Rassegna stampa 15 dicembre 2014

RASSEGNA STAMPA di lunedì 15 dicembre 2014
SOMMARIO
“A quando l’abolizione del Natale?” chiede, sulla prima pagina della Nuova di oggi, il
prof. Maurizio Mistri. “Da alcuni anni a questa parte - osserva -, all’approssimarsi delle
festività (le più importanti per noi occidentali) in alcune scuole si manifesta
l’intenzione di non celebrare più il Natale, semmai con un presepe. Ad esempio, una
simile intenzione è stata manifestata recentemente in una scuola di Bergamo,
sollevando un vespaio di polemiche. A Bergamo i proponenti della tesi abolizionista
ritengono che tale scelta si impone perché in quella scuola ormai il 30% dei bambini è
straniero e di religione diversa da quella cristiana. In qualche modo essi ritengono che
la “imposizione” di forme rituali tipiche della religione cristiana possa turbare i
bambini le cui famiglie professano una religione diversa. Si tratta di un’affermazione
che pone un problema di grande rilievo e cioè quello della neutralità dello Stato nei
confronti delle manifestazioni religiose quando in un paese sono presenti religioni
diverse e non sempre in rapporti amichevoli. Tuttavia, c’è un aspetto che va
approfondito e cioè quello della ampiezza della applicazione di un simile principio. In
effetti, se il principio della neutralità religiosa dello Stato venisse assunto come
assoluto ne deriverebbe che il numero di bambini di religione “altra” frequentante
uno scuola sarebbe irrilevante perché un simile principio andrebbe applicato anche se
si avesse a che fare con un solo bambino di religione “altra”. Comunque sia, i
proponenti della tesi abolizionista, nel nome di una integrale laicità dello Stato stesso,
implicitamente ritengono che lo Stato non debba esprimere una qualche preferenza
verso una data religione, sia essa minoritaria che maggioritaria. Nel momento in cui ci
si incamminasse su questa strada però si dovrebbe essere consapevoli di quali
potrebbero essere le conseguenze culturali, sociali e politiche della applicazione di un
simile principio di neutralità assoluta del nostro Stato rispetto a ogni religione, se non
altro perché le manifestazioni di tipo religioso possono essere molteplici e andare ben
oltre l’allestimento di un innocuo presepe. Il Natale è finora la festa religiosa più
sentita dagli italiani, almeno fino a quando non mutino significativamente i rapporti di
forza tra le religioni presenti da noi. Nel contempo penso che gli abolizionisti
dovrebbero riflettere che dalla questione del presepe si finirebbe per arrivare a
questioni più complesse e dirompenti, corollario del problema che gli abolizionisti
pongono di fatto, e cioè quella della neutralità assoluta dello Stato rispetto alle
religioni. Qui emerge un problema serio perché, a ben guardare, uno Stato verrebbe
meno al principio di neutralità qualora facesse propria una festa religiosa e cioè
quando dichiara festivi, a tutti gli effetti civili, una determinata festa religiosa.
Quindi, in Italia nel nome di una neutralità dello Stato rispetto alle diverse religioni
che non ammetta contraddizioni logiche, nel prossimo futuro qualcuno, ad esempio,
potrebbe chiedere che non siano più riconosciute dallo Stato, come feste anche civili,
le feste celebrate dai cristiani, come il Natale e le feste dei santi patroni. Così un
presepe in una scuola rischia di assumere il carattere di una punta di un iceberg; il
grosso dell’iceberg sarebbe rappresentato dalla festività religiosa che vi sta alla base.
Se vogliono essere coerenti gli abolizionisti più che vietare un innocuo presepe
dovrebbero chiedere di vietare il riconoscimento della festa che vi sta alla base come
festa anche dello Stato. Al tempo della rivoluzione francese del 1789, i giacobini
vietarono le feste religiose sostituendole con ridicole feste laiche. Se fossero stati più
seri e coerenti, i giacobini avrebbero dovuto cancellare le feste religiose senza
sostituirle con altre. I giacobini di oggi se fossero coerenti con le loro visioni di un
multiculturalismo comunque difficile da definire, e nel nome di una assoluta par
condicio religiosa dovrebbero, più che vietare i presepi nelle scuole pubbliche, dire
che il Natale non può essere una festa di Stato, per cui in tale giorno si dovrebbe
lavorare e andare a scuola. Non credo che si possa sostenere che una cosa è la
questione del presepe nelle scuole e altra cosa è il riconoscimento del Natale anche
come festa di Stato. La prima questione è corollario della seconda. Lo scenario
tratteggiato per ora è solo ipotetico, ma potrebbe essere uno scenario concretizzabile
se mutassero i rapporti numerici tra le varie religioni presenti nel paese. Comunque si
tratterebbe di una evoluzione che non pochi italiani vivrebbero come una
deprivazione delle proprie radici culturali e che per alcuni avrebbe il significato di un
vero e proprio “stupro culturale”. Sarebbe comunque un’Italia più triste” (a.p.)
Sul sito diocesano www.patriarcatovenezia.it le omelie del Patriarca Moraglia
sabato a Venezia e domenica a Siracusa in occasione della festa di Santa Lucia
1 – IL PATRIARCA
AVVENIRE di domenica 14 dicembre 2014
Pag 17 Moraglia: nella giovane Lucia vediamo una donna capace di dire un sì
generoso di F.D.M.
2 – DIOCESI E PARROCCHIE
LA NUOVA
Pag 17 Lutto a Caorle: è mancata suor Corinna di r.p.
Pag 18 Santa Lucia è tornata nella sua Siracusa per dieci giorni di Nadia De
Lazzari
IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 14 dicembre 2014
Pag V Le reliquie di Santa Lucia in viaggio per Siracusa con il Patriarca Moraglia
LA NUOVA di domenica 14 dicembre 2014
Pag 21 Pellegrini in coda per omaggiare Santa Lucia di Nadia De Lazzari
LA NUOVA di sabato 13 dicembre 2014
Pag 24 Le spoglie di Santa Lucia in partenza per Siracusa di Nadia De Lazzari
3 – VITA DELLA CHIESA
CORRIERE DELLA SERA
Pag 23 Il Papa e i bambini: se piangono in chiesa non cacciateli via di Gian Guido
Vecchi
L’incontro con i rom in una parrocchia romana
Pag 27 Il vescovo bocconiano che aiuta gli imprenditori a mettersi insieme di
Dario Di Vico
A Pavia diocesi e Confindustria unite per le aziende in crisi
L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 14 dicembre 2014
Pag 4 La controcultura del celibato di Jean Mercier
Sfida alla mentalità contemporanea
AVVENIRE di domenica 14 dicembre 2014
Pag 2 E’ l’ordinario il vessillo dell’incarnazione di Alessandro D’Avenia
L’Avvento si consuma in autunno: un disegno nel quale c’è una logica divina
Pag 17 Siracusa in festa, santa Lucia torna a casa di Alessandro Ricupero
Oggi le spoglie della martire nel Santuario della Madonna delle Lacrime
Pag 23 Ecumenismo. L’unità “plurale” dei cristiani di Enzo Bianchi
CORRIERE DELLA SERA di domenica 14 dicembre 2014
Pag 11 Renzi dal Papa, confronto su crisi e giovani di Gian Guido Vecchi
Pag 11 Filosofia nuova, ma la Chiesa non è distratta di Andrea Riccardi
AVVENIRE di sabato 13 dicembre 2014
Pag 2 Digiunare per l’essenziale di Giorgio Paolucci
La proposta del Patriarca di Baghdad ci sfida
Pag 15 Nell’era ipertecnologica, puntare sull’umano di Domenico Pompili
Lo spazio partecipato del web chiede la responsabilità di essere samaritani
IL FOGLIO di sabato 13 dicembre 2014
Pag 3 Alle prese con le suore americane che vanno "oltre Cristo" di Matteo
Matzuzzi
Martedì il giudizio dopo la visita apostolica. Clima bonario ma con forti problemi. La fede
in discussione
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA di sabato 13 dicembre 2014
Pag 1 Le tante piazze del sindacato. I pochi distinguo dagli antagonisti di Dario
Di Vico
CORRIERE DEL VENETO di sabato 13 dicembre 2014
Pag 5 Rosato: “C’è più voglia di assumere, ora la sfida è il tempo
indeterminato” di Gianni Favero
Jobs Act, congiuntura, 20 mila contratti a termine: parla il direttore di Veneto Lavoro
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
IL GAZZETTINO di domenica 14 dicembre 2014
Pag 1 Processo in salita per Orsoni: tutti contro l’ex sindaco di Gianluca Amadori
IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 14 dicembre 2014
Pag XV In coda per vedere l’icona miracolosa di Annamaria Parisi
Marghera: si conclude il pellegrinaggio della Madonna che piange, sacra agli Ortodossi
LA NUOVA di domenica 14 dicembre 2014
Pag 31 Lettera appello a Zaia di don Torta
Pista Favaro – Dese
Pag 32 Marghera: atto vandalico contro volto del Cristo di ma.to.
CORRIERE DEL VENETO di domenica 14 dicembre 2014
Pag 1 L’importante è distinguere di Alessandro Baschieri
Dentro le inchieste
Pag 5 Una dozzina in attesa di processo, ma i big hanno tutti patteggiato di
Alberto Zorzi
Le pene definite, quelle da definire: ecco chi vedremo in tribunale
IL GAZZETTINO di sabato 13 dicembre 2014
Pag 1 Quei 2 compagni così uguali, ma così diversi di Alda Vanzan
Pag 2 Mose, finanziamenti al Pd: indagati Mognato e Zoggia di Gianluca Amadori
I due deputati chiamati in causa dall’ex sindaco per i contributi erogati da Mazzacurati
nella campagna elettorale del 2010. Si avvicina il giudizio per Orsoni: due dazioni
8 – VENETO / NORDEST
LA NUOVA di domenica 14 dicembre 2014
Pag 13 I veneti sono digitali, uno su due sempre connesso ad Internet di Daniele
Marini
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 La matita rossa di Juncker di Angelo Panebianco
L’Europa e Putin
Pag 8 La base dem: a Roma tutti responsabili di Nando Pagnoncelli
Colpe trasversali dei partiti nell’inchiesta su Mafia Capitale per 3 elettori su 4 del Pd.
Scetticismo anche sulla pulizia annunciata dal premier: in pochi pensano che ce la farà
Pag 30 Pd, il solito dialogo tra sordi dove vince sempre Renzi di Paolo Franchi
LA REPUBBLICA
Pag 9 Renzi in cerca di lealtà per frenare il Cavaliere di Stefano Folli
LA STAMPA
Fare in fretta e cominciare la fase due di Elisabetta Gualmini
IL GAZZETTINO
Pag 1 Il peso dei conflitti sulla partita del Quirinale di Giovanni Sabbatucci
Pag 1 La sinistra dem e la corrida che non c’è stata di Mario Ajello
LA NUOVA
Pag 1 Aspettando la partita decisiva di Renzo Guolo
Pag 1 A quando l’abolizione del Natale? di Maurizio Mistri
CORRIERE DELLA SERA di domenica 14 dicembre 2014
Pag 1 All’origine dell’antipolitica di Ernesto Galli della Loggia
La nostra memoria, assai corta
LA STAMPA di domenica 14 dicembre 2014
Se il Paese non si libera del passato di Mario Calabresi
AVVENIRE di domenica 14 dicembre 2014
Pag 1 A marcia indietro? di Carlo Cardia
IL GAZZETTINO di domenica 14 dicembre 2014
Pag 1 Spesa sociale, ecco perché va difesa di Romano Prodi
Pag 9 “Sanità e scuole cattoliche, soldi finiti”
Visita cordiale di Renzi con il Papa, poi la doccia gelata con il segretario di Stato:
“Stanziati i fondi a disposizione, ma il momento è difficile e non si può fare di più”
Pag 23 Dal Pd al Quirinale, quante trappole sulla strada di Renzi di Mario Ajello
LA NUOVA di domenica 14 dicembre 2014
Pag 1 Nei partiti regole da cambiare di Francesco Jori
CORRIERE DELLA SERA di sabato 13 dicembre 2014
Pag 1 Mosse, tempi, nomi. La partita per il Quirinale di Francesco Verderami
LA STAMPA di sabato 13 dicembre 2014
Tutti contro uno di Federico Geremicca
AVVENIRE di sabato 13 dicembre 2014
Pag 1 Costituente per Roma di Andrea Riccardi
Scuse da chiedere, anima da ritrovare
Pag 3 Ora più rispetto e più riforme di Gianfranco Marcelli
Dopo la “giornata dell’esasperazione”
IL GAZZETTINO di sabato 13 dicembre 2014
Pag 1 Dopo lo sciopero più difficile la partita di Renzi di Oscar Giannino
LA NUOVA di sabato 13 dicembre 2014
Pag 1 Un partito alla resa dei conti di Bruno Manfellotto
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1 – IL PATRIARCA
AVVENIRE di domenica 14 dicembre 2014
Pag 17 Moraglia: nella giovane Lucia vediamo una donna capace di dire un sì
generoso di F.D.M.
Tradizionale (ed affollatissima) festa di Santa Lucia, a Venezia, dove riposano le spoglie
della martire, che oggi, dopo 10 anni, saranno portate a Siracusa, dove saranno
venerate per una settimana presso il Santuario della Madonna delle Lacrime. Il patriarca
Francesco Moraglia, che le accompagnerà e che, questa sera, celebrerà una solenne
Messa, ieri a Venezia ha detto che «come in Maria, l’Immacolata, così nella giovane
donna e martire Lucia contempliamo quindi un bell’esempio di quell’«umanità al
femminile» pienamente riuscita di fronte a Dio perché capace di pronunciare - con le
parole e con la vita - quel sì generoso, totale, coraggioso e gioioso che, in qualche
modo, richiama il sì di Maria pronunciato a Nazaret duemila anni fa». Un sì detto da una
giovane donna e ricolmo di fede, di fiducia, in quel Dio - ha sottolineato ancora Moraglia
- che sa fare cose grandi in chi si fida di Lui e che riversa abbondantemente la sua
misericordia di generazione in generazione.
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2 – DIOCESI E PARROCCHIE
LA NUOVA
Pag 17 Lutto a Caorle: è mancata suor Corinna di r.p.
Caorle. Lutto a Caorle e Motta di Livenza, paese di cui era originaria. Dolore ha suscitato
la notizia della morte, avvenuta all'età di 78 anni, di suor Corinna, ovvero Antonietta
Favero. Proprio a Motta aveva maturato la sua vocazione, entrando a far parte delle
figlie di San Giuseppe del Caburlotto. Durante la sua missione ha lavorato dell’asilo
materno San Giuseppe di Caorle, in pieno centro. Con grande serenità d’animo ha
affrontato la battaglia di un tumore, che si era fatto con il trascorrere del tempo sempre
più aggressivo. Suor Corina ha combattuto fino all’ultimo, confortata nello spirito da
colui per cui si è prodigata nei decenni. «Ha servito lo sposo Gesù», hanno riferito le sue
consorelle, «nei piccoli e negli ammalati con dedizione, guidandoli a conoscere e ad
apprezzare il bello e il bene. Lo ha lodato con la serenità di chi si è affidato al Signore.
Riposi nella pace del cielo». Stasera con inizio alle 18 verrà recitato il rosario in
suffragio, domani alle 14.30 invece, sempre in Duomo a Caorle verranno celebrati i
funerali.
Pag 18 Santa Lucia è tornata nella sua Siracusa per dieci giorni di Nadia De
Lazzari
Con le sue scarpette rosse, Santa Lucia ha lasciato la sua abituale dimora ed è partita
per Siracusa, dove è nata e dove è attesa dai suoi concittadini. Accompagnata dal
Patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia, ieri mattina alle 7,30 l’urna con le
sacre spoglie di Santa Lucia è stata traslata temporaneamente (fino al 22 dicembre)
dalla chiesa parrocchiale dei Santi Geremia e Lucia, alla sua terra d’origine. “Lucia”
mancava da dieci anni, vi ritornerà fra dieci anni. Coperta con un drappo di velluto verde
e trasportata con accuratezza nel taxi acqueo con colori d’istituto della Polizia di Stato è
giunta dopo quaranta minuti all’aeroporto Marco Polo. Ad attenderla il picchetto d’onore
con il questore Angelo Sanna, Saverio Urso e Riccardo Tumminia della Polizia di Stato, il
direttore aeroportuale Nordest, Giorgio Doz. Durante la breve e intensa cerimonia, il
Patriarca. ha sottolineato: «Questo evento ecclesiale è fatto di tante cose anche di questi
preziosi aiuti tecnici. Ringrazio la Questura e la Polizia di Stato che si sono offerte per
questo servizio per la Chiesa, i Vigili del Fuoco, l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile, il
supporto di Catania e di Siracusa. Vi ringrazio per la disponibilità e la collaborazione
perché questo momento di pellegrinaggio potesse realizzarsi». «Per noi è molto
importante e ve ne siamo grati – ha aggiunto il Patriarca – perché si tratta di una realtà
di fede popolare che riguarda in modo particolare due Chiese, Venezia e Siracusa, ma va
al di là e guarda la Chiesa universale. Ricordo che Lucia ha un culto attestato a Roma nel
quarto secolo. Quindi la Chiesa madre riconosceva la Santa rivestita della corona di
martire. Ringrazio la Chiesa di Siracusa, qui rappresentata dal Vicario generale
monsignor Sebastiano Amenta, che ci ha dato questa opportunità». Dopo la recita di una
preghiera scritta dall’Arcivescovo di Siracusa monsignor Salvatore Pappalardo, la
benedizione e il trasferimento in aereo da Tessera. Il Patriarca, attento ad ogni
operazione tecnica, si è avvicinato al comandante Alessandro Duso, 32 anni di volo,
chiedendo i dettagli della missione. Il pilota ha risposto: «Oggi il livello di turbolenza è
scarsissimo. Abbiamo una rotta agevolata. Arriveremo a Catania puntuali alle 11,30». Al
Patriarca si sono uniti i sacerdoti veneziani Orlando Barbaro, Giuseppe Costantini, Morris
Pasian, Renzo Scarpa. Dopo l’arrivo a Catania la Santa ha raggiunto Siracusa e il suo
corredo, una tunica e le scarpette di cuoio rosso. Lucia non ha voluto rinnegare la sua
fede ed è morta da martire dopo le atroci violenze del suo persecutore, è un punto di
riferimento anche per molti giovani di oggi. A Siracusa migliaia di studenti si metteranno
in coda per vedere le sue spoglie e venerarla.
IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 14 dicembre 2014
Pag V Le reliquie di Santa Lucia in viaggio per Siracusa con il Patriarca Moraglia
Questa mattina la Polizia accompagnerà le reliquie di Santa Lucia nel suo viaggio in
Sicilia insieme al Patriarca, Francesco Moraglia. Alle 7.30 le spoglie della Santa saranno
portate, con imbarcazioni della polizia dalla Basilica dei Santi Geremia e Lucia fino
all'aeroporto di Tessera. Poi raggiungerà Catania e Siracusa. Ad accompagnare le
reliquie don Giuseppe Costantini, che viaggerà con i resti della Santa per l'intero
itinerario fino al suo rientro a Venezia previsto, utilizzando gli stessi mezzi della polizia, il
22 dicembre.
LA NUOVA di domenica 14 dicembre 2014
Pag 21 Pellegrini in coda per omaggiare Santa Lucia di Nadia De Lazzari
Per "Lucia", la Santa della luce, festa grande ieri nella chiesa parrocchiale dei Santi
Geremia e Lucia Per tutta la giornata - dalle 6,45 alle 20,30 - un fiume di gente si è
riversato nel tempio. Qui in un'urna di cristallo sono custodite le reliquie della martire
siracusana protettrice della vista. Profonda è la devozione per la Santa che,
eccezionalmente, da oggi fino al 22 dicembre é stata traslata temporaneamente nella
città natale. In laguna è impressionante il numero dei pellegrini arrivati da tutto il
mondo cristiano (cattolico e ortodosso) per venerare "Lucia", portano candele, sostano a
lungo in preghiera davanti alle sue reliquie, lasciano brevi pensieri su foglietti. Il parroco
don Renzo Scarpa conferma: «Si ipotizzano circa ventimila persone». Tra queste Lucia
Raffin e Giuseppina Ommassini di Cannaregio: «Non abbiamo mai saltato un anno».Tra i
momenti liturgici più intensi l'omelia pronunciata dal Patriarca Francesco Moraglia che ha
pronunciato: «Lucia tornerà nella sua bella terra siciliana, la Santa che agli occhi del
mondo appariva fragile è riuscita ad avere ragione sui poteri costituiti cioè del pensiero
dominante. É bello che le due Chiese sorelle con la Chiesa universale si aiutino». Da oggi
le sacre spoglie della Santa sono nella città natale trasportate con un aereo della Polizia
di Stato. Per seguire le varie operazioni è arrivato monsignor Sebastiano Amenta, vicario
generale dell'Arcidiocesi di Siracusa. Il sacerdote ringrazia il Patriarca Moraglia per la sua
presenza in terra siciliana e aggiunge: «Come Chiesa stiamo vivendo questo evento
come un momento di gioia, quella vera, non effimera e c'è tanto bisogno».
LA NUOVA di sabato 13 dicembre 2014
Pag 24 Le spoglie di Santa Lucia in partenza per Siracusa di Nadia De Lazzari
Venezia. Oggi è la festa di Santa Lucia e la chiesa dei Santi Geremia e Lucia che
custodisce le reliquie della martire siracusana, protettrice della vista è meta di un
continuo pellegrinaggio. Alle 17 il Patriarca Francesco Moraglia celebrerà la messa. Fin
dal mattino sono previste liturgie quasi ogni ora: ore 8 (con i Canossiani di San Giobbe);
9, 10 (con il Capitolo della Cattedrale di San Marco); 11, 12, 13 (con on ottici,
optometrici, elettricisti); 15 (con la partecipazione del Movimento Apostolico Ciechi del
Triveneto); 16 (con le parrocchie del vicariato di Cannaregio – Estuario); 18 (per i
giovani) e infine alle 19. Quest’anno Siracusa vivrà un evento straordinario. Le spoglie
della Santa, venerata dalla Chiesa cattolica e ortodossa, lasceranno la laguna per una
settimana – dal 14 al 22 dicembre – e raggiungeranno la città natale con un aereo della
Polizia di Stato. Ad accompagnarle nel pellegrinaggio il Patriarca Moraglia con don
Barbaro, don Costantini e don Scarpa. In terra siciliana è già mobilitazione della Chiesa
(13 vescovi), delle Istituzioni (300 volontari), delle scuole (13000 studenti). Centinaia gli
eventi collaterali (mostre, esposizioni, concerti, presentazioni di libri). Domenica 14 dopo
l’accoglienza di “Lucia” al piazzale del Pantheon e la processione il Patriarca Moraglia
celebrerà la messa al Santuario della Madonna delle Lacrime. Poi le sacre spoglie
saranno portate nella Basilica di Santa Lucia al Sepolcro. Non solo Siracusa. Dal
convento dei padri carmelitani di Ragusa oltre cento pellegrini raggiungeranno la città di
Santa Lucia. Il priore, padre Renato Dall’Acqua, spiega: “E’ bello che la Chiesa di
Venezia condivida anche con le altre Chiese. Per tutti noi, religiosi e laici, è un grande
messaggio e un grande dono. Ed è importante avere tra noi il Patriarca di Venezia,
monsignor Francesco Moraglia”. Lunedì 22, alle 10,30, l’Arcivescovo di Siracusa
Salvatore Pappalardo presiederà la celebrazione in Cattedrale, l’ultima prima della
ripartenza delle reliquie per Venezia.
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3 – VITA DELLA CHIESA
CORRIERE DELLA SERA
Pag 23 Il Papa e i bambini: se piangono in chiesa non cacciateli via di Gian Guido
Vecchi
L’incontro con i rom in una parrocchia romana
Roma. La borgata che negli anni Cinquanta lasciava stupefatto Pasolini - «la periferia di
Roma è completamente pagana: i ragazzi e i giovani sanno a stento chi è la Madonna» accoglie Francesco in una parrocchia colma di fedeli, San Giuseppe all’Aurelio, a
Primavalle, tra ragazzini che gli chiedono una foto col telefonino e altri a correre
tutt’intorno mentre i più piccoli, una sessantina di bimbi battezzati durante l’anno,
rumoreggiano allegramente in braccio ai genitori davanti al Papa che li saluta in una
saletta accanto alla chiesa. Così Francesco li guarda e sorride, «i bambini piangono,
fanno rumore, vanno di qua e di là», e in quel momento gli viene da fare una
«raccomandazione» a beneficio degli adulti: «Mi dà tanto fastidio quando in chiesa un
bambino piange e ci sono persone che non vogliono essere disturbate e dicono che deve
andare fuori. Perché il pianto di un bambino è la migliore predica, è come la voce di Dio:
mai cacciarli via dalla chiesa!». Le parole del Papa, nel giorno in cui a San Pietro ha
benedetto i «bambinelli» del presepe, richiamano la scena memorabile di inizio anno, il
12 gennaio, durante la festa del battesimo nella Sistina, quando invitò le madri presenti
ad allattare pure, nel caso: «Il coro più bello è questo dei bambini che fanno rumore...
Alcuni piangeranno perché non sono comodi o hanno fame: se hanno fame, mamme,
date loro da mangiare, tranquille...». È l’ottava visita a una parrocchia romana del Papa
che esorta la Chiesa a uscire da se stessa e andare verso le periferie geografiche ed
esistenziali, anche perché «la realtà si capisce meglio guardandola dalla periferia, non
dal centro». Un principio che si accompagna al richiamo all’essenziale, lo sguardo degli
«ultimi» e dei «piccoli», specie sotto Natale. Così Bergoglio dice nell’omelia che «un bel
pranzo, tutti belli contenti, va bene», però «la gioia cristiana è un’altra cosa» e non ha
nulla a che fare con «il consumismo che ci porta il 24 dicembre a essere in ansia perché
mancano dei regali», ma è «un dono di Dio che viene dalla preghiera». Racconta
scherzando di aver conosciuto una suora «che era buona ma si lamentava sempre, la
chiamavano Suor Lamentela» e dice che «non si può vivere così, non è cristiano», e che
«fa male trovare cristiani con la faccia inquieta». Bisogna «pregare, rendere grazie per
le cose buone che abbiamo, a cominciare dalla fede, e portare sollievo e pace a chi
soffre». Nella città di Mafia Capitale, dove i malavitosi facevano soldi su nomadi e
immigrati, Francesco incontra una famiglia di rom - una ventina di persone tra nonni,
figli e nipoti - che vive in un campo e da quindici anni viene a messa ogni domenica, e
ancora malati, poveri e famiglie in difficoltà, tutti aiutati dalla parrocchia e dalla realtà
della Chiesa. Lo accolgono striscioni colorati di «buon compleanno»: il Papa mercoledì
compie 78 anni, rivela di essere stato battezzato proprio il giorno di Natale e invita tutti
a tenere a mente la propria data. Un ritorno ai fondamentali, come la distribuzione
all’Angelus di cinquantamila libretti con i testi delle preghiere e le «intenzioni suggerite
dal Papa» per ogni dito della mano.
Pag 27 Il vescovo bocconiano che aiuta gli imprenditori a mettersi insieme di
Dario Di Vico
A Pavia diocesi e Confindustria unite per le aziende in crisi
A Pavia, nel cuore del Nord industrializzato, la politica industriale provano a farla la
diocesi e la Confindustria locale. È un’iniziativa dal basso che punta innanzitutto a creare
sinergie tra le Pmi della zona per poi indirizzarle verso processi di aggregazione, il tutto
in un territorio che ne ha proprio bisogno visto che il 96 per cento delle aziende è sotto i
9 addetti. Ma è anche uno sforzo che cerca di cucire economia e territorio non lasciando
soli gli imprenditori e mobilitando al loro fianco la comunità. Il debutto di «Made in
Pavia» - così si chiama il progetto - è previsto per venerdì, il 19 dicembre, e tutto si
svolgerà non in una sala confindustriale o della Camera di Commercio bensì nel
complesso della Chiesa del Sacro Cuore, che oltre ad essere luogo di culto vanta un
salone espositivo adiacente. L’ideale per ospitare gli stand delle aziende. A proporre
l’insolita location è stato don Franco Tassone, il responsabile della pastorale del lavoro
della diocesi di Pavia e la sua proposta è stata entusiasticamente approvata dagli altri.
Perché, come hanno riconosciuto gli imprenditori locali, «qui la Chiesa sa dare
insegnamenti di modernità e di concretezza». Don Tassone è un caterpillar, è difficile da
fermare ma è anche vero che il suo superiore, il vescovo di Pavia monsignor Giovanni
Giudici, oltre ad essere stato un allievo del cardinale Martini, ha studiato alla Bocconi,
dove si è laureato in lingue. L’insolita partnership Chiesa-Confindustria è iniziata nei
primi mesi del 2014 quando la Curia, prendendo a prestito un progetto della Cisl per la
riqualificazione degli edili disoccupati, bussò a casa degli industriali dando inizio così a
una collaborazione che sarebbe andata ben oltre. Don Tassone, insieme al responsabile
delle relazioni sindacali, Fabrizio Raina, decise di iniziare un viaggio di ricognizione nella
realtà produttiva pavese, dove non si contano le imprese che hanno dovuto chiudere per
la recessione e l’ultima delusione è stata rappresentata dal mancato passaggio della ex
Merck (farmaceutici) al gruppo Zambon. La strana coppia del prete e del confindustriale
ha girato almeno 15 medie aziende, inizialmente per mettere a conoscenza i titolari del
progetto di riqualificazione degli edili e poi via via per capire meglio le loro esigenze e
metterle a fuoco anche in chiave di proposta. Politiche sociali a braccetto di quelle
industriali. Rispetto ad altre zone del triangolo lombardo-emiliano-veneto Pavia non
vanta i distretti, le singole eccellenze non si sono date una vera specializzazione
produttiva e non hanno germinato nel territorio esperienze diffuse. Per questo motivo la
provincia è più indietro rispetto alle altre nelle politiche di innovazione e dell’export. Ci
sono aziende brillanti in diversi settori ma anche le realtà migliori lavorano quasi
esclusivamente sul mercato interno, parlano poco tra loro e non dialogano, ad esempio,
con l’università. Così il gruppo più grande della zona è il riso Scotti mentre le medie
hanno sofferto più delle altre. Il progetto di «Made in Pavia», pur giovandosi dell’apporto
celeste, non potrà risolvere tutti questi problemi ma può rappresentare un passo nella
giusta direzione. Un passo che ha incontrato il favore di Davide Caprioglio della
Colmegna (edilizia, 8 milioni di fatturato, 65 dipendenti) che insieme a 11 colleghi ha
dato vita alla prima rete d’impresa. La Confindustria ha messo al servizio la struttura
nazionale coordinata dal vice-presidente Aldo Bonomi e così il progetto ha potuto
prendere corpo. La rete inizialmente metterà insieme aziende di differenti settori che
potranno decidere assieme gli acquisti di elettricità, gas e telefonia. È prevista poi la
sperimentazione di un servizio comune di e-commerce. Il secondo step prevede la
nascita di altre reti di impresa, almeno una per ciascuna specializzazione produttiva
(alimentare, casa e meccanica). «Pensiamo che si possa fare business restando a Pavia,
bisogna solo motivare gli imprenditori. E abbiamo trovato nella diocesi un partner
straordinario» conclude il direttore della Confindustria, Francesco Caracciolo.
L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 14 dicembre 2014
Pag 4 La controcultura del celibato di Jean Mercier
Sfida alla mentalità contemporanea
«Più che mai il celibato del prete cattolico ha cattiva stampa». Inizia così il libro Célibat
des prêtres: la discipline de l’Église doit-elle changer? (Paris, Desclée De Brouwer, 2014,
pagine 350, euro 19,90) del giornalista Jean Mercier, direttore aggiunto del settimanale
«La Vie» e specialista di questioni religiose. Intelligente e vivace, il testo è una lunga
inchiesta sulla Chiesa. Tra storia e attualità, l’autore non schiva i problemi, dalla
tradizione biblica alla situazione e al dibattito tra la fine del Novecento e l’inizio del
nuovo secolo, interrogandosi sulle critiche al celibato e sulle sue prospettive. Del libro
pubblichiamo quasi per intero la conclusione.
Dopo un percorso allo stesso tempo storico, teologico e spirituale, è inevitabile una
constatazione: il celibato sacerdotale si ritrova oggi nella posizione di accusato. Lo si
ritiene responsabile di un certo numero di devianze sessuali tra i sacerdoti e causa
principale della penuria di vocazioni. Tale processo viene sistematicamente istruito dai
media, in particolare quando vengono alla luce scandali e quando un prete lascia il
ministero perché ha deciso di sposarsi. Ogni volta, la sfera emotiva e i buoni sentimenti
sembrano avere la meglio su una prospettiva teologica o spirituale, o semplicemente sul
buon senso, per chiedere l’abolizione di una disciplina giudicata arcaica, anzi crudele. Ci
sono, in particolare tra i cattolici, anche quelli praticanti, un’ignoranza e
un’incomprensione delle sfide teologiche e spirituali del celibato dei loro sacerdoti. Il
punto più difficile da accettare per i nostri contemporanei è che un prete celibe non
possa unirsi a una donna se se ne innamora, ma debba lasciare il ministero, proprio
quando alla Chiesa mancano i sacerdoti. Per la maggior parte di loro, si tratta di uno
scandalo, di un’ingiustizia, di un’assurdità. Di fronte a tale problema, non esiste alcuna
soluzione “possibile” agli occhi della Chiesa cattolica. La Chiesa orientale od occidentale,
nata duemila anni fa, non ha mai accettato che un prete celibe possa sposarsi e restare
sacerdote. I futuri preti che s’impegnano solennemente a restare celibi durante la loro
ordinazione come diaconi lo sanno, e la Chiesa ritiene che non sia possibile ritrattare
quella promessa. Questa temibile questione sembra sbarrata e, se non è impossibile che
una giurisprudenza nuova possa esistere, nessuna tradizione ecclesiale potrebbe
comunque servirle da appoggio. Resta la questione dell’ordinazione di uomini sposati,
oggetto di un dibattito molto vasto in seno al cattolicesimo, soprattutto perché si può
appoggiare su una tradizione antica e perché ai nostri giorni si pratica già in modo
omeopatico nella Chiesa latina. La sua massiccia generalizzazione appare a molti come
la soluzione urgente ed evidente per risolvere il problema delle devianze dei preti, della
loro cosiddetta frustrazione sessuale, e, soprattutto, per sopperire alla penuria di
vocazioni. Questo libro è una sorta di audit di fattibilità su questo argomento. Tiene
conto della realtà delle poste in gioco e delle difficoltà incontrate sia nelle Chiese
orientali sia nella Chiesa latina, con i suoi ex ministri della Riforma diventati preti
cattolici. La verità è che un clero sposato pone tutta una serie di sfide. L’ordinazione di
viri probati potrebbe essere una falsa buona idea se crea nuovi problemi, più complessi
di quelli precedenti (il divorzio, per esempio). La Chiesa potrebbe dunque metterla in
atto solo con un infinito discernimento. Il celibato sacerdotale è uno dei fondamenti della
tradizione cattolica, che va ben al di là di una semplice questione disciplinare o giuridica.
La sua giustificazione teologica è fragile, poiché la Chiesa non può dire che il celibato sia
una condizione ontologica del sacerdozio. Esiste dunque un “margine” d’interpretazione
sulla sua necessità. Il celibato non è altro che la cornice più “conveniente” per il
sacerdozio. Ma non lo si può affrontare senza sconvolgere l’identità del sacerdozio. Non
è d’altronde dimostrato che si tratti di un’aspettativa urgente dei cattolici che vanno a
messa ogni domenica, peraltro molto mal rappresentati nei sondaggi... L’eventuale
evoluzione della pratica sarebbe che la Chiesa estendesse, poco a poco, il regime di
dispensa dal celibato a casi rari di vocazioni eccezionali di uomini sposati, per rispondere
a desideri molto particolari suscitati dallo Spirito Santo, in seno a una coppia. È quanto
avviene con gli ex ministri della Riforma. Ma se l’eccezione conferma la regola, non può
però farla scomparire. Verrebbe dunque mantenuto l’obbligo al celibato, con la
possibilità di eccezioni più ampie di quelle già esistenti, che si limitano agli ex ministri
protestanti o anglicani. Al contrario, l’idea di decretare, alla fine di un (ipotetico) concilio
Vaticano III, che gli uomini sposati possono entrare in seminario alla stessa stregua di
quelli celibi, appare una pista pericolosa. La soluzione dei viri probati - uomini di età
matura che verrebbero fatti preti per tappare i buchi della pastorale - appare anch’essa
una falsa buona idea. Corrisponde a una rappresentazione mentale della Chiesa
ereditata dagli anni Cinquanta e Sessanta, un periodo in cui la gente era ancora a
maggioranza cattolica e in cui assicurare il tessuto sociale era un priorità. Ma questa
Chiesa catastale appartiene al passato, tanto più che, nell’era di internet, il processo
religioso di affiliazione non passa più necessariamente per il territorio. Il modello futuro
della Chiesa è quello di piccole comunità in diaspora, costituite attorno a poli eucaristici.
Ci vogliono quindi più preti apostoli, molto mobili. In un simile contesto, il celibato è più
adeguato. Oggi è l’azione missionaria a motivare i candidati al sacerdozio, all’opposto
della figura di un parroco-funzionario che regna su una parrocchia geografica ben
delimitata. Considerato per lungo tempo uno “scandalo”, il celibato non ha comunque
detto la sua ultima parola. Sta anzi acquisendo un nuovo valore nel riposizionamento del
cattolicesimo attuale come forza di resistenza anti-sistema, di fronte alle derive del
modello ultraliberale che impone il “pensiero unico” dello sviluppo personale attraverso il
consumismo individualista. Il celibato fa parte di un dispositivo che ridisegna la Chiesa
come uno spazio controculturale, che può ispirare nuovamente una generazione. I
giovani sacerdoti e le giovani generazioni di cattolici non vogliono una evoluzione
“piccolo-borghese” del sacerdozio. I giovani parroci non hanno voglia di riunire laici che
non sempre possono dare alla preghiera il posto che le spetta. La rivendicazione del
“matrimonio dei preti” è rifiutata dai giovani cattolici che entrano in seminario, mentre
appassionava i seminaristi nel 1968... Da venticinque anni il bilanciere pende nell’altro
senso, rispetto agli anni Settanta, verso un ritorno alle forme antiche, in particolare dal
punto di vista liturgico. È il ritorno delle figure missionarie, itineranti, come i gesuiti
dell’America del sud, modello che incarna Papa Francesco. Il matrimonio e il celibato
sono due vocazioni parallele. La teologia del matrimonio è considerevolmente cambiata
nell’arco di cinquant’anni. Il pontificato di Giovanni Paolo II ha rappresentato una svolta
in questo ambito. Il Papa polacco ha esaltato l’unione tra l’uomo e la donna e ha messo
fine a ogni denigrazione dell’atto coniugale: la visione del matrimonio come concessione
a quanti non possono fare a meno dei rapporti sessuali è stata messa completamente
fuori gioco. Negli anni Ottanta dello scorso secolo si è assistito all’esplosione dell’unione
libera, alla banalizzazione del divorzio, ma Giovanni Paolo II ha risacralizzato il
matrimonio. Oggi, l’ipersessualizzazione della società e l’esaltazione dell’adulterio nei
media espongono il legame coniugale a una sorta di ordalia permanente. Questo
contesto attribuisce al matrimonio una funzione profetica, anzi cavalleresca, soprattutto
in ambito cattolico. Il matrimonio tra un uomo e una donna diviene una sorta di
consacrazione reciproca e religiosa di tipo nuovo. Parallelamente, la posta in gioco del
celibato sacerdotale si è spostata: è stata abbandonata l’esaltazione della purezza
verginale, ancora molto forte nel dopoguerra. I giovani sacerdoti non sono gelosi delle
prerogative coniugali dei laici. Non abbracciano il celibato per sfiducia verso il sesso che
sarebbe “sporco” o che li avrebbe allontanati da Dio. Molti sottolineano che una vera
rinuncia non può che avere un oggetto bello e buono in sé, per definizione. La loro
continenza non è una questione di ascesi o di privazione, ma la scelta di un’altra felicità.
Essi ricordano che Gesù non ha mai descritto la sua rinuncia alla sessualità come una
svalutazione dell’atto coniugale, ma l’ha spiegata come un segno “per il Regno dei cieli”.
Cristo mostra che il mistero pasquale è il suo luogo nuziale con la Chiesa, ed è questa
via d’identificazione che “funziona” per i giovani sacerdoti di oggi. I preti nati dopo il
concilio incoraggiano in particolare questa duplice ri-sacralizzazione in parallelo del
sacerdozio e del matrimonio, secondo una complementarietà, sulla falsariga di Giovanni
Paolo II. Di modo che appare molto difficile ambire a vivere due vocazioni “totalizzanti”
allo stesso tempo, come avrebbe l’obbligo di fare il prete sposato. Di conseguenza, la
Chiesa non sembra potere - né volere - considerare l’articolazione teologica tra i due
sacramenti, il che sarebbe necessario se si pensasse d’istituire l’ordinazione di uomini
sposati. Questa lacuna teologica è peraltro una delle difficoltà incontrate dai diaconi e
dalle mogli. Tale blocco è ancor più legittimo se si concepiscono i due sacramenti come
due marce nuziali verso la santità che mobilitano ambiti spirituali e teologici diversi. Vale
la pena interrogarsi sulla realtà della penuria di sacerdoti. Certo, i preti sono al limite del
burn out. Ma sono soprattutto sommersi da compiti organizzativi e amministrativi, non
solo specificamente sacerdotali. La sfida ben più grande è quella di una fase di
mutamento delle comunità cristiane, una fase molto pericolosa, poiché, da qui a una
quindicina di anni, il numero dei sacerdoti in attività precipiterà in modo drastico, fino a
giungere a circa tremila in Francia. In alcune diocesi rurali, resteranno solo una decina di
preti a mandare avanti la baracca, in condizioni estremamente acrobatiche, soprattutto
per il loro equilibrio o la loro salute fisica. In molti altri Paesi d’Europa la situazione è
analoga. Molti cristiani non hanno ancora preso atto di quanto succederà e immaginano
che la Chiesa possa continuare a offrire loro una sorta di servizio pubblico dell’ambito
religioso - che ancora funziona in alcuni luoghi - senza che debbano impegnarsi in modo
concreto, né attraverso il loro aiuto economico, né condividendo i loro talenti. La loro
partecipazione all’Eucaristia è troppo spesso la variabile nell’organizzare il tempo nel
weekend, come lo è anche il tempo riservato alla preghiera e allo studio della Bibbia. La
Chiesa è destinata a convertirsi o a scomparire. Poiché sarà certamente sempre più
difficile essere cristiani in una società le cui opzioni si allontanano dal Vangelo, i cattolici
dovranno confrontarsi con la verità del loro rapporto con la persona di Cristo, della loro
cura nel mantenere tale rapporto attraverso la preghiera e la frequentazione dei
sacramenti. In base a questa realtà, il loro modo di vivere la fede si avvicinerà
all’impegno faticoso e militante delle Chiese evangeliche. Prenderanno allora coscienza
che non spetta al prete andare da loro, adattarsi ai loro bisogni, ma che essi stessi
dovranno fare uno sforzo. Per ricevere il Corpo di Cristo, per esempio. Ciò non è facile
da accettare, perché negli ultimi quarant’anni la comunione è stata banalizzata. Questo
nuovo dato potrebbe generare una nuova coscienza e una nuova fiducia tra i cattolici:
ossia che devono incoraggiare la vocazione al sacerdozio tra i loro figli, nelle loro
parrocchie e nelle loro scuole o università cattoliche. Altrimenti nulla cambierà. La
questione di fondo è che i genitori devono riacquistare fiducia nel fatto che il sacerdozio
può essere un cammino di felicità per i loro figli. La stragrande maggioranza dei
formatori nei seminari constata la fragilità e l’immaturità dei candidati al sacerdozio, che
sono quelle tipiche della loro generazione. Ciò implica una coraggiosa presa di coscienza
delle sfide fisiche e spirituali fin dalla formazione in seminario, e un accompagnamento
serio dei sacerdoti dopo l’ordinazione. Il ministero sacerdotale sarà sempre più difficile in
un contesto occidentale in cui il cristianesimo è chiamato a diventare una minoranza
creativa non ripiegata su se stessa. La gioia di vivere e l’equilibrio dei sacerdoti
influenzeranno la chiamata di altri giovani uomini a seguire quel cammino, e la
credibilità della Chiesa e del Vangelo. Impegnarsi per sempre in uno stato, sia esso
quello del matrimonio o quello del celibato consacrato, è una sfida contro la paura.
Quella di non essere all’altezza, di sbagliare, di fallire. Il celibato - come pure il
matrimonio, anche se ciò si percepisce meno - rimanda alla questione della grazia, ossia
alla forza che Dio dà gratuitamente per andare avanti, giorno dopo giorno, la cui
immagine tipo è quella della manna donata nel deserto. Come la manna, la grazia non
s’immagazzina come le riserve nella gobba dei cammelli. Si riceve giorno dopo giorno.
Va di pari passo con la fede e la speranza e costruisce l’amore. Tutta la riflessione sul
futuro della Chiesa riposa dunque sulla questione dell’accoglienza della grazia. La grazia
divina - che permette di mantenersi nel matrimonio o nel celibato - non si “merita”, ma
presuppone condizioni di ricezione, un’apertura del cuore che riveli un’autentica lotta
spirituale, da riprendere ogni mattina.
AVVENIRE di domenica 14 dicembre 2014
Pag 2 E’ l’ordinario il vessillo dell’incarnazione di Alessandro D’Avenia
L’Avvento si consuma in autunno: un disegno nel quale c’è una logica divina
«Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico
che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio
veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai
più per voi, gente di poca fede?». L’Avvento si consuma in autunno. Le città si riempiono
di colori che non lasciano indifferente chi vi cammina con occhi devoti non solo allo
schermo del telefono. C’è una bellezza singolare nel disfacimento delle foglie: una
paradossale sinfonia di colori caldi canta la morte, prima che la luce torni a prevalere
sulla notte proprio con il solstizio invernale. Questa logica di bellezza nel disfacimento
non è sfuggita né al pittore né al fisico. Rouault – uno dei pochi artisti del ’900 che, in
quanto contemplativo, sapeva fare arte sacra, non semplicemente religiosa – dipinge un
quadro originale: Autunno a Nazareth. È una scena quotidiana, il giovanissimo Gesù
scende da una strada, accompagnato da qualcuno, e va verso due figure di donne con
bambini. Sono gli anni della cosiddetta vita 'nascosta' di Cristo (o semplicemente
ordinaria?). Tutto è immerso in un meraviglioso paesaggio autunnale, con colori caldi
che dialogano e contrastano con i blu delle tenebre (non a caso colori complementari).
C’è un senso di attesa e pace: nelle tenebre si fa strada la luce, in modo molto naturale,
Cristo raggiunge gli uomini che lo attendono sulla strada, come d’Avvento. Il paesaggio
ruota attorno alla figura bianca che scende: si incarna, nelle vie umane. Un autunno
qualsiasi di un paesino qualsiasi, in un tramonto qualsiasi sospeso tra tenebra e luce, tra
alberi qualsiasi che alludono all’albero della vita e a quello della croce. Dio, come già
nella Genesi, sul far della sera continua a passeggiare nel giardino, con gli uomini. Il
fisico Henri Margenau, ne Il miracolo dell’esistenza, sottolinea la problematicità di
risolvere la bellezza armonica delle cose in termini di casualità o lotta per la
sopravvivenza: «Perché c’è tanta bellezza nella natura? Noi non crediamo che la bellezza
stia solo nell’occhio dello spettatore. Alla base delle esperienze di bellezza, o almeno di
alcune, ci sono dei caratteri oggettivi, come i rapporti fra le frequenze delle note di un
accordo maggiore, la simmetria fra le forme geometriche, il fascino estetico della
giustapposizione di colori complementari. Nessuno di questi ha un valore di
sopravvivenza, ma sono frequenti in natura, in una misura incompatibile col caso. Noi
ammiriamo l’incomparabile bellezza di una foglia d’acero in autunno, col suo rosso
intenso, le nervature azzurre e i bordi dorati. Si tratta per caso di qualità utili alla
sopravvivenza quando la foglia è in disfacimento?». C’è una logica nelle cose, una logica
da stilista: Dio è stilista impareggiabile anche delle cose minime come il giglio votato al
disfacimento nel giro di poche ore. Nessuno riuscirà mai a riprodurne freschezza,
morbidezza e colori per vestire una donna. Questo 'spreco armonico' nelle cose è,
secondo Cristo, segno persuasivo di una cura infinitamente superiore verso l’uomo,
mancante di fede. Con l’Annunciazione la luce entra nella storia chiedendo permesso a
una ragazza impegnata in qualche faccenda quotidiana. Le faccende della casa, di ogni
casa, non sono più da sottovalutare, come non si devono sottovalutare i colori delle
foglie e i petali dei gigli: «Non vi è altra strada: o sappiamo trovare il Signore nella
nostra vita ordinaria, o non lo troveremo mai. La nostra epoca ha bisogno di restituire
alla materia e alle situazioni che sembrano più comuni il loro nobile senso originario,
metterle al servizio del Regno di Dio, spiritualizzarle, facendone mezzo e occasione del
nostro incontro continuo con Gesù Cristo» (san Josemarìa Escrivà, Amare il mondo
appassionatamente). Non è forse questo il paradossale manuale di istruzioni affidato ai
pastori per riconoscere il figlio di Dio? «Questo per voi il segno: troverete un bambino
avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia», cioè nessun segno se non la vita di tutti i
giorni. L’ordinario è il vessillo dell’incarnazione. Non è forse vero che quando sta per
nascere un bambino si moltiplica l’attenzione di tutti ai dettagli? Ci si prende cura di ogni
cosa: cibo, temperatura, movimenti minimi. I pastori, e noi con loro, cominciano a
educare la vista: la riconoscibilità di Dio è nell’ordinario, illuminato dalla luce della
grazia. Egli ama ri-velarsi, cioè 'velarsi di nuovo', per essere visibile a chi sa ricevere: in
una foglia autunnale, in un paesino sperduto, su una strada qualunque, in una stagione
autunnale. Come nel quadro, tutto è, se lo vogliamo, ogni giorno, Natale.
Pag 17 Siracusa in festa, santa Lucia torna a casa di Alessandro Ricupero
Oggi le spoglie della martire nel Santuario della Madonna delle Lacrime
Una festa all’insegna della memoria, della testimonianza e dell’attesa. Ricordando le
sofferenze che ha subito santa Lucia, capace di non perdere la speranza e affidarsi a Dio,
e nell’attesa delle sacre spoglie che arriveranno oggi a Siracusa da Venezia. Ieri la festa
della patrona, oggi si rinnova la comunione tra le due comunità, Siracusa e Venezia,
come ha ricordato l’arcivescovo Salvatore Pappalardo, che dal balcone, nel corso del
tradizionale discorso con il simulacro argento in piazza Duomo circondato dall’abbraccio
di oltre dieci mila persone, ha voluto ricordare anche le «notizie di forme gravi di
femminicidio e di infanticidio, che ci fanno atterrire. Nel mondo continuano a perpetrarsi
azioni delittuose che offendono gravemente la dignità della persona umana. È necessario
perciò ed urgente recuperare il senso bello della vita, reagendo a ogni forma di cattiveria
e di superficialità, di bruttezza e di prepotenza. Perché solo chi opera nel bene e nella
carità concorre a debellare ogni forma di cattiveria e di prepotenza ». E alla vergine si è
rivolto l’arcivescovo come «esempio fulgido di vita cristiana e, perciò, un modello da
imitare. Lei ci incoraggia a trovare proprio nella fede nel Signore Gesù il senso vero e
profondo della nostra esistenza, anche quando fossimo provati da difficoltà e tribolazioni.
Anche noi, pur tra tante difficoltà, possiamo e dobbiamo vivere la nostra vita senza
scoraggiarci, ma ponendo la nostra fiducia in Gesù morto e risorto, perché è Lui il nostro
Salvatore. Conformiamo la nostra vita alla 'Vita' di Gesù, così come ha fatto santa
Lucia». Al mattino è stato l’arcivescovo emerito di Siracusa, Giuseppe Costanzo, a
tenere il panegirico della santa: «Lucia ha mostrato al mondo che il Vangelo è non solo
credibile, ma anche vivibile – ha esordito –. Ella certamente gradisce il nostro amore e la
nostra devozione, ma ci ricorda che celebrarla non basta, occorre imitarla. Lucia ci invita
ad imitare la sua fede, la sua fedeltà, la sua fortezza nel vivere le beatitudini che non
promettono una vita facile, ma una vita grande, una vita di qualità». L’arcivescovo
emerito è entrato nel dettaglio: «L’uomo, oggi, vive per l’immagine, ossessionato
dall’immagine. L’ipocrisia è fare della vita un teatro in cui si recita per un pubblico; è
indossare una maschera, cessare di essere persona e diventare personaggio. Lucia fu
autentica, genuina, vera. La cultura del nostro tempo si caratterizza per i tre 'senza':
sesso senza amore; amore senza matrimonio; matrimonio senza figli. Il coraggio che ci
è chiesto per essere fedeli a Cristo e al suo Vangelo si manifesta in tanti modi: nella
capacità di andare controcorrente - come i martiri, come la nostra Lucia - opponendoci
alla logica di un mondo paganeggiante; nella disponibilità a farci schernire ed anche
emarginare, pur di non omologarci a quegli stili di vita che degradano la persona e ne
mortificano la dignità. Santa Lucia è la maestra da cui imparare». Di pomeriggio l’uscita
del simulacro dalla Cattedrale. La processione ha percorso le vie di Ortigia fino alla
Borgata, nella chiesa di Santa lucia al sepolcro dove resterà per l’Ottavario. E stamane
l’arrivo delle sacre spoglie. Un volo della polizia di Stato le porterà da Venezia
all’aeroporto Fontanarossa di Catania, dove scortate dalle forze dell’ordine arriveranno a
Siracusa. Dieci anni fa furono oltre ventimila le persone che attesero l’arrivo. Quest’anno
l’appuntamento è alle 15.30 al Pantheon: la processione proseguirà per corso Gelone,
transiterà davanti l’ospedale 'Umberto I' e arriverà al Santuario della Madonna delle
Lacrime dove il patriarca Francesco Moraglia presiederà la Messa. Infine una processione
porterà le reliquie nella Basilica di Santa Lucia al sepolcro dove resteranno insieme al
simulacro per l’Ottavario. Oltre 17mila prenotazioni di studenti, centinaia di pellegrinaggi
e 13 vescovi attesi per le celebrazioni.
Pag 23 Ecumenismo. L’unità “plurale” dei cristiani di Enzo Bianchi
Va riconosciuto che papa Francesco, fin dai primi giorni del suo pontificato, ha saputo
suscitare attese di una più profonda comunione tra le Chiese, con parole e gesti
riconosciuti anche dai non cattolici come derivanti dal Vangelo, obbedienti alla volontà di
Gesù espressa nella preghiera ultima al Padre: «Che siano uno perché il mondo creda»
(Gv 17,21). Il pellegrinaggio in Terrasanta e l’incontro con il patriarca ecumenico di
Costantinopoli e agli altri patriarchi presenti a Gerusalemme, il recente viaggio a
Istanbul con i ripetuti incontri con Bartholomeos, l’accoglienza e il dialogo - potremmo
dire inaugurato da papa Francesco - con gli evangelicali, la gioia con cui egli incontra
autorità delle Chiese non cattoliche sono segni evidenti di un clima mutato. Va anche
notato che oggi nell’oriente ortodosso vi sono alcuni patriarchi, come il 'papa' copto
Tawadros II o Youhanna X di Antiochia, che si sono mostrati aperti e seriamente
impegnati nel dialogo intraecclesiale. Condizioni favorevoli, dunque, per il dialogo
specialmente tra Chiesa cattolica e Chiese ortodosse - quattordici Chiese autocefale anche se tensioni e rivalità tra le autorità di queste Chiese creano complicazioni e
rallentamenti. Una tappa comunque importante nel dialogo teologico è rappresentata dal
Documento di Ravenna, firmato nel 2007 dalle Chiese ortodosse e dalla Chiesa cattolica,
in cui si afferma concordemente che non c’è sinodalità senza protos, un 'primo' e non c’è
protos senza sinodalità: questo a livello diocesano, regionale e universale, con il
connesso riconoscimento che a quest’ultimo livello il protos è ravvisabile nel vescovo di
Roma, «la Chiesa che presiede nella carità», secondo l’espressione di sant’Ignazio di
Antiochia, alla quale spetta un primato. L’ultima riunione della commissione di dialogo
cattolico-ortodosso, tenutasi ad Amman, ha dato segni di impasse, ma il dialogo
prosegue e la celebrazione del sinodo panortodosso nel 2016 potrà rappresentare
un’occasione di impulso e di sinfonia tra le Chiese ortodosse. Così, il dialogo con
l’ortodossia resta intenso, soprattutto con il patriarcato ecumenico di Costantinopoli:
papa Francesco a questo proposito ha dichiarato che «per giungere alla meta sospirata
della piena unità, la Chiesa cattolica non intende imporre alcuna esigenza, se non quella
della professione della fede comune»; quanto al ministero petrino, ha affermato che
intende continuare il confronto richiesto da Giovanni Paolo II nell’enciclicaUt unum
sintperché, ispirati dalla prassi del primo millennio, si giunga a un accordo sulle
«modalità con le quali garantire la necessaria unità della Chiesa nelle attuali
circostanze», cioè sulla forma dell’esercizio del primato. Colpiscono in questo senso le
parole di papa Francesco che legge le scomuniche comminate reciprocamente tra Roma
e Costantinopoli come un evento dovuto al fatto che «la Chiesa guardava a se stessa e
non guardava a Gesù Cristo!». Parimenti colpiscono le parole del patriarca Bartholomeos
circa «l’idea dell’impero cristiano e della societas cristiana, che hanno travalicato il
principio buono per introdurre lo spirito mondano » e questo perché «il seduttore del
mondo ha cercato e cerca di rendere vano l’annuncio del Vangelo». Una convergenza di
pensiero tra Francesco e Bartholomeos che stupisce, ma che si coglie nettamente dagli
incontri e dalle parole che si scambiano. Parallelamente al dialogo con le Chiese
ortodosse, prosegue da parte cattolica il dialogo con le Chiese orientali. La strada è
ancora lunga, ma la volontà c’è e l’ecumenismo del sangue è eloquente come mai e fa
riscoprire come per ogni cristiano sia decisivo il battesimo. Ma l’unità visibile può essere
ritrovata come nei primi secoli: un’unità plurale, che contiene la ricchezza della
differenza e sa trascendere i conflitti che non possono essere rimossi nel cammino della
Chiesa nella storia. Ma se sono così carichi di speranza i dialoghi con le Chiese d’oriente,
occorre ammettere - con rincrescimento ma con chiarezza - che più difficili si fanno i
dialoghi con le altre Chiese: un ultimo esempio viene dai rapporti con i vetero-cattolici a
causa dei loro accordi di intercomunione con Chiese della Riforma come quelle luterane o
della Comunione anglicana. Per la Chiesa cattolica, che riconosce ai vescovi veterocattolici la successione aposto- lica e la conseguente validità dei sacramenti, sorge ora
una domanda circa la loro comprensione della dottrina del ministero: è ancora quella
condivisa? Un dialogo che si fa ancor più accidentato con quelle Chiese della Riforma
dove l’ammissione delle donne al ministero episcopale e l’approfondirsi di un distacco su
molti temi di morale cristiana accentuano le divergenze. Semplificando in modo forse
eccessivo, si potrebbe dire che tra Chiesa cattolica e Chiese della Riforma c’è stato un
avvicinamento nella dottrina, soprattutto sull’eucaristia, ma un allontanamento sempre
più marcato in ambito etico, in particolare per ciò che concerne la morale sessuale e
matrimoniale. Inoltre occorre registrare che con queste Chiese si è fatto più evanescente
lo scopo stesso dell’ecumenismo: si è fatta strada infatti l’idea che occorra solo
riconoscersi reciprocamente, che non si debba cercare un’unità visibile nella professione
di fede e che ci si debba perciò rassegnare alle attuali divergenze perché si pensa che la
Chiesa è sempre stata divisa e che le diverse confessioni cristiane sono tutte legittime.
Ma per la Chiesa cattolica e per quelle ortodosse, così come anche per molti teologi,
pastori e fedeli protestanti, l’unità della Chiesa sta nella volontà di Cristo e ad essa non
si può rinunciare: equivarrebbe a dichiarare che il divisore ha la vittoria e che si accoglie
un pensiero debole in cui tutto si eguaglia senza una regula fidei. Oggi poi prende
sempre più corpo una novità che riguarda da vicino l’ecumenismo: l’emergenza delle
comunità ecclesiali di matrice evangelicale e carismatica. Sono una pleiade di comunità
locali, una rete di Chiese senza strutture unitarie che conta ormai 600 milioni di fedeli in
tutto il mondo. È una nuova forma di vivere il cristianesimo che entra nella storia, dopo
la divisione tra Oriente e Occidente nell’XI secolo e il discrimine della Riforma nel XVI
secolo. È molto difficile descrivere questo fenomeno cristiano così variegato,
parcellizzato, mobile... Si tratta di capire queste realtà che conoscono una grossa carica
missionaria e una forte espansione: come tracciare un dialogo con queste realtà? Che
rappresentatività di questa miriade di comunità si può delineare per un dialogo efficiente
e fruttuoso? Si possono certo fare incontri personali in cui l’essere cristiani implica il
rispetto, la collaborazione, il riconoscimento del battesimo come fondamento della vita
cristiana, ma resta vero che la realtà evangelico-pentecostale è una nebulosa con cui il
confronto dottrinale è difficile, esile e non sempre possibile. Dobbiamo d’altronde tenere
conto di tre evidenze: innanzitutto, l’ecumenismo ha solo un secolo di vita e, per la
Chiesa cattolica, solo cinquant’anni di pratica autorizzata a livello ecclesiale. Inoltre
esistono situazione di 'non contemporaneità' tra le Chiese: le rispettive storie sono
diverse, altro è l’Occidente, altro il Medio Oriente, altro l’emisfero Sud del mondo e altro
ancora l’Estremo Oriente. Dovremmo avere l’onestà di riconoscere che sovente non
siamo culturalmente contemporanei. Infine, legato a questo dato, va costatato che oggi
più che mai si fanno sentire come determinanti le differenze culturali. Davvero nuove
sfide ci attendono, nuove congiunture ci condizionano. Ma l’ecumenismo non è una
moda e nemmeno un segno dei tempi: sta nella volontà del Signore Gesù Cristo ed
essere ecumenici fa parte dell’essere cristiani.
CORRIERE DELLA SERA di domenica 14 dicembre 2014
Pag 11 Renzi dal Papa, confronto su crisi e giovani di Gian Guido Vecchi
Città del Vaticano. Matteo Renzi attraversa la Loggia di Raffaello con la famiglia, la
moglie Agnese e i due ragazzi un passo indietro e la piccola Ester in posizione
privilegiata tra il padre e l’arcivescovo Gänswein a guidare la «processione laica»,
scherza il premier, fino alla porta della Biblioteca: «Adesso io e il tuo papà andiamo da
soli dal Santo Padre e poi torno», le sorride infine monsignor Georg. Sono le 10.59
quando la porta si chiude lasciando Renzi con Francesco, la prima visita ufficiale dopo
l’incontro «strettamente privato» del 4 aprile, a Santa Marta. Mezz’ora di colloquio «in
un clima sereno e cordiale» nel quale Bergoglio riprende il filo di ciò che ha detto il 25
novembre al Parlamento di Strasburgo, l’ultima volta in cui aveva incontrato il
presidente del Consiglio. La nota ufficiale parla di una «attenzione» particolare
all’«attuale contesto segnato da persistenti difficoltà di natura economica e sociale, con
conseguenze negative soprattutto per l’occupazione dei giovani», e aggiunge: «Si è
convenuto sull’importanza dell’educazione per promuovere il futuro delle nuove
generazioni». Tema che comprende la questione delle scuole paritarie cattoliche in
difficoltà, sul quale dall’incontro successivo tra Renzi e il Segretario di Stato Pietro
Parolin trapela una replica del premier: in tempi di crisi, per la scuola come per la sanità,
non ci sono altri soldi oltre a quelli già dati. Della crisi aveva parlato il Papa a
Strasburgo, «favorire le politiche di occupazione», «ridare dignità al lavoro», la
disoccupazione giovanile come «ipoteca per il futuro» di una società che sta «scartando»
una generazione. Francesco esorta a trovare «nuovi modi per coniugare la flessibilità del
mercato con le necessità di stabilità e certezza delle prospettive lavorative». Non è nel
suo stile entrare nelle scelte legislative dei singoli Paesi, l’attenzione è ai temi di fondo.
Se manca lavoro i giovani non mettono su famiglia. È ciò di cui Francesco parla anche a
Renzi: di recente il Papa ha invocato «una straordinaria e coraggiosa strategia in favore
delle famiglie» perché «da qui può iniziare anche un rilancio economico per il Paese».
Renzi, prima e dopo l’incontro, cerca di stemperare l’emozione con le battute. «Sono
mortificato quando non mi riesce bene il protocollo», esordisce («Quando andranno via i
giornalisti le racconto una battuta sul protocollo che mi ha detto appena rieletto il
presidente Napolitano»), poi ricorda a Francesco che l’altra volta gli portò un disegno
della figlia con il pontefice vestito di azzurro, «sicché i fratelli le hanno detto: ma sembra
il Grande Puffo più che il Papa!, e allora stavolta niente disegni». Quando gli presenta
Delrio e consorte, «hanno nove figli», Bergoglio sorride: «Avete vinto il campionato!».
Signore in scuro ma senza velo, clima disteso. E poi un’ora di colloquio con il cardinale
Parolin, specie sui temi internazionali già affrontati con Francesco: l’Europa «impaurita e
ripiegata su se stessa», la «grave preoccupazione per il progressivo peggioramento dei
conflitti nell’area mediorientale», la Libia. Si parla anche di «mutua cooperazione per
risolvere alcune problematiche di natura bilaterale»: oltre alle scuole, dossier come lo
status dei cappellani militari, che da tempo si dice rinunceranno ai gradi (e relativi
stipendi) per mantenere solo «l’assistenza spirituale».
Pag 11 Filosofia nuova, ma la Chiesa non è distratta di Andrea Riccardi
Oggi le rive del Tevere - come auspicava Spadolini - sono davvero larghe, tanto che
Italia e Vaticano sentono necessità di parlarsi a fondo. Lo mostra la visita di Matteo
Renzi al Papa in una cornice solenne rotta da un clima di cordialità. La Chiesa non è più
fonte di legittimazione per il governo. Non lo vogliono né Renzi, né il Papa. Nel quadro
del «ruinismo», dagli anni Novanta, il passaggio del premier in Vaticano era spesso un
riconoscimento: come per Berlusconi e D’Alema. Diverso è il caso di Prodi. Per il resto, la
Cei trattava da forza sociale con gli attori politici. Ora questa architettura é smontata.
Monti superò il «ruinismo» nell’intenso rapporto con Benedetto XVI all’insegna del
«salvare l’Italia». Per Renzi, non c’è più la questione vaticana, che ha segnato tanta
storia repubblicana da De Gasperi. La Chiesa non è problema di politica italiana. È, però,
per il premier una grande risorsa internazionale e una realtà rilevante in un’Italia che si
segmenta. Non a caso, il Papa e il premier hanno parlato di temi mondiali, entrambi
reduci dalla Turchia (di cui hanno trattato), preoccupati dello scenario mediterraneo.
L’Italia di Renzi ha una responsabilità crescente su questo orizzonte di conflitti a partire
dalla Libia: è tornata una marca di frontiera, non più con l’Est, ma a Sud. Le questioni
bilaterali - problemi finanziari, tasse, Ior - sono state a tema nel colloquio tra Renzi e il
Segretario di Stato, Parolin. C’è da accordare con l’Italia un Vaticano che si riforma come
amministrazione. La filosofia vaticana è nuova: non sconti o favori, ma nemmeno essere
messo in difficoltà. Resta fuori dai colloqui (non era il contesto) la Chiesa italiana nel
nuovo pontificato. C’è il problema della ricezione - non scontata - del messaggio e dello
stile di Francesco. Se la Chiesa italiana stenta a «uscire», come chiede il Papa, resta
aperta la questione di dove andare e di come camminare. Ma le circostanze
s’impongono, come mostra la drammatica crisi di Roma, che non è solo capitolina. Chi
conosce quanto il cardinal Bergoglio fece nella crisi argentina, sa che il Papa non sarà
distratto e insensibile.
AVVENIRE di sabato 13 dicembre 2014
Pag 2 Digiunare per l’essenziale di Giorgio Paolucci
La proposta del Patriarca di Baghdad ci sfida
Tre giorni di digiuno, preghiera e penitenza nei giorni che precedono il Natale, da lunedì
22 alla sera del 24 dicembre. Per invocare da Dio la liberazione di Mosul e della Piana di
Ninive e il ritorno degli sfollati alle case, al lavoro, alle scuole che sono stati costretti ad
abbandonare a causa dell’avanzata dei jihadisti dell’Is. La proposta del patriarca caldeo
Louis Raphael I Sako appare qualcosa d’altri tempi a noi, cristiani tiepidi d’Occidente,
sempre meno familiari a simili pratiche. Noi che – siamo sinceri – le guardiamo con un
sottofondo di scetticismo, considerandole in cuor nostro qualcosa di “spirituale” e quindi
ultimamente sterile e improduttivo. Eppure Sako si dice convinto che «Cristo ascolterà le
nostre preghiere» e sfodera una frase del Vangelo di Matteo: «Questa razza di demoni
non si scaccia se non con la preghiera e il digiuno». Perché quando si prega e si digiuna
ci si educa a capire cosa è davvero l’essenziale, di cosa si può fare a meno e Chi e cosa
è invece irrinunciabile. Le testimonianze che in queste settimane arrivano dall’Iraq
grondano sangue, violenza, odio e distruzione. Ma insieme ci raccontano di persone
capaci di resistere, di guardare in faccia una realtà dura e a tratti proibitiva, perché
affondano i piedi nell’Unico che rende capaci di sperare contro ogni speranza. Di migliaia
di cristiani che a Mosul hanno rifiutato il ricatto degli aguzzini dell’Is: la conversione
all’islam come contropartita per poter restare nelle loro terre. Raccontano di quattro
adolescenti decapitati per avere replicato ai loro carcerieri che li invitavano a recitare la
shahada, la testimonianza di fede nell’islam: «Amiamo Gesù e seguiamo solo Lui». Papa
Francesco ci ricorda che «per trovare i martiri non è necessario andare alle catacombe o
al Colosseo. Oggi, nel ventunesimo secolo, la nostra Chiesa è una Chiesa di martiri».
Parole che scuotono la fede “moderata” di tanti tra noi e ci inducono a chiederci: per chi,
per cosa siamo disposti a dare la vita? Dal 22 al 24 dicembre saremo febbrilmente
impegnati a cercare gli ultimi regali o a confezionare il menù per il pranzo di Natale.
Almeno una preghiera, almeno un pensiero saremo capaci di dedicarli a quanti ci
testimoniano qual è il bene più prezioso?
Pag 15 Nell’era ipertecnologica, puntare sull’umano di Domenico Pompili
Lo spazio partecipato del web chiede la responsabilità di essere samaritani
«Il ruolo dell’umanista cattolico consiste nel coltivare una riverenza non ordinaria verso
il passato e la tradizione mentre esplora ogni sviluppo a lui contemporaneo cercando le
cose dell’uomo, che il passato non ha ancora rivelato» (M. McLuhan, La luce e il mezzo,
p. 168). Questa citazione di un McLuhan meno noto mi pare estremamente appropriata
per introdurre una riflessione tesa a rilanciare e attualizzare il Direttorio sulle
Comunicazioni Sociali, a dieci anni dalla sua pubblicazione. Un testo dove le
comunicazioni sociali sono un crocevia di cambiamento e dove si auspica per i cattolici
un passaggio 'Da spettatori a protagonisti della nuova cultura mediale' come titola uno
dei paragrafi iniziali. In realtà, molte trasformazioni sono avvenute dal 2004 e nuovi
modi di essere protagonisti sono oggi possibili e diffusi. Per certi versi, dunque, il
Direttorio parla di un contesto ormai in parte superato, per la velocità dei mutamenti
tecnologici e culturali di questi dieci anni. Ma, per altri versi, è ancora estremamente
attuale e molte delle indicazioni metodologiche in esso contenute, proprio alla luce del
nuovo contesto, possono essere ulteriormente riprese e sviluppate. È forse venuto il
momento di una integrazione che aggiorni questo strumento, per renderlo
operativamente ancora più utile oggi. Esplorare gli sviluppi della contemporaneità
significa, prima di tutto, prendere atto che il contesto della comunicazione è
profondamente cambiato tra il 2004 e oggi. La digitalizzazione dei media, sempre più
convergenti tra loro, perennemente attivi e sempre più pervasivi e integrati nei nostri
ambienti quotidiani, rende oggi forse superata l’idea, presente nel Direttorio, di 'cultura
mediatica' o di 'comunicazioni sociali che plasmano una nuova cultura' (cap, I) o di
'societa mediatica' (cap. IV). Non perché i media non siano importanti: al contrario,
perché sono diventati una componente imprescindibile del nostro ambiente,
indipendentemente dal fatto che li usiamo o no. Società mediatica è quasi una
tautologia. I media sono ormai parte costitutiva dell’ambiente, non sono isolabili come
variabile a se stante. Anzi ogni tentativo di enuclearli come variabile autonoma non fa
che fa favorire interpretazioni deterministiche del loro funzionamento, sia nella variante
euforica (ci rendono socievoli e liberi) sia in quella disforica (ci rendono soli e
manipolabili). Sarebbe come voler immaginare una società senza strade, o senza
elettricità. Ne esistono, ma non è così quella in cui viviamo. Dove ci sono luoghi che
siano 'immuni' dai media, a cominciare da quel 'medium senza contenuto' che - secondo
McLuhan - è la luce elettrica, che così radicalmente ci ha consentito di prescindere dai
ritmi naturali del giorno e della notte? Un contesto, quello di oggi, dove i dispositivi non
si attivano solo quando li facciamo funzionare, ma interagiscono tra loro in un sistema
sempre più integrato: è il cosiddetto internet of things, dove tutti gli oggetti possono
acquisire un ruolo attivo e 'dialogare' tra loro grazie al collegamento alla Rete. Sempre
meno strumenti e sempre più ambiente. Se questo è il dato di partenza, a noi decidere
se adattarci semplicemente a questo ambiente, o abitarlo e renderlo abitabile, dandogli
una forma dove la nostra umanità possa esprimersi e fiorire. È questa direzione
dell’abitare, formulata già a partire dal convegno Testimoni Digitali del 2010 (22-24
aprile) e ora divenuta espressione di uso comune, che si sta cercando sempre più di
esplorare e sviluppare in tutte le sue implicazioni. In questo mutato contesto, assume
una nuova centralità la relazione, che è l’elemento veramente qualificante il passaggio
da un ambiente web 1.0 a uno 2.0. La rivoluzione dei media personali, degli smartphone
che consentono di emanciparsi dal personal computer e poter essere sempre connessi,
in mobilità, ha reso possibile una nuova centralità dell’interazione. Rispetto alla fase
precedente, dell’accessibilità a ogni tipo di contenuto, ora - come sostengono autori
come Manuel Castells e Henry Jenkins, è il pubblico stesso a diventare il contenuto. Oggi
il web, con l’enorme diffusione dei social media (ancora totalmente assenti nel 2004) è il
regno della conversazione e della condivisione. Diventano sempre più importanti le
storie individuali, le esperienze, l’implicazione, il coinvolgimento. Che li si chiami
grassrootsmedia, citizen media, media partecipativi, essi sono sempre facilitatori di uno
scambio continuo tra chi produce un messaggio e chi lo riceve e rielabora. Come scrive
Pierre Lévy, le comunità oggi sono sempre più cementate dalla mutua produzione di
conoscenza e dal suo reciproco scambio. In altre parole, si è passati dal computer come
medium interattivo al web come spazio partecipativo. Sono proprio questa
partecipazione, il coinvolgimento, la centralità della relazione e della condivisione (tra le
persone) che tessono un continuo legame tra territori materiali e digitali (tra i mondi),
rendendo la contrapposizione online/offline non solo poco vicina alle pratiche e ai vissuti,
soprattutto dei giovani, ma origine di un dualismo che ostacola comprensione e azione
responsabile nel nuovo ambiente 'misto'. Il problema non è dover scegliere tra vita onlineo vita off-line, come fossero antagoniste; la vita è una, e siamo sempre noi a
navigare tra i diversi ambienti: on-life. Un aspetto del Direttorio più che mai attuale e
meritevole di ulteriore sviluppo è proprio la centralità del 'fattore umano' rispetto alla
dimensione tecnologica e l’idea di 'responsabilità diffusa e condivisa' (anche dagli
utenti); o, detto con un linguaggio diverso, dei media come sistemi multi-agente, in cui
a ciascuno è chiesto di fare la sua parte. Questo passaggio è fondamentale, perché solo
a partire da una prospettiva antropologica si possono scongiurare dualismi e
determinismi, discernere le insidie del nuovo ambiente e valorizzare le nuove
opportunità a favore dell’umano. Il passaggio decisivo da una prospettiva orientata
all’umano ma focalizzata sui media a una pienamente centrata sull’umano, e sui media
solo in seconda battuta è tracciabile, a posteriori, leggendo in successione i titoli degli
ultimi due messaggi per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali (l’ultima di
Benedetto XVI e la prima di Francesco), che sono sempre le 'bussole' che orientano il
cammino dei nostri uffici e dei nostri media: dalle 'reti sociali' del 47esimo alla 'cultura
dell’incontro' del 48esimo. I media hanno senso e segno positivo laddove contribuiscono,
si pongono al servizio di questa cultura. Essi sono quella strada da Gerusalemme a
Gerico, quei grandi connettori e moltiplicatori di mobilità che oggi costituiscono il nostro
ambiente. Di per sé ci offrono più possibilità di muoverci e di incontrare i lontani: ma
non è la strada che ha impedito al sacerdote e al levita di fermarsi, né costretto il
samaritano a interrompere il suo cammino. È la responsabilità che ci prendiamo: se
esistere per noi stessi o fare spazio all’altro, prendendocene cura. Questa postura
esistenziale, che i media in sé né abilitano né disabilitano, offre poi uno sguardo di
libertà su tutto questo mondo ipermediale che altrimenti tenderebbe a sedurci e a
risucchiarci nelle sue logiche: come il Samaritano che, in quanto straniero, è più libero
dalle categorizzazioni e dalle convenzioni sociali, e sa cogliere l’unità della famiglia
umana al di là delle differenze apparenti. Abbatte i muri che ci dividono, invece che darli
per scontati. Il fattore umano si esprime dunque nell’essere-in-relazione: non una
relazione qualunque, ma una relazione di ascolto e sollecitudine premurosa, come l’icona
del comunicatore scelta da Papa Francesco ci suggerisce. Paradossalmente, l’era
ipertecnologica è l’era della scommessa sull’umano: o abitiamo questo tempo e questi
nuovi spazi con attenzione e premura per l’umano, o saremo assorbiti da un modello
tecnico che ci sfuggirà di mano, perché va molto più veloce della nostra capacità di
elaborarne i significati. Una terza via non c’è.
IL FOGLIO di sabato 13 dicembre 2014
Pag 3 Alle prese con le suore americane che vanno "oltre Cristo" di Matteo
Matzuzzi
Martedì il giudizio dopo la visita apostolica. Clima bonario ma con forti problemi. La fede
in discussione
Roma. Martedì sarà il giorno del giudizio per le suore americane, messe sotto inchiesta
nel 2008 dalla congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita
apostolica. Il cardinale prefetto della congregazione per gli Istituti di vita consacrata, il
focolarino brasiliano João Braz de Aviz, il segretario francescano José Rodríguez Carballo
e la responsabile della visita apostolica, suor Clare Millea, presenteranno i risultati
dell'indagine voluta dall'allora responsabile del dicastero per i religiosi, il cardinale Franc
Rodé. Alla conferenza stampa parteciperanno anche due rappresentanti delle suore
americane, compresa la presidente della Leadership conference of women religious
(Lcwr), l'associazione che riunisce la maggior parte delle religiose statunitensi e che è
tuttora sottoposta a un'altra indagine dell'ex Sant'Uffizio. "E' un fatto evidente che il
numero delle religiose americane è calato moltissimo" e si tratta di capire "dove sono le
cause di questa diminuzione", diceva sei anni fa il cardinale Rodé spiegando le
motivazioni della visita apostolica. "In un certo senso, si può dire di una certa mentalità
secolarista che si è propagata in queste famiglie religiose, forse anche un certo spirito
femminista". Il fatto è che, precisava il porporato, "sotto l'influsso del Concilio Vaticano
II, i religiosi hanno rifiutato la penitenza e l'ascetismo come cose del passato, si sono
sentiti a disagio nel vestire l'abito e hanno fatto della agitazione sociale e politica l'acme
della loro azione apostolica". La reazione non fu delle più soft, tanto che dalla celebre
scuola teologica gesuita di Berkeley, suor Sandra Schneiders si disse convinta che in
quella decisione romana non vi fosse "nulla di amichevole, trasparente e finalizzato ad
aiutarci". Quella visita, aggiungeva, è nient'altro che "un atto ostile". Nel frattempo, il
prefetto Rodé veniva pensionato per raggiunti limiti d' età, e al suo posto Benedetto XVI
designava il ben più flessibile Braz de Aviz, che fin dal principio si mostrava assai più
tollerante verso le sorelle americane sotto inchiesta, tant'è che oltretevere si dà per
certo un giudizio tutto sommato positivo della visita apostolica. Pochi mesi dopo l'
elezione di Francesco al Soglio pontificio, il porporato brasiliano - intervenendo
all'incontro delle Superiori generali - si disse convinto della possibilità "di tornare a un
dialogo che non è stato fatto prima". "Andare oltre Cristo e oltre la chiesa" Ma il punto
dolente nei rapporti tra Roma e le religiose americane è ancora rappresentato dal caso
della Lcwr, la più grande associazione di suore americane che una valutazione dottrinale
avviata dall' allora capo del Sant' Uffizio, il cardinale William J. Levada, accusava di
"voler andare al di là della chiesa e al di là di Gesù". Durissime le accuse specifiche nei
confronti delle suore che raggruppano circa l'ottanta per cento delle religiose locali (ma
con vocazioni in sensibile calo): Cristo non sarebbe stato il Messia, ma solo uno dei tanti
maestri, lo spirito del Sacro vivrebbe in "tutta la creazione". E poi posizioni ben poco
ortodosse su aborto, contraccezione, ordinazione delle donne, omosessualità. A chi
faceva loro notare che Giovanni Paolo II aveva chiuso il discorso sulla possibilità di far
celebrare la messa alle donne - orientamento confermato da Francesco in più d' una
occasione, l'ex leader della Lcwr, suor Theresa Kane rispondeva che "Giovanni Paolo II è
morto". Perfino sulla riforma sanitaria promossa da Barack Obama, le suore si
mostravano pubblicamente in disaccordo con la posizione ufficiale della conferenza
episcopale locale, contraria a ogni compromesso con il governo federale. Lo scorso 30
aprile, il cardinale Gerhard Ludwig Müller, incontrando i vertici del l' associazione, li
accusò di ammiccare al movimento filosofico della "Evoluzione cosciente", le cui tesi
sono "opposte alla rivelazione cristiana", visto che Dio viene sostituito con la materia
cosmica in evoluzione. Quando poi tali tesi sono prese senza rifletterci, aggiungeva il
porporato tedesco, "conducono inevitabilmente a errori fondamentali circa l'onnipotenza
di Dio, l'incarnazione di Cristo, la realtà del peccato originale, la necessità della salvezza
e la natura definitiva dell'azione salvifica di Cristo nel mistero pasquale". Davanti a
questo quadro, spiegava Müller, non è possibile usare "un linguaggio fiorito". Punto di
non ritorno era stata la decisione della Lcwr di assegnare il premio annuale
dell'associazione a Elizabeth Johnson, consorella e teologa celebre per il libro "Alla
ricerca del Dio vivente" messo all' indice nel 2007 dalla commissione dottrinale dei
vescovi statunitensi. Suor Elizabeth, infatti, faceva trapelare dubbi sul dogma della
Trinità, sostenendo che non è poi così certo che sia giusto parlare di Gesù unico
salvatore del mondo, dal momento che la Verità è conoscibile solo sommando il meglio
dei vari credo, dal buddismo al cristianesimo, dall' islam all' induismo. E poi, neanche nel
racconto della Genesi biblica, osservava la teologa alla Fordham University di New York,
tutto quadra come dovrebbe. "La mia preoccupazione è se una così intensa attenzione
sulle nuove idee come quella dell' evoluzione cosciente abbia allontanato le religiose
dalla capacità di sentire veramente cum ecclesia", si chiedeva Müller. Interrogativi che si
è fatto anche Papa Francesco, che poche settimane dopo l'elezione confermava con tutti
i crismi dell' ufficialità le conclusioni della valutazione dottrinale istruita a suo tempo dal
cardinale Levada. Tanto che i vertici della Lcwr, prima di chiudersi in un prudente
silenzio in attesa degli sviluppi dell' indagine affidata al vescovo di Seattle, mons. James
Sartain, accusavano Francesco di "essere come Benedetto XVI". L'ex presidente, suor
Florence Deacon, si mostrava perplessa: "Dubito che Bergoglio ci abbia seguito molto da
vicino quand'era in Argentina".
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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA di sabato 13 dicembre 2014
Pag 1 Le tante piazze del sindacato. I pochi distinguo dagli antagonisti di Dario
Di Vico
Dal palco della manifestazione romana il neosegretario della Uil Carmelo Barbagallo si è
fatto prendere la mano ed è arrivato ad invocare, bontà sua, «una nuova Resistenza».
Peccato poi che nel resto della giornata non abbia trovato modo di stigmatizzare gli
incidenti e i violenti scontri con le forze dell’ordine che si sono registrati a Torino, Milano
e nella stessa Roma. Avrebbe dovuto farlo perché, come hanno denunciato le
associazioni dei funzionari di polizia, siamo ormai di fronte ad «aggressioni premeditate,
accuratamente organizzate da veri e propri professionisti del disordine, travisati e armati
di corpi contundenti ed oggetti di ogni tipo». La verità, non da ieri purtroppo, è che i
cosiddetti antagonisti sono ormai diventati un prolungamento dei cortei sindacali, sono
cadute le barriere di una volta e i fedelissimi del caos servono comunque a fare massa
critica. In prima battuta per ampliare il numero dei partecipanti ai cortei necessario per
influenzare la comunicazione e i titoli dei telegiornali. E subito dopo per dare il segno più
tangibile dell’emergenza sociale in nome di un vecchio luogo comune della sinistra che
ama misurare la profondità del malessere di un Paese con l’intensità degli scontri tra
manifestanti e forze dell’ordine. Nella contaminazione tra pacifica protesta sindacale e
sovversivismo degli antagonisti, interessati per altro solo a devastare i centri urbani, si
possono rintracciare assieme vecchi e nuovi vizi. Si ripropone l’antica propensione dei
gruppi dirigenti a non farsi nemici a sinistra e si aggiunge il riflesso della feroce battaglia
politica che tre organizzazioni sindacali (Cgil, Fiom e Uil) hanno dichiarato contro il
governo e il tiranno Renzi. È ovvio che quando si tratta di combattere un piccolo
Thatcher non si può andare troppo per il sottile, se si deve abbattere una dittatura il fine
è così nobile che oscura i mezzi. Le maggiori responsabilità di questa contaminazione le
porta la Fiom che nel suo disegno di costruire una forza politico-sindacale di vera
opposizione ha sviluppato nel tempo un capillare network di relazioni con i Cobas e i
centri sociali. Il guaio è che la Cgil, nel momento del suo massimo sforzo organizzativo
antigoverno, ha immagazzinato queste relazioni e se ne è dissociata solo a posteriori.
Quando cioè undici poliziotti a Milano e due a Torino erano già stati feriti dai
manifestanti. Fortunatamente non è successo nulla di irreparabile e di conseguenza c’è
tutto il tempo per rinsavire. I funzionari di polizia chiedono nuove misure repressive
come l’estensione del Daspo già utilizzato contro gli ultras ma forse i primi ad usare il
cartellino rosso contro i violenti dovrebbero essere proprio la Cgil e il neopartigiano
Barbagallo.
CORRIERE DEL VENETO di sabato 13 dicembre 2014
Pag 5 Rosato: “C’è più voglia di assumere, ora la sfida è il tempo indeterminato”
di Gianni Favero
Jobs Act, congiuntura, 20 mila contratti a termine: parla il direttore di Veneto Lavoro
Venezia. Le assunzioni con contratto a tempo determinato in Veneto sono ripartite,
diecimila soltanto fra aprile e settembre, ed altrettanti sono i rapporti a termine che
sono stati rinnovati. E’ il primo effetto misurabile delle azioni di governo in termini di
riforma del mercato del lavoro, in questo caso attraverso il «decreto Poletti», per certi
versi, una «primavera» di quanto potrebbe verificarsi con l’entrata in vigore del Jobs Act
approvato dal Parlamento pochi giorni fa. La previsione, pur con tutte le prudenze del
caso, è del direttore dell’agenzia regionale Veneto Lavoro, Sergio Rosato, che legge in
questo segnale l’indizio che gli imprenditori veneti una certa voglia di assumere ce
l’hanno e che fino ad oggi sono mancati soltanto gli strumenti giusti. «In primo luogo –
spiega il direttore – l’aumento dei contratti a termine ci dice che le imprese hanno
cominciato ad apprezzare il fatto che la nuova formula sleghi l’assunzione da una precisa
esigenza da dichiarare in partenza, con tutti i rischi di vertenza che questo implicava se
nel frattempo subentravano altre esigenze industriali. Poi che i contratti di breve durata,
che ora si possono rinnovare fino a cinque volte in 36 mesi, meglio si adattano
all’orizzonte produttivo, purtroppo ancora corto, legato agli ordinativi. E magari con il
Jobs Act cominceremo a vedere anche altro».
Pensa cioè che dai contratti a termine a ripetizione si possa passare a rapporti stabili?
«Dipende sempre da come saranno i decreti di attuazione del Jobs Act. Però abbiamo
visto che negli ultimi due mesi l’impennata dei contratti a termine si è un po’ raffreddata
e ciò potrebbe essere avvenuto a causa dell’attesa di vedere come saranno davvero
questi contratti a tutele crescenti. Dell’articolo 18 alle imprese interessa poco. Quello che
conta è la possibilità di avere incentivi per i primi tre anni».
Insomma, assumere a tempo indeterminato potrebbe risultare finalmente conveniente?
«Se, tirate le somme, tale scelta costerà come una serie di contratti a termine brevi ma
sempre rinnovati, credo che molte imprese la faranno».
E’ ragionevole attendersi più posti?
«No. Migliorerà la qualità del lavoro che c’è. L’occupazione si crea solo se cresce
l’economia».
In Veneto in che fase siamo?
«In certi settori la fase di risanamento si è conclusa e ci aspettiamo un arresto
dell’emorragia di posti di lavoro a breve. Che non vuol dire affatto che gli espulsi
potranno essere riassorbiti».
Per dirla in altro modo, il Jobs Act si occupa di lavoro ma senza contribuire a generarlo.
«Bisogna chiarire che un intervento sulle regole di riforma del nostro diritto del lavoro è
utile e necessario. Però bisogna anche vedere la dotazione finanziaria. Se lo si vuole
affrontare senza aumentare la spesa, servirà a poco».
Di cosa stiamo parlando?
«Ad esempio di ammortizzatori sociali. In Veneto abbiamo qualcosa come 50 mila
disoccupati di lunga durata che hanno esaurito ogni forma di cassa integrazione, Aspi,
eccetera. E’ la situazione, soprattutto, degli ultracinquantenni che difficilmente il privato
potrà riassorbire».
Se i licenziamenti si fermeranno, insomma, chi è già fuori dal mercato del lavoro ci
rimarrà. Speranze zero?
«I soggetti espulsi provengono da quel pacchetto di aziende, da noi quantificato in circa
l’11% del totale, che dall’inizio della crisi hanno ridotto notevolmente o annullato il
proprio organico. Le altre hanno tenuto ma ora come ora non possono dare asilo a chi
sia stato licenziato dalle prime o a chi comunque cerchi lavoro per la prima volta».
E allora?
«Io sostengo che in fasi di difficoltà per l’economia privata è il settore pubblico che deve
comportarsi in maniera anticiclica. Nelle nostre amministrazioni non è stata fatta una
politica di svecchiamento e gli organici negli enti pubblici veneti sono al di sotto di quelli
di molti paesi europei».
Si continua da anni ad additare la pubblica amministrazione come centro di sprechi e di
inefficienze e lei immagina proprio lì un aumento degli addetti?
«Non sto parlando di amministrativi. Ci sarebbe un grande bisogno di informatici,
tecnici, statistici e figure specializzate».
L’obiezione automatica è quella dei limiti del patto di stabilità: com’è possibile pensare
ad assumere?
«Credo che il governo potrebbe impostare una trattativa diversa con l’Europa. Anziché
discutere di tempi di rientro del deficit o rosicchiare margini per lo sforamento dei tetti,
si potrebbe chiedere: cara Ue, un piano straordinario per il rilancio dell’occupazione al di
fuori dal patto di stabilità ce lo finanzi? Con più redditi, più consumi, meno disoccupati e
meno peso sul welfare, il Pil dovrebbe aumentare, no?».
In conclusione, il fatto che allo sciopero di ieri una parte del sindacato non abbia aderito
cosa le suggerisce?
«Renzi pone al sindacato una sfida, perché si confronti con una propria rappresentanza
reale e diventi attore di cambiamento abbandonando vecchie formule di
contrapposizione. Poi c’è la questione delle linee contrastanti sul ruolo del contratto
nazionale e di quello aziendale. La tesi che condivido è che occorra avvicinare l’asse
delle relazioni tanto più vicino al territorio e all’impresa quanto più questa è piccola».
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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
IL GAZZETTINO di domenica 14 dicembre 2014
Pag 1 Processo in salita per Orsoni: tutti contro l’ex sindaco di Gianluca Amadori
Tutti gli elementi raccolti finora dalla Procura sembrano puntare contro l’ex sindaco di
Venezia, Giorgio Orsoni, in relazione al presunto finanziamento illecito di 450mila euro
che l’allora presidente del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati, racconta di
aver versato "in nero" nel 2010 per finanziare la campagna elettorale per le Comunali in
laguna. Al momento non sarebbe emerso alcun riscontro sul possibile ruolo giocato dai
due esponenti di spicco del Pd, gli attuali deputati Michele Mognato e Davide Zoggia,
chiamati in causa dallo stesso Orsoni nell’interrogatorio da lui sostenuto il 9 giugno
scorso, subito dopo essere finito ai domiciliari per violazione della legge sul
finanziamento dei partiti. Nessuna delle persone ascoltate dagli investigatori ha dato
indicazioni o conferme in merito al fatto che i due onorevoli abbiano gestito quel
finanziamento, né che siano stati loro a spingere Orsoni a rivolgersi a Mazzacurati per
chiedere contributi elettorali. Zoggia e Mognato, ascoltati come indagati martedì scorso,
hanno negato di essersi mai occupati di finanziamenti per il candidato sindaco. Di
conseguenza non è escluso che la posizione dei due deputati del Pd finisca presto in
archivio come chiesto dai difensori, gli avvocati Guido Calvi, Gianluca Luongo, Marta De
Manincor e Alfredo Zabeo. Le loro dichiarazioni potrebbero però essere utilizzate per
sostenere l’accusa nei confronti di Orsoni, assieme a tutte le altre raccolte finora nel
corso dell’inchiesta. Quello del presunto finanziamento illecito per la campagna elettorale
del 2010 al Comune di Venezia è uno degli episodi minori emersi nell’ambito dello
scandalo del "sistema Mose", e certamente non è di gravità paragonabile alle maxi
tangenti contestate all’ex presidente della Regione, Giancarlo Galan, o all’ex assessore
Renato Chisso, accusati di corruzione. Ma ha avuto il maggior impatto mediatico per il
risalto della persona coinvolta - il sindaco di Venezia - poi costretto alle dimissioni.
Orsoni ha sempre respinto ogni addebito, spiegando che di un primo contributo "in
bianco" di 110mila euro, è certo della totale legittimità, in quanto regolarmente
registrato dal suo mandatario elettorale (la Procura invece ritiene che sia illecito in
quanto i soldi, ufficialmente provenienti da alcune società provenivano in realtà dal Cvn,
provento di false fatturazioni). Quanto al secondo contributo - quantificato da
Mazzacurati in circa 450mila euro - Orsoni ammette di averlo chiesto su sollecitazione
dei "maggiorenti" del Pd, ma di non aver materialmente visto i soldi, per il versamento
dei quali sostiene di aver fornito a Mazzacurati gli estremi del conto gestito dal suo
mandatario elettorale. Versione che contrasta col racconto dell’ex presidente del Cvn, il
quale parla di denaro consegnato a Orsoni personalmente, e in parte tramite il fedele
collaboratore Federico Sutto. Di una parte del contributo - 50 mila euro - si sarebbe
invece occupato il presidente della Mantovani, Piergiorgio Baita, sempre tramite Sutto.
Pur negando ogni responsabilità, lo scorso giugno Orsoni aveva concordato con la
pubblica accusa il patteggiamento di 4 mesi di reclusione e 15mila euro di multa, ma il
gip Massimo Vicinanza ha rigettato la proposta ritenendo la pena non congrua. L’ex
sindaco ha quindi dichiarato di volersi difendere a processo per dimostrare la propria
innocenza. La Procura si appresta a chiudere le indagini sull’ex sindaco, ma nel
frattempo sta conducendo una serie di nuovi accertamenti: tra pochi giorni si saprà se
sono stati raccolti altri elementi di prova contro di lui.
IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 14 dicembre 2014
Pag XV In coda per vedere l’icona miracolosa di Annamaria Parisi
Marghera: si conclude il pellegrinaggio della Madonna che piange, sacra agli Ortodossi
È la Madonna miracolosa che piange con in braccio il Bambin Gesù. Icona ortodossa
della Vergine detta "Boyana" della diocesi di Chernivtsi, in Ucraina. È arrivata a
Marghera in questo fine settimana per essere esposta per l’adorazione nella chiesa
ortodossa Moldava dei Santi Arcangeli Michele e Gabriele di via Radaelli. Per vederla, tra
credenti e curiosi, si prevede un afflusso di decine di migliaia di persone delle comunità
moldave venete: gli oltre seimila della provincia di Venezia, con i novemila da Padova e i
quasi quattromila da Treviso. «Per il suo arrivo a Marghera ci è voluto il benestare del
Patriarcato di Mosca con la benedizione delle autorità ecclesiastiche di Kiev. L’icona sarà
scortata giorno e notte da tre monaci ortodossi», racconta Dumitru Ciubarca, l’unico
parroco moldavo della comunità di Venezia, insieme al suo omonimo, il diacono
Zagorodniuc. L’evento era atteso in modo particolare: «La gente - prosegue il religioso racconta che la Vergine abbia fatto tantissime grazie e miracoli. Una volta alla presenza
dei fedeli ha pianto ininterrottamente per una settimana e poi nel ’93 si è verificato un
altro miracolo, ha iniziato a lacrimare anche il Bambino Gesù. Accade soltanto, e di rado,
durante la liturgia che dura tre ore, a partire dalle 9 del mattino». Tra strane sfere di
luce, un improvviso e inaspettato profumo di rose, superstizione e mistero, la gente ci
crede al punto che con i fedeli moldavi, per pregare la Madonnina ortodossa a Marghera
si sono prenotati anche diversi fedeli cattolici. «Ma la nostra piccola chiesa, conosciuta
per la verità da pochi, è di appena 48 metri quadrati. Raccoglie a malapena una
cinquantina di persone, non sappiamo come fare ad accogliere tutte queste persone»,
racconta tutto d’un fiato Constantin Chicu, portavoce della comunità moldava veneziana.
«Il professor Orsoni ha sempre dichiarato di non essersi mai interessato alla
organizzazione e gestione della propria campagna elettorale che è stata seguita da altri
soggetti ed in particolare da soggetti direttamente o indirettamente riferentisi al Pd. Tale
è stato l'accordo intervenuto con i maggiori rappresentanti del Pd a livello locale al
momento della accettazione della candidatura». Lo precisano i legali dell’ex sindaco di
Venezia, gli avvocati Francesco Arata e Daniele Grasso, in un comunicato diramato nella
tarda serata di ieri, attraverso il quale replicano a quanto è trapelato dopo gli
interrogatori degli onorevoli Michele Mognato e Davide Zoggia (indagati) e dell’ex
assessore Alessandro Maggioni (semplice testimone), ascoltati nei giorni scorsi in
Procura. I difensori dell’ex sindaco spiegano che Orsoni, «su sollecitazione di vari
esponenti politici ha occasionalmente avuto modo di invitare alcuni soggetti,
imprenditori e non, da lui conosciuti, fra i quali l'ing. Mazzacurati, a contribuire nel pieno
rispetto delle regole, al finanziamento della sua campagna elettorale», senza conoscere
«l'entità delle somme pervenute al mandatario elettorale, né come esse fossero spese,
se non parecchio tempo dopo la conclusione della campagna elettorale». Nel comunicato
si precisa che Orsoni «non ha mai ricevuto somme con modalità diverse da quelle
consentite dalla legge, né è a conoscenza che altri ne abbiano ricevute per sostenere la
sua campagna elettorale, al di fuori di quanto pervenuto al mandatario elettorale». Per
finire, i legali sottolineano che l’allora candidato sindaco «non ha mai avuto indicazioni di
fabbisogni finanziari precisi per la campagna elettorale né a sua volta ha dato indicazioni
di tale genere ad altri soggetti. Ogni affermazione difforme da quanto sopra precisato concludono gli avvocati Grasso e Arata - è destituita di ogni fondamento e contraria alla
realtà, frutto di pura fantasia, come risulta anche dal verbale di interrogatorio reso
avanti l'Autorità Giudiziaria».
LA NUOVA di domenica 14 dicembre 2014
Pag 31 Lettera appello a Zaia di don Torta
Pista Favaro – Dese
Favaro. La pista ciclabile Favaro-Dese torna alla ribalta. Domani alle 20.30, nella sala
parrocchiale di Dese, il Comitato Via Altinia organizza un’assemblea pubblica per
sollecitarne la realizzazione. Sarà presente il presidente di Municipalità, Ezio Ordigoni,
che su questo tema si è speso parecchio. E ci sarà pure il combattivo parroco di Dese,
don Enrico Torta, che nei giorni scorsi ha scritto una lettera al governatore Zaia, a nome
del paese. Ecco il testo: «Egregio Presidente, dopo 20 anni che stiamo lottando a Dese
per una pista ciclabile come collegamento con Favaro (lei sa come siamo tagliati fuori e
il pericolo di questa strada) un anno fa, finalmente, abbiamo avuto l'impegno scritto di
Comune, Provincia e Regione. Ora è la Regione soltanto che manca e tutto andrebbe a
catafascio. Mi pare orribile. A nome del Paese di Dese la prego di intervenire
personalmente per onorare il Vostro impegno». Lo stesso Ordigoni ha chiesto un
incontro urgente in Regione per ottenere un emendamento al Bilancio che consenta
l’inserimento di 420 mila euro per rispettare l’accordo di programma per la ciclabile.
Pag 32 Marghera: atto vandalico contro volto del Cristo di ma.to.
Testo non disponibile
CORRIERE DEL VENETO di domenica 14 dicembre 2014
Pag 1 L’importante è distinguere di Alessandro Baschieri
Dentro le inchieste
Si farà un solo processo importante. Le decine di migliaia di pagine che compongono
l’inchiesta per corruzione sul sistema Mose porteranno in aula come imputati, fra i
trentacinque arrestati e gli oltre cento indagati della prima ora, l’ormai ex sindaco di
Venezia Giorgio Orsoni e pochi altri. Forse, ma scommesse sul futuro e sulle indagini non
è serio farne, i due deputati che lo avrebbero convinto a chiedere soldi al Consorzio
Venezia Nuova per la campagna elettorale del Pd. La corruzione non c’entra nulla. Non ci
sono tangenti e nessuno si è intascato nulla perché l’accusa della procura è il
«finanziamento illecito dei partiti». Un’altra colpa, un altro reato. Più o meno grave non
importa, importa il tipo di messaggio che si sta sedimentando nell’opinione pubblica e il
fatto che i grandi nomi, dopo una trentina di patteggiamenti, sono usciti o usciranno
presto dall’infamante vetrina. Del resto era nata male. La mattina della grande retata
molti telegiornali aprirono l’edizione con l’arresto per tangenti del sindaco di Venezia.
All’estero la città sull’acqua è un simbolo, immensamente più conosciuto del Veneto e i
siti stranieri hanno graduato l’informazione rispettando questa gerarchia. Senza contare
che anche in Italia, anche oggi, su molti quotidiani ancora di tangenti nella fu giunta di
Venezia si parla. Un errore, non un cavillo. Il faticoso mestiere di distinguere, ovvero di
informarsi in maniera non superficiale, di andare oltre i titoli e le polemiche, si rende più
che mai necessario in un momento in cui ogni parola vale per la storia. Lo dobbiamo fare
noi giornalisti ma lo dovranno fare anche i lettori onde evitare che la crisi di valori della
politica travolga tutto e tutti mischiando responsabilità gravi, meno gravi, marginali o
addirittura inesistenti. Non vale solo per il Mose, vale per Mafia capitale, per l’Expo e per
tutte le grandi inchieste condotte da magistrati che di certo non hanno l’obiettivo di
minare la credibilità dell’intero Paese. Vale per chi ha incontrato o dialogato con i corrotti
e i corruttori, per le loro famiglie, per chi ha cenato o si è fatto fotografare con loro, per
chi ha lavorato a progetti o grandi opere che nascondono tra le loro pieghe la
corruzione. Vale per tutti questi inconsapevoli più che per Giorgio Orsoni, che
comunque, una busta zeppa di soldi del Mose e destinata al partito l’ha chiesta e
ricevuta. Scrive la Procura: «Sia Orsoni che Mazzacurati ammettono che il contributo fu
versato al fine di sovvenzionare una campagna elettorale costosa e che dopo un iniziale
versamento vi furono diverse sollecitazioni del candidato sindaco al presidente del
Consorzio per finanziamenti ulteriori (...) plausibile che la consegna a domicilio riferita
dal Mazzacurati sia stata la semplice collocazione di una busta anodina in una stanza
qualunque con vereconda indifferenza, seguita dalle consuete reciproche manifestazioni
di cavalleresche cortesie». Per il giudice tutto questo non meritava un patteggiamento
esiguo (e si può capire), per questo Orsoni finirà in tribunale.
Pag 5 Una dozzina in attesa di processo, ma i big hanno tutti patteggiato di
Alberto Zorzi
Le pene definite, quelle da definire: ecco chi vedremo in tribunale
Venezia. Il 28 giugno scorso, quando gli avvocati Daniele Grasso e Mariagrazia Romeo
uscirono dall’aula di udienza con la testa china e il volto teso, praticamente tutto doveva
ancora succedere. Il gip Massimo Vicinanza aveva appena bocciato l’accordo di
patteggiamento raggiunto tra i difensori dell’ancora sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e
la procura di Venezia, ritenendo troppo esigua una pena di 4 mesi di reclusione e una
multa di 15 mila euro di fronte all’accusa di aver ricevuto finanziamenti illeciti per un
totale di 560 mila euro dal Consorzio Venezia Nuova: 110 mila dichiarati, ma illeciti
perché «schermati» da alcune società private per nascondere il Consorzio, gli altri 450
mila versati direttamente «in nero» dall’ex presidente Giovanni Mazzacurati. O per lo
meno così aveva dichiarato l’anziano ingegnere di fronte ai pm negli interrogatori del
luglio 2013. Tutto doveva ancora succedere: all’epoca non c’era ancora la fila fuori dalle
stanze dei tre pm Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini, non si parlava di
patteggiamenti, non c’erano i milioni di euro restituiti alle casse dello Stato. Oggi, sei
mesi dopo, si attende a giorni che i pm depositino l’avviso di conclusione d’indagine e la
richiesta di rinvio a giudizio, e per assurdo il processo ripartirà proprio da Orsoni. L’ex
governatore Giancarlo Galan e il suo commercialista Paolo Venuti, l’ex assessore
regionale Renato Chisso e il suo segretario Enzo Casarin, l’ex presidente del Magistrato
alle Acque Patrizio Cuccioletta, l’ex consigliere regionale del Pd Giampietro Marchese, i
numerosi imprenditori e gli uomini del Consorzio, infine il generale delle fiamme gialle
Emilio Spaziante e il finanziere vicentino Roberto Meneguzzo (questi ultimi due a Milano,
dove è stato girato un troncone dell’inchiesta), hanno già definito la loro posizione con
un patteggiamento. Insomma, per quasi tutti i big dell’inchiesta sul Mose e sulla
Mantovani, che ha sconvolto il Veneto, non ci sarà mai un processo pubblico, non ci
saranno le domande e le risposte dei magistrati e degli avvocati, né quella «gogna
mediatica» che tanti cittadini chiedevano e di fronte alla quale la procura ha più volte
spiegato che l’obiettivo – di fronte a prescrizioni non troppo lontane – più che la
ricostruzione della storia di 15 anni del Veneto e una pena «esemplare» fosse una pena
«certa» e la sostanziale tenuta del quadro accusatorio. E così – tanto per fare qualche
esempio – Galan ha potuto chiudere i conti con la giustizia con una pena di 2 anni e 10
mesi e la confisca di 2,6 milioni di euro, Chisso con 2 anni e mezzo e 2 milioni di euro
(anche se entrambi hanno sempre negato le accuse), Cuccioletta con 2 anni e 750 mila
euro, Alessandro Mazzi (che era a capo della Grandi Lavori Fincosit) con 2 anni e con la
cifra record di 4 milioni di euro. Resta Orsoni, dunque, anche se non da solo. Se a
patteggiare finora sono stati 21 degli arrestati della retata della Finanza dello scorso 4
giugno (il 22esimo potrebbe essere, a giorni, il commercialista padovano del Consorzio,
Francesco Giordano), ci sono ancora una dozzina abbondante di potenziali imputati che
attendono di sapere che cosa ne sarà di loro. L’ipotesi più probabile è che la procura
chieda per tutti il processo, lasciando ai giudici la valutazione anche di quelle posizioni
che in questi mesi si sono dimostrate meno forti dal punto di vista del quadro
probatorio. Con lui ci sarà sicuramente Lia Sartori, ex europarlamentare di Forza Italia
(per questo il suo arresto è slittato di un mese, quando terminò il mandato a Bruxelles)
ed è curioso che il destino abbia voluto che i due imputati più illustri di questa tranche
«pubblica» siano proprio coloro che non sono accusati di aver preso «mazzette» dal
Consorzio, ma «solo» contributi elettorali illeciti. Sartori per i pm ha ricevuto 25 mila
euro con lo stesso metodo dello «schermo» di un’azienda e altri 200 mila euro «in nero»
da Mazzacurati, ma per la campagna elettorale, come avvenuto per Marchese. Una cosa
ben diversa dal caso di Galan e Chisso, che secondo l’accusa erano a libro paga del
Consorzio e che in cambio di milioni di euro di pagamenti avrebbero sostenuto il Mose e i
progetti di Mantovani con quelli che il codice penale definisce «atti contrari ai doveri
d’ufficio». Finanziamento illecito dei partiti da un lato, corruzione dall’altro. In sospeso ci
sono poi altre posizioni. Quella di Maria Giovanna Piva, ex presidente del Magistrato alle
Acque, anche lei accusata di corruzione, come il magistrato della Corte dei Conti Vittorio
Giuseppone. Lo stesso reato è contestato ai dirigenti regionali Giuseppe Fasiol e
Giovanni Artico, che però il tribunale del riesame scarcerò ritenendolo non provato. L’ex
segretario regionale della Sanità Giancarlo Ruscitti non venne arrestato, ma è accusato
per un falso contratto che in realtà serviva a mascherare un’azione di lobbying sul nuovo
ospedale di Padova, che interessava al Consorzio. Ci sono poi altri imprenditori (Nicola
Falconi, Luigi Dal Borgo, Andrea Rismondo), un paio di architetti (Dario Lugato e Danilo
Turato, direttore dei lavori della villa di Galan, secondo l’accusa sarebbero stati pagati da
Mantovani) e altri ancora. Prima di Natale per tutti quanti potrebbe arrivare un regalo
poco gradito.
IL GAZZETTINO di sabato 13 dicembre 2014
Pag 1 Quei 2 compagni così uguali, ma così diversi di Alda Vanzan
Terraferma mestrina, festa dell’unità di Zelarino. Uno è sul palco, sotto i riflettori. L’altro
è dietro i tendoni, a girare sula griglia polenta e costicine. Uno impara presto a bucare lo
schermo dei tg nazionali anche se è appena stato sconfitto. L’altro rifugge i salottini delle
televisioni locali anche quando è all’apice della carriera. Uno twitta assiduamente, l’altro
il profilo Facebook ce l’ha solo perché gli è stato generato in automatico. Sono fatti così,
Davide Zoggia e Michele Mognato. Simili e diversi. Stesse origini: Pci, Pds, Ds, fino al
Partito democratico. Tutti e due in quella che era la nidiata dei giovani su cui i vecchi
comunisti veneziani - i Gianni Pellicani, i Valter Vanni, i Renato Morandina - volevano
investire per far crescere una nuova generazione di amministratori. Analoghi i percorsi:
uno che comincia da consigliere comunale a Jesolo, l’altro che cresce tra la sezione di
Mestre e il municipio di Venezia. Stessa corrente. E adesso stessa sorte: entrambi
indagati per finanziamento illecito ai partiti, tirati in ballo dall’ex sindaco di Venezia:
sono stati Zoggia e Mognato con Giampiero Marchese a dirmi di chiedere soldi a
Mazzacurati per la campagna elettorale, ha raccontato Giorgio Orsoni lo scorso giugno
dopo essere finito agli arresti domiciliari. Marchese è stato in galera e ha patteggiato,
dimettendosi da consigliere regionale e rivelando di non avere da mesi rinnovato la
tessera del partito. Zoggia e Mognato hanno sempre respinto le accuse: non eravamo
noi a occuparci dei finanziamenti della campagna elettorale di Orsoni - hanno detto
subito. Concetto ribadito anche ieri dai loro legali: sì, i due parlamentari sono indagati,
ma hanno chiarito la loro posizione e ora si chiede l’archiviazione. A Roma, Zoggia e
Mognato ci sono arrivati assieme, entrambi deputati eletti nel 2013, anche se le loro
strade un po’ si erano separate. Zoggia - 50 anni lo scorso febbraio - parte da Jesolo
dove fa il consigliere comunale e il sindaco, poi approda in Provincia: prima assessore,
poi, nel 2004, presidente eletto al primo turno con quasi il 51% dei voti. Cinque anni
dopo la sconfitta: a batterlo è la leghista Francesca Zaccariotto. Zoggia, il ciuffo sempre
folto ma un po’ più sale che pepe, non si demoralizza, scende a Roma e Pierluigi Bersani
gli dà un incarico che in laguna fa storcere il naso a parecchi: responsabile degli Enti
locali dopo aver consegnato la Provincia al centrodestra? Con la segreteria di Guglielmo
Epifani, la carriera di Zoggia non conosce battute d’arresto: diventa responsabile
organizzativo del Pd nazionale. Ormai sta più a Roma che a Venezia, nei servizi politici
dei tg Rai, Mediaset, Sky, è una presenza fissa. Alle Politiche del 2013 è capolista Pd
nella circoscrizione Veneto1. Quella di Vicenza, Verona, Padova, Rovigo. Nominato da
Roma. Anche Mognato, 53 anni appena compiuti, folta capigliatura ma molto più pepe
che sale, nel 2013 diventa deputato della Repubblica, ma per essere nominato si
sottopone alle primarie dove prende una botta di voti, oltre tremila, secondo solo a
Felice Casson. Prima di arrivare a Montecitorio la sua carriera politica era stata tutta a
Venezia. Consigliere comunale dal 1997, assessore e vicesindaco con Paolo Costa dal
2000 al 2005, poi con Massimo Cacciari dal 2008 al 2010. Una decisione sofferta, quella
di entrare nella terza giunta del filosofo: nel 2005 la sinistra veneziana si era spaccata
tra Cacciari e Casson. E Mognato, come Zoggia, quella sfida l’aveva persa. È lui, però, a
proporre, da segretario dei Ds il gruppo unico consiliare dell’Ulivo ben prima della
nascita del Pd. Nel 2010 viene rieletto in Comune, ma Orsoni non lo prende con sè in
giunta. Tre anni dopo, Montecitorio. Sembrerà paradossale, ma l’inchiesta di queste ore
rischia di avere ripercussioni politiche più sui prossimi papabili candidati sindaco di
Venezia che sui due parlamentari indagati: in piena èra renziania, i bersaniani-cuperliani
rischiano la rottamazione facile. Zoggia e Mognato, poi, con Margherita Miotto sono stati
gli unici deputati veneti a non partecipare al voto sul Jobs Act. Anche qui, simili e
diversi. Zoggia è già tra i capetti dell’opposizione interna del Pd nazionale. Mognato no.
Pag 2 Mose, finanziamenti al Pd: indagati Mognato e Zoggia di Gianluca Amadori
I due deputati chiamati in causa dall’ex sindaco per i contributi erogati da Mazzacurati
nella campagna elettorale del 2010. Si avvicina il giudizio per Orsoni: due dazioni
I deputati veneziani del Pd, Michele Mognato e Davide Zoggia, sono entrambi indagati
per finanziamento illecito dei partiti in relazione ai contributi che l’allora presidente del
Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati, ha raccontato di aver versato nel corso
della campagna elettorale del 2010 all’avvocato Giorgio Orsoni, poi diventato sindaco di
Venezia. I pm Stefano Ancilotto e Stefano Buccini hanno interrogato i due onorevoli in
gran segreto martedì scorso, negli uffici della Procura di Venezia, alla presenza dei
rispettivi difensori, contestando loro le dichiarazioni che Orsoni ha reso ai magistrati lo
scorso giugno, dopo essere finito agli arresti domiciliari con l’accusa di aver ricevuto due
contributi ritenuti illeciti dall’allora presidente del Cvn. In quel verbale il sindaco fa i
nomi di tre persone, indicandole come i suoi principali referenti all’interno del Pd per
quanto riguarda la campagna elettorale: uno è l’ex consigliere regionale Giampietro
Marchese (che è già uscito dal processo patteggiando 11 mesi di reclusione); gli altri due
sono gli attuali deputati Mognato e Zoggia. Orsoni ha dichiarato che furono i
"maggiorenti" del Pd a spingerlo a rivolgersi a Mazzacurati per ottenere i finanziamenti
necessari a proseguire la difficile e dispendiosa campagna contro il rivale del Pdl, Renato
Brunetta. E ha sostenuto di aver appreso soltanto dopo l’arresto che quei contributi non
erano stati bonificati regolarmente al suo mandatario, come pensava, negando in ogni
caso di averli ricevuti personalmente. Mognato e Zoggia, assistiti dagli avvocati Guido
Calvi, Gianluca Luongo, Marta De Manincor e Alfredo Zabeo, davanti ai magistrati
veneziani hanno smentito di aver mai suggerito ad Orsoni di rivolgersi al presidente del
Cvn per ottenere contributi elettorali e hanno negato fermamente di essere stati i
destinatari finali del finanziamento "in nero" di 450 mila euro che Mazzacurati sostiene di
avere messo a disposizione di Orsoni. Degli aspetti economici di quella campagna per le
comunali di Venezia hanno dichiarato di non essersene proprio occupati. E lo stesso ha
fatto ieri mattina anche da un altro esponente del Partito democratico veneziano,
Alessandro Maggioni, ascoltato dai pm Ancilotto e Buccini in qualità di persona informata
sui fatti in quanto, nel 2010, ricopriva l’incarico di segretario comunale del Pd, e
successivamente è diventato assessore ai lavori pubblici nella giunta Orsoni. Il suo nome
era emerso martedì nel corso dell’interrogatorio dei due deputati come una delle persone
che erano state più vicine al candidato sindaco. Maggioni ha spiegato di non aver gestito
nulla dei finanziamenti per la campagna elettorale delle comunali 2010, cosa di cui
sapeva essersi occupato direttamente l'allora candidato sindaco e probabilmente qualche
altro esponente del partito. All’uscita dalla stanza dei magistrati l’ex assessore non ha
voluto fare dichiarazioni, salvo precisare che la deposizione, durata poco più di un’ora, si
era svolta in un clima sereno. L’inchiesta proseguirà probabilmente con l’audizione di
altri esponenti del Pd che siano in grado di riferire in merito ai contributi con cui è stata
finanziata la campagna elettorale di Orsoni. Ma è difficile immaginare che qualcuno,
all’interno del Pd comunale o provinciale, possa ammettere di aver spinto il proprio
candidato sindaco a rivolgersi a Mazzacurati. Tantomeno di aver materialmente ricevuto
quei finanziamenti. Eppure lo stesso Orsoni ritiene che quei denari siano effettivamente
arrivati (così ha detto ai magistrati) in quanto tutte le spese elettorali inizialmente a
rischio furono poi effettuate. Insomma, questa tornata di interrogatori rischia di
peggiorare la posizione processuale di Orsoni che, alla fine, potrebbe trovarsi da solo
contro tutti a dover giustificare quei soldi. Isolato come quando lo scorso giugno, non
appena tornato in libertà, fu sfiduciato dal Pd - attraverso un intervento personale di
Matteo Renzi - e costretto alle dimissioni. In serata i difensori degli onorevoli Mognato e
Zoggia hanno diffuso una breve nota: «Confermiamo che gli onorevoli Mognato e Zoggia
sono stati ascoltati martedì quali indagati in relazione all’interrogatorio del professor
Orsoni rendendo tutti i chiarimenti richiesti. All’esito dell’interrogatorio, i difensori hanno
chiesto l’archiviazione immediata dell’inchiesta».
La posizione dell’ex sindaco di Venezia, l’avvocato Giorgio Orsoni, è in attesa di essere
definita assieme a quella di una ventina di altri indagati per i quali il fascicolo è ancora
pendente. La Procura si appresta a provvedere al deposito degli atti, la procedura che
normalmente precede una richiesta di rinvio a giudizio. Nel frattempo gli inquirenti
stanno raccogliendo nuovi elementi. L’accusa rivolta ad Orsoni è di finanziamento illecito
ai partiti in relazione a due diversi contributi che avrebbe ricevuto nel 2010, nel corso
della combattuta campagna elettorale che lo vide contrapposto a Renato Brunetta. Si
tratta di un reato di competenza del giudice monocratico, a differenza delle ipotesi di
corruzione e false fatturazioni rivolte a vario titolo agli altri indagati: di conseguenza è
probabile che la posizione dell’ex sindaco venga stralciata, così come potrebbe accadere
a quella dell’ex europarlamentare di Forza Italia ed ex presidente del Consiglio regionale
del Veneto, Lia Sartori, per la quale l’accusa è sempre di finanziamento illecito. Sono due
gli episodi contestati, per i quali lo scorso giugno Orsoni finì agli arresti domiciliari per
una manciata di giorni: il primo riguarda un contributo di 110mila euro "in bianco"
formalmente regolare, proveniente da varie aziende, che i pm ritengono però illecito in
quanto i soldi sarebbero arrivati in realtà dal Cvn tramite false fatturazioni. Il secondo
contributo è invece "in nero": 450mila euro in contanti che l’allora presidente del Cvn,
Giovanni Mazzacurati, dichiara di avergli versato in più rate, personalmente o per
tramite del fedele segretario, Federico Sutto. Orsoni si difende rivendicando la regolarità
del suo comportamento: rivendica la legittimità del primo contributo e nega di aver mai
visto i soldi relativi al secondo.
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8 – VENETO / NORDEST
LA NUOVA di domenica 14 dicembre 2014
Pag 13 I veneti sono digitali, uno su due sempre connesso ad Internet di Daniele
Marini
Un pezzo consistente della nostra vita convive con una realtà virtuale. Meglio, è
letteralmente innervato dalla dimensione digitale dei molteplici sistemi di comunicazione
che negli anni recenti si sono diffusi presso fasce sempre più ampie della popolazione. E
i nordestini, ben più che nel resto d’Italia, sono decisamente aperti all’utilizzo di questi
strumenti e connessi alla rete. Smartphone, computer, tablet, antenna parabolica e
molte altre tecnologie sono entrate a far parte della nostra quotidianità scandendo i ritmi
di vita, influenzando le relazioni sociali, l’informazione, i comportamenti. Sono
innovazioni che, a ben vedere, hanno generato una forte discontinuità con il passato non
solo nei sistemi produttivi e nei processi di globalizzazione, ma pure nei nostri mondi
quotidiani. E in modo radicale. La dimensione dello spazio fisico si è quasi annullata: in
qualsiasi momento e luogo possiamo vedere o sapere cosa accade altrove, comunicare
con qualcuno. E così pure è per il tempo: possiamo essere on line costantemente
connettendoci a internet o con la televisione la cui programmazione è 24 ore su 24.
Soprattutto, e diversamente dal passato, queste tecnologie rendono permeabili ambiti
che una volta erano separati: il lavoro, il tempo libero, la famiglia, lo spazio individuale.
Volendo, potremmo essere sempre in relazione col mondo. Quanto siamo immersi (o, in
alcuni casi, sommersi) nelle nuove tecnologie digitali, quanto fanno parte della nostra
quotidianità è l’oggetto dell’indagine svolta da Community Media Research in
collaborazione Questlab. Non c’è ombra di dubbio sul fatto che la nostra vita sia ormai
circondata dagli strumenti digitali. Oltre i nove decimi della popolazione del Nordest
dispongono – di proprietà o in famiglia – di almeno un computer (95,0%), dell’accesso a
internet (95,9%) e del cellulare (88,2%). Dunque, gli strumenti di base per la
comunicazione e l’accesso alla rete sono di dominio pubblico. Al di là della macchina
fotografica digitale (80,1%), oggi sempre più mutuata nelle nuove tipologie di cellulari,
anche l’uso di tablet e di smartphone di nuova generazione (73,8%) conoscono una
larga diffusione, proprio grazie alla loro possibilità di integrazione di più modalità di
comunicazione. La presenza dell’antenna parabolica (35,5%) appare ancora contenuta
rispetto al resto del Paese, mentre i lettori di e-book costituiscono ancora una minoranza
(25,5%) comunque significativa considerato il loro più recente ingresso sul mercato. Già
solo questa prima classifica consente di evidenziare quanti e quali siano gli strumenti
tecnologici di cui disponiamo. Calcolando il valore medio del possesso/utilizzo di questi
strumenti, emerge come nel suo complesso il Nordest appaia un po’ più tecnologico
(61,2%) del resto dell’Italia (59,9), con il Veneto (62,3%) che fa da apripista di questa
classifica, seguito dal Friuli Venezia Giulia (56,4%) e dal Trentino Alto Adige (55,8%).
Ma al di là della possibilità di utilizzo è ancor più interessante provare a osservare
quanto siamo connessi con simili strumenti. Le nostre comunicazioni, infatti, transitano
in misura crescente attraverso internet: mail, wathsapp, social network rappresentano
solo alcuni delle applicazioni grazie alle quali dialoghiamo con parenti e amici, ma anche
fra colleghi e nei contatti di lavoro. Quanto questo sia parte costitutiva della nostra sfera
professionale è presto detto: in generale, il 51,6% della popolazione nordestina si
connette alla rete quotidianamente per motivi di lavoro. Tuttavia, se escludiamo quanti
non sono attivi (pensionati, casalinghe, studenti) e circoscriviamo il risultato ai soli
occupati scopriamo che il 72,2% si collega tutti i giorni a internet. Se consideriamo che il
nostro sistema produttivo è costituito per oltre il 90% da microimprese (fino a 9
dipendenti), significa che una larga parte delle aziende e dei suoi lavoratori utilizza la
rete come sistema di comunicazione e informazione. Ma un conto è essere obbligati a
doversi connettere a internet per motivi di lavoro, altro è farlo autonomamente per
motivi personali, relazioni sociali, tenersi al corrente o per diletto. In quest’ultimo caso,
quasi quattro interpellati su cinque (78,2) dichiarano di connettersi quotidianamente alla
rete. Se a questi sommiamo quanti lo fanno più sporadicamente (3-4 volte la settimana
e almeno 1 volta la settimana: 15,9%) raggiungiamo la ragguardevole quota di 94,1%.
All’opposto, solo l’1,8% non si collega mai alla rete nel suo tempo libero o per motivi
personali. Ma quanto le due sfere (professionale e personale) si sovrappongono? Qual è
il grado di pervasività delle tecnologie della comunicazione nella nostra vita? Per cercare
di offrire una misura di tale fenomeno abbiamo creato i profili degli internauti,
sommando le risposte nei diversi ambiti. Due gruppi prevalgono su tutti. Gli
“iperconnessi” rappresentano il 41,8% dei nordestini interpellati (in misura superiore alla
media nazionale: 36,4%) e in particolare i veneti (44,6%) ben più dei trentini e alto
atesini (33,3%) e dei friul-giuliani (30,0%): sono coloro che utilizzano la rete, sia al
lavoro che per motivi personali, tutti giorni. Questo profilo è più diffuso fra i maschi, chi
è in età lavorativa ed è un dirigente o un imprenditore e, soprattutto, fra i laureati. I
“liberi” (36,4%) costituiscono l’altro gruppo e, in questo caso, annoveriamo chi si
connette alla rete quotidianamente per esclusivo motivo personale. Se in questo profilo
è facile attendersi che le giovani generazioni siano più rappresentate (fino a 24 anni:
61,6%), meno scontato è trovare che il 53,4% degli over 65 e di pensionati si colleghi
alla rete ogni giorno. Segno che le nuove tecnologie della comunicazione limano anche i
confini generazionali. Infine, otteniamo altri due gruppi. Da un lato, i “casuali” (11,4%)
ovvero coloro che si collegano sporadicamente a internet sia sul lavoro che nel tempo
libero, rinvenibili in particolare fra i trentini e gli alto atesini (26,7%). Dall’altro, gli
“scollegati” (10,5%; quota largamente inferiore rispetto al resto d’Italia: 17,8%) che
annovera quanti sostanzialmente non si connettono alla rete né per motivi professionali,
né personali, e ciò si verifica in misura maggiore per i friul-giuliani (23,3%), per la
componente femminile, gli over 65enni, le casalinghe, chi ha un basso titolo di studio. Le
nuove tecnologie della comunicazione sono ormai parte integrante della nostra vita. Ed è
presumibile che lo saranno sempre più in futuro. Ma come per ogni strumento, il saperlo
utilizzare in modo equilibrato e corretto dipenderà dal nostro livello di educazione.
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… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 La matita rossa di Juncker di Angelo Panebianco
L’Europa e Putin
È accaduto sovente che alla vigilia di grandi svolte storiche, e anche di tragedie, la scena
fosse occupata da figure incolori, inadeguate, molto al di sotto dell’altezza e dello
spessore, politico, morale, culturale, che sarebbero stati necessari per affrontare la
tempesta in arrivo. Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker
sembra una di quelle figure: oggi è un grigio burocrate (già politico di lungo corso la cui
attività è risultata assai eccepibile) che bacchetta e ammonisce questo o quel Paese.
Apparentemente, sta solo facendo il suo mestiere di presidente della Commissione.
Agisce come se vivessimo in tempi normali. Solo che i nostri tempi non sono normali, è
come se l’Europa stesse oggi danzando sull’orlo di un burrone. Dietro a Juncker,
naturalmente, non c’è il vuoto, c’è la dirigenza politica tedesca, uomini e donne per lo
più solidi (a casa loro) ma anch’essi, apparentemente, incapaci di affrontare la crisi
europea. Tra i principali protagonisti del dramma solo il presidente della Bce Mario
Draghi appare consapevole della sua gravità. Ricordiamo agli immemori quale sia la
reale situazione. La Gran Bretagna ha già un piede fuori dalla casa europea e
l’insorgenza dell’Ukip, il partito antieuropeista, minaccia di modificare radicalmente fra
pochi mesi, nelle elezioni parlamentari, la fisionomia del sistema partitico britannico, un
sistema tradizionalmente ultrastabile che affronta forti cambiamenti solo una o due volte
per secolo. Se poi la Gran Bretagna, nel giro di un paio d’anni, sotto la pressione
dell’Ukip, uscirà dall’Unione, l’impatto sarà fortissimo, il «rompete le righe» risuonerà in
tutti i territori europei. Ma ciò non basta. Quanto accade in Francia è ancor più grave.
Con i socialisti ai minimi storici e la destra gollista incapace di intercettare
l’insoddisfazione dei francesi, il pieno dei consensi, secondo tutti i sondaggi, lo farà, a
meno di imprevisti, il partito ultranazionalista, il Fronte Nazionale di Marine Le Pen. E se
fosse proprio lei, nel 2017, il prossimo presidente francese? Sarebbe la fine dell’Unione
Europea come la conosciamo. I segnali indicano un maremoto in arrivo. All’Unione
servirebbe oggi una leadership carismatica. Altro che Juncker. Occorrerebbero, nelle
posizioni di vertice, menti creative capaci di proporre innovazioni, allo scopo di cambiare
il tanto che non va e che è all’origine dell’ostilità di settori crescenti dell’opinione
pubblica europea. Se l’Unione andrà in rovina - si dice abitualmente - sarà un guaio per
tutti gli europei. Nel lungo periodo, probabilmente, è vero. La consapevolezza di ciò, in
teoria, dovrebbe bastare a spingere anche i vincitori del momento, i tedeschi, a rifare
qualche conto. Basterebbe da parte loro un po’ di «egoismo illuminato», un egoismo che
sappia guardare al di là del breve periodo, per convincerli della necessità di non
assistere passivamente alla possibile rovina della casa comune. Ma sappiamo anche che
l’egoismo tout court, di breve periodo, la vince di solito sull’egoismo illuminato. Né,
naturalmente, si può gettare la croce solo sui tedeschi. Nel lungo periodo,
effettivamente, la crisi dell’Unione sarebbe probabilmente pagata da tutti gli europei. Nel
breve termine, però, le cose andrebbero diversamente. Non ne risentirebbe più di tanto
la Gran Bretagna. La Francia, forse, pagherebbe un conto economico salato, ma la
Francia è anche un vero Stato-nazione, con istituzioni solide, in grado di resistere alla
bufera. Anche la Germania pagherebbe un prezzo elevato, ma nemmeno le sue
istituzioni correrebbero rischi immediati. La situazione sarebbe assai diversa in altri
Paesi, Italia in testa. È proprio perché l’Italia non è un vero Stato-nazione che, per
decenni, ha investito simbolicamente, molto più degli altri Stati, nell’integrazione
europea. Se l’integrazione verrà meno, l’Italia si troverà immediatamente ad affrontare i
propri fantasmi, a fare i conti con la propria fragilità istituzionale. Come tenere insieme i
pezzi? Il problema non tocca naturalmente gli sfasciacarrozze, i vari movimenti antieuro,
né in Italia né altrove. Riguarda o dovrebbe riguardare tutti gli altri. Ha creato scandalo
la notizia secondo cui la Russia finanzia massicciamente il Fronte Nazionale della Le Pen,
ha rapporti con i leghisti italiani (che simpatizzano con Putin) e forse anche con altri
movimenti antieuro. Ma non c’è da scandalizzarsi: sono le normali regole della
competizione geopolitica. C’è un rapporto inversamente proporzionale fra l’arroganza
militare della Russia e la sua fragilità socio-economica. Gigante dai piedi d’argilla, la
Russia ha bisogno che i suoi interlocutori in Europa siano ancor più deboli di lei. Per
questo soffia sul fuoco, dà una mano ai movimenti antieuropei. In fondo, avrebbe solo
da guadagnare da una irreversibile crisi dell’Unione. Un’Europa ulteriormente indebolita
e divisa sarebbe, per i russi, un interlocutore malleabile. Del resto, già oggi circolano,
nei vari Paesi europei, forti correnti di simpatia per Putin. In un’Europa a pezzi
diventerebbero ancora più forti le voci di coloro che chiedono rapporti sempre più stretti
con la Russia. Basta guardare una carta geografica e constatare la sproporzione
territoriale fra la Russia e il resto degli Stati europei (a favore della prima) per
comprendere quale, fra le rispettive tradizioni, finirebbe per prevalere sul Continente.
Difficilmente, nel lungo periodo, la tradizione liberale dell’Europa occidentale potrebbe
cavarsela di fronte alla concorrenza dell’autoritarismo russo.
Pag 8 La base dem: a Roma tutti responsabili di Nando Pagnoncelli
Colpe trasversali dei partiti nell’inchiesta su Mafia Capitale per 3 elettori su 4 del Pd.
Scetticismo anche sulla pulizia annunciata dal premier: in pochi pensano che ce la farà
Sono trascorsi quasi sessant’anni dalla celebre inchiesta di Manlio Cancogni sull’Espresso
intitolata «Capitale corrotta, nazione infetta» e nulla sembra cambiato, nonostante il
nostro Paese sia profondamente diverso rispetto agli anni Cinquanta. L’inchiesta Mafia
Capitale sta producendo reazioni pesantissime nell’opinione pubblica, già scandalizzata
dalle indagini Expo e Mose. L’indignazione e la tendenza a generalizzare sono
largamente diffuse e rischiano di accentuare i sentimenti di antipolitica e di sfiducia dei
cittadini, nonostante il forte richiamo del presidente Napolitano che ha definito
l’antipolitica «patologia eversiva», facendo appello a una maggiore moralità in politica e
severità nei confronti dei corrotti. Ciò che colpisce maggiormente dello scandalo romano
è che in un ventennio caratterizzato da un duro scontro tra destra e sinistra nel Paese,
nelle aule parlamentari, sui media e nei talk show, esponenti di destra e di sinistra
(insieme a criminali incalliti) fossero complici nelle malefatte. Come se il conflitto politico
assomigliasse a un combattimento di wrestling, nel quale i protagonisti apparentemente
si scambiano colpi durissimi ma in realtà fingono di combattere e si accordano sul
risultato del match. Con la differenza che nel wrestling il pubblico ne è consapevole,
mentre in politica gli elettori non lo sono e si indignano. Non sorprende quindi che tre
italiani su quattro (e il 73% tra gli elettori del Pd) siano convinti che tutte le
amministrazioni che si sono succedute a Roma negli ultimi anni abbiano le stesse
responsabilità rispetto a quanto avvenuto, mentre il 14% attribuisce la colpa
all’amministrazione di centrodestra guidata da Alemanno e il 3% a quelle di
centrosinistra. Risultano più diversificate le opinioni riguardo a quanto sarebbe meglio
fare per Roma nell’immediato futuro: il 32% propende per elezioni il prima possibile (in
particolare gli elettori di Forza Italia: 65%), il 29% ritiene opportuno lo scioglimento del
consiglio comunale e il commissariamento della Capitale (45% tra gli elettori grillini) e il
26% vorrebbe che si continuasse con il sindaco Ignazio Marino ma si procedesse ad un
profondo rinnovamento della giunta e dei dirigenti comunali (49% tra gli elettori del Pd).
Il clima di sfiducia tra i cittadini non aiuta il percorso di riforme intrapreso dal governo e
il premier Renzi sembra esserne consapevole, tant’è che nel suo ruolo di segretario del
Pd è intervenuto immediatamente commissariando il partito romano, dichiarando che
farà pulizia al proprio interno allontanando chi ha preso tangenti. Nonostante le migliori
intenzioni prevale nettamente la sfiducia nei risultati che si potranno conseguire: solo il
15% prevede che Renzi riuscirà a fare pulizia nel suo partito, il 36% ritiene che Renzi
sicuramente si impegnerà ma non riuscirà a fare molto e il 43% è convinto che nel Pd
non cambierà nulla. Il pessimismo alberga anche tra gli elettori del Pd: solo il 30%
infatti pensa che il partito riuscirà a fare pulizia, il 48% non si aspetta risultati
significativi e il 15% è decisamente rassegnato. La situazione è anche peggiore sul
fronte opposto: il 62% degli italiani ritiene che nel centrodestra non cambierà nulla (è
l’opinione prevalente tra tutti gli elettorati), il 22% che non cambierà molto nonostante
l’impegno dei partiti e solo l’8% è ottimista sulla possibilità di fare pulizia. Fa
decisamente riflettere il fatto che i più scettici rispetto alle reali possibilità di
cambiamento siano i più giovani (18-30 anni). La rassegnazione rispetto alle reali
possibilità di cambiamento è accompagnata dalla convinzione che i partiti abbiano avuto
responsabilità dirette in questi fenomeni di corruzione, traendone vantaggi significativi:
è di questo parere il 67% degli italiani mentre il 29% ritiene che i partiti non siano stati
in grado di vigilare sull’operato dei propri esponenti ma abbiano responsabilità dirette. Il
quadro che emerge è decisamente preoccupante: i cittadini considerano la corruzione
una malattia endemica nel nostro Paese e la loro esasperazione è acuita dallo stridente
contrasto tra i sacrifici che sono chiamati a fare a causa della crisi e l’utilizzo dei soldi
pubblici che escono dalle loro tasche. È presto per capire se questi sentimenti si
tradurranno in un aumento dell’astensionismo o favoriranno una o più forze politiche.
Spesso si tratta di un’indignazione emotiva e superficiale, seguita più da rassegnazione e
da mancanza di memoria che da comportamenti coerenti. Ma questa volta, e i segnali
dell’Emilia sono eloquenti, non è improbabile che la sfiducia e il distacco diventino
davvero prevalenti.
Pag 30 Pd, il solito dialogo tra sordi dove vince sempre Renzi di Paolo Franchi
Forse non è stata del tutto inutile, l’assemblea del Pd. Almeno un paio di cose, già
abbastanza chiare, adesso sono lampanti. Matteo Renzi, che pure ha rinviato ai mittenti
minacce e diktat, si è guardato bene dal comunicare alla minoranza interna, nel caso
(probabile) di mancato ravvedimento, l’intenzione di metterla alla porta. E la minoranza
interna ha sì protestato, soprattutto con Stefano Fassina, per la rappresentazione
«caricaturale» che il segretario-presidente (accusato di puntare alle elezioni anticipate)
darebbe delle sue posizioni; ma, con la parziale eccezione di Pippo Civati, ha
confermato, e c’è da crederle, che ad andarsene non ci pensa nemmeno. Non è la pace,
e nemmeno una tregua. È, piuttosto, un dialogo tra sordi. Una situazione paradossale,
nella quale un segretario per antonomasia fortissimo nega ogni disponibilità al
compromesso, ma di qualche compromesso avrebbe bisogno per stringere sulle riforme
e, ancor più, sull’elezione del nuovo capo dello Stato. E gli oppositori protestano perché
vengono trattati alla stregua di gufi, ma sono condannati a una guerra di trincea priva di
prospettive. Nemmeno il calo di consensi per Renzi e il suo governo, parallelo, a sinistra,
al crescere di una protesta sociale di cui è stato espressione lo sciopero generale,
sembra rafforzarli più di tanto, perché non sono portatori neanche dell’abbozzo di un
progetto e di un’idea di sinistra in grado di intercettarla. Contro Renzi gioca lo scarto
vistoso tra la magniloquenza delle promesse e la realtà delle cose. Contro i suoi
avversari, gioca il fatto che sono percepiti, a sinistra, come i protagonisti e le comparse
di una lunga stagione di sconfitte: il loro tempo lo hanno già avuto, e ben pochi lo
rimpiangono. Le cose stanno così. Quanto a lungo potranno restarci, naturalmente, è un
altro discorso, che i convenuti all’assemblea del Pd non hanno nemmeno iniziato.
LA REPUBBLICA
Pag 9 Renzi in cerca di lealtà per frenare il Cavaliere di Stefano Folli
LA STAMPA
Fare in fretta e cominciare la fase due di Elisabetta Gualmini
Immaginiamo per un momento di ritrovarci all’inizio della prossima legislatura avendo di
nuovo ai primi punti dell’agenda la riforma del bicameralismo e della legge elettorale.
Poniamo che alle elezioni ci siamo andati con la legge scritta dai giudici della Consulta,
identica a quella abolita a furor di popolo con un paio di referendum all’inizio degli anni
Novanta: puramente proporzionale con voto di preferenza. E che quindi non c’è una
maggioranza che sia una, né per il governo né per una qualunque ragionevole riforma
istituzionale. Nel frattempo il Pil non avrà ripreso miracolosamente a galoppare. Saremo
ancora nella più nera delle recessioni che il Paese abbia mai sperimentato. La gran parte
delle imprese continueranno ad arrancare e le famiglie a impoverirsi. Qualsiasi spiffero
su scontrini per spese di rappresentanza improbabili, per non parlare di qualche altro
tsunami su mafie che lambiscono o infiltrano la politica, non potrà che scatenare reazioni
imprevedibili anche da parte dei cittadini più moderati. Il Pd, nonostante il ritmo di
Renzi, fa finta di non vedere su quale vulcano sta seduto. Nonostante Renzi e il
renzismo, ricomincia a dare la stessa sensazione dei partiti che l’hanno preceduto. Balla
sul Titanic baloccandosi con le sue liturgie di posizionamento interno. In realtà il paese
continua ad affondare ogni mese, ogni settimana, ogni giorno, mentre il distacco verso
tutto il ceto politico, là fuori, sta velocemente aumentando. Fa bene Renzi, per ora, a
inscenare a ogni riunione del Pd lo stesso copione, in vista degli scogli già registrati dal
suo radar. Approvato il Jobs Act, il prossimo, si è capito, è l’elezione del Presidente della
Repubblica. Le frasi su Napolitano sono rispettose, piene di gratitudine ma inequivoche
nell’assumere che potrebbe lasciare il Quirinale «prima della prossima assemblea».
Quindi meglio prevenire piuttosto che ripetere il disastro del 2013. Però, una volta per
tutte, diciamoci cosa è vero e cosa è falso in questa ormai ricorrente pantomima del
leader visionario che corre e incita all’ottimismo, e delle minoranze che lo trattengono,
garantendogli così agli occhi del pubblico il beneficio del dubbio: sarà lui che non riesce a
fare i miracoli promessi o è colpa di chi lo frena e non gli fa spiccare il volo? L’eterna
minaccia di Civati di uscire dal Pd, con strizzate d’occhio ora alla piazza di Camusso ora
alla rivoluzione naif e noiosissima di Pizzarotti fa sorridere: non sembra che oggi la
gente fugga dalle urne per un «insoddisfatto bisogno di sinistra». Dello sconcerto di
Fassina per la nuova rotta, rispetto a quando al timone c’era Bersani, con lui stesso a
dettare la «filosofia economica» del partito, gli italiani si faranno una ragione. Però
entrambi, Fassina e Civati, convincono quando chiedono a Renzi dove pensa d’arrivare.
Davvero pensa d’andare avanti così fino al 2018? Se veramente Renzi crede che per
soddisfare all’infinito il pubblico bastino i dribbling con i D’Alema e i D’Attorre, giocatori
senza fisico o ormai senza fiato, o che per tirare fuori il Paese dal baratro bastino le
bellissime idee di cui ha discusso per qualche mezz’ora con Marianna e Andrea, Ernesto
e Luca, Debora e Lorenzo, stiamo freschi. Fa bene a serrare le fila sulle riforme
istituzionali e la legge elettorale, e a produrre in fretta i decreti delegati sul Jobs Act. Se
porta a casa questo, passando attraverso l’elezione del Capo dello Stato, il Paese gli
dovrà essere riconoscente. Purché sia chiaro che su tutto il resto l’esecutivo riuscirà a
fare poco. Il pin unico, la dichiarazione autocompilata e altre belle cose non cambieranno
la vita ai cittadini. La riforma della pubblica amministrazione va avanti con gli stessi
slogan di Bassanini e di Brunetta, quando si tratterebbe di modificare in profondità i
comportamenti, le conoscenze e la formazione di un personale pubblico addestrato alla
procedura e alla liturgia dell’adempimento, e di ristrutturare interi settori (dai cinque
corpi di polizia agli enti locali, lasciati nel limbo dalla legge Delrio), di fare veramente la
spending review, senza dire che saranno i ministeri ad auto-riformarsi (come se
qualcuno ci credesse). Per di più, mentre servirebbe un pensiero robusto, applicato con
determinazione al cambiamento, l’attacco perenne alle competenze è diventato
stucchevole, ripetitivo, inascoltabile. Come se la politica degli autodidatti, nati nelle
segreterie di partito e cresciuti all’ombra dei capibastone, a pane, tweet, comunicati
stampa e congressi, avesse brillato e fosse stata esemplare nel risolvere i problemi.
Insomma Matto Renzi acceleri, chiuda le partite complesse che ha in corso e si prepari
per bene alla fase due. Che chiede idee più solide e un più nitido mandato elettorale.
IL GAZZETTINO
Pag 1 Il peso dei conflitti sulla partita del Quirinale di Giovanni Sabbatucci
Dal dibattito di ieri all’assemblea del Pd, da molti dipinto alla vigilia come una resa dei
conti finale, Matteo Renzi è uscito, ancora una volta, rafforzato. Lo scontro con la
pattuglia più intransigente della sinistra interna ha avuto momenti aspri; e l’eventualità
di una mini-scissione a sinistra non sembra affatto scongiurata (del resto il segretario ha
dato l’impressione di non temerla più di tanto). Ma l’ala dialogante dell’opposizione, da
Cuperlo ai bersaniani, ha usato toni distensivi. E il confronto, che pure è stato e resta
teso, non è sfociato in rottura. Renzi non ha solo rivendicato il diritto di portare avanti il
suo programma senza lasciarsi bloccare dai “diktat” della minoranza. Ha di fatto messo
in soffitta l’esperienza dell’Ulivo, con argomenti di qualche efficacia. Primo argomento:
alcune delle riforme oggi in discussione erano già nel programma del centro-sinistra
prodiano; ma (secondo argomento) quelle riforme non sono state realizzate. Segno che
in quel tipo di coalizione, in quel modo di far politica qualcosa non funzionava: donde la
necessità di rilanciare un modello di partito a vocazione maggioritaria, guidato da una
leadership forte. Fassina ha replicato duramente, spostando il dibattito su un altro
terreno: denunciando cioè una mutazione genetica del Pd, soprattutto in tema di
rapporti con i sindacati, sollevando ancora una volta un caso di coscienza non solo
personale e rinnovando contro il presidente del Consiglio l’accusa di mirare alle elezioni
anticipate. Renzi ha avuto buon gioco a respingere l’accusa, chiedendo nel contempo
lealtà nei confronti del governo e rispetto delle decisioni prese a maggioranza. E su
questo punto è difficile dargli torto.
È innegabile, infatti, che Renzi abbia impresso al
suo partito una torsione a dir poco energica, in termini di programma e più ancora di
immagine: qualcosa di simile a una svolta blairiana o a una Bad Godesberg meno
argomentata teoricamente ma non meno radicale nei contenuti. La svolta, però, l’ha
realizzata secondo le regole stabilite dai suoi predecessori: si è presentato alle primarie
(non certo inventate da lui), le ha perse una prima volta, le ha vinte poi con
maggioranza schiacciante dopo che il Pd bersaniano era stato a un passo dalla sconfitta
in una elezione politica che tutti davano per già vinta; infine, nel voto per il Parlamento
europeo ha ottenuto un risultato paragonabile solo a quelli della Dc nella sua epoca
d’oro. Non gli manca dunque la legittimazione popolare per un progetto politico che
peraltro non ha mai dissimulato. Per chi, altrettanto legittimamente, non intende
condividere quel progetto, due sono le strade percorribili. Uscire dal partito per
raggiungere le file di una sinistra-sinistra che già esiste e non sembra poter contare su
grandi bacini elettorali. O restare nella casa madre ed assumere il ruolo di leale
opposizione interna: quella che critica le decisioni della leadership e cerca di modificarle,
ma, al momento di votare una legge o di dare la fiducia al governo, si allinea alle
decisioni della maggioranza. Qualcuno dirà che tutto questo ricorda il centralismo
democratico del vecchio Pci, ma non è vero: quella pratica nascondeva il dissenso e
comunque lo inibiva una volta presa la decisione. Ciò che un partito di governo
difficilmente può tollerare è la discussione protratta all’infinito (non si può dire che le
proposte di Renzi non siano state discusse e anche modificate nelle sedi deputate), è lo
stillicidio delle piccole trappole parlamentari, è la pretesa che il parere della minoranza
conti quanto quello della maggioranza o anche di più. Per riprendere un’altra formula dei
tempi andati, non sembra cosa sensata fare del Pd, anziché un partito di lotta e di
governo, un partito di lotta contro il (proprio) governo. Il rischio, nonostante l’esito
dell’assemblea di ieri, è che la conflittualità interna al partito non solo rallenti e intralci
l’azione di governo, ma finisca anche con l’interferire negativamente nella partita più
importante che si giocherà fra un mese o poco più, quella del Quirinale. Una scelta
formulata in prima battuta dal Pd e destinata a unire l’area del centro-sinistra
provocherebbe con ogni probabilità la rottura del patto con Berlusconi, che considera (lo
ha ribadito anche ieri) l’accordo sul Quirinale un pezzo essenziale dell’intesa sulle riforme
istituzionali. Viceversa una convergenza con Forza Italia sul nome di un possibile
presidente potrebbe dividere il Pd che ha sempre visto il patto del Nazareno come il
fumo negli occhi. Per far quadrare il cerchio, Renzi dovrà far ricorso a tutta la sua abilità
tattica. E avrà anche bisogno di un partito unito e leale. I precedenti in questo senso,
purtroppo, non incoraggiano.
Pag 1 La sinistra dem e la corrida che non c’è stata di Mario Ajello
Il presidente Matteo Orfini cita il Papa: “La cifra di questa modernità è la solitudine”. E in
platea, quelli della sinistra dem, Cuperlo e gli altri, si sentono modernissimi. Nel senso
che, mentre Renzi sembra parlare non a loro ma soprattutto all'Italia che c'è fuori, la
minoranza del Pd appare triste, solitaria y final. Dove è finito D'Alema, l'unico che
avrebbe potuto fronteggiare davvero il premier-segretario ma si riserva di farlo, più
sottilmente e più trasversalmente, nelle aule parlamentari tra riforme e elezione per il
Colle? Il Comandante Max è nei suoi vigneti. E Bersani? Ha mal di schiena, è restato a
casa. Oppure, come azzarda maliziosamente qualcuno, non è venuto per evitare che si
palesasse il patto di non belligeranza che avrebbe stretto con Renzi e comprensivo
magari di qualche vaga promessa su un'improbabile candidatura al Quirinale? Pippo
Civati c'è ma parla solo davanti alle telecamere. Rosy Bindi non morde: «Scissione? Ma
quale scissione!». Stefano Fassina fa l'anti-Matteo e, quando Stefano il Rosso
(soprannome affibbiato all'ex vice-ministro e che richiama l'indimenticabile cantautore di
«Che bello, due amici, una chitarra e uno spinello») grida al segretario «devi smetterla
di delegittimarci e di descriverci come caricature», i due si guardano con occhi di fuoco.
Ma vabbè, almeno qualche brividino doveva concederlo questa assemblea che sarebbe
dovuta esplodere come una polveriera e s'è trasformata in una sonnolenta domenica
pre-natalizia. Nella quale uno dei (presunti) barricaderi, Cesare Damiano, avverte
mestamente: «Non sono andato in piazza venerdì. E' la prima volta dal '68 che non
partecipo a uno sciopero». E qui c'è tutta la rassegnazione della vecchia sinistra che ha
perso il partito e quasi non ha più voglia di combattere. Appena Renzi conclude la sua
replica, Fassina, Cuperlo e l'anti-renzianissimo Boccia si alzano e si avviano all'uscita. E
intanto - verrebbe da ricordare esagerando il generale Diaz sugli austriaci dopo la
sconfitta di Vittorio Veneto: «I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti al mondo
risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa
sicurezza» - gli avanzi della minoranza dem salgono le scale dalla sala al pianterreno e
conquistano l'uscita dell'Hotel Parco dei Principi. Forse l'assise del Pd è stata spostata in
questo albergo, e non s'è tenuta come nei programmi dentro il Salone delle Tre Fontane,
per evitare sovrapposizioni d'immagine sia pure fuorvianti tra questa assemblea e la
cena di finanziamento al partito, con tanto di Buzzi (il socio di Carminati in Mafia
Capitale) seduto all'Eur al suo tavolo da diecimila euro. E comunque l'unico che ha avuto
ieri il coraggio di ricordare la storiaccia dello scandalo fascio-comunista, a parte
l'accenno di Renzi ai «tangentari all'amatriciana», è stato dal palco il giovane Tobia Zevi
che sfidò Cosentino e Giuntella nel congresso romano. Ma è meglio volare alto, come fa
il premier: «Questo è il kairos, cioè il momento giusto per fare le cose». La sinistra dem
non lo capisce? Eppure D'Attorre è uno storico di professione e il triestino Cuperlo è un
raffinato intellettuale mitteleuropeo. Il quale ricorda dal palco come il sommo latinista
Concetto Marchesi dissentì e non votò l'articolo VII della Costituzione ma il renziano
Parrini rimbrotta il bel Gianni: «Marchesi però non si sarebbe mai sognato, come avete
fatto voi, di unirsi ai berlusconiani e ai grillini per mandare sotto il governo in
commissione». Ma si sono fatte ormai «las cinco de la sera» e la corrida che non c'è
stata è già finita.
LA NUOVA
Pag 1 Aspettando la partita decisiva di Renzo Guolo
All’assemblea del Pd va in scena lo scontro tra Renzi e la minoranza dem ma la
discussione non segna certo una discontinuità nei rapporti interni. Il segretario si toglie
molti sassolini dalle scarpe ma non invoca provvedimenti nei confronti dei dissidenti, né
usa argomenti che li convinca a rompere. La minoranza, almeno quella che non fa capo
a Civati, è decisa a restare nel partito e continuerà a marcare le distanze sulla politica
economica e su quella del lavoro, oltre che su riforme costituzionali e legge elettorale. In
attesa della partita decisiva: l’elezione del presidente della Repubblica. Renzi ha chiesto
lealtà e ha annunciato che non si farà imporre diktat dalla minoranza, accusata di voler
far restare partito e paese nella palude. Richiamando il passato per riferirsi al presente,
Renzi ha dato uno sferzante giudizio sull’Ulivo, rifiutando di farne un “santino”. Il parlare
di ieri per riferirsi all’oggi gli ha permesso di portare più colpi ai suoi avversari: evocando
minoranze che con la loro pulsioni suicide hanno affossato quell’esperienza e le manovre
di palazzo che hanno condotto alla sostituzione di Prodi con D’Alema, che Renzi vede
come il leader più o meno occulto del “partito” che vuole mettere fine al suo governo per
sostituirlo con un esecutivo guidato da un tecnico gradito a Bruxelles. Evocando quel
travagliato periodo Renzi ha in realtà sbarrato la strade del Quirinale anche al fondatore
dell’Ulivo, Romano Prodi. Questi potrebbe salire al Colle solo con un accordo tra forze
diverse da quelle che hanno siglato il patto del Nazareno. Non è un caso che Berlusconi
abbia ricordato, non facendo certo un favore al suo interlocutore politico che ha sempre
escluso che il patto riguardasse anche il Quirinale, che Forza Italia vuole scegliere il
nuovo presidente della Repubblica insieme al Pd. Del resto, con le riforme istituzionali e
la legge elettorale in dirittura d’arrivo, il leader di Forza Italia alza la posta per far
lievitare il suo peso. Ma per Renzi il cambiamento della “maggioranza istituzionale” non
è all’orizzonte. La sinistra dem, ha criticato il segretario per l’assenza di qualsiasi
riferimento al riuscito sciopero generale proclamato dalla Cgil. Ma quel silenzio non è
casuale. Renzi ha voluto sottolineare, ancora una volta, come il blocco sociale ed
elettorale a cui guarda sia diverso da quello storico della sinistra: il segretario-capo del
governo punta a occupare il centro. Per Renzi, che dà per scontato che prima o poi ci
sarà una scissione, non avere nemici a sinistra non è la stella polare. Egli è convinto che
la sinistra sia socialmente e politicamente minoritaria nel paese. E, comunque, che
quell’eventuale frattura possa essere compensata dai voti in arrivo dal campo del
berlusconismo agonizzante. Ma prima di questo passaggio, che dovrebbe inaugurare un
nuovo, lungo, ciclo politico, Renzi ha bisogno di diventare il perno del sistema politico e
istituzionale. Perchè accada serve che al Colle non ci sia un presidente della Repubblica
dal forte profilo politico, capace di far pesare la centralità che la Costituzione gli assegna
nei momenti di crisi e fargli ombra nelle relazioni con i poteri che contano in Europa e
nel sistema di alleanze internazionali. Ma il voto nel segreto dell’urna può riservare
molte sorprese. Per questo Renzi, pur usando toni duri, non ha spinto per la definitiva
resa dei conti con la minoranza. Una debacle nella corsa al Colle, così come
l’atteggiamento negativo della “tecnocrazia” europea sulla politica di bilancio italiana,
tanto più duro quanto più si avvicina la possibilità che la Bce decida l’acquisto di titoli
pubblici di alcuni paesi, potrebbe indebolire fortemente il presidente del Consiglio. Così
Renzi ha preferito evitare rotture che avrebbe certamente pagato al momento di
eleggere il successore di Napolitano. Anche se il nulla di fatto sposta solo più in là nel
tempo le contraddizioni politiche del Pd.
Pag 1 A quando l’abolizione del Natale? di Maurizio Mistri
Da alcuni anni a questa parte, all’approssimarsi delle festività (le più importanti per noi
occidentali) in alcune scuole si manifesta l’intenzione di non celebrare più il Natale,
semmai con un presepe. Ad esempio, una simile intenzione è stata manifestata
recentemente in una scuola di Bergamo, sollevando un vespaio di polemiche. A Bergamo
i proponenti della tesi abolizionista ritengono che tale scelta si impone perché in quella
scuola ormai il 30% dei bambini è straniero e di religione diversa da quella cristiana. In
qualche modo essi ritengono che la “imposizione” di forme rituali tipiche della religione
cristiana possa turbare i bambini le cui famiglie professano una religione diversa. Si
tratta di un’affermazione che pone un problema di grande rilievo e cioè quello della
neutralità dello Stato nei confronti delle manifestazioni religiose quando in un paese
sono presenti religioni diverse e non sempre in rapporti amichevoli. Tuttavia, c’è un
aspetto che va approfondito e cioè quello della ampiezza della applicazione di un simile
principio. In effetti, se il principio della neutralità religiosa dello Stato venisse assunto
come assoluto ne deriverebbe che il numero di bambini di religione “altra” frequentante
uno scuola sarebbe irrilevante perché un simile principio andrebbe applicato anche se si
avesse a che fare con un solo bambino di religione “altra”. Comunque sia, i proponenti
della tesi abolizionista, nel nome di una integrale laicità dello Stato stesso,
implicitamente ritengono che lo Stato non debba esprimere una qualche preferenza
verso una data religione, sia essa minoritaria che maggioritaria. Nel momento in cui ci si
incamminasse su questa strada però si dovrebbe essere consapevoli di quali potrebbero
essere le conseguenze culturali, sociali e politiche della applicazione di un simile principio
di neutralità assoluta del nostro Stato rispetto a ogni religione, se non altro perché le
manifestazioni di tipo religioso possono essere molteplici e andare ben oltre
l’allestimento di un innocuo presepe. Il Natale è finora la festa religiosa più sentita dagli
italiani, almeno fino a quando non mutino significativamente i rapporti di forza tra le
religioni presenti da noi. Nel contempo penso che gli abolizionisti dovrebbero riflettere
che dalla questione del presepe si finirebbe per arrivare a questioni più complesse e
dirompenti, corollario del problema che gli abolizionisti pongono di fatto, e cioè quella
della neutralità assoluta dello Stato rispetto alle religioni. Qui emerge un problema serio
perché, a ben guardare, uno Stato verrebbe meno al principio di neutralità qualora
facesse propria una festa religiosa e cioè quando dichiara festivi, a tutti gli effetti civili,
una determinata festa religiosa. Quindi, in Italia nel nome di una neutralità dello Stato
rispetto alle diverse religioni che non ammetta contraddizioni logiche, nel prossimo
futuro qualcuno, ad esempio, potrebbe chiedere che non siano più riconosciute dallo
Stato, come feste anche civili, le feste celebrate dai cristiani, come il Natale e le feste
dei santi patroni. Così un presepe in una scuola rischia di assumere il carattere di una
punta di un iceberg; il grosso dell’iceberg sarebbe rappresentato dalla festività religiosa
che vi sta alla base. Se vogliono essere coerenti gli abolizionisti più che vietare un
innocuo presepe dovrebbero chiedere di vietare il riconoscimento della festa che vi sta
alla base come festa anche dello Stato. Al tempo della rivoluzione francese del 1789, i
giacobini vietarono le feste religiose sostituendole con ridicole feste laiche. Se fossero
stati più seri e coerenti, i giacobini avrebbero dovuto cancellare le feste religiose senza
sostituirle con altre. I giacobini di oggi se fossero coerenti con le loro visioni di un
multiculturalismo comunque difficile da definire, e nel nome di una assoluta par condicio
religiosa dovrebbero, più che vietare i presepi nelle scuole pubbliche, dire che il Natale
non può essere una festa di Stato, per cui in tale giorno si dovrebbe lavorare e andare a
scuola. Non credo che si possa sostenere che una cosa è la questione del presepe nelle
scuole e altra cosa è il riconoscimento del Natale anche come festa di Stato. La prima
questione è corollario della seconda. Lo scenario tratteggiato per ora è solo ipotetico, ma
potrebbe essere uno scenario concretizzabile se mutassero i rapporti numerici tra le
varie religioni presenti nel paese. Comunque si tratterebbe di una evoluzione che non
pochi italiani vivrebbero come una deprivazione delle proprie radici culturali e che per
alcuni avrebbe il significato di un vero e proprio “stupro culturale”. Sarebbe comunque
un’Italia più triste.
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CORRIERE DELLA SERA di domenica 14 dicembre 2014
Pag 1 All’origine dell’antipolitica di Ernesto Galli della Loggia
La nostra memoria, assai corta
Si levano anche nelle sedi più autorevoli del Paese le condanne dell’antipolitica: termine
con cui bisogna intendere la critica aprioristica - e proprio per questo distruttiva,
eversiva - oltre che del sistema politico in quanto tale, anche dell’intera vita pubblica,
vista come interamente e irrimediabilmente inquinata. Ho scritto aprioristica in corsivo
perché evidentemente sta tutto lì il problema. Infatti, se la critica di cui sopra non
appare affatto aprioristica ma ha una qualche giustificazione nei fatti, se essa è
condivisa da più o meno larghe parti dell’opinione pubblica, allora è difficile in un regime
democratico negarle il diritto di cittadinanza. Si potrà beninteso fare questione di toni, di
stile, di capacità minore o maggiore da parte dei critici di proporre alternative credibili o
accettabili, ma la sua natura eversiva, cioè antidemocratica, non sembra facilmente
sostenibile. In una democrazia, infatti, non basta che i nostri avversari si comportino in
modo volutamente oltraggioso e usino un linguaggio sommario e violento per farne dei
candidati alla messa fuori legge. E d’altra parte non ci si può nascondere che è
comunque difficile rispondere alla domanda chiave: in base a quale criterio, al di là di
una soglia ovvia, si decide quando una critica è aprioristica e quando non lo è? Non si
tratta in sostanza di un giudizio sempre politico, e dunque dipendente alla fine solo dalle
nostre personali opinioni? In realtà, se da vent’anni l’assetto politico italiano non trova
pace, sentendosi periodicamente insidiato dall’antipolitica, dal populismo, dal
giustizialismo - con i vari schieramenti politici che di volta in volta incarnano uno dei tre
- una ragione di fondo c’è. Ed è che tutte e tre quelle patologie sono nel Dna stesso della
Seconda Repubblica: costituiscono una sorta di suo peccato originale. Tra il 1992 e il
1994 - non bisogna mai dimenticarlo - la Seconda Repubblica è nata infatti fuori e contro
la politica. Violando in molti modi l’insieme di regole e di prassi che fino allora la
democrazia italiana aveva più o meno sempre rispettato, e al tempo stesso, però, non
essendo capace di darsi regole davvero nuove. Proprio per questo essa è restata in certo
senso prigioniera delle modalità della sua nascita: condannata a ripercorrerle
periodicamente. Dunque a doversela vedere periodicamente con l’antipolitica, con il
populismo, con il giustizialismo. Ci sono fatti di quella lontana origine degli anni 90 di cui
ci siamo dimenticati con troppa facilità. Ma che invece pesano come macigni, e ci
ricordano da dove veniamo. Era il 2 settembre 1992, per esempio, quando il deputato
socialista Sergio Moroni, destinatario di due avvisi di garanzia nel quadro delle inchieste
di Mani Pulite, si uccise nella sua casa di Brescia lasciando una lettera che oggi è difficile
rileggere senza sentirne lo straordinario valore di premonizione. In essa Moroni, dopo
aver rivendicato di non «aver mai personalmente approfittato di una lira», invocava «la
necessità di distinguere ancor prima sul piano morale che su quello legale», dolendosi di
essere «accomunato nella definizione di ladro oggi così diffusa». Terminava denunciando
«un clima da pogrom nei confronti della classe politica», clima caratterizzato da «un
processo sommario e violento». Ma le sue parole caddero nel vuoto. Benché dirette alla
Presidenza della Camera, allora tenuta da Giorgio Napolitano, non furono ritenute degne
della benché minima discussione parlamentare. Ancora un altro ricordo. Era il 5 marzo
1993, nel pieno di Tangentopoli, quando in risposta all’annuncio di un decreto del
Guardasigilli del governo Amato, Giovanni Conso, in cui si stabiliva la depenalizzazione
(con valore anche retroattivo) del finanziamento illecito ai partiti, accadde un fatto
probabilmente mai avvenuto prima in alcun regime costituzionale fondato sulla divisione
dei poteri. I magistrati del pool di Mani Pulite si presentarono al gran completo davanti
alle telecamere del telegiornale delle 20, incitando con parole di fuoco i cittadini alla
protesta contro il decreto legge emanato da quello che a tutti gli effetti era il governo
legale del Paese. Decreto legge che a quel punto - caso anche questo fino ad allora unico
nella storia della Repubblica - il capo dello Stato Scalfaro, impressionato dalla rivolta, si
rifiutò di firmare. E naturalmente nessuno ebbe qualcosa da ridire. Mi chiedo: è possibile
non riconoscere in questi episodi e in tanti altri che accaddero allora alcuni elementi
caratterizzanti di quella che è stata poi la vicenda italiana? Non appare forse della
medesima natura di quella che oggi siamo portati ad attribuire all’antipolitica - se non
addirittura identica - la tendenza all’esasperazione verbale, alla generalizzazione
indiscriminata nei confronti dell’avversario, alla sollecitazione spregiudicata delle reazioni
più elementari dell’opinione pubblica? Non appare più o meno la medesima pure la
timidezza imbarazzata, talvolta impaurita, del potere? E non suona forse sempre eguale
anche il richiamo alla volontà della «gente» o del «popolo» che sia - che allora era quello
«dei fax», poi è stato quello degli «indignati», e oggi è quello della «Rete»? Da queste
parti, come si vede, anche il populismo ha una storia lunga e molto varia: allo stesso
modo, peraltro, dei suoi fratelli gemelli, il giustizialismo e l’antipolitica. La classe
dirigente che si ritrova ad essere oggi alla testa della Seconda Repubblica non dovrebbe
scordarselo. È proprio in quei terreni che oggi essa disdegna che affondano, infatti, le
radici profonde della sua stessa legittimazione.
Oggi il presidente della Repubblica scrive al Corriere sull’argomento:
Gentile direttore, Ernesto Galli della Loggia ieri nel suo editoriale «All’origine
dell’antipolitica» ha rievocato la tragica vicenda del suicidio del deputato socialista
Sergio Moroni e della lettera con cui egli mi comunicò e motivò - il 3 settembre 1992 - il
suo terribile gesto. In quella lettera egli denunciò «un clima da pogrom nei confronti
della classe politica». Quel momento non si è mai cancellato dalla mia memoria: ne
scrissi nel breve libro sui miei due anni di presidenza della Camera («Dove va la
Repubblica», ripubblicato da Rcs Libri nel 2006), in cui riprodussi integralmente il testo
della lettera di Moroni, e vi diedi ampio spazio nella mia «autobiografia politica» del
2005. Lì scrissi: «fu il momento umanamente e moralmente più angoscioso che vissi da
Presidente della Camera». Galli della Loggia sostiene che le parole di Moroni «caddero
nel vuoto (…) non furono ritenute degne della benché minima discussione
parlamentare». Ma non dice, forse perché non ricorda, che io «resi pubblica quella
lettera, indirizzata personalmente a me e nella prima seduta che dopo quel giorno si
tenne, la lessi in Aula commentandola con brevi, difficili parole». Non avrei potuto aprire
una discussione in Assemblea, ho anche dopo continuato a chiedermi se avrei potuto
dire o fare qualcosa di più, ma onestà vuole che non si ignori - con memoria incompleta
o non obbiettiva - il modo in cui comunque io personalmente non lasciai «cadere nel
vuoto» quella tragica lettera.
(Giorgio Napolitano)
Non ho ricordato nel mio editoriale che il presidente Napolitano diede lettura all’Aula
della missiva inviatagli dall’onorevole Moroni in punto di morte perché mi sembrava che
davvero nessuno potesse pensare che non l’avesse fatto. (Ernesto Galli della Loggia)
LA STAMPA di domenica 14 dicembre 2014
Se il Paese non si libera del passato di Mario Calabresi
Il nostro campo da gioco è il mondo ma non abbiamo più voglia di dirlo anzi vorremmo
negarlo e se fosse possibile dimenticarlo. «Basta con questo pianeta globale, con
l’Europa, con la sua moneta e tutte queste regole, basta con gli sforzi e le riforme che ci
chiedono»: queste parole, pronunciate in modo più o meno gentile e nell’ordine che
preferite, sono ormai un sentire comune, rimbombano in televisione, nei bar, nelle
cucine di casa ed escono dalla bocca di ogni politico che voglia presentarsi come nuovo e
in sintonia con i tempi. Pensiamo di avere il diritto - visto il prezzo che stiamo pagando
ad una crisi che non vuole finire - di chiuderci in casa ed essere lasciati un po’ in pace
per mettere la testa sotto il cuscino e poter sognare i bei tempi andati. Se servisse a
qualcosa, o se non facesse danni, non sarebbe nemmeno male prendersi una pausa e
lasciarsi andare alla nostalgia. Ma non è così: ogni istante che perdiamo, in cui
scegliamo di stare fermi o di arretrare, in cui ci incantiamo a guardare indietro è uno
scivolamento ulteriore verso il fondo, una nuova ipoteca sul futuro. Il dibattito di queste
settimane è un insulto alla ragione, tutto costruito su polemiche interne mentre il Paese
sprofonda negli scandali. Venerdì a Torino ho ascoltato per tutta la mattina un confronto
tra italiani e tedeschi aperto la sera prima dai presidenti dei due Paesi. C’erano
professori, diplomatici, imprenditori, giornalisti, tutti hanno parlato, in modo veramente
franco e senza nessuna falsa cortesia, del rapporto ogni giorno più faticoso tra noi e
Berlino. Solitamente mi irritano le persone che si mettono in cattedra e non sopporto chi
ricorda ogni giorno che dobbiamo fare bene «i compiti a casa», ma passato un primo
fastidio verso chi tende a darci lezioni, sono rimasto colpito dalla passione con cui i
tedeschi parlano dell’Italia e dei suoi giovani. Il campione che avevo davanti era ampio e
rappresentativo della società tedesca e delle sue classi dirigenti e ho colto uno stupore
generale, che in alcuni era incredulità, per la nostra inerzia davanti al declino. Quattro
frasi mi sono rimaste sul foglio che avevo davanti: «E’ immorale la disoccupazione
giovanile italiana. E’ uno scandalo accettare di avere quasi la metà dei giovani senza
lavoro, dovete insegnargli che possono farcela e costruirgli una chance. E’ eticamente
irresponsabile che ci siano giovani che escono da scuola senza avere alcuna prospettiva
professionale. Ma come potete pensare di non mettere a posto il Paese per i vostri figli,
noi quando abbiamo capito che rischiavano di non avere un futuro abbiamo fatto riforme
vere». Il tono di chi le ha pronunciate era realmente preoccupato e quando sono uscito
mi sono infilato nel traffico congestionato dallo sciopero generale. Ho pensato a quanto
abbia la testa rivolta al passato il nostro dibattito quotidiano, discussione in cui ci
guardiamo i piedi, in cui non mettiamo mai la testa fuori di casa, in cui il futuro non
esiste perché non si ha il coraggio di immaginarlo, ma soprattutto di costruirlo. Riforme,
«c’è bisogno di riforme» ci ripetono tutti, ogni giorno, con un’insistenza che appare
petulanza. La parola provoca ormai allergia, rifiuto, ma se proviamo a tradurla in realtà
potrebbe anche significare fare una vita migliore, diventare un Paese normale. Le
riforme dovrebbero servire a far funzionare un’Italia ormai immobile, in cui nessuno
investe – né da dentro né da fuori – perché non ci sono certezze. Una voce tedesca lo ha
spiegato con matematica chiarezza: «E’ impossibile prevedere i tempi di apertura di
un’attività, nessuno sa quanto ci vorrà per ottenere un permesso, una firma, un
certificato, nessuno sa quanto potrà durare un processo in caso di contenzioso e poi ci
sono troppe inimicizie e contrapposizioni e non si può sempre guardare con sospetto chi
investe». Ma un po’ di certezza non farebbe bene anche a noi che paghiamo ogni giorno
il conto di riti, tradizioni e burocrazie che non hanno più senso di esistere? Ma accanto
alle riforme avremmo bisogno di un cambio culturale, di aggiornare un dibattito stantio,
giornali e televisioni continuano a leggere la realtà con le lenti del secolo scorso, a
rappresentare i soggetti in campo secondo schemi superati. Se pensiamo che ormai pure
la parola crescita è messa all’indice, ci hanno detto che dovevamo sperare nella
decrescita felice, di decrescita purtroppo ce n’è molta, ma di felicità non ne vedo
nemmeno un po’ in giro e penso che sia invece naturale crescere e svilupparsi, anche
perché non ho mai visto un bambino decrescere. Sosteniamo chi ha il coraggio ogni
giorno di aprire un negozio, un’attività, di inventarsi un mestiere anziché partire, di
sperare anziché lamentarsi. Proviamo a fare finalmente il funerale ad un passato che
non tornerà, a fare i conti con il lutto, a liberarci dei fantasmi e soprattutto a mettere da
parte una conflittualità suicida che ha già rovinato troppe volte l’Italia.
AVVENIRE di domenica 14 dicembre 2014
Pag 1 A marcia indietro? di Carlo Cardia
Giorno dopo giorno, si sviluppa nell’area occidentale una strategia contraria ad alcuni
diritti umani che, codificati nel Novecento, costituiscono un prezioso patrimonio contro
ogni forma di totalitarismo, a favore della dignità della persona. L’affermazione non è un
azzardo, è stata confermata nei giorni scorsi dall’approvazione del Parlamento francese
di una risoluzione che eleva l’aborto a diritto fondamentale. Siamo di fronte a qualcosa
che contrasta in modo drammatico con le Carte internazionali dei diritti umani, che
pongono la tutela della vita a base e fondamento di una società solidale; configge
persino con le legislazioni che consentono l’interruzione della gravidanza, ma la indicano
come eccezione rispetto alla regola, un 'male' giudicato minore, che non può mai
superare certi confini di tempo e di motivazione. Considerare l’aborto come 'diritto' apre
un baratro di cui non si scorge il fondo: si praticherà quando e come si vuole, senza
limiti, nei suoi confronti non varrà l’obiezione di coscienza, che pure è caposaldo delle
libertà personali. Nell’ottica del documento francese, chi obietterà s’opporrà all’esercizio
di un diritto, entrerà in uno spazio giuridico negativo, fino a poter subire sanzioni.
All’indomani della celebrazione della Giornata dei diritti umani, è decisamente utile
tornare a segnalare e a riflettere su uno 'strappo' che sembra rompere una diga, e
s’ispira a una ideologia che si propone di erodere, poco per volta, le difese che il diritto
delle genti ha predisposto contro le violenze sui deboli. I diritti della persona sono
momenti alti del diritto, strumenti di uomini e donne per realizzarsi in ambito religioso,
politico, scientifico, matrimoniale e familiare, sono diretti a tutelare chi non ha voce per
esprimersi: perciò lo Stato e la società si impegnano nel garantire l’esercizio dei diritti
umani, diffonderne la conoscenza, favorirne l’attuazione. È questo il substrato della
Dichiarazione Universale del 1948, e delle Convenzioni successive, questo è il pensiero
di chi ha chiesto e voluto la svolta dei diritti umani: da Eleanor Roosevelt a René Dassin,
a Robert Schuman e Alcide Gasperi, fino a Hannah Arendt che ha invocato il nuovo
decalogo dei diritti come scudo contro ogni totalitarismo. Ma nell’aborto non c’è nulla di
tutto ciò, c’è la sconfitta della persona, della società, che rigettano una nuova vita,
rifiutano di accoglierla e sostenerla nel ciclo dell’esistenza. Con il suo carico di sofferenze
e negatività, l’aborto è esattamente l’opposto di un diritto della persona. E chi propone
questo traguardo non ha più timore di negare l’obiezione di coscienza. Pensiamo a
quanto questa abbia animato il secondo Novecento, in ambito militare (obiezione e fine
della leva), sanitario, scolastico, e avvertiamo che stiamo percorrendo all’indietro il
cammino fatto, colpiamo i diritti personali, ne impediamo l’esercizio, senza che la
comunità internazionale si sia mai pronunciata. Lo strappo francese si colloca all’interno
di un processo involutivo che si diffonde in Europa. In Spagna si nega l’esenzione
dall’insegnamento di Educazione alla cittadinanza, introdotto con la Ley Orgánica de
Educación del 2006, che propone le recenti riforme sulla sessualità come valori da
diffondere, anche se le famiglie sono contrarie. Spagna e Francia rigettano l’obiezione di
giudici, e sindaci (che si astengono dal celebrare o registrare matrimoni gay),
sostenendo che non si impongono atti religiosi, ma solo di carattere tecnico. Stretta in
una filiera di divieti e obblighi che cresce continuamente, la libertà religiosa e l’obiezione
di coscienza sono compresse in Danimarca, con una legge che obbliga i pastori
evangelici a celebrare matrimoni omosex; in Scozia dove due ostetriche sono state
obbligate a partecipare alla procedura d’aborto, mentre in Gran Bretagna s’è imposto a
istituti religiosi di affidare i minori a coppie omosex. Dimenticando, oltre la libertà
religiosa, che per la Convenzione contro le discriminazioni della donna del 1979, «la
maternità è una funzione sociale, uomini e donne hanno responsabilità comuni nella cura
di allevare i figli»; e per la Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959, «salvo
circostanze eccezionali, il bambino in tenera età non deve essere separato dalla madre».
Tutto ciò può svanire d’un tratto, può imporsi il contrario anche a strutture religiose per
decisione arbitraria dello Stato. Di soglia in soglia, si erigono muri invalicabili, si
prospettano scenari nei quali persona e famiglia finiscono imprigionati. Lo scenario
ultimo prevede l’educazione sessuale obbligatoria nelle elementari, per la diffusioni delle
ideologie di 'gender', ignorando il principio della Convenzione Europea del 1950: «lo
Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e
dell’insegnamento deve rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e
tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche». Così, in Germania
le madri che hanno rifiutato l’educazione sessuale per le proprie figlie piccole sono state
fermate e denunciate: dobbiamo aspettarci nel futuro che la scuola insegni che l’aborto è
un diritto della persona e chi vi si oppone va punito? Sono domande nuove e dolorose,
alle quale dovremo dare risposte coerenti con i principi umanistici cui si ispira la nostra
società.
IL GAZZETTINO di domenica 14 dicembre 2014
Pag 1 Spesa sociale, ecco perché va difesa di Romano Prodi
Si ripete ormai in modo ossessivo che la lunga stanchezza dell'economia dei paesi
europei, tra i quali l'Italia, sia l'inevitabile conseguenza delle eccessive spese sociali. Il
messaggio che ci viene inviato ogni giorno è che l'Europa non può avere un futuro
perché, con il 7% della popolazione mondiale e producendo il 20% del Pil del pianeta,
copre il 40% della spesa sociale di tutta l'umanità. Un messaggio che si fonda sul
presupposto che la spesa sociale sia improduttiva e che il welfare-state sia quindi il
nemico dello sviluppo. Questo ragionamento, ormai diventata dottrina comune, è
profondamente sbagliato, perché parte dall'ipotesi che tutto quanto è gestito dal
mercato sia per sua natura più efficiente di ogni decisione che passa attraverso le
strutture pubbliche. Per chiarire meglio le cose, vorrei porre un semplice interrogativo in
riferimento a un settore del welfare che è stato giustamente messo sotto la lente di
ingrandimento per i suoi sprechi: il settore sanitario. Partiamo dal fatto che in Italia,
dove il sistema sanitario è universale, si spende in sanità (sommando pubblico e privato
e contando tutti gli sprechi) una percentuale intorno al 9% del Pil, mentre negli Stati
Uniti (dove il sistema è eminentemente privato e non ancora universale) la spesa è
intorno al 18%. E veniamo alla domanda: perché in Italia si vive in media quattro anni
più che negli Stati Uniti pur con una spesa sanitaria che è, in percentuale, la metà di
quella americana? Non credo che la differenza sia da attribuirsi alla pizza o alla dieta
mediterranea ma piuttosto a qualcosa che abbiamo in più nella prevenzione e nella cura,
un qualcosa che solo un sistema universalistico può offrire, anche in presenza dei difetti
e delle mancanze che ogni giorno siamo costretti a constatare. Un ragionamento che
non possiamo probabilmente applicare al caso della scuola dove, per quello che valgono
in questo campo i confronti internazionali, spendiamo meno dei paesi con una presenza
inferiore della scuola pubblica, ma abbiamo prestazioni molto inferiori. Anche in questo
caso tuttavia abbiamo l'eccezione della scuola elementare dove, ad una spesa ridotta,
corrisponde un livello didattico ritenuto superiore alla media. Con questi esempi voglio
sottolineare che l'efficacia della spesa non dipende dal fatto che essa passi attraverso un
canale pubblico o privato, ma dall'efficacia dei modelli organizzativi applicati. Quanto
all'influenza della spesa pubblica sulla crescita occorre tenere conto degli effetti positivi
di un sistema universalistico non solo nel prolungare la vita media ma nel fare
aumentare le potenzialità di crescita dell'economia, estendendo a tutti i cittadini
l'accesso generalizzato alla cura e all'istruzione. Ci dobbiamo a questo punto chiedere
quali siano le ragioni di una condanna sempre più generalizzata del sistema di welfare.
Tale condanna non deriva da una sua fatale inefficienza ma è conseguenza del fatto che
la spesa sociale non viene sostenuta da chi gode direttamente dei suoi servizi ma da
tutti i cittadini, attraverso il sistema fiscale. Le imposte sono sempre state impopolari
ma lo sono diventate ancora più oggi. Questo non solo per gli sprechi e le malversazioni,
ma perché ci siamo disabituati a fare il confronto tra il vantaggio di godere di migliori
servizi e gli svantaggi di un aumento delle imposte. Le tasse sono diventate un male
assoluto per definizione, per cui nessun politico ne può parlare in campagna elettorale se
non per prometterne la diminuzione. E l’opinione dei cittadini si inverte dopo le elezioni,
perché ogni ipotesi di diminuzione dei servizi allo scopo di alleviare le imposte trova
un'opposizione ancora più forte di quella che si aveva nei confronti dell'aumento delle
imposte nel corso della campagna elettorale. Viviamo quindi in una perpetua
contraddizione in conseguenza della quale il welfare resta l'ultima àncora di salvezza per
i cittadini ma è, nello stesso tempo, oggetto di critiche sempre più pesanti fino a
attribuire alla sua diffusione la causa dei crescenti squilibri dei bilanci pubblici.
Naturalmente c'è welfare e welfare. Vi sono sistemi raffinati come quelli del nord Europa
nei quali le imposte elevate si traducono in maggiore salute e cultura di tutti i cittadini e
quindi in maggiore equità e maggiore crescita e sistemi nei quali il welfare pubblico
viene gravato da sprechi che pesano negativamente e mantengono categorie
parassitarie. Il miglioramento non si realizza col taglio della spesa sociale, ipotecando
così il nostro futuro e lasciando che gli stessi servizi vengano forniti dal mercato a un
minore numero di persone e a costi più elevati. La bussola deve essere correttamente
rivolta verso il nostro nord dove i governi, siano essi di centro-destra o di centrosinistra, lottano contro gli sprechi non per distruggere ma per mantenere e rendere più
efficiente lo stato sociale. Lo stato sociale rimane la più grande conquista del secolo
scorso. Anche se oggi ha bisogno di miglioramenti, esso non può essere sostituito da
sistemi alternativi che risultano più costosi e meno efficaci nel promuovere identiche
condizioni di partenza per tutti i cittadini. Osservo con ragionata tristezza che la giustizia
sociale sta andando fuori moda, mentre dovrebbe essere l'obiettivo primario di ogni
scelta politica.
Pag 9 “Sanità e scuole cattoliche, soldi finiti”
Visita cordiale di Renzi con il Papa, poi la doccia gelata con il segretario di Stato:
“Stanziati i fondi a disposizione, ma il momento è difficile e non si può fare di più”
Città del Vaticano - La musica è cambiata non tanto perché il protocollo è finito in
soffitta diverse volte, piuttosto perché l'udienza a Matteo Renzi segna la fine di un
periodo. Le distanze tra le due rive del Tevere non si sono misurate, ieri, tanto in
superficie, all'arrivo della delegazione italiana, dove largheggiavano i sorrisi reciproci,
ma hanno riguardato questioni concrete, molto concrete. Segnali ritenuti preoccupanti a
Oltretevere, mescolati a timori profondi. Prima trenta minuti di colloquio a porte chiuse
tra Papa Francesco e Renzi, poi con il Segretario di Stato, il cardinale Parolin, incontrato
in compagnia del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e il sottosegretario alla presidenza
del Consiglio Graziano Del Rio: ma il feeling non deve essere scoccato nemmeno con lui.
Ormai nel Palazzo Apostolico appare chiara una cosa: a Palazzo Chigi non c'è più un
presidente del Consiglio che cerca, come avveniva in passato, nella Chiesa un alleato
affidabile sui "valori non negoziabili" o che perlomeno mostrava una certa stabilità nella
gestione dei fascicoli aperti, una certa consuetudine nella prassi e una ricorrente
generosità. «I soldi a disposizione sono stati messi, il momento è difficile per tutti e non
si può fare di più», ha fatto sapere Renzi, lapidario, al cardinale Parolin. I tagli previsti
colpiranno come una mannaia le scuole cattoliche e pure la sanità cattolica, con
prevedibili chiusure di tanti istituti. Ma la complessità da affrontare include anche temi
bilaterali di natura pattizia. In ballo le questioni incorniciate dall'articolo 11 del
Concordato. «Serve una mutua cooperazione», ha insistito il Vaticano. Due le grandi
questioni sul tappeto, la prima riguarda l'Ordinariato militare. Presto ci sarà una
commissione mista per studiare un ridimensionamento dei cappellani militari e dei loro
compensi. L'altro capitolo, invece, attiene alla disparità di trattamento tra cardinali di
curia e di diocesi in caso di deposizioni. La giornata è iniziata con la rottura del rigido
protocollo. La piccola Ester Renzi si è ritrovata a camminare qualche passo davanti a suo
padre, il presidente del Consiglio, mentre tutta la delegazione attraversava in fila
composta le sale dell'appartamento pontificio per raggiungere la biblioteca dove stava
attendendo il Papa. Dietro la bimba, i genitori, la mamma Agnese vestita di nero,
elegante e sorridente, e i due fratelli. Informalità, scioltezza, battute. Un po' insolito
persino il regalo scelto dal governo italiano per Bergoglio, visto che il pontefice è
notoriamente astemio: alcune bottiglie di vin santo «per la messa e non solo», ha
specificato Renzi. E alcune bottiglie di «vino toscano» e di olio extravergine. Il Pontefice
ha contraccambiato con la consueta medaglia dell'Angelo della pace: «Perché lei lavora
per la pace», ha commentato Bergoglio. Renzi ha rassicurato: «La lasciamo sulla
scrivania». Più tardi un altro capitolo spiritoso. «Santità questo ministro ha nove figli». Il
Papa sorridendo a Del Rio: «Avete vinto il campionato». Singolare la tempistica
dell'udienza, richiesta dal premier solo 9 mesi e mezzo dopo il suo insediamento, una
specie di record in negativo. Mai accaduto in passato. Record che al di là del Tevere è
stato recepito come un segnale non certo positivo. E nei Sacri Palazzi nessuno nasconde
il timore di una svolta e di una evoluzione laicista da parte del nuovo premier. «Si tratta
ancora di capire», ha rivelato una fonte vaticana, «se con Renzi si può cominciare un
dialogo proficuo, al momento siamo in una fase preliminare e di incertezza». Secondo le
fonti ufficiali, durante l'incontro «l'attenzione si è soffermata, tra l'altro, sull'attuale
contesto segnato da persistenti difficoltà di natura economica e sociale, con
conseguenze negative soprattutto per l'occupazione dei giovani». Poi, ancora: «Si è
condivisa la grave preoccupazione specialmente per il progressivo peggioramento dei
conflitti nell'area mediorientale».
Pag 23 Dal Pd al Quirinale, quante trappole sulla strada di Renzi di Mario Ajello
Oggi è il giorno della resa dei conti nel Pd. Agli italiani interessa? E quanto interessa?
Mica tanto, presumibilmente. La vita dei partiti, ovvero di questi partiti e si è visto con lo
scandalo di Roma che tipo di partiti in buona parte sono, è qualcosa che viene ritenuto a torto o a ragione - appartenente all'auto-referenzialità della politica. Forse i cittadini,
almeno quelli ancora attenti a queste cose, ritengono di qualche maggiore importanza il
fatto che si andrà a votare tra un mesetto in Parlamento per il nuovo Capo dello Stato. E
quell’evento, ormai è chiaro a tutti, sarà un gran teatro della guerriglia politica, dei
fuochi incrociati (e il «fuoco amico» dei franchi tiratori è il più terribile) e degli agguati a
grappolo e di ogni tipo e forma di attacco tra tutti contro tutti e si salvi chi può. Nel
frattempo, nonostante i desideri di Renzi, la legge elettorale in Senato e la legge di
riforma istituzionale alla Camera non verranno approvate sia perché non ci sono i tempi
necessari sia perché Berlusconi si è messo di traverso (non vuole dare un’arma
elettorale al premier) sia perché la minoranza interna al Pd deve rovesciare la politica
del segretario e darsi una mission che è quella di durare in Parlamento e di condizionare
ogni mossa dell’avversario Matteo. Un quadro così è il quadro dello stallo. E in un quadro
così, che Renzi sembrava di poter dominare e cambiare ma adesso la palude si sta
rivelando per lui più insidiosa del previsto, si rischia in tutte le partite in corso che non ci
siano vincitori e nel match del Quirinale il pericolo è che nella rissa trasversale e interna
ai partiti la scelta migliore non sia quella che alla fine s’imporrà per stanchezza o per
carità di patria. Lo spettacolo interno al Palazzo - si vedano i dodicimila emendamenti
alla legge elettorale presentati dall’opposizione contro la maggioranza e dall’opposizione
dentro la maggioranza - è riassumibile nell’immagine del caos immobile. Mentre fuori dal
Palazzo, la crisi sociale e gli scontri e le tensioni di ogni tipo prodotti dal collasso
economico e dalla crisi di fiducia nella politica rappresentano il panorama davanti agli
occhi di tutti. Che è diventato ancora più sconsolante per effetto dello scandalo di Mafia
Capitale. Nel quale perdono tutti, sia la destra sia la sinistra, ma perde - e se ne sta
rendendo conto con molta lucidità, tanto è vero che ha varato in corsa il pacchetto anticorruzione - soprattutto Renzi. Il suo consenso di questo ultimo anno, con tanto di boom
alle elezioni europee, è stato dovuto al fatto che il segretario democrat e premier è
riuscito a far passare il seguente messaggio: la politica cattiva si può sconfiggere
soltanto con la politica buona e non tutta la politica é uguale. Ma alla luce della banda
Carminati-Buzzi, affarista e fascio-comunista, trasversale tra mondo Alemanno e certa
sinistra di tradizione Pci transitata felicemente nel Pd, quanto ancora agli occhi degli
italiani normali riesce a reggere questa giusta e opportuna distinzione su cui Renzi ha
basato il suo successo e grazie alla quale ha ridato un po' di fiducia a quei milioni di
cittadini che si erano rivolti a Grillo e ora guardano con disperato interesse a Salvini?
LA NUOVA di domenica 14 dicembre 2014
Pag 1 Nei partiti regole da cambiare di Francesco Jori
Le vedove allegre della Politica, quella con la maiuscola. Che banchettano sui suoi resti,
trasformandone le regole in copione da operetta fin dal nome in copertina. Mattarellum.
Porcellum. Consultellum. Da vent’anni a questa parte, le scadenti repliche di legge
elettorale hanno nauseato la platea dei cittadini, al punto da indurne una buona metà a
ricusare uno spettacolo sempre più indigesto. E non basta cambiare etichetta per farli
ricredere: un più sobrio Italicum sostituisce la filastrocca da marcondirondirondello delle
rime in “ellum”; ma non si perde la cattiva abitudine del ricorso al manzoniano
“latinorum” per confondere le idee. Una delle quali almeno diventa però sempre più
nitida: per una parte rilevante dell’attuale e sempiterno ceto politico, le leggi elettorali
sono viste come un lasciapassare per garantirsi una ben remunerata sopravvivenza.
Questione di date. Prendiamo come riferimento le politiche del 1987: da allora al 2013,
si è votato con quattro sistemi elettorali diversi. Ma guardate i nomi dei protagonisti di
questi venticinque anni: molti di loro, specie quelli che nei rispettivi partiti occupano i
posti che contano, sono rimasti gli stessi, magari dopo una sequenza di lavacri
attraverso sigle diverse. E soprattutto, sono quelli che ancora oggi pontificano
impartendo lezioni, mettendosi di traverso, erigendosi a vestali della Costituzione.
Magari rivendicando il ruolo del Parlamento nelle riforme. E anche qui lasciamo parlare i
numeri, ne basta uno: davvero si vuole collaborare al varo di una buona legge
elettorale, quando si presentano oltre 17mila tra emendamenti e sub-emendamenti,
come dire in media 18 per ogni singolo parlamentare? O si vuole semplicemente
neutralizzare ogni cambiamento? Quello che scandalizza di più, nello scontro sulla
riforma elettorale, è l’ipocrisia di proporsi come paladini della battaglia per restituire ai
cittadini la scelta di chi votare, sottraendola ai partiti. Ma quando mai?! Si dimenticano
di quando nel Mattarellum piazzavano se stessi in testa alle liste bloccate della quota
proporzionale, e paracadutavano nei collegi blindati i loro accoliti? O dell’uso
spregiudicato del “capolista ovunque” in giro per l’Italia, per poi cedere strategicamente i
posti non ai più bravi ma ai più fedeli? E non sono stati forse eletti con le preferenze i
Batman predoni del Lazio, i leghisti lombardi che da Roma-ladrona si sono fatti
rimborsare financo le mutande rigorosamente verde-padano, i teorici emiliani della
minzione pubblica a spese del contribuente che hanno infilato in nota-spese perfino lo
scontrino di una toilette? E come sono finiti in lista, tutti questi affiliati a una trasversale
banda Bassotti oggi indagata in 17 Regioni su 20: per sorteggio o per maneggio? Prima
di mettere mano alle regole esterne, i partiti o quel che ne rimane provvedano piuttosto
a riscrivere quelle interne: rinunciando alla pretesa di eternità dei “sempre-loro”,
selezionando il personale come fa qualsiasi azienda che non voglia fallire, premiando il
merito e castigando il vizio fin dal suo primo manifestarsi. E abolendo, magari, la
scellerata prassi di servirsi della televisione come serbatoio di candidature dal volto noto
ma dalla fronte inutilmente spaziosa, come annotava tanto tempo fa un caustico
Fortebraccio. Vale oggi più che mai la distinzione che faceva De Gasperi: un politico
pensa alle prossime elezioni, un uomo di Stato alle prossime generazioni. Non a caso in
Italia lui rientra, assieme a pochissimi, nella seconda categoria. Nella ben più affollata
seconda, sono in troppi quelli che si ispirano a una massima di Andreotti spesso citata in
modo improprio: la versione corretta è che il potere logora, ma è meglio non perderlo.
Quanto logorìo e quanto vinavil della poltrona, oggi a Palazzo…
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CORRIERE DELLA SERA di sabato 13 dicembre 2014
Pag 1 Mosse, tempi, nomi. La partita per il Quirinale di Francesco Verderami
L’incertezza sulla data d’addio di Napolitano stava trasformando quel caos calmo, che
nel Palazzo caratterizza le vigilie della corsa per il Colle, nel «caos Quirinale»: non solo
era stata stravolta l’agenda politica di Renzi, ma anche i piani dei candidati alla
successione. Ora però sembra che il capo dello Stato abbia fissato il giorno delle sue
dimissioni: il 14 gennaio, subito dopo il rendiconto del premier sul semestre italiano di
presidenza in Europa. Non che la sfida per il Quirinale nell’ultimo mese si sia mai
fermata, ma la data - per quanto ufficiosa - è una sorta di fixing che consente ai
protagonisti della grande corsa di dispiegare le rispettive strategie. E certo la prima
mossa toccherà a Renzi, che già a Napolitano avrebbe illustrato il modo in cui intende
procedere: lo schema - per ragioni diverse - escluderebbe dalla corsa al Colle personaggi
come D’Alema, Marini e lo stesso Prodi. Con il Professore, il premier ha voluto parlare di
persona, e che il colloquio non si sarebbe incentrato sul Quirinale è stato subito chiaro.
Quasi subito, perché l’incipit del leader democrat avrebbe potuto generare un
fraintendimento: «Il mio candidato ideale sei tu (pausa) per la carica di segretario
generale della Nazioni Unite». Raccontano che Prodi abbia poi descritto la scena ad
alcuni amici, con quel sorriso dietro cui spesso cela cattivi pensieri. Ma Renzi si sarebbe
mostrato convinto all’atto di prospettargli il suo futuro, «chi meglio di te?»,
preannunciando che - quando Ban Ki-moon lascerà - siccome la carica toccherà a un
rappresentante dell’Europa - «farò una battaglia sul tuo nome». A Prodi però
toccherebbe aspettare ancora due anni. Nel frattempo il fondatore dell’Ulivo, che pure si
dichiara estraneo alla corsa per il Colle, non disdegna gli incontri conviviali. Uno di questi
è stato organizzato da Bettini, che alcune settimane fa - prima che scoppiasse lo
scandalo di Mafia capitale - di ritorno da Bruxelles confidò a un collega europarlamentare
l’imminente appuntamento con Prodi: «Stasera, insieme ad altri, ci vediamo a cena con
Romano per discutere di prospettive politiche». In fondo, «Romano» non è l’unico a
discutere di «prospettive politiche». Anche Casini avrà affrontato lo stesso argomento
con Berlusconi, incontrato riservatamente. D’altronde la riservatezza è d’obbligo in
questa fase, dove tutti stanno fermi ma tutto è in movimento. E ognuno lancia segnali. Il
voto in commissione alla Camera con cui il governo è andato sotto sulla riforma del
Senato, per esempio, non era che un segnale a Renzi inviato dalle minoranze del Pd e di
Forza Italia. È vero, Fitto ripete sul Quirinale le stesse parole del Cavaliere, «servirà una
personalità autorevole», ma l’identikit potrebbe non collimare. E nel Palazzo c’è chi
teorizza che Berlusconi, lanciando il nome di Amato, abbia inteso bruciare il candidato di
Napolitano e di D’Alema, che proprio con Fitto ha stretto un asse «anti Nazareno». Una
cosa è sicura, e il vice segretario del Pd Guerini ne è consapevole: «Finché non si
risolverà la questione del Colle la fibrillazione è destinata a protrarsi». Pertanto le
prossime settimane per il governo si preannunciano ad alto rischio: sulla legge di
Stabilità ma soprattutto sulla riforma del sistema elettorale che è all’esame del Senato.
Renzi - che contava di arrivare al voto d’Aula sull’Italicum prima delle votazioni per il
Quirinale - ora ha ridotto le sue pretese: spera di ottenere il via libera della commissione
Affari costituzionali senza incidenti di percorso. Ecco quale influenza ha la corsa per la
presidenza della Repubblica, che non è - né poteva essere - una variabile indipendente
dello scenario politico, dopo che Napolitano ha lasciato accreditare il suo addio. E più si
ingarbuglia la faccenda delle riforme più si capisce che il caso Quirinale è ancora un
caos. «Più ci si avvicina alla metà - ha spiegato infatti Bersani ad alcuni compagni del Pd
- e più aumenta la nebbia». Allora, davvero Renzi ha dei nomi coperti che non siano già
finiti nel tritacarne delle anticipazioni? Da Bassanini a Padoan, dal governatore di
Bankitalia Visco al capo della Bce Draghi, da Finocchiaro a Mattarella, non c’è opzione
che non sia stata preannunciata. E non è solo l’incertezza sulla data delle dimissioni del
capo dello Stato ad aver fatto aumentare le tensioni nel Palazzo. Perché il punto non è
solo quando Napolitano si dimetterà. Il punto è anche cosa dirà...
LA STAMPA di sabato 13 dicembre 2014
Tutti contro uno di Federico Geremicca
Il richiamo al rispetto reciproco. L’invito ad una discussione pacata. L’auspicio che si
mettano da parte esasperazioni sempre più evidenti. E’ l’ultimo appello del Presidente
della Repubblica, nel giorno dello sciopero generale di Cgil, Uil e Ugl. Parole al vento, con
ogni probabilità: come portate via dal vento - lo conferma la cronaca di queste ore sono state, per mesi, le invocazioni a varare quelle riforme (costituzionale ed elettorale)
che giacciono tutt’ora in questa commissione o in quell’aula parlamentare, ostaggio di
continui veti incrociati. Le manifestazioni in cinquanta e più città italiane, e uno sciopero
generale quasi «ad personam» - come non se ne vedeva dai tempi dei governi
Berlusconi - segnalano con inequivoca nettezza come il vento attorno al governo di
Matteo Renzi stia decisamente cambiando. La filosofia dell’«uno contro tutti», che tanto
aveva pagato nei mesi dell’ascesa dell’ex sindaco di Firenze, comincia infatti a mostrare
l’altra faccia della sua medaglia. I «tutti», infatti, vanno riorganizzandosi, si accordano,
si spalleggiano e muovono al contrattacco. Il quadro che ne emerge è desolante. Pessimi
i rapporti con l’Europa; in caduta libera tutti i parametri economici; improntati a sospetti
(patto del Nazareno) o a scontri durissimi i rapporti tra i partiti; guerra aperta tra Cgil e
governo; disastrato, fino a far immaginare una rottura imminente, il rapporto tra il
segretario-premier e la minoranza del suo partito, il Pd. In un panorama fattosi così
cupo, non può sorprendere che torni ad aleggiare il fantasma di elezioni anticipate: che
poi sia tecnicamente difficilissimo arrivarci e politicamente quasi suicida pensarci, pare
importare poco o nulla. Tanto a destra quanto a sinistra. E’ opinione comune che
l’origine del rapido deterioramento del quadro politico sia da ricercare nel drammatico
scontro in atto nel Partito democratico. La guerra che le correnti di minoranza hanno
intrapreso contro Renzi sta infatti riverberando i suoi effetti su quasi ogni fronte. Nelle
aule del Parlamento, ogni provvedimento di un qualche peso (riforma del Senato, Jobs
Act, legge elettorale) è ostacolato o rallentato dallo scontro interno al Pd; e sul piano
economico-sociale, si assiste ad un lievitare della protesta e ad una sorta di
rovesciamento - nei rapporti tra sinistra e sindacati - dell’antico concetto di «cinghia di
trasmissione»: con la Cgil, oggi, a far da traino e guida per l’opposizione interna al Pd.
Molto di quanto avviene, ricorda assai da vicino dinamiche che erano tradizionali al
tempo della Prima Repubblica e della Dc, quando la guerra tra correnti (andreottiani,
demitiani, dorotei...) produceva crisi di governo, cambi di premier e fine anticipata di
questa o quella segreteria. Sembrava un passato destinato a non tornare, e invece
eccolo qui: con i suoi effetti disastrosi tanto sul piano della tenuta del sistema che
dell’efficienza di governo. Che il passato non ritorni, è possibile ma non scontato; che
occorrerebbe ricordarne gli aspetti peggiori, invece, sarebbe - anzi: è - segno di
saggezza e responsabilità. In tale caos, è annunciata per domani l’ennesima «resa dei
conti» all’interno del Pd, ma è difficile che l’Assemblea nazionale dei democrats possa
portare a conclusioni e dinamiche nuove e certe. E’ arduo, infatti, immaginare che il
copione possa esser assai diverso da quelli visti e noti: Renzi che fa la sua relazione, la
minoranza che vota contro, si divide o si astiene, e ogni cosa - alla fine - che ricomincia
come prima. Del resto, è inutile per i nemici del segretario-premier, forzare tempi e
scelte adesso, quando la migliore occasione per una resa dei conti definitiva sembra a
un passo, lontana qualche settimana o poco più. E’ infatti lungo le alture di quel vicolo
stretto - un vero e proprio canyon - rappresentato dalla scelta del nuovo Presidente della
Repubblica, che i nemici interni ed esterni del premier vanno accampandosi per
consumare la vendetta. In una situazione nella quale nessuno dei leader maggiori (da
Berlusconi a Renzi, fino a Beppe Grillo) controlla pienamente il proprio partito, si rischia
di vederne di tutti i colori. E il ricordo dei 101 franchi tiratori che affondarono la
candidatura di Romano Prodi, potrebbe sbiadire di fronte a dissensi ed insubordinazioni
ancor più espliciti e numerosi. In palio, infatti, non c’è solo l’elezione del nuovo Capo
dello Stato, ma la testa di Matteo Renzi: Pier Luigi Bersani, del resto, la sua la perse
così. Il più giovane premier della storia repubblicana sa che potrebbe andar incontro ad
analogo destino. Riflette e ragiona su come scansare il pericolo, ma una soluzione
ancora non ce l’ha. E intorno a lui, intanto, tutto sembra degradare e cambiar verso.
Anzi, ricambiar verso: come non si sarebbe mai detto fino ad ancora due o tre mesi fa...
AVVENIRE di sabato 13 dicembre 2014
Pag 1 Costituente per Roma di Andrea Riccardi
Scuse da chiedere, anima da ritrovare
Roma è triste e svuotata. Come non esserlo di fronte ai primi risultati dell'inchiesta
condotta con lucidità e senza protagonismi dal coraggioso procuratore Giuseppe
Pignatone e dai suoi collaboratori? Non si tratta ora di discettare dell'ampiezza dello
spettro mafioso. La magistratura indagherà e giudicherà. Si deve però manifestare un
senso di vergogna di fronte ai romani, soprattutto ai deboli: «Speriamo che il 2013 sia
pieno di monnezza, profughi, sfollati e bufere» - diceva un sms augurale di un attore di
questa vicenda. Un altro affermava: «Si fanno più soldi con gli immigrati che con il
traffico di droga». Credo che, innanzi tutto, c'è da scusarsi con la tanta gente delle
periferie romane, gli immigrati e i rifugiati, i rom. E non si è ancora visto maturare
quest'atteggiamento nel fuoco incrociato delle accuse e delle discolpe. La gente delle
periferie è stata imbrogliata. Sono stato a Tor Sapienza. Il quartiere è al limite della
vivibilità: poca luce, scarse connessioni, traffico di droga e tante fragilità sociali.
Volevano far credere che il problema fosse un pugno di rifugiati. Ora scopriamo che il
caso è stato montato ad arte. Il problema è invece enorme: un quartiere abbandonato.
Si è tentata una strategia della tensione tramite una facinorosa manovalanza anche per
aizzare gli abitanti contro i rifugiati. Un caso di manipolazione della disperazione.
Possibile che nessuno se ne sia accorto in tempo? Bisogna, prima di tutto, chiedere
scusa per il degrado delle periferie, su cui non si è investito. Non ci si lamenti poi
dell'antipolitica o del ribellismo. I romani di periferia sono soli, in un momento
economico e sociale così difficile. Scusarsi con la gente di periferia è necessario non solo
per le evidenti responsabilità penali, ma anche per aver abbandonato una parte della
città e non aver guardato a Roma dalle periferie. Bisogna chiedere scusa agli immigrati,
quando si è speculato su di loro. Il linguaggio delle intercettazioni - pur non penalmente
rilevante - manifesta il degrado della cultura gestionale non solo della politica, ma anche
di una fetta del sociale. Eppure il sociale, quello cattolico come quello 'politico' (e
soprattutto di sinistra), è stato un motore del riscatto delle periferie. Senza dimenticare i
tanti lavoratori del sociale che sono fuori dalla logica delle 'cupole'. Ci sono però anche
immiserimenti umani e culturali che hanno strangolato esperienze partite bene. Sono
stati troppo trascurati il valore delle motivazioni e la dimensione del gratuito. C'è un
fenomeno non secondario su cui riflettere: come parliamo dei deboli? Come parliamo di
Roma? Le parole non sono casuali. Il linguaggio delle intercettazioni (ma anche della
gestione) rivela che le fonti si sono quasi essiccate. C'è stata la trasformazione della
sinistra. Il mondo cattolico deve registrare l'invito del Papa a uscire dai suoi circuiti.
Sono passati quarant'anni dal grande convegno del febbraio '74 sui mali e i dolori della
città e delle periferie, da cui emerse un sogno su una città-comunità. Lo si è appena
evocato, come un ricordo. Bisogna chiedere scusa ai rom. Loro sono stati additati come
colpevoli del degrado urbano. Ma il degrado era altro. Ricordo gli sgomberi dei campi
rom, fatti con grandi dispiegamenti di forze (adatti a ben altri personaggi) e con una
logica spesso insensata. Non voglio santificare nessun gruppo sociale, ma non si può
trattare senza coscienza la gente della periferia, né i deboli. Solo perché non c'è (quasi)
nessuno che li difenda o dia loro voce. È emerso un cinismo che fa paura e ci fa sentire
più insicuri. Roma è sfiduciata e insicura. Non è solo il problema della corruzione. Ancor
prima dei giudizi sulle persone (che non è lecito anticipare), emerge però l'inconsistenza
di una classe politica, permeabile, incapace di capire, di resistere nelle ragnatele degli
interessi. Certo solo una parte (la maggioranza dei politici non è toccata), ma c'è
un’inconsistenza generale nella tenuta, nel linguaggio, nella cultura. Qui non ci sono le
energie per ripartire. Roma ha perso l'anima. L'ha detto giustamente Carlo Verdone. Le
idee sulla città si sono diradate fino a evaporare. Di idee, cultura, visione, pochi si sono
ultimamente interessati. Ma - ricordava Theodor Mommsen - «a Roma non si sta senza
avere propositi cosmopoliti». Propositi su Roma non ci sono stati da vari anni.
Cosmopoliti e universali ancora meno. La gente di periferia è divenuta davvero
periferica, perché sola. Non si ritrovano i soggetti, radicati nei quartieri, che li
collegavano a un'idea di città, a una passione politica, a un processo di socializzazione.
Davano anima a Roma. La maggior parte sono svaniti. Altri si sono ripiegati in modo
autoreferenziale. La crisi economica, con i suoi effetti devastanti, ha fatto il resto,
pesando sui più deboli e determinando tagli d'investimento sulla periferia. Roma, città
così preziosa per la nostra identità nazionale e per il mondo religioso, è stata poco
rispettata e amata: usata e buttata via. Come ripartire? Non si può - come si dice a
Roma - 'metterci una pezza sopra'. Né mettere alla gogna solo alcuni, pur colpevoli
penalmente. C'è un problema generale. La gente 'perbene' è tentata di chiudersi in casa
o nei suoi circuiti. Molti sono arrabbiati, ma impotenti. Non chiudiamoci però nello
sdegno o nella rassegnazione. Papa Francesco ha spiegato la differenza tra i peccatori
(ogni uomo è peccatore) e i corrotti (creatori di un sistema di male). Nel buio di questi
giorni, non si vedono tanti aspetti positivi, le molte luci di Roma. Non mancano 'forze
sane'. Ma tutti sono isolati e gli ultimi fatti sembrano confermare in quest'
atteggiamento. Chi opera positivamente spesso lo fa da solo. Bisogna convocare le forze
sane a un grande dialogo, una costituente per una nuova stagione di Roma: suscitare
dibattiti e resuscitare passioni. Roma deve ritrovare la sua anima con un salto di
coscienza, capace di segnare una rinascita. Roma ha avuto momenti felici, è un grande
valore storico e sociale: non può condannarsi a una vita grama o all'assenza di futuro.
Pag 3 Ora più rispetto e più riforme di Gianfranco Marcelli
Dopo la “giornata dell’esasperazione”
Ora che il giorno dell’«esasperazione» è alle spalle (la definizione, azzeccata come
poche, è di Giorgio Napolitano) ci si può chiedere che cosa davvero potrà cambiare. Cosa
consegna cioè, agli archivi della Repubblica, il ritorno sulla scena di una prassi, come lo
sciopero generale, evocatrice di epoche ad alta conflittualità ideologica, ma anche di ben
altri scenari di crescita e di sviluppo. Perché, a ben vedere, di proteste come quella di
ieri ne abbiamo vissute ormai parecchie, soprattutto a partire dalla tempestosa fine degli
anni Sessanta. Ma a parte lo stillicidio di scontri di piazza, con le decine di feriti e di
fermati, che ha costellato le manifestazioni in oltre cinquanta città, la vera novità di ieri
è soprattutto questa: la prova di forza è andata in scena al culmine della più grave e
duratura crisi che il Paese abbia mai conosciuto. Si è andati, cioè, al braccio di ferro a
più alto valore simbolico proprio mentre si consuma il punto più basso della nostra
vicenda economica e sociale. E quando ormai è chiaro che il destino dell’Italia non è più
soltanto nelle mani di Roma, ma sempre di più in quelle di Bruxelles e delle altre capitali
europee che contano. Ecco perché, una volta consumati i tradizionali riti a base di cifre
misuratrici del successo della manifestazione, dopo che si saranno raffreddati i fuochi
della polemica tipica dello stile tribunizio imposto dai palchi (e qui, magari, il leader
“esordiente” della Uil Barbagallo poteva risparmiarsi l’accenno alla «nuova resistenza»,
contro non meglio precisati nemici della democrazia), i protagonisti dello scontro faranno
bene a guardarsi da una doppia e speculare tentazione. I due terzi dello schieramento
sindacale tradizionale, sulla scorta dell’asserita messe di adesioni raccolte, non dovranno
commettere l’errore di credere che adesso saranno possibili svolte radicali nella politica
economica e nelle scelte sociali di fondo avviate dall’esecutivo. Non sarà usuale, ma
certo è significativo che uno dei “guardiani” dell’ortodossia comunitaria meno
sospettabili di tentazioni rigoriste, il socialista francese Pierre Moscovici, si sia precipitato
a commentare il nostro “venerdì della collera”. E l’abbia fatto per ricordare, dopo l’ovvio
riconoscimento del diritto pieno a scioperare, che «bisogna fare le riforme» e che queste
devono essere «efficaci». Sul versante governativo, è comprensibile che Renzi rivendichi
di non «farsi impressionare» dalla protesta e di prepararsi a tenere il punto nei confronti
della piazza. Tanto più che, come da diverse parti è stato osservato, il tentativo di
spallata di Cgil e Uil ha assunto in buona misura i connotati di una battaglia di
schieramento molto interna al Partito democratico, con l’ala della sinistra più
tradizionale, sconfitta nei congressi e nelle urne, alla ricerca di una rivincita contro chi si
è presentato come alfiere di una rifondazione senza precedenti e senza “complessi” di
appartenenza storica. Il premier e i suoi sbaglierebbero, però, a fare finta di niente,
trascurando l’auspicio del presidente della Repubblica, affinché permanga il «rispetto
reciproco», e non solo sul piano delle dichiarazioni formali. È bene quindi che ci sia
disponibilità effettiva delle parti a «discutere» in concreto: sia, sulle decisioni già prese
come la nuova disciplina del lavoro, per la parte di attuazione che resta da realizzare, sia
per quelle che verranno in vista del rilancio economico e occupazionale. Tuttavia,
quando il ministro Poletti promette che, sul percorso riformatore, non saranno possibili
colpi di freno, potrebbe utilmente aggiungere che occorre semmai qualche deciso colpo
di acceleratore. Perché ieri, mentre l’attenzione generale era rivolta ai cortei e ai comizi,
oltre che al forse troppo trascurato fenomeno della contestazione violenta alle forze
dell’ordine, sono emersi altri segnali poco rassicuranti sul duplice terreno dell’economia e
della capacità del sistema istituzionale di autocorreggersi: da una parte la Borsa di
Milano ha ceduto un altro 3% abbondante, dall’altra la Commissione Affari costituzionali
della Camera ha segnato di nuovo il passo, rinviando i lavori a oggi e vedendo così
allontanarsi il traguardo di mandare in aula la riforma del bicameralismo e del Titolo V
prima di Natale. Il tempo a disposizione, insomma, è sempre più ridotto. Lo ha ricordato
il titolare dell’Economia Padoan: se non si fa in fretta ciò che deve essere fatto, scioperi
o no, «non se ne esce».
IL GAZZETTINO di sabato 13 dicembre 2014
Pag 1 Dopo lo sciopero più difficile la partita di Renzi di Oscar Giannino
Scrivemmo a fine ottobre che era morta per sempre la concertazione, e che insieme a lei
scompariva l’autunno caldo. Allora, infatti, le centinaia di migliaia di manifestanti portati
da Susanna Camusso a piazza San Giovanni per la prima volta rafforzavano un premier,
e un premier del Pd, invece di ferirlo a morte. Settimane dopo, di fronte a una carica di
polizia a Roma in una manifestazione di operai dell’Ast di Terni, la capacità indubbia di
Landini di monopolizzare la comunicazione pubblica cambiò l’atmosfera delle piazze
italiane. E Susanna Camusso, anche per questioni di leadership interne rilanciò la
paroletta magica, sciopero generale, che si è compiuto ieri. Dopo gli scricchiolii sinistri
nel voto regionale in Emilia Romagna, e dopo l’esplosione dell’inchiesta nella capitale con
commissariamento del Pd a Roma, tutti segni di malessere ben evidenti. Dal punto di
vista della Cgil lo sciopero generale di ieri è stato un successo, perché stavolta nelle
diverse piazze italiane i manifestanti erano incazzati sul serio, gli scontri ci sono stati,
D’Alema è stato importunato. E subito c’è stato chi ha iniziato a scrivere “Renzi stia
attento, se il Pd si mette contro questo pezzo del suo popolo non è più questione di Jobs
Act”. È vero. La concertazione resta morta. Ma lo sciopero generale di ieri è stato
politico. Politicamente rivolto a una scommessa che ormai non conosce mezze misure.
Renzi e chi lo segue devono andare a casa. Il suo metodo di non codecidere prima con la
Cgil deve essere sconfitto. E meglio ancora, se lo si dovesse fare sull’onda dell’instabilità
greca, se magari il 29 dicembre il premier ad Atene non riuscisse a eleggere un nuovo
capo dello Stato e alle elezioni anticipate il programma di Syriza di ripudio del debito
pubblico facesse ballare l’euro e per prima l’Italia. Perché la Cgil è pronta a dire che la
colpa è di Renzi, se a quel punto anche in Italia bisogna pensare a pezzi di sinistra che,
come Syriza in Grecia o Podemos in Spagna, mangino il tradizionale elettorato socialista
in nome del no a tutto. Il nodo dello sciopero generale di ieri è tutto qui. Non pesa nulla
l’inevitabile querelle su quanti vi hanno partecipato, e certo non è stato il 60% stimato e
dichiarato dalla Cgil. Il punto è integralmente politico, e con la concertazione morta non
c’entra più nulla. Come innumerevoli volte è già capitalo nella travagliata storia della
sinistra italiana dai tempi di Filippo Turati, l’ala massimalista sindacale rivendica un ruolo
completamente diverso dal trattare sui contratti. Il proprio ruolo, per come lo concepisce
e rivendica, è trattare su tutto, senza la responsabilità di doversi misurare alle elezioni,
ma con potere di veto preventivo e di sanzione popolare ex post. E’ un problema antico
italiano. Contro le pretese di veto politico del sindacato scrissero articoli da ripubblicare,
intitolati esplicitamente ”Contro lo Stato sindacale”, figure come Vittorio Emanuele
Orlando e Santi Romano, prima del fascismo e sotto Giolitti che pure al sindacato aveva
aperto. Nel 1946, a lavori della Costituente in corso, Ettore Conti scrisse “la decisione
par essere quella di aggiungere alla pletorica burocrazia pubblica anche quella sindacale,
per continuazione corporativa”. E fu la forza di piazza del primo sciopero generale degno
di tale nome nell’Italia del 1904 - 110 anni fa! – a convincere Arturo Labriola che l’arma
dello sciopero generale politico doveva essere da quel momento brandita come il vero
credo del socialismo rivoluzionario. Visti tali precedenti, è difficile resistere alla
tentazione di considerare lo sciopero generale di ieri, il suo rito e il suo mito, se non
come una ricorrente pulsione a restare aggrappati a una storia che ad alcuni o magari a
molti potrà sembrare luminosa, ma che sempre storia di trapassato remoto resta.
L’Italia di oggi avrebbe bisogno di un sindacato che tratta nelle aziende localmente turni
e orari e più produttività per più salario, che tratta nel pubblico impiego per la mobilità e
l’efficienza invece di opporvisi sempre, che impari a trattare in nome di quegli autonomi
senza tutele e dei precari che nel sindacato non ci stanno, e che anzi ne sono vittime
storiche: perché l’asimmetria del mercato del lavoro italiano, da vent’anni a questa
parte, con chi ha tutte le tutele e chi nessuna, è figlia esattamente della pervicacia con
cui il sindacato ha continuato a difendere una vecchia idea di impresa e di lavoro.
Vecchia non perché lo diciamo noi: perché lo dice l’evoluzione del mercato e del mondo.
Ora, per Renzi la partita si fa ancora più difficile. Lo sciopero generale di ieri alza la sfida
puntando alla permanenza in vita stessa di questo governo. Se no, alla sua sconfitta
elettorale, spaccando il Pd. Inutile sperare che l’instabilità per Italia ed Europa dietro
l’angolo, se in Grecia le cose sfuggono di mano, possa suonare come un invito alla
responsabilità sindacale. La colpa è del governo, è ormai la risposta rituale e ripetuta. Il
premier, giovedì sera, facendo il passo indietro sulla precettazione nei trasporti – che
era dovuta per legge a tutela degli utenti, e nient’affatto in violazione dei diritto sindacali
– ha mostrato un primo segno di preoccupato realismo. Difficile oggi dire come finirà. Ma
di sicuro Renzi avrà bisogno di molta pazienza. Perché è la sua testa, quella che ieri è
stata indicata nelle piazze italiane come la svolta da perseguire.
LA NUOVA di sabato 13 dicembre 2014
Pag 1 Un partito alla resa dei conti di Bruno Manfellotto
A lungo rinviato, poi strumentalmente tenuto a covare sotto la cenere, ecco arrivare lo
scontro finale, la resa dei conti, la proclamazione del vincitore. L’appuntamento è per
domani, stati generali del Partito democratico a Roma, un’assemblea che è quasi un
congresso. Qui ci si conterà e si capirà se il partito è ancora sotto il dominio pieno e
incontrollato del leader-premier, o se Matteo Renzi dovrà chinare il capo e siglare un
accordo con la minoranza - cioè con la vecchia guardia dei Bersani-D’Alema-Bindi che il
Rottamatore vede come il fumo negli occhi - per garantire un futuro alle riforme e alla
nuova legge elettorale e trovare il metodo giusto per la scelta del nuovo Capo dello
Stato; o se sarà rottura irrimediabile. E sì, prima o poi doveva succedere, così com’era
prevedibile che esplodessero le contraddizioni che percorrono il corpaccione del Pd. La
prima è che di Partito democratico ce n’è non uno ma due. Fin dall’inizio. Nato dalla
fusione fredda tra l’ala cattolica dei post Dc e quella dei post Pci ribattezzati Ds, la nuova
creatura non è mai riuscita ad amalgamare le diverse culture politiche e sociali che ne
avevano promosso la nascita, e che invece hanno finito per condizionare i governi di
centrosinistra che nell’ultimo ventennio si sono alternati a quelli di Silvio Berlusconi. La
spaccatura si è accentuata con la presa di potere di Renzi perché più accesa si è fatta la
battaglia tra il vecchio establishment e i nuovi arrivati, e sempre più numerose sono
state le occasioni di discordia. L’elenco è lungo. Tra i due Pd non c’è accordo sui
contenuti delle riforme, Jobs act e Senato innanzitutto; diversi sono i punti di vista sulla
nuova legge elettorale; e profonda è la distanza sulla politica economica e sui rapporti
con il sindacato, anche se alla vigilia dello sciopero generale il premier ha fatto marcia
indietro tendendo la mano a Camusso & C. L’altro contrasto che agita il Pd riguarda lo
spregiudicato gioco delle alleanze che Renzi ha imposto abbracciando Berlusconi con un
patto prima esaltato, poi accantonato, ma in realtà sempre incombente. E qui si
intrecciano dissensi di fondo sull’opportunità politica ed etica di scendere a patti con
l’antico nemico, e più concreti dissidi sul ruolo che i non renziani pensano di poter
giocare negli appuntamenti più importanti di questa stagione: le riforme e sopratutto
l’elezione del Capo dello Stato. Il premier sta cercando di portare a casa prima un
risultato poi l’altro; l’ex cavaliere cerca invece di tenere insieme le due partite: io vi
faccio fare le riforme, va dicendo Berlusconi, e voi mi fate sedere al tavolo delle
trattative per il presidente della Repubblica. L’unico modo che Renzi avrebbe per evitare
il diktat berlusconiano, è poter disporre di un Pd compatto, pronto a votare con lui prima
sulle riforme e sulla legge elettorale, poi per il successore di Napolitano. Ma non è così
semplice, come ha dimostrato la faticosa nomina di giudici costituzionali e tre giorni fa il
no della minoranza Pd alla Camera contro il nuovo Senato che ha fatto riapparire lo
spettro dei 101 voti che 19 mesi fa abbatterono la candidatura di Prodi al Quirinale.
Intantro i tempi stringono: un mese appena e Napolitano lascerà il colle più alto.
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