Augusto Marinoni Leonardo: "libro di mia vocaboli" In: “Studi in onore di Alberto Chiari”, Brescia, Paideia, 1973, Vol. II, pp. 751-766 In: “Studi in onore di Alberto Chiari”, Brescia, Paideia, 1973, Vol. II, pp. 751-766 AUGUSTO MARINONI LEONARDO: «LIBRO DI MIA VOCABOLI» I due manoscritti di Leonardo, ritrovati nel 1967 nella Biblioteca Nazionale di Madrid dopo quattro secoli di silenzio1, contengono fra l’altro alcuni elementi che ripropongono il problema delle ampie liste di vocaboli che Leonardo compose attorno al 1490. La riproposta però non incrina, anzi conferma la soluzione del problema da me formulata nel 19442. Ricordiamo per sommi capi i termini essenziali della questione. Cinquantaquattro facciate del codice Trivulziano contengono oltre ottomila parole italiane disposte in fitte colonne senza che un qualsiasi criterio di ordinamento, interno o esterno, ne giustifichi la strana disposizione. Soprattutto l’assenza di un legame visibile tra una parola e l’altra turbò i primi studiosi. Fu subito notato però che i ff. 12r-13v contengono una lista di trecento vocaboli ordinati per alfabeto e accompagnati da spiegazione, e che in tutti gli altri elenchi le parole comincianti per A sono precedute e distinte da un puntino. Govi ne dedusse l’ipotesi che Leonardo raccogliesse i materiali per comporre «un vero vocabolario della lingua paesana... ricorrendo alla memoria piuttosto che ai libri»; i vocaboli ordinati e spiegati dovevano rappresentare la parte finita del vocabolario, il resto era il materiale da ordinare e spiegare. La proposta del Govi fu accettata e sviluppata da un fervente manzoniano, L. Morandi, il quale, dopo aver sostituito a «lingua paesana» l’espressione «uso vivo fiorentino» e dopo aver confermato che Leonardo attingeva all’uso vivo e non ai libri, pretese di individuare anche in altri manoscritti i nuclei o le premesse per altri lavori grammaticali e lessicografici di Leonardo, vale a dire la prima grammatica italiana (una nota del cod. Atlantico 213vb) e il primo vocabolario latino-italiano (cod. I 50r-55v). Rimase isolata la proposta di H. de Geymüller, secondo il quale Leonardo avrebbe raccolto un vasto materiale linguistico per studiare il rapporto tra suono e idea, tra significante e significato, ossia l’origine del linguaggio, «la porte du mystère des mystères, de ce sanctuaire où cherchent à pènètrer philosophes, physiologues et psychologues» ecc., ipotesi ambiziosa ma non sorretta da prove consistenti. Govi, Morandi, Geymüller erano leonardisti occasionali. E. Solmi, che invece era un esperto di letture vinciane, reagì contro le suddette ipotesi affermando che Leonardo non voleva comporre nessuna opera per uso altrui, ma scriveva quelle liste di parole solo per se stesso. Tuttavia non riuscì a dare una dimostrazione convincente del metodo e degli scopi di Leonardo e per questo le sue obiezioni non furono subito apprezzate dalla scienza ufficiale che lodò invece e accettò senza riserve le tesi del Morandi. Toccò al sottoscritto circa trent’anni dopo dimostrare che il Solmi era ben orientato e che le tesi del Morandi e suoi predecessori erano prive di fondamento. Innanzitutto il gruppo dei trecento vocaboli ordinati e spiegati non prova l’intenzione di scrivere un vocabolario, perché tali vocaboli sono trascritti assieme alle loro spiegazioni da una raccolta di «vocaboli latini», ossia latinismi, di L. Pulci, e ciò dimostra che Leonardo si interessava di «vocaboli latini», ma non 1 Sono contrassegnati dai numeri 8937 e 8936, ma sono anche indicati dagli studiosi colle denominazioni, rispettivamente, «Madrid I» e «Madrid II», conformemente ai dati cronologici. Infatti il n. 8937 risale agli anni 1493-1497, l’altro agli anni 1503-1505 ma la rilegatura, assai posteriore, vi ha riunito un quaderno del 1493. La loro edizione in facsimile colla trascrizione e la traduzione in più lingue è in corso di stampa coi tipi della casa editrice Mac Grow-Hill di New York in collaborazione colla Taurus di Madrid a cura di Ladislao Reti. 2 Rimando il lettore ai due volumi del sottoscritto Gli appunti grammaticali e lessicali di Leonardo da Vinci, Milano 1944-1952, dove è esposta la storia della questione colla relativa bibliografia e si presentano tutti i testi in edizione critica. Un recente volume di R. Stites, The Sublimations of Leonardo da Vinci with a Translation of the Codex Trivulzianus, Smithsonian Institution Press, City of Washington, 1970, pretende di dare una nuova interpretazione delle liste lessicali intese come un tentativo di Leonardo per autopsicoanalizzarsi. Si tratta di una tesi formulata dallo Stites quasi mezzo secolo fa e per restarvi tenacemente fedele egli ha preferito ignorare le opinioni altrui. 2 In: “Studi in onore di Alberto Chiari”, Brescia, Paideia, 1973, Vol. II, pp. 751-766 che volesse fare un vocabolario della «lingua paesana» e che attingesse dalla sua memoria anziché dai libri. Anche il f. 367rc del cod. Atlantico contiene una lista di 202 verbi, dei quali 180 sono trascritti dai «Rudimenta grammatices» di N. Perotti. Nuova conferma che Leonardo andava esplorando sui libri e tesaurizzando vocaboli di una certa specie. La stessa grammatica del Perotti su cui Leonardo apprese nozioni elementari di latino, da lui trasformate in specchietti per lo studio della morfologia e sintassi, mi fornì le prove per distruggere la tesi morandiana del primo vocabolario latino-italiano. In realtà Leonardo sottolineava, trascriveva, traduceva (o si faceva tradurre) da quel testo le sole parole che per la loro forte dissimiglianza dal suo volgare gli riuscivano incomprensibili. Del resto che Leonardo non conoscesse il latino era stato esplicitamente dichiarato da lui stesso quando si definì «omo sanza lettere». Anche la pagina in cui il Morandi vide il principio di una grammatica italiana, non raccoglie che modesti esercizi di analisi logica e grammaticale. Ma il Trivulziano precede cronologicamente di parecchi anni gli appunti di grammatica latina e lo studio del latino. È infatti col ms. B il più antico dei codici vinciani, e risale probabilmente al momento in cui Leonardo, avendo deciso di scrivere trattati di pittura ed altro, avvertì le carenze lessicali della sua «lingua paesana». A questa consapevolezza si deve l’appunto segnato nell’Anatomia B f. 4v (anno 1489): « necessaria...alli buoni gramatici la dirivazione de’ vocavoli latini». È una necessità sentita anche da modesti letterati come Cristoforo Landino «che volendo arricchire questa lingua, bisogna ogni dì de’ latini vocaboli, non sforzando la natura, derivare et condurre nel nostro idioma». Da quando il volgare ha voluto diventare una lingua, il suo necessario arricchimento lessicale ha trovato nel latino la sua fonte principale. Sol che gli esperti di latino hanno la possibilità di derivare direttamente, mentre i sanza lettere devono ricorrere alla mediazione dei letterati. Per questo Leonardo utilizza i «vocaboli latini» del Pulci e una lista di verbi contenuta nella grammatica latina del Perotti. Che la sua ricerca fosse principalmente rivolta ai «vocaboli latini» o latinismi estranei all’uso vivo fiorentino, è cosa che balza agli occhi esaminando una pagina qualsiasi del Trivulziano: reprehensori, petulantia, obtrectatione, dormitante, cognominare, defloratore, clausule, admiranda, magnitudine, prommutatione, comprehendere, pluviosità, contentione, tonitrui ecc. Sono parole trasferite, con un semplice adattamento della desinenza, dal latino all’italiano, di cui non si esita a sforzare alquanto la natura contrariamente al precetto del Landino. «Derivare» tuttavia non significa per Leonardo soltanto ricopiare elenchi di vocaboli latini già derivati dai letterati Pulci, Perotti e altri. Egli si esercita pure nella tecnica derivatoria che è parte importante nella formazione delle parole in ogni lingua. Una piena chiarificazione del metodo derivatorio seguito da Leonardo è stata resa possibile dalla scoperta di un’altra fonte importante delle liste lessicali del Trivulziano e precisamente il «De re militari» del Valturio nel volgarizzamento del Ramusio. Leonardo leggeva questo libro per i suoi impegni e i suoi studi di tecnica militare. La lingua del Ramusio, rozzamente ricalcata sul testo latino e perciò contorta, zeppa di latinismi e di pesanti costruzioni sintattiche, doveva riuscire ostica o faticosa a Leonardo, il quale pensò di agevolarsi l’acquisizione del contenuto soffermandosi ad analizzare le parole più insolite, ossia i pesanti latinismi che andava trascrivendo nelle pagine del Triivulziano e imprimendo nella mente. Ma non sempre egli trascrive tal quale il vocabolo, spesso lo trasforma. Legge degli aggettivi, come perversi, avaro, securo, tardo, mixto, ecc. e scrive i corrispondenti sostantivi perversità, avaritia, sicurtà, tardità, mistione, ecc. Legge i sostantivi splendore, pontefice, tenebre, strumenti, toga, tempi, spume e ne ricava gli aggettivi splendida, pontificale, tenebrose, strumentale, togato, temporale, spumegiante, e così via. Da voci verbali, quali annotare, temeno, compivano, simigliava deduce notitia, tementia, compimento, simigliante. In tal modo Leonardo non solo allarga il suo vocabolario, ma sviluppa la capacità di produrre vocaboli in un settore particolare del lessico, che è formato da aggettivi, verbi, avverbi, sostantivi astratti ed è il solo rappresentato nelle liste del Trivulziano. Queste infatti ignorano quasi completamente la terminologia degli oggetti visibili e tangibili, che l’omo sanza lettere sicuramente possiede e che certamente includerebbe nei suoi elenchi, se davvero volesse comporre il primo vocabolario della lingua italiana. Questo duplice scopo delle raccolte lessicali di Leonardo, ricerca dei «vocaboli latini» e esercizio derivatorio, spiega perfettamente la presenza, accanto ai più rari 3 In: “Studi in onore di Alberto Chiari”, Brescia, Paideia, 1973, Vol. II, pp. 751-766 latinismi, di vocaboli abbastanza consueti, sui quali si fondava la obiezione più ovvia contro la tesi autodidattica. L’esercizio mentale di Leonardo si vale dei rapporti associativi per trascorrere da vocabolo a vocabolo. Per lo più trascrive il vocabolo dalla pagina letta a quella del Trivulziano, ma spesso lo trasforma e non di rado alla parola trascritta accosta i sinonimi (abondante-abondevole; contrario-averso; oposito-retroso; pacificho-mansueto-umano), i contrari (oportuno-inoportuno; achuto-octuso-rectitudine; ascondere-palesare), i composti (insistere-resistere; citare-incitare; cedere-precedere), oppure, lasciandosi condurre da sottili affinità di puro suono, indulge al nesso di paronomasia (notare-nuotare; exerciti-exercitii; prolagare-prolungare; stupenda-stipendio). In questi momenti di più libero gioco mentale in cui i vocaboli si legano a coppie o a gruppi, ai termini rari si affiancano quelli più comuni, cui talora compete persino di chiarire il senso delle parole difficili. Così il raro latinismo meretricula trascina con sé meretrice, inpudica, puttana; il non comune infermare richiama amalare, sanare, guarire; e se rabidi è poco chiaro, il successivo rabbiosi lo illumina. Aggiungo che la curiosità di Leonardo per certi vocaboli può essere sollecitata da problemi ortografici. Collocato in questa prospettiva il lavoro autodidattico di Leonardo trova la sua piena giustificazione, ma ciò non significa che tale lavoro si sia concluso nell’ambito del codice Trivulziano. Sono completamente cadute le ipotesi del Richter e del Ravaisson Mollien che attribuivano a questo manoscritto uno spazio cronologico pluridecennale, ma l’esistenza di altre brevi liste similari in altri manoscritti posteriori di qualche anno prova che il lavoro di raccolta continuò anche dopo il Trivulziano, mentre il puntino che precede e distingue i vocaboli comincianti per A lascia intravvedere il progetto di riordinare alfabeticamente la massa dei vocaboli, eliminando naturalmente le numerose ripetizioni, le varianti grafiche e forse stabilendo qualche criterio ortografico più regolare. Questa intenzione sembra confermata dal f. 12561v di Windsor che contiene trentotto vocaboli ordinati alfabeticamente e distinti in cinque colonne secondo le cinque lettere iniziali dei cinque gruppi. Che il foglio di Windsor preceda, segua o sia coevo al Trivulziano, non importa quanto la dimostrata volontà di ordinare i vocaboli, che invece nel Trivulziano ripetono la successione che essi avevano nei libri da cui derivano. Per attuare questa chiara intenzione di Leonardo ho creduto opportuno far seguire all’edizione delle liste lessicali un «repertorio alfabetico dei vocaboli latini»3, ossia di tutte le parole elencate da Leonardo riunendo sotto un unico lemma tutte le varianti grafiche, fonetiche e morfologiche dei singoli vocaboli, il cui numero complessivo è stato così ridotto alla metà. In tal modo si lasciava aperta l’ipotesi che in un secondo tempo la ricerca leonardesca in campo lessicale potesse essere sfociata nella costruzione di una qualche opericciola lessicografica del tutto personale ma pur sempre significativa. Oltre non era possibile procedere senza il sostegno di un’adeguata documentazione. I manoscritti madrileni ci offrono ora qualche nuovo documento che avvalora la nostra ipotesi e consente nuove riflessioni. Il più antico di essi (il n. 8937) contiene nei ff. 1r e 3v due nuovi e brevi elenchi di parole disposte in ordine alfabetico. Il f. 1r è coperto da una scrittura accurata, elegante, di sinistra mano secondo la consuetudine di Leonardo. Ma nel margine superiore si legge di destra mano la data a dì primo . di gienaro . 1493 e nel margine destro, pure di destra mano, una colonna di dodici vocaboli comincianti tutti per ass- e divisi in tre gruppi mediante due linee di separazione. Anche il f. 3v presenta sotto un bel disegno una didascalia di sinistra mano armoniosamente disposta al centro della pagina. Ma nel margine destro e superiore Leonardo in un secondo tempo e di destra mano ha scritto un secondo elenco di vocaboli comincianti per ab-. Il verso della scrittura e le altre analogie fanno dei due elenchi un tutt’uno colla data che li colloca esattamente a Capodanno del 1493. Eccone la trascrizione in cui si è volutamente trascurata la distinzione i/j, si è introdotta la distinzione u/v, e si è aggiunto un accento. 3 Op. cit., vol. II, pp. 261-320 4 In: “Studi in onore di Alberto Chiari”, Brescia, Paideia, 1973, Vol. II, pp. 751-766 f.3v abbracciare abbruciare abbondare abbandonare abreviare abbominare abituare abitare abborrire abbaruffare abborracciare abbiecta abilitare abbassare abbagliare abbergare abbaiare abberrare f.1v abbuiare abarare abbattere abburattare abbozare abissare abbonacciare abbocchare abbantico abbasstonare abbavagliare abbeverare abbellire abbiano abbronzare abballare abito assettare assediare assegniare assentito –––––– assurbire assuefare assummare assunto –––––– assiduità assiso assiatica assiderare Si tratta essenzialmente di una lista di verbi comincianti per ab- e per ass-. La forma preferita è l’infinito (34 in -are, 3 in -ire, uno in -ere) con qualche participio-aggettivo: assentito, assunto, assiso, abbiecta, un presente indicativo o congiuntivo (abbiàno o àbbiano?) e l’eccezionale presenza del sostantivo abito (se pur non è un verbo), dell’espressione avverbiale abbantico e del rarissimo assiatica che nel suo isolamento riesce di difficile interpretazione (da «assiare»?). L’assoluta prevalenza dei verbi ci ricorda quella serie di infiniti (amare, odire, exaudire...) che nella grammatica del Perotti traducono in volgare una corrispondente serie di verbi latini («amo, as per amare; audio, is per odire»; ecc.) e che Leonardo trascrisse nel f. 367rc del cod. Atlantico. Ma le differenze sono notevoli. Qui sembra difficile che Leonardo abbia trovato tal quale una lista così nutrita di verbi concentrati in uno spazio alfabetico tanto ristretto da far pensare a una ricerca del tutto particolare. Se è del tutto opera di Leonardo, questa lista assume il carattere di una esplorazione delle ricchezze della volgar lingua4, che giustifica la sua più tarda e soddisfatta affermazione: «I’ò tanti vocaboli nella mia lingua materna ch’io m’ò più tossto da doler del bene intendere le cose, che del mancamento delle parole colle quali io possa ben esspriemere il concetto della mente mia». Il desiderio di completezza introduce nella lista parole assai poco frequenti come abballare, abbastonare, abbuiare, abbavagliare, abbergare (= albergare). Solo dieci su 34 infiniti si trovano nel Trivulziano. Si ha l’impressione, che rende più verosimile l’autonoma iniziativa di Leonardo, che egli si affidi alla memoria ed evochi le parole seguendo il filo dei rapporti associativi, quali il nesso di paronomasia, evidentissimo in certi accostamenti: abbracciareabbruciare, abituare-abitare, abbaiare-abbuiare, assetare-assediare. La cura dell’ordine alfabetico è insolitamente precisa: i dodici vocaboli del f. 1r sono divisi in tre gruppi in cui detto ordine è spinto fino alla quarta lettera: asse-, assu-, assi-. L’intenzione di disporre alfabeticamente le raccolte dei suoi vocaboli, già attestata nel Trivulziano dal famoso puntino e nel f. 1256IV di Windsor, riceve da questi due fogli di Madrid una vigorosa conferma. Tuttavia non si può vedere in essi l’inizio o una parte del riordino dei vocaboli del Trivulziano perché molti di quei vocaboli non sono qui presenti. Qui leggiamo abbominare, ma ad abominare il Trivulziano aggiunge abominabile, abominevole, abominoso, abominatione; ad abitare aggiunge abitatore, abitatione, 4 I primi vocabolari della lingua editi nel sec. XVI non contengono tutti i vocaboli qui elencati da Leonardo. 5 In: “Studi in onore di Alberto Chiari”, Brescia, Paideia, 1973, Vol. II, pp. 751-766 abitorio; in luogo del semplice abbondare nel Trivulziano vediamo abondare, abondante, abondevole, abondanza. Insomma qui troviamo una grande ricchezza di verbi senza i loro deverbali, ma il fatto che questi verbi possono essere pensati come vocaboli primitivi (anche se qualcuno è un composto) da cui trarre serie di derivati, conferma nuovamente che la direzione della ricerca vinciana è costantemente rivolta verso un determinato ambito del lessico volgare. Inoltre rispetto alle raccolte disordinate del Trivulziano queste nuove liste segnano un progresso verso un’opera più decisamente lessicografica. Oltre che per la loro ricchezza le due liste di Madrid sono importanti per una rara caratteristica fonetica e ortografica. Contengono prevalentemente composti prefissali che nel Trivulziano non raddoppiano quasi mai la consonante (solo un abbattere contro un abattere, ma sempre abagliare, abandonare, abietto, ecc); qui invece il raddoppio di -bb- è costante. Le sole due eccezioni abreviare, abarare sono così isolate da far pensare a una svista. Il fatto è importante perché la consonante raddoppiata è una labiale, per giunta sonora, e perché è effettuato il raddoppiamento anche in abbominare, che ancor oggi per lo più preferisce la -b- semplice e in abberrare che non lo vuole. Nessuna meraviglia perciò desta la mancanza di eccezioni nel raddoppiamento dei dodici vocaboli comincianti per ass-, essendo normalmente più frequente il raddoppio delle consonanti sorde. (Nel Trivulziano su 54 casi di ass- si contano appena tre scempiamenti, mentre contro 33 casi di ab- si ha un solo abb-). Insomma la quasi assoluta preferenza per il raddoppiamento in un momento in cui Leonardo dimostra una particolare attenzione ai fatti ortografici, prova che egli pronunciava la consonante doppia anche quando scrivendo usava la scempia. Tanto Leonardo quanto i suoi contemporanei (e non solo i settentrionali che potevano avere seri motivi d’incertezza) alternavano indifferentemente scempie e doppie in una stessa parola senza riguardo alla effettiva pronuncia. Si tratta di un’alternanza grafica che fu eliminata tardivamente nella storia della nostra lingua per una ragione che io credo inerente alla struttura stessa dell’italiano, dove l’opposizione di consonante breve e lunga ha scarso rendimento funzionale. Le coppie di vocaboli distinguibili per quella sola opposizione sono infatti assai rare. (Se vogliamo citare caro-carro, fero-ferro, fato-fatto, dobbiamo aggiungere che «fero» e «fato» sono termini dotti, molto meno frequenti dei loro correlativi e quindi con scarse probabilità di conflitto con essi). Perciò non fu mai veramente sentito il bisogno di una norma rigida: si poteva scrivere indifferentemente ochio oppure occhio senza pericolo di confusione. È dunque accertato che negli anni successivi al 1490 Leonardo continuò a raccogliere vocaboli con particolare attenzione al loro ordinamento alfabetico. Fino a che punto giunse questo lavoro? Si limitò a frammenti analoghi a quelli che ci sono noti oppure si concluse con un libro riassuntivo e organicamente costruito? A questo quesito non possiamo purtroppo rispondere esplicitamente, tuttavia l’altro codice madrileno che reca il n. 8936 ci conserva una nota dei libri che Leonardo lasciò in una cassa a Firenze in occasione di una sua partenza. È il catalogo — probabilmente incompleto — della sua libreria, che tanto interesse ha suscitato fin dal momento della sua scoperta. Risale al 1504 e fra i suoi i 116 titoli uno attira in questo momento la nostra vivissima attenzione e sembra promettere una risposta al nostro quesito. Esso dice: Libro di mia vocaboli. Vorremmo saperne molto di più, ma dobbiamo limitarci a qualche vaga considerazione. Ci sembra inverosimile che così Leonardo chiamasse il codice Trivulziano solo per metà occupato da liste lessicali assai disordinate. Non possiamo definirlo un «vocabolista», perché questo tipo di composizione comprende una serie dilemmi con spiegazione e gli elenchi vinciani sono fatti di nudi vocaboli, ma non possiamo non ritenerlo una vera opera lessicografica la cui paternità è rivendicata a sé dallo stesso Leonardo con quell’aggettivo possessivo mia. Resta la plausibile ipotesi che Leonardo abbia riunito in un apposito quaderno — probabilmente prima del 1500 — i «suoi» vocaboli diligentemente raccolti e «derivati» in diversi anni di paziente lavoro. È pure ovvio pensare a un loro ordinamento alfabetico per quanto abbiam visto nelle pagine precedenti. È però una ipotesi che solo una fortunata scoperta, analoga a quella dei due codici madrileni, potrebbe trasformare in una accertata verità. 6 In: “Studi in onore di Alberto Chiari”, Brescia, Paideia, 1973, Vol. II, pp. 751-766 Il Libro di mia vocaboli non esaurisce la nostra curiosità. Dei 116 titoli del «catalogo» solo trenta erano già noti attraverso la lista del f. 21ora dell’Atlantico. Dagli ottantasei nuovi titoli si traggono nuove conferme alle nostre tesi. Novità fondamentale della nostra ricostruzione della formazione culturale di Leonardo fu la dimostrazione dello studio elementare del latino avviato dopo i suoi quarant’anni, ossia nei mss. H ed. I, che contengono estratti dai «Rudimenta grammatices» del Perotti. Il catalogo dice infatti Regole di Perotto, ma aggiunge un bel numero di grammatiche, vocabolari, testi rettorici, che però rimasero indubbiamente e in gran parte inutilizzati. Vediamo infatti Prisciano, Donato, Donadello (cioè «Donatus minor»), Donato vulgare e latino («Donatus latine et italice», Venezia 1499), un Libro di regole latine di Francesco da Urbino non ancora identificato, Regole grammatice in asse, a cui si aggiungono un Vocabolista in carta pecora, un Vocabolista picholo, il Cattolicon di G. Balbi. Il titolo Spefano Prisco da Sonçino nasconde i «Synonima» di Stefano Flisco, e non mancano i libri di retorica (Rettorica nova, Allegantie) e il Dottrinale latino. In complesso uno strumentario di notevole proporzione che mostra come Leonardo continuò dopo lo studio del Perotti a procurarsi e a studiare grammatiche, ma non possiamo credere che abbia avuto molto tempo da dedicare a Prisciano, a Donato o al «Dottrinale». Anche prima di dedicarsi così tardivamente allo studio del latino, Leonardo non ne era completamente digiuno. In un ambiente tanto saturo di cultura latina anche gli artisti sanza lettere orecchiavano frasi e vocaboli della lingua antica. Il Pacioli scrive in volgare per loro e per tutti gli uomini «pratici» la Summa Arithmetica, nella quale ogni paragrafo ha un titolo latino, e insinua nel testo volgare molte definizioni e citazioni latine, così come i predicatori amavano lardellare i loro discorsi con citazioni della Vulgata. Anche l’omo sanza lettere sapeva dunque afferrare un po’ di latino, ma le sue reali difficoltà dinanzi a un testo interamente latino sono sicuramente documentabili. Il Pacioli riferisce di essere stato a Milano insieme a Leonardo agli stipendi del Duca dal 1496 al 1499 e di essergli stato compagno nelle peregrinazioni degli anni immediatamente successivi. Fu un’amicizia e una collaborazione. Leonardo disegnò per il De Divina Proportione i «mirabili» disegni dei «corpi regolari» e dall’amico ricevette stimolo e aiuto nello studio della geometria. Per compiere quei disegni e per capire il libro che doveva illustrare, Leonardo dovette approfondire la conoscenza della teoria delle proporzioni e fu spinto a cominciare lo studio di Euclide sul testo latino del Campano. I manoscritti vinciani di questo tempo contengono numerosi appunti sulle proporzioni; i codici M ed I (1496-99) contengono cento facciate coperte da appunti derivati dai primi tre libri e dal decimo degli «Elementi». Lo studio viene continuato o ripreso dopo il 1500. Il codice K(1) del 1504 quasi interamente dededicato ai libri quinto e sesto degli «Elementi», il K(2), immediatamente successivo, riprende le note del libro secondo e di brevi parti dei libri I, III, IV, V. Caratteristica di tutta questa massa di appunti tratti da Euclide è la reticenza, e per questa ragione nessuno fino ad ora ne aveva individuata con precisione la fonte. In K(1) Leonardo non fa che ricopiare le figure poste nel margine dell’incunabolo dedicate al libro quinto e accanto a molte figure scrive il numero della corrispondente proposizione euclidea. Raramente l’aggiunta di qualche parola tradisce le riflessioni che la sua mente sta compiendo. È indubbio che si tratta di una meditazione personale, autodidattica senza alcun proposito o progetto di trattato ad uso altrui. Come nello studio del latino Leonardo trasforma, appena può, le regole del Perotti in uno «specchietto» che è più un’immagine visiva che un seguito di parole, così per Euclide egli fissa sulla carta uno o più punti essenziali del discorso euclideo, sintetizzandolo in una figura geometrica. In alcune pagine dell’Atlantico questo lavoro riappare in forma più organica e completa. Il f. 169rb concentra su due colonne tutte le «petitioni» e le «conceptioni» euclidee trasformate in una successione numerata di punti, linee, angoli e cerchi; il f. 177vd trasforma la proposizione settima del primo in una serie di tredici figure geometriche perfettamente aderenti allo sviluppo della dimostrazione euclidea, e in altrettante figure è schematizzata la quinta nel f. 184vb. In tal modo Leonardo estrae il pensiero di Euclide dalla sua inaccessibile o poco permeabile veste latina e lo traduce in una scrittura quasi ideografica. Naturalmente ci si domanda come abbia potuto afferrare 7 In: “Studi in onore di Alberto Chiari”, Brescia, Paideia, 1973, Vol. II, pp. 751-766 quel pensiero al di là della barriera linguistica, e a tal proposito il nome di Luca Pacioli, amico, consigliere e maestro, è inevitabile. Il «catalogo» del 1504 Ci dice che in quella data Leonardo possedeva i seguenti strumenti matematici: otto libri d’Abbaco, un Libretto vecchio d’arissmetrica, un Libro da Urbino mathematico, Un libro da misura di Battista Alberti, uno sulla Quadratura del circulo5, la Summa del Pacioli, il Libro di Giorgio Valla («De expetendis et fugiendis rebus»), un Euclide in geometria e un Euclide vulgare cioè e primi libri tre, ossia il testo completo in latino e una traduzione dei soli primi tre libri. Ma nel 1496 gran parte di queste opere non erano fra le mani di Leonardo, il quale aveva sotto gli occhi il testo latino degli «Elementi» e certamente ne discuteva con maestro Luca, il quale aveva già esposto buona parte del pensiero euclideo nella «Summa» e forse stava eseguendo la traduzione degli «Elementi» oggi perduta, ma allora disponibile per Leonardo non sappiamo da che anno in poi. Nello stesso manoscritto (ff. 138-140) Leonardo ha ricopiato in elegante, accurata scrittura l’inizio di un volgarizzamento di Euclide (dalle «Definizioni» alla prima proposizione inclusa) e nel ms. K(2) troviamo il testo completo in italiano delle proposizioni 36,37,41 del primo libro. Nel codice Arundel (ff. 178v-179v) si legge la traduzione italiana di un passo del «De expetendis» dove il Valla espone i metodi di Filopono e Parmenione per trovare due medie proporzionali tra due linee date. La grafia di Leonardo in queste pagine dell’Arundel ha un aspetto e un andamento insolito. Non è elegante, pulita e serrata come quando trascrive in bella copia, non è ricca di pentimenti e cancellature come quando scrive immediatamente i suoi pensieri; anzi le letterine alfabetiche che si riferiscono ai vari elementi della costruzione geometrica, sono spesso così errate da escludere che mentre egli scriveva, la sua mente seguisse davvero il pensiero del Valla. Tutto si spiegherebbe coll’ipotesi, ardita ma verosimile, che Leonardo scrivesse queste pagine sotto dettatura. Certo è che queste traduzioni in disegni o in parole italiane di testi latini pur posseduti da Leonardo, significano che per lui la lettura diretta di quei libri era difficile o impossibile senza l’aiuto di qualcuno. Il catalogo della biblioteca di Leonardo suggerisce anche una considerazione metodologica. Da quando fu dimostrata dal sottoscritto la scarsa conoscenza del latino in Leonardo, il problema delle fonti del suo pensiero dovette subire una revisione. Duhem, Solmi, Uccelli gli avevano attribuito una familiarità coi più ardui testi latini che oggi appare insostenibile. Garin e Dionisotti6, reagendo in una giusta direzione, sottolinearono il carattere volgare dei libri usati da Leonardo. Il catalogo madrileno pur confermando tale impostazione, esige però un discorso più articolato e sfumato. Consideriamo il caso del De immortalità d’anima, già presente nella lista dell’Atlantico f. 21ora. A cominciare dal marchese D’Adda esso era stato generalmente identificato colla «Platonica Theologia de animorum immortalitate» del Ficino, fin che il Garin propose la più verosimile identificazione col «De la immortalità de l’anima, elegantissimo dialogo vulgare ornatissimo» del domenicano Giacomo Canfora, assai diffuso e ristampato prima del ‘500. Il Dionisotti, considerando la lista del codice Atlantico, composta da libri disordinatamente mescolati e «accessibile a un qualunque lettore di modesta cultura», afferma che la «Theologia» ficiniana ci starebbe come «una giraffa in un pollaio». La proposta identificazione col «Dialogo» del Canfora ha molte probabilità di cogliere nel segno, ma anche se prescindiamo dal fatto che la presenza di un libro nella biblioteca di Leonardo non significa affatto che egli lo leggesse, dobbiamo dire che per escludere il Ficino l’argomento della giraffa non ha alcun valore. Il catalogo madrileno mostra chiaramente che in quel pollaio vi era più di una giraffa7. Il libro di Giorgio Valla basterebbe con Euclide e il «De Civitate Dei» a tener buona compagnia al Ficino. Certamente Leonardo non era in grado di leggerli compiutamente od estesamente in latino, ma abbiamo visto com’egli riusciva a 5 6 Il libro dell’Alberti dovrebbe corrispondere ai Ludi mathematici; per la «quadratura del circulo» si pensa ad Archimede, ma non si può non dedicare almeno un fugace pensiero alla «Quadratura circuli per lunulas» il cui disegno fondamentale è ricopiato da Leonardo in K(2) 13r. E. Garin, Il problema delle fonti del pensiero di Leonardo in ‘La cultura filosofica del Rinascimento italiano’, Firenze 1961, pp. 388-401 (riassume anche scritti precedenti dello stesso); C. Dionisotti, Leonardo uomo di lettere in ‘Italia Medioevale e Umanistica’ 1962, pp. 183 ss. Su questa linea anche C. Maccagni, Riconsiderando il problema delle fonti di Leonardo, (X Lettura Vinciana), Firenze 1971. 7 La lista 116 libri è stata trascritta e pubblicata da L. Reti, The Two Unpublished Manuscripts of Leonardo da Vinci in the Biblioteca Nacional of Madrid, in ‘Burlington Magazine’ 1968, p.81 (il numero 110 va così completato Euclide vulgare cioè e primi libri tre). 8 In: “Studi in onore di Alberto Chiari”, Brescia, Paideia, 1973, Vol. II, pp. 751-766 risolvere il problema, né mancavano i volgarizzamenti delle opere ficiniane. D’altra parte nessuno ha dimostrato che Leonardo avesse letto il «Dialogo» canforiano, mentre è stato sicuramente dimostrato che conosceva verbalmente il testo ficiniano, probabilmente già volgarizzato, al punto da prenderne a prestito frasi e definizioni importanti8. Questo è ciò che conta, assai più del calcolo delle probabilità a favore di questa o quella inaccertabile ipotesi. Leonardo opponeva all’«eterno gridore» delle questioni insolubili il suo metodo fondato sulla verifica sperimentale. Anche le fonti del suo pensiero si verificano mediante le puntuali corrispondenze tra le pagine sue e quelle dei suoi predecessori o contemporanei assai meglio che su una serie di schede bibliografiche. Ed è un metodo che aiuta a ricostruire il suo pensiero dall’interno invece che dall’esterno. 8 Sui rapporti tra Leonardo e Ficino sono costretto a citare due miei lavori: I rebus di Leonardo da Vinci raccolti e interpretati, con un saggio su «Una virtù spirituale», Firenze 1954, e Leonardo da Vinci in ‘Grande Antologia Filosofica’ dell’editore Marzorati, Milano 1964, vol. VI, pp. 11491212. Credo però opportuno ricordare almeno qualche esempio di coincidenza verbale significativa. Quando Leonardo parla della «quintessenza, spirito degli elementi, ... rinchiusa per anima dello umano corpo» (Ar. 156 v.) ha nell’orecchio certe espressioni ficiniane come «per quintam essentiam, quae ubique viget tamquam spiritus... sub anima mundi » ecc. Quando dice che la pittura «tratta del moto de’ corpi nella prontitudine delle loro azioni» (Tratt. 9) traduce l’espressione con cui il Ficino definisce la bellezza come actus vivacitas. Anche quando spiega come il grave cada verso il centro del mondo per linea retta «perché non va, come insensibile, prima vagando per diverse linie» (Ar. 175 v.) egli ripete il pensiero e le parole del Ficino: «quoniam non errat in consultando quaemadmodum mortales solent, motu et opere non vagatur». E non direbbe esattamente che colla forza «infiniti mondi si moverebbe, se strumenti far si potessi» ecc. (Ar. 151r), se non ricordasse le parole del Ficino «ac posse quodammodo caelos facere, si instrumenta nactus fuerit» ecc. È naturale che Leonardo abbia foggiato i suoi strumenti espressivi attraverso le sue letture, ben oltre la sua «lingua paesana». Quando in Madrid II 107r con una specie di autocritica ammette che un certo suo «modo di procedere non è semplice geometrico ma subarternato e partecipante della filosofia come de la geometria, perché si prova col moto», egli fa sue le parole iniziali del Liber Iordani De Ponderibus: «Cum scientia de ponderibus sit subalternata tam geometrie quam philosophie naturali», adattandole alla sua lingua paesana («subarternata»). Nei vari trattati «De ponderibus» si afferma che il «grave descendere appetit» oppure «appetit esse sub levi et leve supra grave quietare» (The Medieval Science of Weights... by E. A. Moody and M. Clagget, Madison 1960, pp. 150,238,272). Leonardo fa propria quella terminologia e la sviluppa: «Ogni corpo desidera cadere...»; la forza «sempre desidera farsi debole»; «Quando il peso è posato, lì si riposa». Testi come i vari «De ponderibus», composti di ‘suppositiones’ e ‘prepositiones’, o come gli ‘Elementi’ di Euclide, fatti di «Definitiones, Petitiones, Conceptiones, Propositiones», i vari ricettari e in genere lo stile apodittico, imperativo della scienza artigianale-sperimentale condizionano la formazione stessa dello stile di Leonardo suggerendogli certi modelli e una certa misura o taglio del discorso, che raramente supera l’estensione di una pagina e tende a concentrarsi in aforismi e definizioni. 9
© Copyright 2024 Paperzz