CeMiSS-Osservatorio Strategico 2014 numero 9

Numero - 9
2014
http://www.cemiss.difesa.it/
Osservatorio Strategico
Anno XVI numero IX - 2014
L’Osservatorio Strategico raccoglie analisi e reports sviluppati dal Centro Militare di Studi Strategici, realizzati sotto la direzione del Gen. D. Nicola Gelao.
Le informazioni utilizzate per l’elaborazione delle analisi provengono tutte da fonti aperte (pubblicazioni a
stampa e siti web) e le fonti, non citate espressamente nei testi, possono essere fornite su richiesta.
Quanto contenuto nelle analisi riflette, pertanto, esclusivamente il pensiero degli autori, e non quello del Ministero della Difesa né delle Istituzioni militari e/o civili alle quali gli autori stessi appartengono.
L’Osservatorio Strategico è disponibile anche in formato elettronico (file PDF) nelle pagine CeMiSS del
Centro Alti Studi per la Difesa: www.casd.difesa.it
Sommario
EDITORIALE
Massimo Arigoni
MONITORAGGIO STRATEGICO
Regione - Danubiana - Balcanica - Turchia
La partita fluida della sicurezza energetica nel Mediterraneo Orientale (parte 1)
Paolo Quercia
9
Medio Oriente - Nord Africa - MENA
La crisi in Iraq persiste, il governo è debole nell’azione militare e la coalizione internazionale scarsamente incisiva
Nicola Pedde
15
Sahel e Africa Subsahariana
La primavera nera del Burkina Faso?
Marco Massoni
21
Russia, Europa Orientale ed Asia Centrale
La necessaria cooperazione di Europa e Russia
Lorena Di Placido
27
Cina
Il potere logora chi ce l'ha
Nunziante Mastrolia
33
India Oceano Indiano
Il peso della Cina nella ridefinizione dell’equilibrio geostrategico tra India e Pakistan
Claudia Astarita
41
Pacifico (Giappone, Corea, Paesi ASEAN, Australia)
L'ISIS guarda all'Asia
Stefano Felician Beccari
47
America Latina
Messico: l’imminente convergenza tra cibercrimine e narcocartelli
Alessandro Politi
53
Iniziative Europee di Difesa
La Germania rivede la sua politica di armamento
Claudio Catalano
59
NATO e rapporti transatlantici
I Cambiamenti Climatici sono una minaccia “immediata”
Lucio Martino
65
Sotto la lente
La competizione jihadista in Af-Pak: tra “Al-Qa’ida” e “Isis” in Asia Meridionale
Claudio Bertolotti
71
Osservatorio Strategico
Vice Direttore Responsabile
C.V. Massimo Arigoni
Dipartimento Relazioni Internazionali
Palazzo Salviati
Piazza della Rovere, 83 00165 – ROMA
tel. 06 4691 3204 fax 06 6879779
e-mail [email protected]
Questo numero è stato chiuso
25 novembre 2014
Anno XVI - n° IX - 2014
EDITORIALE
Cultura della Sicurezza - Decidere bene cosa viene prima e scegliere di farlo
Promuovere la cultura della sicurezza, operando in uno scenario complesso ed in continuo cambiamento, costituisce uno dei compiti più stimolanti ma allo stesso tempo più impegnativi nel contesto in cui viviamo. Le tecniche della comunicazione virtuale pongono da tempo gli utenti in
costante interconnessione con i territori, con altri utenti, con altre informazioni, in una rete che si
dimostra capace di scavalcare gran parte dei recinti classici, sia essi rappresentati da frontiere
fisiche che da sistemi socio-culturali disomogenei fra loro. Secondo le più autorevoli interpretazioni, ne discende una sorta di effetto livellante, su stili di vita e visioni ideologiche. Questi meccanismi non solo appaiono capaci di originare nuovi tipi di convivenza tra le popolazioni attive
ed interagenti nell’ iper-dimensione cyber, ma hanno potenziali effetti nei meccanismi di creazione
e applicazione di valori alla base del potere.
Un sistema così complesso ed aperto, è plausibile che sfoci in nuovi equilibri attraverso processi
e situazioni non sempre controllabili o prevedibili, peraltro non necessariamente coincidenti con
due estremi storicamente contrapposti: ordine (cristallizzazione-prevedibile) e disordine (caosimprevedibile). Che cosa rappresenti elemento d’instabilità, come determinare le criticità emergenti, come prevenire le emergenze, restano quindi le domande ricorrenti alle quali fare fronte
da parte delle strutture, non solo pubbliche, che puntino ad operare in forma “resiliente” nei
contesti odierni1.
I processi di rapido cambiamento a cui assistiamo, ritraggono quindi una delle principali dimensioni in seno alle quali dover leggere i rischi, le rotture di equilibri (anche parziali), i conflitti o
anche le possibili opportunità. Così come il nostro sistema complesso è in continua evoluzione,
anche i sistemi di analisi richiedono un elevato livello “adattivo”, soprattutto per conservarsi strumento valido nel mappare il nostro ambito cognitivo: vera priorità assoluta per individuare e gestire
i rischi o indirizzare lo sviluppo delle capacità appropriate ad affrontarne le sfide e i cambiamenti
in sicurezza.
Un esempio concreto di questo “complesso variare” di situazioni, può essere facilmente raffigurato
dall’evoluzione dell’operazione Mare Nostrum e di un nuova operazione Frontex, peraltro ad inizio
ottobre non ancora chiaramente delineata negli obiettivi. Le istanze, nel frattempo comunicate dai
vari organismi nazionali ed internazionali, per ora coinvolti nel supporto ai migranti in fuga da
situazioni di pericolo nella sponda Sud-Est del Mediterraneo, lasciano fin da subito intravedere il
loro favore all’estensione del diritto di asilo e “protezione temporanea”, anche per i migranti (regolari o irregolari) generabili dalla crisi in Ucraina. Il rapido svilupparsi di ulteriori generatrici di
flussi migratori, rende pressante una Risk Awareness ed una strategia chiara per fare fronte ad un
nuovo ed imprevedibile numero di richiedenti asilo o di rifugiati.
Contribuire a promuovere la cultura della sicurezza, è uno dei fini dell’Osservatorio Strategico ed
è allo stesso tempo fonte di arricchimento diretto per coloro che concorrono alla sua realizzazione.
Ormai prossimo a concludere il mio mandato, ritengo allora doveroso ringraziare il Direttore del
Ce.Mi.S.S. per la fiducia concessami nel partecipare a questa opera e per la crescita professionale
che essa mi ha stimolato.
Massimo Arigoni
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Carlo C. Carli - Safety & Security Maggio 2014
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
Regione
Danubiana - Balcanica - Turchia
Paolo Quercia
Eventi
►Energia/Turchia. Abbandono clausola “Take or Pay” per gas da Azerbaijan ed Iran; accordo
con Mosca per aumento della portata di Blue-Stream; esplorazioni oceanografiche nella EEZ
cipriota. Il ministro dell’energia e delle risorse naturali della Turchia Taner Yildiz ha annunciato
che dal 2015 Ankara abbandonerà – in maniera simile a quanto fatto con la Russia nel 2013 – la
clausola “take or pay” nei contratti con l’Azerbaijan e l’Iran. Parallelamente, Ankara ha provveduto a finalizzare un accordo con Mosca che prevede l’aumento dell’espansione della capacità
del gasdotto Blue-Stream (la connessione sottomarina che attraversa il Mar Nero dalla stazione
di compressione di Beregovaya al terminale di Durusu) con l’obiettivo di aumentare da 16 a 19
miliardi di metri cubi di gas. Infine, la nave oceanografica turca Barbaros Hayreddin Pasa, scortata da una nave da guerra turca e due navi di supporto, ha proseguito le esplorazioni alla ricerca
di idrocarburi nel Mediterraneo orientale, in acque in cui Cipro ha dichiarato la propria Zona
Economica Esclusiva (EEZ).
►Energia/Bulgaria. Il centrodestra vince le elezioni anticipate ma è a rischio alleanze. Le elezioni parlamentari bulgare hanno confermato un quadro altamente frammentato, che hanno tuttavia visto la sconfitta del governo socialista uscente e la vittoria di misura del partito di centro
destra GERB di Boyko Borisov, caratterizzato da una posizione meno filo russa rispetto all’esecutivo uscente.
►Energia/Italia. Ripensamenti sull’impegno nel progetto South-Stream? Nel mese di ottobre,
a sottolineare il progressivo raffreddamento dell’interesse strategico dell’Italia in alcuni progetti
energetici con Mosca, sono trapelate da ambienti ENI alcune valutazioni di merito sulla natura
prevalentemente “finanziaria” e non strategica del progetto, di cui l’azienda italiana è il primo
partner di Gazprom (“South-Stream è solo un investimento finanziario, di cui ENI è socio di minoranza, e agirà in coerenza con obiettivi di disciplina finanziaria” è stata la dichiarazione ripresa
dai principali organi di stampa.
►Energia/Cipro. Tensioni tra Cipro e Turchia sulle esplorazioni off-shore nel Mediterraneo
Orientale. Aumenta la tensione tra Grecia e Cipro dopo che la nave oceanografica turca Barbaros
Hayreddin Pasa ha avviato le proprie prospezioni a Sud dell’isola di Cipro in acque internazionali
(34.3 latitudine, 33.6 longitudine) ma che rientrano nella Zona Economica Esclusiva identificata
da Nicosia bilateralmente con Tel Aviv.
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Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
LA PARTITA FLUIDA DELLA SICUREZZA ENERGETICA NEL MEDITERRANEO ORIENTALE (PARTE
Contesto regionale e posizione della Turchia.
Sempre più complessa e fluida diviene la competizione per la sicurezza energetica nel Mediterraneo Orientale, mano a mano che le crisi ed
i conflitti attorno allo spazio Mediterraneo si
espandono e polarizzano le alleanze e le potenze regionali. Sullo scacchiere del Mediterraneo orientale, in particolare, si riversano con
crescente forza le tensioni provenienti da almeno quattro instabili quadranti geopolitici:
quello mediorientale, con i conflitti in Siria ed
Iraq e l’avanzata del jihadismo; quello Nord
africano, con le debolezze dei paesi attraversati
dalle rivolte delle primavere arabe; quello
dell’Europa Sud-Orientale, con le permanenti
difficoltà socio-economiche della penisola balcanica e lo stallo del processo di allargamento
europeo; quello del Mar Nero, con la strisciante
guerra civile ucraina che ha prodotto profonde,
ma non insanabili, conseguenze nei rapporti Europa – Russia. La Turchia, geo-politicamente
esposta su tutti questi quattro scenari, si trova
al centro di questo complesso crocevia di crisi
geopolitiche con rilevanti interessi in ciascuno
dei quattro citati sistemi sub-regionali, ma con
una particolare esposizione verso quello siriano-iracheno, a causa della questione curda.
Nelle evoluzioni delle crisi che ruotano attorno
alla penisola anatolica si gioca il futuro della
Turchia come pivot strategico e come futuro
hub energetico verso l’Europa sia per il petrolio
che per il gas. Quale che sia il percorso del futuro corridoio meridionale europeo per intercettare le risorse medio-orientali e del Caspio
aggirando la Russia, esso potrà difficilmente essere realizzato senza attraversare la Turchia, che
diventa pertanto l’ago della bilancia energetica
nei rapporti tra EU e Russia. Di fatto, la Turchia
8
1)
è incuneata in posizione intermedia tra il secondo mercato mondiale di consumo del gas e
le principali riserve mondiali collocate nel bacino del Caspio, in Medioriente ed in Eurasia.
Un ruolo di ponte energetico transcontinentale
che è destinato ad aumentare dopo lo scoppio
della guerra civile ucraina e l’espansione delle
acque territoriali russe nel Mar Nero in seguito
all’annessione della Crimea. Tuttavia, ambire a
divenire snodo energetico in un crocevia di regioni altamente instabili ed infiammabili ed in
cui le politiche energetiche degli stati dell’area
perseguono caratteri fortemente nazionalisti e
securitari, rappresenta uno sforzo che potrebbe
rivelarsi superiore alle capacità politico-diplomatiche della stessa Turchia, oltreché una costosa alterazione dei meccanismi del mercato,
che tende verso una maggiore flessibilità e alla
rimozione dei colli di bottiglia geopolitici.
Anche come peso di consumatore energetico, la
Turchia è ancora debole, con volumi di consumo interno di gas che – ancorché crescenti e
trainati da una sostenuta crescita economica ed
energetica – restano ancora ai livelli di un paese
in via di sviluppo, considerata la sua popolazione di circa 80 milioni di abitanti. Inoltre,
prima della crisi economica del 2008 Ankara
aveva sovrastimato la sua domanda futura di
importazione di gas, che nel quinquennio 2007
– 2013 è aumentata del 30% in meno rispetto al
quinquennio precedente (+ 400 miliardi di metri
cubi, contro una crescita di oltre 600 miliardi di
metri cubi registrata nel periodo 2002 – 2007).
Così come molti altri paesi europei, anche la
Turchia ha finito per rivedere la clausole contrattuali degli impegni di approvvigionamento
di idrocarburi, rinegoziando i propri rapporti
con il suo secondo e terzo fornitore. Il gas che
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MONITORAGGIO STRATEGICO
arriva in Turchia dall’Azerbaijan (attraverso il
gasdotto Baku-Tiblisi-Erurum) è il meno costoso tra le varie linee di approvvigionamento
turco, costando il 25% in meno del gas russo e
oltre il 45% in meno del gas iraniano. Ovviamente, la componente “prezzo” gioca un ruolo
importante all’interno del concetto di sicurezza
energetica ma non l’unico, in quanto almeno
quattro sono le dimensioni fondamentali in una
strategia di sicurezza energetica: quantità, durata, prezzo, compatibilità politica (accettando
la definizione di sicurezza energetica come
“quella fornitura adeguata in quantità e affidabile nel tempo, a prezzi ragionevoli e che non
metta in contraddizione o pericolo i principali
valori ed obiettivi nazionali”). Per quel che riguarda la Turchia, tra tutti i possibili fornitori
Mosca è l’unico che massimizza tutte e quattro
le dimensioni della sicurezza energetica turca,
e sarà pertanto destinata a restare il primo fornitore di Ankara coprendo una quota del 58%
del fabbisogno turco di gas (l’Iran è il secondo
fornitore con il 19% delle importazioni mentre
l’Azerbaijan è il terzo con il 9%. Il resto viene
prevalentemente dal mercato LNG, con contratti di lungo periodo con Algeria (9%) e Nigeria (3%), mentre la parte mancante è lasciata al
mercato spot del LNG, prevalentemente da
Qatar, Egitto e Norvegia. I mutamenti geopolitici degli ultimi 3 anni, in particolare i conflitti
in Siria ed in Ucraina hanno parzialmente intaccato la componente della compatibilità politica con Mosca, ma non possono produrre
strappi rilevanti nel breve periodo. A meno che
questi due conflitti dovessero durare nel tempo
ed estendersi, il che produrrebbe la necessità per
Ankara di diversificare il rapporto energetico
con Mosca. Allo stesso tempo, la generale situazione d’instabilità e di conflitto attorno alla Turchia e l'oggettiva vulnerabilità geopolitica dei
suoi confini rappresenta una minaccia per le
ambizioni di Ankara di divenire il maggiore hub
di trasferimento di gas dall’Asia e dal Medio
Oriente verso l’Europa. Va però considerato
che, allo stesso tempo, la Turchia appare essere
rimasto uno dei pochi paesi stabili in una regione sempre più frantumata, uno dei pochi attori “forti” nello spazio intermedio tra Europa,
Russia e Medio Oriente, anche a causa dell’indebolimento/riduzione delle alternative geopolitiche nella regione. Questa posizione di dualità
energetica verso l’Europa e verso la Russia è
parzialmente messa in crisi dal nuovo asse energetico che si va creando nel Mediterraneo orientale tra due paesi europei, (Cipro e Grecia) ed
Israele, mirante proprio, aggirando la Turchia,
ad offrire un’alternativa marittima al corridoio
meridionale terrestre. Ciò è ovviamente il frutto
dell’insabbiarsi della politica turca nelle strategie neo-ottomane (fallimenti delle primavere
arabe ed i conflitti in Siria ed Iraq) e del profondo deterioramento negli ultimi anni del rapporto con Israele che – nonostante alcuni
accenni di disgelo – stenta a recuperare. Anche
in questo caso, l’elemento energetico sarà determinante. Nei prossimi due o tre anni Israele
e Cipro dovranno decidere e progettare le modalità e le rotte di esportazione verso l’Europa
di parte del gas scoperto nei giacimenti delle rispettive zone economiche esclusive (il più importante dei quali è quello israeliano
“Leviatano”, che conterrebbe 450 miliardi di
metri cubi di gas). L’ipotesi meno costosa sarebbe ovviamente quella di esportarlo verso la
Turchia e farne uno dei rami di approvvigionamento del corridoio meridionale terrestre, ma
attualmente sembra un’ipotesi politicamente
non percorribile, necessitando di un doppio miglioramento nelle relazioni strategiche tra Turchia ed Israele e tra Turchia e Cipro, che sembra
lontano da venire. L’ipotesi concorrente prevede
la costruzione di uno o più terminali LNG di liquefazione del gas offshore congiunti tra Israele
e Cipro, o addirittura la costruzione di una co9
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
stosa pipeline sottomarina Cipro – Creta che
porti il gas verso la UE. È chiaro che tutti gli attori che assieme alla Turchia giocano la partita
energetica nella regione si muovono all’interno
di una più ampia partita strategica, in cui il gas
ed il petrolio sono strumentali al conseguimento
di obiettivi geopolitici di lungo periodo, privilegiando l’approccio strategico a quello di mercato. Per il momento Ankara cerca di “tenere i
piedi in tutte le scarpe” ma la sensazione è che
presto alcune delle scelte confliggenti di politica
estera potrebbero venire a cozzare con la volontà di diventare un hub energetico regionale.
La domanda chiave è capire se i conflitti
ucraino e siriano – di cui Mosca è in entrambe
attore principale – sono compatibili nel lungo
periodo con il mantenimento di una politica
energetica multivettoriale o se essi spingeranno
verso alcune scelte di campo tra differenti opzioni geopolitiche.
Il frammentato contesto politico post elettorale bulgaro. Le elezioni bulgare non contribuiscono a produrre chiarezza sull’importante
questione dei rapporti energetici internazionali
ed in particolare nella grave crisi che si è creata
tra gli obblighi normativi europei, le sanzioni
americane ed il progetto di fare della Bulgaria
il primo anello europeo del gasdotto South
Stream. Proprio una crisi di tali rapporti aveva
avuto un ruolo determinante nella caduta del
precedente governo socialista. Il partito di centro destra GERB ha ottenuto il 33% dei voti ma
la frammentazione politica, con otto partiti entrati in parlamento, verosimilmente costringerà
il leader Borisov a formare un esecutivo di minoranza probabilmente assieme al blocco di
centro destra RB (8,9%) e con il supporto
esterno del blocco nazionalista del Fronte Patriottico (7,3%). Difficilmente tale precaria situazione politica – che potrebbe portare
nuovamente ad elezioni anticipate a breve –
10
potrà esprimersi in scelte strategiche di lungo
periodo per quel che riguarda la politica energetica che resterà debole, non effettuerà scelte
di campo nel rapporto energetico con Mosca e
si atterrà una linea di neutralità sul conflitto
ucraino. Sarà un esecutivo di basso profilo concentrato sui gravi problemi socio economici interni (la Bulgaria è il paese più povero
d’Europa) e lascerà a Bruxelles determinare il
tono del proprio rapporto con Mosca.
L’Italia prende tempo su South-Stream. Il
governo italiano e l’ENI stanno sempre più
prendendo atto che la crisi con Mosca rischia di
essere più profonda e di più lungo periodo del
previsto e – proseguendo un percorso già avviato dal presidente uscente Scaroni – appare
rafforzarsi la sensazione che sarà difficile continuare con Mosca il rapporto “business as
usual” in campo energetico, in particolare per
quel che riguarda South-Stream. O meglio, tale
rapporto andrà riconfigurato nell’evoluto scenario internazionale, che vede l’Italia incapace
di determinare o condizionare la linea di condotta europea verso la Russia. Anche la nomina
del ministro Mogherini, come capo della diplomazia europea, finirà per rendere maggiormente
neutrale la posizione italiana sul dossier russo,
dovendosi fare carico anche delle posizioni di
quei paesi che chiedono un rapporto più muscolare verso Mosca. La Russia ha chiaro che l’Italia non ha la forza di sbloccare lo stallo di
South-Stream, un progetto che Mosca ha perseguito con forte determinazione anche ben oltre
le convenienze commerciali ed i ritorni di politica energetica, ma l’ENI resta per il momento
il primo partner di Gazprom nel progetto (con
il 20% di quota parte nel progetto). Tuttavia, le
recenti dichiarazioni fatte filtrare da ENI sulla
natura finanziaria e non strategica di SouthStream (“South-Stream è solo un investimento
finanziario, di cui ENI è socio di minoranza, e
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MONITORAGGIO STRATEGICO
agirà in coerenza con obiettivi di disciplina finanziaria” ha riportato la stampa italiana) confermano il mutamento nei rapporti tra Italia e
Russia, o meglio l’incapacità dell’Italia di mantenere uno stretto rapporto energetico con
Mosca nel momento in cui si deteriorano le relazioni tra Europa e Russia. Al di là del problema politico, resta quello del reperimento dei
finanziamenti, in funzione dei dubbi delle banche se la costruzione di South-Stream rientri o
meno negli ambiti colpiti dalle sanzioni finanziarie. Al fine di chiarire la situazione, la raccolta dei finanziamenti per la costruzione del
tratto sottomarino di South-Stream è stata rinviata alla primavera del 2015 e produrrà verosimilmente uno slittamento dei lavori. L’Italia
ed ENI hanno dunque sei mesi di tempo per riposizionare la propria collocazione nel progetto
ed aggiornare la propria strategia di sicurezza
energetica. È chiaro che il rischio politico finisce per aumentare il costo dei finanziamenti del
progetto e dunque incide sui rendimenti previsti.
Se dovesse essere confermata la natura prettamente finanziaria e non strategica del progetto,
l’ENI potrebbe a quel punto rivedere le proprie
scelte e ciò anche in funzione delle future decisioni sulla vendita di SAIPEM – incaricata dei
lavori di South-Stream nel tratto off-shore nel
Mar Nero e principale beneficiaria del progetto
– controllata che la stessa azienda madre ha definito, prima dell’estate, “un business non strategico”.
Le tensioni turco – cipriote nel Mediterraneo
orientale. Con l’avvio delle esplorazioni
oceanografiche al largo delle coste cipriote, la
Turchia manda un forte messaggio di protesta
in vista del summit trilaterale dei capi di stato
di Egitto, Cipro e Grecia che si terrà l’otto novembre al Cairo e che avrà come oggetto principale la collaborazione energetica tra i tre paesi
nel Mediterraneo orientale. La Turchia oltre a
non aver firmato UNOCLOS, la Convenzione
delle Nazioni Unite sul diritto del Mare che
prevede le modalità di costituzione delle zone
economiche esclusive, non riconosce il governo
greco cipriota di Nicosia e non ha relazioni
diplomatiche con l’Egitto dopo la caduta del
governo Morsi. Ankara, ritiene pertanto di poter
procedere unilateralmente nelle proprie esplorazioni e – a questo proposito – ha costituito un
accordo bilaterale con il (non internazionalmente riconosciuto) governo turco di Cipro del
Nord per l’istituzione di una propria zona economica esclusiva. Il governo cipriota, da parte
sua, ha firmato negli scorsi anni accordi bilaterali di delimitazione delle zone economiche esclusive con Egitto e Israele, gettando le basi per
l’avvio delle esplorazioni dell’area alla ricerca
di idrocarburi. Tra Turchia e Grecia, inoltre, esiste un contenzioso sull’eventuale delimitazione
della zona economica esclusiva, che secondo
Atene arriverebbe a congiungersi con la EEZ
cipriota. Questo aumento della tensione in
questo particolare momento rappresenta una
conferma della complessità e fluidità del quadro
geopolitico ed energetico della regione del
Mediterraneo orientale, che rimane saldata agli
scenari di crisi in atto nel Medio-oriente e nel
Mar Nero.
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Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
Medio Oriente - Nord Africa - MENA
Nicola Pedde
Eventi
►TUNISIA – Clima di tensione e gran dispiegamento di forze in Tunisia il 26 ottobre, in occasione delle elezioni per la nomina del nuovo Parlamento. Oltre cinque milioni di tunisini sono
stati chiamati alle urne per rinnovare i 217 membri dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo,
in una difficile fase di transizione che vede schierati 90 partiti con oltre 1500 liste elettorali.
Le principali forze politiche in campo sono quelle del partito islamista Ennahda, il Nidaa Tounis,
il Fronte Popolare, il Congresso per la Repubblica, il Forum Democratico per il Lavoro e le Libertà, il Partito Repubblicano e il Partito Petizione Popolare. Grande favorito, secondo i sondaggi,
il partito islamista Ennahda, che potrebbe collocarsi al primo posto delle preferenze con un margine tra il 37% e il 40%, confermando in tal modo il risultato del 2011 ed assicurandosi un terzo
dei seggi dell’Assemblea.
Gli analisti politici delle forze d’opposizione, invece, ritengono che Ennahda sconterà il prezzo
politico di una gestione amministrativa caotica e settaria del paese, non riuscendo a loro giudizio
a raggiungere il 20% dei consensi. Ad incidere in modo rilevante, secondo le forze di opposizione,
sarà il peso degli omicidi politici di Chkri Belaid e Mohamed Brahmi, membri di spicco del Partito
Popolare uccisi nel 2013, secondo le forze di opposizione su ordine del vertice del partito Ennahda.
Il quadro della sicurezza nazionale, già teso in ragione delle elezioni e del consistente dispiegamento di forze atto a prevenire l’insorgere di violenze tra i molti gruppi in lizza per la conquista
dei seggi, è ulteriormente aggravato dall’intensificarsi delle azioni terroristiche da parte dei miliziani dell’Ansar al-Sharia, che operano a ridosso delle alture di Kasserine in prossimità del confine con l’Algeria. Particolarmente problematica anche la gestione della sicurezza lungo il confine
con la Libia, dove due valichi sono stati precauzionalmente chiusi in occasione delle elezioni.
►SIRIA – Si è consumato nel mese di ottobre il dramma della città di Kobane, al confine tra
la Siria e la Turchia, con l’avanzata delle forze dell’ISIS e la disperata resistenza delle forze
curde che da tempo la controllano. La titubanza della Turchia nell’intervenire e nel fornire appoggio alle forze curde, ha permesso alle forze dell’ISIS di entrare nella città impegnando le controparti in un sanguinoso scontro e di fatto assediandola. I curdi hanno richiesto alla Turchia
assistenza militare massiccia, e soprattutto armamenti pesanti per poter colpire in profondità le
forze dell’ISIS, limitandone la capacità di gestione delle linee di rifornimento.
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Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
Le forze regolari siriane hanno intanto riconquistato il 23 ottobre la città di Morek, da nove mesi
nelle meni delle forze d’opposizione e strategicamente posizionata lungo l’asse viario che da Damasco conduce ad Aleppo. La riconquista di Morek si inserisce nell’ambito di una più vasta operazione nella provincia di Hama, dove le forze governative sono impegnate in duri combattimenti,
ed affiancate da milizie fedeli al presidente Bashar al-Asad.
Le forze governative sono intenzionate a lanciare anche un’offensiva contro l’ISIS nelle aree dove
i militanti islamici continuano ad estrarre – e soprattutto vendere – petrolio grezzo. Il paradosso
di questa complessa situazione è quello di un ISIS capace non solo di estrarre quantità crescenti
di petrolio – grazie agli effetti pressoché nulli delle incursioni aeree della coalizione internazionale
– ma anche di rivenderlo agli stessi attori regionali, tra cui intermediari turchi, curdi e persino
siriani.
►EGITTO – Il 22 ottobre un’esplosione ha ferito alcuni poliziotti e passanti in prossimità dell’Università del Cairo, campus di Giza. L’esplosione, provocata da un ordigno inserito all’interno
di una tubatura e fatto esplodere a distanza con un cellulare, è stata rivendicata dal gruppo Ajnad
Misr, che da tempo conduce attentati contro quelle che definisce le “criminali forze di sicurezza”
del paese.
L’azione è stata rivendicata dal gruppo come ritorsione per il crescente numero di violenze contro
i giovani all’interno dell’ateneo, che nel corso degli ultimi mesi hanno lamentato la crescente
ostilità delle forze di polizia contro tutte le organizzazioni giovanili non allineate col regime o
simpatizzanti dei movimenti islamisti.
Ben più grave invece il bilancio nel Sinai, dove il 24 ottobre 31 militari sono rimasti uccisi nel
corso di tre diversi attentati sferrati nella penisola. 26 militari sono morti in seguito all’esplosione
di un kamikaze nei pressi del checkpoint di Karm el Kawadess, nel nord della penisola, mentre
altri cinque hanno perso la vita in due successivi attacchi sferrati contro veicoli militari in transito
nei pressi della base. Un quarto attentato, la stessa notte, ha provocato poi 11 feriti in prossimità
dell’aeroporto di Arish.
Il presidente egiziano al-Sisi ha proclamato lo stato d’emergenza per tre mesi nel Sinai, accusando
non meglio specificate “forze straniere” quali mandanti ed esecutori degli attentati.
LA CRISI IN IRAQ PERSISTE, IL GOVERNO È DEBOLE NELL’AZIONE
MILITARE E LA COALIZIONE INTERNAZIONALE SCARSAMENTE INCISIVA
Alti e bassi nella condotta del conflitto contro
l’ISIS
Le forze militari irachene hanno ripreso il controllo in ottobre di quattro villaggi nel centro e
nel nord del paese. In particolar modo è risultata
efficace l’azione contro il centro abitato di Jurf
al-Sakhar, appena sotto la capitale Bagdad,
dove da quattro mesi le forze regolari e le mili14
zie sciite erano impegnate in un sanguinoso susseguirsi di scontri.
Jurf al-Sakhar riveste una particolare importanza per le forze irachene, in quanto piattaforma logistica per la conduzione di attacchi
sulla capitale e nelle periferie meridionali. La
città veniva rifornita attraverso una rete di tunnel sotterranei che la collegavano con le aree
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
desertiche ad occidente, permettendo l’afflusso
di combattenti, munizioni ed equipaggiamenti
a ritmo costante.
Nel nord del paese, invece, le milizie curde
hanno riconquistato la cittadina di Zumar, mentre le forze governative e le milizie sciite hanno
condotto una vasta operazione nell’area montagnosa di Himreen, circa 100 chilometri a sud di
Kirkuk. L’avanzata si presenta difficoltosa per
la presenza di numerosi ordigni lungo strade o
sentieri, e per la costante minaccia dei cecchini
e delle unità avanzate dell’ISIS, che rendono
particolarmente pericolosa la condotta di azioni
nel territorio sotto il loro controllo.
Il successo delle operazioni condotte a fine ottobre non deve tuttavia lasciar intendere una
svolta positiva sul terreno in termini complessivi nella lotta alle milizie dell’ISIS, ancora saldamente insediate in una vasta area del paese.
L’azione militare in atto è volta ad isolare –
nelle intenzioni di Bagdad – le milizie dello
Stato Islamico che controllano le città di Jalawla e Saadiya, impedendo loro di ricevere rifornimenti in buona parte del nord-est del
paese, e soprattutto in prossimità della città di
Baquba, al momento saldamente nelle mani
delle forze regolari irachene e delle milizie
sciite.
Anche i curdi hanno cercato di colpire le milizie
dell’ISIS nella stessa regione, sebbene con
scarsi risultati pratici, anche grazie all’inefficacia delle azioni aeree condotte dagli Stati Uniti
e dalla sparuta rappresentanza dei paesi della
penisola arabica.
Secondo quanto affermato dalle autorità centrali
irachene, la prossima fase dell’offensiva dovrebbe essere condotta in direzione della città
di Amriyat al-Falluja, al centro della provincia
dell’Anbar, a circa 40 km a est della capitale.
La città, oggi sotto il controllo governativo, è
accerchiata da mesi dalle forze dell’ISIS e rischia di cadere nelle mani degli assalitori se un
poderoso ponte di aiuti e rifornimenti non riuscirà a perpetuarne l’autonomia e l’autosufficienza.
La città rappresenta un avamposto strategico in
prossimità della vicina Falluja, caduta mesi fa
sotto il controllo dell’ISIS, che da alcune settimane non nasconde l’intenzione di attaccarla
facendo ampio ricorso a kamikaze e cecchini.
Il quadro complessivo delle capacità irachene
di ristabilire il controllo sul territorio è quindi
essenzialmente negativo ed in progressivo peggioramento in buona parte dell’Anbar. Dove
sono, anzi, caduti un crescente numero di villaggi sino a poco tempo fa controllati da esponenti delle milizie sunnite fedeli al governo
centrale. Di fatto questo compromette ulteriormente la capacità di Bagdad di rappresentare un
interlocutore credibile e, soprattutto, appetibile.
Appare seriamente compromessa in Iraq anche
la credibilità delle forze USA, il cui sostegno
alle milizie e ai villaggi sunniti che avevano deciso di schierarsi con le autorità centrali, è stato
progressivamente vanificato dall’incapacità di
provvedere con celerità e sostanza alle richieste
di sostegno logistico che sul territorio si moltiplicavano. La scarsità delle munizioni, delle
derrate alimentari e degli armamenti pesanti necessari a sostenere una reale e credibile controffensiva, ha progressivamente frustrato la
volontà di collaborazione delle componenti sociali sunnite, venutesi in quel modo a trovare
nell’impossibilità di resistere e combattere,
sotto la concreta minaccia di rappresaglie e sanguinose decimazioni da parte dell’ISIS.
Molti dei villaggi sunniti dell’Anbar ancora non
occupati dall’ISIS, ha quindi optato per una negoziazione con lo Stato Islamico, spesso tradottasi nella perdita di controllo dei villaggi stessi
e nella fuga delle autorità cittadine, nella consapevolezza di una sicura esecuzione.
Appare quindi con chiarezza come una buona
parte dei successi dello Stato Islamico sul ter15
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
reno sia la diretta conseguenza del come gli
Stati Uniti non abbiano affrontato adeguatamente la questione dell’addestramento delle
forze irachene prima ed il sostegno alle forze
combattenti sul terreno poi, determinando il
progressivo collasso del sistema difensivo nazionale, facilitando così l’avanzata di milizie sì
agguerrite, ma non certo invincibili, come la
stampa internazionale si è affrettata a descrivere
le disordinate unità dell’ISIS.
In ogni occasione di scontro dell’ISIS con forze
mediamente organizzate è infatti emersa in tutta
la sua evidenza l’inconsistenza della capacità
militare ed organizzativa delle forze dello Stato
Islamico, così come l’inadeguata struttura logistico-organizzativa.
Lo Stato Islamico ha occupato un terzo dell’Iraq
senza grandi combattimenti, trovandosi la strada
spianata da una progressiva accoglienza delle
comunità sunnite, contestuale al dissolvimento
delle unità militari centrali, che hanno lasciato
sul terreno ingenti quantitativi di materiali, munizioni ed armamenti.
Una buona parte delle comunità dell’Anbar ha
accolto quasi festosamente le forze dell’ISIS, ritenendole di gran lunga preferibili alle unità governative, espressione della maggioranza sciita
di governo, con le quali in questi dieci anni dalla
caduta di Saddam Hussein non è mai stato possibile negoziare una vera politica di integrazione
nazionale.
Le milizie dello Stato Islamico, inoltre, sono largamente popolate da elementi dell’ex esercito
ba’athista, ed in particolar modo da elementi
della disciolta Guardia Repubblicana transitati
poi nell’Ordine del Naqshbadi, una sorta di setta
sufica trasformata dall’ex Generale al-Douri in
una vera e propria milizia di resistenza della comunità sunnita.
In molti hanno aderito a queste organizzazioni
con il progressivo collasso della capacità istituzionale nel dare risposte alle richieste di una più
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giusta ed efficace forma di integrazione delle
comunità sunnite nel nuovo Iraq, andando ad ingrossare le fila del radicalismo islamico sin dal
2004, quando prepotentemente si fece sentire la
presenza di al-Qaeda in Iraq
Il sostegno allo Stato Islamico è quindi in larga
misura riconducibile alla dissennata politica settaria adottata dall’ex premier al-Maliki, che ha
prodotto una profonda e ad oggi insanabile frattura tra le due principali comunità del paese,
spingendo la minoranza sunnita (rea di aver
adottato la stessa identica politica perseguita
negli anni della dittatura di Saddam Hussein) ad
individuare meccanismi di resistenza politica finalizzati al perseguimento dell’indipendenza o,
nella peggiore delle ipotesi, di un accentuato federalismo.
L’elemento di maggiore frustrazione, tuttavia,
scaturisce dal fatto che una buona percentuale
delle comunità sunnite dell’Anbar è tendenzialmente favorevole ad un intervento americano
che possa da un lato ristabilire l’equilibrio con
le autorità centrali, e dall’altro annullare la capacità dell’ISIS sul terreno. Facendo chiaramente trasparire quanto i margini della discordia
siano essenzialmente connessi da un lato all’incapacità politica nazionale, e dall’altro alla
scarsa capacità da parte degli Stati Uniti di cogliere i segnali provenienti dal contesto sociale
nazionale, gettato in una sorta di caos primordiale con l’intervento militare del 2003 e, soprattutto, con la dissoluzione forzata
dell’impianto istituzionale centrale del paese.
Una crisi di difficile soluzione, quindi, che non
potrà essere risolta in alcun modo dalle improbabile operazioni militari messe in atto sul terreno dalle forze centrali, e in aria dalla
coalizione regionale guidata dagli Stati Uniti.
È imperativa per l’Iraq la definizione di una
strategia di ricostruzione politica e sociale del
paese, che preveda il superamento degli angusti
ed anacronistici equilibri territoriali definiti nel
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
1916 dall’accordo di Sykes-Picot, riconoscendo
effettive forme di autonomia politica e territoriale alle diverse componenti etniche della regione.
È altresì imperativa una formula di compromesso generale che fornisca proposte concrete
di soluzione anche per la crisi siriana, intimamente connessa a quella irachena, così da garantire una effettiva proclamazione della
volontà popolare ed una soluzione politica al
conflitto. Impedendo che l’ostinata opposizione
al regime di Bashar al-Asad e ad ogni ipotesi
negoziale con questi, possa permettere ogni ulteriore prolungamento della conflittualità, soprattutto dovuto al persistere di elementi del
tutto estranei al contesto siriano nelle dinamiche
di scontro suo territorio.
In assenza di tali soluzioni, la crisi dell’Anbar è
quindi destinata con ogni probabilità a perdurare nel tempo, favorendo da una parte il consolidamento delle strutture dello Stato Islamico,
ed impedendo dall’altra la definizione qualsivoglia capacità negoziale ed integrativa all’interno
dell’eterogenea matrice sociale irachena.
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Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
Sahel e Africa Subsahariana
Marco Massoni
Eventi
►Angola: i rapporti sono sempre più forti e strutturati con l’Europa grazie anche all’Italia. Il
17 ottobre a Bruxelles il Vice Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale
(MAECI), Lapo Pistelli, ha co-presieduto la riunione ministeriale UE-Angola nell’ambito del processo di dialogo “Joint Way Forward”.
►Benin: le elezioni locali sono state per l’ennesima volta rinviate sine die. L’opposizione accusa
il Presidente, Thomas Boni Yayi, al potere dal 2006, di tentare di modificare la Costituzione, in
modo da potersi presentare per un terzo mandato.
►Botswana: in vista delle elezioni presidenziali del 24 ottobre spiccano i nomi dei maggiori
candidati aspiranti alla Presidenza della Repubblica. Si tratta di Ian Khama, attuale Capo di
Stato al potere dal 2008, del Botswana Democratic Party (BDP); Dumelang Saleshando del Botswana Congress Party (BCP); Duma Boko dell’Umbrella for Demcoratic Change (UDC). Il clima
politico si sta surriscaldando, a causa delle accuse di presunti finanziamenti illeciti della compagnia diamantifera sudafricana De Beers in favore del partito di governo.
►Burundi: proseguono le azioni militari dell’ex ribellione hutu ai danni delle Forze Armate
burundesi. I miliziani dell’ala dissidente delle Forze Nazionali di Liberazione (FNL), che agiscono
da retrovie nell’est congolese, hanno lanciato ripetuti attacchi e portato a termine numerose operazioni oltre confine quasi indisturbati. L’Esercito di Bujumbura ha difficoltà ad arginare la guerriglia. Mentre si prepara il terreno per elezioni presidenziali del prossimo anno, anche altri gruppi
paramilitari si stanno coagulando nell’instabile regione.
►Camerun: il caos della Repubblica Centroafricana (RCA) si sta riverberando oltre confine,
dove imperversano incursioni di milizie eterogenee comunque tutte provenienti dalla RCA, facenti
capo sia agli Antibalaka sia a Séléka. Altri incidenti si sono verificati ad opera della ribellione
del Front Démocratique du Peuple Centrafricain (FDPC), che ha rapito diversi civili, in cambio
della cui liberazione chiede il rilascio senza condizioni del proprio leader Abdoulaye Miskine, in
carcere dallo scorso anno a Yaoundé. Anche il FDPC, già alleato dei Séléka, aveva impianto proprie basi nel Camerun orientale.
►Comore: sono state fissate le date delle elezioni legislative e locali nell’omonimo arcipelago
per il 28 dicembre e per il 1 febbraio. La già Repubblica Federale Islamica delle Comore, oggi
Unione delle Comore, è costituita da tre isole: Grande Comore, Anjouan e Moheli. Queste ultime
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MONITORAGGIO STRATEGICO
due cercarono di rendersi indipendenti nel 1997 invano. Sin dall’indipendenza dalla Francia si
susseguirono molteplici colpi di stato.
►Guinea Bissau: il nuovo Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate è il Generale Biague
Na Ntan, in sostituzione dell’artefice del colpo di stato del 2012, il Generale Antonio Indjai, il
quale lo scorso anno era stato accusato da un tribunale di New York di narcoterrorismo, per aver
celato in Guinea Bissau partite di cocaina provenienti dalle FARC colombiane, al fine di smerciarle negli USA. Il Presidente, José Mario Vaz, ha peraltro graziato gli autori del fallito golpe
dello scorso ottobre.
►Guinea Equatoriale: Malabo è entrata a far parte della Comunità dei Paesi di Lingua Portoghese (CPLP), malgrado il parare contrario di Lisbona, il cui ruolo, proporzionale al proprio
peso politico ed economico, è decrescente all’interno della Comunità. Tra i requisiti, sarà necessario che la Guinea Equatoriale abolisca la pena di morte e promuova la diffusione della lingua
portoghese, che è diventata la seconda lingua ufficiale. Oltre agli Stati membri della CPLP ed al
crescente numero di Nazioni osservatrici associate (Georgia, Giappone, Mauritius, Namibia, Senegal e Turchia), altri Paesi e Territori si sono candidati alla membership: Albania, Andorra, Australia, Croazia, Filippine, Galizia, Goa, India, Indonesia, Lussemburgo, Macao, Malacca,
Marocco, Perù, Romania, Swaziland, Taiwan, Ucraina, Uruguay, Venezuela. Sarebbe auspicabile
che l’Italia entrasse a farne parte.
►Kenya: il Presidente, Uhuru Kenyatta, si è presentato di fronte alla Corte Penale Internazionale dell’Aja, a proposito delle accuse per le violenze post-elettorali del 2007-2008. I suoi legali
hanno chiesto l’archiviazione per insufficienza di prove. Dopo Nigeria, Sudafrica ed Angola, il
Kenya è in quarta posizione quanto al PIL continentale. Parallelamente sono caduti per insufficienza di prove i capi d’imputazione per terrorismo rivolti al Governatore della Contea di Lamu,
Issa Timamy, riguardo alla strage di Mpeketoni dello scorso maggio. Preoccupa il Governo il diffondersi dell’estremismo islamico veicolato da alcune madrasse di Nairobi e di Mombasa.
►Lesotho: i due schieramenti politico-istituzionali contrapposti – il Primo Ministro, Thomas
Thabane e la Polizia da una parte ed il Vice-Premier, Mothejoa Metsing e l’Esercito dall’altra
– supereranno la crisi per mezzo della tenuta di elezioni anticipate a febbraio, in virtù di un accordo siglato per la mediazione del Vice-Presidente sudafricano, Cyril Ramaphosa, in rappresentanza della Comunità per lo Sviluppo dell’Africa Australe (SADC).
►Liberia: l’epidemia dell’ebola ha costretto le istituzioni ad annullare le elezioni per il Senato,
che si sarebbero dovute svolgere il 14 ottobre. Il rischio di diffondere ulteriormente i contagi in
un Paese, che ha già contato cinquemila vittime e le conseguenti difficoltà logistiche sono alla
base di tale decisione.
►Mali: i caschi blu delle Nazioni Unite continuano ad essere oggetto di attacchi nelle regioni
settentrionali, dove la situazione securitaria sta deteriorandosi, rendendo ancora più difficili i
negoaziati in corso. La MINUSMA conta gia decine di vittime tra i suoi ranghi. Perciò il Governo
di Bamako ha chiesto a New York la costituzione ed il dispiegamento di una forza d’intervento
rapido, capace di sostituire le operazioni fino a poche settimane fa condotte più efficacemente
dalla Francia. Il 9 ottobre il Generale Alfonso García-Vaquero Pradal di nazionalità spagnola è
stato nominato nuovo Comandante della EUTM-Mali.
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Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
►Mauritius: dopo lo scioglimento del Parlamento il 6 ottobre, sono state indette elezioni per il
10 dicembre, occasione in cui si affronteranno da una parte l’alleanza tra i laburisti ed il Movimento Militante Mauriziano (MLP-MMM), guidata da Navin Ramgoolan, e dall’altra parte l’alleanza Lepep (MSM-PMSD-ML) capeggiata dal socialista Anerood Jugnauth. La posta in gioco
riguarda la configurazione dell’assetto istituzionale in senso presidenzialista.
►Mozambico: le elezioni presidenziali e legislative sono state vinte dal partito al potere, il FRELIMO e dal suo candidato Presidente, Filipe Nyusi, con il 57 percento di preferenze e 144 seggi,
mentre in seconda e terza posizione si sono collocati la RENAMO con il 27 percento e 89 seggi
ed il Movimento Democratico di Mozambico (MDM) del Sindaco di Beira, Daviz Rimango, con
il 7 percento e 17 seggi.
►Nigeria: le elezioni presidenziali del 14 e 28 febbraio prossimi vedranno il Presidente in carica, Goodluck Jonathan, presentarsi per un altro mandato per conto del Peoples Democratic
Party (PDP). Nel frattempo proseguono le azioni di Boko Haram nel nord-est del Paese.
►Repubblica del Congo: il Partito Congolese del Lavoro (PCT) ha vinto le elezioni locali del
28 settembre con un’affluenza ai minimi termini.
►Repubblica Democratica del Congo (RDC): la riforma delle Forze Armate prevede una ripartizione specificamente orientata alle aree maggiormente destabilizzate, Nord Equateur (nordovest), Nord Katanga (sud-est), Nord Kivu, Grand Kivu, Sud Kivu (est), Ituri e Uele (nord-est).
Monta nel frattempo la protesta delle opposizioni contro la scontata mossa del Presidente, Kabila,
di modificare il limite dei mandati ai sensi della vigente Costituzione per le elezioni del prossimo
anno.
►Senegal: è stato individuato un giacimento petrolifero off-shore da una compagnia britannica
a cento chilometri dalla costa.
►Somalia: il 12 ottobre Pechino ha aperto la propria rappresentanza diplomatica a Mogadiscio.
La Somalia si appresta ad entrare nella produzione degli idrocarburi entro i prossimi sei mesi.
Nel contempo la gestione del porto della capitale è stata affidata alla società turca Albayrak, che
si è assicurata il 45 percento degli introiti derivanti dalle attività portuarie.
►Sudan: il Presidente in carica, Omar al Bashir, si presenterà nuovamente per le prossime
elezioni presidenziali in calendario nel 2015, diversamente da quanto annunciato negli scorsi
mesi. Al Bashir, su cui pende un mandato di cattura internazionale da parte della Corte Penale
Internazionale, ha visto diverse contestazioni in questi ultimi anni al suo regime. Proseguono i
conflitti nel Nilo Blu, nel Darfur e nel Sud Kordofan.
►Sud Sudan: qualora non venga immediatamente implementato l’accordo tra le due fazioni,
l’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo (IGAD), l’attore regionale negoziatore, imporrà
sanzioni sul Governo di Juba. Nel frattempo alcuni Paesi membri hanno fornito disponibilità a
contribuire ad un’inevitabile missione di Peace-Enforcement. Riek Machar è stato in visita a Pechino per incontri ad alto livello.
►Uganda: il Premier, Amama Mbabazi, è stato sostituito da Ruhakana Rugunda.
►Zambia: il 28 ottobre il Presidente, Michael Chilufya Sata, è deceduto a Londra. Era stato
eletto nel 2011. Mentre si prepara il terreno per la successione formale, il potere ad interim è per
tre mesi, fino alle elezioni, nelle mani di Guy Scott.
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Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
►Zimbabwe: il Ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, in visita ufficiale ad Harare, ha siglato intese, per l’irrobustimento della produzione di platino mediante investimenti russi di circa
tre miliardi di dollari.
LA PRIMAVERA NERA DEL BURKINA FASO
Il 7 ottobre scorso dal Palazzo presidenziale di
Kosyam, ubicato nell’avveniristico quartiere
Ouaga 2000, l’ex Presidente burkinabé, Blaise
Compaoré, non rispose ad una lettera proveniente da Parigi, che gli chiedeva di conformarsi, come pure era solito fare, all’idea di
cedere il potere in maniera intelligente, anziché
modificare la Costituzione, abolendo il numero
dei mandati presidenziali. L’articolo 37 della
Costituzione burkinabé recita: “Il Presidente
del Faso è eletto per cinque anni a suffragio
universale diretto per una sola volta”. Tale modifica costituzionale intervenne nel 2000 senza
retroattività, sicché i mandati ai suoi sensi si
contano dall’elezione del 2005 in avanti. In
quella missiva riservata il Presidente francese,
François Hollande, sottolineava l’importanza
di non perseverare al potere, scrivendo testualmente: “(…) il Burkina Faso potrebbe essere un
esempio per la regione, se nei mesi a venire
s’ispirasse ai principi democratici, evitando i
rischi di una modifica non consensuale della
Costituzione. Caro Blaise, potrai contare sull’appoggio francese, purché metta la tua esperienza e talento a disposizione della comunità
internazionale”. Se avesse dato ascolto a quel
suggerimento, molto verosimilmente sarebbe
ancora il padrino dell’Africa Occidentale ed il
padre-padrone della Patria degli uomini integri,
quanto significa “Burkina Faso”, nome in cui fu
nel 1984 trasformato l’allora Alto Volta dal celeberrimo Presidente Thomas Sankara, ucciso
nel 1987 dal medesimo Compaoré con il bene22
placito di Mitterrand. Il 31 ottobre scorso il Presidente ha lasciato il potere ed il Paese, avendo
testualmente affermato: “Con l’intenzione di
preservare le conquiste democratiche e la pace
sociale dichiaro che il potere è vacante, in modo
da permettere la realizzazione di una transizione che porti alle elezioni libere e trasparenti
dentro novanta giorni. Da parte mia ho fatto il
mio dovere”. Compaoré è stato trasportato da
un elicottero francese a Pô e poi a Fada N’Gourma, per raggiungere in aereo Yamoussoukro, la capitale della Costa D’Avorio, dove ha
trovato rifugio con i suoi più stretti collaboratori
e la famiglia, ospiti dell’amico Presidente ivoriano, Alassane Dramane Ouattara. Leader incontrastato del Congrès pour la Démocratie et
le Progrès (CDP), Blaise Compaoré (64 anni),
che era salito al potere con un golpe, era già al
quarto mandato oltre ai quattro anni trascorsi al
potere dal 1987 fino al 1991; fu poi rieletto nel
1998, nel 2005 e nel 2010. Compaoré, che in
passato aveva ricoperto un ruolo ambiguo nei
conflitti di Angola, Liberia e Sierra Leone, più
recentemente ha svolto il ruolo di pacemaker,
negoziando efficacemente nelle crisi di Costa
D’Avorio, Guinea, Togo e Mali. Alleato dell’ex
Presidente liberiano, Charles Taylor, e di Gheddafi, nel 2000 Compaoré era stato accusato di
traffico di armi e diamanti, finalizzato al sostegno sia dell’Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale dell’Angola (UNITA) di Jonas
Savimbi, ucciso nel 2002, una delle due parti in
causa della pluridecennale guerra civile ango-
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
lana sia dei ribelli sierraleonesi. Nel 2013 la
Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja ha decretato la fine della disputa territoriale lungo il
confine col Niger. A margine della questione, è
interessante rilevare come il Burkina Faso dal
1994 non riconosca Pechino, ma Taipei. In
Africa, solo São Tomé e Príncipe e lo Swaziland
intrattengono relazioni diplomatiche con Taiwan e non con la Cina. L’ultima Nazione africana ad avere chiuso con Taiwan, per aprire
relazioni con la Cina è stato il Gambia un anno
fa, facendo proprio il cosiddetto Beijing Consenus, la pretesa esclusività, secondo la quale Pechino intrattiene appunto relazioni diplomatiche
con il resto degli Stati dell’Africa. Tra la fine di
ottobre e gli inizi di novembre si è consumato
nel Burkina Faso un colpo di stato sui generis,
alimentato dalla rivolta popolare soprattutto
giovanile, che però non può definirsi una Primavera Nera, come alcuni si sono espressi. Subito dopo la fuga di Compaoré, il Capo delle
Forze Armate, Generale Honoré Naberé
Traoré, ha preso il potere, ma ha dovuto ben
presto lasciarlo al Colonnello Yacouba Isaac
Zida, della più strutturata Guardia Presidenziale. Secondo Zida i militari non sarebbero interessati al potere, bensì intenzionati a creare
rapidamente un Governo transitorio fino alle
elezioni nel 2015. In questo senso si sono aperte
consultazioni su più fronti fra tutti gli interlocutori possibili compresi i partiti d’opposizione ed
il Mogho Naba, il Re dei Mossi, l’etnia principale del Burkina Faso. Tra i principali partiti
d’opposizione si segnala in particolare l’Unione
per il Progresso e il Cambiamento (UPC) di Zéphirin Diabré, Roch Marc e Christian Kaboré.
Anche esponenti del CDP hanno partecipato
alla definizione della transizione politica. Grazie ad una missione congiunta dell’Unione Africana (UA) – guidata dal Presidente di turno, il
Presidente della Mauritania, Mohamed Ould
Abdelaziz – e della Comunità Economica degli
Stati dell’Africa Occidentale (CEDEAO-ECOWAS) – guidata dal Presidente di turno, il Presidente del Ghana, John Mahama è stato
immediatamente raggiunto l’accordo per una
transizione della durata di un anno. Hanno
svolto un ruolo nella mediazione anche i Presidenti di Senegal, Macky Sall, e Nigeria, Goodluck Jonathan, nonché il Capo dell’Ufficio
ONU per l’Africa Occidentale, Ibn Chambas. Il
12 novembre il colonnello Zida, garantendo in
questo modo la sua intenzione di concludere il
prima possibile la transizione a guida militare,
ha sostenuto apertamente come non necessaria
la nomina di un parlamento, né di un consiglio
di difesa né di una commissione per la riconciliazione. Infatti, il 13 novembre è stato raggiunto l’Accordo sulla Transizione dalle Forze
Armate, ai partiti politici e alle organizzazioni
della società civile. L’Assemblea transitoria ha
preso il nome di Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) ed il suo Presidente, che non
potrà essere espressione di alcun partito politico, sarà un civile nominato da un Collegio
elettorale, composto da esponenti religiosi, ufficiali dell’esercito, dirigenti politici, capi tradizionali e rappresentanti della società civile. Il
diplomatico Michel Kafando è stato dunque designato Presidente ad interim, lo stesso era stato
Ambasciatore presso le Nazioni Unite e Ministro degli Esteri negli anni Ottanta.
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Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
I primi segnali di debolezza del regime di Compaoré possono essere intravisti già nell’ammutinamento generalizzato delle Forze Armate del
2011, poi ricompostosi. In quello stesso anno
l’ex Presidente burkinabé convocò un Consiglio
Consultativo sulle Riforme Politiche (CCRP),
per poi includere la costituzione della seconda
ala del Parlamento, il Senato, anch’esso aspramente contestato però. Tuttavia l’ostinazione
con cui per anni Compaoré covava l’idea della
modifica del numero dei mandati dette vita a
gennaio dello scorso anno ad una spaccatura interna al partito di governo, allorché circa settanta membri del CDP si dimisero, perché
contrari alla riforma costituzionale in discussione, rendendo impossibile la modifica parlamentare della Costituzione, perché il quorum
non era più assicurato. Infatti, per riuscire nell’intento di modificare la Costituzione, sarebbe
stata necessaria o la via referendaria, di fatto impraticabile per l’opposizione della popolazione,
oppure con il voto di almeno due terzi dei parlamentari. Tale scissione aveva alimentato due
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cordate: da un lato un nuovo partito interno alla
maggioranza e tuttavia non intenzionato a modificare l’assetto istituzionale, il Movimento del
Popolo per il Progresso (MPP), mentre dall’altro lato sorse il Fronte Repubblicano, costituito
da una quarantina di piccoli partiti gravitanti attorno al CDP, un mero diversivo per il regime
di mantenersi al potere, poiché allineatosi con
il tentativo di modifica voluto dal Presidente.
La contestata creazione di un Senato d ancor
più la tentata modifica dell’Articolo 37 della
Costituzione hanno fatto terminare uno dei poteri politici più longevi in Africa, incapace di
ascoltare le richieste della popolazione e dei
partner esteri. Le analogie con altri tentativi in
corso di modifiche costituzionali fino all’abolizione del numero dei mandati riguardano i
casi del Benin, del Rwanda, del Burundi, della
Repubblica del Congo e della Repubblica Democratica del Congo, dove la tensione fra i partiti al governo e quelli d’opposizione è
altissima.
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
Russia, Europa Orientale
ed Asia Centrale
Lorena Di Placido
Eventi
►Progressi per lo status del Mar Caspio Il 28-29 settembre, si è svolto ad Astrakhan, sotto l’egida
della Russia, un vertice dei paesi rivieraschi del Mar Caspio, nel corso del quale è stato prodotto
un documento congiunto in 19 punti che definisce i principi condivisi destinati a confluire in una
Convenzione sullo status legale del Mar Caspio, la cui firma potrebbe avvenire al prossimo summit, che si svolgerà in Kazakhstan nel 2015. Le parti hanno concordato la delimitazione delle
acque territoriali (fissata a 25 miglia nautiche complessive), mentre le modalità per tracciare le
linee del confine nazionale e della zona esclusiva di pesca verranno successivamente stabilite per
consensus. Le acque poste al di là delle 25 miglia nautiche vengono considerate libere e possibile
oggetto di accordi specifici per lo sfruttamento delle risorse dei fondali e di quanto ad essi sottostante. Su tutta la superficie del mare vengono garantite massime libertà e sicurezza per la navigazione e per il passaggio non ostile, mentre l’accesso e l’uscita verso altri bacini idrici sarà
regolato dalle norme e dai principi del diritto internazionale. Riguardo agli aspetti di sicurezza e
stabilità regionale, il diritto di avere una presenza militare sul Mar Caspio viene concesso ai soli
paesi rivieraschi e a tale principio viene associato l’impegno di ciascuno stato a mantenere uno
stabile equilibrio delle forze e ad assicurare efficienti capacità di difesa nazionali. In tema di
tutela ambientale, le parti hanno concluso tre accordi su: cooperazione idro-metereologica; allarme per le emergenze e il soccorso; preservazione e utilizzo razionale delle risorse biologiche
marine. Il presidente russo Vladimir Putin ha anche proposto agli altri capi di stato di svolgere
nel 2016 esercitazioni congiunte dei servizi di protezione civile. Inoltre, data la prossima entrata
in servizio della linea ferroviaria tra Kazakhstan, Turkmenistan e Iran (gennaio 2015), Putin ha
proposto di realizzare un anello ferroviario intorno al bacino, costruendo anche la tratta opposta,
sul lato occidentale, così da creare un sistema infrastrutturale integrato con le aree portuali. Per
quanto riguarda i commerci (nel 2013 l’interscambio regionale è stato di 33 miliardi di dollari),
il presidente kazako Nazarbaev ha proposto la creazione di un’area di libero scambio, mentre la
Russia ha già avviato lo studio di protocolli di integrazione tra servizi frontalieri e fiscali. L’energia resta un ambito di cooperazione al momento solo potenziale. I progressi negoziali conseguiti
al vertice di Astrakhan, benché ancora appartenenti alla sfera delle intenzioni politiche, manifestano comunque una significativa accelerazione, impressa per volontà russa, alla soluzione di
una complessa disputa originata dalla dissoluzione dell’URSS. Apparentemente, l’intento russo è
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Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
quello di comporre le controversie ai margini del proprio spazio di interesse per guadagnare
ambiti di stabilità, a fronte delle difficili condizioni si sicurezza sul suo confine europeo-occidentale.
►Rilancio della cooperazione bilaterale tra Kazakhstan e Unione Europea Kazakshtan e Unione
Europea hanno dichiarato l’intesa per un rilancio complessivo della cooperazione bilaterale in
una molteplicità di ambiti, che comprendono anche la sicurezza alimentare, l’energia e la lotta al
terrorismo. Resta esclusa ogni forma di avvicinamento ulteriore tra i due partner, tenuto conto
del percorso di integrazione avviato dal Kazakhstan insieme a Russia e Bielorussia, prossimo a
concretizzarsi nell’ambito dell’Unione Euroasiatica, operativa dal 1 gennaio 2015. Il Kazakhstan
procede, quindi, con successo nella sua politica di integrazione regionale e partenariato multivettoriale, riuscendo a gestire sia il rapporto con l’UE sia quello con la Russia, nonostante la delicata congiuntura internazionale dettata dalla crisi ucraina e dalle sue molteplici implicazioni.
►Riforma della terra in Tajikistan Il governo tagiko ha avviato una riforma agraria che, nel
biennio 2014-15, dovrebbe portare a una redistribuzione delle proprietà terriere di più grande
estensione tra piccoli agricoltori, così da rimediare alle incongruenze della riforma della terra
del 1996, che, nonostante la privatizzazione, ha lasciato ancora in forza molti dirigenti di epoca
sovietica. Lo scopo è quello di incentivare l’iniziativa dei piccoli produttori, migliorare le attuali
condizioni di sicurezza alimentare, permettere a quanti si trovano nella necessità di emigrare di
avere un’alternativa lavorativa nel proprio paese. La situazione sembrerebbe presentare, tuttavia,
più aspetti problematici del previsto, giacché implica una ristrutturazione complessiva dei sistemi
di irrigazione e impatta sulla tipologia delle coltivazioni. Creando aziende agricole di piccole dimensioni, infatti, è verosimile una diminuzione della produzione di cotone (strategica nell’interesse
delle autorità nazionali), che si presta meno di altri prodotti ad essere coltivato in realtà di piccole
dimensioni. Ad oggi, solo il 7% del suolo tagiko (prevalentemente montuoso) è arabile, mentre i
privati gestiscono il 70% della proprietà terriera.
►Visita del presidente tagiko in Azerbaijan Il 16 ottobre, il presidente tagiko Emomali Rakhmon
si è recato in visita in Azerbaijan, dove ha siglato una intesa di cooperazione bilaterale con Ilham
Aliyev. I due presidenti hanno deciso di impegnarsi ulteriormente negli ambiti economico, commerciale, militare e dei trasporti, esprimendo sostegno per il riconoscimento reciproco dell’integrità territoriale. Tra i due paesi sono già entrati in vigore oltre trenta accordi bilaterali.
►Incontro bilaterale Turkmenistan-Uzbekistan Il 23-24 ottobre il presidente uzbeko Islam Karimov si è recato in visita ad Ashgabat, dove ha discusso delle prospettive della cooperazione bilaterale con Gurbanguli Berdymuhammedov. In particolare, i colloqui hanno riguardato i temi
delle direttrici delle pipeline regionali, della questione idrica e della situazione dell’Afghanistan.
Nel 2013, l’interscambio commerciale tra i due paesi è stato di 353,9 milioni di dollari.
►Donatori internazionali per il Mare d’Aral Il 28-29 ottobre, si è svolto a Urgench (Uzbekistan)
una conferenza internazionale con lo scopo di reperire fondi destinati al salvataggio del Mare
d’Aral, prima della definitiva desertificazione. Stati e organizzazioni internazionali (prima fra
tutte la Banca Mondiale) hanno promesso un impegno complessivo di 3 miliardi di dollari per finanziare iniziative di urgente salvaguardia ambientale.
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Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
LA NECESSARIA COOPERAZIONE DI EUROPA E RUSSIA
Nel corso del mese di ottobre la crisi ucraina
ha segnato due nuovi assetti, che congelano la
situazione del paese nel breve-medio termine,
senza tuttavia aggiungere elementi di stabilizzazione. Le elezioni parlamentari hanno, infatti,
inteso rinnovare la compagine politica, ancora
legata alla mappa del potere dell’era Yanukovich, segnando un orientamento decisamente
filo-occidentale dell’assemblea legislativa, che,
tuttavia, non guadagna una piena legittimità,
data la mancata assegnazione dei seggi delle
repubbliche separatiste (Donetsk e Lugansk) e
di quella già, di fatto, separata (Crimea). Allo
stesso modo, l’accordo di fine mese sulle forniture del gas tra Ucraina e Russia (sotto egida
dell’Unione Europea) assicura l’approvvigionamento per i mesi invernali, lasciando comunque aperto lo scenario del periodo a seguire, sul
quale graveranno pesantemente gli sviluppi
della crisi in corso.
Un elemento costante e sempre più di lungo periodo è, invece, rappresentato dalla partnership
russo-cinese, in via di ulteriore consolidamento,
non solo perché inserita nel contesto di sviluppo
euroasiatico della Russia, ma anche perché rappresenta una via certa di crescita a fronte delle
sanzioni e dall’isolamento imposti dalla compagine occidentale.
Le elezioni in Ucraina
Il 26 ottobre si sono svolte le elezioni per il rinnovo del parlamento di Kiev. L’esito ha premiato gli schieramenti filo-occidentali, che
hanno complessivamente ottenuto ben oltre il
50% delle preferenze (UDAR e Partito della Solidarietà, formazioni contigue al presidente
Petro Poroshenko, e Fronte Popolare, del primo
ministro, Arseniy Yatsenyuk, hanno avuto ciascuno il 22% circa dei consensi, mentre Autodifesa ha ottenuto oltre il 10%) a fronte del
9,62% del Blocco di Opposizione (partito erede
della formazione del deposto presidente Viktor
Yanukovich). La soglia di sbarramento del 5%
è stata superata dal Partito Radicale, da Patria
(guidato da Yulia Timoshenko) e dalla formazione di estrema destra Svoboda. I comunisti
non hanno ottenuto seggi. La vittoria della democrazia e dell’Ucraina pro-europea (parafrasando quanto proclamato da Poroshenko
all’indomani del voto) risulta tuttavia monca,
giacché le operazioni elettorali non sono state
svolte né in Crimea (di fatto territorio della Federazione Russa) né nelle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, che hanno indetto
proprie elezioni per il 2 novembre. Di conseguenza, 27 dei 450 seggi parlamentari risultano
vacanti, mentre la guerra civile continua nell’est
del paese e quel che si intravede è una radicalizzazione delle posizioni tra governo centrale
ed entità separatiste, piuttosto che vie di possibile composizione. D’altra parte, l’avvicendamento di cinque ministri della Difesa tra
febbraio e metà ottobre, sta a segnalare una difficoltà intrinseca alla leadership di Kiev nel perseguire strategie credibili per affrontare la crisi
delle regioni separatiste dell’est e personalità
capaci che se ne rendano interpreti ed efficaci
esecutori.
La questione del gas
La questione degli approvvigionamenti energetici dell’Ucraina ha accompagnato gli sviluppi
27
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
della crisi in corso fin dall’inizio: il 17 dicembre
2013, la scelta di campo di Yanukovich è stata
sancita da un accordo con la Russia, che comprendeva anche uno sconto sensibile del prezzo
del gas (278 dollari per mille metri cubi); gli accordi di febbraio e il cambio di leadership a
Kiev hanno determinato la revoca unilaterale di
ogni concessione in materia energetica da parte
di Mosca; l’irrigidimento progressivo di Kiev
(in conseguenza dell’annessione della Crimea e
della guerra civile nell’est) ha conseguentemente irrigidito anche la controparte fornitrice,
che, a giugno, ha preteso il saldo a un prezzo
pieno per le forniture già erogate e la revisione
dei prezzi per quelle a venire; al rifiuto ucraino,
è seguita la sospensione degli invii e la ricerca
di alternative fonti di approvvigionamento (reverse da partner dell’Europa occidentale). Nonostante la complessità della questione, seppure
con fasi alterne, il dialogo negoziale non è mai
venuto meno del tutto. Una temporanea soluzione per affrontare i mesi invernali è giunta con
gli accordi siglati da Ucraina e Russia (sotto
egida dell’Unione Europea) il 26 settembre e a
fine ottobre. In estrema sintesi, Kiev pagherà a
Mosca 378 dollari per metro cubo per il gas ricevuto entro la fine del 2014 e 365 dollari per
le forniture del primo trimestre del 2015, che
verranno pagate in anticipo rispetto all’effettiva
erogazione; il debito pregresso verrà saldato
entro l’anno. L’Unione Europea si è resa garante
dei pagamenti, che superano abbondantemente
i cinque miliardi di dollari.
Nuovi accordi russo-cinesi
Il 14 ottobre, Russia e Cina hanno ulteriormente
rafforzato i termini del partenariato bilaterale,
con la firma di 38 nuovi accordi, pari a un impegno economico di 24,5 miliardi di dollari, che
investe ambiti quali energia, tecnologia, finanza. Pechino si consolida come principale
partner commerciale di Mosca, forte di un in28
terscambio di 89 miliardi di dollari nel 2013,
che, secondo le dichiarazioni del primo ministro
russo, Dmitri Medvedev, dovrebbe crescere a
100 miliardi nel 2015 per poi raggiungere i 200
miliardi nel 2020. A maggio 2014, i due paesi
avevano siglato un accordo trentennale di 400
miliardi di dollari per la vendita da parte russa
di 38 miliardi di metri cubi di gas all’anno.
Alcune riflessioni conclusive
Nel 2014, al susseguirsi delle prese di posizione
sul versante europeo-occidentale, relativamente
alla crisi ucraina, hanno fatto seguito simmetriche determinazioni da parte di Mosca. Così, la
scelta di aderire a un orientamento filo-europeo,
a febbraio, ha indotto la Russia a sospendere gli
accordi di dicembre 2013 in materia energetica.
Allo stesso modo, l’imposizione di sanzioni
contro Mosca, da parte di quella compagine di
stati generalmente riconducibile al cosiddetto
schieramento occidentale, è avvenuta in quattro
diversi momenti di particolare gravità della crisi
ucraina - annessione della Crimea (marzo), sostegno manifesto alle regioni separatiste
(aprile), abbattimento dell’aereo malese e sospetta fornitura da parte di Mosca dei dispositivi
utilizzati per l’attacco (luglio), mancanza di una
soluzione negoziale della crisi dell’est (settembre) – e ha generato una reazione uguale e contraria di Mosca, con il bando della durata di un
anno alle importazioni alimentari provenienti da
quegli stessi paesi con la minaccia di generalizzate ritorsioni in ambito energetico.
Alla distanza posta tra occidente e Russia,
hanno fatto seguito il consolidamento del progetto euroasiatico (firma a maggio 2014 dell’accordo istitutivo dell’Unione Euroasiatica
operativa dal primo gennaio 2015) e del partenariato con Pechino (accordi di maggio e ottobre, in particolare).
Diversi elementi suggeriscono, tuttavia, che il
deterioramento delle relazioni tra est e ovest
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
(per utilizzare, seppure forzatamente, una dizione ricorrente che richiama alla crisi del passato tra la Russia e gli Stati Uniti con i paesi
europei e occidentali) manifesta anche chiaramente che le due aree hanno più bisogno di una
connessione che di un reciproco isolamento. Il
venir meno degli scambi commerciali impoverisce le già provate economie sia dei sanzionati
che dei sanzionatori, mentre la possibile interruzione dei flussi di gas comporta il venir meno
di necessarie entrate per Mosca, alle prese con
una già difficile situazione economica, oltre a
generare ansia di approvvigionamento e differenziazione negli europei.
Un ulteriore problema per l’andamento dell’economia russa deriva dal progressivo calo del
prezzo del petrolio, che ha registrato una diminuzione del 15% nel periodo luglio-settembre,
giungendo, a ottobre, alla quota di 85 dollari al
barile. Se la tendenza attuale dovesse consolidarsi, favorita da una minore domanda di Cina
ed Europa e da una maggiore offerta dovuta all’incremento della produzione da parte dell’Arabia Saudita e degli Stati Uniti (+65% di
shale oil negli ultimi 5 anni), potrebbe verificarsi lo scenario più temuto dagli analisti russi,
con il petrolio a 60 dollari al barile. Ne deriverebbero: gravi perdite per le entrate dello stato;
l’impossibilità di procedere agli investimenti
statali programmati (uno fra tutti, quello delle
dotazioni per le forze armate); il deterioramento
delle condizioni economiche generali; verosimilmente, un calo sensibile di popolarità per il
presidente Putin.
Il fattore della dipendenza energetica da Mosca
ha creato, d’altra parte, fratture anche all’interno
dell’UE, motivando diversi paesi a non seguire
le direttive di Bruxelles sulle sanzioni (Austria,
Slovacchia, Ungheria, fra tutti), per non vedere
compromessi i propri approvvigionamenti o i
progetti di sviluppo infrastrutturale (gasdotto
South Stream), mentre ha stimolato altri nella
ricerca di fonti alternative.
In estrema sintesi, l’esasperazione delle dicotomie che accompagnano la crisi ucraina gioca a
favore di una sempre crescente chiusura della
Russia su se stessa e sulla propria dimensione
euroasiatica, intesa come rinsaldamento dei
rapporti ereditati dallo scioglimento dell’URSS
e del partenariato con Pechino. Se, relativamente ai primi, si può ravvisare una saggia capitalizzazione su consolidate dinamiche foriere
di reciproco (anche se non identico) vantaggio,
nel caso dei rapporti con la Cina è evidente una
posizione di squilibrio, che, già nel medio periodo, gioca a detrimento del ruolo di Mosca
(sia regionale sia in senso più ampio) e degli interessi complessivi dello stesso schieramento
occidentale, a dimostrazione che da un proficuo
dialogo est-ovest entrambe le aree avrebbero da
guadagnare.
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Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
Cina
Nunziante Mastrolia
Eventi
►La Banca Centrale cinese è pronta ad iniettare 33 miliardi di dollari di prestiti alle banche, nel
tentativo di ridare slancio ad un'economia nazionale che mostra segni di frenata: “solo” 7,3% di
crescita nell'ultimo trimestre: un dato che si attesta sui livelli del 2008; un debito nazionale che
ha superato il 250% del PIL; mentre i consumi stentano a decollare, contribuendo solo al 34%
del PIL.
IL POTERE LOGORA CHI CE L'HA
Quanto sta accadendo ad Hong Kong rappresenta una delle più gravi minacce alla leadership
politica del Partito comunista cinese. Quanto sta
accadendo nell'ex colonia britannica, infatti,
mette in evidenza ed acuisce la crisi di legittimità che mina la stabilità istituzionale del Paese.
Dove per legittimità deve intendersi quel principio che spiega perchè solo alcuni abbiano il
diritto di comandare, il che si traduce poi nella
giustificazione del perchè solo alcuni possano
legittimamente usare la forza.
Il Partito oggi sta tentando di giustificare la propria permanenza al potere presentandosi come
l'agente storico che, lottando contro le potenze
occidentali e il Giappone, ha restituito alla Cina
il posto che le spetta tra le grandi potenze, facendone un modello (autoritarismo più economia di mercato) a cui tutti i paesi naufraghi della
globalizzazione e vittime del colonialismo occidentale possono guardare.
Il fatto che nelle strade di Hong Kong vengano
rivendicate la democrazia occidentale e le sue
connesse libertà liberali, mina alle fondamenta
il progetto del PCC. A tale proposito è particolarmente significativo che nei primi giorni della
protesta i manifestanti sventolassero la bandiera
che Hong Kong aveva sotto la dominazione britannica1.
C'è di più, il Partito sta tentando per la seconda
volta di lanciare un revival confuciano (nel
2012 una statua di Confucio era stata collocata
a piazza Tienanmen, per poi essere di lì a poco
rimossa) e nel contempo impone ai propri membri una più salda ortodossia marxista-leninista2.
Le due cose, apparentemente in contraddizione,
in realtà si reggono a vicenda: a Pechino mar31
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
xismo-leninismo significa dittatura del proletariato e confucianesimo significa ubbidienza all'autorità costituita. Ora, al di là del fatto che è
abbastanza sconcertante che si voglia governare
oggi in nome di Confucio e di Lenin (è come se
in Occidente una élite giustificasse il proprio
potere in nome di Platone; stesso discorso vale
per Lenin, dopo la bancarotta planetaria dei regimi comunisti), le manifestazioni di Hong
Kong e la campagna di disobbedienza civile minano alle fondamenta anche questo tentativo
della leadership di Pechino di rinsaldare il proprio ruolo, elaborando un principio di legittimità che giustifichi il proprio monopolio del
potere. In linea di principio, dunque, Hong
Kong è la miccia da cui potrebbe scaturire un
incendio in grado di estendersi a tutta la Cina e
che potrebbe mettere in serissima difficoltà il
potere del PCC.
Al di là della questione (essenziale) della legittimità e della impossibilità di far convivere
pezzi di una società aperta (il mercato, una società civile aperta al mondo) all'interno di una
struttura propria di una società chiusa (il monopolio del potere del PCC), di cui si è detto nei
precedenti numeri dell'Osservatorio Strategico
( e a cui si rimanda), ed al di là anche delle difficoltà economiche (conseguenza diretta della
mancata riforma in senso liberale e democratico
della struttura istituzionale del Paese, difficoltà
che continueranno, per questo, ad aumentare),
altri elementi stanno emergendo. Elementi che
possono ulteriormente alimentare il fuoco che
potrebbe venire da Hong Kong.
Il malessere dell'establishment
Nel suo tour nelle regioni meridionali del Paese
Xi Jinping nel 2013 aveva sostenuto che il
crollo dell'Unione Sovietica fosse stato causato,
tra le altre cose, anche dal fatto che nessuno si
fosse levato a difenderla. Il che significa che
l'establishment sovietico stesso ad un certo
32
punto non aveva avuto più interesse a che quel
sistema rimanesse in piedi3.
A marzo il Global Times dava notizia di un crescente malessere che si sta diffondendo tra i
funzionari pubblici e di Partito. La ragione?
Semplice: sono pagati poco. Per quanto possa
apparire strano agli occhi dei cittadini cinesi –
continua l'articolo – i funzionari pubblici guadagnano davvero di meno rispetto a chi svolge
funzioni equivalenti nel privato. Il perché questo malessere stia emergendo solo ora è spiegato chiaramente dal Global Times: sino ad ora
i funzionari pubblici e di Partito riuscivano ad
arrotondare la paga attraverso la corruzione4.
Un canale di “autofinanziamento” che si è fatto
sempre più stretto e pericoloso vista l'intensità
e l'efficacia con cui si sta conducendo la campagna anti-corruzione. A ciò si aggiunga la
campagna a favore dell'austerity, il cui fine è
combattere i “decadenti” comportamenti dei
funzionari pubblici: banchetti, viaggi all'estero
ed altro. E' la “campagna per la linea di massa”,
vale a dire accordare il comportamento dei pubblici dipendenti allo stile di vita del resto della
popolazione cinese. Una campagna che – come
ha dichiarato Xi Jinping ad ottobre – è solo l'inizio di un nuovo modo di amministrare il .
Il che significa che, vista la bassa paga, si determina una riduzione dello status e del prestigio con cui sono guardati i funzionari pubblichi,
da una opinione pubblica per la quale la ricchezza è – al di là dei modi con la quale la si
conquista – gloria, come diceva il padre della
Cina moderna, Deng Xiaoping. Una diminutio
che si registra immediatamente: cala bruscamente il numero dei giovani che partecipano ai
concorsi pubblici: stando ai dati resi pubblici
dal Ministero delle Risorse Umane, 360.000
laureati in meno rispetto al 2013 hanno partecipato ai concorsi per l'accesso alla pubblica
amministrazione nel primo quadrimestre del
20146, centomila in meno ad ottobre rispetto
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
allo scorso anno7.
Acemoglu e Robinson nel loro Why Nations
Fail? definiscono correttamente la Cina come
una struttura istituzionale nella quale una minoranza (i quasi 90 milioni di membri del Partito?)
estraggono – a proprio favore – ricchezze dall'economia nazionale. Una situazione che si
legge chiaramente nei numeri che illustrano la
distribuzione del reddito nel Paese, dove il coefficiente di Gini (che misura la polarizzazione
della ricchezza in un paese) raggiunge valori allarmanti, con l'1% della popolazione che possiede un terzo della ricchezza nazionale8, dati
che hanno spinto il settimanale Beijing Review
a chiedere un “intervento immediato del governo”9.
Dal che ne consegue che è possibile che quella
élite potrebbe far mancare il proprio sostegno
al Partito ed alla sua nuova leadership, dato che
non ha più la possibilità di “estrarre risorse” a
proprio vantaggio dall'economia del paese; vive
in uno stato di allarme ed inquietudine dato che
chiunque può cadere da un momento all'altro
sotto la mannaia della campagna anti-corruzione, dalla quale nessuno, dopo la caduta di
Zhou Yongzhang, il primo ex membro di un comitato permanente del PCC a cadere in disgrazia, può percepirsi al riparo.
Questa élite, dunque, (più o meno ampia) non
può che perdere interesse a sostenere quella
struttura istituzionale, a meno che non sia
mossa dalla “dedizione alla causa”, l'ultima
delle quali è il “sogno cinese” di Xi Jinping,
vale a dire la rinascita nazionale.
Una delle conseguenze di questo stato di cose
è la fuga di quanti si sono arricchiti (in maniera
lecita o meno) dalla Cina. Stando ai dati forniti
dall' Hurun Report, 85% di coloro che hanno un
patrimonio superiore al milione di dollari vogliono che i propri figli studino all'estero, e più
del 65% di coloro che posseggono un patrimonio superiore a 1,6 milioni di dollari hanno la-
sciato il paese o si apprestano a farlo10. Una situazione abbastanza imbarazzante per Pechino
e un danno di immagine non da poco. Di qui in
tentativo di acciuffare i fuggiaschi: è la operazione “Fox Hunt” e già alcuni paesi, come l'Australia e le Filippine, hanno assicurato la propria
collaborazione con le autorità cinesi11.
Tutto ciò sta avvenendo anche nel mondo militare. Un antefatto. Jiang Zemin, è stato il primo
presidente della Repubblica e segretario generale del Partito che non avesse un trascorso militare. Per poter conquistare il consenso delle
Forze Armate alla sua leadership acconsentì che
queste potessero condurre attività economiche
e commerciali e integrare per altre vie il proprio
reddito. Molte cose sono cambiante negli ultimi
anni, ma gli illeciti sono rimasti: basti pensare
alla “vendita delle cariche” con una promozione
a maggior generale che poteva arrivare a costare fino a 4,8 milioni di dollari12.
La campagna anti-corruzione di Xi Jinping, nonostante gli inviti alla cautela dello stesso Jiang
Zemin e di Hu Jintao, ha investito anche il
mondo militare, dove ormai si fanno numerose
le teste cadute, sia a ragione della loro corruzione sia a ragione della loro “infedeltà” alla
nuova leadership del Partito.
A giugno Xu Caihou, ex vice presidente della
Commissione Militare Centrale è stato espulso
dal Partito, formalmente con l'accusa di corruzione, in realtà si tratterebbe di un uomo fedele
a Jiang Zemin e legato a Bo Xilai. La sua estromissione rientrerebbe nella operazione che Xi
Jinping sta conducendo per rinsaldare il proprio
potere eliminando tutti coloro i quali restano fedeli alle precedenti leadership13. Insieme a Xu,
sono stati estromessi: Zhang Gongxian, comandante del Dipartimento Politico della regione
militare dello Jinan, Zhang Xuejie, commissario politico della XII armata e Gao Guanghui,
comandante della XVI armata.
Vengono poi considerati uomini fedeli a Xi: Xu
33
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
Qiliang, nominato vice presidente della Commissione Militare Centrale; Ma Xiaotian, capo
di Stato Maggiore dell'Aeronautica e membro
della Commissione Militare Centrale, Wu
Shengli, capo di Stato Maggiore della Marina
Militare e membro della Commissione Militare
centrale, Zhang Youxia direttore del Dipartimento degli Armamenti e Wei Fenghe, a capo
della Seconda Artiglieria. Tuttavia se si considera che queste nomine sono tutte state fatte tra
l'ottobre ed il novembre del 2012, qualche dubbio viene che questi componenti della CMC
possano considerarsi uomini della fazione di Xi.
Il che significa che potrebbero presto esserci
degli avvicendamenti14. Il punto è che per poter
dire di avere il pieno controllo delle Forze Armate del Paese Xi dovrà mettere mano alla
composizione della Commissione Militare Centrale inserendovi quanti sono a lui fedeli. Cosa
che sinora non ha ancora fatto.
Si intravede di conseguenza la possibilità di uno
scontro tra la leadership politica e militare cinese, o quanto meno tra alcune sue fazioni. I
primi segnali di questo possibile scontro, già
emergono. Appare come una vera e propria delegittimazione, infatti, un attacco condotto da
una parte della stampa di Partito, nel quale si
sostiene l'impreparazione e lo scarso addestramento delle forze armate cinesi: “Weaknesses
in China's military training pose a threat to the
country's ability to fight and win a war”15. A ciò
si aggiunga il fatto che nei mesi scorsi la stampa
di partito ha insistito sul fatto che la corruzione
all'interno delle Forze Armate ha raggiunto livelli tali da renderle incapaci di combattere efficacemente16.
Affermazioni che hanno, ovviamente, fatto il
giro del mondo17. Ora, viene da chiedersi, perchè rendere pubbliche tali mancanze, per giunta
sulla stampa in lingua inglese? Viene il sospetto
che questo sia solo l'incipit di una vasta campagna di epurazioni nel mondo militare18.
34
E' chiaro che il fine della campagna anti-corruzione è doppio: da una parte estromettere quanti
possono minare la leadership del presidente,
dall'altra “purificare”19 l'immagine del Partito,
nel tentativo di rafforzare il consenso delle
masse, ripulendo il Partito di quanti hanno approfittato delle proprie cariche per “estrarre risorse”20. Tuttavia per quanto consenso possa
avere tra le masse, troppi, tra coloro che - per
ritornare al monito di Xi Jinping sull'Unione
Sovietica – dovrebbero difendere il regime,
stanno vedendo i propri interessi intaccati.
Ci sono poi altri segnali che vanno presi in considerazione. Le rivolte in Cina ormai non si
contano più. Si tratta di solito di sollevazioni
contro l'espropriazione della terra o per opporsi
alla costruzione di impianti industriali ritenuti
dalla popolazione pericolosi per la propria salute. A differenza del passato, la stampa di Partito non riserva particolare attenzione a questi
casi. Tuttavia a volte qualcosa emerge. Il 14 ottobre a Fuyou, nello Yunnan, si sono registrati
sconti tra i cittadini e la polizia: cinque poliziotti sono stati catturati dalla folla e arsi vivi
(le foto che documentano l'accaduto sono poi
state postate su Internet)21. Il 29 settembre la polizia ha arrestato 26 persone accusate di aver assaltato gli edifici governativi e di aver incitato
la folla ad attaccare la sede del Comitato del
PCC nella città di Shantou nella provincia del
Guangdong22.
C'è un ultimo elemento da mettere in evidenza,
vale a dire l'emergere sulla stampa di Partito di
voci di dissenso: a titolo di esempio due articoli.
Il primo apparso sul China Daily il 14 ottobre
dal titolo significativo “Reform is a struggle
among interest groups”, nel quale si sostiene
che lo scopo delle riforme non sia il benessere
collettivo, ma quello di consentire ad una fazione di poter continuare ad accaparrarsi le risorse del paese. Il secondo è “Confucianism not
rural priority”, apparso sempre sul China Daily,
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
il 13 ottobre, nel quale si critica aspramente il
revival confuciano sostenendo, nello specifico,
che ben altri sono i problemi di quanti vivono
nelle aree rurali. Probabilmente non è un caso
che, dopo l'Accademia Cinese delle Science Sociali e dopo la TV di Stato, ora a cadere sotto la
lente degli ispettori anti-corruzione sia una parte
della stampa di partito23 .
Conclusione
A voler guardare nel complesso la situazione cinese si può dire che, al di là di una certa retorica fatta di appelli al governo della legge (in
questo senso, da ultimo il Quarto Plenum del
Comitato Centrale del PCC che si è tenuto a
Pechino dal 20 al 23 ottobre), di libertà liberali,
di primato della Costituzione, di una sempre più
marcata apertura economica al mondo (la Zona
economica speciale di Shanghai deve essere ancora messa a punto), la nuova leadership del
Partito sta chiudendo sempre più il paese24: con
la sua insistenza sulla minaccia dei valori occidentali, con gli attacchi cui sono sottoposte le
multinazionali straniere25, con le tensioni regionali, con una sempre più asfissiante ortodossia
ideologica che pesa sul mondo universitario e
sui media26. Il Partito, in altre parole, si sta irrigidendo. E rigidità, in questo caso, signigica
fragilità.
Una fragilità tanto più pericolosa per il PCC
visto l'addensarsi di quella serie di elementi che
rischiano di indebolire ancora di più il regime
cinese: le difficoltà sempre più evidenti dell'economia del Paese2, il rischio che il dissenso
monti anche all'interno dell'establishment cinese (la questione dei salari) ed ancora più preoccupante la possibilità di uno scollamento tra
le leadership civile e quella militare, o quanto
meno una sua parte. Se su queste fragilità e debolezze dovesse spargersi la scintilla di Hong
Kong, ci sarebbero tutti gli elementi perchè si
verifichi una tempesta perfetta dalla quale il
PCC potrebbe avere grosse difficoltà ad uscire
illeso.
Il Paese si sta chiudendo ed il PCC si sta irrigidendo in una nuova ortodossia, nel tentativo
anche di riacquistare una primazia assoluta.
Tuttavia, proprio questo slancio assolutistico
potrebbe rivelarsi fatale. Infatti, quanto più il
potere si irrigidisce, tanto più esso è fragile e
vacillante. Eppure per Montaigne “non tutto ciò
che vacilla cade”. Ma niente è eterno. Parafrasando Lord Acton e Giulio Andreotti, il potere
logora chi ce l'ha, il potere assoluto logora assolutamente.
1 Si veda N. Mastrolia, “La questione di Hong Kong – 1”, Contributi, Cemiss, ottobre 2014
2 Xi Jinping, “Work solidly and painstakingly to maintain Party purity”, China.org.cn, 17 ottobre 2012
3 Ecco un sunto delle parole di Xi ““Why did the Soviet Union disintegrate? Why did the Soviet Communist
Party collapse? An important reason was that their ideals and convictions wavered (…) Finally, all it took
was one quiet word from Gorbachev to declare the dissolution of the Soviet Communist Party, and a great
party was gone (... ) In the end nobody was a real man, nobody came out to resist”. Si veda “Vows of Change
in China Belie Private Warning”, New York Times, 14 febbraio 2013
35
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
4 “Raising civil servants’ pay a serious matter”, Global Times, 8 marzo 2014 . Si veda anche “Salary of
civil servants below average: report”, China Daily, 1 maggio 2014 e “Civil servant salary details leaked online”, Global Times, 11 febbraio 2014
5 “Xi says "mass-line" campaign just the start”, Xinhua, 8 ottobre 2014. Di seguito i numeri dell'austerity
con caratteristiche cinesi riportate dall'agenzia Xinhua: “Through the campaign, official meetings were reduced by 586,000, almost 25 percent fewer than in the period before the campaign began. Over 160,000
phantom staff were removed from the government payroll and almost 115,000 vehicles taken out of illicit
private use and returned to exclusive regular government affairs. Construction of 2,580 unnecessary official
buildings was stopped”.
6
6 Nona Tepper, “Chinese Grads Shunning Government Careers?”, The Diplomat, 5 giugno 2014. Si veda
anche Zhang Chengchenzi, “Provinces Seeking Fewer Civil Servants This Year, Official Data Shows”,
Caixin, 28 marzo 2014
7 “Time to rethink China's 'civil servant fever'”, Xinhua, 21 ottobre 2014
8 “Income inequality”, China Daily, 17 ottobre 2014. Si veda anche “1% of Chinese own one-third of national wealth”, Xinhua, 26 luglio 2014
9 “The Wealthy Get Wealthier”, Beijing Review, 17 ottobre 2014
10
“The
Chinese
Millionaire
Wealth
Report
2013”,
Hurun
Report,
2014,
http://up.hurun.net/Humaz/201312/20131218145315550.pdf
11 Si veda “Police pursue fleeing officials”, Global Times, 21 ottobre 2014; si veda anche “Australia to help
in returning fugitives”, China Daily, 21 ottobre 2014
12 Si veda Elizabeth C. Economy, “China’s Imperial President”, Foreign Affairs, ottobre-novembre 2014
13 Si veda “Analysis: Purge displays Chinese leader's ambition”, AP, 3 luglio 2014,
http://bigstory.ap.org/article/analysis-purge-displays-chinese-leaders-ambition
14 Dello stesso parere Hua Po, che ritiene che “The current military commission was set up in the 18th national congress. It was the result of compromise by two factions. I think Xi Jinping isn't satisfied with the
current personnel of the military commission. But in order to smoothly take office, he had to agree. Xu Caihou’s downfall gives Xi Jinping a good excuse to clear out the military. So the military has been largely
reshuffled under the excuse of anti-corruption.”
15 “Document highlights weakness in military training”, Shanghai Daily, 13 ottobre 2014
16 “Chinese military's ability to wage war eroded by graft, its generals warn”, Reuters, 18 agosto 2014.
“Senior official urges deeper military graft inspections”, China Daily, 15 luglio 2014. “Xi Jinping orders
PLA officers to abide by perk rules”, Times of India, 26 settembre 2014
.17 “China military training inadequate for winning a war: army paper”, Reuters, 12 ottobre 2014
18 “PLA urged to build good morals with 'mass line'”, Xinhua, 12 ottobre 2014. Si veda “Document highlights weakness in military training”, Xinhua, 13 ottobre 2014 e “PLA to reform training”, Global Times,
13 ottobre 2014
19 George Magnus, “Xi Jinping’s Pure Party”, 24 settembre 2014
20 Si veda Elizabeth C. Economy, “China’s Imperial President”, Foreign Affairs, novembre-dicembre 2014
21 “In Land Dispute in China’s Yunnan Province, Farmers Resist and Execute 5 by Burning”, The Epoch
Times, 18 ottobre 2014
22 “26 arrested for attacking govt building in S China”, China Daily, 29 settembre 2014
23 “Corruption Investigation Targets Chinese Regime’s Mouthpiece, People’s Daily”, The Epoch Times, 8
ottobre 2014
24 Joshua Eisenman, “Closed Door Policy”, Foreign Affairs, 24 settembre 2014. 25 “Why China Is Shooting
Itself in the Foot by Cracking Down on Foreign Companies”, Foreign Policy, 30 settembre 2014
26 Si veda “CPC tightens grip on universities”, Global Times, 16 ottobre 2014 e ai veda anche “The Com-
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Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
munist Party has tightened its grip on Chinese universities”, South China Morning Post, 16 ottobre 2014
27 “China’s Slowdown Raises Pressure on Beijing to Spur Growth”, Wall Street Journal, 21 ottobre 2014
,
37
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
India - Oceano Indiano
Claudia Astarita
Eventi
Elezioni anticipate in Sri Lanka. Il governo dello Sri Lanka ha annunciato che le elezioni presidenziali si terranno un anno prima del previsto, per permettere all’attuale presidente Mahinda
Rajapaksa di candidarsi per un terzo mandato. Criticato per la sua leadership autoritaria, Rajapaksa si difende sostenendo di essere l’unica persona in grado di evitare che il paese cada di
nuovo nella trappola di una seconda guerra civile.
Bangladesh, condanna a morte per Motiur Rahman Nizami. Il capo del partito Jamaat-e-Islami
è stato condannato a morte per aver commesso crimini contro l'umanità durante la guerra di liberazione del 1971. Per quanto sia ancora molto difficile fare chiarezza sui crimini commessi in
quegli anni, il fatto che il partito di Nizami abbia accusato la Corte di Dacca di aver preso una
decisione che va al di là delle sue stesse competenze e abbia indetto uno sciopero generale di tre
giorni per protestare contro quella che considera una condanna ingiusta, lascia immaginare un
possibile ribaltamento della sentenza o , in alternativa, un impatto sociale della stessa ben più
profondo di quanto inizialmente previsto
IL PESO DELLA CINA NELLA RIDEFINIZIONE DELL’EQUILIBRIO
GEOSTRATEGICO TRA INDIA E PAKISTAN
A metà ottobre, al Nobel Institute di Oslo, il comitato per l’assegnazione dei Nobel ha scelto
di attribuire quello per la Pace a due persone:
Malala Yousafzai, la ragazzina pakistana vittima di un attentato talebano nel 2009, quando
aveva solo 12 anni, e Kailash Satyarthi, indiano
di 60 anni, attivista dei diritti dei bambini che,
da operatore sociale in anni di lotta non violenta, ha salvato almeno 80mila bimbi-schiavi.
L’Accademia svedese li ha premiati per la forza
con cui hanno combattuto e continueranno a
battersi contro l’oppressione dei bambini e per
il diritto all’istruzione. Quando i due Nobel
hanno annunciato alla stampa da un lato il desiderio di lavorare insieme per una causa comune, dall’altro l’intenzione di invitare i
rispettivi Premier: Narendra Modi (India) e
Nawaz Sharif (Pakistan), a partecipare con loro
alla cerimonia che si terrà a Oslo il 10 dicembre, la comunità internazionale ha lodato le due
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Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
iniziative sottolineando l’impatto che potranno
avere sulla regione a livello di riconoscimento
dei diritti delle donne e dei bambini, sviluppo
economico, stabilità e, naturalmente, pace.
Che si tratti di una coincidenza oppure no,
quello di Malala Yousafzai e Kailash Satyarthi
non è certo il primo tentativo di trovare un
modo per rilanciare le relazioni tra India e Pakistan, in una fase storica in cui gli equilibri dell’Asia del Sud stanno rapidamente cambiando.
Nel maggio scorso il premier pakistano Nawaz
Sharif è infatti volato in India dopo aver accettato l’invito del suo omologo Narendra Modi di
partecipare alla cerimonia organizzata per l’insediamento di quest’ultimo. Il giorno successivo
all’insediamento, il primo incontro bilaterale del
neo-eletto premier indiano è stato organizzato
proprio con il rappresentante pakistano. Un colloquio aperto da Sharif con la promessa di buttarsi alle spalle “l’eredità di sfiducia e sospetto”
che da sempre contraddistingue i rapporti tra
New Delhi e Islamabad, per “voltare finalmente
pagina”, concentrando le rispettive forze nel rilancio dei legami economici bilaterali e nella
lotta al terrorismo. Una volta rientrato a Islamabad, Nawaz Sharif ha prima ringraziato Modi
per la sua ospitalità con una lettera ufficiale
nella quale ha ribadito quanto sia oggi prioritario, per India e Pakistan, occuparsi delle rispettive popolazioni impegnandosi a offrire loro
condizioni di vita migliori, confermando la propria disponibilità a “lavorare insieme in armonia
per risolvere tutte le altre questioni ancora in sospeso in maniera vantaggiosa per entrambi i
paesi”, augurandosi altresì che i risultati via via
raggiunti potessero gettare le basi per una nuova
collaborazione solida, intensa e luminosa. In un
secondo momento, per continuare ad alimentare
l’atmosfera positiva creatasi a New Delhi e in
vista dell’incontro tra i due leader in occasione
dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite,
previsto per l’inizio di ottobre, Sharif ha sposato
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la “diplomazia dei mango” per “addolcire ulteriormente un legame bilaterale in partenza un
po’ troppo amaro”, ripercorrendo i passi di Liaquat Ali Khan, il primo premier pakistano che
svariati decenni fa offrì una sostanziosa fornitura di mango al suo omologo indiano, Jawaharlal Nehru.
Per il momento, la nuova attitudine positiva
sposata da entrambe le nazioni ha rischiato di
interrompersi solo in tre occasioni. A maggio,
quando i militari consigliarono al premier Sharif
di rifiutare l’invito di Modi a raggiungerlo a
New Delhi per la cerimonia di insediamento. A
fine agosto, quando New Delhi ha cancellato
l’incontro tra i due ministri degli esteri già in
calendario per fine mese in risposta alla scelta
dell’Alto Commissario (equivalente all’Ambasciatore) per il Pakistan in India di incontrare
Shabir Shah, il leader del movimento separatista
del Kashmir nonché presidente del Partito democratico per la libertà della regione del
Jammu-Kashmir, nonostante il parere fortemente negativo espresso da New Delhi. Infine,
all’inizio di ottobre, poco dopo l’incontro tra i
due leader a New York, quando una serie di “incidenti” al confine con il Kashmir hanno innescato una serie di scontri violenti tra i due
eserciti in cui hanno perso la vita una ventina di
persone tra militari e civili.
Alcuni analisti tendono a considerare questi
“passi falsi” del Pakistan come provocazioni rispetto alle quali Narendra Modi, prendendo
esempio dai suoi predecessori, dovrebbe cercare
di soprassedere perché solo in questo modo può
essere possibile evitare un’alterazione degli
equilibri geostrategici della regione mantenendo
quindi l’attuale status quo. Altri studiosi, invece, sono più propensi a identificare la nomina
in India di un governo nazionalista stabile guidato da un leader forte come un fattore di cambiamento sostanziale, ovvero in grado di
modificare quelli che fino a poco tempo fa ap-
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
parivano come equilibri consolidati nella regione. Al momento, sono tanti gli elementi che
indurrebbero a considerare valida questa seconda ipotesi.
L’India di Narendra Modi ha messo in chiaro,
sin dal momento dell’insediamento del nuovo
primo ministro, quanto sia oggi prioritario per
il paese trasformarsi in una grande potenza politica, economica e militare. Le primissime
scelte di Modi a livello di politica interna ed
estera confermano le ambizioni del paese e del
suo attuale leader, nonché la consapevolezza di
quest’ultimo dell’esistenza di un legame diretto
e più che proporzionale tra fermezza e credibilità. Da qui la necessità di far valere il suo punto
di vista a prescindere dall’interlocutore che si
trova davanti e dalla posta in gioco, senza tuttavia cadere nell’errore di chiudere la porta in maniera definitiva sia al dialogo che al confronto.
Nelle ultime settimane, Modi ha mantenuto
questa posizione nel corso del suo viaggio ufficiale negli Stati Uniti, durante le visite dei suoi
omologhi cinese e australiano in India e quando
ha dovuto confrontarsi con il Pakistan. In
quest’ultimo caso, il Premier indiano ha
espresso il proprio punto di vista in maniera ancora più chiara, al fine di evitare qualunque
equivoco: New Delhi è più che disponibile a ridefinire le fondamenta delle relazioni tra India
e Pakistan, ma per farlo ha bisogno di interagire
con un partner serio e affidabile. Allo stesso
tempo, ribadendo quanto sia prioritario per l’India mantenere la regione in equilibrio, Modi
non ha nascosto la propria intenzione di alzare
i costi per il Pakistan con una eventuale escalation militare lungo il confine, nella speranza che
quest’ultima possa servire come valido deterrente per ogni eventuale “scelta avventata” di
Islamabad.
Narendra Modi è perfettamente consapevole del
fatto che l’equilibrio politico in Pakistan sia
oggi più delicato che mai, e che le provocazioni
che arrivano da Islamabad dovrebbero essere interpretate come uno specchio di questa situazione instabile e come una conferma della forza
con cui i militari hanno condannato l’atteggiamento conciliante di Nawaz Sharif. Questa
convinzione naturalmente non basta a trasformare il premier del Pakistan in un interlocutore
affidabile, ma di certo aiuta a trovare un valido
motivo per condannare ufficialmente e allo
stesso tempo giustificare ufficiosamente gli attacchi di Islamabad , vale a dire lasciando aperta
la porta del dialogo con i partner interessati a un
confronto –in questo caso il Primo Ministro
Sharif e, adottando invece una linea di “tolleranza zero” verso chi non lo è –in questo caso
l’esercito-.
Purtroppo, la politica del bastone e della carota
che Modi ha scelto di adottare nei confronti del
Pakistan, difficilmente sarà sufficiente a superare decenni di sfiducia, provocazioni e conflitti.
Tuttavia, se è vero che l’elezione di Narendra
Modi alla guida dell’India andrebbe interpretata
come un game changer degli equilibri dell’Asia
del Sud, c’è sicuramente un altro paese in grado
di contribuire in maniera concreta ed efficace
ad appianare le tensioni tra Islamabad e New
Delhi, favorendo contemporaneamente i propri
interessi nazionali. Si tratta naturalmente della
Repubblica Popolare Cinese, fedele alleato del
Pakistan sin dai tempi del Movimento dei Paesi
Non Allineati, decollato nel 1955 con la conferenza di Bandung (Indonesia).
La Cina è uno dei pochi paesi , se non l’unico,
che non solo ha mantenuto negli anni un rapporto privilegiato con il Pakistan, ma è anche
riuscito a farsi riconoscere come interlocutore
privilegiato dall’esercito, rispetto al quale è riuscito a mantenere aperta una finestra di dialogo.
Per quanto in passato Pechino abbia scelto di
non sfruttare le implicazioni geopolitiche di
questa sua prerogativa, l’esigenza di cambiare
strategia in Asia del Sud pare essere diventata
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Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
oggi prioritaria proprio come conseguenza
dell’alterazione degli equilibri innescati dall’elezione di Modi. E’ evidente come la vittoria
elettorale di Narendra Modi non possa essere
considerata come unico fattore in grado di alterare lo status quo corrente e futuro dell’Asia del
Sud.
L’India disegnata da Modi ha avuto il merito di
sbloccare un equilibrio consolidato a livello
tanto nazionale quanto regionale ed internazionale. Da un punto di vista internazionale, infatti,
il paese su cui per anni Asia e Occidente hanno
sperato di poter contare in funzione anticinese,
sembra aver finalmente intrapreso la strada che
lo porterà ad affermarsi come grande potenza
mondiale. Il sostegno elettorale prima e l’identificazione chiara delle priorità della nazione
poi, assieme all’impostazione strategica con cui
sono stati organizzati i primi incontri internazionali e la determinazione mostrata nei confronti degli interlocutori notoriamente più ostici,
Cina e Pakistan, hanno ulteriormente aumentato
le aspettative della comunità internazionale nei
riguardi del governo Modi. Un dettaglio, questo,
che Pechino sembra avere scarsamente considerato. Al momento Narendra Modi non è l’unico
leader interessato a rilanciare l’India come
grande potenza. Anche per la maggior parte
delle altre potenze mondiali, piccole o grandi
che siano, la ripresa dell’India offre numerosi
vantaggi. Dal punto di vista economico, come
mercato in cui investire e dove esportare i propri
prodotti e da quello strategico come stabilizzatore regionale, in particolare nei confronti delle
minacce che oggi provengano da Pakistan,
Medio Oriente e Cina, molto diverse tra loro ma
non per questo meno pericolose o trascurabili.
Il desiderio, condiviso con Modi da una grossa
fetta della comunità internazionale, di vedere
l’India crescere e rafforzarsi in fretta è una variabile che la Cina non può assolutamente trascurare, soprattutto dal momento che Pechino
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sembra sentire oggi analoga urgenza di rilanciare i propri rapporti con New Delhi, quanto
meno a livello economico. L’interesse che numerose medie potenze asiatiche, Giappone e
Australia in particolare, stanno dimostrando nei
confronti di New Delhi non può non destare
preoccupazione a Pechino. Allo stesso tempo,
la Cina non può non essere consapevole di
quanto la sua alleanza con il Pakistan abbia contribuito al deterioramento delle relazioni con
l’India, così come non può non sapere che un
programma mirato di investimenti, per quanto
generoso, non basterà a cancellare decenni di
sfiducia e attriti. Come se non bastasse, il fatto
che fino ad oggi i tentativi della Cina di riallacciare i legami con l’India, puntando essenzialmente sulla collaborazione economica tra i due
paesi, non siano stati accompagnati da un progressivo raffreddamento dell’amicizia tra Pechino e Islamabad, non ha permesso il
consolidamento di un clima di maggiore fiducia
in assenza del quale è impossibile tentare di ricostruire su basi nuove i rapporti tra India e
Cina. Ecco perché è realistico immaginare che,
se Pechino non aggiornerà la sua strategie per
l’Asia del Sud, l’unico impatto che l’elezione di
Modi potrà avere sullo status quo è quello di
renderlo ancora più rigido e fragile, alzando la
posta in gioco a fronte di una eventuale escalation innescata dal Pakistan ed eliminando altre
opportunità di collaborazione economica.
Se, al contrario, la Cina si renderà conto dell’urgenza di utilizzare il suo potenziale persuasivo
nei confronti della casta militare pakistana per
sostenere la causa indiana pro-sviluppo e prostabilità, sarà la prima a trarne numerosi vantaggi. Nel presupposto che il mantenimento
della pace in Asia del Sud sia in ogni caso conveniente, per il semplice fatto che anche la Cina
non ha interesse a lasciarsi coinvolgere in conflitti regionali, Pechino avrebbe le potenzialità
di persuadere Islamabad dell’inopportunità di
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
provocare qualsivoglia escalation, da un lato
manifestando l’indisponibilità a fornire l’eventuale sostegno strategico e militare al Pakistan,
dall’altro iniziare un allentamento generale delle
pressioni militari sulla regione, con almeno due
effetti molto positivi: permettere una riallocazione più virtuosa e pragmatica delle risorse pakistane, premiare lo sviluppo sociale ed
economico piuttosto che il rafforzamento militare. Questi processi creerebbero le condizioni
per aumentare l’interscambio commerciale regionale, trasformando quest’ultimo in un secondo volano per lo sviluppo nazionale. Inoltre,
mostrando un interesse reale per il miglioramento degli equilibri in Asia del Sud, la Cina
riuscirebbe anche a rimuovere, almeno in parte,
le resistenze che al momento riducono le oppor-
tunità di rafforzare la collaborazione con l’India.
In una fase in cui aumentano i paesi interessati
a raggiungere un intesa con il governo Modi,
Pechino non può rinunciare a fare altrettanto,
solo un rapporto privilegiato con il Pakistan.
Negli anni, e con la complicità della minaccia
del terrorismo internazionale, quanto pare è diventato sempre più problematico, tuttavia, se
opportunamente supportato ed indirizzato, potrebbe evolvere in una maniera vantaggiosa, sia
per la regione che per il Pakistan, stesso.
Narendra Modi ha fatto il primo passo, creando
le condizioni per modificare gli equilibri in Asia
del Sud a vantaggio di stabilità e sviluppo, ma
senza il sostegno della Cina di Xi Jinping non
riuscirà a raggiungere gli obiettivi che si è prefissato.
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MONITORAGGIO STRATEGICO
Pacifico
(Giappone-Corea-Paesi ASEAN-Australia)
Stefano Felician Beccari
Eventi
►Corea del Nord: le voci incontrollate che paventavano un possibile colpo di stato nella Corea
del Nord sono state smentite dalla riapparizione in pubblico di Kim Jong Un. Il leader si avvia
così verso la celebrazione dei primi tre anni di potere. Nel corso del mese di ottobre vi è stato un
insistente riferimento alla vacatio di Kim Jong Un, dovuta a problemi di salute o, secondo alcuni,
addirittura ad un possibile colpo di stato. L'assenza del leader da alcune manifestazioni di partito
ed eventi pubblici, per quanto non fondamentali, hanno generato diversi rumors sulla sua possibile
destituzione. Ma il completo immobilismo del paese ed infine il “ritorno” di Kim Jong Un hanno
rapidamente smentito le varie teorie sulla sua assenza, iniziata il 3 settembre 2014. La mancata
apparizione del terzo Kim sembra essere giustificata da un problema alla gamba, forse oggetto di
una operazione chirurgica. La Corea del Nord si avvia quindi a celebrare, a dicembre 2014, i
primi tre anni di potere di Kim Jong Un.
►Vietnam: dopo una visita a Washington del ministro degli esteri di Hanoi, Pham Binh Minh,
gli Stati Uniti hanno deciso di limitare l'embargo sulla fornitura di armamenti al paese asiatico.
Questo ultimo gesto dell'amministrazione Obama, ovviamente, non ha solo valenze storicosimboliche. Se da un certo punto di vista è il segnale di come le relazioni Hanoi-Washington
vadano verso una piena normalizzazione dopo il conflitto 1965-1975, dall'altro non si possono
sottovalutare le implicazioni geopolitiche di questa azione. Il Vietnam e gli Stati Uniti ripresero
le loro relazioni diplomatiche nel 1995; tuttavia, fino a questa ultima decisione, gli Stati Uniti
non potevano esportare sistemi militari "lethal" ad Hanoi. Gli ultimi accordi, invece,
permetteranno agli USA di esportare sistemi militari "tout court" in Vietnam, anche se limitati al
dominio marittimo. Le intenzioni di Washington sono chiare: la dimensione marittima è uno dei
punti di frizione nelle relazioni fra la Cina ed il Vietnam. Rafforzare le capacità navali di Hanoi,
anche a livello di sorveglianza, potrebbe fornire al paese asiatico degli importanti asset di
deterrenza nei confronti del vicino cinese. Il Dipartimento di Stato statunitense ha comunque
precisato che il recente accordo <<non è diretto contro la Cina>>.
►Corea del Sud: L'incontro di due delegazioni Nord-Sud ai primi di ottobre, non sembra aver
dato risultati concreti. Nel frattempo, è stato rinviata a data da destinarsi l'annosa questione
del comando delle unità statunitensi e sudcoreane in caso di guerra: su tutta la vicenda pesa
l'incertezza della situazione del Nord. Sulla base di precedenti accordi fra gli Stati Uniti e la
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Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
Corea del Sud, dal 2015 ed in caso di guerra, il comando unificato delle FFAA sudcoreane ed
USA in Corea del Sud sarebbe dovuto passare interamente sotto controllo di un generale
sudcoreano, con un americano come vice. Invece, durante un incontro in ottobre fra il Segretario
alla Difesa Chuck Hagel e il Ministro della Difesa sudcoreano Han Min-koo, i due paesi hanno
deciso di rinviare sine die questo importante cambio di comando. Su questa scelta pesa la generale
incertezza sul futuro della penisola di Corea, e soprattutto sulle prossime azioni del Nord, oltre
alla necessità della Corea del Sud di essere preparata, anche in termini tecnici, ad esercitare
questo comando. Sembra invece non avere avuto esiti concreti l'incontro bilaterale Nord-Sud
avvenuto a latere degli Asian Games, i giochi asiatici, agli inizi di ottobre. La delegazione del
Nord, guidata dal generale Hwang Pyong-so, si è recata ad Incheon formalmente per assistere ai
giochi; oltre a ciò, però, si è avuta conferma di un incontro Nord-Sud durante la kermesse sportiva.
Nonostante le alte aspettative, ad oggi non sembrano esserci stati risultati concreti di questo
evento.
L’ISIS GUARDA ALL'ASIA
A diversi mesi dall'inizio delle rivendicazioni
del gruppo mediorientale Islamic State of Iraq
and the Levant o “ISIS”, le opinioni pubbliche
europee sono letteralmente bombardate di informazioni sugli sviluppi delle operazioni sul
terreno e sui possibili effetti di spillover della
lunga guerra in Medio Oriente. Il problema, in
particolare, riguarda l'attrazione che esercita
l'ISIS, richiamando simpatizzanti stranieri da
molti paesi, ed il rischio dei “reduci”, ovvero
persone di nazionalità non siriana o irachena
giunti nel paese per combattere nelle fila dell'ISIS e che decidono di tornare in patria. Il fenomeno, ben noto in Occidente, è estremamente
monitorato anche in Asia Pacifica, anche se in
quest'area mancano dei sistemi di cooperazione
fra Forze dell'Ordine come quelli europei.
L'ISIS, quindi, staglia la sua lunga ombra
anche sull'Asia, con effetti che sul lungo periodo potrebbero provocare una ulteriore destabilizzazione in un'area già turbolenta.
Uno dei frutti avvelenati della lunga contrappo-
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sizione armata in Siria è stata, durante l'estate
2014, la crescita dell'importanza e della pericolosità di un gruppo radicale ormai noto come
ISIS, ovverosia Islamic State of Iraq and the
Levant. Questa sigla è assurta agli onori delle
cronache non solo per la sua linea oltranzista o
per la continua contrapposizione alle forze armate siriane o irachene, ma anche per una serie
di spettacolari decapitazioni che hanno fortemente impressionato le opinioni pubbliche di
tutto il mondo. La riprovazione che gli atti dell'ISIS hanno generato, anche nei confronti delle
masse islamiche, sembra essere senza appello:
eppure, si apprende ogni giorno dalla stampa,
l'ISIS sta continuando a raccogliere consensi,
simpatizzanti, adesioni e nuovi militanti non
solo fra le popolazioni mediorientali, ma anche
all'interno di classi giovanili ben distanti dai
teatri di operazione. Ciò ha dato origine alla
questione dei c.d. foreign fighters, ovvero
“combattenti stranieri” o “volontari stranieri”,
i quali si sono recati e si recano in Medio
Oriente per sostenere gli sforzi dell'ISIS. Negli
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
scorsi mesi nelle fila di questo gruppo sono confluiti rapidamente simpatizzanti europei, africani, americani ed asiatici e molti altri
“volontari” provenienti dagli stati più diversi: le
stime attuali (non ufficiali) dicono che l'ISIS
possa contare su miliziani di circa una settantina
di nazionalità. Dagli ultimi rapporti delle forze
di polizia dell'Asia Pacifica, nonché dalle fonti
di stampa, è ormai evidente che fra questi combattenti vi siano anche diversi asiatici, quali malesi, filippini, indonesiani ed addirittura
australiani e cinesi. L'ISIS, quindi, proietta la
sua sinistra ombra anche sull'Asia Pacifica, ed
in particolare su quella del Sud Est, già tradizionale bacino di reclutamento per l'estremismo di
matrice fondamentalista.
La tradizione del fondamentalismo nel Sud
Est asiatico
L'esplodere di confitti fortemente polarizzati in
termini politici o ideologico-politici può essere
fonte di attrazione per le parti in causa; il caso
più evidente nella recente storia europea può essere individuato nella Guerra Civile Spagnola
(1936-1939), la cui “carica” ideologica (repubblica versus franchismo) mobilitò persone ed intellettuali di molti stati diversi. In tempi più
recenti, il conflitto Unione Sovietica-Afghanistan (1979-1989), le guerre jugoslave degli anni
'90 o il secondo conflitto in Afghanistan (2001)
pur non attraendo intellettuali prestigiosi come
nel conflitto spagnolo, sono stati comunque dei
potenti catalizzatori di stranieri in cerca di avventure o richiamati dalle suggestioni ideologico-religiose dei conflitti in atto. La guerra
sovietico-afghana, in particolare, ha esercitato
una influenza decisiva sul terrorismo in Asia Pacifica. Durante quel conflitto, circa 600 filippini
di religione musulmana si recarono in Afghanistan a combattere il jihad contro “l'invasore sovietico”: al termine di diversi anni di
combattimento, costoro rientrarono in patria e
molti vennero “arruolati” in una nuova formazione terroristica, nota come Abu Sayyaf o AS.
Questo gruppo era guidato da un giovane leader, Abdurajik Abubakar Janjalani, che grazie
ai suoi contatti con Bin Laden ed ai cospicui capitali “offerti” dalla famiglia di costui, riuscì a
organizzare, nel giro di poco tempo, un vasto
insieme di reduci filippini trasformandoli in AS.
Ben presto le autorità di Manila si resero conto
dei risultati: i vari militanti di AS si misero all'opera caratterizzandosi per attentati sanguinari
anche contro la popolazione, colpendo in particolare nel sud delle Filippine. Allo stesso modo,
diversi esponenti di AS hanno pure contatti con
un altro network terrorista regionale, Jemaah
Islamyiah, considerato la longa manus di AlQuaeda in Asia Pacifica. Infine, gruppi separatisti (noti in inglese come splinter groups) di
pre-esistenti movimenti di insorgenti, quali il
Moro National Liberation front (MNLF) o il
Moro Islamic Liberation Front sono ulteriori
“terreni di coltura” per potenziali reclutamenti
o attività di proselitismo dei simpatizzanti dell'ISIS.
I foreign fighters dell'Asia Pacifica
Il problema dell'ISIS in Asia Pacifica, quindi, si
presenta con due facce. La prima è quella del
reclutamento dei terroristi nei paesi più sensibili
o che hanno già dei precedenti a questo riguardo. I “terreni di coltura” di questo fenomeno sembrerebbero principalmente localizzati
in tre stati, ovvero Malesia, Indonesia e le Filippine, seppure con molte differenze. Sebbene
i vari governi siano restii a pubblicare delle
stime ufficiali sui propri cittadini al momento
presenti in Siria, nessuno può permettersi di sottovalutare la situazione. Anzi, date le maggioranze musulmane di alcuni paesi, come Malesia
e Indonesia, potrebbe essere fin troppo facile associare i foreign fighters a questa provenienza.
La realtà, invece, è più sfumata. Nonostante la
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Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
Malesia sia, per legge, uno stato islamico e l'Indonesia sia il principale stato musulmano del
mondo, va considerato che in queste zone ha
sempre attecchito una forma di Islam meno oltranzista di altri. Nelle Filippine, poi, i musulmani sono una minoranza (5%, dati CIA World
Factbook). Se questo da un lato ha limitato la
partecipazione “attiva” di indonesiani, malesi e
filippini, dall'altra, però, non ha contenuto un
certo tasso di simpatie per l'ISIS. Nonostante i
ripetuti proclami dei rispettivi leader, Indonesia
e Malesia restano dei terreni fertili per i fiancheggiatori dell'ISIS, che da lontano contribuiscono allo sforzo mediorientale con donazioni
o con il supporto e l'attivismo sui social media.
Inoltre alcuni emuli dell'ISIS sono già stati fer-
mati dalle polizie locali proprio perchè intenti a
compiere attacchi contro obiettivi presenti nei
singoli paesi. Per quanto non sia uno stato islamico, anche l'Australia è oggi una delle nuove
zone di proselitismo per i combattenti dell'ISIS,
cosa che costituisce una assoluta novità per il
paese. Non mancano, infine, anche cinesi (prevalentemente uiguri, provenienti dalla zona
dello Xinjiang) “richiamati” in Iraq dalle suggestioni del jihad. E' chiaro quindi che il reclutamento dell'ISIS sia ormai perfettamente
capace di “pescare” in Asia anche in aree ben
distanti fra loro. Sebbene non vi siano stime ufficiali, è possibile riassumere brevemente la
consistenza dei foreign fighters dell'Asia Pacifica in questi termini:
Stime sui possibili foreign fighters dell'Asia Pacifica nelle fila dell'ISIS.
Fonti: Wall Street Journal, Time, Global Times e interviste ad esperti.
Il secondo problema che gli stati devono fronteggiare è ulteriormente suddiviso in due parti,
ovvero è legato alla sicurezza interna (il contrasto delle possibili azioni terroristiche portate
avanti dai simpatizzanti nazionali) ed al problema dei “reduci” che tornano in patria. Negli
ultimi mesi le agenzie di intelligence e le forze
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di polizia di vari paesi sono riuscite a sventare
alcuni attentati interni organizzati da gruppi
simpatizzanti dell'ISIS: il caso più eclatante è
avvenuto in Australia il 18 settembre, quando le
Forze dell'Ordine locali hanno arrestato 15 persone con l'accusa di pianificare alcune azioni
omicide di tipo dimostrativo. Operazioni dello
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MONITORAGGIO STRATEGICO
stesso genere sono state svolte a fine agosto in
Malesia per sventare possibili attentati ad
impianti industriali occidentali, mentre solo in
ottobre, dopo quasi 6 mesi di prigionia, sono
stati liberati due turisti tedeschi rapiti da Abu
Sayyaf. Il caso di questo gruppo è particolarmente preoccupante. Nonostante la scarsa consistenza numerica e la preferenza per attività di
tipo criminale rispetto ad atti politico-dimostrativi, AS ha ufficialmente “giurato” lealtà ed
obbedienza all'ISIS per bocca di uno dei suoi
dirigenti, Isnilon Hapilon. Il rischio attuale è che
altri gruppi decidano, anche solo per ragioni di
marketing, di seguire l'esempio di AS. È il
cosiddetto bandwagoning, traducibile in italiano
come “salire sul carro del vincitore”: se l'ISIS è
un marchio che “tira”, altri gruppi più deboli
potrebbero sfruttarne la fama per compiere degli
attentati e rinforzarsi a livello locale. Il rischio
è ancora più reale data la frammentazione dei
gruppi terroristi od insorgenti presenti in Asia
Pacifica. La seconda questione, infine, è il ritorno dei “reduci” in patria. Diversi dati di fonti
aperte indicano come dei “veterani” della guerra
in Siria siano già rientrati nei loro paesi di origine. La facilità che costoro hanno di tornare a
mescolarsi con il tessuto sociale locale li rende
particolarmente insidiosi e difficili da identificare; ma la loro carica ideologica e la professionalità nell'uso di armamenti e tattiche li rende
strumenti ideali per ulteriori azioni terroristiche
o per incitare altri membri ad azioni di tale
sorta. Se non prontamente intercettati dalle
forze di sicurezza, questi reduci potrebbero seriamente contribuire ad una nuova ondata di terrorismo in Asia Pacifica, cosa che già avvenne
dopo la fine del conflitto in Afghanistan del
1989 ed il ritorno dei veterani di allora.
Le strategie di prevenzione e contenimento
Fra le possibili soluzioni al problema dell'ISIS
in Asia Pacifica, quindi, la principale risiede nel
monitoraggio e nel controllo delle partenze e dei
ritorni di persone “sensibili” e identificabili
come militanti del gruppo mediorientale.
Questa funzione, tipica delle forze di polizia,
rischia però di essere molto complessa in Asia
Pacifica, e soprattutto nell'Asia del Sudest.
Tralasciando le considerazioni geograficofisiche e politiche, quali la frammentazione insulare, l'estrema facilità di movimento
nell'ambiente marittimo o il debole controllo
dello stato sui livelli periferici, non va dimenticato come gli strumenti di cooperazione informativa e di polizia nell'area siano ancora in fase
di sviluppo. L'identificazione congiunta dei reduci dell'ISIS, per esempio, potrebbe essere un
buon “banco di prova” per le capacità dell'ASEANPOL, ovvero l'INTERPOL del sudest
asiatico, fondata nel 1981. La stessa cooperazione a livello di intelligence andrebbe rinforzata, approfittando del fatto che diverse
agenzie vantano già un discreto livello di relazioni bilaterali. Infine è essenziale stabilire
una nuova forma di cooperazione con le autorità
di polizia cinesi. L'aeroporto di Hong Kong è
uno degli hub principali per raggiungere l'Asia
Pacifica: l'identificazione ed il monitoraggio dei
simpatizzanti dell'ISIS (in entrata ed in uscita)
rischierebbe di essere monco senza il supporto
delle forze dell'ordine cinesi, anch'esse preoccupate dai possibili effetti di ritorno della crisi
in Siria. Una maggior cooperazione dell'Association of Southeast Asian Nations (ASEAN)
con Pechino potrebbe essere determinante per
il contenimento del terrorismo in Asia, ed in
particolare per stroncare sul nascere dei possibili nuovi focolai di radicalismo. La stessa Cina,
d'altro canto, è al momento impegnata in una
difficile lotta con il terrorismo interno: in uno
degli ultimi attacchi nello Xinjang, il 19 ottobre,
dei terroristi uiguri hanno causato ventidue
morti in un mercato. Per fronteggiare meglio
questa minaccia, il governo di Pechino sta anche
49
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
ipotizzando la creazione di un nuovo centro
anti-terrorismo, il quale dovrebbe pure monitorare gli effetti dell'ISIS sulla sicurezza cinese.
Una maggior cooperazione dei paesi del Sud Est
asiatico anche con Pechino, in definitiva,
potrebbe essere win-win per tutte le parti, e magari contribuire a diminuire la pressione su altri
dossier aperti nella regione, come ad esempio il
Mar Cinese Meridionale. Sul piano militare, la
sola risposta delle FFAA messa in atto dai singoli paesi, invece, rischia di essere un'opzione
limitata e non destinata ad essere vincente. Sempre sul piano del contenimento, infine, non si
può sottovalutare la pervasività dei social media
e la loro capacità di “richiamare” nuovi militanti
alla causa del Califfato dell'ISIS. Non è un caso,
ad esempio, che Abu Sayyaf abbia proprio
scelto un video amatoriale per diffondere la propria adesione all'ISIS. I social media hanno una
forte presa su quelle fasce più deboli, soprattutto
della popolazione giovanile, che possono optare
per la via del radicalismo: un maggiore controllo del web è quindi un imperativo per le
varie forze dell'ordine impegnate nel contrasto
al terrorismo.
Valutazioni. L'impatto dell'ISIS – o quantomeno
dei gruppi che si ispirano a questo brand – è
ormai evidente in Asia Pacifica. Le varie forze
di sicurezza non sono state sorprese da questa
nuova tendenza, ma la strada per il contrasto a
50
queste posizioni è ancora lunga. L'ISIS costituisce un forte richiamo per alcuni settori sociali
in Asia Pacifica, e diverse fonti indicano come
molto pericoloso il possibile ritorno di “reduci”
addestrati e temprati da anni di guerra civile in
Siria ed Iraq. Gli scenari che si possono profilare al riguardo sono due. Se le forze di polizia
e di sicurezza saranno capaci – anche cooperando fra loro – di identificare e bloccare
per tempo sia i militanti in partenza che i reduci
di ritorno, questo potrà far si che il pericolo
dell'ISIS abbia un impatto minore nell'area.
Qualora invece il controllo non sia efficiente
come dovrebbe, vi potrebbe essere il pericolo di
una nuova radicalizzazione di alcuni gruppi esistenti (come Abu Sayyaf) o magari la creazione
di uno o più nuovi gruppi radicali dediti ad attività terroriste di matrice fondamentalista. Il
rischio è che si verifichi una nuova situazione
come nel post-1989, ovvero una “nuova ondata” di terrorismo grazie alla “nuova linfa”
costituita dai reduci; va però considerato che
rispetto al 1989 le forze di sicurezza di molti
paesi (in primis le Filippine) hanno ormai acquisito una discreta expertise nel gestire queste
situazioni. Questo potrebbe limitare l'impatto di
una nuova ondata di terrorismo nell'area. Ad
ogni modo l'attivismo dell'ISIS è considerato da
molti stati dell'Asia Pacifica come un fattore
potenzialmente destabilizzante per il quadro di
sicurezza regionale.
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
America Latina
Alessandro Politi
Eventi
►Venezuela, 1/10/2014. Durante la notte è stato rinvenuto il corpo di un noto deputato ventisettenne chavista e filocastrista, Robert Serra, insieme al cadavere della sua assistente Maria
Herrera. I due erano stati legati, imbavagliati sono stati accoltellati ripetutamente. Nove giorni
dopo, le foto del morto su un tavolo d’obitorio sono state fatte circolare con twitter sotto lo pseudonimo di Victor Ugas con testi che irridevano al governo ed al servizio segreto SEBIN (Servicio
Bolivariano de Inteligencia Nacional). Le ipotesi investigative, basate anche su videoregistrazioni,
parlano di sei assassini, alcuni dei quali conosciuti dalla vittima. Due sono stati arrestati ed interrogati dal SEBIN tra cui una guardia del corpo del defunto. Il governo ha accusato l’ex presidente Alvaro Uribe e gruppi criminali paramilitari a lui collegati, ricevendo smentita via twitter.
Tuttavia un altro ex presidente colombiano, Ernesto Samper, ha inviato un proprio tweet in cui
qualificava l’assassinio come un preoccupante segnale d’infiltrazione del paramilitarismo colombiano senza specificare ulteriormente. Il 21 ottobre è stata diffusa l’interpretazione politica dell’omicidio, fatto risalire alla responsabilità di un narcotrafficante ex paramilitare colombiano.
Tuttavia osservatori politici locali ed esterni hanno ricostruito diversamente il movente del delitto,
individuando nei legami tra il deputato assassinato ed i cosiddetti colectivos una dinamica di
scontro fra differenti fazioni armate del partito dominante. I collettivi sono gruppi civici filogovernativi armati che spesso sono stati mobilitati per impedire le manifestazioni dell’opposizione
con metodi violenti. Alcuni di essi, tra cui elementi del Frente 5 de marzo (parte del più vasto Movimiento Juan Montoya), cioè il colectivo Escudo de la Revolucion, hanno intrapreso una strada
che mescolava la clientela politica con l’attività delittuosa (estorsioni, rapine, omicidi, traffico di
droga) e per questo la polizia (Cuerpo de Investigaciones Científicas, Penales y Criminalísticas
- CICPC) aveva effettuato un’irruzione nel quartier generale del gruppo, impegnandosi in uno
scontro a fuoco in cui sono morti cinque colectivistas tra cui il noto capo José Miguel Odreman
(7/10/2014). Gli amici del defunto capo sostengono che la polizia appoggiasse un’organizzazione
di narcotraffico concorrente nel proprio territorio. Serra conosceva personalmente Odreman,
nonché i capi di colectivos altrettanto ben armati come la Piedrita, Los Tupamaros ed Alexis Vive
Carajo, sul quale ultimo aveva controllo diretto. Questo colectivo è la parte più visibile del Frente
Francisco de Miranda di forte tendenza castrista. Il Frente Montoya aveva pianificato una marcia
di protesta per il 23/10, ma l’ha sospesa “a causa di minacce di alti funzionari fatte alle nostre
51
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
famiglie”. È abbastanza chiaro che si sta verificando una pericolosa frattura all’interno del partito
tra corpi dello stato e milizie civiche ed anche tra milizie concorrenti. Serra era un elemento di
grande spicco, già capace di mediare tra colectivos in disputa e promesso ad un potere ancora
maggiore. Anche a prescindere da un contesto criminalizzato, questi elementi possono costituire
la base per un assassinio politico.
►Honduras, 6/10/2014. Lo studio di consulenza internazionale Burson-Marsteller sta lavorando per migliorare l’immagine del paese piagato dal traffico di droga ed in cima alla classifica
mondiale del tasso d’omicidi (90,4 per 100.000 abitanti nel 2012, Italia 0,9 nello stesso periodo).
Una coalizione di entità pubbliche e private sta pagando la consulenza per un ammontare non
specificato in modo da ottenere una diagnosi del brand del paese. È interessante notare che si
tratta almeno del secondo contratto in questo campo, visto che già lo scorso 14/12/2010 il governo
aveva firmato un contratto quadrimestrale ($80.000) con Lanny Davis & Associates per migliorare
i propri contatti con il governo statunitense, oltre ad aver ottenuto un prestito della Banca Mondiale ($1,2 milioni) per le attività di un consorzio, guidato da Global Communicators, allo scopo
di migliorare l’immagine negli USA. Analoghi contratti vengono passati dal governo guatemalteco.
►Uruguay, 25/10/2014. Le imminenti elezioni presidenziali (26/10/2015) presentano, nonostante il ritiro per raggiunto limite di rieleggibilità del famosissimo presidente José Alberto
"Pepe" Mujica Cordano, forti elementi di continuità. Il primo è dato dal ritorno sulla scena
elettorale di note conoscenze: il candidato del Frente Amplio, Tabaré Ramón Vázquez Rosas, è
stato il predecessore di Mujica sino al 2010; lo sfidante Luis Alberto Aparicio Alejandro Lacalle
Pou (Partido Nacional) è figlio d’arte di un ex presidente e di un’ex senatrice; mentre il terzo incomodo del Partido Colorado, Juan Pedro Bordaberry Herrán, è figlio del dittatore di una giunta
civil-militare, Juan María Bordaberry Arocena. Il secondo elemento di continuità è costituito dalla
bassissima rappresentazione delle donne nella vita politica pari all’11,6% delle elette in entrambe
le camere, nonostante siano il 52% della popolazione, il 64% degli studenti universitari, il 62%
degli studenti post laurea ed il 76.3% della forza lavoro. Una tale bassa presenza in parlamento,
pari al 109° posto della classifica dell’Unione Interparlamentare, rappresenta una posizione di
23 posti al di sotto dell’Arabia Saudita. Solo per questa elezione vi saranno quote rosa, abbondantemente aggirate da molti partiti e non sanzionate, come constatato da Emma Watson, arrivata
in visita nel paese come ambasciatrice ONU per la parità di genere.
MESSICO: L’IMMINENTE CONVERGENZA TRA CIBERCRIMINE E NARCOCARTELLI
La rete è già narco
Quando si raccolgono i dati sulla sicurezza informatica nell’area dell’America Latina e dei
Caraibi, specialmente per quello che riguarda il
Messico, non mancano episodi salienti già da
52
diversi anni. Nel 2010 (21 ottobre) il fratello
sequestrato dell’ex procuratrice generale, Patricia Gonzalez, confessò in video su internet le
complicità della giudice con il gruppo La Linea,
facente parte del cartello Juárez a quel tempo in
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
lotta con il potente cartello Sinaloa.
Già a partire dal 2011 i narcocartelli usavano le
reti sociali per tre scopi precisi: reclutamento di
persone dai profili interessanti oppure che s’intendevano sequestrare e campagne di propaganda ed intelligence su gruppi rivali.
Lo stesso anno quattro blogger, che non erano
giornalisti professionisti, sono stati decapitati da
narcotrafficanti per aver riportato sui social
media informazioni sulle mafie. I loro corpi
sono stati fatti ritrovare in luoghi pubblici con
espliciti messaggi di minaccia e la strategia rappresenta la continuazione della lunghissima
campagna d’intimidazione contro giornalisti
professionisti ed attivisti dei diritti umani che
dura almeno dal 2000 (74 giornalisti morti al
2014).
Sempre nel 2011 il gruppo di hacktivist Anonymous Iberoamérica registra una secca sconfitta
nell’operazione #OpCartel, attraverso la quale
si proponeva di colpire il potente cartello degli
Zetas, proprio per punirlo delle sue attività di
crudele rappresaglia contro i blogger messicani1.
Gli Zetas rapirono un membro di Anonymous,
gli attivisti hacker minacciarono d’attaccare server e conti protetti del cartello mafioso entro il
5 novembre. Il 4 novembre il rapito fu liberato,
ma i criminali chiarirono che avrebbero ucciso
10 individui per ogni nome di mafioso o collaborante pubblicato. Anonymous passò ad altre
campagne. Questo tristo successo contro la libertà di parola è anche frutto della pratica sempre più frequente di reclutare o rapire
programmatori informatici e hacker in modo da
acquisirne le conoscenze.2
Anche nel 2014, specialmente nello stato di Tamaulipas ed ancora per mano degli Zetas, sono
continuate le uccisioni di attivisti della rete (10
morti o scomparsi negli ultimi tre anni), inclusi
i twitters. Negli ultimi due anni si è osservato
l’ingresso di almeno due cartelli nel business
della contraffazione informatica, concentrata sul
mercato ispanofono. Si tratta de La Familia Michoacana e degli Zetas, il primo gruppo dei
quali è però a rischio di disgregazione.
Naturalmente le attività del cibercrimine hanno
un impatto economico diretto: come si vede
dalla mappa successiva, il Messico è stimato essere il secondo paese più danneggiato della regione. Tenendo conto della dimensione
dell’intero emisfero occidentale, il paese si col
loca al terzo posto dopo Stati Uniti e Brasile.
Carta 1. Costo del cibercrimine in America Latina nel 2012
Fonte:
AS/COA,
Americas
Society/Council of the Americas,
Rachel Glickhouse, Explainer: Cybercrime in Latin America, October 21,
2013;
http://www.as-coa.org/articles/explainer-cybercrime-latin-america (27/10/2014).
53
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
Il contesto regionale e la minaccia emergente
Tutti gli studi specializzati di sicurezza informatica (BAe, ESET, McAfee, Symantec, Trend
Micro, Verizon) mettono in evidenza come
l’America Latina, essendo una regione con una
vasta coorte di nativi digitali ed un mercato virtuale in espansione, rientri fra quelle con il più
alto numero di utenti di reti sociali: cinque paesi
latinoamericani erano nei primi 10 posti della
classifica mondiale, cioè Argentina, Brasile,
Chile, Messico e Perù.
Questo implica anche una diffusione molto rapida e virulenta del crimine informatico, inducendo gli stati a collaborare in almeno due
grandi operazioni, nonostante difficoltà operative e di governo. Nel febbraio 2012 la Colombia, in collaborazione con Argentina, Cile e
Spagna, riuscì a lanciare l’operazione “Unmask” con l’obbiettivo di smantellare un gruppo
di hackers che aveva creato un proprio kit modulare di spionaggio informatico, arrivando a 31
arresti in 15 città diverse. Nell’agosto 2013, attraverso il coordinamento dell’Interpol, due operazioni inizialmente separate (Historia, avviata
dalle polizie spagnole, e Pureza II, iniziata dalla
polizia cilena) sono state fuse in un’unica
azione antipedopornografia che ha portato a più
di 100 irruzioni in 63 città di nove paesi (Argentina, Brasile, Colombia, Costa Rica,
Ecuador, Uruguay, Venezuela ed i due paesi
leader).
Il quadro quotidiano è però molto meno confortante. Da un lato lo hacktivism ha occupato l’attenzione mediatica (p.e. Wikileaks con le sue
connessioni ecuadoregne ed Anonymous), ma
sono soprattutto le vulnerabilità SCADA/VxWorks ed i crimini finanziari a preoccupare3.
Argentina, Perù, Colombia, Messico e Cile sono
nell’ordine i paesi con più sistemi controllati via
VxWorks, mentre Argentina, Colombia e Messico sono in ordine decrescente i paesi che
hanno sistemi sotto controllo SCADA; come ha
54
ampiamente dimostrato il caso del worm
Stuxnet, impiegato contro il programma nucleare iraniano, i danni di un attacco informatico
all’infrastruttura sensibile di un sistema industriale non sono trascurabili.
Sotto il profilo dei rischi finanziari, i sistemi
bancari latinoamericani sono costantemente
sotto attacco specialmente in due settori: il
banking online ed i bancomat. Le attività bancarie online vengono colpite attraverso tre tipi
di malware molto diffusi nella regione:
Trojan.Tylon36, Gameover Zeus ed Infostealer.Bancos, combinando tecniche d’infezione
dei siti con l’intercettazione degli sms tra banca
e cliente. Esse, come altre attività economiche
(specialmente quelle manifatturiere), oltre che
bersagli governativi prevedibili, sono anche
oggetto di campagne di spionaggio automatizzato, l’ultima delle quali è stata scoperta nell’agosto del 2014 (kit modulare Machete)
principalmente ai danni di vittime in Venezuela,
Ecuador e Colombia.
I bancomat sono invece insidiati dal software
Backdoor.Ploutus, inizialmente scoperto in
Messico, poi diffusosi in altri paesi dell’aerea e
solo poi prodotto in una versione inglese.
Infine proprio in Messico è molto diffuso il software da riscatto (ransomware), basato sui programmi Ransomcrypt o Cryptolocker. In pratica
le vittime si trovano il computer bloccato e
ricevono un finto messaggio da una forza di
polizia che richiede il pagamento di una multa
per “togliere le ganasce al computer” fra i $100
ed i $3.000. La minaccia è emersa nel 2012 ed
è diventata così comune da costringere la
polizia messicana a diramare una comunicazione alla cittadinanza nell’aprile 2014. Il
prossimo bersaglio saranno le comunicazioni
mobili con sistema operativo Android, violabili
con malware russo.
Una variante messicana di questo crimine è il
“sequestro virtuale” dove, attraverso Whatsapp
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
o mezzi simili, si fanno pervenire alla vittima
foto e/o tracce sonore di persone care che si
vogliono far credere sequestrate. Se la vittima
cade nell’inganno, le modalità ed i prezzi di
riscatto sono spesso simili a quelle di un sequestro lampo. Si tratta di un delitto usato spesso
da cartelli, bande minori e milizie locali fuori
controllo.
Le ultime notizie fanno vedere come l’America
Latina ed il Messico non siano più solo importatori di virus e software dannoso, ma siano in
grado di produrli autonomamente. Durante il di-
cembre 2012 il malware Pice BOT, sviluppato
in Guatemala, Perù (sotto il nome di Jumcar),
Messico, è stato immesso in rete. Quest’ultimo
paese aveva già cominciato a sviluppare software nocivo già nel 2009 (vOlk-Botnet); seguito dai programmi Tequila e Mariachi (2010)
. Mentre prima erano i gruppi dell’Europa
Orientale a fornire l’esempio ai cibercriminali
locali, a partire dal primo decennio del 2000
gruppi mafiosi tradizionali creano nuovi programmi e forniscono nuovi esempi a livello globale.
Il modello di business cibercriminale in America Latina
Fonte: OAS-Trend Micro, Latin American and Caribbean Cybersecurity Trends and Government Responses,
2013 (datazione interna 7/5/2013).
Comparando l’esperienza dei cartelli messicani
con quella delle mafie russe in termini di:
• reclutamento di personale altamente specializzato (agenti di servizi d’intelligence, membri
delle forze speciali, programmatori, ingegneri,
hacker);
• crescente convergenza tra gl’interessi di spie
digitali private e crimine digitale organizzato;
• capacità di sviluppo autonomo di software
criminale e di reti informatiche;
• uso sistematico di piattaforme di libero scambio criminale come Silk Road (adesso neutralizzata) ed Evolution (attiva dal gennaio 2014),
nonché di vari sistemi di scambio monetario
non regolato (e-gold, Bitcoin o Liberty Reserve);
si può prevedere che nel breve termine almeno
55
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
i due cartelli maggiori, Sinaloa e Zetas, avranno
integrato pienamente le capacità di sinergizzare
crimine fisico e crimine virtuale.
Valutazioni e previsioni
Nel giro di massimo due anni almeno i due
maggiori cartelli, Sinaloa e los Zetas, avranno
la capacità di usare ed innovare continuamente
l’intera gamma degli strumenti informatici illegali sia in attività indipendenti, sia a supporto
di quelle criminali tradizionali.
I due maggiori cartelli hanno relativamente più
probabilità di successo semplicemente perché
dispongono di maggiori strutture e mezzi e perché non devono impegnare gran parte delle energie per evitare la disintegrazione come è
capitato a gruppi di minor peso ed aggressività.
Los Zetas, alleatisi in agosto con cartelli minori
(Juárez, Beltrán Leyva e Jalisco Nueva Generación; i primi due in difficoltà), hanno un incentivo relativamente maggiore a sfruttare i
mezzi informatici per mantenere la coesione e
rivaleggiare con il più solido cartello di Sinaloa.
È probabile che, sotto l’egida o nell’orbita di
queste organizzazioni nasca un grande modello
di business cibercriminale sul modello di quelli
già sperimentati con successo in Russia. Le implicazioni di sicurezza ed economiche per il
paese sono molto serie perché le investigazioni
ed operazioni potranno essere frequentemente
prevenute o frustrate, mentre il costo per l’economia legale continuerà a crescere, scoraggiando investitori piccoli e medi e rendendo
meno appetibile il mercato forse anche per
grandi ditte. Le ditte italiane presenti in Messico
sono decisamente minacciate per quel che concerne: furti di proprietà intellettuale ed informazioni sensibili; attacchi ai flussi finanziari ed
inquinamento delle provviste di denaro con
fondi riciclati; estorsioni tradizionali ed informatiche.
L’attività di hacking ha vari profili; lo hacktivism ha lo scopo di attaccare, compromettere o sottrarre informazioni classificate da siti e banche dati a scopo politico genericamente libertario.
2
Peraltro molte testate della carta stampata hanno smesso di trattare il tema dei narcocartelli in modo approfondito.
3
VxWorks è un sistema operativo in tempo reale (RTOS, Real-Time Operating System) sviluppato da una
sussidiaria di Intel che viene usato in settori industriali critici come aerospazio, difesa, industria elettromedicale, trasporti, robotica, energia, infrastruttura ed elettronica di consumo. Gli SCADA (Supervisory Control
and Data Acquisition) sono sistemi di controllo industriale che operano con segnali codificati per operare
in remoto degli equipaggiamenti.
11
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Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
Iniziative Europee di Difesa
Claudio Catalano
Eventi
►Il Regno Unito posticipa la radiazione dei cacciabombardieri Tornado Gr.4, prevista per
l’anno fiscale 2018-2019, rimandando dal marzo 2015 all’aprile 2016 lo scioglimento del 2°
stormo RAF impegnato nel bombardamento dell’IS. Sono in servizio con la RAF solo tre stormi
di Tornado per un totale di 100 velivoli di cui 46 nella flotta avanzata. Sei tornado (con altri due
in arrivo)sono alla base RAF di Akrotiri, a Cipro per la campagna contro l’IS e tre sono stati stanziati in Nigeria tra aprile e ottobre, mentre i Tornado stanziati in Afghanistan saranno ritirati
entro fine anno. Radiati i Tornado, la RAF sarà formata da cinque stormi di Eurofighter Typhoon
e un numero di Lockheed Martin F-35B, che sarà fissato dalla Strategic Defence and Security Review 2015. È possibile che alcuni Tornado rimangano in servizio finché gli F-35B siano a pieno
regime,dato che l’Eurofighter deve essere certificato per alcuni tipi di missili come i Brimstone 2,
Storm Shadow che saranno integrati sul velivolo dal 2018.
Germania e Italia prevedono di mantenere il Tornado in servizio almeno fino al 2025.
La Luftwaffe ha iniziato l’aggiornamento di 85 velivoli allo standard ASSTA 3, mentre l’Aeronautica Militare Italiana è a metà dell’opera del Mid-Life Upgrade.
Il Tornado ha compiuto lo scorso 16 settembre i 40 anni dal primo volo e sono attualmente in servizio 362 velivoli in Arabia Saudita, Germania, Italia e Regno Unito.
►Il Projet de Loi de Finances francese pubblicato il 2 ottobre ha autorizzato un bilancio difesa
2015 di 31,4 miliardi euro quasi uguale all’anno precedente, ma con un aumento degli investimenti in procurement e supporto di circa 1,5 miliardi di euro. La legge di programmazione militare a sei anni (Projet de Loi de Programmation Militaire) 2014-2019 ha stabilito una spesa
militare intorno ai 31,4 miliardi dal 2013 al 2016, prima di aumentare a 31,56 nel 2017, 31,78
nel 2018 e 35,51 nel 2019. Ciò provoca un declino in termini reali del 7.9% nel corso dei sei anni.
►Il primo ministro polacco, Ewa Kopacz, ha annunciato in parlamento l’aumento della spesa
per la difesa dal 1,95% al 2% del Pil dal 2016. L’aumento pari a 270 milioni di dollari è dovuto
alla crisi ucraina e al sostegno all’industria nazionale e sarà utilizzato per acquistare nuovi armamenti. La Polonia riceverà dagli Stati Uniti 40 missili AGM-158 Joint Air-to-Surface Standoff
Missile (JASSM) utilizzati anche da Australia e Finlandia, mentre Raytheon ha firmato un accordo
con l’azienda polacca PIT-RADWAR per collaborazione di radar e missili per sistemi di difesa
aerea in Polonia. PIT-RADWAR ha già progettato per Raytheon l’antenna Identification Friend
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Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
or Foe (IFF) per il PATRIOT.
►L’Estonia ha annunciato il 2 ottobre, l’acquisto entro dicembre di 44 veicoli corazzati da
combattimento CV90, surplus dei Paesi Bassi e ha richiesto 350 missili Javelin agli Stati Uniti
con richiesta notificata al Congresso dalla Defense Security Cooperation Agency il 6 ottobre. Il
governo estone ha richiesto oltre ai missili Javelin di includere nel pacchetto anche 120 unità di
comando al lancio con visori diurni e termici, 102 unità di raffreddamento, 16 sistemi di addestramento avanzato, 102 missili da addestramento, ricambi, batterie e materiali di supporto e addestramento per 55 milioni di dollari. Le acquisizioni estoni sono dovute alla situazione regionale,
soprattutto in Ucraina.
►Il ministero della difesa della Finlandia ha istituito una commissione per la selezione dei caccia futuri per sostituire o per aggiornare il A/F-18 Hornet dal 2030.
La Commissione deve anche decidere se la difesa aerea finlandese dovrà essere autonoma, in collaborazione con la Svezia o garantita dalla adesione finlandese alla NATO. La Svezia sta sviluppando il Gripen E/F, mentre la Norvegia ha deciso di acquistare gli F-35.
►La Bulgaria intende radiare entro il 2020 tutti velivoli di fabbricazione russa che ha in servizio, per rendersi autosufficiente dalla Russia. L’Aeronautica Militare bulgara conta 15 MiG29 e 6 MiG-21 tra i Caccia 14 Sukhoi Su-25 tra i Cacciabombardieri.
Per rimpiazzarli saranno selezionati nei prossimi sei mesi da sei a dieci caccia multiruolo per
300 milioni di euro. Secondo questo budget gli analisti prevedono che si potranno acquistare solo
F-16 in surplus, probabilmente dagli Stati Uniti, Portogallo o Grecia. La Bulgaria aveva già pensato di acquistare dal Portogallo, che nel 2013 ha però venduto 12 F-16 alla Romania. Attualmente
la Grecia sta negoziando con gli Stati Uniti il leasing di nuovi F-16 Block 52, con la vendita del
suo surplus ai bulgari. È possibile ulteriore scelta orientata verso Eurofighter Trance 1 italiani
o Saab Gripen svedesi.
LA GERMANIA RIVEDE LA SUA POLITICA DI ARMAMENTO
Il 6 ottobre 2014, è stata pubblicata una sintesi
di 50 pagine della relazione sui principali programmi di acquisizione di armamenti in Germania, richiesta dal ministro della difesa
tedesco, Ursula Von Der Leyen tramite la direzione nazionale armamenti di Coblenza.
La relazione completa, il cui studio è durato tre
mesi e costato 1,15 milioni di euro, consta di
1.500 pagine ed è stata redatta da un gruppo di
consulenti indipendenti, inclusa la società di
consulenza KPMG, per gli aspetti economici e
finanziari, l’azienda di engineering P3 per gli
58
aspetti tecnici e di project management, lo studio di avvocati Taylor Wessing per gli aspetti
legali.
La relazione individua 140 problemi e rischi nei
programmi di armamento esaminati, soprattutto
organizzativi, gestionali e nella contrattualistica. Il governo non è stato in grado di far rispettare all’industria i costi previsti, i tempi di
consegna e i requisiti richiesti. Per questo tutti
i maggiori programmi di armamento hanno
avuto tempi lunghi ed aumenti di costi. Un altro
problema è che alcuni programmi, come
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
l’A400M, sono multinazionali, così modifiche
contrattuali devono essere negoziate con gli
altri Stati partner accumulando ritardi e costi
addizionali.
Le conclusioni della relazione contengono 180
raccomandazioni, in cui si afferma che la Germania deve rivedere la sua politica di armamento sia nei programmi nazionali che
multinazionali per far fronte ai costi e al diminuire delle sue capacità militari.
Dal punto di vista amministrativo ed organizzativo, sarebbe necessario un accentramento dei
vari centri di acquisizione di armamenti, che
dovrebbero avere un personale più specializzato
ed efficiente soprattutto nella gestione dei singoli programmi.
La revisione influenzerà i prossimi programmi
di armamento e l’applicazione delle raccomandazioni impegnerà il ministero difesa per almeno due anni.
I nove programmi esaminati
1.
Veicolo corazzato Puma: iniziato nel
2002, il veicolo corazzato Puma è un progetto
nazionale per sostituire il Marder, affidato al
consorzio tra Krauss-Maffei Wegman (KMW)
e Rheinmetall. Dovrebbe entrare in servizio tra
novembre 2014 e il 2020, per essere integrato
nel sistema “Panzergrenadiere”, con due configurazioni: aviotrasportabile (A) su A400M e
da combattimento (C). Il programma è stato sottoposto ad analisi approfondita per 3 settimane
attraverso una “deep dive analysis”. La relazione raccomanda un esame dettagliato della
posizione contrattuale incluso il supporto. Costi
aggiuntivi potrebbero essere causati dai tempi
di radiazione dei Marder e costi addizionali
fino al 50% per l’integrazione del sistema missilistico MELLS.
2.
Aereo da trasporto strategico Airbus
A400M Atlas: inizialmente erano previsti 60
velivoli per 8 miliardi di euro, ma ne saranno
costruiti 53 per 9,2 miliardi di euro, di questi,
40 entreranno in servizio con la Luftwaffe per
sostituire il C-160 Transall, mentre 13 saranno
venduti all’estero come surplus. Il primo velivolo per la Luftwaffe è attualmente in produzione, ma ci sono ritardi nella produzione e
l’approvazione del processo di consegna, ora
previsto a fine novembre 2014. Secondo la relazione il governo dovrebbe chiedere una compensazione per l’A400M, perché non sono stati
rispettati i tempi concordati di consegna. Inoltre, c'è il rischio di una “non tempestiva aggiudicazione del contratto per la manutenzione
del motore”. L’ “approccio commerciale” mutuato dal settore civile da Airbus per il contratto
di sviluppo e produzione dell’A400M, non ha
funzionato con un progetto militare, perché ha
aumentato il costo per ogni modifica dovuta
allo sviluppo tecnico e ulteriori costi potrebbero
emergere con lo sviluppo del software.
3.
Caccia Eurofighter Typhoon: per i
143 velivoli ordinati è previsto un costo totale
di 26 miliardi di euro. Devono essere consegnati entro luglio 2018, 31 velivoli della Tranche
3 e due della Tranche 2, mentre la vita operativa
dei 33 della Tranche 1 potrebbe essere ridotta a
causa di difetti tecnici già noti. Il nuovo radar
AESA sarà sviluppato e integrato entro il 2021.
L’Eurofighter deve sostituire per le missioni
della Luftwaffe, il F-4F Phantom (radiato nel
2012), MiG-29 e in futuro il Tornado.
È stata riscontrata una gestione dei contratti inadeguata da parte della Bundeswehr per l’Eurofighter, per il quale non esiste un archivio
contenente tutti i dati dei contratti, ma i singoli
dati e la storia del contratto devono essere richiesti al funzionario competente per ogni singola
unità, per cui in caso di malattia, pensione o vacanza la conoscenza del contratto esistente non
è disponibile o addirittura perso. Questo è ulteriormente complicato dal numero di contratti
per sottosistemi e componenti (2.000 in totale)
59
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
e dal fatto che a livello nazionale ne viene
gestita solo una parte e il resto è gestito dalla
NETMA.
4.
Elicottero da trasporto multiruolo
NATO Helicopter NH90: per 82 NH90 e 18
Naval Transport Helicopter (NTH) “Sea Lion”
il costo dovrebbe raggiungere il 4,4 miliardi di
euro. Il primo NH90 con l’attuale fase contratto
di costruzione sarà consegnato a fine del 2016,
mentre la consegna del primo NTH è previsto
per il 2018, le consegne dovrebbero essere effettuate entro il 2021.
Problemi sono relativi alla gestione tramite NAHEMO e al “contratto tedesco” sulla flotta elicotteristica, che rende difficili le modifiche
contrattuali e tecniche. Aumenti di costo sono
anche legati a problemi di corrosione.
A causa delle “sanzioni già completamente utilizzate e le caratteristiche uniche sul lato dell’offerta” non c’è possibilità di comminare
sanzioni.
Il NH 90 porterebbe a “tassi acuti di malattia
dei piloti a causa del peso del casco” perché il
centro di gravità del casco incluso il Helmet
Mounted Sight e Display (HMS/D) è fisiologicamente sfavorevole e preme sul collo, con la
conseguenza che il comandante dell’elicottero
non può volare quotidianamente.
5.
Elicottero da attacco Airbus Helicopters UH Tiger: deve ancora essere determinato
il prezzo per il “contratto tedesco” sulla
riduzione del quantitativo di 68 elicotteri, di cui
solo 40 sono destinati all’uso operativo, 35
sono già in servizio e 12 sono stati modificati
per l’uso in Afghanistan (ASGARD‐F). Dei 28
non utilizzati 11 dovrebbero essere riacquistati
dal produttore e gli altri ceduti ad altri servizi o
utilizzati per altri usi. La relazione consiglia una
“rinuncia reciproca” (rinuncia del cliente per
l'acquisizione di ulteriori pezzi di ricambio allo
stesso tempo evitando al contraente il riacquisto
di undici Tiger) e la considerazione di altri mec60
canismi contrattuali per ottenere tempi di consegna più puntuali.
6.
Fregate classe F 125: 4 unità navali
dovranno sostituire le fregate tipo F122, la
prima denominata “Baden‐Württemberg” prevista a dicembre 2014 sarà consegnata nell’aprile 2017, con più di due anni di ritardo. Il
ritardo ha richiesto un aggiornamento del software e hardware, con ulteriori complicazioni
per lo sviluppo del sistema elettronico di bordo
Integrierte Leit‐ und Automationssystem Schiffstechnik (ILASST) e la necessità di soluzioni di
Patch‐ and Release‐Management. Durante la
costruzione della prima fregata F 125 si sono
verificati difetti nel rivestimento di protezione
antincendio, per i quali la relazione ha chiesto
per il Ministero della difesa i danni contrattuali
al consorzio Thyssen-Krupp e Lürssen. Ulteriori problemi sono stati riscontrati nell’isolamento elettromagnetico delle tre restanti
fregate.
7.
Sistema di comunicazione sicura
(Streitkräftegemeinsame verbundfähige Funkgeräteausstattung: SVFuA): consiste in un sistema tattico mobile e modulare di
comunicazione di voce e dati tipo software-defined radio che sarà operativo dal 2018 e integrato nei principali mezzi terrestri dell’esercito
tedesco, incluso il veicolo corazzato Puma, per
creare un sistema net-centrico per comunicazioni sino al livello “NATO secret”. I problemi
principali sono legati alle caratteristiche tecniche, soprattutto per la mobilità tattica e per la
certificazione del prodotto da parte dei servizi
di informazione e sicurezza alle comunicazioni
classificate “segreto” prevista per il dicembre
2017.
8.
Sistema missilistico tattico di difesa
aerea (Taktisches Luftverteidigungssystem:
TLVS): deve sostituire con un sistema modulare, flessibile e trasportabile su A400M, il PATRIOT (Phased Array Tracking Intercept On
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
Target), in servizio da 25 anni, e gli altri sistemi
missilistici a partire dal 2025 circa. Come il
SLWÜA, il TLVS attende ancora una decisione
finale sulla scelta del sistema, che dovrà garantire una dimensione multinazionale. Per questo
il candidato è il progetto americano, italiano e
tedesco Medium Extended Air Defense System
(MEADS). Gli Stati Uniti hanno però deciso nel
2011 di continuare a utilizzare il Patriot e non
finanziare più il MEADS, creando problemi allo
sviluppo finale del MEADS. Soluzione tedesca
per il TLVS è coinvolgere altri partner europei,
oltre l’Italia, per lo sviluppo del MEADS o aggiornare il Patriot.
9.
Piattaforma aerea da ricognizione e
sorveglianza elettronica (Signalverarbeitende
Luftgestützte Weitreichende Überwachung
und Aufklärung : SLWÜA): dopo la cancellazione nel maggio 2013 del programma Euro
Hawk sono state considerate otto soluzioni
senza una decisione finale sulla selezione. Tutte
le soluzioni proposte considerano i “rischi di
sviluppo dei sistemi di missione per esigenze di
adattamento ai requisiti del cliente e di integrazione”. I costi d’uso per soluzioni con aerei con
equipaggio sono “significativamente più alti di
quelli per soluzioni di sistema con i velivoli
senza pilota”. Inoltre si deve decidere se continuare lo sviluppo del sistema di missione Integrated Signal Intelligence System (ISIS) di
Airbus Defence and Space o acquistare off-theshelf un sistema completo già esistente.
Il ministro von der Leyen ha dichiarato alla televisione ARD, che il prototipo di dimostratore
dell’Euro Hawk, già consegnato alla Luftwaffe,
riprenderà i voli di prova per testare ISIS, ma
sarà selezionata un’altra piattaforma per questo
tipo di missione. Secondo il settimanale Der
Spiegel potrebbe essere il Northrop Grumman
Triton, versione aeropattugliatore marittimo del
Global Hawk. Fino al 2010 la Germania utilizzava per la missione di sorveglianza elettronica
l’aeropattugliatore marittimo Breguet Atlantique BR1150. È in considerazione la realizzazione di un nuovo percorso per la
certificazione di aeronavigabilità dei velivoli
senza pilota, che richiede la cooperazione delle
autorità di regolamentazione nazionali ed estere,
ma non è ancora stata stabilita la fattibilità di
questo percorso, per cui è richiesto più tempo
per effettuare indagini preliminari.
La limitata capacità operativa
Recentemente, sono stati riportati dai media
tedeschi frequenti casi di malfunzionamento di
equipaggiamenti in servizio con le forze armate
tedesche, soprattutto avarie di aerei ed elicotteri
da trasporto o difetti tecnici di caccia e veicoli
corazzati tali da non assicurare il loro impiego
operativo.
Intervistata dal domenicale Bild am Sonntag il
28 settembre, il ministro von der Leyen aveva
dichiarato che la Germania è al di sotto dei requisiti di capacità operative richiesti e riesce a
mantenere le sue missioni all’estero, ma non ad
assicurare gli impegni difensivi NATO. Soprattutto per le piattaforme aeree la Germania non
è più in grado di soddisfare il requisito NATO,
stabilito l’anno scorso, di fornire capacità entro
180 giorni dalla richiesta.
Le carenze operative sono evidenti nel trasporto
aereo, considerato che i C-160 Transall ormai
obsoleti devono essere sostituiti dai A400M, le
cui consegne sono in ritardo di 4 anni, né è stata
attuata una soluzione temporanea con i C-130J,
come ha fatto ad esempio la RAF nel Regno
Unito. Allo stesso modo non sono stati consegnati i nuovi elicotteri ordinati.
Il 29 settembre un C-160, che doveva portare
aiuti sanitari in Sierra Leone per la crisi di Ebola
è rimasto in panne all’aeroporto nelle isole Canarie, la settimana precedente a causa di avarie
di un altro C-160, gli istruttori e le armi
tedesche inviate in Iraq in ausilio ai curdi sono
61
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
arrivati quando la visita in Iraq del ministro von
der Leyen per la cerimonia di consegna delle
armi era già conclusa.
In una audizione alla commissione difesa del
parlamento tedesco, il 24 settembre, il capo di
stato maggiore della difesa tedesca, Volker
Wieker ha dichiarato che a fine giugno 2014
erano operativi solo 42 Eurofighter su 109 e 38
Tornado su 89 e per il trasporto aereo solo 21
C-160 su 56, per la componente terrestre solo
70 su 180 veicoli blindati Boxer sono operativi
e gli altri in riparazione, ma la parte peggiore
riguardava l’aviazione leggera: 10 elicotteri
Tiger su 31 e 8 NH90 su 33 sono utilizzabili,
mentre di 43 elicotteri della Marina Militare, di
cui 21 Sea King e 22 Sea Lynx, solo rispettivamente 3 e 4 sono operativi. Così di quattro sommergibili sono uno è operativo.
Secondo il settimanale Der Spiegel del 28 settembre, il gen. Wieker nella sua audizione non
ha fatto distinzione tra mezzi “pienamente operativi” e “operativi sotto condizioni”. Questi
ultimi non sono utilizzabili fuori dal territorio
nazionale, così dei 48 Eurofighter dichiarati operativi, solo 8 sono pienamente operativi e utilizzabili in missione. Inoltre, il 30 settembre, il
ministro von der Leyen ha dichiarato che è stato
riscontrato un difetto di produzione nella parte
posteriore della fusoliera dell’Eurofighter, tale
da sospendere le consegne del velivolo e ridurre
a metà le ore di volo da 3.000 a 1.500 ore all’anno per non stressare le aerostrutture.
La situazione è peggiorata rispetto a giugno:
nessun Sea Lynx della Marina Militare è in
grado di decollare ad ottobre 2014.
La Germania vorrebbe aumentare la sua
proiezione militare come strumento di politica
estera, inoltre ha assicurato solidarietà alla
Polonia in caso di attacco, ma date le sue capacità operative la promessa sarà difficilmente
62
mantenuta.
Attualmente il Bundeswehr è impiegato in 18
missioni all’estero con più di 3.000 militari, ma
non sono previsti impieghi ulteriori. Il Ministro
von der Leyen ha dichiarato che le due operazioni inizialmente previste, come la missione
di addestramento in Iraq del nord e lo schieramento di UAV per monitorare il cessate il fuoco
in Ucraina sono state congelate.
È vero che le forze armate europee a causa del
principio della ridondanza e di bilanci sempre
più esigui hanno una capacità operativa effettiva molto limitata rispetto ai numeri d’inventario,soprattutto per la componente aeronautica
(per il Regno Unito su 170 Eurofighter e Tornado solo 40 sono pienamente operativi; le
forze aeree francesi sono operative al 40%, le
forze armate spagnole sono effettivamente operative al 10% del totale).
Per la Germania, la limitata capacità operativa
non è un problema di fondi, ma di gestione, considerato che negli ultimi sei anni il bilancio
difesa ha avuto una parte non spesa di 4 miliardi di euro. Dalla fine della leva nel 2011, la
Bundeswehr ha avuto difficoltà a riempire l’organico. Per questo il ministro ha da una parte
ridotto per il 2015 il bilancio difesa all’1,1 del
Pil, dall’altro iniziato una riforma organizzativa per rendere più efficiente la struttura amministrativa, in cui si inserisce questa relazione.
Il ministero della difesa è una poltrona difficile
per i politici tedeschi, perché i tre precedenti
ministri della difesa, tutti astri nascenti del partito cristiano-democratico e possibili successori
del cancelliere Merkel, sono stati costretti a
dimettersi e ora anche il ministro von der Leyen
ne fa le spese: secondo un sondaggio di agosto
del settimanale Stern, il 63% degli intervistati
non la vedono più come valido successore della
Merkel.
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
NATO e rapporti transatlantici
Lucio Martino
Eventi
►Secondo quanto sostenuto dal dipartimento della difesa nel nuovo rapporto, i cambiamenti
climatici costituiscono ormai un rischio immediato ed evidente per la sicurezza nazionale e devono quindi direttamente ispirare le metodologie scelte per proteggere le proprie infrastrutture,
per fronteggiare un futuro che prevede ricco di catastrofi umanitarie e per prevalere in tutta
una serie di nuovi conflitti che potrebbero assumere connotati tanto regionali quanto globali.
Nei giorni immediatamente successivi a tale presa di posizione, in occasione della conferenza dei
Ministri della Difesa delle Americhe, il segretario della difesa Hagel è ritornato sull’argomento
spiegando come il cambiamento climatico costituisce ormai un vero e proprio moltiplicatore di
minaccia, perché non solo è potenzialmente in grado di esacerbare molte delle sfide tipiche del
mondo contemporaneo, ma anche di crearne altre completamente nuove. Il nuovo rapporto evidenzia quattro particolari settori nell’ambito dei presenti cambiamenti climatici in grado di minacciare direttamente gli interessi del sistema militare statunitense. A preoccupare il dipartimento
della difesa sono l’aumento globale della temperatura, i cambiamento geografici nella localizzazione delle precipitazioni, l’estremizzazione dei fenomeni atmosferici e l’innalzamento del livello
del mare. Tanto singolarmente quanto nell’insieme, queste quattro dinamiche sembrano in grado
d’impattare negativamente sulla pronta reperibilità di generi alimentari e di acqua potabile e,
quindi, sulla sicurezza nazionale statunitense.
I CAMBIAMENTI CLIMATICI SONO UNA MINACCIA “IMMEDIATA”
Il nuovo rapporto del dipartimento della difesa
è l’ultimo di una serie di documenti governativi
in cui sono posti in rilievo in modo sempre più
marcato le minacce alla sicurezza nazionale
degli Stati Uniti poste dai cambiamenti climatici. Tuttavia, la caratterizzazione di tali minacce
come un qualcosa al quale è necessario dare risposta immediata è uno sviluppo completamente inedito per l’intera comunità di sicurezza
e difesa occidentale. Fino a ora, l’attenzione riservata dal dipartimento della difesa nei confronti dei cambiamenti climatici si è soprattutto
63
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
concentrata nella sporadica adozione di qualche
misura per adattare le infrastrutture portuali dell’U.S. Navy agli effetti degli agenti atmosferici.
Un’attenzione questa che sembra destinata ad
assumere una ben maggiore sistematicità, posto
che sempre secondo quanto appena annunciato,
il dipartimento della difesa si appresta a portare
a termine una valutazione della vulnerabilità ai
cambiamenti climatici delle proprie installazioni militare, tanto all’interno quanto all’esterno del proprio territorio nazionale.
Le fondamenta della strategia con la quale il dipartimento della difesa intende affrontare i cambiamenti climatici sono rintracciabili nelle
ultime due Quadrennal Defense Review. Tuttavia, è solo con questa nuova 2014 Climate
Change Adaptation Roadmap (2014 CCAR),
che il dipartimento della difesa è arrivato a sostenere con grande determinazione che questi
ultimi costituiscono un’immediata minaccia alla
sicurezza nazionale perché accrescono i rischi
derivanti dal terrorismo, dalle malattie epidemiche, dalla persistenza del sottosviluppo e dalla
penuria di generi alimentari. La 2014 CCAR
sembra così dischiudere l’immagine di un futuro caratterizzato da un sempre più frequente
ricorso allo strumento militare per risposta a catastrofi ambientali in buona misura conseguenti
alle nuove circostanze climatiche e definire il
percorso attraverso il quale il sistema militare
statunitense deve adattarsi all’aumento del livello delle distese marittime, dell’intensità degli
eventi atmosferici e delle superfici desertificate
oltre che, naturalmente, a tutta una tipologia
d’interventi non prettamente di combattimento.
A tal fine, il dipartimento della difesa intravede
come particolarmente urgente l’integrazione di
vecchi e nuovi elementi valutativi dei rischi
connessi con i cambiamenti climatici, all’interno dei propri processi di pianificazione operativa, a iniziare dall’organizzazione dei propri
flussi di equipaggiamenti e rifornimenti. Questo
64
perché le operazioni militari del futuro avranno
luogo in regioni sempre più desertiche e in mari
quasi inaccessibili. Inoltre, in assenza delle opportune contromisure, numerosi sistemi d’arma
potrebbero deteriorarsi molto più velocemente
del previsto nell’operare in condizioni climatiche ben diverse da quelle per le quali originariamente progettati e, comunque, finiranno con
il richiedere cicli di manutenzione ancora più
frequenti ed estensivi.
Nelle sue venti pagine, il nuovo rapporto avverte non solo di come l'aumento del livello del
mare potrebbe inondare molte delle basi costiere negli Stati Uniti e nel resto del mondo, ma
anche di come siccità e condizioni climatiche
estreme potrebbero inibire l’uso di diverse delle
presenti zone d’addestramento militare, ostacolare la realizzazione di sbarchi anfibi e complicare le capacità sorveglianza e le attività di
ricognizione. L’intera 2014 CCAR sembra costruita sull’idea che la contrazione delle calotte
polari influenzerà negativamente i meccanismi
di approvvigionamento di molte regioni nell’emisfero settentrionale, mentre le distruzioni
provocate dall’interazione di forti e prolungate
precipitazioni e di altrettanto forti e prolungate
siccità, non potrà non condurre a nuove e imponenti migrazioni di massa. In parole povere,
anche il dipartimento della difesa sembra confermare la visione secondo la quale le attività
umane stanno generando un aumento nell’atmosfera terrestre della concentrazione di biossido
di carbonio quale diretta conseguenza dell’uso
sempre più estensivo dei combustibili fossili.
Tale aumento, secondo quello che sembra consolidarsi come un consenso di maggioranza all’interno della comunità scientifica statunitense,
potrebbe condurre nel medio periodo a un innalzamento della temperatura media anche
dell’ordine dei quattro gradi con un aumento del
livello del mare entro la fine del secolo che potrebbe anche superare il metro, cosa questa che
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
avrebbe effetti quasi apocalittici su buona parte
delle terre emerse e non solo.
Il dibattito sui cambiamenti climatici tende
spesso a concentrarsi su questioni di medio
lungo periodo quali l’aumento della temperatura
media globale e l’aumento del livello del mare,
ma il dipartimento della difesa sembra temere
in misura se possibile ancora maggiore delle immediate e probabili conseguenze dei picchi
estremi di tali evoluzioni climatiche. Per quanto
un solido consenso scientifico sull’impatto del
riscaldamento globale sugli eventi meteorologici estremi è forse ancora lontano, autorevoli
scuole di pensiero sostengono che gli anni a venire sarà notevole l’aumento nella frequenza
d’intense e prolungate ondate di calore, con evidenti implicazioni per la diffusione di malattie
epidemiche e per la salute umana più in generale. Cambiamenti anche marginali nelle tradizionali direzioni dei venti sembrano destinati a
condurre a tempeste tropicali sempre più forti e
ad ancora più forti mareggiate che, in combinazione con un effettivo aumento del livello del
mare, potrebbero causare alluvioni ancora più
drammatiche di quelle tipiche dell’Asia del Pacifico degli ultimi anni. Parallelamente, le
piogge dovrebbero intensificarsi quasi ovunque
tranne dove sarebbero più necessarie, vale a dire
sulle sempre più aride regioni tropicali e subtropicali. Sempre nell’analisi del dipartimento
della difesa, posto che questi fattori di cambiamento non agiscono in isolamento ma in reciproca interazione combinandosi infine con i
problemi di sempre, sono tre le aree generali
sulle quali sembra indispensabile calibrare il futuro della propria visione strategica.
Vecchie e nuove minacce, interne ed esterne
In primo luogo, sebbene la maggior parte delle
analisi identifichi la minaccia principale conseguente ai cambiamenti climatici in una serie di
flussi massicci d’immigrazione, la 2014 CCAR
sembra porre in primo piano anche assetti quali
la National Guard per fronteggiarne gli effetti
diretti sul proprio territorio nazionale perché se
la risposta data a seguito di una qualche grave
calamità naturale non è giudicata sufficiente
dall’intera opinione pubblica (come nel caso di
Katrina 2005), forte è il rischio che governi già
deboli possano collassare sotto la pressione di
un’irrefrenabile pubblico scontento. D’altra
parte, anche l’implementazione delle misure necessarie per far fronte a simili catastrofi, potrebbe condurre prima a deficit di democrazia e
poi a nuove forme d’instabilità politica. In casi
estremi, si è arrivati anche a ipotizzare un aumento dei gruppi che potrebbero arrivare a utilizzare nuove tattiche, anche di tipo violento,
per promuovere una forte difesa dell’ambiente,
tanto che il Federal Bureau of Investigation già
da qualche tempo ritiene l’eco–terrorismo come
una delle più probabili e gravi minacce in divenire di terrorismo interno.
I problemi legati al cambiamento climatico potrebbero almeno potenzialmente causare non irrilevanti controversie legali internazionali,
perché potrebbero finire con il ridisegnare i confini delle terre emerse. Con il ritirarsi delle coste
a causa dell’intensificarsi dei processi di erosione e di aumento del livello della superficie
marina, la posizione delle frontiere marittime e
l’estensione delle zone di esclusivo sfruttamento economico potrebbero cambiare, poiché
la dimensione marittima di un dato paese è giuridicamente determinata dalla dimensione del
suo territorio terrestre. Un'altra possibile fonte
d’instabilità internazionale potrebbe esser costituita dall’evacuazione, o dalla scomparsa, di
piccole entità insulari nelle porzioni più occidentali dell’Oceano Pacifico. Ancora altre controversie, anche queste prevedibilmente di non
facile risoluzione, potrebbero esser prodotte da
un progressivo scioglimento dei ghiacci del Mar
Glaciale Artico in grado di aprire nuove rotte
65
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
commerciali in regioni dove sono già evidenti
inedite tensioni anche tra paesi come il Canada
e gli Stati Uniti.
Il nuovo documento del dipartimento della difesa riflette come il cambiamento climatico sta
diventando una parte importante delle relazioni
internazionali. In prospettiva, forte è la possibilità che all’interno dei paesi che saranno più colpiti dai cambiamenti climatici, come Brasile,
India e Cina, aumenti il risentimento nei confronti dei paesi di vecchia industrializzazione,
in un reciproco scambio di accuse sulle rispettive responsabilità in merito alle passate, presenti e future emissioni di gas a effetto serra.
Inoltre, molti dei paesi che sembrano più vulnerabili ai cambiamenti climatici sono poi stati deboli e fragili, cosa questa che implica una
crescente pressione sui paesi donatori affinché
siano questi a finanziare le misure atte a mitigare gli effetti, cosa questa che, se assecondata,
finirà con il comportare una riduzione in termini
reali degli aiuti allo sviluppo a lungo termine.
Sempre secondo la 2014 CCAR, la progressiva
apertura di nuove vie di navigazione attraverso
il Mar Glaciale Artico costringerà a un’importante opera di monitoraggio del traffico navale
e non solo, al fine di garantire la sicurezza e la
stabilità di una zona ricca di grandi risorse.
Del resto, già nello scorso novembre, il segretario della difesa Hagel ha spiegato come gli
Stati Uniti siano intenzionati ad affermare la
propria sovranità nell’Artico anche e nonostante
simili rivendicazioni da parte della Federazione
Russa, della Cina e di ancora altri paesi. Una
maggiore presenza statunitense nell’Artico costringerà gli Stati Uniti a migliorare ulteriormente la qualità delle telecomunicazioni, a
colmare le lacune ancora tipiche della copertura
satellitare, a costruire nuove infrastrutture portuali e ad acquistare un numero sempre crescente d’imbarcazioni in grado di attraversare
delle distese marittime rese ancor più pericolose
66
dalla contrazione dei ghiacci.
Inoltre, la 2014 CCAR preme sul sistema militare statunitense affinché quest’ultimo disegni
la propria riflessione strategica intorno ai cambiamenti climatici e ai loro prevedibili effetti,
cercando di valutare come alluvioni, siccità e
carestie possono contribuire alla destabilizzazione di regioni ancora relativamente stabili in
Africa e in Medio Oriente. In quest’analisi, il
recente estremismo mediorientale è in parte ricondotto e spiegato nell’impatto regionale dei
processi globali di cambiamento climatico. La
siccità che negli ultimi anni ha afflitto la Siria
avrebbe, infatti, costretto intere comunità agricole a un accelerato processo di migrazione in
direzione di periferie urbane all’interno delle
quali è forte il fascino delle correnti politiche
più estremistiche.
Il caso del segretario della difesa Hagel
Di particolare interesse è poi il fatto che l’intero
rapporto non fa alcun cenno sul come e sul dove
il dipartimento della difesa troverà i fondi necessari per coprire i costi aggiuntivi comportati
dall’adozione della nuova impostazione strategica, tanto più che è sempre più forte l’avversione della rappresentanza repubblicana al
Congresso nei confronti di una questione climatica da quest’ultima spesso messa in dubbio
tanto nelle sue cause quanto nei suoi effetti.
La grande enfasi da ultimo così attribuita dal dipartimento della difesa alle problematiche ambientali e, quindi, alle minacce a queste
direttamente o indirettamente associate, è stata
da alcuni anche ricondotta all’intenzione dell’amministrazione Obama di aumentare il consenso in merito a un accordo internazionale da
raggiungere nella primavera del prossimo anno
a Parigi e, almeno nelle intenzioni, destinato a
ridurre le emissioni di ossido di carbonio rilasciate nell’atmosfera dai paesi più industrializzati. Non a caso, la risposta del dipartimento
Anno XVI - n° IX - 2014
MONITORAGGIO STRATEGICO
della difesa ai cambiamenti climatici non si limita a porre in atto le contromisure necessarie
per adattarsi alle nuove evoluzioni ambientali,
ma si ripromette d’impegnarsi direttamente
nella riduzione delle emissioni di biossido di
carbonio ritenute direttamente responsabili di
tali cambiamenti, cosa questa non poco controversa all’interno del sistema politico statuni-
tense. In merito, la traiettoria compiuta dal repubblicano Hagel nel firmare il nuovo rapporto
assume un connotato per molti versi sorprendente. Nel 1997, l’allora senatore Hagel svolse
un ruolo di primo piano nell’evitare che gli Stati
Uniti aderissero a quel Protocollo di Kyoto sul
quale poggia l’intera presa di responsabilità internazionale in materia.
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Anno XVI - n° IX - 2014
SOTTO LA LENTE
di Claudio Bertolotti
LA COMPETIZIONE JIHADISTA IN AF-PAK: TRA “AL-QA’IDA” E “ISIS” IN ASIA MERIDIONALE
I taliban e l’espansione dello “Stato Islamico”
Ci sono alcuni indicatori che suggeriscono
un’avanzata dello “Stato islamico dell'Iraq e del
Levante” (ISIL/ISIS d’ora in poi IS, Stato Islamico) in Asia meridionale, in particolare nell’area dell’Af-Pak – tra i gruppi di opposizione
armata afghani e pakistani – e in India. All’interno di tale dinamica espansione dell’IS, una
parte dei taliban pakistani (Teherik-e-Taliban
Pakistan, TTP) pare avviarsi verso l’istituzione
di quella che sembra essere una “libera alleanza
di mujaheddin”.
Il pericolo è concreto. E se è confermato che alcune fazioni dei TTP hanno dichiarato il proprio
sostegno all’IS – al contrario di al-Qa’ida – è altresì vero che lo stesso gruppo – in rapporto di
collaborazione con al-Qa’ida – ha ribadito la
propria fedeltà ai taliban afghani del mullah
Omar – i quali a loro volta sono legati ad alQa’ida (Fonte Reuters, 4 ottobre 2014). Un intreccio di interessi, equilibri precari e rapporti
di collaborazione e competizione che suggerisce la sussistenza di ragioni di preoccupazione:
in primis perché le dinamiche competitive tra gruppi jihadisti fortemente radicalizzati
tendono ad acuire i conflitti portando le parti più
“moderate” ad assumere un ruolo attivo nelle
conflittualità locali – anche al fine di sopravvivere;
in secondo luogo perché le comunità
non rientranti nelle rigide categorie dei gruppi
radicali tendono a divenire il bersaglio proprio
dei movimenti jihadisti estremisti; con la conseguenza di indurre alla conflittualità anche
soggetti (o comunità, gruppi) che non ne avrebbero necessità.
In Pakistan si sono verificate spinte divergenti
all’interno del movimento Tehrik-e-Taliban
Pakistan.
Cinque comandanti TTP di alto livello hanno
dichiarato la loro posizione a favore dell’IS, in
linea con quanto espresso da Shahidullah
Shahid: Saeek Khan, capo del gruppo dell’agenzia di Orakzai, Khalid Mansoor, capo della zona
di Hangu, Daulat Khan, capo dell’agenzia di
Kurram, Fateh Gul Zaman, capo dell’agenzia di
Khyber e Mufti Hasan, capo della zona di Peshawar; per un totale di circa 700/1000 combattenti.
Il TTP ha subito numerose defezioni e allontanamenti nell’ultimo anno, in seguito alla
morte del carismatico leader storico, Hakimullah Mehsud, colpito da un attacco drone statunitense nel novembre del 2013.
Sono segnali forti di un dinamismo centrifugo
che sta caratterizzando il movimento dei taliban
pakistani; al contrario i “cugini” afghani avrebbero trovato un giusto equilibrio. Dinamismo
che avrebbe così portato alla nascita di due
fronti: uno costituito dai TTP, dai taliban
afghani e da Al-Qa’ida, l’altro formato dal
gruppo scissionista dei TTP, dall’IS e dall’IMU
(di cui si parlerà più oltre).
Jihad tra marketing e franchising
Si impone l’efficacia del marketing del jihad
nell’area dell’Af-Pak.
Al-Qa’ida si sta indebolendo, ha perso quel
mordente che l’ha caratterizzata negli anni dieci
del nuovo millennio; come un marchio in franchising, non è riuscita ad imporsi alle nuove generazioni così come invece sta riuscendo l’IS.
Al-Qa’ida e lo Stato islamico IS/ISIL hanno intensificato l’opera di reclutamento all’interno
del Pakistan e in alcuni paesi del Sud-Est asia69
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tico, con ciò confermando la competizione
nell’attività di arruolamento di elementi radicali, per lo più giovani.
Partiamo dal video di Al-Zawairi. Da un lato, il
capo di Al-Qa’ida ha annunciato la creazione di
una nuova forza islamica chiamata "Qaedat alJihad del subcontinente indiano": un messaggio
ricco di significati, al di là delle parole (Fonte
SITE Intelligence Group).
Dall’altro, l’IS ha lanciato una propria campagna di reclutamento in Pakistan e in Afghanistan, attraverso un’opera di propaganda a livello
locale e con metodi tradizionali del tipo “porta
a porta” (Fonte Pakistan’s Express Tribune).
Quello a cui stiamo assistendo è uno sforzo parallelo condotto da due organizzazioni in competizione tra di loro: la prima con una presenza
consolidata sul territorio, ma in fase di declino
(al-Qa’ida), l’altra in piena fase espansiva, ma
con un’esperienza limitata in Asia meridionale
(IS).
Il video di al-Zawairi lascia intuire che alQa’ida si senta minacciata dall’emergere di un
nuovo e alternativo soggetto jihadista, capace di
conquistare i “cuori e le menti” dei più giovani
in Medio Oriente e nel Sud Est asiatico, dove
l’IS starebbe raccogliendo adesioni.
In tale contesto la residualità jihadista di alQa’ida nell’area dell’Af-Pak sarebbe minacciata
da un competitor esterno che introduce il suo
“prodotto” in un mercato che è alla ricerca di
una nuova identità, svincolato da modelli passati, – certo di “successo”, ma un successo spostato indietro nel tempo; e il riferimento fatto da
al-Zawairi a Osama bin Laden, all’interno del
video, confermerebbe ancora una volta la necessità di richiamo al modello originale, tradizionale, in contrapposizione a quello “nuovo”
dell’IS.
Brand al-Qa’ida e sviluppi regionali
Il paragone in termini “commerciali” descrive
70
in maniera molto semplice lo sviluppo di quello
che si delinea sempre più come un rapporto di
competizione per il possesso esclusivo del
brand “jihad”; e l’innovazione introdotta con il
“marchio” “Qaedat al-Jihad del subcontinente
indiano” si inserirebbe all’interno di questo
spietato marketing del jihad.
E al-Zawairi si spinge oltre. Pretendendo il
ruolo di leadership dello jihadismo globale e regionale, mobilita tutti i fedeli verso l’unità della
Ummah, e lo fa attraverso il richiamo (che fu di
Osama bin Laden) al Tawhid (monoteismo) e al
jihad contro i suoi nemici.
Un richiamo a quella necessaria unità dei mujaheddin che deve contrapporsi a "differenze e discordia" tra jihadisti; un implicito riferimento
all’IS. In particolare, è interessante notare il richiamo che al-Zawairi fa, nel suo intervento
video, alla necessità di distruggere quei confini
artificiali imposti dagli occupanti inglesi che
continuano a dividere i musulmani del subcontinente indiano. È questa una risposta al messaggio che l’IS sta portando avanti in Medio
Oriente, attraverso l’abbattimento dei confini
che furono imposti nel secolo scorso dall’Occidente, quell’Occidente che oggi deve essere colpito, battuto.
Un richiamo energico, quello di Ayman al-Zawairi, che si colloca in un momento difficile per
al-Qa’ida e per la sua leadership poiché da più
parti gli stessi appartenenti al movimento e i
mujaheddin combattenti su diversi fronti (in
particolare quello mediorientale) hanno manifestato i propri dubbi sull’efficacia del gruppo
dirigente – e dello stesso al-Zawahiri – arrivando a chiederne la rimozione. E ancora una
volta, il video-messaggio si inserisce all’interno
di dinamiche interne al gruppo; un video che
mostrerebbe più le debolezze che non i punti di
forza di un movimento che è stato di ben più
ampia portata.
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IS e l’opera di reclutamento in Af-Pak
Lo Stato Islamico nel subcontinente indiano è
estremamente attivo sul fronte della propaganda. Una capacità che, al contrario, al-Qa’ida
ha progressivamente ridotto.
Gli opuscoli propagandistici dell’IS, tradotti
nelle lingue locali (urdu e pashto) e distribuiti
in alcune zone del nord-ovest del Pakistan e
nelle province di confine dell’Afghanistan, sono
finalizzati alla promozione del brand “IS/ISIL”,
dei suoi fini e della visione di un mondo in cui
il Califfato islamico (Stato islamico) è soggetto
forte e portatore di un messaggio inclusivo.
Al contrario, al-Qa’ida ha forti difficoltà a competere con la macchina propagandistica di IS, e
ciò avverrebbe poiché:
1.
manca un’adeguata capacità comunicativa sul piano virtuale – è sufficiente raffrontare
il numero di account “Twitter” di IS rispetto ad
al-Qa’ida, o la presenza sui social media;
2.
mancano i risultati sul fronte “reale”,
poiché al-Qa’ida – al contrario di IS che è un
proto-Stato in grado di autofinanziarsi e amministrare un proprio apparato – non ha una presenza sul territorio, non possiede brigate
combattenti, manca di contatto con la realtà;
3.
non è in grado di opporsi concretamente al governo pakistano.
In tale contesto, svantaggioso per al-Qa’ida, l’IS
riesce a competere in maniera efficace per una
notevole quota di mercato del jihad. Quale
brand avrà più successo?
Da un lato l’opera di restiling e il difficile rilancio dello storico marchio di al-Qa’ida.
Dall’altro, l’irruente comparsa di IS, il
nuovo marchio del jihad, capace di colmare rapidamente e con efficacia i vuoti lasciati da un’alQa’ida non in grado di muoversi agevolmente,
né capace di utilizzare un linguaggio accattivante.
In sintesi, IS guadagna terreno mentre al-Qa’ida
avanza con fatica, tra difficoltà interne e limiti
esterni. Ma è bene ricordare che l’IS è privo di
strutture e di organizzazione nell’area dell’AfPak e dell’intero subcontinente indiano; almeno
per il momento.
IMU: l’Islamic movement of Uzbekistan
Il Movimento islamico dell’Uzbekistan collabora apertamente con al-Qa’ida, i TTP e i taliban afghani. È probabile che l’attuale forza del
movimento sia superiore ai 2.000 mujaheddin –
dei quali 700 combattenti e 140 istruttori concentrati nel nord dell’Afghanistan – sebbene
siano al momento in atto alcune defezioni a
causa dell’ambigua strategia che porrebbe come
obiettivo principale la lotta all’interno dell’Asia
centrale in alternativa al jihad globale.
L'IMU disporrebbe anche di un numero imprecisato di militanti, sostenitori e attivisti in Asia
centrale, nel Caucaso, in Iran e in Siria; combattenti dell’IMU sarebbero al fianco di alQa’ida in Iraq e Siria e con un ulteriore gruppo
dell'Asia centrale (Seyfuddin Uzbek Jamaat).
Stando alle dichiarazioni del movimento, circa
Il 10% della forza dell’IMU in Afghanistan e in
Pakistan è rappresentata da organizzazioni alleate quali l’Islamic Movement of Turkmenistan
(IMT) e il Tajikistan’s Islamic Renaissance
Party (IRP); quest’ultimo partito islamista
legale1. E ancora l’East Turkestan Islamic
Movement (ETIM).
L'IMU ha proprie fonti di finanziamento, che
sono separate da quelle dei taliban sebbene godano degli stessi diritti di rappresentanza dei taliban; è dunque probabile una presenza di
appartenenti all’IMU a livello distrettuale e
provinciale e all’interno delle commissioni per
quanto, dopo la “rottura” seguita all’avvio del
dialogo negoziale Taliban-Usa-Governo
afghano, l’IMU abbia spostato la propria area
operativa nel nord dell’Afghanistan dove collaborerebbe con i taliban locali. Rimangono comunque separate le due organizzazioni, così
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come lo sono la catena di comando e l’attività
di finanziamento2.
L’IMU, dal 2010, coopererebbe in prevalenza
con i gruppi di opposizione armata non-pashtun,
anche taliban afghani, così come con i taliban
pakistani; ma anche con i gruppi jihadisti regionali e con la stessa al-Qa’ida.
Più in generale, l'IMU ha preso parte alle dinamiche insurrezionali dell'Asia centrale e del
Medio Oriente, tra cui il sostegno all’iraniano
Jundullah in Baluchistan (movimento sunnita
baluchi in lotta contro l'Iran), così come ha
sostenuto altri piccoli gruppi jihadisti tra i quali
l'IMT in Turkmenistan, e ancora in Kazakhstan,
in Cecenia e collaborato con altri gruppi legati
ad al-Qa’ida in Siria; a ciò si aggiungono non
meglio specificate attività di sostegno in "alcuni
paesi africani".
IMU e Stato Islamico
Il 26 settembre 2014, il leader dell’IMU Usman
Ghazi ha dichiarato il proprio sostegno all’IS
(Radio Free Europe/Radio Liberty’s, Uzbek
Service, 4 ottobre 2014). Ciò implica una significativa modifica degli equilibri del movimento e tra i gruppi jihadisti regionali poiché un
avvicinamento all’IS comporterebbe un allontanamento da al-Qa’ida.
Questo anche sul piano economico-finanziario
poiché un cambio di alleanza comporterebbe
una riorganizzazione dei finanziamenti verso
l’IMU, non più da al-Qa’da bensì dallo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, in grado di
registrare entrate giornaliere di 2/4 milioni di
dollari (USD).
Dunque una partnership con l’IS rappresenterebbe per l’IMU un vantaggio in termini di
sostegno economico da sfruttare in Asia Cen-
trale.
Considerazioni, valutazioni, previsioni
L’ombra dello Stato Islamico muove verso il
subcontinente indiano.
In un mondo sempre più interconnesso dove le
conflittualità locali sono condizionate e influenzate da spinte di natura globale, la violenza
radicale che imperversa nel Vicino e Medio
Oriente si sta espandendo a macchia d’olio; al
di là dei risultati militari e delle manifestazioni
violente e crudeli, ciò che deve preoccupare è
la diffusione dell’ideologia, del suo veloce
radicamento, del proselitismo di successo che
anticipa, sì, l’accendersi della violenza, ma che
al contempo permane indipendentemente dallo
spostamento della linea del fronte di combattimento.
E un Afghanistan non stabilizzato è una terra di
facile conquista per le ideologie radicali.
I taliban di oggi non solo quelli di dieci o
quindici anni fa, è vero. Ma potrebbero tornare
a esserlo in caso di contatto (reale o “virtuale”)
con i gruppi radicali e fondamentalisti operativi
in Iraq, o in Siria; anche in questo caso un copione già conosciuto3.
Rischio di un fondamentalismo di ritorno a cui
il governo afghano deve porre un argine attraverso una soluzione di compromesso che
preveda quel necessario power-sharing – formale o informale, questo poco importa – che
conceda l’accesso a forme di potere reale anche
ai taliban (le cui finalità sono – al momento –
di natura “nazionale” e non globale) e agli altri
importanti gruppi di opposizione armata:
questa è una soluzione accettabile, oggi certamente necessaria.
A. Giustozzi, End game, The IMU shifts its jihadist strategy, in Jane’s Intelligence Review, novembre
2014, pp. 18-23.
1
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Ibidem.
C. Bertolotti, In Afghanistan dopo il 2014. Le forze Nato rimangono essenziali, in “Affari Internazionali
– Rivista online di politica, strategia ed economia ”, 31/10/2014 , in http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2858.
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Stampato dalla Tipografia del
Centro Alti Studi per la Difesa