LookOut - Il Settimanale 10-16 feb 2014

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iran - 10 febbraio 2014
Nucleare: L’Iran alla verifica dell’AIEA
La fase negoziale entra nel vivo: Teheran e il mondo scommettono sul buon esito.
L’Agenzia per l’energia atomica negozia tutti i punti dell’accordo
È assai interessante questa fase dei negoziati tra l’Iran e le potenze mondiali: l’accordo sul
programma nucleare iraniano, infatti, sta entrando nella sua fase più delicata e nel giro di sei
mesi, anche meno, dovrà infine concludersi con un risultato tangibile. Niente rinvii né formule
criptiche: o la Repubblica Islamica spegnerà le macchine utilizzate per costruire nuovi reattori per
l’arricchimento dell’uranio oppure Teheran si assumerà le conseguenze delle proprie azioni.
Secondo quanto pattuito finora, ecco ciò che dovrebbe accadere come da calendario stilato
per lo più dagli Stati Uniti, in prima linea nel concludere quell’intesa storica. Una serie di
passaggi che potrebbero riavvicinare infine gli USA allo storico nemico, dopo trent’anni di
veleni e accuse reciproche, e riavviare il motore economico di un Iran assai stremato dalle
sanzioni.
L’AIEA - Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, ente autonomo ma appartenente
alla “grande famiglia” delle Nazioni Unite – è l’organo deputato alla verifica. In queste ore ha
aggiunto alla lista altri punti, pur se non fondamentali, relativi alle verifiche degli impianti e
delle miniere (la miniera di uranio di Saghand nei pressi di Yazd, la fabbrica di Ardakan, il
laser center a Lashkar Abad e nuove ispezioni a Parchin). Oltre a ciò, i punti chiave di quanto
gli iraniani dovranno accettare, pubblicato già il 16 gennaio 2014 sul sito della Casa Bianca,
resta il medesimo.
L’Agenzia dovrà accertare che l’Iran:
- Non arricchisca l’uranio in circa la metà delle centrifughe installate a Natanz e in tre quarti
delle centrifughe installate a Fordow;
- Limiti la produzione a centrifuga a quelle operazioni necessarie per sostituire i macchinari
danneggiati, senza possibilità di stoccaggio;
- Non costruisca impianti di arricchimento aggiuntivi;
- Non vada oltre le attuali pratiche di ricerca e sviluppo per l’arricchimento;
- Non commissioni o alimenti il reattore ad acqua pesante di Arak;
- Fermila produzione e ulteriori test di combustibile per il reattore di Arak;
- Non installi componenti aggiuntivi al reattore di Arak;
- Non trasferisca carburante né acqua pesante presso il sito del reattore di Arak;
- Non costruisca una struttura in grado di riavviare il processo. L’Iran, in questo modo, non
avrà più possibilità di separare il plutonio dal combustibile esaurito.
In cambio, le potenze mondiali s’impegneranno a:
- Non imporre ulteriori sanzioni legate al nucleare, se l’Iran manterrà i propri impegni;
- Trasferire 4,2 miliardi di dollari a rate, derivanti dalle entrate del petrolio in Iran;
- Sospendere l’applicazione delle sanzioni relative alle esportazioni petrolchimiche iraniane
e alle sue importazioni di beni e servizi per il settore automobilistico;
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- Fermare gli sforzi per ridurre ulteriormente gli acquisti di greggio dall’Iran da parte dei
Paesi che ancora acquistano petrolio da Teheran;
- Sospendere le sanzioni sulle importazioni ed esportazioni di oro e altri metalli preziosi provenienti dall’Iran;
- Concedere in licenza la fornitura di pezzi di ricambio e servizi per il settore dell’aviazione
civile e della sicurezza in volo dell’Iran;
- Facilitare la creazione di un canale finanziario per sostenere il commercio umanitario già
consentito con l’Iran, facilitare gli obblighi di pagamento alle Nazioni Unite e le tasse scolastiche per gli studenti che studiano all’estero;
- Modificare le procedure interne e le soglie dell’Unione Europea per l’autorizzazione delle
transazioni finanziarie.
Il tempo passa e Teheran, attraverso il suo presidente Hassan Rouhani, si mostra ottimista e
serena nel fugare le preoccupazioni dei suoi interlocutori occidentali. Curioso è però il fatto
che nelle ultime 24 ore una flotta navale della Repubblica Islamica abbia raggiunto le coste
atlantiche degli Stati Uniti, passando dal Sudafrica. Si tratta di un’esercitazione, certo, eppure
sembra un messaggio – sotto certi aspetti minaccioso – nei confronti di Washington. Come a
dire che il governo iraniano non gradisce la presenza navale della marina statunitense nel
Golfo Persico (la V flotta nel Bahrain, in particolare) percepita a sua volta come minacciosa
ed eccessivamente numerosa.
Sia come sia, la red line, termine alquanto sfortunato, è ormai segnata per tutti i protagonisti
di questa vicenda. Se l’AIEA verificherà entro giugno il corretto comportamento dell’Iran nel
risolvere ciascuno dei punti dell’accordo sul nucleare, nei libri di storia del XXI secolo si potrà
scrivere dell’appeasement raggiunto tra Stati Uniti e Repubblica Islamica, la pacificazione tra
il Grande Satana e l’impero del Male. Altrimenti, leggeremo ennesimi capitoli del braccio di
ferro che va avanti dal 1979.
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siria - 11 febbraio 2014
Archeologo Paolo Matthiae: “beni culturali,
una vittima dimenticata”
I luoghi dove hanno preso forma il primo alfabeto della storia e i modelli delle città
urbane per come le conosciamo oggi, rischiano di essere distrutti dal conflitto
siriano. L’intervista a Paolo Matthiae, direttore della missione archeologia di Ebla
È stata presentata oggi a Roma una campagna per la tutela dei beni archeologici e artistici
della Siria. L’obiettivo è contrastare il traffico illecito, formare del personale di sorveglianza
e predisporre dei progetti per il restauro dei siti e delle opere danneggiati. Al termine della
conferenza stampa, il professore Paolo Matthiae, docente di archeologia all’Università La
Sapienza di Roma e direttore della missione archeologia per la tutela di Ebla, in Siria, spiega
a Lookout News qual è la situazione attuale e quali sono gli interventi necessari per tutelare
i beni culturali e artistici in un Paese dilaniato da ormai quasi tre anni di conflitto.
In cosa consiste il patrimonio culturale della Siria?
Sulle sponde dell’Eufrate sono iniziate le prime sperimentazioni di vita in comunità. La
Siria è stato lo scenario anche dei primi modelli di città urbana, così come li conosciamo
oggi, e sempre qui, nel 1200 a. C., è stato scritto il primo alfabeto della storia dell’uomo. È
un Paese che ha dato molto all’Occidente. Inoltre, in Siria, 60 chilometri a sud-ovest di Aleppo, si trovano gli scavi archeologici di Ebla, iniziati alla fine degli anni Sessanta. L’ultima
volta che ci sono stato è stato nel 2010. L’anno dopo ho provato a tornarci, ma le autorità
siriane mi hanno suggerito di non farlo per non mettere a rischio la mia sicurezza.
Cosa rappresenta questo patrimonio per l’umanità?
Il patrimonio culturale è fondamentale per il dialogo tra comunità diverse. Infatti, la Siria
è stata un ponte per i primi contatti tra Oriente e Occidente. Il suo patrimonio culturale e
artistico è perciò un bene che tutto il mondo deve custodire parte, in quanto appartiene a
tutta l’umanità.
In Siria sono entrate in azione bande criminali specializzate nel traffico dei beni culturali?
In ogni paese dove hanno avuto luogo dei conflitti armati proliferano gli scavi clandestini,
dal Libano all’Afghanistan. Quando crolla un’economia, puntuali si registrano i primi scavi
nelle zone dove viene a mancare il controllo del territorio. Questa è quello che accade nella
maggior parte dei casi, anche se si tratta quasi sempre di piccoli interventi dannosi ma non
tragici. Solitamente sono scavi compiuti da contadini in difficoltà economiche e senza alcuna
conoscenza di ciò che stanno facendo, motivo per cui il danno che creano non è drammatico. Il vero problema arriva quando entrano in azione bande organizzate, che arrivano unicamente per saccheggiare creano dei danni gravissimi. In Siria è accaduto ad Apamea, una
città di età romana, situata lungo il corso del fiume Oronte, al centro del Paese.
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Chi sono i finanziatori di questi trafficanti d’arte?
È difficile dirlo. Quello che so per certo è che si tratta di scavi con finalità di saccheggio,
commissionati da reti criminali che fanno riferimento a collezionisti o a commercianti ben
organizzati. Sono bande specializzate, che attendono l’inizio di conflitti armati per entrare
in azione recarsi.
È possibile riprendere il possesso dei beni rubati?
Si, questo è possibile. Recentemente i responsabili dell’UNESCO di Turchia, Libano, Giordania e Iraq, si sono riuniti per concordare una lista di oggetti che potrebbero essere stati
trafugati dalla Siria in questi anni. Una volta terminata, la lista (Lista rossa) è stata distribuita
alle polizie di frontiera dei Paesi coinvolti. Solo due mesi dopo, la polizia libanese ha bloccato due camion che trasportavano illegalmente fuori dalla Siria oggetti dal valore storico
e culturale. La presenza di una rete internazionale incaricata del recupero di queste opere
è un aspetto molto positivo.
Qual è la situazione attuale degli scavi di Ebla?
Tutte le missioni archeologiche in corso in Siria sono state fermate. In seguito ai primi disordini, nella primavera del 2011, nel Paese si contavano circa ottanta missioni. Al momento
il controllo du Ebla è parziale. Ci sono sei guardiani e la situazione dovrebbe essere sottocontrollo. I danni sul sito sono dipesi soprattutto da fattori climatici (neve, vento, smottamenti del terreno e piogge). A questo però si aggiungono degli scavi clandestini, che però
sono stati bloccati dagli stessi residenti dei villaggi vicini.
Quali sono i siti che rischiano di più?
Sicuramente quelli più distanti dai centri urbani e che pertanto sono più difficili da controllare. Ad esempio Dura Europus, sull’Eufrate, ha subito danni gravissimi. Anche Palmira
si sono registrati problemi, seppur di minore rilevanza. I siti al cui interno si trovano monumenti sono quelli che rischiano di più, come la moschea degli Omayyadi ad Aleppo. Si tratta
di luoghi che spesso vengono presidiati dalle milizie di entrambi gli schieramenti, diventando obiettivi da colpire. La direzione delle antichità di Damasco ha provato a intervenire,
facendo un appello ai contendenti affinché non occupino questi siti.
Quali sono le perdite registrate sinora?
La perdita più grave è stata registrata nel minareto di origine medievale della moschea degli
Omayaddi, ad Aleppo. Era un simbolo importante della religione islamica. La nostra speranza
è che qualcosa ancora possa essere salvata per riuscire a ricostruire il monumento.
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libano - 12 febbraio 2014
Jihadisti contro Hezbollah: il Libano travolto
dal conflitto siriano
Arrestato Naim Abbas, leader delle Brigate Abdallah Azzam legate ad Al Qaeda.
Ma a Beirut e nella Valle della Beqa’ gli scontri tra gruppi jihadisti e milizie
del Partito di Dio non si fermano
Mattinata movimentata a Beirut, dove poche ore fa l’esercito libanese ha dato notizia dell’arresto di Naim Abbas, comandante delle Brigate Abdullah Azzam, gruppo legato ad Al
Qaeda che ha rivendicato il doppio attentato del 19 novembre 2013 all’ambasciata iraniana
della capitale in cui persero la vita 25 persone.
Di origine palestinese, considerato uno dei leader più carismatici del gruppo terroristico,
Naim Abbas è accusato di aver ricevuto materiale esplosivo da Omar Al Atrash, sceicco musulmano sunnita della Valle della Beqa’, anch’egli arrestato nei mesi scorsi in relazione ad
attentati suicidi compiuti a sud di Beirut e per il lancio di razzi contro Israele.
Contestualmente alla cattura di Naim Abbas, sono stati disinnescati 100 chili di esplosivo
caricati a bordo di un suv nero parcheggiato nella zona di Corniche Al-Mazraa. Secondo
l’agenzia di stato National News Agency, Abbas aveva intenzione di compiere un attentato
nella periferia meridionale di Beirut. In un magazzino situato sempre a Corniche Al-Mazraa,
utilizzato dalle Brigate Abdallah Azzam come deposito, sono inoltre stati sequestrati computer portatili e altri dispositivi elettronici.
Materiali che certamente potranno tornare utili agli inquirenti per fare luce sul nuovo
corso delle Brigate Abdallah Azzam, scomparse per qualche settimana dai radar delle forze
di sicurezza libanesi dopo la morte in un ospedale carcerario a inizio gennaio del loro leader
Majid al-Majid. L’obiettivo è riuscire a smascherare l’intricata rete jihadista che attraverso
lo sceicco Omar Al Atrash vede sempre più collegati le Brigate Abdullah Azzam e il Fronte
Al Nusra, ramo di Al Qaeda in Siria.
Un’alleanza che in questi mesi ha contribuito notevolmente alla destabilizzazione del Paese, colpendo principalmente le roccaforti del Partito di Dio, tanto nel sud della capitale
quanto nella Valle della Beqa’, e creando di fatto in Libano un conflitto parallelo a quello
siriano.
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venezUela - 13 febbraio 2014
Venezuela sull’orlo della crisi: cosa farà Maduro?
Una nuova ondata di proteste a Caracas scuote l’opinione pubblica venezuelana.
I cittadini protestano per l’aumento dell’inflazione e la mancanza di beni di prima
necessità nei supermercati
L’elevata inflazione, la scarsità di prodotti e i nuovi poteri del presidente Maduro hanno
esasperato gli animi dei venezuelani. Un’ondata di proteste sta scuotendo l’opinione pubblica e ciò che sembrava una manifestazione pacifica è finita con un bilancio di tre morti.
La situazione non sembra migliorare.
Le proteste erano nell’aria già da qualche tempo. Prima i giornalisti, poi gli studenti e
adesso i cittadini. In migliaia hanno partecipato alle manifestazioni che ieri a Caracas hanno
lasciato per strada tre morti e decine di feriti. La popolazione della capitale ha risposto in
massa all’appello lanciato dagli studenti radunandosi, come da consuetudine, a Plaza Venezuela. Ma quella che sembrava una manifestazione pacifica, ha assunto a tratti le sembianze
di una guerriglia urbana nel momento in cui qualcuno ha cominciato a lanciare sassi e a incendiare macchine, cassonetti e vetrine dei negozi. Secondo gli organizzatori delle proteste,
la colpa sarebbe dei militanti chavisti, che si sarebbero infiltrati tra la folla per sabotare la
manifestazione.
Il leader dell’opposizione ed ex candidato presidenziale, Henrique Capriles, ha condannato gli episodi di violenza dicendosi disponibile al dialogo con il governo. “La violenza
non sarà mai la strada che percorreremo - ha affermato Capriles dal suo account Twitter -.
Il nostro Paese sta attraversando una crisi molto difficile. Non possiamo sopportare più violenza oltre a quella che esiste già”.
Secondo fonti della BBC, quella di ieri sarebbe stata la protesta dell’opposizione più grande dalle elezioni presidenziali dell’aprile 2013, vinte al fotofinish dal delfino di Hugo Chavez, Nicolas Maduro. Da allora il malcontento popolare è aumentato di mese in mese
esplodendo per la prima volta nel novembre 2013, quando Maduro ha ottenuto dal governo
poteri speciali acquisendo il diritto di legiferare tramite decreti per un anno. Ed è stato proprio grazie a questa facoltà che ieri Maduro ha minacciato di interdire i suoi oppositori.
“Predisporrò delle norme molto rigide contro chi fomenta avventure golpiste – ha affermato
il presidente -. Chi lo farà non potrà più candidarsi a nessun tipo di elezione”. La stoccata
era indirizzata a suo oppositore Leopoldo Lopez, già interdetto dall’esercizio di cariche
pubbliche per un anno nonostante le critiche della Corte Interamericana per i diritti umani.
Secondo Maduro, le proteste sarebbero il frutto dell’incitamento dell’opposizione, il cui
obiettivo sarebbe quello di portare la popolazione a un colpo di Stato.
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In realtà il malcontento dei cittadini è dovuto a una serie di iniziative governative che hanno contribuito a deteriorare ulteriormente la fragile economia venezuelana. Il riferimento,
in particolare, è alla legge per l’abbassamento dei prezzi cui devono attenersi i commercianti, i quali non possono avere un guadagno superiore al 30% del valore del prodotto.
Questa misura ha innescato la progressiva mancanza di beni di primi necessità. Negozi e supermercati da mesi vengono letteralmente presi d’assalto da cittadini che cercano di accaparrarsi bottiglie di latte e di olio. Anche i piccoli e medi esercenti sono preoccupati
dall’instabilità generata da una misura che, a ogni modo, non è riuscita a frenare l’inflazione. Maduro ha inoltre introdotto un limite per il cambio di dollari, valuta che però serve
alle aziende per importare prodotti dall’estero e alle testate giornalistiche per comprare la
carta. Il sistema economico venezuelano sembra dunque ormai destinato al collasso. Per
quanto a lungo si potrà andare avanti così?
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eGitto - 14 febbraio 2014
Al Sisi ottiene la benedizione di Putin:
tanti saluti agli Stati Uniti
Il generale, candidato alle presidenziali egiziane, vola a Mosca e definisce con
il presidente russo i dettagli di una fornitura di armi da oltre 2 miliardi di dollari.
L’operazione verrà finanziata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi, nell’ottica di
un crescente affrancamento da Washington
Nel carrello della spesa ci sono caccia MiG-29, elicotteri Mi-35 e svariati sistemi di difesa
missilistici. Il Cairo, insomma, torna a guardare a est, come quando c’era la Guerra Fredda
e l’Egitto di Nasser. Del resto, Washington aveva congelato a ottobre i suoi finanziamenti in
seguito alla dura repressione dei Fratelli Musulmani poco dopo la destituzione di Morsi
(quasi 800 morti il 14 agosto 2013). E anche se quei fondi sono stati ripristinati all’indomani
del referendum costituzionale di gennaio, lo strappo resta.
L’Arabia Saudita, poi, altro storico alleato della Casa Bianca, aveva criticato aspramente il
mancato intervento americano in Siria, fino a rifiutare di sedersi al Consiglio di Sicurezza
dell’ONU tra i membri non permanenti. Quindi tutto torna. E torna, soprattutto, il desiderio di Putin di espandere la sua influenza nel vicino Oriente. Tanto per essere più chiari,
così ha esordito Putin all’incontro tenutosi il 12 febbraio a Mosca rivolgendosi ad Al Sisi:
“So che ha deciso di candidarsi alla presidenza e la considero una scelta molto saggia. Le
auguro buona fortuna da parte mia e di tutto il popolo russo”.
Del resto, il presidente russo non aveva mai nascosto la sua ostilità ai Fratelli Musulmani
e a Morsi, e questo è senz’altro un aspetto che lega Putin al comandante in capo delle forze
armate egiziane. Ma c’è anche il comunicato ufficiale rilasciato al termine della visita, in
cui entrambi i Paesi condannano “l’interferenza di altre nazioni negli affari interni di qualsiasi Stato”, che suona tanto come uno schiaffo agli USA.
La reazione di Washington non si è fatta attendere, infatti. Ieri il Dipartimento di Stato
americano ha affermato che “né gli Usa né la Russia hanno facoltà di decidere chi governa
l’Egitto”. Soprattutto, è il caso di aggiungere, se il candidato non ha ancora formalizzato la
sua decisione di correre per le presidenziali.
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baHrain - 15 febbraio 2014
La rivoluzione mancata del Bahrain
A tre anni dalle proteste antigovernative di Piazza Manama, la famiglia reale Al
Khalifa stringe la morsa sull’opposizione, forte dell’appoggio degli Stati del Golfo
Ieri si è celebrato il 13esimo anniversario dell’entrata in vigore del National Action Charter, la Carta “liberale” concessa da Re Hamad ibn Isa al-Khalifa nel 2001 in risposta alle rivendicazioni di maggiore democrazia da parte del popolo negli anni Novanta. Ma il 14
febbraio è stato anche - paradossalmente - il terzo anniversario della rivoluzione (soffocata)
in Bahrain, accodatosi nel 2011 alle altre rivoluzioni che hanno interessato i Paesi arabi. La
sua primavera, tuttavia, non è mai sbocciata. Ciò è accaduto non perché gli Al Khalifa abbiano saputo introdurre le riforme necessarie per soddisfare le richieste del popolo, bensì
per l’intervento delle truppe di Arabia Saudita ed Emirati Arabi accorse per difendere la
leadership della monarchia sunnita – in un Paese a maggioranza sciita -, sedando le manifestazioni e accusando i contestatori di essere manipolati dall’Iran.
L’intervento militare delle forze del GCC (Gulf Cooperation Council) in Bahrain del 14
marzo 2011 è stato approvato dall’amministrazione Obama, che allora come oggi ha tutti
gli interessi a mantenere in carica la dinastia regnante, affinché essa garantisca la permanenza delle forze dell’aeronautica statunitensi. Questa mossa di fatto ha rappresentato la
prima concreta azione di ingerenza delle potenze del Golfo a difesa degli interessi sunniti
in Medio Oriente.
Perso l’appoggio di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, e con l’aumento delle tensioni in Yemen (che con l’Arabia Saudita condivide 1.800 chilometri di frontiera), Riyadh
ha cominciato a temere l’apertura di un fronte di dissenso troppo vicino al Regno. Motivo
per cui, poco più avanti, i sauditi hanno rivolto a Marocco e Giordania – a loro volta scossi
da manifestazioni di piazza – l’invito di entrare a far parte del GCC, fino ad allora club riservato alle petromonarchie del Golfo.
È in questa fase che comincia a delinearsi la nuova “Santa Alleanza” controrivoluzionaria,
oggi sempre più palesemente contrapposta all’asse sciita sullo scacchiere siriano. Ed è da
questo momento che l’Arabia Saudita comincia a premere perché il Peninsula Shield Force
(l’apparato militare congiunto del GCC istituito nel 1984 ma divenuto operativo solo dal
2011) si trasformi nella nuova “NATO del Golfo” per tenere a bada le crescenti tensioni
(politiche, tribali e confessionali) in Medio Oriente, e fungere al contempo da strumento
di deterrenza nei confronti dell’Iran, storico avversario saudita nella regione.
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In Bahrain, però, in questi tre anni poco è cambiato. Pearl Square, la “Piazza Tahrir” di
Manama, resta fortemente presidiata dalle forze di polizia che, fedeli alla monarchia, godono di estese prerogative e operano impunemente sui contestatori. Nei giorni scorsi, in vista
del terzo anniversario della rivoluzione mancata, nuove manifestazioni organizzate dall’opposizione sciita hanno invaso le strade. I manifestanti hanno chiesto alla famiglia Al Khalifa
di abbandonare le cariche ministeriali e chiesto di poter partecipare all’elezione del governo, ma le loro rimostranze sono state immediatamente represse.
Stando ai dati forniti dalla Federazione Internazionale per i Diritti Umani (FIDH), negli
ultimi tre anni di proteste si contano almeno 122 vittime e oltre 1.300 casi di detenzione arbitraria (emblematico è il caso dell’attivista Zainab al-Khawaja). Le iniziative di riconciliazione nazionale avanzate dalla monarchia restano pertanto una mossa di facciata e le
pressioni da parte della comunità internazionale non fanno altro che contribuire a mantenere inalterato il pugno di ferro del potere reale.
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Corea del nord - 16 febbraio 2014
Kim Jong-Un alla prova cinese
Gli Stati Uniti lanciano l’allarme sui nuovi test nucleari effettuati nel sito
nordcoreano di Punggye-ri. Questa volta però il gioco per il giovane leader
si fa duro: meglio non scontrarsi con gli interessi di Pechino
Ancora una volta dalla Corea del Nord arrivano segnali contraddittori. Mentre da una
parte le famiglie coreane divise dalla guerra da oltre sessant’anni tirano un sospiro di sollievo
dopo la conferma, ad oggi, che la programmata riunione familiare tra i due versanti del 38°
parallelo si terrà nonostante le minacce di Pyongyang dei giorni scorsi, dagli Stati Uniti arrivano notizie poco confortanti. Il 13 febbraio lo US-Korea Institute della Johns Hopkins
University ha pubblicato foto satellitari che mostrano un incremento delle attività presso il
sito nordorientale di Punggye-ri, dove sarebbero in corso nuovi esperimenti nucleari sotterranei. Dopo la pubblicazione di queste foto, molti osservatori hanno sollevato la questione di un ipotetico quarto esperimento nucleare in fase di preparazione, anche in
considerazione dell’annuncio, lo scorso 10 febbraio, del ministro della Difesa Kim Kwanjin all’Assemblea Nazionale, il quale ha affermato che la Corea del Nord è pronta per un
nuovo test.
Il leader nordcoreano Kim Jong-un ha però ormai abituato gli analisti a proclami del genere, nel tentativo (fra l’altro riuscito) di trasmettere all’esterno l’idea di un regime imprevedibile e pericoloso, assolutamente irrazionale e, in quanto tale, da tenere d’occhio. E,
come da copione, alle minacce puntuali sono seguite le aperture. A inizio mese, una commissione mista ha raggiunto un accordo che permette un uso limitato di internet all’interno
dell’impianto industriale di Kaesong, condiviso con la Corea del Sud. Mentre il 12 febbraio,
la richiesta di un incontro ad alto livello tra i rappresentanti delle due Coree nella cittadina
di confine Panmunjon ha colto di sorpresa Seoul. Sembra che recentemente vi siano stati
contatti anche con il Giappone. Il sito The Diplomat parla in proposito di una serie di incontri segreti tra i vertici di Pyongyang e un uomo di fiducia del premier nipponico Shinzo
Abe, anche se Tokyo ha negato la notizia.
Con l’avvicinarsi del 24 febbraio, data di inizio dell’esercitazione militare congiunta tra
Sud Corea e Stati Uniti “Foal Eagle”, la Corea del Nord è però tornata a chiederne la sospensione definendo l’operazione un’azione provocatoria. È chiaro che né Washington né
Seoul cederanno mai a tale richiesta, e Kim Jong-un sa bene. E proprio per questo ogni
anno la sua richiesta è sempre la stessa. Il rifiuto di Corea del Sud e USA, infatti, consente
a Pyongyang di accusarli di atti ostili, giustificando così poi una sua eventuale mossa sul fronte nucleare. Che in questo caso potrebbe essere, come evidenziato in precedenza, il quarto
test di Punggye-ri.
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Potrebbe, poiché in effetti, secondo alcuni analisti, con questa mossa il regime si spingerebbe troppo oltre, non tanto per la reazione dei suoi avversari, quanto per quella della
Cina. Il segretario di Stato americano John Kerry, in visita la scorsa settimana proprio a Pechino, ha ottenuto rassicurazioni sul fatto che Pechino non tollererà una destabilizzazione
della regione. Nel corso del tempo, inoltre, i rapporti tra Cina e Corea del Nord si sono deteriorati. Per il giovane Kim, dunque, i test nucleari questa volta potrebbero rivelarsi fatali.
Vada per Seoul e Washington, ma mettersi contro la Cina sarebbe davvero avventato anche
per uno come lui.
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