Micaela Jary L’irresistibile promessa della felicità Traduzione di Claudia Acher Marinelli Titolo originale: Das Bild der Erinnerung © 2013 by Wilhelm Goldmann Verlag Gruppo Editoriale Random House GmbH, Monaco, Germania http://narrativa.giunti.it © 2014 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia Via Borgogna 5 – 20122 Milano – Italia Prima edizione: giugno 2014 Ristampa 6 5 4 3 2 1 0 Anno 2018 2017 2016 2015 2014 Londra, 1961 Prologo Quel quadro attirò l’attenzione di Philip, come per magia. Avrebbe voluto staccarsene, e nel bagliore dei lampioni appena accesi e dei fari sfuggenti delle macchine, incamminarsi di nuovo su Bond Street per arrivare puntuale – e possibilmente asciutto – al suo appuntamento. Una fitta pioggerellina tipicamente londinese gli picchiettava sul viso, su cui ricadevano ciocche castane, folte e umide. Di lì a poco si sarebbe ritrovato completamente fradicio e non era certo un bel biglietto da visita per un giornalista che voleva darsi un tono. Eppure non arretrò di un passo di fronte a quella vetrina, in cui si era imbattuto per caso. Fissava il quadro come irretito. Non più grande di un foglio A3, era appeso in penombra a una parete della galleria che a malapena si intravedeva dall’esterno. Philip non sapeva nemmeno per quale motivo l’avesse notato. Era come se il dipinto l’avesse chiamato. Perché mai, altrimenti, si sarebbe dovuto fermare proprio lì? Non era sua abitudine schiacciare il naso contro le vetrine delle gallerie d’arte. Il quadro ritraeva una scena d’amore. Licenziosa, quasi scandalosa, forse persino scioccante, e probabilmente geniale. Ma 7 tutto ciò gli era indifferente almeno quanto il nome del pittore, la sua tecnica, o il prezzo dell’opera. A colpirlo fu unicamente un ricordo, legato alle sensazioni che il dipinto gli risvegliava dentro, a livello fisico ed emotivo. D’un tratto non era più il quarantenne Philip Coleman, mediocre corrispondente da Monaco, deluso dalla vita e oppresso dal peso del fallimento. Si era trasformato in un uomo diverso, più giovane, in una persona migliore, la cui fede nell’ideale della pace lo aveva spinto a credere di poter finalmente conquistare la felicità, dopo tutti gli orrori della guerra… Di fronte a una folta siepe in tutte le tonalità del verde era raffigurato un uomo completamente nudo, in piedi vicino a uno specchio d’acqua, un lago o forse un fiume. Il viso e il torace rimanevano nascosti dalla nuca e dalla schiena di una donna, anch’essa nuda, avvinghiata a lui, le gambe che gli cingevano la vita. I muscoli delle cosce e delle braccia dell’uomo erano tesi, una mano sosteneva le natiche di lei, l’altra sembrava appoggiata sul suo seno. Philip riusciva quasi a sentire quella tensione, benché attenuata dal desiderio e dal piacere. Lui lo sapeva bene, il timore di perdere l’equilibrio passava in secondo piano rispetto all’eccitazione. Il pensiero di essere travolto dalla passione e dal corpo languido dell’amante turbinava nella sua mente insieme all’inebriante consapevolezza dell’appagamento. Conosceva perfettamente le emozioni dell’uomo ritratto nel quadro. Lei si chiamava Fee, fata, come quella delle fiabe, che ricordava anche nell’aspetto: bionda, occhi celesti, corpo esile. E lo aveva stregato. A posteriori si era spesso chiesto se dietro alle sembianze della fata buona non si nascondesse in realtà una perfida strega, dal cui incantesimo non aveva più saputo liberarsi. Erano passati quindici anni da quell’istante sul Wannsee, 8 quando era stato lui l’uomo del quadro. All’epoca splendeva il sole. Ora, invece, la giornata grigia e piovosa lasciava presagire una serata altrettanto cupa, specchio fedele dell’opprimente susseguirsi dei giorni a cui si era ormai ridotta la sua vita. Una vita che lui non avrebbe mai voluto, fatta di sogni che poi, inevitabilmente, si trasformavano in incubi. Ma ecco quel quadro a strapparlo dalle pesanti catene della monotonia. E poi quel ricordo. Non contava nient’altro. Né l’intervista in esclusiva a Rob Walker, erede della dinastia di produttori di whisky e proprietario di una scuderia di Formula 1, né la pioggia sottile che gli batteva addosso. Lì vicino c’era un’edicola, ma neppure le notizie dell’ultim’ora strillate dal giornalaio lo interessavano più. Che gli importava dell’eruzione di un vulcano su un’isola del Sud-Atlantico, delle manifestazioni contro la fame a Calcutta o della nascita del figlio della principessa Margaret, la sorella della regina? Rapito dal quadro, continuava a fissarlo mentre ricordava l’estasi che Fee gli aveva fatto provare quel giorno. In Francia definivano l’orgasmo la petite mort. E Philip sapeva esattamente che cosa significasse «la piccola morte», in ogni senso possibile. Il giornalaio, ormai rauco, stava urlando proprio allora il nome della città che aveva segnato il suo destino, o era solo uno scherzo dell’immaginazione? Del resto era normale che Berlino facesse notizia: con la costruzione del muro che divideva Berlino Est da Berlino Ovest, la città martoriata dalla guerra si era subito riconquistata un posto di primo piano nei titoli di giornale, e non solo nei ricordi di Philip. Immerso nei suoi pensieri, avanzò verso la porta del negozio. Voleva davvero entrare nella galleria? Magari avrebbe potuto osservare il dipinto più da vicino, convincersi che si trattava 9 dello stesso quadro di allora. Avrebbe potuto informarsi sul prezzo, quasi sicuramente inaccessibile. A Mayfair si trovavano solo i mercanti d’arte più rinomati; in quei quartieri eleganti la gente non badava a spese. E non era certo il tipo di ambiente in cui si facessero sconti. Nemmeno sui ricordi… Decise di vedere almeno una volta da vicino la scena immortalata nella pittura a olio. Voleva accertarsi che lo scorcio visto dalla vetrina non l’avesse ingannato. Uno stridio di pneumatici sull’asfalto bagnato lo distolse bruscamente dai pensieri in cui era assorto. Da una gigantesca pozzanghera l’acqua zampillò come dalla fontana di Piccadilly Circus, inondandogli i pantaloni già umidi. Philip si chinò nell’inutile tentativo di scrollare via le gocce con la mano, ma in quell’istante fu spintonato e barcollò, rischiando d’inciampare. «Beg your pardon» disse una flautata voce femminile. Ma quelle scuse gli suonarono poco convincenti. La donna, che sembrava andare di fretta, non si fermò a sincerarsi che lui stesse bene, né si mostrò minimamente dispiaciuta per l’accaduto. Lui per fortuna si era retto in piedi. Si girò di scatto, pronto a dirgliene quattro. Non poteva certo presentarsi all’appuntamento al lussuoso Hotel Claridge’s con indosso un completo grondante di acqua sporca. Dapprima non vide altro che un’ampia e costosa pelliccia di ocelot. Il pelo screziato d’oro e argento gli solleticò la faccia, mentre lei risaliva in fretta e furia i gradini d’ingresso della galleria. «Philip?» Il tono di voce della donna cambiò di colpo, poi gli gridò in tedesco: «Noi due ci conosciamo! Non sei Philip? Philip Coleman? Oh mio Dio! Non ti ricordi di noi… a Berlino?». Lui la guardò, e a un tratto il passato irruppe di nuovo nel presente. 10 Monaco, 2010 1 Ironia della sorte, Anna Falkenberg lavorava in un settore nel quale la clientela, specie quella femminile, possedeva ciò che a lei più mancava: tempo e denaro. Certo, avrebbe potuto fare domanda in un museo, dove a parte qualche riunione con i soci e gli sponsor, la sua giornata lavorativa si sarebbe svolta tra solitarie ricerche in biblioteche e archivi. Ma trovare un lavoro non era facile, e gli stipendi dei collaboratori scientifici nel pubblico impiego erano ancora più bassi che nel privato. Tuttavia non era per il denaro che lavorava come esperta d’arte in una casa d’aste. Ad Anna piaceva il suo lavoro, nonostante lo scotto di doversi confrontare ogni santo giorno con clienti dal ragguardevole patrimonio che la guardavano dall’alto in basso come se fosse la cassiera di un supermercato. Fatta eccezione per quelli che appartenevano a un clan come quello dei Bonhoff, ormai dediti da generazioni a mischiare gli affari con l’arte. Che poi il suo capo mostrasse un chiaro interesse a intrecciare una relazione extraconiugale con lei non le sembrava una buona scorciatoia per acquistare prestigio. Non se ne parlava proprio. 11 Per questo si stupì molto quando una signora venne fatta accomodare dalla segretaria nel salone arredato con preziosi oggetti d’antiquariato, dove Rainer Bonhoff riceveva solo i clienti più promettenti. La cliente in questione, di un’eleganza innata, lasciò Anna senza fiato. Ogni singolo movimento, accompagnato da una nuvola di Opium di Yves Saint Laurent, sembrava appreso sulla passerella delle sfilate, e tuttavia appariva naturale e per nulla affettato. I capelli bruni, tagliati a caschetto, incorniciavano un viso dai lineamenti fini, truccato con cura e illuminato dai grandi occhi grigi, contornati da una rete di rughe sottili. Il sorriso affabile e spontaneo dava l’impressione che fosse davvero felice di fare la sua conoscenza. E poi ci fu la stretta di mano, decisa ma non troppo energica. Una miscela sapientemente dosata di cordialità e senso degli affari che la incuriosiva, facendola sentire a proprio agio nonostante la donna, ben oltre la cinquantina, fosse molto più vecchia di lei. Durante la riunione del mattino, Rainer Bonhoff ne aveva annunciato l’arrivo: «Attendiamo un’offerta da parte di Beatrice Coleman di New York. Vuole vendere la collezione Coleman, di cui è l’erede, e ne affiderebbe la gestione a noi. Già due anni fa ho avuto il piacere di collaborare proficuamente con lei. Ora ha in mente di mettere all’asta un altro quadro, una sorta di test per la nostra futura attività insieme. E per sondare il mercato su impressionisti e modernisti…». «Sondare il mercato?» aveva ripetuto ridacchiando la tirocinante, una giovane studentessa universitaria. «E perché mai? Lo sanno anche i bambini che con gli impressionisti si ottengono guadagni enormi. Quanti milioni vuole incassare?» «Stiamo parlando di impressionisti tedeschi» aveva replicato Bonhoff. «Tutto il resto l’avrebbe proposto a Christie’s o 12 Sotheby’s. Ma con un’opera di Leo Reichenstein di sicuro verrà seguita meglio da noi.» Con un gesto compiaciuto il mercante d’arte si era dato un’aggiustatina alla cravatta bordeaux, che s’abbinava alla perfezione con l’abito blu notte e il fazzoletto da taschino. «Poiché si tratta di una grossa collezione» aveva aggiunto, squadrando le collaboratrici con sguardo penetrante, «mi aspetto che tutto proceda senza intoppi.» I suoi occhi si erano soffermati su di lei. A trentadue anni, Anna si sentiva spesso insoddisfatta del proprio corpo troppo femminile e del suo aspetto poco alla moda. Aveva gli occhi azzurri, era alta, bionda e molto miope, il più delle volte si truccava appena e trascurava i capelli. Quel giorno indossava una gonna nera e una giacca di una tonalità diversa: a colazione, la figlia di cinque anni le aveva rovesciato una tazza di cioccolata sui pantaloni del tailleur. Anna temeva che l’attenzione del capo si sarebbe concentrata su di lei. Ma stavolta non dipendeva dal suo seno prosperoso. Per la tesi aveva studiato le differenze tra l’Impressionismo francese e quello tedesco, e poi si era specializzata sull’opera di pittori come Max Slevogt, Lovis Corinth, Max Liebermann o, per l’appunto, Leo Reichenstein. Fin da bambina, sfogliando libri illustrati seduta in grembo alla nonna, si era fatta una cultura su quella corrente artistica. Più tardi si era cimentata lei stessa in quadri dai colori luminosi, di grande forza espressiva, ma le mancava il talento. Perciò si era concentrata sulla teoria e aveva studiato storia dell’arte. Quell’incontro con la nuova cliente le suscitava, dunque, sentimenti contrastanti. Prima di allora non aveva mai sentito nominare la collezione Coleman, ma non osava confessare la propria ignoranza, dal momento che il capo ne aveva parlato 13 con la stessa stima solitamente tributata alle collezioni Guggenheim, Getty o Berggruen. D’altra parte, proprio la minor fama avrebbe potuto essere di buon auspicio per un ritrovamento sensazionale, quello di cui anche lei – come la maggior parte degli storici dell’arte – prima o poi sperava di potersi gloriare. Osservò titubante quella signora distinta che, dopo il breve rituale dei saluti, era andata subito al punto estraendo il quadro dall’involucro protettivo. Non era più grande di una cartella portadocumenti. Ed eccolo là! Colori a olio su tela cartonata, quasi monocromatico, eppure luminoso e di straordinaria espressività. La Coppia di amanti di Leo Reichenstein, dipinto nel 1926, introvabile da decenni. Con studiata lentezza Anna si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, cercando di spazzare dalla mente i sogni di successo, per concentrarsi interamente sul quadro. Il soggetto risultava tuttora scandaloso. La rappresentazione dell’amplesso era così intensa da renderne partecipe persino l’osservatore. Un desiderio appassionato, consumato in piedi. Anna si chiese come l’uomo potesse mantenersi in equilibrio con la donna avvinghiata ai fianchi, ma la scena era impressionante. Sbuffò senza volerlo, meravigliandosi di aver trattenuto il fiato così a lungo. Già sentiva l’impulso irrefrenabile di precipitarsi nel suo studiolo a consultare i suoi volumi d’arte in cerca di informazioni dettagliate. Ma tutta quell’agitazione e il battito del cuore accelerato erano solamente dovuti alla riscoperta di un quadro dimenticato? Non era piuttosto colpita dal forte erotismo emanato dall’immagine? La scena in effetti era imbarazzante, soprattutto se osservata in presenza di un uomo che continuava a farle delle avance. 14 «Questa è solo una delle opere della collezione del mio patrigno» spiegò la cliente di New York in un tedesco privo di accento, sottolineando il fatto che fosse solo una fra le tante. «Philip Coleman era un grande appassionato di arti figurative. Possedeva molti dipinti di qualità eccezionale, ma questo ve l’ho già detto, vero? Vorrei vendere finalmente il suo vecchio appartamento… oh, ci sono così tanti ricordi lì dentro… insomma, sì, mi devo disfare della collezione. Non ho proprio lo spazio per tenerla… Capite?» «Di sicuro troveremo una soluzione ai suoi problemi di spazio» promise Bonhoff. «La signora Falkenberg redigerà una perizia e, a quel punto, non dovrebbe essere difficile vendere con profitto il Reichenstein. Come del resto tutti gli altri quadri.» Beatrice Coleman inarcò le sopracciglia. «Una perizia? È proprio necessario? Non vi sembra una perdita di tempo? Ho sentito che in questo momento il mercato è molto favorevole…» Lasciò seguire un silenzio eloquente. «Tanto maggiore sarà il nostro successo con un’expertise» la rassicurò Bonhoff. «La valutazione della dottoressa Falkenberg non farà che confermare le sue indicazioni, mia gentile signora.» Le si leggeva in faccia come quelle parole non la convincessero affatto. Quando il silenzio minacciava ormai di diventare insopportabile, Beatrice Coleman iniziò a rovistare nella borsetta estraendone un astuccio di cuoio nero, che porse a Bonhoff. «Se ci dovesse essere qualche dubbio, qui c’è una foto del mio defunto patrigno con il quadro.» Da sopra la spalla del suo capo, Anna intravide una vecchia foto in bianco e nero. Doveva essere uno scatto rubato, poiché l’uomo ritratto nell’immagine leggeva un libro su una sdraio, e non guardava l’obiettivo. Sembrava simpatico, forse un po’ in- 15 troverso, ma molto attraente: i folti capelli scuri gli ricadevano sulla fronte, il viso era allungato, gli zigomi marcati, aveva il naso diritto e le labbra tumide, le palpebre abbassate con lunghe ciglia scure. Alla parete dietro di lui, in una cornice sottile e illuminata da un apposito faretto, la Coppia di amanti di Reichenstein. «Molto interessante» osservò il mercante d’arte, restituendo la foto alla donna. «Un bel ricordo» confermò Anna «tuttavia non basta. Dove acquistò il quadro il suo patrigno?» «Oh, lo comprò alla galleria Richardson di Londra.» Beatrice Coleman prese il quadro appoggiato sul tavolo, e lo girò con cura. «Si vede ancora il timbro. Guardate qui…» li incoraggiò picchiettando l’indice su una sigla. Si trattava di un minuscolo adesivo, consumato ai lati e agli angoli, sotto il bordo inferiore destro della tela. Sul biglietto risaltava un timbro: GALLERY HENRY RICHARDSON, NEW BOND ST, MAYFAIR, LONDON W1. Poco sopra, Anna notò un marchio dall’inchiostro ormai sbiadito: KUNSTSALON PAUL CASSIRER, BERLIN. Il quadro, vecchio di ottantaquattro anni, non presentava indicazioni di altri venditori o precedenti proprietari. «In che anno comprò questo quadro il signor Coleman?» s’informò Anna. «Lei per caso lo sa?» L’ erede del collezionista alzò le spalle. «Credo nel 1961. Mia madre allora non era ancora sposata con lui. Ma è importante?» «Sì…» «No» intervenne Bonhoff. «È solo un dettaglio, ma non fondamentale. Gentile signora, affidi tutto a noi.» Anna lo guardò sbalordita. Il suo capo era un mercante d’arte esperto, nonché banditore d’aste, era un uomo intelligente, talvolta affascinante, occasionalmente spiritoso, insomma non privo di attrattive, se interessava il genere del gentiluomo d’altri 16 tempi, e a lui piaceva giocare al dandy nostalgico. Quell’atteggiamento stile vecchia Inghilterra gli conferiva una certa serietà. Ma era solo un trucco, ovvio, perché nessuno poteva tenergli testa. E lui per primo sapeva benissimo come la provenienza di un quadro fosse fondamentale per un’expertise. Perché allora aveva affermato il contrario? Temeva di perdere un affare proficuo e a lungo termine? Era la previsione di mettere all’asta l’intera collezione a renderlo avido? Al punto di ignorare una delle regole fondamentali? Quando s’accorse che lo sguardo interrogativo di Beatrice Coleman era fisso su di lei, Anna si risvegliò da quei pensieri sconcertanti. Una ciocca di capelli le era ricaduta sul viso, così la scostò di nuovo: un chiaro segno del nervosismo che provava adesso, e che non aveva niente in comune con l’agitazione precedente. «Mi sarei davvero stupita, signor Bonhoff, se lei avesse dubitato della mia buona fede» disse la cliente con voce affilata. «Niente sarebbe più offensivo per me del sospetto che mio padre tenesse dei falsi. C’è forse stato qualche reclamo dalla nostra prima collaborazione?» «Ma, signora, la prego…» Eppure qualcosa nel tono di Beatrice Coleman rafforzava i dubbi che di colpo avevano assalito Anna. Non c’era alcun motivo che giustificasse tanta insicurezza, nessun indizio che il quadro potesse essere un falso. Al contrario. I dati in possesso della cliente sembravano plausibili, come anche i timbri delle gallerie. Fonti di anni diversi confermavano che il quadro era stato dipinto nel 1926, e risultava verosimile che fosse stato venduto dall’allora più famosa galleria d’arte di Berlino, il cui proprietario era notoriamente un grande amico di Reichenstein. Mancavano indicazioni sulle successive acqui- 17 sizioni. Ma sotto il Terzo Reich un’opera d’arte, specie se di autore ebreo, non cambiava di proprietario legalmente, per cui l’assenza di altre indicazioni non doveva insospettire. Durante e dopo la Seconda guerra mondiale era andata perduta un’enorme quantità di opere d’inestimabile valore: bollate come «degenerate» dai nazisti, distrutte dalle bombe, barattate al mercato nero o requisite come bottino di guerra. L’ iniziale euforia di Anna si stava curiosamente smorzando. Cominciò ad avvertire una strana sensazione, come una stretta allo stomaco. «E allora vada per la perizia…» concesse infine, magnanima, Beatrice Coleman. «Ma la prego di fare in fretta, dottoressa Falkenberg. Sulla vostra home page ho letto che la prossima asta si terrà a fine maggio e, per allora, vorrei vedere dei risultati.» Bonhoff si strinse nervosamente il nodo alla cravatta. A quanto pareva, la fretta della cliente spiazzava anche lui e, con ogni probabilità, lo infastidiva. Forse non si era aspettato che Beatrice Coleman avesse un così disperato bisogno di soldi, come lasciava intuire la sua insistenza. «Le consegne per la prossima asta sono chiuse» disse brusco. Poi, dopo essersi schiarito la voce, proseguì con tono più pacato: «Per un’opera di questa rilevanza ci occorre un po’ di tempo, mia cara signora. Si tratta di tutt’altra cosa rispetto all’affare che abbiamo concluso per lei due anni fa. Abbiamo bisogno di tempo per promuoverla in modo adeguato ai nostri potenziali compratori. Solo così saremo in grado di ottenere un prezzo base elevato. Io proporrei di inserire il Reichenstein nella grande asta autunnale di fine settembre, dedicata agli artisti contemporanei. I nostri clienti partecipano ormai da anni a questo evento largamente apprezzato. E lei, gentile signora, ne resterà piacevolmente sorpresa». 18
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