1. Il trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche (CSE) rappresenta la migliore opzione terapeutica per pazienti con leucemie acute ad alto rischio che, dopo aver raggiunto una remissione completa con chemioterapia standard, tendono purtroppo a recidivare entro pochi mesi o qualche anno. 2. Un caso tipico è quello di un giovane con leucemia acuta mieloide in prima remissione ma con indicatore biologico sfavorevole (delezione del cromosoma 7). In queste condizioni, il trapianto allogenico è considerato al momento attuale l’unica terapia post-remissionale in grado di ridurre il rischio di recidiva. 3. Le attuali conoscenze biologiche e la dimostrata correlazione tra fattori genetici e sopravvivenza consentono di definire con sufficiente accuratezza il livello di rischio di recidiva per una leucemia acuta all’esordio o al termine della chemioterapia di induzione. Pazienti che alla diagnosi hanno fattori di rischio sfavorevoli o coloro che non ottengono la remissione al primo ciclo di induzione o coloro che ricadono precocemente, devono essere considerati per un allotrapianto poiché qualsiasi altro approccio terapeutico non è in grado di garantire sopravvivenze libere da malattia superiori al 10%. Per questi pazienti, non c’è indicazione all’utilizzo del trapianto autologo che, invece, può essere vantaggiosamente impiegato in forme di leucemia a rischio basso o in pazienti con malattie linfoproliferative croniche quali linfomi e mielomi. 4. I pazienti che devono essere inclusi in un programma di allotrapianto subito dopo aver raggiunto la prima remissione ematologica con la chemioterapia standard sono quelli che presentano alla diagnosi indicatori genetici sfavorevoli raggruppati nel gruppo a rischio intermedio o alto. Quelli con indicatori biologici favorevoli non dovrebbero essere avviati all’allotrapianto in prima remissione ma solo in caso di una seconda remissione ottenuta dopo una prima recidiva. 5. Il vantaggio dell’allotrapianto rispetto alle altre terapie post-remissionali per i gruppi di rischio intermedio e alto è stato dimostrato in studi di metanalisi pubblicati negli ultimi anni. In questa riportata nella diapositiva, si conferma che solo i pazienti con fattori di rischio favorevoli hanno un vantaggio di sopravvivenza anche senza il trapianto allogenico; per tutti gli altri il trapianto offre un chiaro vantaggio in termini di guarigione. 6. In questo studio tedesco viene confermato il vantaggio dell’allotrapianto rispetto alla migliore chemioterapia di mantenimento, compreso l’autotrapianto, per pazienti con leucemia acuta mieloide che ricevono il trapianto allogenico in prima remissione. Per coloro che non hanno a disposizione il donatore compatibile la sopravvivenza è decisamente inferiore per l’aumentato rischio di recidiva leucemica. 7. Il ruolo fondamentale dell’allotrapianto nella cura della leucemia si evince da questa analisi di probabilità di recidiva in funzione del tipo di trapianto: da gemello omozigote (trapianto singenico o da identical twin) o da fratello identico (identical sibling). Quando il donatore è un gemello, l’effetto curativo è praticamente affidato alla sola chemioterapia di preparazione al trapianto, mentre nel trapianto da fratello c’è un addizionale effetto biologico del sistema immunitario nei confronti della malattia leucemica (effetto graftversus-leukemia). Nel trapianto singenico questo meccanismo invece non piò realizzarsi a motivo della perfetta identità genetica tra donatore e ricevente (in pratica il singenico somiglia ad un trapianto autologo senza contaminazione neoplastica midollare). 8. In effetti, il trapianto allogenico è in grado di curare una malattia tumorale attraverso la combinazione di due meccanismi: a. Azione antineoplastica del regime di preparazione al trapianto (chemio +/radioterapia aplastizzante o mieloablativa) b. Riconoscimento e uccisione delle cellule leucemiche da parte del sistema immunitario (T linfociti) del donatore (effetto graft-versus-leukemia-GvL) 9. L’effetto del regime di condizionamento e quello immune del donatore sono maggiormente efficaci in condizioni di malattia minima residua al momento del trapianto. Infatti, le curve di sopravvivenza dopo trapianto per leucemie ad alto rischio dimostrano ottimi risultati nelle fasi precoci (CR1 e CR2) di malattia a conferma che il trapianto allogenico è una terapia elettiva e non la terapia delle condizioni disperate. Attendere troppo nell’esecuzione del trapianto (per esempio, per cercare il donatore compatibile) espone il paziente il rischio di recidiva e di tapianto in fase avanzata. 10. Lo schema illustra le forze immunologiche che regolano le reazioni del ricevente (rischio di rigetto) e quelle del donatore (Graft versus Host Reaction e Graft versus leukemia effect). Entrambi questi fenomeni dipendono essenzialmente dai linfocit T, quelli residui nel ricevente e quelli del donatore presenti nel trapianto. Al termine del regime di condizionamento, il paziente ha ancora una quota minima residua di cellule staminali normali, di linfociti e di cellule leucemiche che spiegano la possibilità di recupero dell’emopoiesi autologa, del rigetto e della recidiva, rispettivamente. Nella maggior parte dei casi, tutti questi elementi cellulari vengono sopraffatti dal trapianto che è molto ricco in cellule staminali e in linfociti che facilitano l’attecchimento contrastando la reazione di rigetto e distruggono le cellule leucemiche residue (effetto GvL). 11. Purtroppo i linfocit T non sono in grado di riconoscere in maniera selettiva le cellule leucemiche ma riconoscono come estranei anche i tessuti normali del ricevente, in particolare cute, fegato e intestino. Il quadro clinico che deriva da questa aggressione cellulare è noto come Graft-versusHost Disease (GvHD). Questa si può manifestare in forma acuta nei primi 2-3 mesi dal trapianto, ha diversi gradi di severità (dal grado I al IV) e può essere mortale nelle forme di grado III-IV. La variante cronica, insorge più tardivamente, somiglia ad una malattia dis-immune e può colpire qualsiasi organo con quadri di sclerodermia, sindrome sicca, bronchiolite obliterante, epatite cronica, etc. 12. La GvHD si verifica in circa il 30% dei pazienti che ricevono un trapianto standard da famigliare genotipicamente identico. L’incidenza e la gravità della GvHD aumentano con il grado di disparità antigenica tra donatore e ricevente. In caso di differenza maggiore (un intero aplotipo incompatibile, quale si ha tra genitori e figli o altri collaterali che condividono solo uno dei due aplotipi che formano il genotipo umano), la GvHD si manifesta in quasi tutti i casi, è in genere severa e si rende responsabile di elevata probabilità di morte (>70-80%). 13. Queste regole di compatibilità sono dettate da geni presenti sul cromosoma 6, vengono identificati come loci di Classe I (A,B,C) o di Classe II (DP,DQ,DR) e vengono ereditati secondo leggi Mendeliane. Ne deriva che la probabilità che due figli di stessi genitori siano perfettamente identici è del 25%. Questo dato, unitamente alla numerosità sempre più ridotta delle famiglie, spiega perché solo un 20-30% dei pazienti candidabili al trapianto trovano il donatore tra i collaterali famigliari. 14. Per superare il limite della compatibilità famigliare, sono state sviluppate nel corso degli anni nuove procedure trapiantologiche che si basano sulla ricerca di un donatore compatibile non famigliare nei registri di donatori volontari o di una sacca di cordone ombelicale congelato in una delle tante banche mondiali. In assenza di potenziali donatori, l’unica opzione per un paziente che deve fare il trapianto a causa della sua malattia è quella di utilizzare un famigliare qualsiasi con il quale condivide uno dei due aplotipi (detto aploidentico per questo motivo) ma differisce per l’altro aplotipo (detto aplo-incompatibile o mismatched). 15. Nonostante le dimensioni dei registri di donatori volontari e delle banche di sangue cordonali, solo una minoranza dei pazienti in ricerca riesce a trovare un donatore ottimale per grado di compatibilità o per numero di cellule nel caso del cordone. Purtroppo, un altro limite all’esecuzione del trapianto da volontario è rappresentato dal tempo necessario per identificare il donatore e arrivare al prelievo delle cellule staminali. Per pazienti con leucemia ad alto rischio di recidiva, il tempo ideale per il trapianto è circa 2-3 mesi dalla fine della chemioterapia di induzione e del consolidamento. Purtroppo, in questo breve tempo pochi pazienti in lista riescono di fatto a fare il trapianto. 16. Questo grafico illustra il tempo medio e quello mediano per arrivare all’identificazione e al prelievo di cellule staminali da donatore non famigliare. E’ intuibile che solo pazienti in attesa di trapianto per malattie ad andamento cronico hanno una buona probabilità di trovare il donatore, quelli con malattie acute per i quali il trapianto spesso si impone in 1-2 mesi non hanno la stessa probabilità. 17. Queste difficoltà spiegano perché nonostante le dimensioni dei registri di donatori volonatari e delle banche di cordoni le percentuali di utilizzo sono ancora scarse. 18. Attendere troppo (>3 mesi) nella speranza di reperire il donatore più compatibile nel registro dei donatori volontari ha un impatto negativo sulla sopravvivenza in quanto, nell’attesa del trapianto, la malattia può progredire e il paziente arriva al trapianto in fase più avanzata. Le curve riportate in questo studio, confermano che i pazienti che trovano un donatore non famigliare con perfetta compatibilità (tipo 8 antigeni su 8 del sistema HLA) e che riescono a fare il trapianto in remissione hanno una buona probabilità di sopravvivenza libera da eventi. 19. Questa esperienza del registro americano conferma che quando il donatore volontario è perfettamente compatibile la probabilità di successo è sovrapponibile a quella osservata dopo trapianto da famigliare identico. Una maggiore mortalità è riportata per coloro che vengono trapiantati da un non famigliare non perfettamente compatibile. 20. Nel caso del trapianto di cordone ombelicale si deve tener conto non solo del grado di compatibilità ma anche della dose di cellule staminali disponibili nell’unità cordonale congelata. Infatti, quando si infondono cordoni con scarso numero di cellule staminali CD34+ aumenta il rischio di rigetto o si verifica una lenta ripresa ematologica dopo l’attecchimento con il rischio di elevata mortalità per infezioni. 21. Non vi è dubbio che l’unica possibilità per offrire a tutti i pazienti privi di un famigliare identico l’opportunità del trapianto in tempo immediato è quella di impiegare uno dei famigliari incompatibili (o solo parzialmente compatibili per uno aplotipo). 22. I vantaggi di poter utilizzare simili donatori sono molteplici: a) la tempistica del trapianto che si può effettuare quando serve al paziente e non solo quando si trova il donatore; b) l’ampia scelta tra vari collaterali (talora utile ove si consideri che il donatore deve essere in condizioni ottimali di salute per la donazione); c) il ricorso ad un altro donatore in caso di rigetto o di scarsa raccolta di cellule staminali (cattivo mobilizzatore); d) la possibilità di eseguire la cosiddetta DLI (donor lymphocyte infusion) che consiste nel prelevare linfociti a distanza dal trapianto per poi infonderli nel paziente in caso di necessità per il controllo di infezioni virali o fungine o per trattare la recidiva di malattia. 23. Purtroppo, in un sistema di incompatibilità, le reazioni immunitarie del trapianto (rigetto e GvHD) sono più esasperate e hanno rappresentato per anni il limite maggiore ad un più vasto impiego dei donatori incompatibili. 24. Usando cellule midollari non manipolate e la migliore profilassi della GvHD con ciclosporina e methotrexate, l’esperienza del trapianto incompatibile è stata ampiamente deludente negli anni 1980-90 per l’elevata incidenza di GvHD acuta severa, quasi sempre fatale. 25. Per contro, il ricorso alla T deplezione per ridurre il rischio della GvHD ha fatto riemergere il problema del rigetto. In quegli anni si era giunti ad una condizione di stallo per la diffcioltà di districarsi tra questi due maggiori problemi clinici: rigetto dopo T deplezione e GvHD nel trapianto non manipolato. 26. Di fondamentale importanza nel superamento della barriera dell’isto-compatibilità sono stati gli studi nel modello murino che hanno dimostrato che l’infusione di una megadose (10 volte superiore al convenzionale) di cellule staminali T-depletate consentiva l’attecchimento con ricostituzione ematopoietica full-donor nella quasi totalità degli animali trattati. 27. I modelli sperimentali hanno dimostrato che il vantaggio di infondere una megadose di cellule staminali non è legata al numero di per se ma al fatto che nel contesto di questa popolazione cellulare esiste una quota di cellule che sono in grado di inibire in modo specifico il tentativo di rigetto messo in atto dal sistema immune residue del paziente. Una volta attivate contro le cellule del donatore, i linfociti del paziente vanno incontro a morte programmata (apoptosi). Il fenomeno, noto come effetto «veto», è specifico e in effetti il sistema immune del paziente tollera le cellule staminali del donatore ma non quelle di una terza parte (che viene regolarmente rigettata). 28. Sulla base di queste acquisizioni biologiche, è stato possibile comprendere il meccanismo d’azione delle cellule CD34+ e della loro progenie mieloide CD33+. Secondo questo modello, l’attecchimento viene garantito dall’iniziale effetto citoriduttivo del regime di condizionamento e dall’effetto «veto» esercitato dalle popolazioni CD34 + e CD33+ sulla quota di cellule immuni del paziente sfuggite all’azione del condizionamento e potenzialmente responsabili del rigetto. 29. La disponibilità dei fattori di crescita emopoietici e l’esperienza acquisita nel trapianto autologo con l’impiego delle cellule staminali del sangue periferico mobilizzate dopo chemioterapia ad alte dosi seguita dalla stimolazione con G-CSF hanno reso possibile, anche nell’uomo, l’infusione di «megadosi» di cellule emopoietiche ai livelli che avevano consentito, nell’animale, il superamento della barriera dell’istocompatibilità. Per la prevenzione della GvHD era necessaria una deplezione ex vivo dei T linfociti del donatore con la finalità di infondere una quota di linfociti T CD3+ ≤ 1 x 104/kg. Questo livello di linfociti T era in grado di prevenire la GvHD nel trapianto aploidentico in bambini con immunodeficienza congenita dove il rischio di rigetto è minimo mentre quello della GvHD è elevato. 30. Inizialmente la T deplezione è stata affidata a tecniche di selezione negativa delle CD34 + mediante manipolazioni laboriose basate sull’agglutinazione dei T linfociti con la lectina soybean agglutinin (SBA) e successiva E-rosettazione con globuli rossi di montone. A partire dal 1995, si è progressivamente passati dalla selezione negativa a quella positiva delle cellule CD34+ usando inizialmente il separatore CellPro e poi, a partire dal 1999, quello più efficace della Milteny. La selezione positiva delle CD34 + ha consentito di infondere mediamente una megadose di CD34* (oltre 10 x 106/kg) e di rimuovere oltre 4 log di T linfociti (con infusioni mediamente di circa 2x104/kg CD3+). 31. Usando questo tipo di inoculo e un condizionamento mieloablativo, i due principali problemi del trapianto aploidentico T depletato sono stati superati. In effetti, in circa 200 pazienti trattati, l’attecchimento si è raggiunto nel 98% dei casi e la GvHD acuta e cronica è stata quasi del tutto eliminata, senza dover aggiungere alcuna terapia immunosoppressiva dopo il trapianto. 32. I risultati clinici, sia dell’esperienza monocentrica di Perugia che di quella multicentrica Europea, sono sovrapponibili in termini di sopravvivenza libera da malattia a quelli riportati dopo trapianto da donatore non famigliare compatibile per simili categorie di malattia. 33. Ma il trapianto aploidentico T depletato, proprio per la mancanza della GvHD e della immunosoppressione post-trapianto con steroidi e ciclosporina, è stato ed è ancora un modello di ricerca traslazionale. Per esempio, la constatazione clinica della bassa incidenza di recidiva leucemica dopo un trapianto eseguito in pazienti con malattia ad alto rischio di recidiva e che non hanno beneficiato dell’effetto GvL connesso con la GvHD ha indotto i ricercatori a trovare spiegazioni biologiche a questo fenomeno. 34. Una risposta convincente è stata fornita dallo studio della ricostituzione delle singole popolazioni linfocitarie post-trapianto che ha dimostrato il rapido incremento, nelle prime settimane dal trapianto, di cellule natural killer (NK). 35. Le cellule NK sono fisiologicamente equipaggiate per essere costantemente bloccate dal lisare o «uccidere» altre cellule attraverso il riconoscimento di antigeni self della classe I del sistema HLA. Il fenomeno non è quindi osservabile nel trapianto tra soggetti compatibili. Invece, nel trapianto aploidentico, in cui le cellule NK del donatore non riconoscono come "self" gli antigeni del ricevente, il repertorio delle cellule NK emergenti dalle cellule staminali trapiantate è caratterizzato dalla presenza di un numero significativo di cloni NK che hanno un effetto alloreattivo verso il sistema emopoietico del ricevente. Poiché il loro target è rappresentato dalle cellule del sistema emopoietico e non da quelle dei tessuti, l’alloreattività NK si traduce in un effetto antileucemico in assenza di GvHD. 36. L'impatto clinico di questo fenomeno é bene evidente in pazienti con leucemia mieloide acuta in remissione al momento del trapianto. La probabilità di recidiva è infatti significativamente più bassa (3% vs 47%) dopo trapianto da donatore NK alloreattivo e questo si traduce in un significativo vantaggio anche in termini di probabilità di sopravvivenza (67% a oltre 10 anni dal trapianto). 37. Infine, come emerso da una recente analisi retrospettiva comprensiva di pazienti pediatrici ed adulti, usare la madre, NK alloreattiva, come donatore offre la migliore probabilità di sopravvivenza. Questi dati indicano come la scelta del donatore nell'ambito dei vari familiari aploidentici disponibili debba tenere conto di questo vantaggio biologico e di conseguenza di privilegiare il soggetto NK alloreattivo, identificabile sulla base della tipizzazione HLA. 38. Questi risultati si possono interpretare alla luce delIa pregressa esposizione del sistema immune della madre agli antigeni fetali durante la gravidanza che genera cellule linfocitarie T memoria nei riguardi dell’aplotipo paterno del feto (chimerismo materno-fetale). 39. In conclusione, il trapianto da donatore aploidentico familiare è divenuto nel corso di questi ultimi anni una realtà clinica e deve essere prospettato a pazienti con emopatie maligne ad alto rischio privi di un donatore identico nell'ambito della famiglia o dei registri internazionali di donatori volontari. Anche se il cordone può offrire gli stessi vantaggi in termini di tempi per il reperimento del donatore, il trapianto da famigliare aploidentico si deve preferire soprattutto nel paziente adulto e laddove è presente un donatore (madre quando possibile) NK alloreattivo.
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