E' vietata la riproduzione. Tutti i diritti sono riservati. Mercoledì 9 aprile 2014 www.ilquotidianoweb.it 40 REDAZIONE: via Rossini, 2 87040 Castrolibero Tel. 0984.854042 IDEE&SOCIETÀ [email protected] Il lungo conflitto tra la scienza e l’appartenenza Le guerre dei crani di MARTA PETRUSEWICZ* NEL 1996, uno scheletro umano, vecchio di oltre 9000 anni, emerse dai fondi del Columbia River, nell’Ovest degli Stati Uniti. Soprannominato “Kennewick Man”, lo scheletro divenne subito una cause célèbre. Ben cinque tribù indiane del Nord-Ovest rivendicarono le spoglie per dar loro una degna sepoltura. Dall’altra parte, otto noti antropologi hanno fatto causa al governo federale per bloccare la consegna delle ossa ai nativi e per consegnarle, invece, agli scienziati, in quanto fonte imprescindibile per gli studi sulla storia degli antichi insediamenti umani in America. La battaglia politica e legale che ne scaturì fu denominata Skull Wars da David Hurst Thomas, curatore della sezione antropologica all’American Museum of Natural History a New York, il più importante museo del genere nel mondo. La posta in gioco nelle “Guerre del Cranio”è più alta e più intricata che la sola questione delle fonti per la storia degli insediamenti. Si tratta di un conflitto tanto simbolico che politico e legale tra la comunità accademica e le comunità dei Nativi americani (che noi ancora, cinque secoli dopo Colombo, continuiamo a chiamare “indiani”). I nativi sostengono che gli archeologi e gli antropologi li hanno derubati della loro storia e della loro dignità. E’ innegabile che le scienze archeologiche e antropologiche americane si sono sviluppate, nel XIX secolo, di pari passo con la crescente oppressione dei nativi, contribuendovi in vari modi. Per esempio, gli studi sulla correlazione tra la grandezza del cranio e la razza e l’intelligenza, promossi dal medico e antropologo Samuel George Morton, hanno scatenato le razzie delle tombe indiane e contribuito alla costruzione della tesi del “destino manifesto” che giustificava l’espansionismo statunitense. L’antropologo ed etnologo Lewis Henry Morgan, ammirato da Friedrich Engels, costruì una scala dell’evoluzione sociale che piazzò i nativi americani in un qualche punto tra i selvaggi intraprendenti e i barbari. Fu il grande contributo del geografo tedesco, Franz Boas, quello di promuovere un’antropologia basata su biologia, cultura e linguaggio, spiazzando così lo schema razzista di Morgan. Significativamente, Boas, direttore del museo sopra lodato, è considerato fondatore dell’antropologia americana. Tuttavia, la prospettive delle culture distinte non placò il conflitto. Lo studio delle ossa umane divenne parte del contenzioso su chi era- La storia degli studi sui resti dei nativi americani no i primi abitanti dell’America, e quindi su chi deteneva diritti su quali territori e a chi spettava l’autorità di decidere chi e con quali metodi poteva studiare alcuni aspetti del loro passato. Le implicazioni del controllo sulle tombe e sui crani continuavano a moltiplicarsi. Il punto di svolta in questa lotta per il potere venne nel 1990, quando il Congresso americano approvò la legge di protezione delle tombe nativo-americane. Il Native American Graves Protection and Repatriation Act (NAGPRA) ha voluto rimediare alle ingiustizie del passato imponendo ai musei di inventariare le collezioni ossee umane e di assistere quei diretti discendenti che desiderassero reclamarle. L’impatto della legge sembrò confermare le previsioni più nere degli scienziati: la rivendicazione dell’appartenenza potrebbe per sempre impedire lo studio dei resti umani. Nel 1999, sette decenni dal loro ritrovamento, quasi 2.000 scheletri e artefatti sacri sono stati restituiti al Pecos Pueblo in New Mexico, per esservi tumulati. Teschi e scheletri antichi sono stati anche restituiti alle tribù in Idaho e Minnesota. Per le spoglie di Kennewick Man la Corte aveva trovato una soluzione salomonica: restano depositate al Burke Museum dell’Università di Washington, lo stato occidentale nel quale furono ritrovate, ed escluse da qualunque esibizione. Legalmente, restano proprietà del Corpo di genio civile della U.S. Army, in quanto custode legale del terreno dello scavo. Le Guerre dei Crani misero utilmente in luce i limiti delle due posizioni contrapposte, “gli scienziati contro i nativi”. Gli studi di storia delle discipline accademiche, fioriti nei decenni recenti anche sotto l’impatto di studi postcoloniali, hanno mostrato senza l’ombra di dubbio quanto fosse diffusa l’impostazione razziale delle nascenti discipline “professionalizzate” di antropologia fisica e sociale, psichiatria, statistica, sessuologia e archeologia, e quanto avesse influenzato le posizioni di magistrati, medici, politici e l'opinione pubblica in generale. Gli offensivi musei di antropologia, che esibivano antichi resti umani dei “nativi”oi“primitivi”alla pari con altre curiosità esotiche, si trasformarono man mano in musei “di storia dell’antropologia”, che trattano la scienza come un costrutto culturale e, come tale, la collocano nel suo contesto storico. Dall’altra parte, anche la posizione dei nativi è in parte mutata. Le voci più “stridule” diventano più rare - come quella dello studioso nativo-americano Vine Deloria Jr. che, basandosi sulla storia orale, conclude perentoriamente che, in America, i nativi americani ci sono da sempre. Molte tribù manifestano l’interesse per la storia genetica della propria gente, resa possi- Il museo Lombroso di Torino. In alto il cranio di Giuseppe Villella. A destra gli studi di Lombroso su alcune persone bile dagli esami del Dna, - storia di viaggi, spostamenti, incontri, conquiste, fughe - ricavabile dagli scheletri, purché la ricerca si svolga con rispetto e in modi concordati con le autorità tribali. E così, ossa e artefatti antichi ritrovati in una caverna in Alaska sono studiati dall’archeologo Terry Fifield con l’accordo degli anziani dei Tlingit e Haida e in collaborazione con i membri di queste tribù locali. O l’antropologo fisico Phillip Walker, il quale, in collaborazione con il popolo dei Chumash, progettò un ossuario sotterraneo all’Università della California di Santa Barbara, dove la ricerca sui resti umani tribali si svolge in un contesto rispettoso. Tali cooperazioni permettono di integrare gli strumenti degli archeologi, antropologi e genetisti con il sapere tribale e la storia orale, e di far dialogare le divergenti prospettive culturali per arricchire la nostra conoscenza del passato. Ho raccontato questa storia, perché le “Guerre dei crani” non sono un’eccezione americana. Anche noi, oggi e qui, siamo testimoni di una. Il cranio in questione appartiene a un certo Giuseppe Vil- lella, pregiudicato e “brigante” di Motta Santa Lucia nel Catanzarese, morto nel 1864 all’ospedale di Pavia. Il suo cranio – estratto dopo la morte e conservato dagli scienziati craniologi di Pavia - fu studiato, all’inizio degli anni Settanta, da Cesare Lombroso, all’epoca giovane accademico in carriera. Il cranio di Villella fu poi conservato, come pièce de résistance insieme a numerosi altri crani e organi, compresi quelli di Lombroso stesso, nel Museo di Antropologia Criminale di Torino. La fortuna di Cesare Lombroso in Italia e all’estero fu alterna. Stimato dai suoi contemporanei, fu una grandissima influenza tanto sui socialisti che sui fascisti, medici e magistrati, poliziotti e assistenti sociali. Il suo fondamentale Uomo criminale, pubblicato nel 1876, si riferisce a Darwin per postulare che la maggior parte di criminali sono rimasugli di un livello più primitivo dell’evoluzione umana. Questi uomini (e donne in un volume successivo) sono identificabili da loro tratti fisici: teste piccole, nasi schiacciati, orecchie grandi e simili. Uomini nati criminali non Le teorie di Lombroso sul “brigante” calabrese Villella possono sfuggire al loro biologico destino. La tesi sulle radici biologiche del crimine portò Lombroso alla fama, scatenò accesi dibattiti ed ebbe importanti implicazioni sugli studi futuri. Ebbe anche la grave responsabilità per aver alimentato, in Italia, la teoria razziale dell'inferiorità del Mezzogiorno, che sfociò poi nella teoria della "razza maledetta". L’“errore di Lombroso”, denunciato per tempo da molti meridionalisti come Colajanni, Salvemini e Fortunato, è stato rigettato dalla scienza, in Italia e nel mondo. Lo stesso Lombroso fu per decenni quasi completamente dimenticato. Il Museo di Antropologia Criminale, di cui si è parlato, ha riaperto solo cinque anni fa, con il nuovo nome che prende in considerazione la contestualizzazione delle discipline di cui si è parlato prima: Museo Storico di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso”. Lombroso rimane il padre della criminologia moderna e colui che per primo la trasformò in una disciplina autonoma. Dall’altra parte, il pregiudizio antimeridionale in Italia non solo non è scomparso ma, anzi, finì per diventare un sentire comune e diffuso, che alimenta peraltro istanze separatiste, e che si intensifica al E' vietata la riproduzione. Tutti i diritti sono riservati. Mercoledì 9 aprile 2014 www.ilquotidianoweb.it Idee&Società 41 Oggi presentazione del controverso libro della Milicia su Villella Appeso da 142 anni all’albero della scienza di ROMANO PITARO tempo della crisi. Il Sud, se mi si permette questa personificazione, ha reagito, da una parte, con una profonda afflizione; dall’altra, con uno scatto d’orgoglio. Sono una storia nota le variazioni del meridionalismo presenti fin dall’Ottocento: autonomiste, anticolonialiste, sociali, industriali, agrarie. La sua ultima ondata, che va spesso sotto il nome-ombrello di “neo-borbonismo”, comprende un arco vasto di posizioni intellettuali e politiche, a cominciare dalle tesi terzomondiste di Zitara, Carlo e Capecelatro, al discorso identitario e comunitario di Alcaro e Cassano, quello del tempo locale di Piperno, quello post-coloniale dell’UniNomade, il revisionismo storico di Placanica e Bevilacqua e di tutta la “scuola” dell’Imes e della rivista “Meridiana”, e tante altre ancora. La necessità di rendere giustizia alla storia del Mezzogiorno accomuna tutti i meridionalisti, sebbene non ci sia per niente l’accordo in che cosa debba consistere la revisione della storia, unitaria e preunitaria. Le componenti più “stridule”, per richiamare il termine usato all’inizio di queste considerazioni, di questa ondata sono due: una ribelle brigantesca; l’altra marcatamente filo-borbonica. Nella prima, prevalgono riferimenti leggendari ed emotivi: la cinema- tografia sui briganti-eroi della resistenza; le storie cantate di Eugenio Bennato; il viaggio del rapper calabrese Kento nelle proprie Radici, fatte di “vita, appartenenza, sangue, amore e cicatrici”. La seconda, che conta centinaia di siti web, si occupa principalmente di storia: i primati meridionali preunitari; le statistiche vincenti; il buon governo da Carlo III a Ferdinando; l’intervento straniero nella conquista del Regno e così via. Le loro organizzazioni, come l’Associazione Culturale Neo Borbonica di Gennaro De Crescenzo o il Comitato “NoLombroso”, hanno vaste reti di contatti e una certa influenza sugli amministratori locali. E’in questo contesto che va collocata la corrente recrudescenza nella guerra attorno al cranio del povero Villella. L’antropologa Maria Teresa Milicia, docente all’Università di Padova, si era incuriosita – visitando il Museo torinese – della massiccia mobilitazione dei movimenti neomeridionalisti contro il museo, accusato di apologia del razzismo antimeridionale del suo patrono. Calabrese d’origine, Milicia ha deciso di indagare per verificare la consistenza delle ragioni della protesta “meridionalista” contro il Museo “Lombroso”; il frutto di questa sua ricerca è un vivace libro, Lombroso e il brigante: storia di un cranio conteso, che l’ultima corrente neomeridionalista non ha apprezzato. Come si vede, in questa storia tutto è ancora da discutere e comprendere. Il dibattito su Lombroso e il brigante che si terrà oggi all’Università della Calabria (organizzato dai programmi dottorali in Scienze Politiche e in Studi Umanistici) vedrà, accanto alla Milicia, la storica Mary Gibson, una delle maggiori autorità su storia della criminologia e su Lombroso; l’antropologo Vito Teti e lo storico Silvano Montaldo, responsabile del Museo Lombroso. Modereranno gli storici Brunello Mantelli e la sottoscritta. * Ordinario di storia moderna Unical RENDE - Oggi all’Università di Cosenza alle ore 17.30 presso il Laboratorio Multimediale Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali (il 12 a Motta Santa Lucia ed il 16 aprile a Torino a cura del Museo Lombroso) storici ed antropologi discutono di un libro che ha scatenato una polemica (pretestuosa,a loro dire) divampata nel Mezzogiorno (e in Calabria soprattutto) ai danni del Museo “Cesare Lombroso” gestito dall’Università e sostenendo, più che implicitamente, le ragioni del Museo e l’inamovibilità del cranio di una persona umana, rivendicato - per darne sepoltura - dal Comitato “No Lombroso” e da un’infinità di comuni (Lecco per esempio) la maggior parte dei quali sono ubicati nel Nord del Paese. Polemica che avrebbe fatto del “brigante” Villella “il totem della lotta contro il razzismo antimeridionale”, quando - sintetizzo - il cranio esposto nel Museo degli orrori altro non sarebbe che “un reperto scientifico”, il che dovrebbe indurre a lasciate perdere le richieste di sepoltura e ad archiviare le fregnacce sulla chiusura del Museo intitolato al medico veronese di cui il libro in questione (“Lombroso e il brigante” di Maria Teresa Milicia, Salerno editrice) offre una lettura “inedita”. Se poi s’aggiunge che l’autrice è sì un’antropologa dell’Università di Padova, ma è nata in Calabria, abbiamo fatto strike! Se persino una calabrese assolve il Museo e giustifica il sequestro del cranio di una persona umana, cari terroni (nella specie tutti tacciati tutti di neoborbonismo) finitela con le storielle sul brigantaggio poLa copertina del libro stunitario e fatevene una ragione. Ovviamente, sulla versione “politically correct” delle sconsiderate affabulazioni di Lombroso che hanno acuito i pregiudizi sui meridionali si misureranno studiosi di chiara fama come Vito Teti, che di questione meridionale e di “razze maledette” un tantino s’è occupato. Altra faccenda il “brigante” calabrese (invero mai stato un brigante, come giù documentato dal Comitato “No Lombroso” di Milano) Giuseppe Villella nato a Motta Santa Lucia, morto in carcere a 69 anni e sul cui cranio Lombroso agì all’alba del 4 gennaio 1871 nel suo laboratorio di Pavia con il compasso scorsoio per scoperchiarlo e dissezionarlo, asserendo di aver rintracciato proprio in quella cucuzza la “fossetta occipitale mediana” che avrebbe dovuto dimostrare la teoria del delinquente per nascita e corbellerie simili cestinate dalla comunità scientifica mondiale. Sul punto, benché il libro s’intrattenga appena, non ci siamo proprio. Altro che “reperto scientifico! Qualcuno deve spiegare perché mai, a maggior ragione se Villella non è stato neanche brigante (in vita fu condannato “tre volte per furto e per l’incendio di un mulino”), il suo cranio resti sequestrato in La scrittrice (calabrese) assolve il Museo di Torino una teca. Violando ogni norma etica, giuridica, religiosa e civica quel “tristissimo uomo - così lo descrive Lombroso - contadino, ipocrita, astuto, taciturno, ostentatore di pratiche religiose, di cute oscura, tutto stortillato, che cammina a sghembo e aveva torcicollo non so bene se a destra o a sinistra”, non ha avuto ancora il piacere di una sepoltura nel suo cimitero. Un poveraccio di calabrese senz’arte né parte, colpevole d’inedia, quando l’Italia per assimilare il Sud passò per le armi senza molte cerimonie migliaia di rivoltosi sociali che non sapevano neppure cosa stesse accadendo, morto di tisi, scorbuto e tifo nel carcere di Vigevano, è trattenuto, suo malgrado, in un carcere atipico e nessuno riesce a liberarlo. Nel silenzio ostinato del Museo, che rifiuta un gesto d’umanità e, insieme, di pacificazione storica che non guasterebbe, fortuna che c’è, come disse Bertold Breckt a proposito del famoso mugnaio, un giudice a Berlino. Esattamente a Lamezia Terme. Dove il 5 ottobre 2012 è stata emessa una sentenza (tecnicamente ordinanza) della Repubblica che, espressamente, “condanna l’Università degli Studi di Torino alla restituzione al Comune di Motta S. Lucia del cranio di Giuseppe Villella”. Il giudice che ha emesso la “storica” sentenza, Gustavo Danise, per venire incontro alle esigenze scientifico-didattiche del Museo ha persino proposto di sostituire il cranio di Villella con un calco in gesso. Se ancora il cranio giace a Torino e la “controinformazione” del Museo può agevolmente tentare il depistaggio, come sta accadendo in questi ultimi giorni, è solo perché, su richiesta dell’Università torinese, l’efficacia della sentenza è stata sospesa dalla Corte d’appello di Catanzaro (18 dicembre 2012) ed ora si è in attesa del secondo round (probabilmente dicembre). Ma può un’Istituzione come il Museo Lombroso puntare tutte le sue fiches sul tecnicismo giuridico, piuttosto che argomentare culturalmente i propri interessi? Chi esige la testa di Villella per seppellirla, ha dalla sua un più che dignitoso ventaglio di ragioni che vanno dai testi biblici alla stessa cultura greca che ha animato l’Occidente. Antigone, nella tragedia di Sofocle, si fa murare viva perché viola la tremenda legge di Tebe che condanna i corpi dei traditori a putrefarsi senza sepoltura al di fuori delle mura. E per seppellire il fratello Polinice, e contro il volere di Creonte, lo zio tiranno, dà con le sue mani sepoltura a quel corpo e muore. La Bibbia: sia che la si consideri il libro dello spirito della letteratura mondiale, o, da chi crede, la parole di Dio, espressamente chiarisce - nel secondo libro Samuele, quando Davide recupera i corpi di Saul e dei suoi figli morti nella battaglia contro i Filistei per seppellirli – che essere privati della sepoltura è una maledizione di Dio e che, quindi, la sepoltura si concede anche ai criminali dopo l’esecuzione della pena capitale. Ma c’è una norma vincolante, e vigente, per ebrei e cristiani. Esattamente i versetti 22/23 del Deuteronomio. Si tratta del libro che contiene alcuni discorsi di Mosè ed al cui interno vi sono le leggi che debbono reggere Israele e che nella parte indicata asserisce: “Quando un uomo ha commesso un peccato che merita la morte e tu l’ha appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere appeso tutta la notte all’albero. Lo devi seppellire in quello stesso giorno, perché appeso è una maledizione di Dio e tu non devi contaminare la terra che il Signore tuo Dio ti ha dato in eredità”. Ma con Villella come la mettiamo. Non da un giorno è appeso a quell’albero, seppure l’albero della “scienza”, ma da 142 anni. Quanti giorni sono? Anche il teschio di Petru Curia potrebbe essere al museo di Torino di ROSANNA BERGAMO Petru Curia ALBI - Il teschio del brigante albese Pietro Corea, conosciuto ai più come Petru Curia, potrebbe essere custodito, insieme a quello di Giuseppe Villella, nelle sale del famigerato museo intitolato a Cesare Lombroso a Torino, recentemente riaperto al pubblico. E’ questa la convinzione di Antonio Filippo Corea, albese, appassionato meridionalista e membro del Comitato No Lombroso. La storia di Petru Curia è simile a quella di molti altri briganti, solo Albi ne contava all’epoca non meno di venti; ufficialmen- te risultavano essere predatori ed assassini ma, nella realtà, sembra fossero strenui difensori dell’autonomia di quel meridione ricco di averi e potenzialità, depredato, in nome di un’unità che di fatto non è mai avvenuta, di tutte le sue ricchezze. Antonio Filippo Corea ha, da tempo sposato la causa; ha aderito al Comitato costituitosi per chiedere la chiusura di un museo all’interno del quale, il suo ideatore, Cesare Lombroso era giunto alla conclusione che un delinquente fosse riconoscibile dalla misurazione antropometrica del suo cranio. Petru Curia, sul quale pende- va una pesante taglia, venne catturato, torturato e decapitato, il suo cranio venne inviato a Firenze, allora capitale e poi, probabilmente, trasportato a Torino per essere sottoposto alle attenzioni di Lombroso. Antonio Corea, da membro del Comitato, ha chiesto, ormai quattro mesi fa, all’amministrazione comunale guidata da Giovanni Piccoli di aderire al Comitato. Ha chiesto di farlo in ossequio a Petru Curia ed ai tanti “briganti ” albesi che si immolarono per salvare i compaesani. «La richiesta - afferma Corea - è stata inoltrata il 2 dicembre scorso. Da allora nulla».
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