DAL MARE AL PIATTO: PESCA ARTIGIANALE E PESCA INDUSTRIALE A CONFRONTO APPUNTI PER STUDENTI- prof.ssa FRAGONAS Anno Scolastico 2013/2014 Per classificare i differenti tipi di pesca si possono utilizzare diversi criteri, ad esempio: attiva e passiva, in relazione alla modalità di cattura; pelagica e costiera, in relazione al tipo di ambiente in cui si effettua e conseguentemente al tipo di dominio (planctonico o bentonico) a cui appartiene la specie bersaglio; industriale e artigianale, in relazione ai quantitativi del pescato e alle dimensioni degli attrezzi impiegati (la pesca artigianale impiega imbarcazioni di stazza lorda inferiore alle 10 tonnellate). Secondo la normativa vigente si definisce PESCA MARITTIMA ogni attività diretta a catturare esemplari di specie il cui ambiente abituale o naturale di vita siano le acque marine. Il criterio di definizione dei vari tipi di pesca, secondo la legge italiana, è stabilito in base alla dimensione del natante, ricorrendo all’ unità di misura della capacità di carico di una nave, cioè TONNELLATE DI STAZZA LORDA (tonnage). Nota: La “stazza” è correlata ai volumi interni di una nave. Si distinguono: “stazza netta”: che rappresenta il volume degli spazi di una nave destinati ai passeggeri e/o al carico “stazza lorda”: che rappresenta invece il volume degli spazi chiusi di una nave. L’unità di volume della stazza sono le “tonnellate di stazza” che fanno riferimento ad una misura inglese, cioè 100 piedi cubici inglesi, corrispondente a 2,832 m 3. L’attuale normativa definisce pertanto: Pesca oceanica: si esercita oltre gli stretti con navi di grossa stazza Pesca mediterranea o d’altura: si esercita nelle acque del Mar Mediterraneo con navi non inferiori alle 30 tonnellate di stazza lorda Pesca costiera, a sua volta suddivisa in: Pesca costiera locale che si esercita fino ad una distanza di 6 miglia dalla costa con navi fino a 30 tonnellate di stazza lorda Pesca costiera ravvicinata che si esercita fino ad una distanza di 40 miglia dalla costa con navi di stazza lorda media Piccola pesca si esercita con barche non superiori alle 10 tonnellate di stazza lorda, che generalmente sono abilitate solo all’uso di alcuni attrezzi da pesca Nota: 1 miglio nautico vale 1,852 metri Dal punto di vista dell’impatto ambientale e dell’importanza socioeconomica, distinguere l’attività di pesca in PESCA INDUSTRIALE e PESCA ARTIGIANALE. possiamo Caratteristiche della pesca artigianale (vi appartengono sia la piccola pesca che la pesca costiera locale): si pratica lungo le coste le navi sono piccole (meno di 16 m di lunghezza) equipaggio di 2-3 pescatori tipica artigianale si fanno uscite in mare che durano da 1 a max 3 giorni Il pesce viene consegnato presto al mercato. Le tecniche impiegate sono di diverso tipo: reti a circuizione, reti da posta, nasse, sciabiche e draghe (per i molluschi), fiocine, palangari, reti, etc E’ una pesca che fornisce un’ampia varietà di prodotto, perché le coste sono abitate da comunità con elevato indice di diversità di specie. Non ci si spinge oltre le 12 miglia dalla costa E’ una pesca molto selettiva e poco impattante nell’ambiente Caratteristiche della pesca industriale (vi appartengono sia la pesca d’altura che la pesca oceanica. Si praticano con navi più grandi (fino a 200 tonnellate di stazza lorda per la pesca d’altura e dalle 400 a oltre 2000 TSL per la pesca oceanica) Molto meccanizzata (sono presenti celle frigorifere, sistemi di scandaglio etc) Le navi possono stare in alto mare per 10-15 giorni L’equipaggio è numeroso (fino a 15 persone) In particolare le navi da pesca oceaniche sono vere e proprie fabbriche naviganti. Le uscite in mare possono durare da 2 a 4 mesi. Le navi sono grandi, misurano circa ottanta metri di lunghezza. A bordo hanno a disposizione dei grandi congelatori dove spesso mettono il pesce anche già diviso in filetti prima di essere congelato. Successivamente sarà venduto alle fabbriche per poi essere trasformato. Pesca industriale e pesca artigianale hanno un diverso impatto sull’ambiente marino. La pesca artigianale viene praticata con piccole imbarcazioni e rappresenta una grande risorsa anche dal punto di vista della sostenibilità economica ed ecologica del settore pesca. Il pesce dovrebbe essere pescato con tecniche adatte all’habitat marino in cui si trova, tecniche che non danneggino in modo permanente il fondale ed evitino il più possibile le catture accidentali e i rigetti. I sistemi artigianali impiegati sono generalmente altamente selettivi e non provocano disequilibri fra le specie, sono molto più rispettosi della ricchezza e biodiversità dei territori. I pescatori infatti obbediscono alle leggi della natura e dell’acqua piuttosto che all’imperativo economico di massimizzare il profitto, che è invece alla base della pesca industriale. La pesca industriale invece pratica un vero e proprio saccheggio del mare. I suoi sistemi di pesca sono poco o per niente selettivi e infatti è responsabile della maggior parte delle catture e dei rigetti in mari di specie prive di interesse commerciale. Dal punto di vista socioeconomico, e’ stato calcolato che complessivamente, nel mondo, il settore della pesca fornisce lavoro a 55 milioni di persone ed e' all'origine di 150 milioni di posti di lavoro indiretti. Ma, secondo uno studio della FAO, la pesca industriale fa lavorare in media solo 200 persone per 1000 tonnellate di pesce catturato, mentre con i metodi artigianali alla stressa quantità di pescato vengono impiegati 2400 addetti, mentre viene consumata una minor quantità di carburante. (tratto da: AAVV: la gestione della pesca marittima in Italia, CNR; www.sloofish.org; Greco e Scaffidi, Guarda che Mare, Slow Food Editore) I METODI DI PESCA L’attività di pesca è un’attività antica. Le attrezzature utilizzate da pescatori, in particolare quelli che praticano la pesca artigianale, sono molto diverse, ideate e migliorate nel corso dei secoli e adeguate alle caratteristiche delle specie da catturare. Esistono attrezzi che devono essere calati in profondità per le specie che vivono in stretto contatto con il fondo, come naselli, triglie, scampi, gamberi, polpi e seppie. Altre reti sono realizzate ed armate per pesci pelagici, come alici e sardine, quindi sono manovrate dai pescatori in modo da non agire sui fondali. La tecnologia ha migliorato e aiutato i pescatori nel rendere più efficace l’attività di pesca e infatti gli attrezzi oggi sono diventati sempre più efficaci nel catturare i pesci. Sonar e ed ecoscandagli hanno aumentato la possibilità di individuare i banchi, facendo risparmiare ai pescatori tempo, fatica e quindi denaro. La tecnologia quindi, ha aumentato di molto le capacità di cattura, e di riflesso ha anche migliorato le condizioni di lavoro, la sicurezza e la qualità della vita delle persone che esercitano questo mestiere. Inoltre negli ultimi anni è presente una maggiore sensibilità nei confronti dei problemi ambientali, per cui anche nello sviluppo di nuovi metodi di pesca si tiene ben presente il loro impatto sulle risorse e sull’ambiente. Per questo ogni attrezzo da pesca è soggetto ad una regolamentazione per legge che ne fissa limiti costruttivi, caratteristiche di armamento, zone, tempi in cui può essere usato e spesso specie bersaglio verso le quali può essere usato. In generale gli attrezzi da pesca li possiamo classificare in : attivi: sistemi di pesca generalmente trainati dalle imbarcazioni e che tendono a inseguire le prede (ad esempi reti a strascico, reti a circuizione, sciabiche); passivi: sistemi di pesca che rimangono immobili in mare, in attesa che il pesce nei suoi movimenti vi incappi e vi resti prigioniero (ad esempio palangaro, reti da posta, nasse); La rete da pesca. La figura del pescatore è per tradizione associata alla rete da pesca. La rete è un tessuto molle formato da fili incrociati e annodati tra loro in modo da formare degli spazi di una stabilita grandezza (maglia). Di solito le reti vengono costruite in panni rettangolari che vengono poi assemblati per costruire gli “attrezzi” o mestieri da pesca. La larghezza della maglia della rete contribuisce a determinare la “selettività” di un attrezzo da pesca. I MESTIERI DELLA PESCA PESCA A STRASCICO: Lo strascico è l’attività di pesca maggiormente utilizzata in Italia, sia per rilevanza economica che per quantitativo di catture. Viene svolta da un singolo motopeschereccio che traina una specifica rete mantenuta aperta per mezzo di divergenti e munita di un lungo sacco a maglie più fitte. Il prodotto viene così catturato dal progressivo avanzamento della rete verso il banco. L’azione di traina viene svolta a ridosso del fondale. Conseguenza di tale azione è la cattura di specie tipicamente bentoniche quali pesci piatti, crostacei, molluschi cefalopodi e altri pesci che vivono a stretto contatto con il fondale. Questo tipo di pesca è spesso stato messo sotto accusa: nello strascico di fondo, il contatto della rete con il fondale provoca infatti una sorta di raschiamento. Spesso dentro la rete finisce anche una grande quantità di fango, sabbia, pietrisco, concrezioni e rifiuti che tra l’altro possono interferire con la qualità del pesce pescato perché ne causano lo schiacciamento e la morte per asfissia, comportando il deterioramento soprattutto degli individui più piccoli e giovani. La pesca a strascico, per niente selettiva rispetto alle specie target che si vogliono pescare, ha quindi un forte impatto ambientale ed è responsabile di molte catture accidentali. E’ stato stimato infatti che ad ogni 0.5 kg di pescato possono corrispondere fino a 5-50 kg di scarto. Per proteggere molti ecosistemi presenti nel Mar Mediterraneo, come ad esempio le praterie di Posidonia, la pesca a strascico è vietata sottocosta, al di sotto delle 3 miglia e in acque dove la profondità è minore di 50 m. PESCA A CIRCUIZIONE: La pesca a circuizione è un tipo di pesca pelagica con la quale si pescano sia piccoli pesci pelagici come sardine e acciughe che i grandi pelagici come i tonni. La rete usata per questo tipo di pesca presenta a livello della lima dei piombi degli anelli di ferro attraverso i quali passa un cavo di acciaio per la chiusura della rete. Quando la rete viene chiusa e quindi recuperata, assume la forma di un grosso sacco all’interno del quale si trova il pesce che in precedenza era stato richiamato all’interno della rete e quindi circondato. La cattura dei piccoli pelagici viene condotta di solito di notte e le imbarcazioni sono dotate di grosse lampade la cui luce ha lo scopo di attirare i banchi di pesce da catturare. Come detto anche i tonni possono essere pescati con il sistema a circuizione. In questo caso le reti vengono caricate a bordo di grandi motopescherecci. Le reti impiegate sono lunghe fino a 1.700 m e alte fino a 400 m. Questo tipo di pesca si effettua di giorno e i banchi di tonni vengono individuati o a vista dal coffista (marinaio che sta di vedetta sulla coffa) o con l’ausilio di elicotteri o piccoli aerei che segnalano via radio la posizione dei banchi avvistati. Questo tipo di pesca è chiamato anche TONNARA VOLANTE, ed è praticato d’estate nel basso Adriatico e sulla costa salernitana. Nell’Adriatico – e anche nella marineria di Trieste - si pratica la pesca con lampara o saccaleva. Per questo tipo di pesca si sfrutta il naturale fototropismo di alcune specie ittiche che vengono attirate grazie a piccole imbarcazioni dotate di potenti lampade che attirano appunto il pesce mentre contemporaneamente un’altra imbarcazione getta la rete che viene chiusa attorno al banco di pesce. A Trieste questo tipo di pesca viene impiegata nei mesi tardo autunnali per la cattura delle mormore, quando vengono a stazionare nelle zone costiere. L’uso delle LAMPARE è diffuso per la pesca dei piccoli pelagici (sardine, acciughe, sgombri) da maggio a settembre, con impiego notturno. PESCA CON RETI DA POSTA FISSE : Per questo tipo di pesca l’uso della rete è passivo. Le reti da posta sono quelle destinate a recingere o sbarrare spazi acquei, allo scopo di catturare pesci, crostacei, molluschi che vi incappano. Hanno forma rettangolare e, in assenza di corrente, si dispongono in acqua in senso verticale grazie all’azione combinata di galleggianti posti sulla lima superiore e di piombi su quella inferiore. I galleggianti spingono la parte superiore verso l’alto ed i piombi verso il fondale. Le reti da posta possono pescare in superficie, a mezz'acqua e sul fondo. L’altezza della rete può variare da un minimo di 1,5 m ad alcuni metri, così come anche la lunghezza può essere variabile fino ad alcuni km. Generalmente la rete impiegata è detta tremaglio in quanto è formato da tre panni di rete sovrapposte che induce il pesce che vi si imbatte a rimanere impigliato. Questo tipo di attrezzo è considerato abbastanza selettivo e poco impattante per l’ambiente. PESCA CON RETI DA POSTA DERIVANTI: In questo caso le reti vengono calate in mare e lasciate puoi libere di seguire l’ azione delle correnti. La loro presenza è indicata da galleggianti collegati con emettitori di segnali radar. Da alcuni anni l’Unione Europea ha bandito in Europa l’uso delle reti derivanti utilizzate per la cattura del pesce spada, dette “spadare” sia perché accidentalmente catturano specie protette come capodogli e delfini, anche a causa dell’effetto “muro”, - sono alte fino a 20 m e possono essere lunghe decine di km - sia perché operano vicino alla superficie provocando incidenti alla navigazione. Le spadare – usate ancora oggi, ma in modo illegale – sono responsabili della strage di delfini, capodogli e tartarughe marine nei nostri mari. E’ invece consentito l’uso della “ferrettara”, una rete derivante più selettiva in quanto ha un’apertura della maglia più piccola (circa 10 cm contro i 40 cm della spadara), non può superare una lunghezza di 2,5 km e non può essere usata entro le tre miglia dalla costa. Anche il tipo di pesce che può essere catturato con questo tipo di rete è regolamentato. E’ consentita la cattura di acciughe, sgombri, palamiti, cefali, tombarelli etc. PESCA CON PALANGARI: i palangari (detti anche palamiti o palangresi) sono mestieri tipici della piccola pesca. Il palangaro è un attrezzo da pesca formato da un insieme di ami (fino ad alcune migliaia) collegati ad intervalli regolari ad un unico filo di sostegno chiamato “trave” disposto sempre in senso orizzontale, mediante lenze verticali chiamate “braccioli”. A seconda del tipo di preda che si intende catturare, possono variare lo spessore delle lenze, le dimensioni degli ami e il tipo di esca. Le esche naturali sono costituite principalmente da pesci o cefalopodi. I palangari possono montare fino a parecchie centinaia di ami e possono essere lunghi anche fino ad alcuni chilometri. Possono essere calati sul fondo marino (palangari di fondo), opportunamente zavorrati, o, con varie combinazioni di galleggianti e pesi, disposti a mezz'acqua o in superficie (palangari derivanti). In generale, se usati sul fondo o in prossimità di esso, assicurano la cattura specie demersali pregiate come naselli, di saraghi, dentici, orate, cernie, gronghi, rombi, razze etc, mentre in superficie permettono la cattura di grandi pelagici come i tonni e i pesci spada (soprattutto nel Mar Tirreno) etc. Questo attrezzo è abbastanza selettivo e poco impattante, sebbene può succedere che alcuni grossi animali marini rimangano impigliati negli ami. PESCA CON DRAGA IDRAULICA O TURBOSOFFIANTE : sono attrezzi utilizzati per la pesca dei molluschi bivalvi, in particolare di vongole, cannolicchi e fasolari, che vivono adagiati o affossati nel sedimento. La draga vera e propria è costituita da una gabbia di completamente metallica a forma di parallelepipedo nel cui interno vengono iniettati getti d’acqua a pressione (draghe turbosoffianti) che agevolano sia la penetrazione dell’attrezzo nel sedimento che la fuoriuscita di materiale come sabbia o fango che la possono intasare. Le draghe sono fissate alla poppa della barca tramite un argano e penetrano nel fondo marino per raccogliere, avanzando tutti gli organismi presenti nel substrato. La pesca con la turbo soffiante è un sistema fortemente impattante sull’ambiente marino, dal momento che ara i fondali sabbiosi e cattura senza selezione tutti gli organismi che vi abitano. Questo sistema di pesca è in uso anche presso la marineria di Grado. PESCA CON NASSE E TRAPPOLE: le nasse sono delle trappole che vengono calate sul fondo spesso con un’esca attirante all’interno e recuperate poi in un secondo momento. Sono attrezzi di antichissima tradizione, costruite con vari materiali come ferro, legno, vimini, plastica, utilizzati sia in acqua dolce (come i cogoli e i bertovelli) usati per la cattura delle anguille, sia in mare per la pesca dei crostacei (gamberi, canocchie, aragoste e astici) e dei molluschi (polpi e seppie), nonché di specie pregiate di alto valore economico (orate, saraghi). A Trieste le nasse sono usate per la cattura di canocchie e seppie. In particolare per la cattura delle seppie, è tradizione usare, come esca le foglie di alloro, sulle quali le seppie vanno a deporre le uova. Oltre ai sistemi che sono stati descritti ve ne sono anche altri, usati per esempio in ambienti come le lagune, (a Grado ad esempio) quali ad esempio la bilancia e il lavoriero. La bilancia è una rete da posta, di forma quadrangolare, in genere viene posta lungo dei canali di laguna che sono attraversati da pesci. La rete, a intervalli di alcuni minuti viene calata in acqua fino a toccare il fondo. Poi, attraverso un argano, viene sollevata. Nelle maglie della rete, a seconda della stagione, rimangono intrappolate le anguille, i cefali, i sardoni, etc, ma anche i branzini granchi e gamberi di laguna in quantità. Il lavoriero invece è una struttura fissa a forma di cuneo, con una camera di cattura posta ad una estremità, che viene posizionata nei canali di comunicazione tra una valle di laguna e il mare. Questa struttura, grazie alla sua forma consente di raccogliere i pesci in migrazione “inviati” nelle camere di cattura. Può essere usato sia per ripopolare la laguna che per raccogliere il pesce di laguna maturo, quando questo è pronto per migrare verso il mare. (bibliografia: AAVV Un mare di risorse, Uniprom; AAVV La gestione della pesca marittima in Italia CNR ed.; Greco et al. Guarda che mare Slow food editore; Grim et al. La pesca in Friuli Venezia Giulia Ed. Italo Svevo) DAL MARE AL PIATTO: PESCA E AMBIENTE APPUNTI PER STUDENTI - (spunti di riflessione) 1. Il PROBLEMA DELLA PESCA ECCESSIVA Gli studi svolti nell’ambito della scienza della pesca, disciplina sviluppatasi nel corso del secolo scorso, hanno dimostrato la fragilità delle popolazioni ittiche soggette a pesca. Quando le catture dei pescherecci sono eccessive, il numero di nuovi nati che riesce a raggiungere l’età della riproduzione si riduce costantemente nel tempo e come conseguenza si ha una continuo calo della capacità di rinnovamento delle popolazioni. Se la pesca non viene ridotta a livelli sostenibili, tali da garantire ogni anno la presenza di una componente sufficiente di riproduttori, si arriva a un punto di non ritorno in cui il numero di nuovi nati è troppo limitato, la riproduzione fallisce, e la popolazione crolla di dimensioni o semplicemente si estingue. Rispetto alla scala del pianeta, sono in funzione il doppio dei pescherecci rispetto a quelli che consentirebbero uno sviluppo sostenibile e armonioso del settore. Alcuni di questi pescherecci sono vere e proprie industrie in mare aperto. Utilizzano sonar, aerei e piattaforme satellitari per individuare i banchi di pesce, su cui si calano poi con reti derivanti lunghe parecchie chilometri o lenze dotate di migliaia di ami. Sono in grado di trattare i pesci pescati, congelarli e imballarli. I pescherecci più grandi, che arrivano a 170 m di lunghezza, hanno una capacità di stoccaggio in mare equivalente a diversi Boeing 747. Le navi più grosse e più lontane dalla pesca sostenibile sono quelle dell’ex-Urss, in particolare della Federazione Russa e dell’Ucraina, quelle che navigano sotto bandiere ombra come Belize o Panama, o ancora le navi pirata senza bandiera registrata, molte delle quali provengono dalle flotte della Federazione Russa, del Giappone, del Belize, di Panama e dell’Honduras. Il problema della sovrappesca nasce dal fatto che al di fuori delle prime 200 miglia nautiche che si snodano lungo il litorale di un paese (zona di esclusività economica di quel paese), l’accesso alle risorse non è regolamentato. Così, chiunque disponga di un’imbarcazione può andare a pescare e sfruttare le risorse marine. Il fattore tecnologico Fino a qualche decennio fa l’equilibrio tra quanto prodotto dagli ecosistemi e quanto prelevato dagli uomini poggiava sul raggio d’azione ridotto delle attività umane: le zone di pesca erano circoscritte al litorale costiero (a distanza) e a tutto o a parte della piattaforma continentale (in profondità). Tuttavia, dagli anni Cinquanta in poi, l’industrializzazione ha reso possibile lo sfruttamento di zone geografiche fino a quel momento inaccessibili. La meccanizzazione degli arnesi da pesca, il miglioramento dei mezzi di trazione e l’intensificarsi delle attività hanno portato a un eccessivo e cronico sfruttamento dei mari e degli oceani. Ormai è ampiamente riconosciuto che la diffusione della pesca industriale ha coinciso con il progressivo degrado delle risorse ittiche, mentre la pesca artigianale esiste e continua a essere praticata da migliaia d’anni. Il fattore giuridico A partire perlomeno dal XVII secolo, è il principio di libertà ad avere dominato il diritto del mare, di origine prevalentemente consuetudinaria: il mare e gli oceani sono aperti a tutti e non appartengono a nessuno, ad eccezione di una stretta fascia lungo la costa dove lo stato rivierasco esercita una piena sovranità (3 miglia marine nel XVII secolo, il che equivaleva alla gittata di una palla di cannone). Gli spettacolari progressi e i rischi associati alle attività umane hanno fatto sì che nel corso del XX secolo si moltiplicassero le rivendicazioni spesso concorrenti sui mari. Questa circostanza ha spinto la comunità internazionale a dotarsi di un regime comune, basato sul principio della libertà dei mari. Da una ventina d’anni si sono adottati strumenti giuridici e piani d’azione al fine di stabilire una governance dei mari e degli oceani. La firma, nel 1982, della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS) ha segnato il primo passo politico significativo verso l’idea che gli oceani sono patrimonio comune dell’umanità. Entrata in vigore nel 1994, la convenzione è stata ratificata ad oggi da 160 stati sui 190 circa che fanno parte della comunità internazionale. L’accordo definisce i limiti della giurisdizione degli stati sull’oceano, l’accesso al mare, la navigazione, le ricerche scientifiche, la protezione dell’ambiente marino, lo sfruttamento delle risorse viventi, lo statuto legale delle risorse dei fondi oceanici nelle acque internazionali e il regolamento dei conflitti. La maggior parte dei paesi industrializzati l’ha ratificata, ad eccezione degli Stati Uniti. Secondo il diritto del mare, le aree costiere sono costituite da una zona che si estende a 12 miglia marine al largo delle coste degli stati (zona di sovranità territoriale) e di una zona detta di esclusività economica (ZEE), che si estende a 200 miglia (370 km) al largo delle coste. In quest’ultima lo stato rivierasco dispone di «diritti sovrani ai fini dell’esplorazione e dello sfruttamento, della conservazione e della gestione delle risorse naturali, delle acque sopra i fondi marini, dei fondi marini e dei loro sottosuoli». Lo stato rivierasco, quindi, può regolamentare l’attività di pesca, in particolare fissare il volume autorizzato di catture, e concludere accordi commerciali con altri stati e operatori della pesca. Va detto che spesso la pesca illegale viene praticata anche nelle zone ZEE di paesi poveri, come gli stati occidentali dell’Africa, che non dispongono di sufficienti mezzi per pattugliare le proprie acque, e vengono così scippati di importanti risorse che sono alla base della loro economia di sussistenza. Al di là del limite di 200 miglia cominciano le acque internazionali, che rappresentano circa il 64% della superficie degli oceani. Queste acque corrispondono all’80% della biosfera del pianeta e comprendono vasti ambienti oceanici e abissali, che sono tra le zone meno esplorate e documentate della Terra. Nelle acque internazionali la libertà di pesca è condizionata alla disponibilità di tutti gli stati interessati a cooperare al fine di garantire la tutela e la sana gestione degli stock ittici ed è qui che si pratica la pesca illegale. Infine, la zona internazionale dei fondi marini comincia là dove sprofondano le piattaforme continentali. Questa zona sfugge a qualsiasi appropriazione. «Bene comune», deve essere utilizzata «a fini esclusivamente pacifici» e sfruttata «nell’interesse dell’umanità intera». Peraltro, l’adozione nel 1995 di un accordo sullo sfruttamento delle specie migratrici e di un Codice di condotta per la pesca responsabile dimostra che molti paesi iniziano a prendere sul serio la minaccia che grava sulle risorse viventi delle acque internazionali. A livello pratico l’onere di rendere operativi questi e altri fondamentali strumenti giuridici compete agli organismi regionali di gestione della pesca (diciassette, attualmente, per la maggior parte istituiti dopo la seconda guerra mondiale). Ma, poiché si tratta di organismi volontari, poiché gli interessi economici sono spesso più potenti della volontà politica di tutelare l’ambiente, poiché le zone da controllare sono immense e la mancanza di mezzi è sistematica, tali istituzioni sono nella maggior parte dei casi considerate come molto deficitarie. Il risultato è che gli strumenti internazionali esistenti, non applicati in maniera coordinata, stentano a rispondere agli obiettivi per cui sono stati concepiti. Il fattore economico Nel suo rapporto sulla svendita degli oceani, basato su dati forniti dall’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica, dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente e dall’Unione Europea, Greenpeace ha analizzato i riflessi dell’apertura dei mercati sull’evoluzione a lungo termine delle risorse ittiche e sui ritorni economici della pesca in alcuni paesi. La conclusione è chiara: la riduzione dei diritti di dogana ha dopato le esportazioni e, in poco tempo, ha determinato uno sfruttamento eccessivo e drammatico degli stock di pesce con valore commerciale. Risultato: ecosistemi marini demoliti e sicurezza alimentare locale minacciata. Molti ambientalisti e analisti del settore ritengono che sia necessario quanto prima rafforzare la regolamentazione e gestire la pesca in maniera rigorosa e puntuale, per esempio devono abbandonando immediatamente i piani di liberalizzazione selvaggia del mercato della pesca, perché l’eccessivo sfruttamento delle risorse che ne deriva ha conseguenze sociali e ambientali gravissime. 2. Lo stato dei mari: gli impatti ambientali delle attività dell’uomo Industrializzazione, urbanizzazione, deforestazione, agricoltura intensiva, utilizzo indiscriminato di suolo e acqua sono i fattori di pressione che rappresentano la maggior fonte di rischio per gli ecosistemi marini e d’acqua dolce. La pesca indiscriminata e prolungata nel tempo si somma agli effetti provocati dall’inquinamento antropico, dalla presenza di microinquinanti organici persistenti come i pesticidi, di scarichi di sostanze organiche e di sversamenti accidentali di idrocarburi: il degrado delle risorse marine e degli ecosistemi in cui queste vivono comporta effetti negativi sull’ambiente e, quindi, sulla salute stessa dell’uomo, in primo luogo per quelle popolazioni già in difficoltà per le quali la pesca è una delle uniche fonti di sostentamento. I cambiamenti che negli ultimi decenni stanno interessando le condizioni climatiche del Pianeta influenzano anche gli oceani, innalzando la temperatura della loro superficie, oltre che il livello degli oceani stessi (a causa dello scioglimento dei ghiacciai), alterandone la salinità e i flussi circolatori delle correnti. Tutti questi cambiamenti comportano degli impatti anche sulla produttività degli ecosistemi acquatici a cui si aggiunge la pressione esercitata dall’attività della pesca. Le reti a strascico ne sono un esempio: utilizzate per la cattura della maggior parte delle specie ittiche commercializzate, esse prelevano continuamente grandi quantità di pesce (di cui molto rigettato morto in mare perché di scarso interesse economico), insieme a tutti gli organismi marini animali e vegetali che incontrano. I grandi pescherecci, anno dopo anno, trascinano queste reti sempre nelle stesse aree, desertificandone i fondali marini e riducendo le riserve ittiche al di sotto della loro capacità di sopravvivenza. Inoltre, molte delle reti utilizzate dall’industria della pesca vengono danneggiate durante l’attività e talvolta si strappano dall’imbarcazione diventando “reti fantasma”, come dei corpi fluttuanti nei mari, estremamente pericolosi per gli animali che le incontrano: trasparenti e molto resistenti diventano delle trappole capaci di ferire mortalmente le loro vittime. I rigetti Si chiamano rigetti tutte le forme di vita marina pescate diverse dalle prede intenzionali. Sono “scarti”, comprendono gli esemplari della specie ricercata la cui taglia non è conforme, più altre specie che non si mangiano o non hanno mercato, specie vietate o a rischio d’estinzione, come certi uccelli, le tartarughe e i mammiferi marini. Alcuni pesci sono rigettati unicamente perché il peschereccio non ha la licenza per portarli a terra, perché non c’è spazio sull’imbarcazione o perché non sono della specie che il capitano ha deciso di catturare. Tutti, e parliamo di MILIONI DI TONNELLATE di pesce, sono rigettati in mare, morti o feriti. Al di là della pressione sulle specie, si tratta di uno spreco enorme di cibo, sia per il consumo umano, sia per quello dei predatori marini. Un recente rapporto del WWF stima che i rigetti siano il 40% del totale del pescato e precisa che in molti casi si tratta di esemplari giovani. È facile comprendere le drammatiche conseguenze sulla capacità delle specie di riprodursi e rigenerare gli stock Il caso del mercurio e il bioaccumulo: Gli organismi vegetali e animali che vivono nelle acque dolci e salate si trovano a fronteggiare anche le forme di inquinamento più subdole derivanti dalle attività industriali, quelle che non si vedono e che il metabolismo di batteri e animali non è capace di distruggere: le molecole di sintesi, come i pesticidi, i PCB, i metalli pesanti, danno origine al bioaccumulo, fenomeno cui gli animali che assumono accidentalmente pesticidi, non sapendo degradare queste sostanze, si difendono “accumulando” le molecole tossiche nel proprio organismo per non farle più circolare. Il mercurio, ad esempio è un metallo estremamente tossico, persistente e volatile, liberato nell’ambiente da processi naturali (eruzioni vulcaniche, incendi, giacimenti minerari) ma soprattutto da attività antropiche quali la combustione del carbone per produrre elettricità, l’estrazione di metalli come oro e argento e lo smaltimento incontrollato di prodotti industriali contenenti mercurio (batterie, prodotti a base di cloro e di soda caustica). Il mercurio è l’unico metallo che a temperatura ambiente si trova allo stato liquido e, una volta trasportato dalle acque di fiumi e laghi ha la capacità di passare velocemente dagli oceani all’atmosfera e farsi trasportare per migliaia di chilometri per poi precipitare nuovamente nei corsi d’acqua e nei mari, dove alcuni batteri lo metabolizzano, lo trasformano cioè in una forma molto tossica, il metilmercurio. Il metilmercurio viene assorbito nei tessuti grassi dei pesci che si nutrono dei batteri che hanno catturato e trasformato il mercurio: così questo metallo inizia il percorso attraverso la catena trofica, concentrandosi sempre di più nei tessuti degli animali, fino ad arrivare ai grossi pesci predatori di cui ci cibiamo noi esseri umani, come tonno, pesce spada, luccio, marlin, squalo. Così ad esempio succede che gli abitanti di una cittadina in Groenlandia, hanno raggiunto dei livelli di mercurio nel sangue 12 volte superiori a quelli consigliati dagli organi di controllo, pur non avendo fonti di inquinamento da mercurio nelle vicinanze: foche balene e peci dei mari in cui essi pescano sono ormai contaminati dal metilmercurio che viene a sua volta trasferito e accumulato nei tessuti degli uomini. Lo sfruttamento delle risorse: cosa succede quando si pesca troppo? Per capire che cosa si intende per sovra sfruttamento delle risorse, immaginiamo un antico villaggio con alcuni terreni a disposizione di tutta la comunità per portarvi le proprie vacche al pascolo. Questi pascoli comuni avevano erba a sufficienza poiché tradizionalmente ogni famiglia del villaggio possedeva una sola mucca, in grado di produrre latte e formaggio per tutti. Quando però alcune famiglie capirono che, una volta soddisfatti i propri bisogni alimentari, avrebbero potuto vendere il latte e il formaggio prodotti in più alle cittadine vicine, iniziarono a condurre al pascolo un numero maggiore di vacche. Dopo poco tempo fu chiaro a tutti che il pascolo non poteva fornire sufficiente erba per così tanti animali. Le mucche iniziarono a produrre di meno, poiché l’erba del pascolo non era più sufficiente. Di conseguenza, per poter vendere la stessa quantità di latte e formaggi le famiglie aumentarono il numero di vacche da portare al pascolo. Così facendo, il nutrimento per le vacche divenne sempre meno e la situazione divenne insostenibile per tutte le famiglie, ma la maggior parte delle persone diceva: “E’ vero, sui pascoli comuni ci sono troppe mucche, però se togliamo le nostre guadagniamo meno e comunque le bestie degli altri mangeranno l’erba che avrebbero mangiato le nostre. Perché mai dovremmo farlo?”. Il risultato fu che il pascolo divenne un terreno spoglio e eroso, le mucche non avevano più da mangiare e gli abitanti stavano peggio di prima. Se solo avessero stabilito delle regole per utilizzare meglio il pascolo, forse il terreno sarebbe stato in grado di nutrire le loro mucche per molto tempo ancora. La storia del merluzzo è del tutto simile a quella del pascolo comune. Al largo delle coste di Terranova (Canada) la corrente calda del Golfo del Messico incontra quella fredda del Labrador, creando le condizioni per alimentare la catena trofica del merluzzo. Nel 1497, quando l’esploratore Giovanni Caboto, famoso per aver continuato le esplorazioni iniziate da Cristoforo Colombo, scoprì quelle coste, i merluzzi nuotavano in banchi fitti e numerosissimi. Per secoli costituirono la fonte di nutrimento di molte nazioni e si racconta che a quei tempi bastasse sporgersi dalla barca con una retina per poter catturare decine di merluzzi in una volta sola. Il merluzzo è stato per molti secoli il pesce della tradizione del Venerdì, consumato secco (stoccafisso) o salato (baccalà). A partire dagli anni ’50 il merluzzo veniva pescato con i metodi della pesca industriale: i sistemi radar erano in grado di individuare e permettere la cattura indiscriminata di interi banchi di merluzzo, sostenendo un’economia molto redditizia. Ma a partire dal 1992 la pesca del merluzzo è crollata, diventando economicamente insostenibile. Alcune ricerche hanno dimostrarono che la popolazione dei merluzzi si era assottigliata, ed era poco più del 1% rispetto a quella degli anni ’70. Il Canada mise al bando la pesca al merluzzo, provocando una grave crisi del settore con oltre 40.000 lavoratori privati del proprio mestiere. Ad oggi i merluzzi non si sono ancora ripresi e forse non si riprenderanno mai. Quello dei merluzzi è solo uno degli esempi di specie in pericolo.
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