PANO RAMI QUES Periodico semestrale – Sped. in a.p. – art. comma 20/c legge 662/96 – Filiale di Aosta – Tassa riscossa / Taxe perçue VALLE D’AOSTA – VALLÉE D’AOSTE CORNELIU PORUMBOIU • NADAV LAPID A B D E R R A H M A N E S I S S A KO BERTRAND BONELLO • OSSAMA MOHAMAD L U C I E B O R L E T E A U S E V E R I N F I A L A & V E R O N I C A F R A N Z 56 II SEMESTRE 2014 E ÉDITORIAL Tra passato e futuro Agli inizi degli anni 90, Panoramiche /Panoramiques appariva per la prima volta in Valle d’Aosta. L’iniziativa, sostenuta dall’Assessorato Istruzione e Cultura, aveva uno scopo ben preciso e articolato. La rivista doveva raccogliere il materiale critico/ informativo che sarebbe servito agli spettatori del Giro del Mondo, sezione cinematografica della Saison Culturelle, per arricchire d’interessanti stimoli l’interpretazione dei film presentati. Essa assicurava anche delle importanti riflessioni sull’evoluzione del cinema, sia dal punto di vista teorico sia attraverso l’esperienza dei festival internazionali. La rivista conteneva dei testi scritti da specialisti, valdostani, italiani o europei, in italiano o francese. Essa permetteva dunque evidenziare a livello internazionale una peculiarità culturale della Valle d’Aosta, il suo bilinguismo, uno dei punti cardine del suo statuto d’autonomia. Panoramiche /Panoramiques era non solo un mezzo per fare conoscere fuori dai nostri confini tali aspetti della Valle d’Aosta, ma anche un modo di aprire al mondo l’ambiente regionale, sovente sterilmente autoreferenziale. La rivista era diffusa fra i professionisti del settore a livello europeo, formava i giovani alla scrittura critica, era un mezzo per essere accreditati nei più importanti festival internazionali. Tale iniziativa ha avviato la carriera di molti professionisti valdostani, incluso chi scrive, e potrebbe continuare a farlo. Tuttavia oggi, in tempo di crisi economica e finanziaria, il rischio è che una tale piattaforma non riscontri più lo stesso interesse da parte degli amministratori. Forse, per continuare ad esistere, la rivista deve trasformarsi, mantenendo la forza del suo discorso critico, ma evolvendo al passo dei tempi e delle nuove tecnologie. Il cinema è ancora là; i giovani hanno voglia di misurarsi con la scrittura; cineasti e cinefili aspettano sempre di sentire la nostra voce. Luciano Barisone Presidente Film Commission Vallée d'Aoste Quello che vi presentiamo potrebbe essere l’ultimo numero di questa rivista che da oltre vent’anni ha cercato di offrire una ricognizione del cinema, allargando come in una panoramica l’orizzonte visivo dello spettatore. O forse – così speriamo – sarà il primo di una nuova stagione. Fedeli a una tradizione che ha fatto di queste pagine una piattaforma di lancio per registi poco conosciuti, abbiamo deciso di affiancare al consueto gruppo di schede dedicate ai film presentati nella Saison Culturelle 2013/2014 e all’approfondimento delle attività di Film Commission VdA, una galleria di registi che con le loro opere hanno segnato l’anno appena concluso. Alla logica della classifica, che in questo periodo spopola anche presso riviste prestigiose, vorremmo sostituire quella del confronto. Un confronto che non intende contrapporre pratiche opposte, facendo emergere premiati e sconfitti, ma vuole mostrare come la vitalità della settima arte sia definita proprio dalla sua ricchezza. Questo obiettivo è per noi tanto più importante quanto maggiormente notiamo una contrazione nella possibilità offerta agli spetta- tori di accedere a film diversi. Se è vero che il passaggio al digitale sta determinando un aumento dei film indipendenti distribuiti – con la nascita di nuovi e dinamici soggetti – è d’obbligo notare come a tale situazione non abbia fatto seguito una reale diffusione degli stessi sul territorio italiano. Forse a causa di informazioni mancanti o difficilmente raggiungibili, la maggior parte degli esercenti finisce per scegliere i titoli più noti e pubblicizzati. Da questo punto di vista, il corpo delle schede dei film mostrati al Giro del Mondo si offre già come un caso felice. Vero è che a chi frequenta il circuito festivaliero il quadro offerto dalla distribuzione italiana risulta ancora fortemente deficitario. Se la palma d’oro di Cannes ha avuto una coraggiosa uscita e le oltre cinque ore del fluviale From What Is Before, Leopardo d’oro a Locarno, non davano adito a molte speranze; diverso è il discorso per l’Orso d’oro di Berlino, l’avvincente noir cinese Black Coal Thin Ice. Nel periodo di vita di questa rivista, i festival si sono affermati non solo come luoghi di scoperta per nuovi talenti, ma come veri e propri circuiti alternativi. Rispondendo a questa realtà e cercando di ridurre le distanze tra i due circuiti (quello ufficiale e quello delle manifestazioni cinematografiche), Panoramiques ha dedicato uno spazio privilegiato alla proposta festivaliera. La consapevolezza che i film dei giovani registi difficilmente avrebbero raggiunto il lettore della rivista – che nasce in una regione piccola e raccolta, ma che vuole essere aperta al mondo – non ci ha fermato, ma ha rappresentato uno stimolo a proseguire il cammino. Oggi, nel momento in cui le potenzialità della distribuzione in streaming (in VOD o grazie a piattaforme come MUBI, Festival scope…) sono conosciute da tutti, questo compito si arricchisce di un senso supplementare. Speriamo, quindi, che il lavoro di apripista condotto in queste pagine non vada perduto, ma diventi un importante accompagnamento e un impulso a una pratica della visione più consapevole e aperta. Carlo Chatrian Editorial 2 FILM COMMISSION VALLÉE D’AOSTE Un anno di Film Commission di Alessandra Miletto America, conversazione con Alessandro Stevanon, a cura di Elisa Collé L’immaginario che racconta il reale, conversazione con Giovanni Cioni, a cura di Elisa Collé 4 8 11 FILM A proposito di Davis, di Roberto Manassero 14 American Hustle, di Leonardo Gandini 15 All Is Lost - Tutto è perduto, di Grazia Paganelli 16 Au bout du conte, par Charlotte Garson 17 Before Midnight, di Roberto Manassero 18 Bling Ring, di Roberto Manassero 19 Blue Jasmine, di Grazia Paganelli 20 Il caso Kerenes, di Roberto Manassero 21 C’era una volta un’estate, di Alexine Dayné 22 Un castello in Italia, di Daniela Persico 23 Che strano chiamarsi Federico, di Umberto Mosca 24 Come il vento, di Federico Pedroni 25 Dallas Buyers Club, di Leonardo Gandini 26 Dietro i candelabri, di Francesca Monti 27 A Lady in Paris, di Umberto Mosca 28 Foxfire, confessions d’un gang de filles, par Thierry Méranger 29 Les garçons et Guillaume, à table! par Charlotte Garson 30 Gloria, di Francesca Monti 31 Holy Motors, par Charlotte Garson 32 Ida, di Elisa Collé 33 In Another Country, di Roberto Manassero 34 L’inconnu du lac, par Charlotte Garson 35 Infanzia clandestina, di Giuseppe Gariazzo 36 L’intrepido, di Giuseppe Gariazzo 37 Giovane e bella, di Marco Gianni 38 Lunchbox, di Giuseppe Gariazzo 39 La mia classe, di Giuseppe Gariazzo 40 Miele, di Grazia Paganelli 41 Il mondo di Arthur Newman, di Alexine Dayné 42 Nebraska, di Roberto Manassero 43 Ninotchka, par Mathieu Macheret 44 No - I giorni dell’arcobaleno, di Silvia Colombo 45 Il passato, di Giuseppe Garazzo 46 Philomena, di Alexine Dayné 47 La prima neve, di Roberto Manassero 48 Questione di tempo, di Silvia Colombo 49 Sacro Gra, di Leonardo Gandini 50 panoramiques Année XXV, n°56 Revue de cinéma Fondateur Luciano Barisone Directeur Carlo Chatrian Rédaction Andrea Carcavallo, Elisa Collé, Alessandra Miletto Salvo, di Mauro Gervasini 51 La scelta di Barbara, di Simone Emiliani 52 Stoker, di Silvia Colombo 53 Sugar Man, di Grazia Paganelli 54 Superstite, di Francesca Monti 55 Sur le chemin de l’école, par Charlotte Garson 56 Vogliamo vivere! di Leonardo Gandini57 To the wonder, di Marco Gianni 58 La variabile umana, di Lorenzo Esposito 59 La vénus à la fourrure, par Charlotte Garson 60 La vita di Adele, di Daniela Persico 61 Vijay - Il mio amico indiano, di Francesca Monti 62 The Wolf of Wall Street, di Daniele Dottorini 63 FESTIVAL Berlinale 2014 Corneliu Porumboiu – Al doilea joc, di Lorenzo Esposito 64 Vision du Réel, Nyon 2014 Robert Greene – Actress, di Giona A. Nazzaro 65 Festival international du film, Cannes 2014 Nadav Lapid – Haganenet, par Olivier Père Il mistero della poesia, conversazione con Nadav Lapid, a cura di Roberto Manassero Bertrand Bonello – Saint-Laurent, di Roberto Manassero Ossama Mohammed – Ma’a al-Fidda, di Daniela Persico Lisandro Alonso – Jauja, di Carlo Chatrian Abderrahmane Sissako – Timbuktu, di Giuseppe Gariazzo Shira Geffen – Self Made, par Fernando Ganzo Festival del film, Locarno 2014 Lucie Borleteau – Fidelio (L’odyssée d’Alice), par Charlotte Garson Lucie Borleteau, entretien avec Lucie Borleteau, par Carlo Chatrian Matias Piñeiro – La princesa de Francia, par Emilie Bujès 66 67 71 72 73 74 75 76 77 81 Mostra internazionale d’Arte Cinematografica, Venezia 2014 Severin Fiala – Ich seh, ich seh, di Carlo Chatrian 82 Essere o apparire, conversazione con Veronika Franz e Severin Fiala, a cura di Nora Demarchi 83 Alix Delaporte – Le dernier coup de marteau, di Mauro Gervasini 87 Collaborateurs Propriété Emilie Bujès Silvia Colombo Alexine Dayné Nora Demarchi Daniele Dottorini Leonardo Gandini Fernando Ganzo Giuseppe Gariazzo Charlotte Garson Mauro Gervasini Marco Gianni Simone Emiliani Lorenzo Esposito Mathieu Macheret Roberto Manassero Thierry Méranger Francesca Monti Umberto Mosca Giona A. Nazzaro Grazia Paganelli Federico Pedroni Olivier Père Daniela Persico Film Commission Vallée d'Aoste Direction et rédaction 33, rue de Paris – 11100 Aoste – Italie Tél. : +39 0165 26 17 90 [email protected] Graphisme et mise en page Pier Francesco Grizi Charvensod (AO) – Italie Enregistrement au tribunal d’Aoste n°8/90 Expédition par abonnement postal Art. 2, alinéa 20/c de la loi n°662/96 Aoste La version PDF de la revue est disponible en ligne sur le site www.filmcommission.vda.it Impression ITLA - Aoste En couverture : Verso dove, Luca Bich (2014) UN ANNO DI FILM COMMISSION A nno di grandi eventi per la Film Commission, il 2014. Una stagione che ha visto consolidarsi il rapporto tra la Valle d’Aosta ed il cinema internazionale grazie alla presenza di due tra le più importanti produzioni hollywoodiane in uscita per il 2015, Avengers – Age of Ultron e il remake di Point Break. Una troupe colossale e i supereroi più famosi al mondo per il film della Marvel Studios diretto da Joss Whedon che ha girato tra il Forte di Bard, Aosta, Pont Saint Martin, Donnas e Verrès. Sequenze spettacolari in Valgrisenche e nella zona di Courmayeur per Point Break, tra inseguimenti sulla neve, esplosioni e un grande numero di maestranze e servizi coinvolti, tra guide alpine, tecnici, trasporti, strutture alberghiere. Non solo Hollywood, ma anche grandi produzioni nazionali: è stato infatti chiuso a novembre l’accordo tra Film Commission VdA e Mir Cinematografica che porterà in valle le riprese di Bianco, il nuovo film di Daniele Vicari interpretato da Elio Germano e Luca Argentero ispirato alla vicenda di Walter Bonatti e dei suoi compagni di cordata al Pilone Centrale del Frêney. Le riprese inizieranno a fine estate 2015. Produzioni ad alto budget ma anche supporto a programmi tv (il 2014 si è aperto con il grande successo di Pericolo Verticale, factual di Sky Uno condotto da Luca Argentero e dedicato al Soccorso Alpino valdostano, sostenuto da Film Commission VdA), pubblicità, documentari di creazione e piccoli film indie, come Richard the Lionheart: Rebellion di Stefano Milla, che ha popolato i castelli valdostani di donne, cavalieri armi e amori. Un anno che ha visto la crescita di tanti filmmaker valdostani e rafforzarsi la collaborazione tra questi autori e la Film Commission, non solo in termini di sostegno economico ma anche di consulenza, supporto, iniziative condivise. Tra i film sostenuti dal Bando Doc Film Fund ha spiccato quest’anno Alessandro Stevanon con il suo cortometraggio America, giunto ormai a 70 festival e 22 riconoscimenti, ma la vivacità del comparto locale è testimoniata dalle molte produzioni: Verso dove, di Luca Bich e Enrico Montrosset premiato al 62° Trento Film Festival e al Mountain Film Review di Ladek Zdroj; Ninì, di Gigi Giustiniani che ha aperto la sezione Prospettive del FilmMakerFest di Milano; Sul Filo di Joseph Péaquin e Le montagne non finiscono là di Arianna Colliard e Maurizio Pellegrini, 5 entrambi in programmazione nei cinema piemontesi. Molti altri sono i film in realizzazione e in fase di post produzione che vedranno la luce nel 2015. Tra le attività di Film Commission Vallée d’Aoste, prioritaria è la formazione: cinema literacy rivolta soprattutto alle scuole e formazione di giovani filmmaker e figure professionali dell’audiovisivo. Intorno a questo binomio si è strutturato AlpLabDoc, laboratorio cinematografico organizzato in collaborazione con il Liceo Classico, Artistico e Musicale di Aosta. Sotto la guida di professionisti, i partecipanti hanno realizzato sei Ulisse, In Purgatorio, Gli Intrepidi). Un laboratorio dove esplorare l’idea di confini attraverso la scrittura e realizzazione di una serie di film corti, prove di cinema, cinema del reale o, appunto, “cinema oltre confine”. Per le iniziative di audience development Film Commission ha organizzato la rassegna di documentari “PalaDoc” (in collaborazione con Moebius Film e CSC Courmayeur) e la rassegna di cortometraggi “A Corto di Idee” (in collaborazione con APA Vd’A e la Biblioteca di Saint-Christophe); occasioni, rispettivamente, per vedere cinema che di rado riesce ad approdare nelle sale valdostane e per e informare le imprese valdostane delle opportunità connesse alla presenza delle produzioni cinematografiche sui territori, a novembre Film Commission, in collaborazione con l’Associazione dei professionisti dell’Audiovisivo VdA e con la locale Camera di Commercio ha organizzato il convegno “Cinema e imprese: le opportunità del tax credit e le agevolazioni fiscali”. Alberto Tulli, per la Direzione Generale per il Cinema del MiBACT, Guido Cerasuolo, presidente dell’Associazione Italiana Produttori Esecutivi) e Paolo Tenna, amministratore delegato di Top Time, hanno illustrato gli strumenti a disposizione cortometraggi che sono stati presentati in anteprima nell’edizione 2014 del Cervino Cine Mountain. La chiusura di AlpLabDoc è stata l’occasione per presentare al pubblico i lavori realizzati e per creare un momento di confronto tra i giovani filmmaker e il mondo della produzione e dei festival in un incontro dal titolo “Le vie del documentario sono infinite ”: Alessandro Borrelli, produttore di La Sarraz Pictures, Umberto Migliaccio del collettivo Todomodo e Philippe Clivaz, segretario generale del festival Visions du Réel di Nyon hanno discusso con i partecipanti al corso e con i filmmaker valdostani di percorsi produttivi e distributivi del film documentario. Alto profilo per il laboratorio che ha preso il via a dicembre e si svilupperà nel corso del 2015: “Oltreconfine”, laboratorio di cinema del reale condotto dal regista Giovanni Cioni (Per scoprire la produzione degli autori locali. Tra i documentari proiettati a Courmayeur “TIR” di Alberto Fasulo, sostenuto da Film Commission VdA e vincitore del Marc’Aurelio d’Oro al Festival Internazionale del Cinema di Roma nel 2013. Il già citato Cervino Cinemountain ha riservato diversi spazi alle produzioni e alle iniziative legate a Film Commission VdA: oltre alla proiezione dei corti di ALpLabDoc, la giornata di apertura è stata dedicata alle produzioni sostenute (America, di Alessandro Stevanon, Pianeta Bianco di Francesco Mattuzzi e Mezzalama maratona di ghiaccio di Angelo Poli) e il festival ha chiuso con la proiezione di Verso dove, di Luca Bich ed Enrico Montrosset. L’audiovisivo è anche industria, con importanti ricadute economiche sul territorio; per consolidare la percezione di questo dato oggettivo delle imprese per creare nuove sinergie con l’industria cinematografica: tax credit esterno e product placement. Anche per il 2014 la Valle d’Aosta è stata scelta per ospitare la seconda edizione di “The Italian Screenings in Courmayeur”, organizzata da Cinecittà Luce in collaborazione con Film Commission Vallée d’Aoste. Dal 3 al 6 luglio Courmayeur ha ospitato un centinaio tra i più importanti produttori e distributori del cinema europeo ed italiano per il più significativo appuntamento commerciale della stagione. Un’occasione per i professionisti del mercato del cinema di scoprire le bellezze della nostra regione, per un’iniziativa pubblicizzata a Berlino e Cannes e che ha avuto ampia diffusione su importanti riviste internazionali di settore tra cui Variety USA. Alessandra Miletto UN ANNO DI FILM COMMISSION PRODUZIONI AMERICA Regia: Alessandro Stevanon Produzione: Ezechiele 25:17 Film Production Genere: documentario Paese: Italia Anno: 2013 Location VdA: Aosta Periodo riprese: gennaio 2013 Budget sul territorio: 24.000 Euro Sostegno Film Commission VdA: 11.000 euro Prima proiezione: gennaio 2014 BIANCO Regia: Daniele Vicari Interpreti: Elio Germano, Luca Argentero Produzione: MIR Cinematografica Genere: drammatico Paese: Italia Anno: 2015 Location VdA: Courmayeur Periodo sopralluoghi: 2014 Periodo riprese: 2015 Budget sul territorio: 425.000 Euro Sostegno Film Commission VdA: 60.000 euro Uscita prevista: 2016 AVANZI DI BALERA Regia: Alessandro Stevanon Produzione: La Fournaise Genere: documentario Paese: Italia Anno: 2015 Location: Emilia Romagna, Veneto, Friuli Venezia Giulia Periodo riprese: 2016 Budget sul territorio: 31.000 Euro Sostegno Film Commission VdA: 15.000 euro Uscita prevista: 2016 GEO & GEO Regia: Anna Bonfiglioli Produzione: Cineteulada Genere: trasmissione TV Paese: Italia Anno: 2014 Location Ozein, Cogne, Valpelline, Ollomont Periodo riprese: Ottobre 2014 Budget sul territorio: 1.000 Euro Sostegno Film Commission VdA: logistico Uscita: marzo 2015 AVENGERS: AGE OF ULTRON Regia: Joss Whedon Interpreti: Samuel L. Jackson, Aaron Johnson, Elizabeth Olsen, James Spader, Chris Hemswoth, Chris Evans, Mark Ruffalo, Jeremy Renner, Scarlett Johansson, Don Cheadle, Robert Downey Jr., Paul Bettany, Stellan Skarsgard Produzione: Marvel Studios Genere: action Paese: USA Anno: 2015 Location VdA: Aosta, Forte di Bard, Verres, Donnas, Pont Saint Martin Periodo riprese: marzo 2014 Budget sul territorio: 2.417.000 Euro Sostegno Film Commission VdA: logistico Uscita prevista: 22 aprile 2015 FURIA Regia: Marcello Vai Produzione: Moebius Films Genere: documentario Paese: Italia Anno: 2014 Location: Aosta, Sarre, Chatillon Periodo riprese: 2014 Budget sul territorio: 16.000 Euro Sostegno Film Commission VdA: 5.000 euro Uscita prevista: primavera/estate 2015 LE MONTAGNE NON FINISCONO LÀ Regia: Arianna Colliard Produzione: VideoAstolfoSullaLuna Genere: documentario Paese: Italia Anno: 2013 Location: Perù Periodo riprese: 2013/2014 Budget sul territorio: 18.000 Euro Sostegno Film Commission VdA: 8.000 euro Prima proiezione: gennaio 2015 NINÌ Regia: Gian Luigi Giustiniani Produzione: La Fournaise Genere: documentario Paese: Italia Anno: 2014 Location: Massiccio del Monte Bianco Periodo riprese: 2014 Budget sul territorio: 13.000 Euro Sostegno Film Commission VdA: 6.000 euro Prima proiezione: novembre 2014 PERICOLO VERTICALE Regia: Simone Gandolfo Interpreti: Luca Argentero Produzione: Inside Productions di Luca Argentero e Myriam Catania Genere: serie TV / action-Reality Paese: Italia Anno di produzione: 2013 Location VdA: Aosta, Cervinia, Courmayeur e in generale tutto il territorio valdostano Periodo riprese: gennaio/febbraio 2013 Budget sul territorio: 247.000 Sostegno Film Commission VdA e RAVA: 120.000 euro Data di trasmissione della serie: gennaio/febbraio 2014 POINT BREAK Regia: Ericson Core Interpreti: Luke Bracey, Edgar Ramirez, Teresa Palmer Produzione: Alcon Entertainment, DMG Entertainment, Warner Bros Genere: action Paese: USA Anno: 2015 Location VdA: Aiguille de la Grande Sassière a Valgrisenche Periodo riprese: febbraio 2014 7 Budget sul territorio: 1.800.000 Euro Sostegno Film Commission VdA: logistico Uscita prevista: 25 dicembre 2015 RICHARD THE LIONHEART: REBELLION Regia: Stefano Milla Interpreti: Malcolm McDowell, Gregory Chandler, Debbie Rochon Produzione: Claang Entertainment, Whonderphil Productions e Doma Entertainment Genere: storico-epico Paese: Italia, USA, Russia Anno: 2014 Location VdA: Fénis, Introd Periodo riprese: settembre/ottobre 2013, marzo 2014 Budget sul territorio: 25.000 Euro Sostegno Film Commission VdA: 5.000 euro Uscita prevista: 2015 SUL FILO Regia: Joseph Péaquin Produzione: DocFilm Genere: documentario Paese: Italia Anno: 2013 Location: tutto il territorio regionale Periodo riprese: 2013 Budget sul territorio: 53.000 Euro Sostegno Film Commission VdA: 26.000 euro Uscita: settembre 2014 IL TRAFORO DEL MONTE BIANCO Regia: Riccardo Piaggio, Marco Serrecchie, Luca Bich, Daniele Di Gennaro Produzione: Associazione Pourparler Genere: documentario Paese: Italia Anno: 2014 Location: Courmayeur Periodo riprese: 2013/2014 Budget sul territorio: 107.000 Euro Sostegno Film Commission VdA: 18.000 euro Uscita prevista: primavera 2015 VERSO DOVE Regia: Luca Bich Produzione: L’Eubage Genere: documentario Paese: Italia Anno: 2013 Location: Sud-Tirolo, Trentino, Salisburgo, Bologna Periodo riprese: 2013 Budget sul territorio: 41.000 Euro Sostegno Film Commission VdA: 20.000 euro Prima proiezione: aprile 2014 FORMAZIONE ALPLABDOC Tipologia: formazione di base per giovani aspiranti registi valdostani Formatori: Liceo Classico, Artistico e Musicale di Aosta Periodo: autunno 2013/ primavera e autunno 2014 Partner: Liceo Classico, Artistico e Musicale di Aosta, Chambre Valdôtaine, Spazio 4K, L’Eubage, Stefano Ceccon OLTRECONFINE Tipologia: formazione per professionisti dell’audiovisivo valdostano Formatori: Giovanni Cioni Periodo: inverno 2014/primavera 2015 Partner: Biblioteca Comunale di Saint Christophe EVENTI A CORTO DI IDEE Tipologia: rassegna di corti valdostani Periodo: dicembre 2014 Partner: Biblioteca Comunale di Saint Christophe, APA VdA CINEMA E IMPRESE: LE OPPORTUNITÀ DEL TAX CREDIT E LE AGEVOLAZIONI FISCALI Tipologia: incontro riservato ai professionisti dell’audiovisivo valdostano Relatori: Alberto Tulli (MIBACT), Guido Cerasuolo (pres. Ass. italiana Produttori), Paolo Tenna (a.d. Top Time) Periodo: novembre 2014 Partner: Chambre Valdôtaine, APA VdA THE ITALIAN SCREENINGS IN COURMAYEUR Tipologia: incontro riservato a produttori e distributori internazionali LE VIE DEL DOCUMENTARIO SONO INFINITE Tipologia: formazione per professionisti dell’audiovisivo valdostano Formatori: Alessandro Borrelli (La Sarraz Pictures), Umberto Migliaccio (Collettivo Todomodo), Philippe Clivaz (segretario generale festival Visions du Réel di Nyon) Periodo: Novembre 2014 Partner: L’Eubage Periodo: luglio 2014 Partner: Cinecittà Luce PALADOC Tipologia: rassegna di corti italiani Periodo: 2014 Partner: Moebius Film, CSC Courmayeur SEPHORA: WHERE BEAUTY BEATS Tipologia: concorso per giovani registi valdostani Periodo: novembre 2014 Partner: Sephora Italia 8 V AMERICA Conversazione con Alessandro Stevanon Come sei arrivato alla decisione di realizzare un cortometraggio su Pino America? Pino America è una persona che conosco fin dalla mia infanzia. L’ho sempre scorto nelle vie di Aosta esibirsi in scenette eccentriche con i suoi costumi bizzarri. Nel 2002, lo coinvolsi come comparsa nel mio primo film, Niet No Nein, cortometraggio sulla Seconda Guerra Mondiale. Pino interpretava il ruolo di un soldato della campagna del Don verso la Russia, che veniva immediatamente fucilato. Due giorni con noi sul set sono bastati per fargli nascere il desiderio di replicare l’esperienza, cosa di cui discutevamo ogni volta che capitava l’occasione di incontrarci. Dopo dieci anni, gli ho detto: “Va bene Pino, se vogliamo fare qualcosa insieme, raccontiamo la tua storia”. E da lì è nato America. Quali sono state le diverse fasi di produzione? Tutto ciò che fa parte della voce narrante di Pino è stato registrato in studio durante due mesi, nell’estate 2012. In queste sessioni abbiamo raccolto circa trenta ore in cui Pino mi raccontava di lui e della sua vita. Da questo enorme materiale sono partito per scrivere la sceneggiatura. Le riprese sono durate una decina incitore di numerosi riconoscimenti tra cui il Premio Michelangelo Antonioni al Bif&st 2014 e il Miglior Cortometraggio al XII Ischia Film Festival, America, ultima opera del regista valdostano Alessandro Stevanon, presenta la storia vera di Giuseppe Bertuna, meglio conosciuto come Pino America nelle vie di Aosta. Figlio di un maresciallo delle Guardie Carcerarie, Pino si trasferisce nel capoluogo valdostano dalla Sicilia negli anni ’50, passando la sua infanzia nelle case popolari alla periferia della città. Nel ’73 effettua un breve soggiorno negli Stati Uniti, che gli varrà il soprannome di «America» per tutta la vita. Da più di trent’anni è “primario del reparto eternità”, come egli stesso ama definirsi, preparando i defunti per il loro ultimo viaggio. Nelle vie aostane, è conosciuto da tutti per i suoi costumi stravaganti e i suoi turpiloqui notturni, sfogo sfrenato e dissoluto, ma liberatorio, per tornare ad affrontare la morte ogni giorno. America è un cortometraggio che ha saputo, con eleganza e tecnica, restituire lo spirito e i sogni di un personaggio eccentrico e bizzarro, rivelandone anche quelle sfumature più nascoste e introspettive, permettendo allo spettatore di vedere oltre la maschera. Il cortometraggio è stato prodotto dal regista Alessandro Stevanon, con la collaborazione di Nikon e il sostegno della Film Commission Vallée d’Aoste. di giorni. Le fasi più lunghe e impegnative sono state la preparazione e la post-produzione, in particolare il montaggio. Sia in fase di registrazione, che sul set, Pino è stato molto preciso e partecipe. Si è creato con tutta la troupe un bel rapporto. Il sogno americano vissuto nella giovinezza, ma immediatamente perduto, fa parte della vita di Pino per sempre. La porzione della sua vita che Pino trascorre in America è una parentesi brevissima. Dura soltanto tre anni, ma è l’emblema di quello che è stato il percorso della sua esistenza. Per tutti il «sogno americano» è il sogno che si ha nel cassetto e che si cerca in tutti i modi di realizzare. Per Pino così non è stato. Pino non è mai riuscito a realizzarsi in termini professionali, affettivi e artistici. Un po’ per colpa sua, un po’ a causa del destino o del periodo in cui è nato. Questa componente americana è legata a un senso di rimpianto, vibra in tutto ciò che fa e condiziona in modo positivo o negativo la sua vita ancora oggi. Inoltre rappresenta un pesante identificativo, essendo parte integrante del suo nome. Pino America è una persona reale, ma pare provenire da un altro mondo. Tu ne fai il simbolo di una città, Aosta. Io ho vissuto la mia infanzia e la mia adolescenza nel centro storico di Aosta, e sin da ragazzino collegavo le mie prime uscite serali con gli amici alla presenza, più o meno gradita, di Pino America. Anche le persone che vengono da fuori o che frequentano in modo sporadico la città, si ricordano di Pino. In questo senso, Pino America è uno dei simboli di Aosta. La tua regia è molto discreta, dà il senso di irrealtà e visionarietà al film. Quando Pino è nel centro storico e si abbandona ai suoi sproloqui, ai suoi deliri poetici, la regia è dinamica, danza con lui, mentre in altri momenti appare più statica. Questo faceva parte delle mie intenzioni, perché lui vive, secondo me, due momenti, che ho cercato di riportare nel film attraverso le scelte registiche. Quando è solo, quando cioè è sprovvisto di un «pubblico», è un uomo senza maschere. Questa è l’unica occasione in cui è davvero se stesso. In questi attimi, Pino è malinconico, riflessivo, taciturno e rielabora tutto ciò che ha vissuto e ciò che avrebbe voluto vivere. Mentre quando si trova a bighellonare nelle vie di Aosta, recita i personaggi di cui è diventato vittima. I ruoli che impersona sono tanti e dipendono 9 anche da chi lo osserva, che può vedere in lui l’ubriacone, il matto del villaggio, l’artista, il clown, il personaggio stravagante, il becchino… Queste sono maschere che la gente ha finito per affibbiargli e che lo hanno fagocitato. Le location sono gli ambienti della sua vita? Sì, abbiamo girato a casa sua, nel centro storico di Aosta e nel suo ambiente di lavoro, la camera mortuaria. Ci siamo concentrati in questi spazi, perché Pino si muove a piedi o in autobus e il suo raggio d’azione è molto circoscritto. Il cimitero, in cui è ambientata la parte finale, è uno degli elementi di fiction, poiché non fa parte dei luoghi della vita quotidiana di Pino. Quanta componente di fiction è presente nel corto? Nel film ci sono situazioni in cui abbiamo ricostruito alcuni momenti della giornata di Pino, come la scena in cui è al lavoro. È un contesto di fiction, creato ad hoc, ma in cui Pino riproduce le azioni che compie normalmente. Altre scene sono, invece, di puro documentario, come le ripre- se in notturno, in cui Pino girovaga nelle vie di Aosta. La parte finale, in cui il protagonista si trova nel cimitero, è completamente di finzione. Nel film, ci sono alcuni oggetti messi in evidenza che sembrano dei coefficienti scenici, come la valigia in cui Pino ripone le tette finte, la corona vichinga, il cappello da cowboy. Sembrano tanti arredi di teatro… In maniera del tutto involontaria Pino America si fa simbolo di quella che è la commedia dell’arte, in particolare grazie al suo gusto del travestimento. Pino dispone di una collezione infinita di cappelli e altri oggetti stravaganti. Il suo obiettivo è colpire l’immaginazione, in parte per esaltare il suo ego, come tutti gli artisti, ma anche per strappare un sorriso. Nonostante la sua presenza a volte rozza e vulcanica, Pino ha un rapporto privilegiato in particolare coi bambini, con cui riesce a entrare immediatamente in sintonia, rivelando la sua vera natura, che è quella di un clown. Nel film, infatti, la sua voce narrante dice “il mestiere più difficile è far ridere”, rimpiangendo di non essere entrato a far parte del circo quando era giovane. Spesso Pino è ripreso incorniciato da quadri o da finestre che incombono. Che significato hanno? Pino guarda la sua vita come uno spettatore. Guarda fuori dalla finestra quando è in autobus, quando è a piedi, quando è in casa. È un guardare oltre. Oltre questa realtà che da una parte non è stata generosa con lui ma che dall’altra gli ha dato soddisfazioni importanti come il suo lavoro. Affrontare il suo mestiere con delicatezza e sensibilità non è facile. Sul lavoro dà prova di un’empatia straordinaria, in particolare con i parenti dei defunti, che, nella maggior parte dei casi, non conosce. Trovandosi di fronte alla morte tutti i giorni, vivendo continuamente emozioni forti, Pino è costretto a cercare un modo per esorcizzare la pressione, trovando una valvola di sfogo nelle sue passeggiate notturne. In una scena che non ho inserito nel film, Pino descrive il ciclo in cui è bloccato e che non può più rifiutare, fatto di sere in cui fa festa e beve, e di mattine, in cui la malinconia e la realtà prendono il sopravvento. Questo personaggio non è perfetto, però, sa essere pesante, misogino e volgare, ma nasconde un altro sé dietro la maschera. 10 La fotografia è un elemento molto importante in America. Negli interni, in particolare, la luce contribuisce a donare un senso di sogno e visionarietà al film. È mia abitudine lavorare con un comparto tecnico di professionisti di altissimo livello, per conferire più forza a elementi come luce e audio. Ogni mio film è molto studiato e costruito, perché secondo me bisogna utilizzare il mezzo tecnico come strumento narrativo ed emozionale, altrimenti, la tecnica fine a se stessa non serve a niente. Parlando dell’audio, la voce narrante del protagonista sembra intonare a tratti una poesia, una cantilena, una filastrocca, in particolare nella scena conclusiva. La parte finale è proprio una poesia che Pino aveva scritto e poi gettato via. Noi l’abbiamo recuperata basandoci sulla sua memoria. Nella sua sfortuna, nel suo malessere, Pino ha comunque affrontato tutta la sua esistenza con un’enorme poesia, anche se la sua è una poesia allucinata, sfrontata, provocatoria, ma anche malinconica e dura. Parlando del pubblico, che differenza hai notato tra l’accoglienza del film da parte degli spettatori di Aosta, che conoscono Pino, e la ricezione degli altri pubblici? Gli spettatori di Aosta erano «prevenuti», pensavano inizialmente di trovarsi di fronte al Pino che conoscono per come appare esteriormente, un personaggio scurrile, strambo, alienato, ubriacone. Nel film, sono invece riusciti a vedere la parte dell’«iceberg» che sta sotto la superficie, la più nascosta, importante e imprevedibile. America è stato anche l’unico film italiano selezionato nella Competizione Internazionale del 36ème Festival International du Court Métrage di Clermont Ferrant. America è stato l’unico cortometraggio italiano tra 7.200 opere presentate al festival, selezionato tra 500 film provenienti dall’Italia. La mia paura era il fatto che l’interesse che provavo per questo film potesse essere legato esclusivamente all’affezione che io sentivo per il personaggio. Non sapevo ancora quanto potesse essere una bella storia, indipendentemente dal mio apporto emotivo. Che ruolo ha per te il sostegno della Film Commission? Da quando è stata istituita la Film Commission in Valle d’Aosta, ho notato un passaggio ulteriore di maturità nelle produzioni cinematografiche locali. I produttori, i registi, gli autori locali si sono resi conto che il prodotto che avevano in mente doveva dare prova di una certa completezza progettuale oltre alla sola parte creativa, per rispondere a quelle che sono le esigenze corrette di finanziamento da parte della Film Commission. Il progetto, cioè, doveva avere una sostenibilità, un suo disegno solido. Quando questo è avvenuto, la maggior parte dei progetti finanziati hanno ottenuto dei grandi riconoscimenti, cosa che nel passato non accadeva così spesso. Oltre a un sostegno economico importantissimo per poter portare a termine progetti altrimenti irrealizzabili, la spinta attuata da parte della Film Commission verso una visione più progettuale dell’opera cinematografica ha fatto sì che si pensasse molto di più sia alla storia che al soggetto, ma soprattutto a come distribuire il film, a considerarlo per un pubblico altro, portando le produzioni locali a dei risultati molto positivi, a riconoscimenti nei festival, a premi, a grandi distribuzioni. Quello della Film Commission in Valle d’Aosta è stato un impulso, un motore, un sostegno alla creatività nel settore cinematografico. All’Ischia Film Festival 2014, dove hai vinto il premio come Miglior Cortometraggio, Pupi Avati ha detto del tuo film: “ho visto in questo modo di fare cinema una libertà della quale non disponiamo più”. Pupi Avati, intervistato dopo la proiezione del mio cortometraggio, parlando del futuro del cinema italiano, ha preso come esempio America, sostenendo che ha visto nel mio film ciò che la categoria dei professionisti dell’audiovisivo non può più fare, a causa dei canoni cui è subordinata. Ha affermato che una scena come il finale di America non sarebbe mai stata accettata dal cinema «commerciale», perché ha un ritmo molto dilatato. Ha sottolineato, infine, che le produzioni indipendenti dispongono di una grande libertà stilistica, tecnica e narrativa nel creare prodotti diversi rispetto all’omologazione del cinema inteso come industria. È stato molto emozionante ricevere questi complimenti da un regista del suo calibro. Com’è stato ricevere il Premio Michelangelo Antonioni per il regista del miglior cortometraggio al Bari Film Festival 2014? Il Bif&st è stato il primo festival italiano a cui ho partecipato con America e non mi aspettavo di vincere il premio. Sono sceso all’anteprima di Bari a spese mie pensando di rimanere un giorno solo. Quando sono atterrato all’aeroporto di Torino intenzionato a tornare a casa, ho ricevuto la telefonata che annunciava la mia vittoria: ho fatto dietrofront e sono salito sul primo aereo per la Puglia. È stata una grande emozione trovarsi nel foyer, poco prima della premiazione, insieme a grandi registi italiani come Castellitto, Scola, Sorrentino, Garrone, Tornatore. La premiazione è avvenuta sul palco del Teatro Petruzzelli di fronte a duemila persone e il premio mi è stato consegnato da Lou Castel, che, mentre ero sul punto di stringergli la mano, mi ha scostato e mi ha abbracciato. È stato forse il momento più bello che mi ha regalato America. a cura di Elisa Collé L’IMMAGINARIO CHE RACCONTA IL REALE Conversazione con Giovanni Cioni G iovanni Cioni è un regista cosmopolita, nato in Francia, cresciuto in Belgio e trasferitosi da parecchi anni a Barberino di Mugello, vicino Firenze. Il suo è un cinema del reale, fatto non «sulle» persone, ma «con» le persone. Attraverso i suoi film, Giovanni Cioni entra in contatto con la gente, esplora la realtà filtrandola con la lente d’ingrandimento dell’immaginazione, guardando oltre la patina dell’attualità, cercando nuovi significati. Il suo ultimo film, Per Ulisse, vincitore del Festival dei Popoli 2013, è una polifonia di voci, un racconto universale, fatto di tante storie, quelle dei frequentatori del centro di socializzazione Ponterosso di Firenze. Come sei arrivato alla decisione di realizzare un film con le persone di Ponterosso? Nel 2006, sono stato invitato al Ponterosso dal mio amico Stefano Serri, animatore e fondatore di questo centro di accoglienza per ex-tossico- dipendenti, per persone uscite dal carcere, per senzatetto e per chi ha percorsi psichiatrici alle spalle. Mi ha chiamato in occasione di un festival del disagio da lui organizzato, per cui ho inventato dei «provini» sul tema “Chi sta peggio di me”. Da quel momento è come se mi fossi innamorato di queste persone. Ho cominciato a frequentare Ponterosso, che è un centro di socializzazione diurno dove si gioca a carte, si parla, si mangia, si fanno attività teatrali. È soprattutto un posto dove incontrarsi, per persone che stanno tornando alla vita. Ho deciso di farne un film, ma non un documentario su di loro, sulle loro storie: non mi interessava raccontare come erano arrivati lì, o interrogarli sul percorso che li aveva portati in carcere o alla tossicodipendenza. Immaginavo un film da fare insieme. E la metafora del viaggio di Ulisse? Ulisse è colui che è stato nel paese dei morti; è lo sconosciuto che torna, colui che era scomparso e di cui non si avevano più notizie. Dicevo loro che pensando a Ulisse avrebbero potuto anche inventare scene, situazioni. Mi sembrava che questo richiamo a una materia immaginaria permettesse loro di raccontarsi meglio. Ti sei ispirato anche alla struttura del poema omerico? Sì, ho utilizzato la struttura narrativa dell’Odissea, nel senso che ho ripreso le sue tre parti: la prima, in cui c’è Telemaco, il figlio, che non ha più notizie del padre scomparso, la seconda, in cui è Ulisse a raccontarsi, raccolto naufrago nell’isola dei Feaci, e la terza, il ritorno a Itaca. Questo schema mi è servito come una sorta di mappa, che mi permettesse di organizzare la polifonia di storie che mi raccontavano. Anche se il film appare in molte parti improvvisato, in realtà è stato molto scritto, molto costruito, in parte insieme a loro in parte da me stesso. Per ognuno di loro era un passare molto tempo soprattutto a parlare. E poi molti momenti sono andati al di là 11 12 di ciò che avevamo immaginato, perché molte situazioni programmate servono per farne nascere altre, più vere e più spontanee. Ci sono delle parti esplicitamente teatrali. Il personaggio di Silvia, per esempio, è molto emblematico nella sua recitazione, in particolare quando racconta di Ulisse smarrito. Silvia, che forse rappresenta sia la madre sia l’amante di Ulisse, è stata proprio l’elemento che poi ha dettato la cifra del film. Quando io le ho parlato del tema, Silvia mi ha fatto leggere un testo che aveva scritto su Ulisse a San Salvi, l’ex ospedale psichiatrico di Firenze. Durante un sopralluogo, Silvia è improvvisamente entrata in campo, ha cominciato a raccontare la storia che aveva immaginato e a parlare di sé attraverso il racconto. È stato il montaggio di questa sequenza, che ho mostrato a Silvia e agli altri protagonisti, che ha permesso alla mia intuizione di prendere forma e rivelarsi, facendo capire a tutti come sarebbe stato il resto del film. Per quanto riguarda il tuo stile, i movimenti di macchina spesso sono guidati dall’emozione, dalla persona che ti sta di fronte e da quello che ti sta raccon- tando. I primi piani sono numerosi… Il volto è un grande e bellissimo mistero in cui si può leggere molto e in cui si crede anche di leggere molto. Se ci si concentra su un volto, si apre un abisso di interpretazioni, di emozioni. Quindi, inizio spesso filmando questa parte. Poi, mi faccio guidare da ciò che nasce in corso d’opera. Quando comincio una ripresa, è come se mi inventassi una storia nel suo svolgersi, la lascio aperta agli imprevisti e mi lascio trasportare da quello che succede. La mia inquadratura è come uno spazio mentale in cui entro, tenendo conto anche molto del fuori campo, che è ciò che non si vede, ma si immagina. Quello che si può chiamare il mio «stile» nasce anche e soprattutto dal montaggio, attraverso cui creo «avventure mentali». Il raccordo tra elementi che possono sembrare completamente diversi, questo collegamento quasi musicale del cinema, è estremamente importante per me. In Per Ulisse, il montaggio crea infatti la poesia, perché alterna le vite delle persone di Ponterosso a versi omerici su fondo nero e alle immagini del mare, formando un connubio estremamente suggestivo… La mia intenzione era di creare una polifonia di voci e di storie che sembrassero in realtà una sola, quella di 13 Ulisse. Il montaggio mi ha permesso di utilizzare l’immagine del mare per esprimere questo concetto. Le onde che s’infrangono sulla riva rappresentano ognuna un’unicità, ma in fondo sembrano tutte la stessa onda. Il mare è una sorta di sottofondo permanente, anche a livello sonoro. Volevo che si sentisse anche quando non è presente. Anche in altri tuoi film, utilizzi la finzione per raccontare e creare il reale: Gli Intrepidi è ispirato alla storia del pirata Morgan di Salgari, in Nous/Autres è presente un incipit teatrale… Per ogni film vi è una spiegazione differente, legata al contesto. Non si tratta di una fuga dal reale o dell’intenzione programmata di mescolare finzione e realtà; penso sia un dispositivo per cercare di indagare maggiormente il reale, come se questo potesse essere ancora più «vero» se guardato attraverso la finzione. In Nous/Autres, il fatto che due attori raccontino in prima persona, come se fosse una testimonianza, le dure vicende di Helga e Yann, rappresenta la distanza che ci può essere tra la memoria del vissuto e il presente in cui si vive, l’abisso che intercorre tra avvenimenti passati e le persone a cui appartengono. Quando in seguito compaiono i veri Helga e Yann, è come se dovessero riprendere possesso di pezzi della loro esistenza. Un giorno Helga mi disse: “Io sono venuta qui in Belgio per fuggire dalla Germania nazista, mia sorella è stata deportata, non ho più avuto notizie di lei. Eppure, quando ripenso alla mia storia, è come se non fossi io, come se fosse un romanzo”. Gli Intrepidi, invece, è nato da una proposta di Giovanni Maderna nell’ambito del Cinema Corsaro di Venezia del settembre 2012. La mia idea era di realizzare un film pensando ai pirati raccontati da Salgari, il creatore di Sandokan a cui è ispirata la rassegna, insieme a ragazzi delle scuole medie di Barberino di Mugello con i quali avevo fatto dei laboratori. Il tema dei corsari è diventato in realtà un pretesto per realizzare un ritratto dei giovani protagonisti del film. Un ritratto attraverso quello che è il loro immaginario, intrecciato con l’idea che ho io dei pirati. Che reazioni ti aspetti dallo spettatore di fronte ai tuoi film? In tutti i miei film, c’è sempre un momento in cui lo spettatore si sente perso, forse troppo, e questo è sempre difficile da valutare durante la realizzazione del film. Tuttavia, è in questo smarrimento che lo spettatore ricostruisce le fila del racconto e si apre all’ascolto perché non ha più certezze, creando collegamenti inaspettati. Il cinema deve permettere allo spettatore di scoprire una realtà quasi come se entrasse in una dimensione clandestina del mondo, un mondo che crede di conoscere, ma che non conosce affatto. In Per Ulisse, volevo offrire allo spettatore uno sguardo diverso sulla situazione di persone che vivono nel disagio, aprendo un’altra dimensione di questo mondo. Per accogliere questo sguardo bisogna accettare di uscire dagli schemi, accettare quasi di non sapere, ed è molto difficile. Nel cinema di finzione, lo spettatore entra nella storia e crede alla realtà del racconto, mentre nel cinema documentario, paradossalmente, bisogna lottare contro il fatto che le persone hanno le proprie convinzioni e credono di sapere già tutto su un determinato argomento. Tu sei un documentarista? Io sono un cineasta, faccio cinema senza chiedermi a quale categoria appartengo. I miei primi lavori sono stati sperimentali, esploravo i linguaggi del cinema per esplorare il mondo. Il cinema era per me una forma di percezione e di riflessione. Quindi, poco importava che fos- se finzione o realtà, ciò che contava era la verità del film stesso. Mi hanno segnato molto spettacoli teatrali come quelli di Romeo Castellucci, in cui vi è il senso di qualcosa che è «più vero del vero», qualcosa di indefinibile che va al di là del razionale. Puoi darmi qualche anticipazione del laboratorio che svolgerai in Valle d’Aosta insieme alla Film Commisssion VdA? Il progetto che farò con la Film Commission sarà incentrato sul tema dei confini. L’idea è di realizzare una specie di sopralluogo nelle terre «incognite», nel senso che ogni luogo, in base a come lo si osserva, può nascondere altri significati, come le giostre de Gli Intrepidi che rappresentano un tesoro. Oltre a Gli Intrepidi, ripenso molto anche a Temoins, Lisbonne, aoüt 00, che ho realizzato nel 2003, in cui sono partito dal fatto che ero in un luogo che non conoscevo e mi sono lasciato trasportare dalle storie che vedevo e che immaginavo. Allo stesso modo, quando la Film Commission mi ha proposto di tenere un laboratorio in Valle d’Aosta, ho cominciato a immaginare. Tra i materiali da cui trarre ispirazione, mi è venuto in mente il racconto breve di H. G. Wells che si intitola Il Paese dei Ciechi, ambientato in una valle. Ho pensato anche a un progetto di film che non ho ancora messo in atto basato sui Canti Orfici di Dino Campana. In quest’opera, si ritrova l’idea del confine tra quello che si vede e quello che sta oltre il visibile, quello che Campana definiva “il panorama scheletrico del mondo”. a cura di Elisa Collé 14 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM A PROPOSITO DI DAVIS SAISON CULTURELLE (Inside Llewyn Davis) Regia, sceneggiatura: Joel e Ethan Coen. Fotografia: Bruno Delbonnel. Montaggio: Roderick Jaynes. Musica: T Bone Burnett. Scenografia: Jess Gonchor. Costumi: Mary Zophres. Interpreti: Oscar Isaac, Carey Mulligan, Justin Timberlake, John Goodman, Garrett Hedlund, F. Murray Abraham, Ethan Phillips, Robin Bartlett, Max Casella, Stark Sands, Jeanine Seralles, Jerry Grayson, Adam Driver, Alex Karpovsky. Produzione: Mike Zoss Productions, StudioCanal. Distribuzione: Lucky Red Distribuzione. Paese: USA. Anno: 2013. Durata: 105 minuti. Il mondo dei fratelli Coen è da sempre popolato da uomini senza qualità, uomini che non ci sono, figure smarrite e inadatte alla vita. Il cantante folk di inizio anni ’60 Llewin Davis, personaggio liberamente ispirato al musicista Dave Van Ronk (che realmente pubblicò un album dal titolo Inside Dave Van Ronk), è uno di loro, un artista come tanti nel Greenwich Village di New York in pieno revival folk, talentuoso, ma non abbastanza da emergere, e soprattutto così cocciuto, orgoglioso e sfortunato da perdere ogni occasione buona. La circolarità e l’ironia beffarda che da sempre imprigionano i personaggi dei Coen non danno scampo nemmeno a Davis: egli vagabonda di continuo per le vie di Manhattan, senza una casa, un lavoro, un soldo, un cappotto; viaggia per ore da New York a Chicago per ritrovarsi con un pugno di mosche; manca le uscite dell’autostrada e permane immobile, stretto nelle spalle, a sopportare la pioggia, la neve, il gelo, i piedi fradici che non asciugano. L’altro, l’altrove, l’obiettivo di una vita che sfugge continuamente dalle mani, non è come in A Serious Man una figura inafferrabile e di spalle, intravista nel finale come sagoma ritagliata contro un tornado: questa volta è afferrato al volo, portato in giro, perso, ritrovato, scambiato, investito, forse ucciso, e poi ritrovato ancora. Non è qualcosa di astratto, ma di tangibile: è un gatto di nome Ulisse, che il povero Llewyn incrocia di continuo sulla propria strada e che si porta dietro, ingombrante e pesante. Solo che Llewyn un posto dove andare non ce l’ha, e nemmeno vi arriva, mentre Ulisse riesce infine a trovare una casa. A Llewyn Davis, inoltre, storpiano di continuo il nome, lo fanno suonare e non gli vendono i diritti, gli pubblicano un disco e lo lasciano con uno scatolone pieno di copie invendute. Un palco su cui suonare ce lo avrebbe, quello del locale del Greenwich dove si esibisce all’inizio e alla fine del film, tuttavia, ogni volta, un individuo misterioso si presenta a malmenarlo dopo la sua esibizione. Nel frattempo, arriva anche un ragazzino di nome Bob Dylan, che suona la stessa «roba» folk di Llewyn, ma meglio di lui e di chiunque altro. Tutto ciò che i Coen dicono in A proposito di Davis, lo hanno già raccontato altre volte: la parabola esistenziale e novecentesca dell’eroe fallito, con un personaggio ridicolo e grottesco che potrebbe stare in un romanzo di Saul Bellow, anche se meno ricco ma altrettanto stupido. Llewyn è come il Larry Gopnik di A Serious Man o l’Ed Crane di L’uomo che non c’era, è la vittima di uno spazio e di un tempo impietosi, di una realtà che prima umilia e poi prosegue indifferente. Solo che questa volta i Coen sembrano più sereni e rassegnati, sanno che il tornado su cui si chiudeva A Serious Man è passato, senza in fondo cambiare nulla. Questa volta non ci si ammala di tumore e non si finisce su una sedia elettrica, ma si resta coi piedi per terra a camminare in tondo, un po’ ottusi, forse, ma liberi e in fondo buoni. L’elemento nuovo, allora, è una stra- na, bellissima dolcezza di fondo, un’aria malinconica e trasognata, un abbandono al piacere della musica, ai pizzichi di chitarra, ai sogni generati da una canzone, che fanno di A proposito di Davis un film commovente e piacevole. Non un film nostalgico sugli anni ’60, ma un film pieno di nostalgia su un tempo passato, con le figure geometriche e gli elementi concettuali tipici dei Coen (il nome di persona nel titolo, contenitore vuoto di un’esistenza senza spessore; le linee rette dei corridoi in cui Davis resta imprigionato) che per una volta non illustrano la vita come uno scontro tra razionalità e caos, ma partecipano alla scrittura gentile e pessimista di una canzone folk per un poveraccio sconfitto dalla Storia, e lasciato sulla scena con le sue decine di copie invendute. Poiché intreccia gli aspetti filosofici del cinema dei Coen con quelli più umanisti e buffi, A proposito di Davis è un film «derivativo» e già visto. Al tempo stesso, però, potrebbe essere finalmente il film della maturità dei due registi, un’opera autunnale che non ha la forza, o la voglia, di costruire le impalcature perfette, lucide e inquietanti dei film degli anni ’90, ma si abbandona a sentimenti di compassione e intenerita derisione. Col tempo, i due fratelli sono divenuti più svagati, sperduti, e anche più distratti, ma nel frattempo hanno anche scoperto un paradossale affetto per i loro eroi, uomini assenti, seri o risucchiati in stretti corridoi, ma pur sempre uomini. Roberto Manassero SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM AMERICAN HUSTLE 15 Regia: David O. Russell. Sceneggiatura: David O. Russell, Eric Warren Singer. Fotografia: Linus Sandgren. Montaggio: Jay Cassidy, Crispin Struthers, Alan Baumgarten. Musica: Danny Elfman. Scenografia: Judy Becker. Costumi: Michael Wilkinson. Interpreti: Christian Bale, Bradley Cooper, Amy Adams, Jennifer Lawrence, Jeremy Renner, Robert De Niro, Michael Peña, Jack Huston, Shea Whigham. Produzione: Atlas Entertainment, Annapurna Pictures. Distribuzione: Eagle Pictures. Paese: USA. Anno: 2013. Durata: 138 minuti. I film sulla menzogna sono scatole a doppio fondo. Poiché il cinema, almeno quello di finzione, si basa su una bugia – corale e complessa, orchestrata e finanziata – la tematizzazione dell’argomento determina inevitabilmente un effetto speculare. Sta poi al regista scegliere in che misura lo spettatore debba essere cosciente dello specchio, sino a che punto gli sia lecito guardarlo direttamente piuttosto che coglierne la presenza attraverso immagini riflesse. American Hustle si apre proprio con uno specchio, davanti al quale un attore – Christian Bale – si sistema i capelli, nell’imminenza di un incontro nel quale dovrà calarsi in un ruolo fittizio. L’effetto di duplicazione viene dunque a essere subito messo in evidenza: la contraffazione è il motore narrativo del film, l’ artificio la sua architrave concettuale, la finzione il suo luogo nevralgico. Proviamo a guardare il film senza guardare lo specchio. American Hustle parla di un’America pacchiana e chiassosa, sgargiante e ruffiana, che vive di espedienti e spacconate, costantemente sopra le righe e al di là dei propri mezzi. A mano a mano che il racconto inanella frodi, imbrogli e marchingegni truffaldini, diventa chiaro che il film aspira a essere la grande metafora di un paese nel quale l’american dream è stato corrotto e piegato alla dinamica della ciarlataneria su grande scala. Scardinata dalla logica del merito e dell’etica, la ricchezza è ora a portata di mano di bari, illusionisti e impostori. Il trasformismo, la spudoratezza e l’azzardo pagano dividendi altissimi, in una sorta di primitivismo avanzato nel quale a soccombere sono i più deboli e dove la debolezza coincide con la buona fede, la colpa con l’inclinazione a credere nel prossimo. Alcuni critici hanno paragonato il film di Russell a Goodfellas di Scorsese, ma è forse più interessante e produttivo accostarlo al suo film più recente, The Wolf of Wall Street. Visti di seguito – una consequenzialità legittimata dalla progressione cronologica: American Hustle è ambientato alla fine degli anni Settanta, la storia del broker di Wall Street ha inizio appena dieci anni dopo – i due film tratteggiano una sorta di unico, imponente apologo morale sulla corruzione della fiducia nell’America del tardo capitalismo. Con un occhio alle vicende politiche e finanziarie legate alle bolle speculative, Hollywood si interroga sui destini di una nazione dove da tempo imperversano gli avventurieri, i professionisti della parola vuota e dell’asso nella manica. Sotto questo punto di vista, i protagonisti del film di Scorsese rappresentano uno stadio successivo nell’evoluzione della specie truffaldina che vediamo all’opera in American Hustle: i primi più organizzati e legittimati istituzionalmente, i secondi più improvvisati e individualisti. Gli uni e gli altri, però, esponenti della medesima tipologia umana, segnata dal parassitismo e dalla vocazione a capitalizzare sulla disponibilità del prossimo a credere nell’american dream: diventare ricchi, ricchissimi, in poco tempo, praticamente subito. Proviamo ora a guardare lo specchio, e il film di riflesso. Posto che la storia ruota intorno a una serie di interpretazioni, dalla cui validità ed efficacia dipendono di fatto i destini stessi dei personaggi, American Hustle è anche un film sulla recitazione. Di più: è una perfetta macchina narrativa finalizzata alla celebrazione e all’esibizione del talento dei suoi attori, che dal canto loro non si fanno certo sfuggire l’occasione. Sono diverse le scene che presentano tratti di autosufficienza tali da generare l’impressione che la loro durata sia dipendente dalle capacità degli interpreti di improvvisare, arricchire di dettagli e sfumature il ruolo richiesto dal copione in quel momento. Sotto questo profilo American Hustle è un film modulare, fatto di pezzi di bravura, di numeri di recitazione d’alta scuola, di virtuosismi assortiti pronti per essere riversati e apprezzati su You Tube. Perfetto per la nostra epoca di cinema spezzettato e frammentato, dove a contare è l’intensità del singolo momento, non la tenuta complessiva della narrazione. Ed è qui che – mettendo insieme i due sguardi – il mondo del film e quello del cinema si incontrano: entrambi dipendono da una performance accattivante e magnetica, capace di sedurre il pubblico in virtù della propria appariscenza. Saremo anche invasi e colonizzati dalla tecnologia, ma il centro focale della nostra attenzione ha ancora bisogno di un vocabolario fatto di gesti e sguardi, lacrime e grida, persino quando tutto questo ha l’inconsistenza di un’illusione o di una truffa. Leonardo Gandini 16 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM ALL IS LOST – TUTTO È PERDUTO SAISON CULTURELLE (All Is Lost) Regia: J.C Chandor. Sceneggiatura: J.C. Chandor. Fotografia: Frank G. DeMarco, Peter Zuccarini. Montaggio: Pete Beaudreau. Scenografia: Jess Gonchor. Musiche: Alex Ebert. Costumi: Van Broughton Ramsey. Interpreti: Robert Redford. Produzione: Neal Dodson, Anna Gerb, Justin Nappi, Teddy Schwarzman, per Before the Door Pictures, Washington Square Films, Black Bear Pictures. Distribuzione: Universal. Paese: Usa. Anno: 2013. Durata: 100 minuti. Un uomo solo, su una barca a vela, da qualche parte al largo dell’Oceano indiano, scrive una lettera di scuse: “Ho provato. Credo siate d’accordo che ci ho provato. A essere vero, a essere forte, a essere gentile, ad amare, ad essere giusto. Ma non lo sono stato. E so che lo sapevate. Ognuno a modo vostro. E mi dispiace. Tutto è perduto a eccezione dell’anima e del corpo, o quel che ne resta…”. Inizia così All Is Lost, il secondo film da regista di C.J. Chandor (dopo Margin Call, 2011, girato nella riserva di Rosarito, in Messico dove James Cameron girò Titanic) e con un unico protagonista, disperso in mare e provato dalla fatica di resistere alla tempesta. Di lui non sapremo nulla di più, neppure dopo essere tornati indietro di otto giorni, nel lungo flashback che costituisce il nucleo centrale del film. Lo vedremo silenzioso pensare e agire senza sosta, fino alla disperazione: lo vedremo tamponare la falla provocata dall’urto con un container, riparare la radio danneggiata dall’acqua di mare, cercare la rotta e andare avanti, nonostante l’impossibilità di trovare un approdo sicuro. A millesettecento miglia nautiche dallo Stretto di Sumatra, come avverte la didascalia iniziale, non c’è molto da fare se non aspettare e lottare. Sopravvivere senza mai fermarsi, muoversi nello stretto spazio di una barca, identificare stratagemmi sempre nuovi per poter bere acqua dolce e sfidare le insidie di un mare imprevedibile. Il «nostro uomo» (così è identificato il personaggio interpretato da Robert Redford nei titoli di coda) è solo e senza parole, ma il suo smarrimento, la sua paura, sembrano venire da più lontano, da un’altra vita cui il nostro sguardo non sarà ammesso. E non c’è una missione da portare a termine, come accadeva in Gravity di Alfonso Cuarón, di cui questo film sembra essere il virtuale controcampo e al tempo stesso l’ideale continuazione. Dopo la deriva senza peso nello spazio, dopo i discorsi, i ricordi, il melodramma solitario vissuto da Sandra Bullock, dopo il suo atterraggio in mare, ecco che il nostro uomo senza nome si abbandona al silenzio e alla più stretta essenzialità. Non ha imprese grandiose da realizzare, né vi sono sfide o ossessioni a tormentarlo. Solo il lavoro continuo, per non smettere mai di vivere, nonostante non ci sia nulla e nessuno attorno a lui. Ci si accorge, però, che al centro di questo racconto esemplare di sopravvivenza, ci sono un’infinità di piccoli gesti e una molteplicità di relazioni che si instaurano con i rumori. Sono questi ultimi a tracciare la linea limpida del racconto. Il fragore del mare, il fremere del vento, lo sbattere delle vele, i passi, quel container pieno di scarpe che sembra emettere lamenti. E poi la tempesta che più volte irrompe con violenza. Non c’è silenzio, in realtà, in questo film senza parole, ma l’inquietudine dell’infinito spazio-temporale, i giorni che si ripetono, l’orizzonte ingannevole. E intanto gli spazi vitali si riducono nel passare dalla barca al gommone. Si sottraggono i gesti. La possibilità del fare cede di fron- te all’attesa e al sentimento della sconfitta. Tentenna l’uomo senza nome ad abbandonare la sua barca: ci ripensa, si volta più volte, torna indietro a cercare oggetti che potrebbero essere vitali, mentre l’acqua divora tutto e oppone la forza del suo silenzio. Chandor procede per sottrazioni: in una forma quasi paratattica va direttamente all’essenza di una storia che rievoca con candore i suoi fantasmi letterari e cinematografici (Hemingway, Melville, Zemeckis). L’uomo e il mare, poi il nulla. Un messaggio nella bottiglia che ha il sapore della sconfitta: la resa e l’immobilità. Ma quando il canotto prende fuoco tutto è di nuovo messo in gioco, la prospettiva cambia e il punto di vista si sposta in fondo al mare: dal basso verso l’alto. Nel lasciarsi avvolgere dall’acqua scura, l’uomo sembra abbandonare gli affanni, la rabbia. E allora si torna con la memoria all’inizio, a quella lettera. “Tutto è perduto”, però, non sembra più riferirsi al naufragio di un uomo nell’oceano, ma a una perdita più profonda prima di prendere il mare. Ecco la deriva di cui il film vuole essere il racconto. La vita senza vita, gli occhi che guardano e le mani che lavorano, senza fretta, ma con ritmo incessante, come se non ci fosse un’idea di fine o di ritorno alla normalità. Eppure tutto cambia di ancora: dalla disperazione a una nuova ipotesi di sopravvivenza. Fine della solitudine, del silenzio e dei limiti dell’agire. Grazia Paganelli SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM AU BOUT DU CONTE 17 Réalisation : Agnès Jaoui. Scénario : Agnès Jaoui, Jean-Pierre Bacri. Image : Lubomir Bakchev. Montage : Fabrice Rouaud. Musique : Fernando Fiszbein. Décors : François Emmanuelli. Costumes : Nathalie Raoul. Interprétation : Agathe Bonitzer, Agnès Jaoui, Jean-Pierre Bacri, Arthur Dupont, Benjamin Biolay, Laurent Poitrenaux, Béatrice Rosen, Dominique Valadié, Didier Sandre. Production : Les Films A4, France 2 Cinéma, Memento Films Production, La Cinéfacture, Hérodiade. Distribution : Lucky Red. Pays : France. Année : 2013. Durée : 112 minutes. En substituant « conte » à « compte », le jeu de mots du titre fondé sur l’expression « au bout du compte » pointe la tension fondatrice du dernier opus du couple Agnès Jaoui-Jean-Pierre Bacri : au lieu de souligner la féérie de notre quotidien, leur plume acérée s’emploie à nous faire reprendre nos esprits dans le domaine des sentiments, à prôner la fin d’un aveuglement qui souvent nous conduit à accepter passivement ce qui nous arrive – et singulièrement pour les femmes, à attendre le prince charmant. C’est du moins ce qui ressort au premier abord de cette réactualisation croisée de contes comme Cendrillon, Le Petit Chaperon rouge ou La Belle au bois dormant à travers le genre que Jaoui et Bacri manient en maîtres : le film choral. Ainsi jonglent-ils avec la vie de Marianne (Jaoui), conteuse en milieu scolaire malgré sa vocation de comédienne, et celle de sa nièce Laura (Agathe Bonitzer), qui rêve du prince charmant et croise dans une fête Sandro (Arthur Dupont), brillant élève au Conservatoire de musique de Paris qui doit vivre de petits boulots. Mais les scénaristes s’amusent aussi à partir de la « persona » cynique et bougonne de Bacri acteur : Pierre, athée invétéré, va se surprendre à croire dure comme fer à la prédiction macabre d’une voyante... La spécialité du couple de scénaristes, le portrait de groupe sociologisant et acerbe entamé avec Cuisine et dépendances de Philippe Muyl (1992), fait ici l’objet d’une jolie torsion vers la stylisation. Les contes de fées servent de canevas ou de sous-texte à ces chroniques de la vie contemporaine. L’ombre des archétypes de nos lectures d’enfance – la bonne fée, la marâtre, la mère protectrice ou le roi incestueux – étoffent les personnages d’une ombre portée que l’écriture ne cesse de nuancer, voire de déjouer. La mise au goût du jour du monstrueux, par exemple, prend le visage de Fanfan (Béatrice Rosen), non pas sorcière maléfique qui se nourrit de sang de vierges, mais belle blonde d’aujourd’hui accro à la chirurgie esthétique, et dont l’éclairage et un travail compliqué de maquillage font reparaître l’âge sous la peau trop lisse. Mais contre toute attente, cette toile de fond archétypale met en valeur son exact contraire : la coexistence bon an mal an et avec les moyens du bord de personnages qui aiment sans demeurer totalement fidèles, qui ont des enfants sans se définir exclusivement comme des parents, qui grandissent sans vieillir. Autant le grand succès de Jaoui et Bacri, Le Goût des autres (2000) tirait une grande partie de son humour d’un certain cynisme au détriment des personnages, autant Au bout du conte prend le risque de lâcher une part de la cruauté comique qui reste leur marque de fabrique. Jaoui et Bacri dépassent les oppositions tranchées des contes traditionnels en les passant au filtre des multiples oeuvres qui les ont médiées, de Disney à Tarkovski, à partir d’une inspiration initiale, la comédie musicale Into the Woods de Stephen Sondheim, dans laquelle les personnages de plusieurs contes se croisent dans les bois. Autre référence, Peau d’âne de Jacques Demy, dont le Président Directeur Général Guillaume Casseul, joué par Didier Sandre, rappelle le Roi Bleu interprété par Jean Marais, et la Marianne que joue Jaoui elle-même, l’inoubliable Fée des Lilas incarnée par Delphine Seyrig. De même que dans On connaît la chanson d’Alain Resnais, qu’ils ont écrit en 1996, Jaoui et Bacri utilisaient le procédé de chansons populaires préexistantes chantées en playback par les acteurs, ici les références au conte, distillées dans le décor, la musique et les costumes, s’emploient à contredire le réalisme psychologique et social. La caméra volontiers mobile de Lubomir Bakchev (connu pour son travail avec Abdellatif Kechiche) participe de cet assouplissement généralisé du trait. Sur une prémisse démystificatrice (“ Ils vécurent heureux et eurent beaucoup d’enfants ”, et après... ? ), le film part ainsi d’une vision désillusionnée des rapports humains, mais il constate la persistence indécrottable de la croyance et la nécessité pour chacun de vivre avec. C’est que la croyance fonctionne à plusieurs niveaux : autant la naïveté ou le déni d’un personnage peut faire l’objet d’une caricature amusée, autant à l’échelle du film lui-même, la croyance demeure le socle de toute fiction. L’écriture savoureuse des dialogues par Bacri et le goût de la direction d’acteurs de Jaoui s’avèrent précieux pour métamorphoser une croyance potentiellement destructrice en carburant cinématographique. Charlotte Garson 18 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM BEFORE MIDNIGHT SAISON CULTURELLE Regia: Richard Linklater. Sceneggiatura: Richard Linklater, Julie Delpy, Ethan Hawke. Fotografia: Christos Voudouris. Montaggio: Sandra Adair. Musica: Graham Reynolds. Scenografia: Anna Georgiadou. Costumi: Vasileia Rozana. Interpreti: Ethan Hawke, Julie Delpy, Seamus Davey-Fitzpatrick, Jennifer Prior, Charlotte Prior, Xenia Kalogeropoulou, Walter Lassally, Ariane Labed, Yannis Papadopoulos, Athina Rachel Tsangari. Produzione: Venture Fort, Castle Rock Entertainment, Detour Filmproduction, Faliro House Productions. Distribuzione: Good Films. Paese: Usa, Grecia. Anno: 2013. Durata: 108 minuti. Prima l’alba, poi il tramonto, ora la notte. Il tempo fa il suo giro e il cerchio cinematografico di una giornata o poco più, a partire da una mattina di estate in Prima dell’alba ha impiegato quasi vent’anni a unire le sue estremità, dal primo film della trilogia di Jessy e Celine, cioè Ethan Hawke e Julie Delpy, del 1993, al secondo, Before Sunset, del 2004, e ora al terzo, Before Midnight. Nel frattempo, Jessy e Celine sono stati giovani viaggiatori da interrail a Vienna, adulti realizzati ma insoddisfatti a Parigi e ora marito e moglie in vacanza su un’isola greca, entrambi maturi e un po’ sciupati ma ancora bellissimi, con due gemelle bambine e un figlio adolescente che lui ha avuto in un matrimonio precedente. Come sempre, anche questa volta (chissà se l’ultima) noi siamo lì con loro, coinvolti da una vicenda sentimentale che avremmo potuto accantonare, ma che abbiamo invece scelto di seguire. E se mai ce ne fosse importato qualcosa di Jessy e Celine (o se volete di Ethan Hawke e Julie Delpy, ormai mimetizzati nei loro personaggi e qui cosceneggiatori con Linklater) siamo sollevati all’idea di sapere che ce l’hanno fatta, che il loro legame è durato e dura tuttora. Al terzo capitolo, come se non ci si fosse mai lasciati, ci ritroviamo a ricordare i trascorsi, a goderci il presente, a ipotizzare un futuro. Perché prima di Jessy e Celine, il vero protagonista della trilogia di Linklater è il tempo. Il tempo come durata, come scarto tra un prima e un dopo, come terra piatta sopra la quale costruire, distruggere e forse ricomporre una relazione. I dialoghi sono tutto in Before Midnight, e dai dialoghi, a partire da un parola, una frase, un passo falso in quella sfida a due che è la coppia, nascono lenti e crescono devastanti i litigi, le discussioni, le parole di troppo che fanno dimenticare il passato e portano a un passo dalla separazione. Il tempo è soprattutto quello presente, dunque, e come tale si offre nella sua piattezza, nella sua noia. Linklater gioca sulla tenuta stilistica di uno stile invisibile, su campi e controcampi infiniti (in macchina, a tavola, nella camera d’albergo), su carrelli a precedere che inquadrano Jessy e Celine o sui long shot che osservano i loro scontri verbali. In scena non c’è l’amore, ma la durata di una relazione. Per questo Before Midnight è tutto ciò che una commedia non può e non dovrebbe essere: il racconto dell’orribile verità che contraddistingue l’amore e che giustamente Hollywood non si è mai sognata di mettere in scena. Linklater costruisce e pesa le situazioni al millimetro, si prende il tempo che ci vuole, e lascia che siano i suoi attori e la macchina da presa a decidere quando e come tagliare o dare lo strappo che fa cambiare il passo. Il cinema c’è, ma sceglie di non staccare e di stare a guardare. Il problema in fondo è che l’amore, la materia narrativa per eccellenza, in realtà è troppo noioso per essere raccontato con una commedia; e a rappresentarlo così come è, spesso estenuante e monotono, ha ben poco di cinematografico. La prospettiva dell’amore, invece, o il desiderio dell’amore, funzionano perfettamente, sono cinema puro. L’amore vissuto va oltre il genere, oltre la narrazione, e appartiene piuttosto a un limbo indistinto dove il senso di realtà influenza ogni sensazione e dove la familiarità tra i personaggi e lo spettatore conta più di qualsiasi aspetto formale del cinema. E infatti Before Midnight rinuncia a ogni tipo di costruzione che non riguardi ciò che succede dentro l’inquadratura e non coinvolga i soggetti dell’amore, i corpi e le teste parlanti dei due innamorati, accettando un’ambientazione da ufficio turistico, una musichetta da filmino delle vacanze e stacchi di montaggio da sitcom. A contare sono lo snodarsi della dolorosa banalità di ogni relazione, l’interazione naturale tra Hawke e la Delpy, la consapevolezza di saperli fittizi e il desiderio di averli per veri; a contare è soprattutto la normale eccezionalità di un’esperienza uguale a milioni di altre. Ma non è la vita, quella sullo schermo: è il miracolo di un amore visibile e credibile. Cosa che solo il cinema può fare, avendo dalla sua il tempo e i corpi. Before Midnight realizza così il sogno di una finzione che dura il tempo di una vita e di un cinema che può vivere oltre se stesso, ricominciando ogni volta non da capo, ma un poco più avanti della volta precedente, nove anni fa con il ritrovamento dopo l’abbandono e ora con la normalità del quotidiano. Non c’è bisogno di raccontare nulla, se non la dinamica di una coppia che gestisce la propria vita come milioni di altre e proprio per questo, per essere credibile, non può e non deve separarsi. Altrimenti, addio alla credibilità e al sogno. Addio, soprattutto, a quello stato di grazia dove il desiderio incontra il senso di realtà, unendo su un solo piano il massimo della finzione con il massimo della banalità. Roberto Manassero SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM BLING RING 19 (The Bling Ring) Regia, sceneggiatura: Sofia Coppola. Fotografia: Harris Savides, Christopher Blauvelt. Montaggio: Sarah Flack. Musica: Daniel Lopatin, Brian Reitzell. Scenografia: Anne Ross. Costumi: Stacey Battat. Interpreti: Emma Watson, Israel Broussard, Katie Chang, Taissa Farmiga, Claire Julien, Leslie Mann, Gavin Rossdale, Kirsten Dunst, Paris Hilton. Produzione: American Zoetrope, Nala Films. Distribuzione: Lucky Red. Paese: Usa. Anno: 2013. Durata: 90 minuti. Bling Ring è per molti versi la summa del cinema di Sofia Coppola. La poetica iperrealistica e minimale di Lost in translation e Somewhere, trova infatti in questo ultimo film il proprio completamento, l’incontro cioè tra la città simbolo del vuoto d’immaginazione contemporaneo, Los Angeles, e la sua principale forma di espressione, lo showbiz hollywoodiano, raccontato non più dal punto di vista di chi ne fa parte e contribuisce a diffondere il morbo (come gli attori depressi e spaesati dei due film citati), ma attraverso lo sguardo e il desiderio di chi, escluso, vorrebbe far parte del grande banchetto. Al di là dell’ispirazione da una storia vera, Sofia Coppola ha scritto e girato il suo film in maniera meno formalista e cerebrale rispetto al resto della sua filmografia: proprio per questo, però, perché è piatto e senza profondità, Bling Ring scandaglia il vuoto di rappresentazione della società dello spettacolo. Il mondo delle star di Hollywood, l’indistinto universo di vip, star del cinema, comparse televisive, icone del pop, che ciascuno di noi immagina inaccessibile e inarrivabile, nel film è in realtà alla portata di tutti, facile da trovare e da cliccare su Google Maps, con le porte aperte, le chiavi sotto lo zerbino, i vetri che mettono in vista la ricchezza, offrendola nella sua nudità a un doppio saccheggio vero e figurato. Bling Ring è un film sulla distanza che separa i cittadini-spettatori dall’oggetto del loro sguardo e del loro desiderio: ma ciò che afferma è in realtà un paradosso, perché quella stessa distanza non esiste; così come non c’è alcuna differenza tra il sogno e la sua realizzazione, tra il desiderio e il possesso. Semplicemente, è il mondo dello spettacolo a non esistere, a proiettare ovunque la sua luce accecante che non illumina nulla. Los Angeles, Hollywood, la metropoli del cinema, il fulcro geografico dell’immaginazione contemporanea, la città che tutti vediamo e che esiste principalmente per essere guardata, in Bling Ring è filmata come uno spazio orizzontale e abbacinante, illuminata da una luce piatta di giorno e da migliaia di luci la notte, un luogo che tutti vogliono vedere, e che nessuno vede veramente. Un po’ come il video di sorveglianza su cui si apre il film, che da solo dovrebbe dissuadere i protagonisti dallo svaligiare le case dei vip, o convincere chiunque della loro colpevolezza, e invece non conta nulla, riprende il vuoto e un gruppo di fantasmi. La piattezza abbagliante della città, così come la filma Sofia Coppola, con il digitale che aumenta l’iperrealismo della rappresentazione, rimanda alla prosa post-modernista di molti romanzi americani di fine Novecento, momento storico in cui l’arte contemporanea ha accettato ed elaborato l’invasione dell’immaginario collettivo da parte dello show business e dei suoi prodotti in serie. In particolare, la «visibilità invisibile» messa in scena in Bling Ring ricorda Rumore bianco di Don De Lillo (1985) e l’apparizione della «stalla più fotografata d’America»: un luogo che tutti fotografano, tutti guardano, tutti visitano. E ovviamente nessuno vede. Per la Coppola lo spazio metropolitano e lo spazio americano in genere annullano il tempo e dissolvono ogni profondità. E ancora una volta, nel suo cinema la geometria si carica di valore concettuale. La linea piatta su cui si apriva Somewhere, in Bling Ring (cioè «la cerchia del bling», dal suono dei messaggi tele- fonici) diventa un cerchio che si chiude da sé: il mondo delle star e della gente normale, separati dall’aura mediatica di chi ce l’ha fatta e mette in mostra il suo successo, arrivano a confluire l’uno nell’altro, con i ladri che penetrano indisturbati in ville milionarie e la cultura della ricchezza sfavillante che colonizza con altrettanta facilità l’immaginario di chiunque la guardi. La piattezza dell’immagine ha finito per condizionare la realtà fenomenica, creando una forma di dominio culturale tanto efficace quanto piatto e inesistente. Lo sguardo di Hollywood, secondo la Coppola, chiede sì una distanza di sicurezza per desiderare e sognare, ma in realtà basta saltare un cancello per capire che il nulla è nella vita così come sullo schermo. E come scrive ancora De Lillo a proposito dei turisti che fotografano la celebre fattoria: “Noi non siamo qui per cogliere un’immagine, ma per perpetuarla. Ogni foto rinforza l’aura”. Bling Ring, in fondo, ragiona nello stesso modo: il moralismo con cui chiude la parabola dei propri miseri protagonisti (il carcere per alcuni, la celebrità effimera per altri, il tutto amplificato poi dall’articolo di Vanity Fair del 2010 The Suspects Wore Louboutins di Nancy Jo Sales da cui è nata l’idea del film) svela il desiderio della Coppola di dare un senso alla sua operazione, di rinforzare l’aura di un paesaggio umano e sociale in fondo provvisto di anticorpi. Ed è un peccato, perché sarebbe stato meglio lasciare i ladri dei vip al loro delirio egotista, offrendo lo spettacolo impudico di un mondo che da sempre fa festa sul Titanic, incurante del naufragio senza fine tutt’attorno. Roberto Manassero 20 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM BLUE JASMINE SAISON CULTURELLE Regia e sceneggiatura: Woody Allen. Fotografia: Javier Aguirresarobe. Montaggio: Alisa Lepselter. Musica: Christopher Lennertz. Scenografia: Santo Loquasto. Costumi: Suzy Benzinger. Interpreti: Cate Blanchett, Sally Hawkins, Alec Baldwin, Bobby Cannavale, Peter Sarsgaard. Produzione: Perdido Productions. Distribuzione: Warner Bros. Paese: Usa. Anno: 2013. Durata: 98 minuti. Immaginate tutte le donne descritte da Woody Allen nei suoi film precedenti. Svampite, smarrite, prolisse, intellettuali, ferite, divertenti, raffinate, crudeli… Jeanette, la protagonista di Blue Jasmine, è tutte queste donne contemporaneamente, ma con l’aggiunta di un lato imprevedibile, quasi surreale, che la conduce a vivere al di fuori di se stessa, come davanti a uno specchio interattivo, dove poter modificare e correggere i dettagli di un manichino da rendere sempre più perfetto. La vita della donna, che non porta il suo vero nome e si fa chiamare Jasmine, è sempre stata, infatti, realizzata e appagante. Moglie di un finanziere ricchissimo, Jasmine è circondata solo di cose belle e preziose, indaffarata e immersa nei rituali stabiliti. Viaggi, feste, case lussuose, regali da capogiro: tutto è portato alle vette estreme di una esistenza finta, esaltata e impersonale. C’è da aspettarselo che l’identità plastificata costruita con tanta dedizione mostri i suoi difetti nel momento in cui il castello di carte crolla sulla sua testa. Niente più marito, niente più soldi e privilegi. D’un colpo precipita nella vita reale che, però, la donna non riconosce. Si scoprirà solo alla fine che è stata proprio lei a premere il bottone della crisi, ma nulla potrà più cambiare, anzi, sarà la forma stessa che si è data plasmandosi a non consentire nessuna trasformazione. L’amara storia di un automa, si potrebbe dire, in estrema sintesi, quella raccontata da Woody Allen, che, forse per la prima volta, delinea i tratti di un personaggio senza vie d’uscita. Neppure trasferirsi da New York a San Francisco, dai quartieri alti alla periferia povera, ha alcun effetto su di lei. Accade, anzi, l’esatto opposto: è lei a forzare la mano sull’ambiente e le persone che si ritrova intorno (la sorella Ginger, il fidanzato di lei, gli amici e addirittura un diplomatico che riesce, in parte, a sedurre). Eppure anche in questo caso tutto risulta vano. Jasmine è per Allen una «creatura» tragica e sola, beffata mille volte dalla vita e tradita proprio da se stessa. Dopo aver perfezionato la creazione del suo personaggio, tagliando ogni legame con le proprie origini (a partire dal nome), Jasmine non riesce più ad adattarsi al presente, alla sua sorte avversa, e così resta legata al passato che continua ad affiorare incontrollabile nei pensieri, nelle parole, persino nei comportamenti. Non c’è mai «qui ed ora», perché ogni gesto è la ripetizione di mille altri compiuti nei soli tempi e luoghi che voglia «autorizzare». La scommessa vinta da questo film è di aver saputo descrivere un mondo spoglio, adornato da rapacità, inganno e autoillusione. A Cate Blanchett, che per l’interpretazione si aggiudica l’Oscar 2014 come Miglior attrice protagonista, il compito di rendere questo mondo elegante, a tratti freddo, ma desiderabile e poliedrico. L’immaginario è più forte della realtà, ci dice Allen. Per questo non distoglie mai il suo sguardo dall’automa di una donna con gli occhi fissi sull’ideale che vorrebbe incarnare (e che ha incarnato per anni), facilitata dall’assenza vera di radici. Jasmine e sua sorella ripetono spesso di essere state adottate e lei, “dotata dei geni migliori”, ha saputo rein- ventarsi al punto da perdere di vista il confine tra vero e falso, scordare i differenti piani temporali, ignorare il concetto stesso di identità. Tutto è confuso, ora che la scenografia è cambiata. Tutto si sovrappone senza possibilità critica. E tutto si ripete, in una giostra quasi grottesca. È come se nella testa di questa donna risuonassero ininterrottamente le note di Blue Moon, la canzone che era nell’aria quando incontrò il marito fedifrago. L’inizio della sua vita coincide con l’inizio della sua lamentazione. Allen organizza con sapiente tensione l’inganno di una struttura narrativa ripetitiva e senza uscita. Con raffinata leggerezza, ci porta verso il dramma più profondo, e lo interrompe senza esaurirlo, proprio quando la disperazione cresce e si tinge di nero. Malinconica Jasmine, incapace di uscire dal suo dolore, non può far altro che riformularlo, nella nostalgia, riproponendo il canto triste della sua vita. Come il blues, cui sembra far riferimento il titolo, Blue Jasmine è un gioco infinito di scatole cinesi, che si chiude al punto di partenza. Da sola, seduta, a parlare dei suoi ricordi, per trattenerli e, di nuovo, non riuscire ad accettare la catastrofe che l’ha travolta, Jasmine è pronta a ricominciare dal principio il suo lungo percorso, senza cambiare alcun dettaglio, inconsapevole e assente, come un robot guasto che non ha in se stesso alcuna immagine possibile o reale. Le basta un uditore, non importa quale, e la sua dolente ballata è pronta a ricominciare. Grazia Paganelli SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM IL CASO KERENES 21 Pozitia copilului Regia: Calin Peter Netzer. Soggetto e sceneggiatura: Razvan Radulescu, Calin Peter Netzer. Fotografia: Andrei Butica. Montaggio: Dana Lucretia Bunescu. Musica: Cristian Tarnovețchi Scenografia: Malina Ionescu. Costumi: Irina Marinescu. Interpreti: Luminita Gheorghiu, Bogdan Dumitrache, Ilinca Goia, Natasa Raab, Florin Zamfirescu, Vlad Ivanov, Adrian Titieni. Produzione: Calin Peter Netzer e Ada Solomon per Parada Film. Distribuzione: Teodora Film. Paese: Romania. Anno: 2013. Durata: 112 minuti. Il titolo originale del film, Pozitia copilului, in rumeno significa «la posizione del bambino», e indica almeno due concetti: una posizione dello yoga che imita il feto nel ventre materno e l’immagine con cui la polizia descrive la postura con cui viene ritrovata una persona investita da un’auto, rannicchiata su se stessa, raggomitolata come un bambino. Entrambi i significati hanno a che fare con ciò che racconta Il caso Kerenes. Il film, che in Italia presenta un titolo più piatto, ma forse commercialmente più efficace, racconta di una madre che accudisce il figlio quarant’enne come fosse un neonato, il quale al contrario desidera più di ogni altra cosa liberarsi dalla morsa dell’affetto non richiesto, e di un incidente stradale in cui un ragazzino rom viene travolto e ucciso da un Suv. Alla guida dell’auto c’è il figlio bamboccione della madre possessiva, donna benestante e altolocata che impiegherà ogni mezzo per salvare dal carcere l’amore della sua vita. Il film mette in discussione lo scontro razziale e sociale tra i ricchi bianchi e i rom poveri; l’evoluzione della classe media rumena da borghesia affrancata dal comunismo a oligarchia deresponsabilizzata; la coercizione di un affetto che protegge e insieme distrugge… C’è molta carne al fuoco, nel Caso Kerenes, forse troppa, ma l’intenzione di Calin Peter Netzer è proprio quella di scrivere un racconto massimalista della società rumena di oggi, tarato sulla complessità e la stratificazione della realtà contemporanea, con l’immagine della «posizione del bambino» a racchiudere l’intera vicenda nel segno di una simbologia di nascita e morte: un feto, quello del bambino mai cresciuto agli occhi della madre, e un cadavere, bambino pure lui, ma per davvero e destinato a rimanere tale nella memoria dei suoi genitori. In mezzo, lo spettacolo ampio e ingarbugliato della vita, che il regista rumeno prova a rappresentare muovendo la macchina da presa con nervosismo e inquietudine, mai frenetico eppure indomito, all’inseguimento di eventi e relazioni che sfuggono di mano ai personaggi stessi. Per Cornelia Kerenes, la madre incapace di accettare il distacco dal figlio, la donna che porta il nome di una figura storica (Cornelia, madre dei Gracchi) simbolo di autorevolezza e potere femminile, tutto dovrebbe rimanere come recita la canzone di Gianna Nannini che la donna balla all’ inizio del film: “nell’anima”, “lì per sempre”, immobile ed eterno. Ma il senso della vita risiede nella sua continua evoluzione, nella naturale crescita del neonato da bambino ad adulto; e per quanto il destino costringa una madre a occuparsi ancora del figlio a quarant’anni, nulla si può opporre all’inesorabile scorrere del tempo e all’altrettanto inevitabile declinare degli affetti. Non c’è colpa, in tutto questo. La responsabilità, semmai, sta nel considerare come scontato un sistema di valori e gerarchie dove la madre svetta sempre sul figlio (anche quando non è richiesta), esattamente come, su piani che Netzer vuole tenere paralleli, il ricco gestisce la tragedia del povero, ponendosi a lato della legge in virtù della sua presunta autorevolezza. Il dramma di Cornelia – e per estensione di una società di genitori che si è mangiata i figli e che nella gestione del potere si è semplicemente sostituita alla dittatura – sta nella comprensione della propria ininfluenza, nella consapevolezza di essere stata superata, non solo dalla legge, ma dalle sue stesse vittime, il figlio cresciuto e traditore e il rom straziato e orgoglioso. E se la macchina da presa segue per l’intero film la «madre-orca», la Cornelia benintenzionata, ma distruttrice, suona proprio come una condanna, per lei e per la sua classe di riferimento, la scelta del regista di tenerla fuori, immobile e distante, nel momento di massima emozione: quello, cioè, in cui il figlio assassino e il padre della vittima finalmente si incontrano. La madre osserva la scena nel riflesso di uno specchietto retrovisore, la camera si ferma su di lei e ne coglie l’impotenza, la rassegnazione con cui accetta di mollare la presa su una trama che voleva a tutti costi tessere in prima persona. Per la protagonista è una chiara sconfitta; ma per Netzer, che aveva chiuso in modo simile il precedente Medalia de onoare (2009) – con un piano fisso lungo e insostenibile, marchio di fabbrica del cinema rumeno almeno dai tempi di 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni – segna una sorta di liberazione, la possibilità di affidarsi senza affanni e rincorse al naturale scorrere del tempo, lasciando alla realtà il compito di assestarsi su un nuovo equilibrio. Ne ha bisogno il suo film, dopo tanti, troppi movimenti di macchina; ne ha bisogno il suo Paese, la Romania democratica e borghese, bianca e rom, ricca e povera, dopo tanti, troppi errori. Roberto Manassero 22 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM C’ERA UNA VOLTA UN’ESTATE SAISON CULTURELLE (The Way, Way Back) Regia e sceneggiatura: Nat Faxon, Jim Rash. Fotografia: John Bailey. Montaggio: Tatiana S. Riegel. Musica: Rob Simonsen. Scenografia: Mark Ricker. Costumi: Ann Roth, Michelle Matland. Interpreti: Steve Carell, Sam Rockwell, Toni Collette, Amanda Peet, Allison Janney, Annasophia Robb, Maya Rudolph, Liam James. Produzione: Sycamore Pictures, The Walsh Company, OddLot Entertainment. Distribuzione: 20th Century Fox. Paese: Stati Uniti d’America. Anno: 2013. Durata: 103 minuti. L’estate, come il titolo italiano lo ribadisce, è il periodo scelto dai due esordienti registi, vincitori dell’oscar per la miglior sceneggiatura non originale assieme ad Alexander Payne per Paradiso Amaro. I due autori recuperano l’approccio umanista e classico già sperimentato in quel film, per raccontarci in maniera efficace una semplice storia di formazione, che sa restituirci quella giusta nostalgia per cui, anche se la regia emerge poco incisiva, rimane un risultato molto interessante. È un momento complicato quello che sta vivendo il protagonista quattordicenne Duncan: è un adolescente taciturno e timido, la sua famiglia si è separata da poco e nessuno si dimostra capace di comprenderlo. Egli non sa con quale genitore deve vivere, la madre ha cominciato a frequentare un altro uomo e questa è la prima vacanza in cui è costretto a stare con i nuovi parenti. L’incipit del viaggio in macchina per arrivare a Cape Cod - che rimanda anche alla scena di chiusura del film - dove Duncan si trova rivolto verso il bagagliaio nel sedile in fondo di una vecchia auto, ci rivela subito un patrigno prepotente nei suoi confronti. Lo sguardo del ragazzo, che per forza di cose si oppone a quello degli altri, è sintomo della sua solitudine, ma anche del suo essere molto più profondo rispetto alla superficialità degli altri personaggi. La domanda e la risposta iniziale del patrigno Trent, impersonato da un Steve Carrell non più nella solita vis comica, ma in una veste sgradevole, abbassano la già fragile autostima di Duncan: sarà questo dialogo che innescherà l’allontanamento dell’adolescente verso la propria strada. I personaggi che ruotano attorno alla casa estiva di Duncan sono tipi ben definiti che servono a creare quel senso di disagio che egli prova quotidianamente: il patrigno così fedifrago e insolente con lui, la sorellastra indifferente, egoista e viziata, la vicina folle e ubriacona con il figlioletto strabico e gli amici del compagno della madre che sembrano più bambini che adulti. Egli spera che almeno la madre lo possa capire e aiutare a uscire da una situazione intollerante, tuttavia la donna appare tanto insicura e incapace a mantenere un equilibrio stabile, da affidarsi totalmente alla presenza del compagno e alla sua finta durezza che lei scambia per responsabilità di padre. Schiacciato dal rapporto con Trent e sentendosi «diverso» dalla cerchia familiare, Duncan non riesce neanche a socializzare e a scambiare quattro parole con Susanna, la bella ragazza della porta accanto. Vagando con la sua bicicletta senza meta, Duncan troverà un nuovo stimolo e un confronto nel parco acquatico Water Wizz e nel suo gestore Owen, che diventerà suo amico. Il parco, mai stato rimodernato, fa tornare in mente le estati dell’adolescenza in località di villeggiatura in cui il tempo sembrava scorrere molto più lento rispetto al resto del mondo. L’apparente aspetto bizzarro di quest’uomo, che gli chiederà di lavorare come suo assistente, assomiglia a quello dei precedenti personaggi, ma sotto la sua superficiale immaturità, nasconde un animo dolce, comprensivo e sensibile che lo fa diventare quella figura paterna che il ragazzo non ha mai avuto. Circondato dal funambolico team del complesso balneare, l’adolescente incontrerà tanti coetanei con cui scherzare e divertirsi, dimenticherà la tesa situazione famigliare e riuscirà a trovare la fiducia in se stesso per affrontare la vita con entusiasmo e forza. Tra una giusta commistione di umorismo e drammaticità, tenerezza e malinconia, questa commedia familiare «estiva» si lascia piacevolmente scorrere nella trasformazione dall’età adolescente al mondo dei «grandi». Un adorabile Sam Rockwell nei panni dell’amico Owen ci regala alcuni passaggi davvero goliardici, mentre la madre rappresentata da Toni Collette sa mostrare le giuste sfumature di una donna molto fragile che ha paura di relazionarsi con gli altri. Un film dalla freschezza e dal retrogusto amaro capace di far riflettere in maniera straordinariamente realistica sulle incoerenze, le paure e le incertezze di un’età delicata in cui è difficile stare soli e riuscire ad affermare la propria identità senza uniformarsi alla massa. Alexine dayné SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM UN CASTELLO IN ITALIA 23 (Un Château en Italie) Regia: Valeria Bruni Tedeschi Sceneggiatura: Valeria Bruni Tedeschi, Noémie Lvovsky, Agnès de Sacy. Fotografia: Jeanne Lapoirie. Montaggio: Francesca Calvelli, Laure Gardette. Musica: Emmanuel Croset, François Waledisch. Scenografia: Emmanuelle Duplay. Costumi: Caroline de Vivaise. Interpreti: Valeria Bruni Tedeschi, Filippo Timi, Louis Garrel, Marisa Borini, Xavier Beauvois, Céline Sallette, Pippo Delbono, Silvio Orlando. Produzione: SBS Production. Distribuzione: Teodora Film. Paese: Francia, Italia. Anno: 2013. Durata: 104 minuti. Esperimenti di «auto-finzione». Contro la volontà e le dichiarazioni dell’autrice, questo termine atipico per la storia del cinema si ripropone più volte quando si tenta di descrivere i film di Valeria Bruni Tedeschi. Dal suo esordio con È più facile per un cammello... (2003), passando per Attrici (2007), fino a questo Un castello in Italia (2013), il «fil rouge» resta la rielaborazione delle proprie esperienze offerte allo spettatore nei toni della commedia, a volte romantica, altre volte farsesca, capace di affrontare il lato tragico dell’esistenza senza mai rinunciare alla speranza. Proprio la morte è il movente dell’ultimo film: non tanto la morte corporale del padre (avvenuta anni prima), quanto il deperimento del patrimonio che l’uomo ha lasciato alla propria famiglia. Affrontare il lutto paterno, nell’ottica borghese, implica accettare di gestirne l’eredità (il bellissimo castello di Castagneto, in Piemonte, di cui parla il titolo): tenuto in piedi dalla madre, ora deve essere preso in mano dai figli, l’indecisa Louise e il carismatico Ludovico, eterni bambini nonostante l’età. Lo spazio del lutto sono le ampie stanze della dimora, il giardino geometrico, l’ombra di un albero troppo alto, luoghi di gioco e di distrazione, di riposo e d’accoglienza, che non hanno mai ospitato un divenire, ma reiterato (o tenuto in serbo) una presenza fanciullesca e spensierata che stride con la realtà dei fatti. Il rifugio del sé bambino richiede la presenza del sé adulto (colui che prende una deci- sione in grado di cambiare non soltanto la propria vita, ma anche quella delle persone che ha attorno), un colpo inaspettato che apre lo stato di crisi descritto dal film. Uscita dal giardino incantato, dove la protezione paterna ha reso sempre sfumato l’incontro con il mondo, Louise è dominata dall’isteria, scelta come cifra stilistica per una società che vive uno shock emotivo tra vita ricordata e vissuta, tempo soggettivo e anagrafico, bisogni autentici e imposti. Il tutto confluisce nell’ansia per la maternità, che appare come la via più compiuta (nella realtà dei fatti, così come espediente di sceneggiatura, e questo dovrebbe far pensare...) per chiudere un cerchio. Se raccontare la propria vita implica un crescente controllo nei confronti della scrittura e della messa in scena, Valeria Bruni Tedeschi ha sempre scelto di osare, puntando su alcune caratteristiche precise proprie del suo nucleo familiare. Innanzitutto una sofisticata popolarità, che a causa principalmente della sorella prima top model e poi première dame, ha riacceso i riflettori sui Bruni Tedeschi, conosciuti per una prolifica industria e per il repentino trasferimento dal Piemonte in Francia nei problematici anni Settanta. La vita della famiglia è sempre stata pubblica e proprio per questo mascherata dalla recitazione, quella offerta ai politici locali, quella giocata con i dipendenti, quella dolcemente imposta nell’alveo familiare (dove i figli sono ancora figli). Una simulazione che ha a che fare con il cinema, in- tuizione dell’autrice che sa di potersi affidare al proprio corpo attoriale e a quello della madre - Marisa Borini, che interpreta splendidamente il suo ruolo tra battutine pungenti e sconforti combattivi - abituati a replicare gesti e maniere, a controllare (che non vuol dire per forza moderare) sguardi e sentimenti. In questa simulazione della vita, grande spazio riveste il desiderio che non sa mai trasformarsi in azione: seguita in un bosco, cercata fin sotto casa, presa d’assedio e catturata in una storia d’amore che fa il verso alla sua con l’attore Louis Garrel, Louise si trova imprigionata tra movimenti artefatti (la mensa per i poveri a cui aderisce pensando ad altro) o scomposti (la lunga serie di gag relative ai tentativi di diventare mamma). Il corpo della Tedeschi sembra ribellarsi al lato fattivo dell’esistenza, in una progressiva disarticolazione che nel finale la porta a riacquistare la propria compostezza quando sono gli altri a scegliere, lottare e correre, mentre lei deve solo sorridere. Un percorso compiuto come attrice e come autrice verso i confini del proprio io, della performatività sulla scena, cardine delle sue scelte di regia, che offrono palchi d’esibizione per attori sideralemente distanti. L’egocentrismo di alcuni, il narcisismo d’altri, il solipsismo dei benvoluti, la morte dei rari, veri rapporti. Una società a pezzi, tenuta insieme dalla propria storia in prima persona: un male per alcuni, l’unico rimedio per altri. Daniela Persico 24 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM CHE STRANO CHIAMARSI FEDERICO SAISON CULTURELLE Regia: Ettore Scola. Sceneggiatura: Ettore, Paola e Silvia Scola. Fotografia: Luciano Tovoli. Montaggio: Raimondo Crociani. Musica: Andrea Guerra. Scenografia: Luciano Ricceri. Costumi: Massimo Cantini Parrini. Interpreti: Sergio Rubini, Vittorio Viviani, Tommaso Lazotti, Giacomo Lazotti, Emiliano De Martino, Antonella Attili. Produzione: Palomar. Distribuzione: BIM, Istituto Luce. Paese: Italia. Anno: 2013. Durata: 93 minuti. “In sé «bozzettismo» non è un termine negativo. Chi oserebbe togliere dignità al bozzetto? Il bozzetto è il progetto di qualcosa da sviluppare che comunque ha già valore in sé. Se in un film vengono accennate le linee umane e psicologiche di un personaggio, sia pure per tratti sommari, impressionistici, non mi sembra che questa «figura» debba essere meno valida del personaggio a tutto tondo. I critici usano «bozzettismo» non come sinonimo di notazione, ma come sinonimo di superficialità. Bozzettismo se ne trova anche nei Promessi sposi, se è per questo…”. In queste parole, pronunciate molti anni fa da Ettore Scola, è possibile identificare le vicende legate al suo ultimo film: sia le critiche spietate degli addetti ai lavori, che accusano il regista di aver realizzato, con poco sforzo, niente più che un esercizietto di maniera, sia uno sguardo registico che fa di tutto per segnare con agilità e leggerezza il tema quasi proibitivo dell’omaggio a Fellini nei vent’anni dalla sua morte. Liquidato sbrigativamente dalla critica e anche per questo completamente ignorato dal pubblico, Che strano chiamarsi Federico rappresenta, invece, un esperimento tanto originale quanto interessante nel panorama del cinema italiano più recente. Scola realizza un film leggero e quasi «impalpabile», al limite dell’insignificante: il modo migliore, secondo il regista, per raccontare il giovane Fellini, l’ambiente del Marc’Aurelio, quel gusto fresco per la satira basato sull’osservazione curiosa, che tuttavia deve fare i conti con la diffidenza e le pronte censure degli ambienti fascisti o clericali. La Roma del Marc’Aurelio datata 1939 e ricostrui- ta da Scola, che la attraversò qualche anno dopo, è descritta come una sorta di limbo sociale e culturale dove si apprezza la battuta arguta, ma dove manca completamente qualsiasi interesse o legame con l’attualità politica e sociale. Una sorta di estrema propaggine di una cultura fascista in cui il disimpegno era un valore assoluto, ma anche un’interessante palestra per imparare a osservare i dettagli più insignificanti, legati ai costumi e alle manie delle persone ordinarie a cui Scola riserba un’attenzione specifica e non comune, che consente agli artisti più visionari e agli spettatori più sensibili di cogliere l’essenza di un dato periodo, i valori nascosti e le abitudini che segnano un’intera epoca. “Nella nostra giornata, negli incontri che facciamo, possiamo continuamente venir accusati di bozzettismo: in autobus notiamo un certo passeggero, per strada troviamo qualcuno di cui fissiamo nella mente i dati più evidenti e immediati; nessuno nega che quegli sconosciuti abbiano sentimenti, implicazioni e complicazioni personali e profonde, ma vengono da noi notati e fissati per l’apparenza fisica, per un gesto, un’espressione. Nei film mi piace mettere delle «annotazioni» di questo tipo, continuerò a farne e i critici continueranno a dire che faccio del bozzettismo”. Mai parole furono più profetiche, ma anche portatrici di un forte livello di coerenza che attraversa tutta l’opera del regista campano. Un’idea di cinema interessata più alle scie emozionali lasciate dagli eventi che non agli eventi stessi, più orientata alla rivelazione e all’emersione del ricordo che non alla messa in scena dei fatti nel momento in cui avvengono. È per tale ragione che il film di Scola su Fellini parrebbe far di tutto per sembrare un divertissement senza pretese, un modo per non prendere mai troppo sul serio il peso del passato, per sfuggire ai ricatti troppo strazianti dei ricordi e per fissare il vissuto in qualcosa che assomiglia a un albo a fumetti, dove la grafica del tratto in bianco e nero rende più stilizzata la memoria ed è per certi aspetti anche molto impersonale. Più che la rievocazione di un personaggio, cosa che sul piano artistico e psicologico sarebbe stata davvero ardua nella sua notevole complessità, Che strano chiamarsi Federico preferisce dunque essere la rievocazione di uno stile culturale, il prodotto bizzarro di uno sguardo disincantato e ironico verso la realtà, unito alla straordinaria verve creativa insita in un tale approccio. Del resto, il genio di Fellini da qualche parte deve per forza avere la sua origine, e Scola la individua nel momento particolare in cui il maestro inizia la sua avventura artistica e creativa, sul finire degli anni Trenta appunto, nell’immersione in una strana euforia che rende folli, ma al contempo irresistibili, coloro che della realtà vedono le cose meno visibili ma alla fine più preziose per cogliere l’essenza di un’intera epoca e della sua cultura. Tutto il resto è venuto di conseguenza, è l’omaggio fatto da un amico a un amico, presentato nella maniera liberatoria e quasi irresponsabile di chi, conoscendo troppo bene le cose della propria vita, si commuove semplicemente a mostrarle, senza preoccuparsi più, neppure minimamente, di spiegarle. Umberto Mosca SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM COME IL VENTO 25 Regia: Marco Simon Puccioni. Sceneggiatura: Nicola Lusuardi, Marco Simon Puccioni, Heidrun Schleef. Fotografia: Gherardo Gossi. Montaggio: Roberto Missiroli, Catherine Maximoff. Musica: Shigeru Umebayashi. Scenografia: Emita Frigato. Costumi: Ginevra Polverelli. Interpreti: Valeria Golino, Filippo Timi, Francesco Scianna, Marcello Mazzarella, Salvio Simeoli, Chiara Caselli, Francesco Acquaroli, Vanni Bramati, Enrico Silvestrin. Produzione: Intelfilm, Amovie, Rai Cinema. Distribuzione: Ambi Pictures. Paese: Italia. Anno: 2013. Durata: 118 minuti. Dalla Lombardia del 1989, nei giorni della vigilia di un lutto indelebile, alla Sulmona del 19 aprile 2003, quando con un colpo di pistola si compie un destino da sempre in agguato: quattordici anni nella vita di Armida Miserere, la prima donna in Italia a diventare direttore di carcere, a entrare dalla porta principale in un mondo ferocemente, esclusivamente, prepotentemente maschile, dentro e fuori dalle celle. Le scene iniziali di Come il vento, la biografia cinematografica che Marco Simon Puccioni ha dedicato a Miserere costruendola sul corpo febbrile e la rocciosa fragilità di Valeria Golino, uniscono l’alfa e l’omega della storia, contrapponendo in montaggio alternato le ultime – uniche – scene di felicità sentimentale vissute con il compagno Umberto Mormile, educatore carcerario ucciso misteriosamente a Milano nel 1990, e il rabbioso risveglio di una mattina abruzzese in cui Armida raggiunge il carcere dove ha passato gli ultimi anni della sua vita. Nel mezzo c’è un quotidiano di durezze e sacrifici: la direzione di carceri difficili – a Voghera con le terroriste irriducibili, a Pianosa tra i boss mafiosi, all’Ucciardone di Palermo rifiutato da tutti – e il rimpianto di non avere mai cancellato i dubbi sull’assassinio del compagno, la cui soluzione – un omicidio di camorra per non essersi piegato ai ricatti – Armida non farà in tempo a vedere. La prima parte del film alterna esterni affettivi (il privato) e interni carcerari (il pubblico) suggerendo un tono melodrammatico che fa da contrappunto alla durezza caratteriale a cui la donna approda negli anni successivi. Dopo la morte di Mormile, Armida si getta nel lavoro, indossa un’armatura – simboleggiata chiaramente dalle uniformi che si abitua a portare – e si rinchiude, letteralmente, nelle carceri che dirige. Come il vento si sviluppa costruendo una continua dicotomia tra passato e presente, tra dentro e fuori, tra donna e uomini, in cui si dibatte il sofferente personaggio di Armida, sempre in lotta contro gli elementi che la circondano, con l’inseparabile sigaretta in mano impugnata come una pistola. Puccioni segue con partecipe affetto il percorso impervio della sua protagonista, il suo scegliere sempre la strada più faticosa, senza volerne fare un monolite privo di contraddizioni. Miserere è una donna di limpida fermezza etica che scivola in momenti di rigidità legalitaria. Come il vento non la giudica né la imbalsama in una raffigurazione puramente morale, ma cerca – non sempre riuscendoci – di ricomporre le sue pulsioni in una psicologia disomogenea perché profondamente umana. L’interpretazione minuziosa di Golino riesce a far dimenticare alcune frizioni di una sceneggiatura spesso troppo occupata a fornire un resoconto completo degli avvenimenti reali che a costruire cinematograficamente una storia compatta. Miserere però è un personaggio affascinante e il film sa coinvolgere insistendo sulla peculiarità del suo percorso emotivo. Il coraggio di questa donna ferita e inflessibile si specchia nel retrogusto amaro di una felicità negata, ma la necessità di definizione del racconto a volte genera risultati meccanici, appesantiti da qualche scelta stilistica che sfiora la retorica (l’uso enfatico del ralenti, la bella, ma onnipresente colonna sonora melò di Shigeru Umebayashi, certe scelte convenzionali di montaggio, la cristologica voce off del finale). Quello che interessa di più in Come il vento è la capacità di descrivere l’inserimento di una donna in un corpo sociale dominato da maschi, non avvezzi a ricevere ordini da una bionda in mimetica. Non è un caso che le parti più compiute e sincere del film siano proprio quelle all’interno della sequenza di carceri che Armida abita come in un prison movie rovesciato. Il racconto della direzione di Pianosa – un istituto di massima sicurezza che è un’isola nell’isola – mette compiutamente in risalto (in scene che brillano di una luce solare che si distingue dai lugubri interni penitenziari di altre galere) le peculiarità di un microcosmo concentrazionario, i rapporti ambivalenti che si costruiscono, la pressione psicologica del vivere in una gabbia immersa in un paradiso. Nel descrivere – nel diventare – Miserere, Golino sottolinea con meticolosa precisione le debolezze, le incrinature, l’ossessione rigorosa che sconfina in menomazione relazionale. Minore intensità e cura caratterizzano i personaggi secondari, più legnosi nella tessitura psicologica e nei dialoghi (in particolare il personaggio di Francesco Scianna, a cui toccano le battute più apertamente didascaliche). La quantità degli elementi a disposizione, frutto di minuziose indagini e ricerche, porta Puccioni a scelte troppo inclusive: la spinta didattica a raccontare un personaggio complesso trasforma in alcuni momenti il film in una sovraccarica enunciazione dei fatti, ma la messa in scena vagamente convenzionale non depotenzia il ritratto di una donna pubblica (una “femmina bestia”, com’era stata battezzata dai detenuti dell’Ucciardone) in eterno equilibrio tra il dovere e il dolore. Federico Pedroni 26 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM DALLAS BUYERS CLUB SAISON CULTURELLE Regia: Jean-Marc Vallée. Sceneggiatura: Craig Borten, Melisa Wallack. Fotografia: Yves Bélanger. Montaggio: Martin Pensa, Jean-Marc Vallée. Musica: Danny Elfman. Scenografia: John Paino. Costumi: Kurt & Bart. Interpreti: Matthew McConaughey, Jennifer Garner, Jared Leto, Steve Zahn, Dallas Roberts, Michael O’Neill. Produzione: Voltage Pictures, Truth Entertainment. Distribuzione: Good Films. Paese: Usa. Anno: 2013. Durata: 117 minuti. Quella dei generi è una delle lenti d’ingrandimento più utilizzate per analizzare il cinema hollywoodiano. Come tutte le chiavi di lettura, il genere favorisce alcune interpretazioni a scapito di altre, tracciando un percorso lungo il cinema americano che trascura traiettorie importanti. Il problema non riguarda semplicemente il privilegio accordato alla struttura narrativa: anche rimanendo nell’ambito dell’intreccio, è possibile individuare costanti diverse, trasversali ai generi, riconducibili in linea di massima a un repertorio ristretto di motivi che ossessionano la produzione hollywoodiana (e, più in generale, la cultura americana) da un secolo a questa parte. Tra queste figura il conflitto di un singolo individuo contro un’istituzione – sociale, politica, economica – enormemente più autorevole e potente di lui, contro la quale egli tuttavia si batte senza paura, forte delle proprie convinzioni. Il tema attraversa il cinema hollywoodiano come un fiume carsico: talvolta scaturisce fuori con grande impeto narrativo (il cinema di Capra negli anni trenta, per esempio), in altri periodi invece corre sotterraneo, quasi invisibile. Allo stesso modo, può innervare di sé la commedia o il dramma, a seconda che il conflitto premi il coraggio del personaggio nel gettarsi nella mischia o lo punisca per il suo tentativo di volare sul nido del cuculo. Dallas Buyers Club appartiene a questa tradizione, ne costituisce un esempio nobile e convincente. Il protagonista si batte contro un apparato medico–farmaceutico che al contempo lo osteggia, lo sovrasta e lo limita, ma che – qui sta il bello della faccenda – non lo scoraggia. Ed è proprio questa persistenza, questa ostinazione scolpita nella pietra delle proprie convinzioni, a dare al personaggio e al film tratti di americanità e classicità, a dispetto del fatto che il cineasta sia canadese e lo stile – frammentato, graffiato da un montaggio inquieto – proprio della nostra epoca. Il paradigma narrativo della contrapposizione fra individuo e istituzioni manifesta qui tutta la sua elasticità. Può aprirsi a declinazioni di estrema attualità e contemporaneità nei temi, nella caratterizzazione dei personaggi e nell’organizzazione della messa in scena. Una volta scandito sul presente, non perde nulla della propria efficacia. Al contrario, ne guadagna in credibilità. Mi sembra esemplare, al riguardo, la caratterizzazione del protagonista, dal quale sono scivolati via i tratti di idealismo e nobiltà d’animo che lo caratterizzavano in epoca classica. Il personaggio di Ron Woodroof ci appare sin dal principio come un uomo tutt’altro che gradevole, rozzo nelle maniere e negli atteggiamenti, la cui scarsa inclinazione per la solidarietà culmina in forme di esplicita omofobia. Come già l’eroina di un film che ha più di un tratto in comune con questo, Erin Brokovich, la battaglia di Woodroof inoltre non nasce da convinzioni ideologiche, ma da un partito preso che viene determinato da circostanze personali. A essere celebrata nel film è dunque la forza dell’individualismo americano, la sua ostinazione nel perseguire una battaglia dove la posta in palio è la libertà del singolo di battere strade inconsuete, equipaggiato solo della forza delle proprie convinzioni. Figure come Erin Brokovich e Ron Woodroof diventano alfieri di una causa nobile quasi per caso, loro malgrado, in ragione dell’avversione di un sistema di potere convinto di poterle neutralizzare e ridurre al silenzio. Inoltre su questo sfondo – a evidenziare ulteriormente la flessibilità del paradigma – si muove la malattia, sotto forma di conto alla rovescia verso la morte. C’è dunque un’altra battaglia che Woodroof deve condurre, e questa volta è di quelle perdute in partenza, poiché nulla può fermare la degenerazione del suo corpo. Sotto questo profilo film e protagonista hanno un respiro tragico, nella storia soffia un vento di ineluttabilità, rafforzata peraltro dall’ambientazione d’epoca. La lotta contro l’istituzione si tramuta allora in una lotta contro il destino, lo scenario politico si fa metafisico, il rodeo diventa la splendida metafora di una vita alla quale puoi aggrapparti solo per un po’, perché prima o poi ti disarciona. La dimensione esistenziale e quella sociale confluiscono in un personaggio antico e moderno al tempo stesso, capace di incarnare la ribellione dell’uomo a eventi più grandi di lui, improcrastinabili come la morte e inossidabili come il ministero della sanità. Senza arretrare di un passo, buttando il cuore oltre l’ostacolo. Cadere, sì, visto che non se ne può fare a meno: ma farlo con dignità. Leonardo Gandini SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM DIETRO I CANDELABRI 27 (Behind the Candelabra) Regia: Steven Soderbergh. Sceneggiatura: Richard LaGravenese. Fotografia: Peter Andrews. Montaggio: Mary Ann Bernard. Musica: Marvin Hamlisch. Scenografia: Patrick M. Sullivan Jr. Costumi: Ellen Mirojnick. Interpreti: Matt Damon, Michael Douglas, Rob Lowe, Dan Aykroyd, Debbie Reynolds, Scott Bakula, Boyd Holbrook. Produzione: HBO Films. Distribuzione: 01 Distribution. Paese: USA. Anno: 2013. Durata: 118 minuti. Si dice che il pianista di origini italopolacche Liberace fosse, tra gli anni Cinquanta e Settanta, il musicista più pagato al mondo. La chiave del suo successo era racchiusa nella capacità di rendere popolare un prodotto culturale «alto» come la musica classica, e nella facilità con cui riusciva a interagire con il pubblico attraverso battute, scenografie strabilianti e costumi barocchi. Pur giocando sull’ambiguità sessuale del proprio look, Liberace entrò prepotentemente nell’immaginario americano come oggetto del desiderio femminile, favorito dalla televisione che per un certo periodo divenne il suo palcoscenico privilegiato insieme a quelli di Las Vegas. Fu anche artefice di una vera e propria rivoluzione linguistica del medium, «inventando» lo sguardo in camera, fonte assoluta di seduzione per il pubblico del piccolo schermo. Soderbergh prende le mosse dalla visione priva di ingenuità di Liberace, qui interpretato da Michael Douglas, per restituire la dinamica che scaturisce dall’incontro mediato tra il divo modello da imitare e al tempo stesso ideale irraggiungibile, per dirla con Edgar Morin - e lo spettatore. Il dispositivo messo in atto è sottile e ingegnoso: la storia d’amore tra Liberace e il giovanissimo Scott Thorson (Matt Damon) non è che una copertura per esplorare l’ingresso di un fan nel mondo fantasmatico della star, una soglia misteriosa che fino a poco prima apparteneva soltanto al suo desiderio. In Thorson, che rimprovera a Liberace il fatto di destinare il suo sguardo anche ad altri uomini, ritroviamo così la frustrazione dello spettatore di fronte all’infranger- si dell’illusione di un rapporto privilegiato con il divo della cultura di massa. E nel piccolo schermo che rimanda le immagini degli show del musicista, contemplato dai due amanti distesi sul divano, possiamo leggere la fantasia di Thorson di possedere l’icona di Liberace in tutte le sue dimensioni, da quella domestica a quella televisiva. Lo specchio, vera e propria figura dominante in tutto il film, porta al parossismo il desiderio di compenetrazione del fan con l’icona, e realizza il sogno di potersi rimirare insieme, in un’unica immagine compiuta. Ma Soderbergh sviluppa tale dinamica anche in senso contrario, con un cambio di registro che, prima di toccare il tragico, sfiora l’irreale fantascientifico (benché i fatti siano realmente accaduti): Liberace vuole che Scott abbia il suo stesso volto, e per questo gli impone alcune operazioni di chirurgia plastica, eseguite da un vampiresco Rob Lowe. Come a rivelare una reciprocità del desiderio e una volontà della star di farsi immortale attraverso la riproducibilità della sua effigie e della sua fisionomia. Ma anche, forse, l’origine di quella malattia contemporanea che trova nella tecnologia digitale lo strumento per rimodellare corpi e identità. Steven Soderbergh ha annunciato che Dietro i candelabri sarà il suo ultimo film da regista. Ironia della sorte, il lungometraggio è stato prodotto e trasmesso proprio in televisione dalla HBO, e solo dopo il passaggio in concorso allo scorso Festival di Cannes ha trovato una distribuzione nelle sale europee. Un motivo in più per considerarlo una (eventuale) perfetta uscita di scena, capace di riflettere l’ambi- valenza del rapporto di Soderbergh con l’industria dell’intrattenimento, peraltro già espressa nel precedente Magic Mike. Da un lato, infatti, si rimane abbagliati dalla fotografia patinata e scintillante del film, di cui si occupa lo stesso Soderbergh, e dalle miriadi di oggetti kitsch che invadono la casa di Liberace, ma dall’altro si prova un senso di rigetto e claustrofobia per la freddezza con la quale ogni singolo dettaglio è minuziosamente riprodotto. Il regista non cerca di umanizzare i suoi personaggi, ma se ne tiene a debita distanza, costringendoli entro cornici ridondanti dove arte e paccottiglia si confondono. Nonostante il soggetto trattato, Dietro i candelabri trasgredisce dunque le principali convenzioni del biopic contemporaneo, rinunciando a diminuire la distanza tra lo spettatore e il personaggio famoso. In primis perché non c’è nessun retroscena da svelare (la vicenda è già stata resa pubblica in un’autobiografia dello stesso Thorson), e poi perché per Liberace, così come per la società dello spettacolo di cui è rappresentante, il confine tra sfera pubblica e privata è saltato già da tempo. Non a caso il momento in cui il ruolo di Thorson acquisisce spessore - attraverso un primo piano rubato al fuori fuoco - coincide con la realizzazione della vera natura del suo rapporto con Liberace: non può esserci matrimonio non tanto per le limitazioni imposte dalle istituzioni in materia di unioni omosessuali, quanto per l’incapacità della star di accettare l’ordinarietà della vita (e della sua morte). Francesca Monti 28 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM A LADY IN PARIS SAISON CULTURELLE (Une estonienne à Paris) Regia: Ilmar Raag. Sceneggiatura: Ilmar Raag, Lise Macheboeuf, Agnès Feuvre. Fotografia: Laurent Brunet. Montaggio: Anne-Laure Guégan. Musica: Dez Mona. Scenografia: Pascale Consigny. Costumi: Ann Dunsford. Interpreti: Jeanne Moreau, Laine Mägi, Patrick Pineau. Produzione: TS Productions, Amrion, Le Parti Productions. Distribuzione: Officine UBU. Paese: Francia, Belgio, Estonia. Anno: 2012. Durata: 94 minuti. “Si, ci sono delle cose interessanti nei film della Nouvelle Vague, ci sono delle idee di regia, un certo senso dell’immagine, del ritmo… Ma gli attori non sono diretti, recitano male. Prenda per esempio Une femme est une femme. Raramente si è visto un Belmondo così falso. Quanto a Brialy, si direbbe che stia cercando di trovare un personaggio per il prossimo film. E Anna Karina… È affettata, fa delle smorfie, si guarda allo specchio. Si ha la sensazione di assistere a una prova, mentre il regista è assente. È una brutta copia dell’arte drammatica – Questa non è recitazione. (…) Prima che Une femme est une femme fosse un documento su Anna Karina, come attrice e come donna, Viaggio in Italia è stato un documento su Ingrid Bergman, come attrice e come donna. Rossellini, come Renoir e prima dei registi della Nouvelle Vague, ha cercato un tipo di interpretazione in cui la finzione rimandi al documento e viceversa”. Nelle parole di Jean Collet, troviamo lo spunto per mettere a fuoco il lavoro del regista estone Ilmar Raag. Il suo secondo film, dopo il fortunato esordio con The Class (2007), può essere letto come un interessante studio sui rapporti tra l’interprete e il personaggio. A Lady in Paris basa buona parte del suo fascino su una fitta serie di rimandi che collegano personaggi e luoghi attraversati dalla macchina da presa a modelli resi celebri dalla settima arte. Da una parte, infatti, tra le lande innevate delle infinite notti baltiche, fatte di perdita di memoria e di brutali tentativi di violenza, emergono le atmosfere e la poetica del cinema di Aki Kaurismaki, grazie anche ai rimandi della protagonista Anne alle donne interpretate da Kati Outinen, icona del regista finlandese. Quando Anne si trova a percorrere, in una tenue alba parigina, la spianata del Trocadero prospiciente la Tour Eiffel, è invece un’altra memoria cinematografica ad apparire. La storica sede della Cinémathèque Francaise fondata e diretta da Henry Langlois, dove si formarono i futuri autori della Nouvelle Vague e dove gli stessi scesero in strada a fianco degli studenti nel maggio del ‘68, apre uno squarcio – per chi lo sa cogliere – verso quell’amore per la settima arte che ha nutrito generazione di francesi e non per tutto il secolo scorso. Seguendo le vicende di Anne e Frida, interpretata da un’altra icona del cinema moderno, Jeanne Moreau, A Lady in Paris arriva a fondere due «Europe», quella dell’Est e dell’Ovest, in un loop geograficoculturale che ci proietta nel passato ottocentesco del nostro continente. Il tutto declinato dietro il prisma di una storia esilissima, dove la figura narrativa del «triangolo amoroso» trova una sua personale interpretazione. Se cinquant’anni fa Nouvelle Vague significava raccontare storie che prima non si sarebbero raccontate, il film di Raag coglie in pieno quello spirito artistico e morale, restituendo freschezza alla questio- ne dell’amore intergenerazionale, che costituì uno dei topoi narrativi di tutte le «nouvelles vagues» internazionali, dal Bertolucci di Prima della rivoluzione a Hal Ashby di Harold e Maude. François Truffaut disse: “Ogni volta che me la immagino a distanza, la vedo che legge non un giornale, ma un libro, perché Jeanne Moreau non fa pensare al flirt, ma all’amore”. Nel film di Raag, Moreau incarna una donna dal passato movimentato, dove le tante storie amorose sembrano esser state segnate dall’intensità della passione, dalla vitalistica attrazione scatenata, ma in modo tale da non consentire allo spettatore, che raccoglie le informazioni attraverso i racconti del personaggio, di distinguere tra il vero amore e la semplice avventura. Ed è su questo confine che il film di Raag si dispone, cercando di suggerire quella componente di «invisibile» teorizzata da Godard e che il cinema ci può aiutare ad afferrare, anche se per pochi attimi. Jeanne Moreau è oggi una donna di 85 anni, con una formidabile carriera di successi alle spalle, che si rivolge con memorabile disincanto e una lucidissima volontà al suo voluttuoso passato. Del suo personaggio in A Lady in Paris dicono che coltivava abitudini piuttosto libertine (“se così si può dire”), a noi non può non venire in mente invece la Catherine di Jules e Jim, il cui anticonformismo appare come condizione essenziale dell’arte e un sorprendente antidoto alla morte. Umberto Mosca SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM FOXFIRE, CONFESSIONS D’UN GANG DE FILLES 29 Réalisation : Laurent Cantet. Scénario : Robin Campillo et Laurent Cantet. Image : Pierre Milon. Montage : Robin Campillo, Sophie Reine, Stéphanie Léger et Clémence Samson. Musique : Timber Timbre. Décor : Franckie Diago. Costumes : Gersha Phillips. Interprétation : Raven Adamson, Katie Coseni, Madeleine Bisson, Claire Mazerolle. Production : Haut et Court, The Film Farm. Distribution : Teodora Film. Pays: France, Royaume-Uni, Canada. Année : 2012. Durée : 143 minutes. Le dernier film de Laurent Cantet affiche, dès son titre, la hauteur de ses ambitions. Frappe d’abord, à première vue, le décalage qu’il semble instaurer avec les œuvres les plus connues du cinéaste – parmi lesquelles un César à Paris, un Lion à Venise et une Palme à Cannes : Ressources humaines, L’Emploi du temps et Entre les murs – ancrées dans une société française dont il ausculte les failles pour mieux exhiber le tragique discret des destinées individuelles qui s’y abîment. De fait, très loin du collège de banlieue ou de l’usine en restructuration, Foxfire, bien plus que les mineurs Sept Jours à La Havane et Vers le Sud, superficiellement exotiques, traduit un irrépressible désir de cinéaste : celui de filmer hors les murs, qu’il s’agisse d’adapter une romancière américaine – Joyce Carol Oates – , de multiplier les séquences en extérieurs ou de se plonger dans le film d’époque en décrivant le quotidien étasunien des années 50. A l’opposé de toute veine semi-documentaire et à rebours de toute prétention historique, Foxfire désigne une société secrète qui montre, en action, un gang de filles qui choisissent de se rebeller contre les faux-semblants d’un univers phallocrate et étriqué. Le film, en ce sens, utilise les métaphores de l’incendie de la lumière. La troupe délinquante, dirigée par la charismatique Legs, décrite comme une “ perpétuelle étoile filante ”, n’a pas son pareil pour mettre le feu aux poudres. Ces Bonnies sans Clyde n’existent que sur le mode de l’affranchissement. Educateurs veules, figures patriarcales perverses, parents eux-mêmes assujettis ou inexistants, notables suffisants : aucune autorité mâle ne semble pouvoir résister à une soif d’émancipation qui fait évoluer le film vers la description parallèle d’une utopie communautaire et d’un basculement irrésistible dans le banditisme, voire le terrorisme. Livrées à elles-mêmes, privées de toute instance régulatrice, les filles semblent faire l’épreuve de tous les possibles. Leur échec programmé ne fera que souligner l’illusion du rêve adolescent ainsi que l’impossible rupture avec le réel et les conventions sociales. Que ces femenistes avant l’heure ne soient pas à l’abri des préjugés raciaux – le groupe, qui vote démocratiquement, refuse d’admettre en son sein une jeune femme noire que Legs a connue pendant sa détention – montre d’ailleurs la lucidité d’un scénario cosigné par Robin Campillo qui, s’il joue immanquablement de l’empathie envers le gang, ne saurait se satisfaire d’un acquiescement simpliste et béat. C’est justement sur ce point que le spectateur se retrouve finalement en terrain de connaissance. Cantet, s’il suggère clairement son point de vue anti-machiste et ses options politiques, à l’opposé du discours capitaliste ultra-libéral d’un des personnages, rend compte des contradictions de ses héroïnes et témoigne de son habileté à filmer un groupe, sans tomber pour autant dans le pointillisme du film choral. Ce sont les errances et les déchirements d’un corps non homogène qui sont décrits dans cette chronique de l’inéluctable. Le choix d’actrices inconnues – pour beaucoup non professionnelles – contribue à donner l’impression qu’un groupe se soude puis se délite sous nos yeux. Il n’est pas anodin de souligner que le cinéaste a repris, pour Foxfire, la technique d’improvisation par ate- liers qui avait déjà présidé à l’écriture du scénario d’Entre les murs ; mais aussi de préciser qu’il a tourné l’essentiel du film à deux caméras, soucieux de parvenir à la fluidité de champs-contrechamps tournés en une même prise. Certains moments témoignent ainsi, contre toute attente dans ce contexte très fictionnalisé, d’une influence du réel dont on constate in fine qu’elle a nourri toute la mise en scène. A y regarder de plus près, le principe d’hybridation vaut aussi pour l’habillage sonore, qui recourt tout autant aux ressources du sound design qu’à une restitution réaliste des bruits et des voix. Dans ce contexte, la musique n’est pas de reste, puisqu’aux arrangements fifties se superpose presque imperceptiblement les sonorités du groupe canadien actuel Timber Timbre. On comprend mieux, dès lors, que l’expatriation du cinéaste, loin de faire de Foxfire une parenthèse dans son travail, renforce l’universalité et la modernité de son propos. Ses choix narratifs s’inscrivent dans la même perspective. L’histoire est racontée par Maddy, qui est la mémoire de la bande tout en étant l’une de ses fondatrices et l’une de ses premières exclues. Son point de vue tient donc à la fois de l’immersion, du recul du temps et de la distance critique. C’est en ce sens qu’une des scènes capitales du film se situe au début. L’acquisition de la machine à écrire apparaît comme une première conquête, au delà de la victoire remportée par les filles sur la cupidité et l’ignominie. La fable est limpide : la seule réussite incontestable du gang tient à sa capacité à inventer et à restituer sa propre histoire. Thierry Méranger 30 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM LES GARÇONS ET GUILLAUME, À TABLE ! SAISON CULTURELLE Réalisation et scénario : Guillaume Gallienne. Image : Glynn Speeckaert. Montage : Valérie Deseine. Musique : MarieJeanne Serero. Décor : Sylvie Olivé. Costumes : Olivier Bériot. Interprétation : Guillaume Gallienne, André Marcon, François Fabian, Nanou Garcia. Production : LGM Films, Rectangle Productions, Don’t Be Shy Productions, Gaumont, France 3 Cinéma. Distribution : Eagle Pictures. Pays : France, Belgique. Année : 2013. Durée : 86 minutes. “ Pardon, certains doivent se dire ‘Y’ en a marre de voir sa gueule’. Je pense à mes professeurs Daniel Mesguich, François Florent [NDR : sens professeurs de comédie dans des cours prestigieux]... ” : début 2014, Guillaume Gallienne soulignait pendant la cérémonie des César 2014 son embarras de voir pleuvoir sur lui et son film toute une série de récompenses (dont celles du meilleur film et du meilleur acteur). “ Voir sa gueule ”, et seulement la sienne, c’est pourtant la clé de la réussite de sa pièce, qu’il adapte ici lui-même. Hilarante, cette autofiction est avant tout œdipienne dans les grandes largeurs – c’est-à-dire sur toute une gamme qui va de l’émotion pure au burlesque à la Tootsie. Soit donc Guillaume, qui dès son plus jeune âge (l’enfant étant bien entendu interprété par l’auteur-acteur quarantenaire), avait une gestuelle et des goûts modelés sur les figures féminines qui l’entouraient – au premier chef sa mère. Des figures elles-mêmes androgynes, ou du moins des femmes de poigne, qui, tante et grand-mère comprises, n’hésitent pas à lâcher des mots crus ou des répliques cinglantes. Gallienne relate à merveille le véritable catalogue d’attitudes et de tics qu’il en vient à constituer dès l’adolescence. À l’encontre de bien des teen movies dans lesquels la différence entre les sexes fait l’objet d’un mystère et d’une érotisation, Les Garçons et Guillaume... l’aborde par le biais d’un mimétisme quasi-scientifique : “ la plus grande différence des femmes, c’est leur souffle, plus ou moins variable, plus ou moins linéaire ”... Sensible à ces infimes modulations, Gallienne apparaît aussi dans ce filmthérapie comme un nourrisson mal grandi, qui malgré le passage des années se percevrait encore comme indifférencié du corps de sa mère, qu’il interprète avec la truculence péremptoire d’une Josiane Balasko ? “ Ça nous arrangeait, elle pour avoir une fille, moi pour me distinguer de mes frères ” : tardivement avancée en voix off, cette hypothèse psychanalytique est en fait débordée joyeusement d’un bout à l’autre du film par la matérialité concrète de cette incarnation féminine, comme dans la séquence de “ Sissi impératrice ” où un édredon fait office de robe de taffetas, ou dans celle des cours de Sévillane lors de vacances en Espagne, au parfum tendrement transgressif de movida des premiers Almodovar. Outre son indéniable efficacité comique et la réussite de son double rôle mère/fils, le film est sorti en France à point nommé, dans un contexte social marqué par une crispation conservatrice autour de la notion de « genre », distincte de la biologie : manifestations qui ont suivi la promulgation de la loi sur le mariage entre personnes de même sexe, polémique autour de la présentation aux collégiens du film Tomboy de Céline Sciamma et recul du gouvernement de centre-gauche sur la loi concernant la Procréation médicalement assistée ainsi que sur la mention de la théorie du genre dans les nouveaux manuels scolaires. Tout cela paraît bien éloigné des souvenirs d’enfance d’un garçon de la haute-bourgeoisie extravagante dans des boarding schools anglaises, et pourtant... Pourtant Les Garçons et Guillaume, à table ! revient avec originalité et vis comica sur la distinction entre sexe, genre et orientation sexuelle : s’il s’identifie toute son enfance aux femmes hautes en couleur qui l’élèvent, Gallienne découvre à me- sure qu’il grandit que contrairement à ce que présume sa famille, il n’est pas homosexuel. Clé de voûte du scénario, ce coming out à l’envers est présent dès l’ouverture sous la forme d’un démaquillage paradoxal. Dans les coulisses d’un théâtre, on entend le régisseur crier : “ On commence dans 5 minutes ! En scène, s’il-vous-plaît ! ” ; Gallienne, dans sa loge, regarde dans un miroir son visage grimé ; il en ôte le fard, on se dit qu’à la faveur d’une ellipse, le spectacle est fini et qu’il va partir. Mais non : c’est la face nue, son masque de geisha effacé, qu’il quitte la coulisse pour entrer en scène. Cette belle ouverture ne met pas seulement en abyme le film en désignant son origine théâtrale. Elle révèle l’ambivalence profonde de la notion de mise à nu dans une œuvre. Pour un acteur de la Comédie-Française comme l’est Gallienne, le visage sans fard ne constituerait-il pas le plus sûr des masques ? Ce début dans la loge programme en réalité la question centrale du film : moins celle de l’orientation sexuelle (l’aventure infructueuse dans une boîte de nuit gay) que celle plus vaste d’un rapport particulier de l’acteur à son corps. De l’Acteur avec un grand A, faudrait-il écrire, car le principe d’ubiquité est ce qui caractérise le Fregoli Guillaume Gallienne, à l’aise autant dans Astérix et Obélix que dans une pièce de Sartre ou de Tchekhov. En ce sens, incarner deux générations et deux sexes, c’est pousser à l’extrême la boulimie d’altérité à l’origine de la vocation d’acteur : dans le “ à table ! ” du titre, il faut aussi entendre l’appétit insatiable d’un être dont on se dit que cesser de jouer un(e) autre signifierait, ni plus ni moins, mourir. Charlotte Garson SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM GLORIA 31 Regia: Sebastián Lelio. Sceneggiatura: Sebastián Lelio, Gonzalo Maza. Fotografia: Benjamín Echazarreta. Montaggio: Soledad Salfate, Sebastián Lelio. Scenografia: Marcela Urivi. Costumi: Eduardo Castro. Interpreti: Paulina García, Sergio Hernández, Diego Fontecilla, Fabiola Zamora, Coca Guazzini, Hugo Moraga. Produzione: Fabula, Nephilim Producciones. Distribuzione: Lucky Red. Paese: Cile, Spagna. Anno: 2013. Durata: 109 minuti. La macchina da presa scopre Gloria in discoteca, sui versi malinconici di Duele, duele: un cocktail tra le mani e il resto del mondo filtrato dall’ampia montatura dei suoi occhiali. Quando il personaggio incarnato da Paulina García (Orso d’argento per la miglior interpretazione femminile alla Berlinale 2013) raggiunge la pista da ballo, a risuonare è invece I Feel Love di Donna Summer, sensuale preambolo a una danza di corteggiamento. Due canzoni che scandiscono l’avvicinamento a un potenziale partner e trasmettono la conflittualità degli stati emotivi di Gloria: da un lato, la nostalgia per il passato; dall’altro, un vitalismo che le impedisce di arrendersi alla propria condizione di tranquilla solitudine. La musica popolare ritorna, nuovamente centrale, quando Gloria è alla guida della sua automobile: l’emulazione delle voci ascoltate alla radio diventa infatti una piena manifestazione del suo desiderio di fuga e movimento. Il girovagare della donna approda così, quasi inevitabilmente, a una versione spagnola di Gloria di Umberto Tozzi, che allontana l’idea di sconfitta suggerita dal corso degli eventi, senza tuttavia aprire alla possibilità di un reale riscatto. Per Gloria non c’è resa né vittoria, bensì un viaggio dell’eroe privo della sua condizione essenziale: una manifesta evoluzione del protagonista. Sebastián Lelio - che, insieme a Pablo Larraín, qui in veste di co-produttore, è tra i nomi di punta di una straordinaria stagione del cinema cileno - sceglie infatti un percorso narrativo differente. Avvicinandosi alla pratica di osservazione dei personaggi di Mike Leigh, esplora Gloria e le diverse sollecitazioni emotive a cui questa è soggetta, rifuggendo ugualmente dall’illusione documentaristica. Il suo occhio riflette i comportamenti ondivaghi della donna, tramutandoli in reazioni ai vari soggetti in cui Gloria si imbatte: la figlia Ana, che sta per conoscere il peso delle responsabilità; il nuovo compagno Rodolfo, irrigidito dal fardello del passato; un gatto glabro, perturbante figurazione del decadimento fisico; una marionetta danzante a forma di scheletro, che sembra prendersi gioco della propria morte; infine un pavone bianco, forse emblema di una sana vanità, per la quale - a dispetto delle più diffuse rappresentazioni sociali dell’età matura non esistono limitazioni anagrafiche. Sviluppandosi tra queste relazioni ed elementi totemici, il percorso di Gloria non contempla punti di svolta o apici, ma scorre come una corrente fluida, portando con sé dramma e ironia. E anche qualche accenno al grottesco, come nella sparatoria colorata ai danni di Rodolfo, dove manca la solennità del redde rationem e prevale, invece, la riscoperta del piacere di uno scherzo infantile. La fluidità sembra appartenere anche alla cornice del racconto, il Cile contemporaneo. Uno dei punti di forza del film sta infatti nel riuscire a far convivere due dimensioni differenti, senza che nessuna di queste appaia imposta. Lo studio di un personaggio si integra così a una più ampia contemplazione dello stato in cui versa il Paese. Similmente a Gloria e Rodolfo, che sperimentano un nuovo tempo della loro vita, anche il Cile è alle prese con una transizione - che passa dalle tracce incancellabili della dittatura per arrivare a un modello democratico più flessi- bile - che sembra non arrivare mai a compimento. Gloria sembra disattenta rispetto all’agire collettivo, se non per un dialogo con amici in cui lamenta il costo delle cure mediche, ma le interferenze della Storia sulle vicissitudini private aprono brecce attraverso uno schermo televisivo che riporta immagini di contestazioni, o direttamente dalle strade di Santiago, dove i manifestanti marciano con i loro cartelli, incorniciando per un istante la protagonista. Così, studiando una donna e i luoghi - fisici e simbolici - in cui questa si muove, Lelio scopre il codice di comportamento sociale che meglio descrive questo stato di cose: una costante distanza di sicurezza tra gli individui, marcata da un obiettivo che raramente mette a fuoco più di un soggetto per volta, come a evidenziare la paura della condivisione di uno spazio, fosse anche il quadro cinematografico. Un interstizio che sembra scomparire solo nell’intreccio dei corpi nudi di Gloria e Rodolfo, unico angolo di socialità autentica. Il resto è simulazione, di luoghi e situazioni comunicative estinti o mai esistiti: la discoteca che riproduce un dancefloor degli anni Settanta, il corso dove si ride a comando, il parco dei divertimenti di Rodolfo, in cui la guerra è trasfigurata in un gioco a squadre. Tutto questo in un Cile che “… sembra ormai il fantasma di se stesso, una copia sbiadita di ciò che era”. E in cui, verrebbe da aggiungere di fronte a un personaggio come Gloria, si continua a danzare soli, ma ci si può sempre far coraggio cantando il proprio nome. Francesca Monti 32 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM HOLY MOTORS SAISON CULTURELLE Réalisation, scénario: Leos Carax. Image: Caroline Champetier. Montage: Nelly Quettier Musique: Erwan Kerzanet.. Décor: Florian Sanson, Emmanuelle Cuillery. Costumes: Anaïs Romand. Interprétation: Denis Lavant, Edith Scob, Eva Mendes, Kylie Minogue, Elise Lhomeau, Michel Piccoli, Leos Carax. Production: Pierre Grise Productions. Distribution: Movies Inspired. Pays: France. Année: 2012. Durée: 115 minutes. Un homme (Leos Carax lui-même) sort de son lit et trouve dans le mur de sa chambre un passage secret. La porte dérobée ouvre sur une salle de cinéma. Par ce geste, le cinéaste-dormeur nous invite à entrer dans une extraordinaire œuvre à plusieurs panneaux, qui font se succéder les différentes vies de monsieur Oscar (Denis Lavant). Tourné de main de maître par le grand directeur de la photographie Caroline Champetier, Holy Motors déploie comme peu d'autres films d’aujourd’hui les puissances du cinéma. Carax, qui l’a réalisé faute de pouvoir avancer sur un autre projet, y fait preuve d’une liberté de ton qui peut dérouter. Au début, des bandes d’Etienne-Jules Marey, le précurseur du cinéma, ont parfois suscité des protestations dans la salle (“ le son, le son! ”) alors qu’elles sont, historiquement, muettes. Plus tard, un éblouissant entracte musical voit l’acteur principal mener un orchestre en marche dans la nef d’une église. Chacune de ces audaces revêt une fonction rythmique vitale, donnant au film un nouveau souffle : la trouvaille a toujours été le « moteur sacré » du réalisateur de Mauvais sang (1986) et des Amants du PontNeuf (1991). Mais qu’on se rassure, dans Holy Motors, il y a bien une histoire ! Et même une dizaine d’histoires. Monsieur Oscar, banquier de haut vol, s’engouffre un matin dans sa limousine blanche. Quelques minutes plus tard, il en ressort en vieille Roumaine voûtée qui mendie près de la Seine, méconnaissable d’authenticité. Thriller d’espionnage à la Mission impossible ? L’intérieur de la limousine suggère non pas une autre piste narrative mais, de manière plus ambitieuse, un autre régime de fiction. Embarqués dans cette voiture déraisonnablement étirée, nous avons quitté les rives rassurantes du réalisme cinématographique sans pour autant avoir rejoint celles tout aussi confortables du film de genre. Nous sommes dans les limbes entre vie et théâtre. La voiture abrite une véritable loge. Oscar enchaîne tout le jour des « rendez-vous », des situations qu’il joue après s’être soigneusement grimé et déguisé. Denis Lavant, alter-ego de Carax qui l’a révélé dans son premier long métrage Boy Meets Girl, a on le sait une agilité d’acrobate, mais ici, c’est tout son être qui semble malléable, élastique. On songe au grand acteur du muet Lon Chaney, surnommé « l’homme aux mille visages ». A chaque nouveau rendez-vous où le conduit son chauffeur Céline, Oscar sort de la voiture entièrement déguisé et maquillé pour ce qui apparaît autant comme une mission que comme un rôle. Réflexion sur la condition du comédien ? Il y a de cela, et la présence de grands acteurs de théâtre – Lavant mais aussi Edith Scob et Michel Piccoli – va dans ce sens. Mais le film va plus loin en creusant jusque dans l’image les présupposés réalistes du cinéma. Quand Oscar entre dans un studio de cinéma et enfile une combinaison recouverte de points destinés à enregistrer ses mouvements en motion capture, la séquence, inouïe, s’offre en élargissement des possibles de la fiction cinématographique. Ni organique ni électronique, ce combat érotique nous plonge à nouveau dans un autre régime d’images. Un homme perpétuellement autre : ce n’est pas seulement ce qui définit le métier d’acteur, pourtant. Le cinéaste aussi passe par ces transformations, surtout Carax, dans les films duquel un Alex (son premier prénom dans la vie) ou un Oscar (son deuxième prénom) fonctionnent comme d’évidentes projections à travers le corps d’un acteur. Mais Holy Motors n’est pas seulement un film sur le cinéma. La succession de rôles est la métaphore de toute vie, des rendezvous amoureux manqués à jamais, des choix de vie irréversibles, des répétitions mortifères. “ No New Beginnings ”, “ pas de secondes chances ”, chante une ancienne amoureuse d’Oscar dans un segment du film en comédie musicale d’autant plus émouvant que Kylie Minogue chante en son direct. A la fin, une autre chanson (de Gérard Manset), résume à la fois le dispositif du film et une angoisse existentielle : “ On voudrait revivre/Mais il faudrait/Revivre la même chose ”. Le temps qui passe sans espoir de retour, la boucle temporelle comme tentation : entre ces deux gouffres, Holy Motors rugit sans jamais ronronner. Sa force vitale dépasse la mélancolie qu’il dégage. Parfois, une séquence s’égare, digresse puis tombe toute seule, comme la tige en excès d’une plante qui peut grandir sans elle. On se sent un moment perdre pied dans le récit, mais le retour à la limousine aux mille costumes ramène à cette évidence : pour monsieur Oscar comme pour nous spectateurs, ce ne sont pas les rôles qui importent, mais les passages de l’un à l’autre, le soin apporté à ses maquillages donc à la préparation d’une « action » à faire. Quelque part, dans un grand hangar, les longues loges ambulantes reposent comme autant de boîtes où des histoires attendent leur heure. Charlotte Garson IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM SAISON CULTURELLE IDA 33 Regia: Pawel Pawlikowski. Sceneggiatura: Pawel Pawlikowski, Rebecca Lenkiewicz. Fotografia: Lukasz Zal, Ryszard Lenczewski. Montaggio: Jaroslaw Kaminski. Musica: Kristian Selin Eidnes Andersen. Scenografia: Marcel Slawinski, Katarzyna Sobanska. Costumi: Aleksandra Staszko. Interpreti: Agata Trzebuchowska, Agata Kulesza, Dawid Ogrodnik, Joanna Kulig. Produzione: Opus Film, Phoenix Film Investments. Distribuzione: Lucky Red, Parthenos. Paese: Polonia, Danimarca. Anno: 2013. Durata: 80 minuti. Una rivelazione sul ciglio di una scelta, una fenditura nella coscienza di sé, un viaggio nella femminilità e nella fede: questo è Ida, lungometraggio del polacco Pawel Pawlikowski e miglior film al London Film Festival 2013. Polonia, 1962: Anna è una giovane novizia, orfana cresciuta in convento e allevata dalle suore al rigore morale e alla religione cristiana. L’unica certezza della sua vita è il suo rapporto con Dio, vero e profondissimo. Tuttavia, sul punto di prendere i voti, scopre che ha ancora una parente in vita, la zia Wanda, e decide di farle visita. Affascinante nelle sue pellicce e nei suoi foulard costosi, con il girocollo di perle, il rossetto sulle labbra e la sigaretta in bocca, Wanda è apparentemente una femme fatale, che ottiene sempre ciò che desidera e piega gli uomini ai suoi voleri. La sua irruenza, portatrice di una sciatteria sensuale e provocatoria, disturba sin dall’inizio l’integrità di Anna, definitivamente sconvolta in seguito alle verità che la zia, con apparente noncuranza e freddezza, le rivela. Anna scopre non solo di chiamarsi Ida e di essere ebrea, ma viene anche a sapere dell’esistenza di un mistero che avvolge la morte dei suoi genitori, profughi ebrei che per fuggire alle persecuzioni durante la Seconda Guerra Mondiale, avevano chiesto aiuto a una famiglia di contadini. Spinta dalla volontà di scoprire le circostanze del loro decesso e di trovare i corpi per donare loro degna sepoltura, Anna inizia con la zia un viaggio nelle campagne polacche alla ricerca dei luoghi in cui avevano vissuto. Il confronto improvviso con questo fardello storico destabilizza, in principio, il mondo austero e disciplinato della novizia. Tuttavia, la comprensione del proprio passato la porterà a scoprire se stessa e la verità colmerà vuoti rimasti fino a quell’istante inesplorati. Per le due protagoniste, infatti, la ricerca delle proprie origini si trasforma in un viaggio alla ricerca di sé, alla fine del quale, però, daranno risposte profondamente differenti. Gradualmente Wanda rivelerà tratti di disperata umanità celati dietro alla falsa durezza del personaggio che si è creata. Smantellerà la maschera che nasconde un tormentato passato di procuratore socialista, i cui oscuri segreti, che affiorano con violenza in rapidi flashback, la portano a naufragare nell’alcool e nelle avventure facili. L’incontro-scontro fra le due donne farà inoltre emergere una duplicità nella personalità della nipote. Anna e Ida sono, infatti, due sfumature della stessa persona, due identità opposte che convivono da sempre. Anna è devozione, purezza e assidua dedizione alla preghiera. Tuttavia, le domande impertinenti e dirette della zia (“Fai mai pensieri impuri?”) la portano a scoprire dentro di sé Ida. Il passaggio avviene tramite la graduale «svestizione» della novizia, costretta nel suo abito castrante e nel grigio copricapo che le nasconde i lunghi capelli, che verranno a poco a poco scoperti del tutto. Anna diventa consapevole della sua fisicità, del fascino che suscita negli uomini, dei suoi impulsi sessuali, emersi in particolare grazie all’incontro con un attraente sassofonista girovago, grazie al quale conosce anche la bellezza della musica jazz, elemento che dona colore all’intero film. Le cose vane e profane della vita lentamente la sedurranno fino a catturarla, costringendola a fare una scelta. Alla parola a tratti petulante, provocante e sfacciata della zia, si contrappongono i silenzi impenetrabili di Anna/Ida. Gli intensi e lunghi primi piani del regista risaltano con delicatezza gli enigmatici occhi neri di Ida, in cui si nascondono tutte le sue inquietudini interiori, ben celate da un’apparente fissità e rigidità corporea del personaggio, interpretato da un’eccellente Agata Trzebuchowska. Stabilità emotiva, solidità, spensieratezza si alternano nel film e nelle vite dei personaggi a momenti di grande incertezza, esitazione e dolore, durante i quali la macchina da presa taglia i corpi, frantuma i volti, li relega ai margini dell’inquadratura, ai limiti della visione: muri, paesaggi, brandelli di cielo entrano prepotentemente nel quadro e schiacciano la figura umana, che si ritrova a essere di colpo piccola, insignificante, mutilata, per riprendere nuovamente possesso dell’immagine una volta che i personaggi riguadagnano la sicurezza. Il bianco e nero dell’elegante fotografia di Lukasz Zal contribuisce a donare un senso di sofisticata sobrietà al film, di contemplazione e introspezione, creando un mondo altro impalpabile e lontano, come lo spazio del ricordo. Il viaggio nella memoria creato da Pawlikowski delinea la dura tematica dell’antisemitismo e dei difficili anni della ricostruzione in Polonia senza la retorica di un film di genere, privo di intenti moralizzanti. Il regista evoca la Storia attraverso l’intimo punto di vista di due donne diversissime, testimoni indirette dello strazio del conflitto. Le originali scelte registiche di Pawel Pawlikowski spiazzano, ma non disturbano, incuriosiscono e affascinano, intrigano lo spettatore, lo portano a voler conoscere la verità, come le due protagoniste del film. Elisa Collé 34 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM IN ANOTHER COUNTRY SAISON CULTURELLE Da-reun na-ra-e-suh Regia, sceneggiatura: Hong Sang-soo. Fotografia: Park Hong-Yeol, Jee Yune-Jeong. Montaggio: Hahm Sungwon. Musica: Jeong Yong-Jin. Interpreti: Isabelle Huppert, Yu Jun-Sang, Jung Yumi, Youn Yuhjung, Moon Sori, Kwon Hae-Hyo, Moon Sungkeun. Produzione: Jeonwonsa Film. Distribuzione: Tucker Film. Paese: Corea del Sud. Anno: 2012. Durata: 89 minuti. In Another Country è il primo film di Hong Sang-soo a essere distribuito in Italia. Presentato al Festival di Cannes nel 2012, dopo più di un anno di attesa, è finalmente arrivato nelle sale anche nel nostro Paese: un piccolo, ma significativo riconoscimento per uno dei registi coreani più celebri a livello internazionale, ma pressoché sconosciuto al pubblico italiano. Nel frattempo, però, tra la primavera del 2012 e l’estate del 2013, Hong Sang-soo di film ne ha girati altri due (tre, anzi, contando il suo contributo al film collettivo ideato per i settant’anni della Mostra di Venezia), Nobody’s Daughter e Our Sunhi, il primo presentato a Berlino, il secondo vincitore a Locarno del Premio per la migliore regia. Una produttività senza sosta, una bulimia di parole e personaggi, della quale Hong Sang-soo sembra non poter fare a meno. La sola spiegazione è che i suoi film il regista coreano li crei, li scriva e li diriga come i suoi personaggi, spesso cineasti anche loro: cioè in modo distratto e svagato, come se creare fosse la combinazione tra un lavoro di routine e un’esigenza personale, un obbligo e insieme uno svago, compreso tra una bevuta e una chiacchierata, tra una litigata e un pensiero su altri mondi e altre vite, possibilmente non troppo diverse da quell’unica che si possiede e dalla quale si vorrebbe uscire. È un labirinto senza uscita, il cinema di Hong Sang-soo, e forse lo è anche l’ispirazione artistica del regista stesso. Non è che siano in blocco creativo, Hong Sang-soo e i suoi personaggi così simili a lui, semplicemente – proviamo a ipotizzare – si annoiano, fanno gli artisti perché non saprebbero cos’altro fare, si pongono alla fine di tutto, del cinema, dell’arte contemporanea, dell’avanguardia, e ne prendono atto senza vittimismo. Cosa ci sia di tanto interessante nel raccontare, film dopo film, di gente di cinema che parla di cinema, che scrive film, che frequenta festival, che beve, mangia e litiga, è in realtà un mistero: a volte non funziona, annoia e disinteressa; altre voce, invece, come nel caso di In Another Country, le cose vanno decisamente meglio, lo stile di Hong Sang-soo si fa così fluido da avvicinarsi alla dimensione della veglia o del sonno, e tutto il suo cinema diventa un sogno imperscrutabile e affascinante. Non a caso i suoi film sono illogici e stranianti come ogni struttura onirica, mostrano e non spiegano, si ripetono e contraddicono. Anche In Another Country, in cui una sceneggiatrice inventa la storia di una regista francese invitata in Corea del sud e costretta a passare le giornate in un villaggio costiero, tra gente di cui non capisce la lingua, con cui comunica in un inglese stentato, con cui intreccia relazioni impacciate e ambigue. L’effetto è quello di una finzione dentro la finzione, con la francese Isabelle Huppert che restituisce perfettamente, tra ironia e fastidio, la sensazione di spaesamento e curiosità tipica del visitatore imbambolato: la donna rivive per un’ora e mezzo più o meno sempre le stesse situazioni, visita più o meno sempre gli stessi luoghi, incontra più o meno sempre le stesse persone, capisce poco o nulla di quello che le capita e per questo diventa lineare e sottile come una figura scontornata (con il suo vestito rosso e il suo ombrello), una magnifica immagine di estraneità allo spazio e al tempo. Perché in fin dei conti il cinema di Hong Sang-soo è il resoconto di una continua crisi esistenziale, o se vogliamo, grazie ai suoi elementi metalinguistici e autoreferenziali, una riflessione sull’eterno conflitto tra creatività e noia, tra immaginazione e pensiero automatico, che risolve in chiave rassegnata e sardonica uno dei grandi crucci dell’essere umano: perché creiamo? perché inventiamo storie, quando forse sarebbe molto meglio dedicarsi ai piaceri semplici della vita, al bere, al mangiare, all’innamorarsi, al fare le cose seguendo l’impulso e non la razionalità? Con In Another Country, Hong Sangsoo ha così realizzato uno dei suoi film più ispirati e divertenti: la luce del villaggio marittimo in cui è ambientato ricorda il Rohmer del Raggio verde, la voluta trasandatezza della regia fa pensare allo Iosseliani di Addio terraferma; e in più, come sempre nel cinema del regista coreano, la sensazione di perenne torpore dei personaggi, la loro solitudine e sottile disperazione, fa intravedere una visione drammatica dell’esistenza e dei rapporti umani. Per fortuna è solo cinema, e prima o poi tutto finisce: salvo ricominciare la volta successiva in maniera sempre diversa eppure sempre uguale. Roberto Manassero SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM L’INCONNU DU LAC 35 Réalisation, scénario: Alain Guiraudie. Image: Claire Mathon. Montage: JeanChristophe Hym. Musique: Philippe Grivel. Décor: Roy Genty, François Labarthe, Laurent Lunetta. Costumes: Veronica Fragola. Interprétation: Pierre Deladonchamps, Christophe Paou, Patrick Dassumçao, Jérôme Chappatte. Production: Les Films du Worso (Sylvie Pialat, Benoît Quainon). Distribution: Teodora Film. Pays: Francia. Année: 2013. Durée: 97 minutes. Des inconnus, il y en a beaucoup au bord du lac du Sud de la France où Alain Guiraudie plante son décor. Serviettes, t-shirts et baskets sur les galets, ce lieu de drague homosexuel s’offre en empire de l’anonymat. Au bord de l’eau, sur des hauteurs plus sombres, un sous-bois garantit aux ébats une certaine confidentialité, à défaut de l’invisibilité. Ce décor est unique et central dans le scénario comme dans la mise en scène de ce film majeur du réalisateur de Pas de repos pour les braves. Les voyeurs y ont leur place (un onaniste qui épie les autres dans les fourrés, un homme tout habillé qui observe les nudistes plus loin sur la rive). Les voyeurs, et même les femmes : un passant assure qu’il y en a parfois dans les parages, ce qui ne manque pas d’étonner Franck, visiteur assidu du lac mais depuis une date toute récente.... A l’évidence, Alain Guiraudie se plaît à déjouer la piste d’un lieu communautaire et par voie de conséquence, extirpe d’emblée son film d’une catégorie « gay », qui ne s’adresserait qu’à une portion de l’auditoire. Il a raison : l’hédonisme et sa récupération possible par une logique consumériste, la passion et la pulsion de mort qu’elle contient sont l’affaire de tous, et cela, le cinéma le sait au moins depuis L’Aurore de F.W. Murnau (1927) ! Soit donc Franck, jeune homosexuel qui se fait un ami sur ce lieu a priori dédié exclusivement au sexe sans lendemain. Henri, bûcheron en vacances plutôt hétérosexuel, bedonnant et récemment séparé, lui propose une alternative aux corps musclés et calibrés des autres visiteurs, et un contrepoint méditatif à la déambulation permanente des regards en chasse. Certes, pas au point de détourner Franck du nouvel arrivant au sex-appeal irrésistible et à la moustache qui lui donne des faux airs de Tom Selleck dans Magnum... Il faut en fait très longtemps pour que les prénoms des trois hommes soient prononcés dans le film. Cela n’arrive qu’après que le regard du dragueur a été lesté d’un poids nouveau : un soir, caché dans les bois, Franck croit voir le bel inconnu noyer son amant. Comme lui, on s’interroge un peu : s’il s’agissait d’un jeu qui a mal tourné? Ou même du fantasme de Franck, projeté comme un film sur l’eau trop calme du lac, dans lequel le silure géant ( qui peut atteindre jusqu’à cinq mètres) est trop inoffensif pour distiller le moindre mystère ? Dès le corps repêché, la nouvelle relatée dans les journaux et la machine policière en route, l’anonymat se dissipe, même si seul le mort se trouve entièrement nommé dans le dialogue. Pourtant « l’inconnu » du titre se creuse – ce n’est plus tant une personne qu’une notion. Peu à peu, même si comme résume Franck à l’inspecteur, “ on ne va pas s’empêcher de vivre ”, le plaisir sans conséquence de ce lieu de « tolérance » (où le nudisme est en principe interdit, mais règne de facto) perd de sa légèreté. Un meurtre a eu lieu, et ce coup d’arrêt temporel bouleverse la durée propre du lieu, celle de la répétition des scènes sexuelles, du retour cyclique du même, scandé dans le découpage du film par le parking qui s’emplit et se désemplit jour et nuit. Ce temps répétitif et sans butée, Michel s’y sent bien, qui a par ailleurs « sa vie » et refuse de partager davantage avec Franck, qui aimerait dîner et dormir avec lui. Dans les précédents films d’Alain Guiraudie, l’homosexualité a sa place hors de tout cadre moralisateur. Ici, face à l’hédonisme cynique de Michel ou à l’hygiénisme inquiet d’un autre visiteur barbu, la lassitude d’Henri et de Franck dresse un bilan perplexe. Dans ce film aussi taraudant que visuellement splendide, le cinéaste s’enfonce dans le sous-bois de la passion et de son revers, la pulsion mortifère. Les personnages les plus « romantiques » sont aussi ceux qui prennent le plus de risques. Jusqu’où l’Autre me détruira-t-il ? La pratique sexuelle de Franck, qui se passe volontiers de préservatifs, pose déjà la question d’une tentation autodestructrice ou du moins d’un goût du risque assimilé un peu vite au goût de la vie. Le lac et ses environs, filmés en Scope dans une lumière magnifique et rehaussés au montage par un sens de l’ellipse magistral, sont le lieu de l’idylle comme de sa négation – lieu de la vie la plus intense avant que d’être lieu de mort. Est-ce un hasard si le réalisateur, non crédité au générique, apparaît dès les premiers plans sur la plage, nu jambes écartées, premier interlocuteur de Franck ? “ Ça commence pas trop mal ”, dit-il en parlant de la journée de drague, mais aussi du récit. Connu pour ses douces utopies sociales et paysagères, Guiraudie a souvent forgé des néologismes topographiques, inventant des territoires aussi régionalement marqués que clairement inventés. La nouveauté de L’inconnu du lac, c’est que l’Imaginaire y rencontre le Réel. Il est beau, moustachu, bon nageur. Et dangereux. Charlotte Garson 36 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM INFANZIA CLANDESTINA SAISON CULTURELLE Infancia clandestina Regia: Benjamín Ávila. Sceneggiatura: Benjamí Ávila, Marcelo Müller. Fotografia: Iván Gierasinchuk. Montaggio: Gustavo Giani. Musica: Marta Roca Alonso, Pedro Onetto. Scenografia: Yamila Fontan. Costumi: Ludmila Fincic. Interpreti: Natalia Oreiro, Ernesto Alterio, César Troncoso, Cristina Banegas, Teo Gutíerrez Moreno. Produzione: Historias Cinematograficas Cinemania, Habitacion 1520 Producciones, Antartida Produccions. Distribuzione: Good Films. Paese: Argentina, Spagna, Brasile. Anno: 2011. Durata: 112 minuti. Infanzia clandestina, opera prima del cineasta argentino Benjamín Ávila, non è un altro film sui desaparecidos durante gli anni della dittatura militare. È un lungometraggio che descrive quel tragico periodo della storia argentina osservando la quotidianità di alcune persone adulte aderenti all’organizzazione armata dei Montoneros, in lotta con la giunta al potere che dette loro una caccia spietata. Ci sono Horacio e Cristina, marito e moglie, e Beto, il fratello di Horacio. E c’è Juan, ragazzino di dodici anni figlio della coppia. La vita di quegli uomini e di quelle donne è osservata, soprattutto, dal suo punto di vista. Come quella dei genitori, costretti a nascondersi e a cambiare luoghi di residenza, anche l’esistenza di Juan è segnata dalla clandestinità. E in maniera ancora più profonda rispetto a quella di suo padre e sua madre, poiché si trova a vivere una doppia identità, ad avere due famiglie e due nomi: se in casa è Juan, a scuola e in ogni situazione pubblica si chiama Ernesto. Ávila racconta questi personaggi stando accanto a loro con discrezione, con una camera a mano sempre sensibile nel cogliere gli stati d’animo, le emozioni, le paure e le complicità, gli affetti, gli istanti di tenerezza. Sono personaggi che il regista argentino conosce bene. Infanzia clandestina si basa sulla sua storia personale, pur non essendo un film espressamente autobiografico. Si tratta di un viaggio verso la presa di coscienza di un bambino alle soglie dell’adolescenza, fatto di continue esplorazioni e separazioni, sia geografiche, dalla propria terra (gli spostamenti in Brasile e a Cuba con i genitori, il rientro in Argentina fingendosi, insieme alla sorellina di pochi mesi, figlio di un’altra coppia per ingannare le autorità), sia da persone amate, vissute in modo traumatico (la morte dello zio, l’uccisione del padre appresa da un notiziario televisivo, la sparizione della madre e della sorellina sequestrate dai militari) o dolorosamente consapevole (l’impossibilità per Juan/Ernesto di proseguire la sua prima storia d’amore con Maria). Infanzia clandestina si concentra quasi esclusivamente su quel che accade a Juan e alla sua famiglia. Significativamente, né le azioni dei guerriglieri né la repressione dell’esercito vengono mostrate. Anche questo distingue il film di Ávila dalla maggior parte degli altri realizzati su tale argomento. Ed è sorprendente la scelta di ricorrere al fumetto (di alta qualità) per sintetizzare le situazioni che hanno a che fare con scontri armati, rappresaglie, arresti. L’inizio è esemplare e ben disegna il percorso creativo del regista che ha impiegato quasi dieci anni per portare a compimento il film, avendo cominciato a scrivere la sceneggiatura nel 2002. Di notte, in auto, Juan e i genitori stanno rientrando a casa. La macchina da presa li «abbraccia» in un’intensa vicinanza fisica. Poi, l’agguato da parte di un’altra auto mentre loro sono sul marciapiede. A quel punto, le tavole del fumetto si sostituiscono alle immagini «reali» per descrivere la sparatoria. Al fumetto si delega anche il compito di mostrare la morte di Beto e l’irruzione dei militari nella casa per catturare Cristina. Il fumetto visualizza, inoltre, quello che sta nella mente di Juan, cose che ha visto, che ha immaginato (come il nascondiglio costruito fra le mura domestiche) o che ha sognato. Al pari delle sequenze animate, i sogni entrano in modo naturale nelle scene, sono un’espansione dei fatti in un’altra dimensione, dove trovano nuova consistenza ed elaborazione. Ma Infanzia clandestina contiene anche bellissimi sogni a occhi aperti, quelli che vivono Maria e Ernesto vicino ai resti dell’auto bruciata, trovata nel bosco durante la gita scolastica, sognando di viaggiare in Brasile tra palme e spiagge, oppure alle giostre, tra ottovolanti e specchi, raggiunte fuggendo per qualche ora dalla scuola e dalle famiglie. Il montaggio, le luci e alcuni passaggi narrativi evocano il sogno, le immagini fluiscono radicate in un preciso contesto e al tempo stesso sono sospese in uno spazio della memoria (si pensi alla scena in cui i genitori di Juan e i loro amici cantano e bevono, colti in tutta la loro bellezza di giovani innamorati della vita). Sospeso è anche il finale: ormai «orfano» e divenuto «adulto», Juan si reca dalla nonna materna e scandisce il suo vero nome riappropriandosi della sua identità, prospettando, forse, un nuovo inizio. Giuseppe Gariazzo SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM L’INTREPIDO 37 Regia: Gianni Amelio. Sceneggiatura: Gianni Amelio, Davide Lantieri. Fotografia: Luca Bigazzi. Montaggio: Simona Paggi. Musica: Franco Piersanti. Scenografia: Giancarlo Basili. Costumi: Cristina Francioni. Interpreti: Antonio Albanese, Livia Rossi, Gabriele Rendina, Alfonso Santagata, Sandra Ceccarelli, Bedy Moratti. Produzione: Palomar, Rai Cinema. Distribuzione: 01 Distribution. Paese: Italia. Anno: 2013. Durata: 104 minuti. Gianni Amelio continua a raccontare, con tenerezza e lucidità, l’essere umano e la società in trasformazione, il ruolo degli individui di fronte a profonde situazioni di cambiamento. E lo fa con una ritrovata leggerezza, già evidente nel suo «omaggio» a Albert Camus, il film del 2011 Il primo uomo. Lasciato quel film, che univa idealmente l’Algeri dello scrittore francese con la Calabria del secondo dopoguerra del regista, Amelio è tornato in Italia per rappresentare con L’intrepido i resti di un paese frastornato dalla crisi. Evitando di ricorrere al film di denuncia e ai limiti narrativi che spesso contiene, Amelio ha costruito una commedia malinconica, ha fatto ricorso alla favola e a toni talvolta surreali per portare in primo piano i disagi singoli e collettivi dell’Italia di oggi. Ne è scaturita un’opera importante, percorsa da una costante tensione visiva, come una scarica elettrica che attraversa le inquadrature, collegandole fra loro e impedendo che disperdano l’energia accumulata. Le brevi scene iniziali, che costituiscono una sorta di prologo, sono significative della poetica attuata da Amelio. Si tratta di porre lo sguardo, con tocco quasi documentaristico e ricorrendo all’uso del carrello (strumento fondamentale nel cinema di questo autore per andare alla scoperta fisica e interiore dei personaggi nei loro ambienti), su alcuni luoghi di Milano (un cantiere in cima a un edificio, un centro commerciale, gli spazi che mutano la città in occasione dell’esposizione universale) nei quali sosta un uomo come tanti, ma dal mestiere singolare. Protagonista de L’intrepido è Antonio Pane. Per lui Amelio ha immaginato un lavoro chiamato «rimpiazzo», ovvero un non-lavoro, la forma estrema del precariato sottopagato o per nulla retribuito. Disoccupato, Antonio prende il posto, anche per poche ore, di chi deve assentarsi dalla propria occupazione, diventando di volta in volta, e magari nel corso di una stessa giornata, muratore, libraio, tranviere, uomo-sandwich, venditore di rose nei ristoranti… Come un moderno Chaplin, Antonio entra ed esce dalla catena di montaggio della provvisorietà con la faccia, i gesti di Antonio Albanese che dà mirabilmente corpo a un personaggio molto vicino a quello del suo esordio da regista, Uomo d’acqua dolce. L’Antonio Pane da lui interpretato è un semplice, si accontenta di poco, e trova in una giovane donna incontrata per caso qualcuno con cui poter condividere pensieri e sentimenti (bruscamente interrotti dalla tragica fine della ragazza). La sua vita sentimentale è inesistente, la moglie (Sandra Ceccarelli), che ama ancora, lo ha lasciato, e con il figlio talentuoso sassofonista, ma pieno di ombre, il rapporto è complice e al tempo stesso problematico. Se Albanese è il professionista che abbandona i travestimenti e i personaggi multipli per riappropriarsi delle venature più stralunate e commoventi della sua recitazione e per il quale Amelio ha scritto di getto il soggetto, “sul corpo e l’anima di un attore che amo molto”, Livia Rossi (la giovane donna) e Gabriele Rendina (il figlio) sono due esordienti, scelti dal regista proprio per creare un contrasto con Albanese, perché “regalassero un po’ della loro innocenza agli altri protagonisti”. In conclusione, il film devia verso un epilogo collocato lontano dall’ambientazione principale. Avvilito da una squallida esperienza in un negozio di scarpe, in realtà contenitore di scatole vuote, Antonio se ne va di spalle lungo il viale, una chiusura a iride lo nasconde per farlo ritrovare, la scena successiva e qualche anno più tardi, in Albania. Ha abbandonato l’Italia e ha trovato lavoro e amici. Ha compiuto un viaggio di migrazione al contrario, ha imparato la lingua e iniziato una nuova vita, ritrovando anche il figlio e aiutandolo a superare un malessere esistenziale che gli impedisce di salire su un palco e suonare. In linea con altri lavori di Amelio, i personaggi de L’intrepido ritrovano se stessi in un posto diverso. Ma l’Albania di questo film assume un ruolo particolare, essendo Amelio l’autore de Lamerica, che quasi vent’anni fa descriveva l’approdo sulle coste italiane dei profughi albanesi. Amelio, come Antonio, compie un viaggio: dentro il suo cinema. Realizzando anche, con L’intrepido, un ideale «contro campo» di quel film del 1994 e, in maniera sempre discreta, una spietata istantanea di un Occidente che solo in un altrove, prossimo o lontano, può cercare di ritrovarsi. Giuseppe Gariazzo 38 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM GIOVANE E BELLA SAISON CULTURELLE (Jeune et Jolie) Regia e sceneggiatura: François Ozon. Fotografia: Pascal Marti. Montaggio: Laure Gardette. Musica: Philippe Rombi. Scenografia: Katia Wyszkop. Interpreti: Marine Vacht, Géraldine Pailhas, Frédéric Pierrot, Fantin Ravat, Johan Leysen, Charlotte Rampling. Produzione: Mandarin Cinéma, France 2 Cinéma. Distribuzione: Bim. Paese: Francia. Anno: 2013. Durata: 94 minuti. François Ozon è disarmante. Da un lato non ha paura, per mantenere regolare e costante il ritmo della sua produzione, di ricorrere a scelte formali e narrative di grande, apparente banalità. E dall’altro, ha il talento di nascondere i suoi film sotto il velo di uno scandalo ben orchestrato. E se Jeune et Jolie si offre alla nostra visione come l’occasione unica di essere promiscui testimoni della manifestazione reale di un’antica rêverie erotica maschile (l’oggettivazione funzionale al proprio desiderio del bellissimo corpo di una donna giovanissima), il suo autore ci svende le sue raffinate intuizioni inquadrandole in una struttura di racconto, se così si può dire, di seconda mano (il susseguirsi delle quattro stagioni, con l’inevitabile introduzione costituita da un cartello descrittivo: estate, autunno, …). Adolescenza? Sesso? Frattura culturale tra la generazione dei figli e quella dei genitori? Certamente sì, sono questi i temi che Jeune et Jolie declina articolandoli su quattro cicli temporali. Eppure l’impressione finale è che per Ozon l’unica cosa che conti sia raccontare il potere distruttivo e ri-generativo dello sguardo. D’altra parte è proprio su uno sguardo (binoculare) che il film si apre, quello del fratello di Isabelle sul corpo della sorella. E non è la «prima volta» di Isabelle la scintilla che mette in moto la sua vicenda, bensì lo sguardo su di sé che questa esperienza fa nascere in lei: uno sguardo su se stessa che non porta senso né chiarimento, ma solo consapevolez- za della propria capacità di muoversi nel reale e di riuscire nel medesimo tempo a prendere dall’esterno le misure – senza analisi, senza bisogno di tradurre l’esperienza in comprensione – della propria capacità di muovere il reale, di modificarlo agendo al suo interno. In altre parole, se in principio era lo sguardo, questo sguardo è per Isabelle un atto di potere sul mondo al di fuori di sé. È il suo modo di sapere, di rendersi conto di esistere. Ed è curioso in questo senso come in molti abbiano confuso Isabelle con altre icone poco meno o poco più che adolescenti del cinema francese, dalla figura archetipale di Antoine Doinel a quelle più contemporanee proposte da Olivier Assayas. In Isabelle non c’è nessuna carenza, nessun bisogno, nessun vero desiderio. E la citazione di Rimbaud, infilata in una scena «di ambientazione» di Isabelle nel suo liceo, funziona più in chiave ironica che non come riferimento ideale: se lo scandalo di una gioventù che si fa nuova, distruggendola, rispetto alla generazione precedente diventa vulgata universalmente accettata dell’istituzione scolastica, allora ha un senso e un valore per Isabelle diventare radicalmente altra e andare al di là della convenzionale esperienza di vita che le viene offerta. Un capitolo a parte, nel film, è rappresentato proprio dallo sguardo degli adulti su Isabelle, dopo lo svelamento della sua attività di prostituta. La madre, il patrigno, la funzionaria di polizia, l’analista sono le figure che si propongono a vario titolo come portatori di un asse di riferimento, sia esso affettivo, culturale, valoriale o normativo, offerto a Isabelle come una guida nell’oscurità. Isabelle ha però già bruciato i ponti dietro di sé – in questo sì, autenticamente epigona di Rimbaud – vivendo la sua vita «solo qui, solo ora», senza passato né futuro. Nessuno – noi spettatori meno di tutti – saprà alla fine perché Isabelle si comporta come fa. È una chiamata, o almeno così ce la presenta Ozon. Una chiamata all’età adulta, se si vuole, ma in realtà soprattutto una chiamata ad avventurarsi in un passaggio, in una strettoia verso l’ignoto. È interessante allora, ed esteticamente avvincente, il ruolo dei corridoi scuri e curvilinei dell’albergo dove Isabelle si trasforma in Léa per incontrare il suo primo cliente, per ritrovarlo ancora e infine per ricordarlo: canali di un parto ricercato e non subìto, ma non per questo dall’esito meno incerto e misterioso. Marco Gianni SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM LUNCHBOX 39 (The Lunchbox) Regia: Ritesh Batra. Sceneggiatura: Ritesh Batra, Rutvik Oza. Fotografia: Michael Simmonds. Montaggio: John F. Lyons. Musica: Max Richter. Scenografia: Shruti Gupte. Costumi: Niharika Khan. Interpreti: Irrfan Khan, Nimrat Kaur, Nawazuddin Siddiqui. Produzione: Sikhya Entertainment, Dar Motion Pictures, NFDC, Roh Films, ASAP Films, Cine Mosaic. Distribuzione: Academy Two. Paese: India. Anno: 2013. Durata: 104 minuti. Se un mattino di un giorno qualsiasi, non fosse stato commesso un errore nella consegna del contenitore per il pranzo nei luoghi di lavoro, effettuata da fattorini chiamati «dabbawallahs» (vero e proprio rituale risalente al 1890 e che da allora si ripete quotidianamente per le strade di Mumbai), l’impiegato Saajan, prossimo alla pensione, e la casalinga Ila, appassionata di cucina e moglie di un uomo che la trascura, non si sarebbero mai conosciuti. Su questo esile soggetto si basa Lunchbox, opera prima del regista indiano Ritesh Batra. E attorno a tale pretesto narrativo si dipanano, con delicatezza e con tocchi leggeri di scrittura e messa in scena, le situazioni che, lentamente e sempre a distanza, faranno avvicinare i due personaggi, che pure non si incontreranno mai. Dialogheranno, ogni giorno, attraverso una corrispondenza scritta, dal momento in cui Saajan si renderà conto che il pranzo non proviene dal consueto ristorante e Ila che i suoi cibi preparati con passione non sono giunti nel posto dove lavora il marito. Si scriveranno biglietti nascosti nelle ciotole, piccole grandi lettere che li renderanno un po’ meno soli, nell’affollato ufficio di una società o nella cucina di un appartamento. Senza mai far sentire il peso della macchina da presa e costruendo il film con i toni della commedia romantica, nella quale inserire il ritratto sociale di una città complessa come Mumbai, Ritesh Batra si allontana dalle convenzioni e dai generi per i quali il cinema indiano è noto in patria e all’estero. Non ci sono numeri musicali, sfarzi estetici, personaggi e scene cromaticamente sopra le righe. Batra, nato nella città che descrive così bene, compie il percorso opposto, prosciuga le immagini da qualsiasi eccesso pur riempiendo ogni inquadratura di un’infinità di dettagli utili a rappresentare, a dare consistenza a un ambiente. Non solo gli interni abitati e frequentati da Ila e Saajan, ma anche le strade o i treni - che trasportano milioni di persone, stipate nei vagoni in un perenne falso movimento dalle abitazioni ai luoghi di lavoro e viceversa - diventano in Lunchbox spazi da osservare e filmare con sguardo in grado di cogliere sfumature, particolari, gesti compiuti dai protagonisti o da figure anonime ma, nell’istante in cui sono portate in primo piano, altrettanto rilevanti. Non è quindi casuale che Lunchbox si apra sull’inquadratura di una stazione ferroviaria ripresa dall’alto con due treni che viaggiano in direzioni opposte. Il treno come insostituibile mezzo di trasporto popolare e come metafora di destini che si sfiorano e si incrociano. Unitamente a quell’immagine d’esordio, la frase che pronuncia Shaikh, il giovane nuovo impiegato assunto per prendere il posto di Saajan, e che alla fine dirà anche Ila, è emblematica e racchiude il senso del film: “Qualche volta il treno sbagliato porta alla stazione giusta”. D’altronde, i cinquemila trasportatori che ogni giorno consegnano duecentomila pasti caldi a Mumbai disegnano, con i loro gesti, con i lunch box spostati dalle biciclette alle portantine ai treni, una immaginaria linea ferroviaria. E un errore, raro a verificarsi, ma possibile, nella consegna di un pasto trasforma le vite di un uomo e una donna di età ed estrazione sociale differenti. Il “treno sbagliato” mette in atto una comunicazione altrimenti inesistente. Inoltre, il treno avrà un ruolo significativo anche per quel che concerne il futuro di Ila e Saajan, sospesi fra Mumbai e nuove destinazioni. Profondamente indiano e, al tempo stesso, in sintonia con un cinema universale dei sentimenti (da quello classico americano alle dinamiche epistolari create da François Truffaut), Lunchbox è un’opera che, come il mondo interiore dei personaggi, vive in un tempo intimo del presente e della memoria. I volti e i corpi di Saajan (Irrfan Khan, ovvero l’attore indiano più conosciuto all’estero) e Ila (Nimrat Kaur, attrice di cinema e teatro) sono contenitori di un vissuto ben più ricco della loro attuale quotidianità, di una nostalgia per un modo di comunicare lontano da frenesie, che ha bisogno del tempo dell’attesa. Saajan e Ila sono in un tempo che sembra ancora (r)esistere nei gesti dei dabbawallahs, nelle vecchie canzoni e in programmi tv degli anni Ottanta che Ritesh Batra omaggia con affetto con citazioni visive e sonore. La parola è fondamentale in Lunchbox. Quella scritta nei biglietti-lettere d’amore che si scambiano Saajan e Ila. E quella teneramente pronunciata, oltre che dai due protagonisti, da Shaikh e dalla zia di Ila, personaggio-memoria che non si vede mai, di cui si sente solo la voce dal piano di sopra, attraverso le finestre aperte. Giuseppe Gariazzo 40 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM LA MIA CLASSE SAISON CULTURELLE Regia: Daniele Gaglianone. Sceneggiatura: Gino Clemente, Daniele Gaglianone, Claudia Russo. Fotografia: Gherardo Gossi. Montaggio: Enrico Giovannone. Scenografia: Laura Boni. Costumi: Irene Amantini. Interpreti: Valerio Mastandrea, Bassirou Ballde, Mamon Bhuiyan, Gregorio Cabral, Jessica Canahuire Laura, Metin Celik, Pedro Savio De Andrade, Ahmet Gohtas, Benabdallha Oufa, Shadi Ramadan, Easther Sam, Shujan Shahjalal, Lyudmyla Temchenko, Moussa Toure, Issa Tunkara, Nazim Uddin, Mahbobeh Vatankhah, Remzi Yucel. Produzione: Axelotil Film, Kimerafilm, Relief, Rai Cinema. Distribuzione: Pablo Distribuzione Indipendente. Paese: Italia. Anno: 2013. Durata: 92 minuti. La mia classe è un film a più strati, a scatole cinesi, come una lavagna sulla quale si scrivono e si cancellano parole, frasi, pensieri. Le parole rimosse, come immagini che lasciano posto ad altre, non spariscono, si sedimentano nella memoria, al tempo stesso nascosta e percepibile, della lavagna e dello schermo, per riaffiorare nelle situazioni più inattese. La mia classe è un esperimento, un oggetto non identificabile nelle consuete, e spesso desuete, categorie dentro le quali si tende a inserire i film. Il nuovo lavoro di Daniele Gaglianone - regista fin dagli esordi a suo agio in una narrazione e in un filmare generati dalla contaminazione e dalla sovrapposizione di elementi volutamente in contrasto fra loro - è un’opera coraggiosa, fuori dagli schemi, ruvida e dolce. Frantumando i confini della finzione e del documentario, La mia classe racconta una storia di estrema attualità, quella dei migranti e della loro integrazione, e si espone, quasi come segno inevitabile, al rischio dell’imperfezione, sbandando nell’aderire, di volta in volta, alle dinamiche del «film nel film», della realtà, del fuori campo doloroso e indicibile che entra in campo e va elaborato. In tal senso, La mia classe è un film stratificato e complesso, pur mostrandosi contemporaneamente fluido e leggero nel muoversi fra materiali differenti che stridono entrando in contatto. Nato da un’idea di Gino Clemente e Claudia Russo, che con Gaglianone hanno scritto la sceneggiatura, La mia classe nasce dalla necessità di parlare con toni originali delle difficoltà vissute quotidianamente dalle persone straniere che vivono in Italia, la cui permanenza è legata alla validità di un permesso di soggiorno. Così, l’idea del regista di Pietro è stata quella di mettere insieme un gruppo di adulti, incontrati in diverse scuole serali per stranieri di Roma, e formare una vera e propria classe che, nel corso del film, si racconta seguendo le lezioni di italiano (richieste per legge al fine di conseguire i documenti per continuare a rimanere in Italia) di un maestro interpretato da Valerio Mastandrea. L’idea era semplice e chiara: creare e rendere sempre meno separabili il livello in cui agiscono l’insegnante e gli studenti e l’ambito in cui si evidenzia che si sta girando un film. Perché, come ben sintetizza Gaglianone, “l’obiettivo era quello di fare in modo che lo spettatore smettesse di chiedersi che cosa sta vedendo, un documentario, un film di finzione, un docufiction, un backstage… semplicemente perché tutte queste categorie non hanno più senso in questo contesto”. Fin dalla scena d’apertura, Gaglianone (con la complicità del direttore della fotografia Gherardo Gossi, già autore delle luci di altri suoi film: I nostri anni, Nemmeno il destino, Pietro, Ruggine) esprime questa ricerca creando un continuo slittamento, un movimento avanti e indietro nel tempo e nello spazio, mantenendo l’aula come ambiente pressoché unico che si trasforma in continuazione proprio come si trasformano le vite degli studenti e della troupe. In un corridoio deserto, Valerio Mastandrea cammina, si volta, viene preceduto dalla macchina da presa che si avvia verso uno stanzone vuoto e buio seguendo due poliziotti. Solo verso la fine del film, in una delle tante possibili «fini» alle quali il testo accenna, si comprenderà il senso di quell’incipit. Senza offrire appigli narrativi rassicuranti, «costringendo» anche chi guarda a mettersi in gioco, Gaglianone sposta lo sguardo su banchi di scuola e su un’aula che di lì a poco si riempirà della presenza degli studenti, del maestro/attore e dei fonici che preparano i microfoni chiedendo agli stranieri di fare delle prove di voce. Si tratta di una scena emblematica non solo perché dichiara la contaminazione e la compresenza del campo e del fuori campo ma anche perché quelle donne e quegli uomini iniziano, lentamente, e ognuno con i propri «tempi», a presentarsi, a dire un nome, a indicare una provenienza. Gaglianone osserva e disegna traiettorie, coglie le parole e i gesti che nascono da contesti diversi: dialoghi fra quelle persone giunte da varie parti del mondo (Guinea, Bangladesh, Filippine, Perù, Turchia, Brasile, Tunisia, Egitto, Nigeria, Ucraina, Senegal, Costa d’Avorio, Iran) oppure tentativi di dare voce a frammenti del loro passato. Ci sono cose che non si possono dire o che si possono accennare solamente grazie a un intervento esterno, magari di una canzone (come fa la ragazza iraniana, ovvero la persona/personaggio più commovente con i suoi sguardi, sorrisi, malinconie, turbamenti, silenzi esplosivi). La mia classe è ricca di tali lampi da scovare fra gli strati di cui si compone, fra scene espanse e forti di una valenza anche didattica o di breve durata, inserite come fossero sogni a occhi aperti, possibili altre strade da percorrere, altri film da fare. Giuseppe Gariazzo SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM MIELE 41 Regia: Valeria Golino. Sceneggiatura: Valeria Golino, Francesca Marciano, Valia Santella. Fotografia: Gergely Pohárnok. Montaggio: Giogiò Franchini. Scenografia: Paolo Bonfini. Costumi: Maria Rita Barbera. Interpreti: Jasmine Trinca, Carlo Cecchi, Libero De Rienzo, Vinicio Marchioni, Iaia Forte, Roberto De Francesco. Produzione: Riccardo Scamarcio, Viola Prestieri per Buena Onda, in collaborazione con Rai Cinema, Les Films des Tournelles, Cité Films. Distribuzione: BIM. Paese: Italia, Francia. Anno: 2013. Durata: 96 minuti. Una ragazza esce da una stanza, fa qualche passo in un corridoio stretto, si mette le cuffie e si siede in silenzio. Ha appena portato a termine il suo compito, aiutare a morire i malati in fase terminale che vogliono porre fine alle loro sofferenze. Si chiama Miele (ma il suo vero nome è Irene) vive in una casa sul mare, non lontano da Roma e passa il suo tempo libero a nuotare da sola. È schiva, all’occorrenza trasparente, immobile, eppure è sempre in movimento frenetico, come a voler sfuggire dalla fissità delle morti cui assiste. È convinta e sola, Irene, granitica nel suo silenzio e nel suo sguardo lievemente fragile. Si isola dal mondo ascoltando ossessivamente musica, ma poi cerca il contatto con l’aria, nelle corse a perdifiato in bicicletta, e con l’acqua fredda del mare invernale. Vive contrapponendo presenza ad assenza, fino a confondere i desideri e le regole di una vita tanto discontinua. Miele è un film sulla morte, che, però, non si vede mai, e sulle scelte sofferte di porre fine alla vita, di cui, però, non si parla. Nella sua prima opera da regista (liberamente ispirata al romanzo di Mario Covacich A nome tuo), Valeria Golino si lascia guidare dall’energia del suo personaggio e lo segue con ostinazione, sfiorandolo attraverso i vetri che separano Irene/Miele dal resto del mondo, la filma nei suoi viaggi in aereo tra Italia, Stati Uniti e Messico (per acquistare i barbiturici a uso veterinario che in Italia sono proibiti), attraverso i vetri delle case in cui «opera», o al di qua di finestrini appannati di un’auto. Ma non si tratta mai di distanza, perché quei vetri sottolineano un legame, una fisicità che, però, ha bisogno di essere vista ogni volta. Come se solo così potesse imporre la sua esistenza. Nel muoversi ordinato e ripetitivo, la macchina da presa segue i passi della protagonista e al suo «ordine» si adegua in uno scambio continuo tra lo sguardo e il suo oggetto. La storia di Miele è quella di un cambiamento che si consuma in profondità e affiora in poche parole e in pochi gesti. Le porte, le frontiere, i ponti che si trova continuamente ad attraversare rappresentano i passi discreti di questa trasformazione. Anche i luoghi che la circondano sembrano essere lo specchio dei suoi stati d’animo: non solo il mare, ma gli angoli insoliti di una città mutevole nella densità dell’aria, nella luce, tra i vicoli stretti e ombrosi e i viali inondati di sole. La luce, appunto, si insinua con sorpresa in questo film che nasce cupo e ripiegato su se stesso e ci congeda nell’apice di un dolore e di una nuova consapevolezza che dona sollievo. Il silenzio lascia il posto alle parole, ai racconti, a spiegazioni tenute segrete, piccole confidenze che portano altrove l’urgenza di vita. Ci si accorge così che il percorso di Miele è maturato all’interno di una serie di forti contrasti e a partire dallo slancio vitalistico inscritto nella sua stessa fisicità (quasi in contrapposizione con il «lavoro» che ha scelto di fare). Quasi ragazzo, con la giacca di pelle e lo sguardo assorto, istintivamente protesa verso il mondo, anche quando sembra schivarlo. L’angelo della morte sceglie la vita nel momento in cui morire le appare impossibile. E allora dimentica le regole (“Ci sono delle regole. Dovevo aspettare che finisse”, dice all’ingegner Grimaldi, raccontando di aver lasciato il suo «paziente» prima che tutto fosse finito) e smette di essere invisibile. Miele è un film raffinato per la sua capacità di trattenere, di raccontare in soggettiva una storia interiore, è preciso nell’entrare in simbiosi con la sua protagonista, coraggiosa nel lasciarsi alle spalle la tentazione del formalismo. Valeria Golino controlla con meticolosa passione gli elementi della sua materia, senza concedere troppo spazio all’aspetto emotivo della vicenda. Osserva coinvolta, ma accarezzando la freddezza di uno stile libero e maturo. Abile nel perseguire un equilibrio instabile, perfettamente rappresentato dalla geometrica sregolatezza entro cui si muovono i suoi personaggi. Ambienti stretti in ampi paesaggi, situazioni aperte e indefinibili nell’ottusità delle situazioni famigliari. E poi, alla fine di questi labirinti, l’idea di libertà e leggerezza che si scopre in un «altrove», dove un edificio intero si può reggere solo sull’aria. Grazia Paganelli 42 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM IL MONDO DI ARTHUR NEWMAN SAISON CULTURELLE Arthur Newman Regia: Dante Ariola. Sceneggiatura: Becky Johnston. Fotografia: Eduard Grau. Montaggio: Olivier Bugge Coutté. Musiche: Nick Urata. Scenografia: Christopher Glass. Costumi: Nancy Steiner. Interpreti: Emily Blunt, Colin Firth, Anne Heche, Nicole Laliberte, Kristin Lehman, Sterling Beaumon, David Andrews, Peter Jurasik, Anthony Reynolds. Produzione: Vertebra Films, Cross Creek Pictures. Distribuzione: Videa. Paese: USA. Anno: 2012. Durata: 101 minuti. Arthur Newman è una persona vera, reale, non come Wallace Avery, uomo triste e apatico che ha bisogno di riflettersi nei vetri dei grandi palazzi di Los Angeles per capire di esistere e di voler cambiare vita, acquisire una nuova personalità e scegliere di credere in quello che una volta sognava e che non ha seguito fino in fondo: essere un giocatore di golf sicuro di sé. Colin Firth, nei panni dell’«uomo nuovo», vuole cancellare il suo passato, lasciare il monotono lavoro che lo rende insoddisfatto, dimenticare il divorzio e la relazione annoiata con la nuova compagna, abbandonare il figlio che mostra per lui solo indifferenza, e inventarsi una nuova identità. Questa volta l’attore britannico, rimasto ingabbiato nel ruolo di A single man, non ci convince appieno, forse perché la sceneggiatura non attribuisce una forte e precisa caratterizzazione al personaggio, soprattutto dal momento dell’incontro con la misteriosa e fragile Mike. Tra queste due anime perdenti, che ripercorrono le lunghe strade dimenticate di un’America di provincia, tra la Florida e l’Indiana, nasce una vicinanza che non riusciamo a sentire veramente e per cui non riusciamo a provare empatia, tra una complicità di piccole azioni criminali e alcuni riferimenti sessuali non motivati, tanto da lasciare questa relazione in superficie e in sospeso. In concorso al Torino Film Festival 2012, quest’opera prima del regista pubblicitario Dante Ariola si ispira a una storia di pirandelliana memoria e prende avvio da un’ambiziosa idea di partenza, che ci fa riflettere in un’epoca tra le più grigie sulla tematica dell’identità: bisogna inscenare la propria morte visto che la società contemporanea ci costringe spesso a vivere una vita che, forse, non è la nostra, e si decide di ricominciare da capo per poter vivere un’esistenza che si è sempre sognata. Attraverso lo stereotipo del «roadmovie» con autostrade, motel, piccoli supermercati e negozi di hotdog in mezzo al nulla, i due protagonisti vivono una nuova avventura permeata di identità altrui, come in Ferro 3 di Kim Ki-duk. Si intrufolano nelle case vuote, si immortalano in scatti fotografici con le stesse espressioni di persone che non conoscono, dormono nei loro letti e si travestono da personaggi che non gli appartengono. La falsa identità dell’uomo è subito svelata dall’esuberante compagna di viaggio: dotata di una personalità borderline, in fuga da se stessa, Mike è incarnata da una Emily Blunt che riesce a esser in alcuni momenti brillante, forse perché ha un ruolo leggermente più stratificato e con qualche sfumatura in più rispetto alla parte del suo collega. L’uomo vuole adattare se stesso a un’immagine di sé che si è inventato, mentre la donna vuole eliminare lo spettro della malattia mentale, ma il film risulta incapace di descrivere ed entrare realmente dentro ai personaggi. A un certo punto, lo spet- tatore si lascia coinvolgere e spera di potersi avvicinare almeno ai due personaggi secondari, il figlio Kevin e la fidanzata di Newman/Avery, che sembrano rivelare emozioni e gestualità soffocate e il cui incontro e legame potrebbe far ri-nascere una dolorosa storia drammatica densa di solitudini e insoddisfazioni. Una commedia dolce-amara e un dramma intimista che privilegia uno stile virtuoso e lento fra lunghe panoramiche e insistenti piani fissi che si soffermano sui dettagli, gli sguardi e gli smarrimenti, così come sul bisogno di follia ed evasione. Una sceneggiatura lineare con dialoghi essenziali e monosillabici, che non riesce a dare la giusta intensità alle reazioni dei due personaggi che hanno deciso di intraprendere una seconda avventura, ma che poi, senza giustificazioni, ritornano sui loro passi. Durante il viaggio, il protagonista si domanda se sia davvero possibile essere Arthur Newman da un giorno all’altro, oppure se bisogna inevitabilmente e senza appelli, fare i conti con ciò che si è stato, con le proprie responsabilità, manifestando però una presa di coscienza raccontata in maniera un po’ affrettata. Anche la parte conclusiva sembra non voler essere coraggiosa nell’affrontare la realtà, ma preferisce rimanere conciliatoria: l’impressione che ne rimane è quella di aver condiviso un percorso con qualcuno che alla fine è rimasto per noi un estraneo. Alexine Dayné SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM NEBRASKA 43 Regia: Alexander Payne. Sceneggiatura: Bob Nelson. Fotografia: Phedon Papamichael. Montaggio: Kevin Tent. Musica: Mark Orton. Scenografia: J. Dennis Washington. Costumi: Wendy Chuck. Interpreti: Bruce Dern, Will Forte, June Squibb, Bob Odenkirk, Stacy Keach, Missy Doty, Devin Ratray. Produzione: Bona Fide Productions. Distribuzione: Lucky Red Distribuzione. Paese: Usa. Anno: 2013. Durata: 110 minuti. La New Hollywood non è mai del tutto finita. Nemmeno il road movie è mai del tutto finito. Un regista come Alexander Payne, ad esempio, fin dagli esordi (La storia di Ruth, donna americana, 1996) ha preso come modello il cinema americano degli anni ’70 e la sua inconfondibile aura malinconica, il suo umanesimo e la sua vitalità. Al road movie, poi, che di quella stagione è il genere simbolo, ha dedicato diversi film, da A proposito di Schmidt a Sideways fino a questo suo ultimo Nebraska. Per Payne, dopo le Hawaii cementificate e borghesi di Paradiso amaro, si tratta di un ritorno a casa (è nato a Omaha, nel 1961), nonostante il film sia il primo del quale firma solamente la regia e non la sceneggiatura. Il racconto di un viaggio che dal Montana porta al Nebraska, protagonisti un anziano padre smemorato e un figlio quarantenne, tra riunioni di famiglia, ricordi, liti e riconciliazioni, evoca lo spirito nomade della New Hollywood e riporta il regista ai toni tragicomici del suo cinema migliore. Il bianco e nero luminoso delle immagini riporta poi agli anni ’70 quasi come un riflesso condizionato, una scelta naturale, e fa pensare al Bogdanovich di L’ultimo spettacolo o Paper Moon. Allo stesso modo, l’anziano genitore protagonista, instancabile e scorbutico, rimanda all’analoga figura di Harry e Tonto di Mazursky, un altro dei film simbolo di quel periodo, mentre l’umorismo sulla vita di provincia fa pensare alle tonalità tragicomiche di Harold e Maude o allo sguardo sociologico di un capolavoro semisconosciuto come Smile di Michael Ritchie. Gli anni ’70 sono ovunque, in Nebraska, lo trasformano in un film di rimandi e reminiscenze cinefile. Per fortuna, però, non compongono un puro e semplice catalogo di citazioni: Payne riprende sì una tradizione, ma la aggiorna; gira sì un film inattuale, un po’ derivativo, ma in modo autentico. Nebraska è un racconto sulla vecchiaia, sul disfacimento del fisico e la resistenza della mente, sui ricordi che perseguitano e sugli affetti che svaniscono. E per questo è una storia universale che gioca sui tempi morti e sull’ironia, sulla rabbia repressa e il senso di rivalsa. La struttura è quella tipica del road movie, con due personaggi che partono per un viaggio impossibile, ma è evidente che il vero fulcro della commedia sono i rapporti umani e non la dinamica del viaggio. Payne non è Lynch, Nebraska non ha la potenza teorica e filosofica di Una storia vera, e nemmeno vuole averla. Immerso fra autobiografia e classicità, il regista americano infarcisce il suo film del tipico umorismo grottesco e buffo di certo cinema indie, e per questo sa anche essere profondamente drammatico. Nel volto scavato e malandato di Bruce Dern (altra presenza che rimanda alla New Hollywood, a capolavori come Driver l’imprendibile o Il re dei giardini di Marvin) Payne trova la desolazione del tempo che scappa e condanna alla vita, la pesantezza di un corpo fragile, zoppicante, che inchioda il suo proprietario a un’esistenza di fastidio e insofferenza. Come sempre, lavora sui dettagli, sui volti, gli abiti, gli interni, su tutto ciò che, a partire dal catalogo di orrori della famiglia di origine dell’anziano protagonista, rivela cultura, tradizione e de- solazioni di un capitalismo morbido e in fondo innocuo. La vera vita americana è quella del Nebraska e del Montana, punto di partenza del viaggio al centro del film, del ritorno a Itaca di un Ulisse in minore, una vita piatta come le pianure a perdita d’occhio, una main street deserta da attraversare in macchina a passo d’uomo (in una scena, questa sì, che ricorda il trattore di Lynch e la sua apparizione quasi magica) come a una sfida al desolante paesaggio fisico e umano. Payne però non è rabbioso come il suo protagonista. Con Nebraska vuole raccontare soprattutto la reazione al torpore della vecchiaia e della vita; l’energia vitale che si percepisce in tutti i suoi personaggi è infatti ciò che rende il film un’opera viva, nonostante i riferimenti al passato. L’imprevedibilità delle situazioni e dei dialoghi scardina la composizione formale controllatissima, il bianco e nero grigiastro, la trama prevedibile e pietosa del racconto (non c’è redenzione o soddisfazione, solo affetti da recuperare e accettare). Certo, il protagonista è un musone scorbutico e insoddisfatto che forse preferirebbe essere già morto, ma al tempo stesso è una specie di monumento alla cultura americana, uno degli ultimi uomini ad avere ricordi diretti della guerra di Corea, uno degli ultimi, come dice il figlio, a fidarsi di quello che la gente gli dice. E Nebraska è così: un film che crede nelle persone, che racconta vicende ordinarie e un po’ scontate di uomini tristi ma veri, credibili, condannati dalla loro mediocrità a vivere vite infelici, ma in realtà non ancora sconfitti dalla vita. Roberto Manassero 44 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM NINOTCHKA SAISON CULTURELLE Réalisation : Ernst Lubitsch. Scénario : Charles Brackett, Billy Wilder, Walter Reisch. Image : William H. Daniels. Montage : Gene Ruggiero. Musique : Werner R. Heymann. Décor : Cedric Gibbons, Randall Duell, Edwin B. Willis. Costumes : Adrian. Interprétation : Greta Garbo, Melvyn Douglas, Ina Claire, Bela Lugosi, Sig Ruman. Production : Ernst Lubitch pour Loew’s. Distribution : Metro Goldwin Mayer (1939), Cineteca di Bologna et Circuito Cinema (2014). Pays : États-Unis. Année : 1939. Durée : 110 minutes. Lorsqu’il tourne Ninotchka, de mai à juillet 1939, Ernst Lubitsch, entre dans la dernière phase de sa carrière, période d’une créativité intense où il enchaînera les chefs-d’oeuvre d’année en année. Il reste un peu moins de dix ans à vivre au célèbre cinéaste berlinois, émigré aux États-Unis fin 1922. Il vient de quitter la Paramount où, pendant onze ans, il a dirigé sa propre unité de production et achevé un cycle de comédies classiques, dont le style sophistiqué – marivaudages dans les milieux aisées d’une Europe fantaisiste – ont durablement marqué Hollywood. Lubitsch rêve alors d’indépendance et Ninotchka lui sert de passeport auprès de David O. Selznick, patron de la M.G.M., pour l’aider à fonder sa maison de production et réaliser, l’année suivante, un projet qui lui tenait à cœur : The Shop around the Corner (1940). Ninotchka, film transitoire et satire politique acide, marque donc une inflexion dans le cinéma jusqu’alors intemporel de Lubitsch : une ouverture sensible aux réalités de l’histoire qui aboutira, trois ans plus tard, à cette détonnante dérision du nazisme à l’œuvre dans To Be or Not To Be (1942). Le film raconte le passage à l’Ouest d’une jeune soviétique rigide, assouplie par son contact avec les charmes du monde capitaliste. Ninotchka (Greta Garbo) est envoyée à Paris pour suppléer trois agents pieds-nickelés à la vente problématique de bijoux confisqués par le jeune État soviétique. Mais, dans la rue, elle fait la rencontre d’un parasite mondain, le comte Léon d’Algout (Melvyn Douglas), gigolo de la Grandduchesse Swana (Ina Claire), une russe blanche exilée et propriétaire putative des bijoux. Ninotchka se laisse d’abord promener dans toute la capitale par d’Algout, suave séducteur qui, petit à petit, parvient à briser sa froideur pragmatique et fait naître l’amour dans son cœur. Mais, derrière lui, sa vieille maîtresse délaissée veille à reconquérir ses droits et ses bijoux. À première vue, l’intrigue pouvait laisser craindre une charge anti-soviétique primaire combinée à une glorification satisfaite du monde capitaliste. Mais le scénario, signé une seconde fois par le brillant duo Billy Wilder-Charles Bracket après La Huitième Femme de Barbe-Bleue, multiplie les délicieuses saillies renvoyant l’Est et l’Ouest dos à dos – l’irritante extravagance de la duchesse, la filouterie du bijoutier. De son côté, Lubitsch a horreur des simplifications, des situations manichéennes. Sa mise en scène, merveilleux jeu de cache-cache entre ce que l’image désigne et ce que le son ne dit qu’à demi-mot, met absolument tout le monde en boîte. S’il transporte ses personnages et leurs idées sur une scène imaginaire, ce Paris hollywoodien de fêtes et de rires, zone de mélange et d’hétérogénéité où toute rencontre devient possible, c’est bien pour s’éloigner des logiques partisanes. Il s’amuse surtout des frictions et incompréhensions que provoque, dans ce décor grisant, le croisement de deux visions du monde diamétralement opposées. Lorsque Ninotchka arrive en gare, elle plaint le porteur qui s’empare de ses valises : “ C’est de l’injustice sociale !” . “ - Ça dépend du pourboire ”, lui répond-il, penaud. Ainsi, le film ne raconte pas tant l’histoire d’une conversion, forcément à l’avantage d’un camp, que d’un échange, d’une transformation commune. Certes, Ninotchka s’humanise à la découverte de l’amour, mais d’Algout est à son tour revitalisé par l’idéalisme et la franchise de l’héroïne. La nature humaine, si changeante, si versatile, mais par cela-même si précieuse, demeure au centre des préoccupations de Lubitsch. Dès lors, ce n’est pas tant le communisme en lui-même que vise la satire, mais la doctrine, l’utopie politique, toutes ces fictions d’État qui s’interposent entre un être et le monde extérieur. Si Ninotchka se montre d’abord intransigeante, c’est par un excès de croyance qui confine à l’aveuglement : elle n’a en tête que des images de grandeur. La scène où d’Algout, dans une petite cantine ouvrière, tente de la faire rire, agit comme le véritable pivot de sa transformation. C’est moins par le discours que le comte parvient à lui décrocher un sourire, qu’en tombant de sa chaise par maladresse. Tout à coup, Ninotchka surprend le ridicule, la petitesse, la chute burlesque qui ravale tous les hommes au même niveau. Sa vision du monde chancelle et, soudain, change d’échelle. Elle lâche alors un immense éclat de rire qui ne serait pas si émouvant s’il ne rencontrait aussi la mue de l’actrice qui l’incarne. Greta Garbo jusqu’alors célèbre pour ses rôles tragiques, nourrissait depuis longtemps le désir de travailler avec Lubitsch. À cet instant où elle rit d’un si bon cœur, c’est son masque de cire qui se craquèle et dévoile une nouvelle actrice, moins sérieuse, plus fantasque, plus fraîche, plus humaine aussi. Ninotchka s’ignorait en tant qu’amoureuse et Garbo en tant qu’amuseuse : les deux naissent à elles-mêmes simultanément, et c’est un événement comme il en existe peu dans l’histoire du cinéma. Mathieu Macheret SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM NO – I GIORNI DELL’ARCOBALENO 45 No Regia: Pablo Larrain. Sceneggiatura: Pedro Peirano. Fotografia: Sergio Armstrong. Montaggio: Andrea Chignoli, Catalina Marin Duarte. Musica: Carlos Cabezas. Scenografia: Estefania Larrain. Costumi: Catherine George. Interpreti: Gael Garcia Bernal, Alfredo Castro, Antonia Zegers, Marcial Tagle. Produzione: Canana Films, Fabula. Distribuzione: Bolero Film. Paese: Cile, Francia, Usa. Anno: 2012. Durata: 118 minuti. “Questa pubblicità sta nella società”. Questo è lo slogan con cui René Saavedra, che lavora come creativo in un’agenzia pubblicitaria di Santiago del Cile, presenta tutte le campagne da lui stesso ideate. Siamo negli anni ottanta e la società dei consumi, già ampiamente affermata negli Stati Uniti, comincia a prendere piede anche in realtà economicamente più arretrate come il Sud America. No, quarto film del regista cileno Pablo Larrain, prende le mosse da fatti realmente avvenuti: nel 1988 il dittatore cileno Augusto Pinochet è costretto a cedere alla pressione dell’opinione pubblica internazionale e a sottoporre a referendum popolare il proprio incarico di presidente, ottenuto grazie al colpo di stato che nel 1973 rovesciò un governo democraticamente eletto e uccise il presidente Salvador Allende, cui Larrain aveva dedicato il suo film precedente Post Mortem. Attraverso il referendum, i cileni possono decidere se affidare a Pinochet altri otto anni di potere; per la prima volta da anni, anche i partiti di opposizione potranno avere uno spazio quotidiano in televisione, e la possibilità di trasmettere uno spot a favore del no, della durata di 15 minuti. Ispirato a un testo teatrale di Antonio Skàrmeta, il film di Pablo Larrain compie una scelta stilistica originale e coraggiosa: girato con una macchina da presa analogica in formato 4:3, la stessa che si usava negli anni ottanta (cioè all’epoca in cui si svolgono i fatti narrati), No si compone di immagini di finzione che hanno lo stesso look e la stessa aurea dei filmati di repertorio che compaiono all’interno del testo (ad esempio Karol Wojtyla che sorride al dittatore e gli stringe la mano, ma anche tutti i video per il «no» e per il «si» sono autentici). In questo modo, la superficie del testo si presenta e scorre in maniera omogenea, dando allo spettatore l’impressione di essere di fronte a una testimonianza dell’epoca, immediata nella sua ruvidezza e sincera nel suo mettere a nudo le proprie strategie. Ed è sconcertante come la qualità dell’immagine del film rimandi continuamente alla memoria televisiva dello spettatore – in primo luogo a quelle telenovelas spesso citate all’interno del film – e mai all’immaginario cinematografico dell’epoca. Proprio qui sta il valore aggiunto del lavoro di Larrain: per raccontare il decennio che vide tramontare la retorica aulica del cinema e l’affermazione dell’eloquio quotidiano del piccolo schermo, il film si avvale degli stessi mezzi che aveva a disposizione chi faceva comunicazione trent’anni fa. Il fatto di mettere in parallelo due percorsi storici così tradizionalmente lontani – la dolorosa vicenda politica di un paese sconvolto da una dittatura sanguinosa e l’evoluzione dei mezzi di comunicazione di massa – e di intrecciarli, costruendo un quadro storico in cui il politico e il culturale diventano uno lo spec- chio dell’altro, è il vero merito del film. No mette in evidenza come il linguaggio politico – per guadagnarsi il favore del popolo, che è anche il pubblico – debba adeguarsi alla comunicazione pubblicitaria, facendo suoi gli strumenti del marketing e del linguaggio dello spot. Il prezzo da pagare è alto e Larrain non cerca giustificazioni: il dolore dell’ingiustizia e della violenza perpetrata per decenni a un intero paese deve essere superato (dimenticato?) per dare spazio a quelli che sono gli imperativi della comunicazione televisiva: ottimismo, leggerezza, benessere economico. Il fatto di promuovere un referendum contro una dittatura non fa nessuna differenza: il linguaggio dello spot è sempre lo stesso, sia che si parli di democrazia negata, di una bibita analcolica o di un forno a microonde. L’appiattimento estetico a cui va incontro l’immaginario di un’intera nazione è il prezzo da pagare alla storia per essere traghettati nel futuro. La democrazia deve essere «cool» e «liberal», e deve sposare l’ideologia del libero mercato. Solo così anche il Cile potrà addentrarsi davvero negli anni ottanta, lasciarsi alle spalle la dittatura politica ed entrare a far parte della dittatura della finanza internazionale. Silvia Colombo 46 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM IL PASSATO SAISON CULTURELLE (Le passé) Regia e sceneggiatura: Asghar Farhadi. Fotografia: Mahmoud Kalari. Montaggio: Juliette Welfling. Musica: Evgueni Galperine, Youli Galperine. Scenografia: Claude Lenoir. Costumi: Jean-Daniel Vuillermoz. Interpreti: Bérénice Bejo, Ali Mosaffa, Tahar Rahim, Pauline Burlet, Jeanne Jestin, Elyes Aguis, Babak Karimi. Produzione: Memento Films Production, France 3 Cinéma, Bim. Distribuzione: Bim. Paese: Francia, Italia. Anno: 2013. Durata: 130 minuti. Nel suo primo film girato lontano dall’Iran, e finanziato da una coproduzione franco-italiana, Asghar Farhadi continua a elaborare una personale, e sempre più complessa riflessione sulle relazioni sentimentali e sulle dinamiche, i fragili equilibri, le instabilità e le identità precarie di coppia. Il passato è così l’ideale prosecuzione di Una separazione, il lavoro precedente del cineasta iraniano che gli valse l’Orso d’oro al festival di Berlino nel 2011 e l’Oscar come miglior film straniero l’anno successivo. Il passato espande e moltiplica le situazioni descritte in Una separazione, allarga la crisi di un rapporto per coinvolgervi più coppie e i figli, bambini e adolescenti, di quelle famiglie esistite, finite, ricominciate con nuovi protagonisti. Di film in film, Farhadi confeziona un feroce mosaico nel quale intrappola i personaggi, un vero e proprio «cul de sac» dei sentimenti. Lucido e crudele, il cinema di Farhadi è reso possibile da progressive confessioni, rivelate dalla moltitudine delle figure maschili e femminili che entrano ed escono di scena, necessarie per far deviare le storie verso ulteriori esplorazioni dei conflitti interiori. Quando sembra sul punto di sciogliere anche solo qualche nodo dell’intreccio, Farhadi apre nuove porte e lascia tutto in sospeso. Nulla è iniziato e nulla termina. Basta un minimo accadimento e ci s’immerge, ancora una volta, nella disamina dei comportamenti di un gruppo di personaggi chiamati a duellare in una infinita «luna di fiele» (rivelandosi Farhadi come un autore sempre più in sintonia con la poetica di Roman Polanski, si pensi a Carnage). Il pretesto per avviare l’inestricabile gioco delle parti è semplice e in questa scelta Farhadi si mostra cineasta profondamente iraniano, essendo tradizione del cinema di quel paese mettere in funzione narrazioni e far compiere deviazioni di percorso ai personaggi a partire da un esile punto di partenza. Ne Il passato l’iraniano Ahmad torna a Parigi per firmare le carte del divorzio dalla moglie francese Marie. Nella scena d’apertura a Farhadi non servono dialoghi, che in seguito saranno fondamentali, per descrivere l’impossibilità a ricondurre alla «normalità» un rapporto segnato da un’incrinatura indelebile. Farhadi condensa in un’immagine il senso del discorso, evita fronzoli, raggiunge l’essenziale. Prima ancora che Ahmad e Marie si parlino sono i vetri dell’aeroporto a spiegare, in maniera inequivocabile, la distanza fra i due. Lui è nella hall, lei all’esterno. I vetri sono una superficie che impedisce loro di parlarsi o, anche se cercassero di farlo, di non riuscire a sentirsi. Ma vi è anche un altro dettaglio, apparentemente marginale, che sintetizza la frattura creatasi fra Marie e Ahmad. La donna (interpretata con intensità da Bérénice Bejo, mentre nei panni di Ahmad c’è una star del cinema iraniano, Ali Mosaffa, già in Una separazione) porta una fascia al polso, conseguenza di un lieve incidente. Tuttavia, la fasciatura (che già compariva in un altro film di Farhadi, Chahar Shanbeh Souri, del 2006) ha ben altro significato: è la metafora di un rapporto non più saldabile, custode della memoria di quel che è successo alla coppia e rappresentazione della fine - che, nel cinema di Farhadi, non è mai schematica, in quanto i fantasmi del non detto continueranno ad aleggiare nelle menti e nei corpi dei protagonisti. Il passato è un film corale e, appena si entra nella casa di Marie, le scene si popolano degli altri personaggi che condividono con lei la quotidianità e che Ahmad ritrova dopo la sua assenza o incontra per la prima volta. Ci sono la piccola Léa e l’adolescente irrequieta Lucie, le due figlie che Marie ha avuto da altre relazioni; il compagno attuale di Marie, Samir, e suo figlio Fouad. E c’è Céline, la moglie di Samir, che è così presente nella sua assenza, dato che è in coma dopo avere tentato il suicidio. Farhadi non chiude le storie, è un tratto del suo cinema. I particolari si sono accumulati, come gli oggetti nelle stanze dell’abitazione di Marie. Ognuno è indispensabile per aggiungere informazioni che il regista inserisce nelle inquadrature, lasciando al tempo stesso intravedere in esse inesauribili punti di fuga. Giuseppe Gariazzo SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM PHILOMENA 47 Regia: Stephen Frears. Sceneggiatura: Steve Coogan, Jeff Pope. Fotografia: Robbie Ryan. Montaggio: Valerio Bonelli. Musiche: Alexandre Desplat. Scenografia: Alan MacDonald. Costumi: Consolata Boyle. Interpreti: Judi Dench, Steve Coogan, Neve Gachev, Charlie Murphy, Simone Lahbib, Sophie Kennedy Clark, Charles Edwards, Xavier Atkins, Charlotte Rickard. Produzione: BBC Films, Baby Cow Productions, British Film Institute, Magnolia Mae Films, Pathé. Distribuzione: Lucky Red. Paese: Regno Unito. Anno: 2013. Durata: 98 minuti. Basato sul romanzo di Martin Sixmith The Lost Child of Philomena Lee e tratto quindi dalla vera storia di Philomena, il film ripercorre la vicenda di questa donna, attraverso alcuni flash back ben dosati: negli anni Cinquanta, ancora adolescente, Philomena rimane incinta, viene cacciata dalla famiglia e trasferita in un convento a Roscrea in Irlanda, ma dopo pochi anni le viene cinicamente e definitivamente sottratto il bambino. Il silenzio e il segreto che la donna porta dentro di sé per ben cinquant’anni si rompe e si svela, portandola alla ricerca di quel figlio perduto grazie all’aiuto e al fervore disincantato del giornalista Martin (Steeve Coogan). I due straordinari protagonisti, pur avendo vite completamente in contrasto, compiono un viaggio in Irlanda e negli Stati Uniti, tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, metafore rispettivamente della visione salda e combattiva della religiosa donna di campagna, e del pensiero di vendetta dell’uomo della città da poco disoccupato che sta cercando il suo status sociale. Entrambi, quindi, sono alla ricerca di una nuova vita e questo conflitto così netto in principio, si riunirà in seguito in una condizione universale di umanità tollerante e paziente, portandoli infine a elaborare la loro sofferenza. Lo scontro e l’incontro tra questi due individui, Martin e Philomena, è diretto da Frears con consapevolezza e intelligenza, riuscendo a evitare stereotipi azzardati e affidandosi al valore indiscutibile di due attori come Judi Dench e Steve Coogan che, nel corso dell’opera, mettono in luce sfumature sempre più interessanti nei loro personaggi. È soprattutto il dono dell’ironia e quella capacità di toccare argomenti scottanti in modo delicato, ma sempre con rispetto e lucidità, che lega Frears ai suoi attori e segna la differenza tra la sua pellicola e altre commedie, accostabili a essa per genere o tono. Toccando temi profondi e drammatici, la pellicola riesce a essere emozionante – raggiungendo anche alcune corde più intime – delicatamente divertente e a tratti frizzante, degna dello humour inglese, caratteristico di Frears, che esorcizza così questo racconto tanto doloroso. Il perdono è insito in Philomena, che per tanti lunghi anni non si è mai arrabbiata, non ha mai giudicato, né portato rancore perché capace di provare una vera e sana fede e un’obbedienza che vanno oltre il cattolicesimo di Roscrea, relegato nel suo squallore inquisitorio, vestito di abiti monacali, altari con crocifissi, confessionali e penitenze senza limiti corporali e psicologici. Philomena è un esempio positivo, è consapevole della sua talvolta eccessiva semplicità, e non avverte mai disagio, anzi, coltiva la virtù. Il suo è un amore materno, incondizionato e infinito che, attraverso il passato così sofferto e conflittuale, deve ricercare la verità e la quiete nel presente. Philomena è una madre che si strugge per aver permesso di allontanare il piccolo Anthony dalle sue braccia, ma che ritrova sempre la forza vitale e la speranza di poterlo incontrare o di conoscere la sua realtà grazie ai ricordi vividi del suo sorriso e dei suoi teneri baci. Frears sceglie ancora la sua icona: una meravigliosa Judi Dench, che si mostra allo spettatore forse ancora più vera, con gli occhi colmi di lacrime e segnata dalle rughe per una vita «amputata», diversa dalle sue interpretazioni eccentriche, ma con la stessa carica comunicativa e non per questo meno signorile. Forse ancora più vera, basta una leggera modulazione del viso a restituirci la profondità di questo personaggio che ci rimanda subito al ritratto della reale Philomena, priva di autocommiserazione, e così credente nonostante le ingiustizie subite. Sicuramente il film non vuole dare giudizi né tantomeno risposte al cattolicesimo e alla fede, ma ci invita a riflettere, lasciandoci la libertà di interpretare che cosa sia il perdono. Alexine Dayné 48 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM LA PRIMA NEVE SAISON CULTURELLE Regia: Andrea Segre. Sceneggiatura: Andrea Segre, Marco Pettenello. Fotografia: Luca Bigazzi. Montaggio: Sara Zavarise. Musica: Piccola Bottega Baltazar. Costumi: Silvia Nebiolo. Interpreti: Matteo Marchel, Jean-Christophe Folly, Anita Caprioli, Giuseppe Battiston, Peter Mitterrutzner, Paolo Pierobon. Produzione: Jolefilm, Rai Cinema. Distribuzione: Parthenos. Paese: Italia. Anno: 2013. Durata: 105 minuti. Con La prima neve Andrea Segre prosegue l’idea di un cinema umanista, radicato in una provincia italiana quieta e dimenticata. Dopo la Chioggia di Io sono Li, piccola Venezia che con i suoi canali e le sue nebbie avvolgeva l’amore impossibile tra una cinese e uno slavo, per il secondo film di finzione il regista veneto ha scelto di posare il suo sguardo, ancora condizionato dal lavoro di documentarista, sull’alta montagna del Trentino. A Pergine, per la precisione, località della Val dei Mocheni appoggiata sul versante dolce di una montagna accogliente e bellissima, colorata del giallo intenso dell’autunno e del bianco sparso di paesini impegnati ad aggrapparsi per non cadere. In questa montagna vicina eppure distante, spesso invisibile per il cinema italiano, Segre racconta la silenziosa quotidianità di personaggi autentici e sommessi. Quanta Italia sconosciuta eppure familiare è annidata nei luoghi fisici e nei paesaggi umani dei suoi film. L’Italia normale, né giusta né sbagliata, della provincia che con l’immigrazione sa convivere, che nell’incontro con il diverso non frappone pregiudizi o interessi, ma semplicemente si impegna per accogliere, offrire e chiedere in cambio. L’Italia delle corriere che fanno la spola tra la città e le alture; l’Italia dei lavoratori onesti ma disillusi; l’Italia che la domenica va ancora in chiesa, senza rabbia o ideologia, ma come un rituale senza peso; l’Italia che frequenta i pub della città più vicina, che indossa vestiti dozzinali alla moda, che abita case anonime e pulite, che sopporta drammi personali e convive con tra- gedie universali, vicinissima al cuore degli uomini e distante anni luce dal palcoscenico del mondo. Se esiste ancora la possibilità di un cinema realistico, narrativo e romanzesco, Segre la individua nel melodramma di La prima neve, condotto su toni minori e infelicità silenziose. Nei boschi giallastri di un autunno che volge all’inverno, in attesa della prima neve, il film racconta la nascita dell’amicizia tra un ragazzino non ancora adolescente e un trentenne togolese arrivato in Italia attraverso l’inferno della Libia. Michele e Dani, biondo il primo scurissimo il secondo, sono segnati dal dolore e dalla perdita, uno perché orfano di padre, una guida alpina travolta da una valanga, l’altro perché distrutto dalla morte della moglie durante l’attraversata del Mediterraneo. Michele non ha ancora superato l’idea dell’abbandono, sente il vuoto per la mancanza del padre e rivolge la rabbia verso la madre; Dani, invece, rimasto solo con i suoi pensieri, con le lettere che scrive alla moglie nella sua testa, è incapace non solo di occuparsi della figlia neonata, ma addirittura di guardarla, di cogliere nei suoi occhi lo sguardo dell’amore perduto. Segre ha la capacità e il coraggio di raccontare storie sentimentali senza il cinismo e la distanza emotiva che il postmoderno richiede. Il suo cinema è piacevolmente inattuale, filma spazi geografici che gli sono familiari e a partire da questa prossimità emotiva li trasforma in luoghi ideali. La costruzione del racconto procede con un andamento classico, segue le vite parallele dei due protagonisti e le avvicina poco alla volta, senza stabilire a priori la dinamica del loro rapporto, ma facendo emergere un legame tra giovane e adulto che rifugge il racconto di formazione e allestisce un’amicizia sincera. Tutt’attorno, a conferma di una rete di relazioni romanzesche, le figure minori guadagnano spazio e profondità: la madre di Michele, giovane vedova piena di affetto, sensi di colpa e desideri; il nonno falegname e apicoltore, uomo rude, antico e capace di grandi generosità; lo zio sognatore fallito e rassegnato… Quello di Segre è un affresco realistico, la descrizione a tratti minuziosa di un paesaggio umano attraversato da tensioni dirompenti, attenuato dall’enormità dello spazio circostante. I campi lunghi sui paesi di montagna sovrastati dalle cime si alternano ai primi piani dei personaggi; l’andamento incomprensibile delle emozioni umane si confronta con il passo immutabile dei giorni e delle stagioni. In questa dialettica tra immensità e intimità, tra irrequietezza e regolarità, La prima neve trasforma l’incontro tra un ragazzino e un adulto nel confronto universale di due solitudini, di due abbandoni, affidando alla natura stessa, accogliente e insieme distante, il compito di sciogliere il dolore. Con la prima neve dell’inverno, infatti, la tragedia si stempera, la vita può ricominciare a prevalere sulla morte, mentre sui sentieri di montagna il manto bianco cresce a vista d’occhio, non per seppellire il passato, ma finalmente per purificarlo. Roberto Manassero SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM QUESTIONE DI TEMPO 49 (About time) Regia e sceneggiatura: Richard Curtis. Fotografia: John Guleserian. Montaggio: Mark Day. Musiche: Nick Laird-Clowes. Scenografia: John Paul Kelly. Costumi: Verity Hawkes. Interpreti: Domhnall Gleeson, Rachel McAdams, Bill Nighy, Tom Hollander, Lee Asqith-Coe, Margot Robbie, Lindsay Duncan, Paul Blackwell. Produzione: Translux, Working Title Films. Distribuzione: Universal Pictures. Paese: Gran Bretagna. Anno: 2013. Durata: 123 minuti. Il viaggio nel tempo è un archetipo cinematografico: il cinema ha spesso messo in scena personaggi che appaiono e scompaiono dal presente per le ragioni più varie. La maggior parte di questa produzione si posiziona all’interno del filone fantascientifico (da Terminator a L’esercito delle 12 scimmie, passando per Man in Black e Looper), ma si è utilizzato questo espediente anche per esplorare le origini famigliari, o l’intero arco di una vita (si può considerare Peggy Sue si è sposata come uno delle pietre miliari del genere). Da un certo punto in avanti, inoltre, il viaggio del tempo si è verificato senza alcun bisogno di congegni o artifici tecnologici (come accadeva in Ritorno al futuro dove era una macchina a trasportare Micahel J. Fox negli anni Cinquanta): i personaggi utilizzavano solo il corpo come veicolo (e come causa) di spostamenti lungo l’asse temporale. Da questo punto di vista il film di Richard Curtis (noto per aver creato il personaggio di Mr. Bean e per esser stato lo sceneggiatore di grandi successi di pubblico come Quattro matrimoni e un funerale, Il diario di Bridget Jones e Notting Hill) porta alle estreme conseguenze la semplificazione e la naturalezza di questo meccanismo. Non c’è nessuna spiegazione per cui il giovane Tim, una volta compiuti i ventun’anni, possa viaggiare nel tempo: semplicemente è una caratteristica che tutti i membri maschi della famiglia possiedono. Basta che Tim si apparti in un luogo buio e stringa i pugni per poter tornare a rivivere qualunque giorno della sua vita. Non può cambiare epoca o luogo, ma può influire sul proprio futuro e su quello delle persone a lui più vicine (genitori, sorella, fidanzata). Quello di Questione di tempo è una visione domestica, intimista e privata del viaggio a ritroso nel tempo: non vi è nessuna implicazione politica, sociale, storica e nessun impegno contratto con l’umanità intera (come accade nella saga di Terminator). Non vi si trova il senso di una predestinazione, né il gusto del pittoresco di un’esperienza estetica e artistica (come in Midnight in Paris di Woody Allen). Ciò che interessa al protagonista è solo portare a buon fine la sua relazione e riuscire a ricucire i piccoli, ma dolorosi strappi che costellano i rapporti nel nostro quotidiano. Questo film rappresenta un esempio interessante di come la romantic-comedy utilizzi il fattore tempo per raccontare storie d’amore e sotto questo profilo è molto simile a Un amore all’improvviso di Robert Schwentke, pellicola che condivide con il film di Curtis la presenza dell’attrice protagonista (Rachel McAdams, perfetta nel mettere in scena la moglie e la fidanzata modello). Il paragone tra i due film mette in luce l’assenza di ogni problematicità in Questione di tempo: se nel film di Schwentke, il protagonista Eric Bana – a causa di un difetto genetico – scompariva dal proprio presente senza volerlo, in modo improvviso e doloroso, lasciando ogni volta un vuoto nella vita di chi restava (spezzando anche il tessuto del testo e il fluire della narrazione), Tim parte e torna – aggiustando di volta in volta il proprio presente a seconda delle sue necessità – senza che nessuno si accorga di niente, senza che si verifichi alcuna alterazione nel fraseggio della macchina da presa e senza nessuno scossone a livello di regia. Questo aspetto rappresenta senza dubbio la fragilità di un film che spesso si installa sui binari di una narrazione più convenzionale, passando in rassegna le tappe di una storia d’amore un po’ troppo perfetta, innestata sullo schema incontro-matrimonio-figli. Tuttavia, il film si riscatta affinando sempre più i suoi obbiettivi: se viaggiare nel tempo significa semplicemente tornare alle giornate storte per eliminare qualche rimpianto, allora si può arrivare a rivivere il medesimo momento due volte, senza cercare di cambiare nulla, ma con una diversa disposizione d’animo. La sequenza che ripercorre la banalità di una giornata qualunque – con le sue piccole vittorie, i suoi banali disagi, la noia e la fatica della vita quotidiana tra impegni famigliari, lavoro, pause pranzo e spostamenti in metropolitana – viene riproposta due volte e le differenze sono minimali: un primo piano in più, un leggero spostamento del punto di vista, la macchina da presa che coglie un dettaglio che prima non veniva registrato, un sorriso sul volto dell’attore, una parola di più o di meno, un gesto d’affetto che prima non c’era. Nella realtà non è cambiato niente: nessuna vita è stata salvata, nessuna sciagura scongiurata, il presente rimane sostanzialmente lo stesso. Eppure la giornata è stata vissuta in modo diverso. Forse è proprio in queste impercettibili alterazioni, nello scarto minimale che si apre tra due sequenze quasi identiche che si deve cercare il senso più profondo dell’intera operazione: un piccolo, raffinato elogio alla vita di ogni giorno. Silvia Colombo 50 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM SACRO GRA SAISON CULTURELLE Regia, fotografia, suono: Gianfranco Rosi. Montaggio: Jacopo Quadri. Interpreti: Cesare, Paolo, Amelia, Roberto, Francesco, Filippo, Xsenia, Gaetano. Produzione: DocLab, La Femme Endormie, in collaborazione con Rai Cinema. Distribuzione: Officine UBU. Paese: Italia. Anno: 2013. Durata: 93 minuti. Nell’immaginario collettivo il Grande Raccordo Anulare è un luogo di passaggio: la sua funzione principale è quella di consentire alle persone di transitare con (relativa) disinvoltura da una parte all’altra di Roma. L’iconografia del GRA, immortalata da centinaia di servizi televisivi sul traffico nella capitale, è fatta di asfalto e automobili; la sua simbologia, come si conviene a un luogo di intenso transito automobilistico, è quella di una modernità sintonizzata sulle rotte della comunicazione a quattro ruote. Il film di Rosi colpisce innanzitutto per il coraggio con cui tutto questo apparato iconografico e simbolico viene deliberatamente ignorato e stravolto. Sin dal titolo, che in qualche modo attesta e rivendica – al di là del gioco di parole – una dimensione sacrale per un luogo che, a partire dai suoi tratti di modernità, sembrerebbe esserne sprovvisto. Ma a scardinare l’immagine convenzionale del GRA è soprattutto la scelta di raccontarlo come fosse un villaggio, una comunità di persone che risiedono ai margini dell’anello di asfalto, le cui vite vengono osservate nel dettaglio e a più riprese. Il GRA ci viene dunque presentato come un luogo non di transito, ma di stasi, non di comunicazione, ma di residenza, incentrato non sulle macchine, ma sulle persone. Rovesciata la prospettiva, la sua immagine canonica – asfalto e automobili – rimane confinata sullo sfondo, mentre a risaltare sono le storie degli individui che risiedono nella zona. Ed è a questo livello che il film recupera e giustifica la sacralità del titolo, se ricolleghiamo il termine sa- cer alla sua accezione originaria, che fa riferimento ai modi con cui nell’antichità l’uomo regolava e spiegava il proprio rapporto con la natura, ovvero con il paesaggio da una parte e con i legami di sangue dall’altra. Diversi critici hanno osservato come le vicende messe a fuoco da Rosi corrispondano ad altrettanti generi del cinema, talvolta considerando questa scelta come un limite alla presunta «purezza» della forma documentaria. Non credo, tuttavia, abbia senso interrogarsi sulla conformità del suo metodo verso un genere che è ormai oggetto di svariate (e non di rado fertili) contaminazioni. Più interessante mi sembra guardare alle storie da una prospettiva che ne individui i denominatori comuni. Due sono gli elementi che attraversano il paesaggio umano tratteggiato da Rosi: il primo riguarda il rapporto con la natura, esplicitato nell’episodio del pescatore di anguille e in quello del botanico impegnato a difendere le palme dall’attacco dei parassiti; il secondo invece ruota intorno alle relazioni familiari, in primo luogo quelle tra individui di generazioni differenti, dal barelliere che conversa con la madre malata, all’anziano signore che condivide un mini appartamento con la figlia, al nobile decaduto che promuove la propria residenza appunto a partire dall’illustre lignaggio della sua famiglia. Ciascuno degli episodi costituisce il tassello di un mosaico attraverso il quale Rosi prova a interrogarsi sul senso e sulla possibilità, oggi, di condizioni esistenziali che la modernità – rappresentata in modo esemplare, sul piano visivo e simbolico appunto dal GRA – sembra avere condannato all’obsolescenza e all’anacronismo. La presenza stessa del raccordo anulare rimanda a un mondo tecnologico e atomizzato, cinetico e disperso, rispetto al quale le storie raccontate dal film si configurano come altrettante sacche di resistenza, punti di attrito all’affermazione della modernità. La protezione delle palme e la pesca delle anguille richiamano un universo il cui centro è incredibilmente ancora rappresentato dal rapporto fra l’uomo e la natura; mentre le relazioni familiari – pur nella pittoresca originalità che a tratti le caratterizzano – attestano legami antichi, indissolubili, passati indenni attraverso generazioni e peripezie di cui ignoriamo i contenuti, ma vediamo gli esiti. È sotto questo punto di vista che Sacro GRA si rivela, rispetto al genere documentario, un film eretico. Ma si tratta di un’eversione intelligente, che elude i compiti descrittivi apparentemente sollecitati dal titolo (alla fine sul grande raccordo anulare in sé non ci viene detto assolutamente nulla: non sappiamo quanto è lungo, quante uscite ha, se ci sono stazioni di servizio…) per affrontare la questione da una prospettiva diversa. Attraverso questo nuovo punto di vista, la strada del titolo diventa un microcosmo sociale dove è possibile osservare nel dettaglio le contraddizioni della modernità: accanto alle traiettorie delle macchine continuano a correre quelle degli uomini, tuttora ancorate ad abitudini, pratiche e pulsioni vecchie come il mondo. Leonardo Gandini SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM SALVO 51 Regia e sceneggiatura: Fabio Grassadonia, Antonio Piazza. Fotografia: Daniele Ciprì. Montaggio: Desideria Rayner. Musica: Modà, Emma. Scenografia: Marco Dentici. Costumi: Mariano Tufano. Interpreti: Saleh Bakri, Sara Serraiocco, Mario Pupella, Giuditta Perriera, Luigi Lo Cascio. Produzione: Acaba produzioni, Cristaldi Pictures, MACT Productions, Cité Films, arte France Cinéma. Distribuzione: Good Films. Paese: Italia, Francia. Anno: 2013. Durata:104 minuti. Salvo è un nome. Quello di un infallibile e silente killer di Cosa nostra interpretato dall’attore palestinese Saleh Bakri. È anche un aggettivo, «colui che si è salvato», anche se si sospetta da subito che la salvezza del protagonista possa essere solo simbolica, perché la mafia non perdona chi, come lui, sgarra. Salvo è, infine, il titolo emblematico di questo noir italiano molto originale, premiato doppiamente (dal pubblico e come miglior esordio) alla Semaine de la Critique di Cannes 2013. Due registi, Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, prendono spunto da un loro cortometraggio di qualche anno fa, Rita, storia di una ragazzina cieca che ritrova la vista in modo misterioso, quasi mistico. L’adolescente, in questo lungometraggio, diventa una giovane donna, e l’evento che le ridà luce è legato a un trauma terribile, l’uccisione del fratello, che, però, si trasformerà in qualcosa di nuovo. La possibilità di un’isola, per dirla con Houellebecq: un mondo altro che si apre alla passione inattesa e sconvolgente, all’«amour fou». Nella prima parte del film, Salvo è vittima di un agguato. Non solo ne esce vincitore, ma scova subito il mandante, il fratello di Rita, e lo va ad aspettare a casa sua per ammazzarlo. Lei prima lo sente, poi lo vede. Lui la risparmia e la nasconde, contravvenendo alla regola numero uno della malavita: non si lasciano testimoni. La seconda parte del lungometraggio è incentrata sul tentativo assurdo di eludere la prevedibile ritorsione del boss Mario Pupilla, che finora aveva protetto il sicario nascondendolo in casa di due «associati» mesti e insospettabili, il sarto (Luigi Lo Cascio) e la moglie (Giuditta Perriera). Il film, da un punto di vista narrativo, è molto semplice. Al netto della trovata fantastica (una cieca vede e ama il carnefice) ripercorre modelli piuttosto noti. Prima di tutto ricorda Frank Costello faccia d’angelo di Jean-Pierre Melville (Le samouraï, 1967), il cui protagonista, Alain Delon, è un killer altrettanto meticoloso e silente che sceglie di non eliminare la testimone del suo ultimo delitto, causa dei suoi futuri guai. Entrambi i film vivono di suggestioni simboliche; tuttavia, dove è la morte a sorridere all’assassino di Melville, è invece l’amore a stravolgere Salvo, che nel rapporto con Rita è il primo a trovare finalmente uno sguardo «morale». Non si vorrebbe, però, caricare il film di Grassadonia & Piazza di troppe chiavi di lettura. Salvo è prima di tutto un’opera «fisica», capace di farsi apprezzare a pelle. I due autori scelgono una messa in scena che coinvolge lo spettatore emotivamente. Ci si immedesima non tanto nei personaggi, ridotti al grado zero delle rispettive psicologie (le sfumature maggiori, e sorprendenti, nella definizione della coppia Lo Cascio – Perriera), quanto nell’azione e nella tensione. Emblematica la scena del delitto in casa di Rita: un piano sequenza di quasi venti minuti in cui la soggettiva del sicario si lega alla presenza della ragazza, in grado di sentire, ma non di vedere, l’intruso. E questo rimbombo sensoriale è una caratteristica di tutto il film, luminosissimo di giorno, livido e vivido nell’oscurità, quasi a descrivere un mondo iperreale tempestato da rumori improvvisi quanto ricorrenti e persistenti: un motorino in lontananza, le radioline, le voci vicine e lontane. Il contesto sonoro, retaggio del mondo di Rita prima dell’«evento», pervade tutto il film e stride con la visione straniante di una Sicilia fuori registro, solo periferica, dove la campagna e gli spazi aperti rimandano volutamente al paesaggio del western all’italiana. I riferimenti si sprecano, ma anche qui, faremmo torto a Grassadonia & Piazza se volessimo ricondurre forzatamente Salvo a una tradizione specifica del cinema italiano. Il poliziesco di Fernando di Leo (la discarica palermitana era già lo sfondo minaccioso di Il Boss, del 1973) o di Sergio Leone sono più intuizioni che ispirazioni, la prima addirittura inconsapevole (mentre certe strizzate d’occhio a Leone, lo dicono gli autori, sono volute). Quello che conta è il coraggioso tentativo di costruire un cinema diverso, in Italia, oggi. Salvo è un «UFO»: sceglie un linguaggio al quale non siamo più abituati. Se oggi le storie di genere sono raccontate con un didascalismo televisivo che nulla lascia all’immaginazione, il meccanismo narrativo del film viene invece innescato da un evento non spiegabile razionalmente. L’aspetto allusivo del rapporto tra Salvo e Rita è alla base della loro comunicazione, fatta di attese e silenzi. Questo scarto tra la prevedibilità (letterale) tipica della nostra fiction e la sospensione dell’incredulità che Salvo chiede allo spettatore, spiega bene due concetti: da una parte, l’ostinazione con cui il nostro sistemacinema ha a lungo rifiutato di finanziare un film considerato anomalo; dall’altra, il suo felice riscontro internazionale, cominciato con i prestigiosi riconoscimenti del Festival di Cannes, proseguito con la distribuzione in molti paesi, e in parte dovuto al suo linguaggio finalmente «sprovincializzato». Mauro Gervasini 52 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM LA SCELTA DI BARBARA SAISON CULTURELLE (Barbara) Regia: Christian Petzold. Sceneggiatura: Christian Petzold, Harun Farocki. Fotografia: Hans Fromm. Montaggio: Bettina Böhler. Musiche: Stefan Will. Scenografia: K. D. Gruber. Costumi: Anette Guther. Interpreti: Nina Hoss, Ronald Zehrfeld, Jasna Fritzi Bauer, Rainer Bock, Christina Hecke, Claudia Geisler, Peter Weiss, Carolin Haupt, Deniz Petzold. Produzione: Schramm Film Koerner & Weber/ZDF. Distribuzione: Bim. Paese: Germania. Anno: 2012. Durata: 105 minuti. Ci sono tanti muri che segnano lo spazio in La scelta di Barbara. Alcuni ben evidenti e visibili come le porte, le finestre e i vetri delle auto. Le prime come molteplici frontiere da attraversare in continuazione, le altre come punti di controllo da cui osservare ossessivamente i movimenti della protagonista. Altri invece sono più nascosti, ma anche più oppressivi, che impediscono o rallentano ogni azione. Nell’estate del 1980 Barbara, un medico, richiede un visto d’espatrio dalla Germania dell’Est, ma per punizione viene allontanata da Berlino e mandata in un ospedale di campagna, dove può continuare a svolgere il suo lavoro. Barbara si tiene in disparte e aspetta le mosse del suo compagno Jörg, che si trova nella Germania Ovest e le sta pianificando la fuga. La donna comunica solo con il suo capo André, che mostra, però, un atteggiamento ambiguo: è innamorato oppure la sta controllando? Vincitore dell’Orso d’Argento al Festival di Berlino 2012, La scelta di Barbara è un altro affresco del recente cinema tedesco che vuole fare i conti col proprio passato. I primi piani sul volto di Nina Hoss, che aveva collaborato con Petzold già in Jerichow (2008), rivelano il riflesso di un Paese visto dagli occhi di una donna in fuga: ossessive sensazioni di pedinamento, figure che hanno atteggiamenti sospetti. Solo con i pazienti Barbara si apre: da Stella, che vede in lei l’unico spiraglio della sua vita, al ragazzo ricoverato dopo essere precipitato dal terzo piano. Sembrano esserci tante presenze nascoste, minacce nel fuori-campo come in Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel von Donnersmark, oppure in quella pericolosa omologazione di L’onda (2008) di Dennis Gansel, dove il diverso è visto come una costante minaccia. Christian Petzold, uno dei nomi più interessanti del recente cinema tedesco, lavora ancora su personaggi in clandestinità, circondati dalla solitudine, come la ragazzina del suo film Die Innere Sicherheit (2000). Barbara è sospesa tra ambienti spogli, si sente spesso osservata sul trenino, oppure attraversa in bicicletta la campagna, dove i colori tendono a spegnersi e ad amalgamarsi indifferentemente in un persistente grigiore. Il bosco in cui si trova con il suo compagno non ha respiro: sembra un labirinto, circondato dagli alberi, dove la macchina da presa di Petzold si muove sempre in sospensione, come se stesse per inquadrare la salvezza e, insieme, il pericolo. Se può apparire troppo segnato dalla scrittura il rapporto tra la protagonista e il suo capo (soprattutto nel momento in cui lui le confessa il suo errore professionale), La scelta di Barbara ha al tempo stesso il merito di non dare dei punti di riferimento, anche se la macchina da presa non lascia mai la protagonista. Il suo nome si trova nel titolo, come era accaduto in Yella (2007), dove il personaggio principale, anche qui, si trasferisce da un posto all’altro per iniziare una nuova vita. In questo film, il regista sembra, da una parte, sezionare quello che inquadra, come se nei dettagli ingranditi si potessero scorgere altri particolari, come avviene nella citazione del dipinto Lezione di anatomia del dottor Tulp di Rembrandt (1632). Dall’altra, dona al film un respiro più arioso, come nella fuga di Stella, «ragazza selvaggia» quasi truffautiana, in cui si evidenziano alcuni degli omaggi del regista tedesco al cinema europeo e americano. La rappresentazione della provincia chiusa rimanda per molti aspetti al cinema di Chabrol in cui «dietro le porte chiuse» potrebbero avvenire i crimini più insospettabili. L’atmosfera oppressiva della Germania dell’Est può rifarsi a quella del Mercante delle quattro stagioni (1971) di Fassbinder, dove il passato e il presente si confondono e lasciano galleggiare i personaggi in uno stato di persistente immobilità in attesa che accada qualcosa. Gli sguardi di Barbara, che fuma nervosamente sigarette, alla ricerca di altri occhi complici, ricordano l’Hawks più depistante, quello di Acque del Sud (1944) dove Humphrey Bogart e Lauren Bacall, spiati dagli agenti della polizia segreta, comunicano «a vista». Dietro questa scelta, c’è la nostalgia di un cinema del passato: idealmente Petzold avrebbe potuto fare il suo cinema anche negli anni Settanta e Ottanta. Al tempo stesso, però, La scelta di Barbara è anche una riuscita radiografia sulle ombre di una nazione prima della sua ri/nascita, la caduta del muro di Berlino, e un potente ritratto femminile che non dà risposte, ma lascia aperte diverse soluzioni. Come nel finale. Dove sta guardando Barbara? Verso il medico o lo spettatore? Simone Emiliani SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM STOKER 53 Regia: Park Chan-wook. Sceneggiatura: Wentworth Miller, Erin Cressida Wilson. Fotografia: Nicolas de Toth, Chung Chung-hoon. Montaggio: Nicolas de Toth. Musica: Philip Glass, Clint Mansell. Scenografia: Thérèse DePrez. Costumi: Kurt & Bart. Interpreti: Mia Wasikowska, Nicole Kidman, Matthew Goode, Dermot Mulroney, Jacki Weaver, Lucas Till, Alden Ehrenreich, Ralph Brown, Phyllis Somerville. Produzione: Fox Searchlight Pictures, Scott Free Productions. Distribuzione: 20th Century Fox. Paese: Usa. Anno: 2013. Durata: 99 minuti. Un inizio raccontato per splendide ellissi: il diciottesimo compleanno di una fanciulla, la ricerca di un regalo misterioso, la morte improvvisa del padre amatissimo, la comparsa - durante il funerale - di una misteriosa figura. Al centro di un susseguirsi di splendidi quadri, si impone il ritratto di una ragazza che sembra provenire da un altro secolo: in questo film Mia Wasikowska (nei panni della protagonista India Stoker) mostra alla macchina da presa un viso dall’espressione impenetrabile, a metà tra il ritratto vittoriano e le reminescenze dell’horror asiatico. Così Stoker, attraverso la luce che disegna i tratti somatici di un viso, si presenta subito per ciò che è: un interessante incrocio tra l’iconografia di Ring (per lo stampo giapponese), e la tradizione del cinema classico americano. Non è un caso che Park Chan-wook, qui alla sua prima trasferta americana dopo il successo di Thirst (Premio della Giuria al Festival di Cannes 2009), abbia più volte parlato dell’hitchcockiano La donna che visse due volte come il film che più ha influito sulla sua decisione di fare il regista. Ed è forse proprio in Stoker che questo grande autore del cinema internazionale rivela come la sintassi del cinema classico e i temi del regista inglese abbiano influenzato la sua opera. Per raccontare la storia della famiglia Stoker – che nasconde nel suo passato l’impronta di un male ereditario che passa nel sangue dei suoi membri – Park Chan- wook si intrufola nella grande villa di famiglia e riempie gli spazi con eleganti e semicircolari movimenti di macchina che esplorano le stanze, le riempiono con la grazia delle vele gonfiate dal vento e ne escono dopo aver raccontato tutto, o quasi. Sono spazi in cui ogni oggetto, ogni accostamento di colore, ogni gesto sono collocati con la perizia e la visione dei grandi maestri, che sanno calcolare quando andranno incontro a una ciocca di capelli che scende sul viso, a una sfumatura che colora la parete, a uno sguardo calibrato con la precisione con cui si prende la mira. Prodotto da Ridley Scott e scritto da Wentworth Miller, Stoker può essere letto come una dichiarazione d’amore per gli oggetti. L’omicidio raccontato attraverso una cintura, una camicetta gialla indossata nel finale, il colore di un bicchiere di vino, un fiore bianco sporcato di sangue, la vita di una bambina dalla sua nascita fino al compimento del suo diciottesimo compleanno sintetizzata da un paio di scarpe. Sono gli oggetti - bellissimi oggetti - a essere il centro dell’interesse e della narrazione e a sottoporsi con docilità a uno sguardo da esteta. Ma cosa interessa davvero a Park Chan-wook? Il ritorno di un morto? La vendetta per una vita rubata? L’educazione sentimentale di una fanciulla? Il vampirismo come metafora di una distruttiva sensualità? In questo film, lo spettatore si incanta davanti a un décor che nem- meno la violenza, quell’etica della violenza estrema che era la cifra dei lungometraggi precedenti, riesce a scardinare o quantomeno a intaccare (si veda la scena della morte del ragazzo nel parco, ripetuta esattamente nel sottofinale). Letto sotto questo aspetto, Stoker è esattamente descritto attraverso la qualità dei suoi movimenti di macchina: seducenti e seduttivi, sinuosi e insinuanti nel loro sussurrare segreti inquietanti, eppure cristallizzati in una perfezione dura, inscalfibile. Sguardi ottusamente, duramente innamorati delle cose che si trovano a sfiorare. Silvia Colombo 54 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM SUGAR MAN SAISON CULTURELLE (Searching for Sugar Man) Regia e sceneggiatura: Malik Bendjelloul. Fotografia: Camilla Skagerström. Montaggio: Malik Bendjelloul. Musiche: Rodriguez. Interpreti: Stephen «Sugar» Segerman, Dennis Coffey, Mike Theodore, Dan DiMaggio, Eva Rodriguez, Sixto Rodriguez, Regan Rodriguez, Sandra Rodriguez-Kennedy. Produzione: Red Box Films, Passion Pictures, The Documentary Company, SVT, Saperi Film Sweden AB. Distribuzione: The Space Extra. Paese: Svezia, Gran Bretagna. Anno: 2012. Durata: 86 minuti. La prima parte del documentario Searching for Sugar Man è un viaggio di ricerca, che dal Sud Africa approda a Detroit, per scoprire l’origine e la storia di un uomo che ha cambiato la vita di moltissimi suoi fan, e che con le sue canzoni di ribellione ha lottato con loro, senza però saperlo, contro la discriminazione razziale. Searching for Sugar Man è la storia di un’assenza tanto «invadente» da spingere il regista svedese Malik Bendjelloul (che è anche un collezionista di dischi) a costruire un film insolito, proprio come il suo personaggio, talmente ricco di dettagli e di racconti, da aprire davanti agli occhi dello spettatore un quadro storico, politico e umano di grande intensità. La vicenda è quella del cantautore di origine messicana Sixto Rodriguez che, all’inizio degli anni Settanta, pubblicò due dischi, tanto amati dalla critica, quanto completamente trascurati dal pubblico. Due dischi in cui si cantavano i temi della disuguaglianza e del razzismo, la necessità della riscossione da parte dei più deboli e della ribellione contro l’establishment. “Uno spirito che vagava per la città”, dice di lui il suo agente di allora, per sottolineare lo sguardo acuto e sensibile nel descrivere i sentimenti e le emozioni della vita di quegli anni travagliati. Tanto profondo da diventare universale e attraversare le frontiere e i divieti e approdare nel Sudafrica della segregazione razziale. Qui la storia cambia completamente, perché, se negli Stati Uniti non si erano venduti più di sei dischi (come dice con sarcasmo il suo discografico di allora), dall’altra parte del mondo le cose si ribaltano: Sixto Rodriguez diventa una star e il suo Cold Fact un disco famosissimo. Molto più dei Rolling Stones e di Elvis Presley, le canzoni di Rodriguez hanno ispirato un’intera generazione, diventando l’inno della rivoluzione anti-apartheid. Eppure di quel musicista non si sapeva nulla. La sua identità era avvolta nel più fitto mistero (iniziarono presto a moltiplicarsi le leggende del suo suicidio). Da qui, dunque, la ricerca a ritroso nel tempo e il desiderio di dare un volto a quella voce. Il percorso di Malik Bendjelloul (che in principio pensava a un cortometraggio per la televisione svedese) è molto chiaro. Divide il film in due parti, tra Sudafrica e Stati Uniti appunto, facendo compiere allo spettatore due viaggi: quello della scoperta di un musicista, e quello della scoperta di un uomo e della sua vita. È questa seconda parte a caricarsi di maggiore pathos, perché è qui che i discorsi si completano, acquistano una dimensione esistenziale che tiene conto dell’aspetto umano di quel mito di cui si è parlato finora. Rodriguez compare per la prima volta in forma di sagoma dietro al vetro scuro di una finestra. Quando si affaccia lo vediamo composto, invecchiato e straordinariamente normale. Gli occhiali scuri coprono parte del volto, ma i suoi modi sono di profonda pacatezza. Anche durante le interviste, le sue parole appaiono pure, talvolta sorprese, ma sempre concrete e quotidiane. Un uomo che non ha mai conosciuto la fama e la scopre all’improvviso senza capogiri. Si dice che sia stato riluttante a concedersi alla macchina da presa, e stesse dormendo quando il film vinse l’Oscar come miglior documentario (poco prima aveva vinto il premio della Giuria al Sundance). Tuttavia, quando si esibisce per la prima volta sul palco in Sudafrica, davanti a una folla sterminata, non sembra aver fatto altro per tutta la vita. In questo momento il cerchio sembra chiudersi. I misteri sono stati svelati mostrando il valore universale della musica e di quella di Sixto Rodriguz in particolare. Di lui, però, resterà l’immagine di un uomo che cammina lungo i marciapiedi della città, quarant’anni fa come oggi, intento ad assaporare il gusto della vita e a esaltare il valore profondo della ribellione. È vinta, quindi, la sfida dei due fan sudafricani Stephen «Sugar» Segerman e Craig Bartholomew Strydom, iniziata con la ricerca del cantore della libertà di espressione nel loro paese e finita incontrando un musicista straordinario, cresciuto nei sobborghi «neri» di una città industriale degli Stati Uniti. Una storia inimmaginabile raccontata da Bendjelloul con diversi formati (super8 e, per limiti di budget, anche un cellulare), spezzando la narrazione in innumerevoli interviste, immagini d’epoca, ricostruzioni animate, canzoni e paesaggi evocativi, mentre il ritmo è serrato, ma talvolta si distende, si sospende nell’ascolto e nella riflessione. Grazia Paganelli SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM IL SUPERSTITE 55 (For Those in Peril) Regia e sceneggiatura: Paul Wright. Fotografia: Benjamin Kracun. Montaggio: Michael Aaglund. Musica: Erik Enocksson. Scenografia: Simon Rogers. Costumi: Jo Thompson. Interpreti: George MacKay, Kate Dickie, Michael Smiley, Nichola Burley. Produzione: Warp Films. Distribuzione: Nomad Film. Paese: Gran Bretagna. Anno: 2013. Durata: 93 minuti. Dopo essere stato insignito di vari riconoscimenti per i suoi corti (tra cui un BAFTA per Until The River Runs Red), Paul Wright esordisce al lungometraggio con un’elegia visiva e sonora ispirata alla sua stessa infanzia, trascorsa non lontano dal mare e a stretto contatto con le storie e i miti che da sempre accompagnano chi osa avventurarsi nel suo mistero. Presentato alla Semaine de la Critique durante la sessantaseiesima edizione del Festival di Cannes e prodotto dalla lungimirante Warp Films, casa indipendente a cui si devono titoli come This is England (Shane Meadows, 2006) e Tyrannosaur (Paddy Considine, 2011), Il superstite è una riflessione sulla sospensione dell’incredulità e sul nostro rapporto con la narrazione, vista come esperienza imprescindibile per restituire un senso alle inaspettate tempeste dell’esistenza. Per rappresentare un mondo in cui a occultare il pensiero della morte non sono ancora i mass media, ma una cultura popolare intrisa di superstizione, Wright sceglie un piccolo villaggio di pescatori dell’Aberdeenshire, in Scozia, ancora estraneo alle dinamiche dell’economia industriale. Il mare, qui unico orizzonte e unica fonte di sostentamento, è così eletto sin dall’incipit a motore propulsivo della tensione umana al racconto: offerto come immagine in bianco e nero, sgranata e senza tempo, è lo spazio che, in virtù della sua inconoscibilità, concede all’uomo di credere ancora nel fantastico e nell’irrazionale. Nel film tutti i personaggi coinvolti – incluso il regista – tendono infatti a raccontare (ma soprattutto a raccontarsi) una storia di fantasia per assorbire la portata tragica di un incidente avvenuto in mare. Cinque uomini hanno perso la vita nel naufragio, compreso il fratello maggiore del protagonista Aaron, che invece è l’unico superstite. I membri della comunità costruiscono così lo spettro di una maledizione che pone Aaron in una posizione di colpevolezza. Il ragazzo rintraccia invece nei meandri del proprio subconscio la favola su un mostro marino che sua madre Cathy raccontava a lui e a suo fratello da bambini, e la utilizza per rileggere il trauma. Accecato dal dolore e dalla follia, decide di inoltrarsi in mare aperto per ritrovare il fratello, rifiutandosi di credere alla sua morte. È soprattutto il ricorso alla figura del mostro a innalzare la vicenda individuale di un giovane posto di fronte alla propria linea d’ombra all’universalità del mito, che sublima le difficoltà dell’esistenza rendendole sopportabili. Si tratta di uno spunto narrativo che peraltro avvicina i fantasmi di Aaron a quelli dei piccoli protagonisti di Nel paese delle creature selvagge (Spike Jonze, 2008) e Re della terra selvaggia (Benh Zeitlin, 2012), pellicole che potrebbero aver influenzato Wright, insieme alle ultime due opere di Terrence Malick, almeno per quanto riguarda la costruzione del racconto e la relazione instaurata tra immagini e paesaggio sonoro. La messa in scena di questa stratificazione di narrazioni collettive e individuali spinge il regista a ricorrere a una varietà di formati che vanno dal Super 8 al video televisivo, fino ai grossolani pixel della fotocamera del cellulare. Ma è proprio in questa scelta che si annida uno dei punti critici dell’operazione: se da un lato è vero che il collage di immagini di diversa fattura dinamizza il racconto e permette di visualizzare la casualità dello stream of consciousness di Aaron, dall’altro rivela una certa stanchezza insita nella ricerca linguistica di Wright. La memoria dell’infanzia filtrata nostalgicamente attraverso la grana della pellicola, così come l’incidente improvviso catturato dalla ripresa a scatti del cellulare sono diventate marche talmente diffuse e riconoscibili, anche nel cinema mainstream contemporaneo, che finiscono per indebolire il tentativo del regista di disorientare lo spettatore. A questo si aggiunge una rappresentazione del reale concepita rigorosamente come documentarismo o secondo stilemi (come le semisoggettive sul protagonista) che richiamano direttamente il cinema dei fratelli Dardenne. In un’opera che intende porsi come soggettiva, totalmente sottomessa al punto di vista fragile e disturbato del protagonista, i confini tra immagini di (finto) repertorio, oniriche e reali appaiono perciò troppo precisamente definiti per consentire una totale immersione nell’incubo allucinatorio di Aaron. Così, se il finale suggerisce una linea di demarcazione ben precisa tra chi rimane sulla soglia del racconto e chi invece la varca per rimanerne imprigionato, noi non possiamo che sostare sulla riva, impossibilitati a farci catturare completamente dal mostro dell’oceano. Francesca Monti 56 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM SUR LE CHEMIN DE L’ÉCOLE SAISON CULTURELLE Réalisation: Pascal Plisson. Scénario: Marie-Claire Javoy, Pascal Plisson. Image: Simon Watel. Montage: Sarah Anderson, Sylvie Lager. Musique: Emmanuel Guilonet, Laurent Ferlet. Interprétation: Jackson Saikong, Salome Saikong, Samuel J. Esther, Gabriel J. Esther, Emmanuel J. Esther, Zahira Badi, Noura Azaggagh, Zineb Elkabli, Carlito Janez, Micaela Janez. Production: Winds, Ymagis, Hérodiade. Distribution: Academy Two. Pays: France. Année: 2012. Durée: 77 minutes. Prendre le chemin de l’école plutôt que celui de la guerre, et ce, non pas idéologiquement, mais très concrètement. C’est une vision, presque un mirage, qui a donné à Pascal Plisson l’idée de Sur le chemin de l’école un jour qu’il voyageait au nord du Kenya près du lac de Magadi : de jeunes guerriers Massaï approchaient vers lui sans armes ni boucliers, un sac de jute au dos. Ces écoliers lui ont raconté avoir décidé de leur propre chef de troquer l’initiation guerrière pour l’ardoise et le stylo. Pour le réalisateur de Massaï les guerriers de la pluie – fiction initiatique dans un Kenya qu’il connaît bien pour y avoir vécu –, le documentaire né de cette rencontre ne pouvait que prendre la forme d’un film d’aventures. Quatre enfants, quatre pays – Kenya, Maroc, Inde, Argentine –, des couleurs et des cadres à la hauteur d’un grand reportage photographique, et le choix assumé de faire du trajet vers le lieu de savoir une épopée du quotidien, un périple parfois accompli dans des conditions climatiques extrêmes (20 degrés au-dessous de zéro dans la vallée d’Imlil au Maroc). Soit, donc, un dispositif : des enfants qui ont entre 9 et 12 ans et qui doivent parcourir plus de dix kilomètres pour aller à l’école, alors que dans leur pays l’enseignement n’est pas forcément obligatoire. Quels que soient les moyens de locomotion de Jackson, Zahira, Carlito et Samuel – à pied, à cheval, en stop, en fauteuil roulant... –, ces personnes-personnages ont l’étoffe de héros de contes de fées. Ni sorcières ni dragons, les malveillants et les embûches qu’ils rencontrent sur la route ont au moins autant d’ampleur que dans les fictions : conducteurs potentiellement dangereux pour les trois petites Marocaines autostoppeuses du Haut-Atlas, bandits de grands chemins ou attaques d’éléphants dans la Savane pour Jackson et sa sœur, par ailleurs souvent contraints d’avancer entre les girafes, ou encore fauteuil roulant bricolé qui menace de se démantibuler... Quant aux « adjuvants » croisés habituellement dans les forêts des frères Grimm ou de Charles Perrault, ils prennent ici le visage d’un grand frère ou d’une grande sœur, d’amis prêts à pousser le siège roulant pendant des heures sur un chemin escarpé, voire d’un cheval (la petite sœur de Carlito élève un poulain qui lui permettra bientôt de se véhiculer jusqu’à son école de Patagonie sans devoir partager la selle de son frère). En laissant en grande partie hors-champ les adultes mais aussi la nature de l’enseignement dispensé à ces enfants, Pascal Plisson affirme nettement que la détermination des écoliers transcende leurs conditions de vie, fussent-elles spectaculairement difficiles. La route lui importe davantage que la destination. Ainsi, d’un côté, Sur le chemin de l’école fonctionne comme un puissant miroir inversé pour les écoliers occidentaux : nul doute que les classes entières qui ont massivement assisté au film dans les salles de France et dans le reste de l'Europe aussi se soient entendu souligner leur chance de n’avoir pas à parcourir une telle distance pour atteindre l’école. Il est certain que le didactisme du projet a été reçu cinq sur cinq par des enseignants parfois découragés de voir leurs élèves démotivés. Mais par-delà ce décentrement du regard offert aux enfants « d’ici », les vies parallèles de ces quatre super-écoliers dégagent autre chose qu’un désir d’apprendre ancré dans un espoir de développement économique et culturel. La capacité de certains êtres à s’adapter à des environnements hostiles conserve une part de mystère : le même mystère, à la réflexion, qui nous fait croire, nous spectateurs, à l’improbable survie d’un James Bond pris dans une souricière ou d’un Jason Bourne piégé par ses commanditaires. Chez ces enfants, l’énergie, la force d’âme et la résilience ne sauraient s’expliquer par le seul espoir d’un avenir meilleur que leurs parents. Célébration de l’appétit de savoir, Sur le chemin de l’école est tout autant un éloge de la fiction comme désir d’inconnu. Charlotte Garson SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM VOGLIAMO VIVERE! 57 To B e o r N o t t o B e Regia: Ernst Lubitsch. Soggetto: Ernst Lubitsch, Melchior Lengyel. Sceneggiatura: Edwin Justus Mayer. Fotografia: Rudolph Matè. Montaggio: Dorothy Spencer. Musica: Werner Richard Heymann. Scenografia: Julia Heron, Vincent Korda. Costumi: Irene. Interpreti: Carole Lombard, Robert Stack, Jack Benny, Felix Bressart, Henry Victor, Sig Ruman, James Finlayson, Frank Reicher, Lionel Atwill. Produzione: Ernst Lubitsch e Alexander Korda. Distribuzione: Enic (1942), Teodora Film (2013). Paese: USA. Anno: 1942. Durata: 99 minuti. È possibile raccontare l’orrore? Molto tempo prima che la filosofia cercasse risposte nella banalità del male o nella sua irrapresentabilità, Lubitsch aveva già riflettuto sulla questione. Vogliamo vivere! (titolo italiano di To Be or Not to Be) ne è la risposta. Non la banalità, ma la teatralità del male è il grimaldello per cogliere l’essenza del nazismo, guardare nel suo cuore di tenebra e uscirne vivi, forse persino col sorriso sulle labbra. Incrociando i destini di una compagnia di teatranti mediocri con quelli di un gruppo di ufficiali nazisti, Lubitsch affronta la questione dal punto di vista della messinscena. In entrambi i campi domina un repertorio fatto di costumi, divise, parole vuote, gesti plateali, espressioni retoriche, posture enfatiche. La maschera – in tutte le declinazioni possibili del termine – rappresenta l’anello di congiunzione fra chi, nello stesso periodo, calca il palcoscenico della storia piuttosto che quello del teatro. Al punto che le due comunità si incrociano con grande disinvoltura, in un gioco vertiginoso di parti e ruoli che si scambiano e sovrappongono in continuazione. Quanto più procede la narrazione, tanto più la relazione fra i due gruppi si fa ingarbugliata, pressoché inestricabile. Se il teatro ha la facoltà di irretire e zittire una folla anche quando è di scarsa qualità, allora perché il potere non dovrebbe imitarne modi, tempi e cadenze? Mentire con convinzione, costruire un impero sulla spudoratezza delle proprie bugie, l’appariscenza dei propri costumi, l’autorevolezza del proprio eloquio. Lo spettacolo del potere ha così le proprie fondamenta nel potere dello spettacolo. Vogliamo vivere! appartiene alla galassia del cinema classico americano, il che significa che Lubitsch dovette all’epoca sintonizzare il tema sulla lunghezza d’onda dell’intrattenimento, regola aurea e principe dell’universo hollywoodiano. Da qui l’idea di evidenziare i tratti teatrali del nazismo non attraverso una semplice critica del suo apparato marziale e militare, ma costruendo invece una impalcatura narrativa che portasse degli attori ad intrufolarsi negli uffici e nelle segrete stanze del potere hitleriano. La loro stessa presenza costituisce una sorta di reagente, in virtù della quale la teatralità pacchiana del nazismo viene improvvisamente ed evidentemente messa in luce: se quattro attori modesti possono impersonare con efficacia spie e gerarchi nazisti, allora quella del potere hitleriano non è, in fondo, niente di più che una messinscena mediocre. Ma come tutte le opere universali, anche Vogliamo vivere! è tale perché invecchia splendidamente, resistendo al tempo, in virtù di una profondità che gli permette di offrire contenuti diversi a spettatori diversi in epoche diverse. Cosa può dire oggi, a settant’anni di distanza dalla sua uscita, il film di Lubitsch? Cosa può dire ad un pubblico per il quale il nazismo è poco più di un capitolo su un manuale di storia? Se preso da questo punto di vista, dal film trapela uno sbalorditivo senso di lungimiranza. Prima che Debord parlasse di società dello spettacolo, prima che negli Stati Uniti un attore venisse eletto presidente, prima che in Italia la politica venisse dominata da uomini di televisione, Lubitsch aveva costruito un apologo sul pericolo della teatralità coniugata alla politica, sulle insidie di un mondo nel quale l’eleganza della dissimulazione occulta ideologie criminali e manie di grandezza, totalitarismi e ansie di potere. Qua sta la grandezza di Vogliamo vivere!, la sua splendida attualità. Nella sua funzione di ammonimento a non cadere nelle trappole di chi ammanta la propria miseria morale e intellettuale in un apparato scenico in grado di avvalorarlo e celebrarlo. Il teatro è una cosa seria, troppo seria per lasciarla alla politica. L’unico momento in cui il film non ci appare felicemente immerso in un clima di farsesca approssimazione, è quello del monologo di Shylock tratto da Il mercante di Venezia (“do we not bleed?”), dove improvvisamente i versi shakespeariani aprono una finestra di intensità drammatica in un copione altrimenti dominato dalla comicità. A renderli dirompenti, la loro pertinenza a quello che gli ebrei polacchi stavano subendo durante l’occupazione nazista. È qua, nell’istante in cui torna a connettersi con le disgrazie e le sofferenze di un popolo oppresso e perseguitato senza ragione, che il teatro – vituperato sino a quel momento quale orpello ridicolo di un potere improbabile – trova il proprio riscatto, la sua profonda ragione d’essere. Come cassa di risonanza della sofferenza degli uomini, non come amplificatore delle loro manie di grandezza. Leonardo Gandini 58 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM TO THE WONDER SAISON CULTURELLE Regia, soggetto e sceneggiatura: Terrence Malick. Fotografia: Emmanuel Lubezki. Montaggio:A.J. Edwards, Keith Fraase, Shane Hazen, Christopher Roldan, Mark Yoshikawa. Musiche: Hanan Townshend. Scenografia: Jack Fisk. Costumi: Jacqueline West. Interpreti: Ben Affleck, Olga Kurylenko, Rachel McAdams, Javier Bardem, Charles Baker, Romina Mondello. Produzione: Redbud Pictures. Distribuzione: 01 Distribution. Paese: USA. Anno: 2012. Durata:112 minuti. To the Wonder può essere un film incredibilmente difficile da accettare, nato com’è da un impulso tutto intimo e personale del suo autore e costruito orchestralmente attorno a temi resi impalpabili fino all’astrazione. Ma è anche un film incredibilmente bello da guardare e da ascoltare, di una bellezza che si fa contemplare senza mai nascondere le proprie fragilità. È una storia di emozioni, prima che diventino sentimenti, di intuizioni, prima che diventino parola, di pensieri, prima che diventino azioni. Questo è To the Wonder: un poema sinfonico composto attorno al mistero della relazione tra un uomo e una donna, tra un uomo e l’assoluto. Come in un poema sinfonico, anche qui l’unità di una composizione indivisa in movimenti o in parti riconoscibilmente separate tra loro non impedisce, anzi veicola con maggiore vigore, una grande varietà di approcci e punti di vista. Il cambiamento naturale al quale ogni persona va incontro nel corso della propria vita diventa – nel quadro del tempo condensato e sospeso nel quale Malick immerge i propri personaggi – la trasparenza di un’anima che muta senso e colore al minimo soffio del vento e al più debole dei raggi del sole. E in quest’ottica è straordinaria la fede che Terrence Malick ha nel potere del singolo di porsi – tramite i propri interrogativi – in contatto con l’assoluto, un assoluto che di volta in volta si può manifestare come il «dio interiore», del quale parla il sacerdote cattolico interpretato da Javier Bardem, oppure come il bisogno d’amore, avvolto nel mistero, di Ben Affleck e delle sue due compagne. Ovvero, per tutti, nel sole che all’alba e al tramonto chiama a sé ogni personaggio, rivelazione dell’eterna intimità tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. Solido come la sua fede in una qualche forma di assoluto, Malick si concede la libertà e il privilegio di scelte al limite del fraintendimento o dell’equivoco, come quella di associare alla meraviglia che dà il titolo al film il Mont Saint Michel, un luogo talmente abusato dell’immaginario turistico di massa da essere diventato, comunque lo si guardi, la cartolina di se stesso. O come quella – mediata dal precedente Tree of Life – di accordare il respiro del film al ritmo di infiniti «jump cuts», la tecnica di montaggio che consiste nel rimuovere una sezione intermedia all’interno di una ripresa originariamente effettuata in continuità. Il jump cut, sul quale Dziga Vertov costruì il suo Uomo con la macchina da presa, divenne, soprattutto tra gli anni Cinquanta e Sessanta, una delle tecniche predilette di altri due grandi autori d’avanguardia: Alain Resnais e JeanLuc Godard. Come Malick, Resnais e Godard non sono solo grandi registi, ma anche grandi montatori. È in fase di montaggio, infatti, che il loro cinema si fa arte, linguaggio e segno. Ed è in fase di montaggio che l’intuizione alla base di To the Wonder si trasforma in creazione, ricorrendo a una tecnica che, perduto il carattere rivoluzionario del secolo passato, è diventata oggi lo strumento semplice e antico per trasformare un’idea in una creazione e la proiezione di un sopporto solido e intangibile in un’esperienza parago- nabile all’esecuzione di una partitura. Si può anzi dire che la fuga dal senso e la ricerca della creazione di un’emozione, di un sentimento attraverso l’esperienza del simbolo siano gli obiettivi primari che Malick si è dato con To the Wonder. In questo è grande l’accento che viene posto non solo sul montaggio delle immagini ma anche su quello dei suoni. Come ad esempio gli «ostinati» dei rumori-ambiente che parassitano i pochi dialoghi e spesso sversano in dissolvenza sulla scena successiva, facendosi densa e magmatica colla che unisce situazioni senza apparenti relazioni. O come l’uso della musica, posta in trasparenza sotto le immagini, con una grande cura nell’evitare la sottolineatura o il contrappunto. Che una sintesi – del valore o del senso – di To the Wonder sia impossibile è senza dubbio un indice della sua riuscita e del successo del suo autore nel centrare i bersagli che si è dato. Uno di questi è quello di fare un film che appartenga pienamente alla sua epoca più di tutte le opere narrativamente formattate e stilisticamente codificate alle quali siamo più inclini ad accordare il nostro favore di spettatori. Grazie alla sua unicità di film esperienziale, di film-poesia, To the Wonder è davvero un film del XXI secolo, di un’epoca nella quale il cinema, persa del tutto la sua centralità nel mondo delle immagini in movimento, sussiste come pulviscolo all’interno di una sterminata galassia mediale in cui l’elemento chiave non sono i contenuti, ma il supporto digitale che li veicola. Marco Gianni SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM LA VARIABILE UMANA 59 Regia: Bruno Oliviero. Sceneggiatura: Valentina Cicogna, Doriana Leondeff, Bruno Oliviero. Fotografia: Renaud Personnaz. Montaggio: Carlotta Cristiani. Musica: Michael Stevens. Scenografia: Silvia Nebiolo, Luigi Maresca. Costumi: Silvia Nebiolo. Interpreti: Silvio Orlando, Giuseppe Battiston, Sandra Ceccarelli, Alice Raffaelli, Renato Sarti, Arianna Scommegna, Giorgia Senesi, Dafne Masin, Mao Wen, Davide Tinelli, Caterina Luciani. Produzione: Lumière & Co., Invisible Film, in collaborazione con Rai Cinema. Distribuzione: BIM. Paese: Italia. Anno: 2013. Durata: 83 minuti. Ammesso (e non concesso) che sia possibile una distinzione fra documentario e finzione, è interessante notare come di recente alcuni cosiddetti documentaristi italiani, passati al confronto con una narrazione (definiamola così) classica, lo hanno fatto perfettamente consapevoli, da un lato, di come la fiction possa arrivare a documentare l’inesorabile impurità e fuggevolezza del reale, e dall’altro di come la non-fiction possa a sua volta incarnare il maggior grado di «fantasticazione» della realtà. E se il caso di Gianfranco Rosi resta del tutto anomalo e sintetico insieme (Sacro GRA è un punto d’arrivo, ma non c’è suo film che non intenda per documentario solo quel naturale spazio di tempo necessario alla narrazione reale per raggiungere l’ancor più naturale infingimento della visione), è su registi come Bruno Oliviero (e poi Alessandro Rossetto, Andrea Segre e altri) che vale la pena di soffermarsi. La variabile umana è sicuramente un noir, ma di quel tipo (ne esistono altri? La grande tradizione americana del noir è leggibile anche come gigantesca mappatura documentaria dei mutamenti metropolitani, antropologici, dei conflitti di un’epoca intera…) che ammanta le procedure fiction di una complessa stratigrafia paesaggistica, la quale di fatto produce una frattura nello schema narrativo, depistandolo rispetto all’aderenza di genere, e bruciandolo tutto non a partire dal superamento dei confini, ma proprio nello sconfinarsi dello sguardo, fino a porsi come intervento politico tout court sul territorio e sul territorio dell’immagine (e non era questo che faceva, uno su tutti, Fritz Lang?). Allora forse bisogna partire, parlando dei protagonisti del film, dalla città, quella Milano che già in passato Oliviero ha scandagliato a fondo (da Milano 55,1 a MM – Milano mafia). Anche perché, mai come stavolta, la metropoli non è altro che il riflesso inconscio di un Paese intero e, nello specifico, dell’intreccio investigativo che chiama in causa i personaggi dell’ispettore Monaco (un rinnovato, e probabilmente al suo massimo, Silvio Orlando) e di sua figlia Linda (Alice Raffaelli, all’esordio). Ebbene, questa Milano disarticolata, soporifera, notturna, smarginata, piovosa, disillusa, riflette bene l’intontimento iniziale dei protagonisti, la loro chiusura verso l’altro, il ripiegamento in se stessi fatto di ottusa e molle cecità (l’ispettore Monaco confessa al suo compagno di investigazione interpretato da Giuseppe Battiston: “Io questa città non la riconosco”). E conduce il film su una linea narrativa atipica, di cui l’omicidio e il coinvolgimento della figlia dell’Ispettore Monaco, sono solo «pretesti», mentre la storia davvero appassionante da raccontare è il processo di fuoriuscita dal tunnel di due persone accecate che lentamente imparano di nuovo a guardare. Forse allora anche La variabile umana è un documentario? Certo, un documentario traslucido, suscettibile di generare ulteriori scintille e riverberi dal caos primordiale. Un documentario sulla non linearità del reale. Un documentario sentimentale che fa un’inchiesta sui sentimenti delle persone coinvolte e sullo stato antropologico (e architettonico) di una città, richiamandosi anche a una crisi collettiva più ampia (in questo non dissimile dal lavoro fatto da Alessandro Rossetto sul Veneto in Piccola patria). Cosa vogliamo per la nostra Italia ferita, sembra domandarsi Oliviero, dei poliziotti o dei padri? Ecco allora che un noir contemporaneo come questo ha per l’appunto la classicità necessaria per investigare l’universo privato di un uomo pubblico, non con la mannaia volgare e sensazionalistica tipica di certa cosiddetta comunicazione nazionale, ma piuttosto cogliendo nel «paesaggio» umano il nucleo politico incancellabile di ogni nostro atto quotidiano. La soluzione del giallo dipende dal risolversi dei conflitti interiori dei personaggi, investendo, inoltre, gli interpreti di un lavoro fisico raro, che non ha nulla di sociologico, ma è invece strettamente filmico: cerca in loro una mutazione che vada di pari passo al trasformarsi delle immagini (quella di Silvio Orlando è, in tutta sincerità, stupefacente). Resta infine la capacità di Oliviero di costruire un’orchestrazione filmica sospesa e diluita, capace di toccare dei vertici di tensione laddove al contrario il vuoto sembra farsi spazio (la sequenza più bella rimane in questo senso quella che conduce progressivamente, e in modo quasi inatteso, l’Ispettore Monaco a sospettare della figlia), e mantenersi anti-didascalico al momento della verità (vedi la scelta della confessione di Linda in flashback), fino alla pausa dolorosa e ambigua del finale. Non c’è che dire: per essere una fiction, La variabile umana accumula un bel po’ di documenti che non possono passare inosservati. Lorenzo Esposito 60 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM LA VÉNUS À LA FOURRURE SAISON CULTURELLE Réalisation : Roman Polanski. Scénario : Roman Polanski, David Ives, d’après la pièce de David Ives, d’après le roman érotique La Vénus à la fourrure de Léopold von Sacher-Masoch. Image : Pawel Edelman. Montage : Hervé de Luze et Margot Meynier. Musique : Alexandre Desplat. Décor : Bruno Via et Philippe Cord’homme. Costumes : Denise Diallo. Interprétation : Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric. Production : R.P. Productions, A.S. Films. Distribution : 01 Distribution. Pays : France. Année : 2013. Durée : 96 minutes. “ J’arrive trop tard, c’est ça ? Putain de merde ! ” : maquillée comme une voiture volée, jurant comme un charretier, la dernière candidate au casting d’une pièce tirée de la Vénus à la fourrure de Leopold von Sacher-Masoch achève de ruiner la journée du dramaturge et metteur en scène Thomas. Au téléphone, ce théâtreux arrogant et plaintif confie à celle que l’on présume être sa compagne qu’il vient de faire passer des auditions à “ à trente-cinq pétasses à moitié habillées en putes ou en goudous ”... Dans ce réjouissant duel pour un homme et une femme qui est aussi un hommage à son épouse actrice Emmanuelle Seigner, Roman Polanski distribue ainsi d’emblée très équitablement la vulgarité. Indépendante de leurs origines sociales contrastées, elle réside en effet tout autant dans le regard du metteur en scène machiste que dans celle de l’aspiranteactrice. Commencé à armes inégales puisque l’homme a le pouvoir de donner ou non le rôle à cette retardataire, le duel s’enclenche donc dans les termes d’un sadomasochisme moins pur que celui de Sacher-Masoch, et mis au goût du jour avec un certain humour puisqu’il est question d’un chien prénommé Derrida ou de la chaîne Arte, et que le téléphone portable endosse une bonne partie du hors-champ. Ces anachronismes qui viennent parasiter l’audition sont importants car à la supposée pureté artistique qui ressort de l’arrogance de Thomas s’oppose la vérité humaine plus terre à terre mais aussi plus sincère de la jeune femme, pour qui ce rôle se présente d’abord comme un job. Qui a vu par exemple Le Bal des vampires et se souvient de la vulnérabilité comique de son héros ne sera guère surpris de voir le rapport de force s’inverser à mesure que s’exhale de cette Vénus à la fourrure un fumet de féminisme triomphant. De ce retournement, l’unité d’action et de lieu et le nombre très limité d’acteurs sont les garants. Nous sommes en effet dans l’épure des espaces que tout amateur de Roman Polanski identifie depuis plusieurs années comme des huis-clos : intérieur newyorkais chez les « bobos » de son récent Carnage (2011), appartements reclus de Répulsion (1965) ou du Locataire (1976) et même, plus anciennement, confinement du yacht du Couteau dans l’eau (1962) : le huis-clos s’est toujours imposé chez lui comme un territoire de condensation des affects, véritable cocotte-minute prête à exploser. À la double mise en abyme (pièce originale, roman de 1870 dont est tiré le film) se surajoute ici l’autofiction amusée : non seulement l’évolution de Vanda offre à Seigner l’un de ses rôles les plus riches puisqu’elle interprète tour à tour la candidate à côté de la plaque, la Vénus de la pièce et même quand le metteur en scène inverse les rôles et lui donne la réplique en se travestissant, le valet soumis à Vénus ; mais Polanski fait porter à Amalric une hilarante perruque à longue mèche qui en fait inévitablement un sosie du cinéaste, non sans une pointe d’autodérision. Érotisme, travestissement, soumission, domination : tous les thèmes de la longue filmographie de Polanski se retrouvent ici condensés dans l’espace a priori neutralisé d’un théâtre sans spectateurs, une scène qui n’est pas encore offerte à l’œil public. En ce qui relève d’un tour de force, la dérision voire la caricature délibérée (voir le contraste chromatique de l’affiche : un stilletto noir sur fond rouge) n’empêche jamais le sérieux des moments érotiques, de la tension sadomasochiste qui s’en dégage. Pour autant ; le huis-clos n’est pas entièrement coupé du monde : le film s’ouvre sur un plan-séquence d’orage sur les Grands-Boulevards parisiens dont l’élégance laisse dans la mémoire du spectateur le “dehors” du décor unique qui va suivre. Certes en mode mineur, ce n’est rien moins que le jeu d’un Jean Renoir entre vie et théâtre (Le Carrosse d’or, Le Petit Théâtre de Jean Renoir) qui sont lointainement convoqués : “ où commence le théâtre ? Où finit la vie ? ” La question finale de la Camilla du Carrosse d’or est ici reposée, dans ce dispositif d’une grande nudité. Ce n’est pas un hasard si au cours du dialogue il est question de La Walkyrie: Vanda Jourdain, qui monte en puissance à mesure que la soirée se prolonge, se révèle une étonnante incarnation de la « vierge guerrière » wagnérienne. Vous avez dit Vanda Jourdain ? Écorchée vive comme la paumée de Wanda de Barbara Loden, jouant de mieux en mieux presque sans le savoir à la manière du Monsieur Jourdain du Bourgeois gentilhomme de Molière connu pour faire des vers sans le savoir, Vanda finit par devenir l’incarnation même d’une ubiquité des genres et des classes sociales : pas seulement la capiteuse Vénus mais aussi les hommes qui l’ont soumise ou servie, pas seulement l’actrice mais en définitive l’auteure. Il s’agit pour elle de rien moins que de réécrire pour les années 2010 un roman influent dont le philosophe Gilles Deleuze – avant Vanda ! – avait démontré le sexisme. Charlotte Garson SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM LA VITA DI ADELE 61 ( L a v i e d ’A d è l e ) Regia: Abdellatif Kechiche. Sceneggiatura: Abdellatif Kechiche, Ghalya Lacroix. Fotografia: Sofian El Fani. Montaggio: Camille Toubkis, Albertine Lastera, JeanMarie Lengelle, Ghalya Lacroix. Musica: Jean-Paul Hurier, Jérôme Chenevoy. Scenografia: Julia Lemaire. Interpreti: Adèle Exarchopoulos, Léa Seydoux, Salim Kechiouche, Jeremie Laheurte, Aurelien Recoing. Produzione: Wild Bunch, Quat’sous Films, Alcatraz Films, Vertigo Films, Scope Pictures. Distribuzione: Lucky Red. Paese: Francia, Spagna, Belgio. Anno: 2013. Durata: 179 minuti. Nonostante le polemiche e le discussioni sorte attorno al film, riguardando La vita di Adele ci si rende immediatamente conto che è un volto a riempire lo schermo, a dettare con i suoi sguardi e i suoi smarrimenti l’andamento di un melò iperrealista, dal fascino sinuoso e tracotante. I lineamenti di Adele, lo spaesamento identitario, i dubbi e le incertezze che le invadono la testa e che si iscrivono sul viso, le prese di coraggio sottolineate dai continui aggiustamenti alla sua scomposta coda di cavallo, il sorgere dell’amore e della possibilità di una nuova consapevolezza che la fa subito sembrare più adulta e poi di nuovo la precarietà e lo smarrimento che in un attimo la ritrasformano in bambina, pronta a dilatare le pupille e trasformare lo sguardo in cieca disperazione. Prima di tutto, La vita di Adele è la sfida cinematografica di farci vivere nella pelle, mutevole e palpitante, dell’adolescenza, proseguendo un percorso che riunisce i momenti più alti del cinema di Abdellatif Kechiche: la fuggevolezza di un bacio in La faute à Voltaire, le liti tra ragazzi e gli sguardi mancati de La schivata, l’impeto inarrestabile dei giovani di Cous cous, motore della narrazione con i loro «peccati» e le loro «virtù». La dimensione corale questa volta viene sacrificata per favorire un’adesione alla vicenda singolare, che in un attimo sa trasformarsi in parabola universale sulle storie d’amore, ripercorrendone con estrema lucidità le tappe fondamentali: il colpo di fulmine, il primo incontro, il primo bacio, l’esplosione della passione, la quotidianità, il tra- dimento, la rottura e la drammatica fine di un rapporto esclusivo. Una manciata di momenti, quelli che non si possono dimenticare, galleggiano nella sospensione temporale dettata dalle forti ellissi: la scelta di lasciare allo spettatore il tempo di vedere affiorare sui volti e nei piccoli gesti i turbamenti che animano Adele, si contrappone ai decisi vuoti temporali in cui passano giorni, mesi e anni a cui il regista restituisce uno spazio che sembra non avere la stessa importanza del destino, già segnato fin dal primo scambio di sguardi tra Adele ed Emma. Nella sua ricerca di iperrealismo, Kechiche ha sempre lavorato sulla durata delle singole scene, amplificandola per mezzo di un continuo e veloce cambio di inquadrature, un «micromontaggio» che permette al meglio di cogliere la naturalezza delle interpretazioni isolandole dal contesto e immergendo lo spettatore nell’essenzialità del personaggio. Sembra particolarmente interessante che il metodo del regista sia messo a confronto con una pratica che si basa sulla stessa rilevanza del particolare e gioca su continue ellissi, come la graphic novel. È stato questo genere a ispirare il film, che si fonda appunto sul romanzo a fumetti Il blu è un colore caldo di Julie Maroh. Tuttavia, La vita di Adele ha scontentato diversi critici e intellettuali, soprattutto in Francia, per il deciso cambio del punto di vista tra il testo originale e la sua trasposizione filmica. Si è accusato il regista di voyeurismo e, in maniera più generale, la storia d’amore saffico non ha soddisfatto pro- prio chi avrebbe dovuto sostenere la vittoria e la rilevanza pubblica assunta dal film. Tuttavia, Kechiche sembra aver trovato nella narrazione per vignette un perfetto punto di partenza, capace di riunire la precisione di alcuni istanti alla rammemorazione di particolari del presente nel mare magnum del sogno. Se nella graphic novel è il ricordo a offrire il punto di partenza per ripercorrere la vita di Adele, nel film il recupero di Emma per comprendere Adele è affidato al regista e, di conseguenza, allo spettatore, che giocano un ruolo più complesso rispetto all’ingresso «schermato» nella diegesi che avviene nel testo di Julie Maroh. Se da una parte Kechiche ha la grande intuizione che descrivere una passione voglia dire viverla, e non attraverso le parole, ma attraverso i pori della pelle, le pieghe della carne e i sussulti del cuore, dall’altra cerca di compiere un percorso che offra delle «spiegazioni» della rottura, che trasformerà la struttura drammatica nella tragedia di cui parla, non ascoltata, una professoressa all’inizio del film. Le distanze sociali tra le due ragazze, le diverse prospettive per il futuro, gli ambienti professionali così irrimediabilmente lontani sono i segnali che il regista si sente di dover offrire per rendere più «comprensibile» e «dicibile» questa fine di un amore: una sorte di paracadute offerto allo spettatore per evitare di gettarsi nel vuoto, catartico e sorprendente, che la cultura può soltanto indicare e l’arte riesce a farci ri-vivere e superare. Daniela Persico 62 IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM VIJAY – IL MIO AMICO INDIANO SAISON CULTURELLE (Vijay and I) Regia: Sam Garbarski. Sceneggiatura: Philippe Blasband, Sam Garbarski, Matthew Robbins. Fotografia: Alain Duplantier. Montaggio: Sandrine Deegen. Musica: Steve Houben. Scenografia: Veronique Sacrez. Costumi: Catherine Marchand. Interpreti: Moritz Bleibtreu, Patricia Arquette, Danny Pudi, Michael Imperioli, Catherine Missal, Jeannie Berlin, Moni Moshonov. Produzione: Entre Chien et Loup, Samsa Film, Pandora Filmproduktion, Senator Film Produktion, RTBF. Distribuzione: Officine Ubu. Paese: Belgio, Lussemburgo, Germania. Anno: 2013. Durata: 96 minuti. Prima di introdurre all’esistenza grama di Will, Sam Garbarski prova a depistarci con una sequenza animata che illustra il passato del personaggio. Le figurine à la Peynet, accostate a un motivo jazz piuttosto tradizionale, rinviano direttamente all’immaginario della commedia sofisticata americana e ci illudono di poter navigare entro i saldi confini di un genere che proprio ai piedi dello skyline di New York ha trovato la sua patria elettiva. Garbarski sembra così volersi affrancare dal registro che aveva caratterizzato il precedente successo Irina Palm (2007), dove la comicità delle situazioni era raffreddata dalla plumbea ambientazione british e dalla serietà del dramma che muoveva l’eroina interpretata da Marianne Faithfull. Invece, in questa sua quarta pellicola veniamo immersi in un universo diegetico sfuggente, nel quale il romanticismo lascia via via il posto al grottesco, in un continuo dialogo con la dimensione tragica della rielaborazione del lutto e della morte (compresa la propria). Collocandosi in una zona al confine tra l’indagine sentimentale e la commedia degli equivoci - non è necessario ricordare che Will di cognome faccia Wilder per identificare A qualcuno piace caldo come una delle principali fonti di ispirazione di Garbarski - il film trova piuttosto la sua cifra distintiva nel cosmopolitismo e nel mix culturale che lo contraddistinguono. Sono questi aspetti, infatti, a fare da trait d’union fra la dimensione extratestuale e quella narrativa, che si richiamano a vicenda nella moltiplicazione dei riferimenti geografici: così, una co-produzione che ha coinvolto Belgio, Lussemburgo e Germania mette in scena la storia di un tedesco che vive negli Stati Uniti e che si deve mascherare da indiano per vedere migliorata la propria esistenza. Si parte dunque dal vecchio continente per cercare di narrare qualcosa di molto contemporaneo, ovvero il confronto a cui l’Occidente è costretto - per ragioni che hanno più a che vedere con i sommovimenti dell’economia globale che con semplici flussi migratori con il mondo asiatico, e quello indiano nello specifico. Il meccanismo comico per eccellenza, lo scambio d’identità, diviene perciò il dispositivo che, da un lato, realizza il sogno universale di poter assistere al proprio funerale, ma, dall’altro, smaschera l’ipocrisia celata dietro all’apparente progressismo della nostra società. Una società in cui, come dimostrano i suoceri di Will, essere europei significa provenire da una delle aree del pianeta che più hanno patito la crisi economica del 2008 e dunque essere guardati con sospetto, mentre essere cresciuti nella nuova India del benessere e delle società informatiche costituisce la massima garanzia di benevolenza. Will conosce il calore dell’accoglienza solo indossando i panni di un finto banchiere Sikh. Il travestimento consiste di ben pochi elementi - un turbante, una barba posticcia e una parrucca - e sintetizza nella sua essenziale naiveté il più trito stereotipo dell’indiano secondo l’immaginario occidentale. Un esotismo da cartolina che restituisce un modello facilmente riconoscibile, che può essere assorbito dalla cultura dominante senza il timore che alla richiesta di accoglienza segua quella di integrazione (com’era invece per il tedesco Will una volta giunto negli Usa). Non a caso, in una delle gag più riuscite del film, assistiamo a una lezione impartita a un cameriere sudamericano per farsi passare per indiano dall’abituale clientela borghese. E d’altra parte anche la moglie del protagonista, Julia, interpretata da Patricia Arquette, sembra non (voler) riconoscere dietro alla maschera così grossolanamente abbozzata il volto del marito. Al di fuori del suo studio di psicoanalista, Julia è decisamente refrattaria alle complicazioni nelle relazioni umane, e perciò le è molto più semplice accogliere nell’intimità del proprio letto Vijay - che risponde a tutti i luoghi comuni sull’India in materia di sesso e religiosità - piuttosto che Will e il suo carico di complessità. La maschera di Vijay agisce invece sullo spettatore con un effetto diverso: se da un lato la sua semplicità rende difficile quella sospensione dell’incredulità che permette l’immedesimazione, dall’altro essa funziona come una sorta di cartello brechtiano (non a caso, forse, Will vanta una memorabile interpretazione ne L’opera da tre soldi), a ricordarci la necessità di mantenere una certa distanza dai personaggi e dal loro universo emotivo. Come a ribadire che non ci troviamo nella rasserenante commedia sentimentale dell’esordio, ma siamo precipitati con Will in una parabola pessimista sulle maschere che bisogna indossare quotidianamente, per apparire speciali agli occhi degli altri. Dopo Irina Palm, quindi, un film di Garbarski reca nuovamente nel titolo il nome d’arte di qualcuno che si trova obbligato dalle circostanze ad assumere una diversa identità, pur di ristabilire un equilibrio. Ma l’esito di Vijay, costretto a rinunciare a se stesso e a prendere atto di un fallimento irreversibile, fornisce l’esatta misura del sopraggiunto pessimismo. Francesca Monti SAISON CULTURELLE IL GIRO DEL MONDO IN 60 FILM THE WOLF OF WALL STREET 63 Regia: Martin Scorsese. Sceneggiatura: Terence Winter. Fotografia: Rodrigo Prieto. Montaggio: Thelma Schoonmaker. Musica: Howard Shore. Scenografia: Bob Shaw. Costumi: Sandy Powell. Interpreti: Leonardo Di Caprio, Jonah Hill, Margot Robbie, Matthew McConaughey, Kyle Chandler, Rob Reiner, Jon Bernthal, Jon Favreau, Jean Dujardin, Joanna Lumley, Shea Whigham, Spike Jonze, Jordan Belfort. Produzione: Sikelia Productions, Appian Way, Red Granite Pictures, EMJAG Productions. Distribuzione: 01 Distribution. Paese: USA. Anno: 2013. Durata: 180 minuti. C’è un cinema che può essere visto a partire dalle linee di movimento che lo attraversano, che ne determinano non solo la struttura, ma anche l’idea, la particolarità di uno sguardo sul mondo: un cinema circolare, angolare, lineare. Quello di Scorsese è ossessivamente attraversato da una linea vorticosa, in salita, seguita da una linea opposta che cade, inesorabilmente. È il movimento costante che caratterizza gli eroi tragici ed eccedenti del regista italo-americano, sempre protagonisti di un’ascesa che li porta al successo, e oggetto di una successiva caduta rovinosa, che ne mostra la fine, l’eclisse. L’equilibrio tra i punti di questo doppio movimento è in Scorsese fondamentale, sempre delicato, poiché esso si determina attraverso l’eccesso, che sia esso dei corpi o delle storie, dei sogni e dei desideri, che siano quelli di Jacke La Motta o di Howard Hughes, di Henry Hill o di Trevis Bickle. Contrariamente allo sguardo di altri registi – come Werner Herzog per esempio – interessati all’eccesso in sé, al titanico desiderio di personaggi che vivono oltre se stessi, Scorsese ama i punti di frattura, si interessa alle modalità della caduta inesorabile dei titani della contemporaneità. Questo è anche il movimento di Jordan Belfort, ex broker newyorkese che, lungo l’estasi del decennio reaganiano, incarna l’assoluta immaterialità della finanza, la brama del denaro fatto di stock, di azioni, di promesse di ricchezza e felicità estorte ai suoi clienti. Con queste attività Belfort costruisce un impero effimero e virtuale, come i soldi, che agiscono su ciò che è altrettanto effimero, ma che invece è decisamente reale: il corpo, la vita. Jordan Belfort è infatti attraversa- to da un doppio eccesso: da una parte quello virtuale, spettrale, del successo economico fondato sul valore immateriale del denaro e sulla truffa; dall’altra, l’eccesso che Belfort vive su di sé, attraverso il consumo spasmodico di droghe, alcool e sesso che il suo corpo esaurisce come una macchina del godimento, rendendolo inumano. Nella lunga sequenza dell’overdose da Qualuude, in cui senza più controllo fisico cerca di raggiungere l’auto parcheggiata all’esterno di un locale, Belfort è un corpo senza più centro che disperatamente cerca di riguadagnare invano il dominio di sé. Leonardo Di Caprio, ormai nuovo attore-feticcio scorsesiano, dopo l’eclisse di Robert De Niro, disegna perfettamente il percorso di un soggetto nell’atto del suo svuotamento, del suo trasformarsi in immagine e della perdita della sua corporeità. Il suo ritratto, il ritratto del suo movimento è, cinematograficamente, il ritratto di un mondo. Scorsese lavora infatti su questa doppia dinamica, duplice elica di un’azione che tende allo spasimo, introducendo alla caduta, fino al punto in cui la corda si spezza e inizia la «discesa degli dèi». Da una parte, vi è la struttura frenetica delle immagini, in cui il ritmo sincopato del montaggio, la composizione geometrica e quasi da commedia dell’assurdo delle inquadrature compongono il ritratto ironico di un mondo tragico e osceno al tempo stesso. Dall’altra, la perdita dell’equilibrio, caratterizzato invece da lunghe sequenze in cui la cinepresa cattura ogni movimento, ogni segno di mutazione dell’umano, disegnandone la smaterializzazione. Quasi rinfrancato, rinato dopo il tuffo rigenerante nelle sue origini magiche con Hugo, in cui Scorsese ritrova il senso unico del cinema come grande macchina della vita e del sogno, con The Wolf of Wall Street il regista crea un perfetto dispositivo analitico e ludico al tempo stesso. Ogni inquadratura lavora sulle situazioni, incessantemente introdotte dalla voce fuori campo di Belfort, segnando di volta in volta l’ascesa e la caduta dell’eroe, secondo una logica dell’accumulo. La struttura classica della narrazione viene rispettata, ma domina il gusto per l’eccesso visivo – la cura maniacale per la composizione geometrica dell’inquadratura, per la struttura delle situazioni costruite come molteplici e infinite gag, per il tono ironico che attraversa ogni spazio tragico – e verbale. La parola infatti, in quello che forse è il film più parlato di Scorsese, è parte integrante di un flusso vitale che ricopre ogni realtà, ogni punto fermo. La parola descrive e al tempo stesso nasconde, crea una realtà illusoria all’interno della quale si muove a suo agio un uomo che diventa la perfetta immagine del soggetto contemporaneo. È la dimensione ironica che attraversa tutto il film a mostrarlo: il soggetto che vive il suo smarrimento, la disseminazione in un mondo smaterializzato, è il perfetto esempio della contemporaneità come esperienza della perdita di sé. Ciò che il cinema racconta e dispiega con i suoi mezzi più classici è l’impossibilità della tragedia o dell’epica, la consapevolezza che la farsa è l’unica forma capace di raccontare il vuoto di un’esperienza. È anche così che il cinema di Scorsese continua a essere contemporaneo. Daniele Dottorini BERLINO 64 CORNELIU PORUMBOIU AL DOILEA JOC S pesso un’immagine, non importa quanto casuale, inconscia o certosinamente preparata, può racchiudere e convogliare su di sé, l’intero mondo poetico di un regista. Così fa la sequenza «gastrica» di When Evening Falls on Bucharest or Metabolism. Dopo un ironico andirivieni attorno al farsi indolente di un film, il regista si ammala di un male misterioso (il cinema?) e i medici ne ispezionano lo stomaco, trasformandone il corpo nell’unico cinema possibile. Mentre avanziamo, grazie alla sonda che si incunea morbidamente nelle viscere del cineasta, capiamo forse il segreto del discorso, solo in apparenza divagante, di Porumboiu: c’è sempre una verità fisica che a un certo punto chiarisce l’ineffabilità e l’impossibilità di spiegarsi proprie della realtà. Questo avviene quando la concentrazione di tutte le immagini nel particolare, non è altro che l’universale cui sempre tendiamo (a ben vedere è su questo «piccolo» abisso che si è sempre mosso Porumboiu, dalla questione della resistenza della memoria indagata nell’esordio 12:08 East of Bucharest al racconto puramente surreale di Police, Adjective). Questa sintesi, benché di potente trasparenza, non chiude il discorso, ma lo rilancia; ed è ora pronta a giocare una nuova partita. E infatti, ecco The Second Game. Non è la prima volta che dalla Romania giungono dei lavori che riorganizzano la memoria storica, prolungandone la resistenza attraverso una procedura che fa del dubbio e dell’illimitatezza dell’interpretazione i suoi punti focali. Il repertorio stesso diventa il terreno scivolosissimo su cui affiorano brani di qualcosa che, a partire dalla loro inesattezza e al tempo stesso necessità storica, ancora speriamo di poter chiamare «realtà» e «verità» (tutti i film di Andrei Ujica sono l’esempio maggiore e più immediato). In Al doilea joc (The Second Game), Porumboiu non deve far altro che ottenere dalla tv romena la cassetta del derby del 3 dicembre 1988 che vide confrontarsi Dinamo Bucarest e Steaua Bucarest, la squadra della polizia segreta contro quella dei militari. Il film sarà «solo» la durata integrale della partita. Il resto è dato dal fatto che un’incredibile nevicata rese il terreno di gioco pressoché impraticabile; che suo padre era Adrian Porumboiu, l’arbitro in campo che seguitò a far giocare decidendo di non interrompere quasi mai le azioni, concedendo a più riprese la regola del vantaggio; che i ventidue in campo erano uomini d’altri tempi, duri, tecnici, rispettosi, veri calciatori che non rinunciarono mai a giocare un solo pallone anche se sepolti dal fango e dal freddo; che il risultato finale di 0-0 è, come ebbe a dire Jerzy Skolimowski, la partita perfetta; che non un solo spettatore – tifoso puro, poliziotto, militare – lasciò gli spalti spazzati via dalla tormenta; che il regista della trasmissione tv dell’epoca (che ora è di fatto anche il regista del film di Porumboiu), per tutta la durata del match portò avanti un discorso parallelo fatto di carrellate sulle tribune, primi piani sugli spettatori, movimenti a scoprire dagli alberi innevati al totale del campo; che, infine, padre e figlio (Corneliu stesso e Porumboiu senior), senza mai entrare in campo, sono le due voci off che commentano «in diretta» di nuovo la partita, rivedendola in VHS, ragionando sulla Romania di allora, su un calcio che non c’è più (la metà delle regole sono cambiate), sulle scelte dell’arbitro, sulla fantasia e l’ardore dei giocatori che resistono alle intemperie, e sul cinema di Porumboiu, che lui stesso a un certo punto paragona ironicamente alla partita, definendolo lungo, noioso, privo di fatti rilevanti (ma sappiamo che non è così). E noi cosa vediamo, cosa ci illudiamo di vedere mentre la palla gialla spesso scompare dallo schermo e i fiocchi ci confondono, e mentre le voci dei due commentatori ci guidano timidamente e spesso si ammutoliscono, lasciandoci nel silenzio abissale del più affascinante esperimento di ipnotismo degli ultimi anni? Non si vede nulla. La vista è tutta rivolta all’interno, diventa un occhio interiore che ricorda, che guarda al di là della tormenta, riconoscendo forse, nel buio, l’Europa delle dittature, l’anonimato nostro e di tutti gli interpreti di allora, la malinconia e il romanticismo del vedere e dell’avere improvvisamente memoria del nulla. Lorenzo Esposito 65 N ell’arco di soli quattro film, Robert Greene si è rivelato uno dei nomi di maggiore interesse del cinema americano degli ultimi anni. Con una formazione di montatore (l’ultimo film in ordine di tempo è Listen Up Philip di Alex Ross Perry) e una cultura cinefila vorace, colta e selettiva al tempo stesso, in grado di analizzare in profondità Ocean’s Eleven 2 di Steven Soderbergh, Michael Bay e il cinema di Laura Kraning, Greene è un cineasta che sfida le distinzioni convenzionali fra il cosiddetto documentario e la presunta finzione. La sua sensibilità cinematografica, nutritasi di classici e di cinema che si muove alle soglie della sperimentazione e del documentario, rappresenta un’appassionante eccezione in un contesto nel quale invece distinzioni e differenze servono a conservare le distanze piuttosto che abbatterle. Kati with an I, diretto nel 2010, rivela subito uno sguardo maturo e autonomo. Successivo di un anno a Owning the Weather (documentario di impianto ecologico sugli stravolgimenti del clima), il film è fotografato da Sean Price Williams, in assoluto uno dei direttori della fotografia più originali degli ultimi anni. L’attenzione ambientale di Greene, sia ai colori che ai suoni e agli accenti della lingua, coglie la realtà della protagonista, che si trova di fronte a uno snodo cruciale della sua vita, con una pregnanza degna di nota. I colori dell’Alabama esplodono densi, come se a ACTRESS manovrare lenti e obiettivi ci fosse il Nestor Almendros de I giorni del cielo, mentre il montaggio di Greene è così preciso da lasciare sorgere il sospetto che in realtà ci si trovi di fronte a un film di finzione. Echi di Faulkner e Steinbeck emergono potenti, ma è lo sguardo di Greene a fare la differenza. La sua capacità di cogliere il mondo non come cosa vista ma riverbero di un sentire non ha pari (esemplare in questo senso il corto Firefly Boy). Fake It So Real, incentrato su una troupe di wrestlers itineranti, con i suoi toni aldrichiani, evidenzia ulteriormente l’ampiezza del respiro di Greene, la sua capacità di intercettare il battito di un’America lontana e dimenticata. Film stratificato e picaresco, in grado di suscitare anche interrogativi non banali inerenti al gender, evidenzia sia la precisione antropologica di Greene che la sua capacità di rielaborare elementi della cultura popolare in chiave umanista e drammatica. A collocare definitivamente Robert Greene sulle mappe delle navigazioni cinefile contemporanee è Actress, il suo terzo film, melodramma documentario costruito intorno al corpo di Brandy Burre. Attrice co-protagonista della serie televisiva The Wire prodotta dalla Hbo, Burre si è ritrovata, dopo una serie di scelte esistenziali problematiche, lontana dal set e con un matrimonio a pezzi. Greene, dunque, come nel caso di Kati, coglie una situazione di transizione e la filma dall’interno. Esemplare di quell’approccio che Greene definisce cinematic nonfiction, Actress s’innesta nel solco della tradizione cassavetesiana recuperando la spigolosità del lavoro più sperimentale di Soderbergh. La visionaria locandina del film, che pare omaggiare le tavole di Jack Kirby per fumetti ormai dimenticati come Young Romance (pages from real life… comics), dichiara che “Brandy Burre is Actress”. Questa intuizione, che elimina la distanza fra la persona e la rappresentazione del personaggio, cortocircuita l’idea di riproduzione del reale e della natura ontologica che sta alla base del documentario. Greene filma la protagonista nella casa divisa con il marito che si eclissa come un fantasma creando per lei vaporosi e dissonanti stacchi onirici. Si pensa ovviamente ai melodrammi di Douglas Sirk ma anche a un film come Puzzle of a Downfall Child di Jerry Schatzberg. L’immagine diventa così il luogo nel quale il principio di realtà si offre a un’indecidibilità che diventa strategia del filmare. Greene apre il dispositivo documentario a una radicale ambiguità che si ipotizza come strumento d’indagine del cinema e del reale. In questo senso Robert Greene ci sembra davvero il primo e più innovativo esponente di nuovo territorio cinematografico situato fra documentario e finzione che potremmo iniziare a definire come post-fiction. Giona A. Nazzaro NYON ROBERT GREENE 66 CANNES NADAV LAPID HAGANENET M a première rencontre avec Nadav Lapid remonte à un voyage en Israël en 2011, au cours duquel je découvris – en sa compagnie – Le Policier qui m’impressionna beaucoup et que j’invitai en compétition au Festival de Locarno quand j’en étais le directeur artistique. Le film allait remporter le Grand Prix du Jury quelques mois plus tard et débuter une brillante carrière critique dans les festivals internationaux. Cela faisait longtemps à mes yeux qu’un premier long métrage n’avait démontré une telle maîtrise dans la mise en scène, capable de dialoguer immédiatement avec les films de Godard ou Bresson, et de susciter chez les spectateurs les plus clairvoyants la certitude d’assister à la naissance d’un excellent cinéaste, mais aussi de découvrir un film important, aussi brillant dans sa forme qu’intelligent dans son propos. Nadav Lapid (né en 1975) ose faire du cinéma politique. On pourrait dire qu’il est israélien, donc qu’il n’a pas le choix. La formidable nouvelle du Policier, c’est qu’il est à la fois le meilleur film ouvertement politique vu depuis des lustres (y compris et surtout en Israël), et que c’est également une des plus stimulantes propositions cinématographiques de ces dernières années, capable de résoudre le problème de la forme et du fond, grâce à l’invention d’une dramaturgie spectaculaire qui exprime par la force de la mise en scène des idées tout aussi radicales. Avec Nadav nous nous sommes tout de suite entendus sur l’essentiel, à savoir les bons et les mauvais films, une certaine idée de la mise en scène et nous avons entrepris une conversation stimulante sur le cinéma – et bien d’autres choses, régulièrement entretenue au fil des rencontres en France, en Israël et partout où les festivals et les projections de son film nous emmenait. Mon arrivée à ARTE coïncida fort heureusement avec la production de son projet suivant, dont j’avais déjà pu lire et apprécier le scénario au Jerusalem Film Lab. ARTE France Cinéma participa à la production de L’Instructrice, coproduction franco-israélienne, et j’eu la chance de discuter avec Nadav de son nouveau film aux étapes successives de sa création, de l’écriture aux différentes versions du montage, en passant par le tournage auquel je pus assister une journée à Tel Aviv. L’Institutrice fut présenté en séance spéciale au Festival de Cannes à la Semaine de la Critique, s’imposant comme l’une des œuvres les plus passionnantes du festival, toutes sections confondues. L’histoire de L’Institutrice est inspirée d’une expérience autobiographique de Nadav Lapid, également écrivain, qui écrivit enfant des poèmes dont certains sont utilisés dans le film. Le Policier et L’Institutrice sont à la fois très différents – sur le plan formel et narratif - et presque jumeaux, creusant le même sillon politique. Une nouvelle fois il s’agit d’analyser, davantage que de dénoncer, les dysfonctionnements de la société israélienne contemporaine, ou plutôt son fonctionnement implacable, étouffant et aliénant. Une nouvelle fois il s’agit d’associer à cette critique radicale une mise en scène qui soit aussi puissante, et pertinente, que le regard de Nadav Lapid sur son propre pays. Inventer de nouvelles formes, adaptées à une pensée, ce devrait être l’ambition - sinon le rôle - de tout cinéaste qui se respecte. Ce n’est hélas pas toujours le cas mais c’est indubitablement ce qui motive Nadav Lapid. En cinéaste moderne il saisit et interprète les images les plus triviales de notre époque pour les intégrer à son propre système esthétique d’un perfectionnisme sidérant. Il ne s’agit pas seulement de mettre la caméra à hauteur d’enfant dans la cour et la classe de la maternelle. Ces hyper gros plans, ces corps qui vont et viennent devant l’objectif en se heurtant parfois à lui proviennent directement de la vidéo domestique ou des téléphones portables, Nadav Lapid leur offrant pour la première fois une grâce purement cinématographique. Savoir regarder notre époque pour la critiquer. Savoir filmer la poésie sans la sacraliser, ni chercher les effets « poétiques ». Le propos du cinéaste dépasse la situation israélienne. Lapid questionne le rôle de la poésie – et donc du cinéma et de la culture en général – dans un monde matérialiste, contaminé par le cynisme et la vulgarité, qui ne lui accorde plus aucune place et encore moins de valeur. L’Institutrice, sans provocation ni grand discours, mais avec une intelligence et une sensibilité artistique exceptionnelles, est un grand film de résistance. Olivier Père Directeur général d’ARTE France Cinéma 67 IL MISTERO DELLA POESIA Conversazione con Nadav Lapid H aganenet è un film sul mistero della poesia, e più in generale dell’arte: perché hai scelto un tema così complesso e insieme di straordinaria importanza per un cineasta? Viviamo in un mondo dove è chiaro a tutti il fatto che ci sia stata una battaglia tra la poesia e il materialismo – o se vuoi lo spirito del materialismo – e che la vittoria sia andata senza ombra di dubbio a quest’ultimo. Al tempo stesso, sono convinto sia altrettanto innegabile che il mistero della poesia continui ad avere degli effetti su di noi, e che in un certo senso si ponga come sfida una visione pratica della vita, che poi è quella che la maggior parte di noi è costretta ad avere. La poesia svanisce di fronte all’occhio, sfugge, si rende inafferrabile. Nessuno può dire dove cominci la parola che diventa poesia e dove poi finisca; e proprio questo aspetto rende l’esperienza della poesia unica e irripetibile, soprattutto se confrontata con la ripetitività del pensiero contemporaneo. Ciò che è unico, spesso, non è né utile né ragionevole. Dunque, se proprio dobbiamo considerare la questione in termini conflittuali, la poesia e in generale, forse, tutta l’arte hanno perso contro il pensiero moderno, anche se non del tutto. Ecco perché l’indefinitezza e l’inafferrabilità dell’arte e della poesia possono ancora essere una via di fuga. In effetti, credo che il vero tema di fondo del tuo film sia una domanda poco ragionevole, una domanda decisiva, quasi un’ossessione: da dove vengono le parole? In che posto risiede la poesia prima di diventare linguaggio? Pensi che possa anche essere una domanda spirituale e quindi Haganenet un film sulla ricerca di Dio, sul suo silenzio? Penso che ci sia, da parte di tutti noi, un rapporto frustrante con l’arte. Chiunque fa dei tentativi, chiunque si mette di fronte a uno specchio e si chiede cosa possa esserci dall’altra parte. Ci ho pensato qualche giorno dopo la proiezione di Haganenet a Cannes, quando Leo Carax è venuto qui in Israele a tenere una master class durante un festival di cinema: in molti gli chiedevano da dove venissero la sua arte e la sua ispirazione, e lui ovviamente non era in grado di dare una risposta o una spiegazione. Non penso, però, che si trattasse di domande stupide, quanto, piuttosto, della ripetizione di un sistema, la conferma del fatto che ogni tanto abbiamo bisogno di porci degli interrogativi destinati a rimanere senza risposta. Resta misterioso, dunque, il posto da cui provengono le parole, le immagini, l’arte in generale – ed è necessario che sia così. Ma allora Dio? O forse, meglio ancora, la religione, la tradizione religiosa? A me sembra che nel tuo film ci sia una forte influenza dell’Ebraismo e in particolare un richiamo alle figure dei profeti biblici… Il bambino comunica attraverso il suo corpo e non c’è un’interpretazione precisa delle sue parole. Non c’è spiegazione. Ci sono solo le sue parole, generate da gesti, rituali e movimenti ripetuti (da destra a sinistra, da sinistra e destra…). Sì, certo, in lui c’è qualcosa di ancestrale, e al tempo stesso di trascendentale, di biblico, di antico e misterioso. Al tempo stesso, però, è qualcosa di molto concreto, e in questo senso molto cinematografico. Se apri gli occhi e guardi oggettivamente la scena, tutto ciò che vedi è un bambino di cinque anni che si comporta in maniera strana. È la sua maestra, affascinata e impotente, a chiedergli spiegazioni a proposito delle sue poesie e su ciò che esprimono. Il bambino è come se fosse cieco e insieme materiale, concreto. Mentre tutto ciò che il suo atteggiamento esprime sta, in realtà, nell’occhio dello spettatore e nell’orecchio dell’ascoltatore. E qual è secondo te, nel tuo film, il legame fra la parola poetica e la parola sacra della tradizione ebraica? La tradizione ebraica è fondata sul linguaggio, un linguaggio comune, segreto, proibito; un linguaggio usato solo nei momenti sacri; un linguaggio trascendentale, la definizione di ciò che significa essere ebrei. Nella società israeliana c’è, perciò, 68 uno scontro molto forte fra l’idea giudaica, che considera il linguaggio sacro, e la natura stessa dello stato di Israele, che è il Paese di quelli che fanno e non parlano. Oggi, dalle mie parti, quelli che parlano sono visti in maniera negativa, mentre si ha un’ottima considerazione degli uomini d’azione, quelli che agiscono. Penso che questo sia un aspetto decisivo della nostra situazione. Cosa farebbe, allora, un profeta biblico che arrivasse oggi in Israele? Ci metterebbe di fronte alla prospettiva di un fallimento rispetto alla tradizione: e io penso che il legame con il passato sia alla base del presente e del futuro del mio Paese. Come affermavi prima, in Haganenet è fondamentale l’elemento dello sguardo. Quindi, anche l’elemento del linguaggio cinematografico. In tal senso il punto di vista della macchina da presa è imperscrutabile: mai troppo lontano, mai troppo vicino. Potrebbe essere il punto di vista del mistero, della paura, forse di Dio? Sono stato guidato da una domanda non dissimile da quella che si pone la maestra: come filmare la poesia? Come rappresentare l’atto di scrivere poesie? Per me, c’è qualcosa di molto potente nel modo in cui la macchina da presa può operare: perché spesso si rifiuta di seguire l’unicità del momento, coglie situa- zioni che fanno parte del mondo, non ne sono separate. Filmare in campo totale o in piano americano un bambino che compie gesti meccanici fa parte del mio tentativo di raggiungere un linguaggio primitivo, basico, che in definitiva è molto più affascinante di uno sguardo generato da una macchina da presa che cerca di raddoppiare o inseguire l’effetto della poesia (con un primo piano di una bocca, delle gambe, di un particolare…). Ho tentato così di «guardare la poesia», di coglierla come parte del mondo, cercando qualcosa di imprecisato, di trascendentale per l’appunto. E così ho ottenuto quello che mi sembra un doppio approccio, uno votato all’aspetto materiale e l’altro a quello spirituale. E la macchina da presa? Dà sempre l’impressione di essere piazzata in un punto preciso, unico, come se non potesse stare in altro luogo. Rispetto alla posizione della macchina da presa, devo ammettere che in un film la messinscena spesso è determinata più dagli attori che dalla camera. La macchina sta al suo posto, mentre gli attori vanno e vengono, dichiarando in questo modo la loro presenza e la loro funzione determinante nel gestire il film stesso. Sono loro, gli attori, che vanno verso la camera, e non viceversa. È vero, ovviamente, che il lavoro degli attori lo si decide insieme, ed è il regista a gestirlo, ma in definitiva sono gli attori a decidere cosa fare e come farlo. Immagino, quindi, che il lavoro svolto con l’attrice Sarit Larry sia stato fondamentale, perché è lei che aiuta il bambino protagonista a interagire. Sì, assolutamente. Il lavoro preliminare con lei è stato decisivo. Sarit è una grande attrice, abbiamo effettuato una grande preparazione. Non era mai stata protagonista in un film, dal momento che aveva smesso di recitare a ventisette anni per frequentare un dottorato in filosofia a Boston. All’inizio, quindi, era spaventata, e per questo motivo in diversi momenti del film la si vede solamente attraverso dei «reaction shot» e se ne può percepire il disagio, qualcosa che va oltre le emozioni del personaggio. Poi ha acquisito sicurezza e decisione, e soprattutto ha compreso che tutto il film nasce da un solo movimento: da un «salto» esistenziale e filosofico in un universo molto specifico, quello dell’arte e del talento, generato da una fede, dalla fede nei confronti di un bambino e delle sue creazioni, del suo mondo e soprattutto della sua parola (ndr: gioco di parole intraducibile tra «world», mondo, e «word», parola). Nel momento in cui 69 compie un salto del genere, non c’è più nulla a cui la maestra d’asilo non possa credere, e in un certo senso neanche la donna che la interpreta, perché Sarit ha cominciato a comprendere meglio quello che stava facendo e a esprimerlo in maniera più decisa. Non voglio interpretare le cose in modo troppo psicologico, ma penso che l’elemento della fede unisca attrice e personaggio, perché anche Sarit nella vita è «credente» e questo la avvicina allo stupore affascinato del personaggio. Sarit è nata in una famiglia religiosa, poi ha abbandonato Dio e ha cominciato a credere nel teatro; e in un secondo momento ha lasciato anche il teatro per dedicarsi alla filosofia. È come se ogni cosa nella sua vita nascesse da un atto di devozione. Un aspetto che forse si sottovaluta del film è lo straordinario ritratto psicologico della protagonista, una donna sola, per quanto sposata e con dei figli, che trova soddisfazione nel legame con un bambino. Potrebbe sembrare patetico, ma tutto questo è rappresentato in modo molto umano, compas- sionevole… Credo che una tale idea del personaggio, il suo essere una perdente, una vittima, venga dal fatto che io sono un uomo e come tutti gli appartenenti al mondo occidentale vivo in una società patriarcale. Ogni situazione del nostro mondo, non solo della società israeliana, si può infatti ridurre a questo: gli uomini creano l’ordine, lo impongono, mentre le donne lo difendono. La protagonista di Haganenet è circondata da uomini che si occupano di consolidare e confermare l’ordine, che le mostrano come va il mondo: il marito le spiega come si educano i figli, l’insegnante come si scrive una poesia (anche un artista, quindi, partecipa all’ordine), il padre del bambino come funziona la società capitalista… La differenza, allora, non sta tra l’essere un poeta o un uomo d’affari, o un soldato o un impiegato, ma tra il rispettare le gerarchie di una società e credere invece nelle parole che quella società ha creato. Parole che quel- la stessa società potrebbe non saper più gestire. Inoltre, non va dimenticato che la protagonista è una maestra d’asilo e il suo compito, idealmente, è quello di educare le nuove generazioni a rispettare quell’ordine imposto dalle vecchie (esattamente come, in quanto madre, ha educato il figlio a essere un buon soldato, come dice il comandante del ragazzo). L’insegnante, invece, si rifiuta di rispettare il ruolo stabilito dalle gerarchie di una società. E non è nemmeno una buona madre, perché non frequenta i figli, non li sente, si allontana addirittura dalla festa di fine servizio. Mi piace il modo in cui rendi l’idea di imprigionamento del personaggio. In particolare, in due scene: quella della festa dei militari, in cui la maestra d’asilo è stretta fra il marito e il figlio, e in quella successiva nella discoteca, dove la donna balla per sentirsi libera, ma anche in questo caso finisce stretta fra due persone. Queste due scene le hai pensate correlate? A dire il vero le ho pensate come due momenti 70 per osservare la natura della gente che balla. Nella prima scena, ci sono dei soldati che saltano, che si sfogano in maniera indisciplinata e cameratesca, nella seconda, invece, tre persone che si muovono a ritmo, che trovano un movimento unico, prima di perdere. In tutto questo, ovviamente, c’è la figura della donna, della madre: nella prima, guardando il figlio e il marito ballare, vede la sua stessa vita, e non la accetta, si perde di fronte all’immagine del figlio e di un gruppo di persone stupide, innocenti, ma violente; nella seconda, invece, inizia per lei una sorta di liberazione, ma finisce anche in quel caso oppressa. La donna si affranca nuovamente dalla realtà ballando da sola, creando il momento più liberatorio del film. Tuttavia, il taglio, lo strappo è violento, portandola alla violenza, alla fuga. Pensando alle due scene messe in relazione, mi viene da chiederti come lavori fra le riprese e il montaggio, come costruisci il ritmo del tuo film… Le riprese sono state programmate rigidamente. Haganenet era un film molto difficile da girare e abbiamo cercato di pianificarlo il più possibile. Ho cercato di stare attento a quello che succedeva sul set, ai momenti in cui venivano fuori possibilità di inventare, di cambiare, ma alla base c’era una scrittura solida. Per quanto riguarda il montaggio, invece, penso che uno dei compiti di questa specifica fase di lavorazione sia quello di «smontare», paradossalmente, la natura auto-compiuta, finita, spesso anche arrogante, delle riprese. Le riprese possono essere un bel momento di condivisione, tutti sono felici e soddisfatti. Successivamente, durante il montaggio, si scoprono elementi che non funzionano, o semplicemente si prende coscienza del fatto che è necessario essere brutali e de- cisi. Bisogna ricreare la tensione interiore del film, cercare quelle contraddizioni che pianificandolo si è cercato di evitare. In un certo senso, il montaggio contraddice le riprese, e in tale direzione, costruendo il ritmo del film, ho cercato di ottenere una contrapposizione fra alto e basso, fra «estasi spirituale» e bassezza, materialità, freddezza, oggettività. Il montaggio aiuta a creare questa tensione. A cura di Roberto Manassero 71 SAINT-LAURENT I l corpo è da sempre al centro del cinema di Bonello. Un corpo reso meccanico, accecato, mutilato, trasformato in oggetto e in gioco; un corpo, soprattutto, che porta su di sé, in maniera visibile e cinematografica, la spinta autodistruttiva che muove ogni personaggio del regista francese, protagonista da sempre, di film in film, di una guerra contro se stesso. Yves Saint-Laurent, artista fra i più noti del ’900, brand, industria, modello di stile, icona da biopic milionario, non fa eccezione. Bonello ne fa una propria creatura, lavora di fantasia a partire da elementi, personaggi ed episodi reali per iscrivere il suo lavoro nel grande conflitto tutto novecentesco fra arte e riproducibilità della merce, fra genio e ripetizione. In maniera inattesa, non sorprendente ma in virtù di una straordinaria intuizione d’autore, SaintLaurent diventa la creazione più compiuta e sofferta di tutta la filmografia di Bonello, quella a cui tocca saldare l’ineluttabile corso della Storia con i tormenti dell’anima inquieta e insoddisfatta. È un prigioniero, Saint-Laurent, un prigioniero del proprio talento, un prigioniero di se stesso: come le prostitute dell’Apollonide rinchiuse in un bordello; o il travestito Tiresia, sequestrato e accecato; o ancora i registi-alter ego e gli intellettuali di De la guerre e Il pornografo, reclusi pure loro, e per loro volontà, in castelli, ville, trincee, bare da morto. Tutti loro sono, soprattutto, vittime del loro linguaggio, dei loro pensieri, dei loro corpi. Vittime di se stessi. Per Bonello la vita si declina al singolare, è una questione individuale. Di conseguenza, l’arte è una proiezione di sé negli altri, un complesso della mummia degenerato in egotismo che non prosegue la realtà, ma al massimo ripete in modo mortifero l’io. Saint-Laurent non vede altro che sé negli altri: si innamora della modella Betty Catroux, una sera in discoteca, proiettandosi in lei; la osserva, la studia, ne rimane colpito e nel controcampo si vede letteralmente nei suoi panni d’alta moda. È un attimo, ma è lo stacco decisivo: da lì in poi, ogni disegno, corpo modellato o abito non è altro che la riproduzione coatta di un solo corpo, quello primario, quello del soggetto. Bonello non potrebbe essere più esplicito. Il suo film racconta la resa tutta novecentesca dell’arte alla freddezza meccanica della ripetizione, non a caso chiama in causa il carteggio fra Saint-Laurent e Warhol. Ma siccome è un artista di questo tempo, e non degli anni ’60 e ’70, Bonello va anche oltre: pecca forse di didascalismo quando riassume in splitscreen gli eventi chiave del periodo, dal maggio ’68 al Vietnam, ma trova la chiave per leggere la contemporaneità proprio nella rappresentazione e nella meccanizzazione del corpo. “Sono stanco di vedere me stesso”, dice Saint-Laurent di fronte all’ennesima sfilata di capi da lui creati, ormai nauseato dall’unico gesto che l’artista può fare, e cioè riprodursi nell’altro da sé. E allora, come tutti i personaggi di Bonello, anche questo stilista miliardario e geniale, omosessuale innamorato, ma inappagato, cerca se stesso nella negazione di sé, nella terra sporca da ingoiare mentre fa sesso clandestino, nell’autodistruzione che permetterebbe di sfuggire alla trasformazione in icona, in corpo mummificato in vita, ma fallisce. Come altre grandi produzioni cinematografiche della stagione (Sils Maria, The Wolf of Wall Street, Open Windows, la serie The Knick), anche SaintLaurent è un film sulla condanna del corpo: la condanna a vivere, a restare in scena, a inseguire inutilmente la sparizione e a godere del proprio dispiacere. Saint-Laurent non muore, nel biopic che Bonello gli ha dedicato. Il tempo si piega all’indietro e lui, Saint-Laurent, per smentire una diceria sul suo conto, si mette per l’ennesima volta in mostra: l’artista resta vivo, l’artista è presente, come direbbe Marina Abramovic, l’artista è ricco, infelice, prigioniero. Roberto Manassero CANNES BERTRAND BONELLO 72 CANNES OSSAMA MOHAMMED MA'A AL-FIDDA “C he cosa filmeresti se fossi qui?” una domanda che arriva come una limpida richiesta d’aiuto. Wiam è una curda a Homs durante i bombardamenti, nel caos di una guerra senza fine, tra le rovine di una città che è stata la sua casa. Ossama è lontano: dal maggio 2011, quando partì dalla Siria per partecipare al Festival di Cannes, non è più potuto rientrare. É diventato un esule, che ricerca tracce del suo Paese nel flusso d’immagini indistinte che riempiono la rete. Lui è un cineasta, lei una semplice cittadina che sceglie di rischiare, portando sempre con sé una telecamera accesa, cercando il suo sguardo tra le macerie di una civiltà. Il dialogo che si apre tra queste due voci organizza e compie un’accurata ricerca e una preziosa riflessione sulle immagini in tempo di guerra e sulla loro immediata e pervasiva presenza nella sfera mediatica contemporanea. Sono sequenze “oscene” quelle che aprono il film: un adolescente offeso nella sua dignità di uomo, il suo corpo nudo vessato sotto la telecamera vigile del carnefice. La grana rarefatta del digitale a bassa definizione sembra spalancare il proprio corpo, cancellare i confini tra sé e mondo, come in un disturbante dipinto in cui il pittore abbia scelto di spandere il candore della pelle giovane e intatta per illuminare lo squallore della cella e dare un nuovo senso a un’inquadratura di sopraffazione. C’è una prova che appare intatta in queste sequenze sottratte al magma indistinto della rete: la resistenza del cinema di fronte alla tracotanza del reale, la sua capacità ancora oggi – in tempi lontani dal valore indicale delle immagini e dal loro potere ontologico – di restituire la maestà della vita, come canta nel finale la moglie del cineasta Norma Omran (anche lei esule a Parigi) fondendo ritmi e testi che rappresentano il mosaico di religioni e etnie sul territorio siriano. Proprio questa inviolabile verità sembra dettare le scelte di un regista che non ha mai ceduto di fronte alle sopraffazioni del potere. Ossama Mohammed è uno di quei cineasti che dopo un esordio presentato al Festival di Cannes nel 1988 Stars in Broad Daylight, è diventato immediatamente inviso alle autorità ed è riuscito a completare il suo secondo lungometraggio di finzione, The Box of Life, solo nel 2002. Ma la sua attività di militante è prosegita negli anni, portando in Siria un cinema che renda consapevole lo spettatore, invitando i giovani a prendere in mano le telecamere e filmare, continuando a credere nella potenza delle immagini e nella loro forza liberatrice. Da un esule arriva dunque il film collettivo, profondamente connesso alla prima persona eppure libero nel seguire lo sguardo dell’altro, che è capace di riassumere la tensione di un’immagine che ormai è corpo. “Cerca di realizzare un’inquadratura fissa”, proverà a dire il regista nella prima parte del film a un giovane dimostrante. Non esistono più inquadrature nel flusso della rete, il linguaggio sembra annientato dalla primordialità del respiro/urto/strappo/ scatto con cui l’occhio digitale vive insieme all’uomo con la camera. Così la telecamera diventa arma: quella dei carnefici, intenti in una autorappresentazione di milizia festosa o di brigata della morte, quella delle vittime che non chiudono gli occhi nei confronti del massacro e continuano impavidi a cercare un nuovo posto in cui rifugiarsi gridando al cielo la loro storia, per non dimenticare. La memoria del conflitto resta sui loro corpi segnati, così come sulle immagini che hanno realizzato a singhiozzi e strattoni, cogliendo le tracce di un sangue che sarà difficilmente lavato dalle strade. E la giovane Wiam Simav Bedirxan lo intuisce, dimostrando di avere il coraggio di riaccendere la telecamera per registrare la ferita che porterà per sempre sul suo corpo come gli oggetti di un antico benessere che riaffiorano tra le macerie di una città. Sono tracce di una comunità che resiste, capace di cogliere fiori tra la polvere, di commuoversi ascoltando un vecchio disco, di credere in una terra madre in cui rinascerà la pace. L’acqua argentata, immagine simbolo del film e nome poetico della coregista, diventa un inno alla possibilità di rinascita di una nazione dalle ceneri delle proprie immagini di guerra. Nel gesto, carico di speranza, di un’ostetrica che recide il cordone ombelicale di un neonato. Daniela Persico 73 JAUJA H o incontrato Lisandro Alonso per la prima volta nel 2001 a Cannes, dove aveva presentato il suo lungometraggio d’esordio, La Libertad. Il film segue alcune giornate di un boscaiolo della pampa argentina: evitando ogni sussulto narrativo lo sguardo si perde nel ritmo placido della vita dell’uomo, facendoci assaporare il suo rapporto con le cose. Il titolo dà il senso di un film che evita ogni slancio metafisico, ma si concentra su un dilemma etico. Dove sta la libertà? Nel possesso indifferente dei mezzi che sembra garantirci la società dei consumi? O piuttosto nella vita povera di risorse ma ricca di tempo di Mizael, il boscaiolo? Senza fornire risposte, Alonso offre un materiale che pone interrogativi. Come ci aveva detto in quell’occasione: “Non mi interessa documentare, nel senso di fornire un allegato audiovisivo dello stadio primitivo che Mizael rappresenterebbe. Non voglio nemmeno puntare il dito sulle condizioni pessime in cui vive la gente del Sud America. La storia di Mizael non ci dice nulla delle sue sofferenze. Ci dice che sebbene viva in modo semplice, la sua esistenza può conoscere momenti di serenità. M’interessava parlare di un essere umano e dei suoi sentimenti. Tra me e lui c’è troppa differenza e distanza perché possa anche solo abbozzare un giudizio. Farne una vittima o un eroe selvaggio sarebbe un tentativo di appropriazione che non mi compete. Né a me né allo spettatore”. Quasi quindici anni dopo, Alonso non ha cambiato posizione: il suo fare cinema è funzionale a porre domande senza garantire risposte. Si confronta con l’idea della libertà e del destino, con una visione dell’uomo come essere fragile e periferico rispetto alla grandiosità della natura. Sebbene Jauja segni un importante passo in avanti in una poetica che cerca di includere forme diverse di racconto, il senso ultimo del viaggio dell’ufficiale danese di stanza in Sud America si perde nelle pieghe di un paesaggio che lo oltrepassa - così come il racconto velocemente oltrepassa la dimensione storica. Certo, qui esiste un presupposto narrativo ben preciso – l’uomo è alla ricerca della figlia scappata con un soldato e poi rapita da Zuluaga un misterioso uomo che terrorizza il territorio – ma nelle lunghe inquadrature che ritmano la spedizione appare chiaro che è la natura e non gli uomini a farla da padrone. Come accadeva per Mizael anche qui l’uomo è un ospite, un viandante il cui passaggio è destinato a cancellarsi in fretta. Il vento, le rocce, la poca erba che le ricopre occupano l’inquadratura dove per poco si proietta l’ombra fuggitiva degli uomini. Quasi a sottolineare che si tratta di un racconto intimo, il film sceglie un formato inusuale, quadrato, che impedisce ogni deriva trascendentale: non è l’orizzonte lontano ma il qui ed ora a imporsi. La macchina da presa diretta di Timo Salminen (operatore di Aki Kaurismaki) ha il grande merito di non rendere banali gli ovvi riferimenti (Apocalypse Now e Sentieri Selvaggi), appoggiandosi alla luminosità eccessiva del sud patagonico crea un universo cromatico che finisce per ricollegarsi a un cromatismo da paese nordico. La presenza di Viggo Mortensen, nei panni di Dinesen, l’ufficiale danese alla ricerca di sua figlia, contribuisce alla sensazione di un antipode capovolto, di un estremo sud che si rovescia in nord scandinavo. Il tutto diventa lampante quando il racconto abbandona la superficie delle cose per tuffarsi in un universo dal sapore favolistico. Arrivato in cima a una montagna – descritta come il margine ultimo del mondo – Dinesen incontra un’anziana signora, che sembra venuta fuori dall’universo di Bergman. La donna lo conduce in una grotta dove il tema del sognare appare in tutta la sua flagrante evidenza. Qui il testo di Fabian Casas – il poeta scelto da Alonso per quella che è la sua prima collaborazione con uno scrittore - dà il meglio di sé, giocando su una trasognata semplicità. E in fondo poco importa se il viaggio si rivelerà nient’altro che il frutto di un’agitata notte di una smagata e ricca ragazzina danese come l’epilogo svelerà. Carlo Chatrian CANNES LISANDRO ALONSO 74 CANNES ABDERRAHMANE SISSAKO TIMBUKTU T imbuktu, ritorno di Abderrahmane Sissako alla regia di un lungometraggio otto anni dopo Bamako, è un’opera importante. Per il cineasta mauritano e per il cinema africano. L’ampio iato che separa i due film, interrotto solamente da tre brevi realizzazioni (i due segmenti all’interno dei lavori collettivi Stories on Human Rights e 8, e il documentario per la televisione Je vous souhaite la pluie), non ha per nulla intaccato lo sguardo poetico di Sissako. Anzi, con Timbuktu il regista attualmente più rappresentativo del cinema subsahariano (insieme a Mahamat-Saleh Haroun) ha raggiunto uno dei vertici della sua filmografia, sia dal punto di vista della narrazione che da quello del discorso filmico. È un testo profondamente politico, Timbuktu. Un’immersione nell’attualità, un grido urlato contro ogni pratica integralista ricorrendo a una scrittura luminosa, calda, ma al tempo stesso dura, implacabile. Il titolo, nella sua essenzialità quasi documentaria, richiama il luogo dove, in anni recenti, sono stati compiuti da gruppi jihadisti atti spregevoli verso siti considerati patrimonio dell’umanità. Timbuktu, in Mali, città simbolo della cultura e della memoria, e i suoi dintorni, sono gli spazi scelti da Sissako per elaborare una riflessione sull’essere umano, sulla follia di un potere poliziesco che, in nome dell’Islam e del Corano, impone uno spietato radicalismo fondamentalista, e sulla resistenza a tali leggi da attuare utilizzando la forza destabilizzante della parola o di un cammino in grado di frantumare i percorsi obbligati stabiliti da un regime. È quello che compiono i personaggi di Timbuktu, andando incontro alla morte o a un fuori campo, un altrove nel quale avventurarsi correndo a perdifiato. A Sissako, com’è nella sua tradizione di autore che sa coniugare mirabilmente nelle singole inquadrature e nelle scene un’espressione minimalista e monumentale, bastano pochi tocchi, con la complicità di un montaggio nitido, per disegnare ritratti indelebili di donne, uomini, bambini, animali. Si pensi alla gazzella in fuga da uomini che le sparano, per spaventarla, non per ucciderla; alla bambina sopravvissuta alla guerra o, meglio, alle guerre mostrate o evocate, che corre fino a dissolvere nel nero allontanandosi da quel posto; alla giovane donna lapidata o alla mucca trafitta da una lancia per macabro desiderio di vendetta; ai ragazzini che, in una scena surreale, comica e tragica, inventano una partita di calcio senza pallone perché quel gioco è uno dei molteplici piaceri vietati. Non sono solo alcune delle scene che fanno di Timbuktu uno dei migliori film di questi anni, sono anche dei vertici, poetici e politici, di tutta l’opera di Sissako. In questo film, si ritrovano gli elementi sui quali il regista mauritano ha costruito la sua filmografia, fin dal folgorante corto d’esordio Le jeu (1990), di cui si sente l’eco in Timbuktu. In entrambi ci sono bambini e guerre con le quali convivere, siano esse drammaticamente filmate oppure, come in Le jeu, fatte percepire nella loro assenza, nel loro condizionare, da lontano, la quotidianità di un villaggio e i giochi dei più piccoli. Senza dimenticare il deserto, vero e proprio protagonista da Le jeu a Timbuktu, passando per Sabriya (episodio del film collettivo Africa Dreaming, del 1997), La vie sur terre (1998), Heremakono (2002) e il poco conosciuto, ma emblematico del percorso dell’autore, Le chameau et les bâtons flottants (1995), corto di sei minuti ispirato a una favola di Jean de La Fontaine. Concreto e metaforico, il deserto è un set imprescindibile, mauritano e non solo (Le jeu, prodotto dalla scuola Vgik di Mosca frequentata da Sissako, è stato girato nel deserto sovietico, Sabriya in quello tunisino). In Timbuktu, un’illuminazione calda, che trasmette l’odore e la luce della sabbia, rende immediatamente riconoscibile un cinema in cui si entra in contatto con una dimensione espansa del tempo e con un umorismo sferzante che si insinua nelle immagini e che in certe scene non può non far pensare a quello del palestinese Elia Suleiman. In tal senso, e sempre più di film in film, il cinema di Abderrahmane Sissako è pan-africano e pan-arabo, sintesi visiva in cui ogni immagine contiene una pluralità di immagini, facendosi contemporaneamente discorso soggettivo e memoria di cinema. Giuseppe Gariazzo 75 C’ est rare de voir, de nos jours, un film intelligent capable de se passer sans afficher sa propre intelligence. Self Made, un long-métrage froid, brillant, surprenant, y réussit. Shira Geffen avait déjà été repérée grâce à Jellyfish, Caméra d’Or à Cannes 2007. Mais, vie étrange des films, des festivals, des prix, tout faisait penser que Self Made n’était pas le film attendu après ce début prometteur. Et pourtant est un vrai film de cinéaste, une confirmation. Self Made est un film drôle où on n’arrive pas à rigoler, où tout se passe de façon absurde quand la situation est normale et de façon normale quand la situation est absurde. L’histoire se passe en Israël et deux femmes sont les protagonistes. Michal (Sarah Adler) est une artiste contemporaine israélienne qui se réveille amnésique quand elle tombe d’un lit en mauvais état. Nadine (Samira Saraya) est une palestinienne à la limite de l’autisme qui travaille dans une espèce de centre commercial du type Ikea. Les deux femmes participent d’un handicap semblable : l’une est incapable de comprendre ce qui lui arrive car elle ne peux pas établir un dialogue avec ses souvenirs. L’autre est également incapable de vivre normalement à cause de son mutisme. L’une et l’autre développent donc deux univers filmiques très SELF MADE différents, puisque leurs vies n’ont rien à voir, mais semblables, en tant que marquées par une présence constante de l’absurde, provoqué, chez Michal, par son incapacité à comprendre un entourage qu’elle a oublié, et, chez Nadine, par son incapacité à se repérer dans le monde. Michal s’enferme dans sa maison extrêmement moderne, où les visites le plus incongrues (depuis son point de vue), n’arrêtent de venir : une livraison pour un meuble qu’elle doit monter elle même, une interview pour une télévision étrangère, son baignoire qui se retrouve rempli de langoustes pour un dîner. Nadine, par contre, doit marquer son chemin avec des vises qu’elle récupère de son travail afin de retrouver sa route pour traverser à nouveau le point de contrôle qui la sépare de l’usine. Mais tout changera un jour où les deux vont traverser le checkpoint en même temps, et une confusion mettra l’une à la place de l’autre. Deux vies de deux femmes échangées, sans que personne ne s’en aperçoive, de deux côtés de la barrière qui divise la vie d’Israël et Palestine : véritable subversion discrète du film. Nadine et Michal, avant et après « l’échange », participent d’une violence absurde en permanence, que Shira Geffen travaille avec une précision de mise en scène remar- quable. Si Geffen est une grande cinéaste, c’est parce qu’elle est capable de créer un monde dans son cinéma, un monde qui n’est pas le réel, mais qui en parle. Si formellement on est loin d’un film choquant (ce qui a provoqué qu’il passe injustement inaperçu dans les festivals où il a été projeté), c’est parce que sa plus grande beauté est de montrer l’absurdité comme si rien n’en était. Un équilibre de pure mise-enscène qui nous ramène au cinéma de Buñuel. Et, dans cette structure d’un double personnage principale qui vit dans l’absurde, placer au milieu avec un réalisme frappant le checkpoint. Difficile d’imaginer une plus belle façon de pointer du doigt l’absurdité de cette réalité. Geffen est consciente que parfois il faut regarder les choses un peu de biais, qu’il faut l’artifice de la fiction pour parler de la réalité et la montrer sous un nouveau jour. C’est quelque chose qui était évident dans la littérature, depuis les années 20, mais j’ai l’impression que la bataille n’était pas gagnée dans le cinéma. Comme quoi parfois les films de combat ne ressemblent pas à ce qu’on croit. Fernando Ganzo CANNES SHIRA GEFFEN LOCARNO 76 LUCIE BORLETEAU FIDELIO, L’ODYSSÉE D’ALICE «T u te prends pour Kate Winslet ? » La question du capitaine, alors que sa seconde admire la mer sur la proue du cargo, a des accents légèrement condescendants : il suppose forcément qu’Alice, mécanicienne et seule femme de l’équipage, rêve de troquer son bleu de travail pour une tenue hollywoodienne. Sa réponse androgyne et prolétaire claque sans pour autant renoncer à la séduction : « Pour DiCaprio, plutôt ». Marin et femme, amoureuse et infidèle, l’héroïne de Lucie Borleteau, qui travaille sur un porte-conteneurs en Méditerrannée, veut « tout ». C’est même la définition exacte qu’elle donne de l’amour. Lucie Borleteau aussi, vue dans une quinzaine de films sans que sa carrière d’actrice ne lui offre (pour l’instant) de premier rôle, a assisté notamment Arnaud Desplechin et coécrit avec Claire Simon. Elle signe à trente-quatre ans son premier long métrage, a commencé avec des moyens métrages plutôt qu’avec des courts, et Fidelio donne l’impression enthousiasmante qu’elle aussi veut tout : une chronique de la vie sur un cargo, salle des machines comprise, et le romanesque éhonté, le choix de placer absolument au centre du film l’amour et la sexualité de Lucie. Fermement campé dans un sens aigu de la composition dans un formidable décor naturel (un cargo filmé en pleine mer), Fidelio écarte vite l’hypothèse d’une exploration sociologique du milieu. L’intéressent plutôt des trouées documentaires qui au lieu de détoner sur le tissu romanesque viennent au contraire l’étoffer : ainsi de cette séquence où un lent mouvement d’appareil s’approche des marins philippins qui prient en chantant (ils ont donné un nom au moteur), qui émeut au lieu d’informer. En refusant de s’en tenir au seul temps de la chronique, Lucie Borleteau, qui a co-écrit avec une amie elle-même femme marin, introduit dans le scénario une tout autre temporalité : moins celle du quotidien que celle au plus long cours d’une femme qui va avoir trente ans et se demande ce qu’aimer Félix, son amant resté à terre, peut bien signifier pour elle. Même à un moment où elle semble conclure qu’elle choisit de ne pas choisir, Alice est confrontée à des choix beaucoup plus pragmatiques, efficaces : que faire quand un chefaillon pénètre dans votre cabine la nuit ? Rarement dans le cinéma récent une femme n’a été si prosaïquement héroïsée. Rarement un tel cap féministe n’a été tenu aussi sereinement, la victimisation étant souvent supposée plus féconde du point de vue dramaturgique. Remarquablement incarnée par une Ariane Labed royale, à la carrure impressionnante, cette héroïne devient même Poséidon en personne à la faveur du bizutage d’un nouveauvenu. Mais qui dit mythe ne dit pas mythologie : il ne s’agit pas de faire d’Alice le porte-drapeau de la liberté sexuelle. Un peu comme Justine Triet qui dans La Bataille de Solferino enroulait autour de la garde de l’enfant d’un couple séparé la chronique d’une élection présidentielle, Fidelio tricote en mailles serrées l’éternel retour des beuveries et des pannes à bord et un vrai questionnement sur la nécessité (ou non) du couple, questionnement qui fait tache dans cette mer d’huile. Son personnage d’abord dessiné d’un tracé net – presque trop – se charge d’ombres portées, Borleteau lui apportant une profondeur insoupçonnée : le journal de bord du mort qu’elle remplace – un homme qui n’a jamais connu l’amour – n’est sans doute pas pour rien dans sa maturation un peu sombre. Autre fantôme, de cinéma celui-ci : Gaspard, l’adolescent inventé par Éric Rohmer pour Conte d’été, et à qui Melvil Poupaud, qui joue ici le commandant, prêtait ses traits il y a presque vingt ans. À Dinard, la vacance amoureuse de Gaspard se traduisait par des tournoiements dilatoires autour de trois amoureuses qu’il finissait par esquiver. Ce n’est pas tant à des retrouvailles avec Melvil/Gaspard qu’invite Lucie Borleteau dans son film qu’à un transfert discret sur la fille de la valse-hésitation amoureuse du garçon. Comme en navigation, où parce que la terre est ronde, le parcours en ligne courbe va plus vite qu’un tracé droit sur la carte (une séquence nous détaille la différence entre loxodromie et orthodromie), il faut ce détour d’Alice par deux spectres de la friabilité masculine pour parvenir à bon port, et boucler l’odyssée. Charlotte Garson LUCIE BORLETEAU 77 Entretien avec Lucie Borleteau Locarno 2014 C haque film naît d’une histoire, d’un souvenir, d’une image ou d’un mot, mais au départ il y a toujours un désir. Quel est le désir qui gît derrière Fidelio? « Fidelio » part d’un désir très simple mais très fort que j’ai gardé en moi comme un diamant brut pendant toute l’écriture et toute la fabrication du film : le désir de faire le portrait d’une amie très proche, qui est entrée à l’école de la Marine Marchande, à peu près quand je suis montée à Paris pour faire du cinéma. Après avoir rêvé un documentaire pendant des années sur cette femme marin, j’ai décidé d’écrire une fiction parce que je voulais faire un film d’amour. Je trouvais difficile de demander à des personnes réelles d’exposer leur vie sentimentale, leur intimité dans mon film. Aussi j’ai écrit un scénario romanesque, j’ai créé des personnages, et Alice est restée au centre, mais j’y ai aussi beaucoup mis de moi-même, pour ce qui est de l’expérience amoureuse. Un nouveau désir était là pour compléter le premier : faire le portrait d’une femme libre en amour, se plonger dans la mécanique des sentiments pour un discours amoureux contemporain. Une femme et le métal: cette équation nous amène dans un univers moderne. D’autre part, il y a le visage très classique de Ariane Labed. J’avais découvert Ariane Labed grâce à Attenberg de Rachel Athina Tsangari et depuis, je pensais à elle comme une Alice possible. Lorsque nous nous sommes rencontrées pour que je lui donnasse le scénario, j’ai été frappée par sa ressemblance avec mon amie-muse. Elles partagent toutes les deux cette beauté classique, à la Botticelli et même à ses héritiers, comme le peintre préraphaélite Dante Gabriel Rossetti. Un visage paysage, mythologique, pictural. Un corps à la fois gracile et puissant, comme celui de mon amie à l’œuvre dans la salle des machines. Il est vrai que le contraste entre le monstre d’acier que constitue le bateau et la sensualité du corps d’Alice sous le bleu était présent à mon esprit dès l’écriture. En même temps, ce sont deux forces qui semblent se contredire mais ne s’annulent pas ; au contraire, elles font monter l’adrénaline, « m onter l’aventure au dessus de la ceinture » comme chante Bashung – même si les machines, l’étrave qui fend les flots, sont des forces sexuelles brutes évidentes comme dans les films soviétiques. La joie, la sensualité du travail ; la beauté du métal, la poésie industrielle : tous ces éléments étaient présents très tôt dans la genèse de Fidelio. Nombre de films ont été tournés sur les navires, est-ce que tu avais quelques modèles en tête? Je m’étais fait une petite « filmographie maritime », pas vraiment pour y faire référence comme à des modèles, plutôt pour y puiser des idées de fabrication, y compris dans la fabrication du scénario d’ailleurs. Ainsi E la nave va de Fellini, revu très tôt pendant l’écriture, un film aux conditions de fabrication contraires aux miennes (tout en studio), où la mort mène le bal – il s’agit aussi d’une cérémonie funèbre en mer, tout en explorant le corps monstrueux du navire, de la profondeur de la salle des machines au pont supérieur et ses couchers de soleil « tellement beaux qu’on dirait qu’ils sont faux », en passant par un catalogue impressionnant de perversions sexuelles qui semblent animer 78 tous les passagers. Il y avait les films de Grémillon, Remorques, où le héros, capitaine joué par Jean Gabin, est tiraillé entre deux femmes, et aussi un film plus rare d’une modernité stupéfiante, Daïnah la métisse – un des rares films où la caméra s’aventure dans la salle des machines. Un classique comme Le crabe tambour de Pierre Schoendoerffer, film très apprécié dans le milieu maritime, m’a permis de récupérer quelques « trucs » pour faire croire à la navigation lorsque l’on est à quai : objets qui roulent sur la table, acteurs qui miment le déséquilibre, caméra qui tangue. Pour Ariane et pour la costumière, notre seule référence était Ripley dans le premier Alien de Ridley Scott, qui est aussi d’une certaine façon un film de marins. Pour Melvil Poupaud, notre référence durant la préparation était Le Renard des océans de John Farrow, avec John Wayne en commandant « oldschool », noble et séduisant. C’était aussi un film tourné en scope, qui a contribué à mon engouement pour ce format. Mais il y a bien d’autres films de marins qui à plusieurs titres ont hanté la préparation de Fidelio : Querelle de Fassbinder, La peau trouée de Julien Samani, Titanic de James Cameron, Lightship de Jerzy Skolimovski, la partie paquebot de Film Socialisme de Godard… Je voudrais des renseignements sur la scène d’ouverture: c’est une belle façon de planter le décor. Et dans ce décor il y a un corps nu dans les eaux, celui de Ariane. Après une citation de Sylvia Plath placée en exergue - « She is in love with this beautiful formlessness of the sea », voici quels étaient les premiers mots du scénario : « Le mouvement des vagues. Le corps nu d’une jeune femme glisse sous l’eau. » Parce c’est sa première passion, celle à laquelle elle est fidèle. Le premier plan plante ça, et la première scène installe, très vite, sa relation amoureuse avec Félix, comme une chose simple, évidente, un éden qu’elle risque ensuite de perdre tout au long du film. D’où ce choix de décor très fort visuellement, une calanque intemporelle. Comme c’étaient les premiers mots du scénario, l’actrice qui le lisait ne pouvait ignorer dès le début de la lecture qu’elle allait tourner nue. Et pour Ariane ce n’était pas un problème. De mon côté, ayant eu quelques expériences de la nudité sur un plateau comme actrice, j’ai veillé à préserver mes acteurs pour le tournage de ces scènes-là. Pour qu’ils ne soient, non pas dans le confort, qui est l’ennemi du jeu, mais libres, libres de jouer. Pour cette première scène qui était aussi la première scène de nu dans l’ordre du tournage, j’était en maillot de bain comme Ariane, par solidarité (et parce que c’était pratique : la caméra avait les pieds dans l’eau). J’ai même montré un sein à l’équipe avant elle pour briser ce fameux problème de nudité. Comment avais-tu envisagé la scène lors de l’écriture et comment as-tu décidé de la tourner? Ce qui n’était pas prévu au scénario, ce sont les premiers mots que l’on entend dans Fidelio, un peu de Norvégien tout de suite traduit en mots un peu crus « J’aime ta chatte. – J’aime que tu lèches ma chatte. – C’est cochon ? – Non, mais c’est vrai ». Ces dialogues viennent d’une improvisation entre Ariane Labed et Anders Danielsen Lie et n’auraient pu préexister au choix d’Anders pour jouer Félix (qui était écrit pour un Français). J’aime ce moment, qui sans rien montrer (puisque je pense que c’est bien d’en garder sous le boisseau pour la suite du film, on a vu seulement de loin ce corps nu), nous fait comprendre que leur vie sexuelle est épanouie – détail important pour la suite du film, Alice ne cherche pas ailleurs parce qu’elle est frustrée. Le tournage de cette scène était une lutte contre le réel : je voulais un Eden et l’eau était froide, le soleil se cachait derrière les nuages, les méduses ont commencé à affluer… Mais en cherchant une douceur, en écoutant de la musique mièvre des années 60, les acteurs ont trouvé le courage de plonger dans la bonne tonalité. Ils avaient aussi le plaisir de se découvrir, quelque chose de pur (c’était leur première scène ensemble). Le soleil est reparu pour quelques prises, et si la scène existe c’est aussi par contraste avec la scène suivante, 79 l’arrivée du bateau dans la brume. Par le fondu du jaune pâle au bleu obscur, du sable sec à la brume au dessus des vagues, ces scènes sont devenues intimement liées et fonctionnent l’une avec l’autre. Pour la scène de l’arrivée dans la brume je ne peux expliquer ma chance que par un soutien des dieux de la mer : si j’avais écrit cette brume digne du Fog de Carpenter, je ne l’aurais jamais eue. C’est une chance que notre caméra tournait pendant les dix minutes que cela a duré. Une chance que l’équipage du cargo que nous avons contactés sur le moment, par radio, aient accepté d’allumer leurs projecteurs, et même de laisser notre actrice monter à l’échelle ! Peux-tu me raconter un peu les choix de casting – les deux hommes et les autres marins, surtout. Le choix de Melvil Poupaud pour incarner Gaël, j’en ai beaucoup parlé, relevait de l’obsession cinéphile. Je trouve très juste que le spectateur puisse ressentir, comme Alice, un pincement en le voyant, parce que cet homme trimballe un passé – puisqu’on l’a vu dans beaucoup de film, avec beaucoup de rôles très séduisants. Comme je le disais plus haut, au départ le personnage de Félix était écrit pour un Français. Mais c’était un défi de bien l’incarner. Comme on le voit très peu au début, dans la scène de la plage, puis un peu sur Skype, et puis c’est seulement au bout d’une heure que le personnage a des scènes pour se déployer, il fallait quelqu’un qui marque. Non seulement Anders Danielsen Lie a un accent charmant qui lui donne un côté Anna Karina, mais surtout il crève l’écran. Je l’avais découvert dans Oslo, 31 août et j’ai été très honorée qu’il accepte ma proposition. Une fois que j’avais choisi Ariane Labed, autour de qui tout le film rayonne, et le commandant Melvil Poupaud, c’était une joie de composer le casting de l’équipage qui devait être comme une sorte de patchwork correspondant aux différentes nationalités, aux différents parcours des personnages. J’ai pu retrouver JeanLouis Coullo’ch, qui avait joué dans mon premier court-métrage, et dont tous les oncles étaient marins. J’ai invité à bord de nouvelles têtes, comme Pascal Tagnati, un acteur découvert grâce à Thierry de Perretti, Nathanaël Maïni, vu dans le téléfilm de Pierre Schoeller sur l’affaire Erignac, MarcAntoine Vaugeois repéré dans La bataille de Solférino, Thomas Scimeca rencontré à la descente des planches de sa troupe des Chiens de Navarre. Quand on aime les acteurs – et je les adore – il faut être à l’affût partout, tout le temps. Pour le peu de rôles féminins j’ai eu la chance de travailler avec deux étoiles « montantes » que j’admire énormément, Laure Calamy (la sœur du mort) et Vimala Pons (une des sœurs d’Alice), ou en- core de vieilles complices, comme Laure Giappiconi ou ma propre mère, Brigitte Borleteau. Pour les Roumains le casting a été plus compliqué mais ce sont bien deux acteurs, Corneliu Dragomirescu et Bogdan Zamfir (qui a trouvé avec Vali son premier rôle), qui incarnent les deux marins roumains. En revanche, les Philippins sont tous des acteurs non professionnels, découverts à Marseille grâce au talent de casting sauvage de Nicolas Gambini. Certains sont des acteurs nés, doués d’instinct sur le plateau, comme Marlo Aznar (le cuisinier). Parmi eux il y a aussi quelques vrais marins, et leur présence était comme une bonne étoile – Manuel Ramirez, fitter à la retraite, était heureux de retrouver un bleu de travail et des tâches mécaniques, nous avons pu filmer ce bonheur. Les acteurs sont notre trésor. Ils sont à la fois notre force et si précieux parce que fragiles, humains. Pour moi il n’y a pas de réelle différence entre un acteur de métier et un acteur non professionnel, entre un débutant et une star. Je m’adresse à eux de la même façon. En revanche chaque manière de travailler est différente selon la personne qui se cache derrière l’acteur, selon le personnage et/ou la situation qu’il doit incarner, aussi. C’est un travail de précision sur quelque chose d’insaisissable. Quel univers a nourri ton film? On y 80 ressent beaucoup d’inspirations: le journal intime, le dessin, un imaginaire (le capitaine, les marins…). La première source d’inspiration est le réel : même le journal intime ! Je n’aurais pas osé commettre cet acte scénaristique si je n’avais pas connu un homme, un marin, qui tenait comme Le Gall un journal de bord avec de belles envolées poétiques. Mais le goût du monde maritime a été initié chez moi, et chez mon amie marin, par la littérature, par la bande dessinée – Corto Maltese, romans de Conrad ou de Jack London, de Jules Verne ou de Marguerite Duras. Sirènes, naufrages, goût du large et des chants de marin, où tout est dit. Je ne voulais pas abandonner tout cela en tournant Fidelio et ces éléments s’incarnent souvent au premier degré dans le film. Mais c’est aussi, sans doute, ces sources qui m’ont donné envie d’insuffler à Fidelio un peu d’imaginaire, avec un fantôme qui parle, un frigo hanté, une machine personnifiée répondant au doux nom de Demonia, des dessins qui viennent s’incruster dans les constellations. Filmer la mer, filmer sur un bateau, avec des moyens très classiques, convoque de toute façon une dimension magique, mythologique. Il allait de soir qu’il fallait l’accueillir à bras ouverts dans le film. Est-ce que le tournage, que j’imagine a dû être compliqué, a changé beaucoup de choses dans ton projet? Le tournage était compliqué, tourner sur un bateau donnait énormément de contraintes, mais nous y étions bien préparés. J’ai plutôt l’habitude de considérer ces contraintes comme des cadeaux, de toute façon je voulais absolument tourner sur un vrai navire et les difficultés ont été fertiles pour la mise en scène, donc pour le film. Je crois que le film ressemble vraiment au scénario, avec parfois de bonnes surprises météorologiques saisies au vol comme la brume au début, le plan où Alice fume une cigarette après la tentative de viol et où la mer scintille comme du métal, le mauvais temps pour la cérémonie du mort. Nous n’avions pas beaucoup de temps donc tout était préparé, découpé, même si je reste toujours ouverte à l’inspiration du moment – beauté du ciel ou désir soudain d’improvisation des acteurs qui me font alors de nouveaux cadeaux (le « dragon chinois », la scène du calva…). Nous faisions entre deux et dix prises. Parfois une seule, par exemple quand Alice démarre le moteur et fait un chassé à l’air avec les jets de poussière très visibles, nous n’avions droit qu’à une prise, après il faut attendre plusieurs semaines pour que les tuyaux s’encrassent à nouveau ! Au montage, j’ai l’impression d’avoir tout gardé. On a plutôt enlevé des choses au sein des scènes pour en garder le plus dense, le plus suspendu, le meilleur. Avec un peu de recul, je m’aperçois que j’ai enlevé quelques éléments explicites au début, où j’avais peur que le spectateur soit perdu et ne comprenne pas qui était qui et qui faisait quoi sur ce bateau, alors qu’il le voit et que ça suffit. J’ai coupé aussi quelques détails qui faisaient plus « ouvertement » d’Alice une héroïne féministe. Or, je pense que le féminisme du film, qui est réel, est maintenant beaucoup plus fort parce qu’il avance masqué, et peut toucher un plus large public. Comme nous avions un budget serré, je pense que j’avais déjà coupé beaucoup de choses avant le tournage, c’est pourquoi nous n’avons pas coupé tant de choses au montage. Ton film, je crois, a beaucoup à voir avec la joie de vivre et l’énergie qu’elle entraîne; pourtant, la mort y tient une grande place. C’est le point de départ de l’histoire… Peux-tu me parler du rapport entre les deux ? C’est un peu « bateau », mais je pense que l’un ne va pas sans l’autre. On décide parfois de vivre sa vie plus intensément lorsque l’on pense à sa propre fin. En cela la découverte du carnet du mort compte beaucoup pour Alice et pour son odyssée personnelle à travers le film. C’est ce qui donne son prix à la vie, qu’elle soit si courte. Cela appelle l’aventure. Plus prosaïquement, c’est aussi parce que la vie de marin est dangereuse, outre le fait de quitter le foyer et de rendre les liens entre humains plus intenses, c’est aussi aller au devant de la mort, la braver. Comme dit cette chanson que nous avons coupée au montage « à moi forban que m’importe la gloire, les lois du monde et qu’importe la mort ». C’est aussi une bonne morale pour qui veut faire des films !! Par Carlo Chatrian 81 S LA PRINCESA DE FRANCIA ur un écran noir, la voix d’un animateur radio annonce le premier mouvement de la Symphonie no 1 de Robert Schumann, « spécialement dédié à Lorena ». A l’image, une autre Lorena, interpellée de la cour, suscite un plan en plongée sur un match de football qui lentement se voit couvert de la liste des personnages. Dans une scène subtilement cocasse, les joueurs au maillot orange semblent progressivement disparaître, tandis qu’ils sont remplacés par d’autres plus nombreux, en jaune. Le gardien enfin, qui n’est autre que Lorena, abandonne le terrain à la hâte face à l’assaut des adversaires désormais sans autres rivaux que celle-ci. Dernier opus de la trilogie shakespearienne du réalisateur argentin Matías Piñeiro, La princesa de Francia s’inspire librement de « Peines d’amour perdues », l’une des premières comédies de l’auteur britannique, et s’inscrit sans nul doute de façon aussi pertinente qu’aisée dans la filmographie de Piñeiro. Toutefois, et c’est là une distinction plutôt essentielle, là où Viola (2012) et les films le précédent étaient presque intégralement habités ou menés par les femmes, celui-ci installe d’emblée un homme au cœur du récit et de l’intrigue. Après une année passée au Mexique, Victor rentre à Buenos Aires avec pour dessein d’enregistrer une pièce radiophonique à partir de la mise en scène qu’il avait produite au théâtre avant son départ. Au fur et à mesure qu’il retrouve les membres de la troupe, se dévoilent, dans un même mouvement, les relations complexes et enchevêtrées que le metteur en scène – dans le film – entretient avec les nombreuses actrices. Nous sommes ici face à une mise en abime ponctuée de passages de « Peines d’amour perdues », euxmêmes interprétés de façon éloquente par les filles alors même qu’il est question du Roi de Navarre et de ses trois compagnons (choix d’autant plus intéressant que les rôles des femmes furent longtemps joués exclusivement par les hommes dans le théâtre élisabéthain). Matías Piñeiro poursuit ainsi sa quête cinématographique étroitement liée au texte et au verbe ; celui de l’intellectuel, militant et homme d’Etat Domingo Faustino Sarmiento (1811-1888) dans ses deux premiers films El hombre robado (2007) et Todos mienten (2009), puis William Shakespeare pour Rosalinda (2010), Viola et ce dernier travail. L’œuvre littéraire subrepticement pourvoit une structure imprégnant la narration et son développement, ainsi que les protagonistes et acteurs, qui d’un film à l’autre se glissent dans une autre incarnation, en complicité évidente avec le réalisateur. L’espace souvent se voit restreint – peut-être est-ce là l’une des allusions formelles à la relation au théâtre – contraignant les corps dans une certaine contiguïté et permettant à la caméra de rendre compte de la texture de la peau et du jeu des ombres engendré par le relief des faciès. C’est particulièrement le cas dans les scènes tournées dans la pénombre et d’autant plus manifeste dans la très belle séquence du musée ; Victor y rencontre deux de ses anciennes comédiennes, dont Ana, enceinte (d’un autre), avec laquelle il a entretenu une liaison épistolaire durant son absence. Aux corps des personnages répond alors le travail pictural de la chair sur les tableaux accrochés dans la salle, à commencer par celui du peintre français WilliamAdolphe Bouguereau qu’Ana étudie. S’il évolue dans une proximité esthétique avec certains autres réalisateurs argentins de la même génération, tels Lisandro Alonso ou Alejo Moguillansky avec lequel il a notamment collaboré sur le montage de Viola, Piñeiro embrasse sans doute également une recherche conceptuelle pouvant être affiliée à la leur du point de vue de la composition narrative et spatiale. Quoique les nombreuses scènes parlées et la dimension sinueuse de la trame puissent évoquer Jacques Rivette ou certaines comédies rohmériennes, il semble tout autant pertinent de songer à Hong Sang-soo quant à l’usage des répétitions et à la sensation de circularité en découlant. C’est une approche et une vision fondamentalement contemporaines du théâtre au cinéma que propose le réalisateur, associées à l’empreinte d’un auteur qui n’a de cesse de dévoiler une musicalité certaine, emplie de sensualité. La réécriture, qui s’articule à travers les micro-récits jalonnant le film, entremêle réalité et artifice, dans une tension constante entre texte et image. Emilie Bujès LOCARNO MATIAS PIÑEIRO 82 VENEZIA SEVERIN FIALA e VERONICA FRANZ ICH SEH, ICH SEH L’ universo di Severin Fiala e Veronica Franz è imparentato con quello di uno dei più originali e acuti indagatori del presente, il regista Ulrich Seidl. Veronica Franz è, infatti, la compagna e co-autrice di alcuni degli ultimi lavori del cineasta austriaco, autore della trilogia sulla nuova accezione del concetto di “paradiso” (Paradise: Hope, Paradise: Love, Paradise: Faith). E’ lei, oltre ad aver co-scritto i tre film in questione, che ha avuto l’idea di spingere il marito a indagare ciò che accade nelle cantine austriache in un film (Im Keller, 2014) capace di ribaltare l’accezione classica del documentario, facendone non tanto il luogo d’esposizione della doxa quanto il rivelatore delle ossessioni, spesso inconfessate, che attraversano un paese. Su questo crinale, sotterraneo e ossessivo, si muove anche Ich Seh Ich Seh, film diretto insieme al nipote Severin Fiala, che segna l’esordio al lungometraggio. I bui scantinati sono qui sostituiti dalla calda luce del sole: la vicenda si svolge nel contesto bucolico di una moderna abitazione immersa nella campagna in quella che potrebbe essere una vacanza estiva; basta poco però a rendere evidente come quello che potrebbe rappresentare la normalità si traduca invece in una situazione paradossale - e forse paradigmatica. Gli elementi che definiscono luogo, epoca, caratterizzazione sociale e psi- cologica dei personaggi sono ridotti all’osso: sappiamo che sono occidentali, bianchi, benestanti. Lo spunto di partenza è fornito nella decisione da parte di una donna di sottoporsi a un intervento di chirurgia estetica, salvo poi non essere riconosciuta dai figli al suo rientro a casa. Costretti all’isolamento, i due gemelli hanno sviluppato non solo un rapporto simbiotico tra di loro ma anche una quasi totale autonomia dal mondo dei grandi; così il rapporto madre/figli, assunte le forme di un puro gioco di forza, può prendere pieghe inaspettate. L’idea di reclusione partecipa del progetto del film, finendo per fare della casa da piccolo eden riparato dai rumori del mondo un universo concentrazionario dove le spinte violente hanno libero sfogo. Partito da una base realistica e, per così legata alla società dell’apparire, il film si sposta gradatamente verso un tipo di racconto debitore del cinema di genere. Con il deteriorarsi dei rapporti tra madre e figli, il carattere assoluto della loro relazione si fa palese: il loro scontro non è più solo quello legato alla contingenza dell’intervento subito dalla donna ma diventa l’estraneità di una generazione verso l’altra. Giocando sugli stilemi di quel cinema horror che rovescia il bello nel terribile, il pulito nell’asettico, la difesa nella violenza, Fiala e Franz prendono di petto una società che non riesce più a guardare negli occhi il prossimo, che non solo confonde l’essere con l’apparire, ma che non ha più alcun rapporto con la realtà delle cose e delle persone. Ciò che colpisce e ferisce in Ich Seh Ich Seh è il fatto che, avendo abdicato dalla sua funzione educatrice, il genitore si riduce a pura autorità, vuota di significato. Bendata per tutta la durata del film, la madre è davvero una mummia che viene da un altro mondo e come una creatura pericolosa viene trattata. La diversità è il grande tema di fondo che ossessiona tutta una generazione di cineasti austriaci. Qui essa è costantemente respinta nel fuoricampo: il diverso non ha diritto di residenza nella casa. Senza voler svelare l’assunto che regge la trama del film, è importante sottolineare come le assenze occupano il racconto molto più di quanto non facciano i personaggi in campo. La casa filmata da Fiala appare perennemente vuota: il silenzio è la dimensione dominante, metafora di una morte (dello scambio) che è già avvenuta prima ancora che la macchina da presa posi il suo sguardo. Se nella sua versione originale, il titolo fa riferimento alla duplicità e all’essere, nella sua versione internazionale “Goodnight Mommy”, il titolo allude alla notte e a quell’universo di quiete (e non di silenzio) che sembra proprio venire meno. Carlo Chatrian 83 ESSERE O APPARIRE Conversazione con Severin Fiala e Veronika Franz Venezia 2014 C ome è nata l’idea di questo film? S.F.: Il nostro intento era quello di narrare la storia di una donna che ritorna a casa dopo un intervento di chirurgia estetica. Secondo i modelli contemporanei, questa donna avrebbe dovuto ritrovarsi, dopo l’operazione, con una qualità di vita migliore. Più bella, più realizzata, avrebbe dovuto avere davanti a sé un’esistenza più appagante; invece, noi abbiamo letto questo ritorno alla quotidianità, come qualcosa di disturbante, di pauroso. Da dove siete partiti nella scrittura? V.F.: Il punto di partenza del nostro film è stata l’idea di una madre che torna a casa dopo un intervento di chirurgia estetica e non viene riconosciuta dai suoi stessi figli. Abbiamo quindi cercato di immaginare che cosa sarebbe successo se avessimo spinto quest’idea fino in fondo, fino alle conseguenze più impensabili. Nel nostro caso, la madre desidera cambiare la propria vita, vorrebbe iniziare una nuova esistenza e pensa alla chirurgia. Ha una sua personale visione su come ottenere questo miglioramento e questa rinascita, ma non ne parla ai propri figli, e questo creerà non pochi problemi. È presente nel film una sorta di critica per un certo tipo di modello imposto alle donne oggi? S.F.: No, il film non vuole essere un’opera che interviene nel dibattitto sociale; credo invece che sia un film che ha come obiettivo quello di suscitare delle domande più esistenziali: siamo quello che rivela la nostra apparenza? E se modifichiamo la nostra faccia, il nostro aspetto fisico, diventiamo persone diverse? V.F.: Ich Seh, Ich Seh è un film sull’apparenza, su quanto questa conti per noi e per gli altri, quindi è anche un film sulle maschere, sulle bende, sull’aspetto fisico. La madre è una persona che lavora in televisione, perciò per lei è fondamentale avere un bell’aspetto e prendersene cura. Il cuore del film è che cosa sia l’identità per ognuno di noi, in che percentuale ci identifichiamo con il nostro aspetto fisico e con la percezione che gli altri hanno di noi. Inoltre, è un film sull’identità in senso lato. Credo, infatti, che ognuno di noi possa essere una persona diversa in momenti diversi, tutto dipende dal contesto. Altrimenti, non si potrebbe spiegare come durante le guerre uomini ordinari si trasformino in assassini e stupratori. Penso che ognuno di noi abbia il proprio mostro dentro di sé e che il fatto di riuscire a controllarlo o meno dipenda dalla situazione. Uno dei punti interessanti di questa indagine è che chi si pone queste domande sia una madre. Mi piacerebbe che voi parlaste del ruolo della mater- 84 nità nel vostro film e di questa madre che agisce e si comporta in un modo piuttosto ambiguo. S.F.: Per noi questo è un film sulla famiglia, nel senso che parla della relazione fra una madre e i suoi figli, sull’educazione, e sul fatto che non è sempre la madre ad avere la responsabilità di quello che avviene. V.F.: Nel nostro film presnetiamo una donna che tenta di controllare tutto. Da un lato, cerca di curare se stessa, poiché sta passando un periodo di degenza tipico di chi ha subito un’operazione chirurgica. Dall’altro lato, si sforza di controllare la situazione con i bambini e cerca di farlo a modo suo. Magari questo non si rivelerà il modo migliore, ma credo che ogni madre cerchi di fare lo stesso. Lei non è perfetta, ma almeno prova a ristabilire un equilibrio. L’aspetto tragico del film è dato dal fatto che anche i bambini ci provano, e tutti e tre i protagonisti sono tesi nel tentativo di riuscire a riportare la situazioni alla normalità. La famiglia vive in una sorta di isolamento dal resto della società. V.F.: È una storia che ricalca una situazione molto diffusa in Austria: quando i genitori si separano, accade spesso che la madre venga lasciata sola con i figli. La protagonista di questo film ricerca la solitudine; è una persona che ha un po’ di notorietà in televisione, non vuole che il pubblico sappia che ha avuto un’operazione chirurgica. Così, sembra quasi tormentare i bambini persuadendoli a dire a tutti che è malata e che non vuole vedere nessuno. Abbiamo usato questa situazione anche per drammatizzare la storia. A un certo punto del film, si condivide pienamente il punto di vista dei bam- bini, con i quali lo spettatore entra quasi in simbiosi, e fino alla fine si resta in uno stato di suspense, chiedendosi “Che cosa sta succedendo? è davvero la loro madre o no?” Credo che questo sia un punto centrale del film. Com’è stato lavorare con due bambini piccoli? S.F.: Non è stato difficile, al contrario, è stato molto interessante perché con i bambini il lavoro diventa più spontaneo che con gli attori professionisti. Abbiamo fornito loro soltanto lo stimolo iniziale dello script, dicendogli “Mamma è tornata a casa, ma è strana”. Abbiamo girato le scene in ordine cronologico e i bambini ogni giorno si inserivano sempre di più nel film, nella parte e nella situazione. Erano molto motivati e cercavano di sapere cosa sarebbe successo quel giorno, e se lei fosse davvero la loro madre. V.F.: Abbiamo cercato di rendere il 85 lavoro divertente, abbiamo giocato con loro prima, dopo e durante le riprese, perché ci piace molto giocare. È stato davvero piacevole lavorare con dei bambini perché affrontano la realtà con più leggerezza. Nella prima parte del film, infatti, sembrano davvero molto contenti: sono nella natura, giocano, saltano, passeggiano nei boschi e nei laghi. V.F.: Entrambi affermano che è stata l’estate migliore che abbiano mai trascorso. Siamo stati fortunati perché hanno lavorato molto duramente e in modo molto disciplinato. Le riprese sono durate più di un mese e per mantenere alto il loro livello di attenzione abbiamo utilizzato più volte l’effetto sorpresa. Per esempio, per riprendere la scena in cui si svegliano di soprassalto gli abbiamo detto: “Stendetevi qui, dovrete svegliarvi quando sentirete questo suono molto dolce provenire dalla stanza accanto, chiudete gli occhi e ascoltate attentamente”. Poco dopo, siamo arrivati urlando come pazzi e loro si sono alzati di colpo, con l’aria atterrita. Abbiamo utilizzato questa scena nella prima parte del film. Tuttavia, questo espediente ha funzionato solo all’inizio, poi non siamo più riusciti a incastrarli! A quel punto erano loro a coglierci di sorpresa, coinvolgendo in poco tempo l’intero set, che era diventato teatro di scherzi verso tutti. Per trovare i due piccoli protagonisti abbiamo affrontato un casting di più 220 gemelli. S.F.: Il che è stato molto divertente perché entravi in quella stanza ed eri circondato solo da gemelli vestiti uguali. All’inizio nel film, mi sono sentita un po’ come in una fiaba per bambini, dalla ninna nanna iniziale ad altri elementi che costellano l’intero lungometraggio: la casa isolata nel bosco, il tema dello specchio e del doppio. Avete tratto ispirazione dal mondo delle fiabe? V.F.: Abbiamo, in effetti, raccontato loro la favola del lupo e dei sette capretti, in cui un lupo scaltro e affamato si presenta alla porta di sette capretti fingendosi la loro mamma tornata con le vivande, cambiando di volta in volta le sue fattezze per convincere i capretti a farlo entrare. Alcuni punti della favola sono stati usati per inserire i bambini nella situazione, e mi fa piacere che emergano dal film, anche se in modo non troppo esplicito. La scena in cui i due bambini trovano un gatto in una specie di ossario è piuttosto curiosa. V.F.: È un posto reale, vicino a un cimitero, con una porta di legno e al cui interno è possibile trovare tantissime ossa umane, oltre che spazzatura. Quando l’abbiamo visto, abbiamo immediatamente pensato che avremmo dovuto inserirlo nel film. Nessuno ci ha posto dei problemi 86 per le riprese, perché il luogo è stato sconsacrato, e quindi le ossa non hanno alcun valore dal punto di vista religioso. Le complicazioni sono sorte più per noi e per la troupe, perché dovevamo camminare su delle ossa umane e alcuni si sono rifiutati. Tornando alle differenze fra il mondo dei bambini e quello degli adulti, i piccoli protagonisti non hanno minimamente badato al fatto che fossero in un ossario, saltando sui resti come se niente fosse. A quel punto siamo dovuti intervenire dicendo loro di fare attenzione. Questo riassume ciò che abbiamo voluto mostrare nel corso di tutto il film, cioè che i bambini hanno un altro punto di vista, un altro approccio alla vita, ma anche alla morte. vece, che l’ultima parte fosse molto chiara e realistica. Per quanto riguarda la scenografia, abbiamo lavorato molto per modificare la casa, che è enorme e in origine non aveva né tende né imposte. L’abbiamo arredata completamente, abbiamo dovuto ricreare tutto dal nulla, nel modo più congeniale per noi. Anche le foto che ci sono nel corridoio e in tutta la casa sono state poste e create per rivelare qualcosa in più sul personaggio, qualcosa sul carattere di chi abita quel luogo. S.F.: Abbiamo cercato di pensare quale tipo di casa, di foto, di decorazioni potesse avere una persona della televisione, in modo che anche l’abitazione diventasse un personaggio del film. Potreste parlarmi un po’ della fotografia e della scenografia di questo film? V.F.: Volevamo creare un contrasto fra l’esterno e l’interno della casa, dove si svolge l’azione principale. Nella prima parte del film, volevamo fosse accentuata l’oscurità della casa rispetto all’esterno, che doveva essere luminoso. Desideravamo, in- E per quanto riguarda gli elementi religiosi? Nella camera dei bambini c’è un crocefisso, in seguito, i due costruiscono una specie di altare, e infine troviamo una chiesa. Perché avete deciso di inserire tutto ciò? V.F.: Volevamo che uno dei bambini fosse credente, che pregasse, ma solo uno dei due, come spero si noti nel film. Quando i bambini esco- no dalla casa e cercano aiuto, in un primo momento trovano un signore che sta bruciando le sterpaglie nei campi, ma che li allontana. E allora dove andare? Dal prete, ovviamente, in chiesa. Lì, però, non troveranno quello che cercano, poiché il prete non li condurrà dalla polizia, non credendo a quello che i due bambini gli raccontano, e li riporterà a casa. S.F.: Era importante per noi che uno dei due bambini credesse a qualcosa oltre la morte, all’esistenza di una trascendenza. Il vostro film non può essere catalogato come un horror, ma un mix tra dramma psicologico, thriller e horror. Come lo classifichereste voi? V.F.: Esattamente come hai appena fatto. Viviamo in un tempo di etichette, ma noi proviamo a lavorare nel modo che hai descritto, mescolando i generi. S.F.: Cerchiamo di creare film che noi stessi guarderemmo volentieri o ci piacerebbe vedere, film frutto di un insieme di generi diversi che si amalgamano senza classificazioni. A cura di Nora Demarchi 87 A LE DERNIER COUP DE MARTEAU nno di gran qualità del cinema francese il 2014, come testimoniato dalla presenza di numerosi titoli di valore in molti festival. Ben quattro in concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, tra i quali Le dernier coup de marteau, secondo lungometraggio, dopo l’acclamato Angèle et Tony, di Alix Delaporte, che già al Lido vinse il Leone d’oro per il miglior corto nel 2006 con il film Comment on freine dans une descente?. La vicenda ruota intorno a un ragazzino, Victor (l’esordiente Romain Paul), che finalmente conosce il padre, Samuel Rovinski (Grégory Gadebois), celebre direttore d’orchestra, dal quale non era stato riconosciuto alla nascita. All’Opéra di Montpellier, Rovinski sta per dirigere la Sesta Sinfonia di Mahler, la cosiddetta Tragica, il cui fragoroso colpo di «martello» finale dà il nome al film. È proprio all’Opéra di Montpellier che Victor inizia un percorso di conoscenza del genitore che passa anche attraverso la scoperta della musica. Il percorso si rivelerà reciproco, dato che il Maestro, inizialmente disturbato dal ragazzino, finisce per accettare lo «scambio» e l’assunzione del ruolo di padre. Tuttavia, è sulla complessità della situazione familiare, e di riflesso esistenziale, dell’adolescente che si concentra Delaporte (anche sceneggiatrice). La madre di Victor, Nadia (Clotilde Hesme), ha una grave malattia, e a causa delle scarse risorse economiche, è costretta a vivere insieme al figlio in una roulotte in Camargue, con un gruppo di gitani di origine spagnola. Nonostante Victor sembri avere un futuro assicurato nelle giovanili di una grande squadra di calcio del nord, è irrequieto e sfugge di continuo all’allenatore e al suo ruolo educativo. Un elemento che accomuna Le dernier coup de marteau ad altri film francesi visti in festival recenti è la definizione dei personaggi attraverso il nomadismo, anche letterale. In Vie sauvage di Cédric Kahn, in concorso a San Sebastian, un padre scappa con i due figli per vivere allo stato brado (in realtà ispirandosi ai modi di vita dei nativi americani) e incontra viaggiando per la Francia centrale e nord occidentale «tribù» di apolidi come lui, in perenne fuga. In Mange tes morts di Jean-Charles Hue, vincitore del Torino Film Festival 2014, i protagonisti sono addirittura due fratelli e un cugino gitani i quali, seppure in un contesto «a soggetto», mettono in scena se stessi. Delaporte sceglie nomadi stanziali, pronti però a spiccare il volo in qualsiasi momento, ritratti quindi in una sorta di falso movimento amplificato dall’attenzione ai mezzi di trasporto (le varie automobili dei «passaggi» a Victor, il motorino che finisce in mare in una sequenza magnifica, il fatto che sin dalla prima scena l’autostop sia per lui pratica abituale). Lo stesso arrivo del padre rappresenta la tappa di un viaggio anche metaforicamente in divenire: quello del ragazzino attraverso l’adolescenza e una piena consapevolezza identitaria e sentimentale (il rapporto con la coetanea gitana Luna, bello e fondamentale); quello del direttore d’orchestra verso la paternità; quello della madre nella malattia. Le varie traiettorie esistenziali trovano una compiuta soluzione nel finale, ed è sorprendente come la regia di Delaporte, sempre misurata ma non per questo meno emozionale, riesca a conferire intensità al racconto rendendolo essenziale e mai retorico nonostante la sua articolazione e le aperture al tragico. Forse è scontato pensare al primo Truffaut, come ha sostenuto a Venezia qualche commentatore. In realtà, la scrittura visiva della cineasta riesce a essere molto originale calibrando il legame tra ambiente, non estraneo all’impatto emozionale, e personaggi: più canonico, freddo e impersonale quello «naturale» del padre (il camerino, il teatro vuoto, il palcoscenico, la macchina di grossa cilindrata) e ovviamente più «sauvage» quello di Victor. Magnifici tutti gli interpreti, dalla coppia HesmeGadebois già protagonista di Angèle et Tony a Romain Paul, vincitore del Premio Marcello Mastroianni dedicato al miglior attore emergente. Mauro Gervasini VENEZIA ALIX DELAPORTE
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