“A Mosca! A Mosca!” scrive ancora Anton Čechov, ormai

Postfazione
“A Mosca! A Mosca!” scrive ancora Anton Čechov,
ormai prossimo alla fine, alla moglie prima di
lasciare l’esilio di Jalta, riprendendo l’eterna invocazione delle sue Tre sorelle.
“A Mosca! A Mosca!” invoca tra sé la giovane
finlandese creata dalla penna di Rosa Liksom a
conclusione del lungo racconto dal titolo cechoviano Scompartimento n.6.
La capitale russa ricorre nell’opera come centro
del mondo, mèta agognata, punto di partenza che
segna a un tempo la fine, luogo di tormentati affetti
e passioni e soprattutto oggetto di malinconica, irreparabile nostalgia. La melanconia essendo, per i
finnici, condizione ineludibile dell’individuo nella
sua solitudine, epitome della sua capacità di sentire, di amare e di soffrire sprofondando in se stesso.
Nell’anima del protagonista russo Vadim essa è la
nostalgia, cosmica e irreparabile, del passato e del
futuro; è uno dei suoi numerosi e opposti sentimenti, tanto intensi da sopraffarlo all’improvviso mentre si getta furiosamente e impunemente nella vita.
Tanto che la vicenda ha luogo altrove. In uno
scompartimento della linea ferroviaria Transiberiana, uno spazio immobile eppure in moto continuo, sempre più angusto e pregno di umanità, che
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sfreccia verso oriente, inabissandosi in una natura
suggestiva, grandiosa, desolata, violata, dolente.
Un paradosso nel quale si iscrive anche il tempo: lo
scompartimento del treno è un luogo dove il tempo
si dilata fino a scomparire, ma la Storia, che travolge i destini degli uomini, e la cultura, che plasma le
loro menti, alita sulla narrazione il soffio del passato e il disincanto del presente. Al di là del finestrino
l’Unione Sovietica degli anni Ottanta, una terra
popolata dalle rovine di una vasta opera umana in
dissoluzione, simulacri di un mondo che non è più.
È l’epoca che prelude alla dissoluzione dell’URSS.
Il gigante sovietico è al collasso: si respira ancora il
clima di stagnazione della fine dell’era brežneviana
– un’epoca durante la quale il paese è definito
mediante la metafora del manicomio ispirata alla
novella di Čechov La corsia n.6, alla quale si riferisce il titolo del racconto di Rosa Liksom. La
novella russa si svolge in un padiglione di malati di
mente, il numero sei, che si delinea come “un’infamia” possibile solo in una cittadina governata
da “piccoli borghesi analfabeti”. L’universo descritto dal grande scrittore russo ha valicato i confini dell’immaginario e si è trasformato in realtà.
L’economia affonda, gli sforzi bellici dell’Armata
Rossa in Afghanistan ricadono pesantemente sulla
popolazione. Lo Stato magnifica opere macroscopiche quali la ferrovia Bajkal-Amur, continua a
edificare casermoni di cemento di pessima qualità
in periferie squallide e remote. Esistono città chiuse, dalle quali gli ingegneri, i geologi, non possono
muoversi se non dietro permesso speciale. Sopravvivono le kommunalka, gli appartamenti condivisi
gestiti dallo Stato dove gli inquilini finiscono per
aiutarsi oppure spiarsi e distruggersi. Sono anni in
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cui la censura è inflessibile; la protagonista del racconto vi allude quando ricorda di aver visto, alla
via Bolšaja Sadovaja di Mosca, citazioni e disegni
tratti dal romanzo Il Maestro e Margherita, in
parte ambientato in quel luogo all’epoca dello stalinismo. I graffiti rappresentano per alcuni anni la
tenace protesta di molti anonimi cittadini al divieto
di proseguire le rappresentazioni teatrali dell’opera
di Bulgakov, fortemente critica sulla censura, introdotto nel 1984. Come è risaputo all’estero in seguito alle vicende di personaggi del calibro di Andrej
Sacharov e Aleksandr Solženicyn, i dissidenti finiscono ancora deportati o rinchiusi in manicomio.
Nel 1986 Anni Ylävaara, in arte Rosa Liksom,
allora ventottenne, attraversa l’Unione Sovietica da
Mosca a Ulan Bator, nella Transiberiana. Ha già
vissuto nel paese, che, insinuatosi nella sua scrittura,
è affiorato di tanto in tanto nelle sue novelle sui
generis. Al 1985 risale la pubblicazione della sua
prima raccolta, Yhden yön pysäkki (nella versione
italiana Stazioni di transito), che suscita scalpore,
frammenta la narrazione e scuote le coscienze. Il
suo genere è un bozzetto che si tuffa nell’intimo di
un personaggio per ghermire un fugace brandello di
vita in uno stile scarno, spesso crudo. Rosa Liksom
scrive di giovani segnati dalla modernità, incapaci
di comunicare e pervasi dall’inquietudine e dalla
vacuità delle relazioni affettive. I suoi protagonisti
alimentano le subculture giovanili di Helsinki e di
altre città europee dove Anni ha vissuto, abbracciando la cultura punk e lavorando come panettiera
e lavapiatti. La giovane scrittrice preferisce soffermarsi su vite estreme e marginali: “La borghesia è
insapore e inodore”, sostiene in un’intervista a The
Guardian. E, mentre lei guarda a est, la sua scrit225
tura viene definita postmoderna, o paragonata alla
Blank Generation americana. Cionondimeno Rosa
Liksom racconta spesso le remote e solitarie terre
lapponi. Con lo specillo dell’antropologa che però
non indugia nello scandaglio psicologico, l’autrice
si sofferma su un’umanità ripiegata su se stessa che
custodisce ancor più intensamente il paradosso della
vicenda umana.
“Non scrivo di niente che non abbia vissuto”,
assicura. È in effetti un villaggio lappone che porta
il nome di Ylitornio ad averle dato i natali. Figlia
di allevatori di renne, Anni parte alla volta di Helsinki dopo il diploma, per laurearsi in antropologia
e poi immergersi nel mondo che le interessa. Mentre scrive, si afferma anche come artista; in alcune
opere tratteggia personaggi incontrati durante il suo
viaggio attraverso la Siberia (Väliasema Gagarin,
Stazione Gagarin, del 1987), in altre fotografa, poi
crea cortometraggi, opere con materiali disparati.
Nel 1998, l’anno in cui il rublo subisce la svalutazione più tragica che si ricordi, torna in Russia, e
vi trova un altro paese: “Un capitalismo selvaggio
aveva completamente spazzato via la vecchia Unione Sovietica”.
Finché decide di descrivere la “sua” Unione Sovietica.
Di solitudine, di amicizia, della malinconia
dell’uomo moderno, sedimento della Storia, consapevole della sua condizione, parodia di se stesso,
racconta il testo della Liksom, che offre un affresco
originale e forte di un paese prossimo alla fine. Un
racconto, non un romanzo. Un tessuto la cui unica
trama è una strada ferrata, poiché la narrazione si sviluppa in una geometria autonoma che, per assioma,
ha sottratto al lettore l’intreccio, la logica del testo.
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Alla sua pubblicazione, nel 2011, l’opera mostra una veste editoriale senza pretese: nonostante
l’autrice sia più che nota in patria e i suoi scritti
siano stati oggetto dell’esame di maturità, l’editore
non prevede un successo di pubblico. Troppo anomala. Una scrittura aspra, scabra seppure poetica,
che si spinge ai limiti del reale, attinge al vissuto
dell’umanità più sofferente, carnale, autenticamente popolare fino all’eccesso. Discutibile appare anche l’ambientazione: l’Unione Sovietica e la guerra
fredda sono ancora fonti di traumi per i finlandesi,
memori che la loro nazione di frontiera era talmente schiacciata tra le due potenze che si divisero
l’Europa da dover “inchinarsi al cospetto dell’una
badando bene a non urtare con il deretano l’altra”.
L’ottenimento del prestigioso Premio Finlandia
ne suggella il valore letterario. La critica sottolinea
il legame tra letteratura e arte figurativa: nelle motivazioni si afferma che l’autrice, scrittrice e artista,
compone mirabilmente luci e colori. Il professore
di letteratura russa Pekka Pesonen, le cui lezioni
rappresentano un richiamo per conoscitori e profani, scrive: “L’autrice è una vera conoscitrice della
Russia e riesce a far rivivere la vita quotidiana al
tempo dell’Unione Sovietica compiutamente, nelle tante sfaccettature, orripilanti o stupende, che la
contraddistinguevano […] L’autrice non descrive la
Russia per la prima volta, ma questo romanzo scava più a fondo che in tutte le sue opere precedenti:
nella medesima frase coesistono una gioia sfrenata
e un dolore straziante.” Benché sia scontato che i
premi non garantiscano le vendite, in questo caso il
volume ottiene anche un successo di pubblico. L’editore si affretta a ristamparlo, e sarebbe disposto a
pubblicare disegni e aneddoti legati al volume che
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dapprima aveva rifiutato; ma ora è Rosa Liksom a
tirarsi indietro, preferendo l’edizione più economica
per poi pubblicare il resto sul suo sito, a disposizione
di tutti.
Anton Čechov non credeva nell’intellighenzia,
che reputava falsa e ipocrita. Credeva nei singoli
individui, quale che fosse il loro ruolo nella società.
Tra le mura della corsia n.6, creata dalla sua penna
nel 1892, conversano il folle Ivan Gromov e un
indolente direttore.
Gromov, a dispetto della barbarie vissuta, è un
personaggio affascinante, che trabocca di voglia di
vivere. Dai suoi discorsi “vien fuori un disordinato,
sconnesso guazzabuglio di motivi vecchi sì, ma non
ancora cantati fino in fondo”.
Un personaggio dagli istinti primordiali, rozzo,
irruente, si racconta a modo suo nel romanzo di
Rosa Liksom.
Vadim è tutt’altro che un perseguitato per motivi ideologici. È un carpentiere nato nel 1941, imbevuto della forma mentis che la grande macchina
sovietica inculcava nei suoi cittadini mediante l’istruzione e la propaganda. Uno sciovinista convinto
che tracanna vodka a tutto spiano. Un antisemita
con un tatuaggio della Vergine. Che conosce male
la geografia: colloca in Siberia Suchumi e Jalta, situate sul Mar Nero. E confonde i dati storici: parla
di un Jazov voltagabbana riferendosi in realtà ad
Andrej Vlaslov, il generale sovietico che durante
la Seconda guerra mondiale si unì alla Germania
nazista insieme alle sue truppe. Un uomo avvezzo
ai famigerati campi di correzione, che pur amando
la sua patria, la maledice. Che ama teneramente la
sua donna e la maltratta.
Vadim popola il desolato paesaggio siberia228
no che imperversa dal finestrino di stralci di vita,
incongrui aneddoti, con un linguaggio sboccato,
a volte spaventoso, altre bonario, travolto com’è
da contrastanti stati d’animo, da una dirompente
ilarità a una disperazione senza rimedio, dalla beatitudine alla malinconia, dalla rude aggressività
alla commozione. Il suo eloquio trasuda vitalità,
brutalità, istinti, sudore. Si racconta, apertamente e
sinceramente, pur sapendo che il suo “interlocutore” resta muto. La sua parola non lascia mai indifferente il lettore, al quale la scrittura della Liksom
non offre né lusinghe né catarsi. Nulla, eccetto una
strisciante ironia, il sorriso ineffabile dell’arte che,
esasperandola, si lascia sedurre dalla vita.
Fulcro del dénouement del racconto, Vadim è
un assassino che si dimostra capace di una profonda sensibilità, di delicatezza e di amicizia. Quando regala alla giovane finlandese l’oggetto che più
gli sta a cuore, greve di sangue, lo investe di commozione. La sua sensibilità ha un effetto salvifico,
risolutivo: rivela la fallacia del giudizio umano,
mette in discussione la natura del crimine in una
società priva di umanità, dove un assassino non è
necessariamente peggiore di una persona che non si
è mai macchiata di un crimine. È quanto sosteneva
il giovane Dostoevskij in Memorie dalla casa dei
morti, l’opera legata alla sua prigionia a cui il testo
allude mentre il treno si allontana da Omsk.
Nonostante il suo destino sia segnato da una società indifferente e inesorabile, Vadim irrompe in
esso con la sua parola, che si rivela, si deride, si compiange. Veritiera e assurda, imprevedibile, pregna
di umanità. Nel racconto liksomiano l’impeto di
quella parola opera una diffrazione essenziale, poiché è simile a una perturbazione continua di onde
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luminose, la cui traiettoria è stata deviata per effetto
di una fenditura. Un fronte d’onda che non può far
altro che piegarsi, ma a suo modo, scomponendosi
in uno spettro discontinuo, allargando il fascio di
luce, seppur generando intervalli oscuri. E così, in
luogo di rappresentare il degrado e l’abbrutimento
dell’umanità schiacciata dalla tirannide morale,
dall’indottrinamento martellante e pervasivo, dalle
privazioni e da un sistema che non attribuisce alcun
valore al singolo e alla sua vita, il personaggio afferma l’incrollabile, inattesa tenacia dell’individuo e
la pervicacia dei valori della persona umana.
La giovane finlandese rimugina, sprofonda nel
caos dei suoi sentimenti e ascolta suo malgrado il
profluvio di parole del russo. La compresenza di
elementi diversi e contrastanti che caratterizza l’anima russa è estranea ai finlandesi, ma lei impara a
conoscere l’uomo e ad apprezzarlo.
La ragazza proviene da una società catapultata
nel domani, laddove l’Unione Sovietica sembra
immobile, destinata a durare in eterno. È figlia di
una nazione giovane, tanto caparbiamente avvinghiata alla propria sopravvivenza da conservare
la sovranità a costo di sacrifici, autocensura, isolamento, accondiscendenza: la Finlandia risente
ancora dell’ingerenza politica della grande potenza
che incombe sul suo confine orientale – la cosiddetta “ finlandizzazione”. Ciononostante, ha cominciato timidamente ad affrancarsi, sotto la guida
del presidente Mauno Koivisto. È una società i cui
cittadini, dal primo vagito fino all’ultimo respiro,
sono circondati dall’abbraccio dello Stato: nella
Finlandia degli anni Ottanta i servizi di previdenza
sociale e le forme di assistenza raggiungono l’apogeo e la legislazione si evolve al passo del progresso.
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Si tratta di un paese che, libero dal peso della tradizione e dalle remore morali, è nato proiettandosi
nel futuro, e sui giovani fonda la sua esistenza. In
quegli anni l’indipendenza economica e sociale dei
giovani e la libertà delle loro scelte sono ormai un
diritto. La ragazza può realizzare il sogno di viaggiare, andare all’estero, costruirsi il proprio futuro.
È abituata alla libertà e all’indipendenza quanto
all’introversione e alla pace.
Per contro, la giovane avverte lo smarrimento
e l’inquietudine dell’uomo moderno afflitto dalla
lacerazione dell’io, che il progresso e la corsa verso
il domani hanno sempre più incalzato, scisso, frantumato; la sua Siberia comincia in Finlandia. Del
resto, la frontiera che separa le due nazioni non corrisponde a un’asimmetria territoriale: per latitudine,
vegetazione e clima la Lapponia non è che il lembo
occidentale della Siberia. Lo sanno bene gli orsi, che
da sempre, nelle loro peregrinazioni, scorazzano a
est e a ovest di quell’invisibile demarcazione, derisa
dalla natura quanto temuta dagli uomini.
Per la ragazza il viaggio in treno non è che un
iperbato che si incunea nei suoi pensieri intimi e
nascosti, insidiati dalla indomita natura siberiana,
che allarga la prospettiva, si dispiega nella sua panica immensità. In una prosa scevra di eventi come
quella della Liksom, “tutto è in movimento: la
neve, l’acqua, l’aria, gli alberi, le nuvole, il vento,
le città, i villaggi, gli uomini e i pensieri”. La monotonia dello sferragliare del treno, dei gesti, delle
scene risucchiate nello spazio, e il paesaggio che assedia lo scompartimento con i suoi colori, i suoi
odori, il silenzio dell’inverno del Nord, tracciano
nel racconto un varco attraverso il quale la poesia e
le parole, susseguendosi come sciami, evocano im231
magini velate di nostalgia di un paese inghiottito
nel passato. Un paese bizzarro e un popolo pieno di
contraddizioni di cui la protagonista si innamora
senza saper spiegare il perché.
Senonché, con i sentimenti come nella vita, accade spesso ciò che più si teme. A tutte le latitudini
e in ogni tempo.
L’affetto della scrittrice per i suoi personaggi e
per il mondo che descrive invita a liberarsi della
limitatezza di un punto di vista, a confondersi nella
complessità delle cose. Rosa Liksom scaraventa il
lettore in una scrittura che, paradossalmente, compone la narrazione frastagliandone l’impianto, confondendone il senso. Nella sua visione la letteratura
dà voce al disagio che l’evoluzione della civiltà ha
lasciato inespresso, difende ciò che esula dalla norma, la deformità e l’eccezione altrimenti destinate
all’oblio. Poiché in quelle scorie è custodita la capacità di accettare l’alterità, e di amarla. Occorre
pertanto abituare l’occhio alla penombra per discernere le forme, per apprezzare la profondità. Spetta
allora al lettore ricavare il clinamen che apre una
breccia nella parabola discendente della vita umana; lo scarto minimo di pendenza attraverso il quale
il singolo rivela se stesso e riscatta la sua essenza.
Attraverso la sua inusitata scrittura l’autrice recupera il senso di un destino irreversibile, con un
tocco poetico, crudele, di intensa fisicità. I frammenti di narrazione, partecipi di un coro di voci sole,
si intrecciano in un effetto illusorio composito, sferzante, tanto fantastico da confondersi con la vita.
Delfina Sessa
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