Traduzione dall’inglese di Roberta Maresca Titolo originale: Nijinsky Pubblicato per la prima volta in Gran Bretagna nel 2013 da Profile Books Ltd © 2013 Lucy Moore © 2014 per l’edizione italiana EDT srl 17 via Pianezza, 10149 Torino [email protected] www.edt.it ISBN 978-88-5920-431-2 Le persone che affollavano il Théâtre des Champs-Elysées in quella sera stranamente calda del 29 maggio 1913 (l’anniversario della prima del Faune) erano una mescolanza di generi: per dirla con Cocteau «le mille varietà dello snobismo, del super-snobismo e dell’anti-snobismo». Alcune erano dame ingioiellate che appartenevano ai ranghi più alti della società, accompagnate da uomini con il cravattino bianco, i grandi amanti della musica che per primi avevano sovvenzionato Djagilev a Parigi. Altri erano intellettuali più giovani e ribelli, che si rifiutavano di indossare colletti rigidi e frac (che comunque non potevano permettersi) in segno di rifiuto di tutto ciò che era tradizionale o antiquato. Anche se i biglietti erano stati venduti tutti, e al doppio del prezzo normale, Djagilev, in cerca di sostenitori per il suo radicale programma, aveva dato a questi artisti, critici e 3 poeti dei lasciapassare gratuiti per assistere allo spettacolo in piedi, così all’interno del teatro sostavano sotto i palchi occupati dal “gratin”, l’alta aristocrazia mondana. Stravinsky aveva rilasciato un’intervista (in seguito smentita) che fu pubblicata quella mattina, in cui spiegava quali erano state le fonti di ispirazione per il Sacre e cosa speravano di realizzare lui, Nijinsky e Roerich. Concludeva dicendo: «Sono lieto di aver trovato in Monsieur Nijinsky il collaboratore ideale e in Monsieur Roerich il creatore dell’ambientazione scenica perfetta per questa opera di fede». Quel pubblico sfoggio di sicurezza non combacia con le descrizioni delle ultime prove dell’orchestra (durante le quali Nijinsky per poco non lanciò una sedia addosso a un operaio che li aveva interrotti) e della prova generale del giorno precedente, che la Rambert definì un pandemonio e in cui i ballerini sentirono per la prima volta l’orchestra suonare la partitura. «Qualunque cosa accada» disse Djagilev a Pierre Monteux e ai ballerini «il balletto deve essere eseguito fino alla fine». Per calmare i nervi a tutti, mise in programma come primo brano Les Sylphides: elegante, armonioso e 4 magnifico. Quindi, dopo un intervallo, Monteux fece segno all’orchestra di cominciare a suonare Le Sacre du printemps. Stravinsky in seguito disse che il direttore era stato «imperturbabile e freddo come un coccodrillo», ma Monteux ricordò di aver tenuto gli occhi incollati allo spartito che aveva davanti, perché non osava nemmeno guardare il palcoscenico. «Ti sembrerà strano, cherie» disse alla moglie «ma non ho mai visto il balletto». Come Monteux, anche i ballerini che aspettavano sul palco erano nervosi, sudavano copiosamente sotto i pesanti costumi. Questa è la descrizione del costume di una delle Fanciulle fatta da Sotheby’s in occasione di un’asta del 1968: «Tunica con maniche insolitamente lunghe [di flanella color crema] stampinata con disegni primitivi in bordeaux, rosso scarlatto, giallo limone, turchese, blu pavone, ocra e verde bottiglia, con un predominante effetto tanè; e soprabito vermiglio abbinato, stampinato con righe bordeaux e bianche e pennellate bianche e gialle». I colori sgargianti, scintillanti, usati da Roerich richiamavano le icone russe tradizionali. Sia gli uomini sia le donne indossavano larghe calzamaglie bianche su cui intrecciavano i 5 nastri delle morbide scarpe. Gli uomini avevano barbe finte e strani cappelli, appuntiti e bordati di pelliccia, le donne delle fasce sulla testa e lunghe trecce finte. Il fondale dietro di loro riproduceva un rigoglioso paesaggio verde punteggiato di simboli mistici o «segni della memoria» molto importanti per Roerich: teschi di animali, fiumi sacri, colline e alberi, pietre magiche e sinistri cumuli di nubi grigie. Le prime note del Sacre, un assolo di fagotto in un registro insolitamente alto, molto impegnativo dal punto di vista tecnico, sono spettrali e delicate, ma il corpo della partitura è selvaggio, violento, potente e provocatorio: innumerevoli sovrapposizioni di ritmi complessi si accaniscono in una smania inesorabile e dissonante di primitivo abbandono. Per un pubblico del 1913, persino per un pubblico sofisticato come quello, udire quei suoni per la prima volta fu una cosa del tutto sconcertante, «irritante per il sistema nervoso quanto il martellio costante del tamburo di un selvaggio» disse uno dei primi spettatori. Nel teatro ci fu un’esplosione di sibili, fischi, “buu” e risate incredule: era forse uno scherzo? Il compositore Camille Saint-Saëns balzò in piedi per andarsene, sussurrando al suo vicino: «Se 6 questo è un fagotto, io sono un babbuino!». Debussy, che aveva tanto desiderato sentire il Sacre suonato da un’orchestra, era seduto nel palco di Misia Sert. Dopo qualche istante si voltò verso di lei «con una faccia triste e allarmata» e mormorò: «È terribile... non capisco». Sul palco, mentre la reazione del pubblico diventava sempre più incontrollabile, i ballerini impauriti facevano fatica a sentire la musica sopra il chiasso della folla, ma si sforzavano di continuare. Grondante di sudore sotto le luci di scena, il volto cereo, Nijinsky, che tremava di rabbia, si mise in piedi su una sedia dietro le quinte e prese a contare il tempo gridando come un pazzo. Accanto a lui c’era Stravinsky, che si era precipitato dietro le quinte quando era cominciato lo scompiglio. Astruc si sporse dal suo palco e gridò con il pugno chiuso: «Prima ascoltate! Poi fischiate!». Djagilev accese e spense le luci del teatro per cercare disperatamente di ristabilire la calma. La decisione di Nijinsky di «escludere il pubblico», in parte negandogli la leggerezza e la sensualità a cui i Ballets Russes lo avevano abituato, in parte facendo apparentemente concentrare i ballerini più sul rituale della loro danza che sullo spettacolo, scatenò un 7 putiferio. Quando le Fanciulle si premevano le mani sulle guance con aria sofferente, i disturbatori gridavano: «Un docteur! Un dentiste!». Una contessa pensò che le loro guance così rosse volessero essere una stoccata al suo modo eccessivo di truccarsi e si alzò, con il volto in fiamme e la tiara storta, gridando: «Ho sessant’anni, ma questa è la prima volta che qualcuno osa prendersi gioco di me!». I difensori del brano usarono altrettanta veemenza, convinti come Harry Kessler di avere di fronte «un’idea completamente nuova, una cosa mai vista prima... arte e anti-arte nello stesso tempo». Si resero conto che quello che stavano vedendo e sentendo era rivoluzionario proprio come gli scritti di Nietzsche, Proust e Freud, come le scoperte scientifiche di Einstein o l’arte di Cézanne, Picasso e Brancusi. Tra le due fazioni scoppiò una rissa: un uomo ne colpì un altro sulla testa con il bastone da passeggio; Monteux vide un tizio tirare giù il cappello sul viso di un altro. Alcuni videro arrivare i gendarmes a soffocare la protesta. Il critico musicale Florent Schmitt gridò: «Metteteli con le prostitute del seizième!». Ritrovatasi nel bel mezzo della baruffa, Eleonora, la madre di Nijinsky, svenne. 8 A volte, leggendo le descrizioni della folla turbolenta e molesta è difficile non pensare che quelle persone fossero andate lì perché morivano dalla voglia di azzuffarsi. Il succès de scandale era una parte consolidata della vita culturale, soprattutto a Parigi agli inizi del XX secolo: i primi impressionisti approfittarono di essere stati esclusi dalle mostre ufficiali per esporre i propri dipinti nei Salons des refusés, mentre sia Salomé di Oscar Wilde del 1894 sia l’opera di Richard Strauss del 1906 tratta dallo stesso dramma spinsero il pubblico piacevolmente inorridito a tornare e ritornare a teatro. Le prime dei brani di Wagner e Schönberg avevano provocato dei tumulti. Lo stesso Djagilev non era totalmente estraneo alla pratica di corteggiare il successo commerciale portando il pubblico al limite di quello che considerava accettabile. Pare che gli spettatori del Théâtre des Champs-Elysées fossero irrequieti fin dall’inizio, che bisbigliassero e ridacchiassero ancora prima che iniziasse il Sacre. Quella sera i veri selvaggi non erano i ballerini che portavano in scena «il raffinato primitivismo dei nostri antenati, per i quali il ritmo, il simbolo sacro e la finezza del movimento erano concetti 9 grandi e sacri» affermò in seguito Roerich, ma la massa di attaccabrighe che erano andati a vederli. La Rambert sentì Nijinsky borbottare: «Che pubblico idiota. Dura publika, dura publika». Il teatro non si acquietò finché Maria Piltz affrontò con calma il pubblico che fischiava e schiamazzava per eseguire il suo assolo. «Sembrava che sognasse, con le ginocchia ruotate verso l’interno e i talloni all’infuori... inerte. All’improvviso uno spasmo attraversò il suo corpo riscuotendolo da quella rigidità mortale. Spinta da un ritmo selvaggio cominciò ad agitarsi con movimenti estatici e convulsi». Alla fine l’Eletta si accasciava, dopo aver danzato fino alla morte, e sei uomini sollevavano il suo corpo floscio al cielo, prima di portarlo via «senza alcuna catartica espressione di disperazione, tristezza o rabbia, ma solo con fredda rassegnazione». La spietatezza del Sacre, l’impossibilità di una catarsi, fu forse la ragione principale per cui nessuno dei presenti quella sera seppe dare una ragione dell’opera. Come disse il principe Volkonskij, amico di Djagilev e suo ex collega nei Teatri Imperiali: «Non si poteva scegliere termine meno appropriato di 10 “balletto”, con tutte le associazioni che esso comporta, per preparare il pubblico a uno spettacolo del genere». Non solo mancava di grazia, virtuosismo o erotismo comprovabili, non c’era neanche un intreccio, né alcuno degli espedienti che di solito davano al pubblico un senso di unità e completezza. «Questa non è la solita primavera cantata dai poeti, con le brezze, gli uccellini che cinguettano, i cieli limpidi e il suo verde delicato. Qui c’è solo la dura lotta della vegetazione, il terrore della linfa che sale, il timoroso raggrupparsi delle cellule» scrisse Jacques Rivière, proclamando il Sacre un capolavoro. «La primavera vista dall’interno, con la sua violenza, i suoi spasmi e le sue scissioni. Sembra di vedere un dramma attraverso un microscopio». La musica e la coreografia insieme creavano qualcosa di prodigiosamente nuovo. Se Le Sacre du printemps per Roerich era un tentativo di ricostruire un antico rito cerimoniale, per Stravinsky e Nijinsky il passato lontano era una metafora della tragedia dell’esistenza moderna. Il loro Sacre – la musica e il movimento – era «una cupa e intensa celebrazione della volontà collettiva» e del suo trionfo sull’individuo. Se gli spettatori lo avevano 11 trovato agghiacciante, spietato, disumano, a tratti assurdo... beh, allora gli autori erano riusciti nel loro intento. Grigor’ev tenne il sipario abbassato più del solito prima del brano successivo, Le Spectre de la Rose, nel tentativo di ristabilire l’ordine. Provate a immaginare Vaslav che dopo quel tumulto, nel camerino affollato, con la costumista intenta a cucirgli addosso il body rosa, si preparava a ballare un ruolo che a dir poco lo irritava, un ruolo che considerava stucchevole, sentimentale e antiquato e con cui detestava essere identificato. Quando il sipario calò definitivamente, disse Stravinsky, erano tutti «eccitati, arrabbiati, disgustati e... felici». Lui, Djagilev, Nijinsky, Bakst, Cocteau e Kessler andarono insieme a cena. L’unico commento di Djagilev quella sera fu: «Proprio quello che volevo». Dopo la cena, durante la quale tutti si erano mostrati d’accordo sul fatto che ci sarebbero voluti anni prima che la gente capisse quello che le avevano appena mostrato, attraversarono la città buia e deserta in carrozza, con Cocteau e Kessler aggrappati al tettuccio e Bakst che sventolava un fazzoletto legato al suo bastone da passeggio come una bandiera. Djagilev si 12 riparava dall’aria della sera con la pelliccia di opossum; Vaslav, seduto in silenzio con «il soprabito e il cilindro, sorrideva fra sé soddisfatto». Cocteau ricordò che quella passeggiata di mezzanotte li aveva portati fino al Bois de Boulogne, dove per coincidenza la Rambert e il resto della compagnia stavano cenando a tarda ora, troppo emozionati per pensare di andare a letto. Il profumo dei fiori di acacia aleggiava nell’aria. Quando il cocchiere accese la lanterna, Cocteau vide le lacrime brillare sul volto di Djagilev. Recitava Puškin a fior di labbra, mentre Stravinsky e Nijinsky lo ascoltavano attenti. A prescindere da quello che accadde dopo, scrisse Cocteau, «non potete immaginare la dolcezza e la nostalgia di quegli uomini». A giugno Nijinsky tornò a Londra con Djagilev e Walter Nouvel, i suoi soliti compagni di viaggio. Sul loro treno c’era anche Romola de Pulszky, che alcuni mesi prima a Vienna era riuscita a strappare a Djagilev il permesso di seguire i Ballets Russes e di ballare con loro, un giorno, se avesse continuato i suoi studi con Cecchetti. Nijinsky era contrario – cos’al13 tro poteva essere se non una dilettante? – ma Djagilev, che conosceva bene le persone, fu lieto di compiacere la madre di Romola, la grande Emilia Márkus. Romola aveva fatto credere a Djagilev che fosse Bolm, e non Nijinsky, il ballerino di cui era innamorata; per questo era stata accontentata. Da allora Romola aveva cominciato a pedinare le petit (il nome in codice che lei e la sua cameriera usavano per parlare di Vaslav) con la determinazione e l’astuzia di una spia internazionale. Il camerinista del Teatro dell’Opera di Vienna, il signor Schweiner, le aveva dato qualche notizia piccante; una volta una ragazza era entrata nella camera di Nijinsky all’Hotel Bristol mentre lui si vestiva «fingendo di essersi sbagliata»; a Monaco Romola si sdraiava su una panchina sotto una magnolia in fiore, mentre Nijinsky, Djagilev e i loro amici cenavano sulla terrazza dell’Hotel de Paris, «e li osservava per ore e ore». Dopo aver sfinito Bolm e Cecchetti, era passata al barone de Günzburg, uno dei più importanti finanziatori di Djagilev, grazie al quale aveva ottenuto accesso totale ai Ballets. Era con Günzburg che aveva visto la prima del Sacre, pigiata tra la moltitudine di ballerini e amici 14 che assistevano allo spettacolo dietro le quinte, e aveva cercato il volto pallido e teso di Nijinsky in mezzo alla folla. Era felicissima di trovarsi sullo stesso treno di Vaslav – ordinava sempre alla sua cameriera Anna di scoprire quando lui e Djagilev si sarebbero messi in viaggio, ma quella era la prima volta che Anna riusciva a darle informazioni precise – e gongolò quando lui, vedendola passeggiare per il corridoio fumando (attività piuttosto audace per una donna di quell’epoca, soprattutto se non era sposata) vicino al suo scompartimento, le chiese nel suo francese zoppicante se era emozionata all’idea di andare a Londra. Fu la loro prima conversazione. Durante la traversata verso Dover parlarono ancora e Romola raccontò tutta trionfante ad Anna, la quale non si aspettava niente di buono dalla sua cotta per Nijinsky, che flirtare era un’ottima cura per il mal di mare. A Londra fece il possibile per trovarsi sempre dove si trovavano Nijinsky e Djagilev, assillando i suoi conoscenti inglesi perché la portassero a cena al Savoy, l’albergo in cui loro alloggiavano. Nijinsky, come scrisse Romola, «ormai sembrava quasi dare per scontato che 15 io fossi lì e in qualunque altro luogo pubblico si facesse vedere. Forse si chiedeva come ci riuscissi. Io ero davvero contenta di aver speso tanti soldi in vestiti quando ero a Parigi». «Dato che ero sempre con qualche amico, a Djagilev la mia presenza doveva sembrare normale. Sapeva che f requentavo la stessa élite che frequentava lui». Nijinsky non era turbato da quei pedinamenti; anzi, a volte, quando lui la guardava, Romola intravedeva persino l’ombra di un sorriso sulle sue labbra. (continua in libreria) ria del balletto. Persino nei suoi momenti di massima ribellione, in passato la danza aveva sempre conservato il suo carattere aristocratico: era sempre rimasta fedele a una chiarezza anatomica e a nobili ideali. Le Sacre du printemps no. Nijinsky modernizzò il balletto rendendolo brutto e opaco: «Mi accusano», si vantò, «di un crimine contro la grazia». Stravinsky lo ammirò per questo e scrisse a un amico che la coreografia era come la voleva, anche se aggiunse: «Bisognerà aspettare molto tempo prima che il pubblico si abitui al nostro linguaggio». Era proprio quello il punto: Le Sacre era un balletto sia difficile sia assolutamente nuovo. Nijinsky aveva investito tutto il suo talento per rompere con il passato, e il modo febbrile con cui (come Stravinsky) aveva lavorato rivelava la sua fortissima intenzione di inventare un nuovo linguaggio coreutico. Era questa la sua ambizione, grazie alla quale Le Sacre du printemps divenne il primo balletto davvero moderno. (continua in libreria) 16 della vergine prescelta. Alla fine, quando la giovane crollava a terra priva di vita e sei uomini sollevavano il suo corpo floscio, non c’era alcuno sfogo catartico di disperazione, tristezza o rabbia, bensì solo un’agghiacciante rassegnazione. Oggi è difficile trasmettere quanto Le Sacre fosse radicale per l’epoca. La distanza che separava Nijinsky da Petipa e Fokin era immensa; persino L’Après-midi d’un faune era blando al confronto. Perché se il Faune rappresentava un deliberato ripiegamento nel narcisismo, il Sacre segnalava la morte dell’individuo. Era una celebrazione deprimente e intensa della volontà collettiva. Tutto era messo a nudo: la bellezza e la tecnica erano scomparse e la coreografia di Nijinsky costringeva i danzatori a fermarsi a metà movimento, a tornare indietro sui loro passi, a cambiare percorso, rompendo il movimento e lo slancio come a voler rilasciare energie represse. Controllo, abilità, ordine, ragione e cerimonia, tuttavia, sono elementi che non furono accantonati. Il balletto non era mai selvaggio o digressivo: era una rappresentazione fredda e razionale di un mondo primitivo e irrazionale. Fu anche un passaggio cruciale nella sto15 ze, per assistere Nijinsky e i suoi ballerini. La Rambert e Nijinsky parlavano polacco fra di loro e lei ammirava il suo approccio radicale al movimento. Ma nulla pareva funzionare: i ballerini trovavano la partitura sconcertante, opaca e quasi impossibile da contare, e odiavano i passi intricati e i movimenti stilizzati di Nijinsky. Alla fine, però, è probabile che la loro resistenza sia stata un vantaggio: la sottomissione forzata alla logica della musica e del movimento era esattamente il punto di quel balletto. Le Sacre du printemps non era un balletto nel senso tradizionale del termine. Non c’era uno sviluppo narrativo chiaro, né spazio per l’espressione individuale, e nessun punto di riferimento convenzionale con cui misurare l’azione. Funzionava invece tramite la ripetizione, l’accumulazione e un montaggio quasi cinematografico: scene statiche e immagini giustapposte e sospinte da una logica rituale e musicale, piuttosto che strettamente narrativa. C’erano danze tribali con passi pestati, una violenza carnale stilizzata, un rapimento cerimoniale e una solenne cerimonia guidata da un sacerdote con la barba bianca, che culminava con l’angosciosa danza della morte 14 spigolosi, in cui le braccia seguivano un ritmo e le gambe un altro, e una ballerina avrebbe ricordato i salti che terminavano di piatto sui piedi, scuotendo «ogni singolo organo» nel loro corpo. La partitura di Stravinsky era altrettanto difficile e scoraggiante. Gli unici altri balletti di Nijinsky, il Faune e il meno fortunato Jeux (sugli sport e il tempo libero, che debuttò a Parigi appena due settimane prima del Sacre), erano stati entrambi creati su musiche di Debussy. Ma il Sacre non aveva la calma oceanica o l’espansività del Faune e Nijinsky faticò per dare un senso agli strani suoni di Stravinsky e alla sua complicata struttura ritmica e tonale. Persino il pianista delle prove non riuscì a suonarla correttamente e una volta Stravinsky, spazientito, lo spinse da parte e la suonò lui stesso, al doppio della velocità, urlando, cantando, pestando i piedi e segnando il ritmo battendo i pugni, per trasmettere l’energia percussiva e l’intensità della sua musica (i ballerini avrebbero udito la versione orchestrata solo durante le prove generali). Per aiutare la produzione, Djagilev ingaggiò una giovane ballerina polacca, Marie Rambert (nata Cyvia Rambam), specializzata nel metodo Dalcro13 del vasto paesaggio spoglio, nella penombra che precede l’alba, mentre un raggio di sole illumina un gruppetto solitario raccolto in cima a un colle per salutare l’arrivo della primavera. Roerich mi ha parlato molto dei suoi dipinti di questa serie, che lui descrive come il risveglio dello spirito nell’uomo primordiale. Nel Sacre voglio emulare questo spirito degli slavi preistorici». E a Stravinsky, con il quale aveva discusso a lungo della musica per il balletto, scrisse che nelle sue speranze Le Sacre avrebbe «aperto nuovi orizzonti» e sarebbe stato un balletto «diverso, inatteso e bellissimo». Lo fu davvero. Le Sacre andò in scena solo otto volte – in tutto – dopodiché fu dimenticato, ma le foto e gli appunti sopravvissuti ci mostrano quanto si distaccasse dai canoni del balletto: figure ingobbite che strascicavano i piedi, li percuotevano sul palco e li tenevano voltati sgraziatamente verso l’interno, con le braccia chiuse e la testa di traverso. I ballerini si riunivano in gruppi, accucciati, raggomitolati e tremanti, oppure giravano furiosamente per il palco interpretando tradizionali balli in cerchio, finché non venivano scaraventati fuori o lanciati in un selvaggio saltellio. Nijinsky ideò movimenti scomodi, scoordinati e 12 ginario sacrificio pagano in cui una giovane viene immolata al dio della fertilità e del sole: un rito di primavera. Roerich modellò scene e costumi sull’abbigliamento e sull’artigianato di tradizione russa, e Stravinsky studiò canti e melodie popolari («L’immagine della vecchia con la pelliccia di scoiattolo non mi va via dalla mente. Ce l’ho costantemente davanti agli occhi mentre compongo», scrisse). Ma questa volta non si trattava più di un lussureggiante orientalismo come per L’Oiseau de feu (L’uccello di fuoco): le scenografie di Roerich rappresentavano un paesaggio roccioso, arido e inquietante, a tratti cosparso di corna di animali. La musica di Stravinsky, con i suoi accordi rumorosi, granitici e dissonanti, le sue sincopi trascinanti (la partitura richiedeva un’orchestra allargata e una grande sezione di percussioni) e le sue melodie penetranti, che salivano fino ai registri più alti, era altrettanto brutale e disorientante. Nijinsky, che ammirava moltissimo Stravinsky e Roerich, scrisse alla sorella, la quale in principio aveva provato il balletto con lui nel ruolo della vittima sacrificale, parlandole di un dipinto di Roerich intitolato L’invocazione del sole: «Ti ricordi Bronia? […] il viola e il violetto 11 sull’introversione, sulla concentrazione e sull’istinto fisico. Non era sexy ma sessuale: una rappresentazione fredda e distaccata del desiderio. Era anche una palese sconfessione della sensualità e dell’esoticità che avevano contribuito a creare la reputazione di Nijinsky come ballerino, una rivolta contro i balletti lussuriosi come Shéhérazade e quelli sensuali come Le Spectre de la Rose. Lasciandosi tutto questo alle spalle, Nijinsky creò un antiballetto ridotto: rigoroso e impegnativo, ma spogliato «dell’eccessiva dolcezza» (Nijinskaja) che oramai destava. Poi venne Le Sacre du printemps (La sagra della primavera, 1913). Il balletto era stato concepito da Djagilev, da Stravinsky e dall’artista russo Nikolaj Roerich. Roerich era un pittore e archeologo da sempre interessato alla spiritualità pagana e contadina, e alle radici scite (barbare, ribelli, asiatiche) della cultura russa. Era molto coinvolto nelle attività di Talaškino, e infatti lui e Stravinsky crearono il libretto del balletto proprio lì, fra l’enorme collezione di arte e artigianato popolare della principessa Teniševa. Basandosi sul lavoro di folcloristi e musicologi, concepirono l’opera come una ricostruzione rituale di un imma10 ordinata dell’Atene di Pericle, ma dai modelli primitivi e disadorni del precedente periodo arcaico. Era anche attratto dai dipinti piatti e primitivisti di Gauguin: «Guarda che forza», affermò pieno di meraviglia. Le prove furono segnate da numerose difficoltà: le ballerine odiavano i movimenti, che erano spigolosi, bidimensionali e congelati, con passaggi bruschi e concisi che richiedevano una grande disciplina muscolare. Erano risentite per lo stile rigorosamente antivirtuosistico di Nijinsky, che le costringeva ad accantonare i loro numeri più attraenti a favore di quelli che il coreografo stesso definì balzi “caprini”, brevi passi interrotti e pivot. A peggiorar le cose, per enfatizzare la tersa rigidità dei passi le ballerine dovevano indossare sandali anziché scarpette da ballo. Trovarono offensivo, inoltre, il divieto di adottare qualsiasi espressione facciale. «È tutto nella coreografia», rimproverò Nijinsky ad una che tentò di drammatizzare il proprio ruolo. Persino Djagilev era dubbioso e nervoso, e temeva che quella danza ascetica avrebbe alienato il pubblico parigino, abituato ai suoi spettacoli russi più sfarzosi e coloriti. L’Après-midi d’un faune era una danza 9 desse. Altre fotografie lo mostrano accennare una posizione classica senza mai entrarvi del tutto. Ma se il suo stile aveva un carattere di indeterminazione e instabilità, esso non era mai istintivo o inconsapevole. Persino i suoi movimenti più animaleschi e primitivi erano il prodotto di un ripensamento analitico e fisico dei principi del balletto. Nel 1912 Nijinsky curò la coreografia del balletto L’Après-midi d’un faune, su musiche di Debussy e basato su un poemetto di Mallarmé. Il poema era del 1865 e la musica del 1894: entrambe le opere erano riflessioni impressionistiche e oniriche. Il balletto narra di un fauno che vede una ninfa spogliarsi presso un ruscello e si eccita; la ninfa fugge ma perde lo scialle. Il fauno lo raccoglie, lo stende su una roccia, ci si butta sopra e mima un orgasmo. Era un balletto breve: circa undici minuti. Sebbene sia di solito ricordato per la masturbazione del grande Nijinsky sul palco, era anche un tentativo serio di inventare un nuovo linguaggio del movimento. Nijinsky cominciò a elaborare il balletto con la sorella nel 1910, provando e sperimentando i passi per ore. All’epoca era ossessionato dall’arte dell’antica Grecia, non dalla perfezione armoniosa e 8 re una leggerezza romantica ma enfatizzare il proprio peso e la propria solidità. Ricercava compressione e intensità, movimenti che fossero al contempo condensati e costretti, ma che potessero anche esplodere all’improvviso. Nascondeva la sua forza in un tempismo perfetto: per quanto fosse attenta (e di certo era abituata), Bronislava non coglieva mai quando il fratello si stava preparando per una pirouette, persino quando stava raccogliendo le forze necessarie per scatenare una decina di giri alla volta. Tutto ciò conferiva allo stile di Nijinsky una forza e una grazia imprevedibili. Il mistero era racchiuso nella rielaborazione della tecnica classica per spostare l’enfasi dalle immagini statiche (le pose aggraziate del passato) al movimento stesso. Non era un dispiegarsi di arti alla Fokin, ma una serie di vulcaniche e imprevedibili implosioni, energia pura appositamente repressa e poi scatenata in una reazione a catena di movimento. Persino le istantanee di rado lo ritraggono fermo e lo vediamo in costante tensione, anticipazione, mentre esce da una posa ed entra nella successiva: pare quasi di cogliere la scia del movimento prima che l’otturatore si chiu7 Le gambe erano corte e massicce, con due cosce enormi, da cavalletta: i sarti dovevano aggiustare i completi per accomodare le sue strane proporzioni. Lavorava moltissimo per migliorare la sua tecnica: dopo gli spettacoli, quando gli altri tornavano a casa esausti, lui spesso rientrava in studio per praticare da solo, ripetendo e studiando attentamente passi e movimenti. Preferiva praticare da solo e nel tempo sviluppò un approccio personale alla danza, estremo e iconoclastico. Secondo Bronislava, in quegli studi solitari, Nijinsky praticava le sequenze di una normale lezione di danza, ma a ritmo accelerato e con maggiore vigore, con quello che lei definì «impeto muscolare». A Nijinsky non interessavano molto le posizioni statiche ed eleganti, ma la velocità e l’elasticità, la tensione e la forza. Quando Bronislava studiava con lui, come spesso accadeva, lui la costringeva a sciogliere la colla delle scarpe da punta con l’acqua calda, in modo da sviluppare la forza necessaria per reggere il proprio peso sulle punte, e di conseguenza rendere il movimento meno scomposto e più languido e flessibile. Egli stesso danzava sulle mezze punte, spesso quasi sulle punte, sebbene non volesse ottene6 omosessuale, amò e promosse molti dei suoi ballerini migliori, da Nijinsky a Léonide Massine e Serge Lifar. All’epoca, l’omosessualità non era solo una questione di preferenze sessuali, ma anche una posizione culturale: significava porsi contro la morale borghese, con le sue norme ingessate e limitanti. Era anche un’affermazione di libertà: la libertà di un uomo di apparire effemminato o (nel caso di Nijinsky) androgino, forse, ma soprattutto di sperimentare e seguire il proprio istinto e i propri desideri, piuttosto che adeguarsi alle convenzioni della società. Non è un caso che molti artisti moderni del Novecento, e in particolar modo quelli attivi nel mondo della danza, fossero gay, né che la sessualità fosse una fonte di innovazione artistica. Non esistono filmati delle esibizioni di Nijinsky, ma esaminando fotografie, dipinti, sculture e resoconti scritti, e confrontandoli con le descrizioni fornite dalla sorella riguardo alle sue esercitazioni, è possibile ricostruire qualcosa del suo stile. Nijinsky aveva una corporatura insolita: era basso, appena un metro e sessantadue, aveva il collo spesso e le spalle strette e arcuate, le braccia muscolose (sollevava pesi) e il busto snello e allungato. 5 Quando incontrò Djagilev, divenne il suo amante. La passione dell’impresario per il balletto era sempre stata segnata da sesso e amori e, seguendo un’abitudine che avrebbe esteso a tutti i suoi preferiti, ma che lo legò in particolar modo a Nijinsky, l’impresario seguì di persona la formazione del giovane, facendogli visitare musei, chiese e altri edifici storici e presentandolo a una serie di musicisti, pittori e scrittori, in Russia e in Europa. Sotto la tutela del colto mecenate, Nijinsky ampliò tantissimo i suoi orizzonti artistici, ma la sua quasi totale dipendenza dall’impresario, psicologica, sessuale e finanziaria (non percepiva un salario, ma Djagilev saldava i suoi debiti di persona), intensificò il suo senso di isolamento e le sue eccentricità. Non parlava francese o inglese e, già per natura ossessivo e introspettivo, si ritirò sempre più nella sua ricerca artistica. Inoltre scoprì di essere eterosessuale, o almeno bisessuale. Nonostante la sua relazione con Djagilev, provava una forte attrazione, seppur confusa, per le donne. L’omosessualità, però, era un elemento chiave nella formazione del suo stile e di quello dei Ballets Russes. Djagilev, che era apertamente 4 Vaslav Nijinsky era nato a Kiev intorno al 1889. I genitori erano danzatori itineranti di origine polacca (Vaslav debuttò in un circo a sette anni), ma quando il padre abbandonò la famiglia, la madre si stabilì a San Pietroburgo e iscrisse Vaslav e la sorella Bronislava alla Scuola imperiale di ballo. Il talento di Nijinsky fu subito evidente e il giovane divenne rapidamente una celebrità; alla fine degli studi, nel 1907, veniva già scritturato per ruoli principali. Nonostante il successo fulmineo, però, Nijinsky era un ragazzo incerto e irrequieto, e un incorreggibile anticonformista. Isolato per cultura e lingua (in casa parlava polacco), era deriso dai compagni che lo soprannominarono “Giaponček” per i suoi occhi a mandorla. Era ostinato, autonomo e refrattario all’autorità. Si unì alla Pavlova per prendere lezioni private da Cecchetti, vedendosi già come uno dei futuri innovatori della danza. 3 Titolo originale: Apollo’s Angels. A History of Ballet Pubblicato per la prima volta nel 2010 in Gran Bretagna da Granta Books e negli Stati Uniti da Random House © 2010 Jennifer Homans © 2014 per l’edizione italiana EDT srl 17 via Pianezza, 10149 Torino [email protected] www.edt.it ISBN 978-88-6040-911-9 Gli grandi storie angeli Apollo di Stor ia de l bal l e t to Jennifer Homans traduzione dall’inglese di davide fassio
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