754 - 17 febbraio 2014 (ord.za) - Sez. IV - Pres.

754 - 17 febbraio 2014 (ord.za) - Sez. IV - Pres. (ff.) BRANCA, Est. GRECO Ministero giustizia (avv. St. D'Avanzo G.) c. Verelli ed altri (avv. Massa G.) e Massa
(avv. se stesso) ed altri (n.c.) - (Appello T.A.R. Lazio, Sez. I, 7 gennaio 2013 n. 83, 22
maggio 2013 nn. 5338 e 5749, 10 aprile 2013 nn. 4019 e 4231, 20 giugno 2013 n.
6202, 10 maggio 2013 n. 4718, 13 maggio 2013 nn. 4739 e 4738 e 3 luglio 2013 nn.
6891 e 6889: deferisce la questione alla Corte costituzionale).
1. - Leggi e decreti - Disapplicazione - Per contrasto con norme Convenzione
europea diritti dell'uomo - Esclusione - Questione di costituzionalità - Necessità.
2. - Giudicato - Esecuzione del giudicato - Ricorso per ottemperanza - Eccessiva
durata del processo - Decreto di condanna - Erogazione somme - Nei limiti delle
risorse disponibili e incidenza sulla penalità di mora - Art. 3 comma 7 L. n. 89
del 2001 - Contrasto con art. 117 comma 1 Cost. e art. 6 comma 1 Cedu - Non è
manifestamente infondato.
1. - In caso di contrasto fra una norma della Convenzione europea sui diritti
dell'uomo e una norma interna, quest'ultima non può essere disapplicata da parte del
giudice nazionale, il quale deve invece sollevare questione di costituzionalità per
eventuale violazione dell'art. 117 comma 1 Cost.
2. - In tema di esecuzione del giudicato avente per oggetto il riconoscimento di un
equo indennizzo per eccessiva durata del processo, non è manifestamente infondata −
in relazione all'art. 117 comma 1 Cost. per tramite della norma interposta costituita
dall'art. 6 comma 1 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo − la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 3 comma 7 L. 24 marzo 2001 n. 89, il quale prevede
che l'erogazione delle somme avvenga nei limiti delle risorse disponibili, con
l'avvertenza che la possibilità (o meno) di considerare tale aspetto quale legittimo
impedimento all'immediata corresponsione delle somme de quibus incide sul giudizio
da dare, ai fini dell'applicazione della penalità di mora di cui all'art. 114 comma 4 lett.
e) Cod. proc. amm., in ordine al carattere giustificato o meno del riT.A.R.do col quale
l'Amministrazione dà esecuzione al giudicato che si sia formato sulla condanna al
pagamento del predetto indennizzo, tenendo presente che la norma processuale in
parola stabilisce espressamente che l'astreinte può essere applicata "salvo che ciò sia
manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative.
FATTO E DIRITTO. - Omissis.
14. Per quanto concerne la seconda censura, si ritiene di dover condividere le
argomentazioni della difesa erariale in ordine all'impossibilità, in caso di ravvisato
contrasto fra una norma della Cedu e una norma interna, di una diretta
disapplicazione di quest'ultima da parte del giudice (cfr. sul punto Cons. Stato, Sez.
IV, 13 giugno 2013 n. 3293, laddove in tal senso ci si è pronunciati, ad altro riguardo,
proprio a proposito del rapporto tra la Cedu e la legge n. 89 del 2001).
14.1. Quanto sopra discende dalla considerazione della giurisprudenza in materia
della Corte costituzionale, la quale è già da tempo costante nel ritenere che le norme
della Cedu - nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo,
1
specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32 par. 1
della Convenzione) - integrino, quali "norme interposte", il parametro costituzionale
espresso dall'art. 117 comma 1 Cost., nella parte in cui stabilisce l'obbligo per la
legislazione interna di rispettare i vincoli derivanti dagli "obblighi internazionali"
(cfr. sentt. 4 dicembre 2009 n. 317; id., 26 novembre 2009 n. 311; id., 27 febbraio
2008 n. 39; id., 24 ottobre 2007 nn. 348 e 349, in questa Rassegna 2009, III, 890 e
811; 2008, III, 90; 2007, III, 862 e 863).
Pertanto, in caso di ipotizzato contrasto fra una norma interna e una norma della
Cedu, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità di una
interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni
strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo - non
potendo a ciò rimediare tramite la semplice non applicazione della norma interna
contrastante - egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione
di legittimità costituzionale in riferimento al suindicato parametro; si è aggiunto, poi,
che la Corte costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo sindacare
l'interpretazione della Cedu data dalla Corte europea, resta legittimata a verificare se,
così interpretata, la norma della Convenzione - la quale si colloca pur sempre a un
livello sub-costituzionale - si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della
Costituzione: ipotesi eccezionale nella quale dovrà essere esclusa la idoneità della
norma convenzionale a integrare il parametro considerato.
14.2. In un più recente arresto (sent. 11 marzo 2011 n. 80, in questa Rassegna 2011,
III, 248) la Corte ha altresì affrontato il problema della perdurante validità di tali
conclusioni dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007,
ratificato e reso esecutivo in Italia con L. 2 agosto 2008 n. 130, che ha modificato il
Trattato sull'Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea.
In particolare, si era sostenuto che le innovazioni recate da detto Trattato (entrato in
vigore il 1 dicembre 2009) avessero comportato un mutamento della collocazione
delle disposizioni della Cedu nel sistema delle fonti, tale da rendere ormai inattuale la
ricordata concezione delle "norme interposte": alla luce del nuovo testo dell'art. 6 del
Trattato sull'Unione europea, dette disposizioni sarebbero divenute parte integrante
del diritto dell'Unione, con la conseguente facoltà per i giudici comuni di non
applicare le norme interne ritenute incompatibili con le norme della Cedu, senza
dover attivare il sindacato di costituzionalità.
In altri termini, anche per la Cedu sarebbe stata valida la ricostruzione dei rapporti tra
diritto comunitario e diritto interno, quali sistemi distinti e autonomi, operata dalla
consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale sulla base del disposto dell'art.
11 Cost. (secondo cui l'Italia "consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle
limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la
giustizia fra le Nazioni"), alla stregua della quale le norme derivanti da fonte
comunitaria dovrebbero ricevere diretta applicazione nell'ordinamento italiano pur
restando estranee al sistema delle fonti interne, con la conseguenza che, se munite di
effetto diretto, esse precludono al giudice nazionale di applicare la normativa interna
con esse reputata incompatibile.
2
La Corte ha respinto tale impostazione sulla base di una puntuale ricostruzione dei
rapporti tra Cedu, diritto europeo e diritto interno nella loro recente evoluzione: "... A
tale proposito, occorre quindi ricordare come l'art. 6 del Trattato sull'Unione europea,
nel testo in vigore sino al 30 novembre 2009, stabilisse, al paragrafo 2, che l'"Unione
rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali [...] e quali risultano
dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi del diritto
comunitario".
In base a tale disposizione - che recepiva un indirizzo adottato dalla Corte di giustizia
fin dagli anni settanta dello scorso secolo - tanto la Cedu quanto le "tradizioni
costituzionali comuni" degli Stati membri (fonti esterne all'ordinamento dell'Unione)
non assumevano rilievo come tali, ma in quanto da esse si traevano "i principi
generali del diritto comunitario" che l'Unione era tenuta a rispettare. Sicché, almeno
dal punto di vista formale, la fonte della tutela dei diritti fondamentali nell'ambito
dell'Unione europea era unica, risiedendo, per l'appunto, nei "principi generali del
diritto comunitario", mentre la Cedu e le "tradizioni costituzionali comuni"
svolgevano solo un ruolo 'strumentale' all'individuazione di quei principi.
Coerentemente questa Corte ha in modo specifico escluso che dalla "qualificazione
[...] dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della Cedu come principi generali
del diritto comunitario" - operata dapprima dalla Corte di giustizia, indi anche dall'art.
6 del Trattato - potesse farsi discendere la riferibilità alla Cedu del parametro di cui
all'art. 11 Cost. e, con essa, la spettanza al giudice comune del potere-dovere di non
applicare le norme interne contrastanti con la Convenzione (sentenza n. 349 del 2007,
cit.). L'affermazione per cui l'art. 11 Cost. non può venire in considerazione rispetto
alla Cedu, "non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme
convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale" (sentenza n.
188 del 1980, già richiamata dalla sentenza n. 349 del 2007 succitata), non poteva
ritenersi, infatti, messa in discussione da detta qualificazione per un triplice ordine di
ragioni.
In primo luogo, perché "il Consiglio d'Europa, cui afferiscono il sistema di tutela dei
diritti dell'uomo disciplinato dalla Cedu e l'attività interpretativa di quest'ultima da
parte della Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo, è una realtà giuridica, funzionale
e istituzionale, distinta dalla Comunità europea creata con i Trattati di Roma del 1957
e dall'Unione europea oggetto del Trattato di Maastricht del 1992" (sentenza n. 349
del 2007, cit.).
In secondo luogo, perché, i "princìpi generali del diritto comunitario di cui il giudice
comunitario assicura il rispetto", ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni
degli Stati membri e alla Cedu, "rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle
quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti comunitari, poi gli atti nazionali di
attuazione di normative comunitarie, infine le deroghe nazionali a norme comunitarie
asseritamente giustificate dal rispetto dei diritti fondamentali (sentenza 18 giugno
1991, C-260/89, ERT, in Cons. Stato 1992, II, 1964)"; avendo "la Corte di giustizia
[...] precisato che non ha tale competenza nei confronti di normative che non entrano
nel campo di applicazione del diritto comunitario (sentenza 4 ottobre 1991, C-159/09,
3
Society for the Protection of Unborn Children Ireland; sentenza 29 maggio 1998, C299/05,
Kremzow)".
In terzo luogo e da ultimo, perché "il rapporto tra la Cedu e gli ordinamenti giuridici
degli Stati membri, non essendovi in questa materia una competenza comune
attribuita alle (né esercitata dalle) istituzioni comunitarie, è un rapporto variamente
ma saldamente disciplinato da ciascun ordinamento nazionale" (sentenza n. 349 del
2007, cit.).
(...) L'art. 6 del Trattato sull'Unione europea è stato, peraltro, incisivamente
modificato dal Trattato di Lisbona, in una inequivoca prospettiva di rafforzamento
dei
meccanismi
di
protezione
dei
diritti
fondamentali.
Il nuovo art. 6 esordisce, infatti, al paragrafo 1, stabilendo che l'"Unione riconosce i
diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione
europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo
stesso valore giuridico dei trattati". La norma prosegue - per quanto ora interessa prevedendo, al paragrafo 2, che "l'Unione aderisce alla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali"; per chiudersi, al
paragrafo 3, con la statuizione in forza della quale "i diritti fondamentali, garantiti
dalla Convenzione [...] e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali".
Alla luce della nuova norma, dunque, la tutela dei diritti fondamentali nell'ambito
dell'Unione europea deriva (o deriverà) da tre fonti distinte: in primo luogo, dalla
Carta dei diritti fondamentali (cosiddetta Carta di Nizza), che l'Unione "riconosce" e
che "ha lo stesso valore giuridico dei trattati"; in secondo luogo, dalla Cedu, come
conseguenza dell'adesione ad essa dell'Unione; infine, dai "principi generali", che secondo lo schema del previgente art. 6 paragrafo 2 del Trattato - comprendono i
diritti sanciti dalla stessa Cedu e quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni
agli Stati membri.
Si tratta, dunque, di un sistema di protezione assai più complesso e articolato del
precedente, nel quale ciascuna delle componenti è chiamata ad assolvere a una
propria funzione. Il riconoscimento alla Carta di Nizza di un valore giuridico uguale a
quello dei Trattati mira, in specie, a migliorare la tutela dei diritti fondamentali
nell'ambito del sistema dell'Unione, ancorandola a un testo scritto, preciso e
articolato.
Sebbene la Carta "riafferm[i]", come si legge nel quinto punto del relativo preambolo,
i diritti derivanti (anche e proprio) dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri e dalla Cedu, il mantenimento di un autonomo richiamo ai "principi generali"
e, indirettamente, a dette tradizioni costituzionali comuni e alla Cedu, si giustifica oltre che a fronte dell'incompleta accettazione della Carta da parte di alcuni degli
Stati membri (...) - anche al fine di garantire un certo grado di elasticità al sistema. Si
tratta, cioè, di evitare che la Carta 'cristallizzi' i diritti fondamentali, impedendo alla
Corte di giustizia di individuarne di nuovi, in rapporto all'evoluzione delle fonti
indirettamente richiamate.
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A sua volta, la prevista adesione dell'Unione europea alla Cedu rafforza la protezione
dei diritti umani, autorizzando l'Unione, in quanto tale, a sottoporsi a un sistema
internazionale di controllo in ordine al rispetto di tali diritti".
Tutto ciò premesso, la Corte ha però escluso di poter accedere alla tesi di
un'immediata e diretta "prevalenza" (nel senso sopra precisato) delle norme della
Cedu sulle norme interne: "... Nessun argomento in tale direzione può essere tratto,
anzitutto, dalla prevista adesione dell'Unione europeaalla Cedu, per l'assorbente
ragione che l'adesione non è ancora avvenuta.
A prescindere da ogni altro possibile rilievo, la statuizione del paragrafo 2 del nuovo
art. 6 del Trattato resta, dunque, allo stato, ancora improduttiva di effetti. La puntuale
identificazione di essi dipenderà ovviamente dalle specifiche modalità con cui
l'adesione stessa verrà realizzata.
(...) Quanto, poi, al richiamo alla Cedu contenuto nel paragrafo 3 del medesimo art. 6
- secondo cui i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione "e risultanti dalle
tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell'Unione
in quanto principi generali" - si tratta di una disposizione che riprende, come già
accennato, lo schema del previgente paragrafo 2 dell'art. 6 del Trattato sull'Unione
europea: evocando, con ciò, una forma di protezione preesistente al Trattato di
Lisbona.
Restano, quindi, tuttora valide le considerazioni svolte da questa Corte in rapporto
alla disciplina anteriore, riguardo all'impossibilità, nelle materie cui non sia
applicabile il diritto dell'Unione (...), di far derivare la riferibilità alla Cedu dell'art. 11
Cost. dalla qualificazione dei diritti fondamentali in essa riconosciuti come "principi
generali" del diritto comunitario (oggi, del diritto dell'Unione). Le variazioni
apportate al dettato normativo - e, in particolare, la sostituzione della locuzione
"rispetta" (presente nel vecchio testo dell'art. 6 del Trattato) con l'espressione "fanno
parte" - non sono, in effetti, tali da intaccare la validità di tale conclusione. Come
sottolineato nella citata sentenza n. 349 del 2007, difatti, già la precedente
giurisprudenza della Corte di giustizia - che la statuizione in esame è volta a recepire
- era costante nel ritenere che i diritti fondamentali, enucleabili dalla Cedu e dalle
tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, facessero "parte integrante" dei
principi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario era chiamato a
garantire il rispetto (ex plurimis, sentenza 26 giugno 2007, C-305/05, Ordini avvocati
contro Consiglio, punto 29).
Rimane, perciò, tuttora valida la considerazione per cui i principi in questione
rilevano unicamente in rapporto alle fattispecie cui il diritto comunitario (oggi, il
diritto dell'Unione) è applicabile, e non anche alle fattispecie regolate dalla sola
normativa nazionale.
(...) Quest'ultimo rilievo è riferibile, peraltro, anche alla restante fonte di tutela: vale a
dire la Carta dei diritti fondamentali, la cui equiparazione ai Trattati avrebbe
determinato, secondo la parte privata, una "trattatizzazione" indiretta della Cedu, alla
luce della 'clausola di equivalenza' che figura nell'art. 52 paragrafo 3 della Carta. In
base a tale disposizione (compresa nel titolo VII, cui l'art. 6 paragrafo 1 del Trattato
fa espresso rinvio ai fini dell'interpretazione dei diritti, delle libertà e dei principi
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stabiliti dalla Carta), ove quest'ultima "contenga diritti corrispondenti a quelli
garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli
conferiti dalla suddetta Convenzione" (ferma restando la possibilità "che il diritto
dell'Unione conceda una protezione più estesa"). Di conseguenza - sempre secondo la
parte privata - i diritti previsti dalla Cedu che trovino un 'corrispondente' all'interno
della Carta di Nizza (...) dovrebbero ritenersi ormai tutelati anche a livello di diritto
dell'Unione europea.
A prescindere da ogni ulteriore considerazione, occorre peraltro osservare come analogamente a quanto è avvenuto in rapporto alla prefigurata adesione dell'Unione
alla Cedu (art. 6 paragrafo 2 secondo periodo del Trattato sull'Unione europea; art. 2
del Protocollo al Trattato di Lisbona relativo a detta adesione) - in sede di modifica
del Trattato si sia inteso evitare nel modo più netto che l'attribuzione alla Carta di
Nizza dello "stesso valore giuridico dei trattati" abbia effetti sul riparto delle
competenze
fra
Stati
membri
e
istituzioni
dell'Unione.
L'art. 6 paragrafo 1 primo alinea del Trattato stabilisce, infatti, che "le disposizioni
della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell'Unione definite nei
trattati". A tale previsione fa eco la Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona,
ove si ribadisce che "la Carta non estende l'ambito di applicazione del diritto
dell'Unione al di là delle competenze dell'Unione, né introduce competenze nuove o
compiti nuovi dell'Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati".
I medesimi principi risultano, peraltro, già espressamente accolti dalla stessa Carta
dei diritti, la quale, all'art. 51 (anch'esso compreso nel richiamato titolo VII),
stabilisce, al paragrafo 1, che "le disposizioni della presente Carta si applicano alle
istituzioni, organi e organismi dell'Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà,
come pure agli Stati membri esclusivamente nell'attuazione del diritto dell'Unione";
recando, altresì, al paragrafo 2, una statuizione identica a quella della ricordata
Dichiarazione n. 1.
Ciò esclude, con ogni evidenza, che la Carta costituisca uno strumento di tutela dei
diritti fondamentali oltre le competenze dell'Unione europea, come, del resto, ha
reiteratamente affermato la Corte di giustizia, sia prima (tra le più recenti, ordinanza
17 marzo 2009, C-217/08, Mariano) che dopo l'entrata in vigore del Trattato di
Lisbona (sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU, McB; ordinanza 12 novembre
2010, C-399/10, Krasimir e altri).
Presupposto di applicabilità della Carta di Nizza è, dunque, che la fattispecie
sottoposta all'esame del giudice sia disciplinata dal diritto europeo - in quanto
inerente ad atti dell'Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al
diritto dell'Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una
misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell'Unione - e non già da sole
norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto.
Nel caso di specie (...) detto presupposto difetta: la stessa parte privata, del resto, non
ha prospettato alcun tipo di collegamento tra il thema decidendum del giudizio
principale e il diritto dell'Unione europea. (...) Alla luce delle considerazioni che
precedono, si deve, dunque, conclusivamente escludere che, in una fattispecie quale
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quella oggetto del giudizio principale, il giudice possa ritenersi abilitato a non
applicare, omisso medio, le norme interne ritenute incompatibili con l'art. 6 paragrafo
1 della Cedu, secondo quanto ipotizzato dalla parte privata. Restano, per converso,
pienamente attuali i principi al riguardo affermati da questa Corte a partire dalle
sentenze nn. 348 e 349 del 2007: principi, del resto, reiteratamente ribaditi dalla
Corte stessa anche dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona (sentenze n. 1 del
2011; n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010, in questa Rassegna 2011, III, 1; 2010, III, 505,
489 e 370) (...)".14.3. Questi principi sono stati, ancora in tempi molti recenti, ribaditi
dalla Corte costituzionale in successiva pronuncia (sent. 18 luglio 2013 n. 210). 15.
Orbene, con riguardo alla fattispecie che qui occupa questa Sezione, alla luce
dell'evidenziata impossibilità di procedere a diretta disapplicazione della norma
nazionale (non essendo stato evidenziato, da nessuna delle parti dei giudizi, alcun
legame tra la vicenda relativa all'indennizzo da eccessiva durata del processo e il
diritto dell'Unione europea), reputa rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 comma 7 L. 24 marzo 2001 n. 89 (il
quale, come detto, recita: "... L'erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene
nei limiti delle risorse disponibili"), per contrasto con l'art. 117 comma 1 Cost. per
tramite della norma interposta costituita dall'art. 6 par. 1 della Cedu, come
interpretato dall'ormai costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell'uomo.
15.1. Quanto al primo profilo, è evidente che la possibilità (o meno) di considerare la
mancanza di risorse disponibili in bilancio quale legittimo impedimento
all'immediata corresponsione dell'indennizzo da eccessiva durata del processo incide
sul giudizio da dare, ai fini dell'applicazione della penalità di mora di cui all'art. 114
comma 4 lett. e) Cod. proc. amm., in ordine al carattere giustificato o meno del
ritardo dell'Amministrazione nel dare esecuzione al giudicato che si sia formato sulla
condanna al pagamento del predetto indennizzo: infatti, la norma processuale testé
citata stabilisce espressamente che l'astreinte può essere applicata "salvo che ciò sia
manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative".
In altri termini, ove mai si ritenesse legittima e tuttora applicabile la disposizione ex
art. 3 comma 7 legge n. 89 del 2001 ciò escluderebbe, con ogni probabilità, la stessa
possibilità di applicare la penalità di mora de qua all'Amministrazione la quale,
condannata al pagamento di un indennizzo da eccessiva durata del processo, alleghi e
comprovi che il ritardo nell'ottemperare al decisum giurisdizionale è ascrivibile alla
indisponibilità in bilancio di risorse, essendo difficile negare che tale circostanza
integri valida "ragione ostativa" all'immediata esecuzione.
15.2. Sul versante del merito, è conclamato il contrasto fra la disposizione interna e
l'ormai consolidata interpretazione dell'art. 6 par. 1 della Cedu fatta propria dalla
Corte di Strasburgo, la quale per quanto qui interessa si concreta in due principi
specifici:
a) il tempo occorrente per conseguire l'esecuzione di una decisione di condanna al
pagamento di un indennizzo da eccessiva durata del processo, specie se costringe
l'interessato a proporre un'azione esecutiva, fa parte a tutti gli effetti del processo
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stesso, e quindi va computato ai fini del rispetto da parte dello Stato del diritto
fondamentale alla durata ragionevole dell'iter processuale;
b) la carenza di risorse disponibili, più o meno temporanea che sia, non costituisce ex
se idoneo fattore giustificativo del ritardo dello Stato nel dare esecuzione alle
decisioni di condanna qui in discorso.
Al contrario, la disposizione di cui al comma 7 dell'art. 3 legge n. 89 del 2001,
laddove impone l'obbligo di corresponsione dell'indennizzo "nei limiti delle risorse
disponibili", si pone certamente in traiettoria divergente rispetto ai principi appena
richiamati: infatti, anche a non volerne sposare una lettura "radicale" secondo cui
l'indisponibilità di risorse esonererebbe addirittura in toto l'Amministrazione degli
obblighi rivenienti dal giudicato di condanna, tale circostanza quanto meno
precluderebbe di qualificare in termini di inadempimento - e, quindi, di condotta a
qualsiasi titolo sanzionabile - il ritardo più o meno lungo nell'ottemperare che sia
dovuto, per l'appunto, a siffatta indisponibilità.
15.3. Né è possibile comporre il contrasto testé evidenziato, come vorrebbero le parti
appellate nei presenti giudizi, attraverso un'interpretazione "adeguatrice" della norma
interna tale da renderla compatibile con i principi discendenti dalla Cedu.
In particolare, gli odierni appellati assumono che sulla scorta della già richiamata
giurisprudenza della Corte di Strasburgo, nella parte in cui ha equitativamente fissato
in sei mesi il termine oltre il quale il ritardo nella corresponsione dell'indennizzo può
qualificarsi non più giustificato, sarebbe predicabile una lettura dell'art. 3 comma 7
legge n. 89 del 2001 nel senso che le risorse necessarie per l'erogazione
dell'indennizzo debbono essere reperite e rese disponibili dall'Amministrazione entro
sei mesi dal passaggio in giudicato della decisione di condanna.
Tuttavia, la Sezione ritiene che una tale operazione di "ortopedia" della previsione
normativa vada ben oltre i limiti della normale attività ermeneutica, finendo non già
per ricavare un significato fra i tanti astrattamente possibili del precetto, ma per
costruire una vera e propria nuova disposizione, sostituendo quella che è una mera
indicazione di possibili condizioni ostative all'immediata corresponsione
dell'indennizzo con la previsione di un onere di reperimento dei fondi a carico
dell'Amministrazione (oltre tutto, con fissazione di un termine perentorio).
Quanto sopra appare confermato dalla circostanza che mai la giurisprudenza che si è
occupata del problema, ivi comprese le sentenze oggetto degli appelli qui all'esame,
ha ipotizzato una siffatta esegesi della norma interna, ragionando invece sempre in
termini di irriducibile contrasto fra essa e i principi della Cedu, nonché - se del caso
e, come si è visto, in maniera non condivisibile - di "disapplicazione" della prima.
15.4. Ai rilievi fin qui svolti può aggiungersi, richiamando la giurisprudenza
costituzionale cui si è sopra fatto riferimento, che nel caso di specie, oltre al conflitto
tra fonte interna e Cedu nel senso appena precisato, ricorre anche l'ulteriore
presupposto dell'esistenza di un diverso parametro costituzionale sul quale sarebbe
astrattamente possibile fondare la legittimità della norma interna; in altri termini,
potrebbe ricorrere proprio una di quelle situazioni "eccezionali", che soltanto la Corte
costituzionale è abilitata a individuare, in cui l'esistenza di un principio fondamentale
del diritto interno, di rango costituzionale, è suscettibile di escludere l'idoneità della
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previsione della Cedu a fungere da "norma interposta" del parametro ex art. 117
comma 1 Cost.
È noto, infatti, che con la L. cost. 20 aprile 2012 n. 1, l'art. 81 della Costituzione è
stato modificato, introducendovi la regola dell'equilibrio di bilancio (comma 1),
prevedendo il ricorso all'indebitamento solo in circostanze eccezionali e in presenza
di un iter rafforzato (comma 2) e introducendo una fonte normativa del pari
"rinforzata" per la definizione delle regole e dei criteri generali della legislazione sul
bilancio pubblico (comma 6).
Come noto, e come è dato evincere dalla lettura dei lavori parlamentari a monte della
riforma costituzionale, quest'ultima è stata resa necessaria dalla necessità di
assicurare il rispetto dei vincoli derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione
europea, al fine di garantire il mantenimento negli Stati membri di livelli di disavanzo
e debito predefiniti a livello europeo; tali obiettivi si è ritenuto di perseguire, oltre che
con l'introduzione di più incisivi controlli a livello dell'Unione europea già nella fase
di formazione del bilancio annuale, prevedendo un complesso di regole e meccanismi
atti ad assicurare il monitoraggio costante del bilancio nella sue varie articolazioni
(anche in relazione ai diversi settori dell'Amministrazione pubblica), la verifica
preventiva e la valutazione di ciascun impegno di spesa in relazione alla necessità di
mantenere l'equilibrio tra poste attive e passive, e in definitiva il tendenziale
perseguimento di tale equilibrio in via ordinaria e costante, salvo per ipotesi
eccezionali e temporalmente delimitate.
Esiste dunque un complesso di principi, di rango costituzionale e comunitario, in
virtù dei quali ben potrebbe astrattamente predicarsi l'illegittimità di una regola di
valore sub-costituzionale - quale è, secondo il costante orientamento della Corte
costituzionale, il valore delle norme della Cedu - alla stregua della quale affermare
l'obbligo dell'Amministrazione di reperire sempre e in qualsiasi momento, se
necessario anche attraverso variazioni di bilancio, le risorse finanziarie necessarie ad
assolvere agli obblighi indennitari derivanti dalle decisioni di condanna per eccessiva
durata del processo ai sensi della legge n. 89 del 2001.
Al contrario, è noto che per l'assolvimento dei detti obblighi è stabilita in bilancio
un'apposita voce basata, come per tutte le altre voci di spesa, su una previsione
approssimativa dell'ammontare complessivo delle somme che lo Stato sarà chiamato
a erogare a seguito delle condanne subite nel periodo finanziario di riferimento (stima
la quale verosimilmente si fonda sul valore medio delle condanne riportate negli
analoghi periodi immediatamente precedenti e su altri elementi presuntivi); ma il
problema nasce nell'ipotesi, tutt'altro che infrequente nella pratica, in cui le somme
stanziate in bilancio si rivelino insufficienti a coprire il debito complessivo riveniente
dalle condanne de quibus.
Risulta del tutto evidente, pertanto, come debba essere rimessa esclusivamente alla
Corte costituzionale la valutazione in ordine non solo alla compatibilità fra l'art. 3
comma 7 legge n. 89 del 2001 e l'art. 6 par. 1 della Cedu (nel senso più volte
precisato), ma anche - una volta verificato il conflitto tra le due fonti - a quale delle
due debba effettivamente prevalere, stante il descritto quadro normativo di
riferimento costituzionale e comunitario.
9
16. Per le ragioni dianzi esposte, questa Sezione solleva la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 3 comma 7 L. 24 marzo 2001 n. 89, in relazione all'art. 117
comma 1 Cost., per tramite della norma interposta costituita dall'art. 6 comma 1 della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
17. Il presente giudizio va quindi sospeso in attesa della decisione della Corte
costituzionale; ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e in ordine alle spese del
giudizio viene riservata alla decisione definitiva.
ASTREINTES, CEDU E VINCOLO AL PAREGGIO DI BILANCIO
(nota ad ordinanza di Consiglio di Stato, Sezione IV, 17 febbraio 2014, n. 754)
1) La ordinanza presenta tre elementi di interesse.
Il primo è la ammissione della c.d. astreinte rispetto alla esecuzione di
condanne al pagamento all’equo indennizzo per eccessiva durata del processo.
Il secondo è la efficacia giuridica nell’ordinamento italiano dei precetti di fonte
CEDU (si avverte che quanto si svolgerà al paragrafo 3 aggiorna e completa le
informazioni fornite nelle precedenti note apparse in Giurisdizione amministrativa:
Parità di genere negli organi collegiali (2011, II, 1185 e ss.); Termovalorizzatore di
Acerra: rifiuti, legge provvedimento, CEDU, espropriazione e proprietà (2011, I,
1451 e ss.), La responsabilità per errore dei magistrati. Problemi di ottemperanza
alla giurisprudenza U.E. (III, 95 e ss.).
Il terzo è la forza condizionante della regola dell’equilibrio di bilancio stabilita
dal nuovo testo degli articoli 81 e 97 della Costituzione e, in particolare, la idoneità
da parte di questi a giustificare l’apparato pubblico per il non adempimento ai propri
obblighi.
Si dà qualche ragguaglio su ciascuno di essi.
2) La misura della c.d. astreinte e, cioè, di una penalità stabilita dal Giudice
amministrativo per il caso della mancata esecuzione degli obblighi nascenti dal
giudicato, è prevista dall’art. 114, comma 4, lettera e del Cod. proc. amm..
Non è uguale a quella prevista dall’art. 614-bis del Cod. proc. civ..
La sua emanazione è impedita, oltre che dal carattere “manifestamente iniquo”
che in concreto potrebbe assumere, anche da “altre ragioni ostative” rilevabili dal
Giudice, mentre la emanazione della misura di cui all’art. 614-bis del Cod. proc. civ.
è impedita solo dalla prima circostanza e, cioè, dal carattere “manifestamente
iniquo”, senza spazio per la valutazione di altre condizioni ostative. Nel caso della
c.d. astreinte del processo amministrativo, la possibilità del Giudice di disporre la
misura è, quindi, più ristretta che nell’altro, delle misure di cui all’art. 614- bis del c.
p.c.
Inoltre, mentre per quanto riguarda la c.d. astreinte del processo
amministrativo, la disposizione di cui all’art. 114. c. 4, lettera e del Cod. proc. civ.
10
non contiene alcun esplicito riferimento ad uno specifico tipo e contenuto della
sentenza, per la misura propria del processo civile, l’art. 614-bis del Cod. proc. civ.
reca un esplicito riferimento alla sentenza di condanna e nella rubrica un esplicito
collegamento ad obblighi di fare infungibili, o di non fare.
Ancora, mentre per quanto riguarda la c.d. astreinte del processo
amministrativo, l’art. 114 del Cod. proc. amm. non fornisce al Giudice alcun criterio
o vincolo di quantificazione, l’art. 614- bis stabilisce un insieme di parametri di
quantificazione.
Infine, mentre la c.d. astreinte del processo amministrativo è disposta nella
sede della ottemperanza, la misura propria del processo civile è disposta nella sede
della definizione del giudizio di cognizione.
La c.d. astreinte del processo amministrativo, in sintesi, sembra uno strumento
generale di coazione per l’adempimento degli obblighi nascenti dal giudicato
amministrativo (e, inversamente, di deterrente nei confronti dell’inadempimento degli
stessi); la misura di cui all’art. 614- bis del Cod. proc. civ. sembra, invece, un rimedio
specifico per la evenienza del mancato adempimento di obblighi di fare infungibili o
di non fare stabiliti dalla sentenza. Ciò, naturalmente, vale riguardo al debitore; nulla
esclude che, sia la c.d. astreinte del processo amministrativo, sia la misura di cui
all’art. 614-bis del Cod. proc. civ. abbiano una ulteriore funzione e ulteriori risultati
pratici, dipendenti dalla destinazione del pagamento, in un caso e nell’altro verso il
creditore privato (che all’esito finale comunque si impingua) di una somma di denaro.
Si è dubitato se la c.d. astreinte del processo amministrativo possa collegarsi ad
obblighi del giudicato aventi carattere pecuniario, aggiungendosi alla rivalutazione
monetaria, agli interessi legali e all’eventuale risarcimento del danno.
La giurisprudenza per diversi anni è stata divisa, presentando, però, una
marcata prevalenza della tesi affermativa, in generale seguita dal Consiglio di Stato,
non solo nel presente caso (con la sentenza della Sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 462),
ma anche in molti altri (sola eccezione sembra essere la pronuncia di Sez. III, 6
dicembre 2013, n. 5819) e da diversi T.A.R. (ad esempio: T.A.R. Basilicata, Sez. I, 6
giugno 2013, n. 335 e poi 22 aprile 2014, n. 277; in parte T.A.R. Salerno, Sez. I, 8
marzo 2013, n. 591, particolarmente interessante perché prende esplicitamente in
considerazione il caso dell’indennizzo per eccessiva durata del processo; nonché, in
parte, T.A.R. Lazio, con le sentenze della Sez. I, 24 ottobre 2012, n. 8746, 2
novembre 2012, n. 9003, 6 dicembre 2012, n. 10179 e 7 gennaio 2013, n. 81, che ha
riguardato la vicenda in esame, e poi 8 gennaio 2013, n. 566)
La tesi negativa è stata seguita da alcuni T.A.R. (tra i quali T.A.R. Napoli, Sez.
IV, 15 aprile 2011, n. 2162, 29 maggio 2012, n. 2554, 3 dicembre 2012, n. 4887, 22
maggio 2013, n. 2671; T.A.R. Catania, Sez. II, primo febbraio 2013, n. 371 e, prima,
22 maggio 2012, n. 1287; T.A.R. Catanzaro, Sez. I, 27 luglio 2012, n. 851 e in parte
T.A.R. Lazio, con le sentenze Sez. I, 29 dicembre 2011, n. 10305, Sez. II, quater, 31
gennaio 2012, n. 1080, Sez. II, 5 marzo 2013, n. 2318e 2 gennaio 2014, n. 21, che ha
motivato con la iniquità che sarebbe assunta dalla c.d. astreinte; T.A.R. Salerno, Sez.
I, 25 marzo 2014, n. 622, che ha presentato la mancanza di fondi da parte della
amministrazione come una condizione di inesigibilità della prestazione).
11
Su tutto ciò, però, di recente, è intervenuta l’Adunanza plenaria, con la
sentenza n. 15 del 25 giugno 2014 (pubblicata nel sito, con nota di V. VITALE).
Questa, con esaurienti motivazioni sistematiche e comparatistiche, ha statuito
affermativamente sulla compatibilità, in sede di giudizio di ottemperanza, tra
condanna pecuniaria e misura di cui all’art. 114, comma 4 lettera e del Cod. proc.
amm. (c.d. astreinte). Non ha considerato rilevante che la misura sostanzia per il
creditore privato un vantaggio ulteriore rispetto al risarcimento del danno, mentre
circa la difficoltà del debitore pubblico a soddisfare il credito derivante dai vincoli di
bilancio, ha prospettato che essa può trovare considerazione nell’ambito del limite
delle “ragioni ostative” previsto dalla disposizione del Cod. proc. amm. in aggiunta a
quello della manifesta iniquità.
Sicuramente la pronuncia della Adunanza plenaria ha fornito una forte
indicazione. Non ha, però, risolto definitivamente e completamente i dubbi che si
collegano alla disposizione di cui all’art. 114, comma 4 lettera e del Cod. proc. amm.
.
Innanzitutto è da considerare la dubbia vincolatività formale delle statuizioni
della Adunanza plenaria rispetto ai giudizi futuri: la sentenza di una Sezione semplice
del Consiglio di Stato che risultasse discordante rispetto ad un principio di diritto
statuito dalla Adunanza plenaria non potrebbe per questo essere considerata emanata
in violazione del limite esterno dela giurisdizione con conseguente impugnabilità in
Cassazione (v. al riguardo E. FOLLIERI, L’introduzione del principio stare decisis
nell’ordinamento italiano, con particolare riferimento alle sentenze della Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato, in. Dir. proc. amm., 2012, 1237 e ss., mentre, in
generale, sulle nuove funzioni della Adunanza plenaria, v. : P. SALVATORE,
L’Adunanza plenaria nel Codice del processo amministrativo, in Giurisdiz. amm.,
2012, IV, 49 e ss., S. OGGIANU, Giurisdizione amministrativa e funzione
nomifilattica- L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, Padova 2011 e M.
SANINO, Funzione pretoria della giurisprudenza amministrativa: la nuova
collocazione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in Giurisdiz. amm. 2011,
IV, 49 e ss..
In secondo luogo, la sentenza della Adunanza plenaria, oltre a contemplare
come fisiologico un margine di apprezzamento del Giudice sull’ammontare della c.d.
astreinte (aspetto su cui si era speso il T.A.R. Lazio, nella sentenza Sez. I, 24 ottobre
20112, n. 8746), lascia del tutto aperta la questione della decorrenza nel calcolo della
stessa. Al riguardo, in particolare V. VITALE, nella sua nota rileva che secondo la
sentenza della Sezione IV del Consiglio di Stato 22 maggio 2014, n. 2653 la c.d.
astreinte può operare solo per il futuro e, cioè, per gli inadempimenti rispetto alle
statuizioni della sentenza resa all’esito del giudizio di ottemperanza e non per gli
inadempimenti pregressi (nello stesso senso di tale sentenza era stata anche quella di
T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. II, 9 febbraio 2012, n. 214).
In terzo luogo, la sentenza dell’Adunanza plenaria, ha dato rilievo alla
circostanza che la c.d. astreinte dell’art. 114 del Cod. proc. amm. è sottoposta a un
duplice ordine di limiti (manifesta iniquità e ragioni ostative) a differenza della
misura di cui all’art. 614-bis del Cod. proc. civ., sottoposta all’unico limite della
12
manifesta iniquità e quindi ha dato spazio alla possibilità per il Giudice di escludere
la comminatoria della misura sia per i casi singoli nei quali riscontri in concreto la
operatività dell’uno o dell’altro limite, sia per classi astratte di casi, nei quali, per una
valutazione a priori abbia ravvisato la sussistenza dell’uno o dell’altro limite. Non si
è, però, inoltrata a considerare espressamente come una omogenea classe di casi
particolari quella della ottemperanza alle sentenze di condanna per violazione del
ragionevole termine di durata del processo (e, ciò, ai sensi della legge 24 marzo 2001,
n. 89), benché la ordinanza di remissione (Sez. IV, 18 aprile 2014, n. 2004) avesse
posto il problema della applicabilità della c.d. astreinte “in particolare all’equa
riparazione di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, per la indebita automaticità della
condanna della Amministrazione fatta in assenza della previa verifica dei presupposti
indicati dal Cod. proc. amm.”
A questo riguardo si nota che il giudicato che si forma all’esito del processo
disciplinato dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 ha una connotazione risarcitoria e
riguarda, non direttamente una vicenda sostanziale, ma una vicenda processuale (il
processo indebitamente protrattosi che a sua volta ha sotto di sé una vicenda
sostanziale.
In un caso la c.d. astreinte va a rafforzare una statuizione giurisdizionale che è
intervenuta direttamente su una vicenda sostanziale. Nell’altro caso la c.d. astreinte
rafforza una statuizione giurisdizionale intervenuta in un processo a finalità
risarcitoria. Quest’ultimo ha come oggetto una condotta processuale dell’apparato
pubblico in un precedente processo, che può essersi chiuso nei modi più disparati e,
cioè con l’esito di una statuizione generosamente satisfattiva, come con una pesante
soccombenza (v. sentenza della Corte costituzionale 9 maggio 2014, n. 114 che ha
riaffermato il diritto all’indennizzo anche in caso di soccombenza). In un caso
funziona da integrazione e rafforzamento di un processo di ottemperanza che, come
fisiologica prosecuzione del giudizio di cognizione è ancora compenetrato con la
vicenda sostanziale; nell’altro integra e rafforza un giudizio intervenuto su un altro
giudizio, per non dire che può intervenire su un altro giudizio intentato ex legge 24
marzo 2001, n. 89 (quello che per la sua ricorrenza ha ormai un nome proprio, di
“Pinto bis”, sul quale in dottrina v. M. DE SANTIS, La costituzionalmente garantita
ragionevole durata del processo e la recente modifica alla legge Pinto, in w.w.w.Il
ricostituente, 2013, mentre in giurisprudenza in generale su questi tema, v. Corte
d’appello di Firenze, ord. 8-13 maggio 2014).
Considerando le vicende dal punto di vista dell’interesse del ricorrente,
appaiono tutelati, in un caso un interesse collegato ai casi ordinari della vita, legati a
patrimonio, famiglia, libertà, ecc., nell’altro un interesse relativo al modo in cui si è
svolto un precedente processo e diretto ad ottenere qualcosa in più o di diverso
rispetto all’esito di quest’ultimo processo.
Si può continuare ragionando in termini sostanziali di vantaggio o di
svantaggio.
Non si nega che l’esito di una condanna ai sensi della legge n. 89 del 2001 sia
un risarcimento.
Non si nega che la c.d. astreinte del processo amministrativo sia una sanzione.
13
E’ anche certo, però, che la condanna ai sensi della legge n. 89 del 2001 opera
per l’apparato pubblico come una sanzione.
Altrettanto certo è che la c.d. astreinte si risolve per l’amministrato in un
vantaggio economico, che si somma agli interessi legali, alla rivalutazione e
all’eventuale risarcimento del danno.
In altre parole: la circostanza che la condanna ai sensi della legge n. 89 del
2001 abbia una finalità risarcitoria non esclude che la stessa produca un effetto
sanzionatorio, la circostanza che la misura della c.d. astreinte abbia una finalità
sanzionatoria non esclude che questa produca un beneficio economico per
l’amministrato.
Considerando le misure in senso finalistico e, cioè, dello scopo per cui sono
state istituite, può essere esatto valorizzare nella condanna ex legge n. 89 la
componente risarcitoria e nella c.d. astreinte quella sanzionatoria. Altrettanto esatto
sarebbe in presenza di norme giuridiche che dessero peso alla finalità risarcitoria, o,
invece, sanzionatoria, distinguere tra l’una e l’altra misura.
Considerando le misure, invece, dal punto di vista della loro oggettività e della
pienezza dei loro effetti, non ci si può limitare a dare peso a quello che esse
producono solo su una delle due parti (tra l’altro, diversa in un caso e nell’altro,
perché in un caso è quella privata, nell’altro è quella pubblica). Si deve, al contrario,
dare peso a tutto quello che le misure producono: in un caso una erogazione al
cittadino e un esborso per lo Stato; nell’altro un esborso per lo Stato e una erogazione
al cittadino, il che è identico. Poiché la disposizione di cui all’art. 114 c. 4, lettera e,
pone come ostacolo per la erogazione della c.d. astreinte che “ciò sia manifestamente
iniquo” e, cioè, impone una valutazione delle circostanze sulla base della oggettività
economica, alla luce di tutto ciò, la aggiunta della c.d. astreinte a quanto dovuto in
sede di ottemperanza ad una sentenza emanata sulla base della l. n. 89 appare un
sostanziale iniquo bis in idem, come tale da evitare.
In giurisprudenza la considerazione equitativa (anche se non gli stessi termini
in cui la si è ora esposta) è ben presente in: T.A.R. Lazio, Sez. II, 2 gennaio 2014, n.
21, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. IV, 29 maggio 2012, n. 2254 e 22 maggio 2013 n.
2671.
In dottrina sulla c.d. astreinte, v.: L. VIOLA, Nuovi poteri sanzionatori del
giudice amministrativo, astreintes e giudizio di ottemperanza, in Riv. it. dir.pubbl.
com. 2012, n. 579 e ss. (che si sofferma sulla ammissibilità della astreinte nei
confronti delle condanne pecuniarie del Giudice amministrativo).
Di recente, sui problemi originati dalla l. 89 del 2001, v.: F. DEL GROSSO e
V. ESPOSITO, La ragionevole durata durata del processo: tra aspetti giuridici ed
economici, in w.w.w.diritto e giustizia, 7 marzo 2013; G. SORRENTI, I criteri
adottati dalla Corte di Strasburgo per la ragionevole durata del processo, in
w.w.w.Costituzionalismi, 2013; E. DALMOTTO, Diritto all’equa riparazione per
l’eccessiva durata del processo, in A.A. V V., Misure acceleratorie e riparatorie
contro l’irragionevole durata dei processi; commento alla legge 24 marzo 2001, n.
89, Torino 2002 e L. PROSPERI e C. NIGRO, L’irragionevole durata dei processi,
cause e rimedi per la violazione del diritto alla giustizia, Forlì, 2009.
14
3) Il secondo elemento di interesse presentato dalla ordinanza è costituito dalla
efficacia giuridica nell’ordinamento italiano dei precetti di fonte CEDU.
Al riguardo una delle sentenze di primo grado (e, cioè, la n. 83 del 2013)
riguardata dal processo di appello (nel quale sono intervenute la presente ordinanza e
prima ancora la sentenza n. 462 del 2014) ha statuito che la disposizione di cui all’art.
3, comma 7, della legge n. 89 del 2001, secondo cui in caso di condanna all’equo
indennizzo “l’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene nei limiti delle
risorse disponibili” è da sottoporre ad “una interpretazione restrittiva
(sostanzialmente, la disapplicazione)” al fine di evitare il contrasto con le statuizioni
della Corte EDU, per le quali la mancanza di risorse finanziarie non integra “idoneo
fondamento giustificativo al fine di disattendere l’adempimento di una ragione di
debito che abbia ricevuto riconoscimento in sede giurisdizionale (cfr. sentenza
Cocchiarella del 29 marzo 2006, punto 90 e sentenza Gaglione, del 21 dicembre
2010, punto 35)”. Il passaggio argomentativo di tale sentenza appare sfumato, perché
tende a presentare una continuità tra non applicazione e interpretazione restrittiva.
Analoghe a tale sentenza sono quelle di: T.A.R. Basilicata, Sez. I, 6 giugno 2013, n.
335 e T.A.R. Brescia, Sez. II, 9 febbraio 2012, n. 214 (entrambe per la
disapplicazione - interpretazione restrittiva, ma una delle due, è cioè, quella del
T.A.R. Brescia, riformata dalla sentenza del Co. Stato, Sez. IV, 13 giugno 2013, n.
3293, che ha concluso per la vincolatività della disposizione di cui all. art. 3, comma
7 della legge n. 89).
L’ordinanza al riguardo ha compiuto diverse messe a punto.
Innanzi tutto ha fatto propria la tesi per cui l’ordinamento CEDU è fonte di
vincoli nei confronti della potestà legislativa a ragione del dettato dell’articolo 117
della Costituzione, per il quale la potestà legislativa è sottoposta ai vincoli derivanti
dagli obblighi internazionali e del riconoscimento dell’ordinamento CEDU come
insieme di puri obblighi internazionali. L’ordinanza, ad essere precisi, alla lettera
menziona come fonti di vincoli le “norme” della CEDU, ma sia perché fa
contestualmente riferimento alla Corte EDU, sia perché nella questione degli
indennizzi per la eccessiva durata del processo la normativa italiana si profila
contrastante, non con esplicite statuizioni della CEDU, ma con statuizioni
giurisprudenziali, è esatto pensare che la ordinanza consideri la totalità delle
determinazioni giuridiche operanti nell’ambito individuato dalla CEDU (e, cioè, sia
le statuizioni stabilite dalla Carta, sia le statuizioni giurisprudenziali, sia ogni altro
atto o fatto capace di porre imperativi giuridici nel predetto ambito) e, quindi, in
definitiva la interezza dell’ordinamento individuato dalla CEDU. Conseguentemente
la ordinanza statuisce che un contrasto di una legge con le determinazioni
dell’ordinamento individuato dalla CEDU costituisce violazione dell’articolo 117
della Costituzione (che ha elevato tale ordinamento a fonte di vincoli per il
legislatore) e, quindi, si risolve in illegittimità costituzionale (l’ordinanza non ha
toccato il pur presente problema della eventuale prevalenza delle determinazioni
dell’ordinamento CEDU sui precetti costituzionali).
15
L’ordinanza, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale, ha
escluso che le determinazioni dell’ordinamento individuato dalla CEDU abbiano
direttamente prevalenza sulla normativa italiana, impedendone la applicazione, in
altri termini che abbiano lo stesso regime delle determinazioni dell’ordinamento della
UE.
Al riguardo, innanzitutto, richiamando le sentenze della Corte costituzionale
nn. 348 e 349 del 2007, ha implicitamente escluso che si possa far rientrare la CEDU
in quanto tale nella considerazione dell’articolo 11 della Costituzione, in analogia e
parallelismo con l’ordinamento della UE.
Successivamente ha preso in considerazione la tesi della c.d.
comunitarizzazione della CEDU, per la quale le determinazioni dell’ordinamento
individuato dalla CEDU avrebbero assunto la stessa forza giuridica di quelle
dell’ordinamento della UE per effetto del dettato dell’art. 6 del Trattato sull’Unione
europea e delle citazioni dirette e indirette in esso contenute al diritto di fonte CEDU,
il tutto con riguardo a tutti i rapporti da esse investiti e, cioè, anche a quelli esulanti
dalla competenza della UE. Al riguardo, riprendendo le conclusioni della sentenza
della Corte costituzionale n. 80 del 2011, ha rilevato che le due dirette citazioni della
CEDU compiute dal citato art. 6 non hanno la efficacia di un vero e proprio rinvio:
non la ha quella compiuta al comma 2 (per la quale “l’Unione aderisce alla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali”), per il fatto che la adesione alla CEDU non è ancora avvenuta; non la
ha quella compiuta al comma 3 (per la quale “i diritti fondamentali, garantiti dalla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri
fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”) per il fatto che essa
dà alla CEDU valore solo di fonte di principi e non di diretti precetti. Ulteriormente,
ha rilevato che la indiretta citazione della CEDU compiuta dal comma 1 dell’articolo
6 del Trattato UE (che assegna lo stesso valore giuridico dei Trattati alla Carte di
Nizza del 7 dicembre sui diritti fondamentali della UE, a sua volta prevedente al
comma 3 del suo articolo 52 che la Carta, nella parte in cui contempla diritti
corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, deve essere interpretata nel senso di far
conseguire a tali diritti una protezione non inferiore a quella garantita
dall’ordinamento CEDU) ha valore essenzialmente di canone interpretativo per le
disposizioni della Carta stessa. Espresse queste notazioni negative, o almeno
dubitative, sul pieno valore delle determinazioni di fonte CEDU come determinazioni
giuridiche di fonte UE, l’ordinanza, sempre richiamandosi alla sentenza della Corte
costituzionale n. 80 del 2011, esclude recisamente che i richiami (siano essi semplici
citazioni o veri e propri rinvii) compiuti dall’art. 6 del Trattato UE e dall’art. 52 della
Carta di Nizza alla CEDU possano valere per fattispecie al di fuori dell’ambito di
applicazione del diritto della UE (ciò argomentando dalla disposizione di cui al primo
comma del citato art. 6, per il quale le disposizioni della Carta di Nizza non
estendono le competenze dell’Unione definite dai Trattati e da quella di cui all’art. 51
della stessa Carta di Nizza, per la quale le disposizioni contenute nella Carta stessa
16
sono da applicarsi da parte della UE nel rispetto del principio di sussidiarietà e da
parte degli Stati esclusivamente nella attuazione del diritto della UE).
La ordinanza tiene in considerazione e cita le principali pronunce della Corte
costituzionale sul tema.
Sembra opportuno ricordarle, sintetizzandone i contenuti salienti.
Si tratta delle sentenze: nn. 348 e 349 del 2007; n.39 del 2008; nn. 239, 311 e
317 del 2009; n. 80 del 2011 e n. 210 del 2013.
Sentenza n. 348 del 2007.
In via preliminare cita diversi precedenti giurisprudenziali di applicazione di
statuizioni di fonte CEDU, in luogo di quelle di fonte italiana, presentandole
nettamente in questi termini e senza preoccuparsi di presentarli come risultato di
operazioni di adattamento interpretativo (v. ad esempio, sentenza di Cass. Sez. Un, n.
28507 del 2005).
Esclude, quindi, che la CEDU abbia creato un ordinamento giuridico
sovranazionale qualificabile ai sensi dell’art. 11 della Costituzione e, quindi, rispetto
al quale possano essere riscontrate cessioni di sovranità da parte dello Stato italiano
nel senso di limitazioni della efficacia delle proprie statuizioni, se difformi rispetto a
quelle della prima. Ripetutamente, però, riconosce carattere vincolante alla
interpretazione della CEDU fornita dai suoi organi giurisdizionali (il che almeno
latentemente contrasta con la affermazione, pur compiuta, che la CEDU sia un puro
trattato internazionale, fonte di obblighi tra gli Stati e non l’elemento fondante di un
vero ed effettivo ordinamento).
Espone, poi, che l’articolo 117 della Costituzione impone alla legislazione sia
statale, sia regionale, il vincolo del rispetto delle norme CEDU (così come
interpretate dalla Corte) e che, quindi, tali norme costituiscano parametro di
legittimità per la legislazione (quale c.d. fonte interposta tra essa e la Costituzione),
con la ulteriore precisazione che esse si pongono ad un livello gerarchico intermedio
tra la Costituzione e la legge ordinaria, concretizzando e rendendo operativo il
parametro costituito dall’articolo 117 della Costituzione (tutto ciò, pur avendo in
precedenza evidenziato che la normativa di fonte CEDU, essendo stata in Italia
recepita da una fonte di rango primario; su ciò in dottrina, v. il chiarificatore
contributo di S. M. CICCONETTI, Creazione indiretta del diritto e norme interposte,
in Diritto e società, 2008, 581 e ss., il quale esclude che la qualità di “norma
interposta“ costituisca un grado nella gerarchia delle fonti).
Conclusivamente la sentenza statuisce che il Giudice, nel caso in cui si profili
un caso di concorrente applicabilità di disposizioni di legge e di normativa di fonte
CEDU, deve preliminarmente sforzarsi di interpretare le prime conformemente alle
seconde e in caso di impossibilità, vale a dire di contrasto tra le une e le altre,
sottoporre la questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale, affinché
questa verifichi la conformità delle prime alle seconde e, prima ancora, delle seconde
rispetto alla Costituzione (a quest’ultimo riguardo rivendica alla Corte EDU la
competenza a giudicare se le norme di fonte CEDU, invocate come integrazione del
parametro costituzionale, nella interpretazione ad esse data dalla medesima Corte
siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano).
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Sentenza n 349 del 2007. Rispetto alla precedente ha le stesse conclusioni, ma
differisce per alcune sfumature argomentative.
In via preliminare cita le precedenti pronunce relative al valore della normativa
CDU, evidenziando la forza esplicativa delle disposizioni costituzionali ad essa
pressoché costantemente riconosciuta (con questo evidentemente indicando una linea
di propensione verso la integrazione tra ordinamento interno e determinazioni di
fonte CEDU e mostrando gli spazi aperti ad una interpretazione delle disposizioni del
primo conforme alle seconde).
Statuisce (allo stesso modo della precedente sentenza n. 348), che la CEDU
non può essere considerata fonte di limitazione della sovranità statale e riconosce che
le statuizioni della Corte EDU sono sempre rivolte allo Stato (il che fa apparire
tuttora operante il diaframma dello Stato tra i singoli e l’ordinamento CEDU, con
conseguente esclusione della applicazione diretta delle disposizioni di quest’ultima),
ma ammette che la Convenzione ha stabilito un sistema coeso ed uniforme di tutela
dei diritti fondamentali.
Afferma, alla stessa stregua della sentenza n. 348, che l’articolo 117 della
Costituzione ha individuato nella normativa CEDU la forza di parametro di
costituzionalità nei confronti della legge, quale c.d. normativa interposta. Circa il
rango di questo, anche tale sentenza appare non del tutto univoca: da un lato, alla
stessa stregua della sentenza n. 348, evidenzia che la CEDU è stata recepita in Italia
con legge ordinaria, dall’altro come la sentenza n. 348, tende a conferire a questa un
rango superiore rispetto a quello della legge ordinaria, non come vero e proprio
livello intermedio tra Costituzione e legge ordinaria (come aveva affermato la
sentenza n. 348), ma quale normativa oggetto di “rinvio mobile” da parte dell’articolo
117 della Costituzione, il che non è esatto, perché la normativa CEDU è stata fatta
oggetto di adattamento da parte dell’ordinamento interno attraverso la legge di
autorizzazione alla ratifica n. 848 del 1955. Precisa che comunque la normativa di
fonte CEDU è sottoposta a controllo di costituzionalità.
La sentenza reca poi un ampio svolgimento sulla c.d. comunitarizzazione della
normativa di fonte CEDU, rilevando che anche ammesso che i principi da essa
stabiliti integrano l’ordinamento comunitario in forza dei richiami contenuti nei
Trattati (e ora nel Trattato di Lisbona), ciò varrebbe solo per i rapporti rientranti
nell’ambito di applicazione del diritto della UE.
Nel ricapitolare le evenienze da prospettare nel caso in cui una fattispecie si
presta ad essere disciplinata in concorso da una disposizione di fonte statale e da una
di fonte CEDU, ricalca le conclusioni della precedente sentenza n. 348, ma sembra
più recisa nell’additare come prioritario il tentativo di interpretazione delle prime in
confronto alla seconda (va considerato anche la ricordata premessa della sentenza
sulla precedente giurisprudenza della Corte, evidenziante un orientamento in tal senso
già consolidato da tempo) e altresì più orientata a riconoscere, da un lato, il ruolo
della Corte EDU nell’interpretare le disposizioni di fonte CEDU e dall’altro, ad
attribuirsi il compito di verificare se le norme CEDU, nella interpretazione data dalla
Corte di Strasburgo, garantiscano una tutela dei diritti fondamentali equivalente al
livello garantito dalla Costituzione (postula la possibilità di un giudizio di
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“equivalenza” sulla tutela dei diritti e lo rivendica a sé, il che vale a dare l’idea di uno
spostamento della tutela dei diritti, dalle disposizioni scritte e dal ragionamento
sillogistico sulla base di esse, agli equilibri tra le Corti).
Sentenza n. 39 del 2008. Essa richiama totalmente le conclusioni delle
sentenze nn. 348 e 349, con una forte sottolineatura, però, del carattere vincolante per
gli Stati della interpretazione della Corte EDU (fermo restando l’eventuale scrutinio
di costituzionalità su di esse).
Sentenza n. 239 del 2009. Anch’essa ha pienamente ripreso le conclusioni
delle sentenze nn. 348 e 349, sottolineando in modo piuttosto incisivo che in presenza
di una divergenza tra la lettera della disposizione interna e la normativa di fonte
CEDU, è da esperire in via prioritaria un tentativo di interpretare la prima in modo
conforme alla seconda.
Sentenza n. 311 del 2009. Riprende le conclusioni della precedente
giurisprudenza (in specie della sentenza n. 349), specificando, con riguardo al vincolo
per il Giudice ad esperire in via prioritaria il tentativo di interpretare le disposizioni
interne alla stregua della normativa di fonte CEDU, avvalendosi di “tutti i normali
strumenti dell’ermeneutica giuridica” e, ulteriormente, rivendicando a sé, al momento
del’eventuale giudizio sul contrasto tra l’una e l’altra, la ricerca di “interpretazione
plausibile della norma interna, rispetto alla norma convenzionale”).
Reca, però, degli elementi, o degli spunti nuovi, circa la vincolatività del
parametro costituito dai precetti di fonte CEDU, imperniati sulla considerazione (per
la prima volta rispetto alle precedenti sentenze) dell’articolo 53 della CEDU, per il
quale le disposizioni della Convenzione sono da interpretare nel senso di collegare ad
esse un livello di tutela almeno pari a quello garantito dalle norme interne. Così, essa,
a lato rispetto alla riaffermazione della intangibilità per la Corte costituzionale della
interpretazione della CEDU fornita dalla Corte EDU di Strasburgo, afferma con forza
la possibilità per la Corte costituzionale di verificare se le norme della EDU
(risultanti dalla interpretazione della Corte di Strasburgo) sono conformi a
Costituzione (fin qui ricalca le precedenti sentenze) e, in particolare, di verificare se
la norma CEDU non stabilisca dei livelli di tutela inferiori rispetto a quelli garantiti
dal diritto interno (in tal caso l’esito dovrebbe essere la inoperatività di tale norma e
la illegittimità per quanto di ragione della legge di adattamento n. 848 del 1955).
Sentenza n. 317 del 2009. Essa contraddice la precedente giurisprudenza e in
particolare le due sentenze c.d. madri n. n. 348 e 349, ma sviluppa e porta a completa
elaborazione lo spunto che la precedente sentenza aveva tratto dall’ 53 della CEDU.
Ha in via generale e preliminare affermato che è necessario compenetrare tre
tutele: quella interna a livello legislativo, quella interna a livello costituzionale e
quella pattizia da parte della CEDU. Da ciò ha tratto la conclusione che la valutazione
finale circa la consistenza effettiva della tutela è frutto della combinazione tra
l’obbligo che grava sul legislatore di adeguarsi ai principi posti dalla CEDU (così
come interpretata dalla Corte di Strasburgo), l’obbligo che incombe al Giudice di
dare alla normativa interna una interpretazione conforme ai precetti della CEDU e,
infine, l’obbligo che incombe sula Corte costituzionale (ove sia risultata impossibile
una interpretazione adeguatrice da parte del Giudice) di impedire che continui ad
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avere efficacia nell’ordinamento interno una norma della quale sia stato accertato il
deficit di tutela rispetto ad un diritto fondamentale. Precisa, quindi, che di fronte ad
uno specifico caso di concorso di tutele, il compito della Corte costituzionale non può
dare come risultato, né una tutela inferiore a quella già esistente nel diritto interno
(ciò privilegiando una eventuale normativa di fonte CEDU attestata su livelli di tutela
inferiori a quelli stabiliti dal diritto interno), né una tutela inferiore a quella stabilita
dalla normativa di fonte CEDU.
In sostanza, secondo questa impostazione, dovrebbe essere compito della Corte
costituzionale –e prima ancora del legislatore- confrontare la tutela convenzionale
con quella costituzionale e, quindi, accordare preferenza a quella in grado di
realizzare “la massima espansione alle garanzie”, da valutarsi non in modo
frazionato, ma complessivo, in raffronto con altre norme costituzionali che
garantiscono diritti fondamentali che potrebbero essere sacrificati dalla espansione di
una singola tutela, il tutto consentito da quel “margine di apprezzamento nazionale”
che la Corte di Strasburgo riconosce agli Stati. La Corte rivendica a sé il dovere di
garantire a chiusura, in particolare, alla stregua dell’articolo 2 della Costituzione, una
tutela equilibrata di tutti i diritti, tale da evitare che la tutela di alcuni di essi si risolva
in un sacrificio insopportabile di altri ugualmente tutelati dalla Costituzione. In
pratica ha riservato a sé una sorta di supergiurisdizione sui diritti alla stregua
dell’articolo 2 della Costituzione e legittimata in ambito CEDU dalla riserva di
margine di apprezzamento nazionale riconosciuta dalla Corte di Strasburgo. Latente è
la considerazione della normativa CEDU ad un livello pari a quello delle norme
costituzionali, testimoniato dalle espressione “la norma CEDU, nel momento in cui
va ad integrare il primo comma dell’art. 117 Cost., da questa ripete il suo rango nel
sistema delle fonti”.
La sentenza n. 80 del 2011. Essa ha richiamato sinteticamente le conclusioni
della giurisprudenza della Corte in merito al rapporto tra la normativa CEDU, la
normativa costituzionale e la normativa legislativa interna. Al riguardo ha ribadito
che in caso di apparente concorso nella applicabilità di tale normativa a un caso
specifico, è obbligatorio per il Giudice in via prioritaria tentare una interpretazione
delle disposizioni interne in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni
strumento ermeneutico a sua disposizione e in caso di risultato infruttuoso, di
investire la Corte costituzionale, indi, ulteriormente, che è compito della Corte
costituzionale, una volta investita dello scrutinio, di confrontare la disposizione di
diritto interno con la normativa CEDU, previa verifica se essa si ponga in contrasto
con la Costituzione, nel qual caso sarebbe da considerare inidonea a fungere da
parametro di giudizio.
Essa ha poi condotto una scrupolosa verifica sulla possibilità o meno di
considerare la normativa di fonte CEDU assistita dalla stessa forza della normativa di
fonte UE, sia nell’ambito limitato dei rapporti di competenza dell’ordinamento UE,
sia in ambito generale (e, cioè, della sfera di tutti i rapporti in cui la normativa di
fonte CEDU si applica).
Gli altri contenuti di tale sentenza sono stati ripresi pressoché testualmente
dalla ordinanza che si annota e in precedenza illustrati. Per questo non ci si ripete,
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salvo rammentare che la Corte non ha escluso, anzi, ha incluso, che la normativa di
fonte CEDU abbia ora una forza sostanzialmente equiparata a quella dei precetti di
fonte UE nell’ambito dei rapporti sottoposti alla applicazione dei questi ultimi
precetti e in generale rientranti nella sfera dell’ordinamento UE (la Corte ha sostenuto
che il Trattato di Lisbona ha dato nuova forza ai precetti di fonte CEDU, ma ciò solo
nell’ambito dei rapporti rientranti nella competenza dell’ordinamento della UE, in
altre parole, che nell’ordinamento della UE entrano i precetti dell’ordinamento
CEDU, ma limitatamente ai loro contenuti di tutela e non anche con estensione a
quelli di determinazione dell’ambito di applicazione).
Sentenza n. 210 del 2013. Essa in generale ricalca le statuizioni più
consolidate della giurisprudenza precedente (per cui la violazione dei precetti
dell’ordinamento CEDU si risolve esclusivamente in illegittimità costituzionale e non
dà luogo ad esiti di non applicazione, almeno in materie esulanti dalla competenza
del’ordinamento della UE). Reca, invece, elementi nuovi nella parte in cui fa valere il
contrasto delle disposizioni di diritto interno, non con disposizioni della CEDU o, al
limite, con la interpretazione ad esse date dalla Corte di Strasburgo, ma direttamente
con una sentenza di tale Corte e a una specifica soluzione da essa dato ad un caso
sottopostole e fa valere il vincolo di tale sentenza a tutti i casi simili a quest’ultimo,
con il solo limite del giudicato (salva la eccezione in cui il diritto della CEDU
comporta un trattamento sanzionatorio penale più mite rispetto a quello comportato
dal diritto interno, nel qual caso il limite del giudicato non vale).
Ordinanza 9 luglio 2014 n. 223. Alla illustrazione delle pronunce della Corte
costituzionale citate nella ordinanza annotata ed effettivamente costituenti i
riferimenti costanti degli svolgimenti di dottrina, si aggiunge quella di un’altra
recentissima. Essa è intervenuta proprio sull’indennizzo previsto dalla legge n. 89 del
2001 e tocca l’istituto della prescrizione in materia penale, al presente oggetto di
considerazioni più severe che serene e comunque diverse rispetto a quelle del passato.
La pronuncia concerne la diposizione di cui all’art. 2, comma 2 quinquies,
lettera d della legge n 89 del 2001, nella parte in cui alla estinzione del reato per
intervenuta prescrizione collega la esclusione dall’indennizzo, non sempre, ma solo
quando tale estinzione del reato per prescrizione è “connessa a condotte dilatorie
della parte”, a fronte della giurisprudenza della Corte EDU (sentenza 6 marzo 2012,
Gagliano) per la quale, allorché il processo si conclude con la dichiarazione di
prescrizione del reato mancherebbe sempre e comunque un “pregiudizio importante”
tale da far superare la soglia minima di indennizzabilità (ciò indipendentemente dalla
mancanza di condotte dilatorie della parte). Al riguardo la Corte ha statuito che: a) i
livelli di tutela dei diritti prefigurati dalla CEDU nella interpretazione offerta dalla
Corte EDU costituiscono ai sensi dell’art. 117 della Costituzione un limite
inderogabile per il legislatore solo verso il basso e non verso l’altro; b) il rispetto
degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuizione della
tutela stabilita dal diritto interno e vale il principio della “massima espansione” della
tutela (enunciato dalla Corte nella sentenza n. 317 del 2009) con prevalenza della
fonte che stabilisce la tutela più intensa; c) l’art. 53 della CEDU stabilisce che la
interpretazione delle disposizioni della Convenzione non può pregiudicare o limitare i
21
diritti del’uomo riconosciuti in base alle leggi di ogni parte contraente. In sintesi, ha
escluso che disposizioni di diritto interno che appaiono più garantiste rispetto ai
precetti di fonte CEDU siano riconosciute costituzionalmente illegittime in nome
della esigenza di rispetto di norme della CEDU o delle interpretazioni della Corte di
Strasburgo.
Tutto questo svolgimento in termini generali è perfettamente in linea con la
precedente giurisprudenza. C’è, però, la particolarità della utilizzazione dello stesso
in senso favorevole all’istituto della prescrizione (nel senso di evitare trattamenti
discriminatori e penalizzazioni a chi si giova di questo istituto). Evidentemente ciò è
stato compiuto avendo considerato l’ istituto della prescrizione come un istituto di
garanzia, il che è perfettamente giustificato alla stregua della vigente Costituzione
italiana, ma al presente è avversato da parecchi, che tendono ad affermare un diverso
principio di esigenza di tutelare le vittime dei reati attraverso la effettiva condanna
dei colpevoli.
Tutto da vedere è, pertanto, come tale ordinanza sarà accolta; per ora essa fa
sorgere qualche dubbio sulla incontestabilità di risultati che può dare l’applicazione
del criterio della “massima espansione della tutela”.
All’esito del panorama compiuto sulla giurisprudenza della Corte, risulta che
alcune componenti del rapporto tra precetti dell’ordinamento CEDU, diritto della UE,
Costituzione e legge italiana dal punto di vista teorico sono state definite dalla Corte
costituzionale in modo che sembra destinato ad essere stabile. Così è: per il valore di
parametro di legittimità costituzionale che i precetti di fonte CEDU (derivino essi da
disposizioni della Convenzione o dalla giurisprudenza della Corte) posseggono nei
confronti della normativa interna di legge; per la sussistenza di un vincolo in capo a
chi interpreta le disposizioni interne a cercare il risultato più conforme ai precetti di
fonte CEDU, e, quindi, autorizzazione al’impiego di tutti gli strumenti ermeneutici
per giungere a questo risultato (ferma restando la difficoltà di discriminare tra
risultato di attività ermeneutica e non applicazione, come dimostrato dalla stessa
giurisprudenza precedente, riguardo la utilizzazione della disposizione ora sottoposta
al giudizio della Corte costituzionale); per la sussistenza di un “margine nazionale di
apprezzamento” circa l’esito da dare ad un eventuale contrasto tra normativa di legge
interna e precetti di fonte CEDU. La circostanza, tuttavia, che tali componenti del
rapporto tra precetti dell’ordinamento CEDU, diritto della UE, Costituzione e legge
italiana siano state definite in modo certo dal punto di vista teorico non comporta
necessariamente che la utilizzazione dei canoni che da esse si ricavano dia soluzioni
incontestabili allorché condotta nei confronti dei casi concreti, di questo o quel
diritto, o di questa o quella situazione (non è sempre pacifico quale è il risultato
interpretativo più vicino ai precetti di fonte CEDU, quale è il discrimine tra attività
ermeneutica e non applicazione, quale è l’ampiezza del margine nazionale di
apprezzamento e quale è la identità costituzionale nazionale).
Altre componenti, invece, sembrano aver trovato nella giurisprudenza della
Corte costituzionale una sistemazione ancora piuttosto incerta. Tali sono la esatta
collocazione gerarchica dei precetti di fonte CEDU e la attrazione o meno dei precetti
22
di fonte CEDU nel regime di cui all’art. 11 della Costituzione (attitudine ad impedire
la applicazione della normativa interna).
Circa la prima di tali due componenti, nella giurisprudenza della Corte
costituzionale si colgono affermazioni tra loro non coincidenti. A volte i precetti di
fonte CEDU sono considerati pure “norme interposte”, che hanno un rango
gerarchico di legge ordinaria per aver avuto efficacia nel nostro ordinamento in forza
di una legge ordinaria (a parte la loro caratteristica funzionale di “norme interposte”):
tale tesi è di stretto rigore logico, almeno quando il riferimento è alle disposizioni
della CEDU. Altre volte i precetti di fonte CEDU sono stati posti ad un livello
gerarchico intermedio tra la legge ordinaria e la Costituzione (in contrasto con la
qualificazione come “norme interposte” perché queste ultime, al di là della loro
funzionalità di parametri di costituzionalità, sono leggi come tutte le altre, abrogabili
da qualsiasi altra legge successiva). A volte si prospetta una sovra ordinazione per
valore dei precetti della Costituzione rispetto a quelli di fonte CEDU, ammettendo la
prevalenza dei primi sui secondi. A volte, invece, si prospetta una equiparazione tra
precetti di fonte CEDU e precetti della Costituzione (e, cioè, tra tutela dei diritti
sovranazionale e tutela dei diritti nazionale), riconoscendo alla Corte costituzionale il
potere di scegliere tra l’applicazione dell’una o del’altro alla stregua del parametro
supremo dell’art. 2 della Costituzione, in questo modo elevato a norma sovra
costituzionale in accompagnamento ad una collocazione degli altri precetti
costituzionali e dei precetti di fonte CEDU ad un livello inferiore almeno
tendenzialmente appaiato con quello dei precetti di legge ordinaria interna. Postulato
che la Corte costituzionale ha in base all’art. 2 della Costituzione il potere di scegliere
la c.d. tutela più intensa dei diritti e stante che la evidenziazione dei diritti al
momento risulta così spinta che non esiste diritto che non sia in competizione con
altri, non si vede per quale ragione la Corte stessa debba poi limitare la propria scelta
alla tutela apprestata dal diritto CEDU e a quella apprestata dalla Costituzione e non
estenderla anche a quella apprestata dalla normativa di legge interna, pur se a
discapito di statuizioni della CEDU o della Costituzione (ciò che, del resto accade
allorché la Corte enuclea “nuovi diritti”).
Nella giurisprudenza della Corte si colgono affermazioni ancora incerte anche
riguardo la attrazione o meno dei precetti di fonte CEDU nel regime giuridico di cui
all’art. 11 della Costituzione, come appartenenti ad un ordinamento a sé rispetto a
quello della U, capace di assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni, o come
appartenenti all’ordinamento della UE in forza di una attrazione disposta dall’art. 6
del Trattato sulla UE. La Corte ha negato, specie nelle prime sentenze nn. 348 e 349,
che la CEDU abbia caratteristiche di un vero e proprio ordinamento capace di
imporre agli Stati limitazioni di sovranità ed ha riconosciuto valore solo che alle
singole disposizioni della CEDU; progressivamente, però, ha dato rilievo e valore
giuridico alla giurisprudenza della Corte EDU, con questo riconoscendo che, sulla
base della CEDU, si è costruito un vero e proprio ordinamento giuridico dotato di
notevole effettività, il che dovrebbe comportare un ripensamento sulla esclusione che
per tale ordinamento si sia verificato una vicenda analoga a quella che ha riguardato
l’ordinamento del MEC, poi CEE, ora EU (trasformazione in ordinamento
23
originario). Ancora, come si è detto, la Corte ha escluso che il vigore dell’art. 6 del
Trattato sull’Unione europea ( richiamante sia direttamente, sia indirettamente la
CEDU) abbia comportato la attrazione dei precetti della CEDU nel diritto della UE e,
cioè, la c.d. comunitarizzazione della CEDU; ciò, però, è stato compiuto con nettezza
riguardo a questioni di legittimità costituzionale tutte vertenti in materia chiaramente
al di fuori dell’ambito di applicazione del diritto della UE (tali sono state tutte quelle
in cui la Corte ha affrontato il problema della c.d. comunitarizzazione della CEDU),
mentre alla evenienza della applicazione del diritto di fonte CEDU a rapporti
rientranti nella competenza della UE (mai riguardata finora dal giudizio della Corte)
sono state dedicate considerazioni mai conclusive, seppure concordemente orientate
in senso negativo verso la c.d. comunitarizzazione.
Spostandosi dalla giurisprudenza della Corte costituzionale a quella degli
organi di giustizia della UE, si è trovata una parte dei chiarimenti cercati.
La Corte di giustizia della UE, con sentenza 24 aprile 2012, in causa C 571/10
ha escluso la sussistenza di un vincolo da parte del diritto della UE ad attribuire alla
normativa di fonte CEDU lo stesso regime giuridico del diritto della UE, ciò anche in
materia e rapporti disciplinati dal diritto della UE. L’argomento è stato che l’articolo
6 del Trattato UE (invocato a sostegno della c.d. comunitarizzazione, non disciplina il
rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno
determina quali conseguenze il Giudice nazionale deve trarre nella ipotesi di conflitto
tra diritti garantiti dalla CEDU ed una norma nazionale).
La stessa Corte, con sentenza 26 febbraio 2013, in causa C 617/10, ha proposto
una individuazione dell’ambito delle competenze della UE non ristretta alla oggettiva
estensione delle materie elencate nei Trattati, ma estesa a tutto ciò che
finalisticamente può collegarsi alla azione nelle predette materie, individuando un
ambito amplissimo di competenze della UE.
Queste statuizioni della Corte di giustizia UE, che è l’organo riservatario della
interpretazione dei Trattati, danno il segno della labilità dei confini delle competenze
comunitarie e per questo dissuadono dallo stabilire differenze di regime giuridico ai
precetti di fonte CEDU in dipendenza dell’ambito di competenze cui si riferiscono
(se di competenza UE, oppure no, ammettendone la c.d. comunitarizzazione nel
primo caso ed escludendola nel secondo). Viceversa, inducono a cercare una risposta
unitaria. La laconicità, o meglio, la incompletezza della risposta negativa della Corte
di giustizia sulla c.d. comunitarizzazione e le riserve che suscita una eventuale
risposta affermativa (giacché essa equivarrebbe a dire che tutto ciò che è nominato od
evocato dai Trattati della UE, prende la stessa forza di essi) inducono ad ulteriori
approfondimenti.
Qualche aiuto viene dalle disposizioni dei Trattati (finora non considerata per
privilegiare quella che in questo campo è la effettivamente riconosciuta fonte di
certezze e, cioè, la giurisprudenza).
Se ne darà una sommaria parafrasi.
L’Unione europea rispetta la identità nazionale e costituzionale degli Stati
membri (art. 4, comma 2 del Trattato sulla UE, d’ora in poi TUE). Ciò chiarisce in
generale il rapporto tra statuizioni sui diritti nell’ambito della UE e identità nazionali.
24
L’Unione europea aderisce alla CEDU (art. 6, comma 2 del TUE); i diritti
garantiti dalla CEDU (e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali (art. 6, comma
3 del TUE). Qui si hanno le disposizioni del TUE che contemplano direttamente la
CEDU.
L’Unione europea riconosce i diritti e i principi stabiliti dalla Carte di Nizza
del 7 dicembre 2000, che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati (art. 6, comma 1,
primo alinea TUE). I diritti e i principi della Carta di Nizza sono interpretati in
conformità alle disposizioni del Titolo VII della Carta (art. 6, comma 1, terzo alinea
del TUE). Con questo il Trattato della UE attrae a sé, assimilandola, la Carta di Nizza
e stabilisce che le disposizioni di essa sui diritti sono assoggettate alla interpretazione
e qualificazione da essa stessa stabilite. Delle disposizioni di tale Carta che evocano
la CEDU adesso si dirà.
Si va, così alla Carta di Nizza (più precisamente, carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea) e in particolare alle disposizioni del Titolo VII recante la
interpretazione e l’applicazione della Carta stessa. Gli organi dell’Unione e gli Stati
rispettano i diritti stabiliti dalla Carta e osservano i principi stabiliti dalla Carta (art.
51, comma 1). Le disposizioni della Carta che contengono principi sono da attuare
negli atti dell’Unione o degli Stati e possono essere invocate davanti a un giudice ai
fini del controllo di legittimità sugli atti che ne danno attuazione; esse non possono
essere applicate direttamente dagli Stati (art. 52, comma 5 e più chiaramente,
Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, art. 52, penultimo alinea). Se
la Carta prevede diritti corrispondenti a quelli stabiliti dalla CEDU si deve attribuire
ad essi un significato ed una portata tali da portare ad una tutela ragguagliata a quella
stabilita dalla CEDU (art. 52 comma 3). Laddove la Carta riconosce diritti
fondamentali che sono risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni (art. 52, comma
4). Nessuna disposizione della Carta deve essere interpretata come limitativa dei
diritti dell’uomo riconosciuti nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto
dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali
l’Unione o tutti gli stati membri fanno parte, in particolare dalla CEDU, e dalle
costituzioni degli Stati membri (art. 53).
A parte si hanno le disposizioni sull’ambito di applicazione dei diritti stabiliti
dal Trattato UE e dalla Carta di Nizza e, cioè, che la adesione della UE alla CEDU
non modifica le competenze dell’Unione (art. 6, comma 2 TUE) e che la Carta di
Nizza non estende le competenze dell’Unione (Carta di Nizza, art. 51, comma 1 e 2).
In tutto questo c’è una disposizione che “comunitarizza” la CEDU
analogamente a come l’art. 7 della Costituzione “costituzionalizza” i Patti
lateranensi? C’è un vero e proprio rinvio?
Per quanto la nozione di rinvio al momento sia poco studiata e quindi risulti di
incerta portata, specie per quanto riguarda l’oggetto e il risultato, la risposta è
senz’altro negativa perché nelle disposizioni citate non c’è alcuna indicazione in
questo senso, ma solo evocazioni della CEDU, inidonee ad attrarre le disposizioni e
le norme della CEDU al loro stesso regime giuridico (allo stesso modo di come una
25
legge non è in grado di “legificare” un regolamento solo citandolo). Le citate
disposizioni del Trattato UE stanno tutte nell’ambito delle indicazioni al futuro
legislatore (o meglio al soggetto politico che deve promuovere l’adesione alla CEDU)
o all’interprete del diritto.
Stabilire che la UE deve aderire alla CEDU non significa riconoscere da subito
che le disposizioni della CEDU sono vincolanti entro la UE (tra l’altro, l’adesione
non si è ancora realizzata). Affermare che i diritti garantiti dalla CEDU fanno parte
dei principi generali della UE non significa che gli stessi sono direttamente
applicabili dagli Stati (con prevalenza, quindi, diretta sulle norme interne
configgenti), se è vero che la Carta di Nizza (che costituisce parte integrante del
Trattato UE, in modo speciale per la interpretazione delle disposizioni sui diritti)
precisa che i principi, in generale diversi dai diritti e semplicemente da “osservare”
(art. 51) non sono direttamente applicabili dagli Stati (art. 52) e sono equiparati nella
sostanza alle tradizioni costituzionali comuni, alle quali il Trattato UE di certo non
attribuisce forza cogente e sono comunque sottoposte al fattore di limitazione
costituito dalle “identità” degli Stati (art. 4 del TUE).
Queste considerazioni valgono indipendentemente dalla materia nella quale
ricade la prospettata applicazione dei precetti di fonte CEU, e, cioè, sia essa di
competenza della UE, oppure no.
Per quanto l’ambito delle competenze della UE sia vasto e soprattutto al
momento esposto ad una interpretazione con criteri finalistici e, quindi, ad una
notevole estensione ulteriore, con il risultato complessivo che l’ambito dei rapporti al
di fuori delle competenze della UE è molto ridotto e non sempre ben identificabile,
sembra certo che con riguardo ai rapporti collocati in tale amb ito esterno alle
competenze della UE le evocazioni della CEDU da parte del Trattato della UE e della
Carta di Nizza non possono valere perché, come si evidenziato, più di una
disposizione dell’una e dell’altra circoscrivono l’ambito di applicazione di tali
evocazioni (e in generale delle statuizioni sui diritti contenute nel Trattato UE e nella
Carta di Nizza) alle materie di competenza UE così come fissato dalle altre
disposizioni dei Trattati.
Ci si pone, tuttavia, un altro interrogativo. Si constata che la CEDU ha
individuato un vero e proprio ordinamento giuridico, dotato di piena effettività e
ormai nella realtà delle cose, per la incisività delle pronunce della Corte EDU,
limitante la sovranità degli Stati. Perché non considerare tale ordinamento rientrante
nella fattispecie dei cui all’articolo 11 della Costituzione con la consequenziale
diretta applicabilità dei precetti? Certo, può essere comprensibile il timore di
scongiurare il timore della immissione nel nostro ordinamento di una congerie di
precetti giuridici ulteriore a quella del diritto della UE, con l’esito finale di una folla
di precetti e regole giuridiche prevedenti una folla ancora più numerosa di diritti tra
loro configgenti e pervasivi di ogni spazio di pura liceità. Probabilmente, però, per
evitare questo esito sarebbe meglio pensare a un maggior coraggio nel far valere i
controlimiti di apprezzamento nazionale e, in particolare, di rispetto della identità
nazionale e viceversa, iniziare ad arrendersi all’evidenza di un ormai consistente ed
effettivo ordinamento della CEDU in grado di imporsi agli Stati e sicuramente idoneo
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a stabilire condizioni di integrazione giuridica e in definitiva di pace in Europa (in tal
senso, O. POLLICINO, Margine di apprezzamento, art. 10, comma 1 Cost. e
bilanciamento bidirezionale: evoluzione o svolta nei rapporti tra diritto interno e
diritto convenzionale nelle due decisioni n. 311 317 del 2009 della Corte
costituzionale, in w.w.w., Forum costituzionale, 2009 .
A parte l’esito che si è prospettato (che a qualcuno pare prematuro), al
momento resta che i precetti dell’ordinamento della CEDU hanno valore di parametri
di costituzionalità e prima ancora vincolano nella interpretazione degli atti normativi
interni alla individuazione del significato più conforme ad esso. Questa seconda
manifestazione di efficacia, del resto, è quella che tali precetti assumono
nell’ordinamento della UE (si è evidenziato che ai sensi del Trattato, quali principi
posseggono forza solo interpretativa) e risulta più significativa di quello che a prima
vista appare, nel momento in cui si considera la sottolineatura da parte della Corte
costituzionale che la ricerca della interpretazione conforme ai precetti
dell’ordinamento della CEDU deve, e può, realizzarsi con “tutti i criteri ermeneutici”
e quindi comprendendo quelli della analogia e del ricorso ai principi e, ancora, che le
operazioni interpretative in materia di diritti sono intrinsecamente aperte ad
operazioni valutative, attesa la insista indeterminatezza delle disposizioni istitutive e
regolatrici di diritti.
A questo riguardo, estendendosi, si ribadisce che il canone del “margine
nazionale di apprezzamento” e del rispetto della “identità costituzionale”, come
quello della “tutela più intensa”, per quanto stabilmente affermati sono destinati a
dare dei risultati in qualche caso contestabili (giacchè la massimizzazione della tutela
di un diritto porta ad attenuare la difesa di un altro e ci si trova in un contesto di forte
condizione di volatilità della opinione pubblica sulla percezione della importanza
dell’uno o dell’altro diritto).
Il Giudice amministrativo in qualche occasione ha riconosciuto forza decisiva
diretta al diritto di derivazione CEDU (ci si riferisce alla sentenza del Consiglio di
Stato, Sez. IV, 2 marzo 2010, n. 1220 e a quella del T.A.R. Lazio, Sez. III- bis, 18
maggio 2010, n. 11984, nonché in parte alla sentenza della Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato, 10 novembre 2008, n. 11, che ha semplicemente utilizzato il
diritto di fonte CEDU come argomento). In generale, invece, la ha esclusa.
La copiosa dottrina sul valore giuridico delle determinazioni del’ordinamento
CEDU era stata citata nelle precedenti note apparse in Giurisdizione amministrativa:
Parità di genere negli organi collegiali (2011, II, 1185 e ss.); Termovalorizzatore di
Acerra: rifiuti, legge provvedimento, CEDU, espropriazione e proprietà (2011, I,
1451 e ss.), La responsabilità per errore dei magistrati. Problemi di ottemperanza
alla giurisprudenza U.E. (III, 95 e ss.). Ad integrazione si citano i seguenti contributi:
D. BUTTURINI, La partecipazione paritaria della Costituzione e della norma
sovranazionale all’elaborazione del contenuto indefettibile del diritto fondamentale.
Osservazioni a margine di Corte cost. n. 317 del 2009, in Giur. cost., 2010, 1816 e
ss.; B. NASCIMBENE, Il diritto dell’Unione europea dopo Lisbona. Diritti
fondamentali e cooperazione Schengen nei rapporti fra l’Unione europea e la
Svizzera,in w.w.w. CFPG. Atti della serata di studio del 3 dicembre 2010, I confini
27
del diritto dell’Unione europea prima e dopo il Trattato di Lisbona. in
w.w.w.Incontro presso il CSM del 15 luglio 2010. La Corte di giustizia e i giudici
nazionali; D. TEGA, I diritti in crisi. Tra Corti nazionali e Corte europea di
Strasburgo, Milano 2012; A. RANDAZZO, Alla ricerca della tutela più intensa dei
diritti fondamentali attraverso il dialogo tra le Corti, in w.w.w. Forum cost., 2012; S.
MONTALDO, L’ambito di applicazione della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea e il principio del ne bis in idem, in Cass. pen., 2010, 101 e ss.;
M. ALLENA, Art. 6 CEDU. Procedimento processo amministrativo, Napoli, 2012,
La rilevanza dell’art. 6 par. 1 CEDU per il procedimento e il processo
amministrativo, in Dir. proc. amm., 2012, 569 e ss., L’art. 6 CEDU come parametro
di effettività della tutela procedimentale e giudiziale all’interno degli stati membri
dell’Unione europea, in Riv. it. dir pubbl. com., 2012, 267 e ss.; D: U. GALLETTA,
Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE ed obbligo di interpretazione
conforme del diritto nazionale: una rilettura nell’ottica di cooperazione fra giudici,
in Riv. it. dir. pubbl. com., 2012, 431 e ss. (e prima ancora Diritto a una buona
amministrazione e ruolo del giudice amministrativo dopo l’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona, in Dir. amm. 2010, 601 e ss.), G. PALOMBELLA, E’ possibile
una legalità globale?, Bologna, 2012, 252-253; M. RAMAIOLI, Il giudice nazionale
e la CEDU: disapplicazione o dichiarazione di illegittimità costituzionale della
norma interna contrastante con la Convenzione?, in Dir. proc. amm. 2013, 825 e ss.;
A. BERNARDI, Cinque tappe nel processo di costituzionalizzazione dell’Unione
europea. Note di un penalista, in Riv.it. dir. pubbl. com., 2013, 552 e ss.; P.
OTRANTO, Note minime sulla riscrittura del rapporto libertà-autorità nel dialogo
tra le Corti, in Riv. it. dir. pubbl. com.,2013, 719 e ss.; R. DICKMANN, Corte
costituzionale e contro limiti al diritto internazionale. Ancora sulle relazioni tra
ordinamento costituzionale e CEDU (dalla sentenze nn. 348 e 349 del 2007 alla
sentenza n. 264 del 2012), in w.w.w. Federalismi, 2013; D. U: GALLETTA, La tutela
dei diritti fondamentali e in generale dei diritti sociali UE dopo l’entrata in vigore
del Trattato di Lisbona, in Riv. it. dir. pubbl. com. 2013, 1179; S. GAMBINO, Livelli
di protezione dei diritti fondamentali (fra diritto dell’Unione, convenzioni
internazionali e costituzioni degli Stati membri) e dialogo delle Corti, in w.w.w.
Federalismi, 2014; F. VIGANÒ e E. LAMARQUE, Sulle ricadute interne della
sentenza Scoppola (ovvero sul gioco di squadra tra Cassazione e Corte costituzionale
nell’adeguamento del nostro ordinamento alle sentenze di Strasburgo),in Giurispr..
it. 2014, 392 e ss.
In particolare, sulla identità nazionale, v. M. C. PONTHOREAU, Identitè
constitutionnelle et clause européenne d’identitè nationale. L’Europe à la preuve des
identités constitutionnelles nationales, in Dir. pubbl.com. europeo, 2007, 1576,
In particolare, sulle incertezze relative alle tradizioni costituzionali comuni, v.
U. DRAETTA, Diritto dell’Unione europea e principi fondamentali
dell’ordinamento costituzionale italiano: un contrasto non più solo teorico, in Dir.
Un. Eur., 2007, 16 e ss.
Sui c.d. contro limiti, v. O. POLLICINO, Qualcosa è cambiato? La recente
giurisprudenza delle Corti costituzionali dell’EST vis à vis il processo di integrazione
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europea, in Dir. Un. Eur., 2012, 765, mentre per la giurisprudenza se ne vedano le
ampie citazioni del contributo di OTRANTO citato sopra, p. 729 (tra cui, Trybunal
Konstytucjiny (polacco), sentenza 11 maggio 2005, n. K, 18/04, in w.w.w. Trybunal,
gov./pl/sommaries).
In particolare, sulla identità nazionale, v. M. C. PONTHOREAU, Identitè
constitutionnelle et clause d’identitè nationale. L’Europe à la preuve des identités
constitutionnelles nationales, in Dir. pubbl. comp.. europeo, 2007, 1576.
Sul problema della immissione dall’esterno dell’ordinamento nazionale
(italiano) di impulsi ad un maggior rigore nella repressione penale, oltre al citato
contributo di BERNARDI, v. V. MANES, I principi penalistici nel network
multilivello: trapianto, palingenesi, cross fertilization, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012,
844 e ss., Il giudice nel labirinto delle leggi, Roma, 2012, Nessuna interpretazione
conforme al diritto comunitario con effetti in malam partem, in Cass. pen., 2010, 101
e ss.. A questo riguardo si precisa che nella Costituzione italiana non c è una
statuizione sul vincolo a far corrispondere ad ogni reato la effettiva comminazione ed
esecuzione di una sanzione: il riconoscimento dei diritti delle vittime dei reati a tale
esito (della effettiva punizione dei rei), in particolare, nella Costituzione ancora
manca (pur se avvertito dalla opinione pubblica e usato come argomento politico, e a
volte prospettato in dottrina, come ad es. da R. BIN, Lo stato di diritto, come imporre
regole al potere, Bologna, 2004, 82). Ma lo stesso manca anche nell’ordinamento
CEDU e nell’ordinamento della UE, non essendo allo scopo sufficienti la
disposizione di cui all’art. 2 della CEDU sul diritto alla vita (considerata valida dalla
Corte EDU ad imporre la necessità per i reati omicidio di un effettivo processo, v.
sent. Alikaj c. Italia del 29 marzo 2011) e Risoluzione del Consiglio 10 giugno 2011,
n. 187 relativa ad una tabella di marcia per il rafforzamento dei diritti e della tutela
delle vittime in particolare nei procedimenti penali, che ha dato origine alla direttiva
2012/29, di fatto concentrata sulla assistenza processuale alle vittime (ma la Corte di
giustizia, con sentenza 21 dicembre 2011 in causa n. 507/10 ha escluso che la vittima
dei reati abbia il potere di provocare l’azione penale contro un terzo per ottenere la
condanna;, lo stesso, con sentenza 15 settembre 2011 in cause 483/09 e C/10 ha
escluso l’obbligo per gli Stati di prevedere disposizioni che garantiscano alle vittime
di influire sulla pena) (per un panorama in dottrina, v. A. DAMATO, P. DE
PASQUALE e N . PARISI, Argomenti di diritto penale europeo, Torino, 2014, 83 e
ss.) In generale sui temi del rule of law e della sua coincidenza o meno con il
principio della indefettibilità della sanzione penale (e della consequenziale esclusione
di provvedimenti clemenziali, per un panorama comparatistico, v. a.c. G.
PALOMBELLA e N. WALKER, Relocating the rule of law., Oxford, 2009 e W.
SADURSKI, A. CZARNOTA e M. KRYGIER, Spreading democracy and the rule of
law. The impact of UE enlargement on the rule of law, democracy an
constituzionalism in post communist orders, Springer (Netherlands), 2006.
Nel complesso, per una lettura approfondita e garantista dell’insieme dei
fenomeni descritto, e, cioè, per un richiamo alla esigenza di rispetto della identità
costituzionale e delle tradizioni costituzionali comuni, v. G. DE VERGOTTINI, Oltre
il dialogo tra le Corti, diritto straniero, comparazione, Bologna, 2010.
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4) Il terzo elemento di interesse è costituito dalla forza vincolante della regola
dell’equilibrio di bilancio stabilita dal nuovo testo degli articoli 81 e 97 della
Costituzione e, in particolare, la idoneità di questi a giustificare l’apparato pubblico
per l’inadempimento ai propri obblighi.
Di base c’è un enorme volume monetario di indennizzi da corrispondere ai
sensi della legge n. 89 del 2001, del tutto invitabile considerato il collegamento
pressoché automatico dell’indennizzo al fatto oggettivo del protrarsi dei processi (ivi
compresi quelli a loro volta collegati all’accertamento del diritto all’indennizzo, che
sono i c.d. processi per la Pinto bis)..
Il legislatore è intervenuto per introdurre dei limiti al denunciato inevitabile
automatismo. Ciò è stato con le disposizioni introdotte con D.L. 22 giugno 2012, n.
83, conv. in L. 7 aprile 2012 n. 147 (che circoscrivono il diritto all’indennizzo e
stabiliscono per la materiale erogazione dello stesso il limite delle risorse disponibili),
in parte, come si è visto, sottoposte al giudizio di costituzionalità, e successivamente
con quelle introdotte dal D.L. 8 aprile 2013, n. 35, conv. in l. 6 giugno 2013, n. 64,
che hanno disciplinato il procedimento di esecuzione forzata per la riscossione delle
somme a titolo di indennizzo, stabilendo le condizioni per una programmazione delle
stesse (su tutti questi aspetti e per una evidenziazione dei problemi cui dà luogo la
applicazione della legge n. 89 del 2001, v. T.A.R. Trento, Sez. I, 9 luglio 2014, n.
279, nel sito, con nota di V. VITALE La crisi della giustizia ha il volto della legge
Pinto).
Evidentemente tutto questo ha reso finanziariamente condizionato un diritto
che pochi anni fa appariva incondizionato.
Su un altro piano si è avuta la riforma costituzionale del c.d. pareggio di
bilancio, la quale ha introdotto tra i canoni di azione della Pubblica amministrazione
“l’equilibrio di bilancio e la sostenibilità del debito pubblico” (art. 97, comma 1).
L’effettivo contenuto e in particolare la forza cogente di tale disposizione
ancora non sono certi. Esattamente, però, l’Adunanza plenaria ha posto alla Corte
costituzionale il problema se essa non renda giustificata una indubbia compressione
del diritto al risarcimento per la eccessiva durata dei processi, affermato come diritto
pieno dall’ordinamento della CEDU. Il giudizio verterà appunto sul rapporto tra il
parametro di costituzionalità rappresentato dai precetti dell’ordinamento CEDU e il
nuovo canone di legittimità dell’azione amministrativa.
Nella giurisprudenza della Corte costituzionale una prima utilizzazione di
quest’ultimo si è avuto nella sentenza n. 310 del 2013 (in Giurisdiz. amm., 2013, A,
441).
In dottrina sul tema delle ricadute sulla azione amministrativa della regola di
pareggio di bilancio è ormai oggetto di ampia considerazione. Al riguardo, v.: A.
PAJNO, Giustizia amministrativa e crisi economica, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2013,
951 e ss.., M. P. CHITI, La crisi del debito sovrano e le sue influenze per la
governance europea, i rapporti tra Stati membri, le pubbliche amministrazioni, in
Riv. it. dir. pubbl com., 2013, 1 e ss, GIOVANNELLI, Vincoli europei e decisioni di
bilancio, in Quad. cost., 2013. 933, G. SCACCIA, La giustizi abilità della regola del
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pareggio di bilancio, in Filangeri, Costituzione e pareggio di bilancio, 2011, 211 e
poi L’equilibrio di bilancio fra Costituzione e vincoli europei, in w.w.w. Osservatorio
sulle fonti, 2012, F. MERUSI, Debito pubblico e giudice amministrativo, in Dir.
proc. amm., 2014, 3 e ss.
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