I cani della mia vita

Presentazione
«I cani, quando amano, amano in modo costante, inalterabile, fino all’ultimo
respiro. È così che mi piace essere amata. E perciò parlerò di cani»: così
esordisce Elizabeth von Arnim in questa sorta di autobiografia intessuta di
ironia.
Scritto nel 1936, il libro racconta il rapporto di Elizabeth coi quattordici cani
che, testimoni non del tutto silenziosi, le sono stati via via accanto. E proprio
attraverso il loro succedersi vicino a lei, quasi «datando» affettivamente i
momenti della sua esistenza, l’autrice evoca luoghi, fatti e amori di una vita
non comune. Immediato È il collegamento col fortunato Giardino di
Elizabeth: sono cambiati i protagonisti – i cani hanno sostituito i fiori e le
piante – ma sono rimasti intatti la sensibilità, l’intelligenza, l’anticonformismo
con cui la von Arnim racconta.
Elizabeth von Arnim (Mary Annette Beauchamp 1866-1941), nata a Sydney
in Australia e cresciuta in Inghilterra, fu cugina di Katherine Mansfield e
amante di H.G. Wells, che la descrisse come «la donna più intelligente della
sua epoca». Tutti i suoi romanzi sono pubblicati da Bollati Boringhieri: Il
giardino di Elizabeth (1989), I cani della mia vita (1991), Un incantevole
aprile (1993), La memorabile vacanza del barone Otto (1995), Elizabeth a
Rügen (1996), Amore (1998), Un’estate da sola (2000), Mr Skeffington
(2002), La moglie del pastore (2003), Cristoforo e Colombo (2004), Vera
(2006), Il padre (2007), La storia di Christine (2009), Colpa d’amore
(2010), La fattoria dei gelsomini (2011), Il circolo delle ingrate (2012), Una
principessa in fuga (2013), Uno chalet tutto per me (2012 e 2014), Una
donna indipendente (2014) e Vi presento Sally (2014).
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Varianti
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Prima edizione digitale settembre 2014
Prima edizione in «Varianti» 1991
Titolo originale All the Dogs of My Life
© 1991 Bollati Boringhieri editore
Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
ISBN 978-88-339-7318-0
Illustrazione di copertina: Mary Cassat, Lydia sitting in her garden with a dog in her lap
(1880 c.)
Schema grafico della copertina di Pietro Palladino e Giulio Palmieri
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ELIZABETH VON ARNIM
I cani della mia vita
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Parte prima
Tanto per cominciare, vorrei dire che sebbene genitori, mariti, figli, amanti
e amici siano tutti una gran bella cosa, non sono cani. E poiché nella vita mi
sono trovata a mia volta a impersonare ciascuno di questi ruoli – tranne che
invece di marito ero moglie – so di cosa sto parlando e conosco bene gli alti e
i bassi, le alterne vicissitudini che ogni giorno, e a volte, negli spiriti più
sensibili, quasi ogni ora, sembrano accompagnare inevitabilmente gli amori
umani.
I cani non conoscono queste oscillazioni. Quando amano, amano in modo
costante, inalterabile, fino all’ultimo respiro.
È così che mi piace essere amata.
E perciò parlerò di cani.
Fino a ora ne ho avuti quattordici, ma non distribuiti con regolarità nel
corso della mia esistenza, e, per anni e anni, in un certo periodo, non ne ho
avuti. Questa cosa, quando all’inizio ho incominciato a riflettere sui miei
cani, mi ha stupefatto; che per anni e anni non ne ho avuto nessuno, voglio
dire. Che cosa diamine facevo, mi sono chiesta, per permettermi di stare
senza cani? Com’è potuto succedere che ci siano stati periodi tanto lunghi
durante i quali io non abbia reso felice un qualche buon cane?
Più tardi ho frugato in lungo e in largo nel passato per dare una risposta a
queste domande, e negli angolini più remoti ho scoperto che la risposta che
cercavo era mio padre. Ce ne sono state altre in tempi più recenti, come
vedremo tra poco, ma lui è stata la prima. Non gli piacevano i cani. Un uomo
irritabile, e nient’altro, troppo delicatino di pelle per star davvero bene al
mondo, il rumore lo esasperava con facilità, e i cani fanno spesso rumore.
Perciò li tollerava soltanto a debita distanza, fuori, nel cortile sul retro, a fare
la guardia, povere bestie tristi, legati a una catena ad aspettare il ladro che
non è mai venuto; e se capitava che qualcuno arrivasse in visita portandosi
dietro il suo cane, e che magari quello facesse cose che non avrebbe dovuto
fare, come rosicchiare il tappeto, o saltar su ad abbaiare, o, peggio che mai,
non mantenesse un contegno controllato e discreto, mio padre, deciso a non
permettere che alcunché lo portasse a trascendere dalle sue buone maniere,
applaudiva alla condotta della bestiola in modo così sardonico, battendo
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amabilmente le mani e ripetendo con voce melata a intervalli: «Ma che bravo
cane», «Proprio un cane ammodo», «Davvero un cane fantastico» che la
visita non si ripeteva mai più.
Anche a mia madre i cani non interessavano. O meglio, data la sua indole
decisamente troppo dolce e soavemente deliziata d’ogni cosa perché potesse
provare un sentimento tanto negativo quanto la mancanza d’interesse, era
semplicemente inconsapevole, credo, della loro esistenza. Pareva non sapere
che al mondo c’erano anche loro, che respiravano la medesima aria che
respirava lei, che se ne andavano in giro trotterellando sulle loro zampette,
proprio come faceva lei, inevitabilmente dai momento della nascita a quello
della morte, e dubito che si sia mai chinata ad accarezzarne uno in vita sua.
Il fatto è che era troppo avvenente, troppo occupata con i suoi
corteggiatori per avere il tempo di accorgersi di quelli che tra i suoi compagni
di viaggio avessero più di due gambe. Creaturina felice, adorabile, scivolò
via tra gli anni cantando, sempre circondata da una folla di amici e
ammiratori e mai neppure sfiorata da quella segreta solitudine, da quel
bisogno di un qualcosa di più di ciò che gli esseri umani sono in grado di
dare, da quello struggimento per una lealtà più piena, per una devozione più
profonda, che trova il suo conforto nei cani. Essi non significavano nulla per
lei. La sua immaginazione, per altri versi alquanto vivace, diveniva torpida,
assente nei confronti di tutto ciò che riguardava i cani; e poiché per noi
bambini i genitori rappresentavano la suprema autorità, la parola definitiva, e
riverivamo e temevamo nostro padre, e veneravamo nostra madre,
l’atteggiamento che loro assumevano nei confronti di tutte le cose era anche il
nostro e ciò che loro pensavano, noi non soltanto lo pensavamo, ma lo
sostenevamo appassionatamente.
Perciò i cani furono esclusi dalla categoria delle cose che avremmo
altrimenti potuto desiderare di avere, e mi stupisce, al ricordarmene, che
ciononostante, quando ero molto piccola, io ne abbia avuto uno in dono e mi
sia stato permesso di tenerlo.
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Cane numero uno
Bijou
Per un breve periodo di tempo, giusto il tempo, cioè, che occorse a un
ricco giovanotto per corteggiare e sposare mia sorella, mi fu permesso di
tenerne uno, perché, nel fervore preliminare al matrimonio, questo
giovanotto copriva di doni qualsiasi parente della sua amata gli fosse a tiro, e
io ebbi un cane.
Non c’è altra spiegazione al fatto che quella bestiolina sia stata ammessa
nella cerchia familiare, se non che proprio in quel periodo l’atmosfera
generale che regnava in casa era di estrema benevolenza e indulgenza, dato
che il corteggiatore era desiderabile e mia sorella felice. Inoltre, mio padre
probabilmente aspettava il momento opportuno, ben sapendo che dopo il
matrimonio, e la partenza dello sposo, tutti quei doni sarebbero stati sistemati
al loro giusto posto. Comunque, non credo che quel particolare regalo sia
durato molto più a lungo del giorno delle nozze, e poiché io avevo solo
cinque anni, che non è affatto un’età affidabile per quanto riguarda la cura e
il benessere di un cane, è andata anche bene che il primo sia stato,
presumibilmente, dato via. E la sua permanenza è stata così breve, e la sua
comparsa e scomparsa così improvvise, che se non fosse per la fotografia qui
a fianco di noi due insieme, credo che non mi sarei nemmeno ricordata della
sua esistenza.
Ma me ne ricordo appena; mi ricordo ancora che il suo nome era Bijou e
che è stato il mio primo cane. E so anche che a quell’epoca ero così frivola e
avevo tanto poco il senso dei valori reali, se mai l’ho avuto, che il giorno in
cui siamo stati fotografati ero addirittura più interessata ai miei nuovi
stivaletti gialli con le nappine che alla buffa creaturina dal pelo maculato che
sedeva, così buona e solenne, ai miei piedi. Quanto ho imparato da allora!
Quanto sono diventata saggia in fatto di cani!
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Bijou
Bijou, dunque, fu il mio primo cane: una figuretta vaga, ormai perduta
nelle nebbie del tempo. Tra lui e il secondo c’è stato un abisso di nove anni,
durante i quali ho trovato il mio sostentamento, per così dire, nei gatti. Mio
padre, per mia grande fortuna, era uno di quei famosi amanti dei gatti,
cosicché, almeno, ce n’era sempre qualcuno lì intorno a cui non dispiaceva,
anzi piaceva, essere accarezzato e farsi dare una grattatina. Io ero la più
piccola, e ormai l’unica in casa, affidata in consegna a una Mademoiselle il
cui compito era educarmi e controllare che mi lavassi le orecchie. Non si può
dare una grattatina a una Mademoiselle. Non ci si può aspettare che quella si
volti a pancia in su e si lasci accarezzare il ventre. E poi io non volevo
accarezzarglielo. Perciò quei gatti venivano a puntino, e io concentrai la mia
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attenzione su di loro.
Ma è davvero una cosa deprimente concentrarsi sui gatti. Fa piacere
ricevere una risposta, e invece è ben poca cosa quella che si riesce a ottenere
da loro. Alteri e distaccati, eternamente rapiti in remote, misteriose
meditazioni, si concedono all’altrui adorazione ed è difficile che diano
qualcosa in cambio. Eccetto le fusa. Riconosco che le fusa sono incantevoli e
mi sarebbe piaciuto da morire essere capace anch’io di farle, ma le fusa pure
e semplici non bastano a nutrire un cuore umano affamato, alla ricerca di
qualcosa che riempia il suo vuoto; e poiché a quell’epoca ero sotto ogni
aspetto una bambina sola, e i miei genitori erano assorbiti dai loro interessi e
la mia Mademoiselle stava al di là della barriera eretta dal francese, mi
sentivo molto spesso straordinariamente vuota. Per non dire quant’è
scoraggiante, quanto dà la sensazione di essere snobbati ottenere nient’altro
che uno sguardo quando si chiama qualcuno. Nessuna blandizia di sorta
convinceva quei gatti a muoversi se non erano in vena, e, chiunque uno stia
chiamando, vuole che quello venga. Anzi, vuole che quello venga con
entusiasmo, pronto a prender parte a qualsiasi divertimento. Vuole,
insomma, qualcuno con cui giocare, un compagno, un amico. Vuole, in
effetti, un cane.
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Cane numero due
Bildad
Ho avuto un cane. Un altro. Il numero due. Ma solo a quattordici anni, e
dopo averne passati ben nove di seguito esclusivamente di gatti.
Mio padre era impegnato a fare il giro del mondo, un’attività che sembrava
piacergli visto che l’ha fatto per ben due volte secondo i miei ricordi di
bambina; e nel momento stesso in cui lui se ne andava, subentrava
un’atmosfera distesa. È curioso quanto la vita diventasse effervescente,
quanto si facesse ariosa, quanto si dilatasse, quando mio padre, in quegli
anni, non c’era. Io, anziché essere tesa e rigida, diventavo spensierata,
anziché badare a quel che dicevo e a come mi muovevo, smettevo di
preoccuparmi e di stare attenta a tutto quanto, comprese le sopracciglia
aggrottate di Mademoiselle. E quando mia sorella, sposata da parecchio
tempo ma ancora in vena di gentilezze, mi offrì un cane, io accettai all’istante
l’offerta, senza neanche prima chiedere il permesso a mia madre.
Lei, sempre così soavemente indulgente e tollerante, avvenente e amata
com’era, rise e mi baciò, e disse: «Benissimo, tesoro», proprio come se gliene
avessi chiesto il permesso. Perché sapeva che mio padre era ancora perso
nelle nebbie della lontananza e per almeno altri sei mesi non avrebbe rivolto
la prua verso casa, e qualsiasi cosa volessi in quell’arioso periodo me la
prendevo, e mia madre rideva e mi baciava, e per salvare le apparenze
diceva: «Benissimo, tesoro», proprio come se le avessi chiesto il permesso.
Questo cane, il mio secondo, era Bildad. Di lui non ho fotografie, perché
nessuno pensava valesse la pena di fargliene una. Era un volpino di
Pomerania, di colore beige, più o meno alto tanto quanto una scarpa…
profeticamente, me ne rendo conto ora, un volpino di Pomerania, perché
proprio in Pomerania in seguito mi avrebbe condotto il destino e mi ci
avrebbe lasciato per anni. Fui io a chiamarlo Bildad, visto che in quel
periodo studiavo con zelo la Bibbia; e quando le zie Charl e Jessie, una volta
in cui erano venute a trascorrere la giornata da noi, e come al solito si erano
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portate dietro le loro cuffie in speciali cestini che si aprivano allo stesso
modo in cui si aprono le ostriche quando sono forzate dai pescivendoli,
quando le zie Charl e Jessie chiesero: «Perché Bildad?» io risposi che si
chiamava così perché era alto quanto una scarpa; e, siccome continuavano a
volerne sapere di più, dissi loro disinvoltamente di consultare il libro di
Giobbe, capitolo secondo, versetto undicesimo.
Una bambina sgradevole. Una bambina insolente, antipatica. Le zie,
amabili e indulgenti, si limitarono a guardarsi e commentarono, forse per la
centesima volta, che io ero una curiosa bimbetta.
Con Bildad ero perfettamente felice. A differenza di Bijou, lui fu un evento
reale nella mia vita. L’ho amato con consapevolezza, ed ero sicura che fosse
in assoluto il più bell’esemplare della sua razza – anche se, sapendo quello
che ora so, mi rendo conto che come cane non era davvero un granché. Un
volpino di Pomerania non lo è mai un granché. E poi un volpino di
Pomerania non è nemmeno della Pomerania, perché quando più tardi,
andandoci a vivere, sono diventata io stessa una pomerana, per quanto mi
guardassi intorno non ho mai visto un cane neppure lontanamente
somigliante a Bildad.
Ma la Pomerania, quando Bildad diventò mio, era ancora un bel po’
distante da me. Tranne che per lui, per svariati anni ancora ignorai
completamente la sua esistenza. Non sapevo nemmeno dove fosse e oserei
dire che neppure la mia Mademoiselle lo sapeva. Costei, educandomi quasi
con lo stesso zelo che ci mettevo io nel farmi educare, aveva l’abitudine, del
tutto encomiabile ai miei occhi, di assegnarmi una pagina di esercizi da
diteggiare al pianoforte e di verbi francesi o di declinazioni latine da imparare
a memoria, e poi di lasciarmi da sola con Bildad, mentre lei si ritirava in
camera da letto a occuparsi delle sue legittime faccende e stava là fino all’ora
di pranzo.
Uno sbaglio lasciarmi con Bildad. Lasciata completamente sola, avrei
potuto rimanere virtuosa, ma con un complice non potevo. Schizzavamo
tutt’e due fuori dalla finestra – una provvidenziale portafinestra – nell’istante
stesso in cui sentivamo chiudersi l’uscio della camera da letto, fuggendo via
dal pianoforte, fuggendo via dai verbi e dalle declinazioni, e ci scatenavamo
insieme sul prato incuranti del pericolo. Sapevo che la mia Mademoiselle
non sarebbe scesa fino al suono del gong; mi riservavo gli ultimi venti minuti
per studiare, lasciando gli esercizi al pianoforte proprio alla fine perché mi
trovasse intenta a suonare, le treccine che fremevano di diligenza; e intanto
noi avevamo avuto una quantità di tempo per spassarcela.
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E come ce la spassavamo! Ci rotolavamo mille e mille volte, rincorrendoci
l’un l’altro dentro e fuori i cespugli, lanciando sassi che tutt’e due andavamo
a riprendere, e per tutto il tempo in assoluto silenzio… perché Bildad sapeva
bene quanto me che i suoi latrati sarebbero stati fatali. E quando eravamo
stanchi, o quando lui voleva farsi i fatti suoi, io girellavo tra i lillà per
calmarmi, e pensavo: «Oh, avrò mai uno spasimante? Oh, ce l’avrò mai?».
Perché in quel periodo, non sapendone assolutamente nulla, pensavo spesso
e con gran considerazione agli spasimanti.
Poi mio padre tornò; e la prima lettera che aprì fu una fattura di Marshall e
Snelgrove, inavvertitamente lasciata tra la sua corrispondenza, per un
ammontare di cento sterline solo di nastri.
Ciò rannuvolò il suo ritorno a casa. Non sapeva che al mondo esistessero
così tanti nastri; e il fatto che ne fossero stati usati metri e metri per adornare
una, una sola, piccola moglie lo lasciò in uno stato di furiosa incredulità.
Noi scivolavamo per casa con fare guardingo, cercando di far credere di
non esserci. Con noi intendo me stessa, il mio Bildad e la mia Mademoiselle;
sebbene anche la piccola avventurosa compratrice di nastri avesse preso a
camminare preferibilmente in punta di piedi. Ma lei aveva un tal modo di
comportarsi quando si trattava di mariti o, per la verità, di qualsiasi individuo
di sesso maschile, che, benché per un certo periodo avessimo vissuto in
un’atmosfera davvero irrespirabile, le riuscì, più in fretta di quanto sarebbe
riuscito alla maggior parte delle mogli, di spazzarla via.
Disgraziatamente, anche Bildad fu spazzato via. Mio padre, che non poteva
resistere a lungo ai modi dolci, avvincenti di mia madre, poteva resistere
invece con facilità a Bildad, e a quel povero cane non serviva a nulla battere
ansiosamente la coda sul tappeto ogni volta che coglieva uno sguardo arcigno
fisso su di lui. Non sapevo forse – mi chiese mio padre, gli irascibili occhi
azzurri che lanciavano lampi, mentre Bildad si rincantucciava sotto il tavolo
più vicino – che i cani non erano ammessi in casa? Non sapevo forse che
non erano neanche ammessi in giardino o in qualsiasi altro posto nel raggio
di un miglio da lui? Volevo per cortesia dirgli perché quando lui non era lì a
controllare non si manteneva nessun ordine?
Io me ne stavo là in piedi tremante, senza osare dire una parola, perché lui
era uno di quei padri, allora frequenti, a cui non si risponde mai. E poi, che
cosa ne sapevo io dell’ordine o del perché non era mantenuto? Me lo
chiedeva, lo sentivo, solo perché non gli andava di chiederlo a mia madre,
che – lo capiva bene quanto me – era la persona giusta a cui chiederlo, per
paura che lei per un po’ smettesse di essere avvincente; e anche allora
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percepivo confusamente che questo fatto di essere avvincente, o di non
esserlo, aveva molto a che fare con la pace in famiglia.
Così Bildad fu immediatamente portato via, proprio com’era successo con
Bijou… in una casa dove sarebbe stato bene, mi rassicurò mia madre,
asciugando con un bacio le mie lacrime; per quanto io non ne fossi del tutto
sicura, perché se fosse stato così, e quindi fosse stato correttamente portato a
fare la sua passeggiata ogni giorno, non l’avrei forse presto o tardi incontrato
quando la mia Mademoiselle portava anche me a passeggio?
E non l’ho mai incontrato.
Ma non serbai rancore a mio padre. Serbar rancore a un genitore era cosa
che passava per la testa a pochi a quei tempi. I figli erano rispettosi, perfino
nei pensieri. I padri ordinavano e i figli obbedivano. Ciò che facevano i padri
era giusto e incontestato, e il fatto che Bildad mi venisse strappato via era
considerato un torto personale tanto insignificante quanto lo è una giornata di
pioggia. E quando crebbi, e incominciai a capire meglio mio padre, e
sposandomi e andandomene di casa lo sollevai dalla responsabilità che
infastidiva il suo animo irritabile e coscienzioso, la paura che lui m’incuteva
sparì e l’amore ne prese il posto. Dal rispetto e dalla paura, passai al rispetto e
all’amore. L’avevo sempre rispettato; per tutta la vita è stato il mio ideale di
uomo retto, di uomo che agisce secondo giustizia, e si pone con umiltà al
cospetto di Dio; ma ora lo amavo. Profondamente. Anche più, alla fine, di
quanto amassi mia madre se ciò fosse stato possibile, e, ogni volta che
riuscivo ad allontanarmi dalla Pomerania, la sua compagnia e la sua
conversazione erano per me un grande piacere. Così chiudiamo in pace,
benedicendoci dal profondo del cuore.
Negli ultimi anni, quando tutti quelli che erano stati causa di
preoccupazione per lui erano morti o lontani, e mia madre, passato da un
pezzo il periodo dei nastri, si era messa soddisfatta a sedere placidamente al
sole accanto a lui, erano la più deliziosa coppia di sopravvissuti che si
potesse immaginare. È vero che i cani continuavano a non piacergli, ma nel
frattempo, maturando, io m’ero ammorbidita, e m’ero resa conto che non ci
si può aspettare che a tutti debba piacere tutto quanto.
Tranne che per questo particolare, mi sembravano assolutamente perfetti.
Nessun’altra vecchia signora è stata mai tanto gradevole, tanto allegra, con
tanta voglia di ridere e di scherzare quanto mia madre, e nessun altro uomo è
stato più saggio del suo venerabile consorte. Sparite le loro piccole
incomprensioni – credo che ce ne debbano essere state parecchie su quei suoi
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ammiratori, su quelle persone, cioè, per abbacinare le quali il conto di
Marshall e Snelgrove era salito vorticosamente –, spariti, anche, i bambini
che lo avevano così spesso esasperato. Era un uomo che non avrebbe mai
dovuto avere figli, se non già grandi. Gli strilli dei piccoli lo facevano
impazzire. Detestava le ragazzine che dal giardino si precipitavano dentro
casa senza pulirsi le scarpe. E neanche il fatto di dover provvedere a una
Mademoiselle, e poi sopportarla per quello che senza dubbio gli sembrava un
interminabile numero di anni, neanche questo gli piaceva. Quanto ai conti da
pagare – conti senza fine – per scarpe, per medici e medicine, per dentisti,
per vacanze, per ombrelli e impermeabili, e tutte le infinite stupidaggini per
cui si deve spendere denaro sonante quando c’è una famiglia, mio padre,
tanto parsimonioso quand’era ricco e tanto prodigo quando le banche lo
mandarono in rovina e lui diventò povero, dei conti, appunto, detestava
addirittura la vista.
I giorni in cui arrivavano erano giorni neri. Date le mie propensioni
bibliche, il mio istinto, in tali giorni, era di chiedere alle colline che mi
ricoprissero; ma mi trattenevo, perché sapevo che non l’avrebbero fatto.
Tremando alla mia stessa empietà, nel mio intimo pensavo che le colline
fossero proprio come i gatti: per quanto le si chiami non si muovono. E come
poteva la Bibbia, mi chiedevo col massimo rispetto possibile, suggerire che si
sarebbero mosse? E trovavo ansiose scuse a sua discolpa, sulla base del fatto
che forse non ne sapeva granché di geologia.
Ma gli anni passarono, i figli si levarono di torno, o, nel mio caso, vennero
levati, e i conti, anziché per le scarpe, furono per i bulbi. Nessuno che ami il
proprio giardino come lo amava mio padre ha qualcosa in contrario a
spendere in bulbi; d’altro canto, sono pochi quelli cui piace spendere soldi
per scarpe altrui. Di conseguenza le nuvole, che così facilmente si raccolgono
sulle cerchie domestiche numerose, incominciarono ad allontanarsi insieme
con i figli, e allora, finito tutto ciò, eccolo lì mio padre, seduto tranquillo e
pacifico in mezzo alle sue rose, ad aspettare placidamente la morte.
Avrebbe potuto essere uno di quei profeti dell’antichità, con la barba
candida e la testa calva prominente, se si eccettua il fatto che era così
impeccabile. Non c’è mai stato uomo più splendidamente, più
meticolosamente impeccabile di mio padre. Passava un quarto d’ora ogni
mattina, camminando su e giù nello spogliatoio, a spazzolarsi la barba,
avvolto nell’accappatoio di seta color pomodoro che anni prima aveva
portato dal Giappone; e con la stessa generosità anche tutto il resto della sua
persona riceveva la sua parte di cure. E immacolato lo era anche dentro, in
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vecchiaia, quanto lo era fuori, asterso, per la mera cessazione delle seccature,
da ogni altro moto dell’animo che non fossero benevolenza e cordialità.
Quando le preoccupazioni smisero di infastidirlo, ebbe agio di essere quello
che avrebbe voluto essere fin dall’inizio, se fosse stato lasciato in pace: un
uomo giusto reso perfetto. Mi piace ricordarlo com’era in quegli anni, giunto,
dopo tante avversità, in acque tranquille, e con la grande fortuna di avere
accanto a sé la mia mammina con il suo animo lieto, che voleva soltanto stare
dov’era lui, e la cui semplice presenza in una stanza sembrava far cantare gli
uccelli.
Ma fino alla fine entrambi persistettero nel non voler avere niente a che
fare con i cani.
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Cane numero tre
Cornelia
Il mio terzo cane fu Cornelia; un bassotto dal dorso nero e dal ventre
marrone, che capiva solo il tedesco. È stata lei che mi ha insegnato le prime
parole di questa lingua, che erano couche (non suona molto tedesca, ma lo
è) , schönmachen e pfui.1 Quest’ultima ho finito per trovarla molto utile.
Quasi tutti i miei problemi domestici in Pomerania, l’ho scoperto un po’ per
volta, li potevo risolvere esclamando a voce molto alta davanti alla servitù
recalcitrante, negligente o colpevole: «Pfui!».
Cornelia, però, non è venuta subito dopo Bildad. C’è stato un intervallo tra
la partenza di lui e la comparsa di lei che ho riempito diventando grande e
sposandomi – o meglio lasciandomi sposare, perché non credo di aver fatto
molto io; nessuno sforzo mio personale, voglio dire.
L’uomo che mi sposò era tedesco, ed era perciò naturale che il suo cane,
pronto a darmi il benvenuto sulla soglia della mia nuova casa, fosse anche lui
tedesco. A quell’epoca non avevamo niente contro i tedeschi, e i miei genitori
mi videro tramutarmi in una di loro senza batter ciglio. Lo incontrai mentre
mio padre mi portava in giro per l’Italia, e lui, che era una persona che
sapeva quel che voleva, mi aveva, a quanto pare, catalogata come una
perfetta futura pomerana non appena mi aveva vista, anche se sul momento
non ne fece cenno.
Ne fece cenno molto presto, però. Tre giorni più tardi, mentre un po’
ansimante, perché, come tutti i bravi tedeschi di quei tempi che avevano
smesso di essere giovani, non era esile, mi seguiva su per i gradini del
Duomo di Firenze, in cima ai quali mi stava portando per farmi vedere il
panorama, mi si rivolse in questi termini: «A tutte le ragazze piace l’amore. È
una cosa molto gradevole. Anche a lei piacerà. Mi sposi e vedrà». E, arrivati
in cima, mi strinse immediatamente in un abbraccio voluminoso.
Ricordo di aver lottato. Essere abbracciata era cosa del tutto nuova per me,
e non mi piaceva per niente. Il fatto che lui mi spiegasse, per giunta, quando
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alla fine mi lasciò, che quello non era che l’inizio, mi allarmò anziché
rassicurarmi.
Ma non c’era niente di allarmante nell’anello che tirò fuori dalla tasca e
m’infilò al dito, concludendo, così, l’affare. Era un anello davvero
incantevole di zaffiri e diamanti che era appartenuto alla sua prima moglie –
aveva già avuto una moglie – e possederlo mi deliziò. Fui anche deliziata
dall’improvvisa importanza che assunsi in famiglia. Fino allora non ero
nessuno, e improvvisamente essere qualcuno, o addirittura per qualche
tempo essere tutto, devo dire che era molto gradevole.
Da quel momento in poi, tutto ciò che si pensava mi potesse far piacere o
mi fosse utile incominciò di colpo a essere fatto. «La piccola dev’essere
nutrita», diceva il mio fidanzato, che era enormemente più vecchio di me,
quando, passando davanti a una pasticceria durante i nostri giri turistici,
annusavo avidamente l’aria.
Imparai in fretta a voltare il naso da una parte e dall’altra quando fiutavo
qualcosa che mi andasse di gustare, e mio padre, che non aveva mai voluto
che si mangiasse fuori pasto, si trovava costretto a portarmi nel luogo da cui
proveniva il profumo e a guardarmi con le labbra increspate mentre mi
ingozzavo avidamente di dolci.
«La piccola deve andare a Bayreuth», annunciò un’altra volta il mio
fidanzato, avendo scoperto che amavo la musica; e di conseguenza, quando
fu luglio, mio padre si trovò a frequentare l’opera, che odiava.
«La piccola deve avere un cane», fu l’annuncio successivo a quello di
Bayreuth, mentre ancora eravamo a Firenze, dato che avevo mostrato un
fortissimo interesse per alcuni cuccioli che passavano per strada; e perciò
arrivò un cane, un suo regalo, e mio padre dovette far finta di lasciarmelo
tenere.
Ma il momento stesso in cui l’autore del regalo ci lasciò per tornare in
Pomerania a sorvegliare le vaste distese di segale che in seguito avrei
conosciuto così bene – Animus tuus ego fu il mio ultimo messaggio per lui
quando se ne andò, e per l’occasione rispolverai in tutta fretta le briciole del
latino di Mademoiselle sparpagliate qua e là nel mio cervello riordinandole in
una brillante composizione –, il momento stesso in cui lui se ne andò, il suo
regalo fu rimandato dove era stato comprato. Mio padre fu inflessibile; lo
vedevo da me che portarsi dietro un cane in treno e in albergo era difficile; e
me ne separai con la massima obbedienza filiale perché avevo avuto troppo
poco tempo anche solo per abituarmi al suo nome, che adesso non riesco
neppure a ricordare.
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Così mi trovai fidanzata, e nel giro di un attimo sposata e trasferita in
Pomerania; e ritta sui gradini della remota splendida vecchia casa – eccola qui
a fianco – in cui dovevo trascorrere tanti anni felici, c’era Cornelia.
Ci amammo immediatamente. Ci amammo a prima vista. Anche lei era
appartenuta a quella prima moglie le cui tracce erano ovunque. La mia
opinione sulle mogli precedenti, già alta per via dell’anello, balzò alle stelle
quando vidi Cornelia. Molto, molto meglio di qualsiasi anello era quel
cagnolino benedetto dal cielo. Si mise a uggiolarmi intorno, felice di
riconoscere finalmente in me una compagna di giochi e un’amica. Tutto il
suo corpo scodinzolava di benvenuto. Si metteva in mostra. Si esibiva in tutti
i giochetti che conosceva. Si buttava sul dorso, in modo che potessi
constatare quant’era bello il suo pancino…
La casa in Pomerania
«Non baciare il cane, – interruppe mio marito. – I cani non si devono
baciare. Ci sono qua io per soddisfare il tuo desiderio di dar baci».
Questo era il modo in cui parlava lui. Apoftegmi. E io lo ascoltavo con una
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specie di rispettoso divertimento, le orecchie dritte, la testa china di lato. Fin
dall’inizio ho goduto e fatto tesoro dei suoi apoftegmi.
Quel primo anno di matrimonio, Cornelia e io eravamo tutto l’una per
l’altra. Sola tutto il giorno da dopo colazione fino a sera, perché mio marito
se ne andava via presto per ispezionare le sue fattorie più lontane e non
tornava che al calar della notte, se volevo parlare dovevo parlare con
Cornelia.
E poiché i cani sono grandi linguisti, lei imparò in fretta l’inglese, molto
più in fretta di quanto io imparassi il tedesco; così tra noi due ci capivamo
benissimo, e couche, schönmachen e pfui continuarono a rappresentare per
parecchio tempo tutto il mio vocabolario.
Fortunatamente ci piacevano le stesse cose. Lei voleva solo starsene fuori
al sole, e così pure io. Presto le spedizioni nei boschi più vicini divennero la
nostra attività quotidiana, e nell’istante in cui mio marito col suo calesse
traballante sulle alte ruote girava dietro al primo angolo, noi avevamo già
scantonato dall’altra parte, sparendo il più in fretta possibile, quasi
squagliandocela, ansiose di andarcene fuori dalla portata e dalla vista della
servitù.
I domestici, mi pareva d’aver notato, avevano un desiderio
apparentemente insaziabile di ricevere ordini. Finché ero in casa mi venivano
dietro, chiedendo istruzioni in modo incomprensibile. Avevo una gran voglia
di dir loro di fare couche. Sentivo che se solo, alla magica parola, si fossero
stesi a terra accucciandosi in silenzio, saremmo stati tutti parecchio più felici.
Molto, per la verità, avrebbero potuto imparare da Cornelia. Per esempio,
credo che mi sarei sciolta come cera al sole se, invece di attendermi al varco
con sguardo afflitto, mi si fossero semplicemente rivolti con l’atteggiamento
umile e postulante dei cani.
C’era tra il personale una donnetta piccola e grassa, chiamata kalte
Mamsell, che badava esclusivamente alle salsicce e ai crauti – cioè a tutte
quelle cose che si conservano al fresco per l’inverno in una stanza particolare
–, che sarebbe stata irresistibile se avesse assunto quell’atteggiamento da cane
postulante, pensavo, mentre scantonando prendevo l’uscio più vicino,
seguita dappresso da Cornelia. Perché non lo faceva? Sopraffatta dallo
spettacolo, avrei anche potuto darle un ordine se l’avesse fatto. Ma
comunque, mi dicevo ancora, in modo da liberarmi dal senso di colpa per
quel fatto di schivarli, di essere insomma una Hausfrau1 latitante, che non ci
si poteva davvero aspettare da me, abituata fino a quel momento solo a
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ricevere ordini, che all’improvviso invertissi la rotta e mi mettessi a
comandare. Queste cose non si possono fare così in fretta. Si deve avere il
tempo di prendere fiato. Solo sei mesi prima, la mia Mademoiselle mi si
rivolgeva dandomi della petite sotte3 e ordinandomi di andare
immediatamente di sopra a lavarmi. Come poteva una persona, abituata a un
tal genere di cose, tutto d’un tratto incominciare a mostrarsi altera e a
impartire ordini a gente che aveva il doppio della sua età?
Convinta che questo non fosse possibile, me la svignavo all’aperto; e una
volta lì, una volta in salvo, quant’eravamo felici Cornelia e io! Ruzzavamo
per i prati che non ci disapprovavano, ridendo e parlando – giuro che
Cornelia rideva e parlava – fino al riparo del bosco più vicino. Il mondo era
tutto per noi e le mie tasche erano rigonfie di biscotti e di ossa che ci
dividevamo per il nostro pranzo, ognuno il suo. Cosa poteva esserci di più
perfetto? A niente, là fuori, importava che cosa facevamo. Niente voleva che
gli si dessero ordini. Al vento di marzo, che mi gonfiava la gonna
scompigliandola tutta, e che faceva fluttuare le orecchie di Cornelia
all’indietro, non gliene importava un bel nulla che io fossi una Hausfrau
latitante; i boschi, quando ci arrivavamo, quei boschi lievi e luminosi di
betulle bianche che non oscuravano il sottobosco, ci accoglievano in bellezza,
proprio come se io fossi stata meritevole come chiunque altro. Era una
pallida bellezza, in un pallido sole; la bellezza dell’inverno che delicatamente
muore, di rami nudi, tranne il vischio. Ma sotto i rami c’erano i primi segni
della primavera, perché giù tra le foglie morte dell’anno precedente, a gruppi,
a macchie, a fiotti, e in alcuni punti a laghi, le epatiche stavano
incominciando a ricoprire la terra con il loro blu divino.
Io mi sedevo su un tronco perfettamente appagata, sgranocchiando i miei
biscotti e contemplando tutt’intorno queste cose, mentre Cornelia,
completamente appagata anche lei, ma per ragioni diverse, si dava da fare a
scavar buchi e a seppellire le ossa del suo pranzo; e spesso mi chiedevo,
ricordo, se potesse esistere essere umano più felice di me. Davvero felice, in
quei momenti, sembrava la mia sorte. Il sole era tiepido, la primavera era alle
porte, io avevo un marito gentile, comprensivo, che era quasi sempre da
qualche altra parte, e non c’era anima viva in vista, eccetto un cane.
Non chiedevo niente di meglio dalla vita. Continuo tuttora a non chiedere
niente di meglio dalla vita. Strano a dirsi – perché è sicuramente strano che
nel passaggio dalla giovinezza alla maturità non si accrescano le proprie
pretese –, queste stesse cose, il sole sul viso per l’appunto, il sentire la
primavera palpitare appena dietro l’angolo e nessun altro intorno tranne un
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cane, bastano ancora a colmarmi della più intima felicità. Com’è a portata di
mano e come costa poco!
Al pomeriggio, dopo essere ritornate a casa a passo ben più lento di
quando l’avevamo lasciata, Cornelia e io andavamo a fare un giro su una
carrozza scoperta con la cassa in vimini e le ruote scarlatte, nota come
Viersitzer, tirata da un paio di robusti cavalli dal pelo irsuto che, secondo me,
assomigliavano molto a cavalli da tiro. La conduceva il vecchio cocchiere di
famiglia, che in inverno era vestito come un nettapenne. Innumerevoli strati
di mantelli di panno, l’uno sull’altro, ampi e scampanati e tutti arricciati ai
bordi, e dalla cima di questi emergeva, come il bottoncino messo per il tocco
finale, la sua tuba con la coccarda, antiquata, ma pur sempre d’effetto.
Incominciai presto a volergli bene. Era il più gentile, il più amabile degli
uomini, pieno di inesauribile pazienza nei confronti di colei che, come zia
Charl e zia Jessie, deve aver considerato abbastanza spesso una curiosa
creatura; il suo nome era Johann.
Johann, Johann,
Du süsser Mann!4
canticchiavo spesso fra me e me, quando mi lanciavo fino a comporre versi
in tedesco.
«Frau Gräfin wünscht?»5 domandava lui voltandosi dalla sua cassetta e
sorridendomi radiosamente da lassù in cima.
«Cos’è quell’uccello?» chiedevo io, per mascherare il mio imbarazzo.
«Quello – rispondeva lui, dopo essersi messo debitamente in ascolto del
grido lontano, e non importava nulla se era il verso di un falco, o di
un’aquila, o di un’oca selvatica, – quello – rispondeva, felice di potermi dare
un’informazione, – è un fringuello».
Ma questo accadeva molto più tardi, quando ero ormai riuscita a mettere
insieme un numero sufficiente di parole in tedesco da poter fare domande.
Ne facemmo parecchie di passeggiate prima che io fossi in grado di far
domande, e le passeggiate erano quotidiane, perché i cavalli avevano bisogno
di essere mossi. Riservati al mio uso personale, era mio dovere far uscire
quella particolare pariglia. Non potevo sottrarmici, anche se spesso mi
sarebbe piaciuto, perché, se lo avessi fatto anche per un solo pomeriggio, il
successivo quelli avrebbero scalciato, e la Viersitzer, nuova negli anni
settanta, che era stato il periodo di massimo splendore per la famiglia, non
era ormai più in grado di sopportarne tante, e perciò carrozza, Cornelia,
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Johann e io avremmo corso il rischio, in quel caso, di finire a pezzi.
Quella fu una lezione che imparai in fretta. Diligentemente ogni giorno
facevo la mia passeggiata in carrozza, che ne avessi voglia o meno; e c’erano
corone nobiliari d’argento ossidato su tutti i finimenti, e la tuba e la frusta di
Johann erano ornate di coccarde logore con i colori di famiglia, e in quelle
condizioni di malconcio splendore – c’era di tutto a profusione nella tenuta
tranne che soldi – procedevamo a fare ciò ch’era necessario per calmare i
cavalli, esplorando le parti più vicine della foresta che si stendeva lungo il
nostro confine settentrionale.
Quella foresta era immensa. Si spiegava ininterrotta verso nord, finché di
colpo s’interrompeva perché aveva raggiunto le spiagge del Baltico.
L’avevamo tutta per noi. Inosservati, tranne che da quelli che Johann
chiamava fringuelli, passavamo attraverso le file di alberi che si aprivano in
scorci prospettici, e non c’era occhio umano a vedere i mantelli, le corone
nobiliari e le coccarde. In quel passato che a me alla mia età pareva remoto,
tutte quelle cose erano state nuove e lucenti, riflesso dello splendore che per
un certo tempo fu della famiglia; e quando, dopo esser cresciuto e aver
brillato, lo splendore alla fine venne meno, dietro di sé lasciò ciarpame in
ogni stadio di decomposizione, per l’uso ultimo, a quanto sembrava, di una
piccola ragazza straniera e di un piccolo bassotto indigeno. Persino i mantelli
di Johann non erano stati più rinnovati dagli anni settanta; e seduta dietro di
lui, con l’aria che passava attraverso le loro pieghe voluminose prima di
raggiungermi, sentivo l’odore della canfora in cui erano stati cautamente
conservati durante innumerevoli estati. Erano finiti i giorni quando ogni
inverno si provvedeva automaticamente a nuovi mantelli. Erano arrivati i
tempi brutti in cui si dovevano far durare le cose, ci si doveva arrangiare.
Almeno, mio marito sembrava considerare brutti i tempi in cui vivevamo, ma
era perché si trovava nella sfortunata posizione di avere un passato con cui
confrontarli. Io, che praticamente non avevo passato, e che provenivo da una
famiglia che non era mai decaduta dallo splendore per la semplice ragione
che non aveva avuto nessuno splendore da cui decadere, pensavo che quei
tempi fossero assolutamente incantevoli; e comunque a me piaceva parecchio
l’odore della canfora.
Inoltratici nella foresta abbastanza da non riuscire più a vedere l’ultima
delle nostre fattorie, scendevamo e camminavamo, Cornelia e io, lei a passi
felpati accanto a me, le buffe piccole zampe voltate all’infuori che non
facevano rumore sulla sabbia profonda, mentre la carrozza seguiva a
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rispettosa distanza. Perché ogni cosa era rispettosa in Pomerania, perfino le
distanze, e io ero imbarazzata per la quantità di rispetto profuso su di me, che
fino a così poco tempo prima ero stata una petite sotte, dal mattino alla sera.
Andavamo sempre verso nord, e per quanto lontano andassimo non
arrivammo mai dove finivano gli alberi e incominciava il mare. E non
incontrammo neanche mai anima viva, perché, come imparai presto, non
c’era nessuno da incontrare. Non nella foresta. Non almeno per undici miglia
verso nord-est, dove viveva il capo dei guardaboschi.
Come mi sembrava bella questa sicurezza, questa incantevole sicurezza di
sapersi non visti e inosservati! E non solo la foresta era priva di esseri umani,
ma il nostro vicino più prossimo dall’altra parte, la parte delle pianure aperte
e dei campi ondeggianti di segale, era lontano dieci miglia di strade quasi
intransitabili, solcate da profonde carreggiate; l’unico vicino, si intende, della
nostra stessa classe sociale, che fosse cioè hochgeboren.6 Ce n’erano altri di
vicini, molto più dappresso, solo a un paio di miglia da noi e facilmente
accessibili perché abitavano sulla strada principale, ma quelli non andavano
bene per noi essendo soltanto wohlgeboren.7 Agli effetti dei rapporti sociali,
i Wohlgeborene non contavano nulla. Se gli Hochgeborene li incontravano
in treno o in qualche altro luogo pubblico, naturalmente erano cortesi, di una
cortesia quasi schiacciante, ma non li invitavano mai a cena; e diventata
hochgeboren, senza nessuna apparente responsabilità da parte mia, scoprii
che era uno dei miei doveri – un dovere immediato e pressante – imparare a
mettere in pratica questo vezzo dell’esser cortese, stando ben attenta nel
contempo a non compromettermi con qualcosa di realmente piacevole, come
il cibo.
Era molto difficile. Mi ci vollero anni, molti di più che a imparare il
tedesco. E una volta imparato, trovai altrettanto difficile disimpararlo. Santo
cielo, quanto m’era entrato dentro! Per esempio quando, a suo tempo, rimasi
vedova e tornai a vivere in Inghilterra, per un lungo periodo continuai a
sorprendere i miei amici per l’estrema cortesia con cui li invitavo a sedersi,
anche se loro lo stavano già facendo.
Fu quando finalmente incominciai a rendermi conto di quanto
profondamente fossi invischiata nella ragnatela di norme che regolano un
comportamento corretto, fu allora che divenni per la prima volta consapevole
della splendida libertà dei cani. Avevo amato Bildad e amavo Cornelia con
tutto il mio cuore – Bijou risaliva ad anni troppo remoti per contare – ma ora
li invidiavo anche. Nessuno si aspettava niente dai cani. Qualsiasi cosa
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facessero che potesse apparire ai nostri occhi non del tutto bella, veniva
imputata al fatto che essi erano, per l’appunto, dei cani, e non ci si pensava
più. Guardali un po’ alla mattina, mi dicevo, gli occhi invidiosi posati su
Cornelia, guardali come saltano fuori dalla loro cesta e con una sola
scrollatina sono subito pronti per una nuova giornata, mentre io dovevo
sottopormi alle più tediose operazioni di lavaggio e di pettinatura e di
allacciatura, prima che la cameriera tedesca, la cui presenza impediva ogni
sbrigativa sommarietà, mi considerasse pronta per essere vista. E guardali
ancora, al momento dei pasti, trangugiare il loro cibo ed è bell’e fatta, mentre
io, seduta solennemente a tavola, dovevo aspettare, anche se morivo di fame
o avevo l’acquolina in bocca, finché domestici in guanti bianchi – piuttosto
rammendati – e sfilze di bottoni ornati da corone nobiliari – fratelli di quelli
ossidati di Johann – mi porgessero a intervalli opportuni i vassoi di portata. E
guardali come riescono – cosa più invidiabile di tutte –, una volta incorsi
nell’altrui disapprovazione, a rimettere tutto quanto a posto semplicemente
rizzandosi sulle zampette posteriori con aria supplice o dimenando contriti la
coda.
Se solo, solo ce l’avessi anch’io una coda, sospiravo tutte le volte che
offendevo, sempre misteriosamente, sempre senza capire perché o per come,
la Frau Director o la Frau Inspector o la Frau Vieharzt o una qualsiasi delle
numerose Frauen che sembravano infestare quel posto: con che vigore
l’avrei dimenata la mia coda! Ero diventata così ansiosa dopo un po’, quando
avevo imparato che dovevo semplicemente comportarmi secondo le regole, o
altrimenti avrei fatto ricadere la vergogna sull’intera classe degli aristocratici
oltre a essere con ogni probabilità cacciata dalla Pomerania, che sarei stata
ben contenta di stare ritta, come un cagnolino, per ore in atteggiamento
supplice se ciò avesse avuto il potere di placare qualcuno.
Alla fine, però, una volta imparata a memoria la lezione, bisognava vederla
la mellifluità dei miei modi per crederci; e non appena fui in grado di parlare
tedesco potei insinuarmi dentro e fuori alle più intricate e ampollose cortesie
e, a coronamento, tirar fuori il verbo giusto e metterlo al posto giusto alla
pari dei migliori di loro.
Proprio quando nacque la mia prima bimba, Cornelia ebbe i cuccioli; ma
ce n’erano sei dei suoi contro una mia. Si sarebbe potuto supporre che,
avendone avuti sei, per venir fuori dal parto le ci sarebbe voluto un tempo
sei volte superiore a quello che impiegai io, che ne avevo messa al mondo
una sola. Niente affatto. Lei era in piedi e attiva, più vivace che mai, nel giro
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di una settimana, mentre preferirei non contarle le settimane che mi ci vollero
per essere semplicemente in piedi e attiva lasciando perdere il più vivace che
mai. Credo di non essere mai più tornata proprio così vivace come prima.
Vivace sì, ma non come prima. Cornelia aveva perduto per sempre la sua
spensierata compagna di giochi. Se voleva divertirsi, cosa che fece quasi
subito, doveva farlo da sola. Io rimanevo a casa. Passavo il tempo chinata
sulle culle, in adorazione. Quanto a Cornelia, per lei me n’ero
definitivamente andata, scomparsa dietro un nugolo di bambini in costante
aumento. Persino i suoi cuccioli non m’interessavano, tanto ero assorbita da
quell’equivalente dei cuccioli che continuavano, anno dopo anno, a spuntare
Dio solo sa da dove. In realtà, il mio tempo era talmente occupato da questo
affollarsi di arrivi, da questa nidiata di stupefacenti piccole sconosciute che
mi si accalcavano intorno, che sul momento la dimenticai del tutto. Svanì
dalla mia coscienza. La parte di me che l’aveva adorata cadde in un profondo
sonno. E quando si svegliò – le bambine erano ormai più grandi e io avevo
più tempo per guardarmi intorno – e, improvvisamente turbata, chiesi: «Ma
che ne è di Cornelia?», era morta.
Allora provai dolore; dolore e vergogna. È spiacevole constatare quanto
possa renderci egoisti, indifferenti verso gli amici di un tempo, l’essere
assorbiti dalla vita familiare. Cornelia meritava da me qualcosa di più che
essere esclusa, trascurata, dimenticata. Per un anno intero era stata la mia
compagna prediletta, devota, aveva contato su di me per ogni suo svago e per
la sua felicità, e mi aveva procurato quasi ogni mio svago e quasi tutta la mia
felicità. Ho fatto bene ad escluderla dalla mia vita, non appena ho avuto
qualcos’altro da amare? Avrei almeno potuto portarla a fare una corsa di
tanto in tanto, o farla entrare in casa per il tè, o accarezzarle le orecchie
setose; ma «i cani – aveva stabilito mio marito dopo che era nata la mia prima
bimba, pronunciando un altro apoftegma quando Cornelia, lasciando la sua
cucciolata, era salita a trovarmi – sono fatali ai neonati». E poiché, essendo
troppo ignorante per controbattere le sue affermazioni, trovai più facile
credergli che verificarle, lasciai che la cacciassero via, e quello fu l’inizio
della sua fine.
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Cane numero quattro
Ingraban
Si può assumere come sano principio che nessuno dovrebbe avere un cane
se non è pronto non solo a occuparsene personalmente ma ad amarlo. Non ce
ne si può occupare personalmente, né lo si può davvero amare come merita
di essere amato, se ci si occupa e si ama un nugolo di bambini piccoli.
Semplicemente non ce n’è il tempo.
Non era, dunque, per via della teoria di mio marito secondo la quale i cani
erano fatali ai bambini che per alcuni anni ne feci a meno, perché a pensarci
bene, e a vedere l’abbondanza di bambini sani nei villaggi, e nel contempo
anche l’abbondanza di cani, smisi di crederlo; ma fu semplicemente per
mancanza di tempo che tra Cornelia e Ingraban ci fu un intervallo di dieci
anni. Allora, quando l’ultima bimba della mia prima infornata scomparve
dietro la porta di un’aula scolastica e l’infornata successiva non aveva ancora
incominciato a profilarsi all’orizzonte, i miei pensieri divagarono un’altra
volta sui cani.
Avevo bisogno di un compagno. Mio marito continuava ad andarsene via
subito dopo colazione diretto alle sue fattorie lontane, e le mattine, una volta
che avevo pesato le salsicce e contato le lenzuola – perché ormai le mie
responsabilità le avevo affrontate e accettate –, erano lunghe. Avevo bisogno
di qualcuno cui si dovesse far fare esercizio fisico, e mi offrisse perciò la
scusa di andarmene nei boschi; e visto che ero giovane – mi ci volle
un’incredibile quantità di tempo per smetterla di essere giovane – il
compagno non poteva essere un simpatico giovanotto, come magari mi
sarebbe piaciuto, perché ciò avrebbe messo troppo in agitazione la Frau
Director e la Frau Inspector e la Frau Vieharzt , ma doveva essere qualcuno
al di sopra di ogni sospetto.
Niente è così totalmente al di sopra di ogni sospetto quanto i cani; in effetti,
sembra che godano di tutti i privilegi e le esenzioni di cui val maggiormente
la pena godere. Ingraban e io potevamo passare giornate intere insieme e la
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notte lui poteva dormire sul tappeto ai piedi del mio letto, senza che nessuno
avesse niente da ridire. Era un danese; una bestia enorme, adorabile, di colore
isabella. Lo presi da un allevatore della città più vicina; faceva parte di una
figliata in cui tutti i cuccioli avevano un nome che incominciava con la I. Lo
pagai duecento marchi e lo portai a casa, aggrappata al suo collare, mezzo
trionfante e mezzo spaventata, nella Viersitzer.
«Die kleine Frau und der grosse Hund»,1 fu l’apoftegma di mio marito
quando, benevolo ma distratto, perché stava pensando alla sua segale, ci vide
insieme per la prima volta.
Con Ingraban che camminava splendidamente dinoccolato al mio fianco
potevo andare ovunque, per quanto lontana e solitaria fosse la nostra meta.
Era il mio protettore e anche il mio amico. Dal giorno in cui entrò nella mia
vita, i vagabondi non mi spaventarono più. Quelle paure che, suppongo,
conoscono la maggior parte delle donne quando percorrono da sole luoghi
solitari, mi abbandonarono. Non sobbalzavo più se udivo rumori che
parevano uno scalpiccio; non mi fermavo più ad ascoltare con il cuore in
gola, se qualcosa si muoveva nei cespugli. Ingraban le affrontava tutte queste
cose. Ingraban, bastava guardarlo per capirlo, era pronto ad affrontare
qualsiasi cosa. Eppure com’era delicato con me e con le bambine, com’era
attento e com’era affettuoso. Era anche più intelligente, e di molto, lo scoprii
in seguito, di quanto lo siano di solito i danesi, e quindi ero davvero molto
fortunata. Il cane perfetto, pensavo. E mentre sedeva impettito accanto a me
n e l l a Viersitzer, durante quelle passeggiate pomeridiane che ancora
continuavano, perché i cavalli dovevano sempre essere mossi, mentre sedeva
fiero e splendido, vigile eppure immobile, torreggiante al di sopra della mia
testa, fino ad arrivare abbondantemente a sfiorare i mantelli di Johann, io
riflettevo su quant’era infinitamente superiore a quelle tre piccole creature del
mio passato, Bijou, Bildad e Cornelia. «Sempre cani grossi» mi dicevo,
ingrata, come si è spesso, nei confronti del passato quando si è appagati dal
presente, e senza sapere ancora quanto possono essere stupidi i cani grossi.
Ma c’era una pecca nella perfezione di Ingraban: alla vista dei cervi non
riusciva a restare impassibile. I campi erano pieni di daini, piccole eleganti
creature col muso di un colore molto simile a quello della segale matura, da
cui occhieggiavano furtivi, e lui, cresciuto nei sobborghi di una grande città,
non ne aveva mai incontrati finché non era venuto a stare da me, e li trovava
irresistibili.
E ciò doveva essere la sua rovina. Forse se quelli se ne fossero stati buoni
dov’erano, lui avrebbe potuto essere risparmiato, ma quando vedevano
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comparire la Viersitzer invariabilmente schizzavano via, e in quell’istante
stesso Ingraban, incurante dei miei frenetici ordini, gli si lanciava dietro.
Perfettamente ubbidiente in ogni altra circostanza, su quest’unico punto era
incorreggibile. Feci tutto il possibile per curarlo, non perché pensassi
neanche lontanamente che ciò sarebbe stata la sua rovina, ma perché, da
brava moglie di un possidente terriero, mi sembrava orribile che la segale
fosse tutta calpestata. Animus tuus ego… era un’ingiunzione di primaria
importanza per noi, che dalla segale ricavavamo la maggior parte del nostro
sostentamento; e io lo scongiuravo e lo sgridavo e lo afferravo per il collare,
solo per scoprire che quasi senza sforzo si era liberato con uno strattone; e lo
picchiavo quando alla fine tornava, facendomi io un male terribile alla mano
e assolutamente niente a lui. E un giorno, quando lui era corso via così
veloce e così lontano che nel volgere di un secondo non si riusciva più a
vederlo da nessuna parte, udii uno sparo distante, e non era un cervo quello
che era stato ucciso, ma Ingraban. Era a terra morto, quando lo
raggiungemmo, un foro sanguinante nello splendido fianco liscio.
«Come ha potuto… ma come ha potutol» gridai fuori di me all’uomo che
aveva sparato e che se ne stava lì in piedi a guardare accendendosi una
sigaretta.
«Er jagte»,2 fu tutto ciò che disse, indifferente.
E perché non avrebbe dovuto essere indifferente? Davanti a lui c’erano
soltanto un vecchio cocchiere decrepito e una giovane donna chiaramente
straniera. Vecchi e donne. Non aveva nessuna intenzione di sprecar parole o
di offrire il suo aiuto con gente del genere. Se Johann e io fossimo stati
persone in uniforme invece di essere ciò che in modo così evidente eravamo,
esseri incapaci di fare altro se non protestare – e Johann non faceva
nemmeno questo, essendo stato educato ad accettare –, probabilmente si
sarebbe in qualche modo scusato e forse avrebbe dato una mano
nell’agghiacciante, quasi impossibile impresa di sollevare il povero corpo
sanguinante nella Viersitzer.
Stando così le cose, l’uomo se ne andò.
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Cane numero cinque
Ingulf
Di Ingraban non ho fotografie, ma qui a fianco ce n’è una del suo
successore, Ingulf: un cane triste, un cane che per tutto il breve periodo in
cui fu con me non diede segno neppure una volta d’essere allegro. Basta
vedere che aria solenne ha in questa istantanea, mentre guarda da tutt’altra
parte, senza mostrare il benché minimo interesse per me e per il mio
bambino.
Pensavo che fosse dovuto al fatto ch’era così grosso. Era il cane più grosso
che avessi mai avuto, e il suo corpo possente sembrava fin dall’inizio che lo
deprimesse e rappresentasse un peso imbarazzante da trascinarsi dietro. Ben
lungi dall’aver voglia di cacciare i cervi, li fissava mentre attraversavano a
balzi i campi, gli occhi inerti, privi di qualsiasi sprazzo di luce. Un cane triste,
apatico, che si sedeva appena possibile e si alzava con riluttanza.
La morte di Ingraban era stata uno shock per me; mio marito se ne rese
conto e incominciò a confortarmi, e – una cosa tira l’altra, come capita –
prima di capire cosa stesse succedendo mi trovai di nuovo intrappolata in
una gravidanza. Uno strano modo, pensavo, mentre mi destreggiavo meglio
che potevo tra dolori e doglie, i cupi presagi e la propensione a fare
testamento, che sempre, nel mio caso, accompagnavano quella condizione,
uno strano modo di essere consolati. Eppure, così stavano le cose, e per un
po’ di tempo di sicuro dimenticai Ingraban. Ma quando tutto ciò finì e
ricominciai, trascinandomi, ad avanzare verso la libertà, e subito presi a
camminare, e subito dopo, con un po’ della mia vecchia fiducia nella vita, a
correre, quanto sentivo la sua mancanza, come erano grandi e solitari i boschi
senza la sua compagnia e la sua protezione!
31
Ingulf
E tuttavia soltanto quando la mia seconda infornata di bambini – se così si
può chiamare una nidiata di due – fu ben salda sulle gambette robuste e si
mise a correre per la nursery seminando disastri, io mi concessi di pensare a
qualcuno che lo sostituisse. Fino allora, come una chioccia sollecita m’ero
aggirata intorno alla mia covata; ma quando le culle divennero lettini, e i
lettini letti, e i loro contenuti schizzarono fuori spandendosi dappertutto
turbolenti, pensai che di quando in quando avrei potuto prendermi una
giornata di libertà; e per le giornate di libertà, non c’è niente di meglio di un
cane.
È vero che c’erano tre esuberanti bambine, più grandi, che morivano dalla
voglia di prendersi qualche giorno di libertà con me, ma loro, povere infelici,
non erano disponibili, perché a quel tempo erano sotto il giogo di precettori e
governanti. Tutte le mattine, una dopo l’altra, le passavano sedute nella
stanza adibita ad aula scolastica, angariate da vigili occhi pedagogici,
qualunque cosa succedesse fuori in fatto di sole splendente e freschi, dolci
aliti di vento. Al pomeriggio venivano portati i ponies e gli insegnavano a
cavalcare, venivano tirate fuori le racchette e gli insegnavano a giocare a
tennis. A ore fisse venivano portate al laghetto più vicino, e gli insegnavano a
nuotare. Ad altre ore fisse venivano riportate indietro, gli venivano mostrati
erbe e fiori e gli insegnavano botanica. Due precettori, uno tedesco e uno
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inglese, e due governanti, una tedesca e una francese, presiedevano a queste
attività organizzate con la massima accuratezza. Le bambine venivano allevate
secondo un piano che mio marito aveva elaborato, appena sposati, per
l’educazione di quei figli che si erano rivelati tutte figlie, e non aveva nessuna
intenzione che il suo piano andasse sprecato. Perciò in quella deplorevole
situazione cercava di far buon viso a cattivo gioco persuadendosi che, una
volta impartita la medesima educazione, che una ragazza fosse o meno un
ragazzo, i risultati sarebbero stati gli stessi.
Non so se sia così. Non lo era, comunque, nel nostro caso. Nonostante i
programmi di studio che loro seguivano a casa fossero esattamente gli stessi
che seguivano i maschi nelle scuole statali, nonostante gli esami annuali nel
capoluogo della contea, dove, subito prima di Natale, le bambine venivano
condotte perché li superassero, non c’erano risultati. Non, cioè, il tipo di
risultati che mio marito e il precettore tedesco avrebbero definito buoni. Era
come se ci fosse qualcosa, saldamente radicato nelle nostre tre figliolette, che
opponeva resistenza all’acquisizione di dati ed era del tutto indifferente alla
vergogna di non superare gli esami.
All’inizio ciò mi sconvolgeva, e deploravo che quelle care creature, fonte
di gioia e orgoglio per me, a cui erano offerti così tanti strumenti, rifiutassero
categoricamente di averci a che fare. Ma ben presto ne fui grata, perché in
Germania era un affare serio essere educati da maschi, specie se non lo si era,
e circolavano storie tremende di ragazzini che, avendo fatto ogni sforzo per
capire e imparare, e non essendovi riusciti, si erano uccisi. Uno, figlio di un
lontano parente, lo ritrovarono che pendeva da un albero di mele nel frutteto
del padre. Un altro finì miseramente nell’Oder. Sentendo dunque queste
cose, naturalmente smisi di lamentarmi, rallegrandomi anzi quando, ogni
anno, con regolarità, o erano bocciate o risultavano agli ultimi posti.
Al loro padre, invece, importava moltissimo, e anche al precettore tedesco,
cui spettava il compito di portarle al livello che, secondo la loro età,
avrebbero dovuto raggiungere. Il loro padre, profondamente irritato, diceva
che erano dumme Weiberswesen ,1 considerava il precettore tedesco del
momento responsabile del fatto che erano tali, e lo licenziava.
Qual era, s’informava il precettore inglese – il giovane, alternativamente di
Oxford e di Cambridge, che veniva per un periodo di sei mesi per leggere
con le bambine prosa e poesia nella lingua della loro mamma –, qual era il
problema che creava tanto scompiglio?
Quale, chiedeva la governante francese, sarebbe stato il vantaggio di aver
superato tutti quegli esami lorsque ces pauvres petites feront leurs premières
33
couches?2
E la governante tedesca, che aveva disposizione a innamorarsi e
s’invaghiva di ogni precettore tedesco di turno, prendeva appassionatamente
le parti del licenziato, seguendolo ovunque come un cane, e con alti latrati
proclamava che era tutta colpa delle bambine, che erano delle fannullone
incorreggibili.
Forse lo erano; ma quant’è meglio essere un fannullone che finire su un
albero di mele o nell’Oder! E fu il modo di comportarsi della povera Fräulein
Pöckel, eternamente alle calcagna di quello che stava per andarsene, che mi
fece ritornare in mente i cani e mi fece pensare a quanto sarebbe stato bello
essere seguita dappertutto da qualcuno devoto, ma da qualcuno, nel mio
caso, a quattro zampe. Quelle mie bimbe chiuse in gabbia, irraggiungibili; la
seconda miniinfornata nella nursery, per anni non ancora utilizzabile; se
volevo un compagno, era chiaro che doveva appartenere a quella felice razza
spensierata che non può essere costretta a fare i compiti. Doveva essere, cioè,
un cane.
«Uno ha voglia di essere completo», esplosi d’improvviso una sera a cena,
a cui, come il solito, partecipavano le tre bimbe più grandi, i loro genitori, i
loro precettori e le loro governanti.
Non so perché non dissi semplicemente che uno ha voglia di un cane. Posi
la questione in un modo che sembrava quasi da pazza… da femme
incomprise,3 da donna frustrata, trattata con insensibilità.
Quell’osservazione ebbe tuttavia un gran successo tra le governanti, che
mugolarono la loro approvazione.
«Ach ja!»4 sospirò quella tedesca, fissando lo sguardo sul nuovo precettore
tedesco, che fissò il suo sul piatto, perché aspirava a prendere gli ordini
religiosi e di conseguenza ci andava cauto.
«Dieu, que c’est vrai»,5 borbottò quella francese, alzando gli occhi al
cielo.
Il precettore inglese mi guardò incuriosito. Con noi da quasi tre mesi,
sapeva che durante quelle cene non si diceva o discuteva mai nulla che
avesse a che fare con i sentimenti privati di chiunque. E tanto meno si
esplodeva a quel modo. Durante i pasti, due volte al giorno, i genitori
solevano indirizzare cortesi banalità, a turno, a ciascun membro della
Lehrkraft, com’erano chiamati collettivamente precettori e governanti, e
talvolta perfino accennare battutine scherzose, che erano accolte con quello
stesso ansioso e zelante apprezzamento che si riscontra in tribunale quando il
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giudice s’induce a scendere in facezie. Il padre, cioè, faceva battutine; la
madre era troppo oppressa dalla cerimoniosità del pranzo per essere di umor
gaio. Ciò che succedeva a colazione e per il tè quando i genitori erano soli, il
precettore inglese – per forza di cose – non lo sapeva, ma in ogni caso,
ogniqualvolta egli era presente, entrambi erano impeccabilmente
hochgeboren.
Ed ecco che ora uno dei due accusava una caduta di tono. Nessuna
meraviglia che egli guardasse la scena con curiosità e con nuovo interesse.
Inoltre, i mugolii di approvazione delle governanti inducevano seriamente a
pensare che la riservatezza stesse per essere gettata alle ortiche e che quella
decorosa tavola nel volger di un attimo corresse il rischio di essere inondata
dallo straripamento di coscienze femminili represse. E di questo, essendo
giovane e indelicato, era lieto.
Ma non faceva i conti con il Graf.6 Quell’abile padroneggiatore delle
situazioni in cui sua moglie lo cacciava disse, mentre tutt’intorno alla tavola
risuonavano di nuovo docili le risate: «Meine liebe kleine Frau,7 prendi
un’altra di queste eccellenti frittelle, e sarai completa».
Più tardi nella biblioteca, quando al rintocco delle otto le governanti si
erano alzate, avevano raccolto quanto affidato alle loro cure, avevano
augurato la buonanotte con un inchino ed erano uscite da una porta, mentre
contemporaneamente i precettori auguravano la buonanotte con un inchino e
uscivano dall’altra, lui, fiducioso, esordì: «Cos’è questa faccenda che vuoi
essere completa? È forse, piccola mia, che desideri un altro bambino?».
E – temo – fu profondamente deluso, malgrado che di bambini ce ne
fossero già cinque, quando gli spiegai che tutto ciò che volevo era un cane.
Il giorno successivo salii sulla Viersitzer e tornai ancora una volta
dall’allevatore da cui avevo comprato Ingraban.
E là m’innamorai immediatamente di Ingulf. Eccolo qui, nella foto a
fianco, con la mia figlioletta più piccola che cerca invano di divertirsi un po’
con lui, e, alla pagina successiva, sempre con la stessa figlioletta, ancora con
l’aria per niente allegra.
Credo che sia stata la sua mole a farmene innamorare. Abituata a essere
guardata dall’alto in basso, come posso non ammirare ciò che è tanto
evidente da destare impressione? E Ingulf era evidente davvero. Figlio dei
medesimi genitori di Ingraban, il nome che iniziava con la stessa lettera
dell’alfabeto, era grosso una volta e mezza il suo predecessore e sembrava un
piccolo pony; e senza dubbio fu questo fatto di essere grosso una volta e
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mezza Ingraban che comportò un prezzo una volta e mezza superiore.
Probabilmente, pensavo, il prezzo era calcolato a centimetri; o era calcolato in
base alla mia manifesta ansia di entrarne in possesso? Comunque lo comprai.
A quell’epoca guadagnavo denaro scrivendo racconti e non mi sembrava così
riprovevole spenderne un po’ come mi sembrava all’inizio della mia vita in
Pomerania, e la Viersitzer, quasi completamente riempita dal cane, prese
trionfalmente la via verso casa.
Ingulf, un cane triste…
36
Ingulf, ancora con l’aria per niente allegra
Molto presto, però, incominciai a essere assalita da dubbi; fin da subito,
proprio in quel viaggio verso casa, presero a insinuarsi in me. Non era un po’
strano che a questo cane, assolutamente non abituato a essere portato a
spasso in carrozza, non importasse niente della Viersitzer, anzi, sembrava che
non gli importasse niente di nulla? Non era né spaventato né contento; era
semplicemente indifferente. Se ne stava seduto abbandonato accanto a me,
una massa immensa di cane depresso, e non c’era alcun bisogno che mi
afferrassi al suo collare come avevo dovuto fare con tutte le mie forze con
Ingraban, nel nostro primo viaggio insieme. Inutile rincuorarlo con colpetti
affettuosi, accarezzarlo, cercare d’incoraggiarlo con promettenti discorsi di
ossa e di cibo. Niente aveva il benché minimo effetto su di lui. Non si
muoveva; non mostrava interesse; non credo neanche che ascoltasse. Con
occhi opachi quel grande cane teneva lo sguardo fisso davanti a sé, senza dar
segno di vita nemmeno quando una lepre saettò in mezzo alla strada; e la
prima cosa che fece, quando arrivammo a casa, fu di sdraiarsi a terra, lungo
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disteso.
Del tutto inutile ordinare a Ingulf di far couche; la stava già sempre
facendo. Del tutto inutile, d’altra parte, dirgli pfui, perché era un cane
virtuoso al massimo, salvaguardato dal peccato in virtù della mancanza di
desideri. Che contrasto col suo focoso predecessore! Poteva mai essere che il
mio nuovo bellissimo cane non fosse intelligente? O aveva solo bisogno di
essere ben nutrito?
Dal momento che non potevo sopportare l’idea che non fosse intelligente,
incominciai a nutrirlo con diligenza. E con pari diligenza gli facevo fare del
moto. Lui mangiava apaticamente quello che gli si metteva davanti, e
apaticamente mi seguiva quando lo portavo fuori. Ma era difficile fargli fare
del moto in modo adeguato, perché era così grosso che anche se correvo – e
correvo in continuazione nel mio zelo per il suo benessere – a lui, per stare al
passo con me, bastava camminare, e se per una ragione qualsiasi mi fermavo,
per esempio per riprendere fiato o per legarmi una scarpa, lui si sdraiava
all’istante.
Venne a consulto il veterinario.
«Questo cane dev’essere nutrito in abbondanza», sentenziò, dopo averlo
esaminato.
«Ma lo è», confermai io.
«Il moto, allora, è ciò di cui ha bisogno».
«Ma glielo faccio sempre fare».
«Allora sono i vermi che lo fanno star male, e manderò una medicina».
La medicina arrivò, fu somministrata, e non saltò fuori neanche un verme.
Il cibo, portato in quantità crescenti, era apaticamente, ma obbedientemente,
mangiato. Faceva come in sogno qualsiasi cosa gli si chiedesse, mangiare,
andare a spasso ciondolando, mangiare di nuovo, e in ogni occasione
possibile sdraiarsi immediatamente.
«Non so cosa fare con lui», confessai infine.
«Povera piccola», commentò mio marito, cercando di confortarmi; ma a
quel punto diffidavo del conforto, e lo evitai.
«Forse, – ripresi pochi giorni più tardi, fissando sconsolata Ingulf sdraiato
a terra, – forse farei meglio a riportarlo indietro».
«Certo», convenne mio marito, che era sempre d’accordissimo a riportare
indietro i cani.
«E a cambiarlo».
«No, non a cambiarlo».
Ci volle parecchio, però, prima che riuscissi a separarmi da Ingulf. Non
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potevo fare a meno di pensare che doveva esserci del buono in lui, e molto
anche, se solo avessi saputo come arrivarci. Un cane così gigantesco, così
patentemente smisurato, con una testa tanto splendida… era inverosimile che
fosse proprio vuota. Era colpa mia, che non sapevo come scuoterlo.
Ma qualcosa mi diceva che, per quanto potessi tentare, non sarei mai
riuscita a scuotere Ingulf. Era un cane permanentemente, congenitamente,
triste, indifferente. E un pomeriggio, entrambi depressi e silenziosi,
ritornammo insieme nel posto da cui era venuto.
L’allevatore, che mi si era fatto incontro sorridendo, smise di sorridere
quando vide ciò che avevo con me.
«Credo che forse sia un tantino vecchio», esordii io, che un po’ per volta
avevo cominciato a intravedere la verità.
«Vecchio?»
«Vecchio», confermai, cercando di fronteggiare senza batter ciglio uno
sguardo che s’era fatto indignato. In tutta la mia vita ho sempre trovato
difficile fronteggiare sguardi indignati. Fortunatamente non ce ne sono stati
molti, finora, da fronteggiare.
«Lei dice vecchio?» chiese l’uomo, come se non riuscisse a credere alle
proprie orecchie.
«Ho detto vecchio», confessai, lottando contro la voglia di guardare
altrove.
Allora lui aprì la bocca di Ingulf e mi chiese di esaminargli i denti; cosa che
feci, e non ne seppi più di prima.
Allora lui mi chiese di sentire certi muscoli; cosa che feci, e non ne seppi
più di prima.
«Questo cane, – asserì lui alzando la voce e raddrizzando le spalle (e
nessuno riesce ad alzare la voce e a raddrizzare le spalle con aria più
minacciosa di questi benedetti tedeschi), – questo cane è praticamente appena
nato».
Non riuscii a reggere il suo sguardo, tant’era indignato. Solo abbassando
gli occhi su Ingulf, che era sdraiato lungo disteso, trovai il coraggio di
mormorare qualcosa circa il fatto che gli anni, quando si ha tanto da fare,
scivolano via nel modo più strano, e prima che uno se ne sia accorto si sono
accumulati e sono svaniti.
Al che lui raddrizzò ancora di più le spalle, e con le mani sui fianchi mi
fissò in silenzio, un silenzio così spaventoso che io, ansiosa di evitare
quant’altro potesse essere in arrivo, gli spiegai in fretta lo scopo reale della
mia visita. Ero venuta, dissi, per comprare – non mi bastava più l’animo per
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parlare di sostituire – un altro cane.
Alla fine ne comprai due. Cuccioli. Assolutamente adorabili, ma due.
Abbastanza per sciogliere un cuore di pietra, ma pur sempre due. Quale
sarebbe stata la reazione a casa? Con quale apoftegma sarebbero stati accolti?
Beh, non pensiamoci ora, mi dissi armeggiando alla ricerca del denaro.
Di nuovo il prezzo era una volta e mezza quello di Ingulf, perché ce
n’erano due. Ovviamente, sottolineò l’allevatore, visto ch’ero arrivata con un
solo cane e me ne stavo andando via con due, avrei dovuto, per far le cose
giuste, pagare il doppio; ma poiché sembrava che io stessi diventando una
vecchia cliente, mi avrebbe fatto una concessione.
Al che io ricominciai a mormorare qualcosa, questa volta sul fatto che in
realtà me ne andavo via con un solo cane, perché Ingulf glielo lasciavo. Ma
lui non avrebbe voluto sentirne parlare, e io stessa sentivo che bisognava
pensarci su. E poi non era un buon momento per ragionamenti e
argomentazioni, perché i cuccioli, che avevano più o meno le dimensioni di
una pecora, proprio in quel mentre venivano issati nella Viersitzer, solo per
precipitarsi immediatamente giù dall’altra parte.
Il nostro viaggio verso casa fu costellato di fughe e catture. Svariate volte i
cavalli cercarono di prendere la mano. I cuccioli, che all’improvviso
sembravano diventati dozzine, con centinaia di gambe e migliaia di code
eccitate, schizzavano fuori da una parte e dall’altra della Viersitzer dandosi
alla pazza gioia nella boscaglia. Io ero troppo indaffarata a saltargli dietro e a
riportarli senza più fiato alla carrozza, per preoccuparmi dell’accoglienza che
avremmo avuto all’arrivo.
Fu perfino meno cordiale di quanto non avessi temuto. Mio marito, di
ritorno dal suo quotidiano giro d’ispezione, sfortunatamente uscì a salutarmi,
e prima che i cavalli si fermassero i cuccioli si buttarono giù, liberandosi con
uno strattone dal collare cui stavo abbrancata, e si precipitarono festosi dritti
su di lui.
Naturalmente ne fu sconvolto.
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Cani numero sei e sette
Ingo e Ivo
Questi cuccioli si chiamavano Ingo e Ivo. Appartenevano alla stessa serie
delle I di Ingulf e Ingraban, e avevano appena sei mesi quando entrarono in
modo così improvviso e violento nella mia vita.
Di loro ho diverse fotografie scattate nel periodo in cui vissero con me,
che durò circa tre anni. Eccone una, presa in un momento, davvero raro
all’inizio, di riposo. La donna, mi dispiace dirlo, sono io. Secondo me in quel
periodo ero più brutta di quanto, forse, non lo sia mai stata d’allora in poi;
ma probabilmente non lo ero poi così tanto. Ed eccone un’altra, con i miei
due bambini più piccoli sullo sfondo. Del ragazzo con il bastone in mano non
sono responsabile io; non era mio, voglio dire; per quanto, guardando la
fotografia precedente, ammetto che avrebbe potuto capitarmi qualsiasi cosa
in fatto di progenie. Comunque, era solo il garzone di cucina.
Alle pagine successive ci sono altre due fotografie: una di Ingo, qualche
tempo dopo, con il mio bambino e una di Ivo, anche questa qualche tempo
dopo, con la figlia del pastore, che stava festeggiando il compleanno con noi,
ed era perciò tutta inghirlandata.
Si fecero degli splendidi cani, entrambi, come chiunque può vedere, e
divennero una grossa fonte d’orgoglio per me quando finalmente impararono
come comportarsi.
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Ingo e Ivo con Elizabeth e, sotto, con il garzone di cucina
42
Ingo
43
Ivo
Gli ci volle parecchio tempo. Dovetti vederne delle belle prima che si
decidessero, perché all’epoca in cui li comprai avevo preso l’abitudine, nei
momenti che mi rimanevano dopo aver badato all’andamento della casa ed
essere stata una buona moglie e aver fatto il mio dovere con la Frau Director
e la Frau Inspector e la Frau Vieharzt, di appartarmi a scrivere racconti.
Mi chiudevo in una serra in disuso fuori in giardino, e naturalmente i
cuccioli, che erano sempre con me, stavano per forza chiusi dentro anche
loro. Il che non giovava alla pace. Prima del loro arrivo, la serra (eccola qui a
fianco) era stata un luogo tranquillo; coperto di muffa ma quieto, come
potrebbe esserlo una tomba spaziosa; che odorava di passato – ancora come
potrebbe odorare una tomba –, quando giardinieri morti da lunga data vi
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collocavano vasi, rotti da un pezzo, ognuno con una pianticella destinata più
tardi al piacere di una padrona aristocratica da tempo defunta.
In quei tranquilli giorni ante-cuccioli non si udiva altro suono che il
raspare della mia penna, perché Ingulf, allungato su un tappeto, era l’ultimo
cane al mondo a far rumore, e, grato di non dover andare da qualche parte o
mangiare qualcosa, giaceva immobile come una statua. Di conseguenza
regnava una pace completa. Io scrivevo indisturbata. Nessuno poteva guardar
dentro dall’esterno, poiché i vetri delle finestre erano velati dalla polvere del
tempo; e nessuno dei domestici avrebbe potuto esser sicuro della mia
presenza lì dentro, nel caso mi fosse venuto dietro, spinto da
un’incontrollabile smania di ricevere ulteriori ordini, perché su Ingulf, cane
adatto alla circostanza, data la sua avversione al benché minimo sforzo, si
poteva contare: per quanto quelli bussassero alla porta sprangata, non
avrebbe mai ringhiato. Così tutto ciò che dovevo fare, quando arrivavano
aspiranti disturbatori, era di starmene seduta senza muovermi, fingendo di
essere da qualche altra parte.
Eccellenti condizioni per lavorare. Cui posero fine Ingo e Ivo. Per una o
due settimane subito dopo il loro arrivo, dovunque io andassi, dovunque mi
rifugiassi, tutti sapevano esattamente dov’ero. Ero attorniata da un nugolo di
testimoni, tutti zampe e code, e né io né loro potevamo nasconderci. L’angolo
in cui si trovava la serra, anziché essere il più quieto del giardino, divenne il
più rumoroso. Di lì arrivavano quasi di continuo grida di couche e pfui.
Dentro, un fragore di latrati estasiati, mentre veniva fatta strage del semplice
arredo, impediva qualsiasi possibilità di lavoro.
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La serra
Dopo un po’, tuttavia, ci calmammo tutti quanti, benché il primo impatto
dei cuccioli con la serra sia stato un disastro. Si avventarono immediatamente
su alcuni vecchi vasi da fiori, dimenticati impilati in un angolo e mai neppure
degnati di uno sguardo dall’indifferente Ingulf, li snidarono e li
scaraventarono in pezzi per aria, enormi cuccioli ebbri del piacere della
distruzione. Il tappeto su cui Ingulf – ma, dopo tutto, non era davvero un
ottimo cane? – se ne stava sdraiato con tanta quieta dignità, fu azzannato alle
due estremità e strattonato con giubilo fino a farlo a pezzi. Un cuscino, che fu
così sfortunato da scivolare dalla mia seggiola, lo liquidarono in quattro e
quattr’otto; e per finire, saltando in un parossismo d’euforia a leccarmi il viso
sgomento, Ivo rovesciò il tavolo, e sul pavimento precipitò un miscuglio
assolutamente orrendo di Fräulein Schmidt and Mr. Anstruther – un
racconto che stavo cercando di scrivere proprio in quel periodo – e
inchiostro e vetri rotti. Avrebbe potuto Shakespeare, avrebbe potuto Kipling
lavorare in simili circostanze?
Ricordo di essermi inginocchiata a recuperare quanto ancora rimaneva di
Fräulein Schmidt, e di aver visto le osservazioni che lei stava facendo, e che
io stavo scrivendo quando Ivo l’aveva fatta ruzzolare sul pavimento, che mi
fissavano dall’ansa risparmiata da un grande schizzo d’inchiostro.
Un peccatore, diceva lei, e scrivevo io, dovrebbe sempre peccare con
allegria.
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E ancora: È una povera creatura, diceva lei, e scrivevo io, colui che
mentre pecca se ne rammarica.
Presumibilmente ero stata d’accordo con lei. Non era forse il mio
portavoce? La tromba in cui, mattina dopo mattina, soffiavo così
alacremente? Eppure eccoli lì i peccatori più allegri del mondo a saltare
intorno ai peccati commessi in un’estasi di non pentimento, e, lungi
dall’ammirarli, ero tanto arrabbiata che riuscii a stento ad articolare con
fermezza sufficiente i miei pfui.
Forse Fräulein Schmidt non aveva sempre così ragione come credeva. Un
po’ frettolosa, forse, al momento di dir la sua come fosse Vangelo.
Comunque, per un po’ persi fiducia in lei e ruppi i rapporti.
Come secondo sano principio, ad estensione di quello di pagina trentotto,
si dovrebbe assumere che chi desideri lavorare non dovrebbe tenere con sé
dei cuccioli di grosse dimensioni. Una persona del genere probabilmente non
dovrebbe tenere affatto dei cuccioli, e di sicuro non di grossa taglia, e ancor
più di sicuro non grossi se il padrone, o la padrona, è egli stesso, o ella
stessa, minuto.
Io ero minuta e lo sono tuttora, e i musi di Ivo e Ingo, quando stavano ritti
sulle zampe posteriori e appoggiavano quelle anteriori sulle mie spalle – un
comportamento che causava scompiglio e che cercai di scoraggiare – erano
all’altezza del mio viso, e per quanto rapida fossi a voltare la testa di scatto
non ero mai abbastanza veloce da evitarmi una leccata. Anche le loro code,
che dimenavano in continuazione, quando incappavano nel piano di un
tavolo spazzavano via tutto quanto capitasse nel loro raggio d’azione.
Queste due abitudini da sole bastavano a impedire loro l’accesso in casa.
Ma c’erano quelle altre abitudini, comuni a tutti i cuccioli, che si sarebbero
corrette soltanto crescendo. I miei tentativi di correzione non andavano a
buon fine perché, non appena mi avvicinavo per afferrarli per il collare, ed
era evidente ciò che avevo in mente, loro si tiravano indietro con un balzo
precipitoso; mentre quanto al loro vizio di andare a ficcare il muso ovunque,
nonostante tutti i miei sforzi non riuscii mai neanche a fargli voltare via la
testa.
Perciò stavano da soli nella serra tutto il tempo in cui io ero impegnata con
le faccende domestiche o mangiavo o dormivo, e quando, dopo questi
intervalli, tornavo da loro avevo il mio daffare a non farmi travolgere dalla
loro festosa accoglienza. Un po’ per volta, comunque, le cose si sistemarono.
Il segreto per vivere in pace con dei cuccioli, scoprii (fino ad allora avevo
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avuto solo cani già fatti, tranne Bijou, che non conta, e avevo tutto da
imparare), è di fargli fare una gran quantità di moto e somministrargli una
gran quantità di cibo. Bisognerebbe rimpinzarli; regolarmente. Allora
dormono per ore; abbastanza, scoprii, nel caso di Ingo e Ivo, da permettermi
di rendere giustizia a Mr. Anstruther, nei confronti del quale avevo nutrito un
certo qual risentimento.
Questa, dunque, fu la linea di condotta che scelsi; e ben presto fu possibile
mettere senza pericolo un nuovo tappeto nella serra, e mentre loro ci stavano
sdraiati sopra, stupefatti di quello stato di benessere, dimentichi del mondo,
un mucchio rilassato di zampe e orecchie e code, io, ancora una volta,
andavo avanti con Fräulein Schmidt.
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Cane numero otto
Prince
Il cane successivo era inglese; ed era inglese perché, tre anni dopo l’arrivo
di Ingo e Ivo, le circostanze fecero sì che io cessassi d’essere una pomerana.
Tutti noi cessammo d’essere pomerani; e, stando così le cose, i bambini e io
venimmo a vivere in Inghilterra.
Ivo fu affidato al pastore e Ingo all’Oberinspektor. Non poterono venire
con me per via della quarantena, ma so che nelle case in cui andarono a stare
li trattavano bene e i loro nuovi padroni erano fieri di loro. In realtà nessuno
poteva fare a meno di esser fiero di loro, tanto erano diventati belli. Non
molto intelligenti, forse, anche se decisamente più di Ingulf, ma cani eleganti,
vigorosi, robusti… Quel tipo di cane che, se si fosse trattato di una moglie,
avrebbe potuto annoiare un marito sensibile e avrebbe soddisfatto
pienamente un marito ottuso.
Prince era molto diverso. Era un cane cattivo, con occhi rossi di brace che
mi fecero indietreggiare titubante durante i nostri saluti preliminari. Ma ad
ogni modo il mio cuore era gonfio di tristezza e non proprio in vena di
convenevoli, e senza dubbio lui se ne accorse subito. Pensavo in
continuazione a quel passato che solo il giorno prima era stato il felice
presente. Continuavo a voltarmi indietro a guardarlo. Sembrava incredibile la
repentinità con cui un’intera, ordinata, regolare esistenza poteva essere
spazzata via, con tutte le sue etichette e rigidezze. Mi mancavano quelle cose,
tutte. Ero triste e mi sentivo sola. I sostegni su cui poggiavo mi eran stati tolti
di sotto improvvisamente e invece di sostegni adesso avevo responsabilità.
Cinque bambini, di cui il più piccolo di soli sei anni, non sono forse delle
serie responsabilità?
Ma questa non è un’autobiografia, bisogna quindi che non divaghi. Tutto
quello che occorre che io dica è che la vita nel Devonshire, dopo la vita in
Pomerania, sembrava procedere – come dire – in pantofole, e io, abituata per
così tanto tempo ad aspettarmi negli altri la disciplina, fui profondamente
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colpita quando il giardiniere inglese, la prima volta che mi rivolsi a lui,
invece di scattare sull’attenti e battere i tacchi, si appoggiò tranquillamente
alla vanga.
Immaginate dunque questo piccolo gregge di pomerani, abituati nei
rapporti interpersonali alle rigidezze e per opera della natura ai venti
impetuosi con sabbia che vola tutt’intorno e, in generale, a un modo di
trattare severo; immaginateci arrivare, tutti vestiti di nero e con un cane nero
che ci viene incontro annusando sospettoso, nell’opprimente dolcezza e
nell’indolenza del Devonshire. Là, nonostante non fossimo per nulla felici,
incominciammo subito a ingrassare, sedotti dalle giuncate e dall’abbondante
panna che le accompagnava; là, dopo anni in cui eravamo stati praticamente
dispensati dagli inviti per via della mancanza di vicini aristocratici, mi ritrovai
invischiata negli inviti per il tè; e fu là che per la prima volta stupii gli ospiti
con la mia abitudine da dama prussiana, contratta nei lunghi anni di vita in
comune con la Frau Director e la Frau Inspector e la Frau Vieharzt , di
comunicare loro graziosamente che potevano sedersi.
Prince guardava tutto ciò con i suoi occhi rossi di brace. Il suo compito era
di tenermi compagnia quando ogni giorno i bambini, persa per sempre la
loro Lehrkraft tedesca, erano a scuola, e quindi lui era presente, guardingo e
diffidente, quando andavo in giro a restituire le visite. Purtroppo, lui e io
reciprocamente ci piacevamo sempre meno. Nero come il diavolo, con il pelo
arricciato fitto come una pelliccia di astrakan, aveva la testa e il muso lisci, e
ciò li faceva sembrare piccoli, sproporzionati in confronto a tutto il resto. La
testa puntata in basso e la coda in alto gli conferivano un aspetto minaccioso,
furtivo. Aveva cinque anni; troppo vecchio perché io potessi davvero
intervenire in qualche modo su di lui, anche se avessi resistito alla tendenza a
indietreggiare ogni volta che intercettavo i suoi occhi rossi. I cani capiscono
sempre se uno sente l’impulso a indietreggiare. Non è necessario farlo in
modo visibile; basta soltanto avvertire dentro di noi un minimo istinto che ci
spinga a battere in ritirata, loro lo capiscono immediatamente. Con i cani ci
deve essere un rapporto di fiducia e affetto veri o niente, e mi fu presto
chiaro che, quanto a Prince, sarebbe stato niente.
Ciononostante, abituata ad avere un cane alle calcagna, lo presi con me
quando incominciai a restituire le innumerevoli visite e, mentre ero nelle
diverse case, lo lasciavo nel calessino – a quel tempo me ne andavo in giro
con un calessino che sembrava un bassotto, tanto era rasoterra; e nelle mie
gramaglie tedesche penso dovessi assomigliare alla regina Vittoria in versione
giovanile. E i colonnelli in pensione (nella maggior parte di queste case i
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mariti erano colonnelli in pensione) mi accompagnavano fuori e vedendo
Prince dicevano: «Bravo, cane», e accennavano ad accarezzarlo.
Ma Prince non era un bravo cane, e mostrava all’istante che non lo era; al
che i colonnelli, indietreggiando proprio come facevo io di solito, mi
chiedevano, con severità, dove l’avessi trovato.
Io non l’avevo trovato; apparteneva alla casa e mi era stato venduto in
blocco con quella quando l’avevo comprata, spiegavo.
«Beh, io ci starei attento a quel cane», consigliavano i colonnelli, facendosi
indietro fin quanto l’educazione lo permetteva.
«L’idea è che dovrebbe essere lui a stare attento a me», rispondevo io.
«Voglio dire che io me ne guarderei», ribattevano i colonnelli.
Ma era esattamente quello che io già stavo facendo. Stavamo diventando
sempre più diffidenti l’uno nei confronti dell’altro. Io ero offesa ed
esasperata dalla sua ostilità, io, che avevo sempre avuto ottimi rapporti di
amicizia con i miei cani, e poi non mi piaceva il suo aspetto; non mi
piacevano il suo muso stretto e gli occhi troppo vicini. Né allora mi
piacevano i cani neri, e non mi piacciono tuttora, perché di giorno non si
riesce a vedere se qualcosa gli cammina in mezzo al pelo, e di notte, quando
li si lascia fuori prima di andare a dormire, nel buio non si riesce a vedere
dove siano andati a finire.
Se voi foste dei padroni solleciti e faceste uscire il vostro cane anche molto
tardi, non trovereste tanto divertente starvene a scrutare nel buio dal quale, se
è un cane cattivo come Prince, senza alcun attaccamento né senso del dovere,
rifiuta di ricomparire. Stanca di fischiare, l’umido della tiepida pioggerella
del Devonshire fin dentro le ossa, mi toccava starmene sulla porta che dà in
giardino ad aguzzare invano gli occhi mentre morivo dalla voglia di andare a
letto. Com’erano ben visibili i miei pallidi danesi e com’era facile, quando si
attardavano – cosa che succedeva raramente – andare a cercarli! Ma dove
potevo, in quei campi bui, sperare di trovare Prince, nero come la notte che
lo copriva e completamente invisibile già nel momento stesso in cui gli davo
via libera?
Quei minuti che passavo sulla soglia a scrutare nell’oscurità greve
d’umidità non facevano che accrescere ogni notte di più la mia tristezza, la
mancanza di ciò che ero abituata ad avere, l’incombente malinconia che in
quel posto ci opprimeva tutti, i bambini, la mia cameriera tedesca e me in
egual misura, una tristezza che sembrava impregnare i mattoni stessi di quella
casa solitaria, in mezzo a campi verdi, piatti e zuppi di pioggia.
Forse era una casa in cui la gente era stata infelice. Se era così, noi
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continuavamo la tradizione. E ogni pomeriggio, ombre gigantesche nella
nebbia che quell’autunno ci avvolgeva in continuazione, arrivavano ospiti in
visita, incappucciati negli impermeabili.
L’autunno, tuttavia, non dura per sempre; e neppure, come scoprii in
seguito, la vedovanza. Anche i cani vanno e vengono; e prima di fare in
tempo a girarsi indietro, così sembra almeno, ogni cosa che è stata se ne è già
anche andata. Se non fosse così, non so come faremmo, ci sarebbe un tale
accumulo…
Così, a tempo debito, la nostra permanenza nel Devonshire finì, e finì,
strano a dirsi, a causa di Prince. Quel cane, che non mi è mai piaciuto e a cui
io non sono mai piaciuta, fu il vero motivo per cui ci liberammo della
fiacchezza e dell’apatia per riacquistare vigore, per ritornare ad apprezzare le
gioie che la vita poteva offrirci, sebbene il poveraccio abbia pagato di
persona per questo. Prese a dar la caccia alle pecore; e l’effetto finale fu di
spedirci a razzo dalle dolci conche del Devonshire, dai veli di nebbia in
mezzo ai quali si delineavano gli ospiti, all’aspra e brillante solitudine delle
montagne svizzere.
Finché le pecore non c’erano, naturalmente, non gli si poteva dar la caccia,
ma un giorno, dopo un anno di nero imposto dalla decenza e altri sei mesi
supplementari (in modo da stare ampiamente dalla parte delle convenienze
sociali) di grigi e di titubanti, timidi malva, l’inerzia decorosa nella quale ero
sprofondata incominciò ad allentarsi, e al guardare fuori dalla finestra della
mia camera da letto i campi in un rigoglio di ranuncoli ma per il resto vuoti,
poiché era maggio la mia linfa vitale si risvegliò.
«E perché, – pensai, improvvisamente schiudendomi all’iniziativa, – non
dare in affitto tutto quanto a un contadino e ricavarne un po’ di soldi?»
Lo diedi in affitto; il contadino riempì i campi di pecore; Prince gli diede la
caccia; ed ebbe inizio un penoso periodo d’indignazione da un lato e di
preoccupazioni dall’altro, di minacce e di scuse. Ma nessuna scusa servì più a
nulla nel momento in cui quel cane infernale non si limitò a dar la caccia ma
uccise, e lo vedevo da me che quello era destinato a diventare un caso da
magistrati e sanzioni.
Ora tutte le persone che hanno passato buona parte della loro vita in
Germania, e di sicuro tutte quelle che sono nate in Germania, hanno una gran
paura della legge. La loro idea dominante è di non attrarne l’attenzione, di
non dar nell’occhio, di strisciare in tempo, per così dire, al riparo sotto i
tavoli. Perciò, quando mi vidi preda dei suoi artigli, per quanto si trattasse
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della legge inglese, con ogni probabilità più mite, incominciai a tremare,
mentre i bambini, nati in Germania, tremavano più forte, ed Elsa, la
cameriera, non solo nata in Germania ma della classe sociale che ha ancor più
difficoltà a difendersi, tremava più forte di tutti.
Bella situazione davvero per una vedova, unico sostegno di una squadra di
orfani, e tutto a causa di un cane che non le era mai piaciuto. Fin dall’inizio
feci una brutta figura – capita a chi trema – ma ero stata testimone
dell’uccisione delle pecore e mi mancarono le forze.
Trascinata di fronte a un magistrato, continuai a far brutta figura, perché,
ricordandomi che aveva partecipato diverse volte ai tè, fui tanto ingenua da
considerare la cosa un legame, e, sollevata e rassicurata, incominciai a parlare
quando non mi spettava.
Fui zittita all’istante. Riuscivo a stento a credere alle mie orecchie. Era
incredibile che un uomo che era stato diverse volte a prendere il tè da me
potesse zittirmi; e me ne rimasi lì offesa e oltraggiata, al colmo
dell’indignazione in tutto ciò che di hochgeboren era rimasto in me, mentre
lo sentivo infliggermi una multa. Che diamine, solo una settimana prima
proprio quell’uomo era seduto nel mio salotto a rimpinzarsi della mia torta.
Che diamine, ricordavo col massimo sdegno, in ogni tazza si era addirittura
messo tre zollette di zucchero. Non mi avrebbe mai più sentito offrirgli
un’altra fetta di torta. Mai più gli sarebbe stato elargito il mio zucchero. Da
me non avrebbe mai più bevuto un’altra tazza di tè.
Davvero brutta, tuttavia, fu la figura che feci quando mi informarono che
Prince doveva essere consegnato alla polizia per essere abbattuto, perché
all’udire quella tremenda sentenza, dopo essere rimasta senza fiato per
l’orrore, fui colta dalla nausea. Seduta stante; davanti a tutti; e a dispetto del
fatto che quella bestia non mi era mai piaciuta davvero. Ma dover andare a
casa, strappare a sangue freddo un povero cane dal suo pasto e lasciare che
lo portassero via a morire…
Il magistrato, cercando di far finta che non stesse succedendo niente,
cercando di far finta che l’aula non fosse lacerata da suoni sconvenienti, fissò
gli occhi su un punto ben oltre la mia testa in preda a convulsioni e disse: «Si
passi al prossimo caso».
53
Parte seconda
54
Cane numero nove
Coco
Dopo quella vicenda, non mi andava di star più oltre in quella casa. Non
c’era mai stato un solo momento dal nostro arrivo lì in cui io fossi stata
davvero felice, e le circostanze della fine di Prince mi confermarono
nell’assoluta certezza che ciò di cui tutti avevamo bisogno era un bel
cambiamento d’aria.
Cambiai aria. Le vedove sono creature mobili e possono cambiare tutta
l’aria che vogliono, scegliendo dove e come vivranno in un modo
sconosciuto alle mogli. Partimmo irresponsabilmente, perché la casa ce
l’avevo ancora sulle spalle, ed è sicuro che nessun marito avrebbe
acconsentito a costruire una nuova casa – che era ciò che intendevo fare –
prima di essersi sbarazzato della vecchia; non se si è poveri, almeno, e noi
eravamo molto prossimi a essere poveri o pensavamo di esserlo. Ma io me ne
andai, fidando nella sorte che arrivasse qualcuno a comprarla; e infatti ce
n’eravamo appena andati che qualcuno arrivò. Così la fortuna vien dietro a
chi è incauto.
Se questa fosse un’autobiografia ora racconterei come continuai a
condurmi in modo avventato, comprando in Svizzera dei terreni che si
rivelarono assurdi perché, tranne la bellezza, non avevano nient’altro; niente
strade, niente acqua, niente di ciò che dev’esserci se si vuole costruirci sopra
una casa; rivendendoli alla stessa gente da cui li avevo comprati, per metà
della cifra che li avevo pagati; assumendo un architetto sulla base della
semplice raccomandazione di un postino che avevo incontrato passeggiando
per una stradina; comportandomi in tutto e per tutto come si comportano le
persone che da poco, per la prima volta nella loro vita, sono diventate
completamente libere e non devono render ragione ad autorità di sorta. Ma
questa è la storia dei miei cani. Perciò non mi addentrerò negli alti e bassi,
nelle gioie e nelle paure, nell’alternarsi di fiducia e di sconforto, che furono il
mio pane quotidiano nell’anno passato a costruire quella che risultò essere
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una casa di felicità, ma arrivo subito a Coco.
È il cane che ebbi dopo Prince. Uno svizzero. Nativo dei luoghi dove ci
eravamo stabiliti e attrezzato per il freddo con un folto mantello adatto a
quelle alte quote, uno splendido mantello ondulato di un marrone
picchiettato d’argento che la più viziata fra le stelle del cinema gli avrebbe
invidiato. Se ne venne su per il sentiero un giorno a presentarsi per assumersi
l’incarico di prendersi cura di noi – visto che eravamo completamente isolati
e in prevalenza donne – e io, vedendolo dalla finestra camminare così pacato
a fianco del contadino che l’accompagnava, così sicuro di sé, così solenne,
composto, splendido e grosso, gli andai incontro, e fu il mio cane da quel
momento fino al giorno della sua morte.
Eccolo, qui a fianco, il giorno del suo arrivo, fotografato con me sotto il
portico; e nella pagina successiva, l’estate dopo, nella posizione che ormai gli
era diventata abituale, sdraiato ai miei piedi ogni volta che mi sedevo, con
una zampa appoggiata sulla mia caviglia in atteggiamento protettivo.
A parte i cani che vivono con me ora, non ne ho amati altri quanto ho
amato Coco. Il suo nome assurdo era l’unica cosa ridicola in lui. Era così
intelligente che stare con lui era come stare con un compagno della nostra
stessa razza insolitamente piacevole, supponendo che sia possibile trovare un
tale compagno che, oltre a essere piacevole, sia anche devoto in modo totale,
affettuoso e non sempre pronto a criticare. Era utile quanto bello, addestrato
a portar pacchi con ogni cautela, a tirare carrettini, ad andar da solo a
prendere il latte tutte le mattine e a portarlo a casa senza rovesciarne una
goccia. Due volte alla settimana, poi, in compagnia del concierge,1 saliva su
per la montagna al paese più vicino e riportava le nostre provviste e le sue,
tenendo in bocca il pacco della carne cruda per lui, e non sognandosi mai,
per quanto affamato fosse, di farne altro che portarla a casa alla cuoca e
aspettare che gli venisse presentata, come impongono le buone maniere, in
un piatto. A dire il vero si comportava sempre come se fosse conscio della
magnificenza del suo aspetto e della necessità di mantenersi all’altezza, grazie
a maniere perfette, del suo estremo splendore esteriore. E sapeva quanto lo
amavo. Non credo che potesse mai essere stato amato così tanto prima; e
anche questo accresceva il suo dignitoso, modesto orgoglio.
56
Coco
57
Coco in atteggiamento protettivo
«Il ne lui manque que la parole»2 diceva il concierge che, anche lui, lo
adorava.
Insomma, io non riesco proprio a immaginare come chiunque viva con un
cane intelligente e devoto possa mai sentirsi solo. Avevo temuto di sentirmi
sola in quel posto assolutamente solitario quando i ragazzi, dopo le vacanze,
fossero tornati a scuola; era l’unico dubbio che avevo avuto quando m’ero
chiesta se era saggio costruire il nostro nido su una montagna. L’idea era che
la villa funzionasse da casa delle vacanze per i ragazzi, dove potessero portare
i loro amici a sciare in inverno e a far gite in estate, e io, negli intervalli tra
quei periodi radiosi, avrei lavorato tranquillamente a scrivere quei racconti
che erano ormai diventati la nostra fonte principale di sostentamento. Questa
era stata l’idea. Ma, man mano che il primo periodo di vacanza si avvicinava
al termine, dentro di me pensavo a come sarebbe stato; nutrivo dei seri dubbi
quando alla fine di settembre vidi l’ultimo sventolio di fazzoletti dal treno che
si allontanava e gli girai le spalle arrampicandomi su per la lunga strada piena
di curve verso casa, quella strada infinita, tre ore ininterrotte di lenta, faticosa
salita, da sola. Dopo una vita trascorsa continuamente in compagnia, dopo i
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tè nel Devonshire e lo Schloss3 in Pomerania così densamente abitato e,
prima di quello, la mia costante Mademoiselle e, prima di lei, una balia con il
dono dell’ubiquità che si chiamava, con un’aura di inesplicabile mistero, Da
Hooleran; dopo tutto ciò, mi sarebbero piaciuti il silenzio, il vuoto, i giorni
che scorrono via uno dopo l’altro senza alcun cambiamento, se non quelli del
tempo e del budino per la cena?
Ma avevo dimenticato Coco. Eccolo lì, quando scesi dalla carrozza a nolo
nel punto in cui la strada fa una svolta per raggiungere il paese su in cima e si
deve fare a piedi l’ultimo pezzetto, che mi stava aspettando con il concierge,
tutto festante, pronto a portare qualsiasi pacco avessi con me; e in compagnia
di quel caro cane mi addentrai nei campi di crocus autunnali, attraverso i cui
petali traslucidi il sole al tramonto stava calando obliquo, rassicurata e
contenta.
Ottobre fu incredibilmente bello lassù. Il tempo fu splendido fin quasi alla
fine del mese. La gran valle giù in basso nuotava in una delicata nebbiolina, i
pendii di un verde brillante in alto erano accesi di sgargianti ciliegi; e il
Weisshorn, il principale vanto della Svizzera dopo il Monte Bianco,
torreggiava, scintillante e maestoso, davanti alla finestra della mia camera da
letto.
Iniziò per me una piacevole vita di routine, di quiete mattine passate a
lavorare indisturbata – perché non si può essere disturbati se non c’è nessuno
tranne un cane che si comporta estremamente bene –, di pranzi fuori, sotto il
portico, con l’intera catena delle montagne intorno al Sempione a corona
dell’immenso quadro che potevo rimirare tra un boccone e l’altro, di lunghe
camminate nei pomeriggi in compagnia di Coco – «C’est un ours! C’est un
ours!»4 gridavano i bambini che c’incontravano –, di serate passate a leggere
accanto al camino, lui allungato davanti al fuoco, il suo gran corpo che
debordava dal tappeto. Poi arrivava l’ora dell’ultima visitina al terrazzo prima
di metterlo a cuccia, fuori dalla stanza illuminata dal fuoco direttamente nella
vasta notte, la vasta, stupenda notte, trafitta da stelle lucenti, assalita
tutt’intorno da montagne con le cime innevate, tra le quali la nostra piccola
casa era come sospesa per le ciglia a metà strada con il cielo; e, lontano sotto
di noi, nella valle, le luci della cittadina che tremolavano e danzavano, quasi
brillassero attraverso acqua in movimento.
Ogni notte Coco e io uscivamo a immergerci in questa maestosità prima di
andare a letto, vivendo (almeno, io vivevo, mentre lui stava seduto eretto a
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guardarmi) momenti di recueillement.5 Questa parola è tanto difficile da
scrivere quanto da tradurre ma indica esattamente lo stato in cui, ogni notte,
trascorrevo i miei ultimi momenti di veglia. Il concierge, sua moglie e la
jeune fille, come loro definivano sempre la cameriera, dormivano ormai da
parecchio, e Coco e io avevamo il mondo intero, così sembrava in quel
sublime silenzio, in quella purezza inviolata, tutto per noi.
Momenti stupefacenti e benedetti. E io che avevo avuto paura di poter
essere sola! Sola? Fu lì, nella prima completa solitudine che avessi mai
sperimentato, che incominciai a intuire che ciò che si chiama solitudine è ciò
che io amo di più, perché com’era possibile non accorgersi che quelle erano
le settimane più felici della mia vita, per quel che fino allora avevo vissuto?
Parecchie e parecchie volte ero stata felice in precedenza, se non
ininterrottamente – ma chi è felice ininterrottamente? – purtuttavia in sprazzi
prolungati e magnifici; ma lì c’era un aspetto di questa felicità che fino a quel
momento non conoscevo, «come un senso sublime d’alcunché interfuso
assai più profondamente»,6 come disse Wordsworth. Non c’è davvero
nessuno capace come Wordsworth di descrivere certi stati d’animo quasi
indescrivibili. In quelle condizioni, dunque, di rapito recueillement, di
fusione con non so che d’universale e d’eterno, trascorsi ogni notte prima
d’andare a letto, fino a quando arrivò la neve. Arrivò del tutto
all’improvviso. Il maltempo dapprima minacciò appena e poi esplose.
Adesso vedremo, pensavo, guardando attraverso le finestre scarabocchiate di
neve la furia che si scatenava fuori, adesso vedremo quanto riesco a
sopportare di stare qui da sola.
Ma anche allora, dopo il primo ansioso stupore per il nostro stato di
completo isolamento, durante quella bufera preliminare, in una casa diventata
improvvisamente buia, mi sentii contenta. Tanto per cominciare, Coco era
palesemente esultante per quanto stava succedendo. Era ciò a cui era abituato;
era precisamente per quello che gli era stato dato quel magnifico folto
mantello; e il concierge, sua moglie e la jeune fille, essendoci abituati tutti
quanti anche loro, se non arrivarono proprio a rallegrarsi di quei giorni di
reclusione li presero come un fatto normale.
«Voilà l’hiver »,7 m’informarono, in caso non me ne fossi accorta; ma
presto, aggiunsero, sarebbe di nuovo arrivato le beau temps.8
Nel frattempo, se non fosse stato per Coco, suppongo che avrei trovato
dura la buia, rumorosa solitudine, quando giorno e notte l’intero universo
sembrava risolversi in un mugghio; e talvolta mentre al culmine di una bufera
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di vento, rannicchiata accanto al fuoco, mi chiedevo quanto ancora avrebbe
potuto reggere il tetto, ammetto che solo la mia mano sulla sua testa e la
percezione della sua zampa gentile sul mio piede mi davano coraggio. Senza
di lui sarebbe benissimo potuto succedere che nel giro di poche settimane di
una situazione simile mi sarei ritrovata a far ricorso alla forza d’animo; e
perciò raccomando a quelle persone di entrambi i sessi, ma principalmente,
sembrerebbe, del mio, il cui coraggio tende a vacillare se restano sole a
lungo, che hanno una certa qual paura alla sera se non c’è nessuno con cui
parlare, cui non piace spegnere le luci e salire silenziosamente in una solitaria
camera da letto, che sono ricche d’affetto e non hanno niente cui legarlo, che
desiderano ardentemente essere amate e, per una qualche ragione, non lo
sono, raccomanderei a tutte costoro di andare, diciamo, da Harrods, a
comprare un cane. Là, impazienti in fila, troveranno una scelta d’amici che
aspettano solo che gli si dia la possibilità di allietare e proteggere. Senza
chiedere nulla in cambio e, qualsiasi cosa capiti, senza mai brontolare, senza
mai arrabbiarsi, senza mai giudicare; e nessun peccato commesso nei loro
confronti sarà troppo grave per un perdono immediato e gioioso. Santi, in
effetti. E santi allegri per giunta, il che è, credo, importante. E per quanto
numerosi, senza dubbio, siano i nostri santi umani e degni di essere esaltati,
sarebbe difficile trovare tra loro un santo più completo di un buon cane.
Perciò, con le parole di una poesia in cui mi sono imbattuta l’altro giorno e
che mi ha procurato un gran piacere, io alzo
Il mio calice a tutti i Bravi Cani.
A nessuna razza particolare, a nessuna speciale discendenza
Di vincitori di premi con tanto di certificato; solo ai semplici,
Buoni Cani Senza-Pedigree…
Brindo a code che si agitano e a occhi onesti,
Al coraggio e agli atti di lealtà su cui non si è stati tanto a pensare
Il cui valore mai sarà noto o cantato.
E una mattina svegliandomi trovai che le beau temps era di nuovo tornato:
innegabilmente beau, anche se diverso da quello in cui m’ero crogiolata
prima.
Non c’era spazio, in quel mondo bianco e gelato, per crogiolarsi. Ora,
quando uscivamo ed entravamo, Coco e io passavamo tra alti cumuli di neve,
sotto ghiaccioli che pendevano come una frangia di lance lucenti che ogni
giorno diventavano più grosse, lungo le grondaie della casa. Ora la luce che
scendeva dal cielo splendente e che era riflessa dalla neve scintillante, era
così intensa che dovevo usare gli occhiali da sole. Ora da nessuna parte si
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vedevano più sentieri e il concierge, quando andava a prendere le provviste,
le andava a prendere in sci. Ora nei brevi pomeriggi, invece di andare a far
passeggiate con Coco, io mi trascinavo e lui, in una frenesia di gioia, veniva
avanti a balzi accanto a me, sollevando sbuffi di neve farinosa mentre
correva. Ora le gonne erano impossibili e bisognava toglierle; perfino la
jeune fille, nei giorni in cui usciva, spuntava fuori in pantaloni. Ora fummo
colti da una tale allegria, da una tale voglia di vivere, che ogni volta che
qualcuno incontrava lo sguardo di un altro entrambi si aprivano subito ad
ampi sorrisi; mentre il cibo, il puro e semplice atto di mangiare, divenne una
delle cose più deliziose e importanti del mondo.
In breve, godevamo di buona salute, e quindi eravamo felici e
presumibilmente saggi. Sembrava che il sole penetrasse direttamente nei
nostri corpi purificati e in armonia. L’aria pura e sottile ci faceva sentir
leggeri come se avessimo avuto le ali. In casa cantavamo e fuori ci
lanciavamo a capofitto nello spazio con sci e slittini. Perfino la jeune fille
cantava e si lanciava a capofitto. Perfino – e questo c’era meno da
aspettarselo – il concierge dal volto grave, e la sua pingue moglie. La prima
volta che vidi la pingue moglie sugli sci tremai per lei, erano degli aggeggi
così esili per reggere tutta quella mole; ma lei saettò via, sicura come
chiunque altro di se stessa e degli sci, scomparendo al di là del dosso
innevato come un grosso, grasso, goffo, e purtuttavia abile, uccello.
«Se solo, solo rimanesse così per le vacanze di Natale! Se solo, solo i
ragazzi potessero goderne anche loro! » dicevo tra me, e alla fine lo volgevo
in una specie di preghiera.
Tutto rimase proprio così e loro poterono goderne con me, e credo che
avremmo passato il Natale più bello della nostra vita se non fosse stato per
un’unica cosa.
Quell’unica cosa erano gli ospiti.
Gli ospiti possono essere, e spesso sono, piacevolissimi, ma non
bisognerebbe mai permettergli di avere il sopravvento. Da quel momento in
poi, fino a quando a marzo il tempo si guastò mettendo fine ad arrivi e
partenze, o piuttosto agli arrivi, perché le partenze divennero presto un fatto
trascurabile, essi ebbero il sopravvento. E nel farne menzione non sto
lasciandomi andare all’autobiografia, dimenticando che ciò di cui in realtà sto
scrivendo sono i cani, perché fu proprio l’atteggiamento di Coco nei loro
confronti il motivo della loro comparsa in queste pagine. Se devo scrivere di
Coco, devo anche scrivere degli ospiti. Altrimenti, come tante altre cose,
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sarebbero passati sotto silenzio.
Fu così, tanto per incominciare, che arrivarono a quell’angolo di pace che
era la mia casetta.
Avevo cinque figli, e ogni figlio avrebbe dovuto invitare, se voleva, due
amici per le vacanze di Natale. Questa era stata la mia promessa nei giorni in
cui, piena di entusiasmo, avevo dato inizio alla costruzione della casa, ed era
tuttora mia intenzione mantenerla rigorosamente. Ma due amici ciascuno
facevano tutti insieme dieci amici, cosicché, coi miei cinque, ci sarebbero
stati quindici ragazzi in casa. Non sarebbero stati un po’ troppi?
Il dubbio, a mano a mano che le vacanze si avvicinavano, incominciò a
insinuarsi in me. Non il dubbio che non ci fosse abbastanza spazio, perché la
casa era stata progettata tenendo conto dei probabili numerosi amici dei
ragazzi che sarebbero arrivati per le vacanze. Non era questo ciò che temevo;
era il numero dei ragazzi, con me unica adulta.
Presto le apprensioni si affollarono nella mia mente. Cosa sarebbe
successo se con quell’aria tonificante, eccitante, i ragazzi fossero diventati
tonificati ed eccitati anche loro? Quindici che se ne vanno in giro tonificati ed
eccitati, e io unica adulta. E quando gli arrivi erano ormai davvero imminenti,
imminenti al punto che c’erano già quindici letti pronti e la prima cena, che
includeva un piatto di sessanta meringues à la crème, era già stata ordinata,
io mi persi d’animo e invitai con un telegramma un ospite mio. Tanto per
spalleggiarmi. Tanto per bilanciare gli ospiti dei ragazzi.
Era una persona attempata, alquanto simile al Darkling Thrush di Hardy,
gracile, sparuto e piccolino, scelto tra i miei amici per le sue abitudini
assennate. Sentivo che sarebbe bastata la sua semplice presenza a domare ciò
che a quel punto ero sicura sarebbe stata una folla schiamazzante e turbolenta
di piccoli vandali. E lui arrivò. E le sue abitudini, nel giro di poche ore,
divennero dissennate. E fin dall’inizio non sembrò per niente attempato come
era sembrato giù in pianura.
Quello, lo scoprii in seguito, era l’effetto che invariabilmente provocavano
la casa, i dintorni e l’aria tonificante. La gente arrivava irrigidita dagli anni,
appesantita dall’esperienza e in pochi giorni non solo tutti si erano scordati di
aver mai avuto problemi o cose come i reumatismi, ma si comportavano in
modo quasi spiacevolmente rinvigorito. L’altitudine, l’aria, la luminosità
producevano alcuni strani effetti. Divenne, in seguito, luogo comune sulla
vita lassù sostenere che la piccola casa di legno vibrasse d’emozioni. Lì c’era
sempre qualcuno alle prese con emozioni, ed erano emozioni violente, perché
tutto in quel posto era esagerato. Le lacrime, quand’erano versate, non erano
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versate a gocce ma a fiumi; l’ammirazione era immediata ed eccessiva; la
devozione prendeva piede facilmente e diventava in fretta smodata; mentre le
avversioni, o perfino gli odi, erano feroci.
Suppongo che fosse perché tutti quanti ci sentivamo così tanto rinvigoriti.
E credo, anche, che il fatto di essere tagliati fuori dal mondo e buttati in
compagnia l’uno dell’altro in modo così totale come accadde agli abitanti
dell’Arca di Noè quando si arenò sulla cima del monte Ararat, avesse la sua
importanza. Comunque, gli ospiti, afferrando acriticamente al volo la materia
che trovavano a portata di mano, ne traevano con entusiasmo il massimo
vantaggio, diventando così creature diverse.
Il mio primo ospite, per esempio, invitato per via della sua nota
assennatezza, già al secondo giorno mostrava segni di rinvigorimento. Questi
segni comparvero dapprima a colazione e incominciarono con un vigoroso
stropiccio di mani e una calorosa pacca sulle spalle dei ragazzi che gli stavano
più vicini, ed essendo una tale pacca, come io ben sapevo, estranea alla sua
natura, lo guardai sorpresa.
Poi, quando i ragazzi si furono turbolentemente precipitati fuori della
stanza, e lui e io rimanemmo soli con i croissants e la caffettiera, lui mi
chiese, con una nota di giovialità nella voce che fino allora non mi era stata
familiare, di dirgli, in via strettamente confidenziale e con l’assoluta garanzia
che la cosa non sarebbe andata oltre, chi mi aiutava a scrivere i miei racconti.
Ciò mi confuse le idee. E mi ritrovai ancor più confusa per quello che
disse subito dopo; avendo chiesto su quale racconto lavorassi in quel
momento, e avendo io risposto, con riluttanza e con tono di scusa perché giù
in pianura mi era sembrato uomo di saldi princìpi, che ero molto spiacente
ma temevo che si trattasse di un adulterio, lui esclamò, con raccapricciante
entusiasmo: «Il più bello sport che ci sia al mondo!».
Che razza di ospite, mi chiesi turbata, era mai questo per una vedova, unica
protettrice di una schiera di orfani?
Ma il peggio doveva ancora venire; molto presto, invece di aiutarmi con i
ragazzini in fermento, smise perfino di fingere di interessarsi a loro e
incominciò, con mio grande sgomento, a concentrare la sua attenzione su di
me. In altre parole, smise di essere solo un ospite e si tramutò in un
corteggiatore.
So che questi sono argomenti delicati, e se non fosse stato per Coco, che lo
incoraggiava, non li toccherei. So anche che l’altitudine faceva la sua parte.
In pianura lui non aveva mai mostrato la benché minima intenzione di
corteggiarmi, ma l’altitudine gli era andata alla testa, e forse anche il fatto che
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non c’era nessun altro, se non i ragazzi, con cui parlare.
Queste vicende sono il trastullo del caso e della circostanza. Un uomo è
convinto d’immaginare che gli piace una qualche particolare persona dalla
più piccola inezia, dal più insignificante caso fortuito, talvolta relativo
proprio al luogo o al tempo. Ma dandosi il caso e l’occasione, e il posto e il
tempo essendo così travolgentemente rinvigorenti, incominciò quello che in
realtà si può solo definire come corteggiamento, e io, completamente fuori
sintonia con tali ringiovanimenti, incominciai a sottrarmi, a squagliarmela e a
star lontano, mentre Coco, invece di ringhiare e mostrargli i denti, era tutto
dalla sua parte.
Non riesco a capirlo Coco. Non ho mai capito l’atteggiamento di Coco nei
confronti dei corteggiatori. Era impossibile che ognuno di loro – ben presto
ce ne furono uno o due altri, essendo le condizioni quelle che erano –, era
impossibile che ognuno di loro fosse l’uomo giusto per me e che Coco lo
sapesse d’istinto. D’istinto non sapeva niente del genere, come risultò; lui
dava il benvenuto a tutti con la stessa generosa espansività. È curioso come
quel cane sapesse riconoscere un corteggiatore non appena gli posava gli
occhi addosso, scegliendolo tra i non corteggiatori, che non degnava neppure
di uno sguardo, e registrandolo come uno cui dedicare immediata attenzione
e incoraggiamento. Molto tempo prima che io avessi la benché minima idea
che ce n’era uno nei paraggi, e spesso, ne sono sicura, prima che il
corteggiatore stesso lo sapesse, Coco era pieno di attenzioni per lui. Alla fine
diventavo nervosa solo a vedere che incominciava a scodinzolare.
Ma comunque, per ritornare al mio primo corteggiatore, mi rovinò le
vacanze di Natale, perché non c’è niente, suppongo, che sconcerti tanto
quanto essere fatti oggetto di caccia ostinata quando non lo si vuole; a meno
che, forse, lo sia il non essere fatti oggetto di caccia ostinata quando lo si
vuole. Una gran quantità di tempo prezioso andò perduto in fughe, in astuzie,
in azioni tese a stornare, il tutto reso più difficile da Coco, che si muoveva
irrequieto e alla fine prese addirittura a uggiolare ogni volta che lui e io
eravamo al sicuro nella mia camera da letto o eravamo riusciti a scappare
dietro qualche insospettato angolo. Divenne presto evidente che Coco non
voleva scappare. La sua idea sembrava essere che noi tre avremmo dovuto
rimanere uniti; e dal momento che non è un gran conforto avere un cane che
si muove irrequieto quando è da solo con una persona soltanto, e non è
neanche un gran conforto avere un ospite che si muove irrequieto quando
non è da solo con una persona soltanto, fu per me un periodo spiacevole.
La bellissima mattina in cui lui se ne andò, la bellissima, felice mattina in
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cui lui se ne andò unverrichtete Dinge,9 come dice un’eloquente espressione
tedesca, mi guardai attorno rimirando le opere di Dio, con indicibile gioia
ritrovata. Mi sembrava di essere stata separata da loro così a lungo. Mi
sembrava di essere andata brancolando così a lungo tra emozioni non
condivise, che è perfino peggio, credo, che brancolare tra emozioni
condivise, sebbene entrambe le situazioni tendano in fin dei conti a risultare
infruttuose. Me ne stavo là sulla terrazza, dopo aver debitamente salutato con
sventolii di mano, e mi sentivo come convalescente, finalmente senza febbre,
pervasa da una gran pace. L’ampia vallata traboccante di luce, il Weisshorn e
il Rothorn e la cerchia attorno al Sempione che la cingevano in un anello
smagliante, non erano mai stati più belli. C’era nell’aria una nuova
freschezza, una nuova purezza. Avrebbe potuto essere la prima mattina nel
paradiso terrestre, tanto era bella e incontaminata. Dietro di me le finestre
della casa erano tutte spalancate, e a una di quelle finestre la jeune fille stava
cantando a pieni polmoni, mentre sbatteva materasso e coperte di colui che se
n’era appena andato. Dalla cucina si diffondeva un superbo profumo di
stufato che stava cuocendo per un picnic – lui aveva sempre rifiutato
cortesemente i picnic – e quando fu pronto, Coco, restituito al suo vero
essere, mi aiutò a portare il cestino colmo di ghiottonerie fino al posto dove i
ragazzi e io avevamo deciso di mangiare, su per i pendii innevati, seduti sugli
slittini al sole.
Tesori di ragazzi. Caro cane. Preziosa libertà. Adorabile mondo.
Questo fu l’effetto su di me della partenza del mio primo ospite.
Ma non vorrei che si pensasse che sono rustica e selvatica. Mi piace
credere che il mio impulso naturale mi spinge all’ospitalità. Di sicuro mentre
lui era lì diedi le disposizioni per i pasti con la massima cura e tirai fuori le
bottiglie di vino con tale solerzia che alla fine non ne era rimasta neanche una
e dovemmo ripiegare sulla limonata. Ma quando le cose finiscono in generale
si prova, credo, un senso di sollievo. Per quanto gradevoli possano essere
state finché sono durate, è anche piacevole rilassarsi, riadagiarsi nella propria
dimessa normalità vissuta in pantofole. E ciò è particolarmente vero quando
è un corteggiatore ad andarsene, perché i corteggiatori, dopo tutto, sono una
bella fatica. Anche se sono del genere cui uno non porge orecchio, finché
girano lì intorno bisogna darsi, come dire, un’arricciatina in più ai baffi, e ciò
significa fatica e fatica significa tempo.
Io avevo fatto malvolentieri la fatica; avevo speso malvolentieri il tempo; e
ogni sera quando andavo a dormire, ripensandoci, mi accorgevo di essermi
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presa malvolentieri la pena per apparire, a cena, in quelle che speravo fossero
le mie condizioni migliori. Eppure la fatica era stata fatta, il tempo era stato
speso e m’ero presa quella pena vergognosa. Che razza di vecchia Eva era
mai quella, mi chiedevo, che stava venendo fuori in me?
Fortunatamente non sto scrivendo un’autobiografia e non ho quindi
bisogno di addentrarmi in questo argomento.
In breve, finite le vacanze, Coco e io fummo di nuovo soli, e ancora una
volta riprendemmo a vivere insieme con quel sentimento che da parte mia era
di sicuro piacere e da parte sua sembrava esserlo.
Dico che sembrava esserlo perché, per quanto nessun altro cane al mondo
potesse mostrarsi più contento di avermi tutta per sé, tuttavia c’erano dei
momenti in cui lo sorprendevo ad annusare la porta della stanza in cui aveva
dormito il mio ultimo ospite. E l’annusava con aria malinconica. E quando lo
chiamavo per farlo venir via, se ne allontanava riluttante.
C’era forse in quell’uomo, incominciai a chiedermi, qualcosa di
straordinario valore, proprio il tipo di cosa che Coco sapeva mi sarebbe
piaciuta? Dicono che i cani sanno sempre per istinto; e io ero propensa a
crederlo, e vagamente mi trastullavo con la non spiacevole idea che con tutta
probabilità avevo perso un buon marito finché arrivarono su altri ospiti, e dal
modo in cui Coco si precipitò immediatamente su alcuni di loro, scegliendoli
all’istante quali oggetto di attenzioni quasi assillanti, seppi che non poteva
esserci niente di vero in quel modo di dire. Non potevano possedere tutti
quanti proprio quelle qualità che mi sarebbero piaciute. I cani non sapevano.
I cani facevano errori madornali. Era semplicemente per una questione di
altitudine e perché eravamo tagliati fuori dal mondo che gli ospiti
sviluppavano la tendenza a fare ciò che, se ci fosse un verbo corrispondente
al sostantivo cascamorto, tale verbo esprimerebbe.
Questi nuovi ospiti mi erano piovuti addosso perché non sono capace a
dire di no, non su due piedi, voglio dire, non al momento giusto, quello
critico. Datemi tempo, e sono capace di dirlo come ogni donna, ma
telefonatemi e dirò di sì assolutamente a tutto.
Mi telefonarono; e come risultato divennero quasi subito ospiti. Sembrava
che avessero incontrato l’ultimo mio ospite a Ginevra, dove era andato dopo
avermi lasciata, e poiché Ginevra si trova in pianura, situata com’è sulle rive
di un lago, là, sembra, si era riavuto in fretta dagli inebrianti scintillii delle
mie montagne e ora guardava alle cose nelle loro giuste proporzioni.
Queste giuste proporzioni lo avevano senza dubbio condotto a riconoscere
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che l’aveva scampata bella, e nella sua gratitudine non c’era limite alle lodi
per la mia casa e per tutto ciò che c’era dentro. Io ero, sembrava che così
avesse detto ai miei amici – se amici si possono chiamare persone incontrate
occasionalmente a Londra – la perfetta padrona di casa. C’era un cane che ti
mostrava un’amicizia incantevole, quasi sconcertante. La servitù era quanto
mai pittoresca. Il cibo assolutamente straordinario. Insomma, era un posto in
cui recarsi in visita senza esitazioni se mai uno era stanco o depresso o se mai
stava diventando vecchio.
Ammaliata all’altro capo del telefono, io ascoltavo tutti questi encomi.
Dato che ero al telefono, non avevo la calma sufficiente per analizzarli
minutamente. Quando più tardi ci pensai su, non potei fare a meno di trovarli
sospetti. Quel discorso del cibo, per esempio, e del cane sconcertante.
Quell’uomo invece di restituirmi bene per male come avevo creduto in un
primo momento, stava forse soltanto vendicandosi? Aveva certo tutta l’aria
di una vendetta scaricarmi addosso altri quattro ospiti.
Nel frattempo, al telefono, poiché questi ospiti, che ancora non erano
ospiti ma lo sarebbero diventati presto, stavano spiegando che si sentivano
stanchi e depressi e che almeno uno di loro stava diventando vecchio, io dissi
di sì a tutto quanto. Avevano progettato, dissero, di passare il resto
dell’inverno a Roma, e avevano pensato che sarebbe stata una bella idea
interrompere il viaggio e fermarsi alla stazione ferroviaria nella valle e fare
un salto a trovarmi. Restare a pranzo, forse. O, se fosse stato troppo lontano
per venire solo per pranzo, forse per una notte. O anche, visto che una notte
in più non faceva una gran differenza, per uno splendido week-end. A tutto
questo, poiché tale era la mia natura quando avevo a che fare con il telefono,
mi sentii rispondere entusiasticamente: «Oh, ma che bello!».
Così interruppero il loro viaggio a tre ore da Ginevra e arrivarono in
blocco alla mia porta. La ragione per cui arrivarono in blocco è che si trattava
di una famiglia, madre, figlia e due figli; e Coco, cosa che mi turbò, si
precipitò immediatamente a dare il benvenuto ai due figli.
Di lì incominciarono non un week-end – perché una volta arrivati rimasero
–, ma intere settimane di vita in totale disaccordo con la maestosa quiete
dell’ambiente che ci circondava. C’erano le montagne tutt’attorno a noi che ci
proponevano un esempio di nobile imperturbabilità, e noi non ne tenevamo
minimamente conto. La mia piccola casa era in fermento. La madre, che era
quella che stava diventando vecchia, incominciò all’improvviso, in modo
piuttosto raccapricciante, a diventare giovane. La figlia, che era quella che
tendeva a essere stanca e depressa, la mattina dopo a colazione era in vena di
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lacrime. I due figli, disgraziatamente di quell’età, come Coco aveva intuito
all’istante, in cui piacciono le donne più vecchie, non persero tempo, non
essendoci nessun’altra a portata di mano, a votarsi a me. Si precipitavano a
raccogliere le cose che lasciavo cadere. Mi portavano via le cose che ancora
avevo in mano. Facevano a gara tra di loro a leggermi poesie in angoletti
appartati. Pendevano dalle mie labbra e ridevano per mostrare apprezzamento
ogni volta che aprivo bocca, certe volte perfino prima che l’aprissi, cosa che
facilmente inaridisce le fonti della conversazione.
Giovanotti di questo tipo ne esistono, ed è un peccato, perché sono
davvero deleteri per le donne più vecchie, che a proprio rischio e pericolo
danno retta alle loro voci flautate. Credo che sarebbero stati deleteri anche
per me se li avessi presi seriamente, ma non ero ancora proprio tanto vecchia
da farlo, e l’unica mia reazione alla loro devozione fu che ne ero irritata.
Ero davvero molto irritata. Mi irritava scoprire che se alla quota della casa
si limitavano a covare sotto la cenere bastava portarli a fare una gita un
centinaio di metri più in alto, e quelli esplodevano. Mi irritava vedere la
madre e la sorella che subito si facevano vigili; e mi irritava forse più di tutto
assistere al comportamento di Coco, assistere ai suoi sfacciati tentativi di
promuovere dei têtes-à-têtes.
Aveva l’imbarazzante abitudine di correre da me ai due giovanotti, e dai
giovanotti di nuovo a me, scodinzolando frenetico e scrutando ansiosamente
i nostri volti, abbaiando se non gli badavamo e arrivando addirittura a tirarci
per le maniche. E la madre diceva: «Che strano cane è mai questo. Verrebbe
perfino da pensare…».
Ma s’interrompeva. Già alla seconda settimana della loro visita
c’interrompevamo in continuazione, nelle conversazioni.
Vorrei che tutte le coppie fossero accuratamente appaiate a seconda degli
anni, i quarantenni con i quarantenni e i ventenni con i ventenni. Se i
quarantenni, come talvolta succede, non si curassero degli altri quarantenni e
desiderassero frequentare i ventenni, nel loro stesso interesse dovrebbero
esserne scoraggiati; e ugualmente dovrebbero essere scoraggiati i ventenni
che, con l’inesperienza della loro età, supponessero di poter essere
durevolmente felici con i quarantenni.
Per fortuna nella mia casa non c’era nessuno, a quell’epoca, disposto ad
ascoltare i canti ammaliatori della giovinezza e si sarebbe quindi pensato che
tutti avremmo potuto essere piuttosto felici insieme. Ma non lo eravamo.
Credo che fosse perché godevamo di una salute troppo buona. L’eccessivo
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benessere fisico porta facilmente con sé turbe psicologiche; quando si
scoppia di salute sembra si debba per forza amare o combattere. I miei nuovi
ospiti, non avendo, date le circostanze, nessuno da amare, incominciarono a
combattere, e poiché lassù non si faceva mai niente a metà, dopo essersi
divertiti con veemenza nei primi giorni, incominciarono con altrettanta
veemenza a non divertirsi: i figli perché tutti gli sforzi di Coco per portare me
e loro insieme riuscivano soltanto ad allargare quella che ben presto divenne
una frattura tra di noi, la madre e la figlia perché percepivano questa frattura
e non gli piaceva, per quanto gli sarebbe piaciuto ancor meno se non ci fosse
stata.
Questa tensione non li spinse tuttavia ad andarsene. Al contrario, li spinse
a rimanere; perché in loro si era sviluppata quella tendenza a mettere in
chiaro le cose che, presto o tardi, è destinata a venir fuori nelle persone
troppo piene di vigore che non sono capaci di staccarsi l’una dall’altra; ed era
evidente che finché non avessero messo in chiaro le cose non avevano
nessuna intenzione di partire per Roma. La madre voleva chiarire le cose con
i figli, e la figlia con i fratelli. E tutti quanti, temevo, volevano chiarire le cose
con me, perché non potevo fare a meno di sapere che una delle ragioni del
loro desiderio di dare e ricevere spiegazioni ero proprio io. Non l’unica
ragione, ma una sì. Ce n’erano altre, come i biglietti ferroviari. In quell’aria
inebriante quasi ogni cosa serviva a risvegliare le passioni e non vorrei
considerarmi troppo importante. L’unica differenza tra me e i biglietti era che
di quelli discutevano apertamente mentre di me no. Per discutere di me,
andavano in camera da letto e chiudevano le porte; e io, rimasta sola dopo il
tè – non succedeva mai niente durante il giorno, perché eravamo sempre in
movimento fuori all’aperto, per di più separati dagli sci – io, dunque, rimasta
sola in sala con Coco, e sapendo quello che stava succedendo di sopra, mi
irritavo.
«Gerald, vieni in camera mia un minuto. Voglio dirti una cosa»,
incominciava la madre; e un attimo dopo la figlia si portava via l’altro
fratello, pronunciando esattamente la medesima frase, tranne che era rivolta a
Gilbert. E poiché la casa era di legno e i pavimenti sottili, talvolta, seduta
tranquilla accanto al fuoco sola con Coco, non potevo non udire, quando
alzavano la voce, spezzoni delle loro discussioni, del tipo, Cinque figli, o –
particolarmente seccante perché non era ancora vero – Deve aver
quarant’anni suonati.
Allora mi alzavo, prendevo la pelliccia dall’attaccapanni, chiamavo
ostentatamente con un fischio Coco e uscivo con lui nella notte, passando per
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la piccola abetaia dietro casa sulla neve che scricchiolava sotto il mio passo
fino a una roccia che conoscevo; e là mi sedevo e guardavo le stelle che
spuntavano nel cielo verde pallido, e cercavo conforto nell’immensità
indifferente e silenziosa.
Chiarezza e limpidezza senz’ombra di macchia,
Limpidezza divina…
mormoravo. Sì, quello era ciò di cui c’era bisogno, mi dicevo, continuando a
essere irritata, ma incominciando a vergognarmene un poco in quella gelida
purezza, in quell’immobilità di ghiaccio, con tutti i ruscelletti dell’estate
serrati muti tra le rocce.
Spuntava un’altra stella, facendomi l’occhiolino da sopra il fianco candido
del Rothorn. Intorno a me si ergevano le montagne, meravigliosi esempi di
pace…
Un mondo al di sopra della testa dell’uomo, perché veda
Quanto potrebbero essere sconfinati gli orizzonti della sua anima…
ed eccomi lì, a prendermela perché i miei ospiti se ne andavano in camera da
letto a dirsi che io avevo cinque figli. Beh, li avevo. Non poteva esserci
niente di più vero.
Quanto vasti, eppure di che chiara trasparenza…
e a prendermela perché avevano detto che avevo quarant’anni, che di sicuro
prima o poi avrei avuto, se continuavo a vivere di quel passo.
Quanto sarebbe bello stare lì ed essere liberi…
Il fatto era, riflettevo, gli occhi che poggiavano sui pendii luccicanti del
Weisshorn, che stavamo sempre tutti troppo insieme, e il fatto che i miei
ospiti appartenessero a un’unica famiglia peggiorava quella vicinanza. Il
rimedio, mi balenò alla mente all’improvviso, stava nel non sprecare la mia
serenità nel vano desiderio che i miei ospiti se ne andassero ma nell’invitarne
degli altri. Che non fossero parenti tra loro. Ospiti di un altro sangue. E per la
prima volta mi accorsi che se si desidera essere liberi e nello stesso tempo
rimanere ospitali, quelli che servono non sono pochi ospiti, ma tanti.
Spalancare le porte. Riempire la casa fino all’orlo. A quel punto saranno
tanto impegnati l’uno con l’altro da non aver più tempo per la padrona di
casa, che potrà procedere in pace col suo prossimo libro.
Al che mi alzai in piedi:
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Quanto il far che si compia un destino favorevole
È lasciato ancora ad ogni uomo!
osservai, rivolgendomi trionfante alle solenni montagne; e tornata di corsa a
casa con Coco incominciai immediatamente a scrivere lettere e a mandare
telegrammi.
Non essendo questa un’autobiografia, non è necessario che io mi addentri
più di tanto in ciò che accadde dopo, perché tutto ciò che Coco fece nelle
settimane successive – ed è in effetti di lui che sto scrivendo – fu sbadigliare.
Basti perciò dire che, avendo procurato ai giovanotti le ragazze adatte a loro,
e alla sorella qualcuno che non era suo fratello e alla madre il padre di
qualcun altro, tutti si comportarono come avevo sperato, tranne il padre.
A quanto pare, con lui avevo commesso un errore; lo avevo infatti
condotto da colei che pensavo fosse il suo naturale complemento, ma lui
mostrò uno scarso desiderio di mettersi tranquillo con lei, e dopo poco,
guardando fuori dalla finestra, disse che pensava di andare a sgranchirsi un
po’ le gambe e scomparve dietro le ragazze.
Ciò sconvolse i miei piani. La madre sciando si era procurata uno
stiramento a un tendine ed era costretta a stare in casa a riposo per un giorno
o due, e io avevo pensato che lui, un uomo che aveva passato la sessantina,
avrebbe avuto piacere di tenerle compagnia e starsene seduto tranquillo a
chiacchierare. Il che mi avrebbe lasciata libera.
Ma mi ero dimenticata l’aria tonificante. Inoltre era una di quelle persone
cui non piacciono i coetanei, specialmente i coetanei avvolti in bende. La
madre, necessariamente, era fasciata, con un piede per il momento hors de
combat10 e sollevato ben alto sui cuscini del divano su cui era costretta a star
sdraiata. Ma che è mai un piede rispetto a tutto il resto di una persona? Niente
di ciò che le era successo fuori sciando interferiva con la sua attività mentale.
La sua anima, il suo spirito, tutte quelle parti di un individuo che sono
giustamente considerate preziose, erano pronte come sempre ai rapporti
umani. Temo che il mio nuovo ospite non desse grande importanza a questo
tipo di rapporti. La corrispondenza mentale non gli interessava. Quello che
gli piaceva era la gioventù cui andava dietro sfrontatamente, rovinando,
come mi raccontarono più tardi le ragazze, le loro gite su in montagna,
perché, per quanto tonificato potesse essere, era pur sempre più vecchio di
loro e in salita rimaneva indietro e in discesa non faceva che lamentarsi.
Il risultato del suo non voler stare a casa con i matusa – credo che
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quell’uomo considerasse sia me che la madre dei matusa, e naturalmente in
confronto alle ragazze, che avevano tutte meno di vent’anni, è possibile che
noi sembrassimo tali, per quanto duro sia guardare in faccia questa realtà –, il
risultato del suo non voler stare con persone che rispondevano a tale
descrizione, fu che non rimaneva nessuno a tener compagnia alla mia ospite
azzoppata, tranne me.
Questo fu un esito tanto inatteso quanto disgraziato. Invece di essere più
libera perché avevo invitato altri ospiti, lo ero di meno. Ma cosa potevo
farci? Il mio senso d’umanità e anche quello dell’ospitalità esigevano che io
non lasciassi un’ospite prostrata e contusa. Così me ne stavo seduta lì, un’ora
dopo l’altra – ore che non passavano mai – conservando, spero,
un’apparenza cortese mentre i miei pensieri indugiavano disperatamente
intorno a quello che avrei altrimenti potuto fare con tanto piacere.
Coco stava con noi e sbadigliava. Aveva perso ogni interesse per i due figli
da quando loro avevano perso interesse per me, e fin dall’inizio non aveva
dimostrato interesse per nessuno degli altri ospiti maschili. Adesso era
annoiato. Non riusciva a capire perché dovesse starsene dentro in mattinate
così belle e perché io non andassi a sciare come al solito, mentre lui mi
sfrecciava accanto lungo i pendii. Sbadigliava di continuo, in modo
smisurato, la grande testa rovesciata all’indietro e la bocca rossa
completamente spalancata, facendo tutti i versi che fanno i vecchi quando
sbadigliano e ormai non si preoccupano più di quello che gli altri pensano di
loro.
Quel cane era lo sbadigliatore più stupefacente che avessi mai visto.
Impossibile non farsi contagiare dai suoi sbadigli, e quindi eravamo in tre a
sbadigliare. All’inizio erano sbadigli educatamente aggraziati, soffocati, del
tutto diversi dagli ignobili abbandoni di Coco, e la madre ogni volta si
metteva con garbo la mano davanti alla bocca, e quando aveva finito con
tono di scusa diceva: «Davvero, non so proprio cosa mi succede questa
mattina». Ma, dopo un po’, sbadigliava e basta. Alla fine sbadigliavamo tutt’e
due apertamente, senza tentare in nessun modo di nasconderlo.
E quello era un altro curioso effetto dovuto al fatto di vivere a
quell’altitudine: perdevamo ogni decenza. Intendo naturalmente non la
decenza di base, perché da quella solo la morte ci avrebbe separato, ma gli
aspetti marginali, quelli se n’erano andati. Quello sbadiglio scoperto, senza
neanche una mano o qualcos’altro a nasconderlo, ne è un esempio. E ci
sarebbero altri esempi che potrei fare se stessi scrivendo un’autobiografia;
ma, forse per fortuna, dal momento che non lo sto facendo, non ce n’è
73
bisogno.
Non fu che all’inizio di marzo che il tempo si guastò in montagna, e finché
rimase bello anche i miei ospiti rimasero. Non gli stessi, ma un ospite, come
avevo ormai imparato, ne porta un altro; e di ritorno ai loro uffici o alle loro
cattedrali – per dieci giorni avevo accolto in casa un canonico onorario –, di
ritorno, dico, ai luoghi donde erano venuti, i miei recenti ospiti, che
spiccavano tra le folle pallide d’Inghilterra per la loro abbronzatura,
descrivevano entusiasticamente ciò che avevano fatto, e a chi ascoltava
veniva l’acquolina in bocca.
Lo so dai risultati che era così. Un numero sempre crescente di conoscenze
mi scriveva lettere toccanti, dicendomi quanto avrebbe avuto voglia di un po’
d’aria pura, quanto me la invidiavano, e che miserabile condizione fosse mai
la loro, tanto in cattive acque da non poter andare quell’anno a Saint-Moritz.
E poiché, come ho già spiegato, non sono capace a dire di no quando sono
colta di sorpresa, e neanche, ho scoperto, quando si fa appello alla mia buona
natura – è così lusinghiero essere considerati persone d’indole gentile! – ogni
volta risposi dicendo: «Venite». E poi sentivo che avere solo per me e Coco
quello chalet così spazioso e con tutti quei bagni, con un tempo sempre così
cristallino mentre la gente a Londra era sommersa dalla pioggia o soffocata
dalla nebbia, aveva tutta l’aria di essere un’infamia.
Perciò la mia casa non era mai vuota. Anzi, dato che se ne andavano in
pochi e arrivavano in molti, finì per traboccare di ospiti, e, tranne che per il
fatto che non c’erano conti da pagare, alla fine sembrava proprio un albergo.
Un luogo di soggiorno sulla cresta dell’onda, effettivamente. Se fossi stata
citata nel Baedeker, penso proprio che avrei avuto tre stelle.
Tre stelle, tuttavia, o ciò che rappresentano, sono costose, e ben presto
scoprii che stavo diventando povera. Avevo cominciato la mia carriera di
anfitrione – una carriera del tutto nuova per me, perché in Pomerania non
avevamo ospiti – in uno spirito di ingenua spensieratezza, senza far conti. Se
mai in qualche modo ci pensavo, supponevo, largheggiando, che ciò che
basta per uno bastasse per due e che più è la gente cui si dà da mangiare e
meno costa. Erano supposizioni sbagliate. Potrebbero risultare vere per un
albergatore, e certo gli alberghi sembrano in grado di accogliere una persona
in più per un costo minore in proporzione, per così dire, al fatto che è una in
più, ma non sono vere per una persona come me. E man mano che lo
scoprivo, mi facevo a tratti pensierosa.
Al sabato, quando pagavo i conti della settimana, ero pensierosa al punto
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da non riuscire, conversando a tavola con i miei ospiti, a mostrare neanche
un poco di quella che vien meglio descritta come verve, e questo, lo so, era
riprovevole. Una padrona di casa, se deve fare il suo dovere con
soddisfazione dei propri ospiti, dovrebbe essere in uno stato costante di
verve. Almeno quand’è con loro, dovrebbe essere quella la sua condizione.
Che si accasci pure, se accasciarsi deve, nella sua camera da letto, ma che in
loro presenza dia prova, infaticabilmente, di verve.
Al sabato non avevo verve. Sedevo a capotavola svuotata di tutto tranne
che di inquietudine, con l’occhio che rifletteva ancora un barlume di
ospitalità – assomigliavo sempre più a Mrs Todgers – vitreo e l’altro in cui si
riverberavano i conti che brillava di una luce innaturale. Per quanto ancora,
mi chiedevo, sarei stata in grado di offrir budini con ogni sorta di
prodigalità? Quanto mancava ancora al giorno in cui i pranzi sarebbero
terminati, bruscamente e ignominiosamente, con noci e nient’altro? E quelle
cameriere – alcune mie ospiti, che avevano bisogno di esser ricomposte con
particolare attenzione, si erano portate la cameriera – erano, pareva, creature
incontrollabili in cucina, per quanto mansuete potessero sembrare quando nei
corridoi le incrociavo che si stringevano educatamente contro la parete. E la
guardia del corpo – uno dei miei ospiti era costretto dal governo ad avere una
guardia del corpo che lo seguiva sempre dovunque andasse, perché si era
all’inizio del 1914 e le suffragette gli stavano dietro – a giudicare dai conti,
produceva dei vuoti davvero spaventosi nel whisky.
Perciò, in quei sabati, me ne stavo seduta pensierosa, incapace di ostentare
neppure una parvenza di verve; e non so che cosa sarebbe successo, a quale
meschina riduzione del livello di comfort mi sarei abbassata nella mia
inquietudine, o a quali picchi di schietta franchezza avrei potuto, per la
medesima ragione, assurgere, spiegando ai miei ospiti che sarebbe stata una
bella cosa se se ne fossero andati via subito e mi avessero lasciato finire un
altro libro, se la mia attenzione non fosse stata bruscamente sviata e attratta
da qualcosa di completamente diverso.
Questo qualcosa era un nuovo ospite. Non era stato invitato, ma, con un
qualche pretesto, che in seguito mi accorsi che era piuttosto debole,
semplicemente arrivò.
Verrebbe da pensare che, preoccupata com’ero dei budini e di tutto
quanto, avessi abbastanza da fare a badare agli ospiti che avevo già, senza
accoglierne un altro. E così pensavo anch’io, ma quello era diverso; perché
quello che si era arrampicato lentamente sul sentiero coperto di ghiaccio fino
alla mia porta, scivolando ogni due passi, non era tanto un altro ospite ma il
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Fato. E al proprio fato non si può sfuggire.
Non credo che fato sia una bella parola. Penso che faccia rabbrividire e
venire i sudori freddi. Eppure non c’era niente di tutto ciò nel benvenuto che
gli diede Coco quando il fato aprì la porta ed entrò, né, devo riconoscere, ci
fu niente del genere da parte mia. È vero che provai la sensazione, insolita
subito dopo colazione, di essere nelle mani di Dio, ma a parte ciò non
avvertii nessun particolare senso di disagio. Né mi venne in mente, fino a
qualche tempo dopo, che l’unica altra volta in vita mia in cui avevo provato
quella sensazione era stato quando mi stavo vestendo per andare al
ricevimento in Italia al quale avevo incontrato il mio primo marito. È un
senso di vuoto allo stomaco. Forse i mariti non mi sono mai andati a genio.
Seduta, dunque, dietro una pila di conti della casa perché era sabato, ero
sola con Coco che sbadigliava. Conosceva quelle mattine e le detestava
quanto me. Gli altri se n’erano usciti tutti al sole con cibo e sci, e non
sarebbero tornati che al tramonto. Gli sembrava dura, era evidente dalla sua
espressione, mentre seduto sconsolato di fronte a me mi sbadigliava in faccia,
che lui e io dovessimo stare chiusi in casa in una così sfolgorante giornata
d’inverno. Ma non sapeva quanto fosse imminente l’eccitazione. Fino a che i
passi che strisciavano ogni minuto più vicini non ebbero superato il fianco
della montagna, nemmeno lui li poteva sentire, e fu solo quando
incominciarono ad arrampicarsi su per il pendio verso casa che s’interruppe
nel mezzo di uno sbadiglio, rizzò le orecchie, s’irrigidì attento e poi si
precipitò alla porta. Ciò che sentiva, ciò incontro a cui era corso, era il Fato
che si stava avvicinando. Il mio, e, indirettamente, il suo.
La porta si apriva direttamente dal portico nel soggiorno dove, riscaldati
sia dall’impianto che da un enorme fuoco di legna, passavamo la maggior
parte del nostro tempo, e Coco, dopo aver annusato con aria rapita la fessura
sotto quella porta, esplose in una serie di brevi, giubilanti latrati. Lo
conoscevo quel modo di abbaiare. Conoscevo anche quella particolare estasi
della sua coda. Tutto quello che faceva mi era ormai familiare; e non mi
restava che concludere che da qualche parte, molto vicino, doveva esserci un
altro corteggiatore.
Sedevo passiva, guardando Coco. Un altro corteggiatore. Non ce n’erano
più stati dopo il canonico onorario, e avevo pensato che ormai fossero finiti.
Arriva un momento, mi ero detta, non del tutto sicura se ne ero contenta o
meno, in cui i corteggiatori finiscono, e forse non era uno nuovo quello che
stava arrivando, ma era il primo di tutti che tornava, l’amico che avevo
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chiamato a darmi una mano con i ragazzi a Natale. Tornava per vedere come
stavo. Magari tornava per sapere se ero stata contenta dei quattro ospiti che
mi aveva mandato e farsi una bella risata alle mie spalle.
In questo, comunque, gli facevo torto. Era un uomo molto più simpatico di
quanto non pensassi. Aveva mandato giù subito quel po’ di rabbia che aveva
potuto provare e insieme qualsiasi desiderio piccino di farmela pagare; non
era meschino, nel mio intimo lo sapevo, e risultò vero che ovunque egli fosse
in quel momento, ancora a Ginevra o di ritorno in Inghilterra, certamente
non stava arrampicandosi su per il sentiero scivoloso di neve che conduceva
alla mia porta.
Qualcuno c’era, però. Perfino io potevo sentire che c’era qualcuno, e
qualcuno che suscitava in Coco aspettative ancora più eccitanti di quanto
avessi mai visto. Perché? mi chiedevo, con le mani giunte, il capo chino,
tutto il mio atteggiamento inconsciamente disponibile, e rassegnato, al Fato.
La risposta, sebbene allora solo Coco lo sapesse, era che quello non era un
normale corteggiatore, dapprima una fiammella tremolante, poi un bagliore
scintillante, e alla fine un fuocherello che muore per mancanza di
alimentazione, ma uno che sarebbe presto diventato un marito; e nell’attimo
in cui la porta si aprì e una testa si sporse dentro, lui corse a dargli un
benvenuto degno di un arrivo tanto importante.
Era pieno di attenzioni per lui, infatti. «Entra, entra… oh, entra! Questa è
la nostra casa, ma d’ora in avanti è tua, con tutto ciò che c’è dentro» era il
messaggio che sembrava volesse trasmettergli appassionatamente con salti,
leccate, scodinzolii e alti, gioiosi latrati.
Quanto a me, non mi mossi. Mi sentivo troppo gravata da quella strana
sensazione di essere nelle mani di Dio per fare altro che star seduta. E il
nuovo arrivato, mentre con una mano si asciugava la fronte e con l’altra
teneva lontano l’eccitato Coco, disse: «Dovrebbe far sistemare il sentiero».
E io, immobile sulla seggiola, alzando appena la testa china, già
sprofondata nella remissività, a mia volta dissi: «Il sentiero?».
E lui sentenziò: «Cenere. Ecco cosa ci vuole».
Queste furono le sue prime parole. Ripensandoci, le riconosco come
caratteristiche; ma visto che questa non è un’autobiografia, non c’è bisogno
che mi ci soffermi. Tutto ciò che devo spiegare è che si trattava di un uomo
che avevo incontrato una volta o due a Londra nel periodo in cui costruivo la
mia casa in montagna, e poiché ho la tendenza a distribuire inviti
estremamente cordiali quando il momento in cui si realizzeranno sembra
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ancora remoto, gli avevo proposto, dando senza dubbio l’impressione di
proporlo con calore, di venire a farmi visita non appena fosse finita.
Ora era finita e lui era venuto; a fare una scappata, aveva detto, mentre era
diretto non so più dove. Ma la mia casa non era sulla strada per nessun posto,
e si capì presto che lui sapeva che non lo era, e che il suo bagaglio stava
aspettando su una slitta appena dietro l’angolo, giusto nel caso che,
commentò lui giovialmente, procedendo con il suo piano ben congegnato, gli
avessi chiesto di rimanere. Perché lui ce l’aveva un piano, mi disse in
seguito, ed era consapevole quanto Coco del fatto d’essere un corteggiatore.
Ciò che ancora non sapeva – e Coco invece sì – era che dal ruolo di
corteggiatore sarebbe passato presto a quello di marito. Questo dipendeva,
comunque, da me (anche se sembra strano pensare che ci fosse qualcosa che
dovesse dipendere da me) e io, piena di un senso – che mi dava un grande
svantaggio – di inevitabilità, di predestinazione, entrai senza lottare nei
preliminari attraverso cui ciò si sarebbe compiuto.
«Ma certo che deve restare», confermai con fatale ospitalità, facendo
inconsciamente il primo passo.
Indossava un paio di stivali di gomma con il gambale in tessuto in cui era
infilato il fondo dei pantaloni, e una camicia bianca inamidata. Attraverso il
panciotto pendeva la catena d’oro di un orologio. Non aveva l’aspetto di un
uomo fatto per andare in montagna o che avesse alcuna intenzione di andarci.
Se ci stava, era chiaro fin da allora che sarebbe rimasto in casa. Forse
occasionalmente due passi in terrazza al sole, ma se ne sarebbe rimasto
soprattutto a sedere dentro. E io sarei stata seduta con lui. E insieme, seduti,
sebbene nessuno dei due lo sapesse ancora, saremmo avanzati entrambi
verso il nostro Fato.
La casa era praticamente piena. Ed era completamente piena di emozioni,
perché alle emozioni ormai invalse si aggiungevano quelle che si stavano
manifestando in colui che si era appena unito a noi. In quel periodo le cose
non andavano troppo bene con il gioco delle coppie. C’erano stati degli
scambi e, lo capivo, si stavano verificando episodi di infedeltà, che di solito
sono seguiti da crisi di sconforto da parte di qualcuno, e con quell’aria forte e
sottile lo sconforto facilmente diventa rabbia. Metà dei miei ospiti erano
quindi furiosi, gli altri per la maggior parte sembravano distratti e incerti,
mentre solo pochi se ne andavano in giro soddisfatti.
Era quindi piacevole avere un nuovo arrivato che non sapeva nulla delle
inquietudini di quel luogo e che se ne stava seduto a fumarsi la pipa
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distaccato e tranquillo, dispensando sorrisi a tutti, in attesa del momento
opportuno. Non sapevo che ciò che stava facendo era aspettare il momento
opportuno; in quell’atmosfera instabile, pensavo a lui unicamente come a una
solida, rincuorante roccia. Un uomo riposante, mi dicevo; un uomo che dà
affidamento, gentile, semplice, riposante. E così pieno di buonsenso, tra il
resto, a proposito di quella cenere: avevo fatto come lui mi aveva indicato, e
il sentiero di casa adesso era nero invece che bianco, e, anche se non era per
niente bello a vedersi, era confortante sapere che lui poteva camminarci su e
giù senza scivolare.
Un po’ per volta la mia preoccupazione principale divenne badare che lui
non scivolasse, che si sentisse al sicuro e a suo agio sia dentro che fuori casa,
che avesse sempre la seggiola che gli piaceva, che a tavola il cibo fosse
sempre secondo i suoi gusti, che risultarono vertere sostanzialmente sulla
coscia di montone. Non so spiegare il mio comportamento. Mai prima
d’allora avevo provato alcun desiderio di servire, di obbedire, di stare a testa
china e con le mani giunte, di essere, come dire, l’ancella del signore. Ma fin
dall’inizio io fui mite e docile, disponibile a cedere senza lottare, sopraffatta
da quella strana sensazione delle mani di Dio.
Gli altri ospiti stavano a guardare sorpresi. Era ovvio che lui mi
corteggiava, ed era altrettanto ovvio che non stavo facendo niente per
impedirlo. Non così mi ero comportata con il canonico onorario quando,
anche lui, mi corteggiava. A lui avevo opposto resistenza, mentre ora ero
malleabile come cera. Per lui non erano state sparse ceneri, né avevo posto
molta attenzione ai suoi piatti preferiti. Lui se ne era rimasto a sedere in
silenzio alla sera, facendo finta di leggere lo «Hibbert’s Journal», mentre io,
all’estremità opposta della stanza, un po’ a disagio, stavo con gli altri, briosa
e vivace.
Il mio comportamento, adesso, era completamente diverso ed era naturale
che quegli ospiti che avevano vissuto la vicenda del canonico onorario
osservassero con interesse questo cambiamento. Presero a lasciare me e il
nuovo arrivato da soli, con modi che si possono solo definire marcati. Se
aprivano una porta e ci trovavano lì, la richiudevano in fretta e se ne
andavano. Ce ne stavamo seduti in disparte, con Coco molto fiero e felice tra
noi due, e la sera, quando era inevitabile che il soggiorno fosse invaso da
tutti quanti, gli altri si accalcavano pieni di tatto nell’angolo più distante.
«Vede come sentono che lei appartiene a me?» commentava il mio
corteggiatore; aggiungendo senza mutar tono, perché era uno che pensava
che quasi tutte le cose avessero la medesima importanza, con la mano
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appoggiata sulla testa di Coco, «dovrebbe dare carne di cavallo a questo
cane, cruda a tocchetti».
«Chiarezza e limpidezza senz’ombra di macchia», mormoravo io ancora
una volta sentendolo parlare così; ma in che contesto diverso… E
incominciavo, sinistramente, a dirmi che una vedova era soltanto una donna
a metà.
A questo punto, se non stessi scrivendo di cani, potrei dire due parole sulle
vedove. Sono molte le riflessioni che esse hanno suscitato nella mia mente da
quando sono diventata vedova per la seconda volta. Non c’è niente ch’io non
sappia di loro; e la cosa che so con maggior chiarezza è che, lungi dall’essere
una donna a metà, una vedova è l’unico esempio completo del suo sesso.
Insomma, l’articolo finito.
Ma sono i cani l’argomento che ho scelto, e ai cani voglio tornare – a
Coco, il cane di quel particolare periodo. Se non fosse stato per il suo
comportamento i preliminari al mio secondo matrimonio sarebbero passati
sotto silenzio. Ma non posso non parlarne quando quel cane faceva tanto
rumore. La sua gioia esuberante riempiva la casa. Sembrava quasi che lui si
fosse sentito la responsabilità di prendersi cura di me che ero sola e fosse
strafelice che qualcuno si accingesse a dividerla con lui. Si comportava
comunque come se la situazione fosse quella e apparentemente non gli venne
mai in mente che lui e io stavamo bene così com’eravamo.
Devo dire che talvolta veniva a me da pensarlo, quando, per esempio, di
notte, libera dal peso di una compagnia costante, ero maggiormente in grado
di riflettere. Allora quella sensazione di vuoto allo stomaco mi assaliva di
nuovo e l’unico modo di scacciarla era ricordare l’entusiasmo di Coco. «I
cani lo sentono sempre», rassicuravo la mia mente inquieta, scegliendo
deliberatamente di dimenticare quanto poco questo cane avesse capito in altre
occasioni, perché si ha pur bisogno di farsi un po’ di coraggio in qualche
modo. Forse, però, non è un buon segno quando chi sta prendendo in
considerazione il matrimonio sente il bisogno di farsi coraggio.
Quasi senza esitazione, dunque, avanzai verso, diciamo, il mio destino,
poiché davvero non credo che la parola fato sia molto bella. Quando il tempo
si guastò e gli ospiti, incluso il mio corteggiatore, volarono via come foglie
sospinte da una folata prima della tempesta verso la valle e il rassicurante
riparo dei treni, io ero ormai nelle sue grinfie, o diciamo nelle vicinanze,
poiché credo che neanche grinfie sia una gran bella parola. Eppure anche
così, per quanto acquiescente io fossi alla situazione in cui m’ero messa,
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provavo un enorme sollievo nell’essere di nuovo sola, come tirare un
profondo respiro, una sensazione di un qualcosa almeno per un po’ rinviato,
poiché ancora non mi era venuta in mente la parola scampato.
Dalla terrazza spazzata dal vento Coco e io guardavamo gli ospiti,
compreso il mio corteggiatore, che se ne andavano, le orecchie di Coco
spinte in aria dalle raffiche e i lembi della mia sciarpa di lana che sbattevano
selvaggiamente. Suppongo che i nostri due profili contro il cielo di quella
mattinata grigia sembrassero quanto mai derelitti a coloro che si
allontanavano giù lungo il sentiero. Dietro di noi c’era la casa vuota, dietro
quella la fiancata, malinconica col brutto tempo, di una parete rocciosa, sopra
c’erano le nuvole che incalzavano, e tutt’intorno gli alberi erano squassati e
piegati dal vento. Sì, dovevamo proprio sembrare una coppia derelitta, e
immagino che i miei ex ospiti pensassero: «Povera creatura».
Come si sbagliavano! Non ero per niente una povera creatura. Sin da
subito, tale è il sollievo quando vien tolto un peso, perfino mentre agitavo la
mano negli ultimi saluti trovai piuttosto difficile fare una faccia
adeguatamente dispiaciuta, e so che rientrai in casa, la casa silenziosa, la casa
deliziosamente vuota, con un passo così vivace che quasi correvo.
Il fatto è, e non serve negarlo, che le pause sono piacevoli. Qualsiasi
pausa. E la pausa che uno spasimante lascia è talvolta la più piacevole di
tutte. Si ha assoluta necessità, dopo la prolungata compagnia di uno
spasimante o di altri, ma specialmente dopo quella di uno spasimante, di
tonificarsi e rinnovarsi, e lo si può fare davvero bene solo in una pausa.
Perciò non potevo che benedire quella che mi si profilava davanti in quel
momento. Mi sentivo il cuore leggero. Dopo essere stata sommersa tanto a
lungo, avevo la sensazione di stare finalmente riemergendo. Dopo essere
stata così a lungo schiacciata, mi sembrava finalmente di espandermi fino a
ritrovare la mia misura normale. E la prima cosa che feci rientrando nella
spaziosa casa vuota, fu di suonare il campanello, dire alla jeune fille di finirsi
lei in cucina il solito cosciotto di montone e ordinarle un uovo in camicia per
cena.
Queste sono sensazioni piacevoli; ma non il tipo di sensazioni che
dovrebbe provare chi sta pensando di risposarsi. Un po’ per volta mi fu
chiaro che non lo erano e che la soddisfazione che provavo nello stare da
sola era un segno, incontestabile, che essendo diventata vedova avrei dovuto
rimanerlo. Altrimenti perché, dopo il primo naturale sollievo che, insisto,
segue qualsiasi partenza, non sentivo maggiormente la mancanza del mio
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corteggiatore? Non poteva essere amore quello che trovava tanto
appagamento nell’assenza dell’amante. Allora lo sospettavo ma adesso lo so,
perché dopo, nella mia vita, ci sono stati momenti in cui alcune persone mi
sono mancate in modo così intenso da non poter star lontano neanche dal
posto dove erano stati appesi i loro cappotti, e andavo addirittura ad
accarezzare il gancio a cui di solito attaccavano il cappello. Me ne stavo là,
aggrappata a quei ganci indifferenti, contando desolatamente le ore, i giorni,
le settimane come se fossi in lutto. A quest’ora ieri eravamo ancora
insieme… a quest’ora la settimana scorsa… a quest’ora un mese fa… Cose
del genere.
Ma adesso era solo Coco che faceva visite in memoria, andando ad
annusare dov’erano stati appesi i cappotti, grattando alla porta della camera
in cui aveva dormito il mio corteggiatore, mentre io, di nuovo assorta nel
lavoro e ogni giorno più ricolma di quel senso d’armonia e di equilibrio
interiore che il lavoro mi ha sempre dato, stavo raggiungendo in fretta lo
stadio in cui mi chiedevo come avessi potuto arrivare a pensare a ulteriori
mariti. Cosa mai me ne facevo di una quantità di mariti? mi chiedevo stupita.
E poi, attenendomi strettamente alle uova in camicia per cena stavo
rimettendomi al passo con le spese e i conti del sabato non mi terrorizzavano
più. Inoltre, nel giro di poche settimane sarebbe stata Pasqua, e con essa il bel
tempo, le vacanze e i ragazzi felici; così che la vita sembrava diventare ogni
minuto più piacevole.
Quanto il far che si compia un destino favorevole
È lasciato ancora ad ogni uomo!
Sì, davvero.
Poi una sera, mentre facevo scorrere le dita sulla libreria, mi capitò di tirar
giù un volume di Goethe, e aprendolo successe che lo sguardo cadde sulla
nobile asserzione che im Wahren, Guten, Schönen resolut zu leben 11 era
l’unica linea di condotta degna d’esser assunta.
Ciò risolse la questione. Quelle semplici parole mi avevano avvinta. Così
avrei vissuto io, votata alla vedovanza,… una vedova, giurai tenendo il libro
stretto al petto, memore dei passati doni del cielo e di tutte le gentilezze e la
benevolenza ricevute nella sua lontana casa in Pomerania, una vedova intenta
solo a innalzare un degno monumento a colui che aveva perduto, seguendo,
con tutto il cuore, il consiglio del suo grande compatriota.
Chiaramente tutto ciò non includeva un altro consorte, perché chi può
innalzare un monumento a un marito mentre medita sull’idea di prenderne un
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altro? Una condotta del genere sarebbe stata come minimo priva di tatto e
probabilmente qualcosa di molto peggio; perciò, prima di incominciare a
innalzare, a costruire, a consacrare, pensai che avrei dovuto scrivere al mio
corteggiatore e spiegargli.
Lo feci la sera stessa. Fino a quel momento avevo ricevuto diverse lettere
da lui, e da ognuna trapelava la calma sicurezza, il placido dar per scontato
che avevano contribuito in modo così determinante a ridurmi in uno stato di
arrendevole acquiescenza quando lui era presente di persona, e io gli avevo
risposto in termini evasivi, parlandogli soprattutto del tempo. Ora, però, se
intendevo seguire le grandiose orme di Goethe, evidentemente la prima cosa
che dovevo fare era di essere resolut col mio corteggiatore, e gli scrissi e gli
dissi, nel modo più gentile possibile, che tutto sommato sentivo – è
l’educazione che fa sì che uno sembri meno fermo di quanto sia in realtà –
che il mio motto avrebbe dovuto essere «una volta vedova vedova per
sempre», sospettando, come sospettavo, di non avere un vero e proprio dono
per lo stato coniugale, o, più precisamente, per le repliche dello stato
coniugale, e che, nel complesso, considerando la questione sotto tutti i punti
di vista e mettendo una cosa assieme all’altra, in generale pensavo fosse
meglio, dopo una certa età, non cambiare una situazione soddisfacente.
Come risposta ricevetti una lettera che mi chiedeva di definire
l’espressione soddisfacente.
Non ne ero capace. Non sono mai stata molto brava a definire, e cercare di
farlo in questo caso mi avrebbe trascinata, lo sentivo, a gettare delle ombre
sulla memoria di colui che avevo perduto; così, lasciando da parte la
questione delle vedove, gli scrissi dicendogli di Goethe e della condotta di
vita raccomandata da quell’uomo grande e saggio, una condotta che,
comunque per me, non includeva altri mariti.
Nell’ansia di farmi capire e infervorandomi nel mio compito, spiegai che
non esistevano due persone che volessero essere resolut nei riguardi della
stessa cosa nello stesso momento: ciò che fosse sembrato wahr e gut e schön
a uno di loro, poteva non sembrare per niente wahr e gut e schön all’altro,
specialmente se l’altro non aveva dormito o non gli era piaciuta la cena. Ma
la pura e semplice parola resolut, dissi, mi aveva messo dentro forza come
fosse stata una trasfusione di sangue, e ora vedevo con chiarezza dove si
dovevano trovare le gioie vere, e che il Wahre per me era il lavoro e il Gut
erano i miei figli e lo Schöne consisteva nel dedicarmi risolutamente a queste
cose. Speravo, dissi, che mi augurasse buona fortuna, proprio come gliela
auguravo io. Gli auguravo, dissi, ogni possibile felicità, con qualcuno molto
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più meritevole di quanto non fossi io. E terminai firmandomi sua amica
sincera, che l’avrebbe sempre ricordato con la più viva simpatia e affetto.
Era una bellissima lettera, pensavo. L’unica cosa che tralasciai fu di
offrirgli di essere per lui una sorella, perché, in quel momento, non mi venne
in mente. Ma anche così pensavo fosse una bellissima lettera, e devo
confessare che rimasi sorpresa e ferita quando tutto quello che ricevetti come
risposta fu una cartolina.
Quando fossi andata a Londra, asseriva brevemente la cartolina, ne
avremmo parlato.
Quando io fossi andata a Londra? Ma io non avevo nessuna intenzione di
andare a Londra, risposi, anch’io con una cartolina, perché due, mi dissi con
legittima indignazione, possono scriversi delle cartoline.
Poi ci fu silenzio. Bene, pensavo, a mano a mano che i giorni passavano e
Coco andava a prendere le lettere e nella borsa non ce n’era mai una di colui
che avevo supposto mi adorasse. All’inizio temevo che questo significasse
che ci sarebbe stata una visita a sorpresa carica di rimostranze e, presa dal
panico, pensavo dove, in tale eventualità, avrei potuto nascondermi. Ma non
c’era bisogno che mi preoccupassi; non successe niente; non venne né
scrisse.
Più tardi scoprii che stava aspettando il momento opportuno e che era
capace di aspettare il momento opportuno per tutto il tempo necessario pur di
ottenere quello che voleva; ma poiché allora non lo sapevo, e, come la
maggior parte delle donne, desideravo salvare capra e cavoli, dapprima ne fui
sorpresa, poi indignata e alla fine offesa. Quella mia lunga, affettuosa,
gentile, quell mia magnifica lettera, risponderle solo con una cartolina! È
vero che avevo voluto metter fine a quella faccenda, ma non volevo che
finisse così. E a poco a poco fui sopraffatta da un senso di desolazione, la
sensazione di essere stata abbandonata su una montagna cupa e spaventosa,
senza nessuno al mondo che mi volesse davvero bene. E in breve presi ad
andare nel posto dove di solito lui teneva appeso il cappotto, ma solo, mi
dicevo, per far venire Coco via di lì e sgridarlo perché era un cane sciocco.
Alla fine di marzo, proprio quando aprile era alle porte, le bufere
finalmente incominciarono a placarsi e trovammo le prime violette.
Dico noi, perché se Coco non ci badava più di quanto Peter Bell badasse
alle primule, fu tuttavia lui che seguendo eccitato qualche suo interesse
privato, mi trascinò verso la roccia su cui mi sedevo d’inverno quando
scappavo via dalla madre, dalla figlia e dai due figli; e lì, c’era una violetta,
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che allungava il capino fuori dalla roccia occhieggiando al sole.
Quello fu un avvenimento. Proprio come il ramoscello d’olivo nel becco
della colomba lo fu per Noè, così per me lo fu quella prima violetta. Era
rassicurante. Era la speranza. L’inverno era passato. Il buio era finito. Le
ultime tracce di neve, che ancora si nascondevano negli angolini freddi,
presto sarebbero scomparse, e davanti a noi per mesi e mesi non c’erano che
luce e incanto.
Mi sedetti a terra accanto a quel fiorellino benedetto e avrei voluto
abbracciarlo; e suppongo che chi viva a quattro passi da una serra o abbia un
fioraio dietro l’angolo la consideri una cosa ridicola, ma gli posso assicurare
che non lo era, perché ciò ch’io provavo era un’estasi quanto mai nobile che
mi portava direttamente a formulare nuovi voti. Proprio come la violetta si
tendeva verso il sole, così avrei fatto io verso un futuro che avrebbe dovuto
risplendere solo di cose belle e degne, verso quel resolut Leben che, per un
breve e vergognoso periodo, aveva mostrato qualche tendenza a vacillare;
perché, quando raggiunsi quel memorabile momento del ritorno della luce
dopo il buio, della primavera dopo l’inverno, ero di nuovo del tutto normale,
e così anche Coco ed entrambi avevamo ormai smesso da un pezzo ogni
malinconica annusata in memoria.
Ecco lì, dunque, la vita davanti a me sgombra di pesi inutili, pronta per
l’atto successivo e raggiante per lo scampato pericolo. Ora sapevo qual era
stata la sensazione che avevo provato la mattina in cui il mio corteggiatore se
n’era andato: non era stata la sensazione di un rinvio temporaneo, come
avevo supposto allora, ma la pura e semplice sensazione di averla scampata
bella, la stessa che prova un uccello che sfugge alla rete dell’uccellatore; e i
giorni scorrevano armoniosi con il lavoro, felici con la consapevolezza che
ognuno di essi portava più vicine le vacanze e quei cari ragazzi su cui i miei
pensieri ora potevano di nuovo riposare, liberi da quei morsi della coscienza
che li avevano turbati allorquando prestavo orecchio alle lusinghe del
corteggiamento e mi dicevo delle stupidaggini sulle vedove che sarebbero
solo donne a metà.
Donna a metà? Nessuno poteva sentirsi meno di me la metà di una
qualsiasi cosa quando trovai la violetta e lodai Dio; o quando, una settimana
dopo, perfettamente compenetrata di amor materno scesi piena di gioia alla
stazione nella valle per accogliere la mia nidiata e portarla su al sicuro nella
casa che, da quel momento in avanti, doveva essere consacrata
esclusivamente al suo benessere e alla sua felicità.
Da quel momento in avanti. Sospiro e sorrido ora, dopo tanto tempo – alla
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fin fine, forse, si riesce sempre a sorridere – ricordando quel fiducioso da
quel momento in avanti. Non ci sarebbe stato nessun da quel momento in
avanti di quel tipo fin da subito dopo quelle vacanze. Coco non sarebbe più
venuto ad aspettarci nel luogo dove scendevamo dalla carrozza, ansioso di
portare qualsiasi pacco avessimo in mano, abbaiandoci il suo benvenuto
molto prima che la nostra vettura che s’arrampicava lenta avesse svoltato
l’ultima curva. Quell’entusiastico ritorno a casa per Pasqua, con tutti noi che
parlavamo contemporaneamente a voce più alta possibile mentre
attraversavamo i prati, cercandoci la strada tra le chiazze di neve mezza
sciolta, una ragazzina per ogni mano, gli altri che mi si stringevano più vicini
che potevano e un cane maestoso che camminava fiero davanti a tutti
tenendo in bocca la più preziosa delle borse, non si sarebbero ripetuti. Fu una
fortuna dunque essere così, aver riempito quelle ultime vacanze di così tanta
felicità, non esserci preoccupati che facesse freddo e che il terreno fosse
ancora ghiacciato e che l’inverno continuasse a infuriare con improvvise
tempeste di neve e neanche che, nonostante fosse Pasqua e nonostante fosse
aprile, non ci fossero foglie.
Che cosa c’importava? Perché mai noi, che eravamo così felici di essere di
nuovo insieme, avremmo dovuto preoccuparci di cose come le foglie? E
come se quel posto fosse stato pieno di foglie, noi mangiavamo fuori,
comportandoci ostinatamente come se fosse primavera davvero e limitandoci
a ridere quando un vento impetuoso e tagliente strappava via i tovaglioli dai
piatti e li faceva volar giù per la montagna in un’allegra baldoria.
Una buona cosa che fossimo così felici; e una buona cosa, anche che,
ricordando le mie recenti preoccupazioni a proposito dei conti, avessi
suggerito ai ragazzi di non portare più di un amico per uno in quelle vacanze,
perché così, essendo un gruppetto facilmente manovrabile, avevamo più
occasioni di stare insieme che non se gli amici fossero stati dieci. Fu una
buona cosa quella e anche che fossimo così spensierati e irresponsabili,
gustando ogni minuto di ogni giorno; perché quella era la Pasqua del 1914,
l’ultima Pasqua del vecchio, sereno mondo e la nostra ultima, e anche la
nostra prima, Pasqua insieme da ragazzi in quella piccola casa che avevo
costruito per la felicità.
Dico insieme da ragazzi, perché, volgendomi indietro, mi accorgo che
anch’io fino allora ero stata una di loro.
È una confessione dolorosa da farsi, perché nessuno ha più di me una
cattiva opinione di quel modo infantile di comportarsi che hanno certi adulti,
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ma in realtà ci volevano la Grande Guerra e un secondo marito per farmi
crescere davvero. La Grande Guerra era ancora lontana quattro mesi da
quella Pasqua e il secondo marito, che attendeva in silenzio il momento
opportuno, era ancora più lontano, quando i ragazzi e io vivevamo con
allegria quelle ultime vacanze godendo di tutto, io che mi divertivo
smodatamente quanto loro per cose come il tovagliolo che il vento mi
strappava di mano e mandava a sfarfallare giù per la montagna. La minima
cosa ci faceva ridere… anzi, più che ridere, ci faceva praticamente battere le
ali e cantare. Ci buttavamo con entusiasmo in qualsiasi divertimento ci fosse
offerto. La vita era chiara e luminosa come acqua limpida. Era un picnic, una
cosa irresponsabile – soltanto un tovagliolo fatto volar giù per il sentiero che
Coco e io cercavamo festosi di prendere, mentre i ragazzi sulla terrazza, gli
altri ragazzi, ci incoraggiavano con strilli e applausi frenetici.
Assurde, felici vacanze, all’insegna della più irragionevole allegria e di una
deliziosa insulsaggine. L’allegria sembrò continuare a riecheggiare per la casa
dopo che io rimasi di nuovo sola, come se si fosse stabilita, e per sempre,
un’abitudine di spensierata felicità. Almeno, così pensavo, e non vedevo
ragione perché, finché mi tenevo alla larga dai mariti, non dovesse essere
così.
Fu con baldanzosa fiducia, dunque, che mi rimboccai le maniche e mi misi
al lavoro, guardando alle vacanze successive, quelle lunghe, estive, e ogni
giorno uscivo a far passeggiate con Coco in uno splendore crescente di luci e
di colori. Per tutto maggio, per tutto giugno, il mondo in cui camminavo
diventò sempre più meraviglioso. Era la mia prima esperienza di prati di
montagna in fiore ed ero contenta, mentre vi camminavo in mezzo, di aver
piantato le tende proprio lì. Una dimora perfetta, mi dicevo, fermandomi
spesso e girandomi a contemplare la casa dalle persiane blu, accoccolata sul
pendio della collina, con una frangia di iris, che avevo piantato io lungo il
bordo della terrazza, che stavano appena incominciando a spuntare; non avrei
potuto scegliere di meglio per me e per i ragazzi, pensavo, guardandola con
amore. Vi avremmo passato anni felici, finché loro si fossero sposati. Da lì le
ragazze sarebbero uscite quando fosse giunta la loro stagione, una dopo
l’altra, come quattro piccole spose. E poi sarebbero venuti i placidi anni in
cui avrei fatto la nonna e con me ci sarebbero stati dei bambini piccoli invece
che dei ragazzi grandi; e sempre ogni anno ci sarebbe stato un maggio; e
sempre a tenermi compagnia ci sarebbero stati cani e libri; e sempre i libri
sarebbero stati tali da stimolare nel modo migliore possibile a im Wahren,
Guten, Schönen resolut zu leben; e per un lungo, lungo periodo di tempo i
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cani sarebbero stati Coco.
Teneri pensieri di chi è libero da preoccupazioni. Incominciarono a
dissolversi alla fine di giugno. Come nebbia che offusca la radiosità, i dubbi
li attraversarono, poi l’inquietudine e presto una vera e propria paura; e
quando, un mese più tardi, invece di far venire da me i ragazzi per l’estate,
andai io in Inghilterra da loro, carica di presentimenti e col cuore pesante,
Coco fu l’ultimo della casa che vidi.
Aveva portato la mia borsa in bocca, tenendola con cura per la cinghia,
attraverso i campi fino al punto in cui la carrozza stava aspettando sulla
strada per portarmi giù a valle. Sapeva benissimo che avevo intenzione di
lasciarlo e, pensando che forse non avrei fatto una cosa così orribile senza la
mia borsa, tentò, quando arrivò il momento, di tenersela stretta. Ma senza
accanimento. Era troppo beneducato e ammodo per frapporre sul serio degli
ostacoli ai desideri di chiunque. Presto mi permise, tenero e quieto, di
prendergliela e rimase a guardarmi senza muoversi, con gli occhi, le orecchie
tristi e la coda bassa che dicevano ciò che aveva da dire.
Così lo lasciai là, immobile sul bordo della strada vuota, a guardarmi
mentre mi allontanavo verso quelli che sarebbero stati anni di profondo
dolore, di acuta infelicità… il mio bellissimo cane, il mio amico intimo, il
mio adorante protettore, il mio cane che avevo tanto amato e di cui mi ero
presa tanta cura e che mi aveva tanto amato e si era preso tanta cura di me. E
quando lo rividi, cinque anni dopo, stava morendo.
Morte di Coco
Fu una strana cosa la morte di Coco. Non il fatto che lui morisse, perché a
causa dell’impensabile follia del concierge fu inevitabile che succedesse, ma
il modo in cui morì. Perfino a distanza di tanti anni il ricordo è angoscioso.
C’era una tempesta di neve il giorno in cui tornai, da sola, alla casa che
avevo lasciato in quel fulgido pomeriggio d’estate di cinque anni prima. Nel
frattempo era stata costruita una ferrovia su per la montagna, e quando scesi
alla stazioncina c’era soltanto il concierge ad aspettarmi: Coco, no.
Per un attimo pensai che fosse per via della tempesta di neve, ma subito mi
ricordai che era abituato fin dalla nascita a ogni tipo di tempo in montagna, e
immediatamente, perché quegli anni mi avevano insegnato la paura, chiesi:
«Coco? Dov’è?».
«Il est un peu souffrant», rispose il concierge.
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«Souffrant? Vous avez fait venir le vétérinaire?»
«Pas encore. Sachant que Madame devait arriver, j’ai attendu sa
permission».
Attendu!12 Oh pazzo, pazzo, pensai, inerpicandomi di corsa verso casa,
lottando per trovare la strada in mezzo alla tempesta, accecata dalla neve, i
piedi che scivolavano, il cuore che batteva forte per la paura.
«Ma non mi ha detto niente di tutto questo nell’ultima lettera», gridai,
fermandomi quell’unica volta, alla sagoma ricurva nello sforzo di sfidare la
tempesta dietro di me.
«Tre giorni fa stava bene», giunse la risposta, flebile contro il vento.
«Dov’è?»
«Nella sua cuccia. Non riesce a muoversi di lì».
Andai avanti lottando, inciampando, scivolando. Che stupido pazzo a non
aver chiamato immediatamente il veterinario, a non fare tutto, tutto per il mio
cane…
L’ultimo tratto prima di arrivare alla casa è su per un pendio, molto
scivoloso con la neve – caddi due volte, lunga distesa per terra –, poi ci sono
i gradini che portano alla terrazza, poi un portico e sotto il portico l’uscio di
casa.
Ansimando arrancai per l’ultimo pezzetto e da lontano incominciai, come
potevo, perché non avevo più fiato, a fischiare e a chiamare.
«Coco! Coco! – gridai. – Cane mio caro… sono tornata…»
Ma cos’era quella cosa che vedevo sotto il portico a mano a mano che mi
avvicinavo, cos’era quella cosa scura distesa sulla soglia proprio in mezzo
alla porta, che la bloccava in modo che non avrei potuto entrare senza
scavalcarla, in modo che qualsiasi cosa succedesse io fossi costretta ad
accorgermene?
Coco. In qualche modo era riuscito a venir fuori dalla sua cuccia nel retro.
Sapeva che stavo tornando a casa, sapeva che erano venuti a prendermi alla
stazione, e con l’ultimo respiro aveva fatto l’ultimo sforzo per essere di
nuovo con me, per un momento, per l’ultimo, l’ultimissimo momento.
«Coco! – sussurrai io, immobile, quasi incapace di crederci. – Oh…
Coco!»
«Non so proprio capire, – una voce dietro di me sembrava parlare da
molto lontano, – come il cane sia riuscito ad arrivare fin qui. Sono tre giorni
che non ce la fa più a muoversi dalla sua cuccia».
Caddi in ginocchio e gli presi la zampa tra le mani. Lui mosse
impercettibilmente la coda e cercò di alzare la testa; ma gli ricadde giù e poté
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solo guardarmi.
Per un istante, per l’istante più breve del mondo, ci guardammo, e mentre
ci guardavamo i suoi occhi si appannarono.
«Coco… sono tornata. Caro… non ti lascerò più…»
Non so perché dicessi queste cose. Sapevo che era morto e che nessun
richiamo, né pianto, né atto d’amore avrebbe mai più potuto raggiungerlo.
Scivolandogli accanto sulle pietre del lastricato, appoggiai la testa su di lui
e piansi sopraffatta dall’angoscia di un dolore pungente. Davvero ora mi
avevano lasciata sola al mondo. Anche il mio cane se n’era andato.
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Parte terza
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Cane numero dieci
Pincher
Ma è inutile soffermarsi sulle angosce. Ne avevo dovute affrontare molte
tra il mio primo addio a Coco, in quel pomeriggio d’estate subito prima della
guerra, e l’addio che gli avevo dato per sempre, in mezzo a una tempesta di
neve, cinque anni dopo; e dirò solo che non sapevo che così tanta sventura
potesse addensarsi tutta insieme. Ma, poiché in quegli anni non ci furono
cani, non è necessario parlarne; il che è di conforto. Chi vuole scrivere, o
ripensare ad antichi dolori? Mettili da parte; coprili di silenzio; trai gli
insegnamenti che puoi cavarne; e poi voltagli le spalle, e volgiti verso la
felicità che la vita può ancora serbarti.
Era questo il consiglio che cercavo di dare a me stessa mentre mi muovevo
con passo incerto e confuso attraverso il successivo frammento di vita. Ma i
dolori ti si attaccano addosso. Non ce ne si può liberare come se fossero
lappole che si sono appiccicate ai vestiti durante una passeggiata
pomeridiana, quando ci si ferma un momento per toglierle e poi via di
nuovo. Solo gli anni, e poi anni e anni ancora, possono alla fine cancellarli; e
se non si hanno tutti questi anni?
Pareva, comunque, che io li avessi. Io non ne volevo più, pure li ho avuti.
E ora sono contenta, perché se, come avevo desiderato talvolta in quel
periodo, l’avessi fatta finita con una consapevolezza diventata insopportabile,
se, in altre parole, fossi morta allora, non avrei mai conosciuto una quantità
di cose molto belle e piacevoli. Evidentemente, dunque, è cosa saggia non
perdere troppo presto la pazienza con la vita, ma aspettare di vedere che cosa
può serbare ancora dietro l’angolo.
Io dovetti aspettare un bel po’. Per esempio, fu solo quattro anni dopo la
morte di Coco che Pincher fece la sua comparsa; è proprio vero che se si ama
molto un cane e lo si perde, non si può tollerare l’idea di averne un altro.
Eppure l’unica soluzione efficace per curare il dolore è averne un altro (mi
dicono che questo vale anche per gli spasimanti), e quanto prima lo si fa
92
tanto meglio è.
Ma io, ostinata nel mio lutto, passai quasi cinque anni senza il semplice
conforto di un cane. Che spreco di tempo. Piaccia a Dio che non debba
succedere mai più. E credo che quella stolta astinenza sarebbe durata perfino
più a lungo se un amico perspicace, ritenendo che io avessi urgente necessità
di qualcosa e ben sapendo che non poteva trattarsi di un marito, dato che, dal
mio secondo, ero scappata via, non avesse deciso che l’oggetto in questione
doveva essere un cane, e, impacchettato Pincher, non me lo avesse mandato.
Vivevo a quel tempo in un minuscolo cottage nella New Forest, cupo e
malinconico, mi pare ora, sebbene allora lo chiamassi con un nome più
pomposo, e non veniva quasi mai nessuno su per la stradina; così quando
vidi il carro del fattorino arrestarsi al cancello del mio giardino fui sicura che
ci fosse un errore e che la cassa che subito dopo portò su per il sentiero non
potesse essere per me.
«Cane vivo», disse posandolo con cautela.
Cane vivo? Non aspettavo nessun cane vivo e gli dissi che aveva sbagliato
indirizzo.
«E lei questa, no?» bofonchiò, girando l’etichetta perché la leggessi.
«Sì, sono io quella», risposi sostenuta.
«Allora io lo lascerei uscire fuori e gli darei da bere», tagliò corto il
fattorino, accingendosi ad andarsene. «Si chiama Pincher» aggiunse,
tornando indietro a farmi notare un angolo dell’etichetta; e, salito sul suo
carro, se ne andò.
Pincher, all’udire quella conversazione, aveva incominciato a fare il
diavolo a quattro nella sua cassa, perché aveva sete e la parola bere la
conosceva bene come tutti. Chiunque l’avesse mandato e qualunque fosse la
ragione per cui era lì, era ovvio che bisognava farlo uscire e dargli
dell’acqua; così chiamai la donna che badava alle faccende di casa e aprimmo
la cassa e lo lasciammo uscire, o meglio, lui sgusciò fuori prima che
avessimo alzato il coperchio a metà; e non c’è dubbio, io sono fatta per i cani
e i cani per me, perché l’istante stesso in cui lo vidi incominciai a
rinfrancarmi.
Seduta sul pavimento, lo guardavo ammirata mentre correva tutt’intorno
alla stanza ad annusare ogni cosa e a fare amicizia persino con le seggiole. Ci
saltava sopra per saltar di nuovo giù subito dopo e andare a curiosare
com’era fatto il divano. Per finire saltò addosso a me, annusandomi i capelli
e i vestiti e dimenandosi tutto per l’eccitazione.
«Oh, sei proprio una cara, buffa creatura», risi, cercando di abbracciare
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quella palla lanosa – era un cane molto peloso – ma senza riuscirci, perché
era già di nuovo schizzato via in giro per la stanza.
Era una caratteristica di Pincher, finché non gli fu fatto quello che dirò tra
poco, schizzare sempre via. Mai ci fu cane più pieno di voglia di vivere e di
insaziabile curiosità. Non riusciva a star fermo e anche quando veniva notte,
e come tutti noi doveva andare a dormire, credo che stesse con un occhio
aperto proprio per essere sicuro di non perdere niente, proprio per essere
immediatamente pronto per qualsiasi cosa potesse capitare.
Come la prima violetta di cui ho scritto, anche lui fu foriero di una
situazione migliore, e dal momento del suo arrivo io incominciai a rinvigorire
nell’anima e nel corpo. Bisognava occuparsi dei suoi pasti e bisognava
portarlo a spasso, e ogni cosa che facevo per lui sembrava far bene anche a
me. Subito dopo il suo arrivo, ogni volta che ripiombavo nell’infelicità e mi
veniva voglia di mettere il muso, andavo ad accarezzarlo e ogni volta che mi
prendeva un nuovo attacco di tristezza e iniziavo a rivangare i miei dolori,
per tagliare corto bastava che andassi a contargliela a Pincher. È vero che non
riuscì ad aver più importanza delle mie pene, perché ancora non era arrivato
il tempo della completa serenità, ma certamente spostò un po’ verso l’alto
l’ago della bilancia, perché era un cane quanto mai stimolante, che aveva un
effetto tonificante e mi incoraggiò a ritrovare qualcosa molto simile al
piacere. Davvero, dopo aver scorrazzato per qualche settimana insieme nella
New Forest, avevo proprio la sensazione che anche il mio mantello sarebbe
presto ritornato lucente.
Ma dava la caccia ai polli. Con rammarico lo scoprii la prima volta che ne
incontrammo uno. Come Ingraban (il cane numero quattro) che non era
capace di lasciare in pace i cervi, come Prince (il cane numero otto) che
ammazzava le pecore, se Pincher vedeva un pollo si trasformava in un vero e
proprio assassino. Alla lunga questo fatto causò la sua fine. Dico alla lunga,
perché i risultati non furono immediati, come per i suoi predecessori. Nemesi
non gli piombò addosso di corsa. Gli si avvicinò lenta e furtiva e alla fine lo
ebbe, tutto a causa della mia ignoranza e dabbenaggine. Perché quando ne so
poco, sono pronta a credere subito, e una delle cose su cui sapevo di meno
era la castrazione.
Vagamente sapevo che le si attribuiva la capacità di rendere calmi e
pacifici, e che quelli che prima della castrazione erano incontrollabili, dopo
erano indifferenti. Questo però era quanto. Non sapevo niente dei dettagli. E
fu soltanto quando Pincher inseguì e ammazzò la gallina più bella del mio
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vicino, quella che gli faceva più uova di tutte – saltò fuori che proprio quella
gallina valeva due ghinee, che di conseguenza pagai –, fu allora che sembrò
importante che lui diventasse indifferente.
Ma come renderlo indifferente? L’eccitazione che provava davanti alle
galline o a qualsiasi altra cosa si muovesse e avesse odore era travolgente e se
non era al guinzaglio non c’era niente che lo trattenesse, ne ero sicura, dal
dare la caccia a quelle creature. Stare al guinzaglio, però, non è una gran cosa
per un cane che deve fare del moto. E non è una gran cosa neanche per la
persona che deve reggere l’altra estremità del guinzaglio. Troppo lento per il
cane è troppo svelto per la persona, e, poiché avevo affrontato il fatto che
doveva stare al guinzaglio per non correre gravi rischi di condividere
l’orribile destino di Prince, incominciai a passarmela nel peggiore dei modi
possibili, trascinata precipitosamente in mezzo a cespugli e pantani e campi di
felci da un piccolo cane pieno di energia al rabbioso inseguimento di odori
che solo lui avvertiva.
Erano passeggiate sfibranti, quelle. Sfibranti, cioè, per me, che arrivavo a
casa completamente sottosopra, mentre Pincher, naturalmente, era fresco
come una rosa. Ma, come per tutto a questo mondo, anche per quelle giunse
la fine. Un giorno, quando un guardacaccia che aveva avuto spesso
occasione di osservarci e sapeva, come tutti del resto, che avevo dovuto
pagare due ghinee per una gallina scannata ci incontrò mentre ci
addentravamo arrancando nel più fitto della foresta, si fermò e con un
sogghigno commentò che il mio cane sembrava un po’ birichino.
Quello fu l’inizio, anche se non lo sapevo, della fine di quel particolare
tipo di passeggiata e fu anche l’inizio della fine di Pincher. Anche se quella
fine non lo raggiunse che tre anni più tardi, fu allora che la sua ombra
incominciò a ghermirlo.
«Oh, si calmerà», ansimai io, preoccupata per la sua reputazione.
«Non lui. A meno che non provveda lei», ribatté il guardacaccia.
«Provveda io?»
«Li conosco i tipi come lui. Non c’è niente che gli levi l’uzzolo».
«Ma…»
«Un mio amico glielo potrebbe fare in quattro e quattr’otto».
«Fare cosa?»
«Provvedere».
Io sgranai gli occhi mentre il guardacaccia intanto si era chinato ad
accarezzare Pincher e gli diceva che era proprio un bel cane. Sotto sotto,
quello a cui pensava lui erano senza dubbio i suoi giovani fagiani e il loro
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possibile destino con un cane del genere lì intorno – questo almeno è quanto
suppongo oggi, anche se allora non mi venne in mente.
«Ha solo bisogno che si provveda – ripetè l’uomo, continuando ad
accarezzarlo. – Dopo ti metti tranquillo e ti comporti da gentiluomo, eh,
vecchio mio? Altrimenti, – proseguì, raddrizzandosi, – lei finirà col pagare
una per una tutte le strabenedette galline che ci sono in questo posto, se non
lo fa».
«Se non faccio cosa?»
«Provvedere».
Sconcertata, gli chiesi di spiegarsi. Lo fece. Si fa in continuazione, disse. I
cani non se ne accorgono neanche. Tornano a casa sorridendo. Lui aveva un
amico, un veterinario di prim’ordine…
Alla fine, dopo che Pincher ebbe scannata una seconda gallina, a quanto
pareva sorella gemella di quell’altra ammazzata prima, visto che mi costò
altre due ghinee, con la fine di Prince vivida nella memoria andai dal
veterinario e gli chiesi che cosa ne pensasse.
Pensava la stessa cosa del guardacaccia. Un uomo simpatico, rassicurante,
vestito igienicamente di bianco, anche lui mi garantì che quella piccola
operazione era cosa da nulla e che finché non l’avessi fatta non avrei avuto
pace. Liti con i vicini, conti per i polli e la definitiva scomparsa chissà dove
del cane, fu la prospettiva che mi ventilò.
Cedetti; quella profezia di una scomparsa definitiva mi aveva alla fine
spaventata tanto da farmi trovare d’accordo. Ed era vero che Pincher tornò a
casa sorridendo. Apparentemente in lui non c’era assolutamente nessuna
differenza. Sempre il solito caro cagnolino, che mi annusava i capelli e
cercava di leccarmi la faccia, sempre con la stessa avidità e forse ancora di
più, nei confronti del cibo. E vero che adesso non saltava più, o quasi, ma
nessuno vuole particolarmente dei cani che saltino; e immensamente
sollevata, immensamente soddisfatta, ringraziai con calore il guardacaccia
appena lo vidi e pagai il conto del veterinario con autentico entusiasmo.
Ma cos’era quella storia di cui in breve mi accorsi? Cosa stava succedendo
al mio Pincher? Non stava ingrossando un po’ troppo e un po’ troppo in
fretta? Non stava, addirittura mentre lo guardavo, diventando stranamente
più largo? Sì, era proprio questo che stava succedendo, e ben presto non
riuscii quasi più a sollevarlo, e ben presto, invece di saltare sulle seggiole con
l’agilità di un tempo, rimase sdraiato supino sul pavimento, sempre più
grasso e più indolente.
«È perché mangia così tanto» mi dicevo, riluttante ad affrontare un’altra
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possibile spiegazione; e sicuramente il suo interesse per il cibo, che prima era
stato normale e che svaniva all’istante se un gatto o un coniglio erano da
qualche parte lì intorno, ora lo assorbiva completamente, e quell’irrequietezza
che un tempo mostrava soltanto di fronte ad attività che richiedono coraggio,
come la caccia, ogni giorno di più si concentrava totalmente sul cibo.
«Che bravo cagnolino», si congratulava con me il cordiale guardacaccia,
vedendomi camminare nella foresta al passo che andava bene a me, la mano,
un tempo faticosamente aggrappata al guinzaglio teso all’inverosimile, libera
di giocherellare con un bastone o di cogliere un fiore, e un grasso e assennato
Pincher, che proprio non procurava nessun guaio, alle mie calcagna. «Cosa le
avevo detto? Non è un perfetto gentiluomo adesso?»
Ahimè, era più che un perfetto gentiluomo, era una perfetta gentildonna.
Peggio, era una perfetta anziana gentildonna. Peggio ancora, era una perfetta
anziana gentildonna alla quale, spenta ogni altra passione, rimanevano ormai
soltanto i piaceri della tavola.
A poco a poco questi fatti incominciarono a diventarmi evidenti, e arrivò
un momento in cui non potei più sopportare di incontrare il guardacaccia e
me ne rimasi lontana dalla foresta, e non potei più tollerare la vista del
veterinario e me ne rimasi lontana dal villaggio, per non parlare del fatto che
non me la sentivo proprio più di guardare in faccia Pincher, tanto mi
vergognavo di ciò che avevo permesso gli fosse fatto.
Avendo escluso tutti quei posti, le nostre passeggiate divennero giretti nei
campi più vicini e alla fine, poiché lui si faceva sempre più grasso e più
lento, si ridussero a un goffo ciondolare nel piccolo giardino, con lui che
aveva in mente un’unica idea che gli si leggeva perfettamente negli occhi
indagatori fissi su di me mentre camminava dondolando come una papera,
quella di ritornare a casa il più in fretta possibile e vedere cosa c’era da
mangiare.
Uno stato di cose malinconico; molto inquietante per la coscienza della
persona che ne era stata la causa. Dopo alcune settimane di questi tristi
tentativi di fare un po’ di moto, in un giardino che diventava ogni giorno più
umido, perché ormai l’autunno incombeva su di noi, mi venne in mente che
se camminare dondolando doveva essere il nostro futuro, tanto valeva andare
a farlo a Londra. Là almeno potevo vedere un po’ di amici e dimenticare,
mentre ero con loro, ciò che avevo fatto fare a Pincher. Per di più, non era
sciocco abitare nella New Forest se poi non ci si poteva andare? E che
vantaggio c’era ad avere dei dintorni splendidi se non ce li si godeva mai? E
inoltre, sebbene sia indubbiamente vero che i cani stanno meglio in
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campagna, questo principio vale soltanto per i cani in pieno possesso di tutte
le loro facoltà, e ora che Pincher, per colpa mia, non era più in possesso di
tutte le sue, sembrava essere diventato proprio il cane fatto per Londra.
Così ragionavo; e il risultato fu che, a tempo debito, lui e io ce ne
andammo a Londra e ci sistemammo in un appartamento; perché sentivo che
gli appartamenti erano per ovvie ragioni i posti più adatti a esibire le virtù
negative di Pincher. Quel non volersi muovere e quel non voler far rumore
avrebbero riscosso l’approvazione dei vicini. Le domestiche gli avrebbero
voluto un gran bene, quando avessero scoperto quanto poco fastidio dava. I
ragazzi dell’ascensore non avrebbero avuto nessun problema a portare su e
giù una creatura così tranquilla; e potevo figurarmi portieri tutti contenti di
spalancare i battenti a uno che incedeva attraverso la porta con tanta
immutabile sobrietà.
Così eccoci lì, per novembre di quell’anno, a passeggiare insieme alla
mattina lungo il Tamigi sotto gli occhi del Big Ben e al pomeriggio sotto gli
alberi spogli del St. James’s Park. Ansiosa di far ammenda in tutti i modi
possibili, non permettevo mai che nessun altro facesse qualcosa per lui o lo
portasse fuori, e lui mi divenne estremamente devoto, povero Pincher, e se io
ero fuori a qualche ricevimento se ne stava seduto immobile tutto il tempo
proprio dietro la porta dell’appartamento ad aspettare il mio ritorno.
Piccolo cane commovente. Ma esser commossi non significa amare. Mi
spiace dover dire che avevo smesso di amare Pincher. Aveva diritto al mio
affetto per troppe giuste ragioni e l’affetto non sarebbe stato bandito. Ma non
è facile per chi è colpevole di un torto amare colui al quale il torto è stato
fatto. E chi, ancora, può voler bene a un rimprovero sempre presente e mai
espresso? Il povero Pincher non avrebbe potuto esprimerlo, anche se avesse
voluto, ma lui non voleva. Tutto in lui rispecchiava un ottuso
soddisfacimento. Era istupidito dall’appagamento e dal cibo. E quel suo
essere così soddisfatto di tutto mi affliggeva più di qualsiasi accesso di
malumore, perché non meritavo forse, se solo lui l’avesse saputo, quanto di
peggio potesse farmi?
No, non amavo Pincher. A parte i torti che aveva subito e i risarcimenti cui
aveva diritto, era diventato, e anche quella era colpa mia, un cane ottuso,
grottesco e molto poco attraente da vedere. Ma se non potevo amarlo potevo
almeno far finta, e lui non era più così sveglio da accorgersi che io stavo solo
fingendo. Lo accarezzavo e coccolavo a lungo, e spesso, per fargli piacere,
mi toglievo di nuovo il cappello quando stavo per uscire e rimanevo invece a
casa con lui, solo perché sapesse che io ero lì, e potesse distendersi tranquillo
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accanto al fuoco a russare, e non dovesse, spinto dalla sua devozione, andare
nell’ingresso freddo ad aspettarmi in mezzo agli spifferi.
«Povero vecchio Pincher, povero, povero cagnolino», gli sussurravo con
tenerezza, piena di rimorso e di pietà, seduta sul pavimento accanto a lui e
prendendogli la testa in grembo; e non migliorava le cose il fatto che non gli
passasse altro per la mente se non che io ero sempre e solo stata un angelo
per lui.
L’amico che me l’aveva regalato, sconcertato da quel torpore e da quella
mole in continua crescita – io ero muta come un pesce su quanto era
successo – incominciò di nuovo a osservare con attenzione, e, avendo
osservato, opinò che ci fosse qualcosa che non funzionava in quel cane.
Una mole del genere, spiegava l’amico, mentre io gli sedevo accanto
imbarazzata, non era normale e doveva essere causata da quel torpore, e il
torpore era dovuto al fatto di essere, per così dire, figlio unico. Diamogli un
compagno di giochi, disse l’amico, e io avrei notato subito la differenza.
Sapevo troppo bene che non sarebbe stato così; ma, non desiderando
imbarcarmi in spiegazioni, mi limitai a gettare acqua fredda sul compagno di
giochi. Sarebbe stato impossibile tenere più di un cane in un appartamento a
Londra, argomentai; e comunque l’amministrazione del palazzo non
l’avrebbe permesso.
«Prova», ribatté l’amico, guardando pensieroso l’ampio corpo di Pincher e
la testa piccola, che quasi scompariva; aggiungendo che, sebbene avesse
appena poco più di un anno, dall’aspetto e dal comportamento poteva
facilmente essere preso per un cane di dieci anni.
Quelle osservazioni mi fecero star male. Lo sapevo troppo bene da me che
l’età di Pincher, per colpa mia, equivaleva a dieci anni. E dieci anni mal
portati, anche; dieci, era già quasi vecchio. Eppure era così, e nessun
compagno di giochi avrebbe potuto cambiare la situazione; resistevo perciò
ostinatamente a ogni suggerimento, spingendomi perfino a dichiarare che gli
sarebbe servito solo a fargli venire un acuto accesso di gelosia.
Acuto accesso! Quell’appagato, passivo tontolone sul tappeto non aveva
proprio l’aria di patire acuti accessi di nessun tipo. Era al di là di tutte queste
cose. Era definitivamente jenseits des Guten und Bòsen.1 Ma non avevo
intenzione di dirlo e di provocare domande cui era difficile rispondere, e
chinandomi ad accarezzare il mio povero cane con grande tenerezza, quasi
chiedendogli scusa mormorai che eravamo perfettamente contenti, lui e io, di
avere soltanto l’uno l’altro reciprocamente.
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Non c’è modo comunque di fermare gli amici una volta che si sono messi
in testa di fare ciò che pensano sia una gentilezza, e il giorno dopo arrivò il
compagno di giochi. Senza star più a parlarne e senza neanche chiedere il
permesso, mi fu mandato in un cestino.
Credevo che nel cestino ci fossero delle violette. Era marzo e a Londra
c’erano violette ovunque. I negozi ne erano pieni; gli angoli delle strade ne
erano sommersi; e io chiamai la mia cameriera perché portasse un vaso con
dell’acqua mentre tagliavo lo spago e aprivo il coperchio.
Ma non erano violette. Raggomitolata con la testa fra le zampe, che mi
guardava seria con la coda dell’unico occhio che teneva aperto, c’era una
deliziosa creaturina bianca, con un biglietto legato intorno al collo su cui era
scritto: Sono Knobbie. Una signorina di tre mesi. Mettimi alla prova con
Pincher.
100
Cane numero undici
Knobbie
Ci guardammo. Lei se ne stava immobile, continuando semplicemente a
tenere quell’occhio aperto su di me. Pincher, indifferente davanti al fuoco,
non si dette neanche la pena di alzare la testa, e neppure lei gli badò, per
quanto dovesse aver fiutato il suo odore perché, da quando avevo
provveduto a lui, non occorreva essere un cane per sentire l’odore del
povero Pincher.
Comunque lei non mosse neanche una narice nella sua direzione. Era su di
me che era concentrata la sua attenzione, e non avrei mai supposto che un
singolo occhio potesse contenere una tale carica di solenne apprezzamento.
Non so dire che cosa vide, perché chi può immaginare come appariamo ai
cani? Ma ciò che vidi io era un cucciolo di fox-terrier, bianco come la neve
eccetto le orecchie, che erano e sono – è seduta accanto a me mentre scrivo –
di un bellissimo, lucente color castagna, separate una dall’altra da una larga
striscia dritta di altro bianco.
Perfetta e immacolata, come se proprio quella mattina avesse fatto bagno e
colazione in Paradiso, se ne stava sdraiata completamente a proprio agio,
aspettando di vedere quello che avrei fatto io e limitandosi a guardarmi con
quell’occhio aperto. «Knobbie» mormorai io, quasi con un inchino, come per
presentarmi a lei; e sembrò quasi che lei ricambiasse l’inchino, che
accennasse un piccolo, educato movimento con la testa. Ho imparato che i
cani fanno cose più sorprendenti di questa. Winkie, per esempio, una volta,
quando stava per vomitare…
Ma non sono ancora arrivata a Winkie.
«Vuoi che ti tolga dalla cesta, Knobbie?» chiesi molto educatamente,
perché in qualche modo invogliava gli altri a essere educati.
A quel che sembrava non aveva obiezioni e prendendola tra le mani – al
tocco era come di raso e liscia come lo sono i cuccioli paffuti – la misi a terra
con garbo e rimasi incantata nel vedere che la prima cosa che fece fu di non
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bagnare il tappeto.
Era una gran cosa, quella. Ingo e Ivo (i cani numero sei e sette), gli unici
altri cuccioli che avessi avuto, tranne Bijou che non conta, non facevano altro
che bagnare tappeti, sebbene avessero sei mesi quando arrivarono in casa, in
confronto ai tre di Knobbie. Ma lei era una signora. Ora so che le signore, nel
mondo dei cani, non si sognerebbero mai di fare una cosa del genere, una
volta che si è fatto loro notare che non è gradita. Con innata eleganza sono
quanto mai pulite e scrupolose e sono capaci di aspettare quasi all’infinito di
esser messe fuori dalla porta, piuttosto che comportarsi come non
dovrebbero. Allora, però, non le sapevo tutte queste cose e poiché non
volevo correre rischi, oltre al fatto che desideravo con ansia che un inizio
così fulgido non fosse offuscato, la presi tra le braccia, e per la seconda volta
rimasi incantata, perché lei ci si raggomitolò dentro.
Non c’erano dubbi al riguardo: lei si raggomitolava ed era il primo dei miei
cani a farlo. I danesi, per forza di cose, non possono raggomitolarsi e tutti gli
altri, eccetto Bijou che non conta, non erano cuccioli. È naturale che io ne
rimanessi affascinata. È naturale che mi s’infiammasse il cuore, quando
quella creaturina si premette contro di me e m’infilò fiduciosa la testa sotto il
mento. Tutte le donne buone, e la maggior parte degli uomini buoni,
conservano fino all’ultimo gli istinti materni e adorano che ci sia qualcosa di
piccolo e indifeso tanto compiacente da mostrare la sua fiducia
raggomitolandosi; specialmente, penso, le donne nella mia situazione, i cui
mariti, per un motivo o per l’altro, non ci sono e i cui figli sono sposati e
vivono in paesi lontani. Queste donne, per quanta arroganza possano
sfoderare quando dicono: «Io non voglio che nessuno mi ami», in effetti
spesso vogliono, in modo vago e ansioso, che tutti le amino, e se questo
desiderio si restringesse, come talvolta succede, da tutti a qualcuno,
potrebbero nascere dei guai.
È allora che i cani tornano utili. Fu allora che tornò utile Knobbie. Non
ch’io voglia dire che ero nelle condizioni sopra descritte, ma la verità è che la
vita, a mano a mano che procede, viene molto sfrondata delle sue gioie più
semplici, che sono strettamente collegate con il fatto di amare e allevare i
figli. Queste gioie di certo erano state sfrondate da me. Il tempo in cui
allevavo i figli era finito. Il mio amore li poteva seguire solo nello spirito.
Cosicché c’era una nudità esteriore, un vuoto apparente nella mia vita in quel
tempo, che era, a quanto sembra, evidente, se il mio amico se n’era accorto e
aveva cercato di rivestirlo e di riempirlo con Pincher.
E lì aveva fallito, per ragioni che non gli furono mai dette; ma,
102
riprovandoci con Knobbie, ebbe successo, perché se l’arrivo di Pincher mi
aveva indotta a recuperare un po’ dell’equilibrio che avevo perso, l’arrivo di
Knobbie completò la cura.
Un effetto singolare per essere stato prodotto da un solo cucciolotto; ma
non più singolare dell’effetto che un solo cespuglio di lillà, in fiore sotto il
sole di una mattina di maggio, produsse su una donna di mia conoscenza.
Colma di dolori più di quanto pensasse di riuscire a sopportare, aveva
intenzione di metter fine alla sua vita quel giorno, ma, mentre faceva un giro
in giardino, vide quel cespuglio, e avendolo visto pensò che forse era meglio
aspettare ancora un po’. Perché, ragionò, non si dovrebbe lasciare così alla
leggera un mondo che può generare tanta bellezza; e anch’io, tenendo la
piccola calda Knobbie raggomitolata tra le mie braccia, percepii di nuovo, a
distanza di anni, che il mondo aveva degli aspetti davvero meravigliosi, e che
la miglior cosa che potevo fare era scoprirli e seguirli ancora una volta.
Ed ecco che la parola resolut sospirò nella mia mente, come se il vecchio
voto si stesse rigirando nel sonno.
Im Wahren, Guten, Schönen resolut zu leben…
E perché, mi chiesi, la guancia sulle soffici orecchie di Knobbie, non
riprovarci?
Ma non serve riprovare cose del genere a Londra. Almeno, a me non
serviva. Scoprii che non potevo essere resolut in compagnia. A un
ricevimento, semplicemente mi dimenticavo del Wahre e del Gut e dello
Schöne. Tutta quella gente insieme aveva su di me un effetto assai simile
all’effetto del telefono: mi faceva deviare da ciò che mi piace credere sia il
mio vero essere. Mi resi conto, con preoccupazione e vergogna, che
l’orecchio che prestavo loro era ignobilmente sensibile all’adulazione e che
pensavo da irrimediabile sofistica. Non c’è dunque da stupirsi che, dopo uno
di questi ricevimenti, tornando a casa dal semplice Pincher che mi aspettava
pazientemente sullo zerbino e dalla ingenua Knobbie che dormiva
soavemente nella sua cesta, alla vista di quei due innocenti recuperassi
almeno un po’ dell’autocontrollo che s’era smarrito e mi chiedessi se valeva
la pena andare ai ricevimenti.
No, non ne valeva la pena. Non ne era mai valsa la pena per me. Anche gli
amici, per quanto deliziosi, in quei momenti di stanchezza sembravano
deliziosi solo se adeguatamente lontani, ma come si fa, a Londra, a tenere a
distanza qualunque altra cosa o persona? Sembrava che lì ci fosse troppo di
tutto. E sedevo sconfortata sulla sponda del letto e mi abbandonavo a
103
ricordare gli anni spaziosi della Pomerania, quando solo ogni sei mesi
davamo o andavamo a un ricevimento, e i meravigliosi periodi che avevo
passato in Svizzera tra una visita e l’altra degli ospiti, quando Coco e io
eravamo soli con le montagne.
Da quelle riflessioni finalmente venne fuori che io non ero adatta alle folle,
e Knobbie, a giudicare dal suo comportamento quando la portavo a
camminare nel parco, chiaramente non era adatta neppure lei. Il rumore del
traffico, quando le facevo attraversare Whitehall, la terrorizzava. La
compostezza che mi affascinava così tanto quando eravamo in casa,
scompariva completamente appena fuori della porta e la semplice vista di un
altro cane che si avvicinava in lontananza era sufficiente a farla quasi svenire.
Era chiaro, la vita monastica era la cosa migliore per la mia ipersensibile,
inesperta signorina, e sembrava la cosa migliore anche per me, se avevo
seriamente intenzione di fare qualcosa riguardo all’essere resolut. Rimaneva
da prendere in considerazione Pincher, ma Pincher era contento dovunque si
trovasse purché fossimo inclusi io e il cibo, così un bel giorno, con lui che
mi ciondolava goffo alle calcagna e Knobbie rincantucciata sotto il braccio,
voltai le spalle a Londra e me ne tornai a vivere in campagna.
Erano molto diversi i sentimenti che provavo allora rispetto a quando ero
scappata via nella New Forest, per nascondermi e dimenticare. Non era solo,
credo, che il tempo aveva fatto il suo solito lavoro di sanare le ferite, di
ricoprirle con la sua patina, era anche che ero accompagnata dai cani. Non
avevo avuto cani con me durante gli anni dolorosi che includevano la morte
di Coco e terminavano con l’arrivo di Pincher; se ci fossero stati, avrei potuto
migliorare più in fretta. Ora, con due, anche se uno era più un peso che una
gioia, me ne andavo via fiduciosa, sicura che fosse la cosa migliore per una
persona che era ancora, suppongo, quella che le zie Charl e Jessie
chiamavano curiosa, mentre, quanto a Knobbie, sentivo che le avrebbe
permesso di non perdere il lume della ragione.
Ero davvero molto grata a Knobbie, perché i suoi nervi mi davano la
spinta necessaria. Senza di lei, avrei potuto continuare a indugiare
indefinitamente a Londra entrando così a far parte per sempre della schiera
dei festaioli a oltranza.
Pincher mi portò a Londra e Knobbie mi fece andare via. Sembrava che
stessi cominciando a far gestire la mia vita dai cani.
I miei parenti, a dire il vero, sottolinearono questo aspetto ed espressero il
loro rammarico. Usarono la parola infatuazione e dissero che l’infatuazione è
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sempre una brutta cosa. Ma io non gli badavo, perché chi sta a badare ai
parenti non andrà mai da nessuna parte, neanche in campagna, e quanto
all’andare in campagna io ero assolutamente decisa.
Quella volta, però, non mi allontanai più di venti miglia, in modo da poter
lo stesso far visita con facilità agli amici per qualche ora nel caso avessi avuto
una ricaduta di socievolezza; eppure, nonostante fossimo così vicini a
Londra, sembrava proprio di vivere in campagna, perché la casa, che si
ergeva solitaria, si affacciava su un campo da golf e sugli altri tre lati era
circondata da boschi.
In quei boschi c’erano infiniti sentieri sicuri per Knobbie, dove non
avrebbe mai incontrato anima viva, mentre per Pincher c’era uno spazioso
giardino in cui poteva starsene sdraiato e ansimare a suo piacimento, con
alberi antichi a fargli ombra se mai il sole lo avesse disturbato. Il giorno in
cui prendemmo possesso della casa non c’era sole, ma poiché il sole, presto
o tardi, deve splendere, la sua assenza al momento non mi disturbò, e
provvedemmo di ottimo umore a sistemarci, Knobbie e io, almeno, e credo
che anche Pincher dovesse essere in qualche modo di buonumore sotto quel
suo strato di apatia, perché la prima cosa che ebbe fu un pasto
eccezionalmente abbondante.
Pensavo che fosse una casetta molto graziosa. Pace e silenzio le
aleggiavano intorno. I boschi imponenti, vestiti dei colori dell’autunno, la
proteggevano subito alle spalle e di fronte si stendeva il campo da golf, vuoto
quel giorno per via della nebbia. Fuori della finestra del soggiorno c’era una
colombaia, piena, grazie allo stesso amico che mi aveva regalato i cani, di
colombi che con il loro tubare mi avrebbero reso dolce il lavoro; e sul
tappeto davanti al camino – anche quello un regalo dello stesso, che ora forse
dovrei chiamare zoologico, amico – se ne stava seduta, come portafortuna,
una gatta nera come il carbone, che prese all’istante in simpatia Knobbie e
incominciò diligentemente a lisciarle e a lavarle le orecchie.
Portarono il tè; furono tirate le tende; il fuoco danzava; il bollitore
fischiava. Avremmo potuto essere la scena di un romanzo, quando la penna,
deviando per un attimo dalla vita dell’alta società, si sofferma sul semplice
interno di un cottage. E mentre mangiavo dei muffins1 – cose che a Londra
non ero neanche mai riuscita a vedere di sfuggita, ma che ora divoravo
soddisfatta – e Pincher seduto di fronte a me osservava ogni mio boccone,
proprio come se non avesse mangiato abbondantemente pochi minuti prima,
e la gatta, finito che ebbe con le orecchie di Knobbie, la girò a pancia in su
con abile mossa e incominciò a lisciarle il ventre, sentii che i miei piedi una
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volta di più posavano sul sentiero della pace e che tutto quello che dovevo
fare era di continuare risoluta per quel sentiero.
Così entrai in una nuova fase di quella solitudine adorna di cani che, ogni
volta che m’era toccata in sorte, mi aveva tanto appagata.
Era Knobbie, naturalmente, che adornava, diventando ogni giorno più
incantevole ora che si era liberata dalla paura, perché Pincher, da quando
avevo provveduto a lui, non poteva più essere definito un ornamento.
Eppure, appena arrivato, era un bel cagnolino. Che fosse diventato tanto
grottesco che nessun ragazzino poteva passargli accanto senza commentare
era interamente colpa mia, e consideravo i commenti che suscitava durante le
passeggiate quotidiane lungo il Tamigi, quando vivevo a Londra, parte della
giusta punizione che mi spettava.
Fui lieta di andarmene nella quiete della campagna, lontano da quei
commenti che mi costringevano a camminare con la testa innaturalmente alta,
facendo finta di non aver sentito o, se avevo sentito, che non me ne
importasse nulla, in particolare in quei momenti penosi, familiari a tutti
coloro che portano i loro cani al guinzaglio, quando dovevo star ferma ad
aspettare.
Cosa potevo fare, di fronte alla derisione, se non tenere la testa alta e far
finta di essere sorda? Lo trovavo però molto difficile, perché spesso ciò che
udivo mi faceva venir voglia di ridere. «Visto quel cane? – considerò un
giorno ad alta voce un tranviere a beneficio di chiunque volesse stare ad
ascoltarlo, quando ger caso il suo tram si era fermato proprio dove anch’io
ero stata costretta da Pincher a fermarmi. – Lo so io qual è il suo pedigree.
Sua madre era un porcospino e suo padre un perfetto cretino».
Ringraziavo sempre il cielo quando arrivava il momento di rientrare al
riparo del mio appartamento; ma ora, nello spazioso giardino attorno al
cottage, tutto era facile e il mio povero porcospino (ricordava davvero molto
un porcospino) poteva essere lasciato libero e non c’era bisogno di portarlo a
fare la passeggiata. Era un gran sollievo, credo, per lui e certamente era un
sollievo per me che, a parte che non mi divertiva affatto suscitare l’ilarità dei
passanti, preferivo correre ogni giorno con Knobbie piuttosto che ciondolare
con Pincher. Ma sfortunatamente, proprio come a Londra aspettava sullo
zerbino dell’appartamento finché tornavo a casa, allo stesso modo adesso,
per quanto freddo o umido ci fosse, aspettava al cancello che io ricomparissi,
e la visione di quella piccola figura paziente seduta là stolidamente
impassibile e determinata a non muoversi finché non mi avesse riavuta mi
106
costringeva a tornare dalle mie passeggiate molto prima che Knobbie, che
aveva acquistato la velocità e la grazia di un levriero, ne avesse avuto a
sufficienza.
Knobbie
E quando mi riaveva, che cosa faceva? Se ne andava a dormire. Era tutto
quello che voleva, andarsene a dormire, sapendo che io c’ero. Davvero,
questo era tutto ciò che Pincher volesse mai, oltre al suo cibo: che io stessi
accanto a lui, mentre russava. Il che mi seccava, perché, dopotutto, non era
un marito.
Alla pagina precedente c’è una fotografia di Knobbie l’estate successiva,
diventata ormai una ragazza grande e con la testa girata dalla parte opposta a
Pincher.
Pincher non compare, perché proprio mentre stavo scattando la fotografia
se n’è andato via dondolando, tanto poco interessato alla compagnia di
107
Knobbie quanto lei lo era alla sua. Dall’inizio alla fine, lei tenne
inesorabilmente la testa voltata dalla parte opposta a quella dove stava lui,
mentre a lui, per parte sua, non gliene importava nulla di lei. D’altro canto,
naturalmente, al povero cane non c’era niente, qualsiasi cosa fosse, che
importasse, e se non fosse stato per la gatta, Knobbie avrebbe avuto
un’infanzia solitaria, affamata di giochi. La gatta, comunque, faceva quel che
poteva, e se la sono spassata parecchio insieme finché non si unì alla
compagnia Chunkie, ancora un altro regalo dello stesso amico; al che
Knobbie, sbalordita di fronte all’inattesa comparsa di un cucciolo nuovo di
zecca che marciava con tanta baldanza dentro la stanza come se fosse la sua
stanza, e lei e la gatta e Pincher appartenessero anche loro a lui, dimenticò per
sempre cose come i gatti e si tuffò a capofitto nell’amore.
Fu un coup de foudre.2 Avevo sentito parlare dei coups de foudre, ma non
ne avevo mai sperimentato uno né ero mai stata testimone nel momento in
cui veniva inferto un tale colpo. Allora vidi con i miei occhi la foudre
avventarsi su Knobbie. Chunkie, un cucciolo mezzo Sealyham di dieci
settimane, incredibilmente piccolo e impudente e spavaldo, ebbe solo da
entrare con aria da padrone, guardarsi intorno insolente, abbaiare forte una o
due volte (dicendo in questo modo altrettanto chiaramente che a parole che
lui era pronto a sfidarci tutti quanti) perché lei diventasse all’istante sua
schiava.
108
Cane numero dodici
Chunkie
Chunkie era, ed è, un ammaliatore di prim’ordine. Ce l’ho raggomitolato in
grembo mentre scrivo e il foglio è appoggiato sul suo dorso addormentato.
Qui a fianco c’è una sua fotografia quando aveva quattro mesi, con le
buffe macchie sul muso, come sopracciglia inarcate, cui nessuno poteva
resistere e che gli conferivano un’aria di perpetuo stupore.
Ma avrei voluto potergli fare una fotografia il giorno in cui si aprì la porta
del soggiorno e lui apparve, da solo e senza essere annunciato. L’autista che
lo aveva portato discretamente non si fece vedere, lasciando che facesse da sé
la sua comparsa, e non avrei mai creduto che un cosino così piccolo potesse
essere tanto intrepido, o che quello stesso cosino, piombato in mezzo a
completi estranei, tutti molto più grossi di lui, potesse essere tanto impudente.
La coda, fiero simbolo di uno spirito indomito, la teneva briosamente ritta,
e da allora l’ha sempre tenuta ritta. Non gliel’ho mai vista bassa neppure una
volta nei cinque anni da che l’ho con me, neanche quando, offesa dal suo
comportamento, che è spesso riprovevole – è un grande amatore ed è capace,
se ha in vista qualche possibilità amorosa, di correre lontano per miglia e di
starsene via per ore, rischiando di essere rubato, investito o preso a fucilate –
quando, dico, offesa da un comportamento di tal genere alzo su di lui la
mano indignata, la coda, invece di abbassarsi, si agita e gli occhi, fissi sul mio
volto, sono gli occhi di chi sa di aver sbagliato ma pensa che ne valesse la
pena. Compiaciuto, suadente e spavaldo al tempo stesso, mi guarda
sfacciatamente e la mano mi ricade inerte lungo il fianco. Dopo tutto, non
posso che essere contenta che si sia divertito e comunque ringrazio il cielo
dal più profondo di averlo di nuovo a casa sano e salvo.
109
Chunkie
Quell’amico che sta ormai diventando monotono con i suoi doni,
regalandomi Chunkie lo aggiunse a quello che i miei parenti cominciavano a
definire un serraglio, e lo aggiunse perché, quando il secondo inverno al
cottage si profilò imminente, pensò di scorgere in me segni di irrequietezza,
una certa tendenza ad andare alla finestra e guardare accigliata il cielo, un
desiderio che gli sembrava eccessivo (per lui tali cose non significavano
nulla) di più sole di quanto l’Inghilterra potesse offrirmi; e avendo osservato
per un po’ in silenzio questi segni, opinò che ciò di cui avevo bisogno era un
altro cane. Per tenermi ferma. Per trattenermi nel posto in cui ero. Perché,
considerò, se una donna se ne può tranquillamente andare all’estero con un
solo cane, e un po’ meno tranquillamente con due, con tre sarebbe difficile
che volesse provarci, e, amandoli tutti e tre, non sarebbe assolutamente
capace di lasciarli, rimarrebbe dov’è, e gli amici potrebbero continuare ad
andare a prendere il tè da lei.
Questi erano, nudi e crudi, i suoi calcoli, che erano giusti solo fino a un
certo punto. Dove sbagliava era nel dare per scontato che, dopo l’arrivo di
Chunkie, io amassi tre cani. Non era così; io ne amavo solo due. Nei
confronti di Pincher, tutto quello che provavo era una responsabilità che mi
veniva dal senso di colpa, e in qualsiasi momento, da quando avevo
provveduto a lui, sarei stata ben contenta di separarmene, se fossi riuscita a
110
trovargli una buona sistemazione. Ma naturalmente questo non lo dissi mai al
mio amico che me l’aveva regalato e che con tutto il suo osservare non si era
accorto che Pincher non era nel mio cuore.
E con tutto il suo osservare, non aveva capito la ragione per cui io temevo
un altro inverno al cottage. La nostra era un’amicizia basata sui cani e che si
nutriva principalmente di cani; almeno così la vedevo io, tenendomi
d’altronde parecchio sulle mie. Che opinasse quanto voleva, non aveva mai
davvero saputo, e l’ultima cosa di cui gli avrei parlato sarebbero state le mie
segrete vergogne e delusioni.
Si sedeva lì, i giorni in cui veniva a farmi visita, tranquillo con il tè in
mano, circondato dai suoi regali a quattro zampe, e non aveva la benché
minima idea del fatto che poche ore prima, durante l’opprimente pioggia
senza speranza del mattino, mi mordevo le mani per via della mia incapacità,
che aumentava a ogni giorno di pioggia, di essere resolut col brutto tempo.
Senza dubbio capita spesso di starsene seduti a prendere il tè con gente
florida di muffins, d’aspetto imperturbabile, che conversa tranquillamente e
che nel proprio intimo non è per niente così: gente che, forse, quella mattina
stessa si è morsa le mani per qualche affanno segreto. Come si fa a dirlo dalle
apparenze esterne? Per quel che ne sapevo il mio amico zoologico poteva
effettivamente in quello stesso momento starsi mordendo le mani dentro di
sé, mentre sedeva in apparenza così placido e tranquillo accanto al fuoco; ma
non credo che fosse così, perché era un uomo con un’unica idea in testa,
regalarmi dei cani, e avere una unica idea tende a favorire quella pulizia
interiore che è la pace.
Ma io, dopo dieci settimane di quasi costanti gelidi rovesci di pioggia,
stavo facendo la vergognosa scoperta che quei progetti di vivere
risolutamente, che mi avevano portato via da Londra per condurmi ad abitare
in una nobile solitudine, andavano in fumo se pioveva. In altre parole,
sebbene io volessi più che mai cercare e seguire il Wahre e il Gut e lo
Schöne, riuscivo a farlo con reale entusiasmo soltanto se splendeva il sole.
Non c’era da meravigliarsi se mi mordevo le mani. Quella sconcertante
scoperta tolse il vento alle mie vele. Mi vergognavo da morire. Ma era così e
il fatto che me ne vergognassi non faceva cessare la pioggia gelida e la
pioggia gelida mi faceva venire i geloni e i geloni guastavano tutto. E ciò che
guastava in modo particolare era ricordare che non mi ero sentita così nella
mia casa in montagna, dove il vento mugghiava e la pioggia scrosciava
contro le finestre per intere settimane, senza spegnere neanche una scintilla
del mio ardore. Probabilmente anche là mi erano venuti i geloni, ma avevano
111
così poco influito sul mio spirito che non sono neanche sicura di averli avuti.
Era perché ero diventata più vecchia? Era forse quello il modo, il modo
grossolano, spregevole, in cui si rivelava l’avanzare dell’età, negli alti e bassi,
nel dipendere dal caldo e nell’estrema avversione per le nuvole che non se ne
andavano via?
Vecchiaia. Non ci avevo mai pensato fino a quel momento, se non per gli
altri. Ora, per la prima volta, l’idea che forse anch’io avrei potuto presto
diventare vecchia, che, forse, già lo stavo diventando, mi passò per la testa; e
ne rimasi molto colpita.
Avevo un’altra amica – una donna, questa volta – che viveva una vita
splendida al sole. Stava in Provenza, e in occasione di una sua visita a
Londra venne a trovarmi e mi parve portare con sé nella stanza, in quel
pomeriggio cupo, tutta la radiosità del sud. La luce e il calore di un clima più
benedetto dal cielo sembravano persistere intorno a lei, sembrava che ancora
riflettesse lo splendore del sole che aveva lasciato e ogni volta che si
muoveva mi immaginavo che nell’aria aleggiasse una dolce fragranza di fiori,
come di gelsomino.
«Perché non vieni a vivere vicino a me? – mi disse. – So di una casetta tra
gli ulivi. In novembre – eravamo allora in novembre – il prato tutto intorno è
fitto di quelle margherite bianche e rosa dal gambo lungo».
Strano come bastino poche parole per modificare tutta la propria vita.
Allora non le conoscevo quelle margherite bianche e rosa dal gambo lungo,
ma ora le conosco, ed è in quella casetta, ampliata da ogni parte per avere più
spazio e dipinta del colore del caprifoglio, che io sto scrivendo in questo
momento, trasformata da creatura tremante resa fragile dal freddo, che cerca,
soffiandosi sulle dita, di riuscire a tenere in mano la penna dopo colazione, in
una che non deve più sperare che l’indomani sia bello, perché lo è
invariabilmente; o, se non proprio invariabilmente l’indomani, di certo lo
sarà il giorno successivo.
Non so dire cosa provino gli altri, ma per me c’è un’enorme differenza tra
lodare Dio per avermi creata, avermi conservata e per tutte le cose belle della
mia vita, e rimanere in un silenzio sinistro. Se solo fossi venuta qui
direttamente dalla Pomerania, concentrandomi, fin dall’inizio di quella libertà
di scelta del luogo in cui vivere che è tipica delle vedove, sulla luce, sul
caldo, sul colore e sulla fragranza, che vantaggio ne avrebbe tratto il mio
temperamento! Invece di diventar matura semplicemente a forza
d’invecchiare, sarei maturata giovane; invece di avere momenti di
112
disperazione sarei stata incrollabilmente serena. Impossibile non assorbire
almeno un po’ della serenità, della gentilezza dei cieli sotto cui si vive.
Quando la bellezza è tutt’intorno, non può non entrare nello spirito e
rimanervi. Cammino nella bellezza, non come la dama di Byron che
camminava nella propria bellezza, ma nella bellezza della luce, del caldo, del
colore e della fragranza. Qui è abbastanza facile essere resolut. È un gioco da
bambini. È la condizione normale. E se non fosse che sono i cani
l’argomento di cui sto scrivendo, mi fermerei un momento per enumerare le
molte ragioni che ho per benedire l’amica che mi ha portata in questo luogo.
Morte di Pincher
Knobbie e Chunkie vennero con me in Provenza, ma Pincher, nell’anno
che dovemmo restare nel cottage affacciato sul campo da golf in attesa che la
casa color caprifoglio fosse ampliata e pronta, era diventato così vecchio,
così pesante, così quasi completamente incapace di muoversi, che mi sembrò
di fargli un favore, anziché lasciarlo a qualcuno di cui non ero del tutto
sicura, a farlo addormentare.
Feci tutto quello che potei per trovargli una casa, perché lui continuava ad
adorare il cibo e mi angosciava il pensiero che non avrebbe mai più avuto
neanche una parola da me. Ma nessuno di cui potessi fidarmi voleva il
povero Pincher. A chiunque l’offrissi, invariabilmente mi rispondevano che
sarebbero stati molto contenti di prendere Chunkie. Perfino l’amico che me
l’aveva regalato rifiutò di riprenderselo, adducendo il pretesto che non era
più il cane di una volta – e non lo sapevo forse io? – e che sebbene avesse
solo tre anni, avrebbe tranquillamente potuto averne trenta.
«Per ogni anno della normale vita di un cane, – commentò il mio amico,
osservandolo pensoso, – sembra che questo invecchi di dieci».
E poiché trent’anni non è un’età da cani e non c’era niente che facesse
pensare che quaranta sarebbe stato meglio, e nessuno lo voleva e io non lo
potevo portare con me, tutto congiurava a farlo addormentare.
Ma è davvero una cosa terribile dare l’ordine che precipita una creatura
viva nel freddo eterno della morte. Pincher era lì, caldo e contento, ancora
capace di stare sdraiato accanto al fuoco e di russare, sempre in adorazione
del cibo; come potevo decidermi a impedirgli di avere un domani? Non
potevo. Continuavo a rimandare, e lui continuava ad avere i suoi domani e
pasti di una crescente, sollecita abbondanza.
113
Povero piccolo Pincher. Soltanto nel nostro ultimo giorno al cottage,
quando era diventato inevitabile, venne il veterinario, e dopo che il povero
cane ebbe il suo ultimo pasto – un banchetto, in realtà, con tutte le cose che
gli piacevano di più – lo fece addormentare senza traumi, con gentilezza.
Fu seppellito in giardino. Vorrei che la mia fine fosse così facile. Ma
perfino ora, cinque anni dopo, non posso pensare a Pincher senza rimorso.
Se non fosse che questo è un libro che racconta di cani soltanto, potrei
soffermarmi su un mio bisnonno e su sua figlia, mia prozia, che morirono
entrambi come Pincher, dopo una cena particolarmente eccellente. Non ci fu
bisogno del veterinario nel loro caso; bastò la cena. Messo in guardia, il mio
bisnonno sfidò la sorte; e si racconta che le sue ultime parole furono che non
gli importava niente di quello che gli altri dicevano, chiunque fosse a
dirglielo, l’anatra e i piselli valevano comunque la pena di morire. La mia
prozia, dello stesso caparbio, indomito sangue, fece a sua volta affermazioni
analoghe, si dice, anche se ciò di cui morì fu, più ignobilmente a mio parere,
del merluzzo. Ma poiché non sono qui a scrivere dei miei antenati ma di
Chunkie e Knobbie, torniamo a loro, a cui erano nati dei figli nella casa color
caprifoglio, una casa già tutta coperta, quasi fino al tetto, dalle ardenti rose
del sud.
Chunkie, diventato adulto, non era certo il tipo di cane da rimandare il
matrimonio, e poiché parecchie volte era già stato contrastato in questa sua
aspirazione dalle mie interferenze e dal fatto che era più basso di Knobbie, si
fece furbo, aspettò l’occasione propizia, la trovò un giorno mentre lei stava
scendendo le scale davanti a lui, la colse al volo e nove settimane più tardi i
pegni del loro amore nacquero sul divano della mia camera da letto.
Avrei preferito che lei avesse scelto un posto diverso. Non mi aspettavo
che l’accouchement1 accadesse in casa mia, e avevo preso tutti gli accordi
perché lei andasse per tempo, credevo io, in una clinica. Ma avevo sbagliato i
conti di una settimana, e una sera mentre me ne stavo tranquilla a leggere, e
lei era sdraiata ai miei piedi in apparenza addormentata, si alzò
all’improvviso, si girò, si sedette dritta di fronte a me e mi iissò.
Mi fissò tanto intensamente da trapassare la copertina del mio libro e
posandolo le chiesi se voleva uscire.
Lei non si mosse, continuò soltanto a fissarmi; e io, che non avevo
esperienza di circostanze del genere, mi rimisi a leggere. Ma non riuscivo a
concentrarmi. Quegli occhi dall’altra parte del libro lo perforavano, e presto
mi alzai e andai alla porta e la incoraggiai a uscire in giardino. Invece, lei si
114
precipitò di corsa nella mia camera da letto, saltò sul divano e incominciò a
sfornare cuccioli. A quell’animazione la casa si risvegliò immediatamente. La
domestica, che stava rimettendo in ordine la stanza, lasciò cadere tutto quanto
e scese giù di corsa, annunciando con alte grida ciò che stava succedendo sul
divano. Io volai di sopra; i campanelli suonarono; i piedi si affrettarono;
l’autista corse a prendere il veterinario; e solo Knobbie, fra tutti, rimase
calma.
Dal modo in cui si comportò prima che comparisse il veterinario, al quale,
dopo il suo arrivo, si affidò interamente con commovente fiducia, si sarebbe
immaginato che fosse al decimo parto invece che al primo. Sapeva
esattamente cosa doveva fare con ogni cucciolo non appena arrivava, e lo
faceva. Era la compostezza in persona, e chiedeva soltanto, finché non arrivò
il veterinario, di essere lasciata in pace. E quando ebbe finito, c’erano sei
cuccioli, due nati morti a causa, spiegò il veterinario, di quel salto sul divano.
Eccola qui a fianco, tre settimane più tardi, mentre allatta fiera i quattro
rimasti. Nelle pagine successive ci sono altre due fotografie: in una Knobbie
guarda un po’ preoccupata e con aria di rimprovero il piccoletto che, in
effetti, risultò la pecora nera della famiglia; nell’altra, scattata qualche tempo
dopo, quando ai miei occhi erano diventati assolutamente perfetti, i cuccioli
mi si arrampicano addosso dappertutto. Credo che ne andassi fiera tanto
quanto Knobbie. So che non avrebbe potuto amarli più di me.
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Knobbie allatta i cuccioli
Knobbie e la sua cucciolata
116
Elizabeth gioca con i cuccioli
Una conseguenza, però, della sua maternità (e io la considerai una cosa
molto strana) fu che prese profondamente in antipatia Chunkie. Non era
come se non avesse avuto un parto perfettamente facile; non gli serbava
rancore per le doglie. Eppure eccola lì che provava un’evidente avversione
per lui, che gli lanciava sguardi ostili ogni volta che lui gironzolando le
passava davanti, e se mai ardiva tanto da dare un’occhiata in direzione della
sua prole lei ringhiava in modo terrificante.
La mia mite Knobbie, inselvatichita proprio da quella stessa esperienza che
dovrebbe addolcire una signora! La guardavo stupefatta, ricordando
l’estrema devozione che un tempo mostrava nei confronti di Chunkie,
quando non poteva tollerare di non averlo entro il suo campo visivo, quando
lo persuadeva con le lusinghe a giocare con lei, quando lo adulava ridendo
con zelante diligenza a quelle che presumo fossero le sue facezie – e se c’è
ancora qualcuno che sostiene che i cani non ridono, guardi qui a fianco la
fotografia di Knobbie mentre ride. Non sta forse ridendo? E Chunkie non ha
forse l’aria dell’esperto raconteur, che ha appena detto la sua e sta
solennemente riposando sugli allori, mentre il pubblico si abbandona
all’attesa ilarità?
I cani mi ricordano sempre me stessa. So che spesso devo aver avuto la
stessa aria di Knobbie in questa fotografia quando, prima di sposarli, ridevo
alle storielle divertenti di quelli che divennero i miei mariti. Naturalmente
non potevo ridere così di cuore più avanti, quando il matrimonio mi aveva
reso familiari le storielle, ma la ripetizione ha il vantaggio di mettere in grado
l’ascoltatore di conoscere l’esatto momento in cui gettare indietro la testa
come Knobbie e scoppiare a ridere.
117
Knobbie mentre ride
Quando, però, fu scattata questa fotografia, lei era ancora all’epoca della
sua spensierata adolescenza. Dopo quella, non rise più. Dalla nascita dei suoi
cuccioli in poi, non c’era niente che Chunkie potesse fare, nessuna facezia,
per quanto divertente, che potesse comunicarle nel modo misterioso in cui
comunicano i cani, che riuscisse a strapparle un sorriso. Meno cortese (o
devo dire meno abietta?) e più onesta di me, lei semplicemente non si dava il
disturbo di ridere. I suoi pensieri erano solo per i figli. Quelle creaturine che
andavano in giro ad annusare ovunque assorbivano tutta la sua attenzione; e
assorbivano anche tutta la mia, scoprii, perché comporta davvero un gran
daffare badare a quattro cuccioli, quando incominciano a zampettare in giro.
Per un bel po’ mi ostinai a credere che avrei potuto tenerli tutti quanti,
tanto erano allo stesso modo incantevoli, ma a mano a mano che crescevano
quella fiduciosa convinzione si affievolì, diventò sempre più difficile tener
testa a così tanti cuccioli e alla fine fui obbligata, con estrema riluttanza e
dispiacere, a darne due a degli amici.
Con tutto ciò, continuavo ad avere quattro cani, e i miei parenti, avutone
sentore, mi scrissero dicendo che non era una bella cosa. «Stai diventando –
scrivevano – tutta cani… » e in realtà certe volte anch’io mi sentivo così,
tanto ero obbligata, di necessità, a farmi assorbire da quei quattro, se
dovevano avere tutto ciò che giustamente gli spettava quanto a corse, toilette,
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cibo, e inoltre dovevo abituare i cuccioli a quelle norme di igiene, acquisite le
quali soltanto avrebbero potuto starsene in pace.
Quattro cani non è soltanto che sembrino, ma lo sono tanti e non ero
sorpresa dai commenti dei miei parenti. Quello che, però, loro non sapevano
era quale eccezionale piacere, divertimento e attività fisica io traessi da loro.
È vero che l’attività fisica certe volte sembrava un po’ eccessiva e quando ero
stanca ero propensa a pensare che forse avrei dovuto incominciare più da
giovane a occuparmi di quel genere di cose; ma comunque i diciotto mesi
durante i quali li ebbi tutti quanti con me furono in assoluto i più allegri e
animati, anche se i più affannosi, di tutta la mia vita.
Vorrei raccomandare a quelle persone che tendono a essere inattive, cui il
sangue sta incominciando a stagnare pigro nelle vene, di provare a tenere
quattro cani, di cui due cuccioli. Non affidandoli alla servitù; occupandosene
davvero loro.
119
Cani numero tredici e quattordici
Woosie e Winkie
I due che alla fine scelsi di tenere erano Woosie e Winkie. Quanto a
Winkie, non ebbi mai dubbi che lui sarebbe stato il mio cane, tanto evidenti,
già fin da subito, erano la sua intelligenza e la sua sensibilità. Bianco candido,
eccetto il lato destro del muso che era nero ed eccetto una grande macchia
nera nel mezzo dell’orecchia sinistra, si distinse subito dagli altri per l’affetto
e la devozione che nutriva per me. Era un cane fatto per avere un unico
padrone, e io, non appena lui fu abbastanza grande da sapere quel che
voleva, fui il suo padrone. Eccolo qui a fianco, a un anno, in grembo a me,
tutta orgogliosa.
Quanto a Woosie esitai, continuando per un pezzo a valutare i suoi meriti e
a confrontarli con quelli degli altri due, e decidendomi finalmente per lui
perché, di tutta la cucciolata, sembrava essere il solo simile a Chunkie.
Sembrava. Mai realtà, come venne fuori poi, avrebbe potuto essere più
difforme dall’apparenza. Chunkie era un cane assolutamente adorabile e
Woosie no. Avevano lo stesso mantello, ma non lo stesso carattere. In
seguito, quando era troppo tardi e avevo dato via gli altri due, fui sorpresa
della mia cecità, di come m’ero fatta ingannare da una somiglianza tanto
superficiale. Tranne che per il mantello, all’epoca in cui Woosie aveva due
mesi, non c’era una briciola di somiglianza con il suo incantevole padre. La
testa non aveva niente della generosa ampiezza di quella di Chunkie, ma era
un affarino stretto, curiosamente bernoccoluto, e gli occhi, che erano quasi
un po’ strabici, non avevano neanche una scintilla di quella compiacente
bonomia, di quell’affabile espressione da vivi e lascia vivere che brillava in
maniera tanto attraente in quelli di Chunkie. Se avessi avuto più esperienza,
la forma della testa e quegli occhi quasi storti mi avrebbero messa in guardia,
ma lo scelsi per il suo pelo ondulato, e non appena fu abbastanza grande da
andarsene in giro davvero, si rivelò un diavoletto bell’e buono.
120
Winkie
Eccolo qui, nella fotografia a fianco, che sta ovviamente sussurrando
ribalderie all’orecchio innocente di Winkie, mentre suo padre siede in
disparte con aria di disapprovazione.
Come quella santa di Knobbie avesse potuto produrre un rampollo di tal
fatta non riesco a immaginarlo; come due genitori così deliziosi avessero
potuto generare un figlio del genere è un mistero. Per parecchio tempo non
riuscii a credere che morsi e ringhi fossero veri, ma pensavo fossero solo per
scherzo. Comunque erano minimi, in tono con le sue dimensioni minime; ma
a mano a mano che cresceva crescevano anche quelli, e fu uno shock
scoprire un giorno che se per caso Winkie non fosse stato il più grosso dei
due, non ne sarebbe rimasto granché di lui. E perfino così, certe volte finiva
per essere pieno di ferite. Quell’orecchia bianca con la macchia nera in
mezzo, di cui ero particolarmente orgogliosa, correva costantemente il
pericolo di essere fatta a pezzi, e molto presto fui costretta a intervenire in
121
quelli che per tanto tempo avevo supposto fossero giochi e ad affrontare il
fatto che Woosie era un cagnolino cattivo, i cui giochi in realtà non erano
altro se non lotte accanite.
Se poi incominciava a litigare in macchina era una cosa davvero
spiacevole. Avevo preso l’abitudine, quando furono grandi abbastanza, di
portarli a fare un giro con i loro genitori ogni pomeriggio alle tre, prima cioè
di venir risucchiata nella scia delle liete occasioni mondane che agitano
convulsamente la Côte d’Azur dalle cinque del pomeriggio fino a un’ora,
tardi nella notte, che non ho mai cercato di capire quale fosse. Li portavo in
macchina fino a boschi e campi sufficientemente lontani dalle strade
principali perché potessero correre sicuri. Non appena arrivava la macchina
ci saltavano dentro tutti e quattro, tre sul sedile posteriore e Knobbie davanti
accanto a me, e con allarmante frequenza, invece di starsene buono e
tranquillo come gli altri, Woosie incominciava ad attaccar briga.
Winkie e Woosie con Chunkie
È estremamente spiacevole guidare una macchina in cui ci sono dei cani
che stanno facendo la lotta. Non conosco niente di più difficile e di più
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inquietante. Se ci si ferma e li si butta fuori sulla strada, rischiano di essere
investiti. Se ci si ferma e non li si butta fuori, si è quasi certi di uscirne laceri
e sanguinanti. Ma nel complesso era più sicuro fermarsi, e di solito mi
accostavo al bordo della strada cercando di sbandare il meno possibile date le
circostanze, e poi, per lo meno salvi da uno scontro con altre macchine, mi
giravo indietro e facevo del mio meglio, abbrancandoli e gridando minacce,
per separare la massa impegnata nella lotta sul sedile posteriore.
Knobbie non lottava mai e quando c’era un combattimento in corso si
ritirava il più lontano possibile nel suo angolino, con aria smarrita. Chunkie
non incominciava mai per primo a litigare, ma una volta che la lotta aveva
preso il via non poteva resistere a buttarcisi dentro anche lui. Gettandosi nella
mischia, combatteva con una partecipazione e un gusto tali che mi
spaventavano, perché il suo piccolo ventre era tutto rotondo e teso e una
sciabolata accidentale dei denti di uno o dell’altro dei suoi furibondi figli
avrebbe potuto perforarglielo. Non ebbe comunque mai a subire
perforazioni, e neppure nessuno di noi fu mai seriamente ferito anche se, a
giudicare dallo strepito e dalla furia, c’era da pensare che da quella macchina
non sarebbe mai uscito vivo nessuno, figuriamoci tutti quanti; almeno
tornando a casa c’era pace e arrivavamo in qualche modo in ordine, perché
ormai avevano fatto la loro corsa e l’esercizio fisico li aveva calmati.
Ma di quanto moto avevano bisogno prima di raggiungere quello stato! Di
sicuro quella dei terrier fra tutte le razze è la più vivace. Ogni giorno
sembrava che la nostra passeggiata dovesse essere più lunga, per stare al
passo con la loro forza crescente, ed era inutile che cercassi di evitare la mia
parte di camminata sedendomi su un tronco mentre loro si rincorrevano,
perché se mi sedevo smettevano all’istante qualsiasi cosa stessero facendo e
si sedevano anche loro, dimenandosi, uggiolando, tremando dall’impazienza
di rimettersi a correre, ma senza muoversi finché non mi alzavo e mi mettevo
a camminare.
Era quanto mai stancante. Erano nati il giorno di Ognissanti, che, come
ogni chierichetto sa, è il I° novembre, e quando furono cresciuti abbastanza
da essere instancabili erano incominciati i caldi di aprile e di maggio. Non era
così facile per me, scoprii, essere sfrenatamente attiva in una primavera del
sud. La cosa, tuttavia, non aveva alcun effetto su di loro, e con in testa l’agile
e leggiadra Knobbie e in coda l’indomito Chunkie dalle gambe corte si
riversavano nei campi proprio come se il caldo non esistesse, mentre io,
parecchio indietro, mi affannavo a seguirli, ringraziando il cielo se riuscivo a
non perdere di vista quei quattro corpicini bianchi.
123
Per me, l’unico momento davvero piacevole delle nostre uscite era quando
ritornavamo alla macchina. Allora, dopo averli rinchiusi dentro al sicuro,
potevo sprofondarmi con un sospiro di sollievo sul sedile al posto di guida e
lodare Dio che, almeno per quel giorno, non avevo da camminare ancora.
Eppure, davvero, era grande la ricompensa che mi veniva da quegli esercizi
quotidiani. Mi rendevano agile, leggera, mi impedivano di metter su quelle
curve che nessuno desidera avere e allontanavano il momento, che suppongo
arrivi con una certa facilità per coloro che accumulano invece di consumare,
in cui si ha il fiato corto e si è fuori forma; e di sicuro fino allora non mi ero
mai resa conto di che vera e propria delizia fosse starsene seduti tranquilli.
«Abbiamo saputo, – scrivevano i miei parenti, – che stai diventando
magra. Essere tutta ossa non è mai stata una bella cosa. È ovvio che sono tutti
quei cani».
Eccoli qui, nella foto a fianco, tutti quei cani che aspettano che li lasci
uscire dalla macchina di ritorno da una delle nostre passeggiate. Knobbie è la
prima a sinistra, poi c’è Chunkie, poi Winkie e infine Woosie.
Non posso fare a meno di pensare che, perfino in questo momento di
calma, Woosie ha l’aria di un piccolo cane mascalzone, pronto a cogliere la
minima occasione per qualche cattiva azione.
Morte di Woosie
Cionondimeno, quando Woosie morì ne soffrii molto. Un amico di gran
talento che stava con me quell’estate, uno che se ne usciva con facilità in
nobili versi, scrisse così della mia casa e dei suoi abitanti di allora:
Questa è la casa di Grazie e Muse.
È anche la casa di Knobbie, Chunkie, Winkie e Woosie.
Ahimè, non lo fu a lungo di Woosie. Quasi non s’era ancora asciugato
l’inchiostro di quei versi che cessarono di valere per quel povero cane che fu
crudelmente rapito dalla morte; e non la rese meno penosa il fatto che fosse
accaduto per colpa sua, per quella spavalda disobbedienza che era una sua
caratteristica e che lo precipitò verso il suo destino.
Fin dall’inizio della sua carriera fu chiaro che Woosie non aveva alcuna
intenzione di obbedire mai a nessuno. Potevo fischiare fino a rimanere senza
fiato, chiamare, minacciare, supplicare, blandire e lui continuava imperterrito
a fare qualsiasi cosa gli andasse in quel momento. Se, dopo aver finalmente
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ottenuto che tornasse con l’ignominioso metodo di andarlo a prendere, mi
proponevo di suonargliele, lui, per parte sua, si proponeva immediatamente
di mordermi, e certe volte lo faceva; se, per evitare che si allontanasse
ancora, lo tenevo al guinzaglio, si sedeva e rifiutava di muoversi, a meno che
non lo si trascinasse addirittura. Io non riuscivo a trascinarlo, perciò lui non
si muoveva; e dopo poco, sconfitta, gli toglievo il guinzaglio, lo tiravo su e,
ignorando i suoi furiosi tentativi di mordere e i suoi sforzi per liberarsi, lo
portavo in braccio per un po’, giusto per fargli vedere praticamente che
doveva venire con noi e non scappar via per conto suo in modo così
pericoloso.
Knobbie, Chunkie, Winkie e Woosie
Ma a che prò tutto questo? Il momento stesso in cui lo mettevo giù – e
dovevo farlo presto, perché nessuno può portare a lungo in braccio un cane
che fa di tutto per liberarsi – lui schizzava via di nuovo, a volte convincendo
Winkie che, se lasciato da solo, era di un’obbedienza squisita, a schizzar via
dietro di lui. Winkie, comunque, lo persuadevo con facilità a ritornare. Era
sempre felice soltanto se sapeva che ero vicina, e sebbene si precipitasse
125
fuori insieme agli altri nell’immediata eccitazione di poter uscire dalla
macchina, solo lui di tutta la tribù si fermava di tanto in tanto, guardandosi
intorno per vedere se stavo arrivando. Perciò nell’attraversare le strade era al
sicuro quanto i suoi più esperti genitori: aspettava finché non ci fossi anch’io,
e, al mio comando, si affrettava insieme a me.
Ma Woosie non si sognò mai né di aspettarmi né, quando attraversavamo,
di affrettarsi. Le uniche occasioni in cui sembrava tranquillo e senza fretta
erano quando stava nel bel mezzo di una strada. Là si metteva a bighellonare,
lui che non bighellonava mai, e si fermava ad annusare, assorto nell’esame di
qualsiasi oggetto potesse interessargli, comportandosi come se cose quali le
macchine che gli si avventavano addosso da dietro le curve e lo travolgevano
con implacabile impetuosità tipicamente francese, non esistessero.
Fu la sua morte. Venne un giorno in cui gli altri e io, come il solito, ci
eravamo affrettati ad attraversare la strada che sembrava assolutamente
tranquilla, e lui, come il solito, si attardava là in mezzo. Arrivati dall’altra
parte, lo chiamai e fischiai come il solito, e come il solito non ci badò
neppure. Era soltanto una strada secondaria di campagna, su cui non avevo
ancora mai visto traffico, cosicché non tornai indietro immediatamente a
riprenderlo, come avrei fatto se si fosse trattato di una route nationale, ma
proseguii per pochi passi addentrandomi tra i cespugli di salvia e di cisto,
esortandolo, senza voltarmi, a fare il bravo cane e a venire; e quei pochi passi
furono sufficienti a far sì che fosse impossibile raggiungerlo in tempo per
salvarlo quando una macchina arrivò a tutta velocità da dietro la curva.
Lo travolse prima che io potessi perfino incominciare a correre e continuò
la sua strada nella più totale indifferenza di quello che si era lasciata dietro
sull’asfalto. Era ancora vivo, ma privo di sensi quando lo raggiunsi, e lo
raccolsi e guidai come una pazza fino al veterinario più vicino, con gli altri
tre cani ammucchiati, atterriti, sul sedile posteriore.
Lungo la strada quella povera creatura straziata rinvenne e allora
incominciò l’orrore. Dovetti rallentare per paura di recare ulteriore sofferenza
alla sua agonia, e sembrava che non arrivassimo mai dal veterinario. E se poi
il veterinario non ci fosse stato? Oh, sono stata spesso riconoscente nella mia
vita, profondamente riconoscente, ma mai più di quando seppi che c’era.
Insieme portammo il mio sventurato cagnolino sul tavolo operatorio, dove,
ormai più quieto, rimase sdraiato come vi era stato messo, gli occhi fissi su di
me a cui, quand’era forte e robusto, aveva dato così poco ascolto. In quegli
ultimi terribili momenti io ero la sua unica speranza… e quale speranza! Una
che non poteva fare niente per lui se non accarezzare la sua povera testa e,
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nell’ansia disperata che il veterinario facesse in fretta a por fine a quella
sofferenza, sussurrare: «Starai bene presto, piccolo mio… starai bene
presto…».
Sembrava, tuttavia, che capisse e mi credesse. Non tolse mai gli occhi dalla
mia faccia fino a che il sonno benedetto che il veterinario gli stava
somministrando a poco a poco li offuscò. Non avrebbe potuto vivere. Aveva
riportato delle ferite particolarmente gravi. E che cosa pensare, chiesi al
veterinario quando fu tutto finito, della gente in quella macchina, che sapeva
ciò che aveva fatto, perché li avevo visti, mentre ancora arrancavo a fatica tra
i cespugli, che guardavano dal lunotto posteriore, eppure avevano proseguito
indifferenti? Pensava che in tutto il mondo, per quanto vasto fosse, potesse
esserci perdono per gente del genere?
Quello si strinse nelle spalle. «Après tout, Madame, – considerò, – ce n’est
qu’un chien».1
Mi sembrava mentre guidavo verso casa, con Woosie avvolto in una
coperta che mi aveva imprestato il veterinario, ai miei piedi… Woosie così
tranquillo ora, lui che non era mai stato tranquillo, così per sempre
remissivo, mi sembrava di vedere per la prima volta, nella loro giusta
proporzione, la crudeltà e la sofferenza che è la vita, e la sicura liberazione,
l’unica vera consolazione, che è la morte. Dall’aver tenuto in grande
considerazione il fatto di essere viva – perché, nonostante alcuni periodi di
profonda infelicità, sono stata una persona fortunata e felice – incominciai a
tenere in grande considerazione il fatto di essere morta. Libera da tutto. Finite
le sofferenze. Al sicuro da ulteriori dolorosi affanni. La mia mente, cioè,
mentre guidavo, correva in direzioni che una persona in pace con se stessa e
col mondo avrebbe definito morbose; correva, in altre parole, in direzione
della cruda verità. E non vedo come avrebbe potuto essere diversamente con
una creaturina morta, una creatura con cui appena poco prima avevo una
così intima familiarità, che un’ora prima era stata quasi ferocemente viva e si
divertiva sfrenatamente, che giaceva ai miei piedi nell’orribile mansuetudine
della morte. Finito, Woosie fu; e il modo in cui era morto mi lasciò con un
gran desiderio, se solo fosse stato possibile, di chiedere il suo perdono e il
perdono di tutte le povere creature inermi per la tragica crudeltà degli esseri
umani.
Superai un asino lungo la strada, una bestia piccola che arrancava
strenuamente, facendo del suo meglio per l’enorme uomo che, seduto su un
cumulo di masserizie, lo incitava. Ma il fatto di fare del suo meglio non gli
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risparmiava le botte. L’uomo lo picchiava con violenza e spesso. E
guardando la faccia di quell’individuo, pensai che un asino costretto a
lavorare più di quanto possa, un cane preso a calci, un gatto bersagliato di
sassate, hanno tutto il diritto di ritenere che questo sia un mondo di demoni.
Eppure, quando arrivai a casa, trovai la familiare pace divina di una sera
d’estate meridionale. Demoni? Una parola del genere era un oltraggio. Il cielo
era ancora limpido dopo un tramonto d’oro puro. La linea dentellata
dell’Estérel, che si stagliava scura e delicata, si protendeva fino a un mare
color di perla. I cipressi, nerissimi e immobili, si ergevano solenni testimoni
(facile da immaginarsi) alla gloria di Dio; e su tutta la campagna si stendeva
un silenzio così santo che sembrava che il mondo intero stesse recitando le
preghiere della sera. Non era così, naturalmente. Quella gente nella macchina,
che aveva ucciso Woosie, doveva ormai essere arrivata a Montecarlo e
probabilmente era intenta a tutt’altro che a pregare; e nelle case dei contadini,
dove le luci incominciavano a brillare alle finestre, c’erano, dal loro punto di
vista, pochi motivi per innalzare preghiere di ringraziamento.
Ma che razza di mondo era quello, dunque? mi chiedevo, guardandomi
intorno con animo perplesso e turbato. La sua bellezza non era che una presa
in giro? Non era altro che uno scherzo di cattivo gusto giocato ai suoi figli
inermi? Era solo una coltre di bellezza stesa a coprire l’orrore, e se se ne
fosse alzato un angolo si sarebbe visto qualcosa di così terribile, tanta
sofferenza e tanta crudeltà, che nessuno mai avrebbe potuto essere di nuovo
in pace?
Il giardiniere mi aiutò a seppellire Woosie. Lo seppellimmo in completo
silenzio. Niente domande, niente spiegazioni. Quando finimmo, il breve
crepuscolo del sud s’era dissolto e c’erano le stelle…
Chiarezza e limpidezza senz’ombra di macchia…
Questi poeti.
Qui a fianco, in questa fotografia dell’inverno successivo, ci sono i tre cani
che mi restavano: Chunkie, sotto il mio braccio destro, Knobbie, sotto quello
sinistro, Winkie in piedi, che si tiene al mio ginocchio, tutti quanti interessati,
ma con una certa apprensione, a quello che sta facendo l’uomo con la
macchina fotografica.
Mi erano ormai diventati quasi dolorosamente preziosi. Non che io temessi
che il loro destino potesse essere come quello di Woosie, perché sia Knobbie
che Winkie erano perfettamente ubbidienti, e Chunkie, anche se non reagiva
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proprio subito agli ordini, tuttavia se la cavava benissimo ad attraversare la
strada da solo; ma dopo la morte di Woosie sembrava che ci fossimo stretti di
più l’uno all’altro, in un affetto meno distratto. Le lotte appartenevano al
passato. Le sgridate si arrugginirono perché non più usate. Nessuna mano
dovette più essere alzata. E l’intelligenza e la prontezza di Winkie si
svilupparono tanto in quell’atmosfera di pace, che divenne davvero un cane
assolutamente eccezionale.
Per esempio, cosa potrebbe esserci di più eccezionale del modo in cui, una
notte, affrontò una situazione quanto mai spiacevole e difficile? Mi svegliai
sentendolo uscire dalla cesta e incominciare a fare quei versi che precedono il
vomito, e perdendo all’istante la testa, perché avevo appena comprato un
tappeto nuovo, non riuscii a pensare a niente di meglio che correre qua e là
per la stanza come una gallina impazzita, prima alla porta che dava sul
terrazzo, poi a quella che dava sul corridoio, incapace di decidere da che
parte fosse meglio farlo uscire, ma consapevole che da una parte o dall’altra
doveva uscire immediatamente. E lui, tutto preso com’era in quel momento,
pure trovò il tempo, tra un singulto e l’altro, di voltare la testa a guardarmi,
proprio come se stesse dicendomi: «Non agitarti, è una questione che
riguarda me», dopo di che, tra i conati ma con le idee chiare, procedette
verso il bagno, dove, si piazzò davanti al gabinetto, attento, capace e
deliberato, e vi vomitò dentro.
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Chunkie, Winkie e Knobbie
Io sostengo che è impossibile non sentire che un cane di tal fatta è quasi
dolorosamente prezioso. E oltre a questa saggezza e a questo autocontrollo
aveva in più l’attrattiva di adorare esclusivamente me. Ogni volta che in vita
mia mi è successo, mi è sempre piaciuto molto. E con Winkie, poi, era cosa
che durava anche; lui metteva davvero in atto ciò che il matrimonio
prescrive, e rinunziando a tutti gli altri teneva solo a me.
Era raro che distogliesse i suoi bellissimi, teneri occhi da me. Quando
andava a dormire ed era costretto a chiuderli, il suo pensiero continuava,
vivido nel cuore, a essere rivolto a me, perché al mio più lieve movimento li
apriva all’istante e mi fissava con aria indagatrice, come a chiedere se c’era
qualcosa che io volessi e che lui potesse fare; e dovunque andassi c’era anche
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lui, e dovunque mi sedessi lui saltava su e si sedeva accanto a me, vicino
vicino, a proteggermi, la sua testa sul mio ginocchio.
Un cane carissimo. Di tutti i miei cani, compreso Coco, è stato quello che
ho amato di più. E dico è stato, e parlo del mio amore usando il tempo
passato, perché è morto.
Fuit. Amavi.
Morte di Winkie
Questa storia, come la vita, a mano a mano che procede comincia a essere
punteggiata di tombe. Sembrerebbe che più si ha a cuore un cane e più ci si
prende cura di lui, più, per così dire, quello muore. Il cane del lattaio, che
non ha mai avuto una parola gentile ed è tenuto alla catena ed è mezzo morto
di fame, non muore; nei cinque anni da che sono qui, un vecchio alsaziano è
andato in giro bighellonando nei posti più pericolosi e non è stato investito
da nessuna macchina; e un decrepito chien de chasse,2 di proprietà del
postino, che ha smesso di fare il suo lavoro da tanto tempo e che non riesce
quasi più neanche a trascinarsi, continua a vivere. Solo Winkie muore,
Winkie, custodito, protetto, amato e nel pieno della sua giovinezza; solo lui,
di tutti i cani sparsi per il mondo, cade tra le grinfie di una zecca, tra milioni
di zecche che aspettano nell’erba e tra i cespugli di attaccarsi ai cani che
passano, e trova la morte. E un’altra tomba si aggiunge a questa storia e alla
mia vita.
Eppure, per quanto la sua morte mi avesse reso profondamente infelice e
per un certo periodo di tempo incredibilmente disperata, non provai quella
particolare angoscia e quell’orrore che mi avevano sopraffatta quando era
morto Woosie. Non c’era crudeltà, ripugnante perché consapevole, dietro
questa morte. Non è possibile essere indignati con una zecca. Come tutti,
anche le zecche devono vivere, e poiché la natura ha stabilito che il modo di
vivere più opportuno per loro sia di attaccarsi a un cane, che altro resta da
fare se non cercare, con competenza e con costanza, di sconfiggere la natura?
Quando si parla di zecche, non c’è fine al mio sapere e alla mia
rassegnazione, né, dopo la lezione che ho avuto, c’è fine all’abilità e alla
pazienza con cui le cerco nei miei cani ancora vivi. Senza risentimento, ma
anche assolutamente implacabile, le scovo, con uno zelo così indefesso che
dovrebbe essere una zecca in gamba davvero quella che, in futuro, riuscisse
mai a sfuggire alle mie pinzette.
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Ma tutto questo non mi rida Winkie, ed è straziante sapere che avrei potuto
salvarlo se, prima che morisse, fossi stata così esperta, paziente e conscia del
pericolo come lo sono diventata in seguito. In quei rischiosi mesi caldi, da
aprile a ottobre, non avrei mai dovuto lasciare i miei cani; ma, supponendo
che andasse tutto bene, perché mangiavano e dormivano e giocavano come il
solito, e se Winkie non scorrazzava proprio come gli altri pensai
semplicemente che, con quel caldo, dimostrasse un gran buonsenso,
supponendo, quindi, che andasse tutto bene come sembrava, per una volta li
lasciai durante l’estate e me ne andai a fare un viaggio in Corsica.
Il motivo per cui io, che non faccio mai viaggi di piacere, in
quell’occasione lo feci, è perché era agosto, e in agosto c’è il mio
compleanno e i compleanni (lo avevo imparato in Pomerania) sono questioni
della massima importanza e non devono per nessuna ragione essere ignorati.
Questo precetto ha fatto tanta presa su di me che non potrei ignorarlo
neanche se ci provassi. Passano gli anni, eppure ancora, a mano a mano che
quel giorno si avvicina, sento dentro di me un fremito di eccitazione, di
attesa, un’urgenza di celebrarlo, un impulso a fare qualcosa di spettacolare;
perché quello, la Pomerania insisteva e io non posso dimenticarlo, è il giorno
dei giorni nella vita di una persona, un giorno in cui è un dovere, e nello
stesso tempo un privilegio, lasciarsi andare.
Di conseguenza ogni anno mi guardo intorno con pressante sollecitudine,
alla ricerca della direzione che può prendere questo lasciarsi andare. Ma,
dopo un po’, sono poche le direzioni rimaste che appaiano sufficientemente
gradevoli; e il problema è reso più difficile dal fatto che sono sola, senza figli
o mariti che mi sollecitino ornando quel giorno con le candeline e
guarnendolo con la torta. Avevo passato il mio penultimo compleanno a letto
imbronciata, tanto mi sembrava impossibile trovare una forma di attività
festosa che fosse allo stesso tempo inconsueta e rispettabile; e quando, al
sopraggiungere del mio ultimo compleanno, alcune giovani snob di mia
conoscenza che stavano a Calvi – donne snob, ma gli snob, per come la
intendo io, possono essere di entrambi i sessi – mi scrissero invitandomi a
raggiungerle in quello che descrivevano come il posto migliore del mondo
per i bagni, io colsi al volo la proposta come una soluzione mandata da Dio
ai miei problemi, e senza un istante d’esitazione mi lasciai andare in Corsica.
La Corsica è a sole sei ore da Nizza quando il mare è calmo – se il mare
non è calmo occorre parecchio più tempo –; Nizza è a una sola ora di
macchina da me, e me ne partii per raggiungere spensieratamente altre
persone spensierate e rimasi via una settimana. Una settimana, verrebbe da
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pensare, non è un periodo molto lungo per lasciare i propri cani e i propri
doveri, ma fu troppo lungo per Winkie, e quando tornai a casa era ormai
impossibile salvarlo.
Continuando a pensare, nella mia ignoranza, che quella estrema debolezza
fosse dovuta al caldo, chiesi al veterinario di darmi un ricostituente per lui;
ma il veterinario, quando lo vide, gli guardò immediatamente l’interno della
palpebra e la lingua, e in preda a uno sgomento che mi raggelò il cuore disse:
«Mais c’est effrayant».3
Era davvero effrayant. L’interno delle palpebre e la lingua di Winkie, li
vedevo allora per la prima volta, erano bianchi quasi come la neve e il
veterinario mi spiegò che si era preso la fatale malattia causata dalla zecca, la
malattia più temuta di qualsiasi altra da queste parti, che provoca nelle vittime
emorragie interne fino a farle morire. Lentamente. Ogni giorno diventano più
deboli, più fredde, meno capaci di stare dritte.
Non scenderò nei dettagli della morte di Winkie; è ancora troppo vicina.
Ieri, guardando fuori dalla finestra il giardino che imbruniva, dove
un’insolita pioggia cadeva gocciolando sulle foglie gialle, mi sono accorta
che i miei occhi si erano posati proprio sul luogo dove avevamo trascorso le
nostre ultime ore insieme, lui sdraiato su una seggiola, gli occhi, diventati
curiosamente saggi e tristi, che fissavano i campi dove non sarebbe mai più
tornato a correre, io seduta sull’erba accanto a lui, la mano che teneva la sua
zampa fredda, così fredda perché così senza sangue, in attesa del veterinario
che doveva venire alle sei per farlo addormentare; e facendo il conto delle
settimane, mi sono accorta che ne sono passate dieci da allora, e che ieri era il
giorno esatto, dieci settimane fa, in cui morì. È ancora molto vicino e i miei
pensieri sono ancora confusi.
Mi è di conforto il fatto di aver potuto prevenire le sofferenze degli ultimi
stadi di questa terribile malattia abbreviandola, e posso pensare a lui sapendo
che non ha mai conosciuto il dolore vero. Sempre, proprio fino alla fine,
quando i suoi occhi divennero così stranamente saggi e tristi, Winkie è stato
felice. Nessuno lo ha mai sgridato. Dall’inizio alla fine non ha mai sentito
altro se non parole di gentilezza e d’amore. La sua breve vita è stata piena di
tutto ciò che un bravo cane merita e la sua fine è stata completamente
indolore: soltanto uno sdraiarsi, quando glielo dissi – il suo ultimo atto di
obbedienza –, con la testa sul mio grembo, dove tanto spesso l’aveva posata.
E prima che avesse sentore d’altro, profondo sonno.
133
E ora sono arrivata alla fine del mio quattordicesimo cane, e con lui finisce
questa testimonianza. All’inizio ho spiegato che ho avuto, in tutto, quattordici
cani, e una volta accompagnato il quattordicesimo lungo la sua breve vita, dal
giorno in cui nacque sul divano della mia camera da letto al giorno in cui
morì in grembo a me, non c’è altro da dire.
Qui, a fianco, ci sono i suoi genitori orbati, in trepida attesa, incapaci di
capire perché non torna.
Knobbie e Chunkie in trepida attesa…
134
Chunkie sulla spiaggia
Ogni mattina, i primi giorni dopo la sua morte, non appena li si faceva
uscire, saltavano su quello sgabello in giardino, da dove potevano vedere
meglio i vari sentieri per cui Winkie avrebbe potuto tornare a casa. Stavano
seduti lì sopra pazientemente insieme per ore, Knobbie che guardava da una
parte e Chunkie dall’altra, ed era difficile persuaderli a scendere perché
venissero a mangiare.
E qui a fianco, qualche tempo dopo, c’è Chunkie da solo con me, ma
soltanto per tre settimane, perché Knobbie, sfortunatamente proprio quando
avevamo più che mai bisogno del conforto della nostra reciproca compagnia,
dovette andare in visita, come ogni sei mesi, dall’amico che in tali occasioni
la teneva al sicuro dalle attenzioni di Chunkie.
Dalla fotografia si può vedere che Chunkie è di nuovo allegro. Dapprima,
quando anche Knobbie lo lasciò, era terribilmente depresso e disorientato, e
per consolarlo delle diverse prove cui era stato sottoposto, ogni pomeriggio,
sapendo che adora fare il bagno e scavare buchi nella sabbia, lo portavo giù
al mare; e dopo alcuni giorni notai, con piacere, riapparire quell’aria da «Non
mollare mai! » che ho sempre tanto ammirato in lui. Chunkie di sicuro,
qualsiasi cosa possa essere io, è resolut. Lui, di sicuro, dopo ogni scacco, è
pronto ad affrontare di nuovo la vita il più presto possibile con lo spirito
135
giusto.
E qual è lo spirito giusto?
Quello di Chunkie, credo: restare a galla, con la coda che sventola
animatamente come una bandiera fino alla fine.
Cane saggio e assennato; che cerca di trarre il massimo vantaggio da ciò
che ha, invece di preoccuparsi di ciò che non ha. E rimuginando sulle rocce
in riva al mare in quei pomeriggi, mi venne in mente che sarebbe stata
davvero una gran vergogna se io fossi stata meno saggia, meno salda e meno
risoluta nel rifiuto ad abbattermi sotto i colpi, di quanto lo era Chunkie.
Così feci un’altra solenne promessa.
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1
[Cuccia; sta’ buono; pfui].
[Padrona di casa].
3 [Piccola sciocca].
4 [Johann, Johann, tu dolce uomo].
5 [La signora contessa desidera?]
6 [Aristocratico].
7 [Appartenente all’alta borghesia].
2
1
[La piccola signora e il grosso cane].
2 [Cacciava],
1
[Stupide donnicciole].
[Quando queste povere piccole si troveranno per la prima volta ad andare a letto con un
uomo].
3 [Donna incompresa].
4 [Ah sì!]
5 [Dio, com’è vero].
6 [Conte].
7 [Mia cara mogliettina].
2
1
[Custode].
[Non gli manca che la parola].
3 [Castello].
4 [È un orso, è un orso!]
5 [Raccoglimento].
6 [Traduzione di Mario Praz].
7 [Ecco l’inverno].
8 [Il bel tempo].
9 [Con le pive nel sacco].
10 [Fuori combattimento].
11 [Risoluto a vivere nel vero, nel bene, nel bello].
12 [«Non sta tanto bene», disse il custode. «Ha fatto venire il veterinario?» «Non ancora.
Dato che sapevo che la signora doveva arrivare, ho aspettato il suo permesso». Aspettato!]
2
1
[Al di là del bene e del male].
1
[Focaccine di pasta lievitata che si mangiano calde].
137
2
[Colpo di fulmine].
1
[Parto].
1
[Dopo tutto, signora, non è che un cane].
2 [Cane da caccia].
3 [Ma è spaventoso].
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Indice
Parte prima
Cane numero uno
Cane numero due
Cane numero tre
Cane numero quattro
Cane numero cinque
Cani numero sei e sette
Cane numero otto
Parte seconda
Cane numero nove
Parte terza
Cane numero dieci
Cane numero undici
Cane numero dodici
Cani numero tredici e quattordici
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