Bocchi, N - Giovannino Guareschi

Bocchi, Nino (Nibbio)
OMAGGIO IL GUARESCHI
Ricordiamo il popolare scrittore nel trigesimo della morte
IL NINO DELL’ANTEGUERRA E IL GIOVANNINO DI DOPO
di Nino Bocchi (Nibbio), dalla «Gazzetta di Parma», 22 agosto 1968.
Devo a Ranuccio Farnese e in successione di tempo a monsignor Lalatta e all’amabile duchessa Marta Luigia se nell’ottobre del
1919 ho conosciuto in anteprima Nino Guareschi.
Nell’atrio del collegio filtrato dalle loro premure, assieme a Mazzieri e Pirazzoli, guardavo i grandi quadri della nobiltà italiana
discutendo se il conte Bernieri somigliasse o meno all’omonimo nostro bidello delle scuole tecniche, quando un ragazzino dagli occhi neri a spillo mi indicò il ritratto del conte Pietro Verri dove il patrizio milanese – mignolo all’insù e scavìss cme ’na balarén’na – sembrava anticipare ai posteri «l’indole del piacere»... Con la risata che seguì simpatizzai con il ragazzo dagli alamari
arricciati e nei mesi che seguirono me lo trovai molto volte vicino quando ricoperti dai buffi lòden (gli impermeabili con mantellina dei pizzardoni londinesi) andavano a fare docce e pediluvi all’infermeria Presidiaria di via Saffi.
Nel ritorno caldeggiavamo una riunione del consiglio di amministrazione per l’acquisto di almeno venti capiròn di zinco: era
una dotazione necessaria perché diceva Nino Guareschi:
«As s’vèda che na volta i nobil i ne’s lavävon miga i pè...»
Nel 1923 la nostra magione si trasformò in Convitto nazionale: se ne andò il buon rettore Rusca e arrivo il sostituto in un ometto dai grandi baffi bianchi alla Facta e tanta cattiveria in corpo.
Alle prime avvisaglie le compagnie degli adulti si misero in agitazione per arrivare più tardi alla... contestazione globale.
Tutti gli scherzi più feroci furono attuati e solo la distanza impedì il trasporto di un coccodrillo, male imbalsamato e puzzolente.
dal solaio alle sale del rettorato.
Alla fine del ’24 molti erano gli espulsi, a mia volta me ne andai inseguito dal rettore fino in borgo Regale, e Nino Guareschi,
più giovane di tre anni, resistette ancora qualche tempo, soffrendo come San Sebastiano. Il gruppo ricostituito nel nostro mondo
Piccolo-borghese aveva le sue affinità e tante linee parallele di marcia: nel 1928, grazie ai miei protettori di nome Peppino Dovara, amministratore delegato del «Corriere Emiliano» e dott. Bassi capochimico dello stabilimento Eridania Nino Guareschi entra nel quotidiano e nella portineria dello Zuccherificio.
Nella sede del giornale in Pilotta era impossibile lavorare: in piccionaia c’era Cosentino lo stenografo che urlava come un martire. Il direttore Passerini e il capo-redattore Pellegrini dividevano un piccolo ufficio nel sottoscala. Bassanini e Silvani erano
sempre in movimento come due anime in pena, nella sala cronaca i due tavoli servivano da sgabello a fattorini. tipografi e corrispondenti: ben arrivato perciò anche Nino Guareschi con martello, temperini, scalpello e vecchi rasoi a incidere sul linoleum i
suoi ometti dai baffi a raggiera.
Ma le famose «linee parallele» avevano un limite di durata: io fui licenziato nel ’30 per uno scherzo da prete giocato al direttore:
Nino Guareschi, passato da correttore di bozze a redattore, venne mandato a spasso quattro anni più tardi.
La vita disordinata degli anni trenta, i pranzi e le feste che noi chiamavamo baràchi, decantavano i caratteri e quello di Guareschi si rivelò allegro e tumultuoso, originale e violento.
Provvidenziale per l’amico, la venuta a Parma di Stanis Ruinas l’affettuosa copertura di Minardi: quando gli arrivò il licenziamento, la «Gazzetta di Parma» – che nel frattempo con la vecchia testata si era presa una grossa rivincita morale annullando
quella dell’«Emiliano» – aveva pubblicato in prima pagina moltissime caricature di Guareschi nella «Vignetta del giorno».
Gli ometti con i baffi sul muso di topo erano piaciuti al direttore di un importante quotidiano di Torino e a un editore milanese
che stava per lanciare un settimanale umoristico.
Il fiuto della buona razza contadina aiuta Nino Guareschi a scegliere, e come Bertoldo porta al giornale milanese la fresca vena
umoristica e l’arguzia che tanta presa avranno sull’animo popolare.
Inverno del ’41! Una tradotta militare partita da Bologna corre verso il Sud. Nel vagone ufficiali una piccola lampada dipinta
in blu vorrebbe rischiarare il corridoio. Un sottotenente d’artiglieria in transito accompagnando gli scossoni della vettura sale e
scende dalle scarpe dei colleghi e raccoglie proteste in tutti i dialetti.
Quando prende posizione stabile sui miei stivaloni lo guardo severo, ma gli occhi a spillo si fanno ridenti:
«Veh! chi s’vèda: an do vät?»
«Mi in Africa e ti?»
«Mah! Ades a vagh al regimént...»
Quella fu l’ultima volta che vidi Nino Guareschi!
Il Guareschi che ritrovai nei primi anni del 1946 era un altro uomo: era scomparsa la timidezza che noi conoscevamo e che sapeva coprire con un’attività disordinata e violenta.
Magro, con il viso dipinto dalla patina grigio-giallastra della prigionia, portava sotto il lungo naso un paio di baffoni che non
sapevamo se erano un... omaggio al capo dell’armata che l’aveva liberato o il voto per un sogno di tagliatelle in brodo da bévr
in ven! Vestiva l’abito degli aiuti internazionali dalla trama e colore uguale per tutti.
Intellettualmente sembrava svuotato, incapace di riprendere qualsiasi lavoro, ma la valutazione di tanti si rivelò presto errata.
Giovannino – è questo il nome che nel dopoguerra adopera per firmare disegni e scritti – ha una forza nuova, interiore, che lo
spinge a lavorare, a organizzare, a scrivere. Rifiuta la grossa offerta di un importante giornale di sinistra e torna ai vecchi amori milanesi.
Guareschi ha in tasca un libro di grande successo, Diario Clandestino, e lo lancia assieme al settimanale «Candido».
Il nuovo giornale, che esce con la brillante regia tipografica di Alessandro Minardi, spara bordate in tutte le direzioni: sul fronte
popolare, sui comunisti, sui qualunquisti, sui liberali, sul partito e gli uomini di governo.
Le esperienze esaltanti ed amare di questo periodo sono troppo note per ripeterle, ma compensate da un successo che ha l’eco di
una deflagrazione.
Da una rubrica di «Candido» una serie di raccontini sulla lotta politica prima e la coesistenza poi fra il parroco e il sindaco di
un qualsiasi paese della Bassa emiliana, danno vita ed ali ad un libro – il Don Camillo – che per vendite su scala mondiale,
porrà Giovannino Guareschi sulla linea degli Hemingway Cronin, Caldwell, Axel Munthe...
È il trionfo, la popolarità: in ogni città italiana ed estera dove capita, la gente circonda Giovannino e richiede il famoso autografo dalla «G» con baffi ed occhio a spillo! Seguono film ed escono altri libri, ma la seconda prigionia ha lasciato maggiori segni della prima. Guareschi è stanco, desidererebbe tornarsene tranquillo alla Bassa nella sua azienda agricola modello, ma ha
un pubblico ormai tutto suo che lo vorrebbe in continuazione sulla scena...
Le «linee parallele» della nostra amicizia si sono allentate come un elastico teso per troppo tempo a tutte le in temperie: Giovannino è diventato troppo importante e indaffarato e ci limitiamo ai saluti periodici e agli incontri casuali.
Proprio dopo averlo trovato nel giorno del ’64, a naso all’aria a contemplare le finestre della sua vecchia camera ammobiliata di
borgo del Gesso, tratteggio in «Aria di Parma» il profilo della sua personalità. Il giorno dopo – un record per chi lo conosce –
Giovannino scrive:
«Caro Nibbio,
il tuo articolo sulla «Gazzetta» mi ha fatto immensamente piacere. Hai dimenticato però una cosa importante che
io non ho dimenticato. Il primo a farmi lavorare sei stato tu e conservo ancora quel «numero unico». Le porte del
giornalismo me le hai aperte tu: è una grave responsabilità che tu non puoi toglierti dalle spalle.
Il secondo lavoro me lo ha fatto fare (istigato da Minardi) Virpol e si trattava di un cartellone più un megafono di
latta da verniciare “metà giallo e metà blu". Dov’è, adesso, Polètt?
Fra qualche giorno torno alle Roncole perché mio figlio si sposa e rimarrò là una decina di giorni. Ti riscriverò
perché esigo che tu venga a collaudare la cucina del mio piccolo ristorante. (Mio per modo di dire perché appartiene ai miei figli).
Ti ringrazio commosso del tuo articolo che, a differenza di tutti gli altri scritti su di me, è onesto, pulito e affettuoso.
Molti cari saluti dal tuo
Giovannino Guareschi
Per favore, ringrazia Molossi che è sempre molto cortese e amico con me».
Nel 1966, di ritorno dalla pesca a Polesine, mi fermai con gli amici a Roncole:
«Va a ciamär Guarèsch!...»
Per tutto l’oro del mondo non sarei andato a rompere le scatole in casa d’altri, ma il caso volle che tenendo le canne a guisa di
lancia per poco non andassi ad infilarle negli occhi di un uomo che, fasciato da una grossa sciarpa, procedeva nella nebbia,
compatta come una parete.
Gli occhi li riconobbi subito: erano quelli della tradotta e dell’atrio del vecchio collegio, finimmo tutti sul vagone del bar di Albertino dove accanto al fuoco, whisky e cognac fecero rapidamente girare la pellicola della nostra vita a ritroso. Si parlava dei
comuni amici, dei gemelli Dall’Aglio che camminavano sempre l’uno dietro l’altro come camion e rimorc, del trainer del Rosgalus oggi venerato come Lumumba, di Tonino Volpi che convalescente in una fattoria di Collecchio usava i pulcini al posto
della carta igienica, della serratura moderna messa nel portone da Mario Ravasini e usata ogni notte come vespasianoraccoglitore, da parte di ignoti.
Le risate si sentivano in istrada e Guareschi ricordava anche il sarto comune –Bruno Maestri – che mirava i vestiti in prova da
posizione genuflessa.
Una volte gli aveva detto:
«Parchè än t’ fät miga fär na buza da sugeritór?
Nel wagon i bicchieri si vuotavano e si riempivano con una frequenza impressionante: chiesi all’amico:
«A sät cät bév bombén?»
Guareschi rispose che dieci anni prima ere stato colpito da un infarto e che i medici gli avevano imposto di non mangiare. non
bere altrimenti cuore e fegato sarebbero finiti con le frattaglie di scarto.
Gli erano rimasti solo occhi, naso e baffi, maschere che Della Giacoma metteva in vetrina a Carnevale...
«Adesso mangio di tutto, bevo solo whisky, fa bene, allarga le coronarie e ho delle belle vene grosse cme i condott dla fognadüra!
S’era fatto tardi, ci salutammo e quando tornammo a correre nella nebbia della Bassa. non sapevo che quella sarebbe stata
l’ultima volta che avrei visto Giovannino Guareschi.
Nino Bocchi
Bibliografia essenziale di Giovannino Guareschi - Archivio Guareschi - «Club dei Ventitré»
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