Q 88 uesta settimana il menu è DA NON SALTARE Apuane, un parco da salvare Decide tutto il Ministro “ Cristina Acidini, sovrintendente pilatesca Leverotti a pagina 2 PICCOLE VUOTI&PIENI ARCHITETTURE Lettera ad un piano mai nato Stammer a pagina 5 OCCHIO X OCCHIO L’Acidini all’Expo La Venere a Firenze RIUNIONE DI FAMIGLIA a pagina 4 Il romanzo della rivoluzione (Seconda parte) Fotografando la Grande Guerra Cecchi a pagina 7 PECUNIA&CULTURA Il tormentone culturale estivo La cecità e l’impegno Setti e Siliani a pagina 9 C U O .com DA NON SALTARE n 88 PAG. sabato 30 agosto 2014 o 2 di Franca Leverotti [email protected] Consigliere nazionale di Italia Nostra N ato nel 1995, con molta incongruenza, con le cave “dentro”, il Parco delle Alpi Apuane è stato finora gestito in maniera anomala, sotto il ricatto occupazionale di pochi imprenditori, tanto che ad oggi, dopo 20 anni, non solo non ha un suo regolamento, ma una delibera regionale del 2006 ha consentito illogicamente che il piano estrattivo venisse elaborato dopo il piano del Parco, che ad oggi non è stato ancora approvato! A seguito della normativa europea volta ad individuare territori di pregio per la flora e per la fauna, meritevoli di tutela per la biodiversità (sono presenti 3.000 specie floristiche delle 5.595 note in Italia, tra cui 20 endemismi) nel territorio del Parco sono stati individuati ben 18 SIC (Siti di Interesse Comunitario) e una vastissima ZPS (Zona di Protezione Speciale per gli uccelli) che coincide praticamente con i SIC, aree di pregio, che coprono il 90% dell’area Parco, dichiarati tutti anche IBA (Important Bird Areas). L’assurdità è che l’area delle cave (chiamata in maniera surrettizia “area contigua di cava”) si incista in queste aree protette, frammentandole con tanti buchi di diversa dimensione. Le norme di salvaguardia imposte dal Parco nelle concessioni estrattive soggette a VINCA (valutazione di incidenza) sono risibili: oliare i macchinari per non disturbare gli uccelli… non sparare mine nel periodo di nidificazione delle aquile…..Non solo, a partire dal 2000 sono state ri-aperte almeno una decina di cave nei siti SIC-ZPS, in aree già rinaturalizzate, accentuando così il danno ambientale e suscitando l’interrogativo se il Parco (oggi Geoparco Unesco) sia più interessato alla concessione di escavazioni piuttosto che alla tutela del territorio affidatogli. Le Apuane si caratterizzano per una ricchezza d’acqua senza uguali: sono qui presenti le due sorgenti più importanti della Toscana (Forno e Pollaccia) e un carsismo che le rende il territorio più importante d’Italia per questo aspetto: vi sono 10 fra gli abissi italiani profondi più di 1.000 metri e di questi, il Roversi, è il più profondo d’Italia, laghi e fiumi sotterranei, un migliaio di grotte nella sola Carcaraia, e una grotta (l’antro del Corchia, oggetto di una pubblicazione dell’ISPRA) esplorata ad oggi per oltre 50 km. Ebbene l’attività di cava, esercitata con grande trascuratezza, inquina le acque superficiali con la marmettola (fanghiglia di polvere di marmo e residui ferrosi derivante dalle operazioni di taglio) e gli olii esausti che si infiltrano nelle fratture carsiche e la pioggia la trascina per decine di sottoterra fino a riemergere nella pianura massese, in Versilia, nella Lunigiana: il Frigido, la sorgente di Equi, il canale del Giardino, quello di Renara assumono, dopo ogni temporale, il colore del latte. La marmettola si deposita anche nelle cavità carsiche uccidendo le forme di vita presenti: l’Arpat (Agenzia Regionale di Protezione Ambientale della Toscana) ha confermato che i “fanghi bianchi” dell’an- Alpi Apuane Un geoparco da salvare C U O .com tro del Corchia, un complesso carsico ritenuto di importanza mondiale, erano polvere di marmo riconducibile alle soprastanti cave Tavolini tuttora in esercizio. Le prescrizioni del Parco anche in questo caso sono ridicole e del tutto insufficienti a tutelare le acque, sia in quantità che in qualità, e la vita del mondo sotterraneo. Infatti si chiede di sigillare le fratture anche con il cemento disperdendo così risorse utili alle ricariche delle sorgenti e incrementando il rischio idrogeologico di una zona fortemente compromessa nei suoi equilibri. Le alluvioni di Forno, di Cardoso, di Carrara, della Lunigiana dovrebbero suggerire ben altri comportamenti. Nel caso di ingressi a pozzi, abissi e cavità, già esplorate e presenti nel catasto delle grotte redatto dalla Federazione Speleologica Toscana, si invita a lasciare una distanza da 10 a 20 metri dall’apertura (e molte di queste sono occluse a causa dell’attività estrattiva). Curioso ma non singolare quanto avvenuto poche settimane fa: è stato autorizzato il taglio dell’abisso del Pozzone, accatastato fin dal 1975, già intercettato e occluso dall’attività di cava, per il quale il Parco consentiva una distanza di sicurezza di soli 5 metri. La concessione al taglio è stata autorizzata, in deroga alla delibera del Consiglio Direttivo del Parco che “proteggeva” gli abissi superiori ai 300 metri di lunghezza, sulla base di relazioni fornite dalla ditta che giudicavano l’abisso (che presenta corsi d’acqua in varie direzioni) “privo di valore ambientale e senza rilevanza naturalistica e archeologica” (probabilmente “geologica”). Anche la prescrizione della VINCA di fermare l’attività quando si individua una frattura, informare il Parco e modificare il piano di coltivazione è regolarmente disattesa: nessuna ditta ha mai informato il Parco e la documentazione fotografica mostra fratture tagliate per più piani di coltivazione. Nel Parco e nelle aree attigue si consente, da parte dei Comuni e della Regione Toscana, la violazione delle normative europee relative alla tutela delle acque superficiali e sotterranee, e soprattutto del principio di precauzione. La Regione e l’ente Parco violano sistematicamente la tutela dei siti Rete Natura 2000 nel momento in cui stabiliscono che si faccia attività estrattiva all’interno dei siti protetti, e soprattutto quando consentono che una cava in ZPS e SIC possa ri-aprire o possa estendere la sua attività purché presente nel piano regolatore dei singoli Comuni alla data 2007… e sempreché l’attività estrattiva sia orientata a fini naturalistici e sia compatibile con gli obbiettivi di conservazione delle specie prioritarie: questa assurda normativa (delibera di giunta 454/2008) riprende in toto l’art. 5 comma 1 del DM 17/X/2007, che era stato concepito per superare una procedura di infrazione (2006/2031) avviata dall’Europa relativamente alle ZPS! Due anni fa il Parco è entrato a far parte dei Geoparchi Unesco, data la ricchezza dei geotopi e dei geositi presenti, anche questi devastati dalle cave che li ricoprono con lo scarico dei detriti. Nella carta elaborata dal Parco per questa operazione di DA NON SALTARE Un intervento sulla difficile convivenza tra cave e natura sui monti di Carrara promozione le cave, che nella legenda esplicativa non sono nominate, compaiono come area bianca; inoltre, per i singoli geotopi è stata elaborata una scheda in cui si tace dell’attività estrattiva o si afferma che è in chiusura, e sono state allegate foto scattate da particolari angolature per non mostrare la presenza delle cave. Ci sono cave sopra i 1.200 metri s.l.m., cave di cresta, cave che hanno abbassato i crinali e deformato le forme delle montagne, cave nei circhi glaciali, nei boschi, tutte in piena violazione del Codice dei beni culturali, ma tutte continuano a lavorare, nonostante presentino spesso documentazione parziale, nonostante commettano gravi infrazioni, come il taglio di setti giudicati imprescrittibili, lo scarico di detriti nei canali e tagli non previsti nei piani di coltivazione approvati. I 4 guardiaparco emettono multe fino ad un massimo di 400 euro, multe a cui i Comuni, collusi con gli industriali o essi stessi imprenditori del marmo, non danno seguito, e che si arenano nelle procure della Repubblica. Per quanto la normativa consenta di fermare una cava, ciò non capita mai, e, il fatto sa addirittura di beffa, nei permessi di nuovi piani estrattivi sono ricordati abusi, sconfinamenti, infrazioni. L’arroganza degli industriali, protetti dalle amministrazioni, è poi tale che ogni eventuale diniego fa scattare una denuncia al TAR contro il funzionario del Parco. Arpat, USL, Provincia, Parco e Soprintendenze si piegano al volere delle commissioni paesaggistiche comunali e concedono aperture, proroghe, rinnovo di attività estrattiva con decine di prescrizioni, che si rivelano inutili però a proteggere le acque e a salvaguardare l’ambiente e il paesaggio. Anche perché i controlli non si fanno o sono radi. Arpat ha controllato in due anni 13 cave, meno di ogni due mesi. Con quella media ci vorranno più di venti anni per controllarle tutte. Ebbene, da quei pochi controlli sono scaturite sette sanzioni amministrative e ben dieci denunce penali. Questo è il quadro dell’illegalità sul campo. La Regione ha promosso la distruzione delle montagne con la normativa che per ogni tonnellata di marmo il 25% siano blocchi e il 75% scaglie (fuori dal Parco il rapporto è addirittura 20/80). Il business n 88 PAG. sabato 30 agosto 2014 o 3 del carbonato di calcio ricavato dai detriti e dalle scaglie, favorito da questa delibera,ha trovato ulteriori avvalli, quando, ad esempio, con i contributi europei, è stato crostruito un frantoio a Minucciano (MI.Gra) che riduce le scaglie in polvere, e, con i contributi regionali, si è costruita una linea ferroviaria che da Pieve san Lorenzo va direttamente a Sassuolo, nella fabbrica Kerakoll, dove il carbonato viene impiegato nella colla per piastrelle. Il Comune di Minucciano possiede il 51% della società ed il resto è condiviso tra Kerakoll ed un privato, ma il Parco (divenuto imprenditore) ha stabilito una convenzione con la quale consente di asportare tutti i ravaneti (cioè i depositi di scaglie) del Comune di Minucciano (e ne hanno fatto le spese anche quelli ri-naturalizzati) in cambio del 2% degli utili netti annuali della Mi.Gra! Paradossale se ricordiamo le prescrizioni rilasciate dal Parco che obbligherebbero i concessionari a ripristinare il sito e a togliere i detriti. Fino ad oggi, né Parco, né Comuni hanno obbligato i concessionari al ripristino ambientale. Quanto guadagna un Comune dall’asportazione delle sue montagne? A Massa 9,9 euro a tonnellata per i blocchi che, nel caso di marmo bianco pregiato, vengono venduti dal privato anche a 5.000 euro e 3 euro a tonnellata per le scaglie bianche rivendute anche a 200 euro la tonnellata…senza contare che molta parte dell’estrazione non passa dalle pese comunali e dunque resta esente! Eppure la sentenza della Corte Costituzionale 488/1995 imponeva ai Comuni di Massa e Carrara di applicare un prezzo “congruo al valore del marmo estratto”. Il piano paesaggistico della Toscana, copianificato con il MIBACT, che prevedeva la chiusura progressiva di una ventina delle cave più critiche del Parco (quelle già fuori legge!), che occupano complessivamente circa 300 operai. Viene tristemente in mente Gomorra di Saviano dove si scrive che a Scampia giustificano la camorra perché dà quel lavoro che lo Stato né i privati danno. Ebbene quel piano è stato fermato ancora una volta dalla politica: così non solo tutto continuerà, ma verranno riaperte cave chiuse da 20 anni e per quelle chiuse da 30 anni si potrà fare un “ripristino ambientale con scavo pari al 30% dei precedenti piani di estrazione”. La politica impone alla natura i suoi tempi: la ri-naturalizzazione non ci può essere prima dei 30 anni! Le risposte alle numerose denunce presentate dal 2012 alla Corte dei Conti, alla Magistratura, alla Commissione Ambiente a Bruxelles (chap 2012/02233) e ora al Consiglio Superiore dei Beni Culturali da parte di Italia Nostra diventano ora più chi mai necessarie: non possiamo permetterci di asportare 5 milioni di tonnellate di montagna ogni anno. La Regione Toscana, che a ragione va orgogliosa di essere simbolo di civiltà, patria dell’Umanesimo e del Rinascimento, il primo stato al mondo a togliere la pena di morte dal suo ordinamento, rischia così di retrocedere nel limbo dei paesi più incivili, sconfessando la sua tradizione, la sua storia, la sua immagine. C RIUNIONE DI FAMIGLIA U O .com LE SORELLE MARX Franceschini – Senti, Tomaso, qui la situazione si mette male. Io ci ho provato a fare quello che mi avevi detto te e quel secchino allampanato del mio predecessore, ma mi son preso delle belle bacchettate sulle mani da Matteo. Ma che cavolo mi avevate scritto? Montanari – Guarda Dario, avevamo studiato parecchio quella proposta. Era tutta roba potabile e ti faceva fare bella figura a sinistra e con i Soprintendenti. Franceschini – Ah sì? Guarda professorino dei miei corbelli, a me della sinistra non me ne sbatte un accidenti e poi, per tua informazione, a farmi il culo è stata la Gran Sacerdotessa di tutti i Soprintendenti, la tua amica Acidini. Poi, se te ne stavi zitto invece di cantar vittoria, forse la rivoluzione si faceva davvero! Comunque, lasciamo stare, per ora. Come diceva un mio grande indimenticato Maestro: chi l’ha più lungo, se lo tiri! Ora bisogna rilanciare sul piano rivoluzionario con un piano B... e io ho avuto una Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 direttore simone siliani redazione sara chiarello aldo frangioni rosaclelia ganzerli michele morrocchi progetto grafico emiliano bacci editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze contatti www.culturacommestibile.com [email protected] [email protected] www.facebook.com/ cultura.commestibile “ “ Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti o 4 LA STILISTA DI LENIN Il romanzo della rivoluzione (2) Riassunto delle puntate precedenti – Dario “Che” Franceschini sta architettando una devastante rivoluzione nel mondo dei beni culturali italiani. Ma i Grandi Padroni dei musei,Cristina Acidini e Antonio Paolucci, preparano la contro-rivoluzione e ricorrono direttamente al Grande Capo di Palazzo Chigi. Matteo Renzi, per timore di un “Che” troppo rivoluzionario, stoppa la rivoluzione. n 88 PAG. sabato 30 agosto 2014 bella ideuccia. Stai a sentire... Montanari – Mmmm... mumble mumble... qui sento odor di fregatura. Chissà cosa gli sarà saltato in mente a questo esaltato... Franceschini – Caro Tomasino, noi si fa come il Renzi: quando trova un ostacolo sul suo cammino, parla d’altro, rilancia su un altro tavolo e va in tasca a tutti. Così, noi ora si fa un’altra rivoluzione. Ho già trovato lo slogan. Senti qua: “Selfie libero!”. Si stabilisce, d’ora in poi, che fare foto nei musei è consentito! Via questi anacronistici divieti! Smarthphone e tablet di tutto il mondo, unitevi! Turisti asiatici e americani unitevi alle schiere rivoluzionarie del vecchio continente: fotografate e fotografatevi nei nostri musei! Sel-fie li-be-ro! Sel-fie li-be-ro!” Montanari – Ma cosa hai sniffato, Dario? Roba tagliata male? Questa è una follia! Ma te li immagini quei cafoni di turisti da torpedone, tutti a fotografarsi sotto il pisellino del David o il culotto della Venere? Franceschini – Ma sei il solito caca- dubbi, Tomaso! Perché mi vuoi rovinare la festa? Noi saremo l’avanguardia d’Europa: tutti i grandi musei d’Europa – ma che dico, del mondo – ci seguiranno in questa epopea di liberazione. Un fantasma si aggira per l’Europa: il selfismo! Montanari – Mah, questo è completamente andato. Meglio levare le tende, non vorrei essere coinvolto in questa follia. Franceschini – Ah, fuggi, Maramaldo! Fifone! Ma chi se ne frega di questi professorini: io vado avanti lo stesso. Troverò altri e ben più importanti testimonial per la mia rivoluzione. Ho letto di un grande intellettuale, ‘sto Sam Leith, che sull’Evening Standard ha scritto una cosa profonda come la Fossa delle Marianne: “Un’ampia parte del piacere che proviamo nel trovarci davanti a un capolavoro è proprio dovuta al fatto di essere lì. E poter dire: io ci sono stato”. Minchia, che pensiero sublime! Avanti popolo, alla riscossa, selfie libero trionferà!” Finzionario di Paolo della Bella e Aldo Frangioni Il meteorologo statistico di turno ha detto in televisione che un’estate così piovosa, come quella del 2014, non c’era più stata dal 1916. Questo vuol dire, abbiamo pensato, che nessuno essere umano può aver memoria di una piovosità analoga. Ci sono degli ultracentenari nati anche verso il 1910, ma ci sembra impossibile che possano ricordare una situazione analoga a quella che abbiamo vissuto noi: una bella soddisfazione. Possiamo dirci contenti. Qualcuno si sarà preoccupato, invece, noi abbiamo pensato che si trattava di una gran bella notizia. Tutte le storie sul riscaldamento del pianeta, sulle mutazioni climatiche etc. etc. sono o esagerate o addirittura false e che il buco dell’ozono si poteva far rientrare fra i tanti avvenimenti naturali, come i terremoti periodici, i cicloni e le grandi nevicate. Una conferma a questa nostra ipotesi ci viene dalla lettura della originale ricerca storica di Francesco B. Dall’Oglio su Clementino VI, papa sconosciuto dagli elenchi ufficiali ma che, secondo lo storico, visse ad Avignone dal 1342 al 1343 e pur non riconosciuto come pontefice fu fatto santo per aver fatto piovere per 3 mesi di fila nella caldissima estate del 1343. In tempi miscredenti ed agnostici come i nostri si vuol cercare a tutti costi le ragioni delle recenti piogge con motivazioni scientifiche. Bei giorni quando gli avvenimenti belli o catastrofici venivano attribuiti ora una volta ora un’altra alla volontà di punizione del Padreterno o in alcuni casi del demonio. La pulzella dei Parioli Non si sa se come la più famosa pulzella d’Orléans anche Marianna Madia abbia ricevuto la chiamata; nel caso dubito fortemente che sia stata quella di uno stilista. Sempre dimessa, con l’aria di essersi fatta cadere addosso un vestito, ché il saio di Iuta pare troppo pure a lei, la ministra ha portato nel governo più glamour dell’UE il look da universitaria fuoricorso. Già al giuramento l’unica concessione a tale canone fu l’essersi tolta la matita che teneva lo chignon, perché per il resto il premaman senza forma blu era perfetto per un’assemblea o un cineforum. Le cose non sono migliorate con la fine della maternità della ministra, che continua a indossare larghe tuniche informi, a dimostrare un disperato bisogno di un parrucchiere e, probabilmente, di un’estetista. Tuttavia questa scarsa attenzione al look fa sperare che la sua presenza nel governo più paparazzato della storia della Repubblica, abbia a che fare anche con le sue capacità politiche. I CUGINI ENGELS La cecità e l’impegno Roberto Saviano ci informa, via social ça va sans dire, che il prossimo libro di José Saramago, che esce postumo e incompleto, nella sua versione italiana, edita da Feltrinelli, sarà seguito da uno scritto dello stesso Saviano. La foto acclusa della copertina, ci informa anche che l’illustrazione (al singolare dunque immaginiamo quella di copertina) è di Günter Grass. Ora l’operazione già di per sé problematica di pubblicare un romanzo incompiuto fatta accompagnare da testimonial del genere un po’ preoccupa. Siccome non si ricorda una particolare preparazione e/o attenzione di Saviano nei confronti dello scrittore portoghese (né in generale per letterati in genere aldilà della compilazione di qualche elenco di letture preferite) si può pensare che, da un lato, se persino un autore famoso, bravo ed amato come Saramago ha bisogno del testimonial di eccellenza del lettore “impegnato” di Feltrinelli lo stato dei nostri lettori è davvero pietoso; oppure che il livello di quest’opera è tale da renderla adatta a volumi di critica, di raccolta delle opere e di curatela (attenta ed affettuosa) di e per lettori appassionati e non ad una edizione singola. In entrambi i casi l’operazione ci pare piuttosto spiccia e poco “rispettosa” di quel genio che fu José Saramago. C U O .com PICCOLE ARCHITETTURE PER UNA GRANDE CITTÀ di John Stammer Lettera pubblicata sul blog “Ciclostilato in proprio” aro Robert tu mi chiedi notizie del Nuovo Piano di Firenze. Da quando ho iniziato, alcuni anni orsono, dopo la mia intensa attività nel Regno Unito, ad occuparmi delle vicende urbanistiche di una delle città più belle e importanti dell’Italia, ho scoperto che, in questo paese, bisogna sempre guardare dietro le parole. Questa tua richiesta mi ha dato modo di sperimentare anche su questo tema la mia nuova attitudine. Ecco quindi quello che ho scoperto. Prima di tutto bisogna dire che Firenze da molti anni, almeno dal 1993, ha contenuto la sua espansione urbana; non ci sono evidenti fenomeni di sprawl urbano, e anche le periferie hanno un assetto complessivamente ordinato. Il primo tentativo di applicare la nuova norma urbanistica regionale e superare il Piano Regolatore Generale del 1993 è datato 2001-2002 con la prima amministrazione del sindaco Leonardo Domenici. Il Piano Strutturale fu adottato nel 2004, quasi a fine mandato, e il completamento delle procedure di approvazione fu lasciato alla amministrazione successiva. Tuttavia le nuove alleanze politiche e le mutate condizioni politiche e anche normative (proprio in quel periodo la regione aveva prodotto importanti modificazioni alle norme urbanistiche) consigliarono un percorso di ascolto della città e di partecipazione dei cittadini che approdò in una lunga serie di incontri pubblici che analizzarono il Piano Strutturale del 2004 e ne determinarono una nuova versione che fu adottata dal consiglio comunale nel luglio del 2007. Questa nuova versione però non giunse mai all’approvazione per le dimissioni dell’assessore all’Urbanistica a seguito di una inchiesta della magistratura fiorentina che si risolse con l’assoluzione di tutti gli imputati dalle accuse di corruzione e concussione, e per le conseguenze politiche di quella stessa inchiesta. La nuova amministrazione nata nel 2009 sulle ceneri della precedente ha ripreso il lavoro lanciando lo slogan “piano a volumi zero”. Il nuovo piano è stato approvato definitivamente nel 2011 e rappresenta di fatto una sostanziale continuazione delle politiche di contenimento della espansione urbana e della logica del costruire sul costruito che avevano improntato le precedenti versioni. Solo che ora si è fatto precedere agli atti tecnici gli slogan. Slogan che in questo caso non danno esattamente conto della realtà degli atti. Vediamo quindi nel dettaglio la situazione. Già il PS 2007 era un piano di sostanziale contenimento della nuova edificazione (quasi a volumi zero con uno slogan ora di moda) e prevedeva la crescita del 2,7% (in termini di S.U.L. Superficie Utile Lorda ) dell’intero sistema urbano della città. Questo dato comprendeva non solo le nuove previ- C Lettera a un piano mai nato sioni del PS ma anche le previsioni del PRG vigente che venivano confermate. Il Piano del 2011 recupera questa impostazione e la modifica solo in parte laddove diminuisce la quantità di superficie utile lorda costruibile derivante dalle previsioni del PRG vigente. Infatti non tutto quanto era già previsto dal PRG vigente viene recuperato nel PS ma dei 235.773 mq di s.u.l. previsti dal vecchio Prg ne conferma 94.700. Quindi l’unica effettiva diminunzione è questa. Per fare una comparazione volume- trica a 100 mq di s.u.l. corrispondono circa 300 mc. Non si tratta come puoi ben capire di un piano a “volumi zero” ma un piano per dirla con Giuseppe Campos Venuti (uno dei più autorevoli urbanisti italiani) a volumi “ragionevolmente contenuti”. Che è stata la filosofia del nuovo Piano di Firenze già dal 2004 e, a dire il vero, già dal 1993. Un piano quindi che punta, come i precedenti, al recupero dell’esistente e al suo trasferimento da aree già sature a aree meno sature con vantaggi sia per n 88 PAG. sabato 30 agosto 2014 o 5 le prime sia per le seconde. Le prime infatti recuperano spazi utili per i servizi pubblici e le seconde aumentano la loro densità a vantaggio dell’efficacia degli stessi servizi pubblici. Per fornire alcuni numeri, che in urbanistica sono sempre interessanti e utili, il dimensionamento totale del PS 2011 è di mq 1,307.000 di s.u.l. realizzabile, di cui: 1.062.300 da recupero, 150.00 da trasferimento, 94.700 residuo del vecchio PRG Per darti un’idea il PS 2007 aveva questi dati: S.u.l. realizzabile mq 919.740 di cui 404.767 da recupero 279.200 da trasferimento 235.700 residuo del vecchio PRG. In sostanza il Piano del 2011 “movimenta” un numero maggiore di volumi diminuendo quelli di nuova edificazione a vantaggio di quelli derivanti dal recupero. C’è però un dubbio che non viene sciolto dalla lettura del Piano 2011. Infatti il Piano non conteggia fra queste superfici oggetto di intervento di trasformazione, e quindi conteggiate nel Piano, gli interventi che vengono definiti “ordinari” e non soggetti alla normativa delle aree di trasformazione e conseguentemente conteggiabili nel Piano. Ora questi interventi non riguardano solo, come era lecito aspettarsi, piccoli interventi su singole abitazioni per sopralevazioni, ampliamenti di una stanza o interventi di piccole dimensioni comunque riferibili alla singola unità immobiliare che, naturalmente, è logico non siano calcolate nel dimensionamento complessivo di un piano generale. No, gli interventi che non sono conteggiati riguardano interventi fino a 2.000 mq di s.u.l. singolarmente. Ora ognuno di questi interventi di 2.000 mq di s.u.l. risulterebbe significativo nell’ambito urbano della città di Firenze. Per farti capire, caro Robert, 2000 mq si tradurebbero in circa 30 appartamenti, che in contesti delicati come quelli che caratterizzano il sistema urbano fiorentino, può fare la differenza fra una ordinata sistemazione urbana e una disordinata e di difficile gestione. Inoltre, cosa ancora più complicata da gestire, la scelta di dove allocare questi interventi è lasciata alla discrezionalità della redazione del Regolamento Urbanistico, che è stato recentemente adottato dal Consiglio Comunale. Quindi lo slogan ha avuto successo ma la realtà dei fatti non corrisponde esattamente allo slogan. Caro Robert come vedi in Italia bisogna sempre guardare dietro e dentro le parole. L’italiano è una lingua bellissima ma complessa e spesso è utilizzata per costruire cortine fumogene più che ragionamenti chiari e limpidi. Un abbraccio da Firenze dove il sole splende nonostante le burrascose previsioni della vigilia della Pasqua. Oh my dear Robert the weather is changing. I miei migliori saluti. C L’ n 88 PAG. sabato 30 agosto 2014 o ISTANTANEE AD ARTE U O .com 6 ambiguità di Laura Monaldi [email protected] L’ immagine è una categoria ambigua, a metà strada fra l’esperienza sensibile e il concetto rappresentato: un pathos intermedio in cui il soggetto può essere mimesis del mondo, ma anche trasfigurazione estetica personale, secondo una semiotica concettuale che nel mondo dell’Arte varia da artista ad artista. Nel vasto orizzonte della pratica espressiva moderna l’immagine è autonoma, in quanto chiasmo percettivo che si oppone fra il veduto e il vedente e in quanto forma totale, concreta e presente agli occhi del fruitore, poiché rinvia sempre a una forma di informazione e significazione che oltrepassa il dato sensibile. In tale prospettiva Chiara Palmucci non si appropria soltanto dell’immaginario moderno, quanto del concetto culturale e semantico che le immagini del mondo moderno, passato e archetipico rievocano. Attraverso la fotografia coglie realtà e riflessioni che l’occhio comune non riesce a percepire, trasfigurandole in nuove esperienze visive, lontane dalla consuetudine di vedere e analizzare il mondo. Quelle dell’artista sono opere ontofaniche, in cui l’oggetto rappresentato garantisce la manifestazione di un’operazione cognitiva, intellettuale e dal forte impatto concettuale. Nelle sue opere – serie artistiche di fotografie digitali, pitture acriliche e installazioni – si riassumono tutte le peculiarità delle immagini, condensando nella propria sfera di esperienza e di rappresentazione tutte le funzioni pertinenti alla percezione visiva, fondendosi con la particolare struttura culturale della società contemporanea. Di conseguenza le immagini estetiche – trasfigurate, curate, analizzate nei dettagli e nelle forme, tuttavia spersonalizzate e innalzate allo stato aulico e sacrale di simboli e citazioni universalmente riconosciuti, al fine di ribaltarne i valori già denigrati dalla contemporaneità – divengono autonomie privilegiate della vita dello spirito umano, che ne rico- di Chiara Palmucci struiscono la forma ideale. L’attenzione creativa è spostata nella direzione del lettore: sintesi comunicativa, espressione e capacità di lettura del messaggio dell’opera si trovano su un diverso piano d’azione. La problematica della rappresentazione, dell’interpretazione e della comunicazione moderna è spenta a vantaggio della risonanza dell’immagine sull’Io-fruitore, al quale non resta che meravigliarsi e lasciarsi meravigliare dalle riflessioni emotivo-concettuali che ne conseguono. In alto e qui a fianco opere tratte da Religiose, serie di fotografie su dibond, 2012. Le opere sono parte di una ricerca basata sull’iconografia classica, studiata, approfondita e usata ad archetipo. La religione, spesso lontana dalla società contemporanea, è resa più vicina agli occhi dell’osservatore, più fruibile ed immediata, adattata alla contemporaneità, ed esplicitata Sotto un lavoro tratto da 1900’s, serie di fotografie digitali su dibond alluminico, 2010. La ricerca compone un’analisi sulla società contemporanea, trasfigurando opere dell’arte moderna ritenute tradizionalmente fondamenti dell’arte. C OCCHIO X OCCHIO U O .com n 88 PAG. sabato 30 agosto 2014 o 7 di Danilo Cecchi [email protected] S ono passati esattamente cento anni dall’inizio della Grande Guerra, quella del 14-18 che ha cambiato il mondo, ha lasciato decine di milioni fra morti e mutilati, regalandoci in cambio l’industria metallurgica, l’industria chimica, l’industria aeronautica e quella automobilistica, oltre all’elettricità, al telefono ed a qualche altro giocattolo tecnologico, ed alla falsa speranza di un lungo periodo di pace. Nient, a confronto di quello che ci ha lasciato la guerra successiva (il nucleare, la missilistica, l’elettronica, il chewing-gum, i film americani, etc.) ma all’epoca non si poteva probabilmente chiedere di più. La Grande Guerra segna per la prima volta un punto di svolta, non solo per quello che ci ha lasciato, ma per il modo in cui è stata fotografata, per essere stata in assoluto la prima vera guerra fotografata in maniera esauriente e dettagliata, non tanto e non solo dai fotografi al servizio degli Stati Maggiori o di quelli al servizio dell’industria dell’informazione giornalistica, ma dall’interno, da parte degli ufficiali, dei sottoufficiali e perfino da parte dei semplici soldati. Per la prima volta nella storia delle guerre, le fotocamere sono diventate veramente tascabili, nonostante un formato di dimensioni più che accettabili, ed hanno una certa autonomia di riprese su ogni rullo. Ma soprattutto possono essere utilizzate in maniera discreta ed al di là di ogni barriera, proibizione, controllo o censura. I rulli di pellicola possono essere facilmente occultati, non sono fragili ed ingombranti come le lastre dei professionisti che operano nelle retrovie, e vengono fatte passare al di fuori delle zone militarizzate, per essere sviluppati o spediti a casa. Accanto ai documenti fotografici ufficiali si forma così un archivio alternativo, in cui non si parla di gloria o di vittorie, di avanzate baldanzose o di cariche impetuose, ma si parla anche e soprattutto di dolore, di stanchezza, di sangue, fango, freddo, fame, lacerazioni e miseria. Se le immagini delle guerre precedenti sono relativamente poche e quasi sempre “posate” (come la Crimea, la Secessione Americana, la Comune di Parigi, ma da noi anche il Risorgimento, fino alla breccia di Porta Pia) quelle della Grande Guerra sono spesso immagini autentiche, che mostrano i diversi volti della guerra. Dall’esibizione trionfalistica degli armamenti più moderni, assunti come simbolo di una potenza economica e militare, ma anche virile, alla raffigurazione di truppe perfettamente schierate, irreggimentate ed ordinate, dalla sfilata dei mezzi meccanizzati, camion, autoblindi ed aerei, e dagli atteggiamenti fieri e sprezzanti del pericolo si passa in pochi scatti allo sgomento dipinto sui volti sotto il fuoco di sbarramento, alla fragilità dei corpi ammassati nelle trincee, al macello della carne dilaniata, ma anche ai momenti di solidarietà e di complicità fra commilitoni, all’instaurarsi di amicizie destinate a durare forse solo fino al prossimo cannoneggiamento. La fotografia diventa anche un legame, un motivo di avvicinamento. Si porta con sé la foto della ragazza, della moglie o dei figli, la si mostra Fotografando la Grande Guerra orgogliosi al compagno di trincea. Si scatta o ci si fa scattare una foto da inviare a casa, ci si fotografa insieme, a due o a tre, o a piccoli gruppi, e ci si promette a vicenda che saremo comunque noi ad inviare la foto a casa del commilitone, nel caso in cui …. L’insicurezza ed il senso di precarietà vengono esorcizzati fissando la propria immagine sulla pellicola, lasciando una traccia indelebile, fermando un momento che il giorno dopo, o forse solo fra poche ore o pochi minuti non sarà più possibile fermare di nuovo. Non per caso, negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto nascono, in Francia ed in Germania, le prime riviste illustrate con fotografie. Grazie (anche) alla Grande Guerra, la fotografia diventa, dolorosamente, adulta. C HO SCELTO LA TOSCANA U O .com di Annalena Aranguren [email protected] L a prima cosa che colpisce in lei è la bellezza: una bellezza esotica, tipicamente slava, statuaria. Credo che nessuno vedendola camminare per le strade di Firenze possa pensare che sia italiana: eppure lei si sente “anche” italiana, il suo progetto di vita ormai è qui, con il suo lavoro e la sua famiglia. Anastasia Boldyreva è nata a Mosca ed ha studiato canto lirico al Conservatorio Tchaikovski. E’ stato dopo avere vinto tre concorsi internazionali che è venuta a Firenze per un corso di perfezionamento di MaggioFormazione, l’Accademia del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino. Avevo vent’anni - racconta - e a Firenze mi sono trovata subito molto bene ma, una volta terminato il corso, ero pronta a tornare a Mosca per terminare gli studi. Quando…? Quando, pochi mesi prima della partenza ho conosciuto un pianista, fiorentino nonostante il nome, Riccardo Sandiford, e ci siamo innamorati. Sono rimasta a Firenze, l’ho sposato e adesso abbiamo due figli. Non solo due figli, ma anche una carriera lirica avviata nel nostro Paese sui palcoscenici dei Teatri d’Opera più importanti della penisola, dall’ Arena di Verona al San Carlo di Napoli, il Teatro Regio di Torino e l’Opera di Roma. Cosa ti piace di più nei fiorentini? Il gusto delle battute, quasi sempre perfide. I primi tempi non le capivo e a volte ci rimanevo anche male. Ma poi ho iniziato ad apprezzarle. Sono il sintomo della sagacia fiorentina. Cosa hai portato nel tuo cuore dal tuo paese d’origine? Anastasia Boldyreva Dalla Russia per amore La mia bellissima lingua madre. Continuo a leggere in russo, parlo in russo con mia figlia che lo parla, lo legge e lo scrive perfettamente. Amo le nostre tradizioni e continuo a rispettarle anche qui a Firenze: vado nella Chiesa Russa di viale Milton, preparo i piatti tipici della nostra cucina, ai miei ospiti non manco mai di offrire vodka e caviale. E anche nei programmi dei miei concerti, cerco sempre di inserire qualche composizione russa. Qual è la marcia in più dei fiorentini rispetto ai russi? I fiorentini sono più simpatici, sorridono molto di più. E io li trovo anche disponibili e ospitali. E il difetto che più ti disturba in loro? Sono chiacchieroni e pettegoli. Pensi che svolgere il tuo lavoro qui sia più n 88 PAG. sabato 30 agosto 2014 o 8 semplice e più soddisfacente che non in Russia? Quando ho lasciato la Russia, lavorarvi come musicista era molto difficile. I cantanti erano pagati poco e c’erano poche possibilità di lavoro. Forse adesso la situazione è migliorata, lo spero, ma non la conosco tanto bene. Sicuramente anche in Italia la situazione non è facile. E poi gli italiani non sanno organizzarsi: questo sì che in Russia funziona meglio! Il problema della disorganizzazione qui è molto grave. Non credo di poter interpretare in altro modo, per esempio, i continui ritardi nei pagamenti delle proprie spettanze. Forse è anche la crisi… Hai rimpianti a volte rispetto a questa tua scelta di vita? No. Rimpiango solo di non aver provato a vivere un po’ di tempo in altri paesi europei, nonostante le occasioni che mi si sono presentate, e di non aver imparato altre lingue. Ma questo non perché non mi trovi bene qui ma perché sono curiosa di natura e mi piace provare esperienze diverse. Sono più maschilisti i fiorentini o i moscoviti? Le donne sono più emancipate qui o nel tuo paese? Sono più maschilisti i fiorentini e le donne sono più emancipate qui. Sembra un controsenso ma è così. Dici Firenze e pensi a....? Michelangelo. Ma anche e soprattutto alla mia famiglia e alla mia casa. E se ti dico Russia a cosa pensi? Ai miei genitori, ai miei amici. E a Putin. Se una tua giovane amica russa ti dice che vuole venire a vivere a Firenze, la sconsigli o la incoraggi? La incoraggio! Per avere un’amica russa vicina: mi fa sempre piacere parlare in russo e della Russia. PASQUINATE di Burchiello 2000 Domenico di Giovanni, detto il Burchiello, fu animatore di burle e di pungenti critiche con gli amici artisti del XVI secolo e artista anch’egli. Restò profondamente apprezzato nell’amicizia Ieri, 2 luglio 2014, in visita alla Villa di Poggio a Caiano sono stato assalito da una rabbiosa riflessione. Da decenni ci dibattiamo sul difficile equilibrio tra tutela e valorizzazione dei beni culturali, cerchiamo di curare le pievi più lontane e le testimonianze meno note (ma importanti) , anche nella prospettiva di una più equilibrata fruizione del patrimonio artistico. Nella fattispecie – quella delle ville “medicee” - con studi mirati e appassionati, si è ottenuto il riconoscimento Unesco di “beni dell’umanità” e sarebbe dunque legittimo poterne constatare la presenza almeno di una quota di flussi del turismo colto . Invece no! Non è così, nonostante i dépliant, i poster, gli annunciati circuiti alternativi. Una villa come quella di Poggio a Caiano resta deserta per intere giornate. Non va bene. C’è qualcosa di profonda- Il deserto a mezzogiorno in Villa mente sbagliato in chi orienta e organizza il turismo. Se penso che nello stesso momento bisogna farsi largo a gomitate per attraversare Ponte Vecchio mi viene naturale indignarmi. Ma davvero il turismo d’arte è in mano ad una mercatura volgare che finirà per autodistruggersi? Mi chiedo davvero che cosa facciano gli uffici provinciali e territoriali in genere per correggere tanta distorsione. Sono decenni, appunto, che si invocano – itinerari alternativi e continua ad accadere che in una bella mattina di fine luglio la Villa Medicea di Poggio a Caiano non abbia un visitatore! A questo punto dovrebbe rendersi obbligatoria una programmazione territoriale. Certo, si tratta di conciliare la legittima personale scelta turistica con la capacità ricettiva e la qualità dell’alternativa ! Ma proprio qui c’è lo spazio per “orientare” argomentativamente il turismo d’arte: il Pontormo prospettato nella mostra di Strozzi ha un’alternativa di non poco conto nei saloni della villa del Poggio; il fregio robbiano e Giuliano da Sangallo meritano sicuramente il viaggio. Perché non organizzare visite quotidiane con navette alle ville medicee? Con la la legge regionale 65/2010 sono state abolite le APT (Aziende di Promozione Turistica) e le IAT (Informazione Accoglienza Turistica), facendo convergere e rimandando il tutto a InfoPoint: col risultato che cliccando su codesto punto informativo si è “aggiornati” all’8 maggio 2013! C U O .com PECUNIA&CULTURA di Barbara Setti e Simone Siliani twitter @Barbara_Setti e [email protected] I l tormentone estivo sui beni culturali quest'anno è stata la querelle sul prestito dei due Bronzi di Riace per l'Expo di Milano (e più in generale la questione dei prestiti e degli spostamenti di opere d'arte). Protagonista Vittorio Sgarbi e i vari soggetti “prestanti” che hanno incrociato i ferri in duelli all'ultimo sangue, con godimento massimo dei cronisti. Dunque, per il critico ferrarese, diremmo obiettivo raggiunto. Così, dopo lo scontro con i calabresi contrari al prestito, sono scesi in campo Salvatore Settis (paladino della competenza tecnica della Soprintendenza ad esprimersi sulla trasportabilità delle opere), Filippo Del Corno (assessore del Comune di Milano, contrario all'ingerenza regionale), Bruno Zanardi (favorevole ma a condizione di una politica di tutela chiara, razionale e coerente), Philippe Daverio (con la salomonica proposta di portare un Bronzo a Milano, lasciando l'altro in Calabria) e ovviamente Maroni. Poi dopo i Bronzi è stata la volta de l'Ortolano dell'Arcimboldo, richiesto in prestito da Sgarbi e negato dal sindaco di Cremona Galimberti. Poi la polemica di Sgarbi sulla mostra dei “disegnini” di Leonardo (organizzata dal Comune, of course). Infine, la richiesta di prestito della Venere di Botticelli, per la quale Sgarbi sarebbe in trattativa. Sembra, dunque, che il dibattito italiano sui beni culturali e l'EXPO sia materia da ditte di traslochi. D'accordo, è deprimente e qui non vogliamo cadere nella trappola di schierarci da una parte o dall'altra. Poniamo una questione che dall'EXPO può benissimo diventare di carattere generale: perché è così escluso dall'orizzonte della politica italiana sui beni culturali il concetto dell'investimento nelle infrastrutture per la cultura? Sembra passata un'epoca geologica da quando, con l'occasione delle Olimpiadi invernali, la città di Torino (in sintonia con la Regione Piemonte, il Ministero, la Camera di Commercio, Confindustria e tutti gli altri stakeholders) decise un programma di investimenti di lunga durata per rinnovare completamente le infrastrutture per la cultura della città, scommettendo sul fatto che questo investimento avrebbe mutato l'asset produttivo ed economico della città (e trainato quello della Regione). Così furono realizzati nuovi musei (quello del cinema nella Mole), rinnovati altri (l'Egizio), trasformate strutture industriali fatiscenti in teatri, restaurata e riaperta Venaria Reale, ristrutturate biblioteche e archivi, restaurati e riaperti al pubblico palazzi storici, realizzati nuovi spazi per la creazione artistica contemporanea. Si è trattato di un programma di investimenti pluriennale, che ha attraversato diverse amministrazioni di colore politico anche diverso, non legato alla riscossione immediata di consenso di questo o quel politico o direttore artistico. Vi sono studi che dimostrano l'impatto economico ed occupazionale nel tempo di questo investimento. Una pratica della programmazione pubblica, non fondata sul progetto puntuale e limitato, bensì teso a creare un sistema; un programma politico non ossessionato dalla creazione Tormentoni estivi dell'evento e neppure dalla formula della gestione (che pure è stato problema affrontato, ma a fronte dell'investimento. Ecco, a me pare questo l'esempio – ancora ineguagliato – di una corretta interpretazione del ruolo dell'ente pubblico nell'ambito della cultura, della sua relazione con il privato e con il territorio, dell'utilizzo intelligente di grandi flussi finanziari, capace di tenere insieme tutela e valorizzazione, conservazione e innovazione. L'esatto opposto del modello EXPO Milano. Riflettere su questa dicotomia è importante, non per stigmatizzare la gestione del presente, ma per dire che un altro modello è pure possibile e non lontano geograficamente e temporalmente da noi, tutto sommato. Lo dico perché il Domenicale del Sole 24 Ore del 24 agosto ha dedicato un'intera pagina al tema “Cultura e sviluppo” con articoli, seppure interessanti, dimentichi di questa esperienza. Infatti Angelo Varni recensisce la nuova edizione del volume “Una politica dei beni culturali di Andrea Emiliani che torna il libreria dopo 40 anni per i tipi della Bonomia University Press. Testo fondamentale e che Varni reclama ancora attuale, ma con la premessa che molte speranze di quegli anni lontani si sono esaurite, come quella del ruolo programmatorio delle Regioni, del collegamento tra sviluppo economicosociale del Paese e l'investimento sulla cultura o quella “di una tensione conoscitiva dei beni presenti nelle diverse realtà territoriali, da far confluire negli interventi e nelle scelte dei gruppi dirigenti”. Beh, proprio di questo ci parla l'esperienza torinese e del suo contrario quella milanese. Ma, per riconoscere queste realtà, bisogna saper distinguere il grano dal loglio. Così, nella stessa pagina, Roberto Grossi, presidente di Federculture, individua nelle soluzioni da dare al problema della ge- stione e, dunque, della valorizzazione, la formula per risolvere il nodo dei beni culturali. I passaggi da fare evidenziati da Grossi sono due: gestione autonoma per un'offerta culturale moderna ed efficiente e favorire l'affidamento di siti culturali e di reti territoriali alle imprese e al privato sociale. Soluzioni nel merito assolutamente condivisibili, soprattutto se attuate – come dice Grossi – con una rigorosa programmazione culturale pubblica; ma neppure qui si affronta il tema dell'investimento (pubblico, soprattutto, ma anche privato) per rinnovare e ampliare l'infrastrutturazione culturale. Musei, biblioteche, archivi, teatri, luoghi di cultura hanno bisogno, continuamente e programmaticamente, di investimenti non solo per la tutela dei beni, ma anche per le infrastrutture tecnologiche, la realizzazione e la manutenzione dei contenitori, il recupero e il riutilizzo di immobili storici o di archeologia industriale per destinarli alla fruizione culturale, la costruzione di nuovi contenitori. Tutto questo non può essere dato per scontato, non deve essere sottovalutato (giacché non sempre una migliore gestione sopperisce a infrastrutture assenti, inagibili o inadeguate), né dimenticato: come un sistema di infrastrutture di trasporti ha continuo bisogno di essere innovata per mantenersi in efficienza (indipendentemente dal suo gestore), questo vale anche per il sistema delle infrastrutture culturali. Anche per quelle storiche. Basti pensare, ad esempio, all'ampliamento del più storicizzato dei nostri musei – gli Uffizi di Firenze – che era un'occasione (perduta? O ancora non colta complessivamente?) per cambiare profondamente la funzione stessa di quel museo. Ecco, anche da parte di chi come Federculture rappresenta soprattutto la gestione dei beni culturali, il tema degli in- n 88 PAG. sabato 30 agosto 2014 o 9 vestimenti non può essere bypassato. Perché è l'investimento che lascia traccia stabile anche nella valorizzazione dei beni culturali (che è il punto debole della riforma prospettata da Franceschini: la separazione fra tutela e valorizzazione), anche se a differenza dell'eventificio, lascia poco tempo per sognare. E così arriviamo al terzo articolo della pagina del Sole 24 Ore, quello di Patrizia Asproni che invoca, insieme a Gilberto Gil, la possibilità di sognare grandi cambiamenti, innovazioni fondate sul merito e sulle competenze, rivoluzionare “il regno decadente delle clientele” E chi non è d'accordo? Neppure i regnanti del regno decadente summenzionato, che anzi si proclamano grandi rivoluzionari proprio in nome del merito. Patrizia Asproni in realtà sostiene che per compiere questa rivoluzione si debba togliere dalle mani della politica una programmazione culturale che impegna “risorse pubbliche senza che vi sia alcuna testimonianza della loro capacità di lasciare un segno sul territorio, anche in termini economici e occupazionali”. L'obiettivo è la politica tout-court, non una politica ritenuta sbagliata sui beni culturali: c'è una sorta di sfiducia definitiva sul ruolo che la politica può rivestire in questo settore. “E' pensabile oggi che linee strategiche per la cultura siano espressione esclusivamente politica? E parlo non a caso di linee strategiche piuttosto che di posizioni decisionali tout-court, in cui l'esperienza (e la visione) politica è ben accetta laddove si accompagni alla competenza tecnica e, mi spingo a dire, alla conoscenza della realtà”. C'è un pregiudizio sulla politica in sé, incapace di comprendere la realtà, e di contro un affidamento totale sulla competenza tecnica che sarebbe invece in grado di capire e poi di guidare la politica nelle decisioni, con una perdita totale dell'autonomia della politica stessa. Ma, anche volendo accedere a questa lettura delle cose, ci sarebbe da mettersi d'accordo su chi stabilisce chi è competente e chi no, perché anche nel mondo delle competenze vi sono guerre spietate, delegittimazioni reciproche, polemiche furibonde. E poi, come e chi stabilisce che una data lettura tecnica della realtà sia quella giusta rispetto alle tante altre che le si contrappongono? Il fatto è che in conflitto fra politica e tecnica non è semplice come lo si è qui rappresentato. Come del resto molte altre cose. Sempre Asproni, ad esempio, parla del “ministero della cultura popolare” come di una mostruosa macchina del controllo cui durante il fascismo era affidata la propaganda pro regime, fatto indubbiamente vero; ma lo è altrettanto che proprio durante quel ministero fu fondato, ad esempio, il Maggio Musicale Fiorentino o costruita la stazione ferroviaria del gruppo Michelucci o realizzati la Biennale dell'Arte o i Littoriali della Cultura e dell'Arte (che non furono solo propaganda, ma anche fucina di talenti e luogo di un certo dibattito culturale). Le cose, anche in questo XXI secolo, sono segnate per lo più dalla complessità. Anche la politica lo è. Il caso dell'esperienza torinese dimostra che non è la politica in quanto tale a deprimere la cultura: si può scegliere, e la scelta non è neutra, fra investire in cultura e occuparsi di traslochi. C LUCE CATTURATA U O di Sandro Bini www.deaphoto.it n 88 PAG. sabato 30 agosto 2014 o 10 Firenze 2008-2013 Itinerari notturni Sandro Bini - Florence Night Movida (2011) Florence Night Movida .com MUSICA MAESTRO di Alessandro Michelucci [email protected] La cultura catalana non coincide con la Catalogna, ma comprende anche territori situati in altre parti della Spagna (soprattutto Baleari e Valencia), il principato di Andorra, la città di Alghero (Sardegna) e il dipartimento dei Pirenei Orientali (Francia sudorientale). Questa premessa era necessaria per introdurre due musicisti catalani, Pau Riba e Pascal Comelade, il primo maiorchino e il secondo originario di Montpellier. I due artisti non sono coetanei Riba è nato nel 1948, Comelade nel 1955 - e hanno vissuto in paesi diversi, sebbene il secondo abbia vissuto per alcuni anni a Barcellona. Sono diversi anche in termini musicali: in modo approssimativo, il primo può essere definito un poetacantautore, il secondo un musicista sperimentale. Eppure hanno una qualità importante che li accomuna: il gusto per l’insolito e la capacità di muoversi con estrema disinvoltura nei contesti musicali più diversi. Riba ha conosciuto gli anni bui della dittatura franchista, per la quale il catalano, come le altre lingue minoritarie (basco e galiziano) era un nemico mortale. L’artista maiorchino, quindi, è cresciuto in un ambiente dove l’uso della lingua autoctona aveva un significato poli- Anomalie catalane tico ben preciso. Attivo dalla fine degli anni Sessanta, quando guidava il Grup de Folk, è stato impegnato in vari progetti artistici e sociali. Nel 1975 partecipò al primo festival Canet Rock, una sorta di Woodstock catalana realizzata pochi mesi prima della morte di Franco. Comelade, al contrario, ha esordito nel 1975 con l’LP Fluence. Inizialmente orientato verso l’elet- tronica, ha optato poi per una musica più melodica, ma non nel senso che si associa generalmente a questo aggettivo. Affiancando alle normali tastiere vari strumenti giocattolo, ha realizzato dischi dove le composizioni originali si alternano a versioni anomale di brani altrui. Nel 1983 ha fondato un gruppo a geometria variabile, la Bel Canto Orquestra. Inoltre ha colla- borato con i musicisti più diversi: da Lluís Llach a PJ Harvey, da Richard Pinhas a Robert Wyatt. Negli ultimi anni i due artisti si sono accorti che le rispettive strade, pur essendo così diverse, stavano per incrociarsi. Così hanno deciso di collaborare: il frutto è il CD Mosques de colors (Discmedi, 2013). Il disco contiene undici brani composti insieme. Il materiale è tutto inedito, tranne “Taxista”, che nel 1967 segnò l’esordio di Riba. “Els teus somriures”, “La bruixa del matí” e “Virtuosa harmonia” sono brani melodici e intimisti, ma mai convenzionali e leggeri. “On y va”, unico brano cantato in francese, richiama certe vecchie chansons transalpine. Versatili e geniali, i due suonano vari strumenti (piano, marimba, viola, fisarmonica, etc.), accompagnati da una decina di musicisti. Le parti vocali sono affidate a Riba. Il risultato è un disco piacevole, ricco di sfumature e di passione musicale autentica. Visto che oggi si parla tanto di Europa, forse è venuto il momento di ascoltare anche artisti come questi, che vivono e lavorano a poche centinaia di kilometri da noi, ma che finora abbiamo ignorato. Sarebbe il primo passo per liberarsi del conformismo anglocentrico nel quale siamo cresciuti. C U O .com SÌ, VIAGGIARE di Remo Fattorini B accalà, stoccafisso e salmone. Poi, dal 1960, è arrivato anche il petrolio e il gas. Aggiungete a tutto questo migliaia di incantevoli laghi, fiordi senza fine, paesaggi magici, acqua cristallina, silenziosi silenzi, montagne a picco sul mare, prolungati tramonti dai mille colori e un clima che in una sola giornata ti fa vivere tutte e quattro le stagioni. Ecco, tutto questo è la Norvegia, uno dei paesi con il reddito pro capite più alto al mondo, con notti luminose d'estate e giornate buie d'inverno. E non sarà certo un caso se i norvegesi amano dire: "Puzza di pesce, puzza di soldi". E se lo stesso Steinar Larsen, gestore del museo dello stoccafisso nel caratteristico villaggio di pescatori di A, nelle isole Lofoten, ci dice, scherzando ma non troppo: "Qui d'inverno si pescano i merluzzi e d'estate i turisti, questa è la nostra fortuna e la nostra ricchezza". Ed è qui, nella parte Nord di questo paese che, insieme ad altri 15 avventori messi assieme da Viaggi nel Mondo, ho trascorso due settimane vagabondando di villaggio in villaggio, di fiordo in fiordo, compreso un pezzo di Lapponia finlandese e svedese. Capo Nord, l'arcipelago delle Vesteralen e poi ancora quello delle Lofoten sono i luoghi che hanno alimentato emozioni e suggestioni, rendendo più duraturi i ricordi. Tante le cose che mi (e ci) hanno colpito e che ricordo con piacere e un pizzico di invidia nei confronti di quanti hanno la fortuna di vivere in questi luoghi o - meglio ancora - di frequentarli. Partirei dalla cattedrale artica di Tromso, l'unico edificio moderno che valga la pena di visitare. Assomiglia ad una grande tenda, composta da una serie di triangoli che prima si restringono (in altezza e larghezza) e poi si allargano, un'architettura originale e luminosa, completamente bianca tanto da assomigliare ad un iceberg. E poi uno dei simboli di questa terra, i Robur, le tipiche abitazioni dei pescatori costruite fin dal 1120, composte, allora, da due stanze, una per gli attrezzi e l'altra per dormire. Vere e proprie palafitte di legno appoggiate sulle rocce delle scogliere o direttamente sul mare, trasformate oggi in comode abitazioni per turisti, con ampio leaving, angolo cottura, due camere con letti a castello e un bagnetto. Accoglienti, comodi, caldi e soprattutto suggestivi, vicino ai porticcioli, nelle tante insenature, in luoghi panoramici che rispecchiano tutta la loro vanità nelle acque trasparenti dei fiordi. Mi piace poi ricordare, non in ordine d'importanza: il silenzio norvegese, stimolante e conciliante. La luce che non ti abbandona mai. Il giardino botanico tutto fiorito di Tromso. Il bancario in pensione di Bodo, conosciuto sul traghetto che attraversa l'Ullsfjordes, in viaggio verso la sua casa di "campagna" vicino ad Olderdalen, ma che nei mesi invernali emigra alle Canarie per non "rimanere in Norvegia a spalare neve". Il signore che alcune centinaia di km sopra il circolo polare artico, a dimostrazione di come e quanto sta cambiando il clima, annaffiava il giardino intorno alla sua casa, mentre da noi in Ita- Il Grande Nord lia imperversavano temporali e alluvioni. Il ravvicinato faccia a faccia tra montagne e mare, con le onde che accarezzano le betulle e i prati di mirtillo come spiaggia. I rigorosi limiti di velocità - per noi assurdi anche se rispettai - le strade senza traffico, pianeggianti e monotone. I fantastici campeggi con i loro accoglienti bungalow e le loro cucine collettive. Alta, la città che non è una città, ma la somma di tre paesi associati, con i suoi graffiti di Hjemmeluft, la cave di ardesia, gli allevamenti di pesce pregiato e dove, grazie al clima mite che pervade l'intero Altafjord, consente la coltivazione di cereali, anche a queste latitudini. Il grande Canyon Huskies, raggiunto dopo un piacevole trek di 5 ore, andata e ritorno: che ha rallentato il viaggio e ci ha fatto entrare in contatto con i tesori di questa terra. E finalmente, Nordkapp, uno sperone roccioso che sprofonda nell'oceano; l'estremo punto più a Nord d'Europa, con il suo globo metallico che segna il punto più basso raggiunto dal sole a mezzanotte e poi la costruzione a cupola, in gran parte sotterranea, del Nordkapphall che ospita un po' di tutto. Unico rammarico non aver avuto il tempo per uno dei trek, forse, più suggestivi (tra anda e rianda 5 ore di cammino) fino all'estrema punta di terra che affonda dolcemente nell'oceano. Il paesaggio quassù è d'avvero particolare. Siamo arrivati di sera, verso le 22.30, con pioggia, nebbia e un vento fortissimo. La mattina il clima era piacevole, il sole riscaldava l’aria e l’ondulata tundra attraversata da branchi di renne. A Nordkapp, proprio sotto il globo, incontriamo una ragazza speciale: Claudia che dalla sua città, Varese, è arrivata fin qui da sola in bici: 5mila km in 45 giorni, pedalando 10 ore al giorno. "Lo faccio perché viaggiare in bici è bello - ci ha detto - si conoscono i posti, si vedono e si sentono molte più cose, compreso i canti delle balene, si entra in sintonia con i luoghi che si attraversano e tutto diventa ancora più calmo". La salutiamo tutti con ammirazione e un pizzico di invidia. E poi la Lapponia. Dove è tutto un’alternarsi di silenzi e monotonia, con renne, boschi e, anche qui, soffici tappeti di borraccina, mirtilli, licheni e tanti funghi. Una terra, questa dei Sami, dove per 70 giorni non esiste la notte e per altri 50 scompare il sole. Ci fermiamo in un albergo speciale, un ex edificio scolastico convertito al turismo, sulle rive di uno dei tantissimi laghi con acqua a 21 gradi, canoe e barche a disposizione e un pontile dove prendere il sole. Salta il previsto trek a favore di un bagno e di gite in barca sul lago. Un posto magnifico che sono in un pomeriggio ci regala di tutto: da un sole mediterraneo ad un improvviso temporale con rovesci, fulmini, vento e freddo, poi l'arcobaleno, senza farci mancare un tramonto di quelli che non si scordano mai. Arriviamo in Svezia, nella città mineraria di Kiruna, dove c'è la più grande miniera di ferro d’Europa, di proprietà statale, con gallerie fino a 9 km e l'escavazione ferma a 900 metri di profondità. Hanno svuotato il sottosuolo tanto che una parte della città sta sprofondando. Ma nessuno - ci raccontano - si dispera. C'è un progetto per spostare il paese, la ferrovia e la strada. Alcuni di noi visitano la miniera, gli altri faranno un trek di 7 km nel vicino parco nazionale di Abisko. Rientriamo in Norvegia, si pernotta nel bellissimo camping Tjldsundbrua, con i cottage affacciati sull'omonimo stretto. Ad accoglierci una spiaggia bianca di conchiglie consumate dal mare e un tramonto coloratissimo. Tutti, compreso l'imperturbabile Jacopo, si scatenato a fare foto. Si arriva così alle affascinanti isole Vesteralen. E si trascorre una giornata piena di emozioni tra villaggi, calette, laghi, montagne a picco sul mare e una luminosità fantastica che esalta colori e trasforma l'acqua in uno specchio. L’obiettivo è il villaggio gioiello di Sto. Da lì partiamo per un breve trek lungo oceano e poi scavalchiamo una forcella che si inerpica per 170 metri. In cima il paesaggio è uno vero spettacolo. Scendendo si arriva nel piccolo porticciolo di Niksund dove ci aspetta un vero marinaio norvegese, alto, barba bianca, sguardo dolce e mani grandi come una morsa che, con il suo gom- n 88 PAG. sabato 30 agosto 2014 o 11 mone, ci riconduce in poco meno di mezz'ora a Sto. A bordo è una vera e propria apoteosi. Di avventura in avventura. Ci spostiamo a Stokmarkenes, visitiamo il simpatico museo Hurtigruten. A seguire un picnic lungo mare, appena fuori del paese. Poi si salpa sulla Midnatsal con destinazione Svolvaer attraverso stretti fiordi e numerosi isolotti. Un'esperienza da non perdere. Il bello arriva quando si imbocca lo strettissimo Trollfjord, lungo 2 km, largo appena 100 metri con la nave che accarezza le rocce. Arriviamo così alle Lofoten. In uno dei porticcioli più suggestivi di questo arcipelago: Nusfjord con i suoi rubor dell'Ottocento ben conservati, dove l'odore di mare si mescola con quello del merluzzo. Bastano pochi minuti per cogliere l'essenza di questo luogo con bracci di mare tra le rocce, il verde della vegetazione, le casette rosso pompei, barche, pescherecci e i camminatoi di legno. Facciamo una puntata a Sud nel villaggio di A, visitiamo il museo del merluzzo, andiamo nel vecchio forno (vale la pena per le pastarelle alla cannella e il pane integrale, fatto e cotto come una volta). D'obbligo una visita ai villaggi di Moskenes, Reine e Hammoy. Proprio da queste parti, nel 1432, naufragò un veneziano, Pietro Querini. I sopravvissuti si trovarono talmente bene che si fermarono per 4 mesi. L’ospitalità fu un vero paradiso tanto che i marinai si imparentarono con le donne del luogo dando vita al "tipo bruno norvegese". Nell’isola di Rost c’è un cippo in onore di Querini che avviò il commercio di baccalà e merluzzo con l'Italia. Tutt'oggi l'80% di questa produzione finisce proprio a casa nostra, in Italia. Il giorno dopo parte del gruppo si mette in viaggio verso Andenes per partecipare ad un whale safari, mentre il resto sceglie un trek lungo il suo il roccioso promontorio di Nusfjord. Un modo per approfondire la conoscenza e prolungare la permanenza in questo angolo di paradiso. Ci ritroveremo la sera nel camping vicino all’austero faro di Andenes, a due passi dal porto. La mattina ci imbarchiamo alle 8.30. Iniziamo così, sotto la pioggia, il viaggio verso la fine di questa avventura: Tromso, e da lì l’aereo per Oslo e poi l’Italia. A tutto questo c'è da aggiungere il valore di viaggiare insieme a persone sconosciute, conviverci h24, decidere con loro come organizzare le giornate: programma, colazioni, pranzi e cene. E’ un’esperienza che stimola l'ascolto, la capacità e disponibilità a guardare le cose non solo in base ai propri interessi ma anche con occhi e interessi degli altri. Infine, una breve valutazione sul viaggio: consiglierei di dedicare più tempo ad alcuni luoghi, tagliando un pezzo di percorso, rallentando così la velocità a favore di un contatto più approfondito con i luoghi più suggestivi e interessanti. Brava la Laura Fossi, coordinatrice del gruppo, che non solo ha saputo evitare conflitti e tensioni, ma è riuscita a farci convivere per ore e ore stipati come sardine in quattro auto, a non farci litigare e persino a far nascere amicizie e simpatie. Evviva. C TEMPO PERSO U O .com di Stefano Vannucchi “W Johnny Turk he was ready, he primed himself well He chased us with bullets, he rained us with shells And in five minutes flat he’d blown us all to hell Nearly blew us right back to Australia But the band played Waltzing Matilda As we stopped to bury our slain We buried ours and the Turks buried theirs Then we started all over again [email protected] altzing Matilda” in Australia è un secondo inno nazionale. La storia originale è quella di uno “swagman”, un lavoratore itinerante, che ruba una pecora e, per sfuggire alla polizia, cade in un “billabong” (laghetti creati da fiumi in secca) e affoga. Gli swagmen erano soprattutto tosatori di pecore. Giravano per lo più a piedi portando lo “swag”, una coperta arrotolata con dentro tutte le loro cose, dietro la schiena. Il motivo originale probabilmente prende spunto da un episodio avvenuto durante i giorni del violento sciopero dei tosatori nell’Australia occidentale del 1894. “Waltzing Matilda” (“Matilda balla il valzer”) fu cantata dalle truppe australiane mandate al massacro a Gallipoli, in Turchia, durante la I guerra mondiale (episodio narrato da Peter Weir in “Gallipoli”). “Waltzing” deriva dal tedesco “auf der walz” (“vagabondare”). “Matilda” era il nomignolo dato allo swag. In tedesco venivano chiamate “Matilda” (da Mechthild, “donna da battaglia”) le donne che seguivano i soldati in guerra e passò ad indicare l’uniforme grigia e il fagotto. “And the Band Played Waltzing Matilda” è stata scritta dal folk singer e autore scozzese Eric Bogle nel 1971 e riproposta da molti artisti fra i quali Joan Baez, The Dubliners, Midnight Oil, The Irish Rovers, Pogues. Il 28 Luglio 1914, con la dichiarazione di guerra dell’Impero austro-ungarico al Regno di Serbia, aveva inizio la I guerra mondiale. “And the band played waltzing Matilda” unisce come solo la Poesia sa fare il dolore e lo straniamento del soldato e del reduce che ebbero la vita sconvolta da un conflitto che cambiò per sempre il mondo. Un piccolo omaggio a chi, spesso senza sapere e capire, venne travolto dalla tempesta. When I was a young man I carried my pack And I lived the free life of a rover From the Murrays green basin to the dusty outback I waltzed my Matilda all over Then in nineteen fifteen my country said Son It’s time to stop rambling ’cause there’s work to be done So they gave me a tin hat and they gave me a gun And they sent me away to the war And the band played Waltzing Matilda As we sailed away from the quay And amidst all the tears and the shouts and the cheers We sailed off to Gallipoli How well I remember that terrible day How the blood stained the sand and the water And how in that hell that they called Suvla Bay We were butchered like lambs at the slaughter And the band played Waltzing Matilda Now those that were left, well we tried to survive In a mad world of blood, death and fire And for ten weary weeks I kept myself alive But around me the corpses piled higher Then a big Turkish shell knocked me arse over tit And when I woke up in my hospital bed And saw what it had done, I wished I was dead Never knew there were worse things than dying For no more I’ll go waltzing Matilda All around the green bush far and near For to hump tent and pegs, a man needs two legs No more waltzing Matilda for me So they collected the cripples, the wounded, the maimed And they shipped us back home to Australia The armless, the legless, the blind, the in- n 88 PAG. sabato 30 agosto 2014 o 12 sane Those proud wounded heroes of Suvla And as our ship pulled into Circular Quay I looked at the place where my legs used to be And thank Christ there was nobody waiting for me To grieve and to mourn and to pity And the band played Waltzing Matilda As they carried us down the gangway But nobody cheered, they just stood and stared Then turned all their faces away And now every April I sit on my porch And I watch the parade pass before me And I watch my old comrades, how proudly they march Reliving old dreams of past glory And the old men march slowly, all bent, stiff and sore The forgotten heroes from a forgotten war And the young people ask, “What are they marching for?” And I ask myself the same question And the band plays Waltzing Matilda And the old men answer to the call But year after year their numbers get fewer Some day no one will march there at all Waltzing Matilda, Waltzing Matilda Who’ll go a waltzing Matilda with me And their ghosts may be heard as you pass the Billabong Who’ll go a waltzing Matilda with me? ODORE DI LIBRI di Michele Morrocchi twitter @michemorr ndrea Minuz è un brillante critico cinematografico che insegna a La Sapienza che ha pubblicato da poco “Quando c’eravamo noi. Nostalgia e crisi della sinistra nel cinema italiano da Berlinguer a Checco Zalone” disponibile solo in e-book per l’editore Rubbettino. Libello breve ma non minuto sul rapporto tra cinema e quella sinistra da terrazza romana che ha coinciso, almeno durante la seconda repubblica, col pantheon culturale del PCI-PDS-DS e in parte PD, spesso tramite il patrocinio di Walter Veltroni. Minuz racconta la trasposizione, con le modalità mutuate dal melodramma, della crisi del cinema italiano nella crisi della sinistra, tanto da sovrapporle e farle coincidere. Una tesi ben argomentata, ricca di citazioni da film, romanzi e saggi che hanno caratterizzato quella stagione, dagli anni ’80 all’oggi, che però l’autore finisce per far coincidere con la totalità della produzione cinematografica italiana e con la totalità della sinistra italiana; mettendo, anche, sullo stesso piano (o almeno molto vicini) Nanni Moretti, Paolo Virzi, Valter Veltroni (in qualità di regista) o Roberto Andò. C’è stato però in quegli anni un cinema diverso (oltre il dualismo “di regime” tra cinema de sinistra e cinepanettoni) e c’è stata una sinistra La sinistra al cinema da Berlinguer a Zalone non (post)comunista seppur entrambi minoritari e schiacciati dagli estremismi convergenti. Minuz ha il pregio di mostrarci i difetti, gli stereotipi di un club (piuttosto numeroso bisogna darne atto), di un ambiente che è stato sicuramente prevalente, egemone, nella rappresentazione e nel rapporto con la politica (il partito) e ha goduto di vantaggi (anche economici) per questi rapporti. Un club capace di inglobare e anestetizzare quelli che da outsider vi finiscono in mezzo. E’ il caso di Virzì, per esempio, citato da Minuz per “Ferie d’Agosto” (dove è ancora presente la carica di autoironia verso quel mondo rappresentata dalla battuta “voi intellettuali non ci state a capì più un cazzo, ma da mo’”) che dal film più “politico”, definito, “La bella vita” e finisce poi a dirigere “Tutta la vita davanti”, film decisamente integrato al club sopra descritto. Il rischio su cui è sempre in bilico il volume (e in cui invece cade molto più spesso il Minuz pubblicista) è quello di finire per rendere ancora più egemone il dualismo che il libello vorrebbe smascherare quello tra Berlinguer e Zalone, per stare al sottotitolo, mostrandoli come avversari e non, pannellianamente, come “soci”, parti opposte necessarie l’una all’altra; finendo così per far interpretare all’autore il ruolo dell’intellettuale controcorrente, che però finisce per essere più funzionale di quello integrato. Un rischio che Minuz intuisce quando parla del film di Zalone, in cui esplicita di non volerne fare un capolavoro, e che dimostra, insieme a tante altri aspetti positivi, le qualità e le potenzialità dell’opera e del suo autore. C U O .com n 88 PAG. sabato 30 agosto 2014 o SCENA&RETROSCENA 13 L’ingegner Fucini e Firenze Capitale L’APPUNTAMENTO di Francesco Gurrieri Voci lontane voci sorelle Firenze e lo strapolto della ‘apitale GIANNI Firenze , bimbo mio, nun c’è quistione, Se li levan di lì la ‘apitale, Nun te lo vorre’ dì, batte ‘n pattone, Da stiaffalla ‘n d’un fondo di spedale. Ma ‘r Municipio , se nun è ‘n bestione, Deve fare ar Govelno un memuriale, E dilli: “Ho speso cento allo Stradone”, Per esempio, “cinquanta a quer Piazzale, Venti a’ Lungalni, trenta ‘n der Mercato”; Tanto da rivoganni un conto grosso, E poi fallo cità dar Delegato. LORENZO O se ‘un pagassi ? GIANNI ‘Ni si sarta addosso, E a folza di golini, Dio sagrato... Vòi Roma? ‘un ci si va se ‘un posi l’osso. Disegno di Francesco Gurrieri C om’è noto, fervono i lavori dei “comitati” per solennizzare i 150 anni di Firenze Capitale (1865 – 2015). Forse non molti sanno che alla stagione dei grands traveaux coordinati dal Poggi per incarico del ”facente funzione di gonfaloniere” Giulio Carobbi, collaborò Renato Fucini. Il quale, come ebbe a dire il De Amicis nell’introduzione ai Sonetti di Neri Tanfucio, “pigliava la penna quando snetteva il compasso , e misurava versi quando era stanco di misurare angoli”. Com’è noto, appena cinque anni dopo, la capitale fu dismessa e trasferita a Roma. A Firenze rimasero opere incompiute e molti debiti; il povero Giuseppe Poggi finì inquisito e fra i capi d’imputazione vi fu anche quello di aver usato i pennini e la cancelleria tecnica per finalità private mentre lavorava alla cosa pubblica. Il Fucini, fra i più arguti dei nostri poeti (ma questo riconoscimento sarebbe sopraggiunto più tardi), ebbe a intuire – diremmo oggi “da dentro il palazzo” - ciò che si profilava per l’amministrazione della città ed ebbe a scrivere il seguente sonetto. Da martedì 9 a martedì 30 settembre torna “Voci lontane, voci sorelle” festival internazionale di poesia che propone in quattro biblioteche fiorentine (Oblate, FIlippo Buonarroti, Canova e Mario Luzi) e in due luoghi culturali (Murate e Libreria Feltrinelli) letture, incontri con i poeti, presentazioni e confronti sulla situazione della letteratura. Tutte le informazionisul sito www.vocilontanevocisorelle.it. VISIONARIA di Simonetta Zanuccoli [email protected] L'immagine attuale di Parigi nasce da un ardito piano regolatore voluto da Napoleone III e realizzato dal prefetto Haussman che dal 1852 al 1870 rase al suolo interi quartieri fatti di strette strade e case di varie epoche per creare piazze, boulevards e maestosi edifici secondo un rigoroso e ripetitivo schema geometrico che dette alla città quell'aspetto maestoso ed elegante che la rende unica. Non fu solo una rivoluzione urbanistica ma anche sociale. Le classi più umili furono emarginate verso le periferie e la nuova, opulenta, borghesia prese possesso delle zone centrali della città. L'architettura hausmaniana svolse un ruolo determinante in questa trasformazione. I nuovi edifici dalle facciate in pietra tutte perfettamente allineate tra loro, rispetto a quelli precedenti che avevano un'altezza massima di 17,55 metri, si elevano a 20 metri sui boulevards larghi 20 metri. Ciò consentì di creare un piano in più le cui finestre si affacciano, altro elemento caratteristico di Parigi poi copiato in altre città francesi e belghe, sui tetti tutti inclinati a 45 gradi. A ognuna di queste finestre corrispondeva una chambre de bonne ossia una stanza riservata alla cameriera tuttofare (bonne à tout faire). L'ascesa della media e alta borghesia si manifestò anche nel possesso di una casa dove lo spazio di chi era impegnato in attività lavorative domestiche era nettamente separato da quello adibito alla vita familiare. Dalla maestosa scala dei piani nobili si inerpica una di servizio, stretta e ripida, che portava a queste anguste stanzette (dai 6 ai 12 metri quadri), freddissime d'inverno e afose d'estate, arredate con pochi elementi essenziali, prive di servizi igienici tranne quelli mi- La chambre della cameriera di Haussmann nimi e condivisi sul pianerottolo. Con una certa insensibilità alle accuse di assoluta mancanza delle condizioni igieniche basilari fatte dai medici che cercavano di combattere la tubercolosi, circolava al tempo tra la borghesia il ferocemente ironico detto le riches en bas, le pouvres en haut. Della vita assai dura di queste cameriere e dei loro miseri alloggi tratta un bellissimo libro di Octave Mirbeau scritto tra il 1891 e il 1900, Le journal d'une femme de chambre, purtroppo non più disponibile da alcuni anni nella traduzione italiana intitolata Diario di una cameriera. Celestine, la protagonista, bonne à tout faire, guarda “dal buco della serratura” e descrive questa società borghese, ingiusta e ipocrita, persa nella dorata illusione della Belle Epoque. Dal libro sono stati tratti due films, di Jean Renoir nel 1946 e di Luis Bunel nel 1964 e numerosissime riduzioni teatrali. Oggi queste chambres des bonnes (a Parigi sono più di 20.000) sono diventati degli appartamentini presi d'assalto soprattutto dagli stranieri che vogliono investire nella carissima Parigi comprando un pied-à-terre dal sapore un po' bohémien o affittati a prezzi molto elevati a studenti. Dal 2002 il piano regolatore della città stabilisce infatti che la superficie minima di un appartamento sia di 9 metri quadri e la sua altezza di 2.20 metri. Naturalmente l'abitazione deve essere fornita di acqua corrente. C di Laura Mazzanti I n 88 PAG. sabato 30 agosto 2014 o RICORDI D’OCCASIONE U O .com [email protected] l lavoro di Dalla Chiesa come Prefetto di Palermo fu interrotto bruscamente alle ore 21.15 del 3 settembre 1982, quando l’auto sulla quale viaggiava, guidata dalla moglie Emanuela Setti Carraro, fu affiancata da una BMW dalla quale partirono alcune raffiche che uccisero il prefetto e la moglie. Anche l’auto dell’autista e agente di scorta Domenico Russo fu affiancata da una motocicletta con dei killer a bordo che lo ferirono gravemente, morirà diversi giorni dopo. La mafia aveva colpito molto in alto, mostrando ancora una volta tutta la sua truculenza, e compiendo l’ennesimo delitto “eccellente”. I funerali del generale e della moglie, svoltisi il 4 settembre 1982, furono seguiti da una folla che protestò contro le presenze di politici, accusati di aver abbandonato il generale. Vi furono anche attimi di tensione, quasi al limite del ricorso alla violenza fisica. La stessa figlia Rita pretese che fossero tolte le corone di fiori inviate da parte della Regione Sicilia. Degna di nota fu l’omelia pronunciata dal cardinale Pappalardo, il quale citando un passo di Tito Livio, affermò: “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur” (“mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”, e qui Sagunto è Palermo). Le reazioni suscitate dalla morte di Dalla Chiesa furono molto forti. Stavolta la mafia aveva colpito un personaggio amato, ammirato, le cui qualità procedevano di pari passo con la sua fama. La stessa città di Palermo sembrò destarsi da quel torpore, da quella omertà che l’avevano caratterizzata per decenni. Vi fu una forte protesta cittadina. Il coraggio e la fiducia Qualche giorno dopo l’omicidio apparve uno striscione in via Isidoro Carini, luogo dell’attentato, con soscritto: “qui è morta la speranza dei palermitani onesti”. La città sembrò risvegliarsi, sembrò voler lanciare, a sua volta, un messaggio importante: “basta con la mafia”. Oggi sappiamo che il delitto Dalla Chiesa fu messo in atto dagli esponenti più potenti della Cupola. Tale certezza ci viene tra l’altro confermata dalla sentenza che vede condannati Michele Greco, Totò Riina, Bernardo Provenzano (solo per citare i nomi più importanti), ma sappiamo come il terreno sia stato preparato dalla stessa classe politica siciliana, dall’ala democristiana, sia di corrente fanfaniana che andreottiana. La certezza di un coinvolgimento anche politico, oltre che mafioso, non fu subito accolta. Gli anni ’80 dimostrarono ancora una volta una certa resistenza a incrinare sistemi ben collaudati, infatti negli anni successivi al delitto, l’unica pista seguita fu propriamente quella di stampo mafioso. Si dovettero attendere gli anni ’90 per vedere aprirsi un varco più ampio. Senza rispondere precisamente chi fosse, Buscetta asserì che si trattava di un uomo politico, aggiungendo, tra l’altro, “è vivo, anzi sono vivi”. CATTIVISSIMO ICON di Francesco Cusa di Michele Morrocchi [email protected] Benzinaio. Appena chiusa la cassa. Pompe automatiche in attivazione. Arrivo in extremis e recito: Automatico? nooo. Vabenevabene. però dammi dieci euro che ho chiuso la cassa. Ne ho cinquanta intere (mette la benzina). vabenevabene, Ah. … Ma allora non era chiusa ancora la cassa automatica. No. … … Ecco… Non ce l’ho il resto. Ah ma ho queste oppure cinq… vabenevabene, dammi cinque. Ma ne hai messe dieci vabenevabene, ma... vabenevabeneciaodevochiudere. (Appare Platone con la tuta Shell e il dito che indica il cielo. Morte dell’economia. Trionfo dello spirito, delle ragioni dell’Empireo. Contro la caducità ecco spandersi le vestigia del culto dell’effimero. Arte nobile, nobilissima. Si squaglia il benzinaio e rimane l’alone della Sud pompa magna, una macchia violacea che fa da rifrangente alle ingiurie del tempo, questa paradossale illusione. Cinque fa dieci, dieci non fa cinque. Siamo oltre la matematica, nelle terre di confine, laddove si caccia e uccide il Signoraggio (signoraccio) Bancario. Respirare a pieni polmoni nel tempo mefitico della Crisi. In questo scarto, in questo “fastidio”, in questa “urgenza di chiudere”, sta il segreto della bellezza intima, dello stare al mondo come Cristo comanda, senza falsi miti. Visitandoli semmai, ‘sti miti, e/o ciò che ne rimane, come si fa con un parente caro. Non si parla di visite di cortesia, insomma). twitter @michemorr Un tocco di viola L’Associazione Via del Parione, in collaborazione con Fund4art presenta la prima edizione del progetto “Parione Arte. Idee in Vetrina, rassegna di arte contemporanea”. Il progetto prevede un’intera settimana nella quale tutti i commercianti della centralissima Via del Parione, sita nel centro storico di Firenze, metteranno a disposizione le loro vetrine perché possano essere riempite e reinventate da artisti italiani 14 Alla fine per l’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente Domenico Russo furono condannati all’ergastolo Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Il 30 gennaio del 1992 la Cassazione confermò la sentenza. Il 22 marzo 2002, la Corte d’Appello di Palermo ha condannato quali esecutori materiali del delitto, Vincenzo Galatolo, Antonio Madonia, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. Nella stessa sentenza della Corte d’appello, si legge tra l’altro: “Si può senz’altro convenire con chi sostiene che persistono ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità colle quali il Generale è stato nominato in Sicilia (praticamente da solo e senza mezzi) a fronteggiare il fenomeno mafioso, negli anni in cui il sodalizio Cosa Nostra ha potuto esercitare nel modo più arrogante ed incontrastato l’assoluto dominio sul territorio siciliano, sia la coesistenza di interessi specifici – anche all’interno delle stesse istituzioni - all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalle capacità del Generale. In tal senso, non potendosi omettere che il programma d’intenti manifestato dal Generale, nel momento dell’accettazione dell’incarico (avuto particolare riguardo all’avviso – rivolto a quelle forze politiche che il Dalla Chiesa riteneva colluse alla mafia – che ‘non avrebbe guardato in faccia nessuno’); non poteva non suonare come un chiaro campanello d’allarme per chi all’epoca traeva impunemente quanto illecitamente vantaggio dai rapporti tra la mafia e la politica, soprattutto nello specifico mondo degli appalti”. e internazionali inserendovi opere d’arte e inventando vere e proprie installazioni. La partecipazione degli artisti è completamente gratuita ed il tema di questa prima edizione del concorso per l’anno 2014 è: Un tocco di viola. Le vetrine sono suddivise secondo tre categorie artistiche. Ogni artista potrà presentare una proposta per ogni categoria, dunque un minimo di tre proposte, che potranno essere accettate in toto o solo parzialmente. La richiesta di partecipazione online al sito www.fund4art.it, dovrà essere compilata ed inviata entro e non oltre il 6 settembre 2014. C U O .com HORROR VACUI n 88 PAG. sabato 30 agosto 2014 o L’inutilità della muraglia cinese, dei valli di Adriano e del muro di Berlino, non ci impedisce di continuare a costruire muri. Dopo un test per verificare quale parte del cervello uso in prevalenza, sono tormentato dall’idea di costruire una barriera fra i due lobi. Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni 15 C TEMPO PERSO U O .com di Lolly Gally [email protected] I ncontro la pittrice inglese Jannina Veit Teuten nella sua casa di Pescia, non lontano dalla gipsoteca che ospita i lavori dello scultore Libero Andreotti. Un appartamento pieno di quadri, soprammobili, lumi, libri, piante verdi in letargo: un groviglio di oggetti, un magazzino di ricordi. Eleganza british lontana dagli stereotipi alla Laura Ashley idolo degli anni settanta, tutta altra storia. Siamo sedute su un sinuoso e scomodo divano di tessuto di crine romanticamente delabré che ha subìto nei decenni l’attacco di qualche felino giocherellone. Jannina, perché Pescia ? Desideravo comprare una casa e Firenze era troppo cara. Con quello che a suo tempo ho speso qui, a Firenze avrei dovuto accontentarmi di due stanze. Vivere a Pescia mi piace. Prima di Pescia ? Negli anni ottanta ho vissuto 11 anni a Settignano, in una bella casa dove aveva abitato il pittore Costetti, vicino alla piazza principale, non lontana dalla Capponcina. Qualcuno dice che nella sua casa di Settignano lei ospitasse personaggi interessanti, intellettuali, artisti, rifugiati politici… In 11 anni i miei ospiti sono stati tanti (mi sembra 27 persone) e non li ricordo tutti. Ricordo con affetto Stephan, un ricercatore fuggito dalla DDR attraversando il Mar Nero a bordo di un gommone. Ha sempre mantenuto il silenzio su come fosse arrivato in Italia. Lo abbiamo saputo poco tempo prima della caduta del muro di Berlino. E’ diventato in seguito un giornalista importante. Dopo Settignano? Sono ritornata in Piazza dei Ciompi, dove avevo già passato qualche tempo. Era la casa dove aveva vissuto Lorenzo Ghiberti, proprio in centro a Firenze. Dicevano che nelle cantine dietro la casa ci fosse la fonderia delle porte del Battistero di Firenze. Come è nata la passione per la pittura? Avevo 8 anni e ed il Preside della scuola (ricordo ancora il nome: Coulson Davis, era un acquarellista), ha chiesto a noi alunni di riprodurre il suo disegno ad acquerello, alcuni pini marittimi. Sia i compagni che l’insegnante hanno dichiarato che ero riuscita a disegnare una copia convincente. Questo fu l’inizio. Frequentai poi la Twickenham School of Art a Londra. Passai poi al lavoro di grafico in Fleet Street, per i giornali e agenzie pubblicitarie ed approdai più tardi, come creativa ma all’oscuro di tutto quello che era politica, al Central Office del Partito Conservatore. Perché scelse Firenze? A quei tempi Firenze era considerata la capitale mondiale dell’arte. Dovevo tornare in Inghilterra ed invece non sono più ripartita. Ho fatto diversi lavori per pagarmi gli studi all’Accademia di Belle Arti. Ricordo: fra i miei professori Fernando Farulli e Oscar Gallo e l’amicizia con Domenico Viggiano e Manfredi. Un ricordo speciale va a Giovanni Colacicchi e Flavia Arlotta, ai quali sono stata legata da grande affetto, che continua attraverso i figli. Ho anche dipinto ritratti, ho fatto mostre con le mie opere a Firenze, Settignano, Reggio Emilia, Fidenza, in diverse città della Francia, a Londra e Canterbury. Parliamo della via Francigena. Lei è stata definita “La pellegrina della luce” Mentre disegnavo i bassorilievi della facciata del Duomo di Fidenza ebbi la fortuna di incontrare una persona straordinaria: Don Amos Aimi, purtroppo scomparso, che mi suggerì di dipingere ad acquerello tutti i monumenti della Via Francigena da Canterbury a Roma, sulle tracce del diario dell’ Arcivescovo Sigerico che si era recato a Roma nel 990 per ricevere il Pallio dalle mani del Papa Giovanni XV. L’obiettivo era quello di concludere il percorso per il Giubileo 2000. E fu proprio un amico di Don Amos, il critico d’arte Marzio Dall’Acqua che, vedendo i miei acquerelli, mi definì “Pellegrina della luce” Cosa le ha dato e cosa le ha tolto questa avventura della via Francigena ? Ho avuto l’occasione di conoscere per- sone gradevolissime. Dal 1993 al 2000 però sono stata lontana da casa, da vera pellegrina. Sempre in giro per l’Europa: Inghilterra, Francia, Svizzera, Italia. Su un camper attrezzato che guidavo personalmente, con l’allestimento di 23 mostre in due anni e 2000 chilometri di strada. Cosa vorrebbe ancora da questa esperienza, in concreto? Poter esporre tutte le opere sulla via Francigena che ho dipinto (o una buona parte di esse) in un’unica sede, in un luogo adatto. La regione Toscana ha fatto un ottimo lavoro di messa in sicurezza della via Francigena. Le immagini delle opere hanno ormai un valore anche storico, visto che nel frattempo molti luoghi sono cambiati dal 1993. Ci sono città che meritano un’ ulteriore valorizzazione, che potrebbero accogliere un centro di servizi per i pellegrini: ad esempio, uno shop attrezzato ed una galleria permanente con i n 88 PAG. sabato 30 agosto 2014 o 16 miei quadri. Qualche nome? Altopascio, Fucecchio, Monteriggioni. Ma ce ne sono tantissimi altri anche al di fuori della Toscana. Lo sa che Paolo Rumiz nel suo libro Morimondo la definisce una donna di rara eleganza che ha però l’abitudine di russare rumorosamente la notte ? (Ride)Io ero a Corte Sant’Andrea, vicino a Lodi, per pitturare quel luogo citato da Sigerico (la confluenza del Lambro con il Po, un luogo straordinario) ed alloggiavo nell’ostello del pellegrino che non aveva più stanze disponibili ed ho dovuto condividere la stanza con il signor Rumiz ed un altro viaggiatore. Ma non ero io la sola a russare! Questo va precisato. Qualche rimpianto ? Per quanto riguarda il “via Francigena Project”, aver compiuto questa impresa titanica con le mie forze e le mie finanze “nella quasi totale indifferenza del pubblico e del privato italiano”. Ho rubato le parole ad un noto critico d’arte. Non sono parole mie. Ultimamente a Berceto e al Castello di Proceno ho avuto l’impressione di aver iniziato un nuovo cammino, con un’accoglienza ed una considerazione che mi fanno ben sperare. Dopo 20 anni di Via Francigena come Itinerario Culturale Europeo sarebbe l’ora che si desse al progetto la giusta rilevanza. La pellegrina della luce TRASH TOWN di Alessandro Dini [email protected] Caro Diario, si sente dire che Firenze è in degrado, che è colpa mia perché non decido. Eppure le mie giornate di Sindaco sono tutte molto intense. Per esempio, ieri mattina ero in casa e aspettavo che l'autista del comune venisse a prendermi per portarmi a Palazzo quando, essendomi alzato più presto del solito, decido di far lavare la macchina. Mentre esco, abituato come sono ad osservare tutto, l'occhio mi cade su alcune buste lasciate sul tavolino dell'ingresso. Decido di dare un'occhiata. Comincio ad aprire le buste e, come sono solito fare, metto con ordine il loro contenuto sul tavolino. Noto che insieme alla pubblicità c'è anche una fattura. Lascio le chiavi della macchina sul tavolino e vado in cucina per gettare le buste vuote e la pubblicità nel sacco della differenziata cartacea, ma è strapieno. Per rendermi utile decido di andare giù, in strada, a portare il cartaceo nell'apposito cassonetto. Ma prima di uscire tiro fuori dal portafoglio il libretto degli assegni per il pagamento della fattura temendo che più tardi me ne sarei scordato, sennonché mi accorgo che gli assegni sono finiti. Lascio il sacco del cartaceo da gettare li, accanto al tavolino, e vado nello studio a prendere un altro blocchetto di assegni, ma colpisce il mio occhio clinico la scrivania sul cui ripiano noto una Diario di un sindaco lattina di birra ormai vuota che, peraltro, mi pare proprio quella da cui ieri sera stavo bevendo io. Per dare una mano, come sono solito fare, decido di gettarla nella differenziata dell'alluminio. Andando in cucina, dove si trova il sacco della differenziata dell'alluminio, la mia attenzione è attratta dal vaso dei fiori sul comò del corridoio che è quasi senz'acqua. Trovandomi ormai in cucina, riempio d'acqua una caraffa e decido di mettere prima l'acqua ai fiori e subito dopo gettare la lattina vuota nel sacco della differenziata dell'alluminio, riportando allo stesso tempo la caraffa al suo posto, in cucina. Torno nel corridoio e verso l'acqua ai fiori, ma con la fretta e l'agitazione che mi sta prendendo la maggior parte finisce sul pavimento. Torno di corsa in cucina, e dato che vado d'urgenza a cercare uno straccio per asciugare il parquet del corridoio, lascio dove si trova la lattina da gettare nel sacco della differenziata dell'alluminio. Oh, ma ecco che suonano alla porta: è l'autista del comune! Non c'è più tempo per far lavare la macchina e lascio tutto così com'è, senza portare via il sacco del cartaceo e quello dell'alluminio e nemmeno asciugare l'acqua sul parquet del corridoio. Mentre si va a Palazzo ripenso all'idea ‒ che mi è venuta, così! ‒ di salvaguardare i cosiddetti negozi tradizionali del Centro Storico di Firenze che ha tanto impressionato la gente, anche se si sente dire che a questo punto tutti i buoi erano già scappati dalla stalla, che ora è una stalla senza buoi. Insinuazioni malevole perché, senza falsa modestia, in una città come questa io mi vedo il più adatto a fare il Sindaco, diligente e attento seguace come sono della nuova politica italiana basata sull'efficacia riformista di annunci spot. Caro Diario, ma tu mi capisci vero? C n 88 PAG. sabato 30 agosto 2014 o ICON U O .com di Stefano Pozzoli L’agenda di Dario anzi già non mancano, in virtù di quel dato universale che è la sindrome di NIMBY (Not In My Back Yard - Non nel mio cortile). Il futuro, in altre parole, riserva già sufficienti problemi ed opportunità a chi amministra Firenze. Dobbiamo chiederci, però, proprio per lo sconvolgimento che ci aspetta, non sia opportuno per l’Amministrazione immaginarsi un progetto, sul piano urbanistico e sociale, ancora più ambizioso. Intanto dobbiamo dire che, per quanto noi cittadini ce ne siamo accorti fino ad un certo punto (o quanto meno non ne abbiamo gioito abbastanza), in verità è Firenze in questi anni è cambiata, grazie a progetti circoscritti, che (fortunata- SCAVEZZACOLLO di Massimo Cavezzali Inquietudine I prossimi 5 anni saranno cruciali per la Firenze che sarà e Dario Nardella si troverà a governare il più grande cambiamento dal dopoguerra che interesserà la nostra area urbana. I motivi di questa affermazione, che non vuole essere enfatica ma realistica, sono essenzialmente due. Anzitutto è che alcune scelte chiave di amministrazioni precedenti, ovvero la tramvia e l’alta velocità (con tanto di Stazione AV in Viale Redi), vengono a maturazione, con l’inevitabile contorno di cantieri, disagi e proteste. Il secondo è quel cambiamento di natura istituzionale, e si avvierà a breve, che è rappresentato dalla città metropolitana. Temi connessi, se si pensa che la tramvia dovrà arrivare a Sesto Fiorentino, probabilmente a Campi, forse persino a Prato. Questioni distinte, perché la prima è in buona parte delineata, e va “solo” realizzata, mentre l’altra deve essere pensata, oltre che attuata, da Dario Nardella e dalla sua squadra di amministratori e dirigenti che, per altro, è in parte da costruire, soprattutto per quanto riguarda la città metropolitana. Tutto ciò, da solo, dovrebbe fare tremare le vene nei polsi ai nostri rappresentanti istituzionali, perché tre-quattro anni di lavori importanti, anche se gestiti al meglio, non potranno che creare disagi e malcontenti. Ricordiamoci, però, che è quanto è accaduto per la realizzazione della prima linea di tramvia, della quale, però, oggi non potremmo proprio più fare a meno, e che ha molto valorizzato l’asse FirenzeScandicci e le aree lungo il proprio percorso. Lo stesso, non ne possiamo dubitare, accadrà anche per le altre linee, ma è altrettanto facile prevedere che le polemiche non mancheranno ed [email protected] Serpeggia l'inquietudine. Ma non sempre. All'inquietudine piace cambiare animale. Per farsi capire meglio. Maialeggia l'inquietudine. A volte. O criceteggia. Passerotteggia. Dipende. 17 mente) non hanno modificato il profilo della città, ma comunque di elevata qualità. Si pensi alle Murate, alla Città della Musica e con l’intervento, più importante, nell’aerea di Novoli, che è passata da quartiere dormitorio e popolare ad iniziare a configurarsi come area direzionale di ben altre prospettive. Oggi restano aperti altri problemi ed opportunità. Il primo, a cui Renzi prima e Nardella poi, hanno messo mano, è lo stadio. La questione, oggettivamente, non è essenziale ma potrebbe rappresentare comunque un’interessante risistemazione dell’area Mercafir. Ci sono altre questioni, però, che potrebbero e dovrebbero essere risolte, una spesso sollevata, ed altre che curiosamente sembrano quasi dimenticate. La prima è Sant’Orsola, la cui mancata risistemazione è uno dei motivi di deterioramento di un’area pure centralissima. La città metropolitana, a differenza di quanto oggi può la provincia, avrà in mano tutti gli strumenti urbanistici per rendere il sito attraente dal punto di vista commerciale ed è un tema che andrà affrontato urgentemente. Gli altri tre non si trovano nel centro storico sono più “periferici” ma sono tutti di straordinaria importanza per la città. Il primo è il “cratere” che si trova in Viale Belfiore. L’Amministrazione, anche se la proprietà è privata, davvero può tollerare una cosa del genere quasi di fronte alla futura Stazione Roger e comunque in uno dei Viali della Città? Ancora occorre pensare alla ex Manifattura Tabacchi: si tratta di 6 ettari nel cuore di Firenze, rimasti inutilizzati ormai dal 2001. E che dire dell’area del Meccanotessile? I lavori del giardino sono ormai avviati, ma per quanto riguarda il resto è ancora tutto da fare. Articolo pubblicato su Repubblica ed. Firenze il 29 luglio GRANDI STORIE IN PICCOLI SPAZI di Fabrizio Pettinelli [email protected] Da qualche tempo il severo fra’ Girolamo Savonarola invocava la punizione divina per la dissoluta città di Firenze: “Signore mio, manda la tribolazione a Firenze. Manda, manda il flagello, questo li farà udire. Spada spada, carestia carestia, pestilentia pestilentia!”. Fatto sta che qualcuno nelle alte sfere (“Il Signore o chi per Esso”, scrive Giuseppe Conti in “Fatti e aneddoti di storia fiorentina”) esaudì i desideri del frate. Si cominciò all’inizio del 1497 con una terribile carestia (carestia, carestia!); scoppiarono dei tumulti durante la distribuzione del pane e il 18 aprile tremila donne diedero l’assalto a Palazzo Vecchio: la rivolta fu repressa nel sangue (spada, spada!). Firenze cominciava appena a risollevarsi dalla carestia, quando, fra maggio e giugno, si diffuse in città la peste (pestilentia, pestilentia!) che provocava, ogni giorno, la morte di decine Via Savonarola Il falò delle vanità di fiorentini. Savonarola, incurante delle sofferenze dei fiorentini, decise di rincarare la dose e organizzò, l’ultimo giorno di carnevale del 1497, un “falò delle cose lascive”. In Piazza della Signoria fu innalzato un “albero” del quale padre Serafino Razzi ci ha raccontato la composizione: alto circa 30 braccia fiorentine (18 metri), con un perimetro alla base di circa 120 braccia (70 metri) e composto da 15 strati, con una struttura piramidale stile albero di Natale. Nel corso dell’anno i seguaci di Savonarola erano andati a giro per raccogliere il materiale e nessuno aveva osato opporre un rifiuto alle richieste del frate. Quali erano gli ornamenti di questo singolare albero di Natale? Partendo dalla cima troviamo tele di maestri delle Fiandre “dipinte di figure disoneste” e, via via discendendo questo completo catalogo delle vanità, “ritratti di bellissime donne antiche”, “scacchieri, tavolieri” e carte da gioco, strumenti musicali “con i loro libri di musiche lascive”, “specchi, profumi e polvere di Cipro” a rappresentare la vanità delle donne, “libri di poeti lascivi e disonesti” come Pulci, Sacchetti e Petrarca, maschere e travestimenti e via dicendo. Quale fosse il valore “venale” degli oggetti che andarono al rogo lo si può desumere da un curioso episodio: un mercante veneziano, che si trovava a Firenze per caso, vedendo tutto quel ben di Dio che stava per essere distrutto, offrì 20.000 scudi, una somma enorme, per rilevare tutto il blocco, ma dovette ritirarsi in buon ordine quando i Piagnoni minacciarono di piazzarlo in cima all’albero se non se ne fosse andato immediatamente. L’anno dopo il bis: nuova raccolta di materiale e questa volta anche dei neofiti Piagnoni contribuirono personalmente con le loro opere: scomparvero così irrimediabilmente fra le fiamme disegni e studi di nudi di artisti come Baccio Bandinelli e Lorenzo di Credi. Qualche mese dopo, il 23 maggio, in Piazza Signoria, a pochi metri dal luogo dove erano bruciati gli “alberi della vanità”, arse un altro falò. Ma questa volta sul rogo c’era fra’ Girolamo. C PECUNIA&CULTURA U O .com di Roberto Giacinti o 18 getti sociali, allo scopo di accrescere la reciproca capacità innovativa e la competitività sul mercato, e raggiungere, quindi, economie di scala. Le Reti permettono dunque, di creare un “gruppo” che da un lato, consente il mantenimento dell'indipendenza e dell'identità di ogni ente e dall’altro il miglioramento anche di alcuni processi che possono essere comuni alle singole realtà. Proprio con il contratto di Rete si rende possibile operare un raccordo, tra gli enti, che potrà diventare forte e duraturo producendo un ente Policentrico, rappresentante una costellazione di culture e strategie orientate in una sorte di federazione. [email protected] G li sgravi fiscali che il d. 91/2013, detto Valore cultura, ha elargito ai contributi erogati al non profit non basteranno a far sopravvivere i piccoli enti, spesso gloriosamente centenari, da una fine ingloriosa. Il tema, considerando la crisi generale, ma anche la legge di Baumol che, nel settore culturale, vede nel tempo accrescere i costi e ridurre i proventi, fa si che occorre con urgenza trovare uno strumento che freni molti enti da morte certa. Era il 1995 quando in un convegno organizzato dal Prof. Cardini, a San Gimignano, presentai una relazione coniando il termine “Parco Culturale: definizione di un sistema del valore di un’area territoriale”. Il Parco culturale trova risposte nelle caratteristiche del Parco Naturale ed anche di quello Scientifico, tutti ambienti nei quali il Valore è legato alla capacità di organizzare e di gestire l'intreccio dinamico (il sistema delle relazioni) tra la Sfera Produttiva, ovvero il Sistema Industriale (produzione, commercializzazione, servizi); quella Istituzionale: ovvero il Sistema Politico; quella Scientifico-Culturale: ovvero l’Università, gli Organismi di Ricerca Pubblica/Privata, Istituti di Formazione, Enti ScientificoCulturali ecc. Il coinvolgimento dinamico di una molteplicità di attori, interni ed esterni all'area territoriale, è la condizione necessaria per creare la struttura del Parco. La molteplicità degli attori a vocazione istituzionale, economica e scientifica implica la necessità di creare non solo l'opportunità di riunire ed integrare diverse culture, esperienze e conoscenze con risorse e competenze multifunzionali, ma di consentire anche la possibilità di attrarre ulteriori conoscenze, capitali e competenze nell'area di intervento e quindi nel Sistema. Immaginavo di collegare tra loro enti che da soli non avrebbero potuto sopravvivere in una sorta di multi-museo: allora il Parterre era libero e rappresentava certamente uno spazio adatto, anzi speciale! Il Parco, dunque, come strumento per la valorizzazione integrata, può essere rappresentato come un sottoinsieme nascente dalla sovrapposizione degli ambienti interessati alla gestione del territorio culturale nella quale vivono numerose Istituzioni che possono essere raccordate in Sistema. E’ più facile insegnare loro a fare Rete se li colleghiamo fisicamente, cosa che consente da subito di realizzare economie di scala e di costo: una organizzazione ed una amministrazione unitaria in grado di esprimere professionalità anche nella comunicazione indispensabile per fare cultura, ma anche per reperire risorse! Con il Contratto di Rete (previsto dalla l. 112/2008), più Enti si obbligano ad esercitare in comune una o più attività economiche, rientranti nei rispettivi og- n 88 PAG. sabato 30 agosto 2014 Il Parco Culturale una rete in salvataggio LUCE CATTURATA di Roberto Mosi [email protected] Firenze sotto i tacchi La Mostra di fotografie e poesia “Firenze Calpestata” richiama l’attenzione sulla città e la conservazione delle sue molteplici fisionomie storiche, silenti sotto il calpestio inconsapevole dei passanti, come la significativa lapide in Piazza della Signoria, dedicata al luogo in cui - il 23 maggio 1498 - fu condannato al rogo il monaco domenicano Girolamo Savonarola. Nella scoperta delle sedimentazioni storiche l’autore, Roberto Mosi, offre una campionatura di rapide inquadrature fotografiche di figure, sorprese in inediti scorci dal basso, nella dinamica degli arti inferiori, nell’azione del camminare, correre, stazionare. Il fatto storico evocato diviene una galleria di persone/personaggi: il/la turista, i figuranti (il capitano del Popolo/i soldati), il maratoneta, i podisti, la studentessa, la per arginare l’anestesia liquida della dimenticanza. Secondo la tradizione curata dall’autore, Mosi ha preparato una raccolta poetica, “Eterno Presente”, a “commento” delle fotografie, che sarà presentata in occasione della Mostra. Roberto Mosi impegnato nel campo della fotografia, coltiva l’attenzione per l’interazione fra le arti, della fotografia e della poesia, in particolare. Passaggi ragazza dai tacchi alti, la posa spensierata di una ballerina, i vigili urbani, l’operatore ecologico, l’operaio, le zampe di un cane, la carrozza trainata dai cavalli, per disegnare sulla mappa cittadina la vita brulicante dell’oggi, che vive, si agita, attende, lavora e spera nei cambiamenti. E’ in gioco la vitalità segreta di un patrimonio storico continuamente da riscoprire ed apprezzare di questo impegno sono le mostre realizzate fino ad oggi. I titoli dei cicli fotografici – in bianco e nero - richiamano i percorsi iconografici: “Nonluoghi” (2009), “Florentia” (2010), “Fotopoesia” (2010), “Itinera” (2011), “Mitomosi” (2011), “Mith In Florence” (2012), “Tracce, La Galleria Fotografica Sulla Strada” (2013), “Firenze Riflessa” (2013), “Firenze, Dalle Vetrine Alle Periferie” (2013), ”Firenze, Contrasti” (2013), allestiti presso: Biblioteca Palagio di Parte Guelfa, Circolo degli Artisti-Casa di Dante, La Citè, Cuculia, Arteincasa/Cellai Boutique Hotel, Villa Arrivabene, Libreria LibriLiberi, Caffè Serafini. La Mostra è aperta presso l’Hotel Cellai, via 27 Aprile 14, dal 1° al 30 settembre. L’inaugurazione il 1° settembre alle ore 18 C U O .com L’ULTIMA IMMAGINE n 88 PAG. sabato 30 agosto 2014 o 19 San Jose e Santa Clara, California, 1972 [email protected] Dall’archivio di Maurizio Berlincioni La prima immagine in alto mostra una visione di North First Street a San Jose dopo che erano stati demoliti molti dei vecchi edifici storici, quelli a due piani per intendersi, tipo quelli che si vedono ancora sul lato destro della strada. Era un momento di attesa prima dell'inizio dei lavori per la costruzione di nuove strutture alte decine di piani previsti dal nuovo piano regolatore. Era una bella visione godere di tutto questo spazio libero ed in quel periodo mi sono lasciato prendere spesso dal fascino di questi splendidi spazi meravigliosamente vuoti. L'altra immagine, scattata a sole poche miglia di distanza, mostra invece una visione dell'adiacente città di Santa Clara, sede della prestigiosa ed omonima Università Cattolica retta dai padri gesuiti. Il senso di pace e di tranquillità ed il tempo quasi sempre perfetto, assolato ed asciutto, mi davano, almeno in quel primo periodo, l'impressione di vivere continuamente in una specie di sogno a colori.
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