Documento AGeSPI - LombardiaSociale

 Il Presidente
Egregio Presidente
Avvocato Roberto Maroni
Presidente Regione Lombardia
P.za Città di Lombardia 1
20124 - MILANO
Oggetto: Libro Bianco sullo sviluppo del sistema sociosanitario in Lombardia
Milano, 24 luglio ’14
Egregio Presidente,
diamo seguito alla sua lungimiranza politica quando, lo scorso 4 luglio, ha sottolineato
che “Questo Libro Bianco è finalizzato a rendere partecipi tutti gli attori istituzionali e sociali
delle riflessioni che Regione Lombardia ha svolto sul sistema sanitario e sociosanitario
lombardo, in vista di un confronto finalizzato a ricercare soluzioni confortate dal più ampio
consenso . (…). Ci aspettiamo commenti, critiche, risposte affermative, proposte alternative.
Questo processo di discussione e condivisione è quello che vogliamo fare attraverso il dibattito
che inizia oggi”.
Accogliamo, perciò, il suo invito e chiariamo con l’allegato documento alcuni punti
che toccano direttamente l’impegno degli erogatori e degli operatori dei servizi sociosanitari.
Contiamo di fornire in tal modo un proficuo contributo al lavoro davvero gravoso che
si è voluto assumere, impegnandosi in prima persona, di riformare il Sistema Sociosanitario più
avanzato d’Italia e tra i miglior d’Europa.
Qui di seguito trova prima una sintesi delle nostre osservazioni al Libro Bianco e
quindi un approfondimento di tale sintesi.
Colgo l’occasione per inviare a lei, alla giunta da lei presieduta e all’intero Consiglio
Regionale i migliori saluti e auguri di buon lavoro.
Antonio Monteleone
Il documento ha 12 pagine in totale, questa compresa.
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Via Giacomo Puccini 3 - 20121 Milano
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1 Libro Bianco sullo sviluppo del sistema sociosanitario in Lombardia. Posizione AGeSPI
Lombardia. SINTESI
Egregio Presidente,
le trasmettiamo la nostra analisi del Libro Bianco nella sua piena declinazione di
consenso, perplessità e differenze di vedute.
In premessa affermiamo che il domani, se è sviluppo e non rivoluzione, si costruisce
sull’oggi. Quell’oggi che giustamente rende orgogliosi tutti i Lombardi e suggerisce di
perfezionare, ma non di sovvertire, ciò che funziona: queta non movere è un lemma della
medicina fin dall’antichità.
La raffigurazione delle maggiori criticità che la Sanità lombarda deve affrontare nel
prossimo futuro, ossia l’invecchiamento della popolazione e con essa la cronicità e la non
autosufficienza, è sostanzialmente ben disegnata. Le soluzioni prospettate, tuttavia, partono
principalmente dall’ospedale e discendono verso il territorio, trascurando di prendere in piena
considerazione il sistema integrato sociosanitario, la cui estensione e livello di best practice,
consigliano di farne un punto d’irraggiamento di ogni idea di sviluppo migliorativo.
Ci chiediamo, anche, se non convenga sospendere temporaneamente ogni esame e
valutazione in attesa della riforma dell’articolo V della Costituzione, prospettata a breve, e delle
scadenze previste dal Patto della Salute. Entrambi gli aspetti possono incidere profondamente
sui confini della riforma del SSR lombardo, portando a modifiche ora non prevedibili e a
conseguenti ripensamenti di queste nostre osservazioni.
Riteniamo importante il riconoscimento esplicito delle competenze e della capacità di
adattamento di operatori e gestori, che da anni sono sotto una pressione costante, non solo per
l’aggiornamento tecnico-scientifico, ma anche, in quest’apertura di millennio, per rispettare le
normative nazionali e regionali, talvolta soggette a un cambiamento frenetico.
Va dato maggior rilievo al fiore all’occhiello della Lombardia rappresentato dalla rete
dei servizi sociosanitari. Se l’eccellenza è marcata dal benessere del cittadino sul lungo periodo,
allora è qui che primariamente risiede l’eccellenza lombarda.
Concordiamo sullo spostamento del luogo fisico di gestione del paziente sul territorio.
Ma ciò può avvenire unicamente con la valorizzazione della rete territoriale esistente,
che ha tutto il merito del giusto orgoglio con cui si scrive: “il processo di deospedalizzazione è
cominciato in Lombardia prima che in Francia, Catalogna e Germania e il confronto interno ai
‘quattro motori’ dimostra che il personale medico è complessivamente contenuto come anche il
numero di ospedali e di posti letto.”
Troviamo assai opportuno salvaguardare l’occupazione del personale e l’utilità
pubblica degli ospedali piccoli rivedendone la mission. Tale revisione va però attuata nel
rispetto delle competenze acquisite e già operative, ossia senza mettere a repentaglio
l’indiscutibile valore della rete sociosanitaria disponibile sul territorio.
Non condividiamo, perciò, l’idea che gli Ospedali di prossimità territoriale (POT)
amplino il raggio d’azione pertinente a un ospedale. Tale nostra posizione nasce da una serie di
motivi, di essi quello principale è che i modelli organizzativi più performanti sono quelli che
rispettano e capitalizzano situazioni in atto e profili di competenza esistenti, giacché non
rendono necessario né sovvertimenti del contesto, né alcuno sforzo di riqualificazione di
professionisti e operatori, né nuovi cospicui investimenti. La rete socio-sanitaria è ubiquitaria in
Lombardia ed ha “inventato” e sta da tempo implementando l’idea del “prendersi cura”,
proposta come il core del salto di paradigma del prossimo SSR. Tale rete, infine, costa meno e
sarebbe un singolare ripensamento storico riportare, anche solo parte dell’utenza tipica
sociosanitaria, in un ospedale con conseguenti contratti e altri elementi decisamente più onerosi,
oltreché con un livello di appropriatezza tutto da verificare.
Quanto appena detto, nonché la considerazione che nel settore socio-sanitario è in corso
da ben oltre un anno, un’importante trasformazione per la realizzazione del II pilastro del
welfare, quello appunto dell’innovazione, ci spinge a dire che a volte i saggi, come certi
generali, lavorano sulle mappe, dimenticandosi che “la mappa non è il territorio”, ma solo una
sua astrazione, come Alfred Korzybski, ingegnere, filosofo e matematico polacco, dice nella
famosa premessa della General Semantics. Ciò, in una situazione sotto tensione da tempo, può
comportare un autentico scompiglio e un cedimento, prima psicologico e poi strutturale, del
sistema.
Piuttosto perché non studiare e sperimentare insieme che la sede fisica dei servizi base
di comunità, dove le relazioni umane dominano sulle professionalità, possa essere
opportunamente allocata presso strutture residenziali, senza chiamarli ospedali? Agendo, in ciò,
secondo un’osservazione condivisa dalla Commissione Sanità, che ritiene opportuno “il metodo
della sperimentazione attiva, progressiva, diffusiva.”
Perché, data la capillarità di distribuzione delle RSA, non si studia e sperimenta
insieme come rendere le RSA un HUB, ossia un modello di arrivo e distribuzione di una rete
logistica che minimizza il numero di operazioni, perché in esso si concentrano e da esso
prendono avvio la maggior parte dei servizi alla cronicità e non autosufficienza?
Concordiamo sulla complessiva razionalizzazione organizzativa e (non riduzione) dei
costi, tanto più che in base al nuovo Patto della Salute i risparmi eventuali rimangono a
disposizione degli Assessorati di riferimento per la salute.
L'attivazione della Struttura Regionale di Controllo e Promozione dell’Appropriatezza
e Qualità deve garantire regole chiare di funzionamento, trasparenza, indipendenza e assenza di
perversi meccanismi di autolegittimazione.
Non è chiaro il funzionigramma/organigramma che regola le relazioni tra ASL, AIS e
soggetti privati. Comunque è, a nostro parere, opportuno dare rappresentatività abituale ai
soggetti gestori presso le ASL, tanto più se esse avranno solo compiti esterni alla linea
“produttiva”. Così come presupponiamo, sulla base dei compiti assegnati alle nuove Agenzie,
che le Unità di Valutazione Multidimensionale siano dipendenti dalle ASL e non dalle AIS e in
tali Unità sia prevista la presenza di rappresentanti dei soggetti di diritto privato.
Consigliamo molta prudenza nell’implementazione della Centrale unica d’acquisto e di
un sistema di vendor rating, che impatterebbe in maniera esplicita sulla quantificazione delle
prestazioni in maniera così frequente in quattro momenti dell’anno, non tenendo conto della non
perfetta elasticità di diversi elementi del costo del servizio. Di certo in ambito sociosanitario
l’offerta deve essere commisurata ai bisogni, per cui non ci può essere una competizione ad
excludendum, come potrebbe essere interpretato erroneamente da qualcuno.
Non siamo favorevoli all’Assessorato unico. Ciascuno dei due ambiti, quello rivolto
agli acuti e quello rivolto alle cronicità e alla non autosufficienza, richiede strategie, rilevazioni
epidemiologiche, indagini sociali e pianificazioni differenti, con una tipica previsione di costi.
Se si hanno due Assessorati si svolgerà necessariamente una proficua competizione su disegni e
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3 piani generali di policy, da cui scaturisce una più equa negoziazione sulle assegnazioni
finanziarie.
Siamo, inoltre, convinti, che solo in una netta prospettiva sociosanitaria si possa
affrontare con serenità ed efficacia la trasformazione, che come abbiamo richiamato è già
avviata, dei servizi residenziali in realtà multiservizi.
Condividiamo l’affermazione “Più territorio significa più ricerca e più formazione”.
Il futuro assetto, per essere davvero coerente con tale affermazione, deve permettere di
ricollocare le eccellenze rivedendo e potenziando il supporto all’insegnamento,
all’aggiornamento formativo e alla ricerca anche attraverso la valorizzazione delle competenze
presenti non solo in ospedali e Università, ma anche in ambito sociosanitario.
Libro Bianco sullo sviluppo del sistema sociosanitario in Lombardia. Posizione AGeSPI
Lombardia. DOCUMENTO COMPLETO.
Egregio Presidente,
intendiamo affiancarla nella sua aspirazione di voler “far diventare la Lombardia la
prima regione europea per risultati e qualità in ambito sanitario e socio-sanitario, abbiamo
questa ambizione e pensiamo di riuscirci, perché ne abbiamo le capacità e perché qui ci sono le
condizioni”. Anche noi abbiamo la visione di un sistema salute come un insieme di realtà e di
attori che costituiscono valore per Lombardia in termini di benessere, di occupazione e di
circolarità del capitale.
Ci muoveremo,
-
-
attenendoci a un principio di realismo, per il quale il domani, se è sviluppo e non
rivoluzione, si costruisce sull’oggi, nell’attenta considerazione di ciò che funziona;
quell’oggi che giustamente rende orgogliosi tutti i Lombardi e suggerisce di
perfezionare ma non di sovvertire: queta non movere è un lemma della medicina fin
dall’antichità;
e lungo questa sua linea di coinvolgimento delle parti sociali e degli stakeholder,
con piena assunzione delle nostre responsabilità verso la conquista di traguardi più
prestigiosi di quelli attuali.
Le trasmettiamo, pertanto, la nostra analisi del Libro Bianco nella sua piena
declinazione di consenso, perplessità e divergenze.
La raffigurazione delle maggiori criticità che la Sanità lombarda deve affrontare nel
prossimo futuro, ossia l’invecchiamento della popolazione e con essa la cronicità e la non
autosufficienza, è sostanzialmente ben disegnata. Le soluzioni prospettate, tuttavia, partono
principalmente dall’ospedale e discendono verso il territorio, trascurando di prendere in piena
considerazione il sistema integrato sociosanitario, la cui estensione e livello di best practice,
consigliano di farne un punto d’irraggiamento – insieme all’ospedale, ma verso il territorio e lo
stesso ospedale - di ogni idea di sviluppo migliorativo.
Ci chiediamo se non convenga sospendere ogni esame e valutazione in attesa della
riforma dell’articolo V della Costituzione, prospettata a breve, e delle scadenze previste dal
Patto della Salute. Entrambi gli aspetti possono incidere profondamente sui confini della riforma
del SSR lombardo, portando a modifiche ora non prevedibili e a conseguenti ripensamenti di
queste nostre osservazioni.
Citiamo a titolo esemplificativo:
1. Le nuove regole in arrivo per cui, entro il 31 dicembre 2014, le Regioni dovranno
ridurre la dotazione dei posti letto ospedalieri “ad un livello non superiore a 3,7 posti
letto per mille abitanti, comprensivi di 0,7 posti letto per mille abitanti per la
riabilitazione e la lungodegenza post-acuzie”.
2. I criteri per un uso appropriato dell’ospedale che, a quanto si sa al momento,
dovranno essere definiti tenuto conto “di linee guida elaborate da un tavolo tecnico
che verrà istituito … presso il ministero della Salute, composto da rappresentanti del
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5 3.
4.
5.
6.
ministero stesso, Agenas, Regioni e Pa, e stabilite con accordo sancito dalla
Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome
di Trento e di Bolzano”.
Stato e Regioni dovranno definire entro il 30 ottobre 2014 i requisiti strutturali,
tecnologici e organizzativi minimi dei presidi territoriali/ospedali di comunità, in
cui l’assistenza medica sarà assicurata dai medici di medicina generali o dai pediatri
di libera scelta o da altri medici dipendenti o convenzionati con il SSN e che
effettuano ricoveri brevi per casi non compressi.
Entro il 30 dicembre 2014 sarà predisposto dal ministero della Salute il Piano
nazionale cronicità e dovrà poi essere approvato in Conferenza Stato Regioni.
Aggiornamento LEA entro il 31 dicembre 2014.
Entro sei mesi dalla stipula del Patto (gennaio 2015) Piano d’indirizzo per la
riabilitazione.
Riconosciamo che la Lombardia è un sistema d’offerta di eccellenza.
Nondimeno il testo sembra assegnare il merito quasi solo alle politiche e alle tecniche
di programmazione e controllo e non soprattutto alle competenze e alle capacità di
adattamento di professionisti, operatori e gestori, che da anni sono sotto una pressione
costante non solo per l’aggiornamento tecnico-scientifico, ma anche, in quest’apertura di
millennio, per rispettare le normative nazionali e regionali, che si susseguono con un ritmo non
sempre giustificabile e che, anche fosse sempre giustificato, ha prodotto e produce tensioni
organizzative e gestionali di non poco conto.
Va dato maggior rilievo al fiore all’occhiello della Lombardia rappresentato dalla
rete dei servizi sociosanitari. Se l’eccellenza è marcata dal benessere del cittadino sul lungo
periodo, allora è qui che primariamente risiede l’eccellenza lombarda. Ed è anche da qui, non
solo dall’ospedale, che occorre partire per ottimizzare competenze e patrimonio strutturale
esistente nel momento in cui si vuole avviare nuove Unità d’offerta per intercettare bisogni non
acuti.
Concordiamo sullo spostamento del luogo fisico di gestione del paziente sul
territorio.
Ma ciò non può avvenire che con la valorizzazione della rete territoriale esistente, che
ha tutto il merito del giusto orgoglio con cui si scrive: “il processo di deospedalizzazione è
cominciato in Lombardia prima che in Francia, Catalogna e Germania e il confronto interno ai
“quattro motori” dimostra che il personale medico è complessivamente contenuto come anche
il numero di ospedali e di posti letto.”
Troviamo assai opportuno salvaguardare l’occupazione del personale e l’utilità
pubblica degli ospedali piccoli rivedendone la mission. Tale revisione va però attuata nel
rispetto delle competenze acquisite e già operative, ossia senza mettere a repentaglio
l’indiscutibile valore della rete sociosanitaria disponibile sul territorio: non si spoglia un santo
per vestire un altro santo.
Non condividiamo l’idea che gli Ospedali di prossimità territoriale (POT) amplino
il raggio d’azione pertinente a un ospedale.
Per cui, i POT anziché limitarsi a una casistica di base in regimi assistenziali di
degenza solo di medicina, DH o ambulatoriali compresa piccola chirurgia e di una sub-acuzie
cha abbia necessità di approfondimenti diagnostici tramite attrezzature ospedaliere, si occupino
anche di pazienti sub-acuti che non devono essere monitorati con particolari tecnologie dopo
trattamenti di fasi acute (funzioni di dimissioni controllate o con letti di sollievo), pazienti
sottoposti a trattamenti riabilitativi non più in fase intensiva, e, in generale, pazienti che si
trovano in una condizione intermedia tra quella che richiede l’ospedalizzazione in un centro di
alto o medio livello di complessità e quella che consente tranquillamente la gestione domiciliare.
Tre sono gli ordini di ragioni del nostro dissenso.
Primo.
I modelli organizzativi che assicurano i migliori risultati sono quelli che rispettano
e capitalizzano situazioni in atto e profili di competenze esistenti, giacché non rendono
necessario né sovvertimenti del contesto, né alcuno sforzo di riqualificazione di professionisti e
operatori, né cospicui investimenti.
Molti Paesi, ad esempio, prima di ipotizzare e definire nuovi sistemi organizzativi,
hanno considerato i modelli di competenza, al fine di valorizzare le competenze fruibili, nella
gestione delle persone con diabete (Courtenay et al. 2008).
Dal punto di vista individuale, Richard Boyatzis, già nel 1982 definisce la
competenza “una caratteristica intrinseca individuale che è causalmente collegata a una
performance efficace o superiore in una mansione e che è misurata sulla base di un criterio
stabilito”.
Competenza intesa sia come conoscenze tecnico-professionali, riferibili
prevalentemente al contenuto teorico di un ruolo ed acquisibili con lo studio in tempi delimitati
e partecipando a corsi con programmi prestabiliti; sia come requisiti ed esperienze maturate, che
fanno invece riferimento da una parte al possesso di determinate caratteristiche dimostratesi
valide nel tempo, più o meno lungo a seconda dei casi, e dall’altra al know-how, specifico di
una mansione e contestualizzato, frutto di anni di applicazione, così da dar luogo a una fruttuosa
relazione di scambio con l’organizzazione in cui la risorsa opera. Questo tipo di competenza
individuale è senz’altro necessaria per arrivare al traguardo prospettato dalla riforma.
Da un punto di vista strategico, centrato sull’obiettivo del successo sul mercato o, nel
nostro caso, del conseguimento dell’eccellenza a livello europeo, la competenza diventa un
insieme di conoscenze e abilità sia pratiche sia relazionali, che consente a un’organizzazione
operante in ambito sociosanitario di rispondere all’unisono a bisogni e aspettative dell’utenza e
di inserirsi efficacemente nella rete dell’intero settore. Va quindi oltre le singole competenze
individuali, perché richiede la combinazione funzionale dei ruoli interni e l’integrazione con
l’esterno.
I servizi residenziali e semiresidenziali come pure l’ADI hanno “inventato” e stanno
da tempo implementando l’idea del “prendersi cura”, che deve rappresentare il salto di
paradigma del prossimo SSR, e l’hanno assimilato ormai nel loro DNA, divenendo realtà ad alto
contenuto di rapporti umani e coinvolgimento empatico, in un contesto evolutivo e interrelato
molto dinamico dove hanno agito e agiscono come “learning organization”.
Non tenerne conto, nell’attuale processo di riforma, esprime non solo scarsa saggezza
politica, giacché tali servizi sono radicati sul territorio assai più che non gli ospedali, ma si
presta il fianco a pesanti critiche concettuali. Giacché significa:
a) Sconfessare nei fatti quanto viene giustamente asserito in merito ai processi di
efficientamento degli ospedali, che vanno sempre più accompagnati da una
corrispondente presa in carico territoriale, evitando di determinare un maggior fardello di
stress per le famiglie.
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7 b) Non avere chiaro che i servizi socio sanitari sono ubiquitari in Lombardia e, quindi,
trascurare le conseguenze pratiche dell’affermazione che “l’acuzie può e deve
permettersi una certa mobilità (ci si sposta per cercare l’eccellenza, per intervenire in
un determinato momento), ciò non vale per la cronicità. Non è la persona che si deve
spostare, ma i servizi che si devono riorientare intorno alle sue esigenze: sul territorio
l’assistenza assicura continuità e recupera efficacia. Oppure quella che il cittadino
chiede non solo servizi di qualità, ma anche di prossimità: non si tratta più solo di
curare, ma di prendersi cura e di assumere la presa in carico del paziente.”
c) Non riflettere che, se si preserva la rete sociosanitaria attuale, non c’è bisogno, almeno
in modo massivo, di una progressiva riqualificazione del personale oggi presente,
che potrà dedicarsi fin da subito agli aspetti di presa in carico della cronicità.
d) Non considerare che la natura del servizio reso finora, attraverso le sperimentazioni e i
loro miglioramenti, è stata tale da garantire “risposte a persone non accolte o accolte
solo parzialmente dall’attuale rete d’offerta sociosanitaria” (DGR 499 del 25 luglio
2013). Ciò è peraltro confermato dalla forte soddisfazione degli invianti alle UdO e degli
stessi utenti/familiari, oltre che degli operatori.
Secondo
Il lavoro svolto fino ad oggi, di appropriatezza nella risposta ai bisogni e di riduzione
dei costi, ha portato al trasferimento sul territorio di molti pazienti. Riportarli in un ambito
ospedaliero, oltre ai tanti aspetti di non adeguatezza del setting (anche da un punto di vista
strutturale non solo professionale), significa mantenere i costi ospedalieri (ad es., ma non
soltanto, quelli contrattuali propri della sanità) con ingiustificato aumento della spesa in un
periodo ancora di crisi. Nascerebbe quindi un serio problema di erronea condotta
programmatoria, per motivi sia di scelta non adeguata rispetto alle esigenze del paziente e al
contesto della rete sociosanitaria sia di oculatezza nell’appostare i finanziamenti.
Terzo
Quanto appena detto ci spinge a dire che a volte i saggi, come certi generali, lavorano
sulle mappe, dimenticandosi che “la mappa non è il territorio” ma solo una sua astrazione,
come Alfred Korzybski, ingegnere, filosofo e matematico polacco, dice nella famosa premessa
della General Semantics. Possiamo aggiungere che in particolare gli operatori del settore
sociosanitario non sono pedine o segnalini sulla mappa, che si possono spostare facilmente
da una casella all’altra.
Diciamo ciò osservando che nel settore socio-sanitario è in corso un’importante
trasformazione per l’implementazione del II pilastro del welfare, quello appunto
dell’innovazione. È da più di un anno che lavoriamo proficuamente con l’Assessore Cantù e il
Direttore Generale Daverio e non vorremmo che a un certo momento, come sembra da alcuni
passaggi del Libro Bianco, comparisse il cartello “Strada senza uscita”, con l’invito a ritornare
al punto di partenza per imboccare altre strade. Ciò, in una situazione sotto tensione da tempo,
può comportare un autentico scompiglio e un cedimento, prima psicologico e poi strutturale, del
sistema.
Piuttosto perché non studiare e sperimentare insieme che la sede fisica dei servizi base
di comunità, dove le relazioni umane dominano sulle professionalità, possa essere
opportunamente allocata presso strutture residenziali, senza chiamarli ospedali? Agendo
secondo un’osservazione condivisa dalla Commissione Sanità, che ritiene opportuno “il metodo
della sperimentazione attiva, progressiva, diffusiva. Sperimentazione in quanto le proposte che
non sono ancora sostenute da solide evidenze devono essere prima applicate in contesti
limitati e controllabili. Sperimentazione attiva in quanto i sistemi sociali, organizzativi,
istituzionali non sono equiparabili al contesto di laboratorio e quindi i processi di cambiamento
incidono direttamente sulla realtà. Sperimentazione progressiva perché occorre evitare quanto
accaduto con le sperimentazioni gestionali previste dalla legislazione a partire dal 1993, spesso
caratterizzate da tempi lunghi e in molti casi mai passate in stabilizzazione. Se i risultati delle
sperimentazioni appaiono positivi è necessario da un lato progredire nella loro applicazione e
dall’altro estenderle ad altre realtà. Sperimentazione diffusiva in quanto, di fronte a risultati
positivi, occorre attivare precisi interventi finalizzati ad estendere in tempi rapidi e in modo più
esteso possibile le “buone pratiche” o “buone soluzioni”. Occorre superare una delle grandi
debolezze del sistema Italia spesso caratterizzato da eccellenze e buone soluzioni che però
restano limitate e non “contagiano” positivamente altre parti del sistema.”.
È un suggerimento rivelatosi utile in ambito sociosanitario anche perché concordato
passo dopo passo con i rappresentanti dei gestori: vedi d.g.r. 4 aprile 2012, n. 3239 “Linee guida
per l’attivazione di sperimentazioni nell’ambito delle politiche di welfare” e d.g.r. e d.d.g.
correlati.
Perché, data la capillarità di distribuzione delle RSA e le sperimentazioni in corso,
non si studia e si sperimenta insieme come renderle un HUB, ossia un modello di
convergenza e distribuzione di una rete logistica che minimizza il numero di operazioni, perché
in esso si concentrano o si dipartono verso il territorio la maggior parte dei servizi alla cronicità
e non autosufficienza?
Il patrimonio materiale e immateriale della Rsa va messo al servizio del
rinnovamento del Servizio sanitario regionale attraverso il collegamento in rete delle strutture
e dei professionisti e l’irraggiamento sul territorio delle peculiarità di competenze
multidimensionali.
Questo patrimonio offre, infatti, diversi vantaggi:
 Prossimità. Le strutture sono tipicamente diffuse nel contesto di vita della
popolazione o in vicinanza dei centri abitati per cui sono sotto vista e facilmente
identificabili e classificabili nelle loro funzioni;
 dimensioni, sono tipicamente di ampiezza non dispersiva;
 clima umano sintonico con quello di provenienza degli ospiti;
 pluralità di servizi che possono essere erogati. Si va dai servizi tipicamente
residenziali, semi residenziali, ambulatoriali a quelli domiciliari, con la
combinazione di cure mediche, assistenza infermieristica, tutela sociale e la
somministrazione di terapie non farmacologiche che, ormai è scientificamente
assodato, si presentano come le più efficaci in soggetti cronici e non autosufficienti.
Inoltre, all’interno delle Rsa, sono in corso sperimentazioni di servizi a bassa/media
intensità di cura (cure intermedie, posti letto post acuti) che saranno messi a regime
ordinario;
 competenze clinico e assistenziali. In alcuni contesti le Rsa gestiscono pazienti con
gravi livelli di compromissione sia sul piano assistenziale, sia sul piano clinico;
 esperienza di assessment in team multi-professionali ed elaborazione di piani
riabilitativi o assistenziali personalizzati col concorso di famigliari e di volontari
così da inquadrarli in un “progetto di vita”;
 competenze per facilitare e gestire iniziative di auto mutuo aiuto;
 competenze gestionali e organizzative. Queste strutture da tempo hanno imparato a
mantenere l’equilibrio tra standard di accreditamento, livelli di qualità erogati,
quindi costi sostenuti e ricavi conseguenti al finanziamento della quota sanitaria e di
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9 quella alberghiera, in un contesto caratterizzato da elementi di libera concorrenza e
di libera scelta dei cittadini.
Si può consultare a riguardo lo studio “PER UNA POLITICA DI QUALITÀ NEI
SERVIZI SOCIO SANITARI”, facilmente scaricabile dal sito www.agespi.it.
L'attivazione della Struttura Regionale di Controllo e Promozione
dell’Appropriatezza e Qualità deve garantire regole chiare di funzionamento, trasparenza e
indipendenza.
Ciò comporta la necessità di:
 dare un ruolo degli Ordini, Collegi, Associazioni professionali e alle Associazioni
dei gestori, in quanto, in particolare nel nostro comparto, l’appropriatezza si fa sui
percorsi realizzabili sul territorio non in ambienti di studio astratto;
 esaminare con attenzione le conseguenze programmatorie ed economiche di certe
indicazioni;
 un funzionamento solo al bisogno della Struttura, per evitare comportamenti di
autolegittimazione, generatori di adempimenti spesso cervellotici o gravosamente
burocratici;
 evitare favori, anche solo inconsapevoli, alle società di certificazione o analoghe.
Concordiamo sulla complessiva razionalizzazione organizzativa e (non riduzione)
dei costi, tanto più che in base al nuovo Patto della Salute i risparmi eventuali rimangono a
disposizione degli Assessorati di riferimento per la salute. È però decisivo che si mantenga nei
servizi residenziali la libertà di retta. Infatti, la libertà di retta è soggetta alle regole del
mercato, per cui i cittadini sanno capire il valore del servizio loro reso, ragionare sulle loro
disponibilità e scegliere ciò che conviene. I gestori, da parte loro, debbono riuscire a intercettare
le capacità di spesa dell’utenza con promozioni e regolazioni della retta al fine di evitare basse
saturazioni.
Non è chiaro il funzionigramma/organigramma che regola le relazioni tra ASL AIS
e soggetti privati.
Inoltre, visto che sembrerebbe (condizionale al momento è d’obbligo per la poca
chiarezza) sia affidata all’ASL una funzione quasi di “terzietà” per la programmazione,
vigilanza e controllo, ponendola al di sopra dei due settori pubblico e privato, riteniamo
conseguente chiedere che:
1. in ogni ASL sia dato un ruolo di concertazione ai soggetti di Diritto Privato;
2. le Unità di Valutazione Multidimensionale siano dipendenti dalle ASL e non dalle
AIS e in esse sia prevista la presenza di rappresentanti dei soggetti di diritto privato;
3. gli sportelli unici del welfare possano trovare la loro sede in strutture residenziali.
Concordiamo col principio che la famiglia vada riconosciuta, valorizzata e
sostenuta come una delle principali risorse ai fini della promozione e della tutela della
salute. Non va, però, lasciata a se stessa nel gestire il proprio carico assistenziale, visto che
esistono più famiglie lombarde con almeno un anziano che famiglie lombarde con almeno un
minore (ISTAT, 2010, Famiglia in cifre) e che, limitandoci alla città di Milano, gli anziani oltre
80 anni sono 94.330, la maggior parte dei quali sono donne (63.828). Si tratta della fascia che
più esprime bisogni di cure e si appoggia in primo luogo sulla rete verticale (figli). Ciò induce a
una speciale preoccupazione affinché il fardello che ricade sugli accuditori famigliari (caregiver
burden) non superi una certa soglia, oltre la quale emergono anche gravi fenomeni di burnout
che vanno a ricadere sul SSR e sull’economia regionale.
Concordiamo sull’esigenza di rendere la programmazione coerente con i bisogni.
Ciò rende urgente l’individuazione di corrette, trasparenti e chiare forme di rilevazione
epidemiologiche. Quest’aspetto, ribadito in numerose sentenze del Consiglio di Stato, rende in
parte poco comprensibile l’acquisto di beni e servizi basandosi su criteri di vendor rating, che
impatterebbe in maniera esplicita sulla quantificazione delle prestazioni in maniera così
frequente in quattro momenti dell’anno, dimenticando la non perfetta elasticità di diversi
elementi del costo del servizio. Senza trascurare l’impossibilità di mandare a casa gli ospiti dei
servizi residenziali nel caso il rating fosse sfavorevole.
Intanto s’inserisce un ulteriore passaggio nell’attuale sequenza: autorizzazione,
accreditamento, (vendor rating), contratto. Un passaggio che – non è questa l’intenzione
dell’Associazione che presiedo - può suscitare facilmente contenzioso.
Secondariamente l’offerta deve essere commisurata a bisogni, per cui non ci può
essere una competizione ad excludendum. Ci spieghiamo. Mentre l’incidenza di problemi
acuti nel corso dell’anno non sono prevedibili, per cui ci può essere un eccesso o un limite
d’offerta con riduzione o allungamento delle liste d’attesa. Invece nel caso della non
autosufficienza è più agevole prevedere i dati epidemiologici così da consentire una migliore
programmazione dei posti letto e dei servizi precisandoli tempestivamente.
Consigliamo, comunque, molta prudenza nell’implementazione della Centrale unica
d’acquisto, ed è assai opportuno chiarire.
 Qual è la procedura d’individuazione di beni e servizi per i quali sia conveniente
identificare prezzi di riferimento;
 Qual è e come viene elaborato il set descrittivo minimo indispensabile per
confrontare gli eventi di acquisto dei suddetti beni e servizi;
 Come si identificano le caratteristiche tecniche e di impiego dei beni e servizi che
permettano l’attribuzione di prezzi o fasce di prezzo;
 Come si individua il modello di valutazione della spesa relativo ai beni e servizi ai
fini del calcolo del risparmio di spesa atteso;
 Quali sono e come sono predisposte le “Linee guida utili ad una corretta
individuazione della fornitura/servizio oggetto della procedura di acquisto
(capitolato tecnico)”;
 Come si individuano ulteriori elementi necessari alla valutazione dei risultati di gara,
nonché alla gestione, monitoraggio e controllo del servizio/fornitura appaltato.
Vogliamo anche rispondere a un quesito che lei ha posto al margine dei contenuti del
Libro Bianco, ovvero se siamo o meno favorevoli a un unico Assessorato che comprenda le
competenze della sanità e della sociosanità. Non siamo favorevoli all’Assessorato unico.
Ciascuno dei due ambiti richiede strategie, rilevazioni epidemiologiche, indagini sociali
e pianificazioni differenti, con una tipica previsione di costi. Se si hanno due Assessorati si
svolgerà necessariamente una proficua competizione su disegni e piani generali di policy, da cui
scaturisce una più equa negoziazione sulle assegnazioni finanziarie.
Siamo, inoltre, convinti, che solo in una netta prospettiva socio-sanitaria si possa
affrontare con serenità ed efficacia la trasformazione, già avviata come abbiamo richiamato,
dei servizi residenziali in realtà multiservizi, perché solo in quest’ambito si possono
conseguire determinate specificità di appropriatezza quali:
AGeSPI - Associazione Gestori servizi Sociosanitari e cure Post Intensive
Via Giacomo Puccini 3 - 20121 Milano
Tel +39 02.21.095.200 - Fax +39 02.72.73.01.50
E-mail [email protected]
11  Spazio di ascolto dedicato e finalizzato a raccogliere i dubbi, le preoccupazioni e le
difficoltà dei familiari e del paziente nello stesso tempo.
 Impegno di mediazione in caso di situazioni di conflittualità all'interno della rete
familiare o di aspettative inappropriate al fine di creare un ambiente il più sereno
possibile per il paziente.
 Supporto alla rete familiare in caso di predisposizione delle pratiche per la nomina di
un amministratore di sostegno.
 Lavoro in rete con i servizi socio-sanitari territoriali, finalizzato alla condivisione del
progetto individuale e alla collaborazione in vista della dimissione.
Tali specificità di appropriatezza – è importante sottolinearlo - risultano pienamente
adeguate alla post-acuzie, alla sub-acuzie e alla pre-acuzie.
In buona sostanza, a nostro modo di vedere, non sussistono le condizioni per aumentare
l’efficacia del Sistema Salute Lombardo, rendendolo sempre più ospedale-centrico e
aumentando l’impiego di risorse provenienti proprio dal settore sanitario in senso stretto,
giacché tali risorse andrebbero riqualificate quanto a:
 competenze (principalmente di qualità relazionale oltre che di professionalità
adeguate),
 cultura clinica incentrata sul sostegno alle abilità residue,
 capacità di visione progettuale integrata, in filiera e in rete, per affrontare la cronicità
in maniera globale e quindi efficace per il cittadino.
Coloro che hanno già preparazione specifica, cultura di contesto e metodo per
affrontare questi problemi, sono gli attuali operatori del settore Socio Sanitario, che com’è noto,
garantiscono, oltre ad un livello di efficacia ragguardevole, livelli di efficienza economica di
non trascurabile entità per l’intero Sistema Salute della Regione.
Condividiamo l’affermazione “Più territorio significa più ricerca e più formazione
… Nessun modello può funzionare senza la condivisione di professionisti motivati e competenti;
per questo il riordino esige una revisione coraggiosa del sistema di formazione: non più diviso
per comunità professionali, ma orientato alla continuità assistenziale e finalizzato all’efficacia
della presa in carico delle persone.”
Il futuro assetto, per essere davvero coerente con tali affermazioni, deve permettere di
ricollocare le eccellenze rivedendo e potenziando il supporto alla ricerca anche attraverso la
valorizzazione delle competenze presenti non solo in ospedali e Università, ma anche in
ambito sociosanitario. Queste possono più che utili sono indispensabili per:
 ricerche, ad es. in campo epidemiologico o del mantenimento delle funzionalità
residue, ma anche in campi quali la tutela della salute e sicurezza dei pazienti
dipendenti, dei loro famigliari e degli operatori sociosanitari;
 la formazione, teorica e pratica, anche universitaria, ad es. di medici, psicologi,
educatori, ecc., che debbono conoscere sempre più incidenza, prevalenza e
conseguenze della cronicità, oltre a comprendere e gestire i bisogni e le esigenze
della persona dipendente, con particolare attenzione all’aspetto relazionale e a tutti i
problemi d’integrazione coi servizi sul territorio.