Storia trentina stampabile - Movimento giovanile PATT

STORIA TRENTINA
TRATTA DA WWW.TRENTINOCULTURA.NET
SITO DELL'ASSESSORATO ALLA CULTURA DELLA PROVINCIA DI TRENTO
INDICE
Dalla Preistoria all'epoca romana sulla base delle ricerche archeologiche nel Trentino
Importanza dell'archeologia nello studio di un territorio
Definizione di alcuni termini
Importanza della datazione
Nascita della cultura archeologica in Trentino
La Preistoria
Paleolitico
Paleolitico inferiore
Paleolitico medio
Paleolitíco superiore
Mesolitico
Neolitico
Neolitico antico
Neolitico medio
Neolitico tardo
Introduzione all'età dei metalli: eneolitico o età del Rame
Età del Bronzo
Età del Ferro
L'età romana
I dati storici
Il territorio
Tridentum
Il Trentino occidentale
La Valle dell'Adige
La Val Lagarina
La Val di Non
Approfondimento: La tabula clesiana
Il Trentino orientale
Conclusioni
L'evangelizzazione del Trentino. L'Alto Medioevo (IV-X secolo d.C.)
L'evangelizzazione del Trentino
Come impostare il problema
Prime notizie sulla cristianità del centro urbano
Biografia: San Vigilio
Evangelizzazione del territorio rurale
Santi e santuari
Il Trentino dopo la caduta dell'impero romano. Goti e Longobardi
Il regno dei Goti
Rottura secolare dell'unità della penisola
Occupazione del Trentino
Alleanza franco-bizantina
La presenza della Chiesa
Ingrandimenti territoriali
L'avventura del duca Alachi e la fine dell'autonomia
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Strutture amministrative del ducato
I Franchi ed il regno d'Italia
Le vicende politiche
Il vescovo Manasse. Il Trentino nell'impero germanico
Il Principato vescovile
Il Principato vescovile dalle origini alla secolarizzazione (1027-1803)
Gli imperatori pongono i vescovi a guardia della via verso l'Italia
I vescovi di Trento e di Bressanone ricevono i poteri temporali
Il potere dei vescovi si sviluppa all'ombra dell'Impero
Biografia: Federico Vanga
Approfondimento: Collaboratori e concorrenti del potere vescovile: famiglie comitali, avvocati, ministerialità
La crisi del potere vescovile e la nascita del Tirolo
L'imperatore Federico Il pone a Trento un podestà
Cresce la potenza dei Tirolo-Gorizia
Si ristabilisce il potere vescovile
Biografia: Margherita di Tirolo
Biografia: Nicolò da Brno
Trento e Tirolo sono oggetto del contendere sullo scacchiere europeo
Approfondimento: La Chiesa di Trento nel medioevo
Trento e Tirolo: l'alleanza obbligata
Gli Asburgo diventano conti del Tirolo e impongono ai vescovi le "compattate"
I vescovi Giorgio Liechtenstein e Alessandro di Masovia mettono l'alleanza in discussione
Biografia: Giogio di Lichtenstein
Approfondimento: La città, il territorio, i comuni rurali
Dalle seconde "compattate " del 1454 al libello territoriale del 1511: la sovranità dei vescovi nel quadro del
legame col Tírolo
Biografia: Massimiliano I d'Asburgo
Bernardo Cles, il "secondo fondatore" del Principato vescovile
Biografia: Bernardo Clesio
Approfondimento: Quadro sincrono
L'età dei Madruzzo
Una dinastia al governo del principato
Biografia: Cristoforo Madruzzo
Biografia: Ludovico Madruzzo
Trento conciliare: fra Italia e Germania, papato e impero
I rapporti del principato con la contea del Tirolo
Barocco tridentino
La Controriforma nella diocesi di Trento
La vita culturale e la festa barocca
Biografia: Martino Martini
I governi vescovili
La contea del Tirolo nella seconda metà del Seicento
Il Settecento: l'età delle riforme e la fine dell'antico regime
Gli Asburgo, l'impero, il principato
Antichi e nuovi contrasti politici nei governi vescovili del Settecento
Il Settecento roveretano
Biografia: Clementino Vannetti
Il territorio trentino nel periodo francese: tra Austria, Baviera e Italia
Biografia: Andreas Hofer
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Il Trentino dall'età della restaurazione alla prima guerra mondiale
Gli anni della restaurazione
Il Trentino sotto la sovranità asburgica
Biografia: Luigi Negrelli
Le strutture amministrative
Il consenso dei trentiní per l'ordinamento politico-amministrativo
I rapporti stato-chiesa
L'atteggiamento della popolazione ed il controllo politico
La situazione economica
Elementi di ripresa dell'attività culturale
Il Biennio rivoluzionario e il breve periodo costituzionale (1848-1851)
Il Trentino di fronte al moto rivoluzionario ed al conflitto tra l'Austria e il Regno sabaudo
La deputazione trentina alle costituenti di Francoforte e Vienna-Kremsier
I riflessi nel Trentino del periodo costituzionale
Il neoassolutismo
L'involuzione politica ed i controlli di polizia
La guerra del 1859 e l'attività dei fuorusciti trentini
Il Trentino di fronte all'unità d'Italia
Biografia: Francesco Giuseppe d'Asburgo
Il ritorno al sistema costituzionale
Le istituzioni politiche e la lotta per l'autonomia
Il nuovo ordinamento delle amministrazioni comunali
La guerra del 1866 e il quadro delle trattative diplomatiche
Il Trentino durante la guerra e nel dopoguerra
Le leggi fondamentali del 1867. La laicizzazione dello stato e la chiesa trentina
La presa di posizione dei liberali trentini
La depressione economica
La proposta di riforma elettorale per la Camera dei deputati e lo scontro fra centralismo e federalismo
La nascita dell'irredentismo
Dalla riforma elettorale del 1873 al cambio di secolo
La deputazione trentina alla Camera di Vienna
Biografia: Lorenzo Guetti
La presenza alla Dieta di Innsbruck
Le strutture amministrative: le riforme degli "statuti propri" di Rovereto e Trento
L'irredentismo e la politica italiana
La difesa nazionale nel Trentino
Le condizioni economico-sociali
Biografia: Giovanni Segantini
L'età di Paolo Oss.Mazzurana
L'organizzarsi dei partiti politici
Dagli inizi del Novecento alla prima guerra mondiale
L'attività dei deputati trentini alla Camera di Vienna
I lavori dietali e la riforma elettorale provinciale
La riforma elettorale del comune di Trento
Biografia: Gianni Caproni
La questione dell'università italiana in Austria e la lotta nazionale
La cultura trentina a cavallo di due secoli
Biografia: Riccardo Zandonai
Le vicende del secolo ventesimo
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La prima guerra mondiale e il Trentino
Lo scoppio del conflitto ed il periodo della neutralità italiana
Le trattative diplomatiche per la cessione del Trentino e l'entrata in guerra dell'Italia
Le operazioni militari sul,fronte trentino
Biografia: Cesare Battisti
La guerra e le popolazioni civili
Approfondimento: Dal web
Le iniziative politiche dei trentini in Italia e in Austria
I governi provvisori del dopoguerra
Il Governatorato militare
Il Governatorato civile e la conservazione dell'ordinamento autonomo
La ripresa dell'attività culturale
Biografia: Fortunato Depero
Il Trentino nel ventennio fascista
L'avvento del fascismo
I primi anni del regime
Il consolidarsi del regime
Gli anni neri dell'economia trentina
L'antifascismo
La cultura trentina nell'età del fascismo
Biografia: Ettore Tolomei
Il Trentino nella seconda guerra mondiale
I disagi per una guerra considerata estranea
Dalla caduta del fascismo all'armistizio
I venti mesi dell'Alpenvorland
L'occupazione nazista e le popolazioni civili
La resistenza
Dal termine del conflitto allo Statuto d'autonomia
La ripresa della vita politica e le istanze autonomistiche
Biografia: Alcide Degasperi
L'accordo Degasperi-Gruber e l'autonomia regionale
Approfondimento: L'accordo di Parigi
Il secondo dopoguerra e l'autonomia trentina
Gli esordi dell'autonomia regionale
L'impegno della Giunta regionale nell'opera di ricostruzione
Il Trentino tra crisi politica e "miracolo economico"
La fase della "conciliazione': due case sotto uno stesso tetto
La posizione della Chiesa trentina
La società trentina nell'età dei grandi mutamenti
Biografia: Silvius Magnago
Biografia: Enrico Pruner
Verso un secondo statuto dell'autonomia: le due autonomie provinciali
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Dalla Preistoria all'epoca romana sulla base delle ricerche archeologiche nel Trentino
Importanza dell'archeologia nello studio di un territorio
Definizione di alcuni termini
Prima di proporre i temi di archeologia relativi al territorio trentino, è opportuno chiarire il significato di
alcuni termini.
La parola archeologia è stata già usata nell’antichità, ma con un significato diverso da quello attuale. Dionigi
di Alicarnasso (uno storico greco vissuto nel I sec. a.C.), ad esempio, la usava per indicare genericamente
notizie sui tempi antichi.
Successivamente il termine venne adoperato per indicare lo studio delle antichità greche e romane, prive di
un contesto storico, finché nel Settecento Gioacchino Winchelmann la interpretò esclusivamente come studio
dell’arte classica. Nell’Ottocento e fino alla seconda guerra mondiale si sono susseguite un’archeologia
esclusivamente filologica ed una esclusivamente storica.
Ora invece l’archeologia è considerata una scienza che cerca di ricostruire, attraverso il costante confronto
(quando è possibile) con il documento o il dato storico, le civiltà antiche e la loro evoluzione, attraverso lo
studio dei reperti affiorati negli scavi, talvolta fortuiti, condotti in vari territori, nonché attraverso lo studio di
strutture architettoniche, prodotti artistici, iscrizioni, monumenti appartenuti alle civiltà antiche e giunti,
magari in frammenti, fino ai giorni nostri.
L’archeologia è una scienza amplissima che viene distinta in molti settori: orientale, biblica, classica,
cristiana, egiziana, precolombiana, medievale, industriale, ecc.
Un particolare tipo di archeologia è quella preistorica, cioè la paletnologia che cerca di individuare e definire
gli aspetti culturali che hanno caratterizzato lo sviluppo delle società umane prima della comparsa della
scrittura.
Oggetto di questo capitolo saranno: l’archeologia preistorica, cioè la paletnologia, e l’archeologia romana
inerenti il Trentino.
È importante notare prima di tutto che l’ambiente naturale ha sempre avuto una particolare influenza sulla
vita dell’uomo, sulle sue attività culturali, sulla formazione delle società, ecc. È quindi importante conoscere
esattamente le condizioni ambientali nelle quali sono vissuti gli uomini nell’antichità e per fare questo è utile
avvalersi di varie discipline: la geologia ad esempio, che studia la composizione e la struttura della crosta
terrestre, permettendo così di conoscere l’evoluzione di un territorio sin dalla sua origine (terreno vulcanico,
sedimentario, presenza di ghiacciai, di laghi, fiumi, ecc.); la paleozoologia, la paleobotanica e la palinologia,
che studiano i resti animali, vegetali e i pollini; la climatologia, che permette di risalire al tipo di clima
presente nelle varie epoche.
L’antropologia e l’etnologia, poi, danno la possibilità di conoscere rispettivamente l’evoluzione fisica e
culturale dell’uomo sin dalla sua prima comparsa sulla terra, i suoi usi, costumi ed abitudini sotto molteplici
aspetti, dal tipo di alimentazione, all’abbigliamento, alla vita sociale, al tipo di sepoltura e di abitazione.
La preistoria: con questo termine si suole indicare il periodo che precede la storia, quello cioè in cui non vi
sono testimonianze scritte e che quindi si può conoscere solo attraverso lo studio dei manufatti e delle opere
materiali dell’uomo, l’unico essere vivente che si è sin dall’origine distinto da tutti gli altri per essere in
grado di produrre strumenti finalizzati ad un determinato scopo. Nell’Ottocento gli esperti europei hanno
diviso la preistoria in tre età, ognuna delle quali è stata poi sottoposta ad ulteriori suddivisioni in base ai tipi
di manufatti o alle caratteristiche proprie di un determinato gruppo umano. È da notare che tali distinzioni
sono soltanto indicative perché non è possibile dividere cronologicamente in modo esatto i vari eventi, che
spesso non sono avvenuti contemporaneamente in tutte le parti del mondo.
Importanza della datazione
Nell’archeologia è molto importante datare i reperti, cioè tutto il materiale rinvenuto. Per fare questo è
possibile basarsi su due diversi tipi di analisi cronologica:
– la cronologia relativa: indica se i reperti sono più antichi o meno antichi di altri, senza alcun riferimento
agli anni;
– la cronologia assoluta: ad un reperto si attribuisce un’età espressa in anni (x anni prima o dopo Cristo, o x
anni dal presente).
In tempi recenti si è scoperto un nuovo metodo per determinare la datazione assoluta, la cosiddetta datazione
radiometrica, che si basa sugli isotopi radioattivi. Si tratta di atomi di uno stesso elemento che, essendo
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instabili, emettono radiazioni fino a raggiungere una forma stabile.
Uno degli isotopi più usati nella datazione radiometrica è il carbonio 14, isotopo radioattivo del carbonio
normale 12.
Il carbonio 14 si forma costantemente nella parte superiore dell’atmosfera, successivamente si unisce
all’ossigeno dando origine all’anidride carbonica, che viene assimilata dalle piante per mezzo della
fotosintesi clorofilliana trasformandosi in composti organici. Il carbonio 14 si trova quindi anche negli
animali erbivori e nei carnivori che si sono nutriti di essi. Anche negli esseri umani (che sono onnivori) una
piccola quantità del carbonio presente è rappresentata dal carbonio 14. Il rapporto tra il carbonio 12 e il
carbonio 14 rimane costante negli esseri viventi ma, quando un organismo muore, il carbonio 14 inizia a
decadere riducendosi della metà ogni 5700 anni circa (tempo di dimezzamento). Perciò, nei reperti di origine
organica (ossa, residui di legno, brandelli di tessuti, ecc.), è possibile stabilire il momento in cui è iniziato il
decadimento del carbonio 14. Infatti, misurando il rapporto tra la quantità residua del carbonio 14 e il
carbonio 12 presenti in un reperto, è possibile, con opportuni calcoli matematici, risalire al momento in cui
l’organismo è morto.
Con il metodo del carbonio 14 la datazione non va oltre i 50.000- 60.000 anni. Per reperti più ‘vecchi’ si
prendono in considerazione gli isotopi radioattivi di altri elementi, ad esempio il potassio, il rubidio, il
piombo, l’argon, che hanno tempi di dimezzamento più lunghi.
La datazione radiometrica è attualmente la più usata perché applicabile a reperti di diversa natura.
Nascita della cultura archeologica in Trentino
In Trentino l’interesse per le culture presenti nell’antichità è sorto piuttosto precocemente già tra gli studiosi
del XVI secolo, raccolti alla corte dei principi vescovi. Nello stesso periodo in cui Andrea Palladio studiava i
ruderi di Palestrina e di Roma, e Pirro Ligorio intraprendeva gli scavi nella villa di Adriano a Tivoli, nobili
letterati trentini diedero vita ad un vasto collezionismo archeologico incentrato soprattutto sulla
documentazione romana. Già durante il secolo precedente, d’altra parte, si era andato sviluppando in tutta
Italia un certo interesse per l’antichità classica legato al desiderio di rintracciare esattamente sul territorio i
luoghi dove si erano verificati eventi importanti citati nei testi antichi.
Soprattutto nel XVIII secolo, in particolar modo in Val Lagarina e in Val di Non, si diffuse l’interesse per la
preistoria e per l’indagine diretta sul territorio, anche se ancora allo stato embrionale. A ciò contribuì, tra
l’altro, l’attività svolta dall’Accademia roveretana degli Agiati sorta nel 1750 a Rovereto.
Nel XIX secolo gli studi archeologici si intensificarono in tutta Europa ed anche in Trentino, dove talvolta
sfociarono in vere e proprie discussioni, ad esempio tra il roveretano Bartolomeo Stoffella dalla Croce
(1800-1833) e il conte Benedetto Giovanelli (1775-1846). Lo Stoffella infatti riteneva che i Galli Cenomani
e non i Reti avessero abitato la regione durante l’età del Ferro, mentre Benedetto Giovanelli era convinto che
l’origine etnica degli abitanti del Trentino durante l’età del Ferro fosse retica e che i Reti avessero un’origine
etrusca.
Nella seconda metà del secolo le numerose scoperte di vari siti archeologici, tra cui quello palafitticolo di
Fiavè (1853), il ritrovamento della cosiddetta ‘Tavola Clesiana’, nonché il rinvenimento fortuito di reperti sia
preistorici che romani su tutto il territorio, hanno contribuito sensibilmente ad ampliare le conoscenze
relative alle popolazioni che hanno abitato il Trentino nell’antichità.
Negli stessi anni sono stati condotti anche molti studi toponomastici. Il glottologo Christian Schneller, nel
1866, interpretò molte iscrizioni rinvenute sul territorio come appartenenti al cosiddetto alfabeto- retoetrusco.
Tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento indagini di particolare interesse scientifico sono
state condotte da Paolo Orsi (1859-1935).
Nel XX secolo gli studi archeologici sono stati interrotti, in tutta Europa, solo durante i due conflitti mondiali
e hanno acquisito caratteri sempre più scientifici. Lo scavo, spesso considerato in precedenza, dai non addetti
ai lavori, una semplice caccia al tesoro, si è infatti trasformato in una raccolta sistematica di materiali, nel
loro studio tipologico, in un esame dettagliato dei singoli siti. In Inghilterra si è inaugurata una moderna
tecnica di scavo basata sulla stratigrafia, poi comunemente adottata dagli archeologi.
Lo scavo stratigrafico consiste nel rimuovere, uno dopo l’altro, gli strati di terreno che si sono via via
accumulati. Essi si formano per sovrapposizione, in tempi successivi, di materiale incoerente, che ha
raggiunto un certo spessore. Questo materiale può essersi accumulato su manufatti vari (abitazioni, tombe,
ecc.) o semplicemente contenere oggetti o frammenti di oggetti appartenuti all’uomo antico. Nel rimuovere
gli strati bisogna tenere conto della loro reciproca posizione e considerare più vecchio lo strato (e quindi
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anche i materiali in esso contenuti) che si trova al di sotto rispetto a quello ad esso superiore. Ciò è vero però
solo nel caso in cui non siano avvenuti dei rimaneggiamenti degli strati, dovuti a forze naturali (cadute di
frane, ecc.) oppure dovuti ad azione volontaria ma inconsapevole dell’uomo (lavori di sbancamento,
fondamenta di costruzioni, ecc.).
Fino agli anni ’60 un notevole contributo alla conoscenza della storia antica del Trentino è stato fornito dalle
indagini archeologiche di Giacomo Roberti (1874-1960).
In quello stesso periodo e negli anni successivi sono state compiute moltissime ricerche. A Renato Perini si
devono le indagini compiute ai Solteri e a Montesei di Serso, nonché alla palafitta di Fiavè- Carera e presso
Ciaslìr del M. Ozol in Val di Non. È a Bernardino Bagolini che si devono alcune tra le più importanti
ricerche paletnologiche compiute in Trentino negli ultimi 30 anni tra cui Riparo Gaban e il sito del
Colbricòn, situato a 1920 metri di altezza nei pressi di S.Martino di Castrozza.
Negli ultimi decenni sono stati fatti molti passi avanti anche grazie allo sviluppo di ‘indagini preliminari’
fatte sul territorio. La fotografia aerea, in particolare, si è rivelata molto utile nello studiare rapidamente aree
territoriali molto ampie come la Gran Bretagna e l’Europa nord- occidentale. Grazie a questa tecnica e alla
‘ricognizione del territorio’, che consiste nel percorrere a piedi un’area selezionata alla ricerca di reperti e
strutture da poter annotare su di una carta topografica, si sono ampliate notevolmente le conoscenze
archeologiche di tutta Europa.
Anche in Trentino le indagini e gli scavi che vengono condotti dagli studiosi del Museo di Scienze Naturali e
dell’Ufficio Beni Archeologici permettono di individuare molti nuovi siti e di avere una conoscenza
archeologica sempre aggiornata di tutto il territorio trentino.
La Preistoria di Maria Raffaella Caviglioli
Paleolitico
Il Paleolitico è un periodo molto ampio, che occupa quasi tutta la preistoria, concludendosi soltanto intorno
ai 10.000 anni dal presente.
Occupa il Pleistocene, cioè il primo periodo del quaternario o neozoico, l?era geologica attuale, interessata
da 5 glaciazioni (Donau, Gunz, Mindel, Riss e Würm), durante le quali si sono avuti forti abbassamenti della
temperatura media annua, che provocarono la comparsa di vaste aree ghiacciate sulle maggiori catene
montuose e su ampie aree dei continenti e degli oceani.
Tra una glaciazione e l?altra ci sono stati dei periodi interglaciali. Ciò ha determinato continui cambiamenti
climatici con profonde alterazioni nella distribuzione della vegetazione e dell?acqua di superficie disponibile.
Ad esempio, alle medie latitudini, gli interglaciali erano caratterizzati dalla diffusione di foreste boreali in
zone precedentemente occupate da steppa, tundra e ghiaccio.
Queste variazioni hanno chiaramente influito in modo determinante sulla occupazione o meno da parte dell?
uomo preistorico delle varie aree geografiche.
Il Paleolitico comprende varie fasi: il paleolitico inferiore, il paleolitico medio e il paleolitico superiore.
Paleolitico inferiore
Questo periodo è il primo del Pleistocene con cui inizia l’era quaternaria. Non è ancora possibile fissarne dei
limiti cronologici precisi, per quanto concerne il continente europeo, a causa della rarità dei resti umani e dei
manufatti in pietra rinvenuti. Comunque le testimonianze più antiche risalgono a circa 1.000.000 di anni fa,
quando è attestata la presenza dell’homo erectus, che quasi tutti gli studiosi considerano il primo
rappresentante del genere umano, perché aveva una posizione completamente eretta e possedeva un cervello
più grande dell’homo habilis, il suo discusso predecessore, nel quale si iniziavano a vedere abilità di tipo
umano come la capacità di rendere taglienti ciottoli fluviali (i cosiddetti ‘choppers’) staccando, tramite un
colpo apportato per mezzo di un altro ciottolo, alcune schegge su una o entrambe le facce.La presenza
dell’uomo primitivo in Europa è stata documentata in varie località; in Francia, ad esempio, importanti sono i
ritrovamenti presso la Grotta di Vallonet a Mentone sulla Costa Azzurra. Per quanto riguarda l’Italia,
risultano interessanti le scoperte di Isernia la Pineta, in Molise, di Quinzano e di Monte Gazzo, nonché di
altre località del Monte Baldo e della zona dei Lessini.
In Trentino, per la presenza di ampie zone coperte dai ghiacci, è stato fatto solo qualche sporadico
rinvenimento di manufatti in selce, attribuibili alla fine del Paleolitico inferiore o all’inizio dell’epoca
successiva, presso il confine meridionale della regione, ad esempio al Passo Fittanze (1393 m.s.l.m.) a sud di
Ala e al Passo di San Valentino, nei pressi di Brentonico (1300 m.s.l.m.).
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La distribuzione dei siti (dei luoghi) in cui sono stati rinvenuti reperti paleontologici e manufatti di vario
tipo, ha permesso di mettere in evidenza un carattere particolare dell’uomo vissuto in questo periodo: il
nomadismo. Gli uomini cioè erano abituati a vivere sfruttando le risorse naturali. Raccoglievano i frutti
spontanei del terreno e cacciavano animali anche di grosse dimensioni. Quando i territori che frequentavano
si erano impoveriti, li abbandonavano andando alla ricerca di nuove zone non ancora sfruttate. Tutto ciò
nonostante fossero dotati di capacità intellettive tali da essere in grado di utilizzare il fuoco e, come è
attestato a Northfleet, in Inghilterra, e a Ziegenhain, in Germania, di sfruttare in modo organizzato cave di
pietre e minerali.
Gli habitat preferiti dall’uomo del paleolitico inferiore dovevano essere pascoli aperti con buone riserve di
acqua e selvaggina.
Oltre che nelle grotte, l’homo erectus era abituato a vivere in strutture abitative artificiali, realizzate con
materiali semplici ma resistenti come rami, frasche e pelli.
In questo periodo l’uomo era in grado di produrre strumenti e manufatti, non solo scheggiando la pietra, ma
lavorando anche l’osso, il legno e la selce, termine con il quale si indicano tipi di roccia sedimentaria
costituita da silice, sotto forma di calcedonio, quarzo, diaspro. La selce è una fra le pietre più dure che
permette però il distacco di schegge di varia forma e grandezza, mediante la percussione contro, ad esempio,
una grossa pietra posata sul suolo, o contro uno strumento, opportunamente preparato, chiamato percussore.
Nel corso del tempo accanto ai bifacciali realizzati anche con percussori teneri, di legno o di osso,
compaiono strumenti scheggiati e ritoccati, particolarmente utili nella lavorazione della pelle, come
raschiatoi, grattatoi, lame, punte, ecc.
Sono stati rinvenuti anche strumenti litici realizzati attraverso una tecnica particolare, levalloisiana (da un
giacimento presso Parigi), che consisteva nel predeterminare la forma voluta delle schegge da staccare da un
nucleo, dando ad esso, anticipatamente, una forma ben precisa.
Paleolitico medio
Questo periodo ebbe luogo durante l’ultima interglaciazione e la fase iniziale dell’ultima glaciazione, cioè
alla fine del Pleistocene, tra 150.000 e 40.000 anni fa. I numerosi cambiamenti climatici determinarono la
discesa dei limiti delle nevi perenni e quindi anche della vegetazione d’altura.
L’abbassamento del livello del mare in tutto il mondo, con la conseguente emersione delle piattaforme
continentali, determinò l’aumento del terreno sfruttabile dall’uomo preistorico.
In questo periodo è attestata la presenza dell’Homo sapiens Neanderthalensis, il cui nome trae origine dalla
località tedesca di Neanderthal, presso Düsseldorf, dove vennero fatti i primi ritrovamenti (1857).
L’uomo di Neanderthal è caratterizzato da una struttura ossea massiccia, un cranio ed un cervello piuttosto
sviluppati, la fronte sfuggente e le arcate sopraccigliari ben marcate. La sua presenza è attestata in tutta
Europa. In Italia sono stati fatti molti rinvenimenti in quasi tutte le regioni, ad esempio in Liguria (Grotta dei
Balzi Rossi di Grimaldi) e nel Lazio (Monte Circeo). Molto più scarse sono le testimonianze nell’area alpina,
soprattutto nelle valli più interne, probabilmente rese impraticabili, a quell’epoca, dalla presenza del
ghiaccio.
Nella regione atesina l’uomo poté occupare siti posti ai margini delle Prealpi, in un ambiente interessato
dalla steppa e dalla tundra, come dimostra l’analisi paleoambientale compiuta, in particolare, presso la grotta
delle Fumane, in Valpolicella.
In Trentino, sono stati rinvenuti diversi strumenti in selce, ad esempio sull’altopiano delle Viotte del
Bondone (1600 metri di altezza) e presso la piana della Marcesina (nella zona dell’altopiano di Asiago).
I manufatti in selce, realizzati dall’uomo del Paleolitico medio, possono essere attribuiti all’"industria
musteriana".
Con il termine "industria" si indica il metodo di fabbricazione di oggetti vari, in questo caso litici. Con il
termine "musteriana", si vuol fare riferimento ai manufatti litici trovati in una grotta francese, che presentano
caratteristiche simili a molti altri trovati in varie località europee, nello stesso periodo, a cui quindi si è
voluto dare un nome comune.
I manufatti prodotti erano realizzati in diverse dimensioni ed erano ottenuti non solo attraverso la
percussione diretta, come nel periodo precedente, ma anche ponendo fra il percussore e la pietra uno
strumento intermedio, come fosse uno scalpello (percussione indiretta).
Le risorse alimentari dell’uomo del paleolitico medio si basavano ancora sulla raccolta di prodotti spontanei
della terra, sulla pesca e sulla caccia, soprattutto di stambecchi, camosci, cervi, orsi, cinghiali, alci, mammut.
In base ai rinvenimenti fatti fino ad ora, sembra che la caccia venisse intrapresa sia da singoli individui che
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da gruppi, ma non ci sono prove dell’utilizzazione di armi usate specificatamente per uccidere una
determinata specie animale e nemmeno prove di uno sfruttamento selettivo di particolari specie.
Anche durante il paleolitico medio, quindi, l’uomo era nomade e viveva o in caverne o in ripari rocciosi
oppure in strutture artificiali realizzate forse in legno con una sovrastruttura in pelle. Quest’ultima ipotesi è
stata formulata in base al rinvenimento di un recinto ovale di ossa di mammut entro il quale vi erano
manufatti litici e resti di ossa, a Molodova I, in Ucraina.
Paleolitico superiore
Questo periodo, compreso tra i 40.000 e i 10.000 anni fa circa, è stato caratterizzato, in una prima fase, da
clima rigido con inverni freddi e lunghi. Il ghiaccio occupava ancora l’asse del Garda e dell’Adige fino ad
arrivare alle pendici meridionali del monte Baldo: emergevano solo le zone più elevate di questa catena
montuosa e, più a nord, del Bondone e della Paganella. Tutta la valle dell’Adige, quindi, all’altezza delle
attuali Trento e Rovereto, fino a 1500 metri di quota, era sommersa dal ghiaccio.
Intorno a 15.000 anni fa, durante il "tardoglaciale würmiano", è iniziato un sensibile miglioramento climatico
che ha portato ad un graduale arretramento della coltre glaciale, che alla fine di questo periodo ha
abbandonato i grandi alvei vallivi. Ciò ha determinato una serie di cambiamenti sia nella vegetazione che
nella fauna. A basse quote, infatti, piante arbustive ed arboree hanno preso il posto della steppa e si sono
diffusi i cervi, i caprioli e i cinghiali. Tali variazioni però non hanno determinato grossi cambiamenti
nell’economia dell’uomo; in quest’ultima fase del paleolitico è attestata la presenza dell’Homo sapiens CroMagnon e dell’Homo sapiens Grimaldi, i cui resti sono stati trovati in Italia presso la grotta dei Balzi Rossi,
in Liguria. Egli continuò a cibarsi dei prodotti spontanei della terra e della carne degli animali che riusciva ad
uccidere tramite la caccia. Soprattutto in quest’ultimo ambito si verificò un miglioramento nelle tecniche
create per impossessarsi delle prede, grazie all’introduzione dell’arco e delle frecce (i ritrovamenti più
antichi, risalenti a 11.000/10.000 anni fa, provengono da Amburgo, in Germania), nonché dell’arpione e del
propulsore, che permetteva di scagliare la lancia con più forza e più lontano.
Vennero anche creati nuovi dispositivi per la pesca, come l’amo. Tutto ciò attraverso la realizzazione di una
gamma di utensili molto ampia, come dimostra la presenza di diverse industrie litiche tra le quali quella
"aurignaziana" e quella "epigravettiana", che si basavano soprattutto sulla tecnica del ritocco.
I manufatti che venivano creati con maggiore frequenza erano le punte, che potevano essere immanicate
all’estremità di aste di legno così da fungere da frecce, per la caccia, oppure i perforatori, ottenuti rendendo
appuntita una lama o una scheggia ed impiegati per forare l’osso, il corno, le conchiglie, ecc. Per lavorare la
pelle venivano poi usati grattatoi, raschiatoi, coltelli. In questo stesso periodo incominciarono ad essere
realizzati anche manufatti in avorio.
Il ritrovamento di strumenti molto simili ai moderni aghi da cucito, realizzati in osso, spinge anche a ritenere
che gli uomini si confezionassero dei vestiti in pelle. Quest’ipotesi è suffragata anche dal ritrovamento, a
Sungir (a 210 chilometri a nord - est di Mosca), di una serie di perline disposte variamente sul suolo. Ciò ha
permesso infatti di capire che a quell’epoca esistevano diversi tipi di abiti, tra cui cappucci in pelle, giubbe,
calzoni e mocassini.
L’uomo del Paleolitico superiore era solito trovare rifugio probabilmente nelle caverne, in ripari sotto roccia,
ma anche all’aperto, in strutture abitative artificiali opportunamente realizzate sfruttando legname, pietre,
pelli e dotandole anche di focolari, talvolta complessi.
In Trentino è stato possibile individuare molti siti riferibili a questo periodo, soprattutto lungo il sistema
delle dorsali Monte Baldo- Stivo- Bondone - Paganella.
Tra le zone di maggiore interesse vi è, anche per il Paleolitico superiore, l’altopiano delle Viotte del Bondone
(1600 m.s.l.m.). Qui, nel 1978-1979, sono stati raccolti diversi manufatti in selce, così come nelle vicinanze
del lago di Andalo (1000 m.s.l.m.) e a Manzano di Mori.
Recentemente, nel 1999, a Folgaria, in località Cogola, è stato individuato un sito con diversi focolari, selci e
resti di fauna (orso e lupo), probabilmente frequentato da cacciatori.
Anche presso il lago di Terlago (430 m.s.l.m.) sono state trovate testimonianze del passaggio di cacciatori
epigravettiani e, in particolare, vi è la conferma che l’uomo del Paleolitico superiore sapeva realizzare
oggetti artistici. È stato infatti rinvenuto un ciottolo decorato con alcune linee parallele incise, probabilmente
realizzate usando uno strumento chiamato bulino, che era ottenuto staccando da un pezzo di selce una
scheggia alla quale veniva data la forma di uno scalpello, adatto a realizzare incisioni sull’osso e sul corno.
Presso il Riparo Dalmeri (a 1240 m.s.l.m., sul bordo settentrionale dell’Altopiano di Asiago), in un
insediamento sottoroccia, scoperto nel 1990, a due metri di profondità, oltre a manufatti in selce, punte di
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osso, resti di fauna (stambecco, cervo, tasso, marmotta, pesci, ecc.), sono state riportate alla luce alcune
conchiglie forate (columbella, cyclope) schegge di selce con graffiti. Quindi anche qui, come a Terlago, vi è
la prova della presenza di un certo gusto artistico nell’uomo vissuto alla fine del Paleolitico.
Analoghe testimonianze, d’altra parte, sono rintracciabili in molti altri siti italiani ed europei. Presso il riparo
Villabruna, ad esempio, nella bassa Val Cismòn (Belluno), è stata rinvenuta una sepoltura con alcuni ciottoli
decorati con pitture realizzate in ocra rossa. Presso riparo Tagliente (nella Valpantena, zona dei Lessini) sono
stati raccolti due ciottoli con immagini graffite di un bisonte e di uno stambecco.
Le pareti di varie grotte presenti sul territorio europeo, tra cui Altamira, in Spagna, Lascaux, presso
Montignac, nella Francia sud-occidentale, o Font de Gaume nel Perigord, sempre in Francia, riportano varie
pitture realizzate con ocra e carboni, rappresentanti per lo più animali.
In Liguria, nella grotta dei Balzi Rossi, sono stati trovati, insieme a vari resti scheletrici, una collanina di
conchiglie forate e un cranio coperto di ocra. La presenza di questo pigmento naturale su resti ossei potrebbe
indicare non un elemento ornamentale, ma piuttosto la manifestazione di una qualche forma magicoreligiosa.
A proposito dei Balzi Rossi, a conferma del nascere in questo periodo di un certo senso artistico e di un
sentimento magico religioso, si deve accennare ai ritrovamenti di varie statuette antropomorfe. Si tratta delle
cosiddette "Veneri" che rappresentano un tipo di donna in cui sono evidenziati gli attributi della femminilità:
seni, fianchi e natiche. Queste ultime richiamano alla mente la steatopigía di un gruppo etnico dell’Africa del
sud, i Boscimano-Ottentotti. Oggetti del genere sono stati trovati in molte località europee (ad esempio a
Willendorf in Austria) e costituiscono una chiara prova dell’elevata capacità tecnica raggiunta dagli uomini
preistorici alla fine del paleolitico, nonché dello svilupparsi di un notevole gusto artistico e un sentimento
religioso. Queste statuine sono state infatti interpretate da molti studiosi come idoli legati al culto della
fecondità.
Mesolitico
Intorno a 10.000 anni fa (8000 a.C.), nella seconda fase dell’era quaternaria, cioè durante l’Olocene, il clima
divenne più mite e costante, di conseguenza, per la prima volta, l’uomo iniziò a svolgere una vita semi
sedentaria, realizzando insediamenti a mezzacosta, vicino a laghi e torrenti, allo sbocco di valli, sui conoidi
di deiezione, in prossimità del fondovalle, ancora occupato da acquitrini benché, già alla fine del Paleolitico
superiore si fosse verificato il ritiro del ghiaccio che aveva occupato fino a quel momento le altitudini meno
elevate. Nella scelta del luogo ove stabilire gli insediamenti, già in quest’epoca l’uomo prediligeva i siti più
vantaggiosi per la caccia, la pesca, l’uccellagione, la vegetazione da cui trarre nutrimento.
Gli insediamenti erano ripari sottoroccia, resi più confortevoli probabilmente grazie a strutture realizzate con
pali in legno, canne di palude, pelli di animali, come lasciano presumere i rinvenimenti di buche di palo e
pietre poste intorno ad essi, forse per rinforzarli.
Anche in questo periodo è attestata una grande varietà di manufatti in osso, corno (soprattutto punteruoli,
aghi, punte e ami) e in pietra, appartenenti all’"industria sauvetteriana" e "castelnoviana".
Numerosi sono i manufatti litici caratterizzati dal fatto di avere dimensioni limitate, spesso pochi millimetri.
Si tratta dei cosiddetti microliti di forma per lo più triangolare (generalmente triangoli scaleni), usati
soprattutto per realizzare frecce e arpioni. Con il castelnoviano le tecniche di lavorazione di strumenti litici
vanno perfezionandosi, dando origine ad elementi, di dimensioni sempre limitate, di forma trapezoidale.
Questi erano spesso utilizzati come punte a tranciante per frecce.
In Trentino sono stati fatti numerosi rinvenimenti, tra i quali anche sepolture, che testimoniano l’abitudine,
durante il Mesolitico, di deporre i defunti in posizione supina e senza elementi di corredo.
Per corredo si intende l’insieme di oggetti d’abbigliamento, manufatti di uso quotidiano, elementi di valore
simbolico che sarà presente nelle tombe di epoche successive fino a quella romana.
Presso Vatte di Zambana, in un riparo sottoroccia, nel 1968 è stato rinvenuto lo scheletro di una donna di 4550 anni, deposta supina e parzialmente coperta di pietre. Un rinvenimento analogo è stato fatto nel 1995
anche a Mezzocorona, in località Borgonuovo. Al di fuori della sepoltura è stato rinvenuto un corno ed
alcune mandibole di cervo con tracce di ocra rossa, forse riconducibili ad una qualche ritualità funeraria.
Interessanti scoperte sono state fatte anche a Romagnano Loch, sulla destra Adige, a 7 chilometri a sud di
Trento, e in un riparo sottoroccia alla base del Monte Bondone, dove sono stati raccolti molti strumenti in
selce e conchiglie (76 columbelle, 2 cyclope, 2 dentalium).
Presso Pradestel-Ischia Podetti, alla base dei Dossi di Terlago, a cinque chilometri a nord di Trento, sono
state rinvenute 20 columbelle e 2 perline di cyclope; columbelle sono attestate, tra l’altro, anche a Vatte di
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Zambana, al Bus del la Vecia di Besenello, a Paludei di Volano e a Mezzocorona- Borgonuovo. Il fatto che
queste conchiglie, forate per intervento di qualche parassita o intenzionalmente, siano state rinvenute in zone
molto lontane dai luoghi d’origine, dimostra, oltre ai contatti tra popolazioni lontane, il preciso desiderio
dell’uomo mesolitico di realizzare oggetti ornamentali; abitudine d’altra parte, come si è visto
precedentemente, già attestata durante il Paleolitico superiore.
Anche presso Riparo Gaban, alla base del monte Calisio, a due chilometri a nord di Trento, sono stati
recuperati vari oggetti artisticamente lavorati. Oltre ad alcune conchiglie di columbella e dentalium forate, è
stato trovato un cilindretto in osso con decorazioni intagliate, un frammento di spatola, anch’essa in osso e
decorata, ed una statuetta (la cosiddetta "Venere del Gaban") intagliata in un corno di cervo, che ricorda le
Veneri realizzate nel Paleolitico superiore.
Molte scoperte riferibili al periodo in questione sono state fatte anche in zone situate ad altitudini piuttosto
elevate dove un clima favorevole ha determinato l’espansione di boschi di aghifoglie con conseguente
diffusione del manto erboso anche a 1900-2300 metri di altezza, ambiente ideale per stambecchi e camosci.
Gli uomini mesolitici compivano, durante l’estate, battute di caccia in montagna e realizzavano insediamenti
temporanei, vicino a laghi e ruscelli, dove dimoravano per alcune settimane. Venivano sfruttati, se possibile,
ripari sottoroccia o costruite strutture in legno, rami, pelli, in luoghi aperti.
Presso il Passo del Colbricon (1930 m.s.l.m.), a 2,5 chilometri di distanza dal Passo Rolle è stato scoperto un
sito in cui è possibile individuare 9 aree adibite allo svolgimento di diverse attività, quali lo squartamento
degli animali cacciati, la lavorazione della pelle, dell’osso, ecc.
L’intensa attività venatoria svolta in alta montagna doveva quindi essere un elemento caratteristico della vita
dell’uomo mesolitico, come dimostrano anche i ritrovamenti fatti presso la grotta di Ernesto, scoperta nel
1983, a 1165 metri di altezza, nella valle d’Antenne, sulla fiancata nord-orientale dell’altopiano di Asiago.
La grotta si sviluppa per 65 metri ed è costituita da una galleria larga da 2 a 5 metri. Qui è stato rinvenuto un
focolare di carboni, strumenti in selce, molte ossa di stambecco e di cervo.
Neolitico
Nelle terre emerse situate vicino all’equatore, già intorno agli 11.000 anni fa (9000 a.C.), si verificarono
notevoli variazioni climatiche, caratterizzate dall’aumento della piovosità. Ciò portò alla comparsa delle
prime graminacee a grande seme, le antenate dei cereali: l’orzo e il frumento. Nei territori orientali,
corrispondenti alle attuali regioni del Levante, del Sinai e dell’Arabia occidentale, i frutti di tali piante non
vennero solo raccolti ma cominciarono ad essere seminati. In Siria, nella valle dell’Eufrate, ad esempio, sono
stati trovati resti di cereali molto lontani dal luogo in cui crescevano spontaneamente e a Gerico sono state
individuate tracce di un particolare tipo di frumento, il Triticum dicoccum.
Col tempo, intorno agli 8.000 anni fa (6000 a.C.), forse in seguito a migrazioni, oppure attraverso scambi
fatti tra popoli di volta in volta confinanti, la coltivazione di tali piante si diffuse in Occidente, giungendo
nelle regioni dell’attuale Europa.
Nelle stesse zone, nello stesso periodo, si diffuse l’addomesticamento del bue e degli equini e l’abitudine a
realizzare contenitori ceramici. È attestata anche la presenza di reti, panieri ed altri oggetti ottenuti mediante
l’intreccio, nonché la tessitura con fibre di lino.
Comparvero anche i primi insediamenti stabili costituiti da strutture di forma circolare, e più spesso quadrata
o rettangolare, realizzate con mattoni di argilla, nel vicino Oriente, e con il legno, in Europa, come
dimostrano le numerose buche di palo rinvenute in molti siti riportati alla luce, ad esempio, in Moravia,
Polonia, Germania e Italia.
In Trentino, in particolare, presso il sito di La Vela (sulla destra dell’Adige, poco a nord del Doss Trento),
sono state individuate le tracce di abitazioni a pianta quadrangolare, di cui si sono conservate le buche di
fissaggio dei pali in legno che ne costituivano la struttura portante.
In questi villaggi primitivi, spesso costruiti vicino a corsi d’acqua, si svolgeva una agricoltura sistematica
che portò alla realizzazione di un’attrezzatura specifica, anche attraverso la creazione di strumenti, come
asce, martelli, scalpelli, macinelli, ottenuti, per la prima volta, levigando la pietra. Per questo motivo il
neolitico prende il nome di età della pietra levigata, andando a distinguersi dal paleolitico, l’età della pietra
scheggiata.
Neolitico antico
Con la comparsa della ceramica nei territori europei, sono sorti ben presto diversi tipi di oggetti prodotti con
questo materiale. Ciò ha portato allo sviluppo di vere e proprie culture.
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La ceramica, quindi, grazie allo studio delle diverse forme e decorazioni, è diventata un indicatore
importante per gli archeologi, "un fossile guida", per individuare le caratteristiche di una determinata cultura
e per datare i vari reperti. È stato possibile così delineare i tratti essenziali della cosiddetta
Lienerbandkeramik (cultura della ceramica a bande lineari), attestata in Europa centrale.
Nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo (Africa settentrionale, Italia, Francia, Spagna) è stata
individuata la cultura della ceramica impressa o cardiale, dal nome della conchiglia, il cardium, con la quale
venivano fatte le principali decorazioni. In Italia le testimonianze più antiche provengono dalle coste pugliesi
(es. Manfredonia).
Nell’Italia settentrionale è stato possibile scoprire la presenza contemporaneamente di una serie di gruppi
culturali. Si tratta del Gruppo di Fiorano, presente per lo più in Emilia, quello di Fagnigola, in Friuli, quello
del Vhò, nella pianura padana e quello dell’Isolino, nella zona di Varese.
In Trentino, in particolare, si è sviluppato, intorno al 5000 a.C., il Gruppo del Gaban, che prende il nome dal
riparo, sito nelle vicinanze di Trento, già menzionato per il mesolitico. Qui infatti, oltre a vari oggetti, tra cui
alcuni artistici come una placchetta ossea a forma di pesce, è stata rinvenuta una tazzina carenata, dotata di
una decorazione incisa, di bugnette plastiche sulla carena e di decorazioni sul bordo eseguite ad unghiate.
Frammenti di ceramica con le medesime caratteristiche sono state rinvenute in molti siti del Trentino, ad
esempio a La Vela, e anche in Alto Adige, a Villandro.
Ciò dimostra che questa cultura era diffusa in tutta la regione. Sulla base dei dati fino ad ora a disposizione,
si può ritenere che la sua origine sia dovuta ai contatti intercorsi tra le popolazioni mesolitiche locali e gruppi
di uomini stabilitisi in Trentino, provenendo soprattutto dall’area padana.
Sono state rinvenute tracce di insediamenti, riferibili a questo periodo, in ripari sottoroccia, presso riparo
Gaban, Romagnano, Pradestel, Moletta Patone (nei pressi di Arco). Pochi invece sono i rinvenimenti di
insediamenti all’aperto (tranne La Vela, già citato), mentre la montagna sembra essere stata scarsamente
frequentata.
Si pensa che l’economia della popolazione del Gruppo del Gaban fosse ancora basata, tranne qualche
eccezione (La Vela, Moletta Patone, dove è attestato l’allevamento di capro-ovini), sulla caccia e sulla
raccolta di frutti spontanei, radici, ecc.
Dovevano esserci però molti scambi con altre popolazioni come dimostrano, ad esempio, i vari frammenti di
vasi appartenenti alla cultura della ceramica impressa trovati presso riparo Gaban.
Neolitico medio
Intorno al 4700 a.C. si diffuse in tutta l’Italia settentrionale una nuova cultura il cui elemento distintivo è
rappresentato da vasi di ceramica con l’orlo di forma quadrata. Si suole quindi definirla "cultura dei vasi a
bocca quadrata" (cultura v.b.q.).
Attraverso lo studio delle decorazioni presenti su questi vasi è stato possibile distinguere diversi stili poiché,
in un primo momento, i vasi vennero decorati con motivi ottenuti combinando in vario modo delle linee rette
(stile geometrico lineare). In un secondo momento invece vennero realizzate decorazioni nelle quali si
preferivano alle linee spezzate bande di meandri e spirali (stile meandro- spiralico) .
Durante il Neolitico medio vennero abbandonati molti siti occupati in precedenza, tranne alcune eccezioni
come Romagnano Loch, riparo di Moletta Patone, riparo Gaban.
Sorsero molti nuovi insediamenti su qualche terrazzamento, come Garniga Nuova (750 m.s.l.m.), ma per lo
più su conoidi alluvionali in vicinanza del fondovalle ed ebbero un notevole sviluppo quelli già presenti in
queste zone come l’insediamento di La Vela. Qui, in particolare, oltre ad un’ampia attività pastorale, il
ritrovamento di chicchi di orzo e frumento carbonizzati comprova anche un’ampia attività agricola.
In questo periodo si sviluppò, nella produzione di strumenti litici, la tecnica del ritocco foliato, che
consisteva nel fare piccoli distacchi radenti su buona parte o sull’intera superficie dello strumento.
Il rinvenimento di sepolture, in particolare presso il sito di La Vela, ha permesso di stabilire quali fossero le
caratteristiche dei riti funebri adottate durante il Neolitico medio. Sono state individuate tre diverse tipologie:
– sepolture senza alcuna protezione;
– sepolture a cista litica, cioè con il defunto posto in una cassa formata da lastre di pietra;
– sepolture con un recinto di pietre, entro il quale era posto il defunto.
La presenza di una certa varietà nei riti funebri spinge a ritenere che vi fosse il desiderio di attribuire
particolari onori agli individui che, all’interno di una comunità, avevano svolto un ruolo di primo piano.
Tutti i defunti, deposti rannicchiati sul fianco sinistro, con il capo rivolto a nord ed il volto ad oriente,
potevano avere un corredo costituito da tazzine a bocca quadrata, braccialetti, collanine, conchiglie di
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spondilus. La presenza, in alcune sepolture, di cinabro induce, per la sua somiglianza all’ocra, a ritenere che
venisse utilizzato con la stessa valenza magico religiosa con cui veniva usata l’ocra già nelle sepolture
paleolitiche.
La presenza di conchiglie di spondilus, nonché di oggetti provenienti dall’area nord alpina, è molto
importante per comprendere l’intensità dei contatti tra le popolazioni delle regioni a sud e a nord delle Alpi.
Sicuramente però vi erano molti rapporti anche con popolazioni stanziate al di sotto del Po come dimostra,
ad esempio, il ritrovamento, sempre presso La Vela, di ossidiana, probabilmente originaria di Lipari.
Anche durante il neolitico è attestata la produzione di oggetti artistici. A riparo Gaban è stata trovata una
figurina femminile stilizzata, ricavata da una placchetta d’osso, che appare, come diceva Bagolini, "più un
simbolo che un’immagine". Al contrario le statuine femminili realizzate nel Paleolitico Superiore e nel
Mesolitico presentano molto evidenziati gli attributi femminili con riferimento alla fecondità.
Neolitico tardo
In questo periodo, mentre si sviluppano nei territori dell’Europa centro-occidentale nuove culture, che
contribuiscono anche alla diffusione, nei territori dell’Italia nord occidentale, della cultura di Lagozza, gli
aspetti caratteristici della cultura dei vasi a bocca quadrata tendono a restringersi all’area veneta ed atesina.
Qui la decorazione ceramica meandro spiralica lascia il posto ad un nuovo stile caratterizzato dalla
realizzazione di decorazioni, come triangoli o motivi a spina di pesce, ottenuti con incisioni ed impressioni,
su vasi dalla bocca rotonda o più raramente con la bocca quadrata, ottenuta spesso slabbrando verso l’esterno
gli angoli della bocca.
In questo periodo si assiste ad una diminuzione di insediamenti che vengono realizzati per lo più in collina,
come il sito di Isera, presso la località ai Corsi e La Torretta (dove sono state individuate le tracce di tre
capanne, su di un pendio situato a 250 metri di altezza), nonché a Covelo-Torlo, presso Terlago;
generalmente in zone facilmente difendibili. Ciò sembra confermato dai ritrovamenti fatti in Val di Non, nei
pressi di Cagnò (località Castelàz), che tuttavia non annoverano vasi a bocca quadrata.
Sulla base delle attuali conoscenze sembra si possa concludere che durante la fase finale del Neolitico, tra le
popolazioni presenti sul territorio trentino, si è verificata una profonda crisi economica e sociale con
conseguente isolamento culturale rispetto alle popolazioni padano- venete e del resto dell’Europa
Introduzione all'età dei metalli: eneolitico o età del Rame
Il passaggio dal neolitico all’età dei metalli si compie gradualmente, senza brusche scosse, nelle culture
umane. Il primo metallo utilizzato dall’uomo, oltre all’oro, è stato il rame, che veniva trovato allo stato
nativo, cioè puro. A poco a poco oggetti in rame si sono infiltrati nelle industrie preesistenti, senza mutarne
l’aspetto. Quindi nell’età eneolitica ci troviamo in presenza di un complesso culturale neolitico al quale si
aggiungono alcuni strumenti di rame.
Cronologicamente questa fase è iniziata intorno al 3500 a.C. e si è conclusa intorno al 2200 a.C., quando si
suole far iniziare l’Età del Bronzo.
Probabilmente il rame è stato scoperto dall’uomo casualmente in quanto è ipotizzabile che prima venissero
usate le pietre che lo contenevano. Il colore, la lucentezza propria di questo minerale deve poi aver spinto
l’uomo ad estrarlo e a lavorarlo per semplice martellamento, prima a freddo e, in un secondo momento, a
caldo. In seguito l’uomo si e reso conto che, fondendo il rame e versandolo in stampi, era possibile creare
diversi oggetti.
In Oriente l’estrazione e la fusione del metallo sono iniziate già prima del 5.000 a.C. e solo in tempi
successivi in Europa. Qui le prime zone di estrazione e lavorazione del rame, benché i dati raccolti siano
ancora scarsi, sembrano concentrarsi nella zona balcanica e in quella danubiana.
In Trentino la documentazione relativa a questo periodo è piuttosto scarsa.
In Alto Adige però, il 19 settembre 1991, una coppia di Norimberga, in vacanza in Val Senales, rinvenne,
sulle Ötztaler Alpen (al confine italo austriaco) a 3210 metri di altitudine, il corpo di un uomo intrappolato
nel ghiaccio. L’Uomo, chiamato poi, "l’Uomo del Similaun" (Ötzi o Uomo dell’Hauslabjoch), si presentava
completamente integro e in possesso del suo equipaggiamento.
Lo studio accurato di questo rinvenimento ha permesso di acquisire una serie di fondamentali conoscenze
sulle caratteristiche dell’età eneolitica di tutta la regione. Infatti le datazioni radiometriche della salma e dei
reperti con cui è stata rinvenuta, la collocano tra il 3300 e il 3200 a.C., all’inizio cioè dell’eneolitico. Tra i
materiali trovati, oltre a numerosi elementi di vestiario ed oggetti legati alla caccia (tra cui una faretra con
quattordici frecce), risultano particolarmente interessanti un’ascia e un pugnale in rame. Si tratta infatti degli
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unici oggetti di quel tipo e di quell’epoca giunti a noi in perfette condizioni, completi di manico e fissaggio
della lama.
La lama dell’ascia, analizzata chimicamente e al microscopio, è risultata costituita dal 99% di rame, dallo
0,22% di arsenico, dallo 0,09% di argento. Si tratta di rame derivante, probabilmente, da uno dei giacimenti
di malachite o azzurrite presenti nell’area alpina e la lama è stata ottenuta previa fusione (a 1100° C), con
una accurata lavorazione a freddo.
Queste osservazioni confermano che l’uomo di quest’epoca aveva un’alta conoscenza della metallurgia del
rame e una grande abilità nel produrre i manufatti.
È stato anche notato che le armi e il vestiario dell’Uomo del Similaun sono molto simili a quelli raffigurati
sulle statue stele. Si tratta di sculture rappresentanti figure umane (maschili con armi, femminili con seni,
figure asessuate) e per questo distinte dai menhir non figurati, presenti soprattutto in Francia e in Inghilterra
meridionale.
Le statue stele sono state trovate per lo più nella Francia meridionale, nell’area alpina, per esempio nell’alta
valle del Rodano, ma anche sulle coste del Mar Nero. In Italia monumenti di questo tipo sono stati
individuati soprattutto ad Aosta, in Val Camonica, in Valtellina, in Liguria, nella Lunigiana (LiguriaToscana) e in Sardegna.
In Trentino sono state trovate varie statue di questo tipo: una a Brentonico, una a Revò e sei ad Arco.
Le armi rappresentate sulle statue stele sono identiche, nella loro forma, a quelle rinvenute nelle sepolture
della necropoli di Remedello (vicino a Brescia) che diede origine ad una omonima cultura diffusa soprattutto
nella pianura padana orientale e nell’area alpina fino alla Val Venosta. In particolare il pugnale "tipo
Remedello" raffigurato sulle statue stele, ha la stessa forma di quello che possedeva l’Uomo del Similaun.
Si è avuta così la conferma, sulla base di questi confronti, del fatto che, nell’età del rame, si sono intensificati
gli scambi commerciali e culturali tra le popolazioni stanziate nell’Italia centro settentrionale.
Sull’attività svolta dall’Uomo del Similaun sono state avanzate molte ipotesi, delle quali nessuna pienamente
confermata. Una delle più suggestive lo vorrebbe una sorta di metallurgo itinerante, cioè un conoscitore
dell’estrazione del minerale e della lavorazione del rame che si spostava tra le varie comunità per svolgere la
sua attività.
Proprio questa ipotesi fa ricordare che l’utilizzazione del rame durante l’eneolitico ha dato l’avvio alla
comparsa di specialisti che avrebbero determinato una certa stratificazione sociale.
Comunque il fenomeno si è evoluto in maniera lenta poiché, durante l’eneolitico, i cardini del sistema
produttivo erano ancora l’allevamento (soprattutto di bovini), la caccia e l’agricoltura, anche se è probabile
che soprattutto quest’ultima attività abbia subito delle innovazioni quali l’introduzione del carro e dell’aratro.
Alla fine dell’eneolitico e all’inizio dell’epoca successiva, quella denominata età del Bronzo, si diffonde in
un’ampia area geografica che si estendeva dal Portogallo all’Ungheria andando a comprendere gran parte
dell’Italia, una nuova cultura quella del vaso campaniforme. Essa prende il nome dalla forma di un bicchiere,
molto caratteristico, che ricorda una campana rovesciata.
In Trentino sono stati rinvenuti elementi riferibili alla cultura del vaso campaniforme per lo più in contesti
chiaramente attribuibili alla prima fase dell’età del Bronzo.
A questa fase appartengono i rinvenimenti fatti a Montesei di Serso dove, accanto a frammenti di bicchieri
campaniformi, è stato trovato un forno per la fusione del minerale, frammenti di forme di fusione, punteruoli
in rame.
Età del Bronzo
Intorno al 2200 a.C., si considera ormai iniziato questo nuovo periodo caratterizzato dalla produzione
sistematica di oggetti in bronzo servendosi di leghe di rame e stagno.
Quest’età quindi, segna un’importante trasformazione delle culture umane: la ceramica assume forme più
elaborate e compaiono nuove importanti civiltà in tutto il bacino del Mediterraneo (ad esempio: a Creta la
civiltà minoica, in Sardegna la civiltà nuragica, ecc.).
Anche in questo periodo, che si considera concluso intorno al 1000 a.C., come era già avvenuto nel
passaggio tra il neolitico e l’eneolitico, le nuove culture non soppiantano di colpo le precedenti, ma si
diffondono lentamente e gradualmente. Alla Vela Valbusa (nelle vicinanze di Trento), ad esempio, sono stati
rinvenuti, in una tomba posta sopra i resti di un forno di fusione (e ciò costituisce una delle più antiche
testimonianze dell’attività metallurgica in regione), dei bottoni tipo ‘montgomery’ (chiamati così per la
forma simile a quelli usati anche ora per un particolare capo di abbigliamento, chiamato appunto
"montgomery"), caratteristici della cultura eneolitica del vaso campaniforme, insieme a diversi elementi
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ornamentali tra cui una settantina di conchiglie di dentalium. Il tutto andava forse a costituire una specie di
pettorale. Nello stesso contesto sono stati rinvenuti anche dei boccali di ceramica attribuibili ad una nuova
cultura, quella di Polada, caratterizzata, in particolare, da oggetti in ceramica di impasto grossolano e
superfici nere, dotate di anse con piega a gomito, sormontate talvolta da un’appendice.
La cultura di Polada si sviluppa durante il Bronzo Antico, 2200-1600 a.C. in Trentino-Alto Adige, nella
Lombardia orientale e Veneto occidentale. È conosciuta in particolare grazie al rinvenimento di molti siti
realizzati su palafitte, sulle sponde dei laghi alpini e prealpini.
Col termine palafitta si indicano strutture abitative in legno, realizzate su pali sempre in legno, in zone umide
o acquitrinose. Insediamenti palafitticoli sono attestati in tutta Europa, già a partire dal neolitico, ma
soprattutto nei territori situati immediatamente a nord e sud delle Alpi, in particolare nella zona dei laghi
svizzeri, lombardi e del basso Trentino.
Qui, in particolare nelle Giudicarie, sono stati riportati alla luce due insediamenti palafitticoli, presso i paesi
di Fiavè e Molina di Ledro.
A Fiavè vi sono tracce di insediamento nella torbiera che si trova a sud dell’attuale paese, là dove
originariamente vi era l’alveo di un lago chiamato Carera.
Nelle varie campagne di scavo, svolte a partire dal 1969, è stato possibile rintracciare sia strutture edificate
sulla sponda del lago sia strutture che si inoltravano nell’acqua, tra le quali sono stati individuati tre livelli di
insediamento risalenti ad epoche diverse, le più antiche al tardo neolitico.
La struttura del villaggio era costituita da moltissimi pali in legno infissi sul fondo lacustre, in modo da
formare una vera e propria struttura palafitticola con una piattaforma fatta di tronchi d’albero disposti a
reticolo e sormontati da rami e ghiaia, che creavano una base su cui venivano costruite le capanne. Il nucleo
residenziale era anche difeso, verso il lago da una palizzata di pali accostati.
La gran quantità di carboni dimostra che il villaggio è stato distrutto da un incendio che ha risparmiato solo
le strutture a contatto con l’acqua.
La creazione di costruzioni così complesse era forse dovuta alle variazioni del livello delle acque del lago nel
corso dell’anno ed implicava sicuramente alte conoscenze tecnologiche. È quindi probabile che all’interno
della comunità, dotata di una struttura gerarchica ben precisa, vi fossero degli operai specializzati.
Un altro insediamento palafitticolo molto importante è quello individuato a Molina di Ledro. Sulle sponde
dell’omonimo lago sono stati rinvenuti circa 2000 pali riferibili ad un insediamento che occupava un’area di
oltre 5000 mq.
L’ambiente particolare in cui sono sorti questi insediamenti ha fatto in modo che si siano conservati, in modo
ottimale, gli oggetti relativi alla cultura materiale dei suoi abitanti.
Oltre a reperti ceramici ne sono stati trovati molti in osso (spatole, punteruoli), in legno (vasi, ciotole, aratri,
ruote), in tessuto (a Ledro è stato rinvenuto un gomitolo di filo, una sciarpa e una cintura in lino). E ancora:
vari oggetti in bronzo quali spilloni (che venivano usati per tenere fermi i mantelli), asce, pugnali, diademi.
Il rinvenimento di forme di fusione, ugelli per mantice, crogioli, ecc., dimostrano che era svolta una
produzione locale di oggetti in bronzo, anche se piuttosto limitata.
Sicuramente vi erano molti scambi commerciali tra le popolazioni poste a sud delle Alpi e quelle che
occupavano l’Europa centro- meridionale, come dimostrano gli oggetti dello stesso tipo trovati in entrambe
le zone.
L’economia delle popolazioni che occupavano il Trentino durante il Bronzo Antico era basata
sull’agricoltura, l’allevamento di buoi, capro-ovini, suini, cavalli. Erano ancora praticate però la raccolta e la
caccia (l’orso, il capriolo, il cervo le cui corna erano talvolta usate per realizzare vari strumenti).
Sono state trovate alcune sepolture (ma i ritrovamenti sono molto rari), realizzate per lo più in ripari
sottoroccia. Oltre alla già citata sepoltura di La Vela Valbusa, interessanti ritrovamenti sono stati fatti a
Romagnano Loch e Colombo di Mori.
A Romagnano sono stati riportate alla luce, presso un riparo sottoroccia, diciassette sepolture di adulti e
bambini deposti rannicchiati sul fianco destro. Alcune tombe appartenevano a neonati posti all’interno di
grandi vasi, con la testa rivolta in basso.
Presso la località Colombo di Mori sono stati rinvenuti, all’imboccatura di una grotta e al suo interno, resti
umani in parte bruciati e ceramiche appartenenti alla cultura di Polada ed anche elementi riferibili alla
cultura del vaso campaniforme. Sembra che in questo sito fosse adottata una distinzione tra gli adulti, deposti
all’interno della grotta e i bambini al di fuori, in piccole cavità addossate alla roccia.
Durante il Bronzo Medio, 1600-1300 a.C. e il Bronzo Recente, 1300-1100 a.C., nelle regioni a nord delle
Alpi, si verifica una variazione climatica con aumento della piovosità e diminuzione della temperatura media
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annuale; ciò può aver determinato lo spostamento di varie popolazioni e la comparsa di nuove culture. In
tutta Europa infatti si diffonde la civiltà dei Campi d’Urne, caratterizzata dalla diffusione, nel rito funebre,
della cremazione, rito che prende il sopravvento anche in tutta la penisola italiana grazie alla comparsa della
civiltà protovillanoviana.
Verso la fine dell’età del Bronzo, nell’area trentina e benacense si assiste alla formazione di una facies
culturale di carattere locale che include anche l’Alto Adige e che continua sostanzialmente la tradizione
palafitticola, anche se è stato possibile trovare tracce di insediamenti anche su dossi, su terreni in pendio o in
pianura.
A Fiavè- Dos Gustinaci, a Nomi Cef, ad esempio, sono stati individuati i resti di villaggi costruiti sopra una
serie di terrazzi artificiali protetti da muretti a secco di contenimento.
In Trentino, nell’area montana, è attestato anche lo sfruttamento dei giacimenti cupriferi (di minerali
contenenti rame) per la realizzazione di oggetti in bronzo. Il rinvenimento di numerosissime aree fusorie,
soprattutto in Val di Cembra, valle dei Mocheni (a Montesei di Serso), nel Tesino, nella zona di Lavarone e
Luserna, dimostrano l’importanza che l’attività metallurgica acquista in questo periodo.
Presso il Passo del Redebus, nel comune di Bedollo, sono stati individuati ben nove forni fusori. Molto
probabilmente nelle comunità dell’epoca dovevano essere presenti "i metallurghi", cioè persone che
conoscevano a fondo le tecnologie per estrarre il minerale e per produrre oggetti di metallo. Non è tuttavia
possibile stabilire se, all’interno della singola comunità, rivestissero un ruolo preminente, poiché non sono
ancora state rinvenute, in necropoli di questo periodo, tombe attribuibili, per la particolare ricchezza di
oggetti metallici, a metallurghi. D’altra parte questi ‘tecnici del metallo’, nello svolgere la loro attività, si
trasferivano da una comunità all’altra, il che rende particolarmente difficile i ritrovamenti di eventuali loro
tombe.
Alla fine dell’Età del Bronzo, durante la cosiddetta età del Bronzo Finale (1100-900 a.C.) compare, in
Trentino- Alto Adige, la Bassa Engadina, la valle del Reno presso il lago di Costanza, il Tirolo orientale e la
Carinzia, la cultura di Luco, che prende il nome da una località altoatesina.
L’aspetto più caratteristico di questa facies culturale, quello che viene definito dagli archeologi ‘un fossile
guida’, è costituito dalla forma caratteristica della ceramica. Si tratta di un boccale con beccuccio e due
apofisi a orecchietta ai lati dell’attacco superiore del manico.
Nelle zone interessate dalla cultura di Luco è attestata la presenza di molte aree di culto, i cosiddetti
Brandopferplätze, aree sacrificali con roghi votivi, spesso situati anche ad alte quote come sullo Sciliar, a
2510 metri di altezza, e sul monte Ozol (in val di Non), a 1515 metri. In queste aree erano presenti ossa
combuste, resti di boccali tipo Luco, frantumati intenzionalmente e, talvolta, anche pezzi di metallo.
Pian piano nella cultura di Luco penetrano, grazie alle attività commerciali, elementi propri di culture
sudalpine (in particolare della cultura protovillanoviana).
Età del Ferro
Siamo arrivati così all’ultimo millennio a.C. Questo periodo è caratterizzato dall’introduzione del ferro.
L’origine della lavorazione del ferro è probabilmente da ricercare in Anatolia, regione ricca di giacimenti di
questo minerale, soprattutto nella zona orientale, dove sono stati ritrovati molti manufatti di ferro riferibili al
1300-1200 a.C. Queste testimonianze sono avvalorate dalle fonti scritte in cui si sottolinea il ruolo svolto
dagli Ittiti nella produzione di oggetti in questo materiale.
In Trentino i primi manufatti in ferro compaiono intorno all’800 a.C., quando incominciano ad essere
sfruttate le miniere presenti nell’arco alpino. Importanti le miniere presenti in Valsugana (miniera di
Pamera), in val di Peio e nel massiccio del Gran Zebrù.
I principali minerali di ferro sfruttati erano: la magnetite, l’ematite e la limonite.
L’estrazione avveniva con tecniche diverse dalle attuali. Infatti non si raggiungevano all’epoca le elevate
temperature necessarie per ottenere la fusione di questo minerale. Il primo prodotto era il massello,
dall’aspetto spugnoso, con alta percentuale di ferro. Veniva lavorato col martello in modo da eliminare la
maggior quantità possibile di scorie. Si otteneva così un "ferro dolce" di scarsa durezza.
In questa prima fase dell’età del Ferro si assiste ad una sostanziale prosecuzione della cultura di Luco, che
tende però ad interessare una zona più ristretta rispetto all’epoca precedente. I siti individuati sul territorio
trentino sono relativamente pochi e situati per lo più sul fondovalle e in posizioni di controllo delle vie
commerciali, come dimostrano le necropoli rinvenute a Nomi (località Olmi), a Romagnano e a Zambana.
Numerosi dovevano essere gli scambi con le popolazioni limitrofe, soprattutto quelle villanoviane (area
bolognese), paleovenete (area veneta), hallstattiane (area alpina a nord delle Alpi).
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Intorno al 500 a.C. si assiste alla comparsa, in Trentino-Alto Adige, bassa Engadina e Vorarlberg, della
cultura di Fritzens-Sanzeno, che prende il nome da due località poste, rispettivamente, nella Valle dell’Inn, in
Austria, e in val di Non in Trentino. Questa cultura nasce dallo sviluppo della precedente cultura di Luco
arricchita di elementi provenienti dall’area padana.
La sua diffusione in un’area geografica ben definita è dimostrata dalla presenza di particolari tipi di
ceramica, strumenti di ferro (asce, zappe, chiavi) nonché di oggetti ornamentali in bronzo.
Nella stessa zona vi sono anche le medesime strutture abitative, pratiche di culto e iscrizioni, realizzate con
caratteri propri dell’alfabeto di Bolzano o di Sanzeno, corrispondente ad una variante di quello nord etrusco,
adattato alle esigenze della lingua locale.
La cultura di Fritzens-Sanzeno è considerata propria della popolazione retica. Ciò avviene perché esiste una
corrispondenza tra un’estesa parte dell’area assegnata a quelle genti dalle fonti antiche e il territorio che la
ricerca archeologica ha dimostrato essere stato interessato da tale cultura.
Strabone (63 a.C. - 19 d.C.), ad esempio, scrisse che la popolazione dei Reti occupava l’area alpina centroorientale, oltre Como e Verona, fino alle terre solcate dal Reno e al lago di Costanza.
Ma proprio in questa zona, che le fonti affermano occupata dai Reti, le scoperte archeologiche hanno
permesso di riportare alla luce strutture abitative, oggetti vari, dalle uguali caratteristiche tanto da poterli
considerare elementi distintivi di un’unica cultura, appunto quella di Fritzens-Sanzeno.
L’oggetto più caratteristico della cultura retica è una tazza in ceramica dal fondo ombelicato e dal profilo ad
"S".
I Reti hanno lasciato numerose prove della loro presenza sul territorio trentino, non solo nelle valli principali,
ma anche in quelle interne. È stato possibile così ritrovare i resti di veri e propri villaggi, costruiti su alture
(Fai della Paganella - località Dos Castel, Castel Tesino), su terrazzamenti (Montesei di Serso, Sanzeno), sul
fondovalle (Nomi, località Bersaglio), presso conoidi (Zambana).
Gli insediamenti erano costituiti da case seminterrate, di forma quadrangolare, perimetrate da muretti a secco
e dotate spesso di un corridoio di accesso. Le pareti e il tetto delle abitazioni dovevano essere realizzati in
legno o paglia, materiali deperibili e facilmente infiammabili, come dimostrano le tracce di frequenti incendi.
L’economia delle genti retiche era piuttosto varia. Oltre alla caccia sono state trovate infatti prove dello
svolgimento dell’attività pastorale nonché dell’allevamento di capro-ovini, buoi, cavalli, polli.
Sono state trovate anche molte roncole. Questo strumento rendeva più produttivo il lavoro di raccolta
intensiva di fronde arboree da immagazzinare come foraggio invernale per gli animali.
Vi era anche un’attiva produzione agricola, come dimostrano i resti di semi di frumento, orzo, lenticchie,
rinvenuti durante gli scavi archeologici.
È ampiamente attestata anche la produzione di vino per la presenza di vinaccioli, recipienti di bronzo
destinati a contenerlo, strumenti di lavoro, utensili adatti a costruire botti (tracce di botti, ad esempio, sono
state rinvenute a Nomi- località Bersaglio), scene figurate che compaiono sulle situle.
Nel territorio retico sono stati rinvenuti molti reperti di questo tipo. Si tratta di un secchiello fatto con una
lamina sottilissima di bronzo, decorata spesso all’esterno con scene figurate realizzate attraverso la tecnica
dello sbalzo o con il bulino. L’abitudine di decorare le situle si diffonde tra il VII e il IV secolo a.C., in una
vasta area geografia estesa dal Po al Danubio e dà origine ad una vera e propria "arte delle situle". Trae
origine probabilmente dal mondo etrusco con cui i Reti ebbero sicuramente molti contatti, come dimostra la
presenza, in varie località trentine, di macine a leva e di utensili domestici di vario genere, come gli alari.
I Reti attribuivano molta importanza alla sfera sacra, come dimostrano i rinvenimenti riferibili ad aree sacre e
roghi votivi.
Sono stati trovati veri e propri ex voto, per lo più bronzetti figurati recanti dediche alle divinità, per esempio
a Sanzeno, o ciottoli incisi, a Montesei di Serso, ossa con iscrizioni o lamine di bronzo ritagliate, a Mechel.
In questo sito, frequentato dal Bronzo recente fino all’epoca romana (III/IV sec.d.C.) sono state portate
spesso come offerte fibule in miniatura, corna di cervo con iscrizioni, frammenti di situle figurate.
A Stenico, presso la località Calfieri, sono state rinvenute le tracce di un luogo di culto frequentato già nel
Bronzo medio, con roghi votivi. Da qui proviene un particolare tipo di contenitore ceramico, "il boccale tipo
Stenico", rinvenuto, insieme a coppe tipo Sanzeno, con segni caratteristici dell’alfabeto retico anche a Monte
S.Martino ai Campi di Riva.
Roghi votivi sono attestati anche a La Groa di Sopramonte, alle pendici del monte Bondone.
In questo periodo era praticato il rito funebre dell’incinerazione. All’interno di urne o direttamente nel
terreno erano posti solo alcuni resti selezionati della cremazione e vari oggetti di corredo tra cui monili,
amuleti, vasi.
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L'età romana di Maria Raffaella Caviglioli
I dati storici
I primi contatti intercorsi tra la popolazione retica trentina e i Romani risalgono al III/II sec.a.C., quando
questi ultimi, dopo aver conquistato le regioni orientali del Mediterraneo, incominciarono a penetrare nelle
zone a nord del Po. Ciò avvenne però, come ormai ritengono quasi tutti gli studiosi, non con l’impiego della
forza, tranne qualche raro caso, ma attraverso pacifici scambi commerciali. Probabilmente, all’inizio,
vennero stipulati dei trattati con le classi dirigenti locali che accoglievano di buon grado la mentalità e i
costumi romani. I primi contatti sicuri tra le popolazioni a nord del Po e i Romani risalgono al 225 a.C.,
quando i Galli Cenomani fornirono aiuti ai Romani contro i Galli Insubri e i Boi che avevano organizzato
una spedizione armata contro Roma. Nel 197 a.C. vennero stipulati patti rispettosi delle autonomie locali a
cui fanno riferimento vari scrittori romani tra cui Livio e Cicerone che, nell’orazione Pro Balbo, pronunciata
nel 56 a.C., parla di trattati federativi come quelli dei Cenomani e di altre popolazioni, che a quell’epoca
erano ancora in vigore.
Solo agli inizi del I sec.a.C. venne attribuita alla regione a nord del Po, denominata Transpadana o Cisalpina,
una organizzazione politico-amministrativa complessiva, con la concessione (probabilmente nell’89 a.C.)
dello ius Latii (cioè del diritto latino, condizione giuridica propria delle colonie latine) a tutte le comunità
che ancora non l’avevano. Esse venivano così a godere di autonomia amministrativa rispetto a Roma di cui
erano alleate e alla quale avevano l’obbligo di fornire un contingente militare e di osservare fedeltà nella
politica estera.
Nel 49-42 a.C., attraverso la lex Roscia o la lex Rubria o la lex Iulia municipalis i Cisalpini ottennero la
cittadinanza romana.
Sorsero così i Municipia, formati da una città e dal territorio circostante, i cui abitanti erano cittadini romani.
A capo vi erano quattro magistrati di cui due erano i supremi amministratori della giustizia, che convocavano
il consiglio e le adunanze elettive della popolazione ed amministravano le finanze. Altri due magistrati
controllavano il consiglio municipale, formato dai consiglieri ed avevano ampi poteri in relazione al culto
pubblico. Ogni cinque anni venivano eletti dei magistrati che provvedevano al censimento della popolazione
e potevano espellere i personaggi che si erano resi indegni.
Il territorio
Era normalmente organizzato dai Romani in base al procedimento della centuriatio, che consisteva nel
dividerlo mediante linee parallele e perpendicolari, che si incrociavano ad angolo retto, in modo da formare
un reticolato costituito da superfici tutte uguali. Si creavano così le strutture adeguate alla vita della comunità
e le infrastrutture politiche proprie del centro urbano.
La regione alpina fu completamente integrata nello Stato romano solo nel 16/15 a.C. quando Druso e Tiberio
iniziarono la campagna militare di sottomissione dei Reti e dei Vindelici a nord di Bolzano riuscendo a
vincerli, come testimonia il famoso monumento realizzato nei pressi di Montecarlo: il Tropaeum Alpium di
La Turbie (7-6 a.C.).
Alla fine del I sec.a.C. Ottaviano Augusto divise il territorio italico in undici regioni. L’Italia settentrionale
era compresa nella X et XI regio. Il territorio trentino faceva parte della X regio, che comprendeva
sostanzialmente gli attuali territori della Lombardia orientale (dall’alto corso dell’Oglio, con un tratto
dell’Adda, fino alla confluenza col Po), il Trentino, il Veneto, il Friuli, l’Istria fino a Pola.
La X Regio comprendeva vari Municipi tra cui quelli di Feltre, Brescia, Trento, Verona, entro i quali era
compreso il territorio trentino.
Appartenevano al primo il Primiero, il Tesino e la Valsugana; al secondo l’area benacense, le valli del Chiese
e del Sarca, le Giudicarie esteriori; al terzo, la valle dell’Adige, tra Rovereto e Merano, il corso inferiore
dell’Isarco, le valli di Non e di Sole; e infine al quarto la Val Lagarina (probabilmente da Rovereto).
La parte settentrionale dell’Alto Adige invece rientrava, rispettivamente, con la Val Venosta, nella provincia
della Rezia, con la val Pusteria e le valli dell’Avisio nel Norico.
Dopo un periodo di sostanziale tranquillità, tra il I sec. d.C. e la prima metà del II, con le invasioni dei Quadi
e dei Marcomanni, a partire dal 170 d.C., si verificò una lunga instabilità politica per tutto l’impero romano.
La situazione peggiorò nel III sec.d.C., quando gli Alemanni, tra il 260 e il 275 d.C., penetrarono nell’Italia
settentrionale. Nel secolo successivo poi, dopo una certa ripresa economica, pare si sia verificato un lento e
progressivo processo di decadenza. In Trentino le indagini archeologiche sembrano confermare questi dati.
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I primi reperti sicuramente di origine romana trovati sul territorio trentino risalgono al III/II sec.a.C. e sono
rappresentati da alcune monete rinvenute, ad esempio, sul Doss Trento, che testimoniano l’esistenza di
scambi commerciali intercorsi già in quell’epoca tra la popolazione locale e i Romani.
Tridentum
Nel I sec.a.C. il processo di romanizzazione andò intensificandosi, come dimostra l’iscrizione di Marco
Apuleio, risalente al 23 a.C., attualmente murata in una lesena esterna della chiesa di S. Apollinare, a
dimostrazione che Tridentum (l’attuale Trento) era già un centro politico-amministrativo ben organizzato.
Tuttavia non sono chiare le vicende relative alla fondazione della città: forse esisteva già prima del 90-89
a.C. quando avrebbe assunto i caratteri propri di una colonia latina, trasformatasi poi, dopo il 49-42 a.C., in
municipium.
Quando i Romani fondavano una città, facevano innanzitutto un sacrificio seguito dall’auspicium, che
derivava dall’osservazione del volo degli uccelli. Veniva poi fatto il rito del sulcus primigenius, cioè veniva
tracciato un solco da una coppia di buoi aggiogati e guidati dal fondatore.
La città, circondata da mura, veniva dotata di tutte le infrastrutture tipiche del mondo romano in modo da
poter assolvere alle necessità civili e religiose della popolazione, nonché a quelle legate allo svago e al
divertimento. Era sempre presente un Foro, cioè una piazza, generalmente posta al centro dell’abitato, dove
vi erano gli edifici in cui si svolgevano le attività civili e religiose; ed inoltre un tempio dedicato alla triade
capitolina o alla casa imperiale. Un ruolo importante avevano anche le strutture adibite allo svago, quali
l’anfiteatro e le terme.
Tridentum aveva una pianta quadrangolare, di cui un lato era costituito dal tratto dell’Adige che passava,
fino alla seconda metà del XIX secolo, in corrispondenza delle attuali via Torre Verde e via Torre Vanga.
Sugli altri tre lati era difesa da mura, di cui sono stati trovati vari resti, ad esempio in vicolo dell’Adige, sotto
il magazzino Nicolodi; in piazza Cesare Battisti, in prossimità della scena del Teatro Sociale; in via
Mantova, sotto l’attuale negozio Sportler; in piazza Duomo, sotto il museo Diocesano; in via Rosmini,
presso l’istituto S.Cuore. Si è così potuta calcolare la lunghezza di ogni lato: 400 metri quello orientale, 390
quello meridionale e 335 quello occidentale. La città, estendendosi così su 13 ettari di superficie, poteva
contare circa 5000 abitanti.
Su ogni lato c’era una porta di cui non sono rimaste tracce, tranne in un caso, quello della cosiddetta Porta
Veronensis (il nome compare nella "Passio Sancti Vigili", un testo del VII sec.d.C.), i cui resti sono visibili
sotto il Museo Diocesano, in piazza Duomo.
Si tratta di una costruzione risalente al I sec.d.C., gemina, costituita cioè da due fornici (aperture) esterni e
due interni destinati, rispettivamente, al passaggio dei pedoni e a quello dei carri. Ai lati vi erano due torri
con sedici lati ciascuna, dotate di un alzato in mattoni e rivestimento di lastre di pietra rossa come il
basamento. Dalle torri partivano le mura, che avevano una particolarità dal momento che, ad un primo muro
formato da ciottoli legati con la malta, ne fu aggiunto un altro, in un secondo momento, costituito da pietre e
grossi ciottoli.
Paralleli alle mura vi erano dei fossati, ulteriore difesa della città e canali di scarico delle fognature.
Inoltre vi erano due strade principali, secondo un impianto tipicamente romano: il cardo, da nord verso sud, e
il decumano, da est a ovest, che si tagliavano ortogonalmente. Tutte le altre strade erano parallele alle due
principali e prendevano il nome di cardi e decumani minori.
In via Belenzani, sotto palazzo Thun, sono stati individuati i resti del cardo massimo. Resti analoghi, nonché
quelli relativi a un decumano minore, sono stati rintracciati sotto palazzo Malfatti, sulla stessa via.
Resti del decumano sono invece stati individuati sotto via Manci e via Roma.
Lungo il fianco meridionale della chiesa cinquecentesca di S.Maria Maggiore, tra il 1974 e il 1977, sono
state fatte delle indagini che hanno permesso di trovare alcuni elementi decorativi in marmo e un ampio
lastricato di pietre rosse con un tamburo di colonna. Ciò porta a ritenere che lì vi fosse un qualche edificio
adibito a luogo di culto.
Numerosi sono i reperti riferibili ad abitazioni, per lo più domus (case signorili, riccamente decorate),
affiorati nel centro cittadino.
Sotto palazzo Tabarelli, in via Oss Mazzurana (attuale Banca Calderari) ad esempio, sono stati riportati alla
luce i resti di vari ambienti che si affacciavano su di un cardo minore, nonché vari oggetti di ceramica, vetro,
anfore, monete.
Durante gli scavi per la ristrutturazione del Teatro Sociale, tra il 1990 e il 1994, è stato scoperto un intero
quartiere in cui, oltre ad un ampio tratto di un decumano minore (della larghezza di 8,50 m.), è stato
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individuato uno spazio aperto, circondato di portici sui quali si affacciavano ambienti vari, utilizzati forse per
funzioni pubbliche e commerciali. Molto interessanti altri resti tra cui un pozzo e strutture abitative, dotate di
impianti di riscaldamento e ricche decorazioni pavimentali (mosaici).
Anche nella zona limitrofa alle mura, sia all’interno che all’esterno, in particolare in corrispondenza
dell’attuale via Rosmini, vi sono i resti di varie strutture, tra cui quelli di un’ampia domus, risalente al II sec.
d.C. Qui, oltre ad un sistema di riscaldamento analogo a quello rinvenuto presso il Teatro Sociale, è stato
riportato alla luce un mosaico rappresentante il mito di Orfeo, che ha diverse analogie con uno trovato a
Rimini, in piazza Ferrari, soprattutto per l’impostazione a nido d’ape entro un cerchio, con figure singole
all’interno di un esagono. La presenza di una struttura abitativa così ampia e riccamente decorata, al di fuori
delle mura, dimostra il grande sviluppo che la città ebbe in questo periodo.
All’esterno della città, secondo la consuetudine romana, era stato costruito un anfiteatro, che misurava 72x48
metri, di cui rimangono tracce in via S.Pietro, nella piazzetta chiamata "Anfiteatro" e nel vicino vicolo degli
Orbi dove, nel 1998, è stato individuato un tratto di pavimentazione.
Sempre al di fuori della cinta muraria sono state ritrovate numerose sepolture, in piazza della Mostra, in via
Galilei, via S.Maria Maddalena, in piazza A.Vittoria, ecc.
Una necropoli vera e propria, composta da una trentina di sepolture, la necropoli "Ai Paradisi", è stata
scoperta casualmente alla fine del 1800, in occasione dei lavori di sterro per la costruzione dell’allora
ospedale militare, nell’area compresa tra via Barbacovi e via Giovanelli.
La scoperta di sepolture risulta sempre molto importante per comprendere gli usi e costumi di una
popolazione.
In epoca romana i riti funebri avvenivano sia in base alla cremazione, sia all’inumazione, che divenne
dominante a partire dal II sec.d.C.
Nel primo caso le ceneri del defunto, contenute in un’urna funeraria di ceramica o di vetro, erano deposte in
una fossa terragna oppure in una cassetta litica o in muratura, di forma quadrangolare, con nicchie parietali
portaoggetti. In area alpina, talvolta, erano messe nella cosiddetta "tomba alla cappuccina", formata da due
tegoloni posti verticalmente a sostegno di quattro o sei disposti a doppio spiovente.
Per le sepolture basate sul rito dell’inumazione, oltre ai tipi usati per la cremazione, di cui variavano solo le
dimensioni, vi era il cassone monolitico spesso con copertura a doppio spiovente.
Nella necropoli "ai Paradisi" sono state rinvenute tombe di vario tipo. Interessante è la tomba ad inumazione,
costituita da una cassa di piombo, da cui sono affiorati i resti di una giovane donna di 12- 13 anni. Si tratta
della cosiddetta "tomba della bambolina", chiamata così per il rinvenimento al suo interno di una bambola in
osso.
Questo reperto è molto interessante per la sua struttura, in quanto sia le braccia che le gambe sono articolate
mediante dei perni che le collegano al tronco. Un oggetto di questo tipo era generalmente posto nelle tombe
delle giovani morte prima delle nozze, che avvenivano intorno ai 13/ 14 anni.
L’uso del piombo per realizzare le sepolture è piuttosto raro, (le notizie più antiche risalgono al II sec. d.C.)
ed è indice, da un lato del desiderio di mantenere incorrotto il più a lungo possibile il corpo della defunta, e
dall’altro dell’elevata condizione sociale ed economica della famiglia di appartenenza.
Nelle sepolture erano posti vari oggetti costituenti il corredo che doveva accompagnare il defunto nella vita
ultraterrena e che ne rappresentava le caratteristiche economiche e sociali manifestate durante la vita.
Generalmente ne faceva parte un servizio da mensa composto da una bottiglia per liquidi, un piatto o una
scodella, in ceramica, in vetro o in bronzo. Nelle tombe rinvenute in Trentino è stato spesso trovato anche
l’Henkeldellenbecher, un boccale che presenta una depressione funzionale in corrispondenza del manico e
che trae origine da modelli preromani retici. Ciò sembra dimostrare la persistenza in epoca romana di alcuni
caratteri propri della cultura retica.
Faceva sempre parte del corredo la lucerna, cioè una lampada ad olio, che poteva assumere diverse fogge a
seconda delle officine, generalmente padane, in cui era prodotta. Le più frequenti erano quelle a volute del I
sec.d.C. e quelle a canale o Firmalampen, realizzate per lo più nel II sec.d.C. e diffuse in tutta l’area alpina.
Talvolta nelle tombe, secondo un’usanza locale, si sono trovate anche delle fibule, cioè delle spille in bronzo,
usate sia dalle donne che dagli uomini per fermare i mantelli. Questi monili potevano avere diverse forme a
seconda della ‘moda’ e dell’epoca in cui venivano realizzati. Le più frequenti rinvenute in territorio trentino
sono quelle ad arco profilato, tipiche dell’Europa centro- orientale e diffuse tra il I e il III sec.d.C. Diversi
sono anche gli esemplari di fibule tipo Aucissa, prodotte tra il I sec.a.C. e il I sec.d.C., presenti in una vasta
area che va dalla Spagna al Caucaso, dall’Italia alla Scandinavia. Sono state trovate anche fibule a tenaglia,
prodotte soprattutto nell’Italia settentrionale alpina, tra il I e il V sec.d.C. e diffusesi in tutto l’Impero.
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Singolare è l’usanza di mettere nelle sepolture almeno una moneta, in base alla convinzione che il defunto
dovesse pagare un obolo per essere traghettato nel regno dei morti. Non mancavano poi balsamari in vetro, di
varia forma e colore, destinati a contenere profumi o olii aromatici, oggetti d’ornamento o personali come la
bambolina citata.
Il Trentino occidentale
Importanti resti di strutture abitative e necropoli sono state individuate in tutto il Trentino, soprattutto quello
occidentale, nelle zone del Basso Sarca, delle Giudicarie e della val di Non. Si tratta infatti di zone aperte,
pianeggianti e facilmente coltivabili. Lo stesso vale per la valle dell’Adige, a testimonianza dell’occupazione
capillare del territorio, soprattutto tra il I e il II sec.d.C., facilitata dalle vie di comunicazione, rappresentate
dai corsi d’acqua, dai laghi e dai tracciati viari. Tra le vie fluviali l’importanza maggiore l’ebbe sicuramente
l’Adige che, percorso già in epoca preistorica, era utilizzato soprattutto per il trasporto di materiali e merci
pesanti. Un ruolo di grande rilievo venne svolto anche dal lago di Garda, via di collegamento essenziale tra
l’area padana e quella del basso Sarca.
Presso la statale 118, che collega Riva ad Arco, sono state riportate alla luce una sessantina di sepolture
basate sia sul rito della cremazione che su quello dell’inumazione, raccolte in gruppi familiari dei quali uno
solo presentava un recinto ben costituito con pietra e malta ed al centro un monumento, di cui si è conservata
solo la base. Tra queste tombe mancano quelle riferibili a bambini, presenti invece tra i resti di un edificio di
S.Giorgio di Riva, simili a quelle rintracciate a Sanzeno, in Val di Non, e a Mezzocorona, nella valle
dell’Adige. Ciò sembra avvalorare l’ipotesi che i piccoli venissero sepolti o nelle immediate vicinanze delle
abitazioni o all’interno di esse.
Numerose sono anche le epigrafi trovate, come quella in cui è citato il Collegio degli addetti alla navigazione
benacense, che documenta l’importanza economica attribuita al lago di Garda, sfruttato per le comunicazioni
e i commerci tra le popolazioni che risiedevano in prossimità delle sue sponde.
La zona del basso Sarca è anche l’unica di tutto il Trentino in cui sono presenti tracce sicure di centuriazione
(su un territorio di 8-10 Kmq.) a dimostrare l’occupazione stabile del territorio e lo sfruttamento intensivo
delle sue risorse, attraverso la distribuzione a tutti gli abitanti di appezzamenti di uguale grandezza.
Interessanti sono anche i resti di strutture insediative, come quelli di un’abitazione riportata alla luce nel
centro di Arco, in piazza III Novembre. La struttura era dotata di un sistema di riscaldamento, confrontabile
con quello rinvenuto a Trento, in via Rosmini e presso il Teatro Sociale. Consisteva nell’appoggiare su di un
piano in mattoni dei pilastrini, anch’essi di mattoni, dell’altezza di 30-40 centimetri (suspensurae), destinati a
sorreggere un pavimento pensile. Si creava infatti un’intercapedine nella quale veniva introdotta aria calda,
prodotta da un forno opportunamente posizionato, in modo da poter riscaldare contemporaneamente più
ambienti, talvolta distribuiti anche su due piani.
Tra il 1986 e il 1987 a S. Giorgio di Arco, su oltre 4000 mq. sono state individuate diverse strutture disposte
intorno ad un cortile aperto, riferibili probabilmente ad una fattoria e risalenti, in base alle testimonianze
monetali, al I sec.a.C.- I sec.d.C. La fattoria fu utilizzata fino al V sec. d.C.
Tracce di abitazioni sono attestate anche nella zona di Prato Saiano e di Varone dove, in occasione
dell’ampliamento del cimitero, è stata individuata una struttura sviluppata su più piani.
Uno dei siti rivani più interessanti è Monte S. Martino, sopra il paese di Campi, ad 850 m.s.l.m. Qui sono
stati trovati, fino ad ora, oltre a vari reperti retici, resti di edifici di epoca romana, uno forse a carattere
cultuale, due are con iscrizioni sacre, molti oggetti tra cui alcune statuette.
Nell’occupazione del territorio un ruolo molto importante doveva essere svolto dai tracciati viari. Benché sia
molto difficile trovare i resti di una strada attribuibile all’epoca romana, talvolta il ricercatore è fortunato,
come nel caso della via realizzata in ghiaia pressata, con andamento parallelo al tracciato moderno, rinvenuta
tra Riva ed Arco, presso la già citata provinciale 118 di S. Giorgio.
La Valle dell'Adige
Tracce analoghe sono state rinvenute recentemente anche nella valle dell’Adige. A Mezzocorona, infatti, è
stata riportata alla luce una strada, sempre in ghiaia pressata, vicina ad un cortile e ai resti di una fattoria
costituita da due edifici, di cui uno usato per le attività produttive (magazzino, stalla, fienile) e l’altro come
abitazione.
Le strade, in epoca romana, tranne quelle che servivano a collegare tra loro piccoli villaggi o semplici gruppi
di fattorie, erano dotate di infrastrutture complesse. Vi erano mutationes, cioè stazioni per il cambio dei
cavalli, e mansiones, cioè luoghi in cui il viandante poteva fermarsi per riposare, con scuderie, granai, alloggi
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per il personale di servizio. Il tracciato di queste strade, che facevano parte di un’ampia rete realizzata per
collegare i principali centri dello Stato, è conosciuto attraverso l’Itinerarium Antonini (un intinerario scritto
nel III sec.d.C.), la Tabula Peutingeriana (una vera e propria carta stradale, risalente al IV sec.d.C.) e i
miliari.
I miliari sono blocchi di pietra, alti circa tre metri, di cui quasi 80 centimetri infissi nel terreno ai lati delle
strade, sui quali veniva scolpita la loro distanza dal punto di inizio della via o dalla città più vicina. Erano
posti regolarmente a circa un miglio (1480 metri) l’uno dall’altro. Stando così le cose il numero dei miliari
doveva essere elevato; ne sono stati trovati però pochi, o perché andati persi o perché spostati e riutilizzati
nelle epoche successive per svolgere altre funzioni. Nella chiesa di S. Pietro in Bosco, nei pressi di Ala, ad
esempio, è stato trovato un miliare utilizzato come base dell’altare.
In Valsugana, a Tenna, un altro è stato usato per un lungo periodo, come pilastro per la ringhiera di un
aiuola.
Lo spostamento di questi blocchi di pietra dal sito originario crea grossi problemi agli studiosi che cercano di
capire quale fosse il tracciato della strada che dalla Valle Padana attraversava la valle dell’Adige, per poi
proseguire al di là delle Alpi e di quella che collegava Altino, attraverso la Valsugana ad Augsburg (la
cosiddetta via Claudia Augusta, la quale, secondo alcuni studiosi, è stata successivamente inglobata nella via
Opitergium-Tridentum).
Il dibattito sulle due vie è stato ampio e condotto con alterne interpretazioni nel corso degli anni ed è
attualmente ancora aperto a varie ipotesi.
La Val Lagarina
Altre zone ricchissime di reperti romani, sia riferibili a strutture insediative che a necropoli, sono la Val
Lagarina, la Val di Non e la Valsugana.
A Nomi, poco lontano dal fiume, che qui anticamente tracciava un’ansa, i numerosi reperti riferibili ad una
necropoli, realizzata sul dosso di S. Pietro, poco lontano dall’insediamento retico già citato, oltre a fornire
una serie di dati interessanti relativi al tipo e alla qualità degli oggetti in uso in quell’epoca, ha permesso di
evidenziare come, in quella zona, si sia verificata una sostanziale continuità di frequentazione dall’età del
ferro a quella romana.
Interessante è il sito di Servìs, sopra Pomarolo, a 650 m.s.l.m., dove è stata rinvenuta una necropoli in cui i
defunti sono stati sepolti quasi tutti, secondo l’usanza locale, con una fibula. Il sito è stato frequentato
soprattutto in epoca tardoromana.
Poco lontano, a Prà del Rover, è stato trovato anche un notevole accumulo di laterizi e pesi da telaio, che
suggerisce l’idea che si trattasse della discarica di una fornace presente nelle vicinanze, attiva durante
l’epoca imperiale, tra il I e il III sec.d.C.
Nella zona di Rovereto, ad Isera, in occasione della costruzione della Scuola dell’Infanzia, nel 1946- 1949,
sono stati riportati alla luce i resti di un edificio a due piani, probabilmente del I sec.d.C. Si trattava di una
vera e propria villa con ricche decorazioni pavimentali a mosaico e parietali ad affresco. Sono stati rinvenuti
molti oggetti di raffinata lavorazione, tra cui la guarnizione bronzea di un letto, un campanello in bronzo
(tintinnabulum), ed altri oggetti di uso quotidiano. La presenza di un’anfora, usata comunemente per
contenere vino e la posizione della villa, in un’area in cui da sempre si coltiva la vite, potrebbe far pensare
che la sua costruzione fosse legata ad un contesto agricolo. Fino ad ora però non sono stati trovati resti di
strutture, nelle immediate vicinanze, che avvalorino in modo inequivocabile questa ipotesi.
Nel centro di Rovereto e nelle aree limitrofe sono state rinvenute molte sepolture e reperti privi di un
contesto certo, tra cui monete, bronzetti, fibule, lucerne, ecc. Ciò dimostra che anche questa zona era
densamente frequentata.
Anche la zona di Ala e di Avio, che doveva far parte del Municipio di Verona, è ricca di testimonianze
archeologiche che dimostrano una certa densità di popolamento durante l’intera età imperiale. Ad Avio, ad
esempio, è stata trovata nel 1865, un’erma in bronzo, nella località Vò Casaro. Si tratta di un oggetto
ornamentale, raffigurante un atleta o un gladiatore, del III sec.d.C.
Da questa zona provengono anche due iscrizioni funerarie risalenti al I sec.d.C. I reperti di questo genere
forniscono molte informazioni interessanti, perché su di esse compaiono i nomi dei defunti, i loro rapporti di
parentela e le attività che hanno compiuto durante la vita.
I testi di queste due iscrizioni in particolare sono:
– T(itus) Catius T(iti) L(ibertus)/ Docimus/VIvir aug(ustalis)/ sibi et/Cluviae M(arci) l(ibertae)/
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Peta[le]/ux[ori], cioè:
Tito Catio Docimo liberto di Tito, seviro, (pose) per sé e per la moglie Cluvia Petale liberta di Marco.
– L(ucius) Aufillenus/ Ascanius/ VIvir (bis)/ cla(udialis) et aug(ustalis)/ sibi et /Catiae T(iti) F(iliae)/
Rhodae/ uxori, cioè:
Lucio Aufilleno Ascanio, seviro (sia) claudiale (sia) augustale, (pose) per sé e per la moglie Catia Rhoda
figlia di Tito.
Le persone di queste due epigrafi sono legate da rapporti di parentela, dal momento che L. Aufilleno Ascanio
ha sposato Cathia Rhoda, figlia di T. Catio Docimo. I coniugi sono liberti, cioè schiavi affrancati.
Sia Aufilleno Ascanio che Catio Docimo sono stati seviri augustali, cioè membri di un collegio per il culto
dell’imperatore. Aufilleno Ascanio è stato anche un seviro claudiale, che si occupava in particolare di
organizzare gli onori rivolti all’imperatore Claudio.
La Val di Non
In Val di Non è particolarmente evidente il tranquillo assorbimento della cultura romana da parte della
popolazione locale, ma anche l’acquisizione da parte dei nuovi arrivati di usi e costumi autoctoni.
Ad esempio le tecniche di costruzione adottate comunemente dai Reti che prevedevano l’uso di sassi privi di
qualsiasi legante (muri a secco), vennero solo in parte modificate dai Romani, con l’introduzione della malta,
come si può notare a Sanzeno, un sito già abitato durante la seconda età del Ferro. Questa sostanziale
continuità insediativa è individuabile in molti altri siti di questa valle, come a Mechel, un luogo di culto (già
citato per l’età del Ferro), in cui accanto a laminette incise, ex voto retici, sono stati trovati vari oggetti
romani riferibili alla sfera religiosa, e a Cles. Qui in particolare, nel 1869, è stato trovato un reperto di
notevole interesse. Si tratta della Tavola Clesiana, una lastra di bronzo, proveniente dalla località Campi
Neri. Su di essa si legge che l’imperatore Claudio, nel 46 d.C., concesse la cittadinanza romana agli Anauni,
i Sinduni e i Tuliassi, popolazioni stanziate in Val di Non e nelle zone limitrofe. È singolare il fatto che fino
a quel momento quelle popolazioni si erano comportate come cittadini romani pur non avendone il diritto, al
punto tale da far parte delle coorti pretorie. Sulla tavola infatti si legge: Quod beneficium is ita tribuo, ut
quaecumque tanquam/ cives Romani gesserunt egeruntque aut inter se aut cum/ Tridentinis alisve, ratam esse
iubeat nominaque ea, / quae habuerunt antea tanquam cives Romani, ita habere is permittam ["E questo
beneficio io lo accordo in maniera tale ad essi, che quanto trattarono o fecero come cittadini romani o fra di
loro o con i Tridentini o con altri, ordino che sia riconosciuto come legale e permetto di tenere quei nomi che
prima ebbero come (fossero) cittadini romani"].
Nella stessa località sono state raccolte alcune iscrizioni dedicate a Saturno, divinità romana legata
all’attività agricola, nella quale forse si nascondeva una divinità indigena.
Interessanti rinvenimenti sono stati fatti anche nel paese di Cloz, dove è stata riportata alla luce una necropoli
del III-IV sec.d.C., costituita da undici sepolture, basate quasi esclusivamente sul rito dell’inumazione e
raccolte in nuclei familiari.
La tabula clesiana
L'editto di Claudio venne iscritto su una tavola di bronzo, oggi è leggermente incurvata e presenta due
ammaccature, dovute ai colpi di piccone che le vennero involontariamente inferti al momento della
scoperta; del resto il testo non ha subito nessun danno; la tavola è alta circa 50 cm. e larga 38; il suo peso è
di oltre 7 kg. Ai quattro angoli si trovano fori circolari, che dovevano permettere l'affissione della tavola ad
una parete, forse quella di un tempio di Saturno che probabilmente sorgeva nei Campi Neri.
La tavola bronzea venne scoperta il 29 aprile del 1869 in un campo di proprietà dei fratelli Moggio, nella
località dei Campi Neri di Cles, località che ha restituito, nel corso degli anni, diversi oggetti di carattere
sacro ed anche alcune iscrizioni votive a Saturno; una testina del dio venne alla luce nei medesimi Campi
Neri nel 1888.
Oltre a concedere legalmente la cittadinanza ai membri delle tre popolazioni alpine, Claudio si preoccupa
anche di ratificare tutti gli atti che in passato essi avevano compiuto agendo da cives Romani, sia nei
rapporti tra loro stessi, sia nei rapporti con gli abitanti di Trento e delle altre comunità romane.
Traduzione: Nel consolato di M. Giunio Silano e Q. Sulpicio Camerino, il 15 marzo, a Baia nel pretorio,
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editto di Ti. Claudio Cesare Augusto Germanico, venne proposto quanto è scritto di seguito.
Ti. Claudio Cesare Augusto Germanico, pontefice massimo, detenendo la potestà tribunizia per la sesta
volta, acclamato imperatore per 11 volte, padre della patria, console designato per la quarta volta, dice:
Poiché tra le vecchie controversie pendenti da molto già ai tempi di mio zio Ti. Cesare, per comporre le
quali egli inviò Pinario Apollinare, per quanto ricordo a memoria vi è solo quella fra i Comensi e i Bargalei,
il quale [Pinario Apollinare] prima per l'ostinata assenza di mio zio, poi anche durante il principato di Gaio,
visto che non gliene si faceva richiesta, non stoltamente omise di fare la relazione; e poiché in seguito
Camurio Statuto mi ha riferito che la maggior parte dei campi e dei boschi sono sotto la mia giurisdizione,
per la presente questione ho inviato il mio amico e compagno Giulio Planta, il quale, valendosi dell'aiuto
dei miei procuratori sia quelli nell'altra regione, sia quelli che erano nelle vicinanze, ha investigato e istruito
la questione con la massima cura, ora gli consento di decidere e di giudicare su tutte le rimanenti questioni,
così come mi chiarito il memoriale che lui stesso mi ha compilato.
Per quanto concerne la condizione degli Anauni, dei Tulliassi e dei Sinduni, parte dei quali si dice che
l'informatore abbia stabilito fosse attribuita ai Tridentini, parte nemmeno attribuita, nonostante io sia
cosciente che tale gruppo di persone non possa vantare con troppa sicurezza di essere in possesso della
cittadinanza romana, tuttavia, dal momento che si dice essi ne siano in possesso avendone fatto uso per
lungo tempo e poiché sono talmente mescolati con i Tridentini da non poterne essere separati senza grave
danno allo splendido municipio, concedo che essi conservino per mio beneficio quel diritto che essi
ritenevano di avere, tanto più volentieri in quanto si dice che molti appartenenti a questo gruppo di persone
militino pure nella mia guardia pretoriana, molti abbiano in effetti il rango di ufficiale dell'esercito e non
pochi, ammessi nelle decurie, hanno la funzione di giudici a Roma.
Nell'assegnare a costoro tale beneficio ordino che sia ratificato ogni atto che essi abbiano compiuto o
pubblicato agendo da cittadini romani, o tra di loro, o con i Tridentini, o con altri, e permetto che essi
tengano quei nomi che avevano in precedenza, agendo da cittadini romani.
Il ritrovamento fu casuale: alcuni operai alle dipendenze di Giacomo Moggio, mentre erano intenti a
scavare una buca per la calce, scoprirono fortunosamente la tavola la mattina del 29 aprile 1869.
La notizia della scoperta si diffuse con rapidità straordinaria: già il giorno seguente le autorità comunali di
Cles si recarono sul posto, esaminarono l'iscrizione e stesero un dettagliato verbale della scoperta: nel
verbale, oltre alle circostanze del ritrovamento, troviamo una breve ma precisa nota sulla località dei Campi
Neri e su alcuni dei reperti che vi erano stati scoperti in precedenza, un'accurata descrizione della tavola
bronzea, la trascrizione del testo, che si discosta solo per pochi particolari da quella che è stata stabilita
dagli studiosi negli anni seguenti, e infine una traduzione in italiano. Dietro questo verbale vi è qualche
mistero: l'originale è andato perduto e ne conosciamo il testo solo da una trascrizione che venne fatta
qualche mese dopo sul quotidiano Il Trentino; stupisce poi come in poco più di 24 ore (il verbale venne
redatto alle ore 13 del 30 aprile 1869) si fu in grado di stendere una relazione comprendente un excursus
sulla località, la trascrizione del testo e soprattutto una traduzione, sostanzialmente corretta, di un
documento che come abbiamo visto è tutt'altro che di facile interpretazione in alcuni passaggi. La Tavola
dunque doveva essere stata esaminata da qualche eccellente conoscitore dell'epigrafia e della lingua latina,
oltre che della storia locale della val di Non, che ovviamente doveva abitare a Cles o negli immediati
dintorni, se poté essere interpellato in un così breve lasso di tempo. Chi fosse questo erudito non è dato di
sapere: quello che è certo è che si premurarono di documentare tutta la faccenda con una rapidità
stupefacente, quasi che si temesse che l'iscrizione potesse essere sottratta e la notizia dell'importantissima
scoperta fosse insabbiata.
Sorprende anche la tempestività con la quale la notizia pervenne al grande pubblico: il 1 maggio, appena il
giorno seguente la stesura del verbale, il giornale La Voce Cattolica riportava un dettagliato resoconto
dell'avvenimento e la trascrizione del testo, sottolineandone l'importanza storica e rimandando per un
approfondimento ad un prossimo articolo. La Voce Cattolica aveva ricevuto la segnalazione da un "egregio
amico" di cui nulla di più si può dire.
Preso in contropiede, un altro giornale di Trento, concorrente de La Voce Cattolica, si affrettò a pubblicare
a sua volta il testo dell'epigrafe il 3 maggio, riprendendo il testo apparso nella Voce. Battuto sul tempo, Il
Trentino tuttavia comprese meglio degli avversari quale poteva essere il dirompente valore politico della
Tabula Clesiana: nell'articolo leggiamo infatti: "La scoperta è tanto importante per la storia del nostro paese
ed accentua così nettamente le nostre ripetute asserzioni circa la di lui già d'altronde provata specialità
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romana contro le ridicole e da nissuna prova sostenute asserzioni dei nostri avversari, che crediamo prezzo
dell'opera riportare qui per intiero la epigrafe...". La Tavola, insomma, poteva divenire un argomento
decisivo per confutare le teorie di molti studiosi austriaci dell'epoca, secondo i quali il Trentino
nell'antichità non faceva parte dell'Italia, ma della provincia imperiale della Rezia.
Il Trentino orientale
Per quanto riguarda il territorio del Trentino orientale, per le sue condizioni geomorfologiche (pendici
scoscese, aree fittamente boschive), si può notare che non è mai stato densamente abitato, tranne la zona
della Valsugana, che godeva di un particolare benessere anche per i contatti intercorrenti, sin dall’epoca
preistorica, tra questa zona e quella veneta. Gli insediamenti sorti in epoca preromana hanno continuato ad
essere frequentati anche in epoca imperiale, come dimostra, ad esempio, il sito di Dosso di S.Ippolito (899
m.s.l.m.) presso Castello Tesino, dove sono stati individuati i resti di un insediamento sviluppatosi intorno al
IV- III sec.a.C., ed abitato fino al I sec.d.C., quando è stato abbandonato.
Un’analoga continuità insediativa si può notare anche presso il sito di Doss Zelor, in Val di Fiemme, tra
Cavalese e Castello, (a 950 m.s.l.m.). Si tratta di un gruppo di edifici realizzati su un dosso e sul prato
sottostante, costruiti con pietre legate con malta e legname in cui si pensa di poter ravvisare un gruppo di
fattorie basate su di una economia agricola- pastorale di sostanziale autosussistenza.
Conclusioni a cura di Lia de Finis
Appare evidente che il Trentino è un territorio frequentato dall’uomo in modo sostanzialmente continuativo
sin dalle epoche più antiche, dal Paleolitico all’età romana.
La regione si trova in una posizione geografica tale da contribuire a creare un collegamento tra l’area padana
e i territori posti a nord delle Alpi, anche grazie alla sua natura geomorfologica. La Val Venosta, con il passo
Resia ha favorito i contatti con l’Engadina e la Germania sud- occidentale, mentre la val Pusteria, con il
passo del Brennero, quelli con l’area alpina orientale.
La presenza del lago di Garda ha facilitato le comunicazioni con la pianura padana; l’Adige, che attraversa la
regione longitudinalmente, e le molte valli che attraversano il territorio trasversalmente, hanno sempre
permesso facili comunicazioni e scambi culturali tra le popolazioni locali e quelle non solo limitrofe ma
anche di paesi lontani. Basti pensare alle conchiglie forate di columbella e cyclope, trovate presso il Riparo
Dalmeri, risalenti al Paleolitico superiore, oppure all’ossidiana, originaria dell’isola di Lipari, trovata presso
il sito di La Vela, risalente al neolitico medio.
Questi elementi spiegano l’abbondanza di ritrovamenti nel Trentino centro occidentale, in corrispondenza
della valle dell’Adige, val di Non, valli Giudicarie e Basso Sarca.
Ad una economia basata, in un primo momento, sulla caccia e sulla raccolta, si aggiunse, a partire dal
neolitico, l’allevamento e l’agricoltura. Anche la viticoltura, a partire dall’età del Ferro, doveva essere
praticata, soprattutto nel Trentino meridionale, ad esempio in Val Lagarina. Al riguardo varie sono le
citazioni di autori romani, tra cui Floro, Svetonio, Plinio, che parlano del famoso "vino retico". Interessante è
anche il rinvenimento di botti a Nomi, località Bersaglio, risalente alla seconda età del Ferro.
Come si è visto, nel passaggio tra la seconda età del Ferro e l’epoca romana la cultura locale non è stata
soppiantata totalmente da quella romana, ma spesso ha mantenuto, in alcune sue manifestazioni, la sua
originalità, ad esempio negli oggetti di uso quotidiano in ferro, oppure nell’abitudine di porre su pesi da
telaio o altri utensili d’uso comune sigle in alfabeto retico e nell’abitudine di seppellire i defunti abbigliati
come da vivi, con gli abiti fissati da una fibula.
Analizzando i materiali romani è possibile notare come, tranne oggetti di particolare prestigio, quelli di
prima necessità come tegole e pesi da telaio, siano stati prodotti in officine locali, disseminate su tutto il
territorio (le maggiori testimonianze provengono dalla valle dell’Adige e dalla valle di Non) ed inoltre con
medesime caratteristiche. Ad esempio i pesi da telaio rinvenuti a Prà del Rover sono del tutto simili a quelli
trovati a Mezzocorona, superando i 900 grammi, misura non facilmente riscontrabile al di fuori del Trentino.
Si è ipotizzato che questa particolarità sia dovuta all’uso di un filato più pesante, evidentemente in rapporto
al clima alpino.
I dati archeologici raccolti fino a questo momento sembrano quindi convalidare l’idea, proposta ormai dalla
maggior parte degli studiosi, che dal II/I sec.a.C. non ci siano stati in Trentino grossi episodi bellici e che
sostanzialmente i rapporti con i Romani siano stati abbastanza tranquilli. Le successive invasioni barbariche
spinsero la popolazione a nascondere talvolta i propri beni, dando così origine a veri e propri "tesoretti"
25
come quello rinvenuto a Zambana, nella Valle dell’Adige.
Va per altro sempre fatta una considerazione per chi si accosta allo studio dell’archeologia e allo studio dei
reperti, quella che ogni affermazione è del tutto provvisoria ed ogni valutazione rimane ‘aperta’, può essere
cioè capovolta o modificata da un successivo rinvenimento. Perciò anche un piccolo frammento, che appare
di scarso rilievo per l’occasionale scopritore, può essere determinante per confermare un’ipotesi o per
smentirla.
Nel redigere questi capitoli ci si è valsi di dati e risultati, riferiti in modo sintetico, emersi nelle recenti
indagini in parte ancora inedite dell’Ufficio Beni Archeologici della Provincia Autonoma di Trento e di ciò
si ringrazia vivamente il direttore dott. Gianni Ciurletti.
26
L'evangelizzazione del Trentino. L'Alto Medioevo (IV-X secolo d.C.)
L'evangelizzazione del Trentino di Iginio Rogger
Come impostare il problema
Sui tempi e i modi con cui la popolazione del territorio tridentino è passata dalla paganità alla visione
cristiana del mondo e alla costituzione di una comunità organizzata in cui questa si esplica e si consolida, si
sono acquisite cognizioni solide e sicure solo dalla seconda metà dell’ultimo secolo.
L’argomento è tutt’altro che secondario, perché da quell’evento è venuta a dipendere in larga misura la stessa
forma di civiltà, il modo di sentire, il complesso degli usi e costumi dell’intera popolazione trentina
determinando un sistema di vita che si trasmette ininterrottamente fino ai nostri giorni. E’ quindi evidente la
necessità di usare in modo più selettivo e attento tutte le pubblicazioni, pur meritevoli e consistenti, che
hanno trattato questo argomento fino alla metà del Novecento. Non è certo un caso se lo stesso documentoguida della chiesa di Trento, cioè il Messale e la Liturgia delle Ore della chiesa Tridentina, è stato
radicalmente rinnovato nel 1985, soprattutto per quanto riguarda la figura di S. Vigilio e quella dei tre
missionari martiri, Sisinio, Martirio e Alessandro con un criterio di totale adeguamento alla verità storica.
Occorre dunque impostare correttamente il problema. Parlare delle origini del Cristianesimo nel Trentino
non vuol dire rintracciare una qualsiasi presenza individuale di cristiani sul posto. È noto che anche a quel
tempo si riscontra una discreta mobilità della popolazione, quindi è senz’altro possibile fin dal I secolo la
presenza più o meno stabile in regione di singoli personaggi cristiani appartenenti all’amministrazione o
all’esercito o al mondo commerciale dell’Impero Romano. Il problema riguarda quindi non la presenza di
alcuni cristiani che può essere casuale, ma l’esistenza di una comunità. È nella logica della missione cristiana
di approdare alla costituzione di una comunità, radicata sul luogo, strutturata e formata. Il processo di
conversione, il formarsi del Cristianesimo in un dato luogo ha il suo punto di arrivo naturale nel costituirsi di
una chiesa. Il nascere di una chiesa locale è lo sbocco caratteristico della missione. Perciò il tema numero
uno delle origini cristiane è: quando e come si riesce ad individuare l’esistenza di una comunità organizzata.
Come sempre, la conoscenza storica prende consistenza dalle fonti. Ciò vale anche per la comunità cristiana.
Le fonti di conoscenza possono essere molto varie. La presenza di sepolture cristiane con le loro epigrafi, i
resti archeologici di luoghi di culto ed altre memorie monumentali sono in molti casi la testimonianza più
valida e più antica dell’esistenza di una comunità cristiana. Per quanto riguarda il Trentino, tali fonti
archeologiche si riscontrano piuttosto tardi, cioè non prima della fine del secolo V. Invece Trento possiede
per le sue origini cristiane una serie di fonti scritte, molto significative e solide. È un fenomeno molto raro
questo, che differenzia le condizioni trentine da quelle di altre chiese anche molto illustri, le quali possiedono
quasi solo racconti leggendari sulle loro origini.
La circostanza è dovuta al fatto che, contrariamente a quanto si immaginava, l’origine della chiesa di Trento
risale a una data piuttosto tarda, cioè alla seconda metà del IV secolo dell’era cristiana. Pareva incredibile
questo agli studiosi delle generazioni passate. Per cui ancora nel primo millennio fu creato un mondo di
leggende che cercavano di ricollegare le origini anticipandole all’epoca apostolica. E così, nel caso di Trento,
si risaliva ai discepoli di S. Pietro, i santi Ermagora e Fortunato, che, dopo aver fondata la comunità cristiana
di Aquileia, sarebbero venuti a evangelizzare anche il territorio di Trento e a costituirvi il primo vescovo
della serie. Tale convinzione venne a solidificarsi nel più antico catalogo dei vescovi, registrato nel
Sacramentario di Udalrico II (1022-1055), che colloca il vescovo Vigilio al 18° posto, segnando prima di lui
una serie di 17 vescovi che dovrebbero di molto anticipare l’evangelizzazione del Trentino. Tale costruzione
è oggi definitivamente abbandonata. Uno sguardo alla cronologia vera delle chiese in alta Italia e in tutta la
regione alpina basta da solo a ridimensionarla. L’evangelizzazione di tutta quest’area è molto più tarda di
quanto si pensava. Prima dell’anno 313, l’inizio dell’era di Costantino, si registra solo l’esistenza delle
chiese di Milano e di Aquileia, sorte sulla metà del secolo III, e delle chiese di Padova, di Verona e di
Brescia, databili agli ultimi anni dell’era dei Martiri, cioè sugli inizi del IV secolo. Anche lungo i decenni
successivi del secolo IV la proliferazione di chiese nuove è tutt’altro che rapida ed è ritardata dal travaglio
delle controversie ariane che ha ridotto la forza vitale delle chiese già esistenti.
Il quadro cronologico generale quindi assegna alle fonti scritte che riguardano la persona e l’opera di S.
Vigilio, il carattere di prime fonti dirette che illustrano la fase iniziale della cristianità trentina. Naturalmente
anche le migliori fonti scritte vanno vagliate e soppesate nella loro capacità di attestare la realtà degli eventi.
Ed è a questo riguardo che sull’argomento s’è dovuto fare una diagnosi rigorosa, che distingue due categorie
di fonti. La prima comprende le due lettere di Vigilio e un gruppo di altri documenti convergenti che
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formano intorno ad esse un blocco coerente: una lettera di S. Ambrogio a Vigilio e varie reazioni alla notizia
della sanguinosa fine dei missionari di Anaunia (pronunziate da interlocutori vicini e lontani, come i vescovi
Gaudenzio di Brescia e Massimo di Torino, Sant’Agostino dall’Africa e il biografo di S. Ambrogio, il
diacono Paolino). Si tratta di testimonianze contemporanee, fondamentali per comprendere la stessa vicenda
che rappresentano. Molto diseguale rispetto a queste è la categoria narrativa dei cosiddetti Atti o Passio di S.
Vigilio e dei documenti affini che da essi dipendono. Qui il valore testimoniale dei testi è tutto da accertare.
Autore ed epoca sono anonimi e dall’esame intrinseco del racconto è evidente che ci si trova di fronte ad una
composizione del secolo VI, forse anche più tardiva, redatta comunque a molta distanza temporale e
spirituale da quella che fu la vicenda nella realtà dei fatti. Il documento è indubbiamente prezioso e raro,
perché non ne esiste un altro del suo tipo entro il primo millennio. Ma è evidente che esso riflette quella
figura del vescovo Vigilio e quel complesso di idee che si avevano sulle origini della chiesa di Trento intorno
all’anno 600 o ancora più tardi. Costruire una storia della evangelizzazione del Trentino privilegiando questo
secondo documento è stato l’errore fondamentale della storiografia del passato e sarebbe fuorviante ancor
oggi.
Prime notizie sulla cristianità del centro urbano
Volendo seguire il metodo sopra accennato, è evidente che bisognerà accontentarsi di dati frammentari e non
volere a ogni costo la completezza di un racconto narrativo integrato magari con la fantasia. I dati però sono
talmente importanti da illuminare l’intera situazione.
Il primo flash riguarda la creazione di un vescovo a Trento. Vigilio non è il primo della serie. Qui è
apprezzabile la testimonianza stessa degli Atti che, non avendo ancora trasferito il suo nome al 18° posto
della lista episcopale, riportano la situazione reale e lo denominano "a primo tertius", cioè terzo della serie.
La verità di questa asserzione è comprovata da un documento più che sicuro che registra la presenza
dell’antecessore di S. Vigilio, chiamato Abbondanzio, al Concilio antiariano di Aquileia dell’anno 381.
Dunque in un anno non meglio specificato, ma posteriore comunque a quella data, la comunità trentina si
creava un nuovo vescovo, secondo il sistema allora vigente, cioè per elezione da parte del clero e del popolo.
A questo punto emerge un altro dato di primaria importanza. È la lettera del vescovo di Milano S. Ambrogio
a Vigilio, che esordisce con la dichiarazione: " poiché sei stato promosso di recente all’episcopato, hai
domandato a me le patenti della tua carica". L’oggetto sostanziale della lettera è quindi il consenso di
Ambrogio che si esprime col fatto stesso dell’invio della lettera. Conoscendo il sistema con cui venivano
allora creati i vescovi e quella che era la posizione di autorevolezza gerarchica di Ambrogio in quegli anni,
non si sbaglia nel riconoscere qui la piena conferma di legittimità ecclesiale del nuovo vescovo Vigilio.
Questa procedura verrà a formularsi pochi anni più tardi nella posizione supervescovile che l’arcivescovo di
Aquileia assunse anche riguardo al territorio trentino. L’autore degli Atti invece ha già dimenticato il ruolo di
Ambrogio. Quando dice che S. Vigilio fu consacrato dal vescovo di Aquileia "fuori della città", descrive
quello che era il modo di creare il vescovo di Trento all’epoca in cui si scrivevano gli Atti stessi.
Ambrogio fornisce anche qualche altro particolare sulla condizione del gregge affidato al nuovo vescovo. I
cristiani in città dovevano essere ancora in minoranza e rischiavano di venir fagocitati dalla maggioranza
pagana. Altrimenti rimarrebbe incomprensibile l’insistenza con cui vengono sconsigliati i matrimoni misti
fra cristiani e non cristiani. Che si tratti di una comunità tipicamente urbana, lo si deduce dalle esortazioni in
favore di un giusto salario verso i lavoratori dipendenti e dalle raccomandazioni che riguardano l’ospitalità.
San Vigilio
La «Passio Sancti Vigilii» come la fonte biografica principale
Le testimonianze su San Vigilio ci provengono quasi esclusivamente da un´opera anonima scritta in epoca
alto - medievale, la «Passio Sancti Vigilii», detta anche «Atti» o «Vita di San Vigilio», della quale esistono
diverse versioni, l´una successiva all´altra. Tra queste, l´esemplare più classico della Passio è considerato
naturalmente quello più antico, ritenuto anche il più attendibile, essendo quelli posteriori caratterizzati da
uno stile decisamente agiografico e più incline a mettere in luce le componenti leggendarie della vita del
santo. Un´analisi biografica di Vigilio non può pertanto prescindere da un´esegesi della fonte che
maggiormente si è occupata del personaggio.
Diverse ipotesi sono state formulate in merito all´epoca di origine della Passio; possiamo anzitutto
escludere che sia stata composta durante il periodo in cui dominò il cosiddetto «scisma dei tre capitoli», che
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dalla conclusione del VI a tutto il VII secolo tenne separata la Chiesa tridentina da quella romana.
Le indagini più recenti, smentendo alcune ipotesi alle quali in precedenza si era dato credito, hanno
comunque escluso che essa possa essere stata redatta prima del VI secolo; tuttavia, coloro che hanno
condotto tali ricerche, si sono trovati in difficoltà nello stabilire con precisione il periodo al quale far risalire
l´opera, data la scarsità e qualche volta la contraddittorietà di informazioni sull´argomento. In ogni caso, è
oggi molto seguita l´ipotesi che tale documento sia stato scritto dopo l´VIII secolo, ovvero dopo che il re
Cuniberto, con la collaborazione del pontefice Sergio I, riuscì a ricostituire l´unità religiosa con il sinodo di
Pavia del 698, ponendo fine alla lunga fase di separazione della diocesi di Trento dalla Santa Sede.
Gli altri documenti che trattano di San Vigilio e le divergenti opinioni sulla sua collocazione nella serie dei
vescovi di Trento
La «Vita di San Vigilio» non rappresenta però l´unica fonte che ci permette di ricostruire gli episodi salienti
del più celebre tra i vescovi di Trento. Sono state conservate infatti anche due lettere scritte dallo stesso
Vigilio, e indirizzate rispettivamente a San Simpliciano e a San Giovanni Crisostomo, il patriarca di
Costantinopoli conosciuto per le sue tenaci invettive in difesa della moralità e contro le seduzioni
femminili. Da questi due scritti si ricava una sorta di autoritratto psicologico ed umano del santo, che ci
appare come un uomo deciso ad affrontare ogni pericolo pur di portare avanti la sua opera missionaria.
Esiste inoltre una lettera che Sant´Ambrogio, vescovo di Milano, scrisse proprio a San Vigilio. Tale
documento è di fondamentale importanza per comprendere quale fosse il substrato sociale e culturale del
Trentino alla vigilia della venuta del nostro vescovo. Da esso si evince che a Trento già esisteva una piccola
comunità cristiana in via di formazione, anche se composta da una ristrettissima minoranza di adepti. Lo
comprendiamo dalla particolare insistenza con la quale Ambrogio, nell´indicare a Vigilio le linee
programmatiche della sua azione evangelizzatrice, sconsiglia di favorire i matrimoni misti, evidentemente
per la preoccupazione che la già piccola minoranza cristiana potesse essere del tutto fagocitata dalla
maggioranza pagana, la quale avrebbe finito per imporre le proprie abitudini e il proprio stile di vita.
Secondo l´autore della Passio, Vigilio era un patrizio romano che frequentò studi letterari in Atene e al
termine di questi prese i voti. Con la sua famiglia venne a stabilirsi nel Trentino e qui divenne vescovo, il
terzo della Chiesa locale. Invero, la sua collocazione cronologica nella lista dei vescovi di Trento non è
stata per molto tempo affatto pacifica. Varie interpretazioni si sono succedute a questo riguardo: una di
esse, che a lungo ha goduto di una notevole credibilità, accreditava San Vigilio come il diciottesimo presule
nella storia della Chiesa trentina, con un notevole scarto rispetto alla teoria oggi più seguita, che lo
annovera come il terzo della serie. E´ proprio il Dittico Udalriciano, considerato il principale documento
per la ricostruzione della successione cronologica dei vescovi di Trento, ad indicare Vigilio come
diciottesimo.
A prima vista appare decisamente strano che un manoscritto autorevole come quello compilato sotto l
´episcopato di Udalrico II possa essere incorso in un errore talmente grossolano. Alcuni studiosi hanno
ritenuto che i compilatori del Dittico Udalriciano, per dare maggiore risalto al fatto che la Chiesa avesse
radici assai più remote e quindi per accentuare l´antichità delle sue tradizioni (non senza voler attribuir loro
un certo alone di mistero), avessero evidenziato una lunga sequenza di personalità venute prima di San
Vigilio. D´altra parte il Dittico era adoperato con finalità eminentemente celebrative, poiché rappresentava
quella parte del Sacramentario liturgico che veniva letta durante le Messe solenni. Altri hanno più
semplicemente pensato che il Dittico si fosse a sua volta basato su una precedente fonte del VI secolo ed
avesse interpretato erroneamente un passaggio di questa nel momento in cui collocò Vigilio così avanti
nella successione dei vescovi.
In aggiunta a queste diversità interpretative vi sono, fortunatamente, anche dei dati certi: il predecessore
Abbondanzio è stato registrato presente al Concilio antiariano di Aquileia, tenutosi nel 381. Vigilio quindi
inizia il suo episcopato sicuramente dopo il 381, ed è del tutto improbabile che prima di questa data vi siano
stati in Trentino ben diciassette vescovi. Se inoltre prestiamo fede alla Passio, dobbiamo credere che la
durata del suo episcopato abbia coperto l´arco di dodici anni. Le opinioni, tuttavia, non sono del tutto
concordi in merito al tempo ricoperto da Vigilio al vertice della diocesi, anche se la maggior parte degli
studiosi è orientata nel ritenere alquanto degne di fede le notizie riportate dalla prima versione della Vita
del santo.
La portata della personalità di San Vigilio nella tradizione popolare trentina
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La figura di San Vigilio ha assunto nel corso dei secoli un valore simbolico molto forte per la Chiesa di
Trento, tanto da dare origine ad una vera e propria letteratura agiografica: vi si esalta la statura morale e
spirituale del personaggio, che dedicò la propria esistenza a diffondere il messaggio cristiano in luoghi dove
questo era pressoché sconosciuto e dove la popolazione, praticando ancora le antiche consuetudini pagane,
si mostrava a dir poco riottosa alla sua introduzione. Poiché egli pose le basi per un´espansione più ampia
del messaggio cristiano e riuscì per gran parte nel suo intento, rappresenta ancora oggi la prima personalità
di riferimento per la cristianità tridentina. Del resto la venerazione popolare per questo santo non è rimasta
circoscritta al solo territorio trentino, diffondendosi nel corso dei secoli anche nel resto dell´Italia
settentrionale, in particolare in Alto Adige, ma anche in Austria e nelle terre bavaresi; il che fa pensare ad
un personaggio davvero unico nel suo genere.
All´interno della diocesi di Trento, si contano oggi più di trenta fra chiese e cappelle dedicate a questo
santo, indice della particolare devozione che esiste ancora ai nostri giorni.
La missione dei santi martiri della Cappadocia presso il vescovo Vigilio nell´ambito del progetto di
apostolato promosso da Ambrogio di Milano
A quei tempi guidava la diocesi milanese il vescovo Ambrogio, destinato a circondarsi di un´aura di santità
ancora più ampia di quella serbata a Vigilio. Quest´ultimo ricevette dal vescovo milanese l´invio di tre
missionari destinati ad assurgere a simbolo della Chiesa trentina: si tratta di Sisinio, Martirio ed Alessandro,
provenienti dalla Cappadocia, che il vescovo inviò ad evangelizzare l´Anaunia e che qui trovarono il
martirio il 29 maggio del 397. Può lasciare sorpresi che per un avvenimento intercorso nel primissimo
periodo del medioevo sia stata riportata una data completa, ma il tema del martirio del martiri cappadoci è
stato trattato diffusamente e gli storici sono concordi nel definire sicura questa datazione.
Il vescovo Ambrogio aveva intenzione di intraprendere e di coordinare un´autentica iniziativa missionaria
in Trentino. La sua autorità era venuta crescendo sia da quando aveva tenuto testa nientemeno che all
´imperatore Teodosio il grande, con l´affermare che il primo dovere di un cristiano non era tanto l
´obbedienza all´imperatore, ma quella a Dio, rappresentato sulla terra dal potere spirituale della Chiesa; sia
da quando era riuscito a conservare l´ordine pubblico nel territorio milanese dilaniato dalle fortissime
dispute fra cattolici ed ariani. Era presentato quindi come un personaggio di grande carisma, e col tempo
giunse a rivestire, seppure a distanza, un ruolo centrale per i destini delle terre e delle popolazioni trentine.
Il suo progetto di evangelizzazione riguardava l´ambito geografico che si estendeva dal Piemonte fino alla
Rezia Curiense e comprendeva infine la Valle dell´Adige. La Valle dell´Adige era, infatti, assieme a quella
dell´Inn, il passaggio obbligato per raggiungere la Passavia, regione nella quale viveva la regina dei
Marcomanni, Frigitil, con la quale Ambrogio era entrato in contatto per l´invio di missionari nelle varie
regioni.
Anche i martiri d´Anaunia dovevano essere, come Vigilio, uomini di fiducia di Ambrogio. Il diacono
Paolino, il biografo principale del vescovo milanese, li definisce come «fratelli e soci» dello stesso
Ambrogio. Una testimonianza altrettanto autorevole in merito ai martiri d´Anaunia ci viene fornita da Sant
´Agostino. Questi nel 412, nell´atto di scrivere una lettera in cui chiedeva al governatore romano di
Cartagine, Marcellino, clemenza per i donatisti accusati di autentiche stragi nei confronti dei cristiani e che
stavano per essere messi a morte dall´esercito romano, cita l´esempio della Val di Non, dove i colpevoli del
martirio dei tre martiri d´Anaunia erano stati scoperti ed arrestati, ma dove erano stati gli stessi cristiani
anauni ad intercedere per loro e a salvarli dalla punizione capitale.
Ipotesi sulla struttura organizzativa della diocesi durante l´episcopato di Vigilio
E´ azzardato fare previsioni sui confini della diocesi al tempo di Vigilio, ma si può forse desumere qualcosa
di significativo da una dichiarazione che la stessa Passio attribuisce allo stesso vescovo. Nella circostanza
descritta, questi opera un deciso rimprovero nei confronti dei responsabili delle Chiese di Brescia e di
Verona per il notevole ritardo nell´azione missionaria riguardante i loro territori di competenza. E´
probabile che a quel tempo, nella sfera d´influenza di queste circoscrizioni diocesane, fossero rientrate le
zone di Arco, Riva, ed altre nella parte più a sud del Trentino, come le Giudicarie sul versante bresciano; è
altrettanto ipotizzabile che l´esternazione effettuata da Vigilio avesse potuto sottindendere ad un suo
progetto per ampliare i confini della diocesi di Trento, includendo anche questi ambiti geografici.
A giudicare dalla testimonianza che ci fornisce la Passio, la struttura della Chiesa era caratterizzata da un
notevole accentramento organizzativo ed amministrativo, secondo la caratteristica tipica dell
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´organizzazione ecclesiale paleocristiana. Quasi tutte le competenze facevano capo al vescovo, e la sua
figura appariva dominante. La comunità cristiana era d´altra parte, a quei tempi, ancora di dimensioni molto
piccole e il vescovo appariva come l´unica persona dotata degli strumenti giuridico-ecclesiastici atti a
svolgere un´azione veramente pastorale. Al contrario, la sfera d´azione dei suoi uomini di fiducia, i diaconi
posti a presidio delle singole comunità, risulterebbe alquanto limitata.
Il martirio di San Vigilio in Val Rendena e la lunga ricerca delle sue reliquie
Tutta l´opera di apostolato di Vigilio si dimostrò in pochi anni realmente incisiva sull´intera regione
trentina, non solo per quanto svolto da lui personalmente, ma anche per l´aver posto egli delle concrete
fondamenta sulle quali potevano avere seguito gli interventi dei suoi successori. Immediatamente dopo la
scomparsa del vescovo, il suo messaggio si diffuse con rapidità ancora maggiore tra i confini della diocesi,
dando avvio ad un processo di cristianizzazione molto profondo, destinato a rivelarsi come una delle
particolarità più caratteristiche del nostro patrimonio culturale.
Vigilio morì in Val Rendena, dove venne lapidato per aver osato abbattere in pubblico una statua di
Saturno, uno dei simboli più tradizionali dell´antico paganesimo. E´ utile a questo proposito accennare al
contesto storico nel quale avvenne la morte del santo. Pochi anni prima di questo episodio, nel 394, l
´imperatore romano d´Oriente Teodosio e il guerriero franco Arbogaste, che si era impadronito delle sorti
della parte occidentale dell´Impero e che aveva tentato di riportare gli antichi culti pagani al rango di
religione ufficiale, si erano scontrati in una battaglia che aveva visto vittorioso l´esercito di Teodosio ed
avrebbe a lungo scoraggiato qualunque altro sforzo di sostituire il cristianesimo con altre confessioni
religiose. La risoluta presa di posizione a favore della religione cristiana da parte dell´imperatore d´Oriente,
che tre anni prima aveva dichiarato il cristianesimo religione ufficiale dell´Impero con una decisione che
non aveva avuto precedenti nemmeno all´inizio del secolo sotto Costantino, era stata caldeggiata proprio da
Sant´Ambrogio. Costui si era rivelato dunque come il protagonista assoluto, in questi anni, sia dell
´affermazione del cristianesimo, sia dell´emergere del primato del potere spirituale su quello temporale.
Tuttavia, la vittoria della nuova confessione sul piano politico necessitava ancora, per potersi tradurre su
quello della concreta attuazione, di una vasta opera di evangelizzazione presso le popolazioni locali, la cui
vita era ancora fortemente contrassegnata dall´influenza dei riti antichi, rafforzatisi di generazione in
generazione. Ecco perché la missione di Vigilio quale vescovo di Trento e particolarmente quella
conclusiva in Val Rendena, che gli costò la vita, incontrò ancora vigorose resistenze da parte degli abitanti.
Le sue reliquie sono attualmente riposte in Cattedrale. E´ spesso raffigurato insieme al simbolo dello
zoccolo, a ricordo della sua lapidazione. Alcuni studiosi hanno ricostruito la data precisa del suo martirio,
che è stata indicata nel 26 giugno del 400 (secondo alcuni esperti l´anno era il 405), data che nel nostro
attuale calendario coincide appunto con la celebrazione di San Vigilio quale patrono di Trento. Il martirio
del vescovo avvenne durante l´anno consolare di Stilicone, il coraggioso e sagace generale che assumendo
la tutela del giovane imperatore Onorio aveva retto le sorti dell´Italia nel periodo in cui le minacce del
visigoto Alarico incombevano sulla penisola: pochi anni dopo, esse sarebbero culminate nel celebre sacco
di Roma del 410.
Le reliquie di San Vigilio sono state oggetto di studi approfonditi. Più volte e nel corso di epoche diverse si
è proceduto all´esame dei suoi sacri resti, in particolare dopo che esse vennero poste nella Cattedrale
progettata da Federico di Vanga ed edificata per gran parte dai suoi successori. La riesumazione delle
spoglie del santo ebbe luogo sotto gli episcopati di Alberto di Ortenburg (1368), Carlo Gaudenzio
Madruzzo (1629), Francesco Felice Alberti d´Enno (1759), Benedetto Riccabona (1868), Celestino Endrici
(1922 e 1939) ed Alessandro Maria Gottardi (1977).
Il nome di questo vescovo è associato alla celebre «arca» di San Vigilio, una struttura costruita in marmo
preziosamente decorata, che per qualche secolo custodì il corpo del santo, e che sul bordo superiore riporta
un´epigrafe riferita a San Vigilio e ai martiri della Valle di Non.
Evangelizzazione del territorio rurale
È fortemente diversificata nell’epoca tardo-romana la condizione sociale, politica ed economica della civitas
rispetto a quella del territorio rurale. Così, quando, come in tutta l’area mediterranea, si verificò il fenomeno
che vede nascere un vescovo in un centro urbano municipale, non è detto per niente che il retroterra delle
valli e delle campagne sia automaticamente evangelizzato. Nel caso di Trento proprio le due lettere di Vigilio
danno in proposito un quadro in comparazione con il rimanente territorio. L’Anaunia, che certo non figura
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come la più sperduta e arretrata delle valli trentine, era ancora integralmente pagana. Il primo annuncio
evangelico vi viene riportato da tre missionari " forestieri per religione e per stirpe venuti a predicare un dio
ignoto". La loro provenienza richiama ancora una volta l’appoggio del retroterra milanese. Infatti il biografo
di S. Ambrogio qualifica i tre missionari martiri come "fratelli" e "soci" nell’attività di quel presule, facendo
pensare ad una loro prima attività pastorale nella capitale lombarda, dove s’erano riuniti a vivere una
professione ascetica e religiosa. Così Vigilio, trasmettendo al successore di S. Ambrogio le reliquie dei tre
missionari uccisi nell’anno 397, dichiarava espressamente di restituire al vescovo di Milano un bene avuto in
prestito. Pur con queste premesse è evidente che l’azione missionaria in Anaunia è impresa di Vigilio, tutta
ispirata e diretta dal Pastore della città episcopale. Dei tre missionari le due lettere vigiliane tracciano un
fervido ritratto personale, sul quale non è ora il caso di soffermarsi, ma nel contempo delineano anche alcuni
tratti istituzionali che tratteggiano molto bene questo inizio di evangelizzazione.
C’è sicuramente un impulso di volontariato personale nei tre araldi della fede, pur così diversi fra loro.
Sisinio, già anziano, contribuisce anche con propri beni patrimoniali al finanziamento della missione. Ma nel
contesto della chiesa locale i tre sono ingaggiati con precisi incarichi di servizio: Sisinio come diacono,
Martirio come lettore, Alessandro come ostiario. Si evidenzia così la struttura della chiesa diocesana
dell’epoca di S. Vigilio. Essa è molto accentrata sul vescovo, al quale è riservato l’ufficio supremo
sacerdotale, con la presidenza dell’eucarestia e la gestione del regime penitenziale comunitario. Si evidenzia
nel contempo la struttura delle comunità minori che vivono dell’ascolto della parola di Dio e si qualificano
per frequenti riunioni in cui si compie la pubblica e comune preghiera dei credenti. Queste comunità avevano
una struttura ministeriale molto diversa da quella delle parrocchie odierne, ma non mancavano di una loro
ricchezza spirituale e di una solida formazione cristiana.
Le lettere di S. Vigilio attestano in modo molto esplicito quello che fu lo spirito e lo stile della sua missione.
È noto che l’Impero Romano lungo il secolo IV, pur fra molte vicissitudini contraddittorie, era andato
gradatamente abbandonando il suo legame istituzionale con il paganesimo e, con l’editto dell’imperatore
Teodosio del 392, aveva assegnato al Cristianesimo il ruolo di religione dello Stato. Si sa inoltre che in
quell’epoca non mancavano ecclesiastici e laici zelanti e devoti all’autorità imperiale e fautori di tendenze
integraliste che si credevano in dovere di esercitare pressione e anche violenze sul popolo per accelerare la
conversione. Il vescovo Martino di Tours è abbastanza lodato dal suo biografo per l’energia spettacolare con
cui ha affrontato il paganesimo delle campagne in Gallia. Il vescovo Massimo di Torino interpreta e loda in
questa prospettiva anche l’attività dei tre martiri di Anaunia.
Ma la documentazione trentina dimostra che non fu questa la linea missionaria di Vigilio. Ad essa rimane
estraneo ogni cenno di evangelizzazione aggressiva. Vi si esalta invece il valore dell’accoglienza, della
dedizione totale, dell’opera paziente, del lavoro di convinzione in cui si consumarono i missionari, dal primo
all’ultimo giorno. Esiste perfino una controprova esterna di questo atteggiamento. Sant’Agostino, in Africa,
qualche anno più tardi, riferisce quello che fu il trattamento riservato agli assassini dei missionari di
Anaunia, già catturati e destinati per legge a subire la pena capitale. Per intercessione dei cristiani essi furono
invece graziati dall’imperatore Onorio, evitando che la morte dei martiri venisse profanata con l’esecuzione
capitale dei loro uccisori. Naturalmente un’opera di conversione che rinunzi così radicalmente ad ogni forma
di pressione non ha molte prospettive di rapido successo. Così, al di là di qualche espressione generica, tutto
fa pensare che l’effettiva opera di cristianizzazione delle campagne e delle valli fosse più lenta e graduale di
quanto solitamente si afferma. Anche l’Anaunia come le altre terre dell’area trentina, tarda almeno un secolo,
prima di offrire elementi epigrafici certi della presenza dei cristiani.
Indubbiamente il metodo vigiliano di espansione missionaria era più adatto al modello sociale della città,
dove l’imposizione risulta controproducente e l’opera di convinzione rimane fondamentale nel persuadere la
popolazione. Bisogna anche dire che Vigilio usava un metodo antiquato, proprio dei tempi in cui nessuno
veniva forzato a diventare cristiano, quando le persecuzioni cercavano di impedire la conversione piuttosto
che favorirla. Quella delle campagne procede invece per vie più grossolane. La religiosità rurale è fortemente
soggetta a motivazioni utilitaristiche. Il culto degli dei viene praticato come elemento di garanzia per i
prodotti del suolo e di protezione per la salute e la fecondità del bestiame domestico. Non si cambia
religione, se non si è convinti che la nuova divinità è altrettanto efficiente nel garantire questi effetti benefici.
E quando tale persuasione dilaga, la conversione diventa endemica e assume forme di costrizione sociale.
Certamente anche i missionari dovettero adattarsi a questo nuovo metodo, meno razionale ma più efficace.
Se l’ager Tridentinus, cioè il territorio rurale appartenente al municipio di Trento, si estendeva oltre Bolzano
(mentre non comprendeva la Vallagarina, le Giudicarie e la Valsugana), la distanza verso altri centri
municipali al Nord era sconfinata e si confrontava casomai con l’area di influenza delle civitates di Coira e di
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Augusta nella Rezia e di quella della norica Aguntum presso Lienz, in Valle della Drava. Una civitas che
fungeva pur sempre da centro di espansione missionaria aveva dunque dietro di sé un grande retroterra non
urbanizzato, per il quale doveva affermarsi e prevalere inevitabilmente un modello culturale e organizzativo
diverso.
È questa esattamente la situazione che, a più di un secolo dai tempi di S. Vigilio, gli Atti descrivono nel
ricordare la sua vita. La civitas, come centro e cuore dell’attività missionaria, è sempre in piena efficienza.
L’evangelizzazione del territorio è già compiuta ed è considerata fulminea. Sono sorte oltre 30 chiese nei
territori di pertinenza già veronese e bresciana, il metodo missionario è divenuto travolgente e aggressivo, si
profilano anche i termini di una circoscrizione diocesana che pone dei confini geografici al posto di quelle
che prima erano solo linee di espansione missionaria. Tutto questo è ormai realtà all’epoca della
composizione degli Atti. È prevalentemente leggenda quando lo si attribuisce all’epoca di S. Vigilio;
basterebbe a provarlo la figura del vescovo ventenne, o la fama di taumaturgo che gli attribuiscono gli Atti e
che egli non ha certo sollecitato né favorito.
Santi e santuari
Le due lettere di Vigilio contengono molti dati di cronaca, ma sono principalmente un documento di
canonizzazione dei tre missionari uccisi dai pagani in Anaunia. Nel leggerle, occorre tener conto del modo
come nasceva e si strutturava a quel tempo il culto dei santi. Esso sorgeva ad opera delle singole chiese ed
era strettamente localizzato. Ogni chiesa aveva i suoi martiri e santi propri e li venerava non dovunque, ma
nel luogo contrassegnato dalla loro sepoltura. Il vescovo Vigilio, più che ordinare con un decreto disciplinare
il culto da attribuire ai tre missionari uccisi, tende a esplicitare le ragioni profonde che nella loro uccisione
fanno vedere dimensioni ben più alte che quelle di un incidente banale e tragico. Ciò che nella loro vicenda
traspare è l’identificazione dei martiri con la dedizione suprema di Cristo, nel mistero della sua morte e della
sua risurrezione. Questo si è manifestato in un momento concreto e in un luogo preciso della presente società
umana. Ed è il motivo per cui la comunità intera venera e assume come propria la loro memoria. Il titolo di
martire che viene così attribuito è essenzialmente un titolo cultuale, che tende a dimostrare, più che la
materialità dell’uccisione, il valore e l’onore intrinseco dell’atto, l’affiorare di un momento salvifico che nel
fatto è contenuto. La ragione del culto è tutta qui. Rispetto a questa categoria di canonizzazione che in
termini tecnici si esprime come imitatio, cioè assimilazione imitativa di Cristo, Vigilio sembra quasi
dimenticare l’altro elemento che si suol considerare oggi tanto importante per i santi, cioè la intercessio, la
loro capacità di operare. Difatti neppure un miracolo narra Vigilio dei santi che canonizza! Al culto dei santi
dell’epoca antica appartiene essenzialmente il sepolcro. Perciò la ricerca della sua localizzazione è
estremamente importante. La testimonianza degli Atti di S. Vigilio diventa a questo proposito risolutiva.
Nella Trento del VI secolo esiste in area cimiteriale fuori delle mura una costruzione memoriale ossia di
ricordo, dove riposano i corpi dei tre martiri. L’autore degli Atti la denomina con un termine speciale,
distinto da quello che designa la ecclesia urbana localizzata all’interno delle civiche mura, dove il vescovo
risiede, presiede la liturgia domenicale ed esercita la sua attività pastorale ordinaria. L’edificio fuori delle
mura invece è chiamato basilica, con un termine già usato da S. Vigilio quando enunciava la sua intenzione
di erigere sul luogo dell’uccisione dei martiri un sacello commemorativo. Il nome sta ad indicare una
funzione distinta di culto, rispetto a quella della ecclesia, appunto il culto che si esprime nella visita
devozionale sul luogo dei santi, con i caratteristici atti di ossequio che hanno il loro momento saliente nel
dies natalis, cioè nel giorno anniversario della loro morte o della loro traslazione.
Tutto questo ha un valore indicativo anche sull’origine del culto di S. Vigilio stesso, che non ha a suo
vantaggio documenti così belli come quelli che egli aveva pubblicati per il culto dei tre martiri. Lo stesso
testo degli Atti accerta che nella basilica, fuori Porta Veronese, si venerava con solenne culto anche il suo
sepolcro. Una sepoltura accanto ai martiri era molto apprezzata e ricercata da tutti nell’antichità cristiana.
Qui tuttavia c’è qualcosa di più e si collega ancora una volta al modello di S. Ambrogio. Si sa infatti che
Ambrogio, mentre stava costruendo poco fuori le mura di Milano la basilica che ancor oggi porta il suo
nome, rinvenne, in un cimitero discosto, i corpi di due martiri dell’ultima persecuzione, Protaso e Gervaso, e
nell’anno 386 li trasferì solennemente nella basilica che stava costruendo, facendosi poi seppellire accanto a
loro. Qualcosa di analogo successe qualche anno prima a Vercelli, quando il veneratissimo vescovo Eusebio
fu sepolto anche nella basilica che quello stesso sant’uomo aveva un tempo fatto costruire accanto alle
spoglie di un martire orientale, Teonesto, che egli aveva portato con sé al ritorno dal suo lungo esilio. Sono
questi i modelli con cui si va costruendo in quegli anni il culto di grandi vescovi che hanno lasciato una
nobile impronta e un ricordo di venerazione nella loro chiesa. La canonizzazione di Vigilio è avvenuta
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mediante una associazione, anche materiale, delle sue spoglie a quelle dei martiri da lui guidati e glorificati,
con una operazione che anche la generazione odierna può riconoscere moralmente valida e significativa. Le
sue due lettere attestano una comunione di intenti e una associazione spirituale con loro, che non potrebbe
essere più intensa.
Sta di fatto che, da allora in poi, il culto di Vigilio viaggia per il mondo insieme a quello dei tre martiri:
reliquie dei quattro santi trentini si venerano nella chiesa di S. Andrea a Ravenna verso la metà del secolo
VI; lo stesso gruppo, con Vigilio denominato confessor, si riscontra a Verona, presso la chiesa di Sant’Elena,
verso la metà del secolo IX; nel 1027 il diploma dell’Imperatore Corrado II conferma i diritti di contea "alla
santa chiesa di Trento nella quale riposano i preziosi corpi santi dei martiri Vigilio, Sisinio, Martirio e
Alessandro". Vigilio, dunque, si trova associato anche nella qualifica cultuale di martire, dalla quale si è
generata la leggenda del suo martirio in Rendena, ricalcata un po’ sui moduli del martirio di Anaunia del
397. Si è trattato ovviamente di una copia deteriore, perché la figura aggressiva del Vigilio che abbatte
l’idolo di Rendena e guarda in modo truce i suoi uccisori è molto diversa da quell’ autoritratto che egli dà di
se stesso nelle Lettere.
I recenti scavi sotto il Duomo di Trento hanno largamente confermato il quadro sopra esposto. Resti cospicui
di una grande basilica cimiteriale del VI secolo attestano ampiamente l’esistenza di una costruzione di tipo
martiriale, occupata da un sistema unitario di tombe impostate sulle coordinate dell’antica sepoltura dei santi.
Le ultime indagini sulla struttura dell’edificio stanno evidenziando fasi costruttive più antiche che potrebbero
riportare agli inizi del V secolo il primo impianto di un’aula cultuale di grandi proporzioni. La
trasformazione in chiesa cattedrale negli anni intorno al 1000 e la sostituzione totale dell’antico edificio con
l’attuale Duomo duecentesco, non dovrebbero far dimenticare questo santuario insigne dei martiri trentini,
unico nel suo genere per lungo tratto dell’area alpina.
Dei successori di S. Vigilio fino al vescovo Eugippio, ricordato nell’iscrizione pavimentale del Doss Trento e
databile intorno all’anno 520, si possiedono solo i nomi, grazie al solito catalogo del secolo XI. I primi due,
Claudiano e Magorio, sono citati come fratelli di S. Vigilio negli Atti semi-leggendari. Ciò potrebbe indicare
forse una successione entro l’orbita familiare di colui che gli Atti stessi descrivono "cittadino di Trento, di
stirpe romana". Ma ormai manca il confronto con le fonti validissime della prima serie. Ed ogni congettura
diventa sfuggente.
Il Trentino dopo la caduta dell'impero romano. Goti e Longobardi di Gianfranco Granello
Il regno dei Goti
Dopo l’ingloriosa deposizione di Romolo Augustolo nel 476, l’Italia divenne in teoria una provincia
dell’Impero d’Oriente, in pratica terra d’occupazione barbarica. Odoacre aveva restituito a Costantinopoli le
insegne imperiali, assumendo il titolo di "rex barbarorum" e chiedendo vanamente di essere considerato
governatore della diocesi d’Italia con dignità di patrizio. Il governo bizantino continuò invece a riconoscere
fino al 480, quando morì, il vecchio ex imperatore d’Occidente Giulio Nepote, esule in Dalmazia dal 475.
Sconfitto ed ucciso a tradimento Odoacre nel 493 dall’invasore Teodorico con i suoi Ostrogoti, la penisola fu
dapprima staccata dall’Impero anche formalmente e si costituì un regno gotico che durò fino alla riconquista
bizantina (553). Nel 498 tuttavia si ebbe una pacificazione tra il re goto e l’imperatore Anastasio per la quale
venne nuovamente riconosciuta l’alta sovranità formale dell’Impero e Teodorico accettò di essere vassallo
per quanto riguardava il governo della popolazione latina: le cariche civili furono riservate ai Romani, quelle
militari ai Goti, vennero mantenute le strutture amministrative e politiche preesistenti (anche il Senato), le
monete portavano da un lato l’immagine dell’imperatore, dall’altro il monogramma del re, che si era
circondato di consiglieri romani tentando di mantenere le due popolazioni in pacifica convivenza, ma
nettamente distinte nelle tradizioni e nelle norme giuridiche. I tribunali erano distinti, le cause miste avevano
giudici delle due stirpi in numero pari, le scuole erano divise, i matrimoni misti erano proibiti e così via. I
tributi invece venivano in pratica a gravare quasi totalmente sulla popolazione romana. Inoltre il re si limitò
ad emanare editti, anziché leggi; queste erano prerogativa del solo imperatore, quelli erano consentiti ai
funzionari imperiali nell’ambito delle proprie giurisdizioni e dei propri poteri delegati.
Nel Trentino in questi decenni si erano succedute orde di invasori da nord e da est lungo le direttrici
classiche dell’Adige e della Brenta: riportata la pace ed instaurato il regno ostrogoto, Trento divenne un
caposaldo della difesa delle valli alpine da possibili incursioni od attacchi barbarici d’oltralpe ed avamposto
fondamentale del nodo cruciale di Verona.
Nel 493 avvenne anche uno scontro tra barbari ribelli, all’interno della guerra tra Teodorico ed Odoacre,
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lungo l’Adige tra Trento e Verona.
L’importanza di Trento e della sua valle anche in epoca tardo-imperiale è confermata da un passo dello
storico romano Ammiano Marcellino, nel quale si narra che il 29 maggio del 357 l’imperatore Costanzo si
diresse da Roma verso le province illiriche per contrastare gli attacchi sul Danubio, passando per Trento. Il
tragitto più logico sarebbe stato lungo la direttrice di Aquileia, ma risalendo l’Adige l’imperatore poteva
rendersi conto della situazione delle Rezie e del Norico e seguendo la val Pusteria entrare egualmente nelle
province orientali.
Anche le popolazioni montane già romanizzate non erano molto tranquille se nelle Variae (lettere, editti,
decreti dei re goti stesi e raccolti dal loro ministro romano Cassiodoro), tra il 507 e il 511 c’è un invito al
governatore (dux) delle Rezie ad intervenire per bloccare le incursioni e le razzie dei Breuni, abitanti il
versante alpino meridionale a ridosso del territorio tridentino, contro inermi proprietari locali.
In questa prospettiva è da vedere il significato della contemporanea lettera di Teodorico ai cittadini di Trento,
nella quale il re invita la popolazione a costruire edifici di rifugio in caso di pericolo sul Doss Trento
(Verruca), già fortificato e descritto come luogo adattissimo alla difesa e chiave della provincia italica, anche
se viene affermato esplicitamente che la Venetia è sicura e pienamente in pace.
Il colle aveva del resto un peso rilevante nella vita della città di quei tempi, tanto che vi sorgeva anche una
chiesa (forse già nel V secolo) con una cappella esterna dedicata ai ss. Cosma e Damiano, eretta dal vescovo
Eugippio intorno al 530.
La popolazione era già mista, composta dalle due stirpi e fedi (la lettera è indirizzata ad ambedue le
comunità), con chiese cattoliche e chiese ariane, come può far intuire un’altra delle Variae, sempre tra il 507
ed il 511, relativa ad un prete goto di Trento.
Lo stesso valore ha pure l’altra famosa lettera ai possidenti feltrini del 523/526, nella quale li si invita a
collaborare alla costruzione di una città nella "regione tridentina", e quindi a concorrere alle spese dei lavori
perché confinanti, in quanto per la povertà e la scarsa estensione del territorio i tridentini non ne possono
sostenere l’impegno.
Ne resta un ricordo nella mascherata cittadina dei "Ciusi e dei Gobi", ove i feltrini rubano, o tentano di
rubare, le vettovaglie, cioè la polenta, ai trentini.
L’invito ha suscitato tra gli studiosi prese di posizione a favore sia della fondazione di una nuova città, sia
semplicemente della costruzione delle mura cittadine, come era stato per Verona, molto cara a Teodorico.
Verosimilmente si trattò del rafforzamento o della realizzazione di un centro fortificato per proteggere e
difendere la popolazione, distinto dal capoluogo (che altrimenti sarebbe stata citato) ma non lontano, forse in
direzione della Valsugana, ma anche a settentrione della città (alle "Navi" di Lavis? logico avamposto e
difesa dagli attacchi da nord) e probabilmente mai realizzato. Potrebbe però trattarsi anche del
completamento delle stesse fortificazioni od opere murarie sul Doss Trento: non è improponibile il fatto che i
lavori siano durati a lungo e siano proceduti con lentezza per le difficoltà economiche che indussero il re a
scrivere ai proprietari feltrini e per le ricorrenti carestie, tanto che la popolazione fu esonerata anche dal
pagamento dei tributi.
La lettera pone anche un altro interrogativo: qual era il confine del territorio verso oriente lungo il fiume
Brenta.
Comunemente accolta è la convinzione che in epoca romana il municipium feltrino giungesse a ridosso di
quello tridentino, appartenendo la popolazione del primo alla gens Menenia e quella del secondo alla Papiria,
e si fermasse a poche miglia dalla città. Anche le ripartizioni ecclesiastiche ripetevano tale situazione, ma
probabilmente non per ragioni amministrative, bensì per diritti di evangelizzazione, giunta in Valsugana da
est anziché dalla val d’Adige, tanto che il confine tra le due diocesi non fu mai contestato e rimase invariato
fino al 1786. Con la prima dominazione barbarica verosimilmente le cose non cambiarono e la lettera di
Teodorico ci fa supporre ragionevolmente che i possessori feltrini citati fossero i valsuganotti, i più vicini a
Trento ed alla valle atesina (passaggio obbligato degli eventuali incursori da nord), ed abitanti un vicino
rifugio per chi di là fuggiva.
Non si può tuttavia rifiutare a priori la possibilità sostenuta da qualche studioso che l’ipotetica cittadella
fortificata fosse in piena Valsugana: forse addirittura presso quell’Alsuca ricordata dalle fonti nel 590 e che
viene identificata con Borgo. In questo caso già con i Goti la valle sarebbe passata (almeno in parte) sotto il
governo di Trento ed in realtà l’importanza di Feltre in epoca barbarica, e specialmente con i Longobardi, si
ridusse molto, indebolita come fu dall’abbandono del tratto montano della via Claudia Augusta Altinate a
favore del più facile, anche se soggetto alle piene del fiume, percorso di fondovalle, ancor oggi asse portante
del traffico tra la pianura veneta sud-orientale e il nord. Impossibile è tuttavia verificare l’ipotesi (poco
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probabile comunque) e l’eventuale confine, stante anche l’estrema povertà di testimonianze gote. Proprio in
Valsugana rimarrebbe un ricordo della loro presenza nel toponimo Andrigo nel comune di Torcegno, che si
affiancherebbe ad Andalo, Dasindo, Ingenga (presso Rabbi) nel resto della provincia.
A settentrione invece i Goti occupavano l’intera valle dell’Adige e la val d’Isarco, ove un loro relitto
linguistico potrebbe essere il toponimo Gossensass (Colle Isarco), ma anche i versanti settentrionali delle
Alpi ove le spinte franche e germane erano tenute a bada dal dux delle Rezie, inserite a pieno titolo nel regno
d’Italia ed il cui governo militare era probabilmente a Coira, capitale dell’attuale cantone svizzero dei
Grigioni.
Dopo la scomparsa di Teodorico nel 526 (ricordo di passaggio la memoria che ne è rimasta nella tradizione e
nelle leggende alpine e trentine, riscontrabile persino nella figura silvana del Beatrìco, gigantesco cacciatore
selvaggio, molto temuto, che si aggira a cavallo nei boschi seguito da una muta di cani famelici), le lotte
all’interno dello Stato, le frizioni tra Romani e Goti, la ripresa della spinta bizantina per il recupero delle
terre d’Occidente, la crescente forza dei Franchi, portarono ad un periodo di instabilità prima e di guerra poi.
La corte di Costantinopoli aveva solo sopportato il regno di Teodorico. Salito al trono Giustiniano (527-565),
si cominciò a preparare la riscossa per ricostruire l’Impero nella sua grandezza e nella sua dignità, sia ad
oriente sia ad occidente.
Contro i Goti i Bizantini si mossero inizialmente conquistando la Sicilia e la Dalmazia ed ingiungendo a re
Teodato di riconoscere anche nei fatti l’alta sovranità dell’Impero, mentre Belisario, comandante della
spedizione, risaliva la penisola fino a Roma, che gli aperse le porte nell’aprile 536. Sull’onda degli
avvenimenti il re fu deposto e sostituito con Vitige, che cercò subito alleanze con i Franchi. Nel 540
Belisario riuscì ad occupare la stessa capitale del regno, Ravenna, e prendere prigioniero Vitige. La guerra
tuttavia continuò e re Totila tra il 542 ed il 548 riconquistò gran parte delle terre perdute. In una sanguinosa
battaglia svoltasi a Tagina in Umbria nel 552, i Goti subirono però una gravissima sconfitta e lo stesso re
perdette la vita. Il suo successore, Teia, tentò un’ultima difesa tra Napoli e Salerno: lo scontro fu
violentissimo e lungo, ma dopo due giorni di lotta i Goti furono sbaragliati ed il loro regno distrutto.
Pesanti furono le calamità che accompagnarono questa lunga guerra, nella quale pestilenze, carestie,
saccheggi, devastazioni, stragi portarono allo stremo molta parte della popolazione, e non ne fu esente la
regione tridentina, ove come nel resto d’Italia si ebbe pure una gravosissima carestia tanto che nel 535-536 il
governo di Teodato fu costretto a distribuire a prezzo politico derrate alimentari tolte dai magazzini
provinciali, tra i quali era Trento, e sulla quale si abbattè anche l’incursione alamanna del 536 (sotto il re
Vitige), e che vide poi l’occupazione, a partire dal 539-40, delle valli alpine e forse dell’intera valle
dell’Adige da parte dei Franchi (conseguenza degli accordi di alleanza con Vitige?), che furono ricacciati dai
Bizantini solo nel 556, dopo la fine della guerra gotica, con l’aiuto degli stessi vinti, mentre un’altra discesa
di Alamanni misti a Franchi e Goti ribelli portava rovine fino al sud della penisola e venne respinta e le
truppe barbariche distrutte solo dopo vari mesi. La fine dell’avventura si ebbe nella zona del Garda tra
Verona e Trento con la morte (naturale) dell’ultimo loro capo.
Rottura secolare dell'unità della penisola
La restaurazione dell'Impero non portò, come si sa, ad una pace durevole. Tra l'altro i Bizantini non si
preoccuparono di rafforzare adeguatamente i confini settentrionali, abbandonando la politica di Teodorico,
forse non valutando appieno il pericolo franco e baiuvaro, che portò ben presto alla perdita del controllo dei
valichi alpini e il conseguente arretramento dei confini.
Nel 568-569 un nuovo popolo, i Longobardi, penetrò in Italia. Un piccolo popolo, che forse all'inizio
pensava solo di occupare uno spazio lontano dagli Avari che erano giunti in Pannonia, alleati scomodi e
pericolosi, con i quali patteggiarono un eventuale ritorno qualora l'invasione in Italia fosse stata respinta dai
Bizantini (che s'erano serviti anche di loro truppe per sconfiggere i Goti). Erano con loro Gepidi, Sarmati,
Svevi, Norici, Pannoni, Sassoni. Il numero dei migranti non superava comunque le trecentomila persone,
compresi vecchi, bambini e donne.
L'iniziale facilità della conquista può essere spiegata con la scarsa presenza di armati bizantini (in parte
rientrati in Oriente dopo la guerra ed impegnati sui fronti asiatici) e la conseguente scelta militare di
difendere le città più importanti e strategicamente utili o di ritirarsi lungo le coste in attesa di riprendere la
lotta di riconquista con gli aiuti in arrivo dal mare, e quella politica di suscitare nemici ai nuovi arrivati negli
altri popoli barbari, in primo luogo i Franchi, ed all?interno degli stessi invasori, favorendo trame e
tradimenti che portarono ad esempio all'uccisione di re Alboino nel 572 e del successore Clefi nel 574, dopo
il quale il trono rimase vacante per dieci anni.
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Nel 584, per opporsi al pericolo incombente e gravissimo della reazione bizantina che sotto l'imperatore
Maurizio stava facendosi sempre più pressante ed energica, i duchi decisero di rieleggere un re (Autari, figlio
di Clefi) che coordinasse la lotta per la sopravvivenza e stabilirono di cedergli la metà delle loro sostanze per
la creazione di un demanio regio che potesse sostenere la corte e la burocrazia necessaria ad un governo
forte.
Gli sforzi bizantini raggiunsero solo risultati temporanei e parziali e l?invasione longobarda portò alla rottura
dell?unità italiana che durerà fino al Risorgimento, dando sostanza ad una nuova era storica con il reale
tramonto definitivo del mondo romano imperiale.
All?inizio del VII secolo i Bizantini occupavano coste venete, Liguria, Calabria (= Puglia centromeridionale), Bruzio (= Calabria) , Napoli, isole, esarcato e ducato romano uniti dalle due pentapoli,
marittima (Marche) e annonaria (Umbria), gli invasori erano saldamente insediati nel settentrione, in Tuscia
e negli amplissimi ducati di Spoleto e Benevento.
I Longobardi non entrano in Italia come federati o alleati, né pieni di reverenza per l'idea imperiale, non
chiedono ospitalità, non domandano riconoscimenti giuridici o accordi di compromesso formale, non si
limitano alla tradizionale occupazione del terzo delle terre o delle rendite, ma spogliano dei loro beni i
proprietari, comportandosi da veri conquistatori. Chi riesce a salvaguardare i propri beni, almeno in parte,
viene sottoposto al prelievo del terzo dei prodotti.
Passato il periodo della conquista violenta ed organizzate le strutture statali, superato il pericolo bizantino, il
diritto riavrà il suo posto, favorito anche dalla composizione dei contrasti religiosi, la legge romana
coesisterà con quella longobarda ed avrà inizio la lenta fusione tra i due popoli, ma nei primi anni dell?
invasione le condizioni degli abitanti dovettero essere assai dure, aggravate dalla povertà derivante dalla
guerra gotica, dalle incursioni nemiche e dalle calamità naturali che periodicamente e quasi annualmente si
abbattevano sull'Italia ed anche sulla regione atesina con alluvioni, siccità, invasioni di locuste, pestilenze.
Occupazione del Trentino
Non è certo quando i Longobardi occupassero la valle
dell’Adige. Le fonti, mentre citano esplicitamente la
conquista da parte di Alboino di Verona e Vicenza ed
altrettanto esplicitamente dichiarano che ciò non avvenne
per Padova, Monselice e Mantova, non ricordano Trento
che però potrebbe essere inclusa tra le altre città della
Venezia genericamente indicate come occupate subito.
In realtà l’occupazione del Trentino potrebbe benissimo
non essere avvenuta assieme a quella di Vicenza e
Verona, perché l’inoltrarsi tra le montagne poteva essere
pericoloso e poco redditizio per un esercito che cercava
terre fertili e facili da percorrere ed abituato inoltre ai
combattimenti in pianura. Solo negli anni successivi, con
la progressiva presa di coscienza di divenire stabili
occupanti della penisola e pertanto di dover rendere
sicure le proprie conquiste, i gruppi stanziati nella
pianura possono aver risalito la Valsugana, la valle
dell’Adige e forse anche le valli occidentali da Brescia,
occupando le montagne e fissando la sede del governo
locale ovviamente a Trento, ove dopo la morte di Clefi
appare duca Evino, ricordato tra i cinque governatori
delle principali città occupate (Pavia, Bergamo, Brescia,
Trento, Cividale), ma che il testo non impedisce di
ritenere a Trento già prima.
Con la costituzione del ducato il territorio tridentino si
configura finalmente come entità autonoma, staccata
dalla regione Venetia et Histria di romana memoria ed
assume una funzione essenziale quale ducato di frontiera,
di importanza strategica pari a quella del ducato friulano, a protezione della pianura padana e difesa dagli
attacchi di Franchi e Baiuvari che si erano attestati ai valichi e nelle alte valli alpine, approfittando della
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debolezza bizantina e dell’inesperienza (forse) longobarda che non ne ebbero mai il controllo totale, e dove
probabilmente era rimasto ai bizantini il castrum Anagnis oggetto dell’attacco franco intorno al 576, del
quale si tratterà più oltre.
L’estensione del ducato finì per ricalcare a nord i confini della X Regio, arrivando a Merano da un lato ed a
Chiusa (Sabiona) dall’altro, a contatto con Franchi che avevano occupato la val Venosta e con Baiuvari scesi
nell’alta val d’Isarco, ad est si fermava a Pergine (più tardi si estese a tutta la Valsugana) ed all’imbocco
della val di Fassa, a sud giungeva fino ad Avio (o forse alle Chiuse di Verona) ed al lago, eccetto Riva (dal
584 dominio demaniale), ad ovest si portò presto al Tonale (dopo la conquista della Anaunia): in sostanza si
era costituito ciò che nei secoli sarebbe stato il territorio tridentino storico e che avrebbe poi formato il
principato vescovile.
Con i Longobardi quindi ha inizio effettivamente la storia cosciente della regione e nasce il concetto di
Trentino ("Tridentinum territorium", che ricorda la "regio tridentina" della lettera di Teodorico). Nel corso
degli anni e dei secoli i confini si sarebbero ristretti od allargati a seconda delle vicende del momento,
soprattutto a nord, ma il nucleo sostanziale non cambierà più.
Le principali notizie sulle vicende trentine ci sono riferite da Paolo Diacono nella sua Historia
Langobardorum. Egli tuttavia ebbe come fonte essenziale per i primi decenni un’opera ora perduta, composta
da un monaco trentino, Secondo di Trento, o di Non.
Di lui si parla in tre passi dell’opera di Paolo, due dei quali sono biograficamente fondamentali perché ci
informano che nella Pasqua del 603 Secondo battezzò a Monza Adaloaldo, figlio di Agilulfo e Teodolinda, e
che nel marzo 612 egli morì presso Trento, lasciando una "succinta" storia dei fatti longobardi.
Un brevissimo frammento di dodici righe è l’unica traccia diretta della sua vita e della sua opera. Rinvenuto
nel monastero bavarese di Weingarten (proprietario di molti beni anche in Alto Adige) nel XVIII secolo, fu
pubblicato per la prima volta nel 1761 e poi dal francescano Benedetto Bonelli, una tra le figure più
significative del Settecento trentino, nel 1762.
Dopo gli sconvolgimenti napoleonici e la secolarizzazione del monastero avvenuta nel 1808, il frammento
sembrava perduto. Fortunatamente nel 1952 venne ritrovato nella biblioteca provinciale di Stoccarda. Il
codice miscellaneo che lo conserva è fatto risalire all’VIII secolo (contemporaneo quindi di Paolo Diacono):
il frammento porta indicazioni anche biografiche e conclude un lavoro probabilmente diverso da quello della
piccola storia fonte di Paolo (o forse ne è un iniziale abbozzo sviluppato successivamente). Infatti il testo,
composto verosimilmente nel 580, come si desume dai dati offerti dallo stesso Secondo che parla in prima
persona, dice espressamente che quanto narrato ebbe luogo nella terra (o diocesi) trentina, "in loco Anagnis",
sotto il vescovo Agnello durante il governo dell’imperatore Tiberio II, nel dodicesimo anno dell’invasione
longobarda.
Come si nota, a quest’epoca Secondo è ancora nostalgico del vecchio ordine politico e continua a sentirsi
suddito dell’Impero. Di fronte ai lutti ed alle rovine portate in una terra ormai di confine da incursioni,
scontri, conquiste ed occupazioni violente, la sua disposizione d’animo culturale e politica verso un invasore
barbaro, spesso brutale, ariano e nemico dello Stato legittimo, come si presenta il longobardo, non può che
essere negativa. La stessa del resto che mostrano i vescovi Agnello di Trento ed Ingenuino di Sabiona (sede
successivamente trasferita a Bressanone, poco più a nord) firmatari con altri vescovi nel 591 (o forse 590)
della missiva all’imperatore Maurizio nella quale auspicano con forza il ritorno del governo legittimo
bizantino.
Più tardi però le vicende politiche portarono al matrimonio prima del duca Evino con una principessa
cattolica, figlia del duca di Baviera Garibaldo (che non era però ancora convertito, come gran parte del suo
popolo), poi nel 589 di sua sorella Teodolinda con l’ariano re Autari, con una cerimonia che sarebbe stata
celebrata nella zona di Ala. La posizione di Secondo allora si ammorbidì tanto da diventare un influente
consigliere spirituale della corte di Pavia con la regina ed il suo successivo marito Agilulfo, convertitosi
dopo il matrimonio (a differenza di Autari), ambedue favorevoli alla posizione della Chiesa aquileiese sul
complesso problema dei "Tre Capitoli", cui anche la Chiesa trentina aderiva.
La sua fama, la stima nei suoi confronti e la preoccupazione di mantenere uniti i cattolici di fronte agli ariani
portarono persino papa Gregorio I a scrivergli nel 599 per chiarirgli i termini della questione che aveva
portato all’equivoco tricapitolino e ad annunciare un’altra lettera (probabilmente mai più scritta per la
declinante sua salute) nel 603, nell’epistola inviata a Teodolinda per rallegrarsi del battesimo del figlio
Adaloaldo e nella quale Secondo è ricordato due volte quale dilettissimo figlio.
Non è da pensare che Secondo divenisse filolongobardo, era piuttosto un fiducioso sostenitore di quanti
erano convertiti al cattolicesimo, con la non nascosta speranza di poter, attraverso i capi, convertire l’intero
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popolo alla vera fede, stimolato anche dall’essere il Trentino già su quella strada, con una cattolica sposa di
Evino ed un cattolico quale duca suo successore (Gaidoaldo).
Prima di continuare, riteniamo utile ricordare brevemente in che cosa consisteva la disputa teologicoreligiosa conosciuta come "Scisma dei Tre Capitoli".
Convinto assertore dell’alleanza trono-altare, ma altresì della necessità di intervenire anche nelle questioni
religiose, Giustiniano nel 544 aveva approvato e fatto approvare una condanna, stesa da un vescovo
orientale, degli scritti di tre teologi presunti filonestoriani che il Concilio di Calcedonia nel 451 non aveva a
suo tempo ritenuto in errore perché essi avevano chiarito le proprie posizioni e dichiarata la propria fedeltà a
Roma. La condanna, che serviva a Giustiniano per trovare un accordo con i "monofisiti" (seguaci di
un’eresia molto diffusa in Oriente e pericolosa per l’unità dell’Impero) e per bloccare l’espansione del
nestorianesimo, altrettanto pericoloso sul piano politico e religioso (era diffuso anche nella nemica Persia),
fu sottoscritta sotto il peso delle pressioni imperiali dai vescovi d’Oriente e, con molti contrasti, anche da
papa Vigilio, praticamente prigioniero a Costantinopoli, con una formula che però salvaguardava l’autorità
delle scelte di Calcedonia. Molte Chiese d’Occidente rifiutarono invece l’adesione: tra esse quelle di
Aquileia e di Milano che ruppero l’unità con Roma per qualche tempo. La disputa si concluse
definitivamente per i territori aquileiesi alla fine del VII secolo, anche se nella pratica già da tempo aveva
perso d’interesse ed in realtà i rapporti tra le Chiese non furono mai interrotti.
Alleanza franco-bizantina
Dopo l’iniziale serie di assalti alla propria sovranità che portò in pochi anni alla perdita dell’intera Italia
padana, Bisanzio tentò di reagire anche militarmente e dal 580 si assiste ad una serie di attacchi che
portarono il dominio longobardo sull’orlo della distruzione.
Già forse prima però la nostra regione fu oggetto di una invasione che portò i Franchi guidati dal duca
Cranmichi ad occupare il già ricordato castrum Anagnis ( dichiarato da Paolo Diacono "ai confini d’Italia" e
che probabilmente è l’attuale Nanno – con qualche dubbio a favore della zona di Sanzeno –, ma potrebbe
indicare il territorio dalla piazzaforte difeso, cioè l’intera Anaunia: si ricordi il "loco Anagnis" del frammento
di Secondo e si tenga presente la posizione di Nanno, chiusura e controllo delle valli di Sole e di Non e perno
naturale del sistema difensivo che certamente esisteva a protezione di tutta la zona). L’occupazione di Nanno
(o dell’intera valle), che potrebbe essere stata pacifica (e le parole del testo lo fanno supporre), se, come i più
ritengono, era controllata ancora (come altri luoghi tra le Alpi) dai Bizantini, che avevano tutto l’interesse a
sostenere un attacco franco alle posizioni del nemico, provocò la reazione longobarda con una spedizione
guidata dal conte "de Lagare" Ragilone, luogotenente di Evino in val Lagarina e suo comandante militare,
che espugnò Nanno; ma al ritorno egli si scontrò con le truppe di Cranmichi nella piana tra Mezzocorona e
Mezzolombardo e fu sconfitto, rimanendo ucciso e le sue truppe distrutte. Ciò portò alla guerra aperta:
dapprima ebbe la meglio l’invasore che occupò e devastò Trento, poi, riorganizzate le forze, Evino riuscì a
bloccare il nemico a Salorno mentre tornava alle basi del nord (verosimilmente in Venosta, o comunque nella
Rezia curiense) e ad annientarlo, salvando il ducato da altri pericoli.
La vicenda è di grande importanza perché ci permette di valutare la capacità organizzativa e di governo di
Evino e la stabilità del dominio longobardo almeno in val d’Adige, che i Franchi ancora non erano in grado
di occupare ma che avrebbero potuto far diventare loro riserva di caccia anche senza gli accordi con
Costantinopoli che scatenarono un lungo periodo di lotte, nelle quali il Trentino fu coinvolto in particolare
nel 590.
Si tratta della quarta (che durò dall’autunno 589 al settembre 590) e più pericolosa delle campagne francobizantine succedutesi dopo la salita al trono d’Oriente nel 582 di Maurizio, convinto assertore della
restaurazione del principio d’autorità imperiale.
Nella prima fase della spedizione (autunno 589) i Franchi sbaragliarono in breve il nemico, che chiese la
pace, ma senza esito immediato. Le operazioni tuttavia si interruppero fino alla primavera successiva,
quando la guerra riprese con la discesa in Italia di numerose forze franche da più direttrici, mentre i Bizantini
attaccavano da sud-est per chiudere in una morsa gli avversari e conquistavano importanti città (come Altino,
Mantova, Modena, Parma, Piacenza, Reggio). Delle colonne franche ci interessa quella guidata dal duca
Cedino che scese dalla Rezia curiense e dalla Venosta arrivando fino a Verona. Anche questa campagna però
fallì, probabilmente, oltre che per i motivi climatici, sanitari e militari esposti da Paolo Diacono (caldo
torrido, dissenteria, fame, impossibilità di espugnare Pavia ove era fortificato Autari), per equivoci e
reciproca sfiducia tra gli alleati: tra l’altro era poco conveniente per i Franchi collaborare alla distruzione di
un regno ancora incerto e meglio controllabile a favore di una potenza di respiro mondiale e pericolosa per le
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loro stesse mire espansionistiche. Pertanto si assiste ad un ennesimo cambiamento di scelte che portò alla
pace tra i due re, lasciando soli i Bizantini che dovettero alla fine ritirarsi.
Nella discesa fino a Verona, l’esercito franco "in territorio tridentino" distrusse varie fortificazioni-rifugio e
luoghi fortificati posti lungo l’asse dell’Adige e che sono identificati con Tesimo, Meltina, Sirmiano,
Appiano, nell’attuale Alto Adige, Faedo (?), Cembra, Vezzano, Brentonico, Volargne (?, per altri Volano),
Ennemase (ai confini meridionali del ducato, ma non ben localizzato). Inoltre ne abbattè due nella zona di
Borgo Valsugana ed uno in quella di Verona. Di tutti portò via prigionieri gli occupanti, mentre i rifugiati
sulla Verruca (Doss Trento) si salvarono pagando un riscatto.
Le devastazioni partono dunque appena oltrepassati i confini della regione sotto controllo longobardo: infatti
la prima località citata è Tesimo, poco distante da Merano e posta in alto sulla valle verso Bolzano. Si scende
poi lungo il ducato fino forse a Volargne e certamente al Baldo, con una deviazione logica in Valsugana per
assicurarsi il fianco fino almeno a Borgo, allora verosimilmente ancora non unito a Trento.
La popolazione dei rifugi più lontani dalla capitale era quasi certamente composta da genti romanizzate
(cittadini li chiama infatti Paolo Diacono, con evidente riferimento al valore che il termine aveva
nell’Impero), pochi potendo essere i Longobardi, il cui esiguo numero li costringeva a non disperdersi, o i
residui nuclei dei Goti ormai annientati. Comunemente si ritiene che il grosso delle truppe longobarde fosse
dislocato nel campo della val Lagarina, donde era partita la spedizione in val di Non, e che spiegherebbe
l’assenza di Evino da Trento quando i Franchi saccheggiarono la città. Il Lagare citato da Paolo Diacono
altro non sarebbe che il Lager, campo trincerato militare dal quale prese il nome poi la valle.
Ciò può far comprendere l’apparente facilità con la quale i Franchi si impossessano dei centri di difesa, che
cedono senza praticamente opporre resistenza fidando in promesse di pace poi non mantenute, mentre la
Verruca, ben fortificata fin dai tempi di Teodorico, resiste e si salva, seppur con l’intervento della Chiesa e
piegandosi a pagare un tributo. Così i trentini conservarono beni e persone, riprendendo liberamente le
proprie attività, il nemico continuò la marcia senza intralci e perdite di tempo prezioso per il previsto
ricongiungimento con l’alleato. Il comportamento franco, così come nelle precedenti campagne, appare
tuttavia più coerente con la mentalità dell’incursore che con quella del conquistatore, forse perché l’accordo
con gli imperiali non ne prevedeva uno stabile insediamento in questa zona, causa non ultima dei successivi
disaccordi che portarono al fallimento dell’impresa.
Il pagamento, che Paolo afferma aver raggiunto i seicento solidi (aurei), fa pensare che oltre a molta gente
comune, fossero rifugiati sul colle anche cittadini abbienti e per la difesa certamente guerrieri longobardi (e
famiglie) come esigeva la condizione di capitale (politica e religiosa) che aveva Trento ed ha fatto dubitare,
sulla base anche di altri elementi, che già a quell’epoca vi fosse in città una certa agiatezza o che addirittura
vi esistesse una zecca, per quanto piccola.
La presenza della Chiesa
Ad aiutare gli assediati interviene con la sua influenza la Chiesa locale con i vescovi delle due diocesi
regionali (non dimentichiamo che i Franchi erano cattolici), assumendosi oltre all’impegno di protezione dei
deboli sempre esercitato, compiti diplomatici e politici che saranno normali in molte città successivamente,
ma che a Trento ed a Sabiona diverranno istituzionali per la stessa dislocazione territoriale delle diocesi.
Il vescovo "salvatore della patria" fu Agnello, già ricordato da Secondo nel frammento sopra citato e pastore
della Chiesa tridentina sicuramente testimoniato dal 577 al 591. A lui (o almeno alla sua epoca) potrebbe
essere attribuita anche la costruzione della chiesa paleocristiana sulla tomba di s. Vigilio, della quale diedero
certa prova gli scavi effettuati sotto l’attuale duomo tra il 1964 e il 1974. La stima e la dignità di questo
presule vennero ribadite anche poco dopo, quando i Longobardi, forse per l’influenza di Secondo, nel 591 lo
inviarono alla corte franca a Metz per concordare la liberazione di coloro che dalle località devastate nel 590
erano stati trascinati in prigionia. La missione si concluse in modo positivo almeno per una parte di costoro,
anche per il diretto intervento della regina madre franca Brunechilde. La maggior parte potè invece rientrare
qualche anno dopo, quando ella ebbe la reggenza del regno e fu stipulata una pace perpetua. Il fatto però che
anche il duca Evino fosse inviato per la più importante missione diplomatica di ottenere la pace poi
raggiunta, con una delegazione evidentemente separata, fa dubitare che il viaggio del vescovo non fosse stato
organizzato ufficialmente dal nuovo re Agilulfo (Autari era morto improvvisamente il 5 settembre 590
mentre erano in corso le prime trattative con il re franco), come afferma Paolo Diacono (e in realtà i
tridentini non erano gli unici prigionieri né così importanti per un longobardo ancora ariano seppur
favorevole ai cattolici e cognato del duca di Trento), ma ufficiosamente dalla regina e soprattutto dal duca
trentino e sua moglie, che certamente avevano più a cuore la restituzione dei propri sudditi se non altro per
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ragioni di politica interna.
L’uno e l’altro episodio (anche se Paolo dipende dal racconto di Secondo, attento più alle cose del proprio
paese che a quelle dell’intero stato) non fanno che confermare l’importanza del ducato trentino in questa fase
della storia longobarda, antesignana di quella ben più conosciuta sotto gli imperatori germanici.
Alle trattative per il riscatto di quanti erano asserragliati sulla Verruca partecipa anche il vescovo di Sabiona,
Ingenuino. L’importanza della notizia non sta tanto nel fatto dell’intervento di un secondo presule a sostegno
di Agnello, quanto nel fatto da una parte che Trento si conferma essere stata la città per eccellenza per tutta
la regione atesino-alpina, dall’altra che questa presenza potrebbe ribadire come a quel tempo i Baiuvari non
fossero stabilmente scesi oltre la Rienza, che Sabiona era ancora entro i confini del ducato e che comunque la
sua costituzione recente rendeva la diocesi sabionese in certo modo complementare della più antica e famosa
sede trentina. È ipotizzabile pure che una affermata presenza di Ingenuino a Trento e poi ad Aquileia, in fuga
da Sabiona attaccata e devastata dai pagani baiuvari, possa essere identificata con questa episodio, essendo
ben comprensibile che costoro abbiano approfittato delle difficoltà longobarde di fronte alla pressione
franco-bizantina.
Ingrandimenti territoriali
Pochi anni dopo la conclusione della guerra Evino muore (intorno al 595). A quest?uomo va il merito di aver
posto solide basi al sorgere stabile del Trentino in quanto entità politico-territoriale, facilitato dall?autorità
che si guadagnò con la sua capacità politica e militare. Seppe opporsi da solo alle gravi e quasi esiziali
scorrerie franche, bloccò l?avanzata baiuvara verso sud anche con l?azione diplomatica, favorito dal
matrimonio di una principessa longobarda con il duca Garibaldo, del quale sposò egli stesso una figlia, come
più tardi, anche in funzione anti-franca e forse da lui stesso consigliato, fece Autari, del quale perciò divenne
cognato (e, dopo la sua morte, di Agilulfo), guidò una fortunata spedizione in Istria a nome del re Autari, fu
il firmatario della pace con i Franchi dopo l?invasione del 590. Non è davvero esagerato considerarlo il
primo fondatore del Trentino.
Gli succede il cattolico Gaidoaldo, che nel 603 tornò in buoni rapporti con Agilulfo dopo un periodo di forti
contrasti. Il fatto che l?assemblea scegliesse un cattolico da presentare al re non può non far pensare che tra i
Longobardi trentini la conversione fosse in fase abbastanza avanzata, dando ragione a chi considera il
Trentino la terra che preparò il primo accostarsi della monarchia alla Chiesa.
Gaidoaldo è importante per la storia trentina anche perché estese i confini del ducato. Infatti furono assorbite
l?intera Valsugana verosimilmente fino al Cismon e le valli del Chiese e del Sarca (eccetto la zona di Riva,
proprietà del demanio, ceduta forse da Evino al momento della restaurazione regia).
L?estensione ad oriente era inevitabile e vitale per Trento perché la città non poteva permettersi un confine
troppo vicino, anche ritenendo assai probabile che l?intera zona di Pergine (ove lo stanziamento longobardo
era consistente) fosse già unita al ducato. Il confine alla stretta di Primolano con le paludi della bassa
Valsugana era una difesa tranquillizzante anche nei confronti dei vicini ducati trevigiano e vicentino, vista la
facilità con la quale più di un duca s?era lasciato attrarre dall?oro bizantino o dalle discordie intestine e visto
che la libertà dei ducati era ancora abbastanza accentuata.
L'avventura del duca Alachi e la fine dell'autonomia
Morto Secondo di Trento (612), ci vengono a mancare notizie particolari sulle vicende tridentine. Sotto i
successori di Agilulfo (+616) vi furono periodi di tranquillità, ma anche di lotte intestine: non sappiamo però
quali avvenimenti abbiano toccato il Trentino (ove tuttavia il confine settentrionale continuava a subire la
pressione baiuvara) fino ad Alachi, duca col quale Trento torna in primo piano verso la fine del VII secolo.
Dopo varie vicende, nel 671 sul trono longobardo era risalita la fazione cattolica con il re Pertarito
(discendente di un fratello di Teodolinda). Il nuovo re si rese ben presto conto di dover controllare molti
duchi delle terre orientali, primo di tutti Alachi, bellicoso ed ambizioso, anche con l?aiuto di alleati esterni,
come i Baiuvari. Il duca trentino, compresa la politica del re, pericolosa per lui e per i confini del suo ducato,
attaccò il conte baiuvaro che aveva occupato Bolzano ed i castelli circostanti, ributtandolo oltre Chiusa. Più
tardi, con un'abile mossa mise in fuga da Trento lo stesso esercito guidato da Pertarito contro di lui,
ribellatosi apertamente. L'intervento del figlio del re, Cuniperto, associato al regno nel 678, riportò una
temporanea pace tra i due. Anzi Pertarito affidò ad Alachi il potente ducato di Brescia, ricco e popoloso,
indebolendo così fortemente la propria posizione: la pace quindi verosimilmente fu la conseguenza di una
situazione difficile per il re. Non è chiaro se il duca mantenesse anche il ducato trentino, ma è probabile.
Qualche anno più tardi, rimasto solo re Cuniperto (688-700), Alachi si ribellò nuovamente, forse proprio all?
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atto della successione, quando rialzò la testa il partito anticattolico fautore della tradizione. Nelle vicende
della guerra Alachi riuscì ad occupare anche Pavia detronizzando temporaneamente Cuniperto, fino alla
sconfitta definitiva a Cornate d'Adda, ove perse la vita nello scontro che vide affrontarsi in pratica le forze
della Neustria (Italia occidentale)e dell'Austria (Italia orientale): in queste ultime erano certamente anche i
tridentini.
Dopo Alachi Trento non ha più storia nelle vicende longobarde, né si può affermare con certezza se il ducato
avesse più avuto un duca autonomo o fosse stato reso direttamente dipendente dal demanio regio a causa del
tradimento e per l?importanza che rivestiva ai fini della sicurezza dello Stato nei confronti dei popoli
confinanti, sempre incombenti da settentrione.
Vi è però una notizia riportata dal meranese Arbeone, vescovo di Frisinga (in Baviera) nell? VIII secolo,
secondo la quale verso il 720 a Trento governava per conto di Liutprando un tal Usingo che non viene mai
ricordato con il titolo di duca. Ciò fa pensare che Usingo fosse un funzionario dipendente dal re, come lo
erano i gastaldi. Cuniperto dunque, come a Bergamo e Arezzo fece Ariperto II (701-712), aveva sostituito il
duca ribelle con un rappresentante diretto. Negli stessi anni è proprio re Liutprando che dà ordine agli
abitanti di Maia (Merano) di accogliere senza timore di inganni e di attacchi nemici la salma di s. Corbiniano
(trasportata da Frisinga), che aveva espresso il desiderio di essere sepolto colà presso la tomba di s.
Valentino. Trento diveniva così da ducato di confine fortemente autonomo dominio regio altrettanto
fortemente controllato.
Il governo longobardo sulla contea di Bolzano, pur con qualche temporanea interruzione ed oscillazione,
durò fino al 769 quando fu portata in dote da una figlia di re Desiderio al duca Tassilone III di Baviera, ma
nel 774 essa fu nuovamente incorporata nel territorio tridentino con la conquista del regno longobardo da
parte di Carlo Magno e vi rimase anche dopo la divisione di Verdun (843), quando il confine del regno
germanico sul lato sinistro dell?Adige fu forse fissato al rio di Gargazzone, tra Merano e Bolzano, ove s?
iniziava il dominio italico dell?imperatore e re Lotario (figlio di Ludovico il Pio), che continuava ad
occupare il lato destro del fiume a partire da Tel, porta della val Venosta, ed inglobando Merano, e quando la
diocesi di Coira, che probabilmente si estendeva già allora all?alta valle dell?Adige, fu staccata da Milano e
sottoposta a Magonza. Fu forse in questa occasione che vennero sistemati i confini con la diocesi di Trento,
fissati così per secoli al fiume Passirio, che a Merano sfocia nell?Adige (ma che non evitarono contestazioni
e contrasti nel corso dei tempi).
Strutture amministrative del ducato
Come era governato il ducato tridentino? Non abbiamo una documentazione sufficiente a chiarire i molti
dubbi, ma facendo il confronto con altre situazioni e tenendo conto dell’importante funzione militare che il
territorio rivestiva, si può affermare che alle dipendenze del duca, eletto dall’assemblea dei liberi e
confermato dal re, erano i "conti", comandanti militari e poi anche civili con poteri giudiziari, di cui abbiamo
esempio in Ragilone, sfortunato conte lagarino nella lotta contro il franco Cranmichi, e certamente nel
territorio di Bolzano, ove non è documentato un conte longobardo, ma vi era necessità costante di difesa, e
che è normalmente indicato con il termine di contea o comitato.
Probabilmente nella nostra regione la qualifica si identificava con quella del "gastaldo", che altrove era il
rappresentante e amministratore diretto del re, ed è possibile anche una sua identificazione con quella del
"giudice", per cui pure le Giudicarie (che appunto erano amministrate da giudici) potrebbero essere stati
comitati con caratteristiche più civili che militari, stante il fatto che esse entrarono a far parte del ducato
quando questo s’era ormai stabilizzato.
Governatori di rango inferiore erano gli "sculdasci", (termine riconoscibile nel tedesco Schultheiss che vale
"podestà, sindaco di villaggio") e preposti alle circoscrizioni pievane e pagensi (da pagus, villaggio).
Altra dignità pubblica era la "scaria", con compiti giudiziari di supporto ai funzionari maggiori, ma anche di
presidio civile e militare o doganale, della quale forse un ricordo rimane nelle strutture fiemmesi della
Magnifica Comunità.
Quanto alle strutture economiche e sociali ancor meno si può dire, ma certamente la condizione dei
proprietari romani, passato il primo urto dell’invasione, fu meno pesante che in altre parti dell’Italia
occupata, forse anche per la presenza di una duchessa cattolica e della permanenza a Trento del vescovo
(altrove fuggito di fronte agli ariani invasori), presso il quale infatti molti dalla pianura si rifugiarono. Se si
pensa all’ammontare del riscatto per gli asserragliati sulla Verruca e all’intervento vescovile per la
liberazione dei prigionieri portati in Francia, si deve ritenere che la posizione economica e sociale di molti
romanizzati trentini non fosse totalmente priva di un qualche prestigio, ma è certo che molte proprietà
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passarono di mano e non mancarono indigeni romani ridotti al rango di semiliberi ("aldii"), così come forse
finirono i fuggiaschi di fronte all’incalzare del nemico (o alla semplice paura), rifugiatisi senza più beni tra i
monti o sotto l’egida della Chiesa.
I Franchi ed il regno d'Italia di Gianfranco Granello
Le vicende politiche
Passato sotto il dominio franco nel 774, dopo la sconfitta dell’ultimo re longobardo, il Trentino mantenne i
confini tradizionali (un atto di re Carlo ad es. ricorda il confine occidentale al Tonale) e si trova al suo
governo un Ruperto, che morì combattendo contro i Baiuvari, il cui duca cercava di difendere i propri titoli
sulla contea bolzanina portatagli in dote dalla moglie. La lotta continuò fino al 788, quando il duca fu
sconfitto definitivamente e perdette il potere.
Parte integrante dell’Impero, seppur all’interno del regno italico (o "dei Longobardi"), Trento diminuisce
progressivamente di importanza politica, mentre lentamente cresce la forza delle strutture ecclesiastiche, che
finiscono per assorbire le funzioni amministrative, in un vescovado ai confini del regno d’Italia divenuto
ancor più importante dopo il passaggio della diocesi di Sabiona dalla dipendenza da Aquileia a quella da
Magonza nel 798.
In questa fase di temporaneo tramonto pochi fatti sono da ricordare ed il primo è un segnale di
subordinazione culturale, come indica la decisione di re Lotario nel Capitolare del maggio 825, con il quale
si fissavano alcuni centri cui dovevano far riferimento gli studenti: i tridentini dovevano confluire a Verona.
L’interesse per l’istruzione in epoca carolingia e segnatamente da parte di Carlo Magno e dei suoi ministri è
ben testimoniato ed a Verona la vita culturale era fervida. Non abbiamo alcuna notizia su quali o quanti
trentini la frequentassero, probabilmente non molti, ma è da ritenere assai fondata la convinzione che già
all’epoca Trento ospitasse una scuola, per quanto ridotta nelle strutture e negli scopi, annessa alla cattedrale
ed aperta pure ai laici, se si pensa alle direttive che prevedevano l’istituzione di scuole presso ogni monastero
ed ogni sede vescovile, aiutando anche i poveri con sussidi (o addirittura la preoccupazione di qualche
personalità carolingia di aprire scuole pure nelle campagne con l’invito ai preti di istruire i fanciulli persino
senza compenso). Un segno di una qualche tradizione culturale sopravvissuta anche nei secoli precedenti tra
i monti trentini potrebbe essere rappresentato dal già ricordato monaco Secondo, che non può essere un
isolato e casuale esempio locale di cura per gli studi ed il sapere.
Nell’837 invece a Trento si incontravano Lotario e Lodovico il Germanico per concordare una comune linea
di condotta nei confronti del padre, l’imperatore Lodovico il Pio. La scelta di Trento però non era dovuta alla
sua importanza politica, ma piuttosto alla sua posizione geografica, ai confini dei due regni.
Numerose erano le proprietà di enti ecclesiastici della pianura che sono testimoniate nei secoli VIII-X e quasi
tutte ubicate nella zona del Sommolago ed in val Lagarina. Allo stesso modo molte proprietà di enti
transalpini erano nelle terre settentrionali del ducato. Un esempio è dato dall’interessante ed importante
documento stilato il 26 febbraio 845, nel quale si riporta lo svolgimento del processo tenuto a Trento per
dirimere un contrasto tra il veronese monastero benedettino di S. Maria in Organo e vari coloni della zona di
Avio e Mori che si rifiutavano di prestare le opere servili. La causa si concluse riconoscendo lo stato libero
dei contadini, ma imponendo loro l’obbligo di prestare le opere richieste perché legate al fondo lavorato, di
proprietà del monastero.
Altri atti giudiziari che ci danno qualche indicazione politica, economica ed ecclesiastica risalgono agli anni
tra l’855 e l’881 e toccano sia le terre settentrionali della regione sia quelle a meridione. Al nord ricordiamo
un contrasto tra il vescovo Annone di Frisinga ed il vescovo Odescalco di Trento per certi vigneti a Bolzano:
il re Lodovico il Germanico dirime la questione nell’855 a favore del primo, che dimostra di aver posseduto
quei beni da almeno trent’anni. Il secondo però non si dà per vinto e nell’857 una nuova sentenza, ancora
sfavorevole ad Odescalco, è emessa in occasione dell’incontro tra il re (detto re dei Baiuvari) e Lodovico II
imperatore e re d’Italia (a sua volta detto re dei Longobardi) a Trento, chiamata "città del vescovo
Odescalco", certamente perché residenza di uno dei due contendenti, ma possibile indice di una
identificazione progressiva del potere religioso con il territorio.
Ancora nell’857 lo stesso re di Germania conferma un contratto tra il vescovo di Coira ed una donna per
certe proprietà site a Merano ("Mairania") nella valle Tridentina, segno che ancora nel sec. IX e dopo il
trattato di Verdun l’estensione tradizionale del vecchio ducato non era messa in dubbio.
A sud ricordiamo invece una controversia tra il vescovo trentino Adelgiso e quello di Verona Adelardo,
relativamente a diritti usurpati dal primo su una non identificata "villa Asiana" (per alcuni posta nella zona di
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Brentonico, per altri in quella di Ala), e sulla quale intervenne a più riprese tra l’876 e l’881 anche la Santa
Sede che finì per affidare il compito di risolvere la questione ad una commissione composta dai vescovi di
Bologna, Ferrara, Vicenza e Mantova.
Con la deposizione dell’imperatore Carlo il Grosso e la salita al potere di Arnolfo di Carinzia nell’887, si
assiste alla sostanziale dissoluzione dell’Impero carolingio ed alla nascita degli stati nazionali, tra i quali vi
fu quello d’Italia che ebbe una breve ma convulsa storia fino alla sua conquista da parte di Ottone I (951).
In queste vicende ebbe qualche parte anche il Trentino. Infatti a Trento nell’autunno 888 vi fu un incontro tra
il re d’Italia Berengario I, già in lotta con un altro pretendente (Guido duca di Spoleto), e Arnolfo, che portò
al riconoscimento dei reciproci diritti e titoli, ma il secondo si trattenne le due circoscrizioni di Navum e di
Sagum, che vengono identificate dai più con le Navi di Lavis e con Borgo, per assicurare la discesa lungo
l’Adige e la Brenta verso la pianura, lasciando comunque il Trentino entro i confini italici.
Il vescovo Manasse. Il Trentino nell'Impero germanico
Pochi decenni più tardi (assassinato Berengario dopo un tormentato governo che lo vide lottare, perdere e
prevalere su molti pretendenti ed ottenere nel 915 anche il titolo imperiale) venne a cingere la corona italica
Ugo di Provenza (926).
Questi, qualche anno dopo, conferì l’amministrazione dei vescovadi di Trento, Verona e Mantova al proprio
nipote Manasse, arcivescovo di Arles, costituendo così un unico organismo continuo affidato a mani fedeli
che lo tranquillizzavano nei confronti della Germania, ove assumeva sempre maggior forza la casa di
Sassonia, divenuta titolare del regno. È dubbio se dei vescovadi Manasse fosse insieme pastore e
governatore. Secondo la critica testimonianza del contemporaneo Liutprando di Cremona, egli ottenne di
Trento, oltre al governo spirituale, anche quello temporale, costituendo così il primo esempio di vescovo
tridentino investito di potere politico.
Non fu però all’altezza della situazione e delle speranze dello zio, perché nel 945 passò dalla parte di
Berengario d’Ivrea (poi re Berengario II), avversario di re Ugo e rientrante in Italia col sostegno allora di
Ottone I di Germania, e gli aprì le porte della regione allo scopo di salvaguardare i suoi interessi e
l’acquisizione dell’arcidiocesi di Milano, convinto anche dal suo consigliere Adalardo cui aveva affidato
castel Formigario (attuale Firmiano) presso Bolzano, chiave di volta della difesa verso nord, e sul quale
Berengario, non riuscendo ad espugnare la fortezza, aveva fatto molte pressioni e promesse.
Manasse riuscì a mantenere il possesso del vescovado trentino almeno fino alla prima discesa in Italia di
Ottone I contro Berengario (951-952) ed al successivo distacco dal regno italico della marca veronesetrentina che fu aggregata alla Baviera entrando a far parte del regno germanico.
Un ulteriore cambiamento, più formale che sostanziale, avvenne quando Trento e Verona furono dal
successore Ottone II aggregate al ducato di Carantania (comprendente le attuali regioni di Carinzia, Carniola
e Stiria).
Prova di questo passaggio è anche un documento del 993 steso a Verona, col quale il duca di Baviera e
Carantania Enrico, che vi si trovava per amministrare la giustizia nella marca, assegna al vescovo della città
la corte regia di Riva alla presenza del vescovo di Trento e del suo conte. La corte di Riva (come già si disse,
appartenente al demanio) era passata più volte di mano (l’ebbe anche la sposa di Berengario I, Anna)ed ora
veniva tolta al marchese di Brescia che l’aveva usurpata.
Il principato vescovile
Alla morte dell’imperatore Ottone III nel 1002, il successore Enrico II dovette impegnarsi per contrastare il
tentativo italico di riconquistare la propria autonomia con l’elezione alla dignità regale di Arduino marchese
d’Ivrea in una Dieta riunita a Pavia.
Dapprima Enrico inviò poche forze che scendendo dalla Valsugana tentarono di prendere alle spalle Arduino
attestato tra Verona e Trento.
Arduino, avvertito, andò loro incontro e le sconfisse nel gennaio 1003. Nell’anno successivo allora si mosse
Enrico personalmente, che giunse a Trento nell’aprile 1004, per attraversare pure lui la Valsugana e giungere
a Bassano, ove però Arduino, abbandonato dai suoi, non poté opporre alcuna resistenza lasciando ad Enrico
la strada libera per l’incoronazione a re d’Italia.
Questa discesa è anche l’occasione perché Trento concluda il lungo viaggio iniziatosi con il duca Evino. Per
la maggior parte degli studiosi infatti è Enrico II durante la sua permanenza a Trento che lo costituisce in
Principato, affidato all’autorità del vescovo, direttamente soggetto all’Impero, con piena autonomia di
governo e pari dignità rispetto agli altri principi territoriali .
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Non è rimasto il documento che lo comprova, tuttavia i tempi ormai sono maturi e pochi anni più tardi la
scelta viene ribadita e confermata anche dalla testimonianza scritta: il 31 maggio e il 1° giugno 1027,
l’imperatore Corrado II, successore di Enrico, costituisce il vescovo di Trento principe diretto del territorio
tridentino entro confini che comprendevano gran parte dell’attuale Alto Adige, ma non Primiero e la
Valsugana orientale (date alla contea vescovile di Feltre) e Fassa (data al vescovo bressinense).
Un lunghissimo significativo periodo, ricco di luci e di ombre, si apre ora per la storia trentina, otto secoli di
autonomia e di lotte per difenderla destinati a chiudersi con la bufera napoleonica.
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Il Principato vescovile dalle origini alla secolarizzazione (1027-1803)
Gli imperatori pongono i vescovi a guardia della via verso l'Italia di Emanuele Curzel
I vescovi di Trento e Bressanone ricevono i poteri temporali
È opportuno premettere che tra il IX e il
X secolo la crisi dell’Impero e più in
generale delle strutture istituzionali
pubbliche portò ad un diffuso
rafforzamento dell’autorità dei vescovi.
Coloro che guidavano la comunità
cristiana infatti si trovarono – ancor più
che nel periodo precedente – ad essere
gli unici capi riconosciuti e riconoscibili
di tante città e territori. La politica degli
imperatori germanici delle dinastie di
Sassonia e di Franconia, tra il X e l’XI
secolo, non fece che rafforzare questa
tendenza, anche per limitare il potere
delle grandi famiglie laiche.
Fu in tale contesto che l’imperatore
Corrado II, il 31 maggio e il primo
giugno 1027, scelse di affidare
direttamente al vescovo di Trento il
potere temporale nelle contee di Trento,
di Bolzano e di Venosta (forse tale atto
non era altro che una conferma di
quanto
già
stabilito
dal
suo
predecessore, Enrico II). La concessione
del 1027, di cui si possiede il documento originale, era di eccezionale ampiezza: poneva i vescovi di Trento
alla dipendenza diretta dall’imperatore e consentiva loro l’esercizio di tutte le funzioni pubbliche, compresa
la materia giudiziaria e quella tributaria. In momenti successivi i vescovi avrebbero poi ricevuto ed esercitato
anche altri diritti propri del regnante (lo sfruttamento delle miniere, la supremazia sugli uomini liberi, la
tutela delle strade, i diritti di mercato, di moneta e di dogana, l’uso della foresta).
Il territorio sul quale il vescovo di Trento esercitava tali diritti comprendeva, nel 1027, l’attuale provincia di
Trento (meno la Bassa Valsugana e il Primiero, che erano dei vescovi di Feltre, e la val di Fassa, che era dei
vescovi di Bressanone), gran parte dell’attuale provincia di Bolzano (meno la valle dell’Isarco a nord di
Chiusa e la Val Pusteria) e una parte dell’Engadina, oggi territorio svizzero, da Zernez fino all’altezza del
passo di Resia. Al vescovo di Bressanone erano stati contemporaneamente donati analoghi poteri sulla
contea del Norico (valle dell’Isarco e media valle dell’Inn); ad essa Enrico IV, nel 1091, aggiunse la contea
di Pusteria. In questo modo la valle dell’Adige ed i passi alpini che ad essa facevano capo, attraverso i quali
era relativamente agevole passare dalla Germania all’Italia, risultavano presidiati dai due vescovi.
Come si è detto, i confini del territorio soggetto civilmente al vescovo di Trento erano in parte diversi dai
confini dell’area nella quale egli era capo spirituale: la diocesi verso nord comprendeva solo la contea di
Trento, fin quasi a Chiusa verso nord-est e a Merano verso nord-ovest; verso est invece non solo la Bassa
Valsugana, ma anche tutto il Perginese e la sella di Vigolo Vattaro facevano capo al vescovo di Feltre; le due
pievi di Avio e di Brentonico, in Vallagarina, a quello di Verona.
L’immagine più viva dell’inserimento delle vicende di Trento e dei suoi vescovi nella ‘grande politica’
dell’epoca ci viene dal Sacramentario Udalriciano, un libro liturgico del secolo XI nel quale – all’interno del
canone della messa – sono ricordati prima i vescovi di Trento, quindi i nomi di coloro che in qualche modo
avevano beneficato la cattedrale trentina e chiedevano quindi di essere ricordati nella preghiera dal clero che
vi officiava. Tra essi si contano non solo molti vescovi dell’Italia settentrionale e della Germania, ma anche
gli imperatori e una nutrita serie degli appartenenti all’alta nobiltà bavarese. La redazione è da mettere in
connessione con i ripetuti passaggi per Trento nella prima metà dell’XI secolo della corte imperiale, ed in
particolare con il transito del corteo funebre che riportava in patria le salme della regina Gunhilda, nuora
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dell’imperatore Corrado II, e del giovane duca di Svevia Ermanno IV; quest’ultimo fu sepolto nella
cattedrale trentina. Il prezioso codice liturgico dà l’immediata percezione di come la Chiesa di Trento fosse
allora parte integrante della «Chiesa imperiale» (Reichskirche), nei decenni in cui Enrico II e Corrado II
compivano i passi decisivi per la fondazione del potere temporale dei vescovi.
Il potere dei vescovi si sviluppa all’ombra dell’Impero
L’episcopato di Trento era una pedina importante dello scacchiere politico europeo. Non costituisce dunque
motivo di meraviglia il fatto di trovare spesso i vescovi trentini al fianco degli imperatori che tra l’XI e il
XIII secolo scesero in Italia. Il vescovo Udalrico I morì nel 1022 seguendo Enrico II nel meridione; Udalrico
II è registrato nel seguito di Corrado IV e di Enrico III, anche se non è possibile confermare una sua
partecipazione all’elezione dell’antipapa Clemente II (1046). Il vescovo Enrico I aderì ad Enrico IV anche
durante il periodo più rovente della lotta per le investiture, e inutilmente papa Gregorio VII gli chiese di
abbandonare il campo imperiale. L’elezione di Gebardo (1106) fu voluta da Enrico V, allora in lotta con il
padre Enrico IV: la città lo respinse, e solo grazie all’intervento del duca di Baviera Guelfo II il vescovo poté
fare il suo ingresso in sede; prese parte quindi alle trattative tra papa Pasquale II e l’imperatore per risolvere
la questione delle investiture, e dal 1117 al 1118 esercitò l’incarico di arcicancelliere dell’Impero.
Altemanno (1124-1149) apparteneva alla famiglia carinziana dei conti di Lurn, e aveva frequentato
l’ambiente dei canonici regolari di Salisburgo; fu il primo vescovo eletto dopo il concordato di Worms
(1122), in seguito al quale erano stati ristabiliti i diritti del clero locale nell’elezione (all’imperatore era
rimasto solo il diritto all’investitura feudale, che doveva precedere la consacrazione). Piuttosto che sullo
scacchiere internazionale, egli cercò di trovare appoggi tra i ministeriali e la vassallità. Altemanno è inoltre il
primo vescovo del quale abbiamo notizie di un’attività in campo pastorale. Egli era infatti interessato allo
sviluppo della vita religiosa della sua diocesi: fondò il monastero dei canonici regolari di San Michele
all’Adige, insediò a Trento, nella chiesa di San Lorenzo, i Benedettini di Vallalta e tentò forse, senza ottenere
risultati durevoli, di imporre una regola di tipo monastico ai canonici della sua cattedrale. Al nome di
Altemanno si connettono anche rilevanti lavori di ristrutturazione nella basilica di San Vigilio, solennemente
riconsacrata il 18 novembre 1145. Prese parte alla seconda crociata (1148), e morì dopo essere rientrato in
sede nel 1149.
Adelpreto (1156-1172) era un rampollo della famiglia imperiale degli Hohenstaufen, e si può dunque
supporre che nella sua elezione abbia avuto un ruolo l’imperatore Federico I Barbarossa. A quest’ultimo
rimase sempre fedele, anche nei momenti di più aspro contrasto con il Papato. Adelpreto venne
personalmente coinvolto nelle turbolenze di quegli anni: nel 1158, mentre scortava i legati papali inviati a
trattare con l’imperatore, venne rapito dai conti di Appiano e riuscì miracolosamente a liberarsi; fu infine
aggredito ed ucciso il 20 settembre 1172, sulla strada che da Arco portava verso Riva, per mano di
Aldrighetto di Castelbarco. La Chiesa locale considerò questa morte pari al martirio per la fede e insignì
quindi Adelpreto del titolo di «beato», tanto da considerarlo compatrono della diocesi insieme con Vigilio.
Fu probabilmente il frate domenicano Bartolomeo da Trento a riassumere la vicenda in un celebre motto:
Pastorem jugulavit ovis, res mira per orbem («la pecora ha sgozzato il pastore, cosa mai vista al mondo»).
Durante gli episcopati di Salomone (1173-1183) e di Alberto di Campo (1184-1188: entrambi, prima
dell’elezione, decani del capitolo cattedrale) vi fu un rafforzamento dell’autorità vescovile, all’ombra del
Barbarossa; proprio l’imperatore, nel 1182, vietò l’istituzione di consoli cittadini e confermò la
sottomissione della città e del territorio al governo dei vescovi. Corrado di Beseno (1189-1205), esponente di
una delle più potenti famiglie della ministerialità vescovile e anch’egli ex-decano del capitolo, riuscì però ad
alienarsi – in modo non del tutto chiaro – le simpatie della città, dell’avvocato tirolese, di molti dei
ministeriali e del capitolo stesso; espulso dalla città e schiacciato dal peso dei debiti che aveva contratto,
scelse la via delle dimissioni e del ritiro nel monastero di St. Georgensberg presso Schwatz (10 marzo 1205).
Tornò ben presto sulle sue decisioni: ma il 22 aprile una grande assemblea decise di stringere un’alleanza
«per sedare la discordia e per recuperare il buono stato dell’episcopato» e dichiarò sgradito l’eventuale
rientro in sede del vescovo. Il contrasto proseguì per un biennio: infine papa Innocenzo III, il 24 maggio
1207, ordinò al capitolo della cattedrale di scegliere il nuovo vescovo. Il 9 agosto successivo fu eletto
Federico Vanga, già canonico di Augsburg e decano di Bressanone.
Federico Vanga (1207-1218) discendeva da una nobile famiglia della Val Venosta, che prendeva il nome da
un castello posto a nord di Bolzano. Come nessun altro vescovo trentino del medioevo ebbe successo
nell’imporre il proprio potere e nel tramandare ai posteri un’immagine di forza e di giustizia. Il primo
biennio del suo episcopato fu comunque molto tormentato: egli dovette combattere militarmente contro una
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coalizione di nobili, sui quali risultò infine vincitore. Fedele a papa Innocenzo III, il Vanga si trovava a
Roma quando Ottone IV venne incoronato imperatore nel 1209; passò quindi dalla parte di Federico II di
Svevia, per il quale operò come legato generale per l’Italia. Il suo impegno per la conservazione ed il
rafforzamento dei diritti della Chiesa trentina è attestato dal «Libro di San Vigilio» (o Codex Wangianus),
una grande raccolta dei documenti che attestavano i diritti dell’episcopato (dissipata collegimus, alienata
recuperavimus: «abbiamo raccolto ciò che era stato disperso, abbiamo recuperato ciò che era stato venduto»,
scrisse nell’introduzione). Alla riorganizzazione amministrativa fece seguito la ripresa economica: il Vanga,
in particolare, promosse la coltivazione di terre incolte e l’attività mineraria, per regolare la quale fece
compilare uno statuto che è tra i più antichi d’Europa. In città migliorò il sistema delle fortificazioni (con la
costruzione della torre che ancora oggi porta il suo nome) e avviò i lavori della nuova cattedrale, affidata al
maestro comacino Adamo d’Arogno. Dal punto di vista spirituale si ricorda l’appoggio da lui dato alle
fondazioni monastico-ospedaliere. Morì nel 1218, quando si trovava in Terrasanta al seguito della quinta
crociata, e venne sepolto a San Giovanni d’Acri.
Successori di Federico Vanga furono prima Adelpreto di Ravenstain (1219-1223) e poi il cremonese Gerardo
Oscasali (1224-1232). Eletti dal capitolo della cattedrale, operarono in continuità rispetto al loro
predecessore e conservarono il legame con l’imperatore Federico II: pur con non pochi segni di logoramento,
si trattava di una politica ancora vincente. È in questi anni, forse intorno al 1230, che fu costruita una nuova
ed ampia cinta muraria che abbracciava l’abitato e l’area immediatamente circostante. Dell’Oscasali si
ricorda anche l’impegno per la prosecuzione dei lavori nella nuova cattedrale e vari atti di governo relativi
alla sfera religioso-istituzionale: uno sforzo di dare ordine alla vita della Chiesa locale come conseguenza
della spinta data dal IV Concilio lateranense (1215). Nel segno della stabilità avvenne anche l’elezione a
vescovo di Aldrighetto da Campo (1232-1247), che sedeva tra i canonici da trent’anni e non era stato
coinvolto nelle lotte che avevano segnato l’avvio del periodo vanghiano. Quanto poi il da Campo avrebbe
corrisposto alle attese – e quanto le condizioni esterne gliel’avrebbero consentito – è cosa che si sarebbe vista
di lì a poco.
Federico di Vanga
Il tormentato cammino per l´elezione del successore del vescovo Corrado
Federico di Vanga, proveniente da una nobile famiglia di Burgusio, in Val Venosta, prima di ricevere la
nomina a vescovo di Trento aveva ricoperto gli incarichi di canonico ad Augusta e di decano a Bressanone.
La sua elezione non fu tra le più agevoli, poiché il vescovo precedente, Corrado di Beseno, aveva
abbandonato la carica per ritirarsi in un monastero e in seguito aveva fatto di tutto per riprendersela.
Tale voltafaccia finì col creare non poche difficoltà alla Chiesa, che si trovò a lungo prima con una sede
vacante, poi a dover subire le rimostranze di Corrado. Per poter far fronte ai ripetuti tentativi operati da
quest´ultimo allo scopo di tornare ad occupare il soglio di San Vigilio, il Capitolo era riuscito a coagulare le
forze della nobiltà vescovile con quelle della città di Trento, capitanate da Alberto III del Tirolo in qualità
di podestà cittadino. Fu proprio il conte Alberto, che fra l´altro era nipote del futuro presule, a rappresentare
uno dei sostegni più concreti ed efficienti del programma politico di Federico di Vanga. Mentre perdurava
questo stato di provvisorietà, esercitava momentaneamente la tutela sul vescovado il patriarca Wolfger di
Aquileia, quale amministratore apostolico. Esisteva in ogni caso la volontà, non solo da parte del Capitolo,
ma anche della Santa Sede, di concludere questo periodo di transizione al più presto possibile; e al termine
di conciliaboli assai travagliati, si giunse infine alla nomina di Federico di Vanga, il 9 agosto del 1207,
circa tre anni dopo la rinuncia di Corrado. L´investitura temporale ebbe luogo tre mesi più tardi a
Norimberga, ad opera del sovrano Filippo di Svevia
Il programma politico di Federico di Vanga attraverso la ricostruzione dei territori vescovili. Il Codex
Wangianus
La celebrità di Federico nella storia trentina deriva dall´essere stato considerato come una delle personalità
più forti e più valide tra tutti i vescovi di Trento. Il suo è infatti un vero e proprio periodo di splendore per
la Chiesa locale. Federico, fin dal giorno della sua investitura, cominciò a lavorare ad un progetto politico
ben preciso, con l´intenzione di dare al principato un maggiore ordine sociale ed amministrativo. Il suo
programma prevedeva il consolidamento del potere vescovile in virtù dell´applicazione di criteri
prettamente feudali, e per realizzarlo occorreva un pronto recupero di gran parte di quei beni e di quei diritti
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che erano stati poco prima alienati o ceduti, sia dal suo predecessore, sia durante il biennio in cui la sede
vescovile era rimasta priva della propria guida: si trattava, naturalmente, in special modo di diritti sulla
terra. Egli riuscì infatti, in tempi considerevolmente brevi, ad ottenere le proprietà terriere e il patrimonio di
un tempo. Per creare una stabilità maggiore, volle inoltre accertarsi di persona dell´affidabilità dei suoi
vassalli, obbligando i feudatari al giuramento di fedeltà. L´intera documentazione relativa alle numerose
negoziazioni e provvedimenti in cui si chiamava in causa l´autorità del vescovo attestano al contempo i
diritti del principato vescovile di Trento e costituiscono il cosiddetto «Codex Wangianus» (o meglio il
«Libro di San Vigilio», come venne chiamato in origine). Esso può essere considerato come il grande
raccoglitore degli atti della Chiesa tridentina e rappresenta probabilmente il documento più importante di
tutto il medioevo trentino. Ad arricchirlo con svariate e dettagliate annotazioni provvidero i successori del
vescovo Federico.
Il sostegno dell´economia e dell´urbanistica
L’economia complessiva della diocesi conobbe un cospicuo incremento, dovuto sia alla decisione di
Federico di sottoporre a coltivazione un gran numero di terreni L´economia complessiva della diocesi
conobbe un cospicuo incremento, dovuto sia alla decisione di Federico di sottoporre a coltivazione un gran
numero di terreni prima lasciati incolti, sia ad un´intensificazione dei rapporti commerciali con i territori
limitrofi. Il vescovo dispose anche il rinforzo delle mura della città, con la costruzione della terza cinta
muraria, e fece costruire la cosiddetta «torre rossa», che a tutt´oggi in sua memoria è ricordata come «torre
Vanga». La costruzione, eretta nel 1210, serviva al controllo del vicino ponte sull´Adige e allo stesso tempo
svolgeva le funzioni di difesa militare e civile, in caso di attacco della città o durante le piene del fiume.
Federico di Vanga contribuì in maniera determinante alla crescita dell´attività delle miniere d´argento, in
particolare di quelle del monte Calisio, presso le quali chiamò a lavorare minatori di origine germanica, che
successivamente si stanziarono nella Valle del Fersina nonché negli altopiani di Lavarone e di Folgaria. In
questo modo fu dato origine, attraverso un lento processo di fusione con la popolazione dei luoghi, a ceppi
linguistici del tutto singolari, che più avanti furono ritenuti per errore di derivazione cimbrica. Indagini più
appropriate effettuate in tempi alquanto recenti hanno infatti contribuito a dimostrare che molte delle
espressioni linguistiche divenute caratteristiche di queste zone risalgono ad un´antica lingua parlata secoli
or sono in Baviera. Pertanto, l´affascinante ipotesi secondo cui le popolazioni oggi comunemente indicate
come «cimbriche» sarebbero le dirette discendenti dei più celebri barbari provenienti dalla penisola
scandinava, propagatisi nella zona mitteleuropea e sconfitti da Mario nella celebre battaglia dei Campi
Raudii nel 101, va considerata priva di credito.
Lo statuto minerario del 19 giugno 1208 è riconosciuto come uno tra i più antichi codici alpini di diritto
minerario ed anche tra i più antichi in assoluto in tutta l´Europa (1).
L´impulso alla costruzione di edifici destinati all´ospitalità. Gli esempi di San Leonardo in Sarnis e di Santa
Margherita di Ala
Tra le iniziative realizzate dal vescovo Federico rivestono una speciale importanza le fondazioni dei vari
centri di ospitalità, ubicati sia lungo la Valle Lagarina che nelle valli circostanti. Il più famoso di questi è
rimasto quello affidato all´Ordine dei Crociferi di San Leonardo in Sarnis, fra Borghetto e i Masi di Avio. Il
vescovo si rivelò pertanto figura di grande sensibilità verso gli stranieri e i pellegrini, costretti a fare i conti,
durante i loro spostamenti, con i pericoli più disparati. Il complesso ospedaliero di San Leonardo esisteva
già come insediamento agricolo e come xenodochio (ossia come centro di ospitalità gratuito per i
viaggiatori stranieri), ma Federico lo potenziò e ne fece un punto di riferimento per tutti i passeggeri che
transitavano lungo il Trentino. Aveva infatti concesso ai monaci non solo di ospitare i forestieri, ma anche
di difenderli dalle imboscate dei numerosi predoni che infestavano il territorio, autorizzandoli a servirsi
anche delle armi, qualora fosse stato necessario. Particolare, questo, che può rivelare da sé quali
drammatiche connotazioni avesse assunto, a quei tempi, il problema dei briganti; e che depone ancora una
volta a favore della personalità estremamente battagliera e risoluta di questo vescovo.
Quella del brigantaggio, tra le piaghe più endemiche, era favorita anche dalla particolare conformazione
geografica dei luoghi, le cui montagne e valichi offrivano molte occasioni per agguati ed imboscate. Ai
monaci spettava anche il compito di provvedere al buono stato delle strade e delle vie del circondario, ed
essi svolgevano altresì un´attività di vero e proprio aiuto economico nei confronti delle milizie che
partivano alla volta dei santuari. L´edificio è stato nei secoli mutato più volte, fino a diventare, ai giorni
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nostri, una pregiata azienda vitivinicola.
Al medesimo scopo doveva fungere l´ospizio fortificato di Santa Margherita di Ala, ideato e fatto costruire
ancora dal vescovo Federico di Vanga e poco distante dal complesso di San Leonardo. Esso si
autofinanziava con le rendite derivanti dalla propria produzione agricola, e al contempo, dotato com´era di
una poderosa fortezza quadrangolare, diventava un luogo di approdo per qualunque viandante inseguito o
minacciato dai malintenzionati. Federico aveva dunque ben presidiato la valle, adempiendo nel migliore dei
modi ad una delle responsabilità connesse alla sua carica, quella che richiedeva la garanzia dell´ordine
pubblico sul territorio. Analoghe costruzioni che egli stesso aveva provveduto a far erigere e a finanziare
erano quelle di Lengmoos sul Renon, di San Tommaso di Romeno, di San Giorgio a Castello di Fiemme e
di San Lazzaro a Capriana.
Il progetto per la nuova Cattedrale
A distanza di otto secoli, il ricordo di questo vescovo è associato in particolar modo alla sua idea di
costruire una nuova Cattedrale. Egli, infatti, aveva già provveduto alla sopraelevazione del palazzo
vescovile e del castelletto presso l´antica basilica di San Vigilio, ed aveva manifestato l´intenzione di
ricostruirla, rendendola più grande e più maestosa. Avrebbe certamente tenuto fede al proprio impegno, se
non fosse partito per le crociate senza più fare ritorno. In realtà, la nuova Cattedrale, stando alla
testimonianza fornita dal Dittico Udalriciano, era stata consacrata dal vescovo Altemanno di Baviera il 18
novembre 1145, ai tempi della traslazione delle reliquie di San Vigilio, qualche decina d´anni prima della
venuta di Federico. Tuttavia, senza nulla togliere all´ importanza decisiva dell´intervento di Altemanno, fu
proprio Federico di Vanga a definirne la struttura architettonica, secondo un progetto al quale si diede più
completa esecuzione dopo sua la morte. Al posto della vecchia basilica di San Vigilio, che venne un poco
alla volta abbattuta, si lavorò alla costruzione della nuova e più imponente struttura, relativamente alla
quale ebbero una parte preponderante i maestri comacini della famiglia di Adamo d´Arogno.
L´attività politica di Federico di Vanga e i suoi legami con l´imperatore Federico II. La morte nel corso dell
´operazione militare in Terra Santa
In questo periodo storico ricco di novità e di fermenti, il vescovo Federico prese parte da protagonista agli
eventi che caratterizzarono i rapporti fra Chiesa ed Impero, nei quali veniva coinvolto anche per la fiducia
che i regnanti riponevano in lui per il suo coraggio e l´intelligenza nel gestire i rapporti con le persone.
Dapprima sostenne apertamente l´imperatore guelfo Ottone IV di Brunswick, che accompagnò a Roma nel
viaggio destinato a concludersi con la sua incoronazione. In seguito, sostenne con decisione la politica
ecclesiale del papa Innocenzo III.
Nel 1212 accompagnò con la sua scorta il giovane Federico, in quel momento re di Sicilia, nel pericoloso
viaggio che da Genova lo doveva condurre fino in Germania per cingere la corona regia. Il futuro
imperatore, che stimava particolarmente il Vanga, decise un anno più tardi, in occasione della dieta di
Regensburg, di ricompensarlo nominandolo legato imperiale per la Lombardia, la Tuscia, la Romagna e la
Marca veronese, nonché vicario imperiale a vita. Due anni più tardi, Federico di Vanga comparve
nuovamente nel contesto della Dieta di Augusta a fianco dello stesso Federico II, e nel 1218 decise di
partire per la spedizione in Palestina caldeggiata da papa Onorio III. L´intervento in una quinta crociata con
l´intento di liberare la Terrasanta dagli infedeli e di riconquistare Gerusalemme era stato invocato tre anni
prima dal IV Concilio Laterano; più avanti, il pontefice Gregorio IX sarebbe riuscito praticamente a
costringere un riluttante Federico II a prendervi parte. La crociata coinvolse soprattutto le milizie ungheresi
e germaniche, che conquistarono la città di Damietta al termine di un lunghissimo assedio, ma si risolse
ancora una volta miseramente per gli eserciti della Chiesa, duramente provati dalle pesanti sconfitte
riportate in Egitto e costretti a fare ritorno in Occidente, rimandando la conquista dei territori consacrati.
Federico di Vanga non fece in tempo ad assistere a tutte le vicende di questa nuove operazioni belliche:
trovò infatti la morte il 6 novembre del 1218 nei pressi di Accon, in Siria, durante la fase iniziale della
spedizione. Al suo fianco c´era colui che sarebbe divenuto il suo successore sul soglio vescovile di Trento,
Adelpreto di Ravenstein. Venne sepolto, secondo la testimonianza del Dittico Udalriciano, nella chiesa di
Santa Maria, presso l´ospedale teutonico di San Giovanni d´Acri.
Note:
1. Secondo Armando Costa, nel suo libro «I vescovi di Trento», Ediz. Artigianelli Trento, 1977, lo statuto
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minerario del 1208 si può considerare il più antico in Europa. Di altro parere è invece J. Kögl, il quale, nel
suo libro «La sovranità dei vescovi di Trento e di Bressanone», Ediz. Artigianelli Trento, 1964, sostiene che
regolamento minerario di più antica data sarebbe quello predisposto dal vescovo Alberto di Campo, il 24
marzo 1185.
Collaboratori e concorrenti del potere vescovile: famiglie comitali, avvocati, ministerialità
I secoli XI e XII sono considerati, nella storiografia, il «periodo aureo» della sovranità vescovile. Non si
può però immaginare che il potere dei vescovi fosse assoluto e privo di collaboratori e concorrenti interni. Il
primo collaboratore-concorrente era l’avvocato. L’istituto dell’avvocazia era nato nella tarda antichità come
forma di rappresentanza degli enti ecclesiastici di fronte ai tribunali. Si era poi sviluppato nei secoli centrali
del medioevo, soprattutto in area germanica e nel nord-est della penisola italiana, come un ufficio
giudiziario esercitato nell’ambito delle proprietà vescovili esenti dalla giurisdizione pubblica (immunità),
ed affidato ereditariamente a famiglie di rango nobile; a queste venivano concessi in cambio ampi feudi, e a
queste spettava, corrispondentemente, anche la tutela del patrimonio ecclesiastico. In conformità con
processi di portata più generale, nel XII secolo l’ufficio divenne ereditario, e si accentuò il suo carattere di
servizio a protezione dei beni dell’episcopato. Nella seconda metà del Duecento i conti di Tirolo-Gorizia,
rovesciando il rapporto di sudditanza connesso all’incarico, trasformarono l’avvocazia in uno strumento di
controllo sui vescovi; il titolo di “avvocato” divenne il pilastro ideologico in grado di giustificare
l’occupazione di gran parte del principato vescovile. All’interno del territorio civile affidato ai vescovi
esistevano varie immunità (aree esenti dalla giuridizione pubblica: nel nostro caso, da quella vescovile).
Quelle sottoposte agli enti ecclesiastici non erano particolarmente rilevanti: solo piccole zone facevano
capo al capitolo della cattedrale di Trento, a quello della cattedrale di Verona e al monastero di San
Michele. Le immunità più importanti erano invece quelle su cui si fondava il potere di alcune famiglie
comitali, eredi dei funzionari dell’età carolingia ed insieme delegate dai vescovi stessi ad assumere
l’autorità pubblica in determinate aree (viceconti). Le stirpi comitali che ebbero a che fare con l’ambito
trentino furono i Flavon, gli Appiano, i Morit-Greifenstein e i Tirolo. I conti di Flavon si insediarono in Val
di Non forse grazie alla parentela con i vescovi Udalrico I e Udalrico II, nell’XI secolo. Erano poi in
possesso di beni in Val di Sole, nella valle dell’Adige e nelle Giudicarie. Nella prima metà del XII secolo
detennero anche l’avvocazia sull’episcopato. Dopo un lungo periodo di marginalità – che garantì però
anche la loro sopravvivenza – subirono la pressione del conte del Tirolo Mainardo II e intorno al 1290
furono espropriati e dispersi. Probabilmente gli Appiano erano in origine conti di Bolzano: mutarono il loro
titolo radicandosi sulle alture a sud-ovest della città, dove possedevano rilevanti beni fondiari. Esercitavano
diritti comitali nella fascia tra Appiano e la Val d’Ultimo ed erano in possesso di proprietà nelle Giudicarie,
in Val d’Adige e in Val di Cembra. Nel XII secolo furono tra i più potenti e pericolosi concorrenti del
potere vescovile: si ricorda infatti la loro partecipazione alla cattura di Adelpreto e dei legati papali nel
1158. L’estinzione della famiglia alla metà del XIII secolo (l’ultimo degli Appiano fu il vescovo Egnone)
diede via libera ai conti di Tirolo.
I conti di Morit-Greifenstein furono nel XII secolo avvocati dei vescovi di Bressanone e feudatari dei
vescovi di Trento a Bolzano. La famiglia si estinse nel 1170: anche in questo caso furono i conti di Tirolo a
trarne vantaggio. I conti di Tirolo prendevano il nome dal castello situato sopra Merano, all’imbocco della
val Passiria; già nel 1140 risultavano feudatari della chiesa trentina in Venosta, e nel 1170 ottennero anche
parte dei diritti che i Morit-Greifenstein avevano avuto su Bolzano. Verso la metà del secolo XII
conseguirono l’avvocazia dell’episcopato trentino, e all’inizio di quello successivo anche quella
dell’episcopato di Bressanone. Per un secolo il rapporto tra conti di Tirolo e vescovi di Trento ebbe il
carattere della collaborazione: parente stretto dei Tirolo era il vescovo Federico Vanga; Alberto III di Tirolo
fu a lungo podestà di Trento, e non si ha notizia di contrasti tra lui ed i vescovi – se non nel caso
dell’alleanza contro Corrado di Beseno, quando il podestà si schierò con la cittadinanza. Lo stesso Alberto
III, negli anni trenta del Duecento, avrebbe ottenuto dal vescovo Aldrighetto di Campo il diritto di
trasmettere ereditariamente l’avvocazia trentina anche per via femminile, e per questa via la carica pervenne
ai Tirolo-Gorizia. Esistevano poi famiglie di libera nobiltà, in possesso di beni propri, quali gli Arco e i
Castelbarco; ma tale gruppo, sommando feudi ai propri allodi, si integrò progressivamente con quello
costituito dagli esponenti della ministerialità vescovile, ossia da quelle persone – originariamente al servizio
dei vescovi, e dunque di condizione non libera – cui erano stati affidati compiti di custodia dei castelli e di
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difesa militare. Venne così a costituirsi la «nobile compagnia (gentilis macinata) di San Vigilio», un gruppo
di vassalli vescovili nella quale i nobili di origine libera e quelli di origine non libera erano di fatto
indistinguibili. Tra il XII secolo e l’inizio del XIII erano poche le famiglie in grado di sviluppare una
politica indipendente dal potere vescovile: ma con l’allentarsi della protezione imperiale sull’episcopato
molte cercarono e trovarono nuovi appoggi. Alcune, specie quelle della Vallagarina, vennero attratte prima
dalla potenza di Ezzelino da Romano e poi dalle esperienze comunali e signorili della pianura padana;
molte riconobbero il nuovo potere di riferimento nel conte di Tirolo. Questi a sua volta perseguiva una
politica che prevedeva o la «mediatizzazione» delle famiglie nobili (queste dovevano cioè riconoscere non
nel vescovo, ma in lui il loro superiore feudale: così accadde ad esempio con i signori di Coredo, di
Cembra, di Mezzo, di Firmian, di Arsio), o la loro cancellazione (come accadde con i Vanga, gli Egna ed i
Flavon), cui poteva far seguito l’introduzione, in determinati ruoli funzionariali, di esponenti della nobiltà
tirolese (come gli Scena, gli Spaur, i Rottenburg).
Nella cartina: I castelli e le fortificazioni del Trentino in età tardo-medievale
(da: BETTOTTI, L’aristocrazia nel tardo medioevo, pag. 439).
La crisi del potere vescovile e la nascita del Tirolo di Emanuele Curzel
L'imperatore Federico II pone a Trento un podestà
I vescovi trovarono sostegno negli imperatori germanici fino agli anni trenta del Duecento: ma nel 1236 vi fu
una brusca svolta. In quell’anno Federico II pose a Trento e a Bressanone dei podestà imperiali, che
esautorarono di fatto il potere vescovile. Non si trattò solo di una misura resa necessaria dalle precarie
condizioni di salute di Aldrighetto, ma soprattutto delle conseguenze della lotta che l’anno precedente aveva
visto contrapposti lo stesso Federico II e suo figlio Enrico, e che si era conclusa con la sconfitta di
quest’ultimo e dei suoi sostenitori.
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A Bressanone il giudice imperiale Haward fu subito affiancato nel governo dal capitolo della cattedrale, e la
successiva elezione a vescovo del filoimperiale Egnone di Appiano (1240) chiuse la parentesi. A Trento,
invece, si assistette alla rapida successione di tre podestà imperiali (Wibotone, Svicherio di Montalban e
Lazzaro da Lucca) e infine, nel dicembre del 1238, all’arrivo del pugliese Sodegerio da Tito, destinato a
sopravvivere a Federico II e a rimanere in città fino al 1255.
Dopo la morte di Aldrighetto, nei primi mesi del 1247, il capitolo elesse vescovo il proprio decano, Ulrico di
Porta, un esponente della società cittadina. La scelta avvenne nel momento culminante della lotta tra il papa
Innocenzo IV e l’imperatore Federico II, e con tutta probabilità esprimeva proprio una posizione
filoimperiale. Ad opporsi fu però Innocenzo IV, contro gli orientamenti del quale i canonici della cattedrale
avevano coscientemente agito: il papa rifiutò la conferma del nuovo vescovo ed affidò invece
l’amministrazione della Chiesa di Trento al vescovo di Bressanone Egnone di Appiano. Questi, eletto come
vescovo filoimperiale, aveva da poco cambiato fronte, entrando decisamente in quello dei sostenitori di
Innocenzo IV. Il capitolo venne dunque scomunicato; nel novembre 1250 il papa nominò Egnone vescovo di
Trento.
Lo stallo durò per qualche anno. Ulrico di Porta rimase vescovo eletto, ma non confermato né consacrato,
mentre il podestà Sodegerio garantiva la stabilità della situazione; avendo egli perso l’appoggio di Federico
II – scomparso nel dicembre del 1250 – ed essendo insufficiente quello che gli poteva venire dal nuovo
imperatore Corrado IV, il pugliese rafforzò la propria posizione appoggiandosi sull’ex-vicario imperiale per
la Marca trevigiana Ezzelino III da Romano. Ciò procurò in seguito a Sodegerio pessima stampa: ma nella
storiografia più recente il giudizio sul podestà imperiale è stato rivisto. Egli è ora considerato non più un
tiranno di stampo «ezzeliniano», ma un funzionario che cercò di governare con la collaborazione di tutte le
forze dell’episcopato.
Le trattative per trovare una soluzione che garantisse da un lato l’ingresso in sede di Egnone e dall’altro una
via d’uscita per Sodegerio e Ulrico andarono a buon fine all’inizio del 1255. Nella primavera di quell’anno il
podestà, alleato con i Castelbarco, liberò la città dalla pesante tutela di Ezzelino da Romano; si accordò
quindi con Egnone, ed in cambio di alcuni feudi gli cedette la «casa nuova» che aveva costruito sul colle del
Malconsilium (questa fu da allora la residenza fortificata dei vescovi: qualche anno dopo sarebbe stata
chiamata Castello del Buonconsiglio); Ulrico di Porta tornò ad essere solo il decano del capitolo; i
Castelbarco e gli Arco furono generosamente ricompensati.
Cresce la potenza dei Tirolo-Gorizia
L’ingresso di Egnone a Trento non significò affatto la fine della guerra con Ezzelino da Romano, che era
cominciata nella primavera del 1255 e che era destinata a durare fino alla morte dell’«eretico» (1259). Un
periodo particolarmente difficile fu la primavera del 1256, quando Trento era assediata da Ezzelino su tre lati
ed insidiata pure dal nuovo dinasta tirolese, Mainardo I di Tirolo-Gorizia, genero di Alberto III di Tirolo,
presente in armi sul fronte settentrionale. In tali circostanze, il 29 aprile 1256, il vescovo e il consiglio
cittadino decisero di investire Mainardo I dell’avvocazia della Chiesa di Trento, ossia dell’ufficio che era
stato di suo suocero Alberto III, e dei feudi che erano ad essa connessi. La solenne cerimonia avvenne tre
giorni dopo sulla piazza del palazzo vescovile. Ma non era stata una libera scelta: lo stesso 2 giugno il
decano, l’arcidiacono e altri cinque canonici, dicendo di parlare «a nome proprio e degli altri canonici, del
capitolo, del clero, dei nobili, dei vassalli, dei ministeriali e del popolo della città e della diocesi di Trento»,
affermarono che l’investitura a Mainardo I era stata resa possibile, da un punto di vista giuridico, solo
dall’esistenza di una precedente concessione da parte del predecessore di Egnone, Aldrighetto di Campo; tale
vescovo (1232-1247) aveva infatti garantito al conte di Tirolo Alberto III che l’avvocazia sarebbe stata
ereditabile sia per via maschile che per via femminile. Ma tale atto – sostenevano i canonici – era da
considerarsi nullo, in quanto compiuto senza consultare il capitolo della cattedrale, e priva di valore avrebbe
dovuto essere dunque anche l’investitura in favore di Mainardo I. Ciò era avvenuto era solo perché i canonici
avevano paura di venire uccisi e temevano la distruzione della città e della diocesi. Egnone faceva sua la
protesta, «come uomo che al momento non può né osa fare altro»: si trovava costretto a riconoscere che il
ricorso ai Tirolo (che almeno formalmente chiedevano un’investitura feudale e non una sottomissione) era
l’unica possibile scelta alternativa alla fine del potere temporale dei vescovi. Il 19 febbraio 1259 Egnone fu
poi costretto ad investire dell’avvocazia il giovane figlio di Mainardo I, Mainardo II, il quale pose un proprio
capitano a capo dell’amministrazione civile e militare della città e dell’episcopato.
Mainardo II di Tirolo-Gorizia fu il vero fondatore della potenza tirolese. La sua azione, sorretta da imprese
militari ma soprattutto da un’accorta politica matrimoniale e da una diplomazia abile e spregiudicata, portò
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nell’arco di quasi un quarantennio alla creazione dell’organismo territoriale che, durante il suo governo,
prese il nome di contea del Tirolo (fino ad allora esistevano infatti solo i conti di Tirolo). La divisione
patrimoniale con il fratello Alberto, al quale andarono i territori friulano-istriani della famiglia (1271), lo
portò a concentrarsi sull’area che stava tra l’Adige, l’Isarco e l’Inn. Egnone tentò più volte di ritrovare spazi
di autonomia rispetto al potente vicino, ma la sua azione non fu particolarmente efficace, anche perché era
costretto a subire un’opposizione interna che non considerava sgradita la protezione tirolese ed era pronta a
sfruttarla proprio in chiave antivescovile. Anche le sollevazioni della città, infatti, costrinsero più volte
Egnone alla fuga ed a trascorrere lunghi periodi lontano da Trento.
Il 20 dicembre 1268 Mainardo II impose ad Egnone la «pace di Bolzano», che in pratica permetteva al conte
di occupare l’intero principato vescovile. Da quel momento in poi il vescovo non fu più in grado di sottrarsi
alla tutela tirolese; appariva anzi ai contemporanei come colui che cercava il modo di ingraziarsi il proprio
persecutore, più che il modo di liberarsi da esso. Nel 1279 sarebbe stato ricordato con queste parole:
«Egnone vescovo di Trento è stato un dissipatore e non si è curato dei beni dell’episcopato di Trento».
L’ultimo conte di Appiano concluse le sue fatiche terrene in esilio, a Padova, all’inizio di giugno del 1273.
Papa Gregorio X si era riservato la nomina del successore. La decisione – che peraltro si inseriva nella più
generale tendenza ad avocare a Roma le nomine dei vescovi – seguiva altri interventi papali con i quali la
Santa Sede stava cercando, anche in chiave antiimperiale, di salvaguardare il potere temporale dei vescovi
trentini. Per questo il conte del Tirolo non poté far eleggere dal capitolo della cattedrale un proprio favorito.
Nell’autunno del 1274 venne chiamato a reggere la diocesi un religioso dell’Ordine Teutonico, Enrico II.
Proveniva dalla cancelleria del re di Germania Rodolfo I d’Asburgo: il papa sperava che questi l’avrebbe
adeguatamente protetto. Ma otto giorni dopo essere entrato a Trento, nel gennaio del 1275, Enrico II finì in
carcere. Il rifiuto di concedere a Mainardo i feudi relativi all’avvocazia e la richiesta di restituzione dei beni
usurpati provocarono l’improvvisa reazione della città, pienamente allineata sulle posizioni tirolesi. Enrico
riguadagnò presto la libertà, ma per dieci mesi e dodici giorni rimase fuori sede, alla ricerca di alleati che gli
permettessero di rientrare; li trovò nei feudatari dell’episcopato residenti nell’area di Bolzano. Nel dicembre
dello stesso anno il capitano della città, Erardo di Zwingenstein, aprì le porte al vescovo e ai suoi alleati; un
giuramento di fedeltà venne imposto ai rappresentanti della città. Cominciò così un periodo di governo
effettivo ma estremamente tormentato, destinato a concludersi nove anni dopo. Enrico cercò ripetutamente la
protezione di Rodolfo, ma dal re di Germania – che dell’aiuto militare di Mainardo II aveva costante bisogno
– ottenne solamente arbitrati contenenti formulazioni tali da lasciare nel vago ogni questione e che,
soprattutto, non venivano mai applicati. Un appoggio più concreto ma altrettanto inefficace venne al vescovo
trentino da Padova: ma il podestà Marsilio Partenopeo, inviato dal comune veneto, fu autore di crudeltà che
lo resero odioso alla popolazione, la quale finì per preferire ancora una volta la protezione tirolese.
Nel marzo del 1284 Enrico II, dopo aver subìto una nuova incarcerazione e aver visto la sconfitta militare di
tutti i suoi sostenitori, fu costretto a stipulare con Mainardo II una nuova «pace di Bolzano», con la quale
cedeva l’amministrazione del principato vescovile per quattro anni in cambio di una rendita. Nella primavera
del 1288 Mainardo II propose al vescovo un nuovo accordo, che Enrico II rifiutò, senza che per questo il
conte (dal 1286 anche duca di Carinzia) si sentisse in dovere di ritirarsi dalla città. Nell’estate del 1289 il
vescovo morì a Roma, dove si era recato per sostenere le proprie ragioni.
Papa Nicolò IV affidò subito la Chiesa di Trento a Filippo Bonacolsi, un frate minore proveniente da una
potente famiglia mantovana che già aveva conosciuto la diocesi in quanto inquisitore. Filippo non poté
neppure entrare in città, ma le numerose iniziative del papa in favore del nuovo vescovo misero Mainardo,
ripetutamente scomunicato, in gravi difficoltà. Solo grazie ad un’attenta iniziativa politico-diplomatica sul
fronte esterno e alla repressione di qualunque opposizione interna il conte riuscì a non recedere dalle sue
posizioni; in particolare gli venne in aiuto la morte di papa Nicolò IV, nell’aprile del 1292, e l’apertura di
una lunga vacanza della Santa Sede. La spregiudicata diplomazia tirolese permise poi a Mainardo di ottenere
dal «papa angelico», Celestino V, l’assoluzione dalle scomuniche, facendo sembrare il vescovo dalla parte
del torto (autunno 1294). Il successore di Celestino, Bonifacio VIII, rinnovò però la scomunica. Mainardo II
morì il 31 ottobre 1295, mentre si stava preparando un nuovo processo canonico contro «l’occupatore dei
beni e dei diritti del vescovo e della Chiesa di Trento». Nel proprio testamento invitò i figli Ottone, Ludovico
ed Enrico, che congiuntamente gli succedevano, a restituire «tutto ciò che era stato inopportunamente
ottenuto ed indebitamente acquisito».
Il percorso verso la normalizzazione della situazione e l’ingresso a Trento di Filippo Bonacolsi fu però lento
e tutt’altro che lineare. Il 31 marzo 1296 Bonifacio VIII scomunicò nuovamente i figli del conte del Tirolo,
che continuavano ad occupare i beni della chiesa di Trento. Solo la campagna militare condotta nella seconda
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metà del 1301 dalle forze congiunte di Mantova e di Verona costrinse Ottone, Ludovico ed Enrico alla
trattativa. La pace, mediata dal vescovo di Coira, permise a Filippo la nomina di un vicario per l’ambito
spirituale e l’ingresso in diocesi; ma non gli venne restituito il potere temporale. Morì il 18 dicembre 1303.
Papa Benedetto IX destinò alla cattedra trentina il veneziano Bartolomeo Querini (10 gennaio 1304), e si
rivolse al re di Germania, Alberto I d’Asburgo, per ottenere dai figli di Mainardo la restituzione dei beni
della Chiesa di Trento. Dopo due anni di trattative Bartolomeo poté fare il suo ingresso in sede, la vigilia di
Natale del 1306; dopo quasi vent’anni un vescovo tornava a Trento. Il 19 febbraio dell’anno successivo il
Querini investì dell’avvocazia e dei feudi connessi Ottone ed Enrico, i figli superstiti di Mainardo (Ludovico
era morto nel 1305). I rapporti di forza non erano molto dissimili da quelli che avevano portato alle
precedenti
investiture
del
1256 e del 1259,
ma la supremazia
feudale
del
vescovo
sugli
avvocati tirolesi
era formalmente
confermata. Gli
accordi del 13061307 diedero ai
vescovi
la
possibilità
di
tornare a reggere
la diocesi anche
sotto
l’aspetto
temporale,
sia
pure
dovendo
riconoscere
la
nuova situazione.
Il
territorio
sottoposto
all’autorità
vescovile si era
infatti
molto
ridotto, dato che
la nuova contea
tirolese
comprendeva
tutta la valle
dell’Adige
a
nord dell’Avisio
e molti castelli e
giurisdizioni
della Val di Non;
anche
nel
territorio
teoricamente
soggetto
all’episcopato molti funzionari dovevano la loro nomina ai conti, e in Vallagarina la potenza dei Castelbarco
era al culmine. Nella seconda metà del Duecento, inoltre, la zecca meranese si era imposta su quella trentina
ed era stata drasticamente ridotta la capacità dei vescovi di battere moneta.
Il Querini, in ogni modo, non poté vedere i risultati dell’opera di pacificazione e di ripresa dell’attività
amministrativa che aveva avviato: morì infatti qualche mese dopo, il 23 giugno 1307. L’improvvisa
scomparsa del vescovo lasciò nuovamente mano libera ai figli di Mainardo, che tornarono a governare il
principato vescovile come negli anni precedenti, forti del loro ruolo di avvocati; per il tramite del capitolo,
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tentarono anche di portare sulla cattedra vescovile il canonico Ulrico di Scena. Ma papa Clemente V –
rifiutandogli la conferma – impedì ancora una volta che a Trento si insediasse un vescovo fedele alla casata
tirolese.
Nella cartina: I confini della diocesi di Trento dall’alto medioevo al 1785 (da: CASTAGNETTI, I vescovi
trentini nella Lotta per le investiture e nel primo conflitto tra Impero e Comuni, pag. 118).
Si ristabilisce il potere vescovile
Il 23 maggio 1310 papa Clemente V pose a capo della Chiesa di Trento Enrico, abate del monastero
cistercense di Villers-Bettnach in diocesi di Metz, cancelliere del re di Germania Enrico VII di Lussemburgo.
L’ufficio del nuovo vescovo alla corte imperiale, la morte del conte Ottone di Tirolo e la personalità
dell’ultimo figlio di Mainardo, Enrico, più disposto dei fratelli alla ricerca di vie di pacificazione e di
compromesso, aprirono una nuova stagione, segnata dal ripristino del potere vescovile e da una maggiore
stabilità rispetto al recente passato.
Enrico da Metz non si recò subito nella sua diocesi, ma ne prese possesso tramite procuratori il 25 novembre
1310; qualche giorno dopo (2 dicembre) ottenne da Mantova la restituzione del «Libro di San Vigilio» (il
Codex Wangianus) che Filippo Bonacolsi si era portato in patria. Seguì il suo sovrano nella spedizione
italiana che doveva procurare a quest’ultimo nel 1312 la corona imperiale e, l’anno successivo, la morte.
Solo a quel punto il vescovo fece il suo ingresso in diocesi (autunno 1313), ottenendo dal conte del Tirolo la
restituzione dei poteri temporali. Iniziò allora un periodo di governo relativamente lungo e pacifico in una
diocesi che dalla metà del Duecento in poi aveva visto i propri vescovi coinvolti soprattutto in vicende
politico-militari e sovente costretti all’esilio.
Il vescovo Enrico «seppe lodevolmente conservare l’amicizia del conte del Tirolo», come venne poi scritto
nel suo elogio funebre: riuscì cioè a conservare buoni se non ottimi rapporti con l’ultimo figlio di Mainardo.
Ciò gli rese più agevole il compito di riorganizzare il principato vescovile (al suo periodo di governo risale la
costituzione di una vera e propria cancelleria) e di tenere il proprio territorio al di fuori dei conflitti. Nei
primi mesi del 1327 il re di Germania Ludovico IV, in viaggio verso Roma, attraversò la valle dell’Adige e si
fermò per qualche tempo a Trento, dove si incontrò con i capi del partito ghibellino; questi lo sostenevano e
si opponevano invece al partito guelfo, appoggiato dal re di Francia e da papa Giovanni XXII. Il vescovo
mantenne una posizione di neutralità, uscì dalla città e non interferì con il passaggio del re; l’episcopato fu
così risparmiato da guerre e distruzioni. Forte era nel contempo il legame politico tra il principato vescovile
trentino e la potente casata dei Lussemburgo, il cui principale esponente era allora il figlio di Enrico VII,
Giovanni, re di Boemia: nel 1330 la dodicenne Margherita, figlia ed erede di Enrico del Tirolo, andò sposa
proprio al figlio del re boemo, Giovanni Enrico (il quale aveva allora otto o nove anni). Si preparava così
l’annessione dinastica del Tirolo ad una delle più potenti famiglie europee: il vescovo di Trento aveva
sicuramente giocato un ruolo nella costruzione di questa prospettiva.
Enrico da Metz riorganizzò il territorio dal punto di vista politico-istituzionale: costrinse potenti famiglie
nobili a riconoscere la sovranità feudale del vescovo, fortificò alcuni castelli e ne fece distruggere altri.
Notevole fu anche l’impegno in campo ecclesiale: convocò tre sinodi, redasse svariate norme statutarie
(alcune delle quali promulgate dal suo successore), riformò enti monastici, istituì stabilmente l’ufficio di un
vicario generale per la materia spirituale con competenze distinte dall’ambito civile. Morì il 9 ottobre 1336, e
venne sepolto nell’abside destra della cattedrale.
La contea era allora governata da Carlo di Lussemburgo, figlio del re di Boemia Giovanni, il quale fungeva
da tutore per la giovane coppia formata da suo fratello Giovanni Enrico e da Margherita, figlia di Enrico del
Tirolo (morto nel 1335). «In quel tempo nominammo Nicolò da Brno, nostro cancelliere, vescovo di
Trento»: così Carlo ricordava, a molti anni di distanza, l’elezione del successore di Enrico da Metz, con un
tono che lascia poco spazio ad ipotesi diverse per ricostruire il contesto politico in cui maturò, in tempi
estremamente rapidi, la scelta del nuovo presule. L’opposizione di papa Benedetto XII, che rifiutò per due
anni di confermare l’elezione (formalmente voluta dal capitolo della cattedrale), sembra determinata più che
altro dal disappunto per il mancato rispetto della riserva pontificia; il papa accettò infine la candidatura e,
annullata l’elezione, il 3 luglio 1338 nominò Nicolò da Brno vescovo di Trento. La casa di Lussemburgo
poneva così per la seconda volta consecutiva un proprio cancelliere sulla cattedra di San Vigilio,
continuando così ad avere a Trento un punto di appoggio per i propri progetti di espansione dinastica.
Nicolò, in strettissimi rapporti con Carlo di Lussemburgo (il quale gli affidò persino l’incarico di governatore
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della contea), tentò a sua volta di limitare il potere della nobiltà e di ridare unità al principato. Lo stemma
nobiliare dell’aquila di san Venceslao, concesso il 9 agosto 1339 dal re di Boemia Giovanni, doveva essere il
simbolo di questa rinnovata unità. Va detto che il vescovo moravo – per quanto molto impegnato nell’attività
politica e amministrativa – seppe dare un apporto significativo anche alla crescita spirituale dei suoi fedeli,
attraverso la convocazione di sinodi e la promulgazione di statuti che esprimevano insieme la continuità di
governo rispetto all’episcopato di Enrico da Metz e la preoccupazione per il buon andamento della diocesi.
Accanto alle denunce (in certa misura interessate) contro gli illeciti detentori dei beni ecclesiastici, si trovano
articoli contro gli accaparratori di generi di sussistenza e contro gli usurai.
L’egemonia dei Lussemburgo sul Tirolo cominciò a mostrare segni di logoramento già alla fine degli anni
trenta. Il governo boemo, nel tentativo di limitare il potere della nobiltà tirolese, attirò su di sè rancori e
diffidenze; il malcontento nasceva anche dall’ampio utilizzo di personale straniero nell’amministrazione del
territorio. Coloro che qualche anno prima si erano schierati con i Lussemburgo cercarono così nuovi appoggi
e intavolarono trattative con i Wittelsbach, la famiglia che in quel momento deteneva una contrastata corona
imperiale, proponendo a Ludovico IV un intervento che portasse alla fine dell’unione tra Margherita e
Giovanni Enrico e ad un nuovo matrimonio tra la contessa e Ludovico di Brandeburgo, il figlio
dell’imperatore. Il 2 novembre 1341 Giovanni Enrico, al ritorno dalla caccia, trovò sbarrate le porte di Castel
Tirolo e dovette rifugiarsi ad Aquileia, accompagnato dal vescovo di Trento. Tra lo scandalo dei
contemporanei, l’imperatore dichiarò nullo il primo matrimonio di Margherita; le seconde nozze, presto
celebrate, tolsero il Tirolo dall’orbita boema e lo posero in quella bavarese.
Margherita di Tirolo
Nata nel 1318, figlia minore di Enrico di Mainhardo, duca di Carinzia e conte del Tirolo, fu soprannominata
Maultasch (“boccalarga”); nel 1330 fu concessa in moglie a Giovanni Enrico di Lussemburgo, ma nel 1341
Margherita scacciò il giovane marito per unirsi a Ludovico di Brandeburgo, figlio dell’imperatore Ludovico
il Bavaro. Il matrimonio, dapprima ostacolato dal papa, fu convalidato solamente nel 1359. Dall’unione
nacque un figlio, Mainardo III, che morì nel 1363, pochi giorni dopo la morte improvvisa di Ludovico.
Margherita si ritirò a Vienna. Con un falso documento fatto preparare da Rodolfo IV d’Austria, cognato di
Mainardo III, Margherita dovette cedere il principato del Tirolo ai parenti paterni, tra i quali c’era lo stesso
Rodolfo. Da questo momento e fino al 1918 la Contea del Tirolo rimase in mano alla casa d’Austria.
Morì nel 1369.
Nicolò da Brno
La scelta di Nicolò da Brno nel quadro di una politica di intesa fra la Moravia e la contea tirolese
Di Nicolò Alreim da Brno non si hanno notizie biografiche particolarmente rilevanti prima della sua ascesa
al soglio vescovile di Trento, nel 1338; si conosce soltanto che egli aveva rivestito la carica di cancelliere di
Boemia e che la sua nomina a vescovo di Trento era stata caldeggiata da Carlo, margravio di Moravia e
tutore del nuovo e giovane conte del Tirolo, Giovanni di Lussemburgo - Boemia.
Carlo, che presto sarebbe diventato imperatore, aveva deciso di collocare una persona di sua fiducia presso
la sede di Trento e di affiancarla a suo fratello minore Giovanni di Lussemburgo. L´uomo più adatto a
questo incarico pareva proprio Nicolò da Brno, che avrebbe avuto tra l´altro anche l´incarico di favorire con
la sua politica e la sua diplomazia il buon andamento del matrimonio fra lo stesso Giovanni e Margherita
Maultasch, figlia ed unica erede di Enrico, conte del Tirolo. I due erano stati portati all´altare pochi anni
prima (lui all´età di nove anni e lei a dodici) e il loro matrimonio doveva garantire lo sviluppo di rapporti
particolarmente favorevoli tra la casa tirolese e quella di Moravia. L´unione tra i due principi però non ebbe
buon esito e il matrimonio venne annullato
Il fallimento dei piani della casa di Moravia e le animosità fra il vescovo e il nuovo conte del Tirolo. Il
ritorno delle persecuzioni nei confronti dell´autorità vescovile, come al tempo di Mainardo
Carlo IV dovette ben presto fare i conti con una realtà assai diversa rispetto a quella da lui immaginata e
pianificata. Diventò infatti conte del Tirolo Ludovico di Brandeburgo, nuovo marito di Margherita, e con
lui ripresero vigore i contrasti che per lungo tempo avevano animato i rapporti fra il Tirolo e il principato
tridentino. Questo venne così a trovarsi al centro delle contese tra le case regnanti germaniche (i
Lussemburgo, gli Asburgo, i Wittelsbach di Baviera e i Brandeburgo), tutte in lotta fra loro nel tentativo di
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ampliare i propri possedimenti ed assicurarsi il più possibile il controllo dell´Europa.
Ludovico ottenne agevolmente l´appoggio di Siccone di Caldonazzo, che con le sue scorribande mise a
ferro e fuoco il territorio del perginese. Anche Martino della Scala si schierò apertamente contro Trento e
fornì il proprio sostegno militare. Il vescovo Nicolò riuscì a guadagnare invece l´aiuto del milanese Luchino
Visconti. Tuttavia, mentre le forze alleate del vescovo conseguivano una significativa affermazione in una
battaglia presso Bolzano contro le milizie di Siccone da Caldonazzo, il signore di Brandeburgo riusciva nel
proprio intento di invadere il principato di Trento e di occuparne i luoghi strategici. Al vescovo non rimase
che chiedere l´intervento armato dell´imperatore Carlo di Boemia, ma il contingente imperiale alla volta di
Trento venne sorpreso dai soldati di Ludovico prima di giungere a destinazione. Carlo fu costretto a
rifugiarsi nel bellunese, da dove emise un provvedimento che assicurava all´Impero tutti i feudi della
Chiesa goduti precedentemente dai Mainardi, donandoli poi alla Chiesa tridentina. Inoltre, condannando
apertamente i misfatti di Ludovico e di sua moglie Margherita, li fece decadere da ogni titolo e dichiarò il
vescovo Nicolò da Brno unico possessore di tutto il principato.
Naturalmente, questo non contribuì a risolvere le conflittualità ancora esistenti e soprattutto non liberò il
presule dall´oppressione dell´usurpatore, che si protrarrà anche con i vescovi suoi successori. Nicolò,
infatti, dovette riparare in Moravia poco dopo il ritorno in patria dell´imperatore, e morì quasi subito, nel
novembre del 1347.
I sinodi diocesani indetti da Nicolò. L´origine dello stemma dell´aquila tridentina
Nonostante l´esito negativo dei pesanti conflitti interni con il Tirolo, Nicolò
è ricordato come un´autorità che riuscì a mettere un certo ordine nella
diocesi, e che si adoperò molto per ristabilire criteri di moralità e di decoro
all´interno del clero. Nel corso del sinodo diocesano del 1339, il vescovo
infatti denunciò apertamente il comportamento di molti ministri del culto
che avevano preso l´abitudine di portare armi e di non indossare l´abito
sacerdotale, e li invitò a rimettersi prontamente in regola, pena la
decadenza dai propri privilegi. Questo sinodo costituirà un valido punto di
riferimento due secoli più tardi, per i padri conciliari impegnati nel
Concilio di Trento. Nella medesima adunanza, inoltre, Nicolò evidenziò
con accenti alquanto aspri il dilagare dell´usura a Trento, una delle più
grandi piaghe di tutto il periodo medievale; giunse a prevedere pene molto
severe a riguardo, richiamando le punizioni che erano state già stabilite dal Concilio di Aquileia e
predisponendo criteri nuovi per individuare gli usurai.
Nicolò da Brno svolse anche un´efficiente opera di pacificazione, costringendo i Castelbarco a restituire i
terreni precedentemente usurpati in Val Lagarina e ponendo fine alle diatribe tra i Domenicani di San
Lorenzo e il Capitolo tridentino per il possesso della parrocchia di Santa Maria Maggiore. E´ ricordato
inoltre dai posteri per avere ricevuto, nel 1339, da re Giovanni di Boemia, l´aquila di San Venceslao, che da
quel momento fu utilizzata come stemma del principato vescovile e ai giorni nostri è stata riprodotta in
quello della Provincia di Trento. Nicolò aveva caldeggiato infatti l´idea di riunire i vassalli del Trentino per
porli sotto un´unica protezione, e allo scopo di ridestare un maggiore spirito di unità aveva pensato ad un
simbolo. Fu proprio il simbolo dell´aquila che gli pervenne dalla propria terra di origine.
Trento e il Tirolo sono oggetto del contendere sullo scacchiere europeo
Gli avvenimenti del 1341 non causarono mutamenti bruschi all’interno del principato trentino: Nicolò da
Brno rimase saldo sulla sua cattedra. Ludovico di Brandeburgo cercava infatti alleati per limitare i danni
causati dalla scomunica con cui papa Clemente VI, a motivo del clamoroso secondo matrimonio di
Margherita, aveva colpito tutta la casata e il territorio tirolese (1343).
Il precario equilibrio si ruppe nel 1346 quando il papa, temendo una nuova spedizione italiana di Ludovico
IV, lanciò un appello per una coalizione che difendesse il principato vescovile di Trento e togliesse a
Ludovico di Brandeburgo i passi alpini, così da impedire a suo padre, l’imperatore, il passaggio verso la
Penisola. Lo schieramento composto dai Lussemburgo e da alcune signorie dell’Italia settentrionale – in
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prima linea i Visconti di Milano – dissuase il Bavaro dal tentare la spedizione; l’imperatore, scomunicato ed
isolato, fu deposto dai principi elettori in luglio e morì l’11 ottobre successivo. Assecondando i desideri di
papa Clemente VI, i principi elettori scelsero come suo successore proprio Carlo di Lussemburgo (Carlo IV).
Il nuovo imperatore comparve a Trento nei primi mesi del 1347; la domenica delle Palme assistette alla
messa in cattedrale sfilando poi nelle vie della città. Manifestò allora l’intenzione di cedere il Tirolo ai
Milanesi: e così, quando cominciò a risalire il corso dell’Adige, trovò scarsi appoggi dalla nobiltà locale, che
si sentiva più legata all’ambito tedesco e identificava dunque la propria causa con quella dei Bavaresi. Carlo
conquistò e diede alle fiamme Merano, ma non riuscì ad espugnare Castel Tirolo e a vendicare quindi l’onta
che il fratello aveva dovuto subire sei anni prima; comprendendo che il paese gli era ostile e che le truppe di
Ludovico di Brandeburgo (attestato a Bressanone) impedivano l’arrivo di rinforzi, scelse di ritirarsi,
devastando la valle dell’Adige e dando alle fiamme anche Bolzano. Riapparve a Trento il 27 aprile: non era
stato sconfitto, ma quello che avrebbe dovuto essere un cammino trionfale si era rivelato un’inutile scorreria.
All’inizio di luglio lasciò la città; da Belluno restituì quindi al vescovo di Trento possessi e diritti, con un
decreto che non avrebbe mai potuto far rispettare; in settembre tornò a Praga. Nicolò da Brno, rimasto solo,
subì il ritorno di Ludovico di Brandeburgo, che nel duca Corrado di Teck aveva trovato l’uomo giusto per
governare la regione con il pugno di ferro; a sua volta partì per la Moravia e morì durante il viaggio, a
Nikolsburg (oggi Mikulow), alla fine di ottobre o ai primi di novembre del 1347.
La fuga e la morte di Nicolò da Brno lasciarono il principato in condizioni estremamente precarie. Papa
Clemente VI, il 12 dicembre 1347, scelse il nuovo vescovo nella persona di Gerardo da Manhac, un francese
residente alla corte di Avignone, con l’evidente intenzione di opporsi al partito ghibellino-bavarese. Gerardo,
il 4 gennaio 1348, nominò Nicolò Alreim da Brno, nipote del suo predecessore, capitano della città e del
territorio. Il nuovo vescovo però non tentò neppure di raggiungere la diocesi, e morì nell’ottobre successivo;
il suo capitano non svolse alcun ruolo effettivo. Il duca Corrado di Teck chiese intanto al capitolo di
conferire l’avvocazia sull’episcopato a Ludovico di Brandeburgo; ma i canonici si rifiutarono e cercarono
anzi di organizzare la difesa del principato, alleandosi con gli Arco, i de Gardellis e i Belenzani. Fecero
anche appello ai Carraresi: alla fine del 1348 le truppe dei signori di Padova presidiarono per un certo tempo
la città.
Nel giugno del 1348 arrivò anche a Trento la peste nera, che allora impreversava in tutta Europa. Il canonico
Giovanni da Parma, nella sua Cronaca, ci ha lasciato una precisa descrizione delle caratteristiche del morbo –
al quale egli sopravvisse – ed insieme l’immagine di una città in cui non solo i rapporti sociali, ma anche
quelli familiari venivano devastati («i cristiani si evitavano a vicenda come la lepre il leone, o il sano il
lebbroso, e lo dico tanto del padre o della madre nei confronti del figlio e viceversa, e della sorella nei
confronti del fratello e viceversa»). A suo dire, nell’arco di sei mesi morirono «di sei persone, cinque».
L’ingresso a Trento del duca Corrado di Teck, nel 1349, rese concreta anche a Trento l’egemonia bavarese.
Non solo il vescovo Gerardo da Manhac, scomparso già tra settembre e ottobre 1348, ma anche i suoi
successori Giovanni da Pistoia (1348-1349) e Mainardo di Neuhaus (1349-1360), pure scelti dai papi ed
espressione del partito imperiale-lussemburghese, non poterono fare il loro ingresso in sede, nemmeno nei
territori – Riva ed Arco – soggetti allora non ai conti di Tirolo, ma agli Scaligeri di Verona. Il capitolo
governava spiritualmente la diocesi come se fosse vacante e costituiva un luogo di ‘resistenza’ rispetto al
potere bavarese, che dopo l’assassinio del Teck (1352) veniva rappresentato dal pievano di Tirolo Enrico di
Bopfingen (figura inusuale – ma non per l’epoca – di ecclesiastico governante e combattente).
La posizione di Ludovico era però messa in discussione dalla sua anomala unione con Margherita che, come
detto, era alle sue seconde nozze. Vennero dunque ben presto intavolate trattative con la curia papale allo
scopo di ottenere l’annullamento del primo matrimonio e conseguentemente la cancellazione della
scomunica che aveva colpito la coppia. Il duca d’Austria Alberto II, che stava puntando a dare in sposa sua
figlia a Mainardo III, figlio di Margherita e Ludovico, fece quanto possibile per favorire l’annullamento del
primo matrimonio, senza il quale la posizione dei genitori del giovane erede della contea appariva
indifendibile. Verso il 1358 sembrò che le cose stessero definendosi a favore di un rafforzamento del potere
bavarese in Tirolo: Ludovico promise, tra l’altro, di restituire quanto aveva usurpato alla Chiesa di Trento, le
prime nozze furono annullate e nel settembre 1359 venne solennemente (ri-)celebrato il suo matrimonio con
Margherita del Tirolo. Sembrava imminente la restituzione al vescovo di Trento del potere temporale; in
questo contesto però Mainardo di Neuhaus, che non aveva mai neppure tentato di governare la diocesi, diede
le dimissioni (fine di agosto del 1360).
Il 31 agosto 1360 il papa affidò la chiesa trentina al carinziano Alberto di Ortenburg. Questi era un protetto
del duca d’Austria Alberto II, con il quale si era anzi accordato tre anni prima: se il duca fosse riuscito a
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fargli ottenere la cattedra trentina, l’Ortenburg si sarebbe dimostrato riconoscente e avrebbe operato secondo
la volontà dei duchi d’Austria. La nomina va dunque letta nel quadro del progressivo aumento del potere
degli Asburgo nell’area. All’inizio degli anni sessanta tale processo ebbe però una rapida accelerazione. Il 17
settembre 1361 morì Ludovico di Brandeburgo; il 13 gennaio 1363 scomparve anche il giovane figlio ed
erede Mainardo III (i contemporanei vi videro due avvelenamenti). Il 26 gennaio Margherita, rimasta sola e
senza eredi, cedette il Tirolo a Rodolfo, Alberto e Leopoldo, duchi d’Austria, in quanto suoi parenti più
prossimi (erano secondi cugini); il 5 febbraio i due vescovi di Trento e di Bressanone investirono Rodolfo
d’Asburgo dell’avvocazia sui due episcopati. Dopo sei anni di egemonia boemo-lussemburghese e ventidue
di potere bavarese, Trento e il Tirolo finirono così nell’orbita austro-asburgica.
Alberto di Ortenburg aveva preso possesso della sua diocesi il 24 gennaio 1363, quando era ormai chiaro
quale sarebbe stato l’esito delle lotte per l’egemonia in Tirolo. Il 18 settembre successivo la firma di una
convenzione tra il duca Rodolfo IV e il vescovo Alberto di Ortenburg (le «compattate»), formalmente
paritaria ma in realtà molto onerosa, diede base giuridica agli equilibri di potere allora raggiunti.
La Chiesa di Trento nel medioevo
Vescovi tanto coinvolti nella vita politica e militare, la cui nomina (anche quando formalmente decisa in
sede locale) rispondeva a logiche di tipo tutt’altro che spirituale, non potevano intervenire che
marginalmente nella vita della propria Chiesa. Alcuni riuscirono tuttavia a distinguersi per un certo
impegno «riformatore», che si espresse attraverso la convocazione di sinodi diocesani ai quali il clero era
tenuto a partecipare. Tra l’inizio del XIII e la metà del XIV secolo Gerardo Oscasali, Enrico II, Enrico da
Metz e Nicolò da Brno tentarono in questo modo di rafforzare il controllo sulle istituzioni ecclesiastiche del
territorio, di attuare un’opera di moralizzazione del clero, di dettare norme di corretto comportamento in
campo liturgico e, in qualche caso, di intervenire anche in campo sociale ed economico. La supplenza
vescovile per quanto riguardava gli aspetti sacramentali veniva affidata a vescovi ausiliari, sovente
appartenenti ad ordini religiosi, privi dei poteri politici ma in possesso del grado dell’ordine sacro che
permetteva loro di conferire il sacerdozio e di consacrare chiese ed altari. Accanto al vescovo operava, in
regime talvolta di collaborazione e talvolta di concorrenza, il capitolo di San Vigilio. Questo gruppo di
ecclesiastici responsabili del servizio liturgico della chiesa cattedrale era guidato dal decano e composto di
ventotto membri (diciotto dal 1397). Deteneva il diritto di eleggere il vescovo, di governare in sede vacante,
di esprimere il proprio consenso o veto negli atti che comportassero la vendita o la cessione dei beni
dell’episcopato: per questo la sua importanza politica era molto rilevante, e non di rado la sua composizione
rispecchiava quelli che erano gli equilibri fra le fazioni. Il capitolo aveva un ruolo anche nell’ambito più
propriamente ecclesiale: sotto la sua responsabilità era infatti la cura d’anime della città e di alcune altre
pievi (dapprima solo Piné e Meano, poi anche Appiano, Meltina, Caldaro, Nova Ponente); presso la chiesa
cattedrale esisteva una scuola, diretta dal canonico scolastico. La seconda dignità capitolare era quella
dell’arcidiacono, che fino al XIII secolo ebbe responsabilità specifiche nel settore matrimoniale e
nell’amministrazione della giustizia. Il capitolo della cattedrale possedeva inoltre un grande patrimonio
fondiario e governava direttamente alcune piccole giurisdizioni (Sover, Sevignano, Villamontagna). Come
in tutta l’Italia centro-settentrionale, dal punto di vista ecclesiastico il territorio era suddiviso in una serie di
circoscrizioni minori (pievi), ognuna delle quali aveva il suo centro in una chiesa pubblica a cui il popolo
dei fedeli doveva fare riferimento per quanto riguardava il battesimo, la sepoltura, il pagamento delle
decime ed altri aspetti della liturgia. Le chiese minori, sovente di fondazione privata, dovevano invece
essere soggette a tale chiesa-madre, il cui clero, presieduto dall’arciprete, garantiva ad esse la presenza
periodica di un prete. Questa struttura nacque probabilmente nel IX secolo, anche se le notizie in nostro
possesso risalgono solo al XII o al XIII: in quel momento esistevano circa settanta pievi (cinquanta, se si
tiene conto dei confini diocesani attuali). Si hanno numerose attestazioni dell’esistenza, presso le pievi
dell’area lagarina e giudicariese, di comunità di chierici, e sembra anzi che queste eleggessero
autonomamente l’arciprete; i vescovi si opposero a tale consuetudine, che intaccava quello che
consideravano un loro diritto. Nelle aree più vicine al capoluogo, in quelle della Val di Non e in quelle del
settore settentrionale non si registrano invece tali comportamenti. Va detto infine che le pievi del settore
«tedesco», settentrionale, a differenza di quelle del settore «italiano», centro-meridionale, erano quasi tutte
sottoposte a patronati laicali o monastici (il diritto di presentare al vescovo un candidato per il beneficio
ecclesiastico spettava cioè a un signore laico o a un monastero). La pastorale dell’età medioevale e moderna
deve molto a queste strutture organizzative, che in alcuni casi sono rimaste vitali fino all’inizio del XX
60
secolo.
Fin dal medioevo, però, alcune cappelle ottennero determinati diritti (dapprima il cimitero, quindi la
celebrazione periodica della messa, infine la presenza di clero stabile e in qualche caso il fonte battesimale);
pur mantenendo un formale legame di dipendenza dalle pievi matrici, di fatto operavano autonomamente.
La loro crescita numerica è di per sé un sintomo del desiderio del popolo cristiano di partecipare più
frequentemente alla liturgia e di accostarsi in modo meno disagevole ai sacramenti; spesso le comunità
stesse partecipavano alla scelta del cappellano e gli fornivano i mezzi di sostentamento. Un livello
intermedio tra la diocesi e le pievi quale quello rappresentato dai decanati sarà formalizzato solo nel XVI
secolo. Il titolare di una chiesa era tenuto a svolgere una determinata serie di obblighi, in cambio dei quali
riceveva il reddito proveniente da un insieme di beni (sovente fondiari) e di diritti (come il diritto di
decima). Questo reddito, detto «beneficio», gli permetteva di vivere in modo economicamente autonomo e
sicuro: e nel momento in cui egli aveva messo in atto, personalmente o per il tramite di un sostituto, quel
complesso di servizi religiosi e di atti rituali a cui era legalmente tenuto, la sua posizione risultava
intangibile. Vi era evidentemente un forte pericolo di caduta nel formalismo, al quale si accompagnava
altresì la tendenza del clero a tenere un comportamento simile a quello dei laici: i sinodi condannavano
sovente i preti che vivevano con donne (concubinari), che prestavano ad usura, che portavano armi o che
andavano vestiti come i laici. Sembra comunque che i fedeli fossero interessati soprattutto alla presenza
stabile di un prete presso la propria chiesa, e quindi desiderassero ed anzi pretendessero prima di tutto la
regolarità del servizio liturgico e sacramentale; su altre questioni erano più disposti alla tolleranza. Il ruolo
delle fondazioni monastiche non appare particolarmente significativo. Il completo silenzio riguardo
all’esistenza di un tal genere di enti si rompe solo alla metà del XII secolo, quando venne fondato (o
rifondato?) il monastero benedettino di San Lorenzo presso Trento (1146) e istituite le due canoniche
regolari di San Michele all’Adige e di Augia presso Bolzano. Le canoniche regolari, più che costituire un
luogo di ascesi e di isolamento per chi desiderava distaccarsi dal mondo, erano un luogo di vita comunitaria
per un clero che di per sé doveva dedicarsi alla cura d’anime: ed ecco che San Michele ottenne la
giurisdizione ecclesiastica su un territorio che comprendeva le pievi di Giovo, San Floriano e Salorno. Nei
primi decenni del XIII secolo si insediò in diocesi anche un ordine militare, quello dei Cavalieri Teutonici,
che oltre a sviluppare alcune fondazioni ospedaliere ottenne il controllo di numerose pievi del settore
settentrionale; aveva una casa anche a Trento (il cosiddetto Fralimano, corruzione dialettale di «frate
alemanno»). In quello stesso periodo erano nati nuovi ordini religiosi, detti «mendicanti» perché la loro
regola vietava di possedere grandi patrimoni fondiari e imponeva invece di procurarsi il necessario col
proprio lavoro o chiedendo l’elemosina. I principali (ma non i soli) furono i Francescani (o «frati minori») e
i Domenicani (o «frati predicatori»). A Trento i Francescani fecero la loro comparsa fin dagli anni venti del
XIII secolo: le «povere signore» (che in seguito sarebbero state chiamate «Clarisse») trovarono spazio nel
1229 presso la chiesa di San Michele, poi detta di Santa Chiara; il ramo maschile si insediò definitivamente
solo negli anni quaranta (a Bolzano vi era già nel 1237; a Riva giunse nel 1266). I Domenicani, nel 1235,
riuscirono a togliere San Lorenzo ai Benedettini e a farli trasferire presso Sant’Apollinare, dove rimasero
fino al 1426. Gli Agostiniani, dopo aver trovato posto a Barbaniga presso Civezzano, si insediarono in città
presso il convento di San Marco nel 1271. Gli ordini mendicanti assumevano spesso compiti connessi con
la cura d’anime quali la predicazione e la confessione; sembra però che di fronte a questi nuovi
insediamenti l’organizzazione pastorale abbia dimostrato, più che altrove, una qualche capacità di
resistenza. Nel 1330 il capitolo della cattedrale riuscì ad impedire che i Domenicani occupassero la pieve
cittadina di Santa Maria Maggiore, costringendoli a rimanere nella loro primitiva sede di San Lorenzo,
allora sulla sponda destra dell’Adige. Particolarmente diffuse ed importanti erano le fondazioni ospedaliere,
nate tra XII e XII secolo e presenti sia sulle principali strade che sui passi alpini; erano quasi tutte legate
non a questo o a quell’ordine religioso ma alla cattedra vescovile. In queste piccole comunità, uomini e
donne si votavano al servizio di Dio e dei viandanti e dei pellegrini in transito. Tra le più importanti si
possono ricordare Santa Maria di Senale, Santa Maria di Campiglio, San Bartolomeo al Tonale, San
Tommaso a Romeno, San Floriano di Salorno, Sant’Ilario presso Rovereto, Santa Margherita presso Ala,
San Tommaso tra Riva e Arco; presso Trento vi erano gli ospedali di San Martino (a nord) e di Santa Croce
(a sud). Spesso questi luoghi di ospitalità erano anche mete di pellegrinaggio, e le immagini sacre in essi
ospitate venivano considerate miracolose. Punti d’arrivo dei pellegrini erano anche i luoghi isolati in cui gli
eremiti cercavano l’ascesi e la perfezione: il più noto è senz’altro quello di San Romedio, posto su uno
sperone roccioso in una valle appartata dell’Anaunia. Si può infine rilevare come nella diocesi di Trento
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abbiano avuto scarsa diffusione quelle dottrine eterodosse che altrove esprimevano il disagio dei cristiani di
fronte ad una Chiesa compromessa con la ricchezza ed il potere. L’unico caso conosciuto è quello relativo a
Dolcino, il predicatore apocalittico che nei primi anni del XIV secolo portò nel Trentino meridionale il
proprio annuncio ‘rivoluzionario’, conservando anche negli anni successivi un certo seguito, visto che
processi contro presunti dolciniani vennero istruiti ancora negli anni trenta di quel secolo.
Trento e Tirolo: l'alleanza obbligata di Emanuele Curzel
Gli Asburgo diventano conti del Tirolo e impongono ai vescovi le "compattate"
Da tempo i conti del Tirolo cercavano di porre sulla cattedra di Trento un vescovo disposto ad accettare una
posizione subordinata e a favorire i progetti di espansione e consolidamento del loro Stato. Questo sforzo
venne coronato dal successo nel 1363, proprio nell’anno in cui si estingueva la discendenza diretta di
Mainardo II e la contea veniva unita dinasticamente al ducato d’Austria.
L’impegno che Alberto di Ortenburg aveva sottoscritto nel 1357 lo vincolava ad accettare la politica dei
duchi, perché ad essi doveva l’ascesa all’episcopato. In due riprese, nel 1363 e nel 1365, egli sottoscrisse
dunque una convenzione (le compattate) che esprimeva in termini giuridici il grado di supremazia raggiunto
dal potere austro-tirolese. Il vescovo doveva assistere i conti del Tirolo contro chiunque, eccezion fatta per il
Papa; i funzionari dovevano essere nominati solo con il consenso dei conti e anche a questi ultimi essi
dovevano prestare giuramento di fedeltà; anche il capitano (comandante militare) dell’episcopato, nominato
dal vescovo, era tenuto a prestare fedeltà e ubbidienza al Tirolo; i funzionari dovevano giurare di non
riconoscere un nuovo vescovo prima che i duchi avessero dato il loro beneplacito; in caso di conflitto tra
vescovi e conti, i funzionari dovevano appoggiare i conti ed erano sciolti dal giuramento di fedeltà ai
vescovi. In cambio, i conti si limitavano a promettere ai vescovi una protezione contro chiunque volesse
ingiustamente aggredirli o danneggiarli. Una seconda versione delle compattate, stipulata il 5 novembre 1365
con i duchi Alberto III e Leopoldo III (Rodolfo IV era appena scomparso), risultò diversa nei toni, ma non
nella sostanza. I contraenti costituivano così un’alleanza perpetua che «traduceva l’avvocazia in una specie
di confederazione militare, nella quale il conte del Tirolo doveva essere per il principato vescovile di Trento
il supremo comandante in caso di guerra; per natura sua essa implicava anche uno stato di confederazione
politica, che limitava in modo corrispondente il raggio d’azione della politica estera» (questa definizione è di
Iginio Rogger).
Nello stesso periodo vennero istituzionalizzati i legami tra la contea e la nobiltà trentina: valga per tutti
l’atteggiamento dei Castelbarco che, dopo aver giocato per duecento anni le loro carte sullo scacchiere
padano, nel 1363 scelsero il legame con il Tirolo, giurando fedeltà al duca Rodolfo.
L’effettiva riconsegna dei poteri temporali al vescovo avvenne solo nel dicembre 1365, dunque all’indomani
della firma delle «seconde compattate». Si aprì, nel contesto dell’egemonia austro-tirolese, un nuovo ciclo di
stabilità, per quanto non mancassero episodi di tensione e di conflitto sulle frontiere meridionali del
principato vescovile. Lì quattro instabili dominazioni (i Caldonazzo ad est, i Castelbarco a sud, gli Arco a
sud-ovest ed i Lodron ad ovest) erano in cerca di appoggi e di legittimazioni. La Padova dei Carrara, la
Milano dei Visconti e la Repubblica di Venezia, intanto, conquistavano spazi che sembravano la premessa di
ulteriori allargamenti verso le valli atesine. Riva e Arco, già veronesi, passarono a Milano nel 1387;
complesse e confuse furono le vicende della Valsugana. Ciò diede motivo al Tirolo di intervenire in modo
ancora più attento e frequente nelle vicende del principato vescovile.
Alberto di Ortenburg non brillò per impegno e attività neppure in campo spirituale, per quanto non vi siano
ancora ricerche specifiche su questo aspetto. Il giudizio che si dà della sua attività è generalmente negativo: è
rimasta celebre la figura di un suo vicario, Giovanni Digni, che una strofetta dell’epoca non esita a definire
sacrilego, malvagio e capace di confiscare e divorare le cose dei poveri (san Vigilio viene invocato perché
«cacci il lupo lontano dall’ovile»). Il vescovo morì il 9 settembre 1390 e venne sepolto in cattedrale.
I vescovi Giorgio Liechtenstein e Alessandro di Masovia mettono l’alleanza in discussione
Alla fine di settembre del 1390 il capitolo della cattedrale elesse il nuovo vescovo nella persona del preposito
(ossia del capo) del clero della chiesa di Santo Stefano di Vienna, Giorgio Liechtenstein (1390-1419). Tale
scelta, a posteriori, è stata considerata come un tentativo da parte dei canonici di riguadagnare spazi di
autonomia nei confronti del potere austro-tirolese; ma una recente ricerca ha messo in rilievo i profondi
legami che intercorrevano proprio tra l’eletto e il duca d’Austria Alberto III. Papa Bonifacio IX – bisognoso
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di alleati, dato che era allora in corso il Grande Scisma d’Occidente – non tardò nel concedere la conferma. Il
nuovo vescovo attese peraltro fino al 1399 prima di sottoscrivere le compattate.
Per alcuni anni il Liechtenstein governò l’episcopato con relativa tranquillità: la sua fu anzi, dal punto di
vista artistico, un’età particolarmente felice grazie proprio alle opere (affreschi, oreficeria, paramenti
liturgici) che egli commissionava e che fecero di Trento uno dei luoghi di sviluppo del «gotico
internazionale». Ma a partire da una certa data la politica vescovile trovò non poche opposizioni. La città mal
sopportava il carico fiscale e la presenza invadente del personale che il vescovo, originario della Moravia,
aveva portato con sé; i nobili vedevano il loro grado di autonomia ridotto dal potere vescovile; i
sommovimenti dell’Italia padana, con la crescita del potere veneziano a danno di quello milanese, invitavano
il Tirolo alla vigilanza. Il nuovo conte, il giovane duca d’Austria Federico IV detto Tascavuota (1406-1439),
soffiò sul fuoco di ogni malcontento, cercando così di aumentare il proprio peso negli equilibri interni
all’episcopato.
All’inizio di febbraio 1407 una rivolta cittadina, guidata dal nobile trentino Rodolfo Belenzani, diede il via
ad una nuova fase di turbolenza. Ad essa fecero seguito altre rivolte nelle valli di Non e di Sole. Il vescovo fu
costretto dalla cittadinanza ad una serie di concessioni che sancivano di fatto la nascita di un’autorità
comunale (28 febbraio); il Belenzani stesso si fece eleggere capitano del popolo. Il Liechtenstein, in un
secondo tempo, tentò di far venire in suo soccorso il capitano di ventura Ottobono da Parma, ma fu scoperto
ed incarcerato (aprile 1407). Intervenne anche il duca Federico IV, il quale volle presentarsi come garante
delle libertà cittadine, mentre il vescovo prendeva la via dell’esilio. Ben presto si manifestarono però dissidi
tra la nuova dirigenza trentina e i vertici tirolesi; dopo aver invano sperato nell’aiuto veneziano, gli insorti
vennero sconfitti dalle truppe capitanate da Enrico di Rottenburg, e il Belenzani morì in combattimento (5
luglio 1409).
Un accordo intercorso tra il re di Germania Sigismondo di Lussemburgo e Federico IV permise a Giorgio
Liechtenstein di tornare a Trento. Nella sfera temporale dovette però accettare condizioni che gli toglievano
ogni diritto, e nella sfera spirituale fu costretto a nominare suo vicario Giovanni da Isny, un fedelissimo del
duca, che poco dopo divenne anche decano del capitolo. Il vescovo scelse allora nuovamente l’esilio. Si
rivolse ripetutamente al re di Germania e al Concilio di Costanza: nonostante il loro appoggio, non riuscì ad
ottenere risultati concreti prima del maggio 1418. Solo allora, con la mediazione di papa Martino V, si
giunse ad un nuovo accordo tra il re Sigismondo e il duca Federico IV, che costituiva la necessaria premessa
al ritorno in sede del vescovo. A quel punto però fu la città, che gli era ancora ostile, a schierarglisi contro.
Giorgio Liechtenstein morì il 20 agosto 1419, forse avvelenato, nel castello anaune di Pietro di Spor.
Nelle intenzioni di Federico IV, il nuovo vescovo di Trento avrebbe dovuto essere il decano del capitolo
Giovanni da Isny, che infatti i canonici elessero alla cattedra; ma papa Martino V respinse tale scelta,
impedendo così che un favorito del Tascavuota riproponesse la totale egemonia tirolese su Trento; a sua
volta il papa propose senza successo ben tre candidati.
Dopo tre anni di trattative la vacanza si chiuse con un compromesso di alto livello, che pose
provvisoriamente termine alle contese: Martino V nominò vescovo Alessandro di Masovia (1423-1444),
ventitreenne nipote del re di Polonia, imparentato con la famiglia imperiale. Federico IV sperava che fosse
un personaggio debole e facilmente manovrabile; ma Alessandro, pur comportandosi molto più da principe
che da prelato, dimostrò presto di voler restituire al principato vescovile una maggiore autonomia (sembra
che non abbia neppure giurato le vecchie compattate), ed anzi di voler proprio togliere Trento dall’orbita
tirolese, cercando piuttosto un legame con Milano, o forse con Venezia. Questa avventurosa politica estera
non poteva che preoccupare Federico IV e sfavorire economicamente la città, che nel legame con il Tirolo
trovava facile sbocco ai propri commerci, specie vinicoli. Suscitavano scandalo e dissenso anche
l’introduzione di molti polacchi nei posti di potere, il mancato rispetto degli statuti cittadini e gli
atteggiamenti dispotici e immorali del «duca di Masovia». Una nuova rivolta cittadina divampò dunque nel
1435, ed ancora una volta Federico IV non mancò di approfittarne per guadagnare posizioni, occupando
militarmente la città; venne così stroncato il tentativo di togliere il principato dall’orbita tirolese.
Alessandro, nel momento della rivolta, non si trovava a Trento: dal 1433 frequentava spesso Basilea, e
partecipava con convinzione al concilio là convocato. Vi rimase anche quando le posizioni dell’assemblea si
radicalizzarono, ed anzi assunse incarichi di una certa importanza nella curia dell’antipapa Felice V, eletto
dal concilio dopo la deposizione di papa Eugenio IV (1439). Il Masovia fu fatto patriarca di Aquileia e
cardinale, e venne coinvolto nell’attività diplomatica in quanto legato del concilio nei territori asburgici.
Morì a Vienna il 2 giugno 1444; gli era vicino Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa Pio II, che lasciò ai
posteri un ritratto tutt’altro che edificante degli ultimi giorni del nobile polacco. Dal punto di vista del
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governo spirituale, vanno peraltro ricordati i suoi sforzi per il miglioramento della qualità del clero attraverso
una visita pastorale e un sinodo.
Alla morte del Masovia si aprì un altro periodo di confusione, durante il quale vi fu anche uno scisma
all’interno della diocesi. Il capitolo della cattedrale e il concilio di Basilea sostenevano infatti Teobaldo
Wolkenstein, che poteva operare come vescovo nell’area centro-settentrionale; papa Eugenio IV gli preferiva
l’ex-abate benedettino di San Lorenzo, Benedetto da Trento, che esercitava la sua giurisdizione nelle aree
meridionali occupate da Venezia. Solo le dimissioni di entrambi, nel corso del 1446, permisero la soluzione
dello scisma. Le due rinunce erano il segno da un lato della sconfitta delle posizioni conciliariste, dall’altro
dell’ulteriore crescita del potere tirolese, ora impersonato dal figlio di Federico IV, Sigismondo. Questi
impose infatti al capitolo di nominare vescovo lo slesiano Giorgio Hack, fratello del suo comandante
militare; l’elezione venne subito ratificata dal concilio (17 ottobre 1446) ed in seguito anche dal papa (8
novembre 1448).
Giorgio di Lichtenstein
Il contesto storico-politico che precedette la nomina di Giorgio di Lichtenstein
Nel 1390 era morto il vescovo di Trento Alberto di Ortenburg ed occorreva provvedere alla successione. Il
Capitolo intendeva farlo al più presto, per evitare che anche a Trento si ripetesse quanto avvenuto per la
vicina diocesi di Coira, dove il duca d´Austria stava riuscendo a far salire all´episcopato il proprio
cancelliere, per via dei buoni uffici che questi aveva con la curia romana. Nello stesso anno, quindi, il
Capitolo nominò vescovo di Trento il barone Giorgio di Lichtenstein, preposito della collegiata di Vienna,
la dignità ecclesiastica più alta del ducato d´Austria. La scelta non creò contrasti di alcun genere tra il
Capitolo e la Santa Sede, in quanto anche il pontefice Bonifacio IX aveva segnalato la stessa persona per
ricoprire quest´ufficio. Va ricordato che dai tempi del vescovo Enrico II, vale a dire dal 1274, tutti i pastori
della diocesi tridentina (con l´esclusione di Nicolò da Brno) erano stati nominati direttamente dal pontefice.
I positivi esordi e il tentativo di restaurazione politica. Il triste confronto con la realtà
Giorgio di Lichtenstein era originario della Moravia, ed era nato nella città di Nikolsburg. Proveniva da una
delle famiglie più illustri di quel paese e sin dall´inizio cercò di accattivarsi il consenso delle masse
popolari con offerte generose. Verso i nobili del luogo si presentò invece in maniera decisamente più
autorevole: ridimensionò in modo perentorio le aspirazioni delle famiglie più signorili, fino a ricondurle ad
esercitare il ruolo di suoi semplici vassalli, e soprattutto tenne un atteggiamento assai risoluto nei confronti
del duca d´Austria, verso il quale si rifiutò sempre di pronunciare giuramento su quelle «compattate « che
avevano relegato il presule precedente, Alberto di Ortenburg, ad un ruolo di semplice comprimario negli
eventi della diocesi. Immediatamente, quindi, fece capire agli antagonisti della Chiesa di avere di fronte una
personalità ben diversa dal suo predecessore, decisa a risollevare la dignità e l´indipendenza del potere
vescovile col porre fine a un periodo tra i più umilianti di tutta la storia della Chiesa locale.
I suoi interventi iniziali si inquadravano in un più vasto programma di rinnovamento, che faceva uso di
altisonanti richiami dal forte contenuto simbolico quale strumento di propaganda. Allo scopo di magnificare
lo splendore del potere vescovile che egli stesso aveva intenzione di ripristinare, Giorgio di Lichtenstein,
durante gli anni a cavallo fra il ‘300 e il ‘400, provvide al restauro e alla costruzione di quelli che aveva
individuato come gli emblemi dell´autorità da lui rappresentata. Fece erigere e decorare riccamente Torre
Aquila, accanto al castello del Buonconsiglio, e ne fece una pertinenza della sua residenza personale. Un
tale atto, in verità, fu ritenuto per la municipalità di Trento un gravissimo affronto al sentimento collettivo:
per edificare Torre Aquila il vescovo aveva occupato uno dei luoghi più cari alla cittadinanza, uno degli
spazi pubblici nei quali, per gli abitanti di Trento, scattavano quei meccanismi di autoidentificazione che in
quest´ultima fase del medioevo avevano dato al capoluogo una fisionomia civica ben precisa.
E´ evidente come questo fatto sia stato tra le cause scatenanti della ribellione che avverrà di lì a non molto e
come i mutamenti che il vescovo Giorgio cercò di introdurre nell´arte cittadina abbiano avuto conseguenze
ben diverse da quelle apportate nei decenni avvenire da altri due suoi più illustri successori: Giovannni
Hinderbach e Bernardo Clesio.
In questi primi anni del suo episcopato, egli mostrò in ogni caso di possedere una notevole sensibilità
artistica: gli affreschi con i quali fu abbellita Torre Aquila esprimevano un gusto che non sembra azzardato
definire pre - rinascimentale. Su di essa è raffigurato un celebre «ciclo dei mesi», che resta tra le opere
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pittoriche più apprezzate di questa epoca storica. Il suo autore è rimasto sconosciuto, anche se si è potuto
supporre che si sia trattato di un artista boemo, conoscente della blasonata famiglia dei Lichtenstein. In
sintonia con la valenza squisitamente propagandistica che, come si è detto, rivestivano queste innovazioni
artistiche ed architettoniche, il celebre affresco aveva anche lo scopo di rappresentare un modello di società
fortemente verticistica, quella espressamente voluta dal vescovo.
Questo disegno politico venne completato con altri interventi del medesimo genere: Giorgio di Lichtenstein
fece anche ristrutturare il castello di Stenico, e soprattutto fece eseguire splendidi lavori di arte orafa sui
quali erano rappresentati gli stemmi di famiglia, che collocò sopra i portoni di palazzi e castelli, nelle
sontuose sale e ovunque desiderava che fosse ricordata la provenienza non solo istituzionale ma anche
dinastica della sua autorità.
Nonostante il contributo che fornì personalmente al principato anche in termini finanziari attingendo ai beni
della propria famiglia, il vescovo si vide presto obbligato a fare i conti con una realtà economica
decisamente pesante: le casse dell´amministrazione ecclesiastica erano vuote a causa degli ingenti debiti,
ereditati anche dal governo precedente, ed incombevano difficoltà organizzative di ogni genere. Per
riscattare la zona di Riva del Garda, inoltre, lui stesso dovette sostenere un sacrificio economico non
indifferente. Ad un certo momento, fu costretto ad adottare quell´espediente cui abitualmente ricorrono i
governanti che vengono alle prese con questo tipo di difficoltà: si tratta dell´inasprimento delle misure
tributarie, in seguito al quale, naturalmente, egli perse pressoché tutta la popolarità che aveva conseguito ai
suoi esordi.
La rivolta contadina contro la Chiesa: un nuovo interlocutore nel quadro politico del principato di Trento
Giorgio di Lichtenstein, ritenendo gli uomini del proprio paese i più adatti a svolgere incarichi di fiducia,
affidò gli uffici di esattore a funzionari che provenivano dalla Moravia, come aveva fatto una cinquantina d
´anni prima Nicolò da Brno. Una scelta che gli costerà cara, sia perché la popolazione trentina non era
disposta ad accettare questa intromissione nelle faccende amministrative da parte di pubblici ufficiali
forestieri, con i quali si veniva creando un vero e proprio scontro culturale e sociale, sia perché questi
avevano finito con l´approfittare della fiducia loro concessa, commettendo frequentemente gravi abusi.
La prima conseguenza di questo malcontento diffuso fu la rivolta del 1407, che ebbe come protagoniste le
popolazioni della Val di Non e i cittadini di Trento, nonché quella degli abitanti della Valle del Noce. I
ribelli diedero assalto ai castelli di Tuenno, di Altaguardia, di Sant´Ippolito e diverse persone persero la
vita. Queste insurrezioni, del resto, erano demagogicamente fomentate da colui che per tutta l´esistenza
diventò il più accanito avversario di Giorgio, il duca del Tirolo Federico, detto «Tascavuota». In un primo
momento il vescovo riuscì a placare gli animi, riacquistando in qualche modo il favore delle masse
popolari, anche di quelle che erano state esecutrici materiali delle sommosse, ed ottenne dai sindaci del
Comuni di valle un giuramento di fedeltà e di alleanza verso la Chiesa che sembrava poter garantire l´avvio
di un periodo di maggiore tranquillità.
Tuttavia, per riportare la calma, Giorgio di Lichtenstein aveva dovuto sacrificare alcune della prerogative
sulle quali la sua piena autorità si era fondata sino a quel momento. Era stato infatti costretto a concedere
alle municipalità molti dei privilegi sui quali si reggevano i locali statuti, oltre a consentire l´istituzione di
un Consiglio di «sapienti e anziani» con il compito di controllare l´operato del vicario vescovile e dei suoi
funzionari. Le garanzie che facevano parte integrante della carta degli editti e delle provvisioni sottoscritta
il 28 febbraio 1407 e che erano state elargite dal vescovo non si limitavano inoltre, ad una mera conferma di
diritti già esercitati. Fu creata anche una specifica figura di «magister civium», comunemente chiamato
«capitano del popolo», al quale avrebbe fatto capo la funzione di massimo garante dei diritti dei cittadini; il
capitano veniva così ad assumere un ruolo di intermediazione fra la comunità locale e al contempo
esercitava l´ufficio di comandante di una guardia civica, istituita con finalità sia giurisdizionali che di
ordine pubblico. Questa carica venne affidata a Roberto Belenzani, che diventò il personaggio carismatico
di un progetto politico che avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei riformatori, condurre alla formazione di una
repubblica tridentina, capace progressivamente di affrancarsi dalle limitazioni imposte dall´esercizio del
potere vescovile e di costituire un esempio anticipatore e sui generis di stato nazionale.
I fermenti indipendentisti che animavano la municipalità tridentina rappresentavano ormai la maturazione
di quel processo di emancipazione delle realtà comunali, che era venuto evolvendosi sotto l´aspetto
economico e politico durante questa fase conclusiva del medioevo e si stava ulteriormente arricchendo di
nuovi contenuti. Questi fervori avevano risentito anche della diffusione delle idee riformistiche che si
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rifacevano al pensiero espresso settant´anni prima da John Wycliff e che stavano scuotendo le popolazioni
mitteleuropee proprio in questi anni iniziali del XV secolo, con lo spirare dei nuovi venti innovatori dalla
Boemia, dove Jan Hus e i suoi seguaci stavano dando vita a un dibattito destinato ad avere implicazioni
religiose, sociali e politiche di grande peso.
L´azione di forza del duca Federico e l´esilio del vescovo
Nondimeno il duca Federico, bramoso di conseguire il pieno consenso della popolazione e un controllo più
capillare anche sui territori limitrofi al ducato del Tirolo, attaccò il vescovo in maniera molto energica. Lo
aiutò, peraltro, un particolare evento: si era sparsa la voce che il vescovo avesse chiesto l´aiuto delle milizie
del capitano di ventura Ottobon da Parma, con lo scopo di allontanare definitivamente il pericoloso
antagonista. Non è stato appurato con certezza se si trattasse di una diceria, ma non si esclude che la notizia
potesse essere stata sparsa in modo calunnioso dagli stessi vassalli del duca Federico. In ogni caso, questi
ruppe gli indugi, e giustificandosi con la necessità di anticipare l´attacco di questi presunti nuovi alleati del
potere vescovile, colse il pretesto per catture il presule e farlo rinchiudere come prigioniero prima nella
torre Vanga, poi nel castello del Buonconsiglio. Poco prima dell´arresto, il vescovo si era tra l´altro
fermamente rifiutato di cedere il Castello del Buonconsiglio al suo rivale.
Durante questa sua permanenza in prigione, le agitazioni si diffusero in tutto il principato e in queste
turbolenze si inserì anche il capitano e referendario del popolo Rodolfo Belenzani, con il quale Giorgio di
Lichtenstein era entrato da qualche tempo in contrasto. Belenzani si era mosso fino a quel momento in
modo forse equivoco, cercando di tessere una rete di relazioni diplomatiche con il duca Federico. Certo,
così facendo puntava a guadagnare tempo con l´obbiettivo di volgere la situazione a proprio vantaggio, e in
particolare a favore della categoria che rappresentava e che lo aveva designato a ricoprire la carica di
capitano. Dal momento in cui il duca ricorse all´uso della forza per occupare la città di Trento e scacciare il
vescovo, assumendone l´esercizio del potere temporale, Rodolfo Belenzani comunque comprese non solo di
non poter più venire a patti con colui che aveva ritenuto un interlocutore fondamentale, ma anzi di avere di
fronte un nuovo nemico. In breve, le prevaricazioni dei luogotenenti di Federico, in città e nelle località di
valle, si fecero così intense da divenire insopportabili. Belenzani cercò di ottenere l´appoggio della
Repubblica di Venezia, che sembrava l´alleato migliore sia per le affinità di concezione politica, sia perché
essa già esercitava un forte controllo su due zone importanti del territorio trentino, la Valsugana e la Val
Lagarina, e poteva in tal modo garantire la presenza di un solido avamposto. Tuttavia i veneziani non se la
sentivano di impegnarsi in un conflitto che li avrebbe contrapposti alla potenza tirolese e all´autorità del
vescovo contemporaneamente. Anzi, Venezia deciderà in seguito di concedere i suoi favori al più potente
duca Federico.
Gli uomini di quest´ultimo tentarono di occupare, ma senza esito, anche i castelli di Tenno e Riva. Lo stato
di prigionia cui fu costretto Giorgio di Lichtenstein continuerà ancora a Brunico, prima di potersi recare a
Vienna a trascorrere un periodo di esilio e di riflessione, provvisoriamente al riparo degli avvenimenti che
tormentavano la sua diocesi.
Disinganni e speranze del ceto municipale trentino dopo l´esperienza della ribellione
Nel luglio del 1409, mentre il vescovo era ancora in Austria, Belenzani riuscì a liberare la città di Trento
servendosi unicamente delle proprie milizie, ma perse la vita nella battaglia con Enrico di Rottenburg,
signore di Caldaro. Una tradizione che faceva capo alla causa asburgica e che mirava perciò a serbare nei
cittadini il sentimento di fedeltà ai rappresentanti del potere sovrano, contribuì nel corso dei secoli alla
diffusione di un´ informazione storica errata e fuorviante, come quella che il referendario del popolo fosse
stato catturato dalle autorità e punito esemplarmente con la pena capitale. Col tempo, tuttavia, la verità
relativa all´autentica versione della sua morte è venuta alla luce, fino a rappresentare più avanti, in
particolare per la corrente irredentista, un evento glorioso, che ha contribuito ad animare in quest´ultima il
senso di identificazione storico – culturale con il personaggio con i suoi ideali.
La scomparsa di Rodolfo Belenzani faceva calare per molto tempo il sipario sui sogni di libertà dei cittadini
trentini, profondamente amareggiati per l´indifferenza mostrata nei confronti delle loro ispirazioni dalla
Repubblica di Venezia e tornati a rivestire prevalentemente i panni dei sudditi. Nondimeno, gli impegni
assunti dal vescovo Giorgio di Lichtenstein con la carta del 1407 rimasero, e il Consiglio dei sapienti e
degli anziani continuò ad esistere e ad esercitare un´azione mirante a cercare di arginare il più possibile il
potere vescovile, seppur con risultati alquanto esigui e in ogni caso disponendo di una forza alquanto
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limitata; tanto da trovarsi costretto in più circostanze, talora ad investire la persona del duca del Tirolo per
ottenere aiuti concreti nelle sue rimostranze contro il vescovo, talora ad opporsi anche al peso della casata
tirolese allorché questa finiva col l´opprimerne eccessivamente le prerogative e l´ambito d´azione. Questa
terza forza politica, che dai tempi di Giorgio di Lichtenstein si pose come alternativa alle due principali del
duca del Tirolo e del vescovo, fu costretta dalle circostanze a volte a conservare una posizione di ambiguità,
ma rappresentò il nucleo attorno al quale si venne formando, durante il secolo successivo, la maturazione
della classe media trentina.
Le ambizioni degli strati sociali meno altolocati ad emanciparsi da un governo fortemente accentrato come
quello del principe – vescovo conosceranno una nuova e veemente impennata dopo più di un secolo, con il
divampare dei moti contadini del 1525; ma anche questo tentativo non raggiunse gli obbiettivi prefissati,
anzi verrà a rafforzare la portata del potere centrale. Evidentemente, i destini della popolazioni trentina
andavano in tutt´altra direzione.
L´aggravarsi dei contrasti col duca e la solidarietà nei confronti del vescovo espressa al Concilio di
Costanza
Con la scomparsa del Belenzani uscì di scena uno degli avversari più insidiosi del vescovo, che poté far
ritorno da Vienna. Federico tuttavia non cessò di perseguitarlo e mise in serio pericolo la vita del presule
trentino, il quale vide nel castello di Nikolsburg, sua terra natale in Moravia, il luogo più sicuro per
rifugiarsi dalle insidie del suo persecutore. Qui infatti decise di trasferirsi verso l´inizio del 1410, e da
Nikolsburg lanciò la scomunica nei confronti del duca tirolese, unitamente all´interdetto nei confronti di
tutte le chiese della diocesi trentina. Il clima ormai era diventato pesantissimo. Contemporaneamente egli
mantenne i contatti con i suoi vassalli nel principato, invitandoli a resistere e a non accettare compromessi
né feudi di alcun tipo dal duca. Ricorse anche alla protezione del papa e dell´imperatore Sigismondo, che lo
nominò principe della sua corte e consigliere; ma questo non intimorì affatto Federico, che nel 1412 irruppe
in Valsugana mettendola a ferro e fuoco, impadronendosi di Castel Ivano.
Nel 1414 il vescovo di Trento partecipò da esule al Concilio di Costanza, sede che la Chiesa aveva scelto
per ricomporre il grande scisma di quei tempi, divampato in seguito alla ribellione dei cardinali avignonesi
e dovuto altresì alla strumentalizzazione delle teorie di Guglielmo d´Occam e di Marsilio da Padova sul
rapporto fra il potere del papa e quello dei vescovi in concilio. L´adunanza diventò la più grande assise
cristiana dopo il concilio ecumenico di Nicea del 325, e in questa occasione Giorgio di Lichtenstein fece
presente anche la drammaticità della situazione all´interno della sua diocesi, rivolgendosi ai padri conciliari
per ottenere da loro un sostegno concreto. Questi espressero senza indugio la loro solidarietà e
condannarono l´operato di Federico, scagliando contro di lui un nuovo solenne interdetto ed obbligandolo a
restituire ogni feudo, città, castello, villa o diritto che avesse usurpato al vescovo Giorgio. Nonostante le
difficoltà che ancora misero alla prova la Chiesa trentina, questa sentenza del concilio di Costanza
rappresentò un momento importante per il risollevamento sia delle sorti della diocesi di Trento che di quella
di Bressanone (anch´essa fortemente minacciata dal Tascavuota), ed ebbe una notevole portata nel
condizionare lo svolgersi degli avvenimenti successivi.
La malattia e la morte di Giorgio di Lichtenstein. L´importanza del manoscritto con la cronotassi dei pastori
della Chiesa trentina
La solennità del provvedimento tuttavia non creò il minimo turbamento nell´animo di Federico, che colse l
´occasione per causare nuovi dispiaceri al vescovo. Non senza il tacito consenso dell´imperatore
Sigismondo, col quale era riuscito tramite un´astuta azione diplomatica a migliorare i rapporti, il duca del
Tirolo catturò nuovamente Giorgio di Lichtenstein non appena questi riuscì a ritornare in Trento, e lo
rinchiuse nel castello di Spor. Questa nuova triste esperienza lasciò purtroppo un segno indelebile sulla
salute del presule, che cadde malato e non riuscì più a riaversi. Morì infatti di lì a poco, il 20 agosto 1419,
pare addirittura avvelenato, nel maniero presso il quale era stato relegato a forza. Il suo corpo fu tumulato
nella cattedrale di San Vigilio, sul lato sinistro dell´altare di Santa Massenza. Trascorse tutto il suo
episcopato nel tentativo di arginare le prepotenze dei più forti, tra guerre, lunghi momenti trascorsi in
prigione e in esilio lontano dalla propria Chiesa.
Al periodo del vescovo Giorgio di Lichtenstein è stato fatto risalire un manoscritto a pergamena sul quale
risultano riportate le costituzioni dei sinodi della Chiesa trentina nel secolo precedente, in particolare di
quello tenutosi sotto Enrico di Metz nel 1336. Questo documento è ricavato interamente dal Dittico
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Udalriciano, del quale riporta alquanto fedelmente le varie annotazioni. Si tratta di una testimonianza
importante in merito all´argomento della successione dei vescovi, giacché rappresenta un´ulteriore
conferma della credibilità del Dittico e costituisce il trait d´union fra questo e i posteriori tentativi di
ricostruire la sequenza dei vescovadi. Il vescovo umanista Giovanni Hinderbach se ne servì in più occasioni
nei suoi eruditi approfondimenti.
La città, il territorio, i comuni rurali
La storiografia trentina, soprattutto quella del XIX secolo, ha a lungo ritenuto che l’evoluzione istituzionale
della città di Trento sia stata omogenea a quella delle città dell’Italia centro-settentrionale. Anche a Trento
vi sarebbero dunque state, nel corso del XII secolo, forme di governo e magistrature di tipo comunale, che i
vescovi avrebbero duramente osteggiato. Le ricerche più recenti hanno dovuto constatare come le tracce di
tale evoluzione siano oggettivamente poche e siano state in passato sopravvalutate. Gli interventi degli
imperatori Federico I (1182) e Enrico VI (1191) a sostegno dell’autorità dei vescovi e contro le libertà
cittadine sembrano più che altro di carattere preventivo e generale, e privi di effettivo riferimento alla realtà
locale. Qualche traccia di «consoli» o di altre magistrature di tipo comunale affiora qua e là nella
documentazione, ma le denominazioni rimasero oscillanti almeno fino al secolo XV, e le corrispondenti
competenze furono a lungo molto limitate. Trento nel medioevo è infatti una città di piccole dimensioni, in
cui il vescovo è il punto di riferimento di ogni iniziativa politica, sia che lo si sostenga, sia che ci si
opponga a lui; il fatto di trovarla abitata tanto da feudatari imborghesiti quanto da borghesi infeudati spiega
perché non si sviluppi mai quella polarità tra città e contado, tra chi sta ‘dentro’ e chi sta ‘fuori’, tipica delle
città italiane. Quando poi il potere vescovile declina, Trento – così come il resto del principato vescovile –
sente l’attrazione del potente vicino tirolese, che ne garantisce il ruolo di città mercantile, e a lui chiede
appoggio e legittimazione. Rappresentanti della città parteciparono regolarmente, a partire dal XV secolo,
alle sedute del parlamento (Landtag) di Innsbruck. Le vicende degli statuti cittadini rispecchiano questa
situazione: essi risultano scritti non autonomamente, ma in coordinamento con il vescovo. Per quanto è
probabile che singoli testi di legge siano stati elaborati già nel XIII secolo, la prima redazione completa
risale all’inizio del Trecento. Gli statuti vennero poi risistemati ed ampliati con Nicolò da Brno tra il 1340 e
il 1343. Un notevole passo avanti vi fu in seguito alla rivolta del 1407: la carta di diritti rilasciata dal
vescovo Giorgio Liechtenstein permetteva infatti l’elezione di un gruppo di consoli (in seguito sarebbero
stati sette), che avevano competenza in tutti gli affari riguardanti la città e il diritto di interferire sulla
nomina e sull’attività del vicario vescovile, il quale era il giudice di prima istanza. A capo
dell’amministrazione e della milizia cittadina era però il referendarius, o magister civium, una sorta di
capitano del popolo che finiva con l’essere il vero padrone della città; tale carica fu l’unica innovazione ad
essere abrogata dopo la sconfitta del Belenzani. Una nuova redazione degli statuti, approfondita e molto
ampia, che teneva conto delle innovazioni del 1407, si deve al vescovo Alessandro di Masovia (1427); vi
furono poi integrazioni da parte del vescovo Udalrico Frundsberg (1491) ed infine una completa riscrittura
da parte di Bernardo Cles (1528). Va detto peraltro che il pieno diritto di cittadinanza, che permetteva la
partecipazione alla vita politica, era concesso solo a chi avesse una certa disponibilità patrimoniale, ed era
quindi riservato ad un numero molto limitato di persone. All’interno della contea di Trento, dal punto di
vista dell’amministrazione della giustizia civile e penale, esistevano le grandi circoscrizioni di Trento, delle
Valli di Non e di Sole e delle Giudicarie. Nel corso dei secoli XIII e XIV queste furono frazionate in
svariate giurisdizioni minori, nelle quali l’autorità pubblica di esercitare la giustizia era demandata,
completamente o in parte, a funzionari o famiglie nobili. Talvolta si trattava di territori che in origine erano
stati possessi immunitari dei conti di Flavon o dei conti di Appiano (poi finiti ai Tirolo); talvolta si trattava
delle aree prossime ad un castello. Se in molti casi l’esercizio della giurisdizione si rifaceva ad una
concessione da parte di questo o quel vescovo, non di rado si trattava di vere e proprie usurpazioni,
legittimate a posteriori da investiture vescovili o tirolesi. La genesi dei comuni rurali è discussa: è possibile
che tale forma organizzativa si sia sviluppata a partire dalla comunanza di strutture difensive all’interno di
uno stesso circondario (castelli comunitari o di pieve); altri danno invece maggiore importanza alla gestione
comune di diritti quali l’uso del pascolo e del bosco. In linea teorica si possono distinguere due categorie: le
comunità composte di liberi contadini e le comunità miste, composte da liberi e da sudditi di un signore.
Nel primo gruppo (al quale appartenevano Fiemme, Rendena, Riva, Nago, Ledro) i trattati che regolavano i
rapporti con l’episcopato avevano l’aspetto di accordi bilaterali volti a regolare l’esercizio della
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giurisdizione e l’azione fiscale; alle singole comunità era riconosciuta un’ampia autonomia e l’esenzione da
determinati oneri in cambio di un giuramento di fedeltà e di prestazioni, in natura o in denaro (sono famosi i
«patti gebardini», con i quali il vescovo Gebardo, nel 1111, riconobbe i diritti della comunità di Fiemme; va
poi ricordato lo statuto di Riva del 1274). Alla seconda categoria appartenevano invece le numerosissime
comunità che a partire dal XIII secolo si dotarono di carte di regola (la più antica è quella di Civezzano, del
1202) per la gestione del patrimonio comune e la polizia urbana, senza entrare invece nel merito di
questioni di diritto civile o penale.
Nella cartina: Assetto territoriale del principato vescovile di Trento tra il XVI e il XVIII secolo (da:
BELLABARBA, Il principato vescovile di Trento dagli inizi del XVI secolo alla guerra dei Trent’anni, pag. 17).
Dalle seconde "compattate" del 1454 al libello territoriale del 1511: la sovranità dei vescovi nel quadro del
legame col Tirolo
Con Giorgio Hack (1446-1465) un vescovo fedelissimo al potere tirolese tornava ad insediarsi sulla cattedra
di san Vigilio. Ma dai tempi di Alberto di Ortenburg molte cose erano cambiate. Nei primi decenni del
Quattrocento la politica aggressiva di Federico IV aveva fatto sua la Bassa Valsugana (1412-1414), che si
aggiungeva al Primiero (tirolese già dal 1373). Il fronte meridionale non vedeva più la presenza di piccole ed
irrequiete dominazioni di carattere locale, ma l’espansione della Repubblica di Venezia, che incamerando
l’eredità dei Castelbarco aveva occupato Ala, Avio e Brentonico (1411), Rovereto (1416), Ledro (1426),
quindi il resto della Vallagarina, Nago, Torbole e Riva (1439-1440). Il principato vescovile trentino era
sempre di più uno stato-cuscinetto tra la contea tirolese e la Serenissima, e in questo scontro sembrava
destinato a dissolversi. In tale contesto l’Hack firmò, nel 1454, le nuove compattate. La loro formulazione
era meno umiliante rispetto a quella del 1363: esse apparivano infatti, almeno formalmente, un trattato
bilaterale su base paritaria. La contropartita della protezione era un’alleanza militare che non poteva più
essere rescissa. Le compattate del 1454 fissarono i rapporti istituzionali tra il principato vescovile di Trento e
la contea del Tirolo in una forma rimasta sostanzialmente immutata nei secoli successivi.
L’Hack ebbe modo più volte di dimostrare la sua subordinazione al potere tirolese, come quando cedette a
Sigismondo la giurisdizione di Bolzano, o quando sostenne il conte contro il vescovo di Bressanone Nicolò
Cusano fino a rischiare la scomunica. Nel 1463 dovette fuggire dalla città di fronte a una rivolta in qualche
aspetto simile a quella che avevano dovuto subire i suoi predecessori: veniva accusato infatti di aver affidato
le cariche di governo ai suoi compatrioti e parenti slesiani. Ancora una volta fu il duca d’Austria e conte del
Tirolo Sigismondo a vedersi riconosciuto un ruolo decisivo: a lui il vescovo affidò l’amministrazione del
territorio, e per suo tramite vennero condotte le trattative con la cittadinanza. Il vescovo morì in esilio nel
1465.
Il capitolo elesse quindi il successore nella persona di Giovanni Hinderbach (1465-1485), già segretario
dell’imperatore Federico III. Sigismondo gli restituì il potere temporale solo dopo la firma delle compattate,
nel 1468. Le relazioni tra Trento e il Tirolo continuarono ad essere buone, anche se il nuovo vescovo si
dimostrò meno servile del suo predecessore. Era un appassionato di storia ed agiografia e sostenne varie
iniziative culturali (tra le quali la biblioteca vescovile), tanto che è stato qualificato con l’appellativo di
vescovo «umanista». Lottò per difendere il proprio diritto di nomina del clero rispetto alle intromissioni del
governo austro-tirolese e rese sistematico il controllo dei documenti che certificavano la regolarità delle
ordinazioni sacre. Durante il suo episcopato l’imperatore e il duca d’Austria ottennero da papa Sisto IV una
bolla con la quale si stabiliva che almeno due terzi dei canonici di Trento dovessero provenire dai territori
dell’Impero, da quelli della casa d’Austria o dalla cerchia dei parenti e dei collaboratori del vescovo (20
aprile 1474). La misura, peraltro mai rigidamente applicata, era volta ad impedire l’elezione di un vescovo
ostile agli equilibri politici faticosamente raggiunti.
L’episcopato dell’Hinderbach è tristemente noto anche per la vicenda che nel corso del 1475 portò alla
distruzione della piccola comunità ebraica di Trento. I suoi capi furono infatti accusati della morte di un
bimbo (Simone Unverdorben), vennero quindi arrestati ed infine giustiziati dopo aver confessato, sotto le
torture, un orrendo omicidio rituale. Il contesto non era differente da quello di altre città italiane e tedesche
nelle quali si svolsero processi contro ebrei, specie nel contesto della predicazione contro l’usura; ciò che
rese particolarmente noto il caso trentino fu l’esistenza delle deposizioni estorte agli imputati, che a lungo
furono considerate prova della veridicità della ricostruzione degli avvenimenti. «San Simonino» divenne
oggetto di venerazione e ben presto gli vennero attribuiti dei miracoli; nonostante le forti perplessità da parte
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papale, iniziò in
questo modo un culto
destinato a spegnersi
solo in questo secolo,
e
a
venir
ufficialmente
abrogato nel 1965.
Nel 1992, nei pressi
del luogo in cui era
stato trovato il corpo
del Simonino (oggi
vicolo dell’Adige), è
stata posta una lapide
che riconosce l’errore
compiuto nei riguardi
degli ebrei, in quella
che rimane una delle
pagine più tristi della
storia trentina.
Giovanni Hinderbach
morì a Trento il 21
settembre
1486.
Come suo successore
il capitolo scelse
Udalrico Frundsberg
(1486-1493),
un
nobile tirolese che
faticò non poco per
ottenere la conferma,
in
quanto
l’imperatore Federico
III,
che
aveva
ricevuto dal papa il
diritto di nominare
alcuni vescovi, gli
aveva opposto un
altro candidato. Il
Frundsberg celebrò
nel 1489 un sinodo
diocesano e promosse
una visita pastorale
nell’area atesina: lo
scopo era quello di
migliorare la qualità
del clero e di indurlo
ad una condotta moralmente più degna.
In quegli anni accaddero due fatti che avrebbero influenzato, e non poco, il futuro della regione.
Il 10 agosto 1487, a Calliano, le truppe della Repubblica di Venezia guidate dal capitano di ventura Roberto
da Sanseverino vennero pesantemente sconfitte dai tedeschi e dai trentini alleati. Per quanto l’episodio
militare non abbia avuto conseguenze politiche immediate, segnò il punto d’arresto dell’espansione
veneziana nella valle dell’Adige; nel secondo decennio del XVI secolo la Serenissima avrebbe dovuto anzi
ritirarsi dalla Vallagarina e dall’Alto Garda, territori poi poco alla volta restituiti dall’imperatore ai principi
vescovi.
Il 16 marzo 1490 il conte del Tirolo e arciduca d’Austria Sigismondo abdicò in favore del re di Germania
Massimiliano d’Asburgo: la contea del Tirolo e il principato vescovile di Trento furono dunque uniti
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dinasticamente al regno di Germania e – qualche anno dopo – all’Impero. Venivano così a cadere i motivi di
attrito tra Trento ed Innsbruck: il fatto che le cariche di imperatore, arciduca d’Austria e conte del Tirolo
fossero congiunte nella stessa persona era una garanzia per la sovranità del vescovo, non essendovi più alcun
nobile tirolese o austriaco interessato ad annettersi il suo territorio. Anzi, nell’ottica degli imperatori, la
stabilità degli Stati ecclesiastici era un valore da salvaguardare per non compromettere l’assetto dell’intera
compagine imperiale.
Successore di Udalrico Frundsberg fu Udalrico Liechtenstein (1493-1505), appartenente ad una famiglia che
prendeva il nome da un castello posto presso Bolzano. Anch’egli ebbe difficoltà nell’ottenere la conferma,
tanto che poté fare il suo ingresso ufficiale in sede solo nel 1497; al pari del suo predecessore convocò un
sinodo ed emanò delle costituzioni. Nel 1502 scelse come coadiutore Giorgio Neideck, un nobile austriaco
figlio del capitano di Castel Pergine, che gli succedette nel 1505 e proseguì nell’attività sinodale volta
soprattutto al miglioramento dei costumi del clero. Durante il suo periodo di governo si accese la guerra tra
l’imperatore Massimiliano d’Asburgo e la Repubblica di Venezia (1508-1516). In quel contesto
Massimiliano (in quanto imperatore e in quanto conte del Tirolo), i rappresentanti dei quattro «stati» della
dieta tirolese (nobili, prelati, città, contadini) e i due vescovi di Trento e di Bressanone si accordarono per
quanto riguardava gli obblighi reciproci in caso di guerra. Ne nacque una nuova convenzione, il «Libello
territoriale» (Landlibell) del 24 giugno 1511, nel quale tra l’altro venne stabilito che i due episcopati di
Trento e di Bressanone, in caso di conflitto, non avrebbero dovuto versare i contributi finanziari all’Impero,
ma solo alla contea tirolese. La decisione intendeva esentare i due vescovi da doppie contribuzioni, ma di
fatto finiva col rinsaldare ulteriormente i vincoli di confederazione tra Trento e il Tirolo. Il contesto, come si
è detto, era tale da garantire comunque la sovranità dei principati ecclesiastici, ma il nuovo vincolo di
carattere fiscale avrebbe in futuro messo in discussione la dipendenza diretta dall’Impero del principato
vescovile trentino, che si sarebbe trovato in qualche misura sottomesso al Tirolo non solo di fatto, ma anche
di diritto.
Ma tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento tale rischio non era percepito come reale:
anzi, si era in qualche modo ritornati alla situazione dei secoli XI-XII, quando i vescovi assumevano cariche
ai vertici dell’Impero e avevano un ruolo politico di livello internazionale. Udalrico Lichtenstein operò come
ambasciatore del re di Germania; Giorgio Neideck fu comandante delle truppe imperiali e a lungo
luogotenente di Massimiliano a Verona. Morì nella città veneta il 5 giugno 1514.
Massimiliano I d’Asburgo
Nacque a Wiener Neustadt il 22 marzo 1459. Conte del Tirolo (ceduto da Sigismondo d’Austria), arciduca
d’Austria diede inizio al periodo di massima espansione degli Asburgo. Massimiliano si propose di
trasformare l’agglomerato feudale dei paesi ereditari austriaci in un insieme di strutture statuali
centralizzate. Figlio dell'imperatore Federico III nel 1486 cinse la corona di re di Roma e, nel 1508, a
trento, quella di "imperatore romano". Nel 1511 firmò il Landlibell, un patto di confederazione perpetua dei
principati vescovili di Trento e Bressanone con la contea del Tirolo. La politica autoritaria e centralizzatrice
di Massimiliano suscitò il malcontento, aggravato anche dall’aggravarsi del dissesto economico generale,
poiché la guerra condotta contro Venezia (1508 al 1516) insieme ai saccheggi e alle devastazioni aveva
chiuso definitivamente la via commerciale atesina. Massimiliano morì nel 1519, dopo il figlio Filippo I;
lasciò eredi i nipoti Carlo V e Ferdinando I. Morì a Wels il primo gennaio 1519.
Il «Libello dell´11» e il consolidamento del potere vescovile
Il 24 giugno del 1511 venne stipulato fra l´imperatore Massimiliano (in qualità di conte del Tirolo e
pertanto di detentore dei feudi delle Chiese di Trento e di Bressanone) e i due principati ecclesiastici di
Trento e di Bressanone, una convenzione che si rivelò di importanza strategica decisiva per la storia del
vescovado di Trento nel ‘500 e che alcuni storici hanno interpretato come l´atto che diede origine ad una
vera e propria confederazione.
In questo documento si ufficializzava il fatto che i due vescovi di Trento e di Bressanone sarebbero stati
assoggettati, oltre che all´autorità della Santa Sede, anche a quella dell´imperatore. Il trattato, chiamato
«libello dell´11» ovvero «Landlibell», articolato in 59 capitoli, stabiliva le condizioni alle quali le parti
sottoscriventi avrebbero dovuto attenersi in caso di aiuto militare reciproco. Da una parte Massimiliano
prometteva, per sé stesso e per i propri successori, di non dare avvio ad alcuna operazione bellica che
coinvolgesse i territori di Trento e di Bressanone senza il parere favorevole delle due autorità vescovili. Le
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due parti si impegnavano altresì a fornirsi aiuto militare reciproco in caso di necessità. Nel caso in cui il
vescovo mettesse quindi le sue truppe a disposizione dell´imperatore, queste avrebbero marciato sotto la
bandiera vescovile e sarebbero state considerate autonome rispetto al resto dell´esercito. Questa condizione,
che rafforzò la sovranità militare del vescovo, rappresentò uno dei presupposti necessari per la designazione
di Trento a sede dell´imminente Concilio.
Il «Landibell» stabilì anche il versamento, da parte dei due principati, di alcuni contributi e di una tassa
speciale per provvedere alle spese di vettovagliamento dell´esercito, anche se l´imperatore Massimiliano
dichiarò che avrebbe presto esonerato Trento e Bressanone dall´obbligo di versare tali contribuzioni.
Tuttavia, soltanto nel 1548 con la dieta di Augusta, in virtù di un impegno personale da parte dell
´imperatore Ferdinando I che avocò a sé le spese relative ai contributi militari dei due principati, i vescovi
di Trento e di Bressanone vennero esentati da questa forma di partecipazione, che gravava in maniera non
indifferente sulle finanze di entrambe le autorità.
Si può dire, quindi, che il trattato del 1511 consegnò ai successori di Giorgio Neideck un principato
vescovile dotato di una sovranità davvero irrobustita. Esso rappresentò una premessa necessaria per
consentire la traduzione sul piano pratico delle politiche ecclesiali di due vescovi autorevoli come Bernardo
Clesio e Cristoforo Madruzzo.
Bernardo Cles, il "secondo fondatore" del principato vescovile
Negli anni in cui il monaco agostiniano Martin Lutero diffondeva le sue tesi, fortemente critiche nei riguardi
del modo in cui la Chiesa romana faceva commercio delle indulgenze, l’episcopato trentino era governato
dal giovane Bernardo Cles (1514-1539). Questi era nato l’11 marzo 1485 da una nobile famiglia che in
passato aveva fatto parte della ministerialità vescovile ma che dal XV secolo, come tante altre, si era legata
alla dinastia degli Asburgo; suo padre era stato consigliere di corte del governo austriaco. Dato che in quel
momento la via per il potere non era più il mestiere delle armi, ma la competenza nel funzionamento della
macchina dello Stato, egli seguì l’esempio di tanti nobili suoi contemporanei e studiò a Verona e a Bologna,
ottenendo il titolo di dottore in diritto canonico e civile. Nel 1512 divenne canonico della cattedrale di Trento
e collaborò con il vescovo Giorgio Neideck; alla morte di quest’ultimo, nel 1514, il capitolo della cattedrale
lo elesse vescovo.
Il giovane prelato, dati i suoi stretti legami con la corte imperiale, subordinò fin dall’inizio i propri compiti
pastorali a quelli di carattere politico. Fino al 1517 Bernardo fu governatore di Verona per l’imperatore
Massimiliano I; alla morte di quest’ultimo venne chiamato a far parte della reggenza che preparò il passaggio
del potere a suo nipote Carlo V. Fu presente all’incoronazione di quest’ultimo, a Worms, nel 1519. La sua
abilità diplomatica venne apprezzata soprattutto da Ferdinando I, fratello dell’imperatore e governatore delle
province germaniche, che lo volle suo cancelliere. Erano gli anni della crisi luterana e il Cles, pur avversario
dei riformatori, manteneva buoni rapporti con esponenti del campo avverso. Si muoveva su tutto lo
scacchiere europeo, intrecciando contatti con papi, governanti ed intellettuali come Erasmo da Rotterdam. A
partire dal 1526 venne insediato al vertice dell’amministrazione austriaca, divenendo presidente del
Consiglio Segreto di Ferdinando, per il quale curava soprattutto la politica estera. Nel 1530 il papa lo fece
cardinale.
Con gli anni trenta il suo prestigio alla corte di Vienna cominciò però a declinare: nei confronti della riforma
protestante egli, che era stato dapprima un paziente negoziatore, tendeva a posizioni via via più intransigenti,
mentre Ferdinando era incline a sposare tesi più tolleranti. Diede più volte le dimissioni e chiese di poter
tornare nella propria diocesi, ma senza esito. Avvicinandosi la morte di papa Clemente VII, il nome del Cles
cominciò a circolare come quello del possibile nuovo pontefice: ma il progetto sfumò e nel 1534 venne
invece eletto Alessandro Farnese (Paolo III). Il Cles, comunque, non si ritirò dalla ‘grande politica’ e venne
anzi posto dal nuovo papa tra gli otto cardinali incaricati di elaborare la bolla di convocazione del concilio
universale che avrebbe dovuto dirimere le questioni religiose. Egli era peraltro convinto che solo la vittoria
delle truppe cattoliche su quelle protestanti avrebbe permesso tale convocazione.
Gli incarichi politici tenevano spesso il Cles lontano da Trento, ed il suo profilo appare nel complesso simile,
più che a quello di un vescovo, a quello di un principe rinascimentale. In quanto tale volle far ampliare la
residenza vescovile costruendo, accanto al Castello del Buonconsiglio, il «Magno Palazzo», decorato dagli
affreschi del Romanino; si impegnò per il rinnovamento delle strutture architettoniche della città, rettificando
le strade e ricostruendo in pietra le parti delle case che fino ad allora erano di legno; avviò le fabbriche delle
chiese di Santa Maria Maggiore e di Civezzano; fece riadattare i castelli di Stenico, Tenno, Selva e la rocca
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di Riva. Fu anche attento difensore di quanto rimaneva della sovranità del suo principato: recuperò Riva
(1521) e i Quattro Vicariati in Vallagarina (1532); Rovereto rimase sotto controllo tirolese, ma venne
riconosciuta la supremazia feudale trentina; nel 1531 il Cles permutò i residui diritti vescovili su Bolzano
con la giurisdizione di Pergine. Da Ferdinando ottenne anche la restituzione dell’archivio vescovile, che
Federico IV aveva trafugato all’inizio del Quattrocento: lo fece riordinare e lo usò per definire i diritti
dell’episcopato sul territorio. Nel «Codice Clesiano» raccolse la documentazione relativa alle investiture
feudali. Nel 1528 redasse nuovi statuti, completamente rinnovati rispetto ai precedenti e completi per quanto
riguardava la procedura civile e criminale e la polizia urbana: rimarranno in vigore fino al 1803. Tutta questa
attività gli fece meritare il titolo di «secondo fondatore» del principato vescovile, anche se in molti settori
egli non fece che seguire il solco già tracciato dai suoi predecessori. Gli giovò non poco la collaborazione
con le famiglie del patriziato trentino, che – diversamente rispetto al Quattrocento – trovavano proprio nella
collaborazione con il vescovo a livello di governo un mezzo di ascesa e consolidamento sociale.
Il Cles non dimenticò comunque i suoi compiti di pastore d’anime: in continuità con l’opera dei suoi
predecessori egli indisse infatti due sinodi (1515 e 1525) e due visite pastorali. Di quella del 1537-38,
lungamente preparata e condotta non personalmente ma tramite alcuni rappresentanti, ci resta un ricco
verbale. La riforma della Chiesa, nelle intenzioni del Cles, passava attraverso una tradizionale ma attenta
opera di investigazione, che partiva dalla verifica del decoro degli edifici e delle suppellettili sacre per
passare al punto centrale, ossia alla condotta del clero, e concludersi poi con una parte riguardante i laici (si
temeva soprattutto la presenza di eretici: peraltro il Trentino fu interessato dalle idee luterane solo
marginalmente, e la stessa rivolta contadina del maggio 1525, repressa nel sangue, non può essere
considerata propriamente di carattere religioso).
Il 10 agosto 1538 venne affidata al Cles anche l’amministrazione dell’episcopato di Bressanone; rinunciò
allora a tutti gli incarichi politici fino ad allora ricoperti. Il 13 luglio 1539 entrò nella nuova sede, portando
con sé grandi progetti di riforma politica ed ecclesiastica. Morì però il 30 dello stesso mese, per una malattia
diagnosticata come morbus gallicus (sifilide). Aveva solo 54 anni. Venne sepolto nella cattedrale di Trento.
Si era alla vigilia del concilio, che egli aveva in qualche modo preparato consolidando la sovranità vescovile
e rendendo la città degna di ospitare un tale avvenimento. L’elezione a suo successore, avvenuta già il 5
agosto 1539, di Cristoforo Madruzzo (altro giovane esponente di una famiglia nobiliare trentina ben
introdotta presso le corti di Carlo V e Ferdinando I) garantì quella continuità di governo, nello spirituale
come nel temporale, che avrebbe reso possibile l’assise conciliare e posto Trento, per quasi un ventennio, al
centro della politica europea.
Bernardo Clesio
I natali, gli studi e la fase “laica” della sua carriera, con il governatorato di Verona
Bernardo Clesio nacque il 12 marzo 1485 nel castello di Cles. Il padre, Ildebrando, era signore di Cles e
consigliere dell'arciduca Sigismondo del Tirolo, mentre la madre, la contessa Dorotea Fuchs von
Fuchsberg, aveva le proprie origini in un eminente casato tirolese. Egli era inoltre legato da parentela con
altre famiglie molto note appartenenti alla più antica nobiltà trentina, come i Thun e gli Arsio. Il giovane
Bernardo si dispose allo studio delle conoscenze elementari, prima sotto la guida di un educatore personale
e quindi a Trento; all'età di dodici anni venne inviato a Verona per proseguire la sua istruzione, soprattutto
in retorica. A Bologna, dal 1504, frequentò la facoltà di giurisprudenza, approfondendo in modo particolare
lo studio delle leggi civili e canoniche, per laurearsi nel 1511. Dopo pochi mesi, Bernardo fu nominato
canonico arcidiacono della diocesi di Trento, e pressoché contemporaneamente membro della commissione
apostolica per lo scioglimento dei conventuali di Bolzano. Il vescovo Giorgio Neideck, che svolgeva anche
le funzioni di governatore di Massimiliano I per la città di Verona, lo scelse come suo consigliere e gli
chiese di trattenersi qualche tempo nella città scaligera. L'intervento del cardinale Giovanni de Medici, a
quei tempi delegato del papa a Bologna, gli procurò in breve anche la carica di protonotario apostolico, che
ricevette dal pontefice Leone X. Le conoscenze politiche della sua famiglia e la fama di cui già godeva
come uomo di governo e di legge gli valsero inoltre il favore dell'imperatore Massimiliano, che lo nominò
governatore del Tirolo; quest'ulteriore incarico lo costrinse a soggiornare spesso a Verona tra il 1514 e il
1517, mentre era in corso la guerra tra l'esercito imperiale e quello della repubblica di Venezia.
Il rapido iter che condusse Bernardo Clesio al vescovado di Trento
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La scomparsa di Giorgio Neideck rappresentò l'episodio che aprì al Clesio la strada per la successione al
principato vescovile di Trento: nel 1514 il Capitolo lo elesse alla massima dignità diocesana, nonostante la
tenace opposizione del decano di Trento Jacopo Banisio, il quale lamentava il fatto che la nomina fosse
avvenuta in sua assenza. La Santa Sede, che al momento dell'elezione dei vescovi precedenti non di rado si
era opposta alla titolarità del diritto di nomina da parte del Capitolo, questa volta si mostrò più
accondiscendente del consueto. Come è noto, le diatribe che si erano venute creando intorno a questo
spinoso argomento si fondavano sulla convinzione, sostenuta dal Capitolo tridentino, dall'imperatore e dal
conte del Tirolo, secondo la quale Trento appartenesse alla sovranità dei territori tedeschi e come tale
andasse soggetta alle leggi che un precedente concordato stipulato a Vienna rendeva operanti per la nomina
dei vescovi di quest'area geografica. La Sede Apostolica, invece, era del parere contrario, e riteneva che
anche per Trento valessero le stesse regole procedurali in uso nelle altre diocesi italiche, tramite le quali la
nomina del vescovo dipendeva direttamente da Roma. Fu presumibilmente con lo scopo di non trascinare
ulteriormente un annoso contraddittorio e per evitare di attirarsi le contrarietà dell'autorità imperiale che la
Santa Sede, nel 1514, nell'atto di confermare la nomina di Bernardo Clesio al vescovado, riconobbe il
diritto del Capitolo ad eleggere il presule di Trento, anche se non si esprimeva in maniera perentoria in
merito all'applicazione dei concordati germanici per il territorio trentino. Questa situazione di singolare
ambiguità si rivelò tuttavia determinante in vista dell'imminente “nuovo corso” del principato di Trento: fu
proprio grazie a questa presenza di circostanze che Trento acquistò quelle caratteristiche di “neutralità” che
le valsero la scelta delle maggiori potenze europee quale sede per il Concilio. Nonostante la recente ascesa
alla più alta carica diocesana, Bernardo Clesio rimaneva un laico, non avendo ancora preso i voti. Provvide
a questo l'anno seguente e venne consacrato vescovo di Trento, con conferma da parte di Leone X e
consegna del potere temporale da parte di Massimiliano. Il nuovo presule non aveva che 29 anni, ma
possedeva la tempra e le capacità che avrebbero fatto decollare il principato di Trento all'interno di una
delle fasi più determinanti per il corso della Chiesa universale. Può rendere l'idea del carattere deciso e fiero
di Bernardo Clesio un episodio verificatosi tra lui e il governatore imperiale di Verona, ai tempi in cui lo
stesso Clesio era solito intrattenere relazioni più abituali con tale città. Quest'ultimo aveva urgenza di
rafforzare il proprio esercito e il Clesio gli venne in aiuto fornendogli un contingente di 1000 uomini. Il
governatore tuttavia li respinse, temendo che le milizie vescovili non fossero sufficientemente preparate sul
piano militare, e preferì attendere l'arrivo di truppe imperiali tedesche. Bernardo fu così sdegnato per
l'accaduto da ritirare da Verona l'intera guarnigione con tutti i suoi effettivi, sebbene il “Landlibell” dell' ‘11
lo obbligasse a garantirne la presenza e, a prescindere comunque da tale vincolo giuridico, malgrado
l'amicizia che lo legava a Massimiliano.
L'ascesa di Bernardo Clesio sulla scena europea con le diete di Francoforte e di Worms
Questi primi anni di episcopato rappresentarono forse l'unico periodo in cui il Clesio poté stare con una
relativa continuità vicino alla propria città e ai propri sudditi, occupandosi dell'amministrazione del
principato. Lo troviamo comunque presente alla dieta provinciale di Innsbruck, quindi a Verona in qualità
di governatore imperiale, nonché alla dieta di Augusta nel 1518. Quando questa si concluse, Massimiliano
lo volle alla propria corte come consigliere imperiale. La partecipazione alle numerose diete imperiali, nelle
quali Bernardo Clesio rivestì ben presto un ruolo di primissimo piano, resta un elemento costante del suo
percorso politico, a testimonianza del favore e del prestigio di cui godeva presso i massimi dignitari
europei. Nel 1519, alla dieta di Francoforte, grazie ai cospicui prestiti forniti dai più facoltosi finanzieri
tedeschi dell'epoca, i Függer e i Welser, Carlo V d'Asburgo poté comprare i voti dei principi elettori
tedeschi ed ottenere agevolmente la dignità imperiale. Da quel momento, Carlo si impegnò per tutta la vita
nel tentativo di garantire al mondo intero la stabilità e la pace, proponendosi di reinterpretare la figura di
Carlo Magno sette secoli dopo e di dare vita ad un nuovo Sacro Romano Impero. Comprendiamo dunque
quale portata storica abbia potuto rappresentare la nomina di Bernardo Clesio a ministro plenipotenziario
del neoeletto imperatore, che avvenne immediatamente dopo l'esito delle consultazioni di Francoforte.
L'abilità di governare di Bernardo Clesio doveva essere davvero notevole, visto che non solo con
Massimiliano, ma anche con i successivi regnanti finì con l'esercitare un ascendente sempre più forte sulla
casa d'Austria. La sua vita, infatti, presentò un cambiamento ancor più significativo dopo circa otto anni di
episcopato, intorno al 1521, vale a dire dal momento in cui Carlo V e il fratello Ferdinando stabilirono, nel
determinare le competenze nel governo dei possedimenti asburgici, una spartizione destinata ad avere
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carattere di continuità. Proprio nel 1521, durante la dieta di Worms, l'imperatore istituì un Consiglio di
reggenza e vi nominò come presidente il fratello, al quale affidò ufficialmente i domini sulle regioni
tedesche. A quest'ultimo fu assegnata infatti una vasta fascia territoriale, che includeva l'Alta e la Bassa
Austria, la Stiria, la Carinzia e la Carniola. A partire da questo periodo, pertanto, inizierà a prendere forma
il ramo austriaco della dinastia. L'avvenimento diventò determinante per la vita di Bernardo, che peraltro
contribuì da autentico protagonista a stabilire i termini dell'accordo e che da allora si trasformerà nel
consigliere di maggior fiducia di Ferdinando I. Proprio a Worms i reggenti, i dignitari e i più alti prelati si
erano dati inizialmente appuntamento per discutere di problemi di diversa natura, molti dei quali passarono
ben presto in secondo piano di fronte a quello rappresentato dalla riforma protestante. Fu in occasione di
quest'adunanza che Lutero espose le proprie convinzioni al cospetto dell'imperatore, mostrandosi deciso a
non ritrattare alcunché in merito alle sue tesi in materia religiosa, la cui divulgazione stava seriamente
indebolendo l'unità tra i cristiani e avrebbe presto spaccato l'Europa in due. Il vescovo di Trento, che era
naturalmente presente alla dieta occupando un posto di assoluto rilievo, si rivelò da quel momento tra i
personaggi più attivi nel tentare, tramite il proprio contributo alla diplomazia internazionale, di rendere
meno pesanti possibili le conseguenze dello scisma ormai in atto e di predisporre un programma globale di
rinnovamento all'interno della Chiesa cattolica.
La posizione privilegiata del Clesio al cospetto del sovrano d'Austria e le ragioni della metamorfosi della
politica austriaca nei confronti del principato di Trento
Con il consolidarsi dell'influenza di Bernardo su re Ferdinando, crebbe sempre di più la sua autorità
nell'influenzare la politica di tutta Europa, con particolare riferimento a quella sezione del continente che
gravitava nell'orbita germanica. Da questo momento i suoi compiti principali diventarono due: seguire
Ferdinando nei suoi viaggi, standogli continuamente al fianco e proponendosi per lui come un costante
punto di riferimento; ovvero rappresentarlo nel corso delle numerose missioni e ambascerie presso le case
regnanti, in tutte quelle circostanze in cui il sovrano non poteva essere presente in prima persona. E' quanto
mai opportuno rammentare che dal 1493, allorché l'arciduca Massimiliano del Tirolo ottenne la dignità
imperiale, le due cariche di imperatore e di conte del Tirolo finirono col risultare accorpate nella medesima
persona. Tale eventualità ebbe come effetto di allontanare il governo di Innsbruck dalle tradizionali
intenzioni espansionistiche verso i due principati di Trento e di Bressanone, e di indirizzare invece la sua
azione politica verso questioni di maggiore importanza: del resto, la figura del conte tirolese aveva
inevitabilmente assunto, con gli avvenimenti e le trasformazioni del primo ‘500, una dimensione di
carattere europeo. I due principati, in virtù di questo spostamenti del baricentro degli interessi politici, non
solo vennero messi in condizione di esprimere la loro azione amministrativa con una più estesa autonomia e
pertanto anche con maggiore serenità, ma subirono una notevole valorizzazione in chiave internazionale. Si
fece infatti più forte l'esigenza dell'imperatore di utilizzare al meglio le grandi risorse messe a disposizione
da entrambe le circoscrizioni vescovili, che ormai rappresentavano delle zone di vitale importanza per i
transiti dai territori mitteleuropei a quelli italici e diventavano nel progetto imperiale importantissimi centri
di contatto commerciale, politico e culturale con le signorie italiane della parte settentrionale della penisola.
Si spiega dunque come mai l'unificazione, agli albori dell'epoca moderna, di queste due cariche
tradizionalmente distinte, si sia rivelata un evento di importanza strategica sulla strada dello sviluppo del
vescovado di Trento all'inizio di questo XVI secolo.
I primi viaggi di Bernardo Clesio in missione diplomatica e militare
In questi primi anni di episcopato, anche Carlo V volle con sé il vescovo di Trento e gli affidò importanti
incarichi di rappresentanza, fino a nominarlo “magnus cancellarius”. Bernardo, come legato di Ferdinando,
fu presente alla solenne incoronazione imperiale di Carlo ad Aquisgrana nel 1520, alla quale si presentò
circondato dagli esponenti delle più nobili famiglie tirolesi. L'anno successivo, accompagnò il nuovo
imperatore nei suoi possedimenti nelle Fiandre, dove le aspirazioni all'indipendenza, che si stavano legando
al pensiero protestante, stavano acquistando un carattere decisamente destabilizzante per la corona: alla
guida di due distinti contingenti militari, i due repressero una minacciosa rivolta propagatasi nella città di
Gand. Poco dopo, il vescovo fece da guida a Maria, sorella dell'imperatore, accompagnandola alla corte di
Ludovico d'Ungheria, al quale era destinata in sposa; ed intraprese il viaggio di ritorno verso Vienna con la
sorella del re ungherese, promessa sposa di Ferdinando. Presenziò quindi alle diete di Norimberga e di
Ratisbona, dove si discusse in merito alla linea politica da adottare nei confronti dell'eresia protestante e del
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pericolo rappresentato dall'espansione dei turchi in direzione dell'Europa. Tra una missione e l'altra riuscì a
rincasare a Trento, dove finalmente ebbe, seppur per un breve lasso di tempo, la possibilità di svolgere le
sue occupazioni di principe – vescovo.
Il contesto storico e sociale che portò al dilagare della “guerra rustica”
L'anno 1525 rappresentò un anno cruciale per Bernardo Clesio, in concomitanza con una serie di contrastati
avvenimenti, che si risolsero in maniera da accrescere ancor più la sua autorità e la sua già considerevole
reputazione. La grave crisi in cui versavano le campagne dei territori germanici e austriaci aveva provocato
il propagarsi di un forte sentimento di ribellione, che cresceva di pari passo con lo sviluppo dei fermenti
riformistici. I contadini si lamentavano da tempo per le conseguenze della politica accentratrice messa in
atto da Massimiliano I, che aveva attinto dal diritto romano per elaborare un ordinamento destinato a
sostituire via via il tradizionale diritto consuetudinario tedesco, nel tentativo di limitare quanto più possibile
le autonomie locali. Le innovazioni legislative avevano introdotto inoltre l'abolizione di molti diritti di cui i
contadini avevano goduto da tempo immemorabile, vietando ad esempio la caccia e la pesca nei fondi, il
legnatico, il diritto di far uso delle acque e dei pascoli, di tenere grossi cani, in particolare quelli da caccia.
Il disagio del mondo agricolo era cresciuto con particolare intensità in seguito ai frequenti arruolamenti
coatti effettuati tra i contadini, ai saccheggi delle truppe di passaggio e alle epidemie di peste, alle carestie
seguite alla congiuntura economica, così forte da segnare un calo anche in un'attività che negli ultimi tempi
era stata tra le più fiorenti nel nostro territorio, come quella l'attività mineraria. Tra gli anni 1512 e 1521, tre
inondazioni e una serie di violente scosse di terremoto ridussero ancor più in miseria una popolazione sulla
quale si erano ulteriormente accanite le numerose imposte straordinarie, nonché le prevaricazioni dei nuovi
funzionari addetti alla loro riscossione, che poco alla volta avevano preso il posto della più benvoluta
burocrazia locale. Massimiliano d'Austria, infatti, aveva chiesto parecchi prestiti agli istituti di credito,
cedendo in cambio l'amministrazione di diversi castelli e tenute. Pertanto i nuovi addetti al servizio
tributario, quando non venivano espressamente riconosciuti come vassalli del vescovo, erano per lo più dei
commissari alle dipendenze di questi sopravvenuti operatori finanziari; essendo quasi sempre stranieri e
quindi privi di alcun legame con la popolazione del luogo, si rivelavano particolarmente rapaci nei
confronti dei meno abbienti. Lutero, anche se cercò di richiamare all'ordine i ribelli e si rifiutò di legittimare
le orrende carneficine che coinvolsero in massa i contadini tedeschi a lottare per un rinnovamento radicale
del sistema, si trovava tra l'incudine e il martello: per quanti sforzi facesse, era divenuto, agli occhi dei
rivoltosi, l'originario ispiratore di quei moti insurrezionali, mentre per i sostenitori dell'ordine costituito ne
risultava il principale responsabile. La grande rivolta contadina in Germania, guidata dal radicale Thomas
Müntzer, divampò nel 1524, e si protrasse fino all'anno successivo, culminando nell'ecatombe di
Frankenhausen, nella quale vennero massacrati circa 100.000 contadini e il loro leader fu torturato ed
ucciso.
Il coinvolgimento dei principati di Trento e di Bressanone nelle rivolte contadine. La controffensiva del
vescovo
Le insurrezioni si estesero rapidamente anche a sud, fino a coinvolgere con particolare veemenza il
principato di Bressanone e ad interessare direttamente anche quello di Trento. Nella zona di Bolzano e
Merano e in tutta la Val Pusteria e la Val Venosta le sommosse avevano come leader il riformatore Michele
Gaismayr, promotore di un progetto integrale di riforma democratica che avrebbe dovuto realizzarsi
attraverso l'istituzione di nuove comunità locali, le cosiddette “Gemeinden”; ma dopo qualche
incoraggiante successo iniziale i tentativi di insurrezione vennero spietatamente repressi, tramite
l'istituzione di processi sommari che portarono alla condanna capitale e alla tortura di molti presunti
responsabili. Allorché i venti rivoluzionari giunsero a spirare anche più a sud, essi si diffusero presto in
Valsugana e nelle Valli di Sole e di Non. In breve, schiere di contadini armati attaccarono castelli e
monasteri, seminando il panico lungo la loro strada. Il rischio che i tumulti si propagassero nelle altre zone
del principato era notevole, soprattutto da quando i rivoltosi arrivarono a minacciarne da vicino il
capoluogo. Così Bernardo Clesio ritenne opportuno rifugiarsi a Riva per tutto il tempo in cui
imperversarono le ostilità. Il borgo gardesano presentava il vantaggio di essere confinante con la
Repubblica di Venezia, e quindi si prestava ad offrire al vescovo una fuga agevole, nel caso in cui la
situazione volgesse al peggio. Da Riva il Clesio sollecitò Ferdinando affinché inviasse prontamente un
sostegno militare adeguato a difesa del territorio. Svariati drappelli di soldati arrivarono in aiuto al vescovo
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e si aggiunsero alle truppe già pervenute dal contingente di Giorgio Frundsberg, capitano di ventura
tristemente famoso per l'episodio del “sacco di Roma” ; a quelle di Ludovico conte di Lodron; di Giovanni
Gaudenzio Madruzzo e di Gerardo, conte d'Arco; e ad altre ancora mandate dal duca di Milano Francesco
Sforza e dalla Repubblica di Venezia. Come si può notare, Bernardo Clesio godeva di amicizie influenti
non soltanto oltre l'arco alpino, ma anche tra gli stati italiani. Egli, inoltre, riuscì a raccogliere intorno alla
sua causa la solidarietà della borghesia cittadina, atterrita dal pericolo di una vera e propria rivoluzione
contadina che ne avrebbe messo a repentaglio soprattutto gli interessi economici. Di fronte a cotanto
schieramento, i rinforzi austriaci finirono col rivelarsi praticamente in sovrappiù e assolsero la propria
funzione limitandosi a dar man forte più che altro nel territorio sud-tirolese, dove la rivolta aveva assunto
proporzioni ancor più inquietanti e i contadini erano arrivati ad impadronirsi della prestigiosa abbazia di
Novacella, minacciando di occupare tutte le roccaforti del principato con l'intendimento di consegnare nelle
mani del principe un paese libero. Un'ambizione che indubbiamente colpisce in modo significativo per le
caratteristiche di modernità che la ispiravano: il 30 maggio del 1525, gli agricoltori trentini e tirolesi
avevano sottoscritto di comune accordo l'editto di Merano, un documento che è stato considerato
un'anticipazione di circa tre secoli sulla “Dichiarazione dei diritti dell'uomo”, prodotta ai tempi della
Rivoluzione francese.
La repressione e il ritorno alla normalità
Nel principato di Trento il soffocamento della ribellione fu effettuato in maniera meno crudele, se non altro
perché il Clesio era convinto che i contadini trentini non fossero direttamente responsabili delle agitazioni:
riteneva che essi fossero stati incoraggiati a prendere le armi sotto la forte pressione dei braccianti tedeschi,
dei quali molti erano infatti fortemente succubi. In tal modo, il vescovo si limitò a giustiziare i capi delle
sedizioni, pretendendo comunque il risarcimento dei danni provocati alla città e ai villaggi; la qual cosa
appariva, per quei tempi, già una ragguardevole dimostrazione di magnanimità. Agli abitanti delle
Giudicarie, della Val Rendena e dei centri di Riva e di Vezzano, che non presero alcuna parte alla
ribellione, furono concesse prerogative e speciali esenzioni fiscali in premio. Il 4 settembre 1525, i
rappresentanti dei contadini, al termine di una resa incondizionata, espressero ufficialmente la propria
richiesta di perdono al vescovo di Trento e ai due commissari arciducali, i conti Ludovico di Lodron e
Gerardo d'Arco, e ritornarono alla loro condizione servile. Da quel momento, non osarono più manifestare
le proprie aspirazioni alla libertà con dei tentativi di sollevazione. Gli avvenimenti relativi alla “guerra
rustica” costituirono una tappa di fondamentale importanza per l'evoluzione socio - economica del
principato di Trento: da quel momento si concluse il cosiddetto “medio evo locale” e si aprì un epoca
caratterizzata da un progressivo miglioramento delle condizioni economiche del Trentino. Il fallimento
delle istanze di libertà sociale nel mondo agricolo ebbe come naturale conseguenza il ripristino di un ordine
sociale che progressivamente rese possibile una ripresa economica. Anche se comunque non si può parlare
di un vero e proprio miglioramento del tenore di vita tra i contadini, va ricordato che da quel momento
prese avvio un lento processo di stabilizzazione sociale, tale da scongiurare il ripetersi dei fenomeni di crisi
che avevano contrassegnato in modo così marcato i primi anni del secolo.
Michele Gaismayr
Nato a Ceves, nei pressi di Vipiteno, nel 1490, da famiglia di estrazione contadina, ebbe qualche esperienza
di organizzazione militare durante il primo impiego nella luogotenenza dell’Adige; in seguito divenne
Zollmeister, capo dei doganieri del principato vescovile di Bressanone. Guidò la rivolta scoppiata nelle valli
tirolesi e trentine nel 1525, riuscendo ad indirizzare il movimento insurrezionale verso precise
rivendicazioni rivoluzionarie, soprattutto dopo aver perso fiducia nell’appoggio del giovane arciduca
Ferdinando d’Asburgo. Esule nei Grigioni dall’ottobre 1525, progettò con Zwingli un piano militare di
liberazione del territorio trentino-tirolese, con un programma di profondo rinnovamento della società su
base egualitaria. Fallito il tentativo militare nel Salisburghese in appoggio ai ribelli locali, Gaismayr dovette
alla fine riparare nel territorio veneto, dove ottenne asilo con molti dei suoi uomini e prestò servizio con
onore al comando dei suoi in vari fatti d’arme, sempre nella speranza di riprendere la lotta per liberare la
sua patria.
Morì assassinato a Padova, da sicari assoldati da Ferdinando il 15 aprile 1532.
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Quadro sincrono (elenchi non completi)
Vescovi di Trento
Conti del Tirolo
Duchi d'Austria
Re di Germania
Imperatori
Udalrico I 1007-1022
Enrico II 1002-1024
Udalrico II 1022-1055
Corrado II 1024-1039
Gebardo 1106-1120
Enrico IV 1056-1106
Altemanno 1124-1149
Enrico V 1106-1125
Adelpreto II (beato)
1156-1172
Federico I di Svevia
(Barbarossa) 1152-1190
Corrado II di Beseno
1189-1205
Ottone IV di Brunswick re
1198, imp. 1209-1218
Federico Vanga 1207-1218
Alberto III 1205-1253
Federico II di Svevia re
1212, imp. 1220-1250
Egnone di Appiano
Mainardo I 1256-1258
Corrado IV di Svevia
1250-1273
Mainardo II 1258-1295
Gerardo I da Cremona
1224-1232
Aldrighetto di Campo
1232-1247
Enrico II 1274-1289
1250-1254
grande interregno 1254-1273
Rodolfo I d’Asburgo 1273-1291
Filippo Bonacolsi 1289-1303
Ottone, Ludovico ed
Alberto I d’Asburgo
Bartolomeo Querini 1304-1307
Enrico 1295-1310
1298-1308
Enrico III da Metz 1310-1336
Enrico (solo) 1310-1335
Enrico VII di Lussemburgo
1308-1313
Nicolò da Brno
1336-1347
Margherita con Giov.
Enrico di Lussemburgo
1335-1341
Ludovico IV il Bavaro
1314-1346
Giovanni da Pistoia
1348-1349
Margherita con Ludovico
di Brandeburgo 1341-1361
Mainardo di Neuhaus
1349-1360
Alberto di Ortenburg
1360-1390
Carlo IV di Lussemburgo
1347-1378
Mainardo III 1361-1363
Rodolfo IV d’Asburgo
1363-1365
Alberto III e Leopoldo III
1365-1379
Leopoldo III (da solo)
1379-1386
Giorgio Liechtenstein
1390-1419
Alberto III (come tutore)
1386-1395
Sigismondo di Lussemburgo
1410-1437
Alessandro di Masovia
1423-1444
Federico IV (Tascavuota)
1406-1439
Giorgio Hack 1446-1465
Sigismondo 1439-1490
Federico III d’Asburgo
1440-1493
1490: Tirolo ed Austria
passano a Massimiliano I
Massimiliano I d’Asburgo re
1486, imp. 1493-1519
Giovanni Hinderbach
1465-1486
Udalrico Frundsberg
1486-1493
Udalrico Liechtenstein
1493-1505
Giorgio Neideck 1505-1514
Bernardo Cles 1514-1539
Carlo V d’Asburgo 1519-1556
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L'età dei Madruzzo di Mauro Nequrito
Una dinastia al governo del principato
Fu il padre di Cristoforo, Giovanni Gaudenzio, nobile tridentino in ascesa, al servizio di Bernardo Cles e ben
introdotto alla corte degli Asburgo, ad aprire la strada all’affermazione del casato dei Madruzzo, i quali
avrebbero retto il principato di Trento per oltre un secolo, passandosi la dignità vescovile da zio a nipote per
ben tre volte.
Nato nel 1512, dopo aver accumulato una quantità di cariche e di prebende ecclesiastiche – tra cui i
canonicati ad Augusta e a Salisburgo oltre ai titoli di canonico e poi di decano nel capitolo tridentino –
Cristoforo Madruzzo venne eletto senza alcuna opposizione interna principe vescovo di Trento alla morte di
Bernardo Cles, nel 1539. Era soltanto suddiacono: compì i gradi successivi di diacono, presbitero ed
episcopo solo nel 1542, quando conseguì il titolo di coadiutore con diritto di successione nel principato
vescovile di Bressanone, immediatamente prima della morte dello zio Christoph Fuchs von Fuchsberg. Nel
1545, in concomitanza con l’inaugurazione a Trento del Concilio, egli ottenne la porpora cardinalizia,
peraltro ufficiosamente già conferitagli in precedenza.
L’epoca di Cristoforo segnò l’apice della potenza economica dei Madruzzo, i quali nell’ambito del principato
tridentino godettero di vaste giurisdizioni feudali che si estendevano su gran parte dei domini temporali
vescovili. Il patrimonio fu accresciuto enormemente da Cristoforo, che nella sua carriera fu amministratore
di terre imperiali e papali e nel 1560 ottenne il marchesato di Soriano e Gallese, nello Stato pontificio.
Per quanto riguarda l’impegno politico, Cristoforo si pose incondizionatamente al servizio del progetto di
Carlo V di creare un impero universale cristiano, risuscitando gli ideali dell’antico Sacro Romano Impero.
Momento centrale dell’opera di Cristoforo in favore del disegno imperiale fu il suo impegno per la
realizzazione a Trento di un grande concilio, che avrebbe dovuto raccogliere l’intero corpo cristiano,
compresi i dissidenti, per cercare di sanare le fratture prodotte dalla Riforma protestante e indicare princìpi
dogmatici certi su cui rifondare la dottrina dopo le violente critiche giunte da Lutero e dall’area tedesca. Con
l’infrangersi del ‘sogno’ di impero universale di Carlo V contro gli ostacoli frapposti dai principi tedeschi
riformati e a causa dell’ostilità della Francia, venne gradualmente meno il ruolo di Trento quale luogo
d’incontro tra Germania e papato e parallelamente si affievolì anche l’attività di Cristoforo Madruzzo presso
la curia romana come rappresentante del progetto di quell’Asburgo sulla cui enorme estensione di terre ‘non
tramontava mai il sole’.
Non eccezionalmente fornito di doti politiche e piuttosto debole sul piano dottrinario – fu vicino alle
posizioni di prelati e uomini compromessi con la fede protestante e criticato per questo –, di Cristoforo
brillarono invece i ruoli di rappresentanza, in un’età in cui peraltro essa aveva comunque un ruolo anche
politico. Seppe tessere infatti una rete di relazioni, in particolare attraverso attente scelte matrimoniali,
innanzi tutto per la propria famiglia, che imparentò con illustri casati tirolesi e stranieri, quindi per gli stessi
Asburgo. Troppo legato alla politica imperiale, Cristoforo ambì senza successo al soglio pontificio nel 1565.
In precedenza era stato per un breve periodo governatore di Milano (1555 – 1557) ma, non in sintonia con
Filippo II e ormai fuori gioco a causa dello spostarsi dell’asse politico cattolico verso la Spagna, aveva finito
per stabilirsi a Roma, rivestendo incarichi di media levatura sempre al servizio degli interessi asburgici. Morì
a Tivoli nel 1578. A Trento aveva ceduto il potere al nipote Ludovico ancora nel 1567, dopo un’adeguata
pressione sui membri del locale capitolo cui spettava la nomina del successore.
La carriera di Ludovico Madruzzo si snodò all’inizio entro i solchi tracciati dall’illustre zio. Nato nel 1532,
godette di cospicui benefici e rendite ecclesiastiche, ottenendo tra l’altro un canonicato a Trento e uno a
Bressanone. Studiò a Lovanio e a Parigi e di lui fu apprezzata la maggior preparazione teologica rispetto a
Cristoforo, che seguì ancor giovane tra Roma e le diete imperiali. Controvoglia i canonici tridentini gli
conferirono la carica di coadiutore con diritto di futura successione, che esercitò dal 1550 fino alla nomina a
vescovo nel 1567. Per buona parte di questo lungo periodo fu Ludovico a reggere di fatto il principato
vescovile di Trento, a causa dei pressanti impegni dello zio, e fu sempre lui a esercitare le funzioni di ospite
del Concilio durante la sua terza sessione, dal 1561 al 1563, dopo avere ottenuto in tale occasione il titolo di
cardinale.
Il governo temporale tridentino di Ludovico fu travagliato dal decennale sequestro del principato operato
dall’imperatore Massimiliano II, a causa delle controversie giurisdizionali in atto con l’arciduca Ferdinando,
conte del Tirolo. Alla forzata assenza da Trento corrispose per Ludovico il dispiegarsi di una carriera tanto
prestigiosa quanto impegnativa nell’ambito della curia romana. Qui egli esercitò le funzioni di cardinale di
curia, presenziando in numerose congregazioni. Suo compito preminente, tra le diverse materie di cui si
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occupò, fu quello di favorire l’applicazione degli indirizzi conciliari nell’ambito romano-germanico,
cercando di recuperare quelle terre all’ortodossia cattolica. In questo senso si può dire che la momentanea
privazione del potere temporale a Trento rappresentò per Ludovico soprattutto la rinuncia ai cespiti da esso
derivanti, dal momento che comunque i grandi compiti svolti a Roma lo avrebbero verosimilmente tenuto
lontano dalla cattedra di San Vigilio. Ciò nonostante, non appena egli venne reintegrato nel possesso del
principato tridentino, indisse una visita pastorale nella diocesi, che lo impegnò dal 1579 al 1581. In seguito si
recò ancora a Vienna, a Praga, alle diete imperiali, godendo di numerosi titoli e cariche, i cui introiti
dovevano inoltre supplire ai minori agi economici rispetto a quelli goduti dallo zio. I forti legami con
l’impero impedirono che la sua candidatura al papato negli anni 1590 – 1592 avesse esiti positivi. Morì a
Roma nel 1600: cinque anni prima aveva superato gli ostacoli frapposti dal capitolo tridentino alla nomina
del nipote quale coadiutore, che poteva dunque succedergli nel governo del principato.
Carlo Gaudenzio Madruzzo, a differenza dei due antecessori, non ebbe origini regionali. Nacque infatti nel
1562 nel castello di Issogne il Val d’Aosta da Giovanni Federico e Isabella di Challant, il cui matrimonio era
stato opera di Cristoforo. Dopo gli studi a Ivrea, Trento, Ingolstadt e Pavia, si munì di titoli e prebende,
ottenuti nell’area di provenienza (nella Savoia e in Piemonte) e successivamente a Trento e Augusta, dove
sedette nei rispettivi capitoli. La sua carriera ecclesiastica, apertasi sotto gli auspici di Ludovico, iniziò
seguendo quest’ultimo a Roma e accompagnandolo alle diete imperiali. A Trento si trovò la strada spianata
grazie alle pressioni papali e imperiali esercitate sul capitolo della cattedrale affinché lo postulasse quale
coadiutore con diritto di successione. Una carica quest’ultima, che rivestì dal 1595, mentre alla morte dello
zio gli subentrò ricevendo la dignità vescovile. Le energie dei suoi primi anni di governo furono da lui spese
entro la sede tridentina, mentre le opportunità di affrontare la carriera diplomatica gli si offrirono con
maggior lentezza rispetto alle celeri fortune che avevano caratterizzato le esperienze di Cristoforo e
Ludovico, benché anche per Carlo Gaudenzio, appena quattro anni dopo la nomina a vescovo, giungesse il
titolo di cardinale su intercessione dell’imperatore Rodolfo II. I tempi intanto stavano sempre più
velocemente mutando e con essi i rapporti politici sullo scenario europeo: le avvisaglie del catastrofico
conflitto religioso che avrebbe sconvolto il continente cancellavano a poco a poco quel sostrato di alleanze e
di equilibri che aveva sospinto i Madruzzo verso compiti così rilevanti nell’ambito della politica imperiale.
Nel 1613 Carlo Gaudenzio fu legato papale alla dieta di Ratisbona, ma solo nel 1620 si stabilì, come i
predecessori, definitivamente a Roma. Qui, come era tradizione familiare, servì gli interessi austro-spagnoli e
fu presente nelle congregazioni cardinalizie. Il fruttuoso tessuto di rapporti con l’ambiente romano fu
determinante nel superare la resistenza capitolare tridentina e nel 1622 i canonici furono nuovamente
costretti a cedere di fronte alla richiesta della coadiutorìa in favore di un altro Madruzzo. Nel 1629, poco
prima di morire, Carlo Gaudenzio trasferiva al nipote Carlo Emanuele la dignità vescovile.
La vita e l’esperienza di governo di Carlo Emanuele Madruzzo, nato egli pure a Issogne nel 1599 e ancor più
estraneo dello zio all’ambiente tridentino, possono essere assunte sotto diversi aspetti a esemplificazione sia
del declino della sua potente famiglia, che di quello del principato vescovile dopo la stagione rinascimentale
e quella conciliare, sia ancora della crisi politica ed economica che attraversò in quegli anni gran parte
dell’Europa continentale. Tutto ciò pur nello sfarzo che, quasi per contrasto, caratterizzò anche l’ultima
stagione dei Madruzzo. L’epidemia di peste portata nel 1630 dall’esercito imperiale diretto all’assedio di
Mantova diede inizio sotto i peggiori auspici all’episcopato di Carlo Emanuele. Successivamente si
riaprirono le mai sopite vertenze del principato con la contea del Tirolo, mentre la guerra dei Trent’anni e
quella per la Valtellina - quest’ultima pure di matrice religiosa - lambivano rispettivamente le frontiere
settentrionali e quelle occidentali della regione. La diplomazia aveva ormai ceduto il campo agli eserciti e
Trento da tempo non rappresentava più un possibile luogo di dialogo tra confessioni divergenti. Non vi era
più posto dunque per un casato che si era nutrito del ruolo di tramite fra Roma e l’impero e che negli ultimi
decenni, in virtù di quel matrimonio valdostano voluto da Cristoforo, aveva inoltre spostato sempre più la
propria sfera di interessi familiari verso l’area che faceva capo alla tradizionale oppositrice degli Asburgo, la
Francia. Carlo Emanuele visse stabilmente a Trento, non si fregiò del titolo cardinalizio e fu costretto da un
lato a resistere alle invadenze tirolesi, dall’altro a rintuzzare gli attacchi del capitolo il quale, non più succube
di una famiglia che aveva perso i favori delle corti romana e asburgica, criticò la gestione del vescovo sia a
Roma che presso gli organi imperiali, inducendolo anche alla firma di una transazione (1635) che conferiva
ai canonici maggior influenza nel governo del principato. Perfino il patrimonio si indebolì a causa di azioni
legali intraprese dalla nobiltà concorrente. I Madruzzo inoltre non avevano più eredi maschi e Carlo
Emanuele fallì anche nell’obiettivo ultimo di ottenere il ritorno allo stato laicale per garantire la continuità
del casato. Con la sua morte, nel 1658 - fu l’unico dei Madruzzo a essere tumulato nella cattedrale di Trento
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- cessava quello che si può a ragione definire un vescovato ereditario, insieme a un potere familiare il quale
non ebbe eguali nella storia del principato tridentino.
Cristoforo Madruzzo
Il «cursus honorum» ecclesiastico del Madruzzo e le vicende inerenti alla sua designazione quale vescovo
di Trento
Cristoforo Madruzzo nacque a Castel Madruzzo, nella parrocchia di Calavino, il 5 luglio 1512.
Il padre Gaudenzio era stato maresciallo di corte e capitano delle milizie ecclesiastiche tridentine sotto il
vescovado di Bernardo Clesio, mentre la madre Eufemia von Spornberg apparteneva ad una nobile famiglia
di stirpe tedesca. Cristoforo frequentò gli studi umanistici e teologici presso le Università di Padova e
Bologna e, al termine di questi, assunse prima il canonicato di Salisburgo e successivamente quelli di
Bressanone e di Trento. Ricopriva infatti l´incarico di canonico di Trento allorché, all´età di soli 27 anni,
succedette a Bernardo Clesio al vescovado trentino.
In verità, la preferenza per un vescovo così giovane era dovuta principalmente ai buoni rapporti esistenti tra
il Madruzzo e Alessandro Farnese, signore di Parma e Piacenza, che caldeggiò la sua designazione presso
lo zio, il pontefice Paolo III. Era il 2 settembre 1539 quando Cristoforo Madruzzo prese ufficialmente
possesso del vescovado. Come era accaduto per Bernardo Clesio, la Sede Apostolica aveva confermato i
diritti del Capitolo di Trento a nominare il responsabile della diocesi anche in vista dell´elezione del
Madruzzo. Il riconoscimento avveniva dopo un´annosa questione, risalente ancora ai tempi di Bernardo
Clesio, sviluppatasi tra la Santa Sede e lo stesso Capitolo. Quest´ultimo infatti rivendicava, come per tutti
gli altri vescovi tedeschi, il diritto all´elezione, espressamente previsto dal concordato di Vienna, mentre la
curia romana contestava il fatto che Trento si trovasse nel territorio germanico dell´Impero, e quindi
avocava a sé la prerogativa della nomina. La controversia per la scelta di questi ultimi due vescovi si risolse
con una decisione del tutto provvisoria della Santa Sede: questa infatti, ritenne opportuno di dover fare un
´eccezione accondiscendendo alle pretese fondamentali del Capitolo, pur continuando a non essere d
´accordo sul fatto che i concordati tedeschi risultassero applicabili nella città tridentina.
L´importanza del ruolo del Madruzzo nella valorizzazione della città di Trento all´alba del Concilio
A Cristoforo Madruzzo toccò dunque il compito di continuare l´opera del Clesio. Va però ricordato che si
predispose a ciò con un atteggiamento diverso da quello tenuto dal suo predecessore, ottenendo differenti
risultati. Del resto, le personalità dei due vescovi non si rassomigliavano granché: più tenace e predisposto
all´azione sul piano politico e diplomatico il Clesio; ambizioso, ma meno astuto di questi, il Madruzzo.
Tuttavia, anche se fu con Bernardo Clesio che il principato vescovile comparve sulla ribalta politica
europea rendendosi protagonista di una vera e propria svolta storica, anche il ruolo di Cristoforo Madruzzo
non può essere sottovalutato solo per via di un confronto col suo illustre antesignano. E´ opportuno
precisare, d´altra parte, che furono i suoi buoni rapporti con i potentati di origine germanica ad influire in
maniera determinante sulla scelta di Trento quale sede del Concilio.
La preferenza di Trento quale sede per lo svolgimento dei lavori conciliari fu preceduta da lunghi preamboli
e negoziazioni. Nel capoluogo trentino il Concilio approdò soltanto nel 1542, ma l´idea di allestire una
grande adunanza per dibattere le problematiche suscitate dallo scoppio della riforma protestante e
scongiurare il pericolo di una separazione nel mondo cristiano venne alla luce già nel 1518, ossia pochi
mesi dopo la storica separazione effettuata da Martin Lutero con l´affissione delle celebri 95 tesi al portale
della cattedrale di Wittemberg. Lutero aveva peraltro manifestato subito il suo dissenso all´iniziativa. Pochi
anni più tardi, i principati tedeschi si erano mostrati favorevoli, ma premevano affinché gli incontri si
tenessero in territorio germanico. I papi Clemente VII e Paolo III erano invece risolutamente contrari alla
soluzione che il Concilio avesse luogo proprio nelle zone dove era divampata la riforma. Il più autorevole
patrocinatore del Concilio era ad ogni buon conto l´imperatore Carlo V, che in molte occasioni si era
proposto come il campione dell´unità della Chiesa, ma nei confronti del quale il pontefice nutriva un
sentimento misto di diffidenza e di timore dopo l´episodio del terribile sacco di Roma del 1527. A rendere
più complesso l´avvio dell´iniziativa era la posizione di Francesco I di Francia, il quale nel Concilio vedeva
unicamente un´opportunità che avrebbe permesso al rivale Carlo V di consolidare la propria egemonia in
Europa, e si era dichiarato pertanto del tutto sfavorevole.
Quando si riuscì a stabilire che il Concilio sarebbe stato finalmente convocato, lunghe diatribe si
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moltiplicarono sulla scelta del luogo nel quale si sarebbe dovuto svolgere. A volere fortemente che le
riunioni si tenessero a Trento fu ancora una volta Carlo V, il quale aveva individuato in questa città, situata
in territorio germanico ma con una cultura profondamente italica e pertanto legata da tempo immemorabile
alla politica ecclesiale della Santa Sede, il luogo geografico più opportuno per addivenire ad una
conciliazione con quelle zone da poco conquistate al luteranesimo. Nel 1524 Carlo aveva ufficialmente
fatto pervenire al pontefice uno scritto per segnalare la sua predilezione per Trento, «…..quae etsi
Germanica habeatur, re vera Itala sit».
La stessa controversia con la Sede Apostolica in merito all´appartenenza o meno di Trento alla parte
tedesca dell´Impero, della quale si è detto poc´anzi, a conti fatti poté rappresentare un presupposto assai
valido sul lungo il percorso decisionale che condusse alla scelta del capoluogo trentino: questo era ormai
considerato il centro urbano in grado di fornire le migliori garanzie di neutralità. La sapiente azione
diplomatica del cardinal Morone, che a Spira nel 1542 riuscì a mettere d´accordo anche i principi tedeschi
sulla predilezione per Trento, si rivelò in buona parte determinante. Ma alla risoluzione definitiva contribuì
non poco una relazione del cardinal Farnese, delegato dal papa a visitare la diocesi nel periodo in cui
occorreva confermare la designazione di Cristoforo Madruzzo al soglio vescovile: «Trento – scrive il
Farnese - come la chiamano ora nella contea del Tirolo, è una città situata nella decima circoscrizione d
´Italia, ed è tanto più rinomata e ricca quanto più sicura per la posizione e per le fortificazioni; essa è
sottoposta al vescovo non solo per quel riguarda le questioni spirituali, ma anche per quelle temporali, e
possiede molti castelli e borghi».
Si dovette certamente alle conoscenze e alle relazioni di una personalità come il Madruzzo il fatto che la
cittadina di Trento, per il periodo relativo ai lavori conciliari, si trasformò in un crocevia verso il quale
confluiva tutta la cristianità dell´epoca. E´ evidente, tuttavia, che su Trento la scelta non sarebbe mai caduta
se il nostro territorio non avesse avuto i caratteri di autonomia che possedeva a quei tempi un principato
vescovile, tale da presentarsi immune sia da condizionamenti provenienti dalla sfera d´influenza tedesca
che da quella italiana. Pertanto, occorre attribuire anche ai vescovi precedenti, che rafforzarono il carattere
di indipendenza del principato e lo difesero contro i tentativi di ingerenza tedeschi e tirolesi, il merito di
avere preparato la strada al Concilio di Trento; e in particolare questo va a Bernardo Clesio, che
accrescendone il prestigio internazionale, aveva donato al principato vescovile un periodo di grande
splendore e si era personalmente prodigato per trasformare la città nel centro della cattolicità universale di
quegli anni.
Questa progressiva ascesa della Chiesa di Trento contribuì a fare in modo che, anche durante il trentennale
episcopato del Madruzzo, essa vedesse via via consolidarsi il proprio potere, sia all´interno che all´esterno
del principato.
Cristoforo Madruzzo visse in prima persona i contrastati avvenimenti del Concilio, dato che l´arco della sua
vita si protrasse anche oltre la conclusione delle attività conciliari. Poté dunque assistere e partecipare da
vicino a tutte le tre grandi fasi di esso. La prima (1536-1539), con i vani tentativi di istituire la grande
assemblea a Mantova e quindi a Vicenza, che ritardarono l´avvio dei lavori; poi, finalmente, l´inizio delle
consultazioni nella città di Trento, il 13 dicembre 1545; ed infine il trasferimento provvisorio presso la sede
di Bologna. La seconda (1551-1552), con il ritorno a Trento e una nuova sospensione a causa della guerra
tra l´esercito di Carlo V e quello francese di Enrico II, forte dell´alleanza dell´ultima ora con Maurizio,
elettore di Sassonia. Infine la terza (1562-1563), che segnò la ripresa definitiva e la conclusione dei lavori.
L´indole rinascimentale di Cristoforo Madruzzo e i preparativi per l´accoglienza dei padri conciliari
Per preparare la città ad un evento così straordinario quale il Concilio, il Madruzzo ritenne che fossero
necessarie delle innovazioni fuori del comune. Continuò l´opera urbanistica già intrapresa da Bernardo
Clesio, rinnovando la rete viaria e disponendo la costruzione di palazzi ed edifici più eleganti, che potessero
ospitare per quegli anni i massimi esponenti del mondo cattolico e politico dei tempi. Nelle campagne
circostanti, rimodernò le ville già esistenti e ne fece costruire di nuove, e provvide al restauro dei castelli
per renderli più accoglienti. Apportò anche dei rinnovamenti di rilievo nel servizio postale, in modo da
renderlo più efficiente e veloce.
Le iniziative del vescovo condussero ad un duplice ordine di conseguenze: uno positivo, risultante dall
´incremento delle attività economiche, in particolar modo di quelle manifatturiere, artigianali ed artistiche, e
in una certa misura anche di quelle strettamente commerciali. In questo periodo il principato di Trento visse
un momento di gloria rinascimentale, favorito anche dalla presenza in città di personaggi di spicco nel
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mondo della cultura e dell´arte, i quali diedero impulso alla diffusione delle discipline umanistiche e della
lingua italiana, fra l´altro a discapito di quella tedesca. L´altra conseguenza era invece di tutt´altro genere,
destinata ad essere associata a lungo al ricordo del vescovo: le opere di rinnovamento da lui intraprese
finirono difatti col gravare in maniera davvero pesante sulle casse della diocesi e tale disavanzo si aggiunse
alle precedenti difficoltà finanziarie, che stavano rendendo più arduo far quadrare il bilancio dell
´amministrazione vescovile.
Cristoforo Madruzzo, inoltre, si mostrò straordinariamente magnanimo nei confronti dei legati papali
presenti alle attività conciliari, al punto che arrivò a fornire precise disposizioni affinché essi venissero
considerati in città come veri e propri ospiti di riguardo. Non è difficile immaginare come non pochi fra
questi avessero finito con l´abusare di cotanta generosità.
Tuttavia, questa sua inclinazione gli diede la possibilità di beneficiare, più avanti, di prestiti altrettanto
munifici, tanto che non mancavano nell´ambiente nobiliare ed ecclesiastico coloro che lo stimavano per
questa sua liberalità. Egli rimase, in ogni caso, il bersaglio di critiche pungenti, e una delle più famose è
quella di cui si fece interprete l´abate Girolamo Tartarotti, filosofo, storico e uomo di lettere del Settecento
tra i più insigni che il Trentino abbia mai avuto: si trattò della voce più influente nel coro di tutti coloro che
puntavano il dito contro il Madruzzo, per via della quale egli venne definito uno spendaccione senza alcuna
autorevolezza. I pareri sulla sua personalità sono comunque discordanti, visto che altri uomini di spicco lo
hanno ritenuto, invece, un personaggio di grande prestigio, in gran parte per le sue doti diplomatiche,
attribuendogli il merito di avere contribuito al sorgere di una vera e propria epoca d´oro per la Chiesa
trentina. Il giudizio positivo sul suo conto si fonda ovviamente sul contributo determinante fornito alla città
di Trento in virtù dell´iniziativa conciliare.
Il fattore del bilinguismo madruzziano all´interno delle problematiche conciliari
E comunque un fatto innegabile che la personalità del Madruzzo abbia risentito dell´influsso di due culture
diverse tra loro: quella tedesca, in quanto egli era di madre lingua tedesca, e il blasone delle sue origini gli
procurava una posizione di particolare privilegio nei rapporti con l´Impero; quella italiana, poiché italiana
era la sua formazione culturale, di stampo tipicamente umanistico – rinascimentale, in virtù degli studi
effettuati in Italia e degli ambienti frequentati fin dal periodo giovanile.
Nel corso del Concilio, i suoi avversari lo accusarono ingiustamente di aver trescato con il partito tedesco
fino a diventarne il capo. Questa connivenza – si vociferava – era strettamente legata con la natura delle sue
origini, che lo avvicinava in modo pressoché permanente all´elemento germanico. In particolare, fece non
poco scalpore il consenso esplicito da lui fornito alla traduzione della Bibbia nelle varie lingue nazionali e
la protezione da lui accordata all´agostiniano Nicolao di Verona, che per qualche tempo fu filo-luterano. La
relazione fra la riforma protestante e le lingue nazionali si sarebbe in seguito rivelata la chiave di volta della
diffusione del nuovo pensiero riformato in Europa, e la Bibbia tradotta nelle varie lingue sarebbe divenuta il
veicolo più adatto per dare avvio all´ampio movimento di riscoperta delle varie identità nazionali. L
´opposizione degli avversari del Madruzzo era quindi, da un certo punto di vista, comprensibile: essi
intuivano le conseguenze che la questione religioso – linguistica era destinata ad avere sul piano politico e
il conseguente rischio di questo processo di autoconsapevolezza sociale per l´unità imperiale, dalla cui
parte, naturalmente, senza mezzi termini anche la sede Apostolica si schierò apertamente. Al termine dei
lavori conciliari, essa giunse infatti ad ammettere la versione della Vulgata di San Girolamo come l´unica
assolutamente lecita per l´Antico e il Nuovo Testamento. Il pericolo di un potenziamento delle identità
nazionali a scapito dell´ordine costituito appariva evidente già al momento dell´apertura del Concilio. Se
consideriamo inoltre che, nel mondo cattolico, il rapporto prevalente che tendeva ad instaurarsi con la
corrente protestante era di aperta ostilità e che i tentativi di pacificazione sostenuti dall´indirizzo conciliare
più moderato rappresentavano l´atteggiamento di una minoranza che non riuscì ad imporsi, si spiegano così
le rimostranze e le animosità nei confronti della scelta probabilmente effettuata in buona fede da Cristoforo
Madruzzo.
L´assenza del vescovo da Trento in seguito alla nomina a cardinale e le pretese della emergente classe
media. L´inserimento dell´arciduca Ferdinando II nel quadro politico trentino
Dopo aver ottenuto il titolo di cardinale, nel 1550 Cristoforo Madruzzo andò a risiedere stabilmente a Roma
e cedette al nipote Ludovico (che aveva nominato qualche tempo prima suo coadiutore) l´amministrazione
del principato, pur conservandone la titolarità non soltanto quale detentore del potere temporale, ma anche
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di quello spirituale. Si assistette in questa fase dell´episcopato al fiorire di nuovi fermenti in seno alla vita
della municipalità, dovuti alla crescita, in senso economico e sociale, conosciuta dalla borghesia cittadina
durante gli anni del Concilio.
Il magistrato consolare, approfittando anche dell´assenza del neo - cardinale da Trento, avanzò la
rivendicazione di una serie di diritti che avrebbero dovuto garantire, alla classe che lui rappresentava e che
in quegli anni era venuta a distinguersi, un maggiore coinvolgimento nel governo cittadino, a discapito del
potere del principe - vescovo. Erano pretese già avanzate ai tempi di Bernardo Clesio, e che l´autorevole
vescovo aveva risolutamente e costantemente negato. Altrettanta perentorietà giunse peraltro da Cristoforo
Madruzzo, che da Roma fece sapere che mai e poi mai avrebbe fornito ulteriori concessioni alla classe
consolare, e giustificò il proprio diniego dichiarando che soltanto lui era stato determinante nell´aver dato a
Trento uno splendore mai conosciuto; la borghesia cittadina, a suo giudizio, avrebbe vissuto semplicemente
di rendita sulle sue iniziative.
In effetti il ceto medio aveva conosciuto, nel movimento di rinascita cittadina che l´aveva proiettato in una
dimensione del tutto nuova e moderna, un ruolo inizialmente marginale; esso beneficiò senza ombra di
dubbio degli investimenti e dell´azione «promozionale» operata dal vescovo, anche se gli uomini di
commercio stentavano a vederne l´utilità. In questo senso, non si può negare che il Madruzzo, pur essendo
stato largamente favorito dalla ricchezza e dal patrimonio di conoscenze che la sua famiglia era in grado di
vantare, avesse mancato di lungimiranza.
Pochi anni più tardi, nel 1560, anche Ludovico Madruzzo accedeva al cardinalato.
Le rivendicazioni del patriziato cittadino non ebbero esiti rilevanti, ma contribuirono ad accrescere il
malcontento generale che si stava diffondendo. Non attese molto ad approfittare di questa situazione di
stallo il neoeletto arciduca Ferdinando II, che aveva appena ereditato dal padre imperatore, Ferdinando I, i
possedimenti tirolesi, assieme a quelli della Germania meridionale. Il nuovo conte del Tirolo si erse
immediatamente a paladino dei diritti di quella parte della cittadinanza trentina rappresentata dalla
magistratura consolare, e si servì delle proprie minacce e della concomitanza di una manifestazione di
piazza messa in atto da un gruppo di cittadini di Trento per imporre al vescovo reggente una trattativa dalle
conseguenze assai pesanti. Ludovico Madruzzo, evidentemente spaventato, cedette alle richieste di
Ferdinando: nel trattato, l´arciduca doveva essere riconosciuto come principe territoriale e legittimo
signore, titolo che in questo modo veniva tolto al cardinale reggente. All´arciduca avrebbe fatto capo anche
un potere giudiziario molto ampio, dato che l´accordo gli conferiva la possibilità di intervenire nelle
controversie private, qualora i cittadini avessero preferito la sua giurisdizione a quella del cardinale; lo
stesso arciduca sarebbe stato anche giudice d´appello nei confronti delle sentenze emesse dai tribunali
vescovili. Non ci dilunghiamo sugli altri contenuti di quest´accordo, che saranno analizzati più
dettagliatamente nella biografia relativa a Ludovico Madruzzo. E´ però evidente come l´assenza del
vescovo Cristoforo per lungo tempo dalla propria diocesi, della quale continuò a rimanere il titolare sino al
1567, non avesse certamente giovato alla continuità di quel periodo di particolare splendore che il
principato aveva conosciuto nell´ultimo trentennio.
L´istituzione del Seminario religioso e l´utilizzazione di Palazzo delle Albere
Anche dalla sede romana il cardinale Cristoforo Madruzzo volle tuttavia seguire un progetto che gli stava
particolarmente a cuore, quello del Seminario, che intendeva portare a termine sia a Trento che a
Bressanone. Questa iniziativa era stata infatti prevista da una disposizione conciliare, emessa il 15 luglio
del 1563, in sintonia con gli orientamenti fondamentali della politica controriformistica, che miravano a
fornire al clero una preparazione più rispondente al suo compito. Naturalmente l´idea era quella di affidare
all´ordine dei Gesuiti la direzione dell´istituto, sul modello dei collegi germanici che da pochi anni avevano
cominciato a diffondersi e che già si stavano distinguendo per la grande funzionalità ed efficienza. Per
realizzare questa sua idea, Cristoforo aveva parlato anche con San Pietro Canisio, cercando di coinvolgerlo
nell´opera. Nel 1563, il vescovo titolare scriveva al nipote che stava a Trento, raccomandandogli di non
perdere di vista l´idea del Seminario e offrendogli la sede di Palazzo delle Albere come edificio che
avrebbe dovuto ospitare i sacerdoti.
L´imponente edificio di Palazzo delle Albere, era stato fortemente voluto dal padre di Cristoforo Madruzzo,
Giovanni Gaudenzio, che sotto l´episcopato di Bernardo Clesio ricopriva l´ufficio di maresciallo di corte e
di capo supremo delle milizie vescovili. Il comandante ne aveva affidato l´esecuzione ad un valente
architetto ed ingegnere militare bergamasco alla corte del Clesio, Francesco Chiaramella da Gandino.
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Ottagonale e corredato di quattro torri ad angolo, esso rappresenta una delle tipiche espressioni del gusto
rinascimentale tridentino e nelle sue ampie sale ospita alcune pregevoli opere pittoriche, realizzate dagli
artisti che lavorarono in quel periodo a rendere più bella ed accogliente la città di Trento, in particolare
Marcello Fogolino, Battista e Giovanni Dossi, Gerolamo Romanino. Tra questi lavori eseguiti negli interni
della struttura, spiccano gli affreschi del ciclo dei mesi. Il termine «Albere» si deve al fatto che
originariamente, lungo la via che collegava il convento di Santa Croce all´edificio, era stata piantata una
doppia e suggestiva fila di pioppi. La sua fisionomia fu in seguito ulteriormente arricchita ed abbellita per
volere del vescovo Cristoforo, che adoperò abitualmente il palazzo come luogo di rappresentanza. Tra le
occasioni in cui esso ebbe modo di ospitare personaggi illustri dell´epoca, spicca la visita di Carlo V nel
1541. L´imperatore aveva deciso di fare una sosta a Trento dopo gli impegni che lo avevano tenuto
occupato alla dieta di Worms e fu assai favorevolmente impressionato dalla bellezza della costruzione,
tanto da definirla, tramite la penna del suo cronista personale, «una delle più belle, ricche e magnifiche
residenze vescovili che si possano ammirare». Otto anni più tardi, toccò al figlio Filippo, che allora era
principe di Spagna e sarebbe stato destinato entro breve tempo a succedere al padre sul trono imperiale,
essere ricevuto dal vescovo presso il Palazzo delle Albere.
Le riforme in campo giuridico. Il collezionismo madruzziano
Cristoforo Madruzzo, durante il suo periodo di permanenza a Trento e proprio nell´anno di convocazione
del Concilio in questa città, decise di rinnovare i procedimenti civili e penali, con lo stabilire nuove regole
procedurali. Questa sua riforma produsse quelle particolari innovazioni giuridiche che vanno sotto il nome
di «Constitutiones excelsae superioritates Tridenti», comunemente dette «Cristoforine», inserite all´interno
dello statuto della città di Trento. Il vescovo apportò le medesime modifiche anche nell´ordinamento
giuridico del principato di Bressanone, che nel 1542 resse come coadiutore e dal 1543 al 1578 come
amministratore.
Madruzzo fu anche appassionato collezionista di opere d´arte e di oggetti antichi. La sua raccolta
annoverava una vastissima serie di gioielli, medaglie, vasellame, quadri, arazzi, abiti antichi, preziosissimi
marmi, minerali, oggetti in argenteria, candelabri e soprammobili, scritture miniate - soprattutto di antichi
codici - ed ogni sorta di libri delle più differenti epoche storiche e provenienze. Il cardinale coltivò questa
sua passione con un fervore ancora più grande quando si stabilì a Roma, dove era solito intrattenere
relazioni con i più importanti antiquari e commercianti in antichità dell´epoca. Si trattava di un assortimento
davvero imponente, che rappresentò per la sua famiglia una grande ricchezza e per tutto il collezionismo
trentino un patrimonio unico.
La sua morte avvenne il 5 luglio 1578 a Tivoli, proprio il giorno nel quale compiva sessantasei anni, e il suo
corpo fu tumulato a Roma nella chiesa di Sant´Onofrio. Per accogliere la salma del cardinale, il nipote
Ludovico fece costruire presso la chiesa medesima la cappella Madruzzo, presso la quale vennero
successivamente trasportati i corpi degli altri componenti di questa famiglia, tra i quali vanno annoverati gli
altri due principi - vescovi e cardinali che succedettero a Cristoforo: Ludovico e Carlo Gaudenzio.
Ludovico Madruzzo
La scalata di Ludovico Madruzzo ai vertici della gerarchia ecclesiale
Ludovico Madruzzo, nato a Trento nel 1532, era figlio del barone Nicolò Madruzzo e di Elena di Lanberg,
una contessa stiriana. Effettuò i suoi primi studi sotto la guida di precettori privati e passò successivamente
a frequentare le università di Lovanio e di Parigi. A diciassette anni venne nominato dallo zio Cristoforo
Madruzzo, allora vescovo di Trento, coadiutore nelle attività episcopali. La carriera ecclesiastica procedette
per Ludovico a ritmi incalzanti: a soli ventisei anni fu scelto come legato pontificio di Pio IV con compiti di
grande responsabilità nelle relazioni diplomatiche con l´imperatore Ferdinando I, e nel 1561 (a 29 anni)
conseguì anche il titolo di cardinale. Nel 1567 fu nominato vescovo di Trento dal pontefice Paolo III (che
sei anni prima aveva promosso la sua ascesa al cardinalato), divenendo titolare dell´episcopato a tutti gli
effetti; da diciassette anni invero esercitava di fatto quest´incarico, in quanto lo zio, al momento di recarsi a
Roma dopo il conseguimento della porpora cardinalizia, gli aveva ceduto l´amministrazione del principato
vescovile.
Gli esordi del Madruzzo all´episcopato e la copiosità delle sue relazioni diplomatiche
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Un compito importante attendeva il nuovo vescovo e a questo egli si dedicò per buona parte della sua vita:
si trattava dell´attuazione delle direttive del Concilio di Trento, da poco conclusosi. Per adempiere a quella
che egli stesso avvertì come una vera e propria missione si prodigò nelle visite pastorali all´interno della
diocesi, controllando da vicino la vita delle comunità ecclesiastiche in maniera scrupolosissima: dai costumi
dei sacerdoti, alla loro disciplina, al decoro degli arredamenti, allo stato delle canoniche e dei cimiteri, all
´osservanza delle regole che animavano la vita di comunità e l´amministrazione dei beni di proprietà della
Chiesa, all´applicazione delle nuove norme in materia di matrimoni e di sacramenti; arrivò addirittura ad
analizzare di persona anche i libri contabili tenuti dai sacerdoti nelle rispettive parrocchie. Senza dubbio si
deve in gran parte a lui se la diocesi tridentina riuscì a conformarsi in tempo relativamente breve alle
disposizioni conciliari.
Dai papi del suo tempo e dall´imperatore di Spagna Filippo II veniva tenuto in grande stima e
considerazione, soprattutto per l´intelligenza e le spiccate abilità diplomatiche, che gli valsero missioni
importanti. Oltre a far parte della legazione pontificia di cui si è detto, nel 1572, per la durata di tredici anni,
gli fu attribuito il compito di rappresentare il papa nella dieta di Augusta, istituita allo scopo di stabilire le
strategie nella guerra allora in atto contro i turchi (1). Intrattenne una profonda amicizia con due tra le più
alte personalità della Chiesa di quei tempi, San Carlo Borromeo e San Filippo Neri. Quest´ultimo, in
particolare, fu il suo padre spirituale ed ebbe spesso una notevole influenza sulle scelte e sulle decisioni del
vescovo.
Ferdinando II d´Asburgo e l´avvento del «Temporalienstreit»
Nonostante queste influenti protezioni, Ludovico entrò in contrasto con uno dei potentati più autorevoli del
tempo: la casa d´Austria. Accadde in questo modo: non appena i possedimenti del Tirolo passarono in
eredità all´arciduca Ferdinando II (figlio del defunto imperatore Ferdinando I), questi effettuò un vero e
proprio colpo di mano nei confronti del principato di Trento, intraprendendo un´azione di forza che diede
origine al cosiddetto «Temporalienstreit». Era l´11 ottobre 1567, ed approfittando della temporanea assenza
del vescovo reggente, Cristoforo Madruzzo, che come anticipato si trovava a Roma dopo la nomina a
cardinale, il nuovo arciduca volle imporre al principato vescovile un nuovo ordine di accordi, che
limitavano in modo decisamente consistente la sfera d´azione del vescovo, rinnegando in pratica sia la
validità del «Landlibell» stipulato nel 1511 tra l´imperatore Massimiliano e il vescovo Giorgio Neideck, sia
quella delle «compattate» del secolo precedente. Il Landlibell, in particolare, aveva garantito per qualche
decennio l´equilibrio nei rapporti tra la casa austriaca e il vescovo, creando una sorta di patto confederale.
Ludovico Madruzzo lo preferiva addirittura alle vecchie compattate, tanto che accettava queste ultime
soltanto alla luce dell´interpretazione che ad esse era stata data in seguito alle intese con l´ imperatore
Massimiliano. Ora invece, Ferdinando II pretendeva che il vescovo rinunciasse al suo titolo di principe,
rivendicando per contro il proprio potere sovrano quale principe territoriale anche in sede giurisdizionale,
esigendo giuramento di fedeltà sia dal vescovo, sia da ogni suddito del principato. Inoltre, imponeva al
vescovo di liberarsi dei funzionari di lingua italiana all´opera presso la sua corte, e di assumere
esclusivamente personale qualificato di provenienza tedesca. La questione riguardava direttamente anche il
principato vescovile di Bressanone, poiché anche nei confronti di questo l´arciduca Ferdinando avanzava
analoghe pretese.
Si trattava, come si può intuire, di rivendicazioni che influivano in maniera pesantissima sull´autonomia del
principato, che per qualche tempo rimase completamente spiazzato dalla repentinità di quest´azione. Le
intenzioni del nuovo arciduca miravano quindi a ripristinare, con l´esercizio di una forte azione di controllo
sia politica che amministrativa, il consueto legame del Trentino con i conti del Tirolo, riprendendosi quella
sovranità che con due personalità del rango di Bernardo Clesio e di Cristoforo Madruzzo era divenuta
invece appannaggio dell´autorità vescovile. Non da ultimo, Ferdinando II era senza ombra di dubbio
preoccupato delle conseguenze che avrebbe potuto avere una politica così spiccatamente clientelare
instaurata dai Madruzzo, che tendevano a conservare molto gelosamente il potere all´interno della propria
famiglia.
La controffensiva diplomatica del cardinale a Roma
A sostituire Cristoforo Madruzzo, c´era in quel momento a Trento appunto il nipote Ludovico, il quale, in
parte perché colto alla sprovvista dalla perentorietà del gesto di Ferdinando e in parte perché si trovava in
quel momento sprovvisto di potere effettivo, in un primo momento sottoscrisse gli accordi. La Chiesa di
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Trento non tardò ovviamente molto a rendersi conto delle conseguenze che un tale gesto avrebbe
comportato, e poco più tardi il titolare effettivo dell´episcopato si affrettò a lasciare a tutti gli effetti la
carica vescovile nelle mani del nipote, il quale lottò con accanimento per recuperare gli antichi diritti,
nonostante la strenua resistenza, oltre che dell´ arciduca Ferdinando, anche del magistrato consolare della
città di Trento. Il nuovo presule, infatti, si ritirò nel 1568 prima a Riva e successivamente a Roma: qui
predispose la controffensiva, ricorrendo espressamente alla Santa Sede ed ottenendo gradualmente che il
sostegno del pontefice Pio V desse esiti più confortanti. Il Madruzzo lamentava naturalmente che i recenti
accordi erano del tutto invalidi in quanto estorti con la forza, interpretazione che ora era avvalorata dal
Capitolo di Trento, della stessa opinione per il fatto di non essere stato interpellato al momento dei «patti»
dell´ anno precedente.
Recandosi a Roma e stabilendovisi, Ludovico volle effettuare una precisa scelta: abbandonò per quasi una
decina d´anni l´amministrazione finanziaria e la gestione di quelle attività del principato vescovile, tra le
quali non ultime quella pastorale, che rimanevano strettamente legate con la sua presenza a Trento; ma
dedicò i suoi sforzi a quell´attività diplomatica che esigeva la presenza nella capitale e che l´avrebbe
portato, nel corso di tutto questo tempo, a rafforzare in modo determinante la propria posizione. Dopo
qualche tempo, Ludovico riuscì a fare partecipe del proprio problema la dieta imperiale, un organo di
notevole importanza soprattutto in sede politica, che a Spira si pronunciò su un documento che avrebbe
dovuto regolare la questione del Temporalienstreit. Tuttavia, le condizioni proposte si presentavano ancora
insufficienti a garantire al vescovo il recupero delle prerogative godute in precedenza.
La vittoria del vescovo-cardinale attraverso le tappe di Spira e Ratisbona, e le sopraggiunte difficoltà
seguite alla ripresa del principato vescovile
Nel 1573 avvenne a Roma un fatto che consolidò ancora di più l´autorità di Ludovico Madruzzo. Il papa
fondò la Congregatio Germanica, organo di coordinamento diplomatico e politico tra la Santa Sede e l
´autorità imperiale, e Ludovico venne nominato «Protector Germaniae», con una responsabilità assai
rilevante per tutte le candidature al cardinalato e all´episcopato. La svolta si verificò allorché Ferdinando
fece pervenire con insistenza in curia la richiesta di elevazione al cardinalato per il figlio Andrea, e dovette
venire a patti con Ludovico. Gli intrallazzi di Ferdinando per trovare un´adeguata sistemazione al figlio
avranno esito alcuni anni più tardi, nel 1580, quando riuscì ad ottenere per lui l´episcopato di Bressanone.
Le cose per il vescovo di Trento migliorarono anche con l´ascesa al trono imperiale di Rodolfo II, zio di
Ferdinando e con costui in rapporti non del tutto eccellenti. In tal modo le due parti pervennero ad un
accordo definitivo, sancito nel 1576 in occasione della dieta di Ratisbona. Il nuovo negoziato prevedeva la
conferma di alcune disposizioni già contenute nella cosiddetta «notula di Spira», ma in più veniva altresì
stabilito che il vescovo rientrasse in possesso del suo titolo di principe. Era inoltre ripristinata la validità
delle «compattate» degli anni 1454 e 1468, che contenevano tutta una serie di garanzie soprattutto per il
vescovo e che invece Ferdinando, col suo atto di forza effettuato nove anni prima, aveva letteralmente
spazzato via; mentre non si teneva conto delle compattate antecedenti al 1454. Sulle compattate veniva
ripristinato un impegno solenne, in quanto sia il vescovo, che l´arciduca, che i rappresentanti municipali e
giurisdizionali del principato erano obbligati a prestare solenne giuramento.
Il Madruzzo aveva conseguito il premio dei suoi sforzi: undici anni di lontananza dalla diocesi di Trento
non gli avevano permesso di continuare quell´attività ordinaria che costituisce parte integrante dell
´esercizio del suo ministero, ma in compenso era riuscito, con la scalata ai vertici della gerarchia ecclesiale,
a toccare i tasti giusti e ad ottenere ascolto dalle autorità più influenti.
In verità, l´ultimo accordo non risultò completamente risolutivo delle relazioni tra Ferdinando e la Chiesa di
Trento. I patti di Ratisbona che riportavano con qualche modifiche la notula di Spira lasciavano per la verità
in sospeso la questione della sovranità, da definirsi nel contesto di un lodo imperiale che avrebbe dovuto
essere pronunciato nell´ arco di un anno. In realtà, il negoziato aveva rappresentato per il principato
vescovile una notevole conquista, ed aveva portato ad un recupero del prestigio e dell´autorità del suo
massimo rappresentante affatto trascurabile. La sospensione della cosiddetta questione della sovranità era
più che altro un modo diplomatico per tentare di sopire le richieste di Ferdinando II e differire ulteriormente
non tanto il riconoscimento del potere temporale del vescovo, che la notula di Spira effettivamente
garantiva, quanto piuttosto la rinuncia alla pretese avanzate dall´arciduca nel 1567. Anche se nella sostanza
non cambiava granché, si trattava comunque di un espediente alquanto sottile adottato allo scopo di non
offendere eccessivamente, in quel momento, la persona dell´arciduca, e rinviare la questione, alquanto
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formale, a breve tempo.
In realtà, tuttavia, questo pronunciamento dell´imperatore in merito all´oggetto del contendere non avvenne
mai; il risultato fu che tra l´autorità arciducale e quella vescovile si protrasse una serie di lungaggini
burocratiche che finì con l´appesantirne vieppiù i rapporti. Inoltre, nella città di Trento i rappresentanti
austriaci continuavano a macchinare nascostamente con quella componente della municipalità che faceva
capo alla magistratura consolare, diventata ormai un elemento di costante disturbo al potere vescovile. Le
circostanze rendevano quindi di difficile realizzazione il ripristino di un clima favorevole all´ordine e alla
distensione, nonostante il successo del lavorio politico di Ludovico Madruzzo, che gli aveva guadagnato sia
l´appoggio dell´imperatore, sia quello del papa.
Il sostegno accordato alla potenza bavarese. La scarsità di conferme in merito alla passione per il
collezionismo
Il vescovo esercitò un´opera di notevole importanza politica anche per i legami che riuscì ad instaurare con
la Baviera. L´inizio dell´intesa con l´autorità bavarese, che si rivelerà di fondamentale importanza per la
Chiesa di Trento qualche decennio più tardi nel quadro delle relazioni con gli stati tedeschi, si ebbe allorché
il Madruzzo agì come legato pontificio per porre rimedio al ripudio del cattolicesimo operato dall
´arcivescovo di Colonia Gebhard Truchsess von Waldburg. In tale occasione, il vescovo di Trento, specie in
seguito alla dieta di Augusta del 1582, collaborò con Ernesto di Baviera per ristabilire l´unità cattolica nella
zona nord-occidentale della Germania, e contribuì così in modo decisivo alla crescita della potenza
bavarese.
A differenza di quanto accadde per lo zio Cristoforo e per i suoi successori Carlo Gaudenzio e Carlo
Emanuele, non vi sono moltissimi documenti che testimonino la passione del cardinale Ludovico Madruzzo
per la collezione di oggetti antichi e di opere d´arte. E´ presumibile che anche Ludovico non avesse certo
disdegnato la predisposizione al collezionismo, tipica della più classica tradizione familiare. Tuttavia, l
´abbondanza di documenti ed inventari ad elencare la ricchezza del materiale da collezione facente capo
allo zio Cristoforo e al nipote Carlo Gaudenzio, fa pensare che l´inclinazione verso questo passatempo
abbia rappresentato per le personalità di questi due vescovi una segno distintivo più evidente di quanto lo
sia stato per Ludovico.
Nel 1587 il Madruzzo prese la decisione di adibire a sacrestia del Duomo la cappelletta dedicata a San
Biagio e a Santa Lucia, nella quale fu innalzato un altare in onore di San Romedio.
Il sinodo del 1593 con l´istituzione del Seminario. La grande importanza che il Madruzzo attribuiva a
questo progetto nella testimonianza delle ampie dotazioni previste in favore del nuovo Istituto
Nel 1593 Ludovico Madruzzo promosse un sinodo diocesano, che si concluse con la promulgazione di
alcune costituzioni riguardanti la disciplina ecclesiastica e la promozione dell´attività religiosa. Tra queste
spicca quella che istituì il Seminario diocesano, che si può considerare come una delle iniziative più
interessanti intraprese dal vescovo. Egli aveva particolarmente a cuore l´attività di questo nuovo organismo
e lo considerava come uno degli strumenti più efficienti per realizzare l´ opera di rinnovamento del clero
diocesano che il Concilio di Trento aveva previsto come requisito imprescindibile della Controriforma. E´
utile ricordare che uno dei terreni sui quali maggiormente si svolse la battaglia della Controriforma fu
quello dell´istruzione: per riconquistare alla causa cattolica le regioni transalpine, che la Riforma
protestante aveva in larga parte sottratto alla Chiesa, e per recuperare il prestigio di quest´ultima nell
´Europa mediterranea, era necessario disporre di sacerdoti di grande preparazione e competenza. Benché
fossero soprattutto i membri della Compagnia di Gesù a spiccare nell´assolvimento di questo compito,
anche dagli altri Ordini del clero la Chiesa aveva preteso una radicale trasformazione culturale e
moralizzatrice.
Per dotare appunto il Seminario di un patrimonio, Ludovico si fece trasferire tutte le proprietà delle quali
aveva goduto l´Ordine dei Crociferi, soppresso l´anno precedente dal pontefice Clemente VII, e destinò a
favore del Seminario medesimo diversi priorati della diocesi. I priorati di San Martino a Trento, di Sant
´Ilario a Rovereto, di San Tommaso a Riva, di Santa Brigida nella pieve di Malè, di Santa Margherita in
Val Lagarina, di Campiglio e del Tonale, nonché i benefici di San Giacomo nella pieve di Tione, di San
Gallo e San Lazzaro presso la pieve di Revò, di San Daniele nella pieve di Flavon, quello di Campiglio e
quello della pieve di Ledro vennero tutti assegnati in capo al Seminario di Trento, la cui gestione ed
amministrazione fu affidata dal vescovo ai Chierici regolari di Somasca.
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Ludovico Madruzzo si spense a Roma il 2 aprile del 1600, al termine di un episcopato durato ventitre anni;
cinque anni prima aveva provveduto a nominare quale coadiutore suo nipote Carlo Gaudenzio, che diverrà
suo successore sul soglio di Trento. Venne seppellito nella cappella Madruzzo, che egli stesso aveva avuto
cura di far costruire presso la chiesa di Sant´Onofrio in Roma, al momento della morte dello zio Cristoforo.
Note:
1. Non si trattava della prima volta che, nel ‘500, le massime autorità europee tenevano in notevole
considerazione il parere del vescovo di Trento riguardo a un problema estremamente impellente a quei
tempi come la strategia politica e militare da intraprendere nei confronti della minaccia turca. Si veda, in
proposito, il ruolo centrale ricoperto pochi decenni prima da Bernardo Clesio.
Trento conciliare: fra Italia e Germania, papato e impero
Dopo gli sforzi del Clesio perché Trento fosse designata quale sede del Concilio che doveva ricomporre le
fratture generatesi entro la cristianità e indire un’opera di riforma da opporre alle accuse lanciate dai
protestanti alla chiesa di Roma, nella dieta di Spira del 1542 tale scelta si impose sulla candidatura di altre
città dell’Italia settentrionale proposte dalla curia papale. Gli elementi che avevano fatto decidere per Trento
furono essenzialmente quelli che fin dal 1524 aveva espresso Carlo V e che il cardinale Bernardo, principe
tridentino, aveva calorosamente sostenuto durante il suo episcopato: l’appartenenza della città al corpo
romano germanico e nello stesso tempo la sua componente italiana, il fatto di essere cioè situata alle soglie
dell’impero, a stretto contatto con quella cultura tedesca entro la quale era sorta l’opposizione al papato. A
questo ruolo di cerniera, riscoperto in tempi recenti, dopo la caduta dei nazionalismi, il territorio trentino fu e
rimase sempre legato anche contro la sua stessa volontà, ricevendone di volta in volta, attraverso le diverse
stagioni della storia, linfa culturale o motivo di contrasti etnico-politici.
Dall’ingresso in città dei messi pontifici nel novembre del 1542, per prendere conoscenza dei problemi
logistici legati alla prossima presenza nella piccola capitale del principato di un così numeroso e prestigioso
consesso, fino all’apertura effettiva dell’assise intercorsero tre anni. Il Concilio venne infine inaugurato nel
dicembre del 1545, alla presenza di una trentina di vescovi presieduti dai legati papali. Le energie che
profuse il principe vescovo e da poco cardinale Cristoforo Madruzzo per accogliere gli illustri ospiti, che poi
aumentarono a una settantina tra vescovi e teologi, furono molte. Quando Paolo III cogliendo l’occasione del
diffondersi di un’epidemia nel marzo del 1547 spostò il Concilio a Bologna, per ricondurlo anche
geograficamente sotto l’influenza papale, molti prelati rimpiansero l’ospitalità tridentina. Quanto a
Cristoforo, convinto interprete del ruolo di mediatore fra Roma e l’impero, già nelle prime sedute aveva
espresso convinzioni dogmatiche che lo esponevano pericolosamente dal lato dell’ortodossia e che
incontrarono logicamente l’opposizione dei legati papali, in particolare di Giulio Del Monte, il futuro papa
Giulio III. Una posizione politicamente e teologicamente scomoda quella di Cristoforo, aggravata dalla sua
amicizia con il cardinale inglese Reginald Pole e con altri prelati che caddero poi sotto le mire
dell’Inquisizione, mentre il suo segretario Jacopo Acconcio sarebbe addirittura fuggito in Svizzera
abbracciando la fede riformata.
In seguito alla vittoria sulla lega protestante nel 1549 a Mühlberg Carlo V, ritenendo possibile grazie al
successo delle sue armi addivenire a quella ricongiunzione del corpo cristiano che egli inseguiva da tempo,
fece pressione su papa Giulio III per una ripresa dei lavori conciliari nella medesima città che ne aveva
ospitato la prima fase. L’assemblea che riprese i lavori a Trento nel maggio del 1551 si presentava a ranghi
appena più ridotti della precedente, ma vedeva al contempo la presenza di illustri personalità, come i tre
arcivescovi elettori dell’impero. Gli sforzi del cardinale tridentino per rendere gradita la permanenza alle
autorità ecclesiastiche furono anche questa volta encomiabili, mentre Cristoforo in tale occasione interpretò
con maggior autorevolezza il ruolo di prelato rappresentante il punto di vista imperiale, facendo inoltre da
tramite fra gli osservatori mandati dai principi protestanti e l’assemblea.
Così come gli eventi di Germania avevano fatto riaprire sotto buoni auspici il Concilio a Trento, l’evolversi
degli stessi in maniera sfavorevole a Carlo V, cioè il riaprirsi delle ostilità e il mutamento di fronte di
Maurizio di Sassonia, decretò nell’aprile del 1552 quella che sembrava ormai una sua definitiva chiusura. Ci
si avviava verso l’esaurimento del ‘decennio dell’imperatore’, quando i suoi progetti pacificatori e la
costituzione di un impero universale cristiano erano sembrati vicini alla realizzazione. La pace di Augusta
del 1555, con il suo tentativo di introdurre una norma nelle scelte religiose dei sudditi, sanciva quello che era
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un dato di fatto e cioè la definitiva scissione confessionale all’interno della compagine romano-germanica.
Le mutate condizioni politiche europee e il lungo periodo di sospensione tra la seconda e la terza fase
conciliare – aperta a dieci anni di distanza, nel 1562 – giustificavano il fatto che ci si fosse interrogati
sull’opportunità o meno di considerare la riconvocazione dei vescovi cattolici come la prosecuzione del
Concilio tridentino. Dell’ambizioso progetto di Carlo V non vi era più traccia ormai: le fedi riformate si
stavano ora diffondendo ampiamente anche al di fuori dell’ambito germanico, mentre i possedimenti
spagnoli e quelli imperiali erano stati divisi tra i due rami degli Asburgo. In condizioni politiche così
profondamente mutate, il vecchio interprete delle aspirazioni di Carlo V, Cristoforo Madruzzo, era ormai
fuori gioco. Egli rimase a Roma lasciando al nipote Ludovico, coadiutore a Trento e per l’occasione creato
cardinale, l’incombenza di accogliere i rappresentanti di una chiesa, la quale non mirava più a guadagnare i
dissidenti, ma voleva portare a compimento il dibattito in materia dogmatica e stabilire i modi e i termini di
una profonda riforma del corpo cattolico.
Fu in questa terza fase (1562 - 1563) che la città di Trento dovette sostenere gli oneri maggiori nel ricevere
un consesso il quale vide presenti oltre duecento vescovi e una quantità di teologi e di componenti le diverse
legazioni, così da far aumentare di circa duemila persone una città di poche migliaia di abitanti.
I rapporti del Principato con la contea del Tirolo
Le età di Massimiliano I e di Carlo V avevano visto evolversi sotto una nuova luce i rapporti tra la contea del
Tirolo e il principato vescovile di Trento, il quale con la stessa – anche dopo il suo passaggio sotto casa
d’Austria – vantava secoli di difficile convivenza. La stagione in cui l’impero era tornato prepotentemente e
con progetti di ampio respiro al centro delle vicende europee aveva sortito l’effetto di sospendere i
contenziosi in materia giurisdizionale tra i conti e i principi vescovi, mentre questi ultimi erano stati
addirittura elevati a elementi-chiave della politica imperiale: a partire dal Neideck, fino alla grande figura del
Cles, per giungere al ruolo di Cristoforo Madruzzo come attivo fautore dell’ambizioso disegno di Carlo V.
Le scissioni religiose che avevano travolto la Germania e si trasmettevano ad altre regioni dell’Europa
centrale e settentrionale e che fecero trascolorare il ‘sogno’ di un universo cristiano unito sotto lo scettro
degli Asburgo produssero effetti anche nel principato tridentino. Svanito il compito di luogo di incontro in
vista di una possibile pacificazione tra protestanti e cattolici esercitato dalla sua piccola capitale durante la
stagione conciliare, il territorio vescovile tornava ad essere oggetto delle mire tirolesi. Le terre degli Asburgo
d’Austria, ora svincolate da quelle dei cugini spagnoli, andavano del resto ormai assumendo una
connotazione propria, mentre la contea del Tirolo veniva nuovamente affidata a un ramo collaterale della
famiglia, dopo che sotto Massimiliano e Carlo V le figure di conte e di imperatore coincidevano.
Fu in questa nuova temperie, la quale con l’offuscarsi dei progetti universalistici riportava in vita i vecchi
contrasti locali, che si sviluppò il lungo contenzioso giurisdizionale tra Ludovico Madruzzo e l’arciduca
Ferdinando conte del Tirolo, fratello del nuovo imperatore romano-germanico Massimiliano II. Al vuoto di
potere creatosi nel principato, quando Cristoforo tardava a passare definitivamente il potere al nipote
Ludovico, viene attribuita la mossa avventata di quest’ultimo appena nominato vescovo di Trento. Si trattò
della firma nel 1567 di un accordo con la contea contenente clausole che pregiudicavano l’autonomia del
principato e la sua appartenenza diretta (unmittelbar, immediata) all’impero, per farne un territorio ‘mediato’
(mittelbar), cioè inserito sempre nella compagine romano-germanica ma indirettamente, in quanto
dipendente principalmente dal conte del Tirolo. Il tardivo recedere di Ludovico Madruzzo dagli impegni
presi, avvalendosi del fatto che per decisioni di tal genere necessitava l’assenso dell’intero corpo germanico,
diedero luogo al sequestro del principato, operato dall’imperatore Massimiliano, mentre di fronte alle
minacce tirolesi i canonici e il vescovo riparavano a Riva del Garda e quest’ultimo si portava poi a Roma.
Non mancarono alla grande personalità di Ludovico, grazie al ruolo da lui ricoperto nella curia romana, né
l’appoggio papale, né quello di Filippo II di Spagna. Dopo la cosiddetta "Notula spirense" (l’accordo in
merito alla vertenza tridentina raggiunto alla dieta di Spira nel 1571) fu la denuncia inoltrata contro
l’imperatore dal duca di Baviera nella dieta di Ratisbona del 1576 ad accelerare la soluzione della questione:
due anni dopo Ludovico poté infatti assumere il governo temporale del principato di Trento mantenendo
illesi i diritti di quest’ultimo.
Nel 1595, alla morte dell’arciduca Ferdinando del Tirolo, la contea venne amministrata per alcuni anni
dall’imperatore Rodolfo II, per passare poi sotto la reggenza dell’arciduca Massimiliano Gran Maestro
dell’Ordine Teutonico. Essendo quest’ultimo un religioso e non potendo dar luogo a una stirpe, nel 1619 il
Tirolo passò all’arciduca Leopoldo, fratello dell’allora imperatore Ferdinando II. Anni turbolenti per i
principati vescovili di Bressanone e di Trento (ma in particolare per quest’ultimo) rappresentò il periodo di
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reggenza dell’arciduchessa Claudia de’ Medici, contessa del Tirolo e vedova di Leopoldo. Con i figli di
quest’ultima, Ferdinando Carlo e Sigismondo Francesco, morti senza lasciare prole, si estinse il ramo tirolese
degli Asburgo e la contea da quel momento ritornò definitivamente all’arciduca d’Austria e sacro romano
imperatore
Durante la prima metà del Seicento anche in Tirolo pesò l’ombra minacciosa della guerra dei Trent’anni,
mentre le vicende politiche interne furono soprattutto caratterizzate dagli attriti tra gli Asburgo e i ‘ceti’
(Stände) della regione per ottenere sovvenzioni atte a far fronte ai pressanti impegni bellici. I due principati
vescovili che coprivano una parte del territorio, i quali erano legati alla contea per quanto riguardava la
difesa comune ancora dal Libello del 1511, non rimasero esenti da tali vertenze. Essi si aggrapparono
all’antico trattato e procrastinarono finché fu loro possibile un innalzamento degli oneri contributivi,
provocando la reazione dei conti del Tirolo. Questi ultimi intravidero la soluzione ai dinieghi vescovili
tridentini in materia fiscale cercando di raggiungere l’obiettivo che non era riuscito a Ferdinando durante il
vescovato di Ludovico Madruzzo: rendere il principato dipendente direttamente dalla contea e inserirlo nella
dieta del paese insieme agli altri ‘ceti’, come suddito e non più come membro esterno. Se l’opposizione dei
messi tridentini alla dieta, pur biasimata, riuscì sotto l’arciduca e conte del Tirolo Leopoldo, crollò durante la
reggenza dell’energica Claudia de Medici. Quest’ultima, dura verso gli stessi propri ‘ceti’ provinciali per la
troppa parsimonia con cui concedevano le contribuzioni, nel 1632, mentre le truppe protestanti svedesi
minacciavano per la seconda volta le frontiere settentrionali del Tirolo, spedì i propri soldati a Trento per
obbligare il vescovo Carlo Emanuele Madruzzo ad adeguarsi alle richieste fiscali e in particolare al
pagamento di una tassa vinaria. Dopo complicate trattative condotte alla dieta dell’impero di Ratisbona e con
l’aiuto di papa Urbano VIII, si giunse a un compromesso rispetto alla faccenda delle contribuzioni. Ma la
sanzione ultima dei diritti del principato tridentino a conservare il proprio ruolo di organo direttamente
dipendente dal corpo romano-germanico, evitando dunque di essere incluso nella contea, avvenne oltre la
metà del secolo. Quando le pretese dell’arciduchessa Claudia vennero rinnovate dal figlio Ferdinando Carlo,
succedutole nel 1646, il problema giunse addirittura sul tavolo delle trattative condotte per la pace Westfalia.
Nel 1649 il collegio dei principi elettori dell’impero si espresse in favore dei diritti di Trento e Bressanone,
ma l’imperatore Ferdinando III non diede risposta. Benché i due vescovi, pur dietro accomodamenti in
materia contributiva, di fatto rimanessero illesi nella loro condizione di principi dell’impero, la questione nel
suo profondo rimase irrisolta. Carente fu anche la cosiddetta Transazione del 1662, stipulata tra la contea del
Tirolo e l’allora principe tridentino Sigismondo Francesco d’Asburgo, che intendeva regolare questa e una
serie di altre questioni da tempo in sospeso.
Barocco tridentino di Mauro Nequirito
La controriforma nella diocesi di Trento
Con la visita pastorale nella diocesi tridentina condotta, in parte anche personalmente, da Ludovico
Madruzzo negli anni 1579 - 1581, si ebbe la prima applicazione in regione degli indirizzi conciliari. Tale
iniziativa da parte di un vescovo del quale fu apprezzata durante lo stesso Concilio la preparazione teologica
e che poi rivestì compiti così determinanti per la riforma cattolica nelle terre germaniche non poteva non
assumere un significato centrale per la vita religiosa nell’episcopato. Certamente fu forte lo zelo con il quale
Ludovico mise in pratica i dettami conciliari nelle terre affidate alle sue dirette cure spirituali, tanto più in
quanto la visita pastorale iniziò non appena egli poté ritornare a Trento in veste di principe dopo la forzata
assenza decennale. Nel 1590 egli consegnò alla Sacra Congregazione del Concilio la prima relazione sullo
stato della diocesi di Trento. Nel 1593 eresse un seminario vescovile a norma delle prescrizioni conciliari e
nello stesso anno indisse un sinodo diocesano, il quale elaborò norme per la disciplina ecclesiastica che
furono poi pubblicate a stampa.
Scarse sono le notizie sull’azione esercitata dai due ultimi vescovi Madruzzo nell’ambito della vita spirituale
della diocesi. Colui al quale appare essere stata maggiormente legata la successiva fase del processo di
adeguamento in senso controriformista della chiesa tridentina fu Pietro Belli, vicario generale e suffraganeo
di Carlo Gaudenzio Madruzzo, attivo dal 1613 al 1630, il quale assunse su di sé i compiti pastorali cui il
vescovo non poteva adempiere a causa delle proprie assenze. Anche per quanto riguarda le amministrazioni
vescovili successive sarebbero necessarie indagini approfondite sull’aspetto del loro governo spirituale;
soprattutto manca un quadro generale sullo stato del clero parrocchiale, quello più a stretto contatto con le
popolazioni, il quale avrebbe dovuto farsi carico della trasmissione del moto di rinnovamento ecclesiale.
Certo è che le norme prescritte dal Concilio contro l’accumulo delle cariche e delle rendite ecclesiastiche da
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parte degli alti prelati spesso non vennero rispettate, mentre le dignità canonicali e vescovili furono ancora
oggetto di strategie familiari e politiche. Un esempio per tutti, quello dell’arciduca e conte del Tirolo
Leopoldo d’Asburgo, il quale, prima dell’abbandono della carriera ecclesiastica, fu canonico a Colonia e a
Costanza e vescovo di Passavia e di Strasburgo. Il figlio Sigismondo Francesco poté vantare addirittura la
presenza in otto capitoli dell’impero: a Colonia, Bressanone, Augusta (qui anche coadiutore con diritto di
successione), Passavia, Trento (qui pure fornito della coadiutorìa), Salisburgo, Treviri e Strasburgo. Prima di
essere nominato vescovo a Trento quale successore di Carlo Emanuele Madruzzo, gli era inoltre già stato
conferito il vescovato di Gurk.
Centrale fu l’influenza religiosa lungo tutto il Seicento nella vita delle popolazioni e in particolare nelle
manifestazioni pubbliche. In un principato ecclesiastico come quello di Trento essa si manifestò con
particolare evidenza anche in virtù del fatto che il potere spirituale e il potere temporale si trovavano riuniti
in una sola figura, quella del principe vescovo, concorrendo l’un elemento all’elevazione dell’altro. In tal
modo le espressioni esteriori del culto con la loro magnificenza davano lustro anche agli emergenti poteri
assolutistici, che attecchirono anche a Trento grazie al potenziamento dell’autorità principesco-vescovile nel
periodo della Controriforma. Ciò si manifestò con evidenza sotto Carlo Gaudenzio Madruzzo, personalità
energica e accentratrice, che regolò da pari a pari alcune pendenze con la contea del Tirolo e durante il cui
governo non vi era ancora sentore della crisi che di lì a qualche decennio avrebbe dovuto affrontare il nipote.
Un ruolo fondamentale nella diffusione dei princìpi di una fede rinnovata, ma altresì pervasa dalla presenza
dei temi del peccato, della penitenza e della morte, fu svolto dalla fioritura di ordini religiosi verificatasi
anche in un’area come quella tridentina, dove l’autorità principesco-vescovile in passato aveva impedito
l’affermarsi di un forte potere del clero regolare. Qui crebbero le presenze dei francescani, vi si aggiunsero
quelle dei cappuccini, dei carmelitani e quella determinante dell’ordine che impresse il suo marchio alla
Controriforma, i gesuiti. Anche gli ordini femminili ricevettero impulso: grandi furono le energie impiegate
in questa direzione dalla beata Giovanna Maria della Croce, mistica roveretana che diffuse l’ordine delle
clarisse mediante la fondazione di conventi in regione e ai cui consigli, anche nella sfera politica, ricorsero i
potenti del tempo.
Ma la troppa insistenza sugli aspetti emozionali nel tentativo di carpire al popolo sentimenti di religiosità,
oltre al continuo richiamo alla presenza delle forze del male, su cui faceva leva l’azione dei predicatori, fece
sì che la tradizionale superstizione delle popolazioni montane, innestatasi sui temi rivisitati e accentuati
dell’angoscia del peccato e della minaccia alla fede cattolica, spesso prendesse il sopravvento. Così ai roghi
di Fié e della Val di Fiemme, che ancora nel secolo precedente avevano avvolto povere donne emarginate o
in preda a disturbi psicologici, contro le quali si erano scatenati i rancori e le inquietudini delle comunità
locali, si andarono ad aggiungere i processi per stregoneria secenteschi: quello della Val di Non, svoltosi
durante il governo di Carlo Gaudenzio Madruzzo, che portò a dieci condanne a morte, e quello avvenuto
sotto Carlo Emanuele in Val Lagarina nei feudi dei conti Lodron, che fece cinque vittime. Una piaga questa,
che si sarebbe protratta fino ai primi decenni del Settecento, quando ebbero luogo le ultime condanne per
stregoneria nella parte meridionale del territorio trentino, cui avrebbe fatto eco di lì a poco la denuncia di
Girolamo Tartarotti contro tale barbarie.
L’ordine religioso più rappresentativo della sensibilità controriformista e soprattutto quello dotato della
maggiore capacità di diffusione della stessa, attraverso i compiti da esso svolti nell’educazione e nella
formazione delle classi dirigenti del tempo, fu quello dei gesuiti. Il potere che essi accumularono nel corso
del tempo e che fu una delle cause della loro crisi ed esautorazione nel Settecento, fu probabilmente il
motivo per cui la loro venuta a Trento, su desiderio dei consoli cittadini per impiantarvi uno dei collegi allora
in auge, venne a lungo osteggiato da Carlo Gaudenzio Madruzzo. Nel 1625, grazie alle proteste consolari
inoltrate al conte del Tirolo e allo stesso imperatore, i gesuiti poterono infine insediarsi in città ufficialmente:
vi sarebbero rimasti fino al 1773, anno della loro soppressione, e sotto di loro si sarebbero formati, anche a
Trento come ovunque essi dispiegarono la loro attività pedagogica, i migliori intellettuali trentini.
La vita culturale e la festa barocca
All’interno della fioritura accademica verificatasi in Italia durante il Seicento ebbe un suo posto anche
l’Accademia degli Accesi, fondata nel 1629 a Trento sotto il patrocinio di Carlo Emanuele Madruzzo e
peraltro subito cessata a causa della pestilenza. Una vita stentata quella del sodalizio letterario tridentino, con
qualche sporadica apparizione nel 1648, una sorta di rifondazione nel 1671, scarsamente coronata da
successo, e un graduale spegnimento nei primi decenni del Settecento, seguito da un inutile tentativo di
ripresa nel 1761. Il vuoto verseggiare degli Accesi, il loro motto pretenzioso (Fit aemula motu), i velleitari
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pseudonimi dei membri, l’ostentata celebrazione del nume tutelare, il principe, tutto ciò poneva l’accademia
trentina sullo stesso piano delle numerose sorelle nate in quel tempo in Italia, dalle quali oggi la ricerca
storica è attratta, piuttosto che non per l’artificiosa e troppo concettuosa loro produzione letteraria, per il
significato sociale che rivestiva in quell’epoca una così diffusa urgenza associativa.
Un posto certamente di maggior rilievo, rispetto a queste
espressioni che caratterizzarono fortemente l’epoca, ma
che lasciarono altrettanto debole traccia, merita l’opera
di Michel’Angelo Mariani (Trento con il Sacro
Concilio), pubblicata nel 1673. Comunque indice di un
gusto letterario tipico del tempo, volto a sorprendere e a
suscitare meraviglia con scopi moralistici ed edificanti, il
lavoro del Mariani è tuttavia anche una preziosa
testimonianza sulla realtà del territorio tridentino di
allora, essendosi dedicato l’autore non solo alla
descrizione della città, ma anche di molti luoghi del
vescovato, dal punto di vista storico, economico,
artistico e del costume.
Assieme alle recite funebri o laudative degli Accesi,
protagoniste della stagione barocca a Trento furono
anche le rappresentazioni teatrali organizzate dai gesuiti
nell’ambito del loro collegio, ma offerte anche al
pubblico esterno, le quali erano per lo più ispirate a
soggetti religiosi o mitologici rivisitati in senso cristiano.
Esse pure erano basate su quegli effetti scenografici che
connotarono in generale le espressioni artistiche
barocche, dopo la fase più rigorosa e repressiva che
aveva contraddistinto i primi tempi della Controriforma.
Ma ciò che maggiormente sintetizza il gusto per le cose sorprendenti e atte a suscitare forti emozioni furono
le complesse scenografie allestite nelle strade della città per accogliere i personaggi illustri che vi
giungevano come ospiti della corte vescovile, eventi la cui frequenza concorse ad attribuire a Trento il titolo
di città perennemente in festa. Gli archi di trionfo posti alle porte della città ad accogliere gli insigni visitatori
erano costruiti con materiali versatili, duttili e facilmente riciclabili (da cui il termine di ‘apparati effimeri’),
a opera di artisti impegnati anche nelle arti maggiori, che potevano qui sperimentare soluzioni nuove. Ma
anche le altre feste profane mettevano in mostra effetti così spettacolari e stupefacenti che il popolo, non più
protagonista dei divertimenti come nell’età medievale, non poteva fare altro che contemplare smarrito,
ignaro inoltre dei significati allegorici reconditi che gli apparati allestiti erano in grado di trasmettere solo a
un pubblico colto. Tra le feste organizzate in onore dei numerosissimi ospiti della corte vescovile, l’apice
nello sfarzo e nell’inventiva di coloro cui ne veniva affidata la riuscita, fu probabilmente raggiunto dagli
intrattenimenti – descritti particolareggiatamente dal Mariani – allestiti in occasione della lunga permanenza
a Trento, negli anni 1648 - 1649, dei figli dell’imperatore Ferdinando III, Ferdinando IV d’Asburgo re
d’Ungheria e la sorella Maria Anna, futura sposa di Filippo IV di Spagna.
Non da meno nel coinvolgere e nell’emozionare il popolo furono le coreografie che caratterizzavano le
manifestazioni collettive della vita religiosa, quali le imponenti processioni (quella in onore del martire
Simonino ad esempio) o le celebrazioni legate all’anno liturgico (in particolare le sacre rappresentazioni
della Settimana Santa). Perfino le esequie di personaggi illustri diventavano occasione di ostentazione della
potenza della chiesa attraverso un fastoso quanto rigoroso cerimoniale: come ad esempio in occasione del
rito funebre per il generale delle armate imperiali Mattia Galasso, nel 1647 o, a conclusione dello splendido
secolo madruzziano, la fastosa cerimonia allestita alla morte di Carlo Emanuele Madruzzo nel 1658.
Ma proprio questi anni connotati dallo magnificenza della corte vescovile e dalla splendida ospitalità dei suoi
principi segnavano al contempo la progressiva decadenza di un grande casato, quello dei Madruzzo, e
l’ingresso anche per il territorio tridentino in un periodo di crisi economica che avrebbe segnato per decenni
vaste aree dell’Europa cattolica.
Martino Martini
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Martino Martini S.J. nasce a Trento il 20 settembre 1614 in una famiglia di mercanti. A 18 anni si
trasferisce a Roma ed entra nel Collegio Romano (l'attuale Pontificia Università Gregoriana) per diventare
gesuita.
Nel marzo del 1640 salpa da Lisbona con 24 confratelli alIa volta delle Indie orientali. Tocca in successione
Goa, in India, e Macao, in Cina. Nell'ottobre 1643 si stabilisce ad Hangzhou, prov. Zhejiang, dove inizia la
sua attività missionaria, mentre il Paese è sconvolto dalla guerra fra la dinastia autoctona dei Ming e quella
tartara dei Qing.
A seguito di spostamenti dettati dai suoi superiori visita alcune province della Cina lungo il Canale
Imperiale, acquisendo un profonda conoscenza della geografia, dell'economia e della popolazione di quel
grande Paese. Nel 1651 parte per raggiungere Roma in qualità di procuratore della missione, ma la nave
sulla quale si era imbarcato dopo quasi un anno di attesa nelle Filippine, viene catturata dagli olandesi, che
lo trattengono a Batavia (Giacarta) per altri otto mesi. Nel settembre del 1653 sbarca a Bergen, in Norvegia,
da dove prosegue alla volta di Amburgo, Amsterdam, Anversa e Bruxelles. Nel marzo del 1654 ad
Anversadall'editore B. Moret viene pubblicata la De Bello Tartarico Historia, che riscosse un successo
straordinario. In quel anno si ebbero quattro edizioni del testo latino e cinque traduzioni (tedesca, italiana,
francese, inglese e olandese). Nella seconda metà del 1655, ad Amsterdam presso l'editore J. Blaeu, viene
dato alle stampe il Novus Atlas Sinensis, che oggi è presentato per la prima volta interamente tradotto in
italiano e corredato da due indici di caratteri cinesi.
Giunto a Roma nell'ottobre 1654, Martini affida all'editore I. de Lazzeris la stampa della Brevis Relativo de
Numero et Qualitate Christianorum apud Sinas.
Davanti al Santo Ufficio sostiene la legittimità dei riti confuciani cinesi, ottenendo l'avvallo della
Congregazione Propaganda Fide col decreto di papa Alessandro VII del 23 marzo 1656.
Salpa da Lisbona alIa volta della Cina il 4 aprile 1657, con altri 16 gesuiti e rientra ad Hangzhou nel giugno
del 1659, dopo un viaggio reso drammatico a causa di un attacco pirata, terribili tempeste e una grave
epidemia a bordo che non risparmia il missionario trentino.
Mentre Martini era ancora in viaggio, a Monaco di Baviera, i suoi confratelli fecero pubblicare (1658)
dall'editore L. Straub la Sinicae Historiae Decas Prima, in lingua latina. Ricordiamo il grande prestigio che
in Europa ebbe la Grammatica Sinica del Martini, testo base per i sinologi deI Nord Europa, rimasto
manoscritto.
Postumo fu pubblicato in lingua cinese il Trattato sull'Amicizia.
M. Martini muore il 6 giugno 1661, a seguito di una breve malattia, dopo essere riuscito a completare la
costruzione della più grande chiesa cristiana della Cina. Oggi Ie sue spoglie riposano in un mausoleo presso
la città di Hangzhou.
I governi vescovili
Nel 1659 casa d’Austria riusciva a insediare uno dei propri membri al governo del principato vescovile di
Trento: si trattava di Sigismondo Francesco, appartenente al ramo tirolese degli Asburgo, figlio di Claudia
de’ Medici e fratello di Ferdinando Carlo, conte del Tirolo. Probabilmente a causa della mancata osservanza
dei princìpi stabiliti dal Concilio di Trento i quali vietavano l’accumulo delle cariche, oltre che delle
tradizionali vertenze sostenute dal casato tirolese con la chiesa di Trento, papa Alessandro VI rifiutò di
confermare il neoeletto, scelto dal capitolo tridentino ma già dotato di cariche ecclesiastiche, essendo
vescovo di Augusta e di Gurk, inoltre senza nemmeno essere stato consacrato. Sigismondo Francesco
d’Asburgo dunque rimase per Trento un amministratore, investito del titolo di principe e dei diritti temporali
dal cugino, l’imperatore Leopoldo I, ma non un presule secondo lo spirito del Concilio tridentino.
Regolarizzata successivamente la propria posizione dal punto di vista spirituale, volle però abbandonare il
principato e lo stato religioso per assumere la guida della contea del Tirolo e garantire la discendenza che
mancava al fratello Ferdinando Carlo. La morte anzitempo di quest’ultimo, nel 1662, accelerò tale decisione,
ma tre anni dopo, mentre attendeva la promessa sposa a Innsbruck, cessò di vivere anche Sigismondo
Francesco.
A lui è legata la stipulazione della cosiddetta Transazione del 1662, siglata prima di lasciare Trento e avente
lo scopo di dirimere alcune annose divergenze tra il principato e la contea del Tirolo. Si trattava di
contenziosi che riguardavano sia il governo spirituale della diocesi (per gli ambiti di questa che facevano
parte della contea), che quello politico del principato, per le interferenze che il conte vantava in certe materie
di governo nei confronti del vescovo tridentino. In realtà alcuni contrasti, come ad esempio quelli
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nell’ambito fiscale e militare e quello riguardante le competenze del capitano della città di Trento nominato
dal conte del Tirolo, si riaprirono a breve termine e dovettero essere risolti di volta in volta tramite accordi
fra le due parti.
Breve fu il governo del successore, il cardinale Ernesto Adalberto Harrach (1665 - 1667), il quale era al
contempo arcivescovo di Praga. Impegnato nell’opera di ricattolicizzazione della Boemia dopo la guerra dei
Trent’anni, egli fu inoltre raramente presente a Trento, viaggiando spesso tra i territori di casa d’Austria e
Roma; morì proprio nel corso di un viaggio che lo riportava dalla corte papale a Vienna. Fu l’ultimo vescovo
tridentino a non appartenere a casati nobiliari della regione.
Sigismondo Alfonso Thun, che era già vescovo di Bressanone, venne eletto a Trento nel 1668. Col capitolo
brissinese egli ebbe scontri a causa del suo procedere deciso e autoritario, mentre cercò di salvaguardare
l’autonomia del vescovato nei confronti della contea del Tirolo. Una certa opposizione egli incontrò anche a
Trento da parte degli ambienti che pretendevano di condizionare il governo vescovile. Le fonti lo descrivono
come un vescovo energico, teso a risollevare il principato dalla crisi economica in cui si dibatteva da decenni
e impegnato anche sul versante spirituale, secondo lo spirito conciliare. Dopo Sigismondo Alfonso, morto
nel 1677, saranno altri tre i Thun a salire alla cattedra vescovile tridentina. Originari della Val di Non dove
possedevano castelli e numerosi diritti, i Thun furono uno dei casati più influenti dei territori asburgici; un
ramo della famiglia estese il proprio potere fino in Boemia.
Con Francesco Alberti Poja (1677 - 1689) fece invece per la prima volta la propria comparsa alla guida del
principato un potente casato cittadino, mentre anche i canonici che costituivano il capitolo ormai avevano per
lo più provenienza solo regionale. La carriera ecclesiastica di Francesco Alberti Poja, giunto ormai anziano
al soglio vescovile, si era sviluppata completamente in ambito locale. Anche di lui le fonti a nostra
disposizione parlano come di un vescovo impegnato nel risanamento delle finanze del principato. Il suo
governo fu altresì caratterizzato da considerevoli interventi architettonici, operati nei due più importanti
monumenti cittadini: al castello del Buon Consiglio la giunta (che prese appunto il suo nome), la quale
collegava il Magno Palazzo clesiano con il Castelvecchio, in duomo la Cappella del Crocefisso.
Il potere che avevano ormai assunto alcuni ceppi cittadini, i quali quanto a mezzi economici non erano
inferiori, almeno nella piccola capitale del principato, alle famiglie dell’antica nobiltà trentino-tirolese (cui
appartenevano ad esempio i Thun, i Lodron, gli Spaur, i Trapp), venne confermato dall’elezione nel 1689 di
Giuseppe Vittorio Alberti d’Enno. Anche in questo caso un’amministrazione equilibrata ed economicamente
accorta sembra aver caratterizzato questa figura vescovile. Non fu invece esente il suo governo dalle
pressioni dell’imperatore Leopoldo I che, in quanto detentore anche del titolo di conte del Tirolo (dopo
l’estinzione degli Asburgo tirolesi), pretendeva una maggiore adesione dei vescovati posti sotto la propria
influenza soprattutto alle richieste in materia fiscale.
L’identità tra la figura dell’imperatore e quella del conte del Tirolo causò per i vescovi tridentini della
seconda metà del Seicento dissensi anche riguardo al cerimoniale, in quanto Leopoldo I tentò di mutare il
giuramento di fedeltà prestatogli da ogni vescovo neoeletto come imperatore, in giuramento di fedeltà come
conte. Essendo quest’ultimo gerarchicamente inferiore al principe tridentino (anche se di fatto più potente),
giurare a lui avrebbe significato la perdita di autonomia del principato e la sua completa sottomissione alla
contea. Un’altra vertenza mai sopita in quegli anni fu rappresentata dal tentativo del conte-imperatore di
amministrare il principato nel periodo di sede vacante, cioè dalla morte di un vescovo alla nomina del
successore, diritto che nei principati ecclesiastici dell’impero romano germanico apparteneva ai rispettivi
capitoli e che anche a Trento veniva rivendicato dai canonici. L’adesione alle pressanti richieste fiscali di
Leopoldo, inoltrate ai vescovati per sostenere le spese militari, spesso risolse momentaneamente i motivi di
contenzioso sopra accennati. Così fece ad esempio anche l’Alberti d’Enno, che contribuì alle finanze
asburgiche con 10000 fiorini, mentre già il suo predecessore, Francesco Alberti Poja, aveva estinto
inadempienze fiscali e versato all’imperatore 2000 fiorini per la guerra contro i Turchi.
La contea del Tirolo nella seconda metà del Seicento
Dopo la fine della guerra dei Trent’anni e l’estinguersi dei motivi religiosi come causa primaria di
contenzioso nell’ambito europeo, per l’imperatore Leopoldo I prese corpo, parallelamente all’assunzione di
una più marcata individualità dei territori asburgici, la necessità di operare una maggior connessione fra gli
stessi. Le province di casa d’Austria infatti godevano di differenti leggi e amministrazioni, essendo state
ottenute dagli Asburgo per lo più mediante una accorta politica matrimoniale e semplicemente aggregate alle
altre terre della corona, mantenendole nei loro antichi diritti e costituzioni locali (vedi l’esempio della
cinquecentesca Landesordnung tirolese, la legge fondamentale del paese). Si era dunque in presenza di un
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modello pre-statale, caratterizzato inoltre dalla realtà del cosiddetto ‘stato per ceti’, entro il quale grande
autorità era conferita alle diete regionali, sorta di parlamenti in cui presenziavano i rappresentanti delle classi
ai vertici della gerarchia politica e sociale: il clero e la nobiltà, cui si era poi aggiunta la borghesia delle città
e, in Tirolo, gli abitanti delle vallate. In tale sistema il sovrano era dotato di scarso potere effettivo, dovendo
costantemente scendere a patti con i suoi ‘ceti’ (Stände), soprattutto per ottenere i finanziamenti necessari ai
propri progetti e in particolare alle campagne militari.
Leopoldo I cercò di superare in parte questa organizzazione disarticolata costituendo e rafforzando una serie
di organi centrali che in futuro avrebbero posto le basi per la costituzione di una compagine statale più
moderna: la camera di corte (Hofkammer), il consiglio di guerra di corte (Hofkriegsrat), la cancelleria di
corte (Hofkanzlei), il consiglio segreto (Geheimes Rat). Un programma questo, che sarebbe stato realizzato
però solo nella seconda metà del Settecento, sotto Maria Teresa e Giuseppe II. Per la contea del Tirolo il
passaggio sotto il dominio diretto dell’arciduca d’Austria e imperatore romano germanico sembrò all’inizio
una mera questione dinastica. In realtà, da un lato ciò andava a privare Innsbruck del suo ruolo di piccola
corte, dall’altro lo stesso Tirolo sarebbe stato chiamato a collaborare direttamente e anche in termini
economici a disegni più vasti come erano quelli imperiali.
Furono in particolare i motivi militari a costituire un primo fattore aggregante per i territori della monarchia
asburgica nella seconda metà del Seicento, in quanto questi ultimi dovettero contribuire alla difesa comune
essendo minacciati su due fronti: a est dal pericolo turco, a ovest dalle mire egemoniche francesi. Solo per
citare qualche evento: nel 1672 la Renania divenne teatro di guerra e le truppe di Luigi XIV minacciarono le
terre asburgiche occidentali, nel 1678 i francesi giunsero a Friburgo, nel 1682 i Turchi si portarono fin sotto
le mura di Vienna. Nonostante i ‘ceti’ delle diverse province cercassero di opporsi alla concessione di
contribuzioni fino all’appressarsi del pericolo, poco per volta l’imperatore, anche a causa della gravità della
situazione, riuscì ad avere ragione del loro ostruzionismo.
Le motivazioni finanziarie di carattere militare furono anche quelle che causarono i grandi attriti di casa
d’Austria con i due vescovati di Trento e Bressanone. Questi ultimi ribadirono il proprio ruolo di membri
aggregati alla dieta tirolese solo per le questioni della difesa comune e inoltre vollero che la quota
contributiva rimanesse quella stabilita dall’antico Libello del 1511. In taluni casi però i due principati
ecclesiastici dovettero cedere alle pressioni del conte-imperatore, come dopo il sequestro dei beni vescovili
tridentini in terra tirolese attuato nel 1673. La Transazione del 1662, stipulata da un Asburgo con la contea in
nome del principato vescovile, fu dunque ben lungi dall’aver risolto i numerosi attriti nell’intricata materia
giurisdizionale del tempo.
Il Settecento: l'età delle riforme e la fine dell'antico regime di Mauro Nequirito
Gli Asburgo, l'impero, il principato
Il XVIII secolo si aprì con un grande conflitto che coinvolse i maggiori stati europei e del quale subì le
conseguenze anche il territorio trentino. La guerra di successione spagnola (1700 - 1714) - sul trono
dell’ultimo Asburgo di Spagna, Carlo II, rimasto senza eredi, si lanciarono pretendenti francesi, austriaci,
bavaresi - vide nel settembre 1703, durante il vescovato di Giovanni Michele Spaur, l’assedio di Trento da
parte del generale Vendôme, diretto a nord per congiungere le proprie truppe a quelle bavaresi. Dal Dos
Trento la città subì un bombardamento che le inferse notevoli ferite, anche se le truppe francesi
abbandonarono di lì a poco le loro postazioni retrocedendo e rinunciando alla marcia attraverso il Tirolo.
Il 1713 segnò un avvenimento di centrale importanza per i territori ereditari asburgici e quindi,
indirettamente e negli anni a venire, anche per i principati vescovili che, come Trento, gravitavano nella sfera
di influenza di casa d’Austria. L’imperatore Carlo VI, attraverso la «Prammatica sanzione», volle assicurare
la successione al trono alla figlia primogenita Maria Teresa, facendo sì che divenisse l’unica erede dei
territori della monarchia. Tale atto, che sancì l’indivisibilità delle terre della corona (fino ad allora le diverse
province erano state spesso affidate a rami collaterali del casato), richiese qualche decennio per essere
accettato e sottoscritto dagli altri stati europei, molti dei quali avrebbero potuto altrimenti vantare diritti sui
domini asburgici. Tuttavia ciò non tutelò a sufficienza Maria Teresa quando nel 1740 salì al trono, in quanto
immediatamente, alimentata dalla Prussia, scoppiò la guerra di successione austriaca (1740 - 1748).
L’impegno bellico che, a causa della giovane età della sovrana e delle sue difficoltà economiche, faceva
prevedere una rapida sconfitta e dunque lo sfaldamento dei territori ereditari, agì invece da elemento
propulsore. Innanzi tutto esso convogliò anche le forze della monarchia tradizionalmente autonomiste (come
l’Ungheria) in una sorta di solidarietà dinastica. In seguito, con il placarsi del pericolo più immediato, rese
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evidente a Maria Teresa la necessità di rendere più coesi i propri domini, in modo da poter contare su un
costante gettito fiscale e disporre quindi di un esercito adatto alle esigenze del tempo. Il grande disegno
teresiano si sviluppò nella stagione cosiddetta dell’assolutismo illuminato, dove al centro dell’azione dei
sovrani vi era una vasta opera riformista, tesa al consolidamento delle strutture dello stato e a formare dei
sudditi istruiti e cooperanti a tale progetto di ammodernamento.
Il Tirolo, che già nella seconda metà del Seicento era stato attirato nell’orbita statale dai primi tentativi di
accentramento operati dall’imperatore Leopoldo I (un processo proseguito sotto Giuseppe I e Carlo VI), con
Maria Teresa e con suo figlio Giuseppe II affrontò al pari delle altre terre asburgiche un’età densa di
mutamenti, che vide uscire sconfitto il già vacillante potere dei ‘ceti’ e che doveva poi portare, attraverso la
Rivoluzione francese e gli sconvolgimenti dell’epoca napoleonica, alla caduta dell’antico regime europeo. I
principati ecclesiastici dell’impero romano-germanico, tra cui quello di Trento, e la stessa compagine
imperiale non sopravvissero a tali eventi.
Né da parte di Maria Teresa, né da parte di Giuseppe II si programmò un incameramento dei principati
vescovili di Trento e Bressanone; il secondo addirittura rifiutò una simile offerta inoltratagli dal principe
vescovo Pietro Vigilio Thun nel 1781. Certamente però i due monarchi fecero pressione affinché le terre
vescovili accogliessero le riforme in atto nei territori ereditari, in modo da non costituire un intralcio (erano
ormai praticamente delle enclavi entro la contea del Tirolo) alla desiderata uniformità economica e
amministrativa della regione.
Secondo le concezioni dei ministri di Maria Teresa, le diverse province della monarchia non potevano più
avere amministrazioni, ordinamenti giuridici, sistemi economici differenti le une dalle altre. Ogni luogo
all’interno di ogni provincia doveva inoltre essere coordinato con gli organi di governo statali e, attraverso
questi, con la corte di Vienna. L’istituzione degli Uffici Circolari in Tirolo, nel 1754, costituì una delle più
importanti tappe in questo processo di accentramento. Il principato vescovile di Trento ne fu esente, in virtù
della propria autonomia e della dipendenza dall’impero romano-germanico. Le altre terre dell’odierno
Trentino che erano da secoli sotto la contea del Tirolo furono invece riunite nel cosiddetto Circolo ai Confini
d’Italia, con capoluogo Rovereto.
Un’altra grande operazione di ammodernamento fu realizzata da Maria Teresa con l’istituzione del catasto
(divenuto poi noto appunto come ‘catasto teresiano’), che aveva lo scopo di descrivere mediante criteri
moderni la distribuzione delle proprietà, inducendo ogni suddito a contribuire secondo il dovuto e togliendo
le molte esenzioni che caratterizzavanto un’età come l’antico regime, basata ancora su privilegi di origine
feudale.
Anche nell’ambito più strettamente economico ciò che mosse la sovrana fu la necessità di uniformare le
troppo separate province della monarchia. Fu potenziata e migliorata l’agricoltura tramite bonifiche di terreni
paludosi e l’istituzione di società agrarie che dovevano istruire i contadini circa un più corretto sfruttamento
della terra e, nel settore commerciale, vennero eliminate le numerose stazioni doganali interne, che
imbrigliavano la libera circolazione delle merci e disperdevano gli introiti daziari in mille rivoli. Nello stesso
tempo fu incentivata la produzione interna e di rimando, secondo principi mercantilisti, furono applicati dazi
elevati sulle merci in entrata. Un programma economico che, almeno a breve termine, sembrò danneggiare la
contea del Tirolo, dal momento che il commercio di transito costituiva una delle poche voci tradizionalmente
attive dell’economia locale. Nel principato vescovile di Trento le nuove tariffe daziarie provocarono
numerose proteste dei commercianti, mentre nelle valli Giudicarie l’erezione di un dazio austriaco fece
scoppiare addirittura una ribellione, subito stroncata con durezza.
Accolta spesso con disappunto da parte delle comunità locali, fortemente ancorate alla tradizione, fu
all’inizio anche la riforma che, tra le molte intraprese, diede forse più lustro alla grande sovrana:
l’emanazione nel 1774 della Allgemeine Schulordnung, l’ordinamento scolastico che doveva garantire a tutti
la capacità di leggere e scrivere. Varato con lo scopo di fornire sudditi obbedienti – grande peso fu conferito
ai valori religiosi – ma altresì forniti di un’istruzione di base, esso fu uno dei lasciti più cospicui e duraturi
dell’età teresiana anche nella nostra regione. La prima Hauptschule del territorio trentino , la "Cesarea Regia
Scuola Normale ai Confini d’Italia", nacque a Rovereto e fu diretta dal sacerdote Giovanni Marchetti, che
aveva appreso la nuova metodologia scolastica presso il centro formativo di Innsbruck.
In linea con l’importanza attribuita da Maria Teresa a un’educazione basata su fondamenti autenticamente
religiosi, fu l’azione della sovrana diretta a favorire il formarsi di una spiritualità più sincera, priva di quelle
forme esteriori tipiche della ancora viva tradizione barocca. Di qui la proibizione – spesso osteggiata dalle
popolazioni del Tirolo – delle manifestazioni più superficiali del culto, come pellegrinaggi, processioni,
sacre rappresentazioni, che spesso si trasformavano in bagordi e sfoghi collettivi poco controllabili. Di qui
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anche l’abolizione delle troppo numerose feste che appesantivano il calendario provocando ozio piuttosto
che alimentare la devozione.
L’azione riformista di Maria Teresa fu dunque di grande portata e non era destinata a risolversi nel pur lungo
periodo di governo della sovrana. Gli impegni bellici dei suoi primi anni di regno e le difficoltà nel reperire
sufficienti risorse economiche fecero sì che l’opera riorganizzatrice della compagine statale procedesse a
rilento. In molti casi fu invece lo scarso entusiasmo dei sudditi, se non la loro aperta opposizione, a frenare
l’imperatrice, la quale si rese conto che era più produttivo non forzare la mano e talvolta recedere da qualche
intervento più drastico e in pratica tollerare le sacche di tacito ostruzionismo.
Fu dunque un modo di procedere moderato e attento alle reazioni delle popolazioni, una via che non seppe
praticare il figlio dell’imperatrice, Giuseppe II. Il suo zelo di monarca-burocrate, postosi sinceramente al
servizio del ‘bene’ dei sudditi, ma freddo e distante dalla quotidianità nella sua intenzione di porre tutto sotto
il rigoroso controllo stataele, gli valse severe critiche e in qualche caso aperte opposizioni. Soprattutto a
causa della sua politica ecclesiastica – osteggiata in particolare nel tradizionalista e religioso Tirolo – che
intendeva fare anche dei sacerdoti servitori dello stato e che giunse a intromettersi nelle forme del culto,
prescrivendo fin lo stile negli addobbi degli altari durante le cerimonie religiose.
Meno che mai gli valse la simpatia dei tirolesi il tentativo di introdurre la coscrizione obbligatoria – progetto
poi prudentemente abbandonato a causa delle defezioni – in un paese che era abituato a mobilitarsi
spontaneamente tramite i propri Landesschützen, ma che prevedeva ciò solo per la difesa dei patri confini,
non per motivi offensivi e mediante un servizio militare stabile.
I progetti riformisti attuati nei territori della monarchia asburgica ebbero inoltre l’effetto di allontanare
Giuseppe II dai suoi compiti come imperatore romano-germanico. Mentre anche gli altri grandi territori
imperiali (la Prussia e la Baviera furono casi emblematici) operavano ormai di fatto come entità statali
autonome e svincolate dall’ordine imperiale, furono i principati ecclesiastici, gli organi più deboli della
compagine romano-germanica, a farne le spese. Spesso l’imperatore infatti, piuttosto che non quale loro
difensore (come era all’origine dell’istituzione sacro romano imperiale), scavalcò i diritti vescovili per poter
realizzare il consolidamento dei propri territori ereditari. Fu così ad esempio con il riordino diocesano e il
tentativo di estromissione del potere spirituale dei vescovi dell’impero dalle terre asburgiche, sostituendo
quei prelati con altri controllati da casa d’Austria. I principati vescovili di Trento e Bressanone invece erano
ormai così strettamente legati al Tirolo che non subirono effetti negativi da tale riordino: Trento non perse
nulla e nel 1785 ottenne invece l’aggregazione della Valsugana che era da sempre legata alla diocesi di
Feltre.
Il quadro politico a Trento nel Settecento appariva intanto ormai accentuatamente diverso rispetto a come si
presentava nel Cinquecento e nella prima metà del Seicento. Due erano i poli che, pur influenti da secoli
all’interno della struttura istituzionale del principato, avevano assunto un ruolo determinante e concorrente
all’autorità vescovile nella sua conduzione: il capitolo e il magistrato consolare cittadino. Se per quanto
riguarda il primo organo il principato tridentino condivideva la sorte degli altri territori ecclesiastici
dell’impero, dove i canonici tra Sei e Settecento si erano impossessati di sempre maggiori prerogative di
governo, rispetto al magistrato consolare la situazione tridentina si presentava con una sua più spiccata
peculiarità. Non era infatti così consueto nelle città dell’impero (a meno che non avessero il rango di
Reichsstädte, ‘città imperiali’, con diritto di rappresentanza alla dieta), che una magistratura cittadina fosse
giunta ad ambiti di potere effettivi così vasti come a Trento. Ciò era stato reso possibile dai secolari contrasti
del vescovo principe con il conte del Tirolo; a quest’ultimo spesso si erano appoggiati i consoli per ampliare
i propri diritti, i quali poi non si erano potuti più cancellare, nemmeno dall’ultimo e più autoritario governo
principesco-vescovile. Un certo peso aveva avuto inoltre la vicinanza e quindi il modello delle città della
pianura italiana, rette da forti ceti patrizi che a Trento si intendeva imitare. Nel corso del Settecento
l’aristocrazia locale, tramite l’emanazione di appropriati regolamenti elettorali, non solo aveva escluso gli
altri ceti non nobili (artigiani e mercanti) dal governo della città, ma aveva costituito al proprio interno un
patriziato formato da poche decine di famiglie, dalle quali scaturivano costantemente i consoli cittadini. Il
regionalizzarsi del capitolo, cioè l’essere esso non più costituito da canonici provenienti dai territori
dell’impero, e l’ingresso nello stesso di membri dei casati patrizi della città, tutto ciò aveva poi dato luogo a
una certa alleanza tra canonici e consoli, ai danni dei principi tridentini che avrebbero voluto governare solo
tramite i propri organi e in particolare per mezzo del consiglio aulico vescovile.
Furono questi contrasti a fare da sfondo al declino del principato soprattutto durante il governo dell’ultimo
vescovo, mentre i due giuristi più noti del tempo, Carlo Antonio Pilati e Francesco Vigilio Barbacovi, si
impegnavano nella difesa dei due interessi contrapposti, in occasione delle numerose cause aperte presso i
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tribunali imperiali: Pilati in nome dei diritti dei consoli, Barbacovi (prima consigliere e poi cancelliere) in
favore dell’autorità del proprio signore, cui egli voleva restituire la propria originaria, ma ormai all’atto
pratico affievolita, autorità.
Antichi e nuovi contrasti politici nei governi vescovili del Settecento
Il governo di Giovanni Michele Spaur – membro di una delle più illustri famiglie dell’antica nobiltà trentina,
dotata del titolo comitale e investita di castelli e ampi possessi feudali nella Val d’Adige a nord di Trento e in
Val di Non – si situa cronologicamente (1696 - 1725) a cavallo tra il secolo della Controriforma e quello dei
Lumi. Si trattò di un episcopato lungo, contraddistinto in particolare da due elementi: un’amministrazione
spirituale attiva e vigile – visitò l’intera diocesi – e una direzione politica contrastata, in particolare dal corpo
capitolare. Per quanto concerne il primo aspetto, il vescovo mostrò una sensibilità tipica ancora del periodo
controriformista, con la consacrazione di numerose chiese e l’incentivazione del culto dei santi, oltre a
interventi contro le degenerazioni della vita religiosa, in particolare controllando la disciplina sacerdotale. Le
accuse dei canonici, in un’epoca che aveva conferito grande potere ai capitoli dell’impero, si appuntarono,
per quanto riguardava il governo temporale, contro quella che appariva come una gestione troppo personale
del vescovo, con larghe interferenze dei familiari dello stesso. Si trattava di uno stile di governo caratteristico
dell’età barocca, il quale peraltro si protrasse per tutto il secolo finale dell’antico regime, dove le relazioni
familiari e individuali avevano un peso determinante nel conferimento delle cariche amministrative.
Preoccupante per il capitolo tridentino fu il tentativo, poi esauritosi a causa della morte del principe, di far
accettare il nipote Giovanni Michele Venceslao Spaur, già vicario generale e suo suffraganeo, come
coadiutore con diritto di futura successione; evento che nei canonici evocò con timore l’episcopato ereditario
di madruzziana memoria.
Con Giovanni Benedetto Gentilotti, eletto nel 1725 e deceduto mentre era ancora a Roma pochi giorni dopo
la nomina, i canonici di Trento intendevano probabilmente affidarsi a un uomo al di sopra delle fazioni e di
grandi meriti intellettuali, benché ancora allo stato laicale. Aveva studiato a Salisburgo, Innsbruck e Roma; a
Salisburgo era stato poi richiamato dall’arcivescovo Giovanni Ernesto Thun come consigliere aulico,
passando quindi a Vienna come prefetto della cesarea biblioteca. A Roma, al momento della nomina,
svolgeva il compito di Uditore di Rota per la nazione germanica. Ampia fu la sua erudizione ed estesi i suoi
rapporti con personalità della cultura del tempo. Gentilotti collaborò e fu in contatto anche con il modenese
Ludovico Antonio Muratori, le cui opere ebbero grande diffusione nei territori asburgici e contribuirono a
quello che è stato definito come un primo illuminismo di matrice cattolica, una corrente riformista che operò
per purificare la religiosità dalla superstizione e dalle forme di devozione esteriori legate alle concezioni
controriformiste (come in Della regolata divozione de’ cristiani, 1747).
La nomina di Antonio Domenico Wolkenstein, il cui governo durò solo dal 1725 al 1730, decretava il ritorno
sul soglio vescovile trentino di un altro esponente dell’antica nobiltà regionale. Nessuno studio specifico è
stato condotto sull’amministrazione del principato e della diocesi da parte di questo prelato. Le poche notizie
su di lui lo descrivono come un soggetto amato, caratterizzato da zelo pastorale e da pietà religiosa. Sotto il
suo episcopato Trento si trovò a doversi difendere dal progetto di essere dichiarata chiesa suffraganea di
Salisburgo, staccandosi dunque dalla secolare dipendenza da Aquileia e finendo sotto la tutela di un
arcivescovato controllato da casa d’Austria, con pregiudizi alla propria autonomia.
Fu il lungo episcopato di Domenico Antonio Thun a segnare lo spartiacque tra barocco ed età delle riforme
nella diocesi e nel principato tridentino. Contro un governo vescovile degenerato dopo alcuni anni di buona
amministrazione insorse la parte del capitolo in contatto con gli ambienti riformisti viennesi guidata dal
decano Passi, che si rivolse a Roma denunciando corruzione e disordini. Il vescovo – stando almeno alle
fonti – quasi ignaro della sorte che gli spettava, nella primavera del 1748 fu indotto da un inviato del governo
tirolese a firmare un documento, che in pratica lo esautorava dal potere effettivo cedendo tutto a un
coadiutore plenipotenziario. Quest’ultimo fu individuato dal capitolo in un soggetto appartenente a un casato
influente della regione, Leopoldo Ernesto Firmian, vescovo di Seckau in Stiria ed esponente di un clero che
aveva recepito la lezione muratoriana ed era ben visto dalla corte viennese. Le sue riforme nella sfera
spirituale furono volte a una moralizzazione del clero - compì anche una visita pastorale alla diocesi - e a un
suo maggiore controllo da parte delle autorità ecclesiastiche superiori; nell’ambito politico egli operò per un
rinnovamento degli organi di governo del principato, rendendoli maggiormente dipendenti dall’autorità
vescovile e togliendo vigore all’influenza dei due ‘corpi’ che da sempre tendevano a limitarne l’autorità: il
capitolo e il magistrato consolare. Leopoldo Ernesto Firmian si trovò inoltre nella difficile posizione di
mediatore fra la tradizione autonomista del principato – sostenuta in particolare proprio dai canonici e dai
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consoli cittadini – e le mosse accentratrici dei sovrani illuminati di casa d’Austria, che intendevano includere
l’intero territorio trentino entro la propria sfera di influenza economica, inducendo lo stesso ad accogliere le
riforme in atto nei territori ereditari della monarchia. Furono le ostilità dei ‘corpi’ del principato, insieme a
quelle delle fazioni che li pilotavano, a indurre il coadiutore a rinunciare nel 1755 al proprio compito.
La nomina di Francesco Felice Alberti d’Enno a coadiutore (vescovo dal 1758, dopo la morte del vecchio
Domenico Antonio Thun) rassicurò coloro che avevano nutrito timori a causa delle innovazioni apportate dal
Firmian. Alberti, esponente di quell’aristocrazia cittadina che, insediata nel capitolo e nel magistrato
consolare, più temeva i rivolgimenti e l’avvicinamento alla volontà di Vienna, provvide immediatamente ad
azzerare le novità introdotte dal predecessore. Francesco Felice difese fortemente l’autonomia del principato
di fronte alle pressioni di casa d’Austria e ingaggiò inoltre, sostenuto dal magistrato consolare, un
contenzioso con Girolamo Tartarotti, reo di aver smontato, con i suoi studi eruditi posti al servizio di una
maggior oggettività storica, alcune false interpretazioni di eventi locali da parte della chiesa tridentina, tra cui
quello del martirio di S. Adalpreto, vescovo del XII secolo morto in battaglia e assurto poi a nume tutelare
della città di Trento (Lettera intorno alla santità e martirio di Alberto Vescovo di Trento, 1754).
Il tentativo di una rifondazione dell’autorità vescovile meno condizionata dagli influssi capitolari e consolari,
venne ripreso da Cristoforo Sizzo, succeduto nel 1763 all’Alberti per nomina papale, in quanto non si
sbloccavano le posizioni dei canonici divisi su due altri candidati. Il suo fu un governo equilibrato, che
ripercorse alcune delle strade tentate dal Firmian per riordinare l’amministrazione vescovile. Per questo
motivo in talune occasioni le prese di posizione vescovili suscitarono allarme nei ‘corpi’ che partecipavano
alla gestione degli affari politico-economici e che erano garantiti nelle loro prerogative solo dal
mantenimento dello status quo. Apprezzato dalle medesime forze che volevano mantenere l’autonomia del
principato fu invece l’operato del vescovo per mitigare gli svantaggi che, almeno a breve termine, portavano
i mutamenti introdotti da Vienna nel territorio trentino, coinvolgendo anche il principato vescovile.
Conseguenza della politica daziaria teresiana fu ad esempio il tumulto scoppiato al dazio di Tempesta, nelle
Giudicarie, che si concluse con dure condanne ed esecuzioni. Alcuni dei nodi che Cristoforo Sizzo non riuscì
a risolvere nel braccio di ferro tra spinte riformiste asburgiche e conservatorismo degli ambienti capitolari e
consolari tridentini furono ereditati dal successivo governo vescovile.
Pietro Vigilio Thun venne eletto nel 1776. L’unanimità dei voti capitolari in suo favore non faceva presagire
che si stesse per aprire uno degli episcopati più travagliati della chiesa tridentina, conclusosi inoltre con la
secolarizzazione del principato e la fine del potere temporale dei vescovi di Trento. Il nuovo vescovo
provvide subito a regolare le maggiori pendenze nei confronti di casa d’Austria stipulando con l’imperatrice
Maria Teresa il trattato del 1777. Esso diede finalmente via libera alle operazioni, più volte procrastinate, per
l’introduzione del catasto anche nel principato, superando l’ostruzionismo della nobiltà e del clero, i quali
con la vecchia perequazione mantenevano forti esenzioni fiscali. Questa e altre clausole del trattato fecero
ricadere il principato entro l’area economica e fiscale tirolese, anche se, per quanto riguarda la propria
autorità principesca, il vescovo fu intransigente nell’opporsi a prevaricazioni anche da parte di Vienna. Il suo
fu un governo improntato a forme assolutistiche impossibili a realizzarsi in un principato come quello
tridentino, dove il vescovo aveva necessità di patteggiare la conduzione politica con i ‘corpi’ politici
concorrenti. L’opposizione capitolare a Pietro Vigilio fu immediata e si protrasse per tutto il suo episcopato;
i canonici tentarono inutilmente di imporgli un coadiutore, come era accaduto allo zio Domenico Antonio
Thun. All’ostilità del capitolo si aggiunse quella dei consoli, in un susseguirsi di cause aperte dai contendenti
presso i tribunali dell’impero. L’azione del vescovo, ammodernatrice e sensibile alle nuove esigenze del
tempo ma condotta con criteri dispotici e lasciando troppo spazio a carenze amministrative e malversazioni,
rimase incompiuta. Questa fu anche la sorte del suo progetto riformista più ardito: togliere importanza al
vetusto ma ancora vigente Statuto di Trento di epoca clesiana, facendo compilare al proprio consigliere (poi
cancelliere) Francesco Vigilio Barbacovi un moderno codice civile, ispirato a quello recentemente emanato
nei territori di casa d’Austria, di cui era stato artefice il giurista trentino Carlo Antonio Martini. Il codice non
venne applicato a Trento a causa dell’opposizione dei consoli, dei quali esso limitava le antiche prerogative.
Tra accese polemiche e lotte tra le fazioni e tra i personaggi politici più in vista, il principato vescovile si
avviò al tramonto. Riparato nei territori imperiali con la prima invasione francese, Pietro Vigilio Thun
ritornò poi nel principato ma, impossibilitato a riprendere il proprio ruolo a causa del sequestro operato da
casa d’Austria, terminò i propri giorni a castel Thun, in val di Non, dove morì nel gennaio del 1800. Il suo
successore, il cugino Emanuele Maria Thun, eletto nel mese di aprile, non ottenne più l’investitura del
governo temporale del principato e rivestì dunque solo il ruolo di guida spirituale. Avrebbe poi combattuto
con energia, fino a scegliere l’esilio, le limitazioni all’autorità ecclesiastica imposte dal governo bavarese
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negli anni 1805 – 1809.
Il Settecento roveretano
Durante la prima metà del Cinquecento si erano consolidati i confini del principato vescovile di Trento.
Rimasero all’incirca i medesimi fino all’atto della sua secolarizzazione, tranne per le permute seguite al
trattato del 1777 tra Pietro Vigilio Thun e Maria Teresa, che avevano visto passare a casa d’Austria Levico e
Termeno in cambio di Castello di Fiemme, mentre altre lievi modifiche territoriali erano avvenute sempre
nel medesimo periodo. L’odierno Trentino, dunque, alla fine del Settecento annoverava già una serie di
giudicature dipendenti, da secoli o da tempi più recenti, dal governo asburgico-tirolese: esse erano distribuite
nel Basso Trentino verso il lago di Garda, nella Vallagarina, in Val d’Adige subito a nord di Trento, in Val di
Non, in Valsugana. Fra questi territori, il più cospicuo quanto a rilevanza economica era costituito dalla città
di Rovereto con la sua pretura. Se la metamorfosi di Rovereto da borgo medievale a città si situava nell’età
veneziana, lo sviluppo del setificio, pur essendo stata tale attività introdotta nella pretura in quello stesso
periodo, si verificò nei secoli a venire, a partire dalla lenta ripresa economica seicentesca, dopo la crisi che
aveva investito l’area tirolese come gran parte dell’Europa cattolica.
Fu durante il Settecento che si verificò la massima espansione economica dell’industria della seta a
Rovereto; tale successo portò con sé benessere e uno sviluppo culturale senza eguali, così da attribuire poi a
quella che era allora la città più meridionale della regione il titolo di ‘Atene del Trentino’. Il personaggio che
simboleggiò gli esordi del magnifico secolo roveretano – ma le fortune intellettuali della città sul Leno
sarebbero proseguite nell’Ottocento con il più illustre dei suoi figli, Antonio Rosmini – fu Girolamo
Tartarotti (1706 - 1761). Erudito apprezzato anche oltre i confini patri, sviluppò la propria attività in vari
luoghi d’Italia e fu in contatto con grandi personalità intellettuali del tempo, primo fra tutti Ludovico
Antonio Muratori, procurandosi anche non pochi nemici: celebri i contrasti con un altro protagonista della
cultura del tempo, il veronese Scipione Maffei, o quelli, più racchiusi entro l’area tridentina, con il padre
Benedetto Bonelli, lo storico della curia vescovile impegnato a confutare le ardite prese di posizione di
Tartarotti contro la storia meramente celebrativa e ignara di un corretto lavoro di indagine sulle fonti. Assai
nota la sua opera contro la credenza nella stregoneria (Del Congresso notturno delle Lammie, 1749),
Tartarotti fu oggetto di polemica anche dopo morto. La chiesa parrocchiale di San Marco a Rovereto nel
1762 subì l’interdetto vescovile per aver ospitato un busto in onore di colui che aveva messo in dubbio, sulla
base dell’indagine documentaria, alcuni ‘miti’ della tradizione storica curiale tridentina.
Per quanto riguarda più da vicino l’ambito economico, quasi tutte le famiglie aristocratiche roveretane
dovevano le proprie fortune alla lavorazione della seta. Nella città e nei suoi dintorni era distribuito un
numero veramente ingente di filatoi per una così ridotta popolazione, dove si otteneva un prodotto
semilavorato che veniva poi esportato soprattutto nei mercati dell’area tedesca. Nonostante anche a Rovereto
vi fosse la tendenza a investire con i proventi della seta in terre e in rendite feudali, l’aristocrazia locale, resa
cosmopolita dall’incontro di ceppi trentini, italiani e tedeschi, si dimostrò sempre più aperta e dinamica
rispetto a quella della piccola capitale del principato, dove inoltre le potenti famiglie cittadine si vedevano
superate in prestigio dall’antica nobiltà feudale dotata di castelli e ampi diritti nelle valli. Ma anche a
Rovereto, come a Trento, i casati di origine borghese più antichi e benestanti tendevano a procacciarsi titoli
nobiliari e a trasmettere il governo della città in poche mani.
Fu grazie a soggetti provenienti da questo ambiente e in particolare a Giuseppe Valeriano Vannetti –
membro di una delle più influenti famiglie cittadine arricchita grazie alla lavorazione della seta – che si
dovette la fondazione di un sodalizio culturale il quale ancor oggi vanta, quanto a tradizione, la preminenza
su altre analoghe istituzioni regionali: l’Accademia degli Agiati, che nel 1753, dopo pochi anni di vita,
ottenne il diploma di riconoscimento da Maria Teresa. La stagione più splendida del consesso roveretano
(nel cui emblema "l’agio", ossia la flemma necessaria all’attività intellettuale, era rappresentato dalla
lumaca) fu appunto quella del cosmopolitismo settecentesco, mentre nel corso dell’Ottocento anche gli
Agiati volsero il proprio interesse al tema nazionale
Per quanto riguarda gli aspetti storico-istituzionali, l’età dell’assolutismo illuminato, durante la quale la
fioritura culturale cittadina raggiunse l’acme, rappresentò anche la fine della vita di Rovereto come entità
legata alla contea del Tirolo ma di fatto separata dal contesto provinciale e dotata di un regime di
autogoverno. Con la creazione del Circolo ai Confini d’Italia nel 1754 essa si dovette attrezzare per assumere
i compiti di capoluogo burocratico, non più mero centro del ridotto territorio della pretura ma di tutte le zone
dell’odierno Trentino allora sottoposte a casa d’Austria. Il Capitano di Circolo inoltre estese
progressivamente il proprio controllo a ogni ambito amministrativo, pur senza che nel periodo teresiano
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fossero sconvolti gli ordinamenti tradizionali, eccezion fatta per i locali privilegi daziari che, in ossequio alla
politica economica assunta dal governo, vennero levati. Anche a Rovereto, più pesanti furono le normative
piovute sotto Giuseppe II, che intervenne con decisione nella composizione e nei compiti del consiglio
cittadino (qui retto dai Provveditori), sottoponendolo al controllo statale e riducendone i margini di
autogoverno che avevano favorito la crescita del patriziato locale a scapito di altre forze.
Alla data della prima invasione francese, nel 1796, l’amministrazione cittadina di Rovereto era ormai da
tempo inserita nel progetto, ancora in divenire, di rinnovamento della compagine asburgica. A Trento
l’arrivo dell’esercito rivoluzionario causò invece ulteriore disorientamento in una scena politica che vedeva
ancora diversi contendenti: l’autorità vescovile e i suoi ministri, il capitolo, i consoli, le diverse fazioni.
Clementino Vannetti (1754-1795)
Nacque a Rovereto il 14 novembre 1754, figlio dei letterati Giuseppe Valeriano e Bianca Laura Saibante.
Fu appassionato studioso dei classici latini ed elegante scrittore in italiano e latino. A soli 17 anni fece parte
dell’Accademia degli Agiati, che era stata fondata dai suoi genitori assieme ad altri uomini di cultura
roveretani, e ne fu per parecchi anni il segretario. Tenne corrispondenza con vari famosi letterati d’Italia, tra
i quali il Monti e il Parini. Numerose furono le sue pubblicazioni di prose letterarie e di poesie, anche in
lingua latina. Autore del noto sonetto Del Tirolo al governo, o Morrochesis, testimoniò tra i primi la
presenza di una coscienza nazionale tra gli uomini di cultura trentini.
Il territorio trentino nel periodo francese: tra Austria, Baviera e Italia
Ai primi di settembre del 1796 le truppe rivoluzionarie al comando di Bonaparte forzavano i confini
meridionali del Tirolo, respingendo le armi austriache e la resistenza dei corpi attivati tra la popolazione
locale per la difesa territoriale, mentre le truppe dei generali Moreau e Jourdan invadevano il sud della
Germania. Già l’anno precedente l’impero aveva perduto i territori sulla riva sinistra del Reno. Così come
per l’Europa, anche per il territorio trentino si apriva un ventennio caratterizzato dal susseguirsi di eventi
bellici, di rivolgimenti politici e di mutamenti di governo, che avrebbe sconvolto assetti plurisecolari e
smantellato l’organizzazione di antico regime.
Il 5 settembre del 1796 Trento accoglieva con timore i soldati della Repubblica. Le prime mosse, ripetutesi
poi durante i successivi ingressi delle truppe francesi e che resero le armate d’oltralpe famigerate per tale
atteggiamento nei confronti dei luoghi conquistati, furono la depredazione della cassa civica e l’imposizione
di esose contribuzioni. Dopo un turbinoso avvio dell’amministrazione militare, con il momentaneo
affermarsi di personalismi entro il peraltro esautorato consiglio aulico vescovile, l’autorità che emerse al di
sopra delle altre fu quella del magistrato consolare, il quale, con l’aggiunta di qualche soggetto reclutato nel
resto del territorio occupato si accinse a esercitare, su delega degli occupanti francesi, quell’autorità che ai
consoli era stata fortemente contestata dal principe vescovo Pietro Vigilio Thun. Quando i francesi
ripiegarono e l’esercito imperiale nel mese di novembre liberò la regione, subito si addensarono sui consoli
di Trento i sospetti di avere favorito il nemico: si preparava il terreno per un’incriminazione con l’accusa di
giacobinismo, che di lì a qualche anno avrebbe condannato a pene piuttosto simboliche alcuni membri della
cittadinanza. Che vi fosse stata una simpatia per gli eventi di Francia da parte di certi esponenti
dell’aristocrazia cittadina, precedentemente alla condanna a morte di Luigi XVI, è certo. Del resto le logge
massoniche, che annoveravano illustri adesioni anche nel ceto nobiliare (lo stesso vescovo Pietro Vigilio
Thun sembra avervi fatto parte), erano già state sperimentate in regione e nel 1794 a Innsbruck, in un
tentativo di congiura giacobina, avevano subito l’arresto anche dei sudditi del principato.
Al ritorno delle armi imperiali a Trento la reggenza vescovile fu esautorata e il principato posto sotto
sequestro dall’imperatore, con la motivazione ufficiale della sua posizione confinaria, resa cruciale dalla
guerra, e di inadempienze fiscali vescovili. Si trattò in effetti di una secolarizzazione anticipata, mentre
anche gli altri principati ecclesiastici dell’impero temevano di essere cancellati dalla carta politica del corpo
romano-germanico, fungendo da indennizzo ai principi tedeschi spodestati dai francesi dei loro territori sulla
riva sinistra del Reno.
Il rientro francese nel principato, altrettanto breve del primo (dalla fine di gennaio all’aprile del 1797),
ripropose sostanzialmente gli equilibri emersi durante la prima occupazione: furono gli amministratori
imperiali (che erano peraltro trentini e roveretani fedeli a casa d’Austria) a essere deposti e riemersero
soggetti legati all’aristocrazia cittadina e agli ambienti consolari. La successiva riconquista del territorio da
parte delle truppe dell’imperatore confermò il sequestro del principato e la messa fuori gioco sia della
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reggenza vescovile, che del capitolo, ridotto alle mere funzioni spirituali. Nulla poté l’attività diplomatica
messa in moto presso l’impero da Pietro Vigilio Thun, rientrato da Passavia e ritiratosi nel castello di
famiglia in Val di Non, dove sarebbe morto nel gennaio del 1800.
I quattro anni che intercorsero prima della terza invasione francese, videro il governo cittadino di Trento
sottoposto a un rigido controllo da parte degli amministratori imperiali. Attraverso l’imposizione di nuove
norme e precisi regolamenti in materia finanziaria, il magistrato consolare venne limitato nelle proprie
prerogative di autogoverno e ricondotto entro precisi limiti. Ciò che si era fatto con minor clamore e in tempi
più lunghi con i provveditori a Rovereto, nella piccola capitale dell’ormai morente principato vescovile
avvenne in un clima di lamentele, tentativi di ricorsi ad autorità superiori (in quel periodo più che mai
incerte) e reciproche accuse tra le diverse fazioni politiche che dividevano la cittadinanza.
Le speranze di un ripristino dell’autorità vescovile furono alimentate dalla riconquista del territorio trentino
da parte delle truppe franco-cisalpine nel gennaio del 1801, le quali istituirono una nuova amministrazione
provvisoria alla guida della quale furono posti l’anziano Carlo Antonio Pilati e un altro illustre personaggio
che per qualche anno incrociò i propri destini con quelli del principato: Gian Domenico Romagnosi.
Nonostante con la pace di Luneville del febbraio 1801 di fatto fossero state sancite le secolarizzazioni dei
principati ecclesiastici dell’impero, a Trento ci si illudeva di un ritorno all’antico ordine, mentre il governo
veniva affidato dai francesi, prima del loro abbandono del territorio vescovile, a una reggenza capitolare che
lo esercitò per oltre un anno. L’ingresso delle truppe imperiali nel novembre 1802, per prendere possesso del
principato in nome di casa d’Austria, pose fine a ogni sogno della vecchia classe dirigente tridentina.
Con il cosiddetto Recesso dell’impero di Ratisbona, ratificato dall’imperatore nell’aprile del 1803, venne
infine sancita la secolarizzazione dei territori romano-germanici governati da autorità ecclesiastiche. Si trattò
della soppressione di ben 112 organi politici, voluta da Napoleone per togliere forza alla casa d’Austria e
porre un’ipoteca nei confronti di un nuovo assetto della Germania sotto la propria influenza. Con la
soppressione del banco ecclesiastico alla dieta di Ratisbona, il Sacro Romano Impero della Nazione tedesca
non aveva ormai più ragione di esistere. L’imperatore Francesco II d’Asburgo nel 1806 lo dichiarò estinto;
già due anni prima egli aveva assunto il titolo di Francesco I d’Austria. Ora Napoleone poteva dunque dare
vita alla Confederazione del Reno, posta sotto la propria tutela.
Il territorio trentino, che dopo secoli si presentava unito, benché conglobato nella contea del Tirolo, venne
diviso dei due Circoli di Trento e Rovereto, mentre proseguì l’opera di inserimento dei territori ex vescovili
nella provincia tirolese.
Fu un’operazione che ebbe appena il tempo di essere avviata. La carta politica regionale, come quella
europea quanto mai provvisoria in quegli anni, venne nuovamente mutata. In seguito alla pace di Presburgo
del dicembre 1805, dopo la vittoria di Napoleone ad Austerlitz, l’intero Tirolo passò sotto il filonapoleonico
regno di Baviera e si apprestò ad affrontare tre anni di amministrazione impostata sul modello francese,
fortemente centralizzata e inadatta in modo particolare a una popolazione di montagna, dotata di tradizioni
secolari gelosamente custodite; essa fu aggravata inoltre dalla rigidezza con cui le nuove e numerosissime
leggi furono applicate da implacabili impiegati, in parte originari della Baviera, in parte di provenienza
locale. Si trattava a dire il vero di interventi che aveva tentato di promuovere ancora l’imperatore-burocrate
Giuseppe II e che già allora erano stati accolti con ostilità e talvolta fatti rientrare; l’accoglienza che ebbero
presso i Tirolesi tali norme, ancora più rigide di quelle giuseppine e imposte inoltre da un governo straniero,
lasciava presagire l’esito della vicenda. La soppressione della Landesordnung (la legge fondamentale del
paese) e della dieta provinciale, la politica di sottomissione della chiesa allo stato (in una roccaforte della
tradizione cattolica come il Tirolo), l’odiata coscrizione militare, le imponenti manovre fiscali, causarono nel
1809 uno dei più famosi moti insorgenti antinapoleonici dell’epoca: la rivolta di Andreas Hofer, che, nata
appoggiandosi alla tradizione dei Landesschützen impiegati nella difesa del territorio, coinvolse in blocco i
tirolesi tedeschi e in buona parte anche le vallate trentine (la Val di Fiemme addirittura precedette di qualche
mese l’insorgenza collettiva). La città di Trento al contrario, forse anche complice il fatto di essere stata sede
del quartier generale bavarese, fu più restia e ancora una volta venne accusata di collaborazionismo al
momento dell’ingresso delle truppe imperiali, congiuntesi ai bersaglieri tirolesi nella liberazione del
territorio.
La vittoria napoleonica di Wagram, nel luglio 1809, cambiò ancora le sorti del Tirolo. Hofer continuò da
solo la propria lotta ma, abbandonato al proprio destino dagli stessi Asburgo, venne catturato e fucilato a
Mantova nel febbraio del 1810. Il nuovo assetto regionale, dopo la pace di Parigi del 28 febbraio e la
riconquista del paese da parte dei franco-bavaresi vide la gran parte del Trentino (escluso il Primiero) e la
zona di Bolzano unite al Regno italico, il rimanente del Tirolo tornare alla Baviera. Sconfitta la rivolta
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locale, il Regno italico poteva dare il via, nel neoistituito Dipartimento dell’Alto Adige avente quale
capoluogo Trento, all’opera di riorganizzazione sul modello francese che contraddistingueva l’assetto
amministrativo e istituzionale del Regno. Innanzi tutto fu pubblicata la Costituzione di Lione e introdotto il
"Codice Napoleone". L’autorità che rappresentava lo stato e che concentrava in sé gran parte delle
prerogative di governo era il prefetto insediato a Trento, il quale si avvaleva di un Consiglio generale di
Dipartimento costituito da trenta membri scelti in base alla capacità contributiva. A Trento era in funzione
una Corte di Giustizia civile e criminale (penale). Il Dipartimento era diviso in cinque distretti : Trento, Cles,
Bolzano, Rovereto, Riva, ognuno dotato di una viceprefettura. I distretti erano divisi in venti cantoni, sedi di
giudicature di pace.
Il colpo finale ai privilegi feudali, già in parte ricondotti sotto il controllo dello stato dai sovrani di casa
d’Austria e messi ulteriormente in crisi durante il periodo di sovranità bavarese, venne inferto dal Regno
italico, durante il quale anche nel territorio trentino si impose un pur ridotto ceto borghese dotato di potere
economico, il quale faticava a emergere entro le rigide regole del vecchio ordine. Le giudicature
patrimoniali, territori dove i nobili infeudati esercitavano ancora la potestà giudiziaria, sparirono insieme a
molte altre prerogative di natura feudale.
Ma il sistema centralistico del Regno, irrispettoso della tradizione e delle peculiarità locali, teso a un
egualitarismo giuridico che non significava comunque democrazia (alla nobiltà di sangue si può tutto
sommato dire che si sostituisse quella del denaro), fu spesso mal accetto alle genti del luogo. Il rigido
accorpamento dei comuni (dai quasi quattrocento degli anni precedenti le guerre francesi ai successivi poco
più di cento) e la privazione di ogni loro facoltà decisionale, fu poco gradito a una popolazione che da secoli
era avvezza a governare da sé i propri ambiti economici, in comunità a volte di esigue dimensioni.
Non si può tuttavia togliere importanza all’opera di svecchiamento attuata con l’eliminazione delle vecchie
strutture di potere che governavano il territorio. Significativo di ciò è il fatto che con la Restaurazione casa
d’Austria non ripristinò integralmente il precedente sistema e anche quando fu costretta a restituire spazio
alle classi che avevano gestito il potere prima delle turbolenze napoleoniche, lo fece all’interno di un ordine
che era ormai saldamente statale e non più quello cetuale di antico regime.
Andreas Hofer
Nato a S. Leonardo in Passiria nel 1767, figlio di un oste, guidò nell’ottobre del 1809, a capo degli schutzen
una vittoriosa rivolta contro il governo franco-bavarese, dopo che, con la sconfitta austriaca di Austerlitz, il
Tirolo era stato unito alla Baviera, sostenuto in un primo tempo dall'Austria. Nel 1808 venne chiamato a
Vienna dall’arciduca Giovanni e da Hormayr, per il loro piano di insurrezione contro la Baviera. La rivolta
scoppiò il 9 aprile 1809, Hofer riportò successi sui Bavaresi allo Sterzinger Moos e assunse la difesa del
Tirolo dopo la ritirata del generale austriaco Chasteler, sconfiggendo l’esercito francese in due battaglie
presso Berg. In seguito all’entrata nel Tirolo del generale francese Lefebvre, con un esercito di Francesi,
Bavaresi e Sassoni, Hofer promosse la guerra nazionale e indusse Lefebvre a ritirarsi dopo la sconfitta
inflittagli presso il Berg; in seguito diresse l’amministrazione militare e civile del paese, divenendo così per
qualche mese la maggiore autorità del Tirolo. Dopo la pace di Vienna del 14 ottobre 1809, per cui il Tirolo
fu restituito alla Baviera, egli promosse una nuova sollevazione, ma, sconfitto, si rifugiò nella valle nativa,
dove, tradito, venne consegnato ai Francesi che lo fucilarono a Mantova il 20 febbraio 1810.
Hofer divenne il simbolo della difesa della patria, vivendo a lungo nel ricordo popolare.
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Il Trentino dall'età della restaurazione alla prima guerra mondiale
Gli anni della restaurazione di Maria Garbari
Il Trentino sotto la sovranità asburgica
L’entrata dell’Austria nella sesta coalizione
antinapoleonica avvenne nell’agosto 1813; il 15
ottobre
l’esercito
austriaco
occupava
il
Dipartimento dell’Alto Adige dove veniva
insediata una amministrazione provvisoria, proprio
alla vigilia della disastrosa sconfitta di Napoleone a
Lipsia. Il Trentino subì passivamente il cambio di
sovranità e rimase estraneo al movimento di
opposizione sviluppato nella parte tedesca del
Tirolo contro la politica centralista del
commissario Roschmann e delle autorità viennesi,
né chiese il ripristino delle antiche forme di
autogoverno, perché aveva avuto una storia diversa
rispetto alla contea tirolese in quanto era rientrato,
per secoli e nella sua parte maggiore, nel principato
vescovile.
Il 7 aprile 1815 l’Austria riuniva la parte transalpina del Tirolo, quella cisalpina e l’ex principato vescovile di
Trento in un’unica provincia (Land), ed il primo maggio entrava in vigore il nuovo ordinamento politico che,
fissata la sede del governo ad Innsbruck, divideva il territorio in capitanati circolari due dei quali nel
Trentino, quello di Trento e quello di Rovereto. L’atto finale del congresso di Vienna del 9 giugno 1815
sanciva definitivamente il rientro del Tirolo, già ceduto all’Austria dalla Baviera, e degli ex principati
vescovili di Trento e Bressanone nei possedimenti asburgici; il 6 aprile 1818 la contea tirolese veniva inclusa
nella Confederazione germanica. Il legame con questo organismo politico tedesco non fu avvertito, per il
momento, come lesivo dei diritti e delle tradizioni trentine; solo più tardi, nel 1848, i deputati del Tirolo
italiano presenti alla costituente di Francoforte chiesero il distacco del loro paese dalla Confederazione, ma
con esito negativo.
Il nuovo ordinamento tirolese venne pubblicato il 24 marzo 1816; esso richiamava in vita l’antica
rappresentanza eletta sulla base degli ordini sociali. Il grande congresso (Dieta) era composto da 52 membri,
13 per ogni "stato"; essi erano il clero, la nobiltà, i cittadini ed i contadini. Al Trentino spettavano di diritto
tre rappresentanti per l’ordine del clero, due per le città, due per i contadini. L’ordine della nobiltà eleggeva i
propri deputati senza riferimento al territorio e la minoranza italiana riusciva ad ottenerne raramente fino al
massimo di tre. Le facoltà e le competenze della Dieta erano assai estese, tanto da realizzare una effettiva ed
ampia autonomia del Land. Il centralismo statale si palesava soprattutto con il controllo delle libertà
elettorali, l’approvazione sovrana necessaria per rendere esecutive le delibere dietali, la possibilità di
sciogliere la Dieta, la revoca degli antichi diritti di autodifesa, l’unificazione della carica di capitano
provinciale (presidente della Dieta) con quella di governatore (rappresentante del governo). La presenza
decentrata dell’esecutivo si realizzava nel Trentino nei capitanati circolari di Trento e Rovereto suddivisi,
rispettivamente, in 21 e 14 giudizi distrettuali. Questi ultimi avevano compiti di sorveglianza sui comuni e le
pubbliche istituzioni, poteri di polizia per tutelare l’ordine e poteri giudiziari. Dopo l’introduzione del codice
civile e penale austriaco, che sostituiva quello napoleonico, a Trento e a Rovereto vennero istituiti tribunali
di prima istanza mentre ad Innsbruck aveva sede il tribunale d’appello.
Luigi Negrelli
Luigi Negrelli nacque a Fiera di Primiero il 23 gennaio (o il 25, a seconda delle diverse interpretazioni alle
quali ha dato luogo la lettura dell'atto di nascita) del 1799, in una famiglia di 11 tra fratelli e sorelle. Il padre
Angelo era un genovese dedito alle attività commerciali e la madre, Elisabetta Würtemberg, era originaria
di Tonadico. Trascorse in Primiero gli anni dell'infanzia e della prima giovinezza, dedicandosi nel paese
natale ai suoi primi studi, perfezionandoli in un secondo momento a Feltre e a Padova. Durante gli anni
delle agitazioni belliche e della crisi economica, la famiglia, originariamente benestante, attraversò un
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momento di grande difficoltà e il giovane Luigi rischiò di dover abbandonare gli studi superiori. Ma la Casa
d'Austria venne in suo aiuto, garantendoli un contributo economico che gli permise di proseguire la sua
istruzione. Poté quindi, in seguito, conseguire la laurea in Ingegneria già assai giovane, presso il Politecnico
di Innsbruck.
Il suo talento e la sua preparazione vennero assai presto a conoscenza delle autorità. Immediatamente dopo
il conseguimento della laurea, Negrelli fu assunto dalla direzione dei lavori pubblici di Innsbruck: i suoi
primi compiti riguardavano tutta l'area trentino - tirolese, nonché il territorio più a nord. Si dedicò subito
all'elaborazione della carta idrografica del fiume Inn nel tratto fra Innsbruck e Wattens; al progetto del
ponte di Landeck con relativo collegamento stradale sino a Merano; al miglioramento della viabilità in Val
Pusteria, dopo che un'alluvione di notevoli proporzioni ne aveva sconvolto i traffici. Gli fu affidata anche la
responsabilità delle nuove opere stradali costruite nel Vorarlberg e di tutta una serie di opere relative alla
viabilità della Valle dell'Adige.
Pochi anni più tardi, nel 1827, Negrelli iniziò i lavori per la canalizzazione del Reno e passò al distretto di
Bregenz. Il nuovo incarico richiedeva non solo capacità specificamente tecniche, ma anche politiche, in
quanto la direzione delle attività coinvolgeva sia le autorità svizzere che quelle austriache. Negrelli ebbe
modo di farsi apprezzare anche sul difficile terreno della diplomazia internazionale, tanto che, conclusi i
lavori sul Reno, l'amministrazione del cantone di San Gallo gli propose di sovrintendere al piano di
elaborazione delle opere viarie di competenza. Nel 1830 si trasferì quindi nel capoluogo elvetico per
rimanervi alcuni anni, realizzando la strada del Ruppen che collegava Altstätten a San Gallo; poco dopo
progettò i ponti sul Limmat e sul Münster a Zurigo; il ponte Nydeck sull'Aar a Berna, la linea ferroviaria
che avrebbe messo in comunicazione Basilea con Zurigoe e inoltre il piano regolatore della città di San
Gallo. La grande novità dei lavori portati a termine da Negrelli in Svizzera stava nell'essere riuscito a
dimostrare, con la costruzione di opere ferroviarie realizzate ad una notevole altitudine, che la realizzazione
di una rete ferroviaria era possibile anche in località montuose, idea che a quei tempi veniva negata da
un'autorevole corrente di pensiero facente capo allo studioso inglese Stephenson.
L'idea del canale di Suez e le prime delusioni
Nel giro di una decina d'anni Negrelli si era affermato come uno dei maggiori esperti mondiali nella
costruzione delle opere di viabilità. Incombenze di responsabilità sempre maggiore gli provennero dalle
amministrazioni svizzere ed austriache, mentre egli alternava tali occupazioni a continui viaggi di studio in
tutta l'Europa e alla pubblicazione di scritti scientifici. Fu verso l'inizio degli anni '40 che cominciò a
pensare a quello che sarebbe stato il capolavoro della sua vita professionale, ossia il progetto per il taglio
dell'istmo di Suez, già meditato da Napoleone alcuni decenni prima e rimasto privo di esito a causa delle
continue guerre. Tuttavia, l'ingegnere trentino avrebbe dovuto ancora attendere a lungo prima che la sua
idea si potesse concretizzare. Nel frattempo, stava portando avanti una meticolosa opera di
sensibilizzazione nei confronti delle principali autorità europee per dare attuazione al suo progetto e i primi
risultati non mancarono. Nel 1846 venne costituita a Parigi la "Société d'études du Canal de Suez",
composta da dieci membri ripartiti in tre gruppi distinti: quello italo - tedesco - austriaco, del quale Negrelli
era il più autorevole rappresentante, quello francese e quello inglese. Ben presto Luigi Negrelli riuscì ad
interessare anche il Lloyd, il Comune e la Camera di Commercio di Trieste, nonché la Camera di
Commercio di Venezia, che entrarono a far parte dell'orbita del gruppo italo - austriaco. La discussione del
progetto era cominciata, ma ancora lontano era l'inizio vero e proprio dei lavori, anche per l'ostruzionismo
messo in atto dall'Inghilterra, rappresentata nella citata Società di studi dallo Stephenson. La Corona inglese
non rilevava alcun interesse in un'idea che, se messa in atto, poteva incrementare notevolmente le relazioni
commerciali dell'intera Europa mediterranea con la via per le Indie, indebolendo la propria posizione di
monopolio. Pertanto, essa si era inserita nel gruppo di studio con gli unici scopi di rallentare l'attuazione del
piano e di proporre invece un collegamento ferroviario.
In questo periodo Negrelli ricevette dall'Impero austriaco l'incarico di ispettore per le ferrovie del Nord e
progettò altri importanti tratti ferroviari, come quelli che collegavano Vienna a Leopoli, Praga a Pardubitz,
Ludenburg ad Olmütz, Brunn a Trubau.
Nel 1848 si stabilì a Verona, città nella quale iniziò una serie di progetti ferroviari per la costruzione di
strade ferrate nel Lombardo - Veneto. Gli anni in cui si impegnò in questa nuova serie di compiti
sembrarono preludere al tramonto definitivo suo sogno più agognato. Nel 1849, infatti, si realizzò una
svolta ai vertici del governo egiziano che pareva influire in maniera determinante sul grande progetto di
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Negrelli: la morte del vicerè Mohammed Alì portò sul trono egiziano Abbas, assai più vicino alle posizioni
inglesi, accantonò senza indugio il piano del canale di Suez e promosse la costruzione di una ferrovia
destinata a collegare Il Cairo con Alessandria; a questo scopo nominò come responsabile del nuovo
progetto proprio lo Stephenson.
Negrelli, deluso dalla piega che avevano preso gli eventi, si dedicò interamente ai suoi compiti in Italia
settentrionale, che lo costrinsero a sempre più frequenti spostamenti tra Verona e Milano, fino alla metà
degli anni '50. I percorsi da Verona a Bologna, da Milano a Trieste, da Verona al Brennero, da Bologna a
Padova e da Verona a Vicenza, alcuni dei quali ricostruiti dopo i danneggiamenti subiti in seguito ai moti
del '48, sono opera del suo talento ormai sempre più apprezzato in tutto il mondo. Le difficoltà erano
enormi, poiché i lavori proseguivano mentre le agitazioni di quel periodo stavano raggiungendo il loro
acme. Assieme alle ferrovie, fu impegnato anche nella progettazione di corsi d'acqua, sempre per il
Lombardo - Veneto; e ben presto anche nella costruzione di un imponente canale tra i fiumi Moldava ed
Elba, che gli fruttò il titolo di cavaliere dell'Impero, conferitogli con il titolo di "von Moldelba".
Dovette però subire le ostilità e le ipocrisie di alcuni suoi avversari, i quali approfittarono di alcune critiche
rivolte dal Negrelli all'amministrazione austriaca nel Lombardo - Veneto per accusarlo di tentativi di
cospirazione contro l'Austria. Si trattava, naturalmente, di rilievi del tutto infondati: quando Negrelli aveva
espresso delle osservazioni, ancorché decise, sull'atteggiamento col quale la Casa d'Austria gestiva le
entrate tributarie e le forze militari in Italia settentrionale, lo aveva fatto senza alcuna intenzione sovversiva.
Nondimeno, alcune sue espressioni gli costarono care: venne presto sospeso da tutti gli incarichi conferitigli
da Vienna.
La fase conclusiva della sua vita con gli ulteriori sviluppi della vicenda relativa al canale di Suez.
Costretto a fare ritorno nel capoluogo austriaco, trovò però il modo, libero dagli impegni più gravosi, di
riprendere la progettazione dell'impresa di Suez, incoraggiata da un nuovo, importante avvenimento che
aveva animato la scena internazionale: nel 1854 anche Abbas era morto, e al suo posto gli era successo
Said, favorevole a stabilire relazioni con l'Europa intera, a discapito dell'egemonia britannica. Said
interpellò subito il francese Ferdinand de Lesseps, un esperto in materia di opere ingegneristiche che aveva
ricoperto incarichi diplomatici per conto dell'autorità francese presso il governo egiziano, e gli fornì la
delega ufficiale per trattare la realizzazione del canale. Astutamente, Lesseps riuscì a procurarsi dalla
Società di studi per il Canale di Suez tutti i documenti utili, compreso, anzitutto, il progetto fondamentale
ideato da Luigi Negrelli. Approfittando del fatto che la concessione ottenuta dal viceré d'Egitto era stata
rilasciata a titolo del tutto personale e di essere stato designato dallo stesso Said quale presidente di una
"Commissione scientifica internazionale" per lo studio del progetto, abbandonò le relazioni con la Società
degli studi per dedicarsi come unico responsabile all'elaborazione tecnica dell'opera. La Commissione
esaminò tre progetti diversi, due dei quali con tracciato a collegamento diretto ed uno a collegamento
indiretto.
Fra i tre progetti venne scelto quello di Negrelli, appoggiato dall'ingegnere italiano Paleocapa, con
canalizzazione diretta e senza le chiuse ai due imbocchi del canale, in modo da consentire un più naturale
passaggio dei mezzi di trasporto. Prima dell'approvazione ufficiale, Negrelli si era recato personalmente in
Egitto nel 1855, dove si era fermato un lungo periodo a studiare le possibilità di applicazione pratica del
suo progetto, confidando di poterlo condurre a termine.
La storia, però, per una serie di sfortunate contingenze, non rese a Negrelli il tributo che gli doveva.
L'Inghilterra, che non aveva gradito affatto il mutato atteggiamento delle autorità egizie, scatenò una vera e
propria aggressione militare, facendo occupare l'isola di Perim sul Mar Rosso e fomentando una veemente
campagna di stampa contro la quale fu impegnato attivamente anche il Negrelli. Ciò ebbe come effetto un
rallentamento nell'inizio delle attività, trascorso il quale, tuttavia, la situazione poté normalizzarsi: Negrelli
venne così nominato da Said direttore generale dei lavori per la costruzione del canale. Ma la sua salute,
minata da una malattia ai reni che da qualche tempo lo stava tormentando, veniva aggravandosi di giorni in
giorno. Morì l'1 ottobre del 1858 a Vienna, proprio nel momento in cui egli doveva recarsi sul posto per
dare esecuzione al progetto, lasciando a Lesseps tutte le opportunità di sfruttare il suo imponente disegno
ingegneristico e la paternità dell'opera. Ancor oggi, all'ingresso del canale di Suez, giganteggia un
monumento marmoreo con l'effigie di Ferdinand de Lesseps.
In seguito, la storia ha cercato di recuperare il suo debito con Luigi Negrelli. Le sue spoglie, infatti,
riposano dal 1929 nel cimitero monumentale di Vienna, all'interno del famedio che ospita le tombe dei
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grandi, mentre la capitale egiziana, Il Cairo, ha dedicato a Negrelli una delle sue vie principali.
Le strutture amministrative
Il riordino delle competenze spettanti alle amministrazioni comunali, rientrante nelle attribuzioni della Dieta
tirolese, fu definito con il Regolamento del 1819 che prevedeva la ricostituzione dei 384 comuni ridotti a 110
municipi nel Dipartimento dell’Alto Adige in epoca napoleonica. Questo riportava in vita una
polverizzazione comunale di forte ostacolo a qualsiasi possibilità di sviluppo economico e sociale, ma
cancellava anche un provvedimento sofferto con disagio dalla quasi totalità della popolazione. Il
Regolamento divideva i comuni in tre categorie: i comuni di campagna, le città minori e le città maggiori.
Nella prima categoria rientrava la stragrande maggioranza dei centri abitativi, nella seconda Riva, Arco ed
Ala, nella terza Trento e Rovereto.
L’amministrazione dei comuni di campagna, nella sua semplicità, rispecchiava le caratteristiche di vita dei
paesi dell’arco alpino, frastagliato da valli e monti, con un’economia agricola di sussistenza e la
frammentazione della proprietà fondiaria. Essa era affidata, su base elettiva, ad un capocomune, due
deputatati comunali, un cassiere ed un esattore delle imposte. Nelle città minori veniva costituito un
"Magistrato politico – economico" con un borgomastro, quattro consiglieri, un amministratore, un esattore
delle imposte e, ove necessario, un cancelliere ed un architetto civico; le elezioni si svolgevano con un
sistema di secondo grado.
L’ordinamento delle città maggiori (nel Tirolo erano Innsbruck e Bolzano oltre a Trento e Rovereto) era più
complesso perché in esse il Magistrato politico – economico, oltre ad essere titolare di una amministrazione
propria, era anche istanza politica di primo grado per i poteri delegati dal governo, tanto che queste si
configuravano come città – distretto. A Trento l’amministrazione comunale era costituita dal podestà, da due
consiglieri nominati dal governo, da sei consiglieri designati da un collegio di 24 membri eletti dai censiti e
da un consiglio cittadino di 24 rappresentanti, scelti direttamente dai censiti e rinnovabile per metà ogni due
anni. Il fatto che il diritto di voto fosse legato al pagamento delle imposte anziché al ceto sociale allargava
considerevolmente il corpo elettorale calcolato per Trento, dopo il 1825, a circa 1300 persone.
Nel 1815 venne tolta ai comuni la tenuta dei registri di stato civile, effettuata a suo tempo dal governo
bavarese e mantenuta dal Regno italico, per passarla alla competenza delle parrocchie. I registri delle nascite,
morti, matrimoni tornavano così nelle mani delle autorità ecclesiastiche ed i parroci assumevano il ruolo di
ufficiali di stato civile con l’incarico di rilasciare i relativi certificati, compresi quelli di povertà e di moralità.
Il consenso dei trentini per l’ordinamento politico – amministrativo
L’impianto fondamentale dell’ordinamento politico - amministrativo, attivato dopo l’inserimento del
Trentino nel nesso austriaco, rimase in vita, pur con delle riforme, per tutto il periodo della sovranità
asburgica. Esso riscosse il consenso delle popolazioni per la sua semplicità, lo snellimento burocratico e per
la valutazione positiva dell’autonomia, del decentramento e della difesa delle libertà locali che rappresentava
un elemento di unione fra la parte italiana e quella tedesca del Tirolo. I contrasti, quando nasceranno, non
avranno per oggetto il modello di autonomia, ma la non adeguata rappresentanza dei trentini alla Dieta, tanto
da temere costantemente la subordinazione degli interessi politici e soprattutto economici del paese a quelli
della maggioranza tedesca presente nell’assemblea tirolese.
Apprezzato in modo particolare era il sistema amministrativo, con il suo decentramento funzionale e
burocratico, che andava incontro ai desideri dei cittadini di gestire in proprio e liberamente gli interessi locali
e di sentirsi padroni in casa propria. La vita comunale era sì controllata dal potere politico, ma in forme non
opprimenti, del resto inutili in un sistema di immobilismo economico e sociale dovuto al diffuso
sottosviluppo. I censiti, nonostante lo stato di povertà cronica, erano soddisfatti di amministrare in piena
autonomia gli esigui beni comunali e di usare con parsimonia le scarse rendite avvalendosi di uomini del
luogo, scelti per la loro onestà.
I rapporti stato – chiesa
L’esaltazione della collaborazione fra trono ed altare, tipica dell’età della restaurazione, ebbe luogo anche
nel Trentino, paese profondamente cattolico. Ma la valorizzazione e l’ossequio riservati alla chiesa erano
finalizzati a rafforzare l’ordine conservatore dello stato, avvalendosi dell’autorità e del prestigio del clero
sulle popolazioni. L’organizzazione ecclesiastica cadde sotto le direttive della politica regalista già messa in
atto da Giuseppe II ("gioseffinismo"), tesa a limitare le libertà della diocesi. Ad iniziare dal 1815 il governo
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rivendicò il diritto di nomina dei titolari delle parrocchie; nel 1818 si ottenne dal pontefice che la
circoscrizione della diocesi corrispondesse al territorio dei tre capitanati circolari di Trento, Rovereto e
Bolzano con la conseguente inclusione di cittadini tedeschi; con bolla papale del 1822 venne conferito agli
imperatori d’Austria – in quel momento Francesco I – il diritto di nomina dei vescovi di Trento e di
Bressanone togliendola ai rispettivi Capitoli della cattedrale; nel 1825 la chiesa trentina, che dipendeva
direttamente dalla Santa Sede, diventava suffraganea (ossia dipendente da un vescovo metropolitano) della
diocesi di Salisburgo perdendo l’antica autonomia.
Dopo la morte del vescovo Emanuele Maria Thun nel 1818, si ebbe un periodo di sede vacante finché, nel
novembre 1823, l’imperatore nominò alla carica Francesco Saverio Luschin. Egli si distinse per le visite
pastorali alle parrocchie, rimaste interrotte da sessant’anni, finalizzate a conoscere le condizioni del clero e
dei fedeli trentini, anche da un punto di vista sociale, per rivitalizzare la religiosità della diocesi. Al Luschin
succedeva Giovanni Nepomuceno de Tschiderer, nominato nel 1834 dall’imperatore Ferdinando I (18331848), destinato a reggere la diocesi fino al 1860. Animato da profondo spirito pastorale, sempre disponibile
nei confronti del clero secolare e regolare, impegnato nel farsi carico dei bisogni religiosi e materiali del
paese, fu molto amato dai fedeli toccati dal suo agire improntato alla carità. Per quanto ligio ai doveri
imposti dal potere politico, seppe farsi mediatore fra i cittadini e le autorità costituite in momenti
particolarmente difficili e si sforzò di difendere le prerogative ed i diritti della chiesa.
L’atteggiamento della popolazione ed il controllo politico
Il passaggio del Trentino sotto la sovranità austriaca non diede luogo ad espressioni di malcontento o
disagio. La popolazione assommante all’incirca, nel 1815, a 260.000 abitanti e che con un incremento medio
annuo del 6‰ raggiungerà la cifra di 341.000 unità al censimento del 1869, dopo un ventennio
contrassegnato da cambiamenti di regime, occupazioni militari e tassazioni, aspirava solo alla pace ed al
rientro nella normalità della vita. La sudditanza ad una dinastia tedesca non era sentita come lesiva
dell’indubbia italianità del paese, né rientrava nei programmi austriaci la snazionalizzazione del Trentino;
l’insegnamento scolastico e la predicazione del clero si svolgevano in italiano come italiana rimaneva la
lingua usata negli uffici, fatta salva la scarsa padronanza linguistica di qualche funzionario governativo.
Il potere centrale che orchestrava la politica dell’impero aveva di mira gli obiettivi dell’ordine e della
stabilità, come accadeva in tutti gli stati europei dove vigeva il sistema della restaurazione, presupposti
indispensabili, in base alla teoria del cancelliere austriaco Metternich, per prevenire i moti rivoluzionari. Il
controllo politico e di polizia era assiduo, ma formalmente corretto e senza prevaricazioni. Grande attenzione
era riservata al settore della produzione a stampa e severi controlli venivano effettuati sull’importazione di
pubblicazioni nel timore che si diffondessero le idee contrarie ai principi della conservazione.
Sottoposti a vigilanza erano i trentini sospettati di idee liberali, soprattutto in occasione della rivolta
napoletana del 1820, di quella piemontese del 1821 e dell’insurrezione nell’Italia centrale del 1831. Nel 1833
si sparse il timore di infiltrazioni della Giovine Italia nell’intero Tirolo, ma in realtà il pericolo rivoluzionario
di stampo mazziniano doveva dimostrarsi inconsistente, tanto da sospendere le misure di polizia prese nei
confronti dei maggiori indiziati, il conte Sigismondo Manci ed il conte Matteo Thun. Il provvedimento
dell’autorità politica che impose ad Antonio Rosmini di sciogliere nel 1835 la comunità di Trento
dell’Istituto della carità, un atto destinato a suscitare stupore e dissensi, non era ascrivibile a motivi d’ordine
nazionale, ma alle leggi vigenti che impedivano alle istituzioni religiose di avere i superiori dell’ordine fuori
dall’Austria.
Nel paese la massa della popolazione si manteneva tranquilla, dimostrava fedeltà e ossequio ai rappresentanti
del potere ed il clero contribuiva a legittimare l’ordine fondato sul principio d’autorità. Nemmeno le
espressioni degli uomini di cultura, quando accennavano ai valori della nazione, potevano essere interpretare
in senso irredentistico, perché non esisteva ancora uno stato italiano nel quale, eventualmente, confluire.
La situazione economica
La grigia atmosfera della restaurazione era appesantita dalle condizioni economiche del Trentino, aggravatesi
per la carestia degli anni 1815-1817 che si era abbattuta sull’intera Europa. L’attività agricola risultava
nettamente prevalente rispetto agli altri settori, anche se era fortemente condizionata dalla conformazione
montuosa del territorio con le connesse caratteristiche geologiche ed idrografiche. La superficie coltivabile
produttiva, che diminuiva in corrispondenza della disposizione altimetrica, si presentava abbastanza limitata.
Ulteriori elementi negativi erano costituiti dalla frammentazione, e quindi dall’esiguità delle proprietà
fondiarie, quasi sempre a conduzione diretta, e dai sistemi arcaici di coltivazione. Il basso reddito dei terreni
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faceva sì che la produzione fosse solo di sussistenza, ma con costante squilibrio fra prodotti e bisogni tanto
da rendere permanente la minaccia di carestia, scarsa l’alimentazione e sempre precarie le condizioni del
ceto contadino – la quasi totalità della popolazione – costretto a fare ricorso all’emigrazione temporanea nei
paesi limitrofi e, con la seconda metà dell’ottocento, anche a quella permanente oltre oceano
Il settore manifatturiero aveva una modesta consistenza, tranne l’industria della seta che, successivamente al
periodo napoleonico, conobbe una ripresa durata fino agli anni ’40, ed una estensione anche al di fuori del
distretto di Rovereto. Dopo il 1830 ebbe luogo un discreto sviluppo in campo agricolo, industriale e
commerciale per l’ammodernamento dei mezzi di produzione e l’assunzione di nuove iniziative. Ma i beni
prodotti rimasero sempre al di sotto dei bisogni delle popolazioni, soprattutto nel campo delle granaglie (il
cui prezzo risultava costantemente alto per il dazio d’importazione), nonostante l’estrema parsimonia del
tenore di vita.
Elementi di ripresa dell’attività culturale
A partire dagli anni trenta si verificò una ripresa della vivacità culturale attraverso la rinascita degli studi
storici, letterari e scientifici ad opera di una nuova generazione. In primo piano nel rinnovamento si
collocava ancora una volta l’Accademia roveretana degli Agiati che teneva vivi, accanto ai temi della
letteratura, quelli dell’agricoltura, del commercio, della medicina. Gli "Atti" accademici, dal 1826,
apparivano nell’Appendice del giornale "Il Messaggiere tirolese". L’istituzione roveretana continuava a
presentarsi come alveo d’incontro fra il mondo culturale latino e quello tedesco, ma l’intensa corrispondenza
con intellettuali veneti, lombardi, toscani, rafforzava il senso dell’italianità del paese. L’influsso di Antonio
Rosmini, allontanatosi dal Trentino, per il momento era più determinante negli ambienti italiani che non
nella sua terra d’origine dove invece facevano sentire la loro voce studiosi e letterati come Francesco
Antonio Marsilli, Giuseppe Frapporti, Antonio Gazzoletti, Tommaso Gar, Agostino Perini. Un certo
dinamismo dimostrava l’amministrazione di Trento con il conte Benedetto Giovanelli, alla guida del comune
dal 1816 al 1846, autore di lavori sulla storia antica del Trentino.
Determinante per il risveglio culturale, oltre che per quello economico, fu la Società agraria, sollecitata dalla
Dieta tirolese e nata nel 1838 con l’approvazione imperiale. Ramificata su tutto il territorio, ebbe il
contributo di studiosi impegnati ad analizzare l’interdipendenza tra i fenomeni economici e quelli sociali che
venivano illustrati sul "Giornale agrario", indirizzando verso le coltivazioni più redditizie, lo svecchiamento
delle tecniche di produzione e formulando proposte per l’istruzione agraria. La Società manteneva anche
contatti con gli ambienti economici italiani ed inviava propri rappresentanti ai congressi scientifici, svoltisi
nella penisola dal 1839 al 1847. Un ruolo importante assunse pure l’Istituto sociale di Trento, sorto nel 1838.
Esso s’indirizzava al ceto borghese per promuoverne l’aggregazione e lo sviluppo culturale con conferenze
sulla storia e l’economia, con una scuola elementare di musica ed un gabinetto letterario fornito di riviste
francesi, tedesche ed italiane.
Gli ideali di rinnovamento che circolavano fra i notabili cittadini non sfociavano ancora in manifestazioni di
dissenso e rimanevano patrimonio di una minoranza, senza toccare la massa contadina sempre lontana o
avversa alle novità. Eppure la classe dirigente trentina aveva compiuto una maturazione aprendosi ai principi
di libertà, ormai diffusi in Europa, che reclamavano mutamenti istituzionali e politici. Per questo non si trovò
impreparata di fronte agli avvenimenti del 1848 che avrebbero dovuto segnare una svolta nell’impero
asburgico e nella Confederazione germanica.
Il Biennio rivoluzionario e il breve periodo costituzionale (1848-1851) di Maria Garbari
Il Trentino di fronte al moto rivoluzionario ed al conflitto tra l'Austria e il Regno sabaudo
Il moto rivoluzionario, partito dalla Francia, diffuso in Europa ed approdato anche nell’impero asburgico,
aveva fatto emergere nel Trentino i motivi di disagio nei confronti della Dieta tirolese e del governo di
Vienna. L’annuncio che l’imperatore Ferdinando I, sotto la spinta insurrezionale, il 15 marzo 1848 aveva
promesso la costituzione, accese l’entusiasmo dei cittadini di Trento; essi il giorno 19 chiesero al podestà
Giuseppe de Panizza di stendere una supplica al sovrano per ottenere il distacco del Tirolo italiano da quello
tedesco e la sua aggregazione al Lombardo-Veneto, quando non era ancora giunta la notizia dei moti
scoppiati il 17 a Venezia e il 18 a Milano. Contemporaneamente prendeva corpo una manifestazione
tumultuosa di natura popolare con l’assalto alla cinta daziaria, ma contenuta dalla guardia nazionale
costituita dal municipio e dall’intervento pacificatore del vescovo de Tschiderer.
La dichiarazione di guerra all’Austria da parte di Carlo Alberto, sottoscritta il 23 marzo, ebbe notevoli
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ripercussioni nel Trentino che rappresentava, da un punto di vista strategico, l’asse di raccordo fra gli eserciti
austriaci stanziati in area italiana ed i territori imperiali. Il 7 aprile le autorità politico – amministrative di
Trento erano sostituite da un commissario governativo ed il giorno 8 il comando militare della città veniva
assunto dal col. Zobel che, il 15, dichiarava lo stato d’assedio. Nel frattempo, il 9 aprile, era stata respinta la
supplica al sovrano per lo scioglimento del Trentino dal nesso tirolese.
Le misure di rigore erano dettate dal tentativo dei corpi franchi, volontari italiani che operavano
indipendentemente dall’esercito regolare, di tagliare le vie di comunicazione fra l’Austria e l’esercito del
Radetzkj. Il corpo di spedizione diretto dall’Allemandi penetrava nel Trentino sud-occidentale e, forte di
alcuni successi, occupava Tione dove veniva costituito un governo provvisorio retto da Giacomo Marchetti.
Le azioni successive risultavano però soccombenti sotto l’urto delle truppe austriache presso Castel Toblino;
21 prigionieri, catturati in questo scontro, vennero portati a Trento e fucilati il 16 aprile nella fossa del
castello del Buonconsiglio. Anche le operazioni dei corpi franchi nelle valli di Sole e di Non erano destinate
al fallimento ed al ritiro dei volontari da Malè e da Cles pochi giorni dopo l’occupazione. Alla fine di aprile
ogni pericolo di attività militare era cessata e l’esercito austriaco poteva organizzare la controffensiva.
I trentini fuorusciti perché timorosi di reazioni da parte delle autorità, riuniti a Brescia il 1° maggio,
costituivano un "Comitato" che chiedeva al governo di Milano la fusione del Tirolo italiano con lo stato
sardo, e fondavano la "Legione trentina" per la liberazione militare del paese, sollecitata anche da un appello
a Carlo Alberto firmato da Lorenzo Festi, Antonio Gazzoletti ed Angelo Ducati. La soluzione territoriale
della questione trentina con modificazione del confine politico, irrealizzabile in questa congiuntura storica
per molte ragioni, non ultima quella dell’appartenenza del paese alla Confederazione germanica, venne però
sposata da una esigua minoranza costituita prevalentemente da profughi.
La deputazione trentina alle costituenti di Francoforte e Vienna – Kremsier
Nel periodo aprile – giugno 1848 i cittadini del Tirolo italiano furono chiamati ad eleggere i deputati alla
costituente di Francoforte e a quella di Vienna (per entrambe attraverso il suffragio universale maschile), ed
alla Dieta di Innsbruck con funzioni di costituente dove la rappresentanza sarebbe stata espressa sulla base
dei ceti. Sul giornale "Il Messaggiere tirolese", convertito agli accenti di libertà, apparivano gli articoli del
sacerdote Giovanni a Prato, culminati nella lettera del 26 aprile agli elettori. In essi venivano esposti, in
forme organiche e decisamente progressiste, i principi costituzionali che avrebbero trasformato lo stato
assoluto in stato di diritto posto a tutela e sviluppo di tutti i cittadini, indipendentemente dalle condizioni
sociali, dalla nazionalità o dalla fede.
I trentini rifiutarono d’inviare i loro rappresentanti alla Dieta tirolese, considerata ancora di stampo feudale,
ed il 19 maggio presentavano una protesta, corredata da 5000 firme, contro la mancata tutela degli interessi
del Trentino da parte del governo di Innsbruck. Si decise invece di eleggere i deputati alle costituenti di
Francoforte e di Vienna, grandi assise dove la questione trentina avrebbe potuto trovare soluzione all’interno
della rifondazione dello stato su basi liberali.
La deputazione del Trentino a Francoforte, composta da sei eletti, sotto la guida di Giovanni a Prato prese
posto nella sinistra mediana dello schieramento ed intervenne sui principali problemi dibattuti, come
l’eliminazione dei privilegi nobiliari e di classe, la domanda di separazione fra stato e chiesa e la
parificazione delle confessioni religiose. La questione trentina venne sollevata nel giugno con la richiesta che
i circoli di Trento e Rovereto fossero staccati dal nesso con la Germania, ferma restando l’unione all’Austria,
e la petizione per ottenere l’autonomia separata dal Tirolo tedesco. Le due proposte vennero però respinte
dalla maggioranza dei deputati: la prima perché ritenuta inammissibile, la seconda perché di competenza
dell’assemblea viennese. Anche nella costituente di Vienna, aperta il 22 luglio, la deputazione trentina,
sempre guidata dall’a Prato, prese collocazione nella sinistra democratica e svolse una intensa attività, nelle
sedute plenarie e all’interno delle singole commissioni, per l’ammodernamento dello stato asburgico.
Gli avvenimenti rivoluzionari verificatisi nell’impero, capitale compresa, portarono nel novembre alla
sospensione della costituente ed alla sua riconvocazione a Kremsier, alla formazione di un nuovo governo
affidato al conservatore Schwarzenberg ed alla nomina, il due dicembre, di un nuovo imperatore, il
diciottenne Francesco Giuseppe destinato a regnare fino al 1916.
A Kremsier venne discussa la proposta di erigere il Tirolo italiano a provincia autonoma, appoggiata da una
petizione stesa nel settembre 1848, forte di ben 46.000 firme raccolte nel Trentino tanto da assumere
l’aspetto di un vero pronunciamento popolare. La proposta, accolta nel gennaio 1849 dal comitato
costituzionale con 20 voti contro 7, venne invece bocciata il primo marzo con 12 voti contrari rispetto agli 11
a favore. Pochi giorni dopo, il 4 marzo, la costituente veniva sciolta per ordine sovrano ed il testo
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costituzionale elaborato dall’assemblea sostituito con uno concesso dall’imperatore.
Nel Trentino l’opinione pubblica era tenuta desta dai "comitati patri", sorti nei centri più importanti e
popolosi. I comitati, quasi corpi intermedi fra i deputati e gli elettori, sempre informati ed attenti a quanto
avveniva nelle assise costituenti, organizzavano, con l’appoggio dei comuni, periodici dibattiti per rendere
partecipi i cittadini degli accadimenti politici e compiere un’opera di divulgazione nelle vallate.
A fine agosto 1848, nel Tirolo italiano era stato inviato dal governo il commissario Fischer con l’incarico di
valutare la fondatezza delle richieste d’autonomia e di fare eventuali proposte. Nelle sue mani era stata
consegnata una memoria corredata da 3439 sottoscrizioni che, accanto all’inchiesta compiuta in proprio, lo
avevano convinto ad esprimere parere favorevole all’autonomia amministrativa, purché congiunta al
controllo militare dei confini. Tale proposta era però destinata a cadere dopo il risultato della votazione
avvenuta a Kremsier il primo marzo.
I riflessi nel Trentino del periodo costituzionale
Il testo costituzionale del 4 marzo 1849 portò, anche nella provincia tirolese, alla separazione della funzione
politico - amministrativa da quella giudiziaria. Al posto del Gubernium venne eretta una luogotenenza e
create tre reggenze di circolo, una delle quali per il territorio trentino suddiviso in sei distretti politici
comprendenti, nel loro ambito, più giudizi distrettuali con poteri giudiziari di prima istanza. Poteri di
seconda istanza avevano le Corti di giustizia di Trento e Rovereto, di terza il Senato di Trento e, in materia
penale, la Corte di cassazione di Vienna.
La patente imperiale del 17 marzo 1849 sulla provvisoria organizzazione dei comuni rifletteva il nuovo clima
instauratosi con la costituzione. La legge si apriva con l’articolo che alla base dello stato libero si trova il
libero comune; precisava la doppia sfera del comune, la naturale e la delegata; riaffermava l’elettività degli
organi comunali ponendola su basi censitarie; garantiva la pubblicità dei dibattiti e delle deliberazioni. Una
delle novità più rilevanti della legge consisteva nel prevedere organi elettivi intermedi posti fra i comuni e le
Diete dei Länder, le rappresentanze distrettuali e quelle circolari, raggruppanti più comuni. Ciò
corrispondeva al principio liberale che spetta ai cittadini partecipare anche al potere esecutivo, comprese le
funzioni di controllo.
Il par. 6 del testo legislativo del 17 marzo 1849 prevedeva l’emanazione di statuti speciali per le città più
importanti. Trento si mosse subito, già nell’aprile 1849, sollecitata dal ministero dell’interno e dal
luogotenente del Tirolo. La proposta di statuto municipale, stesa da un comitato di esperti, venne contestata
dalle autorità politiche perché considerata in parte discostata dalla legge del marzo e, su alcuni punti, troppo
liberale. Dopo la revisione del testo, lo statuto della città di Trento fu approvato con risoluzione sovrana e
promulgato il 29 marzo 1851. Nonostante la mancata accettazione delle più significative proposte trentine,
tale statuto faceva del comune di Trento un ente con ampie facoltà autonome nell’ambito del Land autonomo
del Tirolo.
La costituzione proclamava il diritto alla libertà di stampa e l’abolizione della censura. In questo clima
Giovanni a Prato fondava il "Giornale del Trentino", che iniziò la pubblicazione il 2 maggio 1850, e costituì
uno dei più alti esempi di stampa periodica per la capacità di proiettare i problemi locali nel contesto
europeo. Dalle pagine del giornale l’a Prato tenne lezioni di dottrina liberale e costituzionale, stese in forma
piana per contribuire all’educazione civile delle popolazioni. Altre iniziative culturali ed editoriali di rilievo
furono la nascita dell’impresa tipografica dei fratelli Perini e la chiamata a Trento, ad opera del comune, di
Tommaso Gar, protagonista nel Veneto del moto insurrezionale del 1848-49, con l’incarico di scrivere la
storia della città.
Il neoassolutismo di Maria Garbari
L'involuzione politica ed i controlli di polizia
Con la patente imperiale del 31 dicembre 1851 era abrogata la costituzione e si apriva il periodo del
neoassolutismo. Il Parlamento veniva sostituito da un Consiglio dell’impero di nomina sovrana con funzioni
solo consultive. Di esso fece parte, in rappresentanza degli italiani, il giudice Antonio Salvotti, uomo di
grande cultura giuridica e di estrema correttezza nei procedimenti penali, rivalutato dalla moderna
storiografia dopo la condanna inflitta dagli studiosi nazionalisti per il ruolo svolto nei processi del 1821
contro i carbonari.
La normativa del 1849 riguardante i comuni venne bloccata e sospesa la pubblicità delle sedute; anche allo
statuto proprio di Trento fu impedito di esprimere tutte le sue potenzialità e per un lungo periodo
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l’amministrazione cittadina rimase affidata a commissari governativi. Cessata la separazione dei poteri, nel
1854 il circolo di Trento venne suddiviso in 25 "uffici distrettuali misti" che unificavano le funzioni dei
capitanati e dei giudizi; essi rimasero in vigore fino al 1868, quando ormai era stato reintrodotto il sistema
costituzionale. La libertà di stampa fu imbrigliata dalla legge del 1852, integrata poi da diverse ordinanze.
Giovanni a Prato, che già nell’agosto 1851 aveva dovuto sospendere la pubblicazione del "Giornale del
Trentino", veniva privato dell’insegnamento presso il ginnasio di Rovereto. Il Concordato, firmato
nell’agosto 1855 fra l’Austria e la Santa Sede per riproporre l’alleanza trono – altare, assunse la funzione di
uno strumento utile allo stato ai fini del conservatorismo e del disciplinamento ideologico e sociale.
Il controllo politico e di polizia fu ampiamente esteso a tutti coloro – deputati a Francoforte e a Vienna
compresi – che si erano messi in luce nel biennio 1848-49 o che erano ritenuti fautori della causa italiana.
Nel 1853 venne ipotizzata la diffusione dell’attività mazziniana nel Trentino, tanto da portare al fermo di
qualche persona. Ma, nonostante questo ed altri episodi di scarsa consistenza, il paese si manteneva
tranquillo e da parte delle autorità non furono usati i metodi forti né compiute angherie, pur non cessando
mai la sospettosità e l’oculata sorveglianza.
La guerra del 1859 e l'attività dei fuorusciti trentini
Durante i primi mesi del 1859, nella sicurezza di un imminente conflitto tra l’Austria e il Regno di Sardegna
appoggiato dalla Francia, prese il via il fenomeno del fuoruscitismo. Lo scoppio della guerra, a seguito
dell’ultimatum austriaco del 23 aprile, non faceva prevedere operazioni militari nel Trentino perché le truppe
franco-piemontesi non intendevano penetrare in un territorio rientrante nella Confederazione germanica. Si
temevano tuttavia sconfinamenti del corpo garibaldino (i cacciatori delle Alpi) e venivano adottate misure
preventive nei confronti dei rappresentanti del movimento nazionale.
Da parte degli emigrati Antonio Gazzoletti, Vittore Ricci e Gerolamo Pietrapiana, nel giugno furono stesi
due indirizzi, l’uno a Vittorio Emanuele II, l’altro a Napoleone III, con la richiesta che il Trentino venisse
incluso nel progetto risorgimentale italiano, ma le petizioni ebbero accoglienza deludente. Le pressioni dei
patrioti continuarono anche dopo l’armistizio del luglio ed i preliminari di pace di Villafranca, quando
veniva ipotizzata la costituzione di una Lega italiana presieduta dal pontefice. La pace di Zurigo del
novembre, che segnava il passaggio della Lombardia al Regno sardo, non conteneva alcun accenno alla
questione trentina. Successivamente i fuorusciti residenti a Milano decisero di premere sul Cavour, ottenendo
però solo richiami alla prudenza.
Nel Trentino, conosciuta la firma dell’armistizio, riprese vigore l’aspirazione già espressa nel 1848 di
ottenere il distacco dal Tirolo tedesco per entrare a fare parte delle province venete. La richiesta, ritenuta
legale, venne formulata dal consiglio comunale di Trento il 23 luglio ed ebbe subito l’appoggio dei maggiori
centri del paese e degli operatori economici raccolti in apposito comitato. La reazione del luogotenente del
Tirolo valse però a stroncare ogni speranza: la seduta con conseguente delibera del comune di Trento venne
dichiarata nulla e furono accentuate le misure di polizia.
Il Trentino di fronte all’unità d’Italia
Gli avvenimenti italiani del 1860 (annessione al Piemonte dei Ducati e della Toscana, spedizione di
Garibaldi nel Regno delle due Sicilie seguita da quella piemontese nelle Marche e nell’Umbria),
scavalcavano i programmi fissati nell’alleanza tra Napoleone III e Vittorio Emanuele II dell’aprile 1859 e si
risolvevano nella realizzazione dell’unità d’Italia. Il riflesso in terra trentina fu l’accentuarsi delle misure di
polizia: nel giugno alcuni esponenti del movimento nazionale venivano arrestati e confinati ed il podestà di
Trento era esonerato dalla carica.
I trentini fuorusciti continuarono nel 1860 la loro attività, sia partecipando come volontari alle operazioni
militari nell’esercito garibaldino e in quello regolare in un numero calcolabile fra i 300 e i 400, sia con
l’opera propagandistica ed il richiamo agli ambienti politici italiani, di Francia e d’Inghilterra, perché non
fosse dimenticato il problema del Trentino.
Quanto accaduto nel 1859-60 doveva però dimostrare come il progetto, coltivato da una minoranza, di
staccare la provincia trentina dai possedimenti asburgici, si presentasse utopistico, perché l’Italia non poteva
compromettere la realizzazione della sua fragile unità con nuove avventure di guerra e le potenze europee
erano interessate a conservare l’Austria quale cardine dell’equilibrio continentale, senza indebolirla con
ulteriori perdite territoriali. La lezione fu compresa dalla maggioranza del ceto dirigente trentino, deciso a
dimettere i programmi velleitari per puntare sulle riforme istituzionali, la tutela culturale dei caratteri
nazionali e la soluzione dei problemi economici, nati dalla nuova linea di confine che tagliava alla modesta
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industria locale le vie naturali di commercio con l’area lombarda.
Francesco Giuseppe d'Asburgo
Nato a Vienna nel 1830, Francesco Giuseppe a soli diciotto anni sale al trono asburgico grazie
all’abdicazione del nonno Ferdinando I. La sua lunghissima vita coincide con gli anni del lungo ma
inarrestabile declino dell’impero asburgico, stretto tra l’esigenza di conservare prestigio davanti
all’emergente potenza prussiana e nel medesimo tempo, mantenere l’ordine con la forza tra le diverse
nazionalità dell’Impero.
Tutte operazioni che avranno successo: l’unificazione italiana comportò la perdita del Lombardo-Veneto,
l’unità tedesca comportò a sua volta l’emarginazione austriaca all’interno del continente germanico.
Francesco Giuseppe tentò di placare il problema delle nazionalità, concedendo nel 1867 la “duplice
monarchia” e la divisione dell’Impero con l’Ungheria, tuttavia il compromesso scontentò del tutto le altre
nazionalità, tra cui l’italiana, sempre più spinta verso l’irredentismo nei territori di Trento e Trieste. La
Grande Guerra viene a concludere la parabola discendente della “felix Austria”. L'imperatore muore nel
castello di Schönbrunn, a Vienna, nel 1916.
Il ritorno al sistema costituzionale di Maria Garbari
Le istituzioni politiche e la lotta per l'autonomia
Il ritorno alla vita costituzionale nell’impero asburgico avvenne prima con il diploma del 20 ottobre 1860 e
poi, caduto il governo conservatore sostituito da uno liberale, con la patente imperiale del 26 febbraio 1861
che istituiva un Parlamento bicamerale costituito da una Camera dei signori (Herrenhaus), composta da
membri di nomina imperiale, e da una Camera dei deputati (Abgeordnetenhaus) con 343 rappresentanti eletti
dalle Diete dei Länder.
La patente del febbraio conteneva in allegato il Regolamento provinciale della principesca contea del Tirolo,
in base al quale la Dieta risultava costituita da 68 deputati, 64 eletti e 4 di diritto (i vescovi di Salisburgo,
Bressanone, Trento ed il rettore dell’università di Innsbruck). Dal punto di vista elettorale la ripartizione per
ceti veniva sostituita da quattro curie (del grande possesso nobile fondiario; dei prelati; delle città, borghi e
camere di commercio; dei comuni rurali), con aumento dei rappresentanti dei comuni rurali che ottenevano
34 mandati. Il Regolamento troncava la speranza di un’autonomia separata per il Trentino e, con
l’assegnazione di 21 deputati alla parte italiana del Tirolo, riconfermava la sproporzione nella Dieta fra i due
gruppi etnici condannando i trentini alle condizioni di perpetua minoranza.
Le reazioni di protesta non tardarono molto: in occasione delle votazioni del 21 e 22 marzo 1861 per
l’assemblea tirolese, gli elettori trentini decisero di non presentarsi alle urne o di prendere parte alle votazioni
solo per nominare candidati che si impegnassero, una volta eletti, a rinunciare al mandato. Si iniziava in
questo modo, dopo gli interventi alle costituenti di Francoforte e Vienna – Kremsier, la lunga lotta per
l’autonomia, condivisa dai ceti dirigenti, da tutte le componenti politico – ideologiche e dalle popolazioni,
tanto da diventare l’asse portante della storia del paese. Dal 1861 fino allo scoppio della guerra mondiale le
richieste di una amministrazione autonoma rivolte alla Dieta tirolese e al Parlamento di Vienna furono
numerose e reiterate, così come le dichiarazioni e i memoriali, ma sempre destinate al fallimento per
opposizioni politiche, irrigidimenti sui principi o per circostanze sfavorevoli.
La prassi dell’astensionismo caratterizzò soprattutto gli anni 1861-1871, quando per ben undici volte
vennero indette le elezioni ai fini di reintegrare i seggi vacanti alla Dieta. I dubbi sugli svantaggi di non
essere presenti nell’assemblea tirolese venivano cancellati dal clamore della remissione dei mandati che, con
il suo effetto propagandistico, teneva desta l’opinione pubblica. I pochi rappresentanti trentini di parte
cattolica che partecipavano ai lavori dietali erano impegnati come gli astensionisti nelle richieste
autonomistiche, approdate anche in Parlamento nel luglio 1867 ad opera di Celestino Leonardi e Napoleone
a Prato. Nell’aprile 1871 l’imperatore Francesco Giuseppe, in visita nel Trentino, si dimostrò disposto ad
appoggiare il postulato dell’autonomia contenuto in un memoriale rivolto al sovrano firmato da 251
rappresentanze comunali. Ma il progetto elaborato da parte governativa venne giudicato inadeguato alle
esigenze del paese e quindi respinto.
Il nuovo ordinamento delle amministrazioni comunali
Alla Camera dei deputati di Vienna, aperta il 29 aprile 1861 in un clima di grande conflittualità nazionale e
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d’interessi, dei quattro rappresentanti previsti per il Trentino solo due poterono essere eletti dalla Dieta
tirolese, Giovanni Sartori e Carlo de Riccabona, mancando gli altri a causa dell’astensionismo. Nonostante la
loro matrice cattolica e tendenzialmente conservatrice, i due deputati – come quasi tutti coloro che li
seguiranno nella carica – si batterono per gli interessi della loro terra, compresi quelli relativi alla tutela
nazionale, e presero parte attiva ai lavori per la nuova legislazione sui comuni, sfociati nella legge – quadro
del 5 marzo 1862.
La legge manteneva in vita i principi fondamentali di quella del 1849 ribadendo i caratteri di indipendenza ed
autonomia dei comuni ai quali venivano conferiti anche compiti delegati, e riconfermava la possibilità
d’introdurre fra i comuni e le Diete organi intermedi elettivi. In base a tale normativa la Dieta tirolese, per le
proprie competenze statutarie, venne chiamata ad elaborare un regolamento comunale per la provincia; ma i
lavori non si presentarono facili, tanto da protrarsi dal 1862 al 1866. La maggioranza dell’assemblea,
costituita da deputati clericali ed ultraconservatori, si scagliava contro il governo di Vienna ritenuto lesivo
dei diritti del Land e scatenava pesanti attacchi nei confronti dei deputati liberali e di quelli della parte
italiana del Tirolo, presenti perché non astensionisti. Costoro – in particolare Celestino Leonardi, Giovanni
Sartori ed Andrea Strosio – per quanto d’indirizzo cattolico e considerati filogovernativi, nella difesa delle
libertà dei comuni e degli interessi del Trentino, si schierarono accanto all’opposizione liberale assumendo
posizioni che, nel contesto, avevano un sapore progressista e quasi rivoluzionario.
Il Regolamento provinciale del 1866 prevedeva che la rappresentanza comunale venisse espressa dai censiti
sulla base di due (nei centri minori) o tre corpi elettorali; il diritto all’elezione corrispondeva a un dovere,
tanto che il rifiuto alla nomina o l’assenteismo dei consiglieri venivano colpiti con multe a beneficio della
cassa comunale. Le riunioni del consiglio erano pubbliche, così come i verbali delle sedute, i conti consuntivi
e preventivi. Le attribuzioni dei comuni risultavano di duplice natura: quelle proprie (chiamate anche naturali
o indipendenti), assai consistenti, e quelle delegate dal potere esecutivo. Nel Trentino, favorevole al
decentramento ed al potenziamento degli enti periferici, il regolamento ebbe accoglienza positiva anche se,
come appariva ai politici più accorti, la decantata libertà e autonomia comunali si riducevano a ben poco,
dato che un altissimo numero di comuni era di dimensioni minime e dotato d’un patrimonio così modesto da
escludere qualsiasi progetto di sviluppo.
L’attivazione delle rappresentanze elettive intermedie, caldeggiate dai trentini che in esse vedevano un
pallido surrogato dell’autonomia, impegnò la Dieta tirolese dal 1863 al 1868 con dibattiti e scontri a non
finire per l’opposizione dei conservatori. La legge istitutiva delle rappresentanze distrettuali venne
finalmente varata nel novembre 1868, ma rimase priva d’attuazione nonostante le proteste dei trentini,
congelata dalla maggioranza intesa ad evitare mutamenti ed a mantenere l’antico ordine politico –
amministrativo.
Nel 1868 prendeva vita nel Tirolo italiano una sezione di luogotenenza, già decisa nel 1864. Il
provvedimento, che risultava solo un distaccamento degli uffici di Innsbruck anziché la concessione di un
minino d’autonomia, sia pure depotenziata, andò incontro a scarsi consensi tanto che la sezione di
luogotenenza venne soppressa nel 1896.
La guerra del 1866 ed il quadro delle trattative diplomatiche
La questione del Trentino venne sollevata nel 1866 all’interno della guerra austro-prussiana e delle trattative
diplomatiche connesse al conflitto. Nell’aprile era stata firmata a Berlino l’alleanza tra la Prussia e l’Italia;
quest’ultima era obbligata ad intervenire nel caso di guerra contro l’Austria. La Francia, nel giugno,
s’impegnava con l’Austria a mantenere la neutralità chiedendo in cambio la cessione del Veneto all’Italia. Il
governo italiano faceva a sua volta pressione su Berlino, Parigi e Vienna perché nei compensi venisse
inserito anche il Trentino, ma ottenendo più dinieghi che garanzie, sia prima che durante le ostilità scoppiate
il 19 giugno. L’idea di occupare militarmente i territori del Tirolo italiano per far valere al tavolo della pace
il diritto dello stato di possesso (principio dell’uti possidetis), portò ad appoggiare l’azione dei volontari
garibaldini, conclusa con la battaglia di Bezzecca del 21 luglio, e quella del generale Medici che, con una
divisione, contava di raggiungere Trento attraverso la Valsugana. Egli però, il 24 luglio, fu costretto ad
arrestarsi a Pergine.
La vittoria prussiana contro gli austriaci rendeva inutili le operazioni militari sul fronte italiano; l’Italia, in
questa situazione, non poteva che accettare l’armistizio, firmato a Cormons il 12 agosto, solo dopo la
vincolante condizione di evacuare i territori non compresi nel Veneto. A Vienna, nel corso delle trattative
sull’accordo di pace, il governo italiano aveva scarso potere contrattuale; a nulla approdarono le richieste del
plenipotenziario Menabrea, blandamente appoggiate da Francia e Prussia, anche se rafforzate da un
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memoriale di Giovanni a Prato nel quale venivano esposte le ragioni nazionali, economiche e strategiche che
avrebbero giustificato la cessione del Trentino all’Italia, magari dietro pagamento di una indennità. Nella
pace di Vienna del 3 ottobre prevalse la tesi di non indebolire ulteriormente l’Austria e all’Italia fu assegnato
solo il Veneto.
Il Trentino durante la guerra e nel dopoguerra
Nel corso della guerra del 1866 al Trentino vennero imposti il governo militare e la legge marziale (giudizio
statario) con limitazioni delle libertà e l’accentuarsi dei controlli di polizia. Gli indagati e gli arrestati tuttavia
non furono molti ed i condannati poterono fruire a breve distanza dell’amnistia successiva alla conclusione
del conflitto. Nei centri cittadini gli esponenti del movimento nazionale salutarono con entusiasmo la
possibilità di annessione all’Italia, ma le popolazioni rurali che costituivano la maggioranza del paese,
naturalmente avverse alle guerre, si posero sulla difensiva soprattutto nei confronti delle formazioni
garibaldine, spesso spregiudicate nei loro comportamenti e poco rispettose dei beni e della sensibilità
religiosa degli abitanti.
Sgomberate dal territorio le truppe italiane, prese il via la normalizzazione con i festeggiamenti, voluti in
modo solenne dalle autorità governative, del genetliaco dell’imperatore che cadeva il 18 agosto. Permasero
comunque espressioni di protesta e di disagio per il nuovo tracciato dei confini che pregiudicava non poco i
tradizionali flussi commerciali, già compromessi nel 1859 dal distacco della Lombardia dai possedimenti
asburgici.
Emergeva, fra coloro che protestavano, la città di Rovereto, non nuova nell’assumere atteggiamenti
antigovernativi, tanto che nel dicembre 1862 era stata colpita dallo scioglimento della Camera di commercio
e dalla condanna del suo presidente. Nel 1867 venivano sospese le attribuzioni politiche del Magistrato
civico e, nel maggio 1868, la polizia interveniva per controllare il convegno delle Società operaie tenuto
nella città della quercia. Nonostante questo, Rovereto chiese ed ottenne nel 1868 un proprio statuto in base
alla legge del 1862; fu anzi la prima città del Tirolo a godere delle ampie attribuzioni autonome previste
dalla nuova legislazione comunale.
Le leggi fondamentali del 1867. La laicizzazione dello stato e la chiesa trentina
Il 1867 segnò una svolta nella storia dell’Austria, espulsa dalla Confederazione germanica a seguito della
sconfitta inflittale dalla Prussia. Il governo, presieduto dal Beust, dopo laboriose trattative con gli ungheresi
che reclamavano l’indipendenza del paese, era giunto al compromesso austro-ungarico (Ausgleich) dell’8
febbraio 1867 e s’impegnava a modificare la costituzione in senso marcatamente liberale. Le leggi
fondamentali del 21 dicembre 1867, ed in particolare quella "sui diritti fondamentali dei cittadini pei Regni e
Paesi rappresentati al Consiglio dell’impero", aprivano un nuovo ciclo dello sviluppo costituzionale e
garantivano la parità e la tutela di tutti i gruppi nazionali componenti la monarchia.
I deputati trentini a Vienna, dal 1867 i cattolici Napoleone a Prato, Celestino Leonardi ed Eliodoro Degara,
non mancarono d’impegnarsi ripetutamente per sostenere tutti gli interessi del loro paese, ma il programma
di laicizzazione dello stato intrapreso dal governo liberale doveva portarli a privilegiare le questioni di parte,
come avveniva nel Trentino dove si rompeva la collaborazione dei cattolici con la corrente nazionaleliberale.
Nel febbraio 1861 era stato nominato vescovo di Trento Benedetto de Riccabona (1861-1879), avverso
all’unità d’Italia compiuta a spese di territori pontifici. La tensione fra clericali e liberali scoppiò nel 1863, in
occasione delle celebrazioni del terzo centenario della chiusura del concilio di Trento, quando ai prelati
convenuti venne recapitata l’opera di Antonio Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, stampata per
conto de "Il Messaggiere tirolese". Le copie del volume furono subito sequestrate ed il vescovo proibì ai
sacerdoti di collaborare al giornale accusato di liberalismo, di diffonderlo e perfino di leggerlo. Le
manifestazioni d’intransigenza dottrinale della chiesa trentina ebbero il risultato di accentuare il lealismo
verso gli Asburgo, nella sicurezza che ciò favorisse la conservazione. Ma anche l’Austria, come lo stato
italiano, tornata alla vita costituzionale s’incamminava sulla via del laicismo e del liberalismo, sollevando
proteste nei Länder, quali il Tirolo, arroccati su posizioni reazionarie.
La presentazione alla Camera viennese dei progetti di legge sul diritto per i cattolici a contrarre matrimonio
civile ed il ritorno ai tribunali laici delle competenze matrimoniali, sull’emancipazione della scuola dalla
chiesa e sulla regolamentazione dei rapporti interconfessionali, portò i deputati trentini ad accostarsi ai
clericali tirolesi prevalendo in essi la fedeltà alla parola del vescovo che non alla generale tutela della loro
terra. I tre disegni di legge, nonostante le massicce opposizioni, vennero approvati e nel maggio 1868
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ottennero la sanzione imperiale. Le "leggi di maggio" costituirono un trauma per il Tirolo e per la diocesi
trentina, sempre più avversa ai principi del liberalismo e del laicismo.
La presa di posizione dei liberali trentini
I liberali trentini, in questo contesto, si distanziavano dalla corrente cattolica e, nel gennaio 1868, davano vita
ad un loro periodico affidato a Giovanni a Prato, "Il Trentino", in polemica con "La voce cattolica" nata nel
1866. L’occupazione di Roma rappresentò per il vescovo l’occasione d’indirizzare nuovi strali contro il
liberalismo italiano, seguiti da altrettanti contro quello austriaco, tanto da portare le autorità politiche al
sequestro della pastorale del 2 febbraio 1871. Nell’agosto del medesimo anno, tenendosi le elezioni per la
Dieta tirolese, il de Riccabona con una pastorale chiedeva di nominare deputati nei quali l’interesse religioso
prevalesse su ogni altro, rompendo così il fronte solidale che si era costituito in nome delle richieste
autonomistiche.
La presa di posizione del vescovo ebbe conseguenze immediate nella corrente liberale che fondava l’
"Associazione nazionale – liberale trentina", vero e proprio partito con uno statuto e regolari tesserati,
ufficialmente riconosciuta da parte della luogotenenza il 20 ottobre 1871. Date le circostanze della nascita,
l’Associazione accentuò il laicismo e le posizioni progressiste con venature radicali, specie attraverso le
dichiarazioni di alcuni soci. Fra i nuovi aderenti spiccavano Emiliano Rossi, Augusto Panizza e l’irredentista
figlio del consigliere imperiale Antonio Salvotti, Scipione Salvotti, già condannato dalla corte marziale di
Vienna, espatriato in Piemonte, addetto consolare del Regno sardo a Costantinopoli e rientrato nel Trentino
nel 1870 mantenendo la cittadinanza italiana.
La depressione economica
Gli anni del ritorno alla vita costituzionale furono contrassegnati nel Trentino dalla nascita di una lunga
depressione economica, innestata su strutture produttive di per sé già gracili ed in gran parte arretrate. Il
settore agricolo venne dissestato nella sua componente più importante, la viticoltura, colpita agli inizi degli
anni cinquanta dalla crittogama delle viti che pregiudicò per più stagioni il raccolto. A breve distanza di
tempo si diffuse sull’intero territorio la pebrina o atrofia del baco da seta, riducendo drasticamente la
produzione dei bozzoli e mettendo in crisi tutto il settore dell’industria serica, elemento portante
dell’economia del paese.
La nuova linea di confine, tracciata dopo le guerre del 1859 e del 1866, con l’imposizione di dazi sui generi
d’esportazione e d’importazione, segnò la contrazione dei commerci e l’agonia del modesto sviluppo
industriale. Particolarmente colpite furono le cartiere a causa del dazio d’importazione sulla carta praticato
dall’Italia; le vetrerie e la lavorazione del ferro delle Giudicarie; la fabbricazione dei chiodi e la produzione
di magnesio della valle di Ledro. Rimase invece fiorente la manifattura tabacchi di Borgo Sacco, nata nel
1852 e di proprietà dell’erario statale, che nel 1870 impiegava 1200 operai, in gran parte donne. L’erezione
della barriera doganale ebbe pesanti contraccolpi sui beni di prima necessità come i cereali, importati in larga
misura perché prodotti in quantità assai inferiore al consumo. Né si riuscì a rimediare alla congiuntura
sfavorevole col rendere la produzione locale delle granaglie più intensiva e di quantità maggiore, dato il
perdurare dell’arretratezza in agricoltura e l’estensione limitata della superficie coltivabile (il 65% del
territorio trentino si trova oltre i 1000 metri d’altezza).
Alcune iniziative messe in atto per fronteggiare l’emergenza sortirono qualche effetto positivo: con
sovvenzioni del governo vennero importati dal Giappone i semi di baco esenti da pebrina, operazione
appoggiata e favorita dall’attività di Giuseppe Grazioli; i consorzi agrari distrettuali e la Società agraria di
Rovereto s’impegnarono per migliorare le condizioni produttive dei fondi e per la costruzione d’una rete di
acquedotti, ma senza riuscire, in tempi brevi, a bloccare lo stato di crisi. In campo industriale, nonostante le
iniziative della Camera di commercio, la congiuntura negativa non dava adito a speranze di ripresa e si
verificarono, aggravando la situazione, alcuni casi di emigrazione delle fabbriche in territorio italiano per
sfuggire al peso dei dazi.
La proposta di riforma elettorale per la Camera dei deputati e lo scontro fra centralismo e federalismo
Nel febbraio 1873 al Parlamento di Vienna venne presentata la proposta di legge per l’elezione diretta della
Camera dei deputati, al fine di privare le Diete del diritto alla nomina dei rappresentanti e ridimensionare in
questo modo il loro potere, spesso esercitato contro il governo centrale e a danno della normale attività
legislativa. Il progetto di riforma provocò un acceso scontro tra centralismo e federalismo, due indirizzi
sull’ordinamento costituzionale dello stato con le correlative conseguenze sul piano legislativo ed
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amministrativo. In linea generale erano favorevoli al centralismo gli austrotedeschi, al federalismo quasi tutti
gli altri gruppi etnici non tedeschi in difesa delle facoltà e prerogative dei singoli Länder che si volevano
allargare fino alla semi-indipendenza. Dal punto di vista politico il centralismo era legato alla dottrina ed alla
prassi del liberalismo, il federalismo nella sua maggioranza era di stampo conservatore con punte reazionarie
ed aspirazioni quasi feudali.
Il dibattito sulla riforma elettorale venne compiuto dai liberali trentini con un confronto ad ampio respiro,
non limitato ai problemi locali, ma aperto all’intero arco delle questioni riguardanti la monarchia asburgica
ed il suo ammodernamento. Scipione Salvotti, in un opuscolo pubblicato a Milano, poneva l’accento sui
pericoli del pangermanesimo di stampo prussiano, nati con la proclamazione del Reich tedesco nel gennaio
1871, e sul panslavismo appoggiato da Mosca che mettevano a repentaglio l’equilibrio europeo. In tale
situazione lo stato asburgico, almeno provvisoriamente, andava mantenuto e rafforzato come ostacolo posto
fra i due nazionalismi e, a questo fine, bisognava accettare le richieste dei Länder e puntare sul federalismo
sorvolando, per motivi tattici, il suo carattere conservatore e clericale.
Vittorio de Riccabona, uno dei maggiori esponenti del liberalismo, uomo di vasta cultura e competenza
anche economica, confutava le tesi del Salvotti nel lavoro La questione trentina, ritenendole svantaggiose sia
per il Trentino che per l’Austria. Solo in un grande stato, capace di legiferare in base ai principi ispiratori
delle libertà politiche e civili, poteva essere garantita la tutela dei diritti nazionali. Bisognava quindi
accostarsi alla corrente centralista, di sicura fede costituzionale, e non lasciarsi irretire nei programmi dei
federalisti, espressione di tendenze reazionarie che si rivelavano al massimo nella contea tirolese. La riforma
elettorale, se entrata in porto, avrebbe inoltre permesso ai trentini di portare direttamente le loro istanze al
Parlamento di Vienna, senza passare per la Dieta di Innsbruck. Le argomentazioni del Riccabona, che
davano priorità allo sviluppo in senso liberale dello stato, convinsero l’Associazione nazionale-liberale che
nell’assemblea del 4 maggio 1873 aderì alla tesi del centralismo.
La nascita dell'irredentismo
La possibilità, per quanto remota, che il Trentino venisse ceduto allo stato italiano, successivamente alla
guerra del 1866 e alla pace di Vienna, riprese quota nel 1869 quando s’ipotizzò un’alleanza tra Francia, Italia
ed Austria in funzione antiprussiana che, in caso di guerra vittoriosa, prevedeva il passaggio dei distretti di
Trento e Rovereto all’Italia. L’irrigidimento del governo italiano, intenzionato in primo luogo ad avere Roma
e a condizionare l’alleanza allo sgombero delle truppe francesi poste a presidio di questa città dal 1849, fece
naufragare il progetto.
Dopo il 1870, più ancora che dopo il 1866, la situazione creatasi in Europa rendeva impossibile contare su
congiunture internazionali tali da permettere modificazioni dei confini politici con la cessione del Trentino
all’Italia. Nessuna delle grandi potenze intendeva destabilizzare il precario equilibrio del continente, scosso
da spinte nazionaliste ed imperialiste, per il quale era essenziale mantenere l’integrità dell’Austria. Lo stato
italiano, da parte sua, impegnato nel consolidarsi all’interno e sotto l’incubo della questione romana,
chiedeva soltanto la pace e non avanzava richieste di ulteriori ingrandimenti. Nascevano così le condizioni
per il verificarsi delle istanze irredentistiche: una minoranza etnica inglobata in una formazione statale di
nazionalità diversa, ma confinante con lo stato connazionale che, in questo caso, per prudenza politica
sembrava dimenticarsi dei propri figli d’oltre confine.
L’irredentismo, in terra italiana, assunse subito una forma protestataria contro il governo, espressa qualche
volta in modo plateale. Nel Trentino invece, dove vigeva la propensione al realismo, era chiaro che il
problema non si sarebbe risolto né con le cospirazioni mazziniane, né con le avventure garibaldine. Per
questo i maggiori esponenti del patriottismo quali l’a Prato e Vittorio de Riccabona, pur non abdicando al
sogno del congiungimento all’Italia in un imprecisato futuro, si impegnarono nella difesa culturale dei
caratteri nazionali del paese, nel rafforzamento del fronte autonomistico e nel rinnovamento liberale
dell’Austria, affinché alla minoranza italiana fosse assicurata una vita autonoma all’interno dello stato
plurietnico.
Dalla riforma elettorale del 1873 al cambio di secolo di Maria Garbari
La deputazione trentina alla Camera di Vienna
Il 2 aprile 1873 veniva approvata l’introduzione del suffragio diretto per la Camera dei deputati dell’Austria,
portata a 353 rappresentanti eletti da quattro curie censitarie. Al Tirolo erano assegnati 18 seggi dei quali 7
per la parte italiana. Nelle elezioni svolte nel settembre i liberali trentini guadagnarono tutti i mandati con la
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nomina di uomini prestigiosi fra i quali Giovanni a Prato, Carlo Dordi, Giovanni Ciani. All’apertura dei
lavori della Camera essi presero posto nel club delle sinistre che appoggiava il governo liberale.
Nel febbraio 1874 i rappresentanti trentini indirizzavano al Parlamento una memoria con la richiesta
dell’autonomia, rafforzata da una proposta del marzo presentata dall’a Prato. La presenza alla Camera del
sacerdote liberale doveva però cessare in tempi brevi: il suo voto favorevole alle proposte di legge del 1874,
che avrebbero completato la laicizzazione dello stato e della scuola, provocò la reazione del vescovo
coadiutore di Trento, Giovanni Haller. L’a Prato, obbedendo al precetto della chiesa, ritrattò il voto ma
rinunciò anche al mandato parlamentare. Gli altri sei deputati trentini, che si erano impegnati a sostenere lo
sviluppo liberale dell’Austria e la tutela degli interessi del loro paese, rassegnarono in blocco le dimissioni
quando, nel maggio 1877, venne respinta la richiesta dell’autonomia.
Le elezioni supplettive videro l’entrata alla Camera di tre deputati cattolici, ed anche nelle tornate elettorali
successive, accanto ai liberali che conservavano la maggioranza dei mandati, figurarono due o tre
rappresentanti cattolici, in un primo momento sempre sacerdoti d’indiscussa preparazione come Emanuele
Bazzanella, Lorenzo Guetti e l’attivissimo Giovanni Salvadori. Il primo "laico" fu Enrico Conci, destinato ad
assumere ruoli di primaria importanza anche nel campo della difesa nazionale.
Il compito della deputazione trentina non si presentava facile in un Parlamento corroso dai conflitti etnici, a
mala pena contenuti dal conte Taaffe a capo del governo per 14 anni, dal 1879 al 1893. I rappresentanti del
Tirolo italiano alla Camera riuscivano a superare le fratture politiche che li dividevano in patria e compivano
un lavoro costruttivo e d’intesa nella sicurezza di poter ottenere più a Vienna che ad Innsbruck. In questo
modo si trovarono compatti nelle istanze autonomistiche, nella difesa dell’italianità del Trentino attraverso i
mezzi legali garantiti dalla costituzione e nel sollevare i maggiori problemi d’ordine economico e sociale
quali il finanziamento ai lavori pubblici, la regimentazione dei corsi d’acqua, la costruzione della ferrovia
della Valsugana, la tutela dei prodotti agricoli, le iniziative per frenare o regolare il fenomeno
dell’emigrazione.
Dopo la riforma del 1882, che aveva ridotto il censo elettorale da dieci a cinque fiorini per favorire la piccola
borghesia, nel giugno 1896 era istituita una quinta curia, la "classe elettorale generale" dove 72 deputati, in
aggiunta agli esistenti, venivano eletti a suffragio universale maschile. Nella nuova Camera il Tirolo italiano
guadagnava un mandato, due quello tedesco. Le elezioni tenute nella primavera del 1897 portavano i liberali
ed i cattolici trentini ad una posizione di parità con quattro seggi ciascuno.
Nella Camera neo eletta l’ostruzionismo dei tedesco-nazionali e le opposizioni degli altri gruppi etnici
determinarono sessioni di esigua durata e continue crisi e ricomposizioni del governo – sei nell’arco di tre
anni – tanto da paralizzare l’attività legislativa e provocare il ricorso, nel 1900, allo scioglimento anticipato
della Camera. In questo contesto, nel 1897 venne presentato al primo ministro Badeni il Progetto di Riforma
del Regolamento provinciale per ottenere l’autonomia, seguito dal Memoriale del 1898 al nuovo primo
ministro Francesco Thun. Ma la richiesta sottoscritta da liberali e cattolici non ebbe accoglienza e fu rifiutata
nel 1900 dal Körber, allora a capo del governo, con una lettera indirizzata al deputato Valeriano Malfatti.
Lorenzo Guetti
Lorenzo Guetti nacque il 6 febbraio 1847 a Vigo Lomaso da Girolamo e Rachele Molinari, primo di 13
figli. La sua vocazione religiosa avvenne nel 1863, quando entrò nel Collegio-convitto Principesco
Arcivescovile, istituito a Trento con le funzioni di seminario minore, dove compì gli studi liceali, fino ad
entrare nel Seminario teologico, dove venne ordinato sacerdote il 31 luglio 1870.
Quello stesso anno iniziò l'esperienza pastorale, come cooperatore alla parrocchia di Terragnolo nel
Roveretano, una delle aree meno abbienti dell'intera provincia, con un'agricoltura provata da varie
epidemie, e proprio allora cominciò a maturare un notevole interesse per il campo agricolo, partecipando
nel 1972 ad alcune sedute del terzo "Congresso bacologico internazionale" organizzato a Rovereto dalla
"Società Agraria".
Il 28 febbraio 1878 si trasferì come curato a Quadra nel Bleggio, che divenne la base di partenza di tutte
quelle realizzazioni che lo avrebbero reso famoso. Preoccupato per l'emigrazione che stava
progressivamente spopolando i piccoli paesi delle Giudicarie, cominciò una corrispondenza con lo
pseudonimo di "Renzo" al giornale "La Voce Cattolica", organo ufficiale dei cattolici trentini, in cui
riportava lettere di emigrati, segnalando partenze e ritorni. Nel 1888 uscì in opuscolo una sua statistica
sull'emigrazione trentina in America a partire dal 1870, frutto di un enorme lavoro di rilevazione, attraverso
questionari inviati a tutti i curati e alle autorità comunali.
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In quello stesso anno il sacerdote rischiò di morire per una grave malattia e perse la madre, ma divenne
anche presidente del Consorzio agrario distrettuale di S. Croce, comprendente il distretto di Stenico, uno dei
27 organi periferici in cui si articolava la sezione di Trento del "Consiglio provinciale dell'agricoltura per il
Tirolo", istituito dalla Dieta di Innsbruck per migliorare le sorti dell'agricoltura. Entrato a far parte degli
organi direttivi del Consiglio, fece relazioni su allevamento, apicoltura e credito agrario. L'impegno sociale
nei confronti dei suoi compaesani lo portò ad interessarsi anche di politica: sostenendo l'autonomia del
Trentino dal Tirolo tedesco si aggregò con i "cattolici-nazionali", riunitisi dal 1888 al 1891 attorno
all'esperienza del giornale "Il Popolo Trentino". Eletto nel dicembre 1891 per il collegio delle Giudicarie
deputato alla Dieta del Tirolo a Innsbruck, non vi ci si recò mai, abbracciando il metodo dell'astensione, in
segno di protesta contro i rifiuti tirolesi alle domande di auonomia. Dichiarato per questo decaduto dal
mandato, fu rieletto nel 1892, 1893, 1895, 1896, 1897.
Intanto nel Consorzio Agrario di S. Croce si avevano i primi sintomi della nascita della cooperazione e fu
proprio don Guetti, nel 1890, a dare il via al movimento cooperativo nel Trentino, con la realizzazione a
Villa S. Croce di una società cooperativa rurale di smercio e consumo. A fine 1893 erano sorte altre 8
Famiglie cooperative, come vennero dal curato presto chiamate. Fu sempre da lui fermamente voluta la
fondazione nel 1892 della prima Cassa rurale di prestiti e risparmio, a Quadra, che doveva costituire il
supporto finanziario di tutte le altre realizzazioni cooperative. Ma accanto ai grandi successi ottenuti in
campo cooperativo, quell'anno don Guetti fu colpito da un altro lutto, la morte del padre.
Trasferito nel 1893 a Fiavè in qualità di curato, diede lì vita alla seconda Cassa rurale del Trentino, di cui
divenne direttore.
Grazie all'opera di don Guetti il movimento cooperativo stava vincendo le ultime resistenze dei contadini, e
ciò era dovuto anche alla martellante propaganda sulla stampa. Dopo gli articoli, poi riuniti in opuscolo, dal
titolo Società cooperative rurali, tra il 1894 e il 1895 uscirono su "Famiglia Cristiana" i Dialoghi di un
curato di campagna coi suoi curaziani.curazini Nel 1894 il curato cominciò a maturare l'idea di riunire le
cooperative in un centro unico, così che, il 20 novembre 1895, nacque la Federazione delle Casse rurali e
dei Sodalizi Cooperativi del Trentino, a cui aderirono subito 42 società. Organo di promozione della
Federazione era il "Supplemento al Bollettino agrario del Consiglio provinciale dell'agricoltura", che dal
1898 assunse la nuova testata "La Cooperazione Trentina".
Entrato a far parte del Parlamento Asburgico a Vienna, vide però i suoi ultimi anni amareggiati da un'aspra
polemica con i "confessionali", la nuova corrente emergente del movimento cooperativo trentino, che
divergevano ormai dal fondatore per scelte e obiettivi. Attaccato dal foglio cattolico "Fede e Lavoro", don
Guetti ribadì la sua fiducia in un movimento unitario, nel quadro di una società basata sul
"galantomenismo", in cui non esistevano grosse distinzioni economiche.
Il 19 aprile 1898 don Guetti morì a Fiavè per un cancro all'esofago, mentre era ancora nel pieno delle sue
attività.
Tratto da E. Agostini, Lorenzo Guetti: la vita e l'opera nella realtà trentina del secondo Ottocento, Padova,
Editoriale Programma, 1984, pp.13-23
La presenza alla Dieta di Innsbruck
I deputati trentini alla Dieta di Innsbruck interruppero l’astensionismo nel 1875, nella convinzione che i
problemi del Tirolo italiano potessero avere maggiore tutela con la presenza in assemblea anziché con l’atto
provocatorio dell’assenza. In realtà la partecipazione ai lavori dietali rimase saltuaria e compiuta solo nelle
circostanze ritenute fondamentali per gl’interessi del Trentino. Nel 1880 e 1881 si sollecitò l’attivazione
delle rappresentanze distrettuali; nel 1883 la deputazione al completo chiedeva provvedimenti in soccorso
dei sinistrati e per riparare gl’ingenti danni della catastrofica alluvione dell’anno precedente; in un
Memoriale alla luogotenenza, steso da Carlo Dordi e da Vittorio de Riccabona, venivano sollevati tutti i
problemi del Trentino, aggravati dalla calamità naturale. La presenza alla Dieta nel 1883 diede qualche
risultato e fruttò agli italiani due posti nella deputazione (giunta) dietale. I trentini furono presenti per
sottoscrivere nel 1884 la proposta del Dordi finalizzata ad ottenere una Dieta circolare autonoma; per
chiedere nel 1886 l’istituzione a Trento di una sezione del Consiglio scolastico provinciale; per riprendere,
nell’ottobre 1889, la lotta per l’autonomia.
Nel 1890 si accesero le speranze di una soluzione positiva della questione autonomistica sulla base del
progetto sottoscritto da Dordi e Brusamolin, sottoposto ad una apposita commissione. Ma agli inizi del 1891,
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in concomitanza con la richiesta di discutere il progetto in aula, il luogotenente chiudeva la Dieta. I deputati
trentini, mentre il Malfatti sollevava la questione alla Camera di Vienna, con una dichiarazione di protesta,
rassegnavano le dimissioni ed iniziavano un lungo periodo di astensionismo protratto fino al 1900.
L’assenza dalla Dieta, pur corrispondendo ad un modo di sentire condiviso da buona parte del paese, aveva
anche molti aspetti negativi, come l’atteggiamento radicale assunto a volte dai rappresentanti italiani.
L’assemblea tirolese, avversa al mutamento del quadro istituzionale, non era contraria a venire incontro alle
istanze trentine, specie nel settore agricolo. Così la latitanza al momento dell’attuazione della riforma agraria
e dei piani per la viabilità rappresentò una serie di occasioni perdute.
Le strutture amministrative: le riforme degli "statuti propri" di Rovereto e Trento
Dopo la legislazione degli anni sessanta, le strutture amministrative del Tirolo e, quindi, del Trentino
rimasero quasi invariate. Il maggiore problema restava sempre quello del grande numero dei comuni, piccoli
e minimi, destinati all’indebitamento o all’immobilismo per l’esiguità dei loro beni patrimoniali. Sulle norme
per la gestione del patrimonio comunale, che preoccupava anche il ceto dirigente trentino, venne emanata
una legge nel 1882 ed una seconda nel 1892, ma con prescrizioni riguardanti solo la correttezza formale
dell’amministrazione. Non si intervenne invece nella sostanza della questione, risolvibile solo attraverso la
ricomposizione dei comuni in organismi intermedi elettivi, in grado di progettare uno sviluppo programmato.
La città di Rovereto, nel corso del 1875, presentò alla Dieta alcune modifiche da apportare al proprio statuto;
le principali riguardavano il numero dei membri della rappresentanza (consiglio) e la forma di votazione che
si effettuava in modo orale. Solo nel dicembre 1878 il progetto, dopo le correzioni richieste dalle autorità,
divenne legge: i componenti della rappresentanza furono fissati nel numero di 30 e venne introdotto il voto
scritto con tutela della segretezza.
Anche il consiglio comunale di Trento nel 1885 ritenne necessario mutare lo statuto del 1851 per adeguarlo
alla normativa vigente. Il progetto del nuovo statuto conobbe però notevoli difficoltà perché le autorità
politiche diffidavano della piena lealtà del capoluogo trentino. Dopo discussioni dietali, modifiche chieste
dal ministero dell’interno, rinvii e trattative, lo statuto con allegato il regolamento elettorale, approvato dalla
Dieta ed ottenuta la sanzione sovrana, venne emanato con legge 7 dicembre 1888.
Il nuovo statuto, articolato in 82 paragrafi, si ispirava alla concezione economica del comune chiamando alla
gestione tutte le componenti attive e favorendo le nuove leve con l’abbassamento dell’età degli eleggibili da
30 a 24 anni. I tre corpi elettorali, sempre costituiti sulla base del censo, avrebbero nominato 12
rappresentanti ciascuno per un totale di 36, attraverso una votazione della quale era garantita la segretezza.
Le attribuzioni "proprie" del comune risultavano assai ampie, di grande importanza economica e sociale,
tanto da creare un ambito rilevante di gestione autonoma. Solo negli affari di polizia locale e di pubblica
sicurezza il governo si dimostrò restio a demandare al capoluogo poteri ed attribuzioni; Trento rimase infatti
l’unica città del Tirolo fornita di statuto proprio ad avere il servizio di polizia gestito dallo stato.
Soltanto molto tardi, nel 1899, come previsto dalla legge comunale, ebbero un proprio statuto in qualità di
"luoghi importanti di cura", Arco, Antica fonte Peio e Roncegno; Levico-Vetriolo dovette attendere invece
fino al 1904.
L'irredentismo e la politica italiana
Nel 1874, nonostante i rapporti italo-austriaci cominciassero a farsi amichevoli, il ministro degli esteri
d’Austria, conte Andrassy, inviava al governo di Roma una "nota" destinata a rimanere il punto di
riferimento in tema d’irredentismo: ammettere per la minoranza italiana il principio delle frontiere etniche
significava sollevare le richieste di altre nazionalità e provocare un moto centrifugo tale da smembrare la
duplice monarchia ed altri stati includenti minoranze, con la compromissione dell’intero equilibrio europeo.
Di conseguenza la politica ufficiale italiana smorzò o sconfessò l’irredentismo che rimase patrimonio dei
movimenti d’opinione, pronti a manifestazioni di piazza come nel 1876.
A Napoli, nel 1877, ad opera di Matteo Renato Imbriani nasceva l’ "Associazione in pro dell’Italia
irredenta", seguita da altre associazioni e circoli con connotazioni protestatarie ed antigovernative che si
esprimevano quando la politica estera italiana era ritenuta rinunciataria (congresso di Berlino del 1878) o in
occasione di particolari eventi (la condanna a morte di Guglielmo Oberdan nel 1882). La nascita della
Triplice alleanza fra Italia, Austria e Germania, firmata nel 1882 e sempre rinnovata fino alla sua denuncia
nel 1915, poneva fuori legge l’irredentismo. L’avvento del Crispi al potere portò allo scioglimento dei circoli
irredentistici ritenuti di "sinistra" ed alla condanna dell’intero irredentismo definito dal primo ministro "il più
dannoso degli errori in Italia". Da questo momento le istanze patriottiche ripiegarono, almeno formalmente,
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su un programma di difesa nazionale che potesse convivere con l’ordine conservatore assicurato
dall’alleanza con gli imperi centrali.
I trentini emigrati nel regno nel 1879 costituivano a Milano il "Circolo trentino" al quale, più tardi, se ne
aggiunsero altri a Roma, Torino, Verona. Ma, nonostante il fervore della fede patriottica e qualche accento
garibaldino nel linguaggio, il loro agire si mantenne sempre prudente e mai in contrasto con le posizioni
politiche assunte dall’Italia, tanto da dissociarsi sovente dalle iniziative assunte dagli irredentisti adriatici.
Per estrazione sociale e formazione intellettuale – gli emigrati trentini costituivano un gruppo elitario nel
campo economico, delle professioni e della cultura – essi diffidavano delle esaltazioni e degli estremismi.
Pur non dimettendo la speranza dell’annessione del Trentino all’Italia, esprimevano il loro patriottismo con
l’assidua partecipazione alle cerimonie della liturgia nazionale e con gli aiuti concreti, generosi e continuativi
a tutte le associazioni e le iniziative rivolte a mantenere salda l’italianità della loro terra d’origine.
La difesa nazionale nel Trentino
Le ripercussioni nel Tirolo italiano delle manifestazioni irredentistiche del 1876 furono lo scioglimento delle
associazioni sospettate di attività nazionale fra le quali la "Società Alpina del Trentino", rinata nel 1877
come "Società Alpinisti Tridentini" (SAT), la censura della stampa e qualche arresto, tanto da provocare alla
Camera di Vienna le proteste di Carlo Dordi. Tuttavia lo stesso Andrassy era propenso a non calcare la mano
sul Trentino, convinto che i focolai dell’irredentismo andassero individuati in Italia più che entro i confini
austriaci.
La lotta nazionale dei trentini non s’incentrò sull’improponibile richiesta di modificazione dei confini, ma
sulla difesa dell’italianità delle popolazioni ritenuta minacciata dall’aggressione pangermanista. Convinti che
l’interesse degli studiosi tedeschi per le tracce di stanziamenti germanici collocati sul versante meridionale
delle Alpi preparasse una rivendicazione etnica e politica, essi s’impegnarono a rispondere con le medesime
armi storiche, archeologiche, linguistiche e toponomastiche originando una massiccia pubblicistica dove, da
ambe le parti, il rigore scientifico era condizionato a volte dalla passione nazionale. La militanza della
cultura non era un fenomeno locale, bensì un riflesso del clima instauratosi nell’intera Europa corrosa dai
nazionalismi.
La nascita, nel 1880, del "Deutscher Schulverein", portò nel 1885 alla fondazione della società "Pro Patria"
con un programma d’interventi in campo culturale e scolastico, ritenuto perfettamente legale, parallelo a
quello dell’associazione tedesca. La "Pro Patria" venne sciolta d’autorità nel luglio 1890 per avere salutato
con un telegramma la costituzione, in Italia, della "Dante Alighieri". Alla disciolta associazione subentrò, nel
1891, la "Lega Nazionale" con il medesimo programma di attività nel settore scolastico e della cultura. La
sua azione, svolta all’interno del dettato legislativo e priva di eccessi provocatori, incontrò il consenso di
molti cittadini che ne facilitarono la diffusione anche in periferia, tanto da avere un notevole sviluppo nel
nuovo secolo. Più contenuta fu invece l’azione della "Dante Alighieri", costretta nel Trentino a mascherare la
sua componente massonica. Accanto a queste associazioni se ne collocarono altre di carattere culturale,
sportivo e studentesco, quale la "Società degli studenti trentini" del 1894. Il progetto di erezione del
monumento a Dante a Trento, inaugurato nel 1896, rappresentò un forte momento di aggregazione nazionale
e divenne il simbolo dell’italianità del Trentino anche se spogliato, all’apparenza, da finalità irredentistiche.
Le condizioni economico-sociali
Negli anni settanta furono compiuti diversi tentativi per uscire dalla depressione economica, puntando
soprattutto sul settore agricolo che occupava la maggioranza della popolazione: il 73,4% nel 1880. Gli
interventi erano finalizzati in primo luogo ad incrementare la produzione dei grani ed all’espansione dei
settori più confacenti alle caratteristiche del territorio, la viticoltura e la frutticoltura. La nascita nel 1874
dell’Istituto agrario provinciale di S. Michele, dotato di consistenti contributi governativi e della Dieta
tirolese, ebbe conseguenze positive per la diffusione delle proposte innovatrici e l’ammodernamento
dell’economia primaria. La produzione cerealicola conobbe un miglioramento per la razionalizzazione delle
colture, ma l’impossibilità di estenderla oltre una certa fascia altimetrica mantenne la sproporzione tra risorse
e fabbisogni locali, colmata da massicce importazioni di farine e granaglie. Un balzo in avanti si ebbe invece
nella produzione vinicola, destinata a costituire un settore in continua espansione, nella produzione di mele e
pere ed anche nel campo zootecnico con incremento del patrimonio bovino.
Ulteriore impulso all’economia primaria venne fornito dalla sezione trentina del Consiglio provinciale di
agricoltura, sorto nel 1881 ed articolato in consorzi agrari distrettuali che, nel 1884, contavano ben 4338
soci. La lenta ripresa non riuscì tuttavia ad innescare un processo di espansione e le condizioni economiche
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del Trentino continuarono a permanere critiche, anche perché colpite da avversità naturali fra le quali la
catastrofica alluvione del 1882 che mise a terra l’intero paese spazzando via coltivazioni, case, ponti e strade.
L’industria, già in fase di depressione, si avviava al tracollo. Il settore serico vedeva chiudere quasi tutte le
filande, con drastica riduzione degli operai, e la scomparsa della produzione di velluti. Crollavano le cartiere,
la lavorazione del ferro, del vetro e tante altre produzioni tipiche. Solo la manifattura tabacchi di Sacco si
manteneva in espansione emergendo nella confezione di sigari (centodieci milioni di pezzi nel 1875). Anche
il commercio languiva, condizionato dalla crisi industriale e dalla carenza di una rete di allacciamenti viari
all’interno del paese.
La precarietà delle condizioni economiche aveva preoccupanti ripercussioni sociali. Il mancato equilibrio fra
risorse e pressione demografica accentuava il fenomeno dell’emigrazione stagionale e originava quella
permanente, indirizzata prevalentemente verso l’America latina. L’esodo riguardava la popolazione addetta
all’agricoltura, priva di mezzi di sussistenza, costretta a lasciare i paesi con tutte le conseguenze morali e
materiali di un trasferimento definitivo. L’intensità di tale fenomeno, documentato dalle statistiche di don
Lorenzo Guetti che davano 23.846 trentini emigrati dal 1870 al 1887, non mancò di sollevare preoccupazioni
e di sollecitare iniziative e richieste per la tutela degli emigranti.
Giovanni Segantini
Giovanni Segantini nasce ad Arco il 15 gennaio 1858, figlio di Agostino e Margherita Girardi, che avevano
trovato ospitalità, provenienti da Mori, in una piccola casa all'ingresso della città, proprio al limite del ponte
sul fiume Sarca. Già nel 1865, morta la madre, si allontana da Arco, trasferendosi con il padre a Milano;
alla morte del padre viene affidato alla sorellastra Irene, ma in realtà cresce abbandonato a se stesso, tanto
da essere arrestato per vagabondaggio e venir condotto al riformatorio Marchiondi. Successivamente
affidato all'altro fratellastro, Napoleone, Segantini torna in Trentino per un breve periodo, dal 1873 al 1875.
Tornato a Milano, inizia a lavorare come garzone nella bottega di decoratore di Luigi Tettamamnzi e
comincia a farsi strada il talento artistico, che ben presto si segnala con l'opera "Il coro di S.Antonio",
premiato a Brera nel 1879. L'incontro con i fratelli Grubicy cambia la vita del giovane Segantini, che
comincia ad ottenere in tutta Europa riconoscimenti e premi. Sposa Bice (Luigia) Bugatti e si trasferisce
prima in Brianza e poi in Svizzera. Per tutta la vita mantiene contatti con Arco, ma non riuscirà più a
tornarvi. Muore improvvisamente il 18 settembre 1899.
L'età di Paolo Oss Mazzurana
Le potenzialità contenute nello statuto proprio della città di Trento vennero esplicate al massimo nel periodo
del podestà Paolo Oss Mazzurana – un Oss di umili origini, adottato dall’imprenditore Felice Mazzurana in
età adulta – in carica dal 1872 al 1873 e, successivamente, dal 1884 al 1895 quando il capoluogo trentino
conobbe la sua più splendida stagione. Affiancato da uomini di grande competenza amministrativa,
rappresentanti la borghesia ma non chiusi nell’interesse di parte, come Vittorio de Riccabona, Giovanni
Ciani, Carlo Dordi, Giovanni Battista Tambosi, Sigismondo Manci, egli intendeva lasciare da parte le
ideologie per puntare tutto sul risveglio economico e sociale della città e della provincia valorizzando le
forze e le risorse locali.
Il programma del Mazzurana, ispirato ad un liberalismo pragmatico e progressista condiviso dal consiglio
comunale, prevedeva il potenziamento dell’economia attraverso l’impulso del credito agrario e fondiario, lo
sfruttamento idroelettrico a servizio dell’utenza privata e delle industrie, l’allacciamento delle valli al centro
per mezzo della rete ferroviaria e tramviaria che avrebbe favorito anche il turismo, la regimentazione
dell’Adige, la pianificazione edilizia del capoluogo. A questo programma si affiancava l’impulso dato alle
istituzioni scolastiche ed al rafforzamento dell’istruzione tecnica, nella sicurezza che gl’investimenti nella
cultura fossero altamente produttivi e non dovessero mai conoscere riduzioni in bilancio. Gli uffici comunali
vennero razionalizzati in vista della massima efficienza che escludeva il personale incompetente o propenso
a indugiare nei ritardi.
I progetti del podestà, ammirati dall’imperatore che nominava il Mazzurana cavaliere dell’ordine della
corona ferrea, diedero in tempi brevi alcuni frutti. Trento fu la prima città d’Europa ad avere un’azienda
elettrica municipale; il capoluogo cambiò il volto dal punto di vista edilizio e a Piedicastello sorse un nucleo
di case operaie, l’istruzione fu potenziata. In altri settori, dove abbisognavano i tempi lunghi, vennero gettate
le basi delle infrastrutture e particolarmente curato fu il programma per le tramvie elettriche (Trento-Malè;
Lavis-Moena; Trento-Caffaro) sulla base delle concessioni ministeriali.
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La morte, nel 1895, del grande podestà interruppe il progetto del "miracolo economico" del Trentino che non
riuscì a tradursi in miracolo sociale. Non tutti i frutti andarono comunque perduti e confluirono, accanto ad
altri fattori, alla ripresa economica verificatasi a fine secolo ed agli inizi del novecento. Pesò non poco, nello
spegnere l’impulso al rinnovamento, il contenzioso con la Dieta tirolese che contestava la gestione
finanziaria del comune di Trento e si opponeva alla tramvia di Fiemme perché destinata ad incanalare il
traffico verso l’area italiana anziché verso Bolzano. Anche la riluttanza dei detentori di capitali a compiere
investimenti in imprese utili al territorio ebbe un esito di compressione dell’economia; la liquidità sceglieva
la via tranquilla dei depositi bancari o veniva investita fuori provincia dove il profitto era maggiore. Era,
inoltre, mutato il clima politico che aveva reso possibile la solidarietà e la collaborazione intorno al progetto
del Mazzurana finalizzato ad allineare il Trentino al progresso europeo.
L'organizzarsi dei partiti politici
Sul finire dell’ottocento le forze politiche trentine si organizzarono per rispondere ai nuovi problemi e
trovarsi preparate all’allargamento del suffragio. Nel 1893 i liberali trasformavano il partito del 1871
nell’Associazione politica nazionale del Trentino che contava 444 soci, in gran parte esponenti della
borghesia intellettuale e degli affari. Tramontata l’età del Mazzurana, il liberalismo pose in subordine i
programmi economici ed accentuò i temi della difesa nazionale, anche per caratterizzarsi rispetto ai cattolici
ed ai socialisti. In questo modo il suo mordente era destinato ad illanguidirsi e, in breve, a perdere la forza
trainante dimostrata nel passato mentre s’irrobustivano i partiti di massa.
I cattolici non sentirono nell’immediato l’esigenza di costituirsi in partito perché integrati nelle strutture della
diocesi capaci di trasformarsi, quando necessario, in macchina elettorale. La loro azione si distinse invece sul
piano sociale ed economico rivolgendosi in particolare al mondo contadino dove più forte era la miseria e
l’emarginazione. Superata la mentalità di stampo puramente caritativo, i cattolici, fra i quali emerse la figura
di don Lorenzo Guetti, riuscirono a dare vita ad una rete di consorzi cooperativi nel campo della produzione
e del consumo, a organizzare il credito attraverso la Banca cattolica trentina ed a coordinare le iniziative
cooperativistiche nel Sindacato agricolo industriale. La vera direzione politica era tenuta nelle mani del
Comitato diocesano per l’azione cattolica che difendeva la confessionalità di tutte le istituzioni, comprese
quelle economiche. Solo dopo la nomina a vescovo di Celestino Endrici (1904-1940) il movimento cattolico
assumerà struttura di partito indipendente dalla chiesa per gli aspetti organizzativi: nel 1904 con l’Unione
politica popolare trentina (UPPT) e nel 1905 con il Partito popolare trentino.
Le origini del socialismo trentino, ufficialmente organizzato con l’Associazione socialdemocratica per
Bolzano, Trento e Rovereto costituita a Bolzano nel 1894, non risalgono all’iniziativa operaia, data
l’inconsistenza del proletariato in un paese prevalentemente agricolo e con grande diffusione della piccola
proprietà. La sua nascita va attribuita all’azione di alcuni intellettuali d’estrazione borghese, convertiti agli
ideali umanitari e di giustizia legati al socialismo. Fra costoro emersero Augusto Avancini, Antonio Piscel e
Cesare Battisti che si trovarono di fronte al problema di fare convivere gl’ideali internazionalisti con la tutela
nazionale. Il partito, che aveva come organo di stampa "L’avvenire del lavoratore", con il 1896 conobbe la
presenza di qualche rappresentante nei consigli comunali di Trento e Rovereto e, pur nell’alternanza di
successi e di crisi, riuscì a penetrare nel mondo dei lavoratori ed a costituire il Segretariato e la Camera del
lavoro di Trento.
Dagli inizi del Novecento alla prima guerra mondiale di Maria Garbari
L'attività dei deputati trentini alla Camera di Vienna
Nei primi anni del novecento l’attività della deputazione trentina alla Camera di Vienna si mantenne intensa
con interpellanze ed interventi su tutti i problemi amministrativi, economici e sociali del Tirolo italiano,
mentre gli scontri fra le nazionalità compromettevano i lavori parlamentari. La speranza di attenuare tali
scontri e le sollecitazioni dei cristiano-sociali e dei socialdemocratici portarono all’introduzione del suffragio
universale maschile, nella persuasione che l’entrata alla Camera delle forze legate all’internazionalismo di
dottrina o di classe avrebbe decantato le incancrenite opposizioni. La riforma elettorale, approvata nel
gennaio 1907, elevava il numero dei componenti la Camera a 516, con nuovi quattro seggi riservati al Tirolo,
uno dei quali per il Trentino. Sparita la suddivisione per curie, gli elettori venivano ripartiti sulla base dei
distretti che tenevano conto dell’appartenenza nazionale.
I partiti trentini si presentarono all’appuntamento elettorale con possibilità di successo assai diverse. I liberali
erano travagliati da una profonda crisi, aggravata dalla spaccatura verificatasi dal 1902 al 1906, quando l’ala
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progressista capeggiata da Giuseppe Silli si era alleata con i socialisti per mantenere la guida del comune di
Trento. Anche in casa socialista la vita non si svolgeva tranquilla per la difficile compresenza di forti
personalità e la frattura, ricomposta a fatica, tra la conduzione politica e l’organizzazione sindacale. I
cattolici, viceversa, si presentavano in pieno vigore, con un partito "laico", liberato dalla rigidità
confessionale. Alla direzione de "La voce cattolica" Alcide Degasperi aveva sostituito don Guido de Gentili
ed il giornale nel 1906 mutava la testata con quella de "Il Trentino", impegnato ad interessarsi anche "dello
spirito positivamente nazionale e della democrazia".
Le elezioni del 14 maggio 1907, compiute dopo un’intensa propaganda, registrarono nel Trentino
un’affluenza alle urne del 70-80% (84,6% nell’intera Austria). I risultati, scontati fin dalle previsioni,
segnarono il trionfo dei popolari che guadagnarono sette collegi; per i liberali venne eletto a Rovereto
Valeriano Malfatti e per i socialisti a Trento Augusto Avancini, entrambi a seguito dell’intesa elettorale fra i
due schieramenti politici. L’entrata in forza alla Camera dei partiti di massa non riuscì a smorzare i conflitti
nazionali che paralizzavano i lavori e portavano al frequente ricorso ai decreti-legge. In tale situazione i
rappresentanti trentini fecero fronte comune, chiedendo i provvedimenti atti a risolvere le maggiori situazioni
di disagio economico-sociale e per la difesa dei caratteri nazionali del paese alla quale si stavano
convertendo anche i cattolici.
Nel 1911 si tennero elezioni anticipate, contando in questo modo di dare vita ad una Camera più governabile.
Nel Trentino l’affluenza alle urne scese al 60% ma i risultati confermarono quelli del 1907: sette seggi ai
popolari con riconferma di Enrico Conci e l’elezione di Alcide Degasperi, uno ai liberali (Malfatti) ed uno ai
socialisti (Cesare Battisti al posto dell’internazionalista Avancini). Nella nuova Camera, che presentava un
regresso dei cristiano-sociali e della socialdemocrazia, il radicalismo nazionale si era ormai diffuso in tutti i
gruppi etnici creando dilacerazioni incomponibili. L’attività del Parlamento veniva limitata attraverso l’uso
dei decreti-legge e, mentre si rafforzava il potenziale militare per controllare la questione balcanica,
l’incapacità di risolvere in modo globale il problema delle nazionalità preparava il collasso generale dello
stato austriaco.
La deputazione trentina, ancora una volta, fu attivissima approfittando dei brevi periodi di apertura della
Camera per sollevare il tema della difesa nazionale, per condannare il militarismo ed i disagi arrecati dai
lavori per le fortificazioni nel Tirolo italiano, per porre all’attenzione dell’organo legislativo i problemi
sociali, economici, viari, ferroviari e dei lavori pubblici attraverso reiterati e martellanti interventi. L’attività
della Camera, sempre più compromessa dalla virulenza dei conflitti nazionali, venne sospesa a tempo
indeterminato nel marzo 1914 e, nel luglio, la guerra fu dichiarata a Parlamento chiuso senza l’avvallo, o
meno, delle forze politiche.
I lavori dietali e la riforma elettorale provinciale
Nel dicembre 1900 i deputati trentini si presentarono alla Dieta di Innsbruck, chiudendo un lungo periodo di
astensionismo, in appoggio al progetto di autonomia presentato da Luigi Brugnara. Sembrò, allora, che
avesse concrete possibilità di realizzazione l’amministrazione separata per la parte italiana del Tirolo. Nel
luglio 1901 il deputato Kathrein presentava a sua volta un progetto concordato con i conservatori, i liberali
tedeschi ed i trentini e, nel luglio 1902, un ulteriore progetto veniva proposto dal Brugnara. Il compito di
comporre le istanze in un progetto definitivo, sul quale sembrava ormai raggiunta l’intesa, venne affidato ad
una apposita commissione. Ma la protesta di alcuni ambienti tirolesi e l’irrigidimento dei trentini sulla
richiesta che la valle di Fassa venisse assegnata alla parte italiana portarono al naufragio del progetto,
impedito di essere discusso in aula anche per l’improvvisa chiusura della Dieta.
L’atteggiamento di protesta assunto dai trentini si decantò nel corso del 1903 quando l’assemblea tirolese
approvò una serie d’interventi a favore del Tirolo italiano per potenziare l’economia con la realizzazione di
programmi ferroviari, il miglioramento della rete stradale, l’attuazione di lavori idrici. La Dieta, dopo la
chiusura per un anno, venne riaperta nell’ottobre 1905 e vide la deputazione trentina assicurare un
atteggiamento moderato in cambio di provvedimenti nel campo economico e dei lavori pubblici. La
contrapposizione dei partiti tedeschi sulla riforma elettorale per l’assemblea provinciale, fatta anche con
l’ostruzionismo, portò però alla paralisi dei lavori protratta fino a tutto il 1907.
Sulle elezioni anticipate del febbraio 1908 si riflessero i risultati delle consultazioni tenute per la Camera
l’anno precedente: ridimensionata la forza dei conservatori, i cristiano-sociali conobbero un balzo in avanti
come i popolari trentini, ai quali andavano 13 mandati mentre si riduceva a 6 il numero dei rappresentanti
nazionali-liberali. I lavori dietali, dopo la lunga inattività, si presentavano fitti ed impegnativi, facilitati dalla
collaborazione fra i popolari italiani e i cristiano-sociali tedeschi. Don Guido de Gentili, a nome della
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deputazione trentina, dichiarava di non lasciare cadere l’istanza autonomistica, ma di volerne attenuare i toni
perché entrassero in porto i provvedimenti di natura economica e venisse attuata la riforma del regolamento
elettorale. Non per questo mancarono i motivi del contendere sui lavori stradali, sul problema degli stipendi
agli insegnanti, nel 1910-11 sull’annosa questione della ferrovia della valle di Fiemme, sulla legge per la
difesa e l’aumento degli oneri militari.
La riforma del regolamento elettorale, dopo scontri protratti per anni, entrava finalmente in porto nell’ottobre
1913, con una soluzione di compromesso dove coesistevano il sistema delle curie ed il suffragio universale;
aumentavano i seggi riservati al Trentino che otteneva anche tre posti in giunta e la carica di sostituto del
capitano provinciale. Il regolamento, ratificato dall’imperatore nel febbraio 1914, portava i deputati da 68 a
96 (61 ai tedeschi, 35 agli italiani), manteneva i quattro seggi legati alla carica e le quattro curie in vigore
con l’aggiunta di una quinta a suffragio generale che eleggeva 21 deputati. Questa legge non solo conservava
le posizioni di privilegio, ma adottava anche una forma così macchinosa nell’attribuzione dei seggi da
vanificare in buona parte l’aspirazione alla democratizzazione. Le elezioni provinciali, svolte nell’aprile,
mutarono poco nel panorama politico della Dieta; l’unica novità, per il Trentino, era la nomina del socialista
Cesare Battisti. La durata dei lavori fu di breve durata perché l’assemblea venne chiusa il 4 luglio 1914,
nell’imminenza della guerra.
La riforma elettorale del comune di Trento
L’elaborazione di un nuovo regolamento comunale per l’intera provincia, resa necessaria dopo
l’allargamento del suffragio per le consultazioni politiche, lasciava perplessi i ceti dirigenti che controllavano
i maggiori comuni, timorosi di essere scavalcati dalla maggioranza cattolica. Sia Rovereto che Trento, agli
inizi del novecento, avevano avanzato qualche proposta, destinata però ad arenarsi.
Il problema della stesura di un nuovo regolamento tornò ad imporsi a Trento mentre il comune era
travagliato da una profonda crisi, durata dal 1909 al 1911, con paralisi dell’attività amministrativa dovuta a
ripetute dimissioni con conseguente intervento dell’autorità politica. I lavori vennero affidati ad un’apposita
commissione e sollecitati da Alcide Degasperi, componente del consiglio comunale, che chiedeva il sistema
della rappresentanza proporzionale in tutti i corpi elettorali. Dopo vivaci polemiche, nell’agosto 1912 venne
portata in aula la proposta concordata fra liberali, popolari e socialisti che recepiva la rappresentanza
proporzionale, ma con l’esclusione dei partiti rimasti sotto la soglia del 15% dei voti. Gli elettori erano
suddivisi in quattro corpi elettorali, l’ultimo dei quali per i non censiti; ciascuno di essi nominava 10
consiglieri per un totale di 40. Il regolamento divenne legge nel 1914 e fu alla base delle elezioni del giugno,
a pochi giorni dalla guerra. Non venne mai realizzata invece la riforma elettorale per Rovereto e per gli altri
comuni.
Gianni Caproni
Gianni Caproni nasce il 3 luglio 1886 a Massone di Arco da una famiglia benestante, figlio di Giuseppe e di
Paolina Maini. Laureatosi in ingegneria al Politecnico di Monaco di Baviera nel 1907, si dedica da sempre
alla tecnologia aeronautica; il primo aeroplano prodotto "Cal1" vede lo sforzo autonomo di Gianni e del
fratello Federico, nel 1910 si trasferisce nella zona di Malpensa e quindi a Vizzola Ticino: fonda sia uno
stabilimento per la produzione di aerei, sia una scuola di volo fra le più quotate dei tempi. Ad Arco e nel
Trentino crea numerose industrie collegate all'aeronautica e si impegna per il miglioramento delle
condizioni sia della popolazione che dell'ambiente di Arco, con una lungimiranza rara. Muore a Roma il 27
ottobre 1957.
La questione dell'università italiana in Austria e la lotta nazionale
All’aprirsi del nuovo secolo una delle questioni più scottanti era quella dell’università italiana in terra
austriaca. Il problema, aperto con il distacco del Veneto dall’Austria e la conseguente preclusione dell’ateneo
di Padova agli studenti, più volte sollevato alla Camera, era ora aggravato dall’accentuarsi dei nazionalismi. I
corsi paralleli in lingua italiana, tenuti presso l’università di Innsbruck, avevano determinato disordini
scoppiati in occasione delle prolusioni di Francesco Menestrina (1901) e Giovanni Lorenzoni (1903).
L’iniziativa di dare vita nella capitale tirolese ad un’università libera italiana portò a reazioni e tumulti nel
novembre 1903. Il governo austriaco, constatata l’impossibile convivenza fra gli studenti italiani e tedeschi,
nel 1904 aveva aperto in via provvisoria a Wilten presso Innsbruck una facoltà italiana di scienze giuridiche;
l’inizio dei corsi, invisi a italiani e tedeschi, sfociava però negli scontri devastanti e sanguinosi del 3-4
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novembre 1904 che portarono all’arresto di 138 studenti italiani. Venne allora presentata alla Camera la
proposta di legge per l’istituzione di una facoltà giuridica a Rovereto, ma l’opposizione degli italiani,
intransigenti sulla sede di Trieste ("o Trieste o nulla"), costrinsero al ritiro del disegno di legge. Nel gennaio
1909 fu presentata una nuova proposta governativa per attivare i corsi universitari in lingua italiana a Vienna,
luogo di compresenza delle varie nazionalità. Ma anche questa iniziativa era destinata a non entrare in porto
e, allo scoppio del conflitto, gli italiani si trovavano ancora privi di un’università con l’insegnamento nella
lingua madre.
La lotta per l’università, che in Italia dava luogo ad una serie di pubbliche manifestazioni di protesta estese a
tutta la penisola arrecando imbarazzi al governo, si collocava in un ambiente ormai surriscaldato dagli
scontri nazionali. La nascita a Vipiteno nel 1905 del "Tiroler Volksbund", con forti connotazioni
pantedesche, portò nuova esca al fuoco della contesa. Gli uomini di cultura trentini accentuarono la loro
militanza conservando tuttavia una linea più difensiva che offensiva. Su posizioni radicali e provocatorie si
collocava invece Ettore Tolomei e la sua rivista del 1906, l’"Archivio per l’Alto Adige" che rivendicava
all’italianità il territorio tedesco fino al crinale del Brennero. La contesa continuava in crescendo, alimentata
da alcune congiunture: nel 1907 vi furono gli scontri di Pergine e Calliano fra tedeschi ed irredentisti, causa
di un processo molto seguito dall’opinione pubblica; nel 1908 si lamentarono i mancati compensi, previsti
dalla Triplice alleanza, a seguito dell’annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina; nel medesimo anno
suscitò sdegno lo scritto del Rohmeder che negava l’esistenza d’italiani nel Tirolo meridionale dove, egli
sosteneva, vi erano solo tedeschi che si servivano per caso della parlata italiana. Le ricorrenze del centenario
dell’insurrezione hoferiana (1909) e del Dipartimento dell’Alto Adige (1910), misero in moto diatribe
politiche e storiografiche. Il censimento del 1910 scatenò la questione della comunità ladina, per la prima
volta riconosciuta ufficialmente, rivendicata per motivi diversi da italiani e tedeschi.
Nella difesa dei caratteri nazionali del Trentino s’impegnarono non solo i liberali e i socialisti, ma anche i
cattolici che temevano l’avanzata del luteranesimo dietro l’ombra delle associazioni pangermaniste. I
popolari ripudiavano l’irredentismo, ma non il senso d’appartenenza al mondo culturale italiano; essi
accettavano il concetto formulato da Degasperi della "coscienza nazionale positiva" che comportava la tutela
spirituale, economica e sociale delle popolazioni indiscutibilmente italiane, ma all’interno delle istituzioni
politico-amministrative dell’Austria.
La cultura trentina a cavallo dei due secoli
Il Trentino, lontano dai centri accademici e dai grandi luoghi di elaborazione del sapere, non mancò di
esprimere una propria linea di produzione culturale, magari modesta, ma con caratteri specifici. Gli
intellettuali del Tirolo italiano, per la severa formazione scolastica ed universitaria, possedevano un rigore
metodologico ed una impostazione mentale poco compatibile con la fantasia creatrice, ma adatta alle scienze
(basti citare Giovanni Canestrini, traduttore di Darwin, e Scipio Sighele, criminologo e sociologo di fama
europea), agli studi storici ed all’erudizione. Di qui la scarsità di opere letterarie fornite di pregio, la presenza
di diverse pubblicazioni scientifiche (da ricordare almeno i lavori di Ruggero e Giovanni Cobelli, di
Agostino Bonomi, Bernardino Halbherr, Torquato Taramelli, Giacomo Bresadola) e la predilezione per la
ricerca storica.
Molti intellettuali trentini emigrarono in Italia, parte per scelta nazionale, parte perché il regno offriva
maggiori possibilità di affermazione e di lavoro. Essi, infatti, incontravano la generale stima ed erano
considerati ideali per la conduzione di archivi e biblioteche, come nei casi di Tommaso Gar, Giuseppe
Canestrini, Desiderio Chilovi, Arnaldo Segarizzi. Ma gli uomini di cultura residenti in Italia non mancavano
di ritornare al loro paese d’origine e di pubblicarvi anche qualche lavoro: così, ad esempio, fu per Andrea
Galante, Bartolomeo Malfatti, Scipio Sighele, Paolo Orsi, Dario Emer, Giovanni e Ludovico Oberziner,
Giuseppe Papaleoni, Ottone Brentari.
Il gusto per la "storia patria", tipico dell’intero Tirolo, già nel corso dell’ottocento aveva dato luogo a
qualche lavoro organico (le pubblicazioni di Raffaele Zotti, Agostino Perini, Giovanni Bertanza, Francesco
Ambrosi) accanto a piccole ricerche compiute su materiali archivistici. L’accentuarsi della sensibilità
nazionale e la difesa dell’italianità diedero notevole impulso agli studi storici che s’intrecciarono con quelli
archeologici, linguistici, toponomastici per fare fronte alla militanza politica degli intellettuali tedeschi. La
scientificità del metodo e la priorità data ai documenti ed ai reperti rispetto alle ipotesi interpretative,
riuscirono a preservare gli storici trentini da esuberanze o da posizioni aggressive, pur non abdicando
all’ardore patriottico. Esemplare in questo senso fu la copiosa produzione di Desiderio Reich che, mentre
documentava le tradizioni italiane del Trentino, non esitava a riconoscere i meriti della storiografia tedesca,
127
ove esistenti, e si legava d’amicizia con Karl Ausserer.
La migliore produzione storiografica e culturale trentina confluì in una serie di riviste, comparse fra ’800 e
’900: gli "Atti" dell’Accademia roveretana degli Agiati, "Archivio Trentino", "Tridentum", "Rivista
tridentina", "San Marco", "Pro Cultura", l’ "Annuario" della Società Alpinisti Tridentini ed i "Programmi"
degli istituti scolastici. Tali riviste esprimevano, accanto al rigore del metodo, la propensione per la raccolta
di fonti e reperti, necessaria prima di operare qualsiasi sintesi. A volte il procedere analitico e l’amore per il
particolare poteva scivolare nella minuzia erudita e localistica, ma il richiamo al dovere di operare solo sulla
base dei documenti, di compiere un severo controllo dei dati, di rifuggire dalle generalizzazioni frettolose,
creava un procedere omogeneo nella ricerca tale da superare, in ambito scientifico, le divisioni ideologiche e
di partito per approdare ad un lavoro fatto in comunità d’intenti.
Riccardo Zandonai (1883-1944)
Allievo di Pietro Mascagni al liceo musicale di Pesaro, si impone all'attenzione del pubblico e della critica
con le opere Il grillo del focolare (1907), commmissionata dall'editore Ricordi e Conchita (1911), seguite
da Francesca da Rimini (1914), la sua opera più riuscita e conosciuta, Giulietta e Romeo (1922), I cavalieri
di Ekebu (1925), Giuliano (1928), Una partita (1933), La farsa amorosa (1933), tutte chiaramente
influenzate dal verismo.
Ha lasciato alcuni poemi sinfonici (tra i quali Quadri di Segantini, Primavera in Val di Sole, Patria lontana,
Fra gli alberghi delle Dolomiti), concerti (Concerto Andaluso per cello e orchestra e Concerto romantico
per violino e orchestra), musica sacra (Messa da Requiem e Te Deum), il balletto Biancaneve, musica da
camera e per film.
Ha anche esercitato l'attività di direttore d'orchestra e dal 1940 ha coperto la carica di direttore del
conservatorio di Pesaro.
128
Le vicende del secolo ventesimo
La prima guerra mondiale e il Trentino di Maria Garbari
Lo scoppio del conflitto ed il periodo della neutralità italiana
L’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 contro l’arciduca Francesco Ferdinando portava all’ultimatum
austro-ungarico inviato alla Serbia il 23 luglio, seguito dalla dichiarazione di guerra il giorno 28.
Immediatamente scattava la rete delle alleanze dando al conflitto dimensioni europee: la Germania il 1°
agosto dichiarava le ostilità alla Russia che aveva mobilitato l’esercito ed il 3 alla Francia provocando, con la
violazione della neutralità belga, l’entrata in guerra della Gran Bretagna contro la Germania il 5 agosto.
L’Italia il 3 agosto aveva notificato la propria neutralità ai sensi della Triplice in quanto l’Austria risultava
l’attaccante, non l’attaccata.
Il 31 luglio l’imperatore austriaco ordinava la mobilitazione generale dell’esercito e la leva in massa dai 21 ai
42 anni, estesa nel novembre dai 20 ai 50. Dal Tirolo vennero inviati al fronte nove reggimenti nei quali,
durante la guerra, furono presenti all’incirca 60.000 trentini. Costoro, destinati a combattere in Galizia e sui
Carpazi, si trovarono al centro di violente e sanguinose battaglie che costarono, nel primo anno di guerra,
parecchi feriti ed oltre 7.000 morti. Abbastanza consistente fu anche il fenomeno di darsi volontariamente in
prigionia ai russi per sfuggire al massacro. Un calcolo complessivo relativo all’intera durata del conflitto fa
assommare i caduti trentini nell’esercito austriaco a più di 8.000, 14.000 i feriti e 12.000 i prigionieri.
La guerra ebbe immediate ripercussioni sulle popolazioni civili, non più difese nelle sedi istituzionali data la
chiusura della Dieta e del Parlamento. La leva in massa privava il Trentino di una parte consistente delle
forze lavoratrici con grave compromissione di tutti i settori produttivi, ed in particolare di quello agricolo
destinato a passare in mani femminili. Iniziava poi il drenaggio di denaro attraverso la sottoscrizione forzosa
dei prestiti di guerra, ben otto dal novembre 1914 al 1918, con un prelievo globale, Ampezzano compreso, di
210.000.000 corone.
Appena scoppiate le ostilità gli irredentisti videro profilarsi l’occasione per il passaggio del Trentino
all’Italia, tanto che già l’8 agosto Cesare Battisti, Giovanni Pedrotti e Guido Larcher inviavano un Indirizzo a
Vittorio Emanuele III per sollecitare l’entrata in guerra a riscatto dei territori italiani oltre confine. Prendeva
il via in questo modo la campagna interventista e iniziava il fuoruscitismo da parte degli esponenti del
movimento nazionale, un gruppo esiguo ma ben determinato a premere sul governo del regno. A sostegno
dei profughi si costituiva a Milano la Commissione dell’emigrazione trentina che agiva accanto al Circolo
trentino ed in collaborazione con le Commissioni di patronato e di altre associazioni patriottiche. Anche
diversi giovani, soprattutto studenti degli istituti superiori, varcavano il confine allo scopo di arruolarsi
volontari nell’esercito italiano nel caso fosse scoppiata l’auspicata guerra.
Ma nel Trentino le popolazioni, tendenzialmente fedeli alla monarchia asburgica, non erano sfiorate dall’idea
di un mutamento dei confini statali, tanto che Alcide Degasperi, parlando nel settembre 1914 con
l’ambasciatore austriaco a Roma, osservava come, nel caso di un plebiscito, il 90% dei cittadini avrebbe
optato per l’Austria.
Le trattative diplomatiche per la cessione del Trentino e l’entrata in guerra dell’Italia
L’Italia, dopo la dichiarazione della neutralità, venne subito invitata dalle potenze dell’Intesa (Francia,
Inghilterra e Russia) ad entrare in guerra al loro fianco contro l’Austria-Ungheria, con la promessa di acquisti
territoriali che andavano ben oltre il Trentino. Il governo, per il momento, intendeva mantenere fede alla
neutralità, sollecitato dagli imperi centrali consapevoli dell’importanza strategica dello stato italiano: la sua
belligeranza accanto all’Intesa avrebbe infatti portato all’accerchiamento completo, fatale nel caso di un
prolungamento nel tempo del conflitto. Ma l’attività diplomatica italiana cominciò ad agire su due fronti in
attesa delle occasioni propizie.
Il nuovo ministro degli esteri Sonnino sollevava a Vienna la questione dei compensi in base alla Triplice e,
nel dicembre, giungeva a Roma come ambasciatore della Germania il principe von Bülow con l’incarico
d’influire sul governo italiano perché si limitasse a chiedere solo il Trentino e convincere l’Austria a cedere
il Tirolo italiano. Le resistenze dell’imperatore e del comando militare fecero slittare al marzo 1915 la
disponibilità austriaca ad aprire trattative sui territori oggetto di cessione. La composizione della vertenza
veniva sollecitata dal neutralista Giovanni Giolitti, con il quale era schierata la Camera dei deputati,
consapevole dei lutti, delle devastazioni e delle crisi che la guerra combattuta avrebbe apportato all’Italia.
Ma le trattative s’incagliavano su due questioni di fondo, la prima relativa alla data del trasferimento
129
territoriale che il governo del regno voleva immediata e l’Austria solo a conflitto ultimato, la seconda
riguardante i militari di nazionalità italiana dei quali veniva chiesto il congedo per non costringerli a rischiare
la vita a vantaggio di uno stato che, di fatto, non era più il loro.
Mentre i colloqui erano in corso, il 19 marzo le potenze dell’Intesa comunicavano di accettare le richieste
dell’Italia, estese oltre le province irredente. L’8 aprile il Sonnino telegrafava a Vienna lo schema definitivo
di accordo: cessione immediata del Trentino fino alla linea napoleonica, di Gorizia e Gradisca; Trieste eretta
a città indipendente; diritti su Valona ed alcune isole dell’Adriatico; congedo dei militari delle zone
interessate al trasferimento. Il rigetto delle richieste portava il Sonnino ed il primo ministro Salandra a
concludere le trattative con l’Intesa e il 26 aprile, senza consultare la Camera che nel frattempo era stata
chiusa, veniva firmato il patto di Londra dove all’Italia erano assicurati, oltre ad altre acquisizioni, il
Trentino fino al Brennero e Trieste.
A nulla valsero le nuove proposte austriache protratte anche dopo la denuncia della Triplice effettuata il 3
maggio. Il movimento interventista s’infiammava ulteriormente con la concione tenuta da d’Annunzio il 5
maggio a Quarto; Giolitti premeva per evitare la guerra; Salandra, constatato di non avere l’appoggio della
maggioranza parlamentare, rassegnava le dimissioni. La crisi venne risolta dal re che, respinte le dimissioni,
convocava il Parlamento per il 20 maggio in modo da avere la ratifica di quanto già deliberato in forme
unilaterali dal governo. Il 23 maggio l’Italia inviava l’ultimatum ed il 24 dichiarava la guerra all’AustriaUngheria, ma non alla Germania alla quale sarà dichiarata solo il 25 agosto 1916. dichiarazione della
neutralità, venne subito invitata dalle potenze dell’Intesa (Francia, Inghilterra e Russia) ad entrare in guerra
al loro fianco contro l’Austria-Ungheria, con la promessa di acquisti territoriali che andavano ben oltre il
Trentino. Il governo, per il momento, intendeva mantenere fede alla neutralità, sollecitato dagli imperi
centrali consapevoli dell’importanza strategica dello stato italiano: la sua belligeranza accanto all’Intesa
avrebbe infatti portato all’accerchiamento completo, fatale nel caso di un prolungamento nel tempo del
conflitto. Ma l’attività diplomatica italiana cominciò ad agire su due fronti in attesa delle occasioni propizie.
Le operazioni militari sul fronte trentino
Nel Trentino il preannuncio della guerra ebbe ripercussioni ancor prima dello scoppio delle ostilità. Il 30
marzo veniva sciolto il consiglio comunale di Trento ed il capoluogo affidato ad un amministratore ufficioso,
l’avvocato Adolfo de Bertolini, rimasto in carica fino al 4 gennaio 1918 quando venne arrestato con l’accusa
di spionaggio in favore dell’Italia. Medesima sorte toccherà a Rovereto, affidata dal 21 giugno al capitano
distrettuale Giovanni Hafner. Le misure di polizia, scattate immediatamente, portavano all’arresto di
numerose persone sospettate d’irredentismo, destinate ad essere trasferite nel campo d’internamento di
Katzenau. La città di Trento, dichiarata "fortezza", già a partire dal 20 maggio conosceva l’ordine di
evacuazione seguita da altre aree a rischio. Aveva così inizio il dramma delle popolazioni trentine, colpite,
travolte e disperse nel corso di tre anni destinati a lasciare sul territorio distruzioni immani.
Il fronte di combattimento, aperto col 24 maggio, risultava assai ampio e difficile per le caratteristiche
geografiche del paese; dalle valli s’innalzava a quote altissime attestandosi sul crinale dei monti e dei
ghiacciai come l’Adamello e la Marmolada. Nel versante austriaco correva uno sbarramento di fortificazioni,
a volte distanti dai confini in base al calcolo delle capacità difensive. La guerra avrebbe assunto l’aspetto
degli arroccamenti nelle trincee, degli sforzi per strappare lembi di terreno, delle avanzate sempre aleatorie,
dell’incubo dato dalle avversità atmosferiche: una tipica guerra di montagna fatta di enormi disagi, ma anche
d’interventi tecnici a volte geniali ed innovativi per costruire strade, teleferiche, linee telefoniche,
baraccamenti e fortini onde permettere gli insediamenti umani in condizioni estreme.
Il 1915 vide il successo delle operazioni militari italiane impegnate nell’offensiva. L’avanzata dell’esercito
portò all’occupazione del Tonale, della valle di Ledro e della conca di Bezzecca, di alcune posizioni sul
Baldo, sul Pasubio e verso Lavarone, alla penetrazione nella valle dell’Adige arrestata alle soglie di
Rovereto, all’occupazione della Valsugana fino a Borgo, di Primiero e di Cortina. La ritirata austriaca
risultava motivata da cause strategiche; il fronte in questo modo si riduceva e presentava maggiori possibilità
difensive agevolate dalle fortificazioni.
All’aprirsi del 1916 venne progettata la controffensiva austriaca tra l’Adige e il Brenta, concretatasi nella
Strafexpedition iniziata il 15 maggio e fermata il 16 giugno dalle armate italiane. Il 10 luglio, durante uno
scontro sul monte Corno in Vallarsa, avveniva la cattura di Cesare Battisti. Egli, trasportato nelle carceri del
castello del Buonconsiglio e processato il 12 luglio per alto tradimento, venne condannato a morte per
capestro; la sentenza ebbe esecuzione nella sera del medesimo giorno, come quella di Fabio Filzi fatto
prigioniero insieme a Battisti.
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Successivamente all’occupazione italiana del monte Cauriol, compiuta nell’agosto, le operazioni militari
conobbero una lunga tregua, fino alla battaglia dell’Ortigara del giugno 1917. Nel settembre del medesimo
anno fallì il progetto di cogliere a sorpresa le difese austriache a Carzano, in Valsugana, ed aprire la via per
giungere fino a Trento. Dopo la sostituzione del generale Cadorna con Armando Diaz, il 9 novembre
avvenne la rotta di Caporetto con la perdita delle province di Udine, Belluno, parte di quelle di Venezia e
Vicenza, Cortina e, nel Trentino, del Primiero e della Valsugana in concomitanza con gli scontri sanguinosi
del Grappa e degli altipiani.
Nel 1918 mutava il quadro generale dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti contro gli imperi centrali
(nell’aprile 1917 contro la Germania, nel dicembre contro l’Austria) e l’armistizio firmato nel marzo dalla
Russia dove si era affermata la rivoluzione bolscevica. In tale contesto l’Italia riprendeva le operazioni
difensive sia sul Piave (giugno-luglio), sia sul crinale occidentale del Trentino. A fine ottobre, mentre
avveniva il collasso della Germania e dell’Austria-Ungheria, gli italiani si impegnavano nell’offensiva di
Vittorio Veneto e nello sfondamento del fronte del Grappa. Il 3 novembre veniva firmato l’armistizio di Villa
Giusti, diventato esecutivo il giorno 4; le prime truppe italiane raggiungevano Trento il 3 novembre.
I fuorusciti trentini, ottenuto il permesso di arruolarsi nell’esercito italiano, parteciparono, nel numero
complessivo di 759, alle operazioni militari sui diversi fronti distinguendosi per abnegazione e valore. La
condanna di Cesare Battisti provocò l’ordine del loro ritiro dalla prima linea nel timore di altre tragiche
catture, ma il provvedimento del comando supremo venne revocato in poco tempo per le proteste dei
volontari costituitisi in "Legione Trentina". Questo gruppo di giovani, entrati in guerra sull’onda
dell’entusiasmo, era destinato a pagare un tributo altissimo agli ideali patriottici con più di cento morti e
numerosi feriti.
Cesare Battisti
Nato a Trento nel 1875, iniziò gli studi universitari a Vienna e li concluse a Firenze, dove aderì ai principi
del socialismo. Tornato nel Trentino nel 1899, si pose alla guida del partito socialista e fondò, agli inizi del
'900, il quotidiano socialista “Il Popolo”. Nel 1902 venne eletto al consiglio comunale di Trento e iniziò una
dura battaglia per la rivendicazione dell’Università italiana in Austria. Con gli anni andò sempre più
accentuandosi il carattere irredentista dell’azione politica di Battisti (lontana dalle posizioni dei nazionalisti
accesi, come ad esempio Ettore Tolomei), che sfociò in una collaborazione con alcuni esponenti liberali sui
temi dell’autonomia trentina. Nelle elezioni politiche del 14 maggio 1911 venne eletto deputato per il
collegio di Trento al parlamento di Vienna, dove si fece promotore di una lotta radicale per l’autonomia e
insieme per il riconoscimento dei diritti nazionali. Fu anche eletto deputato alla dieta di Innsbruck nel 1914.
Con lo scoppio della prima guerra mondiale decise di passare in Italia, dove prese parte attiva allo
schieramento interventista contro l’Austria. Entrata in guerra l’Italia, Battisti si arruolò volontario
nell’esercito italiano e il 10 luglio 1916, nel corso di combattimenti sul monte Corno, venne fatto
prigioniero e portato a Trento, dove fu accusato di alto tradimento dal Tribunale militare e condannato
all’impiccagione. La sentenza venne eseguita il 12 luglio 1916 nel Castello del Buonconsiglio.
La guerra e le popolazioni civili
L’apertura del fronte italiano ebbe sulle popolazioni civili del Trentino effetti devastanti, come conseguenza
diretta della situazione politico-nazionale e delle operazioni militari. I sospettati d’irredentismo vennero
internati (circa 2.000 dei quali 1.754 nel campo di Katzenau) o confinati (oltre 1.000). Nella zona interessata
all’attività bellica – tutta l’area adiacente alla Lombardia ed al Veneto – si rese necessaria l’evacuazione in
massa dei residenti, costretti a lasciare nell’arco di pochi giorni le case e le terre per essere avviati verso i
lontani paesi dell’Austria inferiore e superiore, della Moravia, Stiria, Boemia, Salisburghese e perfino
dell’Ungheria. L’esodo coatto interessò oltre 70.000 profughi, alloggiati in baraccamenti – i maggiori dei
quali furono Mitterndorf, Pottendorf, Braunau e Wagna – o presso famiglie, ma sempre in forme precarie e
di estremo disagio dove le sofferenze dello sradicamento si legavano a quelle materiali dovute alla carenza
dei primari beni di sussistenza.
L’avanzata italiana nel primo anno di guerra portava all’evacuazione d’autorità di coloro che si trovavano
ancora sul territorio via via occupato, circa 35.000 persone trasferite nelle province del regno, sovente senza
mantenere unite le comunità in base ai luoghi di provenienza e smembrando gli stessi nuclei familiari.
Tenuto conto dei richiamati nell’esercito austriaco, di coloro, non molti, che volontariamente erano passati in
Italia, dei profughi nello stato asburgico e nel regno, il Trentino vedeva quasi dimezzata la sua popolazione
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assommante, in base al censimento del 1910, a 386.437 abitanti.
I residenti rimasti nelle zone considerate non pericolose, costituiti in massima parte da disabili alla guerra,
donne e minori, vennero sottoposti al regime militare con l’obbligo al lavoro coatto, anche femminile, e
colpiti da ripetute requisizioni di beni e derrate agricole. Ulteriori sofferenze erano date dalla rarefazione dei
generi alimentari e di quanto fosse necessario ad assicurare un minimo vitale, mentre s’interrompeva
l’attività produttiva per la mancanza della forza lavoro e per le distruzioni.
La sorte dei profughi trentini in Austria venne seguita con impegno da Alcide Degasperi fin dal 1915, ma fu
solo con la riapertura del Parlamento nel maggio 1917, dopo la morte di Francesco Giuseppe, avvenuta nel
novembre 1916, che la deputazione trentina, composta da sette rappresentanti popolari e da un liberale, riuscì
ad intervenire in modo incisivo nella difesa dei loro diritti e per approntare un’adeguata assistenza,
sollevando anche il problema dei danni economici provocati alle popolazioni dagli spostamenti compiuti in
forma coercitiva e dalla guerra. Alla fine del novembre 1917 le condizioni dei profughi vennero regolate con
un testo legislativo finalizzato a togliere le cause di maggiore disagio, concedere sovvenzioni e permettere la
libertà di scelta rispetto alla residenza, nei baraccamenti o presso famiglie.
Sorte peggiore venne riservata ai profughi in Italia, tranne che in alcune colonie modello situate nel
settentrione. L’evacuazione non era stata preparata nella parte logistica, ed i profughi conobbero una
diaspora in 264 comuni di 69 prefetture collocate in tutte le regioni del regno, comprese quelle del sud;
alcuni di essi vennero internati perché sospettati di austriacantesimo. La maggioranza si trovò costretta a fare
fronte a condizioni igieniche disastrose, a malattie causate da sporcizia e da intolleranza all’alimentazione ed
al clima, alla carenza di strutture scolastiche per i giovani, alla mancanza di lavoro, nonostante le iniziative
delle Commissioni di patronato e le pubbliche denunce apparse sul giornale dei fuorusciti trentini, "La
libertà".
Dal web
TRENTINO GRANDE GUERRA
http://www.trentinograndeguerra.it/
14 18 immagini della grande guerra
http://www.14-18.it/1418/index.php?1/home
Scritture di guerra
http://www.museostorico.tn.it/asp/bibliografia.htm
L'archivio di Cinema e storia
http://www.museostorico.tn.it/cinema/attivita.htm
Monumenti ai caduti in Trentino
http://www.museostorico.tn.it/editoria_ricerca/caduti
/monumenti.htm
I caduti in divisa austroungarica
http://www.museostorico.tn.it/editoria_ricerca/caduti
/austroungarici.htm
I caduti in divisa italiana
http://www.museostorico.tn.it/editoria_ricerca/caduti
/italiani.htm
Monumenti della grande guerra - mostra
Forte Belvedere - Gschwent di Lavarone (TN)
http://www.museostorico.tn.it/editoria_ricerca/caduti http://www.fortebelvedere.org
/mostra.htm
Le iniziative politiche dei trentini in Italia e in Austria
I trentini fuorusciti nel regno, mentre s’impegnavano con parecchie iniziative nell’aiuto e nella tutela dei
compaesani profughi, non mancavano di seguire gli aspetti politici legati al conflitto. La preoccupazione del
futuro amministrativo ed economico della provincia, nella prospettiva dell’annessione all’Italia, li portò
all’elaborazione di numerosi studi e memoriali, promossi soprattutto dall’iniziativa del Comitato d’azione di
Verona, che venivano inviati ai responsabili del governo. Altri studi, memoriali, relazioni, inchieste, vennero
stesi per l’Unione economica nazionale entro la quale si era costituito un comitato trentino.
La maggioranza dei fuorusciti, indipendentemente dalle posizioni politiche, confluì nella Associazione
politica degli italiani irredenti, palesemente conservatrice e attestata sulla linea dell’annessionismo di
massima, mentre in numero esiguo parteciparono alla Democrazia sociale irredenta, di stampo democratico –
radicale. I trentini però, abbastanza contenuti rispetto alle esuberanze nazionaliste ed imperialiste, furono
presenti al congresso di Roma delle nazionalità oppresse tenuto nell’aprile 1918 e taluni di essi, come il
liberale Antonio Stefenelli, dichiaravano che il futuro confine avrebbe dovuto essere posto a Salorno anziché
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al Brennero.
A Vienna i deputati trentini, oltre a prendere iniziative per la tutela dei profughi, seguivano gli sviluppi del
disfacimento dello stato asburgico dove la guerra aveva ancor più esaltato le rivendicazioni nazionali. Anche
i cattolici si erano ormai schierati in difesa dell’italianità del Trentino, rafforzati in tale scelta dal trattamento
riservato dall’Austria al vescovo Celestino Endrici, arrestato nel marzo 1916, deportato ed internato perché
in sospetto di sentimenti filoitaliani. Nel maggio 1918 Enrico Conci a Praga, nell’ambito di solenni
manifestazioni, teneva un discorso a sostegno delle nazionalità oppresse.
Mentre a Vipiteno, nel maggio, e a Bressanone, in ottobre, il Tiroler Volksbund chiedeva l’unità del Tirolo
da Kufstein alle Chiuse di Verona ed il diritto di autodeterminazione per tutti gli abitanti, l’impero asburgico
conosceva gli ultimi atti della sua dissoluzione. Respinta dal presidente Wilson la richiesta d’armistizio del 4
ottobre, l’Austria, sia pure in ritardo, tentava di risolvere in modo radicale il problema delle nazionalità con il
manifesto dell’imperatore Carlo in data 16 ottobre che trasformava l’impero in stato federale. Ma i deputati
trentini non tennero nemmeno in considerazione questa proposta istituzionale; il 24 ottobre i rappresentanti
trentini ed i liberali adriatici si costituivano in fascio nazionale presieduto dal Conci che, alla Camera, nella
seduta del 25 ottobre, a nome dei colleghi dichiarava come i territori italiani entro i confini della monarchia
erano da ritenersi ormai virtualmente appartenenti all’Italia. Firmato l’armistizio, i deputati Alcide
Degasperi, Enrico Conci e Valeriano Malfatti si recarono immediatamente a Roma per esporre ai
rappresentanti del governo i problemi del Trentino all’atto del passaggio dall’Austria all’Italia e per chiedere
la conservazione delle strutture autonomistiche.
I governi provvisori del dopoguerra di Maria Garbari
Il governatorato militare
Il 3 novembre 1918, apertosi il periodo armistiziale, venne costituito un Governatorato militare per il
Trentino, Ampezzano e Alto Adige affidato al generale Guglielmo Pecori Giraldi, comandante della Iª
armata. Provvisoriamente, ed in attesa dell’introduzione della legislazione italiana, sul territorio rimanevano
in vigore le strutture politico-amministrative austriache, ma prive degli organi di governo collocati ad
Innsbruck. Per ricomporre il tessuto dell’ordinamento provinciale fu istituito un Commissariato per gli affari
autonomi affidato ad Enrico Conci, nominati commissari civili in sostituzione dei capitani distrettuali,
riconfermate, ove possibile, le amministrazioni comunali e riconosciute le facoltà sancite dagli statuti propri
delle città di Trento, Rovereto e Bolzano. Venne anche creata una Consulta composta da sei popolari, tre
liberali e due socialisti, con presidente il Conci e segretario Alcide Degasperi, quale elemento di raccordo fra
il paese ed il governatore; ma la sua attività fu vanificata da diatribe di parte e da richieste incompatibili con
il vigente impianto costituzionale italiano.
La situazione, dal punto di vista politico, si presentava assai delicata per l’inclusione entro i confini del
regno, non certo per libera scelta ma solo per le ragioni della vittoria, della minoranza austrotedesca. Il fatto
che l’Italia fosse priva di tradizioni autonomistiche e di esperienza nel trattamento di comunità etniche
minoritarie, poteva portare a lacerazioni incomponibili. Tuttavia il Pecori Giraldi si mosse generalmente con
prudenza e tatto, avvalendosi dell’opera dei trentini che si erano subito candidati come attori e mediatori
all’interno del nuovo ordine, forti dell’esperienza maturata nel nesso asburgico.
Un problema immediato fu quello del rientro dei profughi, una massa di circa 100.000 persone che, nel giro
di pochi mesi e nella stagione invernale, avrebbe fatto ritorno in una zona devastata dalla guerra, sfornita di
alloggi, di beni di sussistenza e con l’economia paralizzata. La precedenza venne data ai provenienti
dall’Austria il cui rientro, nonostante l’accurata preparazione del governatore, conobbe numerose difficoltà
ed ulteriori disagi per i rimpatriati costretti ancora, per il numero delle abitazioni distrutte o danneggiate, alla
vita di baracca o alla sistemazione provvisoria.
Gli ingenti lavori di ricostruzione – nella "zona nera", dove era passato il fronte, la devastazione risultava
pressoché totale – vennero assunti in un primo momento dal Genio militare della prima armata. Il ripristino
delle infrastrutture e del patrimonio edilizio, sostenuto da ingenti finanziamenti, non conobbe sosta e portò a
risultati positivi, nonostante gl’inevitabili episodi di sperperi o di irregolarità amministrative. Altri problemi
connessi a situazioni di forte disagio sociale furono quelli del cambio della corona austriaca con la lira
italiana, fissato prima al 40%, poi al 60%; quello della perdita di valore dei titoli austriaci ed ungheresi dove
erano confluiti i risparmi di molti cittadini, ed il risarcimento dei danni di guerra alle persone e cose,
riconosciuto legittimo in quasi tutti i 120.000 casi di denuncia.
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Il Governatorato civile e la conservazione dell’ordinamento autonomo
A fine luglio 1919 cessava il Governatorato militare che aveva avviato il Trentino alla normalizzazione,
sostituito da un Governatorato civile assunto il 4 agosto dall’on. Luigi Credaro destinato ad agire in un
contesto difficile. Forti preoccupazioni destavano i tempi lunghi interposti al definitivo assetto istituzionale.
Il 10 settembre veniva firmato il trattato di pace di Saint Germain, ma la sua ratifica da parte del Parlamento
italiano conosceva ritardi, procrastinando la legge d’annessione ed impedendo le consultazioni
amministrative e politiche che avrebbero normalizzato la vita dei comuni e permesso ai rappresentanti del
paese l’entrata alla Camera dei deputati. La legge d’annessione, in applicazione del trattato di pace, veniva
promulgata solo il 26 settembre 1920.
Nel periodo del Commissariato civile le forze politiche del Trentino, già attive nell’immediato dopoguerra,
definirono la loro organizzazione. I socialisti, favorevoli al massimalismo, nel luglio 1919 erano confluiti nel
Partito socialista italiano mentre il dissidente gruppo "battistiano" nell’ottobre 1920 aderiva al socialismo
riformista; un’altra scissione avveniva dopo il congresso di Livorno del 1921 che dava origine, anche in
Trentino, al Partito comunista. Il Partito popolare, attivissimo fin dal primo dopoguerra nella ripresa del
movimento associazionistico e cooperativistico, si ricostituì nell’ottobre 1919. I liberali davano vita alla
Associazione liberale democratica trentina nell’ottobre 1920 ed entravano nel partito nazionale all’atto della
sua costituzione nell’ottobre 1922.
In previsione della sistemazione definitiva del paese, tutti i partiti concordavano sulla necessità di mantenere
in vita l’impianto autonomistico provinciale, dotato di facoltà e competenze simili a quelle della cessata
Dieta tirolese, e quello comunale, compresi gli statuti propri per le città maggiori. Le diversità riguardavano
il quadro territoriale dell’autonomia che i liberali avrebbero preferito regionale, i socialisti attribuito a
ciascuna delle due province, il Trentino e l’Alto Adige, ed i popolari alla regione articolata in due province,
anch’esse autonome.
Il fatto che il passaggio all’Italia non avesse cancellato la richiesta dell’autogoverno indicava come, per i
trentini, l’autonomia non rivestiva solo un significato di tutela nazionale ma corrispondeva ad un modello di
stato decentrato opposto al livellamento del centralismo italiano. Il carattere di difesa etnica era invece
essenziale per il gruppo sudtirolese, ridotto a minoranza in uno stato di altra nazionalità, come appariva dal
progetto d’autonomia del Deutscher Verband presentato a Nitti nel marzo 1920. Assicurazioni sul futuro
autonomistico del paese erano state date dal sovrano, dal governo Nitti, da quello retto da Giolitti e la stessa
legge d’annessione prevedeva il coordinamento delle leggi del regno con le autonomie provinciali e
comunali dei territori annessi. Le consultazioni politiche del maggio 1921 attraverso l’elezione, per la
circoscrizione del Trentino, di cinque popolari e due socialisti, permisero di sollevare alla Camera tutti i
problemi della provincia da parte dei diretti interessati. Spettò ad Alcide Degasperi, nel discorso tenuto il 24
giugno, illustrare il progetto autonomistico legittimato dalla tradizione storica e dalla speranza di comporre il
conflitto tra le nazionalità che per la prima volta si presentava ai confini dell’Italia.
Le lentezze e le resistenze della capitale, dovute anche al mutato clima politico, erano destinate a incidere
sulla rapida soluzione dell’assetto istituzionale del Trentino. La costituzione della Giunta provinciale
straordinaria, decisa nell’agosto 1921, avveniva solo nel novembre con componenti di nomina governativa
anziché eletti; le Commissioni consultive centrale e regionale, investite di poteri costituenti e previste fin dal
1919, prendevano vita nel settembre 1921. La Commissione per la Venezia Tridentina (denominazione
infelice data alla regione, contestata anche dagli intellettuali irredentisti) nell’aprile 1922 approvava un
ordine del giorno che sollecitava l’Ufficio centrale per le nuove province ad elaborare un abbozzo di statuto
per coordinare l’autonomia provinciale e comunale alle leggi del regno; ma questo avveniva in concomitanza
con l’agonia dello stato liberale.
Il commissario Credaro, liberale e laico, ammiratore della cultura tedesca, neutralista allo scoppio della
guerra, uomo dotato di moderazione e di equilibrio, si trovò al centro di accuse rivolte da tutti i settori. I
cattolici lo avversavano, almeno all’inizio, per il suo laicismo, i liberali per il rispetto verso la chiesa, i
nazionalisti per la disponibilità nei confronti dei tedeschi ed il presunto tradimento dell’italianità, la
minoranza sudtirolese per i provvedimenti ritenuti lesivi dei loro diritti specie in campo scolastico. In realtà
Credaro si sforzò costantemente di capire le ragioni di ognuno, di mediare le posizioni estreme e di
mantenere un ordine politico – amministrativo nel quale la legge potesse garantire e tutelare sia i singoli che
le comunità. Venne continuata e potenziata l’opera di ricostruzione, attraverso la sezione lavori pubblici del
Commissariato, con interventi considerevoli sorretti da massicci finanziamenti che ebbero effetti positivi per
la ripresa del paese dove, però, serpeggiava il malcontento per il ritardato pagamento dei danni di guerra.
Le speranze dei trentini all’atto dell’annessione all’Italia erano destinate a spegnersi con il crollo del regime
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politico del regno. La crisi del ministero Bonomi (febbraio 1922), la costituzione del primo (febbraio) e del
secondo governo Facta (agosto), l’avanzata del fascismo con i suoi miti nazionalisti e dello stato
accentratore, non solo portavano alla frantumazione delle forze politiche italiane tradizionali con il
conseguente vuoto di potere, ma cancellavano anche ogni apertura verso l’autonomia identificata con lo
strumento di difesa della libertà. La distruzione dello stato liberale ad opera dei fascisti ebbe inizio, non a
caso, con l’azione su Bolzano e Trento compiuta nei giorni 1- 4 ottobre 1922, l’occupazione della Giunta
provinciale straordinaria e la cacciata del governatore Credaro. Il 17 ottobre l’amministrazione della
provincia era affidata ad un prefetto mentre veniva messo in liquidazione l’Ufficio centrale per le nuove
province.
Poco dopo l’assunzione di Mussolini a capo del governo, il 14 novembre, si tenne a Trento l’adunanza dei
sindaci e dei comuni per reclamare, di fronte a un folto pubblico, la conservazione dell’ordinamento
decentrato: una manifestazione ormai resa inutile, ma di grande significato per capire il successivo
atteggiamento dei trentini di fronte al fascismo.
La ripresa dell’attività culturale
La rinascita dell’attività culturale avvenne nel clima contrassegnato dall’entusiasmo per il congiungimento
del Trentino all’Italia. Il progetto, già steso da Gino Onestinghel nel corso della guerra, di riunire tutti gli
studiosi in un’unica associazione e di pubblicare i loro contributi su una sola rivista al posto di quelle
esistenti prima del conflitto, fu realizzato in tempi brevi. Con l’appoggio del sindaco di Trento, senatore
Vittorio Zippel, un gruppo d’intellettuali in rappresentanza dei diversi indirizzi di ricerca, riuniti presso il
municipio del capoluogo, davano vita nell’agosto 1919 alla "Società per gli studi trentini" composta da 102
soci, scelti sulla base della produzione scientifica senza alcuna preclusione di carattere ideologico o politico.
Con il marzo 1920 iniziava la pubblicazione della rivista della Società, "Studi Trentini" che, fino al 1926,
accolse sia i contributi di carattere storico che di scienze naturali. Gli studi, i saggi, le notizie apparse sulle
sue pagine mantenevano fede al rigore metodologico ed ai criteri che avevano ispirato la piccola scuola
storiografica del passato, onde non perdere un patrimonio di valori originali dei quali i trentini si sentivano
orgogliosi. Gl’intellettuali della provincia accettarono anche di confluire nella Deputazione veneta di storia
patria, trasformata in veneto-tridentina, ma senza rinunciare ad una società propria ed autonoma dove essi,
per quanto italianissimi, avrebbero difeso la loro identità culturale contro ogni livellamento.
La riorganizzazione dell’Accademia roveretana degli Agiati si ebbe tra gennaio e febbraio del 1920, con
notevoli difficoltà dovute alle conseguenze della guerra che aveva disperso il suo patrimonio ed arrecato
danni alla collezione di quadri, alle raccolte librarie e archivistiche. Ricostituiti gli organi sociali,
l’Accademia prese contatto con le autorità per averne il sostegno, procedette alle nuove associazioni
aggregando i maggiori esponenti – politici compresi – dell’attività nazionale, e riprese il lavoro scientifico,
iniziando con letture dantesche, in conformità con i filoni che avevano caratterizzato il suo passato.
L’Accademia chiese subito di ottenere il titolo di "Regia" ma la richiesta, sempre ripetuta e costantemente
elusa, venne accolta solo nell’aprile 1943.
Nel 1919 gli studiosi maggiormente legati alla lotta nazionale ed alla campagna interventista ripresero il
progetto di Cesare Battisti della costituzione di un Museo del Risorgimento per documentare, con materiali
ostensivi, le tappe della partecipazione trentina al risorgimento italiano. Preceduto dall’attività promozionale
di un Comitato provvisorio, nel 1921 nasceva il Comitato per il Museo del Risorgimento e, nel 1923, la
Società del Museo del Risorgimento in Trento in concomitanza con l’apertura al pubblico, presso il castello
del Buonconsiglio, delle prime due sale dedicate ai martiri della redenzione.
Fortunato Depero
Nato a Fondo nel 1892, morto nel 1960. Trasferitosi con la famiglia a Rovereto, frequenta la Scuola Reale
Elisabettina, che abbandona al termine del V anno di corso; respinto all'esame di ammissione all'Accademia
di Belle Arti di Vienna, inizia a lavorare come scultore.
Nel dicembre del 1913 si trasferisce a Roma, dove conosce Balla, Cangiullo, Marinetti e Sprovieri.
Nel marzo del 1915 pubblica con Giacomo Balla la "Ricostruzione Futurista dell'Universo", manifesto che
apre una nuova stagione del Futurismo, proponendo una fusione delle diverse arti e un maggior
coinvolgimento dell'arte nella vita.
Nel 1916 riceve nel suo studio romano l'impresario dei Balletti Russi Sergeij Diaghilev: gli vengono
commissionati scenografia e costumi per il balletto "Le chant du rossignol" di Igor Strawinskij, balletto che
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purtroppo non verrà rappresentato. Depero incontra in quel periodo il ballerino Massine, il poeta Cocteau e
molti artisti, fra cui Picasso, Larionov, la Gontcharova.
Conosce Gilbert Clavel, poeta svizzero, e con lui soggiorna a Capri nel 1917, illustrando il racconto "Un
istituto per suicidi"; prepara in questo periodo spettacoli teatrali, e nel 1918, in collaborazione con Clavel,
rappresenta a Roma i "Balli Plastici", spettacolo di marionette composto da cinque azioni, musicate da
Casella, Malipiero, Bartok, Tyrwhitt.
Apre a Rovereto la "Casa d'Arte Depero" nel 1919, dove vengono prodotti tarsie in panno, collages, oggetti
d'arte applicata. Realizza in quegli anni decorazioni e arredamenti d'interni, come quella del Cabaret del
Diavolo.
Nel 1925, insieme a Balla e Prampolini, rappresenta l'Italia all'Esposizione Internazionale di Parigi.
Nel 1927 pubblica "Depero-Dinamo Azari" (libro imbullonato), primo esempio di libro-oggetto futurista
dove risalta la sua fantasia grafica.
Nel settembre 1928 è a New York, dove conduce un'attività intensa nei settori della scenografia teatrale e
della pubblicità.
Rientrato in Italia, nel 1930 fonda e dirige la rivista "Dinamo", pubblica le "Liriche radiofoniche", partecipa
a numerose mostre nazionali ed internazionali.
Nel 1940 esce il volume "Fortunato Depero nelle opere e nella vita", autobiografia edita a cura della
Legione Trentina.
Nel 1948 si trasferisce nuovamente negli Stati Uniti, dove cerca di pubblicizzare un nuovo materiale da lui
utilizzato, il buxus, e tiene a New York due personali.
Nel 1956 completa la decorazione della Sala del Consiglio Provinciale di Trento.
Nel 1957, in collaborazione con il Comune di Rovereto, realizza la Galleria Permanente e Museo Depero,
istituzione che oggi conta più di 3000 fra dipinti e disegni, circa 7500 manoscritti, e una nutrita biblioteca
sul futurismo.
Il Trentino nel ventennio fascista di Maria Garbari
L'avvento del fascismo
Dopo il primo fugace esperimento fascista del 1919, dovuto al roveretano Alfredo Degasperi, un fascio di
combattimento venne costituito a Trento nel 1920 ad opera di Achille Starace, caratterizzato dalle pesanti
critiche rivolte a Credaro accusato di debolezze e cedimenti nei confronti del gruppo tedesco. Starace fu
anche al comando delle squadre fasciste che a Bolzano, il 24 aprile 1921, aggredivano un corteo in costume
tirolese causando un morto e diversi feriti. L’azione su Bolzano e Trento dell’ottobre 1922, compiuta in
grandi forze, venne organizzata fuori regione, dai vertici del partito, per il suo significato di attacco diretto al
governo.
Fin dal primo impatto con il Trentino, il fascismo assunse l’aspetto del centralismo statale imposto ad un
paese legato ad inveterate tradizioni di decentramento e di autonomia. Con decreto del 21 gennaio 1923
veniva istituita la Provincia di Trento, comprendente anche i circondari di Bolzano, Merano e Bressanone ma
con distacco dell’Ampezzano, affidata al prefetto Giuseppe Guadagnini. L’erezione della provincia unica
non dispiaceva ai ceti dirigenti trentini che si sentivano investiti del compito di difendere l’italianità ai
confini; il prefetto, tuttavia, subito impegnato in Alto Adige ad imporre la trasformazione della scuola
tedesca in italiana, era più propenso ad ascoltare la voce di Roma ed a sostenere i provvedimenti formulati
dal Tolomei per l’assimilazione rapida dei sudtirolesi con il resto del regno.
Il 18 febbraio 1923 entrava in vigore nella provincia la legge comunale italiana che cancellava le antiche
libertà dei comuni e gli statuti propri delle città maggiori e, nel dicembre, la nuova legge provinciale e
comunale ispirata ad un accentramento ancora maggiore. Con provvedimento legislativo del febbraio 1926
saranno poi istituiti il podestà e la consulta municipale non elettivi, ma nominati dall’esecutivo, nei comuni
non eccedenti i 5000 abitanti ed infine, con decreto del settembre 1926, l’ordinamento podestarile verrà
esteso a tutti i comuni del regno. Successivamente, con interventi d’autorità, si avrà l’aggregazione dei
comuni trentini portati da 366 a 127 distruggendo un’articolazione che, nonostante i limiti obiettivi, era
conforme alla geografia del paese e costituiva l’elemento basilare della vita comunitaria.
La penetrazione del fascismo nel Trentino non si presentava facile, compromessa anche dalle ricorrenti
beghe e dalle crisi interne dei fasci locali, mai risolte nemmeno con il loro affidamento a personalità del
luogo. Perfino la valorizzazione del nazionalismo e dei combattenti non corrispondeva pienamente alle
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previsioni, perché si riscontrarono adesioni all’associazione antifascista "Italia libera" e la stessa Legione
Trentina sollevava qualche perplessità sulla politica del governo. Le popolazioni, pur senza atti di palese
contestazione, provavano delusioni e disagi di fronte ai provvedimenti politici ed amministrativi che
sconvolgevano gli assetti esistenti e sentivano il fascismo come estraneo alla loro mentalità, anche per
ragioni di stile. Il vescovo Endrici, preoccupato per gli interventi scolastici in Alto Adige, ed i popolari,
interessati a difendere gli interessi sociali ed economici legati all’associazionismo di stampo cattolico,
esprimevano pubblicamente il dissenso.
Le consultazioni politiche del 1924, compiute sulla base della nuova legge che prevedeva un forte premio di
maggioranza allo schieramento vincente, non lasciavano equivoci sull’estraneità del fascismo nella
provincia. Alla lista d’ispirazione fascista che, nel complesso d’Italia, aveva ottenuto il 65% dei suffragi, sul
totale di 105.706 voti ne erano andati solo 22.244, collocandosi terza dopo quella tedesca (33.115) e quella
popolare (25.788); un notevole successo avevano ottenuto anche i socialisti ed i repubblicani nel Trentino.
Per i popolari risultarono eletti Degasperi (con 15.810) preferenze) e Carbonari, per i socialisti Avancini e,
per la lista fascista, Gianferrari e Lunelli. Mussolini non dimenticherà mai questo risultato facendolo pagare
soprattutto con l’abbandono economico del paese.
L’attacco fascista alla più consistente delle forze avversarie del Trentino s’incentrò su Alcide Degasperi,
segretario del PPI (Partito popolare italiano), dopo che i popolari erano stati licenziati dal governo. Contro il
deputato che difendeva le prerogative del Parlamento, venne scagliata nell’ottobre 1924 una campagna
denigratoria sulla stampa nazionale con, al centro, l’accusa di "austriacantesimo". Molte furono le voci che si
alzarono in difesa della figura morale e dell’ "italianità" di Degasperi. Ma queste voci, già compromesse
dalla censura e dai sequestri della stampa, erano destinate a ridursi al silenzio con l’avvento dello stato
totalitario.
I primi anni del regime
La trasformazione del fascismo in regime ebbe inizio nel 1925-26 con l’emanazione delle leggi che, pur
senza abolirlo, svuotavano lo Statuto albertino annullando le libertà garantite dalla costituzione. Dichiarati
decaduti i deputati aventiniani e i comunisti, tutti i partiti, tranne il fascista, vennero considerati illegali e
soppressi i loro organi di stampa. La legge sulla difesa dello stato portava all’istituzione del Tribunale
speciale ed alla introduzione della pena di morte. L’organizzazione dello stato totalitario vedeva
l’asservimento del mondo del lavoro con la disciplina dei contratti collettivi, il sindacato unico, la Carta del
lavoro ed il progetto dell’ordinamento corporativo. Il regime operava inoltre l’inquadramento ed il controllo
della gioventù, della scuola, della cultura, dello sport e del tempo libero, costringendo alla clandestinità
qualsiasi forma di dissenso.
Le conseguenze del nuovo corso politico si fecero sentire subito anche nel Trentino. Il giornale liberale "La
libertà", colpito da sequestri e dalla devastazione della tipografia, cessava a fine dicembre 1925. "Il nuovo
Trentino", organo dei popolari più volte sequestrato, doveva rinunciare dagli inizi del 1926 alla direzione di
Alcide Degasperi ed a sospendere le pubblicazioni il 3 novembre dopo l’aggressione alla redazione. Nella
notte 31 ottobre – 1 novembre 1926 la violenza delle squadre fasciste si abbattè su tutte le organizzazioni
cattoliche, dalla Giunta diocesana, agli oratori, ai circoli associativi, al SAIT, agli enti cooperativi, alle casse
rurali. Le istituzioni economiche, in gran parte commissariate, venivano così sottoposte al controllo ed alla
gestione fascista. L’insediamento del regime nel settore del credito e del risparmio si rese possibile attraverso
la forzata fusione della Banca cattolica trentina con la Banca cooperativa, originando nel febbraio 1927 la
Banca del Trentino e dell’Alto Adige.
L’istituzione della Commissione provinciale per l’ammonizione e il confino, presieduta dal prefetto, formò
lo strumento per il controllo e la repressione rivolti, in primo luogo, a colpire i socialisti ed i comunisti
ritenuti, per la loro organizzazione nazionale e internazionale, il maggiore pericolo. Ma ai rigori della polizia
non sfuggivano gli esponenti delle altre correnti politiche: Alcide Degasperi, arrestato a Firenze nel maggio
1927, veniva condannato dal tribunale di Roma a quattro anni di reclusione per tentato espatrio clandestino.
La costituzione della Provincia di Bolzano con decreto del 2 gennaio 1927 rappresentò, per i trentini, un fatto
traumatico ed offensivo. Essi si sentirono defraudati dal ruolo di difensori dell’italianità ai confini e
scavalcati dagli organi centrali dello stato che si assumevano direttamente il compito dell’assimilazione
dell’elemento tedesco. L’impressione che la provincia di Trento fosse stata degradata ad un rango di seconda
categoria e la previsione che le provvidenze e gl’interventi economici avrebbero sorvolato il Trentino per
riversarsi in abbondanza sull’Alto Adige, provocarono un atteggiamento risentito e di chiusura, bollato dagli
esponenti fascisti e da Ettore Tolomei come deteriore "trentinismo". La polemica sul trentinismo tardò a
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decantarsi e lasciò malesseri destinati ad oscurare l’immagine trionfalistica che il regime aspirava a darsi nel
paese.
Il fascismo trentino continuava ad essere travagliato da rivalità interne, lotte per il potere e continue crisi
organizzative, tanto da portare a diverse sostituzioni dei segretari federali, ma si moltiplicava anche l’opera
d’inquadramento e di indottrinamento della popolazione nelle istituzioni del regime: l’Opera nazionale
balilla, il Dopolavoro, l’Istituto fascista di cultura, il Gruppo universitario fascista. La firma dei Patti
lateranensi, la "conciliazione" dell’11 febbraio1929 magnificata dal giornale fascista locale, "Il Brennero",
venne salutata nel Trentino come un evento positivo, apprezzato dai cittadini e dal clero perché cancellava
l’annosa e sofferta spaccatura apertasi fra lo stato e la chiesa. Solo gli uomini più consapevoli dei pericoli
insiti in questo compromesso rivolto soprattutto a puntellare il regime (Degasperi, don Giulio Delugan, don
Simone Weber), sollevarono dubbi e perplessità.
Le consultazioni politiche del 24 marzo 1929 svolte con il metodo plebiscitario (possibilità di accettare o
respingere la lista unica predisposta dal Gran Consiglio del fascismo), tenute sulla scia dei consensi per il
Concordato, segnarono nel Trentino un successo per il fascismo, ma non clamoroso come nel resto d’Italia:
la media dei votanti fu minore in confronto a quella nazionale – il 73% contro il 90% circa – e i 5197 "no"
rappresentarono il 6,5% rispetto all’1,6% del complesso d’Italia.
Il consolidarsi del regime
Con l’aprirsi degli anni trenta il regime puntò al suo consolidamento normalizzando alcune situazioni
amministrative, come quella del comune di Trento con la nomina a podestà di Mario Scotoni, e quella del
rettorato dell’amministrazione provinciale. Lo svolgimento a Bolzano e a Trento, nel settembre 1930, del
XIX congresso della Società italiana per il progresso delle scienze, costituì una importante e reclamizzata
occasione per dimostrare la vitalità culturale all’ombra del fascismo ed il rilancio della ricerca scientifica
nelle due province, improntata ai sensi dell’italianità.
Il 1931 fu contrassegnato nel Trentino, come in tutta Italia, dallo scontro fra chiesa e regime sul diritto
all’educazione dei giovani che il fascismo reclamava alle proprie competenze in forme totalitarie e la chiesa
manteneva in vita sotto lo scudo dell’Azione cattolica. Per ordine di Mussolini avvenne lo scioglimento delle
federazioni e dei circoli giovanili cattolici, degli oratori e ricreatori con chiusura delle sedi e sequestro dei
materiali in esse contenuti. Le forti reazioni e le polemiche consigliarono però il fascismo a fare retromarcia
e, nel settembre, si giunse ad un accordo che permise il ritorno in vita delle associazioni cattoliche, per
quanto controllate in modo attento e continuativo dall’autorità politica. Un’altra crisi, di tipo diverso, ebbe
inizio nel 1932 con il crollo degli istituti bancari dovuto alla forte recessione ed alla contrazione dei depositi.
I maggiori contraccolpi sulla tenuta del sistema politico – economico furono dati dal tracollo della Banca del
Trentino e dell’Alto Adige. Il nuovo istituto bancario, la Banca di Trento, sorta al posto di quello messo in
liquidazione, venne aperta solo nel gennaio 1935.
Mentre la contrapposizione tra le fazioni del fascismo locale non conosceva tregua e portava al ricorso di
interventi esterni, il regime continuava la penetrazione in tutte le pieghe della società civile con particolare
cura rivolta al mondo della scuola ed alla massa della popolazione agricola. L’assenso, almeno formale,
risultò dalle elezioni del marzo 1934: i votanti furono il 98% ed i "no" alla lista unica furono 278. In realtà
l’espressione del dissenso comportava un rischioso atto di coraggio perché non esisteva la segretezza del
voto, dato che le schede per il "si" erano tricolore. La strumentalizzazione del mito nazionale per guadagnare
il Trentino trovò il suo culmine nel 1935 quando venne inaugurato il monumento a Cesare Battisti eretto sul
Doss Trento. In occasione della cerimonia, svoltasi il 26 maggio, l’aspetto del capoluogo venne trasformato
in una immensa immagine coreografica magnificante il fascismo, con palese tradimento della figura del
martire ridotto a precursore del regime. Nel medesimo anno giungeva in provincia Benito Mussolini, recatosi
prima in Valle di Non dove si svolgevano le manovre militari e poi a Trento dove, il 31 agosto, arringava
nell’attuale piazza Duomo una folla di 70.000 persone.
Il paese, gradatamente e sovente in forme passive, si adeguava al nuovo corso politico accettando la fatalità
degli eventi che apparivano inevitabili. La guerra dichiarata nel 1935 contro l’Etiopia, fu l’occasione per una
martellante propaganda a sostegno dei diritti coloniali italiani e contro le potenze plutocratiche che avevano
deliberato le sanzioni economiche, tanto da convincere alla generosa offerta alla patria delle fedi nuziali
d’oro. Alcuni trentini, oltre ai richiamati, partirono come volontari e poi, a guerra finita, un migliaio di operai
si trasferì in Africa Orientale con il miraggio di un lavoro vantaggioso. La guerra civile spagnola (19361939) portò all’invio di qualche centinaio di militari trentini a sostegno dell’esercito franchista mentre altri,
già all’estero, fecero parte delle brigate internazionali antifranchiste.
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L’occupazione fascista di ogni spazio, anche minimo, della vita individuale e sociale non conosceva sosta; le
associazioni già esistenti venivano potenziate e se ne creavano altre di natura militare o paramilitare,
culturali, professionali, sportive, femminili, in modo che la vita dei cittadini e le loro coscienze, dalla nascita
alla morte, fossero irregimentate nell’unico progetto del cesarismo mussoliniano. Nel marzo 1939 avvenne la
sostituzione della Camera dei deputati con la Camera dei fasci e delle corporazioni, non elettiva ma designata
dagli apparati del regime. Di essa fecero parte, per il Trentino, Italo Lunelli, Bruno Mendini (podestà di
Trento dopo i nove anni di Mario Scotoni), Vittorio dalla Bona e Augusto Garbari. Nel 1939, mentre già
spiravano arie di guerra, giunse a Trento il fascistissimo prefetto Italo Foschi, destinato a rimanere in carica
fino al crollo del regime.
Gli anni neri dell'economia trentina
Nel Trentino, che non si era ancora completamente ripreso dalle conseguenze della guerra, l’avvento ed il
consolidarsi del fascismo in parte coincisero ed in parte furono causa del deterioramento della situazione
economica. Il fondamentale settore dell’agricoltura, anziché conoscere una fase di decollo, ristagnava o
arretrava per la svalutazione dei prodotti fino a generare gravi condizioni di miseria. L’industria era investita
da una crisi preoccupante con paralisi pressoché totale nel campo dell’edilizia. Il commercio rimaneva
anemico e limitato all’interno della provincia, compromesso anche dall’abbassamento dei prezzi dei prodotti
agricoli. Il credito risultava condizionato dalla drastica riduzione dei depositi a risparmio, proprio quando
sarebbero stati necessari forti capitali per il rilancio dell’economia. Qualche spiraglio positivo presentavano
invece l’industria idroelettrica ed il turismo.
La rivalutazione e stabilizzazione della lira, voluta da Mussolini nel 1927 soprattutto per ragioni di prestigio,
portava alla riduzione dei salari, non compensata dalla parallela diminuzione del costo della vita, tanto da
contrarre ulteriormente il potere d’acquisto delle classi meno abbienti già colpite dal carico fiscale. Anche gli
interventi nel campo degli enti cooperativistici, passati sotto il controllo dell’autorità fascista, furono
determinanti per comprimere le iniziative economiche e causare l’impoverimento nei paesi di montagna e
nelle vallate. Era inoltre venuta meno la valvola dell’emigrazione, impedita dalle leggi restrittive degli USA
e dalle disposizioni del governo fascista.
La stagnazione industriale, appesantita ulteriormente agli inizi degli anni trenta, provocava numerosi
licenziamenti; i tentativi di assorbire la mano d’opera nei lavori pubblici, peraltro non ingenti, costituiva un
palliativo limitato nel tempo. I contraccolpi della crisi economica mondiale si sommarono nel Trentino agli
elementi negativi locali dati da cause strutturali e congiunturali. Diminuiva la retribuzione degli impiegati, i
salari erano colpiti da nuove decurtazioni, crollava il prezzo dei prodotti agricoli tanto da non compensare i
costi di produzione, i terreni si svalutavano, il commercio si contraeva ulteriormente, i depositi a risparmio
erano sempre più esigui; nel 1931 la cifra dei disoccupati saliva a 7.701 per toccare nel 1933 gli 11.824. I
riflessi sociali delle precarie condizioni economiche erano testimoniati dalla caduta demografica, con una
diminuzione del 36 ‰ nel giro di 10 anni, nonostante la politica d’incremento della popolazione voluta dal
regime. Il culmine della crisi si ebbe con il crollo del sistema bancario che portò a momenti di panico da
parte dei risparmiatori e mise a terra tutta l’economia trentina.
Per quanto fosse evidente la necessità di ricorrere a provvedimenti straordinari, gli interventi della capitale
rappresentarono un aiuto di poco conto. Solo con il 1936 iniziò una lenta ripresa nell’agricoltura sotto
l’impulso della politica autarchica e le coreografie della "battaglia del grano", ma senza portare al
miglioramento delle condizioni di vita dei ceti contadini. Qualche incremento registrò la produzione
industriale e si ebbe l’insediamento di alcune fabbriche, il commercio fu avviato ad un maggiore dinamismo
ed un ottimo decollo ebbe l’attività turistica rafforzata da indovinate iniziative degli operatori economici e
dell’ente pubblico. Nonostante questo e l’esecuzione di opere pubbliche, con precedenza accordata a quelle
destinate a rappresentare il regime, il Trentino rimase nell’abbandono economico, accentuato dal confronto
con l’Alto Adige dove affluivano copiosi i contributi dello stato.
Di tale situazione, che scontentava perfino i quadri del fascismo locale, se ne rese conto lo stesso Mussolini
tanto da riconoscere, nell’incontro a Roma del 15 maggio 1940 con i gerarchi e le autorità della provincia di
Trento, di avere fatto tutto per Bolzano e poco per Trento. Ma lo scoppio della guerra di lì a pochi giorni
impedì l’entrata in vigore di un concreto piano di sviluppo economico del paese.
L'antifascismo
Le voci e le correnti di opposizione al regime vennero costrette alla clandestinità dopo i provvedimenti che,
in nome dello stato totalitario, avevano posto tutti i partiti, tranne il fascista, fuori legge. I più decisi a
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mantenere in vita l’apparato organizzativo furono i comunisti, per quanto non numerosi nel paese. Si deve a
costoro il tentativo effettuato nel 1926 di creare un fronte antifascista esteso a tutte le forze politiche,
destinato subito al fallimento per l’intervento dell’apparato poliziesco. L’attività cospirativa di socialisti e
comunisti (sotto queste voci vennero schedate fra i "sovversivi" rispettivamente 712 e 399 persone) era
particolarmente temuta perché rientrante in un quadro che superava la provincia, e quindi maggiormente
controllata come dimostrano gli arresti, i processi e le condanne del 1926-28, 1930-31, 1937-38 abbattuti sui
comunisti. L’azione di costoro non sfociò in atti pubblici e clamorosi, del resto resi impossibili, ma nella
diffusione della stampa antifascista, nella propaganda continua, nel mantenere vivi i rapporti con le cellule
esterne al Trentino ed i contatti con il fronte comunista europeo.
Sciolta l’associazione "Italia libera" nel 1925, i suoi aderenti più attivi, in gran parte di estrazione
repubblicana e socialista, fecero capo al gruppo Gigino Battisti - Giannantonio Manci, legato da rapporti
costanti con l’antifascismo all’estero, che si distinse nell’organizzazione degli espatri clandestini con l’aiuto
della guida alpina Tita Piaz. Questo gruppo, non consistente dal punto di vista numerico, poteva però contare
sulla preparazione politica e culturale dei suoi affiliati, quasi tutti rappresentanti della borghesia progressista
ed intellettuale, impegnati sul piano operativo ed in grado di elaborare coerenti programmi in vista della
ricostruzione dello stato democratico. I liberali, dopo lo sfaldamento del partito, conobbero solo
l’antifascismo legato ad alcune prestigiose figure intenzionate a non scendere a compromessi con il regime.
I popolari e gli aderenti all’associazionismo cattolico schedati come "sovversivi" non furono molti ma, dagli
atti politici e di polizia, risultavano i più sospettati e temuti perché diffusi nell’intera società civile
profondamente legata ai valori religiosi e pronta a seguire i suggerimenti della chiesa. L’opposizione
cattolica agiva attraverso le parrocchie, gli oratori, le associazioni legate all’Azione cattolica, in quanto era
sopravvissuto dei consorzi, delle cooperative e degli enti mutualistici, senza azioni provocatorie, creando una
rete inafferrabile ma robusta che provocava il vuoto intorno al regime e dava luogo a una specie di
"resistenza silenziosa". Le autorità fasciste imputavano questo stato di cose al vescovo, ai parroci, ai curatori
d’anime e, con particolare acrimonia, al giornale "Vita trentina", diretto da don Delugan, che dal dicembre
1926 aveva sostituito "Il nuovo Trentino". Il tono glaciale tenuto dal periodico nei confronti del fascismo e la
difesa dei valori avversati dal regime, sia pure compiuta in chiave religiosa, costituivano un argine
all’invadenza della propaganda, soprattutto tenendo conto della capillare diffusione dell’organo di stampa.
Accanto all’antifascismo improntato a dottrine politiche o morali, esisteva tutta una zona dove il malcontento
era confinato negli atteggiamenti di disagio o di isolamento, sfogandosi in mugugni, mormorii o barzellette,
puntigliosamente registrati nei verbali d’incriminazione delle forze inquirenti. Il consenso di facciata,
espresso nel corso degli anni trenta, non ingannava le autorità che ne coglievano la fragilità e i limiti. I
trentini, infatti, non potevano perdonare al fascismo la distruzione delle strutture politico – amministrative
nelle quali si era realizzata nel passato la loro libertà decisionale, né potevano piegarsi ad una concezione
dello stato e della società estranea alla loro storia.
Una particolare opposizione si verificò nei paesi della zona mistilingue, aggregata alla provincia di Trento,
dove serpeggiavano espressioni d’irredentismo tedesco e che, nel 1939, vedrà i suoi abitanti ammessi ad
esercitare il diritto di opzione per la Germania. Il timore che Hitler, nonostante le reiterate assicurazioni
sull’intangibilità del confine al Brennero, potesse sollevare la questione dell’Alto Adige, portò al pesante
controllo ed a diversi provvedimenti contro gli "hitleriani", in palese contrasto con lo spirito della
conclamata alleanza fra i due dittatori.
La cultura trentina nell'età del fascismo
La cultura trentina, durante il ventennio, non rimase insensibile ai miti patriottici e nazionalisti abilmente
sfruttati dal regime in un paese che aveva visto molti intellettuali battersi per il congiungimento della
provincia all’Italia. Tuttavia le maggiori istituzioni culturali seppero esprimere una produzione scientifica
autonoma e di notevole valore, non per merito, ma "nonostante" il fascismo. Perfino la Legione Trentina,
tutt’altro che avversa al regime, conservò sempre alla sua rivista, "Il Trentino", il tono di una dignitosa
pubblicazione divulgativa con pregevoli articoli, specie nel campo dell’arte. Influì molto sulla produzione
culturale il fatto che gl’intellettuali appartenevano ad una generazione formatasi alla scuola severa
dell’anteguerra che non intendeva dimettere i tradizionali percorsi di ricerca e di metodo.
È certo che, per assicurarsi la sopravvivenza e qualche appoggio economico, non potevano mancare gli atti
di deferenza al fascismo in occasione di pubbliche manifestazioni, ma poi, nel mondo degli studi, le uniche
ragioni valide per il sapere restavano quelle della correttezza scientifica. Questo si verificò per la Società di
Studi Trentini che, quasi chiusa in un Aventino culturale, puntò solo sulla ricerca, con compiacenze per
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l’erudizione, mantenendo vivo il gusto della produzione storica separata dalle ideologie di moda, ed
affidando i risultati scientifici alla propria rivista, alla pubblicazione di raccolte di fonti e alle monografie.
L’Accademia roveretana degli Agiati, forse perché attiva in più settori e non limitata all’asettica erudizione
storica, fu pesantemente condizionata nella vita associativa. Controllata dal ministero dell’educazione
attraverso il prefetto, venne costretta a mutare lo statuto, a ritmare gli anni accademici sul calendario fascista
e perfino, con il 1938, a rendere conto dell’appartenenza razziale dei soci e ad espellere gli ebrei. Gli studi, le
memorie e le informazioni bibliografiche apparsi sugli "Atti" accademici mantennero comunque fede alle
solide tradizioni culturali dell’istituzione.
La Società del Museo del Risorgimento, vicina alla Legione Trentina e particolarmente sensibile agli ideali
del combattentismo, si ritenne votata alla religione della patria, ma non alla retorica fascista che manipolava
le memorie storiche e le figure esemplari del passato trentino. Essa continuò la raccolta dei materiali
ostensivi, ma s’impegnò anche nella pubblicazione di studi affidati a persone di comprovate capacità. Il fatto
che i medesimi studiosi fossero, contemporaneamente, soci di Studi Trentini, dell’Accademia degli Agiati e
del Museo del Risorgimento, portava ad una fruttuosa collaborazione ed all’omogeneità della produzione,
costantemente di buona qualità scientifica.
Un notevole dinamismo presentò il Museo civico di storia naturale, diventato regionale nel 1929. Oltre ad
aumentare in modo consistente le sue collezioni, esso avviò una sostenuta opera di ricerche e di
pubblicazioni e mise in atto iniziative allora all’avanguardia per la protezione della fauna e della flora. Nel
1932 il Museo cadde sotto il controllo diretto dell’autorità fascista, ma questo, soprattutto per la disponibilità
umana dei singoli dirigenti, non compromise lo sviluppo dell’istituzione favorita, anzi, dai contributi
governativi. Per tutte le associazioni culturali del Trentino il convegno della Società italiana per il progresso
delle scienze del settembre 1930, propaganda del regime a parte, rappresentò un’importante occasione che
mise in luce, attraverso tutta una serie di interventi e di pubblicazioni, l’impegno scientifico e la serietà degli
studiosi della provincia.
Ettore Tolomei (1865-1952)
Nato a Rovereto nel 1865, fondò e diresse la “Nazione italiana” di Roma dal 1889 al 1890; fu addetto alla
direzione generale delle scuole italiane all'estero dal 1901 al 1921. Acceso nazionalista, nel 1906 fondò la
rivista storico-politica “Archivio per l’Alto Adige” dalle cui pagine diffuse l’idea della necessità di porre il
confine al Brennero, in contrasto con la maggior parte degli irredentisti, i quali mantenevano la
rivendicazione nazionale entro il confine etnico-linguistico, e che Tolomei tacciò come rinunciatari e poi
“salornisti”, poiché limitavano le rivendicazioni alla chiusa di Salorno. Durante la prima guerra mondiale
continuò la sua azione per l’italianità dell’Alto Adige e, nel 1918, divenne Commissario per l’Alto Adige a
Bolzano. Nel 1921 fondò l’Istituto di studi per l’Alto Adige e, nel 1923, divenne senatore del Regno. Con la
sua opera culturale e politica Tolomei impose la denominazione Alto Adige per il territorio della provincia
di Bolzano e questa sarà la denominazione usata negli anni del fascismo. Il suo programma di
nazionalizzazione dell’Alto Adige venne inizialmente adottato dal gran Consiglio del fascismo con voto
unanime ed entusiasta: Tolomei chiedeva di istituire un’unica provincia, Trento e Bolzano, e di nominare
segretari comunali italiani, restringendo e limitando i permessi di soggiorno dei cittadini germanici ed
austriaci, imporre l’italiano come lingua ufficiale, licenziare gli impiegati tedeschi, italianizzare tutta la
toponomastica e i cognomi germanizzati, ed altro ancora. Molte delle sue proposte trovarono applicazione,
fra queste la creazione della Provincia unica nel 1927. Nel 1943 fu deportato a Dachau da dove ritornò a
guerra ultimata. Morì a Roma il 25 maggio 1952.
Il Trentino nella seconda guerra mondiale di Maria Garbari
I disagi per una guerra considerata estranea
Allo scoppio del conflitto, iniziato dalla Germania con l’aggressione alla Polonia il 1° settembre 1939,
Mussolini aveva proclamato la non belligeranza dell’Italia; ma i trentini non si sentivano tranquilli, convinti
che l’alleanza fra Hitler e il capo del fascismo, culminata nel "patto d’acciaio" del maggio, lasciasse poco
spazio alla pace: lo confermavano le prove d’oscuramento della città di Trento, iniziate nel settembre in
previsione delle operazioni militari. Il 10 giugno 1940 la folla, radunata sulla piazza Littorio del capoluogo,
l’attuale piazza Cesare Battisti, ascoltava via radio il discorso del duce che annunciava l’entrata in guerra
dell’Italia.
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Nel paese ebbe subito inizio una massiccia mobilitazione propagandistica attraverso alcune centinaia di
conferenze promosse dall’Istituto fascista di cultura e la pressione sugli insegnanti e sulla scuola per la
conversione dei giovani al militarismo. Aumentava anche il controllo sulle opposizioni per impedire la loro
riorganizzazione, ed il clero era guardato a vista perché in sospetto di attività disfattista, tanto da costringere
don Delugan a lasciare la direzione di "Vita trentina". L’ingresso a Trento del nuovo vescovo nel giugno
1941, Carlo de Ferrari ritenuto ossequioso all’autorità costituita, solo in parte rassicurò gli esponenti del
regime di avere guadagnato il consenso della chiesa.
Il tentativo di ottenere il favore dei contadini migliorandone le condizioni economiche con il loro trapianto in
Alto Adige sui terreni lasciati liberi dagli optanti, incontrava molte difficoltà, anche per il ritardo del
trasferimento degli allogeni in Germania. Né era servito a molto l’invio di contingenti operai nelle fabbriche
del Reich dove i salari erano assai alti. Sotto la spinta della politica autarchica e della guerra che richiedeva il
rafforzamento dei ritmi produttivi, l’apparato industriale locale conosceva però un’espansione con notevole
assorbimento di manodopera fino all’azzeramento quasi totale della disoccupazione. Ma il rapido aumento
del costo della vita superava i vantaggi apportati dall’incremento del reddito e continuava a comprimere il
potere d’acquisto di salari e stipendi.
Il razionamento dei generi di prima necessità aveva creato la nascita del mercato nero, con forti contraccolpi
sui ceti meno abbienti impossibilitati a rifornirsi per vie illegali dei beni spariti o rarefatti sul mercato
ufficiale. La carenza di prodotti alimentari era aggravata inoltre dal fallimento degli ammassi ai quali, in
modo coercitivo, avrebbe dovuto confluire una percentuale delle derrate agricole. L’appello ad estendere le
coltivazioni anche nei ritagli di terreno destinati prima ad altri usi, compresi i giardini pubblici, gli "orti di
guerra", doveva tradursi in un palliativo irrilevante con esiti solo propagandistici.
L’apertura dei fronti di combattimento, quello francese durato pochi giorni ma abbastanza per mietere
vittime, quello africano e, dopo l’attacco italiano alla Grecia il 28 ottobre, quello balcanico, portò alla
mobilitazione e all’invio negli scacchieri delle operazioni militari di numerosi giovani, precettati a
sacrificarsi in una guerra poco sentita ed al fianco di un alleato non certo gradito. Particolarmente sofferto fu
l’invio di truppe alpine in Russia, destinato a finire in tragedia, un pesante tributo pagato dall’Italia al Reich
nazista dopo la rottura del patto di non aggressione firmato nel 1939 fra la Germania e l’URSS e l’invasione,
nel giugno 1941, dell’Unione Sovietica. Le ripetute sconfitte su tutti i fronti, in un primo momento riparate
dall’intervento tedesco ma poi diventate irreversibili, avevano ormai debilitato la capacità di resistenza delle
popolazioni che chiedevano solo la fine di un conflitto del quale non avevano mai inteso le ragioni ed era
stato subìto in forme rassegnate.
Dalla caduta del fascismo all'armistizio
La caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, fu salutata nel Trentino con manifestazioni di soddisfazione,
abbastanza contenute e senza forme di violenza. Il podestà di Trento, Bruno Mendini, venne sostituito con il
commissario prefettizio Gilberto Mazzanti e, al posto del prefetto Foschi, si ebbe la nomina di Tommaso
Pavone. Le autorità locali, preoccupate di mantenere l’ordine pubblico tanto da istituire il coprifuoco,
vigilavano perché continuasse la normalità dei rapporti pubblici e privati, ma questo non impedì che già il 26
luglio s’incontrassero gli esponenti delle forze antifasciste per progettare una serie di iniziative da far
pervenire anche a Roma.
La fine del regime, nell’intero paese, venne identificata con la speranza che potesse cessare il centralismo
della capitale per fare ritorno al decentramento, all’autonomia, alla ricostituzione del precedente tessuto
organizzativo civile ed economico, ossia alle istituzioni che avevano garantito la libertà. Quest’ansia di
cambiamento, nonostante i limiti della censura ancora in vita, trovò espressione sulle pagine de "Il
Brennero", affidato il 3 agosto alla direzione del liberale Gino Marzani. Gli articoli pubblicati e le numerose
lettere inviate alla redazione da parte di note figure dei disciolti partiti, da uomini di cultura e da molti
cittadini qualsiasi, erano legati da un filo conduttore comune: rimuovere la soffocante burocrazia e cancellare
il malgoverno per riconsegnare alle popolazioni la gestione diretta dei loro interessi attraverso la rinascita
dell’autonomia provinciale e comunale.
L’euforia per la liberazione dal fascismo era però compromessa dall’incubo della presenza nazista, sempre
più massiccia e poco compatibile con lo spirito dell’alleanza italo-tedesca ancora in vita. Per quanto
Badoglio avesse dichiarato la continuazione della guerra, alla Germania era ben chiaro che il nuovo governo
si apprestava a trattare la resa con le potenze alleate e, se continuava il gioco della collaborazione, era solo
per attestarsi saldamente sul suolo italiano. Le truppe tedesche, anziché limitarsi a scorrere sull’asse del
Brennero per raggiungere il fronte di combattimento, cominciarono ad insinuarsi nelle valli e a stabilirsi
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nelle località strategicamente importanti, oltre che sui valichi alpini. Il generale Alessandro Gloria,
comandante delle divisioni dislocate al confine, fece più tentativi per impedire quella che ormai era una
palese occupazione, ma senza riuscire ad opporsi all’esercito nazista, determinato a ricorrere perfino alla
forza. La gravità della situazione era ben chiara al Comando dell’Arma dei carabinieri di Trento che teneva
sotto controllo il transito delle truppe e degli armamenti tedeschi; si sapeva perfino che il generale
Kesselring, in una riunione tenuta il 3 settembre ad Egna, aveva annunciato l’imminente occupazione della
regione.
Il 2 settembre Bolzano e Trento vennero colpite dal primo, gravissimo bombardamento, che portò a ingenti
devastazioni del tessuto abitativo e viario ed a numerosi morti ( 223 a Trento). La tragedia dei sinistrati che
fuggivano dalla città alimentava l’avversione alla guerra ed il senso di generale disfacimento. In questo clima
giunse la notizia dell’armistizio italiano, comunicata l’8 settembre, destinata a costituire il prologo di un
dramma dopo la breve illusione che fossero giunti la pace e la normalizzazione. Le prime ore della notte
trascorsero tranquille, ma verso le tre del giorno 9 cominciarono le operazioni dell’attacco tedesco dopo
l’eliminazione dei soldati incaricati del turno di guardia alle caserme e agli uffici pubblici. L’assalto,
compiuto con un consistente numero di uomini e di carri armati, colse di sorpresa le forze italiane; i militari
cercarono di contrastare con coraggio l’aggressione, ma ogni azione risultava disperata di fronte alle armi
dell’ex alleato. Dopo poche ore di lotta la resistenza era costata 48 morti e oltre 200 feriti; i militari sfuggiti
cercavano di guadagnare le montagne ed i catturati venivano ammassati provvisoriamente in un campo di
concentramento allestito a Gardolo. Il Trentino era ormai interamente caduto in mani naziste.
I venti mesi dell'Alpenvorland
Con ordinanza di Hitler del 10 settembre 1943 venivano costituite le due zone d’operazione Prealpi
(Alpenvorland con le province di Bolzano, Trento e Belluno) e Litorale adriatico (Adriatisches Küstenland).
L’Alpenvorland, affidata al Gauleiter del Tirolo Franz Hofer in qualità di commissario supremo, di fatto
veniva eretta a provincia del Reich, con sospensione sul suo territorio della sovranità della Repubblica
sociale italiana (RSI), costituita dopo la liberazione di Mussolini dalla prigione del Gran Sasso.
L’annessione alla Germania, per quanto mai formalizzata ufficialmente, risultava da alcuni elementi
inequivocabili: l’amministrazione civile passava alle dirette dipendenze del governo nazista; venivano
riformate le circoscrizioni comunali e quelle delle preture e dei tribunali; la Corte d’Appello di Trento era
staccata da Venezia ed a Bolzano veniva istituito un Tribunale speciale che applicava le norme del diritto
germanico e che, potendo avocare a sé ogni procedimento penale e civile, diventava supremo organo di
giurisdizione; le forze militari della RSI erano escluse dall’Alpenvorland nel quale risultava vietata la
ricostituzione del partito fascista e dove era permesso entrare solo se forniti di un permesso.
Nell’Alto Adige la costituzione dell’Alpenvorland poteva raccogliere consensi in quanto reintegrava i
tedeschi dei diritti negati nell’età fascista. Nel Trentino, avverso al cessato regime, poteva essere gradita la
separazione dalla RSI, ma non l’occupazione nazista che, oltretutto, mal si conciliava con l’italianità e, per
taluni, con il passato risorgimentale del paese. Le popolazioni, disorientate dall’accaduto e nelle condizioni
di non potersi opporre, scelsero un atteggiamento di chiusura e di difesa in modo da salvare il salvabile in
attesa degli eventi. Franz Hofer, consapevole di questa situazione, cercò di guadagnare il consenso trentino
offrendo un simulacro d’autonomia. Il 17 settembre chiamò a raccolta gli uomini più rappresentativi della
provincia, compresi gli antifascisti, affidando ad essi il compito di nominare un commissario-prefetto. La
scelta unanime cadde sull’avvocato Adolfo de Bertolini, apprezzato da tutti per serietà professionale,
coerente e radicato antifascismo, aderenze alle istanze autonomistiche; al suo fianco venne però posto
d’autorità il consigliere Kurt Heinricher con l’incarico di controllare e comprimere in forme coattive lo
spazio decisionale del commissario-prefetto.
Il de Bertolini accettò l’ingrata nomina solo per tutelare la popolazione dai disastri della guerra e dalle
rappresaglie dei tedeschi, sopportando disagi, crucci e rischi personali legati a scelte mai accompagnate da
certezze; si convinse anche a ritirare la decisione di dimettersi dopo la strage operata dai nazisti nel basso
Sarca nel giugno 1944. Egli chiese ed ottenne di mantenere in vita il corpo dei carabinieri – quasi un
cuscinetto difensivo posto fra gli occupati e gli occupanti – instaurando una fattiva collaborazione con il
comandante col. Michele de Finis. Entrambi furono consapevoli della difficoltà del loro compito, destinato
ad incontrare comunque, accanto ai consensi, critiche per i bei gesti mancati sostituiti dal grigio lavoro di
mediazione, privo della luce dell’eroismo, ma altrettanto faticoso, sofferto e necessario.
Le ordinanze del novembre 1943 e del gennaio 1944 precettavano al servizio militare prima i giovani delle
classi 1924-1925 e poi tutti i nati fra il 1894 e il 1926. Il servizio obbligatorio, una volta scoraggiato quello
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nei reparti della RSI che era teoricamente ammesso, andava effettuato o nell’esercito regolare tedesco o nel
Corpo di sicurezza trentino (CST). Tale Corpo avrebbe dovuto essere impiegato solo in loco per la tutela
dell’ordine pubblico ma, contrariamente alle assicurazioni date, venne adibito anche a operazioni militari
nella lotta antipartigiana. Il deterrente della pena di morte e dell’arresto dei congiunti, in base al diritto
penale germanico, contenne le defezioni e convinse molti giovani, compresi gli imboscati dopo il
disfacimento dell’esercito italiano, ad arruolarsi nel CST considerato il male minore.
L'occupazione nazista e le popolazioni civili
Le popolazioni civili conobbero ben presto le conseguenze del regime nazista attraverso i provvedimenti che
colpivano i beni e le persone. Un’ordinanza dell’ottobre 1943 obbligava alla cessione, in base alle necessità
militari, delle case d’abitazione, di materiali da costruzione, mezzi di locomozione, animali, foraggi, perfino
delle stoviglie e degli utensili di cucina. Subito dopo avvenne la precettazione al lavoro per tutti gli uomini
dai 16 ai 60 anni e delle donne dai 18 ai 45, con esonero per gli addetti a tempo pieno nell’agricoltura, per le
gestanti e le madri di figli non ancora in età scolare.
Questa ordinanza aveva pesanti contraccolpi sull’economia togliendo braccia ai tradizionali comparti di
produzione.L’inquadramento dei lavoratori avveniva soprattutto nella Organisation Todt (OT), addetta alle
fortificazioni ed alla riparazione dei danni causati dai bombardamenti a strade, ferrovie e ponti. L’intento di
controllare l’intero settore economico portava alla creazione di una struttura articolata negli uffici del lavoro,
dell’industria, dell’agricoltura ed alimentazione e del credito, con l’imposizione di commissari gerenti a capo
delle imprese. La paziente opera del de Bertolini riuscì a fare in modo che il numero maggiore dei
commissari fosse della provincia ed anche che il reclutamento dei lavoratori si mantenesse in forme non
eccessive, almeno fino a quando la Germania non tentò con ogni mezzo di evitare la ormai prevedibile
sconfitta.
A cominciare dal bombardamento del 2 settembre 1943 e fino alla conclusione del conflitto, nel Trentino si
verificarono 591 incursioni aeree, fra le quali 30 compiute a ondate successive che, intervenendo "a tappeto",
operavano distruzioni pressoché totali. Le aree ripetutamente prese di mira erano quelle della valle
dell’Adige dove passava la ferrovia, ma le bombe vennero sganciate sull’intera provincia colpendo 91
località. I cittadini, per la perdita della casa e dei beni o per precauzione erano costretti allo sfollamento,
spostando con grandi disagi la loro residenza dai centri alla periferia dove si tentava di ricostituire il tessuto
sociale e quello scolastico, indispensabile per i giovani. I luoghi colpiti dai bombardamenti erano gravati dal
problema dello sgombero delle macerie, del ripristino delle vie e degli argini dei fiumi ed anche dal porre
blocchi per evitare i furti.
Nel Trentino i generi di prima necessità, ed in particolare quelli alimentari, subirono restrizioni e carenze ma
non mancarono mai completamente. Fu lo stesso Hofer ad intervenire perché derrate di una certa consistenza
venissero importate dalla Germania per fare fronte ai bisogni più impellenti delle popolazioni al fine di
mantenere la tranquillità ed evitare le cause di tensione sociale. Giovò molto anche l’incisiva azione dei
carabinieri rivolta a combattere il mercato nero, la sottrazione dei prodotti alimentari, del legname e del
bestiame, ed a rendere esecutivo l’obbligo degli ammassi. Per quanto in un contesto di devastazioni, lutti,
dilacerazioni e sofferenze, nella provincia la vita continuava svolgendosi in forme quasi ovattate o
rinunciatarie, come se tutto si fosse assopito in attesa che gli eventi si chiarissero e, nel frattempo, si potesse
sfuggire alla catastrofe.
La resistenza
Il fenomeno resistenziale nel Trentino fu abbastanza contenuto, non privo di personalità di spicco e di
episodi rilevanti, ma mancante di organizzazione unitaria. L’attività partigiana risultò più incisiva dove si
appoggiava a formazioni operanti fuori provincia come quelle del vicentino e del bellunese che estendevano
la loro azione oltre i confini. Zone di attività cospirativa furono il basso Sarca, l’area di Fiemme, la valle di
Non, Trento e dintorni, il Tesino, l’altopiano di Folgaria.
Poco dopo la costituzione dell’Alpenvorland, aveva preso vita il Comitato di liberazione nazionale di Trento
con la presenza di Giannantonio Manci, Egidio Bacchi e Guido Pancheri, tutti d’indirizzo socialista, Guido
de Unterrichter, cattolico, Beppino Disertori, repubblicano e Giuseppe Ottolini, comunista. Il Comitato, in
rapporto con il CLN Alta Italia, composto da uomini di notevole preparazione politica e dottrinale (nel
febbraio 1944 usciva il "Manifesto del movimento socialista trentino" con un solido programma per la
ricostruzione democratica), incontrò difficoltà nel dare un coordinamento organico al movimento di
opposizione ed alla resistenza armata, destinata a risolversi in iniziative isolate di disturbo e sabotaggio.
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Nel maggio 1944 avveniva un’azione di rastrellamento da parte delle SS nell’area Predazzo – valle di
Cembra – val Calamento con la cattura di alcuni partigiani. L’operazione più massiccia era però rivolta alla
zona del basso Sarca dove, il 28 giugno, venivano trucidati 11 militanti nella resistenza. Subito dopo, a
Trento, erano arrestati alcuni elementi di punta del CLN, fra i quali Giannantonio Manci, suicidatosi per non
tradire i compagni sotto interrogatorio. Solo nell’autunno il CLN provinciale riuscì a ricostituirsi, ma
rimanendo travagliato dai problemi sorti dalle diverse posizioni ideologiche e tattiche dei rappresentanti i
partiti. Le repressioni più violente da parte nazista si ebbero, nella seconda metà del 1944, con l’eccidio di
malga Zonta nell’altopiano di Folgaria (12 agosto); nel Tesino (novembre 1944 – inizi 1945) dove il forte
movimento di resistenza venne stroncato da rastrellamenti seguiti da arresti e fucilazioni che portarono alla
morte anche di due donne, Clorinda Menguzzato e Ancilla Marighetto; con gli interventi in valle di Fiemme
(novembre) e nella zona di Pinè (dicembre).
Nelle popolazioni l’attività dei partigiani suscitò più apprensioni e timori per le possibili rappresaglie che
consensi: l’atteggiamento generalizzato rimase quello di sfuggire all’assunzione di scelte rischiose, trovando
rifugio sotto lo scudo protettivo eretto dal commissario – prefetto.
Proclamata l’insurrezione generale del 25 aprile 1945 che avrebbe portato alla resa delle armate tedesche in
Italia, anche i partigiani del Trentino si sollevarono per liberare il paese dall’occupazione nazista. Il compito
di recarsi presso le autorità germaniche con la richiesta della cessione dei poteri civili spettò, su delega
dell’infermo de Bertolini, al colonnello de Finis accompagnato dal vice prefetto Meneguzzer. Dopo il primo
netto rifiuto, il colonnello dei carabinieri tornava con l’arcivescovo Carlo de Ferrari chiedendo anche la
tutela dei cittadini e delle opere pubbliche ed ottenendo, alla fine di difficili e reiterate insistenze, il trapasso
dei poteri e l’assicurazione di una ritirata senza violenze. Purtroppo, nonostante il servizio d’ordine e
l’impegno da entrambe le parti di astenersi da atti aggressivi, il 2-4 maggio, a guerra ormai finita, uno
scontro fra partigiani e tedeschi portava agli eccidi ed alle rappresaglie di Castello di Fiemme, Ziano,
Stramentizzo e Molina dove persero la vita una cinquantina di civili.
Dal termine del conflitto allo Statuto d'autonomia di Maria Garbari
La ripresa della vita politica e le istanze autonomistiche
Finite le ostilità, il CLN provinciale presieduto da Giovanni Gozzer si assunse, come in tutte le province
italiane liberate, il compito di dare una prima intelaiatura politico - amministrativa al paese: la carica di
prefetto venne assegnata al comunista Giuseppe Ottolini, questore divenne Ivo Perini del Partito d’azione, a
capo della Deputazione provinciale fu collocato il democristiano Pietro Romani, a sindaco di Trento venne
chiamato il socialista Gigino Battisti e tutti gli altri incarichi di responsabilità furono distribuiti tra i
rappresentanti dei partiti antifascisti. Con l’entrata in Trento delle truppe americane, il 4 maggio,
l’amministrazione passava nelle mani della Commissione alleata che non fu troppo drastica nel contenere o
mutare le nomine effettuate dal CLN. Solo con il 1° gennaio 1946 all’amministrazione alleata subentrava
quella italiana, sia nel Trentino che nell’Alto Adige le cui sorti risultavano però ancora incerte.
L’avvio della vita politica nel nuovo clima di libertà fu contrassegnato dalla riorganizzazione dei partiti ed
anche da una richiesta generalizzata e così estesa da assumere il carattere di un pronunciamento popolare:
quella della separazione dei comuni aggregati dal fascismo e del ritorno alla loro autonomia. L’urgenza di
tale richiesta, precedente addirittura a quella dell’autonomia per l’intero paese, nasceva dalla convinzione
che bastasse rimettere in piedi gli ordinamenti cancellati dal regime. Domande di separazione dei comuni
cominciarono a giungere fin dal maggio 1945 al CLN provinciale e, successivamente, alla prefettura, in un
crescendo senza sosta fino a raggiungere, nella primavera del 1946, la somma di 205, alcune cumulative di
più frazioni. Nella sostanza non vi era sobborgo o minimo aggregato urbano che non chiedesse di costituirsi
in comune autonomo azzerando le manipolazioni apportate dal fascismo.
Con altrettanta urgenza s’impose la questione dell’autonomia per tutto il paese, posta al vertice dei
programmi di ogni partito, tenuta viva nei dibattiti politici, sulla stampa, negli incontri con il pubblico.
Nell’estate 1945 il CLN provinciale costituiva un Centro studi per l’autonomia affidando all’avvocato
liberale Francesco Menestrina, persona di grande competenza, l’incarico di stendere un progetto di statuto.
Agli inizi di agosto una delegazione del CLN accompagnata dal prefetto e dal sindaco di Trento presentava a
Parri, allora a capo del governo, un ordine del giorno concernente l’autonomia; l’accoglimento della richiesta
dava il via ai lavori per la preparazione di uno schema di statuto, reso pubblico il 25 novembre sulle pagine
di "Liberazione nazionale", organo di stampa del CLN.
Accanto a questo progetto presero corpo numerose altre iniziative, proposte e progetti elaborati ad opera di
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partiti, movimenti, singole personalità; fra i primi si collocavano quelli del Partito d’azione e di Enrico
Conci, seguiti da quelli del Movimento autonomista regionale (MAR) e del prefetto di Bolzano, Silvio
Innocenti, quest’ultimo steso su incarico del governo. Iniziava pure la sua attività l’Associazione studi
autonomia regionale (ASAR), un movimento nato nell’agosto 1945 e subito fornito di una larghissima base
di consenso popolare. Nella presunzione che l’Alto Adige sarebbe rimasto all’Italia, per tutti i progetti il
quadro territoriale dell’autonomia era dato dalla regione all’interno della quale la tutela della comunità
sudtirolese veniva affidata ad un impianto giuridico – istituzionale inteso a non creare steccati fra i due
gruppi etnici. I progetti si differenziavano invece per le ideologie in essi riflesse che andavano
dall’identificazione tra democrazia ed autogoverno fino al conservatorismo politico e sociale di stampo
nostalgico.
Il dibattito sull’autonomia regionale s’intrecciava con quello sulla separazione dei comuni – con particolare
incisività presso il consiglio comunale di Trento dove era in gioco il distacco delle frazioni – ed aveva
riflessi sull’indizione delle elezioni amministrative, necessarie per normalizzare la vita comunale. Il timore
era infatti che l’andata alle urne costituisse un atto di acquiescenza alla situazione esistente e potesse
pregiudicare l’esito positivo delle domande di separazione. Le assicurazioni date dal ministero dell’interno
sull’accoglimento delle richieste, purché suffragate dalla dimostrazione che i ricostituiti comuni potevano
contare su una solida base patrimoniale, fecero sì che nelle tornate elettorali amministrative del marzo-aprile
e dell’ottobre-dicembre 1946 non vi fossero astensioni in segno di protesta, tranne che nella zona mistilingue
intenzionata a staccarsi dalla provincia di Trento.
Le consultazioni del 2 giugno 1946 per il referendum istituzionale e le elezioni per la Costituente
registrarono una massiccia partecipazione attestata al 91%. I risultati misero in luce la reale consistenza
numerica dei diversi partiti politici: la DC, con 129.321 voti (57,41%) appariva la forza di maggioranza
seguita dai socialisti (27,69%), dai comunisti (8,11%) e dagli azionisti-repubblicani (4,87%). Alla
Costituente vennero eletti i democristiani Alcide Degasperi, Luigi Carbonari, Elsa Conci ed il socialista
Gigino Battisti. Il referendum vide l’85% dei suffragi favorevoli alla repubblica, la più alta percentuale
registrata in Italia dove, a differenza del Trentino, la scelta accordata alle istituzioni repubblicane correva in
parallelo con quella per lo schieramento di sinistra. Era il segno evidente delle delusioni provate dalla
provincia dopo la sua annessione al regno.
Alcide Degasperi
Nato a Pieve Tesino nel 1881 da una famiglia di umili origini e profondamente cattolica, studiò a Trento nel
collegio vescovile. Frequentò i corsi di filosofia dell’Università di Vienna, dove venne a contatto con il
movimento cristiano-sociale di Karl Lueger e fece opera di proselitismo presso gli ambienti operai
dell’emigrazione trentina. Lo sviluppo del movimento cattolico trentino fu il centro dei suoi interessi
giovanili: entrò nella direzione dell’Unione politica popolare per il Trentino, che tenne il suo congresso nel
1904 e il vescovo Endrici lo chiamò a sostituire mons. Guido de Gentili nella direzione de “La Voce
cattolica”, che in seguito divenne “Il Trentino”. In questo periodo la posizione di Degasperi sul problema
nazionale si atteneva alla formula “nazionalismo positivo”, che significava difesa dei diritti della
nazionalità all’interno delle strutture dello stato austriaco. Nello stesso anno fu coinvolto negli scontri di
Innsbruck tra studenti italiani e studenti tedeschi e venne arrestato assieme a Cesare Battisti.
Il partito popolare trentino vinse con una grande maggioranza le elezioni politiche del 14 maggio 1907. Nel
1911 Degasperi fu eletto deputato al parlamento di Vienna. In occasione dello scoppio della guerra si
dichiarò neutrale. Guidò la delegazione trentina al primo congresso, svoltosi a Bologna nel 1919, del Partito
popolare di Sturzo. All’avvento del fascismo, fu tra coloro che erano favorevoli ad una collaborazione con
il partito fascista: infatti i popolari entrarono nel primo governo Mussolini, ma ben presto, anche in seguito
al delitto Matteotti, Mussolini scaricò i popolari, i quali presero parte all'Aventino. Dopo il fallito attentato
di Zaniboni a Mussolini, Degasperi venne arrestato in treno a Firenze e, processato per tentato espatrio
clandestino, fu condannato a quattro anni, di cui scontò sedici mesi. Negli anni della guerra si mosse per
ricostruire un partito dei cattolici col nome di Democrazia Cristiana, avvicinandosi anche ai gruppi
dell’Azione cattolica. Dopo la caduta del fascismo fu tra i maggiori esponenti del Comitato di Liberazione
Nazionale e nel giugno del 1944 entrò a far parte, assieme a Palmiro Togliatti, del governo Bonomi. Al
termine della seconda guerra mondiale Degasperi si occupò della questione dell’autonomia e il 5 settembre
1946 venne sottoscritto l’accordo Degasperi-Gruber, un trattato con cui si stabilivano pari diritti per gli
abitanti di lingua tedesca e quelli di lingua italiana della Regione.
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La schiacciante vittoria della DC nelle elezioni del 18 aprile 1948 mutò i presupposti politici della strategia
di Degasperi che si trovò ad affrontare il problema del nuovo ruolo del partito. Dal 15 dicembre 1945 al
luglio del 1953 tenne ininterrottamente la presidenza del Consiglio dei ministri, guidando otto governi;
assunse poi la segreteria della DC.
Degasperi morì a Borgo Valsugana nel 1954.
L'accordo Degasperi - Gruber e l'autonomia regionale
Alcide Degasperi, ministro degli esteri nel governo Parri e, dal dicembre 1945, presidente del consiglio dei
ministri con conservazione degli esteri, era consapevole come la questione dell’autonomia si congiungeva
alla vertenza sull’Alto Adige e che questa costituiva un problema internazionale, legato agli equilibri fra le
grandi potenze, dove all’Italia era riservato un minimo spazio decisionale. Il 14 settembre 1945, durante la
prima sessione del Consiglio dei ministri degli esteri delle quattro potenze vincitrici (USA, URSS, Gran
Bretagna e Francia), convocato a Londra per la stesura dei trattati di pace, venne accolta la proposta degli
Stati Uniti di mantenere immutato il confine del Brennero, salve minori rettifiche che l’Austria avrebbe
potuto chiedere in suo favore. Solo il 24 giugno 1946 il Consiglio, valutate le richieste austriache e i
memoranda italiani, chiudeva la questione dei confini assegnando l’intero Alto Adige all’Italia.
Sulla base della risoluzione del 24 giugno, che cancellava l’ipotesi di autodeterminazione del gruppo
sudtirolese, l’Italia e l’Austria, sollecitate anche dalle grandi potenze, cercarono di giungere ad un accordo.
Ad esso erano favorevoli Alcide Degasperi che, fin dal 1945, aveva promosso diversi interventi legislativi
per reintegrare i sudtirolesi dei loro diritti e dato assicurazioni sull’autonomia, e Karl Gruber, ministro degli
esteri austriaco. La composizione della vertenza non si presentava però facile, perché l’Austria domandava
l’autonomia garantita internazionalmente solo per l’Alto Adige. Le richieste autonomistiche del Trentino,
poco recepibili dagli stati vincitori, risultavano estranee anche al mai dimesso centralismo romano che
acconsentiva ad accettarle solo nell’ottica della costituzione di un quadro regionale a maggioranza italiana,
dove poter controllare la minoranza tedesca.
Degasperi si trovò di fronte al duplice problema di rendere giustizia al gruppo sudtirolese, appianando una
vertenza internazionale, ed al Trentino con la concessione di quell’autonomia che, sempre chiesta e mai
ottenuta, aveva sperimentato nel passato solo nel nesso con la provincia tirolese. I colloqui per l’intesa,
compiuti dal rappresentante italiano a Londra Nicolò Carandini, ma costantemente seguiti da Degasperi, e
dal ministro Gruber, partivano da proposte assai distanti fra di loro. Ma la buona volontà e la correttezza dei
protagonisti degli incontri, sinceramente interessati a giungere ad una soluzione positiva, portò, dopo una
laboriosa revisione dei testi preparati dalle due parti, all’accordo di Parigi del 5 settembre 1946. Il testo
dell’accordo venne comunicato alla Conferenza della pace dove le potenze vincitrici alleate e associate ne
prendevano atto, compiacendosi del modo con il quale era stata risolta una questione riguardante un gruppo
minoritario; esso venne poi inserito in qualità di allegato nel trattato di pace con l’Italia del 10 febbraio 1947.
Il quadro (frame nel testo ufficiale steso in lingua inglese) dell’autonomia, per quanto non direttamente
specificato, sarebbe sfociato in un ambito regionale, accettato da Gruber dopo riserve e perplessità, superate
dalla fiducia nella collaborazione fra trentini e sudtirolesi. L’attuazione dell’accordo Degasperi – Gruber
avrebbe sancito quindi e garantito anche l’autonomia trentina nel quadro della regione.
La decisione di mantenere il confine al Brennero e, nel settembre, l’accordo Degasperi-Gruber, diedero
nuovo slancio ai progetti autonomistici. Preso atto delle critiche allo schema steso da Innocenti e conosciuto
quello dell’ASAR del luglio 1946, inteso a svuotare al massimo le competenze dello stato, il governo
presentò un secondo progetto Innocenti sottoponendolo ai partiti della regione: esso venne però respinto da
ASAR, Volkspartei (SVP), socialisti e comunisti. Nel maggio fu presentato il progetto della SVP nel quale le
due province di Trento e Bolzano erano erette in regioni autonome, ognuna con potere legislativo esclusivo
in tutte le materie non riservate alle competenze dello stato. Contemporaneamente l’ASAR varava un
secondo progetto dove, ancora più accentuatamente rispetto al primo, venivano rivendicati alla regione
amplissimi poteri, facoltà e competenze. Lo zelo autonomistico aveva ormai guadagnato tutti i partiti,
compresi quelli a vocazione centralista che, per non perdere l’elettorato locale, dovevano farsi paladini di tesi
poco recepite nelle loro direzioni nazionali.
La constatata impossibilità di giungere ad un accordo tra le forze della regione per l’abbozzo di un progetto
condiviso da tutti, portò alla nomina da parte del governo di una commissione di sette esperti, sotto la
presidenza di Ivanoe Bonomi, con l’incarico di stendere uno schema di statuto. Nel novembre 1947, quando
già la Costituente aveva approvato l’articolo 116 della costituzione che istituiva cinque regioni con speciale
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autonomia, la bozza di statuto elaborata dalla commissione venne sottoposta ai partiti. La reazione fu
piuttosto dura: solo la DC ed i liberali risposero con parecchie proposte di modifica, mentre le altre forze la
respinsero in blocco. Il tentativo compiuto nella capitale di comporre la frattura con la SVP portò ad
accettare alcune osservazioni, mutamenti ed introduzioni fra quelli chiesti da una delegazione dei maggiori
esponenti sudtirolesi. Finalmente il testo dello statuto, approdato alla Costituente, venne discusso ed
approvato il 29 gennaio 1948, diventando la legge costituzionale n. 5 promulgata il 26 febbraio 1948. Si
apriva, in questo modo e dopo tante attese, la stagione autonomistica del Trentino nel quadro della regione.
L'Accordo di Parigi prevede all'art. 1 la completa eguaglianza di diritti degli "abitanti di lingua tedesca della
provincia di Bolzano e di quelli dei vicini comuni bilingui della provincia di Trento rispetto agli abitanti di
lingua italiana" nel quadro delle disposizioni speciali destinate a salvaguardare il carattere etnico e lo
sviluppo culturale ed economico del gruppo di lingua tedesca. In particolare l'art. 1 garantisce ai cittadini di
lingua tedesca l'insegnamento nella loro lingua materna, l'equiparazione della lingua tedesca alla lingua
italiana nelle pubbliche amministrazioni, nella nomenclatura topografica bilingue, il ripristino dei nomi di
famiglia tedeschi che siano stati italianizzati nonché la parità di diritti nell'accesso a pubblici uffici allo
scopo di attuare una più soddisfacente distribuzione degli impieghi tra i gruppi etnici ("appropriate
proportion of employment").
L'art. 2 riconosce "alle popolazioni delle zone sopradette l'esercizio di un potere legislativo ed esecutivo
regionale autonomo", sancendo quindi la vera autonomia per la provincia di Bolzano e per "i vicini comuni
bilingui della provincia di Trento". Allora facevano parte della provincia di Trento anche i vicini comuni
bilingui della Bassa Atesina e della Valle di Non, ai quali, secondo l'interpretazione dei sudtirolesi, si
faceva riferimento.
Con l'art. 3 il Governo italiano s'impegna, previe consultazioni con il Governo austriaco, a rivedere il
regime delle opzioni di cittadinanza, a concludere accordi per il reciproco riconoscimento dei titoli di
studio, a facilitare il libero transito di passeggeri e merci nonché un più esteso traffico di frontiera.
A quel tempo, parti della popolazione del Tirolo e del Sudtirolo reagirono con grande delusione ai risultati
delle trattative di Parigi ed a questo accordo, che indirettamente significava l'approvazione dell'annessione
del Sudtirolo all'Italia.Solo la storia potrà giudicare se fu giusto o meno approvare questo accordo; certo è
che l'Accordo di Parigi garantisce oggi l'autonomia amministrativa e legislativa, promuovendo la tutela
delle minoranze e la collaborazione dei gruppi etnici. All'Accordo Degasperi-Gruber fa esplicito
riferimento la cosidetta "quietanza liberatoria" alla base della quale nel giugno 1992 è stata dichiarata
conclusa la vicenda della questione sudtirolese aperta davanti all'ONU nel 1960.
Testo dell’Accordo di Parigi nella versione italiana
1. Gli abitanti di lingua tedesca della provincia di Bolzano e quelli dei vicini comuni bilingui della
provincia di Trento, godranno di completa eguaglianza di diritti rispetto agli abitanti di lingua italiana, nel
quadro delle disposizioni speciali destinate a salvaguardare il carattere etnico e lo sviluppo culturale ed
economico del gruppo di lingua tedesca.
In conformità ai provvedimenti legislativi già emanati od emanandi, ai cittadini di lingua tedesca sarà
specialmente concesso:
a) l’insegnamento primario e secondario nella loro lingua materna;
b) l’uso, su di una base di parità, della lingua tedesca e della lingua italiana nelle pubbliche
amministrazioni, nei documenti ufficiali, come pure nella nomenclatura topografica bilingue;
c) il diritto di ristabilire i nomi di famiglia tedeschi che siano stati italianizzati nel corso degli ultimi anni;
d) l’eguaglianza di diritti per l’ammissione a pubblici uffici, allo scopo di attuare una più soddisfacente
distribuzione degli impieghi tra i due gruppi etnici.
2. Alle popolazioni delle zone sopraddette sarà concesso l’esercizio di un potere legislativo ed esecutivo
autonomo, nell’ambito delle zone stesse. Il quadro nel quale detta autonomia sarà applicata sarà
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determinato, consultando anche elementi locali rappresentanti la popolazione di lingua tedesca. 3. Il
Governo italiano, allo scopo di stabilire relazioni di buon vicinato tra l’Austria e l’Italia, s’impegna, dopo
essersi consultato con il Governo austriaco, ed entro un anno dalla firma del presente Trattato:
a) a rivedere, in uno spirito di equità e di comprensione, il regime delle opzioni di cittadinanza, quale risulta
dagli accordi Hitler-Mussolini del 1939;
b) a concludere un accordo per il reciproco riconoscimento della validità di alcuni titoli di studio e diplomi
universitari;
c) ad approntare una convenzione per il libero transito dei passeggeri e delle merci tra il Tirolo
settentrionale e il Tirolo orientale, sia per ferrovia che, nella misura più larga possibile, per strada;
d) a concludere accordi speciali tendenti a facilitare un più esteso traffico di frontiera e scambi locali di
determinati quantitativi di prodotti e di merci tipiche tra l’Austria e l’Italia.
Il secondo dopoguerra e l'autonomia trentina di Armando Vadagnini
Gli esordi dell'autonomia regionale
L’approvazione dello statuto di autonomia per la Regione Trentino-Alto Adige venne accolta in Trentino
senza trionfalismi. Tutti i partiti locali e l’opinione pubblica, con toni più o meno accentuati, sottolinearono
l’importanza dell’avvenimento, pur nella consapevolezza che da quel momento sarebbe iniziato un periodo
di notevole impegno e di forte responsabilità per tradurre sul piano concreto l’autonomia appena conquistata.
Trascorsi alcuni mesi in cui prevalse l’attenzione per i fatti nazionali, il 28 novembre si tennero le prime
elezioni regionali, che videro in Trentino il successo della Democrazia Cristiana (57,64%) seguita dal Partito
Popolare Trentino Tirolese (16,83%), una formazione politica nuova, nata nel luglio precedente dalla
spaccatura interna del movimento asarino.
Il 13 dicembre si svolse la prima seduta del Consiglio regionale. Luigi Menapace (DC) venne eletto
presidente dell’assemblea, mentre Silvius Magnago, uomo nuovo della Volkspartei, ricoprì l’incarico della
vicepresidenza. I discorsi quel giorno furono brevi, ma carichi di tensione ideale e di buoni propositi.
Menapace ribadì più volte che il successo dell’esperienza autonomistica si sarebbe giocato sul rispetto
reciproco e la collaborazione tra i gruppi linguistici presenti nella regione, richiamando una frase di
Degasperi che aveva citato la Svizzera come modello da imitare. Gli fece eco Magnago, che molto
schiettamente si dichiarò disponibile alla collaborazione, purchè si facesse poca o nessuna politica, ma solo
molta e buona amministrazione. "Wenig oder gar kein Politik, also viel, sehr viel Verwaltung und gute
Verwaltung", disse parlando in tedesco.
L'impegno della Giunta regionale nell'opera di ricostruzione
Il periodo successivo al secondo conflitto mondiale rappresenta per l’Italia un momento storico di grande
importanza e vitalità. Da paese sconfitto, da nazione lacerata al proprio interno e con scarso prestigio sul
piano internazionale, l’Italia riuscì in poco tempo a impostare validi piani di ricostruzione e a rientrare nel
gioco diplomatico dell’Occidente, mentre sul terreno economico le riforme ispirate al criterio neoliberista
della coppia di governo Degasperi-Einaudi (il primo presidente del Consiglio per quasi otto anni, il secondo
ministro del Bilancio per tre anni) favorirono la ripresa, sicché già nel 1951, come ricorda l’esperto di storia
economica, Giancarlo Galli, l’Italia riuscirà a recuperare il livello di reddito pro capite e un certo benessere
diffuso che esistevano nel periodo prebellico, non solo prima dei paesi sconfitti come la Germania e il
Giappone, ma perfino di altri paesi avanzati quali la Francia e la Gran Bretagna.
Anche nel Trentino, dopo l’approvazione del primo statuto dell’autonomia regionale, la ripresa economica
venne appoggiata dall’ente pubblico. La prima Giunta regionale, nata nel gennaio del 1949, era composta da
rappresentanti della Democrazia Cristiana trentina e della Volkspartei di Bolzano. Il presidente, Tullio
Odorizzi, si mise subito al lavoro per favorire lo sviluppo economico e sociale di una regione ancora per
molti aspetti arretrata. Senza partire da studi teorici di programmazione, si puntò essenzialmente ad
impiegare le risorse offerte dall’autonomia per accelerare i lavori della ricostruzione, appoggiando le piccole
iniziative dei paesi, soprattutto nel settore agricolo, dove vennero creati o rimessi in funzione caseifici
sociali, magazzini di frutta, cantine cooperative e altre forme di attività economica, per dare alla popolazione
quel sostegno immediato di cui aveva bisogno. In seguito vennero realizzate anche opere di maggiore rilievo,
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tra le quali merita un accenno particolare l’Accordo preferenziale ("Accordino") con il Tirolo e il Vorarlberg,
che facilitava gli scambi di determinati quantitativi di prodotti e di merci. Questo avvenne nel 1949 e già
allora si parlò di avvenimento "sensazionale", in quanto non solo recava benefici notevoli all’economia dei
due paesi, ma rafforzava anche i rapporti di buon vicinato tra due popolazioni, secondo lo spirito
dell’Accordo di Parigi.
Sempre in campo economico, la Giunta regionale si impegnò a sfruttare adeguatamente le risorse
idroelettriche, anche a costo di entrare in conflitto con le grandi società private nazionali, Montecatini ed
Edison in testa. Fu così che la prima legge approvata dal Consiglio regionale il 4 febbraio 1949 fissò
un’imposta di dieci centesimi per chilowatt sulla produzione di energia elettrica nella regione. Qualche mese
dopo, inoltre, la Regione approvò il progetto della SIT (in gran parte controllata dal Comune di Trento e
dalla Magnifica Comunità di Fiemme) per la costruzione di una diga sul torrente Avisio, respingendo quelli
di altre importanti società nazionali.
Una vasta serie di lavori pubblici, avviati dalla Giunta, rappresentò uno strumento idoneo per affrontare la
grave piaga della disoccupazione. Furono aperti nuovi cantieri di lavoro per ricostruire i ponti sul fiume
Adige, abbattuti durante la guerra, ed altre infrastrutture colpite dai numerosi bombardamenti. All’opera di
ricostruzione portò il proprio prezioso contributo anche il "Consorzio della provincia e dei comuni" (risorto a
Trento fin dal giugno 1946, dopo la soppressione voluta dal fascismo), che provvide ad accelerare le pratiche
dei vari comuni per ottenere dallo Stato sovvenzioni e finanziamenti nell’attività edilizia.
Come eredità degli anni della guerra rimanevano ancora il mercato nero e l’aumento dei prezzi: due
fenomeni negativi che colpivano la popolazione trentina e che la Giunta regionale si impegnò a combattere
con ogni mezzo attraverso una politica di controllo sulla produzione di merci e di sostegno all’iniziativa
privata.
Sotto il profilo politico, si può ben dire che le prime due legislature della Regione trascorsero in un clima di
grande operosità, senza gravi conflitti. "Numerose volte – scrive lo storico Alfredo Canavero – le
deliberazioni furono prese all’unanimità o con la sola opposizione dei rappresentanti missini. Le polemiche
erano nel complesso contenute, anche se non mancarono momenti di attrito".
Queste polemiche si rivolsero in prevalenza contro i rappresentanti del governo centrale e la burocrazia, che
frenavano la crescita dell’autonomia nella regione. Su questo fronte si trovarono uniti sia trentini che
sudtirolesi, come pure i rappresentanti delle opposizioni: tutti insieme esprimevano anche gli orientamenti
dell’opinione pubblica locale, in un momento storico in cui i partiti politici erano ancora capaci di svolgere
un’azione mediatrice e di creare attorno ai loro programmi largo consenso, a volte sostenuto anche da una
forte componente ideologica. Per questo motivo la vita delle istituzioni politiche locali era seguita con vivo
interesse da parte della gente, che partecipò a varie manifestazioni pubbliche e ad altre iniziative promosse
dai partiti e dalle amministrazioni autonomistiche.
Anche la stampa locale, pur in una veste editoriale dimessa, riusciva ad avere molti lettori tra la popolazione
trentina, in quanto dava voce alle proteste dell’opinione pubblica e dell’ente regionale contro le lentezze del
potere centrale e contro la burocrazia, che interveniva troppo spesso per rallentare un effettivo esercizio
democratico dell’autonomia. Articoli molto aspri, ad esempio, apparvero sulla stampa locale contro la
commissione romana incaricata di definire le norme di attuazione dello statuto di autonomia, che soltanto nel
luglio 1951 riuscì a varare una prima serie di norme, malgrado le molte insistenze e sollecitazioni anche da
parte del Capo del governo Degasperi. Altro esempio del prevalere del centralismo romano era costituito dal
comportamento del Commissario del governo, il quale negli ultimi mesi del 1949 rinviò ben sette delle nove
leggi approvate dal Consiglio regionale, suscitando, come era naturale, vibrate proteste e indignazione in vari
ambienti della società trentina.
Se dunque in quei primi anni della gestione autonomistica la lotta contro il centralismo statale riuscì a creare
una notevole solidarietà sia all’interno del Consiglio regionale, sia tra la popolazione civile e le istituzioni
pubbliche locali, altri problemi, al contrario, misero in evidenza le diversità ideologiche tra i partiti politici,
anche se poi esse andavano ad incidere in maniera non molto pesante sull’opinione pubblica trentina, che
rivelava una certa compattezza ed omogeneità.
Benché i primi 25 anni del secondo dopoguerra, secondo la definizione dello storico inglese Eric J.
Hobsbawm, abbiano rappresentato per il mondo occidentale "l’età dell’oro", per la straordinaria crescita
dell’economia e per un diffuso benessere sociale, tuttavia proprio in quel periodo il mondo precipitò in quella
che può essere considerata a ragione come una terza guerra mondiale, sia pure di carattere particolare, ossia
la cosiddetta "guerra fredda", provocata da una precedente definizione delle sfere di influenza tra i paesi
liberal-democratici dell’Occidente e quelli a sistema politico comunista dell’Est. Si tratta di una situazione
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storica paradossale, in cui a un progresso economico e sociale corrispose la grande paura di uno scontro
sempre possibile, anzi imminente, che avrebbe portato alla distruzione di tutta l’umanità. Questo scenario
veniva spesso delineato con toni apocalittici e ingigantito da motivazioni ideologiche, che dividevano il
mondo sulla base di un perfetto "bipolarismo", assegnando i ruoli dei buoni e dei cattivi a seconda
dell’angolo visuale da cui veniva vista la società.
Su questa mentalità ebbe grande influenza anche il motivo religioso. Soprattutto in Italia e nel Trentino, le
notizie che arrivavano dall’Est europeo e che riferivano della massiccia opera di scristianizzazione attuata
dal regime stalinista non potevano lasciare indifferente la grande massa dei cattolici e la Chiesa. Perciò
venne avviata tutta una serie di iniziative per creare una barriera insormontabile contro il comunismo, sia
nella sua versione sovietica che in quella nazionale-togliattiana, che però in definitiva, almeno in quegli anni,
non era per nulla diversa dalla prima.
Nel clima della guerra fredda, anche in Trentino non mancarono momenti di tensione. Già la campagna
elettorale del 18 aprile 1948 per le elezioni politiche aveva visto la netta contrapposizione tra i due blocchi
dei socialcomunisti da una parte e dei democratici cristiani dall’altra, anche se poi i risultati si rivelarono
ampiamente favorevoli a questi ultimi (71,91%). "Era tempo di nemici, non di avversari", scrisse con amara
ironia lo storico comunista Paolo Spriano, proprio per sottolineare l’asprezza di quel confronto. Come
conseguenza di quell’appuntamento elettorale, chiaramente segnato da motivazioni ideologiche, si può
ricordare la grave tensione provocata in Italia dall’attentato a Palmiro Togliatti il 14 luglio 1948, che portò il
Paese sull’orlo di una guerra civile. In Trentino, invece, la popolazione conservò la calma e anche la
partecipazione allo sciopero generale indetto per quella occasione non fu massiccia, ma piuttosto scarsa o del
tutto assente come avvenne nelle valli. La stampa locale valutò positivamente il comportamento dei trentini,
attribuendolo al fatto che essi avevano preso coscienza di essere in parte diversi dal resto degli italiani poiché
si sentivano partecipi di un sistema autonomistico.
La conseguenza più grave, invece, di quell’episodio fu la rottura dell’unità sindacale, che in Trentino si
verificò il 6 agosto 1948, quando i rappresentanti della corrente cristiana furono espulsi dalla Camera
confederale del Lavoro (il sindacato unico, CGIL, sorto subito dopo la guerra), perché non avevano
partecipato allo sciopero generale indetto per protestare contro l’attentato a Togliatti. Da allora, anche con il
contributo attivo delle ACLI (nate in Trentino nel 1946), i sindacalisti cristiani si impegnarono nella
costruzione di un sindacato libero che ufficialmente nacque il 1° maggio 1950 e si chiamò "Confederazione
italiana sindacati dei lavoratori"- CISL.
Il "Piano Marshall", che prevedeva una serie di aiuti degli USA ad alcuni stati europei per facilitarne la
ricostruzione postbellica, e l’adesione dell’Italia al "Patto Atlantico" nel 1949 rappresentarono due eventi di
cui anche in Trentino si sentì l’importanza vitale. Per questo motivo una mostra, che a Trento illustrava i
progetti e le realizzazioni del Piano, in pochi giorni ebbe un numero considerevole di visitatori, mentre il
dibattito sulla scelta di campo politico non mancò a volte di toccare momenti di polemica, con vivaci
contraddittori pubblici tra i rappresentanti politici dei due schieramenti, anche se la sinistra in Trentino si
trovava in netta minoranza. Tutto sommato però in quel primo periodo di vita autonomistica la società
trentina si presentava piuttosto omogenea, sia per orientamento politico che per stili di vita. Il Trentino, come
osservò Guido Piovene nel suo fortunato libro Viaggio in Italia, stava crescendo tra le sue piccole speranze
realizzate.
A questa coesione contribuì anche la Chiesa locale, che attirò attorno alle proprie iniziative larghe schiere di
giovani e di cattolici. Le processioni pubbliche, le inaugurazioni di nuove chiese, la cura dei chierici che in
numero sempre molto alto venivano ordinati ogni anno sacerdoti, la crociata per il "Grande Ritorno", ossia
"per la conversione dei comunisti mediante la carità e la dolcezza", la vita che pulsava attorno agli oratori
anche nei paesi più sperduti della provincia e molte altre iniziative davano l’immagine di una Chiesa forte e
compatta, punto di riferimento anche per le autorità politiche e non ancora percorsa dai fermenti di
rinnovamento degli anni successivi.
Accanto ai meriti indiscutibili delle prime Giunte regionali guidate da Odorizzi (la legislatura allora durava
quattro anni), non va dimenticato anche qualche fallimento, fra cui è necessario ricordare quello
dell’emigrazione cilena, programmata e appoggiata dalla Regione nel febbraio 1951, che per vari motivi si
trasformò in un’esperienza negativa per gli emigrati trentini, molti dei quali già agli inizi del 1954 iniziarono
a fare ritorno in patria, dopo anni di disagi e di sofferenze.
Il Trentino tra crisi politica e "miracolo economico"
Il clima pacifico che nei primi tempi aveva caratterizzato la vita della Regione autonoma, alla metà degli
151
anni Cinquanta iniziò a deteriorarsi per vari motivi. Sul piano internazionale e nazionale accaddero alcuni
fatti che ebbero ripercussioni negative anche sulla vita della Regione. Anzitutto bisogna ricordare che nel
1954 la Germania federale era entrata a far parte del Patto Atlantico, ponendo le basi per una sua rinascita
politica ed economica. A questa Germania, di nuovo forte e prosperosa, iniziò a guardare l’Austria, che a sua
volta il 15 maggio 1955 era riuscita a ottenere il Trattato di Stato, liberandosi in questo modo dal controllo
degli Alleati. Il nuovo governo austriaco, formatosi nel giugno 1956 e guidato da Julius Raab, avviò passi
diplomatici formali presso il governo italiano chiedendo che le disposizioni dell’Accordo di Parigi del 1946
a favore dei sudtirolesi fossero attuate in maniera completa; e per questo motivo all’interno del governo
austriaco venne creata la carica particolare di sottosegretario agli Esteri per gli affari sudtirolesi affidata a
Franz Gschnitzer, uno dei capi del "Berg Isel Bund", un’associazione fondata ad Innsbruck nel marzo 1954 e
in breve tempo passata su posizioni oltranziste nella difesa delle richieste degli altoatesini di lingua tedesca.
L’Austria, dunque, come nota lo storico Pietro Pastorelli, aveva decisamente scelto la politica della
"rivendicazione" nei confronti dell’Italia riguardo alla questione dell’Alto Adige. Ma anche in Italia stavano
emergendo correnti nazionalistiche, favorite dalla spinosa questione di Trieste, la città ancora contesa tra
Italia e Jugoslavia. Nel momento culminante delle trattative con gli Alleati, il nuovo presidente del
Consiglio, Giuseppe Pella, affermò che l’unico sistema democratico per risolvere la questione di Trieste era
quello del plebiscito. Questo creò forti ondate di emozione collettiva in Italia, ma anche la reazione dei
deputati sudtirolesi in Parlamento, i quali affermarono che se il plebiscito valeva per Trieste avrebbe dovuto
valere anche per l’Alto Adige. Da quel momento, sia in Alto Adige che al di là del Brennero, ripresero vita le
correnti più oltranziste, che tornarono a rivendicare per i sudtirolesi il diritto all’autodecisione
(Selbstbestimmung), accusando la classe politica trentina di aver sempre governato senza tener conto delle
richieste dei sudtirolesi. Anzi il canonico Michael Gamper, assai stimato e quasi venerato dalla popolazione
sudtirolese come un "padre della Patria", nell’anniversario della marcia fascista su Roma, il 28 ottobre 1953
aveva addirittura parlato di Todesmarsch (marcia della morte) per il Sudtirolo e di genocidio, ricordando il
progressivo impoverimento economico ed etnico della provincia di Bolzano.
Gli esponenti della Volkspartei iniziarono ad esprimere in maniera sempre più forte la loro insoddisfazione,
accusando soprattutto il presidente Odorizzi di comportarsi come un "prefetto di Roma" e denunciando la
classe politica trentina di aver amministrato la Regione senza tener conto dei bisogni della minoranza
sudtirolese, facendosi forte della maggioranza numerica in Consiglio regionale. In realtà, anche con il favore
di mutamenti internazionali, fra i sudtirolesi stava riemergendo la vecchia nostalgia per l’autodecisione,
sopita fino allora sotto le forme, accattivanti e anche, almeno fino allora, rassicuranti, dell’autonomia
regionale.
Di fronte a questa nuova situazione, la classe politica trentina non brillò certamente per lungimiranza e
capacità di mediazione, a parte poche iniziative assunte isolatamente da qualche uomo politico o
rappresentante del mondo ecclesiale. Formalmente tutto si giocò attorno al famoso articolo 14 del primo
statuto di autonomia, che così recitava: "La Regione esercita normalmente le funzioni amministrative
delegandole alle Province, ai comuni e ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici". La Volkspartei
considerava questo articolo come base di un’autonomia di tipo provinciale, per cui continuava a chiedere
deleghe per la provincia di Bolzano; il presidente Odorizzi, invece, partendo da un’interpretazione
sottilmente giuridica di quell’articolo, in realtà lo svuotava di ogni potenzialità concreta. Quando dopo varie
schermaglie si decise di fare ricorso alla Corte Costituzionale, essa riconobbe che la ragione stava dalla parte
di Odorizzi. Ma questa decisione inasprì ancora di più il conflitto fra trentini e sudtirolesi. La Volkspartei
accusò la classe politica trentina, e in particolare la Democrazia Cristiana, di non voler applicare l’articolo 14
dello statuto e pertanto poco per volta si disimpegnò dal governo regionale. Nel 1955 fu l’assessore
sudtirolese Hans Dietl ad uscire dalla Giunta regionale. Il 17 novembre 1957, dopo i primi attentati
terroristici, il partito sudtirolese organizzò una massiccia manifestazione di protesta a Castelfirmiano,
chiedendo a chiare lettere la separazione di Bolzano da Trento (molti cartelli recavano la scritta Los von
Trient, "via da Trento"). I tempi delle cortesie stavano per finire. Infatti nel febbraio del 1959 i rappresentanti
sudtirolesi uscirono dalla Giunta regionale e passarono all’opposizione. In questo modo il sogno di
Degasperi e di Gruber di creare una pacifica convivenza tra i gruppi linguistici della regione Trentino-Alto
Adige, dopo dieci anni si era già infranto.
Come stava accadendo per il mondo occidentale sotto la cappa della "guerra fredda", così anche a questo
grave periodo di crisi per la Regione corrispose paradossalmente un periodo di progresso sul piano
economico. Lo storico sudtirolese Claus Gatterer parla a questo proposito di "indisturbata normalità",
alludendo al fatto che alla fine degli anni Cinquanta, in piena crisi politica, in regione erano arrivate le prime
152
ondate del cosiddetto "miracolo economico", che aveva interessato il resto dell’Italia già negli anni del
centrismo degasperiano, ma che raggiunse il suo apice soprattutto come conseguenza dell’avvio del processo
di industrializzazione.
Lo sviluppo industriale in Trentino avvenne con un certo ritardo rispetto al resto dell’Italia. A favorirlo
furono senza dubbio la presenza di abbondante manodopera e la vicinanza con i centri di produzione dell’alta
Italia e con i mercati centroeuropei. Non si può inoltre dimenticare il clima sindacale relativamente
tranquillo, ma soprattutto l’intervento dell’ente pubblico regionale che portò un sostegno diretto e sostanziale
allo sviluppo dell’industria. Ancora sotto la guida di Odorizzi e poi con la successiva Giunta di Luigi Dalvit
nel 1961, furono presi provvedimenti importanti in questo senso, come ad esempio l’approvazione della
legge sulle azioni al portatore, con la quale si intendeva attirare nella provincia capitali e imprenditori da
altre regioni, l’istituzione del Mediocredito per il finanziamento delle medie e piccole imprese, l’offerta a
prezzo ridotto dell’energia elettrica alle nuove industrie, i notevoli contributi concessi ai comuni e ad altri
enti pubblici per l’acquisto e l’apprestamento di aree destinate agli investimenti industriali, la progettazione
dell’autostrada del Brennero, cui era legata anche la proposta, lasciata poi cadere, del traforo del Brennero.
Anche per quanto riguarda la vita sociale, i primi anni Sessanta in Trentino portarono una ventata di novità.
Il tenore di vita migliorò in maniera sensibile. Molti trentini impiegavano il tempo libero sfruttando le nuove
forme di divertimento (l’uso dell’automobile, il nuovo ballo del Rock and roll reso celebre da Elvis Presley,
le vacanze all’estero, la moda giovanile con il lancio dei blue jeans, gli sport invernali favoriti dall’apertura
di vari impianti di risalita), tanto che un’indagine dell’Istat definiva Trento come città "quasi ricca". Come
nel resto d’Italia, anche nel Trentino insomma si viveva con grande ottimismo nel clima del "miracolo
economico" o del Welfare State, nel senso che il benessere portato dalla tecnica e dalla produzione
industriale aveva delle ricadute positive anche sulla classe media della popolazione, favorito da un sistema
politico che sul piano nazionale aveva scelto l’apertura alla sinistra moderata e riformista.
La Regione autonoma, invece, stava procedendo tra difficoltà sempre maggiori, anche perché l’Austria aveva
posto la vertenza dell’Alto Adige all’attenzione internazionale con un duplice intervento all’ONU nel 1960 e
nel 1961, in cui chiedeva l’allargamento di poteri per la provincia di Bolzano. La risposta dell’organismo
internazionale rimandava ogni decisione alla buona volontà dei due Stati interessati alla questione, per cui da
allora tra Italia ed Austria prenderanno il via nuovi negoziati bilaterali, malgrado l’intensificarsi degli
attentati, che culmineranno nella "notte dei fuochi" dell’11 giugno 1961 (in una sola notte si verificarono in
Alto Adige ben 47 attentati; in totale gli attentati compiuti in dieci anni saranno 323 con 23 morti). Come
scrive Pastorelli, insomma, dopo la fase della "rivendicazione", stava per iniziare quella della "conciliazione"
tra Italia ed Austria per risolvere la questione sudtirolese.
La fase della "conciliazione": due case sotto uno stesso tetto
A Roma il 13 settembre 1961 il presidente del Consiglio Mario Scelba insediò una commissione di 19
esperti, composta dai rappresentanti del governo italiano, dei partiti trentini, degli altoatesini e dei ladini, che
aveva il compito di rivedere lo statuto del 1948, adeguandolo alle nuove richieste. La commissione lavorò tre
anni in maniera molto intensa, compiendo frequenti viaggi nella regione per incontrare gli esponenti locali
della vita politica e civile e discutere con loro una nuova forma possibile dell’autonomia. Al termine di
questo lungo lavoro, nel maggio 1964, la commissione presentò al governo italiano una lunga relazione, che
in sostanza prevedeva il mantenimento dell’ente regionale, come elemento di raccordo tra le due province di
Trento e di Bolzano, anche se alle due province venivano delegate molte competenze in vari settori.
Nel settembre 1966 il governo italiano, presieduto da Aldo Moro, dopo una fitta serie di colloqui bilaterali
con Vienna, approvò una serie di misure, passate sotto il nome un po’ singolare di "Pacchetto", che
modificavano in maniera sostanziale lo statuto originario dell’autonomia.
Le norme del Pacchetto recepivano fondamentalmente le proposte della commissione dei 19, in quanto molte
competenze venivano trasferite dalla Regione alle due province di Trento e di Bolzano, anche se l’ente
regionale non era del tutto svuotato delle sue prerogative. Come allora si disse, la Regione venne ristrutturata
in maniera da creare due case sotto uno stesso tetto.
Il Pacchetto si concludeva con un "calendario operativo", che definiva modi e tempi della realizzazione delle
nuove disposizioni. Innanzi tutto andava elaborato e promulgato dallo stato italiano un nuovo statuto di
autonomia. In secondo luogo si sarebbe formata una commissione di dodici membri per stendere le norme di
attuazione del nuovo statuto di autonomia, che avrebbero dovuto essere emanate entro due anni dalla sua
approvazione. Infine, dopo il varo dell’ultima norma, l’Austria, riconosciuta Paese tutore dell’Alto Adige,
avrebbe dovuto rilasciare la cosiddetta "quietanza liberatoria", che avrebbe posto fine alla controversia
153
dell’Alto Adige, oggetto delle risoluzioni dell’ONU.
Mentre tra Roma, Vienna e Bolzano si veniva delineando un preciso triangolo diplomatico, a Trento negli
ambienti politici crescevano i timori per un’emarginazione del Trentino dal quadro istituzionale
dell’autonomia. A questi timori però rispose in maniera energica Bruno Kessler, nominato nel 1960
presidente della Giunta provinciale di Trento, che impresse alla sua amministrazione un impulso decisivo
sulla via della modernizzazione, tanto da far scrivere alla stampa che il Trentino, come l’America di John
Kennedy, si stava muovendo verso una "nuova frontiera" di benessere e di crescita culturale. Da allora si
iniziò a parlare di programmazione economica ed urbanistica, che coinvolse illustri docenti universitari,
incaricati di elaborare il "Piano urbanistico provinciale" (PUP), allo scopo di programmare lo sviluppo del
territorio sulla base delle risorse e dell’aumento della popolazione, proprio in un momento storico in cui il
"boom" stava raggiungendo il suo apice, mettendo tuttavia in evidenza anche i primi segnali negativi, che
allora significavano caos edilizio, inquinamento, degrado ambientale, consumismo esagerato, di cui si iniziò
a dibattere anche sulla stampa. Dopo lunghe discussioni in aula, il PUP venne approvato nel settembre 1967
e nello stesso anno nacquero anche i comprensori – primi in Italia – che raggruppavano i paesi di una stessa
valle (ora ve ne sono 11) e che avevano la funzione di razionalizzare le spese della Provincia per gli
investimenti soprattutto nel campo della sanità, della medicina di fabbrica, dell’edilizia popolare e
dell’organizzazione scolastica. Molti trentini, a dire il vero, non considerarono il comprensorio come
elemento rappresentativo della propria storia e come strumento necessario per la crescita civile alla pari, ad
esempio, del comune, bensì come una sovrastruttura; perciò si accesero vivaci dibattiti anche tra la
popolazione, segno dell’intensità con cui venivano sentiti taluni problemi.
Molto più estesa e partecipata fu, invece, la discussione sul progetto di creare a Trento l’università. La
"voglia di università" aveva radici lontane, risalendo ai tempi della scuola di giurisprudenza fondata a Trento
da Calepino dei Calepini nel XV secolo e poi al tentativo del cardinale Cristoforo Madruzzo di erigere uno
"studium generale" a Trento nel 1553, fino all’importante cattedra di Diritto civile tenuta, sempre a Trento,
da Carlo Antonio Pilati e da altri insigni docenti nell’epoca illuministica e soprattutto alle lotte sostenute dai
trentini fra Otto e Novecento per la creazione di una università italiana in Austria.
Nel secondo dopoguerra si era tentato di supplire a questa mancanza con l’istituzione di corsi estivi
dell’università cattolica di Milano al Passo della Mendola (marzo 1954) e con la creazione a Trento di un
Centro studi dell’università di Bologna (maggio 1954), dove si tenevano periodicamente cicli di conferenze
su temi a carattere culturale.
L’impulso determinante per elaborare un progetto organico di università venne dato però dalle circostanze
politiche legate al problema dell’autonomia. Come ricordò lo stesso Kessler, quando l’autonomia speciale di
tipo regionale entrò in crisi, lasciando prevedere attraverso il Pacchetto la piena autonomia concessa alla
provincia di Bolzano, allora agli amministratori del Trentino si pose il grave problema di evitare per la loro
provincia la caduta di prestigio cui Trento sarebbe andata incontro con lo smembramento della regione. Da
qui l’impegno per la realizzazione dell’università, che avrebbe dovuto non solo far lievitare culturalmente la
società trentina, ma anche distinguersi dagli altri atenei italiani per la novità della proposta e per il piano
degli studi. Per questi motivi venne scelta come prima facoltà quella di Sociologia. La figura del sociologo,
infatti, era nuova nel panorama culturale italiano.
Il 27 luglio 1962 il Consiglio provinciale approvò il disegno di legge che creava l’ITC (Istituto trentino di
cultura), un organismo appoggiato da vari soci fondatori, che avrebbe dovuto garantire all’università trentina
la sua autonomia amministrativa. Qualche giorno dopo, il 31 luglio, con un solo voto contrario e
un’astensione, venne approvato anche il disegno di legge che dava il via al "Libero Istituto di Scienze
Sociali", inaugurato solennemente il 14 novembre, alla presenza dei più bei nomi del mondo accademico
nazionale e in un’atmosfera di goliardia contenuta.
Ben presto però tra la popolazione locale iniziarono a manifestarsi perplessità e diffidenze nei confronti
dell’università, sia per la mancata definizione degli sbocchi professionali, sia per il crescente afflusso di
giovani provenienti da fuori, che creavano qualche problema alla tranquilla vita di provincia. Di lì a pochi
anni, queste diffidenze si tramuteranno in aperta ostilità, quando cioè gli studenti, anche a causa degli eventi
politici nazionali ed internazionali, daranno inizio alla cosiddetta "contestazione globale" al sistema.
La posizione della Chiesa trentina
Nella questione dell’autonomia regionale, alla metà degli anni Sessanta, un elemento di dinamismo venne
portato dalla Chiesa trentina. L’arcivescovo Carlo de’ Ferrari negli anni della crisi della Regione non aveva
assunto posizioni ufficiali, mentre per cercare una mediazione fra trentini e sudtirolesi erano intervenuti altri
154
esponenti del mondo cattolico trentino, come ad esempio don Giulio Delugan, direttore del settimanale
diocesano "Vita trentina", o Luigi Menapace, primo presidente del Consiglio regionale, e qualche altro
rappresentante della Democrazia Cristiana trentina, più disponibile al dialogo con i sudtirolesi per cercare di
uscire dall’impasse istituzionale e per evitare un ulteriore inasprimento del clima di convivenza.
Quando l’arcivescovo de’ Ferrari si ammalò gravemente, tanto da essere impedito nella guida della diocesi
(morirà nel dicembre 1962), nel febbraio 1961 da Roma venne nominato amministratore apostolico di Trento
il vescovo di Bressanone Joseph Gargitter, che già qualche anno prima era intervenuto in maniera molto
equilibrata sia per deplorare gli attentati terroristici, sia per appoggiare le rivendicazioni dei sudtirolesi nella
difesa della propria identità. A Trento la nomina di Gargitter, tuttavia, venne accolta con molto stupore. Tra i
politici locali la si riteneva una mossa che avrebbe danneggiato i trentini; negli ambienti più riservati della
Curia trentina si temeva che il vescovo di Bressanone ambisse anche alla cattedra di S. Vigilio, mentre
invece si sperava nella nomina di un vescovo locale (assai benvoluto era il vescovo ausiliare Oreste Rauzi).
Ma Gargitter non pensava a questo. Il suo obiettivo era quello di ridefinire i confini della diocesi altoatesina,
visto che la diocesi trentina comprendeva anche parte dell’Alto Adige, cioè tutta la zona mistilingue,
Bolzano e una parte della Val Venosta. La questione dei decanati tedeschi appartenenti alla diocesi di Trento
era stata sollevata ancora nel 1920 dal vescovo trentino Celestino Endrici, che aveva suggerito alle autorità
italiane di aggregare quei decanati alla diocesi di Bressanone, suscitando le ire dei nazionalisti trentini. Nel
breve periodo del suo mandato, anche Gargitter fece pressione sul patriarca di Venezia e sulle autorità
romane perché fosse creata una diocesi altoatesina omogenea, ridisegnando i confini delle due diocesi.
Il 12 maggio 1963 fece il suo solenne ingresso nella diocesi di Trento il vescovo Alessandro Maria Gottardi,
proveniente da Venezia, ma di origini trentine. Il nuovo vescovo all’inizio, malgrado i frequenti scambi di
opinione con il presule di Bressanone, non pensava ancora al cambiamento dei confini della diocesi; anzi si
riteneva a tutti gli effetti vescovo anche di Bolzano, dove si recava ogni settimana per incontrare sacerdoti e
fedeli, con i quali si intendeva attraverso "il linguaggio dell’amore" più che parlando in tedesco, non essendo
egli bilingue. Questo fatto creava malumori e preoccupazioni tra i cattolici di lingua tedesca dell’Alto Adige.
Gargitter, da parte sua, continuò a sostenere nelle sedi competenti il progetto di rivedere i confini delle due
diocesi, trovando però ostilità ed ostacoli sia a Trento che a Roma, dove addirittura ad un certo momento si
pensò di creare una diocesi di Bolzano, che avrebbe sostituito o affiancato quella di Bressanone, cancellando
in questo modo secoli di storia.
Dopo mesi di febbrili e concitate trattative, il 6 agosto 1964 due bolle pontificie stabilivano la nascita della
diocesi di Bolzano-Bressanone, alla quale venivano aggregati i territori abitati da popolazioni mistilingui
prima appartenenti alla diocesi tridentina. Il provvedimento suscitò qualche sorpresa e malumori diffusi in
vari ambienti: a Trento venne ritenuto come un cedimento ai sudtirolesi, mentre altri, con un po’ di
romanticismo, rimpiangevano i tempi in cui presso il seminario teologico di Trento venivano a studiare i
chierici di Bressanone, favorendo perciò il dialogo e una certa apertura di orizzonti; a Bressanone invece si
guardava con preoccupazione allo spostamento della sede episcopale a Bolzano, mentre altre perplessità
erano dovute alla "retrocessione" di Bressanone come sede suffraganea di Trento, e al distacco dei territori
ladini di Cortina e di Livinallongo dalla diocesi sudtirolese.
A parte il modo non sempre lineare con cui era stata portata avanti la vicenda e le ferite procurate, che
rimarranno aperte per qualche tempo, i decreti del 1964 sulla ridefinizione dei confini delle due diocesi
assunsero ben presto anche un significato politico molto importante, come modello di riferimento per
riportare la pace tra i due gruppi linguistici. In effetti facendo coincidere i confini delle due diocesi con quelli
linguistici della popolazione, la Chiesa intendeva offrire un suggerimento da tradurre anche sul piano politico
ed amministrativo, come poi sarebbe avvenuto di lì a breve con il Pacchetto.
La società trentina nell'età dei grandi mutamenti
Nella seconda metà degli anni Sessanta, il mondo occidentale, che aveva attraversato una fase di grande
sviluppo e di diffuso benessere, sembrò quasi avviarsi verso un periodo di "frana", come la definisce sempre
Hobsbawm, dovuto all’inasprimento della guerra del Vietnam, allo scoppio di altre guerre come quella dei
"sei giorni" tra paesi arabi ed Israele (1967), alla cosiddetta "contestazione studentesca" e alla "primavera di
Praga" repressa nel sangue (1968), alla protesta operaia dell’autunno caldo (1969), al dopoconcilio e
all’inizio della "strategia della tensione" (1969): tutti fenomeni legati al processo di trasformazione sociale e
di mutamento culturale che aveva coinvolto soprattutto il mondo a capitalismo avanzato dell’Occidente.
Per alcuni di questi cambiamenti, Trento si trovò in prima linea. La scelta dell’industrializzazione aveva
provocato gravi dissesti nell’economia agricola della provincia. Nel febbraio 1964 c’era stata anche una
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clamorosa protesta di quattro mila contadini per il crollo del prezzo delle patate. Scesi dalle valli, erano
sfilati per le vie di Trento scagliandosi contro la Regione, accusata di scarsa sensibilità nei confronti dei
problemi del mondo agricolo. Ma anche gli operai trentini non potevano dichiararsi soddisfatti. La crisi
economica del 1965 e l’inflazione avevano fatto svanire poco per volta il loro sogno di benessere, mentre i
sindacati organizzavano le prime massicce mobilitazioni di piazza e lo sciopero generale. A Trento furono
gli operai della SLOI (una fabbrica a nord della città che produceva il tossico piombo tetraetile) a muoversi
per primi, seguiti dai colleghi della Michelin e poi via via dagli operai delle fabbriche di Rovereto.
Ma la società trentina esprimeva inquietudini non solo per le difficoltà economiche. Il Concilio Vaticano II si
era concluso da poco tempo e, assieme al fervore del rinnovamento, aveva provocato anche episodi di
contestazione all’interno della Chiesa. A Trento un gruppo di questi "cattolici del dissenso" aveva dato vita
nel 1966 alla rivista "Dopoconcilio", dove si andava definendo la nuova figura del "laico-cristiano",
impegnato soprattutto ad affrontare e a discutere i problemi concreti della società, in una prospettiva
secolarizzata della religione. Poco per volta sorsero altri gruppi spontanei e comitati di quartiere, animati da
giovani cattolici che assumevano posizioni sempre più critiche nei confronti della Chiesa.
Ma l’ambiente più scosso dai fermenti e dalle tensioni di quegli anni fu senza dubbio quello dell’università e
della scuola. Le proteste innescate contro la legge 2314 della riforma universitaria proposta dal ministro
Luigi Gui (nei loro volantini gli studenti ironicamente scrivevano: "Siamo in un mare di gui!"), ben presto si
trasformarono in contestazione verso l’istituzione scolastica nella sua globalità, considerata uno strumento di
dominio nelle mani del potere "borghese". A Trento si iniziò nel gennaio 1966 ad occupare la facoltà di
Sociologia, chiedendo riforme per quanto riguardava il piano degli studi. Negli anni successivi, altre
occupazioni si svolsero in maniera più radicale, fino al gennaio 1968, quando l’università trentina rimase
occupata per 67 giorni, coinvolgendo anche qualche scuola superiore della città. I trentini, dapprima quasi
disinteressati al fenomeno, si risentirono bruscamente soltanto quando il 26 marzo uno studente intervenne
platealmente nella cattedrale di Trento per interrompere l’omelia quaresimale del padre predicatore (si parlò
allora di "controquaresimale"). Questo episodio scatenò la reazione dei trentini, che qualche giorno dopo
assediarono l’università, obbligando gli studenti a porre fine all’occupazione. Da allora però la facoltà di
Sociologia venne trasformata dagli studenti in "università critica", nel senso che essa doveva diventare fucina
di studio del marxismo in tutte le sue versioni storiche, quasi un laboratorio di pensiero per il cambiamento
rivoluzionario della società, svolgendo una "funzione utopica di cervello sociale delle classi subalterne",
come scrivevano con il loro inconfondibile linguaggio gli studenti in un loro documento. In altre parole, la
contestazione dalle aule di Sociologia passava sulle strade, entrando nelle aule delle scuole superiori o nei
capannoni delle aziende industriali e diventando anche lotta armata. Iniziava il periodo più caotico della
storia italiana e trentina fino al termine del secolo.
Silvius Magnago
Nasce a Merano il 5 febbraio 1914. Avvocato, figlio di un magistrato trentino, mamma di madrelingua
tedesca, ha compiuto gli studi in Italia. Optante per la Germania nel 1939 ha combattuto nelle file della
Wehrmacht finendo gravemente ferito sul fronte russo. Vicesindaco di Bolzano dal 1948 al 1952,
presidente del Consiglio regionale e provinciale tra il 1949 e il 1952, nel 1957 assume la presidenza della
SVP, il partito unico di lingua tedesca dell'Alto Adige /Südtirol. Subito dopo, Magnago trascina il popolo
südtirolese nella grande manifestazione di Castelfirmiano dove, su un palco ornato dall'effigie del Sacro
Cuore, lancia lo slogan Los von Trient, la rottura dell'esperimento regionale e la richiesta di un'autonomia
separata da Trento. Dal 1967 al 1989 è presidente della Giunta provinciale di Bolzano, carica che lascia a
Luis Durndwalder. Membro della Commissione dei diciannove, istituita dal Governo italiano dopo gli
attentati del 1961 allo scopo di individuare una soluzione concordata della vertenza altoatesina; dalle
misure proposte dalla Commissione nasce il “Pacchetto” che Magnago sostiene; solo il suo carisma porta la
SVP ad approvarlo nel 1969 con una maggioranza risicata. Magnago ne segue poi tutte le fasi di attuazione
fino alla quietanza liberatoria rilasciata dall'Austria nel 1992. E' morto nel 2010.
Enrico Pruner (1922-1989)
Nacque a Frassilongo in Val dei Mocheni il 24 gennaio 1922. Si laureò in Scienze Agrarie a Milano. Dopo
aver militato inizialmente nell’ASAR (Associazione Studi Autonomia Regionale), fu, nel 1948, tra i
fondatori del PPTT (Partito del Popolo Trentino Tirolese) del quale nel 1952 divenne segretario politico
provinciale. Quello stesso anno fu eletto consigliere regionale, carica che mantenne ininterrottamente fino
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al 1984. Dal 1960 al 1964 fu assessore regionale per l’economia montana e le foreste. Egli concepì
l’autonomia trentina in chiave europea. A metà degli anni ’70 sostenne la proposta di aggiungere alla sigla
PPTT la dizione UE (Unione Europea) nella visione di un’Europa dei popoli e delle regioni alla cui
costruzione avrebbero dovuto tendere autonomisti e federalisti assieme.
Verso un secondo statuto dell'autonomia: le due autonomie provinciali
Sembra strano, ma corrisponde alla verità, il fatto che per la questione
dell’autonomia regionale quegli anni siano stati invece di grande fervore,
pieni di iniziative febbrili, sia sul piano politico che su quello istituzionale.
Dopo l’approvazione del governo italiano, il Pacchetto venne sottoposto
all’attenzione dei rappresentanti sudtirolesi. La Volkspartei il 22 novembre
1969 tenne un Congresso provinciale straordinario a Merano, al termine del
quale una maggioranza piuttosto risicata (52,8%) approvò le norme del
Pacchetto, anche grazie all’appassionata difesa del leader Magnago, che sudò
le proverbiali sette camicie per convincere i suoi ad accettare la proposta del
governo italiano. "È vero – ricorderà poi in un’intervista – al Congresso ho
chiesto di votare sì. Ma ho anche aggiunto che un sì eterno non esiste".
Qualche giorno dopo, anche il Parlamento italiano approvò a larga
maggioranza le norme del Pacchetto, mentre il 16 dicembre la stessa cosa fece il Parlamento austriaco,
sebbene con una maggioranza appena sufficiente. In maniera sempre più incalzante e tempestiva nel tradurre
gli accordi in leggi e decreti, nel gennaio 1970 il governo italiano formò un comitato di nove esperti con il
compito di preparare il secondo statuto, in armonia con i princìpi che avevano ispirato il Pacchetto.
Queste decisioni del governo si inquadravano anche nel fervore per i problemi del decentramento e delle
autonomie regionali che allora avevano interessato gli ambienti politici italiani. Si pensi ad esempio al fatto
che il 16 maggio 1970 era stata approvata una legge sul finanziamento delle regioni e che il successivo 7
giugno si sarebbero tenute le prime elezioni regionali nella storia della Repubblica italiana, ottemperando
così al dettato dell’art. 5 della Costituzione.
Nel luglio e agosto 1971 il Parlamento italiano approvò a grande maggioranza la legge che modificava il
vecchio statuto di autonomia del 1948. Dallo schieramento favorevole si astennero solo i liberali, mentre i
missini votarono contro. Finalmente, con decreto del Presidente della Repubblica in data 31 agosto 1972,
venne promulgato il nuovo statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol, composto di 115
articoli. L’aspetto più significativo e nuovo era il fatto che l’autonomia regionale veniva ufficialmente divisa
in due autonomie provinciali, nel senso che la maggior parte delle competenze passava dalla Regione alle
due Province autonome di Trento e di Bolzano, pur rimanendo alla Regione funzioni e compiti di raccordo
tra le due Province.
Per la Regione autonoma, ma ancora di più per le due Province di Trento e di Bolzano, si apriva in questo
modo un periodo nuovo che schematicamente si può riassumere ricordando i passaggi più importanti.
La definizione delle norme di attuazione dello statuto richiese un lungo lavoro da parte di due commissioni
(dei sei e dei dodici), che si concluse solo nel 1992, quando il Parlamento italiano, il 30 gennaio, approvò
l’ultima norma prevista dallo statuto. Qualche mese dopo, il 22 aprile, il governo italiano consegnò
all’ambasciatore austriaco a Roma una nota diplomatica in cui si trasmetteva il resoconto della seduta della
Camera dei deputati del 30 gennaio sulla chiusura della vertenza sudtirolese. Superate le diffidenze della
controparte, che chiedeva anche un "ancoraggio internazionale", finalmente il 19 giugno l’Austria rilasciò la
"quietanza liberatoria" sulla questione del Sudtirolo e i due governi di Vienna e di Roma notificarono al
Segretario generale dell’ONU la chiusura della controversia. Il 27 gennaio 1993 il Presidente della
Repubblica italiana, Oscar Luigi Scalfaro, si recò a Vienna in visita ufficiale. Era la prima volta in questo
secolo che ciò avveniva e quel gesto, almeno sul piano diplomatico e storico, significava la fine di un lungo
periodo di "inimicizia ereditaria" e l’inizio di una collaborazione tra i due Paesi, con ricadute positive per la
provincia di Bolzano.
Per quanto riguarda, invece, la provincia di Trento, l’importante riforma istituzionale del 1971-72 ebbe
riflessi non del tutto positivi sotto il profilo politico, poiché il Trentino si trovò nella situazione piuttosto
scomoda di dover, per così dire, "giustificare" la propria situazione di provincia dotata di autonomia speciale,
come se ciò costituisse un privilegio. D’altra parte nel decennio successivo la società trentina, a differenza di
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quella sudtirolese, si andò sempre più uniformando ai mutamenti di costume e di mentalità che avevano
interessato tutta la società italiana e anche quella occidentale a largo raggio, per cui le radici della propria
identità culturale e storica sono andate a poco a poco perdendo di vigore, malgrado gli sforzi da varie parti
attuati per far conoscere alle generazioni più giovani la storia, le tradizioni, la cultura e tutti gli altri valori di
una comunità un tempo caratterizzata da un forte senso di appartenenza.
Certamente tutto ciò è comprensibile in una fase storica di mercato globale e di intensi scambi multietnici.
Eppure, se rimane ancora qualche possibilità di evitare gli aspetti più degradanti del processo di
omologazione culturale e di massificazione, questa forse può essere offerta anche da una
riappropriazione cosciente e appassionata della storia della propria "piccola patria", rifuggendo
tuttavia da ogni forma di chiusura nei particolarismi e nel localismo.
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