RASSEGNA STAMPA mercoledì 17 dicembre 2014 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Articolo 21 del 17/12/14 “Un Paese diverso è possibile? A che punto è la riforma della legge sulla cittadinanza”. Incontro pubblico, Roma, 18 dicembre La campagna L’Italia sono anch’io, promossa dalle principali organizzazioni sociali impegnate nel campo dei diritti dei migranti (www.litaliasonoanchio.it), organizza un incontro pubblico alle 16 il 18 dicembre 2014 presso la Sala Aldo Moro della Camera dei Deputati, in occasione della Giornata Internazionale delle Nazioni Unite per i diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie. La coalizione che ha promosso la campagna ha depositato in Parlamento, oramai 3 anni fa, due proposte di legge di iniziativa popolare, raccogliendo più di 200 mila firme. Il primo testo introduce il diritto di voto alle elezioni amministrative per gli stranieri residenti da 5 anni. Il secondo propone una riforma della legge sulla cittadinanza, che contiene, tra l’altro, l’introduzione dello ius soli. Obiettivo dell’incontro è di verificare a che punto è l’iter legislativo della riforma della cittadinanza, data l’urgenza di arrivare al più presto all’introduzione di regole più giuste e adeguate alle nuove dinamiche che coinvolgono le nostre comunità. Siamo convinti che oggi sia più che mai necessario volgere lo sguardo al futuro del Paese e alla necessità di riconoscere un cambiamento che è già in corso da anni, attraverso misure che favoriscano l’inclusione di milioni di persone che, pur provenendo da altri Paesi, hanno scelto l’Italia come il luogo dove mettere radici. All’incontro, dopo i saluti della Presidente della Camera Laura Boldrini, interverranno: Graziano Delrio, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri; Marilena Fabbri, deputata PD, co-relatrice del testo unificato della proposta di legge di riforma della L.91/92 sulla cittadinanza; Anna Grazia Calabria, deputata FI, co- relatrice del testo unificato della proposta di legge di riforma della L.91/92 sulla cittadinanza (da confermare); Lorenzo Trucco, presidente ASGI Lucia Ghebreghiorges, rete G2 secondegenerazioni Introduce Filippo Miraglia, vicepresidente nazionale Arci, coordina Giorgio Zanchini giornalista RAI http://www.articolo21.org/2014/12/un-paese-diverso-e-possibile-a-che-punto-e-la-riformadella-legge-sulla-cittadinanza-incontro-pubblico-roma-18-dicembre/ Da RadioCor- il Sole 24 ore del 16/12/14 Avvenimenti di giovedì 18 dicembre - Roma: incontro pubblico sul tema 'Un Paese diverso e' possibile? A che punto e' la riforma della legge sulla cittadinanza' organizzato da L'Italia sono anch'io. Ore 16,00. Partecipano, tra gli altri, Laura Boldrini, presidente della Camera dei deputati; Graziano Delrio, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri http://www.borsaitaliana.it/borsa/notizie/radiocor/finanza/dettaglio/nRC_17122014_0741_2 4241646.html 2 Da il SecoloXIX del 17/12/14 Contro i cyberbulli per gli adolescenti arriva il corso di arti marziali digitali Elisabetta Pagani Genova - Indossano un braccialetto di corda da paracadute di colore bianco, montano computer e imparano a risalire ad un profilo Facebook da un cellulare. Hanno fra gli 11 e i 15 anni e tutti i lunedì si riuniscono al circolo Arci Zenzero, nel quartiere di San Fruttuoso. Sono gli allievi di Zanshin Tech, il primo corso di arti marziali digitali. Piccoli “judoka del web”, allenati, in un percorso con diversi gradi di apprendimento (oggi sono al primo step, cintura/braccialetto bianco) a raggiungere lo Zanshin, lo stato mentale del maestro di arti marziali che vede arrivare l’aggressore ma mantiene la calma e lo immagina già a terra. L’aggressore che devono imparare a gestire è il cyberbullo che prima o poi potrebbe attaccarli (se non l’ha già fatto). «Succede al 90% dei ragazzi italiani - calcola Claudio Canavese, presidente di Alid, l’Associazione per le libertà informatiche e digitali ideatrice del corso - ecco perché gli adolescenti devono essere preparati. Questo progetto parla ai potenziali bersagli e applica all’uso della tecnologia il metodo delle arti marziali. Insegnando ad essere vigili, a non farsi sorprendere dall’aggressore o dal panico e a non usare quello che s’impara per fare del male». Il corso, che durerà fino a primavera (costo 10 euro, per il materiale e il braccialetto, che cambierà di tonalità, nella gamma dei colori dei cavi di rete, con l’esperienza), unisce metodo e tecnologia. «In un certo senso - continua Canavese, ex istruttore di judo, di professione programmatore al centro informatico dell’Università - li trasformiamo in piccoli hacker. In modo che abbiamo una marcia digitale in più rispetto ad un ipotetico cyberbullo». http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2014/12/17/ARIqm1tCmarziali_cyberbulli_adolescenti.shtml Da Repubblica.it (Bari) del 17/12/14 Nicolò, il leader della rivolta tradito dai compagni del Salvemini Ha guidato le occupazioni: denunciato, sospeso per otto giorni e criticato dai suoi compagni. Per lui striscioni di solidarietà dalle finestre degli altri istituti di Bari di FRANCESCA RUSSI Nicolò, il leader della rivolta tradito dai compagni del SalveminiL'assemblea al Salvemini Qualcuno ha provato a calare uno striscione dalla finestra del liceo Salvemini. Ma la protesta in segno di solidarietà nei confronti di Nicolò Ceci, rappresentante d'istituto sospeso per otto giorni e denunciato per aver tentato di occupare la scuola è durata solo pochi minuti. "La nostra solidarietà è verso la dirigente scolastica - scrivono gli altri tre rappresentanti degli studenti in un documento che consegnano alla stampa convocata a scuola appositamente - confermiamo la legittimità delle sanzioni comminate perché proporzionate alla gravità dell'infrazione. Nicolò ha violato le regole e ha compiuto un'azione illegale". Si accodano anche i docenti presenti nell'aula magna. Manca solamente la preside, Tina Gesmundo, a casa con la febbre. 3 Nessun passo indietro sulla sospensione, che rischia di compromettere la carriera scolastica del ragazzo, nonostante le condanne arrivate direttamente da Roma dalla segreteria nazionale della Flc Cgil e da Sel. "Il tentativo di occupare la scuola è stato portato avanti da una minoranza in contrasto con quanto deciso in assemblea - dicono i ragazzi dello scientifico - avevamo preferito la forma dell'assemblea permanente rispetto ad altre perché più efficace per conseguire gli obiettivi attraverso la lotta congiunta di tutte le anime della scuola". Uno studente, però, si alza in piedi e obietta. "Volete negare che alcuni studenti sono stati minacciati dai professori? Volete negare che ad alcuni di noi è stato detto che se non davamo le interrogazioni ci beccavamo un non classificato in pagella?". Al centro della decisione di occupare, sostiene l'Unione degli Studenti di cui fa parte Ceci, c'era proprio, secondo l'associazione, la scarsa efficacia della forma assemblea che non aveva interrotto compiti e interrogazioni. Gli risponde la vice-preside. "Gli studenti si sono sottoposti in maniera volontaria alle verifiche, non c'è stato nessun atto di supremazia da parte dei docenti". Insomma, sembra che nessuno fosse d'accordo per l'occupazione della scuola al Salvemini eppure domenica notte Nicolò Ceci, il 18enne rappresentante degli studenti, eletto con 400 voti da una scuola che conta poco meno di mille alunni, non era solo. "C'erano una ventina di altri con lui" racconta un ragazzo "è vero, erano pochi, ma semplicemente perché alcuni non potevano uscire di casa di notte, sarebbero arrivati la mattina". "Ma chi sono questi fantasmi?" gli grida contro un professore. "C'erano studenti esterni alla scuola" rincara un altro rappresentante degli studenti del liceo. "In nessuna occasione di incontro o dibattito è mai emerso un nutrito dissenso rispetto alla metodologia, anzi la condivisione è stata ampia" mettono nero su bianco docenti e studenti del Salvemini. Certo, qualche studente in disaccordo c'è, ed era presente anche al sit in di ieri pomeriggio organizzato dall'Unione degli Studenti, ma ha paura a parlare. "Dopo quello che è successo come si fa a dire qualcosa?". Se la scuola dunque volta le spalle al 18enne e non lo riconosce come rappresentativo, fanno diversamente gli altri istituti di Bari che per giorni hanno portato avanti le occupazioni. "Questa mattina abbiamo calato striscioni di solidarietà da Fermi, Socrate, Majorana, Giulio Cesare - racconta Arianna Petrosino dell'Uds - la repressione non fermerà le nostre lotte. Avrei voluto intervenire nella conferenza stampa del Salvemini ma mi hanno accompagnato alla porta perché sono di un'altra scuola. Ma che scuola è quella che mette gli studenti gli uni contro gli altri?". Intanto oggi è arrivato il sostegno allo studente sospeso da parte dell'Arci. "Esprimo il mio forte sconcerto per quanto è successo al Salvemini di Bari - commenta il presidente dell'Arci Bari Luca Basso - un educatore che arriva a denunciare un suo allievo denuncia innanzitutto il suo personale fallimento professionale. Il Salvemini è stato storicamente a Bari un luogo di formazione culturale e politica per tantissimi cittadini; nell'esprimere la mia stretta solidarietà allo studente denunciato, auspico il ritiro del provvedimento e il ripristino in quella scuola di un sereno clima di confronto democratico. In un periodo così delicato per la scuola pubblica italiana, c'è bisogno di unità di intenti e collaborazione, non certo di episodi assurdi come questo". http://bari.repubblica.it/cronaca/2014/12/16/news/salvemini-103048558/ 4 ESTERI del 17/12/14, pag. 8 E’ una strage di studenti Emanuele Giordana Pakistan. Commando di islamisti fa irruzione nella scuola militare di Peshawar. È il peggior attacco terroristico della storia pachistana: oltre 140 i morti, quasi tutti ragazzi. Tehrek-e-Taliban Pakistan (una sigla nata nel 2007) rivendica il massacro Comincia nella tarda mattinata di un giorno di scuola apparentemente normale il peggior attacco terroristico della storia del Pakistan. Un attacco che produce un bilancio di oltre 140 morti, in stragrande maggioranza studenti. Maschi e femmine uccisi in una giornata convulsa che richiede almeno quattro ore per confinare i guerriglieri islamisti del Tehreeke-Taleban Pakistan in una zona delle scuola dove sgominarli e ucciderli. Succede a Peshawar, la capitale della provincia nordoccidentale — al confine con l’Afghanistan — nel college militare di Warsak Road che fa parte di una rete di 146 scuole che fanno capo all’esercito: liceo e secondaria frequentate da quasi 500 ragazzi tra i 10 e i 18 anni d’età. Un massacro premeditato e senza alcun senso se non per il fatto che il college è una scuola militare. Una scuola con alunni che in maggioranza sono minorenni. La furia omicida del commando — composto tra sei e dieci persone — si abbatte subito su insegnanti e ragazzi, giovani e giovanissimi studenti che l’istituto indirizza alla carriera militare. È giorno d’esami ma c’è anche in programma una festa che diventa presto il peggior incubo quando irrompe il commando entrato da una porta laterale: sparano all’impazzata non si capisce ancora come e con che logica. Hanno avuto solo un ordine dai loro capi, come precisa la rivendicazione: sparare agli «adulti» e risparmiare i «piccoli». Missione impossibile in un parapiglia di centinaia di studenti e decine di insegnanti ostaggio — oltre che delle armi — del terrore, il viatico dell’ennesima campagna dei talebani pachistani per sprofondare le città e la gente nella paura. Gran parte dei più piccoli, sostiene Al Jazeera, riesce a scappare alla spicciolata. I più grandi sono meno fortunati. La dinamica è per ora ancora frammentata (la ricostruzione ora per ora sul sito del quotidiano The Dawn) e non è chiaro né evidente come i guerriglieri, travestiti da militari, abbiano organizzato la strage. Ma è chiaro che strage doveva essere: vendetta per la missione militare Zarb-e-Azb del governo che da alcuni mesi martella il Waziristan, agenzia tribale rifugio per talebani e sodali stranieri. La rivendicazione del Ttp arriva poco dopo l’ingresso del commando e spiega che il target sono proprio i più anziani, studenti compresi. Non dunque ostaggi da trattenere per negoziare qualcosa, ma obiettivi della vendetta. I parenti dei ragazzi iniziano ad arrivare fuori dalla scuola che è vicino a una caserma; le sirene delle ambulanze sono la cornice dello scenario più sinistro che Peshawar abbia mai visto. Il primo ministro Nawaz Sharif, che definisce l’attacco una «tragedia nazionale» — decreterà poi tre giorni di lutto nazionale -, vola a Peshawar dove converge anche il capo dell’esercito Raheel Sharif: i suoi soldati intanto stanno cercando di liberare la scuola aula per aula, mentre il commando si va asserragliando nell’area amministrativa dell’edificio. Si trova comunque il tempo anche per la polemica politica: Nawaz è ai ferri corti con Imran Khan, criticissimo capo del partito al potere nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa. Ora la falla nella sicurezza mette in difficoltà anche il contestatore. Tutti, compresi i partiti 5 islamisti (legali), prendono le distanze dall’attacco e così i diversi responsabili politici e religiosi. Il mondo guarda allibito. Alle tre del pomeriggio la situazione comincia a essere sotto controllo: fonti riferiscono che alcuni miliziani avrebbero tentato la fuga rasandosi la barba. Ma le voci corrono incontrollate: il commando è ancora dentro. Qualcuno si è fatto già esplodere, altri tirano granate, sparano con mitraglie di ultima generazione. Alle 15 e 35 radio Pakistan lancia il primo duro bilancio dei morti: 126, un numero inimmaginabile solo qualche ora prima. E destinato a crescere. È in quel momento che i militari pachistani riescono intanto a raggiungere il loro obiettivo e pochi minuti prima delle 16 fanno sapere che il commando è ormai confinato in un’area precisa dell’enorme scuola militare. Poco più tardi il ministro dell’Informazione della provincia Mushtaq Ghani dice all’agenzia Afp che il bilancio è di 130 morti. Sono già 131 qualche minuto dopo. Poi salgono a 140 e così avanti. I militanti del Ttp non possono parlare. Tutti morti. Non potranno spiegare quale delle tante fazioni dell’ex ombrello jihadista — divisosi nel corso del 2014 in quasi una decina di rivoli — ha deciso la strage. Muhammad Khorasani, l’uomo che per primo rivendica, non è un nome noto della galassia col cappello talebano. Il gruppo, che dal 2010 figura nella lista dei most wanted internazionali, ha mantenuto una certa unità sino alla morte nel 2009 di Beitullah Meshud — il fondatore del Ttp con Wali-ur-Rehman (anche lui ucciso nel 2013) — e ancora sotto la guida di Hakimullah Meshud, assassinato da un drone alla fine del 2013. Da allora il gruppo si è diviso su questioni ideologiche e diatribe tribali (una parte per esempio ha aderito al progetto di Al Baghdadi, una fazione ha contestato la leadership dei Meshud). Quel che è certo è che la deriva stragista nei confronti dei civili, già utilizzata senza problemi dal Ttp (a differenza della maggior parte dei cugini afgani), ha preso velocità. Il Ttp non è nuovo a bombe nei bazar e nelle moschee ma non era mai giunto a tanto. Un tentativo negoziale con il governo alcuni mesi fa è fallito e a giugno l’esercito ha iniziato a ripulire il Nord Waziristan con l’operativo Zarb-e Azb, tuttora in corso, colpendo i rifugi della guerriglia pachistana e straniera dal cielo e da terra con 30mila uomini. del 17/12/14, pag. 3 Il «Mullah Radio» e i guerriglieri dei monti La rete che gli Usa non riescono a fermare Strazio Il pianto disperato, inconsolabile, delle familiari di un quindicenne, Mohammed Ali Khan, uno degli studenti ucciso ieri nell’efferato attacco talebano alla scuola militare di Peshawar, in Pakistan (Reuters/Zohra Bensemra) Il «Mullah Radio» e i guerriglieri dei monti I talebani pachistani si nascondono nelle aree di confine ma hanno regole diverse dagli afghani di Andrea Nicastro DAL NOSTRO INVIATO KABUL L’uomo con barba e turbante che ha rivendicato la strage di ieri è Maulavi Fazlullah, il «Mullah Radio», terzo leader dei Talebani pachistani. I primi due sono stati uccisi da droni americani. Fino a ieri era famoso per gli appelli incendiari via etere durante gli scontri nella Valle di Swat, per aver ordinato la spedizione punitiva contro Malala, la bimba ora premio Nobel, e per nascondere il dottor Zawahiri, nuovo numero uno di Al Qaeda. E’ un quarantenne che per uccidere fa la strada opposta dei Talebani 6 afghani. I guerriglieri del Mullah Omar colpiscono in Afghanistan e si addestrano e rifugiano in Pakistan. Gli assassini del «Mullah Radio» si nascondono nelle regioni afghane del Nuristan o di Kunar e uccidono in Pakistan. Se riuscissero ad imporre un emirato dalla lapidazione facile e le donne invisibili i due gruppi talebani andrebbero d’accordo, pronti anche ad unirsi alle bandiere nere dello Stato Islamico di Iraq e Siria pur di liberare Gerusalemme e conquistare Roma. Ma fino a quel momento rispondono a logiche e finanziatori diversi. I talebani afghani hanno criticato l’eccidio di Peshawar: «L’emirato islamico è scioccato». La storia di questi gruppi è un esempio della miopia di tanta politica recente. Quando, dopo l’attentato alle Torri Gemelle, il Mullah Omar rifiutò di consegnare Osama Bin Laden agli Stati Uniti, c’erano circa diecimila pachistani nell’esercito talebano. Gli afghani erano poco più numerosi, ma rispetto agli altri stranieri della legione jihadista (ceceni, uzbeki, yemeniti e sauditi) i pachistani parlavano la stessa lingua dei padroni di Kabul, il pashtun, e rispettavano lo stesso codice tribale, il pashtunwali. Solo il passaporto era diverso, per il resto si sentivano fratelli. I pashtun pachistani avevano accolto nelle loro terre milioni di afghani in fuga dall’invasione sovietica e diviso con loro le uniche scuole disponibili, le madrasse allestite dai petrodollari del Golfo con la benedizione di Washington. Le bombe Usa del 2001 sciolgono l’emirato afghano, i talebani di ogni nazionalità si disperdono. Chi può torna a casa. L’emiro dei credenti, il Mullah Omar scappa a Quetta, la città pachistana più vicina alla sua Kandahar. I pachistani sui monti del Waziristan, dove l’autorità di Islamabad non è mai arrivata. Tutti però continuano a combattere gli «infedeli invasori» con incursioni in Afghanistan. Nel 2006 la svolta. Baitullah Mehsud fonda «Tehereek-e-Taliban», i Talebani pachistani. Ha combattuto per il Mullah Omar, è stato nominato governatore dallo stesso emiro, ma è anche leader della più grande tribù del Waziristan e punta a Islamabad. E’ sua la mano che uccide Benazir Bhutto, candidata a guidare il Pakistan. L’ambizione cresce anche grazie a ciò che significa ospitare il leader di Al Qaeda in termini di finanziamenti e contatti. I droni Usa colpiscono, ma ogni morto viene sostituito da uno ancora più sanguinario. Da 13 mesi c’è Maulana Fazlullah. Si dice che esista un circolo di mutua distruzione. Gli Usa finanziano il Pakistan che però appoggia i Talebani afghani per attaccare l’Afghanistan filo americano. Il cerchio si chiude con Kabul che, con soldi Usa, sponsorizza i Talebani pachistani perché attacchino Islamabad. Qualche indizio dice che le cose stanno cambiando e l’attentato di ieri è uno di questi. Il nuovo governo afghano di Ashraf Ghani potrebbe rinnegare l’indicibile alleanza. Il premier pachistano Nawaz Sharif ha finalmente coordinato le sue offensive militari con i droni Usa e sta avendo risultati. L’attacco ai figli dei soldati è una vendetta contro queste manovre. Se i dollari smetteranno di circolare per uccidere, forse la pace avrà una chance. Del 17/12/2014, pag. 2 I Taliban all’assalto di una scuola Strage di bambini, più di 140 morti Nove uomini sono penetrati nell’istituto frequentato dai figli dei militari Hanno iniziato a uccidere gli studenti poi un kamikaze si è fatto esplodere ISMAIL KAHN SALMAN MASOOD 7 PESHAWAR Un commando di Taliban pachistani ha fatto irruzione in una scuola gestita dall’esercito nel Nord-Ovest del Pakistan, facendo strage d’insegnanti e studenti, e ingaggiando per otto ore uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza. Almeno 145 persone, di cui 132 bambini, sono morte prima i nove terroristi fossero uccisi, stando ai funzionari governativi e agli operatori sanitari intervenuti. È l’attentato più sanguinoso nella storia moderna del Paese. Un portavoce dei Taliban pachistani ha rivendicato l’attacco come rappresaglia all’offensiva dell’esercito nel distretto tribale del Nord Waziristan. Dall’Afghanistan, invece, altri gruppi di Taliban hanno condannato il massacro «contrario ai principi dell’Islam» poiché ha «ucciso innocenti». Alle 10 del mattino nove uomini armati, in uniformi di unità paramilitari, hanno scavalcato la parete posteriore della Scuola pubblica dell’Esercito, frequentata da circa 2.500 alunni e alunne; hanno fatto irruzione nella scuola lanciando bombe a mano e sparando indiscriminatamente. Rievocando in maniera agghiacciante l’assedio nel 2004 alla scuola di Beslan in Russia, alcune delle peggiori violenze si sono verificato nell’aula magna, dove un istruttore dell’esercito stava dando una lezione di primo soccorso. «L’istruttore ci ha chiesto di abbassarci e di stenderci a terra, dice Zeeshan, uno studente, intervistato all’ospedale. «Poi ho visto i terroristi che passavano accanto agli studenti e gli sparavano in te- sta». Ghani, il ministro provinciale dell’Informazione, conferma che la maggior parte delle vittime è stata uccisi da colpi di arma da fuoco alla testa. Scattato l’intervento delle forze di sicurezza, alcuni assalitori si sono fatti esplodere, altri sono stati uccisi dal commando dell’esercito. Fra i genitori assiepati negli ospedali, o fuori dei cancelli della scuola in cerca di notizie dei figli uno dei più fortunati, Muhammad Arshad, ha saputo che suo figlio Ehsan è stato messo in salvo dal commando: «Ringrazio Dio d’avergli dato una seconda vita». Ma all’ospedale militare, i corpi degli alunni erano allineati sul pavimento, per la maggior parte uccisi con un unico colpo alla testa. Afaq, 7 anni, dice che i militanti sono entrati nella sua classe e si sono messi subito a sparare. «Hanno ucciso il nostro maestro», scoppia a piangere. «Non volevano prendere ostaggi», dice un funzionario della sicurezza. «Erano lì per uccidere». Alcuni studenti sono riusciti a fuggire. Nei notiziari tv sfilano immagini di alunni coi maglioni e le giacche verdi, la divisa della scuola, in preda al panico mentre vengono fatti evacuare dall’istituto. Altri, feriti, sono stati portati in un altro ospedale, il Lady Reading. Molti dei morti non sono ancora stati identificati. Nel tardo pomeriggio, l’esercito comunica d’aver preso il controllo di tre sezioni del complesso scolastico. Dopo l’uccisione dell’ultimo terrorista, i soldati hanno setacciato l’istituto alla ricerca di esplosivi. Il primo ministro Nawaz Sharif è arrivato a Peshawar, dove le autorità hanno dichiarato tre giorni di lutto. Sharif ha annunciato una riunione di emergenza oggi di tutti i partiti politici nella città. Il ministero degli Esteri si dichiara «profondamente scioccato», ma assicura che la lotta contro i Taliban non si fermerà: «Questi terroristi sono nemici del Pakistan, nemici dell’Islam e nemici dell’umanità». La Scuola pubblica dell’esercito di Peshawar fa parte di una rete di scuole che l’esercito gestisce nelle città dove ha delle guarnigioni e nelle principali città del Pakistan. I figli dei militari hanno un accesso preferenziale, ma molti degli studenti e degli insegnanti vengono dall’ambito civile. L’assalto giunge in un momento di tensione politica in Pakistan. Imran Khan, un leader dell’opposizione, ha organizzato manifestazioni di protesta nel tentativo di far cadere Sharif, che egli accusa d’aver truccato le elezioni del 2013. Khan ha criticato le operazioni militari nelle aree tribali e ha invitato il governo a negoziare coi militanti, anziché combat- terli: una posizione che ha suscitato molte critiche. I Taliban pachistani, una coalizione da sempre caotica di gruppi militanti, sono lacerati da attriti interni, e per di più sottoposti a ulteriori pressioni quest’anno dopo la ripresa in giugno delle operazioni militari nel Nord Waziristan, in seguito a un attacco contro l’aeroporto di Karachi. Stando all’esercito, l’offensiva, denominata Operazione Zarb-e-Azb, ha provocato la morte di 1.800 militanti e ripulito gran 8 parte del Nord Waziristan, uno dei più famosi centri di attività dei militanti della regione. Tuttavia, l’attacco di martedì alla scuola di Peshawar dimostra che i Taliban sono tuttora capaci di passare all’offensiva e di colpire obiettivi civili vulnerabili. Del 17/12/2014, pag. 1-4 Il doppio gioco insanguinato FEDERICO RAMPINI NEW YORK “AFPAK ” è la sigla geostrategica che racchiude Afghanistan e Pakistan. È dentro quel vasto perimetro che l’Occidente fronteggia la minaccia di una riscossa dei Taliban. Sono gli stessi combattenti islamici che in Afghanistan hanno ripreso i loro attacchi puntando nel cuore della capitale, Kabul. I loro fratelli e alleati dall’altra parte della frontiera, in Pakistan, prima della carneficina nella scuola si erano distinti per l’attentato contro Malala Yousafzai nel 2012; prima ancora per il tentato attacco alla metropolitana di New York nel 2010. Per l’ennesima volta l’America e i suoi alleati vivono un incubo, la rinascita di un nemico che sembra avere cento teste e ben più di nove vite. Ma questa volta facendo strage in una scuola per i figli dei militari pachistani, i Taliban hanno colpito con ferocia proprio i loro protettori. È dai tempi della caccia a Osama bin Laden, poi scoperto e ucciso mentre si “nascondeva” in Pakistan a pochi metri da una caserma dell’esercito locale, che quel doppio gioco ha mostrato la corda. Abbottabad, la città di confine dove risiedeva indisturbato da anni Bin Laden, si trova a 150 km a Nordest da Peshawar dov’è avvenuta la strage nella scuola. I legami occulti tra le forze armate di Islamabad e i Taliban da anni provocano crisi politiche a ripetizione tra Washington e Islamabad. Gli aiuti americani continuano ad affluire al governo e alle forze armate pachistane. Ma una parte di quegli aiuti indirettamente finiscono agli stessi Taliban: soldi, addestramento, armi, protezione e rifugi. Stavolta a bruciarsi le mani sono stati i militari pachistani: apprendisti stregoni che non riescono più a controllare la loro creatura. La strage in Pakistan avviene proprio mentre l’America sta chiudendo ufficialmente la sua guerra di 13 anni in Afghanistan. O “quasi” chiudendo. Dal 2001 le truppe americane hanno combattuto in Afghanistan quegli stessi Taliban che attraverso i gruppi alleati firmano la strage di scolari a Peshawar. Una guerra costata 1.000 miliardi di dollari, e la più lunga in assoluto nella storia degli Stati Uniti. Un conflitto i cui risultati vengono continuamente sminuiti o messi in discussione proprio dai periodici “ritorni” dei Taliban. In effetti lo stesso Obama di recente ha annunciato che l’addio all’Afghanistan non sarà totale, un contingente di truppe Usa di 10.800 uomini è destinato a rimanere anche dopo il simbolico ammainabandiera del 31 dicembre. L’aviazione e i droni Usa continueranno ad avere missioni offensive e non solo di sorveglianza. L’eccidio dei bambini pachistani, molti dei quali sono figli di militari, sembra una conferma che i Taliban restano più forti che mai. Contando gli attentati recenti e i bilanci delle vittime questo è un dato innegabile, da una parte e dall’altra del confine montagnoso ma “poroso” che unisce AfPak. Sul versante afgano solo nell’ultimo mese gli attacchi dei Taliban si sono fatti sempre più micidiali con l’uccisione di un funzionario della Corte costituzionale, un attentato alla bomba nella sede della polizia di Kabul, l’esecuzione di sei soldati nel pieno centro della città. Dalle loro tradizionali roccaforti di montagna, i militanti fondamentalisti moltiplicano le loro incursioni nella capitale e in tutti i centri urbani. Quasi a sottolineare per Obama la necessità di puntellare il fragile governo afgano, risultato di un compromesso instabile tra il presidente Ghani e il premier Abdullah. E tuttavia il quadro non è così negativo, almeno dal punto di 9 vista dell’interesse strategico degli Stati Uniti. Militarmente i Taliban restano una forza micidiale. Politicamente, hanno subito una sconfitta pesante in Afghanistan con le ultime elezioni: la partecipazione è stata alta, quasi i due quinti dei votanti sono state donne, nonostante le violenze e le intimidazioni dei Taliban. A giudicare da quelle elezioni la loro capacità di presa sulla società civile afgana è in calo. In quanto al Pakistan, si è “coltivato la serpe in seno”. Se i Taliban sono ancora una forza militare considerevole, è proprio grazie agli appoggi che l’esercito pachistano continua a fornirgli. Le forze armate e soprattutto i servizi segreti del Pakistan hanno continuato a praticare il doppio gioco: accreditandosi ufficialmente come gli alleati essenziali dell’Occidente nella lotta al terrorismo islamico; mentre sottobanco hanno foraggiato gli stessi terroristi perché colpissero sia in Afghanistan sia in India. Proprio in India Obama farà il suo prossimo viaggio all’estero, a fine gennaio: nel Paese che da tempo accusa il Pakistan di essere non un alleato nella lotta al terrorismo, ma una centrale del terrorismo stesso. Del 17/12/2014, pag. 4 IL CASO Kerry: “No alla risoluzione dei palestinesi” WASHINGTON Dopo aver tergiversato per una giornata intera, il segretario di Stato americano John Kerry ha ceduto alle pressioni israeliane: e a 24 ore dal colloqui romano con il premier Netanyahu ha fatto sapere che gli Stati Uniti eserciteranno il loro diritto di veto. Opponendosi alla risoluzione che sarà presentata domani alle Nazioni Unite per chiedere il ritiro di Israele nei confini del 1967 entro il 2016. Lo ha detto un responsabile palestinese precisando che la risoluzione verrà presentata comunque. Che Washington non considerasse la risoluzione palestinese “accettabile” era cosa nota. Ma il segretario di Stato aveva tentato di prendere ancora tempo nella speranza di arrivare a una ulteriore mediazione sulla risoluzione, la cui bozza era stata elaborata a Parigi. del 17/12/14, pag. 2 Europa, il verso non è cambiato. Aggrappati al «piano Juncker» Jacopo Rosatelli Strasburgo. Il trucco sugli esteri, le omissioni su ambiente e Ttip, la relazione di Renzi sul mestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea fa acqua Il semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea volge al termine. Per un bilancio vero e proprio, afferma Palazzo Chigi, dobbiamo aspettare il 13 gennaio, quando Matteo Renzi parlerà a Strasburgo. Ma il premier ne ha offerto già ieri un’anticipazione, prima alla Camera e poi al Senato, nelle comunicazioni sul vertice Ue di domani. Al netto della retorica il presidente-segretario ha insistito su due punti: la politica estera «non più capriccio per gli esperti di geopolitica, ma cuore dell’iniziativa Ue», e il «cambiamento di approccio sull’economia», ossia finalmente sostegno alla crescita grazie 10 al «piano Juncker». Questi sarebbero i risultati ottenuti grazie alla guida italiana del Consiglio Ue, sorretta dalla volontà di «non perdere l’ideale» europeista, che non può essere svilito ad affare per ragionieri. Di autentici passi avanti verso una Ue più democratica e sociale nemmeno l’ombra. Sugli affari esteri Renzi trucca le carte, dipingendo una dialettica che non c’è mai stata, quella fra «esperti di risiko» e «vera politica». La contesa vera è un’altra: se le questioni internazionali debbano essere nelle mani dei singoli stati e della Nato — com’è ora — oppure della Ue. Inutile dire che, nonostante l’energico fiorentino, nulla è cambiato. Gli «esperti di geopolitica» (maligna allusione a D’Alema?) non c’entrano nulla, ma evocarli per contrapporli alla «politica» Federica Mogherini serve a fare propaganda ed eludere i veri problemi (esempi: Ucraina, Egitto, Turchia). Ciò che non fa il Parlamento Ue: «È l’unica istituzione comunitaria a svolgere un ruolo positivo in politica estera, come dimostra la mozione sul riconoscimento dello stato di Palestina che voteremo domani (oggi, ndr)» dichiara al manifesto Eleonora Forenza, eurodeputata Prc eletta con la Lista Tsipras. Capitolo economia: «Il riferimento al piano Juncker equivale a darsi la zappa sui piedi, perché è ormai nota a tutti la sua inconsistenza», ragiona Forenza. La Commissione guidata dall’ex premier lussemburghese sbandiera investimenti per 300 miliardi, ma in realtà ne ha messi a disposizione soltanto 13: la differenza deriverebbe da un fantomatico «effetto-leva» degno di un prestigiatore. Non solo: la somma reale viene fuori dallo storno di soldi già stanziati per la ricerca. Insomma: una truffa. Nulla di rassomigliante a quanto chiedono da anni — fra gli altri — le organizzazioni sindacali riunite nella Ces, la confederazione europea: stanziamenti molto più consistenti che derivino dalla tassazione di grandi ricchezze e transazioni finanziarie. Quanto alla cosiddetta «flessibilità» nell’interpretazione dei parametri su deficit e debito, è sufficiente leggere le interviste del vice di Juncker, il finlandese Jyrki Katainen, o della cancelliera tedesca Angela Merkel, per capire che l’Europa non ha affatto cambiato verso. C’è poi quel che Renzi ieri non ha detto. Omissioni gravi. Silenzio assoluto sull’ambiente: si è da poco conclusa la conferenza di Lima sul riscaldamento globale in cui l’Europa — è la denuncia di Mauro Albrizio di Legambiente — ha svolto un ruolo negativo, impedendo di fatto che i paesi industrializzati si impegnassero a sostenere finanziariamente quelli in via di sviluppo che vogliono diminuire le emissioni. E nemmeno una parola sulla decisione di Juncker, ribadita ieri in aula a Strasburgo, di rinviare sine die l’adozione di norme su inquinamento dell’aria e rifiuti. Non va dimenticato, infine, il negoziato sull’accordo di libero scambio Usa-Ue (Ttip): «La presidenza italiana — attacca Forenza — ha appoggiato senza riserve le trattative, mostrandosi quindi favorevole anche ai controversi tribunali arbitrali che dovrebbero tutelare gli investitori dalle possibili scelte ‘ostili’ dei governi nazionali». Oltre un milione di cittadini europei hanno sottoscritto la petizione «stop Ttip», ma evidentemente per il nostro premier non meritano alcuna risposta. 11 del 17/12/14, pag. 9 La Mogherini va in missione a Kiev Ma su Mosca la Ue è sempre più divisa Renzi: “La politica estera non si fa solo con le sanzioni” Marco Zatterin Il rafforzamento delle sanzioni contro la Russia innescate dall’annessione della Crimea sarà sul tavolo del vertice dei leader Ue che si apre domani a Bruxelles. È una scelta per molti versi inevitabile, ma certo non sarà valutata a cuor leggero. I pesanti effetti che l’embargo occidentale sta producendo sull’economia della Federazione indeboliscono il presidente Putin e, al contempo, lo rendono più facilmente disposto ad alzare la posta in gioco. «Le sanzioni hanno senso solo in un contesto più grande», ripete Federica Mogherini, l’alto rappresentante per la politica estera che ieri sera è sbarcata a Kiev per la prima missione europea in Ucraina. Si lavora al dialogo e al rispetto delle regole. Nell’attesa di un qualche segnale dal Cremlino, non resta altro che continuare a esibire un muso duro. Anche il premier Matteo Renzi osserva che «la politica estera non si fa solo con le sanzioni». A Bruxelles lo hanno capito da tempo. La stessa Mogherini ha affermato in novembre di essere pronta a recarsi a Mosca quando vedrà la possibilità di poter interloquire in modo concreto con Putin, il che lascia intendere la giusta consapevolezza di dover preparare bene l’operazione. «Questioni di mesi, più che settimane», ha precisato lunedì. Soprattutto, questione di pieno consenso delle capitali. Anche perché, ricorda una fonte diplomatica, «non va dimenticato che ai russi piace cambiare i criteri dell’ingaggio a metà partita». La prudenza è necessaria. La signora Mogherini ha visto ieri il presidente Poroshenko e il suo staff: «Siamo dalla vostra parte», è il messaggio. Si vuole dimostrare a Kiev il pieno sostegno per il processo di riforme avviato dall’ex satellite russo, un modo per esercitare una pressione incoraggiante. L’alto rappresentante punta anche a verificare la tenuta degli accordi di Minsk sul rispetto dell’integrità ucraina. Ammette che si vedono segnali positivi. Però ammette «che non si illude sulla possibile svolta» poiché «abbiamo già visto troppe volte tradire i buoni auspici». Il calendario è poco meno che stretto. Un commissario Ue confessa «off the record» la preoccupazione di vedere l’Europa arrivare disunita all’appuntamento di giugno col rinnovo delle sanzioni alla Russia. «Ungheria, Cipro, Grecia, Bulgaria ci stanno ripensando», confessa, mentre «la Germania tiene duro e l’Italia, nonostante i dubbi, resterà con la maggioranza». Essere compatti è cruciale e il rischio di non farcela alimenta l’urgenza di un confronto vero con Putin. Un’incognita in più l’aggiunge il nuovo presidente del Consiglio, il polacco Donald Tusk, che i ben informati descrivono aspirare a un ruolo più centrale nella politica estera rispetto al predecessore Van Rompuy. Ieri ha telefonato a Poroshenko per parlare del vertice Ue di domani. Lo ha fatto poco prima che arrivasse l’Alto rappresentante a Kiev. La cosa non è passata per nulla inosservata. 12 Del 17/12/2014, pag. 18 Russia in ginocchio per l’incubo del rublo Borsa di Mosca giù del 19%, file alle banche Vane le misure d’emergenza della banca centrale Il cambio arriva fino ai 100 rubli per un euro. E nei negozi esposto il doppio prezzo. Il colosso Sberbank sospende mutui. Da Obama pronte nuove sanzioni NICOLA LOMBARDOZZI I primi segnali del panico li vedi nella miriade di cambiavalute che tappezzano le città russe di insegne luminose con le quotazioni del rublo rispetto a euro e dollaro. I tabelloni a 4 cifre non bastano più, qualcuno ne ha già ordinati di nuovi a cinque. Ieri la moneta nazionale è arrivata a oltre 100 rubli per un euro prima di attestarsi a 97,02 e risalire ancora in serata fino a 84,55. Numeri che comunque fanno paura se si pensa che solo ai primi di settembre il cambio si aggirava sui 40 a 1. Risparmi e stipendi sono dunque crollati e i russi cominciano a rivivere l'incubo del 1998, l'anno del default, il punto più basso sul piano economico e sociale della breve storia della Russia post- comunista. La paura dilaga e, per la prima volta, anche lo Stato entra in confusione, intrappolato in una congiuntura diabolica che mette insieme le sanzioni economiche di Stati Uniti e Ue e il calo inesorabile del prezzo del petrolio, ma anche una apparente lentezza di ri- flessi della Banca Centrale e la ritrosia dei grandi oligarchi a riportare in patria i tesori ben nascosti nei paradisi fiscali. E non è finita qui. Obama è pronto a firmare la legge del Congresso che imporrà nuove sanzioni ai colossi russi dell’energia, ritorsione per la vicenda Ucraina. Tutto si svolge in maniera irrituale e concitata. Elvira Nabjullina, governatrice della Banca di Russia, ha deciso in piena notte di alzare il tasso di interesse di riferimento dal 10,5 al 17% in un tentativo disperato di frenare l'inflazione. Il rublo ha continuato ad andar giù trascinando la Borsa che ha chiuso con un inquietante meno 19. Economista di grande valore e pupilla di Putin, la Nabjullina rischia adesso di pagare il suo fallimento. Rispolverando il linguaggio di un tempo il Partito Comunista, terza forza del Paese, la accusa di “crimini contro la nazione”. Nel mezzo di un'altra frenetica riunione nell'ufficio del premier, già presidente, Dmitrj Medvedev, molti la rimproverano di «provvedimenti tardivi». Un riferimento che allude a più pesanti sospetti: aver ritardato l'aumento dei tassi per poter prima concedere finanziamenti agevolati al colosso energetico Rosneft di un altro grande amico del Presidente come Igor Sechin che ieri smentiva indignato ogni illazione. Ma sono polemiche che interessano poco i cittadini investiti da una sequenza impressionante di cattive notizie. La Sberbank, la più grande banca del Paese, ha deciso di sospendere mutui e prestiti. Il gigante energetico Gazprom annuncia di avere allo studio tagli del 40% del suo budget che comporteranno anche tanti licenziamenti. A poco servono gli appelli della Duma e del governo a «non lasciarsi pren- dere dall'ansia e non prelevare i propri risparmi ». Le code davanti alle banche sono sempre più numerose. Si estinguono i conti in rubli e si prova a salvare il salvabile. Molti corrono a comprare qualcosa, soprattutto articoli elettronici e automobili i cui prezzi sono ancora vincolati fino al primo gennaio. Tv, tablet, telefoni cellulari e auto di media cilindrata sono già in esaurimento in molti negozi e concessionarie. Altri cambiano il proprio denaro in euro e in dollari. In alcuni negozi infatti si può già pagare direttamente in valuta americana anche se teoricamente è contro la legge. Sui cartellini dei prezzi viene indicata una sigla (e.u.) che vuol dire “unità convenzionale” e che altro non è che il prezzo in dollari. I commercianti 13 spiegano la cosa in modo sconfortante: «Se dovessimo segnare il prezzo in rubli, dovremmo cambiare i cartelli tre volte al giorno». Non tutti i rincari sono però spiegabili. Seppure fra le righe, i giornali cominciano ad ammettere che i grandi ricchi stanno arricchendosi sempre di più sfruttando la crisi. I rincari di molti generi alimentari e della benzina non hanno alcuna spiegazione logica. E si nota come i proprietari delle aziende chimiche, delle acciaierie, delle industrie meccaniche continuino a vendere i loro prodotti in cambio di valuta forte senza subire danni dalla crisi. Nel suo ufficio al Cremlino Putin tace. Prepara la tradizionale conferenza stampa di fine anno prevista per domani e affida al ministro degli Esteri Lavrov l'analisi della situazione: «E’ tutto frutto di un'azione americana ed europea per ribaltare il nostro governo». Una revoca delle sanzioni non risolverebbe tutti i problemi ma darebbe ossigeno all'economia russa. Anche per questo Putin sta affrettando i tempi per la soluzione pacifica della questione ucraina. Il segretario di Stato Kerry con tono benevolo gliene dà atto (mentre Obama non desiste da nuove sanzioni). D’altra parte si può accettare una concessione americana dopo mesi di discorsi patriottici? E' questo il dilemma tra i consiglieri del Presidente che cercano soluzioni per fermare il panico e dare qualche speranza al Paese. Del 17/12/2014, pag. 18 L’euro tradisce le speranze si rafforza sui mercati emergenti meno export e più deflazione FEDERICO FUBINI DOVEVA essere l’antidoto per proteggere l’euro dal virus della deflazione. Doveva: invece rischia di venire meno e complicare un po’ di più il percorso dei prossimi mesi per l’Europa e per l’Italia. L’area euro punta da tempo a tassi di cambio su livelli più contenuti, ma l’instabilità finanziaria in Russia e i tremori sismici nelle monete delle grandi economie emergenti spingono verso esiti esattamente opposti. Un euro più debole sui mercati globali è da mesi è l’obiettivo, implicito, di gran parte dei governi e dei banchieri centrali europei. La Bce ha fatto molto quest’anno per avanzare in questa direzione: con il taglio dei tassi, le iniezioni straordinarie di liquidità e l’avvio di un piano massiccio di acquisti di titoli sui mercati, la banca guidata da Mario Draghi è riuscita indurre un effetto collaterale prezioso: una scivolata dell’euro sul dollaro di quasi il 13% da marzo scorso alla metà di questo mese. È stata una delle poche buone notizie di un 2014 in cui l’Europa ha mancato la ripresa e ha visto la dinamica dei prezzi finire in ibernazione a quota zero. Un moneta più debole può aiutare molto, in una situazione del genere. Facilita l’export di prodotti europei verso il resto del mondo, perché ne rende i prezzi più competitivi in valuta locale, dunque favorisce l’occupazione, i consumi e gli investimenti in Europa. Ha anche un altro effetto, che la Bce persegue ormai quasi apertamente: rendendo un po’ più cari i beni importati, può impedire che l’indice dei prezzi crolli in una deflazione nella quale famiglie e imprese bloccano consumi e investimenti nell’attesa di prezzi più bassi domani. Se questo era il contributo che il tasso di cambio doveva portare, non sta solo venendo meno nel pieno del terremoto finanziario russo. Si sta invertendo nel suo contrario, e diventa un ostacolo in più nella lotta contro la deflazione. L’indice della moneta unica pubblicato dalla Bce, ponderato in proporzione sulle valute delle economie con le quali l’Europa commercia, mostra che da fine settembre il valore dell’euro sul resto del mondo si 14 è apprezzato dell’1,5% anche mentre la moneta unica accelerava la caduta sul dollaro. In altri termini, gli europei hanno avuto l’illusione di una svalutazione della loro moneta perché si sono concentrati sul valore relativo al biglietto verde. Da fine settembre però accade il contrario: nel complesso degli scambi mondiali, l’euro si sta rafforzando. Il terremoto di queste ultime settimane, con epicentro a Mosca ma scosse in altre aree emergenti, non fa che accentuare queste tendenze. Solo nell’ultimo mese la Russia ha svalutato sull’area euro del 63%, la Turchia del 10%, l’Indonesia del 7,3%, l’India del 5,4%. Svalutazioni intorno ai due punti si sono poi viste anche nei Paesi d’Europa centroorientale e adesso anche sul dollaro stesso. Quasi metà del genere umano ed economie che nel 2013 sono arrivate a pesare molte decine di miliardi di euro per il «made in Italy», stanno di nuovo perdendo potere d’acquisto. E questa tempesta di fine anno erode parte delle conquiste della Bce per l’intero 2014. Non era previsto che andasse così, non con questi ritorni improvvisi di febbrilità. Invece ieri gli indici finanziari hanno fluttuato paurosamente: le Borse europee hanno chiuso in territorio nettamente positivo (Ftse-Mib a più 3,2%, Dax 30 di Francoforte a più 2,46%) dopo aver segnato forti perdite a metà seduta. È un ritorno di instabilità che lo stesso eccesso di calma dei mesi scorsi lasciava presagire. Fino a pochi giorni fa il Vix, l’indice della volatilità, aveva vissuto il suo anno più tranquillo dal 2006. Ora l’orizzonte è irriconoscibile: lo spettacolo di questi giorni ricorda quello delle crisi del debito dei Paesi emergenti di fine anni ’90, con le banche centrali di Mosca o di Ankara che alzano disperatamente i tassi d’interesse su economie in frenata, senza riuscire ad arrestare la continua caduta del cambio. Se questi giorni ricordano quelli di allora, non è solo un caso. Allora come oggi, i Paesi che emergono dal comunismo o dalla povertà si trovano carichi di debiti denominati in dollari alla vigilia di una stretta monetaria della Federal Reserve. Le imprese russe hanno 590 miliardi di debiti in dollari con le banche occidentali e il loro peso è di fatto raddoppiato in poche settimane con il crollo del rublo. La Banca dei regolamenti internazionali stima che a metà di quest’anno i debiti in valuta estera dei Paesi emergenti fossero di circa 5.000 miliardi di dollari: ogni giorno di svalutazione della rupia indiana o indonesiana, dello yuan cinese, della lira turca o del baht thailandese non fa che rendere più insostenibile questi oneri, allontanando gli investitori e affondando ancora di più le monete emergenti. L’Italia è in parte al riparo, perché la sua esposizione diretta sulla Russia non supera i 27 miliardi di dollari. Ma oggi stesso la Federal Reserve dovrà fare più chiarezza sulla sua stretta monetaria del 2015, e nessuno può illudersi di averne già visto tutte le conseguenze. del 17/12/14, pag. 7 Presidenziali, un test per Samaras Pavlos Nerantzis ATENE Grecia. Primo turno elettorale in parlamento. Atene e Bruxelles applicano la strategia della paura contro Syriza. Il 23 e il 29 dicembre le altre due votazioni, quelle decisive. Un unico candidato: Stavros Dimas Gli occhi dei creditori internazionali, dei mercati e ovviamente di tutti i greci sono puntati oggi sull’ elliniko koinovulio, il parlamento greco, dove stasera si vota per l’ elezione del presidente della Repubblica, ma in realtá per dire sì o no all’ operato dell’ attuale governo di coalizione e all’applicazione di nuove misure imposte dalla Troika (Fmi, Ue, Bce) per far fronte, come viene sostenuto, al buco del bilancio per il 2015. 15 Una settimana dopo l’ annuncio di elezioni presidenziali anticipate, una mossa a rischio ma obbligata per Antonis Samaras, i conti continuano a non tornare per la maggioranza governativa. Applicando la strategia della paura nel tentativo di scongiurare una grande sconfitta per il suo governo e a convincere chi ancora dai parlamentari non ha deciso su cosa votare, il premier greco sta giocando su trappole del tipo «con la stabilitá oppure con il caos», senza tener conto che in questo modo é proprio lui a creare un clima di polarizzazione negativo per l’ intero Paese. Forse – e questo non é da escludere — perché Samaras in fondo ha giá deciso di lasciare la “patata bollente” del debito e delle trattattive con la Troika (Fmi, Ue, Bce) al leader del Syriza, Alexis Tsipras, vincitore delle prossime elezioni, secondo tutti gli sondaggi. «Oggi in Grecia è in corso una battaglia di democrazia e di verità», ha scritto il premier greco in un articolo pubblicato sul settimanale Real News, accusando Syriza di riportare «il Paese verso nuovi memorandum proprio nel momento in cui stiamo per uscire definitivamente dai vecchi» e invitando soprattutto i parlamentari indipendenti e quelli del partito di Sinistra Democratica (Dimar) e di Greci Indipendenti (Anel) a votare «secondo coscienza». La risposta é stata immediata da via Koumoundourou, dove si trova il quartier generale di Syriza. Tsipras, riferendosi alla strategia della paura, che sta raggiungendo livelli insostenibili, non ha escluso l’eventualitá che «certi uomini d’ affari, amici del premier, faranno espatriare apposta capitali» per creare un clima di panico e di paura. Syriza, infatti, sa benissimo – avendo ricevuto una buona lezione nelle elezioni del 2012 — che la strategia della paura promossa dal governo avrá un ruolo determinante non soltanto stasera nella aula parlamentare, ma anche nel voto delle elezioni prossime. Non a caso secondo i sondaggi, il 57,8% degli intervistati ritiene che sia tornato il rischio dell’ uscita del Paese dalla zona euro, nonostante nessuno lo voglia. Le urne aprono alle 18.00 (ora italiana), ma si sa già che l’esito della prima votazione sarà negativo. Secondo la costituzione greca nelle prime due votazioni (la seconda è stata programmata per il 23 Dicembre) il candidato presidente Stavros Dimas dovrà raccogliere almeno 200 voti, ma la maggioranza parlamentare possiede soltanto 155 e la maggioranza dei parlamentari indipendenti si è già detta contraria all’elezione del presidente della repubblica dall’ attuale parlamento. Di conseguenza, a sentire fondi governative, ciò che conta per il premier greco è il numero dei voti che raccoglierà oggi l’ unico candidato presidente. Se il risultato si avvicinerà ai 180, cioè ai voti che Stavros Dimas, ex commissario europeo e vice-presidente della Nea Dimokratia, dovrà raccogliere per essere eletto alla terza ed ultima votazione, programmata per il 29 Dicembre, allora Samaras potrebbe superare lo scoglio. Almeno cosi sperano nel Megaro Maximou, sede del governo. Altrimenti il Paese andrà alle elezioni anticipate agli inizi di febbraio prossimo con la sinistra radicale a mantenere sempre una differenza di quasi quattro punti rispetto ai conservatori. Secondo gli ultimi sondaggi condotti dalle società Kapa Research e Alco per conto dei settimanali To Vima e Proto Thema, Syriza raccoglie tra il 25,5% e il 27,6% delle preferenze, Nea Dimokratia, il partito di Samaras tra il 22,7% e il 24% e seguono To Potami (Il Fiume), nuova formazione politica di centro, creata da un giornalista televisivo che raccoglie i delusi dei vecchi partiti del potere, con 6%- 4,1%, Chrysi Avghi (Alba Dorata) con il 5,9% — 5,6%, il Pasok oscilla tra il 6,7% e il 5%, il Kke tra il 5,8% e 4,4%, mentre Dimokratiki Aristera (Sinistra Democratica), una volta componente del Syriza, poi partner della maggioranza che è uscita dal governo di coalizione un anno fa, e gli Ecologisti Verdi non riescono a superare la soglia del 3%. Gli indecisi poi superano il 18%. Samaras non è certo l’ unico a voler diffamare la sinistra radicale greca. L’ eventualità di una vittoria elettorale di Syriza fa venire i brividi anche ad una parte dell’ establishment europea, soprattutto quella strettamente legata e dominata da Berlino. Ed è propria questa 16 leadership insieme ad alcuni media internazionali main stream, tra loro anche certi italiani, e ovviamente i mercati che stanno applicando in pieno altre volte la strategia della tensione ed altre quella della paura. Dopo il crollo maggiore nella storia della borsa di Atene, nel giorno in cui ufficialmente si anticipavano le elezioni presidenziali, fatto interpretato come un avvertimento per l’ avanzata di Syriza, l’ incubo del “Grexit” (l’uscita della Grecia dalla zona euro) viene riproposto senza scrupoli. L’appello di Jean-Claude Juncker, al centro di una Luxleaks di massiccia evasione fiscale, a votare in Grecia «in favore delle persone che conosco», hanno provocato la reazione di tutte le forze d’ opposizione greche. E poi quelle del commissario per gli Affari Economici e Finanziari dell’Unione europea, Pierre Moscovic, in visita ufficiale alla capitale greca da lunedì. Moscovici, in un’ intervista al quotidiano Kathimerini, ha voluto inviare un messaggio a favore dell’elezione di Stavros Dimas, alla presidenza della Repubblica. «Lavoriamo — ha detto — con le persone che vogliono la permanenza della Grecia nel cuore dell’Europa», come se Syriza non la volesse. Intanto l’ ex premier Jorgos Papandreou, considerato responsabile per i primi accordi con la Troika, sta creando un nuovo partito nel tentativo di ostacolare il flusso di elettori socialisti verso Syriza. Prosegue, insomma, la guerra contro la sinistra radicale. E la questione vera é se questo clima d’incertezza politica, tutto sommato fittizio, é dovuto ai creditori internazionali e ai partners europei, oppure a Syriza. L’incertezza certo non piace né ai mercati, né all’Unione europea, ma non piace nemmeno a Syriza, pronta a rispondere a tutte le menzogne. del 17/12/14, pag. 6 Le esecuzioni diminuiscono, tranne in Cina e Iran Andrea Colombo Pena di morte. Il Rapporto 2014 di Nessuno Tocchi Caino. Cina e Iran in controtendenza Domenica a Roma cinque donne, tutte vincitrici del premio Nobel per la pace, avrebbero dovuto partecipare all’iniziativa organizzata dall’associazione «Nessuno tocchi Caino» a favore della moratoria contro la pena di morte, in vista del voto all’Onu di giovedì prossimo: Mairead Carrigan Maguire, britannica, Jody Williams, Usa, Shirin Ebadi, Iran, Tawakkul Karman, Yemen e Betty Williams, Irlanda. All’ultimo momento tre di loro hanno dovuto rinunciare, pur confermando il loro impegno a favore della moratoria. Nella sede del Partito radicale c’erano invece Shirin Ebadi e Mairead Carrigan Maguire, La pacifista iraniana viene dal paese in cui, dopo la Cina, il numero delle condanne a morte eseguite è più alto, la sua testimonianza è stata certamente la più drammatica. La situazione in Iran, ha detto, non è cambiata negli ultimi anni nonostante la presenza di un presidente effettivamente democratico, ma privo di poteri in base alla costituzione islamica. La manifestazione, tenutasi nella stessa sede del partito radicale a Roma in cui Marco Pannella incontrava il Dalai Lama, è stata organizzata in contemporanea con la presentazione del Rapporto 2014 sulla pena capitale, con dati relativi al 2013. La situazione, stando ai numeri presentati alcuni giorni fa, appare lievemente migliorata. Le esecuzioni proseguono in molti Paesi, però arretrano quasi ovunque e nella presentazione del Rapporto 2014, alcuni giorni fa al Campidoglio, «Nessuno tocchi Caino» poteva mostrare una contenuta soddisfazione. La diminuzione drastica quasi ovunque delle 17 esecuzioni conferma infatti che la strategia adoperata anche dall’associazione italiana, la stessa ribadita ieri dalle cinque donne Nobel, sta funzionando: si tratta di non puntare subito sull’abolizione ma sulla moratoria, come passo non ancora definitivo ma a portata di mano. La tesoriera Elisabetta Zamparutti ha elencato i dati. Nel 20013 le condanne eseguite sono state 4.106, 3mila della quali nella sola Cina. Seguono, nella macabra classifica, l’Iran, dove sono state giustiziati 687 condannati, e l’Irak, con 172 vittime, poi l’Arabia Saudita, 78 uccisioni di Stato. Nonostante la cifra impressionante, la situazione cinese non è in prospettiva quella più sconfortante. La Cina ha infatti rifiutato la moratoria, ammettendo di non essere in grado al momento di aderire, ma si è impegnata a farlo nel prossimo futuro e le fortune della pena di morte sembrano lì in discesa. Situazione opposta in Iran e Irak, che hanno rifiutato con sdegno la moratoria e hanno votato contro anche in sede Onu, come tutti i Paesi mediorientali tranne Israele, favorevole alla moratoria, e il Libano, astenuto. A differenza della Cina, Iran e Irak non hanno aperto nessuno spiraglio neppure per il futuro prossimo. Negli Usa, unico Paese delle Americhe dove la pena capitale sia ancora in vigore, il numero delle sentenze eseguite è invece in drastico calo: 39 nel 2013, in percentuale rapportata alla popolazione una quarantesimo di quelle eseguite in Cina. In Europa, il solo Paese dove la condanna a morte sia ancora in vigore è la Bielorussia: due esecuzioni nel 2013. Del 17/12/2014, pag. 9 Marò, scontro con l’India Pinotti: “Latorre resta deve operarsi in Italia” La Corte suprema di New Delhi aveva respinto le richieste degli avvocati: cure e una licenza in Italia per i fucilieri VINCENZO NIGRO L’India pretende il rientro di Massimiliano Latorre e dice no alla richiesta di Salvatore Girone di tornare a casa per Natale. Dura la reazione italiana: Latorre non si muoverà e sui due marò si profila un nuovo scontro. «Fortemente contrariato», il presidente Napolitano, «irritazione » esprime il ministro degli Esteri Gentiloni. La ministra della Difesa Pinotti taglia corto: «Latorre non può certo tornare in India». C’È un giudice a New Delhi che ancora una volta manda per aria le speranze dell’Italia. Di chi si illudeva che la lunga storia dei due marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre potesse avviarsi verso la fine. Ieri mattina il presidente della Corte suprema H. L. Dattu ha voluto guidare in prima persona il collegio di tre magistrati che ha respinto le richieste dei due marinai accusati di aver ucciso due pescatori nel 2012. Latorre è in Italia da settembre per curarsi dai postumi di un ictus: chiedeva di poter rimanere lontano dall’India per altri 4 mesi. Dovrà subire un nuovo intervento chirurgico, un by-pass coronarico. Salvatore Girone, rimasto da solo nell’ambasciata d’Italia a New Delhi, sperava invece di poter godere di una “licenza” di Natale di 3 settimane. Bocciate entrambe le richieste. Il presidente Dattu è stato durissimo e nel contraddittorio che per 30 minuti si è sviluppato fra lui, i due giudici a latere, l’avvocato del governo e i due avvocati degli italiani, ha lasciato capire immediatamente che la sua personale posizione era di insofferenza per la richiesta degli italiani. Per cui gli stessi avvocati Soli Sorabjee e K. T. S. Tulsi all’ultimo momento hanno preferito ritirare la “petition” per i due sottufficiali; qualcuno spera che possa esserci una seconda occasione e che perlomeno Latorre possa godere di una 18 estensione del permesso sanitario. Dattu è stato inflessibile. Gli avvocati degli italiani, invece di sollevare soltanto la richiesta del permesso, avevano rispolverato anche il tema della giurisdizione che — in principio — l’Italia non riconosce all’India. Il giudice ha detto per esempio che «visto che le indagini non sono state ancora concluse e i capi d’accusa non sono stati presentati come si può concedere l’autorizzazione agli imputati?». Dattu ha aggiunto che «dovremmo concentrarci sulla chiusura della fase istruttoria del processo, e poi bisogna rispettare il sistema legale indiano perché se concedessi questo ai due richiedenti, dovrei farlo anche per tutti gli imputati indiani». Una posizione in linea con l’approccio “tecnico” che la magistratura indiana ha seguito nel trattare il caso sin dall’inizio. Una posizione che forse lo stesso governo indiano non condivide a pieno: il rappresentante del governo in aula infatti aveva espresso la sua “non contrarietà” al permesso per Latorre, mentre la licenza di Natale per Girone non è neppure stata presa in considerazione (anche perché in quel caso entrambi i sottufficiali sarebbero stati fuori dall’India contemporaneamente, con nessuna vera garanzia di rientro). La decisione della Corte indiana ha provocato reazioni durissime della politica italiana. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha detto di essere «fortemente contrariato», mentre il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha parlato di «irritazione del governo italiano» per la decisione dei giudici indiani: una formula che esprime insoddisfazione ma non pregiudica la possibilità (inevitabile) di continuare a trattare con l’India. Dura anche la ministra della Difesa Roberta Pinotti: «È una decisione grave, dall’Italia arriverà una risposta. Latorre non può certo tornare in India». Nicola Latorre, presidente Pd della Commissione Difesa del Senato, invita il governo «a riflettere nelle giuste sedi e nel momento opportuno per valutare ulteriori iniziative sui rapporti fra Italia e India». «La decisione della Corte Suprema indiana è del tutto inaccettabile », ribadisce il presidente della Commissione esteri della Camera Fabrizio Cicchitto. Anche lui poi auspica un cambio di passo: «Il governo deve definire la sua linea di fronte a questo fatto nuovo del tutto negativo». Come dire che fra Italia e India dovrebbe cambiare qualcosa: il problema è che tutte le carte sono a New Delhi. 19 INTERNI del 17/12/14, pag. 13 M5S, anche Currò dice addio. E sono 23 L’annuncio in Aula e il voto a favore del governo. Gli insulti dei suoi «colleghi», gli applausi del premier ROMA I colleghi lo apostrofano così: «Marchettaro», «traditore», «rumore di fondo», «nuovo Razzi», «marcio». Sui social va anche peggio: «Lecchino della casta», «fai schifo», «bastardo», «verme» e giù con insulti e minacce. Tommaso Currò è uscito dal gruppo ed è questa la sorte che gli tocca, come agli altri reprobi. È il 23esimo parlamentare ad abbandonare il Movimento 5 Stelle, tra espulsi e dimissioni. Lo fa con un appoggio esplicito al governo, votando a favore della risoluzione di maggioranza sul Consiglio europeo. E con l’annuncio di «un’uscita dolorosa ma non più evitabile», al termine di un discorso emozionante e teso, tra lo sconcerto dei colleghi e la standing ovation dei deputati del Pd. Applaude anche Matteo Renzi («lo hai pagato, eh», gli urla contro Carlo Sibilia), pronto a replicare alle contestazioni che gli vengono fatte quando parla: «Il fatto che perdiate pezzi ogni giorno, non vi autorizza a interrompere. Siamo solidali con voi e capiamo la vostra difficoltà e la vostra frustrazione». Alle dimissioni dai 5 Stelle segue una quasi rissa tra Ignazio La Russa, che accusa Currò di non essersi dimesso da deputato, Walter Rizzetto (5 stelle dissidente) e Adriano Zaccagnini (tra i primi ad abbandonare il Movimento), che lo difendono: le agenzie registrano parole come «maiale» e «animale», anche se i protagonisti smentiscono. «E ora che si fa?». La domanda di un dissidente, uno dei molti che ancora circolano tra Camera e Senato, la dice lunga sulla disgregazione senza fine del Movimento. Perché le voci si rincorrono. C’è chi parla di 10-20 deputati pronti a lasciare (ma più verosimilmente sono 5). Altri sostengono che non lo faranno ora, «meglio combattere dall’interno». Quello che è certo è che i dissidenti ci sono e non si vergognano più a dirlo. Rizzetto, a sera, discute animatamente con Currò in un’enoteca di piazza di Pietra. Altri fanno capannelli alla Camera. La spaccatura è nei fatti, ma non ancora sancita. Renzi è soddisfatto. Poco prima del discorso aveva detto: «Stop con le cialtronate, recuperate la passione o ne perdete altri». Dopo l’addio, commenta: «Ho fatto un’apertura ed è stata capita». I duri e puri del Movimento non si mostrano scossi. Anzi, festeggiano la fuoriuscita del «marcio» con una «ola». «Dovevamo cacciarlo prima», commenta Daniele Del Grosso. «Finalmente», dice Manlio Di Stefano. Barbara Lezzi: «È chiaro che Renzi sta facendo scouting, i pezzi marci se li prendesse pure». Nicola Morra: «Deo gratias. Porte aperte a chi vuole andarsene». I vertici fanno filtrare la loro versione: «La slavina mette in sicurezza la montagna». Perché i fuoriusciti riducono l’area del dissenso dentro il partito. Ed è per questo che gli altri dissidenti sembrano intenzionati a non seguire le orme di Currò, almeno non singolarmente. Anche perché la partita si sposta al Quirinale. È su questo terreno che Renzi potrebbe trovare una sponda: negli ex dei 5 Stelle ma anche in chi resta nei ranghi, pur contestando la linea. Lo strappo è rimandato. Per ora è tempo di veleni. Danilo Toninelli affida a un tweet il suo commento: «Ha appena lasciato il Movimento un certo Currò. Di lui ricordo solo una marchetta alla Stabilità che dava soldi al parco naturale della sua città». Beppe Grillo, sempre loquace, ignora per ora l’ennesima defezione e se la prende con il Pontefice per non aver ricevuto il Dalai Lama. Alessandro Trocino 20 Del 17/12/2014, pag. 16 Forza Italia, l’addio di Verdini “Caro Silvio, così non si va avanti” Lo scontro con il cerchio magico Il “plenipotenziario” per le riforme lascia a fine anno la guida dell’organizzazione Partito nel caos anche sul tesseramento: gli iscritti crollano da 400 a 60 mila CARMELO LOPAPA La crisi di Forza Italia passa anche attraverso il tonfo dei tesseramenti. Sondaggi al palo, quattro milioni di deficit, licenziamento collettivo di 55 dipendenti, la fronda interna e ora anche l’imminente addio di Denis Verdini. È un periodaccio, per Silvio Berlusconi, alla vigilia di partite decisive su riforme e Quirinale. L’ultima grana: la registrazione dei nuovi tesserati 2014, che si sarebbe dovuta concludere il 15 dicembre. Si è risolta in un flop. A quella data non risultano iscritti al partito neanche 60 mila simpatizzanti (i più catastrofisti parlano di 50 mila). Nelle già esigue casse è finito uno scarso milione di euro. È la ragione per cui lo stesso leader, con una lettera aperta, ha fatto slittare la scadenza al 31 gennaio 2015. Impresentabile, quel dato, tanto più a fronte dei numeri dei dem. Nella lettera aperta Berlusconi minimizza, parla di «breve rinvio dovuto a diverse considerazioni politiche e organizzative», ai «numerosi impegni di queste settimane che hanno assorbito il tempo di molti deputati e senatori». Il pallottoliere tuttavia è impietoso. A fine settembre, a Roma risultavano tesserati in 2 mila appena, 181 a Frisinone, 61 a Latina, 21 a Rieti e nelle ultime settimane la situazione sembra sia migliorata di poco. A Palermo in questi giorni si toccava a stento quota mille, 2.500 a Torino, in tutta la Puglia non più di 5 mila, va meglio nelle roccaforti del Veneto (8 mila) e Lombardia (10mila), il resto sono briciole. La quota ordinaria è 30 euro, scontata a 25 euro per i seniores e 15 euro per i giovani. «I dati ufficiali li riceveremo a febbraio, non vedo dove sia l’allarme, vedrete che si supererà quota 100mila» sostiene il responsabile tesseramento Gregorio Fontana. «E poi, abbiamo quasi triplicato i costi, per rendere l’iscrizione una cosa seria, non mi sembra che nel Pd del 40 per cento vada meglio». L’ultimo tesseramento forzista risale al 2007 e l’allora coordinatore Sandro Bondi annunciava il record di 400mila iscritti. «Ma convincere la gente a iscriversi a un partito oggi è dura — spiega Mariastella Gelmini, coordinatrice lombarda — tra Expo, Mose e scandali è maturato un rifiuto insormontabile verso la politica». Ma assieme al rinvio dei tesseramenti, a tenere banco tra i forzisti è la voce dell’imminente addio di Denis Verdini, lascerebbe a fine anno la carica di responsabile organizzativo. «Se questa volta lo fa per davvero, è solo per evitare imbarazzi al partito, per questioni personali e giudiziarie » racconta chi lo conosce bene e lo frequenta. Lui, Denis il tessitore delle riforme, alle prese con chi come Brunetta bombarda ogni giorno il Patto del Nazareno e con i dubbi dello stesso Berlusconi. E poi il ruolo sempre più ingombrante della tesoriera-ombra del capo, Mariarosaria Rossi. Tant’è, stavolta il leader sarebbe intenzionato ad accettare le dimissioni più volte minacciate. L’ex Cavaliere ieri sera ha riunito per gli auguri i 60 senatori a cena (assai frugale, primo e dolce, nemmeno un secondo), stasera toccherà ai 70 deputati. Uno strappo alla spending review dettato dall’esigenza di tenere unito a tutti i costi il partito dopo gli scossoni di Fitto. Ha raccontato loro dei servizi sociali, dei «colpi di stato» subiti, per concludere: «Se vogliamo contare, non dobbiamo farci vedere smembrati 21 e divisi». E infine la promessa: «È vicino il tempo in cui saremo chiamati nuovamente alle nostre responsabilità verso il Paese». Del 17/12/2014, pag. 10 La corsa del premier sulla legge elettorale “Sì entro il 23 del prossimo mese, poi il Colle” FRANCESCO BEI Eccola la via d’uscita, la strada dai mattoni gialli che Renzi e Napolitano hanno immaginato insieme. Da ieri è lì, sotto gli occhi di tutti, solo resta ancora coperta da un tappeto di parole che impediscono di vederla chiaramente. Il problema è sottrarsi ai possibili ricatti di Forza Italia (o della minoranza dem) sull’Italicum? Il problema è mettere in sicurezza la legge elettorale prima che si aprano i giochi sul Colle? La soluzione è semplice, la road map è segnata. Perché a questo punto il treno delle riforme è talmente lanciato che anche le dimissioni del capo dello Stato non sono più un problema insormontabile. Dunque, come immaginato, Napolitano lascerà dopo il 13 gennaio, ultimo atto del semestre italiano. La voce più insistente è che la data prescelta sia giovedì 15. Dalle dimissioni alla convocazione del Parlamento in seduta comune dovrebbero passare quindici giorni, tempo necessario per consentire alle regioni di nominare i grandi elettori. Ecco allora che i giorni segnati in rosso sul calendario di palazzo Chigi, frutto dei colloqui informali tra le massime cariche istituzionali, sono quelli del 28 o 29 gennaio, primo scrutinio per la scelta del successore di Napolitano. È questa la data a cui arrivare con l’Italicum 2.0 approvato dal Senato. E possibilmente con la riforma costituzionale approvata da Montecitorio. Una doppietta che renderebbe la partita del Quirinale molto, molto più in discesa. «Se ci si incastrano questi passaggi — osserva Renzi con i suoi — le riforme sono andate». Per sfruttare al massimo questa finestra di opportunità di due settimane, il capo del governo ha studiato le prossime mosse con grande attenzione. E tutto si giocherà sull’attraversamento delle Termopili di palazzo Madama. La legge elettorale è infatti inchiodata in commissione da una valanga di 17mila emendamenti, un diluvio ostruzionistico organizzato soprattutto dalla Lega. Ma il regolamento consente di farne un unico grande falò, portando direttamente il provvedimento in aula. «Non è una procedura auspicabile — avverte il capogruppo dem Luigi Zanda — ma certamente possibile». Oltretutto mandare in aula il disegno di legge senza il relatore in questo caso non avrebbe conseguenze di sorta, dato che relatore e presidente della commissione (deputato a condurre in aula il ddl in assenza del relatore) coincidono nella persona di Anna Finocchiaro. Sarà la conferenza dei capigruppo dunque a stabilire il giorno in cui l’Italicum dovrà uscire dalla commissione. La Boschi lo vuole incardinare il 7 gennaio, primo giorno di ripresa dei lavori dopo le feste. Che la commissione abbia finito di votare gli emendamenti oppure no, il provvedimento sarà comunque in aula. E la corsa potrebbe concludersi venerdì 23 gennaio. Con Napolitano ormai fuori dal Quirinale, ma le Camere congiunte non ancora convocate per la prima votazione sul successore. Ecco il magico gioco di incastri immaginato da Palazzo Chigi. Incassare l’Italicum dopo le dimissioni di Napolitano ma prima dell’inizio della gara per la successione. In modo da rendere nulli i veti e i ricatti sulla legge elettorale. La road map del premier ha già fissato anche le tappe intermedie, dato che sabato 24 gennaio, all’indomani dell’approvazione dell’Italicum, a Roma dovrebbe tenersi l’assemblea dei Grandi Elettori del Pd. L’appuntamento dove iniziare a ragionare sull’identikit del nuovo presidente della Repubblica. «Fino a quel 22 momento — promette Renzi — non dirò una parola sui nomi. Proprio per non mescolare le due partite». Nel frattempo il sogno del capo del governo è di mettere in sicurezza anche l’altra grande riforma, quella costituzionale. «Entro il 20 gennaio si può fare», ragiona Roberto Giachetti. E le parole pronunciate ieri da Napolitano, il totale endorsement dello sforzo riformatore di palazzo Chigi, sono state per Renzi il miglior viatico. Il premier ci scherza sopra con Matteo Orfini, presidente del Pd, nei saloni del Quirinale. «È stato un grande! ». «Sì — risponde Orfini — dopo Napolitano bisognerebbe eleggere...Napolitano!». Del 17/12/2014, pag. 1-13 IL RETROSCENA La platea dei candidati SEBASTIANO MESSINA Il grande assente era lui, Romano Prodi, che il giorno prima aveva salito le scale di Palazzo Chigi, sei anni e mezzo dopo aver passato la campanella a Silvio Berlusconi. Ma a parte l’ex premier, affondato l’anno scorso dai 101 franchi tiratori quando sembrava a un passo dal Colle, ieri c’erano tutti i volti del toto-presidente, nel salone dei Corazzieri. «Guardandomi intorno, ho avuto la netta sensazione che in quella sala fosse seduto il prossimo capo dello Stato», sussurrava un parlamentare della maggioranza mentre faceva la fila per ritirare il cappotto al guardaroba. E forse aveva ragione, perché erano almeno una dozzina i papabili venuti a sentire l’ultimo messaggio di Napolitano alle alte cariche dello Stato (cerimonia disertata anche quest’anno dai grillini e dai leghisti). Il primo, Pietro Grasso, era seduto proprio accanto al presidente, e a chi ascoltava il suo discorso d’auguri all’inquilino del Quirinale è sembrato di cogliere un tentativo di solennità, una prova generale in vista della delicatissima supplenza che ne farà — dopo le dimissioni di Napolitano — il presidente ad interim. Da quella posizione, forse chiunque si lascerebbe accarezzare da una segreta speranza. Perché non dovrebbe farlo chi oggi occupa la seconda carica dello Stato, e domani — sia pure provvisoriamente — addirittura la prima? Mentre Napolitano parlava, Grasso guardava davanti a sé, e chissà se si domandava chi scenderà in pista per il prossimo settennato, osservando per esempio il volto pensieroso di Pier Carlo Padoan, seduto in prima fila (posto riservato dal cerimoniale ai ministri più importanti: gli altri hanno dovuto accontentarsi della seconda fila). Padoan, che è schivo di carattere, non ha detto una sola parola, e non sapremo mai se mentre socchiudeva gli occhi osservando l’altorilievo rinascimentale che sovrastava Napolitano (“La lavanda dei piedi” di Taddeo Landini) rifletteva sul peso che potrebbero avere a un certo punto il suo prestigio internazionale e la sua indipendenza dal Pd. Accanto a lui, indaffarato a chiacchierare sottovoce con il Guardasigilli Orlando, c’era Paolo Gentiloni, un altro ministro il cui nome rimbalza puntualmente quando si parla di Quirinale. Lui è uno dei pochi renziani dei quali all’estero si conoscono i nomi, anche se non è certo un indipendente: ma non è detto che questo non si riveli un punto a favore, se la partita dovesse prendere una certa piega. Con gli occhialini inforcati come al solito sul naso, Giuliano Amato ascoltava il discorso insieme agli altri giudici costituzionali, e faceva probabilmente il ragionamento opposto, domandandosi se l’endorsement a freddo di Berlusconi («Al Quirinale voteremmo uno come lui») gli impedirà definitivamente di entrare nella rosa dei candidati, dopo che i grillini già l’altra volta avevano lanciato una campagna contro di lui per le pensioni che cumula con vitalizi e indennità. 23 A Walter Veltroni il cerimoniale ha riservato un posto a metà sala, subito dietro a Enrico Letta che sarebbe anche lui un candidato se non si trovasse nella situazione in cui era Saragat nel 1948: molti facevano il suo nome, quasi tutti dimenticavano che non aveva ancora compiuto i 50 anni richiesti dalla Costituzione. Veltroni, che poi è uscito dal palazzo insieme a Piero Fassino — suo successore alla guida dei Ds — quella soglia l’ha invece varcata da nove anni, ma sa bene che nella corsa al Quirinale, come nel Conclave, chi entra papa esce cardinale, e dunque non dice una sola parola sull’argomento. Però deve avergli fatto piacere, quell’invito categorico di Napolitano a «non attentare in qualsiasi modo alla continuità di questo nuovo corso», perché lui è uno dei pochi che certamente garantirebbe quella continuità. Una beffarda regola del cerimoniale ha fatto sedere l’uno accanto all’altro Massimo D’Alema e Gianfranco Fini, invitati non per le cariche ricoperte in passato ma come presidenti di due fondazioni culturali (e dunque come rappresentanti della società civile). L’ex premier entrò in gara nel 2006, ma subì la stessa sorte di Fanfani, di Nenni e degli altri leader che ci avevano provato prima di lui: ormai non ci spera più, e ieri — aspettando l’arrivo di Napolitano — mostrava a Fini le ricche decorazioni dorate del soffitto, intorno al simbolo di Casa Savoia che è ancora lì. Triste era invece lo sguardo di Mario Monti, seduto vicino al presidente dei senatori Pd Luigi Zanda, forse al pensiero che se non avesse ceduto alle lusinghe di Casini sarebbe stato lui il candidato naturale, l’anno scorso: ma ormai quel treno è passato. Del resto è passato anche per Casini, leader di un centro sempre più sottile, ed è passato anche per la signora che gli stava a fianco: Anna Finocchiaro, nome di punta della squadra dalemiana, otto anni fa tra i papabili come primo presidente donna. Ma alla vecchia ruggine con Renzi si sono aggiunti i guai giudiziari di suo marito, sotto processo per truffa aggravata per un appalto nella sanità, e la senatrice siciliana ieri era tra quelli che scendevano le scale del Quirinale, come avrebbe detto Vittorio Gassman, con un grande avvenire dietro le spalle. 24 LEGALITA’DEMOCRATICA del 17/12/14, pag. 4 Don Ciotti alle Coop: «Cacciamo i ladri» Massimo Franchi Congresso. Il fondatore di Libera parla «col cuore» nel primo giorno dell’assise della Lega cooperative. Lusetti: già fatta pulizia. Lo scandalo mafia- capitale lascia i cooperatori in bilico tra rimozione e presa di coscienza. Si va verso la fusione nell’Alleanza e arrivano critiche al governo «Cacciare i disonesti, i furbi e i ladri». Arriva da don Ciotti l’invito più diretto e sentito al mondo della cooperazione scosso dallo scandalo di mafia-capitale nel primo giorno del 39esimo congresso nazionale di Legaccop. Orfana del mentore Giuliano Poletti, il mondo delle cooperative rosse si ritrova all’Auditorium di Roma in bilico fra rimozione e presa di coscienza della sua perduta verginità e delle sue origini mutualistiche. Già nella relazione del presidente — e unico candidato — Mauro Lusetti l’argomento aveva trovato largo spazio. «Noi siamo persone per bene, ma la nostra fiducia può essere stata tradita. La vicenda di Roma ci ha procurato rabbia e sconcerto, ci ha ferito profondamente perché sappiamo di essere altro. Rifiutiamo con forza le volgari generalizzazioni e le strumentalizzazioni che sono state fatte da avversari e presunti amici», sottolinea Lusetti in risposta alla provocazione di Maurizio Gasparri che ieri ha «declinato l’invito a partecipare al congresso per evitare di finire fotografato con gente tipo Buzzi», in riferimento all’immagine che ritrae il ministro Poletti con il “boss” della coop 29 giugno, affiliata a Legacoop. «Potremmo dire che sono episodi isolati o mariuoli — ha ripreso Lusetti citando Craxi su Mario Chiesa — ma non lo facciamo. Accettiamo il confronto per capire dove migliorare». Qua però arriva una distinzione importante a difesa delle dimensioni delle cooperative aderenti a Legacoop: «Ribadiamo con forza però che il discrimine è tra onesti e disonesti e non tra grandi e piccole cooperative, tra cooperative sociali o società pubbliche. Il discrimine è tra chi delinque e chi no. Abbiamo la coscienza a posto, ma nessuno può sentirsi immune. Dobbiamo alzare la guardia, migliorare l’azione di contrasto alle illegalità perché viviamo in uno dei paesi più corrotti d’Europa». Al riguardo della cooperative 29 giugno guidata da Buzzi, Lusetti rivendica di aver «espulso chi ha tradito la fiducia, restituito i contributi frutto di attività illecite, costituiti parte civile, preso contatto con il commissario per salvaguardare occupazione e continuità aziendale, avviato una fase di rinnovamento di Legacoop Lazio». Parole apprezzate da don Luigi Ciotti, salito sul palco subito dopo. La sua Libera è infatti essa stessa una piccola Legacoop — «coordiniamo 1.600 aziende e in questi anni come voi abbiamo dovuto intervenire, vigilare e avere il coraggio di fare scelte scomode: non può essere la magistratura a chiederci conto, dobbiamo scoprirlo prima noi» — e «assieme a voi abbiamo costruito Libera Terra che gestisce le terre confiscate alle mafie producendo agricoltura di qualità». Il suo sentito appello è stato dunque «a scegliere la legalità non solo con la bocca, a non praticarla solo all’accorrenza, a non essere malleabili perché i diritti non possono essere sostituiti dai favori», «le mafie vivono fra noi e il problema è anche in chi vede e lascia fare». La medicina proposta da don Ciotti per affrontare la «difficile situazione» è «la cultura della responsabilità, darci da fare tutti insieme per generare voglia di cambiamento perché la riforma più importante è l’autoriforma delle nostre coscienze». Poi arriva l’applauso più 25 forte, quello alla citazione di Enrico Berliguer sulla «questione morale che è il centro del problema italiano». Ma il “don” è guardingo e non manca di sottolineare: «Sì, applaudite, ma non dimenticatelo». E all’idea di «un codice cooperativo» come impresa del nuovo millenio», Don Ciotti risponde dicendo che «l’etica non è solo scrittura di codici, ma non fare mai compromessi, anche quelli più piccoli». La chiusura è tutto un richiamo «alle radici, all’identità, al dna che dopo 170 anni di mutualismo deve essere un punto di fermezza». Passando ai temi di attualità politica, la relazione di Lusetti — che ha dunque chetato le vecchie polemiche fra emiliani e toscani, e le nuove tra modenesi (fra cui lui) e la vecchia guardia bolognese — non ha risparmiato critiche al governo. Pur dando un giudizio positivo del Jobs act, Lusetti non ha mancato di rimarcare come «intervenire ancora sulla flessibilità in uscita non sia prioritario e rischi di incrinare inutilmente i rapporti con le parti sociali». L’altra stoccata — che ha provocato i convinti applausi di Susanna Camusso, presente in prima fila — ha riguardato la necessità di «reintrodurre il reato di falso in bilancio». L’ultima parte della relazione è stata tutta dedicata all’orizzonte dell’Alleanza con Confcooperative — il compromesso storico delle coop, «distinguerle fra rosse e bianche è ormai una descizione antistorica» — e le altre centrali. Lusetti chiede di accelerare per rispettare la scadenza del «primo gennaio 2017». La variegata platea applaude convinta. Oggi e domani arrivano i ministri — Poletti compreso — vedremo se il tono cambierà. del 17/12/14, pag. 4 Mafia capitale, l’Arciconfraternita che smentisce il Vicariato Eleonora Martini «Siamo tutti un po’ Pilato». Monsignor Pietro Sigurani è l’unico che non rinnega nulla dei rapporti tra l’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, di cui è stato alla guida fin dagli anni ’90, e le cooperative “bianche” e “rosse” citate più volte nell’inchiesta su Mafia capitale. «Non conosco Buzzi e non so chi sia Carminati» mentre Tiziano Zuccolo «è un mio uomo di fiducia», dice Sigurani, che si è guadagnato l’appellativo di «imam cattolico» per la sua vita spesa con gli immigrati. Tiziano Zuccolo, che non è indagato, «è dipendente della società La Cascina e responsabile dell’Arciconfraternita del Ss Sacramento e del Trifone, una delle cooperative capitoline maggiormente attive ed influenti nel settore del sociale», come scrive il Gip di Roma nell’ordinanza di arresto del “rosso” Salvatore Buzzi e del “nero” Massimo Carminati. Il nome di Zuccolo compare spesso nell’inchiesta sul «Mondo di mezzo». Per esempio, il 15 novembre 2012, scrivono gli inquirenti, Zuccolo «chiamava Buzzi e gli diceva di aver incontrato Luca Gramazio». L’uomo di fiducia di mons. Sigurani e il presidente della “Coop. 29 giugno” discutono di come «risolvere la questione dei finanziamenti per i minori ed i campi nomadi». Il che di per sé non è un reato, tanto che, appunto, Zuccolo non è indagato. Però questa e altre conversazioni che vengono intercettate, secondo la procura, consentono «di acclarare ulteriormente l’esistenza di un accordo» tra Buzzi e Zuccolo «in ossequio del quale i richiedenti asilo e rifugiati assegnati dall’Anci al comune di Roma andavano divisi “al 50%”», costituendo di fatto «un vero e proprio “cartello d’interessi” tra le cooperative 26 riconducibili a Buzzi e a Zuccolo» che «rendeva di fatto molto più complesse analoghe possibilità d’impresa ad altre cooperative od associazioni presenti nello specifico settore». Qualche giorno fa il Vicariato di Roma, in una nota, ha comunicato di essere «del tutto estraneo» alle attività della cooperativa “Domus caritatis” e del Consorzio “Casa della solidarietà”, le quali «non sono “riconducibili all’Ente ecclesiastico Arciconfraternita del Ss Sacramento e di San Trifone», di cui peraltro «è in corso la procedura di estinzione». Procedura che, spiega il Vicariato, è stata decisa in seguito ai vari controlli disposti dalla stessa Diocesi che hanno rivelato tra l’altro una serie di «attività che contravvengono alle norme di legge». Per Mons. Sigurani, intervenuto ai microfoni di Radio 1 Rai, si tratta di «un comunicato pilatesco che non dice la verità. Perché ognuno cerca di salvare se stesso, ma il cristianesimo è un’altra cosa. La verità è che noi portavamo due volte l’anno i bilanci al Vicariato e una volta l’anno veniva la Guardia di Finanza. L’Arciconfraternita prima, poi la Domus Caritatis, per i prezzi che fa e per servizi che fa, era diventata un ostacolo e quindi tutti l’attaccavano e mi è stato raccontato che questo 50% era per l’accoglienza dei siriani. Buzzi si è preso tutto lui e noi glielo abbiamo ben volentieri lasciato. Noi ad un certo momento non abbiamo voluto lavorare con questi. La verità è che la Confraternita è stata molto osteggiata nella sua attività. Molto all’interno del Vicariato stesso». Del 17/12/2014, pag. 21 Manette al padrino del tritolo per Di Matteo “In quel covo i summit per 30 anni di omicidi” Palermo, blitz per trovare l’esplosivo comprato da Vincenzo Graziano Il palazzo è lo stesso che fece da base per i killer di La Torre e Dalla Chiesa SALVO PALAZZOLO Una donna vestita di nero prova a fermare gli uomini col mephisto: «Vi ha mandato l’infame? », sussurra. Ma quattro finanzieri della polizia valutaria corrono verso il grande portone blindato in fondo al vicolo Pipitone, da sempre roccaforte di Cosa nostra a Palermo. La fiamma ossidrica dei vigili ci mette una manciata di minuti a scardinarla. E, all’improvviso, si apre un mondo, una zona franca nel cuore della città. Eccola, la grande veranda con i due tavoli per i banchetti di cui ha parlato l’ultimo pentito della mafia siciliana, Vito Galatolo, «l’infame» come lo chiamano adesso nel vicolo dove è vissuto fino a qualche mese fa. Negli anni Ottanta, qui si preparavano gli squadroni della morte di Salvatore Riina, e poi tornavano per festeggiare gli omicidi di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Pio La Torre, di Ninni Cassarà. Trent’anni dopo, attorno a questi tavoli per i banchetti si sono seduti i capi delle famiglie palermitane che stavano progettando l’attentato contro il pubblico ministero Nino Di Matteo. All’alba, i finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria e i colleghi del Gico del nucleo di polizia tributaria passano al setaccio il grande giardino che circonda vicolo Pipitone, un budello fra il porticciolo dell’Acquasanta e i Cantieri navali. Cento uomini sono arrivati con i blindati. Cercano i 200 chili di tritolo che Cosa nostra ha comprato in Calabria per esaudire la richiesta del «fratellone Matteo Messina Denaro». Perché lui, la primula rossa di Cosa nostra, ha sollecitato l’attentato a Di Matteo, nel dicembre 2012. Così ha detto Galatolo: «Girolamo Biondino lesse un pizzino, non si poteva dire di no». Mentre il vicolo viene perquisito da cima a fondo, la 27 Valutaria fa irruzione in un appartamento del salotto buono di Palermo, via Campania, dove abita il vice del capomafia oggi pentito: è Vincenzo Graziano, l’uomo che avrebbe avuto il compito di acquistare e custodire l’esplosivo. Dice il collaboratore: «Io mi impegnai con 360 mila euro mentre le famiglie di Palermo Centro e San Lorenzo si impegnarono per 70 mila euro. Così fu comprato l’esplosivo: io l’ho visto a Palermo, era composto da tanti panetti di colore marrone avvolti da pezze di tessuto. Era contenuto in un fusto di lamiera e in un grande contenitore di plastica dura. Sopra i bidoni vi era uno scatola di cartone e all’interno un dispositivo in metallo». In vicolo Pipitone, l’esplosivo non c’è. «La cosa ci inquieta, continueremo a cercarlo», dice il procuratore aggiunto Teresi, che coordina l’indagine con i sostituti Del Bene, Luise, Picozzi, Scaletta e Tartaglia. «Galatolo ci ha spiegato che l’intento di organizzare l’attentato non è mai stato messo da parte». Il pentito spiega di avere pensato anche a un piano alternativo con Graziano: «Un furgone carico di esplosivo nei pressi del Palazzo di giustizia, ma non ritenemmo di procedere perché ci sarebbero state molte vittime». Intanto, Messina Denaro avrebbe chiesto di colpire anche i pentiti Gaspare Spatuzza e Nino Giuffrè. Ora, albeggia su vicolo Pipitone. I finanzieri della tributaria scoprono una stanza segreta nella roccia. Ci sono piatti e tazzine. Forse, anche di recente, è stato il covo di un latitante. Altri uomini con il mephisto salgono nella palazzina di cinque piani che sovrasta il vicolo espugnato, la palazzina dei Galatolo. Al secondo piano, c’è l’appartamento che un tempo era di Vito Galatolo, oggi protetto con la moglie e i suoi figli in una località segreta. Tutto è in ordine nel salotto dell’uomo che era candidato a diventare uno dei padrini più illustri di Cosa nostra: «Avevo progettato di uccidere anche mia sorella Giovanna, che qualche mese fa aveva scelto di collaborare con la giustizia». Vito Galatolo l’aveva deciso fra le colonne, le statue e le cornici del suo salotto principesco. Oggi, c’è un silenzio irreale in questa palazzina. Sono rimaste solo le donne a conservare i segreti dei loro uomini rinchiusi al carcere duro. 28 BENI COMUNI/AMBIENTE del 17/12/14, pag. 6 Governo senza pietà: paghino le tasse entro lunedì anche i liguri alluvionati di Giampiero Calapà Nessun rinvio. Le tasse vanno pagate. Anche se si vive nella Genova falcidiata dalle alluvioni devastanti di ottobre e novembre. Vanno, anzi, saldate anche le scadenze arretrate, chi si è avvalso della moratoria in vigore fino ad oggi deve metter mano al portafogli. Il decreto del 20 ottobre pareva dar tregua ai genovesi, ma la tregua è già finita. Scade, inesorabile, proprio quando iniziano le feste natalizie: il 22 dicembre. IL COMUNE è stato di parola, le tasse di competenza municipale non si pagano: Imu e Tasi (immobili), Tari (rifiuti) e Cosap (occupazione suolo) rimangono fortunatamente soltanto negli incubi dei genovesi. Il sindaco Marco Doria ha deciso di prolungare dal 31 dicembre al 28 febbraio il rinvio del pagamento, poi si vedrà. Invece le dolenti note sono Iva, Irpef, Irap, Ires e tutte le scadenze fiscali di competenza dello Stato. La comunicazione, terribile per chi ha perso migliaia di euro mentre esondava il Bisagno e Genova era sott’acqua, è arrivata in carta bollata dal ministero delle Finanze. Il decreto che aveva lasciato sperare è del 20 ottobre, firmato da Pier Carlo Padoan: fino al 20 dicembre 2014 compreso i genovesi non dovevano scucire neppure un quattrino. Il nuovo decreto, invece, non ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale agita così le notti dei genovesi: “Gli adempimenti e i versamenti tributari nei Comuni colpiti dalle alluvioni nei mesi scorsi e per i quali era stata prevista la sospensione fino al 20 dicembre 2014, devono essere effettuati in un’unica soluzione entro il 22 dicembre prossimo”. Alza la voce contro la decisione del governo Renzi il candidato (per un Partito democratico diviso nell’anima e a volte anche nei fatti) alla presidenza della Regione Liguria Sergio Cofferati: “È una decisione che sorprende e preoccupa molto, bisogna attivarsi per ottenere da subito una nuova sospensione dei pagamenti. Ci saremmo aspettati – ha precisato Cofferati –, anche solo per un banale principio di ragionevolezza, che fosse data continuità alla sospensione delle imposte statali per le attività che hanno subito danni a causa del’al luvione di ottobre. Non è accettabile che venga tradito oggi quanto promesso nei giorni dell’alluvione, si creerebbe così un danno ulteriore alle molte attività che stanno faticosamente provando a ripartire. Non si tratta di prevedere un’esenzione totale dalle tasse, ma semplicemente di dare respiro ai soggetti che hanno subito danni e che il Comune ha già identificato. Secondo Cofferati, “occorre che tutti i parlamentari liguri, insieme all’amministrazione comunale e regionale, lavorino insieme perché si ponga rimedio a questo pericoloso passo indietro”. Anche il governatore in carica, sempre del Pd, Claudio Burlando, chiede clemenza al proprio governo: “Devono soltanto scrivere tre righe e dare una piccola copertura di qualche milione. È intollerabile che non avvenga. Si tratta di tremila imprese che non sarebbero esentate dal pagare i tributi, pagherebbero qualche mese dopo. Noi possiamo dare al ministero il dischetto con l’elenco delle imprese che hanno denunciato i danni. Abbiamo fatto un lavoro eccezionale con la Camera di Commercio. Ora il ministero deve rimediare, può inserire un provvedimento nel Milleproroghe”. 29 LA RICHIESTA ufficiale di rinviare ancora il pagamento arriva dall’assessore regionale alla Protezione civile Raffaella Paita, nell’occhio del ciclone per la gestione dell’emergenza nei giorni delle alluvioni: “Chiediamo al governo che si creino le condizioni perché le scadenze fiscali previste per il 22 dicembre siano sospese per chi è stato colpito dall’alluvione. Come la Regione Liguria ha fatto la propria parte reperendo le risorse per i contributi alle imprese alluvionate, occorre che anche i ministeri coinvolti procedano a derogare scadenze fiscali e contributive. Per questo chiediamo ai parlamentari liguri di tutti gli schieramenti un impegno ad agire in tal senso”. del 17/12/14, pag. 7 Altro che Olimpiadi, a Roma c’è l’incompiuta da 260 milioni LA “CITTÀ DELLO SPORT” DI CALATRAVA FUORI CITTÀ È IL TEMPIO DELLO SPRECO di Tommaso Rodano La vela bianca di Calatrava si innalza come un’unghia puntata verso il cielo di Roma. La Città dello Sport lasciata fallire a Tor Vergata è un monumento solenne alle disfatte di Stato. Ieri l’Assemblea capitolina ha fatto mancare il numero legale nella seduta che avrebbe potuto dare il via libera al nuovo stadio dell’As Roma. Il giorno prima Matteo Renzi aveva lanciato la Capitale per le Olimpiadi del 2024. Mentre si sognano nuovi impianti e nuovi appalti, la Città dello Sport rimane un villaggio fantasma, un progetto monumentale lasciato a metà, completamente abbandonato. Uno scheletro di cemento che è costato quasi 260 milioni di euro: soldi pubblici. IL CANTIERE è annunciato da insegne scolorite, rinchiuso dietro a una recinzione piena di buche. Qui non c’è nessuno: non un operaio, non una gru, nemmeno un custode. La casupola del guardiano è deserta da chissà quanto tempo, la porta d’ingresso è tenuta chiusa col fil di ferro. Fango, erbacce e un silenzio surreale. Il progetto originale di Santiago Calatrava era tanto affascinante quanto ambizioso. Una maxi struttura per lo sport in un’area di cinquanta ettari. Due palazzetti, uno per il nuoto da quattromila posti e uno polifunzionale da ottomila, per basket, pallavolo e concerti. Ognuno dei due stadi avrebbe avuto la sua cupola bianca, un guscio formato da un reticolato di cemento e una copertura di vetro. Le conchiglie, nel disegno, erano tenute insieme da un arco centrale lungo 130 metri. Poi una piscina olimpionica esterna con gradinate da 3 mila spettatori, una pista d’atletica, migliaia di parcheggi auto, spogliatoi e uffici. LA CITTÀ DELLO SPORT era nata per i mondiali di nuoto del 2009. L’incarico all’archi tetto valenziano era stato conferito dal sindaco Walter Veltroni nel 2006. In origine, un progetto da 60 milioni di euro. All’assegnazione dell’appalto sono già raddoppiati: 120 milioni. Tra 2006 e 2007 l’avanzamento dei lavori è risibile, ma le previsioni di spesa continuano a moltiplicarsi: il costo dei lavori arriva a 240 milioni di euro. Il cantiere è affidato alla Vianini Lavori del Gruppo Caltagirone, la gestione dei fondi è della Protezione civile di Guido Bertolaso: l’opera è nella lista dei Grandi Eventi. A capo del progetto viene incaricato Angelo Balducci. Lo scandalo della cricca degli appalti sarebbe scoppiato qualche anno più tardi. Nel cantiere, a pieno regime, dovrebbero lavorare fino a 300 operai al giorno per centrare l’obiettivo e consegnare l’impianto in tempo per i mondiali di nuoto. 30 Già nel 2008 il Coni si arrende e sposta la manifestazione al Foro Italico (che ha comunque bisogno di altri 45 milioni di euro per “rifarsi il trucco”). L’obiettivo per cui era nata la Città dello Sport è già fallito, ma si continua a lavorare (e spendere). Roma è candidata per le Olimpiadi del 2020: l’opera potrebbe tornare utile. L’ambizione è stoppata sul nascere dal governo Monti. Nel 2011, l’ultimo preventivo: per completare i lavori secondo il progetto iniziale si arriverebbe a una spesa totale di 660 milioni di euro. Undici volte la stima iniziale. Si parla di coinvolgere sponsor privati, ma non si fa vivo nessuno. DI FATTO nel cantiere di Tor Vergata non si muove più nulla da tre anni. La Città dello Sport non esiste, lo Stato ha rinunciato: il suo nome non compare nemmeno nel censimento del Ministero delle Infrastrutture, che ha elencato 671 opere incompiute italiane. Il bilancio parziale è impietoso: in otto anni sono andati in fumo 256 milioni di euro. Sono serviti a edificare uno spettacolare altare in cemento armato, un mausoleo degli sprechi, dell’approssimazione, della soggezione del pubblico nei confronti dei privati, del disastro amministrativo di una città e di un Paese. Secondo l’assessore all’Urbanistica del Comune di Roma, Giovanni Caudo, per completare l’opera ci vorrebbero altri 400 milioni. “Ma oggi non ci sono le condizioni.” Poi aggiunge: “Vogliamo finire almeno la prima vela, a cui manca la copertura in vetro. L’idea è trasferirci la facoltà di Scienze naturali dell’Università di Tor Vergata. Servono una settantina di milioni.” Nel frattempo l’unica acqua nella vasca di Calatrava è quella piovana. Nella penombra, in un silenzio inquietante, le fondamenta disegnano un affascinante dedalo di cemento. Il reticolato bianco della cupola comincia a scrostarsi. Se l’annuncio di Renzi dovesse aver seguito, è qui che andrebbe issata la bandiera della candidatura olimpica di Roma: in cima alla vela arrugginita. del 17/12/14, pag. 6 Torino 2006, 12 impianti abbandonati di Andrea Giambartolomei Torino Non aveva neanche fatto in tempo a parlare che la sua città, Torino, è stata tenuta fuori dalla rosa iniziale di sedi in cui si potrebbero disputare le gare delle Olimpiadi di Roma 2024. “Ho parlato con il premier Renzi e con il presidente del Coni Malagò – spiegava lunedì il sindaco Piero Fassino –: se sarà prevista l’allocazione di gare in altre città, Torino, per la sua esperienza nei Giochi del 2006 e per l’infrastrutturazione di cui dispone, sarà sicuramente presa in considerazione”. A otto anni di distanza il capoluogo piemontese – rinnovato e rinato da quell’esperienza – si trova però a dover ancora gestire il complesso di società e strutture rimaste e qualsiasi occasione è buona per sfruttarle: l’anno scorso ci sono stati i “World Master Games”, competizioni internazionali per dilettanti attempati, e il prossimo anno sarà la volta delle iniziative di “Torino Capitale europea dello Sport”. FATTA ECCEZIONE di alcuni degli impianti costati centinaia di milioni di euro, una parte di questi resta inutilizzati, come la pista da bob a Cesana: costata più di 61 milioni di euro, è stata a lungo un problema per via delle 48 tonnellate di ammoniaca necessaria al raffreddamento e per i suoi costi di gestione, motivo per il quale il Comune di Cesana ha deciso che non la riaprirà. Che dire poi delle quattro palazzine del villaggio olimpico vicino al Lingotto? Lasciate per anni in abbandono, oggetto di atti vandalici, ora sono occupate da profughi profughi provenienti dall’Africa. Non è tutto. I giochi sono stati un’occasione 31 per creare enti costosi. Un esempio? L’agenzia “Torino 2006”, la stazione appaltante ancora oggi in attività. ALLA FINE dell’estate scorsa la Guardia di finanza ha consegnato alla procura della Corte dei conti la relazione conclusiva di un’indagine sulla gestione liquidatoria. Alcune delibere della sezione di controllo, che valuta i bilanci di enti pubblici, sottolineavano come questa gestione – fatta per liquidare gli ultimi importi e chiudere, ma di fatto continuata in proroga – costasse ancora molto: dal 2008 e per quattro anni l’agenzia ha avuto spese stabili per circa 1,6 milioni all’anno, “costi sproporzionati rispetto alla ridotta attività svolta”. Si tratta di spese per la gestione interna (sedi, telefonia, abbonamenti a giornali, taxi e altro), ma anche per i compensi del personale e per le tante consulenze esterne. Si prevedeva che l’attività dell’agenzia “Torino 2006” terminasse quest’anno, ma andrà avanti almeno fino al 2016 per via di alcuni contenziosi legali, a ben dieci anni dalla fine. C’è poi la Fondazione 20 marzo 2006, costituita dagli enti locali e dal Coni per controllare l’eredità dai Giochi invernali, ma con un bilancio “pesantemente negativo”, stando a quanto detto dall’assessore all’urbanistica Stefano Lorusso al Consiglio comunale del 10 dicembre. La gestione dei luoghi – tra cui la pista da bob e le palazzine del villaggio olimpico –è affidata alla società Parcolimpico, creata dalla fondazione insieme a Live Nation e a Set Up di Giulio Muttoni, ex dirigente dell’Arci torinese, organizzatore di eventi, ma anche grande amico del senatore Pd Stefano Esposito e dell’ex assessore comunale allo Sport della giunta Chiamparino, Elda Tessore. Sulla gestione di quella gara e sullo stato di abbandono dei dodici impianti la procura di Torino avviò un’indagine grazie all’esposto dell’ex consigliere leghista Mario Carossa. L’indagine del pm Cesare Parodi fu archiviata, ma dagli atti emerse il sistema di potere e amicizie che si è spartito la torta del postolimpiadi. 32 CULTURA E SCUOLA del 17/12/14, pag. 27 Spariti gli scatti di merito per gli insegnanti Pesa ancora l’anzianità Dietrofront del Pd sulla riforma della «Buona Scuola» ROMA Scatti di merito, addio. Promessi a settembre, contestati con tanto di raccolta firme dai sindacati, bocciati sabato scorso dal Pd. Che fa retromarcia sulla Buona Scuola, prima ancora che diventi un testo di legge da discutere in Parlamento. Quello che è (o era) uno dei cardini della bozza di riforma del sistema educativo firmata Renzi-Giannini è stato giudicato inadeguato dal Partito democratico e dunque molto difficilmente potrà restare nel progetto del governo. Nella giornata dedicata alla discussione sulla Buona Scuola, il partito del premier ha proposto un modello alternativo di carriera per gli insegnanti. Nella nuova bozza, che dovrà passare al vaglio di ministero e maggioranza, non ci sono più gli scatti per due terzi del corpo docente, decisi dal preside di ogni scuola sulla base dell’impegno e della bravura dell’ insegnante, al posto degli scatti di anzianità. C’è invece un sistema misto: resta l’anzianità (non è specificato con che cadenza) e compare una nuova figura professionale, a metà tra l’insegnante e il dirigente: è il «docente esperto», un livello superiore rispetto a quello di ingresso nella scuola al quale si accede con una specie di formazione permanente, che nelle intenzioni del documento Pd dovrà essere obbligatoria, e una sorta di concorso: non più i presidi ma commissioni provinciali esamineranno i titoli dei docenti sulla base anche di un esame o di un colloquio. «Il meccanismo del 66% — spiega Maria Grazia Rocchi del Pd — è stato quello più contestato dai docenti nella consultazione della Buona Scuola: la nostra ipotesi è quella di non escludere una retribuzione basata sull’anzianità perché un insegnante diventa un buon insegnante anche grazie alla pratica». A regime, secondo il piano Pd, dovranno essere tra il 15 e il 25% gli insegnanti che possono accedere al livello di «docente esperto». Nel documento del Pd è molto duro il giudizio sul sistema invece proposto a settembre dalla Buona Scuola: il punto di partenza, si legge, è che «nessuno (nel testo scritto tutto maiuscolo per far capire che è proprio un no) condivide il principio enunciato dalla Buona Scuola secondo cui un insegnante mediamente bravo per ricevere lo scatto di competenza dovrebbe cercarsi la scuola dove vi sono insegnanti scarsi per poter emergere visto che lo scatto di competenza sarà assegnato solo al 66% del corpo docente. Lo scatto così sarebbe semplicemente un diverso sistema di fasce stipendiali non una differenziazione delle carriere all’interno delle scuole autonome». E ancora: va bene valutare le competenze didattico-disciplinari, cioè la bravura di un insegnante ma questa «anche se posseduta al sommo grado non potrà automaticamente tradursi in un passaporto per il livello superiore». La questione dello stipendio è centrale, perché il docente esperto dovrà avere un «aumento retributivo non simbolico e permanente anche in caso di successivo trasferimento». Che cosa farà il docente esperto? Può aspirare alla carriera di dirigente ma dovrà «assumere incarichi e responsabilità organizzative dentro la propria scuola». La proposta del Pd non è del tutto nuova. Ricorda in parte l’idea proposta negli anni scorsi da Forza Italia con Valentina Aprea e durante l’estate l’opzione era circolata come opzione alternativa agli scatti di merito ma alla fine non era stata presa in considerazione dal 33 governo. «È una svolta positiva — spiega Massimo Di Menna, leader della Uil scuola —. L’idea degli scatti di merito a due insegnanti su tre in ogni scuola era offensiva, siamo soddisfatti di essere stati ascoltati». Claudia Voltattorni Del 17/12/2014, pag. 1-22 LA STORIA Salvarono i libri dei Girolamini ora rischiano il licenziamento TOMASO MONTANARI LO STATO dovrebbe avere un motivo tutto speciale per non licenziare e non umiliare Mariarosaria e Piergianni Berardi e Bruno Caracciolo. Perché questi tre bibliotecari sono gli eroi borghesi che hanno salvato la Biblioteca dei Girolamini di Napoli, una delle 46 biblioteche statali italiane. «L’INGRATITUDINE è un’ingiustizia crudelissima, una vera morte della virtù»: queste parole della più grande virtuosa del Seicento italiano, Isabella Andreini, andrebbero intagliate in lettere cubitali sulla facciata del Collegio Romano, sede del ministero per i Beni culturali. Pochi giorni fa, infatti, la direttrice generale per le Biblioteche Rosanna Rummo ha chiesto ufficialmente alla direzione dei Beni culturali della Campania se sia davvero «necessaria la prosecuzione della collaborazione dei signori Berardi e Caracciolo». E, nel caso che proprio non se ne possa fare a meno, se non sia almeno «possibile una riduzione dell’orario». Un banale episodio dell’attuale macelleria sociale applicata al patrimonio culturale? Sì, purtroppo. Ma lo Stato dovrebbe avere un motivo tutto speciale per non licenziare e non umiliare Mariarosaria e Piergianni Berardi e Bruno Caracciolo. Perché questi tre bibliotecari sono gli eroi borghesi che hanno letteralmente salvato la Biblioteca dei Girolamini di Napoli, una delle 46 biblioteche statali italiane, quella in cui andava a studiare Giovan Battista Vico. Il 25 marzo del 2012 ricevetti un’inquietante lettera di Filippomaria Pontani, filologo classico dell’Università di Venezia. Mentre stava studiando ai Girolamini, i fratelli Berardi gli avevano confidato, disperati, che il nuovo direttore Marino Massimo De Caro stava sistematicamente saccheggiando quel che avrebbe dovuto custodire. Ciò che io stesso vidi tre giorni dopo superò ogni immaginazione. E anche a me Piergianni Berardi disse che la sera venivano staccati gli allarmi, mentre automobili cariche di volumi lasciavano i cortili della biblioteca. Nonostante la solitudine e il terrore, il bibliotecario sperava di far filtrare qualcosa all’esterno. Ma come? Chi avrebbe potuto credere a due dipendenti, precari da decenni (assistiti da un avvocato della Cgil in un contenzioso col ministero da cui dipendevano), che avessero osato insinuare dubbi sul direttore, che era anche dell’allora ministro Lorenzo Ornaghi (dopo esserlo stato di Giancarlo Galan), e soprattutto braccio destro di Marcello Dell’Utri? Eppure l’indignazione e la voglia di reagire avevano vinto la paura e la rassegna- zione: e fu da quella conversazione che cominciò tutto. La reazione di De Caro alla mia denuncia pubblica fu violenta: specialmente nei confronti dei Berardi, dei quali intuiva il ruolo. Malgrado tutto, il 5 aprile i biblioconsigliere tecari scrissero una coraggiosissima lettera alla Direzione generale romana, esprimendo la loro contrarietà ad aprire il sancta sanctorum della biblioteca, che fino a quel punto erano riusciti a difendere. E cosa fece la Direzione? Ingiunse ai Berardi di consegnare le chiavi a quel De Caro che oggi è condannato a sette anni in appello per il saccheggio della 34 Biblioteca. E mentre l’esemplare inchiesta condotta dal procuratore Giovanni Melillo, e oggi continuata dalla sostituta Antonella Serio, scoperchiava il più grande traffico illecito di beni culturali nella storia della Repubblica, la stessa Direzione generale (sebbene guidata da un altro direttore) si “dimenticava” di costituirsi parte civile al primo processo. Ebbene, oggi è ancora quella Direzione a valutare il licenziamento dei bibliotecari: la cui nomina a Cavalieri, voluta dal presidente Giorgio Napolitano nel gennaio 2013, rischia ora di suonare come una beffa. Nel giugno scorso, dopo lo sconcerto suscitato dall’ennesima minaccia di licenziamento, una nota del Mibact assicurava che si stava «lavorando per garantire la continuità del lavoro» dei Berardi. Ma oggi quell’impegno appare carta straccia. Se la Biblioteca dei Girolamini esiste ancora, non è per merito dei soprintendenti, dei rettori, del vescovo o del sindaco di Napoli: che nemmeno si esposero a firmare l’appello promosso da Francesco Caglioti per la destituzione di De Caro. Il merito è, invece, di due comunissimi cittadini: due impiegati che credevano nel “loro” Stato, nonostante tutto. Oggi quello Stato non può tradirli. Non è possibile che nei tanti cassetti del Mibact, o magari in quelli della legge Bacchelli, non si trovi il modo di riconoscere ai salvatori dei Girolamini ciò a cui avrebbero diritto anche solo per il loro lavoro quarantennale. Su questo, il ministro Dario Franceschini si gioca davvero la faccia. 35 ECONOMIA E LAVORO del 17/12/14, pag. 15 Fmi e Ocse a sinistra di Renzi Stefano Perri Neo e vetero liberismo. Al 40% più povero della popolazione italiana va il 19,8% del reddito complessivo, una quota più bassa della media europea, 21,2%. E l’Italia è anche il paese con un alto indice Gini che misura la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza Dopo decenni di esortazioni ossessive sull’austerità espansiva e le cosiddette riforme strutturali, il tema della lotta alle crescenti disuguaglianze sembra tornato centrale per affrontare i problemi non solo di giustizia sociale e di benessere in senso lato, ma anche della crescita economica. Studiosi e accademici (il grande successo del Capitale del XXI secolo di Thomas Piketty), istituzioni internazionali come il Fondo monetario internazionale o l’Ocse propongono studi difficilmente confutabili sulla crescita delle diseguaglianze sfatando alcuni miti del neo (ma anche vetero) liberismo. Purtroppo questa consapevolezza non ha ancora sfiorato i governi, in particolare quelli europei. La commissione europea insiste con perseveranza del tutto diabolica sul rigore e il rispetto di regole prive di fondamento, mentre qualche governo mediterraneo si agita per mettere l’accento sulla crescita, ma essendosi preclusa per ignavia, per opportunismo o per acquiescenza verso interessi “forti” qualsiasi via efficace, si riduce ad insistere sulle riforme strutturali, che per quanto riguarda la politica economica sono un modo elegante di affermare la volontà di ridurre sempre più il lavoro a strumento, a merce che serve a produrre altre merci. Come diceva Keynes, gli uomini al potere «sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro». Il nostro capo del governo afferma spesso di essere a favore dell’uguaglianza ma contro l’egualitarismo. Che questa frase sia più adatta all’epoca del telefono a gettone non sembra turbarlo affatto. Come ricorda Paul Krugman, l’alternativa è tra chi preferisce l’eguale ma estremamente improbabile possibilità per ciascuno di vivere secondo lo stile di vita dei ricchi e dei famosi (una eguaglianza da lotteria) e chi ritiene che tutti debbano avere la possibilità di vivere una vita dignitosa. Renzi da che parte sta? A differenza del suo ispiratore Tony Blair, non sembra nemmeno che il governo italiano sia particolarmente sensibile al problema della povertà. Per lo meno Blair si proponeva di eliminare la povertà infantile. Non che ci sia riuscito, ma qualche risultato lo ha pur raggiunto, almeno a giudicare dai dati Ocse secondo i quali in Inghilterra il tasso di povertà relativa della popolazione sotto i diciotto anni era nel 2011 del 9,5%. La media Ocse era del 13,9% e il dato dell’Italia il 17,3%. Ma come giustamente sottolinea l’Ocse, che certamente non può essere sospettata di vetero-egualitarismo, ma che sul tema negli ultimi mesi e ancora pochi giorni fa è intervenuta più volte con focus, rapporti e studi, il problema non è solo la povertà, ma la crescente diseguaglianza nella distribuzione del reddito. Non solo da diversi decenni il 10% della popolazione che ha il reddito più basso resta sempre più indietro, ma l’effetto negativo affligge il 40% meno ricco della popolazione. Anche da questo punto di vista l’Italia non brilla tra i paesi europei. 36 Infatti, secondo dati Eurostat, al 40% più povero della popolazione va il 19,8% del reddito complessivo, una quota più bassa della media europea (21,2%). L’Italia poi, come è noto, tra i paesi europei ha un alto indice di Gini, che misura la diseguaglianza nella distribuzione del reddito, più basso solo di Grecia, Estonia, Portogallo, Spagna e Regno Unito. Inoltre, per citare un altro dato tra i tanti che mostrano la nostra arretratezza, il rapporto tra la quota di reddito ottenuta dal 10% più ricco della popolazione e quella del 10% più povero è in Italia molto alto (11,18), inferiore, in Europa, solo a Spagna, Grecia, Bulgaria, Romania e Lituania. Se a questi dati aggiungiamo che secondo un rapporto del Social Institute Monitor Europe, che si propone di calcolare un indice relativo alla giustizia sociale nei diversi paesi europei, l’Italia si colloca al 23° posto, insieme alla Lituania, nella classifica dei 28 paesi dell’Unione europea, si capisce che ci sarebbe molto lavoro per un governo nel quale la forza principale è un partito che si dichiara di centro-sinistra, ma non sembrano queste le priorità. La novità delle ultime analisi è che esse provano, attraverso stime econometriche, che la maggiore diseguaglianza causa un rallentamento della crescita economica, soprattutto restringendo le opportunità di ottenere alti livelli di istruzione, per una parte significativa della popolazione, scoraggiando la formazione del cosiddetto capitale umano (ma il termine non mi piace, rimandando ad una umanizzazione del capitale e ad una reificazione delle qualità umane) e ostacolando la mobilità sociale. Per l’Italia si stima che la mancata crescita del Pil reale per abitante causata dalla crescita delle diseguaglianze sia del 6,6% dal 1990 al 2010. Considerando che la crescita effettiva in questo periodo è stata dell’8%, non è certo poca cosa. Altro che articolo 18! L’Ocse propone di affrontare il problema della diseguaglianza con misure che fino a poco tempo fa sarebbero state considerate poco meno che bestemmie dalla saggezza convenzionale. In primo luogo propone di accrescere la redistribuzione del reddito e riformare in questo senso la struttura della tassazione, aumentando la aliquota marginale delle imposte sui redditi più alti, cioè esattamente il contrario di quanto è stato fatto negli ultimi decenni. In Italia, ad esempio, la aliquota marginale era del 72% ancora nel 1982. Come nota il rapporto dell’Ocse la diminuzione delle aliquote fiscali sui redditi alti non solo deprime l’effetto redistributivo sui redditi disponibili, ma tende a far aumentare la quota di reddito ottenuta dai più ricchi, per i quali diviene più facile, in un circolo virtuoso per loro ma vizioso per tutti gli altri, accumulare capitale e accrescere ulteriormente i propri redditi. Infatti in Italia la quota di reddito di mercato (cioè stimata prima della tassazione) ottenuta dall’1% più ricco della popolazione è passata dal 6,4% del 1982 al 9,38% del 2009. Ma il rapporto dell’Ocse suggerisce anche di eliminare o ridurre le deduzioni fiscali che tendono a beneficiare i più ricchi e riorganizzare il sistema di tassazione su tutte le forme di proprietà e di ricchezza. In particolare si sottolinea l’importanza di ripensare il ruolo della tassazione sui redditi da capitale. Quest’ultimo punto appare molto significativo per Italia in cui la quota di reddito proveniente dal capitale del 10% più ricco della popolazione è significativamente più alta in confronto agli altri paesi di cui l’Ocse fornisce i dati. L’altra raccomandazione dell’Ocse, dopo anni di austerity e di attacchi al welfare state, è di incrementare i trasferimenti pubblici a favore non solo dei poveri, ma del 40%, e promuovere e favorire l’accesso ai pubblici servizi di alta qualità, in particolare l’istruzione e la sanità. Non è il caso di attendere per vedere se queste idee saranno veramente assimilate nel prossimo futuro e ancor meno aspettare che Renzi si accorga che la modernità ha cambiato segno. Anche lui, al di là della retorica, è immancabilmente schiavo di qualche economista defunto. Ma le sparse forze della sinistra politica, nel momento in cui la 37 sinistra sociale e sindacale mostra finalmente vitalità, farebbero bene da subito a organizzarsi attorno ad un programma che abbia al suo centro l’eguaglianza. del 17/12/14, pag. 3 La ripresa? Ovunque tranne nell’eurozona Anna Maria Merlo Rapporto sulla crescita. Uno studio lancia l’allarme: «Europa divisa e senza fiato, a rischio il progetto di Unione» Il capitolo dedicato all’Italia nell’ultimo Rapporto annuale indipendente sulla crescita (Iags), redatto dall’Ofce francese, dall’Eclm danese e dal tedesco Imk (per la terza edizione realizzato con la collaborazione dell’Ak austriaca, di Cambridge Econometrics e di Sciences Po Parigi), è intitolato «Un pantano senza fine». Il testo di una canzone di Bob Dylan del ’68 apre l’introduzione: «the hour is getting late«, si sta facendo tardi. Per gli economisti che propongono un Survey alternativo a quello della Commissione, «sei anni dopo che l’economia mondiale è entrata nella più grave recessione dalla seconda guerra mondiale», la ripresa è arrivata più o meno dappertutto, esclusa la Ue e la zona euro in particolare. «Un’Europa divisa e senza fiato» sta mettendo «in pericolo» il progetto europeo stesso: «il fallimento di un’uscita rapida dalla crisi fomenta potenti forze divergenti, il rischio di una stagnazione durevole è reale». I partiti anti-europei prosperano, il 2015 potrebbe essere l’anno di grossi strappi dagli esiti più che incerti. La strada scelta del «controllo dei pari grado» per l’assenza di democrazia suscita il rifiuto nei paesi colpiti (di qui l’insofferenza crescente verso la Germania nei paesi sottoposti ai controlli). «La disciplina funziona attraverso la paura e non attraverso la responsabilità – scrive il rapporto Iags – questa situazione alimenta la diffidenza verso l’Europa». Le diseguaglianze – tra nord e sud, ma anche all’interno di ogni paese – sono aumentate. Ancora fino al 2008 esisteva in Europa un processo di convergenza, il vero senso della costruzione comunitaria: la crisi l’ha ridotto in frantumi. La Ue si sfascia dall’interno, le divergenze aumentano, tra la quasi piena occupazione di Germania e Austria e i tassi di disoccupazione superiori al 25% in Spagna e Grecia. «La zona euro è alle porte della deflazione e un circolo vizioso di deflazione attraverso il debito potrebbe precipitarci in un periodo di stagnazione durevole», spiega il coordinatore Xavier Timbeau, mentre «le riforme del mercato del lavoro amplificano la corsa a una diminuzione dei diritti sociali», aumentando la disaffezione verso l’Europa. La risposta della Commissione è il piano Juncker. Ma per gli economisti dell’Iags sarà difficile che funzioni: troppo tardi e tropo poco, basato per di più sull’ipotesi di un moltiplicatore di uno a 15 (ogni euro investito creerà 15 euro in circolazione), speranza illusoria tanto più che non fa che riciclare fondi già esistenti. Ma il piano Juncker ha una qualità nascosta: «apre una breccia» per aggirare le regole «stupide» della governance dei bilanci, che sarebbe però imprudente pensare di eliminare in questo momento, travolgendo contemporaneamente l’esile filo che ha evitato finora l’esplosione definitiva degli egoismi nazionali. Nel piano Juncker è compresa la possibilità di «neutralizzare» i contributi dei singoli stati, cioè di non calcolarli nei deficit, alleggerendo cosi’ l’orientamento restrittivo delle politiche di bilancio imposte dal Fiscal Compact (rafforzato dal Six e dal Two Pack), che minacciano di «chiudere la trappola nella quale è entrata per sua propria volontà la zona euro», afferma Timbeau. «La Bce è cosciente di questa situazione», ma la dottrina Draghi del «whatever it takes» (a qualunque costo) potrebbe non bastare: per 38 l’Iags, c’è da «temere che l’azione della politica monetaria non sia sufficiente per premunirci contro la stagnazione». del 17/12/14, pag. 5 “No ai tagli, noi occupiamo le province” Antonio Sciotto La protesta. Cgil, Cisl e Uil: il governo ha dimezzato le risorse, a rischio 20 mila dipendenti. La mobilitazione scatta venerdì L’incontro con il governo sul riordino degli enti locali ieri è andato male, e quindi parte l’occupazione delle province. L’ora X è dopodomani, venerdì 19, quando i lavoratori attueranno una protesta senza precedenti sul piano nazionale. Ma d’altronde che la tensione fosse salita nelle ultime settimane, lo diceva l’annuncio dal palco dello sciopero generale: Susanna Camusso, a Torino, aveva prefigurato questo passo, mettendolo accanto agli altri strumenti di rivolta predisposti dal sindacato, dalle manifestazioni di piazza alla lotta nelle fabbriche. E stavolta, tra l’altro, insieme a Cgil e Uil, nella mobilitazione è coinvolta pure la Cisl. I sindacati parlano di «arroganza», di atteggiamento «insopportabile», tenuto dai rappresentanti del governo, i sottosegretari Claudio Bressa e Angelo Rughetti, che insieme al relatore della legge di stabilità, il senatore Giorgio Santini, hanno incontrato ieri a margine di un sit in dei lavoratori. «Continuano a negare che ci siano esuberi, stanno negando l’evidenza», spiegano. Il conto è presto fatto. I dipendenti delle province sono in tutto 54 mila, ma secondo Cgil, Cisl e Uil sono ben 20 mila, quasi la metà, a rischiare di perdere il posto. Questo in forza di un emendamento alla legge di stabilità, che prevede il taglio delle spese per il personale del 50% nelle province e del 30% nelle città metropolitane. Tra l’altro, sempre nella legge di stabilità, è prevista la riduzione di 1 miliardo di euro di trasferimenti alle province nel 2015, cifra che corrisponde più o meno ai tagli lineari previsti con l’emendamento. Non è che i sindacati, va detto, si siano mai opposti a un riordino degli enti locali, che pure prevedesse una riduzione per le province: ma nell’ultimo anno, anche con il governo Renzi — che in genere con loro non tratta — si erano preoccupati di salvare non solo le funzioni fondamentali che questi enti hanno (ma questa è e dovrebbe essere principalmente preoccupazione del governo), ma soprattutto il destino dei lavoratori. E così in aprile si era arrivati alla legge 56, disegnata da Graziano Delrio. «In quella legge — spiega il segretario nazionale della Fp Cgil, Federico Bozzanca — si disponeva che il principio fosse che a trasferimento di funzione, corrispondesse un pari trasferimento di risorse e quindi anche di personale. In questo modo non si sarebbero prodotti esuberi, e gli attuali dipendenti sarebbero finiti tutti nelle regioni, o nei nuovi centri per l’impiego ridisegnati oggi dal Jobs Act. Ma con l’emendamento che riduce drasticamente le spese per il personale, al contrario, si sono messi in campo dei veri e propri tagli lineari, che rischiano di gettare sulla strada molte persone». Una parte dei 20 mila esuberi probabilmente verrà riassorbita, appunto nel trasferimento delle funzioni ad altri organi, o grazie alla mobilità entro i 50 chilometri, ma diverse migliaia di lavoratori rischiano di restare senza posto: sarebbero praticamente i primi dipendenti pubblici licenziati nella storia d’Italia (se ci riferiamo a grossi licenziamenti collettivi). Funzionerebbe così: per due anni sei messo in «disponibilità», ovvero resti a casa con lo stipendio all’80%. Dopo i due anni, il baratro, la disoccupazione, tenendo conto anche del fatto che per queste figure non esistono ammortizzatori sociali. 39 Il governo ieri ha continuato a negare che ci siano esuberi, insistendo sul fatto che le funzioni fondamentali delle province — anche solo per il banale motivo di dover garantire servizi essenziali per i cittadini — verranno comunque conservate nel passaggio alle regioni o ad altri enti. «Peccato però — incalza Bozzanca — che non si tenga conto di altre funzioni, diverse da quelle fondamentali, che le province svolgevano per delega, ad esempio delle regioni. Se nel riordino queste funzioni spariscono, che fine faranno i dipendenti?». Domanda angosciante, soprattutto per chi rischia di perdere il posto, e infatti dopodomani migliaia di lavoratori più che allarmati scenderanno in piazza. Anzi, resteranno nei propri uffici: «Venerdì 19 occuperemo tutte le sedi provinciali per scongiurare i tagli annunciati e gli esuberi, con sit-in davanti alle Regioni affinché difendano i servizi ai cittadini — dicono in una nota i segretari di Fp Cgil, Fp Cisl e Fpl Uil Rossana Dettori, Giovanni Faverin e Giovanni Torluccio — Non si voltino dall’altra parte e non utilizzino i lavoratori delle province come merce di scambio. Adesso il Parlamento si riappropri del ruolo che la Costituzione gli riconosce e rimetta mano a questo pasticcio». del 17/12/14, pag. 5 Jobs Act, Poletti convoca le parti sociali. “E il 24 i decreti″ Venerdì 19 in Sala Verde. Sindacati cauti. Camusso (Cgil): "Dipende da cosa ci dicono". Barbagallo (Uil): "Basta che non sia come gli altri incontri". Furlan: "E' un segno di rispetto per le nostre ragioni" Il governo vuole accelerare sul Jobs Act, ed è stato lo stesso premier Matteo Renzi ad annunciare i decreti attuativi entro Natale: «Li facciamo il 24», ha risposto ai giornalisti che gli chiedevano le prossime tappe e scadenze della delega lavoro. E intanto è arrivata la convocazione da parte del ministro Giuliano Poletti per sindacati e imprese: la mattina di questo venerdì, il 19, sono attesi presso la Sala Verde di Palazzo Chigi. I sindacati commentano la notizia con cauta soddisfazione. «La convocazione del governo per un incontro a Palazzo Chigi sull’attuazione del Jobs Act rappresenta una novità — afferma la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso — Perché è il primo segnale che l’esecutivo dà di una disponibilità a discutere, poi ovviamente siamo curiosi di capire cosa ci dirà e che significato avrà l’incontro». «Io spero e mi auguro che non sia come le altre volte», aggiunge Carmelo Barbagallo, leader della Uil. Il segretario si riferisce all’ultimo incontro con il governo, prima dell’approvazione del provvedimento, quando i sindacati si videro accogliere da quattro ministri (Delrio, Padoan, Madia e Poletti) senza delega dal governo a trattare. Infatti in occasione dello sciopero generale, venerdì scorso, Barbagallo aveva detto che questa volta avrebbe gradito «trattare direttamente con il presidente del consiglio», o comunque con chi fosse titolato a negoziare realmente qualcosa per conto del governo. Più morbida la Cisl, con Annamaria Furlan, che in queste settimane aveva deciso un approccio più soft e dialogante, scegliendo di non scioperare: «La convocazione di venerdì prossimo del ministro Poletti è il rispetto di un impegno che il governo aveva preso con il sindacato rassicurando le parti sociali sul fatto che prima dei Decreti attuativi ci sarebbe stato un confronto di merito», sostiene in una nota il segretario confederale della Cisl Gigi Petteni, responsabile del mercato del lavoro. 40 «Andiamo all’incontro — sottolinea subito dopo Petteni — con lo stesso spirito propositivo che abbiamo sempre avuto in tutte queste settimane, a partire proprio dal confronto del segretario generale, Annamaria Furlan, a palazzo Chigi, con il presidente del Consiglio Matteo Renzi. Il nostro auspicio — conclude — è che si arrivi a una riforma del lavoro fatta di scelte importanti e condivise». A questo punto bisognerà capire se davvero questo incontro avrà la possibilità di incidere realmente. 41
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