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I BOSCHI del LAURETUM
Lentisco (Pistacia lentiscus). Sardegna
pericolo per la pubblica incolumità. Nonostante sia
l’Alloro la specie che da il nome alla zona, la
formazione climax di questa fascia, almeno alle
nostre latitudini, è la Lecceta (il Leccio, insieme alla
Sughera ed alla Quercia spinosa, forma il gruppo
delle querce italiane sempreverdi). La degradazione
delle leccete originarie, provocata dai tagli ripetuti,
dal pascolo e dagli incendi, ha portato alla
affermazione di una formazione vegetale assai
interessante, se non altro in termini di biodiversità,
che è quella della Macchia Mediterranea, un
consorzio misto di varie latifoglie arboree ed
arbustive, variabile per composizione e struttura. Il
Lauretum è anche la zona dei tre Pini mediterranei
(Pino Domestico, Pino d’Aleppo, Pino Marittimo),
diffusi dall’uomo in estesi impianti in prossimità
delle coste, per proteggere dai venti salini le
retrostanti terre agricole, o per la produzione di
legname e pinoli. Infine il Lauretum è la zona
fitoclimatica del Cipresso, che non è solo una pianta
ornamentale, ma anche una specie forestale
importante per la sua capacità di vivere su terreni
quasi sterili.
Nella provincia di Pistoia (ma anche in quelle
limitrofe di Prato e Firenze) la zona del Lauretum
risulta occupare esigue superfici, localizzate sui
versanti meridionali del Montalbano, od in alcuni
felici esposizioni collinari. Nonostante ciò, alcune
delle sue specie tipiche hanno una discreta
diffusione, sia come specie forestali (pino
marittimo), che come specie ornamentali (cipresso,
leccio, pino domestico).
La zona fitoclimatica del Lauretum trova la sua
collocazione lungo le coste e nelle colline retrostanti
direttamente esposte all’influenza marina, che
rende il clima mite e piovoso d’inverno, caldo e
siccitoso d’estate: la temperatura media annua è
sempre superiore ai 12°. La scarsità delle piogge
estive è il principale fattore climatico limitante,
tanto che nelle stazioni più aride molte specie sono
sempreverdi, entrano in riposo nei periodi più caldi
della stagione estiva, ed hanno foglie che mostrano
diversi tipi di adattamento atti a limitare la
traspirazione (foglie piccole o assenti, oppure foglie
rigide e coriacee, spesso lucide e coperte di cere,
altre volte ricche di oli essenziali). Le numerose
essenze a fogliame rigido, prendono nel loro
insieme il nome di “sclerofille mediterranee”.
Alcune di esse hanno la possibilità di crescere
durante tutto l’anno, fermando la loro attività nei
periodi sfavorevoli, e riprendendola anche
d’autunno e d’inverno. Altro elemento peculiare
della zona, è il continuo soffiare di caldi venti, che
aumentano la traspirazione vegetale, ed il formarsi
di aerosol, la cui salinità è tollerata da poche specie;
la presenza di inquinanti trasportata da venti ed
aerosol può costituire un serio problema per la
vitalità
dei
popolamenti
nella
fascia
immediatamente a ridosso del mare. Il clima caldo
arido dell’estate, unito all’infiammabilità di molte
specie, favorisce l’insorgere di numerosi incendi che
se da un lato sono un fattore ecologico importante
per la rinnovazione delle pinete e di altre formazioni
vegetali, dall’altro sono fonte di devastazione e di
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LECCIO
Sinonimi:
Elce
Nome scientifico:
Quercus ilex Linnaeus
Famiglia:
Fagaceae
Holm Oak
Steineiche
Chêne vert,
Yeuse
Il Leccio di Montemagno (Lucca).
Albero Monumentale d’ Italia
2
Encina,
Carrasca
Caratteri botanici ed ecologici
Albero sempreverde che può raggiungere i 25 m di altezza ed il metro di diametro; spesso è però un
alberello non più alto di 15 m, e può assumere anche portamento arbustivo. Molto longevo, arriva a
superare i 1.000 anni di età.
Il fusto principale, più o meno contorto, si divide ben presto in branche secondarie che originano
chiome molto dense. La corteccia è liscia e grigia nelle piante giovani; rimane molto sottile anche nelle
piante adulte, laddove si screpola in minute placche di forma approssimativamente quadrata.
Apparato radicale fittonante, molto robusto e sviluppato fino dai primi anni, e per questo in vivaio si
presta male al trapianto.
Le foglie, non più lunghe di 5 – 7 cm, rimangono sulla pianta per 3/4 anni: sono semplici, alterne,
spesse e coriacee, verde lucido nella pagina superiore, e vellutate in quella inferiore, con 7 – 11 paia di
nervature prominenti. Il Leccio presenta un caratteristico polimorfismo fogliare: ovali, talora con
margini dentati o leggermente lobati, poco pelose le foglie dei polloni e delle giovani piante; più
lanceolate, a margine intero e biancastro – feltrose nella pagina inferiore, quelle delle piante adulte.
Specie monoica, con fiori maschili in amenti penduli, e femminili in spighe; la maturazione dei frutti
avviene nell’autunno dell’annata di fioritura. Le ghiande sono portate, singole od a due, da un corto
peduncolo, hanno colore marrone scuro, spesso con striature più scure. La cupola ha squame ben
distinte, con punta libera, ma non divergente, ed avvolge la ghianda per buona parte della sua
lunghezza.
Legno a porosità diffusa (a differenza delle querce caducifoglie), con anelli annuali non sempre ben
visibili, dal duramen rosso bruno, che sfuma gradualmente verso l’alburno chiaro. E’ molto duro e
pesante, difficile da lavorare, e non si presta bene alla stagionatura, in quanto si spacca e si imbarca.
Sebbene in passato fosse impiegato in una serie di prodotti di tipo artigianale, il suo uso prevalente è
come combustibile: il Leccio è una delle specie che fornisce la migliore legna da ardere. Un tempo, dalla
legna si otteneva una ottima qualità di carbone.
Areale mediterraneo-occidentale, su una fascia limitrofa al mare; ad oriente dell’Italia diviene sporadico
nella costa dalmata ed in Turchia, ed assente nel Medio Oriente, Egitto e Libia. In Italia è diffuso
soprattutto nelle isole ed a ridosso del litorale tirrenico, oltre che in Puglia e Basilicata; ci sono alcuni
piccoli nuclei anche al nord, lungo le coste dei grandi laghi, ed in altre stazioni dal clima favorevole. E’
specie che vegeta in massa nella zona del Lauretum, in particolare nella sottozona media e fredda, ma
può spingersi anche nel Castanetum, fino a 1.000 mslm, con individui sparsi, magari a portamento
arbustivo.
Si adatta a tutti i tipi di terreno, pur preferendo quelli silicei; nelle sue risalite in altitudine, si situa sui
suoli calcarei esposti a sud, più caldi.
Specie moderatamente termofila, è molto tollerante della siccità. Non sopporta le basse temperature, e
già a – 8 °C si manifestano i primi danni. E’ comunque la sclerofilla mediterranea più resistente al
freddo. Molto tollerante dell’ombra (sciafila), può formare popolamenti assai densi.
Ha elevata e duratura facoltà pollonifera.
Il suo accrescimento può compiere diversi cicli nell’ambito dello stesso anno solare: oltre
all’accrescimento primaverile, sempre presente, si possono avere getti secondari sia nei periodi estivi
piovosi, che in quelli autunnali ed invernali tiepidi.
Come già accennato, la Lecceta costituisce la formazione climax del Lauretum, con esclusione delle
stazioni più calde ed aride d’estate, sotto forma di dense e suggestive fustaie pressoché pure, ove ai piedi
dei fusti contorti si stende uno stupendo sottobosco di ciclamini, pervinche e pungitopo. In Italia le
fustaie di Leccio sono quasi del tutto scomparse salvo poche eccezioni, tra cui in Toscana la riserva
Naturale Integrale di Poggio Tre Cancelli a Follonica (Grosseto). Più estesi i cedui maremmani che, non
sottoposti ad utilizzazione da alcuni decenni, stanno evolvendo naturalmente verso la lecceta pura d’alto
fusto. La scomparsa della fustaia di leccio è dovuta all’azione dell’uomo, intervenuto sia con ceduazioni
troppo frequenti, che con il pascolo ed i frequenti incendi, anch’essi di origine antropica. (Vedi anche
paragrafo relativo alla Macchia mediterranea, pag. 21).
Di fatto il Leccio si ritova in compagnia di molte specie mediterranee di alberelli ed arbusti, quali
corbezzolo, alloro, scope, lentisco, sughera e mirto, e talora con specie del piano superiore, quali
orniello, roverella, cerro e carpini, a formare cedui misti estremamente densi, che prendono il nome di
forteti, o di cedui vernini, molto sfruttati fino ai primi decenni del secolo scorso per la produzione del
3
carbone (a cui peraltro concorrevano molti boscaioli pistoiesi e casentinesi). Nell’ambito di queste
formazioni, l’interruzione dei tagli porta progressivamente al dominio del leccio, attraverso la
formazione di una densa copertura, che elimina quasi tutte le altre specie consociate.
Tavola botanica del Leccio e della Quercia spinosa
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Note selvicolturali
Le leccete occupano in Italia una superficie di circa 620.000 ha, di cui solo 17.000 ha nelle regioni
settentrionali; in Toscana le maggiori estensioni si trovano nelle province di Grosseto (44.000 ha) e
Siena (29.000 ha). La provincia di Pistoia è accreditata di soli 360 ha.
L’unica forma di governo applicata al leccio ed ai forteti è quella del ceduo, semplice, matricinato o
composto, a seconda delle situazioni. In passato si utilizzavano turni brevi, di 12 – 15 anni, con
produzione di una forte percentuale di fascina, che all’epoca era un prodotto vendibile. In alcune zone
(Montagnola Senese), il ceduo era trattato a sterzo, trattamento a cui il leccio si prestava bene, data la
sua sciafilia. I cedui composti, destinati al pascolo degli animali, hanno una dotazione di 100 – 150
matricine /ha, con piante fino a 4 turni ed oltre.
L’impianto della lecceta avveniva per semina, con impiego di 500 kg di seme ad ha nel caso di semina
andante su terreno lavorato, di 200 kg/ha per semine localizzate su strisce lavorate o gradoni. Oggi si
usano piantine di un anno, allevate in contenitore.
Il leccio occupa posizioni diverse nell’ambito dei forteti in relazione all’età del popolamento, ma già
verso i 18 anni, nei cedui di fertilità migliore, ne diviene la specie prevalente, con oltre il 50 % della
massa totale. La produttività di questi cedui è comunque alquanto modesta.
L’RFT come noto prevede, per i cedui di specie quercine, un turno minimo di 18 anni, ed il rilascio di 60
matricine ad ettaro. I turni per la produzione di legna da ardere sono convenientemente prolungabili
fino ai 30 anni ed oltre.
Perlomeno nell’ambito delle foreste demaniali, è proponibile l’avviamento ad alto fusto di queste
formazioni, che nei soprassuoli invecchiati sta già avvenendo in modo naturale, con funzione
paesaggistica e protettiva, od anche per produrre ghianda da pascolo.
Il leccio della Torretta a Candeglia (Pistoia)
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I Pini mediterranei
Octopus, il famoso Pino Domestico di Kew Gardens, Londra
che, se può proseguire indisturbata, porta con il
tempo all’affermarsi della lecceta pura. Il loro
mantenimento è permesso in natura dal ripetersi
del passaggio degli incendi, che agiscono come
importante fattore ecologico in grado di provocare
un’abbondante rinnovazione naturale (minore per il
pino domestico che, data la pesantezza del seme,
non si diffonde come gli altri due). Gli incendi
eliminano infatti tutta la vegetazione spontanea, che
ostacolerebbe con la sua concorrenza lo sviluppo dei
semenzali, e bruciano la sostanza organica degli
strati superficiali del terreno, esponendo la parte
minerale, e costituendo un letto di germinazione
ottimale per i semi che cadono in grande copia
grazie all’apertura delle pine, provocata dal calore
del fuoco. La pineta diviene in questo caso una
formazione forestale climax permessa e mantenuta
dal fuoco, che in ecologia prende il nome di
formazione piroclimax, secondo un processo che è
comune a vari pini (ad esempio il Pino laricio), ed a
specie di altri generi, tra cui la Sequoia Gigante
degli USA, in cui il fuoco controllato viene utilizzato
per ottenere rinnovazione naturale a basso costo.
Il fatto che i pini, insieme al denso sottobosco
arbustivo naturale che si forma nei loro
popolamenti, siano particolarmente infiammabili,
completa la mirabile strategia che Madre Natura ha
messo in atto per garantirne la perpetuazione.
Il gruppo dei Pini mediterranei comprende tre
specie sicuramente indigene in Italia: il Pino
domestico (Pinus pinea), il Pino marittimo (Pinus
pinaster) ed il Pino d’Aleppo (Pinus halepensis).
Considerati insieme, occupano una superficie
complessiva di oltre 225.000 ha, di cui l’88% nelle
regioni centro meridionali della penisola.
Pur con le dovute differenze e gradazioni, i tre pini
presentano una serie di caratteristiche comuni, che
riguardano non solo la zona fitoclimatica di
vegetazione, ma anche origine, esigenze ecologiche
ed evoluzione naturale dei popolamenti. La loro
massima diffusione è in prossimità del mare, dove
formano estese pinete artificiali ottenute per
semina, e costituite sia con finalità produttive
(pinoli e legname), che protettive (difesa dai venti,
stabilizzazione delle dune), ma che con il tempo
hanno acquisito una preminente funzione
paesaggistica e ricreativa. Specie termofile, con
esigenze di calore decrescenti dal Pino d’Aleppo, al
Domestico ed al Marittimo, sono xerotolleranti
(meno il domestico), e marcatamente eliofile in
tutte le fasi del ciclo vitale. Molto frugali, si adattano
ad una vasta gamma di terreni, anche poveri e
degradati (ed il più esigente appare ancora il Pino
domestico).
Da un punto di vista ecologico, le pinete litoranee
rappresentano una fase transitoria della successione
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PINO DOMESTICO
Sinonimi:
Pino italico, Pino a ombrello
Nome scientifico:
Pinus pinea Linnaeus
Famiglia:
Pinaceae
Stone Pine
Pinie
Pin pignon,
Pin parasol
Pino Domestico. IPSAA “de Franceschi”, Pistoia
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Pino piñonero,
Pino doncel
Caratteri morfologici ed ecologici
Albero la cui chioma adulta assume un inconfondibile portamento a ombrello; può crescere fino a 30
metri in altezza, e fino a 3 metri in diametro. Non molto longevo, raggiunge i 250 – 300 anni di età.
Fusto talora contorto e policormico; chioma globosa negli individui giovani, tende ad innalzarsi
rapidamente grazie alla potatura naturale dei rami inferiori, e ad appiattirsi nella caratteristica forma ad
ombrello. L’appiattimento è più o meno pronunciato, in relazione all’intensità luminosa. La corteccia
delle piante adulte si screpola profondamente a formare grosse placche, di colore rosso cannella, che
vira decisamente verso l’arancione negli esemplari più vecchi.
Apparato radicale robusto e profondo, fittonante da inizio, e formante poi robuste radici laterali.
Gemme cilindriche e non resinose, lunghe circa 1 cm. Gli aghi sono riuniti in fascetti di 2 da una guaina
lunga circa 1 cm, e persistono per 2 – 3 anni; lunghi da 8 a 20 cm, e larghi 1,5 – 2 mm, hanno colore
verde chiaro, ed apice acuto e spesso giallastro.
L’impollinazione avviene tra marzo e maggio; la maturazione degli strobili si ha nell’autunno del terzo
anno; nella primavera – estate del quarto anno si aprono per disseminare, ancora sulla pianta. Strobili
maturi di forma ovoidale e simmetrici, solitari od in gruppi di 2 – 3, brevemente peduncolati, lunghi da
8 a 16 cm e larghi 7 – 10 cm, di colore bruno rosso con riflessi violacei. Ogni squama porta due semi
avvolti da una polvere nera, lunghi fino a 2 cm, commestibili. La produzione di seme è precoce,
iniziando verso i 15 – 20 anni (anche prima nei climi meno caldi).
Legno con duramen bruno rossastro non sempre sviluppato, e largo alburno biancastro; anelli ben
visibili. E’ molto resinoso e tenero, poco durevole, di mediocre qualità, utilizzato per imballaggi ed usi
ordinari; ha scarsa qualità anche come combustibile.
Areale incerto, considerato che è specie di antica coltivazione; è comunque diffuso con boschi o piante
isolate lungo tutta la costa del Mediterraneo, maggiormente presso quelle settentrionali.1 Le più vaste
estensioni di pinete coltivate si trovano in Spagna, Portogallo, Italia ed Anatolia. E’ specie del Lauretum,
ma dalla costa può risalire nell’interno, con piante sporadiche, fino a 500 mslm, 800 mslm nelle regioni
del Sud e nelle isole.
Si adatta a vari tipi di terreno, esclusi quelli calcarei, compatti e soggetti a periodica sommersione;
preferisce suoli sabbiosi e freschi.
E’ termofilo, con esigenze di calore intermedie rispetto agli altri pini mediterranei. Abbastanza xerofilo,
ma le stazioni più aride ne rallentano lo sviluppo. Assai esigente di luce.
Il Pino domestico risulta molto sensibile all’inquinamento atmosferico, ed ai venti ed agli aerosol
marini. Nei terreni a scarso drenaggio è colpito da marciume radicale (Heterobasidion annosum); nelle
vecchie pinete da pinoli, non sono rari sradicamenti e rotture dei tronchi a causa del marciume del
legno provocato dal fungo Phellinus pini. Le pine possono essere attaccate da un insetto (Dioryctria
pinea) o da un fungo, malattie che riducono la produzione di pinoli. Perlomeno, è il Pino meno colpito
dalla processionaria!
Note selvicolturali
Le Pinete di domestico occupano in Italia una superficie stimata tra i 20.000 ed i 30.000 ha, in
maggioranza localizzati lungo la costa tirrenica; la Toscana, accreditata di 7.700 ha, risulta la prima
regione per estensione. Hanno tutte origine artificiale, impiantate dall’uomo lungo le pianure costiere
(ma sempre ad una certa distanza dal mare), per la produzione dei pinoli. Il Pino domestico e’ stato
pure diffuso, limitatamente e talora insieme al pino marittimo ed al cipresso, nei rimboschimenti di
aree collinari, non adatte alla raccolta dei pinoli, con scopo prettamente protettivo. E’ impiegato anche
come pianta ornamentale e come alberatura stradale.
L’ esistenza delle pinete litoranee toscane è documentata già a partire dal XV secolo; con l’ avvento delle
opere di bonifica delle zone costiere intraprese dai Medici, e continuate dai Lorena, la loro estensione
crebbe di molto, ed ebbero origine, tra le altre, le famose pinete di Viareggio, Migliarino, San Rossore,
Tombolo, Cecina e Follonica. Sebbene in molte di queste pinete la raccolta sistematica dei pinoli sia
venuta meno, esse conservano una importantissima funzione paesaggistica ed ambientale, che ne
consiglia comunque il loro mantenimento, per quanto possibile.
1
L’antica diffusione della coltivazione delle specie aveva una curiosa corrispondenza con le località portuali.
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L’impianto della pineta avveniva tradizionalmente per semina, sgombrando precedentemente la
vegetazione erbacea ed arbustiva su tutta la superficie, oppure su strisce o piazzole. La quantità di seme
necessaria era di 30 - 40 per la semina andante, di 15 - 20 per quella localizzata, con interramento del
seme di 2 – 3 cm. Nel caso di rimboschimenti collinari, si sono usati anche semenzali di 1 – 2 anni (ma
la produzione del pino domestico in vivaio è difficile, per la precoce formazione del fittone, che
sconsiglia l’allevamento in contenitore2, e ne impone il taglio già nei primi mesi di semenzaio), con sesto
d’impianto 2m x 3m.
Diradamenti precoci portavano le fustaie da pinoli alla sua densità definitiva, variabile dalle 80 alle 120
piante/ha, verso i 30 – 35 anni,. Oltre ai diradamenti, si praticavano periodiche potature dei rami,
innalzando progressivamente la chioma, e regolando la sua distribuzione in modo da agevolare la
raccolta.
La raccolta delle pine avveniva per scuotitura manuale, eseguita da operai, i “rampichini”, che salivano
pericolosamente sulle piante, e scuotevano i rami per mezzo di un’asta uncinata con cui li agganciavano.
Oggi si ricorre alla scuotitura meccanica, effettuata in pieno inverno, con macchine semoventi dotate di
pinze atte ad afferrare il tronco ed a scuoterlo. Una volta a terra, le pine vengono raccolte, seccate al
sole, ed avviate all’opificio, dove vengono estratti e sgusciati i pinoli con apposite macchine. La piena
produzione inizia sui 40 anni, e dura fino agli 80 – 90. Con molta approssimazione, da un ettaro di
pineta si possono ricavare 25 quintali di pine sane, che fanno circa 2 quintali di pinoli in guscio, ovvero 1
quintale di pinoli sgusciati.
Il trattamento delle pinete è quello del taglio raso e rinnovazione artificiale posticipata, con un turno di
100 – 120 anni. (L’RFT prevede per le pinete di pino domestico un turno minimo di 80 anni).
Dal taglio delle pinete mature si ottiene anche una discreta produzione legnosa (300 – 400 m²/ha), che
sebbene di scarsa qualità, è comunque utilizzabile per imballaggi, perlinature ed altri rivestimenti.
Esemplare di Pino Domestico ultra centenario (con professore quarantenne). Tenuta di Tombolo, Pisa.
L’apparato radicale delle piantine in contenitore assume il caratteristico aspetto a molla, che si ripercuote poi sulla
stabilità delle future piante anche in età adulta).
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PINO MARITTIMO
Sinonimi:
Pinastro
Nome scientifico:
Pinus pinaster Aiton
Famiglia:
Pinaceae
Maritime pine,
Cluster pine
(sin. Pinus maritima Miller)
Strand Kiefer
Pin maritime,
Pin des Landes
Pino resinero,
Pino maritimo
Chioma di Pino Marittimo con Glicine (casa mia!)
Caratteri morfologici ed ecologici
Conifera che può arrivare a 40 metri di altezza ed oltre 1 metro di diametro, generalmente poco longeva,
non superando i 150 - 200 anni. Fusto spesso inclinato e/o curvato a sciabola. Chioma delle piante
adulte di colore verde scuro, più o meno espansa, ma mai appiattita; appare più densa nella parte
superiore. Corteccia spessa anche da giovane, che si fessura in profondità, formando placche di colore
bruno – viola all’esterno, e rosso vinose all’interno delle fessure.
Apparato radicale assai robusto, con grosse radici principali che penetrano obliquamente nel terreno.
Gemme non resinose, più grandi che nel pino d’Aleppo e Domestico, lunghe fino a 3,5 cm. Gli aghi sono
riuniti a fascetti di 2, tenuti da una guaina lunga fino a 2,5 cm: sono molto lunghi (fino a 20 cm) e
robusti, di colore verde cupo e lucenti, appiattiti ed acuminati.
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Gli strobili sono grossi (anche 20 cm di lunghezza, e 5 – 7 di larghezza), prima verdi, e poi colore bruno
porpora, e sono portati intorno al ramo in gruppi consistenti. Hanno forma conica allungata quando
chiusi, ovoide da aperti; la maturazione avviene in due anni, ma possono rimanere chiusi sulla pianta
per parecchi anni. La fruttificazione inizia presto, già a 10 – 15 anni, ed è sempre abbondante. I semi,
leggeri e dotati di una lunga ala, sono facilmente trasportati dal vento anche a grandi distanze dalla
pianta madre.
Legno con duramen rossiccio ed alburno giallastro, ad anelli ben distinti, poco durevole, molto resinoso,
tenero e di fibratura grossolana. Non è adatto ad usi di falegnameria fine, ed è impiegato per casse e
cassette da imballaggio, oltre che come combustibile; in passato era usato anche nelle costruzioni
navali, e per paleria varia.
Il Pino marittimo ha un areale frammentato che gravita tra il Mediterraneo occidentale (Spagna, sud
della Francia, Algeria e Marocco) e l’Atlantico (Portogallo e regione di Bordeaux). Il limite orientale
corrisponde alla Liguria ed alla Toscana: al di fuori di queste due regioni, in Italia è da considerarsi
coltivato.
Specie del Lauretum, essendo il meno termofilo dei pini mediterranei, ed avendo un certo grado di
adattamento al freddo, si addentra anche nel Castanetum; in Liguria si spinge fino a 1.000 mslm. Pur
essendo xerofilo, rivela il suo temperamento oceanico nella necessità di estati non troppo siccitose e di
almeno 800 – 1.000 mm di precipitazioni annue. E’ specie eliofila e pioniera, in grado di colonizzare
terreni degradati e percorsi da incendi, grazie alla enorme capacità di disseminazione, ed al rapido
accrescimento giovanile, che gli permette di vincere la concorrenza della vegetazione dei terreni dove si
insedia.
Molto frugale, si adatta a quasi ogni tipo di terreno, anche a quelli fortemente acidi o calcarei.
Il Marittimo forma popolamenti puri, ma è spesso consociato sia ad altre conifere (Pini e Cipresso) che
a latifoglie quali castagno, robinia e querce, in ambito di cedui coniferati abbastanza frequenti nelle
colline dell’entroterra.
Le sue pinete risultano molto soggette all’incendio, sia per le caratteristiche intrinseche della specie, che
per il sottobosco a base di Eriche, arbusti vari, e Leguminose, facilmente infiammabile. Il Pino
marittimo è rappresentante esemplare del gruppo di specie chiamate “pirofite”, ovvero adattate a
resistere agli incendi (vuoi attraverso ispessimenti e suberificazione della corteccia, che per capacità di
rigenerazione gamica o agamica dopo il passaggio del fuoco).
Resistente agli aerosol marini, purchè non inquinati, il pino marittimo è attaccato da una vasta gamma
di parassiti, che ne diminuiscono di molto la longevità. Tra essi Matsococcus feytaudi, una cocciniglia
che vive sotto le squame della corteccia dei fusti e dei rami, e che si nutre della linfa delle piante,
assorbita attraverso un apparato boccale fatto come un lungo ago sottile, utilizzato anche per iniettare
nell’albero sostanze tossiche. A partire dal 1999, c’è stata una vera esplosione biologica delle popolazioni
dell’insetto nelle pinete costiere della Toscana, che ha comportato il taglio e l’abbruciamento di migliaia
di pini, e la loro sostituzione attraverso l’impianto di altre specie del Lauretum (leccio, pino d’Aleppo,
farnia, frassino).
Note selvicolturali
Il Pino marittimo in Italia risulta il più diffuso tra i pini mediterranei, con una superficie stimata
superiore ai 160.000 ha. In Toscana è diffuso sia nelle pinete costiere, che in popolamenti misti in area
collinare. Nelle pinete costiere il Marittimo ha origine artificiale, impiantato sulla fascia
immediatamente a ridosso del mare, vista la sua resistenza alla salinità, insieme al Pino d’Aleppo, con
scopi di protezione dai venti delle retrostanti fasce a pino domestico e/o occupate da coltivazioni
agrarie, e di rinsaldamento delle dune. Nei boschi collinari è in parte di origine naturale, per diffusione
naturale, ed in parte introdotto dall’uomo attraverso la semina. Nella provincia di Pistoia, superfici di
una certa consistenza occupate da boschi con presenza più o meno cospicua di pino marittimo si
ritrovano sul Montalbano, in Val di Nievole, nella Valle del Vincio, e nel pesciatino.
L’impianto avveniva per semina, con 10 – 15 kg/ha di seme in pieno, e 3 – 6 kg/ha per la semina
localizzata; oggi si possono usare semenzali di 1 anno, o trapianti 1S + 1T, in contenitore. Il sesto
d’impianto di 1m x 1,5m, oppure di 2m x 3m.
I turni adottati sono variabili dai 45 ai 60 anni, e non dovrebbero comunque superare gli 80 anni. Il
RFT prescrive per le pinete di marittimo un turno minimo di 40 anni. La rinnovazione naturale si
insedia con estrema facilità, e le pinete pure possono essere trattato sia a taglio raso, con rilascio o meno
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di riserve3, a tagli successivi (nelle zone in cui il novellame ha bisogno di protezione, con taglio di
sementazione che asporta il 50 – 70% della massa in piedi, e taglio di sgombero dopo non oltre 6 anni),
ed addirittura a taglio saltuario, dove i soprassuoli presentino struttura disetaneiforme. La rinnovazione
naturale può essere agevolata dalla riduzione della copertura arbustiva. Nei primi anni di vita sono
necessari sfollamenti per ridurre il numero di piante, che spesso sono alcune decine di migliaia ad
ettaro, ed in seguito si richiederebbero diradamenti intensi e frequenti, che portino le pinete a maturità
con un numero di 400 – 450 piante ad ettaro. La massa legnosa a 50 anni varia dai 170 m³/ha delle
pinete a fertilità scadente, ai 350 m³/ha dei popolamenti a fertilità ottima.
Per i popolamenti misti di collina, in gran parte cedui coniferati, è consigliabile mantenere i pini
presenti più a lungo possibile, risparmiandoli all’atto delle ceduazioni, come “assicurazione” contro gli
incendi, e per aumentare la biodiversità.
In quanto alla prevenzione degl incendi, è necessario isolare il perimetro delle pinete, attraverso
l’asportazione di tutta la vegetazione arbustiva su di una fascia di almeno 20 –30 metri, intervento da
ripetere, nei complessi estesi, anche al loro interno, con disposizione a rete.
In Italia il Pino Marittimo era un tempo utilizzato per l’estrazione della resina, dalla quale si può
produrre acquaragia, trementine ed altri estratti. La resinazione avveniva in popolamenti mantenuti a
densità più rada (200 – 250 piante/ha) su piante che avevano raggiunto i 30 cm di diametro. Il tronco
veniva inciso con un raschietto nella sua parte basale, aprendo un solco longitudinale centrale ed una
serie di solchi obliqui, disposti a spina di pesce rispetto a quello centrale, alla cui base veniva posto un
contenitore, per raccogliere la resina fuoriuscente dalle incisioni. Partendo dal basso, ogni anno si
facevano nuove incisioni, finchè la pianta veniva portata a morte. La produzione di resina grezza era
intorno ai 250 litri/ha all’anno. Oggi la resinazione in Italia è stata abbondanata, ed il fabbisogno
europeo viene soddisfatto dalle pinete francesi dell’area di Bourdeaux.
Strobili, gemma e corteccia di Pino Marittimo
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Nel taglio raso prendono il nome di riserve le piante del ciclo precedente rilasciate per la produzione di seme.
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PINO d’ ALEPPO
Sinonimi:
Pino di Gerusalemme
Nome scientifico:
Pinus halepensis Miller
Famiglia:
Pinaceae
Aleppo pine
Aleppo Kiefer
Pin d’ Alep,
Pin de Jérusalem
Pino d’ Aleppo in terra di Provenza
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Pino carrasco,
Pino de Alepo
Caratteri morfologici ed ecologici
Albero che raramente supera i 20 metri di altezza, ma che arriva ad 1,20 m di diametro; la sua longevità
è limitata a 150 – 200 anni. Portamento tozzo, con fusto e rami principali spesso contorti. Chioma
disordinata, per la diseguale lunghezza dei rami, che tende ad addensare il fogliame in tanti globi;
globosa in gioventù, può diventare ombrelliforme, ma mai come nel pino domestico. Ha colore più
chiaro rispetto agli altri pini mediterranei. Corteccia liscia e grigio cenere, quasi argentata da giovane e
nei rametti, si fessura poi in placche fitte e poco profonde, di colore bruno – rosso.
Apparato radicale inizialmente fittonante, che si arricchisce in seguito di radici molto profonde, e capaci
di penetrare nelle fessure delle rocce.
Gemme non resinose, piccole (da 5 a 10 mm), di forma conico-ovoidale. Aghi in fascetti di due
(raramente 3), con guaina lunga 7 – 8 mm, molto sottili, di colore verde chiaro, lunghi da 5 a 10 cm, con
margini minutamente dentati ed apice appuntito.
Strobili più piccoli rispetto al domestico ed al marittimo, lunghi da 6 a 10 cm, e larghi da 3,5 a 4,5 cm, di
colore bruno rossastro; incurvati e di forma ovoide – conica, sono attaccati al ramo, solitari od in gruppi
di 2 –3, con un peduncolo ben evidente. La maturazione dei semi avviene nell’autunno del secondo
anno, ma solo alcune pine si aprono e disseminano; un'altra parte lo farà al terzo anno, ed altri strobili
ancora resteranno a lungo chiusi sulla pianta. La produzione di seme comincia sui 10 anni, ma fino ai
20 anni la pianta produce semi scarsamente germinabili. I semi sono piccoli e dotati di lunga ala,
facilmente trasportabili dal vento.
Legno con duramen bruno molto scuro ed alburno giallo chiaro, ad anelli ben distinguibili. Risulta duro
ed assai denso, perlomeno in relazione al legname delle conifere. Utilizzato per imballaggi e
falegnameria grossolana, in passato anche per costruzioni navali e puntoni da miniera; è un discreto
combustibile ma brucia rapidamente. Anticamente sottoposto a resinazione.
Tavola botanica del Pino d’Aleppo
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La specie risulta suddivisa in due sottospecie: Pinus halepensis subsp. halepensis, a cui si riferisce la
descrizione, e Pinus halepensis subsp.brutia, assai raro in Italia, che vive nelle regioni del Mediterraneo
orientale.
Il Pino d’Aleppo è il pino più diffuso di tutto il Mediterraneo, ed il suo areale comprende le zone costiere
di tutti i paesi che vi si affacciano. In Italia ha una presenza frammentata lungo le coste dei tre mari; i
boschi più importanti si trovano in Umbria ed in Puglia, in Toscana è poco rappresentato. In Liguria si
spinge fino a 700 metri di altitudine, e raggiunge i 400 – 500 mslm all’interno della penisola e sul
Gargano.
Vegeta solo nel Lauretum, ed è il più termofilo dei pini mediterranei. Molto eliofilo e xerofilo, sviluppa
male nelle zone molto piovose. Poco esigente, miglioratore delle proprietà edafiche, si adatta ad ogni
tipo di terreno, anche a quelli calcarei, rocciosi ed aridi, con esclusione dei suoli troppo argillosi od
umidi. E’ specie pioniera, di facile diffusione e rapido accrescimento, che si propaga abbondantemente
dopo il passaggio di incendi. Ha ritmo di crescita policiclico (ovvero può emettere più getti vegetativi in
un anno). E’ resistente agli aerosol marini, purchè non inquinati.
Note selvicolturali
Le pinete di pino d’Aleppo occupano in Italia una superficie stimata intorno ai 25.000 ha. E’ stato
spesso impiegato nei rimboschimenti con finalità protettive, sia nell’ambito delle pinete costiere, nella
posizione più frontaliera rispetto al mare, che in terreni molto scadenti di varie regioni, spesso
consociato al Cipresso.
Nelle stazioni favorevoli (suoli calcarei) l’impianto avveniva per semina, con 8 – 12 kg di seme per ettaro
in pieno, e con 1 – 4 kg/ha per la semina a strisce o piazzette. L’impianto può utilizzare anche
semenzali, da alcuni mesi a due anni di età, allevati in contenitore. Sesto d’impianto 1,8m x 2m.
In Toscana non ci sono esperienze significative nel trattamento di queste pinete. Altrove, si adotta un
turno di 60 – 70 anni (il RFT della Toscana, prescrive un turno minimo di 40 anni), ed un trattamento
mirato ad ottenere la rinnovazione naturale, attraverso tagli raso a strisce, con o senza rilascio di riserve
(20 – 50/ha), oppure per mezzo di tagli successivi, con taglio di sementazione che asporta il 50 % della
massa, e taglio di sgombero dopo 5 – 10 anni. Il ciclo colturale prevederebbe poi l’esecuzione di
diradamenti precoci, frequenti e moderati.
La produzione legnosa risulta minore di quella del pino marittimo, con incremento medio annuo/ha a
60 anni di 3 – 4 m³.
Oltre al legname, dalla corteccia del pino d’Aleppo si può estrarre tannino e sostanze coloranti, usate
per tingere le reti da pesca. In Grecia viene ancora sottoposto a resinazione, e la resina impiegata per
aromatizzare il vino.
Pino d’Aleppo su roccia viva
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CIPRESSO
Nome scientifico:
Cupressus sempervirens Linnaeus
Famiglia:
Cupressaceae
Italian Cypress
Italienische Zypresse
Cyprès d’Italie
Ciprés
Cipressi di Toscana
San Guido”, è stato soggetto o comprimario di
numerose rappresentazioni pittoriche di tutte le
epoche. Secondo la mitologia Greca, l’origine (ed il
nome) del Cipresso derivano da Kuparissos, un
giovane greco che venne trasformato in quest’albero
dal dio Apollo, per venire incontro al suo desiderio
di poter piangere per tutta l’eternità la morte, da lui
stessa involontariamente provocata, di un cervo che
molto amava. L’apparente immutabilità che
manifesta durante tutto l’anno, fanno del Cipresso
il simbolo per eccellenza del lutto e della fedeltà alla
memoria dei defunti, e danno ragione della sua
presenza nei cimiteri. Innalzandosi dritti e slanciati
verso il cielo, rappresentano anche la salvezza, e la
speranza in una vita migliore.
Stupendo nel suo portamento unico ed
inconfondibile, il Cipresso è originario del Medio
Oriente e fu introdotto in Italia prima dell’era
cristiana. Particolarmente diffuso in Toscana, si
ritrova ad accompagnare chiese e cimiteri, oppure
come specie ornamentale di antichi parchi e
giardini, e nelle alberature dei viali di accesso di
ville signorili e fattorie, tanto da caratterizzare e
rappresentare fortemente il paesaggio delle colline
fiorentine e senesi, e da meritargli il nome di
“Cipresso italiano” nelle principali lingue europee.
E’ dotato di un legno profumato ed indistruttibile, il
più pregiato tra tutte le conifere italiane. Già i
romani lo impiegavano come siepe, potato come si
fa con il Bosso, a formare le più svariate figure.
Cantato dal Carducci nella famosa poesia “Davanti a
Caratteri morfologici ed ecologici
Albero che raramente supera i 20 metri di altezza ed i 70 cm di diametro, capace di vivere diversi secoli.
E’ suddiviso in due varietà che differiscono per il portamento, e che costituiscono gli estremi di una
grande variabilità naturale: la varietà pyramidalis (chiamata in Toscana “Cipresso maschio”, senza
alcun riferimento al sesso, essendo specie monoica), con chioma fastigiata, stretta vicino al fusto, di
prevalente uso ornamentale, e la varietà horizontalis (Cipresso femmina), con rami orizzontali e chioma
espansa, più frequente in natura, e preferito per la produzione legnosa. La parte basale del fusto
presenta caratteristici e marcati contrafforti in corrispondenza dell’inserimento delle radici. Nella
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pyramidalis, il tronco è spesso suddiviso in numerosi fusti fino dal basso. Corteccia di colore grigio,
alquanto sottile e fibrosa, che appare finemente rigata in senso longitudinale.
L’apparato radicale si mantiene superficiale anche in terreni profondi, ed è formato da molte radici
ramificate.
Rametti a sezione cilindrica, che non portano gemme. Le foglie sono squamiformi, piccole, strettamente
embriciate, ovali ed ottuse, con una ghiandola resinifera sul dorso, ma prive di essudazioni di resina
bianca.
Gli strobili, chiamati galbule (coccole in Toscana), portati solitari o riuniti a gruppi, hanno forma da
sferoidale ad ovale, larghi da 1,5 a 3 cm, e lunghi da 2 a 4 cm, dapprima grigio verdastri, poi giallastri ed
infine grigio scuri. Sono formati da squame opposte, in numero da 8 a 14, con scudo pentagonale
disposto sulla superficie esterna. Ogni squama porta numerosi piccoli semi, con ala abortita. Gli
sporofilli si aprono da febbraio a marzo, e quelli maschili danno luogo a “piogge” di polline, polveroso e
giallastro. La maturazione avviene nell’autunno dell’anno successivo, e la disseminazione ha luogo due
anni esatti dopo la fioritura. La fruttificazione è precoce (già verso i 5 anni di età), ed annualmente
abbondante.
Legno con duramen giallo chiaro ed alburno biancastro, con anelli non molto evidenti, frequenti quelli
falsi. A fibratura fine, privo di canali resiniferi e molto odoroso (tiene lontane le tarme, e per questo è
impiegato per cassapanche), assai durevole, è di ottima qualità e adatto per mobili, tavolati, infissi ed
altri usi all’esterno.
Corteccia, foglie e galbula di Cupressus sempervirens
Originario del Mediterraneo orientale, dal Medio Oriente alla Grecia, è stato introdotto in Italia
precedentemente all’epoca romana ed, almeno in Toscana, dove si riscontra la più alta concentrazione,
può considerarsi naturalizzato.
Il Cipresso vive nel Lauretum e nella sottozona calda del Castanetum, fino ad un’altitudine di 500 – 700
mslm nell’Italia centrale, e 700 – 800 mslm al Sud.
E’ specie termofila, molto xerofila; mediamente eliofila, in gioventù è abbastanza tollerante dell’ombra.
Vive su qualsiasi tipo di terreno, compresi suoli calcarei, argillosi, compatti e pietrosi, senza però essere
in grado di migliorarne le caratteristiche. E’ specie di lento accrescimento, con un ritmo del tutto
particolare e controcorrente: il riposo vegetativo avviene d’estate, e la vegetazione riprende in inverno,
salvo interrompersi nei periodi più freddi.
Il Cipresso è soggetto ad attacchi parassitari da parte del Coryneum cardinale, un fungo di origine
californiana diffuso da un insetto minatore della corteccia, e che sviluppa le sue ife tra legno e corteccia,
provocando quello che è conosciuto come cancro del Cipresso, malattia che può seccare completamente
le piante. Gli individui più vigorosi riescono a difendersi, circoscrivendo il danno grazie alla formazione
di tessuti cicatriziali che impediscono la propagazione del fungo (i Cipressi che si vedono con la cima
secca sono quelli che si sono salvati in extremis). Dal 1960 il Coryneum è divenuto particolarmente
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virulento, imponendo il taglio di numerose piante che erano seccate. Altri attacchi dovuti all’afide
Cinara cupressi, possono ridurre sensibilmente la densità della chioma. Nell’impianto di nuovi Cipressi,
si usa materiale proveniente da cloni resistenti al cancro, quali “Bolgheri” e “Florentia” per la varietà
pyramidalis, e “Agrimed” ed “Etruria” per la horizontalis.
Il famoso viale dei Cipressi di Bolgheri (Livorno)
Note selvicolturali
Il Cipresso trova il suo impiego sia come essenza ornamentale, a piante sparse od in filari lungo le
strade (alberature stradali), che come specie da rimboschimento; in Provenza (ma anche in Sicilia)
viene utilizzato anche per costituire efficaci barriere frangivento.
Le piante ornamentali derivano da cloni provenienti dalle varietà piramidali, propagati per innesto. La
gestione degli esemplari adulti più importanti dovrebbe delimitare un’area di rispetto intorno alla
pianta, e prescrivere distanze minime per le arature dei terreni agricoli adiacenti, e per altri lavori, al
fine di salvaguardare le funzioni dell’apparato radicale. Come alberatura stradale presenta
caratteristiche ottimali: non richiede potature, non lascia cadere il fogliame, ed il pericolo di caduta
rami, o di intere piante, è piuttosto remoto. La loro gestione, oltre al mantenimento di una fascia di
rispetto, dovrebbe provvedere ad avvicendare periodicamente le piante, mediante taglio e reimpianto.
L’uso del Cipresso come specie da rimboschimento di terreni calcarei e molto poveri ha avuto inizio nel
1850, secondo uno schema che ne prevedeva l’impianto in purezza nei suoli più scadenti, e la
consociazione con Pino domestico e marittimo (ma anche con Pino d’Aleppo, Pino nero e Cedro
dell’Atlante) nelle stazioni un po’ migliori. Mentre la distribuzione come pianta ornamentale risulta
molto ampia, i rimboschimenti in Italia sono concentrati nelle colline di Firenze, a sud di Siena, nel
volterrano e vicino a Chiusi. La provincia di Firenze è quella che vanta la maggiore presenza di
cipressete pure e miste, con una superficie stimata di 3.600 ettari 4.
Per il rimboschimento si utilizza materiale da 1 a 3 anni, allevato in contenitore; il sesto d’impianto
tradizionale e di 2m x 2m.
L’RFT prescrive per i boschi di cipresso un turno minimo di 80 anni.
La rinnovazione naturale del Cipresso si insedia facilmente nei terreni pietrosi e/o erosi, anche se
l’insediamento è lento e progressivo. Nei luoghi più fertili, la diffusione di Roverella, Orniello e
Corniolo, portano invece alla scomparsa dell’eventuale novellame, a meno che non si intervenga con
periodiche ceduazioni delle latifoglie.
Il trattamento, in considerazione del valore paesaggistico, dovrebbe incentrarsi sul taglio saltuario,
rimuovendo le piante in prossimità delle quali è presente rinnovazione, ed instaurando le condizioni per
la costituzione di una struttura disetanea.
4
Poggesi, 1979. Nello stesso studio, vengono stimate in provincia di Firenze circa un milione di piante sparse.
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SUGHERA
Nome scientifico:
Quercus suber Linnaeus
Famiglia:
Fagaceae
Sughera a cui è stato asportato il sughero
La sughera è una quercia sempreverde utilizzata per la produzione di sughero, che si ottiene dalla sua
corteccia. E’ albero a portamento tozzo, assai ramoso e contorto; non supera i 20 metri di altezza. Ha
chioma più rada e più chiara rispetto al leccio, a prima vista può ricordare un olivo. Mediamente
longevo, comunque non più di 100-150 anni quando è sfruttato per il sughero.
Corteccia dapprima liscia, poi spessa e persistente (non vengono eliminati gli strati esterni, come
avviene nelle altre specie, e quindi si accumula), profondamente screpolata, spugnosa e rugosa,
biancastra all’esterno, e rossastra all’interno. Ove recentemente sfruttata, appare di color rosso bruno
(vedi foto sopra).
Apparato radicale fittonante e robusto; foglie sempreverdi (persistono da 1 a 3 anni), semplici ed
alterne, piccole e di forma ovata, simili a quelle del leccio (da cui si distingue per avere la nervatura
mediana sinuosa), dentate nelle piante e nei rami giovani, poi a margine intero. La fioritura può essere
primaverile od autunnale: nel primo caso i frutti maturano nell’anno, nel secondo caso, l’anno
successivo. Ghiande piccole, portate in gruppi, con la cupola che presenta parte delle squame
nettamente divergenti.
Il suo areale corrisponde alle coste occidentali del Mediterraneo; trova la sua massima diffusione in
Portogallo e Spagna. In Italia è coltivata ancora in Sardegna, e si ritrova prevalentemente nelle regioni
meridionali tirreniche. In Toscana ha una certa diffusione in Maremma e nel Chianti, come matricina di
cedui misti o con alberi sparsi o piccoli gruppi; sporadica in Versilia e nel pisano.
Specie esigente di calore e di umidità (più termofila ed igrofila del Leccio e dei Pini mediterranei). Ha
temperamento oceanico; è eliofila e preferisce terreni sciolti di matrice silicea.
Il sughero è il prodotto principale ottenuto da questa quercia: il suo sfruttamento è permesso dalla
capacità che la pianta ha di formare un nuovo fellogeno (tessuto che produce la corteccia) in posizione
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più profonda rispetto a quello vecchio, quando il sughero viene rimosso. Caratterizzato dalla leggerezza
e dall’elevato potere di isolamento termico ed acustico, viene impiegato prevalentemente in enologia
(tappi per bottiglie) e nell’edilizia (pannelli isolanti).
La coltivazione delle sugherete prevede una densità a maturità di circa 200-350 piante ad ha,
opportunamente potate per avere almeno 3 metri di tronco libero da rami e nodi. Talora si provvede alla
ripulitura del sottobosco, a lavorazioni del suolo ed a concimazioni (con la finalità di aumentare la
produzione di sughero). Il turno varia dai 100 ai 150 anni; la sostituzione delle piante avviene
progressivamente (come per i castagni da frutto).
La prima estrazione del sughero (demaschiatura), avviene su piante di circa 25-30 anni, che hanno
corteccia normalmente screpolata, e da esso si ottiene il cosiddetto sugherone o sughero maschio, il
quale è un assortimento secondario, destinato alla triturazione. Dopo la demaschiatura la pianta
riforma uno strato di sughero compatto, chiamato sughero gentile, di migliore qualità, estratto più volte
ogni 9-10 anni, comunque prima che cominci a screpolarsi di nuovo. Una pianta ottima può essere
sottoposta durante la sua vita anche a 20-24 decorticazioni, per un totale di circa 450 kg di sughero
grezzo; da 1 ha di buona sughereta si possono ottenere ogni 9 anni circa 20 quintali di sughero
commerciabile.
Le Sughere scortecciate sono ovviamente molto suscettibili agli incendi, che provocano elevata
mortalità.
Secondo la Legge Forestale della Toscana, lo sfruttamento del sughero è consentito quando la pianta
abbia raggiunto una circonferenza a 1,3 m di 60 cm, e la parte di fusto decorticata non può superare in
altezza il triplo della circonferenza; nessuna operazione è consentita prima che il sughero abbia
raggiunto i 9 anni. L’estrazione del sughero è consentita dal 15 maggio al 31 di agosto, quando la pianta
è in succhio.
Corteccia, ghiande e foglia di Quercus suber
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La Macchia Mediterranea
Gariga. Sardegna
Con il nome di Macchia Mediterranea si indica una formazione vegetale tipica del Lauretum, poco
sviluppata in altezza e costituita da una consociazione di numerose specie sempreverdi, in prevalenza a
portamento arbustivo5, e con una densità spesso talmente elevata, da risultare impenetrabile. Essa
costituisce la formazione vegetale più rappresentativa del clima mediterraneo. (Per le caratteristiche
generali, vedi anche il paragrafo introduttivo a pag. 1). Nella maggior parte dei casi, la sua origine è da
ricercarsi in un processo di degradazione della originaria lecceta d’alto fusto, dovuta alla concomitanza
ed al sovrapporsi del ripetersi degli incendi, di ceduazioni troppo ravvicinate nel tempo, e del pascolo
eccessivo, secondo una regressione ecologica, potenzialmente reversibile, che comporta le seguenti
tappe:
Lecceta - Macchia foresta - Macchia alta - Macchia bassa - Gariga
Alla Gariga può succedere la Steppa a graminacee o la Vegetazione rupestre, secondo le localizzazioni,
ed infine il deserto. Ad ognuna di queste tipologie corrisponde una fisionomia ed una composizione
specifica tipiche, anche se poi i fattori climatici e di suolo locali determinano la prevalenza di alcune
specie rispetto ad altre.
La Macchia foresta è formata da popolamenti a portamento arboreo, con statura superiore ai 6 metri, a
prevalenza di Leccio, Sughera, Olivastro, Corbezzolo ed altre specie della Macchia alta (vedi). Deriva da
processi degradativi meno intensi, provocati solo da ceduazioni troppo ravvicinate; se lasciata
indisturbata, può evolvere verso la lecceta pura.
La Macchia alta ha altezza tra 2 e 6 metri. Alle ceduazioni ripetute, si aggiungono altri fattori di
degradazione, quali incendi e pascolo, così come per le categorie successive. La presenza di Leccio e
Sughera diminuisce fortemente, le piante hanno aspetto di grandi arbusti o piccoli alberelli, e le specie
prevalenti sono il Corbezzolo, la Fillirea, l’Alloro, l’Alaterno, il Lentisco, il Mirto; si incontrano inoltre
molte specie rampicanti lianose, quali Edera, Clematis, Smilax ed altre.
La Macchia bassa, di statura inferiore ai 2 metri, vede una composizione floristica assai complessa e
variegata, che oltre alle specie precedenti, comprende tra le altre la presenza di Eriche, Ginepri,
Ginestre, Cisti, Rosmarino, Salvia, Lavanda , Oleandro, Asparago.
5
Nell’ambito di tali formazioni, anche il Leccio può assumere portamento arbustivo.
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La Gariga, che prende il nome dai cespuglieti a Quercia spinosa (Quercus coccifera) del sud della
Francia, deriva da processi di degradazione molto spinti, in cui la vegetazione, composta dalle specie di
Macchia bassa più altre specie erbacee, è ridotta allo stato di rado cespuglieto.
Un tipo particolare di Macchia mediterranea è quello che si forma sulle dune dei litorali,
immediatamente a ridosso del mare, costituita da un piano superiore di Ginepri (Ginepro coccolone e
Ginepro fenicio, rispettivamente Juniperus oxycedrus e Juniperus phoenicea), e da un consistente e
denso strato inferiore, formato da cuscinetti prostrati a base di latifoglie, quali Lentisco, Filliree,
Alaterno, Mirto ecc. In questo caso si tratta di una formazione climax di origine naturale, in parte
rimossa per fare posto alle costruzioni balneari, e messa in pericolo anche dall’erosione marina.
La Macchia mediterranea non riveste attualmente alcuna funzione produttiva, ma svolge importanti
funzioni protettive, e di mantenimento della biodiversità6, oltre a contribuire notevolmente al paesaggio
delle zone costiere.
6 Dalla Macchia mediterranea derivano numerose specie coltivate: vari cereali, Fico, Carrubo, Salvia, Rosmarino, Timo,
Lavanda, Alloro ed altre.
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Altre specie del Lauretum
Foglie di Eucalyptus camaldulensis
Il Lauretum è sicuramente la zona fitoclimatica più ricca dal punto di vista floristico. Oltre alle specie
ricordate a proposito della Macchia, nel Lauretum si possono ritrovare essenze tipiche del piano
superiore, quali Roverella, Orniello, Acero campestre, Robinia, Ontano nero. Altre specie, spesso
coltivate, quali il Carrubo, il Sommacco, il Pistacchio, interessano esclusivamente le regioni meridionali
della penisola.
Tra le specie esotiche, è questa la fascia in cui sono stati introdotti i Cipressi americani (Cupressus
arizonica e Cupressus macrocarpa), prevalentemente come ornamentali, il Pino insigne (Pinus
radiata), albero nord americano di rapidissimo accrescimento, e gli Eucalipti.
Gli Eucalipti
Il genere Eucalyptus è originario dell’Australia e di poche altre aree dell’emisfero australe, e conta quasi
500 specie ed oltre 100 varietà. Nei luoghi di origine alcune specie superano agevolmente i 100 metri di
altezza7, altre hanno invece portamento arbustivo. In Italia fu introdotto nel 1870 dai Padri Trappisti
nell’Abbazia delle Tre Fontane, presso Roma, poiché si pensava che potesse combattere la malaria.
Sono tutte specie sempreverdi, con foglie generalmente alterne, che si dispongono con il margine rivolto
verso il sole, di modo che generano poca ombra. In alcune la corteccia si stacca in strisce lunghe anche
qualche metro8. La chioma ha ramificazione monopodiale (dominanza della gemma apicale, che
genera fusti rettilinei).
Eliofili, rifuggono dai terreni calcarei. Dimostrano esigenze diverse rispetto al clima, ma nessuna specie
resiste a temperature inferiori ai – 12° C. Se in ambienti adatti, dimostrano un accrescimento molto
rapido.
In Italia sono diverse le specie introdotte, ma le più diffuse sono E. camaldulensis ed E. globulus: in
Sardegna, Sicilia e Calabria impiegati come specie per rimboschimenti, anche estesi; altrove come
frangivento, alberatura stradale o per uso ornamentale. In Toscana sono poco diffusi, localizzati in
vicinanza delle coste meridionali della regione.
Ottimo il potenziale mellifero.
Il famoso Ferguson Tree, un Eucalyptus regnans, misurato a terra nel 1872, era lungo ben 133 m, ed aveva la punta
spezzata!
8 La corteccia di Eucalipto è un ottimo combustibile da bruciare negli affumicatori utilizzati in apicoltura per “calmare” le
api.
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