Il lupo di Wall Street

Proprietà letteraria riservata
© 2007 by Jordan Belfort
This translation is published by arrangement with
The Bentam Dell Publishing Group,
a division of Random House, Inc.
© 2008 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-17-07035-5
Titolo originale dell’opera:
The Wolf of Wall Street
Traduzione di Michele Foschini e G.L. Staffilano
Prima edizione Rizzoli 2008
Prima edizione BUR gennaio 2014
Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu
Jordan Belfort
Il lupo di Wall Street
Ai miei due magnifici figli,
Chandler e Carter Belfort
Nota dell’Autore
Questo libro è un’opera biografica: una storia vera, basata per
quanto possibile sul ricordo di molti eventi della mia vita. Dove
era opportuno, ho modificato il nome e le caratteristiche di alcune persone citate, per rispettarne la riservatezza (alla loro
prima apparizione nel testo i nomi fittizi sono contrassegnati da
un asterisco). In alcuni casi, per rendere più fluida la narrazione ho riordinato e condensato eventi e periodi di tempo e ho ricreato i dialoghi adatti.
Prologo
Un bambino nel bosco
4 maggio 1987
«Tu conti meno di zero» disse il mio nuovo capo, mentre mi accompagnava per la prima volta nella sala operativa della LF
Rothschild. «La cosa ti crea problemi, Jordan?»
«No» risposi, «nessun problema.»
«Bene» approvò il capo, brusco, e continuò a camminare.
Percorrevamo un labirinto di scure scrivanie di mogano e cavi telefonici neri, al ventiduesimo piano di una torre di vetro e
alluminio che si alzava per quaranta piani sopra la famosa
Quinta Avenue di Manhattan. La sala operativa era ampia, forse quindici metri per venti. Un locale opprimente, con scrivanie, telefoni, computer e un piccolo esercito di yuppie molto
sgradevoli, settanta in tutto. Si erano tolti la giacca e a quell’ora,
le nove e venti del mattino, se ne stavano appoggiati alla spalliera della sedia a leggere il «Wall Street Journal» e a rallegrarsi di
essere i giovani Padroni dell’Universo.
Padrone dell’Universo: mi pareva un nobile obiettivo; e
mentre li oltrepassavo, in completo blu a buon mercato e scarpe pesanti, mi ritrovai a desiderare di essere uno di loro. Ma il
mio nuovo capo si premurò subito di ricordarmi che non lo ero.
«Il tuo compito...» guardò la targhetta col nome sul risvolto
della mia modesta giacca blu «... Jordan Belfort, è quello di collegare, il che significa comporre numeri di telefono cinquecento
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volte al giorno, per riuscire a oltrepassare la segretaria. Non devi vendere niente, raccomandare niente, creare niente. Devi solo contattare titolari d’azienda.» S’interruppe per un istante,
poi riprese a sputare veleno. «E quando ne avrai uno al telefono, tutto ciò che dirai è: “Buongiorno, signor Tal dei Tali, ho in
linea Scott per lei” e mi passerai la telefonata e ricomincerai a
comporre numeri. Pensi di potertela cavare o è troppo complicato per te?»
«No, credo di potercela fare» risposi speranzoso, mentre mi
sentivo sopraffatto da uno tsunami di panico. Il programma
d’addestramento della LF Rothschild durava sei mesi. Sarebbero stati sei mesi durissimi, sei mesi a sudare sangue, nel corso
dei quali sarei stato alla mercé di cazzoni come Scott, lo spregevole yuppie che pareva risalito dalle infuocate viscere dell’inferno degli yuppie.
Dopo averlo esaminato di sottecchi, giunsi rapidamente alla
conclusione che Scott aveva l’aria di un pesce rosso. Era calvo e
pallido e i pochi capelli che gli rimanevano erano di un colore
arancione fangoso. Poco più di trent’anni, alto, con cranio stretto e labbra rosee e gonfie. Sfoggiava una cravatta a farfalla che
lo rendeva ridicolo, ma erano gli occhiali dalla montatura metallica sugli occhi nocciola sporgenti che gli davano quell’aria
ottusa, da pesce rosso, appunto.
«Bene» disse lo spregevole pesce rosso. «Allora, ecco le regole di base: niente interruzioni, niente chiamate personali,
niente giorni di malattia, niente ritardi e niente perdite di tempo. Hai trenta minuti per pranzo...» fece una pausa strategica
prima del colpo a effetto «... e sarà meglio che torni in orario,
perché cinquanta persone non aspettano altro che prendersi la
tua scrivania, se fai cazzate.»
Continuò a camminare e a parlare, mentre lo seguivo a un
passo di distanza, ipnotizzato dalle migliaia di quotazioni di titoli che scorrevano, in arancione, sul grigio dei monitor. La parete anteriore della sala era tutta una vetrata che guardava sul
centro commerciale di Manhattan. Più avanti si scorgeva
l’Empire State Building: torreggiava su tutto, sembrava arrivare
davvero fino a grattare il cielo. Un magnifico panorama, degno
di un giovane Padrone dell’Universo. Una meta che ora pareva
sempre più lontana.
«Per dirti la verità» biascicò Scott, «non penso che tu sia tagliato per questo lavoro. Hai l’aria da ragazzino e Wall Street
non è un posto per ragazzini. È un posto per assassini. Per mercenari. Da questo punto di vista sei fortunato che qui non sia io
a fare le assunzioni.» Ridacchiò brevemente.
Mi morsi il labbro e rimasi in silenzio. Era il 1987 e gli yuppie cazzoni come Scott parevano dominare il mondo. Wall
Street era al cuore di un violento mercato tendente al rialzo e
nuovi miliardari venivano sputati fuori per dieci centesimi alla
dozzina. Il denaro era a buon mercato e un tizio, Michael
Milken, aveva inventato i «titoli spazzatura» che avevano cambiato il modo in cui le imprese americane facevano affari. Era
un tempo di sbrigliata avidità, un tempo di eccessi sfrenati. Era
l’epoca degli yuppie.
Mentre ci avvicinavamo alla mia scrivania, la mia nemesi in
carriera si girò verso di me e disse: «Lo ripeto, Jordan. Sei più
in basso dell’ultimo gradino. Ancora non sei neppure un cold
caller, non fai vendite per telefono. Sei solo un collegatore».
Dalla parola grondava disprezzo. «E finché non avrai ottenuto
la licenza di vendita di azioni, collegare sarà tutto il tuo universo. Ecco perché conti meno di zero. Per te non è un problema,
vero?»
«Assolutamente no» risposi. «È il lavoro perfetto per me,
perché conto davvero meno di zero.» Mi strinsi nelle spalle, con
aria innocente.
A differenza di Scott, non ho l’aspetto di un pesce rosso, e
perciò mi sentii orgoglioso mentre lui mi scrutava in viso per
capire se facevo dell’ironia. Non sono molto alto e a ventiquattro anni avevo ancora i lineamenti morbidi di un adolescente.
Quel tipo di faccia che mi rendeva difficile entrare in un bar
senza che verificassero la mia età. Avevo una massa di capelli
castano chiaro, pelle liscia e olivastra e grandi occhi blu. Tutto
sommato, non ero brutto.
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Purtroppo, però, non avevo mentito a Scott, quando avevo
ammesso di contare meno di zero. Perché era proprio così che
mi sentivo. Avevo appena mandato in fumo la mia prima attività imprenditoriale e la mia autostima aveva fatto la stessa fine.
Era stata un’iniziativa nell’industria della carne e del pesce partita con il piede sbagliato e, quando si era conclusa, mi ero trovato sulle croste ventisei camion in leasing... tutti da me personalmente garantiti e tutti in inadempienza. Perciò le banche mi
davano la caccia, al pari di una bellicosa tizia dell’American Express (una donna cannone barbuta, a giudicare dalla voce) che
minacciava di prendermi a calci di persona se non avessi pagato. Avevo considerato l’idea di cambiare numero di telefono,
ma ero in arretrato anche con la bolletta, e pure l’azienda telefonica mi braccava.
Arrivammo alla scrivania di Scott, il quale mi offrì di sedermi accanto a lui, insieme con qualche parola
d’incoraggiamento, più o meno. «Guarda il lato positivo» disse
spiritosamente. «Se per un miracolo non sarai licenziato per pigrizia, stupidità, insolenza o ritardi, un giorno potresti diventare davvero un operatore di borsa.» Sogghignò alla battuta. «E,
giusto perché tu lo sappia, l’anno scorso ho tirato su più di trecentomila dollari e il mio collega per cui lavorerai, più di un milione.»
Più di un milione? Riuscivo solo a immaginare che razza di
stronzo doveva essere. Sentendomi morire, chiesi: «Chi è?».
«Che te ne importa?» replicò il mio aguzzino yuppie.
Santo cielo, pensai, parla solo se sei interrogato, poppante.
Era come essere nei Marine. Anzi, avevo la netta impressione
che il film preferito di quel bastardo fosse Ufficiale e gentiluomo e che lui sfogasse su di me una fantasia alla Lou Gossett,
fingendo di essere un sergente istruttore responsabile di un marine inadeguato. Ma tenni per me quel pensiero e mi limitai a
dire: «Ah, niente. Ero solo... curioso».
«Si chiama Mark Hanna e lo incontrerai presto.» Mi passò
una catasta di schede sei per dieci, ciascuna col nome e il numero di telefono di un ricco imprenditore. «Sorridi e chiama» mi
disse, «e non alzare la fottuta testa fino alle dodici.» Poi si sedette alla scrivania, prese una copia del «Wall Street Journal»,
appoggiò sul piano le scarpe di coccodrillo nere e cominciò a
leggere.
Stavo per prendere il ricevitore, quando sentii sulla spalla
una mano robusta. Alzai gli occhi e mi bastò un’occhiata per
capire che quello era Mark Hanna. Puzzava di successo, come
un vero Padrone dell’Universo. Era un pezzo d’uomo, circa
uno e ottanta per cento chili, quasi tutto muscoli. Aveva capelli
neri, intensi occhi scuri, lineamenti carnosi e una bella spruzzata di cicatrici di acne. Era piuttosto piacente, un po’ sul tipo
uomo d’affari, ed emanava la zaffata hippy del Greenwich Village. Sentivo il carisma colargli di dosso.
«Jordan?» disse, in un tono assai rassicurante.
«Sì, eccomi» risposi, con l’aria del condannato. «Nullità di
prima classe, al tuo servizio.»
Rise con calore mentre le imbottiture delle spalle del suo
completo grigio gessato da duemila dollari si alzavano e si abbassavano ritmicamente. Poi, con voce più forte del necessario,
disse: «Sì, bene, vedo che ti sei già beccato la prima dose dello
stronzo del villaggio!». Con la testa indicò Scott.
Annuii impercettibilmente. Lui strizzò l’occhio. «Non ti
preoccupare, qui sono io il broker più anziano, lui è solo un
piccolo speculatore senza meriti. Non fare caso a tutto ciò che
ha detto e che potrebbe dire in futuro.»
Per quanto tentassi di trattenermi non riuscii a non lanciare
un’occhiata a Scott, che borbottò: «’Fanculo, Hanna!».
Mark però non si offese. Si limitò a scrollare le spalle e girò
intorno alla scrivania, mettendo la sua grande massa tra Scott e
me. «Non lasciarti infastidire da lui» disse. «Ho saputo che sei
un venditore di prim’ordine. Fra un anno quell’idiota ti bacerà
il culo.»
Sorrisi, con un misto d’orgoglio e d’imbarazzo. «Chi ti ha
detto che sono un grande venditore?»
«Steven Schwartz, il tizio che ti ha assunto. Ha detto che nel
colloquio te lo sei rigirato per bene.» Ridacchiò al pensiero. «È
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rimasto colpito. Mi ha detto di stare attento a te.»
«Sì, ero nervoso per paura che non mi assumesse. C’erano
venti persone in fila per il colloquio, perciò ho pensato che era
meglio andarci deciso... sai, fare impressione.» Mi strinsi nelle
spalle. «Lui però mi ha detto di moderare un po’ i toni.»
Mark sorrise, compiaciuto. «Sì, ma non troppo. La pressione è indispensabile in questo lavoro. La gente non compra
azioni, bisogna vendergliele. Non dimenticarlo mai.» Lasciò
che le parole facessero presa. «Comunque, lo stronzo del villaggio ha ragione su una cosa: collegare frega davvero. Io l’ho
fatto per sette mesi e ogni giorno volevo suicidarmi. Perciò ti
rivelerò un piccolo segreto.» Abbassò la voce in tono da cospiratore. «Fa’ solo finta di collegare. Perdi tempo a ogni occasione.» Sorrise e strizzò l’occhio, poi riprese in tono normale.
«Non fraintendermi. Voglio che tu mi colleghi col maggior numero possibile di persone, perché è da loro che spremo denaro. Ma non voglio che ti tagli i polsi per questo, non mi piace la
vista del sangue.» Ammiccò di nuovo. «Perciò fa’ un mucchio
d’interruzioni. Va’ in bagno e masturbati, se ne hai bisogno. È
quello che facevo io, e per me era come un talismano. Ti piace
masturbarti, ho ragione?»
Per un attimo fui colto alla sprovvista, ma come avrei appreso ben presto, una sala operativa di Wall Street non era il luogo
più adatto a fare sfoggio di bon ton. Parole come «merda» e
«coglione» e «bastardo» e «cazzo» erano comuni come «sì» e
«no» e «forse» e «per favore». Dissi: «Sì, certo, adoro masturbarmi. Voglio dire, a chi non piace?».
Lui annuì, quasi sollevato. «Bene, molto bene. La masturbazione è la chiave. E ti raccomando seriamente anche l’uso di droghe, specialmente coca, perché così sarai più svelto a comporre
numeri e sarà meglio per me.» Esitò, come se cercasse altre perle
di saggezza, ma a quanto pareva aveva esaurito la riserva. «Bene,
non c’è altro. Queste sono tutte le indicazioni che posso darti
adesso. Te la passerai bene, pivello. Un giorno ripenserai a questi
momenti e ci riderai sopra; almeno questo te lo posso promettere.» Sorrise ancora una volta e si sedette davanti al telefono.
Un attimo dopo risuonò un cicalino, l’annuncio che il mercato era appena stato aperto. Guardai il Timex, comprato da
JCPenney per quattordici dollari la settimana prima. Erano le
nove e trenta in punto. Del 4 maggio 1987, il mio esordio a Wall
Street.
Proprio allora la voce del direttore vendite della LF Rothschild, Steven Schwartz, superò l’altoparlante. «Bene, signori. I
future sembrano forti, stamattina, e da Tokyo arrivano notevoli
acquisti.» Steven aveva solo trentotto anni, ma l’anno prima
aveva guadagnato più di due milioni di dollari: Un altro Padrone dell’Universo, senza dubbio. «Ci aspettiamo un balzo di dieci punti all’apertura» soggiunse, «perciò prendiamo il telefono
e diamoci da fare!»
E nella sala si scatenò il pandemonio. I piedi volarono giù
dalle scrivanie; i «Wall Street Journal» furono archiviati nei cestini; le maniche delle camicie furono arrotolate al gomito; e a
uno a uno i broker presero il telefono e iniziarono a chiamare.
Presi anch’io il telefono e cominciai a chiamare.
Nel giro di qualche minuto tutti andavano avanti e indietro
come esagitati e gesticolavano e gridavano al telefono, creando
un incredibile frastuono. Era la prima volta che udivo il ruggito
di una sala operativa di Wall Street, simile al fragore di una folla tumultuante. Un rumore che non dimenticherò mai, e che mi
avrebbe cambiato per sempre la vita. Il rumore di uomini inghiottiti da avidità e ambizione, che sputavano cuore e anima
per convincere ricchi imprenditori di ogni angolo d’America.
«Le Miniscribe sono un fottuto furto quaggiù» gridò al telefono uno yuppie dal viso paffuto. Aveva ventotto anni, una
forte dipendenza dalla coca e un reddito lordo di seicentomila
dollari. «Il suo broker in West Virginia? Cristo! Sarà bravo a
scegliere azioni di miniere di carbone, ma siamo negli anni Ottanta. Il gioco ora si chiama high-tech!»
«Ho cinquantamila July Fifties!» strillò un tizio due scrivanie più in là.
«Hanno finito i soldi!» urlò un altro.
«Non mi arricchisco in una sola transazione» giurò un
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broker al suo cliente.
«Sta scherzando?» sbottò Scott al telefono. «Dopo aver diviso la commissione fra la società e il governo, non mi resta nemmeno quanto basta per dar da mangiare al mio cane!»
Di tanto in tanto un broker sbatteva giù la cornetta in segno
di vittoria, riempiva un modulo d’acquisto e andava al tubo di
un sistema di posta pneumatica affisso a una colonna. Incollava
il modulo a un cilindro di vetro e guardava il tubo risucchiarlo
fino al soffitto. Da lì il modulo arrivava al banco contrattazioni
all’altro lato dell’edificio, da dove sarebbe stato inoltrato al
pianterreno della Borsa di New York per l’evasione. Il soffitto
era stato abbassato per fare spazio al sistema di tubi e avevo la
sensazione che mi schiacciasse.
Alle dieci Mark Hanna aveva già fatto tre viaggi alla colonna
ed era sul punto di farne un altro. Al telefono era così calmo da
lasciarmi sbalordito. Come se si scusasse col cliente mentre gli
strappava gli occhi. «Signore, mi consenta» stava dicendo Mark
al presidente di una società elencata da «Fortune» tra le prime
cinquecento degli Stati Uniti, «sono orgoglioso di aver trovato
una via per risolvere il problema. Il mio obiettivo è consentirle
di affrontare con sicurezza situazioni del genere, e soprattutto
garantirle di poterne uscire.» Il suo tono era così calmo e convincente da risultare quasi ipnotico. «Desidero avere un ruolo
positivo per lei nel lungo termine; un ruolo positivo per i suoi
affari e per la sua famiglia.»
Due minuti più tardi Mark era al tubo di posta pneumatica,
con un ordine d’acquisto da duecentocinquantamila dollari per
azioni di una certa Microsoft. Non avevo mai sentito parlare
della Microsoft, ma il nome faceva pensare a una società abbastanza rispettabile. A ogni modo, la commissione di Mark sulla
vendita ammontava a tremila dollari. Io, in tasca, avevo sette
dollari.
Alle dodici avevo la testa che girava e morivo di fame. A dire
il vero, ero stordito, oltre che affamato e sudavo copiosamente.
Ma, cosa più importante, ero preso all’amo. Il possente ruggito
mi cresceva nelle viscere e mi echeggiava in ogni fibra del cor-
po. Sapevo di poter fare quel lavoro. Sapevo di poterlo fare proprio come lo faceva Mark Hanna, forse anche meglio. Sapevo
di poter essere liscio come la seta.
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Con mia sorpresa, anziché prendere l’ascensore e scendere nell’atrio e spendere metà del mio patrimonio in due würstel e una
Coca, mi ritrovai a salire all’attico, a fianco di Mark Hanna. La
nostra destinazione era un ristorante a cinque stelle, il Top of
the Sixes, al quarantesimo piano dell’edificio. In quel locale
l’élite si ritrovava a pranzo e i Padroni dell’Universo potevano
sbronzarsi di Martini e vantarsi degli ultimi colpi.
Appena entrammo nel ristorante, Luis, il maître, si precipitò
verso Mark, gli strinse con vigore la mano e gli disse quant’era
bello vederlo in un lunedì pomeriggio così splendido. Mark gli
rifilò un cinquanta (a momenti ci restavo secco) e Luis ci accompagnò a un tavolo d’angolo con una magnifica vista dell’Upper
West Side di Manhattan e del ponte George Washington.
Mark sorrise. «Luis» disse, «portaci subito due Absolut Martini. E poi altri due, fra...» si guardò il Rolex d’oro massiccio
«sette minuti e mezzo esatti. Continua a portarcene altri due
ogni cinque minuti, finché uno di noi non perde i sensi.»
Luis annuì. «Ma certo, signor Hanna. Mi sembra un’eccellente strategia.»
Sorrisi a Mark e dissi in tono di scusa: «Mi spiace, ma non bevo». Mi rivolsi a Luis. «Mi porti una Coca. Andrà benissimo.»
Luis e Mark si scambiarono un’occhiata, come se avessi appena commesso un crimine. Mark però si limitò a commentare:
«È il suo primo giorno a Wall Street. Diamogli tempo».
Luis mi guardò, serrò le labbra e annuì, serio. «Perfettamente comprensibile. Non si preoccupi, presto sarà un alcolista.»
Mark concordò. «Ben detto, Luis, ma portagli ugualmente
un Martini, nel caso cambi idea. Male che vada, lo berrò io.»
«Benissimo, signor Hanna. Lei e il suo amico desiderate
pranzare, oggi, o prendete solo qualche drink?»
Ma di che cazzo parlava, Luis? Aveva fatto una domanda as-
surda, vista l’ora di pranzo! Con mia sorpresa, Mark rispose a
Luis che per quel giorno lui non avrebbe pranzato, ma l’avrei
fatto io; a quel punto Luis mi porse un menu e andò a prendere i drink. L’attimo dopo scoprii perché Mark non avrebbe
pranzato: dal taschino della giacca tirò fuori una fialetta di coca, svitò il tappo e tuffò nel recipiente un minuscolo cucchiaino. Estrasse un mucchietto del più potente inibitore naturale
dell’appetito, la cocaina, e l’inalò con forza dalla narice destra.
Poi ripeté il procedimento e aspirò come un Hoover dalla narice sinistra.
Ero stupefatto. Non potevo crederci. Proprio lì nel ristorante. Fra i Padroni dell’Universo! Con la coda dell’occhio guardai
in giro per vedere se qualcuno l’aveva notato. Pareva che nessuno ci avesse fatto caso e, in retrospettiva, sono sicuro che comunque tutti se ne sarebbero fregati. In fin dei conti erano impegnati a distruggersi con vodka, scotch, gin, bourbon e i pericolosi prodotti farmaceutici che si erano agevolmente procurati
grazie ai loro favolosi guadagni.
«Ecco qua» disse Mark, passandomi la fialetta di coca. «Il
vero biglietto per Wall Street: questa roba e le puttane.»
Puttane? Il riferimento mi parve bizzarro. Voglio dire, non
ero mai stato con una prostituta. E poi ero innamorato di una
ragazza che stava per diventare mia moglie. Si chiamava Denise
ed era splendida, bellissima dentro e fuori. Le probabilità che
la tradissi erano meno di zero. In quanto alla coca, be’, avevo
avuto la mia parte di divertimento, al college, ma da alcuni anni
non toccavo niente di più dell’erba. «No, grazie» risposi, sentendomi un po’ imbarazzato. «Quella roba e io non andiamo
d’accordo. Mi rende... ehm... suonato. Mi passa la voglia di dormire o di mangiare e... comincio a preoccuparmi di tutto. Per
me è davvero nociva. Davvero malefica.»
«Nessun problema» disse lui, sniffandone ancora. «Ma ti garantisco che la coca ti aiuterà decisamente a tirare avanti per
tutto il giorno, da queste parti.» Scosse la testa e scrollò le spalle. «È un mestiere incasinato, il broker. Non fraintendermi: i
soldi ci sono alla grande e non manca niente, ma non si crea
nulla, non si costruisce nulla. Perciò dopo un po’ di tempo diventa piuttosto monotono.» Esitò, come se cercasse la parola
giusta. «La verità è che non siamo altro che degli squallidi venditori. Nessuno di noi ha idea di quali azioni saliranno. Ci limitiamo a tirare freccette su un tabellone, a gettare fumo negli occhi della gente e a imbrogliare. Comunque te ne accorgerai abbastanza presto.»
Passammo qualche minuto a parlare delle nostre rispettive
esperienze precedenti. Mark era cresciuto a Brooklyn, nel sobborgo di Bay Ridge, un ambiente abbastanza duro a quanto ne
sapevo. «Fa’ qualsiasi cosa» disse ironicamente, «ma non uscire
con le ragazze di Bay Ridge. Sono tutte matte!» Poi sniffò ancora un po’ di coca e aggiunse: «L’ultima con cui sono uscito mi
ha pugnalato con una fottuta matita mentre dormivo! Te
l’immagini?».
Proprio allora un cameriere in smoking posò sul tavolo i nostri drink. Mark alzò il Martini da venti dollari e io la Coca-Cola
da otto. Mark disse: «Questo è perché il Dow Jones vada dritto
a cinquemila!». Facemmo tintinnare i bicchieri. «E questo per
la tua carriera a Wall Street!» continuò. «Che tu possa fare una
maledetta fortuna in questo mestiere e tenerci impegnata solo
una piccola porzione dell’anima!» Sorridemmo e facemmo toccare di nuovo i bicchieri.
In quel preciso istante, se qualcuno m’avesse detto che soltanto qualche anno dopo sarei stato il proprietario del ristorante dove ora sedevo e che Mark Hanna e metà degli altri broker
alla LF Rothschild avrebbero lavorato per me, l’avrei preso per
pazzo. E se qualcuno m’avesse detto che avrei sniffato strisce di
coca sul banco di quello stesso ristorante, mentre una decina di
puttane d’alto bordo guardavano con ammirazione, avrei pensato che si era bevuto il cervello.
Ma era solo l’inizio. Vedete, in quello stesso momento, molto lontano da me si verificavano alcuni eventi (eventi che non
avevano niente a che fare con la mia persona) a iniziare da una
faccenda detta «assicurazione patrimoniale», ossia una strategia di copertura azionaria elaborata al computer, che a un cer-
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to punto avrebbe messo fine a quel folle mercato al rialzo e
avrebbe fatto crollare l’indice Dow Jones di cinquecentootto
punti in un solo giorno. E da quel momento in poi la catena
d’eventi successivi sarebbe stata quasi inimmaginabile. Wall
Street avrebbe chiuso bottega per qualche tempo e la società
LF Rothschild, finanziaria per il collocamento di nuove azioni,
sarebbe stata costretta a chiudere i battenti. E poi la follia
avrebbe regnato.
Vi offro appunto una ricostruzione, satirica, di quella follia,
di quella che si sarebbe rivelata una delle corse più sfrenate nella storia di Wall Street. E ve la offro nella voce che mi risuonava
nella testa a quel tempo. Una voce ironica, disinvolta, egoistica
e, in molti casi, meschina. Una voce che mi permetteva di trovare giustificazioni razionali per ogni aspetto della mia vita di sfrenato edonismo. Una voce che mi ha aiutato a corrompere altre
persone e a manipolarle, a portare caos e follia a un’intera generazione di giovani americani.
Sono cresciuto in una famiglia borghese a Bayside, nel
Queens, dove i termini spregiativi per indicare neri e portoricani e italoamericani e cinesi erano considerati le peggiori parolacce, da non pronunciare in nessuna circostanza. Nella casa
dei miei genitori si combattevano i pregiudizi di qualsiasi genere, considerandoli segno di ignoranza e vedute ristrette. Ho
sempre ricordato questa regola, da bambino e da adolescente; e
anche al vertice della follia. Eppure quegli epiteti offensivi mi
sarebbero saliti alle labbra, con notevole facilità, soprattutto
mentre la follia s’impossessava di me. Naturalmente razionalizzavo anche questo, mi dicevo che Wall Street è fatta così e che a
Wall Street non c’è tempo per troppe cortesie o finezze sociali.
Perché vi dico questo? Perché voglio che sappiate chi realmente sono e, cosa più importante, chi non sono. E perché ho
due figli miei e un mucchio di cose da spiegare loro, un giorno.
Dovrò spiegare come il loro amorevole papà, lo stesso papà che
ora li porta alle partite di calcio e partecipa agli incontri fra
maestri e genitori e resta a casa i venerdì sera e prepara loro la
Caesar salad, sia stato un tempo una persona così spregevole.
Ma ciò che sinceramente mi auguro è che il racconto della
mia vita possa servire da monito tanto ai ricchi quanto ai poveri; a chiunque viva con un cucchiaino nel naso e un cocktail di
pillole disciolte nello stomaco; o a qualsiasi persona accetti un
dono di Dio e ne faccia cattivo uso; a chiunque decida di passare al lato oscuro del potere e vivere una vita di sfrenato edonismo. E a chiunque pensi che sia affascinante essere conosciuto
come un Lupo di Wall Street.
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