Q 92 uesta settimana il menu è DA NON SALTARE Libri da mangiare Istruzioni per l’uso “ E’ evidente che siamo davanti a una grande campagna promozionale delle lobby che vogliono promuovere certi valori. Questo non avviene solo con i videogiochi come “The Sims”, ma anche con libri destinati ai bambini che invece di proporre una famiglia con papà e mamma, quando si parla di genitori ne propongono una di un papà con un papà Carlo Giovanardi Sottosegretario alla Famiglia Albani da pagina 2 PICCOLE VUOTI&PIENI ARCHITETTURE Realtà virtuale 20 anni senza Leonardo Ricci Stammer a pagina 5 OCCHIO X OCCHIO Il fotografo di Montmartre Cecchi a pagina 7 ISTANTANEE AD ARTE Berlincioni, foto da prima pagina RIUNIONE DI FAMIGLIA a pagina 4 Il romanzo della rivoluzione (the end) Maramaldeggiare pallido e assorto Monaldi a pagina 18 C n 92 PAG. sabato 27 settembre 2014 o DA NON SALTARE U O .com di Paolo Albani [email protected] D a tempo, a proposito delle varie tecniche escogitate per assimilare il contenuto di un libro (comunemente si pensa che la migliore sia quella di leggerlo), sta prendendo campo l’idea che una delle più efficaci e promettenti sia la tecnica che prescrive di mangiarlo, il libro, copertina e sopraccoperta incluse. È un’idea non nuova: il diplomatico fiammingo Ogier Ghislain de Busbecq (1522-1592) racconta, sulla base di notizie avute dai turchi, che i tartari mangiano i libri convinti di assorbirne la sapienza in essi racchiusa. Il ritorno sul mercato libraio della bibliofagia − pratica che ha origini lontane, almeno da quando Dio ordinò a Ezechiele di mangiare (anche se forse in senso metaforico) un lungo rotolo denso di parole 1 Libri da mangiare Istruzioni per l’uso Scelta del libro Una volta individuati il genere e l’autore è consigliabile orientarsi su volumi di media portata (non più di 150-200 pagine), preferibilmente rilegati a filo (la colla può essere pesante, senza contare coloro che sono allergici a tale sostanza) e con copertina non rigida. Naturalmente va da sé che per i buongustai e i lettori forti non si pone alcun limite al numero di pagine del libro da mangiare (un piatto speciale prediletto da questa tipologia di persone sono le enciclopedie, i dizionari e gli atlanti geografici e storici in salmì). Per coloro che hanno problemi di digestione si consigliano particolari libri d’artista composti di fogli di carta velina (sulla falsariga di quelli elaborati da Bruno Munari). 2 2 che si sciolsero come miele nella bocca del profeta − è stato salutato un po’ da tutti con grande entusiasmo: editori, librerie, edicole, supermercati hanno esultato vedendo aumentare le loro vendite di libri; perfino le biblioteche si rallegrano, obbligate come sono per decreto ministeriale a farsi ricomprare il libro una volta mangiato dall’utente cui è stato dato in lettura o in prestito (gli unici dispiaciuti − e c’è da capirli, poveretti − sono i collezionisti che i libri spesso nemmeno li aprono per conservarli più a lungo). Di fronte all’ampia e inarrestabile diffusione del fenomeno della bibliofagia può essere utile la consultazione di questo piccolo manuale di istruzioni, uscito anonimo il mese scorso per le Edizioni Bartleby, che affronta il tema di come ingerire e gustare al meglio la prelibatezza di un libro. Prima operazione Non appena effettuata la scelta del libro da mangiare, la prima cosa da fare è “sfogliare” il libro stesso, ovvero staccarne tutte le pagine, una per una, e metterle a bagnomaria. Per approntare un bagnomaria, si prepara anzitutto il composto cartaceo, cioè l’insieme dei fogli non accartocciati, all'interno di un recipiente. Quindi si riempie di liquido, in genere acqua, un altro recipiente di forma e dimensioni adatte a contenere il primo recipiente in modo agevole e sicuro. Si mette il primo dentro il secondo e quest'ultimo sul fuoco o direttamente in forno. Tutto ciò rende più morbida la carta, liberandola allo stesso tempo da varie impurità tipo tarme e altri insetti, polvere, macchie di unto, ecc. Si tenga presente che se un libro è intonso va da sé che più lungo dev’essere il tempo di cottura. C 3 Seconda operazione Si prendono i fogli riscaldati, si separano l’uno dall’altro facendo attenzione che non si rompano e si mettono a asciugare stendendoli a un filo, meglio se all’aria aperta, con una molletta di legno o se preferite di plastica (evitare accuratamente l’acciaio che può lasciare sui fogli ancora umidi delle piccolissime tracce residuali non proprio gradevoli al palato). 4 n 92 PAG. sabato 27 settembre 2014 o DA NON SALTARE U O .com 5 Suggerimenti finali Fate attenzione: ricordatevi che, così come nel campo dei miceti esistono alcune specie di funghi che sono velenose, anche in quello libraio esistono volumi nocivi, perciò bisogna stare in guardia e considerare che non tutti i libri sono commestibili; ve ne sono alcuni decisamente immangiabili, tossici e deleteri, altri che richiedono speciali procedure per essere cucinati a dovere al fine di non rovinarli e renderli poco appetibili. Ad esempio per cucinare un Perec è necessario seguire rigorosamente determinate regole, altrimenti si rischia di fallire come avviene con l’impazzimento della maionese; lo stesso vale nella preparazione di un buon piatto a base di pagine di Céline: in questo caso conviene prima togliere tutti gli innumerevoli puntini di sospensione disseminati nel testo che, al pari dell’aglio o del cetriolo, possono risultare indigesti. Per cucinare bene l’Ulisse di Joyce (consiglio di farlo in fricassea farcito di parole-macedonia) si deve lasciarlo frollare almeno una giornata intera Terza operazione Una volta asciutti si cucinano i fogli del libro secondo la ricetta preferita. Ad esempio in un articolo apparso sulla rivista Le Livre del 1880 Pierre Gustave Brunet ricorda come uno scrittore scandinavo, dopo aver pubblicato nel 1643 un libello politico intitolato Dania ad exteros de perfidia Suecorum, divora per punizione il suo scritto bollito nella zuppa. Le minestre, e in genere ogni piatto a base liquida, si presta in modo meraviglioso alla cucina di ogni di tipo di libro, specie quelli la cui trama, come il brodo, è allungata surrettiziamente. Un famoso chef piemontese, Alberto Vettori, ha inventato il “romanzo alla Biron”, ispirandosi all’omonimo personaggio delle Illusions perdues di Honoré de Balzac, il giovane figlio di un orefice, segretario del barone di Goërtz, ministro di Carlo XII, re di Svezia (Il giovane segretario trascorre le notti a scrivere; e come tutti i grandi lavoratori contrae un’abitudine, si mette a masticare la carta [...]. Il nostro bel giovane comincia con della carta bianca, ma vi fa l’abitudine e passa ai fogli scritti, che trova più saporiti [...]. Infine il piccolo segretario, di sapore in sapore, finisce con il masticare delle pergamene [la masticazione lenta – altrimenti detta slow chewing − è un fattore importante per digerire bene la carta, ndr] e mangiarle!). La ricetta del romanzo cucinato alla Biron consiste nel prendere un romanzo (quelli di Moravia vanno benissimo), lessarlo bene a fuoco lento in una pentola stretta e alta aggiungendo circa 3 litri di acqua per ogni kg di carta e 1215 grammi di sale, pepe, sedano, cipolla e chiodi di garofano; quando il bollito di carta romanzesca sarà cotto a puntino (con i romanzi di Moravia è facile raggiungere in breve tempo un ottimo stato di sfinimento), prendetelo con un mestolo forato, fatelo sgocciolare e poggiatelo su di un tagliere, tagliatelo a fette di circa 5 cm di spessore utilizzando un coltello dalla lama liscia e lunga; disponete le fette di carta su di un piatto da portata e servite immediatamente 3 5 passi per portare in tavola un Joyce o un Céline cotto a puntino C n 92 PAG. sabato 27 settembre 2014 o RIUNIONE DI FAMIGLIA U O .com 4 LE SORELLE MARX Il romanzo della rivoluzione (the end) Riassunto delle puntate precedenti: la riformuccia del Ministero ha spodestato i Guardiani dei beni culturali e il “Che” Franceschini ha volto il suo sguardo rivoluzionario verso il turismo e la fotografia. Ormai niente sembra poterlo fermare sulla strada della Rivoluzione. La nostra comedia volge al termine. Ha assunto talvolta le tinte fosche della tragedia; altre volte quelli più brillanti della commedia degli equivoci, o quelli accesi del romanzo di avventura, o anche quelli tenui (quasi sbiaditi) del romanzo d’appendice. Grandi personaggi hanno incrociato la loro vicenda con persone minori, ordinarie. Ma come in molte rappresentazioni letterarie o teatrali delle vicende umane, rovesciamenti improvvisi della storia trasformano lo straordinario in ordinario, elevano i bassi alle sfere alte, cambiano principi in rospi: si chiamano, in genere, rivoluzioni. E così, giunti al termine della nostra storia, assistiamo a capovolgimenti e rivolgimenti che potremmo definire rivoluzionari (sempre che il Leader Maximo ci conceda questa licenza), trasformando Regine in Badesse e servi in eroi. Il “Che” Franceschini è esaltato dai suoi recenti successi; colto da frenetico tremito rivoltoso non riesce a stare fermo un secondo; è tutto un disegnare strategie militari, piani d’attacco, cospirazioni carbonare. Il suo Quartier Generale (così ha ribattezzato il Collegio Romano) è un brulicare di consiglieri, colonnelli, spie, soprintendenti che confabulano e chiedono ordini del capo rivoluzionario. Ma questo fermento rivoluzionario non tarda a giungere alle orecchie di Matteo Renzi a Palazzo Chigi: la sua rabbia cresce in modo esponenziale, è incontenibile, esplode. Renzi chiama il più fidato dei suoi, Luca Lotti. E’ noto, il Lotti, per essere un esecutore spietato dei voleri del Capo; fedele fino alla morte, sarebbe disposto a buttarsi in un pozzo (ma soprattutto a buttarci altri) per Lui. “Luca, quel bischerello di Dario si è montato un po’ troppo la testa. Tutte queste stronzate sulle riforme lo hanno un po’ troppo ringalluzzito: selfie libero, turismo popular, ministero del Poder Popular! Ma che cavolo pensa di fare! Ora basta, bisogna fermarlo e fargli passare il ruzzo. Vai, e sistemalo una volta per tutte; senza pietà. Bisogna schiacciargli il capino! Capito?”. “Sì, Matteo, ma se stronchiamo Darietto, quelli delle Soprintendenze rialzano il capo; penseranno di aver vinto e quelli rimangono al loro posto per un altro secolo e mezzo. Non vorrai mica sacrificare Dario e poi tenerti l’Acidini fra le scatole? E poi te lo immagini Paolucci? Quello convince Francesco a mettere i tornelli per entrare in Città del Vaticano e ci fa togliere il passa- porto diplomatico.” “Porca miseria, c’hai ragione Luca. Intanto, sistemiamo quei due della Vecchia Guardia.”. Il Leader Maximo prende il suo cellulare preferito e digita lo 007: “Pronto, Squitieri? Senta, vorrei sapere a che punto sono quelle due indagini sulle assicurazioni per il trasporto di opere d’arte. Sì, sì, quelle su Paolucci e l’Acidini. Come, in fase istruttoria? Ma la Giustizia è davvero lenta! Via, vediamo di darsi una mossa. Ché altrimenti nella riforma della Giustizia che sta preparando Orlando, ci metto anche la Corte dei Conti e la trasformiamo nella Corte di Conciliazione delle infrazioni al Codice della strada”. Riattacca e riprende a impartire ordini al fidato Lotti: “Ovvia, questa è sistemata. Ora, Luchino vai al Collegio Romano e abbassa la cresta a quell’invasato di Dario”. Lotti scatta sugli attenti e parte alla volta del Mibac. Dove, nel frattempo sono giunte le dimissioni di Cristina Acidini, nonché le dichiarazioni di solidarietà di Paolucci alla suddetta. Franceschini che, per quanto esaltato, proprio scemo non è, sente odor di bruciato e capisce che il gioco si sta facendo più grande di lui. “Se crollano questi Giganti, o alzo la posta oppure rischio di rimanere stritolato. Devo rilanciare l’azione rivoluzionaria. Devo passare al- l’incasso”. Chiama il suo addetto stampa e detta in tutta fretta la seguente dichiarazione: “Vi mostrerò i dati: il mancato incasso del giorno festivo viene ampiamente compensato dal fatto che gli over 65 ora pagano: e poi la domenica gratuita costituisce un volano per far tornare la gente anche durante la settimana. Credetemi, vale la pena. Firmato: Dario “Robin Hood” Franceschini (colui che toglie ai vecchi per dare ai poverini)”. Ha appena finito di vergare il comunicato, che viene avvertito dai suoi dell’arrivo dell’infuriato Luca Lotti. Salta sulla sedia, urlando: “Maledetto Sceriffo di Nottingham, non avrai la mia pelle! Mi rifugerò nella pineta di Freggene e lì, con pochi fedeli seguaci, continuerò la mia rivolta, fino a quando non reinsedierò sul trono, ora occupato dall’usurpatore re Matteo Senzaterra, l’unico suo legittimo detentore: re Monti Cuor di Leone. Seguitemi, miei prodi. No, non tu Romano! Prodi aggettivo, non nome proprio di persona”. Quello che fu un ambizioso rivoluzionario istituzionale si è così trasformato in un ribelle rimbambito che si è preso un po’ troppo sul serio. Altre gesta eroiche, forse, lo attendono: caccia agli scoiattoli, disposizione degli ombrelloni sulla spiaggia, espropri proletari ai distributori automatici di merendine, e così via. Finzionario di Paolo della Bella e Aldo Frangioni L'opera prima di Maria Luisa Ercoli è un noir, un giallo o magari un nuovo genere che potremmo chiamare... un rosso pompeiano. Moradea, una nota collezionista di ventagli è il personaggio principale. Moradea ricerca da anni il calco di un ventaglio che una matrona pompeiana teneva in mano al momento dell'eruzione del Vesuvio. Il calco in gesso della donna, ricoperta dalle ceneri nel 79 d.C., eseguito da Giuseppe Fiorelli nel 1865 è conservato al Museo Archeologico di Napoli. Una foto ingiallita del 1870 la raffigura con il flabellun stretto nella mano destra, forse in un estremo tentativo di salvarsi dal gran calore. In un'altra foto del 1896 (dopo la morte del Fiorelli), il ventaglio è scomparso. Circola voce che il reperto sia stato seppellito insieme al celebre archeologo, addirittura la tomba viene violata in una notte del 1919, molti sono convinti che il sacrilegio sia stato attuato proprio per recuperare il ventaglio. Due giorni dopo questa violazione il becchino e un ladruncolo di quartiere vengono trovati morti, ricoperti da uno strato di gesso. Il nonno di Moradea, noto camiciaio e soprattutto trafficante di antichità sguinzaglia molti dei suoi tombaroli alla ricerca del flabellum, senza fortuna. Lasciamo che i lettori scoprano l'ultima parte del romanzo, anticipiamo solo che il calco del ventaglio giunge a Moradea in un pacco spedito per posta nel1895 dal Fiorelli e giunto a Firenze solo il 1 marzo del 2014. Intanto a Firenze, la Regina di tutti i beni culturali, ormai detronizzata, rosa dal rancore e ansiosa di vendetta, mostra a tutti l’altezzosa maschera della nobile decaduta eppure fiera leonessa indomita. “Lascio il Ministero, dichiara alla stampa, perché non è prevista nel nuovo disegno una posizione paragonabile alla mia. Io sono unica ed inimitabile: non ci sarà mai nessuno degna di me, se non io stessa. Sono storica dell’arte e continuerò a farlo 24 ore su 24, senza nemmeno appisolarmi un’oretta”. Un epilogo tragico, si direbbe. Eppure già si sussurra a Firenze che la Regina detronizzata potrebbe assurgere a nuovo incarico: diventare assessore alla cultura a Firenze e, con i musei comunali, riorganizzarsi e sferrare l’attacco finale al Ministero che in modo sì ingrato l’ha abbandonata. Un’altra trasformazione da commedia goldoniana: il nobile che prende i panni del popolano e trama la vendetta o la perfida burla ai danni della creatura che ha contribuito a crescere. La commedia è d’invenzione, s’intende. Fatti e persone appartengono al mondo della fantasia e l’artificio letterario è il nucleo di questa storia. Ma, si sa, non v’è realtà che non sia stata, un tempo, utopia fantastica. I CUGINI ENGELS Maramaldeggiare pallido e assorto Di Tomaso Montanari questa rivista ha pubblicato diversi interventi, seguito molte battaglie, condividendone alcune e criticandone altre (come è normale che sia) ma sempre stimandone la ricchezza del pensiero e l’approfondimento degli argomenti. Ci è quindi spiaciuta molto l’intervista che questi ha rilasciato a Repubblica Firenze dopo le dimissioni di Cristina Acidini. Non per il merito delle cose che dice sulle quali molto si potrebbe discutere, ma per la generale euforia ed esultanza che traspare dall’articolo. Insomma sì per una questione di stile. Da buoni materialisti pensiamo che la forma sia sempre sostanza e che di fronte ad un avversario che lascia, col sovrappiù di due inchieste giudiziarie seppur queste siano estranee alle dimissioni, sia più elegante, efficace e giusto, non mostrare trionfo ma umano distacco, non iattanza ma volgere lo sguardo ad un futuro da costruire. Questo non solo perché così impongono le buone maniere di una volta, ma perché nelle umane traversie a chiunque può capitare di passare momenti difficili a cui non giova la gogna sulla pubblica piazza. E non trattasi neanche di garantismo, attitudine che la compagnia che frequenta ultimamente il nostro caro Montanari aborre, ma di una magnanimità che non pesticcia colui (o colei nel caso) con la quale si diverge che eleva il confronto e chi lo agita. Insomma quella differenza che passa tra Maramaldo e Croce. C U O .com PICCOLE ARCHITETTURE PER UNA GRANDE CITTÀ di John Stammer V enezia era stata, negli ultimi anni della sua vita, la sua città, dopo il distacco dall’insegnamento e la sua uscita da Firenze. “E’ morto come un antico guerriero” disse allora la sua compagna Pucci. Era nato nel 1918 e si era laureato in architettura a Firenze nel 1942 con Giovanni Michelucci. Ricci era stato sempre un guerriero, forte e leale, ispido e a volte difficile, come chi ha convinzioni e certezze, e continuamente lo dimostra. La presenza di Leonardo Ricci, insieme a Ludovico Quaroni, Edoardo Detti e molti altri maestri dell’architettura e dell’urbanistica italiana, segna il momento di maggiore prestigio della Facoltà di Architettura di Firenze. Ricci è parte fondamentale di quella esperienza, prima come professore ordinario di Urbanistica e poi come preside dal 1971 al 1973 Anni molto caldi e di grande fermento nei quali Ricci non si è mai risparmiato né come persona, né come preside né come docente. Poi dopo i primi anni settanta il suo distacco e il suo “ritiro in convento” come dirà. Un distacco non in sordina ma polemico tutto incentrato sulla incapacità, secondo lui, della Facoltà di Architettura di una azione formativa adeguata alle esigenze dei tempi. In una sua intervista dirà: “In questo momento l’Università non può formare un architetto. La dimostrazione è che che io ho lasciato la cattedra. Nella facoltà è praticamente impedita la ricerca. La ricerca deve farsi in corpore viro ma la città, che è il vivente della ricerca architettonica non ha alcun rapporto né con le amministrazioni, né con le istituzioni, né con la stessa popolazione”. Sperimentare, intervenire e modificare. Era questo il modo che Ricci aveva di intendere il lavoro, la vita sociale e civile. Un impegno continuo. Sta in questa sua convinzione, in questo modo di porsi davanti ai progetti, la profonda eticità del suo lavoro. Ricci era un uomo e un architetto profondamente etico. La sua caparbietà e il suo rigore sono le cifre del suo essere etico. Durante il periodo del suo “ritiro” Ricci riprende il lavoro e rinsalda i suoi rapporti con le facoltà americane. Insegna alla Florida University e nel Kentucky alla facoltà di Architettura di quello Stato. Riprende anche a dipingere recuperando un suo vecchio amore che lo aveva portato ad esporre a Parigi insieme a Picasso, Matisse e Giacometti alla galleria Loeb e al Salon de Mai. Riprende anche i suoi rapporti con la città di Firenze, per la quale aveva sempre lavorato, con il concorso per il Centro Direzionale del 1977. Ricci ha sempre avuto, nel suo lavoro, Firenze come un riferimento fisso. Dal concorso per la ricostruzione del ponte alla Carraia, a quello per la ricostruzione delle aree, distrutte dalle bombe naziste, intorno a Ponte Vecchio, e poi con i progetti per la ricostruzione del ponte San Niccolò, al Villaggio di Monterinaldi, alla rea- 20 anni senza Leonardo Ricci n 92 PAG. sabato 27 settembre 2014 o 5 lizzazione di Sorgane, alla fabbrica Goti a Capalle. I suoi lavori hanno sempre suscitato o forti consensi o froti dissensi. Non era un uomo da “mezze misure”. “Ogni volta che ricevo un incarico verifico se c’è spazio per inserirvi qualche elemento di innovazione, di rivoluzione” erano le sue parole. E si comprende da qui anche il senso di altre sue parole” se dovessi scegliere fra Leon Battista Alberti e Filippo Brunelleschi, sceglierei Brunelleschi”. Leon Battista Alberti l’uomo della ragione e della “misura”, l’uomo del rinascimento maturo e Brunelleschi lo sperimentatore, l’uomo dell’innovazione. E Ricci ha sempre lavorato su una forte sperimentazione. anche, quasi in “competizione” con Brunelleschi, nella ricerca di una nuova centralità, non solo visiva, oltre la Cupola; di una nuova “forma” contemporanea che affiancasse l’icona della città. E’ da qui, e anche dalla consapevolezza che questa nuova centralità non poteva che essere data da una funzione pubblica, forte e centrale nella vita collettiva e sociale della città, che nasce l’idea del Palazzo di Giustizia. Una giustizia forte e trasparente come “era” il suo palazzo. E nell’idea di nuove centralità (sulla stessa scia di pensieri si inserisce il progetto per la “terza Porta” in piazza della Libertà) sta la sua idea di urbanistica, fatta di cose concrete, di nuove centralità appunto. E di innovazioni lessicali e progettuali. Ebbe a dire una volta: “ Trovo giusto che si abbia cura del passato ma una cosa è conservare un’altra è mummificare. Spendiamo molti soldi per conservare e restaurare senza preoccuparci di dare una funzione credibilee vera all’oggetto delle nostre cure. Penso alla basilica romana che, da luogo di scambio si è fatta, con l’era cristiana, luogo di culto, trovando così una ragione autentica per continuare ad esistere. Questa è vera conservazione perchè la vita continua a circolare. Parole non molto diverse dalle affermazioni di Ranuccio Bianchi Bandinelli quando, in relazione alla disputa sulla ricostruzione delle parti della città distrutte dalla guerra, affermo di avere il “ diritto di vivere entro città vive, entro città che seguono l’evolversi della nostra storia” e di non voler essere “ custodi di un museo, i guardiani di una mummia”. E’ in questa ricerca continua, in questa consapevolezza della necessità del mutamento che si ritrova la sua continua giovinezza. Disse di lui Giovanni Michelucci riguardo al progressivo distacco dal suo allievo: “ Ho cercato di individuare in ognuno, ed in te in particolare, quali fossero quegli elementi di diversità, rispetto ai miei punti di vista, capaci di favorire lo sviluppo di una nuova identità. Di fronte a questa tua perosnalità, a questa sua sorprendente giovinezza, non avrei potuto fare altrimenti”. Quella stessa giovinezza che metteva nel giocare a pallone con gli studenti nel cortile di san Clemente o nell’affrontare i temi più complessi con la caparbietà e l’entusiasmo di un ragazzo. Ha ragione Adolfo Natalini che lo definì “eroico e sanguigno”. C C’È VITA IN ITALIA U O .com di Roberto Mancini [email protected] M ezzo secolo di trame e di intrecci. All’inizio erano lavori lenti e meticolosi, con decine di ricamatrici intente per giorni su uno stesso pezzo di stoffa; oggi invece ci sono macchine velocissime che crepitano battendo più di mille punti al minuto e che sdipanano in un attimo interi rocchetti di fili colorati. Ma le macchine moderne, le addette in camice bianco con penna e righello nel taschino, l’ambiente asettico e luminoso non debbono trarre in inganno. Qui alla Lady Piega ancora si lavora con l’attenzione di un tempo. La ditta, che è oggi appena fuori del centro storico di Castelfiorentino, situata al piano terra di una moderna e gradevole palazzina di cemento armato circondata da un giardino con certi pini altissimi e vasi di fiori qua e là, gode infatti di un suo prestigio. È una di quelle aziende che testimoniano come l’antica e nobile arte del ricamo, pur avendo dovuto pagare un tributo alla meccanizzazione e alle nuove e più sofisticate tecnologie, non abbia per questo cessato di essere una attività artigianale, almeno in questa azienda. Perché qui ci si ferma su ogni pezzo per valutarne qualità e compiutezza, per aggiungervi qualcosa che manca o per togliervi ciò che è giudicato in eccesso. D’altra parte anche il clima che si respira in fabbrica è quello di una impresa artigiana nella sua forma più tipica: ogni rapporto è personale, diretto, informale; anche se ciascuno tiene molto alla sua specializzazione, ed ha i suoi compiti da svolgere come il mestiere richiede. D’altra parte è essenziale che il lavoro sia fatto a regola d’arte, perché se così non fosse una ditta come questa non sarebbe sopravvissuta; la sua forza, la sua capacità di resistere oggi alla crisi che attanaglia il paese, risiede soprattutto nella qualità delle sue lavorazioni, nella capacità di competere, per esempio, con i laboratori dei cinesi di Prato, o con i prodotti che arrivano dall’estero dalle ditte che hanno furbamente delocalizzato. Ma la Lady Piega è solida e si accinge a tagliare con un certo orgoglio il traguardo dei cinquant’anni di vita. In fabbrica oggi ci sono al lavoro una quindicina di persone tra operai e addetti all’area della progettazione, più i due giovani proprietari, Salvatore e Carmela, i figli di Sabino, il fondatore e per decenni, fino alla sua repentina scomparsa poco più di un anno fa, indiscusso patron dell’impresa. La Lady Piega – un nome che oggi a molti può suonare singolare – nacque a metà degli anni Sessanta, quando Sabino Suppa allora quarantenne (pugliese d’origine, ma di cuore e sentimenti fortemente legati alla Toscana dove era arrivato che era poco più di un bambino) acquistò una macchina ricamatrice tedesca, una Zangs, tra le migliori che ci fossero allora, con la quale si potevano fare alcune lavorazioni speciali. All’inizio non sapeva bene che cosa sarebbe accaduto mettendosi in questa impresa, anche perché qualcuno tra i suoi amici che lui avrebbe voluto coinvolgere nella costituzione dell’azienda, si tirò in- Mezzo secolo di intrecci dietro all’ultimo istante. Sabino però non demorse anche perché, e forse a differenza di tutti, aveva dalla sua una notevole e soprattutto duplice esperienza. Da più di dieci anni faceva sia il tecnico che il rappresentante di macchine da cucire – della ditta Necchi di Pavia - e grazie a quel lavoro egli sapeva bene non solo quali fossero le potenzialità dell’innovazione tecnica che in quegli anni si prospettava, ma conosceva luoghi e persone; aveva tenuto rapporti diretti e continui con quasi tutte le ditte dell’abbigliamento dell’empolese, e gli era chiaro nella mente che in quel settore era in atto un cambiamento formidabile. Ma il network sociale non spiega mai tutto. Infatti le ragioni della scelta di mettersi in proprio nascevano anche da spinte diverse e più profonde: dalla sua indole naturalmente disposta alle novità e, soprattutto, dall’influenza ricevuta dalla famiglia di sua moglie Maria, una fami- glia che da quasi un secolo basava la sua economia proprio sull’attività della plissettatura e del ricamo. Fu da quell’entourage che con ogni probabilità gli vennero le suggestioni più profonde, quel sottile e evanescente bagaglio di suggestioni e outillage, quella consapevolezza che lavorare in proprio necessita di senso della misura e di concretezza, di capacità di fare, non meno che di spirito di avventura. Era stata Isola Conforti, la bisnonna della moglie che nel 1887, avendo bisogno di lavorare, aveva decise di impegnare quasi tutto quel che aveva risparmiato - cinque lire, erano all’epoca una cifra ragguardevolissima - per andare a Roma nel laboratorio di un sarto ebreo specializzato nella piegatura delle stoffe, cioè nella plissettatura, che in quegli anni era molto richiesta. Isola cominciò così a lavorare piegando le stoffe con certi pesantissimi ferri da stiro e cartoni sagomati ad hoc, contribuendo al man- n 92 PAG. sabato 27 settembre 2014 o 6 tenimento della famiglia; poi, come spesso accadeva, insegnò il mestiere alla figlia Milena la quale, ad un certo punto, cominciò pure lei a darsi da fare, ma impegnandosi non solo nella piegatura delle stoffe, quanto anche con la macchina da cucire e diventando molto esperta con il telaietto per il ricamo cosiddetto ‘a giornino’. Plissettare e ricamare erano due attività remunerative e la moda degli anni Trenta richiedeva quel tipo di prodotti e in zona, nell’Empolese, c’erano molte fabbriche che producevano abbigliamento e con le quali era possibile avere rapporti di lavoro. Di “distretto industriale” ancora – ovviamente - non si parlava; la definizione non era stata ancora coniata, ma la cosiddetta fabbrica diffusa era già nelle cose. D’altra parte la vita economica è sempre stata più poliedrica e elastica di quanto comunemente non si pensi, e le varianti che vi entrano in gioco sono infinite, come capita nella vita delle persone. Tant’è che le storie aziendali, le prosopografie di fabbrica, somigliano grandemente a quelle degli uomini e spesso quasi si identificano con quelle dei loro fondatori. Certo non si può dire che il principio di identificazione tra l’imprenditore e la sua azienda sia sempre alla base del suo successo, ma alla Lady Piega è stato sicuramente così. Lì Sabino è stato, al tempo stesso, il continuatore di una tradizione e il suo interprete innovativo, e la storia della sua fabbrica ha finito con il correre in parallelo con quella della sua vita. Il mercato gli ha certo imposto di cambiare, la tecnologia gli ha dettato del pari le sue regole, ha preteso spazi e localizzazioni nuove, ma la Lady Piega è sempre stata il prodotto del suo lavoro e di quello dei suoi operai (nel decennio 1980-90 sono arrivati a una trentina), qui nessun tecnocrate ha mai dettato regole o imposto soluzioni. Certo egli ha assistito all’ultima metamorfosi della sua ditta, al tramonto delle vecchie macchine che funzionavano con le schede perforate e al sopravanzare di quelle elettroniche. Sabino ha seguito e guidato fino all’ultimo questa trasformazione, senza consentire tuttavia che essa sacrificasse degli uomini e comprimesse la creatività e l’artigianalità dei suoi operai e dei suoi tecnici, anzi. Dalla metà degli anni Ottanta proprio la programmazione elettronica ha snellito certi lavori e ha consentito alla ditta di non produrre più soltanto su commissione, ma di proporre soluzioni frutto dell’inventività dei suoi designer. Certo, guardando alla distribuzione odierna degli spazi nella fabbrica, si vede bene che l’anima del lavoro artigiano si è allontanata dalla grandissima sala dove crepitano le macchine e dove si accatastano le lavorazioni, e si è trasferita nelle stanze della progettazione che sono diventate il cuore dell’azienda. Ma è stata una trasformazione che ha aumentato la dimensione creativa della Lady Piega dove il tempo delle macchine si è combinato - meglio sarebbe dire ricombinato - con quello dell’artigiano, e la simbiosi ineliminabile tra l’artefice e i suoi strumenti si è mantenuta. C OCCHIO X OCCHIO U O .com n 92 PAG. sabato 27 settembre 2014 o 7 di Danilo Cecchi [email protected] E lisa Amelie Felicie Stern–Seybert (più nota come Lisette Model) nasce a Vienna nel 1901, studia musica con Arnold Schoenberg, si trasferisce a Parigi nel 1924 per studiare canto, e qui incontra il pittore Evsa Model, che sposerà nel 1937. Nel 1933 abbandona la musica e comincia a studiare le arti visive con André Lothe (lo stesso maestro di Henri Cartier-Bresson) e pratica la fotografia con la sorella Olga. Nel 1934 realizza le sue prime immagini importanti a Nizza, sulla Promenade des Anglais, fotografando semplicemente i passanti, ed entrando così in maniera prepotente fra i maestri della “street photography”. Si tratta di ritratti potenti, scattati di nascosto, in maniera discreta e senza la minima partecipazione da parte dei personaggi fotografati. Queste sue prime immagini le aprono la porta ad una carriera che non conosce soste o esitazioni. Nel 1938 abbandona la Francia per raggiungere la sorella a New York, dove si associa alla Photo League, inizia la collaborazione con alcune riviste di moda, e vende le sue prime immagini al Museum of Modern Art nel 1940. Nel 1948 vi espone le sue foto insieme ad Harry Callahan, Bill Brandt ed altri, e nel 1951 viene chiamata ad insegnare alla New School for Social Researches dove già insegna Berenice Abbott. Da maestra della “street photography”, genere che continua a praticare in maniera sempre più decisa nelle strade di New York, diventa una vera maestra di fotografia. Il suo insegnamento si basa sulla convinzione che niente in fotografia è più importante del “soggetto”, ovvero del personaggio fotografato, e che non si deve mai scattare una foto se non si è realmente ed appassionatamente interessati ad esso. Fra i suoi allievi vi saranno fotografe come Diane Arbus ed Eva Rubinstein, alle quali riuscirà a trasmettere il proprio entusiasmo e la propria filosofia. Le ampie prospettive e l’ambiente di New York stimolano in maniera ancora più pressante l’interesse visivo di Lisette, che ai primi piani dei personaggi più caratteristici comincia ad affiancare i riflessi delle scene di vita urbana catturati nelle ampie vetrine, dove il mondo esterno e quello intravisto in trasparenza si accavallano, si sommano e si fondono in maniera un poco surreale. Nello stesso tempo i suoi personaggi acquistano più spessore, non sono solamente delle figure caratteristiche che incuriosiscono o fanno sorridere, come quelle che popolavano la Promenade di Nizza, ma assumono un carattere tragicomico che dietro le smorfie o le deformazioni del volto o del corpo mostrano i segni di un disagio esistenziale e di un malessere interiore. Il suo modo di fotografare istintivo, audace e diretto, genera delle immagini forti, impie- tose, ma allo stesso tempo cariche di umanità. Le sue immagini non sono degli sguardi distaccati sulla realtà, non sono mai una elegante rapPhotography mai presentazione del mondo, e soprattutto non sono delle composizioni equilibrate e piacevoli. Come non si stancava di ripetere ai suoi allievi, is the easiest art, non si deve fotografare con gli occhi ma con le viscere. Altrettanto apwhich perhaps passionata nell’insegnamento come nella constatazione del mondo e della gente che lo abita, Lisette Model continua ad insegnare fino alla makes it the hardest sua morte, nel 1983. LisetteFotografa Model e maestra C n 92 PAG. sabato 27 settembre 2014 o IN RICORDO U O .com di Francesco Gurrieri S e ne è andato Bernardo Secchi (1934), una delle figure più apprezzate della cultura urbanistica degli ultimi decenni. Lontano dalla retorica e dall’astrattezza che caratterizzava non pochi “pianificatori”, Secchi, come il bravo indimenticabile De Carlo, si riconduceva a quella tipologia di “tecniciumanisti”, come furono anche Ludovico Quaroni e Edoardo Detti che hanno fatto apprezzare la disciplina nel nostro Paese. Bernardo Secchi incarnò al meglio la transizione tra la vecchia urbanistica, alla Chiodi (l’urbanistica tecnica) e le nuove prospettive della “pianificazione territoriale”. Ma a differenza di altri, per cultura e per particolare personalità, ebbe sempre presente il rapporto con l’architettura . Ai primi anni ‘80 fu talvolta presente anche nelle aule di San Clemente, alla Facoltà di Architettura di Firenze, assai seguito da studenti e colleghi. Fra il 1993 e il 1996 ebbe l’incarico del Piano Regolatore di Prato, in una stagione di riassetto normativo delle leggi regionali. In quella occasione instaurò un metodo di lavoro “sul campo”, che raccolse nel volume “Un progetto per Prato” (senza riuscire a resistere dal chiamarlo “laboratorio”). Pur riconoscendo la correttezza di metodo e la lealtà di approccio con la complessa realtà pratese, non posso non riprendere ciò che ebbi ad esprimere allora: che all’articolazione per “sistemi” (ambiente, mobilità, residenza, produzione, luoghi centrali), e 8 Bernardo Secchi Ingegnere umanista nonostante la messa a punto di guidelines (schemi direttori e progetti norma), a quel Piano mancò l’anima. E Prato perse l’occasione per diventare – soprattutto lungo l’area della “declassata” - quella città moderna a cui era vocata, avendo tanto più potenziale coraggio di altre realtà italiane. PIANETA POESIA Addio, grande uomo e poeta certo di Franco Manescalchi [email protected] Questo è un compianto, per la scomparsa di Gennaro Oriolo, rapido, in punta di penna. Quando Gennaro cominciò a pubblicare i suoi versi decise di rivolgersi a me per l’introduzione al libro. Volentieri accettai per l’antica amicizia per avermi ospitato a insegnare poesia nelle sue Scuole, dove appresi l’alto valore morale e culturale dell’Uomo, con la U Maiuscola, che ora ci ha lasciato e del quale, per quanto concerne la sua presenza operosa nella società, al di fuori della scuola, lascio la parola ad altri. Dal momento che affidò a me il compito di parlare di lui poeta, riporto qui un mio stralcio critico: “Gennaro Oriolo è un ulisside della poesia, un “archivista” che molto ha letto e molto ha navigato anche nei flutti della vita prima di intraprendere l’altro viaggio fatto, come il primo, di “meditate fughe e taciti abbandoni”, come recita il titolo dell’opera. Non a caso, in exergo, riporta quat- tro versi di Mario Luzi, (Un raggio s’affatica, le catene/ si smagliano; le lacrime discese/per le rughe riportano le pene/dei tormenti lontani, delle offese) in cui si conferma la vocazione dell’ulisside per quel “raggio” (faro) nella tenebra, per quello “smagliarsi di catene” di chi segue “virtude e conoscenza”, per quelle “lacrime” che discendono lungo “le rughe” dell’uomo e del tempo. In sintesi, le parole, le cose, il segreto intridersi di sentimenti e ragioni in un discorso urgente e proprio per questo sottoposto al fluido ma sagace divenire delle forme, l’ascolto della storia in un farsi individuale che a questa si apre. Questi e molti altri possono essere i percorsi di lettura di un’opera prima, frutto di amore per la poesia, maturato negli anni e infine rivelatosi in tutta la sua pienezza . Per questo amore, Oriolo sa che scrivere significa innanzitutto leggere, conoscere il mondo della poesia attraverso l’uomo e l’uomo attraverso lo strumento della poesia.” Rivedo ora come quelle “lacrime” che discendono lungo “le rughe” dell’uomo e del tempo, che Gennaro aveva posto a epigrafe del libro, esprimano appieno il sentimento profondo, vorrei dire celato, che ha accompagnato la sua presenza civile nella polis. Ed è con questa ferita profonda, che è/ha spesso la vita, che Gennaro, fra le righe di poeta versatile, ci ha salutato. Dedico a lui questa mia testimonianza. Un grande cuore Ognuno di Gennaro avrà un ricordo diverso perché Gennaro era un grande cuore ed ora che è tornato nella pulvis dell’universo da cui si nasce ed anche vi si muore dentro ognuno Gennaro non sia perso. A me rimane l’amico Professore che nella scuola dava spazio ai versi, ai versi fatti da universo amore. È ancora lì, al tavolo della Presidenza con le tabelle delle classi dove andavamo a far vivere la Poesia come umana, dolcissima Presenza. Poi fu Poeta e visse di altre prove ma fu sempre Maestro lungo la Via, altri può dire, altri dovrà narrare di un grande cuore e cosa seppe dare. C GALLERIE&PLATEE U O .com di Claudio Cosma [email protected] I l cosiddetto “mondo dell’arte”, la cui consistenza si dilata e si restringe con affiliazioni e tradimenti dell’ultima ora, sembra vivere su di un binario parallelo a quello della vita ordinaria della maggioranza, ma, proprio per questo suo rimanere come sospeso, questo mondo osserva l’altro, al quale sempre tende e pur non incontrandolo mai, le persone che ne fanno parte lanciano continui e impalpabili segni, simili a quelli delle api che tornando al proprio alveare lasciano cadere piccole particelle del polline raccolto che non sempre va sprecato. I motivi delle appartenenze ai due mondi possono essere molteplici, oltre a quelli evidenti nelle rispettive falangi e compagini ovvero l’amore per l’uno e l’indifferenza per l’altro. Naturalmente esistono e convivono diverse gradazioni e intermittenze in conseguenza dell’inizio dell’amore o del perdurare dell’indifferenza. Molte persone trovano la vita “vera” con suo bagno di realtà, ineludibile e la contingenza o più semplicemente la routine non permettono evasioni centrifughe. In questo caso il centro di gravità occupato dal quotidiano non lascia molto spazio ad interessi diversi, per esempio una inaugurazione ad una vernice alla quale si è stati invitati, può essere occasionalmente preferita ad una sessione di Pilates, ma la cosa non lascia, poi, segni se non di vaga ironia. La parte propriamente mondana dell’arte è limitata ad eventi ristretti nelle occasioni cosiddette che contano, o allargatissima e pertanto popolare come la recente inaugurazione a Firenze del Museo del Novecento dove gli invitati erano migliaia e comunque ciascuno convinto del fatto suo. L’atteggiamento supponente dei non addetti ai lavori è un ostacolo uguale e contrario all’ubbidienza ai rituali degli appassionati. Andare ad una performance, in periferia, magari in un campo dismesso dove alla musica registrata di suoni propagati da un alveare morente, un giovane artista, come segno incontrovertibile di una prossima apocalisse, passa una lucidatrice sul prato, è assolutamente da evitare, se possibile, come la successiva replica in un locale temporaneo (Temporary Gallery), come di moda oggidì, con la lucidatrice, però, riprodotta in bronzo, il resto invariato, anche l’erba. Parimenti un pomeriggio domenicale ai Gigli o a Montecatini, dove mi dicono esserci i negozi aperti, è forse addirittura peggio. Per il popolo risulta difficile immaginare di non trascorrere il tempo libero in una situazione ormai codificata (e rassicurante) dove tutto ruota intorno al cibo e al comprare qualcosa, fosse anche una fettuccia di grosgrain in una merceria di piazza Dalmazia. Le strade cittadine sono oramai attrezzate come un supermercato, con le vetrine dei negozi al posto degli scaffali, quindi le azioni eroiche sono limitate e sottolineate dal non fare, non dalla vera azione, per esempio, si può non comprare una marca di pomodori e cercare l’affermazione in non stessi com- n 92 PAG. sabato 27 settembre 2014 o 9 prandone un’altra, io personalmente in questo mi sono realizzato comprando Pomodori Pomilia. E’ difficile lo scambio tra i due mondi, radicati come sono nelle loro reciproche abitudini, direi, per imparzialità, egualmente autoreferenziali, in un consumo simile di oggetti diversi. Sicuramente fra i miliardi di persone al mondo ci saranno sicuramente quelli che si divertono in barba alle due categorie. Ai fans incerti di entrambi gli schieramenti cosa consigliare? Da una parte di non sfornare lavori che per essere capiti debbano essere spiegati attraverso la narrazione di episodi della vita dell’artista (quando avevo 12 anni, narra l’artista, mia madre mi mandò a comprare le uova al negozio sotto casa, ma nonostante le raccomandazioni sulla fragilità dell’acquisto e della concentrazione da mantenere, troppo sicuro considerando il compito facilissimo, e con l’aggravamento del crepuscolo imminente che mi impediva di vedere correttamente, caddi, facendomi Il filo di lana nera di Chiharu Shiota male e rompendo il fagotto con le uova. Il dolore non fu niente a paragone della profonda delusione nel constatare il fallimento della commissione, ecc ecc …. Conseguentemente su questa avventura realizzai, successivamente una volta diventato artista, una installazione con grosse palle di vetro trasparente e cilindri di acciaio cromato alti due metri con io che mi aggiravo nello spazio con una mazza di legno fracassando le sfere e picchiando invano sugli indistruttibili cilindri). Gli artisti si seccano moltissimo se gli spettatori (comunque rari) non capiscono subito come stanno le cose e allora demandano ai critici di spiegarli. Quindi se avete fortuna, si fa per dire, e ad una mostra vi mostrate interessati, vi potrà capitare che un critico d’arte vi spieghi come stanno le cose ed allora inizierà cosi: “deve sapere, caro signore, che quando l’artista aveva 12 anni, una sera sul fare della sera…” Agli altri di andare (velocemente, chiude il 12 di ottobre, prossimo) a vedere una mostra in un luogo sperduto, in provincia di Lucca sulle colline di Vorno dove c’è una fattoria che si chiama “dello Scompiglio”, con un fabbricato dedicato alle esposizioni di arte contemporanea, dove adesso espone un’artista giapponese, Chiharu Shiota, che con un filo di lana nera ha costruito un enorme bozzolo, tendendolo come un baco da seta o più propriamente come un delicato uccellino, in modo rettilineo e geometrico a formare uno spazio veramente gigantesco per farlo divenire un luogo magico dove il nostro corpo perde consistenza per assumere quella della complessa struttura, che risulta la casa dove, senza più materialità, desidereremmo vivere. La mostra di Chiharu Shiota si intitola “A Long Day (2)” ed è curata da Franziska Nori, presso Tenuta dello Scompiglio, v. Immagini della mostra di Chiharu Shiota, A Long Day (foto di Claudio Cosma) di Vorno 67/b Vorno, Capannori (LU). LUCE CATTURATA di Ilaria Sabbatini [email protected] Città d’acqua Lucca San Martino MUSICA MAESTRO di Alessandro Michelucci [email protected] Non sono molti gli strumenti che portano il nome del proprio inventore. Generalmente sono stati ideati nel secolo scorso: pensiamo al theremin, uno dei primi strumenti elettronici, ideato nel 1919 dal russo Lev Sergeyevich Termen (poi anglicizzato in Theremin). Ma il più diffuso è sicuramente il sassofono, inventato da Antoine-Joseph (meglio noto come Adolphe) Sax. Quest'anno ricorre il secondo centenario della sua nascita. Figlio di un fabbricante di strumenti, Sax nasce a Dinant (Belgio) il 6 novembre 1814, primo di 11 fratelli. La cittadina sulla Mosa fa ancora parte della Francia: il Belgio nascerà soltanto nel 1830. Pochi mesi dopo l'intera famiglia si trasferisce a Bruxelles. Il ragazzo lavora nella bottega del padre, dove costruisce clarinetti, flauti e altri strumenti. In questo modo sviluppa un forte interesse per la musica: a 14 anni si iscrive all'École royale de musique, dove segue corsi di solfeggio e di flauto. Quindi inizia a studiare il clarinetto sotto la guida di Valentin Bender. Nel 1835, all'Esposizione nazionale di Bruxelles, presenta per la prima volta una propria creazione: si tratta di un clarinetto a 24 chiavi. L’uomo che fece suonare il vento È questo lo strumento che lo interessa più di ogni altro. Negli anni successivi continua a studiarlo. In questo modo nota che il suono degli ottoni tende a coprire quello dei legni, che a loro volta fanno lo stesso con gli archi. Quindi capisce che è necessario creare uno strumento capace di realizzare un equilibrio fra le tre sezioni. Il suo suono deve situarsi a metà fra il clarinetto e la tromba: è così che nel 1841 nasce il sassofono. La sua struttura deriva da quella del clarinetto basso, mentre il materiale usato per costruirlo è l'ot- tone. Un anno più tardi Sax si stabilisce a Parigi, dove conosce Hector Berlioz. Il compositore, interessato a sonorità insolite, descrive entusiasticamente il nuovo strumento sul Journal des Debats. Non solo, ma è il primo a utilizzarlo in una composizione (Chant Sacré, 1843). Nel 1846 Adolphe Sax riesce a tutelare la propria invenzione con un brevetto di 15 anni. Nel frattempo altri costruttori di strumenti, mossi dall'invidia, cercano di contrastarlo costruendo strumenti analoghi. In questo modo Sax è costretto a lunghe battaglie legali per riaffermare la paternità dell'invenzione. Le spese che deve sostenere lo costringono al fallimento. Innovatore instancabile, non si dà comunque per vinto. Negli anni successivi modifica varie volte il sassofono e crea altri strumenti. La sua invenzione si impone nelle orchestre da camera, ma è nelle bande militari che trova larga diffusione. Nel 1873 l'inventore fallisce nuovamente, dopodiché le sue condizioni economiche si fanno sempre più precarie. Muore a Parigi nel 1894. Nel Novecento, e in particolare dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, la sua creazione si diffonde a livello mondiale grazie al jazz. Si affermano i grandi solisti che oggi associamo allo strumento: da Archie Shepp a John Coltrane, da Anthony Braxton a Stefano Cantini. In questo panorama troviamo anche molte donne, fra le quali YolanDa Brown, Trisha Clowes e Barbara Thompson. Lo strumento si diffonde anche nel rock: basti pensare a gruppi come Colosseum, King Crimson e Roxy Music. Nel 2014 il bicentenario della nascita di Sax viene celebrato con numerose iniziative, prime fra tutte la bella mostra Sax 200 in corso al Musée des instruments de musique di Bruxelles. L'esposizione, alla quale ha contribuito il Musée de la musique di Parigi, resterà aperta fino all'11 febbraio 2015. Chi non può visitarla dovrebbe almeno procurarsi il catalogo, pubblicato da Perron (www.perron.be). C di Simone Siliani L’ n 92 PAG. sabato 27 settembre 2014 o SCENA&RETROSCENA U O .com [email protected] ultimo demolito fu nell'Ottantanove, a Berlino. “La fine della Storia” disse uno; “un nuovo ordine mondiale” proclamava un altro. Ma poi, da allora, si è ripreso ad erigerli, i Muri; quelli che separano “noi” dagli “altri”, i “buoni” dai “cattivi”. Muri per “proteggere” noi da voi: così quello che per chilometri attraversa la Cisgiordania, ma anche quello lungo il confine degli Stati Uniti dal Messico o quello fra Spagna e Marocco. Muri che interrompono una comunicazione, una possibilità di mescolarsi, che sarebbe destabilizzante perché ci rivelerebbe uguali gli uni agli altri, eppure meravigliosamente diversi. Così, dopo la demolizione dell'Ottantanove, sono tornati ad innalzarsi Muri: demolirli sarebbe la pre-condizione per tentare un dialogo, costruire una convivenza fra parti diverse, la nuova piazza Annigoni e il complesso di Santa Verdiana Dal 20 settembre scorso, Teatro Studio Krypton e Facoltà di Architettura di Firenze hanno iniziato un'opera di “Demolizione” di un muro per ricucire, rimettere in comunicazione due pezzi di città a Firenze separate da decenni, la nuova piazza Annigoni dal complesso di Santa Vediana. E, come a Berlino, insieme alla gente del quartiere sono gli artisti ad accompagnare e a produrre questa demolizione ricostruttiva. L'abbattimento fisico e l'apertura di un varco è avvenuta sotto la sovrintendenza di Giancarlo Cauteruccio, il prof. Carlo Terpolilli e agli studenti di architettura trasforman- 11 Foto di Stefano Ridolfi Un altro muro è caduto dosi in una azione scenica, una performance artistica. Sei giorni di apertura del varco montaliano della Casa dei doganieri operata da poeti, scrittori musicisti, architetti, attori hanno reso viva la memoria di questo luogo antico realizzato alla fine del XIV se- colo, eppure negletto al resto della città per tanti anni. E così si è costruito un luogo nuovo-antico, il Chiostro delle Geometrie, un pezzo di città metropolitana incastonata nel cuore antico della città storica. Città metropolitana che si racconta, o me- glio si cerca, nel testo di Enzo Fileno Carabba, “La signorina Metrò” letto da Patrizia Schiavo. Le geometrie del chiostro sono state dalla luce che ha scolpito elementi naturali e architettonici nell'installazione di Cauteruccio, “Trees and places”. Rimettere in comunicazione parti di città, centrali e metropolitani (noi e gli altri, ancora), aprire varchi nei muri di solitudine di cui sono costruite le nostre città contemporanee è già un vasto programma a cui, sempre più, sembrano essere preposti gli artisti; in una inedita alleanza con gli architetti oggi, forse, chiamati tanto a decostruire quanto a (ri)costruire. ICON Bau in 3D a cura di Aldo Frangioni La GAMC di Viareggio (Palazzo delle Muse - Piazza Mazzini) in collaborazione con BAU associazione culturale presenta il nuovo numero della rivista/laboratorio BAU Contenitore di Cultura Contemporanea, una delle più originali e significative pubblicazioni d’artista attive oggi in Italia. Dopo le prime dieci “scatole” in tiratura di 150 copie, prodotte nel formato UniA4 con lavori in prevalenza bidimensionali e su carta, BAU Undici A3D è uno speciale numero che raccoglie, in un cofanetto formato UniA3 su progetto grafico di Gumdesign, ben cinquantatre opere originali in tre dimensioni (micro-sculture, oggetti poetici, tracce d’affezione) di altrettanti autori internazionali, più un opuscolo redazionale con testi di noti critici d’arte e direttori di musei quali Valerio Dehò, Duccio Dogheria, Patrizio Peterlini, Marco Pierini, Maurizio Vanni, Alessandro Vezzosi. BAU ha coinvolto, in undici anni di attività, oltre seicento partecipanti da trenta nazioni operanti nelle più diverse discipline. Alcuni autori di BAU A3D Ignazio Fresu [email protected] saranno presenti alla GAMC di Viareggio sabato 27 settembre (dalle ore 17.00 alle 19.00) con performance, azioni poetiche, proiezioni e installazioni temporanee. L’incontro, a cura della redazione BAU, sarà introdotto dalla dott.ssa Alessandra Belluomini Pucci e presentato da Vittore Baroni, Antonino Bove e Luca Brocchini. Intervengono: Paolo Albani - Poesia in formato nuovo, azione poetica, Vittore Baroni - 3Diorama, installa- zione, Alessandra Borsetti Venier Libri improbabili, performance, Antonino Bove - Dialogo in punta di spilli, installazione, Jakob De Chirico e Sieglinde Holzknecht Gufler - Les Champs Magnetiques - André Breton, performance, Beatrice Gallori Human Crisis, performance, Manuela Mancioppi - Abiti relazionali, performance, Emanuele Magri - MiniMinimal, video, Massimo Mori - Philovox: il tridimensionale riportato dalla luce e dalla voce alla planimetria d’una scrittura mobile, performance, Antonio Noia - Libro Balla, installazione, Angelo Pretolani - Infondere o perdere vita, installazione, Stefania Scroglieri - BAU A3D, foto-reportage, Danilo Sergiampietri - Chiodi, installazione, Vittorio Simonini - Maurizio Marco Tozzi - Daniele Trengia Luogo dell’essere, video, Giacomo Verde - 150 Knots, video-installazione. C n 92 PAG. sabato 27 settembre 2014 o TEMPO PERSO U O .com di Paolo Marini U italiana del Novecento. Agli interessati può giovare un'occhiata al sito www.goticatoscana.eu/it – e non soltanto per scaricare il programma di questo fine settimana. [email protected] na volta di più torniamo alla drammatica e intensa estate del '44, quando la Toscana e qui, segnatamente, Firenze e la sua provincia furono attraversate dalla linea del fronte. Ne sono occasione due eventi di sicuro interesse: il primo, la recentissima pubblicazione dell'inventario dell'Archivio del Comitato di Liberazione Nazionale di Fiesole (a cura di Marta Bonsanti, edizioni Polistampa) concernente il cospicuo carteggio tenuto appunto dal CLN locale nel periodo successivo alla liberazione della città, avvenuta il 1 settembre 1944 - mentre si stavano spegnendo le ultime battaglie nei dintorni, a Montesenario, Monte Giovi, Monte Morello e sulla Calvana. Come commenta nella presentazione il Sindaco di Fiesole, Anna Ravoni, è “sorprendente la macchina organizzativa che vediamo in azione nelle carte di questo seppur piccolo fondo archivistico”; vi si rappresenta dettagliatamente l'attività del Comitato dal settembre del ’44 all’estate del ’46, “un organismo articolato e strutturato nel quale tutti i partiti sono pariteticamente rappresentati e nel quale tutte le decisioni vengono prese all’unanimità”. La lettura di questo testo potrà, come ben osservato, risultare appassionante per ogni fiesolano, che avrà l'opportunità di (ri)scoprire nomi ed eventi, comunque almeno in parte familiari, di una storia ancora prossima e ancora toccante. Costituitosi in clandestinità nell'ottobre del '43, il Comitato fiesolano prese subito e risolutamente le redini della comunità, insediando a due giorni dalla liberazione la Giunta comunale e, di lì a pochi giorni, Luigi Casini, il sindaco 'spodestato' dai fascisti nel '22. Del Comitato locale, caso raro nella provincia, fecero parte - anche se non per tutto il periodo - tutti e cinque i partiti (DC, PCI, PDA, PLI e PSIUP). Il secondo è un evento davvero speciale, promosso dalla Associazione Gotica Toscana per sabato 20 e domenica 21 settembre: la ricostruzione dal vivo, nel suo 70° anniversario, della battaglia di Monte Altuzzo che si combatté tra Alleati e Truppe Tedesche per lo sfondamento del Passo del Giogo (Mugello). Ad esso sono associate manifestazioni come la colonna di veicoli storici e la marcia commemorativa, sicuramente una serie da non perdere da parte di tutti i curiosi e dagli appassionati. Ed appassionati sono, evidentemente, i soci di Gotica Toscana Onlus, che da anni effettua attività di ricerca sia sul campo (con il censimento e talvolta il restauro delle postazioni ed installazioni tuttora individuabili, per es., nell'area circostante il Giogo), sia di tipo archivistico e memoriale (con interviste ai sempre meno numerosi testimoni di quei fatti); e che organizza mostre, ricerche e quant'altro si presti a riesumare/mantenere la memoria di questo pezzo significativo di storia 12 Estate ‘44 Da Fiesole al Giogo TRASH TOWN Van via le riforme si apron le urne di Alessandro Dini [email protected] Il 16 settembre scorso il nostro Premier ha detto in Senato che "se il Parlamento non riesce a fare le riforme, si va a votare". A parte i tagli "a macchia di leopardo" fatti finora nella Pubblica Ammnistrazione senza un piano organico di riordino dello Stato, ora Matteo Renzi si trova costretto a cominciare dall’ormai famoso Art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Infatti, il 15 luglio 2014, l’Europarlamento aveva votato con una buona maggioranza ‒ a scrutinio segreto e in Assemblea plenaria ‒ la fiducia al belga Jean-Claude Juncker per Presidente della Commissione. Nel suo discorso d’insediamento Juncker aveva elencato azioni di governo chiare e incisive, che egli aveva definito senza mezzi termini "les dix devoirs de l’Europe" con in primo piano il “... "nous devons" [che non è un "noi, plurale maiestatis", ma un "noi collettivo"] rafforzare la competitività e stimolare gli investimenti" concordando con gli altri Paesi dell’Eurozona un "pacchetto lavoro e crescita" ...”. In Senato, però, Matteo Renzi – sotto le specie di Segretario del PD ‒ non rie- L’APPUNTAMENTO Attraverso l’arte... del costruire sce a controllare le nomine per la Consulta e per il CSM, e questa potrebbe essere un’avvisaglia di tempesta perché se a un certo punto si dovesse andare a votare, come il Premier minaccia sempre quando si sente in difficoltà, bisognerebbe sapere con quale legge si voterebbe. Con quella in vigore – per dire – no di certo, perché è stata definita incostituzionale. Il Porcellum nemmeno, e allora il Mattarellum, magari con l’aggiunta dei "listini bloccati"? O l’attuazione del "patto del Nazareno" fra Renzi e Berlusconi? Tutta roba superata che Matteo Renzi ha assicurato più volte di voler riscrivere da zero, anche se nessuno riesce ancora a vedere con quale maggioranza poiché la sinistra italiana ‒ e il PD in particolare ‒ proprio su questo punto è spezzettata, più che divisa. Non sappiamo se il Premier sarà in grado di formulare altre proposte, ma l’approvazione parlamentare della modifica dell’Art. 18 sarà una gara dura, anche se si arroccherà sui voti della sua riserva trasversale (stimata del 40%). Per l’Italia ecco dunque il momento del famoso Art. 18 la cui riforma è diventata con Juncker una precisa richiesta della Commisione Europea il cui punto focale di programma è che “... nella priorità a lavoro e crescita, all’Europa occorreranno 300 miliardi di euro in tre anni”. Frase-chiave, che il nostro Premier parrebbe non avere ben compreso quando ha reclamato con arroganza: “... ma dove sono i 300 miliardi di euro promessi da Juncker ...? del tipo vernacolare "ma ‘n do’ sono e’ sòrdi ...”. Una frase becera, oltre che inappropriata, perché Jean-Claude Juncker – da statista di livello ‒ ben consapevole del momento cruciale che sta attraversando l’Europa, chiama a raccolta tutti gli Stati membri e chiede chiarezza, efficienza, unione, sinergia, risorse da porre sul Tavolo Comune ["nous devons"] per superare tutti insieme le debolezze di alcuni Stati-membro disordinati e cialtroni come l’Italia. E invece Matteo Renzi fa finta di non capire, perché parrebbe coltivare già un suo potenziale elettorato interno [non si sa mai ...] cominciando col cercare in Europa alibi alle sue evidenti incapacità di governo nazionale. Cosa c’è dietro l’immagine del progetto? Come se ne concepisce la forma e con quali tecniche si materializza l’architettura? A quali ingegnose tecniche e tecnologie ricorre l’architetto per risolvere i problemi di realizzazione che emergono in corso d’opera? Le risposte di Andrea Noferi (3 ottobre), Valerio Barberis e Marcello Marchesini MDU (10 ottobre), Elio Di Franco (17 ottobre), Adolfo Natalini (24 ottobre) e Maurizio De Vita (31 ottobre) allo Spazio A di Lungarno Cellini a Firenze C C U O Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni .com HORROR VACUI n 92 PAG. sabato 27 settembre 2014 o 13 I pappagalli hanno la carne bluastra ed un aspro odore di muschio. Questo scrive Garcia Marquez in Cent’anni di solitudine. Quando appare un’immagine di paesi esotici sono terrorizzato dall’idea di dovermi nutrire di pappagalli per non morire di fame. C VISIONARIA U O .com di Simonetta Zanuccoli P [email protected] er la Francia la cultura è qualcosa di “commestibile” che fa bene sia all'esprit che all'economia come dimostra questo piccolo esempio. Il villaggio di origine romanica Le Cannet posto a 110 metri di altitudine tra olivi, mandorli e pini, sia pure grazioso e con una parte antica ben tenuta, rischiava di divenire un quartiere elegante e decentrato della molto più famosa e animata Cannes, dalla quale dista solo 4 chilometri, la cui stagione turistica è praticamente prolungata tutto l'anno con congressi, eventi e festivals di livello mondiale. Ma l'arte e soprattutto gli artisti che hanno reso famosa questa parte di costa francese sono stati la soluzione di una giunta comunale agguerrita e senz'altro lungimirante per rendere Le Cannet uno dei luoghi di attrazione culturale da visitare durante un soggiorno in Costa Azzurra. L'idea è stata quella di creare un lungo percorso pedonale che collega, attraverso le stradine fiorite della zona vecchia e squarci di panorama, la cappella di Saint Sauveur al museo Bonnard. La piccola cappella di Saint Sauveur del XV secolo, destituita dal culto durante la Rivoluzione, dopo un attento restauro, nel 1989 è stata interamente decorata dall'artista israeliano Théo Tobias, che ha trascorso gli ultimi anni della sua vita nella vicina Saint Paul, con un coloratissimo affresco monumentale dal titolo La vie est une fete. Di fronte alla facciata, ricoperta da un suo mosaico in pietra, marmo e smalto con un sole come elemento centrale, troneggia una ODORE DI LIBRI di Cristina Pucci [email protected] Un racconto bellissimo, terribile, tragicamente vero anche se il suo autore ne dichiara la genesi fantastica, nessuno riferimento a persone o sigle reali. Siamo in Pakistan, nel bellissimo e odoroso giardino di una scuola ideata e diretta da Rohan, uomo saggio e “fedele” ad Allah, che ha pensato di dare vita a un luogo ove chiunque possa studiare oltre l’appartenenza religiosa. Due scuole, di fronte, su opposte rive di un fiume, ma.... nel tempo recente, siamo dopo l’11 settembre, una ha assunto connotazioni integraliste sempre più irrigidite e di tale intolleranza da costringerlo a lasciarla. Ha due figli suoi e due adottivi, due maschi e due femmine, i maschi senza dire nulla, si avviano ad aiutare gli Afghani, ingiustamente aggrediti da Stati Uniti e mondo “infedele”, uno studia medicina, vorrebbero curare feriti, ma....entrano nella distruttività assoluta, intrinseca ad ogni guerra, che per loro inizia nella scuola di fronte, signori della guerra integralisti, nemici del loro padre Rohan fedele moderato, li avviano con deliberata volontà di farli morire ad un “fronte” e ve li abbandonano, uno muore subito, l’altro viene imprigionato, torturato dai “fedeli” che gli tagliano due dita perchè non possa più sparare e poi venduto come La ville est une fête enorme scultura dell'artista che simboleggia un uccello di luce ed è parte integrante dell'opera. All'interno il tema della vita è sviluppato attraverso un decoro sinuoso fatto con diversi strati di legno, segni, disegni e parole che ricopre tutte le pareti. Dalle piccole finestre i vetri, coloratissimi, creati dall'artista spezzano la penombra con fiotti di luce. L'effetto è di uno scrigno antico che racchiude una preziosa opera moderna. A pochi passi dalla cappella che trasmette gioia di vivere c'è il grande affresco di Raymond Peynet Le mur des amoureux che ricopre interamente una delle facciate di una casa antica. L'opera del 1990, fatta dal famoso illustratore con la collaborazione di Guy Ceppa, uno dei più bravi artisti murali francesi, è una metafora dell'Amore simboleggiato da una coppia di sposi che vola sul Giardino dell'Eden, ispirato, naturalmente, a Le Cannet del quale Peynet era cittadino onorario. La passeggiata continua. Dopo una piazzetta panoramica comincia il tratto di strada dedicato agli artisti e agli artigiani. Gli ateliers dove lavorano e presentano le loro opere sono quasi tutti di proprietà del Comune che affitta loro a un prezzo molto basso dopo averli attentamente selezionati affinchè sia preservato un alto livello di qualità e di creatività. Il ceramista, il doratore, il liutaio, il creatore di gioielli, quello di occhiali unici, il pittore, lo scultore, il designer, il restauratore di tessuti antichi...sono tutti maestri riconosciuti nel loro mestiere. Le Cannet ha conquistato così nel 2004 l'etichetta di Città e Mestieri, titolo creato nel 1992 dall'associazione omonima proprio per promuovere questa sinergia e valorizzare al massimo soprattutto i piccoli centri. La selezione è molto severa e al momento solo 69 città francesi hanno potuto ottenere questo ambito riconoscimento. Il percorso termina al museo Bonnard. Pierre Bonnard visse a Le Cannet , dove Note a margine di una sconfitta terrorista agli americani. Mikal si chiama, resiste, uccide due americani, scappa, torna alla casa del padre, dalla moglie del fratello che anche lui e prima ha amato ed ama. Una storia d’amore bellissima in questo agghiacciante scenario che gronda sangue.Tante le cose che colpiscono, prima di tutto il clima di intollerante follia, paura ed orrore, come una cappa di piombo da cui è impossibile evadere. Colpiscono....le donne. In un mondo in cui l’essere umano non ha alcun valore nè merita alcun rispetto, se possibile, le donne ne hanno ancora meno. Colpisce che ogni vedova sia alla mercè di tutti e nessuno la voglia, se si illude che uno possa volerla e sbaglia viene incarcerata per comportamento immorale. Colpisce che se una ragazza non torna a casa e il fratello va alla Polizia questa ipotizzi come unico movente la fuga “immorale”, non sarà cercata, ma, dice il poliziotto, se torna vuole essere informato per valutare la moralità della scusa che adduce. Colpisce che il poliziotto vada a casa della ragazza dopo i suo ritorno e voglia arrestarla, colpisce che non lo faccia perchè la madre della poveretta, la vedova imprigionata di cui sopra, si toglie le buccole e gliene fa dono. Colpisce che al momento del dono costui annunci che tornerà ogni mese a vedere come stanno...Colpisce il fanatismo sedicente religioso, al limite del delirio, di tanti, ma soprattutto quello del personaggio migliore del libro, quel Rohan uomo di cultura che ha pensato una n 92 PAG. sabato 27 settembre 2014 o 14 realizzò le sue opere migliori, dal 1939 fino alla sua morte nel 1947. Il Municipio, deciso a rendergli omaggio con un museo, ha acquistato un palazzo con l'approvazione del Ministro della Cultura che nel 2006 gli accorda lo status di Museo di Francia e contemporaneamente classifica Monumento Storico Le Bosquet, la casa di Bonnard, non (ancora) visitabile, preservandola così nello stato originario di quando l'artista ci aveva vissuto. Lo Stato ha contribuito anche all'acquisto di alcuni quadri, altri sono arrivati da fondazioni, musei e donazioni di privati mecenati fino a formare una collezione di 300 opere tra oli e guaches. Dalla sua apertura nel 2011 il museo e le mostre che lì vengono ospitate hanno avuto oltre 120.000 visitatori. In questo periodo fino al 2 novembre è in corso una mostra molto particolare dal titolo Le Belle Addormentate, ispirata al romanzo omonimo del 1968 dello scrittore giapponese premio Nobel Yasunari Kawabata. Oltre 50 opere su belle addormentate, seduttive e seducenti, spiate e ritratte da artisti come Renoir, Matisse, Valloton, Bonnard, Picasso, Brancusi... E' tempo di ritornare in Italia. Nel grande atrio della stazione di Cannes appena rinnovato aleggia la melodia di un pianoforte. E' quello messo a disposizione dalle Ferrovie ai viaggiatori musicisti che se vogliono possono suonarlo alleviando così il tempo di attesa del treno loro e quello degli altri (e magari vincere un pianoforte per la migliore performance). Troppa ammirazione per i nostri “cugini” francesi? Io direi solo molta invidia. scuola oltre ogni fede e che pare rappresentare con il suo fiorente giardino la atavica terra pakistana. Anche lui tormenta la moglie laureata che, nel segreto della casa, critica l’Islam e i suoi improbabili diktat. Terrorizzato dal suo sicuro bruciare fra le fiamme dell’inferno, per convincerla a riabbracciare la fede la tortura, letteralmente, fino al suo ultimo respiro, poi, dopo la sua morte, per anni prega e costringe i figli piccoli a pregare per lei fino allo sfinimento. Colpisce l’attacco ad una scuola cristiana, il maltrattamento e la morte di centinaia di bambini. Colpisce la consapevole e crudelmente fiera organizzazione degli americani, superaccessoriati, superarmati, supercellularizzati, supervestiti...colpisce il tatuaggio sulla pelle di uno di essi che, provocatoriamente, dice “infedele”. Le donne del racconto fanno un cammino di interiore autonomia, di presa di distanza. Almeno un secolo penso io occorrerà a coloro per scoprire l’umanesimo, almeno un secolo per trovare la ragionevolezza e il reciproco rispetto. Nadeem Aslam, pakistano di nascita che vive in Inghilterra dall’età di 14 anni, ci regala questo “Note a margine di una sconfitta”. Feltrinelli C n 92 PAG. sabato 27 settembre 2014 o ICON U O .com Foto di Roberto d’Angelo di Tommaso Rossi [email protected] C os’è il berretto del monello artista? È lo strumento,il mezzo,che Nietzsche nella Gaia Scienza indica come l’unico vero percorso poetico che consenta all’artista di guardare con sovrana libertà sopra le cose del mondo. E’ la distanza giocosa e ironica dello sguardo trasfigurante dell’artista, una demitizzante e ludica angolatura interpretativa, una irriverente fenomenologia figurativa che permea di se anche l’intero paesaggio visivo rappresentato nelle opere pittoriche di Alessandro Goggioli, opere protagoniste di una ‘mostra con vista’ dell’artista Alessandro Goggioli, inauguratasi giovedi 11 settembre presso la Pensione Bencistà di Fiesole. Vi sono esposte le regole del gioco di un’iconologia dissacrante, perfetta e innocente nella propria regolarità e circolarità, una galleria di specchi di panofskyana memoria, dove si fondono archetipi pittorici del Bronzino o del Giorgione con giocattoli di latta, miti pop e nature morte seicentesche, le bottiglie di Morandi e i prodotti seducenti dell’industria alimentare. Un sincretismo estetico fatto di tramandi e allusioni, intriso di tonalità ironiche e affettive, reminiscenze, memorie sempre sorvegliate e sarcastiche, aliene da indulgenti nostalgie oleografiche, anche i titoli delle opere nella loro ambivalente causticità cooperano allo smascheramento della grottesca e insondabile assurdità e terribilità della vita degli uomini. Piccoli teatrini dove inscenare la tagliente demistificazione delle ipocrisie e degenerazioni di una storia collettiva preda di miserevoli paradossi, come nell’opera ‘Piccoli italiani’, balilla aviatori di latta, ludica autobiografia di una nazione, o l’opera ‘Made in China’, una bambina di latta cuce alla propria macchina da cucire e da dietro sopraggiungono colorati e minacciosi carri armati, il dolce svelamento di un drammatico e opaco modello di sviluppo, o i due cowboy di ‘C’èra una volta il Nord-Est’, due giocattoli di latta immersi in un bucolico e misterioso paesaggio, citazione di canoni storici della pittura veneta come il vedutismo e il tonalismo, i due protagonisti rincorrono qualcosa, forse un mito che svanisce, il mito della frontiera e delle grandi opportunità perdute. L’intera produzione di Alessandro Goggioli è legata alla tecnica del puntinismo, un puntinismo mimetico e realista anche nella restituzione dei colori luccicanti dei giocattoli di latta, una tecnica pittorica capace di produrre una dolce sospensione, una delicata astrazione, l’intera scena è circonfusa da una luce morbida, creante una sorta di mite e premurosa atemporalità interna, dove l’azione si svolge. Siamo in presenza di una costante costruzione narrativa strategicamente aperta, rimbalzante, una messa in scena dove si manifestano una pluralità di punti d’osservazione della realtà, riverberante allegorie legate a raffinati calembour, molteplici prospettive semantiche oscillanti tra una languida grazia fanciullesca e il mistero, l’enigma fiabesco e incantato del gioco, legato alla ricerca della conoscenza. Forse davvero non c’è niente di più serio del gioco. 15 Il berretto da monello artista fanciullo AMARCORD di Michele Rescio [email protected] “Io sono solo un narratore, e il cinema sembra essere il mio mezzo. Mi piace perché ricrea la vita in movimento, la allarga, la esalta, la distilla. Per me è molto più vicino alla creazione miracolosa della vita che, per esempio, un dipinto o la musica. Non è solo una forma d’arte, in realtà è una nuova forma di vita, con i suoi ritmi, cadenze, prospettive e trasparenze. E’ il mio modo di raccontare una storia”. Questa fu la risposta di Federico Fellini a una mia domanda sul suo cinema, nel bel mezzo di una indimenticabile cena a casa di Giuseppe Zanini, più noto come Nini Za. Nell’inverno del 1984 avevo accompagnato Edolo all’inaugurazione di una retrospettiva delle opere di Zanini, pittore caricaturista, scrittore, gallerista e mercante d’arte di successo , fra gli ospiti molti pittori noti, Vespignani, Calabria, Schifano, ma gli sguardi erano tutti per Federico Fellini e Giulietta Masina, intimi amici della famiglia Zanini. Quella sera fui protagonista di una piacevole ed inaspettata vicenda. Mentre commentavo una caricatura di Totò con “Za” ,mi afferrò per un braccio e mi portò nel suo studio, prese carta e penna e in pochi secondi, disegnò la mia caricatura. Inespressivo per l'emozione che aveva impietrito i miei muscoli facciali vidi , e fu stupefacente, la faccia di Nino Za mimare la smorfia che voleva io avessi. Sul foglio apparve sì la mia faccia ma con l'espressione che gli era piaciuto inventarsi per me. . Mentre sventolavo il mio prezioso trofeo sotto i baffi di Edolo Masci mi arrivò vicino Fellini : “ Giovanotto lei è molto fortunato, io ho dovuto aspettare anni prima che Giuseppe mi facesse un ritratto… “. Ancora più emozionato non spiccicai parola, gli strinsi la mano con espressione cretina, e mentalmente, ringraziavo la mia buona stella.... Mentre mi rimproveravo per aver perso l’occasione di scambiare qualche parola con il Maestro del cinema italiano, un sabato pomeriggio, mi telefonò Edolo Masci e..”mettiti in ghingheri siamo invitati a cena a casa di Ziveri..”. Di ghingheroso avevo ben poco, il solito, Jeans, camicia di velluto verde scuro, pullover panna, .. Arrivati in via Margutta a casa Una sera con Fellini Ziveri ci trovammo in una grande sala illuminata a giorno da due lampadari di Murano, al centro un enorme tavolo coperto da una immacolata tovaglia di lino , apparecchiato con gran gusto e con a centrotavola un recipiente color terra di Siena pieno di acqua, sassi e petali di rosa il cui profumo si diffondeva per la sala. In ogni dove sculture di artisti contemporanei, alle pareti quadri di De Chirico, Campigli, Sironi, Carra', de Pisis, Guttuso, Cesetti, Rosai, Tomea, Tosi. Sotto un quadro di Campigli, due donne con le mani sulla tastiera di un piano, seduti su due poltrone, discutevano, Fellini e Za. Fui piacevolmente sorpreso della presenza del Maestro e soprattutto del fatto che si ricordasse di me! Zanini poi, che mi ringraziò per aver accettato l’invito, era meraviglioso, elegantissimo, con il suo viso magro con poche rughe e gli occhi neri quasi come la notte, i sottili baffetti ben curati gli conferivano un’aria antica e solenne. Dalla cucina uscirono la moglie di Zanini e la Masina. Germana era bellissima, i suoi occhi azzurri avevano affascinato oltre a de Chirico, Casorati, Guidi, e Campigli, che l’hanno immortalata sulla tela. Giulietta Masina, minuta e affascinante con il suo viso tondo come una piccola Luna piena e gli occhi grandi, intelligenti e buoni. La figura fragile contrastava con la sua voce quasi rauca e dal tono forte e deciso. A tavola, Fellini, con quella sua particolarissima voce da ragazzo sognatore, raccontò della sua antica ammirazione per Zanini, negli anni ’30, ragazzetto, si recava al Grand Hotel di Rimini per vederlo mentre, vestito di bianco, ne usciva e saliva sulla sua Isotta Fraschini. Era un narratore formidabile, aveva la rara capacità, di farti “vedere” quello che raccontava... e con quanta tenerezza Giulietta, lo guardava mentre parlava. Si percepiva profumo d’amore, incondizionato e complice. Nino Za, a capotavola, sollecitato da tutti noi, raccontò dei suoi viaggi in Europa, dei grandi teatri in cui si esibiva, realizzando alla velocità della luce le sue famose caricature, delle copertine per una famosa rivista di satira politica e di costume in Germania. Quella sera appresi che Fellini detestava Moravia “ Triste e noioso”, ammirava Simenon, Flaiano, suo amico, e il regista giapponese Kurosawa: “Penso che Kurosawa sia il più grande esempio di tutto ciò che un autore di cinema dovrebbe essere”. Parlò dei sogni: “I nostri sogni sono la nostra vita reale. Le mie fantasie e ossessioni non sono solo la mia realtà, ma la materia di cui sono fatti i miei film”. ..della vita: “Non perdete mai il vostro entusiasmo infantile ”. Esibì la sua proverbiale ironia: “E’ più facile essere fedeli a un ristorante che a una donna”; “La felicità è una condizione temporanea che precede l’infelicità. Fortunatamente per noi, funziona anche il contrario”. Quella sera capii che i grandi artisti, per essere anche uomini grandi, devono essere semplici e possedere una dote rara: la modestia. Non fui amico di Fellini, dopo quella cena, non lo incontrai più. Divenni buon amico di Za, lo andavo a trovare alla galleria di via del Babuino e, circondato da opere d’arte di grande valore, m’intrattenevo con la sua sapienza. Ricordo con tenerezza, le lunghe passeggiate, le soste al caffè Canova, in Piazza del Popolo, gli aperitivi all’Antico Caffè Greco, in via Condotti... Giuseppe Zanini, è morto a Roma l’11marzo del 1996, aveva 90 anni. A me manca molto. C ICON U O .com di Angela Rosi U [email protected] n sottile filo colorato e folle lega l’arte contemporanea a Sèraphine de Senlis, ogni artista l’ha ri-trovato nel suo intimo, esplorato e reso visibile con la sua opera. Nella mostra L’arte della follia le artiste ci invitano a scoprire quel pizzico di follia e colore dentro di noi che ci permettono di entrare in sintonia con l’arte di Sèraphine senza paura e con curiosità Nel singolare ognuno di noi è folle di Myriam Cappelletti. La pittura di Sèraphine ha ispirato tele piene di colore e di richiami ai materiali naturali che lei usava per dipingere, essa ebbe un rapporto fisico con la natura e allo stesso tempo varcò la soglia dello spirituale, Antologia di Sèraphine di Angela Ciccarello, stampe su legno per rilevare maggiormente la simbiosi tra Sèraphine e le piante. Le opere sono Corpo impassibile, anima sfuggente di Medià Azad, ogni tela è un invito alla luminosità Luce di Eurosia Bertoletti, alla fuga Fiori in fuga di Vanessa Thyes o al movimento Arabesque di Tamara Donati. Il moto è verso l’alto, verso il cielo, verso l’infinito, dove le foglie diventano farfalle e i fiori uccelli Uccelli di Caroline Gallois. La pittura diviene atto di trasformazione come Fiorenza Mariotti ha delicatamente raccontato nella sua opera e, anche, memoria. L’arte di Sèraphine è ossessione Sogno ossessivo di Catiuscia Villani, è ripetizione e serialità Fractus di Simonetta Fratini. Sèraphine trasfigura i suoi lavori Omaggio a Sèraphine Tamara Donati "Arabesque" acrilico e foglia d'oro su tela cm 50x70v Che a Manzoni piacesse molto la Monaca di Monza è palese. Una donna belloccia, soggetta a peccare e oggetto di peccati. Forse anche complemento oggetto di peccati. E che non voleva far la Monaca. E neanche la Monza. Ma come si fa a spedire una così belloccia in convento! Ma come si fa! Ma resosi conto di essersi esposto un po’ troppo, di avere scritto quel che era meglio non scrivere, temendo rappresaglie famigliari, Manzoni, terrorizzato, pensò di nascondersi dentro l’armadio e buttare via la chiave, poi, non sembrandogli un posto tanto sicuro, scelse il depistaggio epocale. E cacciò nel romanzo di tutto: il rapimento di Lucia, la rivolta del pane, Renzo che vaga fra Gorgonzola e l’Adda, l’Inno- o minato, la conversione, la plebe affamata, quando rilesse, sbiancò: “Troppo poco! Non basta!”. Preso dal panico sparò le cartucce rimaste. I topi e la peste! E impestò tutti. “Viva la peste”. Si fregò le mani. E li fece fuori tutti nel Lazzaretto, escluso quelli che gli servivano, ovviamente. Poi sciolse il voto, eliminò il frate, e dopo avere accennato molto ma molto vagamente, ad un ipotetico processo alla Monaca, chiuse il romanzo con una quarantena depurativa. Tutti a Bergamo. Via dai coglioni. Rilesse tutto. Le prove della sua tresca mentale con la Monaca di Monza, erano state occultate. Scrisse la parola fine al libro. Si appoggiò allo schienale. Poi tirò un sospiro di sollievo: “Ce l’ho fatta!” 16 neri che diventano colorati di notte, essi sono mantra per ritrovare la parte di se celata che si manifesta poi nelle sue opere, le artiste hanno colto tutto questo oltre alla capacità interiore di trasformazione. Esse hanno liberato il colore e le forme donando al quotidiano e alla natura una valenza spirituale e creativa, la natura possiede un’anima che le pittrici, guidate da Sèraphine, hanno individuato. Vi si trova un richiamo alla decorazione orientale e nell’opera di Eliana Sevillano c’è la raffinatezza della pittura giapponese. L’arte di Sèraphine è anche gioco, pienamente esplorato da Gianna Cavaciocchi in Sèraphine Social Tree un’opera briosa e interattiva che vuole provocarci rendendo pubblico il nostro pensiero. Queste opere ci parlano di mondi lontani e diversi, ci portano nei recessi della nostra mente, angoli di sofferenze, luoghi bui che si rischiarano alla luce del colore Disperazione di Cristina Corradi e possiedono la libertà di Sèraphine che tramuta la follia in percorso artistico. L’arte della follia, omaggio a Sèraphine de Senlis per i 150 anni dalla nascita, si inaugura sabato 27 settembre 2014 ore 18,00 - Atelier Giardino Colgante a Prato Viale Montegrappa 20 - con le artiste M. Azad, M. Barletta, E. Bertoletti, M. Cappelletti, G. Cavaciocchi, A. Ciccarello, C. Corradi, T. Donati, L. Facchini, S. Fratini, C. Gallois, Hamaranta, S. Massellucci, F. Morganti, F. Mariotti, D. Palotti, B. Pieroni, R. Pinero, L. Pinzauti, D. Schilirò, E. Sevillano, V. Thyes, IL LIBRO Promessi sposi SCAVEZZACOLLO Vanessa Thyes "Fiori in fuga" tecnica mista su acetato cm 50x70 n 92 PAG. sabato 27 settembre 2014 Il mito di Proust L’APPUNTAMENTO Akiko Chiba a Livorno dal 26 settembre C IN RICORDO U O .com di Giacomo Aloigi C’ [email protected] era lei, Moana. Poi dietro, in ordine sparso, tutte le altre. Mito pagano lo era già in vita, ancor più lo è diventata nel 1994, dopo la sua prematura morte, avvenuta all’età di trentatré anni in un ospedale di Lione, il 15 settembre. A portar(ce)la via un tumore che da mesi ne stava impietosamente corrodendo quella bellezza statuaria di cui lei aveva il culto. Moana non era un nome d’arte e ma il suo vero nome di battesimo, Anna Moana Rosa Pozzi, per esteso. E quella parola, “moana,” significa in dialetto hawaiano “là dove il mare è più profondo”. Moana non era solo la regina del porno. Non era, banalmente, la sacerdotessa di eros che celebrava i suoi sabba perversi davanti alla telecamera per la gioia di milioni di voyeur. Moana era una diva. Forse l’ultima che abbiamo avuto. Elegante, posata, intelligente, colta, mai volgare neppure nelle scene più bollenti. C’era in lei un ché di aristocratico che le impediva di risultare sgradevole o davvero oscena. La sua era una bellezza tanto evidente quanto rassicurante. Non c’era aggressività o rapacità nel suo modo di apparire e di porsi. Il fatto è che al di là de film e delle dichiarazioni di circostanza che un’attrice hard non può esimersi dal rilasciare (“sono un’esibizionista, lo faccio perché vivo di sesso” ed altri stereotipi del genere) Moana sembrava tutt’altro che una donna accessibile o di facile conquista. Quell’aristocratico darsi, cui prima ho fatto cenno, creava, d’impatto, un inconscio steccato tra lei e il maschio, sempre inevitabilmente un gradino sotto di lei, sempre in fase di adorazione di tanta bellezza, sempre nell’imbarazzo di non essere adeguato. Moana, appena ventenne, diventa Valentina ragazza in calore nel suo esordio nell’hard (1981). E’ una scelta Là dove il mare è più profondo o 17 già l’ha cominciata a cercare proprio nel 1987, con la trasmissione Jeans condotta da un giovane Fabio Fazio, e poi l’anno successivo, nella persona, nientemeno, di Antonio Ricci che vuole lanciarla (completamente nuda) nel suo nuovo programma contenitore Matrjoska. Da allora la sua presenza sul piccolo schermo sarà sempre più assidua, richiestissima ospite di tutte le trasmissioni generaliste, dal Gioco dei Nove a Buona Domenica, da Linea Rovente a (addirittura) L’appello del Martedì. Nel 1992 tenterà, come prima di lei la Staller, la carta delle elezioni politiche con il Partito dell’Amore. Non avrà la stessa fortuna dell’amica ungherese. L’anno prima aveva pubblicato un libro dal titolo roboante, La filosofia di Moana, nel quale, in ordine alfabetico (amanti, amore, ambizione…ecc.), racconta il suo pensiero, la sua filosofia appunto. E fa i nomi degli uomini celebri con cui ha avuto storie d’amore o soltanto di sesso. Con tanto di voto. Fra i tanti troviamo Benigni, Tardelli, Pozzetto, Troisi, Grillo. Invece che una dedica, sulla terza pagina, Moana inserisce una frase, un aforisma, che col senno di poi acquista il senso di una triste premonizione: “Vivi come se dovessi morire domani e pensa come se non dovessi morire mai.” Il domani per lei arriva presto. Molto presto, purtroppo. Dei suoi ultimi giorni trascorsi nell’ospedale di Lione, assistita fino alla fine dalla madre, se ne trova un commovente ricordo nel libro-intervista “Moana tutta la verità”, un lungo colloquio tra Francesca Parravicini e Simone Pozzi, il figlio che per tutta la vita Moana ha chiamato fratello. Simone chiarisce anche il destino del corpo della madre. E’ stato cremato e le ceneri, che lei avrebbe voluto disperse in montagna, sono state messe in un’urna chiusa in un loculo. Simone non dice in quale cimitero. Forse in quello di Ovada, in Piemonte. Per l’esattezza i resti di Moana si troverebbero in una tomba senza lapide e senza alcuna iscrizione. Moana, come dicevo all’inizio, ha lasciato un vuoto che nessuna ha saputo riempire. Non so se avrebbe un giorno rinnegato quel mondo del quale è stata la regina indiscussa per molti anni. Non lo credo. Prima o poi lo avrebbe abbandonato, non c’è dubbio. Probabilmente lo stava già facendo quando la malattia l’ha ingoiata. Ma anche se avesse lasciato il business del porno sono convinto che non avrebbe cercato, come molte altre sue colleghe, di far credere che ci era finita per caso, che in realtà non avrebbe voluto fare quello ma ben altro, che qualcuno si era approfittato della sua giovanile ingenuità. No. Non era da Moana. Il porno non le piaceva, questo lo sapevano tutti nell’ambiente. Un lavoro, non un’arte. L’hardcore per lei era un tramite, il mezzo attraverso il quale imporre se stessa all’attenzione generale, per arrivare in cima, per essere la più desiderata. No, Moana non avrebbe rinnegato quel passato. Perché il farlo avrebbe significato rinnegare se stessa, cosa che lei non concepiva. Forse sarebbe sparita, piuttosto. Avrebbe mollato tutto per iniziare un nuovo percorso completamente diverso, forse anche più complesso, difficile. Moana per ora resta. Non sappiamo per quanto ancora. Se ne parla. Ne parliamo. Passerà. Anche lei. Anche il suo ricordo. Ma con maggiore lentezza e con più discrezione. reliquie che, bisogna dire, fecero in pieno il loro dovere perché, fino alla definitiva protezione offerta dal parafulmine, non si registrarono altri incidenti. Peraltro padre Antonelli, come uomo di chiesa, si era giustamente preoccupato di difendere e proteggere dalla furia della natura il principale edificio cittadino della cristianità. Non sarebbe stato male, però, se, come uomo di scienza, si fosse interessato anche ai palazzi del potere secolare: nel pomeriggio del 9 giugno 1936 un temporale di eccezionale intensità investì Firenze con una scarica di fulmini. Due di questi colpirono in pieno Palazzo Vecchio, scaricandosi sull’asta della bandiera della torre d’Arnolfo. L’asta di legno d’abete delle foreste di Vallombrosa era lunga 24 metri, aveva un diametro alla base di 30 centimetri e si trovava lì dal 1928, quando aveva sostituito la precedente stroncata da una tempesta di vento: come scrissero i cronisti dell’epoca, “aveva avuto l’onore di spiegare al sole la bandiera annunciatrice dell’Impero”. La povera asta annunciatrice, al contrario della palla del Duomo, resistette all’urto pur seminando una pioggia di schegge di legno, ma dovette essere sostituita, come testimonia l’immagine di un operaio intento a rimuoverla. Osservando l’abbigliamento e la posizione dell’operaio, non si può fare a meno di notare come nel 1936 la legge 626 sulla sicurezza sul lavoro fosse di là da venire. Moana che poi momentaneamente cercherà di rinnegare, tentando di appagare il suo bisogno di apparire (quindi di “esistere” nella filosofia mediatica che nasce e si afferma proprio nel decennio di cui parliamo) attraverso i canali ortodossi, ma con scarso successo. Fino al 1987, quando l’ingresso nel porno è definitivo e annunciato con la fanfara. Prima di questo secondo esordio Moana interpreta piccoli (spesso piccolissimi) ruoli in una dozzina di pellicole tra cui si segnalano Borotalco di Verdone (1982) e Ginger e Freddi Fellini (1985). Quando esce “Fantastica Moana” l’hard italiano è già entrato nella sua seconda fase storica. Il cui inizio si può far coincidere con un altro esordio di spicco, quello di Ilona Staller. Ilona e Moana, di lì a poco, daranno vita ad un sodalizio che le vedrà coinvolte assieme in parecchi film, anche oltre oceano. Ormai il porno non è più il solo palcoscenico di Moana. C’è ora la televisione, che n 92 PAG. sabato 27 settembre 2014 GRANDI STORIE IN PICCOLI SPAZI di Fabrizio Pettinelli [email protected] Giovanni Antonelli, al quale è dedicata una Piazza in zona San Gervasio, fu un padre scolopio nato a Pistoia nel 1818 e vissuto a Firenze dove morì nel 1872. Per tutta la vita, in collaborazione con padre Felice Cecchi, a lungo direttore dell’Osservatorio Ximeniano, si dedicò a studi scientifici, lavorando anche al progetto del motore a combustione interna con Barsanti e Matteucci. Per quanto probabilmente sconosciuto al grande pubblico, tutti a Firenze hanno sicuramente visto, anche se altrettanto sicuramente non toccato, un suo inconfondibile ricordo: basta guardare la sommità del campanile di Giotto e il parafulmine di 5 metri che lo sormonta. Fu infatti Antonelli, insieme a Cecchi, a progettarlo e farlo installare nel 1858; se pensate che sia stato un intervento di poco conto, cercate di individuare sul selciato di Piazza Duomo, lato Via del Proconsolo, un cerchio di marmo Piazza Antonelli Tuoni e fulmini bianco. Fu esattamente in quel punto che il 17 gennaio 1600, durante una furiosa tempesta, si abbatté frantumandosi la palla dorata della cupola del Brunelleschi, staccata di netto da un fulmine. Nel 1472 la collocazione della palla, opera di Andrea del Verrocchio, aveva praticamente segnato la fine dei lavori di costruzione del Duomo. Ricostruita, fu ricollocata al suo posto il 15 dicembre 1602: in quell’occasione fu il cardinale Alessandro dei Medici (futuro papa Leone XI) in persona a salire in processione fino alla sommità della cupola per lasciare nella lanterna due reliquie con il compito di respingere i fulmini (“ad repellendos fulminum impetum”), C ISTANTANEE AD ARTE U O .com di Laura Monaldi [email protected] F in dai suoi albori, la fotografia ha ricoperto un ruolo importante nel Sistema artistico, qualificandosi come un mezzo attraverso il quale sviluppare idee e opere d’arte, come una nuova forma di libertà espressiva, che dà modo all’artista di dar voce alla propria sensibilità personale. Nel panorama delle possibilità e del dialogo continuo fra le varie specificità che caratterizzano la cultura contemporanea – ossia quella complessa situazione esistenziale e quotidiana in cui si muovono il fatto e l’azione artistica – la fotografia fa emergere il proprio statuto creativo: l’essere predatrice di immagini e puro atto estetico, in quanto realizza un vero e proprio evento attraverso il semplice scatto e il dispositivo ottico, poiché nell’atto di fotografare si stabilisce una particolare relazione con il mondo, si interpreta una miniatura, elaborandola attraverso procedimenti che concretizzano un frammento di realtà. Attento al sociale e ai panorami della cultura internazionale, Maurizio Berlincioni opera – dalla metà degli anni Sessanta a oggi – un’analisi precisa e strutturale del mondo contemporaneo. I suoi reportages fotografici affascinano per la freschezza e la lucidità dello scatto, solo apparentemente banale, in grado di fissare con esattezza e accuratezza il soggetto d’interesse. Quello del fotografo è uno sguardo laterale, indagatore, curioso, capace di sviscerare la quotidianità e gli spazi della quotidianità, attraverso un taglio comunicativo inedito, quasi ingenuo e innocente tuttavia puntuale, poiché mira a cogliere rigorosamente il punto di vista più sfuggente. Impadronendosi dell’imma- n 92 PAG. sabato 27 settembre 2014 o 18 Foto da prima (ultima) pagina gine, attraverso lo scatto e il dispositivo ottico, Maurizio Berlincioni esprime con soggettività la propria forza concettuale e interpretativa, superando le alterità spaziali e temporali, in una contingenza che appare sensibilmente pura allo spettatore, ignaro di condividere la medesima visuale dell’artista al momento dello scatto. Penetrante, analitico e a tratti ironico (si pensi alle Foto-coppie del 1982: capolavoro d’ironia in cui è lecito fare e disfare le coppie di artisti/e e consorti, ritratti rigorosamente in nudo), l’artista riflette in modo sistematico l’immagine dell’attualità, in un equilibrio armonioso e critico tra forma e sostanza delle strutture e dei modelli visivi: un invito a ripartire dai particolarismi dei panorami cittadini e dell’individualità umana, senza preconcetti, con l’oggettività disarmante di una semplice fotografia. Al centro Gruppo di bambini. Lexington Ave., Spanish Harlem, NYC, 1969. In basso da sinistra Tenement building. Spanish Harlem, Manhattan, 1969; You’ve got a great future behind you, NYC, 1969 e Ragazzi ad uno spettacolo di Street Theater, “Block party” nel Bronx, 1969. Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato
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