Numero 72 Nèura Magazine Settembre 2014 Non È Una Rivista d’Arte Oltre i confini Critico, ergo sum #Roberto Floreani: Futurismo antineutrale Visioni su carta #Sergio Toppi: Leggende senza tempo Foto ©Anna Castellari “Fiato d’artista” #Tullo Golfarelli per il Cimitero di Fermo #Sebastiano Salgado: Genesi Eunomia #La Cappadocia e le sue chiese #L’Islanda e il cemento Nèurastenie Settembre 2014: #cemento 1 Immagine del logo: Cristiano Baricelli, Ictus (2005) Indice Editoriale | OltrE I CONFINI 4 Critico, ergo sum | ANTINEUTRALE di Riccardo Zelatore 6 “Fiato d’artista”sI La Scienza medica cura gli ammalati. Un lavoro di Tullo Golfarelli per il Cimitero di Fermo di Carlo Cipolletti 12 Eunomia | Le mille e una chiese di Cappadocia: se l’UNESCO c’è, ma non si vede di Anna Castellari 18 Visioni su carta | Le leggende senza tempo di Sergio Toppi di Sonia Cosco 24 “Fiato d’artista” | Canto d’amore per la Terra. Genesi, di Sebastião Salgado di Lucia Valcepina 30 Nessuna parte o contenuto di questa pubblicazione può essere duplicata, riprodotta, trasmessa, alterata o archiviata in alcun modo senza preventiva autorizzazione degli autori. Eunomia | Oh, del cemento in terra d’Islanda! di Silvia Colombo 36 Impaginazione a cura di Anna Castellari. Nèurastenie | #CEMENTO di Silvia Colombo 42 Copyright © Nèura 2014 In redazione Anna Castellari, Silvia Colombo, Sonia Cosco, Roberto Rizzente. Hanno collaborato a questo numero: Carlo Cipolletti, Lucia Valcepina, Riccardo Zelatore. Iscrizione al Registro delle pubblicazioni periodiche del Tribunale di Milano n. 277 del 9/9/2013 | ISSN 2283-7027 Direttore responsabile: Roberto Rizzente | Editore: Associazione Nèura Logo di copertina: ©Cristiano Baricelli, Ictus, 2005. 2 3 Editoriale Oltre i confini S iamo tornati. Con tanta polvere sulle scarpe e più ricchi di ieri, perché abbiamo viaggiato. In lungo e in largo per l'Europa. Vi restituiamo immagini oltre i confini, che non dovrebbero esserci in questo 2014, ma invece ci sono e appena li superi, capisci che è la diversità, la complessità, quello che ci piace, che ci intriga, ci emoziona. Anna e Silvia hanno superato superato i confini del nostro paese, percorso latitudini diverse e raccolto frammenti di arte preziosa e lontana. Nordica come l’installazione dell’artista tedesco Lukas Kuhne è un site specific legato all’armonia musicale locale in Islanda. Orientale come le chiese di Cappadocia, bellissime e dimenticate dall’UNESCO. Anche voi rimarrete incantati di fronte a questi angoli di mondo e anche voi, siamo certi, condividerete alcune perplessità su come l’arte si avvizzisca quando non c’è una politica culturale intelligente e sensibile a sostenerla e promuoverla. Oltre i confini del futurismo, c’è il futurismo antineutrale di Roberto Floreani il cui pensiero ci viene regalato da Riccardo Zelatore nella rubrica Critico, ergo sum. Continuando a sfogliare questo Nèura settembrino, il suo cuore si fa un po’ più duro, anzi proprio di pietra, ma solo per dargli nuova forma con la scultura funeraria poco conosciuta di Tullo Golfarelli nel Cimitero di Fermo e le nèurastenie dedicate al #cemento, materiale così poco avvezzo a manipolazioni artistiche, così funzionale, pragmatico, urbano, eppure così potenzialmente creativo. La materia e lo spirito si fanno più leggeri quando incontriamo un grande autore di letteratura disegnata quale fu Sergio Toppi, indimenticabile firma di tante illustrazioni e fumetti, scomparso recentemente. Ci siamo ritrovati tra le mani un portfolio magico, edito da Crapapelada, dal titolo Leggende senza tempo e ci siamo lasciati incantare da acquerelli e parole eteree. Un grande fotografo, una grande personalità, quella di Sebastião Salgado che con Genesi propone non solo un reportage sulle meraviglie del Pianeta, ma un progetto umano, un canto d’amore per la Terra e i suoi abitanti. Buona lettura! La Nèuraredazione 5 Critico, ergo sum Antineutrale di Riccardo Zelatore Atto secondo. Questo mese è Roberto Floreani che generosamente mi ha concesso il suo punto di vista sul senso della pittura oggi. A lui dobbiamo il saggio che segue. A noi il piacere della curiosità. Lo introduco prendendo a prestito un passo tratto dal suo libro Futurismo antineutrale (Silvana Editoriale, 2010). Museo MAGA, Gallarate, 2011 7 «C on ogni probabilità (oggi) Marinetti si comporterebbe esattamente agli antipodi di ciò che ci sommerge quotidianamente, liberandosi (e liberandoci) dall’odierno, dominante, soffocante, mediocre, insopportabile, borghese (nel senso dispregiativo impiegato dai movimenti rivoluzionari), banale, ripetitivo, untuoso, ipocrita, omologato, inutile, scadente atteggiamento politicamente corretto. Autentica rovina. […].» Giusto per scaldare i motori. Sono passati più di cento anni da quando, con una serie di Manifesti, il Futurismo dava un senso nuovo al contemporaneo. Gli artisti, da quel momento in avanti, si sono autorizzati tutto ciò che passava loro per la testa: han deciso che un orinatoio capovolto sarebbe stato una fontana, incollato sacchi sulla tela, l’hanno poi tagliata, forata con punteruoli, bruciata con la fiamma ossidrica, coperta con stesure uniformi di colore, hanno inscatolato escrementi, creato degli igloo coperti di frasche e neon, allagato gallerie, deciso che l’opera non aveva più alcun significato e che era bastante la loro presenza davanti al pubblico, anche se si coprivano di bende e si 8 laceravano il corpo. Il mondo dell’arte ha applaudito, ha ripetutamente gridato al capolavoro, ha condiviso ribellioni e situazioni estreme, pagandole poi, paradossalmente, milioni di euro. Oggi, la libertà espressiva totale ha portato ad appendere cadaveri di animali tassidermizzati al soffitto, a creare teche con bardotti in decomposizione, accettate dal variegato mondo dell’arte senza obiezioni, come già aveva fatto cinquant’anni prima, accontentandosi anche delle riedizioni, pur senza il supporto della contestazione sociale, addirittura senza rivoluzione. Basta la parola, come nella pubblicità dei purganti di quando andavo alle Elementari. Liberi tutti, ma non di dipingere, non si può fare, quasi fosse il capriccio del bambino difficile che non vuole studiare. Il divieto, inesistente non solo in natura, ma anche nella storia del pensiero, è pure datato, trito e ritrito, fin dal Poverismo dei tardi anni sessanta, ma oggi, si sa, nemmeno i libri vengono più letti. Da un lato quindi lo sviluppo del contemporaneo si basa sull’assoluta libertà espressiva, dall’altro si pensa di togliere attendibilità alla pratica della pittura, che coinvolge la maggior parte degli artisti (e non) che si barcamenano Palazzo TE, 2013 sul pianeta. L’importante, credo, sia far finta di nulla, lasciar perdere, non sempre si può rispondere al nevrotico che t’importuna in metropolitana. Individualmente ogni artista, poi, risponde a se stesso e all’azzardo del proprio lavoro. Credo fermamente alla continuità dello sviluppo del pensiero, quindi niente “Morte dell’Arte” o amenità similari, per il semplice fatto che penso sia assolutamente privo di senso sostenere il contrario, e quindi rivendico anche la continuità della pittura. Da quanto ho visto poi, leggendo qui e là, nel corso della mia vita, che ha superato ormai abbondantemente il mezzo secolo, l’artista può rivendicare anche delle differenze dal pensiero diffuso che lo circonda, una sorta d’inattualità distintiva, visto che, a guardar sempre quel che fanno gli altri, si rischia uno strabismo definitivo. Paradossalmente, il teorico divieto culturale, dà all’artista una ragione in più per cimentarcisi: l’arte, il costume, la società stessa, sono 9 stati cambiati dal pensiero dei grandi inattuali. Per quanto riguarda il mio lavoro da vicino, ha un senso chiedersi se esista la possibilità di dare continuità alla ricerca astratta iniziata da Kandinskij e Balla oltre un secolo fa e se la ragione dello Spirituale nell’Arte di quegli anni ha ancora la vitalità interna necessaria. Nel caso specifico, l’idea di dare un senso al non riconoscibile, alla dimensione interna e silenziosa delle cose, di concedere al fruitore la grande libertà di accettarlo o meno, di lasciargli eventualmente decidere se privilegiare nella lettura il segno, la superficie o il colore, oggi ha più ragioni di allora, in un contesto generale che ne è troppo spesso privo; così come attualizzare il significato di Bellezza, Misura e Proporzione, nel superamento degli stili. Tutto questo interrogarsi e darsi risposte, per quanto faticose e silenziose siano, è semplicemente la mia vita, quel che ho deciso di fare, quello che mi motiva o demotiva ogni giorno, la mia condanna e la mia redenzione, accettando le difficoltà crescenti e quotidiane di un’analisi che sembra diventata patrimonio di pochi sognatori, distanti dai riflettori di un’attualità tanto sfavillante quanto superficiale e soprattutto visto che c’è qualcuno Roberto Floreani che punta ancora il ditino dicendo- 2 settembre 2014 mi che non va bene e che devo imparare a scrivere con la destra. The grey fractal Ritratto di Roberto Floreani 10 11 “Fiato d’artista” La Scienza medica cura gli ammalati. Un lavoro di Tullo Golfarelli per il Cimitero di Fermo di Carlo Cipolletti In questo breve articolo presento una scultura funeraria poco conosciuta di Tullo Golfarelli (Cesena, 1852 – Bologna, 1928) nel Cimitero di Fermo. Quello che andremo a vedere è come quest’ultimo riuscì, a mantenere, in un contesto dove erano preminenti i canoni estetici di quella che era allora l’arte contemporanea (il liberty), una forma espressiva passata di moda (il verismo). 12 13 I l Cimitero comunale di Fermo, benedetto nel 1813, un anno dopo la sua costruzione a “un miglio quasi lontano dalla città”, nei pressi di un tempietto ottagonale (detto di Santa Croce), fatto edificare nel 1575 da monsignor Ottavio Santacroce, governatore di Fermo negli anni 1573-’75, ma demolito nel 1855, era, stando alla descrizione data dal cronista Giovan Battista Campanelli, di cinquanta passi per lato. Nella chiesa di Santa Croce, riadattata a ossario, venne realizzato un sotterraneo per lo “spurgo dei morti ogni dieci anni”. Nel 1838, durante la Visita pastorale dell’arcivescovo di Fermo Gabriele Ferretti, la chiesa non era più officiata da tempo, dal momento che il Cimitero comunale non era più in uso da qualche anno. Nel 1852 quest’ultimo venne in parte ricostruito. La cappella funeraria in forme neorinascimentali, terminata nel 1869, è a croce greca. I quattro pronai sono decorati da antefisse a palmette stilizzate. La scultura funeraria nel Cimitero di Fermo Nei Cimiteri costruiti dopo l’Unità d’Italia, i più ricchi cittadini italiani, per ricordare i propri morti, affidarono i lavori di decorazione 14 delle tombe soprattutto a scultori puristi. Nel 1885 lo scultore senese Tito Sarrocchi, allievo del più noto Giovanni Duprè, realizzò il profilo dello storico fermano Giuseppe Fracassetti (†1883), in semplici forme, dai tratti puristi, collocato entro un monumento di forme neogotiche. Dagli inizi del secolo scorso, col mutamento del gusto, la maggior parte delle commissioni vennero affidate ad artisti aggiornati sulle nuovo linguaggio alla moda allora in Europa: il liberty. Tanti monumenti, vennero decorati da eleganti figure angeliche dai tratti sinuosi. Nella tomba Crocenzi, a forma di tempietto neogotico, è collocato un bell’angelo, datato 1912 da Romeo Pazzini (Verrucchio, 1852 - Firenze, 1924), appartenente a una famiglia che dopo l’Unità d’Italia lavorava ai tanti monumenti patriottici per le piazze italiane, ma che non disdegnava commissioni da parte di privati, soprattutto nel campo della scultura funeraria. Dalla seconda decade del secolo scorso, a forme liberty, vennero preferite forme più classiciste (nella maniera, però, della scultura di Auguste Rodin). Tante statue di piangenti, se non proprie rappresentazioni del Dolore fanno la loro comparsa nell’iconografia della scultura funeraria. Nel Cimitero di Fermo potremo ricollegare a questa corrente la tomba Ciccarelli, decorata da un bronzo datato 1921 da Luigi Contratti, nato a Portogruaro (Venezia) nel 1868, ma attivo a Torino, dove realizzò nel 1903 il ben noto Monumento a Galileo Ferraris. In quello fermano è rappresentato, un uomo in mesto raccoglimento, collocato entro due colonne doriche, di cui quella a destra spezzata. Dietro la scultura, nel paramento marmoreo, è incisa 15 In queste pagine: alcune dettagli del cimitero. A sinistra, il Monumento Fracassetti l’iscrizione: haec domus / aeterna est (“Questa è la dimora eterna”). La Scienza medica cura gli ammalati Presso la tomba Montanari-Mancini, dov’è sepolto il medico Francesco Montanari († 1906), è collocato il gruppo allegorico rappresentante La Scienza medica cura gli ammalati, firmato da Tullo Golfarelli, nato a Cesena nel 1853, da Enrico e da Vittoria Bassoli. Lo scultore iniziò la sua formazione artistica presso la bottega orafa del padre. Passò poi a Roma, dov’è documentato nel 1878, presso lo scultore-orefice Pietro Gagliardi. Studiò anche a 16 Parigi, Bologna, Venezia, Firenze e Napoli, abbandonando presto l’oreficeria per dedicare il suo lavoro alla scultura. Nel 1881 tentò di entrare all’Accademia di belle arti partenopea, non ottenendo però l’accesso. Nella città conobbe lo scultore verista Vincenzo Gemito, dal quale apprese quel realismo che caratterizzerà parte della sua produzione. Nel 1893, trasferitosi a Bologna, frequentò l’Accademia di belle arti, seguendo le lezioni dello scultore Salvino Salvini. In città aprì quello stesso anno il suo studio di scultura. Nel Cimitero alla Certosa di Bologna realizzò la scultura Labor per il sepolcro Simoni, rappresentante un fabbro a grandezza naturale, tanto ammirata da Giovanni Pascoli, che in un discorso pubblicato nel 1906 nel giornale cesenate Il Cittadino per l’inaugurazione del busto di Giosuè Carducci realizzato dallo stesso scultore per l’aula magna dell’Università di Bologna, definì, a ragione, la produzione di Tullo Golfarelli improntata a “un realismo di stampo sociale”. Nel 1912 ottenne la cattedra dell’Accademia di belle arti bolognese. Morì a Bologna nel 1928. Nella scultura funeraria del Cimitero di Fermo troviamo in primo piano l’allegoria della Scienza medica, in piedi, vestita con un semplice abito all’antica. Il capo è coperto da un velo cinto da alloro, mentre sta medicando un’ammalata nuda, seduta, con la faccia contorta in una smorfia di dolore, in un tono realistico, che contrasta con la figura impassibile della Scienza medica, scolpita nei modi del liberty, che Tullo Golfarelli aveva accolto nella sua produzione fin dagli inizi dai primi anni del secolo scorso. Tuttavia, lo scultore, non rinunciò a quello che Giovanni Pascoli aveva definito “realismo di stampo sociale”, appreso da Vincenzo Gemito, ben presente nella figura di donna, subito a destra dell’ammalata che guarda preoccupata il medicamento. La popolana, regge tra le braccia una bambina, per niente intimorita da quanto sta accadendo. Quello di Fermo è probabilmente uno dei migliori lavori della produzione funeraria di Tullo Golfarelli che, pur avendo abbracciato da tempo i canoni stilistici dell’arte liberty, riutilizzò, una forma espressiva allora passata di moda: quel verismo appreso da Vincenzo Gemito, che rende la scultura un pezzo unico nel suo genere. Il committente (che molto probabilmente scelse il soggetto: un’allegoria che doveva ricordare la professione del defunto), lasciò all’artista ampia libertà espressiva per realizzare il monumento funerario (dobbiamo tenere conto anche della fama che lo scultore in quegli anni aveva raggiunto, che in pratica poteva garantirgli ampia autonomia espressiva), uno dei più interessanti del Cimitero di Fermo. 17 Eunomia Le mille e una chiese di Cappadocia: se l’UNESCO c’è, ma non si vede di Anna Castellari Stavolta non si parla di contemporaneo, ma di antico e di gestione dei beni culturali in Turchia. Lo stupendo paese medio orientale cela meraviglie neanche troppo nascoste, anzi, piuttosto turistiche. Ma il trekking e l’assenza di un ente che tutela i beni culturali stanno mandando in rovina quei luoghi… Tutte le foto di questo servizio sono di Anna Castellari. In questa pagina e nella prossima: interno di una delle chiese rupestri S iamo arrivati a Çavusin, nel bel mezzo della Cappadocia, nel bel mezzo della Turchia, a fine agosto. Se l’Italia ci aveva regalato fino a poco prima ben poco calore estivo, qui in Turchia si respira invece un’aria di vacanza. Dopo il delirio della prima settimana istanbulota, abbiamo percorso dieci ore di strade dissestate in autobus – c’è da dire, comodissimo – di notte, e siamo arrivati alla nostra pensione nella poco turistica cittadina di domenica mattina alle 9. Il padrone di casa, Ahmet, si è prodigato nel venirci a prendere all’autostazione (che in turco si chiama otogar, con pronuncia francese e scrittura come la pronuncia). Appena arrivati nella corte interna della pensione, Ahmet ci ha consigliati sui percorsi da compiere a piedi nel giorno e mezzo di permanenza lì, a suo dire troppo poco – e infatti una compagnia di francesi conosciuta sul posto è rimasta da lui una settimana e si è davvero goduta le bellezze del luogo. Pensi Cappadocia e ti viene in mente, alternativamente, una Matera più in grande o un grand canyon più in piccolo, a seconda di quanto ti sei spinto in là nelle vacanze 20 precedenti. Di certo la ricchezza di questo posto, che abbiamo visitato quanto più possibile, con una camminata di tre ore il pomeriggio dell’arrivo e due camminate rispettivamente di tre e quattro ore il giorno dopo, non è soltanto quella paesaggistica. È certamente un insieme di componenti. I sassi, le rocce, il loro colore, l’acqua che abbiamo scovato in altezza sotto una pelliccia di muschio, inaspettata, il tramonto sulle pietre e intanto il muezzin che canta per radunare i propri fedeli: sono tutti elementi che lo rendono un luogo suggestivo e pieno di fascino, non fosse altro perché difficilmente tutte queste componenti si ritrovano assieme. Se la bellezza di un luogo è data dall’atmosfera, di sicuro la Cappadocia ne ha da vendere, di bellezza. Il meraviglioso caos umano e culturale che è questo paese emerge anche qui: a fianco alle moschee di costruzione più recente – la Storia insegna che Istanbul fu conquistata da Mehmet II nel 1453, e da lì cominciò a espandere il proprio dominio in tutto l’Impero Romano d’Oriente trasformandolo in Impero Ottomano – si trovano antichissime chiese rupestri, costruite letteralmente nelle 21 lui stesso era proprietario, con la sua famiglia, di una di quelle grotte, ma non può più mettere mano e intervenire per salvarne la struttura perché dovrebbe occuparsene lo Stato (che non ha soldi a disposizione, però). Mi chiedo che senso abbiano tutti questi visitatori, se non si riesce a gestirli in maniera corretta – il turco medio, ho notato, non ha molto senso dell’ecologia, e le cartacce buttate a terra o in mare dal vaporetto sono all’ordine del giorno. Eppure, qui stiamo I Camini delle Fate Çavusin: moschea e antico insediamento grotte. Quando penso ai presepi della mia infanzia, e al fatto che si diceva che Gesù fosse nato in una grotta, ecco, mi viene in mente un paesaggio molto simile. Mille buchi nella pietra, con abitazioni e chiese sulla montagna incantata di Çavusin. Basta provare a immaginarselo la sera, illuminato dalle luci di candele e di fuochi per scaldare la propria casa, e il gioco è fatto: Çavusin diventa ancora più magica e il tempo si ferma a un paio di millenni fa o su di lì. Ma non tutto è oro quel che luccica. Le chiese si trovano in uno stato di semi abbandono. C’è da dire che 22 parlando di un patrimonio mondiale e della mancanza di rispetto verso di esso, non solo da parte dei turchi ma anche dei turisti in visita qui. Il mio modesto articolo è un atto d’accusa ma anche una richiesta verso chi amministra questi luoghi. Quel Cristo Pantocratore che spesso campeggia sugli altari delle chiese cristiane dovrebbe fungere da monito a queste persone. Affinché un patrimonio come quello di Cappadocia non vada, irrimediabilmente, perduto. sono oltre mille, e dunque non deve essere affatto semplice mantenere tutto in ordine. Però il degrado e la mancanza di controlli – anche banalmente verso i turisti che scambiano le ex abitazioni nelle grotte per orinatoi – sono sconfortanti. Tanto più se si pensa che questo è un sito tutelato dall’UNESCO, come indica la scritta che campeggia vicino a molte chiese e ai nomi delle cittadine (penso anche a Göreme, preda del turismo tanto da sembrare una Riccione con vocazione un po’ più culturale). Mi chiedo dove sia l’UNESCO, anche quando Ahmet mi racconta che 23 Visioni su carta Le leggende senza tempo di Sergio Toppi di Sonia Cosco Sono senza tempo, le leggende di Sergio Toppi. Oniriche, evocative, dodici tavole a colori ispirate ad altrettante leggende che un maestro della “letteratura disegnata” ha realizzato diversi anni fa. Lui ci lasciato da pochi anni e forse guidata dalla dolcezza di questo inizio autunno, vado a cercarlo nelle mensole della libreria e mi ritrovo a sfogliare un portfolio magico. Sergio Toppi, Leggende senza tempo (2003) 25 e dissolverlo in queste brevi righe, per poi riaccenderlo nei caldi colori delle tavole. Che hanno il suo inconfondibile stile geometrico e pungente, enormità di visi e minuscoli dettagli. Le dodici leggende sono nate dall’immaginazione di Toppi, ma non fu un’elaborazione immediata. Come si legge in una nota della casa editrice: “L’idea era quella di pubblicare un lavoro di Sergio Toppi. «Lasciamola un po’ lì quell’idea...» ci diceva garbatamente tutte le volte che lo incontravamo”. Toppi nasce a Milano nel lontano 1932. Esordisce nella UTET e negli anni sessanta inizia la sua carriera nel mondo dei fumetti, disegna per il Corriere dei piccoli poi Corriere dei Ragazzi. Numerose le collaborazioni (Sgt. Kirk, Linus, Alter Alter, Il Giornalino, Il Mago, Corto Maltese, L’Eternauta, Comic Art, Ken Parker, Sergio Bonelli Editore) e tanti i riconoscimenti. È mancato nel 2012 e per quanto in questo bel paese si tenda a essere coccodrilli del rimpianto e quindi solo a posteriori vengono riconosciuti i meriti dei nostri Sergio Toppi, Leggende senza tempo (2003) Sergio Toppi, Leggende senza tempo (2003) “E ra alta, di pietra dura e pesante. S’era persa la memoria di chi l’avesse innalzata e forse anche della prigioniera”. Ecco la Torre dove il tempo fluisce lento, mentre la prigioniera sogna una “libertà lontana”. E poi, ancora il bambino destinato a grandi cose salvato dagli Aironi Azzurri, la Pietra sulla quale un custode scrive i sogni di tutti i dormienti e il Ghepardo fedele che 26 custodisce l’oro del re. Sono alcuni dei protagonisti di queste lievi, dolcissime leggende senza tempo di Sergio Toppi che nel portfolio edito da Crapapelada nel 2003, tesse disegni e parole, per realizzare un arazzo mitico. Come le narrazioni primordiali, archetipi di tutte le storie che saranno scritte poi, sono essenziali e cadenzate, emotive ed eziologiche. Toppi sembra distillare ciò che osserva nella natura e nell’uomo 27 grandi artisti, ancora se ne parla troppo poco. Hugo Pratt usava queste parole per descriverlo: “Toppi è una persona squisita, un grandissimo artista del pennino, un cesellatore. Lo si può considerare un discendente di una scuola che annovera Frank Godwin, Dana Gibson e prima ancora di loro Remington e Doré”. La sua è una produzione eclettica, un linguaggio rivoluzionario per quei tempi. Modifica i canoni grafici del racconto per immagini e stravolge la struttura delle tavole, con i disegni che trasbordano dai contorni e i visi viola sul Messaggero dei Ragazzi che, negli anni settanta, fecero grande scalpore. Lui stesso ammette, in diverse interviste, quanto lavorare nel fumetto e soprattutto nei giornali per ragazzi, fosse allora un’esperienza straordinaria, formativa, stimolante, di un grande spessore culturale (basta pensare alle firme che circolavano su quelle pagine: Dino Battaglia, Paz, Tacconi, Uggeri). Lo ispirano l’Oriente, i samurai, i popoli antichi del sud America, la sua tecnica preferita è il bianco e nero a china, ma io lo amo soprattutto per le tavole a colori, come quelle del portfolio che vi ho presentato e dal quale, per concludere questo piccolo omaggio a Toppi, estrapolerei la leggenda 28 senza tempo che più mi ha suggestionato. Il titolo è Forse. Un invito al viaggio e alla ricerca, perché la bellezza dell’imprevedibile e dell’ignoto non è una meta da raggiungere, ma un percorso da fare a piedi, a mani nude e cuore aperto. “Forse ad Oriente, forse a Occidente. Forse a qualcuno sarà data la fortuna di scoprire un valico tra grandi dirupi e scendere dalle muraglie bagnate da piogge scarlatte. Forse. Ma se ci riuscirà, forse, potrà seguire una traccia sottile come un velo di seta e alla fine della traccia, la sorpresa di un canto mai udito e di un volto che sorride, forse per una penna dimenticata o per un presagio di piccole gioie, forse. Ma forse il gioco che vale la pena di giocare è cercare senza raggiungimento quel valico da leggenda, tra i dirupi e le muraglie da piogge scarlatte... forse”. Leggende senza tempo di Sergio Toppi Edizioni Crapapelada, 2003. Portfolio realizzato con 12 illustrazioni ispirate a 12 leggende scritte dall’artista. Tiratura 250 esemplari numerati da 1 a 250. Ogni illustrazione è firmata dall’artista. Stampato su carta Fedrigoni Tintoretto. Sergio Toppi, Leggende senza tempo (2003) 29 “Fiato d’artista” Canto d’amore per la Terra. Genesi, di Sebastião Salgado di Lucia Valcepina Frutto di una profonda passione, Genesi non è un semplice reportage sulle meraviglie del Pianeta, bensì la sintesi e summa di un progetto decennale: canto d’amore per la Terra e i suoi abitanti. Sebastião Salgado, Brasile 30 31 Sebastião Salgado, Kafue National Park L a macchina fotografica è sempre stata per Sebastião Salgado uno strumento di presa di coscienza. Per realizzare un buon servizio bisogna crederci fino in fondo, sembra dirci con le sue scelte il fotografo brasiliano, da sempre propenso a indagare ciò che è ignoto, sotteso o lontano dai riflettori. Aveva 29 anni e la sua vita pareva indirizzata verso una promettente carriera economica quando cominciò a fotografare 32 e, in breve, riconobbe che la sua vocazione non era rincorrere il fatto, svolazzare da un argomento all’altro, ma documentare la realtà con progetti di ampio respiro. Realizzare inchieste là dove nessuna attualità immediata le sollecitava, interpretando e trasformando così la tradizione del saggio fotografico. Tutta l’opera di Salgado è volta a conciliare l’estetica con l’informazione, la militanza, l’impegno civile ed etico. Molti di noi hanno negli occhi le sue fotografie dedicate agli Indios, ai contadini dell’America Latina, alla carestia in Africa o la rassegna, realizzata tra il 1986 e il 2001, sulla fine della manodopera industriale su larga scala (La mano dell’uomo, Contrasto, 1994). Saghe planetarie che esplorano ciò che va scomparendo delle forme secolari dell’attività umana, interrogandosi sul significato di tale visione. Dai campi di canna da zucchero cubani fino alle acciaierie dell’ex Unione Sovietica, passando per le zone petrolifere del Kuwait, Salgado ci ha mostrato l’uomo nell’atto di trasformare il mondo. In altra sede, ci ha proposto le immagini e gli scorci di un’umanità in movimento, fatta non solo di profughi e rifugiati, ma anche di migranti colti nel loro viaggio verso l’ignoto, verso le immense megalopoli del Terzo mondo (In cammino; Ritratti di bambini in cammino, Contrasto, 2000). E oggi parliamo di Genesi con le sue 245 immagini in bianco e nero, organizzate in 5 sezioni: il Pianeta Sud, I Santuari della Natura, l’Africa, Il grande Nord, l’Amazzonia e il Pantanàl. Nessun significato religioso nel titolo, ma tutto il senso di quell’armonia delle origini che ha permesso la diversificazione della specie: il prodigio di cui tutti facciamo parte. Come quella zampa di iguana che ha ormai fatto il giro del mondo e tanto ricorda la mano di un guerriero medievale. Un percorso espositivo che testimonia di un mondo “vivo” a ogni livello, illuminato dalla convinzione che minerali, vegetali e animali vadano avvicinati con lo stesso scrupoloso rispetto con il quale ci si approccia, o ci si dovrebbe avvicinare, agli esseri umani. Otto anni a percorrere il mondo a piedi, su piccoli aerei, barche, canoe e persino in mongolfiera. Vulcani, dune, canyon, ghiacci, foreste, santuari naturali, isole… alla ricerca di spazi incontaminati, dai più torridi ai più glaciali, dai più aridi ai più lussureggianti. L’idea si affianca all’importante progetto ambientale che Salgado sta realizzando da un decennio in Brasile, in collaborazione con la moglie, Lélia Deluiz Wanick Salgado: Instituto Terra, volto a ripristinare una parte della foresta atlantica la cui distruzione cominciò con l’arrivo dei Portoghesi nel XVI secolo e proseguì con la deforestazione dovuta all’agricoltura, all’urbanizzazione e all’industrializzazione. Come racconta lo stesso ideatore, tale progetto mira a realizzare “un restauro ecosistemico” della terra (S. Salgado, Dalla mia Terra alla Terra, Contrasto 2014). E non di una terra qualsiasi si parla, ma 33 di quella che Salgado conosce intimamente e racconta con affetto, il mondo dell’infanzia, luogo di ricordi e vissuti meravigliosi: le corse a cavallo fino al tramonto; le immense distese da attraversare spesso a piedi, seguendo le transumanze e indugiando con lo sguardo, imparando ad amare i cieli carichi trafitti di luci; le nuotate nei corsi d’acqua insieme ai caimani che, a differenza di quanto si dice, “non attaccano l’uomo”. L’avvicinamento del fotografo alla natura non può che essere graduale, empatico, lontano dall’ipotesi “che gli animali siano bestie senza cervello e senza logica”. Nel progetto Genesi, Salgado non realizza un reportage come farebbe un entomologo o un giornalista, ma con lo sguardo pronto ad accogliere lo stupore per le meraviglie e bizzarrie del Pianeta, con l’attitudine a stabilire un rapporto con i suoi abitanti, superando la diffidenza di tartarughe giganti, iguane e leoni marini nella Galápagos, oppure seguendo la migrazione di zebre e animali selvatici in Kenya e Tanzania. Lo sguardo si sofferma spesso su scorci di un presente che richiama un tempo remoto, primordiale, come quando il fotografo coglie la quotidianità di popolazioni indigene ancora vergini: gli Yanomami 34 e i Cayapó dell’Amazzonia brasiliana, i Pigmei delle foreste equatoriali del Congo settentrionale, i Boscimani del deserto del Kalahari in Sudafrica, le tribù Himba del deserto namibico e quelle delle foreste della Nuova Guinea. Anche in questo caso, Salgado si è avvicinato ai soggetti con gradualità, discrezione, lasciando che fossero le popolazioni stesse a offrirgli la possibilità e l’occasione di fotografare. Tutto ciò è avvenuto condividendo l’essenziale, le condizioni climatiche estreme e, spesso, la nostalgia di casa. La lentezza appartiene alla fotografia e, anche se il mondo va velocemente, secondo Salgado “la vita segue un altro ordine di grandezza. E la vita va rispettata quando la si vuole fotografare”. Il bianco e nero esprime la volontà di operare nell’ambito del simbolico. Il mondo è per Salgado un serbatoio di immagini significanti, attraversato da un alito epico, che chiede a chi guarda di cogliere l’incanto, persino dove sembra essere occultato, come nelle passate rassegne (tutti noi abbiamo in mente certe sue immagini del Sahel o dei centri di assistenza per bambini in Etiopia dove la miseria non riesce tuttavia a distruggere la bellezza e il tragico sembra svelare il sublime). Situazioni colte nel loro valore metastorico, soggetti accolti Sebastião Salgado, Genesi da raggi di luce e da una natura maestosa, a parlarci dell’umano che attraversa le epoche. E anche noi, come Salgado, di fronte alle immagini di Genesi, torniamo alle origini della nostra Storia, scopriamo la nostra memoria ancestrale. Ci sentiamo molto vecchi, anzi, antichi, trasportati indietro di migliaia di anni. Con lo stesso bisogno di amare, piacere e vivere… ma con quella conoscenza della natura che, incautamente, negli ultimi millenni, abbiamo dimenticato. Genesi, Sebastião Salgado Palazzo della Ragione Piazza dei Mercanti, Milano fino al 2 novembre Orari. Tutti i giorni (tranne il lunedì) dalle 9.30 alle 20.30 | giovedì e sabato: dalle 9.30 alle 22.30. Ingresso. 10 € (intero), 8,50 € (ridotto) 35 Eunomia Oh, del cemento in terra d’Islanda! di Silvia Colombo L’isola nordica dell’Islanda, proprio vicino al circolo polare artico, è una sorpresa per chi la visita. Dominata dalla natura, che regna incontrastata, nasconde nella sua anima più profonda anche qualche sorpresa dedicata all’arte contemporanea: oggi andiamo alla scoperta dell’installazione in cemento di Lukas Kühne. Lukas Kühne, Tvísöngur (2012). Foto di Silvia Colombo 37 Lukas Kühne, Tvísöngur (2012). Foto di Silvia Colombo N on sono abituata alla natura, né tantomeno all’idea di una leopardiana natura matrigna capace di dominare incontrastata, facendo letteralmente il bello e il cattivo tempo. Forse per questo, per anni, ho serbato il grande desiderio di andare in Islanda, ma allo stesso modo ho temuto di rimanerne sovrastata, e delusa – “Natura. Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi?”. 38 Invece no: il giro dell’isola in (purtroppo soli) dieci giorni è stato una delle esperienze di viaggio più incredibili a cui mi sia affidata, completamente libera. Nondimeno, tra un fiordo e una cascata, non ho potuto fare a meno di sentire, e rispondere, al richiamo dell’arte, almeno per una volta, una volta sola. Così, a Seydisfjördur, piccolo centro artistico situato sulla costa orientale islandese, dove anche il locale Skaftfell è ritrovo turistico e piccola galleria d’arte – alle pareti si trovano, tanto per dirne una, stampe Lukas Kühne, Tvísöngur (interno, 2012). Foto di Silvia Colombo 39 Lavori in corso per Tvísöngur di Lukas Kühne (2012). Foto dal sito www.lukaskuehne.com di Dieter Roth – insieme, ho notato una locandina. E ho deciso, trascinando tutti quelli che erano con me, che quella sarebbe stata la nostra (seppur breve) tappa successiva. Dal paese occorre seguire un breve sentiero in salita che conduce, dopo una ventina di minuti circa, a una installazione del tedesco Lukas Kühne, Tvísöngur (2012). Si tratta, in altre parole, di una struttura site specific in cemento, accessibile ed esperibile all’interno, coperta da cinque cupole di diversa altezza (più precisamente, sul sito dell’artista si legge che “l’altezza delle cupole si aggira tra i 2 e i 4 metri e [la struttura] copre un’area di circa 30 metri quadrati”). Nonostante l’accostamento stridente tra natura e artificio, verde e cemento, l’intervento di Kühne si sviluppa in maniera simbiotica 40 rispetto all’ambiente che lo circonda sia in virtù della forma sinuosa, che in qualche modo richiama le curve delle alture, sia per il colore, non lontano da quello della pietra. Inoltre, l’affaccio panoramico sul fiordo crea una cornice suggestiva per l’esperienza artistica che si sta per compiere. Il significato dell’opera, in qualche modo intuibile – anche se forse varrebbe la pena specificarlo con un’apposita segnaletica o un sintetico pannello esplicativo –, si ricollega alla tradizione musicale locale, basata su un’armonia a cinque toni. Lo spazio sottostante a ciascuna cupola, infatti, genera effetti acustici e suoni diversi, che vanno liberamente sperimentati dai visitatori, fino a comporre un’ideale sinfonia da dedicare alla silenziosa natura circostante. Tvísöngur non è una sperimentazione Lukas Kühne, Tvísöngur (2012) isolata sul tema, da parte dell’artista, Seydisfjördur, Iceland ma rientra in un progetto più ampio, sito web. www.lukaskuehne.com che comprende una serie di installazioni inaugurata con Cromatico, eseguita a Tallin nel 2011 e basata questa volta sull’ordine matematico che, anticamente, veniva visto alle base delle note, così come del movimento dei pianeti. In ogni caso, è sufficiente entrare e lasciarsi trasportare dai giochi acustici che variano tra uno spazio e l’altro. Nonostante il risultato da noi raggiunto non sia stato vocalmente dei migliori e certamente non all’altezza delle composizioni islandesi, fuori dalla struttura, a distanza di qualche metro, abbiamo trovato dei ‘pellegrini dell’arte’, come noi, che ci hanno accolto con un applauso. Ovvio, perché anche questa è l’Islanda. 41 Nèurastenie #Cemento di Silvia Colombo Questo numero di Nèura vuole parlare di natura, ma anche del suo opposto: di ciò che è artificiale e artificioso, necessariamente costruito dall’intervento dell’uomo. Oggi vi suggeriamo un percorso a caccia di un materiale, il cemento, che è stato protagonista della storia costruttiva, ma non solo, del scorso decennio. #Gibellina Nella seconda metà degli anni ottanta Alberto Burri interviene sul territorio di Gibellina – colpita da un terremoto, nel 1968 – dando vita alla sua opera più imponente, il Grande cretto. Con una colata di cemento gettata sopra le macerie delle case crollate, l’artista ha voluto proseguire un percorso già intrapreso, quello dei cretti, facendo coincidere i solchi dell’installazione con l’antico tracciato viario del paese. Un monumento per ricordare la potenza devastante della natura, oggi situato nei pressi del nuovo centro abitato, sorto a qualche chilometro di distanza. Dove e Quando Alberto Burri, Grande Cretto Gibellina (Trapani) Museo del Novecento Orari. lunedì 14.30-19.30 | martedìdomenica 9.30 – 19.30 | giovedì e sabato 9.30-22.30 Ingresso. intero € 5 | ridotto € 3 | gratuito ogni giorno a partire da due ore prima della chiusura del Museo e ogni martedì dalle ore 14 Gallerie d’Italia (Cantiere del Novecento) Orari. martedì-domenica 9.30-19.30 (ultimo ingresso 18.30) | giovedì 9.30-22.30 (ultimo ingresso 21.30) Ingresso libero sito web. www.museodelnovecento. org | www.gallerieditalia.com #Como #Milano Uno degli artisti che, nell’età contemporanea, ha lavorato di più a contatto con il cemento è Giuseppe Unicini. Le sue opere, ottenute da una gittata di calcestruzzo all’interno di casseforme – dove talvolta si trova anche una struttura armata, poi visibile nella versione finale –, una volta appese appese al muro diventano lacerti di cemento. Sono composizioni studiate di contemporaneità progettata, vissuta e, infine, contemplata che potete trovare, a Milano, al Museo del Novecento e alle Gallerie d’Italia. 44 Dove e quando Museo del Novecento – Gallerie d’Italia (Cantiere del Novecento), Milano (collezione permanente) Info e contatti Eseguita negli anni trenta – più precisamente in vista della VI Triennale (1936) di Milano – e frutto della collaborazione tra l’architetto Cesare Cattaneo e l’artista Mario Radice, la Fontana monumentale di Como è uno dei più noti esempi di arte razionalista, concepita nel periodo il regime. Il monumento che si ammira oggi al centro di piazza della Camerlata, in realtà, è una ricostruzione postuma, avvenuta negli anni sessanta, di un’opera andata distrutta immediatamente dopo l’esposizione. Tuttavia il progetto della fontana – una struttura composta dalla successione alternata tra vuoti e pieni, anelli e sfere – è ancora chiaramente leggibile. Dove e quando Fontana monumentale Piazza Camerlata, Como Info e contatti sito web. www.lombardiabeniculturali.it/ architetture/schede/3m080-00016/ 45 #Ronchamp Le Corbusier, negli anni cinquanta, ha costruito uno dei capolavori in cemento più poetici della storia dell’architettura, riuscendo a mettere in piedi una delle prime opere di arte sacra contemporanea più significative. Si tratta della cappella di Notre-Dame du Haut, a Ronchamp – località della Francia orientale –, terminata nel 1955 ma consacrata solo di recente, cinquant’anni dopo. La struttura ad aula unica, coperta da una volta a guisa di vela, è completamente costruita in cemento, che si interrompe solo in corrispondenza di feritoie sulle pareti laterali, fonti di luce naturale per gli spazi interni. Dove e Quando Colline de Bourlémont, Ronchamp Chapelle de Notre-Dame du Haut per gli ebrei assassinati d’Europa (o Memoriale dell’Olocausto) di Peter Eisenman. Nonostante le polemiche, il monumento costituisce oggi un risarcimento morale che la città di Berlino si è sentita di compiere nei confronti del popolo ebraico, in seguito ai traumatici fatti della Seconda guerra. Il memoriale, sorto tra il 2003 e il 2004 su un intero isolato prima occupato dalle proprietà di Goebbels, è composto da quasi tremila stele in calcestruzzo, della forma di piloni squadrati che, insieme, costituiscono un percorso disorientante per il visitatore invitato a entrare al loro interno. Dove e quando Peter Eisenman, Memoriale dell’Olocausto Berlino Info e contatti Ingresso libero sito web. www.eisenmanarchitects.com Info e contatti Orari. aperto tutti i giorni dell’anno, tranne il primo gennaio | 1° aprile – 31 ottobre 9-19 | 1° novembre – 31 marzo 10-17 | ultimo ingresso: 15 minuti prima della chiusura Ingresso. adulti € 8 | studenti (meno di 26 anni con un documento) € 6 | bambini (8-17 anni) € 4 Sito web. www.collinenotredameduhaut.com #Berlino Nel cuore della capitale tedesca, vicino alla Porta di Brandeburgo, sorge uno dei monumenti più suggestivi (insieme al Museo ebraico di Libeskind) della nostra contemporaneità: il Memoriale 46 47 Appuntamento con Nèura Magazine a ottobre. Intanto, continuate a seguire le news flash dal mondo dell’arte sul nostro sito. www.neuramagazine.com
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