Capitolo 1 (OCA) - Università degli Studi di Siena

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01/10/2014
Politica monetaria e fiscale dell’Unione Monetaria Europea
Dispense del prof. Sergio Cesaratto
[email protected]
AA 2014-15
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01/10/2014
INDICE
Capitolo 1
Sostenibilità delle unioni monetarie: la teoria delle aree valutarie ottimali
1.1.
What is the appropriate domain of a currency area? Il contributo base di Mundell
1.1.1.
Unioni monetarie fra paesi e fra regioni
1.1.2.
Aggiustamenti asimmetrici e tendenze deflazionistiche in un’unione valutaria
1.1.3.
Shock asimmetrici in un’unione valutaria: un’esposizione più standard
1.1.4.
La flessibilità del cambio è davvero efficace?
1.1.5.
Effetti flessibilità del cambio: un’esposizione più standard
1.1.6.
La mobilità del lavoro
1.2.
Sostenibilità di un’unione monetaria e diversificazione produttiva
1.3.
Unioni monetarie complete implicano un bilancio federale
1.3.1.
Fiscal capacity
1.3.2.
Bilancio federale e trasferimenti fiscali in Europa e negli Stati Uniti
1.3.2.
Trasferimenti fiscali fra regioni
1.4.
Perdita della sovranità monetaria e debito pubblico
1.5.
Unione monetaria e unione politica
1.6.
Perché prevalse l’idea di farla: l’influenza della teoria dominante (+ costi di
transazione).
Capitolo 2
Le idee che hanno influito nella creazione dell’UME
2.1.
Giustificazioni microeconomiche: diminuzione dei costi di transazione
2.2.
Giustificazioni macroeconomiche
2.2.1.
Differenze istituzionali nel mercato del lavoro.
2.2.2.
Politiche monetarie nazionali, coerenza temporale e credibilità (il modello di Barro &
Gordon)
2.2.3.
Modello B&G per economie aperte
2.2.4.
Credibilità e costo di un’unione monetaria
2.3.
Due diverse visioni della disoccupazione
2.4.
Movimenti di capitale compensatori di squilibri commerciali
2.5.
Una ragione più pragmatica per cui s’è fatto l’euro
2.6.
Aspetti politici del processo di unificazione europeo
2.7.
Euro e ultra-liberismo
Appendice 1 – Esposizione analitica del modello di Barro & Gordon
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Appendice 2 – Un importante documento preparatorio dell’UME
Capitolo 3
Sistemi di cambio fissi e loro sostenibilità
3.1.
Squilibri commerciali e regime di cambio
3.1.1. Cambi flessibili
3.1.2. Cambi fissi
3.2.
Il problema del paese n-esimo in un sistema di cambi fissi
3.2.1. Soluzione asimmetrica (egemonica)
3.2.2. Soluzione simmetrica (cooperativa).
3.3.
Vantaggi/svantaggi dell’asimmetria
3.4.
Le triadi impossibili dei cambi fissi
3.5.
Le triadi inquietanti
Capitolo 4
Origini della crisi europea, cambi fissi, movimenti di capitale e crisi finanziarie
4.1. Lo sviluppo della crisi europea
4.1.1. Sintesi interpretativa
4.1.2. Esame dei dati: l’andamento divergente delle partite correnti
4.1.3. Il lato dell’offerta
4.1.4. Il lato della domanda
4.1.5. Flussi di capitale, crescita e partite correnti: è sbagliata la realtà o la teoria?
4.1.6. Il ruolo della Germania
4.2.
La similarità della crisi europea con le precedenti crisi finanziarie
Capitolo 5
La transizione verso l’UM e gli accordi di Maastricht
5.1.
I criteri adesione all’UM nel Trattato di Maastricht
5.2.
Perché quei criteri?
5.2.1. Far convergere i tassi di inflazione
5.2.2. Convergenza bilanci pubblici
5.2.3. Convergenza tassi di cambio
5.2.4. Convergenza dei tassi di interesse
5.5.
La Banca Centrale Europea
5.5.1. Due modelli di banca centrale
5.5.2. Caratteristiche istituzionali della BCE
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5.5.3. Interessi nazionali e governo della BCE
Capitolo 6
Politica monetaria
6.1 - Politica monetaria – Obiettivi e regole
6.1.1. Regole di politica monetaria e il modello di inflation targeting
6.1.2. Obiettivi finali e intermedi della BCE
6.2 - Politica monetaria – Strumenti e obiettivi
6.2.1. Alcune relazioni di base
6. 2. 2. Moneta esogena e moneta endogena; sistema dei pagamenti e politica monetaria
6.2.3. Strumenti di politica monetaria e offerta di moneta
6.2.4. Strumenti di gestione della base monetaria
6.2.5. Domanda e offerta di riserve (base monetaria)
6.3.
Target 2, i “sudden stop” nei movimenti di capitale e la crisi europea
6.3.1. Sistema dei pagamenti e politica monetaria
6.3.2. Sistemi di regolazione dei pagamenti interbancari e TARGET 2
6.3.3. Sistemi di pagamento internazionali e TARGET 2
6.3.4. TARGET 2 e la crisi europea
6.4.
La politica monetaria europea nella crisi
6.4.1. Revisione degli strumenti standard della BCE
6.4.2. Le politiche non-convenzionali adottate dalla BCE dal 2008
6.5.
Su alcune differenze fra BCE e FED e il Quantitative Easing
6.5.1. La trasmissione della politica monetaria prima e dopo la crisi
6.5.2. Differenze nelle modalità di reazione della BCE e della Fed alla crisi
6.5.3. Il “quantitative easing
6.5.4.
La restituzione dei fondi LTRO
6.5.5. Le misure della BCE del giugno/settembre 2014: il TLTRO
Capitolo 7
Politica fiscale
7.1.
La “filosofia” della politica economica europea e l’assenza di coordinamento fra politica
fiscale e monetaria nell’UME
7.2.
Una politica fiscale fatta di vincoli: il Patto di Stabilità e Crescita
7.3.
Perché l’UME non ha un bilancio federale e le ragioni dei vincoli fiscali
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7.3.1. Perché l’Europa non ha un (serio) bilancio federale
7.3.2. Contabilità del rapporto debito pubblico/Pil
7.3.3. Perché i vincoli fiscali: il punto di vista dominante
7.3.4. I rischi di un elevato debito pubblico: default versus convertibilità risk
7.3.5. Conclusioni circa la “desiderabilità” di vincoli fiscali
7.4.
La “riforma” del PSC e l’attuale intricata governance europea - “crisis prevention” e “crisis
management”
7.5.
Crisis prevention e coordinamento macroeconomico
7.5.1. Il Semestre europeo
7.5.2. Il Six-pack
7.5.3. Il Two-pack
7.5.4. Il Fiscal Compact
7.5.5. Macroeconomic Imbalance Procedure (MIP)
7.6.
Crisis management: EFSF e ESM
7.6.1. EFSF
7.6.2. ESM
7.7.
Dibattito su moltiplicatori fiscali e austerità espansiva
7.7.1. I moltiplicatori fiscali
7.7.2. L’austerità espansiva
7.7.3. Perché il fiscal compact non può funzionare
Capitolo 8
La matassa ingarbugliata della Banking Union
8.1.
Cos’è una crisi bancaria
8.2.
Stati Uniti ed Eurozona a fronte di una crisi bancari
8.3.
Il “doom loop” fra Stati e banche
8.4.
La necessità di una Unione Bancaria europea
8.5.
La logica dei pilastri
8.6.
Cosa ha fatto l’Europa in direzione della UB?
8.6.1. SSM affidato alla BCE
8.6.2. La Banking Recovery and Resolution Directive
8.6.3. Il SRM
8.6.4. SSM - Passaggio di consegne alla BCE e stress-test preliminare sulla capitalizzazione delle banche
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Istruzioni importanti
L’esame è in forma scritta su temi aperti. E’ prevista una prova intermedia. Sebbene non
obbligatorio, gli studenti possono trovare utile studiare anche su P.De Grauwe, Economia
dell’unione monetaria, Il mulino 2013.
Si prega vivamente di fissare il ricevimento su appuntamento scrivendo con congruo anticipo alla
mail [email protected]. Il professore risponderà tempestivamente a ogni quesito posto per e mail.
Durante il corso saranno probabilmente apportate modifiche, correzioni e aggiornamenti alle
dispense. Sarà cura del docente apportarle in colore rosso sì da facilitarne l’individuazione.
Fa parte del programma il ripasso della macroeconomia che può esser svolta sul libro su cui la si è
studiata, oppure sulle dispense messe a diposizione nella pagina web del docente. Per comprendere
l’impostazione keynesiana del corso è obbligatorio lo studio del saggio:
http://politicaeconomiablog.blogspot.it/2014/03/la-critica-delleconomia-politica-ieri.html.
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Capitolo 1
Sostenibilità delle unioni monetarie: la teoria delle aree valutarie ottimali1
La prima ed evidente questione che si deve affrontare in merito a un’unione monetaria (UM)
è se la sua costituzione arrechi o meno dei vantaggi economici e sociali. Da questi dipenderà, da
ultimo, se essa potrà o meno anche condurre a vantaggi politici, vale a dire a una spinta verso una
maggiore unità politica fra i paesi membri. In assenza di tali vantaggi sarebbe dunque sconsigliabile
procedere verso l’unificazione monetaria in quanto l’esito potrebbe essere una maggiore disunione
politica, dunque l’arretramento del processo di unificazione politica. I termini della questione
potrebbero però essere rovesciati. Laddove vi fosse una forte spinta politica all’unificazione
politica, la solidarietà fra i paesi membri può portare a misure tali da attenuare gli eventuali
svantaggi del’unione monetaria. Errato sarebbe tuttavia ritenere che l’unificazione monetaria di per
sé, vale a dire senza tener conto dei suoi possibili svantaggi, possa condurre a una maggiore
unificazione politica. Purtroppo, come vedremo, quest’ultimo errore è stato compiuto, in buona o
cattiva fede, dai governanti europei, nonostante gli avvertimenti di molti economisti.
Infatti il tema di una possibile unificazione monetaria europea è assai antico, risale infatti
agli albori del processo di unificazione economica, dunque agli anni 1950.2 Sin d’allora gli
economisti si sono dunque occupati del tema se l’Europa fosse o meno una’area valutaria ottimale
(AVO o Optimal Currency Area od OCA)), se cioè costituisse un’area alla quale un’unificazione
valutaria avrebbe arrecato benefici netti. La risposta sembro essere stata piuttosto negativa. 3 In
1
Per confronto, si vedano anche i capitoli 1-4 di De Grauwe (2013), in particolare il capitolo 1.
2
Le vicende dell’unificazione economica europea sono ben narrate in G.Montani, L’economia
politica dell’integrazione europea, UTET, Novara, 2008.
3
La teoria delle AVO influenzo l’opinione, generalmente scettica, degli economisti americani
sull’unificazione monetaria europea. Un’utile rassegna al riguardo
è:http://ec.europa.eu/economy_finance/publications/publication_summary16343_en.htm che,
pubblicata nel 2009, sembra celebrare l’euro come un successo e una smentita dello scetticismo
americano. Un argomento spesso presentato è che gli economisti americani volevano difendere il
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questo capitolo esamineremo alcuni importanti contributi al dibattito e cercheremo di spiegare
perché negli anni 1980 prevalse un punto di vista diverso.
1.1. What is the appropriate domain of a currency area? Il contributo base di Mundell
Mundell (1961) definisce “currency area” un insieme di regioni che fissano i propri tassi di cambio
e, al limite, adottano una moneta unica. Per le ragioni che vedremo, una regione è inoltre definita
come quella all’interno della quale c’è mobilità dei fattori, mentre fra regioni non c’è mobilità dei
fattori (ibid:658, n.6). Il quesito che Mundell si pone è dunque:
What is the appropriate domain of a currency area? (ibid: 41)
1.1.1. Unioni monetarie fra paesi e fra regioni
L’autore confronta la situazione di due paesi legati da un accordo di cambi fissi a quella di due
regioni all’interno di una medesima nazione. Le nazioni/regioni sono fra loro disomogenee in
termini di prodotti. Nel suo ragionamento Mundell ha in mente economie vicine alla piena
occupazione,4 per cui spostamenti della domanda da una nazione/regione all’altra tendono a
generare inflazione nella nazione/regione che beneficia dell’aumento di domanda per i propri
prodotti.
Mundell (ibid: 657) comincia col caso di due paesi, ciascuno con la propria divisa e accordo di
cambio, supponendo che si verifichi uno spostamento della domanda dal paese B al paese A. Egli
propone questo ragionamento:
Suppose first that the entities are countries with national currencies. The shift of demand from
B to A causes unemployment in B and inflationary pressure in A. To the extent that prices are
allowed to rise in A the change in the terms of trade will relieve B of some of the burden of
adjustment. But if A tightens credit restrictions to prevent prices from rising all the burden of
adjustment is thrust onto country B; what is needed is a reduction in B's real income and if this
cannot be effected by a change in the terms of trade - because B cannot lower, and A will not
raise, prices – It must be accomplished by a decline in B's output and employment. The policy
of surplus countries in restraining prices therefore imparts a recessive tendency to the world
economy on fixed exchange rates or (more generally) to a currency area with many separate
currencies.
In sostanza se c’è quello che i “moderni” libri di testo chiamano uno “shock asimmetrico” a sfavore
dei prodotti del paese B a favore di quelli del paese A, la nazione avvantaggiata dovrebbe
ruolo esclusivo del dollaro come moneta di riserva internazionale. In verità essi sembrano aver
predetto i risultati dell’euro meglio di molti colleghi europei.
4
Si ricordi che nel 1961 siamo nel pieno dell’epoca Keynesiana, e anche Mundell appare molto
meno conservatore di quanto si rivelerà successivamente.
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idealmente lasciar correre domanda interna e inflazione, lasciar apprezzare il proprio tasso di
cambio reale e perdere competitività a favore della nazione svantaggiata sì da accrescere le proprie
importazioni e diminuire le proprie esportazioni. Sulla base dell’esperienza storica Mundell sembra
pessimista che ciò accada.5 Quello che più probabilmente potrebbe accadere è che il paese B sia
costretto a politiche recessive allo scopo di ridurre le proprie importazioni e riequilibrare la bilancia
commerciale. Ciò avrà effetti negativi anche sul paese in surplus, che vedrà calare le proprie
esportazioni (la “recessive tendency” di cui parla Mundell nel passo ora citato).
A commento analitico osserviamo i seguenti punti:
-
Il tasso di cambio reale, che sappiamo essere un indicatore di competitività, è in questo
caso definito come er = pAen/pB, dove en è il tasso di cambio nominale, e pA e pB sono,
rispettivamente, il livello dei prezzi nei paesi A e B. Poiché en è fissato dall’accordo di
cambio, il paese A perde competitività se pA aumenta.
-
Segiendo la teoria monetarista, in un sistema di cambi fissi, in maniera del tutto simile al
gold standard, il paese in disavanzo commerciale (o più in generale di partite correnti)6
vede diminuire la propria base monetaria, mentre il paese in avanzo la vede aumentare.
Già questo induce una tendenza deflazionistica in B e una inflazionistica in A.7 Inoltre
per evitare una svalutazione della propria divisa, B innalzerà il tasso di interesse per
attirare capitali atti a finanziare il disavanzo estero, mentre, simmetricamente il paese A
dovrebbe diminuire i propri tassi per evitare una rivalutazione della propria valuta. I
movimenti del tasso di interesse agevolano così l’aggiustamento commerciale che si
svolge sia dal lato del paese in disavanzo che di quello in avanzo. Il paese in disavanzo
importerà di meno nel breve periodo per la caduta del reddito – generata dagli effetti
negativi dell’aumento del tasso di interesse sulla domanda aggregata e da una eventuale
5
Al riguardo Mundell cita il comportamento “non cooperativo” di Francia e Stati Uniti, i paesi in
surplus negli anni precedenti la grande crisi, e quello della Germania negli anni 1950 nei quali
aveva già accumulato forti surplus commerciali proprio attraverso un attento controllo che
l’inflazione interna si mantenesse inferiore q quella dei concorrenti (si v. al riguardo Cesaratto &
Stirati 2011: ).
6
Un iniziale disavanzo commerciale, se persiste, determina una posizione netta sull’estero negativa
(indebitamento netto) e un pagamento di interessi sull’estero che, aggiungendosi al disavanzo
commerciale, aggrava il disavanzo delle partite correnti).
7
Questa visione è un po’ meccanica. Non è infatti detto che all’aumento di base monetaria (via
canale estero) e a una eventuale diminuzione del tasso di interesse nel paese A segua una maggiore
domanda di credito e una espansione della domanda aggregata. Sì può però ammettere che se il
paese A è vicino al pieno impiego, l’aumento della domanda dall’estero potrà generare tendenze
inflazionistiche. Queste saranno ancora più accentuate se il paese A agisce in modo da riequilibrare
le bilance commerciali attraverso una politica fiscale espansiva. Mundell è pessimista che ciò
accada, anzi il paese A potrà adottare politiche volte a impedire un rialzo dell’inflazione.
10
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politica fiscale restrittiva - e riguadagnerà nel medio periodo competitività di prezzo per
la minore inflazione; simmetricamente il paese in avanzo importerà di più per
l’espansione della domanda interna e perderà competitività di prezzo nel medio periodo.
-
Il paese A potrebbe, tuttavia, sterilizzare l’aumento di base monetaria dovuto al surplus
commerciale impedendo in tal modo la spinta all’aumento della domanda interna e
all’inflazione. Se inoltre esso fosse il cosiddetto “paese ennesimo”, quello rispetto alla
cui valuta gli altri paesi fissano il cambio,8 esso non avrebbe necessità di evitare una
rivalutazione del proprio cambio (in violazione dell’accordo di cambio), e saranno i
paesi in disavanzo a dover accrescere i propri tassi di interesse per evitare una
svalutazione della propria. In tal modo il peso dell’aggiustamento sarebbe
completamente sui paesi in disavanzo.
Mundell ritiene dunque che, probabilmente, l’aggiustamento ricadrà su prezzi e salari del
paese in disavanzo che riguadagnerà competitività attraverso un deprezzamento del proprio tasso di
cambio reale. Nel dibattito corrente questa viene definita “svalutazione interna” per contrapporla
alla tradizionale svalutazione “esterna” del tasso di cambio nominale. Riprenderemo fra poco le
difficoltà che tale aggiustamento può comportare. Dapprima esaminiamo il caso simmetrico di due
regioni all’interno di un medesimo paese. La differenza è qui che l’appartenenza a una medesima
nazione implica una qualche forma di solidarietà fra le regioni che si manifesta, nell’illustrazione di
Mundell, nell’accettazione da parte della regione in surplus di politiche espansive.9 La situazione è
ora quella di:
regions within a closed economy lubricated by a common currency; and suppose now that the
national government pursues a full-employment policy. The shift of demand from B to A
causes unemployment in region B and inflationary pressure in region A, and a surplus in A's
balance of payments." To correct the unemployment in B the monetary authorities increase the
money supply. The monetary expansion, however, aggravates inflationary pressure in region
A: indeed, the principal way in which the monetary policy is effective in correcting full
employment in the deficit region is by raising prices in the surplus region, turning the terms of
trade against B. Full employment thus imparts an inflationary bias to the multiregional
economy or (more generally) to a currency area with common currency. (ibid: 658-59)
L’impegno alla piena occupazione – ricordiamo che Mundell scrive peraltro nel 1961 quando
questo impegno era prioritario in seguito alla sfida del modello socialista – implica politiche
espansive che, in particolare, farebbero crescere l’inflazione nelle sub-regioni in piena occupazione,
8
Per esempio gli n-1 paesi paesi potrebbero fissare il tasso di cambio rispetto al dollaro (o
qualunque altra valuta di rifrimento).
9
Vedremo come un riequilibrio si possa avere non solo con politiche espansive da parte delle
regioni più competitive, ma anche con trasferimenti inter-regionali
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e se l’elasticità al prezzo della domanda dei prodotti delle due regioni è elevata, ciò può condurre al
riequilibrio.10
Confrontando i due casi, quello di nazioni che stringano accordi di cambio e quello di regioni
all’interno di una medesima nazione, Mundell intravede dunque una tendenza deflazionistica nel
primo caso e una inflazionistica nel secondo concludendo dunque che:
The optimum currency area is not the world. (ibid: 659)11
Potremmo esporre il ragionamento di Mundel in forma grafica (fig. J). Lo shock di domanda
di prodotti rispettivamente negativo per l’Italia e positivo per la Germania si manifesta della parte
superiore della figura come uno spostamento verso sinistra della curva IS italiana e verso destra di
quella tedesca.12 Dato il comune tasso di interesse, l’output cade in Italia e aumenta in Germania.
Nella parte inferiore sono mostrate le curve di Phillips (le rette tratteggiate che legano i livelli di
reddito nella parte superiore del grafico ai tassi di disoccupazione nella parte inferiore sono solo
indicativi di un collegamento: tanto più alto è il reddito tanto minore il tasso di disoccupazione). Al
principio i due paesi hanno il medesimo tasso di inflazione. In seguito allo shock asimmetrico il
tasso di inflazione tende a diminuire in Italia e ad aumentare in Germania. Se questo accade, il
livello relativo dei prezzi fra i due paesi si riaggiusta in maniera tale che il tasso di cambio reale
dell’Italia diminuisce, vale a dire essa riacquista competitività (per esercizio lo si verifichi
guardando alla formula er = pAen/pB). Con la ripresa delle esportazioni italiane e con la diminuzione
di quelle tedesche le funzioni IS torneranno nelle loro posizioni originarie. 13
10
Ciò non è detto, come ben sappiamo dall’esistenza di fenomeni di persistente arretratezza
economica come nel Mezzogiorno d’Italia.
11
Un problema delle UM che è meno notato è quello del cambio esterno dell’UM, vale a dire verso
paesi terzi. Come nota Meade (1957: 387) e sopratutto Fleming (1971: 469), i paesi membri di una
UM potrebbero avere interessi divergenti circa il tasso di cambio esterno. I paesi con surplus
commerciali esterni potrebbero per esempio osteggiare la richiesta di una
svalutazione/deprezzamento del cambio da parte dei paesi in disavanzo. Tale situazione è
certamente parte delle attuali criticità dell’Eurozona.
12
La posizione nello spazio della funzione IS dipende, com’è noto, anche dal livello delle
esportazioni.
13
Per semplicità ci riferiamo qui e altrove al caso di due paesi. Attraverso la deflazione dei prezzi
peggioreranno le ragioni di scambio per il paese in disavanzo il quale dovrà cedere una quantità
maggiore dei propri beni esportati (ceduti a un prezzo minore) in cambio della medesima quantità di
beni dal paese in surplus. Questo comporta naturalmente una caduta del reddito reale nel paese in
disavanzo che dovrà rinunciare a consumare parte dei beni che produce per accrescere, appunto, la
quantità di beni da cedere al paese in avanzo.
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i
i
IS0
IS1
i0
IS1
IS0
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p I
p G
p 1G
p G0
p I0
p 1I
uI
uG
Fig. J
La studentessa si può però domandare: ma se si torna allo status quo ante, i tassi di
inflazione non tornano anch’essi al livello precedente? In verità affinché la diminuzione
dell’inflazione in Italia (e l’aumento in Germania) siano permanenti, le due curve di Phillips si
devono spostare. Illustriamo questo punto considerando il caso in cui, secondo le aspettative di
Mundell, la Germania opera una contrazione della domanda interna in maniera da impedire
l’aumento dell’output, la diminuzione della disoccupazione e la maggiore inflazione, sicché
l’aggiustamento ricade esclusivamente sull’Italia. Essa dovrebbe dunque conseguire un
aggiustamento dei prezzi assai maggiore al costo di un più elevato e prolungato periodo di più
elevata disoccupazione. Questa prolungata ed elevata disoccupazione rende più docile, per così dire,
le forze di lavoro per cui la curva di Phillips si abbassa (vale a dire a parità di tasso di
disoccupazione salari nominali e prezzi crescono a un tasso minore). Nella figura G, la Germania
rimane nell’equilibrio iniziale A. L’Italia passa dapprima in B, ma recuperando competitività via
minore inflazione torna in A con una curva di Phillips “più bassa”.
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i
i
IS0
i0
B
A
IS1
A
IS0
YI
YG
p I
p G
p I0
p G0
p 1I
uI
uG
Fig. G
1.1.2. Aggiustamenti asimmetrici e tendenze deflazionistiche in un’unione valutaria
In un importante contributo Fleming (1971) concorda con la conclusione di Mundell, da un lato,
circa una tendenza deflazionistica in aree valutarie in cui la conduzione della politica monetaria e
fiscale non sia coordinata al sostegno della piena occupazione nell’insieme dell’area e, dall’altro,
circa una tendenza inflazionistica laddove tale coordinamento e sostegno si manifestasse (ibid: 4812).
Considerando il primo caso di Mundell, quello di un’unione valutaria fra paesi, Fleming
(1971) ritiene che alla base degli squilibri vi possano essere i differenti tassi di inflazione associati
ai livelli di piena occupazione nei diversi paesi membri (ibid: 468-9). In altri termini ciascun paese
membro potrebbe avere una differente curva di Phillips. Politiche di mantenimento della piena
occupazione, poiché associate a variazioni nei tassi di cambio reali e a squilibri nella competitività
relativa fra paesi, richiederebbero flessibilità nei cambi nominali. In loro assenza e data la rigidità
verso il basso che prezzi e salari mostrano nelle moderne economie (ibid: 471) appare, tuttavia,
difficile affidare l’aggiustamento alla flessibilità dei prezzi e salari nei paesi in disavanzo. In
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assenza di un atteggiamento “cooperativo” dei paesi in avanzo, ciò implica che i paesi in disavanzo
si troveranno con persistenti tassi di disoccupazione indesiderati (in modo da rendere il proprio
tasso di inflazione simile a quello dei paesi più virtuosi nella relazione disoccupazione /inflazione
espressa nella curva di Phillips) (ibid: 481-2).
Possiamo offrire un’esposizione più analitica di quanto detto. Si suppongano due paesi
(Italia e Germania). Ricordando la determinazione dei prezzi via mark-up (  ) per cui
p
w
(1   ) , dove q è il prodotto per lavoratore ( q = Y/N).14
q
Applicando le derivate logaritmiche per ciascun paese otteniamo:
p I  w I  q I
p G  w G  q G
q è il tasso di variazione della produttività (prodotto per lavoratore). Le equazioni definiscono i
tassi di variazione dei prezzi che, dato il tasso di variazione dei salari nominali e della produttività,
mantengono costante la quota dei profitti sul reddito (infatti:   1 w/ p ). Per esempio, se dq/dt
q
= 2%, dw/dt = 5%, ne segue che dp/dt deve essere pari al 3%. Se invece q  w ne risulta p  0 .
Nel lato destro della figura H abbiamo la curva di Phillips. Sull’asse verticale il tratto OH
indica il tasso di aumento della produttività che è un dato sia per G che per I. La retta sulla sinistra
indica il corrispondente aumento dei prezzi a fronte di un aumento dei salari nominali.
14
In pratica il prezzo è fissato applicando al costo del lavoro per unità di prodotto w/p (CLUP o unit
labour cost ULC) un ricarico  .
15
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w G
C
H
B
q G
pG
O
uG
w F
A
C’
H
q I
pI
O
uI
Fig. H
Supponendo che i prezzi nei due paesi debbano essere i medesimi, ovvero epI  pG , dove e
è il tasso di cambio nominale,15 si ha:
e  p I  p G .
Se p I  p G l’Italia manterrà la competitività di prezzo se e > 0, vale a dire se il cambio lira/DM
deprezza (più lire per un DM). Così se l’Italia sceglie il punto A e la Germania il punto B si renderà
necessario un deprezzamento della lira. Se ciò non avviene il tasso di cambio reale aumenta e
l’Italia perderà competitività. Un’UM non sarebbe sostenibile in tali condizioni. Solo una
condizione intermedia, con la Germania in C e l’Italia in C’ renderebbe l’UM tollerabile. Le
politiche tedesche negli anni dell’UME sono andate tuttavia precisamente in senso opposto.
15
Se epI  pG , il tasso di cambio reale er = ePI/PG è uguale a 1.
16
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 G  qG , in Italia si avrà
Supponendo che in Italia si abbia w I  q I . mentre in Germania w
p I costante mentre in G p G diminuisce sottraendo competitività all’Italia. Questa a detta di alcuni
è stata la condotta tedesca negli anni dell’UME. L’obiettivo di inflazione media europea era del 2%
mentre la Germania, anche in virtù di importanti riforme del mercato del lavoro, è riuscita a
mantenersi costantemente al di sotto. Naturalmente quello del 2% non era un criterio che Trattati
europei chiedevano ai paesi esplicitamente di rispettare, ma secondo alcuni economisti era pur
tuttavia implicito laddove si fosse voluta assicurare un’esistenza armonica dell’UME.
Per saperne di più:
http://www.rosalux.de/fileadmin/rls_uploads/pdfs/Studien/Studien_The_systemic_crisis_web.pdf
Lettura: da Fleming (1971)
disequilibrium might arise because differences between participants in the strength of trade unionism, in
national attitudes to full employment or inflation, or in the rates of productivity growth, led to differences in
the rates at which wage costs tend to rise at the nationally preferred levels of unemployment.
If the participating countries remained free to meet incipient disequilibria by altering their exchange rates
relative to each other and to outside countries they would be able, by non-recurrent or by repeated
adjustments of par values, to maintain or restore payments equilibrium while preserving levels of aggregate
demand compatible with the nationally preferred com-promises between full employment and price stability.
If, however, such adjustments were precluded by adherence to a group with fixed relative exchange rates,
then, if the external payments and receipts of the group as a whole were kept in balance through suitable
adjustments of the uniform exchange rates, participants in a relatively weak payments position would tend to
be in overall payments deficit, and those in a relatively strong position would tend to be in overall surplus.
The former, after they had exhausted their ability to run down reserves or to borrow, would be forced to
tolerate, either temporarily or even (in the case of dynamic disequilibrium) indefinitely, a level of
unemployment that was higher, and a rate of inflation that was lower, than would correspond to their
preferred compromise between the two. The latter, on the other hand, might be compelled, through a
technical inability to offset the effect of their surpluses on money stocks or flows, or through unwillingness
to go on financing the accumulation of reserves by government borrowing from the private sector, to permit
a rate of price inflation greater, and a level of unemployment lower, than would correspond to their preferred
compromise between the two. (ibid: 468)
Where tendencies towards progressive relative disequilibrium existed within a unified exchange rate area
because some of the participating countries had more favourable unemployment/inflation relationships than
others, the following situation would tend to emerge and persist. Much the same rate of price inflation would
prevail over the area as a whole, a rate somewhat higher than that preferred by the surplus members. The
deficit members would be able to keep their rates of inflation down to the common level only by tolerating
17
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indefinitely a level of unemployment higher than they would prefer if they were free to change their
exchange rates and adopt their preferred positions on the unemployment/inflation curve. (ibid: 469).
…the fixation of exchange rates among a group of countries will probably worsen the
unemployment/inflation relationship for the area as a whole. That is, it will increase the amount of
unemployment required to hold inflation at any given rate, and will increase the rate of inflation
corresponding to any given level of unemployment. It does not follow that both inflation and
unemployment must necessarily rise. In any arrangement in which the maintenance of a fixed
exchange rate is given overriding priority the countries in payments surplus can usually maintain
the rate by accumulating reserves while those in payments deficit may lack the reserves to spend in
maintaining the rate. So long as demand management remains a national responsibility, and any
balance of payments assistance among members is held to modest proportions, therefore, the deficit
rather than the surplus countries are likely to have to assume the greater
part of the burden of removing the payments disequilibria by adapting the level of demand. The surplus
countries may be able to stay fairly close to the preferred point on their employment/inflation curves while
the deficit countries may have to depart considerably from theirs in a deflationary direction. In this event, the
entire worsening in the unemployment/ inflation relationship in the area as a whole may take the form of
increased unemployment, and the average rate of inflation in the area may decline. …
What has been said above about the disinflationary effects to be expected from adherence to a fixed
exchange rate area is true only so long as it operates in a decentralised fashion without too generous
arrangements for financial assistance from surplus to deficit countries and without effective
centralisation of monetary and budgetary policies. Should such centralisation prevail, the antiinflationary tendencies inherent in fixed parities may be offset or even outweighed by expansionary action on
the part of the central authorities. Mere fixity of exchange rates, as we have seen, would be likely to force the
deficit countries within the area to pursue policies involving more unemployment and less inflation (or more
deflation) than they would voluntarily have adopted in the absence of payments difficulties. In these
circumstances it would not be unreasonable for any central monetary or financial authority to expand
demand to a point at which the " surplus " countries were suffering as much from unwanted inflation as the
deficit countries from unwanted unemployment. (ibid: 481-2).
Alla luce delle tendenze deflazionistiche che un’unione valutaria può comportare per i paesi in
disavanzo e che, da ultimo, si trasmette all’intera area valutaria,16 non sorprende dunque che
Mundell abbia accostato le tendenze deflazionistiche di un’unione valutaria a quelle del gold
standard. In questo senso Mundell argomenta come:
16
La deflazione nei paesi in disavanzo comporta infatti una diminuzione del commercio
internazionale svantaggiando così anche i paesi in surplus.
18
01/10/2014
many economists blamed for the world-wide spread of depression after 1929. But if the
arguments against the gold standard were correct, then why should a similar argument not
apply against a common currency system in a multiregional country? Under the gold standard
depression in one country would be transmitted, through the foreign-trade multiplier, to
foreign countries. Similarly, under a common currency, depression in one region would be
transmitted to other regions for precisely the same reasons. If the gold standard imposed a
harsh discipline on the national economy and induced the transmission of economic
fluctuations, then a common currency would be guilty of the same charges… (Mundell 1961:
660)
Questo passo è importantissimo perché mostra che l’assimilazione al gold standard di una UM mal
concepita - senza cioè le istituzioni che ne correggano le possibili problematiche negative – risale
a Mundell 1961. 17
Da notare come lungi da credere ciecamente nelle virtù taumaturgiche della flessibilità dei
prezzi e salari nel paese deficitario, e a maggior ragione se questo è costretto a manovre recessive
sulla domanda aggregata, il Mundell “più keynesiano” dei primi anni 1960 cita il “foreign-trade
multiplier” come meccanismo di trasmissione internazionale della recessione.18 Torneremo
sull’assimilazione al gold standard dell’unione monetaria.
Box – I costi della deflazione
Sia Mundell che Fleming sembrano riporre fiducia nella potenziale flessibilità di prezzi e salari nel
riaggiustare l’equilibrio in un’unione valutaria fra due paesi. In questo essi sembrano trascurare gli
17
Mundell segnala una differenza fra il gold-standard (e anche un sistema di cambi fissi) e una
unione monetaria: in quest’ultima la nazione/regione deficitaria non soffre di crisi di liquidità
(perdita di oro o di riserve internazionali convertibili in oro) in quanto le banche possono affidarsi
alla creazione di liquidità da parte della banca centrale (come fa, come vedremo, l’Eurosistema).
Ma ciò, dice Mundell, non cambia l’essenza della questione, ovvero il fatto che alla lunga il paese
deficitario deve aggiustare i propri conti esteri: “It is true, of course, that interregional liquidity can
always be supplied by the national central bank, whereas the gold standard and even the goldexchange standard were hampered, on occasion, by periodic scarcities of internationally liquid
assets; but the basic argument against the gold standard was essentially distinct from the liquidity
problem.” (660). Circa la distinzione fra sistema a cambi fissi e unione monetaria, v. Cesaratto 2013
mimeo (T2).
18
Livello del prodotto (e relativo tasso di crescita) in un paese sono vincolati nel lungo periodo al
rispetto del pareggio della bilancia dei pagamenti (per evitare un crescente indebitamento estero).
Secondo l’approccio Kaldor-Thirlwall, l’ammontare e tasso di crescita delle esportazioni vincola in
tal modo livello e tasso di crescita del prodotto. Dal modello:
M = mY
E= E
E = M (equilibrio commerciale)
si deriva Y = E /m (moltiplicatore del commercio estero), ovvero Y  E . Nel caso di più paesi,
politiche deflative in un paese B si ripercuotono sul paese A che vede calare le proprie esportazioni.
19
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effetti negativi della deflazione nel paese in disavanzo. Tali effetti negativi si manifestano in
svariati modi:
- il valore reale dei debiti di famiglie e imprese aumenta, incluso il valore reale del debito estero se
va restituito al cambio fisso. Ciò induce i soggetti indebitati – che vedono diminuire i propri introiti
nominali, ma non il valore nominale del servizio del debito – a stringere la cinghia, aggravando la
spirale recessiva.
- quando i prezzi cadono famiglie e imprese pospongono gli acquisti in attesa di prezzi più bassi.
- tassi di inflazione bassi o negativi accrescono il saggio reale di interesse scoraggiando la spesa
finanziata dal credito.
La deflazione implica così ulteriore contrazione del mercato interno e ciò comporta la perdita di
economie di scala e di produttività anche per le imprese esportatrici, costrette a un confronto impari
con le imprese dei paesi in surplus.
Si veda al riguardo il bell’articolo di Fernando Vianello
http://politicaeconomiablog.blogspot.it/2013/11/krugman-e-vianello-sulla-deflazione.html
1.1.3. Shock asimmetrici in un’unione valutaria: un’esposizione più standard (DG)
Un’esposizione più standard del modello di Mundell utilizza l’apparato convenzionale delle curve
AS-AD (v. per esempio De Grauwe 2013, cap. 1). Si supponga che Francia e Germania formino
un’unione monetaria (fig. M). Uno shock asimmetrico sposta la domanda di prodotti dalla F verso
la G (per esempio a causa di un mutamento dei gusti o un’innovazione nei prodotti tedeschi).
PF
PG
AD1
AD0
AS
AD0
AD1
AS
P0
YF
YF1
YF0
YG
YG0
Fig. M
YG1
20
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Assumendo che vi sia piena occupazione si genera un aumento della disoccupazione in Francia e
inflazione in Germania. L’aggiustamento può avvenire attraverso una variazione dei salari relativi:
wF diminuisce e wG aumenta per cui le funzioni AS si spostano – quella della Francia verso il basso
e quella della Germania versi l’alto - sino a ristabilire il livello iniziale dei rispettivi redditi e
l’equilibrio commerciale (quest’ultimo non visibile nella figura K).
PF
PG
PG1
AD1
EG AS1
AS0
AD0
P0
E
PF1
E
EF
AS0
AD0
AS1
YF0
AD1
YG0
Fig. K
Il prezzo dei prodotti francesi è diminuito e quello dei prodotti tedeschi aumentato per cui la
Francia ha perso ragioni di scambio con la Germania.
La ragione di scambio è data dal tasso di cambio reale.
Er
E n PF
PG
A parità di tasso nominale, se PF diminuisce, i francesi dovranno cedere più prodotti in
cambio della medesima quantità di merci tedesche.
L’equazione del tasso di cambio reale mostra come tale riaggiustamento nelle ragioni di
scambio sia alternativamente ottenibile con un mutamento del tasso di cambio nominale
(impossibile però in una unione valutaria).
1.1.4. La flessibilità del cambio è davvero efficace?
Nel saggio di Mundell – e in genere nella letteratura originaria sulle OCA – c’è fiducia che
mutamenti del tasso di cambio reale, ottenuti via svalutazione interna (deflazione di prezzi e salari
21
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nel paese in deficit)19 o esterna (via variazioni del tasso di cambio nominale) possa ripristinare
l’equilibrio. Spesso con riferimento al classico articolo di Friedman 1953, la svalutazione esterna è
tuttavia ritenuta più efficace della svalutazione interna:20
In the international trade example, if demand shifts from the products of country B to the
products of country A, a depreciation by country B or an appreciation by country A would
correct the external imbalance and also relieve unemployment in country B and restrain
inflation in country A. This is the most favourable case for flexible rates based on national
currencies. (Mundell 1961: 659)
Nei termini della fig. J, l’aggiustamento del cambio fra Italia e Germania ripristinerebbe le funzioni
IS loro posizione originaria, ovvero nei termini della fig. M le funzioni AD nella loro posizione
iniziale.
Il dibattito fra gli economisti è da sempre molto vivo sugli effetti degli aggiustamenti di
cambio. Coloro che ritengono che tali aggiustamenti siano inefficaci nel lungo periodo basano tale
conclusione sul fatto che l’aumento del prezzo dei beni importati che consegue a un
deprezzamento/svalutazione della valuta può determinare un aumento dei salari monetari, volto al
recupero del potere d’acquisto, tale da annullare i vantaggi dell’aggiustamento.21 Viene talvolta
citata l’esistenza sempre maggiore delle “catene globali del valore”, per cui un prodotto del paese X
ha un fortissimo contenuto di componenti provenienti dal paese Y, Z ecc. Per cui una svalutazione
della divisa del primo paese rispetto agli altri comporterebbe un aumento dei costi di produzione del
19
Come sopra illustrato, la deflazione nel paese in disavanzo (o la svalutazione esterna) sarà tanto
minore quanto più il paese in avanzo lascia espandere la propria domanda interna e inflazione.
20
Si osservi che sebbene una svalutazione esterna conduca in genere a un aumento dell’inflazione a
causa dell’aumento di prezzo in moneta nazionale dei beni importati, questo diminuisce il valore
reale dei debiti interni (che sono denominati in valuta nazionale), e non lo accresce come nel caso
della svalutazione interna. Si accresce però il valore reale dei debiti esterni se denominati in valuta
estera.
21
Gli effetti benefici degli aggiustamenti sulla competitività di prezzo possono naturalmente essere
insufficienti a compensare gli svantaggi sulla qualità dei prodotti esportati. Se però l’iniziale
svantaggio competitivo del paese in disavanzo è stato causato da un suo più elevato tasso di
inflazione (e non da uno svantaggio relativo alla concorrenzialità nella qualità dei prodotti),
l’aggiustamento di cambio può essere, ceteris paribus, efficace. Nel caso dell’Italia negli anni
dell’euro, per esempio, si potrebbe ritenere che la sua perdita di competitività sia stata soprattutto
dovuta al suo zoccolo inflazionistico rispetto ai concorrenti piuttosto che all’obsolescenza del mix
produttivo (che, seppur concentrato in settori tradizionali, ha anche aspetti di innovatività, design,
ecc) o ad andamenti divergenti della produttività, almeno nei periodi in cui la domanda aggregata
l’ha sostenuta. Si può anche ritenere che in caso di shock relativi a linee di prodotto che diventano
meno richieste, una svalutazione possa rafforza la competitività delle linee di prodotti ancora
concorrenziali.
22
01/10/2014
prodotto in oggetto. Nel caso dell’Italia, tuttavia, c’è da chiedersi se questo argomento, forse valido
per le grandi imprese multinazionali, si applichi al tessuto delle piccole e medie imprese.
Gli effetti della svalutazione sulla competitività si manifestano se c’è almeno una parziale
illusione monetaria, per cui i salari nominali adeguano solo parzialmente all’aumento dei prezzi dei
beni importati. Secondo Mundell tale illusione monetaria è meno probabile per paesi piccoli i quali
mostrano in genere un’incidenza maggiore delle importazioni sul reddito rispetto ai paesi grandi.
Questo implica che gli effetti di una svalutazione su prezzi e salari reali sarebbero più percepibili
dando più probabilmente luogo a fenomeni di resistenza salariale, annullando i vantaggi
concorrenziali della svalutazione stessa:
The thesis of those who favour flexible ex-change rates is that the community in question is
not willing to accept variations in its real income through adjustments in its money wage rate
or price level, but that it is willing to accept virtually the same changes in its real income
through variations in the rate of exchange. In other words it is assumed that unions bargain for
a money rather than a real wage, and adjust their wage demands to changes in the cost of
living, if at all, only if the cost-of-living index excludes imports. Now as the currency area
grows smaller and the proportion of imports in total consumption grows, this assumption
becomes increasingly unlikely. It may not be implausible to suppose that there is some degree
of money illusion in the bargaining process between unions and management (or frictions and
lags having the same effects), but it is unrealistic to assume the extreme degree of money
illusion that would have to exist in small currency areas. (Mundell 1961: 663)
Pur dando credito a questi argomenti, coloro che propugnano l’efficacia degli aggiustamenti di
cambio ne sostengono l’efficacia proprio per aggirare l’inflessibilità di prezzi e salari che rende la
svalutazione interna non percorribile se non al prezzo di un’aumento della disoccupazione tale da
piegare la resistenza alla diminuzione dei salari nominali. Così per esempio Milton Friedman nel
suo classico saggio del 1953:
If internal prices were as flexible as exchange rates, it would make little economic difference
whether adjustments were brought about by changes in exchange rates or equivalent changes
in internal prices. But this condition is clearly not fulfilled. The exchange rate is potentially
flexible in the absence of administrative action to freeze it. At least in the modern world,
internal prices are highly inflexible. They are more flexible upward that downward, but even
on the upswing all prices are not equally flexible. The inflexibility of prices, or different
degrees of flexibility, means a distortion of adjustments in response to changes in external
conditions. The adjustment takes the form primarily of price changes in some sectors,
primarily of output changes in others.
Wage rates tend to be among the less flexible prices. In consequence, an incipient deficit that
is countered by a policy of permitting or forcing prices to decline is likely to produce
unemployment rather than, or in addition to, wage decreases. The consequent decline in real
income reduces domestic demand for foreign goods and thus demand for foreign currency
with which to purchase these goods. In this way it offsets the incipient deficit. But this is
clearly a highly efficient method of adjusting to external changes. If the external changes are
deep-seated and persistent, the unemployment produces steady downward pressure on prices
and wages, and the adjustment will not have been completed until the deflation has run its
sorry course. (Friedman 1953: 165).
23
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E con una famosa metafora Friedman compara gli effetti di un aggiustamento del cambio al cambio
dell’ora legale:
The argument for a flexible exchange rate is, strange to say, very nearly identical with the
argument for daylight savings time. Isn’t it absurd to change the clock in summer when
exactly the same result could be achieved by having each individual change his habits? All
that is required is that everyone decide to come to his office an hour earlier, have lunch an
hour earlier, etc. But obviously it is much simpler to change the clock that guides all than to
have each individual separately change his pattern of reaction to the clock, even though all
want to do so. The situation is exactly the same in the exchange market. It is far simpler to
allow one price to change, namely, the price of foreign exchange, than to rely upon changes in
the multitude of prices that together constitute the internal price structure. (ibid: 173).
Vianello (2005) così evoca la metafora la cui prima formulazione attribuisce a Irving Fisher:
“Una variazione del tasso di cambio è equivalente, dal punto di vista della concorrenzialità dei prodotti
di un paese, a una variazione del livello generale dei prezzi. Sui costi sociali del tentativo di far
diminuire i salari monetari e i prezzi, e su come essi possano essere evitati ricorrendo alla svalutazione
della moneta, ha richiamato l’attenzione Keynes (1923). Irving Fisher ha paragonato la variazione dei
tassi di cambio all’adozione dell’ora legale: come è assai più semplice mettere avanti di un’ora tutti gli
orologi che convincere ciascun abitante del paese ad alzarsi un'ora prima la mattina, così è assai più
semplice far variare il tasso di cambio che fare affidamento, per ottenere lo stesso risultato, sulla
variazione di una moltitudine di prezzi e di redditi monetari (cfr. Fisher, 1923, p. 101).”
La metafora può così essere riformulata: la svalutazione interna è un modo di imporre l’ora
legale solo ad alcuni, mentre la svalutazione esterna la impone a tutti.
Una risposta definitiva circa gli effetti degli aggiustamenti di cambio sulle bilance commerciali
non può essere data. Si tratta di verificare caso per caso se la resistenza salariale all’aumento di
prezzo dei beni importati sia o meno tale da annullare i vantaggi dell’aggiustamento di cambio. La
svalutazione interna si baserebbe infatti su un meccanismo più certo per piegare la resistenza a una
diminuzione dei salari reali, vale a dire l’aumento della disoccupazione.
1.1.5. Effetti della flessibilità del cambio: un’esposizione più standard (DG)
Consideriamo un equilibrio AS-AD per la Francia e supponiamo uno spostamento sfavorevole della
AD per i prodotti francesi (fig. T). La AD si sposta verso basso-sinistra (punto B). Una svalutazione
la potrebbe riportare nella posizione originaria (A). Quello che tuttavia accade è che aumenta il
prezzo dei beni tedeschi importati e ciò comporta una diminuzione dei w/p. Se i lavoratori
reagiscono chiedendo salari nominali più elevati, la AS si sposta in alto a sinistra annullando gli
effetti della svalutazione (punto C).
24
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PF
C
AS
A
B
AD
Y1
Y0
YF
Figura T
Il livello dell’output ritorna dunque al livello originario Y0, cioè l’economia ritorna nel punto A,
solo se i lavoratori sono disponibili ad accettare una riduzione del salario reale che è implicita in
una svalutazione. Quindi sia la svalutazione interna che quella esterna conducono al riequilibrio
commerciale se i salari reali cadono. Le conclusioni di De Grauwe (2013: 51) al riguardo ci
sembrano pertinenti:
Pertanto, le condizioni necessarie per ristabilire il livello iniziale di output sono le stesse in
entrambi i regimi [svalutazione interna o esterna]: i lavoratori … devono accettare la riduzione
dei loro salari reali anche se è una soluzione difficile da adottare in entrambi i contesti. La
domanda che sorge e la seguente: in quale regime questa condizione può essere soddisfatta nel
modo più semplice e meno gravoso? In un mondo perfetto, privo di illusione monetaria, non
c’è differenza. Se i lavoratori … si oppongono alla riduzione dei loro salari reali, lo faranno
sia nel caso di unione monetaria sia nel caso di cambio flessibile. In entrambi i regimi sarà
difficile ottenere la variazione del prezzo relativo e quindi ritornare al livello iniziale di
output. Sennonché, in un mondo meno perfetto, i lavoratori affetti da illusione monetaria
potrebbero contrastare la riduzione dei salari reali causata dalla diminuzione dei salari
nominali più fortemente di quanto farebbero se la stessa riduzione fosse causata da un
aumento nei prezzi (mantenendo costante il valore dei salari nominali). Pertanto, si può dire
che in una realtà del genere, l’aggiustamento dello squilibrio creato da uno shock da domanda
sarà molto più difficile e costoso, in termini di output sacrificato, nel caso di unione monetaria
anziché nel caso contrario.
1.1.6. La mobilità del lavoro
Riprendendo le fila dell’esposizione di Mundell, egli ritiene dunque che mentre una UM fra
due nazioni imprima una tendenza deflazionistica all’economia internazionale, una UM fra due
regioni possa imprimere una tendenza inflazionistica (para. 1.1.1). L’analisi di Fleming portava a
conclusioni analoghe.
25
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Arriviamo ora al cuore della tesi di Mundell: se fra due nazioni/regioni pur disomogenee o
colpite da eventi negativi asimmetrici v’è mobilità dei fattori produttivi (in particolare del lavoro),
allora esse possono costituire una OCA. Supponiamo che il paese B subisca una riduzione della
domanda internazionale per i propri prodotti. In luogo di una deflazione di prezzi e salari, o di
politiche recessive,22 lavoratori si possono spostare dal paese B verso quello A. Sulla scorta della
definizione di regione sopra enunciata, A e B costituiscono in verità una sola regione e, dunque:
The optimum currency area is the region. 660
Ma i lavoratori del paese B troveranno lavoro nel paese A? Un supplemento di spiegazione
lo troviamo in un altro classico sulle OCA, Kenen (1969: 43). Supponendo che il paese A sia in
piena occupazione (cosa che Kenen non specifica), la maggiore domanda per i prodotti di A si
tradurrà in maggiore domanda di lavoro (eccesso di domanda di lavoro come s’usa dire) mentre nel
paese B la minore domanda di lavoro si tradurrà in disoccupazione. Con perfetta mobilità del lavoro
questi disoccupati muoveranno da B ad A dove troveranno occupazione. Ciò che accade non
sarebbe dissimile a quanto accadrebbe in un Paese singolo laddove, a parità di domanda aggregata,
mutasse la composizione di quest’ultima a sfavore di una industria in declino e a favore di una in
espansione: a parte il periodo di transizione, nel lungo periodo non si genererebbe disoccupazione
poiché i lavoratori muoveranno da un settore all’altro.23
Ci si può ora domandare se l’UME è sotto il profilo della mobilità del lavoro un’AVO. La
risposta tende a essere negativa in quanto sebbene la mobilità sia relativamente elevata per le figure
professionali più alte, essa è più ridotta per motivi linguistici e culturali per le figure professionali
più modeste. Gli Stati Uniti costituiscono invece sotto questo profilo un’AVO.
1.2. Sostenibilità di un’unione monetaria e diversificazione produttiva
Kenen (1969) aggiunge due elementi alla questione della sostenibilità di una OCA. Il primo è che
se i membri di un’UM presentano strutture produttive molto diversificate, essa sarà meno soggetta a
ripercussioni aggregate di primaria grandezza in seguito a mutamenti sfavorevoli della domanda per
i prodotti di alcuni paesi (Kenen 1969: 49). Eventuali “shock asimmetrici” tenderanno cioè a
compensarsi fra loro nel tempo in quanto ora colpiranno un paese, ora l’altro, ed essendo inoltre
22
Il calo della domanda e delle importazioni dovuto alla minore domanda di prodotti nazionali può
non essere sufficiente a ristabilire l’equilibrio commerciale: fare esempio.
23
Le due industrie potrebbero utilizzare tecniche a diversa intensità di lavoro e questo potrebbe
avere effetti sull’occupazione (Kenen 1969: 43-44)
26
01/10/2014
ciascun paese molto diversificato gli effetti saranno relativamente minori. In questo senso i paesi
grandi più che piccoli, sarebbero quelli meglio predisposti all’adesione a un’OCA.
Un’influente studio preparatorio all’unificazione monetaria predisposto dalla Commissione
Europea (EU 1990) giudicò la probabilità di shock di domanda concentrati in un solo paese come
improbabili. Secondo questa tesi la progressiva integrazione e l’aumento del commercio che
seguirebbe l’unificazione monetaria porterebbe alla ricollocazione delle varie attività o di diverse
fasi del ciclo produttivo nei paesi membri sì da accrescere la diversificazione e la resistenza shock
asimmetrici. A questa tesi viene in genere contrapposta quella di Paul Krugman per cui l’esistenza
di economie di scala porta alla concentrazione regionale di determinate attività (cioè a una divisione
internazionale del lavoro).
La posizione della Commissione ha trovato sostegno nella tesi di Frenkel and Rose (1996)
secondo cui la similarità fra gli stati membri si accrescerebbe proprio in seguito all’aumento del
commercio che risulterebbe dall’unificazione. Per questa ragione questa tesi è stata definita teoria
dell’”OCA endogena”. La questione è stata naturalmente molto dibattuta e criticata (De Grauwe
2013: cap. 2). In particolare gli effetti positivi attesi dell’unificazione monetaria sul commercio
infra-EZ pare siano stati molto esagerati. Inoltre, alla luce di quanto vedremo in seguito, gli squilibri
europei non sembrano essere tanto derivati da “shock asimmetrici” su singole produzioni, ma da
“shock asimmetrici” che hanno riguardato il complesso della domanda aggregata in questi paesi. Le
politiche di “austerità” con cui l’EZ ha affrontato la crisi hanno successivamente comportato seri
processi di “de-industrializzazione” nei paesi della periferia europea ragione per cui v’è da ritenere
che in seguito a ciò la disomogeneità produttiva fra i paesi membri sia grandemente cresciuta.
Il secondo elemento introdotto da Kenen è illustrato nel prossimo paragrafo.
L’economista francese Artus si è domandato quali siano stati gli effetti della crisi sugli
eventuali processi di convergenza all’interno dell’UME. Le sue valutazioni sono assai negative.
(vale la pena leggere tutto l’articolo: http://cib.natixis.com/flushdoc.aspx?id=70753). In assenza di
trasferimenti fiscali, l’aggiustamento degli squilibri esterni fra le economie è stato effettuato via
“svalutazione interna”. La mortificazione della domanda interna che ne è seguita ha a sua volta
determinato processi di deindustrializzazione e di emigrazione di forze di lavoro qualificate.
It is now well understood that the euro zone’s key problem is the structural heterogeneity of the
member countries, combined with the lack of federalism. The disappearance of exchange-rate risk
facilitated the various countries’ productive specialisation according to their comparative
advantages, leading to an initial deindustrialisation of the peripheral countries to the benefit of the
core euro-zone countries, mainly Germany.
27
01/10/2014
From the creation of the euro until 2008, this led to increased external deficits among the peripheral
countries, given their specialisation in services and construction; and the crisis broke out when their
external debts became too large to be financed.
The lack of federalism means that no flows of public money or transfers have circulated between
the member countries, from the countries posting a trade surplus to countries with trade deficits, in
order to prevent external debts from accumulating and a crisis. It also means that the troubled
countries have not benefited from any support for job creation or reindustrialisation.
One could then think that the crisis could have corrected part of the heterogeneity. The most
troubled countries are experiencing a decline in their wages and an improvement in their
competitiveness, due to declining activity and rising unemployment (which we have decided to call
"internal devaluations"). This should have enabled them to attract new investments, regain market
shares, and should therefore have made the euro zone more homogenous.
But the effect of the euro-zone crisis on the zone’s economy has been completely different. The
situation of the countries already facing problems with their external deficits and deindustrialisation
has worsened and, accordingly, the heterogeneity of the euro zone has been made even worse
instead of being corrected. In these countries, a significant decline in domestic demand has been
required to wipe out the external deficits and stabilise the external debts, which could no longer
increase. The decline in domestic demand and the resulting recession have led to a sharp rise in
company bankruptcies, a marked deterioration in the situation of banks associated with a high level
of interest rates and, accordingly, a massive decline in business investment.
As a result, industrial production capacity has declined drastically in these countries: the
concentration of euro-zone industry in the core countries (Germany) has gathered momentum
instead of correcting. Accordingly, the euro zone’s situation has worsened instead of improving: the
heterogeneity has become more pronounced, and the deindustrialisation of the periphery to the
benefit of the centre has gathered momentum, which for the time being condemns the peripheral
countries to stagnating activity and impoverishment.
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Moreover, given the migration of the labour force and young graduates within the euro zone, which
previously was very low but has become substantial since 2011, the peripheral countries are
doomed to an unsustainable situation: hollowing-out of the economy and skilled youth leaving their
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home countries, while the requirement to service the public and external debt remains unchanged,
despite a productive base and a tax base that have contracted. This paints a very worrying picture,
with the exception that it is beginning to be understood that Germany and the European authorities
are apparently becoming more aware that the extreme heterogeneity towards which the euro zone is
heading will be unsustainable without the implementation of stabilising mechanisms: joint
investments, pooling of elements of social welfare, European resolution funds for banking crises,
support to young job seekers, discussions on a counter-cyclical euro-zone budget and on a fund to
help structural reforms.
1.3. Unioni monetarie complete implicano un bilancio federale
Regioni con strutture produttive simili e ben diversificate e/o con facile mobilità del lavoro
potrebbero dunque costituire una AVO. Quella dei trasferimenti fiscali fra regioni di un’unione
valutaria è una terza possibilità per rendere sostenibile un’UM. Una struttura di trasferimenti fiscali
fra regioni più ricche verso le regioni più disagiate implica un bilancio federale. Questo agisce in
due modi.
(a) Nel caso di uno shock asimmetrico, l’area svantaggiata verserà meno contributi al bilancio
federale mentre vedrà probabilmente accrescere i trasferimenti a suo favore (sussidi di
disoccupazione per esempio). L’opposto accade nella regione in surplus. Questo allevia i
costi dell’aggiustamento (via salari o mobilità del lavoro). DG definisce questo sistema una
sorta di assicurazione pubblica. Gli economisti “mainstream” individuano una difficoltà
nell’instaurare questo tipo di assicurazione reciproca, difficoltà basata sul rischio di “moral
hazard” da parte dei paesi colpiti negativamente da shock asimmetrico. La regione
svantaggiata, una volta sussidiata, potrebbe infatti non effettuare gli aggiustamenti
“strutturali” – come le famose riforme, vale a dire le liberalizzazioni del mercato del lavoro
che favoriscono l’aggiustamento dei salari reali.
(b) Gli squilibri fra paesi o regioni di un’UM potrebbero avere natura strutturale, cioè derivare
da un ritardo storico nel loro sviluppo rispetto ai paesi più avanzati piuttosto che da shock
asimmetrici. Per costituire una AVO un’UM dovrebbe dunque idealmente dotarsi di
trasferimenti strutturali (cioè durevoli nel tempo) per accelerare lo sviluppo industriale delle
aree in ritardo (per esempio sostenendo investimenti, infrastrutture, istruzione e ricerca
ecc.). Queste aree – definiamole periferiche - saranno peraltro anche le meno diversificate, e
spesso con tassi di inflazione più elevati rispetto a quelle più sviluppate – definiamole
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centrali o “core”.24 Per questa ragione essa saranno anche più esposte a shock asimmetrici o
a sopravvalutazione del tasso di cambio reale.
1.3.2. Bilancio federale e trasferimenti fiscali in Europa e negli Stati Uniti
A confronto con gli Stati Uniti, il bilancio federale europeo è minuscolo sebbene le differenze nel
reddito pro-capire fra i paesi europei siano ben superiori a quelle fra gli Stati americani. Una prima
tavola tratta da Barba e De Vivo (2013) mostrano come negli Stati Uniti sia i bilanci degli Stati ed
enti locali che quello federale si collochino su valori cospicui in rapporto al Pil con un bilancio
federale più ampio di quelli locali. Il lettore noterà come in seguito alla crisi la spesa federale sia
aumentata e il relativo carico fiscale si sia ridotto. Dotati di un bilancio federale, la politica fiscale
americana ha potuto aggredire la crisi a livello federale. All’opposto, il bilancio comune dell’UE
non raggiunge l’1% del Pil comunitario, a confronto di bilanci nazionali di dimensione cospicua.
Le due tavole successive mostrano i trasferimenti netti pro-capite negli Stati Uniti a confronto con
l’UE (in altre parole se in termini pro-capite un singolo Stato è beneficiario o datore netton nella
redistribuzione inter-regionale). La lettrice può osservare la scala dei trasferimenti misurati in
migliaia di dollari nel primo caso e centinaia di euro nel secondo.
24
In queste dispense l’origine dell’inflazione è vista nel conflitto distributivo. Questo è talvolta più
esacerbato in economia meno sviluppate e più sotto controllo in quelle più ricche dove le risorse da
spartire sono più ampie.
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Nel loro ottimo articolo Barba e De Vivo (2013) esaminano la questione degli squilibri regionali
nell’Eurozona a confronto con quelli degli Stati Uniti osservando come:
32
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a) Le differenze nel reddito pro-capite fra gli Stati membri sono più significative nell’EZ
rispetto agli USA (sebbene la diseguaglianza fra i cittadini sia in genere maggiore negli
USA, com’è noto).
b) Negli Stati Uniti il governo Federale effettua una significativa azione perequativa nei livelli
del reddito pro-capite fra i diversi Stati, azione che in Europa viene sostanzialmente
condotta solo all’interno degli Stati fra le rispettive regioni.
Da un punto di vista analitico è importante osservare come l’azione perequativa interregionale svolta dal settore pubblico non vada meramente considerata come un dono delle
regioni più affluenti a favore di quelle più svantaggiate. La spesa pubblica torna infatti come
domanda di prodotti rivolta principalmente alle regioni più ricche.25 In questo senso non si tratta
di uno scambio di “qualcosa in cambio di nulla”, ma di uno scambio di “qualcosa per qualcosa”.
La spesa pubblica perequativa fra regioni genera infatti un aumento delle esportazioni nelle
regioni più ricche e un aumento delle entrate fiscali (o dei risparmi destinati all’acquisto dei
titoli pubblici se la spesa è in disavanzo), essa dunque si “autofinanzia”. Ma lascia anche un
aumento di reddito e occupazione che non si sarebbe verificato senza quella spesa.
Questa forma di finanziamento degli squilibri commerciali dentro un’area valutaria comune
è anche superiore al finanziamento privato via movimenti di capitale che lascia un’eredità di
posizioni debitorie dei membri in disavanzo che può sfociare in una crisi finanziaria. Vale a
dire, in alternativa ai trasferimenti fiscali, i membri più svantaggiati di una UM possono
finanziare i loro disavanzi esterni indebitandosi coi paesi più forti. Questo può tuttavia sfociare
in una crisi debitoria, come vedremo essere successo proprio in Europa.
1.3.1. Fiscal capacity
Sponsorizzato dal Presidente del Consiglio Europeo, Herman Van Rampuy, nel novembredicembre 2012 si è discusso a livello europeo di un budget europeo in esclusiva funzione anticiclica e di dimensione ridotta, comunque più vicina alla proposta di un budget assicurativo
federale contro disturbi asimmetrici che a un bilancio federale. Quest’ultimo implica
trasferimenti volti a perequare le condizioni socio-economiche fra le regioni, oltre che a
svolgere funzione assicurativa in caso di shock asimmetrici. Tale fondo europeo è stato
25
a)
I trasferimenti fiscali possono essere visti:
Come perequativi di squilibri commerciali che maturano con l’Unione Monetaria;
b)
Come funzione perequativa dei redditi pro-capite fra regioni pur in presenza di un equilibrio
commerciale fra di esse; in questo caso sono proprio i trasferimenti che, accrescendo il potere
d’acquisto nelle regioni più disagiate generano uno squilibrio commerciale. La bilancia dei
pagamenti (le partite correnti) fra regioni ricche e povere rimane tuttavia in pareggio essendo il
disavanzo commerciale compensato dai trasferimenti.
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denominato “fiscal capacity”. Al tempo della discussione la Germania riteneva accettabile una
fiscal capacity attorno fra lo 0,2% e lo 0,3% del Pil europeo, mentre la Francia sosteneva una
dimensione fra l’1,5% e il 2%. Le fonti di finanziamento di tale fondo non furono discusse
approfonditamente, se non per menzionare la tassa sulle transazioni finanziarie (la famosa
“Tobin tax”), un deus ex machina dalla dubbia efficacia e che viene evocato quando si vogliono
finanziare iniziative europee senza spaventare i contribuenti. Fu anche detto che una fiscal
capacity europea di sostegno a shock asimmetrici già esisteva nell’European Stability
Mechanism (di cui ci occuperemo nel capitolo 7), un istituto a capitale europeo che può
emettere titoli a sostegno di Stati in difficoltà. Van Rampuy sostenne che, tuttavia, mentre lo
ESM è uno strumento per le emergenze, la fiscal capacity doveva essere un intervento per
squilibri più di routine. Comunque, i tedeschi si sono alla fine intimoriti che tale fondo potesse
essere il principio di un vero bilancio federale di base alla temuta “transfer union”, cioè una
struttura significativa di trasferimenti inter-regionali, per cui non se n’è fatto nulla, né se ne è
più riparlato (al gennaio 2014).
da http://blogs.ft.com/brusselsblog/2012/10/eu-summit-leaked-qa-to-summitteers/:
The proposal is so contentious – the French see it as a nascent supranational budget that would
spend on things such as unemployment insurance; the Germans a small, targeted fund to help start
short-term programmes such as job training schemes – that Van Rompuy yesterday sent around a
“background note” to national delegations to flesh out the idea.
The first question Van Rompuy poses in the note is what the eurozone budget – dubbed a “fiscal
capacity” – would do, exactly? The answer is pretty short. First, it could absorb “country-specific
economic shocks” by setting up “an insurance-type mechanism”. Secondly, it could be the carrot to
go along with the austerity stick, providing “support” for countries going through “structural
reforms”. But Van Rompuy also makes one thing clear:
These functions could and should be designed in a way that they do not lead to permanent transfers
across countries. They would not be income equalisation tools.
This line is aimed at Berlin, which has repeatedly fretted that the eurozone is turning into a “transfer
union”, sending wealth from high-income northern countries to struggling southerners.
Relying only on these national stabilisers in the context of a monetary union is, however, not
efficient from an economic standpoint. Indeed, in the absence of a fiscal capacity, countries need to
maintain fiscal buffers higher than would be required with such an EMU-wide insurance
mechanism.
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Van Rompuy is a bit vague on just how this “insurance mechanism” would work. Countries would
pay into the budget in “good times” and would get benefits “in bad times”, he writes. Because all
countries would pay in at some point and get benefits at another, it would “not lead to permanent
transfers”.
Per saperne di più:
http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/en/ec/132796.pdf
http://blogs.wsj.com/brussels/2012/10/11/euro-zone-budget-stirs-controversy
http://blogs.wsj.com/brussels/2012/12/04/the-size-of-the-euro-zone-budget/
Un articolo critico del senso limitato in cui in Europa si parla di “unione fiscale” è:
http://www.economonitor.com/blog/2012/06/what-fiscal-union-means/
1.4. Perdita della sovranità monetaria e bilancio pubblico
I teorici delle AVO avevano avvertito circa i pericoli di un’UM europea. Un elemento
sembra essere tuttavia sfuggito ai più: la perdita della sovranità monetaria ha delle forti implicazioni
sulla sostenibilità dei bilanci pubblici. Per ciò che mi consta, solo alcuni economisti legati alla
cosiddetta Modern Monetary Theory (come Randall Wray e Stephanie Kelton) avevano per tempo
avvertito circa queste conseguenze. Solo a crisi europea già ben avviata economisti come Paul de
Grauwe, probabilmente orecchiando queste tesi, hanno cominciato a sostenere tesi simili.
Fondamentalmente l’idea è che nessun governo può fallire fintanto che esso possiede una banca
centrale sovrana disponibile a finanziare il rinnovo del debito pubblico. Vedremo come nella crisi
europea la BCE abbia svolto la sua tradizionale funzione di “prestatore di ultima istanza” (lender of
last resort) nei confronti delle banche, ma in maniera più limitata nei riguardi dei debiti sovrani.
Vale la pena offrire una lunga citazione da De Grauwe (2013: 19-20) che confronta casi
del Regno Unito (fuori dell’UME) e della Spagna (dentro l’UME) e spiega perché i tassi sui titoli
pubblici possano differire:
“il governo inglese, non potendo trovare i fondi per rinnovare il debito a tassi di interesse
ragionevoli, costringerebbe certamente la Banca d’Inghilterra a fornire i contanti per
rimborsare i detentori di obbligazioni. Il governo inglese può dunque contare sulla liquidità
occorrente per finanziare il debito, e ciò significa che gli investitori non possono far
precipitare una crisi di liquidità tale da costringere il governo inglese all’insolvenza. Vi è una
superiore forza di ultima istanza, la Banca d’Inghilterra.
La situazione è drasticamente differente per un paese membro di un’unione monetaria, come
la Spagna. Supponiamo che gli investitori temano un’insolvenza del governo spagnolo. Di
conseguenza vendono titoli di stato spagnoli, spingendone il tasso di interesse al rialzo. Fin
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qui gli effetti sono uguali a quelli di che si avrebbero nel caso inglese; il resto è molto diverso.
Gli investitori che hanno incassato euro vendendo titoli del debito pubblico spagnolo,
decideranno verosimilmente di investirli altrove, poniamo in titoli di stato tedeschi. Ne
consegue un deflusso di euro dal sistema bancario spagnolo. Non vi è un mercato dei cambi,
non vi è un tasso di cambio flessibile che possa arrestare questa fuoriuscita. Pertanto la
quantità totale di liquidità (offerta di moneta) esistente in Spagna si contrae. Il governo
spagnolo è investito da una crisi di liquidità, ossia non può ottenere i fondi occorrenti per
rinnovare il suo debito a tassi di interesse ragionevoli. Inoltre, il governo spagnolo non può
costringere la Banca di Spagna a fornire la liquidità occorrente. La banca centrale comune (la
BCE nel caso dell’Eurozona) può fornire tutta la liquidità del mondo, ma il governo spagnolo
non controlla quell’istituzione. La crisi di liquidità, se è abbastanza forte, può costringere il
governo spagnolo all’insolvenza, data l’impossibilità di trovare il contante per rimborsare i
detentori di obbligazioni. I mercati finanziari lo sanno e mettono alle strette il governo
spagnolo quando i deficit di bilancio peggiorano. Perciò in un’unione monetaria i mercati
finanziari acquisiscono una forza tremenda e possono mettere in ginocchio qualsiasi paese
membro.
La situazione della Spagna ricorda quella delle economie emergenti che devono contrarre
prestiti denominati in valute estere. Tali economie emergenti hanno lo stesso problema, ossia
possono trovarsi di fronte a un “brusco arresto” degli afflussi di capitale, che si interrompono
improvvisamente, innescando una crisi di liquidità [Calvo 1988; Eichengreen et al. 2005].
L’analisi precedente sottolinea la fragilità di un’unione monetaria. Se gli investitori non hanno
fiducia in un dato stato membro, ne vendono i titoli, facendone salire il tasso di interesse e
innescando una crisi di liquidità, che può a sua volta dare luogo a un problema di solvibilità –
ossia, con un tasso di interesse più elevato il peso del debito pubblico aumenta, costringendo il
governo a ridurre la spesa e aumentare la tassazione. Questa forzata austerità di bilancio è
politicamente costosa e può a sua volta portare il governo a interrompere il servizio del debito
e a dichiarare l’insolvenza. Entrando in un’unione monetaria i paesi membri divengono quindi
vulnerabili alle ondate di sfiducia degli investitori. Si noti che in questa dinamica è insita una
profezia che si autoavvera: se i mercati finanziari ostentano una mancanza di fiducia nella
capacità (o nella volontà) di un dato stato di servire il proprio debito, gli investitori ne
vendono i titoli rendendo per ciò stesso più probabile l’interruzione del servizio del debito di
quello stato.”
Di qui la possibilità paventata da De Grauwe di equilibri multipli, ovvero se i mercati si aspettano la
solvibilità di un paese, i suoi tassi di interesse si manterranno contenuti riflettendo questa fiducia;
36
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ma se si insinua il dubbio della sfiducia nella solvibilità di un paese, questo sarà alla mercé dei
mercati che domanderanno tassi sempre più elevati avvalorando così la possibilità di una crisi
sovrana. Curiosamente di questa situazione si possono avvantaggiare i paesi più forti e virtuosi,
come la Germania. La “flight to quality”, ovvero la forte domanda di titoli di Stato considerati
sicuri, come i titoli tedeschi, determina un calo dei tassi di interesse per quei paesi. Di qui l’aumento
dei famosi “spread”, o differenziali dei tassi di interesse fra titoli di Stato a 10 anni dei paesi europei
in difficoltà rispetto ai titoli tedeschi a 10 anni (Bund) (figura U).
Fonte: http://cib.natixis.com/flushdoc.aspx?id=74480
Figura U
Come nota De Grauwe (2013: 21-22):
…Il lettore può trovare sorprendente che in quest’unione monetaria fra [Spagna] e Germania i
tassi di interesse possano divergere. Non è forse una caratteristica di ogni unione monetaria
che prevalga ovunque lo stesso tasso di interesse? La risposta è che tale caratteristica vale per
il tasso di interesse a breve termine, che è sotto il controllo della banca centrale comune. I
tassi di interesse a lungo termine possono invece divergere. Nel caso considerato si tratta dei
tassi di interesse a lungo termine su titoli di stato, i quali tassi divergeranno se gli investitori
attribuiscono differenti gradi di rischio al possesso dei differenti titoli di stato. Nell’esempio
della [Spagna] e della Germania, gli investitori percepiscono un rischio di inadempienza più
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elevato nei titoli di stato francesi che in quelli tedeschi e richiedono pertanto un tasso di
interesse (di rendimento) più elevato sui titoli francesi. Si deve altresì notare che è il tasso di
interesse a lungo termine che incide sulla domanda aggregata.”
La diminuzione degli “spread” che si verifica dalla seconda metà del 2012 (fig. U) è un effetto
dovuta a un’azione della BCE (denominata Outright Market Transactions-OMT), che studieremo,
decisa nell’estate del 2012 e volta a garantire un suo intervento a sostegno dei titoli sovrani nel caso
di possibile default di uno Stato. Tale default comporterebbe l’uscita di quello Stato dall’UME in
quanto solo un ritorno alla moneta nazionale e una ridenominazione del proprio debito pubblico in
questa moneta - che esso questa volta emette – può assicurare la sua solvibilità e la sua capacità di
far fronte ai pagamenti. Nel luglio del 2012 l’euro era, in effetti, in gravi difficoltà, con il pericolo
che i tassi di interesse sui titoli italiani e spagnoli potessero schizzare a livelli insostenibili
costringendo questi paesi all’abbandono della moneta unica.
Per saperne di più:
http://cib.natixis.com/flushdoc.aspx?id=74480
http://www.economics.cornell.edu/arazin/Paul%20Krugman2012.pdf
La dottrina di Bagehot (da De Grauwe 2013: 248)
Idealmente la funzione del prestatore di ultima istanza dovrebbe venire utilizzata soltanto quando le
banche (o i governi) devono affrontare problemi di liquidità. Non dovrebbe essere invece utilizzata
quando essi sono insolventi. Questa la dottrina formulata da Bagehot (1873). La banca centrale non
dovrebbe salvare banche o governi che sono insolventi. Questo punto di vista è certamente corretto.
Tuttavia il problema posto da questa dottrina è che è spesso difficile distinguere le “crisi di
liquidità” dalle “crisi di solvibilità”. Come si è sostenuto in precedenza, le crisi del debito sovrano,
quando esplodono, sono molto spesso una miscela di problemi di liquidità e di solvibilità. Le crisi
di liquidità portano al rialzo dei tassi di interesse sui titoli di debito emessi dai governi e quindi
degenerano rapidamente in problemi di solvibilità. Questi ultimi portano spesso a crisi di liquidità
che intensificano i problemi della solvibilità. È dunque facile affermare che la banca centrale
dovrebbe fornire liquidità soltanto ai governi o alle banche che sono a corto di liquidità ma
adempienti, ma spesso questa regola è molto difficile da mettere in pratica.
In realtà le cose sono ancora peggiori. Quella dottrina porta a un paradosso: se fosse facile separare
i problemi della liquidità da quelli della solvibilità, anche i mercati riuscirebbero a farlo. Pertanto,
se un governo si trovasse sotto pressione, i mercati finanziari riuscirebbero a stabilire se il suo
problema è quello della liquidità o della solvibilità. Se stabilissero che si tratta
di un problema di liquidità, sarebbero disposti a fornire al governo il credito occorrente. La banca
centrale non dovrebbe intervenire. Se i mercati stabilissero invece che si tratta di un problema di
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solvibilità, non sarebbero, a ragion veduta, disposti a fornire credito a quel governo. La dottrina
Bagehot giunge alla stessa conclusione: la banca centrale non dovrebbe salvare un governo
inadempiente. La conclusione è che se le crisi di solvibilità e di liquidità potessero essere separate le
une dalle altre, non vi sarebbe alcuna necessità di un prestatore di ultima istanza. I mercati
finanziari si farebbero carico dei problemi. Ma, visti i tempi che corrono, chi ci crederebbe? Vi è un
solo modo in cui la dottrina Bagehot potrebbe venire utilizzata dalla banca centrale comune di
un’unione monetaria. Bagehot ha affermato il principio che in periodi di crisi la banca centrale
dovrebbe fornire una liquidità illimitata applicando un tasso penalizzante. L’applicazione di questo
principio era vista da Bagehot come una possibilità di fare fronte al problema dell’azzardo morale.
La banca centrale comune potrebbe applicare questo principio, impegnandosi a fornire una liquidità
illimitata non appena il tasso corrente sui titoli del debito del paese A dovesse superare quello su
titoli esenti da rischio (poniamo, il tasso sui titoli di stato tedeschi) in misura maggiore, poniamo, di
200 punti base (a puro titolo esemplificativo). Questa potrebbe essere per la BCE un possibile modo
di venire incontro alle preoccupazioni relative all’azzardo morale.
[Vedremo che la BCE con l’iniziativa OMT intrapresa ha seguito precisamente questa logica]
1.5. Unione politica e unione monetaria
Una morale che si può trarre dal dibattito che abbiamo illustrato è che un’UM fra paesi
disomogenei è un’impresa assai complessa che richiede grande coesione e solidarietà fra i paesi, e
in particolare un bilancio federale comune di sostanziosa entità con alle spalle una banca centrale
comune che lo garantisca. Questo è ciò che accade negli Stati Uniti dove la Federal Reserve (Fed)
funge da garante di ultima istanza per i titoli del governo federale. Tale assicurazione non è estesa
agli Stati membri, i quali sono così vincolati a un sostanziale pareggio di bilancio. La coesione
economica e sociale dell’unione è dunque assicurata dalle istituzioni federali. In Europa, come
approfondiremo, alla banca centrale è fatto addirittura divieto alla BCE di sostenere i titoli pubblici
(vedremo con quali scappatoie la BCE l’ha tuttavia fatto) mentre il bilancio federale è minuscolo.
La spiegazione di queste differenze è nel fatto che gli Stati Uniti sono un’unione politica
mentre UME e UE) non lo sono. Sfortunatamente i governanti europei hanno ritenuto che l’UM
potesse costituire un’accelerazione verso una maggiore unione politica. La crisi dell’UME sta
indicando che un’UM senza una preliminare unione politica non può funzionare: solo quest’ultima
può assicurare lo sviluppo di adeguati meccanismi assicurativi e di solidarietà tali da consentire
un’adeguata coesione economico-sociale. Come predetto da Nicholas Kaldor (1971: 206) nel
passaggio che segue, un’inversione dei termini – prima l’unione monetaria poi quella politica –
potrebbe allontanare quest’ultima, come sta ora accadendo in Europa:
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Some day the nations of Europe may be ready to merge their national identities and create a
new European Union – the United States of Europe. If and when they do, a European
Government will take over all the functions which the Federal government now provides in
the U.S., or in Canada or Australia. This will involve the creation of a “full economic and
monetary union”. But it is a dangerous error to believe that monetary and economic union
can precede a political union or that it will act (in the words of the Werner report) “as a leaven
for the evolvement of a political union which in the long run it will in any case be unable to do
without”. For if the creation of a monetary union and Community control over national
budgets generates pressures which lead to a breakdown of the whole system it will prevent the
development of a political union, not promote it.
Conclusioni
Un’UM sostenibile sembra dunque implicare un bilancio federale con forme di trasferimenti fiscali
fra paesi membri e una BC che funga da prestatore di ultima istanza nei riguardi del debito sovrano.
L’impegno in questa direzione è dunque tale da richiedere una preliminare unità politica che leghi i
paesi alla solidarietà reciproca, mentre è sbagliato pensare che possa essere l’unificazione monetaria
ad accelerare l’unione politica, se non in forme impositive da parte dei paesi più forti.
Ci dobbiamo dunque domandare perché, alla luce di queste obiezioni, l’UME sia stata comunque
creata.
Appendice - Effetto Balassa-Samuelson (DG con modifiche)
La figura S mostra gli accentuati divari nei tassi di inflazione nel periodo 1998-2011 fra i paesi
dell’EZ.
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Figura S (da http://www.bankofgreece.gr/BogEkdoseis/SCP201322.pdf)
Un’ipotesi è che questi differenziali siano dovuti a una “circostanza di equilibrio” denominata
effetto Balassa-Samuelson. L’idea è che paesi in un processo di “catching-up” presentino tassi
di inflazione più elevati dei paesi più avanzati. Secondo la teoria il settore dei beni
commerciabili internazionalmente (tradable goods T), tipicamente la manifattura, mostrerebbe
tassi di crescita della produttività più elevati del settore dei beni non commerciabili
internazionalmente (non-tradable goods NT), tipicamente i servizi (il taglio dei capelli). Inoltre,
il paese inseguitore tende ad avere tassi di crescita della produttività nei T superiore a quello
dei NT e addirittura superiore a quello dei T nei paesi avanzati – proprio perché sta adeguando
le proprie tecnologie produttive a quelle di questi ultimi. I salari del settore NT tendono tuttavia
ad adeguarsi a quello dei T, soprattutto se si è vicini alla piena occupazione (cosa che non
sempre è vero). Sicché mentre l’aumento dei salari nominali nei T è giustificato dalla crescita
della produttività, quello nei NT non lo è. Nel primo settore l’aumento dei salari nominali non
si traduce in un aumento dei prezzi –vincolati per ragioni di competitività a quello dei beni
esteri – ma nel secondo sì, ed è un modo con cui il settore NT si appropria di parte dei guadagni
di produttività del settore dei T (v. box). Ciò determina un’inflazione più elevata nel paese
inseguitore.
Il modellino presentato da De Grauwe è il seguente (apporto alcune modifiche):
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T
p G  p G
 (1   ) p GNT
p I  p TI  (1   ) p INT
In ciascun paese (Irlanda e Germania) il tasso di inflazione è la media ponderata dei tassi di
variazione dei prezzi nei due settori (dove rappresenta il peso del settore). Per la legge del
prezzo unico nei beni T si ha
T
p G
 p TI
per cui sottraendo le due equazioni una dall’altra otteniamo:
p G  p I  (1   )( p GNT  p INT )
Definiamo con q i tassi di variazione della produttività (definita come prodotto per addetto) e
assumiamo che q IT  q GT e che per semplicità q INT  qGNT  0 .
Supponendo che il costo del lavoro sia la più importante determinante di p NT , per cui
p NT = w NT ,
e che i salari nominali nel settore NT seguano il tasso di variazione della
produttività del settore T (per cui w NT  q T ), possiamo scrivere:
G  w
 I )  (1   )(qG  q I ) .
p G  p I  (1   )(w
Ne concludiamo che se il tasso di crescita della produttività nei due paesi è diverso –
tipicamente maggiore nel paese periferico inseguitore – diversi saranno i tassi di inflazione. Il
fenomeno è “di equilibrio”, fisiologico alla crescita. Fin tanto che, inoltre, la competitività
esterna non ne è minata, non ci sono problemi.
Si noti che il salario reale wr, sia nei T che nei NT, varierà a un tasso inferiore a quello della
produttività, la quale aumenta solo nel settore T. Poiché wr = w/p, si ha:
w r  w  p
(1)
Poiché p  p T  (1   ) p NT e dato che p T = 0 (perché vincolati dalla concorrenza
internazionale) e che sia p NT = q T che w  q T per ipotesi, sostituendo nella (1) si ottiene:
w r  q T  (1   )q T  q T . In pratica l’aumento della produttività nel settore T viene
distribuito sui salari di ambedue i settori. L’aumento del salario reale sarà tanto maggiore
quanto più è elevato , al limite pari all’aumento della produttività se  = 1.
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La redistribuzione dei guadagni di produttività fra T e NT potrebbe scatenare un conflitto fra i
due settori. Per esempio, i salari nominali del settore T potrebbero crescere più di q T in quanto
i lavoratori dei settori esposti potrebbero voler appropriarsi di gran parte dei “propri” guadagni
di produttività. Il paese perderebbe così competitività (a parità di cambio nominale). (Si
rammenti che nella misura in cui il salario nominale in un settore, esempio dei T, si accresce in
linea con la produttività di quel settore, il CLUP o costo del lavoro per unità di prodotto del
 T  q T ).
settore non aumenta: CLUP = w/q costante se w
Qualcosa del genere può essere accaduto in Italia in cui un settore dei servizi arretrato, esteso e
parassitario (inclusi i professionisti come la pletora di avvocati, piccoli commercianti, idraulici
ecc) ha eroso i salari industriali.
EU (1990: 38) espone l’idea che poiché nei paesi periferici il livello dei prezzi è inferiore a
quello medio dell’UM, allora un tasso di inflazione più elevato (in linea con i guadagni di
produttività) è un “fenomeno di equilibrio” (come si usa dire):
DG riconosce che più che all’effetto B-S i differenziali di inflazione nell’EZ possono essere
stati dovuti al più forte andamento della AD nei paesi periferici, conclusione anche confermata
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da EU (2009: 23-4,
http://ec.europa.eu/economy_finance/publications/qr_euro_area/2010/qrea1_en.htm.)
Paesi come l’Italia hanno peraltro sperimentato sia compressione della AD che bassi tassi di
crescita della produttività,26 presentando al contempo un differenziale di inflazione positivo
verso la Germania. La questione, nonostante la sua centralità, è poco esplorata ma ha a che
vedere con fattori quali l’inefficienza e, al contempo, la tenace difesa dei propri privilegi nel
settore dei servizi (libere professioni in primis); inefficienze della rete dei trasporti, burocrazia,
giustizia ecc.
Riferimenti bibliografici (provvisorio)
Bagnai A. (2012), Il tramonto dell’euro, Imprimatur ed.
European Commission [1990], One Market, One Money,
http://ec.europa.eu/economy_finance/publications/publication7454_en.pdf
Mundell, Robert, (1961), “A theory of optimum currency areas”, American Economic Review, vol.
51, no. 4, pp. 657-665.)
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Friedman M. (1953), The Case for Flexible Exchange Rates, in Friedman M. (ed.), Essays in
Positive Economics, University of Chicago Press, pp. 157-203.
Godley, W. (1992), Maastricht and All That, London Review of Books, Vol.14, No. 19. [ link
English ] [ link Italiano ]
Fleming, J.M. (1971), On Exchange Rate Unification, The Economic Journal, 81, pp. 467-488
Frankel, J.A., Rose, A.K. (1996), The Endogeneity of the Optimum Currency Area Criteria,
National Bureau of Economic Research Working Paper 5700. [ link ]
http://www.economics.cornell.edu/arazin/Paul%20Krugman2012.pdf
Kaldor 1971 (The Dynamic Effects of the Common Market, New Stateman, 12 March 1971).
(http://www.concertedaction.com/2012/08/16/nicholas-kaldor-on-the-common-market/)
Kenen, P.B. (1969), The Theory of Optimum Currency Areas: An Eclectic View, in R.A. Mundell
and A.K. Swoboda (eds.), Monetary Problems of the International Economy, Chicago
University Press, pp. 41-60.
26
Incidentalmente, la produttività in Italia ha stagnato anche e forse soprattutto per la stagnazione
della AD. Si sentono molte sciocchezze in giro, anche da fonti istituzionali autorevoli (come
governo, esperti vari, o Banca d’Italia) per cui la produttività dipende esclusivamente da fattori di
offerta (innovazione, docilità della forza lavoro ecc). Non è vero. Essa dipende fondamentalmente
dalla AD: una crescita della domanda attesa induce un migliore sfruttamento degli impianti esistenti
e nuovi investimenti, e questi sono i veicoli di crescita della produttività. “Tutto il resto è noia”.
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Vianello F. (2005), La moneta unica europea, mimeo,
http://www.fernandovianello.unimore.it/site/home/una-selezione-di-scritti.html (ora in
Economia & Lavoro, vol. 47, pp.17-46).