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uesta settimana
il menu è
DA NON SALTARE
Libri da mangiare
Istruzioni per l’uso
“
E’ evidente che siamo davanti a una grande campagna
promozionale delle lobby che vogliono promuovere
certi valori. Questo non avviene solo con i videogiochi
come “The Sims”, ma anche con libri destinati
ai bambini che invece di proporre una famiglia con
papà e mamma, quando si parla di genitori
ne propongono una di un papà con un papà
Carlo Giovanardi
Sottosegretario alla Famiglia
Albani da pagina 2
PICCOLE
VUOTI&PIENI
ARCHITETTURE
Realtà
virtuale
20 anni senza
Leonardo Ricci
Stammer a pagina 5
OCCHIO X OCCHIO
Il fotografo
di Montmartre
Cecchi a pagina 7
ISTANTANEE AD ARTE
Berlincioni, foto
da prima pagina
RIUNIONE
DI FAMIGLIA
a pagina 4
Il romanzo
della
rivoluzione
(the end)
Maramaldeggiare
pallido
e assorto
Monaldi a pagina 18
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sabato 27 settembre 2014
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DA NON SALTARE
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di Paolo Albani
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a tempo, a proposito delle varie
tecniche escogitate per assimilare il contenuto di un libro (comunemente si pensa che la
migliore sia quella di leggerlo), sta prendendo campo l’idea che una delle più efficaci e promettenti sia la tecnica che
prescrive di mangiarlo, il libro, copertina
e sopraccoperta incluse. È un’idea non
nuova: il diplomatico fiammingo Ogier
Ghislain de Busbecq (1522-1592) racconta, sulla base di notizie avute dai turchi, che i tartari mangiano i libri convinti
di assorbirne la sapienza in essi racchiusa.
Il ritorno sul mercato libraio della bibliofagia − pratica che ha origini lontane, almeno da quando Dio ordinò a Ezechiele
di mangiare (anche se forse in senso metaforico) un lungo rotolo denso di parole
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Libri
da mangiare
Istruzioni
per l’uso
Scelta
del libro
Una volta individuati il genere e l’autore è consigliabile orientarsi su volumi di media portata (non più di 150-200 pagine),
preferibilmente rilegati a filo (la colla può essere pesante,
senza contare coloro che sono allergici a tale sostanza) e con
copertina non rigida. Naturalmente va da sé che per i buongustai e i lettori forti non si pone alcun limite al numero di
pagine del libro da mangiare (un piatto speciale prediletto da
questa tipologia di persone sono le enciclopedie, i dizionari
e gli atlanti geografici e storici in salmì). Per coloro che hanno
problemi di digestione si consigliano particolari libri d’artista
composti di fogli di carta velina (sulla falsariga di quelli elaborati da Bruno Munari).
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che si sciolsero come miele nella bocca
del profeta − è stato salutato un po’ da
tutti con grande entusiasmo: editori, librerie, edicole, supermercati hanno esultato vedendo aumentare le loro vendite
di libri; perfino le biblioteche si rallegrano, obbligate come sono per decreto
ministeriale a farsi ricomprare il libro
una volta mangiato dall’utente cui è stato
dato in lettura o in prestito (gli unici dispiaciuti − e c’è da capirli, poveretti −
sono i collezionisti che i libri spesso
nemmeno li aprono per conservarli più
a lungo).
Di fronte all’ampia e inarrestabile diffusione del fenomeno della bibliofagia può
essere utile la consultazione di questo
piccolo manuale di istruzioni, uscito
anonimo il mese scorso per le Edizioni
Bartleby, che affronta il tema di come ingerire e gustare al meglio la prelibatezza
di un libro.
Prima
operazione
Non appena effettuata la scelta del libro da mangiare, la prima
cosa da fare è “sfogliare” il libro stesso, ovvero staccarne tutte
le pagine, una per una, e metterle a bagnomaria. Per approntare un bagnomaria, si prepara anzitutto il composto cartaceo, cioè l’insieme dei fogli non accartocciati, all'interno di
un recipiente. Quindi si riempie di liquido, in genere acqua,
un altro recipiente di forma e dimensioni adatte a contenere
il primo recipiente in modo agevole e sicuro. Si mette il primo
dentro il secondo e quest'ultimo sul fuoco o direttamente in
forno. Tutto ciò rende più morbida la carta, liberandola allo
stesso tempo da varie impurità tipo tarme e altri insetti, polvere, macchie di unto, ecc. Si tenga presente che se un libro è
intonso va da sé che più lungo dev’essere il tempo di cottura.
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Seconda
operazione
Si prendono i fogli riscaldati, si separano l’uno dall’altro facendo attenzione che non si rompano e si mettono a asciugare stendendoli a un filo, meglio se all’aria aperta, con una
molletta di legno o se preferite di plastica (evitare accuratamente l’acciaio che può lasciare sui fogli ancora umidi delle
piccolissime tracce residuali non proprio gradevoli al palato).
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DA NON SALTARE
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Suggerimenti
finali
Fate attenzione: ricordatevi che, così come nel campo dei miceti esistono alcune specie di funghi che sono velenose, anche in quello libraio esistono volumi nocivi, perciò
bisogna stare in guardia e considerare che non tutti i libri sono commestibili; ve ne
sono alcuni decisamente immangiabili, tossici e deleteri, altri che richiedono speciali
procedure per essere cucinati a dovere al fine di non rovinarli e renderli poco appetibili. Ad esempio per cucinare un Perec è necessario seguire rigorosamente determinate regole, altrimenti si rischia di fallire come avviene con l’impazzimento della
maionese; lo stesso vale nella preparazione di un buon piatto a base di pagine di Céline: in questo caso conviene prima togliere tutti gli innumerevoli puntini di sospensione disseminati nel testo che, al pari dell’aglio o del cetriolo, possono risultare
indigesti. Per cucinare bene l’Ulisse di Joyce (consiglio di farlo in fricassea farcito di
parole-macedonia) si deve lasciarlo frollare almeno una giornata intera
Terza
operazione
Una volta asciutti si cucinano i fogli del libro secondo la ricetta preferita. Ad esempio in un articolo apparso sulla rivista
Le Livre del 1880 Pierre Gustave Brunet ricorda come uno
scrittore scandinavo, dopo aver pubblicato nel 1643 un libello politico intitolato Dania ad exteros de perfidia Suecorum,
divora per punizione il suo scritto bollito nella zuppa. Le minestre, e in genere ogni piatto a base liquida, si presta in modo
meraviglioso alla cucina di ogni di tipo di libro, specie quelli
la cui trama, come il brodo, è allungata surrettiziamente. Un
famoso chef piemontese, Alberto Vettori, ha inventato il “romanzo alla Biron”, ispirandosi all’omonimo personaggio delle
Illusions perdues di Honoré de Balzac, il giovane figlio di un
orefice, segretario del barone di Goërtz, ministro di Carlo
XII, re di Svezia (Il giovane segretario trascorre le notti a scrivere; e come tutti i grandi lavoratori contrae un’abitudine, si
mette a masticare la carta [...]. Il nostro bel giovane comincia
con della carta bianca, ma vi fa l’abitudine e passa ai fogli
scritti, che trova più saporiti [...]. Infine il piccolo segretario,
di sapore in sapore, finisce con il masticare delle pergamene
[la masticazione lenta – altrimenti detta slow chewing − è un
fattore importante per digerire bene la carta, ndr] e mangiarle!). La ricetta del romanzo cucinato alla Biron consiste
nel prendere un romanzo (quelli di Moravia vanno benissimo), lessarlo bene a fuoco lento in una pentola stretta e alta
aggiungendo circa 3 litri di acqua per ogni kg di carta e 1215 grammi di sale, pepe, sedano, cipolla e chiodi di garofano;
quando il bollito di carta romanzesca sarà cotto a puntino
(con i romanzi di Moravia è facile raggiungere in breve tempo
un ottimo stato di sfinimento), prendetelo con un mestolo
forato, fatelo sgocciolare e poggiatelo su di un tagliere, tagliatelo a fette di circa 5 cm di spessore utilizzando un coltello
dalla lama liscia e lunga; disponete le fette di carta su di un
piatto da portata e servite immediatamente
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5 passi
per portare in tavola
un Joyce o un Céline
cotto a puntino
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RIUNIONE DI FAMIGLIA
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LE SORELLE MARX
Il romanzo della rivoluzione (the end)
Riassunto delle puntate precedenti:
la riformuccia del Ministero ha spodestato i Guardiani dei beni culturali
e il “Che” Franceschini ha volto il
suo sguardo rivoluzionario verso il
turismo e la fotografia. Ormai niente
sembra poterlo fermare sulla strada
della Rivoluzione.
La nostra comedia volge al termine.
Ha assunto talvolta le tinte fosche della
tragedia; altre volte quelli più brillanti
della commedia degli equivoci, o quelli
accesi del romanzo di avventura, o
anche quelli tenui (quasi sbiaditi) del
romanzo d’appendice. Grandi personaggi hanno incrociato la loro vicenda
con persone minori, ordinarie. Ma
come in molte rappresentazioni letterarie o teatrali delle vicende umane, rovesciamenti improvvisi della storia
trasformano lo straordinario in ordinario, elevano i bassi alle sfere alte,
cambiano principi in rospi: si chiamano, in genere, rivoluzioni. E così,
giunti al termine della nostra storia,
assistiamo a capovolgimenti e rivolgimenti che potremmo definire rivoluzionari (sempre che il Leader Maximo ci
conceda questa licenza), trasformando
Regine in Badesse e servi in eroi.
Il “Che” Franceschini è esaltato dai
suoi recenti successi; colto da frenetico
tremito rivoltoso non riesce a stare
fermo un secondo; è tutto un disegnare
strategie militari, piani d’attacco, cospirazioni carbonare. Il suo Quartier
Generale (così ha ribattezzato il Collegio Romano) è un brulicare di consiglieri, colonnelli, spie, soprintendenti
che confabulano e chiedono ordini del
capo rivoluzionario. Ma questo fermento rivoluzionario non tarda a
giungere alle orecchie di Matteo Renzi
a Palazzo Chigi: la sua rabbia cresce
in modo esponenziale, è incontenibile,
esplode. Renzi chiama il più fidato dei
suoi, Luca Lotti. E’ noto, il Lotti, per
essere un esecutore spietato dei voleri
del Capo; fedele fino alla morte, sarebbe disposto a buttarsi in un pozzo
(ma soprattutto a buttarci altri) per
Lui.
“Luca, quel bischerello di Dario si è
montato un po’ troppo la testa. Tutte
queste stronzate sulle riforme lo hanno
un po’ troppo ringalluzzito: selfie libero, turismo popular, ministero del
Poder Popular! Ma che cavolo pensa
di fare! Ora basta, bisogna fermarlo e
fargli passare il ruzzo. Vai, e sistemalo
una volta per tutte; senza pietà. Bisogna schiacciargli il capino! Capito?”.
“Sì, Matteo, ma se stronchiamo Darietto, quelli delle Soprintendenze rialzano il capo; penseranno di aver vinto
e quelli rimangono al loro posto per un
altro secolo e mezzo. Non vorrai mica
sacrificare Dario e poi tenerti l’Acidini
fra le scatole? E poi te lo immagini
Paolucci? Quello convince Francesco a
mettere i tornelli per entrare in Città
del Vaticano e ci fa togliere il passa-
porto diplomatico.”
“Porca miseria, c’hai ragione Luca. Intanto, sistemiamo quei due della Vecchia
Guardia.”. Il Leader Maximo prende il
suo cellulare preferito e digita lo 007:
“Pronto, Squitieri? Senta, vorrei sapere a
che punto sono quelle due indagini sulle
assicurazioni per il trasporto di opere
d’arte. Sì, sì, quelle su Paolucci e l’Acidini. Come, in fase istruttoria? Ma la
Giustizia è davvero lenta! Via, vediamo
di darsi una mossa. Ché altrimenti nella
riforma della Giustizia che sta preparando Orlando, ci metto anche la Corte
dei Conti e la trasformiamo nella Corte
di Conciliazione delle infrazioni al Codice della strada”.
Riattacca e riprende a impartire ordini
al fidato Lotti: “Ovvia, questa è sistemata. Ora, Luchino vai al Collegio Romano e abbassa la cresta a
quell’invasato di Dario”.
Lotti scatta sugli attenti e parte alla
volta del Mibac. Dove, nel frattempo
sono giunte le dimissioni di Cristina Acidini, nonché le dichiarazioni di solidarietà di Paolucci alla suddetta.
Franceschini che, per quanto esaltato,
proprio scemo non è, sente odor di bruciato e capisce che il gioco si sta facendo
più grande di lui. “Se crollano questi Giganti, o alzo la posta oppure rischio di
rimanere stritolato. Devo rilanciare
l’azione rivoluzionaria. Devo passare al-
l’incasso”. Chiama il suo addetto
stampa e detta in tutta fretta la seguente
dichiarazione: “Vi mostrerò i dati: il
mancato incasso del giorno festivo viene
ampiamente compensato dal fatto che
gli over 65 ora pagano: e poi la domenica gratuita costituisce un volano per
far tornare la gente anche durante la settimana. Credetemi, vale la pena.
Firmato: Dario “Robin Hood” Franceschini (colui che toglie ai vecchi per dare
ai poverini)”.
Ha appena finito di vergare il comunicato, che viene avvertito dai suoi dell’arrivo dell’infuriato Luca Lotti. Salta sulla
sedia, urlando: “Maledetto Sceriffo di
Nottingham, non avrai la mia pelle! Mi
rifugerò nella pineta di Freggene e lì, con
pochi fedeli seguaci, continuerò la mia
rivolta, fino a quando non reinsedierò
sul trono, ora occupato dall’usurpatore
re Matteo Senzaterra, l’unico suo legittimo detentore: re Monti Cuor di Leone.
Seguitemi, miei prodi. No, non tu Romano! Prodi aggettivo, non nome proprio di persona”. Quello che fu un
ambizioso rivoluzionario istituzionale si
è così trasformato in un ribelle rimbambito che si è preso un po’ troppo sul serio.
Altre gesta eroiche, forse, lo attendono:
caccia agli scoiattoli, disposizione degli
ombrelloni sulla spiaggia, espropri proletari ai distributori automatici di merendine, e così via.
Finzionario
di Paolo della Bella e Aldo Frangioni
L'opera prima di Maria Luisa Ercoli è un noir, un giallo o magari un nuovo genere che
potremmo chiamare... un rosso pompeiano. Moradea, una nota collezionista di ventagli è
il personaggio principale. Moradea ricerca da anni il calco di un ventaglio che una matrona
pompeiana teneva in mano al momento dell'eruzione del Vesuvio. Il calco in gesso della
donna, ricoperta dalle ceneri nel 79 d.C., eseguito da Giuseppe Fiorelli nel 1865 è conservato
al Museo Archeologico di Napoli. Una foto ingiallita del 1870 la raffigura con il flabellun
stretto nella mano destra, forse in un estremo tentativo di salvarsi dal gran calore. In un'altra
foto del 1896 (dopo la morte del Fiorelli), il ventaglio è scomparso. Circola voce che il
reperto sia stato seppellito insieme al celebre archeologo, addirittura la tomba viene violata
in una notte del 1919, molti sono convinti che il sacrilegio sia stato attuato proprio per recuperare il ventaglio. Due giorni dopo questa violazione il becchino e un ladruncolo di quartiere vengono trovati morti, ricoperti da uno strato di gesso. Il nonno di Moradea, noto
camiciaio e soprattutto trafficante di antichità sguinzaglia molti dei suoi tombaroli alla
ricerca del flabellum, senza fortuna. Lasciamo che i lettori scoprano l'ultima parte del romanzo, anticipiamo solo che il calco del ventaglio giunge a Moradea in un pacco spedito
per posta nel1895 dal Fiorelli e giunto a Firenze solo il 1 marzo del 2014.
Intanto a Firenze, la Regina di tutti i
beni culturali, ormai detronizzata, rosa
dal rancore e ansiosa di vendetta, mostra
a tutti l’altezzosa maschera della nobile
decaduta eppure fiera leonessa indomita.
“Lascio il Ministero, dichiara alla
stampa, perché non è prevista nel nuovo
disegno una posizione paragonabile alla
mia. Io sono unica ed inimitabile: non ci
sarà mai nessuno degna di me, se non io
stessa. Sono storica dell’arte e continuerò
a farlo 24 ore su 24, senza nemmeno appisolarmi un’oretta”. Un epilogo tragico,
si direbbe. Eppure già si sussurra a Firenze che la Regina detronizzata potrebbe assurgere a nuovo incarico:
diventare assessore alla cultura a Firenze
e, con i musei comunali, riorganizzarsi e
sferrare l’attacco finale al Ministero che
in modo sì ingrato l’ha abbandonata.
Un’altra trasformazione da commedia
goldoniana: il nobile che prende i panni
del popolano e trama la vendetta o la
perfida burla ai danni della creatura che
ha contribuito a crescere.
La commedia è d’invenzione, s’intende.
Fatti e persone appartengono al mondo
della fantasia e l’artificio letterario è il
nucleo di questa storia. Ma, si sa, non v’è
realtà che non sia stata, un tempo, utopia fantastica.
I CUGINI ENGELS
Maramaldeggiare
pallido
e assorto
Di Tomaso Montanari questa rivista ha
pubblicato diversi interventi, seguito molte
battaglie, condividendone alcune e criticandone altre (come è normale che sia) ma
sempre stimandone la ricchezza del pensiero e l’approfondimento degli argomenti.
Ci è quindi spiaciuta molto l’intervista che
questi ha rilasciato a Repubblica Firenze
dopo le dimissioni di Cristina Acidini. Non
per il merito delle cose che dice sulle quali
molto si potrebbe discutere, ma per la generale euforia ed esultanza che traspare dall’articolo. Insomma sì per
una questione di stile. Da buoni
materialisti pensiamo che la
forma sia sempre sostanza e
che di fronte ad un avversario
che lascia, col sovrappiù di due inchieste
giudiziarie seppur queste siano estranee
alle dimissioni, sia più elegante, efficace e
giusto, non mostrare trionfo ma umano distacco, non iattanza ma volgere lo sguardo
ad un futuro da costruire. Questo non solo
perché così impongono le buone maniere di
una volta, ma perché nelle umane traversie
a chiunque può capitare di passare momenti difficili a cui non giova la gogna sulla
pubblica piazza. E non trattasi neanche di
garantismo, attitudine che la compagnia
che frequenta ultimamente il nostro caro
Montanari aborre, ma di una magnanimità che non pesticcia colui (o colei nel
caso) con la quale si diverge che eleva il
confronto e chi lo agita. Insomma quella
differenza che passa tra Maramaldo e
Croce.
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PICCOLE ARCHITETTURE PER UNA GRANDE CITTÀ
di John Stammer
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enezia era stata, negli ultimi anni
della sua vita, la sua città, dopo il
distacco dall’insegnamento e la
sua uscita da Firenze.
“E’ morto come un antico guerriero”
disse allora la sua compagna Pucci.
Era nato nel 1918 e si era laureato in architettura a Firenze nel 1942 con Giovanni Michelucci.
Ricci era stato sempre un guerriero, forte
e leale, ispido e a volte difficile, come chi
ha convinzioni e certezze, e continuamente lo dimostra.
La presenza di Leonardo Ricci, insieme
a Ludovico Quaroni, Edoardo Detti e
molti altri maestri dell’architettura e dell’urbanistica italiana, segna il momento di
maggiore prestigio della Facoltà di Architettura di Firenze. Ricci è parte fondamentale di quella esperienza, prima come
professore ordinario di Urbanistica e poi
come preside dal 1971 al 1973
Anni molto caldi e di grande fermento
nei quali Ricci non si è mai risparmiato
né come persona, né come preside né
come docente.
Poi dopo i primi anni settanta il suo distacco e il suo “ritiro in convento” come
dirà. Un distacco non in sordina ma polemico tutto incentrato sulla incapacità,
secondo lui, della Facoltà di Architettura
di una azione formativa adeguata alle esigenze dei tempi.
In una sua intervista dirà:
“In questo momento l’Università non
può formare un architetto. La dimostrazione è che che io ho lasciato la cattedra.
Nella facoltà è praticamente impedita la
ricerca. La ricerca deve farsi in corpore
viro ma la città, che è il vivente della ricerca architettonica non ha alcun rapporto né con le amministrazioni, né con
le istituzioni, né con la stessa popolazione”.
Sperimentare, intervenire e modificare.
Era questo il modo che Ricci aveva di intendere il lavoro, la vita sociale e civile. Un
impegno continuo. Sta in questa sua convinzione, in questo modo di porsi davanti
ai progetti, la profonda eticità del suo lavoro. Ricci era un uomo e un architetto
profondamente etico. La sua caparbietà
e il suo rigore sono le cifre del suo essere
etico.
Durante il periodo del suo “ritiro” Ricci
riprende il lavoro e rinsalda i suoi rapporti
con le facoltà americane. Insegna alla Florida University e nel Kentucky alla facoltà
di Architettura di quello Stato.
Riprende anche a dipingere recuperando
un suo vecchio amore che lo aveva portato ad esporre a Parigi insieme a Picasso,
Matisse e Giacometti alla galleria Loeb e
al Salon de Mai.
Riprende anche i suoi rapporti con la
città di Firenze, per la quale aveva sempre
lavorato, con il concorso per il Centro Direzionale del 1977.
Ricci ha sempre avuto, nel suo lavoro, Firenze come un riferimento fisso. Dal concorso per la ricostruzione del ponte alla
Carraia, a quello per la ricostruzione delle
aree, distrutte dalle bombe naziste, intorno a Ponte Vecchio, e poi con i progetti
per la ricostruzione del ponte San Niccolò, al Villaggio di Monterinaldi, alla rea-
20
anni
senza
Leonardo
Ricci
n 92 PAG.
sabato 27 settembre 2014
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lizzazione di Sorgane, alla fabbrica Goti a
Capalle.
I suoi lavori hanno sempre suscitato o
forti consensi o froti dissensi. Non era un
uomo da “mezze misure”. “Ogni volta che
ricevo un incarico verifico se c’è spazio
per inserirvi qualche elemento di innovazione, di rivoluzione” erano le sue parole.
E si comprende da qui anche il senso di
altre sue parole” se dovessi scegliere fra
Leon Battista Alberti e Filippo Brunelleschi, sceglierei Brunelleschi”.
Leon Battista Alberti l’uomo della ragione e della “misura”, l’uomo del rinascimento maturo e Brunelleschi lo
sperimentatore, l’uomo dell’innovazione.
E Ricci ha sempre lavorato su una forte
sperimentazione. anche, quasi in “competizione” con Brunelleschi, nella ricerca
di una nuova centralità, non solo visiva,
oltre la Cupola; di una nuova “forma”
contemporanea che affiancasse l’icona
della città.
E’ da qui, e anche dalla consapevolezza
che questa nuova centralità non poteva
che essere data da una funzione pubblica,
forte e centrale nella vita collettiva e sociale della città, che nasce l’idea del Palazzo di Giustizia. Una giustizia forte e
trasparente come “era” il suo palazzo.
E nell’idea di nuove centralità (sulla stessa
scia di pensieri si inserisce il progetto per
la “terza Porta” in piazza della Libertà)
sta la sua idea di urbanistica, fatta di cose
concrete, di nuove centralità appunto. E
di innovazioni lessicali e progettuali.
Ebbe a dire una volta: “ Trovo giusto che
si abbia cura del passato ma una cosa è
conservare un’altra è mummificare. Spendiamo molti soldi per conservare e restaurare senza preoccuparci di dare una
funzione credibilee vera all’oggetto delle
nostre cure. Penso alla basilica romana
che, da luogo di scambio si è fatta, con
l’era cristiana, luogo di culto, trovando
così una ragione autentica per continuare
ad esistere. Questa è vera conservazione
perchè la vita continua a circolare.
Parole non molto diverse dalle affermazioni di Ranuccio Bianchi Bandinelli
quando, in relazione alla disputa sulla
ricostruzione delle parti della città distrutte dalla guerra, affermo di avere il
“ diritto di vivere entro città vive, entro
città che seguono l’evolversi della nostra
storia” e di non voler essere “ custodi di
un museo, i guardiani di una mummia”.
E’ in questa ricerca continua, in questa
consapevolezza della necessità del mutamento che si ritrova la sua continua
giovinezza.
Disse di lui Giovanni Michelucci riguardo al progressivo distacco dal suo allievo: “ Ho cercato di individuare in
ognuno, ed in te in particolare, quali fossero quegli elementi di diversità, rispetto
ai miei punti di vista, capaci di favorire lo
sviluppo di una nuova identità. Di fronte
a questa tua perosnalità, a questa sua sorprendente giovinezza, non avrei potuto
fare altrimenti”.
Quella stessa giovinezza che metteva nel
giocare a pallone con gli studenti nel cortile di san Clemente o nell’affrontare i
temi più complessi con la caparbietà e
l’entusiasmo di un ragazzo.
Ha ragione Adolfo Natalini che lo definì
“eroico e sanguigno”.
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C’È VITA IN ITALIA
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di Roberto Mancini
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ezzo secolo di trame e di intrecci. All’inizio erano lavori
lenti e meticolosi, con decine di ricamatrici intente
per giorni su uno stesso pezzo di stoffa;
oggi invece ci sono macchine velocissime che crepitano battendo più di mille
punti al minuto e che sdipanano in un attimo interi rocchetti di fili colorati. Ma le
macchine moderne, le addette in camice
bianco con penna e righello nel taschino,
l’ambiente asettico e luminoso non debbono trarre in inganno. Qui alla Lady
Piega ancora si lavora con l’attenzione di
un tempo. La ditta, che è oggi appena
fuori del centro storico di Castelfiorentino, situata al piano terra di una moderna e gradevole palazzina di cemento
armato circondata da un giardino con
certi pini altissimi e vasi di fiori qua e là,
gode infatti di un suo prestigio. È una di
quelle aziende che testimoniano come
l’antica e nobile arte del ricamo, pur
avendo dovuto pagare un tributo alla
meccanizzazione e alle nuove e più sofisticate tecnologie, non abbia per questo
cessato di essere una attività artigianale,
almeno in questa azienda. Perché qui ci
si ferma su ogni pezzo per valutarne qualità e compiutezza, per aggiungervi qualcosa che manca o per togliervi ciò che è
giudicato in eccesso. D’altra parte anche
il clima che si respira in fabbrica è quello
di una impresa artigiana nella sua forma
più tipica: ogni rapporto è personale, diretto, informale; anche se ciascuno tiene
molto alla sua specializzazione, ed ha i
suoi compiti da svolgere come il mestiere richiede. D’altra parte è essenziale
che il lavoro sia fatto a regola d’arte, perché se così non fosse una ditta come
questa non sarebbe sopravvissuta; la sua
forza, la sua capacità di resistere oggi alla
crisi che attanaglia il paese, risiede soprattutto nella qualità delle sue lavorazioni, nella capacità di competere, per
esempio, con i laboratori dei cinesi di
Prato, o con i prodotti che arrivano dall’estero dalle ditte che hanno furbamente
delocalizzato. Ma la Lady Piega è solida
e si accinge a tagliare con un certo orgoglio il traguardo dei cinquant’anni di vita.
In fabbrica oggi ci sono al lavoro una
quindicina di persone tra operai e addetti
all’area della progettazione, più i due giovani proprietari, Salvatore e Carmela, i
figli di Sabino, il fondatore e per decenni,
fino alla sua repentina scomparsa poco
più di un anno fa, indiscusso patron
dell’impresa. La Lady Piega – un nome
che oggi a molti può suonare singolare –
nacque a metà degli anni Sessanta,
quando Sabino Suppa allora quarantenne (pugliese d’origine, ma di cuore e
sentimenti fortemente legati alla Toscana dove era arrivato che era poco più
di un bambino) acquistò una macchina
ricamatrice tedesca, una Zangs, tra le migliori che ci fossero allora, con la quale si
potevano fare alcune lavorazioni speciali.
All’inizio non sapeva bene che cosa sarebbe accaduto mettendosi in questa impresa, anche perché qualcuno tra i suoi
amici che lui avrebbe voluto coinvolgere
nella costituzione dell’azienda, si tirò in-
Mezzo
secolo
di
intrecci
dietro all’ultimo istante. Sabino però non
demorse anche perché, e forse a differenza di tutti, aveva dalla sua una notevole e soprattutto duplice esperienza. Da
più di dieci anni faceva sia il tecnico che
il rappresentante di macchine da cucire
– della ditta Necchi di Pavia - e grazie a
quel lavoro egli sapeva bene non solo
quali fossero le potenzialità dell’innovazione tecnica che in quegli anni si prospettava, ma conosceva luoghi e
persone; aveva tenuto rapporti diretti e
continui con quasi tutte le ditte dell’abbigliamento dell’empolese, e gli era
chiaro nella mente che in quel settore era
in atto un cambiamento formidabile. Ma
il network sociale non spiega mai tutto.
Infatti le ragioni della scelta di mettersi
in proprio nascevano anche da spinte diverse e più profonde: dalla sua indole naturalmente disposta alle novità e,
soprattutto, dall’influenza ricevuta dalla
famiglia di sua moglie Maria, una fami-
glia che da quasi un secolo basava la sua
economia proprio sull’attività della plissettatura e del ricamo. Fu da quell’entourage che con ogni probabilità gli vennero
le suggestioni più profonde, quel sottile
e evanescente bagaglio di suggestioni e
outillage, quella consapevolezza che lavorare in proprio necessita di senso della
misura e di concretezza, di capacità di
fare, non meno che di spirito di avventura. Era stata Isola Conforti, la bisnonna
della moglie che nel 1887, avendo bisogno di lavorare, aveva decise di impegnare quasi tutto quel che aveva
risparmiato - cinque lire, erano all’epoca
una cifra ragguardevolissima - per andare
a Roma nel laboratorio di un sarto ebreo
specializzato nella piegatura delle stoffe,
cioè nella plissettatura, che in quegli
anni era molto richiesta. Isola cominciò
così a lavorare piegando le stoffe con
certi pesantissimi ferri da stiro e cartoni
sagomati ad hoc, contribuendo al man-
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tenimento della famiglia; poi, come
spesso accadeva, insegnò il mestiere alla
figlia Milena la quale, ad un certo punto,
cominciò pure lei a darsi da fare, ma impegnandosi non solo nella piegatura
delle stoffe, quanto anche con la macchina da cucire e diventando molto
esperta con il telaietto per il ricamo cosiddetto ‘a giornino’. Plissettare e ricamare erano due attività remunerative e
la moda degli anni Trenta richiedeva
quel tipo di prodotti e in zona, nell’Empolese, c’erano molte fabbriche che producevano abbigliamento e con le quali
era possibile avere rapporti di lavoro.
Di “distretto industriale” ancora – ovviamente - non si parlava; la definizione
non era stata ancora coniata, ma la cosiddetta fabbrica diffusa era già nelle
cose. D’altra parte la vita economica è
sempre stata più poliedrica e elastica di
quanto comunemente non si pensi, e le
varianti che vi entrano in gioco sono infinite, come capita nella vita delle persone. Tant’è che le storie aziendali, le
prosopografie di fabbrica, somigliano
grandemente a quelle degli uomini e
spesso quasi si identificano con quelle
dei loro fondatori. Certo non si può dire
che il principio di identificazione tra
l’imprenditore e la sua azienda sia sempre alla base del suo successo, ma alla
Lady Piega è stato sicuramente così. Lì
Sabino è stato, al tempo stesso, il continuatore di una tradizione e il suo interprete innovativo, e la storia della sua
fabbrica ha finito con il correre in parallelo con quella della sua vita. Il mercato gli ha certo imposto di cambiare, la
tecnologia gli ha dettato del pari le sue
regole, ha preteso spazi e localizzazioni
nuove, ma la Lady Piega è sempre stata
il prodotto del suo lavoro e di quello dei
suoi operai (nel decennio 1980-90 sono
arrivati a una trentina), qui nessun tecnocrate ha mai dettato regole o imposto
soluzioni. Certo egli ha assistito all’ultima metamorfosi della sua ditta, al tramonto delle vecchie macchine che
funzionavano con le schede perforate e
al sopravanzare di quelle elettroniche.
Sabino ha seguito e guidato fino all’ultimo questa trasformazione, senza consentire tuttavia che essa sacrificasse
degli uomini e comprimesse la creatività e l’artigianalità dei suoi operai e dei
suoi tecnici, anzi. Dalla metà degli anni
Ottanta proprio la programmazione
elettronica ha snellito certi lavori e ha
consentito alla ditta di non produrre più
soltanto su commissione, ma di proporre soluzioni frutto dell’inventività
dei suoi designer. Certo, guardando alla
distribuzione odierna degli spazi nella
fabbrica, si vede bene che l’anima del lavoro artigiano si è allontanata dalla
grandissima sala dove crepitano le macchine e dove si accatastano le lavorazioni, e si è trasferita nelle stanze della
progettazione che sono diventate il
cuore dell’azienda. Ma è stata una trasformazione che ha aumentato la dimensione creativa della Lady Piega
dove il tempo delle macchine si è combinato - meglio sarebbe dire ricombinato - con quello dell’artigiano, e la
simbiosi ineliminabile tra l’artefice e i
suoi strumenti si è mantenuta.
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OCCHIO X OCCHIO
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di Danilo Cecchi
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lisa Amelie Felicie Stern–Seybert (più nota come Lisette
Model) nasce a Vienna nel
1901, studia musica con Arnold
Schoenberg, si trasferisce a Parigi nel
1924 per studiare canto, e qui incontra il pittore Evsa Model, che sposerà
nel 1937. Nel 1933 abbandona la musica e comincia a studiare le arti visive
con André Lothe (lo stesso maestro
di Henri Cartier-Bresson) e pratica la
fotografia con la sorella Olga. Nel
1934 realizza le sue prime immagini
importanti a Nizza, sulla Promenade
des Anglais, fotografando semplicemente i passanti, ed entrando così in
maniera prepotente fra i maestri della
“street photography”. Si tratta di ritratti potenti, scattati di nascosto, in
maniera discreta e senza la minima
partecipazione da parte dei personaggi fotografati. Queste sue prime
immagini le aprono la porta ad una
carriera che non conosce soste o esitazioni. Nel 1938 abbandona la Francia per raggiungere la sorella a New
York, dove si associa alla Photo League, inizia la collaborazione con alcune riviste di moda, e vende le sue
prime immagini al Museum of Modern Art nel 1940. Nel 1948 vi
espone le sue foto insieme ad Harry
Callahan, Bill Brandt ed altri, e nel
1951 viene chiamata ad insegnare alla
New School for Social Researches
dove già insegna Berenice Abbott. Da
maestra della “street photography”,
genere che continua a praticare in
maniera sempre più decisa nelle
strade di New York, diventa una vera
maestra di fotografia. Il suo insegnamento si basa sulla convinzione che
niente in fotografia è più importante
del “soggetto”, ovvero del personaggio
fotografato, e che non si deve mai
scattare una foto se non si è realmente
ed appassionatamente interessati ad
esso. Fra i suoi allievi vi saranno fotografe come Diane Arbus ed Eva Rubinstein, alle quali riuscirà a
trasmettere il proprio entusiasmo e la
propria filosofia. Le ampie prospettive e l’ambiente di New York stimolano in maniera ancora più pressante
l’interesse visivo di Lisette, che ai
primi piani dei personaggi più caratteristici comincia ad affiancare i riflessi delle scene di vita urbana
catturati nelle ampie vetrine, dove il
mondo esterno e quello intravisto in
trasparenza si accavallano, si sommano e si fondono in maniera un
poco surreale. Nello stesso tempo i
suoi personaggi acquistano più spessore, non sono solamente delle figure
caratteristiche che incuriosiscono o
fanno sorridere, come quelle che popolavano la Promenade di Nizza, ma
assumono un carattere tragicomico
che dietro le smorfie o le deformazioni del volto o del corpo mostrano
i segni di un disagio esistenziale e di
un malessere interiore. Il suo modo di
fotografare istintivo, audace e diretto,
genera delle immagini forti, impie-
tose, ma allo stesso tempo cariche di umanità. Le sue immagini non sono
degli sguardi distaccati sulla realtà, non sono mai una elegante rapPhotography mai
presentazione del mondo, e soprattutto non sono delle composizioni
equilibrate e piacevoli. Come non si stancava di ripetere ai suoi allievi,
is the easiest art, non
si deve fotografare con gli occhi ma con le viscere. Altrettanto apwhich perhaps passionata
nell’insegnamento come nella constatazione del mondo e
della gente che lo abita, Lisette Model continua ad insegnare fino alla
makes it the hardest sua morte, nel 1983.
LisetteFotografa
Model
e maestra
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IN RICORDO
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di Francesco Gurrieri
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e ne è andato Bernardo Secchi
(1934), una delle figure più
apprezzate della cultura urbanistica degli ultimi decenni.
Lontano dalla retorica e dall’astrattezza che caratterizzava non pochi
“pianificatori”, Secchi, come il bravo
indimenticabile De Carlo, si riconduceva a quella tipologia di “tecniciumanisti”, come furono anche
Ludovico Quaroni e Edoardo Detti
che hanno fatto apprezzare la disciplina nel nostro Paese. Bernardo Secchi incarnò al meglio la transizione
tra la vecchia urbanistica, alla Chiodi
(l’urbanistica tecnica) e le nuove prospettive della “pianificazione territoriale”. Ma a differenza di altri, per
cultura e per particolare personalità,
ebbe sempre presente il rapporto con
l’architettura .
Ai primi anni ‘80 fu talvolta presente
anche nelle aule di San Clemente, alla
Facoltà di Architettura di Firenze,
assai seguito da studenti e colleghi.
Fra il 1993 e il 1996 ebbe l’incarico
del Piano Regolatore di Prato, in una
stagione di riassetto normativo delle
leggi regionali. In quella occasione instaurò un metodo di lavoro “sul
campo”, che raccolse nel volume “Un
progetto per Prato” (senza riuscire a
resistere dal chiamarlo “laboratorio”).
Pur riconoscendo la correttezza di
metodo e la lealtà di approccio con la
complessa realtà pratese, non posso
non riprendere ciò che ebbi ad esprimere allora: che all’articolazione per
“sistemi” (ambiente, mobilità, residenza, produzione, luoghi centrali), e
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Bernardo Secchi
Ingegnere
umanista
nonostante la messa a punto di guidelines (schemi direttori e progetti norma), a quel Piano mancò l’anima.
E Prato perse l’occasione per diventare – soprattutto lungo l’area della
“declassata” - quella città moderna a
cui era vocata, avendo tanto più potenziale coraggio di altre realtà italiane.
PIANETA POESIA
Addio, grande uomo e poeta certo
di Franco Manescalchi
[email protected]
Questo è un compianto, per la
scomparsa di Gennaro Oriolo, rapido, in punta di penna.
Quando Gennaro cominciò a pubblicare i suoi versi decise di rivolgersi a me per l’introduzione al libro.
Volentieri accettai per l’antica amicizia per avermi ospitato a insegnare
poesia nelle sue Scuole, dove appresi
l’alto valore morale e culturale
dell’Uomo, con la U Maiuscola, che
ora ci ha lasciato e del quale, per
quanto concerne la sua presenza
operosa nella società, al di fuori
della scuola, lascio la parola ad altri.
Dal momento che affidò a me il
compito di parlare di lui poeta, riporto qui un mio stralcio critico:
“Gennaro Oriolo è un ulisside della
poesia, un “archivista” che molto ha
letto e molto ha navigato anche nei
flutti della vita prima di intraprendere l’altro viaggio fatto, come il
primo, di “meditate fughe e taciti abbandoni”, come recita il titolo dell’opera.
Non a caso, in exergo, riporta quat-
tro versi di Mario Luzi, (Un raggio
s’affatica, le catene/ si smagliano; le
lacrime discese/per le rughe riportano le pene/dei tormenti lontani,
delle offese) in cui si conferma la vocazione dell’ulisside per quel “raggio” (faro) nella tenebra, per quello
“smagliarsi di catene” di chi segue
“virtude e conoscenza”, per quelle
“lacrime” che discendono lungo “le
rughe” dell’uomo e del tempo.
In sintesi, le parole, le cose, il segreto
intridersi di sentimenti e ragioni in
un discorso urgente e proprio per
questo sottoposto al fluido ma sagace divenire delle forme, l’ascolto
della storia in un farsi individuale
che a questa si apre. Questi e molti
altri possono essere i percorsi di lettura di un’opera prima, frutto di
amore per la poesia, maturato negli
anni e infine rivelatosi in tutta la sua
pienezza .
Per questo amore, Oriolo sa che
scrivere significa innanzitutto leggere, conoscere il mondo della poesia attraverso l’uomo e l’uomo
attraverso lo strumento della poesia.”
Rivedo ora come quelle “lacrime” che discendono lungo
“le rughe” dell’uomo e del
tempo, che Gennaro aveva
posto a epigrafe del libro,
esprimano appieno il sentimento profondo, vorrei dire
celato, che ha accompagnato la
sua presenza civile nella polis.
Ed è con questa ferita profonda, che è/ha spesso la vita,
che Gennaro, fra le righe di
poeta versatile, ci ha salutato.
Dedico a lui questa mia testimonianza.
Un grande cuore
Ognuno di Gennaro avrà un ricordo
diverso
perché Gennaro era un grande cuore
ed ora che è tornato nella pulvis
dell’universo
da cui si nasce ed anche vi si muore
dentro ognuno Gennaro non sia
perso.
A me rimane l’amico Professore
che nella scuola dava spazio ai versi,
ai versi fatti da universo amore.
È ancora lì, al tavolo della Presidenza
con le tabelle delle classi dove
andavamo a far vivere la Poesia
come umana, dolcissima Presenza.
Poi fu Poeta e visse di altre prove
ma fu sempre Maestro lungo la Via,
altri può dire, altri dovrà narrare
di un grande cuore e cosa seppe dare.
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GALLERIE&PLATEE
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di Claudio Cosma
[email protected]
I
l cosiddetto “mondo dell’arte”, la cui
consistenza si dilata e si restringe con
affiliazioni e tradimenti dell’ultima
ora, sembra vivere su di un binario
parallelo a quello della vita ordinaria della
maggioranza, ma, proprio per questo suo
rimanere come sospeso, questo mondo
osserva l’altro, al quale sempre tende e
pur non incontrandolo mai, le persone
che ne fanno parte lanciano continui e
impalpabili segni, simili a quelli delle api
che tornando al proprio alveare lasciano
cadere piccole particelle del polline raccolto che non sempre va sprecato.
I motivi delle appartenenze ai due mondi
possono essere molteplici, oltre a quelli
evidenti nelle rispettive falangi e compagini ovvero l’amore per l’uno e l’indifferenza per l’altro. Naturalmente
esistono e convivono diverse gradazioni
e intermittenze in conseguenza dell’inizio dell’amore o del perdurare dell’indifferenza.
Molte persone trovano la vita “vera” con
suo bagno di realtà, ineludibile e la contingenza o più semplicemente la routine
non permettono evasioni centrifughe. In
questo caso il centro di gravità occupato
dal quotidiano non lascia molto spazio ad
interessi diversi, per esempio una inaugurazione ad una vernice alla quale si è stati
invitati, può essere occasionalmente preferita ad una sessione di Pilates, ma la
cosa non lascia, poi, segni se non di vaga
ironia.
La parte propriamente mondana dell’arte
è limitata ad eventi ristretti nelle occasioni cosiddette che contano, o allargatissima e pertanto popolare come la recente
inaugurazione a Firenze del Museo del
Novecento dove gli invitati erano migliaia e comunque ciascuno convinto del
fatto suo. L’atteggiamento supponente
dei non addetti ai lavori è un ostacolo
uguale e contrario all’ubbidienza ai rituali
degli appassionati. Andare ad una performance, in periferia, magari in un campo
dismesso dove alla musica registrata di
suoni propagati da un alveare morente,
un giovane artista, come segno incontrovertibile di una prossima apocalisse,
passa una lucidatrice sul prato, è assolutamente da evitare, se possibile, come la
successiva replica in un locale temporaneo (Temporary Gallery), come di moda
oggidì, con la lucidatrice, però, riprodotta
in bronzo, il resto invariato, anche l’erba.
Parimenti un pomeriggio domenicale ai
Gigli o a Montecatini, dove mi dicono esserci i negozi aperti, è forse addirittura
peggio.
Per il popolo risulta difficile immaginare
di non trascorrere il tempo libero in una
situazione ormai codificata (e rassicurante) dove tutto ruota intorno al cibo e
al comprare qualcosa, fosse anche una
fettuccia di grosgrain in una merceria di
piazza Dalmazia. Le strade cittadine sono
oramai attrezzate come un supermercato,
con le vetrine dei negozi al posto degli
scaffali, quindi le azioni eroiche sono limitate e sottolineate dal non fare, non
dalla vera azione, per esempio, si può non
comprare una marca di pomodori e cercare l’affermazione in non stessi com-
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prandone un’altra, io personalmente in
questo mi sono realizzato comprando
Pomodori Pomilia.
E’ difficile lo scambio tra i due mondi, radicati come sono nelle loro reciproche
abitudini, direi, per imparzialità, egualmente autoreferenziali, in un consumo simile di oggetti diversi. Sicuramente fra i
miliardi di persone al mondo ci saranno
sicuramente quelli che si divertono in
barba alle due categorie.
Ai fans incerti di entrambi gli schieramenti cosa consigliare? Da una parte di
non sfornare lavori che per essere capiti
debbano essere spiegati attraverso la narrazione di episodi della vita dell’artista
(quando avevo 12 anni, narra l’artista,
mia madre mi mandò a comprare le uova
al negozio sotto casa, ma nonostante le
raccomandazioni sulla fragilità dell’acquisto e della concentrazione da mantenere,
troppo sicuro considerando il compito
facilissimo, e con l’aggravamento del crepuscolo imminente che mi impediva di
vedere correttamente, caddi, facendomi
Il filo di lana nera
di Chiharu
Shiota
male e rompendo il fagotto con le uova.
Il dolore non fu niente a paragone della
profonda delusione nel constatare il fallimento della commissione, ecc ecc ….
Conseguentemente su questa avventura
realizzai, successivamente una volta diventato artista, una installazione con
grosse palle di vetro trasparente e cilindri
di acciaio cromato alti due metri con io
che mi aggiravo nello spazio con una
mazza di legno fracassando le sfere e picchiando invano sugli indistruttibili cilindri).
Gli artisti si seccano moltissimo se gli
spettatori (comunque rari) non capiscono subito come stanno le cose e allora
demandano ai critici di spiegarli.
Quindi se avete fortuna, si fa per dire, e
ad una mostra vi mostrate interessati, vi
potrà capitare che un critico d’arte vi
spieghi come stanno le cose ed allora inizierà cosi: “deve sapere, caro signore, che
quando l’artista aveva 12 anni, una sera
sul fare della sera…”
Agli altri di andare (velocemente, chiude
il 12 di ottobre, prossimo) a vedere una
mostra in un luogo sperduto, in provincia
di Lucca sulle colline di Vorno dove c’è
una fattoria che si chiama “dello Scompiglio”, con un fabbricato dedicato alle
esposizioni di arte contemporanea, dove
adesso espone un’artista giapponese,
Chiharu Shiota, che con un filo di lana
nera ha costruito un enorme bozzolo,
tendendolo come un baco da seta o più
propriamente come un delicato uccellino, in modo rettilineo e geometrico a
formare uno spazio veramente gigantesco per farlo divenire un luogo magico
dove il nostro corpo perde consistenza
per assumere quella della complessa
struttura, che risulta la casa dove, senza
più materialità, desidereremmo vivere.
La mostra di Chiharu Shiota si intitola “A
Long Day (2)” ed è curata da Franziska
Nori, presso Tenuta dello Scompiglio, v.
Immagini della mostra di Chiharu Shiota, A Long Day (foto di Claudio Cosma) di Vorno 67/b Vorno, Capannori (LU).
LUCE CATTURATA
di Ilaria Sabbatini
[email protected]
Città d’acqua Lucca San Martino
MUSICA MAESTRO
di Alessandro Michelucci
[email protected]
Non sono molti gli strumenti che portano il nome del proprio inventore.
Generalmente sono stati ideati nel secolo scorso: pensiamo al theremin, uno
dei primi strumenti elettronici, ideato
nel 1919 dal russo Lev Sergeyevich
Termen (poi anglicizzato in Theremin). Ma il più diffuso è sicuramente il
sassofono, inventato da Antoine-Joseph
(meglio noto come Adolphe) Sax.
Quest'anno ricorre il secondo centenario della sua nascita.
Figlio di un fabbricante di strumenti,
Sax nasce a Dinant (Belgio) il 6 novembre 1814, primo di 11 fratelli. La cittadina sulla Mosa fa ancora parte della
Francia: il Belgio nascerà soltanto nel
1830.
Pochi mesi dopo l'intera famiglia si trasferisce a Bruxelles. Il ragazzo lavora
nella bottega del padre, dove costruisce
clarinetti, flauti e altri strumenti. In
questo modo sviluppa un forte interesse per la musica: a 14 anni si iscrive
all'École royale de musique, dove segue
corsi di solfeggio e di flauto. Quindi inizia a studiare il clarinetto sotto la guida
di Valentin Bender.
Nel 1835, all'Esposizione nazionale di
Bruxelles, presenta per la prima volta
una propria creazione: si tratta di un
clarinetto a 24 chiavi.
L’uomo che fece suonare il vento
È questo lo strumento che lo interessa
più di ogni altro. Negli anni successivi
continua a studiarlo. In questo modo
nota che il suono degli ottoni tende a
coprire quello dei legni, che a loro volta
fanno lo stesso con gli archi. Quindi capisce che è necessario creare uno strumento capace di realizzare un
equilibrio fra le tre sezioni. Il suo suono
deve situarsi a metà fra il clarinetto e la
tromba: è così che nel 1841 nasce il
sassofono. La sua struttura deriva da
quella del clarinetto basso, mentre il
materiale usato per costruirlo è l'ot-
tone.
Un anno più tardi Sax
si stabilisce a Parigi,
dove conosce Hector
Berlioz. Il compositore, interessato a sonorità insolite, descrive
entusiasticamente il
nuovo strumento sul
Journal des Debats.
Non solo, ma è il
primo a utilizzarlo in
una composizione
(Chant Sacré, 1843).
Nel 1846 Adolphe Sax
riesce a tutelare la propria invenzione con un brevetto di 15
anni. Nel frattempo altri costruttori di
strumenti, mossi dall'invidia, cercano
di contrastarlo costruendo strumenti
analoghi. In questo modo Sax è costretto a lunghe battaglie legali per riaffermare la paternità dell'invenzione. Le
spese che deve sostenere lo costringono al fallimento. Innovatore instancabile, non si dà comunque per vinto.
Negli anni successivi modifica varie
volte il sassofono e crea altri strumenti.
La sua invenzione si impone nelle orchestre da camera, ma è nelle bande
militari che trova larga diffusione.
Nel 1873 l'inventore fallisce nuovamente, dopodiché le sue condizioni
economiche si fanno sempre più precarie. Muore a Parigi nel 1894.
Nel Novecento, e in particolare dopo la
fine della Seconda Guerra Mondiale, la
sua creazione si diffonde a livello mondiale grazie al jazz. Si affermano i
grandi solisti che oggi associamo allo
strumento: da Archie Shepp a John
Coltrane, da Anthony Braxton a Stefano Cantini. In questo panorama troviamo anche molte donne, fra le quali
YolanDa Brown, Trisha Clowes e Barbara Thompson. Lo strumento si diffonde anche nel rock: basti pensare a
gruppi come Colosseum, King Crimson e Roxy Music.
Nel 2014 il bicentenario della nascita
di Sax viene celebrato con numerose
iniziative, prime fra tutte la bella mostra Sax 200 in corso al Musée des instruments de musique di Bruxelles.
L'esposizione, alla quale ha contribuito
il Musée de la musique di Parigi, resterà
aperta fino all'11 febbraio 2015. Chi
non può visitarla dovrebbe almeno
procurarsi il catalogo, pubblicato da
Perron (www.perron.be).
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di Simone Siliani
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SCENA&RETROSCENA
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[email protected]
ultimo demolito fu nell'Ottantanove, a Berlino. “La fine
della Storia” disse uno; “un
nuovo ordine mondiale”
proclamava un altro. Ma poi, da allora, si è ripreso ad erigerli, i Muri;
quelli che separano “noi” dagli “altri”,
i “buoni” dai “cattivi”. Muri per “proteggere” noi da voi: così quello che
per chilometri attraversa la Cisgiordania, ma anche quello lungo il confine degli Stati Uniti dal Messico o
quello fra Spagna e Marocco. Muri
che interrompono una comunicazione, una possibilità di mescolarsi,
che sarebbe destabilizzante perché ci
rivelerebbe uguali gli uni agli altri, eppure meravigliosamente diversi. Così,
dopo la demolizione dell'Ottantanove, sono tornati ad innalzarsi Muri:
demolirli sarebbe la pre-condizione
per tentare un dialogo, costruire una
convivenza fra parti diverse, la nuova
piazza Annigoni e il complesso di
Santa Verdiana
Dal 20 settembre scorso, Teatro Studio Krypton e Facoltà di Architettura
di Firenze hanno iniziato un'opera di
“Demolizione” di un muro per ricucire, rimettere in comunicazione due
pezzi di città a Firenze separate da decenni, la nuova piazza Annigoni dal
complesso di Santa Vediana. E, come
a Berlino, insieme alla gente del quartiere sono gli artisti ad accompagnare
e a produrre questa demolizione ricostruttiva. L'abbattimento fisico e
l'apertura di un varco è avvenuta sotto
la sovrintendenza di Giancarlo Cauteruccio, il prof. Carlo Terpolilli e agli
studenti di architettura trasforman-
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Foto di Stefano Ridolfi
Un altro muro
è caduto
dosi in una azione scenica, una performance artistica. Sei giorni di apertura del varco montaliano della Casa
dei doganieri operata da poeti, scrittori musicisti, architetti, attori hanno
reso viva la memoria di questo luogo
antico realizzato alla fine del XIV se-
colo, eppure negletto al resto della
città per tanti anni. E così si è costruito un luogo nuovo-antico, il
Chiostro delle Geometrie, un pezzo
di città metropolitana incastonata nel
cuore antico della città storica. Città
metropolitana che si racconta, o me-
glio si cerca, nel testo di Enzo Fileno
Carabba, “La signorina Metrò” letto
da Patrizia Schiavo. Le geometrie del
chiostro sono state dalla luce che ha
scolpito elementi naturali e architettonici nell'installazione di Cauteruccio, “Trees and places”. Rimettere in
comunicazione parti di città, centrali
e metropolitani (noi e gli altri, ancora), aprire varchi nei muri di solitudine di cui sono costruite le nostre
città contemporanee è già un vasto
programma a cui, sempre più, sembrano essere preposti gli artisti; in
una inedita alleanza con gli architetti
oggi, forse, chiamati tanto a decostruire quanto a (ri)costruire.
ICON
Bau in 3D
a cura di Aldo Frangioni
La GAMC di Viareggio (Palazzo
delle Muse - Piazza Mazzini) in collaborazione con BAU associazione culturale presenta il nuovo numero della
rivista/laboratorio BAU Contenitore
di Cultura Contemporanea, una delle
più originali e significative pubblicazioni d’artista attive oggi in Italia.
Dopo le prime dieci “scatole” in tiratura di 150 copie, prodotte nel formato UniA4 con lavori in prevalenza
bidimensionali e su carta, BAU Undici A3D è uno speciale numero che
raccoglie, in un cofanetto formato
UniA3 su progetto grafico di Gumdesign, ben cinquantatre opere originali
in tre dimensioni (micro-sculture, oggetti poetici, tracce d’affezione) di altrettanti autori internazionali, più un
opuscolo redazionale con testi di noti
critici d’arte e direttori di musei quali
Valerio Dehò, Duccio Dogheria, Patrizio Peterlini, Marco Pierini, Maurizio Vanni, Alessandro Vezzosi. BAU
ha coinvolto, in undici anni di attività,
oltre seicento partecipanti da trenta
nazioni operanti nelle più diverse discipline. Alcuni autori di BAU A3D
Ignazio Fresu
[email protected]
saranno presenti alla GAMC di Viareggio sabato 27 settembre (dalle ore
17.00 alle 19.00) con performance,
azioni poetiche, proiezioni e installazioni temporanee. L’incontro, a cura
della redazione BAU, sarà introdotto
dalla dott.ssa Alessandra Belluomini
Pucci e presentato da Vittore Baroni,
Antonino Bove e Luca Brocchini.
Intervengono: Paolo Albani - Poesia
in formato nuovo, azione poetica,
Vittore Baroni - 3Diorama, installa-
zione, Alessandra Borsetti Venier Libri improbabili, performance, Antonino Bove - Dialogo in punta di
spilli, installazione, Jakob De Chirico
e Sieglinde Holzknecht Gufler - Les
Champs Magnetiques - André Breton, performance, Beatrice Gallori Human Crisis, performance, Manuela
Mancioppi - Abiti relazionali, performance, Emanuele Magri - MiniMinimal, video, Massimo Mori - Philovox:
il tridimensionale riportato dalla luce
e dalla voce alla planimetria d’una
scrittura mobile, performance, Antonio Noia - Libro Balla, installazione,
Angelo Pretolani - Infondere o perdere vita, installazione, Stefania Scroglieri - BAU A3D, foto-reportage,
Danilo Sergiampietri - Chiodi, installazione, Vittorio Simonini - Maurizio
Marco Tozzi - Daniele Trengia Luogo dell’essere, video, Giacomo
Verde - 150 Knots, video-installazione.
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TEMPO PERSO
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di Paolo Marini
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italiana del Novecento. Agli interessati può giovare un'occhiata al sito
www.goticatoscana.eu/it – e non soltanto per scaricare il programma di
questo fine settimana.
[email protected]
na volta di più torniamo alla
drammatica e intensa estate
del '44, quando la Toscana e
qui, segnatamente, Firenze e
la sua provincia furono attraversate
dalla linea del fronte. Ne sono occasione due eventi di sicuro interesse: il
primo, la recentissima pubblicazione
dell'inventario dell'Archivio del Comitato di Liberazione Nazionale di
Fiesole (a cura di Marta Bonsanti,
edizioni Polistampa) concernente il
cospicuo carteggio tenuto appunto
dal CLN locale nel periodo successivo alla liberazione della città, avvenuta il 1 settembre 1944 - mentre si
stavano spegnendo le ultime battaglie
nei dintorni, a Montesenario, Monte
Giovi, Monte Morello e sulla Calvana. Come commenta nella presentazione il Sindaco di Fiesole, Anna
Ravoni, è “sorprendente la macchina
organizzativa che vediamo in azione
nelle carte di questo seppur piccolo
fondo archivistico”; vi si rappresenta
dettagliatamente l'attività del Comitato dal settembre del ’44 all’estate del
’46, “un organismo articolato e strutturato nel quale tutti i partiti sono pariteticamente rappresentati e nel
quale tutte le decisioni vengono prese
all’unanimità”. La lettura di questo
testo potrà, come ben osservato, risultare appassionante per ogni fiesolano,
che avrà l'opportunità di (ri)scoprire
nomi ed eventi, comunque almeno in
parte familiari, di una storia ancora
prossima e ancora toccante. Costituitosi in clandestinità nell'ottobre del
'43, il Comitato fiesolano prese subito
e risolutamente le redini della comunità, insediando a due giorni dalla liberazione la Giunta comunale e, di lì
a pochi giorni, Luigi Casini, il sindaco
'spodestato' dai fascisti nel '22. Del
Comitato locale, caso raro nella provincia, fecero parte - anche se non per
tutto il periodo - tutti e cinque i partiti (DC, PCI, PDA, PLI e PSIUP).
Il secondo è un evento davvero speciale, promosso dalla Associazione
Gotica Toscana per sabato 20 e domenica 21 settembre: la ricostruzione
dal vivo, nel suo 70° anniversario,
della battaglia di Monte Altuzzo che
si combatté tra Alleati e Truppe Tedesche per lo sfondamento del Passo del
Giogo (Mugello). Ad esso sono associate manifestazioni come la colonna
di veicoli storici e la marcia commemorativa, sicuramente una serie da
non perdere da parte di tutti i curiosi
e dagli appassionati. Ed appassionati
sono, evidentemente, i soci di Gotica
Toscana Onlus, che da anni effettua
attività di ricerca sia sul campo (con
il censimento e talvolta il restauro
delle postazioni ed installazioni tuttora individuabili, per es., nell'area
circostante il Giogo), sia di tipo archivistico e memoriale (con interviste ai
sempre meno numerosi testimoni di
quei fatti); e che organizza mostre, ricerche e quant'altro si presti a riesumare/mantenere la memoria di
questo pezzo significativo di storia
12
Estate ‘44
Da Fiesole
al Giogo
TRASH TOWN
Van via le riforme si apron le urne
di Alessandro Dini
[email protected]
Il 16 settembre scorso il nostro Premier
ha detto in Senato che "se il Parlamento
non riesce a fare le riforme, si va a votare". A parte i tagli "a macchia di leopardo" fatti finora nella Pubblica
Ammnistrazione senza un piano organico di riordino dello Stato, ora Matteo
Renzi si trova costretto a cominciare
dall’ormai famoso Art. 18 dello Statuto
dei Lavoratori. Infatti, il 15 luglio 2014,
l’Europarlamento aveva votato con una
buona maggioranza ‒ a scrutinio segreto
e in Assemblea plenaria ‒ la fiducia al
belga Jean-Claude Juncker per Presidente della Commissione. Nel suo discorso d’insediamento Juncker aveva
elencato azioni di governo chiare e incisive, che egli aveva definito senza mezzi
termini "les dix devoirs de l’Europe"
con in primo piano il “... "nous devons"
[che non è un "noi, plurale maiestatis",
ma un "noi collettivo"] rafforzare la competitività e stimolare gli investimenti"
concordando con gli altri Paesi dell’Eurozona un "pacchetto lavoro e crescita"
...”. In Senato, però, Matteo Renzi – sotto
le specie di Segretario del PD ‒ non rie-
L’APPUNTAMENTO
Attraverso
l’arte...
del costruire
sce a controllare le nomine per la Consulta e per il CSM, e questa potrebbe essere un’avvisaglia di tempesta perché se a
un certo punto si dovesse andare a votare, come il Premier minaccia sempre
quando si sente in difficoltà, bisognerebbe sapere con quale legge si voterebbe. Con quella in vigore – per dire –
no di certo, perché è stata definita incostituzionale. Il Porcellum nemmeno, e allora il Mattarellum, magari con
l’aggiunta dei "listini bloccati"? O l’attuazione del "patto del Nazareno" fra Renzi
e Berlusconi? Tutta roba superata che
Matteo Renzi ha assicurato più volte di
voler riscrivere da zero, anche se nessuno
riesce ancora a vedere con quale maggioranza poiché la sinistra italiana ‒ e il PD
in particolare ‒ proprio su questo punto è
spezzettata, più che divisa. Non sappiamo se il Premier sarà in grado di formulare altre proposte, ma l’approvazione
parlamentare della modifica dell’Art. 18
sarà una gara dura, anche se si arroccherà
sui voti della sua riserva trasversale (stimata del 40%). Per l’Italia ecco dunque il
momento del famoso Art. 18 la cui riforma è diventata con Juncker una precisa richiesta della Commisione Europea
il cui punto focale di programma è che
“... nella priorità a lavoro e crescita, all’Europa occorreranno 300 miliardi di
euro in tre anni”. Frase-chiave, che il nostro Premier parrebbe non avere ben
compreso quando ha reclamato con arroganza: “... ma dove sono i 300 miliardi
di euro promessi da Juncker ...? del tipo
vernacolare "ma ‘n do’ sono e’ sòrdi ...”.
Una frase becera, oltre che inappropriata, perché Jean-Claude Juncker – da
statista di livello ‒ ben consapevole del
momento cruciale che sta attraversando
l’Europa, chiama a raccolta tutti gli Stati
membri e chiede chiarezza, efficienza,
unione, sinergia, risorse da porre sul Tavolo Comune ["nous devons"] per superare tutti insieme le debolezze di alcuni
Stati-membro disordinati e cialtroni
come l’Italia. E invece Matteo Renzi fa
finta di non capire, perché parrebbe coltivare già un suo potenziale elettorato interno [non si sa mai ...] cominciando col
cercare in Europa alibi alle sue evidenti
incapacità di governo nazionale. Cosa c’è dietro l’immagine del progetto? Come se ne concepisce la forma e con quali
tecniche si materializza l’architettura? A quali ingegnose tecniche e tecnologie ricorre
l’architetto per risolvere i problemi di realizzazione che emergono in corso d’opera?
Le risposte di Andrea Noferi (3 ottobre), Valerio Barberis e Marcello Marchesini
MDU (10 ottobre), Elio Di Franco (17 ottobre), Adolfo Natalini (24 ottobre) e
Maurizio De Vita (31 ottobre) allo Spazio A di Lungarno Cellini a Firenze
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Disegni di Pam
Testi di Aldo Frangioni
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HORROR VACUI
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I pappagalli
hanno la carne
bluastra ed un
aspro odore di
muschio.
Questo scrive
Garcia Marquez in
Cent’anni
di solitudine.
Quando appare
un’immagine di
paesi esotici
sono terrorizzato dall’idea di
dovermi nutrire di pappagalli per non
morire di fame.
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VISIONARIA
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di Simonetta Zanuccoli
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[email protected]
er la Francia la cultura è qualcosa
di “commestibile” che fa bene sia
all'esprit che all'economia come
dimostra questo piccolo esempio.
Il villaggio di origine romanica Le Cannet
posto a 110 metri di altitudine tra olivi,
mandorli e pini, sia pure grazioso e con
una parte antica ben tenuta, rischiava di
divenire un quartiere elegante e decentrato della molto più famosa e animata
Cannes, dalla quale dista solo 4 chilometri, la cui stagione turistica è praticamente
prolungata tutto l'anno con congressi,
eventi e festivals di livello mondiale. Ma
l'arte e soprattutto gli artisti che hanno
reso famosa questa parte di costa francese
sono stati la soluzione di una giunta comunale agguerrita e senz'altro lungimirante per rendere Le Cannet uno dei
luoghi di attrazione culturale da visitare
durante un soggiorno in Costa Azzurra.
L'idea è stata quella di creare un lungo
percorso pedonale che collega, attraverso
le stradine fiorite della zona vecchia e
squarci di panorama, la cappella di Saint
Sauveur al museo Bonnard. La piccola
cappella di Saint Sauveur del XV secolo,
destituita dal culto durante la Rivoluzione,
dopo un attento restauro, nel 1989 è stata
interamente decorata dall'artista israeliano
Théo Tobias, che ha trascorso gli ultimi
anni della sua vita nella vicina Saint Paul,
con un coloratissimo affresco monumentale dal titolo La vie est une fete. Di fronte
alla facciata, ricoperta da un suo mosaico
in pietra, marmo e smalto con un sole
come elemento centrale, troneggia una
ODORE DI LIBRI
di Cristina Pucci
[email protected]
Un racconto bellissimo, terribile, tragicamente vero anche se il suo autore ne
dichiara la genesi fantastica, nessuno
riferimento a persone o sigle reali.
Siamo in Pakistan, nel bellissimo e
odoroso giardino di una scuola ideata
e diretta da Rohan, uomo saggio e “fedele” ad Allah, che ha pensato di dare
vita a un luogo ove chiunque possa
studiare oltre l’appartenenza religiosa.
Due scuole, di fronte, su opposte rive
di un fiume, ma.... nel tempo recente,
siamo dopo l’11 settembre, una ha assunto connotazioni integraliste sempre più irrigidite e di tale intolleranza
da costringerlo a lasciarla. Ha due figli
suoi e due adottivi, due maschi e due
femmine, i maschi senza dire nulla, si
avviano ad aiutare gli Afghani, ingiustamente aggrediti da Stati Uniti e
mondo “infedele”, uno studia medicina, vorrebbero curare feriti, ma....entrano nella distruttività assoluta,
intrinseca ad ogni guerra, che per loro
inizia nella scuola di fronte, signori
della guerra integralisti, nemici del
loro padre Rohan fedele moderato, li
avviano con deliberata volontà di farli
morire ad un “fronte” e ve li abbandonano, uno muore subito, l’altro viene
imprigionato, torturato dai “fedeli”
che gli tagliano due dita perchè non
possa più sparare e poi venduto come
La ville
est
une
fête
enorme scultura dell'artista che simboleggia un uccello di luce ed è parte integrante
dell'opera. All'interno il tema della vita è
sviluppato attraverso un decoro sinuoso
fatto con diversi strati di legno, segni, disegni e parole che ricopre tutte le pareti.
Dalle piccole finestre i vetri, coloratissimi,
creati dall'artista spezzano la penombra
con fiotti di luce. L'effetto è di uno scrigno
antico che racchiude una preziosa opera
moderna. A pochi passi dalla cappella che
trasmette gioia di vivere c'è il grande affresco di Raymond Peynet Le mur des
amoureux che ricopre interamente una
delle facciate di una casa antica. L'opera
del 1990, fatta dal famoso illustratore con
la collaborazione di Guy Ceppa, uno dei
più bravi artisti murali francesi, è una metafora dell'Amore simboleggiato da una
coppia di sposi che vola sul Giardino dell'Eden, ispirato, naturalmente, a Le Cannet del quale Peynet era cittadino
onorario. La passeggiata continua. Dopo
una piazzetta panoramica comincia il
tratto di strada dedicato agli artisti e agli
artigiani. Gli ateliers dove lavorano e presentano le loro opere sono quasi tutti di
proprietà del Comune che affitta loro a
un prezzo molto basso dopo averli attentamente selezionati affinchè sia preservato un alto livello di qualità e di creatività.
Il ceramista, il doratore, il liutaio, il creatore di gioielli, quello di occhiali unici, il
pittore, lo scultore, il designer, il restauratore di tessuti antichi...sono tutti maestri
riconosciuti nel loro mestiere. Le Cannet
ha conquistato così nel 2004 l'etichetta di
Città e Mestieri, titolo creato nel 1992
dall'associazione omonima proprio per
promuovere questa sinergia e valorizzare
al massimo soprattutto i piccoli centri. La
selezione è molto severa e al momento
solo 69 città francesi hanno potuto ottenere questo ambito riconoscimento. Il
percorso termina al museo Bonnard.
Pierre Bonnard visse a Le Cannet , dove
Note a margine
di una sconfitta
terrorista agli americani. Mikal si
chiama, resiste, uccide due americani,
scappa, torna alla casa del padre, dalla
moglie del fratello che anche lui e
prima ha amato ed ama. Una storia
d’amore bellissima in questo agghiacciante scenario che gronda
sangue.Tante le cose che colpiscono,
prima di tutto il clima di intollerante
follia, paura ed orrore, come una
cappa di piombo da cui è impossibile
evadere. Colpiscono....le donne. In un
mondo in cui l’essere umano non ha
alcun valore nè merita alcun rispetto,
se possibile, le donne ne hanno ancora meno. Colpisce che ogni vedova
sia alla mercè di tutti e nessuno la voglia, se si illude che uno possa volerla e
sbaglia viene incarcerata per comportamento immorale. Colpisce che se
una ragazza non torna a casa e il fratello va alla Polizia questa ipotizzi
come unico movente la fuga “immorale”, non sarà cercata, ma, dice il poliziotto, se torna vuole essere informato
per valutare la moralità della scusa che
adduce. Colpisce che il poliziotto vada
a casa della ragazza dopo i suo ritorno
e voglia arrestarla, colpisce che non lo
faccia perchè la madre della poveretta, la vedova imprigionata
di cui sopra, si toglie le buccole e gliene fa dono. Colpisce che al momento del
dono costui annunci che
tornerà ogni mese a vedere come stanno...Colpisce il fanatismo
sedicente religioso, al
limite del delirio, di tanti,
ma soprattutto quello del personaggio migliore del libro, quel Rohan
uomo di cultura che ha pensato una
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realizzò le sue opere migliori, dal 1939
fino alla sua morte nel 1947. Il Municipio,
deciso a rendergli omaggio con un
museo, ha acquistato un palazzo con l'approvazione del Ministro della Cultura
che nel 2006 gli accorda lo status di
Museo di Francia e contemporaneamente classifica Monumento Storico Le
Bosquet, la casa di Bonnard, non (ancora) visitabile, preservandola così nello
stato originario di quando l'artista ci aveva
vissuto. Lo Stato ha contribuito anche all'acquisto di alcuni quadri, altri sono arrivati da fondazioni, musei e donazioni di
privati mecenati fino a formare una collezione di 300 opere tra oli e guaches. Dalla
sua apertura nel 2011 il museo e le mostre
che lì vengono ospitate hanno avuto oltre
120.000 visitatori. In questo periodo fino
al 2 novembre è in corso una mostra
molto particolare dal titolo Le Belle Addormentate, ispirata al romanzo omonimo del 1968 dello scrittore giapponese
premio Nobel Yasunari Kawabata. Oltre
50 opere su belle addormentate, seduttive
e seducenti, spiate e ritratte da artisti
come Renoir, Matisse, Valloton, Bonnard,
Picasso, Brancusi...
E' tempo di ritornare in Italia. Nel grande
atrio della stazione di Cannes appena rinnovato aleggia la melodia di un pianoforte. E' quello messo a disposizione dalle
Ferrovie ai viaggiatori musicisti che se vogliono possono suonarlo alleviando così
il tempo di attesa del treno loro e quello
degli altri (e magari vincere un pianoforte
per la migliore performance).
Troppa ammirazione per i nostri “cugini”
francesi? Io direi solo molta invidia.
scuola oltre ogni fede e che pare rappresentare con il suo fiorente giardino
la atavica terra pakistana. Anche lui
tormenta la moglie laureata che, nel
segreto della casa, critica l’Islam e i
suoi improbabili diktat. Terrorizzato
dal suo sicuro bruciare fra le fiamme
dell’inferno, per convincerla a riabbracciare la fede la tortura, letteralmente, fino al suo ultimo respiro, poi,
dopo la sua morte, per anni prega e
costringe i figli piccoli a pregare per lei
fino allo sfinimento. Colpisce l’attacco
ad una scuola cristiana, il maltrattamento e la morte di centinaia di bambini. Colpisce la consapevole e
crudelmente fiera organizzazione
degli americani, superaccessoriati, superarmati, supercellularizzati, supervestiti...colpisce il tatuaggio sulla pelle
di uno di essi che, provocatoriamente, dice “infedele”. Le
donne del racconto fanno
un cammino di interiore
autonomia, di presa di distanza. Almeno un secolo
penso io occorrerà a coloro
per scoprire l’umanesimo, almeno un secolo per trovare la
ragionevolezza e il reciproco rispetto. Nadeem Aslam, pakistano
di nascita che vive in Inghilterra
dall’età di 14 anni, ci regala questo
“Note a margine di una sconfitta”.
Feltrinelli
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Foto di Roberto d’Angelo
di Tommaso Rossi
[email protected]
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os’è il berretto del monello artista?
È lo strumento,il mezzo,che
Nietzsche nella Gaia Scienza indica come l’unico vero percorso
poetico che consenta all’artista di guardare
con sovrana libertà sopra le cose del
mondo. E’ la distanza giocosa e ironica
dello sguardo trasfigurante dell’artista, una
demitizzante e ludica angolatura interpretativa, una irriverente fenomenologia figurativa che permea di se anche l’intero
paesaggio visivo rappresentato nelle opere
pittoriche di Alessandro Goggioli, opere
protagoniste di una ‘mostra con vista’ dell’artista Alessandro Goggioli, inauguratasi
giovedi 11 settembre presso la Pensione
Bencistà di Fiesole. Vi sono esposte le regole del gioco di un’iconologia dissacrante,
perfetta e innocente nella propria regolarità e circolarità, una galleria di specchi di
panofskyana memoria, dove si fondono
archetipi pittorici del Bronzino o del Giorgione con giocattoli di latta, miti pop e nature morte seicentesche, le bottiglie di
Morandi e i prodotti seducenti dell’industria alimentare. Un sincretismo estetico
fatto di tramandi e allusioni, intriso di tonalità ironiche e affettive, reminiscenze,
memorie sempre sorvegliate e sarcastiche,
aliene da indulgenti nostalgie oleografiche,
anche i titoli delle opere nella loro ambivalente causticità cooperano allo smascheramento della grottesca e insondabile
assurdità e terribilità della vita degli uomini. Piccoli teatrini dove inscenare la tagliente demistificazione delle ipocrisie e
degenerazioni di una storia collettiva
preda di miserevoli paradossi, come nell’opera ‘Piccoli italiani’, balilla aviatori di
latta, ludica autobiografia di una nazione,
o l’opera ‘Made in China’, una bambina di
latta cuce alla propria macchina da cucire
e da dietro sopraggiungono colorati e minacciosi carri armati, il dolce svelamento
di un drammatico e opaco modello di sviluppo, o i due cowboy di ‘C’èra una volta
il Nord-Est’, due giocattoli di latta immersi
in un bucolico e misterioso paesaggio, citazione di canoni storici della pittura veneta come il vedutismo e il tonalismo, i
due protagonisti rincorrono qualcosa,
forse un mito che svanisce, il mito della
frontiera e delle grandi opportunità perdute. L’intera produzione di Alessandro
Goggioli è legata alla tecnica del puntinismo, un puntinismo mimetico e realista
anche nella restituzione dei colori luccicanti dei giocattoli di latta, una tecnica pittorica capace di produrre una dolce
sospensione, una delicata astrazione, l’intera scena è circonfusa da una luce morbida, creante una sorta di mite e
premurosa atemporalità interna, dove
l’azione si svolge. Siamo in presenza di una
costante costruzione narrativa strategicamente aperta, rimbalzante, una messa in
scena dove si manifestano una pluralità di
punti d’osservazione della realtà, riverberante allegorie legate a raffinati calembour,
molteplici prospettive semantiche oscillanti tra una languida grazia fanciullesca e
il mistero, l’enigma fiabesco e incantato del
gioco, legato alla ricerca della conoscenza.
Forse davvero non c’è niente di più serio
del gioco.
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Il berretto
da monello
artista
fanciullo
AMARCORD
di Michele Rescio
[email protected]
“Io sono solo un narratore, e il cinema
sembra essere il mio mezzo. Mi piace
perché ricrea la vita in movimento, la allarga, la esalta, la distilla. Per me è molto
più vicino alla creazione miracolosa della
vita che, per esempio, un dipinto o la musica. Non è solo una forma d’arte, in realtà è una nuova forma di vita, con i suoi
ritmi, cadenze, prospettive e trasparenze.
E’ il mio modo di raccontare una storia”.
Questa fu la risposta di Federico Fellini a
una mia domanda sul suo cinema, nel bel
mezzo di una indimenticabile cena a casa
di Giuseppe Zanini, più noto come Nini
Za.
Nell’inverno del 1984 avevo accompagnato Edolo all’inaugurazione di una retrospettiva delle opere di Zanini, pittore
caricaturista, scrittore, gallerista e mercante d’arte di successo , fra gli ospiti
molti pittori noti, Vespignani, Calabria,
Schifano, ma gli sguardi erano tutti per
Federico Fellini e Giulietta Masina, intimi amici della famiglia Zanini.
Quella sera fui protagonista di una piacevole ed inaspettata vicenda. Mentre commentavo una caricatura di Totò con “Za”
,mi afferrò per un braccio e mi portò nel
suo studio, prese carta e penna e in
pochi secondi, disegnò la mia caricatura.
Inespressivo per l'emozione che aveva
impietrito i miei muscoli facciali vidi , e
fu stupefacente, la faccia di Nino Za mimare la smorfia che voleva io avessi. Sul
foglio apparve sì la mia faccia ma con
l'espressione che gli era piaciuto inventarsi per me. . Mentre sventolavo il mio
prezioso trofeo sotto i baffi di Edolo
Masci mi arrivò vicino Fellini : “ Giovanotto lei è molto fortunato, io ho dovuto
aspettare anni prima che Giuseppe mi facesse un ritratto… “. Ancora più emozionato non spiccicai parola, gli strinsi la
mano con espressione cretina, e mentalmente, ringraziavo la mia buona stella....
Mentre mi rimproveravo per aver perso
l’occasione di scambiare qualche parola
con il Maestro del cinema italiano, un sabato pomeriggio, mi telefonò Edolo
Masci e..”mettiti in ghingheri siamo invitati a cena a casa di Ziveri..”. Di ghingheroso avevo ben poco, il solito, Jeans,
camicia di velluto verde scuro, pullover
panna, .. Arrivati in via Margutta a casa
Una sera con Fellini
Ziveri ci trovammo in una grande sala illuminata a giorno da due lampadari di
Murano, al centro un enorme tavolo coperto da una immacolata tovaglia di lino ,
apparecchiato con gran gusto e con a
centrotavola un recipiente color terra di
Siena pieno di acqua, sassi e petali di
rosa il cui profumo si diffondeva per la
sala. In ogni dove sculture di artisti contemporanei, alle pareti quadri di De Chirico, Campigli, Sironi, Carra', de Pisis,
Guttuso, Cesetti, Rosai, Tomea, Tosi.
Sotto un quadro di Campigli, due donne
con le mani sulla tastiera di un piano, seduti su due poltrone, discutevano, Fellini
e Za. Fui piacevolmente sorpreso della
presenza del Maestro e soprattutto del
fatto che si ricordasse di me! Zanini poi,
che mi ringraziò per aver accettato l’invito, era meraviglioso, elegantissimo, con
il suo viso magro con poche rughe e gli
occhi neri quasi come la notte, i sottili
baffetti ben curati gli conferivano un’aria
antica e solenne. Dalla cucina uscirono la
moglie di Zanini e la Masina. Germana
era bellissima, i suoi occhi azzurri avevano affascinato oltre a de Chirico, Casorati, Guidi, e Campigli, che l’hanno
immortalata sulla tela. Giulietta Masina,
minuta e affascinante con il suo viso
tondo come una piccola Luna piena e gli
occhi grandi, intelligenti e buoni. La figura fragile contrastava con la sua voce
quasi rauca e dal tono forte e deciso. A
tavola, Fellini, con quella sua particolarissima voce da ragazzo sognatore, raccontò
della sua antica ammirazione per Zanini,
negli anni ’30, ragazzetto, si recava al
Grand Hotel di Rimini per vederlo mentre, vestito di bianco, ne usciva e saliva
sulla sua Isotta Fraschini. Era un narratore formidabile, aveva la rara capacità, di
farti “vedere” quello che raccontava... e
con quanta tenerezza Giulietta, lo guardava mentre parlava. Si percepiva profumo d’amore, incondizionato e
complice. Nino Za, a capotavola, sollecitato da tutti noi, raccontò dei suoi viaggi
in Europa, dei grandi teatri in cui si esibiva, realizzando alla velocità della luce le
sue famose caricature, delle copertine
per una famosa rivista di satira politica e
di costume in Germania. Quella sera appresi che Fellini detestava Moravia “ Triste e noioso”, ammirava Simenon,
Flaiano, suo amico, e il regista giapponese Kurosawa: “Penso che Kurosawa sia
il più grande esempio di tutto ciò che un
autore di cinema dovrebbe essere”. Parlò
dei sogni: “I nostri sogni sono la nostra
vita reale. Le mie fantasie e ossessioni
non sono solo la mia realtà, ma la materia
di cui sono fatti i miei film”. ..della vita:
“Non perdete mai il vostro entusiasmo
infantile ”. Esibì la sua proverbiale ironia:
“E’ più facile essere fedeli a un ristorante
che a una donna”; “La felicità è una condizione temporanea che precede l’infelicità. Fortunatamente per noi, funziona
anche il contrario”.
Quella sera capii che i grandi artisti, per
essere anche uomini grandi, devono essere semplici e possedere una dote rara:
la modestia.
Non fui amico di Fellini, dopo quella
cena, non lo incontrai più. Divenni buon
amico di Za, lo andavo a trovare alla galleria di via del Babuino e, circondato da
opere d’arte di grande valore, m’intrattenevo con la sua sapienza. Ricordo con tenerezza, le lunghe passeggiate, le soste al
caffè Canova, in Piazza del Popolo, gli
aperitivi all’Antico Caffè Greco, in via
Condotti...
Giuseppe Zanini, è morto a Roma
l’11marzo del 1996, aveva 90 anni. A me
manca molto.
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di Angela Rosi
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n sottile filo colorato e folle lega
l’arte contemporanea a Sèraphine de Senlis, ogni artista l’ha
ri-trovato nel suo intimo, esplorato e reso visibile con la sua opera.
Nella mostra L’arte della follia le artiste
ci invitano a scoprire quel pizzico di follia e colore dentro di noi che ci permettono di entrare in sintonia con l’arte di
Sèraphine senza paura e con curiosità
Nel singolare ognuno di noi è folle di Myriam Cappelletti. La pittura di Sèraphine ha ispirato tele piene di colore e
di richiami ai materiali naturali che lei
usava per dipingere, essa ebbe un rapporto fisico con la natura e allo stesso
tempo varcò la soglia dello spirituale,
Antologia di Sèraphine di Angela Ciccarello, stampe su legno per rilevare maggiormente la simbiosi tra Sèraphine e le
piante. Le opere sono Corpo impassibile,
anima sfuggente di Medià Azad, ogni tela
è un invito alla luminosità Luce di Eurosia Bertoletti, alla fuga Fiori in fuga di Vanessa Thyes o al movimento Arabesque
di Tamara Donati. Il moto è verso l’alto,
verso il cielo, verso l’infinito, dove le foglie diventano farfalle e i fiori uccelli Uccelli di Caroline Gallois. La pittura
diviene atto di trasformazione come
Fiorenza Mariotti ha delicatamente raccontato nella sua opera e, anche, memoria. L’arte di Sèraphine è ossessione
Sogno ossessivo di Catiuscia Villani, è ripetizione e serialità Fractus di Simonetta
Fratini. Sèraphine trasfigura i suoi lavori
Omaggio
a
Sèraphine
Tamara Donati "Arabesque" acrilico e
foglia d'oro su tela cm 50x70v
Che a Manzoni piacesse molto la Monaca
di Monza è palese. Una donna belloccia,
soggetta a peccare e oggetto di peccati.
Forse anche complemento oggetto di peccati. E che non voleva far la Monaca. E neanche la Monza. Ma come si fa a spedire
una così belloccia in convento! Ma come
si fa! Ma resosi conto di essersi esposto un
po’ troppo, di avere scritto quel che era
meglio non scrivere, temendo rappresaglie
famigliari, Manzoni, terrorizzato, pensò di
nascondersi dentro l’armadio e buttare via
la chiave, poi, non sembrandogli un posto
tanto sicuro, scelse il depistaggio epocale.
E cacciò nel romanzo di tutto: il rapimento di Lucia, la rivolta del pane, Renzo
che vaga fra Gorgonzola e l’Adda, l’Inno-
o
minato, la conversione, la plebe affamata,
quando rilesse, sbiancò: “Troppo poco!
Non basta!”. Preso dal panico sparò le cartucce rimaste. I topi e la peste! E impestò
tutti. “Viva la peste”. Si fregò le mani. E li
fece fuori tutti nel Lazzaretto, escluso
quelli che gli servivano, ovviamente. Poi
sciolse il voto, eliminò il frate, e dopo avere
accennato molto ma molto vagamente, ad
un ipotetico processo alla Monaca, chiuse
il romanzo con una quarantena depurativa. Tutti a Bergamo. Via dai coglioni. Rilesse tutto. Le prove della sua tresca
mentale con la Monaca di Monza, erano
state occultate. Scrisse la parola fine al
libro. Si appoggiò allo schienale. Poi tirò
un sospiro di sollievo: “Ce l’ho fatta!”
16
neri che diventano colorati di notte, essi
sono mantra per ritrovare la parte di se
celata che si manifesta poi nelle sue
opere, le artiste hanno colto tutto questo oltre alla capacità interiore di trasformazione. Esse hanno liberato il colore e
le forme donando al quotidiano e alla
natura una valenza spirituale e creativa,
la natura possiede un’anima che le pittrici, guidate da Sèraphine, hanno individuato. Vi si trova un richiamo alla
decorazione orientale e nell’opera di
Eliana Sevillano c’è la raffinatezza della
pittura giapponese. L’arte di Sèraphine
è anche gioco, pienamente esplorato da
Gianna Cavaciocchi in Sèraphine Social
Tree un’opera briosa e interattiva che
vuole provocarci rendendo pubblico il
nostro pensiero. Queste opere ci parlano di mondi lontani e diversi, ci portano nei recessi della nostra mente,
angoli di sofferenze, luoghi bui che si rischiarano alla luce del colore Disperazione di Cristina Corradi e possiedono
la libertà di Sèraphine che tramuta la follia in percorso artistico. L’arte della follia,
omaggio a Sèraphine de Senlis per i 150
anni dalla nascita, si inaugura sabato 27
settembre 2014 ore 18,00 - Atelier Giardino Colgante a Prato Viale Montegrappa 20 - con le artiste M. Azad, M.
Barletta, E. Bertoletti, M. Cappelletti, G.
Cavaciocchi, A. Ciccarello, C. Corradi,
T. Donati, L. Facchini, S. Fratini, C. Gallois, Hamaranta, S. Massellucci, F. Morganti, F. Mariotti, D. Palotti, B. Pieroni,
R. Pinero, L. Pinzauti, D. Schilirò, E. Sevillano, V. Thyes,
IL LIBRO
Promessi
sposi
SCAVEZZACOLLO
Vanessa Thyes "Fiori in fuga" tecnica
mista su acetato cm 50x70
n 92 PAG.
sabato 27 settembre 2014
Il mito
di
Proust
L’APPUNTAMENTO
Akiko
Chiba
a Livorno
dal 26
settembre
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IN RICORDO
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di Giacomo Aloigi
C’
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era lei, Moana. Poi dietro, in
ordine sparso, tutte le altre.
Mito pagano lo era già in vita,
ancor più lo è diventata nel
1994, dopo la sua prematura morte, avvenuta all’età di trentatré anni in un ospedale di Lione, il 15 settembre. A
portar(ce)la via un tumore che da mesi
ne stava impietosamente corrodendo
quella bellezza statuaria di cui lei aveva il
culto. Moana non era un nome d’arte e
ma il suo vero nome di battesimo, Anna
Moana Rosa Pozzi, per esteso. E quella
parola, “moana,” significa in dialetto hawaiano “là dove il mare è più profondo”.
Moana non era solo la regina del porno.
Non era, banalmente, la sacerdotessa di
eros che celebrava i suoi sabba perversi
davanti alla telecamera per la gioia di milioni di voyeur. Moana era una diva. Forse
l’ultima che abbiamo avuto. Elegante, posata, intelligente, colta, mai volgare neppure nelle scene più bollenti. C’era in lei
un ché di aristocratico che le impediva di
risultare sgradevole o davvero oscena. La
sua era una bellezza tanto evidente
quanto rassicurante. Non c’era aggressività o rapacità nel suo modo di apparire
e di porsi. Il fatto è che al di là de film e
delle dichiarazioni di circostanza che
un’attrice hard non può esimersi dal rilasciare (“sono un’esibizionista, lo faccio
perché vivo di sesso” ed altri stereotipi del
genere) Moana sembrava tutt’altro che
una donna accessibile o di facile conquista. Quell’aristocratico darsi, cui prima ho
fatto cenno, creava, d’impatto, un inconscio steccato tra lei e il maschio, sempre
inevitabilmente un gradino sotto di lei,
sempre in fase di adorazione di tanta bellezza, sempre nell’imbarazzo di non essere adeguato. Moana, appena ventenne,
diventa Valentina ragazza in calore nel suo
esordio nell’hard (1981). E’ una scelta
Là dove il mare
è più profondo
o
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già l’ha cominciata a cercare proprio nel
1987, con la trasmissione Jeans condotta
da un giovane Fabio Fazio, e poi l’anno
successivo, nella persona, nientemeno, di
Antonio Ricci che vuole lanciarla (completamente nuda) nel suo nuovo programma contenitore Matrjoska. Da allora
la sua presenza sul piccolo schermo sarà
sempre più assidua, richiestissima ospite
di tutte le trasmissioni generaliste, dal
Gioco dei Nove a Buona Domenica, da
Linea Rovente a (addirittura) L’appello del
Martedì. Nel 1992 tenterà, come prima di
lei la Staller, la carta delle elezioni politiche con il Partito dell’Amore. Non avrà la
stessa fortuna dell’amica ungherese.
L’anno prima aveva pubblicato un libro
dal titolo roboante, La filosofia di Moana,
nel quale, in ordine alfabetico (amanti,
amore, ambizione…ecc.), racconta il suo
pensiero, la sua filosofia appunto. E fa i
nomi degli uomini celebri con cui ha
avuto storie d’amore o soltanto di sesso.
Con tanto di voto. Fra i tanti troviamo Benigni, Tardelli, Pozzetto, Troisi, Grillo. Invece che una dedica, sulla terza pagina,
Moana inserisce una frase, un aforisma,
che col senno di poi acquista il senso di
una triste premonizione: “Vivi come se
dovessi morire domani e pensa come se
non dovessi morire mai.” Il domani per lei
arriva presto. Molto presto, purtroppo.
Dei suoi ultimi giorni trascorsi nell’ospedale di Lione, assistita fino alla fine dalla
madre, se ne trova un commovente ricordo nel libro-intervista “Moana tutta la
verità”, un lungo colloquio tra Francesca
Parravicini e Simone Pozzi, il figlio che
per tutta la vita Moana ha chiamato fratello. Simone chiarisce anche il destino
del corpo della madre. E’ stato cremato e
le ceneri, che lei avrebbe voluto disperse
in montagna, sono state messe in un’urna
chiusa in un loculo. Simone non dice in
quale cimitero. Forse in quello di Ovada,
in Piemonte. Per l’esattezza i resti di
Moana si troverebbero in una tomba
senza lapide e senza alcuna iscrizione.
Moana, come dicevo all’inizio, ha lasciato
un vuoto che nessuna ha saputo riempire. Non so se avrebbe un giorno rinnegato quel mondo del quale è stata la
regina indiscussa per molti anni. Non lo
credo. Prima o poi lo avrebbe abbandonato, non c’è dubbio. Probabilmente lo
stava già facendo quando la malattia l’ha
ingoiata. Ma anche se avesse lasciato il
business del porno sono convinto che
non avrebbe cercato, come molte altre
sue colleghe, di far credere che ci era finita per caso, che in realtà non avrebbe
voluto fare quello ma ben altro, che qualcuno si era approfittato della sua giovanile ingenuità. No. Non era da Moana. Il
porno non le piaceva, questo lo sapevano
tutti nell’ambiente. Un lavoro, non
un’arte. L’hardcore per lei era un tramite,
il mezzo attraverso il quale imporre se
stessa all’attenzione generale, per arrivare
in cima, per essere la più desiderata. No,
Moana non avrebbe rinnegato quel passato. Perché il farlo avrebbe significato
rinnegare se stessa, cosa che lei non concepiva. Forse sarebbe sparita, piuttosto.
Avrebbe mollato tutto per iniziare un
nuovo percorso completamente diverso,
forse anche più complesso, difficile.
Moana per ora resta. Non sappiamo per
quanto ancora. Se ne parla. Ne parliamo.
Passerà. Anche lei. Anche il suo ricordo.
Ma con maggiore lentezza e con più discrezione.
reliquie che, bisogna dire, fecero in
pieno il loro dovere perché, fino alla
definitiva protezione offerta dal parafulmine, non si registrarono altri incidenti.
Peraltro padre Antonelli, come uomo
di chiesa, si era giustamente preoccupato di difendere e proteggere dalla
furia della natura il principale edificio cittadino della cristianità. Non sarebbe stato male, però, se, come
uomo di scienza, si fosse interessato
anche ai palazzi del potere secolare:
nel pomeriggio del 9 giugno 1936 un
temporale di eccezionale intensità investì Firenze con una scarica di fulmini. Due di questi colpirono in
pieno Palazzo Vecchio, scaricandosi
sull’asta della bandiera della torre
d’Arnolfo. L’asta di legno d’abete delle
foreste di Vallombrosa era lunga 24
metri, aveva un diametro alla base di
30 centimetri e si trovava lì dal 1928,
quando aveva sostituito la precedente stroncata da una tempesta di
vento: come scrissero i cronisti dell’epoca, “aveva avuto l’onore di spiegare al sole la bandiera annunciatrice
dell’Impero”. La povera asta annunciatrice, al contrario della palla del
Duomo, resistette all’urto pur seminando una pioggia di schegge di
legno, ma dovette essere sostituita,
come testimonia l’immagine di un
operaio intento a rimuoverla.
Osservando l’abbigliamento e la posizione dell’operaio, non si può fare a
meno di notare come nel 1936 la
legge 626 sulla sicurezza sul lavoro
fosse di là da venire.
Moana
che poi momentaneamente cercherà di
rinnegare, tentando di appagare il suo bisogno di apparire (quindi di “esistere”
nella filosofia mediatica che nasce e si afferma proprio nel decennio di cui parliamo) attraverso i canali ortodossi, ma
con scarso successo. Fino al 1987,
quando l’ingresso nel porno è definitivo
e annunciato con la fanfara. Prima di questo secondo esordio Moana interpreta
piccoli (spesso piccolissimi) ruoli in una
dozzina di pellicole tra cui si segnalano
Borotalco di Verdone (1982) e Ginger e
Freddi Fellini (1985). Quando esce “Fantastica Moana” l’hard italiano è già entrato
nella sua seconda fase storica. Il cui inizio
si può far coincidere con un altro esordio
di spicco, quello di Ilona Staller. Ilona e
Moana, di lì a poco, daranno vita ad un
sodalizio che le vedrà coinvolte assieme
in parecchi film, anche oltre oceano.
Ormai il porno non è più il solo palcoscenico di Moana. C’è ora la televisione, che
n 92 PAG.
sabato 27 settembre 2014
GRANDI STORIE IN PICCOLI SPAZI
di Fabrizio Pettinelli
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Giovanni Antonelli, al quale è dedicata una Piazza in zona San Gervasio,
fu un padre scolopio nato a Pistoia
nel 1818 e vissuto a Firenze dove
morì nel 1872. Per tutta la vita, in
collaborazione con padre Felice Cecchi, a lungo direttore dell’Osservatorio Ximeniano, si dedicò a studi
scientifici, lavorando anche al progetto del motore a combustione interna con Barsanti e Matteucci.
Per quanto probabilmente sconosciuto al grande pubblico, tutti a Firenze hanno sicuramente visto, anche
se altrettanto sicuramente non toccato, un suo inconfondibile ricordo:
basta guardare la sommità del campanile di Giotto e il parafulmine di 5
metri che lo sormonta. Fu infatti Antonelli, insieme a Cecchi, a progettarlo e farlo installare nel 1858; se
pensate che sia stato un intervento di
poco conto, cercate di individuare sul
selciato di Piazza Duomo, lato Via del
Proconsolo, un cerchio di marmo
Piazza Antonelli
Tuoni
e fulmini
bianco.
Fu esattamente in quel punto che il
17 gennaio 1600, durante una furiosa
tempesta, si abbatté frantumandosi la
palla dorata della cupola del Brunelleschi, staccata di netto da un fulmine. Nel 1472 la collocazione della
palla, opera di Andrea del Verrocchio, aveva praticamente segnato la
fine dei lavori di costruzione del
Duomo.
Ricostruita, fu ricollocata al suo
posto il 15 dicembre 1602: in quell’occasione fu il cardinale Alessandro
dei Medici (futuro papa Leone XI) in
persona a salire in processione fino
alla sommità della cupola per lasciare
nella lanterna due reliquie con il
compito di respingere i fulmini (“ad
repellendos fulminum impetum”),
C
ISTANTANEE AD ARTE
U
O
.com
di Laura Monaldi
[email protected]
F
in dai suoi albori, la fotografia ha
ricoperto un ruolo importante nel
Sistema artistico, qualificandosi
come un mezzo attraverso il quale
sviluppare idee e opere d’arte, come una
nuova forma di libertà espressiva, che
dà modo all’artista di dar voce alla propria sensibilità personale. Nel panorama
delle possibilità e del dialogo continuo
fra le varie specificità che caratterizzano
la cultura contemporanea – ossia quella
complessa situazione esistenziale e quotidiana in cui si muovono il fatto e
l’azione artistica – la fotografia fa emergere il proprio statuto creativo: l’essere
predatrice di immagini e puro atto estetico, in quanto realizza un vero e proprio
evento attraverso il semplice scatto e il
dispositivo ottico, poiché nell’atto di fotografare si stabilisce una particolare relazione con il mondo, si interpreta una
miniatura, elaborandola attraverso procedimenti che concretizzano un frammento di realtà.
Attento al sociale e ai panorami della
cultura internazionale, Maurizio Berlincioni opera – dalla metà degli anni Sessanta a oggi – un’analisi precisa e
strutturale del mondo contemporaneo.
I suoi reportages fotografici affascinano
per la freschezza e la lucidità dello
scatto, solo apparentemente banale, in
grado di fissare con esattezza e accuratezza il soggetto d’interesse. Quello del
fotografo è uno sguardo laterale, indagatore, curioso, capace di sviscerare la
quotidianità e gli spazi della quotidianità, attraverso un taglio comunicativo
inedito, quasi ingenuo e innocente tuttavia puntuale, poiché mira a cogliere rigorosamente il punto di vista più
sfuggente. Impadronendosi dell’imma-
n 92 PAG.
sabato 27 settembre 2014
o
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Foto
da
prima
(ultima)
pagina
gine, attraverso lo scatto e il dispositivo ottico, Maurizio Berlincioni
esprime con soggettività la propria
forza concettuale e interpretativa, superando le alterità spaziali e temporali, in una contingenza che appare
sensibilmente pura allo spettatore,
ignaro di condividere la medesima visuale dell’artista al momento dello
scatto. Penetrante, analitico e a tratti
ironico (si pensi alle Foto-coppie del
1982: capolavoro d’ironia in cui è lecito fare e disfare le coppie di artisti/e
e consorti, ritratti rigorosamente in
nudo), l’artista riflette in modo sistematico l’immagine dell’attualità, in un
equilibrio armonioso e critico tra
forma e sostanza delle strutture e dei
modelli visivi: un invito a ripartire dai
particolarismi dei panorami cittadini
e dell’individualità umana, senza preconcetti, con l’oggettività disarmante
di una semplice fotografia.
Al centro Gruppo di bambini. Lexington Ave., Spanish
Harlem, NYC, 1969. In basso da sinistra Tenement
building. Spanish Harlem, Manhattan, 1969; You’ve
got a great future behind you, NYC, 1969 e Ragazzi ad
uno spettacolo di Street Theater, “Block party” nel
Bronx, 1969. Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato