SOMMARIO Culture Economie e Territori Pag. 3 Perché questo numero? di Francesca Gelli Rivista Quadrimestrale Numero Quattro, 2002 Politiche urbane e territoriali dell’ U.E. a cura di Francesca Gelli Viaggiando tra le costellazioni del sapere Pag. 8 Pag. 32 Pag. 53 Government e governance urbana nelle città Europee: argomenti per la discussione di Patrick Le Galès La declinazione Italiana dell’ Iniziativa Comunitaria Urban di Liliana Padovani Reti di città: una forma emergente di governance Europea di Paolo Perulli, Fabio Rugge, Raffaella Florio Il faro Pag. 71 Pag. 95 I programmi RECITE dell’U.E.: competitività e politiche di coesione nelle differenti realtà locali Europee di Ioannis Chorianopoulos Dall’Europa alle città e ritorno. Organizzazioni, approcci e strumenti in atto nell’implementazione di un’Iniziativa Comunitaria di Andrea Mariotto Passaggio a NordEst Pag. 114 Arco alpino orientale e politiche Europee di sviluppo locale: prime lezioni dall’implementazione dei Fondi Strutturali 1994-’99 con particolare riferimento ad Interreg II di Sandro Fabbro e Enzo Forner Pag. 131 Slovenia: nuove opportunità di cooperazione economica per le piccole imprese della provincia di Venezia a cura del Centro Studi C.G.I.A. Mestre Il sestante Pag. 139 L’analisi delle politiche urbane Europee: alcuni frame emergenti di Carla Tedesco Pag. 147 Il modello neo-repubblicano: le origini concettuali di Marco Almagisti Mayday Mayday Pag. 160 La sinistra hegeliana di Massimiliano Tomba Asterischi Pag. 164 M. D. COHEN, J. G. MARCH e J. P. OLSEN, A Garbage Can Model of Organizational Choice; J. G. MARCH and J. P. OLSEN, Ambiguity Choice in Organizations; J. G. MARCH and J. P. OLSEN, Riscoprire le istituzioni. Le basi organizzative della politica; J. G. MARCH and J. P. OLSEN, Governare la democrazia; J. DERRIDA, Oggi l’Europa. L’altro capo seguito da La democrazia aggiornata. Francesca Gelli Perché questo numero? La costruzione delle politiche pubbliche a livello Europeo presenta delle ambiguità di fondo, che emergono nella continua oscillazione tra due esigenze (contrapposte), entrambe considerate funzionali al processo di integrazione: da una parte, quella della standardizzazione, dall’altra, l’affermazione di uno stile cooperativo. La prima, concepita secondo un approccio “top-down”, è riconducibile, su di un piano analitico, ad una forma di razionalità e ad uno stile di decisione di tipo tecnico-burocratico. In concreto, si presenta principalmente incentrata sulla funzione di scelta di indicatori specifici e delle modalità della loro applicazione; l’istituzionalizzazione di una serie di vincoli, norme e procedure da seguire, ecc.. In altri termini, quel che emerge è una tensione verso la costituzione di principi e di leggi generali che informino indistintamente i territori dell’U.E., ai fini dell’integrazione. La seconda, improntata ad uno stile cooperativo, promuove la costruzione e realizzazione partecipata – e partecipativa - delle politiche, con una forte accentuazione del ruolo del locale e dell’importanza delle differenze tra contesti territoriali, come risorsa per l’integrazione, riscontrando oltretutto una sostanziale carenza di apposite strutture di implementazione a livello Europeo. Una conseguenza di questa seconda proposizione è quella di leggere il sistema di governo dell’U.E. anche come un’organizzazione complessa, per la molteplicità di funzioni, attori, livelli, ecc. che sono compresenti, e soprattutto, per le relazioni di interdipendenza che tra questi si instaurano e per le condizioni di rapido mutamento degli stessi contesti d’azione. In tal modo l’analisi si estende dalla considerazione dei meccanismi di costruzione delle decisioni e delle modalità di risoluzione dei problemi, all’osservazione dei processi di interpretazione e di comunicazione degli attori che ne sono in qualche misura coinvolti (March e Olsen 1982, 25). Se la tendenza alla standardizzazione, residuo del paradigma della modernità, tende a strutturare la comunicazione all’interno di un’organizzazione come formale (fondando sulla statistica la ricerca di una univocità del linguaggio di base), lo stile cooperativo scopre il peso della comunicazione informale, a partire dalle convinzioni di quanti agiscono e producono senso nell’ambito dell’organizzazione, in misura dunque preponderante, nei processi di produzione delle politiche (per un approfondimento su quest’aspetto, vedi in questo stesso numero, la recensione multipla su March e Olsen). Più precisamente, nel caso di molti programmi e politiche, si crea l’aspettativa che l’introduzione di una serie di indicazioni funga da dispositivo di operazionalizzazione di concetti e di principi molto generali (quali ad es. quelli di integrazione, o di coesione economica e sociale, ecc.), spesso utilizzati nella fase iniziale di concezione della politica in termini metaforici, nel presupposto che questi vadano specificati in termini operativi per potere passare all’azione. Ciò può avvenire secondo le due logiche di sopra descritte, cioè sia ricorrendo a parametri e metodi di tipo quantitativo, sia introducendo soluzioni di tipo più qualitativo, che si concretizzano nei processi d’interazione. Entrambe queste logiche 3 n.3 / 2002 si trovano applicate alla definizione e alla selezione delle aree, o regolano le procedure di partecipazione, di finanziamento, di monitoraggio, la costituzione dei partenariati, ecc.. Nella varietà delle politiche e delle iniziative comunitarie queste due diverse logiche si trovano dunque spesso compresenti. In un recente intervento, Bartolini (2002) riferendosi ai processi decisionali Europei riconosce queste due logiche nei termini di un dualismo radicale tra “democrazia” e “diplotecno-burocrazia”. Ad ogni buon conto, dell’estrema diffusione e al contempo vaghezza di alcuni principi basilari si hanno continui riscontri empirici. Così, i discorsi intorno all’integrazione e alla coesione sociale sembrano ampiamente accettati e condivisi, ma a ben vedere, di fatto, essi sono molto ambigui e il problema della coesione è stato trattato piuttosto attraverso una serie di meccanismi per l’integrazione (il mercato del lavoro, la famiglia, le istituzioni) e le politiche pubbliche, ai vari livelli di governo, sono apparse scarsamente rilevanti e poco efficaci (Le Galès 2002, 8). Elazar individua un particolare momento storico nel processo di costruzione dell’U.E. in cui una certa ambiguità si produce, relativamente ad alcuni principi fondamentali, proprio a partire dall’introduzione di alcuni termini che vengono rapidamente a fare parte del linguaggio che dice le fasi e i caratteri dell’esperienza Europea dell’unificazione. Nel dopoguerra appare chiaramente che il passo verso la federazione in Europa (sul modello della democrazia federale) è troppo difficile da sostenere e si fa strada la soluzione ‘funzionalista’; si abbassano i toni espliciti sugli ‘alti propositi’ dello sforzo di unificazione e al posto dei termini di ‘federale’ e ‘confederale’ vengono utilizzate definizioni come ‘sopranazionale’ e ‘comunità politica’. Di qui, il dualismo che si genera nella letteratura sull’integrazione europea tra teorie intergovernative e teorie sopranazionali, tuttora perdurante (Bartolini 2002), nonostante le varie declinazioni teoriche della governance multilivello. Ancor più importante, quello che si produce è una confusione fondamentale: “l’integrazione Europea ha cominciato ad essere vista come un fine che ha valore in se stesso, spesso confondendo i mezzi con i fini” (Elazar 2002, 32). Quello (ambiguissimo e caleidoscopico) dell’integrazione dunque diventa l’obiettivo imperante e su cui si tenta di costruire una convergenza e condivisione, mentre la chiarificazione della forma di governo e della natura ‘dell’impresa politica’ sembra passare in secondo piano. Oggi possiamo affermare che quest’indefinitezza di concetti e principi appare come una caratteristica preponderante del dibattito (che è ricco di posizioni), forse tutto sommato ricercata, dal momento che attraversiamo una fase di costruzione di una governance Europea, cioè di un nuovo tipo di polity. E tuttavia è proprio nell’implementazione delle politiche che si possono aprire strade per una definizione pratica di alcuni concetti e principi basilari, a partire da quello di integrazione. I Programmi d’Iniziativa Comunitaria (vedi in questo numero in particolare i saggi su “Urban” e “Interreg”, di Padovani, Mariotto, Fabbro e Forner) si collocano tra gli strumenti di politiche e di orientamento delle politiche pubbliche dell’U.E. che promuovono il territorio come componente strategica essenziale (soprattutto in ambito regionale e interregionale) per la realizzazione di alcuni fondamentali obiettivi politici comunitari, quali quello dell’integrazione e della 4 Francesca Gelli Perché questo numero? coesione economica e sociale. Nell’ultimo decennio anche le reti di città transfrontaliere che connettono autorità locali e regionali, dando luogo a partenariati di attori pubblici e privati, possono essere collocati in questo scenario di crescita diffusa in Europa del livello meso di governo (vedi in questo numero i saggi di Le Galès, Perulli, Chorianopoulos). Da un lato infatti le città si organizzano in reti per esercitare una pressione sull’U.E., dall’altra l’U.E. essa stessa implementa le proprie politiche attraverso le reti di città. Su questa rinnovata considerazione della dimensione del territorio per la predisposizione e attualizzazione di finalità politiche, economiche e sociali, si è concentrata negli ultimi anni l’analisi e la riflessione di vari studiosi provenienti da differenti ambiti disciplinari, per cui il discorso ha assunto diverse accentuazioni1. Sembra comunque che ci sia condivisione sul fatto che un elemento di novità, rispetto al passato, di questo movimento di riterritorializzazione delle politiche, stia nel tentativo di proposizione di un ridisegno del territorio e delle sue istituzioni dal punto di vista organizzativo, e secondo un’accezione “debole”, cioè in riferimento alla natura delle interazioni e delle reti di relazione, piuttosto che alle strutture istituzionali definite, dei centri di autorità e di governo. In altri termini, quello delle politiche non è un territorio che si identifica e si precisa propriamente con i confini amministrativi esistenti, all’interno degli Stati, o con le frontiere tra gli Stati, e non per questo (o solo per questo) il territorio è “politico”: proprio la problematizzazione di confini e frontiere, ha assunto infatti pieno significato politico, economico e sociale ai fini della realizzazione dell’obiettivo dell’integrazione Europea. Le nuove istituzioni della cooperazione su base territoriale, così come l’implementazione di molti programmi di politiche comunitarie, si inseriscono in quest’orizzonte di senso e di mutamento, ove le realtà locali possono assumere una rilevanza strategica, se riescono nella sfida di organizzare e strutturare forme innovative di governance territoriale. Così, basti pensare all’impatto della ridefinizione, ancora peraltro pienamente in atto, dei rapporti di sussidiarietà “verticale” e “orizzontale”, centrali ad una comprensione della produzione delle politiche territoriali Europee, in particolare per quel che riguarda gli aspetti della partecipazione. In questo senso, la definizione del principio del partenariato dato a livello Europeo fa riflettere. A questo proposito va ricordato che, a seguito della riforma dei FS del 1988 nell’ambito della politica di coesione, oltre che ad un numero di Obiettivi, emergono dei principi-base. Il partenariato (assieme a “concentrazione”, “programmazione” e “addizionalità”) è uno tra i principi. “Il partenariato rappresentava uno degli assi portanti della riforma. Per partenariato si intendeva una stretta concertazione tra la Commissione e le autorità pubbliche competenti in ciascun Stato Membro, designate a livello centrale, per partecipare a tutte le fasi di programmazione” (Morata e Fabbrini, 2002, 116). Nasceva così il Consiglio consultivo degli enti regionali e locali, parte della DG XVI, considerato come il diretto antecedente del Comitato delle Regioni (istituito con il Trattato di Maastricht). Con la nuova politica di coesione (2000-2006) gli obiettivi vengono concentrati in 3 e anche i principi rimodulati. “ Si richiede che i Piani di Sviluppo presentati dai governi degli Stati membri, che devono garantire la partecipazione delle autorità regionali e locali, comprese quelle ambientali, includano il parere degli attori economici e sociali e delle Organizzazioni non Governative attraverso la 1 La letteratura su questo punto è vasta, ma mi interessa rimandare, tra gli altri, alle riflessioni di alcuni autori, per il tipo di connessioni che a partire da quest’aspetto sviluppano, in particolare: Le Galès, 2002; Janin-Rivolin, 2000; Padovani (in questo stesso numero); Chorianopoulos (in questo stesso numero); Salone (2000). 5 n.4 / 2002 pratica dei patti territoriali sull’impiego (…). Il partenariato deve proseguire anche nella fase successiva attraverso la partecipazione dei diversi interlocutori al comitato di riferimento (autorità locali per l’ambiente, agenti socioeconomici, ecc.)” (Morata e Fabbrini, 2002, 134). Se la prima definizione di partenariato è riconducibile ad un’ottica di “sussidiarietà verticale”, in cui l’aspetto prevalente è costituito dalle relazioni intergovernative, la seconda richiama maggiormente la nozione di “sussidiarietà orizzontale” (che pertiene i rapporti tra istituzioni e cittadini, gruppi, ecc. e tra cittadini, nelle varie forme della loro organizzazione), e molti aspetti dei processi di devoluzione nel frattempo intercorsi. Ci avviciniamo in tal modo ad una comprensione più articolata di quanto s’intende come costruzione di una governance Europea (vedi anche il Libro Bianco della Governance Europea). Chiarito questo punto, va tenuto presente come, poi, d’altra parte, l’impatto delle strutture istituzionali del territorio esistenti abbia peso e risulti di fatto ancora determinante, sotto molti aspetti, per la realizzazione delle politiche e questa è l’altra faccia della medaglia (Chorianopoulos, in questo numero). Ciò detto, comunque, il fatto ormai da più parti ricordato, che non si disponga ancora propriamente di una politica territoriale dell’U.E. di settore, formalizzata e con l’attribuzione di competenze specifiche, assume un valore relativo ai fini della definizione della nozione di territorio e della sua nuova centralità da giocare nelle politiche, per quanto ovviamente questa formalizzazione sia per molti aspetti attesa, per i vantaggi che potrebbe arrecare. Tale riconcettualizzazione della nozione di territorio e del suo uso, è risultata di particolare interesse nel contesto Italiano, dal momento che la comprensione delle politiche territoriali, differentemente da quanto accadeva in altri paesi (prevalentemente del Centro e Nord Europa), fino a pochi anni fa in Italia sembrava ancora particolarmente radicata nell’identificazione delle componenti “spaziali” del territorio, intese come riconducibili alla sostanza di quelle “fisiche” (trascurando pertanto la dimensione d’interazione sociale, politica ed economica del territorio). Questa ridefinizione a livello Europeo del territorio è quindi tornata particolarmente utile in Italia per velocizzare i tempi di un salto culturale in atto, nel modo di concepire il territorio, in molti ambienti scientifici e accademici in primo luogo (dal momento che si rendeva necessario un dialogo interdisciplinare), ma anche prioritariamente negli ambienti dell’amministrazione pubblica e della programmazione e pianificazione a livello nazionale e regionale. In questa prospettiva, un’analisi che risulta nuovamente da rivisitare è quella di Bagnasco. Ancor prima dei volumi del ‘99 (“Tracce di comunità)” e del ‘94 (“Fatti sociali formati nello spazio”) si veda l’opera del ‘77: “Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano”. La definizione di una realtà della “Terza Italia” è divenuta in generale una metafora non solo per la rottura degli stereotipi alla base della contrapposizione Nord-Sud, ma per un mutamento di paradigma nel modo di analizzare il territorio. Invece di essere accettato come un “dato”, il territorio ha cominciato ad essere problematizzato come il risultato di processi di interazione sociale (e locale) tra diverse sfere di regolazione (economica, politica, comunitaria). In particolare, Bagnasco osserva come un approccio più strategico ed integrato alla pianificazione e alle politiche territoriali si realizza nelle dinamiche di territorializzazione delle strutture delle società locali a livello regio- 6 Francesca Gelli Perché questo numero? nale, ma come processo di regionalizzazione; quindi, non semplicemente come assunzione dei confini amministrativi delle nuove costituite realtà istituzionali, le Regioni, appunto (a partire dagli anni ‘70). D’altra parte tale riconcettualizzazione del territorio è stata ricondotta spesso in modo preponderante all’accresciuto ruolo delle città nello spazio politico ed economico Europeo, mettendo in relazione anche la natura intrinsecamente provvisoria e ibrida dei confini territoriali delle città con la diminuita rilevanza dei confini amministrativi esistenti per la definizione delle politiche territoriali, cui prima si è accennato. Inoltre, le città sono state viste a livello Europeo come nodi strategici della concentrazione delle attività politiche ed economiche, dello scambio, dell’interazione sociale, quindi, dello sviluppo e della competitività dei sistemi locali, e al contempo come luoghi dell’addensamento di gravissimi problemi: esclusione sociale, povertà, emarginazione e conflitto sociale, disastro ambientale, criminalità, ecc. ( Tedesco, in questo numero). Per tutte queste ragioni, la selezione dei saggi che compongono il numero ha privilegiato la trattazione di una politica volta specificamente all’intervento su aree urbane (trattasi di Urban, tra i Programmi d’Iniziativa Comunitaria) e ricerche empiriche e in chiava comparata aventi per campo d’indagine le politiche delle “reti di città”. Desidero ringraziare gli autori, italiani e stranieri, che hanno contribuito alla realizzazione di questo numero, i quali, come era stato loro richiesto, malgrado fossero impegnatissimi con altri lavori, hanno inviato, tutti, saggi inediti. A mia cura è la traduzione dall’inglese dei saggi di Patrick Le Galès e Ioannis Chorianopoulos. Riferimenti bibliografici Bagnasco, A. (1977), Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Bologna, il Mulino Bagnasco, A. (1994), Fatti sociali formati nello spazio. Cinque lezioni di sociologia urbana e regionale, Milano, Franco Angeli Bagnasco, A. (1999), Tracce di comunità, Bologna, Il Mulino Bartolini, S. (2002) “Lo stato nazionale e l’integrazione europea: una agenda di ricerca”, testo della Lettura inaugurale, Associazione Italiana di Scienza Politica, Genova, 19-20 settembre 2002 Elazar, D.E. (2002), “The United States and the European Union: Models for Their Epochs”, pp 3153, in Nicolaidis K. and R. Howse (Editors), The Federal Vision, Oxford, Oxford University Press Janin-Rivolin, U. (2000), (a cura di) Le politiche territoriali dell’Unione Europa, Milano, FrancoAngeli Le Galès, P. (2002), European Cities. Social Conflicts and Governance, Oxford, Oxford University Press March, J.G. and J.P.Olsen (1982), Ambiguity Choice in Organizations, Bergen-Oslo-Tromsø, Universitetsforlaget Morata, F.e S. Fabbrini (2002), L’Unione Europea. Le politiche pubbliche, Bari, Laterza Salone, C. (2000), “Dallo Ssse all’Espon: prove generali di una comunità scientifica”, pp 13-25, in Janin-Rivolin (2000) [email protected] 7 n.4 / 2002 Patrick Le Galès Government e governance urbana nelle città Europee: argomenti per la discussione Viaggiando tra le costellazioni del sapere Introduzione 1 Alcuni classici tra gli studi su città e regioni in Europa si possono considerare: Mény e Wright (1985); Keating e Loughlin (1997), Sharpe (1993); Page e Goldsmith (1987); Le Galès e Lequesne (1998); Dunford e Kafkalas (1992); Bagnasco e Le Galès (2001); Kohler-Koch (1999; Rhodes (1997). 2 Mény e Wright hanno individuato undici fattori, di tipo politico, giuridico, amministrativo, per spiegare le variazioni dei rapporti tra centro e periferia nei paesi Occidentali. 3 ...per esser chiari: neomarxisti, neo-classici, neo weberiani/Polanyi 8 L’aumento dell’importanza di città e regioni nell’ambito degli Stati nazionali e del processo di costruzione della governance Europea è stato ampiamente documentato negli ultimi vent’anni1. Per spiegare la diffusa crescita in Europa del livello meso di governo (Sharpe 1993), Anderson sottolineava come la fine delle guerre in Europa avesse ridotto la necessità di mobilitazione da parte degli Stati, aprendo a scenari politici differenziati. In un primo momento, i ricercatori, per lo più scienziati politici e costituzionalisti, hanno individuato la logica del prodursi di questa dinamica in una combinazione di pressioni dal basso (movimenti regionalisti, esigenze di democrazia, movimenti sociali che si contrappongono allo Stato e agli apparati gerarchici) e interventi dall’alto (decentramento dei tagli alla spesa sociale, mobilitazione della periferia a favore della modernizzazione e dello sviluppo economico, razionalizzazione degli investimenti pubblici, necessità sempre minore di intraprendere una guerra contro uno Stato vicino, fine del colonialismo). Nella maggior parte dei paesi dell’Europa Occidentale, questi elementi hanno indotto un ridisegno delle relazioni centro-periferia, con diverse soluzioni: dalla razionalizzazione del governo locale nel Nord-Europa, ad alcune riforme a favore del decentramento al Sud e, infine, al quasi federalismo di Spagna e Belgio. Nel quadro dello Stato nazionale, considerato quale centro della concentrazione del potere, la maggior parte dei paesi hanno seguito diversi percorsi2 . In un secondo momento, dagli anni ‘70 in poi, molti dei cambiamenti che hanno riguardato governi locali e regionali sono stati collegati, nella letteratura, a tre processi che sono potenzialmente lontani dall’essere conclusi: la globalizzazione, in particolare dell’economia, l’integrazione Europea, lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione. Per contrasto in anni più recenti, tali processi sono spesso considerati in grado di apportare radicali cambiamenti, di destabilizzare gli accordi esistenti, nonché di costruire convergenze. Questi studi sono opera non solo di scienziati politici, ma anche di geografi, economisti, sociologi e studiosi di economia politica secondo vari approcci3 . Si possono trarre diverse conclusioni da quest’ampio corpo di ricerche sui livelli di governo infranazionali, aventi un impatto diretto o indiretto sulle domande di democrazia: - La prima, concerne la ristrutturazione dello Stato, che introduce nuovi vincoli e opportunità per i governi infranazionali. Wright (1996) mette in evidenza la Patrick Le Galès Government e governance urbana nelle città Europee combinazione dinamica dei seguenti fattori: la recessione economica, un mutamento di paradigma che attribuisce maggiore rilievo al mercato, nuove forme di politica, globalizzazione, europeizzazione, liberalizzazione, progresso tecnologico, decentralizzazione e frammentazione, riforme del settore pubblico, cambiamenti nell’agenda politica. Viceversa, i neo-marxisti spiegano la ristrutturazione dello Stato in relazione ai mutamenti di forma e di scala del capitalismo (Jessop 1997a). La redistribuzione dei poteri che procede con la costruzione dello spazio politico europeo riguarda anche l’apparato Statale. La complessificazione dello spazio politico comporta per alcuni gruppi di soggetti influenti nell’ambito Statale di distanziarsi dai gruppi costituiti di interessi, e di disporre di un maggior raggio d’azione per scegliere le proprie priorità, per esempio per accrescere invece che per sedare la pressione politica e sociale. Implementare la razionalizzazione della spesa pubblica sociale con il ricorso al decentramento, o servirsi dell’Unione Europea come di un dispositivo per imporre riforme all’interno di ciascun paese, sono diventati misure molto comuni. Le élite politiche e amministrative Statali non possono più pretendere di proteggere interamente i cittadini, ma possono usare la pressione e i rischi che sono associati alla nuova dimensione politica ed economica per giustificare un’espansione dell’intervento in alcune sfere e un ritiro da altre. Majone (1996) ha messo in evidenza come l’Unione Europea tenda a comportarsi come uno Stato regolatore, dovendo far fronte alle cattive performance dei mercati, piuttosto che con interventi volontaristi di sostegno pubblico o politiche di redistribuzione. Questa tendenza è venuta a caratterizzare anche paesi Europei, come si può constatare dalla diffusione della formula dell’agenzia regolativa (Wright and Cassese 1996). Cerny (1990) vede tali mutamenti come il realizzarsi dello “Stato competitivo”, interessato soprattutto alla competizione economica e ai rapporti con la classe imprenditrice, una prospettiva questa espressa anche da Jessop (1994) nella sua concettualizzazione dello stato Schumpeteriano postnazionale garantista dell’occupazione. Dal lato della nazione, la frammentazione della società nazionale fa aumentare la frammentazione dello Stato, avanzando di conseguenza nuove istanze di coordinamento. - La seconda, concerne la relativizzazione della rilevanza della scala (Brenner 1999) e della conflittualità di soggetti sociali pubblici e privati nell’azione di consolidamento o indebolimento dei vari livelli di governo, incluso quello dello Stato-nazionale. Quel che abbiamo a fronte, non è un’Europa di regioni, o un’Europa di città o un’Europa di Stati nazionali, ma una governance Europea, un processo in cui la maggior parte degli Stati, e alcune regioni e città, stanno giocando un ruolo, e possono diventare attori politici. Sono pertanto da considerare la formazione di reti orizzontali e verticali (attivatesi su una politica), e più in generale, l’articolazione di scale differenti ‘dal locale al globale’. Buona parte delle ricerche comunque registrano una tendenza, lenta e non uguale, verso il rafforzamento dei livelli meso di governo di tipo rappresentativo. - Un altro elemento è l’importanza crescente della politica nella produzione e negli interessi economici a livello locale e regionale che non riposiziona gli accordi di tipo politico e sociale. La maggior parte dei governi infranazionali cercano di approntare alcune soluzioni politiche e di sviluppo di tipo strategico, in modo da agire come attori strategici nello spazio della governance Europea, qualsiasi cosa questo possa significare, e per quanto possa darsi in maniera 9 n.4 / 2002 superficiale. - Infine, le ricerche che hanno messo a fuoco politiche pubbliche locali e regionali, hanno posto l’accento in particolare su processi di frammentazione (Crosta, 1998), di deterritorializzazione e riterritorializzazione (Cole and John 2001; Leresche 2001), sull’aumento della pressione sociale ed economica (Musterd and Ostendorf 1998). I modelli tradizionali di governo urbano nell’ambito dei sistemi politici e amministrativi nazionali sono perciò collassati, di qui un animato dibattito volto all’analisi e identificazione di nuove forme di governance urbana (Goldsmith 1995; Mayer 2000; Stoker 2000; Harding and Le Galès 1998; Baldersheim and Stava, 1996). Nel campo accademico così come in quello professionale, il dibattito intorno alla governance è visto come sintesi di questi cambiamenti, per quanto possa essere definito debole. Ne consegue che in un certo senso, soprattutto nel contesto di costruzione di una governance Europea, gli strumenti analitici della governance e delle reti di politiche sono stati utilizzati non soltanto per lo studio delle politiche nazionali, ma sempre più anche per quelle locali e regionali, dal momento che la crescente interdipendenza tra livelli di governo tende a essere una caratteristica generale. Questo è stato fatto di solito in due modi: o ponendolo in relazione con le domande di sviluppo economico sulla scia del dibattito teorico Americano avanzato sulle coalizioni per lo sviluppo e sui regimi urbani (Judge, Stoker and Wolman, 1995), o trattandolo nei termini di reti di politiche locali (con numerosi studi sulle politiche pubbliche locali). L’ambito del governo infranazionale una volta era ben conosciuto per la diversità esistente tra paesi Europei, da cui il ruolo della ricerca in chiave comparata. Attualmente la differenziazione politica ed economica nell’ambito dello Stato nazionale è una tendenza comune alla maggior parte dei paesi, e non solo all’Italia, alla Spagna o alla Germania, ma in modo crescente anche alla Gran Bretagna, Francia, Olanda e perfino Svezia. Non è mia intenzione analizzare nello spazio di questo saggio domande di governance democratica e partecipativa in relazione con i vari tipi di governo locale e regionale. Alcune domande inerenti governi e forme di governance regionali hanno convogliato l’attenzione di un vasto corpo di studi. A dir il vero, il presente saggio si concentra sulle città, la qualcosa è ben significativa in termini di comparazione nel caso dell’Europa. Una buona trattazione dell’argomento, relativamente ai governi provinciali e regionali, è altresì di interesse. La scelta non è mirata ad enfatizzare il ruolo delle città, ma a facilitarne la comparazione. I governi urbani sono di solito messi in relazione con lo Stato nazionale, in termini di democratizzazione e legittimazione delle forme di gestione territoriale. Sono definiti in primo luogo considerando la fornitura dei servizi e la politica pubblica e in secondo luogo come arene politiche e strumenti per promuovere la democrazia, la partecipazione e il governo delle società locali. Nel significato tradizionale del termine, il riferimento è ai consiglieri eletti e all’amministrazione. Il dibattito intorno ai cambiamenti dei governi urbani e alle nuove forme di governance in connessione con domande di democrazia è oggetto di analisi della seconda parte del saggio. 10 Patrick Le Galès Government e governance urbana nelle città Europee Governi urbani in Europa e principali cambiamenti In questa sezione l’accento è posto sulle principali caratteristiche dei governi urbani in Europa. Viene data una breve descrizione dei cambiamenti più rilevanti, con qualche delucidazione sulle diversità. Non vi è alcuna intenzione per questa parte di inquadrare tali contenuti in una cornice teorica, trattandosi di un’analisi che si potrebbe definire piuttosto naive. Prima dell’inclusione all’interno di Stati nazionali, le città Europee erano inizialmente associazioni istituzionalizzate, autonome, corporazioni attive territorialmente, capaci di intraprendere azioni verso l’esterno (che si trattasse del lord, del principe, dello Stato, del sovrano o di città rivali) e condotte da pubblici funzionari urbani4 . I governi urbani del Medioevo svilupparono istituzioni più o meno democratiche, difesero i loro interessi commerciali e la loro autonomia, intrapresero la costruzione di nuovi quartieri e di nuove strade, gestirono conflitti sociali e conflitti tra interessi diversi, organizzarono la vita pubblica e l’ordine cittadino, lasciarono il segno di sé con l’edificazione di monumenti che simboleggiavano il potere: piazze, municipi, torri o campanili. In un periodo successivo, nelle città industriali, per esempio del Regno Unito o anche della Germania, della Francia e della Scandinavia, il modo di riguardare ai problemi sociali divenne tale che le èlite al governo urbano introdussero programmi innovativi di politiche abitative, di pianificazione, elementi fondamentali di politica sociale ed educativa (De Swaan 1995). Le preoccupazioni igieniche condussero al movimento di ricostruzione della città noto come “hausmanizzazione”, e cioè alla valorizzazione dei beni pubblici locali. I governi urbani svolgevano un ruolo essenziale nella fornitura dei servizi e dei beni di prima necessità, quali l’acqua, le fogne, l’illuminazione delle strade, quindi il gas e l’elettricità, vigili del fuoco e mezzi di trasporto, per non parlare dei macelli. Tale sviluppo fu diverso, frammentato, diviso tra una piccola borghesia conservatrice e il movimento socialista municipale, più presente nell’Europa del Nord che del Sud. La maggior parte dei governi locali in Europa ottennero un riconoscimento di natura giuridica nella seconda metà del XIX secolo. A mano a mano, si formò una burocrazia locale professionale, che aveva il compito di occuparsi di tali innovazioni. La crescita del governo urbano non fu un fenomeno limitatamente locale o nazionale. Scambi di esperienze di idee, per esempio nella pianificazione e nell’edilizia abitativa popolare, furono essenziali. Per quasi tutto il periodo del secondo dopoguerra, la categoria “governo urbano Europeo” non aveva un particolare significato fatta eccezione che nel Nord e nel Regno Unito. Con il compromesso socialista democratico nella maggioranza degli Stati Europei, il ruolo del governo urbano fu visto secondo il paradigma del centro-periferia (Mény and Wright 1985; Page and Goldsmith 1987), e cioè nei termini nazionali e come parte del governo locale. I governi urbani differivano in Europa perchè ogni paese possedeva un diverso sistema costituzionale, differenti regole, differenti sistemi di finanza pubblica, di politica e di tradizioni, una diversa organizzazione per la fornitura dei servizi. In alcuni casi, le variazioni all’interno di uno stesso paese erano anche significative (Germania o Italia). I governi urbani erano visti o come entità predisposte alla fornitura dei servizi, in particolare di tipo sociale (di qui, l’ultimo lungo dibattito sulla dimensione e l’a- 4 “La città del Medio Evo, tale quale appariva al XII secolo, è una comunità vivente al sicuro di una cerchia fortificata, una comunità di commercio e di industria e basata sul diritto, con una amministrazione e una giurisprudenza di eccezione, che fanno della città una entità collettiva privilegiata”. Pirenne (1971, 154) 11 n.4 / 2002 malgama) o come unità politiche. Nella loro importante ricerca comparata, Goldsmith e Page (1987) hanno avanzato la tesi secondo cui l’autonomia del governo locale in Europa dovrebbe essere analizzata in termini di autonomia attraverso due criteri principali che abbraccino o siano strettamente connessi ad altre dimensioni: lo stato giuridico e politico. Questa analisi chiaramente mette in luce le differenze tra i governi urbani del Nord Europa attenti al mantenimento del welfare e quelli del Sud Europa, più radicati politicamente e territorialmente (talvolta clientelari), e il modello di sviluppo economico del Regno Unito. Altre classificazioni hanno preso in considerazione anche l’Olanda e la Germania. Facendo una mappa dei cambiamenti principali che hanno interessato i governi in Europea: sugli aspetti politici 5 Per avere una buona panoramica della questione in differenti paesi, si rimanda al lavoro di Gabriel e HoffmanMartinot (1999) 12 Secondo la tradizione consolidata degli scienziati politici che si sono formati sull’importante opera di Dahl, l’analisi va indirizzata sui principali meccanismi di selezione dei leader, sulle elezioni, sull’organizzazione degli interessi e dei partiti politici, e l’impatto di questi sulle politiche. Essendo i governi urbani e locali in Europa radicati nell’ambito di Stati nazionali, questi fattori si presentano massimamente integrati e differenziati tra gli Stati nazionali, nonostante le forti differenze all’interno degli stessi singoli sistemi nazionali (come è il caso dell’Italia e della Germania). Come ho già avuto occasione di dire, la maggior parte delle società Europee sono urbane. Cambiamenti che riguardano la politica in quegli Stati nazionali si verificano, per esempio, anche a livello urbano: come la frammentazione dei partiti politici, degli interessi, la partecipazione alle elezioni che non mostra un chiaro declino ma registra variazioni, alcune tendenti al calo, altre alla stabilizzazione5. Le differenze tra Paesi appaiono ancora più marcate quando si prenda in considerazione il livello urbano. Queste distinzioni consolidate sono ora oggetto di discussione poiché un insieme comune di pressioni e opportunità (l’Europa, la frammentazione, la riorganizzazione dello Stato, la ristrutturazione dell’economia, tensioni sociali) tende a ibridare le frontiere tra i modelli nazionali esistenti di governo urbano e a rafforzare le diversità all’interno degli Stati nazionali. Varie spinte al cambiamento sono portate avanti dagli Stati. Inoltre, i governi urbani in Europa stanno subendo pressioni politiche connesse sia alla ristrutturazione dello Stato sia a problemi relativi al sistema della democrazia rappresentativa, e a cambiamenti nella cultura politica (Clark and Hoffman-Martinot 1998). In primo luogo, vi è un movimento di carattere transnazionale che genera domande di democrazia urbana e di affidabilità (King e Stoker 1996). Con l’elezione diretta dei sindaci in Germania, in Italia, e in misura minore anche nel Regno Unito, i sindaci hanno spesso conquistato una maggiore rilevanza sul piano politico in molti paesi dell’Europa. In maniera emblematica è successo in Italia, negli anni ‘90, e in Belgio, dove politici di livello elevato si sono impegnati nel governo delle città; ma è accaduto anche in paesi centralizzati come il Portogallo, la Svezia o la Finlandia. In secondo luogo, partiti dei verdi, di relativamente modeste dimensioni, si sono insediati nella maggior parte dei paesi del continente, esercitando un’influenza sulla politica urbana. In particolare dalla metà degli anni ‘80, essi Patrick Le Galès Government e governance urbana nelle città Europee hanno fatto pressione su due tipi di questioni: forme di consultazione diretta (tramite referendum locali, esperienze di giurie di cittadini) da affiancare ai politici eletti nelle scelte su questioni fondamentali (per esempio, su decisioni relative al trasporto pubblico). Hanno altresì tratto vantaggio dal movimento di opinione contro la corruzione in Italia, in Belgio, in Francia e in Germania. Infine, una certa erosione della capacità dei partiti nazionali di mobilitazione e incremento delle risorse a disposizione dei governi urbani, hanno dato maggiore rilevanza alle figure leader a livello urbano e a quelle strutture di partito che, in taluni casi, sono anche aggregazioni di partiti locali. I governi urbani sono stati oggetto di contestazione da parte dei movimenti sociali urbani negli anni ‘70 e ‘80. La burocratizzazione, gli apparati gerarchici, i progetti di rigenerazione urbana, la frammentazione dei processi di decisione che caratterizzavano i governi urbani, sono stati contestati nelle città di tutta Europa. Conflitti sono entrati a fare parte della sfera della politica urbana, venendo a riguardare le politiche abitative, la pianificazione, i progetti di grandi infrastrutture, aspetti di crisi dell’economia e questioni di tipo culturale. Nuovi gruppi, oltre a quelli su presupposti di classe, hanno organizzato l’emergere di nuove domande (di qualità della vita, di democrazia e partecipazione, di sviluppo economico e culturale) allo scopo di promuovere cambiamenti urbani in opposizione con i leader urbani formalmente eletti (Castells 1983). Le nuove classi medie sono state progressivamente incorporate nell’ambito dei partiti politici (socialdemocratici e verdi) e hanno giocato un ruolo importante in molte città Europee nel lancio di un insieme di politiche urbane che rispondessero a queste domande. Nei casi più estremi, per esempio quello degli squatters ad Amsterdam o a Berlino, i rappresentanti dei governi urbani hanno imparato a cooperare, a darsi da fare per trovare finanziamenti e per assorbire questi gruppi entro sistemi di regolazione meno rigidamente definiti (Mayer 2000). Prevenire i grandi conflitti sociali e includere i vari gruppi è divenuto di norma in molti governi urbani, e i movimenti sociali sono diventati meno attivi (Pickvance 1995). Molti governi locali e regionali hanno dovuto interagire con o adattarsi ai cambiamenti di natura organizzativa dello Stato. L’assunzione di differenti forme di burocrazie centralizzate sembra essere stata sostituita dalla frammentazione dello Stato. La letteratura nell’ambito della sociologia dell’organizzazione (Crozier and Friedberg 1977), della governance (Kooiman 1993; Rhodes 1997), delle politiche pubbliche (Lascoumes et Poncela 1998; Dente 1990), delle reti di politiche (Marsch and Rhodes 1992) ha problematizzato la coerenza dello Stato. È stata portata avanti la prospettiva di uno Stato frammentato (una realtà di agenzie, reti, singole individualità, differenziazione dell’arena politica e densificazione degli attori) in cui le politiche pubbliche non funzionano in termini di balistica e gerarchie ma di negoziazione, flessibilità, arrangiamenti specifici, che suggeriscono piuttosto una dissoluzione dello Stato. Questa frammentazione viene posta in risalto non soltanto perché le frontiere tra attori pubblici e privati non sono nette ma anche perché gli ambiti di politica stanno diventando sempre più difficili da identificare. La formazione di una politica Europea ha accresciuto le tendenze centrifughe all’interno dello Stato nazionale, aprendo a nuove prospettive per diversi gruppi, organizzazioni, a differenti livelli (governance multilvello)( Marks and Hooghe 2001). La costruzione di una governance Europea 13 n.4 / 2002 può essere vista come una sostanziale redistribuzione dell’autorità, in assenza di un centro unico in grado di dominare sul sistema. Tale commistione del potere non conduce esattamente alla frammentazione. In alcuni ambiti, permangono, o possono essere ripristinate, strutture gerarchiche, e per quanto riguarda la costruzione di una governance Europea, la maggior parte della ricerca empirica mette in evidenza i processi di istituzionalizzazione (Stone, Fligstein and Sandholz 2001). Questi movimenti e il cambiamento dei modelli da parte delle élite al governo, hanno portato tanto a mutamenti strutturali quanto a esperienze di governo urbano, in tutta l’Europa, tipo le “libere comuni” in Scandinavia o a forme di autogoverno (Montin 2000). Comunque, per più di vent’anni, il governo locale nel Regno Unito è stato soggetto di trasformazioni ben più rilevanti che tutti gli altri governi locali Europei messi assieme. Una serie di riforme hanno avuto l’obiettivo di trasformare il Regno Unito in un laboratorio sperimentale di stampo neo-liberale (Stoker 1999), nel contesto di un discorso più generale pertinente l’economia e l’amministrazione pubblica che portava a cambiamenti di tipo strutturale, con effetti non voluti. In Europa, la maggior parte dei governi urbani hanno avviato alcune riforme di carattere amministrativo, inclusa l’introduzione di consigli di quartiere e la decentralizzazione della gestione dei servizi, come nel caso di nuovi meccanismi di partecipazione alle decisioni pubbliche nonostante la duplice difficoltà di aumentare poteri e budget (cosa con facile per dei consiglieri) e di sostenere gli interessi dei cittadini nel perseguire gli affari quotidiani. Oltre che nel caso del Regno Unito, idee di un mercato di tipo informale associate alle nuove teorie di gestione pubblica (Dunleavy and Hood 1994) stanno sortendo un effetto sui governi urbani, in particolare nel Nord dell’Europa (Baldersheim and Stava, 1996). Domande di partecipazione dei cittadini al governo urbano sono associate con una richiesta crescente di efficienza gestionale nella fornitura dei servizi agli utenti. La ristrutturazione del settore pubblico ha per conseguenza di accrescere la confusione nei settori delle politiche pubbliche e di aggravare la condizione di frammentazione dei governi urbani (Pierre 1999), da cui l’interesse crescente verso domande di leadership, di gestione, di coordinamento e di governance (Borraz et al. 1994; Stoker 2000). Lo sviluppo di nuovi strumenti di politica contribuisce ad evidenziare le ambiguità e le dinamiche interne alle politiche pubbliche: l’enfasi sul partenariato, la forma del contratto, i vari tipi di processi di negoziazione, rivela lo sforzo di ridefinire la politica pubblica secondo criteri di flessibilità, in modo da affrontare problemi mal definiti e da gestire finalità eterogenee. La forma del partenariato offre alcuni esempi interessanti di processi di “bricolage e transcodage della politica” (Lascoumes and Porcela 1998). Questi aggiustamenti tra le forme di rappresentazione, gli obiettivi e le politiche subiscono modifiche, alcune volte con frequenza settimanale o perfino giornaliera. Fallimenti o successi per ottenere il supporto degli attori fondamentali (come ad esempio si può vedere nel caso della Germania, e delle tensioni con i tradizionali partner sociali), o per assicurare finanziamenti hanno spinto ad effettuare negoziazioni tra interessi contrastanti e a rappresentazioni di progressivi, quotidiani aggiustamenti. Come nella maggior parte della ricerca sulle politiche pubbliche (in particolare nel settore della spesa sociale pubblica, della rigenerazione dei quartieri urbani o dello sviluppo economico), l’enfasi sulla frammentazione, la moltiplicazione degli attori, 14 Patrick Le Galès Government e governance urbana nelle città Europee il “territoire” -una città, una località, una regione- tende ad apparire come un possibile fattore di integrazione. Grazie al radicamento territoriale, “le nuove politiche economiche e sociali” possono essere più democratiche, più trasparenti, più efficaci, di più lungo periodo e più coerenti. In particolare, nella politica sociale i territori appaiono come un potenziale supporto per una nuova generazione di politiche pubbliche. Sfortunatamente, anche se siamo in presenza di un mito che ha la capacità di mobilitare, e di alcune potenzialità rilevanti, questo capita raramente. Da un lato, lo sviluppo di partenariati e delle loro modalità di azione, sono segnali significativi nella direzione di una territorializzazione delle politiche pubbliche (attraverso un approccio integrato). Dall’altro, si verificano anche casi o di deterritorializzazione degli attori o di adattamento a livello del locale di programmi e di politiche, che rispondono a logiche e a vincoli giuridici e finanziari definiti a livello centrale (Le Galès et Négrier 2000). La frammentazione del governo urbano è stata accelerata anche dai grandi processi di privatizzazione, che lentamente si stanno facendo strada nell’Europa Occidentale. Lorrain e Stoker (1996) osservano come (all’interno di questa generale tendenza alla privatizzazione) alcune variazioni si danno a seconda del prevalere di ambizioni di tipo politico e della dimensione dei rapporti tra pubblico e privato. Allemagne Länder communes Autriche Bundesländer communes Belgique Danemark Espagne Finlande France Grèce Irlande Italie Pays-Bas Portugal Royaume-Uni Suède (1) 1995 FBCF locale en % de la FBCF de la Nation 2,2 FBCF locale en % de la FBCF des admn. publi. 20,5 6,6 1,6 62,1 13,8 7,4 63,5 58,9 63,6 59,3 50,9 71,8 4 6,2 10,3 (1) 8,6 12,6 nd 10,9 (1) nd 8,8 10,1 7,4 (2) 5,3 10,2 (2) 1992 80,1 66,9 74,2 47,9 59,3 54,2 fonte: le comunità locali in cifre, 1998, DGCL, Ministro dell’Interno Fig. 1 Parte della FCBF (Formazione lorda del capitale fisso) locale. Europa, 1995 Si possono citare come esempi: 1) il Regno Unito, dove la riforma del governo urbano è avvenuta assieme anche alla privatizzazione di buona parte del settore dell’edilizia pubblica, dei principali consumi, per non dire dell’immissione di pacchetti competitivi per la maggior parte dei servizi sociali; 2) la Scandinavia, dove, nel quadro di un graduale cambiamento, le istituzioni pubbliche comuna- 15 n.4 / 2002 li sono comunque quelle ancora dominanti, nonostante la pressione della competizione (del privato); 3) la Francia, in cui, successivamente al processo di decentralizzazione, i sindaci hanno voluto accrescere la loro autonomia dallo Stato avviando la privatizzazione di numerosi servizi, ma complessivamente cercando di salvaguardare le proprie funzioni di regolazione; 4) un lento processo di cambiamento in alcuni paesi dell’Europa Meridionale e Orientale, per l’incertezza del mutare dei modelli istituzionali. In Europa si sono avute differenti forme di regolazione e di contratto per i servizi che vengono privatizzati o semiprivatizzati, in competizione sia a Brussels che con le principali città dell’Est d’Europa. Inoltre, molte imprese che lavorano a scala mondiale nel settore dei consumi e della costruzione sono attualmente in competizione in tutta Europa e nei territori limitrofi per la fornitura dei nuovi servizi. Tale complessità delle politiche pubbliche, unitamente alla percezione della necessità di organizzarsi su una scala più ampia rispetto a quella delle vecchie città, hanno portato al riemergere di una serie di tentativi -una rinascita a “trompe l’œil” dei governi metropolitani, secondo la definizione di Lefèvre - che vanno nella direzione di abbandonare la scala strettamente urbana del governo per una dimensione metropolitana di governo, come è accaduto differentemente in Italia, in Francia (con la legge Chevènement, 1999), o a Rotterdam o a Londra. Città, aree metropolitane, città-regioni, regioni: la ricerca di livelli istituzionalizzati di governo e di governance è un processo in corso nella maggior parte dei paesi (si consideri ad esempio il fallimento del tentativo di una regionalizzazione del Portogallo, o il dibattito attuale sul futuro delle regioni nel Regno Unito, o quello senza fine su città, regioni, Mezzogiorno, federalizzazione in Italia, e infine gli sforzi di organizzare governi a scala metropolitana che riguardano molte delle capitali nazionali). La decentralizzazione delle politiche sociali e l’integrazione Europea inoltre, stanno conducendo verso l’affermazione di specifici diritti sociali e politici (Garcia, 1996). Forme diverse di partecipazione politica (elezioni, democrazia procedurale, associazioni) stanno portando verso forme sempre più differenziate di cittadinanza urbana, già evidenti nel caso degli Stati quasi federali. La quasi totalità di paesi Europei sono ancora coinvolti in riforme dei poteri in materia giuridica e di tassazione dei diversi livelli infranazionali di governo, che si tratti di regioni, città, province, o di uno uno Stato quasi-federale. Lo sviluppo del livello meso del governo in Europa può essere visto nel contesto di cifre di investimento. La condivisione dei governi locali (soprattutto urbani) degli investimenti pubblici nazionali ammonta attualmente al 50% nei paesi centralizzati più piccoli, come il Portogallo e la Finlandia, per arrivare a circa il 60% in paesi come il Regno Unito, l’Italia, la Germania, la Spagna, la Danimarca, o addirittura a quasi il 70% dell’Olanda e della Francia. L’Europa e le politiche nazionali L’Unione Europea contribuisce alla promozione di modelli e di principi che gradualmente vengono istituzionalizzati, contribuendo pertanto all’organizzazione delle forme di governance, per quanto diversi processi siano in gioco e si combinino, in alcuni casi non senza difficoltà, con i programmi nazionali. Citando Radaelli (2000, 2), l’europeizzazione è definita come “un insieme di processi attraverso i quali le dinamiche politiche, sociali ed economiche dell’Unione 16 Patrick Le Galès Government e governance urbana nelle città Europee Europea divengono parte della logica dei discorsi interni (a ciascun paese), delle identità, delle strutture di governo e delle politiche pubbliche” (che non significa secondo logiche di convergenza o armonizzazione). Tali processi assumono differenti forme6. L’europeizzazione dei governi urbani può essere analizzata in termini di isomorfismo coercitivo (norme e regole che diventano istituzionalizzate) e di mimetismo (attraverso le reti transnazionali)7 . Le politiche Europee urbane e regionali hanno per esempio contribuito a esercitare pressione sui governi infranazionali, affinchè portassero avanti forme di partenariato, di contratto. Il cambiamento nelle politiche pubbliche, a livello nazionale ed Europeo (come nel caso dei Fondi Strutturali che includono programmi specifici come Leader, Interreg o Urban) enfatizza la logica del “aiutati e Dio t’aiuterà”, piuttosto che quella dei programmi quasi automaticamente redistributivi. Nuove norme includono principi come quello del partenariato, che ha assunto un ruolo preminente nell’ambito dei Fondi Strutturali (Hooghe and Keating 1995). Ad esempio, facendo una rassegna sullo sviluppo di partenariati a livello locale (secondo l’approccio promosso dall’Unione Europea), una ricerca recente ha messo in evidenza come diversi tipi di politiche e di programmi abbiano giocato un ruolo coniugando dimensioni nazionali ed Europee: - In vari paesi, inclusi il Regno Unito, l’Irlanda, la Francia e l’Olanda, programmi nazionali ed Europei a supporto di azioni di sviluppo locale integrato e di riqualificazione, in contesti sia urbani che rurali, hanno acquisito una forza trainante nella costituzione di partenariati a livello locale. In alcuni paesi, tali programmi sono sotto la responsabilità delle autorità regionali, come nel caso del Fondo Fiammingo per l’integrazione delle categorie svantaggiate, e del Fondo per la lotta all’esclusione sociale della regione del Belgio di Walloon. Non tutti questi programmi, comunque, hanno un impegno specifico verso un approccio che prevede la costituzione di un partenariato formalizzato. Ci sono anche differenze considerevoli nella priorità che nell’ambito di questi programmi viene data ad obiettivi di politica inerenti l’esclusione sociale e la povertà. - Programmi nazionali ed Europei a supporto dello sviluppo sociale o dello sviluppo delle comunità locali, come il Community Development Programme in Irlanda e il Social Development Programme in Danimarca, possono essere di particolare utilità nel sostegno di partenariati locali che sono centrati specificatamente su comunità svantaggiate e su problemi di povertà ed esclusione sociale (Benington and Geddes 2001). Goldsmith e Klausen (1997) nella loro opera sull’integrazione Europea e il governo locale mostrano la diversità delle risposte locali ai processi di europeizzazione, in particolare in termini di organizzazione e di cambiamento delle forme di governo. Ad ogni modo, le città stanno cercando di tirarsi fuori dai rapporti diretti con lo Stato, preferendo la complessità delle reti di policy verticali e orizzontali, e in alcuni casi strategie di “uscita” (Bartolini 1998). Non c’è alcun bisogno in questo saggio di fare un’analisi dei differenti ambiti in cui i processi di europeizzazione hanno luogo. Si ritiene invece dover evidenziare i temi che sono stati oggetto di dibattito nel grande Urban Forum organizzato dalla Commissione a Vienna nel 1998, mettendo a confronto attori di ogni tipo e livello per discutere in merito all’agenda urbana Europea, ovverosia di ambiente, sviluppo sostenibile, qualità della vita, esclusione sociale, competizione economica, competitivi- 6 A proposito di questi processi si veda il recente lavoro collettivo di Green Cowles, Risse and Caporaso (2001), Stone, Fligstein and Sandholz (2001), 7 ...“Un processo che costringe una unità di popolazione (di organizzazioni) a riassemblare altre unità che si trovano a dovere affrontare lo stesso insieme di condizioni ambientali (...) Le organizzazioni competono non solo per le risorse e per la clientela, ma anche per ottenere potere politico e legittimazione su di un piano istituzionale, per il benessere sociale ed economico (...) L’isoformismo coercitivo è conseguenza dell’infuenza politica e del problema della legittimità. Risulta da pressioni di carattere sia informale quanto formale che alcune organizzazioni esercitano su altre, che sono in un rapporto di dipendenza, e da aspettative di tipo culturale a livello della società in cui le organizzazioni stesse funzionano. L’isomorfismo mimetico deriva da risposte di tipo standard alle incertezze, una forza questa potente che incoraggia l’imitazione (...) Una terza fonte di cambiamento organizzativo di tipo isomorfico e normativo che deriva soprattutto dalla professionalizzazione” (Powell e Di Maggio 1991, 66-67)”. 17 n.4 / 2002 8 Si rimanda a questo proposito a Benington (1994); Benington e Harvey (1999); sulle motivazioni delle autorità locali che vi hanno partecipato, vedi anche Bache, Georges e Rhodes (1996). “All’origine, le reti transnazionali delle autorità locali hanno spesso come origine questioni settoriali e programmi specifici dell’Unione Europea: città minerarie, porti, città dell’industria aeronautica, dell’industria della moda, della difesa, della ceramica, del tessile, della costruzione navale, i programmi LEDA, LEADER, ELAINE (relazioni etniche), Quartier en Crise, Réseau européen de lutte contre la Pauvreteé, URBAN. Queste reti transnazionali concernono spesso differenti tipi di attori e le città sono dei membri tra altri. Alcune reti di città e di regioni (organizzate su questioni specifiche) sono ugualmente organizzate come la CRPM (Conferenza delle Regioni marittime periferiche), L’Arco Atlantico, Eurocités (che è passata dai sei membri fondatori nel 1986 e cioè, Birmingham, Barcellona, Lione, Milano, Francoforte, Rotterdam, ad una sessantina di membri, compreso un ufficio di una quindicina di persone a Bruxelles ben collegato a degli 18 tà, trasporti, reti Europee, politiche abitative, partenariato, salute, cultura, governance, cooperazione transnazionale, servizi pubblici, selezione degli indicatori. Se, in un primo momento, i governi urbani organizzati in reti transnazionali (come nel caso di Eurocities che comprendeva 200 membri) avevano un atteggiamento di esuberanza per via del nuovo potenziale utile ad esercitare un’influenza sulle politiche e ad ottenere finanziamenti, adesso essi tendono piuttosto a sottolineare gli obblighi associati con i processi di istituzionalizzazione, come ad esempio tutte le norme e le regole la cui applicazione li riguarda direttamente8. Come afferma Goldsmith e Klausen (1997), l’Unione Europea è un agente potente di internazionalizzazione per i governi urbani. Il tono neo-liberale di molte politiche Europee ha fatto sorgere un dibattito circa l’impatto dei processi di europeizzazione per i governi urbani. Gli scrittori marxisti interpretano questo come il ritiro dello Stato a favore di una governance Europea che si adatta alle domande del mercato ed è sganciata dalla pressioni politiche e dagli interessi organizzati dei gruppi svantaggiati. Ci sono consistenti evidenze che portano in quella direzione. Vi è poi un’altra interpretazione, secondo cui il sopravvento delle logiche del mercato e delle istituzioni nell’Unione Europea è stato utilizzato per incentivare cambiamenti interni, ma gli Stati nazionali e l’Unione Europea vorranno in seguito riprendersi il controllo per imporre le loro priorità politiche in cooperazione o in conflitto con gli attori economici. Non ultimo, se l’Unione Europea è uno spazio politico in costruzione, potrebbe essere allora che gradualmente anche gli attori sociali si riorganizzino di conseguenza. I principali interessi economici e alcuni gruppi (contro la povertà, per la difesa dell’ambiente, per le pari opportunità) sono già influenti e l’Unione Europea è sempre più un versante di attività politica. La crescita del ruolo del Parlamento e dell’organizzazione delle forze sociali possono necessitare ancora di altro tempo, ma l’Europa può diventare una forma di Stato più classico per quanto complesso, anche senza imboccare la strada del federalismo. Molto dipende dal processo di costruzione dell’Europa e dal tipo di divisione dei compiti che si avrà tra livello regionale e locale, nazionale e Europeo. Se i più concordano con il prodursi si una ben sviluppata struttura di governance, l’Europa non ha l’attributo di uno Stato ( Schmitter 1997; Kohler-Koch 1999). Caporaso (1996) suggerisce di considerare l’Unione Europa come una forma di Stato che non è però lo Stato di Westphalia (per quanto vi siano alcuni processi simili alla costruzione di uno Stato), nè semplicemente uno Stato regolatore (che lascerebbe le domande sociali e redistributive al livello nazionale). L’Unione Europea ha messo a punto in tempi recenti un ampio sistema di politiche pubbliche (Héritier, 1999), e adesso si sta occupando di alcune domande sociali. C’è una dinamica di costruzione istituzionale al lavoro, che va ben oltre il semplice adattamento ai mercati. Gli autori istituzionalisti sottolineano il fattore tempo nel processo di costruzione di istituzioni e la graduale europeizzazione delle norme e delle regole (Stone, Fligstein and Sandholz, 2001; Pierson, 1998), come anche la constituzionalizzazione de facto dei Trattati. Patrick Le Galès Government e governance urbana nelle città Europee Competizione economica e governi urbani: pressioni verso l’imprenditorialismo In un momento in cui alcune élite dei governi urbani hanno sposato il discorso e più di rado le politiche dell’imprenditorialismo urbano, costituendo delle specie di coalizioni per la crescita, sono apparsi nuovi movimenti sociali urbani ad esercitare un’opposizione mirata ai progetti urbani più importanti, pensati come cruciali per la promozione dell’immagine delle città. La formazione di nuove oligarchie nelle città Europee, del tipo delle coalizioni urbane Americane, è stata pertanto maggiormente oggetto di dibattito. La ristrutturazione dell’economia ha anche qualche impatto diretto sui governi urbani e la pianificazione. Nel dopoguerra, molti governi urbani hanno avuto poco a che fare con lo sviluppo economico, al di là della pianificazione, dell’approvvigionamento di terra libera e di infrastrutture. Quest’orientamento ha cominciato a mutare negli anni ‘70. Con la crescita della disoccupazione, il ritiro dello Stato e la graduale internazionalizzazione di un sempre maggior numero di imprese hanno esposto i governi urbani a notevoli rischi (tassazioni, gruppi sociali, problemi sociali). La globalizzazione del commercio e i flussi monetari implica che le loro economie non siano più così integrate all’economia nazionale. La globalizzazione economica comporta la crescente mobilità dei capitali, ad un livello in cui è possibile immaginare il superamento delle costrizioni spaziali. Paradossalmente, questo va con una crescita della consapevolezza dei territori, in particolare delle città, quali potenziali contesti per gli investimenti e per l’abitare. Ciò implica una nuova fase creativa, di distruzione e di investimenti su altre aree (Harvey, 1989). La competizione tra città è espressione del declino della regolazione di Stato e del fatto che le città (nel senso delle coalizioni che le governano) stanno cercando si posizionarsi, per come meglio possono, nel contesto di questa competizione (Chesire and Gordon 1995), e questo vale soprattutto per le città più importanti. David Harvey, in particolare, ha messo in risalto la logica della competizione tra aree urbane nello spazio di un’economia globale (Harvey 1985; 1989). Le città -o, più precisamente, le coalizioni che le governano-, stanno lavorando a conquistarsi un ruolo: nel contesto della divisione internazionale dei compiti, in special modo in termini di relazioni sociali e di organizzazione della pianificazione del territorio urbano; come centri di consumo, il che significa accrescersi in prestigio, status, cultura, in modo da attrarre visitatori e turismo; e infine, entrando in competizione per essere sede di compagnie transnazionali, di uffici pubblici di prestigio, o per altre forme di investimento pubblico e privato. La competizione ha a che fare con il controllo di risorse limitate: classi medie, consumatori e imprese. La competizione tra le città ha portato a una rapida reazione di imitazione/distinzione tra le autorità locali urbane. Le seguenti azioni, per esempio, hanno avuto inizio in molte città: grossi progetti, sviluppo di piani strategici, creazione di parchi scientifici, investimenti in eventi prestigiosi da un punto di vista culturale e in spettacoli, politiche di marketing, sistemi di trasporto pubblico più moderni (metro o tramvie), progetti di particolare rilievo firmati da architetti di fama internazionale, nuovi centri di uffici di alta tecnologia , nuove costruzioni pubbliche quali stazioni dei treni, centri di ricerca, teatri e sale da concerto, musei, ecc.. esperti), il club di Eurométropoles o le reti di città di media dimensione, l’associazione delle città dell’industria tradizionale. Una parte di queste reti è stata finanziata nell’ambito dei Programmi d’Iniziativa Comunitaria (PIC) lanciati dalla Commissione e del programma RECITE per le città e le regioni in Europa (1991). Quest’ultimo ha espressamente incoraggiato la formazione e lo sviluppo di molteplici reti al fine di beneficiare delle informazioni, degli interlocutori che si sono mobilitati dentro le coalizioni, e di favorire così, attraverso le interazioni transnazionali, i processi d’integrazione europea. 19 n.4 / 2002 Nei primi anni ‘80, un ampio movimento di politiche economiche urbane fu osservato in particolare nel Regno Unito, in Olanda, in Germania, in Francia, in Belgio e anche nelle città più dinamiche dell’Italia e della Spagna, in misura minore nel Nord Europa (Judd and Parkinson 1990). Dare il supporto alle aziende e soprattutto attrarre capitali esterni divenne la politica standard nella maggior parte delle città Europee, portando quindi al rafforzamento di forme di cooperazione tra interessi privati e governi urbani, ma raramente del tipo Americano come i regimi urbani o le coalizioni per la crescita urbana. In questo processo, gli sforzi locali nel campo dello sviluppo economico sono notevolmente aumentati, acquisendo maggiore legittimazione e venendo associati con nuove, caratterizzanti forme di governance. In tal modo, i funzionari pubblici hanno cominciato a negoziare con i direttori delle compagnie, delle banche e quanti altri si sporgevano nella direzione di interventi pubblici. Hanno sperimentato nuove modalità di azione, studiando le dinamiche delle economie locali e formando reti con gli attori economici. Alla fine, si sono a poco a poco avventurati in investimenti pubblici che assumono la forma di aiuti indiretti alle compagnie e di concessione di costruzioni e terreni. Tali attività hanno avuto luogo soprattutto nelle città della Germania, dell’Inghilterra, della Francia, dell’Olanda, del Belgio, soprattutto nei primi anni ‘80, e in seguito in Italia, in Irlanda, in Portogallo e in Scandinavia. Le politiche di sviluppo economico delle città sono andate in quattro direzioni: la difesa dei posti di lavoro e politiche di formazione (per l’occupazione); contributo all’accrescimento delle compagnie (modernizzazione, messa in rete, supporto finanziario); miglioramento dell’ambiente per rendere le aree più attraenti per le compagnie; competizione per attrarre investimenti e gruppi sociali privilegiati (come gli esecutivi). Più di recente, le città così come le regioni, hanno cercato di promuovere attivamente i fattori ‘invisibili’ dello sviluppo: interdipendenze fuori dal mercato (Storper, 1997) o beni pubblici competitivi (Crouch et al., 2001). Alcuni autori come Jessop (modello di città imprenditorialil) o in maniera più sottile Margit (politiche urbane post-fordiste) hanno avanzato una netta connessione tra la trasformazione del capitalismo, le nuove forme di politiche urbane, la formazione di nuovi regimi di governance. Viceversa, Harding e Le Galès (1998) pur condividendo l’analisi mettono in evidenza il permanere dell’importanza dei più tradizionali governi urbani, servizi sociali e amministrazioni. Configurano un quadro meno deterministico (e pertanto meno forte sul piano teorico) sottolineando i differenti tipi di alleanze tra interessi economici e governi locali e diversi tipi di esiti. Aumento delle disparità socio-economiche e frammentazione Non ultimo, i governi urbani si trovano a gestire l’impatto dei cambiamenti che riguardano le società. Molto sinteticamente, nella maggior parte degli ambiti della vita sociale (lavoro, famiglia, consumi, educazione, divertimento, politica, religione) la ricerca fatta dalle scienze sociali tende a attribuire rilevanza ai seguenti punti: individualismo, frammentazione ma anche riarticolazione dei gruppi, tendenze all’autonomia dalle istituzioni, diversificazione, pluralizzazione, deinstituzionalizzazione, abbandono delle tradizioni. Questi processi sono spesso connessi con la condizione di frammentazione delle società (Mingione, 1991; 20 Patrick Le Galès Government e governance urbana nelle città Europee Dubet e Martucelli, 1998; Lash and Urry, 1993) e l’apparentemente sempre crescente autonomia degli individui. Perciò i partiti politici, gli interessi economici nazionali, le chiese, ma anche gli Stati impegnati nella spesa sociale e i sistemi scolastici sono meno in grado di lavorare come apparati gerarchici o strutture di controllo e dominio. Singoli individui e gruppi, o alcuni di essi, godono di maggiore autonomia nel contrattare i termini della loro implicazione, o di uscita dal processo (Bartolini 1998). L’immigrazione per esempio è una componente importante nelle grandi città Europee, e attualmente entro certi limiti in alcune è vista come rafforzamento dei processi di differenziazione e pluralizzazione delle società locali e regionali, anche se in misura comunque assai minore che negli Stati Uniti, mentre resta un processo contestato in molti casi. I cambiamenti del mercato del lavoro, in particolare, accrescono il contrasto tra nuove forme di “povertà urbana” e una più flessibile, fragile parte della forza-lavoro e dei manager, dei professionisti (“i cosmopoliti”, nei termini di Merton) che si avvantaggiano pienamente dal processo di globalizzazione. Gli impatti si vedono anche chiaramente se si guarda alle disparità nei consumi: “Al di fuori dall’esaltazione che provano le élite globalizzate che sono in grado di distogliere i propri consumi dalle nuove opportunità tutte centrate sull’offerta Americana e che credono di essere diventati individui globalizzati, probabilmente la stragrande maggioranza degli impatti nel mondo sono corrosivi delle comunità” (Lloyd 2000, 259). Allo stesso tempo, quando gli Stati nazionali giocano un ruolo minore nella organizzazione e guida delle società, la città come fabbrica sociale può acquistare maggior rilevanza, in termini sia negativi che positivi. Alcuni s’interrogano se il lungo processo di crescita di istanze sempre più individualiste non stia spingendo troppo oltre, conducendo a un tipo di “individualismo negativo”, che è un altro modo per indicare il rischio per le società di frammentazione e disgregazione. Per una migliore comprensione dell’esclusione/inclusione sociale o della coesione, può tornare utile riflettere sull’attuale struttura delle società e sullo spazio della solidarietà. Le tensioni associate alla competizione, alla globalizzazione, possono causare la disintegrazione di una società locale. Quest’evenienza non è così frequente, dacché tra integrazione interna ed esterna si trova un punto di equilibrio, nonostante essa sia chiamata continuamente in causa o nella prospettiva di adeguamento allo sviluppo economico o per cercare riparo dai danni operati dal mercato. Viceversa, l’insorgenza e la rapida diffusione di un’innovazione si dà il più delle volte in città in cui vi siano una sofisticata rete di ricerca, e reti sia di piccole che di grosse aziende, che sono in grado di garantire le condizioni per un ambiente innovativo. Una dimensione fondamentale delle città è pertanto rappresentata dalla misura in cui vari tipi di attori, gruppi sociali, interessi più o meno organizzati, sono portati ad agire insieme entro processi di governance. L’organizzazione delle città come attori potrebbe essere intesa anche come una risposta collettiva alla minaccia di un capitalismo che è eccessivamente soggetto alle incertezze del mercato, e più precisamente, ai pericoli connessi alla deregolazione del mercato, che potrebbe incoraggiare e dare slancio ad abilità di giocare i mercati, da cui la possibilità di successo, per gli attori che aderiscono ad una coalizione locale e che mobilitano risorse culturali nell’ambito di progetti politici e sociali. 21 n.4 / 2002 Questa rassegna, a tratti forse un po’ caotica, costituisce lo sfondo per un’analisi degli attori e delle forme di democrazia nelle città Europee. L’integrazione Europea è uno dei vari processi che produce un impatto sui governi urbani. Argomenti diffusi riguardo la ristrutturazione delle politiche in Europa tendono a indicare la perdita di rilevanza della regolazione dello Stato (nel senso della gerarchia, essendo l’autorità la forza trainante, lo Stato giocando un ruolo di coordinamento e di allocazione delle risorse, un nodo questo, centrale di conflittualità), a favore della sovrapposizione tra diversi livelli, tramite reti di vario genere, e un incremento della quantità d’interazioni tra un’ampia serie di attori a vari livelli. La redistribuzione dell’autorità va di pari passo con la moltiplicazione di differenti reti, incluse alcune reti di policy, con la definizione di meccanismi di regolazione di tipo negoziale, o cooperativo, sulla base di interessi ma anche di relazioni basate sulla fiducia, o sui valori, tuttavia assieme con nuove forme di potere e di conflitto. Il rafforzamento di forme di mobilitazione, a livello infranazionale, territoriale e politico, è motivata dalla necessità di fronteggiare la destrutturazione delle società locali e regionali, tenendo presente, da un lato, i processi di globalizzazione e dall’altro, le rivalità tra territori infranazionali. Contrapponendosi a logiche di frammentazione, gruppi sociali, interessi organizzati ed élite politiche si mobilitano su progetti collettivi, reinventando le identità locali e organizzandosi in regimi di governance, in modo tale da resistere politicamente, culturalmente ed economicamente e di adattarsi in rapporto all’Europa e ai processi di globalizzazione. Ma le pressioni che riguardano gli Stati nazionali possono anche interessare regioni, località, dando adito spesso al prevalere della frammentazione. Government e governance Le discussioni sulla governance negli anni ‘80 non nascono per caso nelle città Europee. Pressioni sulle società nazionali e la ristrutturazione dello stesso Stato all’interno dell’Unione Europea segnano la fine di una fase della storia dello Stato (Poggi, 1996; Mann, 1997). Questa avviene in connessione con forme di mobilitazione a livello locale e regionale e reazioni (di tipo offensivo e difensivo) ai processi di globalizzazione e di Europeizzazione. Piuttosto che la fine dello Stato nazionale, la presente analisi propone “la fine del grande racconto dello Stato-nazione” (Leca, 1996), e cioè, la fine dell’articolazione idealizzata di uno Stato e di una società nazionale messe insieme in una narrazione di tipo moderno. Se lo Stato non è scomparso (per esempio, lo Stato sociale), e adesso esiste un intero settore di letteratura dedicato alla ristrutturazione dello Stato nell’Europa Occidentale, potrebbe risultare di maggiore utilità ragionare in termini di articolazione di government e governance, o in altre parole, nei termini del ruolo che il governo assume nel prodursi di forme di governance, piuttosto che spingere le analisi in una sola direzione, dal government alla governance urbana. I cambiamenti prima evidenziati non conducono in tutti i casi alla completa frammentazione dei governi urbani. Piuttosto che andare in cerca di convergenze o divergenze tra governi urbani, si potrebbe prima considerare l’ibridarsi dei confini nazionali ed individuare forme comuni di governance in gruppi di città, in genere in parte articolate sulla base di modelli nazionali. Ciò che è interessante 22 Patrick Le Galès Government e governance urbana nelle città Europee nel caso Europeo è il tentativo da parte delle élite urbane di bilanciare domande economiche e sociali (o, più classicamente, le politiche di sviluppo e quelle redistributive), e trovare connessioni tra government e governance urbana secondo varie possibilità. Lo sforzo di colmare il gap tra politica e politiche, unitamente a quello di definire alcuni interessi urbani collettivi, sono al centro di un processo politico. L’erosione dello Stato nazionale non significa la fine della politica in Europa, essa riappare a ogni passo della governance multilivello. Di governance urbana si è discusso inizialmente in relazione con i cambiamenti delle politiche pubbliche nell’ambito del contesto di europeizzazione. È stato uno strumento potente per “decostruire” visioni conservative del governo locale. Ora, le questioni classiche della democrazia sono oggetto di studio di ricercatori che si occupano di governance urbana e regionale. Ma cominciamo dal government. In primo luogo, per government s’intende l’insieme dei politici eletti e degli amministratori. Gran parte della ricerca sul government locale, urbano o regionale è incentrata sull’esecutivo eletto, i consiglieri e i funzionari. In secondo luogo, citando la definizione di Leca (1996) il government è la combinazione dei seguenti quattro elementi: 1) I principi generali di organizzazione di un regime politico rappresentativo. 2) L’organizzazione implicata nell’allocazione, decisione, limitazione, amministrazione (principalmente i politici eletti e l’insieme delle agenzie che svolgono l’amministrazione). I professionisti che sono differenti dalla società civile. 3) Il processo di governo (government) e cioè il processo decisionale e gestionale, ovvero, gli obiettivi raggiunti (in senso balistico). March e Olsen in Democratic Governance chiariscono la distinzione tra il processo di aggregazione degli interessi e delle domande (opinione politica verso domanda politica) e il processo di guida, di controllo. 4) I risultati, l’efficacia (di programmi, politiche, norme). Il government risulta pertanto definito in termini politici come differente dal mercato e dalla comunità. Un primo approccio alla governance consiste nel prendere in considerazione i punti 3 e 4, senza tenere in conto i primi due, e cioè di guardare al processo e ai risultati, non ai principi e alle organizzazioni. I principi organizzativi dei governi urbani sono definiti da regole nazionali, sebbene lo statuto Europeo delle autorità locali giochi il suo ruolo nella promozione di norme e principi. I governi urbani sono retti da politici eletti e da un’amministrazione locale. Questi sono coinvolti nel processo decisionale e gestionale per raggiungere scopi definiti collettivamente. Nella concezione tradizionale della democrazia locale rappresentativa, i politici eletti, i funzionari ed i cittadini (fondamentalmente in quanto votano e pagano le tasse) sono i principali attori. Per circa un secolo nell’Europa Occidentale, i governi urbani (dove e quando questo accadeva) erano parte dello Stato che era l’attore legittimato a governare la società (in misura maggiore o minore, e mai da solo). Una vasta parte delle ricerche si concentra sullo studio delle élite, sulla partecipazione alle elezioni locali, sui partiti politici e sull’organizzazione delle elezioni. Questo tipo di ricerca non ha interesse alcuno per l’Europeizzazione, la globalizzazione o le politiche pubbliche. Contrapponendosi alla vecchia e alla nuova politica, ha il vantaggio di mostrare la resistenza ai governi urbani dell’Europa Continentale, alla crescita dell’importanza dei sindaci, allo 23 n.4 / 2002 sviluppo difficoltoso delle forme di democrazia diretta (in particolare referendum). La governance non appare essere una domanda. Nello spazio di questo saggio non si è ritenuto di presentare i differenti approcci alla governance, ma si è concentrata l’attenzione su città e regioni. Partendo dal problema della governabilità, Mayntz (1993), avanza come prima ipotesi l’idea che, alcuni settori della società, hanno fatto resistenza alle limitazioni e imposizioni delle regole e norme definite dallo Stato. In secondo luogo, dà risalto alla capacità di gruppi, campi di politica e attori, di agire in modo organizzato, di mettere a punto meccanismi di integrazione orizzontale per risolvere problemi di governo. La maggior parte degli studiosi conviene su molti punti: il venire meno di confini netti tra pubblico, società civile e attori privati, l’interdipendenza tra i livelli, la differenziazione della società moderna, la fine del monopolio dello Stato nel governo della società, l’autonomia di alcuni attori, sottosistemi sociali, l’espansione di reti di politiche di attori pubblici e privati. La governance è pertanto (un concetto) più vasto che il government. Questa visione organizzativa della governance è anche l’interesse centrale del lavoro di Rhodes, per quanto questi muova dall’analisi delle reti di politiche. Egli definisce la governance in termini di “autoorganizzazione di reti interorganizzative”, dotate delle seguenti caratteristiche: 1) Interdipendenza tra organizzazioni. 2) Interazione continua tra membri della rete. 3) Interazioni limitate al gioco tra i membri della rete, motivate dall’esigenza di scambiarsi risorse e negoziare propositi condivisi. 4) Un significativo grado di autonomia dallo Stato, le reti sono capaci di autoorganizzazione (Rhodes 1997). Questo tipo di analisi è maggiormente connesso con le politiche pubbliche piuttosto che con le elezioni, riguarda il processo di governance piuttosto che la democrazia. L’attenzione ad un ambito di politica e ad una rete di politiche tende ad enfatizzare l’autonomia e la logica interna della rete, ad esempio i conflitti tra coalizioni o lo scambio all’interno della rete, come i vari attori stanno insieme. “Secondo l’approccio di ‘rete’ i processi di produzione delle politiche e di governance hanno luogo in reti costituite da attori eterogenei (possono essere singoli individui, coalizioni, dipartimenti, organizzazioni, ecc.), nessuno dei quali dispone del potere di determinare la strategia di un altro attore (...) la gestione delle reti è un esempio di governance e di management pubblico in situazioni di interdipendenza. Mira a coordinare strategie di attori che hanno scopi e preferenze differenti rispetto a una data questione o alla definizione del peso di una politica all’interno di una rete esistente di relazioni di natura interorganizzativa” (Kickert, Klijn, Koppenjan, 1999, 9-10). Quest’approccio risulta utile in molte situazioni ma si espone ad attacchi poiché lascia fuori le questioni di potere. Coloro i quali gestiscono le reti di fatto si trovano soltanto nell’ambito della stessa amministrazione pubblica. Ma l’idea che il governo di reti complesse può essere un obiettivo centrale per i politici non si traduce in una domanda, poiché non si tratta di una questione solo di management e di risoluzione dei problemi, ma anche di politica. Se nessun attore importante determina la strategia per altri, allora potrebbe essere che ha il potere di influenzare la condotta di alcuni, anche se non in forma monopolistica. In questa prospettiva, la domanda di legittima- 24 Patrick Le Galès Government e governance urbana nelle città Europee zione è assolutamente centrale (Papadopoulos 1998; Duran 1999). Oltre a ciò, data la moltiplicazione delle reti, potrebbe tornar utile concentrarsi sull’articolazione tra varie reti. In un certo senso, dal momento che le reti rappresentano un fattore di incremento della frammentazione, si apre la possibilità, per alcuni attori e per certe istituzioni, di tentare di controllare, usare, articolare, integrare alcune reti nel quadro delle loro stesse strategie o obiettivi di lungo termine. Piuttosto che addentrarsi troppo nella direzione della governance policentrica, il tentativo è di capire come alcune strutture emergono, o sono rafforzate attraverso la messa a fuoco delle relazioni tra differenti ambiti di politica e gli attori e interessi che ne sono associati. L’attenzione sull’integrazione di differenti reti di politiche per esempio apre la possibilità di reintrodurre politica, legittimazione, sfera pubblica, scelta collettiva. In particolare, una ben nota critica che viene rivolta alla letteratura su governance e reti di politiche, consiste nel fatto che questa tende ad enfatizzare la frammentazione, la disagreggazione, a scapito del controllo, del potere, anche strutturale, radicati nello Stato o nella sfera pubblica Europea (Jobert 1995). Un’altra ragione per guardare alle politiche pubbliche a livello infranazionale è pertanto connessa alla politica. Al di là della classica richiesta di più analisi di politica e di politiche pubbliche, l’analisi delle reti di politiche ha teso a non concentrarsi principalmente sulla domanda politica. L’enfasi sullo scambio di risorse tra organizzazioni non lascia molto spazio alla dimensione politica dello scambio ed è rinomato che la dimensione politica dello scambio è cruciale a quel livello, almeno in Italia o in Francia, come ad esempio in casi di forte territorializzazione della politica. Nell’approfondimento di questo tipo di concezione di governo urbano, alcuni studiosi britannici hanno evidenziato in particolare il contrasto tra governo urbano e governance urbana, in un paese in cui il governo locale è stato piuttosto indebolito, frammentato e privatizzato (Stoker 1999). Secondo Stoker, “la governance può essere definita in senso ampio come cosa che pertiene il governare, in quel che porta all’azione collettiva nella sfera degli affari pubblici, in condizioni in cui non sussiste la possibilità di ricorrere all’autorità della Stato” (Stoker 2000, 3). Nel suo libro sulla governance locale in Europa, John (2001) svolge degli approfondimenti, proponendo di mettere a confronto government locale e governance in modo sistematico, come nella Fig. 2: Number of institutions Bureaucratic structure Horizontal networks International networks democratic linkage Policies central government leadership Government few hierarchical/consolidated closed minimal representative routined regulative collegial/clientelist Governance many Decentered/fragmented open, inclusive extensive representative, new expe innovative, learning micro-level intervention mayoral/professionalised Fig. 2 Questo quadro sembra significativo ai fini dell’analisi dei cambiamenti radicali 25 n.4 / 2002 avvenuti nel Regno Unito in termini sia di ristrutturazione dello Stato centrale, sia di profonda trasformazione del governo locale (vedi: Stoker 1999; 2000). La messa a confronto tra i due modelli sembra fin troppo sottile e non corrispondente alla realtà di molti paesi Europei. Ad ogni buon conto, rappresenta un utile strumento analitico per identificare cambiamenti e fare comparazioni. In alcuni miei lavori precedenti sulle regioni o le città (in particolare con Harding, nel 1998, e con Bagnasco, nel 2001), ho cercato di avanzare un modo diverso di guardare alla governance urbana, radicato nella tradizione politica weberiana, costruita sulla definizione di Jessop: “Si potrebbe definire il campo degli studi di governance in generale come avente a che fare con la risoluzione di problemi (para)politici (nel senso di problemi di conseguimento di un risultato collettivo o di realizzazione di finalità collettive) nell’ambito e attraverso specifiche configurazioni di istituzioni, organizzazioni e pratiche governative (di tipo gerarchico) ed extra-governative (non gerarchiche)” (Jessop 1995, 317). La governance in senso politico è pertanto definita come un processo di coordinamento di attori, gruppi sociali e istituzioni, e di costruzione collettiva delle decisioni per conseguire fini espliciti, che sono stati discussi e convenuti collettivamente (domanda di democrazia) in situazioni frammentate e di incertezza (Le Galès, 1998). Una forma di governance per me è l’articolazione di differenti tipi di regolazione; e questo non ha nulla a che vedere con le retoriche di stampo neo-liberale che tentano di delegittimare governi e politica (vedi: Rhodes, 1997). Autori appartenenti alla corrente della “new political economy” sottolineano, più di quanto non facciano i sociologi, l’autonomia della dimensione politica, l’importanza dei conflitti di potere tra gruppi ed istituzioni, e il ruolo di questi nelle proposte per regolare l’economia (si considerino ad esempio nel corso dell’ultimo secolo il ruolo della democrazia sociale, dei sindacati e del corporativismo in Europa). Ciò conduce a cercare le modalità in cui l’economia è regolata e ad indagare negli effetti di lungo periodo dello Stato, delle istituzioni e dei gruppi d’interesse, e dell’interazione tra strutture sociali e istituzioni all’interno di ogni paese, così da conoscere queste società e i modi in cui il capitalismo viene gestito. La dimensione politica influenza, struttura le varie forme di capitalismo. Secondo l’approccio di governance ogni società moderna può essere descritta come una combinazione specifica di forme di regolazione. Per essere in grado di identificare tali combinazioni di modelli di ordine sociale, le ricerche che seguono l’approccio di governance selezionano da vari modelli di ordine sociale (idealtipi) quelli che poi sono riconoscibili nei contesti reali in forme più o meno definite o in particolari combinazioni. Contrariamente da quanto sostenuto da Williamson, l’approccio di governance non tratta soltanto della riduzione dei costi di transazione e del miglioramento dell’efficacia delle organizzazioni. Seguendo la tipologia classica delle regolazioni possibili (si vedano: Hollingsworth and Boyer 1997) le componenti di una forma di governance possono essere identificate come il mercato, l’organizazzione degli affari, lo Stato, la comunità, e l’associazione. Conseguentemente, si può fare una distinzione tra competizione (il mercato), gerarchia (l’organizzazione degli affari), la coercizione sulla base di un monopolio dell’uso della violenza fisica (lo Stato), la solidarietà (la comunità) e la negoziazione (l’associazione). Ma la politica inerisce anche la negoziazione e la mobilitazione degli interessi. Pertanto, l’approccio di governance apre ad un inaspettato oriz- 26 Patrick Le Galès Government e governance urbana nelle città Europee zonte di possibilità teoriche, lasciando alla ricerca empirica l’individuazione di strutture di governance specifiche e l’analisi del loro funzionamento (secondo il metodo della comparazione sincronica) così come delle dinamiche di evoluzione, più nel dettaglio (secondo il metodo della comparazione diacronica). In anni recenti, ho tentato (come altri) di occuparmi dell’economia politica delle città, che potrebbe essere più “politica” e più “sociologica”9 , per esempio concentrando l’attenzione sui mutamenti delle regolazioni politiche, focalizzando sulle frontiere e sull’articolazione con altre regolazioni. Le élite politiche urbane hanno lavorato duramente per creare forme stabilizzate di governance, di regimi o coalizioni urbane, per sviluppare azioni collettive e obiettivi politici di lungo periodo a favore delle aree urbane. In molti casi, in cooperazione con élite degli affari a livello locale, hanno cercato di far crescere la città come un attore collettivo, ad esempio per portare avanti finalità di competizione economica (Mayer, 1995; Peck and Tickell, 1995; Jouve e Lefèvre, 1999). Tale forma di governance, di tipo imprenditoriale, è dominata non da una varietà di interessi eguali, bensì da nuove oligarchie, che cercano di imporre un nuovo, egemonico progetto di governance. Quello che sta accadendo, almeno nel caso delle città francesi, è il fatto che lo sviluppo di reti non dà luogo ad un ritiro dei governi urbani come tali (una questione, questa, divenuta ultimamente essenziale in molti paesi e a molti livelli di governo). E non sembra nemmeno condurre a quanto Kickert ha definito come “governare a distanza” quando ha analizzato il Ministero Olandese dell’Educazione. Nelle città, forme di coordinamento gerarchiche, “dall’alto”, non sono mai state realmente la principale opzione, in quanto i governi urbani sono parte di sistemi nazionali. Le élite urbane non sono state gli elementi centrali nella maggior parte delle politiche pubbliche, e mai hanno ricoperto posizioni di monopolio, nello spazio delle città. Con la ristrutturazione dello Stato, c’è piuttosto una maggiore pressione sulle élite politiche per cercare di portare a una qualche forma di coordinamento le politiche pubbliche. Una delle dinamiche chiave, dietro all’espansione di processi di governance urbana, è che i leader politici, quando ottengono legittimazione, sono percepiti come assolutamente centrali per l’organizzazione di azioni collettive. Questo può essere visto anche nel caso dell’Italia, per esempio (Vandelli 1997, 2000). Conclusioni Nella letteratura sui regimi urbani, sulle coalizioni per lo sviluppo e la governance urbana (Harding 1997; Le Galès 1995), c’è uno sforzo di identificare modelli stabili di relazione tra interessi di affari e autorità locali, di costruire capacità di azione collettiva per identificare nell’ambito di una città il prodursi di adattamenti strutturali finalizzati alla costituzione di coalizioni per risolvere problemi politici e per accrescere le potenzialità di sviluppo economico. In un certo senso, c’è molta affinità con l’analisi delle reti di politiche, ma il livello è piuttosto quello meso. Quello che manca è di analizzare le reti di politiche e i vari ambiti di politica (a livello locale quanto nazionale quanto Europeo, incluso quello delle città -e che sia politico urbano e/o burocratico o economico) per vedere il gioco che queste organizzano per mettere su alcune coalizioni nelle città e per conferire alcuni orientamenti alle politiche. Ci possono essere casi in cui queste reti di 9 In un saggio con Bagnasco (2001), abbiamo ad esempio suggerito una prospettiva di studi che si applicano fondamentalmente alle città Europee. Lo studio è volto a riconsiderare alcune questioni prefigurate da Max Weber, e si è tentato di contribuire a una nuova economia politica comparata di città Europee che prenda in considerazione le trasformazioni occorse alla società Europea. L’analisi di Weber è importante perché egli solo ha proposto un modello di analisi sia delle società locali che delle città come strutture sociali, considerandole come un luogo in cui gruppi e interessi si concentrano e trovano rappresentazione. Tale dimensione resta rilevante nel nostro tentativo di considerare le città Europee in relazione a uno studio in chiave comparata delle nuove realtà urbane in Europa, lasciando le più vaste aree metropolitane per un discorso a parte. In un contesto di tendenze verso la globalizzazione dell’economia che mette in crisi gli equilibri tradizionali, le città sono ora soggette a significative forze centrifughe. Tuttavia, in un certo 27 n.4 / 2002 qual modo, a dispetto di ogni previsione, le città restano nodi dell’organizzazione politica e sociale. Due campi di analisi si delineano: l’integrazione urbana e la governance urbana. La prima, tocca il tema delle condizioni che consentono alle città di rimanere al centro di rapporti economici e sociali, che sono resi stabili da attori che si trovano in relazioni di interdipendenza. Quindi le città sono società locali che rivelano una diversa struttura. La seconda, ha a che vedere con la capacità -come fattore che contribuisce all’integrazione-, di regolare al proprio interno il gioco tra interessi e di riunificarli per consentirne la rappresentazione all’esterno, ritenendo pertanto che le città, almeno entro certi termini, costituiscano unità separate come attori. L’idea base è di analizzare le strategie di gruppi, interessi organizzati, istituzioni, in relazione con i sistemi locali, la cultura, le forme di governance, i regimi locali, le convenzioni: quale che sia il linguaggio che viene usato per fare risaltare differenze considerevoli tra città e regioni, alcune di esse, e solamente alcune, sono attori del sistema di governance Europeo. 28 politiche non si trovano, o si trovano con molte difficoltà, e non descrivono precisamente modelli di organizzazione e relazioni tra differenti attori. In alcuni altri casi, si possono trovare forti reti di politiche che gravitano intorno ad alcuni attori locali, ma che contribuiscono alla “de-territorializzazione” degli ambiti di politica, con gli attori locali costretti alla periferia della rete di relazioni. C’è un argomento importante che occorre introdurre, e cioè che uno dei problemi principali di città e regioni in Europa ai fini dell’accrescimento della propria capacità politica è che quelle reti e reti di politiche passano attraverso di loro, contribuendo alla frammentazione dell’arena politica, senza produrre integrazione. La nostra ipotesi di base per le città (ma si può riscontrare la stessa linea di argomentazione per quel che riguarda le regioni in Keating, 1997) è che in Europa, e in Francia in particolar modo, alcune città sono esposte ad una crescente frammentazione dovuta o alla mancanza di attori politici e interessi organizzati, o a processi d’integrazione deboli, dovuti alla strutturazione di reti di politiche che sono relativamente autonome. Comunque, per contrastare queste tendenze, molti leader di differenti città stanno cercando di approntare modi per integrare i vari interessi e reti entro strategie collettive e politiche di lungo periodo. La costruzione di coalizioni, partenariati e reti di vario tipo è nonostante tutto ancora molto sulla carta (Harding 1997). Vi è pertanto la necessità di esaminare attentamente il gioco reciproco tra tali tentativi di sviluppare nuove forme di governance, il contributo a questo gioco delle politiche pubbliche e dei modi di regolazione, e interrogarsi in questo contesto sulle reti di politiche. Riferimenti bibliografici Bache, I., S. George and R.A.W. Rhodes (1996), The European Union, Cohesion policy and subnational authorities in the UK, in Hooghe (1996) Bagnasco, A. and Le Galès, P. (2001), a cura di, Le città nell'Europa Contemporanea, Naples, Liguori Baldersheim, H. and P. Stava (1996), Free communes, pilots and pathfinders: a new vocabulary of local government reforms in Scandinavian countries, the case of Norway, in Ben-Elia (1996) Bartolini, S. 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[email protected] 31 n.4 / 2002 Liliana Padovani La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban Viaggiando tra le costellazioni del sapere 1 Risultati che in molti casi sono positivi, ma in genere di entità quantitativamente modesta rispetto ai problemi dell’area coinvolta. 2 Comitati di Sorveglianza, costituiti da rappresentanti della UE -DG16 e dei soggetti coinvolti a livello locale e nazionale. 3 In merito alle modalità di analisi delle relazioni tra UE e Stati membri nella costruzione delle politiche territoriali, si veda Tedesco (2002). 32 Nel periodo recente si è venuta consolidando la convinzione che il Programma Urban, avviato nel 1994 e ultimato nel dicembre 2001, abbia prodotto nel contesto italiano delle ricadute significative sul modo di concepire, programmare e attuare le politiche urbane e più in particolare gli interventi di rigenerazione di zone urbane connotate da degrado, declino economico e disagio sociale. Le ricadute sembrano interessanti non tanto, o non solo, per i risultati ottenuti nelle singole aree di intervento1 , quanto per i processi di apprendimento che questo tipo di iniziativa è stato in grado di produrre. Il programma Urban è stato ideato dalla UE proprio come occasione di innovazione delle politiche urbane locali in funzione di obiettivi e orientamenti di carattere più generale assunti dall’Unione. Tra questi due rivestono un rilievo particolare nel caso specifico. Il primo consiste nel riconoscimento da parte della Unione del ruolo strategico svolto dalla città come motore di progresso economico e nella scelta di potenziare queste funzioni tenendo però presente che proprio sulla città sono ricaduti molti dei costi sociali - in termini di dismissione industriale, disoccupazione, emarginazione sociale - indotti dai mutamenti economici in atto. Alle politiche urbane europee viene quindi proposta la duplice sfida di mantenere alla città una funzione di stimolo in un’economia sempre più globalizzata e competitiva e al tempo stesso di contrastare e combattere la presenza e la formazione di situazioni di disagio e di esclusione sociale. Il secondo consiste nel rilievo attribuito in una prospettiva di maggiore efficacia delle politiche pubbliche territoriali, al concetto di azione integrata trasversale multiattoriale, e al concetto di azione partecipata. L’orientamento proposto viene visto dalla UE come superamento della scarsa efficacia mostrata dalle modalità più consolidate di azione pubblica nel trattare alcune questioni, in particolare in situazioni come quelle che si presentano quando si interviene in zone urbane connotate da una molteplicità e cumulatività di problemi. Questi obiettivi sono fatti propri dal Programma Urban che, in parte li traduce in indicazioni operative, in parte li affida alle attività di un comitato che ha l’incarico di seguire e monitorare lo sviluppo e l’attuazione dei programmi2 . E’ forse utile sottolineare come a questo comitato venga assegnato un interessante compito di anello di congiunzione tra gli obiettivi e i valori di sperimentazione che la UE ha attribuito al programma e le possibili interpretazioni e ridefinizioni che possono essere proposte in sede locale: un duplice ruolo di garante del perseguimento degli obiettivi del programma e di potenziale interprete delle innovazioni che possono emergere in sede di implementazione locale3 . Nel caso italiano, i contenuti del programma e il contesto procedurale e di valu- Liliana Padovani La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban tazione che ne ha accompagnato l’attuazione hanno di fatto messo i comuni e gli attori istituzionali coinvolti di fronte alla necessità di affrontare problematiche nuove o quantomeno di porsi in modo nuovo rispetto a problemi più consolidati. Si sono così sperimentate pratiche progettuali e innovazioni procedurali e organizzative, che hanno a loro volta attivato processi di sviluppo delle competenze manageriali e operative degli attori istituzionali (Fontana 2002). Ricadute interessanti si sono verificate anche nelle modalità di interazione tra gli attori pubblici e quelli privati e, pur se in misura minore, tra gli attori istituzionali e i destinatari degli interventi. Il tema che si vuole sviluppare in questo testo è quello di cercare di capire in che modo il carattere fortemente sperimentale e dimostrativo del programma sia stato interpretato nel caso italiano e con quali ricadute in termini di apprendimento per gli attori coinvolti e di trasferibilità della acquisizioni così ottenute nelle pratiche ordinarie di gestione dei processi di trasformazione urbana. Prima di prendere in esame i 16 casi Urban Italia, sembra utile anteporre alcune considerazioni, sia sul contesto di assunzioni e di riferimenti che ha portato la UE ad intervenire in materia di politiche urbane e territoriali e sulle finalità attribuite in questo quadro al programma Urban, sia su alcuni aspetti delle tradizioni di “trattamento” dei problemi in questione nel caso italiano che possono avere inciso sulle modalità di “declinazione e ri-definizione” dei contenuti del programma. Questi elementi relativi al contesto sembrano indispensabili per cogliere meglio l’apporto specifico del programma in questione e il senso e la portata degli esiti prodotti nel caso italiano. Il ruolo crescente della UE nelle politiche urbane e territoriali locali e le finalità del programma Urban in questo quadro Anche se i trattati europei non attribuiscono alla UE competenze in materia di politiche urbane - il principio di sussidiarietà riconosce infatti al livello locale la responsabilità di definire e gestire queste politiche - si può rilevare come nel corso degli anni novanta i temi della città e del territorio4 abbiano acquisito un’importanza crescente nelle politiche comunitarie. La prima occasione in cui la UE manifesta attenzione nei confronti del territorio può essere fatta risalire alla riforma dei fondi strutturali del 19885 che, introducendo il principio della coesione economica e sociale, individua nelle situazioni di arretratezza che caratterizzano alcune regioni europee un pericolo per le prospettive di sviluppo dell’Europa e propone una allocazione “territorializzata”6 dei Fondi strutturali. L’attenzione per il territorio e il “locale” viene meglio precisata e articolata nei successivi documenti connessi alla programmazione dei Fondi strutturali7 dove vengono chiaramente espresse, l’esigenza di un superamento della distribuzione a pioggia degli interventi, la richiesta di una maggiore precisazione degli obiettivi specifici da perseguire in ogni realtà locale e di una maggiore coerenza tra azioni ed esiti da conseguire in ogni intervallo di programmazione, la necessità infine di superare una logica di intervento settoriale in favore di modelli di azione locale integrata. Si consolida l’intenzione di rafforzare l’integrazione tra le politiche di sviluppo e quelle di coesione e i temi della città e le politiche urbane entrano esplicitamente nella programmazione dei 4 “Territorio” visto ovviamente non come spazio definito da confini istituzionali, ma inteso come “locale” come luogo di sedimentazione di saperi istituzionali, di pratiche, di tradizioni, di cultura e di risorse attive o attivabili. 5 Atto Unico 1987. Su questi aspetti si veda Rivolin (2000). 6 Viene avviata la procedura di definizione dei criteri di perimetrazione delle aree Obiettivo 1 (regioni in ritardo di sviluppo) e Obiettivo 2 (regioni in crisi strutturale) verso le quali convogliare gli interventi nell’intento di ridurre il divario tra le regioni. 7 In particolare: Agenda 2000-06. 33 n.4 / 2002 8 Questi orientamenti sono illustrati nella successione di documenti e incontri che hanno portato all’adozione nel 1999 del Quadro di azione per uno sviluppo urbano sostenibile. 9 Viene stimato che la quota di popolazione europea che vive nei vari sistemi urbani oscilli tra il 60 e l’80%, in funzione di come vengono perimetrate le aree urbane. 10 Nella programmazione 2000-06 rispettivamente il 5,35% e lo 0,65%, dei fondi strutturali, che a loro volta rappresentano il 33% degli stanziamenti UE, vengono destinati alle Iniziative Comunitarie e alle Azioni Innovatrici. Le Iniziative Comunitarie (costituite da 13 programmi diversi nella programmazione 1994-99) con la riforma dei Fondi strutturali del 1999 sono state ridotte a quattro: a) cooperazione transfrontaliera, programma INTERREG; b) rigenerazione economica e sociale delle città e dei quartieri in crisi, programma URBAN; c) sviluppo rurale locale, LEADER; (queste tre azioni erano presenti anche nella programmazione 1994-99) d) cooperazione transnazionale per la lotta alla discriminazione nel mercato del lavoro, EQUAL, che aggrega 34 fondi strutturali attraverso la individuazione di questioni urbane prioritarie di significato strategico non solo per gli Stati membri ma anche per le prospettive dell’UE nel suo complesso8. In questo contesto la città viene considerata soprattutto in funzione di due ottiche di osservazione. Da un lato, è vista come “luogo di vita” di una porzione importante della popolazione europea9 e quindi la qualità delle aree urbane, in termini di livelli di dotazioni urbane, di sostenibilità ambientale, di coesione sociale, viene recepita come un obiettivo di rilievo per il benessere dei cittadini europei. Dall’altro la città è anche vista come “fulcro strategico” per lo sviluppo economico europeo. Se rispetto a questa seconda ottica vengono promosse iniziative tese a potenziare le valenze strategiche della città come luogo di innovazione e di produzione di capacità tecniche a supporto della crescita economica, la programmazione dei fondi strutturali nei due periodi 1994-99 e 2000-06 presta grande attenzione anche agli obiettivi connessi alla prima ottica di osservazione, in funzione della quale sono incentivati programmi in tre campi di intervento: a) quello della rigenerazione urbana, attraverso azioni tese a ridurre le situazioni di degrado e disagio sociale che vengono percepite come minaccia per l’inclusione sociale ma anche come freno per la competitività e la sostenibilità delle città; b) il miglioramento dell’ambiente urbano, attraverso interventi che rispettando il principio della sostenibilità ambientale rafforzino i legami tra qualità dell’ambiente, sviluppo economico e potenziamento delle capacità di crescita individuali e collettive; c) infine, e questo terzo campo di intervento è di carattere trasversale, particolare attenzione viene prestata, come già accennato, agli aspetti gestionali sottolineando l’importanza di migliorarne l’efficacia e l’efficienza. A questo fine vengono promosse sia iniziative che si prefiggano di raggiungere una migliore integrazione tra i vari livelli amministrativi e gli organismi che operano a livello locale, sia strategie che rafforzino la partecipazione, la democrazia, le capacità di agire a livello locale. Questi orientamenti vengono recepiti e fatti propri, in un rapporto di dialogo con la Commissione, dagli Stati membri nelle fasi di predisposizione degli strumenti di programmazione necessari per accedere ai fondi strutturali, dai Quadri comunitari di sostegno per i territori Obiettivo 1 ai Documenti unici di programmazione. Accanto alla programmazione dei fondi strutturali10, un’azione di punta rispetto agli obiettivi citati viene affidata a dei programmi speciali (le Iniziative Comunitarie o le Azioni Innovatrici) ai quali viene destinata una piccola quota dei Fondi strutturali. Si tratta di programmi con un forte carattere innovativo e dimostrativo ai quali viene chiesto di sperimentare su questioni di rilievo strategico pratiche interessanti, nel caso delle Iniziative Comunitarie per gli esiti conseguiti e per la loro trasferibilità in altri contesti (buone pratiche), o, nel caso delle Azioni Innovatrici per le potenziali ricadute positive sulla qualità degli interventi “ordinari” realizzati all’interno degli obiettivi dei fondi strutturali. Tra i programmi più vicini ai temi urbani e di più diretto interesse in questa sede si collocano appunto le Iniziative Comunitarie Urban I (programmazione 199499)11 e Urban II (programmazione 2000-06) e i Progetti Pilota Urbani (programmazione 1994-99)12 . La questione messa a fuoco attraverso questi tre programmi è quella della formazione all’interno dei sistemi urbani di situazioni di concentrazione e di cumulo di degrado urbano e disagio sociale nei confronti delle Liliana Padovani La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban quali viene proposto di sperimentare azioni innovative in grado di contrastare i meccanismi che determinano queste situazioni. L’interesse della UE per le questioni territoriali e urbane si è espresso, oltre che attraverso la programmazione dei fondi strutturali, in due altre aree di intervento. La prima è associata al percorso di costruzione di una sorta di quadro condiviso dello spazio europeo che è stato avviato e sostenuto dal Consiglio dei Ministri responsabili dell’assetto del territorio. Si tratta di un percorso informale di costruzione di una “strategia integrata per lo sviluppo del territorio dell’Unione” (Salone 2000, 14) che si è sostanziato nell’approvazione a Postdam nel 1999, dello Schema di sviluppo dello spazio europeo (Ssse)13 e successivamente in un percorso di costituzione di un osservatorio per la pianificazione spaziale europea (European Spatial Planning Observatory Network). E’ un’iniziativa complessa, ricca di contraddizioni che si pone però come tentativo di proporre alle politiche urbane locali una prima immagine d’insieme del territorio europeo rispetto alla quale porsi in un rapporto dialettico di interazione e di reciproca ridefinizione. La seconda area è connessa alle diverse iniziative promosse nell’ambito dei Programma quadro di ricerca (in particolare il IV e V) che hanno attivato su specifici temi urbani ritenuti di rilievo dalla UE, sia la produzione di contributi conoscitivi e di scambio di esperienze, sia l’attivazione di reti tra istituzioni pubbliche, privati e altri enti. Ne sono scaturiti programmi sperimentali con ricadute di rilievo in termini di segnalazione di buone pratiche e di apprendimento per gli attori coinvolti. Emerge da quanto riportato come l’UE abbia messo in campo una gamma variegata di iniziative connesse ai temi della città e del territorio che hanno coinvolto diversi organismi dell’Unione (più direzioni generali della Commissione, il Consiglio dei Ministri), e che, pur non ponendosi al centro dell’intervento comunitario, indicano come di fatto l’Unione sia entrata come nuovo attore nelle politiche territoriali locali. Ed è appunto in questo contesto in evoluzione che si colloca l’Iniziativa Comunitaria Urban 1994-99. Urban 1994-99 La vicenda di Urban ha avuto inizio nel 1994 con la pubblicazione di un libro verde nel quale la Commissione illustra il suo punto di vista sul contenuto delle Iniziative comunitarie, mettendo in luce in particolare la dimensione urbana delle tensioni sociali che attraversano i paesi della comunità. Nel luglio 1994 la Commissione vara il programma (CCE 1994) invitando gli Stati membri a produrre dei progetti per l'ammissione ai finanziamenti. L’obiettivo è quello di spingere le città europee a mettere in atto programmi innovativi, integrati e partecipati che siano in grado di intervenire in termini efficaci in situazioni di grave degrado urbano, ambientale e sociale. Sulla scia di quanto già sperimentato con i Progetti Pilota Urbani, l’iniziativa Urban si pone l'obiettivo di fungere da catalizzatore dello sviluppo locale “mediante progetti esemplari intesi a migliorare in modo durevole le condizioni di vita degli abitanti delle città, in particolare dei quartieri più poveri e socialmente degradati” (CCE 1994). Il programma fa esplicito riferimento ad una serie di assunzioni che stanno alla base della logica operativa e degli obiettivi attribuiti al programma stesso. Tra questi il fatto di ritenere che: varie altre iniziative più specifiche di lotta alla disoccupazione e che adotta in un'ottica di cooperazione tra paesi. Le Azioni Innovatrici comprendono studi, progetti pilota e scambi di esperienze che contribuiscano all'elaborazione di metodi e pratiche innovative tesi a migliorare la qualità degli interventi per Obiettivo. Le proposte possono venire presentate dagli Stati membri, da autorità regionali, locali o enti privati e fanno generalmente seguito ad inviti a presentare progetti su temi specifici indicati dalla Commissione. 11 Sulla Iniziativa Comunitaria Urban 1 e sulla sua applicazione nel caso italiano esiste ormai una vasta letteratura. Tra le pubblicazioni più recenti Campagna e Ricci (2000); Palermo (2002); Palermo e Savoldi (2002); Pasqui e Valsecchi (2002). 12 Per una descrizione dei Progetti Pilota Urbani e dei progetti italiani si veda Santangelo (2000). 13 Elaborazione decisa a Liegi nel 1993 e conclusa a Potsdam nel 1999 con la approvazione da parte dei Ministri responsabili del territorio. 35 n.4 / 2002 - il fenomeno dell'esclusione sociale urbana rappresenti un problema emergente nel contesto europeo, da contrastare sia per ragioni etiche di garanzia di pari diritti di cittadinanza europea sia perché la presenza nella aree urbane di gravi situazioni di disagio e di esclusione sociale viene vista come potenziale ostacolo al ruolo di motore di innovazione assegnato alle città; - che i fenomeni di esclusione e degrado tendano a concentrarsi in alcuni quartieri urbani geograficamente identificabili sulla base di indicatori socio-economici; - che la questione vada trattata in forma integrata associando la promozione delle attività economiche al miglioramento delle infrastrutture e dell'ambiente, alla formazione personalizzata e alla messa in atto di azioni che garantiscano pari opportunità di accesso ai servizi e alla diverse forme di welfare. Nel bando, che è rivolto ai comuni o alle agglomerazioni urbane con più di 100.000 abitanti, viene delineato il profilo delle situazioni territoriali alle quali è rivolto il programma e sono fornite indicazioni in merito alle misure ammissibili al finanziamento. I quartieri o le zone urbane oggetto del programma di intervento devono essere riconoscibili come entità spazialmente delimitate ed essere abitate, il loro grado di criticità deve essere documentato da una elevata incidenza di elementi negativi, quali: disoccupazione, disagio sociale e insicurezza, alto tasso di abbandono scolastico, forte presenza di beneficiari dell’assistenza pubblica, cattive condizioni del patrimonio edilizio e delle abitazioni, carenze di servizi e infrastrutture. In merito alle misure ammissibili, a titolo esemplificativo dato che ogni programma interpreta la situazione locale, sono proposte le seguenti categorie di interventi: a) avvio di nuove attività economiche attraverso azioni mirate al sostegno delle piccole e medie imprese locali esistenti e all'incentivazione della nascita di nuove imprese (trasferimento di tecnologia oppure promozione di forme di partnership pubblico-privato finalizzate ad incentivare lo sviluppo locale); b) promozione dell'occupazione a livello locale attraverso azioni di qualificazione dell'offerta, o di riqualificazione nel caso di disoccupati di lunga durata, attivando contratti di formazione o la diffusione di esperienze di lavoro attraverso i lavori socialmente utili (servizi alla popolazione, manutenzione dell'ambiente e del patrimonio edilizio); c) potenziamento e adeguamento dell'offerta di servizi pubblici con particolare riferimento alle fasce sociali deboli (servizi sociali, sanità, sicurezza). La gamma di azioni si estende dall’offerta di servizi aggiuntivi, all’adozione di modalità innovative nell’erogazione dei servizi (offerta attiva, servizi “a bassa soglia”), al diretto coinvolgimento degli utenti, ai progetti per il rafforzamento delle misure di sicurezza e di prevenzione della criminalità; d) miglioramento delle infrastrutture e dell'ambiente: il programma, pur non contemplando il finanziamento di interventi sul patrimonio residenziale, può finanziare progetti che riguardino opere di riqualificazione fisica e di miglioramento degli edifici, delle reti urbane, degli spazi pubblici (dal recupero e riqualificazione di spazi verdi, al risanamento di edifici pubblici da destinare alle attività previste dal programma, alle misure di riduzione dell’impatto ambientale, alla mobilità locale o al recupero di aree dismesse o di spazi contaminati); e) promozione della capacità locali di dare risposta ai problemi; si tratta di misure volte ad aumentare la coesione sociale e a promuovere la partecipazione degli 36 Liliana Padovani La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban abitanti alle scelte che riguardano il futuro del loro quartiere. Inoltre nel caso di un programma come Urban le attività relative alla promozione e alla informazione rappresentano un momento fondamentale sia per realizzare un ampio coinvolgimento della comunità intorno agli obiettivi del programma, sia per valorizzare e diffondere gli effetti di innovazione che esso produce. Complessivamente per l’intero programma Urban 1994-99 sono stati assegnati dalla UE 885 milioni di ECU (circa 1.700 miliardi di lire), di cui 564 destinati alle città dell'obiettivo 1 e 321 alle altre città con preferenza per quelle ricadenti in aree dell'obiettivo 2. Si tratta di un co-finanziamento per cui alla quota messa a disposizione dalla UE, che può variare da un minimo del 30% ad un tetto massimo del 75% (come nel caso dei programmi irlandesi), si aggiungono altri finanziamenti pubblici provenienti dagli stati membri e dagli enti locali (comuni e regioni) o anche da soggetti privati coinvolti nel programma. Sono stati finanziati 118 programmi in agglomerazioni urbane con più di 100.000 abitanti14 coinvolgendo così una città su quattro all’interno di questa categoria dimensionale. Il trattamento delle questioni in gioco nel Programma Urban e nel contesto italiano E’ forse utile riprendere qui quelli che possono essere considerati i caratteri salienti, le finalità e i contesti di applicazione del programma. In termini sintetici si può rilevare come al programma Urban venga assegnato come compito specifico quello di sperimentare, in una logica di azione locale integrata, delle modalità efficaci di intervento in situazioni urbane di grave criticità per la molteplicità di forme di deprivazione che vi sono presenti. L’obiettivo sotteso è di ottenere dei risultati positivi per l’area, ma soprattutto di produrre indicazioni su pratiche e modalità operative di successo che possano essere esportate in altri contesti. Le ragioni alla base della scelta di promuovere il programma partono dalla assunzione che siano in atto nelle città europee fenomeni di “marginalizzazione localizzata” (Tosi 2000, 215) con gravi conseguenze in termini di esclusione sociale e che contrastare questi fenomeni rientri tra le priorità delle politiche della UE. Accanto alle finalità specifiche enunciate si delineano però anche altre aspettative quanto agli esiti conseguibili attraverso le diverse forme di apprendimento che il programma può sollecitare. Esiti che possono avere delle ricadute positive anche rispetto ad obiettivi di carattere più generale come quello di rendere più efficaci le politiche pubbliche all’interno della UE. Rispetto a questo quadro operativo, si delineano alcuni punti di potenziale divergenza tra la definizione del problema e delle strategie di intervento data dal programma Urban e l’interpretazione che ne può essere data nel contesto italiano dove sono presenti altri quadri interpretativi e altre tradizioni di politiche di intervento. Due aspetti, sui quali focalizzare l’attenzione nell’analizzare la vicenda Urban Italia, sembrano più significativi. a) Il primo riguarda il confronto tra la definizione che viene data della questione “disagio e degrado urbano” nel programma Urban e la tematizzazione che ne viene fatta nel contesto italiano. b) Il secondo ha a che fare con il senso e le finalità che il programma Urban attribuisce alle innovazioni che si propone di introdurre nel modo di concepire le 14 Dato che nella Unione Europea si stima ci siano da 350 a 400 città di questa dimensione, il programma coinvolge quasi un quarto di queste città. 37 n.4 / 2002 15 Tra quelle di maggiore rilievo si possono citare, l’esperienza ventennale della Politique de la ville in Francia, le esperienze dei programmi City Challenge o Single Regeneration Budget in Gran Bretagna o l’esperienza dei Quartier en crise. Si vedano su questi aspetti contributi di Atkinson and Graham (1994); Hambleton and Thomas (1995); Jaquier (1990, 1992). 16 Il concetto di relegation, coniato dai ricercatori francesi che si sono occupati dei problemi delle banlieues per interpretare i comportamenti e gli atteggiamenti degli abitanti nei confronti del quartiere e della città e rispetto alle prospettive di evoluzione personale, sembra esprimere bene le punte più estreme di questa situazione. Su questo tema si rimanda a Behar (1992); Delarue (1991). 17 Ad esempio, la perimetrazione delle aree soggette a programmi di riqualificazione (come nel caso delle politiche di slum clearence, delle General Improvement Areas o delle Housing Action Areas nel caso della Gran Bretagna) ha contribuito ad accentuare la stigmatizzazione nei loro confronti, con pesanti ricadute negative per gli abitanti, quali il maggior costo delle 38 strategie di intervento e la ri-declinazione che ne è stata fatta nel caso italiano. a) Tematizzazione del degrado urbano e del concetto di esclusione Dai contenuti del bando e dal dibattito che si è sviluppato attorno ad esso si coglie come il programma Urban aderisca ad una particolare tematizzazione della questione del disagio urbano e delle politiche da mettere in atto per contrastarlo, che si è venuta definendo e precisando nel corso degli anni ottanta e novanta in alcuni paesi del centro nord Europa, in particolare Francia e Gran Bretagna15 . Facendo proprie gran parte delle idee sottese da queste esperienze, il programma Urban assume che i processi di trasformazione della città post-fordista portino alla concentrazione di situazioni di povertà e di disagio sociale in determinate porzioni dei tessuti urbani e che proprio questa concentrazione nello spazio venga a porsi come fattore di discriminazione, sino a produrre delle vere e proprie forme di esclusione spaziale e sociale nei confronti di un numero non indifferente di cittadini europei. La compresenza all’interno di queste porzioni di città di forme diverse di disagio sociale e di mancanza di opportunità economiche, l’elevato tasso di disoccupazione, la presenza di attività illecite, i bassi livelli di scolarità, tendono a generare modi di uso degli spazi pubblici e delle parti comuni (vandalismo, appropriazione indebita degli spazi, conflittualità) fortemente penalizzanti per la vita associativa e in genere per la qualità della vita di quanti sono costretti a vivere queste situazioni. D’altro canto il degrado edilizio diffuso, l’assenza di manutenzione e il basso livello di dotazione infrastrutturale di questi quartieri, che si ripercuotono sul basso valore di mercato degli immobili, si pongono come ostacolo ad eventuali progetti di riqualificazione delle unità edilizie, mentre lo stigma negativo che sovente connota l’area penalizza i percorsi individuali di miglioramento delle condizioni di vita o di lavoro. Concentrazione spaziale e sovrapposizione di differenti forme di disagio tendono a comprimere pesantemente, in un circolo vizioso di reciproco rafforzamento, i diritti di cittadinanza di quanti sono insediati in questi quartieri, rendendo loro problematico l’accesso alle risorse di mercato e a volte anche a quelle del welfare16. A questo tipo di considerazioni si aggiunge la consapevolezza del sostanziale insuccesso dei diversi tipi di intervento pubblico che sono stati effettuati in questi quartieri, sia nel campo della riqualificazione edilizia e urbana che in quello dell’azione sociale. Non solo gli interventi non sono riusciti a produrre risultati duraturi, ma in alcuni casi hanno inciso negativamente proprio sulle questioni che si intendevano affrontare 17. Facendo riferimento a questo quadro di esperienze operative e di assunzioni, il mandato che viene assegnato al programma Urban è quello di intervenire in situazioni di disagio urbano particolarmente grave con l’intento di contrastare e invertire i percorsi di progressiva marginalizzazione e la cronicizzazione delle dinamiche di segregazione e stigmatizzazione. Proprio per la molteplicità e cumulatività delle forme di deprivazione presenti nell’area si ritiene che in questo tipo di contesto sia necessario operare attraverso misure che vanno oltre la gestione ordinaria e che il modello dell’azione locale integrata nella sua declinazione più forte sia il solo in grado di garantire la presenza dei requisiti di base affinché i processi di re-inclusione possano avere successo (Tosi 2000, 115). Rispetto a questa tematizzazione della questione del degrado e del disagio urbano, l’interpretazione che del fenomeno viene data nel caso italiano è sensibil- Liliana Padovani La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban mente diversa18 . Il dibattito sulle dimensioni spaziali del disagio sociale e sul concetto di esclusione spaziale che si è sviluppato in Italia non ha attribuito a queste questioni il carattere di priorità che è stato loro assegnato in altri contesti, come ad esempio in Francia, Gran Bretagna o Olanda19 . Se c’è ovviamente consapevolezza del fatto che l’Italia si collochi subito dopo il Portogallo, la Grecia e la Spagna tra i paesi europei con maggiori diseguaglianze di reddito (dati Eurostat 1998), si tende però a ricondurre i connotati territoriali assunti dalla distanza tra i gruppi più ricchi e quelli più poveri più alla grande ripartizione del paese tra Centro-Nord e Sud, che a diseguaglianze tra diverse zone all’interno dei sistemi urbani. Si delinea una mappatura del problema che connota in modo diverso la situazione del Sud rispetto al resto del paese. Nel Sud Italia la presenza di persone a rischio di emarginazione sociale è così rilevante e territorialmente diffusa da offuscare nelle politiche pubbliche la dimensione spaziale intraurbana del disagio - che pure esiste e anche in forme gravi20 - che viene lasciata in secondo piano rispetto alla questione più generale dello sviluppo del territorio nel suo complesso. Diversa è la situazione nel Centro-Nord dove in un contesto di generale maggiore benessere si delinea la presenza di gruppi sociali a rischio di povertà e anche casi di concentrazione di problemi sociali e di degrado in specifiche zone urbane (quartieri pubblici periferici, enclave di disagio in aree relativamente centrali, quartieri in aree interessate da processi di dismissione). E’ il caso dei sistemi urbani di più vecchia industrializzazione del Nord-Ovest o di alcuni tra i sistemi urbani maggiori, dove però almeno sino a metà anni novanta si è ritenuto che questo ordine di problemi, di dimensioni relativamente contenute, fosse affrontabile introducendo innovazioni all’interno dell’intervento urbanistico-edilizio. Situazioni di questo tipo tendono invece ad interessare in misura minore i sistemi territoriali ad economia diffusa della parte orientale del paese. Sono molti i fattori che possono spiegare il discostamento rispetto alla percezione della questione del disagio urbano assunta dal programma Urban (quella che Tosi ha chiamato la sindrome dell’esclusione territorializzata) e non è necessario considerarli in questa sede. Si può però rimarcare come di fatto sino alla seconda metà degli anni novanta in Italia non si sia ritenuto che i fenomeni di polarizzazione sociale e di frammentazione urbana, presenti nel territorio nazionale pur se con intensità minore rispetto ad altri paesi europei, dovessero necessariamente tradursi in nuove gravi forme di segregazione spaziale e di esclusione sociale a livello intra-urbano, tali da richiedere un’attenzione prioritaria nelle agende pubbliche e innovazioni sostanziali nelle modalità di intervento. Questa diversa rappresentazione del problema ha prodotto una re-interpretazione del concetto di approccio d’area e di azione integrata espressi dal programma Urban , con ricadute sia sulla definizione del profilo della “area obiettivo” dei programmi, sia sul senso del tipo di intervento da promuovere. Da qui emergono due primi aspetti da prendere in esame nell’analizzare la vicenda Urban Italia. b) Gli obiettivi di sperimentazione e di apprendimento Il programma Urban, che come già detto in precedenza ha un forte carattere sperimentale dimostrativo e di apprendimento, suggerisce di prestare particolare attenzione, nella costruzione della strategia di intervento, a due fronti di innovazione: assicurazioni all’interno di questi perimetri o la non concessione di mutui da parte degli istituti di credito (red zones). Oppure, il carattere marcatamente assistenziale delle politiche di sostegno sociale ha reso i destinatari di questi benefici completamente dipendenti da essi, riducendo fortemente le loro capacità imprenditive. 18 Si vedano su questo tema i documenti del Seminario coordinato da Padovani (1999), in particolare il tema 1: “Degrado urbano e territorializzazione del disagio sociale: la specificità del caso Italiano nel contesto europeo.” 19 L’attività di ricerca svolta in questo campo tende a mettere in discussione sia l’esistenza di fenomeni importanti (quantitativamente e per presenza diffusa nell’intero territorio nazionale) di grave concentrazione spaziale di situazioni irreversibili di impoverimento (Mingione 1996; Saraceno 1996), sia l’esistenza di relazioni forti tra povertà e aree urbane (Becchi, 1999). 20 Nelle città del sud sono infatti presenti situazioni di concentrazione di fenomeni gravi di degrado urbano all’interno delle agglomerazioni urbane maggiori, in particolare nei centri 39 n.4 / 2002 storici e nelle periferie di edilizia pubblica o negli insediamenti abusivi. Si veda Morlicchio (2000). 21 Questo aspetto è stato sottolineato da Eleonora Artesio nel suo intervento al Seminario “sull’accompagnamento sociale dei PRU“ (Torino 2001). 40 - l’adozione nella costruzione del programma di una logica di azione locale integrata; - l’adozione dell’obiettivo di finalizzare il programma al potenziamento delle capacità di azione dei diversi soggetti coinvolti e di farlo “attraverso”, e non, “nonostante”21 il contesto urbano di riferimento. In riferimento al primo punto, si è già detto come Urban proponga una declinazione forte del concetto di azione locale integrata. Si ritiene che in presenza di situazioni di criticità estrema, come quelle affrontate dal Programma, solo intervenendo trasversalmente e contemporaneamente sulle diverse cause che le determinano sia possibile rovesciare i processi di degrado e le differenti forme di derivazione presenti. Rispetto a un’enunciazione di questo tipo, nel 1994 quando il Programma venne lanciato, in Italia erano poche, se non del tutto inesistenti, le amministrazioni che avessero messo in atto interventi riferibili a quel concetto di integrazione. Incominciava invece a delinearsi, a partire dall’inizio degli anni novanta dopo alcune sperimentazioni effettuate nel decennio precedente in applicazione di programmi europei o in presenza di eventi eccezionali (PIM o mondiali), la convinzione che un’ottica di azione meno settoriale e più aperta a forme di interazione e di cooperazione tra i diversi settori e soggetti coinvolti fosse più adatta per trattare problemi complessi come quelli dello sviluppo locale, del degrado urbano, della tutela dell’ambiente e della qualità della vita. Il concetto di azione integrata ha così incominciato ad essere oggetto di elaborazione e sperimentazione all’interno di differenti tipi di politiche pubbliche, assumendo valenze diverse in funzione degli obiettivi e degli esiti attesi da ciascun tipo di politica. Queste esperienze che si sono sviluppate prima e durante il programma Urban si pongono come schemi di riferimento operativo più o meno consapevolmente riconosciuti e utilizzati e diventa allora interessante collocare il lavoro di interpretazione delle diverse declinazioni che del concetto di integrazione vengono fornite dalle esperienze promosse nel programma Urban Italia anche rispetto a questi altri contesti di sperimentazione di azioni integrate a livello nazionale. Due campi di sperimentazione sembrano più significativi per l’entità dei programmi attivati e per il dibattito che si è creato attorno ad essi: si tratta, da un lato, della vicenda dei Patti territoriali e, dall’altro, della consistente sequenza di iniziative di promozione di programmi integrati di rigenerazione urbana che sono state proposte e implementate dalla Direzione Generale del Cer prima e in seguito dalla Direzione Generale del Coordinamento Territoriale del Ministero dei Lavori Pubblici (Scheda 1). Nel primo caso la declinazione che viene data del concetto di azione integrata è fortemente orientata al problema dello sviluppo (economico locale) coinvolgendo “dal basso” gli attori locali rilevanti; nel secondo caso l’attenzione è più specificamente rivolta agli aspetti fisico-spaziali della città, e all’integrazione tra gli interventi che riguardano gli immobili e quelli relativi alle opere di urbanizzazione e alla organizzazione degli spazi pubblici (Laino e Padovani 2000). Nella scheda 2 sono sinteticamente riportati i campi di sperimentazione messi in gioco nelle due declinazioni del concetto di azione integrata. Liliana Padovani La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban Scheda 1. I programmi integrati promossi dal Ministero dei LLPP negli anni ‘90 Dal 1992 ad oggi sono stati promossi dal Ministero dei Lavori Pubblici cinque diversi tipi di programmi: i Programmi integrati, i Programmi di recupero urbano, i Programmi di riqualificazione urbana, i Contratti di quartiere e i Programmi di recupero urbano e di sviluppo sostenibile. I finanziamenti messi a disposizione sono quelli dell’edilizia residenziale pubblica e ad eccezione dei Programmi integrati e dei Programmi di recupero urbano, si tratta di interventi una tantum gestiti direttamente dalle Direzioni Generali competenti del Ministero dei Lavori Pubblici: - la legge n.179 del 1992 introduce lo strumento del Programma integrato, che per i forti connotati di de-regulation incontra diversi ordini di problemi, poi risolti dai contenuti dei provvedimenti successivi; - la legge n.493 del 1993 e i tre Decreti del Ministero dei Lavori del 1 e del 24 dicembre 1994 introducono i Programmi di recupero urbano e i Programmi di riqualificazione urbana. I primi sono prevalentemente rivolti al risanamento dei quartieri di edilizia pubblica nell’intento di ridare loro qualità urbana e renderne più articolata la composizione sociale e funzionale. La presenza di risorse private è auspicata ma non indispensabile per accedere ai fondi concessi dal governo centrale. I secondi sono invece prevalentemente rivolti al recupero di aree degradate o in fase di grave declino per fenomeni di dismissione o di mutamento urbano; in questo caso è indispensabile la compresenza di risorse private. Sono state presentate 245 proposte, selezionati 74 progetti di 39 comuni. E’ stato concesso un finanziamento pubblico di 1.100 miliardi per un investimento complessivo di 5.000 miliardi. - nel 1997 viene introdotto, sempre dal Ministero dei Lavori Pubblici, lo strumento del Contratto di quartiere che promuove interventi integrati per il risanamento di quartieri pubblici in condizioni di degrado grave. Accanto ad interventi sul patrimonio edilizio e le infrastrutture, per i quali vengono messi a disposizione finanziamenti pubblici (700 miliardi), sono richieste operazioni (da finanziare con altri tipi di fondi reperiti autonomamente dai comuni) rivolte a migliorare le condizioni economiche e sociali all’interno del quartiere. Sono state presentate 123 proposte, 83 sono state selezionate dalle regioni e inviate al Ministero, 77 giudicate ammissibili e le prime 55 finanziate con i fondi disponibili; - infine nel 1998 viene introdotto lo strumento dei Programmi di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile del territorio: Prusst. 600 miliardi sono messi a disposizione per predisporre dei progetti integrati di ristrutturazione di porzioni di territorio dove sono necessarie opere di infrastrutturazione, interventi per lo sviluppo produttivo e di risanamento ambientale. L’area di intervento è più estesa rispetto ai programmi precedenti. Si tratta di azioni più specificamente rivolte agli aspetti fisico edilizi del degrado urbano e al potenziamento o riqualificazione dei servizi e delle opere di infrastrutturazione Si delinea quindi una situazione in cui da un lato il programma Urban costituisce per i comuni italiani la prima occasione di confronto con quella che in precedenza è stata definita come una declinazione forte del concetto di azione integrata. Dall’altro si sono venute costituendo durante il periodo di ideazione e attuazione dei programmi Urban altri campi di sperimentazione del concetto di azione integrata con delle declinazioni diverse, a volte riduttive, a volte finalizzate al perseguimento di obiettivi di carattere più settoriale. Diventa allora interessante cercare di capire se e come questi diversi campi di sperimentazione abbiano interagito e con quali conseguenze in termini di apprendimento. 41 n.4 / 2002 Scheda 2. (Fonte : L. Padovani 2002) 1. Declinazione fortemente orientata vero lo sviluppo (economico) locale. Patti Territoriali o altre iniziative di sviluppo locale. In questo caso nella costruzione dei programmi di intervento viene dato peso: - per quanto riguarda l’attivazione degli attori, particolare attenzione viene dedicata alle risorse locali legate al mondo della produzione, della ricerca e dello sviluppo, così come alle loro rappresentanze e ai percorsi di costruzione di fiducia reciproca con la sottoscrizione di impegni reciproci; - per quanto concerne i settori di intervento, è dato spazio allo sviluppo delle attività economiche e alla crescita del ceto imprenditoriale locale. I problemi del miglioramento della qualità territoriale e ambientale o il potenziamento della coesione sociale, che sono lasciati più in ombra, vengono però trattati come azioni al contesto tese a ridurre le condizioni di svantaggio dell’area e a creare un ambiente più favorevole allo sviluppo; - per quanto concerne gli obiettivi, la finalità dominante è quella di promuovere lo sviluppo economico locale (che risponda a criteri di competitività e di sostenibilità). 2. Declinazione fortemente orientata alla riqualificazione urbana. Programmi integrati promossi dal Ministero LLPP. In questo caso nella costruzione dei programmi gli aspetti di innovazione più importanti sono: - per quanto concerne il sistema degli attori, l’apertura a forme di collaborazione tra settore pubblico e settore privato (in particolare il settore edilizio immobiliare), nella progettazione, attuazione e gestione dell’intervento (forme di partenariato pubblico-privato per la riqualificazione edilizia e la produzione di beni comuni); - per quanto concerne i settori di intervento, il maggiore spazio è dato all’integrazione tra le operazioni che riguardano gli immobili e quelle relative alle opere di urbanizzazione e alla organizzazione degli spazi pubblici. La riqualificazione ambientale è introdotta come tema trasversale. Gli aspetti sociali sono più sfuocati - fatta eccezione per il programma Contratto di quartiere - anche se non del tutto ignorati, dato che viene richiesto di garantire all’interno dell’operazione un certo mix di offerta residenziale (sovvenzionata, convenzionata-agevolata e privata); - per quanto concerne gli obiettivi, la finalità dominante è quella di ridare qualità a porzioni di città e di territorio che ne sono prive, di migliorare il loro livello di dotazione infrastrutturale e funzionale e di garantirne la funzionalità e il reinserimento nel contesto urbano o territoriale più vasto. Il secondo fronte di innovazione, il fatto cioè di avere scelto di finalizzare il programma al potenziamento delle capacità di azione dei diversi soggetti coinvolti, si articola in sotto aree di apprendimento, due delle quali sembrano di particolare rilievo per il tipo di ragionamenti in esame. La prima è connessa alla scelta di fare partecipare al programma i destinatari dell’intervento. Il programma Urban suggerisce infatti che i destinatari del programma, abitanti, attività, associazioni, reti locali, siano considerati come attori nel processo di costruzione e attuazione del progetto, in una logica operativa che vede l’area di intervento come contesto (milieu) di attivazione delle condizioni per un suo miglioramento. Questa scelta produce delle ricadute di rilevanza su più versanti. In primo luogo la possibilità di attivare delle occasioni di confronto diretto tra organismi istituzionali e abitanti e tra gli abitanti stessi coinvolti in un percorso di identifi- 42 Liliana Padovani La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban cazione dei problemi, determinazione delle priorità e delle modalità di soluzione può produrre ricadute interessanti per ricostituire un clima di fiducia nelle istituzioni e creare forme di fiducia reciproca tra gli abitanti. Condizioni indispensabili per pervenire a delle scelte operative condivise, che sono però del tutto inesistenti in questi contesti insediativi. In secondo luogo il coinvolgimento attivo dei destinatari può contribuire alla ricostituzione di senso di sicurezza e di fiducia nelle capacità di mobilitare le risorse necessarie per l’inserimento nelle reti economiche e sociali (empowerment e capacity building). E questo sia nel caso che il progetto sia quello di un re-inserimento nel sistema economico e sociale dominante (mainstream society), sia nel caso di progetti di creazione di nuove reti economiche e sociali, che considerino diversità e specificità (etniche, di saperi, di pratiche) come risorsa aggiuntiva. In terzo luogo la partecipazione dei diretti interessati alla progettazione e realizzazione degli interventi è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per garantire la sostenibilità nel tempo dei risultati conseguiti una volta esaurita la fase delle risorse economiche e tecniche aggiuntive offerte dal programma. La seconda area di apprendimento è connessa al mutamento di ruolo e di funzioni che si dovrebbe venire a creare all’interno dell’azione pubblica. Se l’obiettivo è, da un lato, quello di attivare e fare emergere risorse e saperi locali latenti, e, dall’altro, di promuovere percorsi di de-costruzione e ri-costruzione di sistemi di aspettative e preferenze verso l’elaborazione di progetti e programmi condivisi, all’amministrazione pubblica viene chiesto di modificare la propria logica di intervento. In particolare, si pone il problema di uno spostamento dal più tradizionale ruolo di erogazione di servizi, di prestazioni o di azioni di controllo verso un’azione di promozione e orientamento di capacità e iniziative locali (da un ruolo di provider a quello di enabler). Diventa allora interessante cercare di capire quali siano state le ricadute dell’esperienza Urban attorno alle questioni menzionate. L’esperienza del PIC Urban Italia come fattore di innovazione e di apprendimento In Italia il programma ha suscitato interesse nei comuni, per la prima volta chiamati ad essere protagonisti di un programma co-finanziato dai Fondi strutturali. Nelle fasi iniziali, antecedenti alla pubblicazione del bando, l’amministrazione centrale si è attivata per assistere le città nella costruzione e presentazione dei progetti. A farsi carico dell’avvio delle operazioni necessarie per partecipare al programma Urban è stato l’Ufficio programmi del Dipartimento: Coordinamento delle politiche comunitarie, presso la Presidenza del Consiglio che ha avviato una riflessione su quelle che potevano essere le città da coinvolgere promuovendo riunioni di coordinamento presso il Dipartimento per il Coordinamento delle politiche comunitarie alle quali partecipano le amministrazioni centrali potenzialmente interessate a un programma trasversale come Urban: Industria, Tesoro, Lavoro, LLPP, Istruzione (abbandono scolastico), Beni Culturali (patrimonio artistico), Interni (delinquenza giovanile), Aree Urbane. In funzione di una serie di considerazioni in merito alla rispondenza delle città agli indicatori enunciati dalla CE, al numero non rilevante di città che potevano essere coin- 43 n.4 / 2002 22 Nel caso italiano il governo centrale si è assunto un ruolo di mediazione tra i comuni e la UE. nella preparazione e gestione dei programmi. L’Italia ha così presentato, e questa è una specificità del caso italiano, un unico programma composto da sedici sottoprogrammi, coordinati dal governo centrale (Dicoter Ministero LLPP). Questo ha fatto sì che sia stato possibile ridistribuire all’interno del PIC Urban Italia i fondi non spesi entro i termini concordati. 44 volte nell’iniziativa (in base ai dati forniti dal bando Urban 10-15 città per l’Italia), al fatto che le città dovessero essere superiori a 100.000 abitanti e tenendo inoltre conto del fatto che il Fondo per lo Sviluppo Regionale prevedeva che il 70% dei fondi fosse assegnato alle regioni del Sud, un certo numero di città sono state invitate a presentare dei progetti entro il 1 novembre 1994, termine previsto dalla Comunicazione. I progetti sono stati esaminati in sede di Commissione Europea e sono stati selezionati in una prima fase 13, e poi altri 3 Programmi Urban. Le 16 città che hanno ottenuto finanziamenti sono: Genova, Venezia, Trieste, Roma, Napoli, Salerno, Foggia, Bari, Lecce, Reggio Calabria, Palermo, Siracusa, Cosenza, Cagliari, Catania, Catanzaro. La gestione del Programma Urban a livello di governo centrale è poi passata alla Direzione Generale del Coordinamento Territoriale del Ministero LLPP22 . Nel dicembre 2001 i programmi si sono conclusi. Alcuni programmi sono riusciti ad utilizzare tutti i fondi assegnati altri hanno incontrato ostacoli e ci sono stati delle ridistribuzioni dei fondi all’interno del PIC Urban Italia. Dato che al 31.12.2001 risulta spesa una quota vicina al 95% degli stanziamenti complessivi, se ne può dedurre che le difficoltà incontrate dai comuni nel gestire un programma fortemente innovativo come Urban sono state in qualche modo superate. C’è stato quindi un processo di apprendimento, anche se gli esiti si sono visti soprattutto nella fase finale del programma quando la capacità di spesa si è di molto accelerata. Al dicembre 1999 risultava speso solo il 36% dei fondi assegnati, che sale al 56% a fine dicembre 2000, al 63% al 31.3.2001 (percentuale comunque superiore alla capacità di spesa media dei programmi previsti dal Qcs Obiettivo 1, 1994-99 che alla stessa data raggiungono solo il 43%) per poi raggiungere il 95% al dicembre 2001. L’esame delle vicende dei 16 Urban italiani permette di sviluppare alcuni ragionamenti più circostanziati e di proporre una prima serie di considerazioni sugli esiti conseguiti sia in termini di risultati specifici in ciascun caso, sia in termini più generali di apprendimento su alcune questioni di rilievo. Alla luce delle considerazioni svolte in precedenza sugli elementi di innovazione proposti dal programma Urban, si delineano tre temi principali attorno ai quali organizzare le indicazioni che emergono: il primo è connesso ai criteri di scelta del contesto su cui intervenire e degli obiettivi del programma; il secondo alla declinazione che viene data del concetto di azione integrata e alle implicazioni che ne derivano per le modalità di costruzione e attuazione del programma; il terzo al tema della partecipazione al programma dei destinatari del progetto. In relazione al primo tema, l’esame dei criteri seguiti dai comuni nell’individuare l’area-obiettivo, nel perimetrarne i confini e nel definire gli obiettivi del programma, permette di avanzare alcune considerazioni in merito all’attenzione prestata a quella che era stata individuata come “situazione tipo” proposta dal programma Urban per questo tipo di azione. I comportamenti seguiti nei 16 casi denunciano un certo discostamento dallo schema proposto. Per esempio, per quanto concerne la perimetrazione dell’area-obiettivo, sorprende la variabilità della sua estensione nei diversi casi, si passa dagli 8 ha di Lecce ai 30 ha di Bari ai 2000 ha di Genova o di Venezia. Poiché le somme stanziate per ciascun programma non sono così distanti (Tabella 1), questa variabilità induce a ritenere che il senso attribuito nella costruzione del programma al contesto di intervento come “attivatore” di risorse, di interrelazioni e quindi di possibilità di integra- Liliana Padovani La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban zione attiva, vari molto da una situazione all’altra. Viene messa in discussione, o viene prestata scarsa attenzione, ai nessi tra “approccio d’area” e “azione integrata” e al significato attribuito nei criteri di perimetrazione al ruolo strategico dell’area come contesto per attivare e integrare localmente risorse diverse e per creare occasioni di sinergia e interazione tra le azioni promosse. Una seconda peculiarità è costituita dalla dominanza della situazione “centro storico” come area di intervento (nove casi su sedici) rispetto a quella del “quartiere residenziale in crisi”. La moderata attenzione prestata al concetto di quartiere residenziale in crisi (in un caso limite i residenti sono assenti nell’area intervento) può essere indicativa della scarsa attenzione prestata alle valenze più sociali del programma Urban. Infine nella definizione delle finalità dei programmi, le scelte fatte fanno riferimento a modelli diversi di declinazione del problema, alcune più spostate verso interventi di riqualificazione urbana-edilizia, altre più attente ai problemi dello sviluppo economico. E’ però interessante notare che un obiettivo che attraversa quasi tutti i 16 casi è quello del re-inserimento dell’area di intervento nel contesto urbano. Dagli elementi riportati emerge una certa difficoltà a cogliere la portata del concetto di azione locale integrata e non esistendo una tradizione di intervento in questo senso, soprattutto nelle fase di impostazione dei programmi sembra assumere un peso di rilievo il riferimento ai modelli più sperimentati di concettualizzazione dei problemi del disagio e del recupero urbano. Questo in parte spiega, data la dominanza nel contesto italiano di un approccio di tipo urbanistico alle questioni urbane, come mai tra le finalità dei programmi, l’obiettivo del re-inserimento nella città dell’area di intervento sia presente in gran parte dei casi. Sia nel caso di centri storici che di aree periferiche si tratta in genere di zone degradate con problemi di esclusione rispetto al resto della città e quindi il tema di aprire il quartiere alla città e viceversa, si colloca bene in un quadro di strumenti urbanistici e di piano che già operano in questa direzione. E’ un modo intelligente e corretto di utilizzazione del programma, tuttavia esiste anche il rischio che il potenziale di sperimentazione offerta dal programma Urban si appiattisca su una funzione riduttiva di intervento a sostegno della attuazione delle politiche del piano urbanistico. Situazioni potenzialmente di questo tipo sono rilevabili nel caso di programmi che intervengono nei centri storici (Bari, Cosenza, Salerno, Siracusa, Trieste) oppure in casi come quello di Cagliari dove un peso di rilievo viene dato all’obiettivo “urbanistico” di ricondurre alla norma e al mercato un intero quartiere di espansione residenziale abusiva. Esistono poi i due casi limite di Genova e Venezia dove la dimensione dell’area obiettivo è talmente grande, sia rispetto a quella degli altri programmi Urban sia rispetto all’entità dei finanziamenti, che gli interventi previsti hanno senso solo se letti come attuazione di una più ampia politica di rigenerazione urbana. Rispetto alle questioni considerate, si delinea una situazione dove la scelta di non avere focalizzato i programmi sui casi, pur esistenti, di accentuata marginalità e degrado, come suggerito dal programma, e di avere invece attivato interventi rivolti a una gamma più diversificata di situazioni di disagio urbano, da un lato può essere vista come limitativa nei confronti delle potenzialità sperimentali offerte dal programma, dall’altro però anche come occasione per valutare le diverse potenzialità in termini di qualità degli esiti che un’ottica di azione integrata può 45 n.4 / 2002 Tabella 1 - Finanziamento per sotto-programma (in Euro) e ripartizione per misura costo totale inizio Contribu- Avvio atal 1999 program. to UE tività ecoinizio nomiche program mis. 1 Formazione; promozione occupazione mis. 2 Servizi so- Infrastrutciali, sanità, ture e amordine pub- biente blico mis. 3 mis. 4 Comunica- Varie zione diffusione mis. 5 Bari 20901 20988 9188 7861 1341 1733 8994 572 Cagliari 19837 19323 9188 5515 8074 5959 289 Catania 25220 24768 9188 5287 3872 14377 1224 Catanzaro 12895 12547 5850 3588 1519 1581 5717 490 Cosenza 20890 18555 9188 1112 310 5557 13694 217 Foggia 18534 18410 9188 2260 3332 4500 7242 1200 Genova 26271 22538 7158 4339 3717 9168 8164 883 Lecce 14654 13186 5852 3900 1076 1000 8178 500 Napoli 22838 22045 10186 3993 3134 14815 896 Palermo 22200 21420 10038 3100 1490 5023 11958 629 Reggio C. 21767 21136 9188 4883 827 4463 11241 353 Roma 20763 21768 7158 1630 1795 6011 9676 1389 Salerno 18342 18188 9188 2629 377 1300 11790 518 Siracusa 22510 22510 9188 5226 2285 592 13914 493 Trieste 21542 31113 6662 7547 2072 7356 3910 630 Venezia 19138 25547 7158 93 871 18024 150 Ass. tecn. Monitorag. 3500 2450 Totale 328302 337542 136016 62990 28018 56358 167653 10433 Fonte: dati situazione 1999. Campagna e Ricci (2000); assegnazione iniziale, sito Ministero LLPP 23 Donolo (2001) fa notare come le ragioni dell’integrazione delle politiche possano essere di natura diversa da quelle che riguardano l’integrazione degli impatti. Nel primo caso i temi che tendono ad essere messi a fuoco sono quelli della riduzione dei costi e degli sprechi e della razionalizzazione delle risorse. L’integrazione che si ottiene guardando ai costi e quindi ai mezzi è diversa da quella che ottiene guardando ai fini, cioè agli effetti integrativi degli impatti delle politiche. Come considerazione a margine, da tenere presente nell’impostare l’analisi dei casi Pic Urban Italia, si 46 mis. 6 400 460 262 1728 2850 assumere in presenza di scale diverse di gravità delle situazioni di intervento. Passando al secondo tema, un secondo gruppo di considerazioni deriva dall’esame delle diverse declinazioni che del concetto di integrazione sono state data nei 16 casi, con particolare attenzione ai nessi tra gli interventi tesi a migliorare le condizioni urbanistico-ambientali, quelli finalizzati al miglioramento delle opportunità economiche e quelli di carattere più sociale. Si prospettano due orientamenti nel modo di guardare al concetto di integrazione, un primo modo più elementare è quello di considerarla come integrazione di politiche pubbliche diverse, in un ottica di riduzione dei costi, di razionalizzazione delle risorse, di riduzione degli sprechi e degli impatti negativi, un altro modo è quello di considerare l’integrazione come un esito, non definibile e prevedibile ex ante a tavolino, delle politiche pubbliche promosse. In questa seconda accezione sarebbe più corretto parlare di azioni/programmi “integranti” piuttosto che di azioni o programmi “integrati” (Donolo 2001; Crosta 2001)23 . Nei percorsi di costruzione e realizzazione dei programmi integrati i due orientamenti ovviamente non sono esclusivi, sarebbe anzi interessante potere leggere attraverso i casi di studio quali nessi si siano venuti a creare tra le due declinazioni. Dai casi considerati emerge come forme di integrazione tra le diverse aree o settori di intervento, per altro esplicitamente richieste dal bando, siano presenti, quantomeno nella formulazione più semplice della integrazione tra politiche, in tutti i casi. Variano però, sia le declinazioni che sono state date ex ante dei nessi e delle relazioni tra i diversi tipi di azioni, sia gli esiti conseguiti. Nella fase iniziale di impostazione del programma si delineano due comportamenti. Un gruppo di comuni si propone di creare dei nessi forti tra i diversi tipi di misure che si intendono attivare sin dalle fasi iniziali di avvio del programma. Liliana Padovani La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban Dalla lettura dei casi di studio si delineano alcune modalità tipo di nessi trasversali. Ad esempio se l’obiettivo è quello della rivitalizzazione economica dell’area bersaglio si cercano di costruire dei legami forti tra: formazione (creazione di profili di attività e di profili professionali anche in funzione della situazione sociale dell’area, del tipo di problemi di disoccupazione, dei giovani, ecc.), avvio di nuove imprese all’interno dell’area obiettivo (artigianato artistico, turismo, servizi in settori innovativi o in settori dell’economia sociale) e azioni rivolte a migliorare la qualità edilizia e ambientale dell’area, anche attraverso la promozione di interventi (privati) di risanamento delle strutture destinate ad ospitare queste attività all’interno dell’area obiettivo, promuovendo in alcuni casi anche l’intervento del settore immobiliare privato. Se l’obiettivo è quello del potenziamento delle funzioni di sostegno sociale si cerca di costruire dei nessi tra formazione, sostegno alle iniziative del terzo settore sociale, attivazione di centri di presidio sociale e predisposizione in alcuni casi delle sedi per lo svolgimento di queste attività, in genere attraverso operazioni di recupero di complessi abbandonati che abbiano anche un ruolo di rilievo nella migliorare la qualità urbana dell’area. Per quanto concerne gli interventi tesi a migliorare la qualità urbana dell’area, si cercano di costruire delle relazioni forti tra misure di risanamento ambientale, di recupero urbano e riqualificazione edilizia dell’area bersaglio associandole, quando possibile come nel caso dei centri storici, a politiche di salvaguardia e valorizzazione delle valenze storiche e archeologiche dell’area. Relazioni forti vengono anche ipotizzate con le misure di promozione di attività e con le misure di ordine sociale allo scopo di introdurre negli spazi urbani risanati forme nuove di vita sociale e di relazione. È collocabile in questo primo gruppo la maggior parte dei programmi Urban. Negli altri comuni, il programma si è appoggiato ad un concetto debole di integrazione, perché l’interesse è stato concentrato soprattutto verso azioni di riqualificazione urbana e ambientale sulla scia di esperienze precedenti, o perché si è proceduto attraverso una giustapposizione di progetti diversi nell’area di intervento in parte anche attraverso operazioni di recupero di progetti preesistenti. Sembra interessante constatare come, se all’interno del primo gruppo di comuni non sempre i livelli di integrazione preconizzati nella fase di impostazione hanno potuto essere mantenuti e anche in fase di realizzazione le difficoltà incontrate hanno comportato l’eliminazione o la forte contrazione di alcune misure, all’interno del secondo gruppo in alcuni casi il concetto di azione integrata si è venuto elaborando e precisando in corso d’opera. Ad esemplificazione di situazioni del primo tipo si possono citare il caso di Bari e di Catanzaro, dove non sono state portate a termine alcune azioni rivolte a migliorare le condizioni economiche e sociali delle componenti più fragili degli abitanti e delle attività insediate nell’area obiettivo; quello di Salerno, dove l’intervento si è spostato dalla parte più disagiata del c-s verso la totalità dell’area, penalizzando così i gruppi più svantaggiati; quello di Cosenza, dove l’inaspettato successo dei finanziamenti per il sostegno e l’avvio di nuove imprese ha reso ridondanti e inutilizzate le azioni di formazione. Può rientrare in questo gruppo anche il caso di Trieste dove in fase di attuazione il programma Urban si è progressivamente allontanato dagli interventi di carattere più marcatamente sociale (Centro Interculturale Multietnico, progetto spostato al di fuori del c-s e Centro di prima accoglienza può rilevare che, se nel primo caso l’integrazione tra le politiche pubbliche può essere progettata e definita anche ex ante, nel secondo caso l’integrazione, se avviene, si verifica come esito di un processo difficilmente definibile a priori in tutti i suoi caratteri. 47 n.4 / 2002 per i giovani a rischio, progetto stralciato). Come esempi del secondo tipo si possono citare, nel caso di Palermo, il progressivo delinearsi di quello che è stato denominato il “sistema integrato della Kalsa”, che coinvolge una porzione limitata del centro storico dove al consolidamento delle relazioni tra le misure a sostegno dell’artigianato, dell’assistenza sociale e della riqualificazione urbana, si accompagna un percorso fisico di integrazione territoriale e il delinearsi di un circuito nuovo di fruizione di questa parte della città. Un ultimo gruppo di considerazioni è connesso al terzo tema, quello della partecipazione degli abitanti, dei destinatari dell’intervento e in genere dei soggetti portatori di interessi nel processo di costruzione e attuazione del programma Urban. Questo sembra essere il campo di sperimentazione che ha incontrato maggiori difficoltà. All’esame dei 16 casi risultano modeste le risorse destinate alla definizione di forme e modalità di coinvolgimento degli abitanti e anche nelle fasi di costruzione delle singole azioni viene dedicata scarsa attenzione all’attivazione delle risorse (conoscitive, di pratiche, economiche, ecc.) di cui sono portatori gli stessi destinatari del programma. Ci sono delle eccezioni, per esempio i programmi Urban di Napoli e Reggio Calabria hanno mostrato sin dalle fasi iniziali delle forme di apertura del processo decisionale agli attori locali. Le ragioni della scarsa attenzione per la partecipazione o delle difficoltà incontrate a realizzarla vanno approfondite, anche perché proprio la debole capacità di coinvolgimento degli abitanti e delle rappresentanze locali e la non sufficiente attenzione dedicata alla identificazione di bisogni e delle potenzialità locali, potrebbe essere alla base del mancato o non pieno successo di alcune azioni. In particolare proprio di quelle azioni che ipotizzavano una partecipazione di investimenti di piccoli operatori privati locali sia per la promozione di attività economiche, sia per la riqualificazioni di locali da destinare a funzioni residenziali integrative con ricadute economiche per le famiglie (come ad esempio nel caso del progetto bed and breakfast a Bari, o del risanamento di immobili da destinare a residenza per studenti nel caso di Trieste). Sulle difficoltà citate hanno influito inesperienza e carenze di saperi tecnici e professionali su come condurre questo tipo di azione e un basso livello di sperimentazione da parte delle amministrazioni locali. Tuttavia rispetto alle difficoltà incontrate dalla gran parte dei comuni a strutturare nelle fasi di avvio del programma un percorso di costruzione di azioni partecipate, delle forme di interazione con gli abitanti e con le diverse rappresentanze locali si sono invece create, in un certo numero di casi, in corso di attuazione del programma. E ciò è avvenuto sia in seguito a diverse forme di pressione esercitate dal basso, da comitati e associazioni formatesi in relazione al programma stesso (è il caso di Bari o di Cosenza), sia per la maturazione all’interno del gruppo responsabile del programma di capacità di interazione e di ascolto degli attori locali (come ad esempio nei casi di Palermo o di Trieste). 48 Liliana Padovani La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban Scheda 3 Indicazioni sintetiche sui caratteri dell’area-obiettivo e sugli obiettivi del Programma Urban Comune caratteri della area “obiettivo” Finalità del programma Bari c-s (città antica c-a) 8000 ab. 30 ha Cagliari Nucleo Pirri 3000 ab. Quartiere abusivo 200ha 6000ab Catania c-s 53000 ab. Reinserimento del centro antico nell’area urbana di Bari; sua rivalorizzazione e recupero di ruolo e di centralità (valori storico monumentali e tradizioni artigianali locali).“Aprire la c-a alla città e la città alla c-a.” Obiettivo forte: riqualificazione Nucleo Pirri e reinserimento del quartiere abusivo Baracca-Manna nel tessuto urbano (legalizzazione, infrastrutturazione, migliore qualità ambientale, recupero di immagine) e sviluppo residenziale aree ancora libere. Obiettivo debole: contrastare emarginazione gio vanile e disoccupazione nel Nucleo Pirri. Rilanciare un’area significativa del c-s attraverso una azione di ‘sviluppo locale’ basata sul: a) recupero e valorizzazione ambientale per restituire a questa parte di città condizioni di vivibilità; b) sviluppo di attività economiche (artigianato); c) riduzione condizioni di marginalità. Restituire al c-s storico un ruolo come centro di attività sociali, culturali, artigianali, produttive e turistiche, di supporto per un territorio più vasto. A questo fine, promozione attività economiche e occupazione nel c-s, migliore offerta servizi sociali e culturali.Rilevanza obiettivi sociali. Rompere situazione di isolamento (abbandono) del c-s e del quartiere Popilia (emarginazione). Rilancio attività economiche (culturali, artigianali, terziario innovativo) e residenza. Intervento di riqualificazione lungo un asse di collegamento di due aree che presentano problemi di marginalità: Sono previsti: a) interventi leggeri di riqualificazione edilizia e urbana; b) la creazione di nuovi servizi c) azioni di sostegno per lo sviluppo di nuove attività economiche. Intervento con forte valenza di riqualificazione ambientale e di miglioramento della vivibilità urbana in due quartieri interessati da riconversione produttiva. Sono previsti e realizzati interventi di: a) riqualificazione ambiente urbano, miglioramento della dotazione e qualità dei servizi; b) controllo e mitigazione dell’inquinamento da traffico; c) sostegno nuove attività economiche “pulite”. Rivitalizzazione e miglioramento condizioni di vita nel c-s attraverso: promozione attività economiche (imprese artigiane “Isola Artigiana” circuito turistico culturale); sostegno occupazione (emarginati, disoccupati, donne, immigrati); miglioramento qualità ambientale (risanamento di contenitori di valore storico -artistico, degli spazi pubblici e delle reti tecnologiche). Catanzaro c-s (ampia parte) 10000 ab. Cosenza c-s zona Via Popilia Foggia periferia e zona centro-nord 46000 ab. Genova Cornigliano: 16000 ab. 523 ha Sestri P. 50000 ab. 481 ha Lecce c.s 6000 ab. 9 ha (20% extra-com.) 49 n.4 / 2002 Comune caratteri della area “obiettivo” Finalità del programma Napoli c-s QS 15000 ab. Sanità25000 ab Palermo c-s. mandamenti Castellamare, Tribunali 112 ha Reggio Calabria Periferia nord nuclei antichi e edilizia residenziale sociale 33000 ab Roma Periferia 90000 ab. 1060 ha sociale - 28000 ab. Tor Bella Monaca, ed. residenziale c-s 7000 ab. Urban viene visto come occasione: a) per sperimentare l’efficacia delle iniziative promosse dal Comune tese a migliorare la qualità della vita nelle zone con gravi problemi di degrado e disagio sociale; b) per definire programmi pilota di intervento integrato. Urban viene visto come sfida per sperimentare un percorso di intervento integrato dove l’integrazione viene valutata non solo per i nessi tra le diverse azioni, ma per la capacità di mobilitare e responsabilizzare gli attori coinvolti verso obiettivi di riqualificazione e di sviluppo locale condivisi. Riduzione del degrado sociale attraverso un approccio trasversale che si proponga di operare simultaneamente attraverso: a) la valorizzare delle risorse locali (turismo e prodotti locali); b) il risanamento ambientale e miglioramento dotazione infrastrutturale; c) la responsabilizzazione della cittadinanza e il rilancio dell’immagine città all’interno e all’esterno del Comune. Rompere l’isolamento (materiale e simbolico) del l’area sia per i collegamenti con la città (accessibilità, presenza e qualità dei servizi), sia per i collegamenti interni (assenza luoghi e occasioni di aggregazione). Creare opportunità di lavoro (giovani). Modificare immagine fortemente degradata dell’area Migliorare la qualità complessiva della vita nel c-s attraverso interventi integrati finalizzati al recupero urbano (struttura fisica) e produttivo (struttura economica) dell’area. Recupero del centro antico obiettivo prioritario e strategico per lo sviluppo turistico della nuova Salerno. Sottrarre il c-s alla sua condizione di marginalità urbana promuovendone le specifiche vocazioni turistiche, economiche e culturali. Riqualificazione del l’immagine. Azioni tese a ridurre le situazioni di rischio sociale e a incentivare la partecipazione alla vita sociale, a promuovere il recupero abitativo e l’adeguamento anti-sismico. Rivitalizzazione economica attraverso l’insediamento di nuove attività artigianali e commerciali. Inversione dello spopolamento del c-s: recupero degli stabili degradati con destinazione ad uso pubblico e a residenze studentesche. Valorizzazione del patrimonio archeologico. Misure di risanamento ambientale, di azione sociale, di promozione di attività, nel più generale disegno di riqualificazione del quartiere di Marghera e di S. Giuliano. Salerno 50 Siracusa Isola Ortigia 5000 ab. 50 ha Trieste c-s 27000 ha 2000 ab. Venezia Marghera 20000 ab. 2200 ha di cui 2000 ha industriali Liliana Padovani La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban Considerazioni conclusive Se, quando il programma Urban vene lanciato nel 1994, erano poche le amministrazioni che avessero messo in atto interventi nella direzione suggerita dal programma, oggi, il concetto di azione trasversale, interistituzionale, multiattoriale e partecipata, incomincia a essere presente in più contesti operativi: dai programmi integrati territoriali dei Fondi strutturali 2000-2006, alla scala micro-urbana dove sono stati sperimentati programmi speciali promossi dal governo centrale (come nel caso del Contratto di quartiere), o programmi ordinari dove l’integrazione è costruita in loco (come nel caso dei Pas di Torino). Sembra quindi che ci siano state delle ricadute rilevanti in termini di apprendimento. Nel valutare la portata di questi risultati è bene tenere presente che la fase di sperimentazione che è stata avviata e condotta durante gli anni novanta ha probabilmente raggiunto il suo punto di apice ed è in fase di ridimensionamento. Sia a livello di politiche europee (si veda ad esempio il grande cambiamento di obiettivi tra il 5 e il 6 Programma quadro europeo per la ricerca), sia a livello di politiche nazionali, le prospettive di intervento sembrano oggi rivolte più al potenziamento dei punti di forza dei sistemi urbani e dei sistemi territoriali che ai problemi della lotta all’ esclusione sociale o all’intervento nei quartieri in crisi. Le possibilità di continuare nella direzione intrapresa si poggiano quindi sulle capacità di apprendimento maturate dagli organismi istituzionali e dagli attori coinvolti e sulla possibilità-capacità di applicare queste modalità operative attraverso “forme ordinarie” di intervento. Da questo punto di vista diventa importante valutare attentamente i risultati conseguiti in termini di apprendimento e potenziare i punti di forza acquisiti collocandoli nel nuovo quadro operativo che si sta venendo a configurare. L’esperienza condotta presenta infatti molti punti di riferimento ad aspetti più generali del dibattito in corso in Italia sulla evoluzione delle politiche pubbliche (con riferimento per esempio allo spostamento di interesse da politiche di settore verso un orientamento più trasversale di interazione tra i vari organismi istituzionali, oppure allo spostamento da una logica di gestione di flussi di finanziamento verso una logica di programmazione per obiettivo); sulle strutture e modi di governo delle trasformazioni territoriali (dal piano urbanistico, alla programmazione, al programma locale integrato; dal criterio della norma sovra-ordinata alla cooperazione tra attori e al principio di sussidiarietà); sulle modalità di costruzione del progetto di intervento (dalla sequenza indagine-progetto-attuazione, alla circolarità del percorso di conoscenza e decisione e del percorso ideazione-attuazione-gestione). Bibliografia AA.VV. (a cura), Il programma Urban e l’innovazione delle politiche urbane (2002) Franco Angeli/Diap, Milano. Quaderno 1 a cura di Palermo P.C., Il senso dell’esperienza interpretazione e proposte, Quaderno 2, a cura di Palermo P.C. e Savoldi P., Esperienze locali: contesti, programmi, azioni, Quaderno 3. a cura di Pasqui G. e Valsecchi E., Apprendere dall’esperienza: pratiche, riflessioni, suggerimenti. Atkinson, R. and Graham, M.(1994) Urban Policy in Britain. The city, the state and the market, London., Macmillan, Barca, F. (1998) “Introduzione”, in Ministero del tesoro, bilancio e programmazione economica La nuova programmazione e il Mezzogiorno, Donzelli, Roma. Becchi, A. (1999) “Recenti tendenze nei processi dell'urbanizzazione italiana attraverso le dinamiche demografiche dei comuni”, Osservatorio citta' Caratteri economico-sociali delle recenti trasformazioni territoriali, a cura di Ada Becchi e Francesco Indovina, Milano, FrancoAngeli. Behar, D. 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[email protected] 52 Paolo Perulli, Fabio Rugge, Raffaella Florio Reti di città: una forma emergente di governance Europea Viaggiando tra le costellazioni del sapere Questo saggio presenta i risultati di una ricerca sulle reti di città in Europa condotta dall’ Associazione Forma Urbis per incarico della Fondazione Monte dei Paschi di Siena e conclusa nel giugno 2001. Il saggio presenta una interpretazione delle reti di città come nuova forma di governance, una loro tassonomia e la individuazione delle principali aree di policy attivate. Il tema della cooperazionecompetizione tra città è particolarmente trattato nelle conclusioni. Gli autori ringraziano, oltre ai committenti della ricerca, i collaboratori per la raccolta e la schedatura dei dati Fulvio Calia e Anna Casanova e, per la configurazione del supporto informatico, il Centro di Calcolo dell’Università di Pavia Una forma emergente di governance europea. Le reti di città in Europa rappresentano un fenomeno che si propone all'attenzione di studiosi, osservatori e policy-makers nel corso del decennio Novanta; un decennio in cui si compiono tappe decisive dell'unificazione economica e monetaria europea. È come se le città volessero con ciò esprimere un proprio contributo all'esigenza tuttora irrisolta di unificazione politica del continente. E certo una forma di unificazione ‘dal basso’ sembra emergere dalla creazione di stabili forme di incontro, di interazione e spesso di progettazione congiunta in numerose arene di policy che vedono protagoniste le città in rete. Interessa soprattutto sottolineare la natura no-place delle forme di coordinamento espresse dalle reti di città: con ciò le città sembrano indicare agli altri attori dell’unificazione europea – in particolare agli stati nazionali – la necessità di abbandonare una logica basata sull’equazione sovranità-territorialità e di ricercare forme di sovranità condivisa. Sicuramente è troppo presto per considerare le reti di città un nuovo attore collettivo, in grado di prendere proprie decisioni e di pesare nella formazione delle decisioni altrui, a partire da quelle prese a Bruxelles. Ma anche ipotizzando che le reti siano nate come forme di cooperazione tra attori ‘opportunisti’ (le città) ciascuna interessata ad accrescere la propria influenza o a catturare una quota di risorse erogate dall'Unione europea, bisogna riconoscere che nelle reti le città hanno trovato ‘esternalità’ e ragioni per superare il loro stesso comportamento ‘egoista’. All'inizio del nuovo millennio l'Europa si trova in effetti a disporre di un patrimonio di relazioni, di progetti e di interscambi, non solo commerciali, tra le proprie città capace di riprendere nel senso migliore la tradizione di quella “Europa delle città” che ha rappresentato uno dei motivi di fondo delle vicende politiche, sociali, economiche e culturali del millennio appena trascorso. In particolare, nella ricostruzione della fase di formazione 53 n.4 / 2002 dell’Europa moderna, il modello delle “reti urbane” è stato contrapposto a quello dei “luoghi centrali”. Le reti urbane collegavano nodi anche molto remoti, talvolta distanti migliaia di chilometri, localizzati in regioni diverse e uniti da una comune specializzazione o filiera produttiva e commerciale. Mentre i “luoghi centrali”, come Londra e Parigi, sono stati il centro gerarchico dei nascenti stati territoriali, le “reti urbane” hanno rappresentato un diverso percorso organizzativo, che non ha dato origine a una forma statale, ma piuttosto a un sistema reticolare di raggio amplissimo. Oggi, nella fase di formazione dell’Europa postnazionale, il modello delle reti di città tende a riassumere una propria attualità entro i nuovi sistemi reticolari territoriali. Alla luce di questi cenni, appare riduttivo considerare le reti di città un modesto fenomeno di lobbying. Certo la pressione sull'Unione europea, ancora incerta sul suo futuro assetto politico, fa parte dei compiti delle reti di città. La loro mobilitazione avviene in una fase di intermezzo, mentre in Europa dominano ancora gli Stati nazionali, ma essi vanno visibilmente cedendo sovranità verso l'alto e verso il basso. D'altra parte, le città stesse vivono una fase contraddittoria: da un lato, sono esse stesse attraversate da reti incrociate che ne rendono problematica l'identità unitaria; dall'altro, si pongono come attori unitari e collettivi alla ricerca di propri poteri. La stessa attività di lobbying cui le reti di città si dedicano va inoltre vista nella sua ambivalenza: essa non è solo l'attività di pressione delle città sull'Unione europea, ma anche un modo attraverso cui le istituzioni europee e le burocrazie dell’Unione implementano le proprie politiche attraverso le reti di città. Ciò avviene in molti campi, dalla cultura alle infrastrutture, dall'economia all'ambiente. È questo un modo di interazione che, per ragioni funzionali, finisce per ‘incrociare’ sempre più le città con altri attori partecipanti alle reti, come le imprese, i centri di ricerca, le università, le province, le regioni ecc. La creazione di “ibridi istituzionali” come effetto delle politiche di integrazione è uno degli effetti imprevisti più interessanti di questo fenomeno. È in questa direzione che la ricerca sulle reti di città intende indagare, per la prima volta in modo ravvicinato, su uno dei fenomeni emergenti di governance europea. La letteratura in proposito ha da tempo messo in evidenza che il processo di integrazione in corso include molti livelli di governance e diversi attori, non certamente i soli stati nazionali. Tra questi attori si possono includere organismi sopranazionali e organizzazioni di rappresentanza: in particolare, lungo l’asse funzionale, gruppi e comitati di interessi settoriali; lungo l’asse territoriale, organismi sub-nazionali e sovra-nazionali come regioni e clubs di regioni, città e reti di città. Finora era stata studiata la mobilitazione delle regioni europee, intese come attori relativamente autonomi rispetto agli stati nazionali di appartenenza ed interessati ad avere una propria voce ed influenza a livello europeo rispetto a risorse da spartire e decisioni da assumere in campi per essi rilevanti. Con questo contributo intendiamo colmare una lacuna relativa alla conoscenza della mobilitazione delle città nell’arena dell’Europa negli ultimi dieci anni. Una ‘intercettazione ambientale’: le fonti della ricerca In via astratta, il modo più sistematico per condurre la ricerca sarebbe stato costituito da una ricognizione a tappeto, da condursi intervistando ogni città al di 54 Paolo Perulli, Fabio Rugge, Raffaella Florio Reti di città sopra di una plausibile soglia demografica, per ottenerne notizie precise ed aggiornate circa la sua appartenenza a reti associative di qualche tipo. È evidente tuttavia che una ricerca siffatta – soprattutto se condotta con l’obbiettivo di ritrarre il fenomeno su scala europea – non poteva essere credibilmente intrapresa, se non con un enorme impegno di risorse materiali e di tempo. Peraltro, anche a volere delimitare più o meno drasticamente l’universo da interpellare non si era affatto certi che la percentuale di risposte e la loro distribuzione avrebbe finito per mettere a disposizione un campione significativo sotto il profilo quantitativo e bilanciato sotto il profilo qualitativo. L’idea di rivolgersi alla rete-web è sembrata una ragionevole risposta a queste difficoltà. Essa è stata suggerita dalla ovvia considerazione che la presenza - o meglio la rappresentazione - in Internet potesse costituire un criterio qualificato di selezione del nostro ‘campione’. In fondo, esso doveva consentire - come ha consentito - di individuare quelle reti che attraverso l’autorappresentazione nel mondo web dimostrano un grado di vitalità, di aggiornamento, di apertura all’esterno che, accomunandole, le rende un sotto-insieme identificabile e significativo. Insomma, è come se in un’inchiesta in cui era impensabile ‘sentire tutti i testimoni’ si fosse fatto ricorso ad una ‘intercettazione ambientale’, captando i segnali di cui si era alla ricerca in un ambiente in cui era difficile che essi non si manifestassero. In effetti il richiamo tra la rete per antonomasia e le reti di città è qualcosa di più che una coincidenza lessicale. Esiste indubbiamente tra esse una chiara affinità funzionale: se il web consente lo svilupparsi di comunicazione orizzontale, secondo la logica della connessione piuttosto che della costruzione verticale (ed anzi precisamente questa decostruzione delle gerarchie viene spesso riconosciuta come un limite del mondo Internet), le reti di città vengono in vita ed agiscono proprio nella prospettiva della comunicazione, del collegamento, del coordinamento, del confronto - e semmai della coalizione - tra pari. Non solo: è difficile trascurare come il supporto informatico offra un presupposto tecnologico decisivo per l’attività reticolare che si va illustrando. Tanto che per qualcuna di queste reti il web sembra costituire non solo un luogo della propria rappresentazione, ma un elemento essenziale della propria ‘missione’. Così, ad esempio, CEROI, acrononimo che indica il coordinamento di una decina di città, istituito nel 1996 in vista del monitoraggio ambientale, sta per “Cities Enviroment Reports On the Internet”! Modi e metodi della ricerca La ricerca delle reti di città europee (o a significativa partecipazione europea) è stata dunque svolta utilizzando come strumento esclusivo Internet. Tutte le informazioni sono state ricavate dai siti web delle reti di città esistenti e/o, più raramente, esistite nel passato ed ancora presenti in Internet. Tali informazioni sono state poi inserite in schede appositamente prefigurate in modo da riuscire a riportare quante più informazioni possibili rispetto alla documentazione accessibile. Le schede raccolgono alcuni dati strutturali della rete (denominazione, anno di nascita, presenza o meno di un atto costitutivo e suo anno di adozione, liste dei fondatori e dei membri delle reti) e i dati riguardanti cinque dimensioni prevalenti, ciascuna concernente diverse categorie analitiche. Vediamo una ad 55 n.4 / 2002 una queste categorie, con la premessa che le informazioni saranno mancanti laddove non è stato possibile reperirle (in questo caso, dato il limite della fonte utilizzata su cui torneremo di seguito, è difficile sapere se il dato effettivamente non esiste o se non è accessibile su Internet): a- tassonomia della membership: informa sul numero dei membri (con la specifica della presenza di full members, observers e membri associati), sulla consistenza demografica di ciascuno di essi, sul numero di stati cui appartengono e sulla loro localizzazione territoriale (regionale o diffusa a seconda che gli stati di appartenenza siano concentrati in un’area geografica delimitata o sparpagliati in diverse zone d’Europa); b- l’organizzazione della rete: informa sulle modalità differenziate di adesione (come, ad esempio, la quota associativa), sugli organismi permanenti (di cui si riporta la denominazione in lingua originale), sulla presenza/assenza di un apparato associativo e sui criteri di finanziamento (a proposito del quale sono previste quattro voci: quota associativa, fund-rising, trasferimento da attori pubblici e altro); c- la finalità della rete: informa sugli obiettivi della rete rispetto alla produzione dei beni (riservati ai membri o pubblici a seconda che i destinatari e i fruitori dei beni siano esclusivamente i membri appartenenti alla rete oppure no) e rispetto al contenuto dell’attività (unica, plurima o generale); d- l’attività della rete: informa sull’anno dell’ultima attività registrata (al fine di misurare il reale funzionamento ad oggi della rete), sulla natura dell’attività (sono prese in considerazione tre possibilità: lobbying, rappresentanza - istituzionale o degli interessi - e progettazione - intesa come capacità di sviluppare progetti e avviare politiche), e sull’attività di pubblicazione (periodica, sporadica o assente); e- il tipo di attività della rete: informa sull’area di policy in cui si colloca l’attività, ovvero le questioni affrontate dalle reti. Queste sono raggruppate in 12 categorie: Sviluppo locale (inteso come marketing territoriale, competizione, reindustrializzazione, riconversione,ecc.), Trasporti, Energia, Ambiente, Comunicazione e TLC, Finanza, Cultura, Welfare locale, Formazione, Turismo, Sicurezza, Gestione amministrativa e altri beni e servizi. Infine, la scheda prevede uno spazio in bianco per osservazioni su ulteriori informazioni che si ritiene utile segnalare (eventi o momenti particolari, ad esempio premiazioni, risultati eccellenti, best practice, ecc.). Il censimento è avvenuto attraverso tre momenti essenziali: a- monitoraggio, il più ampio possibile, dei siti web delle reti di città, al fine di verificare quanto questa forma di associazione fosse utilizzata e sviluppata tra le città europee; b- verifica della ‘tenuta’ della scheda predisposta per il censimento rispetto alle informazioni desumibili dai primi websites visitati e relative modifiche della scheda originaria; c- selezione, studio ed inserimento delle reti di città nel database. Talvolta durante la ricerca si sono esaminati websites di reti di città poco chiari ed esaustivi. Ciò ha comportato un'ulteriore ricerca di informazioni attraverso altri strumenti (ad esempio invio di fax o di e-mail). Nonostante ciò, l'obiettivo della completezza non è sempre stato raggiunto. Inoltre, alcuni siti di reti di città sono in aggiornamento e dunque solo parzialmente consultabili. Le modalità di 56 Paolo Perulli, Fabio Rugge, Raffaella Florio Reti di città ricerca sono state essenzialmente due: la seconda non ha prodotto particolari risultati: a- esame dei siti delle città europee a partire da links di reti di città precedentemente censite o comunque note; b- utilizzo dei principali motori di ricerca (Google, Altavista, Lycos ecc.). È utile notare che, se inizialmente l'oggetto della ricerca era costituito esclusivamente da reti di città in senso proprio, ossia reti i cui membri fossero solo città, in un secondo momento si è deciso di allargare la tipologia delle associazioni monitorate includendo quelle ‘ibride’, ossia formate anche da membri come enti locali non comunali, istituzioni pubbliche, aziende, università, camere di commercio ecc. Analogamente, l'area geografica su cui ci si è concentrati non sempre ha corrisposto alla sola Europa: si sono inserite infatti anche reti di città di dimensione mondiale, tenendo però fermo il criterio della sensibile presenza in tali reti di città europee. Al termine del nostro lavoro riteniamo di aver individuato le reti di città più importanti. I dati relativi alle variabili più significative, e/o volte a individuare alcune caratteristiche tipiche della “rete media”, sono stati oggetto di statistiche di sintesi. Si tratta dell’anno di nascita e del tipo di attività della “rete media”, della dimensione media della rete (ovvero da quante città è composta la “rete media”), dell’interstatalità media della rete (ovvero quanti stati sono rappresentati nella “rete media”), della localizzazione territoriale e della finalità dei beni della “rete media”. Tuttavia, tenuto conto dell'ampiezza e del carattere estremamente mobile di ciò che viene veicolato attraverso Internet e della forte discordanza tra la capacità di creare un sito (e mostrare informazioni su questo) e la effettiva capacità progettuale, crediamo che la ricerca sia ampiamente perfezionabile, tanto in estensione quanto in profondità di analisi. Il proseguimento del lavoro vedrà l’utilizzo di diverse fonti di ricerca (documentazione bibliografica, legislativa e amministrativa, rapporti, ecc.) volte a migliorare e completare le informazioni acquisite e la realizzazione di analisi qualitative con interviste a interlocutori privilegiati per lo studio delle principali variabili di policy emerse. Con questa prospettiva di avvio di una ricerca che verrà esaurita in seguito, ci limitiamo qui a dare dunque una prima rappresentazione difendibile e caratterizzante del fenomeno. Il campione emerso, seppure non esaustivo né rappresentativo, è certamente significativo della realtà in Europa delle reti di città . L'età delle reti e i tempi dell’Europa. Analizzando l'età delle reti di città, si può dire che si tratta di un fenomeno recente e - salvo poche eccezioni - collocato negli anni Novanta. Il picco è raggiunto tra 1990 e 1991 con l'attivazione di ben 13 reti (il 23% del nostro campione). Negli anni seguenti la crescita si stabilizza e sembra conoscere una flessione con il 2000-2001. Possiamo quindi ipotizzare che sia un meccanismo di ‘contagio’ a spiegare la diffusione del fenomeno negli anni Novanta: si tratterebbe di una forma di ‘emulazione’ tra città, accresciuta dalla consapevolezza dei possibili benefici attesi, magari accompagnata dall'iper-attivismo di alcuni attori-città che nella creazione di reti hanno trovato una propria missione e una base per accrescere la propria influenza politica ai vari tavoli decisionali europei. D'altra parte, la partecipazione a reti o piuttosto la creazione di nuove reti corrisponde a diver- 57 n.4 / 2002 se opzioni strategiche. Ci si può chiedere quanto abbia giocato per le città europee l'attrazione verso le reti esistenti, quindi l'imitazione, e quanto invece la volontà di creare nuove reti, in altre parole l'innovazione. Questo secondo aspetto sembra aver fatto premio almeno in certe fasi, grosso modo coincidenti con le tappe dell'integrazione europea: la creazione del mercato unico (1992) e il successivo decollo della moneta europea (1997-8). Anche dall’intensificarsi dell’attività reticolare sembra dunque emergere l’immagine di città che hanno vissuto il decennio dell'integrazione europea alla ricerca di un proprio ruolo e che hanno cercato di farlo riconoscere non tanto nei momenti formali e nelle istanze dell'Unione - riservate ad organismi statali - ma attraverso l’esistenza di una realtà associativa parallela a quei momenti ed a quelle istanze. Le reti di città nate nel decennio rappresentano così un nuovo tessuto organizzativo e per certi versi un nuovo processo di istituzionalizzazione . Il fenomeno suggerisce che sia avvenuto un rafforzamento del peso politico delle città e soprattutto della loro influenza strategica e negoziale, mediante forme di coordinamento tra municipi, ma anche di relazione con altre entità come regioni, stati, imprese e la stessa Unione Europea. Reti di città e reti ibride In effetti, uno dei dati salienti che emergono è precisamente il carattere prevalentemente ‘spurio’ delle reti di città censite. Quelle esclusivamente composte di ‘attori municipali’ ammontano a circa una metà. Questa comprende aggregazioni con finalità generali ed istituzionali (come Eurocities), e aggregazioni a carattere più regionale (come CIPL, Commisio Interpirenica de Poders Locals) ed, in fondo, anche realtà quali WACLAW, il World Secretariat of Cities and Local Government, che in effetti si presenta piuttosto come una “rete di reti”. L’altra metà è costituita da reti in cui, accanto alle città, si ritrovano o soggetti economici privati e quasi-privati o autorità di governo di livello superiore. Frequentemente le reti associano tutti e tre questi attori in varie forme di ibridazione. Se si osservano più analiticamente tali reti ibride, si constata che esse possono distribuirsi lungo un continuum che va dal tipo caratterizzato da una presenza del tutto accessoria degli attori economici o degli altri attori pubblici al tipo in cui sono viceversa le città a giocare un ruolo del tutto secondario. Come esempio del primo tipo si potrebbe citare il network Citilec, i cui membri sono quasi tutti municipi, ad eccezione della regione Lombardia . Come esempio del secondo tipo di ibridazione - ossia a bassa presenza di municipalità - potrebbe menzionarsi Ertico, costituita nel 1991, per impulso della Commissione europea e dei ministeri dei trasporti europei. Essa integra, con quest’ultimi, numerose decine di grandi compagnie automobilistiche, telematiche ecc. e solo quattro città. Naturalmente, in queste circostanze (che rappresentano però un caso limite) è difficile parlare propriamente di reti di città, poiché sembra che esse non possano né costituirne il tessuto connettivo né - presumibilmente - esercitarvi una funzione di leadership della rete. Ma l’importanza dell’ibridazione rilevata va al di là di queste esercitazioni tipologiche. Quale che sia il tasso di ‘municipalità’ delle reti, ciò che appare di estremo interesse è la proprietà, tipica delle dinamiche reticolari, di aggirare criteri prestabiliti di competenza e di gerarchia per mobilitare attorno ad 58 Paolo Perulli, Fabio Rugge, Raffaella Florio Reti di città un obbiettivo strategico ‘una comunità governante’. Questa viene quindi ad integrare soggetti variamente disposti rispetto all’asse pubblico-privato (società di capitale pubblico e società di capitale privato, agenzie e amministrazioni tipiche) e differentemente collocati nella gerarchia delle logiche territoriali (consorzi di comuni e regioni, provincie e camere di commercio). Vediamo così svolgersi e confermarsi, su questo terreno, tendenze già altrove rilevate dall’indagine sulla realtà sociale ed istituzionale di fine ‘900: la sempre più evidente obliterazione del confine - tutto moderno! - tra pubblico e privato, la crescente compenetrazione tra queste due sfere, il frequente determinarsi di una cooperazione tra diversi livelli di governo che va al di là delle figure del decentramento, della competenza concorrente o di quella mista, per assumere invece forme squisitamente negoziali e pattizie. Potrebbe anzi osservarsi che queste tendenze, in quanto aderenti ad una logica di coordinamento anziché di subordinazione, corrispondono ad una vocazione propria delle città, il cui ruolo politico vicario rispetto alla statualità fu ancestralmente definito proprio a partire dalla loro inadeguatezza territorial-funzionale a consentire l’impianto di forme verticali di sovranità. D’altronde proprio tenendo a mente l’ancestrale divaricazione di destini tra stato e città, non si vede contraddizione tra l’inclinazione cooperativa delle città e la presenza di reti ‘pure’, costituite - per intendersi - solo ed in via esclusiva da municipi. Né stupisce che spesso la retorica degli atti fondativi di simili reti registri e fissi - come vedremo - atteggiamenti di contrapposizione, se non addirittura di revanchismo nei confronti, dei poteri statali e della loro signoria. Per una mappa reticolare dell’Europa e dell’Italia Una mappa delle reti di città in Europa dovrebbe anzitutto verificare l'addensamento in una o più macro-aree delle città coinvolte. Il riferimento principale sarebbe allora, naturalmente, ai due assi dello sviluppo europeo comunemente contrapposti: a) quello centro-europeo, più consolidato e corrispondente alla grande "banana" che va da Londra a Milano; b) quello della "sunbelt mediterranea" che corre da Barcellona all'Est europeo. In modo impressionistico, si può rilevare la presenza abbastanza massiccia di città di entrambi gli assi entro le reti censite, ma anche di città escluse dai due assi principali. Quindi le reti di città possono favorire l'integrazione europea ben al di là degli assi forti o dei club di città esclusive, ma anche al di là delle politiche regionali che hanno ‘segregato’ le “regioni Obiettivo 1” rispetto alle altre. Proprio la fertilizzazione incrociata delle reti di città emerge da casi tipici come Eurocities e Telecities: reti di 80-100 città con diffusione molto ampia e differenziata. Tipiche sono anche le reti, spesse volte promosse direttamente dall'Unione europea, che raggruppano un piccolo numero di città per ciascun paese, ma appartenenti a più paesi (a volte a tutti i paesi) dell'Unione, con lo scopo di favorire gli scambi di idee e il benchmarking tra città. Tutt'altra logica di diffusione seguono invece le ‘macro-reti’, con 1000 e più membri, come Sustainable Cities anch'essa promossa dall'UE. Qui la logica è la diffusione capillare, l'emulazione e il premio alle città che conseguono certi traguardi nella policy oggetto della rete. Scorrendo la lista delle città premiate non emergono assi forti, ma piuttosto una marcata dispersione territoriale. Volendo riassumere i risultati che provengono da una prima lettura dei dati - e 59 n.4 / 2002 in attesa di ricostruire mappe più dettagliate - possiamo distinguere tre livelli o ‘soglie’ di città europee: a) le città più forti, in particolare le città “globali", che polarizzano le risorse e le capacità continentali - e persino mondiali (si pensi agli investimenti multinazionali) – in tale misura da essere meno interessate a sviluppare reti di città. In effetti, Londra e Parigi, Berlino, Roma e Milano sono meno presenti nelle reti rispetto a città di rango inferiore; b) le città che stanno sopra una ‘soglia’- non solo dimensionale, ma culturale e di attenzione - che le spinge ad essere membri attivi di più reti e spesso loro promotori. In questa ampia categoria spiccano metropoli regionali - come Barcellona, Bruxelles o Birmingham - e città di medie dimensioni - come Montpellier, Anversa o Brema - il cui attivismo dimostra un forte interesse a usare le opportunità offerte dall'"essere in rete"; c) le città che stanno sotto la ‘soglia’ che le rende suscettibili di essere attratte nel fenomeno del networking. Questa soglia coincide certamente anche con la possibilità di disporre di personale specializzato e tecnicamente attrezzato, che sia dedicato all'attività di animazione, para-diplomazia e progettazione che il networking richiede. La diffusione del fenomeno in Italia vede: a) un primo gruppo di “città protagoniste”, che appaiono cioè attive in numerose reti: Torino e Bologna partecipano a più di 10 reti, seguite da Venezia, e tra le città medie, da Siena. In questi casi sembra esservi da parte delle città una propensione alla rete di tipo ampio, generale e probabilmente guidata da motivazioni culturali e politiche oltreché dal dinamismo nelle attività estere delle città; b) un secondo gruppo di "città specializzate", che partecipano cioè a reti per specializzazione produttiva e per filiera: è il caso di Genova, attivissima tra le reti di città dei trasporti e marittimo-portuali, o delle città tessili riunite in rete, ecc. c) le "città capitali" come Roma e, per rango economico, Milano risultano meno presenti nelle reti o, se lo sono, la loro presenza sembra il risultato di una adesione quasi obbligata a reti di grandi città e di città di rango metropolitano. La possibile spiegazione è - in linea con quanto sopra ipotizzato per le città europee più forti - che per queste città "fare rete" appaia meno importante e necessario rispetto a città di dimensioni e rango inferiore, che nella rete cercano occasioni e stimoli; d) dal punto di vista della distribuzione regionale, sembrano più attive le città del Centro-Nord rispetto a quelle del Mezzogiorno. Per essere più precisi, la diffusione nel Centro-Nord dipende meno dalla dimensione e dal rango delle città (anche se, specie nel Centro-Nord-Est, si nota un attivismo marcato dei centri di dimensione media), mentre nel Mezzogiorno sono soprattutto le città maggiori - Palermo, Napoli e Catania - ad attivarsi. Molte città meridionali sono quindi, almeno per il momento, al di sotto della soglia di capacità e consapevolezza necessaria ad attivare una dinamica di rete o vi partecipano solo molto sporadicamente. La estensione territoriale delle reti Nelle reti oggetto della ricerca, si nota una assoluta prevalenza di reti a estensione territoriale diffusa (ben 49 sui 55 casi studiati) rispetto a un esiguo numero di reti a localizzazione territoriale regionale (i restanti 6 casi). Si tratta di una conferma importante della natura aperta e non localistica del fenomeno, della sua caratteristica pluricentrica e dello scarso peso di fenomeni di chiusura territoria- 60 Paolo Perulli, Fabio Rugge, Raffaella Florio Reti di città le della membership. I pochi casi di questo genere, come le città baltiche o alcune reti est-europee, sono probabilmente frutto di fasi di transizione. In alcune circostanze, si tratta di tentativi di integrazione tra città transfrontaliere Est-Ovest o delle diverse sponde del Mediterraneo: reti quindi regionali sì, ma non localistiche; anzi di particolare interesse trans-nazionale. Di questo segno è anche la rete C6, promossa da Barcellona e tesa a costruire una "regione" trans-nazionale con le città del Mezzogiorno francese. Di gran lunga prevalente è insomma la rete ‘lunga’ (che permette alle città di associarsi con partners anche molto diverse e remote), debolmente connessa (nel senso che i legami non sono stretti, di tipo comunitario o peggio localistico) e funzionale (nel senso che, ove vi siano legami forti, essi scaturiscono dalla funzione, come nel caso di città specializzate in economia, cultura, portualità, o altro). Un caso particolare e interessante è quello di reti funzionali di città in competizione sulle stesse materie, come le reti di città portuali (Amrie, Cities & Ports e Maritime City Network), di cui non è peraltro facilissimo discernere una eventuale vocazione regionale. La dimensione media delle città In un'Europa di città, la dimensione media delle città in rete non può che riflettere la varietà e la ricchezza del tessuto urbano europeo. Quindi compaiono nelle reti città di ogni dimensione e solo poche reti hanno delle barriere all'ingresso per dimensione: si tratta delle reti di città metropolitane o "major cities". Nell'Europa delle città quindi, non si ripropone il modello delle "città globali" o degli esclusivi "club" di rango metropolitano: la dimensione della membership opera un taglio trasversale e permette la comunicazione tra livelli e ranghi differenti. In alcuni casi però è richiesta una massa critica minima. Eurocities - nata nel 1990 - ne è l'esempio più evidente con la soglia di accesso fissata ai 250.000 abitanti, frutto probabilmente della impostazione metodologica seguita dalla ricerca DATAR-RECLUS del 1989 sulle città europee, che prendeva in considerazione solo le agglomerazioni di almeno 200.000 abitanti. L'anno successivo, quasi in risposta a Eurocities, nasce Eurotowns come rete di città medie, la cui soglia di accesso si colloca tra i 50.000 e i 250.000 abitanti. In questo caso si tratta di reti di città in competizione non per ‘missione’ - come nel caso delle città portuali ma per ‘rango’. Peraltro, nel 1995, riconoscendosi proprio in base al rango, quello delle “medium sized European cities” (locuzione che si ritrova identica nella denominazione per esteso di Eurotowns), viene costiuito a Sankt Pölten (Austria) un “Cooperation network” che non include nessuno dei membri di Eurotowns ed ha estensione sostanzialmente regionale (Austria, Cekia, Croazia, Germania, Romania, Slovenia, Slovacchia, Ungheria ecc.), con una sola, ‘eccentrica’ adesione francese. Gli atti fondativi: la natura delle reti Gli atti fondativi delle reti in esame assumono denominazioni e caratteristiche tra loro differenti. Per quanto riguarda le denominazioni, due tipi sembrano prevalere: la “dichiarazione” e la “costituzione”. Agli atti ricompresi sotto la prima denominazione possono esserne senz’altro assimilati altri quali la “risoluzione” (ECDP) o il “manifesto” (Climate Alliance); così come alle costituzioni possono essere assimilati gli “statuti”. I due tipi di atti fondativi possono distinguersi, in 61 n.4 / 2002 primo luogo, in base ai diversi contenuti. Le “dichiarazioni” hanno natura essenzialmente ‘programmatica’. Ciò significa che, sulla base spesso di alcune statuizioni di principio, esse fanno riferimento agli scopi della rete, ai suoi obbiettivi strategici ed agli impegni - quasi mai veri e propri obblighi - che i contraenti assumono in vista di quegli obbiettivi. Anche le “costituzioni” sono sovente dotate di preamboli che si richiamano a postulati etico-politici; ed esse pure presentano una serie di scopi e di obbiettivi (solitamente di carattere più ampio di quelli contenuti nelle “dichiarazioni”). Tuttavia questi atti fondativi sono poi essenzialmente dedicati a delineare le forme organizzative della rete: condizioni e forme dell’appartenenza, organi di governo e modalità di assunzione delle decisioni ecc. È evidente che la diversa denominazione degli atti fondativi rinvia ad una diversa natura delle reti. A “costituzioni” o “statuti” corrispondono in effetti vere e proprie associazioni, che puntualmente provvedono anche a dichiarare a quale regime giuridico, di quale paese esse rispondano. Apparentemente questa denominazione dell’atto fondativo e la rispondenza della rete a requisiti legali, stabiliti da norme di diritto positivo, segnalano un grado di istituzionalizzazione più alto. Non è un caso che tali circostanze si presentino proprio per le associazioni con maggiore anzianità: la IULA (fondata nel 1913) , l’UTO (fondata nel 1957) , il CEMR (fondato nel 1951) . È però dubbio se il prevalere, tra le reti più recenti, di atti fondativi meno preoccupati del profilo organizzativo, dipenda dal loro trovarsi in uno stadio del processo di istituzionalizzazione più elementare rispetto a reti di più risalente generazione. Un’affermazione simile presupporrebbe che associazioni basate su “dichiarazioni”, quindi esistenti meramente in via di fatto, tendano necessariamente - in caso di sopravvivenza - ad evolversi in associazioni di diritto, dotate di un proprio statuto, ovvero di una propria “costituzione”, e di un profilo organizzativo preciso. Ora non pare che questo assunto sia calzante. Innanzitutto, perché - a quanto si sa - le reti più risalenti hanno adottato la forma dell’associazione statutariamente ossia legalmente definita sin dal momento del loro venire in essere (quindi non come approdo di un’attività più o meno lungamente condotta in regime ‘informale’); in secondo luogo, perché anche reti di nascita recente o recentissima hanno scelto di dotarsi di uno statuto (così METREX, creata nel 1996 o Eurotowns, che pure nella sua “costituzione” insiste a definirsi quale “network” ). La presenza di uno statuto e perciò di una forma organizzativa stabile e normata sembra dunque il risultato di una scelta dei contraenti; i quali, evidentemente, nelle reti di vecchia generazione si mostravano inclini a tale scelta, mentre nelle reti di nuova generazione preferiscono un cooperazione meno formalizzata. Ovviamente un fattore determinante per la scelta rimane l’esistenza o meno di un impegno a sostenere finanziariamente l’istanza associativa; da tale impegno scaturiscono infatti obblighi di gestione patrimoniale che quasi di necessità implicano una formalizzazione della rete. Gli atti fondativi: le retoriche Un’indagine ben più complessa meriterebbero le retoriche adoperate tanto nelle “dichiarazioni” che nelle “costituzioni”. E tale indagine dovrebbe riguardare tanto gli stilemi che i contenuti. Per quanto riguarda i primi, si assiste, negli atti fondativi, ad una certa varietà di registri. Già l’uso stesso del termine “costituzione”, ossia di un significante il cui campo semantico è stato - nel corso degli ultimi due secoli - pressoché esclusivamente occupato dal riferimento alla sta- 62 Paolo Perulli, Fabio Rugge, Raffaella Florio Reti di città tualità, potrebbe assumersi ad indizio di un’intenzione imitativa e, al tempo stesso, conflittuale, secondo quella linea di rivalità con lo stato già sopra richiamata. Del resto, il lemma “costituzione” sembra dotato di quella solennità di cui non sorprende vogliano ricordare le proprie ‘carte fondamentali’ associazioni, ‘antiche’ e stabilite, come la IULA o la UTO. Interessante nella “costituzione” della IULA è l’uso, nel preambolo, di un “noi” allocutivo. Esso per la verità compare anche in alcune “dichiarazioni” come in quelle sottoscritte a Francoforte sul Meno nel 1990 e 1998 dalle European Cities on Drug Policy (ECDP) e nel “manifesto” nonché nella “dichiarazione di Bolzano” (rispettivamente del 1990 e del 2000) sottoscritti della Climate Alliance. Ma, mentre nel caso della IULA il “noi” sembra coerente ad una pretesa di solennità e ‘maestà’ dell’allocuzione, negli altri due casi esso sembra coerente al carattere ‘militante’ della missione che i contraenti si danno; sembra - in altri termini - funzionale a cementare un soggetto che si costituisce attraverso un agire di pronunciato carattere etico, non privo di connotazioni polemiche (rispettivamente verso la riluttanza ai sacrifici economici e culturali richiesti da una coerente politica di riduzione delle emissioni di anidride e verso la resistenza alla depenalizzazione dell’uso della droga) Per quanto riguarda i contenuti delle retoriche impiegate negli atti fondativi, l’analisi potrebbe essere ancora più ricca. Però un tratto sopra tutti spicca: la riaffermazione delle istanze di autogoverno locale come presupposto non solo dell’identità cittadina, ma anche dell’efficacia delle politiche municipali. Il postulato viene ampiamente fraseggiato nel preambolo alla “costituzione” della IULA (“...proteggere e rafforzare l’autogoverno locale /.../ sono importanti contributi alla costruzione di un mondo pacifico e basato sui principi della democrazia e del decentramento del potere...”); viene affrontato come primo punto del preambolo alla “costituzione” del CEMR (“l’autonomia delle amministrazioni locali e regionali è il presidio delle libertà personali”; “le libertà delle amministrazioni locali sono ovunque minacciate dall’interferenza degli stati”); viene indicato all’art. 3 della “costituzione” della UTO come uno degli scopi dell’associazione (“difesa e promozione della democrazia e dell’autogoverno”); vien richiamato come uno degli obblighi dei governi centrali al punto 5.4 della dichiarazione di Brema (“dare alle municipalità i poteri e le risorse necessarie ad amministrare l’ambiente locale”); viene considerato il presupposto della propria azione dalle ECDP, nella dichiarazione del 1998 (“rivendicano la libertà necessaria /.../ a consentire la messa in opera di un intervento pragmatico ed equilibrato”). L’accento sull’autogoverno locale non esclude tuttavia dal ‘discorso reticolare’ - che volentieri spende termini come “coordinamento”, “negoziato”, “scambio”, “cooperazione” - il riferimento ad autorità regionali e internazionali, così come ad altre reti o ad organizzazioni di volontariato e del business. Meno frequente, se non in senso negativo, l’evocazione dello Stato: sintomo di un’ostilità risalente, forse solo di recente sopita. Gli apparati delle reti La rilevazione della presenza di strutture stabili di raccordo delle reti ha messo in luce la natura ‘leggera’ di molte di esse. Una quota vicina alla metà dei coordinamenti analizzati, infatti, anche quando dispone di organi di direzione, non possiede una propria struttura burocratica ed apparentemente funziona grazie all’attività degli uffici delle città contraenti. Questo dato concorda con quella che 63 n.4 / 2002 potrebbe considerarsi una ‘filosofia’ propria del networking: “mettere in rete” risorse di competenza, organizzazione, raccolta dati, insomma puntare sulla coralità dei contributi piuttosto che dar vita a nuove strutture amministrative. È una ‘filosofia’ che si attaglia senz’altro alle iniziative a carattere più ‘etico’: la rete Bremen Initiative per uno sviluppo sostenibile, la Car Free Cities, la City for Cyclist o la LIA (Local integration Partnership). Per altri reti prive di un proprio apparato è poi possibile immaginare che ritraggano le proprie risorse organizzative e burocratiche dai promotori o da reti cui sono collegate. Nondimeno è evidente che, quando l’ampiezza del coordinamento o la continuità della sua azione o l’ampiezza e la complessità dei suoi compiti lo richiedono, la rete non può non provvedersi di un perno. L’attività di lobbying della rete L’analisi evidenzia la presenza di una forte attività di lobbying che le città esercitano nell’arena politica dell’Unione Europea attraverso l’attività delle reti a cui partecipano: 21 delle 55 reti esaminate specificano apertamente, nei documenti introduttivi o costitutivi, la loro natura di lobby. Naturalmente, il numero dei casi raddoppia, se si considerano le reti che non dichiarano espressamente siffatta natura, ma le cui finalità sono chiaramente volte a tutelare i propri interessi e ad aumentare la capacità di influenzare i processi di decision-making di livello europeo. In ben 34 casi (in 17 dei quali non risulta dichiarata l’attività di lobbying), si indica la rappresentanza degli interessi quale funzione prevalente della rete. E il dato è rafforzato dalla straordinaria capacità progettuale delle reti (attestata in 39 casi), a dimostrazione di un ruolo chiave da esse svolto, per ottenere sostegno e legittimità “dall’alto” alla realizzazione di politiche locali settoriali. Le modalità e le finalità emergenti di lobbying indicano dunque la richiesta, da parte delle città, che gli interventi siano diretti e coordinati a un livello territoriale superiore rispetto a quello statale (ma anche regionale e provinciale). Ciò è sicuramente dovuto, almeno in parte, alla crisi degli Stati nazionali e alla loro perdita di legittimità quali interlocutori credibili e attori dinamici della distribuzione ragionata e governata delle risorse e della regolamentazione degli interventi. Non solo le città probabilmente richiedono nuove forme di rappresentanza, trasversali rispetto agli Stati, e attribuiscono alle reti un ruolo di arbitro nella diffusione dei processi di integrazione europea e di globalizzazione economica. Le reti di città, però, si sono mostrate inefficaci rispetto all’intenzione di sollecitare gli organismi internazionali in questa direzione. A vent’anni dalla nascita del fenomeno l’Unione Europea non ha dato risposte adeguate, non si è ancora costituito un luogo (una direzione generale, un segretariato, ecc.) dove affrontare le politiche delle città. E oggi le politiche urbane europee sono ancora frammenti di politiche settoriali che riguardano e si occupano anche delle città. Esempi tipici ne sono le politiche ambientali e delle telecomunicazioni. All’interno di queste politiche le città sono pensate come unità, destinatarie, magari prevalenti, degli interventi, ma non quali soggetti attivi, decisionali e operativi degli stessi interventi. Inoltre le lobby si prestano ad una dinamica ambivalente. Essa si sviluppa dal basso verso l’alto quando le reti di città sollecitano a Bruxelles regolamentazione e intervento; si sviluppa invece dall’alto verso il basso quando le lobby vengono utilizzate da Bruxelles come strumento per crea- 64 Paolo Perulli, Fabio Rugge, Raffaella Florio Reti di città re le condizioni favorevoli all’introduzione delle proprie linee di intervento e all’implementazione delle proprie politiche. Le reti create appositamente dalla Unione Europea (Entire, Histocity, Ceroi, Network of Urban Forum for Sustainable Development, Diecec, Mig-cities, ELAINE, Quartiers en Crise, Ertico e Net for Nets), ma anche quelle create da altri organismi internazionali (Organizzazione Mondiale della Sanità con Healthy Cities Around the World, l’Aliance of Maritime Regional Interests in Europe con la Maritime City Network, il CCRE con European Local Authorities Telematic Network, la World Federation of United Cities con Site 13 e l’OCSE con ARENA ), sono casi in cui i soggetti fondatori delle reti innestano tramite esse le attività di transazione necessarie a mettere in atto i propri interventi. Non è casuale che siano tutti esempi in cui risulta una elevata capacità progettuale e in cui l’attività è concentrata su specifici settori di intervento (prevalentemente “comunicazione e TLC”, “cultura” e “welfare locale”). In ogni caso, un’analisi più approfondita dovrebbe mettere a confronto i contenuti delle politiche urbane europee e quelli delle politiche di rete per rilevarne il grado di coincidenza come indicatore dell’efficacia della rete sia come modello di trasmissione della domanda da parte delle città sia come strumento di ascolto da parte degli organismi internazionali. Il ruolo di mediazione della rete Le reti si presentano come forme di cooperazione tra agenti, le città, che trovano un modello di interazione basato su logiche diverse da quelle tipiche della prossimità geografica. Le ragioni della cooperazione vanno ricercate, infatti, nei vantaggi che le città ottengono dall’attività di networking che, per sua stessa natura, diffonde privilegi e risorse ed esternalizza benefici (in termini di prodotti/risultati) indistintamente a tutti i soggetti appartenenti alle rete. Inoltre, in termini di governance, le forme di interazione volontaristica, come le reti di città qui analizzate, presentano una più elevata capacità di risoluzione dei problemi. Queste forme di interazione infatti assumono la presenza dei conflitti come opportunità e fenomeno di crescita e, anziché scansarli, tentano di gestirli individuando e attivando le risorse per la loro soluzione. Come è noto, uno dei modi per cercare di risolvere i problemi è quello di spostarli a una scala superiore dove, l’assenza stessa di alcuni “conflitti intrattabili” (generalmente e tipicamente quelli inter-istituzionali) li rende maggiormente negoziabili. In altre parole, i problemi sono più facilmente negoziabili se spostati su una scala superiore rispetto alla loro trattazione in arene decisionali dove non si riesce ad avviare processi di contrattazione della soluzione e a giungere a compromessi. Questo è ovviamente un vantaggio molto appetibile che la rete offre a città generalmente e solitamente sommerse da conflitti tra istituzioni, soprattutto politiche, di diverso livello territoriale. La rete dunque è strumento utile e comunque tentativo idoneo a portare il confronto e lo scontro (tipicamente comune-provincia, comune-regione e/o comune-stato) a un livello territoriale superiore; la rete assume in questa prospettiva ruolo di mediatore in uno spazio di trattazione più efficace. Esempi di reti che sembrano poter essere interpretate con questa chiave di lettura sono quelle di città marittime (Maritime City Network, Cities & Ports, e Alliance of maritime regional interests in Europe, a sua volta tra i soci fondatori di Maritime City Network). Tutte presentano obiettivi particolari volti 65 n.4 / 2002 a promuovere gli interessi delle città portuali e contenuti specifici di definizione di strategie integrate di livello europeo. Tutte mettono in contatto le città e queste con attori portatori di interessi non solo politici ma anche economici, tecnici, sociali e scientifici (agenzie di governo regionale e statale, aziende/partners, organizzazioni industriali, camere di commercio, sindacati, centri di ricerca e università ecc.). Un tentativo forse di trovare una dimensione più ampia e una visione più completa del problema per superare conflitti locali di difficile risoluzione a livello di comunità locale e di relazioni inter-istituzionali. E un tentativo forse di trovare un luogo di confronto più elevato per acquisire risorse cognitive e legittimazione politica e tecnica, che accrescano, da un lato, la capacità contrattuale al momento di riportare la questione sui relativi tavoli territoriali di presa della decisione e, dall’altro, il vantaggio competitivo al momento della negoziazione/contrattazione con gli interlocutori locali. 14. La sovrapposizione e la competizione tra reti di città L’analisi ha prodotto altri due risultati su cui è opportuno riflettere. Il primo fa riferimento alla sovrapposizione delle reti di città, all’emergere cioè di una convergenza tematica o di policy e una convergenza di partecipanti o di attori. Ossia, ci sono casi in cui le stesse città sono attive parallelamente in più reti che si occupano delle stesse questioni. Ancora una volta è indicativo il caso delle reti delle città marittime, già citate nel paragrafo precedente (ad eccezione di Cities & Ports che si occupa più specificamente del trasporto marittimo). Entrambe le reti sono volte a promuovere lo sviluppo delle città portuali e a sostenere gli interessi marittimi in Europa. Nel 1993 si costituisce l’AMRIE (56 membri); successivamente, nel 1998, viene fondata la Maritime City Network, di dimensioni assai più ridotte (solo 6 membri: Bilbao, Genova, Southampton, Bremen, Lisbona e Cadice) di cui, però, la prima rete è essa stessa socio fondatore e partecipe. La domanda che questo caso suscita è evidente: perché se già esisteva una rete europea dei porti, cinque anni dopo ne nasce un’altra in cui le stesse città, già rappresentate nella preesistente, si uniscono in una nuova forma associativa? Un caso analogo, questa volta nel campo del trasporto pubblico, è costituito dalle reti UITP International Association of Public Transport (tra le più vecchie e più numerose, nata nel 1885 con oltre 2000 partecipanti), POLISEuropean cities and Regions networking for new transport solutions (nata nel 1989 con 58 membri), METREX-Network of European Metropolitan Regions and Areas (nata nel 1996, con 85 membri) ENTIRE-European Network on Transport Innovation for the Regional Use of Energy (nata nel 1997, con 7 membri). Come interpretare la significativa sovrapposizione verificata in questi due casi? A questo livello di analisi, una risposta plausibile è che la rete si presenta per le città come uno strumento per accrescere la propria capacità di pressione, la propria visibilità e legittimità politica, il proprio potere contrattuale nelle arene decisionali internazionali e nazionali, ecc. Quanto più si presentano e si offrono alle città contesti/opportunità di questo tipo, tanto più vengono da esse accolte con favore. A un successivo livello di analisi si potrebbe verificare quali sono le arene politico-decisionali in cui si muovono queste reti. Le stesse policy community (in termini di contenuto e di membership) potrebbero ricercare differenti forme di reti (e magari anche differenti modelli di interazione) per poter 66 Paolo Perulli, Fabio Rugge, Raffaella Florio Reti di città agire in più direzioni (promozione/diffusione cultura amministrativa, sviluppo di modelli di governance, definizione di strategie politiche e realizzazione di interventi) e/o in vari campi di potere (pubblico, pubblico-privato, economico, istituzionale ecc.). Un’altra possibile risposta è l’inefficacia delle reti di dimensioni troppo grandi laddove si vuole passare da una politica di definizione di linee di intervento a una politica volta a dare soluzioni concrete e a individuare azioni specifiche per il raggiungimento di fini particolari e settoriali. Anche in questo caso risultati più attendibili potrebbero provenire solo da uno studio più approfondito sulla correlazione tra la dimensione della rete e gli esiti reali, in termini di prodotti, dell’attività di rete. Infine, una risposta più arrischiata è quella della competizione tra reti. Può anche darsi, cioè, che alcune città, pur essendo formalmente unite in azioni volte a promuovere interessi comuni, si trovino poi all’interno della stessa rete a competere tra loro, vengano via via a formare una sorta di rete nella rete e decidano, a un certo punto, di consolidarsi in un’altra unità (una nuova rete) per incrementare il proprio vantaggio competitivo rispetto agli altri membri della rete. Tuttavia l’ipotesi di una competizione tra reti è più tipicamente sostenuta dai casi a cui accennavamo all’inizio del paragrafo, quello cioè in cui si verificano una sovrapposizione tematica, ma una divergenza dei membri. Si tratta di reti i cui contenuti di policy sono gli stessi o assimilabili, ma non vi appartengono le stesse città, almeno non del tutto. I casi più significativi li troviamo in reti nate a metà degli anni ’90 nel campo del turismo (Med-cities, C6 e CIPLCommissio Interpirenica de Poders Locals) e nel campo della cultura (VITECC e Co-operation network of medium-sized European cities). In questi casi, a rafforzare l’ipotesi della competizione, troviamo un altro dato interessante: si tratta di reti a localizzazione territoriale di tipo regionale, a dimostrazione che le città scelgono di unirsi sulla base della prossimità geografica e forse culturale che le avvicina. Un altro tipo di competizione emersa dall’analisi è la “competizione di rango”, ovvero la competizione tra reti che, pur affrontando le stesse questioni, sono costituite da città di dimensioni diverse. L’esempio più significativo è quello di Eurocities e Eurotowns. La prima, nata nel 1986 a cui partecipano 104 città, fissa una soglia minima di appartenenza di 250.000 abitanti, mentre la seconda, nata cinque anni dopo (1991) con 14 città aderenti, prevede una soglia minima di 50.000 e massima di 250.000 abitanti. Entrambe le reti promuovono lo sviluppo di politiche urbane volte a migliorare la qualità della vita in diversi campi di intervento (in particolare sociale, economico, ambientale e gestione amministrativa). In questo caso, Eurotowns è evidentemente una risposta alla preesistente Eurocities per promuovere la cooperazione di città medie e aumentarne il vantaggio competitivo anche rispetto alle città di dimensioni maggiori già coalizzate in rete. Le finalità delle reti Le reti perseguono nella maggioranza dei casi finalità uniche (38 reti, rispetto a solo 9 con finalità generali e 8 con finalità plurime) e producono beni riservati alle città appartenenti alla rete (in ben 45 casi). Inoltre, delle 19 reti in cui compare la voce dei beni pubblici ciò avviene in modo esclusivo (ossia senza che appaia anche la voce “beni riservati ai membri”) solo in 9 casi, mentre negli altri 67 n.4 / 2002 dieci compaiono entrambe le possibilità. La natura consortile delle reti prevale dunque nettamente su un orientamento più universalistico della rete. Le reti non sono “altruistiche”: le città si mettono insieme per perseguire obiettivi di interesse proprio. È interessante osservare che le reti che perseguono beni pubblici si contraddistinguono tutte per alcuni elementi caratterizzanti: sono reti di reti (IULA, Municipia, Bremen Initiative), reti molto estese che formano quasi federazioni mondiali di città (World Secretariat of Cities and Local Government, World Federation of United Cities, Site 13 e Healthy Cities around the World) e reti a carattere prevalentemente culturale e sociale (ELAINE e Mig-Cities). Le aree di policy delle reti Premettendo che, nella rilevazione, l’indicazione del “tipo di attività” non era prevista né unica né esclusiva (e il fenomeno delle finalità plurime si è presentano nella maggioranza dei casi analizzati), è comunque possibile estrapolare alcuni risultati significativi in merito alle aree di policy a cui le reti di città europee dedicano maggiore interesse. L’analisi attesta che le reti affrontano prevalentemente temi legati allo sviluppo locale (in 19 casi), alla cultura (18) e ai trasporti (15); a un livello di frequenza leggermente inferiore le reti trattano i problemi di gestione amministrativa e di ambiente (entrambi riscontrati in 13 casi) e welfare locale (11). Molto meno trattate, invece, sono le questioni relative alla comunicazione e alla TLC (solo 8 casi), alla sicurezza e alla formazione (entrambe appaiono in 7 casi), all’energia e al turismo (entrambe in 5 casi). Infine, sembra che le reti non si dedichino affatto alla materia “finanza”, comparsa solo in un caso (la World Federation of United Cities) a carattere così generale e ampio che, ad eccezione dell’ambiente e del welfare, segnala anche tutti gli altri tipi di attività previsti. Un dato, però, da prendere con molta cautela è quello relativo allo sviluppo locale che, interpretato spesso in senso molto ampio, risulta decisamente sovrastimato. Infatti, l’attività di sviluppo locale è sempre abbinata ad almeno un altro tipo di attività (soprattutto la gestione amministrativa e/o il welfare locale). Non è emerso quindi nessun caso di rete che si occupa esclusivamente e specificamente di sviluppo locale. E ancora, sono state spesso incluse in questo campo quelle reti, come Eurotowns, che presentano un carattere polivalente promuovendo e svolgendo varie iniziative in molti settori delle politiche urbane e che, soprattutto, hanno un obiettivo generico volto a favorire la cooperazione e l’interazione tra le città. Un ultimo dato, a prima vista rilevante, emerge poi nella categoria “altri beni e servizi” (16,3% che corrisponde a 9 delle reti studiate). L’incidenza di questa categoria, però, diminuisce drasticamente se si tiene conto che in 7 di questi casi viene specificata anche, tra il tipo di attività, un’altra voce che si presume essere prevalente (in particolare lo sviluppo locale, la gestione amministrativa e il turismo). Rimangono quindi solo due casi che non è stato possibile includere nelle categorie individuate per il particolare contenuto della loro attività: la rete telematica Municipia che facilita lo scambio di esperienze tra attori locali delle città europee sui temi del governo urbano e l’Associazione delle Comunità tessili europee che riunisce enti pubblici e privati di sette paesi (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Belgio e Inghilterra) per promuovere la cooperazione tra le 68 Paolo Perulli, Fabio Rugge, Raffaella Florio Reti di città “regioni del tessile” e sostenere l’adozione di politiche europee di modernizzazione del settore. Fatte queste precisazioni, le aree di policy maggiormente interessate dalle politiche di rete si riducono e possiamo affermare con maggiore attendibilità che le sfide poste dalle reti a livello europeo investono principalmente il campo della cultura e dei trasporti e, seppure in misura minore, i campi dell’ambiente, della gestione amministrativa e del welfare locale. A questo punto un’analisi in profondità dovrebbe mettere in luce le ragioni di tale risultato. Sarebbe interessante, cioè, verificare: 1. quanto siano questi i problemi effettivi che oggi maggiormente preoccupano le città europee, ovvero se la salienza delle reti ad essi dedicate sia una risposta a una domanda reale di intervento; 2. quanto invece siano queste le politiche a crescente competitività a livello europeo (come sembrerebbe il caso delle politiche culturali); 3. quanto piuttosto siano questi i temi che, rispetto ad altri, si prestano meglio ad essere trattati all’interno di processi e strutture decisionali come quelli delle reti internazionali; 4. quanto le questioni richiedano per il loro stesso contenuto, geograficamente trasversale e diffuso, di essere trattate a un livello territoriale più esteso rispetto alla dimensione locale e nazionale (come parrebbe per le politiche dei trasporti e dell’ambiente, ove le normative europee tendono sempre più a omologare e standardizzare le scelte di carattere nazionale); 5. quanto ancora le questioni individuate siano quelle maggiormente conflittuali nelle arene decisionali locali e nazionali, che verrebbero dunque trasferite su una dimensione sovranazionale con la speranza di trovarvi maggiori spazi di soluzione; 6. quanto infine siano argomenti più suscettibili di benchmarking, di confronto tra best practice, di scambio di informazioni e know how (ciò che potrebbe essere vero in particolare nel caso della gestione amministrativa). Un’ultima considerazione sulla capacità progettuale delle reti: sorprende che la grande maggioranza di reti (39 dei casi studiati) si occupi di progettazione, cioè sia in grado di sviluppare progetti e avviare interventi. Il dato sembra indicare un carattere altamente operativo delle reti, a dimostrazione di una volontà determinata ad andare oltre la definizione di linee programmatiche e dichiarazioni di intenti. Ma, anche in questo caso, è necessaria un’analisi qualitativa per valutare fino a che punto tale capacità progettuale si traduca anche in capacità di realizzazione degli interventi; se le reti cioè siano capaci di avviare processi decisionali relativi nelle singole città. Paolo Perulli è docente di Sociologia dell’Organizzazione della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università del Piemonte Orientale.<[email protected]> Fabio Rugge è docente di Storia dell’Amministrazione Pubblica della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pavia. Raffaella Florio è dottore di ricerca in Scienza Politica (Università Autònoma de Barcelona) e svolge attività di ricerca pressso Forma Urbis. 69 n.4 / 2002 pubblicità 70 Ioannis Chorianopoulos I programmi RECITE dell’U.E.: competitività e politiche di coesione nelle differenti realtà locali Europee Il faro Introduzione La recente proliferazione di iniziative di messa in rete di autorità locali ‘transfrontaliere’ nello spazio dell’U.E. riflette l’accresciuta importanza politica ed economica del livello locale1, come risultato di processi di riorganizzazione di tipo industriale e regolativo nell’arco degli ultimi trent’anni (Jessop 1994; Eisenschitz and Gough 1998). Inoltre, questa nuova realtà rispecchia le opportunità di sviluppo attraverso la cooperazione che si sono aperte nel mercato interno e la necessità di rafforzare sinergie a livello locale alla luce di una più intensa competizione territoriale (CEC 1999, 64-65; Grasland and Jensen-Butler 1997, 49-50). In questa prospettiva, l’organizzazione di reti tra le autorità locali è valutata come uno sforzo collaborativo2 volto a ridurre le incertezze e ad accrescere l’influenza del locale sull’emergente spazio economico Europeo (Cattan 1996; Berg and Kling 1995; Dematteis 1999). Ancor più importante, l’organizzazione di reti indica che le prospettive emergenti dei territori locali si basano sempre più sulla loro capacità di adattare le funzioni, l’ampio ventaglio delle attività economiche e le strutture di governance, in modo da sfruttare lo svilupparsi dello spazio economico Europeo (CEC 1999). Comunque, confrontando le diverse realtà locali tra loro, vengono fuori differenti possibili vantaggi e risposte in termini di governance, secondo le rispettive tendenze di sviluppo. Esplorando le forme del cambiamento delle gerarchie urbane emergenti nello spazio Europeo si scoprono le polarità delle prospettive di sviluppo locale. Il cuore dell’Europa urbana è definito da una concentrazione di più della metà delle città della Comunità, un fenomeno in espansione sul 20% della superficie complessiva (CEC 1999, 8). Gli accordi dipendenti dalle reti, infatti, si riscontrano principalmente in tale spazio centrale, che corrisponde all’area tra Londra, Parigi, Monaco e Amburgo (Cattan 1996, 245-7). In quest’articolo, alla luce delle persistenti disparità spaziali e del lancio dell’iniziativa da parte dell’U.E. di politiche di messa in rete delle autorità locali, si discute dell’importanza di approfondire la conoscenza della pluralità delle soluzioni di governance locale e di costruzione di reti in Europa. L’attenzione è rivolta in particolare su una delle disparità più gravi nello spazio dell’U.E.: la polarizzazione Nord-Sud degli andamenti di crescita locale (Wegener 1 I termini “livello locale”, “infranazionale”, “autorità locali”, fanno riferimento ad aree urbane alla scala municipale e metropolitana e ad unità politico-amministrative. Secondo il sistema di classificazione statistico europeo (NUTS), il livello locale per come qui definito corrisponderebbe ad aree equivalenti o al di sotto del III grado NUTS (CEC 1995-b, 6) 2 Attività comuni di promozione di reti includono: azioni di lobby per favorire interessi comuni a livello dell’U.E., progetti per infrastrutture e sviluppo di database che trovano imprese in località associate, che posseggono un intuito di mercato che individua opportunità di tipo commerciale nello stare in rete (Marlow 1992). 71 n.4 / 2002 and Kunzmann 1996, 12-3; Grasland and Jense-Butler 1997, 55-66; Cheshire 1999). Si cerca inoltre di riflettere sulla posizione relativamente poco competitiva e sulla limitata integrazione del livello locale in Spagna, Grecia e Portogallo, rispetto alla rete emergente delle economie urbane Europee. Gli studi dedicati all’analisi delle possibili cause soggiacenti alle differenti risposte all’integrazione Europea che vengono dalla Spagna, dalla Grecia e dal Portogallo, puntano sugli indicatori che comparativamente individuano in questi paesi autorità locali che si mostrano poco competitive (per dotazione finanziaria, amministrativa, infrastrutturale) rispetto alle norme dell’U.E. (Council of Europe 1995, 1997, 19; CEC 2001, 49-65). Costruito su queste premesse, l’articolo prende in esame i meccanismi causali che soggiacciono alla definizione dei fattori economici che influenzano la competitività. La competitività a livello di governance locale si articola attraverso processi di tipo politico, condizionati dall’infrastrutturazione politica e sociale locale (Le Galès 1999). Ciò detto, la particolarità della governance locale in Spagna, Grecia e Portogallo è discussa attraverso un approfondimento dei diversi contesti economici, sociali e politici dei processi di urbanizzazione occorsi nel dopoguerra in questi paesi. La pluralità dei contesti di urbanizzazione e di ristrutturazione industriale in Europa è fatta oggetto di analisi, in un tentativo di comprendere le differenti risposte in termini di governance e di modalità di costruzione di reti rispetto all’integrazione Europea. Il saggio è strutturato in quattro parti. La prima si sofferma brevemente sull’esplorazione delle caratteristiche della ristrutturazione industriale e del rafforzamento del livello locale negli ultimi trent’anni. Viene messo in rilievo il diverso impatto spaziale e urbano dei cambiamenti economici in Europa, focalizzando sulle differenze Nord-Sud. Nel tentativo di delucidare le ragioni sottese alla scarsa competitività del livello locale in Spagna, Grecia e Portogallo, la seconda parte del saggio è dedicata all’analisi delle caratteristiche economiche e socio-politiche dei processi di urbanizzazione in tali paesi. L’individuazione di una divergenza tra urbanizzazione del Sud e del Nord e di governance a livello locale è di conseguenza oggetto di indagine nell’ambito delle reti Europee. Il saggio evidenzia le caratteristiche chiave del mutamento di politica da parte della Comunità a livello del locale e si chiede in che misura le reti Europee urbane e regionali riconoscono e fanno proprie le differenze tra Nord e Sud relative alle forme di governance locale. Le risposte di sette autorità urbane e regionali, nell’ambito di due reti EU-RECITE (EUROSYNET e SCIENTIFIC CENTRES), sono oggetto di analisi in chiave comparata. I casi studio (Cork, Bayes e Bergueda, Dafni, Midi-Pyrenees, Warrington e Valencia) sono esempi di autorità infranazionali del Nord e del Sud che cooperano a progetti di costruzione di reti. La sezione conclusiva presenta una riflessione sui risultati della ricerca e discute delle difficoltà, conseguenze e possibilità dei correnti modelli Comunitari di intervento a livello locale. Selettività del rinnovamento urbano e differenze Nord-Sud L’accresciuta importanza a livello dell’U.E. del locale, in termini di economia e di occupazione della popolazione, è indicata dalla netta inversione, sin dagli anni ‘80, della tendenza al decentramento urbano nel Nord Europa (Parkinson and Harding 1995). Quello del rinnovamento urbano, ad ogni modo, è un processo altamente selettivo, essendo basato su una transizione di successo dal settore 72 Ioannis Chorianopoulos I programmi RECITE dell’U.E. manifatturiero ad attività del terziario qualificate. Come indicato nella Fig.1 (vedi al termine dell’art.), solo la metà delle città del Nord Europa hanno fatto esperienza negli ultimi due decenni di ricentralizzazione della popolazione e dell’occupazione. Al fine di dare spiegazione della selettività di tale processo, un certo numero di argomenti viene avanzato a favore del fatto che la competitività economica del locale consiste in risorse eterogenee e si defisce ulteriormente sulla base di capacità specifiche, connesse al luogo, di natura sociale, culturale, istituzionale e di governance (Storper and Scott 1989; Sassen 1995; Shachar 1997). Nella fig.1 sono anche rappresentate le differenti risposte del livello del locale ai processi di ristrutturazione sociale ed economica in Spagna, Grecia e Portogallo. La popolazione urbana e l’andamento dell’occupazione nel Sud Europa diverge dai modelli dominanti di urbanizzazione del Nord Europa, a partire dal periodo del dopoguerra fino agli anni ‘70. Le città del Sud Europa non sembravano interessate dalla deindustrializzazione e ristrutturazione industriale urbana secondo percorsi simili a quanto è dato di vedere nel Nord Europa. Città nella Spagna, Grecia e Portogallo si stavano e si stanno (anche se in minore misura) urbanizzando. L’argomento sotteso a questa divergenza è la tardiva (risalente al dopoguerra) industrializzazione di Spagna, Grecia e Portogallo; l’accento è posto sul fatto che le città del Sud Europa sono ad uno stadio iniziale di sviluppo urbano (Hall and Hay 1980, 129-30). Per quel che riguarda i corsi futuri, si prevede che le città del Sud Europa seguano l’esaurirsi del ciclo lineare di vita urbano in un modo non dissimile allo stile neo-corporativo di rinnovamento urbano sperimentato nel Nord Europa a partire dagli anni ‘80 (Cheshire 1995). Questa assunzione è basata sulla convinzione che la principale differenza tra le caratteristiche dell’urbanizzazione del Nord e del Sud è il ritardo nell’industrializzazione. Comunque, non è questo il caso. L’industrializzazione non è stata la precondizione che ha fatto scattare le tendenze alla concentrazione urbana nel Sud, come è accaduto invece nel Nord (Bairoch 1988). Quando si sono generate la popolazione urbana e l’esplosione dell’occupazione negli anni del dopoguerra nel Sud Europa, la popolazione lavoratrice si impegnò in attività di servizio che stavano alla pari (caso della Spagna e del Portogallo) o superavano (caso della Grecia) quelle dell’industria (Williams 1984; World Bank 1984, 221). Questa caratteristica delle strutture dell’economia urbana, assieme con il prevalere di aziende di piccola e media dimensione nell’organizzazione del settore manifatturiero (Hudson and Lewis 1984, 197-201), stanno ad indicare che l’industria a quel tempo non era forte abbastanza come fonte di occupazione per generare le alte percentuali di migrazione urbana al Sud (Leontidou 1990). L’ampia emigrazione nel dopoguerra del surplus di forza-lavoro dal Sud Europa verso le industrie del Nord, alla ricerca di opportunità di lavoro, denota piuttosto il ruolo limitato dell’industria come fattore di attrazione urbana (King 1998). I processi di urbanizzazione del dopoguerra nel Sud Europa dovettero produrre come risultato rapidi livelli di sviluppo (CEC 1992-b, 65). Comunque, la scarsa manifestazione di economie interne di scala nelle aziende industriali e i pochi segni di economie di localizzazione inerenti il modello spaziale di sviluppo industriale, indicano l’importanza degli effetti dell’urbanizzazione come principale fattore nell’industrializzazione. Le economie dei territori urbanizzati riflettono i vantaggi di un più ampio mercato del lavoro e del settore dei servizi. In questo caso, l’esten- 73 n.4 / 2002 sione dell’economie di scala rilevanti per una particolare industria è influenzata dalla dimensione della città e non dalla sua formazione industriale (Louri 1988, 433-7). Le differenze negli sviluppi dell’urbanizzazione nel Nord e nel Sud Europa, perciò, non corrispondono ad un ritardo in un percorso di industrializzazione unilineare, ma riflettono differenze di struttura economica urbana (Chorianopoulos 2002). Le forme di spazio urbano in Spagna, Grecia e Portogallo, rispecchiano la particolarità delle traiettorie ‘periferiche’ di crescita, dove l’urbanizzazione non è stata direttamente causata dall’industrializzazione (Lipietz 1987; Leontidou 1990). Tale perifericità ha plasmato il contesto di regolazione della organizzazione della politica locale nel periodo del dopoguerra. Più importante ancora, essa influenza fortemente gli attuali modi di governance e di costruzione delle reti. Contesto politico Restituire un quadro del contesto operazionale idealtipico delle politiche locali nel periodo del dopoguerra comporta due principali livelli di analisi: - il ruolo dello sviluppo economico locale come funzione di una domanda macroeconomica determinata a livello nazionale. Le attività di pianificazione spaziale, la fornitura di infrastrutture locali per supportare grandi produzioni industriali nell’interesse della piena occupazione, e la domanda di servizi pubblici e di politiche di welfare locali rientrano in questa categoria (Castells 1997); - la scala locale del contesto sociale e politico dell’organizzazione dell’economia. Il ruolo delle funzioni di rappresentanza del governo locale nella costruzione di relazioni salariali consensuali regolanti l’economia, e lo sviluppo di strutture di negoziazione collettiva a livello locale, attraverso la predisposizione di servizi pubblici, sono gli esempi caratteristici in quest’area di analisi (Goodwin and Painter 1996). Il profilo delle azioni dello Stato a livello locale negli anni del dopoguerra nel Sud Europa è assai differente. Le strutture dell’industrializzazione delle economie di Spagna, Grecia e Portogallo -per quanto ancora sottosviluppate al confrontonon erano basate su relazioni salariali consensuali e politiche corporative (Maravall 1997). A causa della base stretta urbana-industriale e della limitata libertà sindacali, in questi paesi la crescita nella domanda sociale non è stata regolata istituzionalmente a livello nazionale o locale (Lipietz 1987). Più importante, la natura autoritaria e centralizzata dell’amministrazione nazionale in tutti e tre i paesi fino alla metà degli anni ‘70 ha deviato piuttosto l’articolazione locale delle forme di regolazione (Syrett 1995, 150). La ricostituzione dei regimi democratici nel Sud Europa negli anni ‘70 segna una svolta significativa nella natura dei rapporti centro-periferia. Comunque, nonostante gli arrangiamenti politici e le aumentate responsabilità istituzionali, la capacità di regolazione dei livello locali presenta costrizioni specifiche. Come si può vedere dalla Fig.2 (vedi al termine dell’art.), il livello locale in Spagna, Grecia e Portogallo, ha (in termini di comparazione) un’autonomia finanziaria limitata. Per di più, il ruolo politico e rappresentativo dello Stato a livello locale è aperto 74 Ioannis Chorianopoulos I programmi RECITE dell’U.E. a interrogativi. Il ruolo dominante dei partiti politici di massa nazionali (o regionali, nel caso della Spagna) nella nuova infrastruttura politica locale è riconosciuto come un fattore distinto che mette nel paniere tentativi di sviluppo endogeno (Hadjimichalis and Papamichos 1990, 200; Syrett 1995, 98; Ignazi and Ysmal 1998, 295-6 e 301). L’impatto delle strutture governative centralizzate si riflette nella distribuzione del potere esecutivo nell’amministrazione locale. La ridotta capacità amministrativa locale e la limitata presenza di gruppi d’interesse privati e del volontariato giustifica la concentrazione di autorità nella figura del sindaco. Tale forma di personificazione dell’amministrazione, a sua volta, viene valutata attraverso l’abilità di mediazione del sindaco di traslare l’autorità locale in influenza politica di livello nazionale, soprattutto attraverso i meccanismi di partito (Page 1991; Silva et al. 1998; Goldsmith and Klausen 1997, 243). Questa schematica rappresentazione dell’infrastruttura socio-politica locale di Spagna, Grecia e Portogallo, differisce significativamente dai modelli ‘idealtipici’ della diffusa governance locale che rende possibile il lancio di iniziative politiche orientate alla competizione (Amin and Thrift 1994). Nel caso della Spagna, tuttavia, occorre fare una precisazione in particolare. Lo Stato di Autonomia delle Regioni Spagnole è deciso dall’assemblea territoriale regionale e la gamma dei poteri delle quindici Comunità Autonome è altamente eterogeneo (Rodriguez-Pose 1996). Dal momento che la condizione delle municipalità è sotto il controllo dello Stato regionale, la gamma dei poteri finanziari e politici a livello municipale in Spagna varia considerabilmente (Nel.lo 1998). Così, anche in Regioni con una forte identità nazionale e maggiori livelli di autonomia (quali il territorio Basco, la Catalogna, la Galicia), si osserva il ruolo dominante dell’amministrazione regionale nelle relazioni intergovernative. La presenza di tendenze politiche centrifughe e gerarchie di partito nel sistema regionale governativo risulta nella mancanza di risorse finanziarie e potere di decisione politica al livello municipale (Morata 1993). Si arguisce, perciò, che, centrale ai fini dell’analisi delle differenti manifestazioni di competitività locale e formazioni di rete nel Nord e nel Sud Europa, sia la divergenza dei processi di urbanizzazione: le differenze tra Nord e Sud nelle forme di governance economica e locale che ristrutturano i contesti. Quest’argomento non sottovaluta i diversi percorsi di Spagna, Grecia e Portogallo3 . Né bisogna ignorare le opportunità per lo sviluppo economico locale nel Sud Europa fatte emergere dal processo di integrazione Europeo. L’oscillazione nell’attività economica recentemente osservato nelle regioni urbane del Nord-Est della Spagna è basato su nuovi settori industriali e viene attribuito a soluzioni di governance neo-corporative orientate verso la competizione (Lever 1999; Sanchez 1997). Comunque, lo scarso coinvolgimento di località Portoghesi, Greche e Spagnole, per la maggior parte, nelle reti emergenti delle economie urbane Europee suggerisce la particolarità delle loro risposte di governance all’integrazione. Inoltre, mette in questione l’efficacia di un decennio di reti Europee nell’innescare la competitività del locale nel Sud Europa. Il modo in cui i programmi dell’U.E. orientano le differenze di governance loca- 3 Economicamente, per esempio, il ruolo del colonialismo nell’economia Portoghese, del settore traffico marittimo nella Grecia, o la sostituzione delle politiche d’importazione intrapresa dalla Spagna nel periodo del dopoguerra indica differenti vie all’industrializzazione. Inoltre, le differenze tra i tre paesi nella durata e caratteristiche dell’autoritarismo suggeriscono che le loro strutture politiche si possono meglio comprendere se si indagano a livello nazionale (Maravall, 1997). 75 n.4 / 2002 le, focalizzando i casi della Spagna, Grecia e Portogallo, viene analizzato di seguito attraverso uno sguardo più ravvicinato alle forme di partecipazione di sette città e regioni urbane Europee, nell’ambito di due reti dell’U.E. La svolta della politica dell’U.E. verso il livello locale L’aumentata importanza delle specificità del territorio ai fini dello sviluppo economico e lo squilibrio attuale degli andamenti di crescita a livello locale sono stati riconosciuti dall’U.E. e indirizzati nel quadro di due obiettivi strategici. In primo luogo, l’aumento della competitività dell’economia Europea è promossa attraverso la decentralizzazione di istituzioni e di principi di costruzione delle decisioni. Il riferimento è alla costituzione del Comitato delle Regioni, così come al rafforzamento del principio di sussidiarietà espresso nel Trattato di Maastricht, promuovendo connessioni dirette tra i livelli locale e Comunitario, cercando di definire un’intelaiatura per la politica spaziale flessibile e decentralizzata (CEC 1993; CEC 1993-b). Inoltre, i programmi Europei mirati al livello locale sono stati introdotti a partire dalla riforma dei Fondi Strutturali dell’ ‘88 (così, ad es., le reti RECITE, l’iniziativa Urban), un mutamento di politica che è stato poi sancito con l’introduzione, dal ‘99, di programmi esplicitamente di tipo urbano nelle aree dell’Obiettivo 2 (CEC 1994, 16; CEC 1994-b; CEC 2000). In secondo luogo, i possibili effetti negativi della competizione territoriale come risultato di processi d’integrazione economica e monetaria sono stati riconosciuti e direzionati con il conferire priorità alle politiche di coesione e convergenza (CEC 1992, 7). L’enfasi sull’obiettivo di coesione nel Trattato di Maastricht e nei programmi Europei di livello locale introduce un modo di riguardare al processo di costruzione delle politiche che interpreta la competizione locale come un ‘gioco a somma zero’, incorrendo in rischi di aumento delle disparità (CEC 1999, 14). Le modalità di intervento dell’U.E. sono regolate da tre principi-chiave di politica: a) Lavoro di rete: l’agevolazione di reti transnazionali di cooperazione su temi specifici, tra autorità locali democraticamente elette, nel tentativo di indirizzare le strategie locali di sviluppo economico verso il livello Europeo. b) Crescita economica e occupazione: se c’è una varietà di ambiti di cooperazione (Società dell’Informazione, Cultura, Piccola e Media Impresa), gli obiettivi di promuovere la competitività economica e la creazione di occupazione soggiacciono alla maggior parte dei progetti Europei di costruzione di reti. c) Partenariato e sussidiarietà: le linee guida e le procedure contenute nei programmi chiedono che le autorità locali assumano un ruolo attivo di agevolazione e di regolazione, incoraggiando il coinvolgimento dei settori del privato e del volontariato nella predisposizione e implementazione dei progetti (CEC 1994, 102-3; CEC 1997, 14). Secondo la terminologia propria dell’analisi delle reti (Chorley and Hagget 1974), si potrebbe anche affermare che, l’U.E., con il decidere in merito alla possibilità per le autorità locali di essere supportate finanziariamente per un particolare progetto influenza la formazione di “nodi” di reti. Ad ogni modo, non sono previste politiche apposite per le connessioni tra le reti, o in merito all’autorità locale che le connette. Il modo di incorporare le autorità locali nei processi 76 Ioannis Chorianopoulos I programmi RECITE dell’U.E. di costruzione di reti da parte dell’U.E. risulta eterogeneo. La misura in cui le autorità locali si rendono capaci di esercitare un’influenza e di partecipare ai sistemi di reti dell’U.E. dipende dalle priorità locali e dal grado di decentramento delle strutture di governo nazionali (Mazey 1995; Goldsmith and Klausen 1997). Ad esclusione dei requisiti minimi di cofinanziamento richiesti per le aree Obiettivo 1, l’organizzazione delle reti dell’U.E. poggia esclusivamente sulle strutture di governance locali (CEC 2000, 57). I differenti livelli di competitività della governance locale Europea non vengono presi in considerazione come obiettivo di politica -cosa che costituisce una causa fondamentale delle forme correnti di disparità spaziale. Le implicazioni di questo approccio ai fini dell’efficacia delle politiche locali dell’U.E. sono state oggetto di esame nella prima fase (1992-97) del programma RECITE (Regioni e Città per l’Europa). RECITE è uno tra i primi programmi, contenuti nell’Art.10, del Fondo Regionale di Sviluppo Europeo (FRSE). Rappresenta altresì una delle iniziative di maggiore rilevanza nell’ultimo decennio di politiche concernenti l’intervento sul territorio da parte dell’U.E. (CEC 1995). Lo scopo è stato quello di indagare sugli accordi di governance locali e fare luce sulle capacità relative delle autorità locali del Sud Europa di trarre beneficio dai progetti dell’U.E. Inoltre, lo scopo è anche di identificare e chiarire i differenti vantaggi delle realtà locali Europee rispetto ai sistemi di reti dell’U.E., in modo da estrapolarne i problemi e le modalità possibili d’intervento locale da parte della Comunità. I programmi RECITE Le reti tra autorità locali sotto il nome di RECITE sono state sviluppate nel 1990 nell’ambito dell’obiettivo di “cooperazione interrregionale” (si veda l’Art.10, FRSE; CEC 1995). I programmi formano reti a tema di cooperazione tra autorità locali -bypassando il livello nazionale- e dipendono interamente dall’attiva partecipazione del livello locale nelle varie fasi della loro formulazione e dell’implementazione. Per quanto vi siano modeste variazioni nel modo in cui alcune reti specifiche di RECITE operano, in generale, ciascuna rete tematica comprende in qualità di partner dalle 3 alle 7 autorità locali e città o regioni di almeno tre differenti Stati membri. Nonostante che il tempo limite per lo svolgimento delle operazioni sia di tre anni, la maggior parte delle reti che hanno avuto inizio nel ‘92 si sono protratte fino al ‘97, mentre alcune hanno ottenuto una proroga e finanziamenti dell’U.E. fino al 2001. Il saggio si concentra su due reti RECITE a partire da questa fase del programma: EUROSYNET e SCIENTIFIC CENTRES. Due considerazioni hanno portato a selezionare questi due programmi tra le 36 reti RECITE di questo periodo. La prima riguarda i loro temi, direttamente connessi agli obiettivi Europei di coesione e di competitività. La cooperazione nell’ambito di EUROSYNET si concentra su tre aspetti: a) sviluppo economico locale, mirante a promuovere un coinvolgimento della Piccola Media Impresa (SMEs) nei commerci transfrontalieri; b) pianificazione della città, connessa alla protezione dell’ambiente e al recupero di aree abbandonate e inquinate; c) sviluppo del turismo, mettendo a fuoco azioni per la promozione del turismo 77 n.4 / 2002 4 Altre due autorità locali coinvolte in EUROSYNET non vengono fatte oggetto di discussione in questa sede. Si tratta di Charleroi (Belgio?) e Bethune (Francia). La ragione principale consiste nella loro partecipazione limitata o perfino nell’uscita (caso di Charleroi) da una serie di gruppi di lavoro nel periodo di svolgimento del progetto (CEC 1995-d, 3; Chorianopoulos 2000). 5 Sono state coinvolte anche le università di “Labein”, “Ceit” e “School of Engeneers” di Bilbao, così come l’“Istituto di Ricerca in Sistemi Informativi Paralleli” e il “Dipartimento dei Sistemi Informativi” dell’università “Federico II” di Napoli. Per quanto riguarda il ruolo delle autorità regonali del Governo Basco (Spagna) e della Campania (Italia) nell’accompagnamento di tale partecipazione, vedi Chorianopoulos (2000) e CEC (1995-c). 78 urbano. Anche la cooperazione nell’ambito di SCIENTIFIC CENTRES si concentra sulla Piccola Media Impresa. Il principale obiettivo in questo caso, comunque, è stato quello di seguire la formazione di un gruppo permanente di esperti che avrebbero condiviso le reciproche competenze sulle reti di “High Performance Computing” (HPC - telematics) e avrebbero, conseguentemente, provveduto ai servizi per le industrie locali. Sono stati pertanto coinvolti anche dipartimenti universitari ritenuti rilevanti, situati nelle aree di appartenenza di ciascun partner della rete. La seconda considerazione che ha portato a selezionare queste reti consiste nel fatto che le autorità locali partecipanti offrivano l’opportunità di esplorare differenti risposte di governance locale ai programmi dell’U.E., includendo anche le differenze tra Nord e Sud d’Europa. Come si può constatare dalla Fig.3 (vedi al termine dell’art.), EUROSYNET4 ha compreso due autorità locali Catalane, Bayes e Bergueda (Spagna), così come il Consiglio della Contea di Cork (Irlanda) e il Consiglio della città autonoma di Warrington (Regno Unito) (CEC 1996-b). Il saggio si concentra sulle esperienze di rete tra queste autorità locali per le seguenti ragioni: a) le due autorità locali Catalane sono state coinvolte come singoli partecipanti nella rete. Questa modalità di partecipazione eccezionale per i programmi Europei è stata voluta dalle autorità regionali Catalane. Nel dibattito aperto sulla regionalizazzione della Spagna, i casi-studio delle realtà Catalane fanno luce sul modo in cui avviene l’interazione tra il livello municipale e regionale e sull’impatto della devoluzione in Spagna sui processi di governance urbana, a livello cittadino; b) sulla scia del crescente impegno del governo Britannico nell’organizzazione locale dei Fondi Strutturali dell’U.E. (Boland 1999), il caso di Warrington offre una possibilità per capire le risposte, in termini di governance, di un’autorità locale del Regno Unito nei confronti di un programma Europeo che bypassa il livello nazionale. Per di più, Bayes, Bergueda e Warrington offrono l’opportunità per una comparazione diretta tra il modo in cui il programma è stato preso in considerazione e perseguito dalle autorità locali del Regno Unito e della Spagna; c) lo studio di Cork non si trova compreso direttamente in tale quadro di riferimento Nord-Sud. Ad ogni modo Cork è stato il progetto-guida della rete e una serie di interviste fatte sul posto hanno fornito ulteriori informazioni in merito a EUROSYNET. Ancor più importante, la centralizzazione delle strutture amministrative del paese (Bannon and Grier 1998), e gli alti livelli di crescita dell’economia Irlandese fanno di Cork un caso studio distintivo e interessante per la comparazione sia con Warrington che con Bayes e Bergueda. Come di può vedere dalla Fig.4, la seconda delle due reti, SCIENTIFIC CENTRES5, include due autorità regionali, Midi-Pyrenees (Francia), l’organo di autogoverno (Generalitat) di Valencia (Spagna), la città di Dafni (Grecia), un comune dell’area metropolitana di Atene. Il saggio mette a fuoco le risposte in termini di governance da parte di queste autorità locali, per le ragioni seguenti: a) alla luce dello status politico relativamente recente (1986) delle regioni Francesi, lo studio su Midi-Pyrenees fornisce un approfondimento in merito all’influenza e alla capacità del livello regionale di articolare relazioni di partenariato con il settore privato locale. Inoltre, il caso di Midi-Pyrrenees offre l’opportunità di esplorare l’efficacia delle nuove politiche locali per lo sviluppo economico in Francia (Charte Ioannis Chorianopoulos I programmi RECITE dell’U.E. d’Objectif, 1991), con l’aspirazione di promuovere la competitività nel contesto dell’accresciuta competizione territoriale a livello dell’U.E. b) motivo fondamentale della selezione di Valencia è stato il primato (squilibrato) di partecipazione delle autorità rispettivamente regionali e municipali alla rete Europea. Il livello regionale, per esempio, ha preso parte a nove reti RECITE durante gli anni ‘90, mentre la municipalità di Valencia non è stata coinvolta in alcun progetto di questo tipo (CEC 1995-b). Lo studio del caso dell’autorità regionale di Valencia integra l’analisi della interazione tra livello municipale e regionale in Spagna, che comincia con i casi-studio Catalani di EUROSYNET. In quest’ultimo caso, comunque, le sinergie di governance locale e le dinamiche di devoluzione, sono esplorate dal punto di vista del livello regionale. C) I rapporti di valutazione dell’U.E. inerenti RECITE mettono in evidenza la difficoltà di trasferimento del “know-how” nell’organizzazione della rete, osservando che i progetti incontrano i loro obiettivi quando tutti i partner hanno a disposizione il know-how per contribuirvi” (CEC 1995). Le esperienze di cooperazione della municipalità di Dafni con due autorità regionali,con capacità finanziarie e livelli di esperienza significativamente maggiori, offre un’ulteriore opportunità per approfondire quest’aspetto. Le risposte di governance locale ai programmi sono state fatte oggetto d’analisi procedendo ad interviste a figure chiave dei governi locali e a coordinatori del programma dalla parte del settore privato. Le interviste sono state concepite come semi-strutturate, per consentirne l’adattamento alle specificità dei singoli contesti, così come presentati dagli intervistati, e per permettere la comparabilità tra casi-studio presi in esame. Il lavoro di ricerca sul campo ha esplorato le varie situazioni di governance dalla prospettiva delle autorità locali, concentrandosi su: a) la rispettiva abilità delle autorità locali di acquisire informazioni in merito alle reti dell’U.E. e proporre la propria partecipazione; b) la loro conseguente capacità di organizzare e finanziare i progetti; c) le modalità d’interazione tra le autorità municipali e regionali nell’area di pertinenza dei programmi in questione; d) il grado di interferenza (se ve ne è alcuno) nei progetti da parte del livello nazionale e l’eventuale impatto di questo coinvolgimento sul programma locale; e) le differenze inerenti la modalità di comprendere il settore privato nei programmi. Il principale limite al materiale empirico presentato nell’analisi delle differenze tra forme di governance locale del Sud e del Nord d’Europa nel contesto dei programmi dell’U.E. è la mancanza di un caso-studio Portoghese per una diretta comparazione. Per gestire questo problema il saggio attinge da altri studi che esaminano le forme di governance locale nel contesto del Portogallo con riferimento a progetti di organizzazione di reti. Inoltre, si conviene che una selezione di reti alternative a quelle considerate potrebbe presentare differenti risposte locali ai programmi. Ad ogni modo, la selezione delle due reti presentate, ha esteso la scelta dei casistudio esplorati e ha fornito esempi di autorità locali del Nord e del Sud e del livello municipale e regionale nel caso della Spagna. In questa indagine compa- 79 n.4 / 2002 rativa, le due reti sono analizzate come complementari. Uno sguardo sulle autorità locali e le forme di governance Sono state osservate quattro differenze tra i partecipanti, che mostrano la rilevanza di differenti strutture di governance ai fini dell’efficacia con cui i programmi dell’U.E. promuovono politiche di sviluppo endogeno: A) il grado di centralizzazione del sistema di governo nazionale (o regionale) come fattore che regola l’accesso all’informazione; B) la disponibilità finanziaria da parte delle autorità locali di devolvere risorse a favore del programma; C) il ruolo dell’elemento politico nell’amministrazione locale e nelle strutture esecutive; D) la relazione (interazione istituzionale) tra autorità locali e gruppi del settore privato. I fattori esplicativi più rilevanti di queste differenze sono riportati di seguito, secondo quanto detto ai punti A), B), C) e D). A) Modalità di accesso all’informazione pertinente i programmi dell’U.E. La natura centralizzata (a livello nazionale o regionale) delle strutture di informazione di cui dispongono la Spagna, la Grecia e l’Irlanda ha costituito un fattore limitante rispetto alle opportunità che le reti offrivano a Bayes e Bergueda, a Cork e a Dafni, di articolare uno sviluppo endogeno delle politiche e di promozione degli interessi locali a livello dell’U.E. Cominciando da EUROSYNET, le prime fasi del programma sono state organizzate da un’agenzia di consulenza con sede a Warrington, che ha contattato varie autorità locali e organizzazioni per elaborare una proposta per una rete Europea orientata verso la Piccola e Media Impresa. L’agenzia di consulenza ha organizzato l’insieme delle attività sulle basi di un passato di intensa cooperazione con il Consiglio Autonomo della città e il settore privato locale e all’inizio è stata supportata finanziariamente dall’associazione locale della Piccola e Media Impresa (Hoyle 1997). Nel caso di Bayes e Bergueda, ad ogni modo, è stata un’organizzazione regionale Catalana (COPCA), specializzata nel commercio con l’estero, ad essere contattata per prima dall’agenzia di consulenza. Successivamente, la COPCA ha informato le autorità regionali in merito alle opportunità che EUROSYNET avrebbe potuto offrire alla Piccola e Media Impresa Catalana orientata verso l’esportazione (Guri, 2001). La decisione dell’autorità regionale Catalana (Generalitat) è stata di prendere parte come Regione al programma. Questo, però, non è stato accettato dall’Ufficio Europeo di RECITE, in ragione dell’incompatibilità esistente tra la scala territoriale e di popolazione della autorità regionale Catalana e gli altri partecipanti alla rete. Per questa ragione, la Regione ha proposto il coinvolgimento di Bayes e Bergueda nella rete, cosa sulla quale hanno acconsentito tanto l’Ufficio di RECITE quanto le due autorità locali (Farguell, 1998). La cooperazione tra Bayes e Bergueda prima di EUROSYNET comunque era stata minima. Perciò, le due autorità locali hanno dovuto impegnare una parte consistente del loro tempo per identificare ambiti di comune interesse e metodi di lavoro. Inoltre, Bayes e Bergueda - per quanto coinvolte insieme come un partecipante singolo alla rete e così condividendo i fondi dell’U.E. -, in via eccezionale sono 80 Ioannis Chorianopoulos I programmi RECITE dell’U.E. state rappresentate nel Consiglio d’Amministrazione di EUROSYNET da due membri, rispettivamente i sindaci delle due città. Questo ha costituito un fattore di disturbo dell’equilibrio della rappresentanza al Consiglio e, a causa di difficoltà a cooperare tra Bayes e Bergueda, ha provocato circa un anno di ritardo nell’approntare l’agenda e dare inizio al programma (Costello 1997). Per quel che concerne la partecipazione di Cork, è stata una organizzazione nazionale, l’Agenzia Irlandese per il Commercio (ITB), ad essere contattata per prima dall’agenzia di consulenza, in ragione del suo ruolo guida nel rappresentare gli interessi della Piccola e Media Impresa in Irlanda. Quindi l’ITB ha informato il Consiglio della Contea di Cork in merito ad EUROSYNET. L’agenda locale per quel che riguarda le politiche per la Piccola e Media Impresa era stata già messa a punto dall’ITB prima del coinvolgimento di Cork nel programma. Sono state osservate anche ulteriori implicazioni inerenti l’amministrazione del programma. Comunicazioni dalla Commissione inerenti questioni finanziarie sono state indirizzate dal Dipartimento del Governo Centrale a Dublino invece che al livello locale, cioè a Cork. Ad ogni modo, Cork aveva il ruolo di capofila del progetto di rete, e come tale era responsabile per la ricezione e allocazione dei fondi Europei. Il ritardo nella comunicazione che si è verificato ha pesato sulla distribuzione dei finanziamenti e, di conseguenza, sull’avanzamento dei progetti specifici di EUROSYNET6 (Costello 1997). Elemento chiave alla costituzione della seconda delle reti, SCIENTIFIC CENTRES, è stata la collaborazione di successo di Midi-Pyrenees e Valencia ad un programma dell’U.E. (PACTE). In questo periodo di precedente cooperazione, sono state individuati ambiti comuni di interesse da parte delle due autorità locali e si sono definiti gli obiettivi di politica di SCIENTIFIC CENTRES (Cros 1998). In questo caso, le due sopracitate località locali, mettendo a punto attivamente una specifica area tematica di collaborazione e innescando una dinamica per ulteriori cooperazioni, hanno generato informazione piuttosto che ricevere passivamente proposte di partecipazione. Il coinvolgimento di Dafni nel programma, comunque, è stato determinato dal ruolo di coordinamento del Ministero dell’Economia Nazionale nei programmi Europei. In quel periodo (anno 1993) tutti i contributi finanziari ai programmi Europei in Grecia , che provenissero dal Governo Centrale o dalla Commissione, erano incanalati attraverso il Ministero dell’Economia Nazionale. I n tale contesto, Midi-Pyrenees e Valencia hanno contattato l’Università Tecnica di Atene come potenziale partner di ricerca per il progetto. Il Ministero è stato informato in merito ad EUROSYNET dall’Università e ha assegnato il progetto alla Regione di Attiki -a quel tempo braccio amministrativo decentralizzato del governo centrale. Le procedure dell’U.E., richiedevano comunque la partecipazione delle autorità politiche locali alle attività della rete. La Regione ha contattato Dafni sulla base della sua elegibilità a partecipare ai programmi SCIENTIFIC CENTRES in quanto autorità politica locale. La Regione, comunque, aveva già negoziato l’azione di piano con l’Università Tecnica di Atene e aveva cominciato a individuare le Piccole Medie Imprese interessate a obiettivi telematici, nell’ambito dell’area metropolitana di Atene (Psaros, 1997). Similarmente agli esempi offerti da Cork e Bayes e Bergueda, nel caso di Dafini, la presenza di strutture centralizzate addette all’informazione ha vincolato la promozione di obiettivi di sviluppo endogeni attraverso la rete, cosa questa fortemente voluta dei programmi RECI- 6 Il dirigente di Cork incaricato di seguire EUROSYNET ha evidenziato il blocco delle comunicazioni esistente al Dipartimento del Governo Centrale in Dublino. “Molte volte ha affermato - ho cercato informazioni da Brussels che non sarebbero poi seguite...Quelli sono ansiosi di possedere tale senso di potere. Questo mi è stato evidenziato come problema anche dalla Commissione” (Costello 1997). 81 n.4 / 2002 TE (CEC 1995, 14-7). B) Aspetti finanziari locali Nell’analisi è emerso come il grado di autonomia finanziaria locale sia un fattore di differenziazione delle risposte di rete da parte delle autorità locali. Gli esempi più discordanti si trovano in SCIENTIFIC CENTRES e coinvolgono Midi-Pyrenees e Dafni. I partecipanti hanno corrisposto alle prerogative finanziarie di SCIENTIFIC CENTRES attraverso una varietà di mezzi, facendo emergere sia la loro differente capacità di devolvere risorse ai progetti sia la diversa importanza attribuita al programma a livello locale. Il grado di collaborazione tra le autorità locali, i centri di ricerca e le Piccole e Medie Imprese coinvolte, sono stati un elemento centrale per l’attivazione di risorse e, di conseguenza, per la promozione attraverso il programma di obiettivi locali. Midi-Pyreness, per esempio, è in stretta relazione di lavoro con il principale istituto di tecnologia della Regione, che si occupa di “telematica”, il CERFACS. In questo contesto, il CERFACS nel 1991 ha richiesto e ottenuto l’approvazione di un finanziamento da parte delle autorità regionali, per procedere ad un progetto di ricerca che avrebbe aiutato le Piccole Medie Imprese locali interessate alle applicazioni industriali della telematica. La partecipazione agli SCIENTIFIC CENTRES è stata suggerita da CERFACS a MidiPyrenees sulla base di risorse extra che sarebbero confluite al progetto locale attraverso il finanziamento Europeo. L’impegno da parte della Regione a supportare finanziariamente il progetto, comunque, doveva essere mantenuto indipendentemente dall’esito della richiesta di finanziamento Europeo. Infatti il contributo finanziario regionale è aumentato dalla quota fissata inizialmente, per via del successo dell’azione di lobbying portata avanti dalle autorità nazionali Francesi, sulle basi della dimostrabile rilevanza (disponibilità dell’UE ad accettare) della ricerca locale telematica. In Francia, le relazioni di tipo finanziario tra Stato e Regioni sono formalizzate in un piano negoziato secondo delle procedure, il contrat de plan, che ha validità di cinque anni. Nell’ambito del terzo contrat de plan per Midi-Pyrenees (1994-98), la Regione è stata finanziata con risorse extra per SCIENTIFIC CENTRES. Elemento chiave per questo sviluppo è il lancio in Francia dell’iniziativa delle Carte delle Grandi Città (Chartes d’Objectifs) risalente al 1991 e tendente ad aumentare la competitività economica regionale in Europa individuando e supportando vocazioni specifiche in undici agglomerazioni urbane. La Carta di Midi-Pyrenees si concentra sulla città di Toulouse e supporta le industrie aerospaziali ed elettroniche (vedi anche Sallez 1998). Nel processo di elaborazione della Carta viene deciso a livello locale un nuovo investimento nei progetti Europei e conseguentemente incorporato - con l’approvazione del governo centrale - nel contrat de plan. Durante il processo di negoziazione della Charte d’Objectifs si verificano attriti tra i vari livelli di governo (regionale, municipale, delle prefetture) in merito all’allocazione delle risorse e alla distribuzione delle responsabilità (Cros 1998). Comunque, soprattutto l’iniziativa delle Chartes d’Objectifs offre un supporto finanziario di cui si ha molto bisogno e che, come dimostrato dal caso di Midi-Pyrenees, facilita l’orientamento del livello locale verso quello Europeo. L’esempio del caso-studio della Grecia differisce significativamente nell’ambito dei SCIENTIFIC CENTRES. Dafni non è stata coinvolta negli aspetti finanziari ed amministrativi della rete. La Regione di Attiki è intervenuta per garantire i requi- 82 Ioannis Chorianopoulos I programmi RECITE dell’U.E. siti di finanziamento locale, mentre i contributi finanziari dell’U.E. a Dafni sono stati dati direttamente alla Regione. Gli obblighi amministrativi locali nell’ambito della rete sono stati sub-appaltati dalla municipalità ad una compagnia privata finanziata dalla Regione. Come rilevano le interviste effettuate localmente, due sono state le principali ragioni del limitato coinvolgimento di Dafni negli aspetti più pratici delle attività della rete: a) le restrizioni applicate ai progetti dalla Regione. Come è stato evidenziato, “…per compensare alla pre-definizione dell’agenda politica, la Regione ha assunto responsabilità in materia di amministrazione e finanziamento” (Psaros, 1997); b) la “inabilità dell’amministrazione municipale ad ottemperare ai requisiti finanziari e organizzativi dei progetti”, una limitazione che ha ridotto sensibilmente le opportunità che la rete offriva per lo sviluppo locale (Psaros, 1997). Un esempio caratteristico di questa realtà riguarda le spese extra indicate dall’Università di Atene per l’organizzazione di una conferenza “telematica” nel quadro delle attività della rete. Per coprire i costi in mancanza di sostegno da parte della municipalità, l’Università è stata costretta a eliminare qualsiasi pubblicazione di atti, privando la rete stessa di un elemento importante per la diffusione del “know-how” generato (CEC 1995-c). C) La distribuzione del potere esecutivo a livello locale. Indagando in merito alla rilevanza della varietà di strutture esecutive ai fini dell’efficacia con la quale i casi studio hanno partecipato alla rete, sono stati individuati due raggruppamenti (schematici) di autorità locali. Nel primo raggruppamento - che comprende Warrington, Cork, Midi-Pyrenees e Valencia - è stata rilevata una particolare correlazione tra l’alto grado di autonomia e l’efficienza della macchina amministrativa locale e la promozione libera di obiettivi locali per mezzo del programma. I relativi ‘autonomia e professionismo’ delle strutture locali amministrative (vedi Page 1991; Goldsmith 1995), ad esempio, sono emersi dalle interviste effettuate a Cork e a Warrington come fattore centrale soggiacente la partecipazione di successo a EUROSYNET. L’enfasi è stata posta sul percorso (finanziario e amministrativo) semplificato dei progetti nel momento in cui l’accettazione dalla parte politica era garantita (Pizer, 1997) e non vi era interferenza da parte dei politici locali durante la fase d’implementazione (Costello 1997). Nel secondo raggruppamento, la predominanza della dimensione politica nelle strutture esecutive di Bayes e Bergueda e di Dafni, ha fatto sorgere una serie di problemi nel percorso dei progetti, influenzandone anche gli esiti. I rappresentanti di Bayes e Bergueda al Consiglio di Amministrazione di EUROSYNET, per esempio, non erano dirigenti locali ma i sindaci delle rispettive autorità locali. Quando il sindaco di Bergueda ha perduto le elezioni del ‘96, questo ha avuto una ricaduta sulla continuità dell’impegno politico locale ad adottare quelle politiche. Inoltre, ha posto dei problemi di efficienza del processo decisionale a livello delle commissioni facenti parte della rete. La capacità dei rappresentanti Catalani di procedere all’implementazione di politiche di lungo-termine è stata messa in discussione da parte degli altri partecipanti della rete e attribuita alla contingenza particolare della loro condizione politica (Farguell 1998). Similarmente, a Dafini il mutamento accaduto a livello della leadership politica della municipalità, conseguentemente alle elezioni locali del ‘94, ha cambiato 83 n.4 / 2002 l’impegno politico che garantiva la partecipazione a SCIENTIFIC CENTRES. Dafni si è ritirata dal programma alla fine del periodo a questo relativo, mentre gli altri partecipanti hanno proseguito con le loro attività di cooperazione, confluendo in un progetto co-finanziato della DG III. Inoltre, l’unità tecnica che era stata costituita a Dafni per seguire le reti “telematiche”, è stata sciolta poco dopo che le nuove autorità politiche si sono insediate e il personale appositamente formato è stato dimissionato (Psaros, 1997). D) L’interazione a livello delle istituzioni locali. La rilevanza di strutture di governance diffuse che regolano il livello di prestazione delle località prescelte come studi di caso nelle reti è stata documentata dal lavoro sul campo. Gli obiettivi locali venivano promossi con maggiore efficacia in relazione al coinvolgimento del settore privato nel programma. La partecipazione di Warrington ad EUROSYNET, ad esempio, è stata determinata dalla costruttiva collaborazione tra l’autorità locale e l’associazione locale della Piccola Media Impresa. La pianificazione ed organizzazione delle attività di rete è stata predisposta dal Consiglio in collaborazione con le Piccole Medie Imprese coinvolte. Inoltre, la gran parte delle responsabilità finanziarie nella rete - in particolare quelle inerenti la partecipazione della Piccola Media Impresa alle fiere ed esposizioni commerciali - è stata inizialmente assunta dalla comunità degli affari, mentre il Consiglio reclamava successivamente il rimborso delle spese dalla Commissione (Hoyle 1998). A Valencia, la collaborazione tra le autorità regionali e i centri di ricerca ha giocato un ruolo fondamentale nella formazione della agenda politica locale per SCIENTIFIC CENTRES. Gli obiettivi sono stati decisi prima dell’applicazione, attraverso una serie di incontri tra le autorità regionali e gli istituti di ricerca. Questo ha dotato entrambe le parti di una ben definita comprensione della divisione delle responsabilità che andavano assunte e degli obiettivi da portare avanti (Castellet Marti 1998). Per di più, l’inclusione nel programma di Piccole e Medie Imprese di Valencia è stata organizzata sulla base dei preesistenti legami istituzionali. L’economia di Valencia si poggia consistentemente sulle attività di esportazione del sistema di Piccola Media Impresa, organizzato localmente in settori. La connessione tra le associazioni della Piccola Media Impresa e le autorità regionali è fornita dall’Agenzia di Supporto all’Esportazione (IVEX) di Valencia, una corporazione del settore pubblico controllata dalla Regione e preposta allo sviluppo degli affari. Tale infrastruttura istituzionale facilita la ricognizione delle compagnie interessate alle applicazioni della telematica e conseguentemente il loro coinvolgimento nel progetto (PerezAntoli 1998). Nel caso di Midi-Pyrenees, la costruzione come obiettivo e l’annessione del sistema della Piccola Media Impresa a SCIENTIFIC CENTRES è stata semplificata dalle strutture istituzionali regionali. Le ventidue Commissioni Economiche e Sociali Regionali istituite dal governo Francese (1972) hanno costituito un tentativo di mettere insieme gli interessi dei settori pubblico e privato relativamente agli obiettivi di pianificazione economica che erano stati devoluti (Sallez 1998). La costituzione di un livello politico regionale in Francia (1982) ha accresciuto il ruolo delle Commissioni in qualità di forum locali incentrati sulla politica economica. A Midi-Pyrenees, ad esempio, gli obiettivi di sviluppo economico - la già menzionata charte d’objectif - sono definiti dentro il processo di negoziazione delle Commissioni. In tale contesto, un accordo è 84 Ioannis Chorianopoulos I programmi RECITE dell’U.E. stato assunto tra le autorità Regionali e CERFACS (1991) perché quest’ultimo dia supporto tecnico alle Piccole Medie Imprese interessate alle applicazioni all’industria della telematica. Sulla base di quest’accordo, le autorità Regionali hanno proceduto alla domanda di partecipazione alla rete Europea e hanno contrattato fondi extra per il progetto con il governo Francese. CERFACS a sua volta, ha contrattato sotto il profilo tecnico l’agenda della rete con altri partecipanti e ha fatto parte dei progetti la Piccola Media Impresa con cui stava già cooperando (Cros 1998). A Cork la piattaforma per la rappresentanza del sistema locale di Piccola Media Impresa in EUROSYNET è stata un’organizzazione nazionale, l’ITB. La struttura decentralizzata dell’ITB, che ha uffici nella maggior parte dei centri Regionali dell’Irlanda, ha consentito la promozione degli interessi imprenditoriali locali nella rete. Il Consiglio della Contea di Cork, comunque, non ha collaborato direttamente con la Piccola Media Impresa locale ad EUROSYNET (Costello 1998). Bayes, Bergueda e Dafni offrono esempi simili a Cork, di modesta interazione di tipo istituzionale a livello locale. In entrambi i casi, le strutture dell’autorità locale devono formalmente promuovere il coinvolgimento del settore privato nel processo di elaborazione delle politiche. Ancora, la collaborazione tra le autorità locali ed i gruppi del settore privato è minima. Come il Sindaco di Bayes ha significativamente detto: “non funziona ancora per nulla. La comunità degli affari partecipa in molte procedure ma il suo principale contributo è di idee. C’è poca cooperazione sul piano finanziario e questa è limitata alle banche, e in misura ancora minore alla Camera del Commercio” (Farguell 1998). La presenza di strutture di governance diffuse che facilitano l’articolazione e la promozione di priorità di sviluppo endogeno attraverso le reti è connessa al grado di centralizzazione del sistema di governo nazionale. In generale, le realtà amministrative centralizzate mostrano bassi livelli di interazione tra autorità locali e gruppi d’interesse. La rappresentazione di interessi dei settori privato e del volontariato, in questi casi, si esprime con maggiore successo a livello nazionale (Chorianopoulos 2002). Ad ogni modo, occorre fare una distinzione tra il livello locale nel Sud Europa e l’Irlanda, e gli esempi di strutture amministrative centralizzate del Regno Unito. Nel caso dell’Irlanda, la predominanza di industrie di piccola scala a partire dagli anni ‘50 e l’assenza di agglomerati urbani di notevoli dimensione ha inibito lo sviluppo di pratiche regolative a livello locale. Un numero di tentativi da parte dello Stato di includere i sindacati e i gruppi d’interesse in corpi consensuali7 , comunque, punta al progresso dei processi di contrattazione industriale e di politiche corporative a livello nazionale (Ross 1988). L’efficienza con cui un’organizzazione nazionale, l’ITB, ha promosso gli interessi della comunità imprenditoriale di Cork nell’ambito di EUROSYNET ne è proprio un esempio. Anche il caso del Regno Unito costituisce un esempio di forti interventi a livello centrale sull’organizzazione locale delle politiche spaziali dell’Unione Europea. In assenza di un livello regionale di amministrazione, la creazione da parte del governo Britannico degli Uffici di Governo a livello regionale (GOR-1994) ha aspirato a dare coerenza nella politica locale alla distribuzione tra differenti Dipartimenti di Governo (Ambiente, Occupazione, Trasporto, Commercio ed Industria) e a organizzare l’assistenza regionale a livello locale e a negoziare con la Commissione dell’U.E. L’orientamento politico nei confronti dei Fondi Strutturali nel Regno Unito, comunque, è stata fortemente 7 Questi includono la Commissione Nazionale per la Produzione (1959), la Commissione dell’Organizzazione Industriale (1961), il Consiglio Nazionale dell’Industria e dell’Economia (1961) e la Conferenza Nazionale sull’Occupazione e sul Lavoro, centrale ai processi di contrattazione industriale (1962) (Ross 1988). 85 n.4 / 2002 influenzata dalle priorità nazionali di sviluppo regionale, come definite dai Dipartimenti governativi rappresentati nei GORs (Lloyd and Meegan 1996). Ne sono emerse, in forme di partenariato per interventi di rigenerazione, contestate a livello locale, restrizioni di tipo tecnico effettuate dai Gors sulle fonti di finanziamento e le quote di contributo del settore privato ai Documenti Unici di Programmazione (Boland 1999). Recenti sviluppi istituzionali in Inghilterra, in particolare il trasferimento di responsabilità per i Fondi Strutturali alle Agenzie di Sviluppo Regionale (1999), più affidabili e orientate agli affari, possono tuttavia alterare il quadro (Harding, Wilks-Heeg and Hutchins 1999). Nel frattempo, comunque, le reti Europee hanno rappresentato un approccio alternativo alle forme di partenariato locale nell’ambito dei programmi dell’U.E.. Le reti Europee offrono un’opportunità per le autorità locali di lavorare con il settore locale privato ai progetti dell’U.E. che saltano i controlli del governo centrale. Come si è visto nel caso di Warrington, le iniziative di rete dell’U.E. spesso hanno origine (e sono finanziate) dal settore locale privato e sono solo successivamente organizzate dalle autorità locali. Un prerequisito per una risposta simile è un grado di autonomia locale finanziaria e di interazione istituzionale che consenta l’articolazione e la promozione degli interessi imprenditoriali locali a livello dell’U.E.. Questa particolare struttura di governance, orientata alla competitività e neo-corporativa, non è stata osservata nei casi studio inerenti la Spagna e la Grecia. Unitamente alle basi finanziariamente ristrette e alla serie delle funzioni che hanno luogo a livello locale, il sottosviluppo dell’infrastruttura locale istituzionale osservata negli studi di caso del Sud Europa si connette al particolare contesto economico e socio-politico dei processi di urbanizzazione in questi paesi. Una rassegna della letteratura rilevante sui processi di governance locale in Portogallo completa il quadro del Sud Europa e fornisce ulteriore supporto a quest’argomento. Un’inchiesta che ha interessato 28 municipalità in Portogallo (su un totale di 305), riguardo la loro capacità di risposta alle reti Europeee ha messo a fuoco la limitata partecipazione dei gruppi d’interesse alla definizione delle politiche, quale principale esito nel breve periodo delle strutture di governance locali (Silva et al. 1997, 179). Un’altra questione rilevante toccata dall’inchiesta include la mancanza di adeguate risorse finanziarie, e il limitato accesso all’informazione circa le iniziative locali dell’U.E. In modo ancor più peculiare, lo studio fa un ritratto del Sindaco “come il solo responsabile per la gestione locale delle questioni Europee”, un tratto questo che è stato collegato al carattere personificato - come opposto a quello professionalizzato - delle strutture esecutive locali (Silva et al. 1997, 181-186). Santos (2000, 152), in merito alla Piccola Media Impresa e alla scarsa innovazione delle Regioni Portoghesi, attribuisce alla “base istituzionale leggera” la principale ragione di debolezza delle aree Portoghesi che presentano ritardi nello sviluppo. Il sottosviluppo della cultura della collaborazione orizzontale, la “svogliatezza” degli attori dei settori locali del pubblico e del privato ad “incrementare il loro ruolo di coordinamento”, viene visto come rafforzato dal ruolo dominante delle autorità nazionali nei programmi che promuovono innovazione a livello regionale. Il risultato è la riproduzione di legami gerarchici e l’assenza di “ogni politica per l’innovazione che sia basata su scala territoriale regionale” (Santos 2000, 153-4). La forte interazione tra le Regioni ed i gruppi del settore privato che è stata riscontrata a Valencia e in 86 Ioannis Chorianopoulos I programmi RECITE dell’U.E. Catalogna non è in contraddizione con la scoperta di una notevole differenza tra Nord e Sud Europa per gli aspetti di governance locale e la concettualizzazione inadeguata di tale divergenza in rapporto al processo di decisione politica a livello dell’U.E. Come si è detto, le Regioni in Spagna, fin dalla riforma Costituzionale ed amministrativa del ‘78, hanno goduto di un certo grado di autonomia che ha consentito la rappresentazione degli interessi del settore privato nella costruzione delle politiche a livello regionale. Le tendenze centrifughe osservate in Spagna a livello regionale, comunque, fanno pensare che, fin dalla riforma del ‘78, l’amministrazione municipale ha sviluppato relazioni (di tipo costituzionale, finanziario) dipendenti sia dal livello nazionale che da quello regionale (Morata 1993). L’orientamento Europeo dell’autorità regionale di Valencia e la sua partecipazione alle reti dell’U.E. riflette questa relazione. L’ufficio messo su a Brussels dalla Regione alla fine degli anni ‘80 rappresenta più ampi interessi locali ed è costituito in congiunzione con il governo regionale, la Camera del Commercio e la Federazione delle Casse di Risparmio (Mazey 1995; Merenciano Camara 1998). Il livello municipale di Valencia, ad ogni modo, non ha avuto un ruolo centrale in questo tentativo e non ha partecipato ad alcuna delle reti RECITE per tutti gli anni ‘90 (CEC 1996-b). Allo stesso modo, in Catalogna, le autorità regionali hanno risposto attivamente alla sfida dell’integrazione Europea. Un anno dopo l’entrata della Spagna nell’U.E., la Regione ha formato il COPCA (1987), l’organizzazione della Piccola Media Impresa che ha fornito alle autorità regionali le informazioni circa EUROSYNET. Con il COPCA la Regione ha cercato di facilitare le questioni relative all’impatto sulla Piccola Media Impresa dell’accresciuta competizione e di organizzare e promuovere gli interessi di questa a livello Europeo (Guri 2001). Inoltre, la collaborazione, iniziata dall’1989, su connessioni infrastrutturali migliori tra Catalogna e le Regioni Francesi di Midi-Pyrenees e Languedoc-Roussillon, illustra ulteriormente l’orientamento transfrontaliero delle reti delle autorità regionali (Mazey 1995). Perciò, come è stato notato altrove (Morata 1993) e anche in quest’analisi, tali tentativi di governance e di organizzazione di reti non ha origine da nè comprendono adeguatamente il livello municipale. Ciò non è a dire che gli interessi imprenditoriali della Catalogna o di Valencia non siano adeguatamente rappresentati a livello Europeo attraverso le autorità regionali. Comunque, contrariamente al principio di sussidiarietà, come i casi-studio della Spagna suggeriscono, le strutture governative centralizzate a livello regionale costituiscono un freno alle opportunità di sviluppo che i programmi dell’U.E. offrono al livello municipale. La relazione di dipendenza dal livello regionale vista nel caso-studio della Grecia offre ulteriori argomenti a questa tesi. Conclusioni Il lancio di iniziative di messa in rete di autorità locali da parte dell’U.E. sembra riorientare le politiche di sviluppo economico locale. L’effetto di questo cambiamento è stato la creazione di nuove sinergie, tra autorità locali appartenenti a Stati diversi, che favoriscono processi di ristrutturazione industriale e facilitano la realizzazione di uno spazio economico Europeo competitivo. Il cambio di accento piazza le autorità locali all’interno di strutture strategiche di partenaria- 87 n.4 / 2002 to e rispecchia i caratteri del rinnovamento urbano verificatosi nel Nord Europa fin dagli anni ‘80, basato su accordi di tipo neo-corporativo con una leadership locale orientata verso interessi imprenditoriali. Inoltre, problemi derivanti da un’inadeguata concettualizzazione del “lavoro di rete” vengono fuori piuttosto rapidamente dagli aspetti più pratici, connessi all’implementazione dei programmi. L’impatto sfavorevole della diversità di organizzazione dei contesti locali Europei, a livello istituzionale e non, sulle reti dell’U.E. è stata riconosciuta sia da documenti dell’U.E. che da studi da questa finanziati. Tra gli aspetti specifici che sono riportati nella letteratura pertinente, emergono la disuguaglianza delle condizioni di partenza, sul piano amministrativo e finanziario, delle autorità locali che cercano di partecipare alle reti dell’U.E., con la relativa conseguenza di una diversa capacità di organizzazione di strutture diffuse di governance per l’implementazione dei progetti (Wegener and Kunzmann 1996; CEC 1996, 23; CEC 1995). Ostacoli di questo tipo alla cooperazione sono stati osservati anche negli studi di caso presentati in questo saggio. L’individuazione dei fattori che sono di impedimento alla piena efficacia delle reti dell’U.E. rappresenta un buon passo verso la comprensione della complessità della costruzione di un quadro di riferimento per una politica locale di carattere transnazionale. Ancor più, a questo punto, si rende importante fornire uno spaccato delle ragioni sottese alla diversa capacità dimostrata, da parte delle autorità locali, di azioni cooperative. Le autorità locali dei paesi del Sud Europa mostrano un notevole ritardo nel dotarsi di quei requisiti finanziari e amministrativi che sono necessari per partecipare a questi programmi e trarre da essi beneficio. Inoltre, mostrano di avere infrastrutture politiche e sociali differenti da quelle supposte dai programi dell’U.E. e presentano dei limiti significativi nell’approntare forme di governance aperte verso il mondo imprenditoriale. Il coinvolgimento di autorità locali in una rete è un processo dinamico e di apprendimento; in quanto tale, è stato ritenuto come un modello di intervento sul territorio da parte dell’U.E. più adeguato che il trasferimento ad hoc di risorse per progetti (Hadjimichalis 1994). Come ampiamente riportato nella letteratura rilevante del settore, comunque, e come si è cercato di dimostrare con i casi-studio riportati in questo saggio, il contributo più positivo delle reti dell’U.E. ai paesi del Sud Europa è una sorta di “stimolo” per le riforme istituzionali, mentre non si tratta tanto di un’opportunità per le città di avere un ruolo nella ridefinizione dello spazio economico Europeo (Opello JR 1993; Syrett 1995; Silva et al. 1997). La rilevanza di quest’argomento ai fini delle strategie di coesione dell’U.E. è di particolare importanza, data anche la prossimità con l’aumentato fuoco verso il locale delle politiche relative alla programmazione 20002006. Un altro aspetto importante per la discussione è la connessione che vi è con le politiche che devono servire ad accompagnare l’allargamento dell’U.E. ai paesi dell’Est, le cui caratteristiche di urbanizzazione e di contesto socio-economico, a livello delle realtà locali, costituiranno una nuova sfida alla politica spaziale dell’U.E. L’efficacia dell’intervento a scala locale dell’U.E. dipende dall’assimilamento nel quadro di riferimento politico delle eterogeneità fondamentali delle forme di governance locale esistenti in Europa. La dimensione delle differenze tra Sud e Nord Europa relativamente alle forme di governance locali, per come risulta in questo saggio, può suggerire possibili strade per approcciare e analizzare tale eterogeneità. 88 Ioannis Chorianopoulos I programmi RECITE dell’U.E. Cities1 gaining population (% of total) Figura 1: Differenze di urbanizzazione nel Nord e Sud Europa 100 80 Northern Europe 60 40 Southern Europe 20 0 1951- 1961- 1971- 1975- 198161 71 75 81 91 Fonte: (Cheshire, 1995: 1051). Note : 1) I dati includono tutte le regioni urbane Metropolitane con più di 300.000 ab. 2) Nord Europa: Germania Ovest, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Danimarca e Regno Unito. 3) Sud Europa: Spagna, Grecia, Portogallo, Italia Meridionale e Irlanda. Figura 2: Spesa del governo comunale in percentuale del GD 30 25 20 15 GDP 10 Greece Portugal Spain IRL Belgium France Italy Germany Luxemb. UK Austria Netherl. Finland Denmark 0 Sweden 5 Fonte: (Council of Europe, 1997 89 n.4 / 2002 Figura 3: la rete di EUROSYNET Temi: commercio transfrontaliero per Piccola e media Impresa; Turismo urbano; proteste per inquinamento del suolo Organizzazione della rete: I partner sono stati messi insieme da un’agenzia di consulenza di Warrington, che ha organizzato e inviato la proposta all’Ufficio di RECITE Warrington Borough Council (UK) SMEs Cork County Council (IRL) Bayes and Bergueda (E) Project Leader: (responsabile della ricezione e collocazione dei fondi dell’U.E.) (due autorità locali Catalane coinvolte come un solo partecipante) SMEs SMEs Figure 4: SCIENTIFIC CENTRES NETWORK Temi: Cooperazione tra Autorità locali e Università con lo scopo di individuare le Piccole Medie Imprese (SMEs) interessate in applicazioni industriali di reti di High Performance Computing (telematica) Organizzazione della rete: Una prima cooperazione di successo tra Midi-Pyrenees e l’autorità regionale di Valencia (Generalitat) ha condotto alla sottomissione di questo progetto RECITE EU RECITE Office Valencia Generalitat (E) Midi-Pyrenees (FR) Project Leader Research Institutes University Jaume 1; Univ. Of Valencia; Univ; of Alicante Research Institute: CERFACS SMEs SMEs 90 . City of Dafni (GR) Research Institutes National Technical University of Athens; SMEs Ioannis Chorianopoulos I programmi RECITE dell’U.E. Riferimenti bibliografici Amin A. and Thrift, N. (1994) Living in the global, in A. Amin and N. 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Il caso delle politiche urbane è certamente anomalo rispetto al complesso delle politiche promosse dall’Unione Europea, in quanto rappresenta chiaramente uno spazio d’azione che l’attore sovranazionale si è creato, seppure in via sperimentale, forzando in una certa misura il ruolo ad esso ‘richiesto’ dai livelli amministrativi sottostanti. A fronte di altri settori, si pensi ad esempio alla politica monetaria o a quella agricola, quello delle politiche urbane può essere considerato marginale, sia per le risorse messe in gioco sia per la diffusione degli effetti percepiti. Tuttavia, l’impostazione europea delle politiche in questo settore sembra fornire un impulso non indifferente ad un processo già in atto di innovazione, o quantomeno di ridefinizione, di approcci e ruoli nel policy making nazionale. L’influenza dell’Europa in questo campo può quindi essere intesa più per gli aspetti ‘culturali’, che non per quelli ‘sostantivi’, ma il successo riconosciuto da parte degli attori nazionali e subnazionali alle prime esperienze – condotte secondo i principi di quello che via via ha preso la forma di un vero e proprio ‘modello’ – indica anche l’opportunità di rilevare come elementi qualificanti dell’europeizzazione la trasmissione e l’acquisizione di metodi analitici e valutativi, modi operativi e stili organizzativi. Il campo delle politiche urbane tende quindi a dimostrare non tanto la pervasività dell’europeizzazione, estesa del resto ben oltre la produzione di politiche pubbliche, quanto piuttosto la funzione dell’europeizzazione nel promuovere processi transnazionali di apprendimento tra policy makers. Oltre ai meccanismi attraverso i quali le strutture comunitarie effettivamente innescano o, più spesso, catalizzano e legittimano tali processi, l’articolo si interessa anche delle possibilità che l’apprendimento (inter)organizzativo assuma la forma di un circolo virtuoso in grado di coinvolgere tutti i livelli amministrativi, riproducendo così le stesse risorse cognitive su cui è basato. Il ‘ritorno’ nominato nel titolo è infatti da intendersi per le potenzialità dell’europeizzazione nella costruzione di un dialogo permanente tra 95 n.4 / 2002 1 Il presente lavoro costituisce uno dei prodotti della ricerca "Europa delle città" o "Europa delle regioni"? Trasformazioni istituzionali e politiche territoriali, finanziata allo scrivente, in qualità di assegnista di ricerca, dal Dipartimento di Pianificazione dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (Dp-Iuav). Delle tre iniziative comunitarie Urban, Leader e Interreg considerate come campo di analisi empirica della ricerca è qui trattata soltanto la prima. Colgo l’occasione per ringraziare il Dottorato in Pianificazione Territoriale e Politiche Pubbliche del Territorio (Dp-Iuav) e, in particolare il responsabile prof. P. L. Crosta, per avermi dato la possibilità di discutere una prima versione di questo testo in un seminario ad esso dedicato. 96 diverse competenze e tra diversi livelli impegnati nella produzione di politiche urbane. Per ora, come vedremo, il dialogo risulta del tutto occasionale, soprattutto per l’inadeguatezza delle strutture organizzative di livello locale, laddove alcune caratteristiche delle forme organizzative tipiche del livello comunitario e, in particolare della Commissione Europea, lasciano invece intravedere delle disponibilità in questo senso, ancorché riposte in una strategia mirata al progressivo incremento della propria legittimazione istituzionale. L’efficacia propositiva e comunicativa delle strutture comunitarie è inoltre migliorata da un interesse esplicito per la creazione e lo sviluppo di relazioni entro un’ampia rete di soggetti e, in particolare, con la componente ‘esperta’, il contributo della quale risulta evidente soprattutto nei contenuti immessi in fase di formulazione delle politiche. E proprio nel fertile rapporto instaurato con le comunità epistemiche sembra si possa individuare sia il valore culturale aggiunto dall’Unione Europea nella costruzione delle politiche pubbliche, sia la principale sfida per chi nel mondo della ricerca si interessa di analisi, valutazione, o progettazione di politiche pubbliche. L’indagine sulle iniziative comunitarie, infatti, non può non svelare l’avvenuta assimilazione di linguaggi e contributi prescrittivi tipici degli studi di policy e dell’implementation research relativamente ai temi dell’efficienza e dell’efficacia delle politiche stesse. Nel modo in cui le politiche europee sono formulate ed attuate – ma si potrebbe anche aggiungere monitorate e valutate – si ha pertanto la sensazione che siano superate o che, quantomeno, debbano risultare manifeste, alcune carenze degli assetti burocratici e amministrativi tradizionali, soprattutto per quanto concerne la capacità di riconoscere, attivare ed impiegare con le politiche pubbliche le risorse diffuse tra individui ed organizzazioni sociali. Nell’ipotesi che le iniziative comunitarie costituiscano il motore di avviamento del circolo virtuoso di apprendimento sopra accennato è probabile che le capacità messe in gioco dall’attore sovranazionale si riverberino sugli altri livelli territoriali di governo, nonché su tutte le forme di coordinamento sociale comprese dalle varie accezioni del concetto di governance. Affinché i contributi esperti compresi sotto l’etichetta della policy analysis possano esprimere il proprio valore interpretativo, è allora necessario che essi riguadagnino un distanziamento critico rispetto al ‘farsi delle politiche’, dotandosi di un impianto concettuale che risulti adeguato sia per l’attinenza con i fenomeni posti all’osservazione, sia per la capacità di avanzare ipotesi su possibili future configurazioni di arene e reti1. L’europeizzazione di policies, politics e polity (cosa ‘fa’ l’Europa?) Partiamo da alcune definizioni fornite recentemente dalle scienze politiche che ci permettono di avvicinare e circoscrivere gli aspetti del policy making considerati in questo scritto. L’europeizzazione può essere vista come "un processo incrementale che ri-orienta e dà forma alla politica al punto che le dinamiche politiche ed economiche della comunità europea divengono parte della logica organizzativa della politica e del policy-making nazionale", dove per logica organizzativa si intenda "il processo adattivo delle organizzazioni verso un ambiente mutato o mutevole" [Ladrech, cit. in Radaelli 2000, 3, e in Börzel e Risse 2000, 2]. In questa definizione, adattamento, apprendimento e mutamento delle politiche, Andrea Mariotto Dall’Europa alle città e ritorno. sono considerate attività che investono tipicamente i soggetti collettivi partecipi ad un processo di policy making. Se vogliamo cogliere il ruolo degli individui, di cui le organizzazioni sono composte, quali soggetti investiti dal, e attori del, processo di europeizzazione, dovremo articolare la definizione pensando all’europeizzazione come concetto comprensivo di "processi di a) costruzione, b) diffusione e c) istituzionalizzazione di regole formali e informali, procedure, paradigmi, stili, ‘modi di fare cose’, credenze condivise, e norme che sono dapprima definite e consolidate nel decision making comunitario e quindi incorporate nella logica dei linguaggi locali (domestic discourse), nei processi identitari, nelle strutture politiche e nelle politiche pubbliche" [Radaelli 2000]. Che si guardi a ‘ciò che l’Europa fa’ prendendo a riferimento le sole organizzazioni ovvero anche gli individui, permane comunque il senso di una certa ‘superiorità’ delle strutture comunitarie nel costituirsi come soggetti iniziatori di processi di apprendimento – via emulazione, in prima approssimazione – dei livelli decisionali inferiori. È questo un tema sul quale si tornerà in seguito descrivendo alcune qualità, attribuibili al soggetto sovranazionale, che sembrano costituire un modello e pervadere le logiche organizzative dei livelli decisionali inferiori. Nei primi paragrafi si tenterà invece di avanzare qualche ipotesi interrogandoci su ‘come’ e, soprattutto, ‘perché’ i livelli nazionali e subnazionali si trovano ad incorporare nelle proprie attività ciò che caratterizza il decision making dell’Unione Europea. Prenderemo dunque in considerazione a) i tentativi della scienza politica di isolare o relativizzare il peso esercitato dal policy making europeo, rispetto alle tendenze più generali riconoscibili all’interno dei diversi Stati sotto forma di decentramento e innovazione dei modelli amministrativi e dei rapporti interorganizzativi; e b) i modelli d’interazione (‘mechanisms of europeanization’), cui possiamo affidare il compito di diffondere princìpi e logiche entro un panorama internazionale determinando mutuo apprendimento ed esiti convergenti2 nella costruzione processuale (e, quindi, mai del tutto intenzionale) di politics, policies, e polity ai livelli nazionale e subnazionale. L’esplorazione del tema “europeizzazione e governance” verterà essenzialmente su tre approcci che mettono in evidenza diversi aspetti del processo di europeizzazione: quello intergovernativo liberale, quello della governance multilivello e quello dei policy networks. Successivamente, nei paragrafi su “europeizzazione e apprendimento organizzativo” ci concentreremo sui contributi dell’istituzionalismo sociologico e della psico-sociologia delle organizzazioni alla comprensione dei processi di apprendimento collettivo, riflettendo infine su alcune ‘qualità’ delle istituzioni europee, quali fattori di efficacia nella strutturazione dei rapporti intra e inter-organizzativi. Europeizzazione e governance Un primo elemento di pervasività dell’Europa nelle politiche è rappresentato dal fatto che, in alcuni settori di politiche, l’agricoltura in primis, più dell’80% delle decisioni rilevanti sono compiute a livello comunitario [Börzel e Risse 2000, 3]. L’implementazione di tali politiche comporta, ovviamente, mutamenti sostanziali negli stili, negli approcci, negli strumenti di policy tradizionalmente utilizzati nei diversi contesti territoriali, oltre che nelle varie strutture organizzative (pubbliche 2 Va precisato che gli esiti convergenti sono riconoscibili più sul piano dell’institution building e, più in generale, su quello dei mutamenti dei rapporti inter-organizzativi, che non sul piano dei conseguenti policy outcomes. Su quest’ultimo piano infatti, l’europeizzazione può anche produrre divergenze (vedi ad esempio le resistenze a direttive europee di settore quali quelle emanate nel campo dei trasporti); non costituisce necessariamente ‘armonizzazione’ ma, ad esempio, può produrre maggiore competizione; né è assimilabile al concetto di integrazione, riferito ad un processo di trasferimento della sovranità in determinati settori, dagli Stati alle istituzioni sovranazionali, senza il quale l’europeizzazione (ciò che accade una volta ammesse le istituzioni europee) non avrebbe modo di esplicarsi. Per una disamina più approfondita del concetto di europeizzazione, anche giocata in termini di sottrazione rispetto ad altri concetti, si veda Radaelli (2000). 97 n.4 / 2002 amministrazioni, stakeholders, reti di soggetti più o meno formali, ecc.). Mutano di conseguenza anche le istituzioni nel senso più ampio del termine, le strutture e i processi di formazione, aggregazione, rappresentazione degli interessi, i modelli di intermediazione degli interessi, le relazioni intergovernative, ecc. "Che il focus sia posto su policies, politics o polity la generale locuzione per cui l’europeizzazione influenza gli Stati membri non è controversa. […] si assiste inoltre all’emergenza di un consenso emergente sul fatto che l’impatto dell’europeizzazione sia da assumersi come differenziale" [Börzel e Risse 2000] in ragione delle risposte fornite sia dai singoli stati che dai diversi settori di politiche. C’è quindi ampia convergenza sull’ipotesi che l’europeizzazione conti, nel processo di strutturazione dei rapporti di governance già in atto in diversi paesi e in diversi settori di policy, nella misura in cui il processo stesso diviene più visibile e, al contempo, più complesso. Su questa linea va comunque precisata una differenza di prospettiva, a seconda che si attribuisca più o meno valore alle modalità in cui l’Unione Europea ha preso e sta prendendo forma, e a seconda che si faccia o meno discendere dal processo di formazione dell’Unione Europea una nuova distribuzione di ruoli, competenze, poteri tra soggetti non solo governativi. Si tratta, in altre parole, di discernere (e non di scegliere, in quanto come vedremo, trattasi di processi e percorsi analitici complementari) tra un interesse per la strutturazione formale dei rapporti tra attori pubblici nel corso di processi di policy making (teoria intergovernativa), ed un interesse per un fenomeno più comprensivo di governo dei processi di trasformazione sociale non strettamente correlati a manifestazioni di autorità, gerarchia, e sanzioni da parte di attori governativi (governance multilivello e policy network). Ambedue i percorsi, come vedremo, assumono rilevanza nei modi in cui si innescano i meccanismi di europeizzazione delle politiche, ma il passaggio da uno all’altro segna anche una sorta di successione evolutiva delle strutture organizzative verso forme e relazioni via via più efficaci rispetto all’avanzamento delle politiche pubbliche. Relazioni inter-governative La posizione incentrata sull’essenza intergovernativa dell’integrazione europea è espressa negli studi compresi dalle etichette di neofunzionalismo e di teoria inter-governativa liberale. Questi studi non dicono un granché sulla dinamica delle politiche pubbliche [Radaelli 1998] e, ponendo al centro dell’attenzione il livello decisionale nazionale, per di più in forma di sistema razional-sinottico, offrono al meglio un’immagine parziale di come opera l’Unione Europea. Essi tuttavia sono da considerare in quanto mettono in luce una componente rilevante dell’europeizzazione: il fatto che gli stati nazionali siano tra i fautori della governance europea, in quanto protagonisti dell’entrata in scena dell’attore sovranazionale, e del conseguente sistema multilivello che si è venuto a creare. Moravcsik, principale esponente della corrente inter-governativa liberale, osserva che l’integrazione europea ha rafforzato il livello nazionale, in quanto "i governi nazionali sono in grado, con relativamente pochi vincoli, di intraprendere iniziative e stipulare accordi nelle negoziazioni a livello di Consiglio Europeo. L’Unione Europea fornisce ai governi informazione che non è solitamente disponibile […] I leader nazionali indeboliscono le potenziali opposizioni, prima stipulando accordi a Bruxelles, e poi mettendo i gruppi interni di fronte a scelte ormai compiute. 98 Andrea Mariotto Dall’Europa alle città e ritorno. […] Un maggiore potere di definizione dell’agenda interna nelle mani dei leader politici nazionali aumenta la capacità dei governi di stipulare accordi, rafforzando così anche la loro capacità di ottenere la ratifica interna di compromessi raggiunti e di tattiche connessioni tra questioni" [cit. in Jordan 2001]. In accordo con quanto citato, si può dire, che la presenza di una leadership statale – governativa o, piuttosto, personalistica – in grado di guidare le decisioni di maggior peso e di influenzare il trattamento di questioni politiche, sembra in effetti valere se guardiamo all’europeizzazione come processo innescato e determinato in una certa misura da grandi scelte di politica internazionale. Nell’economia di questo lavoro, il valore della teoria sopra citata è da limitarsi al progressivo aumento della consistenza istituzionale dell’Europa, nel momento in cui è assunta come contesto negoziale ‘alto’ ed esclusivo, e perciò di per sé legittimante, ovvero con dichiarato scetticismo è ricondotta entro le dinamiche più tradizionali delle forme democratiche e partitiche di rappresentanza. Manterremo pertanto l’idea che la dimensione intergovernativa conti, almeno nel discorso politico, ma ci sposteremo gradualmente verso approcci più aperti e comprensivi, passando per alcune definizioni di governance che includono anche un interesse per i tradizionali rapporti di government. Governance multi-livello Nel campo delle politiche, la leadership governativa se può essere riconosciuta (e fatta valere) come capacità di gate-keeping, si associa necessariamente alla partecipazione di più attori – la cui importanza per l’avanzamento delle politiche supera spesso quella della parte governativa – ed alla (conseguente) produzione di esiti inintenzionali. Il punto cruciale dal punto di vista della strutturazione dei rapporti tra le organizzazioni coinvolte nelle politiche europee è nella produzione di meccanismi di governo che non si appoggiano sul ricorso all’autorità e alle sanzioni governative. Al fine di comprendere come l’europeizzazione influisce nella produzione delle politiche pubbliche si rende perciò necessaria l’apertura del campo d’analisi offerta dal concetto di governance, come "fenomeno più comprensivo di quanto rappresentato dal concetto di government. In quanto racchiude in sé le istituzioni governative, ma assume anche i meccanismi informali e non-governativi a mezzo dei quali persone ed organizzazioni soddisfano i propri bisogni ed appagano i propri desideri" [Rosenau, cit. in Jordan 2001]. La prospettiva di governance comporta la comprensione di come si articolano differenti tipi di regolazione in un territorio, sia in termini di integrazione politica e sociale, sia in termini di capacità d’azione3. Proprio in considerazione del mix tra relazioni governative e non, riconoscibile nel campo europeo delle politiche, Hooghe e Marks [2001] propongono di individuare nella governance europea una forma di multi level governance. Il limite di questa teoria sta nel mantenere viva una separazione tra organi statuali e organizzazioni sociali, mentre il suo valore sta proprio nell’indicare la necessità di vestire occhiali adeguati per cogliere dinamiche ed interazioni tra diversi livelli e diverse sfere. Il quadro complessivo è inoltre caratterizzato dalla presenza di attori non governativi e dall’assenza di un sistema gerarchico nella strutturazione dei rapporti tra gli stessi. Il campo europeo permette di cogliere l’intersezione tra due modelli di governance multilivello sviluppati dalla teoria politilogica e in particolare dagli studi 3 La governance come approccio analitico è così definita da Jessop: "il campo degli studi sulla governance si potrebbe generalmente definire come interessato alla soluzione di problemi para-politici (nel senso di problemi di costruzione collettiva di obiettivi o di realizzazione di intenti collettivi) in e tra specifiche configurazioni di istituzioni, organizzazioni e pratiche governative (gerarchiche) e extragovernative (non gerarchiche)" [cit. in Le Gales 1998 243]. 99 n.4 / 2002 4 Il punto di partenza per l’approccio della governance multilivello è l’esistenza di sovrapposizioni tra competenze di molti livelli di governo e l’interazione tra attori appartenenti ad ognuno di questi livelli. La governance multi-livello assicura più efficienza del, ed è normativamente superiore al, controllo monopolizzato da un centro, in quanto è in grado di internalizzare le esternalità, prodotte dalle politiche pubbliche a più livelli, da quello globale a quello locale. Altri benefici sono nella capacità di meglio riflettere l’eterogeneità delle preferenze tra i cittadini, nella maggiore credibilità degli impegni politici assunti, nella messa in competizione di diverse giurisdizioni, e nella facilitazione di processi innovativi e sperimentali [Hooghe e Marks 2001]. 5 Va comunque precisato che, a differenza di altri approcci della stessa famiglia (teoria intergovernativa liberale e neofunzionalismo) quello di governance multi livello conclude che l’europeizzazione non favorisce un particolare gruppo ma aumenta piuttosto l’interdipendenza tra gli attori generando forme più cooperative di governance. 100 sul federalismo. Il primo di tali modelli è tipicamente interessato alla dispersione di autorità nelle relazioni istituzionali tra organi di governo centrali e decentrati; il secondo è più orientato a descrivere il complesso e fluido patchwork di attori collettivi, istituzionali e non, che si mobilitano in una data politica. Per quanto concerne il primo modello, l’influenza dell’europeizzazione è da individuarsi sostanzialmente nel riallocamento di poteri conseguente al simultaneo potenziamento delle istituzioni subnazionali e sovranazionali ed allo sviluppo di relazioni dirette tra le stesse. La dispersione dell’autorità in questo senso si manifesta nei processi di regionalizzazione, caratterizzanti in vario modo la storia politica recente di tutti i paesi europei e, in particolare, quella di Francia, Italia, Spagna e Belgio. Nel secondo tipo di governance la dispersione giurisdizionale è pressoché infinita: basti pensare ai labili confini esistenti nel rapporto tra pubblico e privato e tra nazionale e transnazionale. Anche in questo caso, tuttavia, una spinta notevole verso una riconfigurazione complessiva delle categorie classiche di appartenenza, sembra derivare dalle politiche europee.In ambedue i modelli dispersione di autorità, estemporaneità delle configurazioni, variabilità delle geometrie, rimandano alla questione dei maggiori costi di coordinamento rispetto ad assetti di governo più gerarchici. Tali costi sono tuttavia limitati nel primo caso attraverso il mantenimento di un basso numero di attori istituzionali e di quella che Scharpf chiama un’"ombra di gerarchia" tra gli stessi4. Mentre nel secondo tipo di governance il problema è bypassato attraverso la compartimentalizzazione: ogni gruppo di attori è solamente responsabile di una politica o di un settore di politiche. Il risultato di questa differenziazione è quindi composto da un numero elevato di strutture del secondo tipo differenziate funzionalmente, relativamente autocontenute verso i propri obiettivi (così da non imporre maggiori esternalità ad altre), a fianco di un numero più limitato di istituzioni multi-settoriali.La permanenza di tale bipartizione è garantita dal fatto che le strutture più policy oriented costituiscono una risposta ai costi del mutamento istituzionale che le giurisdizioni del primo tipo non possono sopportare, in quanto spesso radicate a livello costituzionale. Nel caso si proceda ad una riforma, per esempio, risulterà più semplice riallocare le competenze tra giurisdizioni esistenti piuttosto che creare nuovi centri di governo. Ad aumentare la stabilità di tali giurisdizioni è infine il significato che viene loro attribuito dai cittadini. Un significato che spesso è principio identitario e che non è attribuibile alle strutture del secondo tipo: l’identità esprime un intrinseco senso di appartenenza ad un particolare gruppo piuttosto che una preferenza verso un set di politiche. Per quanto logicamente corretto, suggestivo e ricco di spunti esplicativi anche l’approccio di governance multilivello ricade nella famiglia degli approcci basati sulla ‘dipendenza dalle risorse’, poco inclini a considerare i processi di interazione sociale che ‘si danno’ anche al di là dell’esistenza di fini predefiniti5 . Policy networks La letteratura sui policy networks costituisce un ulteriore passo verso il superamento degli approcci razional-efficientisti ai rapporti interorganizzativi: da un lato essa permette di cogliere pienamente la natura dell’interazione tra i ‘due tipi di governance’ sopra richiamati, abbracciando in modo più deciso la scomparsa Andrea Mariotto Dall’Europa alle città e ritorno. di confini tra gli stessi; dall’altro lato essa fa emergere il ruolo dell’attore individuale nei processi di strutturazione dei rapporti interorganizzativi6. "Un policy network comprende tutti gli attori coinvolti nella formulazione e realizzazione di una politica in uno specifico settore di intervento. È caratterizzato da interazioni preminentemente informali tra attori pubblici e privati con interessi distinti, ma interdipendenti, che cercano di risolvere problemi di azione collettiva ad un livello centrale non gerarchico." [Börzel 1998, 402]. L’esistenza dei policy networks è spiegata come risposta all’impossibilità del coordinamento gerarchico, laddove il campo di interazione scavalchi i confini posti tra settori, organizzazioni, o nazioni. L’auto-coordinamento orizzontale tra attori funge quindi da equivalente della gerarchia [Scharpf 1998]. Contrariamente alle gerarchie ed ai mercati, i policy network non hanno necessariamente conseguenze disfunzionali7 . Combinando l’autonomia degli attori tipica del mercato con l’abilità delle gerarchie di perseguire specifici obiettivi i policy networks sono in grado di produrre esiti collettivi nonostante gli interessi divergenti dei loro membri attraverso il negoziato volontario; e possono creare ulteriori connessioni informali tra arene decisionali intra e inter-organizzative. Tali connessioni informali basate su comunicazione e fiducia reciproca, si sovrappongono alle strutture istituzionalizzate di coordinamento e collegano differenti organizzazioni indipendentemente dalle relazioni formali esistenti tra loro. Così facendo i network permettono di superare il dilemma strutturale della contrattazione (cd. dilemma del prigioniero) in quanto essi forniscono possibilità ridondanti per l’interazione e la comunicazione che possono essere utilizzate dagli attori per la soluzione dei problemi incontrati nel corso del processo decisionale [Börzel 1997]. Come affermato da Scharpf, "si può sostenere che oggi sia gli organismi decisionali di tipo centralizzato-unitario sia quelli decentrati e frammentati sono diventati meno capaci di fronteggiare diversi e complessi interessi, e di individuare problemi e soluzioni in società che sono nello stesso tempo più differenziate e più interdipendenti che nel passato. Reti di comunicazioni e interazione meno strutturate, più flessibili e informali possono avere un ruolo da giocare nell’elaborazione di soluzioni efficaci ai problemi politici caratteristici del presente. Inoltre, è plausibile sostenere anche che con il concetto di policy network non si intenda descrivere strutture decisionali istituzionalizzate ma piuttosto modelli informali di interazione che precedono o accompagnano decisioni formali assunte dai parlamenti tramite la regola della maggioranza, o da accordi negoziati tra i governi, o attraverso altre modalità di interazione formalmente legittimate" [Scharpf 1999, 26-27]. Il fatto che tali modelli informali di interazione non agiscano direttamente nella ‘fase decisionale’ delle politiche, costituisce il vero punto di forza dei policy network in quanto non mirano ad un prodotto (pre)determinato del policy making ma piuttosto forniscono una soluzione ai problemi di azione collettiva, consentendo azioni non strategiche, fondate sulla comunicazione e sulla fiducia reciproca8. I policy networks hanno trovato varie applicazioni nello studio della governance europea, a seconda che siano utilizzati come strumenti analitici ovvero come approccio teorico. Un’applicazione del concetto come strumento analitico che appare interessante per la discussione qui proposta è quella che coglie nei policy networks la principale sfida al 6 Sotto la denominazione di policy networks sono comprese sottocategorie quali subgovernments, iron triangles, policy community, implementation structures, e advocacy coalitions. Per una disamina dettagliata delle differenze tra questi e dei relativi autori di riferimento si veda Carlsson [2000]. 7 Mentre i mercati sono incapaci di controllare la produzione di esternalità negative (problemi di fallimento del mercato), le gerarchie producono ‘perdenti’, che devono sopportare i costi di una decisione politica. 8 Comunque – fa notare Tanja Börzel – i network non costituiscono la soluzione finale ai problemi di decision making nei sistemi negoziali. A causa delle dinamiche che li caratterizzano, i network divengono molto spesso arene ‘quasi istituzionali’ con proprie strutture, conflitti, e problemi di coordinamento. Essi divengono inoltre resistenti al cambiamento e, non essendo sottoposti a controllo democratico si presentano spesso con un deficit di legittimità. Da una parte quindi mettono in campo funzioni necessarie al superamento delle inefficienze del sistema negoziale, mentre d’altra parte essi non possono sostituire pienamente le isti 101 n.4 / 2002 tuzioni formali a causa delle proprie inefficienze [Börzel 1997, 6]. ruolo di gatekeeper dei governi nazionali, ruolo sul quale la scuola interorganizzativa appoggia le ipotesi per cui il processo di integrazione europea finisca col ‘rafforzare’ lo Stato. I policy network, infatti, collegando la Commissione Europea agli attori subnazionali (regionali o locali), possono bypassare il livello nazionale, conferendo agli attori subnazionali un accesso diretto e indipendente all’arena europea di definizione delle politiche e assicurando alle istituzioni comunitarie la possibilità di costruire coalizioni contro i governi nazionali [Börzel 1997; 1998, 414]. L’applicazione dei policy network come approccio teorico allo studio dell’europeizzazione dello Stato nazionale, considera invece i margini di trasformazione del ruolo dello Stato in tale processo (e tralascia perciò lo sterile dibattito su potenziamento vs. indebolimento dello stato), a partire dall’assunto che lo stato si sta progressivamente trasformando da attore ad arena. Europeizzazione e apprendimento organizzativo 9 "Nei primi anni ’60 un libro fondamentale di Alfred D. Chandler, Strategia e struttura, codificò sulla base di una vastissima ricerca sulle imprese industriali americane quello che poi è diventato una sorta di postulato: non c’è serio cambiamento di strategia senza cambiamento della corrispondente struttura organizzativa. Almeno a partire da allora ha cominciato ad entrare nel senso comune l’idea che il cambiamento delle strutture organizzative esistenti, o la creazione di nuove strutture, sono indicatori fondamentali del grado di serietà delle strategie" [Pichierri 2001, 257]. 102 L’europeizzazione delle politiche pubbliche può assumere diverse forme, in quanto si tratta di un fenomeno che va a toccare tutti gli elementi che intervengono nei processi di policy (attori, risorse, strumenti, modelli, stili, ecc.). Qui ci interessa esplorare la letteratura che coglie ‘esiti di apprendimento’ nei mutamenti delle strutture organizzative innescati dall’esistenza di un livello comunitario di policy making9. L’ipotesi è che si possa avere un’idea dell’apprendimento organizzativo osservando i mutamenti intercorsi in un dato processo nelle caratteristiche dell’organizzazione, quali: forma, livello di istituzionalizzazione, livello di apertura, numero di membri, modalità di accesso, ma soprattutto senso condiviso attribuito all’organizzazione dai propri membri, capacità riflessiva, problem setting, riconoscimento delle, e apertura alle, necessità e potenzialità di mutamento [Mariotto 1997]. La prospettiva che appare più adatta al fine di cogliere il ‘valore aggiunto’ recato dalla presenza di un livello sovranazionale è di tipo ‘top-down’, in quanto considera le dinamiche e gli esiti del processo di istituzionalizzazione delle strutture comunitarie come variabili indipendenti rispetto ai processi di decentramento o, comunque, di mutamento delle relazioni intergovernative. In tale prospettiva possiamo riconoscere due logiche di mutamento dei contesti di policy: la logica dell’istituzionalimo razionale, che vede l’europeizzazione sostanzialmente come processo di ridistribuzione di risorse; e l’istituzionalismo sociologico che enfatizza la ‘logica dell’appropriatezza’ [March e Olsen 1992, 232]. La prima fa seguire il mutamento organizzativo ad un puro calcolo di costi e benefici, cosicché l’europeizzazione può essere assunta come un’opportunità emergente che offre risorse addizionali ad alcuni attori a danno di altri. La seconda vede l’europeizzazione come processo in cui emerge una nuova serie di regole, norme, pratiche e significati, verso la quale gli attori nazionali si sentono esposti (‘inappropriati’) o percepiscono la necessità di internalizzarla. Propenderemo per quest’ultima ipotesi, che appare più fertile per la discussione che segue in quanto postula l’esistenza di uno scarso livello di razionalità strumentale collettiva, e sembra in grado di comprendere il ruolo specifico dei membri di un’organizzazione nella strutturazione dei rapporti tra questa e l’ambiente Andrea Mariotto Dall’Europa alle città e ritorno. da essa attivato10 . Logica dell’appropriatezza Alcune interessanti evidenze di carattere generale presentate da questa prospettiva si riferiscono alla varietà di ‘direzioni di cambiamento’, come risposte all’europeizzazione osservate nei contesti nazionali e subnazionali, e, soprattutto, alla verifica di particolari ‘condizioni’ come princìpi generativi del cambiamento [Radaelli 2000]. Su quest’ultimo punto è stato osservato che le politiche formulate a livello europeo esercitano delle pressioni verso i processi e le strutture di livello locale se, e in quanto, esiste un gap (misfit) tra i relativi apparati normativi e cognitivi: quanto più basso è il livello di compatibilità tra processi ‘europei’ e processi (politiche e istituzioni) locali, tanto più alta è la pressione al cambiamento. I policy frames europei che riecheggiano idee e discorsi già in uso a livello locale difficilmente scatenano processi di apprendimento collettivo in grado di mutare interessi ed identità degli attori [Börzel e Risse 2000]. La condizione appena richiamata risulta meno banale se si pensa al fatto che, perché essa si dia, è necessario che gli attori riconoscano i limiti della propria condizione, delle proprie conoscenze e dei propri poteri. Come accade quando si ‘trae una lezione’ da esperienze compiute altrove, diviene necessario che gli attori si sentano insoddisfatti di quanto conoscono e di quanto producono attraverso le proprie azioni o le proprie routine organizzative (il potere può infatti essere definito come capacità di parlare piuttosto che di ascoltare e come capacità di impartire piuttosto che di imparare) [Deutsch, cit. in Rose 1991]. Si attua in questo modo un processo intra-organizzativo di ri-significazione del senso della propria azione11 . Policy transfer, isomorfismo istituzionale, e diffusione delle best practices Per ‘trarre delle lezioni’ da altri paesi risulta necessaria la sovrapposizione di una serie di altri fattori, così come indicato nella letteratura di politica comparata sul policy transfer, laddove questa distingue tra trasferimento volontario o coercitivo; discrimina fra differenti oggetti di trasferimento (gli obiettivi, la struttura, gli strumenti, le tecniche amministrative, le istituzioni, le idee, i concetti); considera vari gradi di trasferimento (imitazione, copia, emulazione, ibridazione, sintesi, ispirazione); cerca luoghi da cui si dipartono le lezioni (il passato, i paesi limitrofi, i paesi leader). Ma, come fa notare Claudio Radaelli, perché questo quadro concettuale possa essere esteso all’Unione Europea deve essere colmata la principale differenza esistente fra il trasferimento da governo a governo e trasferimento tra organi comunitari e organizzazioni appartenenti ai paesi membri: una differenza in termini di legittimità. "Quando un governo decide di imitare, copiare e prendere ispirazione da un altro governo, il processo di trasferimento è legittimato, almeno nelle poliarchie, da precise regole e procedure democratiche, a cominciare dalle elezioni che assegnano ai governanti il potere di decidere. Ma le istituzioni dell’Unione Europea non possiedono un simile grado di legittimità" [Radaelli 1998, 207]. Tale legittimità deve essere attribuita ad esem- 10 La dicotomia tra ambiente e organizzazione – caratteristica delle “concezioni dominanti” negli studi organizzativi – è superata da Weick con l’osservazione che l’ambiente “esiste” soltanto nella misura in cui esso viene attivato da parte dell’organizzazione e, visto che l’organizzazione è composta di unità agenti, esso deve essere attivato attraverso l’azione di qualcuna di tali unità. I processi di attivazione, secondo questo approccio, sono veri e propri processi di costruzione della realtà sulla quale l’azione individuale od organizzativa può compiersi [Weick 1979]. 11 In tale attività l’organizzazione stessa diviene un ‘sistema di costruzione di senso’ o un dispositivo che incoraggia i propri membri ad agire ed interpretare reciprocamente le proprie azioni [Weick, K. 1995: 82]. 103 n.4 / 2002 12 Citando un saggio di Offe sull’institution design, Radaelli afferma inoltre che "c’è un vantaggio politico nel sostenere che si sta copiando invece che creando: il designer, se percepito come tale, sarà inevitabilmente sospettato di tentare di imporre i suoi particolari interessi o punti di vista normativi sulla comunità più ampia, e solo quel sospetto, per quanto ingiustificato possa essere in qualche caso, può mettere in discussione il riconoscimento e il rispetto per le nuove istituzioni e prevenire così lo svolgersi delle loro funzioni socializzanti"[Radaelli 1998, 209]. 13 Una comunità epistemica è una rete di professionisti che non solo hanno una competenza riconosciuta in una politica pubblica, ma che anche vedono pubblicamente riconosciuta (per esempio tramite la consultazione sistematica) la loro pretesa a fornire conoscenza rilevante per le decisioni pubbliche. [Radaelli 1998, 210, nota]. Per una più completa ricostruzione etimologica del termine, si veda anche Brown [2000, nota n. 7]. 104 pio dai paesi membri alla Commissione Europea come riconoscimento di una capacità di leadership nello sviluppo di politiche pubbliche. Tuttavia, il riconoscimento della legittimità dell’Unione Europea e della sua capacità di trasferire politiche ai livelli inferiori non vede gli stati membri nel ruolo di soggetti passivi, né può essere fatto rientrare in un modello gerarchico-coercitivo, anche se il livello di dipendenza funzionale tra gli stati nel mercato unico dà sicuramente adito a scelte di policy in qualche modo obbligate. Per questo, sembra prevalere l’idea dell’Unione Europea come soggetto in grado di innescare e catalizzare processi di ‘isomorfismo mimetico’ o ‘mimetismo’ tra organizzazioni attive ai livelli inferiori. L’imitazione dei modelli d’azione tra organizzazioni non garantisce assolutamente l’efficienza ma è efficace nel generare legittimità [Radaelli 1998, 209], soprattutto laddove si debba far fronte all’incertezza circa gli esiti (auspicati o prodotti) delle proprie azioni. L’Unione Europea sembra quindi in grado di fare dei processi di mimetismo già in corso, il principio condiviso delle proprie politiche. Ma il mimetismo può divenire anche strategia politica di mascheramento12 . E in questo senso vanno considerati gli sforzi di disseminazione delle best practices da parte, ad esempio, della Commissione Europea, in qualità di imprenditore politico. Quanto affermato conduce ad una duplice riflessione: da un lato vanno colti alcuni effetti apportati da tali processi nella strutturazione dei rapporti tra gli attori dei livelli nazionale e subnazionale; dall’altro vanno messe più a fuoco le qualità specifiche fatte giocare dalle organizzazioni comunitarie, e in particolare dalla Commissione Europea, una volta legittimate, in termini di capacità di apprendimento e di rilancio della propria funzione. Nella diffusione di best practices e nell’innesco di processi isomorfi tra organizzazioni di diversi paesi, un ruolo rilevante è coperto dalle reti di esperti o di professionisti portatori di conoscenza. Anche per questi soggetti il ricorso alle ‘best practices osservate altrove’ costituisce una base di legittimazione, che tuttavia, impiegata nel policy making, tende a rendere simili le singole organizzazioni. Ciò che risulta importante è però il fatto che la presenza di queste reti nei processi di policy making promossi a livello comunitario è ‘richiesta’ e dotata di risorse specifiche, quale garanzia di efficacia implementativa, ma soprattutto di ‘esportabilità’ delle azioni condotte a livello locale. L’Unione Europea tende quindi, se non proprio a creare, almeno a sviluppare il ruolo esercitato nelle politiche dalle comunità epistemiche13. Queste presentano, al proprio interno, membri direttamente incaricati dalle istituzioni governative, e operano a più livelli, anche se un po’ all’oscuro, nei contatti transnazionali e transgovernativi [Rose 1991]. Lo stesso vale per la moltiplicazione delle strutture (agenzie di coordinamento, segretariati tecnici e simili) deputate a gestire l’implementazione o, più frequentemente, a coordinare le strutture organizzative attuatrici (di iniziative variamente comprese sotto l’etichetta di sviluppo locale concertato). Lo sviluppo delle comunità epistemiche e di altre popolazioni di organizzazioni di supporto alle politiche tende quindi a caratterizzare la strutturazione delle arene nelle politiche comunitarie. Esse condividono il, e sono funzionali al, medesimo percorso di diffusione di best practices e isomorfismo. Percorso che, per quanto giustificabile in termini di razionalizzazione amministrativa, riduzione degli sprechi, possibilità di monitoraggio e valutazione, comporta anche il rischio di un appiattimento notevole verso one best way organizzativa standardizzata e, in quanto tale, poco Andrea Mariotto Dall’Europa alle città e ritorno. incline ad approssimarsi alle dinamiche dello sviluppo locale [Pichierri 2001, 263]. Si può dire, a questo punto che, in un processo di riconfigurazione generale delle relazioni verticali ed orizzontali, gli strumenti di legittimazione possono essere internalizzati da tutti i livelli di governo e, più estesamente, dal policy network complessivo: anche gli attori locali più deboli, dal punto di vista della propria institutional thickness14 trovano modo di abbinare l’ottenimento di risorse materiali ad un guadagno in termini di legittimazione, producendo o, più spesso, applicando best practices, eventualmente col supporto di (qualche membro di) una comunità epistemica. Caratteristiche delle istituzioni e delle politiche comunitarie Il fatto che le istituzioni comunitarie risultino particolarmente efficaci e talvolta innovative nell’impostazione e nel trasferimento di politiche pubbliche, risponde ad una loro specificità nell’arena decisionale internazionale. Specificità che può del resto costituire il contributo prescrittivo rispetto alla capacità che le organizzazioni attive ad altri livelli dovrebbero sviluppare. Al netto di tutti i fattori costituzionali (i poteri demandati dagli stati membri attraverso i vari trattati) e dimensionali (l’ampiezza delle strutture istituzionali, l’ammontare delle risorse di cui esse godono, l’estensione delle reti in cui opera, oltre alle possibilità di attingere dai modi in cui i diversi stati risolvono i propri problemi di policy) possiamo ipotizzare che l’Unione Europea, si caratterizzi per una buona capacità di apprendimento nel corso dei processi di policy in cui interviene. L’ipotesi ha già trovato validazione, anche se limitatamente al campo delle politiche ambientali [Brown 2000]. Ma pensando ai caratteri di incertezza, complessità, dinamicità, intersettorialità, dei problemi ambientali, si può pensare che le capacità di apprendere messe in gioco in questo settore, possano essere estese anche alla globalità del policy making europeo. Nell’accezione sviluppata da Argyris e Schön [1996] l’apprendimento organizzativo avviene in due fasi distinte: il single-loop learning, dove i membri di un’organizzazione analizzano e correggono gli errori compiuti, e il double-loop learning o deutero-learning, in cui i membri apprendono dal contesto in cui hanno agito, riflettono sui precedenti episodi in cui si è dato apprendimento organizzativo ovvero si è fallito. Essi scoprono ciò che hanno fatto per facilitare o inibire l’apprendimento, inventano nuove strategie, valutano e generalizzano ciò che hanno prodotto. Organizzazioni in grado di apprendere sono quindi quelle aperte ai feedback innescati da processi autovalutativi, circa la propria efficacia e la necessità di abbandonare i comportamenti meno adeguati al perseguimento dei propri obiettivi. Per quanto concerne l’Unione Europea, è da sottolineare che esiste un quadro normativo e procedurale che tende a favorire sia la circolazione delle informazioni rilevanti, sia l’innesco di feedback tra le organizzazioni coinvolte nei processi di policy. La circolazione delle informazioni e la loro ‘messa in rete’ rientra pertanto nel modus operandi delle strutture interne e giunge a caratterizzare anche il rapporto instaurato con apparati governativi esterni e con i gruppi di interesse15 . Sono inoltre da considerare le capacità di analisi e ricerca, sviluppate, ad esempio, in seno alle Direzioni Generali della Commissione – un’organizzazione che ha come sua principale risorsa proprio la conoscenza [Radaelli 1999] – spesso in grado di ispirare gli stessi orientamenti di ricerca delle 14 Il termine rappresenta una combinazione di fattori che include elementi esogeni (interazioni e sinergie interistituzionali, rappresentazioni condivise da altri gruppi), ed endogeni (condivisione di culture, norme e valori). "Thickness both establishes legitimacy and nourishes relations of trust" [Hassink and Lagendjik 2001: 73]. 15 A riprova di ciò, si guardi all’ingente utilizzo delle pagine web per la messa in circolo di tutte le versioni preconclusive di direttive, comunicazioni, progetti di ricerca, ecc. 105 n.4 / 2002 comunità epistemiche internazionali. Carattere saliente delle strutture decisionali e, soprattutto, di quelle scientifiche è l’estrema snellezza, unita talvolta all’instabilità, come condizione per il mantenimento di rapporti con una vasta schiera di attori esterni e per la produzione di informazioni pertinenti, scientificamente avanzate, e di effettivo supporto alle decisioni. Infine, come dimostrato nel caso delle politiche ambientali e della legislazione nascente sulla qualità delle acque [Brown 2000], una efficace cultura dell’apprendimento si fonda sulla capacità di far fronte all’incertezza scientifica che spesso accompagna i processi di decision making. In questo senso, l’adeguatezza delle organizzazioni comunitarie è da rintracciarsi nella (ancora) incompiuta ‘ossificazione’ delle relative strutture burocratiche e nella loro continua evoluzione. I continui mutamenti negli organigrammi, nei programmi, nei nessi tracciati fra obiettivi e strumenti, stanno quindi a testimoniare la presenza di continui processi di apprendimento organizzativo. Il fatto che gli approcci, le modalità d’azione e le capacità di apprendimento riconosciute alle istituzioni comunitarie siano trasferite ai livelli inferiori potrà essere verificato solo nel lungo periodo, mediante un approccio analitico in grado di trattare il policy change ponendo enfasi sulle occasioni di apprendimento create, e accumulate, nel corso dei processi. Un backward mapping di tale portata dovrà comunque servirsi, oltre che dell’osservazione empirica diretta, anche di contributi interpretativi prodotti parallelamente all’avanzamento delle politiche..È a questa utilità che mira la seguente rilettura dell’iniziativa comunitaria Urban. L’europeizzazione nel contesto italiano: riflessioni a partire dall’implementazione dell’Iniziativa comunitaria Urban L’iniziativa comunitaria Urban (in breve)16 16 Per una trattazione più dettagliata dei contenuti e dei risultati conseguiti con l’esperienza di UrbanItalia si rimanda alla cospicua produzione letteraria sul tema e in particolare ai riferimenti riportati in bibliografia. 106 Il Programma di Iniziativa Comunitaria (Pic) Urban risale al giugno 1994, quando la Commissione Europea decide di stanziare parte del Fesr e del Fse a favore delle zone urbane. La Commissione fissa gli orientamenti relativi ai programmi operativi (PO) da predisporre nell’ambito di Urban, tramite due comunicazioni agli stati membri: l’una [CE, 1994] con una dotazione iniziale di 600 milioni di euro; e l’altra [CE, 1996] con una dotazione supplementare di 157 milioni di euro. Le aree urbane sottoponibili a finanziamento sono collocate, in linea di principio, in città o agglomerati urbani con oltre 100 mila abitanti. Il totale europeo ammonta a 118 municipalità beneficiarie dei finanziamenti. L’Italia presenta la propria domanda di contributo alla UE nel novembre 1994 e solo nell’aprile 1996 vede approvato il proprio PO. A 13 delle 33 proposte selezionate e inviate a Bruxelles dall’Italia viene così accordato il finanziamento. Altre tre si aggiungeranno nel dicembre 1997. La selezione delle città invitate a presentare proposte compatibili con i criteri della Comunicazione [CE, 1994] è operata dall’amministrazione nazionale capofila, il Dipartimento per il Coordinamento delle Politiche Comunitarie presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, e si basa su una seria di consultazioni con le altre amministrazioni nazionali competenti in materia (Dipartimento per le Aree Urbane, Ministeri dell’Ambiente, Industria, Interni, Ll.Pp., Lavoro, ecc.). Per l’Italia sono stanziati inizialmente 102,037 Meuro del Fesr e 15,615 Meuro del Fse. Il cofinanziamento da parte statale viene deliberato da Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe): ca. 130 Meuro sono stanziati per i primi tre anni del Andrea Mariotto Dall’Europa alle città e ritorno. programma. L’organo preposto al controllo sull’attuazione del programma è il Comitato di Sorveglianza – come previsto dall’art. 25 del Reg. (CEE) n. 4253/88, così come modificato dal Reg. (CEE) n. 2082/93 del Consiglio, del 20.07.93 (GU L 193 del 31.07.1993) – in cui siedono i rappresentanti di tutte le città, i funzionari dei Ministeri del Bilancio, del Lavoro, del Tesoro, dell’Ambiente, dei Lavori Pubblici, e la rappresentanza della CE. Nel programma nazionale è altresì previsto uno stanziamento dedicato ad attività centrali di assistenza tecnica, valutazione e monitoraggio. Visto il successo conseguito dall’esperienza, la Commissione Europea nell’aprile 2000 ha dato avvio a Urban II. L’impostazione e criteri di selezione sono grosso modo i medesimi del primo, mentre si è riscontrata una contrazione delle risorse messe a disposizione (da 136 a 108 Meuro), mentre il numero delle città italiane coinvolte ammonta a 10. Alle 10 seconde classificate nella graduatoria redatta da Dicoter saranno invece destinati i fondi messi a disposizione per Urban-Italia, il programma promosso a livello nazionale che si ispira ampiamente ed esplicitamente al programma di iniziativa comunitaria. Le strutture organizzative coinvolte: ruoli e relazioni in mutamento17 Valutazioni e commenti sul complesso dei sottoprogrammi italiani sono solitamente piuttosto favorevoli. Per quanto riguarda le strutture organizzative, da più parti si riconoscono i meriti dell’iniziativa comunitaria in termini di occasioni di apprendimento e d’innovazione tanto per le città quanto per gli organismi centrali18 . Nelle ricerche promosse da Dicoter come ‘azioni a sostegno della programmazione 2000-2006’ il trattamento dello specifico tema porta a rilevare che: "in primo luogo si tratta di una occasione nella quale le amministrazioni interessate vengono contemporaneamente sottoposte ad una stessa sfida sul piano organizzativo che le vede impegnate nella realizzazione di operazioni per loro inedite dal punto di vista del merito (progetti integrati di riqualificazione di contesti svantaggiati) e del metodo (necessità di rendicontazione, di monitoraggio e valutazione ecc.)" [Balducci 2002]. In prospettiva futura, il programma Urban: "potrebbe diventare, invece, un tassello di un disegno di riforma finalmente compiuto, come parte integrante di un nuovo modello di governance, nello stesso tempo rigoroso, flessibile ed efficace. Oppure potrebbe dare luogo (oltre ai risultati specifici) soltanto a processi di apprendimento e di innovazione relativi alla costruzione di progetti d’area rilevanti e fattibili, la loro messa in rete, la capacità di ordinare le azioni parziali entro quadri coerenti e condivisi" [Palermo 2001]. L’insieme delle risorse introdotte (e riprodotte) nei processi di policy da Urban e da altre iniziative comunitarie è piuttosto variegato (spaziando dal puro finanziamento, ai modelli operativi, agli approcci, alle conoscenze, alle norme, alle procedure,…) e nel contesto nazionale si presenta sempre in combinazione con elementi di un processo più ampio di innovazione o, comunque, di mutazione, di arene e strumenti operanti nelle politiche pubbliche. Gli esiti prodotti da tale processo, nonché il peso specifico esercitato in esso dalle iniziative comunitarie, sono quindi da valutare nel lungo periodo. Al momento, se ne possono cogliere alcune caratteristiche peculiari come manifestazioni concrete di quanto espresso dai contributi teorici considerati nella prima parte. L’iniziativa come trasferimento di risorse e modelli Con l’indizione del programma Urban la Commissione europea mette in campo un notevole bagaglio di conoscenze sui processi in corso in tema di politiche 17 Le riflessioni che seguono si basano sui materiali già disponibili prodotti nell’ambito della ricerca: Azioni a sostegno della programmazione 2000-2006. Il programma di iniziativa comunitaria Urban, appaltata dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti – Dicoter, alla Associazione temporanea di impresa costituita tra Consorzio Arpa (Napoli) e Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano, alla quale ho partecipato curando lo studio di caso sul ‘Sottoprogramma 2: Venezia’. 18 Si vedano ad esempio i numerosi articoli pubblicati sul bollettino trimestrale Urban (a cura di Dicoter), e su EuroPass (newsletter e dossier) [http://europass.class.it /europass.asp]. Per una valutazione più critica, tra quelle prodotte ‘istituzionalmente’, si veda Corte dei Conti Europea [2001]. 107 n.4 / 2002 urbane e, in particolare, sulle condizioni di alcune aree, sui problemi di efficacia degli interventi in atto, e sulle potenzialità insite nell’integrazione tra azioni ‘di settore’, nell’adozione di approcci partecipativi, e nella creazione di nuovi partenariati tra amministrazioni pubbliche e tra questi e privati. Il trasferimento delle politiche si appoggia su una ‘strategia politica di mascheramento’ (la ‘dichiarata’ copiatura dell’impostazione ‘integrata’) e sulla contestuale distribuzione di diversi tipi di risorse, di cui i beneficiari sono, evidentemente, carenti. Tali risorse sono, oltre a quelle finanziarie, anche quelle legate all’opportunità di mantenere o acquisire un ruolo entro una rete; di mettere alla prova nuovi criteri operativi; e di misurarsi con le rigide condizioni imposte dal livello comunitario, che diventeranno "uno dei fattori di efficacia e di successo dell’esperienza (un fattore influente, se si confrontano i processi più lenti e gli esiti spesso solo parziali di altri programmi urbani, di matrice nazionale o locale)" [Palermo 2001]. Il caso italiano diviene tuttavia esemplare per comprendere la tortuosità del percorso distributivo. L’attore nazionale tende ad acquisire il ruolo di ‘filtro’ nella distribuzione dei fondi alle città, redigendo arbitrariamente un primo elenco di 24 città eleggibili, con relativi inviti a predisporre i progetti, e costituendosi come primo interlocutore della Direzione Generale titolare del Programma (ex DG XVI, ora DG Politiche Regionali). Ciononostante, nove città, non invitate dall’organo governativo centrale, ma a conoscenza dell’avvio di Urban, presentano progetti di propria iniziativa. "Di fronte a questa situazione, lo Stato membro invia tutte le proposte, decisamente eterogenee, alla Commissione, affinché prenda una decisione. La selezione viene infine negoziata tra la Commissione e lo Stato membro in quanto, nonostante gli sforzi compiuti, era risultato impossibile per la Commissione, in assenza di una metodologia e di informazioni appropriate, valutare in maniera obiettiva le proposte presentate" [Corte dei Conti Europea 2001, punto 13]. Un policy network in costruzione Nel corso del processo il ruolo dell’attore nazionale (stabilizzato nelle competenze della Direzione Generale Coordinamento Territoriale – Dicoter – presso il Min. delle Infrastrutture e dei Trasporti) ha comunque modo di rafforzarsi, sia rispetto alle amministrazioni locali coinvolte, sia all’interno dell’apparato ministeriale e governativo in genere, quale soggetto detentore di un efficace sistema di relazioni multilivello e di conoscenze intersettoriali, che ne ha aumentato visibilità e resilienza organizzativa in rapporto ai vari avvicendamenti intercorsi al vertice. Ciò è avvenuto, da un lato, facendo leva sul proprio ruolo istituzionale di autorità in grado di stabilire rimodulazioni e spostamenti di bilancio tra i sottoprogrammi e di garantire così il mantenimento dell’ammontare complessivo dei fondi destinati all’iniziativa; e dall’altro lato, mediante l’amministrazione diretta – ancorché aperta alle indicazioni fornite dai Comuni in sede di Comitato di Sorveglianza – del cosiddetto Sottoprogramma 14, dedicato ad attività tecniche di assistenza, valutazione, monitoraggio, e comunicazione, oltre che ad attività sussidiarie e/o integrative proposte dalle Amministrazioni locali. Ed è proprio nell’attuazione del Sottoprogramma 14 che prende piede quello che si può definire il ‘costruendo’ policy network di Urban-Italia, il cui nucleo – composto da rappresentanti delle amministrazioni pubbliche coinvolte e da una nutrita comunità epistemica – ha contribuito a diffondere presso altre amministrazio- 108 Andrea Mariotto Dall’Europa alle città e ritorno. ni ed altri esperti il bagaglio di conoscenze che si è andato via via formando. Si verifica così un processo circolare nel quale l’attore nazionale – rappresentato da Dicoter – assume un ruolo centrale anche grazie alla generazione, ed al progressivo ampliamento, di un network che, in quanto tale, a sua volta, relativizza il peso esercitato gerarchicamente dall’attore governativo, al punto che quest’ultimo vede riconosciuta l’acquisizione di un ruolo preminente più all’esterno – nei rapporti orizzontali con altri settori del governo centrale – che all’interno del network stesso. A creare un certo livello di strutturazione del network sono sia le riunioni del Comitato di Sorveglianza, sia i seminari più allargati organizzati dalla compagine ministeriale come attività di monitoraggio, sia ancora le attività intraprese dalla Rete delle Città Urban. Le riunioni del Comitato di Sorveglianza hanno spesso dipanato i dubbi nascenti nelle varie fasi del processo: dubbi spesso legati all’impreparazione di tutti gli attori principali nei confronti degli obiettivi e dei vincoli procedurali e temporali posti all’iniziativa. Qui, la presenza di rappresentanti della Commissione Europea e dei ministeri competenti, il confronto diretto tra i ‘casi’ presentati dai Comuni, e l’immediata efficacia dei provvedimenti adottati, hanno notevolmente snellito un processo altrimenti destinato all’insorgenza di stalli decisionali. Le informazioni e le conoscenze scambiate durante i seminari, col supporto di studiosi ed esperti, sono spesso servite alle amministrazioni locali in procinto di intraprendere l’esperienza di Urban II o di Urban Italia, anche al fine di evitare l’esternalizzazione delle funzioni di messa a punto e di gestione dei progetti. Le attività promosse direttamente dalla Rete delle Città Urban hanno infine costituito sia l’occasione per la diffusione di know how, anche ad uso delle città che si affacciano ora sulla scena, sia la compiuta affermazione di un soggetto che, per quanto su altre basi, arriva a contendere il ruolo di leadership all’attore centrale. La produzione di azioni comuni può divenire infatti uno strumento di pressione sia verso il governo nazionale che verso l’Unione Europea, per orientare politiche e introdurre in esse criteri selettivi e valutativi in genere. La Rete delle Città Urban italiana guarda inoltre a reti omologhe formate in altri paesi, così da poter disporre di risorse informative aggiuntive rispetto a quelle messe in circolazione dal coordinamento nazionale. Una ramificazione interessante della Rete, è quella che si estende alle strutture di servizio territoriale (job centers, front offices PMI, sportelli d’impresa, centri antiviolenza, ecc.) create nel corso del processo come nodi locali. Sembra infatti che la rete complessiva possa contare – per il suo mantenimento/ampliamento nel tempo, ma anche per evitare i rischi di un isomorfismo eccessivo – sugli interessi tematici di questi ultimi, più che sugli Uffici Speciali creati ad hoc per l’implementazione di Urban. Va considerato inoltre come l’iniziativa comunitaria stimoli lo sviluppo di una rete di città, che almeno in parte è già operante, ad esempio nel trattamento di specifiche policy (come nel caso di Quartiers en Crise) ovvero nella gestione di altri programmi complessi quali i programmi di riqualificazione urbana. L’osservazione appare coerente con la funzione attribuita ai policy network nell’offrire possibilità ridondanti di interazione e comunicazione tra gli attori. I deboli legami e l’informalità dei rapporti tra gli stessi comportano, tuttavia, anche variabilità dei temi e degli interessi prevalenti sui quali si costruisce e si concentra il policy network: ‘politiche’ e ‘forme reticolari di interazione’ stanno a rappresentare fenomeni mutevoli, dinamici, di processo, in cui qualsiasi etichettatura e precostituzione di obiettivi, esiti attesi e composizione delle arene, va confrontata 109 n.4 / 2002 con ciò che ci è dato di osservare ex-post rispetto alle azioni compiute. Nuovi approcci e nuovi strumenti, da legittimare 19 Sono 8 i casi in cui fin dall’inizio, oppure in fasi più avanzate, il sindaco assume una responsabilità diretta nella gestione del programma. L’impatto dell’iniziativa sull’organizzazione della macchina amministrativa locale è valutabile soprattutto in termini di semplificazione delle procedure. La ricerca condotta sui sottoprogrammi [cfr. Palermo, 2001] ha mostrato come tutti i comuni abbiano adottato una corsia preferenziale per le delibere relative al programma Urban, e come siano stati diffusamente sperimentati accorgimenti organizzativi per superare la tradizionale distinzione tra servizi tecnici e servizi amministrativi (come la gestione degli appalti e la rendicontazione). Molti comuni hanno appreso grazie all’esperienza a gestire nel modo più semplice e cauto le procedure di invito pubblico e selezione mediante gara, cercando di ridurre al minimo i tempi di attesa e i rischi di controversie. Gli uffici speciali attivati hanno permesso di unire funzioni di gestione tecnica dei progetti con funzioni di gestione amministrativa (la preparazione di delibere e bandi, la gestione degli appalti, la rendicontazione), con benefici notevoli in termini di efficienza e di rapidità dei processi. L’Ufficio Urban è per lo più concepito come una struttura di staff, che dipende dalla direzione generale, ma di solito risponde politicamente allo stesso sindaco o a un suo delegato19 . La ‘copertura’ politica tende a legittimare pratiche e procedure non ancora assimilate dall’organizzazione complessiva: leadership, gerarchie e legami fondati sulla lealtà sembrano quindi fungere da elementi in grado di surrogare, almeno inizialmente, processi collettivi di costruzione del senso dell’azione organizzativa. Va tuttavia precisato che, se il discorso sembra valere per le amministrazioni di tutti i livelli, le innovazioni così legittimate e messe all’opera, spesso riguardano l’azione di una piccola parte delle relative amministrazioni. Affinché l’innovazione si diffonda è quindi necessario l’avvio, se non il compimento, di un processo di apprendimento di cui siano consapevoli tutti i membri al di là delle gerarchie vigenti. Un primo sviluppo in tal senso può essere osservato nei casi in cui le funzioni degli uffici speciali non si limitano alla gestione di questo specifico programma, ma vengono progressivamente estese al complesso delle politiche comunitarie ovvero alla programmazione dello sviluppo locale, massimizzando il carattere interdisciplinare e intersettoriale della composizione dell’Ufficio. In questo secondo caso, l’esperienza di Urban è interpretata più per i suoi contenuti innovativi in termini di approccio di policy che non per il pacchetto finanziario messo in gioco. Il tema della legittimazione sembra costituire una chiave interpretativa anche per i casi in cui la struttura organizzativa non viene sostanzialmente mutata e l’iniziativa comunitaria interviene come strumento attuativo, ma più spesso come una fonte tra le altre di finanziamento addizionale, di piani che sono ‘già legittimati’ a livello di organizzazione complessiva (in quanto, ad esempio, sono immessi tra i punti strategici del programma del sindaco). L’assimilazione dell’iniziativa entro piani o programmi già operanti determina spesso il successo sia della prima che dei secondi, a discapito tuttavia dei caratteri più originali e innovativi che potrebbero derivare da una riflessione più profonda circa le possibilità di incrocio tra le due modalità d’azione. Cosa si apprende? Un ulteriore aspetto messo in luce dalla ricerca – che appare rilevante se pensiamo all’iniziativa comunitaria come occasione di apprendimento organizzativo – è quello relativo alle capacità tecniche dimostrate dalle amministrazioni locali. 110 Andrea Mariotto Dall’Europa alle città e ritorno. In particolare, si è notato che in varie città, la provenienza dai diversi settori dell’amministrazione dei componenti del gruppo di lavoro che si è occupato di Urban garantisce la copertura delle expertise relative alle competenze di contenuto. Al contrario le capacità tecniche relative agli aspetti di processo20 sono in gran parte nuove e, comunque, eventualmente apprese on the job. Ciò spiega il carattere quasi totalmente ‘pubblico’ (dal punto di vista di ‘chi paga’) degli interventi come una sorta di chiusura o di semplificazione efficientista di una rete che, per converso, sarebbe tanto più efficace quanto più in grado di avvicinare e riprodurre le risorse diffuse nei molteplici contesti sociali di decisione, azione, analisi o riflessione valutativa. Ma ciò denota anche le difficoltà insite nel trasferimento di un know how di tipo relazionale attraverso i processi di policy transfer e di isomorfismo richiamati nella parte precedente. Più adeguato all’innesco di un apprendimento di questo tipo sarebbe il ricorso a capacità che abbiamo visto attribuite per ora alle sole istituzioni comunitarie, sia per quanto concerne le relazioni instaurate con le comunità epistemiche, sia per la ‘programmata variabilità’ degli assetti organizzativi. Suggestioni in divenire L’acquisizione di competenze di processo in seno alle amministrazioni rimanda al rapporto da esse instaurato con i cosiddetti portatori di interessi diffusi e, in particolare, col mondo associativo. La semplificazione efficientista sopra richiamata ha portato a considerare questi soggetti esterni all’amministrazione prevalentemente come rappresentativi dei bisogni dei ‘beneficiari’ del programma, ma meno come attori per la sua realizzazione21. Si osserva un certo squilibrio tra attori, a netto favore della componente pubblica, così da garantire per questa via il carattere pubblico dell’iniziativa. Tale squilibrio contrasta evidentemente con la conformazione reticolare dell’arena, e coi presupposti di livellamento, a-gerarchicità e informalità nei rapporti tra Stato e società caratterizzanti alcune nozioni di governance. Conclusioni L’apparato concettuale passato in rassegna nella prima parte e ‘testato’ nella seconda ci permette di individuare alcuni aspetti delle strutture organizzative coinvolte dall’applicazione di Urban al contesto italiano. In particolare, abbiamo potuto osservare il trasferimento transnazionale di un nuovo approccio alle politiche urbane, e il passaggio da una forma di multi-level governance, tutta incentrata su scambi diretti tra attori di diverso livello per l’acquisizione di un set di risorse in base alle quali costruire il proprio ruolo, a quello che è, e potrà essere, un policy network di nuova strutturazione. L’osservazione empirica induce ad una prima puntualizzazione rispetto alla base teorica qui impiegata, riferita alla partecipazione al processo soltanto di parti delle organizzazioni amministrative dei vari livelli e, alla conseguente opportunità non considerare queste ultime come attori collettivi, dotati al proprio interno di coesione e coerenza. Più che di Unione Europea, di stati, di governi nazionali o di i comuni si dovrebbe piuttosto parlare delle singole unità coinvolte di volta in volta in una politica. Anche per questa via si riesce infatti a superare i limiti applicativi di teorie basate su concetti quantomeno astratti, e su una gerarchia tra gli stessi che è solo nominale. Nel processo analizzato si è notato come la centralità del ruolo, acqui- 20 Quali: gestione dei rapporti interni al gruppo di lavoro per mantenerne la coesione e l’efficienza; gestione dei rapporti con la rete dei soggetti interni alla amministrazione che svolgono il ruolo di gate-keeper; gestione dei rapporti diretti con gli organismi della Commissione Europea, con il Ministero e in alcuni casi con le Regioni; gestione dei rapporti con gli organismi preposti alle attività di controllo e valutazione; costruzione e gestione di rapporti partenariali con soggetti privati o del terzo settore; gestione di processi partecipativi; gestione di programmi di comunicazione. 21 I casi in cui la comunità locale sia stata coinvolta pienamente nel processo decisionale – con la coprogettazione – non sono stati spesso praticati e, in generale, si può parlare piuttosto di un partenariato di gestione ed attuazione di segmenti di programmi specializzati. [Moccia 2002]. 111 n.4 / 2002 sita, ad esempio, da Dicoter non derivi da attribuzioni normative quanto soprattutto dalle relazioni verso l’alto e verso il basso che è riuscita progressivamente a costruire, anche grazie al fatto che una parte delle risorse economiche disponibili fosse specificatamente destinata alla formazione di una rete ed alla costituzione di una comunità epistemica. Estendendo l’annotazione a tutti gli attori ricaviamo una prima caratteristica del policy network di Urban: nella sua forma iniziale, esso è composto dai settori delle pubbliche amministrazioni più vicini ai temi toccati dall’iniziativa, e progressivamente ha visto prevalere i responsabili dei servizi territoriali implementati, favorendo così specializzazioni e ramificazioni che giungono a ridefinire o a variare il tipo di policy su cui il network complessivo si struttura. Se, come abbiamo visto, la possibilità di variare attori e interessi rappresenta il valore aggiunto della forma reticolare a legami deboli, c’è tuttavia da chiedersi come sia possibile trasmettere ad altre unità, non tanto i contenuti ma piuttosto i modi di acquisizione, di un crescente patrimonio conoscitivo e relazionale che sta determinando il successo di un dato settore. Le risposte sono da ricercarsi ad un doppio livello: quello delle relazioni esterne, come necessità di sviluppare la rete verso i soggetti sociali che con la propria azione producono, o potrebbero contribuire a produrre, politiche; e quello delle relazioni interne, come necessità di trovare occasioni di autovalutazione e costruzione collettiva del senso delle iniziative in corso. Per il mantenimento e lo sviluppo dei rapporti ai due livelli sembrano inoltre incidere le possibilità aperte a tutta una serie di attività meta-politiche di incontro e scambio tra soggetti diversi siano essi istituzionali o non istituzionali, pubblici o privati. C’è infatti una relazione diretta tra ricchezza e ridondanza dell’attività relazionale; continuità del network; capacità degli attori di attivarsi rispetto alle rotture delle routine organizzative cui sono abituati. Anche per la ricerca, la sfida posta dall’europeizzazione delle politiche richiede lo sviluppo di una prospettiva ‘meso’ articolata su un doppio ordine di capacità: verso la comprensione della complessità rappresentata dalla moltiplicazione dei luoghi di interazione sociale in cui le politiche prendono forma e sortiscono i propri effetti; e verso la valorizzazione di tutte quelle forme di autorganizzazione trasversale che, come le ‘comunità di pratiche’ [Gherardi e Nicolini 2001] costituiscono gli ambiti nei quali hanno luogo i processi di apprendimento e trasmissione del sapere pratico e della conoscenza in azione, anche senza dare luogo a strutture formalizzate né a percorsi di policy. Riferimenti bibliografici Argyris, C. e Schön, D., 1996, Organizational learning II: theory, method, and practice, AddisonWesley Publishing Company, Reading, Massachusetts. 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Andrea Mariotto è dottore di ricerca in Pianificazione e Politiche Pubbliche del Territorio (Daest IUAV) e ricercatore del Laboratorio “Ombrello” (DP IUAV) [email protected] 113 n.4 / 2002 Sandro Fabbro e Enzo Forner Arco alpino orientale e politiche europee di sviluppo locale: prime lezioni dall’implementazione dei Fondi Strutturali 1994-’99 con particolare riferimento ad Interreg II Passaggio a NordEst Introduzione: la rilevanza dell’area alpina per le politiche dell’Unione Europea Le politiche strutturali europee ed i relativi strumenti di intervento stanno giocando un ruolo significativo sia nei cambiamenti sociali, economici e spaziali in corso in molti settori e componenti delle regioni alpine sia nel determinare le prospettive di sviluppo di queste regioni che sono caratterizzate, come già importanti studi hanno messo in evidenza, da differenze interregionali ed anche infraregionali assai marcate (su questo aspetto vedi, in particolare, Bätzing et al. 1993, 1995, 1996; Perlink, 1996, Cipra, 1995). Molti fattori contribuiscono a mettere in evidenza l’importanza delle politiche europee nell’area alpina: - La crisi del tradizionale modello rurale, solo in parte sostituito da più moderni e vitali sistemi socio-economici, che determina una larga applicazione delle politiche comunitarie per il sostegno allo sviluppo rurale (ad esempio Obiettivo 5b dei Fondi strutturali, Programma LEADER per il periodo 1994-99, Obiettivo 2 e LEADER+ per il periodo 2000-2006). - I differenziali di produttività tra l’agricoltura di montagna e quella di pianura, a causa delle più critiche condizioni ambientali e morfologiche, che rendono l’agricoltura alpina più esposta ai rischi di marginalizzazione, pur essendo un’attività fondamentale per il mantenimento del paesaggio alpino e dell’equilibrio ambientale. In questo senso l’agricoltura alpina appare particolarmente sensibile agli orientamenti della Politica agricola comunitaria. - La presenza di numerosi confini tra Stati membri dell’Unione Europea, come pure tra questi ed altri Stati attualmente esterni all’UE, che rende particolarmente importante il tema della cooperazione transfrontaliera in molti campi di attività; in questo senso l’area alpina (orientale) appare fortemente interessata dall’attuazione di Programmi comunitari come INTERREG e PHARE (per quanto riguarda gli stati esterni all’UE). - La presenza di aree, sia pur limitate territorialmente, con una vocazione indu- 114 Sandro Fabbro e Enzo Forner Arco alpino orientale e politiche europee di sviluppo locale striale di lunga data, specialmente in alcune valli ove storicamente predomina il settore estrattivo/siderurgico, come pure il settore dello sfruttamento delle risorse idriche e delle altre materie prime ma non solo, e che negli ultimi anni sono state esposte a processi di crisi e che richiedono quindi politiche di sostegno e riorientamento dello sviluppo industriale (vecchio e nuovo Obiettivo 2 dei Fondi strutturali). - La funzione dell’area alpina come cerniera/barriera di collegamento tra l’Europa meridionale e quella centrale/settentrionale, che comporta la presenza di infrastrutture di trasporto di interesse internazionale, che trovano naturale riferimento nelle politiche europee nel campo dei trasporti. - La diffusa presenza di valori paesistici, ambientali e naturalistici. - La fragilità di molte aree alpine dal punto di vista dell’equilibrio idro-geologico, che rendono particolarmente attuale il tema della sostenibilità ambientale dello sviluppo socio-economico, tema presente con particolare evidenza negli orientamenti generali dell’azione dei Fondi strutturali. Per tali motivi, il Progetto REGIONALP ha ritenuto di approfondire il tema del rapporto tra politiche comunitarie e lo sviluppo sostenibile per l’arco alpino orientale, avviando una prima fase di documentazione ed analisi generale (Regionalp, 2000), finalizzata a perseguire, in una prospettiva di più lungo periodo, i seguenti obiettivi: - Mettere a confronto le esperienze realizzate nei diversi Stati/Regioni dell’arco alpino orientale, in tema di attuazione dei vari programmi comunitari, in modo da offrire degli elementi di riflessione comune e di attivare un processo di scambio di informazioni e di reciproco apprendimento. - Raccogliere sistematicamente ed elaborare le informazioni sui contenuti dei diversi programmi comunitari attivi nell’arco alpino orientale, per offrire un contributo significativo alla individuazione di temi di comune interesse che possano portare in futuro allo sviluppo della cooperazione transfrontaliera nei diversi campi. - Verificare all’interno delle politiche comunitarie di sviluppo territoriale il livello di attenzione verso le problematiche specifiche dell’arco alpino, sia per quanto riguarda i documenti di impostazione strategica che i regolamenti attuativi dei diversi interventi, al fine di rilevare la sensibilità delle istituzioni comunitarie verso quest’area, nonché al fine di contribuire a definire posizioni comuni delle diverse amministrazioni locali dell’arco alpino sui temi di maggiore importanza. - Contribuire a migliorare di conseguenza l’efficacia futura degli strumenti comunitari nell’affrontare le tematiche specifiche dell’arco alpino orientale, attraverso uno scambio di informazioni ed esperienze e lo sviluppo di reti di cooperazione transnazionali su determinati argomenti. Concretamente il lavoro che viene qui presentato si articola in due parti principali: - la prima (capp. 3. e 4.) prende in considerazione i principali strumenti comunitari operativi nell’ambito del periodo 1994-1999 dei Fondi Strutturali, al fine di individuare la loro diffusione territoriale nell’arco alpino orientale, i loro contenuti principali, la loro dimensione finanziaria, la loro capacità di affrontare i problemi specifici dell’arco alpino orientale; - la seconda (cap. 5) prende in considerazione le prospettive e gli effetti preve- 115 n.4 / 2002 dibili per l’applicazione nell’area alpina della prossima tornata dei Fondi strutturali 2000/2006, al fine di operare alcune riflessioni sulla loro capacità di risposta alle esigenze che l’area alpina mette in evidenza. Nota metodologica L’analisi empirica e le valutazioni qui contenute si riferiscono solo alla fase di prima attuazione operativa dei diversi obiettivi e programmi comunitari nei diversi paesi e regioni dell’arco alpino orientale. Non era infatti nelle intenzioni e nelle possibilità operative di Regionalp condurre una valutazione di efficacia complessiva ex-post, in particolare in termini di impatto socio-economico (posti di lavoro generati, nuove imprese create ecc.), dei suddetti programmi (a proposito delle difficoltà di questo tipo di valutazione cfr., tra l’altro, Malan, 1998). È necessario, tuttavia, sottolineare che anche una valutazione parziale -ma comparata tra i diversi paesi e regioni e tra gli obiettivi generali di ciascun programma e la sua attuazione locale-, della prima fase operativa, è comunque importante e fondamentale in quanto è proprio in questa fase che si gettano le basi, strategiche e tattiche, dell’efficacia futura della politica (EC, 1995). In particolare in questa prima fase: - vengono definite le problematiche specifiche delle diverse regioni ed aree locali interessate: la definizione dei problemi costituisce una delle fasi più delicate di ogni processo di costruzione di politiche poiché è in questo momento che, di fatto, vengono identificati obiettivi e priorità e che, quindi, vengono gettate le basi fondanti dei programmi strategici; - vengono elaborate le strategie d’azione e, cioè, vengono, di fatto, identificati gli attori, i programmi, le diverse misure, le fasi, i criteri di scelta ecc. attraverso i quali ci si propone di perseguire gli obiettivi e le priorità; - viene costruita la macchina amministrativa (leggi, commissioni, bandi, procedure e criteri specifici di valutazione e di erogazione ecc.) ed organizzativa (strutture informative, gruppi d’azione, comitati di valutazione e controllo ecc.) che deve implementare le politiche; - viene dato corso al flusso delle azioni vere e proprie. Troppo spesso l’analisi di queste fasi risulta trascurata nella valutazione dell’efficacia delle politiche di sviluppo o perché si considera solo una di queste fasi separatamente dalle altre (la strategia separatamente dalla macchina operativa, per esempio) o perché si guarda agli effetti delle politiche senza ricondurli alle ragioni di fondo che ne hanno determinato l’esito, ragioni che possono risiedere nella costruzione di ciascuna delle precedenti fasi o nella regolazione delle relazioni tra l’insieme delle fasi. Gli studi di “analisi delle politiche” insegnano, invece, che le ragioni del successo o dell’insuccesso di una politica vanno ricercate non solo nelle intenzioni esplicite della politica e neanche solo nei risultati finali, quanto, piuttosto, nel complesso degli strumenti di cui la politica si dota per attivare attenzione, motivare gli attori, suscitare interessi, rendere conveniente il coordinamento di obiettivi, la cooperazione tra attori, azioni ecc. Ci si rende conto, tuttavia, che le informazioni di cui disponiamo per elaborare 116 Sandro Fabbro e Enzo Forner Arco alpino orientale e politiche europee di sviluppo locale questa valutazione (documenti regionali di programmazione; studi e valutazioni regionali; piani di azione locale ecc.), non sono tutte quelle che sarebbero necessarie né, forse, tutte quelle che, metodologicamente, sarebbero le più adatte; è anche vero però che sono le uniche disponibili o di cui si è potuto ottenere la disponibilità nei tempi a disposizione. Useremo comunque tali informazioni per cominciare ad indagare, quanto più sarà possibile, i seguenti nessi problematici: - il nesso tra diagnosi dei problemi e costruzione della strategia d’azione (gli obiettivi, le priorità, le tappe del percorso ecc.) o, se vogliamo, tra conoscenza ed azione: ci si può chiedere, a questo proposito, cosa si perda e cosa si guadagni quando si passa dalla conoscenza dei problemi locali alla costruzione delle strategie regionali d’azione con un passaggio che, inevitabilmente, comporta la mediazione tra gli attori e i molteplici interessi in gioco; - il nesso tra strategia e macchina organizzativa: ci si può chiedere, a questo proposito, cosa si perda e cosa si guadagni quando si passa dalla strategia alla attuazione vera e propria e cioè dall’“accordo”, tra gli attori e gli interessi, alla mediazione con la macchina organizzativa e burocratica; - infine il nesso, forse il più problematico e controverso tra i tre, tra diagnosi dei problemi (la conoscenza) e l’implementazione (la macchina organizzativa ed amministrativa). Gli esiti delle politiche strutturali europee scaturiscono dalla azione congiunta di diversi attori e di diversi livelli di azione: in particolare, se gli indirizzi generali sono formulati a livello UE, è poi la programmazione delle Regioni che regola la allocazione delle risorse sul territorio ma è la capacità progettuale locale che può condizionare sia la programmazione regionale sia l’efficacia finale delle stesse politiche. Le politiche di allocazione regionale definiscono un delicato punto di equilibrio tra diffusione della domanda locale di intervento e la ricerca di accettabili livelli di integrazione e di concentrazione degli investimenti. Il ruolo delle regioni, pertanto, costituisce uno snodo fondamentale di tutta le politiche strutturali europee ed i Documenti Unitari di Programmazione (DOCUP) risultano essere, pertanto, i documenti nei quali questo ruolo trova espressione formale e decisionale. Dalla analisi dei DOCUP può trasparire, pertanto, la capacità di programmazione della regione in particolare nel ricercare un equilibrio tra diffusione e concetrazione, tra attenzione alla domanda locale di sviluppo e ricerca di integrazione razionale e funzionale delle diverse azioni settoriali, locali ecc. (cfr, anche Crescini, 1998). Si può dire, allora, che i DOCUP, sono oggi, in una certa misura, i più importanti documenti di programmazione regionale se non altro perché, attraverso di essi, vengono veicolate ingenti risorse pubbliche (europee, nazionali e regionali) e private. Questa è la ragione per cui i DOCUP delle diverse regioni e per i diversi oviettivi, costituiscono la principale documentazione di analisi utilizzata ai fini del presente studio. 117 n.4 / 2002 Fondi Strutturali 1994 - 1999 e arco alpino (orientale) Uno sguardo di insieme In questo capitolo prenderemo in considerazione l’impatto del principale strumento dell’Unione europea per lo sviluppo territoriale - cioè i Fondi Strutturali 1994-1999 - sulle regioni dell’arco alpino orientale. Come noto l’intervento dei Fondi Strutturali nel periodo 1994-1999 si è articolato in 6 Obiettivi prioritari, di cui i seguenti appaiono particolarmente significativi rispetto al tema dello sviluppo e pianificazione territoriale transnazionale nelle Alpi: - L’Obiettivo 2, che riguarda la riconversione delle aree gravemente colpite dal declino industriale, - L’Obiettivo 5a, relativo all’adattamento delle strutture agricole nelle aree rurali, e le Politiche Agricole Comunitarie più in generale, - L’Obiettivo 5b, che riguarda la promozione dello sviluppo nelle zone rurali vulnerabili. Accanto agli interventi relativi ai diversi Obiettivi del Fondi Strutturali appare opportuno considerare almeno altri due Programmi di Iniziativa Comunitaria, che si affiancano ai precedenti e che risultano presenti in maniera significativa nell’arco alpino (orientale): - Il Programma INTERREG II, volto a favorire lo sviluppo della cooperazione transfrontaliera tra regioni appartenenti sia a frontiere interne che esterne alla Unione Europea, Il Programma LEADER II, volto a sperimentare azioni innovative di sviluppo rurale, e che si attua nell’ambito delle aree ammesse all’Obiettivo 5b. Altre iniziative comunitarie hanno interessato in maniera più o meno ampia l’arco alpino orientale. Citiamo il Programma RESIDER II, volto a contenere gli effetti della crisi del comparto siderurgico, che ad esempio ha operato in Lombardia nell’area della Val Camonica, oppure il Programma KONVER, volto alla riconversione delle imprese o delle economie locali fortemente dipendenti dalla presenza delle attività militari, che ha operato ad esempio nella montagna della Lombardia e del Friuli-Venezia Giulia. Come si può notare si tratta di un campo ampio e differenziato di interventi: è parso utile in maniera particolare soffermarsi su quegli interventi che riguardano specificamente l’arco alpino orientale e che hanno significativi effetti territoriali diretti, escludendo le azioni a carattere formativo (Obiettivo 3 e 4) che presentano un impatto territoriale meno diretto. Al fine di realizzare un quadro di insieme dell’arco alpino orientale, l’analisi ha considerato un’area più estesa rispetto a quella delle regioni che partecipano al progetto REGIONALP (non tutte le regioni considerate sono totalmente montane ed alpine): - Per l’Italia le regioni considerate sono: Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Trentino, Alto Adige, Lombardia, - Per l’Austria le regioni considerate sono: Kaernten, Steiermark, Salzburg, Oberoesterreich, Voralberg e Tirol, - Per la Germania è stata considerata l’area del Bayern, - Per quanto possibile sono stati inoltre presi in considerazione gli interventi 118 Sandro Fabbro e Enzo Forner Arco alpino orientale e politiche europee di sviluppo locale comunitari che coinvolgono anche gli stati alpini attualmente non facenti parte dell’Unione Europea, cioè la Svizzera, il Liechtenstein e la Slovenia Alcuni Programmi comunitari risultano diffusi in maniera omogenea in tutte le regioni alpine orientali: l’Obiettivo 5a, l’Obiettivo 5b ed INTERREG II in particolare; al contrario l’Obiettivo 2 risulta invece il Programma comunitario meno diffuso, essendo presente in sole 3 regioni austriache. Il Programma INTERREG II risulta infine presente in tutte le regioni alpine comunitarie poste sui confini nazionali, e la sua operatività investe anche Svizzera, Liechtenstein e Slovenia al di fuori dei confini comunitari, sia attraverso specifici programmi di cooperazione transfrontaliera che attraverso l’attuazione, almeno in Slovenia, del Programma comunitario CBC-Phare, che può essere considerato l’equivalente del Programma INTERREG II sul versante sloveno dei Programmi comunitari INTERREG II Austria-Slovenia e Italia-Slovenia. -Il quadro generale che emerge evidenzia quindi la diffusione dei programmi comunitari, la cui operatività si sovrappone in molte regioni offrendo una ampia disponibilità di strumenti e opportunità di intervento, ma ponendo al contempo anche delicati problemi di coordinamento sia tra i diversi programmi nell’ambito di una regione, che tra le regioni contermini. -Prima di passare ad illustrare una sintesi dei principali risultati del lavoro realizzato, con particolare riferimento alla cooperazione transnazionale, appare utile sottolineare come non sempre i territori ammessi a beneficiare dei diversi programmi comunitari abbiano caratteristiche alpine: molte regioni considerate, infatti, presentano una compresenza di aree di pianura e di montagna che risulta impossibile distinguere, per quanto riguarda i dati quantitativi, senza ricorrere ad un livello di analisi di dettaglio non disponibile attualmente. I dati forniti nel presente rapporto, salvo indicazione contraria, si riferiscono quindi al livello regionale complessivo. La lettura comparata dei diversi documenti programmatici permette di evidenziare una serie di macro-obiettivi che, al di là della specificità dei Programmi Operativi, emerge come elemento di fondo dell’azione dei Fondi Strutturali nell’area alpina: - Lo sforzo di diversificazione della struttura produttiva nelle aree dove le tradizionali attività (siano esse di tipo agricolo od industriale) siano entrate in crisi, ricercando nuovi equilibri tra passato e futuro; - Il conseguente sforzo di integrazione tra i diversi settori economici quale strategia di risoluzione dei problemi tipici delle aree a forte specializzazione o di quelle a scarsa caratterizzazione e dinamica di sviluppo; - Una significativa attenzione alla necessità di recuperare le disparità territoriali nelle dinamiche di sviluppo che si evidenziano sia nel confronto tra aree alpine e le vicine aree di pianura (specie sul versante italiano dove lo stacco, sia dal punto di vista geografico che socio-economico è più netto), che nel confronto tra le diverse subaree della catena alpina; La spinta alla riscoperta e valorizzazione delle risorse e delle specificità locali, umane, culturali, materiali, come mezzo per recuperare e ricostruire una nuova identità e senso di appartenenza. 119 n.4 / 2002 Interreg II Inquadramento generale dei programmi Interreg "Interreg II" ha interessato l’Austria per le relazioni confinarie con la Slovenia, la Germania e la Svizzera; la Germania per le relazioni confinarie con la Svizzera e infine l’Italia per le relazioni confinarie con la Slovenia, l’Austria e la Svizzera. Di seguito riportiamo una descrizione di ciascun programma Interreg con l’esclusione di quello Austria-Svizzera di cui non è stato possibile recuperare i dati. Interreg Austria-Slovenia Informazioni generali Le regioni interessate dal programma sono la Carinzia e la Stiria. Il costo totale è di 22,560 MECU. L’Unione Europea interviene con la copertura del 39,9% delcosto totale. Il programma prevede, per ordine di importanza finanziaria, le seguenti priorità: - Cooperazione e sviluppo economico (decisamente la più consistente) - Ambiente, conservazione della natura ed energia - Assistenza tecnica e pianificazione - Risorse umane - Infrastrutture tecniche Tabella 1. Costi totali e per sottoprogrammi dell’Interreg Austria-Slovenia Sottoprogrammi/misure Costo totale (in MECU) Contribuzione UE (in MECU) Assistenza tecnica e pianificazione Cooperazione e sviluppo economico Infrastrutture tecniche Risorse umane Ambiente, conservazione della natura ed energia 2,384 1,192 13,449 4,940 1,056 2,292 3,379 0,528 1,110 1,230 TOTALE 22,560 9,000 Interreg Austria-Germania Informazioni generali Le regioni interessate dal programma sono la Baviera (GER), l’Oberosterreich, la regione Salisburghese, il Tirolo e il Voralberg. Il costo totale è di 56,258 MECU. L’Unione Europea interviene con la copertura del 43,7% del costo totale. Il programma prevede, per ordine di importanza finanziaria, le seguenti priorità: - Sviluppo socio-economico, specialmente nei settori del turismo e della cooperazione industriale - Agricoltura e foreste - Sviluppo delle risorse umane, principalmente nel settore dell’addestramento e 120 Sandro Fabbro e Enzo Forner Arco alpino orientale e politiche europee di sviluppo locale della certificazione - Ambiente, trasporto e infrastrutture - Assistenza tecnica, sviluppo della pianificazione e studi (comprendenti la promozione di Euregios) Tabella 2. Costi totali e per sottoprogrammi dell’Interreg Austria-Germania Sottoprogrammi/misure Costo totale (in MECU) Contribuzione UE (in MECU) Protezione ambientale nel trasporto/Infrastrutture Sviluppo socio-economico Agricoltura Sviluppo delle risorse umane Sviluppo della pianificazione, studi assistenza tecnica 6,972 3,486 26,874 9,949 7,550 4,913 11,600 3,280 3,778 2,456 56,258 24,600 TOTALE Interreg Germania-Svizzera Informazioni generali Il programma, del costo complessivo di 9,710 MECU di cui 4,855 di contribuzione UE, comprende, per ordine di importanza finanziaria, queste misure di intervento: - Economia/turismo/agricoltura - Sviluppo e gestione dell’area - Rete di trasporto pubblico - Formazione e cultura - Sanità e servizi sociali - Altro (compresa assistenza tecnica) Tabella 3. Costi totali e per sottoprogrammi dell’Interreg Germania-Svizzera Sottoprogrammi/misure Costo totale (in MECU) Contribuzione UE (in MECU) Economia/Turismo/agricoltura Sviluppo e gestione dell’area Formazione e cultura Rete di trasporto pubblico Sanità e servizi sociali Altro (compresa assistenza tecnica) 2,428 1,748 1,164 1,456 0,486 2,428 1,214 0,874 0,582 0,728 0,243 1,214 TOTALE 9,710 4,855 121 n.4 / 2002 Interreg Italia-Slovenia Informazioni generali Le aree oggetto del programma di cooperazione transfrontaliera tra Italia e Slovenia sono comprese nelle tre province di Udine, Gorizia e Trieste, mentre il confine marittimo interessa anche il vicino ambito della provincia di Venezia, per una superficie di 8.000 kmq. Il programma interessa, sul territorio italiano, una popolazione di circa 1.719.000 abitanti. La densità media di popolazione varia notevolmente da una provincia all’altra (1.211 abitanti per chilometro quadrato a Trieste, 296 a Gorizia, 106 a Udine e 333 a Venezia). Le diverse caratteristiche geografiche del territorio si rispecchiano anche nelle caratteristiche socio-economiche di ciascuna zona. L’area prealpina presenta un’economia agricola marginale, mentre sulle colline goriziane si sviluppa un’agricoltura più florida ed è presente una rete di PMI più avanzate. Le grandi industrie navali e siderurgiche del litorale triestino sono state colpite dalla crisi di tali settori, mentre Venezia dipende prevalentemente dal turismo e dal settore secondario. I punti di forza - Presenza di risorse ambientali e naturali ancora ben conservate e diffuse per buona parte della frontiera. Particolarmente significative sono quelle dell’area montana-pealpina, dell’area carsica, quelle dei golfi di Trieste e di Venezia. Il carattere chiuso della frontiera e le esigenze strategico-militari hanno contribuito a mantenere tali aree al riparo da processi di sviluppo intensivo. - Esistenza di tracce di interscambio culturale, quali la comune matrice istroveneta testimoniata dall’architettura e dal patrimonio culturale dell’area costiera, come nella presenza di minoranze nazionali attente al dialogo e alla salvaguardia dei loro valori e delle loro culture. - Le potenzialità legate al miglioramento dei rapporti tra Italia e Slovenia, rispetto ai decenni passati, che possono incrementare la collaborazione operativa esistente a livello di enti locali verso altre possibili forme di interscambio quali la cooperazione economica, la realizzazione di reti di informazione e di servizio transfrontaliere. Tale obiettivo si inquadra nel recupero dei legami culturali ed economici con l’area slovena e istriana sviluppati dai tempi della repubblica di Venezia e quindi nella valorizzazione della dimensione multiculturale che possiede l’area dell’Alto Adriatico. - Connesso a questo ultimo punto, vi è la presenza, sul versante sloveno, di un programma comunitario quale il CCP-Phare che rappresenta il naturale complemento del programma Interreg per la parte italiana e che va a colmare il tipico intervento unilaterale di Interreg. I punti di debolezza - Marginalità e disomogeneità del territorio confinario, inteso in senso stretto, e i vincoli morfologici che ostacolano le relazioni e lo sviluppo unitario del territorio frontaliero lungo la dorsale delle Alpi Orientali, da una parte e gli effetti negativi della marginalità tipica delle aree di frontiera rispetto ai rispettivi centri nevralgici della vita socio-economica nazionale, dall’altra, sono stati rafforzati dalle incomprensioni e dalle oggettive difficoltà di comunicazione con le vicine 122 Sandro Fabbro e Enzo Forner Arco alpino orientale e politiche europee di sviluppo locale zone transfrontaliere e dall’appartenenza del territorio a quattro diverse realtà provinciali, caratterizzate da percorsi storici di sviluppo assolutamente diversi tra loro (ad es. l’appartenenza all’impero austro-ungarico della Venezia Giulia e della Slovenia, sino al 1918). Per tali motivi l’area di confine non è mai stata individuata come un’area unitaria, appartenente ad un più vasto sistema regionale, ma è stata trattata come una componente svantaggiata del territorio, sezionata secondo parametri diversi (confini amministrativi, configurazione geografica, crisi di settori economici ecc.). - Stasi o addirittura crisi economica che coinvolge parti significative delle province di frontiera: in particolare l’area montana, con la rarefazione del sistema insediativo e del tessuto economico, nonché l’area triestina e quella veneziana, dove i processi di deindustrializzazione in atto evidenziano la necessità di attivare programmi di riconversione (esigenza peraltro già riconosciuta dall’Ob.2). - Processi di trasformazione socio-economica e istituzionale ancora in svolgimento nelle aree limitrofe, che provocano una generale instabilità e generano i rischi tipici connessi all’evoluzione delle economie dell’est europeo (dumping sociale e ambientale, flussi migratori e pendolarismo frontaliero, etc.); le opportunità di miglioramento dei rapporti tra Italia e Slovenia rappresentano un fattore positivo, ma spostando l’attenzione sulla situazione generale dei paesi exJugoslavia, questa rappresenta un elemento di debolezza per le prospettive di sviluppo dell’area frontaliera. Sviluppo relativamente limitato della sensibilità e delle propensioni alla concreta cooperazione tra operatori economici e sociali locali e, in parte, tra istituzioni decentrate dovuto alla presenza di alcune incomprensioni culturali e alla scarsa conoscenza reciproca che tende a tradursi in una sostanziale chiusura rispetto alle opportunità di collaborazione.La strategia di attuazione del programma Interreg Italia-Slovenia si basa sui seguenti tre assi principali e diverse misure di intervento (Tab.4). Osservando la Tab. 4 si può notare che il programma Italia-Slovenia comporta un costo totale, per gli interventi in Italia, di 31,35 MECU; la quota dei costi che interessa la regione FriuliVenezia Giulia è del 66,5% mentre il resto interessa il Veneto. Il sottoprogramma più impegnativo dal punto di vista finanziario è quello della "valorizzazione del territorio, delle risorse locali e della tutela ambientale" con poco meno della metà dei costi totali (14,912 MECU) e che è indirizzato soprattutto verso le misure della "tutela delle acque" e dello "sviluppo del turismo tematico". Viene poi il sottoprogramma della "Cooperazione istituzionale e miglioramento delle comunicazioni" (10,318 MECU pari al 33% circa) ed infine il sottoprogramma della "Cooperazione tra soggetti imprenditoriali” . Con lo stesso metodo, si può osservare il caso Interreg Italia-Austria e il caso Interreg Italia-Svizzera. Per brevità, se ne omette, in questa sede la descrizione di questi altri due casi. Dall’esame dei tre casi, emergono le seguenti considerazioni conclusive: le aree ammesse al programma presentano problematiche comuni quali la posizione marginale; la debolezza del sistema imprenditoriale (e lo scarso livello di servizi alle aziende); la tendenza allo spopolamento, che provoca problemi alla risorsa lavoro; la scarsa presenza di elevate qualifiche professionali e forte presenza di occupazione stagionale; l’ambiente e l’agricoltura sono settori fragili, soggetti a degrado. I punti di forza di queste aree sono da ritrovarsi: nell’ambiente, ben conservato 123 n.4 / 2002 e salvaguardato, fattore che può avere interessanti riscontri nell’offerta turistica; nelle possibili sinergie tra turismo, agricoltura e artigianato; nell’agricoltura con la presenza di alcune imprese in grado di adattarsi al mercato; nei rapporti transfrontalieri (soprattutto con Austria e Svizzera). Dall’osservazione della Tab.5 si può notare che, tra quelli considerati, i programmi Interreg che interessano l’Italia sono quelli che impegnano quasi la metà dei costi complessivi (52,38%). Seguono i programmi austriaci e, quindi, quello della Germania. Le regioni italiane dell’arco alpino orientale partecipano ai costi totali dei programmi Interreg che riguardano l’Italia, in misura pari a 69,954 MECU pari al 62,7% del totale dei costi. Tra le regioni italiane dell’arco alpino orientale, la Lombardia ed il FriuliVG sono sicuramente quelle più impegnate rispettivamente con il 24,76% e con il 24,1%. Nei programmi si riscontrano alcune misure che possono dirsi in qualche modo innovative: il programma ITA-AUS prevede misure legate alla risoluzione dei problemi derivanti dalla esistenza di due aree culturali che presentano delle difficoltà, anche linguistiche, di comunicazione tra loro; il programma ITASVI prevede la valorizzazione di produzioni tipiche (attraverso la definizione di standard produttivi per la tipicità del prodotto), della pesca nei laghi subalpini e del sistema economico locale tramite l’adeguamento delle strutture turistiche; è presente inoltre una attenzione alla gestione dei bacini per la sicurezza idraulica del territorio montano; il programma ITA-SLO prevede l’attuazione di misure quali la cooperazione inter-istituzionale e il miglioramento della comunicazione, attraverso lo sviluppo delle risorse umane; la cooperazione tra soggetti imprenditoriali, tramite servizi alle PMI; il miglioramento della qualità e la promozione dei prodotti locali; la cooperazione nel settore trasporti con la realizzazione del sistema Vessel Traffic Management Information Service (VTMIS). Si può concludere osservando che, nel caso dei programmi "Interreg II" come anche nel caso di altri programmi, le dimensioni della comunicazione intersoggettiva ed interorganizzativa, delle interdipendenze di filiera o di sistema tra componenti delle risorse locali, della cooperazione inter-organizzativa ed inter-istituzionale entrano significativamente nei programmi anche se non ne costituiscono sempre le componenti finanziarie maggioritarie. Cooperazione, comunicazione, tutela dei sistemi ambientali e naturali, integrazione tra micro risorse locali sono le parole chiave più importanti ed innovative dei programmi. In questo caso, tuttavia, c’è una differenza sostanziale: c’è un confine di mezzo, confine che, in diversi casi, divide non solo stati ma anche nazioni, culture, aree linguistiche (germaniche, slave, latine) ecc.. Cosa significa, allora, costruire ed implementare programmi che, attraverso le risorse di cui abbiamo detto, mirino a trasformare l’identità precaria del confine in una identità più stabile e vitale? Mirino, cioè, a trasformare l’area di confine da margine delle regioni esistenti in centro di nuove "regioni" nel senso di costruire e condividere nuovi sistemi di interessi strategici, di vocazioni specifiche, di attività locali? In questo senso la problematica si complica e si arricchisce di nuovi elementi. L’”apprendimento sociale”, nel caso dell’InterregII, è un processo che si complica per il sommarsi di discontinuità ed asimmetrie dovute non solo alla presenza di aree confinanti appartenenti a paesi ed aree linguistico-culturali diverse ma anche al fatto che, quelle stesse aree, sono spesso le più marginali anche rispetto ai propri paesi. Il processo che va in qualche misura monitorato è, pertanto, quello che, attraverso una riconcettualiz- 124 Sandro Fabbro e Enzo Forner Arco alpino orientale e politiche europee di sviluppo locale zazione delle risorse locali, il miglioramento dei vecchi e la costruzione di nuovi sistemi di comunicazione, l’avvio di nuove forme di cooperazione anche al livello micro delle comunità locali, dovrebbe portare alla elaborazione di una nuova identità locale e di un nuovo tessuto comune di interessi. Sono, come abbiamo già osservato, le sfide delle nuove politiche di sviluppo locale avviate dalla UE e, quindi, anche gli aspetti su cui bisogna concentrare maggiormente l’attenzione al fine di coglierne fino in fondo implicazioni e possibilità di successo. Tabella 4. Costi totali per sottoprogrammi e misure dell’Interreg Italia-Slovenia Assi e misure Asse 1 Valorizzazione del territorio, risorse locali e tutela ambientale 1.1 Sviluppo dei parchi naturali dell’area frontaliera 1.2 Sviluppo del turismo tematico 1.3 Sviluppo del centro pilota per la vitivinicoltura 1.4 Sostegno della produzione e commercializzazione dei prodotti locali 1.5 Interventi per la tutela delle acque Asse 2 Cooperazione istituzionale e miglioramento della comunicazione 2.1 Cooperazione culturale e manifestazioni transfrontaliere 2.2 Studi finalizzati ad agevolare la cooperazione 2.3 Formazione e riqualificazione professionale 2.4 Viabilità locale frontaliera 2.5 Cooperazione nel settore dei trasporti 2.6 Cooperazione nel settore dei servizi a rete Asse 3 Cooperazione tra soggetti imprenditoriali 3.1 Aiuti agli investimenti delle PMI 3.2 Servizi alle imprese Assistenza tecnica TOTALE GENERALE Totale FESR Totale FEAOG Totale FSE (in milioni di ECU) Costo totale Friuli-Ven. Veneto Giulia (in milioni di ECU) Contributo UE 14,912 10,992 3,200 7,096 1,700 1,700 0 0,850 4,892 4,392 0,500 2,446 0,200 0,200 0 0,100 1,400 1,000 0,400 0,700 6,000 3,700 2,300 3,000 10,318 7,530 2,688 5,064 1,848 1,000 0,848 0,924 0,580 0,480 0,100 0,290 1,900 1,000 0,900 0,855 2,500 1,790 2,500 1,150 0 0,640 1,250 0.895 1,700 1,500 0,200 0,850 6,140 1,850 4,290 3,070 3,140 0,850 2,290 1,570 3,000 0,700 31,350 28,050 1,400 1,900 1,000 0,400 20,872 18,872 1,000 1,000 2,000 0,300 10,478 9,178 0,400 0,900 1,500 0,350 15,580 14,025 0,700 0,855 125 n.4 / 2002 Tabella 5. Quadro riassuntivo dei costi totali relativi ai diversi programmi Interreg Costo totale Austria-Slovenia 22,560 Austria-Germania Austria- Svizzera 56,258 n.d. Totale 78,818 Costo totale Germania-Svizzera 22,560 Costo totale Italia-Austria 27,426 Italia-Slovenia 31,350 Italia-Svizzera 52,734 Totali 111,51 Friuli V.G. 6,030 20,872 Veneto 5,714 - (*) Bolzano 5,493 Lombardia *: Provincia di Venezia, confine marittimo 4,227 27,618 26,902 5,714 9,72 27,618 ITALIA Costo totale 111,51 Peso percentuale 52,38% GERMANIA 22,560 10,60% Totale 212,888 100% (in MECU) AUSTRIA 78,818 37,02% Fondi strutturali 1994 - 1999 e arco alpino (orientale): considerazioni conclusive Quali sono i principali elementi che emergono da una visione complessiva dell’impatto dei Fondi Strutturali nell’arco alpino orientale? L’importanza dei Fondi Strutturali va oltre il solo aspetto quantitativo: in alcuni settori, come ad esempio quello agricolo, il loro sostegno appare ancora oggi – e anche nel prossimo futuro – fondamentale per garantire la presenza di un sistema produttivo vitale. In altri settori – PMI, turismo, infrastrutture – la presenza di Fondi Strutturali appare importante per realizzare una spinta verso l’ammodernamento e verso lo sviluppo economico integrato delle regioni alpine, che sarebbe certamente frenata dalla mancanza delle risorse comunitarie. Non si tratta infatti dei soli Fondi Comunitari, ma del volume complessivo di risorse finanziarie sia pubbliche (nazionali e regionali) che private le quali, in assenza del volano comunitario, prenderebbero almeno in parte altre direzioni, verso le regioni forti dello sviluppo economico, generalmente coincidenti con quelle di pianura.Ciò che merita di essere ulteriormente sottolineato è che, sia l’analisi dei problemi (punti di forza e di debolezza), sia la costruzione delle misure, sia i pesi degli impegni finanziari contenuta nei diversi DOCUP, hanno messo in evidenza, al contempo, una elevata frammentazione di programmi, sottoprogrammi, misure ecc. e la ricerca di una visione integrata ed interdipendente dei principali settori e fattori in gioco. Inoltre, se si esclude la generale percezione negativa dello stato delle risorse umane, negli altri casi raramente si identificano settori decisamente positivi o negativi mentre prevalgono le situazioni ambivalenti e controverse (nell’agricoltura e nel settore forestale; nel paesaggio e nell’ambiente; nell’industria ecc.). L’impressione che si ha, pertanto, 126 Sandro Fabbro e Enzo Forner Arco alpino orientale e politiche europee di sviluppo locale è che le immagini dei problemi che vengono fornite, con l’esclusione, forse, di alcuni casi estremi, implichino ambiguità, compresenza di forza e di debolezza, o, addirittura, il fatto che gli stessi fattori possano essere percepiti in modo diverso in situazioni diverse ma che al contempo ci sia la necessità di ricondurre tutta questa ambiguità (non priva di una sua ricchezza informativa) a programmi, sottoprogrammi, misure ecc. operativamente ben definiti. Sembra, pertanto, che uno sforzo particolare e preliminare dovrebbe essere fatto per ricercare non solo il paradigma che interpreta meglio queste situazioni ambigue ma anche per adattare le procedure di intervento alla complessità della realtà in gioco. Va riconosciuto, tuttavia, che, dal punto di vista delle strategie e delle misure si punta soprattutto: - sugli strumenti che servono a migliorare l’informazione, la comunicazione e l’interfacciamento degli attori (i centri di Sviluppo Locale, i Sistemi Informativi Territoriali); - su risorse insediative, ambientali ed economiche poco valorizzate -se non addirittura ignorate fino a poco tempo fa- e che comunque implicano, ancora, la necessità di interventi di insieme e non isolati (turismo tematico, albergo diffuso, microfiliere produttive ecc.); - su interventi tesi a sviluppare capacità adattive ed imprenditive da parte dei soggetti sociali coinvolti nei processi di sviluppo. Tutta una serie di nuove problematiche sembrano allora entrare prepotentemente sia nella interpretazione dei problemi sia nella ricerca di soluzioni adeguate e compatibili con il livello delle sfide in atto: - la dimensione della comunicazione tra i soggetti e tra le organizzazioni coinvolte; - la scoperta delle interdipendenze (verticali a filiera, ed orizzontali a rete od a sistema) non solo a livello di macro settori (che è cosa nota) ma anche tra componenti, spesso eterogenee, della storia, della geografia e della cultura locali (che non sono date per scontate ma che implicano, invece, nuove capacità interpretative, immaginative e creative); - la questione, tutt’altro che semplice, dell’apprendimento sociale attraverso la costruzione di processi circolari e partecipati di riflessione, conoscenza, azione congiunta. Ci si dovrà chiedere, in particolare, se i tanti ed articolati assi, misure e progetti: - riescono anche a costruire una immagine unitaria, nuova e riconoscibile dello sviluppo della montagna alpina, una identità nuova del territorio alpino; - riescono a favorire la cooperazione e le sinergie tra i tanti attori coinvolti, tra istituzioni e mercato, tra sistemi territoriali strettamente locali e sistemi regionali più grandi e complessi. Agenda 2000 ed i Fondi Strutturali 2000-2006: nuove sfide e nuove opportunità per l’Arco alpino? Il periodo di operatività dei Fondi Strutturali 2000-2006 rappresenta una sfida aperta per l’arco alpino per consolidare i risultati di sviluppo regionale conseguiti nel corso del periodo precedente. Agenda 2000 ed i successivi Regolamenti attuativi non presentano specifici riferimenti al territorio alpino: seguendo una prassi ormai consolidata, ci sembra di poter affermare che, viste da Bruxelles, le 127 n.4 / 2002 Alpi rappresentino un’area assimilabile alle altre zone rurali, se non addirittura un’area “ricca” in conseguenza dello sviluppo delle attività turistiche locali o delle aree peri-alpine, e quindi senza tener conto delle specifiche condizioni ambientali e socio-economiche locali e della presenza di ampie aree con gravi problemi di ritardo nello sviluppo. La responsabilità delle scelte territoriali ricade quindi di nuovo sulle spalle delle autorità nazionali e soprattutto regionali, chiamate a definire innanzitutto l’ambito territoriale di applicazione dei diversi Programmi ed Obiettivi, e successivamente a definire i contenuti degli interventi. Alcune indicazioni strategiche contenute nei nuovi Programmi offrono interessanti stimoli per ripensare alle tradizionali politiche di sviluppo regionale nelle Alpi, come ad esempio: - una forte spinta al passaggio dalle misure di investimento materiale a quello immateriale (informazione, formazione e orientamento, servizi alle imprese, ricerca e sviluppo); - la forte attenzione per i temi dell’occupazione e dell’ambiente, da sviluppare anche attraverso misure fino ad oggi realizzate solo in chiave sperimentale, come ad esempio lo sviluppo dell’auto-imprenditorialità. Guardando agli strumenti di intervento per il prossimo periodo, le linee-guida generali indicano le seguenti modificazioni principali: - Una maggiore concentrazione degli aiuti comunitari, ottenuta sia riducendo da 6 a 3 il numero degli Obiettivi prioritari, che riducendo il numero della popolazione ammissibile; - Una semplificazione ed un decentramento nella loro attuazione, in particolare attraverso un accorpamento dei documenti di programmazione regionale richiesti; - Una maggiore importanza ai criteri di efficacia della spesa in termini di tempestività e risultati. Si tratta di tendenze che non sono state certamente indolori per la montagna alpina. L’aspetto più critico è certamente quello legato alla concentrazione delle popolazione ammissibile ai Fondi Strutturali, passata dal precedente 51% all’attuale previsto 38%, con un solo 5% destinato alla popolazione in area rurale Obiettivo 2. Ciò ha reso necessario operare una selezione a livello regionale, particolarmente grave soprattutto in quelle regioni che sono costituite totalmente da territori alpini. In sostanza, nonostante le affermazioni di principio, è certo che le politiche di sviluppo rurale/locale – e alpino in particolare - troveranno minore spazio nel periodo di programmazione 2000-2006, anche per il permanere di un forte squilibrio tra le misure di sostegno ai mercati agricoli, nettamente predominanti, e quelle orientate allo sviluppo strutturale dell’agricoltura. Tale fatto, che pur nella sua gravità va considerato a questo punto un dato di fatto, impone di operare prioritariamente, in futuro, in direzione di un miglioramento della efficacia nell’utilizzo delle risorse disponibili, processo che sarà possibile solo attraverso l’avvio di meccanismi di “apprendimento continuo”, possibilmente su scala trans-nazionale, in grado di selezionare strategie e misure di intervento che nella passata esperienza si siano dimostrate più efficaci nell’affrontare i problemi comuni del territorio alpino. La prosecuzione di due Programmi particolarmente importanti per l’arco alpino in termini di elaborazione e sperimentazione di nuovi modelli di sviluppo endogeno e di apprendimento tramite scambio e la conoscenza reciproca , come INTERREG e LEADER, 128 Sandro Fabbro e Enzo Forner Arco alpino orientale e politiche europee di sviluppo locale va valutata certamente come un fatto positivo. In particolare la prima offre l’opportunità di proseguire, consolidare e sviluppare l’esperienza fino a qui realizzata, nell’ambito della nuova area transnazionale di cooperazione definita per il Programma INTERREG III B “Spazio alpino“, aperta anche alla partecipazione delle regioni dell’arco alpino occidentale, che coinvolge le diverse nazioni e regioni frontaliere in un processo di scambio di informazioni ed esperienze sul tema dello sviluppo regionale. La programmazione operativa di INTERREG III B “Spazio Alpino”, in fase conclusiva al momento della scrittura di queste note, pone al centro degli obiettivi di intervento il tema dello sviluppo sostenibile considerato come elemento centrale per una nuova strategia di sviluppo dell’Area Alpina e dei rapporti con le aree vicine.Tale concetto di base si articola in diversi significati/obiettivi specifici: - Nella preservazione di una funzione vitale anche per le sub-aree territoriali più deboli e marginali della montagna alpina; - Nell’arresto dei flussi demografici fortemente negativi ancora in atto in molte aree alpine a tutto vantaggio di quelle pre-alpine e peri-alpine; - Nello sviluppo di politiche territoriali orientate alla sostenibilità, anche in relazione all’attuazione dei concetti-chiave di Agenda Locale 21; - Nello sviluppo di reti di lavoro e di cooperazione attraverso i numerosi confini che interrompono la continuità alpina; - Nella definizione di modelli di sviluppo turistico maggiormente orientati alla sostenibilità rispetto alle risorse ambientali e naturali che tanta parte giocano nello sviluppo turistico alpino; - Nello sviluppo di una accessibilità sostenibile in grado di coniugare le esigenze di trasporto e comunicazione delle aree forti peri-alpine con le esigenze locali di presenrvazione delle risorse naturali e della qualità della vita; - Nella protezione, valorizzazione e fruizione dei valori naturalistici e culturali di cui l’area alpina è portatrice in modo molto significativo. A questo Programma è assegnato il compito, nei prossimi anni, di riprendere e sviluppare l’eredità lasciata da Regionalp e da altri progetti di cooperazione transnazionale in area alpina che nel periodo 1994-99 hanno gettato le prime basi per l’attuazione di Interreg IIIB. Ringraziamenti: Questo saggio è stato pubblicato grazie alla gentile concessione della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia. Riferimenti bibliografici Agenda 2000, Commissione europea: Agenda 2000. Volume 1: Per un'Unione più grande e più forte. Volume 2: La sfida dell'ampliamento. Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, Lussemburgo, 1997. N. cat. CB-CO-97-379-IT-C e CB-CO-97-380-IT-C. http://europa.eu.int/comm/agenda2000/ ALPIN SPACE PROGRAMME, INTERREG IIIB Community Initiative, 3rd Draft, September 2000, Alperforschungsinstitut gemn. GmbH, D - Garmish-Partenkirken. Bätzing W. (1993) Der sozio-oekonomische Strukturwandel des Alpenraumes, in 20. Jahrhundert, Geographica Bernensia, n. 26, Bern. Bätzing W., Perlink M., Dekleva M. (1995) Urbanization and depopulation in the Alps. An analysis of current socio-economic structural changes, in Mountain Research and Development, 15°. Bätzing W. (1996) Agricoltura nell’Arco Alpino, quale futuro? Un bilancio dei problemi attuali e 129 n.4 / 2002 delle soluzioni possibili, Franco Angeli, Milano. CIP INTERREG II Italy-Austria, adoption 4/15/’97 CIP INTERREG II Italy-Slovenia, Friuli-Venezia Giulia and Veneto, adoption 7/24/’97 CIP INTERREG II Italy-Switzerland, adoption 12/18/’96 CIP INTERREG II Austria-Slovenia, adoption 12/21/’95 CIP INTERREG II Germany-Austria Bayern/ Oberösterreich/Salzburg/Tirol/Voralberg, adoption DOCUP Austria Steiermark Objective 5b 1995-1999, adoption 12/04/’95 DOCUP Austria Voralberg Objective 2, adoption 11/15/’95 DOCUP Austria Voralberg Objective 5b 1995-1999, adoption 12/04/’95 DOCUP Austria Kärnten Objective 5b 1995-1999, adoption 12/04/’95 DOCUP Austria Salzburg Objective 5b 1995-1999, adoption 12/04/’95 DOCUP Austria Tirol Objective 5b 1995-1999, adoption 12/04/’95 DOCUP Austria Niederösterreich Objective 2, adoption 11/15/’95 DOCUP Austria Niederösterreich Objective 5b 1995-1999, adoption 12/04/’95 DOCUP Austria Oberösterreich Objective 2, adoption 11/15/’954/17/’96 DOCUP Austria Oberösterreich Objective 5b 1995-1999, adoption 12/4/’95 DOCUP Austria Steiermark Objective 2, adoption 11/15/’95 DOCUP Germany Bavaria Objective 2 1997-1999, adoption 5/7/’97 DOCUP Germany Bavaria Objective 5b 1994-1999, adoption 12723/’94 DOCUP Germany Baden Württemberg Objective 5b 1994-1999, adoption 3/24/’95 DOCUP Italy Friuli-Venezia Giulia Objective 5b 1994-1999, adoption 1/20/’95 DOCUP Italy Veneto Objective 5b 1994-1999, adoption 12/23/’94 DOCUP Italy Bolzano-Bolzen Objective 5b 1994-1999, adoption 12/16/’94 DOCUP Italy Trento Objective 5b 1994-1999, adoption 12/16/’94 DOCUP Italy Lombardy Objective 5b 1994-1999, adoption 12/23/’94 European Commission (1995) EC Structural Funds, Common Guide for Monitoring and Interim Evaluation INEA (2000) Politiche di sviluppo rurale nelle regioni italiane dell’obiettivo 5b: 1994-1999, eds. Cesaro L. and Marotta G., Roma. Malan J. (1998) Translating Theory into Practise: Lessons from the Ex-post Evaluation of the 1989’93 Objective 2 Programme, paper presented at the European Conference on Evaluation, Siviglia, 16-17 March. Regionalp (2000), Spatial Planning and Spatial Development in the (Eastern) Alpine Area, Final Report, European Commission. Sandro Fabbro, docente di Pianificazione Territoriale della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Udine Enzo Forner, ricercatore dell’Istituto di Ricerche Economiche e Sociali del FriuliVenezia Giulia (IRES) [email protected] [email protected] 130 A cura del Centro Studi C.G.I.A. Mestre Slovenia: nuove opportunità di cooperazione economica per le piccole imprese dalla provincia di Venezia. Passaggio a Nordest Nel corso degli ultimi anni il processo di allargamento dell’Unione Europea ha subito una forte accelerata: la possibilità di ingresso di numerosi paesi diventa infatti un obiettivo non solo storico, ma sempre più concretamente realizzabile, che coinvolge oltre ai paesi PECO (Europa Centrale ed Orientale) anche Cipro, Malta e la Turchia. Tale allargamento costituisce, per chi già fa parte dell’Unione Europea, una importante occasione per ampliare scambi ed attività commerciali, nonché un impulso per l’integrazione economica europea nel suo complesso. I paesi candidati ad entrare a far parte dell’Unione Europea partono, in linea di principio, da condizioni di parità; tuttavia le realtà economiche e socio-politiche di tali paesi sono spesso diverse, ponendo i paesi in posizioni diverse nei rapporti commerciali con i partner europei. Tra i paesi candidati ad entrare nel primo gruppo, insieme ad Estonia, Ungheria, Polonia, Cipro e Repubblica Ceca, vi è anche la Slovenia, che si caratterizza per avere avviato, già da tempo, interessanti e proficui rapporti economici con le regioni del Nord Est d’Italia, ponendosi in primo piano nei rapporti futuri con il nostro paese. Nel 1999, oltre la metà delle esportazioni italiane verso la Slovenia partiva dall’Italia nord-orientale, per un valore complessivo superiore a 900 mila euro (1.740 miliardi di lire circa). Tra le regioni dell’area il primato era detenuto dal Friuli Venezia Giulia, seconda regione per export nel ranking nazionale, seguita a brevissima distanza dal Veneto. Nella graduatoria delle province italiane maggiormente esportatrici, ben tre dei primi cinque posti risultavano occupati da province friulane (Gorizia, al secondo posto, contava un volume complessivo d’export verso la Slovenia pari a circa 137 mila euro, 265 miliardi di lire, ed all’8,2% del totale nazionale). Nel 1999, quattro delle sette province venete si collocavano tra la sesta e la decima posizione; quest’ultima era occupata da Venezia, con una quota del 3,4% sul totale (circa 56.500 euro). Il Friuli Venezia Giulia ha da sempre costituito il principale punto di riferimento sia nei movimenti migratori sia in relazione alla cooperazione economica tra imprese, anche se di recente la regione del Veneto ha iniziato a mettersi in luce per le opportunità che offre a questo paese. All’interno del Veneto, la provincia certamente più candidata ad intrattenere relazioni di natura commerciale e non 131 n.4 / 2002 con la Slovenia è la provincia di Venezia, per la tradizione di rapporti e per la posizione di vicinanza che diventa sempre più strategica nelle relazioni tra paesi. L’affermarsi di una economia di mercato stabile nella Slovenia denota ottime opportunità per avviare scambi e forme di collaborazione economica; se la Slovenia può rappresentare una preziosa funzione di ponte tra l’Italia ed i paesi della ex-Jugoslavia, il Veneto ed in particolare la provincia di Venezia a sua volta può svolgere un ruolo importante nella ricostruzione dell’economia di questo paese, con ricadute positive anche in territori diversi dalla Slovenia stessa. Sono in maggioranza le piccole imprese ad avere un forte interesse al mercato che si apre in Slovenia: l’esperienza veneta di forte sviluppo della imprenditorialità diffusa può fungere da modello alla crescita dell’economia di un paese che per certi aspetti è molto simile alla regione del Veneto. Dopo la raggiunta indipendenza nel 1991, l’economia slovena è entrata nel difficile periodo di transizione che ha caratterizzato tutti paesi socialisti. La transizione all’economia di mercato ha portato ad importanti mutamenti strutturali, quali le privatizzazioni, la riforma monetaria e la ristrutturazione del sistema bancario, l’apertura del mercato domestico e l’orientamento dei mercati d’esportazione dalla Jugoslavia ad altri paesi. Tradizionalmente specializzata nei settori della metallurgia (alluminio, acciaio), della lavorazione del legno e degli articoli sportivi, l’industria slovena si è progressivamente diversificata, grazie anche alla forte espansione delle imprese di piccole e medie dimensioni. L’economia del Paese si sta caratterizzando per una buona solidità, con una crescita (PIL +4,6%) che nel 2000 è stata parallela ai parametri economici delle nazioni europee occidentali, se rapportati alle esigue dimensioni territoriali ed alla popolazione residente abbastanza contenuta. Questo ha fatto sì che negli anni, i paesi dell’Unione Europea siano diventati il partner commerciale più importante della Slovenia. Il rapporto stilato nel novembre 1998 dall’Unione Europea ha dato atto alla Slovenia di un’effettiva accelerazione del processo di riforma dell’industria, un riconoscimento dovuto a una serie di riforme messe a punto con successo che pongono la Slovenia al medesimo livello legislativo dei paesi europei. Tutto ciò sta velocemente trasformando la repubblica slovena in un mercato economico snello, competitivo e funzionale. L’esportazione di beni e servizi è salita del 12,7% in termini reali, anche se il pesante deficit della bilancia commerciale (723 mila euro circa) non riesce a riflettere gli effetti positivi della forte domande esterna. Il tasso di inflazione medio annuo nel 2000 ha raggiunto l’8,9%, (+2,8% rispetto al 1999), valore elevato innanzitutto per fattori esterni, quali soprattutto il rincaro dei prezzi dei prodotti petroliferi sui mercati internazionali, il rialzo del dollaro e l’incremento dell’inflazione nei paesi dell’Unione Europea. L’elevato livello dei prezzi medi è stato comunque pesantemente influenzato dagli effetti dell’introduzione della tassa sul valore aggiunto nel 1999. Il problema maggiore resta il livello piuttosto alto della disoccupazione; i relativamente alti costi del lavoro frenano ancora la Slovenia ad essere veramente competitiva a livello internazionale, anche se i disoccupati sono diminuiti del 2,8% nella prima metà del 2000, attestando il tasso di disoccupazione al 12,2% e ponendo la nazione fra quelle con il maggior tasso di non impiegati in confronto ai paesi dell’Unione Europea. Pur essendo un paese economicamente ancora in transizione, ovvero in gradua- 132 C.G.I.A. Mestre Slovenia le trasformazione dall’economia di tipo socialista all’economia di mercato, la Slovenia si è caratterizzata già da vari anni come una nazione con un elevato grado di apertura verso l’esterno. L’esigenza di trovare nuovi mercati di approvvigionamento ha fatto naturalmente guardare il Paese ad occidente, dunque verso i paesi membri dell’Unione Europea, la cui importanza, oltre che per le esportazioni, si è rivelata sempre crescente dal lato delle importazioni. L’Italia è un partner commerciale importante per la Slovenia, venendo dietro la Germania, mentre si va erodendo il vantaggio che la stessa Germania esibiva, una decina di anni addietro, nei riguardi dell’Italia. Se un trend di tale natura dovesse continuare nel 2002/2003 l’Italia dovrebbe superare la Germania nel ruolo di partner commerciale principale. Si tratta di una prospettiva significativa nella quale si ritrova la capacità di legare l’economia slovena a quella italiana. C’è da aspettarsi che nel futuro la tipologia degli scambi commerciali fra la Slovenia e l’Italia, e con questa la provincia di Venezia, tenda ad acquisire le forme del commercio orizzontale, con una specializzazione della Slovenia verso produzioni mature ma a buon livello tecnologico. Le esportazioni della provincia di Venezia verso la Slovenia hanno assunto un andamento stazionario, dopo un grande balzo dal 1994 al 1995, che caratterizza più o meno tutte le voci merceologiche fondamentali; si riscontra una polarizzazione dell’export in poche voci doganali: la chimica (materie plastiche e coke metallurgico), la meccanica (macchine e apparecchi utensili), l’industria del legno e l’industria del vestiario e dell’abbigliamento (calzature). Anche analizzando l’import per singole voci doganali si riscontra una polarizzazione nelle produzioni chimiche (prodotti chimici organici e inorganici) seguita dalla produzione di macchine e apparecchi (generatori elettrici e motori elettrici) e dalle industrie del legno e del sughero (legno comune segato e prodotti in vimini e giunco). Molto simili risultano anche le strutture produttive delle due “sponde”. Complessivamente nella provincia di Venezia le imprese si concentrano soprattutto nel settore del commercio all’ingrosso e al dettaglio (33,4%), seguite dalle attività manifatturiere (14,9%) e leggermente più indietro dalle costruzioni (14,5%). Per quanto riguarda la struttura dimensionale delle imprese, si evidenzia la centralità delle micro e piccole imprese: quasi la metà sono imprese individuali, oltre il 90% costituite da meno di 10 dipendenti. Meno numerose, ma pur sempre significative, sono le unità di medio-piccola dimensione (10–49 addetti). Nella Repubblica Slovena le imprese si ripartiscono equilibratamente in quattro importanti macro-settori: il commercio al dettaglio (23,4%), il settore dei servizi pubblici, sociali e personali (16,3%), i servizi alle imprese (13,8%) ed il settore manifatturiero (15,5%). La struttura produttiva Slovena è prevalentemente composta da micro e piccole imprese, con oltre il 90% delle unità concentrato nella fascia dimensionale 1-9 addetti; la micro-piccola dimensione è dominante in tutti i settori di attività fino a raggiungere concentrazioni quasi esclusive nei settori del trasporto e comunicazioni nel turismo, nel commercio e nei servizi alle imprese. Attraverso un’indagine empirica a doppio senso, ovvero ad imprese sia veneziane che slovene, si sono indagate le opportunità, le necessità di intervento e le modalità di attivazione dei contatti tra gli operatori delle due realtà nell’intraprendere rapporti commerciali. 133 n.4 / 2002 Nel caso delle imprese della provincia di Venezia il questionario è stato somministrato ad imprese che hanno intrattenuto o intrattenevano relazioni commerciali con la Slovenia al momento della rilevazione. Tali imprese hanno iniziato ad interessarsi maggiormente al mercato sloveno negli anni ‘90, cioè dopo la fine della Repubblica Jugoslava, in particolar modo dal 1994, in coincidenza con la proclamazione dell’indipendente Repubblica di Slovenia. La quasi totalità degli intervistati si rivolge al mercato sloveno per vendere propri beni, solo marginalmente decentrando una parte della propria attività; in quest’ultimo caso, per espressa manifestazione degli intervistati, essi sono stati spinti dall’esigenza di reperire manodopera a loro avviso carente nel Nord-Est e dall’opportunità di contenere i costi dei prodotti. Lo scarso peso della Slovenia come mercato di decentramento produttivo viene ascritto ai relativamente alti costi che il lavoro ha ormai raggiunto e che impediscono al Paese di essere competitivo nei confronti di altri paesi dell’Europa orientale. Dalle testimonianze raccolte si intuisce la difficoltà (dovuta alla piccola dimensione d’impresa ed alla non profonda conoscenza del mercato) ed a volte lo scarso interesse (dettato dall’incertezza economica del Paese in fase di transizione) ad avviare scambi commerciali. Una prima riflessione di natura propositiva emerge dalla lettura delle indicazioni relative a quali servizi, da attivare o implementare ulteriormente, le imprese intervistate ritengano più utili per avviare o incrementare l’attività di export in Slovenia, dando una quasi parità di importanza alla necessità di organizzare la partecipazione a manifestazioni fieristiche ed al reperimento di agenti o rappresentanti in Slovenia. Importante viene considerato anche il reperimento di maggiori informazioni sul mercato sloveno e sugli operatori economici esteri. L’ostacolo principale all’export verso la Slovenia resta la burocrazia, sia interna che esterna, troppo intricata e pressante, i costi di esportazione e dazi doganali di vario tipo e l’agguerrita concorrenza internazionale, soprattutto austriaca, instauratasi dall’apertura del mercato sloveno; per difendersi l’imprenditore veneziano avverte l’esigenza di fortificare l’immagine italiana in Slovenia creando un marchio di garanzia del “Made in Veneto”, sentendo altresì la mancanza di un sistema bancario nazionale di riferimento operante in zona, e notando nel contempo la presenza attiva dei gruppi creditizi tedeschi. Le piccole e medie imprese veneziane sono coscienti delle opportunità che il giovane Stato della Slovenia può offrire loro, ma spesso l’instabilità politica del passato e l’attuale fase di transizione economica trasmettono insicurezza nell’intraprendere in modo importante relazioni commerciali. Alla domanda sui possibili vantaggi che spingono a collaborare con la Slovenia, gli imprenditori interpellati mettono in luce come la vicinanza della nazione costituisca l’elemento cruciale per future cooperazioni, alla luce anche del fatto che, fra tutti i Paesi dell’Est, la Slovenia è quello più florido e prossimo all’adesione dell’Unione Europea. Altri vantaggi si riferiscono alla buona commerciabilità del prodotto (grazie a una domanda affine a quella italiana), alla ricettività del mercato ed alle maggiori facilitazioni sul piano fiscale. Sicuramente il mercato interno in espansione e l’aumento della domanda trainato dal progressivo innalzamento del livello di vita della popolazione costituiscono un forte elemento di attrazione per gli esportatori veneti, che oltretutto considerano la Slovenia come un ponte indispensabile per orientarsi verso i paesi dell’Est. 134 C.G.I.A. Mestre Slovenia Dal lato delle imprese slovene intervistate, circa un quinto del campione risulta costituito da imprese che intrattenevano rapporti commerciali con la provincia di Venezia, con assoluta predominanza delle importazioni ed al limite di rapporti simultanei di import/export. Praticamente tutte le imprese connesse con la provincia di Venezia si relazionano da almeno 10 anni, denotando rapporti ben consolidati vista la relativa giovinezza delle imprese slovene, dichiarando comunque un rapporto medio di importazioni dal veneziano sul fatturato inferiore rispetto all’analogo rapporto per le esportazioni dalla provincia di Venezia. Il canale maggiormente utilizzato per realizzare rapporti di interscambio con le ditte veneziane risulta senza dubbio il contatto diretto, approccio caratterizzato dalla conoscenza personale e dalla fiducia reciproca che genera quindi un intrinseco “valore aggiunto” al rapporto commerciale stesso. I principali ostacoli incontrati dalle imprese slovene nello sviluppare relazioni con la provincia di Venezia sono principalmente di natura finanziaria e legati alla conoscenza reciproca, quest’ultimo da superare tramite la realizzazione di un database di imprese del veneziano interessate al mercato sloveno ed in particolar modo verso quali produzioni o servizi si orientano. Si rivela unanime ed affermativa la considerazione riguardo a maggiori opportunità future per gli scambi con la provincia di Venezia da parte degli imprenditori sloveni, sicuri che l’ingresso della Slovenia nella Unione Europea abbatterà i problemi che ancora si legano alla presenza delle dogane ed alle residue difficoltà nei trasporti. In termini conclusivi, guardando alla struttura ed alla evoluzione dell’interscambio fra Slovenia e provincia di Venezia si percepisce una certa debolezza “relativa”, al di sotto del suo livello di massimo potenziale. Il livello dell’interscambio fra due aree dipende, naturalmente, da molti fattori, alcuni di carattere ambientale, ed altri di carattere più strettamente economico. Tra i fattori di carattere ambientale possono essere considerati i legami di ordine culturale, la vicinanza fisica, la presenza di un sistema di infrastrutture adeguate ai fini del collegamento tra tali aree. La struttura degli scambi fra le moderne economie avanzate è segnata dal ruolo del commercio orizzontale; in altri termini, le economie avanzate tendono a scambiare prodotti simili tra di loro oppure ad avviare rapporti di collaborazione basati su accordi di committenza e/o subfornitura. Da una seppur sommaria lettura dei dati descriventi la struttura del settore manifatturiero nelle due aree si ricava la maggior vocazione della Slovenia verso la metalmeccanica in generale, settore nel quale il veneziano non appare particolarmente forte. Eppure è proprio in tale settore che possono aversi processi di commercio orizzontale. Dunque, il veneziano esibisce una minore capacità di altre province ad intessere rapporti commerciali con la Slovenia nei settori che più contano. Tra l’altro, dall’indagine emerge come l’interesse delle imprese veneziane verso la Slovenia sia diventato per così dire “maturo”. In altri termini, sono relativamente poche le imprese veneziane che in anni recentissimi hanno preso ad interessarsi del mercato sloveno. Certamente esistono e persistono difficoltà nell’avviare e mantenere rapporti commerciali con un mercato in transizione, come quello sloveno, e tali difficoltà spesso portano le imprese – soprattutto quelle meno strutturate– ad abbandonare tale mercato, come emerso dalle risposte degli imprenditori. Tuttavia, tali difficoltà sono incontrate anche da imprese situate in altre province, precisamente in province italiane che hanno raggiunto risultati migliori nei 135 n.4 / 2002 loro rapporti con la Slovenia. Se originariamente, e cioè alla fine degli anni Ottanta, la Slovenia attirava un certo interesse come paese verso cui delocalizzare alcune produzioni, oggi può e deve attirare interesse in quanto mercato di consumo in evoluzione, un mercato da non sottovalutare. È probabile che attualmente le potenzialità del mercato sloveno siano, in una certa misura, sottovalutate dai produttori ed esportatori del veneziano. Una possibile ragione di tale atteggiamento può essere rinvenuta nella dimensione relativamente piccola del mercato. In effetti, la penetrazione di un mercato estero, con l’obiettivo di crearvi stabili rapporti, genera costi di impianto il cui livello iniziale è più o meno fisso, indipendentemente dalla dimensione del mercato stesso. In realtà, le cose possono essere viste in un’ottica diversa, in quanto un mercato, seppure piccolo, ma evoluto può presentare interesse proprio per aziende di piccole dimensioni, trattandosi di un mercato di nicchia. In certi settori le imprese del veneziano potrebbero ottenere risultati maggiori di quelli finora ricavati, purché sappiano adeguare segmenti delle proprie produzioni ai gusti ed al carattere dei consumatori sloveni. Per fare questo occorre dapprima individuare i settori nei quali i prodotti italiani godono di prestigio nel mercato sloveno e poi avviare prospezioni per analizzare i caratteri strutturali della domanda slovena, al fine di comprendere la psicologia e gli orientamenti del consumatore sloveno. In modo particolare, apparirebbe interessante analizzare il mercato sloveno nel campo della filiera della moda ed in quella dell’arredamento. Si tratta di due filiere nelle quali esiste una buona presenza di imprese del veneziano che, a priori, non possono non avere interesse per un mercato come quello della Slovenia. Si è visto che, in larga misura, finora i contatti tra le imprese acquirenti slovene e le imprese esportatrici del veneziano vengono effettuati su iniziativa delle prime. Si tratta di una strategia commerciale che assegna l’iniziativa alle imprese slovene e mette le imprese del veneziano in una posizione di debolezza contrattuale, di minorità. Uscire da tale situazione è necessario, se le imprese del veneziano non vogliono, in prospettiva, rischiare di rimanere escluse dal mercato sloveno. Prendere l’iniziativa, nel campo dell’export, significa creare strutture ed istituzioni stabili e capaci di costruire una solida rete di legami conoscitivi e commerciali. Le imprese del Nord-Est hanno saputo conquistare mercati importanti come quello tedesco e quello austriaco, per cui appare incongruo che esse soccombano davanti ad imprese tedesche ed austriache che competono nel mercato sloveno. Le imprese italiane, in generale, e quelle veneziane, in particolare, hanno la possibilità e la capacità di competere, con successo, con le altre imprese europee nel mercato sloveno, mercato che sarebbe un errore non prender in adeguata considerazione. Centro Studi C.G.I.A. Mestre [email protected] 136 C.G.I.A. Mestre Slovenia pubblicità 137 n.4 / 2002 LAPP LABORATORIO ATTORI POLITICHE PUBBLICHE Facoltà di Scienze Politiche Università di Padova 138 Carla Tedesco L’analisi delle politiche urbane europee Carla Tedesco L’analisi delle politiche urbane europee: alcuni frame emergenti Il sestante Tra i numerosi sviluppi della politica regionale europea, seguiti alla riforma dei fondi strutturali del 1988, un ruolo di un certo rilievo ha sicuramente assunto l’attenzione della Commissione verso il ruolo delle città nell’ambito del processo di integrazione europea. Più nel dettaglio, nell’ambito della revisione dei Trattati dell’Unione, nel 1991, la Commissione propose l’inclusione del “declino urbano” nella definizione degli obiettivi del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale. La proposta non fu però accettata dal Consiglio Europeo, sicché il Trattato di Maastricht non include alcun riferimento alle città, né assegna un mandato alla Comunità per lo sviluppo di una politica urbana. Tuttavia, pur in mancanza di uno specifico mandato in questo settore nei trattati dell’Unione, nell’ultimo decennio la dimensione urbana ha di fatto acquisito un ruolo sempre più rilevante nell’agenda politica comunitaria e, in particolare, nell’ambito della Direzione Generale (DG) “Politica regionale”. Così, se, in linea di principio, diverse erano le DG che potevano giocare un ruolo rilevante nel settore della politica urbana, facendosi promotrici di iniziative di intervento nelle città, è stata la DG “Politica Regionale” ad avere, infine, il sopravvento nell’ambito del conflitto innescatosi nei primi anni novanta per il controllo di questo settore di policy. In questo quadro di riferimento, si è assistito alla pubblicazione di alcune Comunicazioni della Commissione sulle questioni urbane, nonché al lancio di alcuni interventi in ambito urbano quali i Progetti Pilota Urbani, Urban e Urban II, finanziati dai fondi strutturali e compresi i primi tra le Azioni Innovative (azioni volte a migliorare la gestione ordinaria dei fondi strutturali), gli altri tra le Iniziative Comunitarie, ideate come strumenti finanziari speciali per l’attuazione delle politiche strutturali in settori particolarmente innovativi e significativi per lo sviluppo delle politiche comunitarie. Contemporaneamente, in letteratura, un numero crescente di studi ha riguardato la politica dei fondi strutturali, nonché, più nello specifico, le questioni urbane e le loro peculiari declinazioni nell’ambito del processo di integrazione europeo. Più nel dettaglio, alcuni studi hanno concentrato l’attenzione sul meccanismo di funzionamento della politica dei fondi strutturali, cercando di cogliere le relazioni tra tale meccanismo e la struttura istituzionale europea, verificando altresì l’efficacia di alcuni frame analitici nel descrivere un oggetto di assai difficile definizione quale l’Unione Europea. Altri studi hanno invece riguardato il ruolo delle città nell’ambito del processo di integrazione europea e messo in relazione alcuni fenomeni che investono le città europee – quali quelli di crescita della competizione urbana e di esclusione sociale – con temi, obiettivi e conseguenze di tale processo di integrazione. 139 n.4 / 2002 Ciò premesso, il percorso che qui si propone intende rinvenire possibili relazioni tra questi diversi filoni di studi. Il filo rosso che connette le scelte dei contributi considerati è individuabile partendo dalla ricerca delle possibili connessioni tra le iniziative di politica urbana comunitarie e i processi e i fenomeni che vengono riconosciuti anche nei documenti comunitari come caratteristici delle città europee. In definitiva, questo percorso intende sollevare una serie di interrogativi sul contributo che il contesto di policy europeo può fornire alle politiche urbane. Senza alcuna pretesa di esaustività, ci si riferirà di seguito ad un esiguo numero di contributi che, pur nella loro numerica limitatezza, possono essere considerati rappresentativi di alcuni dei temi e degli approcci emergenti nell’ambito degli studi urbani nel contesto comunitario. In particolare, tra gli studi che hanno guardato al meccanismo di funzionamento della politica dei fondi strutturali si prenderanno in considerazione quelli (forse i più diffusi) basati sulla teoria della governance urbana e, in particolare, sul concetto di multi-level governance (in particolare: Marks et al. 1996); nonché studi che, con specifico riferimento alle iniziative comunitarie di politica urbana, hanno utilizzato il concetto di gatekeeping, arrivando alla individuazione di un meccanismo di multi-level gatekeeping (Tofarides 2002). Per quanto riguarda invece gli studi che hanno avuto ad oggetto le relazioni tra questioni urbane e Unione Europea, si farà riferimento, in particolare, ad alcune delle predette Comunicazioni della Commissione sulle questioni urbane messe a punto e diffuse nel corso degli anni novanta (CEC 1994; CCE 1995; CCE 1997; CCE 1998); nonché a studi che guardano alle agglomerazioni urbane in Europa nell’ambito della crescita della competizione tra città e, più nel dettaglio, alle relazioni tra il processo di integrazione europea e l’emergere in Europa della competizione urbana (in particolare: Cheshire 1999); infine, a studi sull’esclusione sociale e sulle specifiche forme che essa assume nelle città dei diversi Stati membri (in particolare: Parkinson 1998). Politiche urbane e struttura istituzionale dell’Unione Europea: multi-level governance e multi-level gatekeeping Nell’ambito degli studi che hanno concentrato l’attenzione sul meccanismo di funzionamento della politica dei fondi strutturali, la chiave di lettura forse più diffusa è rappresentata dall’utilizzo del concetto di governance. Tale concetto, in linea con la sua grande diffusione nell’ambito della scienza politica nel corso degli anni ottanta e novanta, ha influenzato in modo rilevante le analisi teoriche ed empiriche sulla Unione fin dalla definizione dell’Atto Unico. Più nel dettaglio, le specificità del contesto europeo, e, in particolare, la comparsa di attori di livello regionale o comunque sub-nazionale nel processo decisionale europeo in seguito alla riforma dei fondi strutturali, hanno portato alla formulazione della teoria della multi-level governance, utilizzata da molti lavori di ricerca sulla politica dei fondi strutturali e utile a spiegare le modalità con le quali attori economici e politici di diversi livelli di governo (europeo, nazionale, regionale, locale) sono coinvolti nella complessità del meccanismo di policymaking europeo, giocandovi un ruolo di tutto rilievo. 140 Carla Tedesco L’analisi delle politiche urbane europee Prima di addentrarci nell’analisi dei principali assunti di uno dei principali lavori che hanno utilizzato questa prospettiva di osservazione, appare opportuno spendere alcune parole – seppure in modo sommario – sul ruolo che la teoria della multi-level governance riveste nell’ambito dell’evoluzione delle tesi sulla natura della struttura istituzionale europea. Le notevoli difficoltà incontrate dagli studiosi nel fornire una definizione dell’oggetto Unione Europea, non inquadrabile in alcune delle strutture istituzionali riconosciute, hanno prodotto un intenso dibattito sulle caratteristiche del governo europeo. Tale dibattito si è svolto tra due posizioni estreme: quella di coloro che ritenevano l’Unione assimilabile ad una organizzazione intergovernativa e quella di coloro che la assimilavano piuttosto ad uno stato sovranazionale. Più in particolare, sino all’inizio degli anni novanta l’approccio ‘Stato-centrico’ ha connotato il modo di intendere l’Unione, successivamente, si è riscontrata una tendenza crescente ad adottare l’idea dell’Unione Europea come un sistema politico unico, una polity europea multilivello, pur con contorni di assai difficile definizione. In questo quadro di riferimento, numerosi studi hanno iniziato a formulare approcci alternativi agli studi sulla Unione Europea, quale risposta alla provata inefficacia dell’approccio Stato-centrico nel descrivere l’influenza indipendente delle istituzioni sovranazionali e la mobilitazione degli attori locali direttamente nell’arena europea. La teoria della multi-level governance si è inserita nell’ambito di questi studi e vi ha assunto un ruolo di tutto rilievo. La scelta di riferirsi alla teoria della multi-level governance, concentrando l’attenzione sul lavoro di alcuni studiosi (Mark et al. 1996), è motivata dal fatto che questi autori richiamano la multi-level governance con specifico riferimento agli sviluppi della politica regionale che hanno fatto seguito alla riforma dei fondi strutturali, basandosi su un lavoro di ricerca empirica sulla implementazione della politica dei fondi strutturali. Marks ha successivamente esteso le sue considerazioni ad altri settori delle politiche europee (segnatamente alla politica di coesione) e ad altre fasi del processo di policy, ma ciò che del suo lavoro appare rilevante mettere in evidenza in questa nota, sono proprio le considerazioni sviluppate con riferimento alla politica dei fondi strutturali. Più nel dettaglio, Marks e gli altri coautori si riferiscono sia allo sviluppo da parte della DG “Politica regionale”, nel periodo successivo al 1988, di contatti sempre più intensi con i governi sub-nazionali, finalizzati a portare avanti la politica dei fondi strutturali; sia alla creazione di reti tra governi sub-nazionali. Nel caso europeo, infatti, è possibile parlare di governance sia con riferimento alle relazioni ‘orizzontali’ tra i diversi attori coinvolti nei processi di policy, sia a quelle ‘verticali’ tra i diversi livelli di governo. Questa è l’interpretazione che Marks e gli altri coautori forniscono del concetto di governance con specifico riferimento al caso europeo; interpretazione che li porta a teorizzare l’esistenza di un sistema di multi-level governance: “Il punto di partenza per l’approccio della multi-level governance è dato dall’esistenza tra livelli multipli di governo di competenze che si sovrappongono e di interazioni degli attori politici attraverso questi livelli. Gli esecutivi degli stati membri, sebbene potenti, costituiscono soltanto uno degli attori del sistema politico europeo. Gli Stati non costituiscono un legame esclusivo tra la politica interna e le contrattazioni intergovernamentali nella Unione europea. Alle assunzioni relative ad un gioco a due livelli adottate dai 141 n.4 / 2002 sostenitori dell’approccio Stato-centrico, i teorici della multi-level governance sostituiscono l’esistenza di una serie di policy networks multilivello. La struttura di controllo politico è variabile, non costante, nelle diverse policy arenas” (Marks et al. 1996, 41). Il riconoscimento della crescente mobilitazione degli attori ai vari livelli non dice tuttavia nulla su quali attori si mobilitano, né sul perché. Con questa consapevolezza, Marks e altri coautori esplorano le motivazioni che hanno portato alla costituzione delle rappresentanze regionali a Bruxelles, così sollevando la più generale questione della differenziazione della mobilitazione degli attori locali in virtù del territorio e dei settori di policy. In definitiva, gli stessi autori evidenziano come, assumendo una prospettiva di multi-level governance, resta da chiarire quali sono gli attori più rilevanti in questo gioco multilivello. E ciò non può che essere esplorato attraverso lavori di ricerca empirica in ciascun settore di policy. In proposito si prenderà in considerazione un recentissimo studio che si riferisce nello specifico alle iniziative comunitarie di politica urbana, inquadrandole nel più generale quadro della politica regionale europea successiva alla riforma dei fondi strutturali del 1988 (Tofarides 2002). Tale studio assume alcuni concetti sviluppati nell’ambito dei numerosi contributi che accusano la teoria della MLG di ignorare l’enorme influenza esercitata di fatto dagli Stati membri nei processi di policy europei e sottolinea, in particolare, la rilevanza del controllo esercitato, nell’ambito delle iniziative di politica urbana comunitarie, dagli Stati membri in ogni fase del processo di policy. Lo studio va oltre quanto ordinariamente osservato dai sostenitori dell’esistenza di un ruolo di ‘gatekeeper’ esercitato dai singoli Stati membri, rilevando che, nel caso delle politiche urbane, il ruolo di ‘gatekeeper’ è esercitato anche dagli altri livelli di attori coinvolti. In particolare, lo studio sottolinea che, nonostante l’esistenza di obiettivi e finanziamenti di livello sovranazionale, nell’ambito di tali iniziative, così come più in generale della politica regionale europea, è riscontrabile una tendenza – da parte dell’ampia gamma di attori di livello nazionale, regionale e locale – non solo a prendere parte al processo di policy, ma anche ad agire da ‘gatekeeper’ tra la concezione della politica a Bruxelles e la sua implementazione. Ciò è favorito dal fatto che la Commissione dipende dalla macchina organizzativa dei singoli Stati membri per l’implementazione delle sue politiche: così, se l’implementazione della politica regionale europea successiva alla riforma del 1988 coinvolge una vasta gamma di attori a livello nazionale, regionale e locale, questi possono agire da ‘gatekeeper’ al livello di propria competenza. Inoltre, nello specifico caso delle iniziative di politica urbana, il concetto di ‘gatekeeper’ può essere utilizzato anche per dar conto del tentativo da parte di individui o di associazioni, a livello di quartiere, di monopolizzare il processo di policy. Appare chiaro che i due diversi approcci a cui si è accennato sono accomunati dal riconoscimento del moltiplicarsi dei livelli di attori coinvolti nei processi di policy europei, ma riconoscono ad essi ruoli e pesi differenti. La questione meriterebbe ben altri approfondimenti, che ci porterebbero lontano dal percorso che si è inteso tracciare in questa breve nota. Per questa ragione, e al di là di queste considerazioni, ciò che qui rileva mettere in evidenza è che il riconoscimento della pluralità di attori presenti nei processi di policy europei apre una serie di 142 Carla Tedesco L’analisi delle politiche urbane europee interrogativi circa i rapporti tra la circostanza di disporre di un contesto di policy europeo in cui promuovere iniziative di intervento in ambito urbano, da un lato, e gli obiettivi delle stesse iniziative dall’altro. Al fine di rintracciare questi rapporti appare utile ricostruire un quadro dei temi attorno ai quali è stata costruita l’attenzione della Commissione nei confronti dei problemi urbani. L’attenzione europea verso i problemi delle città: promozione della competitività e lotta all’esclusione sociale Sin dall’inizio degli anni novanta, alcuni documenti della Commissione hanno riconosciuto il ruolo cruciale delle città nell’ambito del processo di integrazione europea, sottolineando in primo luogo che, con circa i tre quarti della popolazione comunitaria concentrata in aree urbane, l’Unione Europea è la regione più urbanizzata del mondo; in secondo luogo, che le città europee sono allo stesso tempo luoghi di opportunità per lo sviluppo economico, l’innovazione tecnologica e i servizi pubblici, ma anche luoghi di congestione, inquinamento, declino industriale e esclusione sociale (CEC 1994). In tali documenti ha cominciato a profilarsi l’idea, sviluppata successivamente in modo più ampio, secondo cui a causa della concentrazione della popolazione europea nelle aree urbane, alcune DG, pur in mancanza di una specifica politica urbana comunitaria, intraprendano di fatto azioni che investono le aree urbane e che ne affrontano le problematiche. Le idee della Commissione sulle questioni urbane sono state più diffusamente sviluppate in due Comunicazioni, diffuse alla fine degli anni novanta. La prima Comunicazione, intitolata “La problematica urbana: orientamenti per un dibattito europeo” (CCE 1997) e pubblicata nel maggio 1997, riconosce quali problemi delle città europee la disoccupazione, l’emarginazione sociale, gli squilibri nel sistema urbano europeo, la qualità dell’ambiente, l’indebolimento della partecipazione ai processi della democrazia locale; quindi passa in rassegna le azioni condotte a livello della Unione europea in relazione allo sviluppo urbano, prospettando la necessità che le politiche di competenza dell’Unione adottino una “prospettiva urbana”, ossia contribuiscano allo sviluppo delle città. La seconda Comunicazione, “Quadro d’Azione per uno sviluppo sostenibile dell’Unione europea” (CCE 1998), oltre a sottolineare l’importanza della dimensione urbana nelle politiche comunitarie, fa propria sul piano operativo l’idea di promuovere azioni che consentano di ottenere “una maggiore efficacia delle politiche comunitarie previste dal trattato, aumentandone la sensibilità verso le problematiche urbane” (CEE 1998, 2). Lo sguardo sulle città europee della Commissione pone, dunque, l’accento su due aspetti diversi. Per un verso, le città sono considerate il motore economico dell’Europa; per altro verso, esse sono viste come luoghi in cui si concentrano gravissimi problemi sociali: “In Europa le città rappresentano tradizionalmente la principale fonte di creazione di ricchezza e sono al centro dello sviluppo socioculturale; crescono però i problemi dovuti ai rapidi cambiamenti economici, alla disoccupazione, alle condizioni ambientali e alla congestione del traffico, nonché alla povertà, agli alloggi inadeguati, alla criminalità e alla droga” (CCE 1998, 3). A ben guardare, la duplicità dello sguardo europeo sulle città può essere messa in relazione con il concetto di coesione economica e sociale, uno dei capisaldi 143 n.4 / 2002 1 Nel Libro Bianco della Commissione viene delineato un programma di azione che ha, tra gli altri obiettivi, proprio quello del rafforzamento della solidarietà tra regioni e tra gruppi sociali. 144 del Trattato di Maastricht. La coesione è definita nel Trattato in termini di “sviluppo armonioso”, ossia ponendo l’accento sulla necessità di ridurre il divario sia tra i livelli di sviluppo delle diverse regioni europee, sia tra i gruppi sociali. Alla base della coesione vi è il concetto di “economia di mercato sociale”, che “si propone di conciliare un sistema di organizzazione economica basato sulle forze di mercato, sulla libertà di opportunità e di impresa con l’impegno a favore dei valori di solidarietà interna e sostegno reciproco che garantiscono a tutti i membri della società il libero accesso ai servizi generali di assistenza e protezione” (CCE 1997/b, 13). Ora, la strategia individuata a livello comunitario al fine di perseguire la coesione comporta per un verso, che venga accresciuta la competitività delle regioni più deboli, per altro verso che vengano utilizzati sistemi universali di protezione sociale, disposizioni che rimedino alle inefficienze del mercato, sistemi di dialogo sociale (CCE 1997/b). La strategia complessiva definita nel Trattato di Maastricht e dal Consiglio Europeo attraverso la pubblicazione del Libro Bianco “Crescita, competitività, occupazione”1 ha evidenti implicazioni territoriali. Alcune di queste implicazioni sono state esplicitamente evidenziate dalla Commissione con la pubblicazione di Europa 2000+, un documento che si propone di “orientare la discussione in corso” sulle questioni rientranti nell’ambito della pianificazione territoriale, migliorando la base delle scelte politiche in materia, ma senza interferire nelle responsabilità delle autorità nazionali, regionali e locali (CCE 1995, 4). Tre sono le implicazioni della suddetta strategia comunitaria che vengono messe in evidenza. Anzitutto, la necessità di “un territorio europeo più competitivo” dal duplice punto di vista della competitività globale e della competitività delle varie aree dell’Unione; poi, la necessità di “un territorio capace di uno sviluppo sostenibile”; infine, l’esigenza di “un territorio più solidale, organizzato più equamente e nel rispetto della coesione economica e sociale”, laddove i principali problemi al raggiungimento della coesione sono considerati la perifericità, l’esclusione sociale e le disparità economiche (CCE 1995, 16-19). In questo quadro di riferimento, due appaiono i significati attribuibili all’obiettivo di perseguire la coesione economica e sociale e riguardanti nello specifico il ruolo delle città. Il primo è quello di accrescere la competitività delle città europee a livello globale: è cioè la declinazione europea del tema delle città come ‘nodi di reti’ e, più in generale, delle tematiche relative alla competizione territoriale. Il secondo è quello di perseguimento della coesione all’interno delle città e, in particolare, di lotta ai fenomeni di ‘esclusione sociale’. Appare opportuno specificare che in alcuni documenti è possibile rinvenire tracce della consapevolezza, da parte europea, delle difficoltà insite nel perseguire questo duplice obiettivo: “L’esperienza di diverse città (...) indica che, sebbene il declino economico causi l’esclusione sociale, lo stesso può dirsi per la crescita economica. L’aumento della competitività non risolve il problema dell’esclusione” (CEC 1994, 4). Tuttavia, il duplice obiettivo di promozione della competitività e lotta all’esclusione sociale è generalmente trattato in modo assai poco problematico. Così, la competitività dei sistemi locali viene vista come condizione di competitività della Unione, ma non è specificato come questa accresciuta competitività possa contribuire a combattere gli squilibri all’interno delle città e, nello specifi- Carla Tedesco L’analisi delle politiche urbane europee co, l’esclusione sociale. Per altro verso, i problemi dell’esclusione sociale sono affrontati a livello comunitario a partire comunque dall’imperativo economico, che sembra caratterizzare le politiche dell’Unione Europea. Ed infatti l’obiettivo della “efficienza di mercato”, inteso come “necessità di sfruttare pienamente i meccanismi del mercato per sviluppare le potenzialità economiche delle zone e dei sistemi urbani” è uno dei principi sui quali è costruita la promozione di azioni in ambito urbano a livello comunitario (CCE 1998, 11). Per quanto riguarda l’aumento della competitività quale strumento per la riduzione degli squilibri tra territori, può essere interessante partire dalla definizione stessa di ‘competizione territoriale’. Cheshire la definisce come “un processo attraverso il quale gruppi di attori economici a scala regionale o sub-regionale (tipicamente di city region) cercano di promuovere un’area per la localizzazione di attività economiche, in competizione esplicita o implicita con altre aree” (Cheshire 1999, 853). Ancora, la competizione territoriale “riguarda l’efficienza economica (concepita meramente a livello locale) non l’equità spaziale”; essa “può essere vista come la produzione di un bene pubblico locale, in questo caso sviluppo economico locale addizionale” (Cheshire 1999, 853). Ora, dagli studi che hanno affrontato il tema del rapporto tra competizione territoriale e processo di integrazione europea emerge che tale processo ha rinforzato e continuerà a rinforzare i vantaggi esistenti, che tendono ad estendersi dal “cuore” alla vicina periferia (Cheshire 1999). In proposito, appare opportuno osservare che la competizione sembra favorire le città nelle quali si verificano particolari condizioni, capaci di favorire la mobilitazione degli attori locali nell’arena europea. Per quanto riguarda invece le strategie di lotta all’esclusione sociale, anche in questo caso appare necessario in primo luogo fornire una definizione del concetto di esclusione sociale. Tale concetto è via via penetrato a livello comunitario nel corso degli anni novanta, dopo aver già informato di sé la politica urbana nell’ambito degli Stati membri negli anni immediatamente precedenti. Esso può essere considerato come un compromesso, seguito al dibattito politico nell’ambito del quale alcuni Stati (segnatamente Gran Bretagna e Germania) rifiutavano di estendere una serie di iniziative europee di lotta alla povertà, in quanto restii ad ammettere l’esistenza della povertà nel proprio contesto nazionale, sulla base della convinzione che questa fosse prevenuta da efficienti operazioni sul mercato del lavoro e da meccanismi di welfare (Parkinson 1998). Paradossalmente, il concetto di esclusione ha assunto un significato più ampio di quello di povertà: “La povertà è solitamente definita principalmente in termini di basso reddito e bisogni materiali; l’esclusione sociale implica qualcosa in più. Si tratta di un concetto più ampio, più dinamico, che enfatizza le modalità con le quali le persone sono tagliate fuori dalle dinamiche sociali, economiche e politiche” (Parkinson 1998, 1). In definitiva, assai problematici risultano i rapporti tra due ordini di strategie entrambe perseguite a livello europeo: quelle tese ad aumentare la competitività delle città e quelle di lotta all’esclusione sociale. Ciò appare confermato dalla circostanza che la presenza nelle città europee di fenomeni di esclusione sociale è indipendente dalla loro ubicazione geografica; anzi, tali fenomeni sono rinvenibili non solo nell’ambito di città in declino, ma anche all’interno di città economicamente prospere (CCE 1995). 145 n.4 / 2002 Alcune considerazioni conclusive Il riconoscimento della Unione Europea quale sistema politico multilivello in una prospettiva di multi-level governance vede l’emergere di una serie di attori di livello non solo nazionale, ma anche sub-nazionale nei processi di policy europei. Al di là del ruolo effettivo che essi assumono e del potere effettivo di cui godono nei processi decisionali (potere che, secondo quanto evidenziato dai sostenitori di altri approcci, quale quello basato sul concetto di ‘gatekeeping’, è piuttosto di fatto mantenuto a livello dei governi nazionali) restano da esplorare le relazioni tra il moltiplicarsi dei livelli di attori e l’efficacia dell’intervento comunitario nelle città. A tal fine diviene di cruciale importanza comprendere quali sono gli obiettivi che l’azione comunitaria in ambito urbano si pone. Così, nella prospettiva di una governance multilivello, l’obiettivo della promozione della competitività urbana si confronta necessariamente con la effettiva capacità degli attori locali di mobilitarsi nell’arena europea, la quale appare strettamente legata ai rapporti di forza esistenti, più che alla capacità effettiva di rafforzamento delle città più deboli attraverso l’azione europea. Tale prospettiva risulta ulteriormente complicata se si guarda poi all’obiettivo di lotta all’esclusione sociale, il cui perseguimento risulta spesso di difficile coniugazione – se non in vera e propria contraddizione – con quello di promozione della competitività urbana. Riferimenti bibliografici CCE (1998), Quadro d’azione per uno sviluppo urbano sostenibile nell’Unione Europea, COM (1998) 605, finale, 28.10.1998, Bruxelles. CCE (1997/a), La problematica urbana: orientamenti per un dibattito europeo. COM (97) 197, def., 06.05.97, Bruxelles. CCE (1997/b), Primo rapporto sulla coesione economica e sociale. 1996, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, Lussemburgo. CCE (1995), Europa 2000+. Cooperazione per lo sviluppo del territorio europeo. Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, Lussemburgo. CEC (1994), Community Activities in Urban Matters. Bruxelles, Directorate General XVI Regional Policies. Cheshire, P. (1999), “Cities in Competition: Articulating the Gains from Integration”, Urban Studies, vol. 36 n. 5-6, pp.843-864. Marks, G., Scharpf, F.W., Schmitter, P.C., Streeck, W. (1996) Governance in the European Union, Sage, London. Parkinson, M. (1998), Combating social exclusion. Lessons from area-based programmes in Europe, The Policy Press, Bristol. Tofarides, M. (2002), Urban Policy in the European Union: a Multi-level Gatekeeper System, in corso di stampa, Ashgate, Aldershot Carla Tedesco è dottore di ricerca in Pianificazione e Politiche Pubbliche del Territorio (Daest, IUAV). Attualmente è titolare di un assegno di ricerca presso il Dipartimento di Architettura e Urbanistica del Politecnico di Bari. [email protected] 146 Marco Almagisti Il modello neo-repubblicano: le origini concettuali Il sestante Nell’ultimo quarto di secolo, i contributi di numerosi studiosi hanno dato forma ad una sorta di modello che è stato definito neo-repubblicano, una formula che contiene al proprio interno analisi eterogenee di autori che possono essere accomunati dal grande rilievo riconosciuto all’evoluzione dei concetti politici e dall’intenzione di ridiscutere, per tale via, alcuni presupposti tradizionali della storia delle dottrine politiche: “a partire da The Machiavellian Moment di John Pocock e continuando con Quentin Skinner e Philip Pettit, [essi] sviluppano la convinzione che Roma antica sia stata l’iniziatrice di una filosofia politica, indipendente da quella dei Greci, che ha avuto tra i continuatori più rilevanti: la Repubblica di Firenze, prima del ritorno dei Medici; molti avversari della corona inglese prima della Gloriosa Rivoluzione; molti teorici della Rivoluzione Americana, compreso Madison; molti avversari del regime prima della Rivoluzione Francese” (Gangemi 2001, 107). In particolare, Pocock e Skinner sono stati, dalla seconda metà degli anni Sessanta, parte di un movimento di studiosi (sviluppatosi in origine a Cambridge) “intenzionati a rimodellare la storia del pensiero politico, presentandola come storia del linguaggio e del discorso politico” (Pocock 1980, 17)1. La scelta degli elementi da valorizzare, operazione indispensabile quando si richiama una tradizione di pensiero vasta e complessa, presuppone di soffermarsi, in questa sede, su due questioni intrinsecamente legate: la partecipazione politica diffusa e la legittimazione del conflitto, che rendono peculiare la tradizione repubblicana (e in particolare il contributo di Machiavelli). La successione degli argomenti che tratteremo può essere così sintetizzata: 1) La riscoperta del linguaggio repubblicano; 2) Il concetto di virtù nel Principe; 3) il concetto di virtù nei Discorsi (virtù repubblicana); 4) il confronto con la teoria politica di Hobbes; 5) la rilettura di Vico e la fecondità attuale del pensiero repubblicano. Un’indagine che non potrà che risultare parziale e sommaria, data la vastità degli argomenti considerati, in particolare nella ricostruzione effettuata da Pocock (1980), davvero straordinaria per la complessità dei temi affrontati e per la profondità dell’analisi condotta. Inoltre, si deve considerare un limite fondamentale di questi approcci “contestualisti” che consiste nella determinazione a ricostruire il contesto effettivo in cui si è sviluppata una particolare linea di pensiero (comprendere il “Machiavelli in sé”), senza avvertire il peso che, su di sé, grava in virtù della consapevolezza stessa delle conseguenze politiche che sono scaturite dagli accadimenti verificatisi in quel contesto.2 1 Con l’espressione, non certo originale nella storia del pensiero, “Scuola di Cambridge” si intende fare riferimento, in questa sede, agli storici contestualisti contemporanei e cioè, essenzialmente, a Pocock e Skinner. 2 Il contesto rappresenta, sotto questo profilo, un costrutto metafisico. Esso non può coincidere fra il soggetto che agisce e il soggetto che ricostruisce gli accadimenti ex-post. In altri termini, non vi può essere coincidenza fra il contesto in cui operava Machiavelli e quello ricostruito più di quattro secoli dopo da Pocock e Skinner. Consapevolezza (della fallace inseità del “nostro” Machiavelli) che deve essere ancora maggiore in chi, come noi, effettua delle ricostruzioni di “secondo grado”. 147 n.4 / 2002 3 L’epoca di transizione dal policentrismo comunale al progressivo insediarsi della sovranità statuale è riassumibile da un’efficace metafora di Alberto Tenenti: “La fase che va dal 1250 al 1350 rappresenta per lo Stato qualcosa di simile a quella degl’incunaboli per l’editoria: un innegabile momento di gestazione ed articolazione” (Tenenti 1997, 54). Una fase innovativa preparata nelle Università, con la riscoperta del diritto romano e del Corpus iuris civilis di Giustiniano, prima a Bologna (con Irnerio e Pepo), poi a Parigi, Oxford, Padova, Pavia, Siena e Firenze e successivamente sviluppata dal confronto fra giuristi post-glossatori di formazione scolastica e retori di formazione umanistica. 4 Il collasso dell’esperienza romana oscura anche i riferimenti alla polis; nel linguaggio politico medievale compaiono termini come rex e regnum, ma raramente ci si riferisce ad un’idea di bonum comune utilizzando l’espressione res publica. Come sottolineano Ullmann (1982), Skinner (1989) e Panebianco (1993), per tale ripoliticizzazzione del bonum comune risulterà essenziale la rilettura delle riflessioni politiche costantinopolitane. 5 148 Che lo Stato si distin- La riscoperta del linguaggio repubblicano Considerando queste premesse, interrogare il pensiero repubblicano significa, in primo luogo, ripercorrere la storia del suo linguaggio, ossia della retorica della “vita activa” e del “vivere civile” (quella particolare concezione della libertà intesa come partecipazione politica responsabile al governo repubblicano), a fianco dei linguaggi coevi – considerati anch’essi come veicoli del pensiero politico – derivanti dalla giurisprudenza successiva all’età dei glossatori e dalle dispute scolastiche. L’arco temporale considerato coincide, sostanzialmente, con il processo mediante il quale si viene formando il concetto moderno di Stato: la rinascita delle città dopo l’anno Mille, l’esperienza delle città-repubblica dell’Italia settentrionale (de jure vassalle del Sacro Romano Impero, ma de facto dotate di un elevato grado di indipendenza) all’interno della quale Firenze, sin dall’inizio del Trecento, si erge come la “principale paladina delle libertà repubblicane” (Skinner 1989, 51), la crisi di tale esperienza, consustanziale alla produzione di una compiuta ideologia repubblicana.3 Alla rarefazione dei concetti astratti sul terreno della politica, che caratterizza l’epoca che intercorre fra la Patristica e il XIII secolo,4 fa riscontro una significativa ripoliticizzazione del bonum comune nell’esperienza comunale. In tale contesto ricompare il concetto latino di civitas; “ma, quando, in Europa, la genesi di ordinamenti territoriali di grandi dimensioni, che non potevano più essere ricondotti ad un centro urbano e al suo contado, rese manifesta l’inadeguatezza del termine; la parola Stato, ricavata isolando la componente “struttural-istituzionale” dell’espressione status rei publlicae, prese il sopravvento e finì, sia pur gradualmente, per imporsi” (Portinaro 1999, 33). Risulta interessante notare la discrepanza che si verifica, nella loro comparsa, fra la “parola” e la “cosa”: il termine status incomincia a circolare nel linguaggio politico in una fase in cui “il referente non è ancora un’organizzazione centralizzata né un’impresa istituzionale di tipo razionale, né un gruppo politico riconosciuto legittimo” (Portinaro 1999, 31). Tuttavia, già dai primi decenni del Trecento, al termine status vengono collegati attributi abbastanza definiti: stabilità, durata, compattezza.5 Attributi che acquisiscono grande rilevanza nel contesto storico drammatico che investe Firenze nel “momento machiavelliano”, in cui la forma politica della repubblica è posta di fronte alla propria limitatezza temporale, a causa di eventi “reputati di per sé eversivi di qualsiasi tipo di ordinamento mondano che pretendesse di avere una sua stabilità nella storia” (Pocock 1980, 8): la sconfitta della repubblica nel 1512 e il rientro dei Medici dopo diciotto anni di esilio, un’altra breve esperienza di autogoverno nel 1527-30 ed un nuovo inesorabile declino delle libertà repubblicane che conduce Firenze ad essere calpestata da eserciti stranieri e, dal 1532, alla Signoria perpetua dei Medici, da cui origina il Granducato di Toscana. Secondo Pocock, i retaggi di tali vicende contribuiscono all’elaborazione di una riflessione politica “che costituisce parte del cammino percorso dal pensiero occidentale nel giungere dalla concezione cristiana del Medioevo a quella storicista dell’età moderna (…). Il prodotto finale dell’esperienza fiorentina fu una socio- Marco Almagisti Il modello neo-repubblicano logia della libertà, quanto mai elaborata ed affascinante, che Firenze passò in retaggio all’illuminismo europeo e alle rivoluzioni d’Inghilterra e d’America” (Pocock 1980, 9 e 207). In coerenza con tale ipotesi continuista che sorregge l’opera di Pocock, l’introduzione all’edizione italiana del 1980 è incentrata sulla polemica con l’impostazione dei neo-aristotelici, che “limita la storia della filosofia all’affermazione di una dottrina classica del diritto naturale e al sovvertimento di tale dottrina operato dall’individualismo e dallo storicismo moderni” (Pocock 1980, 22). Mentre la concezione neo-aristotelica (à la Leo Strauss, à la Eric Voegelin) riduce Machiavelli a semplice precursore di Hobbes nell’opera di frantumazione dell’ordine naturale della società e nella “consegna” dell’individuo, confinato nel proprio isolamento competitivo, alla “sovranità manipolatrice di qualche principe” (Pocock, 1980, p. 23), Pocock sostiene, che il concetto repubblicano di virtù sia utilizzato, nel Sei-Settecento proprio per “costruire una critica alle emergenti tendenze individualistiche e liberistiche della società commerciale” (Pocock 1980, 23). In questo senso, se è lecito cercare di “contestualizzare storicamente” le analisi articolate dagli storici contestualisti, possiamo affermare che, in gran parte, il loro contributo risulta arricchito dalla considerazione dei relativi bersagli polemici: in particolare, appare evidente l’intenzione di Pocock di presentare il modello repubblicano in sostanziale contrasto rispetto alla concezione della storia del pensiero politico (e alle interpretazioni della Rivoluzione americana) propria di quanti ritengono l’individualismo liberale ideologicamente egemone, sin dagli albori del moderno (ciò spiega l’imponente tentativo pocockiano di rilettura del patrimonio aristotelico all’interno delle categorie repubblicane). L’intero volume secondo dell’opera di Pocock è dedicato allo studio del “momento machiavelliano” nel pensiero inglese e americano dell’età moderna, al fine di dimostrare come la tradizione politica anglofona sia portatrice di concetti repubblicani almeno quanto di concetti costituzionalisti (lockiani), al punto che la Rivoluzione americana viene considerata come l’ultimo grande atto dell’umanesimo civile del Rinascimento.6 Si tratta di una questione centrale per tutti gli studi che si prefiggono di approfondire la conoscenza del repubblicanesimo e attraversa anche i dibattiti che contrappongono individualisti e comunitaristi: se il “momento machiavelliano” non è altro che una tappa che avvicina al Leviatano, allora non è da una sua rivalutazione che possono essere messe in dubbio le letture egemoni circa la genesi del liberalismo moderno e la riduzione della storia delle dottrine politiche alla contrapposizione dicotomica, sostenuta da McYntire, fra individualismo liberale e varie forme di aristotelismo. L’ipotesi continuista è messa in dubbio da Skinner, la cui opera deve essere interpretata considerandone l’obiettivo polemico essenzialmente costituito dalle teorie comunitariste, come quelle di McYntire, da cui scaturisce la volontà di Skinner di presentare il repubblicanesimo come fondato su una particolare forma di libertà negativa (Berlin 1994), meritevole di essere distinta dalla dottrina liberale classica. Questa contrapposizione contribuisce a spiegare l’importanza riconosciuta da Skinner, anziché ai retaggi aristotelici, ad autori romani come Cicerone e Sallustio nella genesi del pensiero repubblicano (che, in questa accezione, è stato gua dalle forme politiche pregresse per il fatto di affontare meglio la contingenza è convinzione di decisionisti come Schmitt (1972) e Miglio (1988). A quest’ultimo si deve la precisa etimologia del termine in questione che risale alla radice indogermanica sta, da cui discendono svariati concetti di natura istituzionale e che richiama i significati, al contempo, di stare (stehen) e di porre (stellen). 6 La versione americana dell’ideologia repubblicana deriverebbe dalla retorica dell’opposizione, nel Parlamento inglese e nelle colonie, al regime whig, sotto il regno di Anna, Giorgio I e Giorgio II e continuerebbe a permeare, secondo Pocock, alcune categorie interpretative della condotta politica di un Paese, quello americano, che non ha conosciuto le esperienze “delle rivoluzioni e della costruzione dello Stato proprie dell’Europa moderna” (Pocock, 1980, p. 65). 149 n.4 / 2002 7 Sulla concezione della libertà repubblicana come libertà negativa non concorda un autore come Pettit (2000) che pure risulta profondamente debitore rispetto all’analisi di Skinner. Pettit afferma esplicitamente di considerare il modello repubblicano come una sorta di “terza via” rispetto alla contrapposizione fra individualismo e comunitarismo, tentativo teorico condotto, in Italia, anche da Viroli (1999) e che ha contribuito a modificare l’originaria impostazione dello stesso Skinner. Per approfondimenti si rimanda all’interessante introduzione al libro di Pettit effettuata da Marco Geuna. 8 In realtà, Skinner dimostra come Machiavelli non formuli una dottrina della “ragion di Stato” (espressione che non figura mai nei suoi scritti), a differenza di quanto sostengono nelle proprie riletture i tomisti domenicani e gesuiti. Comunque, ai fini di una compiuta teoria dello Stato risulta ancora troppo marginale, nel Principe, il requisito, tipicamente moderno, dell’astrattezza, essendo, lo status percepito ancora come assetto di potere eminentemente personale. 150 anche, coerentemente, definito “teoria neo-romana).7 Indubbiamente nel pensiero repubblicano sono presenti elementi di lacerazione rispetto alle concezioni pregresse, come è disposto a riconoscere anche Pocock, in quanto esso accelera quel processo di considerazione del politico come dimensione distinta rispetto ad una destinazione di senso trascendente ed indisponibile: il “vivere civile” repubblicano è già altro rispetto alla concezione medievale di una comunità “che resti ligia a comportamenti consuetudinari, situata in qualche parte dell’ordine eterno” (Pocock 1980, 147). La forma politica viene distinta dall’ordine presunto-naturale della gerarchia tradizionale: “la repubblica non era atemporale, proprio perché non rispecchiava, in virtù di una mera corrispondenza, l’ordine eterno della natura (…). Dunque, il dare valore alla repubblica equivale a spezzare la continuità atemporale dell’universo gerarchico in tanti momenti particolari e cioè in quei periodi della storia in cui erano esistite delle repubbliche e che erano degni d’attenzione” (Pocock 1980, 154--55) da un lato, e, dall’altro, in periodi in cui le repubbliche erano sopraffatte da altre forme di dominio, periodi cui viene attribuito un giudizio di valore negativo. La concezione della storia propria al pensiero repubblicano si caratterizza, pertanto, dalla presenza di giudizi di valore relativi all’analisi delle forme di governo. Questo è il motivo che induce Pocock e Skinner a soffermarsi sull’analisi machiavelliana delle forme di governo e sulla riflessione, connessa, circa la virtù. La virtù del Principe Un’opinione molto diffusa attribuisce al segretario fiorentino un primo discorso organico ed articolato sullo Stato (Portinaro 1999, 35), in virtù del celebre incipit del Principe in cui “stati” e “domini” sono utilizzati come genere astratto rispetto alla specie “principato” e “repubblica”.8 Alla luce della propria predilezione per la storia della repubblica romana, rispetto alla polis greca, Machiavelli riduce la tipologia delle forme di governo dalla tripartizione aristotelico-polibiana (riesumata alla fine del XII secolo) ad una bipartizione: principato (governo di uno) e repubblica (governo di molti). La tripartizione aristotelico-polibiana si struttura in base ad un criterio quantitativo: regno (governo di uno), aristocrazia (governo di pochi), politia (governo di molti), cui si aggiunge un criterio qualitativo, in virtù del quale ognuna delle suddette forme identificata come “retta” prevede una propria forma “degenerata” (rispettivamente tirannide, oligarchia e democrazia, intesa come demagogia, lungo un continuum modulato dalla legge naturale dei cicli storici, la polibiana anakiklosis). Nella bipartizione machiavelliana accanto al criterio quantitativo, manca quello qualitativo; viene meno, pertanto, ogni distinzione fra forme rette e degenerate. Accantonate le repubbliche, che non rappresentano, per ora, il proprio oggetto d’analisi, Machiavelli esprime l’ovvia constatazione che i principati sono ereditari o nuovi; nuovamente ignora il primo termine dell’antitesi per introdurre un’ulteriore distinzione che conduce direttamente al fulcro della sua riflessione: “i principati nuovi (…) si acquistano o attraverso la virtù e per mezzo di armi proprie, o attraverso la fortuna e per mezzo di armi altrui” (Skinner 1999, 31). Come evidenzia anche Norberto Bobbio (1976), Machiavelli concepisce il Principe quale strumento per incidere immediatamente sulla realtà politica cir- Marco Almagisti Il modello neo-repubblicano costante: in particolare, è necessario sottolineare l’invocazione finale dell’opera al principe nuovo che tragga l’Italia dal “barbaro dominio”, in cui sta tragicamente sprofondando in seguito alle guerre che dal 1494 hanno per oggetto proprio il dominio sulla penisola. In questo caso, essendo il principe nuovo un tiranno – secondo una nota definizione di Bartolo da Sassoferrato – ex defectu titoli (cioè un usurpatore), per Machiavelli decade la distinzione classica fra principe (retto) e tiranno (degenerato); anzi, il tyrannus ex defectu titoli ha per lui una valenza positiva, è un innovatore, il fondatore di un nuovo ordine politico. Rimuovendo la distinzione fra forme di governo rette e forme degenerate, il criterio per distinguere la buona dalla cattiva politica resta il successo, identificato con la capacità di conservare lo status. Si verrebbe, quindi, ad imporre la stabilità come valore in sé, conseguenza del disgregarsi dei riferimenti tradizionali e delle antiche sicurezze. In effetti, la figura del principe “nuovo” si colloca al di fuori della sfera concettuale della politica medievale (ma anche di quella antica), in quanto pone la questione di un fondamento di legittimità disgiunto dalla tradizione e dalla consuetudine. Conseguentemente, Machiavelli evidenzia la necessità di una virtù straordinaria che deve possedere chi innova.9 In questo caso egli traduce (e trasfigura) all’interno del proprio pensiero altamente innovativo concezioni proprie dell’umanesimo classico: secondo la distinzione latina, la virtù è quella dote che rende capaci di resistere ai colpi della fortuna. Quest’ultima è particolarmente sensibile alla virtus dell’autentico vir (dell’uomo “virile”, audace), come deve essere, necessariamente, l’innovatore.10 Questa concezione “tecnica” della virtù, che emerge in particolare nei capitoli XV e XVIII del Principe, apre scenari di discontinuità radicale rispetto al patrimonio concettuale della filosofia politica classica: la gestione del potere si “secolarizza”, la politica si spiega facendo riferimento a regole e principi prevalentemente autonomi. Ne risulta sovvertito il rapporto tradizionale fra “legge di Dio” e politica: per Machiavelli la religione diviene un instrumentum regni, subordinato alla progettualità politica, innalzata, quest’ultima, al rango di riferimento intellettuale supremo, e alla razionalità strumentale orientata al mantenimento/rafforzamento del potere del Principe. Il tema della virtù, nel Principe, è circoscritto a particolari individui, principi e condottieri. In precedenza, abbiamo ricordato come tale opera sia concepita per incidere sulla realtà politica circostante: Machiavelli scrive con il chiaro intento – confidato a Vettori – di farsi notare da “questi signori Medici” (Skinner 1999, 30). Egli si trova in una condizione che l’accomuna a tanti umanisti tardo-rinascimentali, come Patrizi, che pur preferendo personalmente le istituzioni repubblicane, si devono adeguare ad un contesto caratterizzato dalla forma di governo di un principe (nuovo), nella speranza di ottenerne i favori. Di conseguenza, nel Principe, Machiavelli non si occupa del tema della partecipazione politica (Pocock 1980, 319), eppure, indirettamente, trattando delle vicende del principe nuovo, egli evidenzia la somma difficoltà di tale principe a governare i possedimenti di quella che fu una repubblica – e qui il riferimento al rientro dall’esilio dei Medici nel 1512 è palese – perché il trascorrere del tempo non può cancellare la consuetudine alla libertà, al “vivere civile”, inteso come 9 Il genere innovatori è costituito, dalle specie dei principi nuovi e dei legislatori (come Mosè, Teseo, Ciro, o Romolo) che si differenzia dalla prima per il fatto di comprendere individui che devono rifondare una comunità politica in situazioni di radicale anomia. 10 Per Machiavelli l’innovatore è un soggetto che provoca particolarmente la fortuna. Egli è esplicito al riguardo: chi innova innesca inevitabilmente una serie di conseguenze che non sono interamente prevedibili “ex-ante” (fortuna) e con cui dovrà necessariamente rapportarsi con speciale cura (virtù). In questa accezione, la contrapposizione virtù/fortuna sfiora il tema degli “effetti inintenzionali dell’azione sociale”, che troverà ampio spazio, in seguito, nelle categorie dell’illuminismo scozzese e in autori come Smith e Burke, Vico e Mandeville, oltre che, nella sociologia contemporanea, in Merton e Boudon. 151 n.4 / 2002 “libera partecipazione alla cosa pubblica” (Pocock 1980, 334.). Il valore della libertà intesa come partecipazione politica responsabile al governo della repubblica, che nel Principe è presente solo “in negativo”, diviene argomento centrale delle successive riflessioni di Machiavelli, quando, a seguito della delusione patita a causa della scarsa considerazione dei Medici e della mancata intercessione di Vettori, si avvicina al gruppo di letterati repubblicani, sostenitori della libertà civica, che discutono regolarmente agli Orti Oricellari. Il risultato fondamentale di tale esperienza è la decisione di Machiavelli di rivedere e portare a conclusione un’opera fondamentale, concepita (e cominciata) ancor prima di scrivere il Principe, ossia i Discorsi sui primi dieci libri della Storia di Tito Livio, in cui esplicita le proprie preferenze repubblicane. La virtù repubblicana: vita activa, partecipazione, conflitto Mentre “nel Principe aveva attribuito la virtù solo ai più grandi capi politici e ai comandanti militari; nei Discorsi [Machiavelli] afferma esplicitamente che, se una città vuole ottenere la grandezza, è essenziale che la virtù sia posseduta dall’intera cittadinanza” (Skinner 1999, 62-63). Si pone, pertanto, un interrogativo decisivo: “come possiamo sperare di infondere questa qualità in modo così ampio e di mantenerla abbastanza a lungo da assicurare il raggiungimento della gloria civica?” (Skinner 1999, 64). Al problema di come combattere i fenomeni degenerativi della vita civile, la teoria politica dell’età moderna ha risposto delineando due diverse strategie (Skinner 1989, 109): la prima, che raccoglie l’eredità scolastica ed annovera fra i propri fautori Hume, secondo la quale un governo efficace presuppone, in primo luogo, istituzioni forti; e la seconda, che rielabora l’eredità retorica ed umanistica ed è sviluppata da autori come Machiavelli e Montesquieu, secondo cui un governo efficace implica la virtù dei governanti, la quale, a sua volta, può essere sostenuta solo attraverso lo “sviluppo dello spirito pubblico dei cittadini” (Skinner 1989, 160). A tal proposito il segretario fiorentino scriverà, nel quinto capitolo del primo Discorso, dell’esigenza di un governo largo. E’ necessario precisare a tale riguardo, che Machiavelli non trascura affatto gli aspetti istituzionali: il recupero dell’esperienza romana e l’elogio della forma del “governo misto” risiedono nel principale pregio di tale forma che “sta nel concepire le leggi relative alla costituzione in modo da creare un equilibrio elastico e bilanciato tra opposte fazioni sociali, in cui tutte le parti vengano coinvolte nella gestione del governo” (Skinner 1999, 75). La repubblica romana rappresenta un riferimento comune agli umanisti del XV secolo e, prima ancora, ai retori e agli scolastici (Skinner 1989, 163); l’elemento innovativo dell’analisi machiavelliana è costituito dalla contrapposizione fra il modello repubblicano romano e quello veneziano (Discorsi, I, 5-6), ossia fra “una repubblica che si fonda su una milizia popolare e una plebs politicamente attiva da un lato e dall’altro una repubblica che si fonda sull’impiego di armi mercenarie attuato da un’oligarchia” (Pocock 1980, 28). Si tratta di una posizione che distingue nettamente Machiavelli dai suoi concittadini: il “mito di Venezia” è sempre presente negli ultimi decenni del XV secolo e si rafforza grazie a pensatori come Donato Giannotti e Guicciardini; in particola- 152 Marco Almagisti Il modello neo-repubblicano re, dopo il ritorno dei Medici, Venezia appare ai fiorentini come un grandissimo modello repubblicano, una “sorgente di saggezza politica” (Skinner 1989, 247-48). Essa rappresenta agli occhi degli ottimati il modello di “stabilità perfetta” perché “in equilibrio perfetto” (Pocock 1980, 231). Nella propria opera di idealizzazone del modello, i patrizi fiorentini giungono a negare, di fatto, la prevalenza aristocratica nella forma di governo veneziana e, con ciò, quanto rilevato da Machiavelli, ossia che quello della Serenissima è un governo stretto. Nei Discorsi (I, 17) Machiavelli sostiene che la corruzione, cioè quel processo generalizzato di decadenza morale che ha condotto alla perdita della virtù e, con essa, al tracollo dell’esperienza repubblicana fiorentina, non sia imputabile alla generale malvagità degli uomini, bensì all’inequalità, ossia, nella fattispecie concreta, all’eccessiva prepotenza dei gentiluomini (Discorsi, I, 55).11 Egli è ben consapevole che proprio l’eliminazione del Consiglio Grande (l’organo democratico della forma di governo fiorentina) per opera degli ottimati apre la strada al ritorno dei Medici. In tal modo gli ottimati stessi si condannano alla dipendenza dal regime mediceo: negando al popolo il diritto alla partecipazione finiscono per negarlo anche a sé medesimi. La perdita, nel 1512, di questo diritto popolare alla partecipazione politica è considerata, non solo da Machiavelli, ma anche da Guicciardini e Vettori (da quest’ultimo con compiacimento) un accadimento epocale nella storia fiorentina. Un dramma che, come teorizzerà palesemente l’Alemanni – e la storia successiva non mancherà di confermare – sostituirà alla tensione repubblicana fra autorità e partecipazione, l’assuefazione alla cortigianeria. Nell’analisi della fine della repubblica fiorentina “la causa principale che Machiavelli isola (…) consiste nell’esclusione del popolo da un ruolo sufficientemente attivo negli affari di governo” (Skinner 1989, 284). La sua difesa di tale concezione del governo largo si regge su alcune affermazioni sconvolgenti, che scandalizzano i contemporanei, a cominciare da Guicciardini: “La prima è che il dissidio e la contesa tra nobili e plebei avevano prodotto la stabilità, la libertà e la potenza di Roma: asserzione sconcertante e incredibile per la mentalità che era solita stabilire un’identità tra unione e stabilità con il relativo vigore…” (Pocock 1980, 375-76). Contro tutta la tradizione repubblicana fiorentina che, sin dal Duecento, enfatizza la minaccia costituita dalla faziosità nei confronti della libertà dei cittadini, Machiavelli sostiene che “tutte le leggi che si fanno in favore della libertà” nasceranno dalla “disunione fra loro” (Discorsi, I, 4, 5). Se la virtù è identificata con il “vivere civile”, la vita activa,12 che presuppone la partecipazione politica, stante la riconosciuta pluralità di opinioni ed interessi, il conflitto ne diviene un corollario quasi ineluttabile, che Machiavelli considera come “la manifestazione della più elevata virtù civile” (Skinner 1989, 306). Il riconoscimento del medesimo, e la sua regolamentazione, consentono la limitazione degli interessi settoriali. In contrasto rispetto alla pratica del governo veneziano, Machiavelli ritiene che “questo conflitto di classe non rappresenti il solvente, bensì il cemento di una collettività” (Skinner 1989, 306).13 La forma di governo repubblicana si distingue per l’abitudine al “vivere civile” che la caratterizza, cioè per la diffusa partecipazione alla cosa pubblica (è proprio Guicciardini ad utilizzare tale termine) in cui viene ad identificarsi il comportamento virtuoso, in tal modo “l’edificio della virtù si trovava collocato nel territo- 11 La politicizzazione della virtù comporta lo slittamento semantico del proprio opposto diadico da fortuna a corruzione; in altri termini, la perdita di virtù non si spiega più solo in termini morali, bensì propriamente politici. 12 L’espressione spirito pubblico (public spirit) viene utilizzata da Henry Neville traducendo il termine virtù nella sua edizione del tardo Settecento, dal titolo “The Works of the famous Nicolas Machiavel.” 13 In Machiavelli vi è una prima esplicita teoria che mette in relazione il conflitto con – per utilizzare una categoria appartenente al lessico corrente della scienza politica contemporanea – la formazione del capitale sociale (Putnam, 1993; Almagisti e Riccamboni, 2001). 153 n.4 / 2002 14 Machiavelli si concentra sul dinamismo delle conquiste belliche, i sostenitori del modello veneziano (come Guicciardini) si orientano con più decisione verso il conseguimento della stabilità per mezzo della distribuzione istituzionale del potere. La radice della tradizione repubblicana classica agli albori della modernità è costituita dalla congiunzione di queste due forme di pensiero. 15 Si deve sempre tener presente che “nella misura in cui il sistema politico cessa di essere una realtà universale e viene, invece, visto come una realtà particolare, riesce ad esso quanto mai arduo affrontare il tema della fortuna” (Pocock 1980, 320). 154 rio della fortuna e questo almeno in parte perché la virtù della repubblica era anch’essa un’innovazione; e, quindi, doveva possedere quel tipo di virtù atto ad imporre una forma alla fortuna” (Pocock 1980, 362). In altri termini, anche la repubblica, come emerge dai Discorsi, è in balìa della dialettica incompiuta fra virtù e fortuna – e lo è in quanto ordine politico particolare, temporalmente determinato e, quindi, contingente – elemento tanto più evidente, quanto più Machiavelli insiste sulla necessità di integrare nelle strutture militari l’intero popolo, legando la virtù repubblicana all’aleatorietà delle intraprese militari espansioniste. Su questo aspetto, come sottolinea Pocock, i Discorsi contengono elementi più inquietanti ed eversivi rispetto al Principe.14 Si comincia a delineare, pertanto, la condizione che, sin dall’inizio della propria vicenda, caratterizzerà lo Stato, come forma stabile ed instabile al contempo. All’interno del proprio territorio, lo Stato, si palesa come forma più stabile rispetto alle altre organizzazioni politiche compresenti e costrette a soccombere. Ma – essendo lo Stato una parzialità, ossia territorialmente limitato – il contesto politico continentale, precedentemente unificato dall’“unità inclusiva di senso cui tendeva la politica medievale” (Fiaschi 1984, 79), si viene caratterizzando per la compresenza di molteplici parzialità che si auto-affermano come tutte ugualmente “sovrane” (i singoli “Stati”), da cui consegue l’instabilità delle relazioni politiche interstatuali e la loro regressione sempre possibile (nonostante i nobili tentativi di Grozio, Pufendorf e Kant di edificare una “comunità internazionale di diritto”) al rango di rapporti di sopraffazione. La consapevolezza della costitutiva instabilità dello Stato, per l’opera anche dell’azione di forze esogene, prende il posto della teoria ciclica delle forme di governo di Polibio, che spiegava l’instabilità dell’ordine politico solo in base a fattori endogeni. Anche per questo motivo Machiavelli non può accettare il tipo ideale del regime perfettamente stabile secondo Guicciardini e gli ottimati, ossia quello della repubblica aristocratica, costruito sugli esempi storici di Sparta e Venezia. Machiavelli è consapevole dell’illusorietà circa la perfetta stabilità attribuita a tale modello, poiché “Sparta e Venezia non potevano sottrarsi al dominio della fortuna” (Pocock 1980, 382), essendo realtà parziali e, quindi, contingenti, dipendenti dai rapporti con le altre realtà politiche parziali almeno quanto dai rapporti interni. Non è questa la sede per approfondire tale ordine di questioni, altri hanno già evidenziato, egregiamente, sia le “ambiguità machiavelliane” in merito al mutamento dell’ordine politico (Pocock 1980; Fiaschi 1984), sia l’aporeticità della teoria della sovranità statuale (Ferrajoli 1995); qui basterà richiamare il nesso evidenziato da Machiavelli tra vita activa, conflitto e partecipazione alla cosa pubblica. In primo luogo, tale partecipazione acquista una salienza particolare:15 la vita activa è considerata come risorsa difensiva dagli assalti della sorte. Ne scaturisce una connessione fra il tema della sicurezza e quello della presenza di una rigogliosa sfera pubblica di cui si colgono i riverberi nei più avveduti fra gli autori a noi contemporanei (Bauman 1999). Secondariamente, l’enfasi posta sulle virtù repubblicane non si dimostra affatto inconciliabile con il pluralismo: il liberalismo storico s’è formato sui capisaldi costituiti dalla libertà dei moderni e dai diritti individuali, ma, in realtà, come ricordano Bellamy e Castiglione (2001, p. 13), sul piano storico il repubblicanesimo riconosce le inevitabili divisioni che attraversano il corpo politico. Marco Almagisti Il modello neo-repubblicano Pizzorno (1993, 189) evidenzia che, secondo Machiavelli, a condizione che avvengano disputando e non tramite violenze all’ultimo sangue, i conflitti giovano alla cosa pubblica allargando il diritto ad essere presente nel governo della città ad una parte precedentemente esclusa e garantendo le libertà dei cittadini. Machiavelli e la teoria politica di Hobbes Resta un interrogativo cruciale: è possibile riproporre una tale concezione della partecipazione e del conflitto, quando dal piano analitico della città-repubblica si passa a quello dello Stato nazionale? Thomas Hobbes fornisce una risposta drastica: i conflitti vanno radicalmente eliminati in quanto conducono tutti alla guerra civile: “uno Stato diventa tale proprio quando abolisce ogni identità collettiva che si presenta autonoma rispetto ad esso” (Pizzorno 1993, 190). Emerge una cesura drammatica rispetto alla teoria machiavelliana: “Hobbes, che non è affatto il Machiavelli inglese, è invece il maestro radicale del pensiero politico al tempo della guerra civile” (Pocock 1980, 639). Nel declino della deferenza di tipo religioso – come nella frantumazione del corrispondente universo simbolico condiviso – e nella fallacia del tradizionale controllo comunitario, che caratterizzano la transizione alla modernità, lo Stato viene ad assumere un compito epistemologico (Pizzorno 1993, 190): onde prevenire conflitti asperrimi, deve stabilire la verità delle persone, cioè la loro identità sociale.16 Si delinea una sovranità assoluta e indivisibile, per cui non solo viene concettualmente meno, come nel Principe, la distinzione classica fra forme di governo rette e degenerate,17 ma viene rigettata ogni ipotesi di governo misto, cioè di quel governo pensato per portare a tessuto (a contesto) ciò che è riconosciuto come “diverso”, quel governo che si trova di fronte una molteplicità di forme politiche associative, in cui avviene una partecipazione politica mediata e plurima. Lo statalismo hobbesiano postula, pertanto, il più radicale individualismo (scaturente dal dissolvimento di qualsiasi diaframma frapposto tra il singolo e l’autorità politica) come proprio presupposto “scientifico”. In virtù del grandioso disegno hobbesiano, mediante la teoria si realizza l’azzeramento sia della molteplicità del reale che della riflessione filosofica pregressa, considerata non scientifica: la nozione hobbesiana di individuo non è, pertanto, solo la singola parte determinata dalla quale il tutto (Stato) viene a dipendere come risultato di una costruzione meccanica, bensì anche il risultato stesso della medesima costruzione. Il prototipo antropologico hobbesiano dell’individuo ab-soluto ed irrelato, abitante ferino di uno stato di natura dominato dall’insostenibile terrore di essere annichiliti per mano (omicida) del proprio identico, viene scientificamente imposto come condizione umana universale, ben triste destino cui si può fuggire soltanto per mezzo della costruzione di un Leviatano cui devolvere la propria soggettività politica.18 Vi sono elementi sufficienti per sostenere che fra la virtù repubblicana e il concetto di rappresentanza che emerge dal capitolo XVI del Leviatano corrano rapporti di mutua esclusione: la prima comporta partecipazione politica diffusa, multipla e conflitto; mentre la seconda implica una manifestazione di volontà individuale mediante la quale operare la dismissione completa della propria soggettività politica delegando integralmente la risoluzione delle questioni politiche rilevanti a dei 16 Per garantire la pace agli individui, lo Stato non deve mantenere “solo” il monopolio della forza, ma anche quello “della storia” (Tronti 1998, 174) e del “controllo del futuro” (Koselleck 1986, 18). 17 V’è un passo illuminante di Hobbes (De Cive, II, 2), in cui egli postula, con la consueta chiarezza che contraddistingue il suo grande genio, l’assoluta convenzionalità dei criteri qualitativi in base ai quali si distinguono le forme di governo. 18 Thomas Hobbes nasce il 5 aprile 1588, nel momento in cui la Grande Armada spagnola prende d’assalto le coste inglesi; si racconta che sua madre sia stata presa dalle doglie per lo spavento dell’invasione, così che lo stesso Hobbes potrà in seguito affermare di essere nato “gemellato con il terrore”. 155 n.4 / 2002 19 Nel Leviatano di Hobbes, di fronte al governante non vi sono più governati, intesi nella propria soggettività politica, in quanto essi sono nel Leviatano (com’è raffigurato nel frontespizio dell’edizione originale del testo hobbesiano). Il meccanismo della rappresentanza postula l’autorizzazione da parte di ogni soggetto individuale ad un soggetto altro: tutti autorizzano le azioni dell’attore, che agisce in nome e per conto di tutti (Leviatano, cap. XVI). 20 “Il concetto di autonomia del politico, che appartiene alla tradizione della teologia politica, fu definito per la prima volta da Thomas Hobbes. L’importanza di questo concetto fu quindi ribadita in modo ancor più deciso da Carl Schmitt” (Hardt, Negri 2002, 430, nota 6). 21 Per una più approfondita analisi della teoria politica di Vico e un confronto con le teorie di Machiavelli e di Hobbes, si rimanda a quanto esposto in Almagisti (2002). 22 Di Vico all’estero è molto nota soprattutto la Scienza Nuova, in cui il concetto di virtù appare poco (essendo in gran parte sostituito dalla Provvidenza); esso si trova nella “Ottava orazione” (il 156 rappresentanti. La rappresentanza hobbesiana implica, infatti, “il trasferimento della propria pienezza di potere e della propria persona; se non, addirittura, della propria individualità. E un umanesimo repubblicano, a cui premeva moltissimo che nella concreta partecipazione politica si affermasse la personalità morale dei singoli, poteva benissimo allarmarsi: forse che l’idea di rappresentanza non finiva per escludere quella di virtù?” (Pocock 1980, 871).19 Si tratta di una questione molto controversa anche nel dibattito contemporaneo: molti autori (ricordiamo fra i tanti, Fiaschi, 1984; Bauman, 1992; Barcellona, 1995; Cacciari, 1997; Gelli, 2000), hanno ravvisato nella costruzione della forma-Stato come strumento tecnico di neutralizzazione (rimozione) del conflitto, di derubricazione del politico all’amministrazione centralizzata e autonoma di una “macchina” i cui componenti sono autonomi e fungibili,20 di frantumazione dell’idea di persona inserita nella complessa gerarchia delle appartenenze sociali a favore di quella di individuo atomizzato, l’origine di una “desertificazione” politica del sociale, che si contrappone “per principio”, alla partecipazione politica in differenti realtà associative conflittuali e, quindi, concettualmente, al governo delle diversità. Questo tema, così attuale e dibattuto, appare molto sfumato nelle opere degli autori della “Scuola di Cambridge”: una ricostruzione, come quella di Skinner, fortemente orientata ad evitare ogni contaminazione “comunitaria” e ad identificare il repubblicanesimo con una concezione “negativa” della libertà finisce per eludere il confronto fra Machiavelli ed Hobbes. Mentre l’analisi di Pocock giunge sino ad Hobbes per negare decisamente che Machiavelli vi possa essere accomunato e poi trasmigra in America per quattrocento pagine, poiché è la spiegazione della peculiarità della storia americana – e il tentativo di rintracciarvi tradizioni aristoteliche o, più in generale, classiche – che soprattutto orienta la sua ricerca (tanto da essere accusato, da alcuni critici ingenerosi, di avere scritto una lunga giustificazione dell’imperialismo americano). Vico e un patrimonio di pensiero politico da riscoprire appieno La ricostruzione di Pocock, tuttavia, può offrire spunti interessanti, se si considera che gli americani, prima della Rivoluzione, sono artefici di una prassi repubblicana (Gangemi 2001), anche se, per la reputazione di immoralità di cui gode a quel tempo Machiavelli, mai citerebbero tale autore tra i propri riferimenti, né possono avvalersi delle feconde interpretazioni di colui che, riprendendo in modo originale la lezione machiavelliana, rappresenta uno strenuo oppositore dello Stato assoluto e del modello antropologico hobbesiano: Giambattista Vico .21 Siccome Vico non ha ancora scritto (inizio ‘700) o non è ancora noto (prima metà del ‘700) o, se noto, è considerato anticipatore di Hegel (‘800), la letteratura americana, per gli elementi della propria cultura politica esulanti dal filone lockianocostituzionalista, ricorre alla particolare interpretazione di Hobbes fornita dai Padri Pellegrini, trovandovi quei tratti che gli europei (che stanno sperimentando pratiche di governo assolutistiche), mai avrebbero riscontrato.22 In realtà, è nella rilettura di Vico (il quale, come Machiavelli, medita a proposito dell’esperienza della respublica romana per riflettere sul processo di sviluppo politico in generale) che possiamo riscontrare elementi significativi per una rivalutazione attuale della lezione repubblicana: è Vico che, in contrasto con Hobbes, Marco Almagisti Il modello neo-repubblicano sostiene l’esistenza della socialità anche prima dell’istituzione dello Stato.23 E’ il filosofo napoletano a sviluppare la lezione di Machiavelli che preannuncia – tramite l’accettazione della “disarmonia” politica – il tema moderno della “società civile” e ad esprimere una concezione pluralistica ed antagonistica della storia. In tale interpretazione, pertanto, il conflitto torna ad essere, come per Machiavelli, condizione essenziale per il miglioramento sociale e la difesa della libertà: infatti, mentre reintroduce la liceità dei giudizi di valore nell’analisi dei fenomeni politici e, quindi, delle forme di governo, Vico sottolinea che le forme di governo qualitativamente più elevate (a suo parere, la repubblica popolare e il principato) sorgono storicamente proprio in seguito alla lotta degli esclusi dal dominio e, cioè, da una domanda di partecipazione politica diffusa. Ne deriva una concezione della società civile – come dimensione distinta dallo Stato – che non si limita a delineare un ambito di autonomia privata a tutela delle libertà individuali, come insegna il liberalismo classico, ma che si avvale anche della componente repubblicana relativa al riconoscimento di un diritto generalizzato di partecipazione politica, da parte di soggetti organizzati, di identità collettive autonome rispetto allo Stato. Riguardo alla considerazione secondo la quale tale componente repubblicana, abbia finito per essere sottostimata nella storia del pensiero politico, risulta solo parzialmente efficace la spiegazione fornita da Philip Pettit, secondo cui la nozione di libertà repubblicana è “passata in secondo piano solo allorché, verso la fine del XVIII secolo, divenne chiaro che, una volta estesa la cittadinanza al di là dell’ambito ristretto dei maschi benestanti, non era più pensabile rendere tutti i cittadini liberi nel senso antico (…). Se la libertà doveva essere ridefinita come un ideale aperto a tutti i cittadini, allora non si poteva che ripensare la libertà in termini meno esigenti” (Pettit 2000, 5). In realtà, come ha notato O’ Donnell (1998), l’apporto della tradizione intellettuale repubblicana è stata (ed è) tutt’altro che ininfluente nella costruzione delle contemporanee democrazie reali, o poliarchie,24 nei termini, periodicamente ricorrenti, dell’attenzione posta sulla partecipazione consapevole agli accadimenti della sfera pubblica. In questo senso, il patrimonio repubblicano risulta essere fecondo, per quanto almeno in parte sottovalutato, rispetto alle vicende dei regimi poliarchici contemporanei. Le ragioni del relativo oblio, che hanno spinto autori come Pocock e Skinner (nella differenza delle rispettive traiettorie di ricerca) a ricostruirne la complessa genealogia, investono direttamente i capisaldi del pensiero politico moderno, che ha concepito, per lungo tempo, lo Stato e il mercato come fonti pressoché esclusive di regolazione, per mezzo di un duplice processo riduzionista, in virtù del quale il politico è hobbesianamente ridotto allo statuale e la società civile ai rapporti di scambio del mercato. In altri termini, liberismo e statalismo rappresentano autentici “pensieri forti” della modernità, le cui vicende sono, pertanto, caratterizzate dal rapporto di conflitto e compromesso fra queste due grandi logiche d’azione (Ferrarese 2000; Almagisti 2002), accomunate dall’esigenza di una forte omologazione dello spazio sociale di riferimento, da cui deriva il giudizio di disvalore relativo all’esistenza di identità collettive autonome (specie delle classi subalterne) o alla persistenza di culture locali difficilmente assimilabili. Già dal XVII secolo, la crisi dei tradizionali dispositivi disciplinari legati alla supervisione comunitaria ed il timore conseguente riguardo alla possibile diffusione di comporta- primo dei grandi scritti vichiani) o De Ratione. 23 Com’è noto, secondo Vico, che anticipa temi ripresi poi da Leopardi e da Nietzsche e nel corso del Novecento, da Max Weber, Hannah Arendt e Karl Jaspers, il processo di civilizzazione dell’uomo non è caratterizzato solo da effetti positivi, così come non lo è il processo di statalizzazione, dal momento che una “seconda barbarie” (razionalistica e molto più immane dell’originaria barbarie del senso) si può sviluppare proprio all’interno della forma politica statale (cpv. 1106, Scienza nuova seconda). 24 O’ Donnell considera le poliarchie contemporanee come il risultato di tre componenti distinte – sovente confliggenti – e, al contempo, indispensabili: la tradizione democratica, quella repubblicana e quella liberale. Differenti modalità di ricomposizione di tali componenti, in relazione anche alle strutture dello Stato e del mercato, originano differenti tipi di poliarchie, le quali presuppongono sempre delicati contrappesi fra istanze diverse. L’estremizzazione di una componente a scapito delle altre comporterebbe, secon- 157 n.4 / 2002 do O’ Donnell (1998, 115), la fuoriuscita dalla tipologia poliarchica. 25 Nell’introduzione all’edizione italiana del 1979, Hirschman afferma di aver preso visione delle ricerche compiute da Pocock e Skinner solo dopo aver ultimato la stesura della propria opera concernente le implicazioni morali relative all’avvento del capitalismo e di considerare la propria opera come complementare rispetto a quelle della “Scuola di Cambridge”. menti anomici ha prodotto, come ricostruito da Hirschman (1977),25 la convinzione che le minacce per il vivere civile (e la stabilità dell’ordine politico) potessero essere contenute solo tramite la soluzione prescritta da Hobbes, unitamente, laddove essa si dimostrasse impraticabile, ad una strategia della passione come contrappeso, consistente nella selezione delle passioni più “innocue”, allo scopo di frenarne altre ritenute più pericolose e distruttive (Hirschman 1977, 29). La pericolosità riconosciuta alle passioni politiche (sulla cui “rispettabilità” gravano le conseguenze degli asperrimi conflitti di matrice religiosa che funestano l’Europa nel Cinquecento) ha comportato la “selezione dell’interesse come passione di contrasto” (Hirschman 1977, 36), in virtù di un pregiudizio favorevole, secondo il quale l’interesse sarebbe passione inoffensiva, poiché possederebbe gli attributi di prevedibilità, costanza e dolcezza (Hirschman 1977, 47-48). Gli accadimenti contrastanti rispetto all’ottimismo liberale circa l’innocuità dell’interesse, che si verificano già nel corso del Settecento e dell’Ottocento, condurranno Marx a scrivere pagine di memorabile sarcasmo in merito alla “dolcezza” dell’interesse e, soprattutto, Tocqueville a sottolineare le derive connaturate al ripiego esclusivo sui propri interessi privati da parte dei singoli individui che alimentano, per questa via, lo svuotamento di una “sfera pubblica” progressivamente sempre più misera e, pertanto, disponibile alle incursioni colonizzatrici da parte di nuovi despoti, come le terribili vicende del secolo breve hanno avuto modo di confermare. Bibliografia Almagisti M. (2002), “Lo Stato. Origini, trasformazioni, crisi”, in Messina P. (a cura di), Introduzione alla scienza politica, in corso di pubblicazione. Almagisti M. (2001), Riccamboni G., “Forme di regolazione e capitale sociale in Veneto”, in Venetica, n. 3, pp. 9-63. Barcellona P. 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Dal Santo, Donoso Cortés interpretato in una prospettiva paneuropea, Milano, Adelphi, 1996, 102-3. 2 Ivi, pp. 100-1; H. Wagener (Hg. von), Staats- und Gesellschafts- Lexikon: neues ConversationsLexikon in Verb. mit dt. Gelehrten und Staatsmännern, Bde 23, Berlin, Heinicke Verlag, 1859-1867. 3 P. Linzbach, Das Europabild Bruno Bauers nach der Revolution von 1848 unter besonderer Berücksichtigung des west-osteuropäischen Verhältnisses, Hamburg, 1990. 160 Questo mayday non riguarda solo un libro da salvare, in questo caso l’antologia di Löwith sulla sinistra hegeliana, ma anche un libro da tradurre, che da solo potrebbe costituire una buona porta d’accesso nei problemi novecenteschi che Bauer pose alla metà dell’Ottocento, quasi a significare che i sommovimenti tellurici del secolo scorso avevano le proprie radici in alcune questioni già poste nel Vormärz. Nella sua Introduzione Cesa scriveva che “il Bruno Bauer autore di La Russia e il Germanesimo, nel quale collegava la “fine della filosofia” con la dissoluzione del sistema politico della vecchia Europa, aveva posto un tema che, già prima del 1914, ma soprattutto negli anni di Weimar, era stato uno dei poli del dibattito sulla crisi europea; si trattava, allora, dell’ossessione di un visionario, o della lucida diagnosi di una mente che, dal rifiuto di tutte le ideologie, aveva ricavato uno sguardo straordinariamente penetrante?” (XXIII). Il nome di Bruno Bauer è oggi quasi dimenticato; esso ricorre ancora, qualche volta, nella letteratura scientifica come colui che fu oggetto di dure critiche da parte di Marx ed Engels (non solo nella Questione ebraica, ma anche nell’intera Sacra famiglia e in una parte dell’Ideologia tedesca); oltre a ciò il nome di Bauer viene talvolta preso in considerazione anche come esempio di un certo antisemitismo di ascendenza hegeliana. Non è con nessuna di queste linee interpretative che intendiamo confrontarci, nella convinzione che, se Bauer può ancora essere di un qualche interesse per la comprensione del presente, è altrove che bisogna cercare. Se ne accorse Carl Schmitt che, nel definirlo un “autentico inattuale”, scrisse che “nessuno più di Bruno Bauer attuò e portò a compimento la critica teologico-filosofica, nel senso pregnante e con tutta l’ineluttabilità che per la storia dello spirito tedesco degli ultimi due secoli si legano alle parole critica e crisi” 1. Ma la “sua opera – aggiunse Schmitt – è sepolta sotto spessi cumuli del più bieco giornalismo”, nonostante egli fosse l’autore “delle voci più importanti contenute nei ventitré volumi del Wagenersches Staats - und GesellschaftsLexikon”2. Proprio la collaborazione a questa opera diede adito a polemiche sulla svolta conservatrice di Bauer. Ma non è questo il problema. Bauer indaga le categorie dello Stato moderno dal punto di vista della loro crisi. E sul solco di questa riflessione si inseriscono anche le sue considerazioni sull’Europa. Ad eccezione di una Diplomarbeit discussa nel 1990 ad Hamburg da Petra Linzbach, non mi risulta esistano degli studi dedicati all’idea baueriana di Europa3, idea che per altro, pur percorrendo l’intera riflessione di Bauer, non è facilmente enucleabile dal plesso di problemi con il quale viene di volta in volta fatta interagire. Questa mancanza diventa considerevole se solo si tiene presente che Friedrich Nietzsche, in una lettere del novembre 1882, scriveva a Gast che l’idea fondamentale dell’introduzione di Bauer alla rivista di Schmeitzner4 — l’unità europea e l’annientamento delle nazionalità (das Europäerthum mit der Perspektive der Vernichtung der Nationalitäten) — era la sua stessa idea5. Sia Bauer che Nietzsche iscrivono la propria riflessione nel quadro complessivo della crisi europea, alla quale entrambi cercano una risposta puntando lo sguardo verso Oriente, in una “reciproca compenetrazione della razza tedesca e di quella slava”. Ma cosa scrisse Bruno Bauer in quella Prefazione che piacque tanto a Nietzsche? “Mentre il martello di una sempre crescente centralizzazione cade sui popoli, essi si stringono in un comune destino e ciascuno riconosce nell’altro l’europeo. Dal Neva fino al Danubio e al Tevere il martello compie questa miracolosa metamorfosi; sotto i suoi colpi vanno in polvere i resti delle nazionalità. La centralizzazione si appoggia anche alla forza di livellamento del socialismo, così i popoli si stringono tanto più strettamente l’un l’altro per sciogliere, senza il martello, il problema dell’eguaglianza assieme alla dignità e all’autonomia personali. Finalmente il martello della centralizzazione è diventato un nostro collaboratore”. Bauer saluta il nuovo inizio scandito dalla nascita della scienza della natura dell’uomo e dalla collaborazione scientifica internazionale come “l’inizio del suaccennato periodo dell’europeismo, che sorgerà dalle attuali centralizzazioni politiche e dalle loro inevitabili rivalità. Ci avviciniamo a quei tempi dell’antichità dove, all’inizio delle lotte dei triumviri e dell’epoca cesaristica, Oriente e Occidente si fusero assieme e l’uomo prese il posto delle nazionalità e delle loro creazioni morali. (…) Così anche per noi, in mezzo al conflitto delle dittature e al transitorio baccano delle lotte ecclesiastiche, l’Europa sarà presto la nostra patria comune e la presente rivista si sforzerà, per quanto le è possibile, di dare il proprio contributo alla fondazione di una patria europea”. Crisi e livellamento sono in Bauer i concetti cardine attorno ai quali egli tenta di far ruotare, come in un praxinoscope, le immagini storiche del XVIII e XIX secolo. La distruzione degli Stände non ha solo liberato l’individuo dai vincoli cetuali, ma ha anche prodotto la moderna società civile che, “liberata dalla politica” (La Russia e il Germanesimo, in La sinistra hegeliana, cit., 246), necessitava di una nuova forma di organizzazione; questa fu posta in essere per la prima volta dai funzionari napoleonici, il cui potere, ormai non limitato da nessuna barriera cetuale, era libero di giungere fino alla sfera spirituale degli individui. E’ un nuovo “terribile potere” che inizia a prendere forma, un potere che libera la società dalla politica e fa sì che essa non possa più nemmeno immischiarsi nella politica; prefigurando gli scenari totalitari del XX secolo, secondo Bauer la nuova dittatura non si raffigura più come lo scettro monarchico che regna su un insieme di corpi politici, ma come la nuda spada che si leva su una pianura indifferenziata di individui e che sola è in grado di tenere assieme gli individui atomizzati ( 248). Con lo scorrere delle immagini, la concettualità liberale si rovescia nel proprio opposto: l’eguaglianza diventa eguale assoggettamento a un potere senza limiti, la democrazia diventa estrema (extreme Demokratie); qui giungerebbe a compimento l’assolutezza del potere e l’insignificanza del singolo, il cui destino è quello di essere stritolato in una “morsa d’acciaio” e costretto a “sottomettersi o a 4 Schmeitzner’s Internationale Monatschrift, Zeitschrift für allgemeine und nationale Kultur und Litteratur, Jg. 1882, Bd. I. 5 F. Nietzsche an H. Köselitz, 5.2.1882, in Nietzsche, Briefwechsel (1880-1884), in Werke. Kritische Gesamtausgabe, cit., Bd. III, 1, p. 167. Sul rapporto tra Bauer e Nietzsche si veda D. Tschizewskij, Hegel et Nietzsche, in “Revue d’histoire de la philosophie”, III (1929), 32147; Z. Rosen, Bruno Bauers und Friedrich Nietzsches Destruktion der bürgerlich-christlichen Welt, in “Jahrbuch des Instituts für Deutsche Geschichichte”, Hg. von W. Grab, Tel-Aviv, Nateev-Printing, 1982, 151-172. 161 n.4 / 2002 6 B. Bauer, Disraelis romantischer und Bismarcks sozialistischer Imperialismus, Chemnitz, 1882 (ristampa anastatica: Aalen, Scientia Verlag, 1979), 241. 7 C. Schmitt, Glossarium. Aufzeichnungen der Jahre 1947-1951, Hg. von E. Freiherr von Medem, Berlin, Duncker & Humblot, 1991, 10.7.48, 178. 8 D. Groh, Russland und das Selbstverständnis Europas. Ein Beitrag zur europäischen Geistesgeschichte, 1961, trad. it. di C. Cesa, La Russia e l’autocoscienza d’Europa, Torino, Einaudi, 1980, 329. 162 perire” ( 263). L’individualismo liberato dagli antichi vincoli cetuali e la dittatura si mostrano ora agli occhi di Bauer come forme complementari: egli attacca “l’illusione che vede nell’individualismo, che è il risultato degli ultimi sessanta anni di rivoluzioni, la soluzione, addirittura ogni soluzione, mentre poi deve quotidianamente accorgersi che è soltanto qualcosa di provvisorio, che è solo un aspetto della questione, e che è stretto da una legge ferrea al suo opposto, all’imperialismo ed alla dittatura” (262). L’opposizione di individualismo e dittatura è solo apparente, perché essi si presentano come i due poli della dialettica del livellamento: la democrazia estrema “ha spinto il principio egualitario fino alla dissoluzione di ogni associazione politica (Staatsverband) in puro atomismo ed ha spinto il principio di nazionalità fino a dissolvere tutti i corpi politici in gruppi tenuti insieme da interessi individuali”; questa forma estrema della democrazia è, secondo Bauer, la “democrazia dell’individualismo” (243). Livellamento e individualismo da un lato, centralizzazione e imperialismo dall’altro, si delineano in Bauer come le forze dominanti il XIX secolo. La Rivoluzione francese e l’impero napoleonico le hanno presentate in un’istantanea, il XIX secolo le sviluppa nella forma di un dramma. Ed è proprio su questo dramma che Bauer tiene lo sguardo, convinto ormai, ma siamo dopo il fallimento rivoluzionario, che, se una qualche possibilità di salvezza può darsi, questa non può che essere individuale. Scrive Bauer nel suo ultimo lavoro — quasi un testamento: “le doglie dell’epoca cesaristica coincidono con il risveglio della libertà e dell’azione personali. In mezzo alla battaglia e alla confusione dei partiti a nessuno è impedito orientarsi nella ricchezza della storia e appropriarsi di ciò che gli è conforme; nel timore della centralizzazione un autonomo tentativo di riforma non è vietato, — ma è anche molto difficile”6. Ma Bauer non ha mai smesso di cercare una qualche dialettica nello stesso livellamento. Ci riavviciniamo così a quella citazione della “Prefazione” della rivista di Schmeitzner dalla quale abbiamo preso le mosse. Scrive Schmitti negli appunti presi subito dopo la Seconda Guerra Mondiale: “Una difesa da un potere totale può darsi solamente in un contropotere quantomeno altrettanto totale. Se non così, solo nell’utilizzo da parte del libero individuo delle fessure di quella totalità, vale a dire nel sabotaggio. Uno splendido campo di ricerca per dialettici senza paura e per partigiani dello spirito del mondo come Bruno Bauer, non per eunuchi in cerca di licenza. Un tema meraviglioso: l’inizio di un salto eiv allogeénov”7. Ma non c’è vera alternativa tra l’anarca jüngeriano e una teoria del contropotere, per quanto totale esso possa essere: sono entrambe figure della sottrazione, tentativi di dilazionare lo scontro che è già reale e che ha prodotto quel potere. L’ambiguità di Bauer lo dimostra: volontà di spingere la crisi fino in fondo e tentativo di salvezza personale, dispiegamento del livellamento e ricerca di un contropotere, affermazione del proprio carattere profetico e accettazione di essere kateécon8.A partire da queste ambivalenze, per quanto esse impattano la questione del destino dell’Europa, possiamo tentare di riannodare le fila di quanto finora detto. Bisogna però fare un rapido salto nel Vormärz, ed andare all’inizio degli anni Quaranta, quando Bauer, pensando al futuro di nuovi stati di dimensioni continentali, presagisce che molto presto il conflitto tra gli Stati europei lascerà il posto a un nuovo conflitto tra potenze mondiali. Se l’Europa non tiene presente il modello nordamericano – “la repubblica della federazione” – se non sarà capace di diventare una società di nazioni riunita in una famiglia di popoli, sarà spazzata via dal nuovo livello delle opposizioni polemiche9. Ma è una speranza di breve durata, perché con il fallimento della rivoluzione del 1848 tramonta anche l’illusione “che fosse spuntata l’epoca in cui i membri della famiglia storica dei popoli (…) avrebbero potuto costituirsi liberamente e collaborare in pace” (262). La crisi europea diventa crisi culturale ed epocale, poiché l’Europa, lacerata dai conflitti delle nazionalità che polverizzarono anche l’opera di Napoleone, non sembra in grado di elevarsi al nuovo livello delle contrapposizioni mondiali. Solo la Russia poteva essere secondo Bauer in grado di costituire una qualche unità, perché solo la Russia era già una “potenza universale” e non era ancora stata intaccata dalla crisi europea. Con la fine della guerra di Crimea la Russia perde di interesse e l’opposizione inizia ad affievolirsi. Per superare l’impasse, per non sprofondare nel nichilismo, la filosofia della storia di Bauer tenta un’ultima disperata mossa: la ricerca di nuove contrapposizioni e di un popolo nuovo capace di oltrepassare la crisi dell’Occidente. Non è però sulla mitologia politica del “popolo nuovo” che intendiamo concludere, ma sui problemi che la concezione baueriana dell’Europa lascia irrisolti, perché strutturalmente incapace di risolverli. Anche quando negli anni ’80 Bauer riprende il tema europeo come sviluppo del superamento dei conflitti tra le nazionalità, questa riflessione continua a muoversi all’interno della concettualità che ha prodotto quegli stessi conflitti. Bauer pensa di scorgere nel martello del livellamento un alleato, perché quello stesso martello frantumerebbe i resti delle nazionalità. Così, da capo, se la patria europea è il punto di confluenza tra Oriente e Occidente, per pensare questa nuova identità politica europea Bauer necessita di nuove contrapposizioni e di nuove esclusioni: non solo la lotta tra i continenti prosegue, ma nuove e più gravi opposizioni polemiche segnano i confini di questa nuova patria. Purtroppo La Russia e il Germanesimo è solo parzialmente tradotto e pubblicato nell’antologia di Löwith; ma oggi che le questioni dell’Europa, della sua identità e della sua coscienza acquistano nuovo e urgente interesse, può essere utile risalire alla filiera originaria di un’identità europea che andava definendosi in opposizione polare alla Russia e che, in quell’opposizione già tutta prefigurata nel XIX secolo, lasciava intravedere un più generale contrasto tra Oriente e Occidente. La questione per noi oggi importante, e che testi come La Russia e il Germanesimo possono aiutare a pensare, è se quella cosa che va sotto il nome di Europa non possa definirsi altrimenti se non attraverso una suddivisione dualistica del mondo e contrapposizioni polemiche. La contrapposizione tra Oriente e Occidente ha infatti un carattere matriciale che può lasciare il posto a nuove opposizioni, nelle quali l’autointerpretazione di ciascuna parte si pone al tempo stesso come un’alternativa universale ed esclusiva. Cosicché l’alternativa non è tra la civiltà e i suoi nemici, opposizione che ricade completamente in quella storia, ma tra la suddivisione dualistica della terra e la sua diluizione pluralistica. L’Ottocento, almeno quello attraversato da Bauer, non fu in grado di pensare questo pluralismo ma, in un’opera di ricognizione sulla crisi, riuscì ad evidenziare il nesso tra la moderna concettualità politica e la patogenesi dell’identità europea da quella suddivisione dualistica. (Massimiliano Tomba ) [email protected] 9 Cfr. B. Bauer, Theodor Rohmer: Deutschalnd Beruf in der Gegenwart und Zukunft, in “Rheinische Zeitung”, Beiblatt zu Nr. 158, 7.6.1842: “Chi pensa al futuro dell’Europa e della Germania non deve perder di vista nè lasciar da parte l’America settentrionale, perché la lotta tra gli Stati europei passerà presto in secondo rispetto ad una lotta più grande, quella dei continenti”. Massimiliano Tomba, dottore di ricerca in Filosofia Politica, svolge attività didattica e di ricerca presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova. 163 n.4 / 2002 MICHAEL D. COHEN, JAMES G. MARCH E JOHAN P. OLSEN, “A Garbage Can Model of Organizational Choice”, Admnistrative Science Quarterly, XVII, 1972, n. 1, pp.1-25 JAMES G. MARCH AND JOHAN P. OLSEN, Ambiguity Choice in Organizations, BergenOslo-Tromsø, Universitetsforlaget, 1982 JAMES G. MARCH AND JOHAN P. OLSEN, Riscoprire le istituzioni. 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Queste Anarchie si presentavano come organizzate quando caratterizzate da preferenze problematiche (nel senso che le preferenze sono definite male), da tecnologie non chiare (basate solo su procedure di prova ed errore) e da partecipazione fluida (i partecipanti vanno e vengono). L’irriverente riferimento al cestino dei rifiuti veniva applicato alle Università, che venivano descritte come il caso tipico di queste Anarchie Organizzate. Il motivo che spingeva i tre a scrivere insieme questo saggio, con gli autori in rigoroso ordine alfabetico, stava nel fatto che Cohen e March avevano condotto e pubblicato insieme una ricerca sull’Università americana e Olsen aveva pubblicato due volumi sui problemi delle Organizzazioni Accademiche. Il saggio era un’occasione per trarre delle conclusioni dalle loro precedenti ricerche. Il saggio ebbe una notevole fortuna e del Modello Cestino dei Rifiuti si parlò a lungo con riferimento a quelle organizzazioni in cui coesistono “collezioni di scelte in cerca di problemi, istanze (issues) e desideri (feelings) in cerca di situazioni decisionali nelle quali esse possono essere esposte all’attenzione, soluzioni in cerca di domande (issues) alle quali esse possono essere una risposta e decisori in cerca di collocazione (work)”(1972, 1). Il punto di partenza dei tre autori è il fatto che “Le opportunità di decisione sono fondamentalmente stimoli ambigui” (1972, 2). Questa convinzione, sottolineano gli autori, discende dalle opere di vari altri autori, tra i quali, gli stessi Cohen, March e Olsen, ma anche Simon, Coleman, Lindblom e tanti altri. Il secondo presupposto è che il paradigma dell’attore razionale (basato su problemi ben definiti, nel senso di definiti ex ante) è inadatto a descrivere l’operare concreto di molte organizzazioni, nelle quali “i partecipanti arrivano a una interpretazione di quello che essi stanno facendo e di quello che hanno fatto durante il processo del farlo” (1972, 2); essi sostengono che “una decisione è un risultato o interpretazione di molti eventi relativamente indipendenti che si svolgono dentro un’organizzazione” (1972, 2-3). Nel Modello Cestino di Rifiuti, i due autori individuano una struttura delle decisioni e una struttura di accesso. Essi le descrivono con delle matrici che combinano ciascun problema con ciascuna scelta (struttura di accesso) e ciascun decisore con ciascuna scelta (struttura delle decisioni). Per quanto riguarda, poi, lo stile delle decisioni, nel Modello Cestino dei Rifiuti gli attori vengono visti come incapaci di adottare lo stile della risoluzione (dei problemi), e in condizione solo di adottare lo stile dell’omissione (oversight) o quello del volo (flight). Quest’ultimo consisterebbe nel trovare la soluzione quando i problemi lasciano la situazione da decidere. Segue, nel saggio, tutta una parte statistica che cerca di collegare la struttura delle decisioni con la strut- 164 tura di accesso e costruire vari tipi di combinazioni possibili. Il saggio continua nell’applicazione del modello a quattro diversi tipi di Università: grandi e ricche; grandi e povere; piccole e ricche; piccole e povere. Le conclusioni di questa parte statistica del saggio sono scarsamente interessanti, rispecchiano lo stile degli anni Settanta (comprese le cinque pagine di software in Fortran, in coda al saggio). Questo stile verrà fortemente ridimensionato nella ristampa del saggio per il volume Ambiguity Choice in Organizations, a cura di March e Olsen. Anche perché, nel frattempo, qualcosa è cambiato in tema di studi sulle organizzazioni: in particolare, sono entrati in crisi molti degli assunti del paradigma della modernità. Questo paradigma condivideva la convinzione che la modernità fosse caratterizzata da trasparenza e univocità del linguaggio di base (e quindi da ampia possibilità di strutturazione e standardizzazione della comunicazione). In particolare, si sosteneva che quanto più la comunicazione diventava formale in una organizzazione, tanto più quella organizzazione era da considerare moderna. Questa convinzione ha portato alla conclusione che, in una realtà moderna (azienda, istituzione, associazione, etc.), ciò che realmente conta è solo ciò che può essere trattato statisticamente e tradotto in un sistema di equazioni. Con la metà degli anni Settanta, questa convinzione è entrata in crisi perché, proprio dove più si credeva di trovare conferma ad essa (la grande impresa multinazionale che è sempre stata considerata la manifestazione più evidente della modernità), si è scoperto che la comunicazione informale aveva un peso maggiore di quello che si ritenesse. Una grande ricerca sugli imprenditori di grandi multinazionali (con sede negli U.S.A., in Giappone, in Germania o in Inghilterra) ha evidenziato che un buon numero di dirigenti si è dichiarato convinto che la comunicazione informale all’interno fosse più importante della comunicazione formale nel governare l’azienda. Per comunicazione informale si intendevano le convinzioni dei dipendenti sull’azienda stessa, sulle persone che la guidavano e persino il pettegolezzo (gossip) interno all’azienda. Dopo questo mutamento di prospettiva, March e Olsen decidono di riprendere le loro riflessioni sulle Organizzazioni curando la pubblicazione di un volume che raccolga i contributi di vari altri autori che condividono questa o quella posizione dei due autori o che presentano prove empiriche a sostegno delle loro chiavi di lettura. Il volume è, da una parte, “un tentativo di comprendere come le organizzazioni trattano le ambiguità” (1982, p. 8), dall’altra, un tentativo di mettere alla prova il modello cestino di rifiuti o bidone della spazzatura. Apre il volume la versione ridotta del saggio di Cohen, March e Olsen del 1972. In questa nuova versione del 1982, il saggio viene presentato con delle differenze: si abbandona il riferimento alle collezioni di scelte in cerca di problemi e si sostituisce il riferimento ai decisori (decision makers looking for work) con il riferimento ai partecipanti (participants looking for problems or pleasures). La prima formulazione, con riferimento ai decisori, restringeva il campo sia per il riferimento ai soli decisori che per il riferimento al solo tema del lavoro; la seconda allarga moltissimo il campo di riferimento sia perché considera tutti gli appartenenti all’organizzazione (partecipanti), sia perché considera anche motivazioni diverse dal lavoro (pleasure). La definizione di organizzazione che ne deriva è la seguente: “Una organizzazione è un insieme di procedure per l’argomentazione e l’interpretazione oltre che per la soluzione dei problemi e la costruzione di decisioni. Una situazione di scelta è un luogo di incontro per istanze e desideri in cerca di situazioni decisionali nelle quali esse possono essere esposte all’attenzione, soluzioni in cerca di domande alle quali possono essere una risposta, e partecipanti in cerca di problemi o distrazione” (1982, 25). Il Modello Cestino dei Rifiuti non viene più riferito alle Anarchie Organizzate o alle sole Università. Ma si dice che le condizioni di questo modello sono (anche e particolarmente) presenti nelle organizzazioni pubbliche, dell’educazione e nelle organizzazioni illegittime, cioè criminali (1982, 25). Nella riedizione del 1982 del saggio del 1972, si abbandonano le parti di analisi quantitativa più rilevanti (a 165 n.4 / 2002 cominciare dal programma in Fortran) e si riduce il numero delle caratteristiche quantitative del modello alla sola descrizione della struttura dei partecipanti e della struttura degli accessi. Questo secondo saggio fisserà i caratteri per i quali il Modello Cestino dei Rifiuti sarà conosciuto negli anni successivi, anche se non sempre le definizioni che saranno fornite del Cestino di Rifiuti riporteranno, per intero, la complessità della definizione adottata da March e Olsen. Per esempio, Luigi Bobbio (Dizionario di politiche pubbliche, voce Decisione) definisce il modello cestino di rifiuti come quel modello che si allontana di più dal modello di decisone razionale e che è caratterizzato da un’interazione tra attori che vanno e vengono, che operano in condizioni di ambiguità, che non hanno una chiara motivazione di ricerca della soluzione e che producono soluzioni solo perché queste incontrano casualmente i problemi. March e Olsen chiariscono che l’ambiguità può essere di quattro tipi: di intenzione, di comprensione, di storia o di organizzazione (nel senso di attenzione rivolta dagli attori al problema). L’ambiguità nasce, quindi, dal fatto che “gli obiettivi non sono chiari, le tecnologie sono conosciute in modo imperfetto, le storie sono difficili da interpretare e i partecipanti entrano ed escono dal processo” (1982, 8). Queste diverse forme di ambiguità portano a frequenti distorsioni del Completo Ciclo di Scelta che viene così descritto: le azioni individuali (che si trasformano in) azioni organizzative (che producono) reazioni ambientali (che influenzano) le concezioni individuali del contesto (che ristrutturano) le azioni individuali (e il ciclo ricomincia). Date queste premesse, mi sembra di poter concludere che la strategia del cestino di rifiuti è quella che,tra le altre, cercano di evitare le Organizzazioni Non Governative nel fornire aiuti alle popolazioni del terzo mondo. Queste organizzazioni evitano per principio l’aiuto da Stato a Stato per il seguente motivo: se uno Stato fornisce 100 milioni di euro per aiuti umanitari a uno Stato in difficoltà e questo secondo Stato spende 100 milioni in latte, medicine, beni di prima necessità, etc., e contemporaneamente spende (perché è una seconda voce possibile nel proprio bilancio) altri 100 milioni in armamenti, sorge il problema che si perde la chiarezza di (nella terminologia di March e Olsen, diventa ambiguo) ciò che l’ONG ha finanziato (gli aiuti o le armi?). In altri termini, il bilancio di ogni Stato è una specie di cestino dei rifiuti che rende ambiguo il rapporto tra input e output. Da questo punto di vista, l’operare di uno Stato non è diverso dall’operare di molte organizzazioni, per esempio quelle partitiche – ma anche una Università e, perché no?, un’organizzazione illegale - che svolgono insieme più funzioni, coinvolgono più attori, trattano più problemi e realizzano più soluzioni e questa molteplicità (di funzioni, attori, problemi, soluzioni) crea ambiguità. Per evitarla, le ONG o seguono la prassi di finanziare progetti che loro stesse provvedono a seguire o debbono ricorrere a organizzazioni in loco che hanno una sola voce di bilancio. In un modello a cestino di rifiuti, una decisione può essere “sia un esito che una interpretazione di parecchie ‘correnti’ [di eventi] relativamente indipendenti dentro un organizzazione” (1982, 26). Ciascuna di queste correnti (ma molti preferiscono parlare di flussi) di eventi può costituire un problema in quanto è una pertinenza per qualcuno, i risultati di questi flussi di eventi possono anche essere le soluzioni realizzate per caso, i partecipanti vanno e vengono perché alcuni vengono estromessi dall’attenzione degli altri, perché chi partecipa lo fa a seconda degli interessi che lo motivano e presta attenzione solo ad alcuni flussi di eventi, e non a tutti, mentre la politica diventa una questione di opportunità di scelta con soluzioni che sono soltanto occasioni per produrre comportamenti che possono essere chiamati decisioni. In un Modello Cestino di Rifiuti, si confondono problemi in cerca di soluzioni (in quanto sono presi in considerazione dall’organizzazione) con soluzioni in cerca di problemi (cioè soluzioni che preesistono ai problemi) e il risultato è che alcuni problemi vengono risolti, per caso o interattivamente (che non significa intenzionalmente), altri rimangono irrisolti o vengono aggravati. Cosa sia un problema in cerca di soluzione è facilmente comprensibile perché è la situazione cosiddetta “normale”. Per spiegare cosa sia una soluzione in cerca di problema, presento un esempio di risanamento/sventramento di un quartiere di una imprecisata città del Meridione. L’esempio dovrebbe anche mostra- 166 re come sia spesso una soluzione in cerca di problema la modalità del realizzarsi del Modello Cestino di Rifiuti. All’inizio vi è solo una consapevolezza: laddove si sono fatte, per la ricostruzione delle città disastrate dalla guerra, grandi operazioni di risanamento, il giro di denaro che ne è derivato ha portato notevoli consensi elettorali alla DC (che guidava le amministrazioni locali coinvolte nei progetti) sottraendoli ai partiti di notabili di destra. Siccome un’operazione politica del genere era sentita urgente anche in una imprecisata città meridionale per consolidare il potere democristiano, alcuni uomini politici locali e un gruppo di banche, insieme ad alcune società immobiliari, sollecitate dalla disponibilità di un forte incentivo in forma di finanziamento pubblico al risanamento, progettarono un intervento immobiliare di notevole impegno finanziario. Si trattava di risanare una parte del centro storico. Questa era, naturalmente, la soluzione preesistente al problema (perché la possibilità di ottenere le risorse necessarie era chiara prima ancora di sapere dove le risorse sarebbero state impiegate). Occorreva scegliere il problema cui applicare il pacchetto di soluzioni già disponibile. Siccome tutto il centro storico era da risanare, ma l’impresa sarebbe stata ciclopica, si trattava di scegliere una parte limitata del centro storico. Fu scelto il quartiere X, cioè fu scelto di intervenire, nel centro storico, limitatamente a quel quartiere ed esattamente per una fascia che permettesse la costruzione di una larga strada (con ai lati una sola linea di isolati con uffici e banche, non molti appartamenti e qualche attico di prestigio) di collegamento tra la zona dei negozi e degli uffici della via principale con la Stazione Ferroviaria e il mare. In questo modo, il “risanamento” diventava soprattutto uno sventramento. Dopo lo sventramento, in prosecuzione della nuova arteria che spaccava il centro storico, una larga strada fu costruita in riva al mare, sulle pietre laviche immacolate, per permettere un rapido scorrimento dal centro cittadino, dei negozi e degli uffici, alle periferie residenziali delle ville sul mare. Il quartiere X aveva certamente bisogno di essere risanato, ma non meno dei quartieri vicini che rimasero sempre “insanati”. La popolazione di X non fu “risanata” perché fu spostata su quartieri periferici privi di servizi e con scarsissimi mezzi pubblici per il trasferimento. Molti dei quartieri del centro di quella città, circondati dalle vie di traffico veloce, furono ben presto emarginati e questo produsse, in successione, disadattamento, devianza giovanile, piccole bande di scippatori e ladri, i protagonisti delle prime rapine in villa con sbarco da veloci motoscafi nel corso di feste private ed esclusive, la manovalanza di associazioni mafiose sviluppatesi rapidamente nel tessuto urbano ormai disgregato, etc. Molti problemi furono risolti solo temporaneamente (le classi dirigenti che produssero, arricchendosi, l’emarginazione dei quartieri del centro storico furono poi taglieggiate, e persino spogliate delle imprese, dai più determinati di quanti erano cresciuti nei quartieri emarginati); altri problemi non furono risolti (gli ex abitanti del quartiere X si trovarono in una situazione peggiore di quella di partenza perché molti di essi persero del tutto o ridussero di molto le loro attività artigianali); furono realizzati obiettivi non desiderati (spostare il potere interno alla DC dagli sturziani motivati in base a valori agli affaristi legati alle clientele della speculazione edilizia; l’attenzione dei politici fu spostata dallo sviluppo industriale allo sviluppo assistito; etc.). Il Modello Cestino di Rifiuti mostra con chiarezza perché una teoria della scelta organizzativa debba porre in primo piano la qualità e il livello dell’attenzione degli attori (1982, 38). Ed infatti, Ambiguity Choice in Organizations tratta il tema dell’attenzione in riferimento all’ambiguità. Per spiegare i diversi livelli di attenzione e la discontinuità nell’attenzione, viene presa in considerazione l’ambiguità degli scopi, quella del potere (chi ha il potere e quanto ne ha), dell’esperienza (nella valutazione delle decisioni pregresse) e del successo (se si è raggiunto lo scopo desiderato o altri diversi che hanno vanificato il primo). Segue l’analisi delle soglie o salti (uno per ogni passaggio tra le quattro posizioni del Ciclo di Scelta) che conseguono dall’ambiguità e che riducono l’attenzione degli attori. Queste ambiguità e il difetto di attenzione rendono non applicabile, secondo gli autori, il modello della decisione razionale. Perché la decisione sia razionale, nel senso classico, March e Olsen ritengono necessarie le seguenti condizioni: 1) pochi 167 n.4 / 2002 partecipanti; 2) una situazione stabile nel tempo (possibilmente breve) che intercorre tra l’attivazione degli attori e la decisione. Altri modelli di decisione alternativi a quello della scelta razionale sono il modello del conflitto (risolto attraverso coalizioni o accordi) e il modello della non-decisione. Nessuna organizzazione è più portata a questo o quello dei tre modelli, ma in ciascuna organizzazione ogni modello può prevalere in determinate circostanze di contesto. Ovviamente, è possibile che altri vedano dei modelli intermedi tra quello della scelta razionale e il Modello Cestino di Rifiuti di March e Olsen: Luigi Bobbio, per esempio, nel già citato dizionario, presenta, come modelli intermedi, quello derivante da Herbert A. Simon che è detto della razionalità limitata o cognitivo (perché gli studi di psicologia cognitiva hanno dimostrato che i problemi complessi vengono affrontati con strutture concettuali predefinite e persino routine), quello della razionalità incrementale (attribuito a Lindblom e di cui il Modello Cestino di Rifiuti sarebbe, per Luigi Bobbio, solo la versione più estrema), etc. March e Olsen condividono, inoltre, con Simon, la convinzione che le organizzazioni tendano ad affrontare i problemi attraverso procedure di routine, e che questo sia tanto più difficile quanto maggiore è la differenza tra risorse esistenti e domande avanzate. Aggiungono a Simon, invece, la convinzione che l’ambiguità in cui opera il modello cestino di rifiuti produca come conseguenza che molti dei suoi risultati sono spesso “un sottoprodotto di un processo per esercitarsi intorno ai (piuttosto che per risolvere i) problemi” (1982, 252). Una delle conseguenze più importanti, sul piano metodologico, ricavabile dalla lettura di Ambiguity Choice in Organizations è che raramente si presenterà alla nostra analisi (nello studio di una organizzazione i cui processi non hanno ben delimitati inizio e fine, un ben delimitato numero di partecipanti, una ben definita e costante intenzione di ciascun partecipante e, infine, una ben delimitata gerarchia di problemi) un caso empirico oggettivamente circoscrivibile, ma sempre solo una successione di problemi o un flusso o sequenza di eventi (secondo la terminologia di Heclo, presentata in un articolo del 1972). In conclusione del lavoro, gli autori sostengono che il concetto di decisione non costituisca un caso o un fenomeno o un evento, bensì una teoria. “Questo implica una connessione tra attività chiamate processo decisionale, pronunciamenti chiamati decisioni, e azioni chiamate implementazione di decisioni” (1982, 352). Mi sono dilungato su Ambiguity Choice in Organizations perché, non essendo stato tradotto, è meno noto al pubblico italiano, mentre è indispensabile per presentare in modo soddisfacente i successivi due volumi: Rediscovering Institutions. The Organizational Basis of Politics; Democratic Governance. Essi sono stati tradotti, con il titolo: Riscoprire le istituzioni. Le basi organizzative della politica e Governare la democrazia. In Riscoprire le istituzioni, March e Olsen si pongono l’obiettivo di superare il paradigma che ha prevalso negli studi e nelle ricerche di Scienza Politica. Questo paradigma appare loro come contestualista (la politica viene studiata nel contesto della società), riduzionista (il comportamento politico è un aggregato di comportamenti individuali e il primo è comprensibile a partire dai secondi), strumentalista (concepisce decisioni e risorse come problemi fondamentali), utilitarista (considera l’azione come motivata esclusivamente dall’interesse) e funzionalista (considera la storia come capace di produrre un ordine e oggettivi punti di equilibrio). Per superare questo paradigma, March e Olsen si affidano a una letteratura empirica vastissima dalla quale estraggono un’infinità di piccole conferme che mostrano l’urgenza di un paradigma alternativo che interpreti l’organizzazione politica come autonoma dal resto della società, riconduca il comportamento dei singoli alle regole di queste organizzazioni, consideri l’azione anche come una risposta a obblighi e doveri, rivaluti il ruolo portante di simboli, rituali e cerimonie e, infine, ipotizzi adattamenti imperfetti e molteplicità di punti di arrivo di ogni processo storico. La conseguenza, dell’operare in base a questo secondo paradigma, sarebbe quella di riscoprire le istituzioni (da cui il titolo del libro). 168 Congeniale al primo paradigma è la metafora del modello aggregativo riferita alle istituzioni; congeniale al secondo paradigma è la metafora, sempre riferita alle istituzioni, del modello integrativo. Per questo, si può dire che il modello aggregativo è prevalso nella Scienza Politica moderna e quello integrativo sta prevalendo nella Scienza Politica post-moderna dopo essere a lungo prevalso in quella pre-moderna. Il modello aggregativo privilegia la descrizione degli eventi come conseguenza di decisioni calcolate (cioè razionali) e la politica come competizione razionale. Il modello aggregativo concepisce la politica come se fosse l’opera di tanti decisori unitari con conoscenze esaustive e complete della situazione e delle alternative di scelta possibile, come pure degli effetti e delle cause e con la consapevolezza di come si possa ottenere l’ottimizzazione dei risultati (per esempio, l’ottimo-paretiano). Il modello aggregativo, inoltre, concepisce la politica come subordinata a forze esogene. Infatti, “Si pone come assunto che la classe, la geografia, il clima, i fattori etnici, la lingua, la cultura, le condizioni economiche, la demografia, la tecnologia, l’ideologia e la religione influenzano la politica ma non ne siano influenzate in maniera apprezzabile” (1992, 24-5). L’assunto adottato (nel modello integrativo) in alternativa a quello dell’azione razionale è che, nella competizione politica, l’interazione appare (ed è) caotica in quanto dominata dai vari tipi di ambiguità di cui si è già detto. Le routine non regolano, ma intervengono in, questo caos, e a queste routine si affiancano altri tipi di azione che sono originate da credenze non necessariamente razionali. Infine, sono le istituzioni che influenzano le forze esogene quanto, se non più di quanto, esse influenzino le istituzioni. Nel modello aggregativo, la fiducia (cioè un valore, quindi la razionalità di valore, per restare nello schema) non gioca alcun ruolo, mentre ne gioca uno importante nel modello integrativo. Naturalmente, non si tratta della fiducia fondata su accordi di reciprocità (contratti impliciti o espliciti), ma della fiducia istintuale di chi non è guastato da concezioni utilitariste. “Per questo la fiducia può essere scalzata dalla persistenza della slealtà ma è più probabile che essa venga minata nel momento in cui ci si accorge che è parte di un accordo contrattuale volontario, invece che degli obblighi naturali della vita politica” (1992, 56). Per capire il senso di quest’ultima affermazione, bisogna considerare che, nel modello integrativo, si presuppone che “la fiducia connessa con la delega nelle istituzioni politiche non è un contratto esplicito ma, al pari della stessa divisione del lavoro, una regola di comportamento appropriato” (1992, 56). Con questo accenno, March e Olsen introducono il concetto di appropriatezza che, con riferimento alle organizzazioni, indica la tendenza di queste ultime a formare le persone che vi lavorano sulla base di valori prodotti dalla stessa organizzazione. Uno di questi valori, forse il fondamentale, è appunto quello della fiducia (anche se quanto si è detto a proposito della comunicazione informale, e in particolare del gossip interno all’organizzazione, mostra che non sempre il valore della fiducia, e quindi l’appropriatezza, viene rispettato), senza la quale (malgrado la possibilità di eccezioni, anche rilevanti, ma pur sempre eccezioni) nessuna organizzazione può funzionare. Questo significa due cose. La prima può essere riferita all’intera società: non esiste società strutturata sulla divisione del lavoro che non abbia un proporzionale livello di fiducia su cui poggiare per funzionare (e siccome divisione del lavoro e fiducia sono compresenti solo nel modello integrativo, dei due modelli puri in cui è possibile descrivere l’organizzazione sociale, uno – nel caso specifico, il modello integrativo puro – si presenta come unico possibile – anche se intollerabile e distruttivo della libertà – per la ragione che l’altro – nel caso specifico, il modello aggregativo puro – risulta contraddittorio e impossibile). La seconda può essere riferita ad ogni organizzazione: in ogni organizzazione vige la regola che gli attori si muovono secondo il ruolo che definisce la loro identità e secondo regole che sono il prodotto della divisione del lavoro - altrimenti detta struttura dei ruoli - (e siccome divisione del lavoro e identità sono compresenti solo nel modello integrativo puro, dei due modelli puri in cui è possibile descrivere ogni organizzazione, una – nel caso specifico, il modello integrativo puro – si presenta come unico possibile – anche se intollerabile e assurdo – per la ragione che l’altro – nel caso specifico, il modello aggregativo puro – risulta contraddittorio e impossibile). 169 n.4 / 2002 Va, inoltre, considerato che anche l’appropriatezza può produrre dei problemi all’organizzazione. L’appropriatezza che crea problemi, quella che si manifesta nella versione più intollerabile e assurda, può essere esemplificata attraverso il comportamento dell’ipotetico funzionario dell’ufficio A che chiede al funzionario dell’ufficio B di essere autorizzato a svolgere una funzione che abitualmente non svolge. Reitera più volte questa richiesta e ogni volta se la vede respingere. Infine, a causa di una lunga assenza del funzionario dell’ufficio B, lo supplisce per un lungo periodo. Il funzionario dell’ufficio A, adesso temporaneo funzionario dell’ufficio B, trova sul tavolo del nuovo ufficio la richiesta che egli stesso ha inoltrato dall’ufficio A e la respinge. Finita la supplenza, e ritornato all’ufficio A, inoltra una identica richiesta all’ufficio B. Nella versione più razionale, l’appropriatezza deriva dal fatto che l’organizzazione addestra (perlomeno nel breve periodo) i propri funzionari sulla base dei valori che essa stessa produce al proprio interno, più che sulla base di un’adesione acritica ai valori esterni alla società (anche se nel lungo periodo questi possono influenzare i valori dell’organizzazione). Fermo restando il principio che nelle organizzazioni vige il principio dell’appropriatezza, una maggiore efficienza dell’organizzazione (maggiore attenzione, solerzia, motivazione dei funzionari) può essere ottenuta attraverso due tipi di intervento che, prima di March e Olsen, Parsons ha chiamato: integrativo e aggregativo. Nella versione di Parsons, operano secondo il modello integrativo coloro che vedono, nell’appartenenza a un sistema di valori e nell’organizzazione, una risorsa fondamentale per costruire la propria identità e vedersela riconoscere affermandosi; operano secondo il modello aggregativo coloro che vedono nell’organizzazione l’occasione per costituire un sistema di relazioni strumentale, più che solidale (strumentale, naturalmente, al raggiungimento di obiettivi individuali). Parsons aveva applicato questa dicotomia al caso di Doc, leader dei Corner boys considerato gruppo integrativo, e al caso di Chick, esponente importante dei College boys considerato gruppo aggregativo (i due sono le figure centrali dell’opera di Foot Whyte, Street Corner Society). Tuttavia, proprio questa divisione netta tra gruppi aggregativi e integrativi era stata fortemente criticata nell’interpretazione imposta da Parsons all’opera di Whyte (il quale, da buon ricercatore empirista, era stato molto più sfumato nel rappresentare le figure di Doc e Chick). Questa critica, e le discussioni che ne seguirono, nasceva da un problema da sempre presente nella cultura americana (e ne abbiamo avuta anche ampia illustrazione in un’infinità di film, soap operas e cartoons): i due modelli (aggregativo e integrativo) sono presentati, da alcuni, come separati nettamente nella figura del buono (il modello integrativo disposto al sacrificio per la comunità e per difenderne i valori) e del cattivo (il modello aggregativo, utile ma mai veramente amato e, comunque, facilmente portato a finire male); da altri, artisti o studiosi, i due modelli sono concepiti sempre come compresenti e conflittuali all’interno della stessa organizzazione, dello stesso gruppo e persino della stessa persona. La compresenza e la conflittualità dell’aggregativo e dell’integrativo nello stesso idealtipo è evidente: nell’imprenditore razionale come descritto da Weber (un religioso che seguendo i dettami della fede della comunità in cui opera, soprattutto quella calvinista, realizza anche il proprio interesse); nella biografia di Charles S. Peirce fornitaci da Wright Mills che fa di questo filosofo l’idealtipo dell’uomo di genio che, insieme, esprime e interpreta al meglio i valori della cultura americana, mentre vive la propria vita nella sensazione di avere fallito perché ha avuto meno successo professionale di molti suoi colleghi meno capaci, ma più opportunisti. In alcuni passaggi cruciali di Riscoprire le istituzioni, March e Olsen dimostrano di propendere per l’idea che l’integrativo e l’aggregativo siano compresenti nella stessa istituzione. Vediamo, adesso, con quali argomenti. Per spiegare le forme della partecipazione, March e Olsen descrivono il sistema politico come costituito da individui che operano in base a vari tipi di interazione, che si muovono tra i due poli della fiducia e della sfiducia, o tra i poli dell’integrazione e dell’emarginazione e vari tipi di orientamenti verso la realtà (come le cose o i fatti vengono visti, valutati, considerati rilevanti o meno e controllati). Riprendendo, in 170 Riscoprire le istituzioni, il tema di Ambiguity Choice in Organizations, March e Olsen sostengono che l’ambiguità si manifesta negli orientamenti verso la realtà, ma nasce dalle varie collocazioni o modi di operare degli individui: individui che interagiscono senza conflitti, che si fidano gli uni degli altri e che si sentono dalla stessa parte (insieme integrati nel o insieme emarginati dal sistema) vedono, valutano, considerano e controllano le cose e i fatti allo stesso modo (senza ambiguità tra loro). Individui che interagiscono in modo conflittuale, che non si fidano gli uni degli altri e che non si sentono dalla stessa parte (integrati da una parte ed emarginati dall’altra) vedono, valutano, considerano e controllano le cose e i fatti in modo diverso (con una ambiguità che, a volte, può essere una risorsa, altre volte - se decisa, “risolta”, attraverso forme di semiosi chiusa, cioè in modo integralista - produce incommensurabilità). L’incommensurabilità nasce, infatti, dalla compresenza di forti credenze e ambiguità. “La perseveranza di fronte a chiari fallimenti e l’indifferenza a un’attenta ponderazione delle conseguenze dell’azione sono, naturalmente, aspetti comuni del comportamento umano – soprattutto in ambiti contrassegnati da forti credenze e dall’ambiguità dell’esperienza” (1992, 138). La rilevanza dell’ambiguità nell’organizzazione e nelle istituzioni deriva dal fatto che la vita non è solo scelta e decisione, ma anche interpretazione e significato. Infatti, “il significato costituisce uno degli aspetti principali della vita” (1992, 87). Proprio per questa rilevanza del significato, anche i termini usati per descrivere una politica hanno il loro peso nel costituirne la valutazione. Per esempio, la politica di Reagan in U.S.A. (già anticipata, per molti aspetti, dalla Thatcher in G.B.) ha ricevuto, in molti Paesi, reazioni negative maggiori quando è stata chiamata privatizzazione ed ha prodotto reazioni più contenute quando è stata chiamata riforma dell’amministrazione o modernizzazione o con altri termini più neutrali, rispetto alla “ideologia del welfare”. Questa ambiguità permette di definire la stessa organizzazione, a volte, come integrativa e, altre volte, come aggregativa. Questo perché ogni organizzazione è fonte e sbocco dell’ambiguità. Quest’ambiguità permette, di conseguenza, che vengano riprodotte, nel vedere, nel valutare, nel considerare e nel controllare la stessa organizzazione, le contrapposizioni paradigmatiche della teoria politica (dove ci si può contrapporre tra contrattualisti-aggregativi e comunitari-integrativi). Inoltre, coloro che si sentono integrati nell’organizzazione la possono vedere con gli occhi del modello integrativo, mentre coloro che si sentono emarginati la possono vedere con gli occhi del modello aggregativo (o viceversa). Quindi, ancora, un nostalgico di vecchi valori a lungo prevalsi nell’organizzazione (per esempio, un repubblicano in una amministrazione passata sotto il controllo dei democratici o viceversa) può vedere il prevalere, nell’organizzazione, di comportamenti aggregativi anche quando sono ancora prevalenti comportamenti integrativi (o viceversa). Etc. In altri termini, la stessa organizzazione è detta aggregativa quando, in essa, si vede (ma questa visione è sempre da un particolare punto di vista) un ordine fondato sulla razionalità e lo scambio; è detta integrativa quando, in essa, si vede (sempre da un particolare punto di vista) un ordine fondato sulla storia, sull’obbligazione e sulla ragione. Tanto è vero che, a proposito di qualsiasi istituzione della rappresentanza, “Le teorie aggregative sottolineano il primato della regola della maggioranza. Le teorie integrative collocano la regola di maggioranza all’interno di una rete di diritti e di norme istituzionali. Le teorie dell’aggregazione considerano le politiche pubbliche e l’allocazione delle risorse come il risultato fondamentale di un processo politico. Le teorie dell’integrazione considerano come risultato primario lo sviluppo di un sistema politico dotato di scopi e valori condivisi” (1992, 179). E subito dopo, March e Olsen chiariscono: “Nell’ambito delle teorie aggregative dello scambio razionale, il problema della rappresentanza si definisce come un problema di compatibilità fra incentivi […] D’altra parte, nel quadro delle teorie integrative dell’obbligazione ragionata, il problema della rappresentanza consiste nell’integrità professionale del funzionario. Le soluzioni consistono nella socializzazione dei rappresentanti a un’etica del dovere amministrativo e dell’autonomia” (1992, 179-80). Ma siccome tutte queste componenti (maggioranze, reti di diritti e norme, politiche pubbliche, scopi, valo- 171 n.4 / 2002 ri, etc.) sono immerse nell’ambiguità, tutte le istituzioni possono essere descritte come aggregative o integrative. E non vi sono organizzazioni più integrative o più aggregative, se non a partire da un determinato punto di vista. Anche se le teorie politiche con cui vengono valutate fanno parte delle organizzazioni, le teorie politiche sono pertinenti agli interpreti, non alla realtà. Che uno stesso interprete dica che l’istituzione A è (più) integrativa e l’istituzione B è (più) aggregativa è possibile, purché non dimentichi che “La distinzione tra aggregazione e integrazione è importante ai fini della valutazione delle concrete istituzioni politiche, che hanno la tendenza a presentare una mistura di entrambi gli elementi” (1992, 178). Secondo March e Olsen, tendono a vedere istituzioni aggregative quanti guardano ad esse con gli occhi e i criteri di interpretazione degli economisti neoclassici (cioè presupponendo comportamenti egoistici e la mano invisibile del mercato che traduce in bene l’aggregazione di tutti i comportamenti egoistici); tendono a vedere istituzioni integrative quanti guardano ad esse con gli occhi e i criteri di interpretazione dei comunitaristi (cioè presupponendo comportamenti basati sull’integrità morale dei funzionari che operano concependo l’istituzione come una comunità in relazione con la comunità più ampia dei cittadini). Inoltre, coesisteranno sempre, insieme a individui e gruppi (ma anche partiti) che vedranno le istituzioni come integrative, individui, gruppi (e partiti) che, in contrasto con i primi, le vedranno aggregative (o viceversa). Questo perché individui, gruppi (e partiti) vedono, valutano, considerano e controllano le cose e i fatti allo stesso modo di coloro con i quali interagiscono in armonia, con i quali si sentono ugualmente integrati o emarginati e dei quali si fidano, e perché individui, gruppi (e partiti) vedono, valutano, considerano e controllano le cose e i fatti in modo alternativo rispetto a coloro con i quali interagiscono in forma conflittuale, rispetto ai quali si sentono in posizioni differenti (emarginati verso integrati o viceversa) e dei quali non si fidano. Infine, ciascuna metafora riceve, nel tempo, maggiore o minore consenso: a volte prevale quella del modello integrativo, altre volte quella del modello aggregativo. Tanto è vero che, nel non lontano passato, le istituzioni tendevano a vedersi come aggregative; negli ultimi anni, ma anche nel lontano passato, come integrative. Più aumentano le risorse e più le istituzioni tendono a essere viste come aggregative, mentre la contrazione delle risorse tende a farle vedere come integrative (a meno che non appaiano troppo coinvolte nel tentativo di far pagare il costo dei sacrifici a una sola parte sociale). L’integrazione, è la conclusione, è una metafora che pone in primo piano il valore della fiducia; l’aggregazione è una metafora che pone in primo piano il realismo degli interessi di parte. Tutti questi temi (dell’ambiguità, dell’integrativo e dell’aggregativo) vengono ripresi nel volume Democratic Governance (tradotto in italiano con il titolo: Governare la democrazia). Le interpretazioni di studiosi e uomini politici, sostengono March e Olsen all’inizio di Governare la democrazia, “si sono tramandate attraverso i loro insegnamenti e attraverso le istituzioni di governo che essi hanno contribuito a creare. Il loro pensiero è stato incorporato nelle pratiche, nelle regole, nelle norme, nelle identità, nei valori, nei discorsi e nelle capacità su cui si fondano i sistemi politici moderni” (1997, 7). Su questo elenco è praticamente strutturato buona parte del volume. La premessa interpretativa di Governare la democrazia sta in una constatazione già ampiamente chiarita: solo nel non lontano passato, la visione dei governanti come preoccupati del bene comune e della virtù civica è stata sostituita da “una visione della politica tutta incentrata sulla negoziazione, sui problemi di coalizione, e sulla competizione” (1997, 13). Questa sostituzione è stata conseguenza di un’interpretazione derivata dal prevalere temporaneo del modello aggregativo, individualista e dello scambio razionale. Secondo March e Olsen, il punto di vista aggregativo non è sufficiente “per comprendere il fenomeno della governance” (1997, 13), un concetto, quest’ultimo, che è più congeniale alle teorie integrative. Sono individuabili, infatti, due diversi approcci alla governance: il primo, insufficiente, la concepisce come “un meccanismo di aggregazione di preferenze individuali” (1997, 15) ed è un caso speciale delle “teorie del comportamento dell’attore razionale” (1997, 16). Queste “sono, anche, per la maggior parte, teorie del comportamento strategico” (1997, 17) che “guardano al mutamento politico e istituzionale come a qual- 172 cosa che è determinato in larga misura da cambiamenti esterni alle istituzioni stesse, ovvero da mutamenti previsti o avvenuti nel più vasto ambiente fisico e sociale” (1997, 18). Inoltre, il modello aggregativo concepisce per governance soprattutto la costituzione di coalizioni o il raggiungimento di accordi. Ed invece, secondo March e Olsen, la governance è più di questo e ben coglie questo di più il modello integrativo della teoria delle istituzioni nel quale, per governance, si intende più della costituzione di coalizioni o accordi. Si intende anche il tentativo di “influenzare la vita politica e sociale in modo tale da esercitare un impatto sulla storia, sulla sua interpretazione e sulla capacità dei cittadini di apprendere le lezioni del passato” (1997, 63). Nel volume, i due autori ripropongono una sintesi di tante cose già dette, in Riscoprire le istituzioni, a proposito dei modelli integrativo e aggregativo. Il modello integrativo o delle teorie istituzionali, si differenzia dall’altro in due nodi principali: enfatizza “il ruolo delle istituzioni nel definire i termini dello scambio razionale” (1997, 43), inserendo le percezioni soggettive nelle istituzioni sociali e politiche; sottolinea “il fatto che anticipazioni e aspettative non avvengono nel vuoto, ma all’interno di un più vasto contesto di regole, ruoli e identità” (1997, 43). I due autori chiariscono che, proprio in quanto privilegiano il modello integrativo, essi sono convinti che “le istituzioni possono sostituirsi alla mancanza di un accordo culturale profondo” (1997, 47). Il che mi sembra essere una deduzione dall’assunto (da loro attribuito al modello integrativo, nel volume Riscoprire le istituzioni, 1992, 24-5) secondo cui le istituzioni non sono influenzate, in modo unidirezionale, da fattori esogeni come la classe, la geografia, il clima, i fattori etnici, la lingua, la cultura, le condizioni economiche, la demografia, la tecnologia, l’ideologia e la religione. Infatti, le istituzioni tendono anche a influenzare questi fattori, soprattutto la cultura politica (laddove con questo concetto si intendono le divisioni interne al sistema politico). Del resto, la storia è piena di esempi di movimenti o leader che sono stati frenati, influenzati e, infine, essi stessi condizionati dalle istituzioni che volevano distruggere o rimodellare. Le culture che modificano le istituzioni o le modellano nel tempo, al di fuori di sconvolgimenti rivoluzionari, sono sempre state trasversali alle divisioni interne ai sistemi politici. Secondo Dewey, Neurath, Russell, Popper e persino Norberto Bobbio, infatti, è la cultura empirica a favorire la democrazia, mentre la cultura idealista avrebbe favorito i totalitarismi (ma il problema si è, poi, rivelato più complesso del previsto). Secondo Putnam e altri, è la cultura civica (io ho parlato, in precedenti mie ricerche, di presenza o meno di federalismo antropologico) a influenzare il buono o cattivo funzionamento delle istituzioni locali. Secondo March e Olsen, infine, le differenze culturali profonde che possono influenzare le istituzioni sono quelle derivanti dai modelli integrativo e aggregativo. Ma anche questa distinzione culturale attraversa trasversalmente i sistemi politici (sono tanti gli individualisti, sia di centro, di destra e di sinistra, che non credono nelle “Chiese” alle quali magari manifestano adesione, in primis quelle religiose, poi la Patria, la classe, etc., e dall’altra i comunitaristi che, ad una di queste “Chiese”, ci credono, anche se, a volte, sono spinti a starsene fuori o ai margini). I modelli integrativo e aggregativo, infine, possono cambiare le istituzioni attraverso il modo in cui intendono pervenire al buon governo: facendolo discendere dal tornaconto personale e, quindi, dagli incentivi ai funzionari delle istituzioni, secondo i sostenitori di teorie aggregative, mentre nel modello integrativo “Il buongoverno è ritenuto impossibile se i cittadini e i funzionari pubblici sono interessati al proprio tornaconto personale ignorando il bene comune” (1997, 54). Solo che, riconoscono March e Olsen, l’influenza di questi modelli non è sempre positiva quando spinta fino alle estreme conseguenze. Infatti, pur essendo vero che la storia occidentale recente è consistita nell’erosione delle tradizioni che procuravano integrazione, e pur essendo questo valutabile negativamente, è anche vero che sono da evitare i processi integrativi (cioè la produzione di identità comunitarie) non compatibili con i valori della tolleranza e della democrazia. Va criticata, da una parte, sia l’eccessiva disintegrazione sociale, sia “l’eccessiva integrazione dei sistemi sociali e politici” (1997, 94). 173 n.4 / 2002 Ammettendo di forzare, in parte, le teorie di March e Olsen, Gianfranco Pasquino, nell’Introduzione all’edizione italiana del volume Riscoprire le istituzioni, distingue tra istituzioni aggregative (per esempio un parlamento fortemente proporzionale) e istituzioni integrative (per esempio il governo o comunque istituzioni fortemente decisioniste) (1992, 15-6). La lettura congiunta di Riscoprire le istituzioni con Governare la democrazia e Ambiguity Choice in Organizations, porta, a mio avviso, a convincersi che non esistono istituzioni integrative e istituzioni aggregative, ma che la stessa istituzione può produrre, a volte, effetti integrativi e, altre volte, effetti aggregativi. Per esempio, nell’accettazione delle regole della democrazia, intese come regole basate sul dialogo (quindi, si parla di quella che viene detta democrazia deliberativa o partecipativa), si manifestano effetti integrativi, mentre nell’accettazione delle regole della democrazia, intese come regole basate sulla decisione a maggioranza o per accordo (quindi, si parla di quella che viene detta democrazia formale o rappresentativa), si manifestano effetti aggregativi. Questo vuol dire, per esempio, che Parlamenti e consigli elettivi di vario grado (ma anche governi e giunte), proprio in quanto vi si discute e si riconosce spazio a tutti, producono effetti integrativi; in quanto in essi si decide, limitando al minimo la discussione o non ascoltando le ragioni degli avversari, producono effetti aggregativi. Ma anche in questa formulazione, il problema è controverso perché immerso nell’ambiguità: ci potremmo, infatti, domandare: ma, si decide o si discute, nel Parlamento italiano? In altri termini: è questo dilemma privo di ambiguità? No! L’ambiguità c’è sempre perché la soluzione di questo dilemma dipende sempre dai punti di vista. Infatti, secondo alcuni, si decide troppo e si discute poco; secondo altri, si decide poco e si discute ancor meno; secondo altri ancora, si decide poco e si discute troppo. March e Olsen dedicano il resto del volume a un’analisi puntuale e particolareggiata del concreto manifestarsi della governance in quella mistura di effetti integrativi e aggregativi che caratterizzano tutte le istituzioni concrete. Si ritorna, così, ai temi dell’appropriatezza, dell’attenzione, del Modello Cestino di Rifiuti, dell’ambiguità, delle correnti di eventi e della chiarezza dei discorsi che le raccontano, sempre cercando di imporre un senso, in alternativa a quello che gli avversari darebbero alle stesse correnti di eventi. La conclusione più rilevante è la constatazione che, nel mentre che competono per imporre la propria produzione di senso, le parti politiche che accettano il confronto democratico, come effetto a volte non programmato, costruiscono un discorso comune. Infatti, il dialogo e il confronto democratico riducono i tre grandi nodi (che a volte sono problemi e altre volte sono risorse) di tutti i sistemi politici: l’ignoranza, il conflitto e l’ambiguità. Ma perché un sistema democratico produca effetti integrativi è necessario che la qualità del dialogo tra i politici sia sempre elevata perché il deterioramento della qualità del dialogo tende a far prevalere gli effetti aggregativi. Ed anche a questo proposito ci potremmo domandare: la qualità del dialogo politico tra lo schieramento di Berlusconi e quello di Rutelli e D’Alema o Fassino è migliore o peggiore della qualità del dialogo politico al tempo di Craxi, De Mita e Berlinguer? Anche questa domanda, ovviamente, non è priva di ambiguità e la risposta dipende sempre dai punti di vista. (Giuseppe Gangemi) 174 [email protected] Ash Amin e Nigel Thrift Riflessioni sulla competitività della città J. DERRIDA, Oggi l’Europa. L’altro capo seguito da La democrazia aggiornata, a cura di M. Ferraris, Milano, Garzanti, 1991. Accogliamo con grande favore la notizia di una prossima ripubblicazione del testo di Derrida sull’Europa. Questo libretto di Derrida si può infatti trovare con relativa facilità in ogni biblioteca di provincia minimamente fornita. Ma c’è qualcosa di più, qualcosa che farebbe sentire come non superflua una nuova edizione di questo testo. Oggi l’Europa uscì in italiano nel 1991 per i tipi della Garzanti, la traduzione era di Maurizio Ferraris, che vi aggiunse una corposa postfazione. L’edizione italiana, una volta tanto, apparve immediatamente di seguito all’originale francese dal titolo L’autre cap suivi de La démocratie ajournée. Si trattava di due articoli di giornale o, come precisava Derrida nella prefazione all’edizione francese, di due articoli apparsi sì in giornali, ma a parte, vale a dire in supplementi o inserti. Questa circostanza non è secondaria perché i temi trattati dai due articoli toccano la questione del libro, dell’edizione, della stampa, della cultura mediatica, del giornale, ma non i mezzi di informazione in quanto tali. Piuttosto, si potrebbe dire in prima battuta, trattano il loro rapporto con la sfera pubblica. Si trattava di una riflessione sul giornale e sulla quotidianità dalle pagine di un giornale. Il problema posto da Derrida non è più quello habermasiano di una sfera pubblica manipolata: certo, i mezzi di informazione interpretano, operano una valutazione selettiva, informano ‘(di) un fatto’, non limitandosi, ma ciò non sarebbe nemmeno possibile, a riferire del fatto, bensì dando forma al fatto stesso. Prima però di procedere lungo questa linea di riflessione interna al libro, occorre fare un passo indietro. Oggi l’Europa: perché questo titolo per l’edizione italiana? Ci sono certamente delle ottime ragioni, oltre all’esigenza editoriale di vendere qualche copia in più. Possiamo provare a mettere in relazione due piani argomentativi (ma ce ne possono essere molti altri): da una parte i media e la sfera pubblica, dall’altra ciò che essi significano ‘al giorno d’oggi’. "Qualcosa di unico è in corso in Europa – scrive Derrida –, in ciò che ancora si chiama Europa, anche se non si sa più bene che cosa si chiami in questo modo. Di fatto, a quale concetto, a quale individuo reale, a quale entità determinata si può, al giorno d’oggi, conferire questo nome? Chi ne traccerà le frontiere?" (11). Un evento, il 1989, ha appena iniziato a porre nuove questioni quando un secondo evento, la guerra del Golfo, scompagina nuovamente l’agenda per riconfermare vecchi dubbi e porre nuovi problemi. Derrida se ne rende conto, ed ha appena il tempo di aggiungere nella prefazione del gennaio 1991: "Le ipotesi e gli asserti che mi ero azzardato ad avanzare risulteranno allora datati, al giorno d’oggi, nel pieno della cosiddetta guerra “del Golfo”, nel momento in cui i problemi del diritto, della opinione pubblica e della comunicazione mediatica, tra l’altro, conoscono l’urgenza e la gravità che sappiamo?" (8). Un libro già invecchiato, allora? Tanto più dopo la guerra in Kosovo, l’11 settembre 2001 e l’attacco all’Afghanistan? Derrida rimette il giudizio al lettore, e d’altra parte altro non può fare l’autore. Ma entrambe le questioni poste hanno acquistato attualità al giorno d’oggi. Non solo la questione delle frontiere europee, delle nuove linee di inclusione ed esclusione, dei processi decisionali e dell’identità europea, ma anche ciò che è in grado di valicare le frontiere nazionali e quelle linee di esclusione: la capillarità dei discorsi, l’opinione pubblica come soggetto di una topologia intricata, irriducibile a un ‘dove’. "Dato che deborda la rappresentazione elettorale, l’opinione pubblica non è, di diritto, né la volontà generale, né la nazione, né l’ideologia, né la somma delle opinioni private analizzate con tecniche sociologiche o attraverso i moderni istituti di sondaggio" (72). Qui il discorso dell’opinione pubblica, la sua storia, si intreccia al discorso politico dell’Europa. L’"opinione pubblica non si esprime": ciò significa che essa non preesiste alla sua espressione, e meno ancora esiste un foro, sia esso interno o pubblico, come precondizione della sua manifestazione. L’opinione pubblica spezza l’equivoco mediatico dell’in-formazione perché non è né prodotta né formata, non è "influenzata o distorta dalla stampa più di quanto non ne sia semplicemente riflessa o rappresentata". L’opinione pubblica non è rappresentabile perché pura presenza da un lato, e perché incalcolabile dall’altro. Nessun 175 n.4 / 2002 sondaggio e nessuna media statistica delle opinioni può infatti rendere conto dell’opinione pubblica, perché in essa c’è qualcosa di incalcolabile, si tratti della capillarità dei discorsi che ne scompagina la topologia o della costitutiva porosità della frontiere tra pubblico e privato che la contraddistingue. L’opinione pubblica eccede ogni tentativo di rappresentarla, anzi, scrive Derrida, quasi indicando le linee di una possibile ricerca, "rischia di compromettere lo stesso concetto di rappresentanza" (77). Ma l’opinione pubblica è sempre stata minacciata dalla censura, e oggi una "nuova censura" si presenta sotto forma di accumulazioni, concentrazioni e monopoli, che possono "ridurre al silenzio ciò che non è commensurabile alla loro scala" (79). A questa centralizzazione dell’informazione non si può semplicemente contrapporre la pluralità delle "differenze minoritarie, gli idoletti intraducibili, gli antagonismo nazionalistici, gli sciovinismi dell’idioma" (33). La "nuova censura", osserva infatti Derrida, è proprio la combinazione di "concentrazione e frazionamento, accumulazione e privatizzazione" (79-80). La concentrazione e il monopolio dell’informazione, vale a dire dell’interpretazione dei fatti e della loro valutazione selettiva, non si afferma più azzerando la pluralità di culture più o meno minoritarie, ma attraverso esse, riaffermandole e rafforzandole nella loro identità esclusiva, la stessa che opera in modo mortifero nel nazionalismo. E’ questa la difficoltà che si pone al giorno d’oggi: il problema della politica europea assieme alla questione dell’opinione pubblica e alla necessità di combattere la nuova censura. Una tale difficoltà richiede una reinvenzione della libertà, anche della tradizionale “libertà di stampa” quale strumento dell’opinione pubblica. Secondo Derrida ciò non può avvenire che attraverso una doppia ingiunzione contraddittoria: "se bisogna vigilare affinché l’egemonia centralizzatrice (la capitale) non si ricostituisca, non per questo bisogna moltiplicare le frontiere, cioè i gradini e i margini" (33). Proprio questa doppia ingiunzione contraddittoria deve essere lo stimolo per "inventare gesti, discorsi, pratiche politico-istituzionali" (ibidem), per affrontare filosoficamente quell’invenzione impossibile che nasce dall’aporia. Dobbiamo "imparare a riconoscere, per resistere, nuove forme di presa di potere culturale. Ciò che può anche passare attraverso un nuovo spazio universitario, e soprattutto tramite un discorso filosofico" (39). Una reinvenzione dell’università attraverso un nuovo discorso filosofico capace di affrontare quell’aporia e rimanere fedele a quella doppia ingiunzione, un discorso filosofico che rifugga ogni tentativo, apparentemente democratico e pluralistico, di imposizione dell’omogeneità di un medium attraverso norme di discussione e modelli discorsivi, come invece sembrerebbe fare la teoria dell’agire comunicativo" quando intende produrre un modello linguistico favorevole a questa comunicazione. Qui Derrida accanto al problema relativo al ruolo dell’università per la società contemporanea e per l’Europa di oggi, pone anche l’urgenza di una filosofia capace di mettere in discussione la stessa idea di linguaggio, il suo rapporto con i media e con la sfera pubblica. Una delle vie percorribili, che Derrida abbozza appena, riguarda la "necessità di una nuova cultura che inventi un altro modo di leggere e di analizzare Il capitale, il libro di Marx e il capitale in genere" (40). Lo farà pochi anni più tardi in un nuovo libro – Spettri di Marx (Milano, Raffaello Cortina Editore, 1993) – che affronta Marx come "uno di quei rari pensatori del passato che hanno preso sul serio, almeno in via di principio, l’indissociabilità originaria della tecnica e del linguaggio, quindi della tele-tecnica (poiché ogni linguaggio è una tele-tecnica)" (Derrida 1993, 71). Ma questo è un altro libro. (Massimiliano Tomba) 176 [email protected]
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