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88
uesta settimana
il menu è
DA NON SALTARE
Apuane, un parco
da salvare
Decide tutto
il Ministro
“
Cristina Acidini,
sovrintendente
pilatesca
Leverotti a pagina 2
PICCOLE
VUOTI&PIENI
ARCHITETTURE
Lettera ad un piano
mai nato
Stammer a pagina 5
OCCHIO X OCCHIO
L’Acidini
all’Expo
La Venere
a Firenze
RIUNIONE
DI FAMIGLIA
a pagina 4
Il romanzo
della
rivoluzione
(Seconda parte)
Fotografando
la Grande Guerra
Cecchi a pagina 7
PECUNIA&CULTURA
Il tormentone
culturale estivo
La cecità
e l’impegno
Setti e Siliani a pagina 9
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DA NON SALTARE
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sabato 30 agosto 2014
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di Franca Leverotti
[email protected]
Consigliere nazionale di Italia Nostra
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ato nel 1995, con molta incongruenza, con le cave “dentro”, il
Parco delle Alpi Apuane è stato
finora gestito in maniera anomala, sotto il ricatto occupazionale di
pochi imprenditori, tanto che ad oggi,
dopo 20 anni, non solo non ha un suo regolamento, ma una delibera regionale del
2006 ha consentito illogicamente che il
piano estrattivo venisse elaborato dopo il
piano del Parco, che ad oggi non è stato
ancora approvato!
A seguito della normativa europea volta
ad individuare territori di pregio per la
flora e per la fauna, meritevoli di tutela per
la biodiversità (sono presenti 3.000 specie
floristiche delle 5.595 note in Italia, tra cui
20 endemismi) nel territorio del Parco
sono stati individuati ben 18 SIC (Siti di
Interesse Comunitario) e una vastissima
ZPS (Zona di Protezione Speciale per gli
uccelli) che coincide praticamente con i
SIC, aree di pregio, che coprono il 90%
dell’area Parco, dichiarati tutti anche IBA
(Important Bird Areas).
L’assurdità è che l’area delle cave (chiamata in maniera surrettizia “area contigua
di cava”) si incista in queste aree protette,
frammentandole con tanti buchi di diversa dimensione. Le norme di salvaguardia imposte dal Parco nelle concessioni
estrattive soggette a VINCA (valutazione
di incidenza) sono risibili: oliare i macchinari per non disturbare gli uccelli…
non sparare mine nel periodo di nidificazione delle aquile…..Non solo, a partire
dal 2000 sono state ri-aperte almeno una
decina di cave nei siti SIC-ZPS, in aree già
rinaturalizzate, accentuando così il danno
ambientale e suscitando l’interrogativo se
il Parco (oggi Geoparco Unesco) sia più
interessato alla concessione di escavazioni
piuttosto che alla tutela del territorio affidatogli.
Le Apuane si caratterizzano per una ricchezza d’acqua senza uguali: sono qui
presenti le due sorgenti più importanti
della Toscana (Forno e Pollaccia) e un
carsismo che le rende il territorio più importante d’Italia per questo aspetto: vi
sono 10 fra gli abissi italiani profondi più
di 1.000 metri e di questi, il Roversi, è il
più profondo d’Italia, laghi e fiumi sotterranei, un migliaio di grotte nella sola Carcaraia, e una grotta (l’antro del Corchia,
oggetto di una pubblicazione dell’ISPRA) esplorata ad oggi per oltre 50
km.
Ebbene l’attività di cava, esercitata con
grande trascuratezza, inquina le acque superficiali con la marmettola (fanghiglia di
polvere di marmo e residui ferrosi derivante dalle operazioni di taglio) e gli olii
esausti che si infiltrano nelle fratture carsiche e la pioggia la trascina per decine di
sottoterra fino a riemergere nella pianura
massese, in Versilia, nella Lunigiana: il Frigido, la sorgente di Equi, il canale del
Giardino, quello di Renara assumono,
dopo ogni temporale, il colore del latte.
La marmettola si deposita anche nelle cavità carsiche uccidendo le forme di vita
presenti: l’Arpat (Agenzia Regionale di
Protezione Ambientale della Toscana) ha
confermato che i “fanghi bianchi” dell’an-
Alpi Apuane
Un geoparco
da salvare
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tro del Corchia, un complesso carsico ritenuto di importanza mondiale, erano
polvere di marmo riconducibile alle soprastanti cave Tavolini tuttora in esercizio.
Le prescrizioni del Parco anche in questo
caso sono ridicole e del tutto insufficienti
a tutelare le acque, sia in quantità che in
qualità, e la vita del mondo sotterraneo.
Infatti si chiede di sigillare le fratture
anche con il cemento disperdendo così risorse utili alle ricariche delle sorgenti e incrementando il rischio idrogeologico di
una zona fortemente compromessa nei
suoi equilibri. Le alluvioni di Forno, di
Cardoso, di Carrara, della Lunigiana dovrebbero suggerire ben altri comportamenti. Nel caso di ingressi a pozzi, abissi
e cavità, già esplorate e presenti nel catasto delle grotte redatto dalla Federazione
Speleologica Toscana, si invita a lasciare
una distanza da 10 a 20 metri dall’apertura (e molte di queste sono occluse a
causa dell’attività estrattiva). Curioso ma
non singolare quanto avvenuto poche settimane fa: è stato autorizzato il taglio dell’abisso del Pozzone, accatastato fin dal
1975, già intercettato e occluso dall’attività di cava, per il quale il Parco consentiva una distanza di sicurezza di soli 5
metri. La concessione al taglio è stata autorizzata, in deroga alla delibera del Consiglio Direttivo del Parco che
“proteggeva” gli abissi superiori ai 300
metri di lunghezza, sulla base di relazioni
fornite dalla ditta che giudicavano l’abisso
(che presenta corsi d’acqua in varie direzioni) “privo di valore ambientale e senza
rilevanza naturalistica e archeologica”
(probabilmente “geologica”).
Anche la prescrizione della VINCA di
fermare l’attività quando si individua una
frattura, informare il Parco e modificare il
piano di coltivazione è regolarmente disattesa: nessuna ditta ha mai informato il
Parco e la documentazione fotografica
mostra fratture tagliate per più piani di
coltivazione.
Nel Parco e nelle aree attigue si consente,
da parte dei Comuni e della Regione Toscana, la violazione delle normative europee relative alla tutela delle acque
superficiali e sotterranee, e soprattutto del
principio di precauzione. La Regione e
l’ente Parco violano sistematicamente la
tutela dei siti Rete Natura 2000 nel momento in cui stabiliscono che si faccia attività estrattiva all’interno dei siti protetti,
e soprattutto quando consentono che una
cava in ZPS e SIC possa ri-aprire o possa
estendere la sua attività purché presente nel
piano regolatore dei singoli Comuni alla
data 2007… e sempreché l’attività estrattiva
sia orientata a fini naturalistici e sia compatibile con gli obbiettivi di
conservazione delle specie prioritarie: questa
assurda normativa (delibera di giunta
454/2008) riprende in toto l’art. 5
comma 1 del DM 17/X/2007, che era
stato concepito per superare una procedura di infrazione (2006/2031) avviata
dall’Europa relativamente alle ZPS!
Due anni fa il Parco è entrato a far parte
dei Geoparchi Unesco, data la ricchezza
dei geotopi e dei geositi presenti, anche
questi devastati dalle cave che li ricoprono
con lo scarico dei detriti. Nella carta elaborata dal Parco per questa operazione di
DA NON SALTARE
Un intervento sulla difficile
convivenza tra cave e natura
sui monti di Carrara
promozione le cave, che nella legenda
esplicativa non sono nominate, compaiono come area bianca; inoltre, per i singoli geotopi è stata elaborata una scheda
in cui si tace dell’attività estrattiva o si afferma che è in chiusura, e sono state allegate foto scattate da particolari angolature
per non mostrare la presenza delle cave.
Ci sono cave sopra i 1.200 metri s.l.m.,
cave di cresta, cave che hanno abbassato i
crinali e deformato le forme delle montagne, cave nei circhi glaciali, nei boschi,
tutte in piena violazione del Codice dei
beni culturali, ma tutte continuano a lavorare, nonostante presentino spesso documentazione parziale, nonostante
commettano gravi infrazioni, come il taglio di setti giudicati imprescrittibili, lo
scarico di detriti nei canali e tagli non previsti nei piani di coltivazione approvati. I
4 guardiaparco emettono multe fino ad
un massimo di 400 euro, multe a cui i Comuni, collusi con gli industriali o essi
stessi imprenditori del marmo, non
danno seguito, e che si arenano nelle procure della Repubblica. Per quanto la normativa consenta di fermare una cava, ciò
non capita mai, e, il fatto sa addirittura di
beffa, nei permessi di nuovi piani estrattivi sono ricordati abusi, sconfinamenti,
infrazioni. L’arroganza degli industriali,
protetti dalle amministrazioni, è poi tale
che ogni eventuale diniego fa scattare una
denuncia al TAR contro il funzionario del
Parco.
Arpat, USL, Provincia, Parco e Soprintendenze si piegano al volere delle commissioni paesaggistiche comunali e
concedono aperture, proroghe, rinnovo
di attività estrattiva con decine di prescrizioni, che si rivelano inutili però a proteggere le acque e a salvaguardare l’ambiente
e il paesaggio. Anche perché i controlli
non si fanno o sono radi. Arpat ha controllato in due anni 13 cave, meno di ogni
due mesi. Con quella media ci vorranno
più di venti anni per controllarle tutte. Ebbene, da quei pochi controlli sono scaturite sette sanzioni amministrative e ben
dieci denunce penali. Questo è il quadro
dell’illegalità sul campo.
La Regione ha promosso la distruzione
delle montagne con la normativa che per
ogni tonnellata di marmo il 25% siano
blocchi e il 75% scaglie (fuori dal Parco il
rapporto è addirittura 20/80). Il business
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del carbonato di calcio ricavato dai detriti
e dalle scaglie, favorito da questa delibera,ha trovato ulteriori avvalli, quando,
ad esempio, con i contributi europei, è
stato crostruito un frantoio a Minucciano
(MI.Gra) che riduce le scaglie in polvere,
e, con i contributi regionali, si è costruita
una linea ferroviaria che da Pieve san Lorenzo va direttamente a Sassuolo, nella
fabbrica Kerakoll, dove il carbonato viene
impiegato nella colla per piastrelle. Il Comune di Minucciano possiede il 51%
della società ed il resto è condiviso tra Kerakoll ed un privato, ma il Parco (divenuto
imprenditore) ha stabilito una convenzione con la quale consente di asportare
tutti i ravaneti (cioè i depositi di scaglie)
del Comune di Minucciano (e ne hanno
fatto le spese anche quelli ri-naturalizzati)
in cambio del 2% degli utili netti annuali
della Mi.Gra! Paradossale se ricordiamo
le prescrizioni rilasciate dal Parco che obbligherebbero i concessionari a ripristinare il sito e a togliere i detriti. Fino ad
oggi, né Parco, né Comuni hanno obbligato i concessionari al ripristino ambientale.
Quanto guadagna un Comune dall’asportazione delle sue montagne? A Massa 9,9
euro a tonnellata per i blocchi che, nel
caso di marmo bianco pregiato, vengono
venduti dal privato anche a 5.000 euro e
3 euro a tonnellata per le scaglie bianche
rivendute anche a 200 euro la tonnellata…senza contare che molta parte dell’estrazione non passa dalle pese comunali
e dunque resta esente! Eppure la sentenza
della Corte Costituzionale 488/1995 imponeva ai Comuni di Massa e Carrara di
applicare un prezzo “congruo al valore del
marmo estratto”.
Il piano paesaggistico della Toscana, copianificato con il MIBACT, che prevedeva la chiusura progressiva di una
ventina delle cave più critiche del Parco
(quelle già fuori legge!), che occupano
complessivamente circa 300 operai.
Viene tristemente in mente Gomorra di
Saviano dove si scrive che a Scampia giustificano la camorra perché dà quel lavoro
che lo Stato né i privati danno. Ebbene
quel piano è stato fermato ancora una
volta dalla politica: così non solo tutto
continuerà, ma verranno riaperte cave
chiuse da 20 anni e per quelle chiuse da
30 anni si potrà fare un “ripristino ambientale con scavo pari al 30% dei precedenti piani di estrazione”. La politica
impone alla natura i suoi tempi: la ri-naturalizzazione non ci può essere prima dei
30 anni!
Le risposte alle numerose denunce presentate dal 2012 alla Corte dei Conti, alla
Magistratura, alla Commissione Ambiente a Bruxelles (chap 2012/02233) e
ora al Consiglio Superiore dei Beni Culturali da parte di Italia Nostra diventano
ora più chi mai necessarie: non possiamo
permetterci di asportare 5 milioni di tonnellate di montagna ogni anno.
La Regione Toscana, che a ragione va orgogliosa di essere simbolo di civiltà, patria
dell’Umanesimo e del Rinascimento, il
primo stato al mondo a togliere la pena di
morte dal suo ordinamento, rischia così
di retrocedere nel limbo dei paesi più incivili, sconfessando la sua tradizione, la
sua storia, la sua immagine.
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RIUNIONE DI FAMIGLIA
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LE SORELLE MARX
Franceschini – Senti, Tomaso, qui la
situazione si mette male. Io ci ho provato a fare quello che mi avevi detto te
e quel secchino allampanato del mio
predecessore, ma mi son preso delle
belle bacchettate sulle mani da Matteo. Ma che cavolo mi avevate scritto?
Montanari – Guarda Dario, avevamo
studiato parecchio quella proposta.
Era tutta roba potabile e ti faceva fare
bella figura a sinistra e con i Soprintendenti.
Franceschini – Ah sì? Guarda professorino dei miei corbelli, a me della sinistra non me ne sbatte un accidenti e
poi, per tua informazione, a farmi il
culo è stata la Gran Sacerdotessa di
tutti i Soprintendenti, la tua amica
Acidini. Poi, se te ne stavi zitto invece
di cantar vittoria, forse la rivoluzione
si faceva davvero! Comunque, lasciamo stare, per ora. Come diceva un
mio grande indimenticato Maestro:
chi l’ha più lungo, se lo tiri! Ora bisogna rilanciare sul piano rivoluzionario con un piano B... e io ho avuto una
Registrazione del Tribunale di Firenze
n. 5894 del 2/10/2012
direttore
simone siliani
redazione
sara chiarello
aldo frangioni
rosaclelia ganzerli
michele morrocchi
progetto grafico
emiliano bacci
editore
Nem Nuovi Eventi Musicali
Viale dei Mille 131, 50131 Firenze
contatti
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“
Con la cultura
non si mangia
Giulio Tremonti
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LA STILISTA DI LENIN
Il romanzo della rivoluzione (2)
Riassunto delle puntate precedenti – Dario “Che” Franceschini sta
architettando una devastante rivoluzione nel mondo dei beni culturali
italiani. Ma i Grandi Padroni dei
musei,Cristina Acidini e Antonio
Paolucci, preparano la contro-rivoluzione e ricorrono direttamente al
Grande Capo di Palazzo Chigi. Matteo Renzi, per timore di un “Che”
troppo rivoluzionario, stoppa la rivoluzione.
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bella ideuccia. Stai a sentire...
Montanari – Mmmm... mumble mumble... qui sento odor di fregatura. Chissà
cosa gli sarà saltato in mente a questo
esaltato...
Franceschini – Caro Tomasino, noi si fa
come il Renzi: quando trova un ostacolo sul suo cammino, parla d’altro, rilancia su un altro tavolo e va in tasca a
tutti. Così, noi ora si fa un’altra rivoluzione. Ho già trovato lo slogan. Senti
qua: “Selfie libero!”. Si stabilisce,
d’ora in poi, che fare foto nei
musei è consentito! Via questi
anacronistici divieti! Smarthphone e tablet di tutto il
mondo, unitevi! Turisti asiatici e americani unitevi alle
schiere rivoluzionarie del
vecchio continente: fotografate e fotografatevi nei nostri
musei! Sel-fie li-be-ro! Sel-fie
li-be-ro!”
Montanari – Ma cosa hai sniffato, Dario? Roba tagliata male?
Questa è una follia! Ma te li immagini quei cafoni di turisti da torpedone,
tutti a fotografarsi sotto il pisellino del
David o il culotto della Venere?
Franceschini – Ma sei il solito caca-
dubbi, Tomaso! Perché mi vuoi rovinare la festa? Noi saremo l’avanguardia
d’Europa: tutti i grandi musei d’Europa – ma che dico, del mondo – ci seguiranno in questa epopea di
liberazione. Un fantasma si aggira per
l’Europa: il selfismo!
Montanari – Mah, questo è completamente andato. Meglio levare le tende,
non vorrei essere coinvolto in questa follia.
Franceschini – Ah, fuggi, Maramaldo! Fifone! Ma chi se ne
frega di questi professorini: io
vado avanti lo stesso. Troverò altri e ben più importanti testimonial per la mia
rivoluzione. Ho letto di un
grande intellettuale, ‘sto
Sam Leith, che sull’Evening Standard ha scritto
una cosa profonda come la
Fossa delle Marianne:
“Un’ampia parte del piacere
che proviamo nel trovarci davanti a un capolavoro è proprio
dovuta al fatto di essere lì. E poter dire:
io ci sono stato”. Minchia, che pensiero
sublime! Avanti popolo, alla riscossa,
selfie libero trionferà!”
Finzionario
di Paolo della Bella e Aldo Frangioni
Il meteorologo statistico di turno ha detto in televisione che un’estate così piovosa, come
quella del 2014, non c’era più stata dal 1916. Questo vuol dire, abbiamo pensato, che nessuno essere umano può aver memoria di una piovosità analoga. Ci sono degli ultracentenari
nati anche verso il 1910, ma ci sembra impossibile che possano ricordare una situazione
analoga a quella che abbiamo vissuto noi: una bella soddisfazione. Possiamo dirci contenti.
Qualcuno si sarà preoccupato, invece, noi abbiamo pensato che si trattava di una gran
bella notizia. Tutte le storie sul riscaldamento del pianeta, sulle mutazioni climatiche etc.
etc. sono o esagerate o addirittura false e che il buco dell’ozono si poteva far rientrare fra i
tanti avvenimenti naturali, come i terremoti periodici, i cicloni e le grandi nevicate. Una
conferma a questa nostra ipotesi ci viene dalla lettura della originale ricerca storica di Francesco B. Dall’Oglio su Clementino VI, papa sconosciuto dagli elenchi ufficiali ma che, secondo lo storico, visse ad Avignone dal 1342 al 1343 e pur non riconosciuto come pontefice
fu fatto santo per aver fatto piovere per 3 mesi di fila nella caldissima estate del 1343. In
tempi miscredenti ed agnostici come i nostri si vuol cercare a tutti costi le ragioni delle recenti
piogge con motivazioni scientifiche. Bei giorni quando gli avvenimenti belli o catastrofici
venivano attribuiti ora una volta ora un’altra alla volontà di punizione del Padreterno o
in alcuni casi del demonio.
La pulzella
dei Parioli
Non si sa se come la più famosa pulzella d’Orléans anche Marianna
Madia abbia ricevuto la chiamata;
nel caso dubito fortemente che sia
stata quella di uno stilista. Sempre
dimessa, con l’aria di essersi fatta cadere addosso un vestito, ché il saio di
Iuta pare troppo pure a lei, la ministra ha portato nel governo più glamour dell’UE il look da
universitaria fuoricorso. Già al giuramento l’unica concessione a tale
canone fu l’essersi tolta la matita che
teneva lo chignon, perché per il resto
il premaman senza forma blu era
perfetto per un’assemblea o un cineforum. Le cose non sono migliorate
con la fine della maternità della ministra, che continua a indossare larghe tuniche informi, a dimostrare un
disperato bisogno di un parrucchiere
e, probabilmente, di un’estetista.
Tuttavia questa scarsa attenzione al
look fa sperare che la sua presenza
nel governo più paparazzato della
storia della Repubblica, abbia a che
fare anche con le sue capacità politiche.
I CUGINI ENGELS
La cecità
e l’impegno
Roberto Saviano ci informa, via
social ça va sans dire, che il prossimo
libro di José Saramago, che
esce postumo e incompleto,
nella sua versione italiana,
edita da Feltrinelli, sarà seguito da uno scritto dello stesso Saviano.
La foto acclusa della copertina, ci informa anche che l’illustrazione (al singolare dunque immaginiamo quella di
copertina) è di Günter Grass. Ora l’operazione già di per sé problematica di
pubblicare un romanzo incompiuto
fatta accompagnare da testimonial del
genere un po’ preoccupa. Siccome non si
ricorda una particolare preparazione
e/o attenzione di Saviano nei confronti
dello scrittore portoghese (né in generale
per letterati in genere aldilà della compilazione di qualche elenco di letture preferite) si può pensare che, da un lato, se
persino un autore famoso, bravo ed
amato come Saramago ha bisogno del
testimonial di eccellenza del lettore “impegnato” di Feltrinelli lo stato dei nostri
lettori è davvero pietoso; oppure che il livello di quest’opera è tale da renderla
adatta a volumi di critica, di raccolta
delle opere e di curatela (attenta ed affettuosa) di e per lettori appassionati e non
ad una edizione singola. In entrambi i
casi l’operazione ci pare piuttosto spiccia
e poco “rispettosa” di quel genio che fu
José Saramago.
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PICCOLE ARCHITETTURE PER UNA GRANDE CITTÀ
di John Stammer
Lettera pubblicata sul blog
“Ciclostilato in proprio”
aro Robert tu mi chiedi notizie
del Nuovo Piano di Firenze. Da
quando ho iniziato, alcuni anni
orsono, dopo la mia intensa attività nel Regno Unito, ad occuparmi
delle vicende urbanistiche di una delle
città più belle e importanti dell’Italia,
ho scoperto che, in questo paese, bisogna sempre guardare dietro le parole.
Questa tua richiesta mi ha dato modo
di sperimentare anche su questo tema
la mia nuova attitudine. Ecco quindi
quello che ho scoperto.
Prima di tutto bisogna dire che Firenze
da molti anni, almeno dal 1993, ha
contenuto la sua espansione urbana;
non ci sono evidenti fenomeni di
sprawl urbano, e anche le periferie
hanno un assetto complessivamente
ordinato. Il primo tentativo di applicare
la nuova norma urbanistica regionale e
superare il Piano Regolatore Generale
del 1993 è datato 2001-2002 con la
prima amministrazione del sindaco
Leonardo Domenici. Il Piano Strutturale fu adottato nel 2004, quasi a fine
mandato, e il completamento delle
procedure di approvazione fu lasciato
alla amministrazione successiva. Tuttavia le nuove alleanze politiche e le
mutate condizioni politiche e anche
normative (proprio in quel periodo la
regione aveva prodotto importanti modificazioni alle norme urbanistiche)
consigliarono un percorso di ascolto
della città e di partecipazione dei cittadini che approdò in una lunga serie di
incontri pubblici che analizzarono il
Piano Strutturale del 2004 e ne determinarono una nuova versione che fu
adottata dal consiglio comunale nel luglio del 2007. Questa nuova versione
però non giunse mai all’approvazione
per le dimissioni dell’assessore all’Urbanistica a seguito di una inchiesta
della magistratura fiorentina che si risolse con l’assoluzione di tutti gli imputati dalle accuse di corruzione e
concussione, e per le conseguenze politiche di quella stessa inchiesta.
La nuova amministrazione nata nel
2009 sulle ceneri della precedente ha
ripreso il lavoro lanciando lo slogan
“piano a volumi zero”. Il nuovo piano è
stato approvato definitivamente nel
2011 e rappresenta di fatto una sostanziale continuazione delle politiche di
contenimento della espansione urbana
e della logica del costruire sul costruito
che avevano improntato le precedenti
versioni. Solo che ora si è fatto precedere agli atti tecnici gli slogan. Slogan
che in questo caso non danno esattamente conto della realtà degli atti.
Vediamo quindi nel dettaglio la situazione.
Già il PS 2007 era un piano di sostanziale contenimento della nuova edificazione (quasi a volumi zero con uno
slogan ora di moda) e prevedeva la crescita del 2,7% (in termini di S.U.L. Superficie Utile Lorda ) dell’intero
sistema urbano della città. Questo dato
comprendeva non solo le nuove previ-
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Lettera
a un piano
mai nato
sioni del PS ma anche le previsioni del
PRG vigente che venivano confermate.
Il Piano del 2011 recupera questa impostazione e la modifica solo in parte
laddove diminuisce la quantità di superficie utile lorda costruibile derivante dalle previsioni del PRG vigente.
Infatti non tutto quanto era già previsto dal PRG vigente viene recuperato
nel PS ma dei 235.773 mq di s.u.l. previsti dal vecchio Prg ne conferma
94.700. Quindi l’unica effettiva diminunzione è questa.
Per fare una comparazione volume-
trica a 100 mq di s.u.l. corrispondono
circa 300 mc.
Non si tratta come puoi ben capire di
un piano a “volumi zero” ma un piano
per dirla con Giuseppe Campos Venuti
(uno dei più autorevoli urbanisti italiani) a volumi “ragionevolmente contenuti”. Che è stata la filosofia del
nuovo Piano di Firenze già dal 2004 e,
a dire il vero, già dal 1993.
Un piano quindi che punta, come i
precedenti, al recupero dell’esistente e
al suo trasferimento da aree già sature
a aree meno sature con vantaggi sia per
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le prime sia per le seconde. Le prime
infatti recuperano spazi utili per i servizi pubblici e le seconde aumentano
la loro densità a vantaggio dell’efficacia
degli stessi servizi pubblici.
Per fornire alcuni numeri, che in urbanistica sono sempre interessanti e utili,
il dimensionamento totale del PS 2011
è di mq 1,307.000 di s.u.l. realizzabile,
di cui:
1.062.300 da recupero,
150.00 da trasferimento,
94.700 residuo del vecchio PRG
Per darti un’idea il PS 2007 aveva questi dati:
S.u.l. realizzabile mq 919.740 di cui
404.767 da recupero
279.200 da trasferimento
235.700 residuo del vecchio PRG.
In sostanza il Piano del 2011 “movimenta” un numero maggiore di volumi
diminuendo quelli di nuova edificazione a vantaggio di quelli derivanti dal
recupero.
C’è però un dubbio che non viene
sciolto dalla lettura del Piano 2011.
Infatti il Piano non conteggia fra queste
superfici oggetto di intervento di trasformazione, e quindi conteggiate nel
Piano, gli interventi che vengono definiti “ordinari” e non soggetti alla normativa delle aree di trasformazione e
conseguentemente conteggiabili nel
Piano.
Ora questi interventi non riguardano
solo, come era lecito aspettarsi, piccoli
interventi su singole abitazioni per sopralevazioni, ampliamenti di una
stanza o interventi di piccole dimensioni comunque riferibili alla singola
unità immobiliare che, naturalmente,
è logico non siano calcolate nel dimensionamento complessivo di un piano
generale. No, gli interventi che non
sono conteggiati riguardano interventi
fino a 2.000 mq di s.u.l. singolarmente.
Ora ognuno di questi interventi di
2.000 mq di s.u.l. risulterebbe significativo nell’ambito urbano della città di
Firenze. Per farti capire, caro Robert,
2000 mq si tradurebbero in circa 30
appartamenti, che in contesti delicati
come quelli che caratterizzano il sistema urbano fiorentino, può fare la
differenza fra una ordinata sistemazione urbana e una disordinata e di difficile gestione.
Inoltre, cosa ancora più complicata da
gestire, la scelta di dove allocare questi
interventi è lasciata alla discrezionalità
della redazione del Regolamento Urbanistico, che è stato recentemente
adottato dal Consiglio Comunale.
Quindi lo slogan ha avuto successo ma
la realtà dei fatti non corrisponde esattamente allo slogan.
Caro Robert come vedi in Italia bisogna sempre guardare dietro e dentro le
parole. L’italiano è una lingua bellissima ma complessa e spesso è utilizzata
per costruire cortine fumogene più che
ragionamenti chiari e limpidi.
Un abbraccio da Firenze dove il sole
splende nonostante le burrascose previsioni della vigilia della Pasqua.
Oh my dear Robert the weather is
changing.
I miei migliori saluti.
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L’
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ISTANTANEE AD ARTE
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ambiguità
di Laura Monaldi
[email protected]
L’
immagine è una categoria
ambigua, a metà strada fra
l’esperienza sensibile e il
concetto rappresentato: un
pathos intermedio in cui il soggetto
può essere mimesis del mondo, ma
anche trasfigurazione estetica personale, secondo una semiotica concettuale che nel mondo dell’Arte varia
da artista ad artista. Nel vasto orizzonte della pratica espressiva moderna l’immagine è autonoma, in
quanto chiasmo percettivo che si oppone fra il veduto e il vedente e in
quanto forma totale, concreta e presente agli occhi del fruitore, poiché
rinvia sempre a una forma di informazione e significazione che oltrepassa il dato sensibile.
In tale prospettiva Chiara Palmucci
non si appropria soltanto dell’immaginario moderno, quanto del concetto culturale e semantico che le
immagini del mondo moderno, passato e archetipico rievocano. Attraverso la fotografia coglie realtà e
riflessioni che l’occhio comune non
riesce a percepire, trasfigurandole in
nuove esperienze visive, lontane
dalla consuetudine di vedere e analizzare il mondo. Quelle dell’artista
sono opere ontofaniche, in cui l’oggetto rappresentato garantisce la manifestazione di un’operazione
cognitiva, intellettuale e dal forte impatto concettuale. Nelle sue opere –
serie artistiche di fotografie digitali,
pitture acriliche e installazioni – si
riassumono tutte le peculiarità delle
immagini, condensando nella propria sfera di esperienza e di rappresentazione tutte le funzioni
pertinenti alla percezione visiva, fondendosi con la particolare struttura
culturale della società contemporanea. Di conseguenza le immagini
estetiche – trasfigurate, curate, analizzate nei dettagli e nelle forme, tuttavia spersonalizzate e innalzate allo
stato aulico e sacrale di simboli e citazioni universalmente riconosciuti,
al fine di ribaltarne i valori già denigrati dalla contemporaneità – divengono autonomie privilegiate della
vita dello spirito umano, che ne rico-
di Chiara Palmucci
struiscono la forma ideale. L’attenzione creativa è
spostata nella direzione del lettore: sintesi comunicativa, espressione e capacità di lettura del messaggio dell’opera si trovano su un diverso piano
d’azione. La problematica della rappresentazione,
dell’interpretazione e della comunicazione moderna
è spenta a vantaggio della risonanza dell’immagine
sull’Io-fruitore, al quale non resta che meravigliarsi
e lasciarsi meravigliare dalle riflessioni emotivo-concettuali che ne conseguono.
In alto e qui a fianco opere tratte da Religiose, serie di
fotografie su dibond, 2012. Le opere sono parte di
una ricerca basata sull’iconografia classica, studiata,
approfondita e usata ad archetipo. La religione,
spesso lontana dalla società contemporanea, è resa
più vicina agli occhi dell’osservatore, più fruibile ed
immediata, adattata alla contemporaneità, ed esplicitata
Sotto un lavoro tratto da 1900’s, serie di fotografie digitali su dibond alluminico, 2010. La ricerca compone un’analisi sulla società contemporanea,
trasfigurando opere dell’arte moderna ritenute tradizionalmente fondamenti dell’arte.
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OCCHIO X OCCHIO
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di Danilo Cecchi
[email protected]
S
ono passati esattamente cento
anni dall’inizio della Grande
Guerra, quella del 14-18 che ha
cambiato il mondo, ha lasciato
decine di milioni fra morti e mutilati, regalandoci in cambio l’industria metallurgica, l’industria chimica, l’industria
aeronautica e quella automobilistica, oltre
all’elettricità, al telefono ed a qualche altro
giocattolo tecnologico, ed alla falsa speranza di un lungo periodo di pace. Nient,
a confronto di quello che ci ha lasciato la
guerra successiva (il nucleare, la missilistica, l’elettronica, il chewing-gum, i film
americani, etc.) ma all’epoca non si poteva
probabilmente chiedere di più. La Grande
Guerra segna per la prima volta un punto
di svolta, non solo per quello che ci ha lasciato, ma per il modo in cui è stata fotografata, per essere stata in assoluto la prima
vera guerra fotografata in maniera esauriente e dettagliata, non tanto e non solo
dai fotografi al servizio degli Stati Maggiori
o di quelli al servizio dell’industria dell’informazione giornalistica, ma dall’interno,
da parte degli ufficiali, dei sottoufficiali e
perfino da parte dei semplici soldati. Per la
prima volta nella storia delle guerre, le fotocamere sono diventate veramente tascabili, nonostante un formato di dimensioni
più che accettabili, ed hanno una certa autonomia di riprese su ogni rullo. Ma soprattutto possono essere utilizzate in
maniera discreta ed al di là di ogni barriera,
proibizione, controllo o censura. I rulli di
pellicola possono essere facilmente occultati, non sono fragili ed ingombranti come
le lastre dei professionisti che operano
nelle retrovie, e vengono fatte passare al di
fuori delle zone militarizzate, per essere
sviluppati o spediti a casa. Accanto ai documenti fotografici ufficiali si forma così
un archivio alternativo, in cui non si parla
di gloria o di vittorie, di avanzate baldanzose o di cariche impetuose, ma si parla
anche e soprattutto di dolore, di stanchezza, di sangue, fango, freddo, fame, lacerazioni e miseria. Se le immagini delle
guerre precedenti sono relativamente
poche e quasi sempre “posate” (come la
Crimea, la Secessione Americana, la Comune di Parigi, ma da noi anche il Risorgimento, fino alla breccia di Porta Pia)
quelle della Grande Guerra sono spesso
immagini autentiche, che mostrano i diversi volti della guerra. Dall’esibizione
trionfalistica degli armamenti più moderni, assunti come simbolo di una potenza economica e militare, ma anche
virile, alla raffigurazione di truppe perfettamente schierate, irreggimentate ed ordinate, dalla sfilata dei mezzi meccanizzati,
camion, autoblindi ed aerei, e dagli atteggiamenti fieri e sprezzanti del pericolo si
passa in pochi scatti allo sgomento dipinto
sui volti sotto il fuoco di sbarramento, alla
fragilità dei corpi ammassati nelle trincee,
al macello della carne dilaniata, ma anche
ai momenti di solidarietà e di complicità
fra commilitoni, all’instaurarsi di amicizie
destinate a durare forse solo fino al prossimo cannoneggiamento. La fotografia diventa anche un legame, un motivo di
avvicinamento. Si porta con sé la foto della
ragazza, della moglie o dei figli, la si mostra
Fotografando
la
Grande
Guerra
orgogliosi al compagno di trincea. Si scatta
o ci si fa scattare una foto da inviare a casa,
ci si fotografa insieme, a due o a tre, o a piccoli gruppi, e ci si promette a vicenda che
saremo comunque noi ad inviare la foto a
casa del commilitone, nel caso in cui ….
L’insicurezza ed il senso di precarietà vengono esorcizzati fissando la propria immagine sulla pellicola, lasciando una traccia
indelebile, fermando un momento che il
giorno dopo, o forse solo fra poche ore o
pochi minuti non sarà più possibile fermare di nuovo. Non per caso, negli anni
immediatamente successivi alla fine del
conflitto nascono, in Francia ed in Germania, le prime riviste illustrate con fotografie. Grazie (anche) alla Grande Guerra, la
fotografia diventa, dolorosamente, adulta.
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HO SCELTO LA TOSCANA
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di Annalena Aranguren
[email protected]
L
a prima cosa che colpisce in lei è la
bellezza: una bellezza esotica, tipicamente slava, statuaria. Credo che
nessuno vedendola camminare per
le strade di Firenze possa pensare che sia
italiana: eppure lei si sente “anche” italiana, il suo progetto di vita ormai è qui,
con il suo lavoro e la sua famiglia.
Anastasia Boldyreva è nata a Mosca ed
ha studiato canto lirico al Conservatorio
Tchaikovski. E’ stato dopo avere vinto tre
concorsi internazionali che è venuta a Firenze per un corso di perfezionamento
di MaggioFormazione, l’Accademia del
Teatro del Maggio Musicale Fiorentino.
Avevo vent’anni - racconta - e a Firenze
mi sono trovata subito molto bene ma,
una volta terminato il corso, ero pronta a
tornare a Mosca per terminare gli studi.
Quando…?
Quando, pochi mesi prima della partenza ho conosciuto un pianista, fiorentino nonostante il nome, Riccardo
Sandiford, e ci siamo innamorati. Sono
rimasta a Firenze, l’ho sposato e adesso
abbiamo due figli.
Non solo due figli, ma anche una carriera
lirica avviata nel nostro Paese sui palcoscenici dei Teatri d’Opera più importanti
della penisola, dall’ Arena di Verona al
San Carlo di Napoli, il Teatro Regio di
Torino e l’Opera di Roma.
Cosa ti piace di più nei fiorentini?
Il gusto delle battute, quasi sempre perfide. I primi tempi non le capivo e a volte
ci rimanevo anche male. Ma poi ho iniziato ad apprezzarle. Sono il sintomo
della sagacia fiorentina.
Cosa hai portato nel tuo cuore dal tuo paese
d’origine?
Anastasia
Boldyreva
Dalla
Russia
per
amore
La mia bellissima lingua madre. Continuo a leggere in russo, parlo in russo con
mia figlia che lo parla, lo legge e lo scrive
perfettamente. Amo le nostre tradizioni
e continuo a rispettarle anche qui a Firenze: vado nella Chiesa Russa di viale
Milton, preparo i piatti tipici della nostra
cucina, ai miei ospiti non manco mai di
offrire vodka e caviale. E anche nei programmi dei miei concerti, cerco sempre
di inserire qualche composizione russa.
Qual è la marcia in più dei fiorentini rispetto
ai russi?
I fiorentini sono più simpatici, sorridono
molto di più. E io li trovo anche disponibili e ospitali.
E il difetto che più ti disturba in loro?
Sono chiacchieroni e pettegoli.
Pensi che svolgere il tuo lavoro qui sia più
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semplice e più soddisfacente che non in Russia?
Quando ho lasciato la Russia, lavorarvi
come musicista era molto difficile. I cantanti erano pagati poco e c’erano poche
possibilità di lavoro. Forse adesso la situazione è migliorata, lo spero, ma non la
conosco tanto bene. Sicuramente anche
in Italia la situazione non è facile. E poi
gli italiani non sanno organizzarsi: questo
sì che in Russia funziona meglio! Il problema della disorganizzazione qui è
molto grave. Non credo di poter interpretare in altro modo, per esempio, i continui ritardi nei pagamenti delle proprie
spettanze.
Forse è anche la crisi… Hai rimpianti a
volte rispetto a questa tua scelta di vita?
No. Rimpiango solo di non aver provato
a vivere un po’ di tempo in altri paesi europei, nonostante le occasioni che mi si
sono presentate, e di non aver imparato
altre lingue. Ma questo non perché non
mi trovi bene qui ma perché sono curiosa di natura e mi piace provare esperienze diverse.
Sono più maschilisti i fiorentini o i moscoviti? Le donne sono più emancipate qui o
nel tuo paese?
Sono più maschilisti i fiorentini e le
donne sono più emancipate qui. Sembra
un controsenso ma è così.
Dici Firenze e pensi a....?
Michelangelo. Ma anche e soprattutto
alla mia famiglia e alla mia casa.
E se ti dico Russia a cosa pensi?
Ai miei genitori, ai miei amici. E a Putin.
Se una tua giovane amica russa ti dice che
vuole venire a vivere a Firenze, la sconsigli o
la incoraggi?
La incoraggio! Per avere un’amica russa
vicina: mi fa sempre piacere parlare in
russo e della Russia.
PASQUINATE
di Burchiello 2000
Domenico di Giovanni, detto il Burchiello, fu animatore di burle e di pungenti critiche con gli amici artisti del
XVI secolo e artista anch’egli. Restò
profondamente apprezzato nell’amicizia
Ieri, 2 luglio 2014, in visita alla Villa
di Poggio a Caiano sono stato assalito da una rabbiosa riflessione.
Da decenni ci dibattiamo sul difficile
equilibrio tra tutela e valorizzazione
dei beni culturali, cerchiamo di curare le pievi più lontane e le testimonianze meno note (ma importanti) ,
anche nella prospettiva di una più
equilibrata fruizione del patrimonio
artistico. Nella fattispecie – quella
delle ville “medicee” - con studi mirati e appassionati, si è ottenuto il riconoscimento Unesco di “beni
dell’umanità” e sarebbe dunque legittimo poterne constatare la presenza
almeno di una quota di flussi del turismo colto . Invece no! Non è così,
nonostante i dépliant, i poster, gli annunciati circuiti alternativi. Una villa
come quella di Poggio a Caiano resta
deserta per intere giornate. Non va
bene. C’è qualcosa di profonda-
Il deserto a mezzogiorno in Villa
mente sbagliato in chi orienta e organizza il turismo. Se penso che nello
stesso momento bisogna farsi largo a
gomitate per attraversare Ponte Vecchio mi viene naturale indignarmi.
Ma davvero il turismo d’arte è in
mano ad una mercatura volgare che
finirà per autodistruggersi? Mi
chiedo davvero che cosa facciano gli
uffici provinciali e territoriali in genere per correggere tanta distorsione. Sono decenni, appunto, che si
invocano – itinerari alternativi e continua ad accadere che in una bella
mattina di fine luglio la Villa Medicea di Poggio a Caiano non abbia un
visitatore!
A questo punto dovrebbe rendersi
obbligatoria una programmazione
territoriale. Certo, si tratta di conciliare la legittima personale scelta turistica con la capacità ricettiva e la
qualità dell’alternativa ! Ma proprio
qui c’è lo spazio per “orientare” argomentativamente il turismo d’arte: il
Pontormo prospettato nella mostra
di Strozzi ha un’alternativa di non
poco conto nei saloni della villa del
Poggio; il fregio robbiano e Giuliano
da Sangallo meritano sicuramente il
viaggio. Perché non organizzare visite quotidiane con navette alle ville
medicee?
Con la la legge regionale 65/2010
sono state abolite le APT (Aziende
di Promozione Turistica) e le IAT
(Informazione Accoglienza Turistica), facendo convergere e rimandando il tutto a InfoPoint: col
risultato che cliccando su codesto
punto informativo si è “aggiornati”
all’8 maggio 2013!
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PECUNIA&CULTURA
di Barbara Setti e Simone Siliani
twitter @Barbara_Setti e [email protected]
I
l tormentone estivo sui beni culturali
quest'anno è stata la querelle sul prestito dei due Bronzi di Riace per
l'Expo di Milano (e più in generale la
questione dei prestiti e degli spostamenti
di opere d'arte). Protagonista Vittorio
Sgarbi e i vari soggetti “prestanti” che
hanno incrociato i ferri in duelli all'ultimo
sangue, con godimento massimo dei cronisti. Dunque, per il critico ferrarese, diremmo obiettivo raggiunto. Così, dopo lo
scontro con i calabresi contrari al prestito,
sono scesi in campo Salvatore Settis (paladino della competenza tecnica della Soprintendenza ad esprimersi sulla
trasportabilità delle opere), Filippo Del
Corno (assessore del Comune di Milano,
contrario all'ingerenza regionale), Bruno
Zanardi (favorevole ma a condizione di
una politica di tutela chiara, razionale e
coerente), Philippe Daverio (con la salomonica proposta di portare un Bronzo a
Milano, lasciando l'altro in Calabria) e ovviamente Maroni. Poi dopo i Bronzi è stata
la volta de l'Ortolano dell'Arcimboldo, richiesto in prestito da Sgarbi e negato dal
sindaco di Cremona Galimberti. Poi la polemica di Sgarbi sulla mostra dei “disegnini” di Leonardo (organizzata dal
Comune, of course). Infine, la richiesta di
prestito della Venere di Botticelli, per la
quale Sgarbi sarebbe in trattativa. Sembra,
dunque, che il dibattito italiano sui beni
culturali e l'EXPO sia materia da ditte di
traslochi. D'accordo, è deprimente e qui
non vogliamo cadere nella trappola di
schierarci da una parte o dall'altra. Poniamo una questione che dall'EXPO può
benissimo diventare di carattere generale:
perché è così escluso dall'orizzonte della
politica italiana sui beni culturali il concetto dell'investimento nelle infrastrutture
per la cultura? Sembra passata un'epoca
geologica da quando, con l'occasione delle
Olimpiadi invernali, la città di Torino (in
sintonia con la Regione Piemonte, il Ministero, la Camera di Commercio, Confindustria e tutti gli altri stakeholders) decise
un programma di investimenti di lunga
durata per rinnovare completamente le infrastrutture per la cultura della città, scommettendo sul fatto che questo
investimento avrebbe mutato l'asset produttivo ed economico della città (e trainato quello della Regione). Così furono
realizzati nuovi musei (quello del cinema
nella Mole), rinnovati altri (l'Egizio), trasformate strutture industriali fatiscenti in
teatri, restaurata e riaperta Venaria Reale,
ristrutturate biblioteche e archivi, restaurati e riaperti al pubblico palazzi storici,
realizzati nuovi spazi per la creazione artistica contemporanea. Si è trattato di un
programma di investimenti pluriennale,
che ha attraversato diverse amministrazioni di colore politico anche diverso, non
legato alla riscossione immediata di consenso di questo o quel politico o direttore
artistico. Vi sono studi che dimostrano
l'impatto economico ed occupazionale nel
tempo di questo investimento. Una pratica
della programmazione pubblica, non fondata sul progetto puntuale e limitato, bensì
teso a creare un sistema; un programma
politico non ossessionato dalla creazione
Tormentoni
estivi
dell'evento e neppure dalla formula della
gestione (che pure è stato problema affrontato, ma a fronte dell'investimento.
Ecco, a me pare questo l'esempio – ancora
ineguagliato – di una corretta interpretazione del ruolo dell'ente pubblico nell'ambito della cultura, della sua relazione con
il privato e con il territorio, dell'utilizzo intelligente di grandi flussi finanziari, capace
di tenere insieme tutela e valorizzazione,
conservazione e innovazione. L'esatto opposto del modello EXPO Milano. Riflettere su questa dicotomia è importante,
non per stigmatizzare la gestione del presente, ma per dire che un altro modello è
pure possibile e non lontano geograficamente e temporalmente da noi, tutto sommato. Lo dico perché il Domenicale del
Sole 24 Ore del 24 agosto ha dedicato
un'intera pagina al tema “Cultura e sviluppo” con articoli, seppure interessanti,
dimentichi di questa esperienza. Infatti
Angelo Varni recensisce la nuova edizione
del volume “Una politica dei beni culturali
di Andrea Emiliani che torna il libreria
dopo 40 anni per i tipi della Bonomia University Press. Testo fondamentale e che
Varni reclama ancora attuale, ma con la
premessa che molte speranze di quegli
anni lontani si sono esaurite, come quella
del ruolo programmatorio delle Regioni,
del collegamento tra sviluppo economicosociale del Paese e l'investimento sulla cultura o quella “di una tensione conoscitiva
dei beni presenti nelle diverse realtà territoriali, da far confluire negli interventi e
nelle scelte dei gruppi dirigenti”. Beh, proprio di questo ci parla l'esperienza torinese
e del suo contrario quella milanese. Ma,
per riconoscere queste realtà, bisogna
saper distinguere il grano dal loglio.
Così, nella stessa pagina, Roberto Grossi,
presidente di Federculture, individua nelle
soluzioni da dare al problema della ge-
stione e, dunque, della valorizzazione, la
formula per risolvere il nodo dei beni culturali. I passaggi da fare evidenziati da
Grossi sono due: gestione autonoma per
un'offerta culturale moderna ed efficiente
e favorire l'affidamento di siti culturali e di
reti territoriali alle imprese e al privato sociale. Soluzioni nel merito assolutamente
condivisibili, soprattutto se attuate – come
dice Grossi – con una rigorosa programmazione culturale pubblica; ma neppure
qui si affronta il tema dell'investimento
(pubblico, soprattutto, ma anche privato)
per rinnovare e ampliare l'infrastrutturazione culturale. Musei, biblioteche, archivi, teatri, luoghi di cultura hanno
bisogno, continuamente e programmaticamente, di investimenti non solo per la
tutela dei beni, ma anche per le infrastrutture tecnologiche, la realizzazione e la manutenzione dei contenitori, il recupero e il
riutilizzo di immobili storici o di archeologia industriale per destinarli alla fruizione culturale, la costruzione di nuovi
contenitori. Tutto questo non può essere
dato per scontato, non deve essere sottovalutato (giacché non sempre una migliore gestione sopperisce a infrastrutture
assenti, inagibili o inadeguate), né dimenticato: come un sistema di infrastrutture
di trasporti ha continuo bisogno di essere
innovata per mantenersi in efficienza (indipendentemente dal suo gestore), questo
vale anche per il sistema delle infrastrutture culturali. Anche per quelle storiche.
Basti pensare, ad esempio, all'ampliamento del più storicizzato dei nostri musei
– gli Uffizi di Firenze – che era un'occasione (perduta? O ancora non colta complessivamente?)
per
cambiare
profondamente la funzione stessa di quel
museo. Ecco, anche da parte di chi come
Federculture rappresenta soprattutto la
gestione dei beni culturali, il tema degli in-
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vestimenti non può essere bypassato. Perché è l'investimento che lascia traccia stabile anche nella valorizzazione dei beni
culturali (che è il punto debole della riforma prospettata da Franceschini: la separazione fra tutela e valorizzazione),
anche se a differenza dell'eventificio, lascia
poco tempo per sognare.
E così arriviamo al terzo articolo della pagina del Sole 24 Ore, quello di Patrizia
Asproni che invoca, insieme a Gilberto
Gil, la possibilità di sognare grandi cambiamenti, innovazioni fondate sul merito
e sulle competenze, rivoluzionare “il regno
decadente delle clientele” E chi non è d'accordo? Neppure i regnanti del regno decadente summenzionato, che anzi si
proclamano grandi rivoluzionari proprio
in nome del merito. Patrizia Asproni in realtà sostiene che per compiere questa rivoluzione si debba togliere dalle mani
della politica una programmazione culturale che impegna “risorse pubbliche senza
che vi sia alcuna testimonianza della loro
capacità di lasciare un segno sul territorio,
anche in termini economici e occupazionali”. L'obiettivo è la politica tout-court,
non una politica ritenuta sbagliata sui beni
culturali: c'è una sorta di sfiducia definitiva
sul ruolo che la politica può rivestire in
questo settore. “E' pensabile oggi che linee
strategiche per la cultura siano espressione
esclusivamente politica? E parlo non a
caso di linee strategiche piuttosto che di
posizioni decisionali tout-court, in cui
l'esperienza (e la visione) politica è ben accetta laddove si accompagni alla competenza tecnica e, mi spingo a dire, alla
conoscenza della realtà”. C'è un pregiudizio sulla politica in sé, incapace di comprendere la realtà, e di contro un
affidamento totale sulla competenza tecnica che sarebbe invece in grado di capire
e poi di guidare la politica nelle decisioni,
con una perdita totale dell'autonomia della
politica stessa. Ma, anche volendo accedere a questa lettura delle cose, ci sarebbe
da mettersi d'accordo su chi stabilisce chi
è competente e chi no, perché anche nel
mondo delle competenze vi sono guerre
spietate, delegittimazioni reciproche, polemiche furibonde. E poi, come e chi stabilisce che una data lettura tecnica della
realtà sia quella giusta rispetto alle tante
altre che le si contrappongono? Il fatto è
che in conflitto fra politica e tecnica non è
semplice come lo si è qui rappresentato.
Come del resto molte altre cose. Sempre
Asproni, ad esempio, parla del “ministero
della cultura popolare” come di una mostruosa macchina del controllo cui durante il fascismo era affidata la propaganda
pro regime, fatto indubbiamente vero; ma
lo è altrettanto che proprio durante quel
ministero fu fondato, ad esempio, il Maggio Musicale Fiorentino o costruita la stazione ferroviaria del gruppo Michelucci o
realizzati la Biennale dell'Arte o i Littoriali
della Cultura e dell'Arte (che non furono
solo propaganda, ma anche fucina di talenti e luogo di un certo dibattito culturale). Le cose, anche in questo XXI secolo,
sono segnate per lo più dalla complessità.
Anche la politica lo è. Il caso dell'esperienza torinese dimostra che non è la politica in quanto tale a deprimere la cultura:
si può scegliere, e la scelta non è neutra, fra
investire in cultura e occuparsi di traslochi.
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LUCE CATTURATA
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di Sandro Bini
www.deaphoto.it
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Firenze 2008-2013 Itinerari notturni
Sandro Bini - Florence Night Movida (2011)
Florence Night Movida
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MUSICA MAESTRO
di Alessandro Michelucci
[email protected]
La cultura catalana non coincide
con la Catalogna, ma comprende
anche territori situati in altre parti
della Spagna (soprattutto Baleari e
Valencia), il principato di Andorra,
la città di Alghero (Sardegna) e il dipartimento dei Pirenei Orientali
(Francia sudorientale). Questa premessa era necessaria per introdurre
due musicisti catalani, Pau Riba e
Pascal Comelade, il primo maiorchino e il secondo originario di
Montpellier.
I due artisti non sono coetanei Riba è nato nel 1948, Comelade nel
1955 - e hanno vissuto in paesi diversi, sebbene il secondo abbia vissuto per alcuni anni a Barcellona.
Sono diversi anche in termini musicali: in modo approssimativo, il
primo può essere definito un poetacantautore, il secondo un musicista
sperimentale. Eppure hanno una
qualità importante che li accomuna:
il gusto per l’insolito e la capacità di
muoversi con estrema disinvoltura
nei contesti musicali più diversi.
Riba ha conosciuto gli anni bui
della dittatura franchista, per la
quale il catalano, come le altre lingue minoritarie (basco e galiziano)
era un nemico mortale. L’artista
maiorchino, quindi, è cresciuto in
un ambiente dove l’uso della lingua
autoctona aveva un significato poli-
Anomalie catalane
tico ben preciso. Attivo dalla fine
degli anni Sessanta, quando guidava
il Grup de Folk, è stato impegnato
in vari progetti artistici e sociali. Nel
1975 partecipò al primo festival
Canet Rock, una sorta di Woodstock catalana realizzata pochi mesi
prima della morte di Franco.
Comelade, al contrario, ha esordito
nel 1975 con l’LP Fluence.
Inizialmente orientato verso l’elet-
tronica, ha optato poi per una musica più melodica, ma non nel senso
che si associa generalmente a questo aggettivo. Affiancando alle normali tastiere vari strumenti
giocattolo, ha realizzato dischi dove
le composizioni originali si alternano a versioni anomale di brani altrui. Nel 1983 ha fondato un
gruppo a geometria variabile, la Bel
Canto Orquestra. Inoltre ha colla-
borato con i musicisti più diversi:
da Lluís Llach a PJ Harvey, da Richard Pinhas a Robert Wyatt.
Negli ultimi anni i due artisti si
sono accorti che le rispettive strade,
pur essendo così diverse, stavano
per incrociarsi. Così hanno deciso
di collaborare: il frutto è il CD Mosques de colors (Discmedi, 2013). Il
disco contiene undici brani composti insieme. Il materiale è tutto inedito, tranne “Taxista”, che nel 1967
segnò l’esordio di Riba.
“Els teus somriures”, “La bruixa del
matí” e “Virtuosa harmonia” sono
brani melodici e intimisti, ma mai
convenzionali e leggeri. “On y va”,
unico brano cantato in francese, richiama certe vecchie chansons transalpine.
Versatili e geniali, i due suonano
vari strumenti (piano, marimba,
viola, fisarmonica, etc.), accompagnati da una decina di musicisti. Le
parti vocali sono affidate a Riba.
Il risultato è un disco piacevole,
ricco di sfumature e di passione musicale autentica.
Visto che oggi si parla tanto di Europa, forse è venuto il momento di
ascoltare anche artisti come questi,
che vivono e lavorano a poche centinaia di kilometri da noi, ma che finora abbiamo ignorato. Sarebbe il
primo passo per liberarsi del conformismo anglocentrico nel quale
siamo cresciuti.
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SÌ, VIAGGIARE
di Remo Fattorini
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accalà, stoccafisso e salmone. Poi,
dal 1960, è arrivato anche il petrolio e il gas. Aggiungete a tutto
questo migliaia di incantevoli
laghi, fiordi senza fine, paesaggi magici,
acqua cristallina, silenziosi silenzi, montagne a picco sul mare, prolungati tramonti
dai mille colori e un clima che in una sola
giornata ti fa vivere tutte e quattro le stagioni. Ecco, tutto questo è la Norvegia,
uno dei paesi con il reddito pro capite più
alto al mondo, con notti luminose d'estate
e giornate buie d'inverno.
E non sarà certo un caso se i norvegesi
amano dire: "Puzza di pesce, puzza di
soldi". E se lo stesso Steinar Larsen, gestore
del museo dello stoccafisso nel caratteristico villaggio di pescatori di A, nelle isole
Lofoten, ci dice, scherzando ma non
troppo: "Qui d'inverno si pescano i merluzzi e d'estate i turisti, questa è la nostra
fortuna e la nostra ricchezza".
Ed è qui, nella parte Nord di questo paese
che, insieme ad altri 15 avventori messi assieme da Viaggi nel Mondo, ho trascorso
due settimane vagabondando di villaggio
in villaggio, di fiordo in fiordo, compreso
un pezzo di Lapponia finlandese e svedese.
Capo Nord, l'arcipelago delle Vesteralen e
poi ancora quello delle Lofoten sono i luoghi che hanno alimentato emozioni e suggestioni, rendendo più duraturi i ricordi.
Tante le cose che mi (e ci) hanno colpito
e che ricordo con piacere e un pizzico di
invidia nei confronti di quanti hanno la
fortuna di vivere in questi luoghi o - meglio ancora - di frequentarli.
Partirei dalla cattedrale artica di Tromso,
l'unico edificio moderno che valga la pena
di visitare. Assomiglia ad una grande
tenda, composta da una serie di triangoli
che prima si restringono (in altezza e larghezza) e poi si allargano, un'architettura
originale e luminosa, completamente
bianca tanto da assomigliare ad un iceberg.
E poi uno dei simboli di questa terra, i
Robur, le tipiche abitazioni dei pescatori
costruite fin dal 1120, composte, allora, da
due stanze, una per gli attrezzi e l'altra per
dormire. Vere e proprie palafitte di legno
appoggiate sulle rocce delle scogliere o direttamente sul mare, trasformate oggi in
comode abitazioni per turisti, con ampio
leaving, angolo cottura, due camere con
letti a castello e un bagnetto. Accoglienti,
comodi, caldi e soprattutto suggestivi, vicino ai porticcioli, nelle tante insenature,
in luoghi panoramici che rispecchiano
tutta la loro vanità nelle acque trasparenti
dei fiordi.
Mi piace poi ricordare, non in ordine d'importanza: il silenzio norvegese, stimolante
e conciliante. La luce che non ti abbandona mai. Il giardino botanico tutto fiorito
di Tromso. Il bancario in pensione di
Bodo, conosciuto sul traghetto che attraversa l'Ullsfjordes, in viaggio verso la sua
casa di "campagna" vicino ad Olderdalen,
ma che nei mesi invernali emigra alle Canarie per non "rimanere in Norvegia a spalare neve". Il signore che alcune centinaia
di km sopra il circolo polare artico, a dimostrazione di come e quanto sta cambiando il clima, annaffiava il giardino
intorno alla sua casa, mentre da noi in Ita-
Il Grande Nord
lia imperversavano temporali e alluvioni.
Il ravvicinato faccia a faccia tra montagne
e mare, con le onde che accarezzano le betulle e i prati di mirtillo come spiaggia. I rigorosi limiti di velocità - per noi assurdi
anche se rispettai - le strade senza traffico,
pianeggianti e monotone. I fantastici campeggi con i loro accoglienti bungalow e le
loro cucine collettive. Alta, la città che non
è una città, ma la somma di tre paesi associati, con i suoi graffiti di Hjemmeluft, la
cave di ardesia, gli allevamenti di pesce
pregiato e dove, grazie al clima mite che
pervade l'intero Altafjord, consente la coltivazione di cereali, anche a queste latitudini. Il grande Canyon Huskies, raggiunto
dopo un piacevole trek di 5 ore, andata e
ritorno: che ha rallentato il viaggio e ci ha
fatto entrare in contatto con i tesori di questa terra.
E finalmente, Nordkapp, uno sperone
roccioso che sprofonda nell'oceano;
l'estremo punto più a Nord d'Europa, con
il suo globo metallico che segna il punto
più basso raggiunto dal sole a mezzanotte
e poi la costruzione a cupola, in gran parte
sotterranea, del Nordkapphall che ospita
un po' di tutto. Unico rammarico non aver
avuto il tempo per uno dei trek, forse, più
suggestivi (tra anda e rianda 5 ore di cammino) fino all'estrema punta di terra che
affonda dolcemente nell'oceano. Il paesaggio quassù è d'avvero particolare. Siamo
arrivati di sera, verso le 22.30, con pioggia,
nebbia e un vento fortissimo. La mattina
il clima era piacevole, il sole riscaldava l’aria
e l’ondulata tundra attraversata da branchi
di renne.
A Nordkapp, proprio sotto il globo, incontriamo una ragazza speciale: Claudia che
dalla sua città, Varese, è arrivata fin qui da
sola in bici: 5mila km in 45 giorni, pedalando 10 ore al giorno. "Lo faccio perché
viaggiare in bici è bello - ci ha detto - si conoscono i posti, si vedono e si sentono
molte più cose, compreso i canti delle balene, si entra in sintonia con i luoghi che si
attraversano e tutto diventa ancora più
calmo". La salutiamo tutti con ammirazione e un pizzico di invidia.
E poi la Lapponia. Dove è tutto un’alternarsi di silenzi e monotonia, con renne,
boschi e, anche qui, soffici tappeti di borraccina, mirtilli, licheni e tanti funghi. Una
terra, questa dei Sami, dove per 70 giorni
non esiste la notte e per altri 50 scompare
il sole.
Ci fermiamo in un albergo speciale, un ex
edificio scolastico convertito al turismo,
sulle rive di uno dei tantissimi laghi con
acqua a 21 gradi, canoe e barche a disposizione e un pontile dove prendere il sole.
Salta il previsto trek a favore di un bagno
e di gite in barca sul lago. Un posto magnifico che sono in un pomeriggio ci regala
di tutto: da un sole mediterraneo ad un
improvviso temporale con rovesci, fulmini, vento e freddo, poi l'arcobaleno,
senza farci mancare un tramonto di quelli
che non si scordano mai.
Arriviamo in Svezia, nella città mineraria
di Kiruna, dove c'è la più grande miniera
di ferro d’Europa, di proprietà statale, con
gallerie fino a 9 km e l'escavazione ferma
a 900 metri di profondità. Hanno svuotato il sottosuolo tanto che una parte della
città sta sprofondando. Ma nessuno - ci
raccontano - si dispera. C'è un progetto
per spostare il paese, la ferrovia e la strada.
Alcuni di noi visitano la miniera, gli altri
faranno un trek di 7 km nel vicino parco
nazionale di Abisko.
Rientriamo in Norvegia, si pernotta nel
bellissimo camping Tjldsundbrua, con i
cottage affacciati sull'omonimo stretto. Ad
accoglierci una spiaggia bianca di conchiglie consumate dal mare e un tramonto
coloratissimo. Tutti, compreso l'imperturbabile Jacopo, si scatenato a fare foto.
Si arriva così alle affascinanti isole Vesteralen. E si trascorre una giornata piena di
emozioni tra villaggi, calette, laghi, montagne a picco sul mare e una luminosità
fantastica che esalta colori e trasforma l'acqua in uno specchio. L’obiettivo è il villaggio gioiello di Sto. Da lì partiamo per un
breve trek lungo oceano e poi scavalchiamo una forcella che si inerpica per
170 metri. In cima il paesaggio è uno vero
spettacolo. Scendendo si arriva nel piccolo porticciolo di Niksund dove ci
aspetta un vero marinaio norvegese, alto,
barba bianca, sguardo dolce e mani grandi
come una morsa che, con il suo gom-
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mone, ci riconduce in poco meno di mezz'ora a Sto. A bordo è una vera e propria
apoteosi.
Di avventura in avventura. Ci spostiamo
a Stokmarkenes, visitiamo il simpatico
museo Hurtigruten. A seguire un picnic
lungo mare, appena fuori del paese. Poi si
salpa sulla Midnatsal con destinazione
Svolvaer attraverso stretti fiordi e numerosi isolotti. Un'esperienza da non perdere.
Il bello arriva quando si imbocca lo strettissimo Trollfjord, lungo 2 km, largo appena 100 metri con la nave che accarezza
le rocce.
Arriviamo così alle Lofoten. In uno dei
porticcioli più suggestivi di questo arcipelago: Nusfjord con i suoi rubor dell'Ottocento ben conservati, dove l'odore di mare
si mescola con quello del merluzzo. Bastano pochi minuti per cogliere l'essenza
di questo luogo con bracci di mare tra le
rocce, il verde della vegetazione, le casette
rosso pompei, barche, pescherecci e i camminatoi di legno. Facciamo una puntata a
Sud nel villaggio di A, visitiamo il museo
del merluzzo, andiamo nel vecchio forno
(vale la pena per le pastarelle alla cannella
e il pane integrale, fatto e cotto come una
volta). D'obbligo una visita ai villaggi di
Moskenes, Reine e Hammoy. Proprio da
queste parti, nel 1432, naufragò un veneziano, Pietro Querini. I sopravvissuti si
trovarono talmente bene che si fermarono
per 4 mesi. L’ospitalità fu un vero paradiso
tanto che i marinai si imparentarono con
le donne del luogo dando vita al "tipo
bruno norvegese". Nell’isola di Rost c’è un
cippo in onore di Querini che avviò il
commercio di baccalà e merluzzo con
l'Italia. Tutt'oggi l'80% di questa produzione finisce proprio a casa nostra, in Italia.
Il giorno dopo parte del gruppo si mette
in viaggio verso Andenes per partecipare ad un whale safari, mentre il resto sceglie un trek lungo il suo il roccioso
promontorio di Nusfjord. Un modo per
approfondire la conoscenza e prolungare
la permanenza in questo angolo di paradiso. Ci ritroveremo la sera nel camping
vicino all’austero faro di Andenes, a due
passi dal porto.
La mattina ci imbarchiamo alle 8.30. Iniziamo così, sotto la pioggia, il viaggio verso
la fine di questa avventura: Tromso, e da
lì l’aereo per Oslo e poi l’Italia.
A tutto questo c'è da aggiungere il valore
di viaggiare insieme a persone sconosciute, conviverci h24, decidere con loro
come organizzare le giornate: programma, colazioni, pranzi e cene. E’
un’esperienza che stimola l'ascolto, la capacità e disponibilità a guardare le cose
non solo in base ai propri interessi ma
anche con occhi e interessi degli altri.
Infine, una breve valutazione sul viaggio:
consiglierei di dedicare più tempo ad alcuni luoghi, tagliando un pezzo di percorso, rallentando così la velocità a favore
di un contatto più approfondito con i luoghi più suggestivi e interessanti.
Brava la Laura Fossi, coordinatrice del
gruppo, che non solo ha saputo evitare
conflitti e tensioni, ma è riuscita a farci
convivere per ore e ore stipati come sardine in quattro auto, a non farci litigare e
persino a far nascere amicizie e simpatie.
Evviva.
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TEMPO PERSO
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di Stefano Vannucchi
“W
Johnny Turk he was ready, he primed
himself well
He chased us with bullets, he rained us
with shells
And in five minutes flat he’d blown us all
to hell
Nearly blew us right back to Australia
But the band played Waltzing Matilda
As we stopped to bury our slain
We buried ours and the Turks buried
theirs
Then we started all over again
[email protected]
altzing Matilda” in
Australia è un secondo inno nazionale. La storia
originale è quella di uno “swagman”, un
lavoratore itinerante, che ruba una pecora e, per sfuggire alla polizia, cade in
un “billabong” (laghetti creati da fiumi
in secca) e affoga.
Gli swagmen erano soprattutto tosatori
di pecore. Giravano per lo più a piedi
portando lo “swag”, una coperta arrotolata con dentro tutte le loro cose, dietro
la schiena.
Il motivo originale probabilmente
prende spunto da un episodio avvenuto
durante i giorni del violento sciopero
dei tosatori nell’Australia occidentale
del 1894.
“Waltzing Matilda” (“Matilda balla il
valzer”) fu cantata dalle truppe australiane mandate al massacro a Gallipoli,
in Turchia, durante la I guerra mondiale
(episodio narrato da Peter Weir in “Gallipoli”).
“Waltzing” deriva dal tedesco “auf der
walz” (“vagabondare”). “Matilda” era il
nomignolo dato allo swag.
In tedesco venivano chiamate “Matilda” (da Mechthild, “donna da battaglia”) le donne che seguivano i soldati
in guerra e passò ad indicare l’uniforme
grigia e il fagotto.
“And the Band Played Waltzing Matilda” è stata scritta dal folk singer e autore scozzese Eric Bogle nel 1971 e
riproposta da molti artisti fra i quali
Joan Baez, The Dubliners, Midnight
Oil, The Irish Rovers, Pogues.
Il 28 Luglio 1914, con la dichiarazione
di guerra dell’Impero austro-ungarico
al Regno di Serbia, aveva inizio la I
guerra mondiale. “And the band played
waltzing Matilda” unisce come solo la
Poesia sa fare il dolore e lo straniamento
del soldato e del reduce che ebbero la
vita sconvolta da un conflitto che cambiò per sempre il mondo. Un piccolo
omaggio a chi, spesso senza sapere e capire, venne travolto dalla tempesta.
When I was a young man I carried my pack
And I lived the free life of a rover
From the Murrays green basin to the dusty
outback
I waltzed my Matilda all over
Then in nineteen fifteen my country said
Son
It’s time to stop rambling ’cause there’s
work to be done
So they gave me a tin hat and they gave
me a gun
And they sent me away to the war
And the band played Waltzing Matilda
As we sailed away from the quay
And amidst all the tears and the shouts
and the cheers
We sailed off to Gallipoli
How well I remember that terrible day
How the blood stained the sand and the
water
And how in that hell that they called Suvla
Bay
We were butchered like lambs at the slaughter
And
the band
played
Waltzing
Matilda
Now those that were left, well we tried to
survive
In a mad world of blood, death and fire
And for ten weary weeks I kept myself
alive
But around me the corpses piled higher
Then a big Turkish shell knocked me arse
over tit
And when I woke up in my hospital bed
And saw what it had done, I wished I was
dead
Never knew there were worse things than
dying
For no more I’ll go waltzing Matilda
All around the green bush far and near
For to hump tent and pegs, a man needs
two legs
No more waltzing Matilda for me
So they collected the cripples, the wounded, the maimed
And they shipped us back home to Australia
The armless, the legless, the blind, the in-
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sane
Those proud wounded heroes of Suvla
And as our ship pulled into Circular
Quay
I looked at the place where my legs used
to be
And thank Christ there was nobody waiting for me
To grieve and to mourn and to pity
And the band played Waltzing Matilda
As they carried us down the gangway
But nobody cheered, they just stood and
stared
Then turned all their faces away
And now every April I sit on my porch
And I watch the parade pass before me
And I watch my old comrades, how proudly they march
Reliving old dreams of past glory
And the old men march slowly, all bent,
stiff and sore
The forgotten heroes from a forgotten war
And the young people ask, “What are they
marching for?”
And I ask myself the same question
And the band plays Waltzing Matilda
And the old men answer to the call
But year after year their numbers get
fewer
Some day no one will march there at all
Waltzing Matilda, Waltzing Matilda
Who’ll go a waltzing Matilda with me
And their ghosts may be heard as you pass
the Billabong
Who’ll go a waltzing Matilda with me?
ODORE DI LIBRI
di Michele Morrocchi
twitter @michemorr
ndrea Minuz è un brillante critico cinematografico che insegna a La Sapienza che ha pubblicato da poco
“Quando c’eravamo noi. Nostalgia e
crisi della sinistra nel cinema italiano da Berlinguer a Checco Zalone” disponibile solo in e-book per
l’editore Rubbettino. Libello breve
ma non minuto sul rapporto tra cinema e quella sinistra da terrazza romana che ha coinciso, almeno
durante la seconda repubblica, col
pantheon culturale del PCI-PDS-DS
e in parte PD, spesso tramite il patrocinio di Walter Veltroni. Minuz
racconta la trasposizione, con le modalità mutuate dal melodramma,
della crisi del cinema italiano nella
crisi della sinistra, tanto da sovrapporle e farle coincidere. Una tesi ben
argomentata, ricca di citazioni da
film, romanzi e saggi che hanno caratterizzato quella stagione, dagli
anni ’80 all’oggi, che però l’autore finisce per far coincidere con la totalità della produzione
cinematografica italiana e con la totalità della sinistra italiana; mettendo, anche, sullo stesso piano (o
almeno molto vicini) Nanni Moretti, Paolo Virzi, Valter Veltroni (in
qualità di regista) o Roberto Andò.
C’è stato però in quegli anni un cinema diverso (oltre il dualismo “di
regime” tra cinema de sinistra e cinepanettoni) e c’è stata una sinistra
La sinistra al cinema
da Berlinguer
a Zalone
non (post)comunista seppur entrambi minoritari e schiacciati dagli
estremismi convergenti. Minuz ha il
pregio di mostrarci i difetti, gli stereotipi di un club (piuttosto numeroso bisogna darne atto), di un
ambiente che è stato sicuramente
prevalente, egemone, nella rappresentazione e nel rapporto con la politica (il partito) e ha goduto di
vantaggi (anche economici) per
questi rapporti. Un club capace di
inglobare e anestetizzare quelli che
da outsider vi finiscono in mezzo. E’
il caso di Virzì, per esempio, citato
da Minuz per “Ferie d’Agosto” (dove
è ancora presente la carica di autoironia verso quel mondo rappresentata dalla battuta “voi intellettuali
non ci state a capì più un cazzo, ma
da mo’”) che dal film più “politico”,
definito, “La bella vita” e finisce poi
a dirigere “Tutta la vita davanti”, film
decisamente integrato al club sopra
descritto.
Il rischio su cui è sempre in bilico il
volume (e in cui invece cade molto
più spesso il Minuz pubblicista)
è quello di finire per rendere ancora
più egemone il dualismo che il libello vorrebbe smascherare quello
tra Berlinguer e Zalone, per stare al
sottotitolo, mostrandoli come avversari e non, pannellianamente, come
“soci”, parti opposte necessarie l’una
all’altra; finendo così per far interpretare all’autore il ruolo dell’intellettuale controcorrente, che però
finisce per essere più funzionale di
quello integrato. Un rischio che
Minuz intuisce quando parla del
film di Zalone, in cui esplicita di non
volerne fare un capolavoro, e che dimostra, insieme a tante altri aspetti
positivi, le qualità e le potenzialità
dell’opera e del suo autore.
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SCENA&RETROSCENA
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L’ingegner Fucini e Firenze Capitale
L’APPUNTAMENTO
di Francesco Gurrieri
Voci lontane
voci sorelle
Firenze e lo strapolto della ‘apitale
GIANNI
Firenze , bimbo mio, nun c’è quistione,
Se li levan di lì la ‘apitale,
Nun te lo vorre’ dì, batte ‘n pattone,
Da stiaffalla ‘n d’un fondo di spedale.
Ma ‘r Municipio , se nun è ‘n bestione,
Deve fare ar Govelno un memuriale,
E dilli: “Ho speso cento allo Stradone”,
Per esempio, “cinquanta a quer Piazzale,
Venti a’ Lungalni, trenta ‘n der Mercato”;
Tanto da rivoganni un conto grosso,
E poi fallo cità dar Delegato.
LORENZO
O se ‘un pagassi ?
GIANNI
‘Ni si sarta addosso,
E a folza di golini, Dio sagrato...
Vòi Roma? ‘un ci si va se ‘un posi l’osso.
Disegno di Francesco Gurrieri
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om’è noto, fervono i lavori dei “comitati”
per solennizzare
i 150 anni di Firenze Capitale (1865
– 2015). Forse non
molti sanno che alla
stagione dei grands
traveaux coordinati
dal Poggi per incarico del ”facente
funzione di gonfaloniere” Giulio
Carobbi, collaborò Renato Fucini. Il quale,
come ebbe a
dire il De Amicis nell’introduzione
ai
Sonetti
di
Neri Tanfucio, “pigliava la penna
quando snetteva il compasso , e misurava versi quando era stanco di misurare angoli”.
Com’è noto, appena cinque anni
dopo, la capitale fu dismessa e trasferita a Roma. A Firenze rimasero
opere incompiute e molti debiti; il
povero Giuseppe Poggi finì inquisito
e fra i capi d’imputazione vi fu anche
quello di aver usato i pennini e la
cancelleria tecnica per finalità private mentre lavorava alla cosa pubblica.
Il Fucini, fra i più arguti dei nostri
poeti (ma questo riconoscimento sarebbe sopraggiunto più tardi), ebbe
a intuire – diremmo oggi “da dentro
il palazzo” - ciò che si profilava per
l’amministrazione della città ed ebbe
a scrivere il seguente sonetto.
Da martedì 9 a martedì 30 settembre torna “Voci lontane,
voci sorelle” festival internazionale di poesia che propone in
quattro biblioteche fiorentine (Oblate, FIlippo Buonarroti,
Canova e Mario Luzi) e in due luoghi culturali (Murate e
Libreria Feltrinelli) letture, incontri con i poeti, presentazioni e confronti sulla situazione della letteratura. Tutte le
informazionisul sito www.vocilontanevocisorelle.it.
VISIONARIA
di Simonetta Zanuccoli
[email protected]
L'immagine attuale di Parigi nasce da un
ardito piano regolatore voluto da Napoleone III e realizzato dal prefetto Haussman che dal 1852 al 1870 rase al suolo
interi quartieri fatti di strette strade e
case di varie epoche per creare piazze,
boulevards e maestosi edifici secondo
un rigoroso e ripetitivo schema geometrico che dette alla città quell'aspetto
maestoso ed elegante che la rende
unica. Non fu solo una rivoluzione urbanistica ma anche sociale. Le classi più
umili furono emarginate verso le periferie e la nuova, opulenta, borghesia prese
possesso delle zone centrali della città.
L'architettura hausmaniana svolse un
ruolo determinante in questa trasformazione. I nuovi edifici dalle facciate in
pietra tutte perfettamente allineate tra
loro, rispetto a quelli precedenti che
avevano un'altezza massima di 17,55
metri, si elevano a 20 metri sui boulevards larghi 20 metri. Ciò consentì di
creare un piano in più le cui finestre si
affacciano, altro elemento caratteristico
di Parigi poi copiato in altre città francesi e belghe, sui tetti tutti inclinati a 45
gradi. A ognuna di queste finestre corrispondeva una chambre de bonne ossia
una stanza riservata alla cameriera tuttofare (bonne à tout faire). L'ascesa della
media e alta borghesia si manifestò
anche nel possesso di una casa dove lo
spazio di chi era impegnato in attività lavorative domestiche era nettamente separato da quello adibito alla vita
familiare. Dalla maestosa scala dei piani
nobili si inerpica una di servizio, stretta
e ripida, che portava a queste anguste
stanzette (dai 6 ai 12 metri quadri),
freddissime d'inverno e afose d'estate,
arredate con pochi elementi essenziali,
prive di servizi igienici tranne quelli mi-
La chambre
della cameriera
di Haussmann
nimi e condivisi sul pianerottolo. Con
una certa insensibilità alle accuse di assoluta mancanza delle condizioni igieniche basilari fatte dai medici che
cercavano di combattere la tubercolosi,
circolava al tempo tra la borghesia il ferocemente ironico detto le riches en bas,
le pouvres en haut. Della vita assai dura
di queste cameriere e dei loro miseri alloggi tratta un bellissimo libro di Octave
Mirbeau scritto tra il 1891 e il 1900, Le
journal d'une femme de chambre, purtroppo non più disponibile da alcuni
anni nella traduzione italiana intitolata
Diario di una cameriera. Celestine, la
protagonista, bonne à tout faire, guarda
“dal buco della serratura” e descrive questa società borghese, ingiusta e ipocrita,
persa nella dorata illusione della Belle
Epoque. Dal libro sono stati tratti due
films, di Jean Renoir nel 1946 e di Luis
Bunel nel 1964 e numerosissime riduzioni teatrali.
Oggi queste chambres des bonnes (a
Parigi sono più di 20.000) sono diventati degli appartamentini presi d'assalto
soprattutto dagli stranieri che vogliono
investire nella carissima Parigi comprando un pied-à-terre dal sapore un po'
bohémien o affittati a prezzi molto elevati a studenti. Dal 2002 il piano regolatore della città stabilisce infatti che la
superficie minima di un appartamento
sia di 9 metri quadri e la sua altezza di
2.20 metri. Naturalmente l'abitazione
deve essere fornita di acqua corrente.
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di Laura Mazzanti
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RICORDI D’OCCASIONE
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[email protected]
l lavoro di Dalla Chiesa come Prefetto
di Palermo fu interrotto bruscamente
alle ore 21.15 del 3 settembre 1982,
quando l’auto sulla quale viaggiava,
guidata dalla moglie Emanuela Setti Carraro, fu affiancata da una BMW dalla
quale partirono alcune raffiche che uccisero il prefetto e la moglie. Anche l’auto
dell’autista e agente di scorta Domenico
Russo fu affiancata da una motocicletta
con dei killer a bordo che lo ferirono gravemente, morirà diversi giorni dopo. La
mafia aveva colpito molto in alto, mostrando ancora una volta tutta la sua truculenza, e compiendo l’ennesimo delitto
“eccellente”.
I funerali del generale e della moglie, svoltisi il 4 settembre 1982, furono seguiti da
una folla che protestò contro le presenze
di politici, accusati di aver abbandonato il
generale. Vi furono anche attimi di tensione, quasi al limite del ricorso alla violenza fisica. La stessa figlia Rita pretese
che fossero tolte le corone di fiori inviate
da parte della Regione Sicilia. Degna di
nota fu l’omelia pronunciata dal cardinale
Pappalardo, il quale citando un passo di
Tito Livio, affermò: “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur” (“mentre
a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”, e qui Sagunto è Palermo). Le reazioni suscitate dalla morte di Dalla Chiesa
furono molto forti. Stavolta la mafia aveva
colpito un personaggio amato, ammirato,
le cui qualità procedevano di pari passo
con la sua fama. La stessa città di Palermo
sembrò destarsi da quel torpore, da quella
omertà che l’avevano caratterizzata per
decenni. Vi fu una forte protesta cittadina.
Il coraggio
e la fiducia
Qualche giorno dopo l’omicidio apparve
uno striscione in via Isidoro Carini, luogo
dell’attentato, con soscritto: “qui è morta
la speranza dei palermitani onesti”. La
città sembrò risvegliarsi, sembrò voler
lanciare, a sua volta, un messaggio importante: “basta con la mafia”. Oggi sappiamo che il delitto Dalla Chiesa
fu messo in atto dagli esponenti più potenti della Cupola. Tale certezza ci viene
tra l’altro confermata dalla sentenza che
vede condannati Michele Greco, Totò
Riina, Bernardo Provenzano (solo per citare i nomi più importanti), ma sappiamo
come il terreno sia stato preparato dalla
stessa classe politica siciliana, dall’ala democristiana, sia di corrente fanfaniana
che andreottiana. La certezza di un coinvolgimento anche politico, oltre che mafioso, non fu subito accolta. Gli anni ’80
dimostrarono ancora una volta una certa
resistenza a incrinare sistemi ben collaudati, infatti negli anni successivi al delitto,
l’unica pista seguita fu propriamente
quella di stampo mafioso. Si dovettero attendere gli anni ’90 per vedere aprirsi un
varco più ampio. Senza rispondere precisamente chi fosse, Buscetta asserì che si
trattava di un uomo politico, aggiungendo, tra l’altro, “è vivo, anzi sono vivi”.
CATTIVISSIMO
ICON
di Francesco Cusa
di Michele Morrocchi
[email protected]
Benzinaio. Appena chiusa la cassa.
Pompe automatiche in attivazione. Arrivo in extremis e recito:
Automatico? nooo.
Vabenevabene. però dammi dieci euro
che ho chiuso la cassa.
Ne ho cinquanta intere (mette la benzina).
vabenevabene,
Ah.
…
Ma allora non era chiusa ancora la cassa
automatica.
No.
…
…
Ecco…
Non ce l’ho il resto.
Ah ma ho queste oppure cinq…
vabenevabene, dammi cinque.
Ma ne hai messe dieci
vabenevabene,
ma...
vabenevabeneciaodevochiudere. (Appare Platone con la tuta Shell e il
dito che indica il cielo. Morte dell’economia. Trionfo dello spirito, delle ragioni
dell’Empireo. Contro la caducità ecco
spandersi le vestigia del culto dell’effimero. Arte nobile, nobilissima. Si squaglia il benzinaio e rimane l’alone della
Sud
pompa magna, una macchia violacea
che fa da rifrangente alle ingiurie del
tempo, questa paradossale illusione.
Cinque fa dieci, dieci non fa cinque.
Siamo oltre la matematica, nelle terre di
confine, laddove si caccia e uccide il Signoraggio (signoraccio) Bancario. Respirare a pieni polmoni nel tempo
mefitico della Crisi. In questo scarto, in
questo “fastidio”, in questa “urgenza di
chiudere”, sta il segreto della bellezza intima, dello stare al mondo come Cristo
comanda, senza falsi miti. Visitandoli
semmai, ‘sti miti, e/o ciò che ne rimane,
come si fa con un parente caro. Non si
parla di visite di cortesia, insomma).
twitter @michemorr
Un tocco
di viola
L’Associazione Via del Parione, in collaborazione con Fund4art presenta la
prima edizione del progetto “Parione
Arte. Idee in Vetrina, rassegna di arte
contemporanea”. Il progetto prevede
un’intera settimana nella quale tutti i
commercianti della centralissima Via
del Parione, sita nel centro storico di
Firenze, metteranno a disposizione le
loro vetrine perché possano essere
riempite e reinventate da artisti italiani
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Alla fine per l’omicidio di Carlo Alberto
Dalla Chiesa, della moglie Emanuela
Setti Carraro e dell’agente Domenico
Russo furono condannati all’ergastolo
Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Il 30 gennaio del 1992
la Cassazione confermò la sentenza. Il 22
marzo 2002, la Corte d’Appello di Palermo ha condannato quali esecutori materiali del delitto, Vincenzo Galatolo,
Antonio Madonia, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. Nella stessa sentenza della Corte d’appello, si legge tra
l’altro: “Si può senz’altro convenire con
chi sostiene che persistono ampie zone
d’ombra, concernenti sia le modalità colle
quali il Generale è stato nominato in Sicilia (praticamente da solo e senza mezzi)
a fronteggiare il fenomeno mafioso, negli
anni in cui il sodalizio Cosa Nostra ha potuto esercitare nel modo più arrogante ed
incontrastato l’assoluto dominio sul territorio siciliano, sia la coesistenza di interessi specifici – anche all’interno delle
stesse istituzioni - all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e
dalle capacità del Generale. In tal senso,
non potendosi omettere che il programma d’intenti manifestato dal Generale, nel momento dell’accettazione
dell’incarico (avuto particolare riguardo
all’avviso – rivolto a quelle forze politiche
che il Dalla Chiesa riteneva colluse alla
mafia – che ‘non avrebbe guardato in faccia nessuno’); non poteva non suonare
come un chiaro campanello d’allarme per
chi all’epoca traeva impunemente quanto
illecitamente vantaggio dai rapporti tra la
mafia e la politica, soprattutto nello specifico mondo degli appalti”.
e internazionali inserendovi opere
d’arte e inventando vere e proprie installazioni. La partecipazione degli artisti è completamente gratuita ed il
tema di questa prima edizione del
concorso per l’anno 2014 è: Un tocco
di viola. Le vetrine sono suddivise secondo tre categorie artistiche. Ogni
artista potrà presentare una proposta
per ogni categoria, dunque un minimo di tre proposte, che potranno essere accettate in toto o solo
parzialmente.
La richiesta di partecipazione online
al sito www.fund4art.it, dovrà essere
compilata ed inviata entro e non oltre
il 6 settembre 2014.
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HORROR VACUI
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L’inutilità della muraglia cinese, dei valli di Adriano e del
muro di Berlino, non ci impedisce di continuare a costruire muri. Dopo un
test per verificare quale
parte del cervello uso
in prevalenza, sono
tormentato dall’idea di costruire
una barriera fra i
due lobi.
Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni
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TEMPO PERSO
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di Lolly Gally
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ncontro la pittrice inglese Jannina Veit
Teuten nella sua casa di Pescia, non
lontano dalla gipsoteca che ospita i lavori dello scultore Libero Andreotti.
Un appartamento pieno di quadri, soprammobili, lumi, libri, piante verdi in letargo: un groviglio di oggetti, un
magazzino di ricordi. Eleganza british lontana dagli stereotipi alla Laura Ashley
idolo degli anni settanta, tutta altra storia.
Siamo sedute su un sinuoso e scomodo
divano di tessuto di crine romanticamente
delabré che ha subìto nei decenni l’attacco
di qualche felino giocherellone.
Jannina, perché Pescia ?
Desideravo comprare una casa e Firenze
era troppo cara. Con quello che a suo
tempo ho speso qui, a Firenze avrei dovuto accontentarmi di due stanze. Vivere
a Pescia mi piace.
Prima di Pescia ?
Negli anni ottanta ho vissuto 11 anni a
Settignano, in una bella casa dove aveva
abitato il pittore Costetti, vicino alla piazza
principale, non lontana dalla Capponcina.
Qualcuno dice che nella sua casa di Settignano lei ospitasse personaggi interessanti, intellettuali, artisti, rifugiati politici…
In 11 anni i miei ospiti sono stati tanti (mi
sembra 27 persone) e non li ricordo tutti.
Ricordo con affetto Stephan, un ricercatore fuggito dalla DDR attraversando il
Mar Nero a bordo di un gommone. Ha
sempre mantenuto il silenzio su come
fosse arrivato in Italia. Lo abbiamo saputo
poco tempo prima della caduta del muro
di Berlino. E’ diventato in seguito un giornalista importante.
Dopo Settignano?
Sono ritornata in Piazza dei Ciompi, dove
avevo già passato qualche tempo. Era la
casa dove aveva vissuto Lorenzo Ghiberti,
proprio in centro a Firenze. Dicevano che
nelle cantine dietro la casa ci fosse la fonderia delle porte del Battistero di Firenze.
Come è nata la passione per la pittura?
Avevo 8 anni e ed il Preside della scuola
(ricordo ancora il nome: Coulson Davis,
era un acquarellista), ha chiesto a noi
alunni di riprodurre il suo disegno ad acquerello, alcuni pini marittimi. Sia i compagni che l’insegnante hanno dichiarato
che ero riuscita a disegnare una copia convincente. Questo fu l’inizio. Frequentai poi
la Twickenham School of Art a Londra.
Passai poi al lavoro di grafico in Fleet
Street, per i giornali e agenzie pubblicitarie
ed approdai più tardi, come creativa ma
all’oscuro di tutto quello che era politica,
al Central Office del Partito Conservatore.
Perché scelse Firenze?
A quei tempi Firenze era considerata la capitale mondiale dell’arte. Dovevo tornare
in Inghilterra ed invece non sono più ripartita. Ho fatto diversi lavori per pagarmi
gli studi all’Accademia di Belle Arti. Ricordo: fra i miei professori Fernando Farulli e Oscar Gallo e l’amicizia con
Domenico Viggiano e Manfredi. Un ricordo speciale va a Giovanni Colacicchi e
Flavia Arlotta, ai quali sono stata legata da
grande affetto, che continua attraverso i
figli. Ho anche dipinto ritratti, ho fatto
mostre con le mie opere a Firenze, Settignano, Reggio Emilia, Fidenza, in diverse
città della Francia, a Londra e Canterbury.
Parliamo della via Francigena. Lei è stata definita “La pellegrina della luce”
Mentre disegnavo i bassorilievi della facciata del Duomo di Fidenza ebbi la fortuna di incontrare una persona
straordinaria: Don Amos Aimi, purtroppo scomparso, che mi suggerì di dipingere ad acquerello tutti i monumenti
della Via Francigena da Canterbury a
Roma, sulle tracce del diario dell’ Arcivescovo Sigerico che si era recato a Roma nel
990 per ricevere il Pallio dalle mani del
Papa Giovanni XV. L’obiettivo era quello
di concludere il percorso per il Giubileo
2000. E fu proprio un amico di Don
Amos, il critico d’arte Marzio Dall’Acqua
che, vedendo i miei acquerelli, mi definì
“Pellegrina della luce”
Cosa le ha dato e cosa le ha tolto questa avventura della via Francigena ?
Ho avuto l’occasione di conoscere per-
sone gradevolissime. Dal 1993 al 2000
però sono stata lontana da casa, da vera
pellegrina. Sempre in giro per l’Europa:
Inghilterra, Francia, Svizzera, Italia. Su un
camper attrezzato che guidavo personalmente, con l’allestimento di 23 mostre in
due anni e 2000 chilometri di strada.
Cosa vorrebbe ancora da questa esperienza,
in concreto?
Poter esporre tutte le opere sulla via Francigena che ho dipinto (o una buona parte
di esse) in un’unica sede, in un luogo
adatto. La regione Toscana ha fatto un ottimo lavoro di messa in sicurezza della via
Francigena. Le immagini delle opere
hanno ormai un valore anche storico,
visto che nel frattempo molti luoghi sono
cambiati dal 1993. Ci sono città che meritano un’ ulteriore valorizzazione, che potrebbero accogliere un centro di servizi
per i pellegrini: ad esempio, uno shop attrezzato ed una galleria permanente con i
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miei quadri.
Qualche nome?
Altopascio, Fucecchio, Monteriggioni. Ma
ce ne sono tantissimi altri anche al di fuori
della Toscana.
Lo sa che Paolo Rumiz nel suo libro Morimondo la definisce una donna di rara eleganza che ha però l’abitudine di russare
rumorosamente la notte ?
(Ride)Io ero a Corte Sant’Andrea, vicino
a Lodi, per pitturare quel luogo citato da
Sigerico (la confluenza del Lambro con il
Po, un luogo straordinario) ed alloggiavo
nell’ostello del pellegrino che non aveva
più stanze disponibili ed ho dovuto condividere la stanza con il signor Rumiz ed
un altro viaggiatore. Ma non ero io la sola
a russare! Questo va precisato.
Qualche rimpianto ?
Per quanto riguarda il “via Francigena Project”, aver compiuto questa impresa titanica con le mie forze e le mie finanze “nella
quasi totale indifferenza del pubblico e del
privato italiano”. Ho rubato le parole ad un
noto critico d’arte. Non sono parole mie.
Ultimamente a Berceto e al Castello di
Proceno ho avuto l’impressione di aver iniziato un nuovo cammino, con un’accoglienza ed una considerazione che mi
fanno ben sperare. Dopo 20 anni di Via
Francigena come Itinerario Culturale Europeo sarebbe l’ora che si desse al progetto
la giusta rilevanza.
La pellegrina della luce
TRASH TOWN
di Alessandro Dini
[email protected]
Caro Diario, si sente dire che Firenze
è in degrado, che è colpa mia perché
non decido. Eppure le mie giornate di
Sindaco sono tutte molto intense. Per
esempio, ieri mattina ero in casa e
aspettavo che l'autista del comune venisse a prendermi per portarmi a Palazzo quando, essendomi alzato più
presto del solito, decido di far lavare la
macchina. Mentre esco, abituato
come sono ad osservare tutto, l'occhio
mi cade su alcune buste lasciate sul tavolino dell'ingresso. Decido di dare
un'occhiata. Comincio ad aprire le
buste e, come sono solito fare, metto
con ordine il loro contenuto sul tavolino. Noto che insieme alla pubblicità
c'è anche una fattura. Lascio le chiavi
della macchina sul tavolino e vado in
cucina per gettare le buste vuote e la
pubblicità nel sacco della differenziata
cartacea, ma è strapieno. Per rendermi utile decido di andare giù, in
strada, a portare il cartaceo nell'apposito cassonetto. Ma prima di uscire
tiro fuori dal portafoglio il libretto
degli assegni per il pagamento della
fattura temendo che più tardi me ne
sarei scordato, sennonché mi accorgo
che gli assegni sono finiti. Lascio il
sacco del cartaceo da gettare li, accanto al tavolino, e vado nello studio a
prendere un altro blocchetto di assegni, ma colpisce il mio occhio clinico
la scrivania sul cui ripiano noto una
Diario
di un
sindaco
lattina di birra ormai vuota che, peraltro, mi pare proprio quella da cui ieri
sera stavo bevendo io. Per dare una
mano, come sono solito fare, decido
di gettarla nella differenziata dell'alluminio. Andando in cucina, dove si
trova il sacco della differenziata dell'alluminio, la mia attenzione è attratta dal vaso dei fiori sul comò del
corridoio che è quasi senz'acqua. Trovandomi ormai in cucina, riempio
d'acqua una caraffa e decido di mettere prima l'acqua ai fiori e subito
dopo gettare la lattina vuota nel sacco
della differenziata dell'alluminio, riportando allo stesso tempo la caraffa
al suo posto, in cucina. Torno nel corridoio e verso l'acqua ai fiori, ma con
la fretta e l'agitazione che mi sta prendendo la maggior parte finisce sul pavimento. Torno di corsa in cucina, e
dato che vado d'urgenza a cercare uno
straccio per asciugare il parquet del
corridoio, lascio dove si trova la lattina
da gettare nel sacco della differenziata
dell'alluminio. Oh, ma ecco che suonano alla porta: è l'autista del comune! Non c'è più tempo per far
lavare la macchina e lascio tutto così
com'è, senza portare via il sacco del
cartaceo e quello dell'alluminio e
nemmeno asciugare l'acqua sul parquet del corridoio. Mentre si va a Palazzo ripenso all'idea ‒ che mi è
venuta, così! ‒ di salvaguardare i cosiddetti negozi tradizionali del Centro
Storico di Firenze che ha tanto impressionato la gente, anche se si sente
dire che a questo punto tutti i buoi
erano già scappati dalla stalla, che ora
è una stalla senza buoi. Insinuazioni
malevole perché, senza falsa modestia, in una città come questa io mi
vedo il più adatto a fare il Sindaco, diligente e attento seguace come sono
della nuova politica italiana basata sull'efficacia riformista di annunci spot.
Caro Diario, ma tu mi capisci vero?
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di Stefano Pozzoli
L’agenda
di Dario
anzi già non mancano, in virtù di quel
dato universale che è la sindrome di
NIMBY (Not In My Back Yard - Non
nel mio cortile).
Il futuro, in altre parole, riserva già sufficienti problemi ed opportunità a chi
amministra Firenze. Dobbiamo chiederci, però, proprio per lo sconvolgimento che ci aspetta, non sia
opportuno per l’Amministrazione immaginarsi un progetto, sul piano urbanistico e sociale, ancora più ambizioso.
Intanto dobbiamo dire che, per quanto
noi cittadini ce ne siamo accorti fino ad
un certo punto (o quanto meno non ne
abbiamo gioito abbastanza), in verità è
Firenze in questi anni è cambiata, grazie
a progetti circoscritti, che (fortunata-
SCAVEZZACOLLO
di Massimo Cavezzali
Inquietudine
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prossimi 5 anni saranno cruciali per
la Firenze che sarà e Dario Nardella
si troverà a governare il più grande
cambiamento dal dopoguerra che
interesserà la nostra area urbana.
I motivi di questa affermazione, che
non vuole essere enfatica ma realistica,
sono essenzialmente due. Anzitutto è
che alcune scelte chiave di amministrazioni precedenti, ovvero la tramvia e
l’alta velocità (con tanto di Stazione AV
in Viale Redi), vengono a maturazione,
con l’inevitabile contorno di cantieri,
disagi e proteste. Il secondo è quel cambiamento di natura istituzionale, e si avvierà a breve, che è rappresentato dalla
città metropolitana. Temi connessi, se
si pensa che la tramvia dovrà arrivare a
Sesto Fiorentino, probabilmente a
Campi, forse persino a Prato. Questioni
distinte, perché la prima è in buona
parte delineata, e va “solo” realizzata,
mentre l’altra deve essere pensata, oltre
che attuata, da Dario Nardella e dalla
sua squadra di amministratori e dirigenti che, per altro, è in parte da costruire, soprattutto per quanto riguarda
la città metropolitana.
Tutto ciò, da solo, dovrebbe fare tremare le vene nei polsi ai nostri rappresentanti istituzionali, perché tre-quattro
anni di lavori importanti, anche se gestiti al meglio, non potranno che creare
disagi e malcontenti. Ricordiamoci,
però, che è quanto è accaduto per la
realizzazione della prima linea di tramvia, della quale, però, oggi non potremmo proprio più fare a meno, e che
ha molto valorizzato l’asse FirenzeScandicci e le aree lungo il proprio percorso. Lo stesso, non ne possiamo
dubitare, accadrà anche per le altre
linee, ma è altrettanto facile prevedere
che le polemiche non mancheranno ed
[email protected]
Serpeggia l'inquietudine.
Ma non sempre. All'inquietudine
piace cambiare animale.
Per farsi capire
meglio. Maialeggia l'inquietudine.
A
volte. O criceteggia. Passerotteggia.
Dipende.
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mente) non hanno modificato il profilo
della città, ma comunque di elevata
qualità. Si pensi alle Murate, alla Città
della Musica e con l’intervento, più importante, nell’aerea di Novoli, che è passata da quartiere dormitorio e popolare
ad iniziare a configurarsi come area direzionale di ben altre prospettive.
Oggi restano aperti altri problemi ed
opportunità. Il primo, a cui Renzi prima
e Nardella poi, hanno messo mano, è lo
stadio. La questione, oggettivamente,
non è essenziale ma potrebbe rappresentare comunque un’interessante risistemazione dell’area Mercafir.
Ci sono altre questioni, però, che potrebbero e dovrebbero essere risolte,
una spesso sollevata, ed altre che curiosamente sembrano quasi dimenticate.
La prima è Sant’Orsola, la cui mancata
risistemazione è uno dei motivi di deterioramento di un’area pure centralissima. La città metropolitana, a
differenza di quanto oggi può la provincia, avrà in mano tutti gli strumenti urbanistici per rendere il sito attraente dal
punto di vista commerciale ed è un
tema che andrà affrontato urgentemente. Gli altri tre non si trovano nel
centro storico sono più “periferici” ma
sono tutti di straordinaria importanza
per la città. Il primo è il “cratere” che si
trova in Viale Belfiore. L’Amministrazione, anche se la proprietà è privata,
davvero può tollerare una cosa del genere quasi di fronte alla futura Stazione
Roger e comunque in uno dei Viali
della Città? Ancora occorre pensare alla
ex Manifattura Tabacchi: si tratta di 6
ettari nel cuore di Firenze, rimasti inutilizzati ormai dal 2001. E che dire dell’area del Meccanotessile? I lavori del
giardino sono ormai avviati, ma per
quanto riguarda il resto è ancora tutto
da fare.
Articolo pubblicato
su Repubblica ed. Firenze il 29 luglio
GRANDI STORIE IN PICCOLI SPAZI
di Fabrizio Pettinelli
[email protected]
Da qualche tempo il severo fra’ Girolamo Savonarola invocava la punizione divina per la dissoluta città di
Firenze: “Signore mio, manda la tribolazione a Firenze. Manda, manda il
flagello, questo li farà udire. Spada
spada, carestia carestia, pestilentia pestilentia!”.
Fatto sta che qualcuno nelle alte sfere
(“Il Signore o chi per Esso”, scrive
Giuseppe Conti in “Fatti e aneddoti
di storia fiorentina”) esaudì i desideri
del frate. Si cominciò all’inizio del
1497 con una terribile carestia (carestia, carestia!); scoppiarono dei tumulti durante la distribuzione del
pane e il 18 aprile tremila donne diedero l’assalto a Palazzo Vecchio: la rivolta fu repressa nel sangue (spada,
spada!).
Firenze cominciava appena a risollevarsi dalla carestia, quando, fra maggio e giugno, si diffuse in città la peste
(pestilentia, pestilentia!) che provocava, ogni giorno, la morte di decine
Via Savonarola
Il falò
delle vanità
di fiorentini.
Savonarola, incurante delle sofferenze dei fiorentini, decise di rincarare la dose e organizzò, l’ultimo
giorno di carnevale del 1497, un “falò
delle cose lascive”. In Piazza della Signoria fu innalzato un “albero” del
quale padre Serafino Razzi ci ha raccontato la composizione: alto circa
30 braccia fiorentine (18 metri), con
un perimetro alla base di circa 120
braccia (70 metri) e composto da 15
strati, con una struttura piramidale
stile albero di Natale. Nel corso dell’anno i seguaci di Savonarola erano
andati a giro per raccogliere il materiale e nessuno aveva osato opporre
un rifiuto alle richieste del frate.
Quali erano gli ornamenti di questo
singolare albero di Natale? Partendo
dalla cima troviamo tele di maestri
delle Fiandre “dipinte di figure disoneste” e, via via discendendo questo
completo catalogo delle vanità, “ritratti di bellissime donne antiche”,
“scacchieri, tavolieri” e carte da gioco,
strumenti musicali “con i loro libri di
musiche lascive”, “specchi, profumi e
polvere di Cipro” a rappresentare la
vanità delle donne, “libri di poeti lascivi e disonesti” come Pulci, Sacchetti e Petrarca, maschere e
travestimenti e via dicendo.
Quale fosse il valore “venale” degli
oggetti che andarono al rogo lo si può
desumere da un curioso episodio: un
mercante veneziano, che si trovava a
Firenze per caso, vedendo tutto quel
ben di Dio che stava per essere distrutto, offrì 20.000 scudi, una
somma enorme, per rilevare tutto il
blocco, ma dovette ritirarsi in buon
ordine quando i Piagnoni minacciarono di piazzarlo in cima all’albero se
non se ne fosse andato immediatamente.
L’anno dopo il bis: nuova raccolta di
materiale e questa volta anche dei
neofiti Piagnoni contribuirono personalmente con le loro opere: scomparvero così irrimediabilmente fra le
fiamme disegni e studi di nudi di artisti come Baccio Bandinelli e Lorenzo
di Credi.
Qualche mese dopo, il 23 maggio, in
Piazza Signoria, a pochi metri dal
luogo dove erano bruciati gli “alberi
della vanità”, arse un altro falò. Ma
questa volta sul rogo c’era fra’ Girolamo.
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PECUNIA&CULTURA
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di Roberto Giacinti
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getti sociali, allo scopo di accrescere la
reciproca capacità innovativa e la competitività sul mercato, e raggiungere,
quindi, economie di scala.
Le Reti permettono dunque, di creare
un “gruppo” che da un lato, consente il
mantenimento dell'indipendenza e dell'identità di ogni ente e dall’altro il miglioramento anche di alcuni processi che
possono essere comuni alle singole realtà.
Proprio con il contratto di Rete si rende
possibile operare un raccordo, tra gli
enti, che potrà diventare forte e duraturo
producendo un ente Policentrico, rappresentante una costellazione di culture
e strategie orientate in una sorte di federazione.
[email protected]
G
li sgravi fiscali che il d. 91/2013,
detto Valore cultura, ha elargito
ai contributi erogati al non profit non basteranno a far sopravvivere i piccoli enti, spesso
gloriosamente centenari, da una fine ingloriosa.
Il tema, considerando la crisi generale,
ma anche la legge di Baumol che, nel settore culturale, vede nel tempo accrescere
i costi e ridurre i proventi, fa si che occorre con urgenza trovare uno strumento che freni molti enti da morte
certa.
Era il 1995 quando in un convegno organizzato dal Prof. Cardini, a San Gimignano, presentai una relazione coniando
il termine “Parco Culturale: definizione
di un sistema del valore di un’area territoriale”.
Il Parco culturale trova risposte nelle caratteristiche del Parco Naturale ed anche
di quello Scientifico, tutti ambienti nei
quali il Valore è legato alla capacità di organizzare e di gestire l'intreccio dinamico (il sistema delle relazioni) tra la
Sfera Produttiva, ovvero il Sistema Industriale (produzione, commercializzazione, servizi); quella Istituzionale:
ovvero il Sistema Politico; quella Scientifico-Culturale: ovvero l’Università, gli
Organismi di Ricerca Pubblica/Privata,
Istituti di Formazione, Enti ScientificoCulturali ecc.
Il coinvolgimento dinamico di una molteplicità di attori, interni ed esterni all'area territoriale, è la condizione
necessaria per creare la struttura del
Parco.
La molteplicità degli attori a vocazione
istituzionale, economica e scientifica implica la necessità di creare non solo l'opportunità di riunire ed integrare diverse
culture, esperienze e conoscenze con risorse e competenze multifunzionali, ma
di consentire anche la possibilità di attrarre ulteriori conoscenze, capitali e
competenze nell'area di intervento e
quindi nel Sistema.
Immaginavo di collegare tra loro enti
che da soli non avrebbero potuto sopravvivere in una sorta di multi-museo:
allora il Parterre era libero e rappresentava certamente uno spazio adatto, anzi
speciale!
Il Parco, dunque, come strumento per la
valorizzazione integrata, può essere rappresentato come un sottoinsieme nascente dalla sovrapposizione degli
ambienti interessati alla gestione del territorio culturale nella quale vivono numerose Istituzioni che possono essere
raccordate in Sistema.
E’ più facile insegnare loro a fare Rete se
li colleghiamo fisicamente, cosa che consente da subito di realizzare economie di
scala e di costo: una organizzazione ed
una amministrazione unitaria in grado
di esprimere professionalità anche nella
comunicazione indispensabile per fare
cultura, ma anche per reperire risorse!
Con il Contratto di Rete (previsto dalla
l. 112/2008), più Enti si obbligano ad
esercitare in comune una o più attività
economiche, rientranti nei rispettivi og-
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Il Parco Culturale
una rete in salvataggio
LUCE CATTURATA
di Roberto Mosi
[email protected]
Firenze sotto i tacchi
La Mostra di fotografie e poesia “Firenze Calpestata” richiama l’attenzione
sulla città e la conservazione delle sue
molteplici fisionomie storiche, silenti
sotto il calpestio inconsapevole dei passanti, come la significativa lapide in
Piazza della Signoria, dedicata al luogo
in cui - il 23 maggio 1498 - fu condannato al rogo il monaco domenicano Girolamo Savonarola. Nella scoperta
delle sedimentazioni storiche l’autore,
Roberto Mosi, offre una campionatura
di rapide inquadrature fotografiche di
figure, sorprese in inediti scorci dal
basso, nella dinamica degli arti inferiori, nell’azione del camminare, correre, stazionare. Il fatto storico evocato
diviene una galleria di persone/personaggi: il/la turista, i figuranti (il capitano del Popolo/i soldati), il
maratoneta, i podisti, la studentessa, la
per arginare l’anestesia liquida della dimenticanza. Secondo la tradizione curata dall’autore, Mosi ha preparato una
raccolta poetica, “Eterno Presente”, a
“commento” delle fotografie, che sarà
presentata in occasione della Mostra.
Roberto Mosi impegnato nel campo
della fotografia, coltiva l’attenzione per
l’interazione fra le arti, della fotografia
e della poesia, in particolare. Passaggi
ragazza dai tacchi alti, la posa spensierata di una ballerina, i vigili urbani,
l’operatore ecologico, l’operaio, le
zampe di un cane, la carrozza trainata
dai cavalli, per disegnare sulla mappa
cittadina la vita brulicante dell’oggi, che
vive, si agita, attende, lavora e spera nei
cambiamenti. E’ in gioco la vitalità segreta di un patrimonio storico continuamente da riscoprire ed apprezzare
di questo impegno sono le mostre realizzate fino ad oggi. I titoli dei cicli fotografici – in bianco e nero - richiamano i
percorsi iconografici: “Nonluoghi”
(2009), “Florentia” (2010), “Fotopoesia” (2010), “Itinera” (2011), “Mitomosi” (2011), “Mith In Florence”
(2012), “Tracce, La Galleria Fotografica Sulla Strada” (2013), “Firenze Riflessa” (2013), “Firenze, Dalle Vetrine
Alle Periferie” (2013), ”Firenze, Contrasti” (2013), allestiti presso: Biblioteca Palagio di Parte Guelfa, Circolo
degli Artisti-Casa di Dante, La Citè,
Cuculia, Arteincasa/Cellai Boutique
Hotel, Villa Arrivabene, Libreria LibriLiberi, Caffè Serafini.
La Mostra è aperta presso l’Hotel Cellai, via 27 Aprile 14, dal 1° al 30 settembre. L’inaugurazione il 1° settembre alle
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L’ULTIMA IMMAGINE
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San Jose e Santa Clara, California, 1972
[email protected]
Dall’archivio di Maurizio Berlincioni
La prima immagine in alto mostra una visione
di North First Street a San Jose dopo che erano
stati demoliti molti dei vecchi edifici storici,
quelli a due piani per intendersi, tipo quelli che
si vedono ancora sul lato destro della strada. Era
un momento di attesa prima dell'inizio dei lavori per la costruzione di nuove strutture alte
decine di piani previsti dal nuovo piano regolatore. Era una bella visione godere di tutto questo spazio libero ed in quel periodo mi sono
lasciato prendere spesso dal fascino di questi
splendidi spazi meravigliosamente vuoti. L'altra
immagine, scattata a sole poche miglia di distanza, mostra invece una visione dell'adiacente
città di Santa Clara, sede della prestigiosa ed
omonima Università Cattolica retta dai padri gesuiti. Il senso di pace e di tranquillità ed il tempo
quasi sempre perfetto, assolato ed asciutto, mi
davano, almeno in quel primo periodo, l'impressione di vivere continuamente in una specie di
sogno a colori.