Borromini 1 - Ticino Management

di Paolo Portoghesi*
Sant’Ivo alla Sapienza
Opera di Francesco Borromini
Il 25 settembre 1632 Francesco Borromini viene nominato con breve papale, su proposta di
Gian Lorenzo Bernini, architetto della Sapienza: “il sig. Cav. Bernini ha fatto sapere da
parte del sig. Card. Barberini padrone, d’aver
fatto deputare per Architetto della Sapienza,
l’Ill.mo sig. Francesco Borromino nipote del
Sig. Carlo Maderni, e che ha gusto che non
sia una piazza morta 1”.
Fioravante Martinelli così scrive dell’incarico conferito all’amico Borromini: “si che fu
scelto il Cav. Borromino, al quale per la vivezza dell’ingegno per la prattica delle regole
vitruviane, et per l’assuefattione ad imitare le
opere de’ migliori professori d’architettura antichi greci, e romani, non dava travaglio il miscuglio de’ cantoni, e delle linee dritte e torte
né la mancanza di lume vivo, conoscendo,
che il trofeo del valore dell’architetto nasceva
dalle difficoltà, dalle quali veniva travagliato,
et esercitato l’ingegno. Hor quivi, portando rispetto all’honore de’ suoi predecessori nel operare et mantenere e secondare il teatro disegnato veramente da Bramante, e messo in opera da Giacomo Della Porta (sebben alcun crede con la verità, che il disegno sia del Buonarota) si risolse a piantare una cappella che potesse servire per modello di gratioso e ben stabil tempio e che secondasse con proportionata vaghezza gli angoli, che produceva il sito
angusto fuor di ogni regola dai muri laterali 2”.
Nel momento in cui Borromini assume l’incarico, l’impianto del cortile era già completato
e così anche la facciata principale; il programma edilizio è quindi già definito e comprende
*Università La Sapienza
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una cappella circolare, il completamento della facciata su piazza Sant’Eustachio e su via
dei Canestrari, la realizzazione dei quattro corridoi coperti ai lati della chiesa che innestandosi sui porticati esistenti creavano il collegamento con piazza Sant’Eustachio e infine la costruzione della Biblioteca Alessandrina.
Il primo lavoro a cui Borromini pone mano
è la realizzazione della chiesa, per la quale si
trova a dover fare i conti con dei forti vincoli
dovuti alle costruzioni preesistenti i corridoi
laterali sono già impostati, così come è già realizzata l’esedra dellaportiana. Lo spazio a sua
disposizione per la chiesa è quasi quadrato e
prevedeva, in un precedente progetto elaborato da Giacomo Della Porta, una chiesa circolare con cappelle molto piccole. La scelta di
Borromini sarà molto diversa infatti, pur realizzando una costruzione a impianto centrale,
predispone una pianta esagonale frutto dell’intersezione di due triangoli equilateri. Delle sei
cappelle laterali, tre sono semicircolari e le altre tre, giacenti sui vertici del triangolo, ne recuperano la forma. L’effetto che ne deriva è di
uno spazio estremamente articolato che assume la forma stellare. Nonostante i documenti attestino l’inizio dell’opera nel 1643, è probabile che i primi progetti della cappella siano stati realizzati negli anni immediatamente
successivi al nuovo incarico, contemporaneamente quindi alla costruzione di San Carlino.
Questo impianto, come ci racconta Fioravante Martinelli e come possiamo vedere in due
disegni preparati per il progetto della nuova
chiesa, voleva essere un’evidente allusione al-
l’ape “barberina” presente nell’emblema araldico dell’allora pontefice Urbano VIII.
Fino al 1643 tutti i documenti sono sottoscritti dall’architetto Gaspare de Vecchi che
ancora si firma “Architetto della Sapienza”.
Solo dal 24 gennaio 1643, come attesta uno
dei libri di cantiere sottoscritto da Francesco
Borromini e Francesco Righi il 22 luglio 1655,
si dà inizio al “primo pezzo di fondamento fatto per la nuova chiesa e tempio della Sapienza e Studio Romano 3”.
I capimastro incaricati dell’opera sono GioFrancesco Borromini,
Sant’Ivo alla Sapienza a Roma, facciata.
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Vienna, Albertina, disegno Azr 499.
vanni Brogi e Antonio Fontana. Da questo momento in poi i lavori di costruzione proseguiranno per oltre vent’anni ben oltre la consacrazione avvenuta nel 1660; sarà questa una
realizzazione molto “travagliata” dovuta sia
alle continue sollecitazioni della committenza
sia ai ripensamenti del Borromini.
Come risulta da alcuni documenti i lavori
vengono portati avanti senza alcuna interruzione dal 1643 al 1655; durante questo periodo la chiesa, pur essendo completamente
edificata, sarà lasciata al rustico, eccezion fatta per il lanternino che viene rifinito con stucco di marmo sia negli aggetti che nel fondo.
Non tutte le parti della chiesa saranno realizzate nello stesso momento, perché nella prima fase dei lavori si era preferito mantenere
in piedi alcune case vecchie “che appoggiavano alla chiesa con pontelli che non si potevano levare per maggior sicurezza della fabbrica della chiesa che restava qualche parte per
non perdere la piggione delle botteghe dei mer-
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canti 4».
La struttura originaria della chiesa doveva
presentarsi estremamente più leggera e forata
di quanto tutt’ora appare, per la presenza di
elementi che vennero modificati tra il 1659 e
il 1660 quando si pone nuovamente mano ai
lavori 5. Per dar luce alla chiesa ora costruita
occorre apportare alcune modifiche nell’esedra edificata da Giacomo Della Porta aprendo due finestre in altrettante nicchie, delle quali una serve per dar luce agli archi e l’altra,
con un parapetto orbicolato realizzato in cortina di mattoni arrotati e tagliati che la riquadrano, per illuminare il passaggio interno sopra la porta principale 6; contestualmente viene costruita la sopraelevazione dell’esedra con
la costruzione dell’attico o “muro di finimento del teatro” che riproporziona l’intero complesso enfatizzando così l’ingresso alla chiesa.
È importante notare che nei documenti di
questo periodo si scoprono molti riferimenti
a modelli lignei che Borromini fece fare per verificare alcune parti della costruzione come colonne, capitelli, balaustre ed una scatola con
sportello atta a contenere un modello che è
probabilmente quello inviato ad Alessandro
VI nel 1658: “…. e a tal fine Monsignore fece
trasportar dal salone della Sapienza nella Galleria di Monte Cavallo un gran modello di legno lavorato egregiamente molti anni orsono
nel quale si esprimea la metà della fabbrica del
medesimo studio, perché N.S. havendolo quasi continuamente avanti agli occhi, l’avesse anco di continuo nel pensiero e perché anco vedesse la maestà dell’edifitio 7”; venne realizzato anche un modello della croce che sarà sistemata sopra la cupola, per primo quale in un
documento di pagamento al falegname Agostino Petrucci del 14 giugno 1660 si precisa:
“... per la fattura del modello della croce, cioè
la metà fatta della centina delli ferri, con il legno e fattura del modello di un giglio e quattro piane che varino nell’istessa croce 8”.
Come abbiamo precedentemente accennato, la struttura interna della chiesa viene mantenuta a rustico ad eccezione dei sei costoloni
della volta interna, dei capitelli compositi delle colonne, che vengono rifiniti con foglie di
giglio, e del lanternino al centro del quale viene scolpita la palomba dello Spirito Santo descritta in un documento coevo in cui si notano i continui e interessanti riferimenti che Borromini fa alla Sapienza e alla simbologia religiosa ad essa legata. In esso si legge che la colomba “è relevata che pare che venga dal cielo in terra mantenuta con ferri, fatta con stucco di marmo con suoi raggi che fanno splendore attorno con lingue di fuoco in guisa dell’avvento dello Spirito Santo che porti la vera
sapienza 9”.
Dobbiamo ricordare che nel 1648 si era cominciata a voltare la cupola e nel 1649 era
iniziata la copertura con lastre di piombo; nel
1652, terminati questi lavori, si mette mano al
cupolino o “tempietto”, come viene definita
la lanterna nei documenti del tempo. Nel 1655,
quando ci si appresta a scoprire la cupola, si
Veduta della cupola di Sant’Ivo dal basso (foto P. Portoghesi).
leva un coro di proteste per l’arditezza dell’opera; Borromini viene accusato di aver realizzato un edificio instabile, tanto che il rettore
della Sapienza preoccupato da “quatenus vociferatur per urbem” gli chiede di impegnarsi
per quindici anni in caso di eventuali danni.
Le dicerie puntavano sulle lesioni di assestamento probabilmente verificatesi nella volta
a causa della sospensione dei lavori che avevano privato la chiesa del contrafforte naturale costituito dall’altro corpo non realizzato,
determinando così uno squilibrio statico dell’intero complesso. Borromini risponde: “io infrascritto inherendo all’obbligo, che per ragione comune hanno gli architetti di mantenere
per lo spazio di anni quindici le fabbriche da
loro fatte, dal quale non intendo di sottrarmi
per le cose seguenti, ma piuttosto di accrescere ragioni a ragioni, obbligo me, eredi e beni
in forma camerale apostolica per tutti i danni
che potessero succedere nella fabbrica della
cappella e cupola della Sapienza, o per occasione di essa in detto spazio di quindici anni,
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desiderando però, che per parte di essa Sapienza si tiri avanti e termini fino al primo piano
la loggia di mano manca, che fiancheggia la
detta cappella dalla parte della Dogana, fino
allo sboccare nella piazza della Dogana 10”.
Anche in seguito a questi eventi Alessandro
VII, succeduto ad Innocenzo X nel 1655, aderendo alle richieste di monsignor Vizzani, rettore della Sapienza, dà l’ordine di continuare
i lavori completando quell’ala che doveva contrastare la spinta della cupola. Il 31 marzo 1659
si demoliscono gli edifici dalla parte della Dogana per permettere la costruzione della biblioteca e il 7 aprile sono concessi 10’000
scudi al rettore al fine di sostenere le spese necessarie al proseguimento della fabbrica. Inizia così la seconda fase dei lavori di Borromini nella Sapienza, che interessano la costruzione della Biblioteca Alessandrina, il completamento delle facciate su piazza Sant’Eustachio
e via dei Canestrari e il compimento della chiesa. Nell’interno di questa vengono richiuse le
nicchie del secondo ordine, sopra le dodici tuttora esistenti, per maggior “sodezza” della fabbrica; sono realizzate le stanze esagone a sinistra della chiesa là dove erano state lasciate le
botteghe e l’osteria i cui affitti contribuivano
al pagamento delle maestranze del cantiere;
vengono aperti anche i due coretti laterali utilizzando i vani lasciati per le scale a chiocciola, murati i due finestroni al piano nobile nei
due lati concavi della chiesa, che corrispondono alle due grandi porte del piano terra che
consentivano l’accesso in chiesa direttamente
dai corridoi laterali, ognuna delle quali viene
sostituita da due più piccole racchiuse in un
nicchione con un frontespizio ornato da un
cherubino 11.
Notevoli sono anche gli interventi eseguiti
nella zona della tribuna, dove sono rimurate
le due porte delle stanze esagone ai lati dell’altare mantenendone gli stipiti di travertino,
viene sostituito l’arco “a semicircolo orbicolato”, ossia tridimensionale, con un architrave piano, uniformandolo a quello già esistente in chiesa e grazie al quale può essere innalzata l’originaria copertura della tribuna con la
costruzione di un nuovo arcone di mattoni che
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consente di “alzarsi e pigliar maggior luce e
sfuogo 12” grazie a due finestrine laterali che si
aggiungono al finestrone centrale.
La chiesa assume così il suo aspetto definitivo alterato solo da alcuni interventi di restauro eseguiti nel 1859 che purtroppo hanno modificato lo spazio scenico dell’altare maggiore.
Il primo settembre 1659, una nota di papa
Alessandro VII ricorda che “si principiarono
gli stucchi della chiesa, nella cappella vi lavorava il Sasso 13”. La decorazione interna, quasi tutta ispirata a motivi araldici chigiani, sembra un omaggio ad Alessandro VII che, se da
una parte tanto impulso aveva dato al proseguimento dei lavori all’interno del complesso,
dall’altra aveva criticato l’operato dell’architetto, come leggiamo nel diario di Carlo Cartari del 16 marzo 1660, in occasione di una
sua visita al pontefice per rendergli conto dei
lavori della Sapienza: “disse che lo stile del Cavalier Borromini era gotico, né esser meraviglia esser nato a Milano, dove era il Duomo
di architettura gotica 14”. Nonostante ciò i lavori proseguono, come ricorda Alessandro VII
nelle sue memorie: “alla fine di aprile 1660 era
compiti gli stucchi della chiesa dalla parte fin
sopra il cornicione (…) si cominciò a finire li
pilastri scannelati ponendoli a stucchi 15”.
La decorazione eseguita è frutto di una serie di rifacimenti dovuti non solo a ripensamenti di Borromini ma anche ai giudizi della
committenza. Negli spicchi della cupola vengono prima realizzati dei monti chigiani, poi
eliminati per provare altri motivi ornamentali. A questo proposito è interessante ricordare quanto è scritto in un documento di cantiere sul modo in apparenza empirico di procedere nelle decorazioni “per haver fatto e disfatto li monti in chiesa alli petti che s’ereno
fatti, per haver fatto una quercia in detto nel
maggiore e poi disfatta (...) per haver fatto una
corona di palme e poi guastata (...) per haver
fatto un arbore di palme bianche in detti petti con il piedistallo e poi guastato (...) per haver fatto le corone nelle costole di palma bianca (...) per haver fatto n. tre volte la base della cuppola con foglie e svolazzi e tornati a ri-
fare 16”. Tutto ciò dimostra quali e
quanti condizionamenti il Borromini
dovette subire nel corso dell’intervento alla Sapienza per poter concludere
il suo lavoro; nonostante tutto il 17
settembre si completano gli stucchi della chiesa e mancano soltanto il quadro di Pietro da Cortona e il pavimento, che risulta cominciato nel 1662
in “vasore de marmo bianco e bardiglio di Carrara con guide del medesimo bardiglio 17”. La bicromia e geometria del disegno, secondo un motivo caro al Borromini e già utilizzato
in San Giovanni e negli ingressi laterali di San’Agnese, dà all’impianto planimetrico l’idea di un rilievo che si
inverte continuamente.
Il prospetto su Sant’Eustachio è realizzato tra il 1659 e il 1664 in stretta
connessione con i lavori nella biblioteca e negli stanzini sottostanti. Borromini dispone due
porte sugli assi dei corridoi laterali e sopra di
esse due grandi finestre con frontoni leggermente concavi.
La progettazione dei due bracci curvi che
collegano il tamburo ai due corpi di fabbrica
laterali è anch’essa frutto di ripensamenti, infatti in un primo progetto il cornicione della
facciata verso piazza Sant’Eustachio era stato
pensato rettilineo, “di una linea sola, ma innanzi che s’alzasse il prospetto si conobbe che
haverebbe levato la vista alli finestroni della
chiesa, però fu resoluto di lasciare la fabrica
bassa come stava prima e alzar solo quella parte che copre la libraria 18”.
Si decide così di passare dal prospetto rettilineo a quello della “mezzaluna” anche per accondiscendere la volontà del papa che voleva
dare maggior luce alla chiesa 19.
Dal disegno n. 1035 del Kunstgewerbe Museum di Berlino apprendiamo che si era pensato di decorare con delle statue il coronamento della facciata verso Sant’Eustachio, come
si legge nella didascalia autografa: “non si facciano statue sopra li balaustri alla Sapienza
verso S. Eustachio del resto si remedi come meglio potrà”. Nella parte posteriore la cupola
Veduta dell’interno della chiesa dal lanternino. (foto P. Portoghesi, scattata negli anni ‘60, prima che in uno dei restauri successivi venissero eliminate le dorature degli stucchi).
si incastra nella facciata ricorrendo a quel profilo che il Maderno aveva proposto per il Palazzo Barberini e i due muri curvi raccordano
le pareti del tamburo ai due corpi laterali. Gli
stucchi dei finestroni su piazza Sant’Eustachio
si devono a Giovanbattista Fonti e a suo figlio Sebastiano, che succedettero a Giovanni
Brogi e Antonio Fontana come capimastro della fabbrica, e che eseguono il frontespizio orbicolato, nella cornice sopra le mensole, dei
“membretti che fanno orecchie”, l’abbozzatura e stuccatura delle quattro palme incrociate
e della corona di mezzo e delle due imprese sopra l’architrave della porta di sinistra, “uno
dove è la giustizia con libro e bilancia e la
spada e dall’altra lo specchio con due palme
attorno e un serpente rivoltato attorno al piede di detto specchio 20”. È di questo stesso periodo la demolizione degli archi rampanti che
costituivano l’elemento di raccordo tra il tamburo e i corpi laterali e la cui costruzione, ini-
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ziata tra il 1643 e il 1655 sul lato delle abitazioni, era poi proseguita tra il 1659 e il 1660
anche sul lato della biblioteca. L’esistenza di
questi contrafforti era subordinata alla loro
non visibilità e per questo, una volta modificato il prospetto su piazza Sant’Eustachio, si
procedette alla loro demolizione.
Tra il 1659 e il 1660 vengono modificati alcuni partiti decorativi del tamburo per “ridurre gli ornamenti (…) in un Ordine Reale
d’Architettura Composta, per ingentilirlo e farlo più nobile, che pareva restasse troppo sodo
rispetto alli doi ordini molto ornati e svelti
del Teatro 21”. Come leggiamo in un documento contabile del tempo le decorazioni vengono sostituite e rifatte; nei sei medaglioni dei
finestroni del tamburo erano stati predisposti
gli aggetti per farvi una testa di virtù o di angelo, ma poi si decise di sostituirli con corone
di palme e corone di quercia 22, e per rifare il
medaglione dello Spirito Santo viene chiamato uno “scultore” preferendolo agli stuccatori abitualmente occupati nell’edificio e nello
stesso tempo vengono ingrossati i pilastri del
tamburo. Anche il “teatro” subisce ulteriori modifiche con la
realizzazione delle due torri con
i monti e le stelle chigiane e il
collocamento di alcuni stemmi
tra cui quello di Alessandro VII;
sono anche aperte nelle preesistenti nicchie in travertino le
finestre mancanti e nel 1664 “si
diede principio di aggiustare
con nuova prospettiva le octo
nicchie che sono nella facciata
della Sapienza e il Cavaliere ci
fece vedere il disegno in carta 23”. Si raggiunge così, con l’inserimento dei partiti architettonici, l’assetto definitivo della facciata. Il progetto borrominiano della Sapienza prevede anche alcune modifiche ai
Vienna, Albertina, disegno
Azr 514.
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prospetti laterali nella volontà di ripristinare
l’unitarietà dell’intero complesso. Nel 1660
le “finestre mezzanine”, corrispondenti ai pianerottoli dei due scaloni, vengono ampliate
con un artificio architettonico: si realizza un’incorniciatura uguale a quella delle finestre del
piano nobile attorno ad un’apertura sfalsata
rispetto ad esse di una rampa di scale; nel prospetto principale si aprono due occhialoni tondi con le insegne chigiane che avranno, però,
vita molto breve.
I corridoi laterali, la cui costruzione era cominciata nel 1653, costituiscono uno degli elementi essenziali per la definizione tipologica e
distributiva dell’intero complesso perché, innestandosi ai portici precedentemente costruiti, collegano l’edificio esistente con la piazza
Sant’Eustachio e collegano in maniera egregia tutte le aule del piano nobile tra loro e con
la biblioteca, creando così una felice connessione tra questa e la chiesa. Nel corridoio del
secondo piano dell’ala destra del palazzo si trova la porta gemina, che Borromini carica di allusioni simboliche; la descrizione che ne fa il
Cartari appare illuminante in merito alle conoscenze matematiche dell’architetto: “al principio di dicembre si scoprì lo stucco sopra la
porta del già Palamolla dove il Cavaliere aveva fatto rappresentare di stucco lo scudo di
Pallade con la testa di Medusa, libri etc. alludendo alla Sapienza et anco due segni uno di
geometria con un pentagono e cinque lettere,
l’altro di aritmetica. Disse questo cavare da
certe medaglie simili trovate in San Giovanni
in Laterano al tempo di Sisto V dove si vedono molti abbachi e leggendoli da sei parti sommano il numero di 34 cioè x così leggendolo
e l’altro inferiore rappresenta il numero di 15
leggendolo da sei parti nel istesso modo; bizzarro pensiero del detto Cavaliere 24».
L’ultimo lavoro nella fabbrica della Sapienza è quello della Biblioteca Alessandrina i cui
lavori iniziano nel 1659 per volere del papa,
il quale desidera che “si faccia una Libraria
pubblica 25”, e che si protraggono ben oltre la
morte di Borromini.
Il 31 marzo 1659 inizia la demolizione degli edifici adiacenti alla Sapienza dalla parte
della Dogana, che si completerà il 7 aprile, e
il 22 aprile cominciano ad essere impostate le
fondazioni della biblioteca. Il vaso della biblioteca, composto da tre campate con volte a vela, è così descritto dal Cartari: “La libraria della Sapienza di Roma è in lunghezza palmi 164;
in larghezza palmi 44; sono otto ordini al primo piano e altri cinque al secondo piano 26”.
I lavori di costruzione proseguono con celerità, come leggiamo nelle memorie di Alessandro VII, e sei mesi dopo si voltavano gli
archi per le tre volte a vela a tutto sesto. Nella volta centrale c’era un dipinto fatto da Clemente Maioli il cui cartone aveva avuto l’approvazione del pontefice che ordinò inoltre
“che si facessero li quattro dottori alli quattro triangoli di detto quadro; che gli altri dui
quadri che si pensava di far cavare si facessero vedere a qualche pittore 27”.
Gli altri quadri di cui si parla sono quelli eseguiti dal Martinelli, che in seguito vennero imbiancati perché non adatti alla pittura della
volta centrale del Maioli. I lavori, come ci
raccontano le memorie di Alessandro VII, ter-
minano nel 1665: “di giugno si compiì affatto la libraria della Sapienza anche con le vetriate, mattonate, pittura, e ornamento dorato alla statua di Nostro Signore 28”, ed il 18
agosto “si cominciò in Sapienza il lavoro delle scanzie con molti operari 29”. Oltre a queste
sono ancora da costruire le ringhiere di ferro
e le ventotto finestre dell’Alessandrina.
Durante la costruzione Borromini visita numerose biblioteche romane da cui trae fonte di
ispirazione; il Cartari descrive la sala in una
lettera a Filidio Marabottini datata 27 novembre 1666: “riesce veramente opera meravigliosa si per l’ampiezza del vaso come per la qualità e maestà delle scanzie di noce, e d’intagli,
con le ramate a tutto il primo piano, al secondo piano si accede per una commoda scala a
lumaca e con ringhiera si gira attorno per li libri del secondo piano 30”. Le scaffalature del
secondo ordine, sormontate da una cornice
modanata con motivi araldici, sono inserite
nella trama dei pilastri sui quali sono impostate le vele, ricostituendo così il ritmo della successione libreria-finestra.
Alla morte di Francesco Borromini, avvenuta nel 1667, Carlo Rainaldi conclude l’opera
ma senza le colonnine che erano state previste
ai lati delle finestre, menomando così la compiutezza dell’opera complessiva.
La chiesa Borrominiana
La costruzione della cappella di Sant’Ivo è, dopo San Carlino e la casa dei Filippini, il primo
grande incarico pubblico che consacra l’affermazione professionale di Borromini, sul punto di liberarsi ormai da quei legami di dipendenza che avevano caratterizzato il suo esordio.
L’incarico gli proviene da una raccomandazione del suo grande rivale, Gian Lorenzo Bernini: un atto di benevolenza dietro il quale probabilmente si nasconde l’estremo tentativo, da
parte dello scultore, di continuare a servirsi del
suo aiuto come prezioso collaboratore tecnico.
La genesi del progetto va ricostruita, come
premessa alla comprensione dell’architettura
costruita, sollevando uno ad uno i “veli” che
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la rendono difficilmente decifrabile. Veli beninteso che non corrispondono a una carenza
di informazioni e di testimonianze, ma alla
complessità e ricchezza di idee, riflessioni, aspirazioni, derivazioni, che entrano in gioco nel
processo creativo, uno tra i più arditi e coinvolgenti dell’intero arco della storia dell’architettura. Come in un palinsesto in cui le scritture sovrapposte vanno identificate e isolate
per poterle leggere separatamente, per Sant’Ivo è opportuno scindere la genesi tipologica
da quella iconologica, da quella linguistica e
costruttiva, a patto però che poi si sappiano
ricomporle e scoprirne la reciproca sinergia.
Poiché il significato ultimo, il significato architettonico non può derivare dalla separazione
e dall’analisi ma solo dalla nostra capacità di
ricomporre le multiple motivazioni di ogni scelta, e le infinite connotazioni di ogni immagine analizzata. Nel caso di Sant’Ivo il compito
del critico è quello di far sì che ogni scelta, ogni
parte dell’opera riesca a coinvolgere l’osservatore «raccontandosi» e dimostrandosi attraverso l’individuazione delle relazioni e delle
analogie che possono collegarla con altre immagini e con quel flusso ininterrotto di riflessione e di idee che caratterizzò il processo creativo.
Sul piano tipologico Sant’Ivo è uno spazio
a pianta centrale con tre assi di simmetria
ruotati di 120 gradi. L’impianto esagonale
che ne deriva presenta alternativamente all’occhio dello spettatore absidi semi circolari e spazi più complessi formati da lati convergenti e
da un fondale convesso così che complessivamente il contorno planimetrico assuma una
forma stellare. È possibile che Borromini fosse a conoscenza dei pochi precedenti storici di
chiese e battisteri esagonali come il Battistero
di San Giusto a Trieste, la Cappella emiliana
di San Michele in Isola a Venezia (1527), la
chiesa parmense di Santa Maria del Quartiere (1604) e la chiesa torinese della Ss. Trinità
di Ascanio Vitozzi costruita nel 1598. La possibilità non può essere esclusa, soprattutto
per i due ultimi esempi; la coincidenza più sorprendente è tuttavia costituita da un disegno
di Baldassarre Peruzzi conservato agli Uffizi in
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cui è rapidamente schizzata una pianta che differisce da quella di Sant’Ivo solo per il fatto
che le absidi trapezoidali sono meno sviluppate sia in ampiezza che in profondità e terminano con una parete rettilinea anziché convessa. Certamente conosciute da Borromini
erano inoltre le raccolte di tempietti del Montano 31 pubblicate da Giambattista Soria in cui
appaiono numerosi edifici a pianta centrale basati sulla simmetria triangolare ed esagonale.
Le intenzioni da cui nacque la scelta tipologica di Borromini tendono piuttosto all’adozione di un tipo preesistente alla costruzione,
un modello sulla base di alcune sollecitazioni
convergenti. Alla scelta della simmetria triangolare può avere contribuito in modo determinante l’esperienza di San Carlino, dove la
necessità di interpretare concettualmente la
commessa da parte dell’ordine dei trinitari spinge l’architetto ad imprimere nella configurazione della chiesa un programma iconologico
preciso enunciato nella didascalia di un partito decorativo nel disegno n. 211 dell’Albertina: “tre et uno assieme”. Nel San Carlino però
questo riferimento agisce in modo criptico
governando il tracciato regolatore planimetrico basato su un triangolo equilatero e il proporzionamento degli alzati derivato dal sistema illustrato dal Cesariano nel suo commento a Vitruvio 32. La cappella della Sapienza si
prestava al riferimento trinitario per le ragioni che illustreremo in seguito ma anche genericamente perché destinata ad un pubblico di
dotti e studenti, molti dei quali interessati alla teologia.
La simmetria triangolare tuttavia poteva determinare una scelta tipologica del tutto tradizionale, come avvenne per la chiesa torinese del Vitozzi, che applica la diversa legge
geometrica a un sistema a travata ritmica tipico di molte chiese a schema ottagonale. Borromini invece, una volta scelta la simmetria
triangolare, sceglie un contorno planimetrico
mistilineo di tipo stellare abbandonando la forma chiusa con un gesto di vera e propria ribellione rispetto a una delle leggi mai scritte
della cultura rinascimentale, che scarta a priori le soluzioni compositive in cui non predo-
Vienna, Albertina, disegno Azr 506ar.
mini sull’articolazione delle parti un elemento riassuntivo unitario.
Prima di arrivare alla soluzione definitiva
Borromini sperimentò forse una pianta con sei
cappelle concave come appare nell’incisione
del Insignum Romae Templorum Prospectus
pubblicato dal De Rubeis nel 1684. L’incisione, occorre premetterlo, presenta aspetti assai
problematici tali da privarla di un autentico
valore documentario. La ragione per cui la
prendiamo in esame è solo lo scrupolo di non
trascurare nessun elemento che, anche indirettamente, possa contribuire ad illustrare il per-
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corso progettuale. La principale contraddizione consiste nel
fatto che mentre le sostanziali
diversità rispetto al progetto
realizzato farebbero pensare ad
una fase iniziale della progettazione, la presenza dell’altare di Giambattista Contini e
degli emblemi chigiani nella decorazione della cupola illustrano aspetti dell’opera che risalgono al periodo del suo compimento o sono addirittura posteriori alla morte di Borromini.
La spiegazione di tali incongruenze va forse ricercata nel
fatto che l’incisore aveva in suo
possesso un disegno che voleva però aggiornare con particolari decorativi che dedusse
da altri disegni o dall’opera realizzata.
La differenza essenziale dello schema planimetrico consiste nel fatto che tutte le sei cappelle sono concave e quella che corrisponde all’altare maggiore è più profonda delle altre.
L’ipotesi che la pianta corrisponda al tiburio anziché al livello inferiore - di cui sembrerebbe un indizio la mancanza, nel disegno, della proiezione del grande cornicione - risulta
anch’essa insostenibile per il fatto che appaiono sezionate le nicchie e le porte che danno accesso alle sagrestie. Confrontata con lo spaccato della tavola XLI le incongruenze diventano ancora più evidenti e clamorose perché,
sia pure con qualche discrepanza, lo spaccato
riproduce la forma attuale dell’edificio, sezionata in corrispondenza degli ingressi alle sagrestie. Ammesso quindi che si possa dare importanza ad un documento così ambiguo, si
dovrà inserire, come premessa alla definitiva
scelta tipologica, una divagazione borrominiana sulla possibilità di interpretare il modello
esagonale in senso longitudinale, rinunciando alla regolarità centrica per privilegiare lo
spazio dell’altare; un compromesso tra centra-
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Vienna, Albertina, disegno Azx23.
lità e longitudinalità simile a quello realizzato
nell’organismo del San Carlino, ma assai meno convincente per l’evidente forzatura che si
risolve in una giustapposizione piuttosto che
in una sintesi tra i due schemi. Del modello
esagonale pluriconvesso sperimentato in questa ipotetica fase preparatoria, Borromini comunque si servì nello sviluppo della cupola. Se
si immagina infatti di sezionare la volta a vari livelli si avranno una serie di sezioni collegate da un processo di trasformazione topologica. Mentre fino al coronamento del tamburo esterno il profilo planimetrico dell’intradosso si mantiene identico a quello dello
spiccato di pianta, contrastando con il profilo esterno del tamburo stesso (che è costituito
da sei segmenti di cerchio raccordati dalle lesene perpendicolari alle bisettrici degli angoli
interni), al di sopra della cornice esterna il profilo cambia gradualmente e prima di coinci-
dere con il profilo circolare dell’imposta del
tempietto assume la forma esaconvessa che abbiamo fin qui commentato.
Nel disegno della tavola X dell’Opera tutto
obbedisce alle medesime regole che presiederanno alla costruzione. Le decorazioni della
volta però fanno capire che abbastanza diverso doveva essere, a questo stadio di elaborazione, l’alzato della cupola, essendo le sei finestre di forma alternativamente diversa e di
luce assai minore. Che il disegno appartenga
alla fase iniziale della progettazione è d’altra
parte attestato anche dalla presenza di un’ape
al centro della proiezione della volta racchiusa in un esagono e in una corona di stelle.
L’allusione all’insegna araldica dei Barberini
porta a datare la soluzione tra il 1632 e il 1644,
arco di tempo al quale può inscriversi anche
la seconda pianta alternativa, quella del disegno n. 198 dell’Archivio di Stato romano. Qui
lo spessore dei muri è molto diminuito. Per
avere un’idea del cambiamento basta osservare che lo spessore misurato in corrispondenza dei pilastri in mezzeria della pianta risulta,
nella tavola X dell’Opera, circa un quarto della corrispondente ampiezza della cappella, mentre è già meno di un quinto nel disegno romano e diventerà poco più di un sesto nell’opera
costruita.
A parte questo ulteriore passo avanti, nel
conquistare spazio portando a limiti invalicabili l’ardimento costruttivo, nel disegno 198
c’è da notare, come elemento caratterizzante,
l’abside colonnata, simile a quella della chiesa palladiana del Redentore, inserita nella cappella maggiore: un’abside con sette colonne il
cui riferimento biblico è chiarito, come vedremo, nelle didascalie apposte sulla sinistra del
foglio. Per il resto la regola ferrea che presiede alla configurazione non muta, mentre il disegno centrale, forse riferibile a un’ipotesi di
decorazione del pavimento, insiste sul motivo
delle api che diventano sei e appaiono disposte attorno a un sole irradiante, altro emblema barberiniano.
Se per l’intradosso della cupola la scelta tipologica può essere collegata al documentato
interesse di Borromini per i ruderi di Villa Adria-
na e in particolare per l’atrio della cosiddetta
“piazza d’Oro”, oltreché per il mausoleo degli orti Liciniani di cui esiste un rilievo autografo 33, per la soluzione esterna del tiburio l’individuazione dei modelli che possono aver influenzato Borromini è più ardua e significativa. Nell’idea del tiburio di Sant’Ivo convivono il ricordo della vicina cupola del Pantheon
e, all’estremo opposto, il coronamento centrale del Duomo di Milano che non può essere inteso correttamente, però, se non sgombrando
il campo dall’immagine attuale che si deve ai
completamenti settecenteschi del Croce. Se questi due riferimenti sono i poli estremi di un’oscillazione che cerca di integrare tradizione
classica e tradizione medievale, molte altre analogie documentano la complessità dell’itinerario creativo e la probabile intenzionalità di utilizzare i precedenti storici senza inibizioni al
di là dei loro caratteri stilistici.
Ai tiburii lombardi si ricollega l’interpretazione del tamburo come un’entità dotata di
forte autonomia compositiva al contrario di
quanto avviene nella cupola classica secondo
il modello bramantesco e michelangiolesco;
ma, come avviene quasi sempre nella ricerca
borrominiana, l’obiettivo finale rimane la sintesi tipologica e perciò, una volta plasmato il
tamburo come un armonioso insieme volumetrico, Borromini torna a cercare nel rapporto
tra tamburo e coronamento un ulteriore cimento compositivo e per questo sviluppa il
tema dei contrafforti diagonali e dà alla lanterna un ruolo del tutto inedito. Dalla chiesetta di Santa Maria Scala Coeli di Giacomo
Della Porta Borromini deriva l’invenzione del
“merlo” come elemento di accentuazione degli spigoli e l’intento sintetico di combinare i
gradini del Pantheon con la convessità dell’estradosso della cupola 34; ma rispetto alla meccanica sovrapposizione di elementi della cappella dellaportiana, nella soluzione finale del
Sant’Ivo, l’inedita capacità di pensare tutto il
coronamento in termini plastici come nodo di
forze in movimento. Fedele allo schema planimetrico, Borromini compone per spicchi così che i gradini stessi diventano convessi come
le “scatole aovate” di cui parla Michelangelo
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nella celebre lettera al Vasari 35. La parte che
si sovrappone al tamburo diventa una sorta
di gigantesco fiore posto a specchio del cielo
in cui gli spicchi della cupola corrispondono
alla corolla e la lanterna al perigonio. Nella
parte a gradini del tiburio di fatto si fondono
due modelli lontanissimi nel tempo e nella
morfologia: le “scatole aovate” della Laurenziana e il sistema radiale inventato da Francesco Di Giorgio e dall’Amadeo per il tiburio del
Duomo di Milano. Da Milano derivano i contrafforti diagonali che nel progetto quattrocentesco tuttavia erano rettilinei come possono vedersi nel disegno pubblicato dal Cesariano 36.
In particolare il rapporto tra i contrafforti e
le guglie, che sorgono dove il contrafforte poggia in basso, sono serviti al Borromini per stabilire il rapporto di necessità che lega alla lanterna i suoi “merli” ottenuti da una reinterpretazione dinamica del modello michelangiolesco di Porta Pia. Le membrature concave verso l’alto (che forse suggerirono al Croce nel
Settecento la sagoma definitiva dei contrafforti del tiburio milanese) invece sono eco della
tradizione rinascimentale e hanno il loro archetipo oltreché nella Laurenziana, nel tempietto raffaellesco del Matrimonio della Vergine di Brera. L’interpretazione delle costole
radiali del tiburio di Sant’Ivo come “contrafforti” è confermata dal Borromini stesso che così li designa in una misura e stima del 1660 37.
In tutti i documenti coevi la lanterna di Sant’Ivo è citata con il termine “tempietto”, un termine che illustra bene le intenzioni borrominiane che procedono dall’esempio a lui familiare di San Pietro ma hanno anche come passaggio obbligato una rivisitazione diretta del
modello templare antico. La connessione più
volte proposta con il tempio di Venere a Baalbek non ha mai trovato sostegno in prove che
documentino la conoscenza, in Occidente nel
secolo XVII, dell’archetipo siriano; ma la possibilità che rilievi e disegni, oggi perduti, abbiano potuto giungere nelle mani di Borromini non può essere esclusa a priori. È improbabile del resto che il tempietto di Baalbek fosse un unicum nell’antichità classica e non si
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può escludere che l’esempio illustrato dal Montano nella sua raccolta derivi da un esempio
perduto. Il riferimento del resto di una tavola
montaniana a “un tempietto a Tivoli” è reso
credibile dalla riproduzione parziale di un
fregio scultoreo. In ogni caso la ben dimostrata volontà di Borromini di indagare con
estremo impegno il mondo della “curvatura”, di sperimentare cioè tutti i risultati ottenibili curvando in fuori o in dentro partiti architettonici classici di ogni genere, non poteva non condurre l’architetto all’esito della lanterna, che combinando in serie il tema della
nicchia “apre” la forma del tempio e inverte
il rapporto tra spazio interno e spazio esterno. In San Carlino del resto il sistema era già
stato sperimentato nella lanterna della cupola, puntando però più sulla parete modellata
che sull’ordine.
La morfologia del tempietto d’altronde estende e approfondisce il criterio che presiede alla configurazione dello spazio nella parte basamentale e nell’intradosso della cupola: dividere in spicchi e ricomporre la conflittualità
che nasce dalla contrapposizione degli spigoli attraverso la continuità e la chiarezza dei partiti architettonici.
Se per il tempietto il modello è di carattere
storico, per la celebre chiocciola il modello è
insieme iconologico e naturalistico. Certo esiste il precedente dei minareti di Samarra, così
come l’elica si può ricondurre alla struttura
delle rampe e delle scale. Ma la chiocciola
non ha spazio interno: la piccola cella a forma di campana è poco più di un accidente di
ordine pratico; la cuspide è di fatto volume plasmato, scultura a tutto tondo il cui ruolo è specificamente di coronamento di una struttura
sottostante; e questa logica del coronare è svolta in modo letterale per la metamorfosi in chiocciola di una corona e per il concludersi della
spirale con una corona fiammeggiante oltre
la quale la materia raggiunge la più pura e mentale delle interpretazioni distillandosi in assoluta “lineità”.
A questo punto l’incompletezza dell’analisi
tipologica è bene evidente. Questo procedimento evoca il mondo di forme e di esperien-
A fianco, Vienna, Albertina, disegno Azr 500,
e, sotto, disegno Azr 500k.
ze entro cui l’immagine si forma e cresce su se
stessa, ma nulla ci dice sulle motivazioni che
non discendono dall’ascolto dell’esistente, ma,
al contrario, dal bisogno di opporvisi e dal
desiderio di dare alla propria azione costruttiva un significato extra architettonico.
Borromini non si accontenta dell’autonomia
strutturale del suo lavoro. In tutta la sua opera si afferma potente la volontà di mettere in
gioco altri valori, altri segni, altri mezzi di comunicazione al di là di quelli specifici dell’architettura. L’appartenenza alla cultura del suo
tempo gli impone di sfruttare lo strumento dell’iconologia attraverso pochi codificati strumenti simbolici. Egli se ne appropria ma non
ne accetta i limiti e la convenzionalità; al mondo delle icone vuole attingere a piene mani
come gli artisti che si occupano della figurazione e l’impresa gli riesce solo per la straordinaria capacità di controllare i diversi e disomogenei strati di significato che nascono dall’uso della tipologia e dell’iconologia.
Per comprendere l’atteggiamento borrominiano verso l’iconologia occorre riflettere sulla sua cultura e sulle possibili fonti del suo interesse e delle sue conoscenze in questo campo che vanno certamente al di là della familiarità con il celebre libro del Ripa. Due indizi interessanti di cui va tenuto conto sono la
ricchezza della sua biblioteca, che contava 910
volumi, e le sue amicizie culturali: quelle documentate e quelle ipotizzabili a partire da analogie e coincidenze formali. Della biblioteca
borrominiana conosciamo un solo titolo, sappiamo cioè che possedeva una rara copia delle Antichità Romane di Pirro Ligorio annotate da Celso Cittadini. Abbiamo inoltre prova
diretta di alcuni libri da lui certamente consultati per averne trascritto dei passi o per averne citato i dati bibliografici: si tratta delle Antichità Romane di Andrea Fulvio; dell’Idea dell’Architettura Universale dello Scamozzi e del
Antiquae Urbis Splendor di Giacomo Lauro,
delle Braccia fiorentine di Andrea Bocchi (Fi-
renze, 1585).
Un migliaio di libri non erano certo pochi
per un architetto che affermava modestamente di non potersi esprimere a parole ma solo
con l’architettura e che aveva iniziato la sua
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