo strato dominante diventa orizzontalmente più eterogeneo e verticalmente più complesso, essendo influenzato degli effetti dei diradamenti, dalle differenze di crescita in altezza delle specie e dalla forma delle chiome. Questa organizzazione permette una maggiore penetrazione della luce negli strati più bassi, determinando lo sviluppo dello strato dominato, aumentando la complessità della struttura verticale (Brokaw e Lent, 1999). Smith (1973) descrive alcune ipotesi proposte anche da altri autori, per spiegare le funzioni di questa maggiore complessità. Esso dice che la complessità permette di ottimizzare meglio la disponibilità di luce, aumenta la concentrazione di CO2 all’interno delle chiome e quindi il tasso di fotosintesi, fornisce inoltre differenti traiettorie per il passaggio di uccelli, pipistrelli e insetti sia sopra che sotto ogni strato e passaggi per mammiferi tramite la continuità delle chiome, aumentando così la probabilità di impollinazione ed il tasso di dispersione dei semi. Brokaw e Lent (1999) riportano che l’organizzazione verticale della vegetazione può condizionare la presenza di habitat per specie animali e vegetali, influenzando la disponibilità di cibo, la disposizione dei siti di nidificazione, di ricovero e di accoppiamento per la fauna, oppure la disponibilità di substrato fertile per l’attecchimento delle piante epifite, parassite e rampicanti. Inoltre la stratificazione degli individui caratterizza il microclima interno del popolamento forestale: 45 dalla zona superiore delle chiome alla superficie del terreno ci sono gradienti di luce e vento decrescenti, di umidità crescenti, di temperatura decrescenti durante il giorno e crescenti durante la notte. Questi gradienti non sono di solito omogenei ma cambiano all’aumentare della concentrazione fogliare che intercetta la luce e interrompe il movimento d’aria. 3.2 L’influenza della struttura verticale sulla fauna ornitica con elevata importanza ecologica. E’ ormai ben evidenziato in letteratura che una struttura verticale più complessa possa offrire, anche alla fauna ornitica, un maggior numero di nicchie ecologiche (MacArthur e MacArthur, 1961, Scarascia Mugnozza, 1999; Lebreton et al., 1987 in Archaux e Bakkaus, 2007). L’importanza delle comunità ornitiche è legata al ruolo che gli uccelli svolgono come indicatori ecologici in quanto controllori delle popolazioni di insetti fitofagi, inoltre favoriscono la disseminazione dei semi e la diffusione dei funghi utili alla marcescenza del legno (Scarascia Mugnozza, 1999). Si è cercato quindi di analizzare la struttura verticale delle faggete appenniniche anche in relazione alla potenziale presenza di habitat di uccelli e di altri animali, con lo scopo di individuare le misure gestionali più idonee per favorirne la presenza. Koch (1975, in Piuss,i 2000) ha esaminato le relazioni tra le comunità ornitiche e la vegetazione arborea di alcuni boschi della Svizzera, osservando un aumento delle specie di uccelli all’aumentare dell’altezza degli alberi, probabilmente spiegato da una maggiore complessità strutturale nella parte alta delle chiome (fig. 3.2.1) Fig. 3.2.1 – Distribuzione di quattro specie di uccelli in relazione alla struttura verticale in un bosco misto di latifoglie e conifere presso Zurigo (da Koch 1975, in Piussi 2000) 46 Bersier e Mayer (1994) hanno osservato che gli uccelli possono selezionare i loro habitat riproduttivi sia sulla base della struttura ad una scala territoriale ampia e sia sulla base della composizione specifica ad una scala territoriale inferiore. Infine Altri autori invece sostengono che la composizione specifica sia più importante della struttura (James e Wamer, 1982). Queste differenze interpretative possono dipendere da diversi fattori: i) dal gruppo di specie studiato, ii) dalle variabili strutturali prese in esame (Atauri e Lucio, 2001), iii) dalla scala spaziale considerata, che condiziona sia l’home range della specie e sia la relazione tra l’eterogeneità dell’habitat e la diversità specifica (Tews, et al., 2004), iv) dalle condizioni microclimatiche del sito e dalla scarsa presenza di lavori che confrontino popolamenti puri e misti (Archaux e Bakkaus, 2007). Non tutti gli studi producono risultati concordanti, infatti Peck (1989), a differenza di Smith (1992), evidenzia effetti positivi tra la mescolanza specifica e le popolazioni ornitiche. La presenza di comunità ornitiche sembra favorita delle latifoglie e da alberi vetusti in quanto contengono un maggior numero di cavità nido rispetto alle conifere e agli individui più giovani (Smith, 1992; Waters, et al., 1990). Peraltro è stato evidenziato che nei boschi puri di faggio, la ricchezza di avifauna può essere inferiore a quella di boschi di conifere (Archaux e Bakkaus, 2007; Laiolo, et al., 2004), avvalorando l’ipotesi che le faggete sono caratterizzate da una bassa diversità floristica e faunistica a causa della densa copertura esercitata dalle chiome che riducono la penetrazione della luce (Movalli e Grimaldi, 1996; Tucker e Evans, 1997). Esistono pochi studi che analizzano, in modo dettagliato, la preferenziale localizzazione delle specie ornitiche nemorali lungo il profilo verticale dei popolamenti di faggio. Generalmente, tali studi rilevano le densità relative mettendo in evidenza che le specie ornitiche aumentano all’aumentare della complessità della struttura verticale, quindi dell’altezza del popolamento, dalla presenza di individui morti o marcescenti, vecchi o di grandi dimensioni e con presenza o meno di porzioni secche. Questi individui hanno un’influenza positiva sugli uccelli perché determinano la disponibilità di cavità che possono essere utilizzate per la nidificazione e la ricerca del cibo, in quanto il legno morto o marcescente è ricco di invertebrati lignicoli (Laiolo, et al., 2004). La presenza di strutture irregolari con grandi faggi morti o deperienti è importante anche per il mantenimento di insetti di particolare interesse ecologico come alcuni coleotteri tra cui il cervo volante (Lucanus cervus L.) e soprattutto la Rosalia alpina L. (Duelli e Wermelinger, 2005), indicata dalla direttiva Habitat come specie di importanza prioritaria e iscritta alla Lista rossa IUCN come specie vulnerabile (VU). Inoltre tali habitat sono importanti anche per i chirotteri che utilizzano le cavità degli alberi come 47 rifugio diurno ma anche come fonte alimentare di xilofagi, saprofagi e micofagi (AA.VV., 2003). Analisi di maggiore dettaglio sono state realizzate nei confronti dei Piciformi in quanto rappresentano la categoria sistematica più specializzata e sensibile dal punto di vista ambientale, tanto da venire considerati dei veri e propri indicatori biologici (Del Hoio et al., in Bernoni 2003) perché sono legati alle foreste caratterizzate mature e ben strutturate. Tra i Piciformi, quelli che rivestono una maggiore importanza come indicatori delle faggete sono il Picchio nero e il Picchio dorsobianco (presente anche nell’allegato IV della direttiva Habitat, in quanto di interesse comunitario che richiede una protezione rigorosa perché più esigente di determinati habitat). Per quanto riguarda il Picchio nero (Dryocopus martius L.), studi realizzati nel Parco delle Orobie Valtellinesi (Pirovano, et al., 2003), nel Parco Nazionale della Val Grande (Casale e Brambilla, 2010) e in quello delle Dolomiti Bellunesi (Colpi, et al., 2009) hanno evidenziato che, per la nidificazione esso predilige i boschi di faggio con alberi di grandi dimensioni e ben distanziati, mentre per l’alimentazione preferisce boschi misti di faggio e abete bianco caratterizzati dalla presenza di legno morto in piedi e a terra, ma ricerca anche ambienti semi aperti per la cattura delle formiche e di altre prede. Gli individui scelti per la realizzazione del nido, sono generalmente sani, hanno portamento colonnare, diametri medi non inferiori ai 40 cm e chiome tendenzialmente alte, infatti i nidi vengono fatti al di sotto di essa, ad un’altezza media di circa 7,5 m (Colpi, et al., 2009). Tali dimensioni sono necessarie in quanto il picchio nero, essendo di grosse dimensioni, scava fori di nidificazione profondi mediamente 43 cm e larghi 25 cm, mentre quello d’ingresso ha un diametro medio di 11 cm (Groppali, 2003). L’importante ruolo ecologico di questa specie è legato anche al fatto che ogni anno, se ci sono piante disponibili per la nidificazione, scava un nuovo nido rendendo disponibili le vecchie cavità ad un corteggio di altre specie (come la Civetta capogrosso e la Civetta nana) (Casale e Brambilla, 2010). Il Picchio dorsobianco (Dendrocopos leucotos, Bechstein) scava cavità sia per la nidificazione e sia per l’alimentazione in faggi completamente morti o comunque deperienti. In uno studio realizzato nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Bernoni (2003) ha osservato che i nidi vengono fatti sia sul tronco, ad un’altezza media di 10 m, e sia sui rami principali di individui di faggio avente mediamente diametri di 40 cm. Tali strutture sono importanti anche per la conservazione di altre specie ornitiche rare nell’Appennino come la Balia dal collare (Ficedula albicollis Temminck) ed il Rampichino alpestre (Certhia familiaris L.) (Bernoni, 2003) oltre che per il falco pecchiaiolo (Pernis 48 apivorus) in quanto anch’esse nidificano sugli alberi di grandi dimensioni (Casale e Brambilla, 2010). Un altro studio dettagliato è stato realizzato e nelle faggete dell’Appennino abruzzese in località di Collelongo (AQ) (Papi, 1996) dove è stata osservata la presenza di Picchio dorsobianco, Balia dal collare e Rampichino alpestre, oltre che del Picchio rosso minore (Picoides minor) e dell’Allocco (Strix aluco) anch’essi indici di boschi complessi e maturi. Scarascia Mugnozza (1999) ha inoltre osservato che i vari settori del profilo verticale dell’individuo di faggio occupati da ogni singola specie (fig. 3.2.2) sono caratterizzati da microhabitat di nutrizione tra i sessi del Picchio dorsobianco e tra le specie di cince: la Cinciarella (Parus coeruleus), la Cincia Mora (Parus ater) e la Cincia bigia (Parus palustris). Queste ultime a causa delle simili preferenze alimentari, si distribuiscono in altezze differenti lungo il profilo verticale dell’albero in modo da limitare la competizione. 49 Fig. 3.2.2 – Distribuzione spaziale della comunità ornitica nei vari settori dell’individuo di faggio (da Scarascia Mugnozza, 1999; modificata). 50 3.3 Analisi della struttura verticale mediante indici La struttura verticale di un popolamento forestale viene sempre più riconosciuta come attributo di importanza teorica e pratica nella comprensione e gestione degli ecosistemi forestali. Infatti essa viene spesso modificata per raggiungere gli obiettivi gestionali ed è facilmente misurabile e utilizzabile come surrogato per la descrizione delle funzioni del bosco come la produzione di legname, la presenza di nicchie ecologiche, l’influenza sulla capacità di stoccare carbonio, l’aumento di stabilità del sistema nei confronti dei fattori di disturbo ecc. difficili da misurare in modo diretto. Un indice della complessità strutturale di un popolamento è una costruzione matematica che conferisce un valore agli effetti di due o più attributi strutturali e se propriamente costruito, potrebbe funzionare come indicatore del livello potenziale o effettivo di biodiversità (Corona, et al., 2005a; Lähde, et al., 1999; McElhinny, et al., 2005; Neumann e Starlinger, 2001; Van Den Meersschaut e Vandekerkhove, 2000). Un indice efficiente, necessita una serie appropriata di attributi capaci di rappresentare le peculiarità delle componenti strutturali e riflettere le relazioni con la diversità faunistica; inoltre tale indice deve essere abbastanza semplice e conciso in modo da poter essere utilizzato anche dai tecnici forestali per la realizzazione di una gestione forestale sostenibile. Secondo McElhinny et al. (2005) è preferibile parlare di complessità strutturale anziché diversità perché, quest’ultimo termine, è considerato ambiguo in quanto riflette il lavoro di molti autori, i quali hanno usato la formula di Shannon per quantificare un solo attributo strutturale assumendolo come indicativo della diversità biologica. In realtà questo è solo uno dei possibili attributi che descrivono la struttura e la maggior parte delle misure di diversità dicono che, un sistema con un solo attributo o elemento ha diversità pari a zero (Magurran, 1998 in McElhinny et al. 2005). È per questo motivo che McElhinny et al. (2005) valorizzano gli indici che si basano su un punteggio cumulativo di più attributi, anche se nessuno di essi sembra essere in grado di fornire una serie definitiva per caratterizzare il completo potenziale di biodiversità di un popolamento e costituire anche uno strumento pratico per i tecnici forestali. Sono disponibili diversi indici che quantificano la complessità dei popolamenti forestali e alcuni di essi si basano sull’attribuzione di parametri strutturali, mentre altri derivano dall’applicazione dell’indice di diversità di Shannon. 51 Tra i primi abbiamo il LLNS Diversity Index (Lähde, et al., 1999) utilizzato per caratterizzare la complessità strutturale delle foreste boreali Finlandesi, mediante la variabilità specifica e dimensionale degli alberi e la presenza di individui morti in piedi oppure caduti a terra; peraltro risulta poco efficace nell’analisi della struttura verticale vera e propria. Un indice più elaborato è il Biodiversity Index (Van Den Meersschaut e Vandekerkhove, 1998; Van Den Meersschaut e Vandekerkhove, 2000), sviluppato per valutare l’impatto della gestione forestale sulla biodiversità potenziale delle foreste del Belgio. Esso deriva dalla somma di 18 attributi che descrivono la struttura forestale (copertura, età, mescolanza specifica), la composizione dello strato arboreo ed erbaceo e la presenza di legno morto sulla base dei dati messi a disposizione dall’inventario forestale nazionale. Tale indice da maggior peso alla variabilità diametrica rispetto a quella in altezza e senza analizzare lo sviluppo verticale delle chiome. Un altro indice che utilizza l’altezza degli alberi è l’HC (Height Complexity) di Holdridge (1967) detto della “Complessità strutturale,” sviluppato per le foreste australiane e che integra, oltre all’altezza dominante del popolamento, anche l’area basimetrica, il numero di fusti per ettaro e la composizione specifica dello strato dominante. L’applicazione di tale algoritmo è limitata dal fatto che attribuisce importanza soprattutto allo strato dominante e alla sua composizione specifica, senza analizzare la variabilità dell’intera struttura verticale. L’indice SCI (Structural Complexity Index) si basa invece, sull’interazione tra la posizione spaziale degli individui e l’altezza o il diametro del popolamento (Zenner, 2000; Zenner e Hibbs, 2000). Gruppi di alberi vicini sono collegati a formare una rete di triangoli (fig. 3.3.1) non sovrapposti, tramite i quali si definisce l’indice risultante dal rapporto tra la somma della superficie di tali triangoli alla quale è associata il valore di altezza o diametro e l’area orizzontale coperta dai triangoli stessi. Fig. 3.3.1 – Rappresentazione di una rete di triangoli irregolari che determinano la superficie di contatto tra le cime degli alberi vicini. 52 La complessità e la scarsa facilità nell’applicazione ne limita però il suo utilizzo. Un altro indice ancora più complesso e poco significativo dal punto di vista ecologico, è l’indice strutturale STVI (Stand Variance Index) basato sulla varianza di distribuzioni uniformi e bimodali di area basimetrica in funzione delle classi di altezza o di diametro (Staudhammer e LeMay, 2001). Tra i vari indici che si basano sull’interazione di attributi il CHD (Crown Height Diversity) è quello che diversamente da quelli precedenti, attribuisce maggiore importanza alla struttura verticale dell’intero popolamento (Spies e Cohen, 1992). Il CHD si basa sull’assunzione che un albero occupi un volume di spazio ecologico composto dal tronco, dalla chioma e dallo spazio al di sotto di questa fino al terreno. Il volume appena descritto influisce sia sugli habitat degli organismi che vivono nella chioma, sia in quelli che vivono nel tronco ed anche sui processi caratterizzati dalle condizioni microclimatiche che si instaurano al di sotto della chioma. L’algoritmo dell’indice definisce il volume di spazio ecologico degli individui come la somma dei cilindri immaginari intorno ai singoli alberi; ogni cilindro ha l’altezza uguale a quella dell’albero e il diametro pari a quello della chioma. Il CHD è calcolato secondo la seguente formula, che è una rielaborazione di quella di Shannon: N dove: CHD = � Pi ∗ Hi i i=1 Hi è l’altezza relativa della classe di altezza i, calcolata dalla divisione del limite maggiore della classe di altezza più alta con il limite maggiore di quella più bassa es.: se il popolamento è diviso in classi di altezza di 5 m ed il limite maggiore della classe di altezza più alta è 25 m, e quello maggiore della classe più bassa è 5 m, Hi è uguale a: 25 : 5 = 5 per la classe 20-25 m 20 : 5 = 4 per la classe 15-20 m 15 : 5 = 3 per la classe 10-15 m 10 : 5 = 2 per la classe 5-10 m 5 : 5 = 1 per la classe 0-5 m N è il numero delle classi di altezza 53 Pi è il punteggio della copertura della classe di altezza appartenenti alla classe iesimo, basata sulla proporzione della superficie del terreno coperta dalle chiome degli alberi del medesimo strato. Esso è calcolato come: 𝑃𝑖 = � 𝐶𝑖 /0.3 𝑝𝑒𝑟 𝐶 < 0.3 (𝑠𝑜𝑔𝑙𝑖𝑎) 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 1 𝑝𝑒𝑟 𝐶 ≥ 0.3 dove Ci è l’area orizzontale della chioma di un albero all’interno della classe di altezza i ed è calcolata come: 𝐶𝑖 = ∑𝐾 𝑗=1 𝐴𝑗 𝐴𝐺 dove Aj è l’area orizzontale della chioma dell’albero jth della classe di altezza i AG è la superficie dell’area di saggio K è il numero degli alberi della classe di altezza i La soglia di proporzione della superficie del terreno (0.3 dell’equazione Pi) è la proporzione della superficie di suolo coperta dall’area di chioma in cui si considera che la classe di altezza abbia raggiunto la sua piena occupazione. La soglia può variare da < 0.1 a 1.0 ed è stata determinata in modo empirico usando i dati ricavati dalle foreste vetuste per esaminare come il rapporto tra l'indice di età cambiasse in funzione di soglie diverse. Gli autori hanno trovato che 0.3 sembrava produrre un CHD più sensibile alle differenze nello sviluppo dei popolamenti in una crono-sequenza campione con età variabile da 30 a più di 300 anni. Nel nostro caso la soglia di copertura del terreno viene innalzata a 0.7, in quanto i popolamenti oggetto di studio sono costituiti per la maggior parte da individui di faggio, che essendo una specie sciafila con chioma densa e più profonda rispetto alle eliofile (Lorimer, 1983), tende a creare una maggiore copertura anche ad età avanzata. Il punteggio massimo calcolato dagli autori per un popolamento è risultato essere pari a 15. Dai dati ottenuti dalle foreste vetuste del Coast Range con età inferiore ai 100 anni, è stato ottenuto un punteggio medio di circa 4, con range oscillante da valori inferiori ad 1 nelle aree trattate a taglio raso, a valori maggiori di 6 nei popolamenti giovani e più alti. Nei soprassuoli più vecchi il punteggio ottenuto variava da 10 dove la fertilità era bassa fino ad oltre 14 in siti più fertili ed umidi, con individui emergenti di douglasia e con strati intermedi ben sviluppati di Thuja occidentalis. L’indice attribuisce un valore più elevato ai boschi con 54 individui alti ed emergenti e con chiome presenti in uno spazio orizzontale più ampio, perché crea un maggior volume per gli habitat e variabilità di microclimi al suo interno. Gli autori ritengono infatti che l’elemento determinante dell’indice sia il diametro della chioma piuttosto che l’area basimetrica o la densità degli individui. Infatti gli algoritmi basati sull’area basimetrica produrrebbero un peso troppo elevato per le piante con diametri dei fusti elevati, i cui rispettivi diametri delle chiome non variano significativamente con l’incremento del diametro del fusto a 1.30 m (dbh). Nel CHD il diametro delle chiome è l’elemento discriminante per la struttura degli habitat e di più semplice rilevamento in campo rispetto al volume della chioma, la cui stima risulterebbe poco precisa a partire dal diametro del fusto. Il diametro di chioma peraltro diventa il limite dello stesso indice, in quanto si esclude la profondità della chioma, parametro altrettanto importante ai fini della complessità e della caratterizzazione ecologica del popolamento. Esiste un altro gruppo di indici che derivano dall’applicazione e/o modificazione dell’indice di diversità di Shannon (1948) calcolato con il seguente algoritmo: 𝑆 𝐻 = − �(ln 𝑝𝑖 ) ∗ 𝑝𝑖 𝑖=1 dove S è il numero di specie (e rappresenta la ricchezza compositiva) pi è la frequenza relativa di un attributo (che in questo caso è rappresentato dalla specie): ni è la frequenza delle specie i 𝑝𝑖= 𝑛𝑖 𝑁 N è il numero totale degli individui. Tale formula è stata proposta da Boltzmann per il calcolo del valore dell’entropia nella termodinamica e utilizzata da Shannon e Weaver nel 1949 nella “Teoria dell’Informazione”. L’indice ha una larga applicazione nella valutazione della diversità floristica dei boschi, concetto in cui trovano posto sia la ricchezza di specie che l’uniformità (evenness), cioè l’equilibrata distribuzione delle specie nel campione. La diversità e la complessità sono state collegate al contenuto di informazione di un popolamento, definibile come la misura della rimozione di casualità o incertezza (per esempio a quale specie appartiene un individuo preso a caso in un campione di alberi) e della crescita di ordine e organizzazione (Paci, 2011). L’indice di Shannon applicato alla diversità floristica, aumenta al crescere sia della ricchezza che della evenness della flora, quindi si può affermare che l’indice aumenta con il grado di 55 disordine del sistema, dove il massimo ordine corrisponde a una situazione in cui si ha una sola specie. Un’altra caratteristica è la presenza del logaritmo come fattore moltiplicativo, il quale influenza l’aumento del valore dell’indice in presenza di specie rare, in modo non proporzionale rispetto a quelle maggiormente rappresentate. Proprio per la presenza della scala logaritmica, l’indice può variare da 0 a + ∞ quindi risulta difficilmente confrontabile tra più popolamenti. In realtà è possibile mostrare che, per un dato numero di specie il valore massimo è: Hmax = ln (S) tale condizione è verificata quando tutte le specie sono presenti in numero uguale. Tenendo in considerazione quanto detto, l’indice di Shannon relativo ad un intervallo di riferimento è dato da: 𝐻𝑟𝑒𝑙 = 𝐻𝑚𝑎𝑥 ln (𝑆) Quest’ultima relazione descrive anche l’indice di evenness (uniformità) di Pielou (1966) , il quale su una scala da 0 a 1, indica quanto gli individui di un popolamento siano equamente distribuiti tra le specie, raggiungendo il massimo equilibrio con valore pari a 1. Mentre l’indice di Pielou esprime l’uniformità della frequenza delle specie, la dominanza viene descritta dall’indice di Simpson (1949) tramite il seguente algoritmo: 𝑆 𝑆𝐷 = 1 − � 𝑝𝑖2 𝑖=1 dove S è il numero di specie e pi rappresenta la frequenza relativa ad una specie. L’indice varia da 0 a 1 ed esprime la probabilità che due individui estratti a caso appartengano alla stessa specie e quindi, mano a mano che il valore aumenta verso l’unità aumenta la dominanza di una specie e diminuisce quindi la diversità. Questi indici possono essere applicati non solo alla frequenza degli individui appartenenti alle varie specie, ma anche a quella di altri parametri come diametro, altezza, area basimetrica, area d’insidenza delle chiome ecc. Ci sono alcuni autori (Fiala, 2003; 56 Staudhammer e LeMay, 2001) che suggeriscono di utilizzare l’area basimetrica invece della frequenza degli individui che meglio rappresenterebbe l’uso della risorsa, in quanto alberi con diametro maggiore hanno una superiore influenza ecologica. In uno studio che si basa sull’applicazione dell’indice di Shannon, MacArthur e MacArthur (1961) hanno stabilito una relazione non lineare tra la diversità di altezza della massa fogliare (Foliar Height Diversity, FHD), che descrive la disposizione delle foglie all’interno di differenti strati verticali e la diversità specifica degli uccelli (Bird Species Diversity, BSD). I risultati hanno evidenziato che la modalità di distribuzione verticale della massa fogliare è più importante rispetto alla composizione specifica delle piante. L’indice di massa fogliare è dato dall’applicazione del seguente algoritmo: 𝑁 𝐹𝐻𝐷 = − �(ln 𝑝𝑖 ) ∗ 𝑝𝑖 𝑖=1 dove pi è la proporzione della massa fogliare che si trova nello strato iesimo rispetto a quella totale e N indica il numero di strati totali. BSD è descritto usando un simile approccio ma dove pi rappresenta la proporzione di tutti gli uccelli appartenenti alla specie iesimo. I risultati ottenuti da questo studio hanno incoraggiato l’uso di FHD come una misura della struttura forestale ed è stato accettato anche come indicatore di biodiversità anche se, in realtà, esistono pochi studi in cui FHD riesca a spiegare le differenze nella diversità di gruppi faunistici oltre a quella degli uccelli (McElhinny, et al., 2005). Questo indice, nonostante sia stato utilizzato da più autori, sembra essere una misura ambigua perché non è stato stabilito un metodo standard per la sua misura in quanto la delineazione in classi di altezza è spesso arbitraria ed inoltre è di difficile applicazione, infatti è molto laborioso riuscire a stimare la massa fogliare appartenente ad una determinata classe iesimo. Per questo ultimo motivo Kuuluvainen et al. (1996) hanno applicato il più semplice indice di distribuzione delle altezze THD (Tree Height DIversity) anch’esso derivante dall’indice di diversità di Shannon: 𝑁 𝑇𝐻𝐷 = − �(ln 𝑝𝑖 ) ∗ 𝑝𝑖 𝑖=1 dove pi è la proporzione degli alberi nello strato di altezza iesimo con profondità pari a 2 m e N il numero di strati totali. 57 Un altro indice strutturale sempre derivato da quello di Shannon è il Vertical Evenness (VE) di Neumann e Starlinger (2001) che caratterizza la distribuzione verticale della copertura all’interno di un popolamento. Seguendo le indicazioni della classificazione adottata nell’indice di Pretzsch (1998), di cui si parlerà poco più avanti nel testo, gli alberi sono classificati in quattro strati di altezza con limite a 80,50 e 20% dell’altezza dell’albero più alto dell’area di studio. Tale classificazione deriva dalla volontà di caratterizzare il popolamento secondo la posizione sociale degli individui partendo dai super dominanti cioè quelli che svettano dallo strato dominante (appartenenti alla classe 80-100%), poi dominanti propriamente detti (50-80%), poi quelli dominati (20-50%) fino ad arrivare allo strato con la rinnovazione e gli arbusti (0-20%). Per ogni classe di altezza viene calcolata l’area delle proiezioni di tutte le chiome in relazione a quella dell’intero popolamento. Il risultato viene poi utilizzato per calcolare l’indice VE applicando la seguente formula: 4 𝑉𝐸 = �(− log 𝜋𝑖 ) 𝑖 𝜋𝑖 𝑙𝑜𝑔4 dove πi è l’area di chioma relativa a tutti gli individui dello strato di altezza iesimo calcolato come rapporto tra l’area della proiezione delle chiome di uno strato iesimo e l’area della proiezione delle chiome dell’intero popolamento. Il risultato ottenuto viene standardizzato per i quattro strati come indicato nella formula, in modo da ottenere un intervallo di riferimento fra 0 e 1, che a differenza dei due indici precedenti consente di valutare il risultato ottenuto. Valori bassi di VE caratterizzano popolamenti monostratificati, mentre valori prossimi all’unità indicano che gli alberi delle varie classi sono distribuiti in modo omogeneo nel piano verticale. Un indice applicato in Italia nelle abetine delle Foreste Casentinesi di concezione un po’ diversa dai precedenti è quello elaborato a partire dall’indice di diversità di Hill (1973) che è calcolato dal seguente algoritmo (Bianchi, et al., 2005a): N1 = eH dove H è l’indice di Shannon. Il soprassuolo viene suddiviso in tre strati: - inferiore, che rappresenta il piano di rinnovazione e ha un’altezza inferiore a 5 m; 58 - superiore, costituito dal piano formato dalle chiome degli abeti, il cui limite inferiore è rappresentato dall’altezza media d’inserzione delle chiome; - intermedio, che interessa le piante comprese tra gli altri due strati. Il livello di stratificazione del popolamento è espresso dall’indice Is ottenuto dal seguente algoritmo: 𝐼𝑠 = 𝑒 [− ∑ 𝑝𝑠 ln(𝑝𝑠 )] dove ps esprime la frequenza degli individui dei tre strati in cui viene suddiviso il popolamento rispetto al totale degli individui. Essendo il soprassuolo suddiviso in tre strati, il risultato può variare da 1 a 3 e cresce all’aumentare della complessità strutturale indicando il numero effettivo degli strati che contribuiscono a tale complessità. Tutti gli indici sopra descritti prendono in considerazione un solo attributo, condizione insufficiente per descrivere la complessità di un popolamento. Esistono infatti algoritmi, sempre derivanti dall’indice di diversità di Shannon, che analizzano la diversità strutturale di un popolamento utilizzando però più attributi strutturali. Tra questi ultimi, il più datato è l’indice di eterogeneità spaziale (sia verticale che orizzontale in funzione del parametro analizzato) HH (habitat heterogeneity) (Freemark e Merriam, 1986), definito come: 𝑟 𝑐 𝐻𝐻 = − � � 𝑋𝑖𝑗 ln 𝑖=1 𝑗=1 𝑋𝑖𝑗 𝑋𝑖 dove c è il numero di aree di saggio, r è il numero di classi riferito ad uno specifico attributo strutturale Xij è la proporzione degli individui nella classe iesimo dell’area di saggio jth. Tale algoritmo differisce da quello di Shannon in quanto al denominatore è rappresentata la media al posto del numero totale delle classi. L’indice HH è stato calcolato separatamente per otto componenti strutturali: densità degli alberi, classi diametriche, copertura delle chiome, copertura della massa fogliare nei diversi strati verticali, media dell’altezza delle chiome, altezza dello strato erbaceo, percentuale della rinnovazione e percentuale della terra nuda. L’indice di eterogeneità spaziale, non è quindi dipendente dal risultato di un algoritmo, ma dalle considerazioni generali dedotte a livello di popolamento in base al risultato degli otto attributi considerati. 59 Staudhammer e LeMay (2001) hanno applicato l’indice di Shannon, relativo alla diversità specifica e dimensionale, a popolamenti già raggruppati, da altri autori, in classi di diametro e altezza creando due differenti indici. Il primo, chiamato metodo Post-hoc, consiste nel calcolare con algoritmi separati la proporzione di area basimetrica per ettaro, in funzione alle classi di diametro (H’d), di altezza (H’h) e alle specie (H’s). I tre indici sono poi mediati (H’d+h+s) per mantenere una scala simile a quella dell’indice originale di Shannon. Il secondo è chiamato metodo combinato e utilizza un unico algoritmo (H’dhs) checalcola la proporzione di area basimetrica per ettaro (pi) per ogni combinazione dei tre attributi (d-h-s): 𝑑 ℎ s 𝐻ʹ𝑑ℎ𝑠 = − � � � 𝑝𝑖 ∗(ln 𝑝𝑖 ) 𝑖=1 𝑗=1 k=1 Questi due indici calcolano la ricchezza (numero di classi) e l’uniformità (evenness) della diversità strutturale dei popolamenti dando un uguale peso alla diversità orizzontale, verticale e specifica. Infatti anche l’indice di Shannon attribuisce il valore più alto quando la distribuzione è perfettamente uniforme tra le classi. Per il metodo Post-hoc il valore massimo è dato dalla media del numero di specie e delle classi di diametro e altezza; mentre per il metodo combinato, il valore massimo è uguale al logaritmo del numero di specie e delle classi di diametro e di altezza. Gli autori affermano che il primo metodo è quello che fornisce maggiori informazioni perché valuta la diversità sia a livello di singolo attributo, sia a livello dell’intero popolamento tramite il valore medio. Un limite di questi indici è dato dal fatto che gli autori non riportano esempi concreti della loro applicazione e, per quanto riguarda le modalità di divisione dei componenti strutturali in classi, si limitano a spiegare che possono essere realizzate in modo arbitrario facendo attenzione alla scelta del numero di classi in quanto influenza il valore massimo ottenuto dall’indice. In Europa gli studi sulla struttura spaziale delle cenosi forestali sono stati condotti soprattutto da Pretzsch, dell’Università di Freising (D), con l’obiettivo di elaborare principi metodologici per l’analisi delle relazioni con i trattamenti selvicolturali è . Sempre sulla base dell’indice di Shannon, Pretzsch (1998) ha elaborato l’indice A per il profilo verticale delle specie che, oltre alla proporzione delle singole specie, prende in considerazione la loro presenza in differenti strati di altezza, corrispondenti all’80 e al 50% di quella massima del popolamento (fig.3.1.2). L’indice A è calcolato con il seguente algoritmo: 60 𝑆 𝑍 𝐴 = − �. � 𝑝𝑖𝑗 ∗ ln 𝑝𝑖𝑗 𝑖=1 𝑗=1 dove: S è il numero di specie presenti nel popolamento Z è il numero delle zone o classi di altezza (3 in questo caso) pij è la porzione di specie in relazione alla popolazione totale, calcolata con la seguente formula: 𝑝 𝑖𝑗= ni è la frequenza delle specie i nella zona j 𝑛𝑖𝑗 𝑁 N è il numero totale degli individui. Fig. 3.1.2 – Immagine rappresentante le differenti classi di altezza corrispondenti all’80 e al 50% dell’altezza massima del popolamento. L’indice A quindi, somma e quantifica la diversità e la distribuzione delle specie nel popolamento. Esso è più basso in popolamenti monostratificati e puri, mentre aumenta per popolamenti con due o più strati. La massima differenziazione strutturale possibile si raggiunge quando il numero totale di individui N è distribuito uniformemente tra le specie e tra gli strati verticali. Il valore relativo dell’indice A, che quantifica il grado percentuale della diversità strutturale è dato da: 𝐴𝑟𝑒𝑙 = 𝐴 ∗ 100 ln (𝑆 ∗ 𝑍) 61 La maggior parte degli indici di struttura verticale, salvo poche eccezioni (Neumann e Starlinger, 2001; Pretzsch, 1998) prevedono la divisione in classi di altezza senza criteri specifici, ma spesso applicano classi di profondità uniformi, ad esempio di 2 o 5 m (Spies e Choen, 1992; Fiala, 2003; ecc.). Inoltre tutti gli indici sopra descritti, nella divisione in classi di altezza non prendono in considerazione la profondità di chioma che invece ha un ruolo fondamentale. Per cercare di ovviare a questi problemi è stato applicato l’indice TSTRAT (Latham, et al., 1998), algoritmo sviluppato per simulare modelli di stratificazione verticale risultante dai processi che avvengono durante lo sviluppo del popolamento. Utilizzando i dati solitamente misurati in campo, esso fornisce un pattern di distribuzione degli alberi o delle loro chiome in strati distinti, che indica il processo di competizione all’interno studio delle cenosi analizzate. La metodologia è stata sviluppata specificamente per la classificazione strutturale delle foreste temperate di conifere del Nord-Ovest degli Stati Uniti (Montana, Idaho, Oregon and Washington). TSTRAT definisce punti limite (cut-off) di competizione multipli basati sull’altezza e sulla profondità di chioma degli alberi ed assegna gli individui a differenti strati verticali, in funzione della posizione delle loro chiome rispetto a tali punti di competizione (fig.3.3.3). Il concetto di “punto limite di altezza” deriva dal fatto che la zona di competizione degli alberi è stata definita come l’area della chioma dove avviene la principale parte della fotosintesi, in quanto maggiormente interessata dalla luce e corrispondente alla porzione superiore della chioma pari al 60%. Al di sotto di tale altezza limite si assume che abbia luogo una fotosintesi ridotta. L’indice presuppone che un individuo subisca la concorrenza di alberi vicini quando l’area delle loro chiome in cui avviene la fotosintesi primaria sia posizionata all’interno del suo spazio verticale riducendo la disponibilità della luce. 62 S1 S2 S3 Fig. 3.3.3 – Diagramma semplificato con gli strati determinati dall’applicazione del TSTRAT. Gli alberi bianchi sono quelli utilizzati per calcolare i valori di altezza limite di competizione (da Latham et al., 1998 modificata). Se per essere competitivo l’individuo deve rimanere in una posizione vantaggiosa in termini di disponibilità di luce, l’altezza alla quale è posta la soglia di competizione viene calcolata nel seguente modo: CH = 0.40 * CL + HBLC Dove CH (Cut-off height) indica l’altezza limite di competizione, CL (Crown Length) rappresenta la profondità di chioma, HBLC (Height to Base of Life Crown) il valore di altezza d’inserzione della chioma. Gli alberi dell’area di studio devono essere ordinati in modo decrescente in funzione dell’altezza e della profondità di chioma, in modo tale da poter applicare tale algoritmo iniziando dall’albero più alto con chioma più profonda per tale altezza. Tutti gli individui con altezza uguale o superiore a quella limite di competizione (cut-off) vengono classificati nello stesso piano. Quando invece l’altezza è inferiore al valore limite trovato, viene calcolato un nuovo strato sulla base dell’albero più alto rimasto e avente la chioma più profonda. Questo processo si reitera fin quando tutti gli alberi sono posizionati in strati verticali o fino al raggiungimento di uno strato limite inferiore predefinito. 63 Il valore di 0.40 è stato individuato sulla base di punti limite di competizione definiti in altri studi (Biging e Dobbertin, 1995) e dall’osservazione delle relazioni delle chiome delle conifere nelle aree studiate da Latham et al. (1998). Biging e Dobbertin (1995) hanno indicato per una specie sciafila come l’abete bianco una soglia di altezza di competizione compresa tra il 50 ed il 66%, mentre per specie poco sciafile o eliofile hanno definito valori superiori al 66%. Il coefficiente di competizione di 0.4 può essere quindi applicato alla maggioranza delle conifere eliofile. Nel caso del faggio essendo una latifoglia sciafila il coefficiente di 0,40 nell’algoritmo non può essere applicato. Studi sui modelli di chioma hanno evidenziato che per il faggio la porzione superiore della chioma in cui avviene la fotosintesi primaria corrisponde al 40% della sua lunghezza (Pretzsch, 2009). Quindi l’algoritmo di stratificazione per tale specie risulta modificato nel modo seguente: CH = 0.60 * CL + HBLC Baker e Wilson (2000), indicano quale criticità del TSTRAT la possibilità di sovrastimare il numero degli strati in quanto non considera la presenza della sovrapposizione delle chiome e presentano una variante all’algoritmo che stima le discontinuità nella distribuzione verticale, confrontando l’altezza di un albero con l’altezza media d’inserzione delle chiome degli alberi più alti (McCarter et al. 1996, in Baker e Wilson 2000). Gli step operativi sono i seguenti: 1. elencare gli alberi in ordine decrescente in base all’altezza totale (HT = Height Tree) e a quella d’inserzione della chioma (HBLC = Height to Base of Life Crown); 2. cominciando dall’albero più alto (t1), calcolare l’HBLC media (per t1 HBLC media è uguale alla sua altezza d’inserzione, mentre per gli alberi successivi compresi nello stesso strato corrisponde alla media delle altezze d’inserzione di tutti gli alberi precedenti); 3. confrontare l’altezza del successivo albero più alto (HT(t2)) sommata alla costante di sovrapposizione (k0) con l’HBLC media (la costante k0 definisce una distanza soglia tra l’HBLC media e l’HT(t2)); 64 4. se HT(t2) + k0 è maggiore del valore dell’HBLC medio, allora l’albero t2 si trova nello stesso strato dell’albero t1. Il valore HBLC medio deve essere ricalcolato usando t1 e t 2. 5. se HT(t2) + k0 è minore del valore dell’HBLC medio, allora t2 si trova nello strato sottostante a t1. Il calcolo di HBLC medio deve essere reiterato cominciando con t2 e ignorando il valore di HBLC medio dello strato precedente; 6. i passaggi 4 e 5 vengono ripetuti per tutti gli alberi del popolamento considerato. Tale algoritmo utilizza una costante di sovrapposizione (k0) delle chiome di 1,5 m equivalente al 4% dell’altezza massima dell’albero presente nel popolamento. Gli autori affermano che il TSTRAT tenda a sovrastimare il numero degli strati perché utilizza una proporzione fissa della profondità di chioma, determinando così una sovrapposizione di -3 m o del 10 % dell’altezza massima del popolamento ed anche perché la definizione degli strati è altamente dipendente dalla lunghezza della chioma dell’albero più alto di ogni strato. Relativamente all’analisi delle chiome, esistono diversi studi realizzati negli Stati Uniti e nel Canada per le fustaie di conifere, mentre lavori relativi alle latifoglie europee ed in particolare al faggio sono stati realizzati da Pretzsch (1998, 2009), che ha sviluppato modelli ed indici di competizione delle chiome posizione-dipendenti di individui monocormici. I modelli di forma delle chiome di alcune specie sono stati realizzati (Pretzsch, 2009) attraverso una procedura di calcolo standard che descrive la variazione del raggio di chioma all’aumentare della distanza dalla cima. La chioma, con un principio simile a quello adottato dall’algoritmo di stratificazione TSTRAT, viene divisa in due parti distinguendo una porzione esposta alla radiazione luminosa diretta ed una all’ombra. Per la prima, la variazione del raggio di chioma (ro) viene calcolato in relazione della distanza dalla cima, tramite la seguente funzione: 𝑟𝑜 = 𝑎 ∗ 𝑑𝑖𝑠𝑡𝑏 dove dist = lo mentre i parametri a, b e lo variano in funzione della specie Per il faggio: 𝑎 = 𝑟𝑚𝑎𝑥 /(𝑙𝑜 )0.33 b = 0.33 𝑙𝑜 = 𝑙 ∗ 0.40 65 Per l’abete bianco: 𝑎 = 𝑟𝑚𝑎𝑥 /(𝑙𝑜 )0.5 b = 0.50 𝑙𝑜 = 𝑙 ∗ 0.50 Per l’acero montano (Acer pseudoplatanus): 𝑎 = 𝑟𝑚𝑎𝑥 /(𝑙𝑜 )0.33 b = 0.52 𝑙𝑜 = 𝑙 ∗ 0.35 Per la chioma all’ombra la variazione del raggio (ru) è calcolata usando la seguente equazione lineare: 𝑟𝑜 = 𝑐 + 𝑑𝑖𝑠𝑡 ∗ 𝑑 dove dist = l – lo e i parametri c e d sono uguali per tutte le specie: 𝑐 = 𝑟𝑚𝑎𝑥 − 𝑑 ∗ 𝑙𝑜 𝑟𝑐𝑏 − 𝑟𝑚𝑎𝑥 𝑑= 𝑙 − 𝑙𝑜 mentre il parametro rcb è relativo per ogni specie: per il faggio è uguale a rmax * 0.33 per l’abete bianco è uguale a rmax * 0.50 per l’acero montano è uguale a rmax Da tali equazioni è possibile risalire al calcolo del volume tramite il teorema di Guldino. Pretzsch (2009) ha sviluppato anche il programma chiamato RAUM per caratterizzare lo spazio di chioma di ogni albero all’interno del popolamento. Il programma contiene una matrice tridimensionale capace di contenere dati di ogni metro cubo dello spazio reale del popolamento in un grafico tridimensionale. Note per ogni albero dell’area di studio le coordinate del fusto, i raggi della chioma, l’altezza della sua inserzione e quella totale, in base al modello di chioma specifico, il programma trasforma l’espansione reale degli alberi in coordinate cartesiane e li posiziona in una matrice, dove ad una cella tridimensionale 66 definita voxel, (pixel volumetrico) corrisponde un volume arboreo di un metro cubo (Fig.3.3.4) Fig. 3.3.4 – Analisi spaziale degli alberi e della struttura del popolamento tramite la digitalizzazione da voxel (pixel volumetrico). H = altezza dell’albero, hcb (height to crown base) = altezza alla base della chioma; cd (crown diameter) = diametro di chioma); x, y, z, = coordinate del fusto. (Da Pretzsch, 2009). La matrice spaziale dei dati può anche essere analizzata a livello statistico tramite il conteggio dei voxel occupati. La digitalizzazione dell’occupazione dello spazio di chioma può essere usata per studiare la distribuzione verticale delle chiome di un popolamento. In fig. 3.3.5 si osserva la percentuale dello spazio occupato dagli individui delle diverse specie presenti, la loro somma e la curva cumulata della frequenza percentuale. L’occupazione spaziale percentuale è calcolata con RAUM che suddivide il piano verticale in strati orizzontali tra le chiome ad intervalli di altezza di un metro terreno dalla base del fusto chiome fino all’apice dell’albero. Per ogni piano orizzontale si determina il numero di voxel e la loro frequenza di occupazione, sia parziale che totale, corrispondenti agli individui delle differenti specie. Viene evidenziata la distribuzione di frequenza cumulata dello spazio di chioma occupato degli individui del popolamento, la quale mostra un aumento dell’occupazione spaziale dalla zona apicale a quella basale. Questo gradiente è un indicatore dell’estinzione della luce all’interno dello spazio di chioma. In fig. 3.3.5 è rappresentato il profilo verticale della copertura di chioma di un popolamento puro di abete, in cui la curva cumulata indica che le chiome occupano circa il 75% delle celle della matrice spaziale in corrispondenza della fascia di altezza di circa 25 m. Nella curva rappresentante la somma delle chiome del popolamento, le celle di colore grigio indicano la frequenza multipla di quelle della matrice spaziale interamente occupate. 67 Fig. 3.3.5 – Profilo verticale dell’occupazione spaziale delle chiome (da Pretzsch, 2009). Gli indici di competizione delle chiome sono basati sulle relazioni delle dimensioni e della distanza tra un individuo e i suoi vicini. L’indice base dal quale sono state sviluppate differenti applicazioni, è il Crowc Competition KKL (Pretzsch, 1995; Bachmann, 1998; Pretzsch, 2009) che quantifica la competizione nello spazio relativo alle chiome. Per calcolare questo indice viene costruito, virtualmente, un cono rovesciato con angolo di apertura di 60° sull’individuo preso in esame (j) (fig. 3.3.6) che per semplicità viene nominato albero 68 centrale. Il vertice del cono viene posizionato ad un’altezza pari al 60% a quella totale dell’albero centrale. Tutti gli alberi le cui chiome cadono all’interno di questo cono virtuale vengono considerati competitori. L’indice KKL si calcola con il seguente algoritmo: 𝑛 𝐾𝐾𝐿 = � 𝛽𝑖𝑗 ∙ 𝑖=1 𝑖≠𝑗 𝐾𝑄𝐹𝑖 𝐾𝑄𝐹𝑗 dove β è l’angolo che si forma tra la linea che delimita il bordo della superficie del cono virtuale e la linea che collega la cima dell’individuo competitore i con l’apice del cono dell’albero centrale j. L’angolo β viene calcolato per tutti i competitori e trasformato in 𝜋 ∙𝛽𝑖𝑗). Dato che la competizione non è determinata solo dalle dimensioni e dalla radianti (180 distanza degli alberi vicini ma è legata anche a quelle dell’albero centrale in relazione ai suoi vicini, l’angolo β viene ponderato tramite il rapporto tra l’area della sezione della chioma dell’albero competitore i posta all’altezza dell’apice del cono (KQFi) e l’area della sezione della chioma dell’albero centrale posta all’altezza dell’apice del cono virtuale (KQFj). Valori dell’indice KKL possono variare da 0 per individui dominanti e con assenza di competitori, a valori superiori a 30 per individui dominati. Questo indice risulta di importante applicazione anche per la quantificazione della competizione nello spazio delle chiome della rinnovazione. Per meglio stimare la competizione Pretzsch propone di includere la trasmissione della luce degli alberi vicini e l’individuazione della specie o dei gruppi dei competitori. Fig. 3.3.6 – Competizione della chioma rappresentata con un cono rovesciato con angolo di apertura di 60° (da Pretzsch, 2009). 69 4. MATERIALI E METODI 4.1 Localizzazione e descrizione delle aree di studio I popolamenti oggetto della presente ricerca sono cedui di faggio abbandonati o in conversione a fustaia, situati nel versante settentrionale dei Monti della Laga. Le 13 aree sperimentali sono ubicate lungo il medio e alto versante compreso fra la Macera della Morte e il Monte Cesarotta nel suggestivo anfiteatro di Valle della Corte. Esse sono disposte lungo un gradiente altitudinale compreso fra i 1300 m slm fino al limite superiore del bosco e sono state realizzate in tempi differenti e con criteri calibrati in funzione delle peculiarità caratterizzanti le diverse situazioni. Sono aree georeferenziate con carattere permanente e, all’interno delle quali sono stati censiti e mappati tutti gli individui presenti, ad eccezione di quelli con diametri inferiore a 3 cm per le aree del limite superiore del bosco (fig.4.1.1). Le prime due, di maggiori dimensioni, sono state realizzate nell’ambito di una precedente tesi di dottorato (Renzaglia, 2008) per comprendere i dinamismi strutturali e funzionali delle faggete appenniniche ubicate al limite superiore del bosco, situato intorno ai 1800m slm. Entrambe di forma rettangolare, sono ubicate in località Valle della Corte appartenente alla zona in riserva integrale del Parco Gran Sasso-Laga; una è stata delimitata in corrispondenza dell’ecotono bosco-prateria ed ha dimensioni di circa 1.5, mentre l’altra rappresenta il bosco chiuso situato appena sotto al limite altitudinale ed ha un’estensione di circa 0.5 ha. Un secondo gruppo di aree, situate in località Maolaro, derivano da uno studio di tesi specialistica (Santini, 2008) sulla valutazione della qualità dei fusti e dell’assetto dendrometrico-strutturale dei popolamenti di faggio, in tre diverse fasi del processo di conversione (ceduo abbandonato, 1 diradamento e 2 diradamenti). Per ogni fase sono state quindi realizzate 3 aree di saggio, con diametro di 15 metri per quelle in fustaie transitorie e 12 m per quelle nel ceduo invecchiato. Le aree sono localizzate ad una distanza di 100 metri l’una dall’altra, in modo da favorire il confronto tra le diverse situazioni e per una loro migliore rappresentazione. Infine, nel 2010 sono state realizzate le ultime due aree campione, in concomitanza con il progetto LIFE NAT/IT/000371 RESILFOR (REstoringSILverfirFORest) sulla ricostituzione di boschi a dominanza di faggio con Abies alba nell’Appennino Tosco-Marchigiano, nel quale l’Università Politecnica delle Marche collabora come coordinatore scientifico per il settore marchigiano. Queste ultime sono aree circolari con 70 raggio di 20 m, ubicate in località Colle dell’Abete, unico sito nelle Marche con abete bianco di probabile origine autoctona. Fig. 4.4.1 – Localizzazione delle aree oggetto di studio. 4.1.1 Le faggete del limite superiore del bosco Le aree di saggio di Valle della Corte sono ubicate nello stesso versante (fig.4.1.1.1 a, b) con esposizione N-NO e rappresentano cedui di faggio abbandonati con la presenza di alcuni individui di sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia L.). Entrambe le aree sono caratterizzati dall’assenza di matricine confermando quanto riportato nel capitolo 2 relativamente alle gestione pregressa praticata nella zona. La prima area di saggio (ASP1) si trova in corrispondenza dell’ecotono bosco-prateria (a circa 1700 m slm) e comprende anche alcuni nuclei boscati disgiunti sopra il limite del bosco (circa 1800 m slm), ha una superficie di oltre 1,5 ha ed una pendenza media del 57%. La seconda (ASP2) ha un’estensione di circa 0,5 ha e si trova a breve distanza, in direzione sud-est, della precedente, ad un’altitudine media di circa 1700 m slm, completamente all’interno del bosco; anch’essa ha una pendenza media 71 del 57% (tab. 4.1.1). Il rilevamento dei dati dendrometrico-strutturali ed il campionamento dendrocronologico stato effettuato nel periodo tra luglio e settembre del 2006 e del 2007 rispettivamente per ASP1 e ASP2 (Renzaglia, 2008). a b Fig. 4.1.1.1 a,b - Ubicazione delle due aree di saggio permanenti nei cedui abbandonati di Valle della Corte(da Renzaglia, 2008). Parametri ASP 1 ASP 2 Coordinate vertice S/O X: 2386446,88 X: 2386712,28 Gauss-Boaga- Roma 40-Est Y: 4728341,65 Y: 4728526,51 Superficie (ha) 1,644 0,444 Esposizione Nord Nord Quota min (m slm) 1707 1686 Quota max (m slm) 1796 1718 Pendenza media % 57 57.3 Tab. 4.1.1.1 - Caratteristiche stazionali delle aree di saggio (da Renzaglia, 2008). Per comprendere meglio i processi competitivi tra i polloni all’interno delle ceppaie è stata realizzata anche un’analisi approfondita su 10 ceppaie. Sono stati utilizzati i dati di base già 72 raccolti in campo (Pesaresi, 2008) e rielaborati ad hoc ai fini della presente ricerca per meglio caratterizzare la struttura dei fusti e delle chiome dei polloni sulle ceppaie. Sono state utilizzate 10 ceppaie, 5 per ogni area di saggio del limite superiore del bosco. In ASP1 sono state scelte 3 ceppaie (nominate limite e distinte dalla lettera L) situate nella porzione inferiore dell’area e appartenenti al limite di bosco con vegetazione ancora continua e 2 (nominate nuclei e distinte dalla lettera N) tra quelle distaccate dalla zona di limite e situate nella porzione più in quota dell’area campione, dove costituiscono delle isole di vegetazione nella prateria. Le altre 5 ceppaie (distinte dalla lettera C) appartengono all’area ASP2 caratterizzata da un’elevata densità. 4.1.2 Le faggete del processo di conversione Le aree di saggio rappresentanti il processo di conversione all’altofusto sono situate in località Maolaro e sono state realizzate, nel 2008, per lo studio sulla valutazione della qualità dei fusti e dell’assetto dendrometrico-strutturale dei popolamenti di faggio in diverse fasi del processo di conversione (Santini, 2008). La zona è caratterizzata da un soprassuolo avente un’età prevalente di 65 anni, costituito quasi esclusivamente da faggio con la presenza di alcuni individui di abete bianco (Abies alba). Sono presenti 3 aree di saggio per ogni stadio del processo di conversione ubicate in tre siti vicini tra loro, ad una quota media di 1400 m slm (fig. 4.1.2.1). Esse rappresentano un ceduo abbandonato utilizzato come sito testimone (ST) (fig. 4.1.2.2); una fustaia transitoria sottoposta ad un solo taglio di avviamento nel 1974 (S1D) (fig. 4.1.2.3) ed una fustaia transitoria sottoposta ad un secondo diradamento nel 2003 (S2D) (fig. 4.1.2.4). I 3 soprassuoli appartengono rispettivamente alle sottoparticelle M93A24/2 M93A24/1, M93A28/1 del Piano Particolareggiato di Assestamento Forestale (PPAF) 2006-2015, ed i principali caratteri stazionali dei popolamenti in esame sono presentati in tabella 4.1.2.1. 73 Fig. 4.1.2.7 – Localizzazione dei tre siti di studio. Fig. 4.1.2.2 – Assetto strutturale di un’area di saggio del sito testimone (ST). Fig. 4.1.2.3 - Assetto strutturale di un’area d saggio del sito sottoposto al solo taglio d avviamento (S1D). Fig. 4.1.2.4 - Assetto strutturale di un’area di saggio del sito sottoposto a due diradamenti (S2D). 74 Pendenza media (%) 54 Altitudine media (m) ST Esposizione prevalente N S1D N 51 1455 S2D N-W 61 1325 Sito 1413 Tab. 4.2.1.1 – Principali parametri stazionali dei tre siti di studio (da Santini et al.,, 2009 modificata). 4.1.3 Le faggete miste con abete bianco Nel versante marchigiano dei Monti della Laga, l’abete bianco è presente esclusivamente nel territorio della Comunanza Agraria di Montacuto, in località Colle dell’Abete (fig. 4.1.3.1), la quale rappresenta una delle aree floristiche protette della regione Marche proprio per la presenta di questa conifera. Il popolamento è caratterizzato da un ceduo invecchiato di faggio, avente età prevalente di 65 anni, avviato all’alto fusto nel 1994 con prelievo medio di 33 m³/ha, il materiale di risulta è stato accatastato e mai esboscato per assenza di viabilità. L’abete bianco è presente quasi esclusivamente negli strati inferiori, in condizione di aduggiamento sotto le chiome dei faggi (fig. 4.1.3.2). Sono presenti anche alcuni individui dominanti che sono la testimonianza di una cenosi molto più estesa presente in passato (Orsomando, 1973; Rovelli, 1997). Spadoni (1828) in “Xilologia picena applicata alle arti” scrive che nelle Marche “La terza Abetaja molto grande e quasi intatta esiste sopra un fianco di Monte-acuto nel contado di Acquasanta” I principali caratteri stazionale delle due aree di saggio, realizzate nel 2010, sono riportate in tabella 4.3.1. Entrambi i soprassuoli delle aree sono caratterizzate da una copertura elevata (80-90%) e pendenza che nella parte più alta di ADS1 raggiunge il 100%. 75 Esposizione prevalente ADS1 N-W Sito ADS2 N-W Pendenza media (%) 60 Altitudine media (m) 61 1375 1475 Tab. 4.1.3.1 – Principali caratteri stazionali dell’area. Fig. 4.1.3.1 – Localizzazione dell’area Colle dell’Abete Fig. 4.1.3.2 – Immagine rappresentante i nuclei di abete bianco sotto la copertura del faggio. 76 4.2 Analisi della struttura orizzontale L’analisi della distribuzione spaziale è già stata eseguita nelle aree di treeline per studiare l’organizzazione delle cenosi del limite superiore del bosco appenninico ed i dinamismi di ricolonizzazione della vegetazione forestale, tramite l’analisi geostatistica (Renzaglia, 2008). In questa fase, si è proceduto ad estendere l’analisi spaziale nelle faggete miste con abete bianco. L’analisi della struttura orizzontale è riferita alla disposizione dei singoli individui (o ceppaie) all’interno dell’area di diffusione di una popolazione o di una parte di essa. Il pattern distributivo con cui un fenomeno si esplicita nello spazio è definito da due componenti: l’intensità, intesa come entità della variazione della densità numerica e la tessitura, intesa come localizzazione nello spazio degli eventuali aggregati di individui (Pielou, 1977). L’analisi della struttura spaziale può essere effettuata con metodi differenti che complessivamente sono raggruppabili in due grandi categorie: l’analisi per punti (point pattern analysis ) e l’analisi per superfici (surface pattern analysis) (Carrer, 1997; Renzaglia, 2008; Wiegand e A. Moloney, 2004). L’analisi per punti (point pattern analysis) quantifica l’intensità della distribuzione degli individui del popolamento confrontando a scala definita il numero di eventi atteso in condizioni di completa casualità con il numero di eventi di una determinata distribuzione, deducendo così se gli eventi siano più o meno concentrati rispetto al valore casuale atteso (Renzaglia, 2008). Le funzioni applicate in questo studio sono due: la Ripley’s K-function K(d), e la O-ring statistic O(r); entrambe, nel loro risultato indicano se nella distribuzione spaziale si ha aggregazione o dispersione (regolarità) e si differenziano nel metodo applicato per valutare la distribuzione degli individui a livello di popolamento. Il metodo di Ripley considera il numero di eventi attesi “entro” una determinata distanza da un evento arbitrario; il metodo O-ring considera il numero di eventi attesi “ad” una determinata distanza. Quindi a parità di raggio di distanza (r), il primo fa analisi all’interno di un’area circolare, mentre il secondo in corrispondenza di un anello (Renzaglia, 2008) (Fig. 4.1.1). Una conseguenza della funzione di Ripley è che, essendo una funzione cumulativa, non permette di discriminare fra gli effetti posti a distanza maggiore con quelli a distanza minore; 77 con l’analisi ad anello di O-ring si ha invece il vantaggio che si può isolare una specifica classe di distanza. Fig. 4.2.1 - Rappresentazione delle modalità operative della funzione K di Ripley K(d), e della O-ring statistic O(r) (da Wiegand & Moloney, 2004). La point pattern analysis è stata eseguita utilizzando il software dedicato “PROGRAMITA” sviluppato da Thorsten Wiegand, (Dept. Ecological Modelling, UFZ Centre for Environmental Research Leipzig-Halle Germany). Esso esegue l’analisi per punti applicando sia il metodo “circolare” di Ripley [K(d)] nella sua versione linearizzata [L(d)], che il metodo “O-ring” (ad “anello) di Wiegand-Moloney. Il software permette di calcolare il livello di significatività del test attraverso il confronto dei dati reali con risultati ottenuti con ripetizioni multiple tramite un particolare metodo chiamato Monte Carlo (Renzaglia, 2008). Nella presente analisi sono state applicate sempre 99 ripetizioni, così da ottenere un livello di confidenza del 5 %. Il metodo di analisi di Ripley richiede di immettere il parametro della distanza d entro la quale analizzare la distribuzione dei punti; il metodo O-ring invece, richiede il parametro di dimensione del raggio r e la distanza massima d entro la quale elaborare i dati. La misura del lato della maglia è direttamente collegato alla risposta dell’analisi, visto che tanto più grande è la maglia della griglia, tanto maggiore è il numero dei singoli individui che ricadendo all’interno della singola cella e quindi vengono considerati in blocco (Renzaglia, 2008). Per le aree oggetto di studio, si è ritenuto opportuno scegliere un lato di 1 metro. Per tener conto dell’”effetto bordo”, la distanza massima di analisi è stata fissata pari alla metà del lato più corto dell’area, applicando così una correzione basata sulla riduzione della superficie di analisi (Wiegand e A. Moloney, 2004). Il profilo dei risultati ottenuti per le 78 singole classi di distanza viene prodotto, dal programma, in un grafico che in ascissa ha le classi di distanza ed in ordinata il valore univariato linearizzato della funzione di Ripley o la funzione univariata O-ring (figg. 4.1.2 e 4.1.3). Fig. 4.1.2 - Profilo dei risultati della Ripley’s K-function (da Renzaglia, 2008). Fig. 4.1.3 - Profilo dei risultati della O-ring statistic (da Renzaglia, 2008). 79 L’analisi per superfici (surface pattern analysis) è stata effettuata con l’applicazione dell’indice di autocorrelazione spaziale I (d) di Moran, che esprime il grado di dipendenza spaziale fra gli individui analizzati. Tale indice permette di determinare la dipendenza dei valori espressi in un determinato ambito, da una variabile rispetto a quelli che la stessa variabile produce in ambiti vicini; consente inoltre di valutare, statisticamente, la tipologia distributiva degli individui nello spazio bidimensionale, in funzione di un loro carattere quantitativamente o qualitativamente definito (Renzaglia, 2008). Affinchè il numero di coppie di individui all’interno di ogni classe di distanza fornisca un valore significativo, l’analisi di autocorrelazione dovrebbe contenere almeno 20 coppie di misure, quindi è necessaria una popolazione campionaria di almeno 30 individui (Upton e Fingleton, 1985, in Renzagli, 2008). Dall’applicazione dell’indice di Moran si ottiene un valore di autocorrelazione, che è l’espressione della relazione tra gli individui per ogni classe incrementale di distanza; esso varia generalmente tra -1 e +1, ma a volte può superare tali valori. Valori positivi esprimono autocorrelazione spaziale positiva, indice di aggregazione di valori alti o bassi come espressione di diffusione; valori negativi esprimono autocorrelazione spaziale negativa, indice di vicinanza di valori alti a valori bassi come espressione di competizione. In assenza di autocorrelazione il valore atteso di I(d) si approssima a zero quanto più numeroso è il campione. I valori degli indici ottenuti vengono riportati in grafici detti correlogrammi (ottenuti tramite l’utilizzo del software SIGMAPLOT) dove l’ordinata è espressione del valore e l’ascissa indica le classi di distanza a cui è stata eseguita l’analisi (fig. 4.1.4). I valori significativi vengono riportati nel grafico con punti di colore differente da quelli non significativi. L’andamento delle curve ottenute esprime il tipo di distribuzione che la variabile presa in questione ha nel popolamento considerato (Renzaglia, 2008). Oltre all’indice di Moran, è possibile applicare la statistica di tipo locale, chiamata Local G* (Getis e Ord, 1992, 1996), che fornisce un indice di associazione spaziale di un set di osservazioni che ricadono entro una distanza critica “d”, scelta in relazione all’andamento dell’indice di Moran, espresso dal correlogramma e dalla sua significatività a partire da ciascun evento della distribuzione (Carrer, 1997; Renzaglia, 2008). Valori positivi o negativi di G* indicano la presenza di aggregazione in corrispondenza dei valori rispettivamente più alti 80 (autocorrelazione positiva) o più bassi (autocorrelazione negativa) della variabile scelta (Sokal, et al., 1998). Il risultato è un valore di indice associato ad ogni evento e quindi associato ad un preciso punto con coordinate (x;y). L’indice di Moran esprime il valore di autocorrelazione globale del popolamento, per una determinata variabile, a determinate distanze; invece l’indice di Getis esprime il valore di autocorrelazione locale, ovvero relativo di ogni punto localizzato a determinate distanze. Quindi mentre Moran associa ad ogni classe di distanza un valore che è espressione di tutto il popolamento, Getis associa il suo valore a ogni singolo punto. Per la “Surface Pattern analysis” è stato utilizzato il programma ROOKCASE che permette sia di calcolare l’Indice di Moran I(d) sia di eseguire l’analisi tipo LISA (Local Indicators of Spatial Assotiation) utilizzando la Local Getis-Ord Statistics [Gi e Gi*] (Renzaglia 2008). Fig. 4.1.4 – Esempio di correlogramma di Moran. 4.3 Analisi della struttura verticale Gli indici descritti nel capitolo 3 sono stati sviluppati ed applicati soprattutto negli Stati Uniti ed in Germania. In Italia sono stati elaborati ed applicati indici riguardanti soprattutto la struttura orizzontale mentre esistono pochissimi lavori sulla struttura verticale (Bianchi, et al., 2005a; Marzano, 2005; Marziliano, et al., 2009). Peraltro non sono stati individuate applicazioni ai boschi cedui. In questo studio l’obiettivo specifico è quello di analizzare la struttura verticale delle faggete di origine agamica della Laga marchigiana, con il fine di valutarne la valenza sia in termini produttivi, sia ecosistemici, in considerazione delle specifiche funzioni che attualmente sono attribuibili a queste formazioni, mediante l’utilizzo 81 di alcuni degli indici riportati in letteratura in particolare quelli che considerano anche la funzione ecologica delle chiome. Le interazioni tra i vari elementi strutturali sono state esaminate anche tramite l’applicazione dei semplici indici statistici come la deviazione standard, la media, il coefficiente di variabilità e le correlazioni in quanto potrebbero essere di aiuto nella comprensione del significato di determinati processi. A livello di singolo individuo di ogni area di studio, le correlazioni sono state eseguite tra i seguenti parametri strutturali: • altezza totale e profondità di chioma • altezza totale e area di proiezione della chioma • profondità della chioma e area di proiezione della chioma • profondità della chioma e rapporto di snellezza • diametro del fusto (dbh) e diametro massima della chioma Successivamente per ognuna delle tre zone esaminate sono stati applicati i seguenti indici: • CHD Crown Height Diversity (Spies e Cohen, 1992) Tra i vari indici che si basano sull’interazione di attributi il CHD è quello che da maggiore importanza alla struttura verticale dell’intero popolamento. Esso si basa sull’assunzione che un albero occupa un volume di spazio ecologico definito come cilindro immaginario situato intorno ad ogni individuo, avente altezza corrispondente a quella dell’albero e il diametro a quello della chioma. Il CHD è calcolato tramite le seguenti formule: N dove: CHD = � Pi ∗ Hi i i=1 Hi è l’altezza relativa della classe di altezza i, calcolata dalla divisione del limite maggiore della classe di altezza più alta con il limite maggiore di quella più bassa; N è il numero delle classi di altezza; Pi è il punteggio della copertura della classe di altezza appartenenti alla classe iesimo, basata sulla proporzione della superficie del terreno coperta dalle chiome degli individui del medesimo strato. Esso è calcolato come: 82 𝑃𝑖 = � 𝐶𝑖 /0.7 𝑝𝑒𝑟 𝐶 < 0.7 (𝑠𝑜𝑔𝑙𝑖𝑎) 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 1 𝑝𝑒𝑟 𝐶 ≥ 0.7 dove Ci è l’area orizzontale della chioma di un albero all’interno della classe di altezza i e 0.7 è la soglia di proporzione della superficie del terreno che indica la superficie di suolo coperta dall’area di chioma in cui si considera che la classe di altezza abbia raggiunto la sua piena occupazione. Se Ci è superiore a 0.7, Ci viene sostituito dal valore 1 (Pi), se invece è inferiore a 0.7 allora viene diviso a sua volta per 0.7. Il risultato di quest’ultima divisione rappresenta il valore Pi se anch’esso è inferiore a 0.7 altrimenti, anche in questo caso viene sostituito dal valore 1. Ci è calcolata come: ∑𝐾 𝑗=1 𝐴𝑗 𝐶𝑖 = 𝐴𝐺 dove: Aj è l’area orizzontale della chioma dell’albero iesimo della classe di altezza i AG è la superficie dell’area di saggio K è il numero degli alberi della classe di altezza i La soglia di proporzione della superficie del terreno dell’equazione può variare da < 0.1 a 1.0 e nel caso delle fustaie di faggio gestite in modo irregolare o disetaneiforme è stata ipotizzata pari a 0.7. Come già detto un limite importante di questo indice è che non considera la profondità delle chiome ma solo la loro area di insidenza. Tra gli indici derivanti dalla formula di Shannon, in tutte le aree di studio sono state applicate le seguenti elaborazioni: • Vertical Evenness (Neumann e Starlinger, 2001): 3 𝑉𝐸 = �(− log 𝜋𝑖 ) 𝑖 𝜋𝑖 𝑙𝑜𝑔3 dove πi è l’area di chioma relativa a tutti gli individui dello strato di altezza ith calcolato come rapporto tra l’area della proiezione delle chiome di uno strato ith e l’area della proiezione delle chiome dell’intero popolamento. 83 Dato che nelle aree in esame non è presente, in modo significativo, uno strato dominato caratterizzato dalla rinnovazione o dagli arbusti, il soprassuolo è stato diviso in 3 classi di altezza eliminando quella inferiore al 20% dell’altezza dell’individuo più alto. • L’indice A per il profilo verticale delle specie (Pretzsch, 1998). Esso prende in considerazione la proporzione delle specie e la loro presenza in differenti strati di altezza, corrispondenti all’80 e al 50% dell’altezza massima del popolamento. L’indice A viene calcolato con il seguente algoritmo: 𝑆 𝑍 𝐴 = − �. � 𝑝𝑖𝑗 ∗ ln 𝑝𝑖𝑗 𝑖=1 𝑗=1 dove: S è il numero di specie presenti nel popolamento Z è il numero delle zone o classi di altezza (3 in questo caso) pij è la porzione di specie in relazione alla popolazione totale ed è calcolato come 𝑝 dove: 𝑖𝑗= 𝑛𝑖𝑗 𝑁 ni è la frequenza delle specie i nella zona j N è il numero totale degli individui. Un limite dell’indice di Pretzsch è che non considera il fattore delle chiome, quindi è stato modificato introducendo nell’algoritmo una classificazione relativa della profondità di chioma: ʹ S 𝑍 𝐶 A − Crown = − �. �. � 𝑝𝑖𝑗𝑘 ∗ ln 𝑝𝑖𝑗𝑘 i=1 j=1 𝑘=1 In questo modo si valuta la proporzione delle specie (S), la loro presenza in differenti strati di altezza (Z) e la classe di profondità di chioma di ogni individuo (C). La profondità di chioma relativa è stata calcolata come il rapporto tra la lunghezza della chioma e l’altezza totale dell’albero, creando quindi tre differenti classi di profondità: la prima va da 0 a 0.39, la seconda da 0.4 a 0.69 e la terza da 0.7 a 1.0. È stato possibile 84 introdurre questo tipo di divisione perché le varie prove effettuate hanno dato risultati indipendenti dal numero di classi realizzate. Sia il Vertical Evenness e sia gli indici A e A-Crown possono essere calcolati come frequenza di individui oppure di area basimetrica. Secondo Fiala (2003) è preferibile usare la densità ponderata con l’area basimetrica rispetto al numero degli individui, perché questi ultimi non danno un peso maggiore agli alberi di grandi dimensioni. Quanto detto è stato esplicitato anche da Staudhammer and LeMay (2001) che per meglio rappresentare l’uso delle risorse hanno anch’essi utilizzato l’area basimetrica, riconoscendo che gli alberi più grandi hanno una maggiore influenza sulla diversità strutturale. In questo studio l’utilizzo della frequenza di area basimetrica è di difficile applicazione perché vengono confrontati popolamenti costituiti sia da ceppaie che da individui monocormici, perciò l’area basimetrica di questi ultimi non può essere confrontata con quella delle ceppaie, data dalla somma delle singole superfici dei polloni che la costituiscono. Ciò deriva dal fatto che si è scelto di considerare come unità ecologica la ceppaia e non i singoli polloni perché le analisi sul ceduo sono particolarmente complesse in virtù della sua struttura endogena, caratterizzata da sistemi di individui (la ceppaia con i polloni) di cui non è sempre chiaro il funzionamento ed il ruolo univoco nella cenosi di riferimento. Inoltre la prevalente presenza di ceppaie conferisce al bosco ceduo una valenza sia standardizzante sia inerziale: da un lato si perde infatti l’apporto della diversità individuale di tipo genetico, dall’altro ogni ceppaia porta con sé (e quindi nei polloni che la costituiscono) una storia biologica che condiziona la capacità auxologica e di adattamento ecosistemico di ogni famiglia di polloni (Renzaglia, 2008). In tutte le zone oggetto di studio è stato applicato l’algoritmo TSTRAT che ipotizza una stratificazione degli individui di un popolamento in base alla determinazione di un’altezza limite di competizione (Cut-off height). Quest’ultima delimita lo spazio verticale in cui avviene la parte principale della fotosintesi, in quanto maggiormente interessata dalla luce e corrispondente alla porzione superiore della chioma. Quindi la competizione si ha quando l’area fotosintetica primaria delle chiome di alberi vicini è posizionata nello stesso spazio di acquisizione della luce. L’algoritmo individua le zone limite di competizione tramite la seguente formula: CH = 0.60 * CL + HBLC 85 dove CH (Cut-off height) indica l’altezza limite di competizione, CL (Crown Length) rappresenta la profondità di chioma e HBLC (Height to Base of Life Crown) il valore di altezza d’inserzione della chioma. L’algoritmo viene applicato agli individui ordinati in modo decrescente in funzione dell’altezza e della profondità di chioma. Quelli con altezza uguale o superiore al valore CH di competizione vengono classificati nello stesso piano; quando invece l’altezza è inferiore al valore limite trovato, viene calcolato un nuovo strato sulla base dell’albero più alto rimasto e avente la chioma più profonda. Questo processo è stato reiterato fin quando tutti gli alberi sono posizionati in strati verticali fino al raggiungimento dello strato limite inferiore ai 10 metri ad eccezione per le aree con abete bianco dove sono presenti molti individui con altezza inferiore. Questa soglia è stata decisa in base al principio della competizione luminosa per la fotosintesi primaria, infatti la presenza di ulteriori strati posizionati sotto ai 10 m di altezza non permette comunque tale processo perché i popolamenti in esame sono costituiti prevalentemente dal faggio, la cui chioma densa rende difficile la penetrazione della luce negli strati sottostanti. Invece, la realizzazione di più strati ha maggior valore ecologico nei boschi di conifere multistratificati le cui chiome permettono alla luce di arrivare fino agli alberi dominati. Il valore di 0.6 è stato dedotto dagli studi realizzati da Pretzsch (2009) sui modelli di chioma ed indica che nel faggio la fotosintesi primaria avviene nella porzione superiore della chioma corrisponde al 40%. Oltre al TSTRAT si è provato ad applicare anche l’algoritmo di stratificazione di Baker e Wilson (2000) che identifica le discontinuità nella distribuzione verticale, confrontando l’altezza di un albero con l’altezza media d’inserzione delle chiome degli alberi più alti. Nell’applicazione di tale indice si sono riscontrate difficoltà derivanti soprattutto dalla differente tipologia dei boschi esaminati rispetto a quelli appenninici. È stato fatto un tentativo di calibrazione tramite il calcolo del coefficiente di variabilità (CV) delle altezza massime dei 24 popolamenti studiati dagli autori, risultando pari al 36,2%. Il valore di altezza minimo di tali popolamenti è di 22 m per quercia e Thuja e quello massimo è di 77 m per Abete di Douglas/tuia occidentale. Successivamente si è proceduto nel calcolo del CV delle altezze massime dei differenti popolamenti studiati nel versante della Laga marchigiana (AP) tramite le 13 aree campione, il cui risultato è stato pari a 8,5%. In modo proporzionale ai dati di Baker e Wilson, è stato dedotto un coefficiente di sovrapposizione per i popolamenti appenninici in esame dello 0,9% dell’altezza massima del soprassuolo, mentre quello 86 applicato nell’indice originale è pari al 4%. Nonostante la riduzione del coefficiente di sovrapposizione delle chiome, tale algoritmo non può essere comunque applicato ai boschi oggetto di studio in quanto dell’articolo di Baker e Wilson (2000), si deduce le loro foreste sono costituite da individui con differenze di altezza tali da permettere una stratificazione completa delle chiome. Quanto detto è rappresentato dalla figura n. 2 di pagina 82 della loro pubblicazione dove la maggior parte degli alberi hanno una chioma presente ad un’altezza superiore ai 2/3 del fusto, mentre i popolamenti appenninici oggetto di studio sono caratterizzati dalla dominanza del faggio, che essendo una specie sciafila ha una chioma più profonda rispetto a quelle eliofile (Lorimer, 1983) e quindi crea una distribuzione continua delle foglie lungo il profilo verticale (Latham et al., 1998). Infatti la profondità delle chiome delle specie sciafile abbassa il valore medio d’inserzione della chioma, creando una maggiore sovrapposizione ed impedendo la distinzione di strati differenti. Infine, nelle aree di studio del limite superiore del bosco sono state analizzate le dinamiche strutturali di competizione e sviluppo tra i polloni che costituiscono la ceppaia. Sono stati elaborati i dati reperiti durante la realizzazione della tesi di laurea triennale (Pesaresi, 2008) che aveva l’obiettivo di valutare, tramite l’analisi dendrocronologica, l’influenza dei fattori esogeni ed endogeni caratterizzanti lo sviluppo dei polloni e delle ceppaie al limite superiore del bosco e la capacità di adattamento del faggio a differenti condizioni limitanti. In particolare per ognuna delle due aree di saggio permanenti sono state scelte 5 ceppaie tra quelle più rappresentative per conformazione e struttura. Nell’area ADS1, rappresentante l’ecotono bosco-prateria, due delle cinque ceppaie scelte (nominate nuclei) appartengono a quelle distaccate dalla zona di limite e rappresentanti delle isole di vegetazione arborea nella prateria, mentre le altre tre rimanenti, nominate limite, sono localizzate nella zona con vegetazione ancora continua. Per ogni pollone costituenti le 5 ceppaie sono stati misurati i seguenti parametri dendrometrico-strutturali: • Diametro alla base • Diametro a 1.30m • Altezza totale • Altezza inserzione chioma • Stato vegetativo • Proiezione lineare delle chiome secondo le quattro direzioni ortogonali (N,S,E,W) • Età tramite il prelievo con trivella di Pressler di campioni legnosi (carote). 87 4.4 Analisi della struttura cronologica e dendrocronologica L’analisi della struttura cronologica e quella dendrocronologica sono state effettuate attraverso il prelievo di campioni legnosi (carote con sezione circolare di circa 5 mm di diametro) utilizzati per conoscere sia l’età degli individui e sia le loro dinamiche di accrescimento in relazione alla variabilità climatica dell’ultimo secolo e ad altri fattori di disturbo come gli interventi selvicolturali. Oltre alla costruzione di cronologia media rappresentativa dei cedui di faggio del limite superiore del bosco, si vogliono confrontare gli andamenti di crescita e le relazioni clima – accrescimento in funzione della posizione sociale occupata dalle ceppaie e a quella topografica di alcune di esse, in riferimento ai nuclei più isolati ed in quota. Per quanto riguarda le aree miste con abete bianco, situate in località Colle dell’Abete, in questo lavoro verranno presentati solo i risultati relativi alla struttura cronologica degli abeti, rappresentata in base alla classe sociale (dominante, codominante, intermedio e dominato). Le carote utilizzate per le analisi elencate per le aree della Valle della Corte, sono state prelevate, durante i rilievi del 2006 e 2007 in una fase iniziale della ricerca, dal fusto del pollone dominante di ogni ceppaia tramite trivella di Pressler, ad un’altezza di 130 cm da terra. In ASP1, caratterizzata da una minore densità di copertura, sono stati carotati tutti i polloni dominanti delle ceppaie presenti per un totale di 354 carote. In ASP2, per il maggior numero di ceppaie presenti e la maggiore omogeneità dimensionale degli individui, è stato effettuato un campionamento stratificato e calibrato sulla distribuzione di frequenza dei diametri prelevando 164 carote su 635 ceppaie (circa 26%) (Fig. 4.4.1). 300 N dominanti n. individui 250 N dominanti campionate 200 150 100 50 0 5 10 15 20 25 30 35 40 Diametro (cm) Fig. 4.4.1 - Distribuzione di frequenza dei polloni dominanti presenti in ASP2 e di quelli sottoposti a carotaggio di Pressler (Renzaglia, 2008). 88 Per ogni individuo campionato è stata estratta una sola carota collocata in appositi supporti legnosi e temporaneamente fissata con nastro di carta adesiva. Ad ogni carota è stata assegnata una stringa identificativa di 8 caratteri, trascritta sul supporto, che fornisce indicazioni sulla località (es. A per l’area APSA1 e B per ASP2), sulla specie (es. FS = Fagus sylvatica), sulla pianta di origine con un numero progressivo a 4 cifre e sulla direzione di prelievo (M=monte; V=valle; D=destra; S=sinistra). In laboratorio le carote sono state definitivamente fissate ai propri supporti con colla vinilica, facendo attenzione ad allineare l’inclinazione delle fibre in modo perpendicolare al supporto in entrambe le estremità. I campioni sono stati sottoposti ad una levigatura meccanica e successivamente ad una rifinitura manuale con carte abrasive a grana progressivamente più fine (180, 320,400 grani per cm2), tale da rendere massima la definizione degli anelli al binoculare. Nella fase precedente della ricerca tale materiale era stato in parte sottoposto al solo conteggio degli anelli per una stima preliminare delle età dei faggi ed ha costituito la base per poter effettuare le successive analisi dendrocronologiche e dendroclimatiche necessarie per determinare i dinamismi di accrescimento del faggio, in relazione alla variabilità climatica dell’ultimo secolo e ad altri fattori di disturbo come ad esempio gli interventi selvicolturali. Ai fini di questa tesi tutte le carote legnose sono state ricontrollate, se necessario sottoposte ad un’integrazione di levigatura. In totale sono state misurate 518 carote per un totale di più di 31000 anelli. Il conteggio degli anelli e la misurazione della loro ampiezza sono stati effettuati (con la precisione di 0.01 mm) con il sistema ottico semi-automatico LINTAB (Rinntech, Germany) (fig. 4.4.2) costituito da un binoculare con crocefilo ed un piano mobile i cui spostamenti, corrispondenti alle ampiezze anulari espresse in 1/100 mm, vengono registrati dal software collegato TSAPWin 0.55 (Rinntech, 2003). Fig. 4.4.2 - Sistema integrato per la misurazione e l’analisi degli anelli legnosi 89 Ogni serie misurata deve essere sottoposta ad una verifica della misura ed alla successiva sincronizzazione. La verifica è fondamentale per individuare e correggere eventuali errori di misurazione sia dovuti all’operatore (anelli non misurati presenti a causa della ridotta ampiezza oppure misurati due volte), che alla presenza di falsi anelli o incompleti. Questa viene effettuata tramite il software TSAPWin che consente di rappresentare a video ogni serie di ampiezze anulari di un campione e di confrontare, sulla stessa schermata, due o più serie dello stesso individuo o di individui diversi. L’individuazione di errori è facilitata dalla presenza di anni o periodi caratteristici nelle serie, i quali rappresentano punti di riferimento di confronto. Queste operazioni di controllo consentono di effettuare anche la fase di sincronizzazione o interdatazione (crossdating) che consiste quindi nel confronto delle serie misurate tramite il loro scorrimento fino alla loro sovrapposizione in punti comuni, permettendo di assegnare ad ogni anello l’esatto anno di formazione (fig. 4.4.3) Fig. 4.4.5 – Esempio della ricostruzione di una cronologia tramite l’impiego di numerosi campioni prelevati in aree differenti (Fritts, 1976 in Magnani, 2007). La sincronizzazione è una delle operazioni fondamentali, in quanto rappresenta la distinzione tra dendrocronologia e semplice misurazione di ampiezze anulari (Fritts, 1976). La sincronizzazione è possibile perché alberi che crescono in condizioni ambientali simili tendono a registrare negli anelli risposte simili alle variazioni dei fattori ambientali, 90 soprattutto climatici, la cui individuazione risulta facilitata se i fattori agenti sono limitanti (Fritts, 1976). L’interdatazione può essere fatta o tramite confronto visivo delle serie o con analisi statistiche. Entrambi i metodi offrono una valutazione quantitativa e qualitativa della dinamica di accrescimento delle serie, sia a livello di singoli anelli (anello o anno caratteristico positivo o negativo), sia di sequenze particolari (brusche variazioni di accrescimento positive o negative) (Kaennel, Schweingruber, 1995, in Carrer, 1997). Il confronto statistico è espresso da vari parametri ed in questo studio è stato utilizzato il CDI (Cross Date Index), derivante dalla combinazione del Glk (Gleichläufigkeit), test non parametrico che tiene conto dell’andamento degli anelli ma non della loro ampiezza, ed una specifica applicazione del t di Student, sensibile invece ai valori estremi (Rinntech, 2003). La sincronizzazione è ritenuta significativa con CDI>10. Nonostante lo sviluppo di procedure automatiche per la sincronizzazione il giudizio finale viene sempre stabilito sulla base dell'analisi visiva e dell’esperienza dell’operatore (Carrer, 1997). Ogni cronologia presenta caratteri peculiari che possono essere opportunamente quantificati con specifici parametri statistici, utilizzabili per confronti ed analisi interseriali. Fra questi, alcuni hanno particolare importanza e sono: la lunghezza della serie, la media e la deviazione standard delle ampiezze anulari, la sensitività media ed il coefficiente di autocorrelazione seriale. La sensitività media (SM) misura la variazione media di ampiezza fra due anelli successivi di una determinata serie (Fritts, 1976); biologicamente evidenzia le capacità reattive della pianta alla variazioni interannuali (variazioni ad alta frequenza) dei fattori ecologici presenti (Corona, 1996). La SM assume valori compresi tra 0 e 2; in realtà i valori che solitamente si riscontrano oscillano tra 0.1 e 0.5. Per valori di SM inferiori a 0.25, la specie è definita compiacente, cioè poco o per nulla reattiva alle variazioni dei fattori ambientali; per contro specie con SM superiore a 0.25 vengono definite sensitive, cioè molto reattive. All’interno di una stazione ogni specie presenta valori di SM caratteristici e ciò rappresenta un indice dell’adattabilità della specie alle condizioni ambientali. Il coefficiente di autocorrelazione seriale di primo ordine (AC) stima la presenza di trend o varianza a bassa frequenza nella serie, cioè valuta l’ampiezza dei fenomeni inerziali di accrescimento legati ai processi fisiologici pluriennali propri delle piante (Fritts, 1976). 91 4.4.1. Descrizione della dinamica di accrescimento e dei fattori che la influenzano La formazione dell'anello annuale di accrescimento è determinata da fattori interni ed esterni alla pianta. I meccanismi di azione di questi fattori sono i più variabili, sia a livello spaziale sia temporale. Essi possono infatti agire sul singolo individuo, su gruppi o, in modo più o meno uniforme, sull'intera popolazione variando la loro azione da un anno all'altro, da un mese al successivo o a scala temporale ancora più ridotta (Fritts, 1976). I fattori interni sono prevalentemente legati alle caratteristiche genetiche dell'individuo o della popolazione e riguardano ad esempio, l'entità e le annate di fruttificazione o la produttività della pianta. I fattori esterni sono invece molteplici e la loro azione, caratterizzata da estrema variabilità spazio-temporale, può interessare sia il singolo soggetto sia la totalità degli individui. Essi possono essere di carattere climatico (variazioni annuali o mensili dei valori di temperature e precipitazioni, eventi particolari quali siccità, gelate tardive), geologico (eruzioni vulcaniche, terremoti), geomorfologico (fenomeni franosi), idrologico (variazioni del livello di falda, esondazioni fluviali), biologico (fenomeni competitivi, attacchi di insetti), antropico (pratiche selvicolturali, inquinamento, disturbo), ecologico (evoluzione strutturale o compositiva della foresta, eventi perturbativi). Tale lista di fattori, decisamente incompleta, evidenzia come le informazioni contenute negli anelli di accrescimento possano costituire un'importante supporto nello studio dei cambiamenti ambientali, sulle dinamiche di popolazione e dell'ecologia delle singole specie. L'ampiezza dell'anello annuale di accrescimento è pertanto indicatrice fedele dell’azione, sinergica o antagonista, dei diversi fattori che influenzano le attività fisiologiche e la crescita della pianta stessa (Carrer, 1997). Scopo principale quindi dell'analisi dendroecologica è quello di individuare, il segnale attribuibile ad un determinato fattore. Una serie cronologica deve essere infatti considerata come una aggregazione di informazioni che diventano segnale o rumore unicamente nel contesto dell'ipotesi di ricerca prescelta (Cook, 1990). La variabilità di accrescimento di ogni anello legnoso nella serie può essere quindi considerato un processo determinato dalla combinazione di più fattori e rappresentabile con un modello lineare aggregato che considera una cronologia elementare come una sommatoria di più componenti non quantificate (Cook, 1990): Rt = At+Ct+δD1t+δD2t+Et dove : 92 Rt = ampiezza dell’anello legnoso At = età della pianta Ct = fattori climatici D1t = fattori di disturbo endogeni (trofismo, competizione, ecc.) D2t = fattori di disturbo esogeni (agenti patogeni, danni meccanici, ecc.) Et = variabilità di altra natura (es. errore di misurazione) t = anno i-esimo δ = indicatore binario 1 se il segnale di disturbo è presente, 0 se il segnale di disturbo è assente. I vari componenti sono spiegati in modo esaustivo da Carrer (1997) il quale indica che At rappresenta la variabilità del processo di crescita, non stazionario, che riflette in parte la stretta relazione geometrica tra ampiezza anulare e dimensioni del fusto. Quando questo vincolo è la principale componente del trend, At assume un andamento di tipo esponenziale negativo in funzione del tempo che è tipico negli individui che crescono isolati o sottoposti a minime interazioni competitive. Ct rappresenta il segnale dovuto all'azione sinergica di tutte le variabili ambientali collegate al clima fra cui le precipitazioni, le temperature, la quantità di energia incidente e la disponibilità idrica del suolo. Si presuppone che tali parametri siano omogenei in un intorno abbastanza ampio della stazione considerata, e che quindi tutti gli individui arborei siano influenzati in modo analogo dallo stesso gruppo di variabili prese in esame. I parametri climatici utilizzati in questo studio comprendono le medie mensili di precipitazioni e di temperatura media, massima e minima. Alle componenti D1t e D2t è associato un indicatore binario di presenza o assenza ad un determinato periodo di tempo. D1t raccoglie tutti i fattori endogeni di disturbo, derivanti cioè dai processi di dinamica forestale come la competizione, i traumi accidentali, la sostituzione a scala individuale. Sono compresi anche tutti gli interventi selvicolturali a carattere selettivo che interferiscono solo sui fattori microambientali agenti sui singoli individui. Una proprietà delle perturbazioni endogene, fondamentale ai fini della disaggregazione della serie, è la casualità spazio-temporale degli eventi in aree forestali di sufficiente ampiezza. Questo implica una probabile assenza di correlazione tra "impulsi" perturbatori registrati negli anelli di individui arborei diversi. D2t rappresenta invece il segnale connesso ai fattori di disturbo esogeni la cui azione, normalmente si esplica in ambito geografico relativamente ampio; questi fattori sono rappresentati dal fuoco, dagli 93 insetti, dall'inquinamento o da altri eventi connessi a particolari condizioni meteorologiche come bufere di vento o neve, gelate eccezionali, esondazioni ecc. Caratteristica peculiare di questo gruppo di perturbazioni, discriminante nei confronti con le precedenti (D1t), è il sincronismo dell'evento in tutti gli individui della stazione. Et infine, corrisponde alla varianza residua non spiegata dalle altre variabili del modello. Può dipendere dalla diversità microtopografica o da errori di misurazione ed esprime il segnale aleatorio presente in ogni serie, poiché tendenzialmente privo di autocorrelazione seriale e spaziale in e tra individui differenti. Alcuni di questi fattori descritti hanno un’azione continua come l’età e il clima, mentre altri discontinua (perturbazioni esogene, endogene) e nelle serie anulari ognuno di questi produce segnale (signal) o rumore (noise) che possono essere opportunamente evidenziati o rimossi (varianza di alta e bassa frequenza). Scopo principale dell’analisi dendroecologica è discriminare il segnale di interesse dal rumore di fondo rappresentato da tutti gli altri segnali, irrilevanti ai fini dell’analisi. 4.4.2. Standardizzazione delle serie cronologiche e analisi dendroclimatica Nell’analisi dendroclimatica che si sta per descrivere, l'obiettivo principale è isolare ed evidenziare il segnale climatico (Ct). Ciò implica l’eliminazione, o almeno il miglior controllo possibile, di tutti gli altri segnali che in questo caso diventano interferenze (Fritts, 1976). Per effettuare questa operazione risulta necessario definire e successivamente rimuovere, per ogni serie, il trend di crescita che essa evidenzia. Questo, utilizzando i parametri dell’equazione che esprime il modello lineare aggregato, può essere definito con la seguente funzione generale: Gt = f(At, +δD1t+δD2t ) dove Gt, rappresentante il trend di crescita stimato, dipende in parte da processi deterministici legati all'età ed in parte da processi stocastici rappresentati dagli impulsi perturbatori eventualmente presenti (Cook, 1990). In dendrocronologia la standardizzazione costituisce la procedura volta ad eliminare la componente Gt dalle serie cronologiche (Fritts, 1976). Essa consiste nel calcolo del rapporto tra ogni valore anulare misurato ed il relativo valore atteso stimato attraverso Gt. Il risultato ottenuto è il valore anulare indicizzato: 94 It = Rt/Gt Nel calcolo degli indici si preferisce calcolare la divisione tra Rt e Gt e non la sottrazione poiché le serie cronologiche sono eteroscedastiche presentano cioè, in intervalli arbitrari della serie, una varianza generalmente proporzionale alla media. Le cronologie standardizzate ottenute presentano un valore medio intorno ad 1 ed una varianza omogenea in tutta la serie; ciò consente il confronto tra i vari individui con tassi di crescita differenti dovuti all’età e ad altre cause (Carrer, 1997). Gli individui con un tasso di crescita ridotto, sottoposti per esempio a stress climatico, sono spesso una fonte di informazioni migliore rispetto ai soggetti con ritmi di accrescimento più elevati ed è per questo motivo che le analisi dendroclimatiche vengono realizzate con popolamenti che costituiscono la treeline. Nella costruzione delle cronologie medie per le analisi climatiche, la media delle ampiezze degli anelli deve essere realizzata dopo aver applicato la standardizzazione, che consente di uniformare la media e la varianza di ogni curva assegnando così lo stesso peso ad ogni individuo (Cook, et al., 1990a). Se infatti si mediassero semplicemente le ampiezze degli anelli, la varianza delle serie ottenute sarebbe determinata prevalentemente dagli individui a crescita maggiore, i cui anelli presenterebbero le fluttuazioni più ampie ma risulterebbero anche i meno influenzati dal clima (Carrer, 1997). La standardizzazione è quindi una procedura fondamentale per le successive analisi dendrocronologiche, in particolare quando il segnale di interesse è legato al clima (Ct). Particolare attenzione deve essere posta perciò, alla misurazione degli anelli (Rt) e, soprattutto, all’individuazione del miglior modello estimativo per la curva di accrescimento (Gt). I numerosi metodi per la definizione di Gt possono essere suddivisi in due categorie: metodi deterministici e stocastici. I primi utilizzano modelli matematici che esprimono geometricamente l’andamento della crescita radiale da sottrarre alle serie in esame. Il più semplice tra i modelli deterministici è quello lineare, che per la stima dell'andamento di crescita della pianta implica il calcolo di una regressione lineare semplice. Molto più diffusi sono i modelli che utilizzano una curva esponenziale negativa, i quali nelle loro diverse forme, riescono a stimare non solo il declino dovuto all'aumentare dell'età ma anche l’incremento della fase giovanile. In linea di principio si può affermare che l'applicazione dei suddetti metodi risulta più appropriata per individui giovani, con un forte trend di crescita, e 95 per soggetti cresciuti in condizioni ottimali in formazioni molto aperte (Cook, et al., 1990a; Cook e Kairiukstis, 1990) La determinazione e la successiva modellizzazione di un trend di crescita con una funzione matematica in individui e popolamenti forestali non è compito facile. Molto spesso infatti, nella vita di un albero si sovrappongono perturbazioni di natura casuale i cui effetti si protraggono nel medio-lungo termine rendendo difficile, se non impossibile, l’applicazione di un predeterminato modello matematico che spieghi la dinamica di accrescimento dell'individuo. Spesso si deve quindi ricorrere a procedure più idonee per la stima di Gt e per questo motivo i metodi stocastici sono da preferire, perché la loro caratteristica principale è quella di essere maggiormente adattabili (Carrer, 1997). La loro utilità si evidenzia soprattutto, quando sono chiaramente visibili gli effetti di più fattori di disturbo, sotto forma di variazioni repentine o anomale nelle cronologie individuali e nei principali caratteri statistici che le caratterizzano (ampiezza, media, varianza, ecc.). I metodi stocastici utilizzano generalmente dei filtri a bassa frequenza, che sono molto più adattabili ai dati e permettono di considerare non soltanto il fattore età (At) ma anche δD1t e δD2t, cioè i fattori di disturbo (Cook, et al., 1990b; Fritts, 1976). In conclusione la stima e la rimozione del trend di crescita dalle serie cronologiche possono essere compiuti con diverse modalità ed ogni volta deve quindi essere scelto il metodo migliore in funzione degli obiettivi della ricerca, cioè del segnale che si è interessati ad evidenziare. Per i motivi precedentemente discussi, i metodi stocastici sono da preferire, ma proprio perché più adattabili essi presentano degli svantaggi, che vanno dalla soggettività della scelta del metodo al fatto che possono eliminare, oltre al rumore, anche parte del segnale ricercato (Carrer, 1997). Per lo studio dendroclimatico la standardizzazione dei dati è stata eseguita con il software ARSTAN (Cook, 1985). Lo scopo è di massimizzare il segnale climatico attraverso la rimozione del “rumore” rappresentato dai fattori non climatici che influiscono sulla formazione dell’anello; tra questi il principale è legato alla riduzione, per motivi esclusivamente geometrici, dello spessore dell’anello all’aumentare dell’età della pianta. Nel rumore sono compresi anche altri fattori, sia antropici (interventi selvicolturali) che naturali (attacchi patogeni o di insetti, frane, caduta di massi, fulmini etc.). In seguito alla standardizzazione si avranno serie uniformi tra loro, dove ogni individuo contribuisce in modo uguale alla costruzione della cronologia media. 96 La standardizzazione utilizza una serie di filtri a frequenza diversa; infatti una serie di ampiezze anulari può essere assimilata ad un’onda generata dalla sovrapposizione di un certo numero di onde monocromatiche caratterizzate da una certa frequenza. Queste onde indicano le variazioni a diversa frequenza che derivano dall’azione di diversi fattori (Gallucci, 2009). La tecnica di filtraggio utilizzata durante la standardizzazione consiste proprio nel processo di separazione delle diverse frequenze. Si possono quindi distinguere tre classi principali di filtri digitali (Fritts, 1976): a. filtri a bassa frequenza, che lasciano passare solo le variazioni a bassa frequenza, cioè quelle generate da fattori ad azione pluriennale (cicli di insetti defogliatori, cicli solari etc.) e con effetti che producono autocorrelazione; b. filtri ad alta frequenza, che lasciano passare solo le variazioni ad alta frequenza, ovvero quelle generate da fattori ad azione interannuale, come quelle dovute al clima; c. filtri a banda, che individuano solo le variazioni con una particolare frequenza. Con la standardizzazione a fini dendroclimatici si vuole eliminare la varianza a bassa frequenza e mantenere quella ad alta frequenza. Per tale scopo è stata utilizzata una procedura riscontrata frequentemente in letteratura (Carrer e Urbinati, 2001, 2004, 2006; Gallucci, 2009) e consistente di tre fasi svolte automaticamente da ARSTAN in seguito all’impostazione dei parametri di interesse. Per ognuno di questi passaggi viene calcolato un indice dato dal rapporto tra valore osservato (ampiezza dell’anello) e valore atteso (valore del filtro); in questo lavoro è stata seguita la seguente procedura: 1. la prima fase di standardizzazione applicata alle serie grezze individuali è stata effettuata con la funzione Hugershoff, scelta in seguito a valutazioni visive delle serie e statistiche dei valori di autocorrelazione residua nelle serie standardizzate; 2. con le serie risultanti, cioè dopo aver eliminato l’effetto dell’età, è stato applicato uno spline con una risposta di frequenza del 50% su una finestra temporale di 10 o 15 anni. Anche la lunghezza della finestra è stata scelta dopo aver valutato visivamente le serie e statisticamente i valori di autocorrelazione residua nelle serie standardizzate ed anche in base alla letteratura esistente (Carrer e Urbinati, 2004, 2006; Urbinati, et al., 1997). La rappresentazione grafica dello spline evidenzia il trend della varianza ad alta frequenza, cioè la variabilità di natura prettamente climatica. 3. per ogni stazione le serie indicizzate sono state quindi mediate e la cronologia media è stata ricalcolata secondo una media robusta allo scopo di ridurre gli outliers, cioè i valori 97 estremi (positivi e negativi) ed evidenziare il segnale comune (Carrer e Urbinati, 2004; Cook, 1985). Alla fine della procedura si ottiene una cronologia stazionale costituita da indici ed avente valore medio pari a 1 e varianza omogenea per l’intero arco temporale. Con le serie indicizzate, che contengono principalmente il segnale climatico, è possibile calcolare le relazioni clima-accrescimento. 4.4.2.1. Le relazioni clima - accrescimento Nello studio delle relazioni clima-accrescimento, solitamente le variabili climatiche utilizzate sono le temperature massime, minime e medie mensili e le precipitazioni totali mensili. Le stazioni metereologiche dalle quali si ricavano i dati climatici devono essere rappresentative del clima locale e fornire serie storiche termo-pluviometriche il più possibile complete e lunghe. Inoltre i dati devono essere stati registrati con la stessa metodologia o con metodologie molto simili. Per questo lavoro, non è stato possibile reperire dati da stazioni locali a causa della brevità delle serie storiche e per la presenza di dati mancanti; sono state invece utilizzate serie storiche ricavate dal dataset CRU TS 3.1 che raccoglie dati meteo corretti, omogeneizzati e spazializzati provenienti da stazioni meteorologiche di tutta la terra ed elaborati dalla Climatic Research Unit dell’University of East Anglia (UK). I dati prelevati sono relativi alle temperature medie, massime e minime mensili ed alle precipitazioni totali disponibili per il periodo 1901-2009 secondo una griglia con maglie di 0.5° Lat. X 0.5° Long(Mitchell, et al., 2003). Il dato relativo ad un punto della griglia deriva dall’interpolazione dei dati provenienti dalle stazioni meteorologiche circostanti secondo un sistema di pesi che attribuisce minor importanza alle stazioni più lontane dal punto (New, et al., 2000). Per il sito di studio della Valle della Corte è stato utilizzato il punto della griglia, avente Latitudine 42.75 e Longitudine 13.25 posizionato nel Comune di Arquata del Tronto, in prossimità del monte Vettore. Per il calcolo delle relazioni clima-accrescimento è stato utilizzato il software DENDROCLIM2002 (Biondi e Waikul, 2004) che permette di calcolare, con la metodologia bootstrap, correlazioni e funzioni di risposta sia con intervallo singolo che con intervalli multipli (moving correlation) inserendo i valori di ampiezza degli anelli legnosi e parametri climatici per un intervallo temporale comune a tutte le variabili. Nelle relazioni calcolate la 98 variabile dipendente è rappresentata dagli indici ottenuti dalla standardizzazione dei dati grezzi, mentre le variabili indipendenti sono i parametri climatici (regressori), cioè precipitazioni totali mensili e temperature massime, medie e minime mensili per il periodo 1901-2009. La scelta del periodo temporale ritenuto significativo per consentire l’interazione climaaccrescimento è sostanzialmente soggettiva e basata sulle caratteristiche della specie analizzata, dell'ambiente in cui è inserita e degli obiettivi della ricerca. Si considera comunque che l'accrescimento annuale di un individuo non sia solo l’effetto delle condizioni ambientali durante la stagione vegetativa, ma anche, di quelle relative a periodi antecedenti l'entrata in vegetazione (Fritts, 1976). Per vari autori nord-americani (Fritts, 1976;, Xiangding, 1986; Blasing et al. 1984 in Carrerr, 1997) tale periodo è generalmente compreso fra maggio o giugno dell'anno precedente la stagione vegetativa (t-1) a luglio o settembre dell'anno ad essa contemporaneo (t) mentre, in ambito europeo, e specialmente nella regione mediterranea, esso è compreso fra i mesi da ottobre (t-1) a settembre (t), cioè l'anno biologico compreso tra il completamento supposto dell'accrescimento nell'anno t-1 e quello dell'anno t (Messaoudene, 1989; Pernigo et al. 1990; Nola, 1991; Safar, 1994; Tessier, 1984; Tessier et al. 1995; in Carrer, 1997). Poiché l’accrescimento annuale può essere condizionato da eventi climatici verificatisi anche prima dell’inizio del periodo vegetativo, si è considerato un arco temporale definito dal mese di maggio dell’anno precedente la formazione dell’anello (n-1) a ottobre dell’anno di formazione (n), quando l’accrescimento può considerarsi completato; in questo modo il numero di regressori è 18 per ogni variabile climatica. Le correlazioni vengono espresse dal coefficiente di correlazione di Pearson calcolato tra i valori delle ampiezze anulari e le variabili climatiche mensili. Il periodo di analisi, nel caso in esame 108 anni (1901-2009), durante le elaborazioni viene suddiviso in due sottoperiodi: - periodo di calibrazione o taratura sul quale viene stimata la relazione tra clima ed accrescimento, cioè tra regressori e variabili dipendenti; l’efficacia della calibrazione viene stimata misurando la percentuale di varianza della variabile dipendente spiegabile dalla regressione (Fritts, 1976); - periodo di verifica sul quale viene testata l’affidabilità del modello statistico calcolato nel periodo di calibrazione, stimando la variabile dipendente. Quanto più i dati stimati si avvicinano ai dati reali, tanto maggiore è la rappresentatività del modello (Carrer, 1997). 99 Il software DENDROCLIM2002 utilizza la metodologia bootstrap per la scelta degli anni di calibrazione e di verifica; questa tecnica permette di valutare l’eventuale errore associato a una funzione di dati campionati e quindi la significatività delle funzioni di risposta, ripetendo l’estrazione casuale dei dati stessi in modo da aumentare artificialmente la dimensione del campione; DENDROCLIM2002 utilizza un bootstrap con 1000 replicazioni (Biondi e Waikul, 2004). La metodologia si basa sull’assunzione che le osservazioni disponibili di una variabile contengano le informazioni necessarie per la costruzione di una distribuzione di probabilità empirica di qualunque parametro statistico stimato per la variabile stessa; la sua applicazione non richiede teorie sulla distribuzione di probabilità delle statistiche da calcolare e prevede il calcolo dell’errore standard anche nel caso di distribuzione ignota (Carrer, 1997). Dal set di dati originali vengono estratti campioni casuali con cui costruire dei nuovi dati (set di pseudo-dati) sui quali vengono effettuate le stime dei parametri statistici (Guiot, 1991); in questo modo non è necessario supporre una distribuzione normale dei dati, né utilizzare parametri statistici le cui proprietà siano calcolabili analiticamente. Il metodo prevede che i due periodi (di calibrazione e di verifica) siano scelti in modo casuale dal programma. Se N è il numero complessivo di anni su cui si calcolano le funzioni di risposta, N/2 è il primo set di pseudo-dati, utilizzato nella procedura di calibrazione; gli anni non estratti costituiscono di conseguenza il periodo di verifica. Viene quindi calcolata la regressione ortogonalizzata tra la variabile dipendente ed i regressori; i coefficienti di regressione rappresentano il profilo della funzione di risposta. L’estrazione casuale degli anni di calibrazione e di verifica fa sì che le correlazioni e le funzioni di risposta finali siano indipendenti da eventuali trend evolutivi della pianta nelle relazioni con il clima (Carrer, 1997). Le operazioni descritte (creazione dei sotto-periodi e calcolo dei coefficienti di regressione) vengono replicate K volte, 1000 nel caso del DENDROCLIM2002. La bontà delle K funzioni di risposta calcolate viene valutata attraverso alcuni parametri statistici (Guiot, 1991): - analisi delle medie: attraverso la differenza tra valori stimati e valori osservati è possibile valutare se la media della variabile è stata correttamente ricostruita; - analisi delle deviazioni standard: l’amplitudine della variabilità dei valori stimati viene confrontata con quella dei valori reali per valutare se la serie è ben ricostruita; - analisi delle correlazioni: il coefficiente di correlazione multipla verifica il “parallelismo” tra dati osservati e dati ricostruiti. Il suo quadrato, cioè il coefficiente di determinazione, rappresenta la proporzione di varianza spiegata dal modello (Carrer, 1997). 100 Conclusa la fase di valutazione della bontà delle correlazioni e delle funzioni di risposta calcolate per ogni replicazione, vengono calcolate la correlazione e la funzione di risposta finali, date dalla media dei coefficienti di correlazione calcolati per ogni replicazione, valutate poi tramite i parametri statistici sopra descritti, anch’essi mediati. La soglia di significatività è stabilita da DENDROCLIM2002 attraverso il calcolo del valore assoluto corrispondente al 95° percentile per ogni tipo di relazione; i coefficienti di correlazione che superano (in positivo ed in negativo) questo valore sono considerati significativi. Si avranno perciò tante soglie di significatività (denominate tst dal software) quanti sono i regressori impiegati. Queste soglie di significatività sono diverse per ogni relazione calcolata e ciò impedisce un agevole confronto ed interpretazione dei risultati. È quindi necessario standardizzare questi valori assumendo che il rapporto tra i coefficienti di correlazione e la loro deviazione standard presenti una distribuzione normale; per ogni relazione va perciò calcolato il valore di Z corrispondente, cioè il rapporto tra r (valore medio delle correlazioni o funzioni di risposta) e la sua deviazione standard s (Carrer, et al., 1998; Carrer e Urbinati, 2004, 2006; Gallucci, 2009): r s Z= Sapendo che in una distribuzione normale la superficie compresa tra –2s e +2s contiene il 95% delle osservazioni e che nel range che va da –tst a +tst è compreso il 95% delle osservazioni, allora ± tst corrisponde a ± 2s e perciò: tst = 2s → s = tst/2 ne segue che: Z= r tst 2 In questo modo è possibile standardizzare i dati in quanto i valori significativi al 95% sono in ogni caso quelli superiori a ±1.96, arrotondato poi a 2 per facilità di individuazione grafica delle variabili significative. I coefficienti di correlazione standardizzati vengono utilizzati per costruire il profilo della funzione di risposta, il quale esprime la relazione tra la variabile dipendente (ampiezza anulare) ed i parametri climatici. Tramite il software DENDROCLIM2002 sono state calcolate sia le correlazioni che le funzioni di risposta per intervalli singoli, ma sono stati rappresentati graficamente e discussi solo i profili dei coefficienti di correlazione standardizzati 101 L’analisi dendroclimatica è stata eseguita, per le cronologie medie rappresentative delle due aree di studio e, per l’area ASP1, i nuclei isolati e più in quota caratterizzati da una scarsa competizione tra le ceppaie. 4.4.3 Analisi degli anni caratteristici Oltre ad un’analisi dei trend di accrescimento di medio-lungo periodo delle cronologie costruite, è stata svolta un’analisi puntuale sul breve periodo riguardante la presenza di anelli particolarmente larghi o stretti nelle serie, visibili nella curva rispettivamente come picchi positivi o negativi. Questi anelli vengono definiti caratteristici (event year) ovvero anelli che nella serie si differenziano notevolmente dagli altri limitrofi per l’ampiezza o per altre caratteristiche morfologiche, ad es. densità del legno, percentuale di legno tardivo, tessuti traumatici, legno di reazione, canali resiniferi traumatici, ecc. Nel caso queste caratteristiche possano essere misurate, è più corretto parlare di event value, anche se il termine event year è il più utilizzato anche nel caso di caratteristiche misurabili ad es. anelli molto stretti o larghi (Schweingruber, et al., 1990). Quando lo stesso anello caratteristico è presente in una determinata percentuale di serie (solitamente compresa fra 75-80%) assume il ruolo di anno caratteristico (pointer year) (Bebber, 1990; Motta e Nola, 1996) che può essere positivo e negativo. Se la curva è correttamente datata, è possibile risalire all’anno di formazione dell’anello caratteristico e quindi ricercarne le possibili cause, ad esempio da attacchi di insetti defogliatori, da interventi selvicolturali, eventi climatici estremi, ecc. Tra le cause climatiche, le temperature eccezionalmente alte o basse e gli eventi piovosi o siccitosi estremi sono i fattori che più influiscono, condizionando sensibilmente l’accrescimento radiale nel breve periodo, inoltre possono essere spesso associati alla formazione di anelli caratteristici. Tali fenomeni non sempre sono associabili a reazioni immediate di causa-effetto e gli effetti possono manifestarsi sulla pianta uno o più anni dopo l’evento climatico estremo, in relazione alla capacità di resistenza o resilienza allo stress dei singoli individui. Per tale motivo può risultare utile ricercare le cause anche in eventi accaduti nell’anno precedente, in particolare nei periodi cruciali per la formazione dell’anello dell’anno successivo e che sono identificabili tramite le correlazioni o le funzioni di risposta. 102 L’individuazione degli anni caratteristici, eseguita con tecniche diverse, è da sempre un’operazione molto utile per il crossdating delle serie, ma solo recentemente è stata assegnata loro una caratterizzazione più oggettiva e statisticamente definibile (Gallucci, 2009). In questo lavoro è stata effettuata con il software Weiser (Gonzales, 2001), concepito appositamente per l’identificazione di anni ed intervalli caratteristici. Gli event value vengono individuati usando un filtro bilaterale: ogni anno è posizionato al centro di una finestra mobile e per gli anni all’interno di questa finestra vengono calcolati la media e la deviazione standard. L’ampiezza della finestra può essere modificata ed in questo lavoro si è scelto di utilizzare quella pre-impostata dal programma di 7 anni. Per ogni anno viene calcolato in indice espresso in termini di deviazione dalla media locale (cioè della finestra), come nell’equazione seguente (Gonzales, 2001): zi = xi − x σx dove: zi : valore dell’indice per l’anno i xi : ampiezza dell’anello all’anno i x : media locale σi : deviazione standard locale Gli anni vengono identificati come pointer values attraverso il confronto dei valori dell’indice calcolato con i valori soglia definiti per tre differenti classi di intensità in base alla percentuale di deviazione standard richiesta (Gonzales, 2001). Nel caso in esame sono state scelte tre classi di intensità con percentuale di deviazione standard pari rispettivamente a 50%, 100% e 150% cui corrispondono valori soglia di 0.5, 1 e 1.5. Per ogni classe d’intensità il programma mostra il numero (o la percentuale) di campioni il cui indice, per l’anno in esame, supera la soglia stabilita. In questo studio la determinazione dei pointer year avviene quando, per ogni stazione, il 75% dei campioni presenta event value nello stesso anno. Nella procedura di identificazione sono stati scartati gli anni rappresentati da meno di 10 campioni, un quanto poco rappresentativi (Bebber, 1990). Una volta identificati, si è cercato di interpretare i pointer years, ricercando le possibili cause responsabili della loro formazione nell’andamento climatico, avendo a disposizione dati meteorologici a risoluzione mensile per circa un secolo. 103 5. RISULTATI E DISCUSSIONE 5.1 Risultati dell’analisi della struttura orizzontale La point pattern analysis nelle due aree di faggeta mista con l’abete bianco è stata effettuata tramite l’applicazione della funzione linearizzata di Ripley e del metodo statistico “O-ring” di Wiegand-Moloney. I dati sono stati elaborati con il software PROGRAMITA dal quale si sono ottenuti i profili relativi alle diverse situazioni. Per entrambe le aree, le analisi sono state realizzate sia globalmente per tutti gli individui e sia escludendo quelli di abete bianco. La funzione K di Ripley univariata applicata a tutti gli individui di ADS1 (fig. 5.1.1) ha un andamento crescente, anche se non in modo perfettamente lineare, fino ad una distanza di 12 m per poi diminuire progressivamente. Questo pattern indica una tendenza aggregativa caratterizzata dalla presenza di picchi di maggiore aggregazione in corrispondenza dei 3 e 6 m, probabilmente legata alla presenza dell’abete. I popolamenti puri di faggio situati a quote più elevate, hanno infatti mostrato una tendenza aggregativa crescente in modo lineare (Renzaglia, 2008). In questo caso i valori sono tutti significativi perché superiori alla soglia definita dall’intervallo fiduciario; ciò non può essere affermato anche per il profilo ottenuto escludendo gli individui di abete, dove si ha una perdita di significatività nelle prime tre classi di distanza e dopo i 15 m (fig.5.1.2). Fig. 5.1.8 - Profilo della funzione linearizzata di Ripley per tutti gli individui di ADS1. 104 Fig. 5.1.9 - Profilo della funzione linearizzata di Ripley per gli individui di ADS1 con esclusione di quelli di abete. Con l’applicazione del metodo “O-ring” è stato valutato il contributo di ogni classe di distanza alla distribuzione degli individui a livello di popolamento; la distribuzione è stata quindi valutata non più come valore cumulato, ma relativamente al numero di individui trovati nella corona posta a distanze con incremento di un metro. Il risultato dell’applicazione della statistica univariata su tutti gli individui indica aggregazione per le distanze di 1, 3 e 5 m, poi a partire dai 7 metri si ha perdita di significatività (fig. 5.1.3). Escludendo gli individui di abete si ha aggregazione solo nella classe di 5 m (fig. 5.1.4) ad indicare che probabilmente il contributo delle classi inferiori, ottenuto per tutti gli individui, è causato anche da questa specie. Infine è stata applicata la statistica O-Ring bivariata dalla quale si ottengono scarsi risultati aggregativi (fig. 5.1.5). Fig. 5.1.10 - Profilo della statistica O-ring di per tutti gli individui di ADS1. 105 Fig. 5.1.11 - Profilo della statistica O-ring di per gli individui di ADS1 ad esclusione di quelli di abete. Fig. 5.1.12 - Profilo della statistica O-ring bivariata di per tutti gli individui di ADS1. Il profilo della funzione linearizzata dell’area ADS2 è rappresentato da una curva crescente in modo continuo fino ad una distanza di 15 m e caratterizzata da un aumento della ripidità a 8 m (fig. 5.1.6). Questo andamento indicherebbe una tendenza aggregativa a partire dalle prime classi di distanza, cosa che invece non si verifica se si escludono gli individui di abete (fig. 5.1.7) per la perdita di significatività nei primi 2 m. Il confronto delle due curve induce a considerare l’aggregazione a 1 e 2 metri proprio funzionale alla presenza dell’abete, in quanto dove questo manca, si osservano in corrispondenza valori non significativi. Se il popolamento fosse stato costituito solo da ceppaie di faggio, nelle prime classi si sarebbe presumibilmente determinata una simile tendenza aggregativa, perché il faggio avrebbe occupato le nicchie ecologiche dell’abete, favorendo una dinamica di gruppo nel breve raggio. Il fenomeno aggregativo a 8 m (fig. 5.1.6) sembrerebbe essere legato alla distanza tra i nuclei di abete. 106 Fig. 5.1.13 - Profilo della funzione linearizzata di Ripley per tutti gli individui di ADS2. Fig. 5.1.14 - Profilo della funzione linearizzata di Ripley per gli individui di ADS2 con esclusione di quelli di abete. L’applicazione del metodo O-Ring univariato (fig. 5.1.8) indica una maggiore tendenza aggregativa nelle prime classi di distanza e a 7 e 8 m, confermando la dinamica spaziale di aggregazione tra le due specie. Analizzando anche il profilo ottenuto escludendo l’abete (fig. 5.1.9) si ha perdita di significatività nella brevissima distanza, oltre a quelle superiori e una diminuzione del grado di aggregazione nelle altre classi (fig. 5.1.9). 107 Fig. 5.1.15 - Profilo della statistica O-ring di per tutti gli individui di ADS2. Fig. 5.1.16 - Profilo della statistica O-ring di per gli individui di ADS2 ad esclusione di quelli di abete. La dinamica spaziale tra le due specie potrebbe essere meglio espressa dal profilo della statistica O-Ring bivariata (fig. 5.1.10) che indica una maggiore aggregazione nelle brevi classi di distanza, che poi si ripete dai 6 agli 8 m. Il pattern della faggeta pura ottenuto da Renzaglia (2008), è caratterizzato dalla massima aggregazione nelle classi di distanza di 2 e 3 m per poi decrescere in modo costante; quindi il profilo ottenuto in ADS2 indica che i fenomeni aggregativi a 1 e 4 m potrebbero essere causati dalle presenza di individui di abete che tendono ad avere una dinamica di distribuzione a gruppi, con distanza tra i gruppi di 7-8 m per la presenza di fenomeni aggregativi successivi. 108 Fig. 5.1.17 - Profilo della statistica O-ring bivariata di per tutti gli individui di ADS2. Infine per entrambe le aree è stato applicato anche l’indice di Moran come metodo di Surface Pattern Analysis. In particolare questo indice è stato calcolato, tramite il software ROOKCASE per i parametri di diametro e altezza. Considerando la forma circolare delle aree e la loro dimensiona ridotta, si sono ottenuti risultati con scarsa significatività statistica ad eccezione di qualche raro valore. L’analisi spaziale ha evidenziato una situazione poco dinamica, costituita da ceppaie invecchiate di faggio e piccole nicchie di cui l’abete si è avvantaggiato grazie alla rinnovazione gamica che favorisce la dinamica di gruppo. I risultati dell’analisi cronologica (v. cap. 5.3) hanno fornito l’età di questi gruppi di abete di ADS2 che prevalentemente è di circa 65 anni, salvo alcuni individui con età superiore agli 80 anni che evidenzia l’assenza di una gestione attiva a carico di entrambe le specie. In ADS1 invece, non sono stati trovati fenomeni aggregativi probabilmente per la maggiore presenza di individui di abete, di cui quelli con età superiore ai 60 anni sono presenti anche nelle classi sociali dominanti e codominanti, assenti invece in ADS1. I pattern ottenuti indicano delle differenze tra le due aree: ADS1 è caratterizzata da una dinamica diffusa per la presenza di individui di abete isolati, sia dominanti che codominanti e caratterizzati da uno stadio evolutivo più avanzato rispetto a ADS2, che invece sembra avere una dinamica di gruppo, tipica però di popolamenti giovani, indicando la mancanza di uno stadio di sviluppo intermedio. Da analisi genetiche (Belletti, in pubblicazione) risulta che queste popolazioni di abete abbiano una buona variabilità genetica, quindi se non si interviene in modo tempestivo per liberare i nuclei dalla concorrenza del faggio, c’è il serio rischio di perdere un patrimonio di elevata importanza per la sua biodiversità. A tale scopo è ora in atto un progetto LIFE 109 NAT/IT/000371 chiamato RESILFOR (REstoring SILver-fir FORest) “Ricostituzione di boschi a dominanza di faggio con Abies alba nell’Appennino Tosco-Marchigiano” nel quale è incluso anche il sito oggetto di studio e che ha l’obiettivo di favorire lo sviluppo dell’abete tramite interventi di diradamento e di nuovo impianto con materiale autoctono. 5.2 Risultati dell’analisi della struttura verticale Prima di presentare i risultati ottenuti dall’analisi degli indici di struttura verticale, per ogni popolamento verranno illustrati i principali caratteri dendrometrici delle aree di studio, ottenuti dai precedenti studi realizzati per le faggete del limite superiore del bosco (Renzaglia, 2008) e per quelle del processo di conversione (Santini, 2008). I dati dendrometrici delle faggete miste con abete bianco sono stati elaborati in seguito alla ampagna rilievi realizzata per il progetto (LIFE NAT/IT/000371 RESILFOR (REstoringSILverfirFORest) sulla “Ricostituzione di boschi a dominanza di faggio con Abies alba nell’Appennino Tosco-Marchigiano”) 110 5.2.1 Faggete del limite superiore del bosco In tabella 5.2.1.1 sono riportati i principali parametri dendrometrico-strutturali relativi alle due aree di studio. ASP 1 ASP 1 ASP 2 ASP 2 (ha) (ha*) (ha) Elementi cartellinati (N) 381 232 779 713 1606 Ceppaie vive (N) 311 189 636 651 1466 Ceppaie morte cartellinate (N) 4 2 8 57 128 Polloni vivi totali (N) 2915 1773 5961 2075 4673 Polloni morti totali (N) 39 24 80 859 1935 Polloni vivi e morti totali (N) 2954 1797 6041 2934 6608 Polloni vivi / ceppaia (N) 9,4 / / 3,2 / Polloni morti / ceppaia (N) 0,1 / / 1,2 / Polloni vivi e morti /ceppaia (N)* [* tot. /censiti] 9,5 / / 4,1 / % polloni morti (N morti/ N vivi e N morti) 1,32 / / 29,3 / Diametro min (cm) 3 / / 6 / Diametro max (cm) 39 / / 39 / Diametro medio (dg) (cm) 9,2 / / 12,3 / Altezza media (hg) (m) 6,9 / / 13,7 / Altezza dominante (Hdom) (m) 11,3 / / 17,2 / Area basimetrica vivi (Gv) (m2) 19,3 11,8 39,5 24,8 55,8 Area basimetrica morti (Gm) (m2) 0,2 0,1 0,4 2,3 5,3 Area basimetrica totale G (Gtot) (m2) 19,5 11,9 39,9 27,1 61,1 % G morti ( G morti / G vivi e G morti) 1,06 / / 8,6 / Volume cormometrico polloni vivi (V) (m3) 98,31 59,80 201 193,14 434,99 Volume cormometrico polloni morti (Vm) (m3) 1,01 0,61 2,1 11,66 26,26 Età media (anni) 44 / / 50 / Tab. 5.2.1.1 - Principali caratteri dendrometrici rilevati nelle due aree di saggio (da Renzaglia, 2008). Parametro ASP 1 I dati distinti dall’asterisco (*) di ASP1 sono riferiti al netto della superficie boscata; infatti quest’area è caratterizzata da ampie radure e aree di prateria e quindi i dati non sono facilmente confrontabili con quelli di ASP2, quindi è stata stimata la percentuale di area boscata rispetto a quella totale. Tale operazione è stata eseguita, in ambiente GIS fotointerpretando i poligoni corrispondenti alla superficie boscata (1.644 ha) e calcolandone poi la superficie effettiva pari a 0.489 ha. Le provvigioni di tabella 4.1.1.2 evidenziano la differenza di produttività tra le due aree pari a 435 m3/ha per ASP2 e 201 m3/ha per ASP1. Quest’ultimo, nonostante la minore fertilità ha valori assimilabili a quelli medi riferiti alle faggete acidofile e mesoneutrofile dall’Inventario 111 Forestale Regionale (IPLA, 2001) e pari a provvigioni medie di 180 m3/ha e valori massimi fino a 250 m3/ha. Per quanto riguarda la caratterizzazione dendrometria-strutturale ASP2 ha una struttura chiaramente coetaneiforme (fig. 5.2.1.1), meno evidente invece in ASP1 legata probabilmente alla soglia di cavallettamento di 3 cm, che non ha permesso di rilevare i numerosi polloni di piccole dimensioni presenti nell’area. ASP2 invece è caratterizzata da una maggiore mortalità (1,2 morti per ceppaia, rispetto allo 0,1 in ASP1) concentrata prevalentemente nella classe diametrica inferiorie, dove i morti risultano più abbondanti dei polloni vivi (fig. 5.2.1.2). Ciò indica un’elevata concorrenza sia tra le ceppaie che tra i polloni, soprattutto in ASP2, dove la maggiore e omogenea copertura e l’elevata densità di ceppaie (1446/ha contro 636*/ha di ASP1) incentivano processi competitivi e quindi perturbazioni di tipo endogeno (Renzaglia, 2008). Tale mortalità è tipica in faggete in invecchiamento prolungato dove tendono a caratterizzarsi processi di stratificazione sociale che preludono a strutture più tipiche della fustaia. In ASP1, dove la copertura è più discontinua, le ceppaie sono maggiormente interfacciate con l’ecotono di prateria e quindi risentono maggiormente delle interferenze esogene (forti escursioni termiche, neve, valanghe ecc.). Se da un lato vi è maggiore disponibilità di luce per l’accrescimento dei polloni, dall’altro questi sono più soggetti a schianti causati dal vento e dallo scivolamento di neve o altro materiale. Ciò è intuibile dalla maggiore presenza di individui con assetto plagiotropico (Fig. 5.2.1.3) e dal minor numero di polloni morti. È stato riscontrato, quindi, che in ASP1 la necromassa è molto inferiore rispetto a quanto ci si aspettava, proprio a causa del suo allontanamento per rotolamento diretto e per scivolamenti del manto nevoso che opera una sorta di “ripulitura” del sottobosco (Renzaglia, 2008). 112 N° polloni vivi 4000 3500 3000 2500 2000 1500 1000 500 0 ASP1 5 10 15 20 25 30 ASP2 35 40 Classi diametriche N° polloni morti Fig. 5.2.1.1 – Distribuzione di frequenza dei polloni vivi delle aree del limite superire del bosco 1800 1600 1400 1200 1000 800 600 400 200 0 ASP1 5 10 15 20 25 30 35 ASP2 40 Classi diametriche Fig. 5.2.1.2 - Distribuzione di frequenza dei polloni morti delle aree del limite superiore del bosco. Fig. 5.2.1.3 - Assetto plagiotropico dei polloni dovuto dal carico e scivolamento della neve nelle ceppaie. 113 L’assetto ipsometrico evidenziata in figura 5.2.1.4 esprime la coetaneità delle due aree, che sono però caratterizzate da valori sensibilmente diversi di altezza totale del fusto e che indicano la maggiore capacità di accrescimento longitudinale dei polloni dominanti di ASP2. Ciò è confermato anche dai maggiori valori di altezza media (Hg 6,9 m contro 13,7 m), di altezza dominante (Hd, 11,3 m contro 17,2 m) e dalla curva ipsometrica (fig. 5.2.1.5) che evidenziano una superiore fertilità stazionale (probabilmente non solo di natura edifica) nell’area di bosco chiuso, determinata anche da una minore interferenza dei fattori climatici estremi che, come in tutte le zone di limite superiore tendono a limitare lo sviluppo in altezza degli alberi (Renzaglia, 2008). 700 ASP 1 ASP 2 600 N / ha* AdS 1 500 400 300 200 100 0 3 6 9 12 15 18 21 24 classi di altezza (m) Fig. 5.2.1.4 - Distribuzione di frequenza dell’altezza totale dei polloni dominanti per classi di 3 m nelle due aree (da Renzaglia, 2008). Anche le curve ipsometriche (fig. 4.1.1.6), costruite con le altezze dei polloni dominanti relative all’intera popolazione di ceppaie censite nelle due aree di saggio, ribadiscono la coetaneità dei due popolamenti, essendo convesse rispetto all’asse delle ascisse. ASP2 è caratterizzata da una maggiore concorrenza tra gli individui, evidenziata dalla maggiore ripidità della curva perequatrice, dove la densità induce i polloni ad allungarsi rapidamente per garantirsi una sufficiente quantità di energia radiante. 114 25 ASP 1 20 H (m) y = 6,8106Ln(x) - 4,0164 R2 = 0,5626 ASP 2 15 10 y = 4,3051Ln(x) - 2,685 R2 = 0,3846 5 0 0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 D (cm) Fig. 5.2.1.5 - Curva ipsometrica dei polloni dominanti per le due aree di saggio. Per facilitare la comprensione dell’assetto strutturale e spaziale dei due popolamenti si è deciso di rappresentarli tramite un software, chiamato SVS (Stand Visualization System), sviluppato dall’U.S.D.A., Servizio foreste del Ministero dell'Agricoltura degli Stati Uniti (fig. 5.2.1.6). SVS permette di rappresentare graficamente (rappresentazione verticale, planimetrica e prospettica) un popolamento forestale sulla base dei parametri strutturali e dendrometrici degli alberi, degli arbusti e di altri elementi di cui è costituito il soprassuolo e di ottenere mappe di rappresentazione planimetrica della copertura. Alla restituzione grafica, SVS associa la possibilità di analizzare i dati strutturali del popolamento e le loro variazioni in relazione ai differenti tipi di gestione e di interventi selvicolturali che possono essere proposti. Infatti la peculiarità di questo strumento è la possibilità di simulare trattamenti selvicolturali attuabili sia utilizzando intervalli o soglie numeriche relative ad uno o più parametri dendrometrici, sia, più semplicemente, simulando direttamente una vera e propria martellata forestale mediante un sopralluogo virtuale nel bosco riprodotto (Renzaglia, 2008). Fig. 5.2.1.6 – Schermata del software SVS 115 Il software è stato concepito e sviluppato per la rappresentazione di formazioni monocormiche (fustaie di conifere o latifoglie nei diversi stadi di sviluppo), ma nell’ambito dello studio sui dinamismi strutturali e funzionali delle faggete appenniniche ubicate al limite superiore del bosco (Renzaglia, 2008) il programma è stato adattato anche alla rappresentazione, più complessa, di boschi cedui. La ceppaia viene rappresentata nei suoi componenti (i polloni), ognuno identificabile con le coordinate del centroide della ceppaia, ma avente il proprio diametro (fig. 5.2.1.7). Fig. 5.2.1.7 - Rappresentazione grafica della ceppaia in SVS in seguito alla modifica realizzata per i boschi cedui. In rosso i polloni morti, in marrone i vivi (da Renzaglia, 2008). Nelle figure seguenti sono rappresentate le due aree di studio sia tramite la grafica tridimensionale di SVS e sia tramite immagine fotografica. La visualizzazione prospettica delle due aree di saggio evidenzia chiaramente le differenze strutturali delineate precedentemente. In particolare è possibile vedere la differenza di copertura e di densità e la scarsa presenza di matricine, evidenziate in questo caso dal colore arancio, presenti in numero di tre solo in ASP2. 116 Limite bosco chiuso valle monte Nuclei Fig. 5.2.1.8 – Rappresentazione grafica tridimensionale di ASP1 al limite superiore del bosco ottenuta da SVS (da Renzaglia, 2008). Nuclei Limite bosco chiuso Fig. 5.2.1.9 – Vista reale di ASP1 al limite superiore del bosco. 117 valle monte Fig. 5.2.1.10 - Rappresentazione grafica tridimensionale di ASP2; bosco chiuso appena sotto il limite superiore del bosco. Le ceppaie sono di colore verde, le matricine di colore arancio (da Renzaglia, 2008). Fig. 5.2.1.11 - Vista reale di ASP2 bosco chiuso appena sotto il limite superiore del bosco. 118 Nel seguito ci proponiamo, invece di illustrare i risultati ottenuti attraverso l’applicazione degli indici di struttura verticale, oggetto del presente studio. Nella figura 5.2.1.12 sono presenti i valori relativi alla media delle altezze (da non confondere con l’altezza media del popolamento pari a 6.9 m in ASP1 e a 13.7 m in ASP2) e della media della profondità di chioma delle aree di studio della Valle della Corte. In particolare ASP2 ha un valore di altezze quasi doppio rispetto all’area situata tra l’ecotono bosco-prateria e pari rispettivamente per ASP1 e ASP2, a 8.5 m e 14.7 m con una deviazione standard di 3.3 e 2.8 m. Ciò indica una maggiore capacità di accrescimento longitudinale legata anche ad una migliore fertilità del suolo (h dominante di 11.3 m rispetto a 17.2 m), mentre in ASP1 la minore altezza dipende dai fattori climatici estremi che nelle zone di treeline tendono a limitarne lo sviluppo. La media della profondità di chioma tra le due aree è simile e pari a 5.1 e 5.5 m con deviazione standard di 3.0 e 2.4 m. Quanto detto evidenzia che gli individui dell’area sotto al limite superiore del bosco hanno chiome meno profonde, sintomo della maggiore competizione per la luce rispetto ad ASP1, infatti ASP2 è caratterizzata da un’elevata copertura mentre ASP1 dalla presenza di ampi spazi di prateria. Quanto detto potrebbe indurre ad estendere il sottotipo “d’altitudine a sviluppo ridotto” (FG31X) anche alle faggete dei suoli acidofili (Faggete acidofile, FG50 e mesoneutrofile, FG10), indicato nella tipologia forestale delle Marche solo per le faggete eutrofiche (FG30) dei maggiori gruppi montuosi calcarei (M. Catria, M. Cucco e M. Sibillini) e caratterizzato da altezze medie non superiori a 9 metri (Renzaglia, 2008). Media altezze 18 Media profondità chioma 16 Altezza (m) 14 12 10 8 6 4 2 0 APS1 ASP1 APS2 ASP2 Fig. 5.2.1.12 – Distribuzione della media delle altezze totali e delle profondità di chioma con le relative deviazioni standard, degli individui aree di studio del limite superiore del bosco. 119 Il coefficiente di variabilità dei parametri appena descritti (fig. 5.2.1.13) indica, per entrambe le aree, una differenza di altezza degli individui intorno al 40% e una profondità di chioma simile tra gli alberi dell’area chiusa e molto variabile tra quelli dell’area aperta, spiegabile ancora dalle diverse dinamiche competitive. CV (%) CV altezze 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 57.6 38.7 CV profondità chioma 41.2 13 ASP1 APS1 ASP2 APS2 Fig. 5.2.1.13 - Distribuzione del coefficiente di variabilità delle altezze totali e profondità di chioma degli individui nelle aree di studio del limite superiore del bosco. Nella tabella 5.2.1.2 vengo confrontati i valori ottenuti dalle correlazioni tra i principali parametri strutturali rilevati nelle due aree di studio. I coefficienti di correlazione sono per la maggior parte elevati e tutti statisticamente significativi (p = <0.05). Correlazioni ASP1 H totale / Profondità chioma 0.81* Profondità chioma / Area chioma 0.56* H totale / Area chioma 0.48* Diametro fusto / Diametro chioma 0.56* Tab. 5.2.1.2 – Correlazioni delle aree treeline. ASP2 0.66* 0.42* 0.28* 0.66* I dati evidenziano un maggiore controllo ambientale dei rapporti fra caratteri della chioma e altezza delle piante in ASP1 le cui correlazioni sono quindi maggiori rispetto a quelle di ASP2 maggiormente controllata da fattori di competizione. Solo relativamente al rapporto diametro fusto/chioma ASP2 presenta una correlazione più elevata dovuta alla minore 120 eterogeneità di copertura e maggiore saturazione di quest’area dove i processi di crescita sono più omogenei. Relativamente all’applicazione degli indici di struttura verticale, occorre precisare che essendo ASP1 caratterizzata da ampie aree aperte, per poter avere dei risultati confrontabili fra le aree, l’indice Crown Height Diversity è stato applicato all’effettiva superficie boscata di 0.489 ha e non all’intera superficie dell’area di saggio di 1.644 ha. Tale operazione, effettuata da Renzaglia (2008) è stata eseguita in ambiente GIS mediante fotointerpretazione dei poligoni corrispondenti alla superficie boscata e successivo calcolo della superficie effettiva. I valori del CHD (fig. 5.2.1.14) indicano, soprattutto in ASP1 che c’è un limitata caratterizzazione della struttura verticale delle chiome che limiterebbe l’eventuale disponibilità per specie animali. In fig. 5.2.1.15 si nota che il contributo maggiore è dato dalla classe di altezza 11-15 m (Hi 3) in ASP1 mentre in ASP2 dalla classe 16-20 m (con valore pari a 1) e in misura minore anche dalla classe 11-15 m. 15 12 CHD 9 5.9 6 3 2.3 0 ASP1 APS1 ASP2 APS2 Fig. 5.2.1.14 – Grafico indicante il valore dell’indice CHD nelle aree di studio del limite superiore del bosco. 121 1.80 1.60 Pi 1.40 1.20 Hi 5 1.00 Hi 4 0.80 Hi 3 0.60 Hi 2 0.40 Hi 1 0.20 0.00 APS1 ASP1 APS2 ASP2 Fig. 5.2.1.15 – Distribuzione del valore Pi indicante il punteggio della copertura della classe di altezza appartenenti alla classe iesima. Hi indica la classe di altezza alla quale fanno riferimento i valori Pi. Hi1 rappresenta la classe 1-5 m; Hi2 la classe 6-10 m; Hi3 la classe 11-15 m; Hi4 la classe 16-20 m; Hi5 la classe 21-25 m. Per il Vertical Evenness le cenosi sono state suddivise in 3 classi di altezza: la prima da 0 a 50 % dell’altezza dell’albero più alto e rappresenta il soprassuolo dominato, la seconda da 51 a 80% e rappresenta quello intermedio e co-dominante, mentre la classe da 81 a 100% rappresenta gli individui dominanti. In seguito a tale divisione il popolamento in ASP1 risulta costituito prevalentemente da ceppaie dominate (fig.5.2.1.15) che rappresentano il 58% delle totali (fig. 5.2.1.16), mentre in ASP2 prevalgono le ceppaie della classe intermedia con una percentuale pari all’81% delle ceppaie totali. 700 600 34 n. indivui 500 400 300 12 Classe 80-100% 497 132 Classe 0-50% 200 100 Classe 50-80% 201 80 0 APS1 ASP1 APS2 ASP2 Fig. 5.2.1.16 - Distribuzione degli individui in classi di altezza delle aree di studio del limite superiore del bosco. I valori indicano il numero d individui per ogni classe. 122 VE indica che la diversità della distribuzione verticale della chiome delle ceppaie nelle tre classi di altezza; essa risulta elevata (0.84) in ASP1 (fig. 5.2.1.18) e superiore rispetto ad ASP2 (0.43), in quanto ha una migliore distribuzione degli individui tra le classi (fig. 5.2.1.15). Infatti in ASP2 l’81% degli individui sono situati nel piano intermedio (fig. 5.2.1.16). 100 90 80 70 4 6 38 % 60 Classe 80-100% 81 50 Classe 50-80% 40 30 Classe 0-50% 58 20 10 13 0 APS1 ASP1 APS2 ASP2 Fig. 5.2.1.17 - Distribuzione percentuale degli individui appartenenti alle classi di altezza delle aree di studio del limite superiore del bosco. I valori indicano la percentuale degli individui in ogni classe. 1.0 0.9 0.82 0.8 0.7 VE 0.6 0.5 0.43 0.4 0.3 0.2 0.1 0.0 ASP1 ASP2 Fig. 5.2.1.18 – Risultato dell’applicazione del Vertical Evenness per le aree di studio del limite superiore del bosco. La stessa distribuzione nelle tre classi di altezza realizzata per il VE, viene utilizzata anche per l’applicazione dell’indice A del profilo verticale delle specie (Pretzsch, 1998) in quanto esso quantifica la diversità e la distribuzione delle specie nelle tre classi. La massima differenziazione strutturale possibile si raggiunge quando il numero totale di individui è distribuito uniformemente tra le specie e tra gli strati verticali. 123 I risultati ottenuti dall’indice A applicato alle due aree del limite superiore del bosco sono presentati in figura 5.2.1.19 sottoforma di grafico ad istogrammi, in modo da rendere più immediato il confronto tra le aree. Il valore massimo che si può ottenere dall’indice per questi due popolamenti monospecifici è pari a 1.1 in quanto caratterizzati dalla completa dominanza del faggio, situato nel suo optimum ecologico. Infatti la presenza di altre specie ne fa aumentare il valore ed in questo caso, solo in ASP1 sono presenti solo tre individui di Sorbus aucuparia L.)che contribuiscono con un valore di 0.04 che a sua volta viene sommato a quello ottenuto dal faggio di 0.84, mentre in ASP2 l’indice è pari a 0.59. Oltre al valore assoluto è stato calcolato anche quello percentuale in modo da poter essere confrontato con altre aree. Come già spiegato precedentemente un limite dell’indice di Pretzsch è che non considera il carattere strutturale delle chiome, importante sia a livello ecologico che produttivo; per questo motivo è stato applicato l’indice A-Crown che introduce la classificazione della profondità di chioma relativa in tre differenti classi: da 0 a 0.39, da 0.4 a A index 0.69 e da 0.7 a 1.0. 1.1 1.0 0.9 0.8 0.7 0.6 0.5 0.4 0.3 0.2 0.1 0.0 76,9 % 54,2 % sorbo faggio ASP1 APS1 ASP2 APS2 Fig. 5.2.1.19 – Valore dell’indice A di Pretzsch per le aree di studio del limite superiore del bosco. In ordinata è indicato il valore assoluto dell’indice mentre nella figura è riportato quello relativo in %. Anche l’indice A-Crown conferma la maggiore diversità e complessità strutturale dell’area ASP1 (fig. 5.2.1.20) con valore pari a 1.74 di cui il sorbo rappresenta lo 0.05, mentre in ASP2 l’indice è risultato essere di 1.30, considerando che il valore massimo raggiungibile per la zone della treeline è di 2.2. A livello percentuale la complessità dell’area di limite è pari all’81.9% mentre quella sottostante è del 59.2%. Questi valori stanno ad indicare che in ASP1 gli individui con differenti profondità di chioma sono maggiormente distribuiti tra le tre classi 124 di altezza (fig.5.2.1.21), mentre in ASP2 sono concentrati in quella del 51-80% e nelle classi di chioma relativa intermedia (0.4-0.69) e più bassa (0-0.39), indicandone la loro scarsa A -Crown Index lunghezza. 2.2 2.0 1.8 1.6 1.4 1.2 1.0 0.8 0.6 0.4 0.2 0.0 81,9 % 59,2 % sorbo faggio ASP1 APS1 APS2 ASP2 Fig. 5.2.1.20 - Valore dell’indice A-Crown per le aree di studio del limite superiore del bosco. In ordinata è indicato il valore assoluto dell’indice mentre nella figura è riportato quello relativo in %. 400 350 n. individui 300 250 200 Classe 81-100% 150 Classe 51-80% 100 Classe 0-50% 50 0 0 - 0.39 0.4 - 0.69 0.7 - 1 ASP1 0 - 0.39 0.4 - 0.69 0.7 - 1 Chioma relativa ASP2 Fig. 5.2.1.21 – Distribuzione degli individui di faggio in classi di chioma relativa e di altezza. Infine si riportano i risultati ottenuti dall’applicazione dell’algoritmo TSTRAT che definisce una classificazione degli alberi in strati distinti che riflettono il processo di competizione per la luce. In entrambe le aree in esame gli individui risultano essere distribuiti in 4 classi di altezza e nelle figure 5.2.1.22 e 5.2.1.23 sono rappresentati i grafici delle loro distribuzioni in valore assoluto e percentuale per ogni strato. In particolare si può vedere che nell’area di limite lo strato maggiormente rappresentato è il numero 4, posizionato ad un’altezza 125 inferiore ai 7.4 m (fig. 5.2.1.22) e con 122 alberi corrispondenti al 41%. In ASP2 invece lo strato più numeroso è il 2, compreso tra i 14 ed i 17.4 m (fig. 5.2.1.13) con 318 individui n. individui rappresentanti il 51% del totale. 650 600 550 500 450 400 350 300 250 200 150 100 50 0 93 24 318 109 71 141 APS1 ASP1 1° Strato 2° Strato 3° Strato 131 4° Strato 69 APS2 ASP2 Fig. 5.2.1.22 – Rappresentazione del numero di strati e della distribuzione degli individui per strato ottenuta tramite l’algoritmo TSTRAT. 100 90 80 70 7 32 60 % 50 15 21 52 40 41 10 0 2° Strato 3° Strato 30 20 1° Strato 21 4° Strato 12 ASP1 APS1 APS2 ASP2 Fig. 5.2.1.23 - Rappresentazione del numero di strati e della distribuzione percentuale degli individui per strato ottenuta tramite l’algoritmo TSTRAT. 126 20 chioma 18 fusto 16 Altezza (m) 14 13.3m 12 10 9.6m 8 7.4m 6 4 2 0 Individui Altezza (m) Fig. 5.2.1.24 – Rappresentazione del numero di strati dell’area ASP1. Gli strati sono delimitati dalle linee rosse che indicano l’altezza limite di competizione calcolata con il TSTRAT. chioma 24 22 20 18 16 14 12 10 8 6 4 2 0 fusto 17.4m 14.0m 11.1m Individui Fig. 5.2.1.25 - Rappresentazione del numero di strati dell’area ASP2. Gli strati sono delimitati dalle linee rosse che indicano l’altezza limite di competizione calcolata con il TSTRAT. 5.2.2.1 Analisi dell’organizzazione strutturale dei polloni costituenti la ceppaia La competizione tra le ceppaie è stata analizzata nella componente spaziale (verticale e orizzontale) e cronologica tramite l’applicazioni di indici e analisi dendrocronologiche e dendroclimatiche, utilizzando i parametri strutturali del pollone dominante (centroide) di ogni ceppaia. Per comprendere meglio i processi competitivi tra i polloni all’interno delle ceppaie è stata realizzata un’analisi approfondita su 10 ceppaie. Sono stati utilizzati i dati di 127 base già raccolti in campo (Pesaresi, 2008) e rielaborati ad hoc ai fini della presente ricerca per meglio caratterizzare la struttura dei fusti e delle chiome dei polloni sulle ceppaie. I principali parametri dendrometrici delle ceppaie delle due aree campione sono sintetizzati in tabella 5.2.1.1.a (Pesaresi, 2008). Essa mostra che l’età media di ASP1 è di 56 anni mentre quella di ASP2 è di 47; alcuni polloni raggiungono anche età superiori a 100 anni, sebbene il loro diametro sia relativamente ridotto (fig. 5.1.1.a). L’analisi cronologica (Pesaresi, 2008) evidenzia una distribuzione più irregolare in ASP1 e la scarsa corrispondenza tra l’età e la dimensione dei polloni, infatti quelli più vecchi hanno anche diametri inferiori, mentre ASP2 è caratterizzata da una struttura più omogenea causata da ceduazioni più regolari (Pesaresi, 2008). Parametri ASP1 ASP2 n. polloni medio % polloni morti Media diametri 1.30 D1.30 max D 1.30 min Media altezze H max H min Media altezza inserzione chioma Età media 8.4 2.4 16.3 40.5 5 7.8 16.9 1.8 2.4 56 10 24 10.9 26 3 9 18.3 1.1 6.6 47 Tab. 5.2.1.1.a - Principali caratteri dendrometrici delle due ceppaie. ASP1 8 ASP2 7 n. polloni 6 5 4 D = 13 cm 3 2 1 0 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80 85 90 95 100 105 Classi di età (anni) Fig. 5.2.1.1.a – Distribuzione di frequenza dei polloni in classi di età per entrambe le aree (da Pesaresi, 2008). 128 Una prima evidente differenza tra le due aree è data dalle condizioni vegetative (fig. 5.2.1.1.b); infatti tutte le ceppaie di ASP2 presentano polloni morti, al contrario di quelle di ASP1 dove è presente un solo individuo morto. La ceppaia C0048 presenta il 50% dei polloni morti mentre le altre ne hanno mediamente il 14% contro il 2.4% di ASP1. Ciò rispecchia quanto emerso in precedenza (Renzaglia 2008) cioè, che in ASP1 la quantità di necromassa è molto inferiore non perché non se ne formi, ma perché quella determinata da eventi meteorici (vento, neve, galaverna, ecc.) viene allontanata per gravità o per scivolamenti del manto nevoso, sempre abbondante a queste quote. L’elevata necromassa di ASP2 è tipica di faggete chiuse caratterizzate da abbandono prolungato e dove il materiale rimane più a lungo in situ. 8 ASP1 7 ASP2 6 n. polloni 5 C. Veg. 1 C. Veg. 2 C. Veg. 3 C. Veg. 4 C. Veg. 5 4 3 2 1 0 L1419 L1421 L1422 N1664 N1665 C0005 C0048 C0140 C0205 C0726 ID ceppaia Fig. 5.2.2.1.b – Condizione vegetativa dei polloni di ogni singola ceppaia. C. Veg 1: piena vigoria; C. Veg. 2: buona vitalità; C.Veg 3: vitalità ridotta, danneggiato; C.Veg. 4: deperiente, scarsa vitalità; C.Veg. 5: individuo morto. L’analisi dei diametri misurati sia alla base che a 1.30 m da terra, ha messo in evidenza la maggiore dimensione dei polloni delle ceppaie del limite continuo (L) in ASP1 seguite da quelle dei nuclei (N), indicando una struttura più eterogenea delle ceppaie di ASP1 rispetto a quelle di ASP2 caratterizzate invece da una minore dimensione e maggiore omogeneità strutturale (fig. 5.2.1.1.c). Lo stesso andamento è risultato anche per la differenza media della dimensione dei due diametri (fig. 5.2.1.1.d), riscontrando che i polloni del limite continuo hanno una maggiore rastremazione, mentre quella minore caratterizza le ceppaie di ASP2 soggette ad una maggiore concorrenza per la luce. 129 30 Diametro (cm) 25 ASP1 ASP2 D base D 1.30 20 15 10 5 0 L1419 L1421 L1422 N1664 N1665 C0005 C0048 C0140 C0205 C0726 ID Ceppaia D base - dbh Fig. 5.2.2.1.c – Valore medio del diametro alla base e a 1.30m di ogni ceppaia. 4.5 4.0 3.5 3.0 2.5 2.0 1.5 1.0 0.5 0.0 ASP1 ASP1 L1419 L1421 L1422 N1664 N1665 C0005 C0048 C0140 C0205 C0726 ID Ceppaia Fig. 5.2.2.1.d – Valore medio della differenza tra il diametro alla base e a 1.30m di ogni ceppaia. Per ogni ceppaia è stata analizzata la struttura verticale raggruppando i polloni in classi di altezza, corrispondenti all’80 e al 50% dell’altezza massima del pollone più alto ed applicando l’indice verticale del profilo delle chiome A-index (Pretzsch, 1998), l’unico utilizzabile sulla base dei dati disponibili. L’indice A mette in risalto la maggiore complessità strutturale delle ceppaie di limite di ASP1 e per quelle di ASP2, indicando quindi condizioni simili di accrescimento; mentre indica una minore complessità in quelle situate nei nuclei più in quota di ASP1 (fig. 5.2.1.1.e). Questo risultato è causato dall’assenza di polloni nella classe di altezza compresa tra il 51 e l’80% di H, che determina una non omogenea distribuzione degli individui tra le classi di altezza (fig. 5.1.1.2.g), ciò che invece avviene per le altre ceppaie (fig. 5.1.1.2.f e h). Il valore inferiore ottenuto per i nuclei, potrebbe essere stato 130 influenzato dal minor numero di entità elementari analizzate, che riducono la probabilità della presenza di polloni in tutte le classi di altezza. Ma è anche vero che gli individui situati più in quota sono maggiormente esposti ai fattori ambientali esogeni oltre all’azione del pascolo. I polloni (vivi) di ASP 1 ed in particolare dei nuclei isolati hanno altezze inferiori rispetto a quelle dei polloni (C) di ASP2 (fig. 5.2.1.1.f, g, h). Inoltre ogni ceppaia ha 1 o 2 individui dominanti che esercitano una maggiore competizione per la luce nei confronti degli altri che invece, rimangono relegati nel piano intermedio e soprattutto dominato. Ciò è confermato anche dall’inclinazione e andamento delle curve ipsometriche (fig. 5.2.1.1.m) costruite con tutti i polloni delle 10 ceppaie di entrambe le aree campione. I risultati fin’ora presentati, mettono in risalto le differenti dinamiche di competizione tra le due aree: in ASP1 dove la copertura è più discontinua, le ceppaie sono maggiormente interfacciate con l’ecotono di prateria e quindi risentono maggiormente delle interferenze esogene e meno della competizione tra gli individui, anche a causa della loro minore densità. In ASP2 la maggiore copertura e densità dei polloni e, la presenza di individui più alti (legata anche da una maggiore fertilità) e con diametro inferiore indicano che la struttura è altamente influenzata dai processi di competizione, sia tra i polloni di ogni ceppaie che tra quelli di ceppaie vicine. Ciò è intuibile anche dalle rappresentazioni fotografiche in figura (5.2.1.1.i,l). Alcuni autori attribuiscono la presenza di dinamismi ancora attivi ad un processo evolutivo strutturale di tipo asimmetrico (Piovesan e Bernabei, 1997) principalmente determinato dalla competizione per la luce (Amorini e Fabbio, 1991). 1.2 A-index 1.0 99.7% 91.5% 0.8 58.3% 0.6 0.4 0.2 0.0 L N C Ceppaie Fig. 5.2.2.1.e - Risultato dell’indice A di Pretzsch per le ceppaie di limite (L), per i nuclei (N) e per quelle in ASP2 (C).In ordinata è indicato il valore assoluto dell’indice mentre nella figura è riportato quello relativo in %. 131 Altezza (m) 18 16 14 12 10 8 6 4 2 0 L1421 L1422 L1419 80% H 50% H 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 Polloni di limite in ASP1 Fig. 5.2.2.1.f – Altezza dei polloni delle ceppaie del limite superiore del bosco continuo in ASP1. N1664 16 N1665 14 Altezza (m) 12 80% H 10 8 50% H 6 4 2 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 Polloni dei nuclei in ASP1 Altezza (m) Fig. 5.2.2.1.g – Altezza dei polloni delle ceppaie dei nuclei isolati del limite superiore del bosco in ASP1. 20 18 16 14 12 10 8 6 4 2 0 C0048 C0140 C0726 C0005 C0205 80% H 50% H 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 Polloni delle ceppaie di ASP2 Fig. 5.2.2.1.h – Altezza dei polloni delle ceppaie del limite superiore del bosco in ASP2. 132 i l Fig. 5.2.2.1.i, l – Rappresentazione fotografica delle ceppaie delle due aree. La foto di sinistra (i) rappresenta una ceppaie di ASP1, quella di destra (l) rappresenta una ceppaia di ASP2. Le curve ipsometriche (fig. 5.2.1.1.e) hanno un andamento simile a quello ottenuto da Renzaglia (2008), ma sono caratterizzate da una maggiore ripidità in corrispondenza dei diametri inferiori, dove la densità induce i polloni ad allungarsi rapidamente per garantirsi una sufficiente quantità di energia radiante. Confrontando la struttura diametrica con quella cronologica in ASP1, si evince dalla prima un popolamento tipicamente coetanei forme, e dalla seconda una struttura cronologica più irregolare, con la presenza di alcuni individui molto giovani ed altri con età superiore ai 90 anni. Tale risultato è proprio riconducibile alle condizoni delle formazioni di limite, esposte a condizioni climatiche estreme, all’azione diretta del pascolo ed alle probabili parziali asportazioni di polloni da parte dei pastori. 25 20 H (m) ASP1 y = 8.7824ln(x) - 10.496 R² = 0.8231 ASP2 15 10 y = 6.4772ln(x) - 8.5718 R² = 0.8881 5 0 0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 D (cm) Fig. 5.2.1.1.m – Curve ipsometriche delle ceppaie esaminate in ASP1 e ASP2. 133 Dall’analisi delle chiome di ogni ceppaia è emerso che i polloni di maggiore dimensione diametrica, ovvero i dominanti ed i codominanti, hanno anche una maggiore espansione delle chiome. Le ceppaie dei nuclei più isolati (N) sono inoltre caratterizzate dalla massima espansione delle chiome (fig. 5.2.1.1.n), facilmente intuibile data la scarsa concorrenza esercitata dalle ceppaie vicine. Dalla figura 5.2.1.1.n risulta che alcune ceppaie di ASP2 hanno un’espansione della chioma superiore a quelle del limite chiuso, indicando un certa variabilità nelle condizioni microstazionali. L’altezza di inserzione della chioma nei polloni, mediata per ceppaia è decisamente inferiore in quelle di ASP1 che hanno quindi chiome più profonde, soprattutto nei nuclei isolati, a differenza di quelle di ASP2 caratterizzate da Area max chioma (m²) chiome inserite a maggiore altezza e maggiormente concentrate nel settore apicale. 20 18 16 14 12 10 8 6 4 2 0 L1419 L1421 L1422 N1664 N1665 C0005 C0048 C0140 C0205 C0726 ID ceppaia H inserzione chioma (m) Fig. 5.2.2.1.n – Rappresentazione della superficie della chioma di ogni ceppaia, calcolata con le proiezioni dei raggi nei 4 punti cardinali. 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 L1419 L1421 L1422 N1664 N1665 C0005 C0048 C0140 C0205 C0726 ID ceppaia Fig. 5.2.1.1.o – Rappresentazione della media delle altezze inserzioni della chioma di ogni ceppaia. 134 In fine si è proceduto al calcolo del volume dendrometrico complessivo di ogni ceppaia utilizzando, in assenza di tavole locali, quelle a doppia entrata con valenza nazionale utilizzate dall’Inventario Forestale Nazionale Italiano del 1985. In particolare sono state utilizzate la tavola generale a doppia entrata del faggio allevato a fustaia e quella generale a doppia entrata del faggio allevato a ceduo. Le ceppaie di ASP1 hanno volumi superiore rispetto a quelle di ASP2 nonostante il minor numero medio di polloni per ceppaia, evidenziando ulteriormente come gli elevati rapporti di competizione in ASP2 influenzino la struttura del soprassuolo. 3.0 Volume (m³) 2.5 2.0 1.5 1.0 0.5 0.0 L1419 L1421 L1422 N1664 N1665 C0005 C0048 C0140 C0205 C0726 ID ceppaia Fig. 5.2.2.1.p – Rappresentazione del volume complessivo di ogni ceppaia. 135 5.2.2 Faggete rappresentante il processo di conversione In tabella 5.2.2.1 sono riportati i principali parametri dendrometrico-strutturali relativi alle tre aree di studio. Sito Struttura Piante/ha Dg (cm) D dom (cm) Hg (m) H dom (m) G (m2/ha) Provvigione (m3/ha) Ceduo 2665 15,5 35 14,7 18,4 50,56 475,64 invecchiato Fustaia transitoria 1293 20,3 34 18,6 21,3 41,92 457,34 S1D (1 diradamento) Fustaia transitoria 438 27,9 36 18,8 20,1 26,75 287,38 S2D (2 diradamenti) Tab. 5.2.2.1 – Principali parametri dendrometrico-strutturale dei tre siti di studio (da Santini et al., 2009). ST Le provvigioni ad ettaro (tab. 5.2.2.1) sono tutte decisamente elevate per le Marche e superiori (anche del doppio nel caso di ST e SD1) alle medie (200-220 m3/ha) indicate dall’Inventario Forestale Regionale (IPLA 2001). I tre soprassuoli sono caratterizzati da una struttura coetaneiforme con alcune differenze sostanziali che derivano sia dalla gestione pregressa (ceduo con scarsissima matricinatura) che dagli interventi di avviamento. La distribuzione ipsometrica (fig. 5.2.2.1) esprime una struttura verticale praticamente monoplana in S1D e S2D, mentre nel sito testimone vi sono dinamismi ancora attivi fra ceppaie dominanti e subdominanti, principalmente determinato dalla competizione per la luce (Amorini e Fabbio 1991). Ciò è espresso anche dalle curve ipsometriche (fig. 5.2.2.2), descritte da funzioni semilogaritmiche, le quali indicano la maggiore fertilità di S2D ma anche dinamismi di concorrenza tra gli individui di minor dimensione diametrica, condizione presente anche in ST ma non rilevabile dal grafico, in quanto le altezze in quel sito sono state misurate solo sul pollone dominante di ogni ceppaia (Santini, 2009). Dall’analisi delle curve ipsometriche è stato possibile comprendere la modalità degli interventi passati di avviamento; infatti la quasi perfetta sovrapposizione delle curve di ST e S2D evidenzia che con il taglio di avviamento sono stati asportati principalmente gli alberi di maggior dimensione mentre con il secondo diradamento si è intervenuto sugli individui di minor diametro e altezza. 136 800 700 n° alberi / ha 600 500 S1D S2D ST 400 300 200 100 0 6 9 12 15 Altezza (m) 18 21 24 Fig. 5.2.2.1 – Distribuzione degli individui in classi di altezza di 3 cm. 25 Altezza (m) 20 15 10 5 0 0 10 20 30 40 50 60 Diametro (cm) Fig. 5.2.2.2 – Curve ipsometriche relative ei tre siti di studio. Di seguito ci proponiamo, invece, di illustrare i risultati ottenuti attraverso l’applicazione degli indici di struttura verticale, oggetto del presente studio. I valori relativi alla media delle altezze e alla media delle profondità di chioma presentati in fig. 5.2.2.3 indicano un loro progressivo aumento dal sito testimone a quello S2D, indicando che i diradamenti hanno favorito l’accrescimento in altezza delle piante e l’allungamento delle loro chiome, parametro importante sia dal punto di vista ecologico che produttivo. I valori di deviazione standard sono simili tra ST e S1D mentre diminuiscono nel sito con due diradamenti. 137 Media altezze Media profondità chioma 24 Altezza (m) 20 16 12 8 4 0 ST S1D S2D Fig. 5.2.2.3 - Distribuzione della media delle altezze totali e delle profondità di chioma con le relative deviazioni standard, degli individui delle aree di studio del Maolaro. Il coefficiente di variabilità dei parametri appena descritti (fig. 5.2.2.4) indica che gli individui del ceduo invecchiato hanno un’altezza ed una profondità di chioma maggiormente differenziata rispetto alle altre aree. S1D invece è caratterizzato da un’elevata variabilità della profondità di chioma e da altezze simili. Il sito con due diradamenti ha parametri più CV (%) uniformi rispetto agli altri. CV altezza 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 ST S1D CV profondità chioma S2D Fig. 5.2.2.4 – Coefficiente di variabilità delle altezze totali e profondità di chioma, degli individui nelle aree di studio del Maolaro. 138 La tabella 5.2.2.2 evidenzia una scarsa correlazione tra la profondità e l’area della chioma in S1D e la non significatività statistica per gli altri due siti. Una buona correlazione si ha invece tra il diametro del fusto e quello della chioma soprattutto nel sito con due diradamenti, probabilmente perché gli interventi ne hanno favorito l’espansione, aumentando quindi la superficie fotosintetizzante, che induce un maggiore accrescimento diametrico del tronco. Correlazioni ST S1D S2D Altezza totale / Profondità chioma 0.29* 0.23* 0.29* Profondità chioma / Area chioma 0.11 0.19* 0.15 Altezza totale / Area chioma 0.34* 0.35* 0.38* Diametro fusto / Diametro chioma 0.50* 0.59* 0.70* Tab. 5.2.2.2 – Correlazioni delle aree del processo di conversione (p < 0.05). I valori di CHD (fig. 5.2.2.5) indicano che la struttura in S1D è quella più idonea ad ospitare nicchie ecologiche per la fauna forestale, mentre il ceduo invecchiato è quello meno idoneo. Questo può essere spiegato dal fatto che ci sono meno individui nella classe di altezza Hi5 che determinano un valore minore di Pi rispetto agli altri due siti (fig. 5.2.2.6). Infatti il maggior valore del sito con un diradamento è legato al contributo degli alberi delle classi di altezza più alte Hi4 e Hi5. 15 CHD 12 9.9 9 7.2 6.4 6 3 0 ST S1D S2D Fig. 5.2.2.5 – Valori dell’indice CHD nelle aree del processo di conversione. Infine dal grafico sottostante è possibile notare che ci sono pochissimi individui nella classe di altezza 6-10 m mentre la classe Hi1 sembra non essere rappresentata indicando l’assenza di individui di bassa statura anche nel sito testimone. In realtà questo è vero nei siti diradati 139 e soprattutto in S2D dove gli interventi hanno favorito gli alberi di grandi dimensioni, ma non nel ceduo invecchiato. La spiegazione deriva dal fatto che in ST l’altezza rappresentata è Pi quella del pollone dominante. 2.2 2.0 1.8 1.6 1.4 1.2 1.0 0.8 0.6 0.4 0.2 0.0 Hi 5 Hi 4 Hi 3 Hi 2 Hi 1 ST S1D S2D Fig. 5.2.2.6 - Distribuzione del valore Pi indicante il punteggio della copertura della classe di altezza appartenenti alla classe iesimo. Hi indica la classe di altezza alla quale fanno riferimento i valori Pi. Hi1 rappresenta la classe 1-5 m; Hi2 la classe 6-10 m; Hi3 la classe 11-15 m; Hi4 la classe 16-20 m; Hi5 la classe 21-25 m. Nelle figure 5.2.2.7 e 5.2.2.8 sono riportate le distribuzioni di frequenza in percentuale degli individui nelle tre classi di altezza utilizzate per l’applicazione degli indici Vertical Evenness, del profilo verticale delle specie A e di quello A-Crown. Tutti i siti d’indagine sono caratterizzati dall’avere il maggior numero di alberi che ricadono nella classe di altezza 81100% e, come ci si aspettava, passando dal ceduo invecchiato alla fustaia transitoria con due diradamenti la percentuale degli alberi dominanti aumenta (fig. 5.2.2.8). Questo influisce anche sul risultato dell’applicazione dei tre indici in quanto, la maggiore complessità si ha nel del ceduo invecchiato e diminuisce all’aumentare del numero di diradamenti (fig. 5.2.2.9, 5.2.2.10 e 5.2.2.11). 140 350 300 n.individui 250 200 strato 81-100% 150 strato 51-80% strato 0-50% 100 50 0 ST S1D S2D Fig. 5.2.2.7 - Distribuzione di frequenza degli individui in classi di altezza delle aree di studio del processo di conversione. In particolare tutti gli indici evidenziano risultati simili tra ST e S1D che invece si discostano molto da quelli di S2D. Il fatto che il sito con un diradamento abbia risultati simili al ceduo invecchiato è probabilmente determinato dall’intensità e dalla modalità con cui è stato eseguito l’intervento di avviamento all’alto fusto, caratterizzato dall’asportazione di pochi % individui soprattutto dalle classi diametriche maggiori. 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 45 57 84 strato 81-100% strato 51-80% 41 strato 0-50% 32 14 11 13 3 ST S1D S2D Fig. 5.2.2.8 - Distribuzione percentuale degli individui appartenenti alle classi di altezza delle aree di studio del processo di conversione. 141 0.9 0.8 0.80 0.74 0.7 0.6 VE 0.5 0.4 0.28 0.3 0.2 0.1 0 ST S1D S2D Fig. 5.2.2.9 – Valori dell’indice Vertical Evenness delle aree del processo di conversione. Anche in questi siti come in quelli della treeline il valore massimo raggiungibile dall’indice A è 1.1, mentre quello dell’indice A-Crown è 2.2, dovuto all’elevata capacità competitiva del faggio, infatti nei tre siti di studio è presente un solo individuo di abete bianco che A index contribuisce con un valore assoluto per entrambi gli indici di 0.02. 1.1 1.0 0.9 0.8 0.7 0.6 0.5 0.4 0.3 0.2 0.1 0.0 abete 91,0 % faggio 86,3 % 47,0 % ST S1D S2D Fig. 5.2.2.10 - Risultato dell’indice A di Pretzsch con il valore di ogni singola specie ottenuto nelle aree di studio del processo di conversione. In ordinata è indicato il valore assoluto dell’indice mentre nella figura è riportato quello relativo in %. 142 A-Crown index abete 2.2 2.0 1.8 1.6 1.4 1.2 1.0 0.8 0.6 0.4 0.2 0.0 89,1 % faggio 82,6 % 55,3 % ST S1D S2D Fig. 5.2.2.11 - Valore dell’indice A-Crown per le aree di studio del processo di conversione. In ordinata è indicato il valore assoluto dell’indice mentre nella figura è riportato quello relativo in %. La distribuzione degli individui di faggio nelle classi di altezza e di chioma relativa (fig. 5.2.2.12) spiega il risultato dell’indice A-Crown, dove il valore più basso di S2D è legato alla minore distribuzione uniforme degli alberi tra le classi di altezza e di chioma relativa. Infine in figura 5.2.2.13 e 5.2.2.14 si riportano i risultati ottenuti dall’applicazione dell’algoritmo TSTRAT che ha prodotto 3 strati in ST, 4 in S1D e uno unico in S2D. Classe 81-100% Classe 51-80% Classe 0-50% 140 n. individui 120 100 80 60 40 20 0 0 - 0.39 0.4 - 0.69 0.7 - 1 ST 0 - 0.39 0.4 - 0.69 0.7 - 1 S1D 0 - 0.39 0.4 - 0.69 0.7 - 1 S2D Chioma relativa Fig. 5.2.2.12 - Distribuzione degli individui di faggio in classi di chioma relativa e di altezza. 143 350 300 n. individui 250 1° Strato 200 2° Strato 150 3° Strato 100 4° Strato 50 0 ST S1D S2D Fig. 5.2.2.13 - Rappresentazione del numero di strati e della distribuzione degli individui per strato ottenuta tramite l’algoritmo TSTRAT. Il sito testimone è caratterizzato da una migliore distribuzione degli individui tra i 3 strati ottenuti; invece la presenza dell’unico strato in S2D è legata agli interventi gestionali realizzati con l’obiettivo di ottenere una fustaia coetaneiforme di faggio. 100 90 80 36 70 45 1° Strato % 60 50 40 35 30 20 10 22 100 3° Strato 4° Strato 17 29 0 ST 2° Strato 16 S1D S2D Fig. 5.2.2.14 - Rappresentazione del numero di strati e della distribuzione percentuale degli individui per strato ottenuta tramite l’algoritmo TSTRAT. La differenza del numero di strati tra il sito testimone e quello con un diradamento, dipende dal fatto che la loro definizione è altamente legata dalla profondità di chioma dell’albero più alto di ogni strato. Infatti dalle figure 5.2.2.15 e 5.2.2.16 si evidenzia che in un simile intervallo di altezza (sopra i 14 m da terra), sono stati ottenuti tre strati in S1D mentre solo due in ST. 144 Altezza (m) chioma 24 22 20 18 16 14 12 10 8 6 4 2 0 fusto 18.9m 14.2m Individui Altezza (m) Fig. 5.2.2.15 - Rappresentazione del numero di strati dell’area ST. Gli strati sono delimitati dalle linee rosse che indicano l’altezza limite di competizione calcolata con il TSTRAT. chioma 24 22 20 18 16 14 12 10 8 6 4 2 0 fusto 19.8m 16.1m 14.1m Individui Fig. 5.2.2.16 - Rappresentazione del numero di strati dell’area S1D. Gli strati sono delimitati dalle linee rosse che indicano l’altezza limite di competizione calcolata con il TSTRAT. 5.2.3 Faggete con abete bianco Sono presentati i risultati ottenuti dall’elaborazione dei dati raccolti nella realizzazione delle aree di saggio realizzate in concomitanza del progetto (LIFE NAT/IT/000371 RESILFOR (REstoringSILver-firFORest) sulla “Ricostituzione di boschi a dominanza di faggio con Abies alba nell’Appennino Tosco-Marchigiano”) 145 In ADS1 il faggio rappresenta l’80% degli individui e l’abete il 19%; il restante 1% è rappresentato da individui di acero. In ADS2 invece il faggio rappresenta il 73%, l’abete il 21% ed il restante 5% è costituito da individui di tasso, sorbo degli uccellatori, sorbo montano e acero di monte. La necromassa è maggiormente presente in ADS1 con il 16% di individui morti di cui il 42% è rappresentato dall’abete. Mentre in ADS2 si attesta sul 5% del totale di cui il 56% sono faggi. In tabella 5.2.3.1 sono riportati i principali parametri dendrometrico-strutturale delle due aree di studio. Parametri ADS1 ADS2 n. ceppaie/ha 342 390 n. individui/ha 1194 – 826* 1790 – 485* Dg (cm) 21.3 – 23.1* 17.7 – 9* Hg (m) 19.8 – 12.7* 16.7 – 5.5* H dom (m) 24.6 – 19.3* 23.8 – 12* G (m2/ha) 42.4 – 12* 44 – 3* V (m3/ha) 450 – 92* 460 – 14* Tab. 5.2.3.1 – Principali parametri dendrometrico-strutturale dei tre siti di studio. 40 Abete bianco 35 Faggio n. individui 30 25 20 15 10 5 0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80 classe diametro (cm) Fig. 5.2.3.1 - Distribuzione sia degli individui di faggio (polloni e alberi monocormici) che di abete bianco di ADS1, in classi diametriche di 5 cm. 146 70 Abete bianco n. individui 60 Faggio 50 40 30 20 10 0 5 10 15 20 25 30 classe diametro (cm) 35 40 Fig. 5.2.3.2 - Distribuzione sia degli individui di faggio che di abete bianco di ADS2, in classi diametriche di 5 cm. La distribuzione di frequenza dei diametri dell’abete bianco (fig. 5.2.3.1 e 5.2.3.2) indica una struttura disetaneiforme, con molti individui nelle classi più piccole e progressivamente meno in quelle più grandi. Il faggio invece ha una distribuzione diametrica tendenzialmente coetaneiforme (fig. 5.2.3.1 e 5.2.3.2). Le curve ipsometriche del faggio, costruite con le altezze dei polloni dominanti di ogni ceppaie e da tutti gli individui monocormici, indicano la coetaneità dei due popolamenti (fig. 5..2.3.3). Nell’ultimo tratto, la curva ADS1 tende ad un maggiore appiattimento indicando che il popolamento è vicino al raggiungimento delle massime potenzialità di accrescimento in altezza; mentre in ADS2 sono più frequenti gli individui nelle classi ipsometriche più piccole (fino a 15 cm) a causa del maggior numero di polloni presenti sulle ceppaie. 30 25 Altezza (m) ADS1 y = 8.3492ln(x) - 5.6802 R² = 0.6615 ADS2 20 15 y = 9.3162ln(x) - 9.9808 R² = 0.8925 10 5 0 0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 Diametro (cm) Fig. 5.2.3.3 – Curve ipsometriche del faggio delle due aree di saggio. 147 Le curve ipsometriche dell’abete bianco sono state rappresentate in due grafici differenti per la grande diferenza dei loro range diametrici e ipsometrici. In ADS1 la distribuzione dei punti indica che tutte le classi diametriche sono rappresentare e che l’altezza cresce al crescere del diametro per poi stabilizzarsi nelle classi diametriche più grandi (fig. 5.2.3.4). L’altezza massima raggiunta dall’abete bianco nell’ADS1 è di 20 m, mentre in ADS2 è di 9.4 m. La curva ipsometrica ottenuta in ADS2 risulta è abbastanza ripida e tipica di popolamenti in fase giovanile (fig. 5.2.3.5). In realtà gli abeti sono cronologicamente in una fase adulta, in quanto hanno un’età prevalente di 65 anni ed alcuni superano anche gli 80 anni (vedere Risultati analisi cronologica). 25 Altezza (m) 20 15 10 y = 6.3384ln(x) - 7.2713 R² = 0.8609 5 0 0 5 10 15 20 25 30 35 Diametro (cm) 40 45 50 55 60 Fig. 5.2.3.4 – Curva ipsometrica dell’abete bianco di ADS1. 10 Altezza (m) 8 6 4 y = 3.4256ln(x) - 2.5012 R² = 0.8528 2 0 0 5 10 Diametro (cm) 15 20 Fig. 5.2.3.5 - Curva ipsometrica dell’abete bianco di ADS1. La rappresentazione tridimensionale ottenuta tramite il software SVS, può aiutare a comprendere le differenze strutturali tra le due aree. In particolare è possibile vedere che in 148 ADS1sono presenti individui di abete bianco anche nelle classi dominanti e codominanti (fig. 5.2.3.5), cosa che invece non si verifica in ADS2 dove sono presenti abeti relegati nelle classi di altezza inferiori (fig. 5.2.3.6). Dalle rappresentazioni tridimensionali è inoltre possibile distinguere una quantità maggiore di individui morti in piedi, o comunque deperienti, in ADS1, distinti dal colore giallo e arancio. Fig. 5.2.3.5 – Rappresentazione tridimensionale SVS di ADS1. Fig. 5.2.3.618 – Rappresentazione grafica SVS di ADS2. 149 Di seguito sono illustrati i risultati ottenuti attraverso l’applicazione degli indici di struttura verticale; per analizzare l’interazione tra le due specie, sono state realizzate elaborazioni sia all’intero popolamento e sia escludendo le conifere. Si è scelto di utilizzare il termine conifere per la presenza, in ADS2, non solo dell’abete ma anche di alcuni individui di tasso (Taxus baccata L.). Per quanto riguarda le latifoglie, oltre al faggio sono presenti anche pochi alberi di sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia L.), sorbo montano (Sorbus aria (L.) Crantz.) e acero di monte (Acer pseudoplatanus L.) I valori della media delle altezze e della media di profondità di chioma con le relative deviazioni standars sono rappresentate nella tabella 5.2.3.2 e tramite grafico ad istogrammi nella figura 5.2.3.7. Media altezze (m) SD altezze(m) Media profondità chioma (m) SD profondità chioma (m) ADS1 16.8 6.4 6.6 3.7 ADS1 senza conifere 19.7 3.8 7.4 3.3 ADS2 11.5 7.6 4.6 3.7 ADS2 senza conifere 17.0 4.7 6.9 3.2 Tab. 5.2.3.2 – Valori di madia delle altezze e media delle profondità di chioma con le relative deviazioni standars. I valori sono stati calcolati sia considerando tutti gli individui e sia escludendo le conifere. I risultati evidenziano che sia la media delle altezze che quella della profondità di chioma aumentano se si escludono le conifere, mentre le relative deviazioni standard diminuiscono. Ciò dipende dalla presenza degli individui di abete bianco e di tasso soprattutto nel piano dominato dove riducono la media, mentre influiscono meno sulla media delle profondità di chioma. Quanto detto viene confermato anche dal coefficiente di variabilità (fig. 5.2.3.8) che risulta molto elevato se sono considerati tutti gli individui, mentre diminuisce se si escludono le conifere. Tale differenza di variabilità è minore per la profondità di chioma perché sia abete bianco che tasso hanno inserzione di chioma più bassa. 150 Media altezze Media profondità chioma 25 Altezza (m) 20 15 10 5 0 ADS1 ADS2 Con conifere ADS1 ADS2 Senza conifere CV (%) Fig. 5.2.3.7 - Distribuzione della media delle altezze totali e delle profondità di chioma con le relative deviazioni standard nelle aree del Colle dell’Abete. I valori sono riferiti si a tutti gli alberi presenti e si escludendo le conifere. CV altezze 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 ADS1 ADS2 Con conifere CV profondità chioma ADS1 ADS2 Senza conifere Fig. 5.2.3.8 - Coefficiente di variabilità della media delle altezze totali e delle profondità di chioma nelle aree di studio del Colle dell’Abete. I valori sono riferiti si a tutti gli alberi presenti e si escludendo le conifere. Analizzando le correlazioni tra i parametri strutturali delle chiome e delle altezze, possiamo affermare che non esistono grandi differenze tra i dati che includono le conifere (tab. 5.2.3.3) e quelli che le escludono (tab. 5.2.3.4); in quest’ultimo caso i valori risultano essere inferiori ma comunque tutti statisticamente significativi. 151 Correlazioni con conifere ADS1 ADS2 Altezza totale / Profondità chioma 0.57* 0.90* Profondità chioma / Area chioma 0.54* 0.72* Altezza totale / Area chioma 0.46* 0.64* Diametro fusto / Diametro chioma 0.69* 0.86* Tab. 5.2.3.3 – Correlazioni ottenuta da tutti gli individui (sia conifere che latifoglie) presenti nelle due aree di studio del Colle dell’Abete (p < 0.05). Correlazioni senza conifere ADS1 ADS2 Altezza totale / Profondità chioma 0.34* 0.76* Profondità chioma / Area chioma 0.48* 0.57* Altezza totale / Area chioma 0.37* 0.50* Diametro fusto / Diametro chioma 0.69* 0.78* Tab. 5.2.3.4 – Correlazione ottenuta solamente dalle latifoglie presenti nelle due aree di studio del Colle dell’Abete (p < 0.05). I risultati ottenuti dall’applicazione dell’indice CHD (fig. 5.2.3.9) evidenziano il maggior valore ecologico dell’area ADS1 nonostante ADS2 sia caratterizzata da un maggior numero di specie. L’elevata differenza tra le due aree è causata dalla presenza di un solo individuo con altezza superiore a 25 m che ha determinato la presenza della classe di altezza Hi6 solo in ADS1. 15 con conifere 14.4 13.3 12 CHD senza conifere 10.5 9.9 9 6 3 0 ADS1 ADS2 Fig. 5.2.3.9 – Valore dell’indice CHD nelle aree di studio del Colle dell’Abete. L’indice è stato calcolato considerando sia tutte le specie presenti e sia escludendo le conifere. 152 L’applicazione del CHD alle sole latifoglie ha prodotto risultati inferiori ma senza grandi modifiche del valore ecologico esplicato dell’indice per le due aree. La differenza di tali valori è spiegata dalla figura 5.2.3.10 dalla quale è possibile vedere la riduzione del punteggio Pi nella classe Hi3 per ADS1 e l’eliminazione della classe Hi1 in ADS2. Quanto detto indica che l’abete bianco in ADS1 è presente soprattutto nella classe 11-15 m, mentre in ADS2 è maggiormente presente, insieme al tasso, nella classe 1-5 m. 4.0 Pi 3.5 3.0 Hi 6 2.5 Hi 5 2.0 Hi 4 1.5 Hi 3 1.0 Hi 2 0.5 Hi 1 0.0 ADS1 ADS2 Con conifere ADS1 ADS2 Senza conifere Fig. 5.2.3.10 - Distribuzione del valore Pi indicante il punteggio della copertura della classe di altezza appartenenti alla classe iesimo. Hi indica la classe di altezza alla quale fanno riferimento i valori Pi. Hi1 rappresenta la classe 1-5 m; Hi2 la classe 6-10 m; Hi3 la classe 11-15 m; Hi4 la classe 16-20 m; Hi5 la classe 21-25 m; Hi6 la classe 26-30 m. Nelle figure 5.2.3.11 e 5.2.3.12 sono riportate le distribuzioni di frequenza e percentuale degli individui nelle tre classi di altezza utilizzate per l’applicazione degli indici Vertical Evenness, del profilo verticale delle specie A e di quello A-Crown relativo alle chiome. Essendo l’abete ubicato sotto copertura del faggio, le differenze nelle distribuzioni degli individui tra la presenza e l’assenza delle conifere si hanno esclusivamente nella classe di altezza 0-50% per ADS2 (con una riduzione del numero di individui del 35%), ed in ADS1 anche nelle altre classi con la riduzione di un solo individuo in quella dei dominanti, 10 in quella degli intermedi e 25 in quella dei dominati. ADS1 tende ad avere, quindi, una migliore distribuzione degli individui tra gli strati rispetto a ADS2, dove invece il 53% è presente nel piano dominato costituito prevalentemente dall’abete. Se invece si considerano solo le ceppaie di faggio, è ADS2 ad avere una migliore distribuzione degli individui tra le classi, anche se le ceppaie tendono ad essere maggiormente presenti nelle classi di altezza superiori. 153 160 140 n. indivui 120 100 37 55 34 80 60 40 20 54 43 80 33 34 9 0 ADS1 ADS2 Con conifere 37 33 Classe 81-100% Classe 51-80% Classe 0-50% 18 ADS1 ADS2 Senza conifere % Fig. 5.2.3.11 - Distribuzione di frequenza degli individui in classi di altezza realizzate per le aree di studio del Colle dell’Abete. La distribuzione è stata realizzata sia con tutte le specie presenti e sia escludendo le conifere. 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 42 25 22 57 42 Classe 81-100% 32 38 53 26 ADS1 ADS2 Con conifere Classe 0-50% 34 9 Classe 51-80% 20 ADS1 ADS2 Senza conifere Fig. 5.2.3.12 - Distribuzione percentuale degli individui in classi di altezza realizzate per le aree di studio delle aree del Colle dell’Abete. La distribuzione è stata realizzata sia con tutte le specie presenti e sia escludendo le conifere. I valori del Vertical Evenness (fig. 5.2.3.13) indicano un’elevata complessità strutturale per entrambe le aree in quanto la distribuzione verticale della copertura effettuata dalle chiome dei singoli individui è ben distribuita nelle tre classi di altezza. Quanto detto avviene soprattutto nell’area ADS2 dove al contrario del CHD, si ha un punteggio maggiore. 154 VE con conifere 1.0 0.9 0.8 0.7 0.6 0.5 0.4 0.3 0.2 0.1 0.0 senza conifere 0.91 0.88 0.79 0.74 ADS1 ADS2 Fig. 5.2.3.13 – Risultato dell’indice Vertical Evenness applicato sia a tutte le specie e sia escludendo le conifere presenti nelle due aree di studio del Colle dell’Abete. I risultati ottenuti dall’indice A di Pretzsch e da quello A-Crown applicato alle due aree sono rappresentati sottoforma di grafico ad istogrammi, in modo da poter indicare il contributo di ogni singola specie. In questo caso il valore massimo raggiungibile dall’indice A è di 1.8 e quello dell’indice A-Crown è di 2.9, in quanto le condizioni stazionali ed ambientali permettono la coesistenza tra il faggio e l’abete bianco; quindi potenzialmente è possibile raggiungere un valore strutturale superiore legato alla relazione tra queste due specie. 1.8 1.6 80,1 % 83,3 % 1.4 A index 1.2 1.0 tasso 0.52 0.4 sorbo montano 0.8 acero montano 0.6 0.4 sorbo uccellatori 0.88 0.89 abete faggio 0.2 0.0 ADS1 ADS2 Fig. 5.2.3.14 – Risultato dell’indice A di Pretzsch con il valore di ogni singola specie ottenuto nelle aree di studio con abete bianco. In ordinata è indicato il valore assoluto dell’indice mentre nella figura è riportato quello relativo in %. 155 I risultati dell’indice A (fig. 5.2.3.14) indicano complessivamente una maggiore valenza strutturale del sito ADS2 determinata dal contributo di un numero di specie superiore. Infatti se si escludessero queste ultime, il punteggio maggiore verrebbe raggiunto da ADS1 grazie al valore determinato dall’abete bianco legato ad una migliore distribuzione tra le classi di A- Crown Index altezza. Infine i risultati evidenziano che il faggio influisce in modo simile nelle due aree. 2.9 2.7 2.4 2.1 1.8 1.5 1.2 0.9 0.6 0.3 0.0 78,1 % 0.80 78,4 % tasso sorbo uccellatori 0.74 sorbo montano acero montano abete 1.43 1.29 ADS1 ADS2 faggio Fig. 5.2.3.15 - Valore dell’indice A-Crown con il contributo di ogni singola specie ottenuto per le aree di studio con abete bianco. In ordinata è indicato il valore assoluto dell’indice mentre nella figura è riportato quello relativo in %. L’indice A-Crown (fig. 5.2.3.15) indica una complessità strutturale delle chiome simile tra le due aree legata ad una più equa distribuzione delle chiome stesse nelle classi di altezza. Infine l’applicazione dell’algoritmo TSTRAT ha prodotto un numero di strati simile tra le aree anche se di consistenza numerica (fig. 5.2.3.16) e percentuale (fig. 5.2.3.17) differente. In particolare si nota una maggiore concentrazione degli individui nel primo e nell’ultimo strato, soprattutto in ADS2, caratterizzata rispettivamente dalla dominanza del faggio e dell’abete. Il fatto che l’abete bianco sia concentrato soprattutto nelle posizioni dominate, determina la scomparsa di alcuni strati nell’applicazione del TSTRAT senza conifere. 156 160 140 47 n. individui 120 100 1° Strato 2° Strato 67 3° Strato 80 66 60 40 47 5° Strato 66 20 4° Strato 6° strato 7° strato 0 ADS1 ADS2 con conifere ADS1 ADS2 senza conifere % Fig. 5.2.3.16 - Rappresentazione del numero di strati e della distribuzione degli individui per strato ottenuta tramite l’algoritmo TSTRAT. La stratificazione è stata realizzata sia a tutti gli individui e sia escludendo le conifere. 100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 51 69 53 1° Strato 2° Strato 3° Strato 4° Strato 64 5° Strato 6° strato 7° strato ADS1 ADS2 con conifere ADS1 ADS2 senza conifere Fig. 5.2.3.17 - Rappresentazione del numero di strati e della percentuale degli individui per strato ottenuta tramite l’algoritmo TSTRAT. La stratificazione è stata realizzata sia a tutti gli individui e sia escludendo le conifere. I grafici relativi alle aree del Colle dell’Abete che rappresentano le altezze limite di competizione (fig. 5.2.3.18 e 5.2.3.19), mettono in risalto alcuni problemi del TSTRAT. In particolare la realizzazione degli strati è legata alla profondità di chioma dell’individuo più alto presente in ogni piano di altezza determinando la formazione di classi di competizione molto vicine tra loro. 157 Altezza (m) 26 24 22 20 18 16 14 12 10 8 6 4 2 0 19.5m 16.9m 13.7m 10.4m 7.6m Individui Fig. 5.2.3.18 - Rappresentazione del numero di strati dell’area ADS1. Gli strati sono delimitati dalle linee rosse che indicano l’altezza limite di competizione calcolata con il TSTRAT. La parte marrone di ogni barra rappresenta il fusto, la parte verde chiaro la chioma del faggio e quella verde scuro la chioma dell’abete bianco. Inoltre è possibile intuire che il TSTRAT potrebbe generare degli errori di classificazione, riscontrati anche tramite l’applicazione della cluster analisi (Latham et al., 1998), in quanto divide il popolamento in strati in funzione del valore calcolato dall’algoritmo, senza considerare che alcuni individui, solo per pochi centimetri di altezza, potrebbero Altezza (m) appartenere ad uno strato superiore o inferiore (fig. 5.2.3.14 e 5.2.3.15). 26 24 22 20 18 16 14 12 10 8 6 4 2 0 18.4m 15.8m 13.9m 11.7m 10.0m 8.4m Individui Fig. 5.2.3.19 - Rappresentazione del numero di strati dell’area ADS2. Gli strati sono delimitati dalle linee rosse che indicano l’altezza limite di competizione calcolata con il TSTRAT. La parte marrone di ogni barra rappresenta il fusto, la parte verde chiaro la chioma del faggio e quella verde scuro la chioma dell’abete bianco. 158 Infine, il TSTRAT si basa sul principio che anche negli strati sottostanti a quello dominante si verifichi una certa concorrenza nell’acquisizione della luce per la fotosintesi primaria. Questo è maggiormente verificabile nelle foreste di conifere multistratificate (in cui tale indice è stato sviluppato), dove la luce riesce a penetrare tra le chiome molto più facilmente rispetto ai popolamenti oggetti di studio, caratterizzati dalla dominanza del faggio. 5.2.4 Discussione di sintesi della struttura verticale Le analisi strutturali sono state condotte su popolamenti caratterizzati da differenti dinamiche evolutive in funzione della loro posizione lungo il versante, della composizione specifica e degli interventi gestionali realizzati. La caratteristica comune è che sono cedui di faggio “invecchiati”, termine che identifica il loro superamento utilizzazione. In linea generale sono comunque del turno massimo di popolamenti coetaneiformi e tendenzialmente omogenei a causa della loro gestione pregressa, caratterizzata da ceduazioni con assenza di matricine. Tali faggete hanno raggiunto un’età prevalente di 65 anni diventando, soprattutto se abbandonati, dei sistemi complessi ancora scarsamente conosciuti; per questo motivo si è deciso di studiare la loro struttura e dinamica evolutiva in modo da comprendere i possibili interventi di gestione futura calibrata sul concetto di multifunzionalità. In particolare si è deciso di approfondire l’analisi della struttura verticale perché, livello soprattutto in Italia è quella meno studiata, anche per la maggiore complessità di applicazione ai boschi cedui. Unità ecologica di riferimento è stata considerata la ceppaia e non i singoli polloni, anche per ragioni di semplificazione operativa, in quanto le analisi individuali sui polloni sono particolarmente complesse e soprattutto time-consuming, con il rischio di apportare scarsa variabilità alla popolazione campionaria. Nelle aree di studio situate al limite superiore del bosco (ASP 1 e 2), gli indici della struttura verticale hanno delineato una maggiore complessità nell’area situata tra l’ecotono boscoprateria (ASP1), in quanto essa è caratterizzata da una migliore distribuzione degli individui e delle loro chiome tra le classi di altezza. Questo risultato potrebbe essere spiegato dal fatto che in ASP1 i dinamismi evolutivi delle ceppaie risentono meno dell’influenza dell’elevata densità numerica e della copertura, che invece caratterizza ASP2. Infatti è proprio l’elevata competizione tra i polloni, che tendono ad allungarsi per raggiungere una posizione alla luce, che determina una loro maggiore concentrazione nella classe di altezza intermedia, dove 159 sono compresi l’81% dei polloni dominanti di ogni ceppaia. In ASP1, invece gli individui sono maggiormente distribuiti tra le classi di altezza, anche se prevalgono quelli presenti nel piano dominato. I popolamenti misti con abete bianco (ADS 1 e 2), hanno entrambi una buona complessità strutturale determinata soprattutto dalla mescolanza delle due specie che vanno ad occupare piani sociali differenti. Per quanto riguarda le aree caratterizzanti il processo di conversione, gli indici hanno messo in evidenza una maggiore omogeneità della fustaia transitoria in cui sono stati realizzati due diradamenti (fig. 5.2.4c). Il sito S1D ha invece una struttura più simile a quella del ceduo invecchiato, probabilmente determinato dall’intensità e dalla modalità con cui è stato eseguito, oltre trent’anni fa, l’intervento di avviamento all’alto fusto, caratterizzato dall’asportazione di pochi individui dalle classi diametriche maggiori, rallentando il processo di evoluzione verso la fustaia. La rappresentazione tridimensionale ottenuta tramite il software SVS, può aiutare a comprendere le differenze strutturali tra il ceduo invecchiato ed i popolamenti in conversione. In particolare è possibile vedere come all’aumentare del numero degli interventi di conversione all’alto fusto, si ha una semplificazione della struttura. Fig. 5.2.4.a – Rappresentazione grafica SVS del ceduo invecchiato (ST). 160 Fig. 5.2.1.b - Rappresentazione grafica SVS del sito con un diradamento (S1D). Fig. 5.2.1.c - Rappresentazione grafica SVS del sito con due diradamenti (S2D). 161 5.3 Risultati dell’analisi della struttura cronologica e dendrocronologia Nell’area di limite ASP1, la cronologia media è stata costruita con carote prelevate dal pollone dominante di tutte le ceppaie presenti. Nell’area ASP2 invece la cronologia media è stata realizzata con un campione molto rappresentativo, stratificato e calibrato sulle ceppaie presenti (164 carote su 635 ceppaie ovvero circa il 26%) (fig. 5.3.1). Nelle faggete miste con abete bianco, è stata analizzata la struttura cronologica solo per l’abete (fig. 5.3.2 e 5.3.3). Nelle aree di alta quota l’età prevalente delle piante è compresa fra 40 e 60 anni, periodo entro il quale sono avvenuti gli ultimi interventi di ceduazione, eseguiti senza rilasciare matricine. Nelle aree con abete l’età prevalente è di 65 anni, che indica nuovamente il periodo in cui vi è stata una cospicua affermazione della rinnovazione, presumibilmente in seguito ad un taglio di utilizzazione del ceduo. 160 APS1 APS2 140 120 n. individui 100 80 60 40 20 0 0-10 11-20 21-30 31-40 41-50 51-60 61-70 71-80 81-90 91-100 Classi età (anni) Fig. 5.3.1 – Distribuzione dell’età riferita ai polloni dominanti delle aree della Valle della Corte. La distribuzione di frequenza dei polloni dominanti in figura 5.3.1 delinea una struttura cronologica coetaneiforme, anche se la variabilità cronologica è abbastanza ampia; infatti ASP1 ha un range di età da 15 a 94 anni mentre ASP2 va da 30 a 87 anni. La coetaneità è rappresentata dal fatto che la maggior parte degli individui sono compresi nelle classi di età da 31 a 60 anni. La presenza di alberi con età superiori ai valori medi o modali è da associare alle poche matricine presenti o al rilascio di alcuni polloni sulle ceppaie con funzioni di protezione o di “tirasucchio” per formare polloni portaseme e surrogare l’assenza degli individui di origine gamica (Renzaglia, 2008). 162 Nelle aree con l’abete bianco, in figura 5.3.2 è rappresentata la distribuzione dell’età per l’area di studio ADS1, con la ulteriore distinzione della posizione sociale occupata degli individui. L’analisi ha messo in evidenza la struttura coetaneiforme, caratterizzata dalla maggiore frequenza degli individui della classe di 65 anni e dal fatto che quelli dominanti e codominanti siano i più vecchi. 8 Dominati 7 Intermedi n. individui 6 Codominanti 5 Dominanti 4 3 2 1 0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80 classe età (anni) Fig. 5.3.2 - Distribuzione delle età degli abeti bianchi in ADS1 per posizione sociale. Anche nell’area di studio ADS2 (fig. 5.3.3), la maggiore frequenza degli abeti è nella classe di 65 anni, ma si distingue dalla precedente area per la maggiore diversità diametrica, e soprattutto per l’assenza degli individui dominanti e codominanti. Diversi abeti hanno raggiunto età notevoli, soprattutto se si considera che sono di piccole dimensioni e che si trovano sotto copertura del faggio anche da oltre 80 anni. Gli individui più giovani si sono insediati successivamente all’ultima ceduazione e nelle poche aree dove non persiste l’elevata copertura del faggio. 163 9 8 Dominati 7 Intermedi n. individui 6 5 4 3 2 1 0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80 85 classe età (anni) Fig. 5.3.3 - Distribuzione delle età degli abeti bianchi in ADS2 per posizione sociale. In questo lavoro sono state realizzate le prime cronologie del faggio della Laga marchigiana, con particolare riferimento a quelle situate al limite superiore del bosco. In tabella 5.3.1 sono presentati i principali parametri statistici delle cronologie medie non standardizzate, rappresentative delle due aree. ID aree ASP1 ASP2 n. campioni Periodo Età 40 1913-2006 94 40 1928-2007 80 AM 2.08 1.90 STDV 0.84 0.58 SM 0.24 0.20 AC (1) 0.70 0.63 AC (std) -0.04 -0.07 Tab. 5.3.1 - Principali caratteri statistici delle cronologie stazionali di abete bianco: AM (ampiezza anulare media); STDV (Deviazione Standard); SM (Sensitività Media); AC (coefficiente di autocorrelazione di primo ordine della serie grezza); AC (std) (coefficiente di autocorrelazione di primo ordine della serie standardizzata). Entrambe le cronologie medie sono state realizzate con le 40 serie caratterizzate dai maggiori valori di CDI (Cross Dating Index ) e migliore sincronizzazione visiva. Quest’ultima insieme alla misurazione degli anelli, ha richiesto molto lavoro per la presenza di fluttuazioni di densità e di anelli molto stretti o mancati, causati sia dalle condizioni climatiche estreme, soprattutto per la zona più esposta alle perturbazioni ambientali e all’effetto del pascolo, e sia agli effetti di competizione nell’area ad elevata densità. La difficoltà di sincronizzazione del faggio è stata riscontrata anche da altri autori (Biondi, 1993). La deviazione standard, che indica lo scostamento dai valori medi di ampiezza anulare, evidenzia la maggiore variabilità dell’area 1 a cui corrispondono valori di ampiezza media superiori rispetto all’area 2. La sensitività media è appena inferiore al valore soglia di 0.25 ed 164 oscilla tra 0.20 e 0.24 rispettivamente per ASP1 e ASP2, indicando comunque, una discreta sensitività ai parametri termo-pluviometrici (Di Filippo et al., 2007; Piovesan et al., 2003). In tabella 5.3.1 sono confrontati i valori del coefficiente di autocorrelazione di primo ordine sia delle serie grezze che di quelle standardizzate; i valori delle prime indicano che le serie presentano una dinamica di accrescimento inerziale, infatti il faggio è condizionabile anche da eventi che si verificano l’anno precedente a quello della formazione dell’anello (Čufar et al., 2008; Grundmann et al., 2008). Il coefficiente di autocorrelazione delle serie standardizzate oscillano intorno allo zero indicando che, con il processo di indicizzazione, sono state rimosse le frequenze dei disturbi di medio e lungo termine enfatizzando il segnale climatico, caratterizzato da alta frequenza. La figura 5.3.4 indica la progressiva entrata delle serie individuali nelle cronologie medie, esprimendo anche la valenza rappresentativa delle due nel corso del tempo. Per entrambe le aree, la presenza di tutte le cronologie si verifica a partire dal 1960. 45 40 35 30 25 20 15 APS1 APS2 10 5 0 1910 1920 1930 1940 1950 1960 1970 1980 1990 2000 2010 Fig. 5.3.4 – Numero di serie che costituiscono la cronologia media delle aree situate al limite superiore del bosco. Con l’analisi delle cronologie stazionali di ampiezze anulari si descrive il trend di accrescimento radiale nel tempo, ma non il vero andamento di crescita perché condizionato dal fattore età e dall’ingresso di nuove serie nella cronologia. Per questo motivo, si è proceduto al confronto della cronologia media rappresentata dalle misure di ampiezza anulare con il BAI (Basal Area Increment), il quale indica l’incremento di area basimetrica (figure 5.3.5 e 5.3.6). Analizzando la curva delle ampiezze anulari di ASP1 (fig. 5.3.5), sono visibili andamenti ciclici di depressione della crescita seguiti da una successiva ripresa; 165 queste fluttuazioni sono attribuibili ai tagli di utilizzazione del ceduo, molto frequenti fino alla fine degli anni Cinquanta vista la brevità dei turni per fare carbone da legna; gli interventi di taglio potrebbero essere datati nel 1946 e nel 1957. Nella parte antecedente descritta della cronologia, non è possibile distinguere eventuali utilizzazioni per il limitato numero di campioni. Mentre la curva delle ampiezze anulari è caratterizzata da un andamento crescente fino al 1960, che poi tende a stabilizzarsi mantenendo delle piccole fluttuazioni, quella dell’incremento di area basimetrica ha ancora un andamento crescente, indicando una buona dinamicità del popolamento situato nella zona di contatto tra il bosco e la prateria. Tale dinamicità, non può essere attribuita anche all’area ASP2, dove la curva delle ampiezze anulari, negli ultimi vent’anni, ha un andamento leggermente decrescente; mentre il BAI è tendenzialmente stabile con alcune recenti fluttuazioni, la cui lunghezza d’onda fa presumere anche un sovrapporsi di effetti climatici e di un’elevata competizione esistente tra le ceppaie; infatti il popolamento è caratterizzato da un’elevata densità, oltre 700 ceppaie (oltre 1500 a ettaro) ed una massa legnosa di circa 500 m3/ha. media grezza 3 BAI 30 25 2.5 20 2 15 1.5 10 1 BAI (cm²) Ampiezza anulare (mm) 3.5 5 0.5 0 0 1910 1920 1930 1940 1950 1960 1970 1980 1990 2000 2010 Anno Fig. 5.3.5 – Curva media delle ampiezze anulari (blu) e dell’incremento di area basimetrica (rossa), riferite al sito di studio ASP1. 166 BAI Ampiezza anulare (mm) 3.5 3 2.5 2 1.5 1 0.5 0 1920 1930 1940 1950 1960 1970 Anno 1980 1990 2000 18 16 14 12 10 8 6 4 2 0 2010 BAI (cm²) media grazza Fig. 5.3.6 - Media delle ampiezze anulari (blu) e dell’incremento di area basimetrica (rossa), riferite al sito di studio ASP1. Per entrambe le aree, le serie dei polloni analizzati, sono state raggruppate in classi che rappresentano la posizione sociale della ceppaia. Le classi di altezza sono le stesse utilizzate per l’analisi della struttura verticale, quindi rappresentanti il 50 e l’80% dell’altezza del pollone più alto del popolamento. Sono state costruite, quindi, 3 cronologie medie, una per la classe 0-50% (fig. 5.3.7), una per quella 51-80% (fig. 5.3.8) e una per la classe delle superdominanti 81-100% (fig. 5.3.9). In tutti i grafici è possibile osservare che le cronologie in ASP1 hanno un accrescimento superiore rispetto a quelle in ASP2. La classe dei super-dominanti (fig. 5.3.7) è caratterizzata da un minor incremento diametrico rispetto a quella dei codominanti in ambedue le aree (fig. 5.3.8), condizione che potrebbe essere determinata dalla possibilità di questi ultimi di usufruire anche di un irraggiamento laterale. Nella classe dei dominati (fig. 5.3.9), le cronologie delle due aree hanno un comportamento differente, anche se caratterizzate entrambe da accrescimenti molto ridotti: ASP2 ha un andamento all’inizio crescente, poi dal 1989 diventa decrescente. ASP1 ha invece un andamento in costante crescita, probabilmente determinato dalla minore densità di copertura che permette una maggiore penetrazione della luce nel popolamento. 167 APS1 32 APS2 28 BAI (cm²) 24 20 16 12 8 4 0 1940 1950 1960 1970 1980 Anno 1990 2000 2010 Fig. 5.3.19 - Confronto delle cronologie rappresentanti l’incremento di area basimetrica della classe di altezza 81-100%. APS1 32 APS2 28 BAI (cm²) 24 20 16 12 8 4 0 1890 1910 1930 1950 Anno 1970 1990 2010 Fig. 5.3.20 - Confronto delle cronologie rappresentanti l’incremento di area basimetrica della classe di altezza 51-80%. 168 APS1 32 APS2 28 BAI (cm²) 24 20 16 12 8 4 0 1940 1950 1960 1970 1980 Anno 1990 2000 2010 Fig. 5.3.21 - Confronto delle cronologie rappresentanti l’incremento di area basimetrica della classe di altezza 0-50%. 5.3.1 Analisi delle relazioni clima-accrescimento Le correlazioni clima-accrescimento sono state calcolate per entrambe le aree utilizzando i dati climatici del punto della griglia CRU TS 3.1 con maglia di 0.5°, avente Latitudine 42.75 e Longitudine 13.25 posizionato nel Comune di Arquata del Tronto, in prossimità del Monte Vettore. Le correlazioni con il clima sono state calcolate per le cronologie medie ed inoltre, all’interno dell’area ASP1, anche per alcuni gruppi di ceppaie costituenti i nuclei più isolati ed in quota. Le correlazioni tra l’accrescimento e dati di precipitazione e temperatura massima, media e minima, sono espresse mediante un coefficiente standardizzato. La correlazione risulta significativa se supera in positivo o in negativo il valore di r/s pari a ± 1.96. Se la correlazione di un parametro climatico è positiva significa che un aumento dei valori di quel parametro determina un effetto positivo sull’accrescimento radiale; viceversa, se la correlazione è negativa, un aumento nei valori del parametro considerato svolge un’azione negativa sulla formazione dell’anello. I mesi che costituiscono il periodo analizzato vanno da maggio dell’anno precedente a ottobre dell’anno in corso e nel grafico del profilo delle correlazioni i primi sono in maiuscolo, mentre quelli dell’anno presente sono in minuscolo. In ASP1 le correlazioni con le precipitazioni (fig. 5.3.1.1) sono significative solo nel mese di luglio dell’anno t-1 indicando quindi che, l’aumento della quantità di pioggia nell’anno precedente influisce sulla crescita di quello corrente, favorendo l’attività fotosintetica dopo la cessazione della divisione dell’attività cambiale, che a sua volta permette l’accumulo delle 169 sostanze di riserva nei tessuti (Čufar et al., 2008) e la loro utilizzazione soprattutto per l’attività riproduttiva (Piovesan e Adams, 2001; Piovesan e Bernabei, 1997; Piovesan et al., 2003). 3.0 2.0 r/s 1.0 0.0 -1.0 -2.0 Oct P Sep P Aug P Jul P Jun P May P Apr P Mar P Feb P Jan P DEC P NOV P OCT P SEP P AUG P JUL P JUN P MAY P -3.0 Mesi Fig. 5.3.1.1 - Profilo delle correlazioni tra accrescimento e le precipitazioni mensili espresse tramite il coefficiente di correlazione standardizzato (r/s), riferito all’area ASP1. In ASP2 non si hanno correlazioni significative nell’anno precedente alla formazione dell’anello, mentre sono negativamente significative quelle del mese di febbraio e di maggio dell’anno di crescita (fig. 5.3.1.2). La risposta negativa delle precipitazioni potrebbe essere causata indirettamente dalla nuvolosità che durante il mese di maggio determina la riduzione della quantità di radiazione solare (Di Filippo, et al., 2007). In realtà nei siti ad alta quota, l’aumento della radiazione solare può favorire lo sviluppo delle gemme sottoponendole a un maggior rischio di gelate tardive, quindi la risposta negativa potrebbe essere legata all’elevata sensitività del faggio alla saturazione di acqua nel suolo, tipico delle faggete situate a quote elevate e caratterizzate da abbondanti precipitazioni nevose (Piovesan, et al., 2003). 170 3.0 2.0 r/s 1.0 0.0 -1.0 -2.0 Oct P Sep P Aug P Jul P Jun P May P Apr P Mar P Feb P Jan P DEC P NOV P OCT P SEP P AUG P JUL P JUN P MAY P -3.0 Mesi Fig. 5.3.1.2 - Profilo delle correlazioni tra accrescimento e le precipitazioni mensili espresse tramite il coefficiente di correlazione standardizzato (r/s), riferito all’area ASP2. Per quanto riguarda la risposta alle temperature del periodo estivo dell’anno precedente alla formazione dell’anello, è possibile vedere in ASP1 una correlazione negativa con le massime di agosto (fig. 5.3.1.3) e in ASP2 con la media e la minima del mese di luglio (5.3.1.4). Questa risposta negativa per entrambe le aree, descritta anche da altri lavori (Cailleret e Davi, 2011; Di Filippo et al., 2007; Dittmar et al., 2003), indica una riduzione della produzione di legno durante la stagione di crescita (anno t) e più precisamente sulla produzione del legno primaverile perché determina, sempre nell’anno t, un cambiamento della dinamica dello stoccaggio dei carboidrati, diminuendo l’allungamento delle radici e inducendo la caduta delle foglie. Secondo Cailleret e Davi (2011) si possono prevedere anche altri due meccanismi, come la differenziazione ritardata delle gemme oppure un’anomale perdita di conducibilità idraulica. Di Filippo et al. (2007) hanno riscontrato, anche in altre zone europee, una simile risposta del faggio alle condizioni climatiche dell’estate precedente. Questo fenomeno suggerisce un controllo climatico sui processi fisici relativi all’accumulo delle risorse, allo sviluppo delle gemme con particolare riferimento ai primordi fogliari e, alla differenziazione delle gemme a fiore. Infatti, il numero delle gemme differenziate a fiore può influenzare la quantità di fotosintetati assegnati alla riproduzione anziché alla crescita durante la stagione successiva. 171 4.0 3.0 r/S 2.0 1.0 0.0 Tmax -1.0 Tmedia -2.0 Tmin -3.0 MAY T JUN T JUL T AUG T SEP T OCT T NOV T DEC T Jan T Feb T Mar T Apr T May T Jun T Jul T Aug T Sep T Oct T -4.0 Mesi Fig. 5.3.1.3 - Profilo delle correlazioni tra accrescimento e le temperature massime, medie e minime mensili espresse tramite il coefficiente di correlazione standardizzato (r/s), riferito all’area ASP1. 4.0 3.0 r/S 2.0 1.0 0.0 -1.0 Tmax -2.0 Tmedia -3.0 Tmin MAY T JUN T JUL T AUG T SEP T OCT T NOV T DEC T Jan T Feb T Mar T Apr T May T Jun T Jul T Aug T Sep T Oct T -4.0 Mesi Fig. 5.3.1.4 - Profilo delle correlazioni tra accrescimento e le temperature massime, medie e minime mensili espresse tramite il coefficiente di correlazione standardizzato (r/s), riferito all’area ASP2. Mentre nell’area ASP2 non sono presenti altre risposte significative (fig. 5.3.1.4), lo sono in modo positivo in ASP1 le temperature dei mesi invernali (fig. 5.3.1.3). Questo fenomeno è stato riscontrato anche in altri studi (Cailleret e Davi, 2011; Di Filippo et al., 2007; Dittmar et al., 2003; Gallucci, 2010; Piovesan et al., 2003) e potrebbe essere spiegato dal fatto che temperature estremamente basse durante il periodo invernale possono causare danni da gelo come l’embolia da congelamento (Lemoine et al., 1999). Infatti il faggio è soggetto a fenomeni di cavitazione invernale con l’interruzione della conducibilità idraulica (Cochard et al., 2001). Lemoine et al., (1999) spiega che quando la linfa gela, viene rilasciata aria dalla soluzione formando bolle d’aria che rimangono intrappolate nel ghiaccio. Il rischio di 172 embolia è legato alla stabilità di queste bolle nel momento in cui saranno rilasciate nella fase liquida dopo lo scongelamento. Tale stabilità è principalmente determinata dal bilancio tra la pressione esercitata sul menisco aria-acqua e cioè tra la pressione capillare potenziale e quella capillare delle bolle d’aria. Se la prima è maggiore rispetto alla seconda la bolla d’aria si espande determinando fenomeni di embolia; viceversa, se la pressione capillare potenziale è inferiore, la bolla si contrae e svanisce. I danni causati da questo processo sono cumulativi e dopo molti cicli di gelo-disgelo, la pianta può arrivare ad un elevato grado di cavitazione nello xilema (Lemoine et al., 1999). Dato che l’altitudine esercita un forte controllo sulla crescita radiale (Di Filippo et al., 2007), si è deciso di analizzare anche la risposta al clima di alcuni gruppi di ceppaie isolate, situate nella parte più in quota dell’area ASP1 (caratterizzata da esposizione prevalentemente a nord) e quindi, maggiormente esposte ai fattori ambientali. In totale sono stati individuati 6 gruppi costituiti mediamente da una decina di ceppaie. Di seguito saranno presentati solo i risultati dei gruppi con correlazioni differenti rispetto a quelle ottenute dalla cronologia media ASP1. In realtà anche le precipitazioni del gruppo G (fig. 5.3.1.5) mostrano risposte simili alla media ASP1, mentre quelle del gruppo F (Fig. 5.3.1.6) sono simili alla cronologia media dell’area ASP2, con una maggiore influenza negativa per le precipitazioni del mese di giugno dell’anno di accrescimento dell’anello. Le temperature del gruppo G (fig. 5.3.1.7) sono significativamente positive nei mesi di ottobre e dicembre dell’anno precedente; mentre la risposta di quest’ultimo mese è stata spiegata precedentemente con i problemi di embolia xilematica, quella di ottobre potrebbe avere un effetto relativo all’accumulo di carbonio alla fine della stagione, quando la formazione dell’anello precedente è già conclusa (Čufar et al., 2008), favorendo quindi la crescita radiale all’inizio della successiva stagione vegetativa (Dittmar et al., 2003). 173 4.0 3.0 2.0 r/s 1.0 0.0 -1.0 -2.0 -3.0 Mesi Oct P Sep P Aug P Jul P Jun P May P Apr P Mar P Feb P Jan P DEC P NOV P OCT P SEP P AUG P JUL P JUN P MAY P -4.0 Fig. 5.3.1.5 - Profilo delle correlazioni tra accrescimento e le precipitazioni mensili espresse tramite il coefficiente di correlazione standardizzato (r/s), riferito al gruppo G dell’area ASP1. 4.0 3.0 2.0 r/s 1.0 0.0 -1.0 -2.0 -3.0 Oct P Sep P Aug P Jul P Jun P May P Apr P Mar P Feb P Jan P DEC P NOV P OCT P SEP P AUG P JUL P JUN P MAY P -4.0 Mesi Fig. 5.3.1.6 - Profilo delle correlazioni tra accrescimento e le precipitazioni mensili espresse tramite il coefficiente di correlazione standardizzato (r/s), riferito al gruppo F dell’area ASP1. Durante la stagione di crescita la temperatura minima del mese di aprile risulta essere negativamente significativa, influenzando così l’attività fenologica tramite il ritardo dell’emissione fogliare, che permette al faggio di evitare le gelate tardive (Piovesan et al., 2003). Nel gruppo F (fig. 5.3.1.8) si hanno correlazioni differenti a quelle appena esposte, perché risultano essere positivamente correlate con le temperature dei mesi estivi della stagione di crescita e negativamente con quelle autunnali. Infatti ad elevate altitudini la stagione di crescita si riduce a tal punto che la radiazione diventa un fattore limitante (Dittmar et al., 2003). Una maggiore difficoltà si ha nella comprensione dei fenomeni che possano spiegare 174 le correlazioni autunnali. Un’ipotesi potrebbe essere legata al fatto che l’aumento delle temperature determinano un maggiore spessore delle cellule del legno tardivo (Di Filippo et al., 2007), ritardando l’entrata in riposo vegetativo che a sua volta, espone il faggio al rischio di danni da gelate precoci. 4.0 3.0 2.0 r/s 1.0 0.0 Tmax -1.0 -2.0 Tmedio -3.0 Tmin Oct T Sep T Jul T Aug T Jun T May T Apr T Mar T Feb T Jan T DEC T NOV T OCT T SEP T AUG T JUL T JUN T MAY T -4.0 Mesi Fig. 5.3.1.7 - Profilo delle correlazioni tra accrescimento e le temperature massime, medie e minime mensili espresse tramite il coefficiente di correlazione standardizzato (r/s), riferito al gruppo G dell’area ASP1. 4.0 3.0 2.0 r/s 1.0 0.0 Tmax -1.0 Tmedio -2.0 Tmin -3.0 MAY T JUN T JUL T AUG T SEP T OCT T NOV T DEC T Jan T Feb T Mar T Apr T May T Jun T Jul T Aug T Sep T Oct T -4.0 Mesi Fig. 5.3.1.8 - Profilo delle correlazioni tra accrescimento e le temperature massime, medie e minime mensili espresse tramite il coefficiente di correlazione standardizzato (r/s), riferito al gruppo G dell’area ASP1. 175 5.3.2 Analisi degli anni caratteristici Gli anni caratteristici (pointer year) sono anni in cui si verificano accrescimenti particolarmente significativi (positivi o negativi) su almeno 10 serie di accrescimento e che costituiscono il 75-80% dei campioni della cronologia. ID area ASP1 ASP2 n. anni 93 79 Anni caratteristici 13 23 % negativi % positivi % 14.0 29.1 6 12 6.5 15.2 7 11 7.5 13.9 Tab. 5.3.2.1 - Numerosità e percentuali relative agli anni caratteristici individuati nelle cronologie stazionali. Nella tabella 5.3.2.1 sono presentati i parametri relativi agli anni caratteristici delle due aree di studio e quindi la frequenza sia di quelli negativi che positivi e sia la loro percentuale. La maggiore frequenza relativa di anni caratteristici, rispetto al numero di anni che compongono la cronologia si ha in ASP2. In realtà se si considerano solo i “pointer year” costituiti da più di 10 campioni rimangono 6 anni per ASP1 e 10 per ASP2. Gli anni negativi dell’area più in quota sono il 1946, il 1957 ed il 1986, mentre i positivi sono il 1960, il 1964 e il 1985. Il 1946 ed il 1957 possono essere attribuiti agli interventi di taglio, il 1986 invece come risposta al rigido inverno dell’anno precedente. Il faggio, essendo caratterizzato dalla predeterminazione delle gemme, ha risposto con una diminuzione della crescita solo l’anno successivo; addirittura durante il 1985 è stato registrato un picco positivo, perché l’anello aveva già concluso il suo accrescimento. Una maggiore difficoltà si riscontra nelle determinazione delle possibili cause che hanno permesso una maggiore crescita del 1960 e 1964, Nell’area ASP2 gli anni negativi sono il 1966, il 1972 il 1977 e il 2004, mentre quelli positivi sono il 1974, il 1980, il 2001, il 2003 ed il 2007. L’accrescimento ridotto del 2004 sicuramente potrebbe essere causato dalla siccità estiva e tardo primaverile del 2003 che nello stesso anno ha invece permesso un maggiore incremento legnoso. Il 1977 è stato registrato come negativo anche in altri studi (Magnani, 2007) , quindi potrebbe essere legato alla siccità del 1976 (Dittmar e Elling, 2007). La presenza del 1972 come anno negativo seguita dal 1974 come positivo potrebbe essere una conseguenza di un evento di pasciona (Piovesan e Bernabei, 1997), anche se generalmente 176 l’anno della ripresa corrisponde al quello successivo alla fruttificazione (Piovesan et al., 2003). Sono state evidenziate risposte comuni di crescita anche per gli anni 2001 e 2003 (Magnani, 2006). L’analisi dei “pointer year” ha messo in luce che le due aree di studio hanno avuto delle risposte differenti al clima, nonostante la loro vicinanza. Infatti, il popolamento in ASP2 non è stato influenzato dalle rigide temperature del 1985, per la posizione più protetta appena al di sotto del limite ed anche per la maggiore densità di protezione della cenosi. Gli individui dell’area ASP1 invece, non hanno registrato la siccità del periodo tardo primaverile ed estivo del 2003; anche in questo caso, i processi di risposta sono di difficile comprensione. Secondo Cescatti e Piutti (1998), lo stress idrico e le alte temperature nel periodo estivo, hanno un maggior effetto negativo sulla crescita in popolamenti caratterizzati da elevata competizione; questo potrebbe spiegare perché la siccità del 2003 ha influito solo in ASP2. Tale spiegazione illustra la complessità delle relazioni tra la struttura della chioma e la sensitività alle temperature e disponibilità di acqua, interpretabile come un effetto della densità del popolamento sul bilancio idrico ed energetico (Cescatti e Piutti, 1998). 177 6. CONCLUSIONI L’analisi è stata condotta nel versante marchigiano dei Monti della Laga, di proprietà della Comunanza Agraria di Montacuto, in popolamenti che rappresentano un’area di elevata valenza ambientali a livello regionale per la loro localizzazione, fertilità e per la presenza dell’abete bianco, unico sito autoctono a livello regionale. In particolare sono stati studiati i dinamismi strutturali e di evoluzione dei cedui di faggio abbandonati che costituiscono le cenosi del limite superiore del bosco, gli stadi di sviluppo delle faggete in conversione all’alto fusto e la variante con abete bianco. Questo studio nasce dall’importanza di conoscere le dinamiche evolutive dei cedui abbandonati di faggio per comprendere i possibili interventi di gestione futura in funzione della loro multifunzionalità. La prevalente presenza delle ceppaie, conferisce al popolamento una valenza standardizzante e inerziale: da un lato infatti si perde l’apporto della diversità individuale di tipo genetico, dall’altro ogni ceppaia porta con se (e quindi nei polloni che la costituiscono) una storia biologica che condiziona la capacità auxologica e di adattamento ecosistemico di ogni famiglia di polloni (Renzaglia, 2008). In particolare lo studio di queste faggete è stato realizzato mediante l’applicazione di indici che analizzano la struttura verticale, spesso poco considerata soprattutto in Italia, probabilmente per la difficoltà di applicazione ai boschi cedui che ne ha costituito un limite importante. Sono stati applicati indici che valutano la complessità dei boschi in quanto, essa condiziona la multifunzionalità delle risorse (presenza di habitat per specie animali e vegetali, la stabilità del popolamento, il microclima interno, ecc.). Sono stati analizzati e modificati ad hoc degli algoritmi che considerassero anche la funzione ecologica delle chiome, con l’obiettivo di fornire delle indicazioni utili alla scelta dei trattamenti selvicolturali più idonei per la gestione di questo territorio. L’analisi strutturale dei cedui di faggio abbandonati ha evidenziato un assetto abbastanza omogeneo che tende a semplificarsi nei siti avviati all’alto fusto. Tale condizione deriva sia 178 dalla gestione pregressa (ceduazioni con assenza di matricinatura), che dai trattamenti realizzati in fase di conversione. Tra i popolamenti puri di faggio gli indici della struttura verticale hanno delineato una maggiore complessità nell’area rappresentante la cenosi tra l’ecotono bosco-prateria, in quanto è caratterizzata da una migliore distribuzione degli individui e delle loro chiome tra le classi di altezza. Infatti i dinamismi evolutivi delle ceppaie di ASP1 risentono meno dell’influenza dell’elevata densità numerica e della copertura, che invece caratterizza gli altri popolamenti abbandonati. Le analisi condotte sulla dinamica evolutiva all’interno della ceppaia, confermano che i cedui invecchiati sono caratterizzati da dinamismi ancora attivi principalmente determinati dalla competizione per la luce. Tra i popolamenti analizzati la maggiore complessità strutturale è stata riscontrata in quelli misti con l’abete bianco dove la mescolanza delle specie favorisce l’occupazione di piani sociali differenti; mentre l’analisi della struttura spaziale (orizzontale) ha messo in evidenza, in ADS2, una dinamica di gruppo degli abeti situati nelle classi di altezza inferiori, che associato al dato cronologico indica la mancanza di uno stadio di sviluppo intermedio. Tale dinamica non è stata riscontrata in ADS1 in quanto sono presenti anche singoli individui nelle classi dominanti e codominanti. Le analisi effettuate hanno confermato la necessità di intervenire in modo tempestivo per liberare i nuclei dalla concorrenza del faggio, in modo da evitare la perdita di un patrimonio di elevata importanza per la sua variabilità, anche se il Piano Particolareggiato di Assestamento Forestale (D.R.E.Am. 2006) non suggerisce specifici indirizzi gestionali. Le analisi dendrocronologiche dei vecchi individui, realizzate in collaborazione con i colleghi del TreeRingLab, hanno messo in luce che l’abbandono colturale estensivo e la progressiva morte degli individui dominanti, sta determinando anche la perdita di disetaneità dell’abete, garantita dalle cicliche ceduazioni realizzate in passato. Per arrestare la perdita di biodiversità è in atto un progetto LIFE NAT/IT/000371 chiamato RESILFOR (REstoring SILver-fir FORest) “Ricostituzione di boschi a dominanza di faggio con Abies alba nell’Appennino Tosco-Marchigiano”. Sia a scala di popolamento che di paesaggio lo studio della struttura consente di comprendere le conseguenze degli interventi selvicolturali avvicendatisi nel tempo, costituendo un valido punto di partenza per la definizione delle modalità di gestione da adottare, al fine di valorizzare le varie funzioni richieste oggi ai sistemi forestali. In questo caso gli indici strutturali hanno messo in evidenza che l’abbandono colturale e gli interventi gestionali degli ultimi decenni, non sono in linea con la tutela ed il miglioramento della 179 biodiversità, richiesti dalla Direttiva Habitat per le Aree Natura 2000 presenti nei popolamenti esaminati. In un’ottica di gestione forestale sostenibile, l’utilizzo degli indici strutturali potrebbe essere utile ai fini della definizione degli indirizzi gestionali e a migliorare quelli applicati fin’ora nei popolamenti avviati all’alto fusto. Infatti gli interventi realizzati sono associati ad una funzione prevalentemente produttiva, anche se la loro realizzazione è stata probabilmente dettata dalla maggiore facilità di progettazione ed esecuzione degli interventi, a discapito di un maggiore equilibrio dell’utilizzo delle risorse. Non dobbiamo dimenticare che il territorio in esame è di proprietà della Comunanza Agraria di Montacuto, nella quale viene esercitato l’uso civico di legname (esclusivamente per la produzione di legna da ardere) che si contrappone alla presenza di forti vincoli ambientali determinati dalla presenza del Parco Nazionale e di SIC e ZPS. Infatti gran parte delle faggete della Valle della Corte ricadono all’interno della zonizzazione a tutela integrale stabilita dal Parco e dove gli usi civici, tutelati dalla Legge quadro sulle aree protette n. 394 del 1991 sono esercitati saltuariamente a causa della mancanza di vie di accesso. Questa situazione dovrebbe far riflettere sull’opportunità di attuare trattamenti selvicolturali finalizzati alla valorizzazione delle varie funzioni fornite dal bosco, in modo da consentire alle comunità locali di continuare ad esercitare le attività produttive e gestionali e nello stesso tempo migliorare l’attuale assetto ecosistemico di queste faggete. Ad esempio l’orientamento verso strutture più irregolari, con l’esecuzione di interventi selettivi associati ad una razionale distribuzione spazio-temporale o anche interventi assimilabili alla selvicoltura d’albero, realizzati già dai prossimi interventi potrebbero consentire sin da subito una sperimentazione atta a testarne gli effetti anche in relazione agli usi civici (Santini et al., 2009). La scelta degli interventi selvicolturali non dovrebbe essere fatta su modelli predefiniti, come quelli realizzati fin’ora, ma essere il risultato dell’analisi delle dinamiche reali di accrescimento e dalle relazioni di competizione, di coesistenza, di protezione e di educazione degli individui e dei gruppi che costituiscono il popolamento (Wolynski, 2002). Importante è anche la valutazione della qualità delle chiome che, se ben equilibrata e profonda garantisce una maggiore stabilità, un’attività fotosintetica elevata, che a sua volta determina un maggior accrescimento del fusto ed infine, favorisce la presenza di microhabitat per la fauna forestale. La gestione dovrebbe essere finalizzata alla valorizzazione della multifunzionalità che trova un’applicazione pratica solo se si segue un approccio multiscala, in quanto non sempre allo stesso soprassuolo è possibile assegnare più funzioni contemporaneamente. Infatti alcuni 180 ecologisti canadesi (Bunnel e Huggard, 1999) affermano che non esiste una strategia ottimale per la biodiversità che possa essere applicata ovunque, poiché il fatto stesso di applicare la medesima strategia ovunque conduce ad una omogeneizzazione contraria alla biodiversità. La multifunzionalità è legata anche alla valorizzazione dei prodotti secondari del bosco come i funghi ed i mirtilli; la presenza diffusa di questi ultimi frutti è testimoniata anche dal toponimo della località Maolaro (uno dei siti delle aree di studio del processo di conversione) il cui nome indica nella dizione dialettale “maola” il mirtillo. Attualmente, come già verificato per l’abete bianco, si assiste alla riduzione della presenza di questa pianta arbustiva, favorita in passato delle cicliche aperture create con la ceduazione. Lo stesso pattern evolutivo è stato dimostrato anche dal Consorzio Forestale delle Comunalie Parmensi per la produzione del fungo porcino (IGP di Borgotaro). Quanto detto conferma che l’abbandono all’evoluzione naturale non sempre assicura la multifunzionalità che oggi viene richiesta dai nostri boschi e che invece potrebbe essere garantita con una corretta gestione selvicolturale. Ѐ importante evidenziare che nell’ottica di una gestione forestale sostenibile le popolazioni residenti e soprattutto il Consorzio Forestale che gestisce il territorio in esame, dovrebbero investire in funzione della valorizzazione delle risorse e quindi nell’utilizzo di tecniche di esbosco adeguate ed evitare l’applicazione di una selvicoltura fatta su modelli predefiniti, ma basata su un’attenta analisi realizzata anche tramite indicatori strutturali che possono diventare dei concreti strumenti di valutazione. Dall’altra parte dovrebbero essere migliorate anche le competenze da parte degli enti nella realizzazione degli strumenti e degli indirizzi gestionali, fin ora abbastanza carenti. Contemporaneamente si auspica anche un’incentivazione, da parte delle istituzioni, verso una gestione partecipata che coinvolga le comunità locali, per poter lavorare sinergicamente alla realizzazione di una gestione attiva del territorio per poter garantire in modo sostenibile il mantenimento degli usi civici e la valorizzazione delle altre importanti funzioni ecologiche ed ambientali. 181 BIBLIOGRAFIA AA.VV., 2003. Aspetti faunistici. In: Le faggete appenniniche. Museo friulano di storia naturale - Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, Udine. Adamoli, L., 1991. Storia geologica ed evoluzione geomorfologica recente. In: Alesi A., CalibaniM., Palermi A. (eds.), Monti della Laga. Guisa escursionistica. Società Editrice Ricerche s.a.s., Folignano (AP). Allegrezza, M., Ballelli, S., Giammarchi, F., 2007. Gli Habitat d'interesse Comunitario nell'anfiteatro montuoso della Valle della Corte (Monti della Laga - Appennino Centrale). Fitosociologia, 44(2): 133-140. 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A new method for modeling the heterogeneity of forest structure. Forest Ecology and Management, 129(1-3): 75-87. 191 RINGRAZIAMENTI Un primo ringraziamento va al prof. Carlo Urbinati che mi ha dato l’opportunità di conoscere il mondo della ricerca, e per la disponibilità e l’incoraggiante supporto fornito non solo nell’ambito dell’ambito del dottorato. Desidero ringraziare anche tutti gli amici, sempre disponibili, che mi hanno aiutato fino all’ultimo giorno nell’esecuzione degli elaborati e per il loro costante incoraggiamento: Alma Piemattei, Francesco Renzaglia e Valeria Gallucci. Un ringraziamento particolare va al collega e amico Luca Bagnara con il quale ho condiviso la bellissima esperienza del dottorato e le difficoltà nella realizzazione dell’elaborato. Ringrazio anche alla studentessa Francesca Savio con la quale ho intrapreso lo studio degli indici verticali. Infine ringrazio la mia famiglia ed Antonio che mi hanno fornito un solido supporto morale. 192
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