RASSEGNA STAMPA

RASSEGNA STAMPA
mercoledì 17 dicembre 2014
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Da Articolo 21 del 17/12/14
“Un Paese diverso è possibile? A che punto è
la riforma della legge sulla cittadinanza”.
Incontro pubblico, Roma, 18 dicembre
La campagna L’Italia sono anch’io, promossa dalle principali organizzazioni sociali
impegnate nel campo dei diritti dei migranti (www.litaliasonoanchio.it), organizza un
incontro pubblico alle 16 il 18 dicembre 2014 presso la Sala Aldo Moro della Camera dei
Deputati, in occasione della Giornata Internazionale delle Nazioni Unite per i diritti dei
lavoratori migranti e delle loro famiglie.
La coalizione che ha promosso la campagna ha depositato in Parlamento, oramai 3 anni
fa, due proposte di legge di iniziativa popolare, raccogliendo più di 200 mila firme. Il primo
testo introduce il diritto di voto alle elezioni amministrative per gli stranieri residenti da 5
anni. Il secondo propone una riforma della legge sulla cittadinanza, che contiene, tra
l’altro, l’introduzione dello ius soli.
Obiettivo dell’incontro è di verificare a che punto è l’iter legislativo della riforma della
cittadinanza, data l’urgenza di arrivare al più presto all’introduzione di regole più giuste e
adeguate alle nuove dinamiche che coinvolgono le nostre comunità.
Siamo convinti che oggi sia più che mai necessario volgere lo sguardo al futuro del Paese
e alla necessità di riconoscere un cambiamento che è già in corso da anni, attraverso
misure che favoriscano l’inclusione di milioni di persone che, pur provenendo da altri
Paesi, hanno scelto l’Italia come il luogo dove mettere radici.
All’incontro, dopo i saluti della Presidente della Camera Laura Boldrini, interverranno:
Graziano Delrio, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri;
Marilena Fabbri, deputata PD, co-relatrice del testo unificato della proposta di legge di
riforma della L.91/92 sulla cittadinanza;
Anna Grazia Calabria, deputata FI, co- relatrice del testo unificato della proposta di legge
di riforma della L.91/92 sulla cittadinanza (da confermare);
Lorenzo Trucco, presidente ASGI
Lucia Ghebreghiorges, rete G2 secondegenerazioni
Introduce Filippo Miraglia, vicepresidente nazionale Arci, coordina Giorgio Zanchini
giornalista RAI
http://www.articolo21.org/2014/12/un-paese-diverso-e-possibile-a-che-punto-e-la-riformadella-legge-sulla-cittadinanza-incontro-pubblico-roma-18-dicembre/
Da RadioCor- il Sole 24 ore del 16/12/14
Avvenimenti di giovedì 18 dicembre
- Roma: incontro pubblico sul tema 'Un Paese diverso e' possibile? A che punto e' la
riforma della legge sulla cittadinanza' organizzato da L'Italia sono anch'io. Ore 16,00.
Partecipano, tra gli altri, Laura Boldrini, presidente della Camera dei deputati; Graziano
Delrio, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri
http://www.borsaitaliana.it/borsa/notizie/radiocor/finanza/dettaglio/nRC_17122014_0741_2
4241646.html
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Da il SecoloXIX del 17/12/14
Contro i cyberbulli per gli adolescenti arriva il
corso di arti marziali digitali
Elisabetta Pagani
Genova - Indossano un braccialetto di corda da paracadute di colore bianco, montano
computer e imparano a risalire ad un profilo Facebook da un cellulare. Hanno fra gli 11 e i
15 anni e tutti i lunedì si riuniscono al circolo Arci Zenzero, nel quartiere di San Fruttuoso.
Sono gli allievi di Zanshin Tech, il primo corso di arti marziali digitali. Piccoli “judoka del
web”, allenati, in un percorso con diversi gradi di apprendimento (oggi sono al primo step,
cintura/braccialetto bianco) a raggiungere lo Zanshin, lo stato mentale del maestro di arti
marziali che vede arrivare l’aggressore ma mantiene la calma e lo immagina già a terra.
L’aggressore che devono imparare a gestire è il cyberbullo che prima o poi potrebbe
attaccarli (se non l’ha già fatto). «Succede al 90% dei ragazzi italiani - calcola Claudio
Canavese, presidente di Alid, l’Associazione per le libertà informatiche e digitali ideatrice
del corso - ecco perché gli adolescenti devono essere preparati. Questo progetto parla ai
potenziali bersagli e applica all’uso della tecnologia il metodo delle arti marziali.
Insegnando ad essere vigili, a non farsi sorprendere dall’aggressore o dal panico e a non
usare quello che s’impara per fare del male».
Il corso, che durerà fino a primavera (costo 10 euro, per il materiale e il braccialetto, che
cambierà di tonalità, nella gamma dei colori dei cavi di rete, con l’esperienza), unisce
metodo e tecnologia. «In un certo senso - continua Canavese, ex istruttore di judo, di
professione programmatore al centro informatico dell’Università - li trasformiamo in piccoli
hacker. In modo che abbiamo una marcia digitale in più rispetto ad un ipotetico
cyberbullo».
http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2014/12/17/ARIqm1tCmarziali_cyberbulli_adolescenti.shtml
Da Repubblica.it (Bari) del 17/12/14
Nicolò, il leader della rivolta tradito dai
compagni del Salvemini
Ha guidato le occupazioni: denunciato, sospeso per otto giorni e
criticato dai suoi compagni. Per lui striscioni di solidarietà dalle finestre
degli altri istituti di Bari
di FRANCESCA RUSSI
Nicolò, il leader della rivolta tradito dai compagni del SalveminiL'assemblea al Salvemini
Qualcuno ha provato a calare uno striscione dalla finestra del liceo Salvemini. Ma la
protesta in segno di solidarietà nei confronti di Nicolò Ceci, rappresentante d'istituto
sospeso per otto giorni e denunciato per aver tentato di occupare la scuola è durata solo
pochi minuti. "La nostra solidarietà è verso la dirigente scolastica - scrivono gli altri tre
rappresentanti degli studenti in un documento che consegnano alla stampa convocata a
scuola appositamente - confermiamo la legittimità delle sanzioni comminate perché
proporzionate alla gravità dell'infrazione. Nicolò ha violato le regole e ha compiuto
un'azione illegale". Si accodano anche i docenti presenti nell'aula magna. Manca
solamente la preside, Tina Gesmundo, a casa con la febbre.
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Nessun passo indietro sulla sospensione, che rischia di compromettere la carriera
scolastica del ragazzo, nonostante le condanne arrivate direttamente da Roma dalla
segreteria nazionale della Flc Cgil e da Sel. "Il tentativo di occupare la scuola è stato
portato avanti da una minoranza in contrasto con quanto deciso in assemblea - dicono i
ragazzi dello scientifico - avevamo preferito la forma dell'assemblea permanente rispetto
ad altre perché più efficace per conseguire gli obiettivi attraverso la lotta congiunta di tutte
le anime della scuola". Uno studente, però, si alza in piedi e obietta. "Volete negare che
alcuni studenti sono stati minacciati dai professori? Volete negare che ad alcuni di noi è
stato detto che se non davamo le interrogazioni ci beccavamo un non classificato in
pagella?". Al centro della decisione di occupare, sostiene l'Unione degli Studenti di cui fa
parte Ceci, c'era proprio, secondo l'associazione, la scarsa efficacia della forma
assemblea che non aveva interrotto compiti e interrogazioni. Gli risponde la vice-preside.
"Gli studenti si sono sottoposti in maniera volontaria alle verifiche, non c'è stato nessun
atto di supremazia da parte dei docenti".
Insomma, sembra che nessuno fosse d'accordo per l'occupazione della scuola al
Salvemini eppure domenica notte Nicolò Ceci, il 18enne rappresentante degli studenti,
eletto con 400 voti da una scuola che conta poco meno di mille alunni, non era solo.
"C'erano una ventina di altri con lui" racconta un ragazzo "è vero, erano pochi, ma
semplicemente perché alcuni non potevano uscire di casa di notte, sarebbero arrivati la
mattina". "Ma chi sono questi fantasmi?" gli grida contro un professore. "C'erano studenti
esterni alla scuola" rincara un altro rappresentante degli studenti del liceo. "In nessuna
occasione di incontro o dibattito è mai emerso un nutrito dissenso rispetto alla
metodologia, anzi la condivisione è stata ampia" mettono nero su bianco docenti e
studenti del Salvemini. Certo, qualche studente in disaccordo c'è, ed era presente anche
al sit in di ieri pomeriggio organizzato dall'Unione degli Studenti, ma ha paura a parlare.
"Dopo quello che è successo come si fa a dire qualcosa?".
Se la scuola dunque volta le spalle al 18enne e non lo riconosce come rappresentativo,
fanno diversamente gli altri istituti di Bari che per giorni hanno portato avanti le
occupazioni. "Questa mattina abbiamo calato striscioni di solidarietà da Fermi, Socrate,
Majorana, Giulio Cesare - racconta Arianna Petrosino dell'Uds - la repressione non
fermerà le nostre lotte. Avrei voluto intervenire nella conferenza stampa del Salvemini ma
mi hanno accompagnato alla porta perché sono di un'altra scuola. Ma che scuola è quella
che mette gli studenti gli uni contro gli altri?".
Intanto oggi è arrivato il sostegno allo studente sospeso da parte dell'Arci. "Esprimo il mio
forte sconcerto per quanto è successo al Salvemini di Bari - commenta il presidente
dell'Arci Bari Luca Basso - un educatore che arriva a denunciare un suo allievo denuncia
innanzitutto il suo personale fallimento professionale.
Il Salvemini è stato storicamente a Bari un luogo di formazione culturale e politica per
tantissimi cittadini; nell'esprimere la mia stretta solidarietà allo studente denunciato,
auspico il ritiro del provvedimento e il ripristino in quella scuola di un sereno clima di
confronto democratico. In un periodo così delicato per la scuola pubblica italiana, c'è
bisogno di unità di intenti e collaborazione, non certo di episodi assurdi come questo".
http://bari.repubblica.it/cronaca/2014/12/16/news/salvemini-103048558/
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ESTERI
del 17/12/14, pag. 8
E’ una strage di studenti
Emanuele Giordana
Pakistan. Commando di islamisti fa irruzione nella scuola militare di
Peshawar. È il peggior attacco terroristico della storia pachistana: oltre
140 i morti, quasi tutti ragazzi. Tehrek-e-Taliban Pakistan (una sigla nata
nel 2007) rivendica il massacro
Comincia nella tarda mattinata di un giorno di scuola apparentemente normale il peggior
attacco terroristico della storia del Pakistan. Un attacco che produce un bilancio di oltre
140 morti, in stragrande maggioranza studenti. Maschi e femmine uccisi in una giornata
convulsa che richiede almeno quattro ore per confinare i guerriglieri islamisti del Tehreeke-Taleban Pakistan in una zona delle scuola dove sgominarli e ucciderli.
Succede a Peshawar, la capitale della provincia nordoccidentale — al confine con
l’Afghanistan — nel college militare di Warsak Road che fa parte di una rete di 146 scuole
che fanno capo all’esercito: liceo e secondaria frequentate da quasi 500 ragazzi tra i 10 e i
18 anni d’età. Un massacro premeditato e senza alcun senso se non per il fatto che il
college è una scuola militare. Una scuola con alunni che in maggioranza sono minorenni.
La furia omicida del commando — composto tra sei e dieci persone — si abbatte subito su
insegnanti e ragazzi, giovani e giovanissimi studenti che l’istituto indirizza alla carriera
militare. È giorno d’esami ma c’è anche in programma una festa che diventa presto il
peggior incubo quando irrompe il commando entrato da una porta laterale: sparano
all’impazzata non si capisce ancora come e con che logica. Hanno avuto solo un ordine
dai loro capi, come precisa la rivendicazione: sparare agli «adulti» e risparmiare i
«piccoli». Missione impossibile in un parapiglia di centinaia di studenti e decine di
insegnanti ostaggio — oltre che delle armi — del terrore, il viatico dell’ennesima
campagna dei talebani pachistani per sprofondare le città e la gente nella paura. Gran
parte dei più piccoli, sostiene Al Jazeera, riesce a scappare alla spicciolata. I più grandi
sono meno fortunati. La dinamica è per ora ancora frammentata (la ricostruzione ora per
ora sul sito del quotidiano The Dawn) e non è chiaro né evidente come i guerriglieri,
travestiti da militari, abbiano organizzato la strage. Ma è chiaro che strage doveva essere:
vendetta per la missione militare Zarb-e-Azb del governo che da alcuni mesi martella il
Waziristan, agenzia tribale rifugio per talebani e sodali stranieri.
La rivendicazione del Ttp arriva poco dopo l’ingresso del commando e spiega che il target
sono proprio i più anziani, studenti compresi. Non dunque ostaggi da trattenere per
negoziare qualcosa, ma obiettivi della vendetta.
I parenti dei ragazzi iniziano ad arrivare fuori dalla scuola che è vicino a una caserma; le
sirene delle ambulanze sono la cornice dello scenario più sinistro che Peshawar abbia mai
visto. Il primo ministro Nawaz Sharif, che definisce l’attacco una «tragedia nazionale» —
decreterà poi tre giorni di lutto nazionale -, vola a Peshawar dove converge anche il capo
dell’esercito Raheel Sharif: i suoi soldati intanto stanno cercando di liberare la scuola aula
per aula, mentre il commando si va asserragliando nell’area amministrativa dell’edificio.
Si trova comunque il tempo anche per la polemica politica: Nawaz è ai ferri corti con Imran
Khan, criticissimo capo del partito al potere nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa. Ora
la falla nella sicurezza mette in difficoltà anche il contestatore. Tutti, compresi i partiti
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islamisti (legali), prendono le distanze dall’attacco e così i diversi responsabili politici e
religiosi. Il mondo guarda allibito.
Alle tre del pomeriggio la situazione comincia a essere sotto controllo: fonti riferiscono che
alcuni miliziani avrebbero tentato la fuga rasandosi la barba. Ma le voci corrono
incontrollate: il commando è ancora dentro. Qualcuno si è fatto già esplodere, altri tirano
granate, sparano con mitraglie di ultima generazione. Alle 15 e 35 radio Pakistan lancia il
primo duro bilancio dei morti: 126, un numero inimmaginabile solo qualche ora prima. E
destinato a crescere. È in quel momento che i militari pachistani riescono intanto a
raggiungere il loro obiettivo e pochi minuti prima delle 16 fanno sapere che il commando è
ormai confinato in un’area precisa dell’enorme scuola militare.
Poco più tardi il ministro dell’Informazione della provincia Mushtaq Ghani dice all’agenzia
Afp che il bilancio è di 130 morti. Sono già 131 qualche minuto dopo. Poi salgono a 140 e
così avanti. I militanti del Ttp non possono parlare. Tutti morti. Non potranno spiegare
quale delle tante fazioni dell’ex ombrello jihadista — divisosi nel corso del 2014 in quasi
una decina di rivoli — ha deciso la strage.
Muhammad Khorasani, l’uomo che per primo rivendica, non è un nome noto della galassia
col cappello talebano. Il gruppo, che dal 2010 figura nella lista dei most wanted
internazionali, ha mantenuto una certa unità sino alla morte nel 2009 di Beitullah Meshud
— il fondatore del Ttp con Wali-ur-Rehman (anche lui ucciso nel 2013) — e ancora sotto la
guida di Hakimullah Meshud, assassinato da un drone alla fine del 2013. Da allora il
gruppo si è diviso su questioni ideologiche e diatribe tribali (una parte per esempio ha
aderito al progetto di Al Baghdadi, una fazione ha contestato la leadership dei Meshud).
Quel che è certo è che la deriva stragista nei confronti dei civili, già utilizzata senza
problemi dal Ttp (a differenza della maggior parte dei cugini afgani), ha preso velocità.
Il Ttp non è nuovo a bombe nei bazar e nelle moschee ma non era mai giunto a tanto. Un
tentativo negoziale con il governo alcuni mesi fa è fallito e a giugno l’esercito ha iniziato a
ripulire il Nord Waziristan con l’operativo Zarb-e Azb, tuttora in corso, colpendo i rifugi
della guerriglia pachistana e straniera dal cielo e da terra con 30mila uomini.
del 17/12/14, pag. 3
Il «Mullah Radio» e i guerriglieri dei monti
La rete che gli Usa non riescono a fermare
Strazio Il pianto disperato, inconsolabile, delle familiari di un
quindicenne, Mohammed Ali Khan, uno degli studenti ucciso ieri
nell’efferato attacco talebano alla scuola militare di Peshawar, in
Pakistan (Reuters/Zohra Bensemra) Il «Mullah Radio» e i guerriglieri dei
monti I talebani pachistani si nascondono nelle aree di confine ma
hanno regole diverse dagli afghani
di Andrea Nicastro
DAL NOSTRO INVIATO KABUL L’uomo con barba e turbante che ha rivendicato la strage
di ieri è Maulavi Fazlullah, il «Mullah Radio», terzo leader dei Talebani pachistani. I primi
due sono stati uccisi da droni americani. Fino a ieri era famoso per gli appelli incendiari via
etere durante gli scontri nella Valle di Swat, per aver ordinato la spedizione punitiva contro
Malala, la bimba ora premio Nobel, e per nascondere il dottor Zawahiri, nuovo numero uno
di Al Qaeda. E’ un quarantenne che per uccidere fa la strada opposta dei Talebani
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afghani. I guerriglieri del Mullah Omar colpiscono in Afghanistan e si addestrano e
rifugiano in Pakistan. Gli assassini del «Mullah Radio» si nascondono nelle regioni
afghane del Nuristan o di Kunar e uccidono in Pakistan. Se riuscissero ad imporre un
emirato dalla lapidazione facile e le donne invisibili i due gruppi talebani andrebbero
d’accordo, pronti anche ad unirsi alle bandiere nere dello Stato Islamico di Iraq e Siria pur
di liberare Gerusalemme e conquistare Roma. Ma fino a quel momento rispondono a
logiche e finanziatori diversi. I talebani afghani hanno criticato l’eccidio di Peshawar:
«L’emirato islamico è scioccato». La storia di questi gruppi è un esempio della miopia di
tanta politica recente. Quando, dopo l’attentato alle Torri Gemelle, il Mullah Omar rifiutò di
consegnare Osama Bin Laden agli Stati Uniti, c’erano circa diecimila pachistani
nell’esercito talebano. Gli afghani erano poco più numerosi, ma rispetto agli altri stranieri
della legione jihadista (ceceni, uzbeki, yemeniti e sauditi) i pachistani parlavano la stessa
lingua dei padroni di Kabul, il pashtun, e rispettavano lo stesso codice tribale, il
pashtunwali. Solo il passaporto era diverso, per il resto si sentivano fratelli. I pashtun
pachistani avevano accolto nelle loro terre milioni di afghani in fuga dall’invasione sovietica
e diviso con loro le uniche scuole disponibili, le madrasse allestite dai petrodollari del Golfo
con la benedizione di Washington. Le bombe Usa del 2001 sciolgono l’emirato afghano, i
talebani di ogni nazionalità si disperdono. Chi può torna a casa. L’emiro dei credenti, il
Mullah Omar scappa a Quetta, la città pachistana più vicina alla sua Kandahar. I
pachistani sui monti del Waziristan, dove l’autorità di Islamabad non è mai arrivata. Tutti
però continuano a combattere gli «infedeli invasori» con incursioni in Afghanistan. Nel
2006 la svolta. Baitullah Mehsud fonda «Tehereek-e-Taliban», i Talebani pachistani. Ha
combattuto per il Mullah Omar, è stato nominato governatore dallo stesso emiro, ma è
anche leader della più grande tribù del Waziristan e punta a Islamabad. E’ sua la mano
che uccide Benazir Bhutto, candidata a guidare il Pakistan. L’ambizione cresce anche
grazie a ciò che significa ospitare il leader di Al Qaeda in termini di finanziamenti e
contatti. I droni Usa colpiscono, ma ogni morto viene sostituito da uno ancora più
sanguinario. Da 13 mesi c’è Maulana Fazlullah. Si dice che esista un circolo di mutua
distruzione. Gli Usa finanziano il Pakistan che però appoggia i Talebani afghani per
attaccare l’Afghanistan filo americano. Il cerchio si chiude con Kabul che, con soldi Usa,
sponsorizza i Talebani pachistani perché attacchino Islamabad. Qualche indizio dice che
le cose stanno cambiando e l’attentato di ieri è uno di questi. Il nuovo governo afghano di
Ashraf Ghani potrebbe rinnegare l’indicibile alleanza. Il premier pachistano Nawaz Sharif
ha finalmente coordinato le sue offensive militari con i droni Usa e sta avendo risultati.
L’attacco ai figli dei soldati è una vendetta contro queste manovre. Se i dollari smetteranno
di circolare per uccidere, forse la pace avrà una chance.
Del 17/12/2014, pag. 2
I Taliban all’assalto di una scuola Strage di
bambini, più di 140 morti
Nove uomini sono penetrati nell’istituto frequentato dai figli dei militari
Hanno iniziato a uccidere gli studenti poi un kamikaze si è fatto
esplodere
ISMAIL KAHN SALMAN MASOOD
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PESHAWAR Un commando di Taliban pachistani ha fatto irruzione in una scuola gestita
dall’esercito nel Nord-Ovest del Pakistan, facendo strage d’insegnanti e studenti, e
ingaggiando per otto ore uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza. Almeno 145
persone, di cui 132 bambini, sono morte prima i nove terroristi fossero uccisi, stando ai
funzionari governativi e agli operatori sanitari intervenuti. È l’attentato più sanguinoso nella
storia moderna del Paese. Un portavoce dei Taliban pachistani ha rivendicato l’attacco
come rappresaglia all’offensiva dell’esercito nel distretto tribale del Nord Waziristan.
Dall’Afghanistan, invece, altri gruppi di Taliban hanno condannato il massacro «contrario
ai principi dell’Islam» poiché ha «ucciso innocenti». Alle 10 del mattino nove uomini armati,
in uniformi di unità paramilitari, hanno scavalcato la parete posteriore della Scuola
pubblica dell’Esercito, frequentata da circa 2.500 alunni e alunne; hanno fatto irruzione
nella scuola lanciando bombe a mano e sparando indiscriminatamente. Rievocando in
maniera agghiacciante l’assedio nel 2004 alla scuola di Beslan in Russia, alcune delle
peggiori violenze si sono verificato nell’aula magna, dove un istruttore dell’esercito stava
dando una lezione di primo soccorso. «L’istruttore ci ha chiesto di abbassarci e di
stenderci a terra, dice Zeeshan, uno studente, intervistato all’ospedale. «Poi ho visto i
terroristi che passavano accanto agli studenti e gli sparavano in te- sta». Ghani, il ministro
provinciale dell’Informazione, conferma che la maggior parte delle vittime è stata uccisi da
colpi di arma da fuoco alla testa. Scattato l’intervento delle forze di sicurezza, alcuni
assalitori si sono fatti esplodere, altri sono stati uccisi dal commando dell’esercito.
Fra i genitori assiepati negli ospedali, o fuori dei cancelli della scuola in cerca di notizie dei
figli uno dei più fortunati, Muhammad Arshad, ha saputo che suo figlio Ehsan è stato
messo in salvo dal commando: «Ringrazio Dio d’avergli dato una seconda vita». Ma
all’ospedale militare, i corpi degli alunni erano allineati sul pavimento, per la maggior parte
uccisi con un unico colpo alla testa. Afaq, 7 anni, dice che i militanti sono entrati nella sua
classe e si sono messi subito a sparare. «Hanno ucciso il nostro maestro», scoppia a
piangere. «Non volevano prendere ostaggi», dice un funzionario della sicurezza. «Erano lì
per uccidere». Alcuni studenti sono riusciti a fuggire. Nei notiziari tv sfilano immagini di
alunni coi maglioni e le giacche verdi, la divisa della scuola, in preda al panico mentre
vengono fatti evacuare dall’istituto. Altri, feriti, sono stati portati in un altro ospedale, il Lady
Reading. Molti dei morti non sono ancora stati identificati. Nel tardo pomeriggio, l’esercito
comunica d’aver preso il controllo di tre sezioni del complesso scolastico. Dopo l’uccisione
dell’ultimo terrorista, i soldati hanno setacciato l’istituto alla ricerca di esplosivi. Il primo
ministro Nawaz Sharif è arrivato a Peshawar, dove le autorità hanno dichiarato tre giorni di
lutto. Sharif ha annunciato una riunione di emergenza oggi di tutti i partiti politici nella città.
Il ministero degli Esteri si dichiara «profondamente scioccato», ma assicura che la lotta
contro i Taliban non si fermerà: «Questi terroristi sono nemici del Pakistan, nemici
dell’Islam e nemici dell’umanità». La Scuola pubblica dell’esercito di Peshawar fa parte di
una rete di scuole che l’esercito gestisce nelle città dove ha delle guarnigioni e nelle
principali città del Pakistan. I figli dei militari hanno un accesso preferenziale, ma molti
degli studenti e degli insegnanti vengono dall’ambito civile. L’assalto giunge in un
momento di tensione politica in Pakistan. Imran Khan, un leader dell’opposizione, ha
organizzato manifestazioni di protesta nel tentativo di far cadere Sharif, che egli accusa
d’aver truccato le elezioni del 2013. Khan ha criticato le operazioni militari nelle aree tribali
e ha invitato il governo a negoziare coi militanti, anziché combat- terli: una posizione che
ha suscitato molte critiche. I Taliban pachistani, una coalizione da sempre caotica di
gruppi militanti, sono lacerati da attriti interni, e per di più sottoposti a ulteriori pressioni
quest’anno dopo la ripresa in giugno delle operazioni militari nel Nord Waziristan, in
seguito a un attacco contro l’aeroporto di Karachi. Stando all’esercito, l’offensiva,
denominata Operazione Zarb-e-Azb, ha provocato la morte di 1.800 militanti e ripulito gran
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parte del Nord Waziristan, uno dei più famosi centri di attività dei militanti della regione.
Tuttavia, l’attacco di martedì alla scuola di Peshawar dimostra che i Taliban sono tuttora
capaci di passare all’offensiva e di colpire obiettivi civili vulnerabili.
Del 17/12/2014, pag. 1-4
Il doppio gioco insanguinato
FEDERICO RAMPINI
NEW YORK
“AFPAK ” è la sigla geostrategica che racchiude Afghanistan e Pakistan. È dentro quel
vasto perimetro che l’Occidente fronteggia la minaccia di una riscossa dei Taliban. Sono
gli stessi combattenti islamici che in Afghanistan hanno ripreso i loro attacchi puntando nel
cuore della capitale, Kabul. I loro fratelli e alleati dall’altra parte della frontiera, in Pakistan,
prima della carneficina nella scuola si erano distinti per l’attentato contro Malala Yousafzai
nel 2012; prima ancora per il tentato attacco alla metropolitana di New York nel 2010. Per
l’ennesima volta l’America e i suoi alleati vivono un incubo, la rinascita di un nemico che
sembra avere cento teste e ben più di nove vite. Ma questa volta facendo strage in una
scuola per i figli dei militari pachistani, i Taliban hanno colpito con ferocia proprio i loro
protettori. È dai tempi della caccia a Osama bin Laden, poi scoperto e ucciso mentre si
“nascondeva” in Pakistan a pochi metri da una caserma dell’esercito locale, che quel
doppio gioco ha mostrato la corda. Abbottabad, la città di confine dove risiedeva
indisturbato da anni Bin Laden, si trova a 150 km a Nordest da Peshawar dov’è avvenuta
la strage nella scuola. I legami occulti tra le forze armate di Islamabad e i Taliban da anni
provocano crisi politiche a ripetizione tra Washington e Islamabad. Gli aiuti americani
continuano ad affluire al governo e alle forze armate pachistane. Ma una parte di quegli
aiuti indirettamente finiscono agli stessi Taliban: soldi, addestramento, armi, protezione e
rifugi. Stavolta a bruciarsi le mani sono stati i militari pachistani: apprendisti stregoni che
non riescono più a controllare la loro creatura.
La strage in Pakistan avviene proprio mentre l’America sta chiudendo ufficialmente la sua
guerra di 13 anni in Afghanistan. O “quasi” chiudendo. Dal 2001 le truppe americane
hanno combattuto in Afghanistan quegli stessi Taliban che attraverso i gruppi alleati
firmano la strage di scolari a Peshawar. Una guerra costata 1.000 miliardi di dollari, e la
più lunga in assoluto nella storia degli Stati Uniti. Un conflitto i cui risultati vengono
continuamente sminuiti o messi in discussione proprio dai periodici “ritorni” dei Taliban. In
effetti lo stesso Obama di recente ha annunciato che l’addio all’Afghanistan non sarà
totale, un contingente di truppe Usa di 10.800 uomini è destinato a rimanere anche dopo il
simbolico ammainabandiera del 31 dicembre. L’aviazione e i droni Usa continueranno ad
avere missioni offensive e non solo di sorveglianza. L’eccidio dei bambini pachistani, molti
dei quali sono figli di militari, sembra una conferma che i Taliban restano più forti che mai.
Contando gli attentati recenti e i bilanci delle vittime questo è un dato innegabile, da una
parte e dall’altra del confine montagnoso ma “poroso” che unisce AfPak. Sul versante
afgano solo nell’ultimo mese gli attacchi dei Taliban si sono fatti sempre più micidiali con
l’uccisione di un funzionario della Corte costituzionale, un attentato alla bomba nella sede
della polizia di Kabul, l’esecuzione di sei soldati nel pieno centro della città. Dalle loro
tradizionali roccaforti di montagna, i militanti fondamentalisti moltiplicano le loro incursioni
nella capitale e in tutti i centri urbani. Quasi a sottolineare per Obama la necessità di
puntellare il fragile governo afgano, risultato di un compromesso instabile tra il presidente
Ghani e il premier Abdullah. E tuttavia il quadro non è così negativo, almeno dal punto di
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vista dell’interesse strategico degli Stati Uniti. Militarmente i Taliban restano una forza
micidiale. Politicamente, hanno subito una sconfitta pesante in Afghanistan con le ultime
elezioni: la partecipazione è stata alta, quasi i due quinti dei votanti sono state donne,
nonostante le violenze e le intimidazioni dei Taliban. A giudicare da quelle elezioni la loro
capacità di presa sulla società civile afgana è in calo. In quanto al Pakistan, si è “coltivato
la serpe in seno”. Se i Taliban sono ancora una forza militare considerevole, è proprio
grazie agli appoggi che l’esercito pachistano continua a fornirgli. Le forze armate e
soprattutto i servizi segreti del Pakistan hanno continuato a praticare il doppio gioco:
accreditandosi ufficialmente come gli alleati essenziali dell’Occidente nella lotta al
terrorismo islamico; mentre sottobanco hanno foraggiato gli stessi terroristi perché
colpissero sia in Afghanistan sia in India. Proprio in India Obama farà il suo prossimo
viaggio all’estero, a fine gennaio: nel Paese che da tempo accusa il Pakistan di essere
non un alleato nella lotta al terrorismo, ma una centrale del terrorismo stesso.
Del 17/12/2014, pag. 4
IL CASO
Kerry: “No alla risoluzione dei palestinesi”
WASHINGTON
Dopo aver tergiversato per una giornata intera, il segretario di Stato americano John Kerry
ha ceduto alle pressioni israeliane: e a 24 ore dal colloqui romano con il premier
Netanyahu ha fatto sapere che gli Stati Uniti eserciteranno il loro diritto di veto.
Opponendosi alla risoluzione che sarà presentata domani alle Nazioni Unite per chiedere il
ritiro di Israele nei confini del 1967 entro il 2016. Lo ha detto un responsabile palestinese
precisando che la risoluzione verrà presentata comunque. Che Washington non
considerasse la risoluzione palestinese “accettabile” era cosa nota. Ma il segretario di
Stato aveva tentato di prendere ancora tempo nella speranza di arrivare a una ulteriore
mediazione sulla risoluzione, la cui bozza era stata elaborata a Parigi.
del 17/12/14, pag. 2
Europa, il verso non è cambiato. Aggrappati
al «piano Juncker»
Jacopo Rosatelli
Strasburgo. Il trucco sugli esteri, le omissioni su ambiente e Ttip, la
relazione di Renzi sul mestre di presidenza italiana del Consiglio
dell’Unione europea fa acqua
Il semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea volge al termine. Per
un bilancio vero e proprio, afferma Palazzo Chigi, dobbiamo aspettare il 13 gennaio,
quando Matteo Renzi parlerà a Strasburgo. Ma il premier ne ha offerto già ieri
un’anticipazione, prima alla Camera e poi al Senato, nelle comunicazioni sul vertice Ue di
domani. Al netto della retorica il presidente-segretario ha insistito su due punti: la politica
estera «non più capriccio per gli esperti di geopolitica, ma cuore dell’iniziativa Ue», e il
«cambiamento di approccio sull’economia», ossia finalmente sostegno alla crescita grazie
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al «piano Juncker». Questi sarebbero i risultati ottenuti grazie alla guida italiana del
Consiglio Ue, sorretta dalla volontà di «non perdere l’ideale» europeista, che non può
essere svilito ad affare per ragionieri. Di autentici passi avanti verso una Ue più
democratica e sociale nemmeno l’ombra.
Sugli affari esteri Renzi trucca le carte, dipingendo una dialettica che non c’è mai stata,
quella fra «esperti di risiko» e «vera politica». La contesa vera è un’altra: se le questioni
internazionali debbano essere nelle mani dei singoli stati e della Nato — com’è ora —
oppure della Ue. Inutile dire che, nonostante l’energico fiorentino, nulla è cambiato. Gli
«esperti di geopolitica» (maligna allusione a D’Alema?) non c’entrano nulla, ma evocarli
per contrapporli alla «politica» Federica Mogherini serve a fare propaganda ed eludere i
veri problemi (esempi: Ucraina, Egitto, Turchia). Ciò che non fa il Parlamento Ue: «È
l’unica istituzione comunitaria a svolgere un ruolo positivo in politica estera, come dimostra
la mozione sul riconoscimento dello stato di Palestina che voteremo domani (oggi, ndr)»
dichiara al manifesto Eleonora Forenza, eurodeputata Prc eletta con la Lista Tsipras.
Capitolo economia: «Il riferimento al piano Juncker equivale a darsi la zappa sui piedi,
perché è ormai nota a tutti la sua inconsistenza», ragiona Forenza. La Commissione
guidata dall’ex premier lussemburghese sbandiera investimenti per 300 miliardi, ma in
realtà ne ha messi a disposizione soltanto 13: la differenza deriverebbe da un fantomatico
«effetto-leva» degno di un prestigiatore. Non solo: la somma reale viene fuori dallo storno
di soldi già stanziati per la ricerca. Insomma: una truffa. Nulla di rassomigliante a quanto
chiedono da anni — fra gli altri — le organizzazioni sindacali riunite nella Ces, la
confederazione europea: stanziamenti molto più consistenti che derivino dalla tassazione
di grandi ricchezze e transazioni finanziarie. Quanto alla cosiddetta «flessibilità»
nell’interpretazione dei parametri su deficit e debito, è sufficiente leggere le interviste del
vice di Juncker, il finlandese Jyrki Katainen, o della cancelliera tedesca Angela Merkel, per
capire che l’Europa non ha affatto cambiato verso.
C’è poi quel che Renzi ieri non ha detto. Omissioni gravi. Silenzio assoluto sull’ambiente:
si è da poco conclusa la conferenza di Lima sul riscaldamento globale in cui l’Europa — è
la denuncia di Mauro Albrizio di Legambiente — ha svolto un ruolo negativo, impedendo di
fatto che i paesi industrializzati si impegnassero a sostenere finanziariamente quelli in via
di sviluppo che vogliono diminuire le emissioni. E nemmeno una parola sulla decisione di
Juncker, ribadita ieri in aula a Strasburgo, di rinviare sine die l’adozione di norme su
inquinamento dell’aria e rifiuti.
Non va dimenticato, infine, il negoziato sull’accordo di libero scambio Usa-Ue (Ttip): «La
presidenza italiana — attacca Forenza — ha appoggiato senza riserve le trattative,
mostrandosi quindi favorevole anche ai controversi tribunali arbitrali che dovrebbero
tutelare gli investitori dalle possibili scelte ‘ostili’ dei governi nazionali». Oltre un milione di
cittadini europei hanno sottoscritto la petizione «stop Ttip», ma evidentemente per il nostro
premier non meritano alcuna risposta.
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del 17/12/14, pag. 9
La Mogherini va in missione a Kiev
Ma su Mosca la Ue è sempre più divisa
Renzi: “La politica estera non si fa solo con le sanzioni”
Marco Zatterin
Il rafforzamento delle sanzioni contro la Russia innescate dall’annessione della Crimea
sarà sul tavolo del vertice dei leader Ue che si apre domani a Bruxelles. È una scelta per
molti versi inevitabile, ma certo non sarà valutata a cuor leggero. I pesanti effetti che
l’embargo occidentale sta producendo sull’economia della Federazione indeboliscono il
presidente Putin e, al contempo, lo rendono più facilmente disposto ad alzare la posta in
gioco. «Le sanzioni hanno senso solo in un contesto più grande», ripete Federica
Mogherini, l’alto rappresentante per la politica estera che ieri sera è sbarcata a Kiev per la
prima missione europea in Ucraina. Si lavora al dialogo e al rispetto delle regole.
Nell’attesa di un qualche segnale dal Cremlino, non resta altro che continuare a esibire un
muso duro. Anche il premier Matteo Renzi osserva che «la politica estera non si fa solo
con le sanzioni». A Bruxelles lo hanno capito da tempo. La stessa Mogherini ha affermato
in novembre di essere pronta a recarsi a Mosca quando vedrà la possibilità di poter
interloquire in modo concreto con Putin, il che lascia intendere la giusta consapevolezza di
dover preparare bene l’operazione. «Questioni di mesi, più che settimane», ha precisato
lunedì. Soprattutto, questione di pieno consenso delle capitali. Anche perché, ricorda una
fonte diplomatica, «non va dimenticato che ai russi piace cambiare i criteri dell’ingaggio a
metà partita». La prudenza è necessaria. La signora Mogherini ha visto ieri il presidente
Poroshenko e il suo staff: «Siamo dalla vostra parte», è il messaggio. Si vuole dimostrare
a Kiev il pieno sostegno per il processo di riforme avviato dall’ex satellite russo, un modo
per esercitare una pressione incoraggiante. L’alto rappresentante punta anche a verificare
la tenuta degli accordi di Minsk sul rispetto dell’integrità ucraina. Ammette che si vedono
segnali positivi. Però ammette «che non si illude sulla possibile svolta» poiché «abbiamo
già visto troppe volte tradire i buoni auspici». Il calendario è poco meno che stretto. Un
commissario Ue confessa «off the record» la preoccupazione di vedere l’Europa arrivare
disunita all’appuntamento di giugno col rinnovo delle sanzioni alla Russia. «Ungheria,
Cipro, Grecia, Bulgaria ci stanno ripensando», confessa, mentre «la Germania tiene duro
e l’Italia, nonostante i dubbi, resterà con la maggioranza». Essere compatti è cruciale e il
rischio di non farcela alimenta l’urgenza di un confronto vero con Putin. Un’incognita in più
l’aggiunge il nuovo presidente del Consiglio, il polacco Donald Tusk, che i ben informati
descrivono aspirare a un ruolo più centrale nella politica estera rispetto al predecessore
Van Rompuy. Ieri ha telefonato a Poroshenko per parlare del vertice Ue di domani. Lo ha
fatto poco prima che arrivasse l’Alto rappresentante a Kiev. La cosa non è passata per
nulla inosservata.
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Del 17/12/2014, pag. 18
Russia in ginocchio per l’incubo del rublo
Borsa di Mosca giù del 19%, file alle banche
Vane le misure d’emergenza della banca centrale Il cambio arriva fino ai
100 rubli per un euro. E nei negozi esposto il doppio prezzo. Il colosso
Sberbank sospende mutui. Da Obama pronte nuove sanzioni
NICOLA LOMBARDOZZI
I primi segnali del panico li vedi nella miriade di cambiavalute che tappezzano le città
russe di insegne luminose con le quotazioni del rublo rispetto a euro e dollaro. I tabelloni a
4 cifre non bastano più, qualcuno ne ha già ordinati di nuovi a cinque. Ieri la moneta
nazionale è arrivata a oltre 100 rubli per un euro prima di attestarsi a 97,02 e risalire
ancora in serata fino a 84,55. Numeri che comunque fanno paura se si pensa che solo ai
primi di settembre il cambio si aggirava sui 40 a 1. Risparmi e stipendi sono dunque
crollati e i russi cominciano a rivivere l'incubo del 1998, l'anno del default, il punto più
basso sul piano economico e sociale della breve storia della Russia post- comunista. La
paura dilaga e, per la prima volta, anche lo Stato entra in confusione, intrappolato in una
congiuntura diabolica che mette insieme le sanzioni economiche di Stati Uniti e Ue e il
calo inesorabile del prezzo del petrolio, ma anche una apparente lentezza di ri- flessi della
Banca Centrale e la ritrosia dei grandi oligarchi a riportare in patria i tesori ben nascosti nei
paradisi fiscali. E non è finita qui. Obama è pronto a firmare la legge del Congresso che
imporrà nuove sanzioni ai colossi russi dell’energia, ritorsione per la vicenda Ucraina.
Tutto si svolge in maniera irrituale e concitata. Elvira Nabjullina, governatrice della Banca
di Russia, ha deciso in piena notte di alzare il tasso di interesse di riferimento dal 10,5 al
17% in un tentativo disperato di frenare l'inflazione. Il rublo ha continuato ad andar giù
trascinando la Borsa che ha chiuso con un inquietante meno 19. Economista di grande
valore e pupilla di Putin, la Nabjullina rischia adesso di pagare il suo fallimento.
Rispolverando il linguaggio di un tempo il Partito Comunista, terza forza del Paese, la
accusa di “crimini contro la nazione”. Nel mezzo di un'altra frenetica riunione nell'ufficio del
premier, già presidente, Dmitrj Medvedev, molti la rimproverano di «provvedimenti tardivi».
Un riferimento che allude a più pesanti sospetti: aver ritardato l'aumento dei tassi per poter
prima concedere finanziamenti agevolati al colosso energetico Rosneft di un altro grande
amico del Presidente come Igor Sechin che ieri smentiva indignato ogni illazione.
Ma sono polemiche che interessano poco i cittadini investiti da una sequenza
impressionante di cattive notizie. La Sberbank, la più grande banca del Paese, ha deciso
di sospendere mutui e prestiti. Il gigante energetico Gazprom annuncia di avere allo studio
tagli del 40% del suo budget che comporteranno anche tanti licenziamenti. A poco
servono gli appelli della Duma e del governo a «non lasciarsi pren- dere dall'ansia e non
prelevare i propri risparmi ». Le code davanti alle banche sono sempre più numerose. Si
estinguono i conti in rubli e si prova a salvare il salvabile. Molti corrono a comprare
qualcosa, soprattutto articoli elettronici e automobili i cui prezzi sono ancora vincolati fino
al primo gennaio. Tv, tablet, telefoni cellulari e auto di media cilindrata sono già in
esaurimento in molti negozi e concessionarie. Altri cambiano il proprio denaro in euro e in
dollari. In alcuni negozi infatti si può già pagare direttamente in valuta americana anche se
teoricamente è contro la legge. Sui cartellini dei prezzi viene indicata una sigla (e.u.) che
vuol dire “unità convenzionale” e che altro non è che il prezzo in dollari. I commercianti
13
spiegano la cosa in modo sconfortante: «Se dovessimo segnare il prezzo in rubli,
dovremmo cambiare i cartelli tre volte al giorno».
Non tutti i rincari sono però spiegabili. Seppure fra le righe, i giornali cominciano ad
ammettere che i grandi ricchi stanno arricchendosi sempre di più sfruttando la crisi. I
rincari di molti generi alimentari e della benzina non hanno alcuna spiegazione logica. E si
nota come i proprietari delle aziende chimiche, delle acciaierie, delle industrie meccaniche
continuino a vendere i loro prodotti in cambio di valuta forte senza subire danni dalla crisi.
Nel suo ufficio al Cremlino Putin tace. Prepara la tradizionale conferenza stampa di fine
anno prevista per domani e affida al ministro degli Esteri Lavrov l'analisi della situazione:
«E’ tutto frutto di un'azione americana ed europea per ribaltare il nostro governo». Una
revoca delle sanzioni non risolverebbe tutti i problemi ma darebbe ossigeno all'economia
russa. Anche per questo Putin sta affrettando i tempi per la soluzione pacifica della
questione ucraina. Il segretario di Stato Kerry con tono benevolo gliene dà atto (mentre
Obama non desiste da nuove sanzioni). D’altra parte si può accettare una concessione
americana dopo mesi di discorsi patriottici? E' questo il dilemma tra i consiglieri del
Presidente che cercano soluzioni per fermare il panico e dare qualche speranza al Paese.
Del 17/12/2014, pag. 18
L’euro tradisce le speranze si rafforza sui
mercati emergenti meno export e più
deflazione
FEDERICO FUBINI
DOVEVA essere l’antidoto per proteggere l’euro dal virus della deflazione. Doveva: invece
rischia di venire meno e complicare un po’ di più il percorso dei prossimi mesi per l’Europa
e per l’Italia. L’area euro punta da tempo a tassi di cambio su livelli più contenuti, ma
l’instabilità finanziaria in Russia e i tremori sismici nelle monete delle grandi economie
emergenti spingono verso esiti esattamente opposti. Un euro più debole sui mercati globali
è da mesi è l’obiettivo, implicito, di gran parte dei governi e dei banchieri centrali europei.
La Bce ha fatto molto quest’anno per avanzare in questa direzione: con il taglio dei tassi,
le iniezioni straordinarie di liquidità e l’avvio di un piano massiccio di acquisti di titoli sui
mercati, la banca guidata da Mario Draghi è riuscita indurre un effetto collaterale prezioso:
una scivolata dell’euro sul dollaro di quasi il 13% da marzo scorso alla metà di questo
mese. È stata una delle poche buone notizie di un 2014 in cui l’Europa ha mancato la
ripresa e ha visto la dinamica dei prezzi finire in ibernazione a quota zero. Un moneta più
debole può aiutare molto, in una situazione del genere. Facilita l’export di prodotti europei
verso il resto del mondo, perché ne rende i prezzi più competitivi in valuta locale, dunque
favorisce l’occupazione, i consumi e gli investimenti in Europa. Ha anche un altro effetto,
che la Bce persegue ormai quasi apertamente: rendendo un po’ più cari i beni importati,
può impedire che l’indice dei prezzi crolli in una deflazione nella quale famiglie e imprese
bloccano consumi e investimenti nell’attesa di prezzi più bassi domani.
Se questo era il contributo che il tasso di cambio doveva portare, non sta solo venendo
meno nel pieno del terremoto finanziario russo. Si sta invertendo nel suo contrario, e
diventa un ostacolo in più nella lotta contro la deflazione. L’indice della moneta unica
pubblicato dalla Bce, ponderato in proporzione sulle valute delle economie con le quali
l’Europa commercia, mostra che da fine settembre il valore dell’euro sul resto del mondo si
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è apprezzato dell’1,5% anche mentre la moneta unica accelerava la caduta sul dollaro. In
altri termini, gli europei hanno avuto l’illusione di una svalutazione della loro moneta
perché si sono concentrati sul valore relativo al biglietto verde. Da fine settembre però
accade il contrario: nel complesso degli scambi mondiali, l’euro si sta rafforzando.
Il terremoto di queste ultime settimane, con epicentro a Mosca ma scosse in altre aree
emergenti, non fa che accentuare queste tendenze. Solo nell’ultimo mese la Russia ha
svalutato sull’area euro del 63%, la Turchia del 10%, l’Indonesia del 7,3%, l’India del 5,4%.
Svalutazioni intorno ai due punti si sono poi viste anche nei Paesi d’Europa centroorientale e adesso anche sul dollaro stesso. Quasi metà del genere umano ed economie
che nel 2013 sono arrivate a pesare molte decine di miliardi di euro per il «made in Italy»,
stanno di nuovo perdendo potere d’acquisto. E questa tempesta di fine anno erode parte
delle conquiste della Bce per l’intero 2014. Non era previsto che andasse così, non con
questi ritorni improvvisi di febbrilità. Invece ieri gli indici finanziari hanno fluttuato
paurosamente: le Borse europee hanno chiuso in territorio nettamente positivo (Ftse-Mib a
più 3,2%, Dax 30 di Francoforte a più 2,46%) dopo aver segnato forti perdite a metà
seduta. È un ritorno di instabilità che lo stesso eccesso di calma dei mesi scorsi lasciava
presagire. Fino a pochi giorni fa il Vix, l’indice della volatilità, aveva vissuto il suo anno più
tranquillo dal 2006. Ora l’orizzonte è irriconoscibile: lo spettacolo di questi giorni ricorda
quello delle crisi del debito dei Paesi emergenti di fine anni ’90, con le banche centrali di
Mosca o di Ankara che alzano disperatamente i tassi d’interesse su economie in frenata,
senza riuscire ad arrestare la continua caduta del cambio.
Se questi giorni ricordano quelli di allora, non è solo un caso. Allora come oggi, i Paesi che
emergono dal comunismo o dalla povertà si trovano carichi di debiti denominati in dollari
alla vigilia di una stretta monetaria della Federal Reserve. Le imprese russe hanno 590
miliardi di debiti in dollari con le banche occidentali e il loro peso è di fatto raddoppiato in
poche settimane con il crollo del rublo. La Banca dei regolamenti internazionali stima che
a metà di quest’anno i debiti in valuta estera dei Paesi emergenti fossero di circa 5.000
miliardi di dollari: ogni giorno di svalutazione della rupia indiana o indonesiana, dello yuan
cinese, della lira turca o del baht thailandese non fa che rendere più insostenibile questi
oneri, allontanando gli investitori e affondando ancora di più le monete emergenti. L’Italia è
in parte al riparo, perché la sua esposizione diretta sulla Russia non supera i 27 miliardi di
dollari. Ma oggi stesso la Federal Reserve dovrà fare più chiarezza sulla sua stretta
monetaria del 2015, e nessuno può illudersi di averne già visto tutte le conseguenze.
del 17/12/14, pag. 7
Presidenziali, un test per Samaras
Pavlos Nerantzis
ATENE
Grecia. Primo turno elettorale in parlamento. Atene e Bruxelles
applicano la strategia della paura contro Syriza. Il 23 e il 29 dicembre le
altre due votazioni, quelle decisive. Un unico candidato: Stavros Dimas
Gli occhi dei creditori internazionali, dei mercati e ovviamente di tutti i greci sono puntati
oggi sull’ elliniko koinovulio, il parlamento greco, dove stasera si vota per l’ elezione del
presidente della Repubblica, ma in realtá per dire sì o no all’ operato dell’ attuale governo
di coalizione e all’applicazione di nuove misure imposte dalla Troika (Fmi, Ue, Bce) per far
fronte, come viene sostenuto, al buco del bilancio per il 2015.
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Una settimana dopo l’ annuncio di elezioni presidenziali anticipate, una mossa a rischio
ma obbligata per Antonis Samaras, i conti continuano a non tornare per la maggioranza
governativa. Applicando la strategia della paura nel tentativo di scongiurare una grande
sconfitta per il suo governo e a convincere chi ancora dai parlamentari non ha deciso su
cosa votare, il premier greco sta giocando su trappole del tipo «con la stabilitá oppure con
il caos», senza tener conto che in questo modo é proprio lui a creare un clima di
polarizzazione negativo per l’ intero Paese. Forse – e questo non é da escludere —
perché Samaras in fondo ha giá deciso di lasciare la “patata bollente” del debito e delle
trattattive con la Troika (Fmi, Ue, Bce) al leader del Syriza, Alexis Tsipras, vincitore delle
prossime elezioni, secondo tutti gli sondaggi.
«Oggi in Grecia è in corso una battaglia di democrazia e di verità», ha scritto il premier
greco in un articolo pubblicato sul settimanale Real News, accusando Syriza di riportare «il
Paese verso nuovi memorandum proprio nel momento in cui stiamo per uscire
definitivamente dai vecchi» e invitando soprattutto i parlamentari indipendenti e quelli del
partito di Sinistra Democratica (Dimar) e di Greci Indipendenti (Anel) a votare «secondo
coscienza». La risposta é stata immediata da via Koumoundourou, dove si trova il quartier
generale di Syriza. Tsipras, riferendosi alla strategia della paura, che sta raggiungendo
livelli insostenibili, non ha escluso l’eventualitá che «certi uomini d’ affari, amici del
premier, faranno espatriare apposta capitali» per creare un clima di panico e di paura.
Syriza, infatti, sa benissimo – avendo ricevuto una buona lezione nelle elezioni del 2012
— che la strategia della paura promossa dal governo avrá un ruolo determinante non
soltanto stasera nella aula parlamentare, ma anche nel voto delle elezioni prossime. Non a
caso secondo i sondaggi, il 57,8% degli intervistati ritiene che sia tornato il rischio dell’
uscita del Paese dalla zona euro, nonostante nessuno lo voglia.
Le urne aprono alle 18.00 (ora italiana), ma si sa già che l’esito della prima votazione sarà
negativo. Secondo la costituzione greca nelle prime due votazioni (la seconda è stata
programmata per il 23 Dicembre) il candidato presidente Stavros Dimas dovrà raccogliere
almeno 200 voti, ma la maggioranza parlamentare possiede soltanto 155 e la
maggioranza dei parlamentari indipendenti si è già detta contraria all’elezione del
presidente della repubblica dall’ attuale parlamento.
Di conseguenza, a sentire fondi governative, ciò che conta per il premier greco è il numero
dei voti che raccoglierà oggi l’ unico candidato presidente. Se il risultato si avvicinerà ai
180, cioè ai voti che Stavros Dimas, ex commissario europeo e vice-presidente della Nea
Dimokratia, dovrà raccogliere per essere eletto alla terza ed ultima votazione,
programmata per il 29 Dicembre, allora Samaras potrebbe superare lo scoglio. Almeno
cosi sperano nel Megaro Maximou, sede del governo.
Altrimenti il Paese andrà alle elezioni anticipate agli inizi di febbraio prossimo con la
sinistra radicale a mantenere sempre una differenza di quasi quattro punti rispetto ai
conservatori. Secondo gli ultimi sondaggi condotti dalle società Kapa Research e Alco per
conto dei settimanali To Vima e Proto Thema, Syriza raccoglie tra il 25,5% e il 27,6% delle
preferenze, Nea Dimokratia, il partito di Samaras tra il 22,7% e il 24% e seguono To
Potami (Il Fiume), nuova formazione politica di centro, creata da un giornalista televisivo
che raccoglie i delusi dei vecchi partiti del potere, con 6%- 4,1%, Chrysi Avghi (Alba
Dorata) con il 5,9% — 5,6%, il Pasok oscilla tra il 6,7% e il 5%, il Kke tra il 5,8% e 4,4%,
mentre Dimokratiki Aristera (Sinistra Democratica), una volta componente del Syriza, poi
partner della maggioranza che è uscita dal governo di coalizione un anno fa, e gli
Ecologisti Verdi non riescono a superare la soglia del 3%. Gli indecisi poi superano il 18%.
Samaras non è certo l’ unico a voler diffamare la sinistra radicale greca. L’ eventualità di
una vittoria elettorale di Syriza fa venire i brividi anche ad una parte dell’ establishment
europea, soprattutto quella strettamente legata e dominata da Berlino. Ed è propria questa
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leadership insieme ad alcuni media internazionali main stream, tra loro anche certi italiani,
e ovviamente i mercati che stanno applicando in pieno altre volte la strategia della
tensione ed altre quella della paura. Dopo il crollo maggiore nella storia della borsa di
Atene, nel giorno in cui ufficialmente si anticipavano le elezioni presidenziali, fatto
interpretato come un avvertimento per l’ avanzata di Syriza, l’ incubo del “Grexit” (l’uscita
della Grecia dalla zona euro) viene riproposto senza scrupoli.
L’appello di Jean-Claude Juncker, al centro di una Luxleaks di massiccia evasione fiscale,
a votare in Grecia «in favore delle persone che conosco», hanno provocato la reazione di
tutte le forze d’ opposizione greche. E poi quelle del commissario per gli Affari Economici e
Finanziari dell’Unione europea, Pierre Moscovic, in visita ufficiale alla capitale greca da
lunedì. Moscovici, in un’ intervista al quotidiano Kathimerini, ha voluto inviare un
messaggio a favore dell’elezione di Stavros Dimas, alla presidenza della Repubblica.
«Lavoriamo — ha detto — con le persone che vogliono la permanenza della Grecia nel
cuore dell’Europa», come se Syriza non la volesse. Intanto l’ ex premier Jorgos
Papandreou, considerato responsabile per i primi accordi con la Troika, sta creando un
nuovo partito nel tentativo di ostacolare il flusso di elettori socialisti verso Syriza.
Prosegue, insomma, la guerra contro la sinistra radicale. E la questione vera é se questo
clima d’incertezza politica, tutto sommato fittizio, é dovuto ai creditori internazionali e ai
partners europei, oppure a Syriza. L’incertezza certo non piace né ai mercati, né
all’Unione europea, ma non piace nemmeno a Syriza, pronta a rispondere a tutte le
menzogne.
del 17/12/14, pag. 6
Le esecuzioni diminuiscono, tranne in Cina e
Iran
Andrea Colombo
Pena di morte. Il Rapporto 2014 di Nessuno Tocchi Caino. Cina e Iran in
controtendenza
Domenica a Roma cinque donne, tutte vincitrici del premio Nobel per la pace, avrebbero
dovuto partecipare all’iniziativa organizzata dall’associazione «Nessuno tocchi Caino» a
favore della moratoria contro la pena di morte, in vista del voto all’Onu di giovedì
prossimo: Mairead Carrigan Maguire, britannica, Jody Williams, Usa, Shirin Ebadi, Iran,
Tawakkul Karman, Yemen e Betty Williams, Irlanda. All’ultimo momento tre di loro hanno
dovuto rinunciare, pur confermando il loro impegno a favore della moratoria. Nella sede
del Partito radicale c’erano invece Shirin Ebadi e Mairead Carrigan Maguire, La pacifista
iraniana viene dal paese in cui, dopo la Cina, il numero delle condanne a morte eseguite è
più alto, la sua testimonianza è stata certamente la più drammatica. La situazione in Iran,
ha detto, non è cambiata negli ultimi anni nonostante la presenza di un presidente
effettivamente democratico, ma privo di poteri in base alla costituzione islamica.
La manifestazione, tenutasi nella stessa sede del partito radicale a Roma in cui Marco
Pannella incontrava il Dalai Lama, è stata organizzata in contemporanea con la
presentazione del Rapporto 2014 sulla pena capitale, con dati relativi al 2013. La
situazione, stando ai numeri presentati alcuni giorni fa, appare lievemente migliorata. Le
esecuzioni proseguono in molti Paesi, però arretrano quasi ovunque e nella presentazione
del Rapporto 2014, alcuni giorni fa al Campidoglio, «Nessuno tocchi Caino» poteva
mostrare una contenuta soddisfazione. La diminuzione drastica quasi ovunque delle
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esecuzioni conferma infatti che la strategia adoperata anche dall’associazione italiana, la
stessa ribadita ieri dalle cinque donne Nobel, sta funzionando: si tratta di non puntare
subito sull’abolizione ma sulla moratoria, come passo non ancora definitivo ma a portata di
mano. La tesoriera Elisabetta Zamparutti ha elencato i dati. Nel 20013 le condanne
eseguite sono state 4.106, 3mila della quali nella sola Cina. Seguono, nella macabra
classifica, l’Iran, dove sono state giustiziati 687 condannati, e l’Irak, con 172 vittime, poi
l’Arabia Saudita, 78 uccisioni di Stato.
Nonostante la cifra impressionante, la situazione cinese non è in prospettiva quella più
sconfortante. La Cina ha infatti rifiutato la moratoria, ammettendo di non essere in grado al
momento di aderire, ma si è impegnata a farlo nel prossimo futuro e le fortune della pena
di morte sembrano lì in discesa. Situazione opposta in Iran e Irak, che hanno rifiutato con
sdegno la moratoria e hanno votato contro anche in sede Onu, come tutti i Paesi
mediorientali tranne Israele, favorevole alla moratoria, e il Libano, astenuto. A differenza
della Cina, Iran e Irak non hanno aperto nessuno spiraglio neppure per il futuro prossimo.
Negli Usa, unico Paese delle Americhe dove la pena capitale sia ancora in vigore, il
numero delle sentenze eseguite è invece in drastico calo: 39 nel 2013, in percentuale
rapportata alla popolazione una quarantesimo di quelle eseguite in Cina. In Europa, il solo
Paese dove la condanna a morte sia ancora in vigore è la Bielorussia: due esecuzioni nel
2013.
Del 17/12/2014, pag. 9
Marò, scontro con l’India Pinotti: “Latorre
resta deve operarsi in Italia”
La Corte suprema di New Delhi aveva respinto le richieste degli
avvocati: cure e una licenza in Italia per i fucilieri
VINCENZO NIGRO
L’India pretende il rientro di Massimiliano Latorre e dice no alla richiesta di Salvatore
Girone di tornare a casa per Natale. Dura la reazione italiana: Latorre non si muoverà e
sui due marò si profila un nuovo scontro. «Fortemente contrariato», il presidente
Napolitano, «irritazione » esprime il ministro degli Esteri Gentiloni. La ministra della Difesa
Pinotti taglia corto: «Latorre non può certo tornare in India».
C’È un giudice a New Delhi che ancora una volta manda per aria le speranze dell’Italia. Di
chi si illudeva che la lunga storia dei due marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre
potesse avviarsi verso la fine. Ieri mattina il presidente della Corte suprema H. L. Dattu ha
voluto guidare in prima persona il collegio di tre magistrati che ha respinto le richieste dei
due marinai accusati di aver ucciso due pescatori nel 2012. Latorre è in Italia da settembre
per curarsi dai postumi di un ictus: chiedeva di poter rimanere lontano dall’India per altri 4
mesi. Dovrà subire un nuovo intervento chirurgico, un by-pass coronarico. Salvatore
Girone, rimasto da solo nell’ambasciata d’Italia a New Delhi, sperava invece di poter
godere di una “licenza” di Natale di 3 settimane. Bocciate entrambe le richieste.
Il presidente Dattu è stato durissimo e nel contraddittorio che per 30 minuti si è sviluppato
fra lui, i due giudici a latere, l’avvocato del governo e i due avvocati degli italiani, ha
lasciato capire immediatamente che la sua personale posizione era di insofferenza per la
richiesta degli italiani. Per cui gli stessi avvocati Soli Sorabjee e K. T. S. Tulsi all’ultimo
momento hanno preferito ritirare la “petition” per i due sottufficiali; qualcuno spera che
possa esserci una seconda occasione e che perlomeno Latorre possa godere di una
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estensione del permesso sanitario. Dattu è stato inflessibile. Gli avvocati degli italiani,
invece di sollevare soltanto la richiesta del permesso, avevano rispolverato anche il tema
della giurisdizione che — in principio — l’Italia non riconosce all’India. Il giudice ha detto
per esempio che «visto che le indagini non sono state ancora concluse e i capi d’accusa
non sono stati presentati come si può concedere l’autorizzazione agli imputati?». Dattu ha
aggiunto che «dovremmo concentrarci sulla chiusura della fase istruttoria del processo, e
poi bisogna rispettare il sistema legale indiano perché se concedessi questo ai due
richiedenti, dovrei farlo anche per tutti gli imputati indiani».
Una posizione in linea con l’approccio “tecnico” che la magistratura indiana ha seguito nel
trattare il caso sin dall’inizio. Una posizione che forse lo stesso governo indiano non
condivide a pieno: il rappresentante del governo in aula infatti aveva espresso la sua “non
contrarietà” al permesso per Latorre, mentre la licenza di Natale per Girone non è neppure
stata presa in considerazione (anche perché in quel caso entrambi i sottufficiali sarebbero
stati fuori dall’India contemporaneamente, con nessuna vera garanzia di rientro). La
decisione della Corte indiana ha provocato reazioni durissime della politica italiana. Il
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha detto di essere «fortemente
contrariato», mentre il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha parlato di «irritazione del
governo italiano» per la decisione dei giudici indiani: una formula che esprime
insoddisfazione ma non pregiudica la possibilità (inevitabile) di continuare a trattare con
l’India. Dura anche la ministra della Difesa Roberta Pinotti: «È una decisione grave,
dall’Italia arriverà una risposta. Latorre non può certo tornare in India». Nicola Latorre,
presidente Pd della Commissione Difesa del Senato, invita il governo «a riflettere nelle
giuste sedi e nel momento opportuno per valutare ulteriori iniziative sui rapporti fra Italia e
India». «La decisione della Corte Suprema indiana è del tutto inaccettabile », ribadisce il
presidente della Commissione esteri della Camera Fabrizio Cicchitto. Anche lui poi
auspica un cambio di passo: «Il governo deve definire la sua linea di fronte a questo fatto
nuovo del tutto negativo». Come dire che fra Italia e India dovrebbe cambiare qualcosa: il
problema è che tutte le carte sono a New Delhi.
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INTERNI
del 17/12/14, pag. 13
M5S, anche Currò dice addio. E sono 23
L’annuncio in Aula e il voto a favore del governo. Gli insulti dei suoi
«colleghi», gli applausi del premier
ROMA I colleghi lo apostrofano così: «Marchettaro», «traditore», «rumore di fondo»,
«nuovo Razzi», «marcio». Sui social va anche peggio: «Lecchino della casta», «fai
schifo», «bastardo», «verme» e giù con insulti e minacce. Tommaso Currò è uscito dal
gruppo ed è questa la sorte che gli tocca, come agli altri reprobi. È il 23esimo
parlamentare ad abbandonare il Movimento 5 Stelle, tra espulsi e dimissioni. Lo fa con un
appoggio esplicito al governo, votando a favore della risoluzione di maggioranza sul
Consiglio europeo. E con l’annuncio di «un’uscita dolorosa ma non più evitabile», al
termine di un discorso emozionante e teso, tra lo sconcerto dei colleghi e la standing
ovation dei deputati del Pd. Applaude anche Matteo Renzi («lo hai pagato, eh», gli urla
contro Carlo Sibilia), pronto a replicare alle contestazioni che gli vengono fatte quando
parla: «Il fatto che perdiate pezzi ogni giorno, non vi autorizza a interrompere. Siamo
solidali con voi e capiamo la vostra difficoltà e la vostra frustrazione».
Alle dimissioni dai 5 Stelle segue una quasi rissa tra Ignazio La Russa, che accusa Currò
di non essersi dimesso da deputato, Walter Rizzetto (5 stelle dissidente) e Adriano
Zaccagnini (tra i primi ad abbandonare il Movimento), che lo difendono: le agenzie
registrano parole come «maiale» e «animale», anche se i protagonisti smentiscono.
«E ora che si fa?». La domanda di un dissidente, uno dei molti che ancora circolano tra
Camera e Senato, la dice lunga sulla disgregazione senza fine del Movimento. Perché le
voci si rincorrono. C’è chi parla di 10-20 deputati pronti a lasciare (ma più verosimilmente
sono 5). Altri sostengono che non lo faranno ora, «meglio combattere dall’interno». Quello
che è certo è che i dissidenti ci sono e non si vergognano più a dirlo. Rizzetto, a sera,
discute animatamente con Currò in un’enoteca di piazza di Pietra. Altri fanno capannelli
alla Camera. La spaccatura è nei fatti, ma non ancora sancita. Renzi è soddisfatto. Poco
prima del discorso aveva detto: «Stop con le cialtronate, recuperate la passione o ne
perdete altri». Dopo l’addio, commenta: «Ho fatto un’apertura ed è stata capita».
I duri e puri del Movimento non si mostrano scossi. Anzi, festeggiano la fuoriuscita del
«marcio» con una «ola». «Dovevamo cacciarlo prima», commenta Daniele Del Grosso.
«Finalmente», dice Manlio Di Stefano. Barbara Lezzi: «È chiaro che Renzi sta facendo
scouting, i pezzi marci se li prendesse pure». Nicola Morra: «Deo gratias. Porte aperte a
chi vuole andarsene». I vertici fanno filtrare la loro versione: «La slavina mette in sicurezza
la montagna». Perché i fuoriusciti riducono l’area del dissenso dentro il partito. Ed è per
questo che gli altri dissidenti sembrano intenzionati a non seguire le orme di Currò,
almeno non singolarmente.
Anche perché la partita si sposta al Quirinale. È su questo terreno che Renzi potrebbe
trovare una sponda: negli ex dei 5 Stelle ma anche in chi resta nei ranghi, pur contestando
la linea. Lo strappo è rimandato. Per ora è tempo di veleni. Danilo Toninelli affida a un
tweet il suo commento: «Ha appena lasciato il Movimento un certo Currò. Di lui ricordo
solo una marchetta alla Stabilità che dava soldi al parco naturale della sua città». Beppe
Grillo, sempre loquace, ignora per ora l’ennesima defezione e se la prende con il Pontefice
per non aver ricevuto il Dalai Lama.
Alessandro Trocino
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Del 17/12/2014, pag. 16
Forza Italia, l’addio di Verdini “Caro Silvio,
così non si va avanti”
Lo scontro con il cerchio magico
Il “plenipotenziario” per le riforme lascia a fine anno la guida
dell’organizzazione Partito nel caos anche sul tesseramento: gli iscritti
crollano da 400 a 60 mila
CARMELO LOPAPA
La crisi di Forza Italia passa anche attraverso il tonfo dei tesseramenti. Sondaggi al palo,
quattro milioni di deficit, licenziamento collettivo di 55 dipendenti, la fronda interna e ora
anche l’imminente addio di Denis Verdini. È un periodaccio, per Silvio Berlusconi, alla
vigilia di partite decisive su riforme e Quirinale.
L’ultima grana: la registrazione dei nuovi tesserati 2014, che si sarebbe dovuta concludere
il 15 dicembre. Si è risolta in un flop. A quella data non risultano iscritti al partito neanche
60 mila simpatizzanti (i più catastrofisti parlano di 50 mila). Nelle già esigue casse è finito
uno scarso milione di euro. È la ragione per cui lo stesso leader, con una lettera aperta, ha
fatto slittare la scadenza al 31 gennaio 2015. Impresentabile, quel dato, tanto più a fronte
dei numeri dei dem. Nella lettera aperta Berlusconi minimizza, parla di «breve rinvio
dovuto a diverse considerazioni politiche e organizzative», ai «numerosi impegni di queste
settimane che hanno assorbito il tempo di molti deputati e senatori». Il pallottoliere tuttavia
è impietoso. A fine settembre, a Roma risultavano tesserati in 2 mila appena, 181 a
Frisinone, 61 a Latina, 21 a Rieti e nelle ultime settimane la situazione sembra sia
migliorata di poco. A Palermo in questi giorni si toccava a stento quota mille, 2.500 a
Torino, in tutta la Puglia non più di 5 mila, va meglio nelle roccaforti del Veneto (8 mila) e
Lombardia (10mila), il resto sono briciole. La quota ordinaria è 30 euro, scontata a 25 euro
per i seniores e 15 euro per i giovani. «I dati ufficiali li riceveremo a febbraio, non vedo
dove sia l’allarme, vedrete che si supererà quota 100mila» sostiene il responsabile
tesseramento Gregorio Fontana. «E poi, abbiamo quasi triplicato i costi, per rendere
l’iscrizione una cosa seria, non mi sembra che nel Pd del 40 per cento vada meglio».
L’ultimo tesseramento forzista risale al 2007 e l’allora coordinatore Sandro Bondi
annunciava il record di 400mila iscritti. «Ma convincere la gente a iscriversi a un partito
oggi è dura — spiega Mariastella Gelmini, coordinatrice lombarda — tra Expo, Mose e
scandali è maturato un rifiuto insormontabile verso la politica». Ma assieme al rinvio dei
tesseramenti, a tenere banco tra i forzisti è la voce dell’imminente addio di Denis Verdini,
lascerebbe a fine anno la carica di responsabile organizzativo. «Se questa volta lo fa per
davvero, è solo per evitare imbarazzi al partito, per questioni personali e giudiziarie »
racconta chi lo conosce bene e lo frequenta. Lui, Denis il tessitore delle riforme, alle prese
con chi come Brunetta bombarda ogni giorno il Patto del Nazareno e con i dubbi dello
stesso Berlusconi. E poi il ruolo sempre più ingombrante della tesoriera-ombra del capo,
Mariarosaria Rossi. Tant’è, stavolta il leader sarebbe intenzionato ad accettare le
dimissioni più volte minacciate. L’ex Cavaliere ieri sera ha riunito per gli auguri i 60
senatori a cena (assai frugale, primo e dolce, nemmeno un secondo), stasera toccherà ai
70 deputati. Uno strappo alla spending review dettato dall’esigenza di tenere unito a tutti i
costi il partito dopo gli scossoni di Fitto. Ha raccontato loro dei servizi sociali, dei «colpi di
stato» subiti, per concludere: «Se vogliamo contare, non dobbiamo farci vedere smembrati
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e divisi». E infine la promessa: «È vicino il tempo in cui saremo chiamati nuovamente alle
nostre responsabilità verso il Paese».
Del 17/12/2014, pag. 10
La corsa del premier sulla legge elettorale “Sì
entro il 23 del prossimo mese, poi il Colle”
FRANCESCO BEI
Eccola la via d’uscita, la strada dai mattoni gialli che Renzi e Napolitano hanno
immaginato insieme. Da ieri è lì, sotto gli occhi di tutti, solo resta ancora coperta da un
tappeto di parole che impediscono di vederla chiaramente. Il problema è sottrarsi ai
possibili ricatti di Forza Italia (o della minoranza dem) sull’Italicum? Il problema è mettere
in sicurezza la legge elettorale prima che si aprano i giochi sul Colle? La soluzione è
semplice, la road map è segnata. Perché a questo punto il treno delle riforme è talmente
lanciato che anche le dimissioni del capo dello Stato non sono più un problema
insormontabile. Dunque, come immaginato, Napolitano lascerà dopo il 13 gennaio, ultimo
atto del semestre italiano. La voce più insistente è che la data prescelta sia giovedì 15.
Dalle dimissioni alla convocazione del Parlamento in seduta comune dovrebbero passare
quindici giorni, tempo necessario per consentire alle regioni di nominare i grandi elettori.
Ecco allora che i giorni segnati in rosso sul calendario di palazzo Chigi, frutto dei colloqui
informali tra le massime cariche istituzionali, sono quelli del 28 o 29 gennaio, primo
scrutinio per la scelta del successore di Napolitano. È questa la data a cui arrivare con
l’Italicum 2.0 approvato dal Senato. E possibilmente con la riforma costituzionale
approvata da Montecitorio. Una doppietta che renderebbe la partita del Quirinale molto,
molto più in discesa. «Se ci si incastrano questi passaggi — osserva Renzi con i suoi — le
riforme sono andate». Per sfruttare al massimo questa finestra di opportunità di due
settimane, il capo del governo ha studiato le prossime mosse con grande attenzione. E
tutto si giocherà sull’attraversamento delle Termopili di palazzo Madama. La legge
elettorale è infatti inchiodata in commissione da una valanga di 17mila emendamenti, un
diluvio ostruzionistico organizzato soprattutto dalla Lega. Ma il regolamento consente di
farne un unico grande falò, portando direttamente il provvedimento in aula. «Non è una
procedura auspicabile — avverte il capogruppo dem Luigi Zanda — ma certamente
possibile». Oltretutto mandare in aula il disegno di legge senza il relatore in questo caso
non avrebbe conseguenze di sorta, dato che relatore e presidente della commissione
(deputato a condurre in aula il ddl in assenza del relatore) coincidono nella persona di
Anna Finocchiaro. Sarà la conferenza dei capigruppo dunque a stabilire il giorno in cui
l’Italicum dovrà uscire dalla commissione. La Boschi lo vuole incardinare il 7 gennaio,
primo giorno di ripresa dei lavori dopo le feste. Che la commissione abbia finito di votare
gli emendamenti oppure no, il provvedimento sarà comunque in aula. E la corsa potrebbe
concludersi venerdì 23 gennaio. Con Napolitano ormai fuori dal Quirinale, ma le Camere
congiunte non ancora convocate per la prima votazione sul successore. Ecco il magico
gioco di incastri immaginato da Palazzo Chigi. Incassare l’Italicum dopo le dimissioni di
Napolitano ma prima dell’inizio della gara per la successione. In modo da rendere nulli i
veti e i ricatti sulla legge elettorale. La road map del premier ha già fissato anche le tappe
intermedie, dato che sabato 24 gennaio, all’indomani dell’approvazione dell’Italicum, a
Roma dovrebbe tenersi l’assemblea dei Grandi Elettori del Pd. L’appuntamento dove
iniziare a ragionare sull’identikit del nuovo presidente della Repubblica. «Fino a quel
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momento — promette Renzi — non dirò una parola sui nomi. Proprio per non mescolare le
due partite». Nel frattempo il sogno del capo del governo è di mettere in sicurezza anche
l’altra grande riforma, quella costituzionale. «Entro il 20 gennaio si può fare», ragiona
Roberto Giachetti. E le parole pronunciate ieri da Napolitano, il totale endorsement dello
sforzo riformatore di palazzo Chigi, sono state per Renzi il miglior viatico. Il premier ci
scherza sopra con Matteo Orfini, presidente del Pd, nei saloni del Quirinale. «È stato un
grande! ». «Sì — risponde Orfini — dopo Napolitano bisognerebbe
eleggere...Napolitano!».
Del 17/12/2014, pag. 1-13
IL RETROSCENA
La platea dei candidati
SEBASTIANO MESSINA
Il grande assente era lui, Romano Prodi, che il giorno prima aveva salito le scale di
Palazzo Chigi, sei anni e mezzo dopo aver passato la campanella a Silvio Berlusconi. Ma
a parte l’ex premier, affondato l’anno scorso dai 101 franchi tiratori quando sembrava a un
passo dal Colle, ieri c’erano tutti i volti del toto-presidente, nel salone dei Corazzieri.
«Guardandomi intorno, ho avuto la netta sensazione che in quella sala fosse seduto il
prossimo capo dello Stato», sussurrava un parlamentare della maggioranza mentre faceva
la fila per ritirare il cappotto al guardaroba. E forse aveva ragione, perché erano almeno
una dozzina i papabili venuti a sentire l’ultimo messaggio di Napolitano alle alte cariche
dello Stato (cerimonia disertata anche quest’anno dai grillini e dai leghisti).
Il primo, Pietro Grasso, era seduto proprio accanto al presidente, e a chi ascoltava il suo
discorso d’auguri all’inquilino del Quirinale è sembrato di cogliere un tentativo di solennità,
una prova generale in vista della delicatissima supplenza che ne farà — dopo le dimissioni
di Napolitano — il presidente ad interim. Da quella posizione, forse chiunque si lascerebbe
accarezzare da una segreta speranza. Perché non dovrebbe farlo chi oggi occupa la
seconda carica dello Stato, e domani — sia pure provvisoriamente — addirittura la prima?
Mentre Napolitano parlava, Grasso guardava davanti a sé, e chissà se si domandava chi
scenderà in pista per il prossimo settennato, osservando per esempio il volto pensieroso di
Pier Carlo Padoan, seduto in prima fila (posto riservato dal cerimoniale ai ministri più
importanti: gli altri hanno dovuto accontentarsi della seconda fila). Padoan, che è schivo di
carattere, non ha detto una sola parola, e non sapremo mai se mentre socchiudeva gli
occhi osservando l’altorilievo rinascimentale che sovrastava Napolitano (“La lavanda dei
piedi” di Taddeo Landini) rifletteva sul peso che potrebbero avere a un certo punto il suo
prestigio internazionale e la sua indipendenza dal Pd.
Accanto a lui, indaffarato a chiacchierare sottovoce con il Guardasigilli Orlando, c’era
Paolo Gentiloni, un altro ministro il cui nome rimbalza puntualmente quando si parla di
Quirinale. Lui è uno dei pochi renziani dei quali all’estero si conoscono i nomi, anche se
non è certo un indipendente: ma non è detto che questo non si riveli un punto a favore, se
la partita dovesse prendere una certa piega. Con gli occhialini inforcati come al solito sul
naso, Giuliano Amato ascoltava il discorso insieme agli altri giudici costituzionali, e faceva
probabilmente il ragionamento opposto, domandandosi se l’endorsement a freddo di
Berlusconi («Al Quirinale voteremmo uno come lui») gli impedirà definitivamente di entrare
nella rosa dei candidati, dopo che i grillini già l’altra volta avevano lanciato una campagna
contro di lui per le pensioni che cumula con vitalizi e indennità.
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A Walter Veltroni il cerimoniale ha riservato un posto a metà sala, subito dietro a Enrico
Letta che sarebbe anche lui un candidato se non si trovasse nella situazione in cui era
Saragat nel 1948: molti facevano il suo nome, quasi tutti dimenticavano che non aveva
ancora compiuto i 50 anni richiesti dalla Costituzione. Veltroni, che poi è uscito dal palazzo
insieme a Piero Fassino — suo successore alla guida dei Ds — quella soglia l’ha invece
varcata da nove anni, ma sa bene che nella corsa al Quirinale, come nel Conclave, chi
entra papa esce cardinale, e dunque non dice una sola parola sull’argomento. Però deve
avergli fatto piacere, quell’invito categorico di Napolitano a «non attentare in qualsiasi
modo alla continuità di questo nuovo corso», perché lui è uno dei pochi che certamente
garantirebbe quella continuità. Una beffarda regola del cerimoniale ha fatto sedere l’uno
accanto all’altro Massimo D’Alema e Gianfranco Fini, invitati non per le cariche ricoperte in
passato ma come presidenti di due fondazioni culturali (e dunque come rappresentanti
della società civile). L’ex premier entrò in gara nel 2006, ma subì la stessa sorte di
Fanfani, di Nenni e degli altri leader che ci avevano provato prima di lui: ormai non ci
spera più, e ieri — aspettando l’arrivo di Napolitano — mostrava a Fini le ricche
decorazioni dorate del soffitto, intorno al simbolo di Casa Savoia che è ancora lì.
Triste era invece lo sguardo di Mario Monti, seduto vicino al presidente dei senatori Pd
Luigi Zanda, forse al pensiero che se non avesse ceduto alle lusinghe di Casini sarebbe
stato lui il candidato naturale, l’anno scorso: ma ormai quel treno è passato. Del resto è
passato anche per Casini, leader di un centro sempre più sottile, ed è passato anche per
la signora che gli stava a fianco: Anna Finocchiaro, nome di punta della squadra
dalemiana, otto anni fa tra i papabili come primo presidente donna. Ma alla vecchia
ruggine con Renzi si sono aggiunti i guai giudiziari di suo marito, sotto processo per truffa
aggravata per un appalto nella sanità, e la senatrice siciliana ieri era tra quelli che
scendevano le scale del Quirinale, come avrebbe detto Vittorio Gassman, con un grande
avvenire dietro le spalle.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 17/12/14, pag. 4
Don Ciotti alle Coop: «Cacciamo i ladri»
Massimo Franchi
Congresso. Il fondatore di Libera parla «col cuore» nel primo giorno
dell’assise della Lega cooperative. Lusetti: già fatta pulizia. Lo scandalo
mafia- capitale lascia i cooperatori in bilico tra rimozione e presa di
coscienza. Si va verso la fusione nell’Alleanza e arrivano critiche al
governo
«Cacciare i disonesti, i furbi e i ladri». Arriva da don Ciotti l’invito più diretto e sentito al
mondo della cooperazione scosso dallo scandalo di mafia-capitale nel primo giorno del
39esimo congresso nazionale di Legaccop. Orfana del mentore Giuliano Poletti, il mondo
delle cooperative rosse si ritrova all’Auditorium di Roma in bilico fra rimozione e presa di
coscienza della sua perduta verginità e delle sue origini mutualistiche.
Già nella relazione del presidente — e unico candidato — Mauro Lusetti l’argomento
aveva trovato largo spazio. «Noi siamo persone per bene, ma la nostra fiducia può essere
stata tradita. La vicenda di Roma ci ha procurato rabbia e sconcerto, ci ha ferito
profondamente perché sappiamo di essere altro. Rifiutiamo con forza le volgari
generalizzazioni e le strumentalizzazioni che sono state fatte da avversari e presunti
amici», sottolinea Lusetti in risposta alla provocazione di Maurizio Gasparri che ieri ha
«declinato l’invito a partecipare al congresso per evitare di finire fotografato con gente tipo
Buzzi», in riferimento all’immagine che ritrae il ministro Poletti con il “boss” della coop 29
giugno, affiliata a Legacoop. «Potremmo dire che sono episodi isolati o mariuoli — ha
ripreso Lusetti citando Craxi su Mario Chiesa — ma non lo facciamo. Accettiamo il
confronto per capire dove migliorare». Qua però arriva una distinzione importante a difesa
delle dimensioni delle cooperative aderenti a Legacoop: «Ribadiamo con forza però che il
discrimine è tra onesti e disonesti e non tra grandi e piccole cooperative, tra cooperative
sociali o società pubbliche. Il discrimine è tra chi delinque e chi no. Abbiamo la coscienza
a posto, ma nessuno può sentirsi immune. Dobbiamo alzare la guardia, migliorare l’azione
di contrasto alle illegalità perché viviamo in uno dei paesi più corrotti d’Europa».
Al riguardo della cooperative 29 giugno guidata da Buzzi, Lusetti rivendica di aver
«espulso chi ha tradito la fiducia, restituito i contributi frutto di attività illecite, costituiti parte
civile, preso contatto con il commissario per salvaguardare occupazione e continuità
aziendale, avviato una fase di rinnovamento di Legacoop Lazio».
Parole apprezzate da don Luigi Ciotti, salito sul palco subito dopo. La sua Libera è infatti
essa stessa una piccola Legacoop — «coordiniamo 1.600 aziende e in questi anni come
voi abbiamo dovuto intervenire, vigilare e avere il coraggio di fare scelte scomode: non
può essere la magistratura a chiederci conto, dobbiamo scoprirlo prima noi» — e
«assieme a voi abbiamo costruito Libera Terra che gestisce le terre confiscate alle mafie
producendo agricoltura di qualità». Il suo sentito appello è stato dunque «a scegliere la
legalità non solo con la bocca, a non praticarla solo all’accorrenza, a non essere malleabili
perché i diritti non possono essere sostituiti dai favori», «le mafie vivono fra noi e il
problema è anche in chi vede e lascia fare».
La medicina proposta da don Ciotti per affrontare la «difficile situazione» è «la cultura della
responsabilità, darci da fare tutti insieme per generare voglia di cambiamento perché la
riforma più importante è l’autoriforma delle nostre coscienze». Poi arriva l’applauso più
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forte, quello alla citazione di Enrico Berliguer sulla «questione morale che è il centro del
problema italiano». Ma il “don” è guardingo e non manca di sottolineare: «Sì, applaudite,
ma non dimenticatelo».
E all’idea di «un codice cooperativo» come impresa del nuovo millenio», Don Ciotti
risponde dicendo che «l’etica non è solo scrittura di codici, ma non fare mai compromessi,
anche quelli più piccoli». La chiusura è tutto un richiamo «alle radici, all’identità, al dna che
dopo 170 anni di mutualismo deve essere un punto di fermezza».
Passando ai temi di attualità politica, la relazione di Lusetti — che ha dunque chetato le
vecchie polemiche fra emiliani e toscani, e le nuove tra modenesi (fra cui lui) e la vecchia
guardia bolognese — non ha risparmiato critiche al governo. Pur dando un giudizio
positivo del Jobs act, Lusetti non ha mancato di rimarcare come «intervenire ancora sulla
flessibilità in uscita non sia prioritario e rischi di incrinare inutilmente i rapporti con le parti
sociali». L’altra stoccata — che ha provocato i convinti applausi di Susanna Camusso,
presente in prima fila — ha riguardato la necessità di «reintrodurre il reato di falso in
bilancio». L’ultima parte della relazione è stata tutta dedicata all’orizzonte dell’Alleanza con
Confcooperative — il compromesso storico delle coop, «distinguerle fra rosse e bianche è
ormai una descizione antistorica» — e le altre centrali. Lusetti chiede di accelerare per
rispettare la scadenza del «primo gennaio 2017».
La variegata platea applaude convinta. Oggi e domani arrivano i ministri — Poletti
compreso — vedremo se il tono cambierà.
del 17/12/14, pag. 4
Mafia capitale, l’Arciconfraternita che
smentisce il Vicariato
Eleonora Martini
«Siamo tutti un po’ Pilato». Monsignor Pietro Sigurani è l’unico che non rinnega nulla dei
rapporti tra l’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, di cui è stato
alla guida fin dagli anni ’90, e le cooperative “bianche” e “rosse” citate più volte
nell’inchiesta su Mafia capitale. «Non conosco Buzzi e non so chi sia Carminati» mentre
Tiziano Zuccolo «è un mio uomo di fiducia», dice Sigurani, che si è guadagnato
l’appellativo di «imam cattolico» per la sua vita spesa con gli immigrati.
Tiziano Zuccolo, che non è indagato, «è dipendente della società La Cascina e
responsabile dell’Arciconfraternita del Ss Sacramento e del Trifone, una delle cooperative
capitoline maggiormente attive ed influenti nel settore del sociale», come scrive il Gip di
Roma nell’ordinanza di arresto del “rosso” Salvatore Buzzi e del “nero” Massimo
Carminati. Il nome di Zuccolo compare spesso nell’inchiesta sul «Mondo di mezzo». Per
esempio, il 15 novembre 2012, scrivono gli inquirenti, Zuccolo «chiamava Buzzi e gli
diceva di aver incontrato Luca Gramazio». L’uomo di fiducia di mons. Sigurani e il
presidente della “Coop. 29 giugno” discutono di come «risolvere la questione dei
finanziamenti per i minori ed i campi nomadi».
Il che di per sé non è un reato, tanto che, appunto, Zuccolo non è indagato. Però questa e
altre conversazioni che vengono intercettate, secondo la procura, consentono «di
acclarare ulteriormente l’esistenza di un accordo» tra Buzzi e Zuccolo «in ossequio del
quale i richiedenti asilo e rifugiati assegnati dall’Anci al comune di Roma andavano divisi
“al 50%”», costituendo di fatto «un vero e proprio “cartello d’interessi” tra le cooperative
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riconducibili a Buzzi e a Zuccolo» che «rendeva di fatto molto più complesse analoghe
possibilità d’impresa ad altre cooperative od associazioni presenti nello specifico settore».
Qualche giorno fa il Vicariato di Roma, in una nota, ha comunicato di essere «del tutto
estraneo» alle attività della cooperativa “Domus caritatis” e del Consorzio “Casa della
solidarietà”, le quali «non sono “riconducibili all’Ente ecclesiastico Arciconfraternita del Ss
Sacramento e di San Trifone», di cui peraltro «è in corso la procedura di estinzione».
Procedura che, spiega il Vicariato, è stata decisa in seguito ai vari controlli disposti dalla
stessa Diocesi che hanno rivelato tra l’altro una serie di «attività che contravvengono alle
norme di legge».
Per Mons. Sigurani, intervenuto ai microfoni di Radio 1 Rai, si tratta di «un comunicato
pilatesco che non dice la verità. Perché ognuno cerca di salvare se stesso, ma il
cristianesimo è un’altra cosa. La verità è che noi portavamo due volte l’anno i bilanci al
Vicariato e una volta l’anno veniva la Guardia di Finanza. L’Arciconfraternita prima, poi la
Domus Caritatis, per i prezzi che fa e per servizi che fa, era diventata un ostacolo e quindi
tutti l’attaccavano e mi è stato raccontato che questo 50% era per l’accoglienza dei siriani.
Buzzi si è preso tutto lui e noi glielo abbiamo ben volentieri lasciato. Noi ad un certo
momento non abbiamo voluto lavorare con questi. La verità è che la Confraternita è stata
molto osteggiata nella sua attività. Molto all’interno del Vicariato stesso».
Del 17/12/2014, pag. 21
Manette al padrino del tritolo per Di Matteo
“In quel covo i summit per 30 anni di omicidi”
Palermo, blitz per trovare l’esplosivo comprato da Vincenzo Graziano Il
palazzo è lo stesso che fece da base per i killer di La Torre e Dalla
Chiesa
SALVO PALAZZOLO
Una donna vestita di nero prova a fermare gli uomini col mephisto: «Vi ha mandato
l’infame? », sussurra. Ma quattro finanzieri della polizia valutaria corrono verso il grande
portone blindato in fondo al vicolo Pipitone, da sempre roccaforte di Cosa nostra a
Palermo. La fiamma ossidrica dei vigili ci mette una manciata di minuti a scardinarla. E,
all’improvviso, si apre un mondo, una zona franca nel cuore della città. Eccola, la grande
veranda con i due tavoli per i banchetti di cui ha parlato l’ultimo pentito della mafia
siciliana, Vito Galatolo, «l’infame» come lo chiamano adesso nel vicolo dove è vissuto fino
a qualche mese fa. Negli anni Ottanta, qui si preparavano gli squadroni della morte di
Salvatore Riina, e poi tornavano per festeggiare gli omicidi di Carlo Alberto Dalla Chiesa,
di Pio La Torre, di Ninni Cassarà. Trent’anni dopo, attorno a questi tavoli per i banchetti si
sono seduti i capi delle famiglie palermitane che stavano progettando l’attentato contro il
pubblico ministero Nino Di Matteo. All’alba, i finanzieri del nucleo speciale di polizia
valutaria e i colleghi del Gico del nucleo di polizia tributaria passano al setaccio il grande
giardino che circonda vicolo Pipitone, un budello fra il porticciolo dell’Acquasanta e i
Cantieri navali. Cento uomini sono arrivati con i blindati. Cercano i 200 chili di tritolo che
Cosa nostra ha comprato in Calabria per esaudire la richiesta del «fratellone Matteo
Messina Denaro». Perché lui, la primula rossa di Cosa nostra, ha sollecitato l’attentato a
Di Matteo, nel dicembre 2012. Così ha detto Galatolo: «Girolamo Biondino lesse un
pizzino, non si poteva dire di no». Mentre il vicolo viene perquisito da cima a fondo, la
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Valutaria fa irruzione in un appartamento del salotto buono di Palermo, via Campania,
dove abita il vice del capomafia oggi pentito: è Vincenzo Graziano, l’uomo che avrebbe
avuto il compito di acquistare e custodire l’esplosivo. Dice il collaboratore: «Io mi impegnai
con 360 mila euro mentre le famiglie di Palermo Centro e San Lorenzo si impegnarono per
70 mila euro. Così fu comprato l’esplosivo: io l’ho visto a Palermo, era composto da tanti
panetti di colore marrone avvolti da pezze di tessuto. Era contenuto in un fusto di lamiera
e in un grande contenitore di plastica dura. Sopra i bidoni vi era uno scatola di cartone e
all’interno un dispositivo in metallo». In vicolo Pipitone, l’esplosivo non c’è. «La cosa ci
inquieta, continueremo a cercarlo», dice il procuratore aggiunto Teresi, che coordina
l’indagine con i sostituti Del Bene, Luise, Picozzi, Scaletta e Tartaglia. «Galatolo ci ha
spiegato che l’intento di organizzare l’attentato non è mai stato messo da parte». Il pentito
spiega di avere pensato anche a un piano alternativo con Graziano: «Un furgone carico di
esplosivo nei pressi del Palazzo di giustizia, ma non ritenemmo di procedere perché ci
sarebbero state molte vittime». Intanto, Messina Denaro avrebbe chiesto di colpire anche i
pentiti Gaspare Spatuzza e Nino Giuffrè. Ora, albeggia su vicolo Pipitone. I finanzieri della
tributaria scoprono una stanza segreta nella roccia. Ci sono piatti e tazzine. Forse, anche
di recente, è stato il covo di un latitante. Altri uomini con il mephisto salgono nella
palazzina di cinque piani che sovrasta il vicolo espugnato, la palazzina dei Galatolo. Al
secondo piano, c’è l’appartamento che un tempo era di Vito Galatolo, oggi protetto con la
moglie e i suoi figli in una località segreta. Tutto è in ordine nel salotto dell’uomo che era
candidato a diventare uno dei padrini più illustri di Cosa nostra: «Avevo progettato di
uccidere anche mia sorella Giovanna, che qualche mese fa aveva scelto di collaborare
con la giustizia». Vito Galatolo l’aveva deciso fra le colonne, le statue e le cornici del suo
salotto principesco. Oggi, c’è un silenzio irreale in questa palazzina. Sono rimaste solo le
donne a conservare i segreti dei loro uomini rinchiusi al carcere duro.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 17/12/14, pag. 6
Governo senza pietà: paghino le tasse entro
lunedì anche i liguri alluvionati
di Giampiero Calapà
Nessun rinvio. Le tasse vanno pagate. Anche se si vive nella Genova falcidiata dalle
alluvioni devastanti di ottobre e novembre. Vanno, anzi, saldate anche le scadenze
arretrate, chi si è avvalso della moratoria in vigore fino ad oggi deve metter mano al
portafogli. Il decreto del 20 ottobre pareva dar tregua ai genovesi, ma la tregua è già finita.
Scade, inesorabile, proprio quando iniziano le feste natalizie: il 22 dicembre.
IL COMUNE è stato di parola, le tasse di competenza municipale non si pagano: Imu e
Tasi (immobili), Tari (rifiuti) e Cosap (occupazione suolo) rimangono fortunatamente
soltanto negli incubi dei genovesi. Il sindaco Marco Doria ha deciso di prolungare dal 31
dicembre al 28 febbraio il rinvio del pagamento, poi si vedrà. Invece le dolenti note sono
Iva, Irpef, Irap, Ires e tutte le scadenze fiscali di competenza dello Stato. La
comunicazione, terribile per chi ha perso migliaia di euro mentre esondava il Bisagno e
Genova era sott’acqua, è arrivata in carta bollata dal ministero delle Finanze. Il decreto
che aveva lasciato sperare è del 20 ottobre, firmato da Pier Carlo Padoan: fino al 20
dicembre 2014 compreso i genovesi non dovevano scucire neppure un quattrino. Il nuovo
decreto, invece, non ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale agita così le notti dei
genovesi: “Gli adempimenti e i versamenti tributari nei Comuni colpiti dalle alluvioni nei
mesi scorsi e per i quali era stata prevista la sospensione fino al 20 dicembre 2014,
devono essere effettuati in un’unica soluzione entro il 22 dicembre prossimo”. Alza la voce
contro la decisione del governo Renzi il candidato (per un Partito democratico diviso
nell’anima e a volte anche nei fatti) alla presidenza della Regione Liguria Sergio Cofferati:
“È una decisione che sorprende e preoccupa molto, bisogna attivarsi per ottenere da
subito una nuova sospensione dei pagamenti. Ci saremmo aspettati – ha precisato
Cofferati –, anche solo per un banale principio di ragionevolezza, che fosse data continuità
alla sospensione delle imposte statali per le attività che hanno subito danni a causa del’al luvione di ottobre. Non è accettabile che venga tradito oggi quanto promesso nei giorni
dell’alluvione, si creerebbe così un danno ulteriore alle molte attività che stanno
faticosamente provando a ripartire. Non si tratta di prevedere un’esenzione totale dalle
tasse, ma semplicemente di dare respiro ai soggetti che hanno subito danni e che il
Comune ha già identificato. Secondo Cofferati, “occorre che tutti i parlamentari liguri,
insieme all’amministrazione comunale e regionale, lavorino insieme perché si ponga
rimedio a questo pericoloso passo indietro”. Anche il governatore in carica, sempre del Pd,
Claudio Burlando, chiede clemenza al proprio governo: “Devono soltanto scrivere tre righe
e dare una piccola copertura di qualche milione. È intollerabile che non avvenga. Si tratta
di tremila imprese che non sarebbero esentate dal pagare i tributi, pagherebbero qualche
mese dopo. Noi possiamo dare al ministero il dischetto con l’elenco delle imprese che
hanno denunciato i danni. Abbiamo fatto un lavoro eccezionale con la Camera di
Commercio. Ora il ministero deve rimediare, può inserire un provvedimento nel
Milleproroghe”.
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LA RICHIESTA ufficiale di rinviare ancora il pagamento arriva dall’assessore regionale alla
Protezione civile Raffaella Paita, nell’occhio del ciclone per la gestione dell’emergenza nei
giorni delle alluvioni: “Chiediamo al governo che si creino le condizioni perché le scadenze
fiscali previste per il 22 dicembre siano sospese per chi è stato colpito dall’alluvione. Come
la Regione Liguria ha fatto la propria parte reperendo le risorse per i contributi alle imprese
alluvionate, occorre che anche i ministeri coinvolti procedano a derogare scadenze fiscali
e contributive. Per questo chiediamo ai parlamentari liguri di tutti gli schieramenti un
impegno ad agire in tal senso”.
del 17/12/14, pag. 7
Altro che Olimpiadi, a Roma c’è l’incompiuta
da 260 milioni
LA “CITTÀ DELLO SPORT” DI CALATRAVA FUORI CITTÀ È IL TEMPIO
DELLO SPRECO
di Tommaso Rodano
La vela bianca di Calatrava si innalza come un’unghia puntata verso il cielo di Roma. La
Città dello Sport lasciata fallire a Tor Vergata è un monumento solenne alle disfatte di
Stato. Ieri l’Assemblea capitolina ha fatto mancare il numero legale nella seduta che
avrebbe potuto dare il via libera al nuovo stadio dell’As Roma. Il giorno prima Matteo
Renzi aveva lanciato la Capitale per le Olimpiadi del 2024. Mentre si sognano nuovi
impianti e nuovi appalti, la Città dello Sport rimane un villaggio fantasma, un progetto
monumentale lasciato a metà, completamente abbandonato. Uno scheletro di cemento
che è costato quasi 260 milioni di euro: soldi pubblici.
IL CANTIERE è annunciato da insegne scolorite, rinchiuso dietro a una recinzione piena di
buche. Qui non c’è nessuno: non un operaio, non una gru, nemmeno un custode. La
casupola del guardiano è deserta da chissà quanto tempo, la porta d’ingresso è tenuta
chiusa col fil di ferro. Fango, erbacce e un silenzio surreale. Il progetto originale di
Santiago Calatrava era tanto affascinante quanto ambizioso. Una maxi struttura per lo
sport in un’area di cinquanta ettari. Due palazzetti, uno per il nuoto da quattromila posti e
uno polifunzionale da ottomila, per basket, pallavolo e concerti. Ognuno dei due stadi
avrebbe avuto la sua cupola bianca, un guscio formato da un reticolato di cemento e una
copertura di vetro. Le conchiglie, nel disegno, erano tenute insieme da un arco centrale
lungo 130 metri. Poi una piscina olimpionica esterna con gradinate da 3 mila spettatori,
una pista d’atletica, migliaia di parcheggi auto, spogliatoi e uffici.
LA CITTÀ DELLO SPORT era nata per i mondiali di nuoto del 2009. L’incarico all’archi tetto valenziano era stato conferito dal sindaco Walter Veltroni nel 2006. In origine, un
progetto da 60 milioni di euro. All’assegnazione dell’appalto sono già raddoppiati: 120
milioni. Tra 2006 e 2007 l’avanzamento dei lavori è risibile, ma le previsioni di spesa
continuano a moltiplicarsi: il costo dei lavori arriva a 240 milioni di euro. Il cantiere è
affidato alla Vianini Lavori del Gruppo Caltagirone, la gestione dei fondi è della Protezione
civile di Guido Bertolaso: l’opera è nella lista dei Grandi Eventi. A capo del progetto viene
incaricato Angelo Balducci. Lo scandalo della cricca degli appalti sarebbe scoppiato
qualche anno più tardi. Nel cantiere, a pieno regime, dovrebbero lavorare fino a 300 operai
al giorno per centrare l’obiettivo e consegnare l’impianto in tempo per i mondiali di nuoto.
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Già nel 2008 il Coni si arrende e sposta la manifestazione al Foro Italico (che ha
comunque bisogno di altri 45 milioni di euro per “rifarsi il trucco”). L’obiettivo per cui era
nata la Città dello Sport è già fallito, ma si continua a lavorare (e spendere). Roma è
candidata per le Olimpiadi del 2020: l’opera potrebbe tornare utile. L’ambizione è stoppata
sul nascere dal governo Monti. Nel 2011, l’ultimo preventivo: per completare i lavori
secondo il progetto iniziale si arriverebbe a una spesa totale di 660 milioni di euro. Undici
volte la stima iniziale. Si parla di coinvolgere sponsor privati, ma non si fa vivo nessuno.
DI FATTO nel cantiere di Tor Vergata non si muove più nulla da tre anni. La Città dello
Sport non esiste, lo Stato ha rinunciato: il suo nome non compare nemmeno nel
censimento del Ministero delle Infrastrutture, che ha elencato 671 opere incompiute
italiane. Il bilancio parziale è impietoso: in otto anni sono andati in fumo 256 milioni di
euro. Sono serviti a edificare uno spettacolare altare in cemento armato, un mausoleo
degli sprechi, dell’approssimazione, della soggezione del pubblico nei confronti dei privati,
del disastro amministrativo di una città e di un Paese. Secondo l’assessore all’Urbanistica
del Comune di Roma, Giovanni Caudo, per completare l’opera ci vorrebbero altri 400
milioni. “Ma oggi non ci sono le condizioni.” Poi aggiunge: “Vogliamo finire almeno la prima
vela, a cui manca la copertura in vetro. L’idea è trasferirci la facoltà di Scienze naturali
dell’Università di Tor Vergata. Servono una settantina di milioni.” Nel frattempo l’unica
acqua nella vasca di Calatrava è quella piovana. Nella penombra, in un silenzio
inquietante, le fondamenta disegnano un affascinante dedalo di cemento. Il reticolato
bianco della cupola comincia a scrostarsi. Se l’annuncio di Renzi dovesse aver seguito, è
qui che andrebbe issata la bandiera della candidatura olimpica di Roma: in cima alla vela
arrugginita.
del 17/12/14, pag. 6
Torino 2006, 12 impianti abbandonati
di Andrea Giambartolomei
Torino
Non aveva neanche fatto in tempo a parlare che la sua città, Torino, è stata tenuta fuori
dalla rosa iniziale di sedi in cui si potrebbero disputare le gare delle Olimpiadi di Roma
2024. “Ho parlato con il premier Renzi e con il presidente del Coni Malagò – spiegava
lunedì il sindaco Piero Fassino –: se sarà prevista l’allocazione di gare in altre città, Torino,
per la sua esperienza nei Giochi del 2006 e per l’infrastrutturazione di cui dispone, sarà
sicuramente presa in considerazione”. A otto anni di distanza il capoluogo piemontese –
rinnovato e rinato da quell’esperienza – si trova però a dover ancora gestire il complesso
di società e strutture rimaste e qualsiasi occasione è buona per sfruttarle: l’anno scorso ci
sono stati i “World Master Games”, competizioni internazionali per dilettanti attempati, e il
prossimo anno sarà la volta delle iniziative di “Torino Capitale europea dello Sport”.
FATTA ECCEZIONE di alcuni degli impianti costati centinaia di milioni di euro, una parte di
questi resta inutilizzati, come la pista da bob a Cesana: costata più di 61 milioni di euro, è
stata a lungo un problema per via delle 48 tonnellate di ammoniaca necessaria al
raffreddamento e per i suoi costi di gestione, motivo per il quale il Comune di Cesana ha
deciso che non la riaprirà. Che dire poi delle quattro palazzine del villaggio olimpico vicino
al Lingotto? Lasciate per anni in abbandono, oggetto di atti vandalici, ora sono occupate
da profughi profughi provenienti dall’Africa. Non è tutto. I giochi sono stati un’occasione
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per creare enti costosi. Un esempio? L’agenzia “Torino 2006”, la stazione appaltante
ancora oggi in attività.
ALLA FINE dell’estate scorsa la Guardia di finanza ha consegnato alla procura della Corte
dei conti la relazione conclusiva di un’indagine sulla gestione liquidatoria. Alcune delibere
della sezione di controllo, che valuta i bilanci di enti pubblici, sottolineavano come questa
gestione – fatta per liquidare gli ultimi importi e chiudere, ma di fatto continuata in proroga
– costasse ancora molto: dal 2008 e per quattro anni l’agenzia ha avuto spese stabili per
circa 1,6 milioni all’anno, “costi sproporzionati rispetto alla ridotta attività svolta”. Si tratta di
spese per la gestione interna (sedi, telefonia, abbonamenti a giornali, taxi e altro), ma
anche per i compensi del personale e per le tante consulenze esterne. Si prevedeva che
l’attività dell’agenzia “Torino 2006” terminasse quest’anno, ma andrà avanti almeno fino al
2016 per via di alcuni contenziosi legali, a ben dieci anni dalla fine. C’è poi la Fondazione
20 marzo 2006, costituita dagli enti locali e dal Coni per controllare l’eredità dai Giochi
invernali, ma con un bilancio “pesantemente negativo”, stando a quanto detto
dall’assessore all’urbanistica Stefano Lorusso al Consiglio comunale del 10 dicembre. La
gestione dei luoghi – tra cui la pista da bob e le palazzine del villaggio olimpico –è affidata
alla società Parcolimpico, creata dalla fondazione insieme a Live Nation e a Set Up di
Giulio Muttoni, ex dirigente dell’Arci torinese, organizzatore di eventi, ma anche grande
amico del senatore Pd Stefano Esposito e dell’ex assessore comunale allo Sport della
giunta Chiamparino, Elda Tessore. Sulla gestione di quella gara e sullo stato di
abbandono dei dodici impianti la procura di Torino avviò un’indagine grazie all’esposto
dell’ex consigliere leghista Mario Carossa. L’indagine del pm Cesare Parodi fu archiviata,
ma dagli atti emerse il sistema di potere e amicizie che si è spartito la torta del postolimpiadi.
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CULTURA E SCUOLA
del 17/12/14, pag. 27
Spariti gli scatti di merito per gli insegnanti
Pesa ancora l’anzianità
Dietrofront del Pd sulla riforma della «Buona Scuola»
ROMA Scatti di merito, addio. Promessi a settembre, contestati con tanto di raccolta firme
dai sindacati, bocciati sabato scorso dal Pd. Che fa retromarcia sulla Buona Scuola, prima
ancora che diventi un testo di legge da discutere in Parlamento. Quello che è (o era) uno
dei cardini della bozza di riforma del sistema educativo firmata Renzi-Giannini è stato
giudicato inadeguato dal Partito democratico e dunque molto difficilmente potrà restare nel
progetto del governo.
Nella giornata dedicata alla discussione sulla Buona Scuola, il partito del premier ha
proposto un modello alternativo di carriera per gli insegnanti. Nella nuova bozza, che
dovrà passare al vaglio di ministero e maggioranza, non ci sono più gli scatti per due terzi
del corpo docente, decisi dal preside di ogni scuola sulla base dell’impegno e della
bravura dell’ insegnante, al posto degli scatti di anzianità. C’è invece un sistema misto:
resta l’anzianità (non è specificato con che cadenza) e compare una nuova figura
professionale, a metà tra l’insegnante e il dirigente: è il «docente esperto», un livello
superiore rispetto a quello di ingresso nella scuola al quale si accede con una specie di
formazione permanente, che nelle intenzioni del documento Pd dovrà essere obbligatoria,
e una sorta di concorso: non più i presidi ma commissioni provinciali esamineranno i titoli
dei docenti sulla base anche di un esame o di un colloquio.
«Il meccanismo del 66% — spiega Maria Grazia Rocchi del Pd — è stato quello più
contestato dai docenti nella consultazione della Buona Scuola: la nostra ipotesi è quella di
non escludere una retribuzione basata sull’anzianità perché un insegnante diventa un
buon insegnante anche grazie alla pratica». A regime, secondo il piano Pd, dovranno
essere tra il 15 e il 25% gli insegnanti che possono accedere al livello di «docente
esperto».
Nel documento del Pd è molto duro il giudizio sul sistema invece proposto a settembre
dalla Buona Scuola: il punto di partenza, si legge, è che «nessuno (nel testo scritto tutto
maiuscolo per far capire che è proprio un no) condivide il principio enunciato dalla Buona
Scuola secondo cui un insegnante mediamente bravo per ricevere lo scatto di competenza
dovrebbe cercarsi la scuola dove vi sono insegnanti scarsi per poter emergere visto che lo
scatto di competenza sarà assegnato solo al 66% del corpo docente. Lo scatto così
sarebbe semplicemente un diverso sistema di fasce stipendiali non una differenziazione
delle carriere all’interno delle scuole autonome». E ancora: va bene valutare le
competenze didattico-disciplinari, cioè la bravura di un insegnante ma questa «anche se
posseduta al sommo grado non potrà automaticamente tradursi in un passaporto per il
livello superiore».
La questione dello stipendio è centrale, perché il docente esperto dovrà avere un
«aumento retributivo non simbolico e permanente anche in caso di successivo
trasferimento». Che cosa farà il docente esperto? Può aspirare alla carriera di dirigente
ma dovrà «assumere incarichi e responsabilità organizzative dentro la propria scuola».
La proposta del Pd non è del tutto nuova. Ricorda in parte l’idea proposta negli anni scorsi
da Forza Italia con Valentina Aprea e durante l’estate l’opzione era circolata come opzione
alternativa agli scatti di merito ma alla fine non era stata presa in considerazione dal
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governo. «È una svolta positiva — spiega Massimo Di Menna, leader della Uil scuola —.
L’idea degli scatti di merito a due insegnanti su tre in ogni scuola era offensiva, siamo
soddisfatti di essere stati ascoltati».
Claudia Voltattorni
Del 17/12/2014, pag. 1-22
LA STORIA
Salvarono i libri dei Girolamini ora rischiano il
licenziamento
TOMASO MONTANARI
LO STATO dovrebbe avere un motivo tutto speciale per non licenziare e non umiliare
Mariarosaria e Piergianni Berardi e Bruno Caracciolo. Perché questi tre bibliotecari sono
gli eroi borghesi che hanno salvato la Biblioteca dei Girolamini di Napoli, una delle 46
biblioteche statali italiane.
«L’INGRATITUDINE è un’ingiustizia crudelissima, una vera morte della virtù»: queste
parole della più grande virtuosa del Seicento italiano, Isabella Andreini, andrebbero
intagliate in lettere cubitali sulla facciata del Collegio Romano, sede del ministero per i
Beni culturali. Pochi giorni fa, infatti, la direttrice generale per le Biblioteche Rosanna
Rummo ha chiesto ufficialmente alla direzione dei Beni culturali della Campania se sia
davvero «necessaria la prosecuzione della collaborazione dei signori Berardi e
Caracciolo». E, nel caso che proprio non se ne possa fare a meno, se non sia almeno
«possibile una riduzione dell’orario». Un banale episodio dell’attuale macelleria sociale
applicata al patrimonio culturale? Sì, purtroppo.
Ma lo Stato dovrebbe avere un motivo tutto speciale per non licenziare e non umiliare
Mariarosaria e Piergianni Berardi e Bruno Caracciolo. Perché questi tre bibliotecari sono
gli eroi borghesi che hanno letteralmente salvato la Biblioteca dei Girolamini di Napoli, una
delle 46 biblioteche statali italiane, quella in cui andava a studiare Giovan Battista Vico.
Il 25 marzo del 2012 ricevetti un’inquietante lettera di Filippomaria Pontani, filologo
classico dell’Università di Venezia. Mentre stava studiando ai Girolamini, i fratelli Berardi
gli avevano confidato, disperati, che il nuovo direttore Marino Massimo De Caro stava
sistematicamente saccheggiando quel che avrebbe dovuto custodire.
Ciò che io stesso vidi tre giorni dopo superò ogni immaginazione. E anche a me Piergianni
Berardi disse che la sera venivano staccati gli allarmi, mentre automobili cariche di volumi
lasciavano i cortili della biblioteca. Nonostante la solitudine e il terrore, il bibliotecario
sperava di far filtrare qualcosa all’esterno. Ma come? Chi avrebbe potuto credere a due
dipendenti, precari da decenni (assistiti da un avvocato della Cgil in un contenzioso col
ministero da cui dipendevano), che avessero osato insinuare dubbi sul direttore, che era
anche dell’allora ministro Lorenzo Ornaghi (dopo esserlo stato di Giancarlo Galan), e
soprattutto braccio destro di Marcello Dell’Utri? Eppure l’indignazione e la voglia di reagire
avevano vinto la paura e la rassegna- zione: e fu da quella conversazione che cominciò
tutto. La reazione di De Caro alla mia denuncia pubblica fu violenta: specialmente nei
confronti dei Berardi, dei quali intuiva il ruolo. Malgrado tutto, il 5 aprile i biblioconsigliere
tecari scrissero una coraggiosissima lettera alla Direzione generale romana, esprimendo
la loro contrarietà ad aprire il sancta sanctorum della biblioteca, che fino a quel punto
erano riusciti a difendere. E cosa fece la Direzione? Ingiunse ai Berardi di consegnare le
chiavi a quel De Caro che oggi è condannato a sette anni in appello per il saccheggio della
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Biblioteca. E mentre l’esemplare inchiesta condotta dal procuratore Giovanni Melillo, e
oggi continuata dalla sostituta Antonella Serio, scoperchiava il più grande traffico illecito di
beni culturali nella storia della Repubblica, la stessa Direzione generale (sebbene guidata
da un altro direttore) si “dimenticava” di costituirsi parte civile al primo processo.
Ebbene, oggi è ancora quella Direzione a valutare il licenziamento dei bibliotecari: la cui
nomina a Cavalieri, voluta dal presidente Giorgio Napolitano nel gennaio 2013, rischia ora
di suonare come una beffa. Nel giugno scorso, dopo lo sconcerto suscitato dall’ennesima
minaccia di licenziamento, una nota del Mibact assicurava che si stava «lavorando per
garantire la continuità del lavoro» dei Berardi. Ma oggi quell’impegno appare carta
straccia. Se la Biblioteca dei Girolamini esiste ancora, non è per merito dei soprintendenti,
dei rettori, del vescovo o del sindaco di Napoli: che nemmeno si esposero a firmare
l’appello promosso da Francesco Caglioti per la destituzione di De Caro. Il merito è,
invece, di due comunissimi cittadini: due impiegati che credevano nel “loro” Stato,
nonostante tutto. Oggi quello Stato non può tradirli. Non è possibile che nei tanti cassetti
del Mibact, o magari in quelli della legge Bacchelli, non si trovi il modo di riconoscere ai
salvatori dei Girolamini ciò a cui avrebbero diritto anche solo per il loro lavoro
quarantennale. Su questo, il ministro Dario Franceschini si gioca davvero la faccia.
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ECONOMIA E LAVORO
del 17/12/14, pag. 15
Fmi e Ocse a sinistra di Renzi
Stefano Perri
Neo e vetero liberismo. Al 40% più povero della popolazione italiana va
il 19,8% del reddito complessivo, una quota più bassa della media
europea, 21,2%. E l’Italia è anche il paese con un alto indice Gini che
misura la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza
Dopo decenni di esortazioni ossessive sull’austerità espansiva e le cosiddette riforme
strutturali, il tema della lotta alle crescenti disuguaglianze sembra tornato centrale per
affrontare i problemi non solo di giustizia sociale e di benessere in senso lato, ma anche
della crescita economica. Studiosi e accademici (il grande successo del Capitale del XXI
secolo di Thomas Piketty), istituzioni internazionali come il Fondo monetario internazionale
o l’Ocse propongono studi difficilmente confutabili sulla crescita delle diseguaglianze
sfatando alcuni miti del neo (ma anche vetero) liberismo.
Purtroppo questa consapevolezza non ha ancora sfiorato i governi, in particolare quelli
europei. La commissione europea insiste con perseveranza del tutto diabolica sul rigore e
il rispetto di regole prive di fondamento, mentre qualche governo mediterraneo si agita per
mettere l’accento sulla crescita, ma essendosi preclusa per ignavia, per opportunismo o
per acquiescenza verso interessi “forti” qualsiasi via efficace, si riduce ad insistere sulle
riforme strutturali, che per quanto riguarda la politica economica sono un modo elegante di
affermare la volontà di ridurre sempre più il lavoro a strumento, a merce che serve a
produrre altre merci.
Come diceva Keynes, gli uomini al potere «sono spesso gli schiavi di qualche economista
defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche
scribacchino accademico di pochi anni addietro».
Il nostro capo del governo afferma spesso di essere a favore dell’uguaglianza ma contro
l’egualitarismo. Che questa frase sia più adatta all’epoca del telefono a gettone non
sembra turbarlo affatto. Come ricorda Paul Krugman, l’alternativa è tra chi preferisce
l’eguale ma estremamente improbabile possibilità per ciascuno di vivere secondo lo stile di
vita dei ricchi e dei famosi (una eguaglianza da lotteria) e chi ritiene che tutti debbano
avere la possibilità di vivere una vita dignitosa. Renzi da che parte sta?
A differenza del suo ispiratore Tony Blair, non sembra nemmeno che il governo italiano sia
particolarmente sensibile al problema della povertà. Per lo meno Blair si proponeva di
eliminare la povertà infantile. Non che ci sia riuscito, ma qualche risultato lo ha pur
raggiunto, almeno a giudicare dai dati Ocse secondo i quali in Inghilterra il tasso di povertà
relativa della popolazione sotto i diciotto anni era nel 2011 del 9,5%. La media Ocse era
del 13,9% e il dato dell’Italia il 17,3%.
Ma come giustamente sottolinea l’Ocse, che certamente non può essere sospettata di
vetero-egualitarismo, ma che sul tema negli ultimi mesi e ancora pochi giorni fa è
intervenuta più volte con focus, rapporti e studi, il problema non è solo la povertà, ma la
crescente diseguaglianza nella distribuzione del reddito.
Non solo da diversi decenni il 10% della popolazione che ha il reddito più basso resta
sempre più indietro, ma l’effetto negativo affligge il 40% meno ricco della popolazione.
Anche da questo punto di vista l’Italia non brilla tra i paesi europei.
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Infatti, secondo dati Eurostat, al 40% più povero della popolazione va il 19,8% del reddito
complessivo, una quota più bassa della media europea (21,2%). L’Italia poi, come è noto,
tra i paesi europei ha un alto indice di Gini, che misura la diseguaglianza nella
distribuzione del reddito, più basso solo di Grecia, Estonia, Portogallo, Spagna e Regno
Unito. Inoltre, per citare un altro dato tra i tanti che mostrano la nostra arretratezza, il
rapporto tra la quota di reddito ottenuta dal 10% più ricco della popolazione e quella del
10% più povero è in Italia molto alto (11,18), inferiore, in Europa, solo a Spagna, Grecia,
Bulgaria, Romania e Lituania.
Se a questi dati aggiungiamo che secondo un rapporto del Social Institute Monitor Europe,
che si propone di calcolare un indice relativo alla giustizia sociale nei diversi paesi europei,
l’Italia si colloca al 23° posto, insieme alla Lituania, nella classifica dei 28 paesi dell’Unione
europea, si capisce che ci sarebbe molto lavoro per un governo nel quale la forza
principale è un partito che si dichiara di centro-sinistra, ma non sembrano queste le
priorità.
La novità delle ultime analisi è che esse provano, attraverso stime econometriche, che la
maggiore diseguaglianza causa un rallentamento della crescita economica, soprattutto
restringendo le opportunità di ottenere alti livelli di istruzione, per una parte significativa
della popolazione, scoraggiando la formazione del cosiddetto capitale umano (ma il
termine non mi piace, rimandando ad una umanizzazione del capitale e ad una
reificazione delle qualità umane) e ostacolando la mobilità sociale.
Per l’Italia si stima che la mancata crescita del Pil reale per abitante causata dalla crescita
delle diseguaglianze sia del 6,6% dal 1990 al 2010. Considerando che la crescita effettiva
in questo periodo è stata dell’8%, non è certo poca cosa. Altro che articolo 18!
L’Ocse propone di affrontare il problema della diseguaglianza con misure che fino a poco
tempo fa sarebbero state considerate poco meno che bestemmie dalla saggezza
convenzionale.
In primo luogo propone di accrescere la redistribuzione del reddito e riformare in questo
senso la struttura della tassazione, aumentando la aliquota marginale delle imposte sui
redditi più alti, cioè esattamente il contrario di quanto è stato fatto negli ultimi decenni. In
Italia, ad esempio, la aliquota marginale era del 72% ancora nel 1982.
Come nota il rapporto dell’Ocse la diminuzione delle aliquote fiscali sui redditi alti non solo
deprime l’effetto redistributivo sui redditi disponibili, ma tende a far aumentare la quota di
reddito ottenuta dai più ricchi, per i quali diviene più facile, in un circolo virtuoso per loro
ma vizioso per tutti gli altri, accumulare capitale e accrescere ulteriormente i propri redditi.
Infatti in Italia la quota di reddito di mercato (cioè stimata prima della tassazione) ottenuta
dall’1% più ricco della popolazione è passata dal 6,4% del 1982 al 9,38% del 2009.
Ma il rapporto dell’Ocse suggerisce anche di eliminare o ridurre le deduzioni fiscali che
tendono a beneficiare i più ricchi e riorganizzare il sistema di tassazione su tutte le forme
di proprietà e di ricchezza. In particolare si sottolinea l’importanza di ripensare il ruolo della
tassazione sui redditi da capitale. Quest’ultimo punto appare molto significativo per Italia in
cui la quota di reddito proveniente dal capitale del 10% più ricco della popolazione è
significativamente più alta in confronto agli altri paesi di cui l’Ocse fornisce i dati.
L’altra raccomandazione dell’Ocse, dopo anni di austerity e di attacchi al welfare state, è di
incrementare i trasferimenti pubblici a favore non solo dei poveri, ma del 40%, e
promuovere e favorire l’accesso ai pubblici servizi di alta qualità, in particolare l’istruzione
e la sanità.
Non è il caso di attendere per vedere se queste idee saranno veramente assimilate nel
prossimo futuro e ancor meno aspettare che Renzi si accorga che la modernità ha
cambiato segno. Anche lui, al di là della retorica, è immancabilmente schiavo di qualche
economista defunto. Ma le sparse forze della sinistra politica, nel momento in cui la
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sinistra sociale e sindacale mostra finalmente vitalità, farebbero bene da subito a
organizzarsi attorno ad un programma che abbia al suo centro l’eguaglianza.
del 17/12/14, pag. 3
La ripresa? Ovunque tranne nell’eurozona
Anna Maria Merlo
Rapporto sulla crescita. Uno studio lancia l’allarme: «Europa divisa e
senza fiato, a rischio il progetto di Unione»
Il capitolo dedicato all’Italia nell’ultimo Rapporto annuale indipendente sulla crescita (Iags),
redatto dall’Ofce francese, dall’Eclm danese e dal tedesco Imk (per la terza edizione
realizzato con la collaborazione dell’Ak austriaca, di Cambridge Econometrics e di
Sciences Po Parigi), è intitolato «Un pantano senza fine». Il testo di una canzone di Bob
Dylan del ’68 apre l’introduzione: «the hour is getting late«, si sta facendo tardi. Per gli
economisti che propongono un Survey alternativo a quello della Commissione, «sei anni
dopo che l’economia mondiale è entrata nella più grave recessione dalla seconda guerra
mondiale», la ripresa è arrivata più o meno dappertutto, esclusa la Ue e la zona euro in
particolare. «Un’Europa divisa e senza fiato» sta mettendo «in pericolo» il progetto
europeo stesso: «il fallimento di un’uscita rapida dalla crisi fomenta potenti forze
divergenti, il rischio di una stagnazione durevole è reale». I partiti anti-europei prosperano,
il 2015 potrebbe essere l’anno di grossi strappi dagli esiti più che incerti. La strada scelta
del «controllo dei pari grado» per l’assenza di democrazia suscita il rifiuto nei paesi colpiti
(di qui l’insofferenza crescente verso la Germania nei paesi sottoposti ai controlli). «La
disciplina funziona attraverso la paura e non attraverso la responsabilità – scrive il
rapporto Iags – questa situazione alimenta la diffidenza verso l’Europa».
Le diseguaglianze – tra nord e sud, ma anche all’interno di ogni paese – sono aumentate.
Ancora fino al 2008 esisteva in Europa un processo di convergenza, il vero senso della
costruzione comunitaria: la crisi l’ha ridotto in frantumi. La Ue si sfascia dall’interno, le
divergenze aumentano, tra la quasi piena occupazione di Germania e Austria e i tassi di
disoccupazione superiori al 25% in Spagna e Grecia. «La zona euro è alle porte della
deflazione e un circolo vizioso di deflazione attraverso il debito potrebbe precipitarci in un
periodo di stagnazione durevole», spiega il coordinatore Xavier Timbeau, mentre «le
riforme del mercato del lavoro amplificano la corsa a una diminuzione dei diritti sociali»,
aumentando la disaffezione verso l’Europa.
La risposta della Commissione è il piano Juncker. Ma per gli economisti dell’Iags sarà
difficile che funzioni: troppo tardi e tropo poco, basato per di più sull’ipotesi di un
moltiplicatore di uno a 15 (ogni euro investito creerà 15 euro in circolazione), speranza
illusoria tanto più che non fa che riciclare fondi già esistenti. Ma il piano Juncker ha una
qualità nascosta: «apre una breccia» per aggirare le regole «stupide» della governance
dei bilanci, che sarebbe però imprudente pensare di eliminare in questo momento,
travolgendo contemporaneamente l’esile filo che ha evitato finora l’esplosione definitiva
degli egoismi nazionali. Nel piano Juncker è compresa la possibilità di «neutralizzare» i
contributi dei singoli stati, cioè di non calcolarli nei deficit, alleggerendo cosi’ l’orientamento
restrittivo delle politiche di bilancio imposte dal Fiscal Compact (rafforzato dal Six e dal
Two Pack), che minacciano di «chiudere la trappola nella quale è entrata per sua propria
volontà la zona euro», afferma Timbeau. «La Bce è cosciente di questa situazione», ma la
dottrina Draghi del «whatever it takes» (a qualunque costo) potrebbe non bastare: per
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l’Iags, c’è da «temere che l’azione della politica monetaria non sia sufficiente per
premunirci contro la stagnazione».
del 17/12/14, pag. 5
“No ai tagli, noi occupiamo le province”
Antonio Sciotto
La protesta. Cgil, Cisl e Uil: il governo ha dimezzato le risorse, a rischio
20 mila dipendenti. La mobilitazione scatta venerdì
L’incontro con il governo sul riordino degli enti locali ieri è andato male, e quindi parte
l’occupazione delle province. L’ora X è dopodomani, venerdì 19, quando i lavoratori
attueranno una protesta senza precedenti sul piano nazionale. Ma d’altronde che la
tensione fosse salita nelle ultime settimane, lo diceva l’annuncio dal palco dello sciopero
generale: Susanna Camusso, a Torino, aveva prefigurato questo passo, mettendolo
accanto agli altri strumenti di rivolta predisposti dal sindacato, dalle manifestazioni di
piazza alla lotta nelle fabbriche. E stavolta, tra l’altro, insieme a Cgil e Uil, nella
mobilitazione è coinvolta pure la Cisl.
I sindacati parlano di «arroganza», di atteggiamento «insopportabile», tenuto dai
rappresentanti del governo, i sottosegretari Claudio Bressa e Angelo Rughetti, che
insieme al relatore della legge di stabilità, il senatore Giorgio Santini, hanno incontrato ieri
a margine di un sit in dei lavoratori. «Continuano a negare che ci siano esuberi, stanno
negando l’evidenza», spiegano.
Il conto è presto fatto. I dipendenti delle province sono in tutto 54 mila, ma secondo Cgil,
Cisl e Uil sono ben 20 mila, quasi la metà, a rischiare di perdere il posto. Questo in forza di
un emendamento alla legge di stabilità, che prevede il taglio delle spese per il personale
del 50% nelle province e del 30% nelle città metropolitane. Tra l’altro, sempre nella legge
di stabilità, è prevista la riduzione di 1 miliardo di euro di trasferimenti alle province nel
2015, cifra che corrisponde più o meno ai tagli lineari previsti con l’emendamento.
Non è che i sindacati, va detto, si siano mai opposti a un riordino degli enti locali, che pure
prevedesse una riduzione per le province: ma nell’ultimo anno, anche con il governo Renzi
— che in genere con loro non tratta — si erano preoccupati di salvare non solo le funzioni
fondamentali che questi enti hanno (ma questa è e dovrebbe essere principalmente
preoccupazione del governo), ma soprattutto il destino dei lavoratori. E così in aprile si era
arrivati alla legge 56, disegnata da Graziano Delrio.
«In quella legge — spiega il segretario nazionale della Fp Cgil, Federico Bozzanca — si
disponeva che il principio fosse che a trasferimento di funzione, corrispondesse un pari
trasferimento di risorse e quindi anche di personale. In questo modo non si sarebbero
prodotti esuberi, e gli attuali dipendenti sarebbero finiti tutti nelle regioni, o nei nuovi centri
per l’impiego ridisegnati oggi dal Jobs Act. Ma con l’emendamento che riduce
drasticamente le spese per il personale, al contrario, si sono messi in campo dei veri e
propri tagli lineari, che rischiano di gettare sulla strada molte persone».
Una parte dei 20 mila esuberi probabilmente verrà riassorbita, appunto nel trasferimento
delle funzioni ad altri organi, o grazie alla mobilità entro i 50 chilometri, ma diverse migliaia
di lavoratori rischiano di restare senza posto: sarebbero praticamente i primi dipendenti
pubblici licenziati nella storia d’Italia (se ci riferiamo a grossi licenziamenti collettivi).
Funzionerebbe così: per due anni sei messo in «disponibilità», ovvero resti a casa con lo
stipendio all’80%. Dopo i due anni, il baratro, la disoccupazione, tenendo conto anche del
fatto che per queste figure non esistono ammortizzatori sociali.
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Il governo ieri ha continuato a negare che ci siano esuberi, insistendo sul fatto che le
funzioni fondamentali delle province — anche solo per il banale motivo di dover garantire
servizi essenziali per i cittadini — verranno comunque conservate nel passaggio alle
regioni o ad altri enti. «Peccato però — incalza Bozzanca — che non si tenga conto di
altre funzioni, diverse da quelle fondamentali, che le province svolgevano per delega, ad
esempio delle regioni. Se nel riordino queste funzioni spariscono, che fine faranno i
dipendenti?».
Domanda angosciante, soprattutto per chi rischia di perdere il posto, e infatti dopodomani
migliaia di lavoratori più che allarmati scenderanno in piazza. Anzi, resteranno nei propri
uffici: «Venerdì 19 occuperemo tutte le sedi provinciali per scongiurare i tagli annunciati e
gli esuberi, con sit-in davanti alle Regioni affinché difendano i servizi ai cittadini — dicono
in una nota i segretari di Fp Cgil, Fp Cisl e Fpl Uil Rossana Dettori, Giovanni Faverin e
Giovanni Torluccio — Non si voltino dall’altra parte e non utilizzino i lavoratori delle
province come merce di scambio. Adesso il Parlamento si riappropri del ruolo che la
Costituzione gli riconosce e rimetta mano a questo pasticcio».
del 17/12/14, pag. 5
Jobs Act, Poletti convoca le parti sociali.
“E il 24 i decreti″
Venerdì 19 in Sala Verde. Sindacati cauti. Camusso (Cgil): "Dipende da
cosa ci dicono". Barbagallo (Uil): "Basta che non sia come gli altri
incontri". Furlan: "E' un segno di rispetto per le nostre ragioni"
Il governo vuole accelerare sul Jobs Act, ed è stato lo stesso premier Matteo Renzi ad
annunciare i decreti attuativi entro Natale: «Li facciamo il 24», ha risposto ai giornalisti che
gli chiedevano le prossime tappe e scadenze della delega lavoro. E intanto è arrivata la
convocazione da parte del ministro Giuliano Poletti per sindacati e imprese: la mattina di
questo venerdì, il 19, sono attesi presso la Sala Verde di Palazzo Chigi.
I sindacati commentano la notizia con cauta soddisfazione. «La convocazione del governo
per un incontro a Palazzo Chigi sull’attuazione del Jobs Act rappresenta una novità —
afferma la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso — Perché è il primo segnale
che l’esecutivo dà di una disponibilità a discutere, poi ovviamente siamo curiosi di capire
cosa ci dirà e che significato avrà l’incontro».
«Io spero e mi auguro che non sia come le altre volte», aggiunge Carmelo Barbagallo,
leader della Uil. Il segretario si riferisce all’ultimo incontro con il governo, prima
dell’approvazione del provvedimento, quando i sindacati si videro accogliere da quattro
ministri (Delrio, Padoan, Madia e Poletti) senza delega dal governo a trattare. Infatti in
occasione dello sciopero generale, venerdì scorso, Barbagallo aveva detto che questa
volta avrebbe gradito «trattare direttamente con il presidente del consiglio», o comunque
con chi fosse titolato a negoziare realmente qualcosa per conto del governo.
Più morbida la Cisl, con Annamaria Furlan, che in queste settimane aveva deciso un
approccio più soft e dialogante, scegliendo di non scioperare: «La convocazione di venerdì
prossimo del ministro Poletti è il rispetto di un impegno che il governo aveva preso con il
sindacato rassicurando le parti sociali sul fatto che prima dei Decreti attuativi ci sarebbe
stato un confronto di merito», sostiene in una nota il segretario confederale della Cisl Gigi
Petteni, responsabile del mercato del lavoro.
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«Andiamo all’incontro — sottolinea subito dopo Petteni — con lo stesso spirito propositivo
che abbiamo sempre avuto in tutte queste settimane, a partire proprio dal confronto del
segretario generale, Annamaria Furlan, a palazzo Chigi, con il presidente del Consiglio
Matteo Renzi. Il nostro auspicio — conclude — è che si arrivi a una riforma del lavoro fatta
di scelte importanti e condivise».
A questo punto bisognerà capire se davvero questo incontro avrà la possibilità di incidere
realmente.
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