PESCA ARTIGIANALE E PESCA INDUSTRIALE A CONFRONTO

DAL MARE AL PIATTO: PESCA ARTIGIANALE E PESCA INDUSTRIALE A CONFRONTO
APPUNTI PER STUDENTI- prof.ssa FRAGONAS Anno Scolastico 2013/2014
Per classificare i differenti tipi di pesca si possono utilizzare diversi criteri, ad esempio:
attiva e passiva, in relazione alla modalità di cattura;
pelagica e costiera, in relazione al tipo di ambiente in cui si effettua e conseguentemente al
tipo di dominio (planctonico o bentonico) a cui appartiene la specie bersaglio;
industriale e artigianale, in relazione ai quantitativi del pescato e alle dimensioni degli
attrezzi impiegati (la pesca artigianale impiega imbarcazioni di stazza lorda inferiore alle 10
tonnellate).
Secondo la normativa vigente si definisce PESCA MARITTIMA ogni attività diretta a
catturare esemplari di specie il cui ambiente abituale o naturale di vita siano le acque marine.
Il criterio di definizione dei vari tipi di pesca, secondo la legge italiana, è stabilito in base alla
dimensione del natante, ricorrendo all’ unità di misura della capacità di carico di una nave,
cioè TONNELLATE DI STAZZA LORDA (tonnage).
Nota: La “stazza” è correlata ai volumi interni di una nave. Si distinguono:
“stazza netta”: che rappresenta il volume degli spazi di una nave destinati ai passeggeri e/o al carico
“stazza lorda”: che rappresenta invece il volume degli spazi chiusi di una nave.
L’unità di volume della stazza sono le “tonnellate di stazza” che fanno riferimento ad una misura inglese,
cioè 100 piedi cubici inglesi, corrispondente a 2,832 m 3.
L’attuale normativa definisce pertanto:
Pesca oceanica: si esercita oltre gli stretti con navi di grossa stazza
Pesca mediterranea o d’altura: si esercita nelle acque del Mar Mediterraneo con navi non
inferiori alle 30 tonnellate di stazza lorda
Pesca costiera, a sua volta suddivisa in:
Pesca costiera locale che si esercita fino ad una distanza di 6 miglia dalla costa con
navi fino a 30 tonnellate di stazza lorda
Pesca costiera ravvicinata che si esercita fino ad una distanza di 40 miglia dalla
costa con navi di stazza lorda media
Piccola pesca si esercita con barche non superiori alle 10 tonnellate di stazza lorda, che
generalmente sono abilitate solo all’uso di alcuni attrezzi da pesca
Nota: 1 miglio nautico vale 1,852 metri
Dal punto di vista dell’impatto ambientale e dell’importanza socioeconomica,
distinguere l’attività di pesca in PESCA INDUSTRIALE e PESCA ARTIGIANALE.
possiamo
Caratteristiche della pesca artigianale (vi appartengono sia la piccola pesca che la pesca
costiera locale):
 si pratica lungo le coste
 le navi sono piccole (meno di 16 m di lunghezza)
 equipaggio di 2-3 pescatori
 tipica artigianale si fanno uscite in mare che durano da 1 a max 3 giorni
 Il pesce viene consegnato presto al mercato.
 Le tecniche impiegate sono di diverso tipo: reti a circuizione, reti da posta, nasse,
sciabiche e draghe (per i molluschi), fiocine, palangari, reti, etc
 E’ una pesca che fornisce un’ampia varietà di prodotto, perché le coste sono abitate da
comunità con elevato indice di diversità di specie.
 Non ci si spinge oltre le 12 miglia dalla costa
 E’ una pesca molto selettiva e poco impattante nell’ambiente
Caratteristiche della pesca industriale (vi appartengono sia la pesca d’altura che la pesca
oceanica.
 Si praticano con navi più grandi (fino a 200 tonnellate di stazza lorda per la pesca d’altura
e dalle 400 a oltre 2000 TSL per la pesca oceanica)
 Molto meccanizzata (sono presenti celle frigorifere, sistemi di scandaglio etc)
 Le navi possono stare in alto mare per 10-15 giorni
 L’equipaggio è numeroso (fino a 15 persone)
In particolare le navi da pesca oceaniche sono vere e proprie fabbriche naviganti. Le uscite in
mare possono durare da 2 a 4 mesi. Le navi sono grandi, misurano circa ottanta metri di
lunghezza. A bordo hanno a disposizione dei grandi congelatori dove spesso mettono il pesce
anche già diviso in filetti prima di essere congelato. Successivamente sarà venduto alle fabbriche
per poi essere trasformato.
Pesca industriale e pesca artigianale hanno un diverso impatto sull’ambiente marino.
La pesca artigianale viene praticata con piccole imbarcazioni e rappresenta una grande risorsa
anche dal punto di vista della sostenibilità economica ed ecologica del settore pesca. Il pesce
dovrebbe essere pescato con tecniche adatte all’habitat marino in cui si trova, tecniche che
non danneggino in modo permanente il fondale ed evitino il più possibile le catture accidentali e i
rigetti.
I sistemi artigianali impiegati sono generalmente
altamente selettivi e non provocano
disequilibri fra le specie, sono molto più rispettosi della ricchezza e biodiversità dei territori. I
pescatori infatti obbediscono alle leggi della natura e dell’acqua piuttosto che all’imperativo
economico di massimizzare il profitto, che è invece alla base della pesca industriale.
La pesca industriale invece pratica un vero e proprio saccheggio del mare. I suoi sistemi di pesca
sono poco o per niente selettivi e infatti è responsabile della maggior parte delle catture e dei
rigetti in mari di specie prive di interesse commerciale.
Dal punto di vista socioeconomico, e’ stato calcolato che complessivamente, nel mondo, il
settore della pesca fornisce lavoro a 55 milioni di persone ed e' all'origine di 150 milioni di posti
di lavoro indiretti. Ma, secondo uno studio della FAO, la pesca industriale fa lavorare in media
solo 200 persone per 1000 tonnellate di pesce catturato, mentre con i metodi artigianali alla
stressa quantità di pescato vengono impiegati 2400 addetti, mentre viene consumata una minor
quantità di carburante.
(tratto da: AAVV: la gestione della pesca marittima in
Italia, CNR;
www.sloofish.org;
Greco e Scaffidi, Guarda che Mare, Slow Food Editore)
I METODI DI PESCA
L’attività di pesca è un’attività antica. Le attrezzature utilizzate da pescatori, in particolare quelli che praticano la
pesca artigianale, sono molto diverse, ideate e migliorate nel corso dei secoli e adeguate alle caratteristiche delle
specie da catturare.
Esistono attrezzi che devono essere calati in profondità per le specie che vivono in stretto contatto con il fondo,
come naselli, triglie, scampi, gamberi, polpi e seppie. Altre reti sono realizzate ed armate per pesci pelagici, come
alici e sardine, quindi sono manovrate dai pescatori in modo da non agire sui fondali.
La tecnologia ha migliorato e aiutato i pescatori nel rendere più efficace l’attività di pesca e infatti gli attrezzi oggi
sono diventati sempre più efficaci nel catturare i pesci. Sonar e ed ecoscandagli hanno aumentato la possibilità di
individuare i banchi, facendo risparmiare ai pescatori tempo, fatica e quindi denaro. La tecnologia quindi, ha
aumentato di molto le capacità di cattura, e di riflesso ha anche migliorato le condizioni di lavoro, la sicurezza e la
qualità della vita delle persone che esercitano questo mestiere. Inoltre negli ultimi anni è presente una maggiore
sensibilità nei confronti dei problemi ambientali, per cui anche nello sviluppo di nuovi metodi di pesca si tiene ben
presente il loro impatto sulle risorse e sull’ambiente. Per questo ogni attrezzo da pesca è soggetto ad una
regolamentazione per legge che ne fissa limiti costruttivi, caratteristiche di armamento, zone, tempi in cui può
essere usato e spesso specie bersaglio verso le quali può essere usato.
In generale gli attrezzi da pesca li possiamo classificare in :
attivi: sistemi di pesca generalmente trainati dalle imbarcazioni e che tendono a inseguire le prede (ad esempi reti
a strascico, reti a circuizione, sciabiche);
passivi: sistemi di pesca che rimangono immobili in mare, in attesa che il pesce nei suoi movimenti vi incappi e vi
resti prigioniero (ad esempio palangaro, reti da posta, nasse);
La rete da pesca. La figura del pescatore è per tradizione associata alla rete da pesca. La rete è un tessuto molle
formato da fili incrociati e annodati tra loro in modo da formare degli spazi di una stabilita grandezza (maglia).
Di solito le reti vengono costruite in panni rettangolari che vengono poi assemblati per costruire gli “attrezzi” o
mestieri da pesca. La larghezza della maglia della rete contribuisce a determinare la “selettività” di un attrezzo da
pesca.
I MESTIERI DELLA PESCA
PESCA A STRASCICO: Lo strascico è l’attività di pesca maggiormente utilizzata in Italia, sia per rilevanza
economica che per quantitativo di catture. Viene svolta da un singolo motopeschereccio che traina una specifica
rete mantenuta aperta per mezzo di divergenti e munita di un lungo sacco a maglie più fitte. Il prodotto viene così
catturato dal progressivo avanzamento della rete
verso il banco. L’azione di traina viene svolta a
ridosso del fondale. Conseguenza di tale azione è
la cattura di specie tipicamente bentoniche quali
pesci piatti, crostacei, molluschi cefalopodi e altri
pesci che vivono a stretto contatto con il fondale.
Questo tipo di pesca è spesso stato messo sotto
accusa: nello strascico di fondo, il contatto della rete con il fondale provoca infatti una sorta di raschiamento.
Spesso dentro la rete finisce anche una grande quantità di fango, sabbia, pietrisco, concrezioni e rifiuti che tra
l’altro possono interferire con la qualità del pesce pescato perché ne causano lo schiacciamento e la morte per
asfissia, comportando il deterioramento soprattutto degli individui più piccoli e giovani. La pesca a strascico, per
niente selettiva rispetto alle specie target che si vogliono pescare, ha quindi un forte impatto ambientale ed è
responsabile di molte catture accidentali. E’ stato stimato infatti che ad ogni 0.5 kg di pescato possono
corrispondere fino a 5-50 kg di scarto.
Per proteggere molti ecosistemi presenti nel Mar Mediterraneo, come ad esempio le praterie di Posidonia, la pesca
a strascico è vietata sottocosta, al di sotto delle 3 miglia e in acque dove la profondità è minore di 50 m.
PESCA A CIRCUIZIONE: La pesca a circuizione è un tipo di pesca pelagica con la quale si pescano sia piccoli pesci
pelagici come sardine e acciughe che i grandi pelagici come i tonni. La rete usata per questo tipo di pesca presenta
a livello della lima dei piombi degli anelli di ferro attraverso i quali passa un cavo di acciaio per la chiusura della
rete. Quando la rete viene chiusa e quindi recuperata, assume la forma di un grosso sacco all’interno del quale si
trova il pesce che in precedenza era stato richiamato all’interno della rete e quindi circondato. La cattura dei
piccoli pelagici viene condotta di solito di notte e le imbarcazioni sono dotate di grosse lampade la cui luce ha lo
scopo di attirare i banchi di pesce da catturare. Come detto anche i tonni possono essere pescati con il sistema a
circuizione. In questo caso le reti vengono caricate a bordo di grandi motopescherecci. Le reti impiegate sono
lunghe fino a 1.700 m e alte fino a 400 m. Questo tipo di pesca si effettua di giorno e i banchi di tonni vengono
individuati o a vista dal coffista (marinaio che sta di vedetta sulla coffa) o con l’ausilio di elicotteri o piccoli aerei
che segnalano via radio la posizione dei banchi avvistati. Questo tipo di
pesca è chiamato anche TONNARA VOLANTE, ed è praticato d’estate nel
basso Adriatico e sulla costa salernitana.
Nell’Adriatico – e anche nella marineria di Trieste - si pratica la pesca con
lampara o saccaleva. Per questo tipo di pesca si sfrutta il naturale
fototropismo di alcune specie ittiche che vengono attirate grazie a piccole
imbarcazioni dotate di potenti lampade che attirano appunto il pesce mentre
contemporaneamente un’altra imbarcazione getta la rete che viene chiusa
attorno al banco di pesce. A Trieste questo tipo di pesca viene impiegata nei
mesi tardo autunnali per la cattura delle mormore, quando vengono a
stazionare nelle zone costiere. L’uso delle LAMPARE è diffuso per la pesca
dei piccoli pelagici (sardine, acciughe, sgombri) da maggio a settembre, con impiego notturno.
PESCA CON RETI DA POSTA FISSE : Per questo tipo di pesca l’uso della rete è passivo. Le reti da posta sono quelle
destinate a recingere o sbarrare spazi acquei, allo scopo di
catturare pesci, crostacei, molluschi che vi incappano. Hanno
forma rettangolare e, in assenza di corrente, si dispongono in
acqua in senso verticale grazie all’azione combinata di galleggianti
posti sulla lima superiore e di piombi su quella inferiore. I
galleggianti spingono la parte superiore verso l’alto ed i piombi
verso il fondale. Le reti da posta possono pescare in superficie, a
mezz'acqua e sul fondo. L’altezza della rete può variare da un
minimo di 1,5 m ad alcuni metri, così come anche la lunghezza può
essere variabile fino ad alcuni km.
Generalmente la rete impiegata è detta tremaglio in quanto è
formato da tre panni di rete sovrapposte che induce il pesce che vi
si imbatte a rimanere impigliato. Questo tipo di attrezzo è
considerato abbastanza selettivo e poco impattante per l’ambiente.
PESCA CON RETI DA POSTA DERIVANTI: In questo caso le reti vengono calate in mare e lasciate puoi libere di
seguire l’ azione delle correnti. La loro presenza è indicata da galleggianti collegati con emettitori di segnali radar.
Da alcuni anni l’Unione Europea ha bandito in Europa l’uso delle reti derivanti utilizzate per la cattura del pesce
spada, dette “spadare” sia perché accidentalmente catturano specie protette come capodogli e delfini, anche a
causa dell’effetto “muro”, - sono alte fino a 20 m e possono essere lunghe decine di km - sia perché operano vicino
alla superficie provocando incidenti alla navigazione. Le spadare – usate ancora oggi, ma in modo illegale – sono
responsabili della strage di delfini, capodogli e tartarughe marine nei nostri mari.
E’ invece consentito l’uso della “ferrettara”, una rete derivante più selettiva in quanto ha un’apertura della maglia
più piccola (circa 10 cm contro i 40 cm della spadara), non può superare una lunghezza di 2,5 km e non può essere
usata entro le tre miglia dalla costa. Anche il tipo di pesce che può essere catturato con questo tipo di rete è
regolamentato. E’ consentita la cattura di acciughe, sgombri, palamiti, cefali, tombarelli etc.
PESCA CON PALANGARI: i palangari (detti anche palamiti o palangresi)
sono mestieri tipici della piccola pesca. Il palangaro è un attrezzo da pesca
formato da un insieme di ami (fino ad alcune migliaia) collegati ad
intervalli regolari ad un unico filo di sostegno chiamato “trave” disposto
sempre in senso orizzontale, mediante lenze verticali chiamate “braccioli”.
A seconda del tipo di preda che si intende catturare, possono variare lo
spessore delle lenze, le dimensioni degli ami e il tipo di esca. Le esche
naturali sono costituite principalmente da pesci o cefalopodi. I palangari
possono montare fino a parecchie centinaia di ami e possono essere
lunghi anche fino ad alcuni chilometri. Possono essere calati sul fondo
marino (palangari di fondo), opportunamente zavorrati, o, con varie
combinazioni di galleggianti e pesi, disposti a mezz'acqua o in superficie
(palangari derivanti). In generale, se usati sul fondo o in prossimità di esso, assicurano la cattura specie demersali
pregiate come naselli, di saraghi, dentici, orate, cernie, gronghi, rombi, razze etc, mentre in superficie permettono
la cattura di grandi pelagici come i tonni e i pesci spada (soprattutto nel Mar Tirreno) etc. Questo attrezzo è
abbastanza selettivo e poco impattante, sebbene può succedere che alcuni grossi animali marini rimangano
impigliati negli ami.
PESCA CON DRAGA IDRAULICA O TURBOSOFFIANTE : sono attrezzi utilizzati per la pesca dei molluschi bivalvi,
in particolare di vongole, cannolicchi e fasolari, che vivono
adagiati o affossati nel sedimento. La draga vera e propria è
costituita da una gabbia di completamente metallica a forma di
parallelepipedo nel cui interno vengono iniettati getti d’acqua a
pressione (draghe turbosoffianti) che agevolano sia la
penetrazione dell’attrezzo nel sedimento che la fuoriuscita di
materiale come sabbia o fango che la possono intasare. Le draghe
sono fissate alla poppa della barca tramite un argano e
penetrano nel fondo marino per raccogliere, avanzando tutti gli
organismi presenti nel substrato. La pesca con la turbo soffiante
è un sistema fortemente impattante sull’ambiente marino, dal momento che ara i fondali sabbiosi e cattura senza
selezione tutti gli organismi che vi abitano. Questo sistema di pesca è in uso anche presso la marineria di Grado.
PESCA CON NASSE E TRAPPOLE: le nasse sono delle trappole che vengono calate
sul fondo spesso con un’esca attirante all’interno e recuperate poi in un secondo
momento. Sono attrezzi di antichissima tradizione, costruite con vari materiali
come ferro, legno, vimini, plastica, utilizzati sia in acqua dolce (come i cogoli e i
bertovelli) usati per la cattura delle anguille, sia in mare per la pesca dei crostacei
(gamberi, canocchie, aragoste e astici) e dei molluschi (polpi e seppie), nonché di
specie pregiate di alto valore economico (orate, saraghi). A Trieste le nasse sono
usate per la cattura di canocchie e seppie. In particolare per la cattura delle seppie,
è tradizione usare, come esca le foglie di alloro, sulle quali le seppie vanno a
deporre le uova.
Oltre ai sistemi che sono stati descritti ve ne sono anche altri, usati per esempio in ambienti come le lagune, (a
Grado ad esempio) quali ad esempio la bilancia e il lavoriero. La bilancia è una rete da posta, di forma
quadrangolare, in genere viene posta lungo dei canali di laguna che sono attraversati da pesci. La rete, a intervalli
di alcuni minuti viene calata in acqua fino a toccare il fondo. Poi, attraverso un argano, viene sollevata. Nelle maglie
della rete, a seconda della stagione, rimangono intrappolate le anguille, i cefali, i sardoni, etc, ma anche i branzini
granchi e gamberi di laguna in quantità.
Il lavoriero invece è una struttura fissa a forma di cuneo, con una camera di cattura posta ad una estremità, che
viene posizionata nei canali di comunicazione tra una valle di laguna e il mare. Questa struttura, grazie alla sua
forma consente di raccogliere i pesci in migrazione “inviati” nelle camere di cattura. Può essere usato sia per
ripopolare la laguna che per raccogliere il pesce di laguna maturo, quando questo è pronto per migrare verso il
mare.
(bibliografia: AAVV Un mare di risorse, Uniprom; AAVV La gestione della pesca marittima in Italia CNR ed.; Greco et al. Guarda
che mare Slow food editore; Grim et al. La pesca in Friuli Venezia Giulia Ed. Italo Svevo)
DAL MARE AL PIATTO: PESCA E AMBIENTE
APPUNTI PER STUDENTI - (spunti di riflessione)
1. Il PROBLEMA DELLA PESCA ECCESSIVA
Gli studi svolti nell’ambito della scienza della pesca, disciplina sviluppatasi nel corso del secolo scorso, hanno
dimostrato la fragilità delle popolazioni ittiche soggette a pesca. Quando le catture dei pescherecci sono
eccessive, il numero di nuovi nati che riesce a raggiungere l’età della riproduzione si riduce costantemente nel tempo e
come conseguenza si ha una continuo calo della capacità di rinnovamento delle popolazioni. Se la pesca non viene ridotta
a livelli sostenibili, tali da garantire ogni anno la presenza di una componente sufficiente di riproduttori, si arriva a un
punto di non ritorno in cui il numero di nuovi nati è troppo limitato, la riproduzione fallisce, e la popolazione crolla di
dimensioni o semplicemente si estingue.
Rispetto alla scala del pianeta, sono in funzione il doppio dei pescherecci rispetto a quelli che consentirebbero uno
sviluppo sostenibile e armonioso del settore. Alcuni di questi pescherecci sono vere e proprie industrie in mare aperto.
Utilizzano sonar, aerei e piattaforme satellitari per individuare i banchi di pesce, su cui si calano poi con reti
derivanti lunghe parecchie chilometri o lenze dotate di migliaia di ami. Sono in grado di trattare i pesci pescati, congelarli
e imballarli. I pescherecci più grandi, che arrivano a 170 m di lunghezza, hanno una capacità di stoccaggio in mare
equivalente a diversi Boeing 747. Le navi più grosse e più lontane dalla pesca sostenibile sono quelle dell’ex-Urss, in
particolare della Federazione Russa e dell’Ucraina, quelle che navigano sotto bandiere ombra come Belize o Panama, o
ancora le navi pirata senza bandiera registrata, molte delle quali provengono dalle flotte della Federazione Russa, del
Giappone, del Belize, di Panama e dell’Honduras.
Il problema della sovrappesca nasce dal fatto che al di fuori delle prime 200 miglia nautiche che si snodano lungo il
litorale di un paese (zona di esclusività economica di quel paese), l’accesso alle risorse non è regolamentato. Così,
chiunque disponga di un’imbarcazione può andare a pescare e sfruttare le risorse marine.
Il fattore tecnologico
Fino a qualche decennio fa l’equilibrio tra quanto prodotto dagli ecosistemi e quanto prelevato dagli uomini poggiava sul
raggio d’azione ridotto delle attività umane: le zone di pesca erano circoscritte al litorale costiero (a distanza) e a tutto o
a parte della piattaforma continentale (in profondità). Tuttavia, dagli anni Cinquanta in poi, l’industrializzazione ha reso
possibile lo sfruttamento di zone geografiche fino a quel momento inaccessibili. La meccanizzazione degli arnesi da pesca,
il miglioramento dei mezzi di trazione e l’intensificarsi delle attività hanno portato a un eccessivo e cronico sfruttamento
dei mari e degli oceani. Ormai è ampiamente riconosciuto che la diffusione della pesca industriale ha coinciso con il
progressivo degrado delle risorse ittiche, mentre la pesca artigianale esiste e continua a essere praticata da migliaia
d’anni.
Il fattore giuridico
A partire perlomeno dal XVII secolo, è il principio di libertà ad avere dominato il diritto del mare, di origine
prevalentemente consuetudinaria: il mare e gli oceani sono aperti a tutti e non appartengono a nessuno, ad eccezione di
una stretta fascia lungo la costa dove lo stato rivierasco esercita una piena sovranità (3 miglia marine nel XVII secolo, il
che equivaleva alla gittata di una palla di cannone).
Gli spettacolari progressi e i rischi associati alle attività umane hanno fatto sì che nel corso del XX secolo si moltiplicassero
le rivendicazioni spesso concorrenti sui mari. Questa circostanza ha spinto la comunità internazionale a dotarsi di un
regime comune, basato sul principio della libertà dei mari. Da una ventina d’anni si sono adottati strumenti giuridici e
piani d’azione al fine di stabilire una governance dei mari e degli oceani.
La firma, nel 1982, della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS) ha segnato il primo passo
politico significativo verso l’idea che gli oceani sono patrimonio comune dell’umanità.
Entrata in vigore nel 1994, la convenzione è stata ratificata ad oggi da 160 stati sui 190 circa che fanno parte della
comunità internazionale. L’accordo definisce i limiti della giurisdizione degli stati sull’oceano, l’accesso al mare, la
navigazione, le ricerche scientifiche, la protezione dell’ambiente marino, lo sfruttamento delle risorse viventi, lo statuto
legale delle risorse dei fondi oceanici nelle acque internazionali e il regolamento dei conflitti. La maggior parte dei paesi
industrializzati l’ha ratificata, ad eccezione degli Stati Uniti. Secondo il diritto del mare, le aree costiere sono costituite da
una zona che si estende a 12 miglia marine al largo delle coste degli stati (zona di sovranità territoriale) e di
una zona detta di esclusività economica (ZEE), che si estende a 200 miglia (370 km) al largo delle coste. In
quest’ultima lo stato rivierasco dispone di «diritti sovrani ai fini dell’esplorazione e dello sfruttamento, della conservazione
e della gestione delle risorse naturali, delle acque sopra i fondi marini, dei fondi marini e dei loro sottosuoli». Lo stato
rivierasco, quindi, può regolamentare l’attività di pesca, in particolare fissare il volume autorizzato di catture, e concludere
accordi commerciali con altri stati e operatori della pesca. Va detto che spesso la pesca illegale viene praticata anche nelle
zone ZEE di paesi poveri, come gli stati occidentali dell’Africa, che non dispongono di sufficienti mezzi per pattugliare le
proprie acque, e vengono così scippati di importanti risorse che sono alla base della loro economia di sussistenza.
Al di là del limite di 200 miglia cominciano le acque internazionali, che rappresentano circa il 64% della superficie degli
oceani. Queste acque corrispondono all’80% della biosfera del pianeta e comprendono vasti ambienti oceanici e abissali,
che sono tra le zone meno esplorate e documentate della Terra. Nelle acque internazionali la libertà di pesca è
condizionata alla disponibilità di tutti gli stati interessati a cooperare al fine di garantire la tutela e la sana gestione degli
stock ittici ed è qui che si pratica la pesca illegale. Infine, la zona internazionale dei fondi marini comincia là dove
sprofondano le piattaforme continentali. Questa zona sfugge a qualsiasi appropriazione. «Bene comune», deve essere
utilizzata «a fini esclusivamente pacifici» e sfruttata «nell’interesse dell’umanità intera». Peraltro, l’adozione nel 1995 di
un accordo sullo sfruttamento delle specie migratrici e di un Codice di condotta per la pesca
responsabile dimostra che molti paesi iniziano a prendere sul serio la minaccia che grava sulle risorse viventi delle
acque internazionali. A livello pratico l’onere di rendere operativi questi e altri fondamentali strumenti giuridici compete
agli organismi regionali di gestione della pesca (diciassette, attualmente, per la maggior parte istituiti dopo la seconda
guerra mondiale). Ma, poiché si tratta di organismi volontari, poiché gli interessi economici sono spesso più potenti della
volontà politica di tutelare l’ambiente, poiché le zone da controllare sono immense e la mancanza di mezzi è sistematica,
tali istituzioni sono nella maggior parte dei casi considerate come molto deficitarie. Il risultato è che gli strumenti
internazionali esistenti, non applicati in maniera coordinata, stentano a rispondere agli obiettivi per cui sono stati
concepiti.
Il fattore economico
Nel suo rapporto sulla svendita degli oceani, basato su dati forniti dall’Organizzazione per lo Sviluppo e la
Cooperazione Economica, dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente e dall’Unione Europea, Greenpeace ha
analizzato i riflessi dell’apertura dei mercati sull’evoluzione a lungo termine delle risorse ittiche e sui ritorni economici
della pesca in alcuni paesi. La conclusione è chiara: la riduzione dei diritti di dogana ha dopato le esportazioni e, in poco
tempo, ha determinato uno sfruttamento eccessivo e drammatico degli stock di pesce con valore commerciale. Risultato:
ecosistemi marini demoliti e sicurezza alimentare locale minacciata. Molti ambientalisti e analisti del settore ritengono che
sia necessario quanto prima rafforzare la regolamentazione e gestire la pesca in maniera rigorosa e puntuale, per
esempio devono abbandonando immediatamente i piani di liberalizzazione selvaggia del mercato della pesca, perché
l’eccessivo sfruttamento delle risorse che ne deriva ha conseguenze sociali e ambientali gravissime.
2. Lo stato dei mari: gli impatti ambientali delle attività dell’uomo
Industrializzazione, urbanizzazione, deforestazione, agricoltura intensiva, utilizzo indiscriminato di suolo e acqua
sono i fattori di pressione che rappresentano la maggior fonte di rischio per gli ecosistemi marini e d’acqua dolce.
La pesca indiscriminata e prolungata nel tempo si somma agli effetti provocati dall’inquinamento antropico, dalla
presenza di microinquinanti organici persistenti come i pesticidi, di scarichi di sostanze organiche e di sversamenti
accidentali di idrocarburi: il degrado delle risorse marine e degli ecosistemi in cui queste vivono comporta effetti
negativi sull’ambiente e, quindi, sulla salute stessa dell’uomo, in primo luogo per quelle popolazioni già in difficoltà
per le quali la pesca è una delle uniche fonti di sostentamento.
I cambiamenti che negli ultimi decenni stanno interessando le condizioni climatiche del Pianeta influenzano anche
gli oceani, innalzando la temperatura della loro superficie, oltre che il livello degli oceani stessi (a causa dello
scioglimento dei ghiacciai), alterandone la salinità e i flussi circolatori delle correnti. Tutti questi cambiamenti
comportano degli impatti anche sulla produttività degli ecosistemi acquatici a cui si aggiunge la pressione
esercitata dall’attività della pesca.
Le reti a strascico ne sono un esempio: utilizzate per la cattura della maggior parte delle specie ittiche
commercializzate, esse prelevano continuamente grandi quantità di pesce (di cui molto rigettato morto in mare
perché di scarso interesse economico), insieme a tutti gli organismi marini animali e vegetali che incontrano. I
grandi pescherecci, anno dopo anno, trascinano queste reti sempre nelle stesse aree, desertificandone i fondali
marini e riducendo le riserve ittiche al di sotto della loro capacità di sopravvivenza.
Inoltre, molte delle reti utilizzate dall’industria della pesca vengono danneggiate durante l’attività e talvolta si
strappano dall’imbarcazione diventando “reti fantasma”, come dei corpi fluttuanti nei mari, estremamente
pericolosi per gli animali che le incontrano: trasparenti e molto resistenti diventano delle trappole capaci di ferire
mortalmente le loro vittime.
I rigetti
Si chiamano rigetti tutte le forme di vita marina pescate diverse dalle prede intenzionali. Sono “scarti”,
comprendono gli esemplari della specie ricercata la cui taglia non è conforme, più altre specie che non si mangiano
o non hanno mercato, specie vietate o a rischio d’estinzione, come certi uccelli, le tartarughe e i mammiferi marini.
Alcuni pesci sono rigettati unicamente perché il peschereccio non ha la licenza per portarli a terra, perché non c’è
spazio sull’imbarcazione o perché non sono della specie che il capitano ha deciso di catturare. Tutti, e parliamo di
MILIONI DI TONNELLATE di pesce, sono rigettati in mare, morti o feriti. Al di là della pressione sulle specie, si
tratta di uno spreco enorme di cibo, sia per il consumo umano, sia per quello dei predatori marini.
Un recente rapporto del WWF stima che i rigetti siano il 40% del totale del pescato e precisa che in molti casi
si tratta di esemplari giovani. È facile comprendere le drammatiche conseguenze sulla capacità delle specie di
riprodursi e rigenerare gli stock
Il caso del mercurio e il bioaccumulo: Gli organismi vegetali e animali che vivono nelle acque dolci e salate si
trovano a fronteggiare anche le forme di inquinamento più subdole derivanti dalle attività industriali, quelle che
non si vedono e che il metabolismo di batteri e animali non è capace di distruggere: le molecole di sintesi, come i
pesticidi, i PCB, i metalli pesanti, danno origine al bioaccumulo, fenomeno cui gli animali che assumono
accidentalmente pesticidi, non sapendo degradare queste sostanze, si difendono “accumulando” le molecole
tossiche nel proprio organismo per non farle più circolare.
Il mercurio, ad esempio è un metallo estremamente tossico, persistente e volatile, liberato nell’ambiente da
processi naturali (eruzioni vulcaniche, incendi, giacimenti minerari) ma soprattutto da attività antropiche quali la
combustione del carbone per produrre elettricità, l’estrazione di metalli come oro e argento e lo smaltimento
incontrollato di prodotti industriali contenenti mercurio (batterie, prodotti a base di cloro e di soda caustica). Il
mercurio è l’unico metallo che a temperatura ambiente si trova allo stato liquido e, una volta trasportato dalle
acque di fiumi e laghi ha la capacità di passare velocemente dagli oceani all’atmosfera e farsi trasportare per
migliaia di chilometri per poi precipitare nuovamente nei corsi d’acqua e nei mari, dove alcuni batteri lo
metabolizzano, lo trasformano cioè in una forma molto tossica, il metilmercurio.
Il metilmercurio viene assorbito nei tessuti grassi dei pesci che si nutrono dei batteri che hanno catturato e
trasformato il mercurio: così questo metallo inizia il percorso attraverso la catena trofica, concentrandosi sempre
di più nei tessuti degli animali, fino ad arrivare ai grossi pesci predatori di cui ci cibiamo noi esseri umani, come
tonno, pesce spada, luccio, marlin, squalo. Così ad esempio succede che gli abitanti di una cittadina in Groenlandia,
hanno raggiunto dei livelli di mercurio nel sangue 12 volte superiori a quelli consigliati dagli organi di controllo,
pur non avendo fonti di inquinamento da mercurio nelle vicinanze: foche balene e peci dei mari in cui essi pescano
sono ormai contaminati dal metilmercurio che viene a sua volta trasferito e accumulato nei tessuti degli uomini.
Lo sfruttamento delle risorse: cosa succede quando si pesca troppo? Per capire che cosa si intende per sovra
sfruttamento delle risorse, immaginiamo un antico villaggio con alcuni terreni a disposizione di tutta la comunità
per portarvi le proprie vacche al pascolo. Questi pascoli comuni avevano erba a sufficienza poiché
tradizionalmente ogni famiglia del villaggio possedeva una sola mucca, in grado di produrre latte e formaggio per
tutti. Quando però alcune famiglie capirono che, una volta soddisfatti i propri bisogni alimentari, avrebbero potuto
vendere il latte e il formaggio prodotti in più alle cittadine vicine, iniziarono a condurre al pascolo un numero
maggiore di vacche.
Dopo poco tempo fu chiaro a tutti che il pascolo non poteva fornire sufficiente erba per così tanti animali. Le
mucche iniziarono a produrre di meno, poiché l’erba del pascolo non era più sufficiente. Di conseguenza, per poter
vendere la stessa quantità di latte e formaggi le famiglie aumentarono il numero di vacche da portare al pascolo.
Così facendo, il nutrimento per le vacche divenne sempre meno e la situazione divenne insostenibile per tutte le
famiglie, ma la maggior parte delle persone diceva: “E’ vero, sui pascoli comuni ci sono troppe mucche, però se
togliamo le nostre guadagniamo meno e comunque le bestie degli altri mangeranno l’erba che avrebbero mangiato
le nostre. Perché mai dovremmo farlo?”. Il risultato fu che il pascolo divenne un terreno spoglio e eroso, le mucche
non avevano più da mangiare e gli abitanti stavano peggio di prima.
Se solo avessero stabilito delle regole per utilizzare meglio il pascolo, forse il terreno sarebbe stato in grado di
nutrire le loro mucche per molto tempo ancora.
La storia del merluzzo è del tutto simile a quella del pascolo comune. Al largo delle coste di Terranova (Canada)
la corrente calda del Golfo del Messico incontra quella fredda del Labrador, creando le condizioni per alimentare la
catena trofica del merluzzo. Nel 1497, quando l’esploratore Giovanni Caboto, famoso per aver continuato le
esplorazioni iniziate da Cristoforo Colombo, scoprì quelle coste, i merluzzi nuotavano in banchi fitti e
numerosissimi. Per secoli costituirono la fonte di nutrimento di molte nazioni e si racconta che a quei tempi
bastasse sporgersi dalla barca con una retina per poter catturare decine di merluzzi in una volta sola. Il merluzzo è
stato per molti secoli il pesce della tradizione del Venerdì, consumato secco (stoccafisso) o salato (baccalà).
A partire dagli anni ’50 il merluzzo veniva pescato con i metodi della pesca industriale: i sistemi radar erano in
grado di individuare e permettere la cattura indiscriminata di interi banchi di merluzzo, sostenendo un’economia
molto redditizia. Ma a partire dal 1992 la pesca del merluzzo è crollata, diventando economicamente insostenibile.
Alcune ricerche hanno dimostrarono che la popolazione dei merluzzi si era assottigliata, ed era poco più del 1%
rispetto a quella degli anni ’70. Il Canada mise al bando la pesca al merluzzo, provocando una grave crisi del
settore con oltre 40.000 lavoratori privati del proprio mestiere. Ad oggi i merluzzi non si sono ancora ripresi e
forse non si riprenderanno mai. Quello dei merluzzi è solo uno degli esempi di specie in pericolo.