Quella Liberazione... E Ico prese il fucile Enrico Loewenthal non parlava più tedesco da quando dovette lasciare la scuola in quanto ebreo, ma fu in quella lingua che intimò il ‘mani in alto’ a due soldati della Wehrmacht: ‘Hände hoch, bitte’. La sua militanza nella Resistenza italiana sfata l’immagine della vittima designata e riscrive un capitolo della storia tragica del secolo scorso. A colloquio con il partigiano Ico. Rivoli – «Hände hoch, bitte». D’improvviso, inaspettatamente, il tedesco riaffiorò alle labbra di Ico. Con il mitra spianato ordinò a due stupefatti soldati della Wehrmacht di alzare le mani. «Per favore». In casa sua quella lingua era vietata da quando, ragazzino, era stato allontanato dalla scuola tedesca che frequentava a Torino. Da quando, cioè, aveva appreso che cosa comportasse essere ebreo negli anni Trenta del secolo scorso. «Ero ancora alle Elementari e dopo la convocazione del preside per comunicarci che non ero più ammesso alla sua scuola mio padre mi aveva proibito di parlare ancora la lingua di chi ci considerava una peste della Storia. Il mio tedesco era rimasto quello di un bambino». Ma quando, un freddo giorno del 1944, fermò i due militari tedeschi nel corso di un’operazione di guerriglia in Valle d’Aosta, a Enrico Loewenthal, divenuto ormai il partigiano Ico, venne spontaneo apostrofarli nella loro stessa lingua. Il che li stupì non poco, ma non quanto quel “Bitte”, che mai si sarebbero immaginati di sentirsi indirizzare da un “bandito”. Loro che, come disse poi uno dei due a Ico, erano stati istruiti ad ammazzare prima di intimare mani in alto. Né avrebbero immaginato che quel ragazzo non solo fosse in grado di usare una tale forma di cortesia col dito sul grilletto, ma che li avrebbe poi fatti accompagnare al confine svizzero, risparmiando loro la vita. È una storia del Novecento quella che Enrico Loewenthal, classe 1926, racconta ancora oggi nella sua casa di Rivoli, esemplare nelle sue illuminazioni così come nelle sue contraddizioni. Nelle sue tragedie e nell’ironia che affiora nel ricordo di uno dei non molti partigiani ebrei della Resistenza italiana. E senza retorica: «Guardi, io sono soltanto un ebreo frusto come tutti gli altri, che a un certo punto si è opposto a una persecuzione. Lo devo a mio padre soprattutto». Guarda il caso: Enrico Loewenthal era concittadino di Primo Levi, anche lui torinese, anche lui partigiano in Valle d’Aosta, ma poi arrestato e condotto ad Auschwitz. Una scelta non del tutto isolata, dunque, ma di quelle che la più consolidata narrazione della Resistenza ha molto spesso ignorato o marginalizzato. Associata alla storia del secondo conflitto mondiale, la figura dell’ebreo – quantomeno in Italia – è quella della vittima piuttosto che del combattente. «In effetti – conviene Enrico Loewenthal – di ebrei che abbiano fatto la Resistenza ce ne furono pochi. Quanto a me, devo dire che la mia lotta è cominciata ben prima del 1943. Ho vissuto la vita del ragazzo ebreo di famiglia benestante nell’Italia fascista: dapprima sono stato cacciato dalla scuola tedesca, e dopo il varo delle leggi razziali anche dalla scuola pubblica italiana. Covavo una rabbia che cresceva con l’età, e quando, quindicenne, sono andato a far pratica in una piccola officina di un armaiuolo ho cominciato ad acquistare alcune vecchie armi lasciatevi dagli ufficiali italiani che volevano spuntare qualche soldo. Devo pur dire di essere stato uno stupido a non prenderle con me quando, dopo l’8 settembre, sono fuggito da Torino con la mia famiglia». Diciassette anni, partigiano Una fuga, come racconta nel suo “Mani in alto, bitte” (recentemente tradotto in tedesco), che durò poco. Non perché Enrico venne preso, ma perché ben presto, diciassettenne, si arruolò nelle formazioni garibaldine che si erano già costituite nelle valli del Torinese. La rigidità ideologica e le pretese egemoniche dei “comunisti”, come li chiama lui («è da allora che non li sopporto»), gli fecero poi preferire le formazioni di Giustizia e Libertà di Ferruccio Parri e infine, sino alla Liberazione, aderì a quelle autonome in Valle d’Aosta. Non senza aver conosciuto prima i pericoli e l’ebbrezza di lunghe traversate delle Alpi per procurarsi armi e materiale americano in Francia. «Avevo convinto il mio comandante a lasciarmi partire con due guide. Gli dissi che avrei camminato finché avrei trovato gli americani. E ce la feci. Così tornammo carichi di armi e con indosso divise americane. Può immaginare i sospetti e l’invidia delle altre formazioni». E possiamo oggi immaginare quanto poco so- spetti e invidia potessero fiaccare il coraggio di quel ragazzo che nel dopoguerra sarebbe diventato uno stretto collaboratore di Simon Wiesenthal nella caccia ai criminali nazisti fuggiti dall’Europa. Perché, vi ritorniamo, se la storia del partigiano Ico è analoga a quella di molti resistenti, a distinguerla c’è la sua discendenza ebraica. E quanto a questo la sua esperienza e le sue parole sono nette. «In famiglia sapevamo che cosa si stava preparando nella Germania nazista attraverso le lettere dello zio Alfred: le violenze, la propaganda, i bandi dal lavoro, dalle scuole, dalle attività commerciali. Finché la sua ultima lettera ci avvertiva: ‘Ci hanno chiesto di tenerci pronti per essere trasferiti a est dove potremo reinsediarci e lavorare’». Trasferiti: su che tipo di vagoni e per quale destinazione oggi lo sappiamo. Oggi, appunto. La cognizione di che cosa si stava preparando, allora poteva non essere ancora chiara. Nell’Italia fascista i segni potevano essere contraddittori. Non dopo le leggi razziali del 1938. «Ci furono due fascismi – dice Ico –. Il primo è quello che molti italiani sostennero con un sentimento nazionalista più che per adesione ideologica. Ci furono ebrei profondamente fascisti e monarchici. Mio fratello – la sua storia è emblematica – partecipava da giovane alle riunioni dello Shabbat, nel corso delle quali si discuteva di bibbia ed ebraismo, ma fu denunciato per attività contro lo Stato da una spia, un ebreo. Finì in prigione e ne uscì traumatizzato. Si è trascinato dietro questa macchia, divenne un fascista convinto e fortunatamente mio padre riuscì a farlo emigrare in America con l’ultimo viaggio del Rex». Una storia di persecuzioni Ico no. Non volle allora né oggi essere vittima condiscendente o corrispondere all’icona dell’ebreo “inviato al macello”, che tanto ha fatto scrivere, dire e contraddire. «Sono sì stato un bravo ragazzo ebreo che seguì tutto il percorso di formazione e integrazione nella comunità (ma non sono credente, semmai sono parte di una tradizione), ma la mia esperienza successiva è stata in effetti un’eccezione. Tenga conto che per i duemila anni che hanno seguito la nascita di Gesù Cristo, dopo la loro cacciata dalla terra di Israele, gli ebrei non hanno mai fatto l’esperienza delle armi. Furono un popolo pacifico e sottomesso. La mia scelta (e della ventina di ebrei sui millecinquecento che contava la comunità torinese) contraddì dunque una consuetudine millenaria. Non sapevamo quasi di poterci difendere. Ma ricordo bene la mia gioia del giorno in cui sono riuscito ad avere un fucile in mano...». E la vita gli fornì presto motivo di usarlo: una guerra è una guerra. O di non usarlo: la guerra non è tutto. Una richiesta di perdono Il suo incontro diretto con il nemico, nelle vesti dei soldati tedeschi, fu singolare: l’arresto, l’accompagnamento oltre il confine. Una specie di amicizia durata nel dopoguerra. Ico, gli chiedo, prevalse allora la clemenza, o a risparmiare la vita ai due militari tedeschi fu la sua non conoscenza dei loro atti precedenti né di quanto si andava compiendo nei campi di sterminio? «Li ho ancor davanti agli occhi, quei due, e quando mi chiedo come mi sarei comportato se avessi saputo di loro e di Auschwitz non so ancora darmi una risposta. Le posso dire che la mia indole non è mai stata sanguinaria, non ho mai provato piacere ad uccidere. Non so, forse avrei fatto lo stesso, mi sarei comportato con la stessa educazione, ma non ne sono certo. Quando poi, molti anni più tardi, ho ritrovato uno dei due militari, Ludwig Seiwald, diventandone in qualche modo amico, ricevetti da lui il suo diario di guerra. Vi lessi della sua partecipazione alla prima campagna in Polonia, delle violenze a cui prese consapevolmente parte. Raccontava di quando, per rappresaglia nei confronti di una piccola forma di resistenza incontrata in un villaggio, il suo plotone inchiodò gli uomini alle porte delle stalle. E raccontava dei rastrellamenti a cui aveva preso parte nelle valli del Cuneese: baite incendiate, partigiani fucilati. Quando si trovò davanti quel giovanissimo partigiano che ero io col mitra spianato, si aspettava probabilmente un simile trattamento. Di qui il terrore, la sorpresa per quel “bitte”, e lo stupore confuso quando lui e il suo commilitone vennero accompagnati in Svizzera. Così, immagino che consegnandomi quelle pagine, nel 1956, volesse rivelarsi per ciò che era stato e forse anche per chiedermi perdono». Ico non dice se quel perdono è mai stato accordato. E non mi sembra il caso di chiederglielo. Solo un’altra cosa: avete mai parlato della Shoah? «No. Mai».
© Copyright 2024 Paperzz