Leggi il formato PDF - Ordine degli Avvocati di Lecco

QUADRIMESTRALE EDITO DALL’ORDINE AVVOCATI DI LECCO
Anno XXIV - N.1/2014
La collaborazione con Toga Lecchese
è aperta a tutti gli operatori del diritto
che intendano inviare saggi, interventi,
provvedimenti giudiziari, note a sentenza
e cronache di vita forense.
Gli articoli, le note, le osservazioni –
firmati o siglati – esprimono unicamente
l’opinione del loro autore.
SOMMARIO
Prefazione……………………………………………… pag. 3
Il commiato del Presidente Dott. Renato Bricchetti……… “
4
L’art. 161 c.p.c. e il diritto romano……………………… “
5
Risarcibilità del danno extrapatrimoniale a favore dei nonni “
6
Il futuro dell’avvocato…………………………………… “
7
Una vicenda istruttiva: quello che tutti gli avvocati dovrebbero
sapere
“
8
Giurisprudenza deontologica del C.N.F.…………………… “
10
Decreto Tribunale di Milano in materia di spese straordinarie… “
16
Sanzionato l’avvocato che usa in giudizio contro l’ex cliente
le notizie apprese nella vecchia causa
“
18
Per Voi………………………………………………… “
20
Lettera idealmente indirizzata all’Avv. Andrea Durastante… “
21
Storia di un Re………………………………………… “
21
Recensione…………………………………………… “
25
Cerco/offro…………………………………………… “
25
In giro per mostre……………………………………… “
26
Fondatore e Direttore Responsabile
Renato Cogliati
Stampa:
Maper - Renate (MB)
Autorizzazione n. 2/91 del tribunale di Lecco
2
I tempi sono quelli che sono, per la nostra professione ed in genere per tutti.
Nei momenti di magra è noto che non l’antidoto, ma quantomeno
una buona medicina, è serrare le fila proponendo a sé ed agli altri
ulteriore impegno, andando avanti con più determinazione di prima.
Anche la nostra rivista può essere utile come strumento di confronto, di approfondimenti e di conoscenze.
Abbiamo la fortuna di avere e di avere avuto Consigli dell’Ordine,
a partire da quello presieduto dall’Avv. Gianni Calvetti nel lontano
1991, che credono e hanno creduto nell’importanza della comunicazione.
Abbiamo ed abbiamo avuto a disposizione dei collaboratori (colleghi e non) che a titolo volontaristico, impegnano volta per volta
del tempo per scrivere.
Il nostro Ordine è tra i pochissimi in Italia che pubblicano un periodico.
Dobbiamo essere orgogliosi di ciò.
Dopo ventitre anni (23) di pubblicazione, la rivista deve essere ulteriormente arricchita di contributi, che siano stimolo per ciascuno
a continuare nell’impegno professionale, anche in questi tempi non
facili.
Personalmente prometto ulteriore impegno, confidando che la
schiera dei collaboratori si arricchisca, così come avvenuto in questi anni e l’ Editore non faccia mancare, anche negli anni a venire,
la sua presenza e stimolo.
Renato Cogliati
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Il commiato del Presidente Dott. Renato Bricchetti
D) Lei se ne va, che situazione lascia rispetto a quella che ha trovato al suo arrivo
ad inizi 2010?
Non credo di aver fatto danni. La situazione era già buona.
Comunque vediamo.
Ad esempio, si è creato il processo civile telematico grazie al supporto della
classe forense e delle istituzioni locali, in
particolare della Camera di Commercio.
Ancora: è stata varata l’opera, assolutamente necessaria, di riassetto della gestione delle amministrazioni di sostegno.
Ma non posso qui farle l’elenco.
Pubblichi sulla rivista, quando avrà
spazi, qualche passo del Programma di
gestione 2014, del Documento organizzativo per il triennio 2014 – 2016. Li ho inviati
al consiglio dell’Ordine. Lì c’é tutto. Poi si
ricorderà nel 2012 abbiamo fatto i bilanci
di responsabilità sociale ed economico.
D) Lecco è stato per lei il primo incarico
dirigenziale. Che esperienza ha vissuto?
Sul piano umano una di quelle esperienze di cui si può dire: non me la dimenticherò.
D) Quali difficoltà ha incontrato nell’espletamento del suo incarico?
Sono stato fortunato. Poche. Ma di questo il merito va al personale amministrativo e ai magistrati, alla loro capacità di
aiutarsi e di aiutare me: alle colonne del
Tribunale come i dott. Lombardi, Trovò,
Catalano, Salvatore e Mercaldo; ai giovani, bravissimi, come i dott. Colasanti,
Lamberti, Quartarone, Cucuzza. E non
voglio dimenticare quello che ho sempre
chiamato la Repubblica autonoma del lavoro e della previdenza, il dott. Gatto. E
poi l’ultimo arrivato, il dott. Calabrò, una
ventata di esperienza. Ci sono poi i giudici onorari, appassionati e in continuo
miglioramento.
ma direi di no. La classe forense lecchese ha un rispetto innato delle istituzioni
e una straordinaria voglia di crescere. Il
primo lo si percepisce anche nei giovani;
la seconda anche nei decani del foro. E
questo è, per il mio modo di pensare e vivere, straordinario,
Presidente ora, se mi permette, Le porgo
qualche domanda più personale.
Va bene.
D) La sua vita professionale è stata contraddistinta da un motto?
No motti no. Poi di solito sono in latino
e non mi sembra il caso. Se poi dovessi
avere un motto in latino userei uno di quegli strafalcioni che ho raccolto negli anni
e che lei conosce perché ha avuto modo
di essere presente quando mi è capitato
di parlarne. Servono a stemperare le tensioni.
D) Quale ritiene sia il tratto principale
del suo essere Magistrato?
Non essere ciò che non sopporto negli
altri: arrogante, supponente, maleducato,
scansafatiche, fazioso.
D) Che qualità ritiene imprescindibili in
un Magistrato?
Buon senso, equilibrio, concisione, tolleranza, capacità di ascoltare, riserbo,
passione per il lavoro, dedizione senza
se né ma, indipendenza senza isolamento
dalla realtà.
Non me ne vengono in mente altre ma
ci sono.
D) E in un Avvocato?
D) Ha avvertito anche aspetti negativi
nel rapporto tra la classe forense e la magistratura?
Più o meno le stesse. Poi gli avvocati
hanno una qualità genetica importante
che definirei cultura della sopportazione.
Che comprende la capacità di sopportare
l’idea di poter avere una decisione contraria, ritenuta ingiusta, senza farne un
dramma.
Non vorrei sembrare accondiscendente
D) Di converso qual è a suo giudizio il
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principale limite nel modo di essere di Magistrato e di Avvocato?
Non capire che i limiti esistono; spesso
invisibili, servono a convivere civilmente
e nella legalità.
D) Tra gli incarichi che ha ricoperto,
quali ha preferito e quali desidererebbe le
venissero in futuro assegnati ?
Quello di giudice istruttore ante 1989;
quello di consigliere della Corte di cassazione, dopo.
Per il futuro, e sottolineo futuro, ambisco all’incarico di nonno.
D) Quali sono e quali sono stati i Magistrati di cui maggiormente apprezza o ha
apprezzato la figura, quindi in sostanza i
suoi riferimenti nella magistratura?
Esclusi i viventi, per non fare torti, direi
Giovanni SILVESTRI, recentemente scomparso, conosciuto alla I sezione della
Corte di Cassazione. Aveva tutte le qualità che un magistrato deve possedere e,
inoltre, era un giurista raffinato e al tempo
stesso deciso, determinato.
D) Quali colpe le hanno ispirato maggior
indulgenza?
Dispensare indulgenza é lavoro da santi. Essere in generale indulgenti e tolleranti è sintomo di appartenenza al genere
umano.
D) Che ricordi porterà con sé dell’esperienza lecchese e del suo foro?
Del foro lecchese ho come simbolo, una
lettera, quella che il Consiglio dell’Ordine
scrisse quando si ventilava la possibilità
che la mia nomina venisse meno. Quella
lettera mi inorgoglisce. So che l’orgoglio
è peccato ma che ci vuol fare.
Dell’esperienza lecchese mi porto nel
cuore alcune persone. Non le cito. Ma
loro lo sanno e se non lo sanno farò in
modo di farglielo sapere.
Renato Cogliati
L’art. 161 c.p.c. e il diritto romano
1. Come è noto, l’art. 161 del nostro codice
di procedura civile prevede che “la nullità delle sentenze soggette ad appello
o a ricorso per cassazione può essere
fatta valere soltanto nei limiti e secondo
le regole proprie di questi mezzi di impugnazione. Questa disposizione non si
applica quando la sentenza manca della
sottoscrizione del giudice.”
Dal tenore tutt’altro che perspicuo della disposizione normativa emergono
le difficoltà di distinguere le ipotesi in
cui, in generale, la nullità delle decisioni
giurisdizionali deve essere fatta valere
con lo strumento dell’appello o del ricorso per Cassazione, da quelle in cui,
al contrario, è esclusa la necessità di
una nuova pronuncia per l’accertamento
dell’improduttività degli effetti giuridici.
2. Anche nel sistema processuale romano,
fra i gravi e complessi problemi che si
pongono nello studio della nullità delle
sentenze, emesse all’esito di un procedimento giurisdizionale, spicca quello
relativo alle modalità della sua rilevazione, se cioè, e con quali strumenti,
fosse necessario esperire un autonomo
ricorso per una censura ed un eventuale
riesame della decisione priva di effetti
giuridici, perché emanata per qualche
aspetto irregolarmente, oppure, se, al
contrario, l’improduttività dei profili processuali della pronuncia vulnerata operasse ipso iure, quale mero accertamento dichiarativo, senza la necessità di un
nuovo vaglio giurisdizionale, neppure
limitatamente all’esperimento di una
fase ulteriore dello stesso giudizio.
Un problema che, ovviamente, non si
poneva nel sistema processuale dell’ordo, nel quale, pur essendo chiara la
nozione della possibile esistenza di vizi
di cui poteva essere inficiato il procedimento giurisdizionale, mancava, però,
per la natura stessa del giudizio, la configurabilità di un controllo da parte di
un organo sovraordinato al giudice che
aveva pronunciato la sentenze i mezzi
per reagire contro la nullità.
Il possibile contrasto nell’individuazione
e nell’utilizzo pratico dei mezzi di rilevazione della nullità di una pronuncia giudiziale, resa in violazione dei principi informatori dell’ordinamento, emergeva,
al contrario, e con particolare evidenza,
nel momento in cui, con la graduale diffusione delle cognitiones extra ordinem,
fu introdotto, nel sistema processuale
romano, un formale sistema di impugnazioni contro le decisioni dei funzionari
imperiali e l’appellatio veniva utilizzata
anche per l’accertamento della nullità
delle pronunce giurisdizionali, come
conseguenza, per certi aspetti, inevitabile della generalizzazione del nuovo
concetto della possibilità di censurare
le sentenze ritenute ingiuste o pregiudizievoli per la parte soccombente: un
rimedio che pure avrebbe dovuto considerarsi superfluo di fronte ad una pronuncia priva del requisito dell’esistenza
giuridica stessa (nec ulla sententia).
Le fonti testimoniano, infatti, con chiarezza l’esistenza di un simile contrasto
e documentano come la tendenza a sottoporre a riesame anche una sentenza
gravata da nullità fosse già largamente
diffusa sullo scorcio del II e nel corso del
III secolo, come si ricava dall’esame dei
numerosi interventi imperiali del titolo
che i compilatori giustinianei hanno raccolto sotto la rubrica Quando provocare
necesse non est, C. 7.64, ma soprattutto,
al di fuori di esso, con importanti provvedimenti normativi, attribuiti all’imperatore Caracalla ed espressamente finalizzati a contrastare una simile prassi
processuale, che doveva apparire come
un inutile appesantimento della struttura, già complessa, del nuovo sistema
cognitorio.
3.La soluzione reiteratamente adottata,
con cui l’imperatore Caracalla mirava
ad escludere l’avvio di un nuovo procedimento giudiziario, o quantomeno
un successivo grado di giudizio, per la
rilevazione della nullità di una sentenza,
doveva essere comunque molto dibattuta e controversa, se la riflessione della
giurisprudenza ci trasmette soluzioni
pratiche a singoli casi specifici, nei quali, al contrario, si ammette la proposizione di uno specifico mezzo di gravame
per l’accertamento della totale invalidità di una decisione giudiziale. Del travaglio normativo e giurisprudenziale di età
severiana, le fonti più tarde hanno conservato, nelle raccolte ufficiali, tracce
significative, seppure quantitativamente
scarse.
4.Nell’esperienza giuridica romana, dunque, il problema relativo necessità o
meno dell’esperimento di un autonomo
strumento per la rilevazione della nullità delle sentenze resta estremamente
controverso, anche per la difficoltà di
individuare, nelle disposizioni normative
e nella riflessione della giurisprudenza,
un criterio veramente sicuro per distinguere i casi in cui la nullità opera ipso
iure da quelli in cui, invece, deve essere
accertata giudizialmente: il problema
emerge ancora nel moderno ordinamento processuale, come si ricava dal
vigente art. 161 cpc, che ancora distingue, pur senza una precisa delineazione
delle relative fattispecie considerate, le
ipotesi in cui, in generale, la nullità delle decisioni giurisdizionali deve essere
fatta valere con un autonomo strumento
di reclamo, dalle ipotesi in cui non era
necessaria una impugnazione, come per
il caso di una sentenza priva della sottoscrizione del giudice: un vizio tanto grave da non richiedere, per l’accertamento
dell’improduttività degli effetti giuridici,
l’esperimento di un apposito mezzo di
gravame, che la lunga riflessione del diritto intermedio qualificherà come querela nullitatis.
Federico Pergami
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Risarcibilità del danno extrapatrimoniale a favore
dei nonni
Segnalo un’interessante pronuncia del
giudice di merito in relazione alla risarcibilità del danno extrapatrimoniale morale
a favore dei prossimi congiunti(nella fattispecie i nonni) di un giovane ragazzo deceduto a seguito di sinistro stradale per colpa
di terzi.
Come noto l’orientamento della Suprema Corte in alcune recenti pronunce ha
in qualche modo ristretto la possibilità di
ottenere risarcimento da parte dei nonni (e
viceversa dei nipoti) della persona venuta a
mancare per fatto illecito altrui, sulla base
della considerazione oggettiva della trasformazione della famiglia da patriarcale
a mononucleare, ponendo come requisito
per la risarcibilità al di fuori di tale stretto
nucleo, la convivenza.
Tale requisito è stato ritenuto da qualche
pronuncia (Cass. Civ. Sez. III numero 40253
del 16/03/12) il “connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità dei rapporti parentali anche allargati caratterizzati
da reciproci vincoli affettivi, di pratica della
solidarietà, di sostegno economico” ecc.
A dire il vero tale orientamento riduttivo
è stato attenuato dalla corte che con pronuncia del 24/7/2012 numero 12915 sez.
III non ha escluso il risarcimento in ipotesi
di mancanza di convivenza ma ha solo richiesto per tale caso la deduzione e dimostrazione di specifiche circostanze idonee a
giustificare la sussistenza di vincoli affettivi meritevoli di compensazione in denaro.
Il Gip del Tribunale di Monza con sentenza 326/13 ha dapprima affermato la
legittimazione alla costituzione di parte civile delle nonne nel procedimento a carico
dell’imputato per richiedere i danni extrapatrimoniali, pur non rientrando le stesse
tra gli eredi.
Il giudice non condivide la tesi dell’imputato e del responsabile civile che hanno
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contestato la legittimazione attiva delle
nonne per la non configurabilità di un danno “iure proprio” da perdita del rapporto
con il nipote improvvisamente deceduto,
fondata sulla mancanza del legame di
convivenza, solo in presenza del quale,
secondo tale tesi, sarebbe ravvisabile un
rapporto diretto, giuridicamente rilevante
tra nonni e nipoti.
Secondo il giudice monzese “la sussistenza di un rapporto parentale rilevante
giuridicamente non può certo negarsi sulla
scorta della mera mancanza di un rapporto
di convivenza in senso stretto, ravvisandosi, invece, profondi legami personali e familiari anche a prescindere dalla quotidiana coabitazione entro le medesime mura
domestiche.
Ciò soprattutto quando il legame sia tra
nonni e nipoti, che, frequentemente, si concretizza in atti di pura dedizione e di forte
attaccamento”.
Il GIP di Monza non avalla meccanismi semplificativi di liquidazione di tipo
automatico, evidenziando che, nel caso
trattato, la valenza affettiva che legava il
giovane alle sue nonne è emersa in modo
più che significativo dalle dichiarazioni di
numerose persone che hanno fatto emergere quanto profondo ed intenso fosse il
rapporto che legava il ragazzo alle nonne,
pur in assenza di convivenza.
Tale statuizione è sicuramente da condividersi perché la morte di un congiunto
configura per i superstiti familiari un danno
non patrimoniale diretto ed ingiusto, costituito dalla lesione di valori costituzionalmente garantiti e di diritti umani inviolabili,
perché la perdita dell’unità familiare è perdita di affetti e di solidarietà inerenti alla
famiglia come società naturale.
Nell’ambito di una famiglia così intesa
non può disconoscersi, perché appartenen-
te al senso comune, tutta l’importanza dei
legami generazionali tra nonni e nipoti con
la loro intrinseca capacità di trasmettere
valori, educazione e cultura.
Bisogna riconoscere che con le trasformazioni subite dalle famiglie che da patriarcali sono divenute mononucleari, il
ruolo del nonno ha anch’esso subito modifiche sostanziali, ma non per questo ha
perso importanza.
Oggi è ben possibile trovarsi in presenza di nonni che non convivono con i nipoti
ma tale situazione imputabile a circostanze
della vita, non è comunque tale da escludere il permanere di vincoli affettivi ed una
vicinanza psicologica al congiunto deceduto. Pertanto nel caso in cui sia stata fornita
prova dei vincoli effettivi, anche attraverso
elementi indiziari e presuntivi ravvisabili
anche in allegazioni e documenti, il risarcimento deve essere riconosciuto.
Richard Martini
Disegno di Franco Necchi
Il futuro dell’Avvocato
In una recente conversazione, tenuta a
Bergamo su invito dell’ANF locale, Cesare
Piazza ha brillantemente sostenuto che le
richieste della società sono ormai orientate
decisamente verso la tutela degli interessi
più che dei diritti.
Per identificare l’avvocato del futuro, e
cioè ‘chi’ sarà il nostro collega del 2050, ci
si deve perciò chiedere prima di tutto ‘cosa’
sarà chiamato a fare.
Più che una tesi quella di Piazza è un’analisi della situazione attuale e una previsione sullo sviluppo della professione forense,
anche guardando a quello che succede al di
là delle Alpi e dell’Atlantico.
Potrà non piacere, ma se la realtà attuale
e futura è quella accennata, occorre che gli
avvocati ne tengano conto per affrontarla
al meglio.
Del resto i segnali che possiamo raccogliere dalla nostra legislazione e dalla sua applicazione (obbligatorietà della
mediazione e sempre maggior spinta alla
privatizzazione del diritto con aumento dei
costi, anche a causa della nuova geografia
giudiziaria) spingono tutti gli utenti, privati
e aziende, a privilegiare la tutela degli interessi più che quella dei diritti.
Conta il risultato economico, non la vittoria morale.
Chi esce vittorioso dalla lite vuole anche
essere rassicurato sulla eseguibilità della
decisione e, quindi, sulla recuperabilità dei
costi e dell’eventuale capitale.
Tutto il contrario di quello che accade nel
nostro sistema dove il legislatore e la magistratura sembrano invece voler seguire la
filosofia dell’imperatore cinese K’Ang Hsi,
che alla fine del 1600 scriveva in un editto:
“Le controversie giudiziarie tenderebbero
a complicarsi smisuratamente se il popolo
non avesse timore dei tribunali e confidasse di trovare in essi una rapida e perfetta
giustizia...Pertanto desidero che coloro che
si rivolgono ai tribunali siano trattati senza
pietà e in tal modo che essi sentano un’avversione verso la legge e tremino al pensiero di comparire davanti ad un magistrato”.
‘Consumatori’ e ‘mercato’
Cosa chiede il ‘consumatore’?
Cosa chiede il ‘mercato’?
Ohibò, che termini deprecabili! Come
può un professionista, che deve essere indipendente, leale, probo, degno, eccetera
eccetera, misurarsi con termini che suggeriscono solo lotta concorrenziale, pubblicità comparativa e valutazione commerciale
di un lavoro intellettuale riconosciuto addirittura a livello costituzionale?
L’illusione di avere una missione nella
propria vita professionale porta inevitabilmente a distorsioni della nostra autostima.
Distorsioni che investono anche la generalità della categoria cui si appartiene.
Non facciamoci illusioni: anche gli avvocati sono espressione della società attuale
e non sono né migliori né peggiori della
stessa.
Se la comunità chiede più mercato e più
concorrenza, dobbiamo cercare di soddisfare tali esigenze (pena il decesso per mancanza della domanda), cercando di dare un
contributo ad una applicazione corretta di
tali esigenze.
Tutti sappiamo e sosteniamo a parole
che il cliente che entra nel nostro studio
esige risposte ad una variegata complessità di domande.
Se non rispondiamo a tutte è probabile
che si rivolga ad altri.
Peraltro quando ci si viene a porre problemi di carattere societario è quasi impossibile non avere un supporto anche dal punto di vista finanziario, fiscale e tributario.
Qualche anno fa ad un meeting di “Eurojuris” a Bruxelles, un avvocato inglese ci
arringò in maniche di camicia (suscitando
qualche sorrisetto di meraviglia/compatimento perché allora non erano ancora
di moda i maglioncini alla Marchionne e
l’uditorio era tutto in giacca e cravatta),
dicendoci brutalmente che la struttura della nostra professione era cambiata e che
il cliente che entra nel nostro studio non
deve più uscirne senza avere avuto risposta
a tutte le sue richieste di assistenza o consulenza che riguardino l’applicazione delle
leggi dello Stato, civili, commerciali, penali, amministrative, tributarie, ecc..
Altrimenti, una volta uscito, troverebbe
un altro studio legale che soddisferebbe
tutte le sue esigenze in un unico contesto,
con risparmi di tempo e denaro.
Le strutture
Questa situazione comporta la creazione
di studi legali, che abbiano a disposizione
adeguate risorse umane per risolvere ogni
criticità nascente da una società complessa come la nostra. L’esigenza porta necessariamente alla creazione di organizzazioni
strutturate, che possono nascere dall’associazione di vari professionisti del diritto e,
eventualmente, di campi affini o, addirittura, di professioni tecniche (ma quest’ultima
ipotesi è espressamente esclusa dalla nuova legge forense).
Per non perdere il tram, come si dice dalle mie parti, nel nostro paese si è cercato di
mantenere l’indipendenza dei singoli professionisti nell’ambito di una struttura più
articolata attraverso lo schema dello ‘studio associato’, nel quale i singoli professionisti mantengono la loro indipendenza formale, ma che, peraltro, se troppo piccolo,
molte volte non dura nel tempo, rivelando
la sua natura effimera eccessivamente legata agli umori (e agli interessi contingenti)
degli associati.
I grandi studi associati, invece, possono
andare incontro a problemi di leader-ship
(conflittualità dovuta al venir meno del carisma del o dei soci fondatori) o di carenza
di mezzi finanziari per poter mantenere un
buon livello di funzionalità.
La soluzione delle STP non sembra aver
dato risultati concreti (due in tutta Italia?!)
e la creazione delle società di capitali ad
hoc per gli avvocati, che doveva essere introdotta con un regolamento governativo
entro il due agosto, è in mente dei, visto
che il governo non ha rispettato la scadenza.
Indipendenza e responsabilità
In tutti i casi è però indiscutibile che
strutture complesse comprimono, se non
annullano del tutto, la professionalità degli avvocati perché ne condizionano, più o
meno pesantemente, l’indipendenza economica, la libertà di scelta e, di conseguenza, la responsabilità.
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Per altro verso però è indispensabile che
tutti i professionisti, e gli avvocati in particolare, comincino a capire che chi ci chiede
di tutelare interessi e diritti, vuole da noi
risposte economicamente sostenibili ed
efficaci.
Poco importa che le nostre siano scelte
libere o condizionate da altri professionisti.
Basta che i risultati siano positivi, costino poco e, in caso di errori, sia possibile
accedere ad un risarcimento adeguato.
Ma, allora, se dobbiamo rinunciare a certe caratteristiche importanti (e per alcuni
essenziali) che hanno configurato sino ad
oggi la nostra professione dobbiamo pretendere in cambio qualcosa.
E invece a fronte di una rinuncia certa
dobbiamo subire una diminuzione dei ritorni economici e della sicurezza del posto di
lavoro.
Infatti lo studio/società non ti dà copertura per i momenti di crisi e se il lavoro
diminuisce ti lascia a casa senza clienti e
senza alcuna tutela economica (per gli avvocati non esistono posto fisso, cassa integrazione, TFR o liquidazione).
Né è ipotizzabile che tali coperture le
possa dare la nostra Cassa di previdenza,
che a malapena con l’attuale livello contributivo riesce a rientrare nei parametri
dettati dalla legge per garantire l’equilibrio
economico a cinquant’anni.
A questo proposito ANF si è sinora inutilmente battuta per dare una risposta concreta al problema sempre più assillante di
questi colleghi sans papier.
Le resistenze degli studi legali, grandi
e piccoli, e la sordità del legislatore hanno messo nel nulla tutti i lodevoli sforzi
dell’associazione.
Una legge professionale da rimeditare
La nuova legge professionale, purtroppo,
non risponde alle esigenze che si sono prefigurate per la nostra attività.
Sono d’accordo con coloro che hanno sostenuto che è meglio averla che non averla
per niente.
Ma è altrettanto necessario che vi si
ponga mano subito, o direttamente o, se
possibile, attraverso i regolamenti di attuazione, per adattarla alle esigenze della
professione che è già cambiata da tempo e
ancor più sta cambiando.
Dove metter mano?
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Un argomento essenziale da affrontare è
quello dell’avvocato dipendente di un avvocato, che non riguarda solo i giovani, ma
anche coloro che, non essendo disponibili a
gravarsi di tutti gli incombenti della libera
professione, preferiscono lavorare per altri
avvocati, singoli o in associazione.
Non si tratta di stabilire che debbano
essere pagati adeguatamente, ma che non
si debbano trovare a cinquant’anni senza
lavoro, senza clienti e senza tutele assistenziali e previdenziali. Naturalmente in
una società che si pretende liberista, pur
se le regole ci devono essere, la libertà di
determinare sé stessi e il proprio avvenire
dev’essere difesa.
Il fatto è che devo sapere all’inizio del
mio percorso formativo quali saranno le
prospettive della carriera scelta.
Noi abbiamo favorito almeno due generazioni ad intraprendere la carriera forense.
Non abbiamo posto ostacoli all’iscrizione
all’università con filtri di qualsiasi genere e
all’accesso all’albo con seri esami di selezione.
Ora dobbiamo supportare una massa di
avvocati, che non è compatibile con l’esercizio della libera professione, ma sarebbe
potuta essere assorbita comodamente per
servizi legali di alto livello se avessimo
curato una preparazione specialistica adeguata.
Diceva Franzo Grande Stevens che nella
realtà italiana, così normativamente complicata, duecentomila avvocati con una
buona preparazione di base, ma con una
forte specializzazione in una delle numerose branche del diritto, sono facilmente
assorbibili.
Il fatto è che tutti (o quasi) fanno la stessa cosa (o quasi).
Ecco perché occorre prevedere anche la
figura dell’avvocato dipendente, senza violare le libere scelte di ciascuno.
Non possiamo consentire che per la difesa di princìpi sacrosanti, ma riconducibili
ad un numero limitato di professionisti, si
crei una massa di cittadini che lottano ai
margini della società, sfruttati e senza avvenire.
Altre riflessioni sono rinviate a nuovo
ruolo.
Carlo Dolci
Una vicenda
istruttiva
Quello che tutti gli
avvocati dovrebbero
sapere
Quest’estate Vittorio Feltri e Pietro Ichino sui rispettivi quotidiani, Il Giornale e Il
Corriere della Sera, hanno raccontato le
loro grottesche avventure con la burocrazia
fiscale italiana. Il primo per pagare tardivamente il bollo dell’auto e il secondo per
assolvere ai suoi doveri di erede di un appartamento.
Senza pretendere di essere brillante
come i due autori citati, anch’io voglio
raccontarvi le mie avventure fiscali, anche
come controcanto alla notizia, apparsa il 21
ottobre 2013 su tutti i giornali, di un pensionato al quale è stato intimato dall’Agenzia
delle Entrate il pagamento di una somma
‘evasa’ nella misura di ‘un centesimo’.
E’ il caso di premettere che di tutto quello che scriverò ho la documentazione cartacea e che cercherò di attenermi strettamente ai fatti.
Richiesta inquietante
Alla fine di maggio del 2012 mi viene
notificato un “invito” a restituire entro 15
giorni un ‘questionario’ relativo all’anno di
imposta 2008.
Mi si chiede in sostanza di depositare i
seguenti documenti: “-elenco soggetti assistiti; -in relazione alle cause iniziate e
concluse nonché quelle in corso: la materia
del contendere e l’area specialistica di riferimento, numero di udienze tenute, foro
competente e valore della causa; -copia
registro fatture emesse e ricevute; -copia
fatture emesse e ricevute; -tariffario praticato; -ogni altra informazione necessaria
ritenuta correlata alle precedenti”.
Obbedisco, depositando nei termini tutto quanto richiesto compresa copia della
Gazzetta Ufficiale con le tariffe forensi del
2004 e, per le cause: numero pratica, data
inizio, nome delle parti, oggetto, date delle
udienze, valore e data termine, se ultimate.
Silenzio sino a dicembre, allorché cominciano ad arrivare, a me ed a mia moglie,
comunicazioni da banche, un paio di società quotate in borsa, gestori di carte di
credito, fondi di investimento, con le quali
i soggetti in questione ci informavano che
l’Agenzia delle Entrate aveva richiesto informazioni sui rapporti intercorsi con noi.
La cosa non mi preoccupava molto perché nelle banche avevamo conti correnti di
servizio o privati di modesta entità, alcuni
addirittura estinti per liquidazione della
banca. Una certa perplessità suscitavano
le comunicazioni di banche con le quali
ritenevo di non aver mai avuto rapporti
diretti.
Ma, sicuro della correttezza dei miei
comportamenti fiscali e tranquillizzato per
la parte strettamente tecnica dalla mia
commercialista, non ci feci molto caso.
Risposta a 300 quesiti
Non era finita, naturalmente.
Alla fine di febbraio (siamo nel 2013) mi
arriva per posta un plico verde pallido (il
verde riposante dell’Agenzia delle Entrate)
di 24 pagine, con un questionario di poco
meno di 300 posizioni da chiarire, sempre
entro 15 giorni.
Il tutto accompagnato dai soliti avvisi (intimidazioni!?): -che se non avessi risposto
nel termine indicato mi sarebbe stata applicata una sanzione da 258 a 2065 euro;
-che i documenti non presentati ora non
avrebbero potuto essere presentati dopo
“sia in sede amministrativa, sia in sede
di contenzioso”; -che nel prospetto (bontà
loro) “non sono state richieste le operazioni di addebito relative ai pagamenti tramite pos e carte di credito, i prelevamenti
di contante inferiori ad € 1000,00, nonché
i pagamenti spese per deleghe varie, rate
di prestiti personali, il pagamento di utenze
varie e tutte le movimentazioni fino ad
€ 100,00)”.
Da suddito mugugnante, ma ligio alle
leggi e ai regolamenti, ho cominciato a leggermi il questionario e qui è sorto subito il
dubbio di non essere in grado di capire il
senso di quello che mi si chiedeva.
Non di essere capace di dimostrare che
tutte le operazioni erano documentate e legittime, ma proprio il perché mi si chiedevano notizie che già erano contenute nella
documentazione prodotta.
La maggior parte delle posizioni di cui mi
si chiedeva conto si riferiva al conto corrente dello studio e quindi le singole voci erano già elencate nella contabilità prodotta
e riguardavano il pagamento di dipendenti,
collaboratori, abbonamenti, assicurazioni,
fornitori, contributi e tasse nonché incassi
per fatture emesse.
Ho perso tempo, ma non ho incontrato difficoltà a motivare entrate ed uscite,
perché tutto era già registrato nella mia
contabilità.
Alcuni movimenti riguardavano però una
banca con cui ritenevo di non aver mai avuto rapporti.
Le ricerche nel mio archivio portavano
alla luce che detti movimenti riguardavano
libretti di deposito per conversioni di pignoramenti e per la gestione di un’eredità
giacente.
Cioè operazioni effettuate dalle Cancellerie, che poi mi avevano consegnato i
libretti per il pagamento delle spese delle
procedure, per la riscossione e la consegna
del dovuto ai clienti.
A chi ha rilasciato un assegno di €
150?
A questo punto ho dovuto dedicare il mio
tempo a chiarire 35 posizioni del conto corrente intestato a me e a mia moglie in comunione di beni, fra le quali sono presenti
tredici bonifici della Cassa di previdenza
riguardanti la mia pensione.
Se ad un avvocato di 71 anni (nel 2008)
vengono accreditate alla fine di ogni
mese (e una volta il 15 dicembre) somme
di importo simile da una misteriosa Cassa Nazionale Forense di Roma, è del tutto
evidente, per il nostro fisco, che bisogna
chiedere chiarimenti ed invitare il presunto
evasore ad apporre nello spazio apposito la
parolina “pensione”.
Come è altrettanto necessario che occorra chiedergli di indicare che le somme di
circa 1000/1500 euro prelevate agli inizi
del mese servono per le spese di casa.
Ma ci sono altri misteri da chiarire: a
chi sono stati rilasciati nel 2008 assegni di
poco superiori ad € 100 e da chi provengono bonifici o accrediti di poche centinaia di
euro?
E allora via a cercare documenti, fatture,
ricevute, matrici di assegni o copie degli
stessi per dimostrare che si è pagato il macellaio, l’abbonamento ai concerti, un paio
di pantaloni ecc.; oppure che si è avuto un
rimborso da un’assicurazione o un bonifico
da un parente per le vendita di libri antichi
di proprietà comune.
E poi: mia moglie a chi ha rilasciato
quell’assegno e perché ha fatto un bonifico
a favore del conto comune dal suo conto
corrente estinto da tempo?
Che c’entra mia moglie e il suo conto con
me.
Ah già, anch’io avevo la firma su quel
conto e quindi posso averlo usato per fregare il fisco con un paio di operazioni per
un totale inferiore a quattromila euro.
Purtroppo il conto è chiuso e la banca incorporata in altra. Nei quindici giorni concessimi non so se riuscirò ad avere copia
degli assegni.
Anzi non so neppure se riuscirò ad averli
mai dalla banca incorporante.
E infatti non ci riesco.
Speriamo che per questa bazzecola non
mi facciano storie.
Chi ha effettuato questi bonifici sul
conto della figlia?
Purtroppo la mia natura prudente è stata
ereditata da mia figlia (non potrà dire che
non le ho lasciato alcunché), che ha voluto
la mia firma sul suo conto corrente.
Ecco qui una trentina di voci da spiegare:
tutti modesti importi incassati per la sua
attività di insegnante e traduttrice e per le
sue spesucce.
Ma quattro assegni per un totale della
bella somma complessiva di circa mille
euro sfuggono a qualsiasi ricerca.
Si dovrebbero chiedere le copie alla
banca, ma la commercialista dice che, nonostante il perentorio limite di 100 euro di
cui all’intim(id)azione sopra citata, non è
necessario.
Ho finito e in marzo, nei termini fissati,
deposito il tutto.
Tiro un sospiro di sollievo, anche se mi rimane qualche lieve inquietudine per le poche voci non completamente documentate.
Inquietudine che si trasforma in costernazione alla fine di giugno quando mi viene
notificato un avviso di accertamento di 30
pagine con una sanzione di € 8100.
9
Il provvedimento viene giustificato con
la contestazione di 20 operazioni sul conto
del mio studio, una sul mio conto privato e
una su quello di mia moglie.
Il tutto condito con varie considerazioni
sulla magnanimità dell’Agenzia delle Entrate, che non ha preso in considerazione
le piccole somme, per l’ “appiattimento”
delle mie dichiarazioni dei redditi sui valori degli studi di settore e sulla incoerenza
dell’incidenza delle spese sui compensi.
Lieto fine, ma non per lo Stato
La costernazione passa subito, dopo aver
constatato che le operazioni sul conto corrente professionale riguardavano somme
tutte già contabilizzate per l’acquisto di
marche e francobolli e per le spese di studio.
Mentre quelle sul mio conto privato e
su quello di mia moglie potevano essere
giustificate con la produzione di un estratto conto, di una dichiarazione e della fotocopia di un assegno. Naturalmente per
contestare tutto ho dovuto spendere un
po’ del mio tempo per reperire fotocopie di
assegni e dichiarazioni, ma alla fine sono
riuscito a presentare nei termini un’istanza
in autotutela, che dopo appena un mese
dal deposito è sfociata nell’annullamento
totale dell’avviso di accertamento.
Dalla vicenda emergono alcuni insegnamenti, specie per i professionisti in generale e per gli avvocati in particolare: a) le fatture ai clienti devono essere formulate analiticamente e con riferimento puntuale alla
tariffa vigente (parcelle forfetarie vengono
interpretate come indizi di evasione); b) di
tutti i movimenti sui conti correnti devono
essere annotati e conservati i nominativi
dei beneficiari e dei bonificanti, evitando
nei limiti del possibile prelievi e depositi
di contante; c) l’uso di carte di credito o di
debito viene ritenuto mezzo adeguato per
la tracciabilità dei pagamenti ed è quindi
consigliato; d) è meglio avere dichiarazioni
dei redditi ‘sinusoidali’ che ‘rettilinee’.
La fine positiva della vicenda lascia però
aperta la porta ad una domanda inquietante: cosa è costato, a me suddito e allo Stato sovrano, tutto l’ambaradam descritto?
Carlo Dolci
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Giurisprudenza deontologica
del C.N.F.
Norme deontologiche - Dovere di
correttezza e lealtà - Dovere di colleganza – Rapporti con la controparte
– Accordo transattivo – Omesso avviso
al collega – Rapporti diretti di corrispondenza – Illecito deontologico.
Norme deontologiche – Rapporti
con i colleghi – Dovere di segretezza
– Comunicazione al collega inizio procedimento nei suoi confronti – Eccezione – Sussiste.
Pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante l’avvocato che,
senza avvisare il collega difensore, contatti
direttamente la controparte invitandola ad
un incontro per la definizione della controversia, riceva la parte nel proprio studio
senza la presenza del difensore non avvisi
il collega dell’accordo transattivo raggiunto dalle parti stesse in sua presenza o che
intrattenga rapporti diretti di corrispondenza con la controparte assistita da altro legale, senza indirizzare a quest’ultimo copia
della stessa.
La comunicazione al collega dell’iniziativa
di sporgere querela e di iniziare un procedimento nei suoi confronti non si può considerare una violazione dell’obbligo di segretezza, ma anzi la corretta informazione al
collega perché possa discolparsi, ricorrere
alla bonaria definizione della vertenza, e
comunque tutelare i propri diritti.
20 Aprile 2012, n. 60
Norme deontologiche – Dovere di
correttezza – Trattenimento somme
– Trattenimento documenti – Illecito
deontologico.
Pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante, perché lesivo
della dignità e decoro dell’intera classe forense, l’avvocato che riscuota e trattenga –
oltre il tempo strettamente necessario – le
somme liquidate in sentenza in favore di
quelle parti dalle quali non abbia ricevuto
incarico e che trattenga ingiustificatamente a tal fine i documenti relativi alla pratica.
20 aprile 2012, n. 66
Norme deontologiche – Rapporti con
la parte assistita – Divieto di conflitto
di interessi – Art.51 comma 1 c.d.f. –
Conflitto potenziale – Violazione – Natura interessi – Irrilevanza – Ratio della disposizione – Tutela dell’immagine
della professione forense – Durata.
L’art.51, canone I, c.d.f. fa espresso riferimento alla fattispecie in cui un avvocato, dopo aver assistito congiuntamente i
coniugi in controversie famigliari, assuma
successivamente il mandato in favore di
uno di essi contro l’altro, analoga esigenza di tutela è ravvisabile nell’ipotesi in cui
l’avvocato abbia prestato consulenza in vista di una separazione ad uno dei coniugi
e, in seguito, abbia accettato il mandato
dall’altro coniuge per assisterlo nella medesima separazione, con conseguente
operatività, anche in tale ultima fattispecie, del medesimo obbligo di astensione
dell’avvocato, a prescindere dalla sussistenza di un conflitto di interessi effettivo
o meramente potenziale. La “ratio” della
disposizione deve essere individuata, infatti, nella tutela dell’immagine della professione forense, ritenendosi non decorso
né opportuno che un avvocato muti troppo
rapidamente cliente, passando, senza un
adeguato intervallo temporale, di durata
biennale, nel campo avverso.
30 aprile 2012, n. 76
Norme deontologiche – Dovere di
correttezza e probità – Rapporti con i
colleghi - Espressioni sconvenienti e
offensive – Illecito deontologico.
L’Avvocato deve porre ogni più rigoroso
impegno nella difesa del proprio cliente,
ma tale difesa non può mai travalicare i
limiti della rigorosa osservanza delle norme disciplinari e del rispetto che deve essere sempre osservato nei confronti della
controparte, del suo legale e dei terzi, in
ossequio ai doveri di lealtà e correttezza e
ai principi di colleganza. Ai sensi dell’art.
20, ult. Parte, c.d.f., la ritorsione o la provocazione o la reciprocità delle offese non
escludono l’infrazione della regola deontologica posta nella prima parte del medesimo articolo.
30 aprile 2012, n. 88
Norme deontologiche –Illecito disciplinare – Sanzione – Misura.
Norme deontologiche – Dovere di
correttezza e probità – Rapporti con i
colleghi – Espressioni sconvenienti e
offensive - Illecito deontologico.
Norme deontologiche – Principi generali – Doveri di competenza e diligenza – Attività priva di legittimazione
– Violazione.
In tema di procedimento disciplinare, la
sanzione è determinata sulla base dei fatti
complessivamente valutati, e non già per
effetto di un computo meramente matematico ovvero in base ai principi codicistici in
tema di concorso di reati, per i quali la pena
per il reato più grave andrebbe aumentata
per effetto della continuazione formale
ritenuta, cosicché si debba determinare
quantitativamente l’aumento operato sulla
pena base per ogni violazione. Va pertanto
escluso l’obbligo del C.d.O. di collegare le
violazioni deontologiche a singole pene,
dovendosi invece determinare la sanzione
e la misura nel complesso idonea in base
alla valutazione complessiva dei fatti, dei
comportamenti, delle qualità e soprattutto
del disvalore che gli stessi comportamenti
determinano nella classe forense.
L’ avvocato deve porre ogni più rigoroso
impegno nella difesa del proprio cliente,
ma tale difesa non può mai travalicare i
limiti della rigorosa osservanza delle norme disciplinari e del rispetto che deve essere sempre osservato nei confronti della
controparte, del suo legale e dei terzi, in
ossequio ai doveri di lealtà e correttezza e
ai principi di colleganza. Ai sensi dell’art.
20, ult. Parte, c.d.f., la ritorsione o la provocazione o la reciprocità delle offese non
escludono l’infrazione della regola deontologica posta nella prima parte del medesimo articolo.
Competenza e diligenza costituiscono
presupposti impliciti dell’attività professionale. Mentre la diligenza, espressamente
richiamata anche dalle norme sul mandato,
assicura la qualità della prestazione dovuta, la competenza tende ad affermare la
legittimazione specifica dell’attività professionale richiesta dalla parte assistita.
E se l’avvocato che svolge il mandato con
incuria e mancanza di attenzione viola il
principio fondamentale della deontologia
forense, intesa come “scienza del dovere”
ovvero come “etica professionale”, il riferimento alla “adeguata competenza” contenuto nell’art. 12 del c.d.f. consente una valutazione della capacità sostanziale usata
dal professionista nei confronti del cliente.
Norme deontologiche – Rapporti con
i colleghi – Dovere di riservatezza - Divieto di produzione in giudizio di missiva contenente proposta transattiva –
Eccezioni – Inconfigurabilità.
Il divieto di produrre in giudizio la corrispondenza tra i professionisti contenente
proposte transattive assume la valenza di
un principio invalicabile di affidabilità e lealtà nei rapporti interprofessionali indipendentemente dagli effetti processuali della
produzione vietata in quanto la norma
mira a tutelare la riservatezza del mittente
e la credibilità del destinatario, nel senso
che il primo quando scrive ad un collega di
un proposito transattivo, non deve essere
condizionato dal timore che il contenuto
del documento possa essere valutato in
giudizio contro le ragioni del suo cliente,
mentre il secondo deve essere portatore di
una indispensabile credibilità e lealtà che
rappresenta la base del patrimonio di ogni
avvocato.
20 luglio 2012, n. 100
Norme deontologiche – Dovere di
correttezza e probità – Rapporti con i
colleghi - Espressioni sconvenienti e
offensive – Illecito deontologico.
L’avvocato deve porre ogni più rigoroso
impegno nella difesa del proprio cliente,
ma tale difesa non può mai travalicare i
limiti della rigorosa osservanza delle norme disciplinari e del rispetto che deve essere sempre osservato nei confronti della
controparte, del suo legale e dei terzi, in
ossequio ai doveri di lealtà e correttezza
e ai principi di colleganza.(Il Consiglio nazionale forense ha ritenuto di applicare al
professionista responsabile di tale addebito la sanzione dell’avvertimento in luogo
della censura, in ragione considerazione
dell’assenza di precedenti di natura disciplinare).
20 luglio 2012, n. 105
Norme deontologiche – Rapporti
con i colleghi – Violazione dell’obbligo di corrispondere con il collega –
Avvertimento.
Norme deontologiche –Rapporti con
i colleghi –Illecito deontologico – Ipotesi di sussistenza.
Procedimento disciplinare – Procedimento davanti al C.d.O. – Omessa
audizione dei testi – Validità della decisione.
E’ obbligo deontologico, che discende
dai principi generali di correttezza e lealtà verso i colleghi, non prendere accordi
con la controparte né comunque partecipare ad accordi intervenuti con la stessa,
quando sia assistita da un avvocato, senza
che quest’ultimo sia avvertito. Tale obbligo
sussiste anche nell’ipotesi in cui la controparte si impegni ad avvertire il proprio
difensore o, addirittura, affermi di averlo
già avvertito.
Pone in essere un comportamento contrario all’obbligo nascente dall’art.27 del
codice deontologico, il professionista che
faccia notificare copia semplice della sentenza che definisca il giudizio nel quale egli
stesso è attore direttamente alle controparti costituite e non al Collega che le rappresenti. Invero, trattandosi di copia semplice
11
priva di ogni valenza giuridica processuale
e/o negoziale, la notifica ha natura di normale comunicazione epistolare, che, come
tale, deve essere indirizzata al Collega per
l’obbligo di cui al ridetto art. 27.
Non determina nullità della decisione
l’omessa audizione dei testi indicati quando risulti che il consiglio abbia ritenuto le
testimonianze insufficienti ai fini del giudizio, per essere il collegio già pervenuto
all’accertamento completo dei fatti da giudicare attraverso la valutazione delle risultanze acquisite.
nanza iniqua, trattandosi di affermazione
che imputa al Magistrato la grave negligenza di aver assunto una decisione senza
la previa valutazione degli argomenti risultanti dagli scritti difensivi, con il risultato
parimenti imputatogli di aver danneggiato
la parte.
Va confermata la sanzione della censura
comminata al professionista che, in un proprio scritto difensivo,abbia adoperato nei
confronti del giudice espressioni di natura
sconveniente ed inutilmente offensive.
22 settembre 2012 n. 131
ed offensive – Art. 20 C.D.F. Applicabilità –Limite.
Norme deontologiche – Rapporti con
i colleghi – Dovere di dignità e decoro.
Norme deontologiche – Rapporti con
i colleghi e con i magistrati – Espressioni sconvenienti ed offensive – Illecito deontologico.
Norme deontologiche – Rapporti con
i colleghi – Dovere di riservatezza – Applicabilità – Divieto di produzione in
giudizio di missiva contenente clausola di riservatezza.
Norme deontologiche – Principi generali – Dovere di correttezza – Rapporti con la controparte – Rapporti con
i colleghi – Uso di espressioni sconvenienti ed offensive in scritti difensivi
– Illecito deontologico – Sussiste.
Norme deontologiche – Rapporti con
i magistrati – Espressioni sconvenienti ed offensive – Illecito deontologico.
Norme deontologiche - Rapporti con
i magistrati – Espressioni sconvenienti ed offensive – Illecito deontologico.
Norme deontologiche – Illecito disciplinare – Imputabilità – Elemento
soggettivo – Consapevolezza illegittimità condotta – Irrilevanza – Volontarietà dell’azione – Sufficienza.
Norme deontologiche – Inflizione
della pena – Adeguatezza della sanzione - Questione di costituzionalità
dell’art. 40 r.d.l. 157/33 in relazione agli
artt. 133 c.p. e 3 della Cost. – Manifesta
infondatezza.
Pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante l’avvocato che usi
espressioni sconvenienti ed offensive nei
confronti di terzi.
Il limite di compatibilità delle esternazioni
verbali o verbalizzate e/o dedotte nell’atto
difensivo dal difensore con le esigenze della
dialettica processuale e dell’adempimento
del mandato professionale,oltre il quale
si prefigura la violazione dell’art. 20 del
c.d., va individuato nella intangibilità della
persona del contraddittore, nel senso che
quando la disputa abbia un contenuto oggettivo e riguardi le questioni processuali
dedotte e le opposte tesi dibattute, può
anche ammettersi crudezza di linguaggio
e asperità dei toni, ma quando la diatriba
trascende sul piano personale e soggettivo
l’esigenza di tutela del decoro e della dignità professionale forense impone di sanzionare i relativi comportamenti.
Va confermata la responsabilità disciplinare, e con essa la sanzione della censura
comminata dal C.O.A., del professionista
che, nell’ambito di un tentativo di conciliazione dinanzi alla Direzione provinciale
del lavoro ed in presenza di più persone,
si rivolga ad alta voce e con tono aggressivo al Collega di controparte ed al suo
assistito,così arrecando grave pregiudizio
al decoro ed alla dignità dell’avvocato.
Pone in essere un comportamento disciplinarmente rilevante sotto il profilo della
violazione degli artt.5-20 e 22 c.d.f. il professionista che nei confronti della Collega
usi espressioni sconvenienti ed offensive le
quali non trovino scriminante nella difesa
che poteva essere esercitata negli atti di-
Pone in essere un comportamento disciplinarmente rilevante l’avvocato che usi, in
scritti difensivi, espressioni gravemente offensive nei confronti del collega,a nulla rilevando l’eccezione per la quale l’incolpato
si sarebbe limitato soltanto a sottoscrivere
l’atto incriminato, in quanto il professionista che sottoscrive atti predisposti da altri
ne assume la piena paternità, tanto più che
nella specie la reiterazione delle espressioni offensive appare risalire al comportamento dello stesso incolpato.
Il diritto di critica nei confronti d i qualsiasi provvedimento giudiziario, fa parte delle
facoltà inalienabili del difensore, entro il limite, tuttavia, al di là del quale tale facoltà
lascia il posto all’obbligo del rispetto della
dignità dell’interlocutore. L’individuazione
di siffatta linea di discrimine costituisce il
risultato di una valutazione di merito che
va condotta caso per caso. Deve ritenersi
disciplinarmente rilevante l’affermazione
del professionista contenuta nel verbale di
un procedimento civile che inviti il Giudice
a leggere le carte, prima di emettere ordi12
Ai fini della imputabilità dell’infrazione
disciplinare non è necessaria la consapevolezza dell’illegittimità dell’azione, dolo
generico e specifico,essendo sufficiente la
volontarietà con la quale l’atto deontologicamente scorretto è stato compiuto.
Nell’ordinamento forense le sanzioni
sono previste con una gradualità tale che
consente nell’applicazione concreta di tener conto dei criteri di intensità del dolo e
della gradualità della colpa. Appare parzialmente fondata, pertanto, la pretesa di
“ riforma in termini più favorevoli della sanzione irrogata” alla luce del principio secondo il quale, pur essendo la consapevolezza
dell’atto sufficiente ad integrare l’illecito,
l’intensità del dolo rileva nella misura della
sanzione.
27 settembre 2012, n. 132
Norme deontologiche – Dovere di
correttezza e probità – Rapporti con i
terzi – Espressioni sconvenienti ed offensive – Illecito deontologico.
Norme deontologiche – Rapporti con
i colleghi – Espressioni sconvenienti
fensivi che le contengono.
Il principio di riservatezza ex art. 28 c.d.f.
sussiste prima e dopo il giudizio, anche
in caso di cessazione e/o successione del
mandato e non permette di sottoporre a riesame od interpretazione il contenuto della corrispondenza a fronte dell’apposizione
della clausola di riservatezza.
29 novembre 2012 n. 159
Norme deontologiche- Richiesta
onorario eccessivo - Violazione art.
43, sub
Norme deontologiche – Richiesta
onorario eccessivo –Violazione art.
43, sub II, C.D.F.
Norme deontologiche –Principi di lealtà, dignità,decoro – Attività non professionale – Violazione.
L’avvocato che richieda un compenso
manifestamente sproporzionato e comunque eccessivo rispetto all’attività
documentata,pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante perché
lesivo del dovere di correttezza e probità, a
nulla rilevando ai fini della responsabilità
disciplinare, neanche l’eventualità che tra
il professionista ed il cliente sia intervenuta la transazione della controversia.
L’avvocato va considerato un collaboratore della giustizia e la sua condotta, come
tale, deve in ogni caso conformarsi a criteri
di correttezza, dignità e decoro, anche se
il suo comportamento non ha alcuna relazione con l’attività professionale. Deve
pertanto ritenersi disciplinarmente rilevante la condotta dell’avvocato che, avendo rilevanza esterna, incida negativamente sul
prestigio, l’attività e il decoro dell’intera
classe forense.
29 novembre 2012, n.160
Norme deontologiche – Rapporti
con i colleghi – Dovere di riservatezza
– Produzione in giudizio di missiva “
riservata” ricevuta dal collega di controparte – Illecito deontologico.
La norma di cui all’art. 28 c.d. mira a
salvaguardare il corretto svolgimento
dell’attività professionale, con il fine di non
consentire che leali rapporti tra colleghi
possano dar luogo a conseguenze negative nello svolgimento della funzione defensionale, specie allorché le comunicazioni
ovvero le missive contengano ammissioni
o consapevolezze di torti ovvero proposte
transattive. Ciò al fine di evitare la mortificazione dei principi di collaborazione.
29 novembre 2012, n. 161
Norme deontologiche – Rapporti con
i colleghi – Espressioni sconvenienti
ed offensive – Art. 20 C.D.F. – Animus
iniuriandi – Necessità.
Va esclusa la violazione dell’art. 20 c.d.f.
per carenza del necessario elemento soggettivo dell’animus iniuriandi quanto,come
nella specie, non emerga alcun elemento
indicativo della volontà dell’incolpato di
esprimere apprezzamenti negativi in ordine alla personalità ed al patrimonio morale
dell’esponente, essendosi il professionista
limitato alla contestazione oggettiva di un
fatto non vero e di un giudizio privo di fondamento.
29 novembre 2012, n.168
Norme deontologiche – Illecito disciplinare –Elemento soggettivo – Imputabilità – Consapevolezza illegittimità condotta – Irrilevanza – Volontarietà
dell’azione – Sufficienza.
Norme deontologiche – Pubblicità
attività professionale – Limiti – Accaparramento di clientela – Nozione.
Norme deontologiche – Rapporti
con i terzi – Divieto di accaparramento di clientela – Illecito deontologico
– Effettivo raggiungimento di vantaggi
economici – Irrilevanza.
Norme deontologiche – Principi generali – Divieto di accaparramento di
clientela.
Ai fini dell’imputabilità dell’infrazione disciplinare non è necessaria la consapevolezza dell’illegittimità della condotta (dolo
o colpa), essendo sufficiente la volontarietà dell’azione che ha dato luogo al compimento di un atto deontologicamente scor-
retto, a prescindere dall’eventuale finalità
dell’azione violativa della condotta.
L’introduzione nel nostro ordinamento
della normativa nota come Bersani non ha
consentito una pubblicità indiscriminata
ma solo ed esclusivamente la diffusione
di specifiche informazioni sull’attività, sui
contenuti, sui prezzi e le altre condizioni
di offerta dei servizi professionali, al fine
di orientare razionalmente le scelte di colui che ricerchi assistenza, nella libertà di
fissazione del compenso e della modalità
del suo calcolo. Tale libertà di informazione deve peraltro esplicarsi con modalità di
diffusione che non si pongano in contrasto
con la peculiarità e la specificità della professione forense, in virtù della sua funzione
sociale, caratteristiche che impongono le
limitazioni connesse alla dignità e al decoro delle professioni: ne consegue, come
correttamente valutato nella delibera impugnata, che il disvalore deontologico risiede
negli strumenti usati per l’acquisizione della clientela,che non devono essere alcuno
di quelli tipizzati in via esemplicativa nei
canoni complementari dell’art. 19 c.d.f.,
non devono concretizzarsi nella intermediazione di terzi (agenzie o procacciatori)
né, più genericamente, esplicarsi in “modi
non conformi alla correttezza e al decoro”.
Viola l’art. 8 c.d.f.l’avvocato presso il cui
studio legale sia ubicata un’Associazione
di categoria, così ponendo in essere le
condizioni di potenziale accaparramento
di clientela, indipendentemente dalla circostanza dell’effettivo raggiungimento o di
concreti vantaggi economici.
Pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante l’avvocato che
fissi un proprio recapito o la sede della sua
attività professionale presso uffici di società, agenzie infortunistiche, agenzie di assicurazioni e servizi, società commerciali,
associazioni di mutilati ed invalidi civili e
comunque Enti o Associazioni che rappresentino categorie di lavoratori e/o professionisti, dei quali ne utilizzi i locali ricevendo anche clienti, usufruisca delle utenze
telefoniche e ne indichi il recapito sulla
propria carta intestata. L’incrocio, sia pure
saltuario, dell’attività professionale con le
attività sindacali, che si concretizzi nella
13
presenza fisica e nell’utilizzo, per fini professionali, dell’intera struttura in cui opera
ed agisce l’associazione, è sintomatico di
un procacciamento di clientela scorretto
perché incanalato attraverso mezzi non
consentiti e che, quindi, vanno ritenuti deplorevoli, in violazione dei principi di lealtà,
dignità e decoro della professione forense.
29 novembre 2012, n.170
Norme deontologiche- Doveri correttezza e lealtà – Mandato ad agire
penalmente contro collega – Omessa
verifica consistenza accuse – Illecito
deontologico – Sussistenza.
Viola i principi di correttezza e lealtà alla
cui osservanza ciascun professionista è
obbligato nei comportamenti fra colleghi,
l’iscritto che, assunto un mandato ad agire
penalmente contro taluni colleghi, ometta
sia di verificare la consistenza delle accuse mosse a questi ultimi, sia di informare
il C.O.A. sull’attività intrapresa. Invero, se
in linea generale il professionista deve
sempre effettuare un attento controllo delle carte che gli vengono esibite dal cliente per verificare un effettivo fondamento
sull’azione che si intende intentare, ancor
maggiore, sempre nel rispetto del mandato
affidatogli, deve essere l’approfondimento
da svolgere dovendo agire contro dei colleghi.
29 novembre 2012, n. 171
Norme deontologiche –Rapporti con
la parte assistita – Inadempimento al
mandato – Mancata informazione.
Viene meno ai doveri di diligenza, dignità, correttezza e decoro della professione
forense l’avvocato che non dia corso al
mandato ricevuto e ometta di informare il
cliente sullo stato della pratica.
29 novembre 2012, n.172
Norme deontologiche – Rapporti con
la parte assistita – Gestione di somme –
Indebito trattenimento – Compensazione- Ipotesi autorizzate – Necessità.
14
L’art. 44 del Codice deontologico forense
individua i casi in cui il professionista è autorizzato ad operare la compensazione fra
le somme che gli siano pervenute in occasione del mandato e i propri crediti professionali. Ove, pertanto, non sussista alcuna
delle ipotesi previste, il comportamento
tenuto dal ricorrente risulta deontologicamente rilevante anche ai sensi dell’art. 41
c.d.f..
29 novembre 2012, n. 173
Norme deontologiche – Dovere di lealtà – Autenticazione firma apposta ad
altro soggetto – Illecito deontologico –
Sussiste.
Vien meno al dovere di lealtà, il professionista che autentichi la firma del cliente
sapendola apposta da altro soggetto.
29 novembre 2012, n. 176
Norme deontologiche – Dovere di
correttezza e probità – Rapporti con i
colleghi – Espressioni sconvenienti e
offensive – Illecito deontologico.
Ai sensi dell’art. 20, ult. parte, c.d.f., la
ritorsione o la provocazione o la reciprocità delle offese non escludono l’infrazione
della regola deontologica posta nella prima
parte del medesimo articolo.
29 novembre 2012, n. 178
Norme deontologiche – Dovere di
diligenza – Remissione querela –
Mancato conferimento dell’incarico
– Violazione – Sussistenza.
Integra la violazione del dovere di diligenza di cui all’art. 8 c.d.f. il comportamento
dell’Avvocato che dichiara di rimettere una
querela nell’interesse di un soggetto, affermando contrariamente al vero,d’essere
munito dei relativi poteri. L’aver agito
il ricorrente nel sostanziale interesse
dell’esponente, infatti, perseguendo una
transazione risarcitoria in prossimità della
prescrizione del reato, non manda esente
lo stesso dalla responsabilità disciplinare.
20 dicembre 2012, n. 184
Norme deontologiche – Rapporti con
i magistrati – Espressioni sconvenienti ed offensive – Scriminante diritto di
critica – Limiti.
Norme deontologiche – Illecito disciplinare – Elemento psicologico – Suità della condotta –Sufficienza.
Ancorché il diritto di critica nei confronti
di qualsiasi provvedimento giudiziario costituisca facoltà inalienabile del difensore,
tale diritto deve essere sempre esercitato,
in primo luogo, nelle modalità e con gli
strumenti previsti dall’orientamento processuale e mai può travalicare i limiti del
rispetto della funzione giudicante, riconosciuta dall’ordinamento con norme di rango costituzionale nell’interesse pubblico,
con pari dignità rispetto alla funzione della
difesa .Proprio la giusta pretesa di vedere
riconosciuta a tutti i livelli una pari dignità
dell’avvocato rispetto al magistrato impone, nei reciproci rapporti, un approccio
improntato sempre allo stile e al decoro,
oltre che, ove possibile, all’eleganza,mai
al linguaggio offensivo o anche al mero dileggio.L’avvocato, nell’ambito della propria
attività difensiva, può e deve esporre con
vigore le ragioni del proprio assistito, utilizzando tutti gli strumenti processuali di cui
dispone. A tale ampiezza dei mezzi difensivi si contrappone tuttavia, quale limite invalicabile, il divieto di assumere atteggiamenti o comportamenti sconvenienti e in
violazione del codice deontologico forense,
che impone al professionista di mantenere
con il Giudice un rapporto improntato alla
dignità e al rispetto sia della persona del
giudicante che del suo operato.
Al fine di integrare l’illecito disciplinare sotto il profilo soggettivo è sufficiente
l’elemento della suitas della condotta, inteso come volontà consapevole dell’atto
che si compie; il dolo, invece, denotando
una più intensa volontà di trasgressione
del comando deontologico, rileva nella determinazione della misura della sanzione.
27 dicembre 2012, n. 193
Decreto Tribunale di Milano
Spese straordinarie – mensa scolastica – assegno di mantenimento –
comprese
E’ pacifico che la mensa scolastica
non riveste alcuna connotazione straordinaria, essendo solo una modalità
sostitutiva della voce “vitto” domestico già compresa in qualsiasi assegno
mensile.
formulate plurime ipotesi e ciò anche per
essere emerso nel corso della discussione
l’intendimento di promuovere a breve procedimento per la declaratoria di divorzio;
premesso, in fatto, che:
- con ricorso depositato il __________
ha chiesto a questo Tribunale, in parziale modifica del regime vigente per
effetto di precedente separazione consensuale sottoscritta nel luglio 2010 di
1) elevare il contributo dovuto dal padre a favore dei due figli minori da
Euro
1.500,00
mensili a 3.500,00 a far
Repubblica Italiana
tempo
dall’assunzione
del suo nuovo inIn nome del popolo italiano
carico professionale presso la ossia dal mese di Settembre 2011
TRIBUNALE DI MILANO
con conseguente obbligo di conguaglio,
Sezione IX Civile
2) specificare che l’anzidetto assegno
include tutte, e solo, le spese ordinaIl Tribunale, riunito in Camera di Consiglio
rie inerenti ai bisogni quotidiani dei finelle persone dei magistrati:
gli, con esclusione dunque delle spese
Dott. Gloria Servetti Presidente rel.
“straordinarie” quali quelle scolastiche
Dott. Olindo Canali giudice
e d’istruzione, sportive, artistiche e riDott. Paola Ortolan giudice
creative, baby sitter ove necessaria,
spese tutte da accollarsi integralmente
Nel procedimento promosso ex art. 710
al padre, previo accordo, 3) condannare
c.p.c. con ricorso depositato il ____2013
il convenuto al versamento in proprio fada ____ rappresentata e difesa per delega
vore di un contribuito di mantenimento
dall’Avv. _____del Foro di Milano, nonché
pari ad euro 1.500,00 mensili, sempre a
presso il di lei studio in Milano _______
decorrere dal settembre 2011, 4) elimielettivamente domiciliata
nare talune condizioni previste in ordine
al regime di affidamento dei figli minori,
RICORRENTE
siccome non più attuali, 5) disporre CTU
nei confronti di _____
di carattere contabile al fine di accertare
rappresentata e difesa per delega dall’Avv.
l’effettiva posizione reddituale dell’ ob_____del Foro di Milano, nonché presso il
bligato, ove la stessa non fosse risultata
di lei studio in Milano _____________
sufficientemente chiara in ragione delle
elettivamente domiciliata
produzioni documentali di carattere fi RESISTENTE
scale.
Al’udienza tenutasi in camera di consiglio
-
a sostegno delle proprie istanze la ricoril 27 novembre 2013 ha pronunciato il serente, dopo aver illustrato i motivi per
guente
i quali si era a suo tempo determinata
DECRETO
ad accettare condizioni di separazione
Sciogliendo la riserva assunta all’esito
rivelatesi poi non adeguate nell’interesdell’udienza tenutasi in data odierna;
se proprio e dei due figli minori rispetletti gli atti ed esaminata la prodotta docutivamente nati nel 2003 e 2006, ha dementazione;
dotto che il marito avrebbe conseguito
dato atto che i coniugi non sono riusciti
un sensibile incremento della propria
in data odierna a pervenire all’auspicata
condizione economica per avere nel
soluzione conciliativa della controversia
settembre 2011 assunto la carica di prenonostante siano state loro dal Collegio
sidente del c.d.a. e co-ammministratore
delegato “nell’ambito di una delle più
importanti aziende a livello mondiale, di
produzione e manutenzione di impianti
di depurazione e disinquinamento” con
una retribuzione lorda annuale di almeno Euro 200.000,00, oltre a vari benefici,
rimborsi e stock options, nettamente
superiore a quella valutata al momento
del perfezionamento degli accordi separativi;
- ritualmente notificato l’atto introduttivo,
il resistente si è costituito con memoria
depositata il 15 novembre disconoscendo la sussistenza di circostanze dotate
di valenza innovativa e illustrando le varie voci incidenti sulla sua retribuzione,
più consistenti rispetto al passato tali
da pressoché compensare l’incremento
sottolineato dalla ricorrente;
- ha pertanto il _____invocato la conferma della vigente regolamentazione economica e la sola parziale modificazione
di taluni profili inerenti alle sue frequentazioni con la prole.
Ritenuto in diritto, che:
- deve preliminarmente essere rilevata
l’inammissibilità delle domande attrici
quanto all’invocata decorrenza di ogni
provvedimento modificativo da data
anteriore alla proposizione del presente ricorso nella specie settembre 2011
laddove l’atto introduttivo è stato depositato nel giugno 2013, atteso che il
procedimento volto alla revisione della
precedente regolamentazione sia di separazione che di divorzio non può per
sua stessa natura operare altro che per
il futuro e non è quindi idoneo a modificare un titolo esecutivo già perfetto e
operativo medio tempore, così che deve
essere esclusa l’insorgenza di eventuali
pretese creditorie inerenti al tempo precedente alla pendenza del giudizio;
- ciò premesso, la ricorrente ha con dovizia di particolari ripercorso le ragioni
in forza delle quali i coniugi pervennero
alla stipula delle condizioni necessarie
alla separazione consensuale risalente
al 2010, ma tale rivisitazione appare
15
del tutto fuor di luogo in questa sede,
atteso che il procedimento di modifica
ex art. 710 c.p.c. così come quello previsto dall’art. 9 legge n. 898 1970 e successive modificazioni è per sua stessa
natura funzionale solo alla verifica della
sopravvenienza o meno di elementi di
novità rispetto alla precedente regolamentazione, si da consentire al tribunale di procedere a nuove statuizioni volte
a ripristinare l’equilibrio per effetto delle stesse venuto meno;
- le argomentazioni svolte dalla impongono, ciò nondimeno, di ricordare
il contenuto di dette anteriori pattuizioni
e di segnalare che a) con la cancellazione sub. 4) i coniugi ebbero a dichiararsi
dotati di redditi autonomi, si che “nessun contributo per assegno alimentare
o di mantenimento è da loro reciprocamente dovuto”; b) l’assegno per i figli,
determinato in Euro 1.500,00 mensili,
era espressamente previsto come “comprensivo di tutte le spese ordinarie per
il mantenimento dei figli (ad es. spese
scolastiche, educative, formative ecc),
mentre le parti concordavano sulla suddivisione al 50% delle spese mediche
straordinarie non contemplate dalla copertura assicurativa del sig. ____(all’epoca FASI); c) la casa coniugale, di
proprietà esclusiva del marito, veniva
assegnata in godimento alla moglie in
quanto collocataria dei figli minori, ma
al punto 9) il marito “prende atto della volontà della signora ____ di voler
cambiare abitazione e spostare la casa
coniugale presso la residenza di uno degli immobili di proprietà della famiglia
della signora ____ nel volgere di circa
quattro, cinque anni” con l’effetto che
(condizione sub. 11) “una volta eseguito
il trasferimento … l’immobile costituente l’attuale casa coniugale sito in Milano ___ tornerà nella piena ed esclusiva
disponibilità e godimento del signor
____ ;
- tanto premesso, del tutto infondate risultano le doglianze della ricorrente
(pag. 7 dell’atto introduttivo) in ordine
al fatto che il padre non abbia mai ritenuto di pagare le rette per le scuole
private dei figli né i buoni pasto, atteso
che nessun dubbio può esservi sul carattere ordinario di dette spese e sulla
loro inclusione nel concordato ammontare dell’assegno periodico già al tem16
po, infatti, i figli erano inseriti in istituto
privato, almeno non risulta che così non
fosse e cha ragioni eccezionali e sopravvenute abbiano consigliato questa scelta dopo il 2010 mentre è pacifico, anche
per costante orientamento giurisprudenziale, che la mensa scolastica non riveste alcuna connotazione straordinaria,
essendo solo una modalità sostitutiva
della voce “vitto” domestico già compresa in qualsiasi assegno mensile;
- ma ancor di più, e nel corso dell’odierna
udienza emerso in termini incontroversi
il fatto che il resistente ha sostenuto
esborsi che affatto gli competevano
in base al titolo separativo facendosi spontaneamente carico delle spese
condominiali anche ordinarie della casa
coniugale quantunque assegnata alla
moglie e stipulando una polizza assicurativa sanitaria per moglie e figli dopo
essersi visto privare della copertura
FASI, con ciò mostrando non solo attenzione ai bisogni della famiglia ma anche
un’accorta gestione economica di questi
ultimi;
- venendo ora all’esame delle emergenze documentali destinate nella stessa prospettazione di parte attrice a
confermare la circostanza innovativa
rappresentata dall’incremento reddituale dell’obbligato, il Mod. 730/2011
attesta per l’anno d’imposta 2010 un
reddito complessivo del ___ pari Euro
159.226,00 gravato da una corrispondente imposta netta da Euro 60.116,00
mentre il modello 730/2013 riporta per il
2012 un complessivo di Euro 175.053,00
(con imposta netta di Euro 67.520,00) si
che il reddito netto dell’anno della separazione risulta pari ad Euro 99.110,00
mentre quello più recente ammonta a
Euro 107.553,00 con un incremento dunque pari ad Euro 8.423,00 (docc. in atti);
- a ciò si aggiunga, a prescindere dai rilievi esposti da commercialisti dell’una
e dell’altra parte attraverso dettagli che
non vengono di norma considerati ai fini
qui in discussione, l’elemento non contestato della perdita da parte dell’obbligato dell’assistenza FASI e della conseguente necessità di stipula di polizza
assicurativa il cui costo è stato esposto
in Euro 3.361,00 annuali mentre i fringe
benefits, pure rappresentando un risparmio di spesa piuttosto che un incremento di reddito spendibile, non assurgono
-
-
-
-
-
a livello realmente significativo (Euro
2.112,00);
alla luce di tali elementi obiettivi e documentali non è, dunque, dato comprendere come possa la ricorrente fondare la
proposta pretesa di modifica del regime
vigente volta all’innovativa attribuzione
di un assegno per sé di Euro 1.500,00 e
a oltre la duplicazione di quello di pertinenza dei figli minori, così pervenendo
ad un fisso mensile di Euro 5.000,00 cui
aggiungere la totalità delle spese per i
minori su quello che ha definito un eccezionale incremento della capacità reddituale del marito mentre è appena il caso
di sin da ora sottolineare che quest’ultimo diventa nel gennaio prossimo padre
di un altro figlio e sarà dunque tenuto a
concorrere anche al suo mantenimento
con indubbio aggravio di oneri ed esborsi;
e ancora il dichiarato intendimento della ____ di procedere al futuro rilascio
della casa coniugale di esclusiva proprietà del coniuge non ha ancora trovato
attuazione così che pur non essendo a
tutt’oggi decorso l’integrale termine
indicato, permane il convenuto nella
situazione di indisponibilità dell’unico
immobile di sua pertinenza;
il ricorso non potrà quindi, sul punto, che
essere integralmente respinto;
per quanto attiene ai profili relativi al
regime di frequentazione tra il padre e
i minori è solo necessario escludere la
già in precedenza riconosciuta possibilità del ____ di trattenersi presso la
casa coniugale, in occasione dei week
end di sua spettanza, essendo venute
meno le ragioni contingenti che avevano
suggerito l’adozione di detto inusuale
accordo, mentre qualsiasi ulteriore modifica non risulta confortata da elementi
probatori di qualsivoglia spessore e non
trova pertanto il Collegio ragioni per intervenire sul contenuto delle originarie
pattuizioni;
l’integrale soccombenza della ricorrente
che non ha peraltro esitato a introdurre anche domanda inammissibile in rito
quanto alla decorrenza delle pretese
economiche, comporta la sua condanna
alla rifusione in favore del convenuto
delle spese processuali liquidate secondo criteri dettati dal D.M. n. 140 / 2012
in Euro 1.8000,00 per compensi, oltre
accessori di Legge;
-si aggiunga che l’iniziativa processuale assunta dalla ____ , basata su
un elemento giudicato innovativo ma
contraddetto da documenti facilmente
acquisibili, finisce con il rivestire finalità esplorativa e così integra una censurabile forma di abuso del processo
assumendo una connotazione quantomeno colposa da valere ai sensi e per
gli effetti dell’Art. 96 c.p.c.: si noti come
affatto isolata giurisprudenza di merito
(Trib. Monza sezione III Civile sentenza
19 giugno 2012) abbia ritenuto che “il
causare la proliferazione di giudizi che
si sarebbero potuti evitare costituisce
abuso dello strumento processuale in
contrasto con l’inderogabile dovere di
solidarietà sociale che osta all’esercizio
di un diritto con modalità tali da arrecare un danno ad altri soggetti che non sia
inevitabile conseguenza di un interesse
degno di tutela dell’agente” e l’abuso
debba essere sanzionato con condanna
ex art. 96 comma III c.p.c.;
- all’indicato titolo reputa il Collegio che
la ricorrente debba qui essere condannata al versamento in favore del dell’ulteriore importo di Euro 800,00 in
via equitativa determinato.
P.Q.M.
Il Tribunale definitivamente pronunciando
nel contraddittorio delle parti, provvede:
1)Respingere le domande avanzata da
_______
2)In parziale modifica del regime vigente
esclude la possibilità che i fine settimana di pertinenza del padre siano da lui
trascorsi con i minori nella casa coniugale;
3)Rigetta ogni altra domanda e/o istanza
delle parti;
4) Condanna la ricorrente a rifondere il resistente delle spese di lite, liquidate in
Euro 1.8000,00 per compensi, oltre ad
accessori di legge;
5)Condanna la ricorrente ex art. 96 III
comma c.p.c. al versamento in favore
del dell’importo di
Euro 800,00;
6)Decreto immediatamente efficace ex
lege;
Così deciso in Milano, in camera di consiglio, il 27 novembre 2013
Si comunichi
Il Presidente Dott. Servetti
Sanzionato l’avvocato che usa in
giudizio contro l’ex cliente le notizie
apprese nella vecchia causa
Repubblica Italiana
In nome del popolo italiano
La Corte Suprema di Cassazione
Sezione Unite Civili
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Francesco Trifone – Primo Presidente
Dott. Renato Rordorf – Presidente di sezione
Dott. Fabrizio Forte - Consigliere
Dott. Ettore Bucciante - Consigliere
Dott. Antonio Ianniello - Consigliere
Dott. Angelo Spirito - Consigliere
Dott. Paolo D’Alessandro - Consigliere
Dott. Giacomo Travaglino- Consigliere
Dott. Stefano Petitti – Consigliere Rel.
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
T.R., rappresentato e difeso da se medesimo, elettivamente domiciliato in Roma,
via Udine n. 6, presso lo studio dell’Avvocato Giorgio Luceri;
ricorrente
contro
Consiglio Nazionale Forense, in persona
del legale rappresentante pro tempore;
Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di
Bergamo, in persona del Presidente pro
tempore;
Procuratore Generale presso la Corte Suprema di Cassazione;
intimati
per la cassazione della Decisione del
Consiglio Nazionale Forense, depositata in
data 17 settembre 2012
udita la relazione della causa svolta nella
pubblica udienza del 28 maggio 2013 dal
Consigliere relatore Dott. Stefano Petitti;
sentito l’Avvocato R.T.
sentito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. Pasquale Paolo Maria
Ciccolo, che ha concluso per il rigetto del
ricorso.
Svolgimento del processo
Con esposto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bergamo in data 16 marzo
2007, il dott. G.C. narrava di essere stato
assistito nel 2002 dall’Avvocato R.T. in
una causa di lavoro contro le cartiere P.,
avente ad oggetto il suo licenziamento.
Riferiva, quindi che, dopo avere assunto
la qualifica di direttore della Cassa Edile di
… e a seguito di fatti accaduti sul luogo
di lavoro, egli era stato querelato da V.A.,
poi licenziato, il quale, nel corso del conseguente procedimento penale, era stato
assistito dall’Avvocato R.T.; che durante il
dibattimento dinanzi al Giudice di pace di
Bergamo, nel quale egli aveva assunto la
qualità di imputato, l’Avvocato R.T. gli aveva rivolto una domanda sui fatti relativi alla
causa dell’anno 2002, nella quale il medesimo Avvocato lo aveva assistito; che il suo
Avvocato si era opposto alla domanda e
il Giudice di pace aveva accolto l’opposizione, in quanto la domanda non appariva
conferente con l’oggetto del procedimento.
Tanto esposto, il G.C. chiedeva al Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati se tale condotta
dell’Avvocato T.R. integrasse o meno l’illecito disciplinare di assunzione di incarichi
contro ex clienti, previsto dall’art. 51 del
codice deontologico forense.
L’Avvocato R.T. richiesto di chiarimenti dal Consiglio dell’Ordine, con memoria
scritta depositata in data 5 aprile 2007,
eccepiva, in primo luogo, che nel 2002 egli
aveva svolto attività defensionale a favore
del dott. C.G. in due cause e che tale assi17
stenza, in concreto, si era sostanziata nel
ruolo di codifensore domiciliatario in entrambe le controversie. Rilevava, poi, che
il procedimento penale a carico del C.G.
era stato instaurato oltre tre anni dopo le
cause in cui egli aveva prestato attività
defensionale a favore del C.G. e quindi oltre il termine di anni due previsto dall’art.
51 del codice deontologico forense. Infine,
l’Avvocato R.T. eccepiva l’indeterminatezza
dell’addebito mossogli, così come formulato tanto in sede di esposizione da parte del
C.G. quanto al momento della richiesta di
chiarimenti da parte del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, dal quale egli non
avrebbe potuto, perciò, adeguatamente
difendersi.
Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di
Bergamo, con delibera del 13 giugno 2007,
instaurava procedimento disciplinare a carico del T.R., incolpandolo degli illeciti previsti dagli artt. 9, comma primo, canone 1,
e 51 codice deontologico forense, per avere utilizzato nel procedimento penale in cui
prestava la sua attività di difensore a favore del querelante, sig. V.A. notizie acquisite
in ragione di precedente incarico svolto a
favore del dott. C.G., proprio nei confronti
di quest’ultimo, imputato nel medesimo
procedimento penale.
Con decisione del 7 ottobre 2009, il
Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di
Bergamo, riconosciuto l’Avvocato R.T. responsabile degli illeciti a lui ascritti, applicava la sanzione della censura. Il Consiglio
dell’Ordine riteneva che la circostanza del
precedente licenziamento subito dal C.G.,
fosse nota all’incolpato in virtù dell’attività
defensionale da lui svolta nel 2002, e che
la domanda rivoltagli durante il processo
penale fosse stata fatta allo scopo di denigrare il proprio ex cliente, utilizzando fatti
conosciuti a causa della difesa precedentemente svolta, e violando gli obblighi di segretezza, riservatezza, correttezza e fedeltà
posti alla base della professione forense.
Avverso detta decisione, l’Avvocato T.R.
ha proposto gravame al Consiglio Nazionale Forense, deducendo la nullità della
decisione per indeterminatezza del capo di
incolpazione; l’infondatezza della incolpazione, nella parte in cui era incentrata sulla
questione del licenziamento disciplinare,
non conosciuta né conoscibile da parte
sua, avendo la causa del 2002 ad oggetto
18
un licenziamento per motivo oggettivo; l’insussistenza di condotte disciplinarmente
rilevanti, atteso che i fatti del 2002 erano
stati divulgati da organi di stampa, senza
che, quindi, alcuna violazione degli obblighi di segretezza e riservatezza potesse
essere a lui ascritta; l’eccessività della
sanzione: quand’anche lo si fosse ritenuto
responsabile, le caratteristiche del fatto
imponevano un contenimento nel minimo
della sanzione da irrogare.
Il Consiglio Nazionale Forense, con decisione depositata in data 17 settembre 2012
e notificata in data 15 novembre 2012, rigettava i primi tre motivi di gravame e accoglieva il quarto.
Il Consiglio Nazionale Forense riteneva
innanzitutto infondato il primo motivo, dal
momento che l’incolpazione, così come
formulata dal Consiglio dell’Ordine degli
Avvocati di Bergamo, rispondesse ai requisiti indicati dall’art. 47 r.d. n. 37 del 1934,
essendo chiaro al destinatario il contenuto
della stessa, dalla quale egli, comunque,
era stato in grado di difendersi, evidentemente perché la formulazione dell’addebito lo aveva messo in grado di conoscere le
accuse mossegli.
Il CNF riteneva poi infondato il secondo
motivo perché lo stesso Avvocato T.R. negli atti del dibattimento, aveva fatto riferimento al fatto che la causa del 2002 aveva
ad oggetto un licenziamento disciplinare,
sicchè la natura disciplinare del licenziamento doveva ritenersi provata sulla base
non solo degli atti, ma anche delle stesse
ammissioni dell’incolpato.
Quanto al terzo motivo, il CNF rilevava
che la circostanza che anche la stampa
avesse dato notizia dei fatti riferiti alla
causa del 2002, se valeva a ridurre la gravità dell’illecito disciplinare, non valeva
ad escludere la sussistenza di perduranti
obblighi di segretezza e riservatezza che,
comunque, l’Avvocato T.R. aveva violato.
Il CNF accoglieva infine il quarto motivo,
sostituendo la sanzione della censura con
quella meno grave dell’avvertimento, sulla base del rilievo che la diffusione della
notizia del licenziamento a mezzo stampa
aveva determinato una riduzione della offensività della condotta.
Per la cassazione della decisione indicata in epigrafe, l’Avvocato R.T. ha proposto
ricorso sulla base di tre motivi.
Gli intimati non hanno svolto attività difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso, l’Avvocato
R.T. deduce violazione dell’art. 47 r.d. n.
37 del 1934, insufficienza della motivazione e violazione degli articoli 112 cod.
proc. Civ. e 24 Cost., per l’indeterminatezza del capo di incolpazione, che ha
determinato una lesione del diritto di difesa nel procedimento disciplinare a suo
carico, nonché per l’insufficiente motivazione con cui il Consiglio Nazionale
Forense ha confermato la decisione del
Consiglio dell’Ordine, sul punto relativo
alla eccezione, tempestivamente formulata in primo grado, di indeterminatezza
del capo di incolpazione. In particolare,
il ricorrente si duole per la genericità
del capo di incolpazione perché in esso
si faceva riferimento ai fatti del 2002,
mentre in quell’anno egli aveva prestato
la propria attività defensionale a favore
del dott. C.G. in due cause e nessuna
delle due aveva ad oggetto un licenziamento disciplinare.
1.1 Il primo motivo di ricorso è infondato.
Premesso che “nel procedimento disciplinare a carico degli esercenti la
professione forense, la contestazione
degli addebiti non esige una minuta,
completa e particolareggiata esposizione dei fatti che integrano l’illecito,
essendo, invece, sufficiente che l’incolpato, con la lettura dell’imputazione, sia
posto in grado di approntare la propria
difesa in modo efficace, senza rischi di
essere condannato per fatti diversi da
quelli ascrittigli” (Cass., S.U., n. 21585
del 2011), e che “l’indagine volta ad
accertare la correlazione tra addebito
contestato e decisione disciplinare non
deve essere effettuata alla stregua di
un confronto meramente formale perché, vertendosi in tema di garanzie e di
difesa, la violazione di detto principio
non sussiste allorché l’incolpato, attraverso l’iter processuale, abbia avuto conoscenza dell’addebito e sia stato posto
in condizione di difendersi” (Cass., S.U.,
n. 10014 del 2001; Cass., S.U., n. 5038
del 2004), deve rilevarsi che la decisione impugnata si è attenuta, con valutazione in fatto adeguatamente motivata,
e perciò insindacabile in questa sede,
all’indicato principio.
Il Consiglio Nazionale Forense ha infatti rilevato che: a) nell’esposto del C.G.,
comunicato all’Avvocato R.T., si faceva
riferimento a “fatti riferiti nella causa
del 2002”; b) nel capo di incolpazione
si faceva riferimento all’utilizzo di notizie acquisite in ragione del precedente
rapporto professionale, indicato come
“una questione di lavoro conclusasi nel
2002”; c) l’incolpato aveva potuto agevolmente difendersi nel merito, essendosi sin dall’inizio della vicenda intrattenuto su una domanda non ammessa dal
giudice del dibattimento penale contro il
C.G. dapprima affermando che essa non
aveva alcuna relazione con i fatti conosciuti nella qualità di difensore (nota
del 3 aprile 2007), poi sostenendo che
le notizie relative al licenziamento del
C.G. erano di pubblico dominio e, infine,
al dibattimento, confermando, dopo che
il teste G. aveva riferito che il medesimo
Avvocato R.T. aveva chiesto all’imputato “se ricordo bene se fosse stato fatto
oggetto di provvedimenti disciplinari”,
di avere chiesto se il C.G. “avesse avuto
dei procedimenti disciplinari a suo carico”, con la precisazione che la domanda
“era intesa a valutare le circostanze di
cui all’art. 133 c.p.”.
Orbene, a fronte di una così articolata
motivazione in ordine al fatto che l’incolpato aveva avuto modo di comprendere i fatti oggetto della contestazione
e di difendersi nel merito dalla stessa,
il ricorrente ribadisce l’eccezione di indeterminatezza della formulazione del
capo di incolpazione. In particolare, la
censura di indeterminatezza si appunta
sul rilievo che nell’anno 2002 egli aveva
assistito il C.G. in due cause, sicchè il
riferimento alla causa del 2002 non sarebbe stato idoneo a evidenziare il fatto
oggetto della contestazione. Ma a tale
censura è agevole replicare che, come
già rilevato, nella decisione impugnata
si è evidenziato come nel capo di incolpazione si facesse riferimento all’oggetto della causa del C.G. come relativa
ad un “rapporto di lavoro concluso nel
2002”, sicchè deve escludersi la denunciata incertezza, essendo chiaramente
conoscibile, per l’incolpato, quale delle
due cause fosse oggetto di contestazio-
ne. Del resto, lo stesso ricorrente (pag. 3
del ricorso, punto 1), riferisce che nella
sua nota in risposta all’esposto presentato contro di lui ebbe a affermare “di
avere assistito C.G. in due cause, una
di lavoro e una civile intraprese dal predetto contro la società di cui era stato
dipendente”, con il che sostanzialmente riconoscendo che non poteva essere
dubbio a quale delle due controversie
l’esponente di riferisse.
2. Con il secondo motivo il ricorrente censura il provvedimento impugnato per
omessa e insufficiente motivazione in
ordine ad un punto decisivo della controversia, nonché per violazione dell’art.
112 cod. proc. civ., per avere il Consiglio
Nazionale Forense ritenuto provata la
natura “sostanzialmente disciplinare”
del licenziamento di cui in causa, in
presenza di un dato oggettivo contrario,
ovvero la natura non disciplinare del licenziamento, avvenuto per giustificato
motivo oggettivo. In particolare, il Consiglio Nazionale Forense, con motivazione
lacunosa e contraddittoria, avrebbe ritenuto provato un fatto pur in presenza di
elementi che dimostravano il contrario,
con ciò contravvenendo anche all’art.
112 cod. proc. civ., risultando la decisione viziata da ultrapetizione, rispetto al
carattere disciplinare del licenziamento,
in ordine al quale il Consiglio Nazionale
Forense non poteva e non doveva pronunziarsi.
2.1. Anche il secondo motivo di ricorso è
infondato.
La motivazione addotta dal Consiglio
Nazionale Forense per rigettare il secondo motivo di gravame, rispetto al quale
il secondo motivo di ricorso per Cassazione si pone in linea di continuità per le
questioni affrontate, fa riferimento alla
natura “sostanzialmente disciplinare”
del licenziamento del C.G.. Il ricorrente
censura la logicità di questo punto della
motivazione, relativamente all’avverbio
“sostanzialmente”: un licenziamento
come quello del C.G. non potrebbe essere “sostanzialmente” disciplinare,
semplicemente perché non era stato un
licenziamento disciplinare, ma fondato
su motivi oggettivi.
In proposito, si deve rilevare che, contrariamente a quanto affermato dal ricor-
rente, il quale sostiene che la causa di
lavoro di cui era stato parte il C.G. aveva
ad oggetto un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, dal provvedimento impugnato emerge che il detto licenziamento era stato “in tronco”. Si legge,
infatti, a pag. 3 della decisione del Consiglio Nazionale Forense, che nella nota
in data 25 settembre 2007, l’Avvocato
R.T. aveva riferito che “le notizie del
licenziamento in tronco dell’esponente
ad opera di Cartiere P. s.p.a. erano di
pubblico dominio tra i dipendenti della
Cassa Edile e che comunque ne avevano
parlato i giornali”.
Orbene, deve escludersi che il Consiglio
Nazionale Forense sia incorso nel denunciato vizio, atteso che il riferimento al
licenziamento in tronco evoca il concetto di giusta causa, e cioè l’esistenza di
una condotta del lavoratore tale da non
consentire la prosecuzione del rapporto
di lavoro. Si afferma, infatti, nella giurisprudenza di questa Corte che “la giusta
causa di licenziamento deve rivestire il
carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e,
in particolare, dell’elemento fiduciario,
dovendo il giudice valutare, da un lato,
la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva
e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi
e all’intensità del profilo intenzionale,
dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti
e la sanzione inflitta, per stabilire se la
lesione dell’elemento fiduciario, su cui
si basa la collaborazione del prestatore
di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare”
(di recente, Cass. n. 15654 del 2012). In
tale contesto, l’affermazione contenuta
nel provvedimento impugnato, secondo
cui la domanda rivolta dall’Avvocato T.R.
al suo ex assistito in ordine alla esistenza di provvedimenti disciplinari a suo
carico doveva intendersi come riferita
alla vicenda di lavoro nella quale il T.R.
aveva svolto il ruolo di difensore, sicchè
questi aveva una soggettiva convinzione che si trattasse di un licenziamento
disciplinare, non risulta né illogica né
contraddittoria. Del resto, e la circostanza non risulta avere formato oggetto di
specifica contestazione da parte del ri19
corrente, nel provvedimento impugnato
si trae argomento circa la consapevolezza del ricorrente che il licenziamento
oggetto dell’unica causa di lavoro del
2002 fosse sostanzialmente di natura
disciplinare dal rilievo che “dal verbale
dell’udienza dibattimentale dinanzi al
Consiglio dell’Ordine (…) l’incolpato ha
appunto dichiarato che la causa di lavoro riguardava il licenziamento di natura
disciplinare”.
3. Con il terzo motivo l’Avvocato R.T. deduce violazione degli articoli 9 e 51 codice
deontologico forense, nonché vizio di
motivazione, per avere il Consiglio Nazionale Forense ritenuto la sua condotta lesiva dei beni giuridici tutelati dalle
dette norme, nonostante la diffusione
delle notizie relative ai fatti di causa a
mezzo stampa avesse impedito qualsivoglia pregiudizio alla segretezza e alla
riservatezza.
3.1. Il motivo di ricorso è inammissibile.
Il ricorrente non svolge alcun riferimento alla motivazione con cui il Consiglio
Nazionale Forense ha rigettato il terzo
motivo di appello, ma si limita a riba-
dire il proprio convincimento della non
configurabilità dell’illecito contestato in
una situazione in cui il professionista divulghi una notizia relativa ad un proprio
assistito ove tale notizia sia già stata
diffusa dalla stampa.
In realtà, il Consiglio Nazionale Forense ha avuto modo di precisare che l’art.
51 codice deontologico forense tutela
un bene giuridico ulteriore rispetto alla
mera esigenza di non far conoscere
all’esterno fatti personali, che l’avvocato difensore apprenda per ragioni
legate all’esercizio della sua professione. L’art. 51 citato pone, infatti, anche
un “irrinunciabile presidio” al rapporto
che intercorre tra avvocato ed assistito,
tale da impedire all’avvocato di divulgare e/o comunque adoperare in maniera
scorretta informazioni che, a prescindere dal fatto che siano o no ancora sconosciute all’opinione pubblica, comunque
non possono essere rivelate da chi, per
doveri inerenti alla professione svolta,
non può comunque rivelarle. In ogni
caso, il Consiglio Nazionale Forense ha
ritenuto altresì che il riferimento alla
natura sostanzialmente disciplinare del
licenziamento doveva ritenersi escluso
dall’ambito della diffusione della notizia
inerente il licenziamento stesso.
La censura, quindi, è inammissibile
perché il ricorrente, nel riproporre una
censura già formulata con i motivi di appello, non ha preso in esame la motivazione della decisione impugnata, nella
parte in cui segnatamente, il Consiglio
Nazionale Forense ha provveduto a rigettare detta censura con la richiamata
motivazione.
4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Non vi è luogo a provvedere sulle spese
non avendo l’intimato Consiglio dell’Ordine svolto attività difensiva.
dal dubbio che invece molti di noi, oltre
che avvertire in proprio i morsi della recessione, si sforzano di ricondurre a ragionevolezza i contendenti, convincendoli
come sia investimento del tutto sbagliato
l’affrontare i costi di un giudizio, specie se
lungo e tormentato.
E’ lecito peraltro il domandarsi da dove
derivi l’ opinione in senso diametralmente
opposto, tanto pervicace, quanto diffusa.
Indubbiamente da un retaggio del passato, per molti versi superficiale e qualunquistico.
Esiste infatti un antico proverbio in dialetto di Lecco e dintorni che, facendo leva
sulla quasi comune desinenza tra i sostantivi “topo” (ratt) e “avvocato” (avucatt), afferma come, in definitiva, si trovi meglio un
topo in bocca al gatto rispetto ad un uomo
nelle grinfie di un avvocato.
Si può sradicare questo pregiudizio?
Non è facile, ma per raggiungere lo “scopo” esiste, secondo me, un unico cammino
e cioè quello del costante comportamento,
da parte di tutti noi, rigorosamente ispirato
ai canoni deontologici e, mi vien da dire, di
solidarietà umana.
Si potrà obiettare che trattasi di una ricetta scontata, quasi retorica.
Benissimo: si dica allora, per favore,
quale debba essere la strada alternativa,
idonea al raggiungimento del “risultato”.
A proposito: quando parlo di “scopo” o
di “risultato” intendo quello di persuadere
definitivamente i non addetti ai lavori che
la sorte del roditore tra le fauci del felino,
anche se domestico, è ben più misera e tragicamente segnata di quella di coloro che
entrino … in uno studio legale.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte, pronunciando a Sezioni Unite,
rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di
consiglio delle Sezioni Unite Civili della
Corte suprema di cassazione, il 28 maggio 2013.
Per Voi...
“Per voi va sempre bene!”
A quale legale non è capitato, in questo
periodo di crisi, dura e interminabile, il sentirsi pronunciare, da parte di amici o conoscenti, la frase sopra virgolettata o altra di
simile contenuto?
Le parole, si sa, sono sempre o quasi l’espressione di un convincimento interiore,
in questo caso quello per cui gli avvocati
prosperano, quando le difficoltà economiche esacerbano gli animi e rendono quindi
le persone più intransigenti e litigiose.
Insomma saremmo sciacalli o avvoltoi,
per non dire iene.
Il cosiddetto “uomo della strada” mostra
dunque di nutrire ben poca fiducia e stima
della nostra categoria, se ritiene veramente che possa arricchirsi sulle disgrazie altrui.
Chi pensa così, non è sfiorato neppure
20
Enrico Rigamonti
Lettera idealmente indirizzata
all’Avv. Andrea Durastante
Ciao Andrea,
lo scriverti, sia pure idealmente, mi costa molto in termini di impegno emotivo,
sia per la repentinità della tua scomparsa,
sia per la più che probabile complessità
della vicenda umana che, in definitiva, l’ha
determinata.
Sei stato tra di noi colleghi per non molto
tempo e, pertanto è pressoché impossibile,
almeno per me, riportare episodi significativi di vita professionale, aneddoti o angolature del tuo carattere o del porsi nel Foro
da parte tua.
Ti ho però avuto come avversario in
qualche occasione e non indulgo ora a cerimonie, se ti riconosco rigore, impegno e
competenza.
La tua storia mi fa tuttavia rammentare
un concetto scontato, banale, si potrebbe
persino dire, ma, a mio avviso, troppo spesso dimenticato.
Non si considera cioè a sufficienza che,
dietro ogni figura o mestiere, comunque
atteggiati, v’è un uomo o una donna con le
proprie gioie, dolori, ansie e tormenti .
Quando un nostro simile che ci è stato vicino, magari proprio nella quotidianità del
lavoro, se ne va tragicamente, è normale
e giusto chiedersi se avremmo potuto aiutarlo e se il non averlo fatto debba essere
adesso fonte di rimorso o di auto rimprovero per chi resta.
V’è però un’altra domanda di fondo, parimenti legittima e purtroppo, credo, senza
risposta: come si sarebbe potuto fare?
Come aiutare cioè, come scuotere chi si
Viaggio nella storia della musica
Storia di un Re: l’organo
la parola organum. In ogni caso l’immagine è per noi un’importante fonte
d’informazioni. Si distinguono chiaramente le canne metalliche a forma
d’imbuto, le loro bocche e le manopole dei tiranti corrispondenti alle note e
posizionate sotto la canna stessa. Lo
strumento sembra a due registri di otto
note e, alle estremità, sono presenti
dei bordoni, vale adire canne che suonano continuamente.
Un personaggio riccamente abbigliato cerca di appendere un organo a
un albero. Questa miniatura illustra
l’ingenua interpretazione del salmo
137: “In salicibus in medio eius suspendimus organa nostra”. È doveroso
spiegare che nel Medioevo la parola
organo viene usata in vari sensi. Per
questo gli scritti non sono sempre perfettamente chiari per quanto concerne
Nell’articolo precedente abbiamo visto
come la fine dell’Impero Romano coincise
con la fine dell’utilizzo dell’organo nel mondo occidentale, mentre questo strumento
proseguiva la sua evoluzione presso l’Impero d’Oriente.
L’organo bizantino divenne presto uno
dei simboli della Corte imperiale. Ciò si
deve al fatto che la maggior parte degli
dibatte nell’angoscia e sta esserne sopraffatto, se non si conosce a fondo il motivo
di ciò, perché relegato e conchiuso nelle
pieghe del suo animo?
Dove sta dunque - ci deve interrogare a
corollario - il confine tra una giusta ingerenza nella vita di chi si stia facendo del
male ed il rispetto della sua individualità e
delle sue libere scelte?
Questioni difficili, ma autentiche: non
quindi pomposi artifici retorici, attraverso
cui celare la propria inettitudine o una colpevole inazione.
Me le pongo, ti confesso, quando, ogni
tanto, mi fermo sulla tua tomba.
Nella foto sorridi sereno e probabilmente- lo spero, anzi lo credo, sia pure con
grande rispetto e pudore - non si tratta
solo dell’istantanea di un momento isolato
nel tuo percorso terreno, bensì la rappresentazione di uno stato che ora vivi … in
perpetuo.
Enrico
imperatori era amante dell’arte e, in particolare, della musica, secondo una ben
nota vocazione ellenistica che caratterizzò
per quasi un millennio l’Impero Bizantino.
Diverse sono le testimonianze che ci sono
pervenute riguardo all’impiego dell’organo
in Oriente. Giuliano L’Apostata1 (361 – 363)
compose un epigramma sull’organo, mentre si racconta che la follia di Giustiniano II
(565 – 578) sarebbe stata combattuta con
successo dall’organo, di cui egli ascoltava
i suoni giorno e notte. Teofilo (839 – 842)
fece costruire due nuovi organi in oro,
1. Giuliano (lat. Flavius Claudius Iulianus) l’Apostata. Imperatore romano (Costantinopoli 331 d. C. - Maranga, presso Ctesifonte, Persia, 363), figlio di Giulio Costanzo e di Basilina. Scampato insieme al fratellastro
Costanzo Gallo alle stragi di Costantinopoli del 337,
di cui furono vittime il padre e la maggior parte dei
parenti, G. fu educato a Nicomedia sotto la guida del
vescovo Eusebio, e poi, insieme al fratellastro Gallo,
nella villa imperiale di Macellum in Cappadocia, dove
passò sei anni sotto una severissima vigilanza: studiò
filosofia e retorica e fu educato alla fede cristiana.
Ritornato alla corte di Costantinopoli, subì l’influenza
di Libanio e specialmente di Massimo, un neoplatonico taumaturgo; si allontanò quindi dal cristianesimo,
maturando una concezione religiosa ispirata all’antico
politeismo e al misticismo neoplatonico.
21
sontuosamente ornati con pietre preziose,
“come alberi d’orati che portano uccelli
cantori nelle loro fronde”. Suo figlio Michele III (843 – 867) figura alquanto grottesca
tanto da essere soprannominato l’ubriaco,
dopo aver dilapidato l’eredità paterna fece
fondere gli organi d’oro per battere moneta. Basilio I (867 – 886) divenuto reggente
nell’866 e, più tardi, dopo l’assassinio di
Michele III, Imperatore, fece ricostruire immediatamente questi organi come
prima manifestazione della sua potenza
imperiale e suo simbolo. Nel Natale dello
stesso anno fece suonare l’organo durante
un banchetto offerto ai suoi prigionieri di
guerra arabi. Uno di loro, Harun Ben Jahja
descrive l’avvenimento: “Si fanno entrare i Musulmani. Vivande calde e fredde a
profusione fanno bella mostra di sé sulla
tavole. Allora l’araldo annuncia: “Sulla testa dell’Imperatore giuriamo che nessuna
di queste vivande contiene carne di porco”.
Il pranzo viene servito su piatti d’oro e d’argento. Poi viene portata una cosa, essa si
chiama al urgana. È formata da una cassa
quadrata di legno, simile a una pressa per
l’olio, coperta da una solida pelle. Vi sono
canne di rame le cui punte [testo mancante…] Queste canne sono ricoperte di cuoio
dorato in modo che non si possa distinguere quasi nulla. Ogni canna è un po’ più
lunga di quella vicina e sul lato di questa
cassa è stato praticato un foro al quale è
stato adattato un mantice simile a quello
dei fabbri 2. Arrivano quindi due uomini
che azionano il mantice, mentre il maestro
si alza e suona lo strumento. Ogni canna
canta una lode all’Imperatore, mentre gli
invitati sono seduti e mangiano”.
La descrizione di Harun Ben Jahja m’induce a descrivere, brevemente, l’impiego
dell’organo presso i paesi arabi. Nel 450,
Isacco d’Antiochia si lamentava, in un poema in siriaco, del rumore spaventoso che
la notte regnava in città. Davanti alle case
signorili risuonavano le cetre, le lire e gli
hydraulos che dominavano di gran lunga
tutti gli altri strumenti e il canto. L’hydraulos, malgrado il nome, era però ormai quasi esclusivamente alimentato da mantici
e non dall’acqua. Ritroviamo l’organo in
Siria, molto diffuso soprattutto come strumento da strada. Successivamente, da
questo paese di cultura ellenistica, si diffuse nei paesi musulmani, in particolare nei
22
califfati di Cordova, del Cairo e di Bagdad.
La corte di Bagdad conobbe il suo apogeo
a cavallo tra l’VIII e il IX secolo. Di quest’epoca ci sono pervenute le traduzioni, in
arabo, di diversi testi greci, ad esempio
proprio gli Pneumatica di Erone, di cui il testo originale greco è andato perduto. Molti
dizionari arabi menzionano l’hydraulos e da
queste informazioni possiamo dedurre che:
1) Esisteva un organo detto “ordinario”,
simile a quello bizantino, adibito all’uso nelle corti principesche. Nel 1260
Shin Tzu, imperatore di Cina, ricevette
un organo dai reami musulmani di Bagdad. Un cronista cinese riferisce che lo
strumento, alto 150 cm e largo 100, era
provvisto di 90 canne divise in 6 registri
accordate secondo la gamma3 araba. I
cinesi lo riaccordarono però secondo la
loro gamma.
2) Nel 960 il siriano Josna bar-Bahbul
distingueva due specie d’organo: uno
simile a quello di Bisanzio e l’altro mol-
Fig. a: Un organo bizantino, tratto dall’obelisco di Teodosio
del IV secolo d. C.. Due uomini sono addetti alle canne e
due ai manlici.
Fig. b: Un organo idraulico del VI secolo raffigurato nel salterio di Utrecht. Quest‘organo funzionava su principio simile a quello ideato da Ctesidio 800 anni prima.
to diverso il cui suono era maggiore.
Quest’ultimo fu descritto anche da un
certo Muritos4. Il libro dello strumento
che si ode a sessanta miglia descrive
un apparecchio enorme che poteva produrre il suono del corno. Era utilizzato
per scopi militari e si serviva, in questo
caso, del potente mantice idraulico di
Ctesibio. La sua enorme pressione alimentava canne alte nove metri5.
3) Si parla spesso del Magrepha, uno strumento leggendario, che sembra avere
un’origine comune con l’organo di Muristos. È citato nel Talmud di Babilonia6.
4) Come Bisanzio anche Bagdad conosceva gli alberi degli uccelli cantori. Nel
917 la corte di Bagdad ricevette un’ambasceria dell’Imperatore di Bisanzio e
2. Evidentemente non si tratta più della macchina idraulica descritta da Erone e da Vitruvio perché ora lo strumento è
alimentato da mantici.
3. Gamma è qui sinonimo di scala, la lettera “G” nella musica della Grecia antica indicava il suono di partenza della scala
musicale.
4. Questo nome è citato per la prima volta nell’850 e le sue opere ci sono pervenute attraverso Ibn al Nadi (988). Muristos
avrebbe costruito un organo per un “re dei Franchi degli interni” che non è possibile identificare.
5. Fino al XIII secolo i testi parlano di questo enorme strumento “che si ode a sessanta miglia”.
6. Il Talmud babilonese detto anche Talmud Bavlì, è stato scritto nelle accademie rabbiniche della Mesopotamia tra il III
e il V secolo d.C. Per quanto concerne il Magrepha si è sempre sostenuto si trattasse di un organo usato anticamente
nel Tempio di Gerusalemme. Chi sostiene questa ipotesi dice che questo strumento si udiva dal Monte degli Ulivi e
addirittura da Gerico. Niente però prova questa supposizione.
quest’avvenimento fu riferito nei particolari: un albero d’argento di 500.000
dirhams (circa 1400 kg) si erge in mezzo
allo stagno e si ripartisce in diciotto
rami multicolori. Uccelli d’oro e d’argento si muovono e cantano musiche
meravigliose. Questa macchina prodigiosa è ancora celebrata da un poeta
francese del XII secolo.
A Bagdad e a Damasco l’organo di
palazzo divenne presto un automa da musica, un orologio a carillon. Questi strumenti
funzionavano grazie al mantice di Ctesibio
e non erano per nulla sconosciuti in Occidente7; erano tuttavia strumenti da “Mille
e una notte” e stupivano i nostri antenati
come l’organo bizantino stupiva gli Arabi.
Il saggio Abu’l-Faraj al-Isfahani, morto nel
967, descrive, nel suo trattato di canto, una
scena che si è svolta tra l’813 e l’825. «“Un
giorno, Isma’il ibn al-Hadi si presentò da AlMa’mun, perché una musica aveva attirato
la sua attenzione. Al-Ma’mun gli domandò:
“Cosa volete?”. Quello rispose: “Ho udito
qualcosa che mi ha sconvolto. Fino ad ora
ho combattuto all’idea che l’organo bizantino (Urgan al-rumi) possa far morire di voluttà. Oggi invece posso testimoniare che ciò
è vero”.»
Iniziale del salmo “Beatus vir…” nel Codice IV ms. 24
(=Cim 15) fol. 2r, Biblioteca dell’Universita di Monaco.
Vi sono rappresentati quasi tutti gli strumenti del XIII
secolo. I più importanti tra essi sono la ghirlanda, il
salterio e il flauto traversiere (nell’anello superiore
della B, l’organo e i campanelli (nell’anello inferiore).
L’accostamento di questi ultimi è molto frequente
nelle illustrazioni del medioevo. Tre portavento vanno
dal conflatorum (serbatoio che i mantici riempiono)
al somiere; essi alimentano rispettivamente i bassi,
il medio registro e gli acuti. Due monaci si occupano
dei tiranti che fanno suonare le canne.
Ma torniamo all’Impero Bizantino.
Sotto Costantino VII (944 – 959) non c’erano meno di quattro organi alla corte di
Costantinopoli. Due, decorati in oro, erano
riservati all’Imperatore, mentre almeno altri due, meno sontuosi ma decorati comunque in argento, erano per gli Azzurri e per i
Verdi, i due partiti politici nati in seno alle
tifoserie dell’Ippodromo. Nel 946, durante
un pranzo in onore di un’ambasceria saracena, cantori nascosti da tende rallegravano gli ospiti mentre alla presentazione di
ogni nuovo piatto risuonava una fanfara
d’organo.
Costantino, molto attivo in campo culturale e autore di diversi trattati, scrisse un
libro anche sulle cerimonie presso la corte
bizantina da cui noi possiamo attingere numerose notizie sull’organo e sul suo utilizzo, non solo presso la corte imperiale. Ad
esempio sappiamo che la Chiesa non ha
mai gradito l’organo durante la Liturgia e,
in effetti, anche oggi, nel Rito Ortodosso,
non è permesso l’uso di alcuno strumento
musicale. A questo proposito è doveroso ricordare che San Giustino (103 – 168) bandì
dalla Liturgia tutti gli strumenti musicali
perché, come molti dei padri della Chiesa,
li riteneva nefasti. Ciò nonostante Origene
d’Alessandria8 (185 – 253) ebbe una visione simbolica di questo strumento musicale
e, nel suo commento al salmo 150, paragonò la Chiesa di Dio a un grande organo:
“Essa raduna in sé tutti gli elementi tanto
contemplativi quanto stimolanti come in
un organo si accordano tra loro i vari registri”. In pratica, malgrado il generale rifiuto di introdurre lo strumento nella Chiesa,
qualcuno iniziava a provare interesse per
quest’oggetto misterioso e complesso, che
sebbene sia formato da elementi così diversi tra loro, si presenta come un insieme
estremamente armonico. Tanto è vero che,
più tardi, papa Gregorio Magno ritenne di
elevare l’organo a simbolo della sancta
praedicatio. Il Pontefice riconobbe in questo strumento la particolare propensione a
innalzare e l’animo dei fedeli e la loro lode
a Dio.
Vetrata dell’antico convento di Königsfelden, in Svizzera.
L’angelo di destra suona un organo portativo. Due torri
merlate laterali sostengono la fila di canne. questo modello
sarà ripreso in seguito per la costruzione delle bellissime
canne rinascimentali.
Nel 751 Pipino il Breve fu incoronato re
dei Franchi dall’arcivescovo Bonifacio per
volontà di papa Zaccaria (741 – 752). Il
motivo di questo gesto è prima di tutto di
ordine politico: il Papa, che vedeva i suoi
territori minacciati dai Longobardi, intendeva consolidare i legami tra i Franchi e la
Chiesa di Roma, mentre il giovane re dei
Franchi era preoccupato di legittimare un
potere conquistato con la forza. Ed ecco
che Pipino il Breve s’impegna a proteggere i territori pontifici, mentre il papa, che
‘stavolta è Stefano II (752 – 757), arriva in
Francia con tutta la sua corte, rinnova la
consacrazione del re (754) e soggiorna per
molto tempo presso l’abbazia di San Dionigi.
È necessario capire bene come una serie
di circostanze permetterà al nuovo sovrano
di apprezzare gli usi liturgici romani, per
questo chiedo al lettore la bontà di seguirmi nelle lontane terre dell’Europa dell’VIII
secolo. Gli storici sono concordi nell’affermare che Pipino il Breve vede in essi,
soprattutto, un modo efficace per garantire
l’unità religiosa dei suoi territori e, quindi,
anche l’unità politica. Personalmente sono
convinto che quest’uomo, e con lui il figlio
7. Tivoli nel XVI secolo, Castello di Saint-Germain sotto Luigi XIII)
8. È considerato uno tra i principali scrittori e teologi cristiani dei primi tre secoli. Di famiglia greca, fu direttore della
«scuola catechetica» di Alessandria d’Egitto (Didaskaleion). Interpretò il trapasso dalla filosofia pagana al cristianesimo
e fu l’ideatore del primo grande sistema di filosofia cristiana.
23
Carlo Magno, era mosso prima di tutto da
profonde convinzioni religiose che lo videro
sempre in prima fila nel difendere il cristianesimo, anche se ciò comportava il rischio
concreto di perdere la vita in sanguinose
battaglie.
Pipino il Breve decreta perciò l’adozione
nel suo regno della liturgia romana, misura
che sarà energicamente ripresa da Carlo
Magno, iniziando così un processo di unificazione europea che vedrà la scomparsa,
quasi immediata, di una miriade di liturgie
e di tradizioni locali9.
Nel panorama politico europeo dell’Alto
Medioevo buona parte del territorio italiano che Giustiniano I (527 – 565) aveva ripreso ai Germani era caduto sotto la dominazione longobarda. Così, nell’VIII secolo,
l’imperatore d’Oriente Costantino V si era
ritrovato con soli due possedimenti in Occidente: il ducato di Roma e la circoscrizione
di Ravenna. Per complicare ulteriormente
le cose aggiungo che in quel momento,
Astolfo re dei Longobardi (749 – 756) che
nel 751 si era già impadronito dell’esarcato
di Ravenna e minacciava seriamente Roma.
Fu allora che Stefano II, preoccupato, si rivolse all’imperatore di Bisanzio, Costantino
V, già proprietario di quelle terre; ma il sovrano, dal canto suo, era troppo impegnato
a risolvere la complicata “lite iconoclasta”
per dedicarsi ad altre faccende politiche.
Pipino il Breve si fece avanti accordando
al papa l’aiuto necessario; salvò Roma e riconquistò Ravenna; ma anziché restituire i
territori al primo proprietario, Costantino, li
offrì al papa, provocando una sorprendente
reazione dell’Imperatore d’Oriente che inviò tre ambascerie al re dei Franchi con il
compito di convertirlo alla sua causa nella
“lite iconoclasta”. Gli inviati portarono a
Pipino il Breve doni senza pari per regalità e bellezza, tra i quali, nel 757, proprio
un organo. Costantino, naturalmente, non
ottenne quanto voleva, ma il dono fu molto
apprezzato. Più di venti cronisti dell’epoca
citarono l’arrivo dell’organo alla corte dei
Franchi come l’evento più importante di
quell’anno. La maggior parte di essi precisa
che l’organo era pressoché sconosciuto in
Francia, a conferma che l’antico strumento degli anfiteatri era caduto in oblio. Noi
dobbiamo però considerare questo dono
secondo la visione del tempo: Costantino
offriva un organo, simbolo di splendore e
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conobbe,
di cui il fiero Imperatore greco s’inorgogliva oltremodo,
e per il quale Costantinopoli pensava di
aver brillato più di te, Cesare
il palazzo d’Aix possiede ora.
Forse per l’oriente è segno che esso
debba sottomettersi ai Franchi,
giacchè ora ha perduto questo straordinario ornamento.»
potenza imperiale.
Gli organi d’oro, gli uccelli cantori e molti altri oggetti d’arte di cui era possibile
ammirare una perfezione tecnica senza
pari, erano la gloria dell’Impero d’Oriente.
Giovanni Zonaras, un teologo e cronista
bizantino attivo a Costantinopoli nel XII secolo, riferisce che queste meraviglie erano
importantissime nella politica intimidatoria
che l’Impero bizantino usava contro i Barbari. Ermoldus Nigellus, seppur indirettamente, dà prova che l’organo aveva un ruolo importantissimo nel simboleggiare la potenza imperiale. Nel suo poema in lode di
Lodovico il Pio, figlio di Carlo Magno (814
– 840), si trovano i seguenti versi riferiti
all’organo del palazzo d’Aix-la-Chapelle:
«Organa quin etiam quae numquam
Francia crevit
Unde Pelasga tument regna
superba nimis
Et qui te solis, Caesar, superasse
putabat
Constantinopolis, nunc Aquis aula tenet.
Fors enim indicium, quod Francis
colla remittant,
Cum sibi praecipuum tollitur
inde decus.»
«Anche l’organo, che mai la Francia
Poco si sa sull’organo donato a Pipino il
Breve, ma è lecito pensare che esso avesse
le fattezze dell’organo custodito nel palazzo imperiale d’Oriente, quindi alimentato
da mantici, ornato d’oro d’argento e di
pietre preziose. Purtroppo non sono note le
circostanze in cui questo strumento importantissimo andò perduto, ma sappiamo che
Lodovico il Pio, nell’826, fece appello per
costruire un organo e, a tale scopo, mise a
disposizione tutto il materiale occorrente.
Si fece avanti un tale Giorgio da Venezia,
un sacerdote. Di questa figura abbiamo
pochissimi particolari, sappiamo che promise di costruire un organo alla maniera
dei Greci (organum more Graecorum). In
effetti, considerando le eccellenti relazioni
commerciali tra Venezia e Costantinopoli,
siamo in grado di ipotizzare che Giorgio
abbia appreso l’arte di costruire gli organi
a Costantinopoli. Rimane che a Aix-la-Chapelle vide la luce il primo organo costruito
in Occidente dopo almeno quattro secoli
strappando, di fatto, a Costantinopoli quella che fino a quel momento era ancora una
peculiarità impenetrabile.
Possiamo anche affermare con certezza
che questi strumenti, a quell’epoca, servirono esclusivamente le fastosità profane
nei palazzi e mai lo strumento fu impiegato per un servizio religioso. Nella prossima puntata vedremo come, bruscamente,
s’iniziò a parlare soltanto di organi da chiesa, al punto che nei tre secoli seguenti non
abbiamo più notizie di organi profani.
Alessandro Milesi
9. Nello stesso tempo assistiamo alla nascita di un repertorio liturgico del tutto nuovo, effetto della fusione tra il Rito gallicano e quello romano. Naturalmente l’imposizione del nuovo repertorio trova molte resistenze, soprattutto in Gallia, a
Milano, a Roma, e in Spagna. È solo grazie all’invenzione di un procedimento che permetterà la notazione della melodia,
fatto che costituisce una svolta decisiva nella storia della musica, e l’attribuzione del nuovo repertorio a uno dei personaggi più illustri dell’antichità cristiana, vale a dire il papa Gregorio Magno, che l’intera operazione avrà successo. Ciò
nondimeno, con l’avvento del Canto gregoriano, andrà perduto, e per sempre, un intero patrimonio di antiche liturgie;
l’unica a essere sopravvissuta è quella ambrosiana, che sarebbe più opportuno chiamare milanese.
Cerco/Offro
Recensione
Il Dott. Damiano Spera, apprezzato
magistrato negli scorsi anni del nostro
Tribunale di Lecco, ha pubblicato nella collana Diritto/Prospettive la monografia “Tecniche di Case Management.
E’ possibile un processo civile più rapido, senza maggiori costi, incrementi
di personale e riforme legislative?” di
cui riportiamo la presentazione della
quarta pagina di copertina.
L’inefficienza del processo civile nel nostro
paese ha raggiunto livelli tali da costituire
non più solo un intollerabile disservizio nei
confronti dei cittadini, ma anche un serio
ostacolo allo sviluppo dell’economia.
Tuttavia, mentre all’estero le tecniche di
gestione del processo (il c.d. Case Management) sono studiate in modo approfondito e quasi scientifico dagli operatori del
diritto – con ampia produzione di scritti e
studi in proposito –, in Italia il problema
è affrontato individualmente e artigianalmente da ogni singolo giudice, senza che vi
sia una sistematica e razionale formazione
in proposito.
Il libro è diretto innanzitutto a operatori del
processo, in primo luogo ai giudici – togati,
giudici di pace e giudici onorari (GOT) – e
ai molti avvocati realmente interessati al
miglioramento del processo civile.
È altresì rivolto a uditori giudiziari e studenti delle scuole di preparazione per le
professioni legali.
È poi di interesse per professori e studiosi
di procedura civile.
Ma la prima parte, meno tecnica, rende l’opera adatta anche a un pubblico più vasto,
in generale a tutti coloro che intendano
approfondire il tema dell’(in)efficienza del
processo civile in Italia.
Il libro è scritto sulla base delle esperienze acquisite dall’autore in quasi 7 anni di
servizio all’estero quale giudice internazionale, oltre ai 13 trascorsi in patria come
giudice civile.
Esso parte dalla constatazione che in Italia il problema della lentezza e dell’inefficienza del processo civile è normalmente
affrontato dal punto di vista delle riforme
processuali, delle revisioni degli organici,
delle innovazioni informatiche – o, al limite, sotto il profilo disciplinare, della valutazione professionale o della responsabilità
civile dei magistrati – ma quasi mai da
quello delle efficaci tecniche di gestione
del processo.
Ciò in contrasto con quanto avviene invece
da tempo in altri paesi europei e soprattutto negli USA.
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l’emozione del colore
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AL SURREALISMO
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Uno stile per l’Italia
moderna
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fino al 15 Giugno 2014
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info: 0543.19.12030
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Milano da non perdere
Due sedi museali in centro storico a Milano, vicine tra loro,
meritano per l’importanza delle opere contenute, una visita.
Museo del Novecento
Il Museo del Novecento, aperto nel Dicembre 2010, intende
presentare al pubblico, in veste permanente, un percorso dedicato alla pittura ed alla scultura italiana del XX secolo.
Il Museo restituisce ai cittadini le proprie collezioni e conferisce il giusto riconoscimento a quei collezionisti, galleristi ed
istituzioni che nel corso di più di un secolo hanno collaborato
a formare una delle più importanti raccolte di arte italiana del
XX secolo, testimone del periodo forse più creativo e fertile
della città di Milano.
Il Museo ha sede presso il Palazzo dell’Arengario e mostra
al pubblico circa quattrocento opere selezionate tra le quasi
quattromila dedicate all’arte italiana del XX secolo di proprietà delle Civiche Raccolte d’Arte Milanesi.
Museo del Novecento - Palazzo dell’Arengario Via
Marconi, 1 Milano
Orari:
Lunedì dalle ore 14.30 alle ore 19.30 (ultimo ingresso alle ore
18.30).
Martedì / Mercoledì / Venerdì e Domenica dalle ore 9.30 alle
ore 19.30 (ultimo ingresso alle ore 18.30).
Giovedì e Sabato dalle ore 9.30 alle ore 22.30 (ultimo ingresso
alle ore 21.30).
Tariffe: Biglietto intero Euro 5,00
Biglietto ridotto Euro 3,00
Venerdì Ingresso gratuito
Gallerie D’Italia
Le Gallerie, poste in Piazza Scala, hanno l’ambizioso progetto di
tutela, valorizzazione, pubblica fruizione e diffusione della conoscenza dei beni artistici e culturali che costruiscono la base del
progetto cultura di un Gruppo Bancario che, con le sue collezioni,
crea una rete di poli museali e culturali.
Il polo museale milanese di Piazza Scala si compone di quattro
edifici storici, simboli della città di Milano, che si trovano tra
Piazza della Scala, Via Manzoni e Via Moroni e rappresentano lo
sviluppo urbano e architettonico di Milano tra la fine del Settecento ed i primi decenni del secolo scorso.
Vi si trovano esposte circa duecento opere dell’Ottocento Lombardo, altrettante le opere dedicate al Novecento suddivise,
queste, in dodici sezioni tematiche.
Galleria d’Italia – Piazza Scala, 6 Milano
Orari:
Martedì / Domenica dalle ore 9.30 alle ore 19.30 (ultimo ingresso alle ore 18.30).
Giovedì dalle ore 9.30 alle ore 22.30 (ultimo ingresso alle ore
21.30).
Lunedì chiuso.
Ingresso gratuito
R.C.
Anteprima...
EGON SCHIELE
HANS MEMLING
GERHARD RICHTER
ROMA
ROMA
VIENNA
Scuderie del Quirinale
Palazzo delle Esposizioni
dal 21 Marzo al 1 Settembre 2014
dal 25 Settembre 2014
all’11 Gennaio 2015
dal 15 Ottobre 2014
al 10 Gennaio 2015
info: www.leopoldmuseum.org
info: www.scuderiequirinale.it
info: www.palazzoesposizioni.it
Museo Leopold
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