anno 65 marzo 2014 03 Electrolux, Fiat, Alitalia: politiche per un’impresa “liquida” Conti pubblici 2013: l’operato del Governo delle larghe intese Impresa Diritto d’asilo Legge elettorale Unione Europea Popolarismo sturziano Finanza pubblica Politica industriale Kennedy e Krusciov aggiornamenti sociali Perché la Corte Costituzionale ha bocciato il Porcellum? diritti & giustizia internazionali ECONOMIA POLITICA etica & bioetica società chiesa ambiente aggiornamenti sociali orientarsi in un mondo che cambia 11 e 64 ti a no re on lic an mb 1M3 bb ve o0 pu no ern2 a 10 Da oltre 60 anni offre ai suoi abbonati analisi AUTOREVOLI E approfondite sugli argomenti di maggiore attualità ali ci o s ti en iali m c na o or ti s gi en li g a am ocia rn s o i g nti ag ame iali rn oc gio ti s ag amen li a i n ior soc aggamenti rn li o ia i c g o azi roone Siri es emer te a ag menti s sociali Movimenti Concili Neu ros cie ge ntnze i Europea Vati Unione rna Armi ValoriioToll eran cano io zaII g II non ne Vaticano Concilio g i a al Costituz gozi Don iona enti soci Corruz OCS ne abili ne E aggiornam Migranio ti aggiornamenti sociali aggio aggiorn rnamenti sociali amenti sociali 12 ge leg i ina a lla 4 p v z : dic un na ggni:o 6teme : da iviso go n Il fina i di stia gie me n ei br io nd ri: e oa i TT d o icid olo a la ip cri 13 co cn dell tranie i, nc ia ieri gno in20 no , te do lfar 64 rs Pri olog o II i seFemm peg ato mon ANNO Sca peTO m arc ec can ere ’i gn E sco e uove ne OS all me sso ti pa BRce : sm SEM nzioaAG Va iscern ra, ple n u 13 te TT ra20 che fare ll e C com d wel i d deSE a F go tini il ro, e no 64 zzi to i d enza Pap dialo Mar tr vo n O- imenMaria rsa un raga , la nes an Ce speri pa i e gn IOnarlo rese ula ci ingIu atte p l’e C lla scom b trgl Im form re13 am e inlu da20 da rollo la er b oneRicor anno p cont zi r il TV 64 a un La educa ra pe anno iveo porsi er a tt gu ggi ciali?”: come e tr pe La ternet osMa itài3so piaceghe intes 201 ali prdispiar“m di In lar la: qu re le Oltre e alle 13 Scuosupera di front le 20 ia ttora per l med a ele 64 I sociacampagn anno e le aPriL biu itica: llo, gr nella em 2013 o Be deltrat ura e pol superare a gis da Tonin viziosi Don una ChiesMa i circoli per e , lisi universal Pino Pugtimonianzaanno 64 ibilità ten marzo una tes bile? oro e sos insana nuovo à del lav trasto2013 rsit Papa Sca ntale: con Francesco: ambie in Chiesa nuova 09 087 06-0 05 i am Islniittà vionati obel rabteataneiI a I il C tllou giio Nleazaienpon o n M moAciifudeomciioaov-epraenctihseticanne Do rre niR r s icaiabmli Vaa zio eo li b o l a n TeemmirinaePPmeridm c d i ti socia u l a z a pe i i z tib rnpam i en a F tt ion heIns otnoclanigagil Lgio m ia o Cinria e DRoelazitica caCtUnerbeddriidi edei teologesimpea Si ter tà Polies zio Citegàn tecnman uro E ali o nsutiesoci 2013 olaPoa ci Ch ca ilaSorna Maggio tBii men n Sciua PadovLaaierra niEduisabgaggi r Tra io V nd Gu a i na Un rla netGiovoro muDnIimnmedici aPriLe 2013 o a v Fiscere IInter to o o e n a c i M g otitàgliaerca lLiaenia graz dipaa incaa Pil ib mi iM SostencoF ataimeiggliBeInnztye s mecatStDoolonanneciiataria muane nco citas esa Bene oRifugcomFuc ziFr ano ica avsor BeneiaziASomnwaeorrtgkrazMCihcoienesmciogornnaiza uCmipbolito wl ia John RaLRu d ire aone esc ss raa Me ial neItmomliitiFcroiannneIimcnagzele o ici d erguerli ic Cyb c p appainoimu io Itna tromlasztFu Donne uralGo ranini esa mo caSoara itii Pd’ olete is c rnaz a t o c e F o Pl l a Pic dagg ne Gran Bretagna Af Te in a rallp art Chi ttolet cari Palerm o Sonch eazioaCheileeisttttoo aaPraialMe della Chiesa In Fraternità te ti li iseri Concilio porn gl r ni o a Coop n Vati M io i Pu i cano g l ez nza c a D II l El à NEET Par Persona no cos cie lo so mp o o Be Pidi il Cait i politi ezione enib Obici in o CLDaeorttttriana Welfare Indi Partit Sost zio onrd tecStima d’az ipazioPar Tza o ne oc ne tecipa rn ivile Giti FrodeaPacem in vera Gotu terris giàstra a cle Stati Uni i Elezio Edit icca lit to Brasile neEtfis di Milano ibiMa liier al io ten g ni i Sos on as s Sviluppo o n Evceco scnfes eppe Dossetti Poli Gius Cosi an figli Papa Fr ca Ong k ento dei iaria Lib ertàRazzismo Soci ti religiSoc ial networ iz osa fidam à ci ItaliaetMult inaz viCostituzione ionali Gesuiti Af forma giud le all’ Ri es Giustizia igr Pa niImm 64 NO RE AN EMB 013 2 DIC 04 03 2013 Le elezioni ri 64 numeanno alla prova dei febbrAIo di coscienza 2013 L’obiezione Welfare: un “check di giustizia” tà pluralista per una socieper il nuovo Esecutivo 02 sociale: La fraternità come motore anno 64 Italia prospettive tra Francia genenaIo 01 2013 Dal Concilio a oggi: Chiesa costantiniano, le donne nellaAnno un dibattito costrutt ivo Concilio Vaticano II: e le donne? Alla ricerca della Politraspare tica italinza nel finanziamento non ai partitiana: lasc iamoci sco raggiare La pers al centroona delle rifor me India: i travagli in un Pae della poli se emergen tica te aggiornamenti sociali è una rivista dei gesuiti 05 04 Vedi tariffe e modalità di pagamento in 3a di copertina www.aggiornamentisociali.it che Ora aanblet per t tphone e smar aggiornamenti sociali Aggiornamenti Sociali è una rivista dei gesuiti che da oltre sessant’anni affronta gli snodi cruciali della vita sociale, politica ed ecclesiale articolando fede cristiana e giustizia. Offre strumenti per orientarsi in un mondo in continuo cambiamento, con un approccio interdisciplinare e nel dialogo tra azione e riflessione sociale. È frutto del lavoro di una équipe redazionale composta da gesuiti e laici delle sedi di Milano e di Palermo e di un ampio gruppo di collaboratori qualificati. Aggiornamenti Sociali fa parte della rete delle riviste e dei Centri di ricerca e azione sociale dei gesuiti in Europa (Eurojess), e della Federazione «Jesuit Social Network-Italia Onlus». anno 65 / 3 marzo 2014 Fondazione Culturale San Fedele Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo, compresa stampa, copia fotostatica, microfilm e memorizzazione elettronica, se non espressamente autorizzata per iscritto. © Fondazione Culturale San Fedele IT ISSN 0002-094X Registrazione Tribunale di Milano 18-11-1960 n. 5442 La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 250. Chiuso in tipografia il: 18/2/2014. Il fascicolo precedente è stato consegnato alle poste di Milano (CMP Roserio) per la spedizione il 31/1/2014. Direttore responsabile: Giacomo Costa SJ Direttore emerito: Bartolomeo Sorge SJ Redazione: Stefano Bittasi SJ, Paolo Foglizzo, Chiara Tintori, Giuseppe Riggio SJ, Giuseppe Trotta SJ A Palermo: Emanuele Iula SJ, Gianfranco Matarazzo SJ, Giuseppe Notarstefano, Giuseppina Tumminelli Comitato di consulenza scientifica: Floriana Cerniglia, Chiara Giaccardi, Berardino Guarino, Antonio La Spina, Mauro Magatti, Giulio Parnofiello SJ, Antonietta Pedrinazzi, Luca R. Perfetti, Filippo Pizzolato, Massimo Reichlin, Giuseppe Verde, Tommaso Vitale Editing: Francesca Ceccotti Segreteria e layout: Cinzia Giovari Progetto grafico: Amelia Verga Editore: Fondazione Culturale San Fedele Piazza San Fedele 4, 20121 Milano www.sanfedele.net Stampa: Àncora Arti Grafiche - Milano editoriale marzo 2014 Giacomo Costa SJ – Paolo Foglizzo Conflitti sociali e strumenti di governance al tempo dell’impresa liquida 181-188 I casi di FIAT, Electrolux e Alitalia mostrano che sempre di più le strategie imprenditoriali prescindono dai confini nazionali. Cambiano di conseguenza i conflitti sociali ed economici e le risposte da parte degli Stati. mappe Competitività | Concorrenza | Economia internazionale | Globalizzazione | Impresa | Italia | Lavoro | Politica industriale | Produttività | Sindacato | Unione Europea punti di vista Bartolomeo Sorge SJ Prospettive per una «buona politica». Papa Francesco e le intuizioni di Sturzo 190-199 Riletto alla luce della Evangelii gaudium di papa Francesco il popolarismo sturziano mostra segni di grande attualità e vitalità per ispirare l’impegno politico dei cristiani italiani. Cattolicesimo politico | Democrazia | papa Francesco | Politica italiana | Popolarismo | Populismo | Rapporto Chiesa-politica | Sturzo approfondimenti Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese” 200-213 L’analisi della politica economica del Governo Letta ne rivela la esigua efficacia, dovuta al precario equilibrio della maggioranza che lo sosteneva e alla conseguente impossibilità di compiere scelte decise. Finanza pubblica | Governo | Legge Spesa pubblica finanziaria | Politica economica | Politica fiscale | scheda / normativa Il caos delle imposte immobiliari comunali 214 oltre la notizia Filippo Pizzolato La legge elettorale nel giudizio della Corte Costituzionale. Anatomia patologica del Porcellum Un commento alla sentenza 1/2014 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale il “Porcellum” per l’attribuzione dei premi di maggioranza e l’impossibilità di esprimere voti di preferenza. Corte Costituzionale | Costituzione | Democrazia | Legge elettorale | Politica italiana | Verifica di costituzionalità 178 215-224 sommario ricerche e analisi Chiara Peri La protezione interrotta. Il Regolamento “Dublino III” e il diritto d’asilo in Europa 225-236 Una ricerca condotta dal JRS indaga se alla luce del nuovo Regolamento europeo “Dublino III” i richiedenti asilo e i rifugiati riescono a ottenere una protezione efficace in Europa. Aiuto ai rifugiati | Diritto d’asilo | Gesuiti | Politica Unione Europea migratoria | Rifugiato politico | scheda / libro Rifugiati, profughi, sfollati 237 cristiani e cittadini James W. Douglass Kennedy, Krusciov e Giovanni XXIII: storia di una pace inaspettata 239-246 Una interessante lettura della risoluzione della crisi dei missili di Cuba del 1962, secondo cui Kennedy e Krusciov riuscirono a evitare il conflitto mondiale grazie alle esortazioni alla pace di Giovanni XXIII. Dottrina sociale della Chiesa | Giovanni XXIII | Guerra fredda | John Fitzgerald Kennedy | Nikita Krusciov | Pace | URSS | USA immagini bussola Sonia Frangi Finestre 2014: Parabole 247-248 bibbia aperta / Assumersi la responsabilità di Stefano Bittasi SJ 250-253 tools / Paul Ricœur e l’«uomo capace» di Secondo Bongiovanni SJ 254-258 recensione / La vita buona nell’economia e nella società di Giorgio Nardone SJ 259-261 vetrina / Libri, film, eventi 262-264 179 contatti e informazioni Padre Gianfranco Matarazzo è stato nominato nuovo Provinciale d’Italia della Compagnia di Gesù. Succederà nell’incarico a padre Carlo Casalone. Padre Matarazzo è nato a Teano (Caserta) nel 1963. Il 10 maggio 2003 è stato ordinato sacerdote e inviato al Centro Arrupe di Palermo, del quale è diventato direttore nel 2010. Dal 2006 è membro della redazione palermitana di Aggiornamenti Sociali. Amministrazione: tel. 0286352.423 [email protected] Ufficio Abbonamenti: tel. 0286352.424 [email protected] Ufficio stampa: tel 02.86352.414 [email protected] Redazione di Milano: tel. 0286352.415 [email protected] Biblioteca e documentazione: tel. 0286352.421 [email protected] Redazione di Palermo: tel. 0916269744 [email protected] www.aggiornamentisociali.it www.facebook.com/aggiornamentisociali.rivista www.twitter.com/aggsoc Per abbonarsi –Con carta di credito su www.aggiornamentisociali.it –In posta: conto corrente postale n. 52520731 intestato a “Aggiornamenti Sociali, Piazza San Fedele 4, 20121 Milano” –Con bonifico bancario: IBAN IT 22 V 05216 01630 0000 0000 6433, intestato a “Fondazione Culturale San Fedele” - Credito Valtellinese Nel rispetto del D.Lgs. n. 196/2003 («Codice in materia di protezione dei dati personali»), Aggiornamenti Sociali garantisce che i dati personali relativi agli abbonati sono custoditi nel proprio archivio elettronico con le opportune misure di sicurezza. Tali dati sono trattati conformemente alla normativa vigente, non possono essere ceduti ad altri soggetti senza espresso consenso dell’interessato e sono utilizzati esclusivamente per l’invio della Rivista e iniziative connesse. Conflitti sociali e strumenti di governance al tempo dell’impresa liquida editoriale Giacomo Costa SJ Direttore di Aggiornamenti Sociali <[email protected]> Paolo Foglizzo Redazione di Aggiornamenti Sociali <[email protected]> L e cronache recenti hanno dato ampio spazio alle vicende di alcune grandi imprese: la neonata FIAT Chrysler Automobiles (FCA) che pone la propria sede legale nei Paesi Bassi e quella fiscale a Londra; Electrolux, che minaccia di trasferire la produzione di elettrodomestici in Polonia; l’ennesimo “salvataggio” di Alitalia, che per sopravvivere deve accettare di entrare nell’orbita della compagnia aerea di Abu Dhabi, Etihad. Si tratta di tre casi, certamente significativi, ma non isolati od originali. Negli stessi giorni, ad esempio, il produttore di piastrelle Del Conca inaugurava un nuovo stabilimento in Tennessee (USA), mentre attende da 10 anni i permessi per ampliare l’impianto in Romagna. Nell’intervista apparsa sul n. 1 (2014) di Limes, intitolata «Finmeccanica è orgogliosamente italiana, ma anche “polacca”», Alessandro Pansa, amministratore delegato del colosso dell’industria aerospaziale e della difesa, il cui socio di maggioranza è il Ministero del Tesoro italiano, risponde alla domanda «Che cos’è la Polonia per Finmeccanica?» con queste parole: «È un mercato domestico, proprio come l’Italia, gli Stati Uniti o la Gran Bretagna». Non è un fenomeno solo italiano: in Francia, secondo alcune indiscrezioni, il piano di salvataggio del gruppo Peugeot-Citroën potrebbe prevedere l’ingresso dello Stato (francese) e dell’azienda automobilistica cinese Dongfeng nel capitale della società, a fianco della famiglia Peugeot che ne perderebbe il controllo. Spostandoci oltre Atlantico, a fine gennaio Google ha annunciato la vendita di Motorola Mobility (produttore di telefoni cellulari) alla cinese Lenovo, che nel 2005 aveva già acquisito la divisione personal computer di IBM. Aggiornamenti Sociali marzo 2014 (181-188) 181 Le notizie sul trasferimento di imprese e stabilimenti generano timore per ulteriori perdite di posti di lavoro e richieste di interventi governativi per bloccare questa dinamica. Per quanto comprensibili, queste reazioni rischiano di arrestarsi ai sintomi, mentre è necessaria una lettura più profonda del fenomeno. Siamo di fronte all’onda lunga della globalizzazione, che prosegue indipendentemente dalle vicende nazionali e, tutto sommato, anche dall’andamento della crisi economica mondiale: è lo scenario al cui interno dobbiamo proiettare l’economia, la politica e, in qualche modo, tutta la nostra vita. Che la globalizzazione sia un fenomeno complesso, sfaccettato e ambiguo (cioè con aspetti positivi e negativi al tempo stesso), non è una novità; soprattutto richiede di essere governata e indirizzata perché i benefici vadano a vantaggio di tutti e non solo di pochi. In questa linea proporremo alcune riflessioni, necessariamente limitate, che puntano a meglio comprendere quanto accade e a identificare i conflitti in corso: senza questa crescita in capacità di discernimento dei fenomeni socioeconomici, rischiamo di sbagliare l’obiettivo delle nostre battaglie e di perdere la possibilità di orientare i processi nella direzione del bene comune. Le imprese non hanno (più) passaporto I fenomeni di cui ci stiamo occupando sono la conseguenza più recente di un intreccio di dinamiche in corso da decenni. La drastica riduzione dei costi di trasporto consente di produrre merci in aree anche molto distanti dai mercati ove sono vendute, senza renderne il prezzo esorbitante. Il vertiginoso sviluppo delle tecnologie informatiche rende possibile il governo di processi produttivi e distributivi su scala globale: una vera e propria rivoluzione manageriale, che consente il coordinamento in tempo reale di attività sparse nel mondo intero. Inoltre, da almeno trent’anni l’evoluzione della normativa che disciplina l’attività economica è ispirata a un progressivo abbattimento delle barriere al commercio internazionale. Viviamo nell’epoca della libera circolazione: dei capitali innanzi tutto, che possono spostarsi alla ricerca del massimo profitto; delle merci, che viaggiano alla ricerca dei consumatori disposti a comprarle a un prezzo più alto; e, pur con limitazioni molto più stringenti, anche delle persone, che si spostano alla ricerca di opportunità di lavoro. La conseguenza è che lo scenario sul quale le imprese proiettano le proprie scelte prescinde in larga misura dai confini nazionali. Dobbiamo imparare a considerarle come soggetti senza passaporto o, forse, con molti passaporti. Ad esempio FIAT, ormai 182 Giacomo Costa SJ – Paolo Foglizzo editoriale diventata FCA, è un produttore globale di automobili con sede legale nei Paesi Bassi, sede fiscale nel Regno Unito, mercato borsistico di riferimento a Wall Street, un assetto proprietario aperto ad azionisti di ogni parte del mondo (per lungo tempo una partecipazione consistente è stata in mani libiche), sedi operative principali in Italia e USA, impianti in svariati Paesi del mondo e filiali commerciali ancora più diffuse: ha davvero senso chiedersi qual è la sua identità nazionale? Assai spesso per le imprese, anche medie e piccole, l’internazionalizzazione è una scelta obbligata per cercare di sopravvivere a una competizione sempre più serrata. In questo scenario anche i conflitti che da sempre oppongono i diversi attori economici e produttivi si modificano drasticamente: è un elemento chiave da tener presente per non leggere la realtà di oggi sulla base di categorie obsolete. Innanzi tutto aumenta il grado di competizione tra produttori: solo pochi decenni fa sul mercato europeo le auto prodotte in Corea non erano in condizione di fare concorrenza a quelle prodotte in Italia. Oggi lo sono. Anzi, questo è esattamente l’obiettivo delle politiche di libera circolazione, nella convinzione che maggiore concorrenza metta a disposizione dei consumatori prodotti migliori e meno cari. Il che in molti casi accade. Ovviamente l’aumento della competizione comporta un incremento dei rischi per le imprese: errori e inefficienze rischiano di costare molto cari in termini di perdita di quote di mercato. Di qui la pressione per ottenere una flessibilità sempre più elevata. La concorrenza ha inoltre assunto una dimensione “geopolitica”: oggi sono i Paesi a competere tra di loro per attirare investimenti produttivi sul proprio territorio, come è successo tra Italia e Serbia nel momento in cui FIAT ha scelto dove localizzare l’impianto che avrebbe prodotto la 500L. Cresce anche la competizione fra lavoratori di aree diverse, come ci ricorda il caso Electrolux. A differenza delle imprese, tuttavia, i sistemi di tutela dei diritti dei lavoratori (sindacati, diritto del lavoro, welfare, ecc.) restano ancorati ai confini nazionali e questo introduce elementi di tensione e di disequilibrio nelle relazioni tra capitale e lavoro. Da tempo gli esponenti più lungimiranti del mondo sindacale hanno chiara la necessità di una globalizzazione dei diritti e delle tutele, anche se questo stenta a tradursi in pratica. Infine, emerge con prepotenza il conflitto tra consumatori e lavoratori: la possibilità di acquistare prodotti tessili a basso costo provenienti dall’Asia meridionale e orientale grazie all’eliminazione di dazi e barriere all’importazione rappresenta una opportunità per i consumatori italiani; ma non si può dire lo stesso per quanti lavoConflitti sociali e strumenti di governance al tempo dell’impresa liquida 183 ravano nelle industrie tessili che non hanno retto la concorrenza o che, per riuscirci, hanno delocalizzato la produzione. Appare qui con evidenza l’ambivalenza della globalizzazione: le opportunità per alcuni (imprese, ma anche Stati, lavoratori, consumatori) diventano una condanna per altri. Si tratta di due facce della stessa medaglia, che non è possibile districare, anche se, molto spesso, l’accesso alle opportunità risulta possibile (o almeno molto più agevole) a chi occupa una posizione di forza o di privilegio. Per questo tutti gli indicatori ci dicono che l’era della globalizzazione è anche un’epoca di disuguaglianze crescenti. Spunti di riflessione in prospettiva italiana In questo quadro le tensioni tendono a scaricarsi con particolare intensità sul livello nazionale, al quale è rimasta ancorata la politica: è ai Governi nazionali che si rivolge l’appello – talvolta il “comandamento” – di non interferire con la “mano invisibile” del mercato; che, alle prime avvisaglie di crisi, si trasforma in richieste di aiuto e programmi di sostegno. E sono i Governi nazionali a doversi fare carico delle conseguenze delle delocalizzazioni, in termini di ammortizzatori sociali quando queste avvengono, o di concessione di incentivi quando sono solo minacciate. Si tratta di una partita politica estremamente delicata, in cui i principi sono chiari – evitare che a farne le spese siano sempre i più poveri e i meno favoriti –, ma non altrettanto le modalità di concretizzarli, che devono essere innovative per tenere il passo dell’evoluzione dell’economia. La prospettiva nazionale, dunque, mantiene la sua pertinenza per quanto attiene all’orientamento dei processi. È necessario però cambiare lo sguardo. Presentiamo qui tre spunti a partire dalla situazione italiana, che suggeriscono piste per una politica industriale sostenibile ed efficace nel mondo dell’impresa liquida. a) Non è solo questione di costo del lavoro Affermare che le delocalizzazioni sono la risposta delle imprese a un eccessivo costo del lavoro è ormai diventato un luogo comune. In realtà alcuni studi (cfr ad esempio Accetturo A. et al., «Il sistema industriale italiano tra globalizzazione e crisi», Questioni di economia e finanza, n. 193, Banca d’Italia, luglio 2013) suggeriscono una maggiore cautela: la questione della produttività – il vero fattore critico in termini di competitività internazionale – non può essere ridotta alla dinamica salariale. La Germania oggi ha problemi di produttività e di competitività internazionale assai minori dell’Italia, ma il costo del lavoro tedesco è ben più elevato di quello italiano. 184 Giacomo Costa SJ – Paolo Foglizzo editoriale La produttività è infatti un fenomeno estremamente complesso, che dipende non tanto dai prezzi dei singoli fattori produttivi, quanto dalla loro disponibilità adeguata (in termini quantitativi e qualitativi) e dalla loro interazione. Il deficit di produttività di cui l’Italia soffre è dunque un problema sistemico: imputarlo unicamente alla dinamica dei salari ne occulta le reali dimensioni e soprattutto rischia di fare il gioco di chi cerca di speculare per ridurre ulteriormente il “prezzo” del lavoro. Anzi, i lavoratori italiani già pagano le conseguenze della scarsa produttività del sistema Italia, a cui va addebitato il fatto che i salari reali italiani siano notevolmente inferiori a quelli dei principali Paesi dell’Europa occidentale. Il che, tra l’altro, contribuisce a spiegare la contrazione dei consumi che rappresenta uno degli ostacoli all’uscita dalla crisi. Serve dunque un’attenzione equilibrata a tutte le determinanti della produttività. Almeno per quanto riguarda il settore manifatturiero, ad esempio, l’energia ha una importanza strategica e le imprese italiane in questo campo devono affrontare costi superiori a quelli dei principali concorrenti europei. Per alcune produzioni (come nel caso della metallurgia) questo fattore può rivelarsi più importante del costo del lavoro nelle decisioni sulla localizzazione di un impianto. Discorsi analoghi valgono per gli altri campi in cui il Paese soffre di un deficit infrastrutturale: dalla congestione del sistema dei trasporti (in particolare in alcune aree) alla minore diffusione della banda larga e ultralarga per l’accesso a Internet. Spingono ugualmente nella direzione della riduzione della produttività le inefficienze della pubblica amministrazione, le lentezze della burocrazia e della giustizia, un sistema scolastico meno competitivo di quello di altri Paesi, l’alto grado di corruzione ed evasione fiscale, un sistema di imposizione fiscale che non incentiva l’attività imprenditoriale, ecc. Sono aree in cui il ritardo storico dell’Italia è aumentato lungo gli ultimi vent’anni, che – come ha affermato L’Osservatore Romano – si sono rivelati «poco utili, almeno sotto l’aspetto della modernizzazione istituzionale ed economica» (Bellizzi M., «Letta si è dimesso. Renzi verso l’incarico», 14 febbraio 2014). Quando i blocchi che si registrano in questi campi risultano insormontabili, tutta la pressione per il mantenimento della competitività si scarica sui salari, cioè sulle spalle dei più deboli. b) Una politica industriale proattiva Agire sui fattori che deprimono la produttività e quindi la competitività del Paese rappresenta l’obiettivo prioritario di una politica industriale adeguata al contesto economico in cui ci muoviamo. Le strategie tradizionali della politica industriale italiana, cioè l’interConflitti sociali e strumenti di governance al tempo dell’impresa liquida 185 vento diretto dello Stato imprenditore (imprese pubbliche, partecipazioni statali, ecc.) e la concessione di incentivi a determinate industrie o settori, si rivelano oggi sostanzialmente impercorribili, sia per l’esigenza di mantenere in equilibrio i conti pubblici (che spinge verso ulteriori privatizzazioni, cioè riduzione del ruolo imprenditoriale dello Stato), sia perché cozzano contro la normativa europea in materia di aiuti di Stato e tutela della concorrenza. Peraltro la loro evoluzione nel tempo ha finito per privilegiarne il carattere difensivo: questo li rende poco adatti a uno scenario dinamico come quello della globalizzazione, soprattutto in un’ottica di medio-lungo termine. Il tempo in cui la politica industriale serviva a creare imprese italiane e poi a difenderle è terminato: il suo obiettivo oggi è dotare il Paese di tutto ciò che serve perché le imprese – italiane, straniere o globali che siano – lo trovino attraente per insediarvi le loro attività. Abbandonare un’ottica difensiva significa anche decidere di puntare sui settori nei quali l’Italia gode di un vantaggio all’interno della competizione globale (dall’agroalimentare al turismo, da moda e design alla manifattura tecnologicamente avanzata), in modo che possano costituire la “locomotiva” a cui agganciare il resto del sistema economico. Questa prospettiva non significa rinunciare alla tutela di chi opera nei settori in cui l’Italia non potrà risultare competitiva: le persone non possono essere abbandonate, ma vanno accompagnate e sostenute in un processo che ne permetta una ricollocazione autenticamente produttiva, nell’ottica di quella che a livello europeo viene definita flessicurezza o flexicurity. Dopo decenni di immobilità, gli ultimi due anni hanno visto interventi di riforma (per ora parziale) degli ammortizzatori sociali ed è in corso un ampio dibattito in vista di passi ulteriori. L’evoluzione sembra andare da strumenti che “guardano al passato”, sostanzialmente all’impiego perduto (come in fondo fa la Cassa integrazione), a programmi che cercano di guardare al futuro, al “lavoro che verrà” (come i sussidi legati a formazione e riqualificazione professionale). Senza entrare nel dettaglio delle singole misure, ci sembra una linea di tendenza promettente. c) Governare la competizione fra Paesi Come abbiamo visto a più riprese, nell’economia globalizzata i Paesi fanno a gara per attirare le imprese. Si tratta di una competizione solo parzialmente regolata da strumenti giuridici internazionali (su diversa scala), ed è assai elevato il rischio di dinamiche che la letteratura economica identifica con l’espressione inglese beggar thy neighbour (impoverisci il tuo vicino): un continuo gioco al ribasso nel tentativo di “farsi le scarpe” a vicenda. 186 Giacomo Costa SJ – Paolo Foglizzo editoriale Classicamente queste politiche conducevano a un progressivo aumento dei dazi sulle importazioni e dei sussidi alle esportazioni per sottrarre quote di mercato ai Paesi concorrenti: queste pratiche sono oggi proibite e sanzionate, almeno a livello UE. Ma dinamiche analoghe possono scatenarsi per quanto riguarda regimi fiscali sempre più vantaggiosi, o un diritto commerciale o del lavoro, o una legislazione ambientale sempre più accondiscendente, con l’unico effetto di accrescere i margini di profitto delle imprese a danno dei bilanci pubblici o dei diritti dei lavoratori. La Commissione europea, così occhiuta nella repressione degli aiuti di Stato e scrupolosa nella difesa della libertà di circolazione, non sembra esserlo altrettanto su questi fronti. In un orizzonte di lungo periodo, è del tutto legittimo che l’Italia, qui con gli altri Paesi dell’UE, si proponga come obiettivo l’identificazione di adeguate forme di governance della competizione fra Stati in materia fiscale e di diritto societario. Anzi, la creazione di un vero mercato unico nella prospettiva dell’economia sociale – quella che l’UE ha scelto – lo esige come componente irrinunciabile. Del resto è ormai riconosciuto a livello scientifico che un eccesso di competizione fiscale può risultare dannoso per il buon funzionamento dell’economia. Sappiamo bene quanto possano essere lunghi e faticosi i processi in sede europea (e ancora di più a livello globale), ma non è un motivo per rinunciare a porre i problemi. I progressi registrati in materia di unione bancaria europea e di paradisi fiscali a livello globale mostrano che è possibile agire anche su questi piani. Non solo Stato Qualunque politica industriale proattiva che raggiunga il risultato di rendere l’Italia un luogo adatto a fare impresa sarà frustrata se poi non ci saranno imprenditori. Questo è un fattore cruciale per il successo di una politica economica. Da questo punto di vista, alcune statistiche recenti segnalano come l’Europa presenti un deficit rispetto ad altre regioni del mondo per quanto riguarda la propensione all’imprenditorialità (cfr European Commission, Entrepreneurship in the EU and Beyond, Flash Eurobarometer 354, 2013). Nel caso dell’Italia, si aggiunge il problema del radicamento familiare di buona parte delle medie e piccole imprese, che rappresentano una quota molto più elevata che all’estero. Lo studio delle loro storie mostra come spesso, di fronte a prospettive di crescita che richiederebbero il passaggio a una forma organizzativa più complessa o investimenti troppo onerosi per i proprietari, questi preferiscano rinunciare alle opportunità per non perdere il controllo dell’attività. Ovviamente questo frena la dinamicità complessiva del sistema. Conflitti sociali e strumenti di governance al tempo dell’impresa liquida 187 La risposta che ci permetterà di “agganciare” la ripresa non si gioca dunque solo sul piano delle politiche o del quadro normativo e fiscale: non è solo responsabilità dello Stato e della politica. Entrano in gioco anche precisi fattori culturali, inerenti alla propensione al rischio, alle scelte di investimento, alle prospettive di vita. Da questo punto di vista la demografia gioca contro di noi: in modo quasi naturale la propensione a investire e a intraprendere, e la capacità di innovare, si riducono al crescere dell’età e questo può risultare preoccupante in un Paese in cui la percentuale di giovani continua a diminuire. Altrettanto importanti sono gli orientamenti culturali di fondo rispetto a ciò a cui una società dà valore e promuove, anche attraverso le leggi che si dà. Ormai da tempo nell’immaginario collettivo finanza e speculazione hanno sostituito industria e manifattura come fonti per acquisire ricchezza e potere. Lo stesso accade nelle scelte di destinazione del risparmio: gli impieghi speculativi, anche grazie al moltiplicarsi degli strumenti finanziari e alle prospettive di redditività che promettono, soppiantano man mano quelli legati all’economia reale e al mondo produttivo. Una dinamica di questo genere non è priva di conseguenze in termini di vitalità del tessuto imprenditoriale. Tocchiamo qui uno tra i più profondi conflitti che percorrono la nostra società: quello tra coloro che guadagnano producendo (lavoratori e imprenditori stanno entrambi da questo lato) e coloro che guadagnano perché godono di una qualche forma di rendita, che si tratti di quella di matrice speculativa (immobiliare o finanziaria) o di quella derivante dall’occupare posizioni di potere o di privilegio (le tante caste professionali, le cui elevate remunerazioni sono difese da barriere ben presidiate). Non è un caso che proprio su quest’ultimo scoglio si siano infranti i tentativi di modernizzazione e liberalizzazione che pure a varie riprese erano stati avviati. A farne le spese sono, ancora una volta, quei soggetti economici produttivi che già devono fare i conti con gli altri fattori che deprimono la competitività del Paese. Intervenire su queste dinamiche è un problema squisitamente politico, in quanto attiene alla ripartizione di costi e benefici all’interno del corpo sociale. Ma la sua soluzione non può essere demandata alla sola politica: richiede infatti che nella società maturi il consenso a sostegno delle riforme. Serve grande forza politica per poter avere la libertà (dai poteri precostituiti e dagli interessi di parte) necessaria a liberalizzare il sistema. Se non la si vuole giocare solo sulla depressione dei livelli salariali, è questa la strada per vincere la sfida della competitività. 188 Giacomo Costa SJ – Paolo Foglizzo approfondimenti Gli snodi del vivere in comune attraverso lo studio degli esperti oltre la notizia Una lettura critica dell’attualità ricerche e analisi Parole e numeri per narrare i fenomeni sociali cristiani e cittadini Alla riscoperta dell’insegnamento sociale della Chiesa immagini Icone della società di oggi mappe punti di vista Opinioni e idee con cui confrontarsi Prospettive per una «buona politica» punti di vista Papa Francesco e le intuizioni di Sturzo Bartolomeo Sorge SJ Direttore emerito di Aggiornamenti Sociali L’Editoriale dello scorso numero 1 suggeriva come il testo della Evangelii gaudium da un lato offra stimoli per una lettura più approfondita delle dinamiche politiche e sociali italiane, pur non essendo stata scritta per questo scopo; dall’altro, come affrontarne la lettura a partire dalla concretezza di una situazione specifica permetta di coglierne la ricchezza e la forza. ln una lezione tenuta il 16 gennaio 2014 al Corso di formazione sociopolitica d’ispirazione cristiana promosso dal Quinto decanato della Diocesi di Napoli, di cui pubblichiamo il testo, il direttore emerito della Rivista rilegge alcuni passaggi dell’Esortazione apostolica alla luce dell’ispirazione del popolarismo sturziano: il dialogo tra Sturzo e papa Francesco si rivela fecondo per una migliore comprensione del servizio che i cristiani italiani sono chiamati a rendere in ambito politico. L a lunga crisi della società attuale non poteva non portare con sé anche la crisi della politica. Una crisi di natura strutturale, etica e culturale, il cui sintomo forse più allarmante è l’espandersi del fenomeno del “populismo”, la peggiore infermità che possa colpire la democrazia. Si tratta di una degenerazione devastante che, insieme con il fenomeno dell’“antipolitica”, alligna ogni qual 1 Costa G., «Italia: verso la Repubblica 3.0», in Aggiornamenti Sociali, 2 (2014) 93-101. 190 Aggiornamenti Sociali marzo 2014 (190-199) punti di vista volta la politica perde l’anima etica e la carica ideale. “Populismo” significa privilegiare il rapporto diretto con il popolo e con la piazza, anziché passare attraverso le istituzioni e le regole di mediazione politica, proprie della democrazia rappresentativa. È una infermità che può risultare mortale, perché, se non è curata prontamente, delegittima le istituzioni e le regole democratiche, alimenta il qualunquismo e il pragmatismo, genera forme inaccettabili di intolleranza. Proprio per prevenire tale rischio, la nostra Carta repubblicana nel suo primo articolo, dopo aver ribadito che «la sovranità appartiene al popolo», aggiunge che essa va esercitata «nelle forme e nei limiti della Costituzione». Il populismo nega appunto questo principio fondamentale, porta a sottovalutare gli istituti della rappresentanza democratica a cominciare dai partiti e dallo stesso Parlamento, fino a vedere nel bilanciamento dei poteri (strumento fondamentale per il retto funzionamento del sistema democratico) e nelle istituzioni di tutela democratica (quali il Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale) non una garanzia, ma un ostacolo. I cattolici italiani potrebbero mai assistere inerti a questa dissipazione del patrimonio di vita democratica, che hanno contribuito in forma singolare a creare e a difendere, fino a pagare un prezzo altissimo con il sangue di alcuni dei loro uomini migliori? Potremo mai dimenticare la loro decisiva partecipazione all’elaborazione della Carta costituzionale, alla ricostruzione postbellica, alla rinascita della democrazia dopo il ventennio fascista, alla difesa delle libertà democratiche contro l’attacco eversivo del terrorismo, alla costruzione (anzi, all’idea stessa) della “casa comune” europea? Ecco perché è necessario trovare finalmente una soluzione al problema, tuttora irrisolto dopo la fine della DC, di individuare un modo nuovo di fare politica, che, da un lato, tragga i cristiani fuori dalla palude della loro attuale insignificanza e, dall’altro, li metta in grado di contribuire, insieme con tutti i sinceri democratici, al superamento della grave crisi politica. Non si tratta tanto di far rivivere forme vecchie di partiti cattolici, che hanno fatto il loro tempo, quanto appunto di elaborare un modo nuovo di fare politica, per rispondere sia alle sfide inedite che la crisi pone al Paese, sia all’invito a rinnovare l’impegno politico, che viene insistentemente dal concilio Vaticano II e dal costante insegnamento sociale della Chiesa. Oggi, con l’elezione di papa Francesco al soglio di Pietro, si è aperta certamente una stagione nuova della vita della Chiesa e della presenza dei cristiani nel mondo. L’insegnamento “rivoluzionario” contenuto nei gesti e nelle parole del nuovo Papa, pur essendo di Prospettive per una «buona politica» 191 natura strettamente religiosa, non può non portare al rinnovamento anche dell’impegno temporale dei cristiani. In particolare, colpisce che nella recente esortazione apostolica Evangelii gaudium 2 vi siano alcuni passaggi che, senza volerlo direttamente, costituiscono di fatto un aggiornamento del popolarismo sturziano. L’intuizione di don Sturzo è tuttora l’antidoto più efficace contro la deriva del “populismo” e, nello stesso tempo, rimane fino a oggi la traduzione più coerente e insuperata di quanto la dottrina sociale della Chiesa insegna in tema d’impegno politico dei cristiani. Perfino l’insistenza sulla necessità di promuovere la «cultura dell’incontro», che papa Francesco – pastore di «una Chiesa in uscita» – rivolge indistintamente a tutti, richiama da vicino l’Appello che, il 18 gennaio 1919, don Sturzo rivolse non solo ai cattolici, ma a tutti «i liberi e forti», credenti e non credenti. È importante dunque approfondire questa consonanza dell’insegnamento della Evangelii gaudium con gli elementi fondamentali del popolarismo sturziano. Perciò, compiremo tre passi: 1) anzitutto ricorderemo quali sono gli elementi fondamentali del popolarismo sturziano; 2) poi vedremo che il progetto di don Sturzo finora non si è potuto mai realizzare pienamente; 3) infine, chiariremo in che senso alcuni paragrafi della esortazione apostolica Evangelii gaudium costituiscano di fatto – senza volerlo essere direttamente – una rilettura aggiornata e attualizzata del popolarismo sturziano. Il 18 gennaio 1919 don Luigi Sturzo lancia il cosiddetto Appello ai liberi e forti, che segna la nascita del Partito popolare italiano, chiamando a raccolta tutti gli uomini liberi e forti, a prescindere dalla confessione di appartenenza, per dare vita a un partito riformatore, di centro, di ispirazione antifascista, tratteggiando così i punti fondamentali del popolarismo. Ne ricordiamo il celebre incipit: «A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché uniti insieme propugnino nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà». 1. Gli elementi fondamentali del popolarismo sturziano Il popolarismo, più che una elaborazione dottrinale, fu una intuizione. Sturzo non lo concepì a tavolino, non lo dedusse dall’alto della riflessione filosofica, ma lo maturò partendo dal basso, dal terreno concreto dell’azione sociale, nel contatto diretto con le lotte contadine, nella difesa dei ceti medio-bassi, svolgendo le funzioni amministrative che gli vennero affidate. Dinanzi alla necessità di armonizzare le differenti istanze locali, i bisogni e le attese delle classi popolari in vista del bene comune nazionale, l’originalità del popolarismo sta nell’aver intuito che l’antidoto più efficace 2 Papa Francesco, esortazione apostolica Evangelii gaudium [EG], n. 205. Tutti i testi pontifici citati sono disponibili in <www.vatican.va>. 192 Bartolomeo Sorge SJ punti di vista contro il populismo risiede nell’armonizzare quelli che Sturzo considera i quattro elementi fondamentali della buona politica: a) Ispirazione religiosa. Il primo elemento di una buona politica sta – secondo don Sturzo – nel porre l’ispirazione religiosa a garanzia dei diritti civili e delle libertà fondamentali. Egli parte dal presupposto che è necessaria una ispirazione trascendente della politica. La dimensione religiosa (in concreto quella cristiana), nel pieno rispetto della laicità – spiega – non può non avere rilevanza anche politica, perché è «la realizzazione concreta del bisogno dell’assoluto», su cui si fondano diritti e doveri; «l’errore moderno è consistito nel separare e contrapporre umanesimo e cristianesimo: dell’umanesimo si è fatta un’entità divina; della religione cristiana un affare privato […]. Bisogna ristabilire l’unione e la sintesi dell’umano e del cristiano» 3. In ciò Sturzo anticipa quello che anche autorevoli esponenti della cultura laica contemporanea (da Benedetto Croce a Norberto Bobbio, da Ernst-Wolfgang Böckenförde, a Jürgen Habermas) affermano sulla necessità che la politica sia alimentata da valori trascendenti di origine religiosa. Sturzo, che sempre si oppose decisamente a ogni forma di confessionalismo anche mascherato, capì che l’ispirazione religiosa era necessaria alla politica. Lo ammise perfino Benedetto Croce, il quale sosteneva che nessun modello di società poteva stare in piedi senza un fondamento etico, ma – aggiungeva – nessun fondamento etico valido vi poteva essere senza il fondamento di una coscienza religiosa. In ogni caso, Sturzo, convinto assertore della laicità della politica, sosteneva che la necessaria ispirazione non dovesse tradursi nel richiamo formale al nome “cristiano” (infatti, fu sempre contrario al nome di “Democrazia cristiana”), quanto piuttosto nel rigore morale e nella tensione ideale del servizio. b) Laicità. Popolarismo – dice Sturzo –, in secondo luogo, è dare voce a una tendenza della base sociale del Paese, di tutti i «liberi e forti» (credenti e non credenti) che si riconoscono in un programma di cose da fare, ispirato ai valori di un umanesimo trascendente, ma mediati in scelte laiche, condivisibili da tutti gli uomini di buona volontà, in vista del bene politico comune che è laico. Che questa intuizione fosse realizzabile lo dimostra anche la nostra Costituzione repubblicana, i cui valori ispiratori sono chiaramente laici ma, nello stesso tempo, concordano con i principi fondamentali della dottrina sociale della Chiesa: primato della persona, solidarietà, sussidiarietà, bene comune. c) Territorialità. Sturzo inoltre era persuaso che un popolarismo autentico poteva nascere solo dalla base: la società viene prima dello 3 Sturzo L., Politica e morale, Zanichelli, Bologna 1972, 130. Prospettive per una «buona politica» 193 Stato. Era convinto, perciò, del ruolo insostituibile delle autonomie locali, in seguito all’esperienza diretta che ne fece, come consigliere comunale e provinciale e come pro-sindaco di Caltagirone. Venne da qui il suo impegno regionalista, con il quale si adoperò per porre un argine alla deriva dell’individualismo liberista e populista. d) Riformismo coraggioso e responsabile. Dai precedenti elementi fondamentali Sturzo derivava il quarto, cioè la natura necessariamente riformista del popolarismo. Il primato della società civile – dice Sturzo – porta diritto al rifiuto del “conservatorismo” e del “moderatismo” e alla ricerca di un riformismo coraggioso e responsabile: «I conservatori – così conclude il famoso discorso di Caltagirone (24 dicembre 1905) – sono dei fossili, per noi, siano pure dei cattolici; non possiamo assumerne alcuna responsabilità. Ci si dirà: ciò scinderà le forze cattoliche. Se è così, che avvenga. […] Due forze contrarie che si elidono arrestano il movimento e paralizzano la vita». Il vero riformismo, secondo Sturzo, si deve fondare sul nesso tra sussidiarietà e solidarietà. «I mondi vitali, le classi, i Comuni, le Province, le Regioni sono – nella concezione popolare sturziana – gli organi naturali della società. Ognuno di questi organi ha le sue caratteristiche, la sua autonomia, la sua ragion d’essere che nessuno può violare. Nella solidarietà di questi organi tra di loro e in vista del bene comune sta la forza del riformismo democratico, che porta lo Stato a essere sempre più un’espressione adeguata della società, delle sue esigenze, delle sue aspirazioni» 4. 2. Un progetto finora mai completamente realizzato Questo popolarismo, così come l’aveva esposto don Sturzo nell’«Appello ai liberi e forti», si rivelò un’intuizione prematura. In realtà, il progetto sturziano non si è potuto mai realizzare pienamente. Il Partito popolare, fondato dallo stesso Sturzo il 18 gennaio 1919, che doveva essere la traduzione fedele della sua intuizione, di fatto dovette assumere la forma di uno dei tanti partiti ideologici, perché obbligato a confrontarsi con quelli che s’ispiravano all’ideologia socialista, a quella liberale e a quella fascista. Inoltre, ebbe vita breve e gli mancò il tempo di radicarsi nella società: incompreso e ostacolato anche dalla Chiesa, fu soppresso da Mussolini nel 1926. Neppure la DC di De Gasperi, nata in clandestinità nel 1944, pur ispirandosi a Sturzo, ne realizzò pienamente il progetto. Il partito dello Scudo crociato dovette fare i conti – all’esterno – con 4 194 Bartolomeo Sorge SJ Sorge B., Cattolici e politica, Armando, Roma 1991, 276s. punti di vista le condizioni della ricostruzione postbellica, imposte dai vincitori della guerra, e – all’interno – con un mondo cattolico che, passato attraverso il ventennio fascista, era riuscito a sopravvivere, non però a sviluppare una visione politica autonoma. Il concilio Vaticano II non era neppure all’orizzonte. Lo stesso Sturzo non considerò mai la DC come la realizzazione del “suo” popolarismo. Dopo la fine della DC, decapitata da Tangentopoli, furono molti i cattolici che videro con speranza la nascita del nuovo Partito popolare italiano di Mino Martinazzoli, il 18 gennaio 1994. Si fece un gran parlare di “neopopolarismo”, cioè di un aggiornamento dell’intuizione sturziana, ma il salto di qualità non riuscì. Anziché dare vita a un nuovo popolarismo, si finì col riverniciare la vecchia DC. Invece dei neopopolari, nacquero i neodemocristiani. Infatti, il PPI di Martinazzoli vedeva la luce, strutturato ancora secondo gli schemi della forma partito ideologica, proprio nel momento in cui le vecchie ideologie stavano giungendo al capolinea. Le esperienze successive della Margherita (2002), dell’Ulivo (2004) e del Partito democratico (2007), pur movendosi nell’ottica della cultura dell’incontro, caratteristica del popolarismo sturziano, portarono di fatto a coalizioni di compromesso e a un progressivo svuotamento dell’ideale originario. Che cosa è mancato o non ha funzionato? 3. Le prospettive nuove, aperte da papa Francesco Il ritorno al Vangelo annunziato e testimoniato da papa Francesco ha come scopo principale quello di rimettere in marcia il rinnovamento della vita cristiana iniziato dal concilio Vaticano II e rimasto incompiuto, soprattutto per quanto riguarda la riforma interna della Chiesa. Ovviamente la “rivoluzione” di papa Francesco, con il suo richiamo all’autenticità della fede, apre orizzonti nuovi anche all’impegno sociale e politico dei cristiani. Ora, proprio su questo tema specifico, alcuni paragrafi dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium 5 – in piena continuità con il Concilio e con il magistero sociale recente – propongono un ideale di politica buona, intesa come vocazione e non come professione: «La politica, tanto denigrata – scrive papa Francesco –, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune. Dobbiamo convincerci che la carità “è il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici” [Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 2]. Prego 5 Cfr «Il bene comune e la pace sociale», in Aggiornamenti Sociali, 2 (2014) 102106, che ripropone proprio il testo dei nn. 217-237 della Evangelii gaudium. Prospettive per una «buona politica» 195 il Signore che ci regali più politici che abbiano davvero a cuore la società, il popolo, la vita dei poveri!» (EG, n. 205). Il Papa non si rivolge solo ai fedeli cristiani laici, ma propone a tutti una sorta di «bussola per la buona politica» 6. Enuncia perciò, quasi ne fossero i punti cardinali, quattro «criteri evangelici», necessari per sviluppare «una cultura dell’incontro in una pluriforme armonia» (ivi, n. 220), cioè il bene comune, che è il fine stesso della politica. A questo punto, colpisce il fatto che questi criteri, enunciati da papa Francesco, corrispondano ai quattro elementi fondamentali del popolarismo sturziano, offrendone una rilettura aggiornata e ampliata. Vediamo come. a) Il tempo è superiore allo spazio. Questo è il primo criterio evangelico indicato da papa Francesco. Oggi – egli spiega – è molto forte la tendenza a conquistare spazi di potere sempre maggiori per poter ottenere risultati immediati, di cui c’è urgente bisogno; d’altro canto, non è meno urgente realizzare progetti coraggiosi di riforma, i quali però richiedono tempi lunghi. A quale delle due urgenze dare la precedenza per una buona politica? Alla luce del valore trascendente dell’esistenza umana, il Papa afferma che la precedenza deve andare all’impegno di iniziare i processi di cambiamento, più che preoccuparsi di acquisire spazi sempre più ampi di potere. Dice, perciò, che il tempo è superiore allo spazio. «Sono convinto – scrive papa Francesco – che a partire da un’apertura alla trascendenza potrebbe formarsi una nuova mentalità politica ed economica che aiuterebbe a superare la dicotomia assoluta tra l’economia e il bene comune sociale» (EG, n. 205). Come la semina precede il raccolto, così l’elaborazione di un progetto, ispirato ai valori trascendenti, deve precedere l’impegno di accrescere lo spazio quantitativo del consenso e del potere. Oggi è tempo di seminare, non di raccogliere. Come si vede, il Papa fa una rilettura ampliata di quanto già diceva don Sturzo, quando, escluso ogni confessionalismo e clericalismo, scorgeva nella ispirazione trascendente della religione una condizione necessaria per iniziare i processi di riforma, richiesta da una buona politica. Nel medesimo senso va intesa anche la posizione di papa Ratzinger, quando scrive: «La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità» 7. 6 7 196 Bartolomeo Sorge SJ Cfr in proposito Costa G., «Italia: verso la Repubblica 3.0», cit. Benedetto XVI, enciclica Caritas in veritate [CV], 2009, n. 56. punti di vista b) L’unità è superiore al conflitto. Il secondo criterio evangelico di una buona politica sta – per papa Francesco – nella “cultura dell’incontro”, cioè nell’imparare a vivere uniti rispettandoci nella nostra diversità. «Il conflitto non può essere ignorato o dissimulato. Deve essere accettato. Ma se vi rimaniamo intrappolati, perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si limitano e la realtà stessa resta frammentata. Quando ci fermiamo nella congiuntura conflittuale, perdiamo il senso dell’unità profonda della realtà» (EG, n. 226). La cultura dell’incontro si fonda sulla cosiddetta «laicità positiva», necessaria a superare gli inevitabili conflitti della vita politica e a «sviluppare una comunione nelle differenze» (ivi, n. 228), in un mondo che si globalizza. Laicità diviene cioè sinonimo di solidarietà: diviene, cioè, «uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita» (ivi). E ciò vale non solo nei rapporti tra Stato e Chiesa, ma anche nei rapporti tra partiti e gruppi ideologici diversi, non meno che tra i popoli a livello internazionale. È il medesimo concetto di «laicità positiva», enunciato da Benedetto XVI nel discorso all’Eliseo, il 12 settembre 2008: «In questo momento storico, in cui le culture si incrociano tra loro sempre di più, sono profondamente convinto che una nuova riflessione sul vero significato e sull’importanza della laicità è divenuta necessaria. È fondamentale infatti, da una parte, insistere sulla distinzione tra l’ambito politico e quello religioso al fine di tutelare sia la libertà religiosa dei cittadini sia la responsabilità dello Stato verso di essi e, dall’altra parte, prendere una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società». Pertanto, anche il secondo criterio evangelico proposto da papa Francesco può essere ritenuto un ampliamento di quanto diceva Sturzo sul superamento del vecchio concetto illuministico di laicità, di fronte alla necessità della politica, che, pur essendo laica e dovendo rimanere laica, non può fare a meno di alimentarsi anche alla dimensione trascendente della coscienza religiosa. c) Il tutto è superiore alla parte. Questo terzo criterio evangelico – spiega papa Francesco – chiede che si faccia politica pensando in modo universale, mentre si agisce nel particolare. È necessario fare attenzione alla dimensione globale dei problemi, per non cadere nel provincialismo e nel localismo; nello stesso tempo, però, non va persa di vista la dimensione locale dei problemi, per non finire nel generico o nell’astrattismo: «Bisogna sempre allargare lo sguardo per Prospettive per una «buona politica» 197 riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. […] Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia» (ivi, n. 235). Oggi, con un brutto neologismo, si parla di «glo-cale», un termine che unisce i concetti di globale e locale. Anche questo è un modo ampliato d’intendere il territorialismo di don Sturzo. «Il modello non è la sfera […], dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità. Sia l’azione pastorale sia l’azione politica cercano di raccogliere in tale poliedro il meglio di ciascuno. Lì sono inseriti i poveri, con la loro cultura, i loro progetti e le loro proprie potenzialità» (ivi, n. 236). È la traduzione politica dell’esortazione religiosa insistente di papa Francesco: «Andate alle periferie!». d) La realtà è superiore all’idea. Infine, il quarto criterio evangelico per una buona politica riguarda il rischio, piuttosto frequente, di formulare proposte e promesse chiare, logiche e seducenti, ma irrealizzabili, lontane dalla concretezza della realtà. È la difficoltà di tradurre le idee in realtà. Scrive papa Francesco: «La realtà è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà […] Vi sono politici – e anche dirigenti religiosi – che si domandano perché il popolo non li comprende e non li segue, se le loro proposte sono così logiche e chiare. Probabilmente è perché si sono collocati nel regno delle pure idee e hanno ridotto la politica o la fede alla retorica. Altri hanno dimenticato la semplicità e hanno importato dall’esterno una razionalità estranea alla gente» (ivi, n. 231). La realtà è superiore all’idea. Anche questo è un ampliamento del discorso che Sturzo faceva sulla necessità di un riformismo coraggioso e responsabile, in grado di coinvolgere direttamente l’interesse e la partecipazione dei cittadini, unendo insieme sussidiarietà e solidarietà. «La pace sociale – scrive papa Francesco, spezzando una lancia in favore del riformismo – non può essere intesa come irenismo […]. Sarebbe parimenti una falsa pace quella che servisse come scusa per giustificare un’organizzazione sociale che metta a tacere o tranquillizzi i più poveri, in modo che quelli che godono dei maggiori benefici possano mantenere il loro stile di vita senza scosse mentre gli altri sopravvivono come possono» (ivi, n. 218). Sulla medesima linea si muove Benedetto XVI nella Caritas in veritate. Dopo aver ribadito la necessità di «incentivare la collaborazione fraterna tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace dell’umanità», papa Ratzinger sottolinea: «Il principio di sussidiarietà va mantenuto strettamen198 Bartolomeo Sorge SJ punti di vista te connesso con il principio di solidarietà e viceversa, perché se la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell’assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno» (CV, n. 58). Qual è, dunque, il senso di questi criteri proposti da papa Francesco? Non è certo una intrusione sul piano politico. Lo spiega egli stesso: «Nel dialogo con lo Stato e la società, la Chiesa non dispone di soluzioni per tutte le questioni particolari. Tuttavia, insieme con le diverse forze sociali, accompagna le proposte che meglio possono rispondere alla dignità della persona umana e al bene comune. Nel farlo, propone sempre con chiarezza i valori fondamentali dell’esistenza umana, per trasmettere convinzioni che poi possano tradursi in azioni politiche» (ivi, n. 241). Concludendo, dobbiamo dire che oggi è possibile riattualizzare il popolarismo sturziano, come impegno di tutti per una buona politica, debitamente ripensato, poiché non solo interessa i cristiani impegnati in politica, ma è un valido strumento – offerto a «tutti i liberi e forti» (non solo ai cristiani) – per superare la grave crisi politica attuale, essendo l’efficace antidoto contro il pericolo d’involuzione populista. Nello stesso tempo, l’insegnamento di papa Francesco apre ai cristiani impegnati in politica prospettive nuove e più ampie. È il richiamo non a dar vita a un partito d’ispirazione cristiana, contraddistinto e opposto agli altri, ma a essere tutti missionari, cioè portatori di un ideale alto di politica, fondato sulla cultura dell’incontro, illuminato da valori trascendenti e guidato da criteri etici condivisibili laicamente da tutti. Prospettive per una «buona politica» 199 approfondimenti Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese” Maria Flavia Ambrosanio Professore di Scienza delle Finanze nell’Università Cattolica di Milano, <[email protected]> Paolo Balduzzi Ricercatore di Scienza delle Finanze nell’Università Cattolica di Milano, <[email protected]> L’economia, in perdurante crisi, con il dramma dell’aumento della disoccupazione e senza allentamenti delle esigenze di rigore nei conti pubblici, rappresentava senza dubbio una delle principali sfide del Governo delle “larghe intese”. Lungo il 2013 non sono mancati annunci e promesse: che cosa effettivamente è stato realizzato? In quale direzione si sono mossi i principali provvedimenti di politica economica fino all’approvazione della Legge di stabilità per il 2014? L e elezioni del 24-25 febbraio 2013, con il loro inatteso risultato, hanno aperto una fase di avvitamento del sistema politico, che ha portato alla rielezione del presidente Napolitano e al varo del Governo delle “larghe intese” guidato da Enrico Letta 1. Questo si è posto obiettivi ambiziosi sul fronte dei conti pubblici e della crescita economica, ma la sua azione ha dovuto scontare gli effetti del precario equilibrio su cui si reggeva, sia in termini di visioni divergenti delle forze politiche che lo sostenevano, sia per i numerosi fattori di incertezza dovuti alle repentine trasformazioni dello scenario politico, in particolare a partire dall’estate 2013. Il presente articolo prende in esame i principali provvedimenti in materia economica approvati lungo il 2013, sostanzialmente fino alla Legge di stabilità per il 2014, mettendone 1 Cfr Costa G., «Italia: verso la Repubblica 3.0», in Aggiornamenti Sociali, 2 (2014), 93-101 [N.d.R.]. 200 Aggiornamenti Sociali marzo 2014 (200-213) approfondimenti in evidenza gli effetti e gli aspetti critici. Dall’analisi non si rileva un sostanziale cambiamento di rotta rispetto al passato: nonostante gli annunci, ci troviamo di fronte a interventi poco incisivi per il rilancio dell’economia, nessuna azione per la riduzione degli sprechi, poca attenzione per la diminuzione della pressione fiscale almeno nel breve periodo. Le dimissioni di Enrico Letta da presidente del Consiglio, rassegnate lo scorso 14 febbraio, segnano un mutamento sostanziale del quadro politico. La formazione di un nuovo Governo inciderà anche sulle questioni di politica economica. A riguardo pare perciò doveroso precisare che l’attenzione di questo studio si focalizza sulle misure assunte dal Governo delle “larghe intese”, escludendo quindi qualsiasi considerazione in merito agli orientamenti del nuovo Esecutivo. 1. Lo scenario economico e di finanza pubblica L’economia italiana stenta a riprendersi dalla seconda fase di recessione, iniziata nella seconda metà del 2011 e protrattasi per tutto il 2012, anno in cui si registra una riduzione del Prodotto interno lordo (PIL) del 2,4% in termini reali (cioè al netto dell’effetto dell’inflazione); solo le esportazioni hanno fatto registrare un aumento del 2,5%, mentre sono diminuiti la spesa delle famiglie (-4,3%), gli investimenti (-8%) e le importazioni (-7,7%); è rimasto relativamente basso il tasso d’inflazione, intorno all’1,5%, ma Glossario Amministrazioni pubbliche (PA): ai fini statistici di finanza pubblica, il comparto delle PA risulta composto da amministrazioni centrali, amministrazioni locali ed enti previdenziali. Debito pubblico: insieme delle passività finanziarie delle PA. Indebitamento netto: differenza (negativa) tra entrate complessive e spese complessive delle PA; se positiva è detta accreditamento netto. Pressione fiscale: rapporto fra le risorse prelevate dalle PA (come imposte, tasse, tributi e contributi sociali) e il PIL. Rappresenta un indicatore sintetico della quota di reddito prelevata dalle PA. Saldo primario: differenza fra entrate totali e spese totali delle PA, al netto degli interessi passivi. Si definisce avanzo se è positiva, disavanzo o deficit nel caso opposto. Spesa corrente: spesa per il funzionamento delle PA (ad es.: stipendi dei dipendenti pubblici, medicinali a carico del SSN, riscaldamento degli edifici pubblici, benzina per le ambulanze, ecc.) e per far fronte alle loro obbligazioni (pagamento delle pensioni e degli interessi passivi sul debito). Spesa corrente primaria: spesa corrente al netto degli interessi passivi sul debito pubblico. Spese in conto capitale: investimenti diretti delle PA (ad es. per realizzare nuove infrastrutture) e trasferimenti in conto capitale, compresi i contributi a investimenti realizzati da soggetti a esse esterni (ad esempio sostegni all’ammodernamento tecnologico delle imprese). Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese” 201 è drammaticamente aumentato quello di disoccupazione, che ha rag2011 2012 2013 2014 giunto il 10,7%. Spese correnti primarie 42,4 42,6 43,2 42,5 Il quadro del 2013 non è molto più roseo: si Spese per interessi passivi 5,0 5,5 5,4 5,4 è registrata una ulterioSpese correnti totali 47,4 48,1 48,6 47,8 re caduta del PIL reale Spese in conto capitale 3.0 3.1 3.3 2.8 (-1,8% circa, attestandoSpese totali 50,4 51,2 51,9 50,7 si su un livello lievemenEntrate tributarie 28,8 30,2 30,3 30,4 te inferiore a quello del 2009), della spesa delle Contributi sociali 13,7 13,8 14,0 13,8 famiglie (-2,5%) e degli Entrate totali 46,6 48,1 48,7 48,3 investimenti (-5,5%), Pressione fiscale 42,5 44,0 44,3 44,2 mentre il tasso di diSaldo primario 1,2 2,5 2,3 2,9 soccupazione è salito al 12,7% (ma nel terzo Indebitamento netto 3,8 3,0 3,1 2,5 trimestre 2013 ha supeDebito pubblico 120.8 127.0 132.9 132.8 rato il 40% per la comFonte: Nota di Aggiornamento del DEF, settembre 2013 ponente giovanile, tra i 15 e i 24 anni di età). La situazione italiana appare ancora più debole se si considera che la contrazione del PIL reale nell’area euro è stata dello 0,6% nel 2012 e intorno allo 0,4% nel 2013. Solo Grecia e Portogallo hanno conseguito risultati peggiori dell’Italia. Secondo la Nota di Aggiornamento del Documento di economia e finanza (DEF) 2013 2, presentata dal Governo lo scorso 20 settembre, si intravedono prospettive di ripresa nel corso del 2014, con una previsione di crescita del PIL reale intorno all’1%; tuttavia, Banca d’Italia e Fondo monetario internazionale formulano una previsione meno ottimistica (crescita del PIL tra lo 0,6 e lo 0,7%), che si confronta con l’1% circa dell’area euro e dell’intera UE. La ripresa sarebbe trainata soprattutto da esportazioni e investimenti delle imprese. Nonostante la politica di bilancio sia stata improntata al massimo rigore con l’obiettivo della “tenuta” dei conti pubblici, i risultati scontano inevitabilmente gli effetti della recessione. La Tab. 1 illustra l’andamento dei principali aggregati di finanza pubblica nel 2011, 2012 (consuntivo), 2013 (preconsuntivo) e 2014 (previsioni a legislazione vigente). Nel 2012, rispetto al 2011, l’indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche si è ridotto dal 3,8% al 3% del PIL, permet- tabella 1 Il quadro di finanza pubblica (dati espressi in % rispetto al PIL) 2 202 Disponibile in <www.tesoro.it>. Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi approfondimenti tendo così la chiusura della procedura per i disavanzi eccessivi, avviata dall’UE nel 2009, e il saldo primario è aumentato dall’1,2% al 2,5% del PIL; ha continuato invece a crescere il debito pubblico fino al 127% del PIL. La dinamica delle entrate pubbliche è stata determinata da due fattori di segno opposto: la recessione ha agito in senso riduttivo del gettito, per la contrazione delle basi imponibili delle principali imposte, mentre la manovra restrittiva attuata nella seconda metà del 2011 ha determinato un aumento del carico fiscale; ne è risultato un aumento della pressione fiscale dal 42,5% al 44% del PIL. Le spese complessive sono aumentate dal 50,4% al 51,2% del PIL, soprattutto per i maggiori oneri per interessi passivi; hanno segnato una crescita molto modesta le spese correnti primarie e le spese in conto capitale. In relazione alle prime, occorre osservare che l’aumento delle prestazioni sociali (ad esempio gli ammortizzatori sociali) è stato in parte compensato da minori spese per il personale e per consumi intermedi. Il preconsuntivo per il 2013 indica un lieve peggioramento dei saldi: indebitamento netto al 3% del PIL, saldo primario al 2,3% e ancora una crescita sostenuta del debito pubblico, che dovrebbe attestarsi circa al 133% del PIL; la pressione fiscale è ancora lievemente aumentata al 44,3% del PIL, mentre la spesa pubblica risente soprattutto dell’aumento della spesa pensionistica. Le previsioni per il 2014 indicano invece un netto miglioramento di tutti i parametri rilevanti di finanza pubblica, anche sulla base delle migliori prospettive economiche (sperando che non si sia ecceduto nell’ottimismo). Indebitamento netto Saldo primario Pressione fiscale Spesa primaria Interessi passivi Debito pubblico 4,9 -2,3 46,4 54,0 2,6 90,2 Germania -0,2 2,6 40,4 42,5 2,5 81,9 Grecia 10,0 -5,0 36,5 49,8 5,0 156,9 Italia 3,0 2,5 44,0 45,6 5,5 127,0 Portogallo 6,4 -2,0 34,4 43,0 4,4 123,6 Spagna 10,6 -7,7 33,2 44,0 3,0 84,2 Svezia 0,7 0,2 44,5 51,1 0,9 38,2 Regno Unito 6,3 -3,4 36,9 45,5 3,0 90,0 Area euro 3,7 -0,6 41,3 46,8 3,1 90,6 UE 27 4,0 -1,0 40,3 46,5 2,9 85,3 Paesi Francia Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese” tabella 2 Indicatori di finanza pubblica in Europa (2012, in % del PIL) 203 Il confronto con i partner europei consente di identificare il tallone d’Achille del nostro Paese. La Tab. 2 (alla p. precedente), che si riferisce al 2012, mostra che la spesa primaria italiana (in rapporto al PIL) è più bassa della media dell’area euro e dell’intera UE; i saldi di bilancio sono di gran lunga migliori della media; la pressione fiscale è sopra la media. Il problema, o meglio il padre di tutti i problemi, è l’enorme accumulo di debito, che, come abbiamo visto, continua a crescere nonostante le politiche restrittive, a causa della recessione: è il serpente che si morde la coda! Che cosa è stato fatto per tentare di uscire dal circolo vizioso in cui ci troviamo? Non molto, per lo più piccoli interventi, spesso confusi e contraddittori, per dare “un colpo al cerchio e uno alla botte”, senza rendere chiare le effettive priorità, al di là delle affermazioni di principio, che appaiono ormai quasi degli slogan pubblicitari. L’analisi che segue dei provvedimenti del Governo Letta ne è una chiara dimostrazione. 2. Le misure del Governo Letta prima della Legge di stabilità Nel corso dei primi mesi del proprio mandato, il Governo Letta ha approvato diverse misure con la finalità, per usare le sue parole, di «rilanciare l’economia», ma anche di stabilizzare i conti pubblici. Si tratta di ben nove decreti legge, che hanno affrontato materie diverse, dal finanziamento degli ammortizzatori sociali all’IMU sull’abitazione principale, dalle aliquote dell’IPrincipali provvedimenti del Governo Letta, VA all’aumento delle maggio-dicembre 2013 accise, dalle spese della Pubblica amministrazioDL 54/2013, L. 85/2013: Finanziamento degli ammortizzatori sociali e sospensione IMU. ne alla fiscalità locale (cfr riquadro a lato). DL 63/2013, L. 90/2013: Agevolazioni fiscali per il recupero del patrimonio edilizio. La Tab. 3 ne sintetizza gli effetti sui conDL 69/2013, L. 98/2013: Decreto del “fare”. ti pubblici. Per quanto DL 76/2013, L. 99/2013: Disposizioni in materia di IVA. riguarda le entrate, nel DL 91/2013, L. 112/2013: Aumento accise. 2013 la previsione di DL 101/2013, L. 125/2013: Razionalizzazione della spesa maggiore gettito deriva per il personale nella P.A. dall’aumento degli acDL 102/2013, L. 124/2013: IMU, fiscalità immobiliare e conti IRPEF (Imposta locale, debiti P.A. sul reddito delle persone DL 104/2013, L. 128/2013: Fiscalità immobiliare e altri fisiche) e IRES (Imposta interventi. sul reddito delle società) DL 120/2013, L. 137/2013: Fiscalità locale. da versare a fine anno (secondo una tradizione Fonte: Banca d’Italia; Ministero dell’economia e delle finanze 204 Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi ben consolidata quando occorre fare Effetti dei provvedimenti del Governo Letta, maggio-dicembre 2013 cassa) per circa 865 milioni, dall’incasso (milioni di euro) dell’IVA (Imposta sul valore aggiunto) sui debiti pagati dalla Pubblica Ammi2013 2014 nistrazione (925 milioni) e dal recupero Maggiori entrate 3.305 1.780 di imposte dovute dai concessionari di Minori entrate 3.779 1.083 slot machine (600 milioni). Per il 2014, Variazione netta entrate -474 697 invece, si tratta soprattutto di aumenti Maggiori spese 1.054 2.053 delle imposte indirette, in particolare IVA e accise (1,25 miliardi). Nel bienMinori spese 1.596 1.683 nio 2013-2014 si stimano maggiori Variazione netta spese -542 370 entrate per circa 5 miliardi di euro, soEffetti sull’indebitamento -68 -326 stanzialmente compensate dalle perdite netto della P.A. di gettito (circa 4,9 miliardi di euro nel Fonte: Nota di Aggiornamento al DEF, settembre 2013 biennio), derivanti principalmente dal differimento dell’aumento dell’IVA al 22% (previsto in origine al 1° luglio e poi rinviato al 1° ottobre 2013, con minori entrate per circa 1 miliardo) e dall’abolizione dell’IMU sull’abitazione principale (-2,4 miliardi; cfr Scheda a p. 214). Sul fronte della spesa, gli interventi più significativi riguardano il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali in deroga, il cosiddetto “sblocco” di alcuni cantieri di lavori pubblici e interventi nel campo dell’edilizia scolastica; sono comunque più che compensati dalla riduzione di altre spese (in particolare dotazione di Fondi vari e consumi intermedi). L’effetto di questo insieme di misure sui conti pubblici è praticamente impercettibile. Di scarsissimo rilievo è anche quello sull’economia, valutato dal Governo stesso in 0,1 punti di PIL: «Tanto rumore per nulla!», verrebbe voglia di commentare. tabella 3 approfondimenti 3. La Legge di stabilità L’effetto complessivo della manovra prevista dalla Legge di stabilità per il 2014 3 ha un segno espansivo, in quanto produce un aumento dell’indebitamento netto per circa 2,5 miliardi di euro (cfr Tab. 4 alla p. seguente); questo si attesterebbe al 2,5% del PIL e il saldo primario aumenterebbe al 2,9% del PIL. Il segno espansivo deriva interamente dall’aumento della spesa (maggiori spese nette per 4,6 miliardi), mentre dal lato delle entrate si tratta ancora una volta di una manovra restrittiva (maggiori entrate nette per poco più di 2 miliardi); in sintesi, dunque, più tasse e più spesa pubblica: anche questa non è una novità. 3 Legge 27 dicembre 2013, n. 147, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014). Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese” 205 tabella 4 a) La manovra sulle entrate Le misure contenute nella Legge di stabilità producono minori entrate per circa 6 miliardi di euro. La perdita di gettito più rilevante, circa 1,5 miliardi di euro, deriva dall’aumento delle detrazioni IRPEF per i redditi da lavoro dipendente e assimilati. Il risparmio d’imposta sarà massimo per chi ha un reddito intorno ai 15.000 euro e pari a circa 220 euro, un ammontare abbastanza esiguo. A fronte dell’aumento di queste detrazioni era originariamente prevista una revisione di La manovra per il 2014 quelle per oneri personali (ad esempio spe(in milioni di euro) se mediche), che avrebbe garantito maggiori entrate per circa 500 milioni (compenMinori entrate 6.080,8 sando dunque gli sgravi introdotti per circa Maggiori entrate 8.212,4 un terzo). Questa revisione avrebbe dovuto essere attuata entro il 31 gennaio 2014, Maggiori entrate nette 2.131,6 tenendo conto dell’esigenza di tutelare le Minori spese 3.987,1 persone invalide, disabili o non autosufMaggiori spese 8.576,6 ficienti. In mancanza del provvedimento in questione si sarebbe proceduto al taglio Maggiori spese nette 4.589,4 lineare, con la riduzione dell’aliquota dal Aumento dell’indebitamento netto 2.457,8 19% al 18% per le spese sostenute nel 2013 e al 17% per quelle sostenute nel 2014. Al momento in cui scriviamo sembra invece che si eviteranno questi tagli recuperando risorse dalla spending review. Le altre perdite di gettito più consistenti riguardano: la proroga delle detrazioni per interventi di ristrutturazione e riqualificazione energetica di immobili (1 miliardo); la riduzione dei premi e contributi INAIL per la maggior parte dei lavoratori (1 miliardo); l’esenzione dall’IMU per i fabbricati rurali strumentali; la parziale detraibilità dell’IMU per i fabbricati strumentali non rurali (830 milioni), le detrazioni dalla TASI a vantaggio dell’abitazione principale (500 milioni). Impatto negativo sulle entrate, ma in esercizi futuri, avrà anche il potenziamento dell’ACE (Aiuto alla crescita economica), misura introdotta dal Governo Monti che prevede incentivi fiscali alla capitalizzazione delle imprese. A fronte degli sgravi sono però previsti aumenti di imposte per più di 8 miliardi di euro, che scenderanno a 7,5 se effettivamente sarà cancellato il taglio delle detrazioni IRPEF per oneri personali. La lista delle fonti di questo maggiore gettito è sterminata: dalla proroga del contributo di solidarietà sulle pensioni 206 Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi approfondimenti superiori a 91.250 euro e sui redditi superiori a 300mila euro al contributo forfettario di 50 euro per l’iscrizione agli esami da avvocato o notaio, dall’aumento dell’IVA su alimenti e bevande somministrati da distributori automatici, dall’aumento delle accise sui prodotti da fumo (dal 1° maggio 2014), alla riattribuzione delle concessioni per la gestione del gioco del Bingo, dall’assoggettamento all’IRPEF del 50% dei redditi degli immobili ad uso abitativo non locati ubicati nel Comune di residenza, a una serie di variazioni del trattamento fiscale dei prodotti finanziari o di specifiche poste di bilancio di alcune tipologie di imprese (svalutazione o rivalutazione di cespiti, ecc.). Senza entrare nel dettaglio delle singole misure, il problema è che gli sgravi concessi vengono finanziati da aumenti di altre imposte: perdura l’incapacità – o l’impossibilità politica – di affrontare il problema del carico tributario nella sua interezza, all’interno di una visione di insieme e non attraverso singoli interventi puntuali. Illuminante a questo riguardo il caso delle detrazioni IRPEF per oneri personali: una rivisitazione della materia sarebbe utile, ad esempio per eliminare quelle che non hanno forse più ragione di esistere, ma procedere con tagli lineari come clausola di salvaguardia equivale a non compiere scelte e a non a porre priorità. Il massimo della confusione si registra sul tema che ha rappresentato la “bandiera” dello scontro propagandistico tra le forze che sostenevano il Governo delle larghe intese: la tassazione degli immobili residenziali e le imposte locali sui servizi. Il balletto sui nomi – l’IMU (Imposta municipale unica) è stata sostituita dalla IUC (Imposta unica comunale) – assomiglia al gioco delle tre carte, in cui i risparmi per i contribuenti dall’esenzione IMU sull’abitazione principale saranno probabilmente compensati (e forse più che compensati) dall’aumento delle nuove imposte locali. La Scheda a p. 214 prova a ricapitolare il quadro della situazione a questo riguardo. Nel frattempo, prosegue l’iter parlamentare del ddl delega per la riforma del sistema tributario 4: approvato dalla Camera e con modificazioni dal Senato il 4 febbraio 2014, è stato quindi ritrasmesso alla Camera, ove si trova nel momento in cui scriviamo. I punti salienti riguardano: la revisione del catasto degli immobili; l’introduzione di norme per la misurazione e il monitoraggio dell’evasione e dell’erosione fiscale (cioè di regimi di favore fiscale che appaiono, in tutto o in parte, ingiustificati o superati alla luce delle mutate esigenze sociali o economiche o che costituiscono una du4 Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita, A.S. 1058, A.C. 282 (XVII Legislatura). Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese” 207 plicazione); la disciplina dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale (uso distorto di strumenti giuridici al fine di ottenere un risparmio d’imposta); la revisione del sistema sanzionatorio, del contenzioso tributario e della riscossione dei tributi degli enti locali; la revisione della tassazione in funzione della crescita e dell’internazionalizzazione delle imprese commerciali; la razionalizzazione della determinazione del reddito d’impresa (con particolare riferimento alle operazioni transfrontaliere); la razionalizzazione dell’IVA e di altre imposte indirette (aliquote e regimi speciali); la fiscalità energetica e ambientale (incentivi, green taxes e revisione delle accise sui prodotti energetici); i giochi pubblici (prevenire i fenomeni di ludopatia, assicurare una efficace tutela dei minori). C’è solo da sperare che questo ddl incontri miglior fortuna dei numerosi predecessori 5, che si sono risolti in un nulla di fatto. b) La manovra sulle spese Come mostrava la Tab. 4, la manovra per il 2014 produce aumenti di spesa per oltre 8,5 miliardi di euro, finanziati per poco meno della metà dalla riduzione di altre spese, e per il resto da un aumento delle imposte (poco oltre 2 miliardi) e del disavanzo (circa 2,5 miliardi). Gli incrementi di spesa corrente più rilevanti riguardano: la maggiore dotazione al Fondo per le missioni internazionali di pace (614 milioni); il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali in deroga e dei lavori socialmente utili (486 milioni); interventi nel campo dell’assistenza sociale, tra cui l’estensione della carta acquisti a cittadini non italiani con permesso di soggiorno e il sostegno a ulteriori 23mila lavoratori “esodati” (circa 604 milioni); interventi nel settore dell’istruzione (contributi alle scuole private), dell’università (finanziamento ordinario degli atenei pubblici) e della sanità (quasi 600 milioni); contributi agli autotrasportatori (440 milioni); e l’estensione al 2014 della possibilità di destinare la quota del cinque per mille dell’IRPEF a finalità di interesse sociale (400 milioni). 5 Si veda ad esempio quello con identico titolo presentato dal Governo Monti il 15 giugno 2012, approvato dalla Camera il 12 ottobre 2012 e poi arenatosi al Senato (A.C. 5291 e A.S. 3519, XVI Legislatura; a riguardo cfr Ambrosanio M. F., «Finanza pubblica: un anno di Governo Monti», in Aggiornamenti Sociali, 12 [2012], 840851); o il precedente ddl Delega al Governo per la riforma fiscale e assistenziale, presentato il 29 luglio 2011 dall’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti, e arrivato solo all’esame in Commissione alla Camera (A.C. 4566, XVI Legislatura; a riguardo cfr Ambrosanio M. F., «Finanza pubblica: la resa dei conti?», in Aggiornamenti Sociali, 11 [2011], 651-663). 208 Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi approfondimenti Sul fronte delle spese in conto capitale, le maggiori risorse sono destinate al finanziamento di opere pubbliche (manutenzione straordinaria della rete stradale, realizzazione di nuove opere e prosecuzione di interventi già previsti), al contratto di servizio con le Ferrovie (complessivamente 1,1 miliardi) e all’allentamento del patto di stabilità interno per le amministrazioni locali, che hanno ripagato dei debiti o che intendono realizzare investimenti (nel 2014 si liberano risorse pari ad 850 milioni per i Comuni e 150 milioni per le Province, se utilizzati per investimenti nel corso del primo semestre, nonché altri 500 milioni utilizzati per pagare debiti maturati fino al 2012). Per quanto riguarda le minori spese correnti, i risparmi più significativi derivano dai nuovi tetti di spesa delle Regioni (1 miliardo); dalla riduzione dell’indicizzazione delle pensioni nel triennio 2014-2016 e da interventi per la riduzione del costo dei dipendenti pubblici (allungamento dei tempi di erogazione dei trattamenti di fine servizio, riduzione del turn over e delle indennità di servizio all’estero, blocco dell’indennità di vacanza contrattuale), complessivamente per quasi un miliardo; dal contenimento della spesa per locazione di immobili e per consumi intermedi (quasi 800 milioni). A ciò si aggiungono i proventi dalla dismissione di immobili pubblici (500 milioni). 4. Osservazioni conclusive Secondo la presentazione ufficiale della Legge di stabilità da parte del Governo, essa «permetterà di ridurre debito, deficit, tasse e spesa pubblica: il debito scenderà già nel 2014 e continuerà a scendere nei prossimi anni, anche grazie alla ritrovata crescita (aspetto spesso dimenticato, decisivo); il deficit è al 3% quest’anno e sarà al 2,5% il prossimo; le tasse scenderanno anno per anno; la spesa pubblica scenderà» 6. Se da un punto di vista aritmetico queste affermazioni sono coerenti, almeno con gli scenari previsivi alla base del provvedimento, un’analisi più approfondita dischiude prospettive meno rosee, soprattutto in riferimento ai tre nodi strutturali che segnano la situazione economica del Paese: pressione fiscale, spesa pubblica, sostegno alla crescita economica e all’occupazione. a) La pressione fiscale Come indicava la Tab. 1, le variazioni della pressione fiscale risultano di entità esigua e quasi impercettibile. Per quanto 6 Legge di stabilità 2014. Che cosa c’è da sapere, 31 dicembre 2013, <www. governo.it/Notizie/Palazzo%20Chigi/dettaglio.asp?d=74325>. Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese” 209 riguarda il 2014, la diminuzione del carico fiscale derivante dall’abolizione dell’IMU sull’abitazione principale (circa 2,2 miliardi di euro) è più che compensato dall’aumento dal 21% al 22% dell’aliquota ordinaria dell’IVA, che dovrebbe produrre, secondo calcoli approssimativi, un maggior gettito per circa 4 miliardi l’anno. È inoltre opportuno ricordare che tale prelievo è generalmente considerato regressivo rispetto al reddito dei contribuenti, vale a dire che il peso dell’imposta sui consumi è maggiore sui redditi più bassi e diminuisce all’aumentare del reddito. Inoltre, gli sgravi concessi per il 2014 vengono finanziati con aumenti di altre imposte, mentre è impossibile a oggi formulare previsioni attendibili sull’evoluzione delle imposte locali. Il passaggio alla IUC con le sue tre componenti (cfr Scheda a p. 214) potrebbe infatti generare un aumento della pressione tributaria a livello locale, in particolare nei Comuni che dovessero trovarsi nella condizione di applicare le aliquote massime. A nostro avviso, ci sarebbero stati margini di manovra per agire diversamente. In particolare – anche se questo era probabilmente impraticabile dal punto di vista politico – sarebbe stato preferibile mantenere l’IMU anche sull’abitazione principale, sia pure nell’ambito di una revisione complessiva della tassazione immobiliare, accompagnata dalla riforma del catasto, ed evitare l’aumento dell’IVA 7. Forse si sarebbe anche potuto evitare l’aumento dell’IVA e contemporaneamente abolire l’IMU sull’abitazione principale, se si considera che sono stati recuperati dalla lotta all’evasione fiscale 12,5 miliardi di euro nel 2012 e 5,8 nei primi 10 mesi del 2013 e che nello scorso anno la spesa per interessi passivi è risultata inferiore alle previsioni per circa 6 miliardi, grazie alla riduzione dei tassi di interesse sul debito pubblico. L’utilizzo di queste risorse per ridurre la pressione fiscale viene invece rimandato al futuro e resta comunque subordinato al conseguimento degli obiettivi di bilancio. Sulla scia di un provvedimento del Governo Monti, la Legge di stabilità ha infatti istituito un Fondo per la riduzione della pressione fiscale, nel quale, fermo restando il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, a partire dal 2014 dovrebbero confluire i risparmi di spesa derivanti dalla razionalizzazione della spesa pubblica e le maggiori risorse, rispetto alle previsioni, derivanti dall’attività di contrasto dell’evasione fiscale; le risorse del Fondo risulterebbero utilizzabili a partire dall’esercizio successivo a quello della loro contabilizzazione, dopo il loro effettivo accertamento in sede di consuntivo, attraverso la Legge di stabilità. Già a partire dal 2013, le informazioni sull’attività di 7 Sulla maggiore equità delle imposte patrimoniali rispetto a quelle sui consumi, cfr Ambrosanio M. F., «Finanza pubblica: un anno di Governo Monti», cit., 849. 210 Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi approfondimenti accertamento e sul recupero di gettito sono contenute in un’apposita sezione del DEF. La riduzione della pressione fiscale nel corso del 2014 sarebbe possibile solo se fosse recuperato gettito da misure straordinarie di contrasto dell’evasione fiscale, quindi non computate nei saldi di finanza pubblica, e se il disavanzo si mantenesse in linea con il valore programmato. b) La spesa pubblica Nonostante le affermazioni del Governo, la Legge di stabilità produce aumenti di spesa, e non solo per investimenti pubblici. Anche se l’aumento di alcune voci, ad esempio nel campo della spesa sociale, appare condivisibile, resta aperto l’interrogativo sul futuro andamento della spesa primaria. Come mostrava la Tab. 2, infatti, il rapporto tra quest’ultima e il PIL si colloca per l’Italia al di sotto della media europea, il che fa pensare che non sarà agevole recuperare margini per riduzioni significative. Ciò non significa che nulla possa essere fatto: il primo passo dovrebbe essere l’eliminazione degli sprechi, garantendo gli stessi interventi con minori risorse. Questo richiede un’operazione molto selettiva, che mal si concilia con i tagli lineari, che raramente hanno prodotto in pieno gli effetti previsti. L’alternativa per la riduzione della spesa è individuare le priorità dell’azione pubblica, vale a dire ridurre o azzerare il finanziamento di quei programmi ritenuti di importanza secondaria. Questo implica giudizi di valore e un elevato livello di conflittualità tra visioni politiche differenti e interessi contrapposti. Un Governo politicamente debole non è certo in grado di affrontare questo problema. Su questo fronte, il Governo delle “larghe intese” ha rimandato tutto al futuro, facendo affidamento sulla spending review. Il cosiddetto “Decreto del fare” 8 ha infatti prorogato i termini per l’attività del Commissario straordinario per la spending review, che ha l’arduo compito di conseguire gli obiettivi minimi di risparmi di spesa per il triennio 2015-2017 (3,6 miliardi nel 2015, 8,3 miliardi nel 2016 e 11,3 miliardi a decorrere dal 2017). Tali obiettivi sono stati recepiti dalla Legge di stabilità, che, in modo non sorprendente, ha introdotto una nuova clausola di salvaguardia: eventuali risparmi di spesa inferiori a quanto preventivato verrebbero compensati da aumenti di aliquote d’imposta e da riduzioni di agevolazioni e detrazioni fiscali; “per cautela”, tali risorse sono già state contabilizzate tra le maggiori entrate (3 miliardi di euro nel 2015, 8 Decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia, poi convertito con modificazioni dalla L. n. 98/20013. Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese” 211 7 miliardi nel 2016 e 10 miliardi a partire dal 2017). Dunque, leggendo tra le righe della Legge di stabilità, non è possibile escludere uno scenario in cui siano ancora una volta le imposte ad aumentare. c) Crescita, occupazione e politiche sociali Il Governo ha posto grande enfasi sulle misure volte ad affrontare «i due principali fattori di criticità del sistema produttivo: l’alto costo del lavoro e la difficoltà di accesso al credito» 9. Per quanto riguarda il primo, si tratta delle deduzioni IRAP per l’incremento stabile dell’occupazione, dell’aumento delle detrazioni IRPEF per i redditi da lavoro dipendente e assimilati e della riduzione dei premi e contributi INAIL: l’insieme di queste misure vale nel 2014 circa 2,6 miliardi di euro, pari solo allo 0,16% del PIL. Paiono dunque condivisibili le critiche da più parti rivolte al Governo sull’esiguità dell’intervento. Per ciò che concerne l’accesso al credito, si tratta di ulteriori finanziamenti del Fondo di garanzia per le PMI (200 milioni l’anno nel periodo 2014-2016, cui si potrebbero aggiungere altri 600 milioni assegnati dal CIPE, Comitato interministeriale per la programmazione economica) e dell’estensione dell’ambito operativo della Cassa depositi e prestiti, che potrà intervenire in favore di tutte le imprese. A questo si aggiunge qualche piccolo intervento in favore dell’occupazione giovanile. È positiva la ripresa delle spese per investimenti pubblici, che però aumenterebbero solo dall’1,8% all’1,9% del PIL, per poi stabilizzarsi negli anni successivi, a meno di ulteriori immissioni di risorse. I cosiddetti «investimenti sulle intelligenze» 10 (Fondo di finanziamento ordinario delle università, rifinanziamento delle scuole di specializzazione in medicina e rafforzamento delle borse di studio per studenti universitari) valgono circa 200 milioni di euro, mentre gli interventi sul fronte delle politiche sociali valgono circa 1 miliardo. *** Sui tre nodi cruciali gli interventi sono dunque di ammontare tale da non poter risultare davvero incisivi, mentre, come abbiamo visto, provvedimenti più significativi continuano a essere rimandati al futuro: riduzione della spesa attraverso la spending review, riduzione della pressione fiscale grazie ai risparmi e alla lotta all’evasione, riforma complessiva del sistema fiscale nel senso di una maggiore equità e di un orientamento alla crescita. Più che nella crisi economica e finanziaria, che pure è reale, o nella necessità di tenere 9 Legge di stabilità 2014. Che cosa c’è da sapere, cit. Ivi. 10 212 Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi approfondimenti i conti pubblici in ordine, che resta stringente, la causa di questa situazione deve rintracciarsi probabilmente nella precarietà degli equilibri politici che hanno segnato la stagione delle “larghe intese”: questa non ha permesso di compiere scelte più radicali, che inevitabilmente generano scontento e conflitto. Ma questa strategia dilatoria non è replicabile all’infinito, e soprattutto non evita l’acuirsi del disagio provocato dalla percezione diffusa di dover continuare a fare sacrifici a fronte di una politica stagnante, incapace di riformare e limitare sé stessa. Peraltro non va dimenticato che la stessa disponibilità a “fare sacrifici” dipende anche dalla loro giustificazione in un quadro complessivo che renda ragione della direzione di marcia in cui il Paese viene condotto. Se la conclusione della parabola del Governo Letta aprirà davvero la strada a una diversa stagione politica lo capiremo probabilmente proprio dal fatto se a breve saranno compiute scelte coraggiose di politica economica e fiscale. Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese” 213 scheda / normativa 214 Il caos delle imposte immobiliari comunali L a Legge di stabilità per il 2014 ha istituito l’Imposta unica comunale (IUC), che ingloba tre tributi: l’IMU, dovuta dal possessore dell’immobile (ne è esente l’abitazione principale), la TARI (Tassa sui rifiuti), destinata a coprire i costi di raccolta e smaltimento dei rifiuti, a carico dell’utilizzatore dell’immobile; la TASI (Tassa sui servizi indivisibili), a carico sia del possessore sia dell’utilizzatore dell’immobile, destinata a finanziare i servizi comunali rivolti all’intera comunità (ad esempio illuminazione pubblica, manutenzione stradale, gestione delle aree verdi, ecc.). In relazione all’IMU, la modifica principale riguarda l’esclusione dell’abitazione principale (ad eccezione di immobili di lusso, ville e palazzi storici) e di alcune categorie di immobili (ad esempio quelli destinati ad alloggi sociali). Inoltre è stata data facoltà ai Comuni di considerare come principale l’abitazione concessa in comodato a genitori o figli che vi risiedano e quella non locata di proprietà di cittadini italiani residenti all’estero o di anziani o disabili residenti in istituti di ricovero o sanitari. Sono state anche introdotte maggiori agevolazioni per terreni e fabbricati agricoli. Per quanto riguarda la TARI, il suo ammontare è determinato essenzialmente secondo i criteri vigenti per i precedenti tributi relativi al medesimo servizio (coefficienti di produzione potenziali per tipologie di utenti), anche se è data facoltà ai Comuni di prevedere criteri collegati alle quantità di rifiuti effettivamente prodotte. I Comuni possono inoltre prevedere riduzioni per alcune categorie di immobili (abitazioni con unico occupante o ad uso limitato, abitazioni rurali, ad uso stagionale), sino alla esenzione totale, o nel caso che si effettui la raccolta differenziata. Il gettito della TARI deve comunque assicurare la copertura integrale dei costi del servizio, a eccezione di quelli relativi allo smaltimento dei rifiuti speciali. Infine, la TASI ha come presupposto impositivo il possesso o la detenzione di fabbricati (compresa l’abitazione principale) o di aree scoperte ed edificabili, a qualsiasi uso adibiti. Essa si applica al valore del fabbricato o del terreno, determinato con lo stesso criterio dell’IMU; l’aliquota base è pari all’1 per mille, ma i Comuni la possono ridurre fino all’azzeramento o aumentare (entro il tetto del 2,5 per mille nel 2014), con il vincolo che la somma delle aliquote TASI e IMU per ciascuna tipologia di immobile non sia superiore all’aliquota massima dell’IMU in vigore nel 2013 (10,6 per mille). I Comuni possono prevedere riduzioni ed esenzioni per alcune categorie di immobili (ad esempio: abitazioni con unico occupante o adibite a uso stagionale). Per il 2014, infine, vengono assegnati al Fondo di solidarietà comunale 500 milioni di euro, finalizzati a finanziare la concessione di detrazioni dalla TASI per l’abitazione principale. La legge elettorale nel giudizio della Corte Costituzionale Filippo Pizzolato Professore di Diritto pubblico nell’Università Milano-Bicocca, <[email protected]> oltre la notizia Anatomia patologica del Porcellum Con una recente sentenza la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità di alcune parti della legge elettorale italiana nota come “Porcellum”. Quali sono gli aspetti che sono stati toccati e perché? Quale legge elettorale è applicabile dopo la sentenza della Corte? Quali riflessioni possono essere fatte a partire da questa sentenza sulla democrazia, la rappresentanza e le funzioni dei partiti politici? L’ inverno scorso – stagione in cui in campagna si ammazzavano i maiali –, con la sentenza n. 1 del 2014 la Corte Costituzionale ha inferto un colpo decisivo alla legge elettorale delle camere parlamentari conosciuta col nome di “Porcellum” (Legge 21 dicembre 2005, n. 270), dichiarando incostituzionali le norme sull’attribuzione del premio di maggioranza alla Camera e al Senato, nonché quelle sulle modalità di espressione del voto per l’elezione dei parlamentari. È toccato ancora una volta a una magistratura affrontare un altro dei nodi irrisolti della turbolenta stagione politica che stiamo attraversando. Tale compito sarebbe spettato al Parlamento, ma gli appelli del Presidente della Repubblica e i moniti della Corte Costituzionale affinché si riformasse una legge elettorale in chiaro e ammesso contrasto con la Costituzione sono rimasti lettera morta. Già nel 2008, in occasione del giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo della L. n. 270/2005, la Corte aveva segnalato Aggiornamenti Sociali marzo 2014 (215-224) 215 il rischio che la legge elettorale contenesse un premio potenzialmente foriero di una eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa, invitando il Parlamento a valutare l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi (C. Cost. 15/2008). Tale monito era stato ripetuto nel 2012, con la sentenza n. 13/2012. A sua volta, il presidente della Repubblica Napolitano aveva scelto un’occasione particolarmente solenne – il messaggio al Parlamento nel giorno del suo giuramento per il secondo mandato di Presidente della Repubblica – per qualificare come «imperdonabile» la mancata riforma della legge elettorale e per denunciare le «contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi» che hanno finito per bloccare i tentativi di riforma istituzionale (Napolitano 2013; cfr anche Costa 2013). In effetti le varie iniziative di riforma intraprese sono naufragate dinanzi alla indisponibilità delle forze partitiche a superare un orizzonte di convenienza particolare di brevissimo periodo. Il Partito democratico è sembrato irrigidirsi sulla scelta di un sistema elettorale maggioritario a doppio turno, mentre il centrodestra a guida berlusconiana non è mai stato chiaro sulla questione, fino a far fondatamente sospettare che il “Porcellum”, in fondo e inconfessabilmente, gli facesse comodo. Non a caso, la reazione più violenta alla sentenza in commento della Corte è venuta dallo stesso Berlusconi. Un primo dato da rimarcare è dunque quello della difficoltà dei partiti a procedere, oltre i reiterati annunci, a una seria e ormai improrogabile riforma delle istituzioni. La L. n. 270/2005, formulata dall’allora ministro per le Riforme Roberto Calderoli, ha modificato la legge elettorale italiana passando dal precedente sistema maggioritario corretto da una quota di seggi parlamentari assegnati in via proporzionale – il cosiddetto “Mattarellum” (Leggi nn. 276 e 277/1993) – a un sistema proporzionale corredato da premi di maggioranza e soglie di sbarramento per l’elezione dei parlamentari. La L. n. 270/2005 è stata chiamata per la prima volta “Porcellum” dal politologo Giovanni Sartori in un editoriale pubblicato dal Corriere della Sera il 1 novembre 2006. L’origine giuridica e il “clima” della sentenza La sentenza della Corte è stata originata da un ricorso in via incidentale, sollevato dalla Corte di Cassazione chiamata a pronunciarsi sul ricorso contro una sentenza della Corte d’Appello di Milano presentato da un cittadino che riteneva il suo diritto al voto leso dalla legge elettorale e proponeva, al riguardo, un’azione di accertamento. Nel caso in esame erano sorti molti dubbi tra i costituzionalisti sull’ammissibilità di questo tipo di richiesta. Il processo principale dovrebbe infatti avere un oggetto autonomo e distinto rispetto alla 216 Filippo Pizzolato oltre la notizia questione di legittimità Il ricorso in via incidentale si verifica quando un giudice, costituzionale sollevata. nel corso di un processo, debba applicare una legge su In questo caso – un’a- cui gravi un sospetto di incostituzionalità. Non potendo sciogliere autonomamente questo dubbio, il giudice deve zione di accertamento sospendere il processo e trasmettere un’ordinanza motivata avente a oggetto il diritto alla Corte Costituzionale, affinché questa valuti se la legge di voto – tale condizione in esame sia in tutto o in parte incostituzionale. risultava assai dubbia, anche sulla base della pregressa giurisprudenza. La Corte ha però giudicato in favore dell’ammissibilità, facendo proprie le motivazioni espresse dall’ordinanza della Corte di Cassazione e ritenendo che «l’accertamento richiesto al giudice comune» non risulterebbe «totalmente assorbito dalla sentenza di questa Corte» (C. Cost. 1/2014). Non è né forzato né irrispettoso cogliere nella decisione della Corte una certa attenzione alla situazione del Paese, che l’ha spinta a privilegiare le strade utili a raccogliere l’esasperazione diffusa a livello popolare di fronte alla «perdurante inerzia» (C. Cost. 1/2014) manifestata dalle forze politiche, malgrado i precedenti moniti degli organi di garanzia puntigliosamente ricordati nella sentenza che si commenta. Si può anche ipotizzare che tale sordità dinanzi agli appelli istituzionali sia stata intesa come una violazione del patto di leale collaborazione cui gli organi costituzionali sono reciprocamente tenuti e che questa convinzione abbia giustificato un uso coraggioso, ma non abusivo, da parte della Corte degli strumenti a essa affidati. Vi è infatti il fondato sospetto che l’inerzia della politica non sia unicamente il frutto di una conflittualità ingovernabile tra le inconciliabili posizioni delle parti, ma un immobilismo interessato e perfino complice tra parti decise a coprirsi irresponsabilmente le spalle l’una con l’altra. La Corte ha inoltre insistito, significativamente, sulla necessità di assicurare un controllo di legittimità costituzionale anche sulla legge elettorale, per evitare che si crei una «zona franca», al riparo dal sindacato di costituzionalità, «proprio in un ambito strettamente connesso con l’assetto democratico» (C. Cost. 1/2014). Se ciò avvenisse «si determinerebbe» – secondo la Corte – «un vulnus intollerabile per l’ordinamento costituzionale complessivamente considerato» (ivi). Queste parole risuonano in modo forte e, forse, aprono una prospettiva futura al sindacato della Corte Costituzionale in tema di regolamenti parlamentari, fino ad ora rifiutato dalla Consulta stessa. La prima censura della Corte: il premio di maggioranza Il primo aspetto della L. n. 270/2005 censurato dalla Corte Costituzionale è stato il meccanismo di assegnazione del premio di maggioranza alla Camera e al Senato. In entrambi i casi, la coalizione di La legge elettorale al giudizio della Corte Costituzionale 217 liste o la singola lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa dei voti aveva diritto al premio indipendentemente dal raggiungimento di una percentuale minima prefissata di voti. Nel caso della Camera il premio, pari a una quota aggiuntiva di seggi fino a un totale di 340, era calcolato su base nazionale (esclusa la Circoscrizione Estero e la Valle d’Aosta, i cui seggi erano attribuiti secondo regole diverse). Per il Senato il premio era calcolato a livello regionale attribuendo i seggi necessari per assicurare alla lista o alla coalizione di liste vincenti il 55% dei seggi totali in quella Regione. Anche in questo caso vi erano delle eccezioni che riguardavano la Circoscrizione Estero e le Regioni Valle d’Aosta, Molise e Trentino Alto-Adige. Per motivare questa decisione, la Corte si è basata su un argomento di largo uso in materia di leggi elettorali. È opinione diffusa, infatti, che la legge elettorale debba realizzare una sorta di bilanciamento tra principi potenzialmente in conflitto: la rappresentatività e la governabilità (cfr Pasquino 2006 e Luciani 1991). Questo bilanciamento è frutto di una decisione squisitamente politica, che può legittimamente assumere direzioni diverse e la cui titolarità la sentenza riconosce senza indugio in capo al legislatore. La Corte sottolinea esplicitamente che «non c’è […] un modello di sistema elettorale imposto dalla Carta Costituzionale» (C. Cost. 1/2014). Tuttavia, le scelte del legislatore, pur espressione di ampia discrezionalità, non sono esenti dal controllo della Corte costituzionale sul versante dell’eventuale irragionevolezza. Alla luce di questo criterio, il “Porcellum” ha – a giudizio della Corte – realizzato il bilanciamento tra la rappresentatività e la governabilità in modo irragionevole. Il consistente premio di maggioranza, assegnato senza riferimento a una soglia minima di voti conseguiti, pur perseguendo il fine in sé legittimo della governabilità, sacrifica in una misura sproporzionata la rappresentatività delle due Camere. Inoltre, nel caso della legge elettorale per il Senato, il meccanismo dei premi di maggioranza assegnati su base regionale appare inutile e illogico rispetto allo scopo stesso di favorire la governabilità, giacché questa scelta non offre alcuna garanzia in tal senso 1 (D’Aloia 2013). Come è stato giustamente sottolineato, il modo in cui è stato congegnato il premio di maggioranza potrebbe funzionare alla stregua di un mero correttivo se la dinamica delle forze partitiche fosse di tipo 1 La legge elettorale per il Senato «stabilendo che l’attribuzione del premio di maggioranza è su scala regionale, produce l’effetto che la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto dell’insieme sostanzialmente omogenea» (C. Cost. 1/2014). 218 Filippo Pizzolato oltre la notizia bipolare, nel qual caso è «normale che entrambe (e certamente quella che prevale) raggiungano un livello di consenso elettorale elevato, almeno vicino alla maggioranza politica (e parlamentare)» (ivi, 2). Viceversa, nel caso italiano, con la distribuzione dei consensi in almeno tre partiti medio-grandi, si determina una forzatura, perché un partito o una coalizione può avere in premio la maggioranza assoluta dei seggi con consensi elettorali anche molto modesti e questo altera irragionevolmente la proporzione voti-seggi, inficiando l’eguaglianza tra i voti. La Corte non si spinge dunque fino a escludere la legittimità costituzionale dei premi di maggioranza, ma giudica irragionevole le modalità specifiche con cui questi erano assegnati dalla L. n. 270/2005. In questo caso, infatti, non si tratta più di un mero e accettabile correttivo, finalizzato al «legittimo obiettivo di favorire la formazione di stabili maggioranze parlamentari e quindi di stabili governi», ma di una distorsione sproporzionata che produceva un rovesciamento del principio guida della formula elettorale prescelta, individuato, come è proprio dei sistemi proporzionali, nella volontà di «assicurare la rappresentatività dell’assemblea parlamentare» (C. Cost. 1/2014). L’effetto finale inaccettabile è quello di una divaricazione tra composizione del Parlamento e volontà dei cittadini espressa mediante il voto. Questa compressione della rappresentatività è stata ritenuta in contrasto con i principi costituzionali, per cui le assemblee parlamentari sono «sedi esclusive della “rappresentanza politica nazionale” (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare» (ivi). Questa distorsione incide negativamente – ed è un ulteriore grave effetto – sullo svolgimento delle funzioni di garanzia cui il Parlamento è chiamato, proprio in virtù della sua rappresentatività. Tra queste, la Corte richiama esplicitamente la funzione di revisione costituzionale ex art. 138 Cost. Ciò sembra lasciar intendere, in modo implicito ma logico, un limite – quanto meno di forte inopportunità – alla possibilità di modificare la Costituzione da parte di un Parlamento la cui rappresentatività è stata compromessa dalla legge elettorale. È vero che la Corte ha avuto la preoccupazione di non lasciare adito a dubbio alcuno circa la perdurante legittimità dell’istituzione parlamentare, anche dopo l’annullamento parziale della legge elettorale, ma per una riforma della Costituzione a opera di Camere a rappresentatività irragionevolmente distorta si può e forse si deve prospettare una grave inopportunità. Premio di maggioranza e rappresentatività del Parlamento La distorsione della rappresentatività del Parlamento è un effetto che appare inaccettabile in quanto tale. E tuttavia, essa assume una La legge elettorale al giudizio della Corte Costituzionale 219 particolare gravità laddove il legislatore abbia prescelto, nell’esercizio della sua discrezionalità, una formula elettorale a base proporzionale, come nel caso in esame. Le osservazioni della Corte al riguardo costituiscono una premessa per una riflessione ulteriore. Se la «alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente», frutto di una eccessiva «compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea» (C. Cost. 1/2014), è in sé un esito costituzionalmente inammissibile, la produzione di un tale effetto va comunque analizzata nella logica complessiva del concreto sistema elettorale vigente e ad essa commisurata. Laddove infatti, come nel caso del “Porcellum”, la legge elettorale abbia un impianto di base di tipo proporzionalistico, ci si muove – se ne sia consapevoli o meno – entro una prospettiva di democrazia che potremmo definire kelseniana 2, intesa essenzialmente come compromesso tra parti plurali. In questo caso, non si può affatto pretendere, come invece faceva il “Porcellum”, che già dalle elezioni per il Parlamento si prefiguri una maggioranza di Governo, fino a forzarne l’avvento. Nella logica del sistema proporzionale, infatti, l’indirizzo politico si forma entro le procedure che caratterizzano l’attività parlamentare, complessivamente preordinata al confronto e alla mediazione tra i vari interessi rappresentati. L’elezione deve limitarsi ad assicurare una tendenzialmente esatta rappresentazione delle proporzioni tra i voti espressi dagli elettori e la composizione dell’organo elettivo, perché il voto popolare non serve a precostituire la decisione, ma a dare avvio ai meccanismi mediativi della democrazia parlamentare. Un ideale di democrazia competitiva, che privilegi ragionevolmente e coerentemente la governabilità, è invece lo specifico di un sistema elettorale di tipo maggioritario a turno unico (all’inglese) o doppio turno (alla francese). Esso si coniuga con un’idea, di ispirazione schumpeteriana 3, della democrazia come competizione tra élite per il governo del Paese. In questo secondo modello, il sistema elettorale non è chiamato a rispecchiare in modo fedele le diverse espressioni politiche presenti nel Paese dentro le istituzioni, bensì a incoronare l’élite risultata vincente, anche se di poco, in ciascun collegio elettorale. L’elezione è infatti intesa come selezione e la regola maggioritaria mira proprio a “fabbricare” quella élite (in sé una minoranza) che governerà la democrazia, secondo un ideale di meri2 Dal nome di Hans Kelsen (1881-1973), illustre giurista e teorico della democrazia parlamentare. 3 Dal nome dell’economista Joseph A. Schumpeter (1883-1950), autore di una importante teoria economica della democrazia. La distinzione tra idea kelseniana e schumpeteriana di democrazia è stata approfondita da Mastropaolo 2006, 164 e 175. 220 Filippo Pizzolato oltre la notizia tocrazia elettiva. La legge elettorale è pertanto congegnata per prefigurare, già nel momento delle votazioni, una maggioranza governante senza dover attendere e ricercare estenuanti mediazioni. Questo esito è conseguito segmentando la competizione nei singoli collegi. Naturalmente, anche il sistema maggioritario dovrebbe farsi carico dell’esigenza, sottolineata dalla Corte, della funzione rappresentativa dell’assemblea parlamentare e della composizione della rappresentanza democratica. Il conseguimento di tale obiettivo, non scontato in questo diverso sistema, pare esigere che si escluda l’assegnazione di premi ulteriori di maggioranza o di altri meccanismi congegnati affinché nei diversi collegi vinca lo stesso partito o coalizione. Può anche consigliare, come avveniva con la legge elettorale “Mattarellum” (Ll. nn. 276 e 277/1993), l’assegnazione correttiva di una certa quota di seggi per via proporzionale. Infine, si deve tenere conto che l’ideale schumpeteriano di democrazia competitiva richiede anche che le procedure sulla revisione costituzionale siano tali da impedire alla minoranza vincente di poter cambiare da sola le regole del gioco. Un secondo profilo incostituzionale: il voto di preferenza Anche la parte di sentenza relativa al secondo vizio del “Porcellum” censurato dalla Corte Costituzionale, e cioè l’assenza del voto di preferenza, non dà risposte univoche. Il giudizio non afferma in via assoluta l’incostituzionalità di questa scelta, bensì della soluzione particolare adottata dal legislatore, resa ancor più critica per la previsione di circoscrizioni elettorali di grande dimensione e per la legittimità di candidature multiple. In questi casi, l’elettore non ha, secondo la Corte, la ragionevole possibilità di conoscere i candidati per cui vota e ciò determina una alterazione della funzione dei partiti, che non sono più strumenti di promozione della libertà politica dei cittadini. Per la Corte, le funzioni dei partiti sono «preordinate ad agevolare la partecipazione alla vita politica dei cittadini» (C. Cost. 1/2014); ma questo non si verifica a causa del lungo elenco di candidati, che «difficilmente (il cittadino) conosce» (ivi), scelti dai partiti che ne determinano pure l’ordine di presentazione in lista. A rendere ancor più critica la previsione, si aggiunge la possibilità di candidature multiple (per cui è l’eletto in più circoscrizioni a decidere quale collegio elettorale rappresenterà in Parlamento) e l’applicazione di questi criteri selettivi per la totalità dei parlamentari. La Corte individua nel cumulo di questi elementi una ferita alla logica della rappresentanza congegnata dalla Costituzione e, quindi, il vizio di incostituzionalità. Per superare questa empasse, le strade legittimamente disponibili al legislatore sono diverse, tanto che la stessa Corte distingue la soluzione censurata da altri sistemi «caratLa legge elettorale al giudizio della Corte Costituzionale 221 terizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi», «da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte» o anche da «collegi uninominali» (C. Cost. 1/2014) 4. Si può affermare che, per questo profilo, la Corte Costituzionale sia stata finanche troppo prudente nel collegare la censura alla circostanza che la totalità dei parlamentari sia eletta senza preferenze. Forze partitiche già tendenzialmente insofferenti rispetto ai limiti costituzionali, dinanzi a formulazioni espresse in termini così ampi e indeterminati, possono facilmente “convincersi” di godere di spazi di libertà decisionale superiori a quelli costituzionalmente ammissibili, come peraltro ha dimostrato, su tutt’altra questione, la vicenda dell’annullamento prima del lodo “Schifani” (C. Cost. 24/2004) e poi del lodo “Alfano” (C. Cost. 262/2009), in tema di improcedibilità penale delle più alte cariche dello Stato. Applicabilità della legge elettorale uscita dalla sentenza Gli ultimi passaggi della sentenza sono tesi ad argomentare la necessaria autoapplicatività della legge elettorale così come modificata dopo il pronunciamento della Corte stessa sui due profili incostituzionali. Poiché non si può correre il rischio di paralizzare il rinnovo di un organo fondamentale come il Parlamento, occorre che quanto della legge elettorale rimane valido dopo un intervento della Corte (così come dopo un referendum abrogativo) possa essere, se necessario, immediatamente applicato. In effetti, dopo la sentenza della Corte, ciò che resta in vigore è una legge elettorale di tipo proporzionale puro, con l’unica correzione di un sistema articolato di soglie di sbarramento. La legge elettorale accentua dunque il suo impianto proporzionalistico, privato degli illegittimi premi di maggioranza, con le precedenti clausole di sbarramento (non oggetto del ricorso) e con l’introduzione del voto di preferenza. Eventuali inconvenienti applicativi possono essere risolti, secondo la Corte, in via interpretativa o con interventi normativi di livello secondario. Ci troviamo perciò di fronte a una nuova legge elettorale, frutto dell’annullamento parziale deciso dalla sentenza della Corte e non del processo politico e, per questo, non realmente voluta da nessuno degli attori coinvolti. Infine, la Corte contesta la tesi che il Parlamento sia delegittimato dalla sentenza. Giunge a questa conclusione come fosse scontata («è appena il caso di ribadirlo», scrive nella sentenza, C. Cost. 1/2014), quasi a voler screditare le argomentazioni in senso contrario che opera4 A riguardo dei collegi uninominali va contestata l’idea, pur diffusa, che l’elettore non abbia modo di esprimere la propria preferenza; dato che «la competizione in un collegio uninominale è diretta, l’elettore sceglie di votare per uno dei candidati, e sa che se prevalgono i voti uguali al suo, quel candidato viene eletto» (D’Aloia 2013, 4). La tesi opposta è sostenuta da Armanno 2013, 17. 222 Filippo Pizzolato oltre la notizia vano un pericoloso scivolamento dei destinatari di critiche e attacchi: dalle forze politiche alle istituzioni. La Corte fa valere il «principio fondamentale della continuità dello Stato» (ivi), ribadendo il limite della retroattività delle sentenze di annullamento, che non possono toccare i rapporti esauriti e tali sono le elezioni dopo la proclamazione degli eletti. Non vi sono dubbi dunque che il Parlamento in carica possa modificare la legge elettorale conseguente all’intervento della Corte. La democrazia rappresentativa e i limiti di una democrazia “disintermediata” La sentenza, in conclusione, riafferma la centralità costituzionale della democrazia rappresentativa e ne trae il principio fondamentale, incomprimibile oltre una certa soglia, di rappresentatività del Parlamento. La rappresentanza è collegata all’eguaglianza tra i voti e alla sovranità popolare. In questo contesto, la stessa funzione dei partiti è di tipo strumentale rispetto all’attivazione di un circuito virtuoso tra cittadini e istituzioni rappresentative. In tempi di dibattito, più o meno raffinato e consapevole, sull’art. 67 Cost. («Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato») e sulla possibile alternativa della democrazia telematica, la Corte rinsalda il legame tra la democrazia e la rappresentanza 5. La funzione rappresentativa radica nel nostro ordinamento costituzionale una dimensione di democrazia di investitura, declinabile poi secondo modelli alternativi (Kelsen e Schumpeter), cui corrispondono formule elettorali differenti. A questo proposito, la sentenza della Corte può essere intesa come un monito di fronte alla riapertura di una stagione politica democratica caratterizzata da un diffuso approccio riduttivistico, in cui, di fronte alla disaffezione dei cittadini rispetto alla politica, vengano avanzate proposte di eliminazione delle forme di intermediazione dello spazio pubblico per passare all’investitura diretta del Governo o del suo leader. Qui si annida il pericolo di una semplificazione che faccia parlare, ma in questo modo anche riduca, il popolo a una sola voce, identificandolo con un soggetto, con una maggioranza e, infine, con un leader. Sul piano politico, questa insofferenza per la complessità è all’origine delle forzature e dei “trucchetti” elettorali con cui si tende a produrre un assetto partitico bipolare o una maggioranza artificiosi. La stessa idea di rappresentanza, luogo della mediazione entro le istituzioni, subisce, come si è visto, l’offensiva della distorsione semplificatrice. 5 Peraltro il rapporto tra rappresentanza e democrazia non è originario e la sua storia è piuttosto accidentata, come bene mostra Duso 2003. La legge elettorale al giudizio della Corte Costituzionale 223 risorse Nella nostra Costituzione, tuttavia, la democrazia non si esaurisce nei meccanismi dell’investitura del potere, ma ha uno spessore che raggiunge e coinvolge la società stessa. Lo riconosce la stessa Corte tra le righe, quando afferma che «l’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento […] costituisce una delle principali espressioni della sovranità popolare» (C. Cost. 1/2014), non certo l’unica. Nella nostra Costituzione non può trovare accoglienza un’idea di democrazia “disintermediata”, verticalizzata e solo di investitura. Il fondamento della Repubblica sul lavoro vale a riconoscere e a promuovere il contributo che i cittadini, singoli e associati, offrono al benessere materiale e spirituale della società e dunque all’autogoverno (cfr. Pizzolato 2010). La democrazia, così interpretata, non riguarda solo le regole che sovrintendono all’investitura e al funzionamento dello spazio autoritativo-istituzionale, bensì investe le forme e i canali plurali della partecipazione dei cittadini (e delle loro formazioni sociali) all’ordinamento dei rapporti sociali. Questa prospettiva di una democrazia innervata in profondità nella partecipazione (e nel gioco delle libertà e delle corresponsabilità) rafforza, nella società e nell’architettura istituzionale, i contro-poteri – tra cui gli organi di garanzia costituzionale – che valgono a preservare le espressioni plurali del popolo sovrano rispetto alle possibili tentazioni totalizzanti delle contingenti maggioranze. Normativa C orte C ostituzionale, Sentenza 4 dicembre 2013 – 13 gennaio 2014, n. 1. Corte Costituzionale, Sentenza 12 – 24 gennaio 2012, n. 13. Corte Costituzionale, Sentenza 7 – 19 ottobre 2009, n. 262. Corte Costituzionale, Sentenza 16 – 30 gennaio 2008, n. 15. Corte Costituzionale, Sentenza 13 – 20 gennaio 2004, n. 24. Legge 21 dicembre 2005, n. 270, «Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica». Legge 4 agosto 1993, n. 276, «Norme per l’elezione del Senato della Repubblica». Legge 4 agosto 1993, n. 277, «Nuove norme per l’elezione della Camera dei Deputati». Risorse bibliografiche Armanno M., «Il sistema delle liste bloccate. Riflessioni tra retorica democratica, divieto d mandato imperativo e ruolo dei partiti politici», 27 novembre 2013, in <www.federalismi.it>. D’Aloia A. (2013), «Finale di partita. Incosti224 Filippo Pizzolato tuzionale la legge elettorale», 16 dicembre 2013, in <www.forumcostituzionale.it>. Costa G. 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La protezione interrotta Chiara Peri Responsabile dei rapporti internazionali del Centro Astalli, <[email protected]> ricerche e analisi Il Regolamento “Dublino III” e il diritto d’asilo in Europa Il 26 giugno 2013 è entrato in vigore il regolamento europeo noto come “Dublino III”, che modifica i meccanismi con cui l’UE stabilisce a quale Stato membro competa l’esame di una richiesta d’asilo. Ma queste procedure sono veramente efficaci? Riescono i migranti e i richiedenti asilo a ottenere una protezione dignitosa, che garantisca loro di esercitare i propri diritti? Una ricerca europea del JRS (Servizio dei gesuiti per i rifugiati) mostra che le criticità in questo campo sono ancora troppe. P er regolamentare e coordinare l’accoglienza e l’esame delle domande d’asilo da parte dei richiedenti che approdano nei vari Stati membri, l’Unione Europea si è dotata di un sistema di regole condivise. Il 15 giugno 1990 in Irlanda venne firmata una prima Convenzione, per questo detta “di Dublino”, in seguito revisionata più volte, fino all’attuale Regolamento europeo n. 604/2013, approvato il 26 giugno 2013, noto come “Dublino III” 1. Tale Regolamento, entrato in vigore il 1° gennaio 2014, è l’elemento portante di un più ampio Sistema di Dublino, che consiste nell’insieme di regole e meccanismi con cui l’UE stabilisce quale Stato membro sia competente per l’esame di ciascuna domanda di protezione internazionale. L’altro pilastro di questo sistema è 1 Il Regolamento “Dublino III” è stato adottato da tutti gli Stati membri dell’UE a eccezione della Danimarca. Al precedente Regolamento “Dublino II” del 2003 aveva aderito anche la Svizzera. Aggiornamenti Sociali marzo 2014 (225-236) 225 l’EURODAC (European Dactyloscopie), una banca dati centrale in cui vengono registrate le generalità di chiunque attraversi irregolarmente le frontiere di uno Stato membro, in particolare le impronte digitali. Questi due strumenti consentono di stabilire dove è avvenuto il primo ingresso in Europa di una persona richiedente asilo e di attribuire a quel Paese l’onere dell’esame di un’eventuale domanda. L’obiettivo iniziale di tale Sistema era quello di garantire che almeno uno degli Stati membri prendesse in carico il richiedente. Tuttavia, è ormai evidente come in realtà l’applicazione di tale insieme di regole sia diventata un insensato percorso a ostacoli per chi cerca protezione: famiglie separate, persone lasciate senza mezzi di sostentamento o addirittura detenute, lungaggini burocratiche e rimpalli tra Stati e uffici che rendono il diritto d’asilo inesigibile. Purtroppo, anche la terza revisione del Regolamento di Dublino, pur introducendo qualche cambiamento potenzialmente positivo 2, non modifica sostanzialmente l’impianto del Sistema di Dublino, ma continua a impedire – o quanto meno a limitare pesantemente – la mobilità dei richiedenti asilo nell’UE, con un impatto fortemente negativo sulla vita dei rifugiati. Il Sistema di Dublino è il simbolo della distanza che separa l’Europa da un’umanità in viaggio, un muro di regole anonime su cui si infrangono le speranze di chi cerca protezione. 1. Il Regolamento visto dai rifugiati Una donna eritrea, S.H., è costretta a fuggire dal suo Paese. Decide di raggiungere la sorella, già rifugiatasi in Svezia, e per arrivare nel Nord Europa attraversa l’Italia, dove viene intercettata dalla polizia e schedata mediante il rilievo delle impronte digitali. S.H. dichiara di volersi recare in Svezia e di non aver intenzione di presentare richiesta di asilo in Italia. Le autorità tuttavia non le chiedono per quale motivo stia cercando protezione e non le forniscono alcuna informazione sulle procedure europee in materia. La signora, quindi, presenta la domanda d’asilo solo una volta arrivata in Svezia e lì scopre che, in base a quelle procedure, l’esame del suo caso è di competenza delle autorità italiane. Attualmente S.H è in attesa di essere trasferita in Italia, ma afferma di «preferire morire piuttosto che tornare in questo Paese». L’accoglienza non è paragonabile a quella ottenuta in Svezia, dove può 2 Tra i cambiamenti principali, oltre all’allargamento della definizione di “familiare” da cui il richiedente asilo può domandare di non essere separato, si registra l’introduzione della valenza sospensiva del ricorso: se un richiedente asilo presenta ricorso contro l’ordine di trasferimento, ha diritto di aspettarne l’esito prima di essere trasferito. 226 Chiara Peri ricerche e analisi vivere con i suoi bambini e parenti, ricevendo assistenza. La signora, infatti, soffre di diabete e occasionalmente è soggetta a svenimenti, perciò non vorrebbe essere costretta a portare i suoi figli con sé nel nostro Paese, ma preferirebbe affidarli alla sorella: «Se mi succede qualcosa» – si chiede – «chi si prenderà cura dei miei figli in Italia?» (Di Rado 2010, 42). Un’altra testimonianza dell’impatto del Sistema di Dublino sulla vita dei rifugiati viene dalla visita di papa Francesco a Lampedusa, nel luglio 2013. Un giovane eritreo sbarcato da poco ha avuto l’opportunità di esprimere direttamente al Pontefice la sua preoccupazione più grande: l’identificazione attraverso il prelievo delle impronte digitali. «Per arrivare in questo luogo tranquillo abbiamo sfidato vari ostacoli, siamo stati rapiti dai trafficanti. Abbiamo sofferto tantissimo per arrivare in Libia», ha detto il giovane. «Siamo costretti a rimanere in Italia. Ma vorremmo che altri Paesi europei ci accogliessero» 3. Il punto di vista dei rifugiati espresso così chiaramente in una delle rare occasioni in cui i media di tutto il mondo hanno dato loro la parola non può lasciarci indifferenti: tante, troppe persone cercano in Europa protezione e trovano invece barriere di ogni genere, subiscono umiliazioni e vere e proprie violazioni dei diritti umani e della loro dignità. Il JRS (Servizio dei gesuiti per i rifugiati), di cui il Centro Astalli di Roma è la sede italiana, ha svolto una ricerca per documentare gli effetti del Regolamento di Dublino, nella convinzione che nelle commissioni in cui si discutono le leggi e i regolamenti continui ad arrivare troppo poco la voce dei rifugiati, di chi ha visto crollare di fronte a sé l’ultima speranza di una vita migliore e sicura. 2. La ricerca DIASP Il progetto «DIASP. Una valutazione dell’impatto del Regolamento di Dublino sull’accesso alla protezione dei richiedenti asilo e un’analisi di buone pratiche implementate nell’Unione Europea», finanziato dal Fondo europeo per i rifugiati, aveva l’obiettivo di portare l’esperienza dei richiedenti asilo direttamente nel dibattito sul Sistema di Dublino dell’UE. Coordinato dal JRS Europa, ha coinvolto nove partner nazionali: il Centro Astalli in Italia, il JRS Belgio, il JRS Germania, il Forum Réfugiés in Francia, l’Hungarian Helsinki Committee in Ungheria, il JRS Malta, il Centrum Pomocy Prawnej Im. H. Nieć in Polonia, il JRS Romania e il JRS Svezia. Ciascuno dei partner ha realizzato circa 30 interviste a ri3 Cfr «Papa Francesco a Lampedusa», <www.huffingtonpost.it>, 8 luglio 2013. La protezione interrotta 227 chiedenti e titolari di protezione internazionale soggetti alle procedure del Sistema di Dublino. Le interviste riguardavano nello specifico le implicazioni del Regolamento in materia di accesso alle cure mediche, risposta a bisogni e vulnerabilità particolari, assistenza legale, impatto della detenzione, conseguenze della procedura sui legami familiari. Nel corso del progetto sono state intervistate 257 persone in nove Paesi. Di queste, il 59,5% erano in attesa di trasferimento e il 40,5% erano già state trasferite da uno Stato a un altro (i cosiddetti “dublinati” 4). Il Centro Astalli ha realizzato 30 interviste a Roma, soprattutto presso il Centro di ascolto e orientamento legale. Di questi intervistati, 16 erano “dublinati”, soprattutto di nazionalità somala, di cui 13 titolari di protezione (10 titolari di protezioLo status di rifugiato e la protezione sussidiaria sono le due forme di protezione internazionale a cui una persona che arne sussidiaria e 3 titolari riva in Italia in fuga da guerre e persecuzioni può accedere, dello status di rifugiato). attraverso un’unica procedura amministrativa (la richiesta Gli altri 14 erano persodi protezione internazionale). A chi è riconosciuto rifugiane in attesa di essere trato viene rilasciato un permesso di soggiorno quinquennale sferite in un altro Stato rinnovabile, senza ulteriore verifica delle condizioni; il titolare di protezione sussidiaria ottiene invece un permesso membro, in diverse fasi di soggiorno di durata triennale rinnovabile, previa verifica della procedura Dublidella permanenza delle condizioni che hanno consentito il no. Tra gli intervistati, riconoscimento della protezione. Le due forme di protezione 11 avevano fratelli, cugiinternazionale differiscono inoltre rispetto all’esercizio di ni o zii in altri Paesi, coalcuni diritti, ad esempio quello al ricongiungimento famime Austria, Inghilterra, liare, che il rifugiato (a differenza del titolare di protezione sussidiaria) può esercitare senza dimostrare i requisiti ecoFrancia, Olanda e Svezia nomici richiesti agli altri cittadini di Paesi terzi. (DIASP 2013) 5. 3. Le principali criticità nell’applicazione del Regolamento di Dublino in Italia «L’Italia è l’unico Paese in cui ho dovuto dormire per strada perché non ho trovato un posto in un centro di accoglienza. Negli altri Paesi europei ho sempre trovato un posto dove dormire». (Un rifugiato somalo intervistato a Roma; DIASP 2013, 10). 4 Si tratta di richiedenti asilo rinviati nello Stato membro che per primo ha registrato il loro ingresso in Europa o nel quale hanno già presentato domanda d’asilo, ed eventualmente già ricevuto una forma di protezione internazionale. I “dublinati” sono rifugiati costretti a soggiornare in un determinato Paese anche se non vogliono. Molti preferirebbero ricongiungersi ai loro parenti residenti in altri Stati o rimanere là dove sono riusciti a ricostruirsi una vita, trovando casa, lavoro ecc., ma il Sistema di Dublino glielo impedisce. 5 La sezione del Rapporto di ricerca relativa all’Italia, intitolata La protezione interrotta. L’impatto del Regolamento di Dublino sulla vita dei richiedenti asilo, è disponibile nella pagina «Pubblicazioni» del sito del Centro Astalli (<www.centroastalli.it>). 228 Chiara Peri ricerche e analisi Il Regolamento di Dublino interessa due categorie di migranti: quelli che sono stati rimandati in Italia, in quanto individuata come Stato responsabile per esaminare la loro domanda d’asilo (“dublinati”), e quelli che devono essere trasferiti dall’Italia a un altro Stato europeo, dove precedentemente sono stati identificati attraverso le impronte digitali (in attesa di trasferimento). Per farsi carico di queste situazioni particolari, la Convenzione di Dublino prevedeva l’istituzione, in ogni Paese aderente, di un’Autorità amministrativa, che tenesse anche i rapporti con le autorità analoghe degli altri Stati membri. Il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del nostro Ministero dell’Interno ha costituito un’apposita Unità Dublino, ma si tratta di un unico ufficio, a Roma, che deve esaminare tutti i casi a livello nazionale. Ciò può causare forti ritardi nella notifica degli ordini ufficiali di trasferimento ai richiedenti asilo, anche perché chi desidera avere informazioni non può contattare direttamente l’Unità Dublino, in quanto sfornita di front office. La maggior parte dei richiedenti asilo cerca dunque un intermediario e si rivolge ad associazioni e ONG locali. Secondo i dati contenuti negli ultimi rapporti pubblicati in merito, i “casi Dublino” in Italia riguardano per lo più persone che sono state trasferite nel nostro Paese da un altro Stato membro (cfr ASGI 2009 e Di Rado 2010). Alcune di queste avevano già completato la procedura d’asilo in Italia e, dopo aver ottenuto una forma di protezione internazionale, si erano trasferite in un altro Paese in cerca di migliori opportunità di inclusione sociale. Non essendo cittadini italiani, però, non hanno la possibilità di soggiornare e lavorare legalmente in un altro Stato membro 6. Il Regolamento di Dublino, in base alle finalità per cui è nato, dovrebbe interessare esclusivamente i richiedenti asilo, cioè persone che hanno presentato domanda di protezione internazionale e sono ancora in attesa di conoscerne l’esito. Applicarlo a quanti hanno già ultimato con successo la procedura, conseguendo una qualche forma di protezione internazionale, è un paradosso e di fatto non ha altro effetto che ostacolare l’integrazione dei rifugiati in Europa attraverso le loro reti familiari o amicali. In alcuni casi, esso ostacola persino l’unità familiare (tra fratelli, o tra marito e moglie). 6 L’ottenimento della cittadinanza in Italia è una procedura lunga e dall’esito incerto. I rifugiati riconosciuti possono presentare domanda dopo cinque anni dall’iscrizione anagrafica, ma devono dimostrare alcuni requisiti minimi di reddito e di integrazione. Inoltre la procedura può durare anni, senza alcuna garanzia di esito positivo. I titolari di protezione sussidiaria possono presentare domanda dopo dieci anni dall’iscrizione anagrafica. La protezione interrotta 229 Il fatto che il Regolamento costringa le persone a rimanere per sempre in uno specifico Stato membro, anche dopo avere ottenuto la protezione, sembrerebbe scoraggiare gli spostamenti dei richiedenti asilo. Invece, per la maggior parte delle persone intervistate nell’ambito del progetto DIASP, ciò si traduce nel raccomandare agli altri migranti di «scegliere, fin dall’inizio, il Paese europeo in cui intendono chiedere asilo perché, dopo essere arrivati lì, non si può più cambiare». La loro prospettiva, infatti, è quella di una integrazione a lungo termine, e viaggia in direzione opposta a quella del Regolamento. Un’altra criticità particolarmente vistosa riguarda l’accoglienza. La maggior parte degli intervistati ha detto di non avere un luogo dove vivere in Italia. I dati mostrano che la scarsità di posti di accoglienza è un problema grave, specialmente per i “dublinati”. Diversi dei 13 somali intervistati hanno riferito di dormire in un “palazzo occupato” nella periferia sud di Roma (cfr Peri 2012). Si tratta per lo più di titolari di protezione sussidiaria o rifugiati riconosciuti, che non hanno accesso alle stesse misure di accoglienza dei richiedenti asilo perché, prima della loro partenza per un altro Paese europeo, avevano già usufruito del periodo di accoglienza previsto dallo Stato o dal Comune di Roma 7. Un ulteriore elemento critico è la mancanza di informazioni esaustive, che ha un forte impatto sulla equità della procedura di asilo. I dati mostrano Il Regolamento Dublino prevede due clausole che autorizche alcune persone in atzano una deroga ai criteri generali di determinazione dello tesa di trasferimento hanStato competente per l’esame della domanda d’asilo: la no avuto, essendone state clausola di sovranità, per cui uno Stato membro può sempre decidere di assumere la responsabilità di esaminare debitamente informate, una richiesta di asilo presentata in frontiera o sul territorio, la possibilità di fare apanche se in base ai criteri ordinari la competenza dovrebbe pello alle cosiddette clauessere attribuita ad altro Stato membro, e la clausola umasole di discrezionalità. Al nitaria, per cui qualsiasi Stato membro, pur non essendo contrario, la mancanza competente dell’esame della domanda secondo i criteri ordinari, può diventarlo in considerazione di esigenze familiari di informazioni produce o umanitarie del richiedente asilo (gravidanza, maternità frustrazione, depressione recente, grave malattia, serio handicap, età avanzata, mie un profondo senso di gliore interesse del minore non accompagnato). precarietà: le persone si 7 Il problema è legato alle gravi carenze del sistema di accoglienza italiano: posti insufficienti, frammentarietà causata dall’esistenza di diversi tipi di strutture, incoerenza e disomogeneità degli standard. Manca un sistema di accoglienza unico, integrato, capace di rispondere a bisogni variabili e di offrire la stessa qualità di protezione in tutta Italia, che possa far riferimento a chiare linee guida nazionali e sia dotato di monitoraggio indipendente. La capacità della rete SPRAR (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), anche se da gennaio 2014 è passata da 3mila a 16mila posti, rimane non proporzionata agli attuali bisogni. Inoltre, l’assenza di misure di integrazione efficaci per i titolari di protezione internazionale ha creato un serio rischio di violazione dei diritti umani in Italia (cfr OSAR 2013). 230 Chiara Peri ricerche e analisi sentono intrappolate in un limbo giuridico. Tutti gli intervistati che erano ancora richiedenti asilo hanno affermato di non sapere nulla rispetto all’andamento della loro domanda e di essere molto confusi su come regolarsi. La procedura Dublino infatti può durare molto e il migrante non ha la possibilità di essere aggiornato su come procede il suo caso né attraverso un apposito ufficio informazioni né accedendo a un sistema on line o agli sportelli di altri uffici delle autorità competenti, come quelli territoriali dell’immigrazione. 4. Qualche considerazione a livello europeo a) L’informazione è un fattore chiave per l’esercizio dei diritti fondamentali Uno degli aspetti più preoccupanti emersi dalla ricerca DIASP a livello europeo è che la maggior parte delle persone non sono ben informate in merito alla procedura Dublino. Il 55% degli intervistati ne sapeva poco o nulla. Si tratta di un sistema complesso, di cui generalmente gli interessati colgono solo un aspetto: che devono essere trasferiti allo Stato europeo “competente”. Il Sistema di Dublino risulta ai più difficile da interpretare: solo il 20% degli intervistati ha dimostrato una conoscenza completa della procedura. Una delle principali implicazioni della scarsa informazione è che la capacità del migrante di accedere ai suoi diritti fondamentali viene fortemente limitata. Nel campione italiano, il 47% delle persone non sapeva come fare per presentare ricorso contro un ordine di trasferimento e il 64% non era a conoscenza delle clausole discrezionali. Pertanto, un numero considerevole di persone di fatto non ha presentato ricorso e, quindi, non ha esercitato un suo diritto fondamentale, sancito dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dall’art. 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, solo perché non informato della possibilità di farlo. A questo proposito, il Regolamento Dublino III introduce alcune novità che, auspicabilmente, miglioreranno il panorama finora riscontrato. Al diritto di informazione è dedicato un articolo apposito (art. 4) e ne viene definito meglio il contenuto rispetto al Regolamento Dublino II. Tutte le informazioni relative alle procedure, inclusa la possibilità di impugnare una decisione di trasferimento e di chiederne la sospensione, dovranno essere fornite «non appena sia presentata una domanda di protezione internazionale». Si precisa tra l’altro che le informazioni devono essere comunicate (per iscritto, ma, se necessario per la corretta comprensione del richiedente, anche oralmente) «in una lingua che il richiedente comprende o che ragionevolmente si suppone a lui comprensibile». Viene introdotto (art. 5) l’obbligo per gli Stati di condurre un colloquio personale La protezione interrotta 231 al fine di agevolare la procedura Dublino, da svolgere prima che sia adottata la decisione di trasferimento; deve essere condotto da una persona qualificata, in condizioni che garantiscano riservatezza, avvalendosi ove necessario di un interprete che possa garantire una comunicazione adeguata. Di tale colloquio lo Stato è obbligato a redigere una sintesi scritta che contenga le principali informazioni fornite dal richiedente. b) Condizioni di accoglienza dignitose Dormire per strada, doversi accontentare di alloggi inadeguati, non avere accesso a servizi essenziali sono indubbiamente elementi che ledono la dignità delle persone. I rifugiati vedono dignità e protezione come due elementi indissolubilmente legati. Le persone infatti si sentono protette non solo se possono formalmente accedere alla procedura d’asilo, ma soprattutto quando vedono riconosciuto il diritto a un alloggio dignitoso, al necessario sostegno per i bisogni essenziali e vengono loro offerte occasioni di miglioramento, come ad esempio la formazione. Chi si trova in Paesi che non soddisfano queste esigenze, continuerà la sua ricerca di sicurezza altrove. Per questo le condizioni di accoglienza sono un elemento non trascurabile del Sistema di Dublino: in un certo senso, esse rappresentano l’elemento chiave dell’intero sistema. La percezione che gli individui hanno rispetto alla qualità dei servizi essenziali e delle modalità di accoglienza in un Paese dell’Unione condiziona fortemente il modo in cui essi interagiscono con il Sistema di Dublino. Il 68% di coloro che hanno ammesso di essersi nascosti alle autorità ha anche affermato di essere molto insoddisfatto rispetto ai servizi essenziali nel Paese in cui è stato intervistato. Il 50% delle persone che hanno affermato che il Sistema di Dublino è «iniquo e ingiusto» ha detto anche di non avere ricevuto i servizi essenziali nel Paese in cui l’intervista è stata raccolta. c) L’inutilità della detenzione «È stata un’esperienza orribile perché ho sempre pensato che la prigione fosse una punizione per qualcuno colpevole di qualcosa, ma io ero del tutto innocente. Stavo solo fuggendo da una persecuzione nel mio Paese e non meritavo di essere messo in carcere» (Un richiedente asilo che è stato detenuto a Malta; DIASP 2013, 11) La detenzione è un’esperienza frequente per i richiedenti asilo e i migranti coinvolti nel Sistema di Dublino. La maggior parte dei Paesi europei infatti la applica alle persone in attesa di trasferimento 232 Chiara Peri ricerche e analisi in un altro Stato membro. Nel Regolamento di Dublino non ci sono regole comuni rispetto al ricorso alla detenzione: i migranti sono lasciati in una sorta di zona grigia della legislazione europea, che consente pratiche divergenti da uno Stato all’altro. Il Regolamento “Dublino III” contiene alcuni articoli in materia, obbligando in particolare gli Stati membri a far riferimento alle regole contenute nella cosiddetta «Direttiva rifusa» sulle condizioni di accoglienza (Direttiva 2013/33/UE); si raccomanda anche ai Governi di adottare misure meno coercitive, prima di ricorrere alla detenzione. Sebbene sulla carta si siano raggiunti alcuni miglioramenti, in realtà per i migranti la minaccia della detenzione continua a essere un rischio concreto nell’ambito del Sistema di Dublino. Dalle interviste realizzate nell’ambito del progetto DIASP è chiaro che la detenzione è una delle misure meno necessarie del Sistema di Dublino, il cui unico effetto è di aumentare la frustrazione nei richiedenti asilo e nei migranti. Infatti, essa non accresce l’efficacia della procedura Dublino ed è usata in modo piuttosto arbitrario, con conseguenze estremamente gravi. Ad esempio, nessuno degli intervistati in Francia era in detenzione, perché normalmente in quel Paese – come in Italia o in Svezia – i richiedenti asilo non sono detenuti. Viceversa in Belgio, sebbene i richiedenti asilo non vadano automaticamente detenuti, in pratica di solito lo sono. Inoltre, risulta che le persone detenute hanno in media un minore accesso alle informazioni sulla procedura Dublino rispetto agli altri intervistati e più difficoltà ad avvalersi del supporto degli avvocati, il che riduce di molto la loro possibilità di presentare ricorso. La detenzione mette le persone in condizione di forte svantaggio quando si tratta di effettiva esigibilità dei loro diritti. La detenzione nel Sistema di Dublino lede quindi la dignità delle persone e preclude loro l’accesso ai diritti fondamentali, senza alcun apparente beneficio per gli interessati, né per gli Stati che li accolgono. 5. Uno sconvolgimento non necessario «Le mie sorelle e mio fratello vivono nel Regno Unito. Io volevo raggiungerli, ma ora non è più possibile. È molto complicato, perché io ho ottenuto il mio permesso di soggiorno qui e non posso andare lì a lavorare». «Mia moglie è stata riconosciuta rifugiata in Norvegia e abbiamo due bambini, ma io non posso andare lì e vivere con loro, perché sono stato riconosciuto rifugiato in Italia e ho bisogno di una autorizzazione speciale». (Due rifugiati intervistati a Roma; DIASP 2013, 11) La protezione interrotta 233 Tra le persone intervistate nell’ambito della ricerca DIASP, 4 su 10 hanno affermato che altri membri della loro famiglia vivono attualmente in un Paese dell’UE diverso da quello in cui loro stessi si trovano. I richiedenti asilo spesso arrivano in Europa con un progetto che, in genere, s’infrange perché vengono trasferiti in un Paese diverso da quello in cui intendevano andare. Se ogni Stato europeo avesse lo stesso sistema di asilo e di accoglienza, la cosa potrebbe non costituire un problema, ma chiaramente non è così. Sapendo che le condizioni di asilo e di accoglienza sono molto diverse nei vari Stati dell’Unione e dopo aver analizzato le 257 interviste realizzate, il JRS ritiene che il Regolamento di Dublino non solo non faciliti l’accesso al diritto fondamentale degli individui a chiedere protezione, ma spesso sconvolga senza ragione la vita delle persone. Non vanno inoltre trascurati gli oneri e le difficoltà che il Regolamento presenta per gli Stati. I trasferimenti necessitano di risorse economiche e umane e non sembrano portare particolari benefici, se non agli Stati interni dell’UE che possono avere interesse a contenere il numero delle richieste d’asilo. Nonostante il Regolamento intendesse armonizzare il modo in cui gli Stati membri condividono la responsabilità della gestione delle domande d’asilo, le “pratiche Dublino” sono fortemente diversificate da uno Stato all’altro. Alcuni Governi infatti applicano il Regolamento con rigidità assoluta, senza prendere in considerazione i bisogni e la dignità delle persone interessate e senza una valutazione ragionevole dell’efficacia del sistema, mentre altri considerano le specificità del caso (vulnerabilità del richiedente, potenzialità di integrazione, durata complessiva della procedura) con maggiore attenzione. Alcuni tribunali inoltre impediscono il trasferimento di casi Dublino in alcune circostanze specifiche, ad esempio verso Paesi con condizioni di accoglienza inadeguate, come la Grecia 8 e, talvolta, l’Italia: in questi casi il sistema costringe gli Stati a impiegare risorse per le procedure, anche se i trasferimenti non sono possibili. Inoltre i Governi spendono risorse per la detenzione, per rispondere ai ricorsi inoltrati dagli avvocati e, paradossalmente, persino per valutare i bisogni, i rischi e le vulnerabilità dei richiedenti asilo interessati. 8 L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite (UNHCR) ha esplicitamente raccomandato ai Governi di non espellere i richiedenti asilo in Grecia, in considerazione delle gravi insufficienze del sistema d’asilo in quel Paese (cfr UNHCR 2008). Il 2 gennaio 2014 l’UNHCR ha espresso una analoga valutazione riguardo alla Bulgaria, chiedendo agli Stati di sospendere i trasferimenti visto il «reale rischio di trattamenti inumani e degradanti a causa di sistematiche carenze nelle condizioni di accoglienza e nelle procedure d’asilo» (cfr UNHCR 2014). 234 Chiara Peri ricerche e analisi La principale finalità del Regolamento era prevenire i movimenti secondari di richiedenti asilo all’interno dell’UE, ma le persone continuano a spostarsi in percentuali allarmanti. In media, gli intervistati nell’ambito del progetto DIASP avevano alle spalle già tre o quattro viaggi. La rigidità del Sistema di Dublino infatti spinge i richiedenti asilo a muoversi continuamente in Europa in cerca di protezione, piuttosto che fermarsi in un posto solo, nel tentativo di aggirare un Sistema percepito come poco sicuro. Le condizioni di accoglienza scadenti in alcuni Paesi europei costituiscono il motivo principale per cui le persone continuano a viaggiare, oltre al desiderio di vivere con la propria famiglia, o di presentare domanda d’asilo in un Paese di cui si conosce la lingua, o dove si ritiene di avere maggiori possibilità di riuscire a rifarsi una vita. Eludere il Sistema di Dublino comporta per i rifugiati il rischio di essere arrestati, detenuti e trasferiti in un altro Stato, essere separati dalla propria famiglia. Il fatto che così tante persone ritengano necessario assumersi questo rischio per trovare protezione è forse la prova più evidente che, nonostante i miglioramenti introdotti, il Regolamento di Dublino resta piuttosto un ostacolo all’esercizio del diritto d’asilo. 6. Prospettive future Il Regolamento “Dublino III” fa parte del pacchetto di strumenti giuridici la cui approvazione da parte del Parlamento Europeo ha completato il lungo e faticoso percorso verso il Sistema europeo comune d’asilo (CEAS). Gli Stati membri dell’UE sono obbligati, entro il 20 luglio 2015, a emendare le leggi nazionali per fare in modo che siano conformi alle modifiche introdotte. Diversi enti di tutela hanno sottolineato che i risultati di questo processo sono piuttosto deludenti rispetto alle aspettative. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), a commento della votazione del Parlamento Europeo, ha osservato che la necessità di trovare dei compromessi su alcuni aspetti critici ha fatto venire meno «la possibilità di colmare alcune lacune e di chiarire alcune normative complesse e problematiche» e che «alcuni articoli introdotti pongono seri problemi di interpretazione, come le procedure di ingresso che si riferiscono ai minori non accompagnati» 9. Pochi mesi dopo l’approvazione del CEAS, 77 Organizzazioni non governative europee hanno presentato un rapporto dal significativo titolo Ancora non ci siamo. Il punto di vista delle ONG sulle sfide per un sistema comune di asilo equo ed efficace (AIDA 2013), in cui si evi9 UNHCR, Comunicato stampa del 14 giugno 2013. La protezione interrotta 235 risorse denziano le grandi differenze riscontrate in 14 diversi Stati rispetto alle norme procedurali, alla tutela dei diritti, ai servizi d’integrazione e all’uso della detenzione amministrativa dei richiedenti asilo. Inoltre, a fronte di norme sempre più complesse, è sempre meno garantita l’assistenza legale gratuita durante la procedura. In questo momento non ci si possono aspettare significative modifiche normative a livello europeo. L’auspicio del JRS è che in questa fase di implementazione e trasposizione delle norme comunitarie nei sistemi giuridici nazionali gli Stati non perdano di vista i valori fondanti dell’UE, enunciati nell’art. 2 della sua Costituzione: il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e dei diritti umani. I Governi non si limitino dunque a garantire gli standard minimi previsti, ma si pongano l’obiettivo di costruire un sistema d’asilo con standard alti, in consultazione con le ONG e gli altri enti di tutela, nell’ottica di garantire i diritti e la protezione effettiva di persone già gravemente provate da guerre e persecuzioni. Normativa europea Direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale. Regolamento (UE) 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o da un apolide (rifusione). Riferimenti bibliografici AIDA (2013), Not there Yet: An NGO Perspective on Challenges to a Fair and Effective Common European Asylum System, AIDA. Asylum Information Database. Annual Report 2012-2013, <www.asylumineurope.org/files/shadow-reports/not_there_yet_02102013.pdf>. ASGI (2009), Il diritto alla protezione. La protezione internazionale in Italia quale futuro. Studio sullo stato del sistema di asilo in Italia e proposte per una sua evoluzione, Fondo Europeo per i Rifugiati (FER) nazionale, Programma Annuale 2009, <www.asgi.it/public/ parser_download/save/il.diritto.alla.protezione.zip>. 236 Chiara Peri Di Rado D. (ed.) (2010), Rapporto Finale del Progetto “DUBLINERS – Ricerca e scambio di esperienza e prassi sull’applicazione del Regolamento Dublino II”, aprile, <www.cir-onlus.org/phocadownload/Pubblicazioni_CIR/Progetto%20Dubliners%20Rapporto%20Finale.pdf>. DIASP (2013), Jesuit Refugee Service Europe, Protection Interrupted. The Dublin’s Regulation Impact on Asylum Seekers’ protection (the DIASP Project). National report: Italy, giugno, <www.jrseurope.org/DIASP%20Publications/ IT_DIASP.pdf >. 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UNHCR (2014), Observations on the Current Situation of Asylum in Bulgaria, 2 January 2014, <www.refworld.org/docid/52c598354.html>. scheda / libro Nadan Petrovic´ Rifugiati, profughi, sfollati Breve storia del diritto d’asilo in Italia D innanzi al fenomeno migratorio di persone costrette a lasciare le loro terre d’origine a causa di guerre, epidemie, persecuzioni, i Paesi occidentali sono chiamati a fornire una risposta civile e solidale a un problema di dimensioni ormai planetarie. Il volume, nella sua versione aggiornata, offre un’approfondita panoramica storica del diritto d’asilo in Italia, che negli ultimi decenni ha conosciuto profonde trasformazioni anche in applicazione di specifici obblighi previsti dall’Unione Europea, con inevitabili ricadute sulle politiche di accoglienza e integrazione. A partire dalla nostra Costituzione, passando dalla Convenzione di Ginevra del 1951, si giunge alla Legge Martelli (1990) e poi alla Bossi-Fini (2002) e a tutte le conseguenze che la normativa europea ha avuto sulla realtà italiana. La ricostruzione dell’evoluzione giuridica in materia è sempre accompagnata dalla contestualizzazione storica in cui la disciplina si è formata, con riferimenti a precise sfide provenienti dai richiedenti asilo, durante l’emergenza albanese, somala e della ex Iugoslavia per i primi anni ’90, quella kosovara (19982000), fino ai giorni nostri, con i movimenti di persone legati alle vicende che hanno sconvolto il Nord Africa. Durante tutti questi anni le domande di asilo in Italia sono aumentate, mettendo a nudo un sistema di ricezione non del tutto efficace e rispondente, perché poco coordinato, in particolare per quanto concerne le iniziative di integrazione a favore di quanti ottengono una qualche forma di protezione da parte dello Stato. Basta considerare come alcune norme nel diritto d’asilo si trovino non in una legge apposita, ma nel cosiddetto “Pacchetto sicurezza” (Legge n. 94 del 15 luglio 2009), fatto che dimostra la percezione errata del fenomeno a livello politico. Infatti, «molti titolari di protezione internazionale che escono dai centri, in assenza di un sistema strutturato di accesso alle politiche e ai servizi per il lavoro seppur muniti di un permesso di soggiorno di validità pluriannuale, finiscono attualmente in situazione di emarginazione sociale che si manifestano significativamente nelle principali aree urbane» (p. 133). Il fatto che l’A. abbia non solo studiato, ma anche vissuto in prima persona ciò di cui scrive, dà un valore aggiunto al libro; a tale proposito si legge nella postfazione: «con le sue esperienze e riflessioni su quello che ha visto e vissuto, questo studioso proveniente dai Balcani, nativo di Dubrovnik, cresciuto nell’ambiente multiculturale e multireligioso di Sarajevo anteguerra, diventato cittadino italiano e europeo, ci regala un’opera rara, utile agli studiosi della materia nonché a tutti coloro che amministrano le politiche e le prassi dell’asilo» (p. 138). Ida Offreducci FrancoAngeli Milano 2013 (2011) pp. 146, € 18 237 Abbonati ad Avvenire In più, per te, gratis anche l’abbonamento digitale Abbonarsi ad Avvenire significa entrare ogni giorno nel cuore del cambiamento della Chiesa e di tutto il mondo cattolico. 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Kennedy e Nikita Krusciov, di fidarsi l’uno dell’altro contro il parere dei rispettivi consiglieri. Da dove trassero ispirazione per un atto così coraggioso? Quale influenza ebbero Giovanni XXIII e il suo messaggio di pace e di rinnovamento? E quali legami possiamo rintracciare tra quella decisione di pace e il successivo assassinio di Kennedy? In momenti cruciali una singola persona può fare la differenza, a condizione che se ne sia costruita la possibilità, ma non senza accettare di farsi carico delle conseguenze delle proprie scelte. I l giorno in cui il presidente John Fitzgerald Kennedy fu assassinato, un seminarista del Verbo Divino salì il colle dove si trovava l’appartamento della nostra famiglia a Roma per portare a mia moglie Sally e a me la terribile notizia. In cerca di una parola di sapienza e conforto, scrissi a Dorothy Day, che era stata da noi la primavera precedente in occasione di un pellegrinaggio a Roma per ringraziare papa Giovanni XXIII per la Pacem in terris (1963), un’enciclica epocale sulla pace globale e sui diritti civili. Dorothy mi rispose suggerendomi di puntare la mia attenzione sulla vita di Kennedy, raccomandandomi di leggere una sua biografia. Disse che, in un contesto di violenza inarrestabile, avrebbe rivolto le sue preghiere a John F. Kennedy (sottolineando quella “a”) Aggiornamenti Sociali marzo 2014 (239-246) 239 e mi incoraggiò a riflettere sulle parole di san Paolo: «noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Romani 8,28). Nel novembre del 1963 ero a Roma, impegnato a cercare di convincere i Padri conciliari a condannare la guerra totale e a sostenere l’obiezione di coscienza. Traendo ispirazione dall’appello di papa Giovanni per la fiducia reciproca tra i rivali della guerra fredda, avevo scritto sul quotidiano The Catholic Worker che Kennedy avrebbe dovuto risolvere la crisi dei missili cubani grazie a uno scambio (impensabile dal punto di vista politico) di basi missilistiche con il premier sovietico Nikita Krusciov. All’epoca non avevo alcun sospetto che Kennedy in segreto avesse davvero compiuto questo grande passo verso Krusciov, nello stesso momento in cui si impegnava pubblicamente a non invadere Cuba, fatto che fece infuriare il suo Stato maggiore. A causa della svolta per la pace con i nemici comunisti, annunciata il 10 giugno 1963 nel discorso all’American University, Kennedy mise a repentaglio la propria vita, come poco tempo prima aveva inconsapevolmente profetizzato il monaco trappista e scrittore americano Thomas Merton (1915-1968). Nel gennaio del 1962 Merton scriveva a un amico di nutrire «scarsa fiducia» nelle capacità di Kennedy di sfuggire alla crisi nucleare, poiché non possedeva le necessarie doti di profondità, umanità, altruismo e pietà. «Forse Kennedy ce la farà in futuro, per miracolo – scriveva Merton –, ma questo genere di persone diventa presto il bersaglio di un omicidio politico». Dorothy Day (New York, 1897-1980) fu un’attivista anarchica americana e una giornalista. Si spese per la difesa dei più poveri e, dopo essersi convertita al cattolicesimo nel 1927, fondò nel 1933 il Catholic Worker Movement, che sosteneva il valore della nonviolenza e l’ospitalità per i più miseri. Fondò una casa di accoglienza a New York, e da qui il suo movimento si diffuse in tutti gli USA, in Canada e in Gran Bretagna. Nel 2000 è stata dichiarata Serva di Dio da Giovanni Paolo II. L’opposizione interna Trent’anni più tardi mi sono deciso finalmente a prendere sul serio le parole di Dorothy Day e mi sono dedicato a studiare nei dettagli la vita e la morte di Kennedy. Per dodici anni ho esaminato i documenti della sicurezza nazionale riguardanti i momenti di crisi da Il President John F. Kennedy Assassinalui attraversati nel corso della guerra tion Records Collection Act, entrato in vigore il 26 ottobre del 1992, segna la crefredda, specialmente quelli resi pubbliazione dell’Assassination Record Review ci dal Congresso attraverso il President Board, un organismo che si è occupato John F. Kennedy Assassination Records di inventariare e rendere pubblico il maCollection Act del 1992. Rintracciai e teriale a disposizione delle varie agenzie intervistai alcuni testimoni del suo asamericane riguardo l’assassinio del presisassinio e cominciai a intuire la luce di dente Kennedy. 240 James W. Douglass cristiani e cittadini redenzione degli eventi di Dallas che Dorothy aveva percepito nel novembre del 1963 grazie al suo amore per Dio. Cercare nelle profondità di un male sistemico la luce che Merton definiva «the Unspeakable» 1 (l’indicibile, l’inesplicabile), descritta nella sua opera Raids on the Unspeakable (1966), ci porta a una sorta di racconto evangelico. Kennedy stava imparando a vedere attraverso gli occhi dei suoi avversari comunisti. Con grande rischio personale, si stava muovendo dalla guerra verso la costruzione della pace. Rimasi profondamente sorpreso dalla storia pervasa di grazia di un Presidente degli Stati Uniti che sceglie la pace a rischio della sua stessa vita. Il mistero che avvolge l’assassinio di Kennedy si estende fino a una riunione del 19 ottobre 1962, durante la crisi dei missili di Cuba, in cui il Presidente si oppose alle pressioni dei suoi capi di Stato maggiore che chiedevano di bombardare e invadere Cuba. Quando abbandonò la stanza, un registratore nascosto continuò a funzionare, catturando il disprezzo dei generali verso il Presidente e la loro determinazione di portare il conflitto fino alla guerra nucleare totale. Volevano vincere la guerra fredda. Il generale Curtis E. LeMay, capo di Stato maggiore dell’aviazione, mise in atto tale intenzione. In piena crisi cubana, ordinò ai suoi bombardieri, armati di testate nucleari, di superare il punto di inversione di rotta verso l’Unione Sovietica e di lanciare un missile balistico di prova, per provocare la reazione avversaria che, a sua volta, avrebbe scatenato un attacco nucleare totale da parte delle superiori forze statunitensi. Fortunatamente i sovietici non abboccarono. Il mistero che circonda i fatti di Dallas risale ancora più indietro, alla fallita invasione della Baia dei Porci nell’aprile del 1961 da parte di esuli cubani addestrati dalla CIA (Central Intelligence Agency, i servizi segreti statunitensi). In seguito Kennedy si rese conto che la CIA lo aveva ingannato riguardo l’imminente sollevazione popolare cubana contro Fidel Castro e sulla guerriglia che la brigata degli esuli cubani avrebbe scatenato. Avevano tentato di costringere il Presidente ad autorizzare l’invasione da parte di forze d’assalto per salvare la situazione. Kennedy, invece, ebbe il coraggio di accettare la disfatta. Come egli stesso ebbe modo di raccontare più tardi agli amici, «Non riuscivano a credere che un Presidente nuovo come me potesse non farsi prendere dal panico e non cercasse almeno di salvare la faccia. Bene, non avevano capito nulla di me». Kennedy era furioso con la CIA per l’incidente. In seguito il New York Times riportò che Kennedy disse a uno dei più alti funzionari 1 Cfr Merton T. (1966), Raids on the Unspeakable, New Directions Books, New York. Kennedy, Krusciov e Giovanni XXIII: storia di una pace inaspettata 241 della sua amministrazione di voler «ridurre la CIA in mille pezzi e gettarli al vento». Effettivamente, Kennedy aveva licenziato il direttore della CIA Allen Dulles e i suoi vice, Richard M. Bissell Jr. e il generale Charles P. Cabell. Probabilmente Allen Dulles era il personaggio più potente coinvolto nella guerra fredda. Ritornò al potere come membro della Commissione Warren, incaricata di investigare sull’attentato di Dallas, e nel 1964 la spinse ad adottare la conclusione dell’assassino isolato. Costruire una relazione Durante la crisi dei missili, Kennedy si convertì alla pace. Quando si giunse al punto di rottura del terribile conflitto che le sue stesse politiche contro Fidel Castro avevano contribuito a fare precipitare, egli cercò una via d’uscita, che i suoi generali giudicarono assolutamente imperdonabile. Non soltanto respinse le loro pressioni per attaccare Cuba e l’Unione Sovietica: peggio ancora, si rivolse al nemico in cerca di aiuto. Lo si poteva considerare un atto di tradimento. Krusciov invece lo vide come un segno di speranza. Robert F. Kennedy, allora Procuratore generale e responsabile del Ministero della Giustizia, aveva segretamente incontrato, il 27 ottobre 1962 a Washington, l’ambasciatore sovietico Anatoly Dobrynin, avvertendolo che il Presidente stava per perdere il controllo dei suoi generali e aveva bisogno dell’aiuto dei sovietici. Quando Krusciov ricevette l’appello di Kennedy a Mosca, si rivolse al suo ministro degli esteri, Andrei Gromyko, dicendo: «Dobbiamo far sapere a Kennedy che vogliamo aiutarlo». Krusciov esitò all’idea di aiutare il nemico, ma ripeté: «Sì, aiutiamolo. Ora abbiamo una causa comune, salvare il mondo da coloro che ci stanno spingendo verso la guerra». Come possiamo riuscire a comprendere quel momento? I due leader più pesantemente armati di tutta la storia, sull’orlo della guerra nucleare totale, improvvisamente si diedero la mano per opporsi a coloro che, da entrambe le parti, li spingevano ad attaccare. Krusciov ordinò l’immediato ritiro dei suoi missili, in cambio dell’impegno pubblico di Kennedy a non invadere Cuba e della promessa segreta di ritirare i missili americani dalla Turchia, come avrebbe poi effettivamente fatto. I due protagonisti della guerra fredda erano cambiati; ciascuno aveva a questo punto molto più in comune con l’avversario che con i suoi generali. Né Kennedy, né Krusciov erano dei santi. Entrambi erano profondamente coinvolti nelle scelte politiche che condussero l’umanità sull’orlo della guerra nucleare. Ma quando incontrarono ciò che Thomas Merton definiva «il vuoto di Ciò che non è esprimibile», 242 James W. Douglass cristiani e cittadini ciascuno cercò aiuto nell’altro. Così, portarono l’umanità verso la speranza di un pianeta pacifico. La genesi della trasformazione di Kennedy e di Krusciov in occasione della crisi dei missili si trova nella loro corrispondenza segreta, iniziata circa un anno prima. Dopo il loro fallito incontro di Vienna nel giugno del 1961, il 29 settembre dello stesso anno Krusciov scrisse una lettera epocale al Presidente americano. Per far capire il nucleo del suo messaggio, il leader comunista fece ricorso a una analogia tratta dalla Bibbia, paragonando la sua situazione e quella di Kennedy all’arca di Noè. Così scriveva: «Nell’arca di Noè trovarono riparo e scampo sia i “puri” che gli “impuri”. Ma, a prescindere da chi si considerava “puro” e da chi invece faceva parte della lista degli “impuri”, tutti avevano ugualmente a cuore una sola cosa, che l’arca potesse continuare con successo il suo viaggio. Anche noi non abbiamo altra alternativa: o viviamo in pace, collaborando affinché l’arca possa continuare a galleggiare, oppure essa andrà a fondo». Kennedy rispose il 16 ottobre: «Mi piace molto la similitudine con l’arca di Noè, dove “puri” e “impuri” sono ugualmente determinati a mantenerla a galla». Così, attraverso la loro corrispondenza segreta, i due uomini lottarono per raggiungere una migliore conoscenza reciproca e una maggiore comprensione delle loro diversità. La crisi dei missili cubani un anno più tardi provò che non avevano affatto risolto i loro conflitti, eppure fu proprio grazie alle lettere segrete che ciascuno dei due comprese che l’altro era un essere umano degno di rispetto. Sapevano anche di essersi trovati d’accordo già una volta su una cosa: che il mondo era un’arca. Dovevano tenere l’arca a galla. E ci riuscirono, proprio nel momento di maggior pericolo. La mutua ricerca della pace Dopo che Kennedy e Krusciov si allearono nella crisi dei missili, cominciarono a “cospirare” per mantenere la pace. L’acme fu il discorso di Kennedy all’American University nel giugno del 1963. Presentò la sua visione della pace come risposta alle sofferenze patite dal popolo russo nel corso della Seconda guerra mondiale, riuscendo così a superare il solco che divideva i due avversari. Krusciov in seguito avrebbe detto al diplomatico americano W. Averell Harriman che «si era trattato del più grande discorso tenuto da un Presidente americano dai tempi di Roosevelt». L’annuncio, dato da Kennedy in quella occasione, della cessazione unilaterale degli esperimenti nucleari nell’atmosfera e la speranza espressa in vista dei negoziati per un trattato a Mosca aprirono la porta. Nel giro di sei settimane, Kennedy e Krusciov Kennedy, Krusciov e Giovanni XXIII: storia di una pace inaspettata 243 firmarono il Partial Nuclear Test Ban Treaty (Trattato sulla messa al bando parziale dei test nucleari). Era un segno che confermava la loro volontà comune di porre fine alla guerra fredda. Un altro segno fu il consiglio di Krusciov a Fidel Castro di cominciare a collaborare con Kennedy. Castro si era infuriato perché Krusciov aveva ritirato i missili all’ultimo momento senza consultare l’alleato cubano, in cambio solo della promessa di un capitalista. Il 31 gennaio 1963 Krusciov scrisse a Castro per cercare la riconciliazione e la pace con l’alleato cubano, una lettera che corrispondeva a quella dell’arca di Noè inviata a Kennedy. Castro accettò l’invito a recarsi in Unione Sovietica. La visita di Castro a Krusciov si svolse nei mesi di maggio e giugno 1963. I due leader viaggiarono insieme visitando l’Unione Sovietica. Castro riferì in seguito che Krusciov gli impartì un vero e proprio corso di formazione sulla necessità di dare fiducia a Kennedy. Giorno dopo giorno, Krusciov leggeva a voce alta a Castro la corrispondenza con Kennedy, ponendo l’accento sulla speranza di pace che ora potevano nutrire grazie alla collaborazione con il Presidente degli Stati Uniti. Krusciov stava mettendo in pratica quanto papa Giovanni – che il leader comunista aveva imparato ad amare – aveva raccomandato nella Pacem in terris, quando scriveva «al criterio della pace che si regge sull’equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia» (n. 61). Il Pontefice aveva inviato a Krusciov una medaglia papale e una copia in russo dell’enciclica sulla pace, precedente la pubblicazione ufficiale. Krusciov ne fu commosso. Nel settembre del 1963 Kennedy fece un altro enorme passo verso la fiducia reciproca, intesa come nuova base per la pace. Iniziò un segreto dialogo con Fidel Castro, attraverso il diplomatico americano William Attwood, in servizio presso le Nazioni Unite, allo scopo di normalizzare le relazioni tra Stati Uniti e Cuba. Castro reagì con entusiasmo e iniziò a stringere accordi segreti per incontrare Attwood. Kennedy diede una forte spinta a tutto il processo ricorrendo a un canale ufficioso e riservato per comunicare con Castro. Il suo rappresentante non ufficiale, il corrispondente francese Jean Daniel, era impegnato nel secondo incontro con Castro il pomeriggio del 22 novembre 1963, quando li raggiunse la notizia della morte del Presidente. Castro si alzò in piedi, guardò Il Partial Nuclear Test Ban Treaty, firmato a Mosca il 5 agosto 1963, era un trattato internazionale sulla messa al bando parziale degli esperimenti nucleari, nato dalla necessità di porre un argine al prolificare dei test nucleari che dal 1945 al 1960 si susseguirono indiscriminatamente in numerose zone del mondo, e che si concretizzò all’indomani della crisi dei missili di Cuba. 244 James W. Douglass cristiani e cittadini Daniel e disse: «Tutto è cambiato. Tutto cambierà». Anche il dialogo tra Stati Uniti e Cuba morì a Dallas. Poco prima della morte, Kennedy si era mosso anche per porre fine all’impegno militare degli Stati Uniti in Viet Nam. Il National Security Action Memorandum No. 263, pubblicato l’11 ottobre 1963, afferma che in un incontro tenuto sei giorni prima Kennedy aveva approvato un programma di addestramento dei vietnamiti, in modo da consentire «il ritiro di mille soldati statunitensi entro la fine del 1963» e «di tutto il contingente del personale militare statunitense entro la fine del 1965». Il successore di Kennedy, il presidente Lyndon B. Johnson, ignorò completamente tali progetti. A Dallas la guerra in Viet Nam tornò a infiammarsi. Appuntamento con la morte La coraggiosa svolta di Kennedy dalla guerra globale alla strategia di pace spiega le ragioni della sua uccisione. Alla luce dei dogmi della guerra fredda che imprigionavano la sua amministrazione e della sua svolta in favore della pace, l’assassinio di Kennedy diventava una conseguenza logica, naturale. Fu chiaramente un atto politico, che tuttavia ci consegna la speranza della trasformazione. Speranza? Come possiamo trovare ragioni di speranza nell’assassinio di un Presidente che stava volgendo la sua azione dalla guerra alla pace? Se nella nostra storia affrontiamo l’“Inesprimibile”, possiamo intravedere in mezzo alle tenebre una luce di redenzione. Spinto insistentemente a dichiarare guerra, Kennedy ordinò al suo Governo, dopo la crisi dei missili, di perseguire una politica di «disarmo completo e generale» (cfr il National Security Action Memorandum No. 263 del 6 maggio 1963). La coraggiosa trasformazione del Presidente e la sua disponibilità al sacrificio della propria vita per amore della pace vanificarono la determinazione della CIA e dello Stato maggiore a vincere la guerra fredda nel solo modo che conoscevano. Quella conversione e quel sacrificio hanno salvato tutti noi dalla distruzione e dal deserto nucleare. Abbiamo ancora una possibilità. Ma siamo disposti a perseguire la pace, accettandone il costo? A causa del quasi costante stato di malattia in cui era vissuto, Kennedy aveva sentito dentro di sé per anni la voce della morte. La sua poesia preferita era I Have a Rendezvous With Death (Ho un appuntamento con la morte) di Alan Seeger. Jacqueline Kennedy insegnò la poesia alla figlia Caroline, che allora aveva cinque anni. In una splendida giornata di ottobre del 1963, nel corso di un incontro Kennedy, Krusciov e Giovanni XXIII: storia di una pace inaspettata 245 con i consiglieri per la sicurezza nazionale nel Rose Garden, Caroline attirò l’attenzione del padre e, guardandolo negli occhi, gli recitò la poesia, che termina così: «Ma io ho un appuntamento con la Morte A mezzanotte in qualche città in fiamme Quando la primavera anche quest’anno si dirigerà a nord. Ma io sono fedele alla parola data E non mancherò a quell’appuntamento». Sul volo notturno di ritorno da Vienna dopo l’incontro con Krusciov, due anni prima, Kennedy aveva scritto su un foglietto di carta la sua preferita tra le citazioni di Abramo Lincoln: «So che c’è Dio – e vedo approssimarsi la tempesta; Se Egli ha un posto per me, credo di essere pronto». La tempesta che temeva era la guerra nucleare. Se Dio aveva un posto per lui – l’appuntamento con la morte – che poteva allontanare la tempesta dall’umanità, ebbene, era sicuro di essere pronto. A quell’appuntamento non sarebbe mancato. Titolo originale «A President for Peace. The deadly consequences of J.F.K.’s attempts at reconciliation», pubblicato in America, 18 novembre 2013, 13-16. Traduzione di Elvira Fugazza. 246 James W. Douglass © sonia frangi immagini Sonia Frangi Finestre 2014: Parabole Un palazzo di Berlino. Le antenne paraboliche fioriscono sulla facciata, sbocciando da ogni balcone. Rompe la simmetria definita solo il dettaglio di qualche antenna personalizzata: qui un bambino, là delle mani aperte, altrove un santone indiano. Finestre che parlano con il mondo, mettendo in comunicazione chi le abita con chi sta fuori. Si raffigura in questo scatto il problema oggi sempre più diffuso del cercare di contrastare l’esperienza dello sradicamento dai propri luoghi, dagli “spazi” del passato, luoghi di identità come il paese e la casa. Le conquiste della tecnica hanno rivoluzionato la convivenza umana e reso possibile un modo di comunicare, di rimanere in contatto, garantendo il diritto di essere informati superando le barriere dello spazio e del tempo. L’informazione diviene perciò ricchezza, potere e anche forma alternativa di socializzazione del modo di vivere degli uomini. 248 tools Strumenti per capire e pensare la nostra società recensione Dalla biblioteca di Aggiornamenti Sociali, un libro da leggere vetrina Libri, film, eventi segnalati dalla Redazione bussola bibbia aperta Elementi di riflessione sociale a partire da testi biblici bibbia aperta Assumersi la responsabilità di Stefano Bittasi SJ Redazione di Aggiornamenti Sociali A ssumersi le proprie responsabilità è una delle condizioni necessarie per una ricomposizione delle relazioni tra gli individui (ad esempio all’interno della coppia) e nella società (tra gruppi sociali protagonisti di un conflitto, o tra Paesi) che conduca a un nuovo equilibrio giusto e, quindi, a una pace vera e duratura. La Bibbia illumina con una luce particolarmente stimolante le dinamiche del cammino di ricomposizione della relazione tra colpevole e vittima e tra reo e comunità; anzi, il racconto di una relazione ferita da una colpa (da parte dell’umanità) e continuamente restaurata (da parte di Dio), come appare bene nelle sue prime pagine (cfr Genesi 3), è uno dei suoi assi portanti. La relazione tra Dio e l’umanità da lui creata si sviluppa in tutta la vicenda biblica, fino alla sua conclusione in Gesù Cristo che ricostituisce la possibilità di “giuste relazioni” e, quindi, di una vera giustizia, una dinamica che ha ripercussioni enormi sulle relazioni tra gli stessi uomini. Tale lunga storia impedisce di “risolvere” la dialettica della colpevolezza e del ristabilimento di una giustizia relazionale in modo semplicistico, facendo imme250 Aggiornamenti Sociali marzo 2014 (250-253) diatamente riferimento alla categoria del perdono. In tal modo, infatti, si finisce per caricare sulla vittima tutto il peso della ricomposizione della relazione. Non c’è dubbio che la tematica del perdono e delle sue condizioni sia molto ricca e complessa, ma lo è altrettanto una lettura dei testi biblici riguardanti il cammino proposto al colpevole, di cui forniremo qui alcune indicazioni e suggestioni, necessariamente limitate vista l’ampiezza del tema. Può essere di aiuto partire precisando da subito alcuni termini. È stato giustamente sottolineato come «nella nostra cultura il concetto di responsabilità venga associato a quello di colpa e come i due siano usati quasi come sinonimi. La realtà non solo è diversa, ma addirittura opposta: una persona è tanto più in grado di assumersi delle responsabilità quanto meno ragiona in termini di colpa. Una persona in preda ai sensi di colpa rimane paralizzata e non compie proprio alcuna azione responsabile; parimenti chi dà la colpa agli altri si vede come vittima e quindi crede che le azioni responsabili dovrebbe farle l’altro per rimediare ai suoi errori. Insomma colpa e responsa- bibbia aperta bilità occupano uno stesso spazio all’interno dell’individuo e l’una può crescere solo nella misura in cui l’altra si riduce» (Baiocchi P., «Responsabilità e sensi di colpa», <www.istitutogestalt.net/articoli/ Responsabilità_e_sensi_di_colpa.aspx>). Non è colpa mia giudizio, di una punizione. E quindi si corre a nascondersi. Ma il testo prosegue impietoso. Se la prima reazione è il senso di colpa, la seconda è il rifiuto dell’assunzione delle proprie responsabilità. Alle domande di Dio, infatti, Adamo risponde accusando la donna ed Eva accusando il serpente: continuano a cercare (inutilmente) di nascondersi, non più dietro a un cespuglio, ma dietro la sagoma di qualcun altro su cui gettare la colpa. Appare con evidenza la sterilità del senso di colpa: anziché assumersi la responsabilità della propria azione, Adamo ed Eva continuano a cercare di occultarla, a se stessi prima che a chiunque altro. Manca del tutto una rilettura oggettiva dell’accaduto, tanto che è Dio a doversene incaricare, esprimendola in forma interrogativa (v. 11). Ma questo è un passaggio indispensabile del cammino di assunzione della responsabilità verso un possibile pentimento. La prima tappa è dunque un’azione di parola: “confessare” significa ammettere il proprio coinvolgimento nell’azione negativa. Il contenuto specifico della confessione è l’affermazione di chi ne deve essere considerato responsabile. Non è quindi qualcuno che dall’esterno giudica la colpevolezza e sancisce una pena. La confessione implica il riconoscimento consapevole delle azioni Le primissime pagine della Bibbia contengono una dimostrazione per certi versi esemplare di questa “concorrenza” fra colpa e responsabilità, per cui la prima “mangia” lo spazio alla seconda, facendoci vedere tra l’altro come questo rappresenti non solo una patologia della nostra epoca, ma un dato antropologico di base. Ci riferiamo al famosissimo racconto del “peccato originale” in Genesi 3,7-13. Adamo ed Eva avevano accolto l’invito del serpente a mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male spinti dalla bramosia di rendersi simili a Dio (cfr 3,5). In realtà sembra che l’unica vera nuova acquisizione sia la consapevolezza della propria nudità, senza riuscire a pensare niente di meglio che utilizzare le foglie dell’albero più urticante a disposizione per farsene cinture! L’altra conseguenza immediata è la paura, chiaro segno di un forte senso di colpa per l’azione commessa. Il testo ebraico propone un interessante gioco di parole. Letteralmente si legge: e udirono la voce Genesi 3,7-13 del Signore Dio che passeg7 Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di esgiava nel giardino (v. 8); e in seguito (v. 10): ho udito sere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture. la tua voce nel giardino e ho 8 Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla dal avuto paura. La “voce che brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero 9 Ma il SignoSignore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. passeggia” come fonte del 10 timore è chiaro segnale del re Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché vissuto interiore dell’uo- sono nudo, e mi sono nascosto». 11 Riprese: «Chi ti ha fatto mo (e della donna che si sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti nasconde con lui). Basta avevo comandato di non mangiare?». 12 Rispose l’uomo: «La sentire “la voce” perché donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e scattino i meccanismi di io ne ho mangiato». 13 Il Signore Dio disse alla donna: «Che vergogna, di senso di col- hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata pa che diventa paura di un e io ho mangiato». Assumersi la responsabilità 251 compiute e, dunque, in primis smettere di darne la colpa a qualcun altro. Riconoscere e dire ciò che si è fatto – il passaggio alla parola è fondamentale, verso se stessi e verso gli altri – è operazione difficile, che può richiedere tempo e aiuto, se non un vero e proprio percorso. Vari brani biblici esprimono la necessità di questo primo passo: Ti ho fatto conoscere il mio peccato, non ho coperto la mia colpa. Ho detto: «Confesserò al Signore le mie iniquità» e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato (Salmo 32,5); Sì, le mie iniquità io le riconosco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi (Salmo 51,5). È interessante notare come questi testi facciano ricorso al vocabolario della “conoscenza”: occorre la capacità interiore di “ri-conoscere” le proprie azioni. L’altro è nel giusto Il secondo aspetto del riconoscimento della propria responsabilità è ben definito da Pietro Bovati: «Il contenuto della confessione fa riferimento anche all’altro contendente, dichiarandolo (almeno implicitamente) portatore di diritto nella sua parola e nella sua azione giuridica» (Ristabilire la giustizia, PIB Press, Roma 1986, 80. Cfr anche, utilmente, il suo «Giudicare», in Aggiornamenti Sociali, 2 [2011] 153156). L’assunzione della propria responsabilità ha dunque un profondo carattere relazionale e attribuisce il carattere di innocenza alla vittima – portatrice di tutto il diritto – affidandosi a lei (direttamente o indirettamente attraverso la società o la comunità) per poter ristabilire la giustizia. Risulta interessante a riguardo la storia di Giuda e Tamar in Genesi 38. Non c’è qui lo spazio per un’analisi approfondita della vicenda che ruota attorno al diritto della nuora di Giuda, Tamar, a essere data in moglie al fratello del marito dopo la morte di questo, per poter avere una discendenza. Giuda, invece di adempiere a quest’obbligo nei suoi confronti, la rimanda alla casa del proprio padre. Ta252 Stefano Bittasi SJ mar si traveste allora da prostituta e si unisce a Giuda stesso, che la vede lungo la strada senza riconoscerla. Tamar resta incinta e quando Giuda lo viene a sapere (cfr testo nel riquadro) crede che la donna abbia “tradito” il legame con la famiglia e la condanna a morte. Quando Tamar fornisce le prove di quanto è accaduto, Giuda, invece di trovare scuse o accusarla di raggiro – reazione che non sarebbe poi stata così strana –, ne afferma la “giustizia”, riconoscendone il diritto dinanzi alla propria colpa: lei è più giusta di me! Lo stesso processo di confessione della propria colpa e riconoscimento del diritto della “vittima” è al cuore sia della risoluzione della relazione conflittuale tra Saul e Davide (Tu sei più giusto di me, perché mi hai reso il bene, mentre io ti ho reso il male. Oggi mi hai dimostrato che agisci bene con me e che il Signore mi aveva abbandonato nelle tue mani e tu non mi hai ucciso: 1Samuele 24,20-21), sia del riconoscimento del proprio peccato da parte di Davide contro Uria e Betsabea in 2Samuele 12 (per un commento del quale si veda il nostro «Crisi» in Aggiornamenti Sociali, 3 [2011] 231-234). Responsabilità e relazioni La Bibbia insiste molto sulla possibilità che il riconoscimento della propria colpa conduca alla verità esistenziale su Genesi 38,24-26 24 Circa tre mesi dopo, fu portata a Giuda questa notizia: «Tamar, tua nuora, si è prostituita e anzi è incinta a causa delle sue prostituzioni». Giuda disse: «Conducetela fuori e sia bruciata!». 25 Mentre veniva condotta fuori, ella mandò a dire al suocero: «Io sono incinta dell’uomo a cui appartengono questi oggetti». E aggiunse: «Per favore, verifica di chi siano questo sigillo, questi cordoni e questo bastone». 26 Giuda li riconobbe e disse: «Lei è più giusta di me: infatti, io non l’ho data a mio figlio Sela». E non ebbe più rapporti con lei. bibbia aperta cui può fondarsi la ricomposizione delle relazioni. Ecco perché l’espressione “fare giustizia” non ha nel linguaggio biblico un significato tendenzialmente giustizialista (quale risuona alle nostre orecchie accompagnato da tutte le immagini, fantasie o disposizioni di legge che puntano a eliminare il colpevole, sul patibolo o rinchiudendolo in cella per poi gettare la chiave). La giustizia, nella Scrittura, non è mai un dato oggettivo, ma è sempre un processo relazionale. Con un’affermazione che richiederebbe ben più corposi approfondimenti per non suonare eccessiva, ci sentiamo di dire con una certa decisione che la Bibbia non è particolarmente interessata a un equilibrio puramente formale tra i piatti della bilancia o a una uguaglianza altrettanto formale tra le parti, ma alla verità capace di ricomporre relazioni spezzate. Non si tratta allora di “fare giustizia”, si tratta di “fare verità”, intesa qui come l’ambito in cui si possano sviluppare o ricomporre le relazioni. È da qui che si dischiude la possibilità della dinamica della riparazione e del perdono. Ne ritroviamo un esempio di straordinaria potenza nel dialogo tra Gesù e uno dei due malfattori crocifissi con lui narrato dall’evangelista Luca. Qui sono messe a confronto due logiche: da una parte c’è una giustizia di tipo retributivo, per la quale ciascuno deve ricevere il giusto: questa è rispettata nel caso dei due malfattori, ma non per Gesù, con- Luca 23,39-43 39 Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!». 40 Ma l’altro lo rimproverava: «Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? 41 Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male». 42 E aggiunse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». 43 Gli rispose: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso». dannato senza aver fatto niente di male. Dall’altra c’è il “fare giustizia” nel senso di “rendere giusto” all’interno di una relazione di comunione, ricostituita o, in questo caso, costituita per la prima volta, dopo il riconoscimento della propria colpa. È quello che accade al cosiddetto “buon ladrone”, a cui è garantita quella che è, a tutti gli effetti, la ricompensa del giusto. Da “non giusto” viene “fatto giusto”. Quello che avviene sulla Croce è il crearsi di una relazione. Quel “sarai con me”, in quella comunione, in quella capacità di “essere-con”, non scavalca la verità né è un semplice colpo di spugna su vicende passate. C’è un profondo senso di giustizia in gioco, che è alla base sia dell’assunzione delle proprie responsabilità, sia del riconoscimento della giustizia dell’altro, e proprio questo apre la possibilità di un rinnovamento radicale della relazione. In tutta questa dinamica, non è centrale la presunzione di una ristrutturazione “morale” della vita, che in modo molto evidente è del tutto preclusa al malfattore crocifisso. Il punto fondamentale sta nella capacità di riconoscere la verità di ciò che è avvenuto: solo questo apre alla promessa di un futuro diverso, in cui si inserisce anche l’impegno di non tornare a compiere lo stesso male. Ma ciò che è salvifico, nel senso che apre “miracolosamente” a un futuro che non possiamo intravedere da soli, è proprio la capacità di far emergere la verità e affidarla alla parola (cioè a un processo relazionale). Questo è l’antidoto al veleno che la colpa ha immesso nelle relazioni e nel tessuto sociale (dolore, paura, sfiducia, ecc.) e da cui rischiano di rimanere intossicati sia il colpevole (se occulta la propria responsabilità), sia la vittima (se si chiude nel risentimento): l’uno e l’altro rischiano di restare ancorati al male (compiuto e subito), bloccando così la propria vita. Soltanto un processo di assunzione di responsabilità in una dinamica relazionale può rendere reale il risanamento. Assumersi la responsabilità 253 tools Paul Ricœur e l’«uomo capace» di Secondo Bongiovanni SJ Studioso di Filosofia I n nome di un “cogito militante”, Paul Ricœur (1913-2005) ha rifiutato fin dalle sue prime opere un’idea di filosofia sconnessa dai dibattiti scientifici e dai problemi della città e del funzionamento delle istituzioni civili. Tra i massimi pensatori della seconda metà del ’900, la sua produzione filosofica conta più di trenta libri e oltre mille tra articoli e interventi che testimoniano una enorme vastità di interessi. Ancora pochi anni prima della morte, in un dialogo con Jean-Pierre Changeux (Ricœur e Changeux 1999) si confrontava con le neuroscienze discutendone le implicazioni etiche. Nella sua autobiografia intellettuale (Ricœur 1998), Ricœur riconosce le proprie radici culturali in tre grandi correnti della filosofia del ’900: la tradizione riflessiva francese, la fenomenologia e l’ermeneutica. Dalla prima, il cui maestro è Jean Nabert (1881-1960), assume il compito della autoriflessione del soggetto umano, recuperando la capacità di agire, di pensare e di sentire della mente che ritorna su se stessa. La fenomenologia lo ha determinato nell’ambizione di «andare alle cose stesse», oltre le costruzioni cultura- 254 Aggiornamenti Sociali marzo 2014 (245-258) li, seguendo le orme di Edmund Husserl (1859-1938), che Ricœur ha fatto conoscere in Francia traducendo le sue Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Infine, dall’ermeneutica (Wilhelm Dilthey [1833-1911], Martin Heidegger [1889-1976] e Hans-Georg Gadamer [1900-2002]) riprende il carattere interpretativo dell’esperienza umana e il rifiuto di una filosofia priva di presupposti. A questi riferimenti si deve aggiungere l’interesse per l’esistenzialismo (Gabriel Marcel [1889-1973], Emmanuel Mounier [1905-1950], Karl Jaspers [1883-1969]). Paul Ricœur, dopo un lungo periodo di prigionia durante la seconda guerra mondiale, inizia a insegnare a Strasburgo nel 1948. In seguito il percorso accademico lo vedrà docente a Parigi, Nanterre e Lovanio. Negli anni ’70 viene invitato negli USA, dove insegna tra l’altro a Chicago. Ha goduto progressivamente di un prestigio internazionale molto vasto, attestato dai numerosi riconoscimenti ricevuti, tra i quali il Premio Hegel di Stoccarda nel 1985 e il Balzan per la filosofia nel 1999. Nel 1995 The Library of Living Philosophers ne ha consacrato la fama a livello internazionale. tools Nel suo percorso di ricerca, Ricœur dell’esperienza, l’agire e il patire, l’intersi è impegnato nell’ampliamento del- agire e il com-patire. In Sé come un altro la filosofia della riflessione in direzio- del 1990 (tr. it. Ricœur 1993) Ricœur ne di un’ermeneutica filosofica di volta approderà ad una sorta di agnosticismo in volta in dialogo con la psicanalisi, lo affidato a un’altra parola rispetto a quelstrutturalismo, la fenomenologia della la del discorso filosofico sull’assoluto, religione e l’esegesi, la linguistica, ecc. sulla trascendenza o sul divino. Già nel Rimane, inoltre, uno dei rari autori di 1975 La métaphore vive (cfr la traduziotradizione continentale ad avere stabili- ne italiana, Ricœur 2010) aveva aperto to un confronto rigoroso con la filosofia in questa direzione a partire dalle analisi del linguaggio e analitica (John L. Au- sul discorso poetico. stin [1911-1960], John R. Searle, Herbert P. Grice [1913-1988], Charles S. Peirce La “via lunga” [1839-1914], ecc.). Pur rinunciando alla della fenomenologia ermeneutica costruzione di un sistema, Ricœur sviIl paradigma forse più caratterizzanluppa un percorso coerente sintetizzabile te della sua fenomenologia ermeneutica in alcuni grandi momenti: la filosofia si individua nel noto passaggio dalla della volontà (1950-1960); l’elaborazione “via breve” dell’ontologia ermeneutica di un’ermeneutica filosofica concentrata heideggeriana alla “via lunga” di una sul conflitto delle interpretazioni (1960- critica ricostruttiva del senso dell’espe1975); gli studi sulla metafora e l’intri- rienza, cercando di superare la prospetgo storico-narrativo (1975-1983); infine tiva distruttiva dei “maestri del sospet(1983-2005), la ricerca di un’ontologia to” (Marx, Freud, Nietzsche). Questo del soggetto che si svolge anche attraverso percorso si snoda attraverso le scienze le analisi sulla memoria, l’oblio, il ricono- umane e si accosta ai livelli semantici, riflessivi ed esistenziali dei segni e dei scimento, la giustizia. La rinuncia alla costruzione di un si- conflitti delle interpretazioni rivali per stema filosofico inerisce al senso stesso ancorarsi al mondo della vita (in tedesco dell’impegno e della responsabilità del pensiero. Nel vocabolario tecnico della filosofia con fenomenologia Nel progressivo ampliar- si intende generalmente la scienza dei fenomeni. Dopo la si delle tematiche e degli fenomenologia dello spirito hegeliana, nel primo ’900 la feorizzonti, Ricœur si è pro- nomenologia trova un nuovo avvio nelle analisi di E. Husserl, posto di affrontare «pro- che la comprende come metodo per tornare alle cose stesse blemi particolari, quindi (fenomeni). L’esplicito intento è volto a liberare la filosofia discontinui. Mai le grandi dai presupposti metafisici per costituirla come scienza rigodomande» (Ricœur 1997, rosa attraverso lo studio e la descrizione dei fenomeni, dei 122). Una tale ammis- loro modi di apparizione affrancati da ogni giudizio di valore. sione non costituisce una In senso tecnico il termine di ermeneutica compare nel XVII sconfitta del pensiero, ma secolo per indicare l’arte dell’interpretazione dei testi (biblici e giuridici): più ampiamente intende l’arte della comprenassume la responsabilità sione della nostra esperienza del mondo. In questa linea di una filosofia dei limi- viene riformulata dal punto di vista ontologico nel ’900 da ti dell’uomo: si configura Heidegger come modo proprio di essere dell’uomo: in quancome ermeneutica della to esperienza globale dell’esistenza umana è ulteriormente vita, senza assoluto, ca- approfondita da Gadamer. Ricoeur la riconduce al “mondo pace di abitare la tensione del testo” intorno a cui si articola il discorso e la comprentra la pluralità e la fragilità sione di sé da parte dell’uomo. Paul Ricœur e l’«uomo capace» 255 Lebenswelt) e allo studio del linguaggio, impegnandosi inoltre in un’ermeneutica dell’azione umana. Il «genio del dialogo» ricoeuriano (Nora 2002, 24) svolge un pensiero della mediazione, resistendo alle seduzioni delle “vie brevi” del cogito (“io penso”) cartesiano o dell’Io penso kantiano. Rispetto al cogito riflessivo (immediato, trasparente, apodittico), si apre la via lunga del cogito ermeneutico, ferito e fallibile, implicato nell’opacità dei simboli nei quali soltanto si ri-conosce. Tale cogito è “militante” in quanto non rinuncia a se stesso ma, benché destituito del potere costituente, rimane istanza di riferimento fondamentale del pensiero. In questo modo, senza mai disertare l’inter hominem esse (insieme ad altri), la mediazione ricoeuriana attraversa una serie di coppie dialettiche: il volontario e l’involontario, l’appartenenza e la distanza, la scrittura e la parola, il concetto e la metafora o il simbolo. Ricœur non rinuncerà alla verità (possibile) o alla valenza referenziale e concettuale del linguaggio: ma esse non potranno più assumersi come dati in partenza in quanto restano da ricostruire attraverso l’ermeneutica dei simboli, dei testi e dell’azione umana nella storia. Lungo un «arco ermeneutico» che va dall’uomo fallibile (homme fallibile) all’uomo capace (homme capable) delle ultime opere, i vari temi affrontati – la volontà, il male e la colpa, la narrazione e la storia, l’identità, la memoria, il riconoscimento e il perdono si raccolgono intorno al comune luogo di insorgenza e di convergenza della soggettività umana. Nel binomio dell’uomo fallibile e capace si addensa una molteplicità di tensioni progressivamente indagate senza mai cedere alle facili dicotomie tra il volontario e l’involontario (libertà e necessità), verità e metodo, comprensione e spiegazione, ermeneutica e linguistica, critica e convinzione (filosofia e fede/religione), identità e alterità, ecc. Con la pubblicazione 256 Secondo Bongiovanni SJ di Sé come un altro il progetto ricoeuriano sembra culminare con l’individuazione di alcune linee di un’ontologia dell’identità personale. Come sempre nella sua vicenda intellettuale, questo testo non costituirà che un nuovo avvio, teso verso una filosofia dell’azione interessata al problema morale e politico e alla giustizia intesa come virtù e come istituzione. Dall’uomo fallibile all’uomo capace: alla ricerca dell’identità del soggetto Il senso della transizione dall’uomo fallibile all’uomo capace si lega a una questione centrale nel percorso filosofico di Ricœur. A partire dal confronto con W. Dilthey (uno dei fondatori della scienza ermeneutica moderna), il compito dell’interpretazione si delinea nell’intreccio tra la spiegazione (propria delle scienze della natura) e la comprensione (scienze umane) o, detto altrimenti, tra epistemologia ed ermeneutica, semiotica e semantica, verità e metodo. La loro complementarità si fonda sull’appartenenza originaria dell’uomo all’essere – cioè al mondo della vita che precede oggetto o soggetto epistemico –, e produce un «arco ermeneutico» configurato come una spirale senza fine in cui lo «spiegare di più» aiuta a «comprendere meglio». Prima di qualunque oggettivazione o soggettivazione, l’uomo è «già-semprepreso» (Rudolf Bultmann [1884-1976]) in un contesto storico-temporale da cui emerge la conoscenza epistemologica. In altri termini, come già sostenuto dal conte Paul Yorck von Warterburg (18351897) nel confronto con gli storici “oculari” come Leopold von Ranke (17951886), è impossibile poter stare davanti alla storia come di fronte a un oggetto da studiare: alla storia (come all’essere), infatti, anzitutto noi apparteniamo e tale implicazione è intrascendibile. In questa situazione ermeneutica, l’uomo si caratte- tools rizza per un poter-essere non più bloccato nelle pretese di un io autoreferenziale, ma costitutivamente aperto e attraversato dall’alterità (il sé come altro). Si delinea in tal modo una teleologia del soggetto, in cui principio/origine (arché) e fine (télos), l’esser-dato e il poter-essere, risultano indisgiungibili. In questo contesto si colloca ancora il passaggio dall’ermeneutica del testo, per cui «comprendere significa comprendersi davanti a un testo», all’ermeneutica dell’azione in cui il sé si assume e si riconosce nella storia insieme ad altri. L’interrogativo sull’uomo si svolge, dunque, nel passaggio dall’affermazione astratta e formale dell’«io sono», alla formulazione drammatica della domanda: «chi sono io?», che si prospetta nell’intrigo storico-narrativo della fallibilità e della capacità di agire. Tra l’alter ego di Husserl talvolta accusato di restare prigioniero della referenza al soggetto e l’autrui (altri) di Emmanuel Lévinas (1906-1995) che convoca a una responsabilità assoluta, Ricœur s’impegna in una terza via, nella comprensione dell’identità personale. Già in precedenza aveva abbandonato il paradigma tradizionale dell’ego cogito, nelle sue diverse rappresentazioni dell’io empirico o del soggetto trascendentale: optando per un’ermeneutica del sé che, attraverso l’analisi linguistica e lo studio dell’identità narrativa, si situava a uguale distanza sia dalla filosofia del soggetto sia dalla sua distruzione. Il rifiuto del fondamento solitario del cogito riconosce la pluralità che lo costituisce e determina eticamente, prima di qualunque morale. Il sé (soi, già sempre attraversato dall’alterità) non è più l’io (je/ego): la coscienza non è più origine, ma compito; realtà ultima, non prima. Mentre l’ingiunzione dell’alterità al cuore dell’identità permette di conciliare la stima di sé con l’esigenza di una reciprocità non asimmetrica. Sé come un altro articola una duplice comprensione dell’identità: l’idem e l’ipse. La prima dice la medesimezza, la permanenza dell’identità soggettiva nel tempo; mentre la seconda evidenzia il carattere specifico e singolare dell’identità personale già sempre con-segnata all’alterità. La continuità di sé nel tempo (il «mantien du soi») si costituisce in rapporto a una promessa fatta a un altro che conta su di me e mi obbliga al rispetto e alla sollecitudine. Ricœur riprende il tema dell’amicizia aristotelica (Etica nicomachea) che consente un’uguaglianza tra individui unici: una relazione di reciprocità in cui l’altro è mio simile, ma anch’io sono un simile per/dell’altro. La dialettica sé/altri è costitutiva dell’identità del soggetto. La sollecitudine per l’altro evita la curvatura del soggetto sul souci de soi (preoccupazione di sé) riconoscendo all’altro le stesse possibilità di azione e di vita felice e buona che si aprono a me. D’altra parte, la reciprocità suppone di essere amici di se stessi per poter essere amici dell’altro; l’esistenza dell’uomo buono e felice è desiderabile per se stessa e necessita di amici per espandersi. Alla stima di sé, l’amicizia aggiunge l’idea di mutualità e l’uguaglianza che conduce all’impegno per la giustizia. L’etica aristotelica della vita buona e la morale kantiana della norma risultano così complementari. In questo «sforzo per esistere» si compie la transizione dall’uomo colpevole all’uomo capace (Flasse 2008). Pur rimanendo fallibile, il soggetto è però capace di cambiare le cose. Dalla filosofia della volontà alla filosofia dell’azione, l’arco ermeneutico parte dalla colpa per approdare alla felicità e alla capacità umana. In questo passaggio si delinea il luogo princeps dell’interpretazione nell’agire sociale, compreso «come se fosse un testo». Ricœur si volge al rapporto tra linguaggio, soggetto ed essere nel tentativo di illuminare l’esperienza e il senso Paul Ricœur e l’«uomo capace» 257 della vita vissuta nella storia. Linguaggio e azione diventano così i due poli di una nuova possibile ontologia. Su uno sfondo di passività, nell’«io posso» convergono le molteplici tematiche dell’alterità, della memoria, della storia e del tempo, dell’oblio e del perdono, ecc.: tutte coinvolte nella capacità di iniziativa del soggetto, un agente che può incidere nella storia e cambiare il mondo. La riflessione si volge all’individuo umano ritrovato come sforzo, cammino, lavoro condiviso con gli altri che implica una trasformazione progressiva di sé. Conclusioni risorse Uno sguardo d’insieme sull’opera ricoeuriana può forse ricondurre a due riferimenti portanti della lunga via di un’ermeneutica dell’«uomo capace»: a) non Ricœur P. (1993), Sé come un altro, Jaca Book, Milano. — (1997), La critica e la convinzione. Intervista con François Azouvi e Marc de Launay, Jaca Book, Milano. — (1998), Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano. — (2010), La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione, Jaca Book, Milano. 258 Secondo Bongiovanni SJ c’è un soggetto ma soltanto un diveniresoggetto, un diventare umano che implica l’uscita dall’infanzia e il superamento dell’archeologia verso una teleologia dello spirito, tesa alla realizzazione delle possibilità più proprie dell’uomo; b) in questo percorso il souci de soi è inseparabile dal souci de l’autre (preoccupazione per l’altro), nel desiderio di vivere bene con e per l’altro in istituzioni giuste. Nell’acuta, rispettosa comprensione degli autori con cui si è confrontato, il pensiero di Ricœur ci affida alla grande metafora della costruzione di ponti e legami tra le varie emergenze culturali del tempo. La trama di pensiero che ne attraversa l’opera affiora nella paziente tessitura di una mediazione in cui traspare una delle istanze più significative della saggezza umana di ogni tempo. Ricœur P. – Changeux J.-P. (1999), La natura e la regola. Alle radici del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano. Flasse G. (2008), Paul Ricœur. De l’homme faillible à l’homme capable, PUF, Paris. Nora P. (2002), «Pour une histoire au second degré», in Le débat, 122, 24-31. Lorenzo Caselli La vita buona nell’economia e nella società recensione Edizioni Lavoro Roma 2012 pp. 244, € 15 di Giorgio Nardone SJ Professore di Etica speciale I l titolo del libro è ampio: economia sì, ma anche società, oltre al tema, classico e nuovo, della «vita buona». Una prima lettura del testo rende chiaro che l’A. prende in considerazione un’ampia molteplicità di realtà e problemi, senza mai restare in superficie. Nei sette capitoli del volume, infatti, si affrontano: tecnologia, finanza, globalizzazione, banche e finanziamenti, mercato, amministrazione a vari livelli (locale, regionale e centrale), giovani, questione femminile, famiglia, scuola, questione meridionale, sindacati, Africa, Cina, Europa, petrolio, etica, etica cristiana. Il terzo capitolo, più specifico degli altri, è dedicato al rapporto tra produttività di impresa e relazioni tra persone al suo interno, poiché la produzione richiama un mondo complesso e anche intensamente umano. Leggendo, si incontrano brevi affermazioni illuminanti, come ad esempio: «il mercato non soddisfa il bisogno, bensì la domanda pagante [...]. La dimensione finanziaria non coincide con la dimensione reale dell’economia» (p. 27). Dopo la prima rapida lettura sorge una domanda spontanea: chi mai potrà “governare” una tale eterogenea molte- plicità? Sarà la politica e, in definitiva, lo Stato a cui si è sempre chiesto di correggere il mercato? Da quale altro attore sociale è possibile attendersi un intervento in grado di tenere in conto, in una prospettiva di lungo termine, una differenziata molteplicità di fattori e di situazioni e, per di più, in modo eticamente ispirato? Ciò non significa chiedere al governo politico una capacità di azione finora sconosciuta? D’altronde, il libro mostra che esso stesso è un agente sociale tra altri. Bisognerà allora fare ricorso alla società? Tradizionalmente, si oppone all’“alto” della decisione sovrana il “basso” della società civile. Il partito politico di un tempo non doveva appunto farsi mediatore tra esigenze popolari e istanze centralizzate di governo politico? Ma allora – osserva l’A. – si era in presenza di bisogni urgenti che facevano capo a una classe operaia ben caratterizzata. Oggi, in epoca post-fordista, l’esperienza di lavoro non è più necessariamente centrale e alcuni bisogni elementari sono altrimenti soddisfatti. In ogni caso, si deve abbandonare il vecchio assistenzialismo statale, le imprese non possono essere chiamate a Aggiornamenti Sociali marzo 2014 (259-261) 259 compensare inefficienze altrui e anche il profitto va “deideologizzato”. La socialità descritta nel libro è molteplice e disomogenea, vitale e frantumata al tempo stesso, irriducibile al binomio sfruttati/sfruttatori, anche se gli sfruttati e gli sfruttatori esistono. «Sulla scena del mondo non ci sono problemi settoriali, ma interdipendenti. Diritti umani e sociali, ambiente, educazione, sviluppo, scambi commerciali, salute, conflitti, instabilità sono altrettante tessere di un unico mosaico» (p. 37). Come si potrà trasformare una tale socialità, dura e sfuggente? Quale tipo di iniziativa umana potrà correggere i limiti e le ingiustizie di questo mondo? La risposta dell’A. punta decisa sulle «reti di cooperazione, di solidarietà, di partecipazione» aventi vita su «scala locale» (p. 13). Ci imbattiamo quindi nella parola più illuminante di questo libro: la “rete”. Da un lato essa esprime il limite del nostro moderno convivere, poiché siamo subordinati a una rete di condizionamenti e poteri, ma dall’altro intende anche dire una possibile novità positiva. Iniziamo presentando la comprensione del negativo. La globalizzazione, il moltiplicarsi delle tecniche, non solo di produzione ma anche di comunicazione, le banche e la finanza, tutto conduce alla «crescente mediazione tecnica dei rapporti interpersonali; […] alla organizzazione sistemico-complessa del produrre, del consumare, del vivere» (p. 19). Si è formata una rete che separa ed esclude, facendo venir meno la comunicazione reale tra gli uomini che vivono in «contesti complessi e incerti» (p. 87). Ci sono pochi individui che decidono per tutti, semi-invisibili e appartenenti a diverse gerarchie, sfuggono all’esperienza quotidiana della gente e non sono riconducibili alle «tradizionali forme di sfruttamento proprie delle società industriali» (p. 16). Usando un’immagine non presente nel libro, si può dire che sono scomparsi sia il principe antico 260 Giorgio Nardone SJ sia il più moderno proprietario borghese, che godeva di beni reali, visibili e immediatamente comprensibili. Le molte forme di comunicazione, ma anche la paura «di processi incommensurabili e incontrollabili in termini di rischio», unificano gli uomini; è sorta una «interdipendenza a scala globale» che diventa «una categoria morale e politica di fondamentale importanza» (p. 37). Un antico proverbio diceva che dove urge il pericolo, là appare anche una possibile salvezza, e il testo di Caselli sembra riaffermarlo. Proprio alcuni temi che illustravano il negativo del presente si convertono infatti in aperture positive e la dimensione molteplice dell’interconnessione apre a considerazioni antropologiche ed etiche. A ben vedere, proprio la tecnica e la comunicazione a rete non sono così ferree: creano spazi di manovra, anche se resta aperta la domanda «come rendere effettiva la potenzialità?» (p. 22). La «complessità dei processi in atto porta all’aumento dei centri autonomi di decisione e di responsabilità; si allargano gli spazi di iniziativa e di collaborazione» (p. 130). Diversi ambiti sono declinati facendo ricorso al concetto di rete. Le nuove tecnologie di comunicazione diventano tecnologie produttive e rendono possibile un lavoro che sia flessibile nei luoghi e nei tempi. In tal modo è valorizzato il lavoro femminile, riuscendo a superare l’antica rigida divisione tra ruoli di lavoro maschili e femminili. Anche le famiglie si collegano in reti. Rapporti umani significativi «possono essere vissuti anche all’interno dell’attività economica e non soltanto fuori di essa o dopo» (p. 89). Oggi si parla di un quarto e quinto capitalismo: «una miscela di tecnologia, ricerca pubblica e privata, formazione superiore, imprese innovative. Il tutto concentrato in specifiche aree territoriali» (p. 134). Anche per l’Africa bisogna abbandonare l’assistenzialismo e «promuovere reti recensione radicate nel territorio» (p. 58). In forma molto esplicita: «la crescente interdipendenza, congiuntamente al moltiplicarsi delle articolazioni e differenziazioni, richiede un’altra organizzazione del potere. Gli elementi unificanti non stanno più nel “principe” né in modelli gerarchici. Il riferimento è alla rete, ai collegamenti orizzontali, alla condivisione di valori e di obiettivi, alla sussidiarietà e solidarietà nell’ambito della sostanziale poliarchia dei moderni pluralismi» (p. 199). In Italia tutto ciò è reso difficile dalla «politica inconcludente» (p. 199) e dalla burocrazia. L’Italia appare come l’ultimo Paese europeo in statistiche assai differenziate per oggetto: si va dagli scarsi investimenti in formazione alla poca innovazione, dalle rendite parassitarie alla poca «efficienza ed efficacia del settore pubblico» (p. 122). Ancora, i dati mostrano che per creare un’impresa in Italia si devono affrontare costi assai alti a motivo dell’ambiente sociale sfavorevole: «comunicazioni, assicurazioni, credito, servizi professionali, distribuzione commerciale, fiscalità, rapporti con la pubblica amministrazione ecc.» (p. 132). Interessanti anche le osservazioni dell’A. sulla scuola: essa non è cattiva, vi si nota «una voglia di fare non indifferente»; purtroppo «tutto ciò è quasi sempre un fatto casuale, contingente. Non c’è rete, non c’è sistema, non ci sono investimenti adeguati sulle persone e sul futuro» (p. 218). In sintesi, «il Paese non compete […] soltanto con le sue imprese, ma anche con le sue strutture formative, con i suoi assetti urbani, la sua pubblica amministrazione, e così via» (p. 226). Se ne può concludere che l’azione dello Stato sia uno dei molti fattori che contribuiscono a creare la «vita buona» di un Paese, certamente necessario ma non determinante, neppure “in ultima istanza”. Soprattutto nella parte propositiva, Caselli fa luce su un’antropologia e un’etica ad essa immanente, che sembrano proposte più come possibilità ancora da esplorare che come realtà già pienamente operative. In altri termini, la via che si prospetta non è percorribile in modo immediato e deciso. Sembra che la ricca interdipendenza di realtà economiche e figure sociali lasci l’uomo nell’indeterminatezza. Nel tempo della rete, questo tipo d’uomo di cui si sta parlando appare come una possibilità desiderabile e degna più che come una realtà. Quanto meno nella nostra ambigua Italia. Anche l’immaginario collettivo sul sistema economico e produttivo – e di conseguenza sociale – richiede di essere aggiornato, allontanandosi dall’universo di ruoli, funzioni e rapporti di potere a cui la rivoluzione industriale ci aveva abituato. La “forza lavoro” quasi fisica incorporata nei beni di consumo, la macchina che elabora la materia, la classe operaia posta in relazione a “proprietari” visibili sono sparite, insieme al principe sovrano e allo Stato giusto e provvidente. Non solo: non esiste più un “centro” socialmente designabile che consenta di pensare la società, mentre la dimensione verticale (alto/basso, sopra/ sotto) non è più dominante. È scomparso il “capo” che permette di pensare la società come un grande “corpo”, secondo una nota immagine del mondo classico giunta fino a noi. Esiste invece la “rete”, e noi in essa. La rete ci è davvero vicina, più dello Stato tradizionale, del quale è talora più ferrea. In altri casi, invece, ha dei vuoti che sono inviti a una nuova sorta di coraggio. Il coraggio volonteroso del farsi avanti dai mille volti: coraggio nel produrre, nell’insegnare, nell’essere burocrati o madri di famiglia, volontari internazionali o scienziati, o in uno dei tanti ruoli che costituiscono la rete. L’A. stesso esprime l’apertura al possibile, al tempo stesso sociale ed etica, che guida le sue pagine: «occorre ragionare per futuri possibili a partire dai pezzi di progetto che sono elaborabili dai vari protagonisti sociali» (p. 40). La vita buona nell’economia e nella società 261 Luigi Bonanate – Roberto Papini (edd.) La luce della ragione A 50 anni dalla Pacem in terris Bruno Mondadori, Milano 2013, pp. 138, € 12 I n questo agile volume, Luigi Bonanate e Roberto Papini, esperti di relazioni internazionali e scienze politiche, nonché studiosi appassionati del pensiero di Jacques Maritain, hanno raccolto alcuni contributi per celebrare il 50o anniversario della pubblicazione della Pacem in terris (11 aprile 2013). Ricostruendo il contesto storico in cui si radicò l’enciclica di Giovanni XXIII (ricordiamo i tempi della guerra fredda, che raggiunse l’apice nella crisi dei missili di Cuba dell’ottobre 1962) e mettendone in luce le fondamentali novità, tra cui il superamento della tradizionale dottrina cristiana sulla guerra giusta, l’indirizzo non solo ai cattolici ma, per la prima volta, a tutti gli uomini di buona volontà e la necessità di un’Autorità mondiale che mirasse a evitare i conflitti, i curatori del libro legano l’enciclica alle considerazioni che Jacques Maritain andava conducendo sugli stessi temi. Il filosofo francese infatti aveva riflettuto profondamente sul Secondo conflitto mondiale e sulla bomba atomica, interrogandosi sul suo perché e sull’incapacità dimostrata dalle democrazie europee di resistere ai totalitarismi. Nel volume queste riflessioni si intrecciano con quelle sulla Pacem in terris, con lo scopo «di restituire il senso della sua attualità e adattabilità ai nostri tempi […] investigando le conseguenze che ebbe, fino a prestarsi alle innovative e vastissime dimensioni della società globalizzata di oggi» (p. 6). Francesca Ceccotti Luca Diotallevi I laici e la Chiesa Caduti i bastioni Morcelliana, Brescia 2013, pp. 216, € 16 C ome pensare oggi il rapporto tra la Chiesa e il mondo, la presenza dei cristiani nella società civile e nella politica, il contributo dei laici alla missione della Chiesa? A questi temi, importanti e connessi tra loro, si dedica ormai da tempo il sociologo Luca Diotallevi. In questo suo ultimo libro l’A. prende le mosse dall’immagine dei «bastioni da abbattere» usata dal teologo svizzero Hans Urs von Balthasar nel 1952 per sostenere la necessità di una cristianità che 262 non sia più arroccata ma capace di dialogare con il suo tempo. I bastioni evocati da Balthasar sono ormai caduti e nella stagione post-conciliare si pone il compito di «riconfigurare altrimenti, rispetto al passato, la posizione della Chiesa nel mondo» (p. 24), lasciandosi ispirare da una nuova idea guida che Diotallevi individua «nella opzione per la libertà religiosa formulata nel decreto conciliare Dignitatis humanae» (p. 25). A questo si dedica l’A. nel considerare i cambiamenti intercorsi negli ultimi decenni: vi è stata «la fine di un mondo moderno a matrice cristiana», ma questo non vetrina significa la fine di «ogni modernità minimamente segnata dalla o, se non altro, aperta all’ispirazione cristiana» (p. 119). La Chiesa nella sua totalità è chiamata a confrontarsi con questo mutamento che comporta un ripensamento del ruolo e del contributo che rispettivamente i pastori (capitolo 1) e i laici (capitolo 3) sono chiamati a dare. Un esempio incoraggiante in tal senso è identificato nella “parabola di Reggio Calabria”, cioè nell’esperienza della 46a Settimana sociale dei cattolici italiani che si è tenuta nell’ottobre del 2010 nella città calabrese. Secondo l’A., il lascito maggiore di Reggio Calabria è un «invito forte ad un cammino di santità che può essere per le laiche ed i laici di oggi pienezza di vita, e […] per la ecclesia e la civica motivo di rinnovamento» (p. 188). Giuseppe Riggio SJ Milano, dal 4 marzo Docu-Film: guardare i nostri tempi attraverso il cinema Auditorium San Fedele, Via Hoepli 3/b D a martedì 4 marzo 2014, per quattro sere consecutive, la Fondazione San Fedele di Milano affronterà un percorso nel cinema documentario contemporaneo, dalle primavere arabe all’eccidio politico in Indonesia, dallo scacchiere geopolitico statunitense alla ricostruzione inglese dopo la Seconda guerra mondiale. Il documentario porta lo spettatore fuori dalla zona di sicurezza della finzione, obbligandolo a riflettere sugli avvenimenti e sui personaggi della nostra contemporaneità colti nella loro realtà. Quattro film per ripensare le geografie politiche dell’oggi, con la lentezza e la riflessione del cinema, lontani dagli eccessi didascalici e dalla velocità tipica del giornalismo. 4 marzo, The Unknown known (E. Morris): l’ex Segretario alla Difesa degli Stati Uniti Donald Rumsfeld ripercorre la sua carriera a Washington dai giorni in cui era membro del Congresso negli anni Sessanta del Novecento fino alla pianificazione dell’invasione dell’Iraq nel 2003. 11 marzo, Spirit of 45 (Ken Loach): utilizzando filmati tratti dagli archivi regionali e nazionali, registrazioni sonore e interviste dell’epoca, Ken Loach tesse un racconto ricco di contenuti politici e sociali, raccontando il 1945, l’anno della fine della guerra e della ricostruzione di Londra. Un lungo viaggio che permette di comprendere meglio la crisi economica attuale e le spinte per un’uscita e una riscoperta della passione politica. 18 marzo, The Act of Killing, (J. Oppenheimer): nel 1965, in Indonesia, il movimento Pancasila dà vita a un colpo di Stato che sfocia in un genocidio. I killer di allora sono oggi anziani signori benestanti che in questo film impressionante ricreano e mettono in scena i loro atti criminali e spesso, in una tragica inversione, impersonano le vittime. Il regista segue il loro percorso dal compiacimento di protagonisti di una violenta giustizia politica alla riflessione sulle implicazioni, non solo morali, dell’omicidio di Stato. 25 marzo, The Square (J. Noujaim): attraverso le videotestimonianze di cinque protagonisti, il documentario mostra la lotta del popolo egiziano contro il dittatore Mubarak, raccontata con una voce lucida e ironica sul potere dei media. Una riflessione sul ruolo attivo che la rappresentazione degli eventi gioca negli eventi stessi. 263 Appuntamenti Bergamo, 7 marzo Presso l’Oratorio del Villaggio degli Sposi (via Cesare Cantù 1, 17.30-19.30) Filippo Maria Pandolfi, già ministro e commissario europeo, tiene la lezione «Le famiglie politiche europee». Info: www.scuolawecare.it Mazara del Vallo (TR), 8 marzo Nell’ambito del percorso socio-culturale promosso dalla Diocesi di Mazara del Vallo e dal Centro socioeducativo «I giusti di Sicilia» Bartolomeo Sorge SJ interverrà su «Papa Francesco e il rinnovamento della politica». Aula magna del Seminario vescovile, ore 17. Bologna, 12-16 marzo Jean Paul Hernandez SJ terrà il corso di esercizi spirituali attraverso l’arte «Immaginare Dio», presso Villa S. Giuseppe. Info: www.villasangiuseppe.org San Donato Milanese, 13 marzo «Parole e gesti di accoglienza di Francesco, vescovo di Roma» è il titolo della serata a cui parteciperà Giuseppe Trotta SJ, della nostra Redazione. Ore 20.45, c.na Roma; l’incontro è promosso dall’Associazione Lazzati della città. Milano, 14 marzo Il Centro Asteria organizza l’incontro per studenti «Cercando la verità nell’orribile labirinto della mafia». Sarà presente, oltre a Bartolomeo Sorge SJ, Rita Borsellino. Piazzale Francesco Carrara, ore 10. Info: www.centroasteria.org Padova, 17 marzo Per il ciclo di seminari organizzati dalla Fondazione Lanza il nostro collaboratore Giorgio Osti (Università di Trieste) e Stefano Soriani (Università di Venezia) si confrontano sul tema «I beni ambien264 tali come beni comuni strategici». Ore 17.00-19.30, via Dante 55. Info: www. fondazionelanza.it Cernusco sul Naviglio (MI), 19 marzo Nell’ambito del corso di formazione organizzato dalle ACLI «Quale welfare per il nostro futuro?» Giacomo Costa SJ parlerà su «Lo Stato sociale in Italia. Quale cambiamento possibile?». Info: [email protected] Lucca, 20 marzo Presso il Centro di Cultura dell’Università Cattolica (via Santa Gemma 36, ore 18.30) si svolgerà l’incontro «I laici tra la gente: un percorso della Chiesa»; relatore Bartolomeo Sorge SJ. Milano, 21 marzo Paolo Foglizzo, della nostra Redazione, parlerà de «I conflitti nella famiglia e nella società civile oggi, alla luce della Pacem in terris». Parrocchia SS. Nazaro e Celso alla Barona, via Zumbini 19, ore 20.45. Rovigo, 21-22 marzo La Fondazione culturale Responsabilità etica e il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Trieste organizzano il IX Convegno sulle “aree fragili”: «Smart waters. Cooperazione e sicurezza idrica nelle aree fragili». Il 21 marzo presso il Consorzio Università Rovigo, viale Porta Adige, 45; il 22 marzo presso il Consorzio di Bonifica Adige Po, piazza Garibaldi 8. Info: www.fcre.it Corbetta (MI), 1° aprile Bartolomeo Sorge SJ parlerà del «Nuovo corso impresso alla Chiesa da papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium». Ore 20.45, presso la sede del Circolo ACLI, piazza Canonica 3/5. ABBONAMENTI Carta Ordinario Ridotto Sostenitore Estero Cumulativo Digitale Web 2014 € 35 € 28 Giovani con meno di 25 anni e promozioni speciali € 65 € 55 € 59Aggiornamenti Sociali + Popoli € 28 Accesso ai soli pdf online, pagamenti solo con carta di credito su www.aggiornamentisociali.it Tablet € 25,99Sottoscrizione e pagamento su edicola Ultima e smartphone Kiosk (scaricabile da Google Play) e Apple Store Opportunità per gli abbonati -Regala un nuovo abbonamento a un amico: € 28 (anziché € 35) - N. 8-9 AN DICE NO MB 63 RE 20 12 12 -Accesso alla rivista on line: gli abbonati possono scaricare il pdf degli articoli dal sito di AS, utilizzando indirizzo e-mail e codice abbonato orism dei «van o dali» ebre Is C lam A ittà R lluv biare turchia L’um i-cristian Un albe i ancora ro che dà frutto ag gio rna me nti P ifug ion P rem iati i In rim io N C sed ave ob U onc iamenra a el Cedrba ilio ti rab Se ri niz Va spon a Biogni dedel Lizbaziotican tanei tec i tem ano ne o II Tran Un su nolo pi ion man gia e E es uro imo pe a Cittadi nanza Perché è ora di cam inch iesta La guer del Nilo ra so cia li Il la govern fin o Prin anza Mon pu ti e cip ecolo bb i lica gia di un Va crist a disctican ian erne o II a re ieri i se e og gni gi: dei tem pi €4 -Abbonati anche a Popoli, mensile internazionale dei gesuiti: € 24 (anziché € 32). 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Papa Francesco e le intuizioni di Sturzo 190-199 APPROFONDIMENTI Maria Flavia Ambrosanio – Paolo Balduzzi Finanza pubblica: bilancio delle “larghe intese” 200-213 OLTRE LA NOTIZIA Filippo Pizzolato La legge elettorale nel giudizio della Corte Costituzionale. Anatomia patologica del Porcellum 215-224 RICERCHE E ANALISI Chiara Peri La protezione interrotta. Il Regolamento “Dublino III” e il diritto d’asilo in Europa 225-236 CRISTIANI E CITTADINI James W. Douglass Kennedy, Krusciov e Giovanni XXIII: storia di una pace inaspettata 239-246 IMMAGINI Sonia Frangi Finestre 2014: Parabole 247-248 bussola bibbia aperta / Assumersi la responsabilità di Stefano Bittasi SJ 250-253 tools / Paul Ricœur e l’«uomo capace» di Secondo Bongiovanni SJ 254-258 recensione / La vita buona nell’economia e nella società di Giorgio Nardone SJ 259-261 vetrina / Libri, film, eventi 262-264
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