il linguaggio dei corpi nel ritratto romano Matteo Cadario lo schema delle immagini il linguaggio dei corpi nel ritratto romano Matteo Cadario Nel ritratto romano il viso doveva esprimere soprattutto l’identità e la fisionomia (più o meno realistica) era pensata in modo da comunicare anche il carattere e le qualità più importanti della persona effigiata. Dal corpo della statua l’osservatore non si aspettava invece realismo fisico ma informazioni più “oggettive” sul suo ruolo pubblico, carriera e imprese. Naturalmente anche il volto poteva informare sullo status dell’onorato, per esempio mediante corone e diademi, così come, viceversa, il corpo poteva attribuirgli qualità e virtù (cfr. per esempio la castità/pudicitia in alcuni tipi statuari muliebri di tradizione ellenistica o il coraggio/virtus nella nudità eroica armata tardo-repubblicana), ma in un ritratto il volto e il corpo svolgevano di fatto funzioni differenti, sebbene nel comune intento di eternare la memoria dell’onorato e di spingere gli osservatori all’emulazione delle sue qualità. Per aiutare la decodificazione del messaggio affidato ai corpi gli scultori utilizzarono un repertorio convenzionale di tipi statuari, che potevano essere prodotti anche in serie e raffiguravano, con poche eccezioni, corpi ideali, variati poi appositamente in costume, postura, gesti e “attributi”. La standardizzazione dei corpi delle statue e dei loro significati portò così alla nascita di un vero e proprio linguaggio dei tipi statuari, che, formatosi in età ellenistica, si stabilizzò nella prima età imperiale. Alla sua descrizione è dedicato questo contributo, con alcune avvertenze: il rapporto tra biografia e tipo statuario era flessibile, ossia non così stretto da poter di per sé determinare dal ritratto lo status sociale dell’effigiato (cfr. il concetto di biographical phallacy); inoltre i tipi statuari potevano esprimere anche identità e differenze locali e cambiare di funzione a seconda dell’ambito storico e/o geografico in cui erano usati: un ritratto privato in toga a Roma, dove era la norma, aveva un significato diverso rispetto, per esempio, ad Afrodisia, dove in età augustea sarebbe stato una prestigiosa eccezione e nel II sec. d.C. un’opzione in concorrenza con altri tipi statuari. Se è vero che la scelta del tipo statuario può quindi essere compresa solo se esaminata a fondo in un’ottica glocal, ossia guardando sia al significato generale sia al contesto specifico e/o regionale del monumento, il linguaggio dei corpi si è dimostrato tendenzialmente abbastanza stabile, esteso e duraturo da poterne descrivere comunque a parte le caratteristiche generali con cui poi dialogavano le realtà locali e nel cui ambito si esercitavano le scelte personali dei committenti. Nelle prossime pagine mi soffermerò quindi su questi aspetti “globali” più che su quelli “locali”. Il punto di vista romano Secondo una tradizione consolidata, gli storici romani (Livio, Valerio Massimo) registravano spesso le notizie sulle statue onorarie, verosimilmente attingendole lo schema delle immagini / 209 1 / Dupondio coniato da Caligola raffigurante Germanico sulla quadriga e loricato con lo scettro del trionfatore (RCV, 1820) 210 / ritratti. le tante facce del potere da annalistica, memorie gentilizie e testi di decreti e di epigrafi. Plinio il Vecchio (Storia naturale 34, 18-20) fece il tentativo più originale di sistemare queste informazioni, classificandole secondo tipologie che avrebbero poi influenzato anche l’approccio moderno al ritratto romano. Muovendosi in un campo poco frequentato dalla critica d’arte ellenistica, indifferente alle statue onorarie, Plinio ha fornito un documento importante dell’approccio romano alle statue iconiche, sforzandosi di inserirle anche in una prospettiva storica, con osservazioni sull’apparizione nell’Urbe dei principali tipi statuari e sul loro legame con il mondo greco. Per costruire la sua lista essenziale ma esauriente degli onori disponibili, egli prese in considerazione solo i corpi delle statue, senza accennare ai volti, che risultavano estranei al suo tentativo di classificazione generale, e ne mise in rilievo due qualità essenziali: il formato adottato e il costume (habitus). Egli dispose quindi in ordine di importanza i formati (statue stanti, equestri e su carro, come Augusto in Res Gestae 4, 24) e presentò i costumi distinguendo in primo luogo i tre più diffusi (toga, corazza e nudità) e proseguendo con tre eccezioni legate al problema della grecità/romanità delle statue nude (luperci - sacerdoti del dio Luperco -, statue con il mantello da viaggio - paenula - e il caso anomalo della statua nuda di Ostilio Mancino prigioniero dei Numantini). Lo stesso interesse per il formato e il costume delle statue si incontra anche in molti documenti epigrafici ufficiali che stabilivano fin nel dettaglio l’aspetto dei monumenti, nell’intento di registrare così anche negli archivi pubblici la natura esatta del privilegio concesso. Due esempi servono a illustrare il repertorio disponibile e la logica politica che guidava l’élite romana in queste scelte: quando nel 4 d.C. a Pisa fu stabilito (CIL XI, 1421) di onorare con un arco postumo Gaio Cesare, si decise il formato equestre per una coppia di statue destinate a lui e al fratello Lucio e il costume trionfale per la statua stante di Gaio (pedestris triumphali ornatu), associando così i due defunti principes iuventutis (principi della gioventù) nell’onore legato alla loro carica equestre, ma dando più rilievo al solo Gaio mediante la statua trionfale destinata a dialogare con le spoglie dei popoli vinti decoranti il resto dell’arco; quando nel 19 d.C. toccò al Senato di Roma commemorare il defunto Germanico (cfr. la Tabula Siarensis, un’epigrafe spagnola trovata a Siarum in cui è riportato il testo ufficiale degli onori) l’assemblea fece una scelta accurata dei tipi statuari, illustrando il ruolo di trionfatore del principe a Roma (statua sulla quadriga trionfale sull’arco nel Circo Flaminio) e le imprese che gli avevano fatto meritare il trionfo là dove erano avvenute (statua mentre riceveva le insegne militari dai Germani sull’arco renano) (fig. 1). In entrambi i casi costume e formato delle statue furono scelti in piena coerenza con gli onori decisi. Indicazioni analoghe, benché meno articolate, si incontrano anche nei decreti in onore dei membri delle élites locali e in documenti legali privati come i testamenti, dove era talora prescritto anche l’aspetto delle immagini del defunto e dei familiari, come si legge in alcune iscrizioni (Obulco e Langres: ILS 5497 e 8379) e nel testamento di Trimalcione (Satyricon 71, 11: la statua della moglie Fortunata con in mano una colomba). I tipi statuari potevano determinare persino momenti importanti del cerimoniale pubblico e, quando ciò accadeva, erano indicati chiaramente nei documenti ufficiali: gli Atti del collegio sacerdotale dei Fratelli Arvali ricordano per il 38 d.C. un sacrificio a Giove in Campidoglio proprio davanti alle statuae consulares (come consoli, ossia vestite in toga praetexta - cioè bordata di porpora) di Caligola e Claudio in carica quell’anno: la coerenza tra le motivazioni del sacrificio (l’inizio del consolato) e il costume delle statue è rilevante. Anche le statue in abito trionfale (triumphali ornatu) assunsero un grande rilievo nel linguaggio politico giulio-claudio, essendo divenute (insieme ai connessi ornamenta triumphalia - il diritto di portare le insegne del trionfo) il sostituto per eccellenza del trionfo e quindi l’espressione più alta del favore imperiale (cat. 3.9). In assoluto l’attenzione a definire nel dettaglio l’aspetto di una statua iconica perché fosse congruente con le ragioni dell’onore non era una novità, visto che anche nel mondo ellenistico sono noti decreti altrettanto minuziosi e attenti alla correlazione tra meriti e tipo statuario: penso a quelli riferiti alla statua loricata di Attalo III con il piede sugli spolia hostium (le armi nemiche) eretta nel tempio di Asclepio Soter a Pergamo (OGIS 332) o alla statua in armi del navarca di Histria Hegesagoras, eretta su un rostrum (lo sperone delle navi da guerra) dagli abitanti di Apollonia Pontica perché costui aveva catturato nel II sec. a.C. una nave della nemica Mesembria (ISM I, 64). L’atteggiamento romano costituì però un passo in avanti nella coerenza e nella standardizzazione di questo linguaggio dei corpi, che fu esteso a tutto l’impero, sia pure, come si è accennato, con varianti regionali (cfr. il predominio delle statue palliate, cioè con mantello, nelle città greche). In proposito è utile un’incursione nel mondo della fiction antica, in cui gli onori reali erano imitati fino all’inverosimile, ovvero escogitando la dedica agli eroi del romanzo di statue onorarie dall’aspetto inusitato ma ispirato a tipi esistenti e coerenti con la trama e le imprese del protagonista: nella Storia del re di Tiro Apollonio (10 e 47), un romanzo del III sec. d.C., Apollonio è onorato prima a Tarso con una statua in bronzo stante sulla biga, con il piede sinistro su un moggio e le spighe nella destra, e poi a Mitilene con una statua dorata colossale posta sulla prua di una nave, mentre abbracciava la figlia con la destra e calcava il piede sulla testa di un lenone (come un barbaro vinto nei ritratti imperiali!) (fig. 2). Le epigrafi collegavano il primo onore alla sconfitta di una carestia e il secondo alla difesa della verginità della figlia. Questa esasperazione del dialogo realmente esistente in un monumento tra ragioni dell’onore e tipo statuario, aiuta a capire meglio il funzionamento di un linguaggio in cui il fruitore si aspettava che schema e costume corrispondessero alle motivazioni della dedica. Di norma la ripetitività dei tipi statuari e la flessibilità delle scelte dei committenti non rendevano le statue reali così fedeli alla “vita”, ma nella fiction niente lo impediva. Gli elementi costitutivi del linguaggio dei corpi I testi esaminati aiutano a capire i componenti basilari di questo linguaggio dei corpi: insieme al formato (statua su carro, equestre, seduta o stante) gli elementi sui quali si soffermava un osservatore antico erano il costume (habitus) e gli eventuali “attributi” (insignia: cfr. Servio, Commento alle Bucoliche 4, 10 su una statua di Augusto come Apollo). In un esercizio retorico esposto nelle Declamazioni minori dello Pseudo Quintiliano (282) viene affrontato per esempio il caso inverosimile della statua di un tirannicida ritratto in abiti femminili (veste muliebri) perché aveva ucciso il tiranno facendosi passare per sua sorella. Al di là del dibattito sulla ignominia di una statua simile, interessa l’idea espressa dall’autore che i passanti si sarebbero interrogati sul suo habitus garantendo così fama alla statua e deducendo poi dal costume una vera e propria storia eroica sull’onorato. Osservare il costume e gli oggetti di una statua e farsi domande in proposito era un approccio consueto nel mondo antico: ricordo la stele funeraria 2 / Istanbul, Museo Archeologico, inv. 585. Statua di Adriano da Hierapytna lo schema delle immagini / 211 3 / le statue loricate A Olimpia, Museo Archeologico, inv. Lambda 150. Statua di Marco Aurelio B Salonicco, Museo Archeologico, inv. 2663. Statua di Augusto da Kalindoia C Luni, Museo Archeologico, inv. K. 428. Statua loricata dal Grande Tempio D Musei Vaticani, Braccio Nuovo, n. 14. Statua di Augusto dalla villa di Livia a Prima Porta E Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 6233. Statua di M. Holconius Rufus da Pompei F Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano, inv. 9963. Statua loricata di Druso Maggiore da Caere ellenistica di Sardi (Sardis VII. Greek and Latin Inscriptions, Leiden 1932, p. 111) in cui un epigramma aveva il compito di evitare qualsiasi incomprensione dell’immagine della defunta Menofila, chiarendo con una serie di domande mirate e poste per conto dell’osservatore il significato di ogni oggetto raffigurato (libro, corona floreale, canestro e fiore). A Roma questo metodo si sposò con una maggiore attenzione alla relazione tra costume e status sociale, un’idea che aveva profonde radici ideologiche, legate alle strategie con cui si tramandava la memoria gentilizia in età repubblicana. Come è noto, durante i funerali dei nobili gli attori ingaggiati per impersonare gli antenati indossavano, insieme alle maschere, anche vesti coerenti con il ruolo pubblico di costoro nel momento culminante della carriera politica (Polibio 6, 53, 6-8; Diodoro 31, 25, 2). Inoltre la società romana era abituata a sottolineare alcuni importanti cambiamenti di status sociale e politico, pubblico e privato, mediante il mutamento della veste. Anche Cicerone (ad Attico 115, 17) e Dione di Prusa (In difesa dei Rodii 31, 156), spiegando che cosa potesse aiutare a identificare un ritratto, non posero l’accento solo sulla fisionomia del viso, ma anche su vestiti e accessori: il primo riteneva significativi status (atteggiamento), amictus (veste), anulus (anello) e imago (volto), mentre il secondo citava esthes (veste) e hypodesis (calzature). L’interesse per l’habitus si tradusse così nei tipi statuari corrispondenti, creando le statue loricate Egida a b c d e f Cingulum Pteryges frangiate Pteryges a linguetta 212 / ritratti. le tante facce del potere almeno per i ritratti maschili un canone di forme di rappresentazione che, dopo la codificazione della prima età imperiale, conobbe poche variazioni. Il significato del costume era integrato da quello degli attributi, ossia degli oggetti impugnati (patera, rotolo, lituo, scettro, globo, mappa, fulmine, armi, ecc.) e di quelli usati come sostegni di fianco al piede (l’abile trasformazione di una necessità statica delle statue in marmo in opportunità di comunicazione: cfr. il piccolo Eros, cifra della discendenza della gens Iulia da Venere nell’Augusto di Prima Porta: fig. 3d) oppure posti, in un gesto di dominio, sotto il piede (fig. 2). Per esempio molti togati stringevano in pugno il volumen (rotolo) per esibire un ruolo pubblico oppure le proprie ambizioni culturali, le quali potevano essere anche enfatizzate mostrando il volumen aperto, come se fosse in corso di lettura, e trasformando così la statua nell’immagine di un intellettuale (retore/poeta) declamante un testo (cfr. l’altare funerario di Q. Sulpicius Maximus e un togato dal teatro di Luni: fig. 5f ). Si pensi anche al mantello cinto intorno ai fianchi (Hüftmantel), un drappeggio di per sé eroizzante e usato sia nei loricati sia nelle statue nude, nelle quali doveva però essere completato da sostegni e “attributi” adeguati che ne specificavano il significato: il “Generale” di Tivoli e il Divo Augusto di Ercolano (figg. 4 e 7e) comunicavano per esempio due condizioni “sovrumane” molto diverse pur partendo da schemata simili. Il linguaggio dei corpi si rivelò così capace di soddisfare una committenza esigente e interessata non solo a veder riprodotto fedelmente il proprio rango ma anche a poter diversificare il costume allo scopo di esprimere aspetti differenti della vita pubblica e privata (scelte culturali, identità etnica, ecc.). 4 / Roma, Museo Archeologico Nazionale, inv. 106513. Statua del cd. “Generale” dal santuario di Ercole vincitore a Tivoli (d-dai-rom-32.412) Per una storia del costume nei tipi statuari Come indicato da Plinio il Vecchio, almeno in Occidente, i costumi canonici nei ritratti maschili furono toga, corazza e nudità, simbolo rispettivamente della condizione civile, militare ed “eroica” dell’effigiato. Nell’ottica di una presentazione dell’aspetto “globale” del linguaggio dei corpi vale quindi la pena sceglierli per un approfondimento; degli altri tipi statuari esistenti, o perché molto specifici (cfr. i ritratti come luperci) o perché oggetto di un complesso meccanismo di scarto pubblico e accettazione privata (la statua palliata, ossia con il mantello greco, e quella in costume da cacciatore a Roma non servivano a comunicare il rango ma uno stile di vita personale), non è infatti possibile tracciare una storia altrettanto articolata. Per ragioni di spazio, mi riferirò alle statue stanti, ma la diversificazione dei costumi valeva anche per quelle equestri e sedute: nelle prime contava comunque soprattutto il formato perché la statua equestre era sentita come un onore superiore agli altri, tanto che raramente le fonti antiche ne specificavano la veste, nelle seconde, oltre al costume, era eloquente anche il sedile (cfr. le selle curuli per i magistrati in toga o quelle castrensi per i loricati). Tralascerò infine i costumi muliebri: l’interdizione delle donne dalle cariche pubbliche impediva infatti quasi del tutto l’illustrazione esatta del loro rango in un ritratto (con l’eccezione delle cariche sacerdotali) e i tipi adottati attingevano piuttosto dal repertorio della scultura greca per suggerire il possesso di determinate qualità o virtù e, più raramente, l’assimilazione divina delle effigiate. L’unica eccezione furono le statue con la stola, una veste “romana” che ebbe un significato identitario analogo a quello della toga, senza avere però una diffusione altrettanto capillare. lo schema delle immagini / 213 Messaggi diversificati La toga era l’habitus civile romano per eccellenza almeno nelle cerimonie ufficiali, il simbolo stesso della cittadinanza e anche la veste capace di esprimere appieno dignitas e pietas (con il capo velato); e infatti la statua togata fu di gran lunga la più diffusa e apprezzata a ogni livello sociale, visto che serviva sia alle élites per illustrare le magistrature conseguite sia ai liberti e ai “provinciali” per mostrare il conseguimento dell’affrancamento e/o della cittadinanza. In effetti il successo della statua togata fu determinato proprio dal fatto di essere l’unica a dar conto, con opportuni accorgimenti, delle complesse distinzioni di rango, classe ed età (cfr. i togati infantili, riconoscibili grazie alla bulla - ciondolo sferico portato al collo come amuleto - e alle dimensioni ridotte) esistenti nella società romana. La combinazione di calzature (calcei equestri, senatorii e patrizi) e colori della toga consentiva infatti di identificare a prima vista lo status sociale. Inoltre le variazioni della policromia della veste (oggi di norma perduta) e degli accessori potevano fornire informazioni specifiche sul cursus honorum (carriera pubblica), trasformando le consuete statue togate nelle più prestigiose ed esclusive statue trionfali (con la toga picta, ossia colorata di porpora, e lo scettro/scipio in pugno), consolari (con la toga praetexta, ossia solo bordata di porpora) e augurali (con il capo velato e il lituo in pugno). La statua togata era quindi il mezzo più efficace per mostrare il posto che il cittadino occupava nella società. Le statue loricate e nude, essendo entrambe prestiti del mondo ellenistico, fornivano poche informazioni specifiche sul rango e sulla carriera di un cittadino romano (cfr. anelli e calcei), ma il loro significato risiedeva piuttosto nelle capacità di conferire un carisma guerriero e/o un’aura sovrumana, ossia di illustrare le qualità personali più che il ruolo sociale degli onorati. Nei loricati esisteva comunque una distinzione tipologica tra la corazza anatomica da parata (di solito decorata e con pteryges (lambrecchini) a linguetta, spesso ma non sempre sovrapposte a quelle frangiate) (fig. 3a) e il corsetto “da campo” di tradizione ellenistica (con due file di lambrecchini/pteryges frangiati, cinta/cingulum e talora l’egida di Atena) (fig. 3a). Si trattava però di una distinzione legata all’occasione d’uso e non dava di per sé informazioni sul rango di chi le indossava (a meno che i due tipi di loricati non comparissero insieme: in tal caso esisteva una gerarchia che privilegiava la corazza da parata). Almeno in età imperiale la statua loricata fu quindi adottata soprattutto per sottolineare doveri e meriti militari. Il suo uso pubblico si affermò però con difficoltà almeno nell’Urbe (la prima statua loricata pubblica fu probabilmente quella di Cesare nel suo Foro) e fu di fatto limitato agli imperatori o agli eredi designati dotati di imperium (tra le poche eccezioni sicure vi sono alcuni magistrati con cariche e competenze anche militari, come M. Olconio Rufo a Pompei: fig. 3e). A differenza di toga e corazza, la nudità non era invece un costume reale, almeno a Roma, dove la pratica greca di allenarsi nudi in palestre e ginnasi era fortemente criticata. Eppure tra II e I sec. a.C. molti membri dell’élite si convinsero a farsi raffigurare nudi o seminudi, purché la loro nudità fosse “armata”, ossia connotata come militare mediante l’esibizione di armi (lancia, balteo e spada), l’uso di vesti militari (i mantelli frangiati) e dei sostegni in forma di corazza (cito C. Ofellio Fero a Delo, il “Generale” di Tivoli - fig. 4 - e il cd. Varrone di Cassino). Le armi attribuivano infatti alla nudità virile un valore simbolico tale da renderla accettabile in un ritratto e da superare il pregiudizio esistente nella società romana contro la 214 / ritratti. le tante facce del potere sua pratica nella vita. Negli anni della creazione di un rapporto sempre più personale tra condottieri e soldati, l’appeal del ritratto in nudità eroica con armi, proprio del condottiero ellenistico, divenne dunque irresistibile, perché conferiva carisma e virtus bellica senza le complicate distinzioni di rango di una statua togata. La nudità propria dell’agonismo atletico e del ginnasio fu invece rifiutata, almeno nei ritratti (essa fu accettata solo nell’arredo domestico, ma nelle forme ideali delle copie dei capolavori della scultura greca). Diacronie Il linguaggio dei corpi nella ritrattistica non restò immutato nel corso dei secoli. I togati cambiarono molto, registrando l’evoluzione del panneggio reale della toga, che fu determinata sia dalla moda sia da ragioni politiche, sociali e culturali (fig. 5). In origine la toga lasciava il braccio destro libero, ma nel corso del I sec. a.C. (fig. 5a), nel pieno dell’ellenizzazione della società romana, il panneggio cambiò per avvicinarsi a quello del pallium (mantello) greco, con il braccio destro stretto nella toga in modo da mostrare il contegno proprio del buon cittadino (“Pallium-Typus” fig. 5b). L’età augustea segnò un rifiuto, verosimilmente indirizzato da Augusto stesso, di questa possibile “confusione” con un abito greco e la rivalutazione del significato identitario della toga che si tradusse nell’affermazione di una veste più grande e dal panneggio molto più complesso e riconoscibile (con una serie di pieghe specifiche - balteus, umbo, sinus e lacinia - come elementi caratterizzanti: fig. 5c). Questo tipo di togato, almeno come veste cerimoniale, continuò a essere usato nei ritratti ufficiali fino all’avanzato II sec. d.C., sebbene soprattutto a partire dall’età adrianea circolassero statue con panneggi più semplici. Solo a partire dall’età severiana la formula augustea perse il suo prestigio a favore di un nuovo modello di toga, detta contabulata dalla fascia rigida che attraversava il petto (fig. 5d). Questo cambiamento potrebbe essere collegato anche alla progressiva estensione della cittadinanza romana nell’impero, un processo che rese meno invitante il ritratto “identitario” in toga, generando nelle élites il bisogno di un nuovo tipo di immagine civile che ribadisse l’esclusività del loro rango. L’adozione della toga contabulata fu significativa (cfr. soprattutto i busti) e creò talora anche una sorta di opposizione con il modello protoimperiale, come nel sarcofago napoletano detto “dei due fratelli”, in cui il defunto indossa la “nuova” toga in una cerimonia pubblica e quella “augustea” nel momento, solenne ma privato, del matrimonio. Infine, all’inizio del V sec. d.C., si diffuse una nuova versione di toga, più corta e influenzata da modelli orientali (fig. 5e). Anche per i loricati l’età augustea segnò un cambiamento, visibile nella prevalenza del modello tardoclassico su quello ellenistico. Questa svolta, coerente con il gusto neoattico (fig. 3c), può essere attribuita ad Augusto che, almeno a Roma, aveva interesse a distaccarsi dall’immagine del sovrano ellenistico che aveva probabilmente frenato l’ingresso del tipo statuario nell’Urbe. Il successo delle statue classicistiche, documentato anche in ambito municipale, non comportò però l’abbandono del tipo ellenistico, che sopravvisse nel mondo greco e, più raramente, anche in Occidente (cfr. Druso Minore a Sulcis, cat. 3.5). Il primato della corazza da parata fu determinato anche dalla possibilità di usare la lorica (e i lambrecchini) come medium figurativo, un effetto della personalizzazione della propaganda degli anni delle guerre civili, che portò all’elaborazione di ridotti programmi iconografici pensati per i loricati. Essi, con poche eccezioni (l’Augusto le statue togate a b c d Capo velato Umbo Balteus Sinus Lacinia Capsa e f Mappa Rotolo in corso di lettura 5 / le statue togate A Firenze, Museo Archeologico, inv. 3. Statua del cd. Arringatore B Chiusi, Museo Archeologico Nazionale, inv. 2295 (o 95). Statua togata C Roma, Museo Archeologico Nazionale, inv. 56230. Statua di Augusto di via Labicana D Roma, Palazzo Doria Pamphili, Statua togata contabulata. E Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini, Statua togata con mappa F La Spezia, Museo Civico del Castello. Statua togata dal teatro di Luni lo schema delle immagini / 215 i programmi decorativi delle corazze a b 6 / i programmi decorativi delle corazze A Musei Vaticani, Braccio Nuovo, n. 14. Augusto di Prima Porta, dettaglio della corazza B Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano, inv. 9948. Statua loricata di Nerone dal teatro di Caere, dettaglio della corazza. C Atene (Agorà S166). Statua loricata di Adriano dall’Agorà, dettaglio della corazza D Detroit, The Detroit Instituts of Art, inv. 72.273. Statua loricata di età severiana 216 / ritratti. le tante facce del potere c d di Prima Porta: fig. 6a), impiegavano un repertorio decorativo standard, quasi formulare, che era riproposto in più statue e anche da personaggi diversi, sfruttando il linguaggio simbolico e astratto di matrice neoattica per comunicare i temi della propaganda imperiale, adattandoli però spesso a eventi contingenti (cfr. la vittoria partica nella statua di Nerone da Caere, fig. 6b, o quella giudaica nella statua di Tito da Sabratha). Questo repertorio nacque tra l’età augustea e giulio-claudia, ma l’invenzione di nuove iconografie e la riproposizione con varianti delle antiche continuarono fino all’età adrianea (cfr. le statue di Adriano nell’agorà di Atene, fig. 6c, e a Sessa Aurunca). In seguito venne probabilmente meno l’interesse per l’uso dei loricati come medium figurativo a favore del loro significato carismatico di pura evocazione del successo militare. Per questo dalla seconda metà del II sec. d.C. fino al IV sec. d.C. fu riproposto quasi sempre lo stesso tipo di loricato, con la corazza decorata da due Grifoni affrontati parzialmente coperti dalla cintura (fig. 6d). L’età imperiale portò novità importanti anche nella gestione delle statue nude. Dopo gli anni delle guerre civili, in cui Ottaviano aveva sfruttato a fondo la nudità “armata” e guerriera, il modello ellenistico del ritratto del sovrano fu progressivamente messo da parte, provocando un parziale svuotamento del contenuto bellicoso delle immagini nude, che rinunciarono spesso ad armi, corazze-sostegno e mantelli frangiati per sostituirli con vesti e attributi utili a suggerire la condizione eroica o divina (consecratio) dell’effigiato. Lo dimostra l’evoluzione dell’immagine semipanneggiata (Hüftmantel), in cui al posto dei militaria tardo-repubblicani si trovano i simboli di Giove (l’aquila come sostegno e/o il fulmine nella destra). Probabilmente questo processo fu favorito dall’apparire dell’immagine in Hüftmantel del Divus Iulius, influenzata a sua volta da quella del Genio del Popolo Romano. Questa tendenza, che fu accompagnata dalla ripresa di modelli classici nei panneggi, ebbe l’effetto di limitare, almeno nei contesti pubblici, alla famiglia imperiale l’accesso ai tipi statuari più esplicitamente connotati come divini, mentre il ricorso alle statue nude con armi divenne più raro, benché non fosse stato abbandonato, come dimostrano i due ritratti di Miseno raffiguranti Vespasiano e Tito, nudi, armati e con corazze-sostegno (fig. 8). Si affermò anche una gerarchia tra le statue nude, che si deduce dai contesti nei quali, come nella cd. Basilica di Ercolano, statue nude di tipo diverso furono usate insieme. Essa privilegiava lo schema usato per i divi, ossia con il mantello che, prima di cingere i fianchi, si avvolgeva o appoggiava (Schulterbausch, fig. 7e-f) alla spalla sinistra (i cd. Jupiter-Kostüm e Hüftmantel-typus con Schulterbausch), rispetto al panneggio limitato ai soli fianchi (Hüftmantel semplice, fig. 7d) o all’esibizione della totale nudità, con o senza il mantello allacciato/posato su una spalla (fig. 7a-c). Il funzionamento del “sistema”: tipi statuari e collocazione La prima età imperiale incise dunque profondamente sul linguaggio dei corpi nei ritratti, variando il canone repubblicano. Furono emarginati i tipi più legati all’immagine del sovrano ellenistico (loricati “ellenistici”, statue nude in armi, statue in clamide - corto mantello equestre - e sandali militari o krepides) e i costumi ritenuti “greci” (le statue togate in “Pallium-Typus” e quelle palliate), per dare spazio ad alcune scelte identitarie forti, come la “nuova” statua togata e la statua femminile con la stola, mentre i loricati e le statue nude acquisivano nuovi significati. Il ventaglio di possibilità a disposizione del committente era così aumentato, rispondendo anche a una “domanda” nuova, imposta dall’affermazione in tutto l’impero dei “cicli statuari” raffiguranti insieme più membri della famiglia imperiale. Essi costituirono una spinta fortissima verso la creazione di un repertorio diversificato che permettesse, variando il tipo statuario, di esprimere sia le statue nude a b c d e f 7 / le statue nude A Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 5593. Statua di Claudio da Ercolano B Bollate (Mi), Villa Arconati, Statua colossale di Tiberio proveniente da Roma C Corinto, Museo Archeologico, n. 1065. Statua di Gaio Cesare D Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek, 709. Statua di Tiberio da Nemi E Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 5595. Statua del Divo Augusto da Ercolano F Olimpia, Museo Archeologico, inv. Lambda 125. Statua del Divo Claudio dal Metroon lo schema delle immagini / 217 8 / Museo dei Campi Flegrei, inv. 153350 (V.)-143951 (T.). Coppia di statue in nudità eroica di Tito e Vespasiano da Miseno 218 / ritratti. le tante facce del potere le gerarchie interne tra gli onorati sia i loro specifici meriti e ruoli pubblici. Nel corso dell’età giulio-claudia l’interazione di tipi statuari diversi negli edifici pubblici divenne così frequente e il rilievo di Ravenna è forse l’illustrazione più chiara di questo processo, ma lo studio di alcuni contesti può essere altrettanto utile per comprendere le modalità di espressione e il tipo di informazioni affidate al linguaggio dei corpi delle statue: si pensi al Ninfeo di Erode Attico a Olimpia, con la sua opposizione tra le statue togate della famiglia di Erode e quelle loricate degli imperatori, distinti a loro volta in Cesari e Augusti dall’uso di corazza da campo o da parata (fig. 9). In effetti la possibilità di variare il costume in funzione delle qualità che si volevano esprimere fu una caratteristica del ritratto romano, espressa molto bene dalla pratica di illustrare la personalità o carriera di un personaggio mediante ritratti multipli. Tre statue oggi a Palazzo Doria Pamphilj (databili nella prima metà del III sec. d.C.) provengono da una tomba e raffigurano lo stesso uomo in toga (contabulata, fig. 5d), in nudità armata e come un giovane cacciatore nudo, distinguendo così il ruolo civile tradizionale dalle due versioni, bellica e ludica, del coraggio. Analoghe variazioni di tipi statuari allo scopo di attribuire qualità differenti al defunto/a si riconoscono nella descrizione di Stazio (Selve 5, 1, 232-235) della tomba di Priscilla, moglie di Abascanto, assimilata a Cerere, Arianna, Maia e Venere, e nella tomba di Claudia Semne, in cui il giovane figlio M. Ulpio Cotronense fu ritratto due volte in toga e due nudo (come cacciatore in una statua e come eroe in un busto). In effetti negli spazi privati e/o funerari era più facile impersonare più ruoli, scegliendo costumi differenti anche estranei alla tradizione romana come quelli da filosofo e da cacciatore. Lo dimostra il celebre dipinto raffigurante nella villa dei Quintili l’imperatore Tacito in cinque abiti: in toga, in clamide, in armi, come filosofo greco e in abito venatorio (Storia Augusta, Tacito 16, 2 e cfr. Eliogabalo 30, 1). Nelle dediche multiple pubbliche la scelta dei costumi era più “istituzionale”: Macrino nel 217 d.C. provò a legittimare la propria ascesa al trono, facendo innalzare al Divo Settimio Severo due statue trionfali e a Caracalla due statue equestri, due stanti in costume militare (habitu militari = loricate?) e due sedute in costume civile (civili habitu = togate) in modo da illustrare i compiti civili e militari (Storia Augusta, Macrino 6, 8). La scelta del tipo statuario avveniva avendo in mente anche la collocazione prevista, in un rapporto di condizionamento reciproco. Oltre alla distinzione fondamentale tra ambito pubblico e privato si deve considerare che ogni statua onoraria era destinata a divenire una presenza quotidiana nella memoria della città e il suo posto (locus) risultava decisivo quanto l’aspetto per valutarne l’importanza simbolica. Tra le ragioni del dissenso popolare contro Cesare alla fine del 45 a.C. Cicerone (Per il re Deiotaro 33-34) inseriva proprio la collocazione di un suo ritratto tra le statue dei re (inter reges), una scelta ambigua che fu ritenuta tirannica. Purtroppo non conosciamo l’aspetto della statua, ma tra il 46 e il 44 a.C. i luoghi dei ritratti cesariani contribuirono a incrementare il dissenso nei suoi confronti, a dimostrazione del peso della collocazione nella valutazione dell’impatto di una statua pubblica. Il legame tra tipo statuario/habitus e ubicazione si nota soprattutto negli onori postumi decisi da Nerone nel 56 d.C. per il quasi centenario L. Volusio Saturnino. Egli ebbe tre statue trionfali (in toga picta), una di bronzo nel Foro di Augusto e due di marmo nel tempio del Divo Augusto, altrettante statue consulares (come console, in toga praetexta), una nel tempio del Divo Giulio e due sul Palatino (presso un arco e nell’Area Apollinis), una statua auguralis (come augure, in toga, con il capo velato e con il lituo) presso la Regia, una statua equestre (forse in toga) presso i Rostra e una statua togata seduta sulla sella curule nella porticus Lentulorum presso il teatro di Pompeo. Le statue erano nove e verosimilmente indossavano tutte la toga, evitando le immagini loricate e nude che in pubblico erano riservate alla famiglia imperiale. La relazione tra costume e collocazione era strettissima e interagiva con la storia degli edifici: il Foro di Augusto accoglieva le statue di chi aveva conseguito il trionfo o gli ornamenta triumphalia (il diritto di portare solo le insegne del trionfo) e così fu anche per Saturnino, del quale Nerone volle poi esaltare il legame personale con lo stesso Augusto (tempio del Divo Augusto e le due statue sul Palatino, ossia nei pressi della residenza di Augusto); la Regia era la sede stessa degli auguri; presso i Rostri erano collocate le statue equestri più importanti dai tempi di Silla; nella porticus Lentulorum (ad Nationes) erano celebrate la sottomissione delle genti straniere 9 / Ricostruzione del Ninfeo di Erode Attico a Olimpia e le connesse relazioni di patronato. Collocazione e tipo statuario dialogavano quindi tra loro.Gli onori di Volusio non sono un caso isolato ed è interessante seguire l’evoluzione di questa prassi per i generali di Marco Aurelio negli anni delle guerre marcomanniche (CIL VI, 1377, 1540 e 1599): M. Claudio Frontone ebbe una statua in armi (armata) nel Foro di Traiano nel 170 d.C.; nel 176 d.C. T. Pomponio Proculo Vitrasio Pollione fu ritratto in costume militare (habitu militari = loricato?) nello stesso Foro e togato (habitu civili) nel tempio del Divo Antonino; infine M. Basseo Rufo ricevette una statua in armi (armata) nel Foro di Traiano, una togata (habitu civili) nel tempio del Divo Antonino e una terza loricata nel tempio di Marte Ultore tra il 176 e il 180 d.C. (la distinzione tra la statua armata e quella loricata suggerisce che la prima fosse in realtà nuda con armi e la seconda con indosso la corazza). La correlazione tra collocazione e tipo statuario è di nuovo evidente: il Foro di Traiano aveva sostituito quello di Augusto come spazio della celebrazione militare (cfr. Storia Augusta, Marco Aurelio 22, 7), mentre il tempio del Divo Antonino aveva preso il posto di quello del Divo Giulio come il luogo della commemorazione civica di chi aveva ottenuto il consolato o gli ornamenta consularia (il diritto di portare solo le insegne del consolato). La logica seguita nel II sec. d.C. era in sostanza lo schema delle immagini / 219 (era stata restaurata da Balbo) in un gruppo familiare con i ritratti dei genitori dello stesso Balbo. Le due scelte più carismatiche (cat. 3.2-3.3), ossia la statua nuda (in armi?) e quella loricata postuma (come si è accennato la statua loricata stante aveva un significato più “forte” di quella equestre per la sua stretta connessione con l’immagine del sovrano ellenistico), si trovavano invece in spazi più adatti ad accogliere forme più esplicite di eroizzazione, ossia rispettivamente nel teatro, edificio che di lì a poco nel mondo romano cominciò a essere connotato come spazio specifico di rappresentazione adatto ai ritratti imperiali in nudità eroica e loricati, e nella terrazza suburbana che era stata trasformata in una sorta di ginnasio/campus e fu perciò usata come heroon/mnemeion (memoriale) di Balbo. Le immagini più eroizzanti ebbero così uno sfondo adeguato e diverso da quelle più legate all’illustrazione della carriera pubblica e dei rapporti con le comunità locali. I molteplici dedicanti delle statue di Balbo avevano adeguato di volta in volta tipo e collocazione al messaggio che volevano comunicare, utilizzando il linguaggio dei corpi per illustrare ruolo dell’onorato e ragioni delle dediche. Bibliografia In generale sui tipi statuari: J. Fejfer, Roman Portraits in Context, Berlin-New York 2008; P. Stewart, Statues in Roman Society. Representation and Response, New York 2003; G. Lahusen, Untersuchungen zur Ehrenstatuen in Rom, Roma 1983; H.G. Niemeyer, Studien zur statuarischen Darstellung der römischen Kaiser, Berlin 1968. Sul concetto di biographical phallacy: R.R.R. Smith, Cultural Choice and Political Indentity in Honorific Portrait Statues in the Greek East in the Second Century A.D., in “JRS” 88, 1998, pp. 56-93. Sulla mentalità romana nella dedica di una statua onoraria: M. Torelli, Statua Equestris Inaurata Caesaris: mos e ius nella statua di Marco Aurelio, in A. Melucco Vaccaro, A. 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