Fortezze gotiche e lune elettriche

FORTEZZE GOTICHE
E LUNE ELETTRICHE
_____________________________FORTEZZE GOTICHE
E LUNE ELETTRICHE
LE CENTRALI IDROELETTRICHE DELLA AEM IN VALTELLINA
Fotografie di
Testi di
G ab riele Basilico
G ia n n i Berengo G a rd in
Francesco R ad in o
D aniele Baroni
G io v a nn i Bettini
A ldo C astellano
G uglie lm o Scaram ellini
Ricerche bibliografiche
e letterarie di
Franco Monteforte
C o m u ne di M ilano
A em A zie nd a energetica m unicipale
Progetto grafico di
Italo Lupi
SOMMARIO
6-7
Prefazioni di: Bruno Falconieri e Gianfranco Rossinovich
15
Guglielmo Scaramellini: Il quadro storico-economico dell'area geografica valtellinese
38-52
Citazioni letterarie
57
Giovanni Bettini: L'uomo, l'ambiente, le risorse nel territorio valtellinese
84-86
Citazioni letterarie
91
Daniele Baroni: Le «cattedrali» del progresso
104-114
Citazioni letterarie
119
Aldo Castellano: Archeologia industriale degli impianti idroelettrici in Valtellina
150
Appendice: Gli impianti idroelettrici di Valtellina e le installazioni elettriche del Comune di Milano
Immagini Fotografiche
Gabriele Basilico: pagg. 6/7, 10/11, 56, 59, 60, 61, 63, 65, 67, 69, 71, 73, 75, 78/79, 80, 81, 82/83, 85, 87,
88/89, 102, 103, 105, 107, 109, 111.
Gianni Berengo Gardin: Sovra coperta, pagg. 8/9, 14, 17, 29, 31, 33, 34/35, 36, 37, 39, 41, 42, 43, 44/45,
47, 49, 50/51, 53, 54/55, 76/77, 157.
Francesco Radino: 1° e 2° risguardo, pagg. 12/13, 112/113, 115, 116, 117, 118, 121, 123, 125, 127, 128/129,
131, 133, 135, 137, 139, 141, 143, 145, 146, 147, 148/149.
Ingresso della centrale di Lovero
"Il Consiglio Comunale, convinto che si debba eseguire
senza ritardo la derivazione di energia dall'Alta
Valtellina, alla quale sono intimamente connessi, per
modo da formare un tutto unico, l'impianto a vapore e
la rete di distribuzione in corso di esecuzione in Milano,
riconosce ed afferma la necessità di procedere subito
direttamente alla esecuzione del primo impianto idro­
elettrico e deferisce ad una Commissione l'incarico di
studiare, d'accordo colla Giunta, l'organizzazione
tecnico-amministrativo-finanziaria a ciò occorrente,
riferendone al Consiglio entro tre mesi".
Ho voluto riportare integralmente l'ordine del giorno,
votato all'unanimità nel giugno 1907, dal Consiglio
comunale di Milano perchè da questa decisione tre
anni più tardi sarebbe nata, attraverso un referendum
popolare, l'Azienda Elettrica Municipale.
Bene ha fatto l'attuale Azienda, ora energetica, a
pubblicare alla vigilia del suo 75° anniversario, questa
monografia.
Dagli impianti valtellinesi infatti è giunta a Milano, in
questi 75 anni, una parte importante dell'energia
necessaria per lo sviluppo della città e del
suo hinterland.
La collettività milanese deve dunque alla lungimiranza
degli amministratori di allora la costruzione dì un
importante patrimonio, che si è via via arricchito
negli anni.
Questa monografia, attraverso le immagini e i saggi, ci
propone un'interessante analisi di quel primo
importante periodo.
Come amministratore pubblico desidero sottolineare la
visione strategica di quelle scelte energetiche.
Vi è infatti una continuità tra la coraggiosa scelta
operata all'inizio del secolo - investire danaro pubblico
per produrre energia elettrica - e quella attuale che si
concretizza nella elaborazione, da parte
deH'Amministrazione comunale, di un piano energetico
per la Milano che va verso il 2000.
Oggi come allora decidere suscita, a volte, scetticismo e
polemiche, ma così come noi constatiamo la validità e
la saggezza delle scelte di allora ci sentiamo dì
affermare che le scelte operate nel campo dell'energìa
dal "piano energetico per l'area milanese", frutto di
un'attenta ed elaborata progettazione, ridurranno i
costi, diversificheranno le fonti e disinquineranno
Milano.
Ecco quindi, con l'imminente ricorrenza di questi 75 anni,
avanzare un nuovo traguardo del cammino energetico
deH'Amministrazione comunale di Milano.
Sicuramente non saranno più "fortezze gotiche" e non vi
è più il fascino che le "lune elettriche" hanno esercitato
agli inizi del secolo.
La tecnologìa attuale ci ha abituato a ben altri
"spettacoli", abbiamo e avremo quindi rappresentazioni
diverse dello "spettacolo energetico" ed anche gli
"scenari energetici" saranno diversi.
In queste ovvie diversità, quello che mi auguro resti
simile è la capacità degli amministratori pubblici di
essere all'altezza, come avvenne allora, della sfida
energetica.
Bruno Falconieri
Assessore delegato all'Aem
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Energia e Società sono termini e concetti inscindibili e
complementari in quanto lo sviluppo sociale è oggi, più
che in passato, condizionato dalle disponibilità
energetiche.
L'Aem attraverso la presente collana intende
coinvolgere diverse discipline tecniche e umanistiche
per interpretare le tappe storiche dello sviluppo della
nostra città in cui la gestione energetica è stata
protagonista essenziale.
Settantacinque anni fa, l'Aem si accingeva a progettare
e gestire quelle "fortezze Gotiche" che avrebbero
prodotto e producono le "lune elettriche" necessarie allo
sviluppo industriale e civile della nostra città.
Non vorrei si dimenticasse, e bene hanno fatto gli autori
a ricordarlo, che il lavoro dell'uomo, progettuale o
realizzativo, è stato fondamento di "questa storia".
Abbiamo voluto documentare tutto questo con alcuni
saggi e con molte immagini. Ma protagonisti di questa
opera, oltre agli impianti, sono anche l'ambiente, le
genti e la storia della Valtellina.
Tutto questo è "dentro" a queste "fortezze" che hanno
consentito e consentono di produrre questa
meravigliosa energia.
Abbiamo voluto che questi manufatti fossero rivisitati da
tre professionisti dell'immagine proprio perchè viviamo
in un'epoca che quotidianamente si misura con una
cultura che trova nell'immagine uno dei suoi elementi
essenziali.
I fotografi, insieme agli storici e ai sociologi, hanno
interpretato in questa monografia i nostri impianti
valtellinesi, che risultano così, come d'incanto, i
protagonisti di una lunga storia che li vede
profondamente legati all'ambiente.
Scorrendo queste immagini, si ha la sensazione che il
lavoro dell'uomo non solo sia riuscito a coniugarsi con i
bisogni della natura, ma addirittura sia riuscito a dare
a questa ancora più forza.
Le dighe, le centrali cosi descritte, siano esse liberty o
più recenti, hanno alimentato industrie e tram,
illuminato strade e case della Milano dei primi del '900.
Si è più volte affermato che, attraverso i fili che dalla
Valtellina giungono a Milano, è passata parte della
storia economica e sociale di questa importante parte
della Lombardia. Su quei fili si è sviluppato un rapporto
di reciproco interesse, una sorta di andata e ritorno tra
la valle e la pianura, tutto ciò in modo sicuramente
complesso e a volte conflittuale, ma pur sempre vivo e
intenso.
Nel pubblicare questo volume abbiamo voluto quindi
ripercorrere i nostri 75 anni soffermandoci nel periodo
iniziale di questa storia.
Abbiamo voluto sottolineare la modernità e l’attualità
del lavoro svolto a suo tempo dagli Amministratori
pubblici, dai progettisti e dagli operai che realizzarono
questo patrimonio. Un modo degno, a nostro avviso,
per ricordare il 75r anno di fondazione dell'Aem e il
primo anno di avvio del piano energetico dell'area
milanese, che l'Amministrazione comunale di Milano ha
affidato, per la sua realizzazione, alla nostra azienda.
on. Gianfranco Rossinovich
Presidente Aem
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La vecchia diga di Cancano vista da valle e, sullo sfondo, la diga di S. Giacomo
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La centrale di Grosotto vista da valle
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La sala quadri della centrale di Grosotto
Vigneti a terrazzo nei dintorni di Grosotto
14
Il quadro storico-economico dell’area
geografica vaftellinese
Guglielmo Scaramellini
Cent'anni or sono, nell'allora più settentriona­
le provincia del Regno, quella di Sondrio, scoc­
cava la prima scintilla elettrica della locale sto­
ria industriale. L'evento, grandioso e rivoluzio­
nario, accolto un po' in sordina nella debole
struttura economica locale, si ebbe in un cotoni­
ficio, trapiantato da qualche decennio nell'uni­
co centro manifatturiero di qualche rilievo,
Chiavenna. Beneficiando della nuova energia i
proprietari della «Ditta Eredi Gio. Amman» riu­
scirono a prolungare la giornata lavorativa a
tredici ore anche nella stagione invernale, col
dare un'adeguata illuminazione allo stabili­
mento. La forza motrice necessaria agli impian­
ti, infatti, continuava ad essere fornita da un
potente motore a turbina idraulica, della forza
di «140 cavalli dinamici che muove tutto il pe­
santissimo meccanismo».
L'avvenimento venne riportato, quasi inci­
dentalmente, nella relazione per il biennio 1883­
1884 della Camera di Commercio di Chiaven­
na, relazione che registrava, soprattutto, una
situazione difficile dal punto di vista economico
e sociale: si tratta di un periodo «di profondo
sofferimento per le tristi condizioni di gran parte
della popolazione, tribolata, in più, dal timore
di una invasione cholerica e danneggiata dalle
misure sanitarie prese ai confini» che finirono
per ridurre drasticamente il «solito passaggio
dei tourist e dei forestieri per gli stabilimenti dell'Engadina». In agricoltura si registrano «raccol­
ti scarsi e quelli delle uve rovinati dalla peronospera, dalle piogge e dalla grandine», tanto che
«l'emigrazione per le Americhe è in continuo
aumento».
Non mancavano, tuttavia, speranze di ripre­
sa, affidate al diffondersi delle latterie sociali,
alla stessa emigrazione come fonte di rimesse in
denaro e di nuova professionalità per il futuro,
al compimento dei due tronchi ferroviari ColicoSondrio e Colico-Chiavenna. Si tentava, anche,
una sorta di censimento per conoscere la forza
idraulica disponibile nei vari comuni della pro­
vincia, prevedendone, d'altra parte, un'utilizza­
zione soltanto meccanica: di energia elettrica,
infatti, non si fa alcun cenno, né lo si sarebbe
fatto sino alla fine del decennio successivo.
Appare dunque assai evidente come, ancora
negli anni Ottanta del secolo scorso, la Valtelli­
na non vedesse il suo orizzonte completamente
rischiarato dopo la terribile crisi degli anni Cin­
quanta, un decennio spaventoso che aveva
messo in ginocchio quella che venne detta «Ur­
lando lombarda»; ma un ritorno graduale ad
una soddisfacente salute economica e sociale
era visto come possibile e perseguito da una
classe dirigente locale disposta a dar credito ai
segni di risollevamento e attenta ai segni di tra­
sformazione economica e industriale.
Oggi possiamo considerare la «grande crisi»
della metà del secolo un vero tornante nella sto­
ria valtellinese, anche se le trasformazioni della
realtà imputabili ai suoi effetti non furono né
immediate, né radicali. E però certo che si incri­
narono visioni del mondo, di rapporti tra classi e
di vita sociale che là erano radicate da secoli.
Dai vigneti eroici alla «grande crisi»
In gran parte della valle dell'Adda e soprat­
tutto sul versante delle Alpi Retiche tra Ardenno
e Tirano, ma anche più su, fino a Grosio, ben
esposto al sole di mezzogiorno e riparato dai
venti di tramontana, si era sviluppata, nel corso
dei secoli, generazione dopo generazione, una
15
Il nuovo invaso di Cancano, sullo sfondo le dighe di Cancano 1 e di S. Giacomo
viticoltura eroica, che strappava alla montagna
tutti i lembi di terreno pianeggiante. Ove questo
era assente, lo si costruiva a forza di braccia: «le
vigne - scriveva nel 1813 il prefetto napoleonico
Francesco Angiolini - sono nella maggior parte
formate da artificiali ajuole a gradinata sostenu­
te da muri» le cui realizzazione e manutenzione
costavano all'agricoltore enorme fatica e conti­
nuo lavoro, perché egli doveva, ogni anno, co­
me scriveva Melchiorre Gioia, «gettare col badi­
le la terra dall'infimo muricciolo ai piedi del su­
periore e così degli altri sino alla cima della ci­
clopica gradinata, allo scopo di riportare su la
terra trascinata a fondovalle dalle piogge inver­
nali e dalle acque del disgelo, nonché di redi­
stribuire il peso della terra, accumulatosi sui ter­
razzi artificiali più bassi».
E, in realtà, si trattava di una complessa co­
struzione non solo dal lato tecnico ed agronomi­
co, ma anche da quello economico-sociale. I
fondamenti di questo edificio erano sostanzial­
mente due: la forma di conduzione «livellaria»
dei terreni (con un contratto, cioè, di enfiteusi
con locazione ereditaria perpetua, detto «livel­
lo» valtellinese) e la specializzazione produttiva
viticola in contemporanea presenza con la poli­
coltura destinata all'autoconsumo.
Il contratto di «livello» e la specializzazione vitivinicola
Il «livello» si diffuse in Valtellina soprattutto
dal tramonto del Medioevo, quando declinò la
feudalità e nuove forme di vita economica e so­
ciale sì vennero affermando. Il secolo XV fu
quello in cui questo contratto si generalizzò,
aprendo nuove vie all'agricoltura vallìgiana e
nuove opportunità dì esistenza alla popolazione
rurale.
Il contratto di livello, infatti, si presentò inizial­
mente come un fenomeno progressivo, un fatto
positivo per il coltivatore; con esso, infatti, la
grande proprietà nobiliare od ecclesiastica fu
suddivisa in una serie di piccole unità colturali,
la responsabilità della cui gestione venne affi­
data ad un coltivatore diretto, che si svincolò
così dalla dipendenza e dal controllo diretto del
proprietario, in cambio del pagamento di un
canone, solitamente in natura, e fissato una vol­
ta per tutte. I vantaggi di un simile criterio di
affidamento della terra andavano sia al pro16
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Da "La grande carta automobilistica" 1:300.000, Touring Club Italiano, 1926.
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prietario, che poteva annualmente disporre di
una quantità certa di beni agricoli, indipenden­
temente dall'andamento stagionale e senza
esborso iniziale di capitali, sia all'affittuario (pic­
colissimo proprietario o nullatenente) che otte­
neva terra da coltivare, senza scadenze tempo­
rali, in cambio di un canone tenue e fisso; inol­
tre, ogni successiva miglioria nella conduzione
del fondo e quindi nel ricavato, gli spettava di
diritto. Certo, al coltivatore veniva richiesta una
congrua anticipazione in lavoro, ma la certezza
di un soddisfacente compenso successivo fece
del «livello» uno strumento economico che con­
sentì rapidi progressi alla società valtellinese
del Quattrocento. Dì qui un grande fervore edili­
zio ed artistico e una fioritura culturale, ma an­
che un processo di crescita demografica di rile­
vanti proporzioni, favorita sì da condizioni eco­
nomiche oggettivamente positive, ma anche da
aspettative psicologiche decisamente ottimisti­
che.
All'incremento della popolazione si accompa­
gnò il progressivo esaurirsi delle terre di più fa­
cile utilizzo: lo scambio «livellano» divenne
sempre più ineguale, con canoni elevati per ri­
masugli dì terreno assai ingrati se non addirittu­
ra incoltivabili.
Per la classe coltivatrice tutto questo significò
la conclusione di una fase, che portò anche un
regresso generale a più basse condizioni di vita.
E questo nonostante si mettesse in atto, con l'im­
pianto di una produzione dall'alto valore com­
merciale, l'unica «mossa» in grado di far fronte
alla scarsità oggettiva di terreni coltivabili, dato
il popolamento, ed alle difficoltà di «costruzio­
ne» dei terreni stessi con le immani opere di
terrazzamento. E una produzione che accanto
all'alto valore commerciale presentasse indubbi
vantaggi per il tipo di aree coltivabili e per la
stessa posizione geografica della zona, altro
non poteva essere che la vite da vino.
Una sorta di «via del vino» era felicemente
aperta sin dal Medioevo tra i paesi meridionali
ed i paesi nordici, quasi del tutto privi di produ­
zione locale (non mancavano, però, aree di spe­
cializzazione più settentrionali, come le valli del
Reno e della Mosella, Bordeaux e la Champa­
gne): in questo circuito la Valtellina si inserì ben
presto, conquistandosi una solidissima posizio­
20
ne sul vicino mercato elvetico.
La specializzazione produttiva, già intensa in
epoca rinascimentale, si intensificò ancor più in
epoca moderna e venne spinta a livelli mai co­
nosciuti in seguito all'annessione alla Repubbli­
ca Cisalpina (1797), che apre improvvisamente
il grande mercato lombardo. Seguirono «anni
quasi favolosi» - afferma lo statista ed economi­
sta valtellinese Luigi Torelli - e, infatti, questa
rapida e radicale riconversione produttiva fu ri­
pagata con dei redditi mai conosciuti in prece­
denza, anche se i presupposti della grande «cri­
si», ignorati dai più, erano presentì. Un uomo
pubblico locale, fin dal 1813, scrìveva a Mel­
chiorre Gioia di una pericolosa e «cattiva sma­
nia di accrescere il vidato in luoghi inopportuni».
E Carlo Quadrio, nello stesso anno, metteva
in evidenza allarmato «quel furore comune
quasi d'ogni classe di persone per estendere la
coltura delle viti e rubbare così alla coltura de'
grani il necessario suolo». Era accaduto che la
policoltura e gran parte della produzione diver­
sificata destinata all'autoconsumo, uno dei prin­
cipali cardini dell'economia valligiano, erano
andati in crisi, sacrificati ai profitti rassicuranti
ed immediati della produzione viticola. Per
«porre in liquidazione» la provincia furono suffi­
cienti l'aggressione della crittogama ai filari
sempre più stipati e il rimanere tagliata fuori
dallo sviluppo della rete ferroviaria, che andò
invece a beneficiare i traffici dei concorrenti.
Ecco, quindi, il quadro che Stefano lacini fece
di questa agricoltura, dopo che per un decennio
avevano infierito la crittogama e l'atrofia del ba­
co da seta: questi mali «per così dire, acuti, re­
centi, accidentali,... già gravi in se stessi, lo di­
ventarono ancora più per avere intaccato un
corpo già logoro ed intristito» per l'azione conti­
nua, profonda, di quei mali «organici, generali,
cronici... e predisposti di lunga mano».
«Non si può inoltre tacere - aggiungeva - il
venir meno delle risorse forestali per il dissen­
nato sfruttamento cui erano state sottoposte dal­
l'inizio del secolo, ed il conseguente imperver­
sare di fiumi e torrenti...» Abbiamo così il qua­
dro completo di un organismo economico-terri­
toriale malato, e profondamente malato, la cui
ripresa appare decisamente problematica.
Nel 1857, la produzione dei bozzoli diminuì di
Lavori di modifica nella centrale di Roasco, posa dei nuovi tubi collettori, 1933
21
Da "Proposta di municipalizzazione", Comune di Milano, Aprile 1909. (Primo piano di produzione e trasporto)
COMUNE DI MI LANO
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un terzo rispetto alle annate normali, mentre
quella del vino, «principalissima derrata» che
da sola rappresentava «circa un terzo del valore
complessivo della produzione valtellinese», sce­
se addirittura del 96%!
Governatore della provincia, cercarono di ap­
portare quei miglioramenti ed applicare quei
rimedi, dipendenti dal potere centrale, che già
nell'ultimo periodo austriaco erano apparsi in­
dispensabili ed indilazionabili. In particolare,
su proposta dello stesso Torelli, relatore al Par­
la ripresa dopo l’Unità d'Italia
lamento italiano di un provvedimento legislati­
Questa era la situazione generale della Val­ vo (approvato il 27.7.1860) che si muoveva in
tellina quando giunsero il distacco dall’impero questa direzione, fu ridotto drasticamente il cen­
asburgico, e la costituzione del regno d'Italia so (del 42% per i coltivi, castagneti e gelsi; del
(1859-1861).
46% per i fabbricati e, addirittura del 74% per i
L'evento, nei suoi risvolti economici, apparve pascoli ed i boschi); inoltre fu presa una serie di
decisamente positivo, almeno per la Valtellina misure molto importanti per l'ammodernamento
«agricola»: i nuovi governanti, tra cui assunse amministrativo ed economico della provincia
una posizione di spicco Luigi Torelli, nel 1860 (tra cui spicca il rimboschimento, già raccoman­
22
dato caldamente dallo Jacini come provvedi­
mento fondamentale).
Ma la svolta politica ebbe anche altri effetti,
dando fiato ed aprendo spazi all'azione di una
classe dirigente locale che si era formata, nella
sua maggioranza, presso l'Università di Pavia
ed i circoli intellettuali milanesi, specie modera­
ti, ma anche presso il gruppo che gravitava in­
torno agli Annali di Statistica di Romagnosi e
Cattaneo (su cui erano usciti, negli anni '30 e '40
alcuni interessanti lavori sulle condizioni econo­
miche della provincia di Sondrio).
Questa classe dirigente, nella stragrande
maggioranza di origine aristocratica e proprie­
taria, si dedicò, inizialmente, al superamento
della grave crisi agricola, che, sia per i provve­
dimenti presi, che per il progressivo diffondersi
dei rimedi agronomici atti al contenimento pri­
ma, e poi all'eliminazione delle malattie delle
piante (specie con la solforazione della vite)
venne vinta nei primi anni Sessanta. Anzi, la
congiuntura favorevole del mercato del vino
che va dal 1865 al 1876, permise una ripresa
abbastanza rapida, anche se piuttosto effimera,
dell'economia provinciale, che fu sostenuta con
adeguate iniziative, indicate dall'esperienza e
dagli ammaestramenti della crisi appena supe­
rata.
In effetti, lo «stato morboso» dell'economia
valtellinese non aveva soltanto messo in ginoc23
Portale della galleria di ingresso alla Centrale di Stazzona, 1938
chio i coltivatori, ma aveva anche colpito assai
duramente molte famiglie di proprietari, anche
agiati, i quali avevano nella vite e nel vino l'uni­
ca fonte di reddito. Il venir meno del prodotto
per più di un decennio aveva minato la loro
base economica, così che essi avevano dovuto
cedere le loro proprietà a prezzi bassissimi o
coprirsi di debiti, o entrambe le cose.
Ne era conseguita la formazione di una classe
di nuovi proprietari, non sconosciuta neppure in
precedenza, ma di dimensioni ben più limitate;
costoro, divenuti imprenditori agricoli (e non ra­
ramente speculatori ed usurai) venivano a for­
mare, secondo quanto dice nel 1890 un intellet­
tuale valtellinese, il giurista Ercole Bassi, «una
nuova specie di proprietari burbanzosi, abba­
stanza esigenti dei loro diritti e con poco senti­
mento di compassione» per il contadino, venen­
do così a liquidare quasi del tutto una consuetu­
dine di paternalismo da parte dei proprietari e
di condiscendenza degli agricoltori.
24
La diversificazione della struttura agraria valtellinese
dopo II 1860
L'insieme di queste esperienze aveva, quindi,
spinto la classe dirigente a cercare dei rimedi, e
ad individuarli in una maggiore organizzazio­
ne, preparazione e differenziazione della strut­
tura produttiva, ma anche nell'offerta di una se­
rie dì servìzi, sia a monte che a valle, della strut­
tura produttiva stessa.
In particolare viene potenziata l'istruzione
agraria, specie con la trasformazione della vec­
chia, volontaristica Società Agricola nel gover­
nativo Comìzio Agrario provinciale (creato per
legge nel 1866). Particolare cura di questo orga­
nismo fu il miglioramento dei sistemi dì coltiva­
zione, sia della vite, che, soprattutto, dell'alle­
vamento, in vista della diversificazione produtti­
va dell'agricoltura provinciale, così da sottrarla
ai pericoli (che si erano puntualmente rìpresentati nel 1876 con l'antracosi, nel 1880 con la peronospora e in seguito con la temutissima fillosse­
Lavori di modifica all'im pianto di Roasco (1930-35 ca.)
ra) di una quasi-monocoltura viticola, troppo
sottoposta ai capricci di un mercato molto elasti­
co, dell'andamento climatico, delle malattie
che, nella seconda metà del secolo, sembrano
cospirare nei confronti di questa delicata colti­
vazione.
Ma una vera conquista in campo economicosociale fu la scoperta del ruolo che, nella fram­
mentaria e travagliata struttura agricola provin­
ciale, avrebbe potuto giocare la cooperazione,
sia nel campo creditizio, che in quello della tra­
sformazione e della commercializzazione dei
prodotti.
Nel 1871 nacque, nel pieno del fervore e nella
tensione verso la ripresa economica, la Banca
Popolare di Credito, un istituto che pratica sì la
raccolta di denaro liquido (come già faceva la
Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde),
ma anche impiega localmente i propri capitali.
Una seconda iniziativa, anch'essa localizzata
in Sondrio e nata nel 1872, è più legata al setto­
re vinicolo: viene fondata la Società Enologica
Valtellinese, i cui compiti sono la promozione
dei migliori metodi di produzione dell'uva e del
vino, e la commercializzazione di un prodotto
standardizzato di ottimo livello.
Ma la promozione di iniziative cooperativisti­
che non si arrestò qui: particolare importanza
assunsero, col tempo, quelle sorte nel settore
lattiero-caseario, soprattutto col sostegno del
Comizio Agrario, nel tentativo di allargare in
maniera consistente la base produttiva provin­
ciale al settore dell'allevamento bovino.
La crisi dei «livello»
Nel generale processo di rinnovamento co­
minciò a delinearsi un fenomeno nuovo: negli
anni subito seguenti alla unione al Regno d'Ita­
lia, particolarmente favorevoli allo sviluppo del­
la viticoltura, si manifestò una tendenza allo
svincolo dei livelli, promosso dalla maggior di­
sponibilità di denaro contante (lo stesso che fa­
25
voriva la nascita della Banca Popolare e di altri
istituti di credito privati), dalla disponibilità con­
tadina, poi rivelatasi disastrosa, a contrarre de­
biti in questo periodo di ottimismo economico e
sociale, dalle difficoltà finanziarie di molte fami­
glie di proprietari terrieri e, probabilmente, da
una forma di «disaffezione» psicologica da par­
te di molti di costoro nei confronti della terra,
che ne aveva «tradito» l'atavica fiducia. Il movi­
mento si interruppe presto, alle prime avvisa­
glie della nuova crisi produttiva del 1876-1878,
ed in seguito al recupero dei crediti concessi
dagli speculatori o per la necessità dei contadi­
ni, novelli proprietari, di procurarsi denaro li­
quido, anche disfacendosi delle nuove proprie­
tà. Ma ormai il segnale era dato, ed il processo
riprendeva appena se ne presentasse l'occasio­
ne, fosse questa l'accumulazione delle rimesse
degli emigranti, o il loro ritorno, o il reddito ag­
giuntivo apportato dai lavori ferroviari e idroe­
lettrici, o altre cause contingenti. Così, Ercole
Bassi poteva scrivere, nel 1890: «Esistono anche
al presente molti livelli, ma tutti di vecchia data,
giacché il nuovo codice civile... ha assoluta­
mente impedito la formazione di nuovi livelli,
che pur sarebbero tornati ancora utili, sia in
Valtellina, che in altre regioni...».
Certo questa proposizione (invero un po' inat­
tesa per un teorico della cooperazione come il
Bassi) non avrebbe incontrato il favore di tutti,
specie dei nuovi gruppi politici che si stavano
organizzando in quel torno di tempo, i socialisti
ed i «cattolici democratici», fieri avversari della
prassi livellaria: ma almeno sta ad indicare che
il processo di stipulazione di nuovi contratti si è
interrotto, dopo secoli, anche se non tutti gli ap­
partenenti al ceto proprietario sono convinti che
esso sia effettivamente superato dai fatti.
Le prime iniziative idroelettriche locali (1893-1896)
In questo clima di generale, anche se lento
rinnovamento, la luce elettrica fece, finalmente,
il suo ingresso pubblico, uscendo dal chiuso de­
gli opifici in cui era stata confinata per quasi un
decennio. Nel 1893, infatti, il comune di Sondrio
provvide all'illuminazione elettrica delle vie del­
la città (con 121 lampade) ed alla fornitura ai
privati (2300 lampade). L'operazione fu condotta
26
dalla società per azioni «L'Elettricità», fondata
nello stesso 1893 in Sondrio, che realizzò l'im­
pianto di produzione (2 turbine con la potenza di
150 cavalli vapore), a Torre Santa Maria, in Valmaìenco.
L'anno successivo fu la volta di Chiavenna,
con la «Società cooperativa per l'illuminazione
elettrica» e una piccola centrale nella valle del­
lo Spluga, a San Giacomo e Filippo.
Nel 1895 fu Tirano a dotarsi, con la società
«Forza elettrica», dell'illuminazione pubblica
(38 lampade) e privata (592 lampade).
Nell'anno seguente anche Delebio e Novate
Mezzola ebbero una rete elettrica, pubblica (ri­
spettivamente 15 e 4 lampade) e privata (157 e
82 lampadine); l'energia veniva fornita da pic­
coli impianti di una turbina, della potenza di 10
e 15 cavalli vapore. I produttori erano, in en­
trambi i casi, dei privati.
Si trattava, come le cifre dimostrano, di picco­
le iniziative dalla portata locale, e la loro desti­
nazione era esclusivamente legata all'illumina­
zione; ma la loro importanza non va trascurata,
né sottovalutata, specie nel contesto di una
struttura produttiva extra-agricola molto povera
(se si escludono alcuni complessi industriali, an­
che di notevoli dimensioni relative, a Chiaven­
na e Sondrio). Prova ne fu la loro capacità di
mobilitare dei capitali non agricoli, anche in­
genti al di fuori dei tradizionali canali familiari
dell'autofinanziamento delle imprese.
Che, d'altra parte, si cominciasse a guardare
ai corsi d'acqua della provincia con un occhio
diverso, più «imprenditoriale» e scientifico, è di­
mostrato anche dall'iniziativa della Deputazio­
ne Provinciale, che, in accordo con il competen­
te Ministero dei Lavori Pubblici affidò ad una
Sezione speciale del Genio Civile di Sondrio
l'incarico di rilevare, in maniera molto precisa e
sistematica, i dati quantitativi concernenti la
portata dei corsi d'acqua provinciali. La Depu­
tazione stessa, dimostrando di avere ben com­
preso la portata non solo locale di queste fonti di
energia, decise, poi, di «rendere questi elemen­
ti di pubblica ragione, nella certezza, che essi
possano essere utilmente consultati da quanti si
interessano della scienza idrografica e dell'av­
venire industriale del nostro paese, poiché si
tratta di corsi d'acqua finora non utilizzati affatto
Armatura dell'impalcato stradale del ponte sul Rìvalone, per l'accesso alla centrale di Sicrzzona, 1936
o solo in piccolissima parte». La pubblicazione
relativa, dalla cui prefazione sono tratte le paro­
le testé citate, uscì a Sondrio nel 1896, in tempo
utile per essere «consultata» con profitto negli
ambienti industriali e pubblici milanesi, allora
alla ricerca di fonti energetiche per lo sviluppo
produttivo ed urbanistico della «capitale mora­
le» d'Italia.
la strada secondaria che corre sulla sponda de­
stra del fiume valtellinese; le sue relativamente
ridotte dimensioni, però, non lasciano trapelare
all'osservatore attuale la grande importanza
che questa realizzazione ebbe nella storia della
tecnologia italiana. Importanza che non risiede
nella tipologia dell'impianto idroelettrico, già
ampiamente sperimentata, ma nella destinazio­
ne, innovativa nel nostro Paese, dell'energia
prodotta nella nuova centrale: essa doveva ser­
Le grandi iniziative esterne: la centrale di Campovico
(1899-1901)
vire alla prima sperimentazione della trazione
Un tale interesse, peraltro, non tardò a mani­ elettrica nelle ferrovie italiane. Ed, in effetti, le
festarsi ed a concretizzarsi, con delle iniziative tratte Lecco-Colico-Sondrio-Chiavenna furono
di origine esterna che aprirono l'attività sistema­ le prime, nel 1902, a muoversi con la nuova
tica di utilizzazione delle acque della provincia. energia, e con pieno successo. Dopo quel primo
La prima, in ordine di tempo, fu quella della momento, l'elettrificazione delle strade ferrate
centrale di Campovico (ora in comune di Mor- nel nostro paese ha avuto tempi e ritmi diversi,
begno) realizzata negli anni 1899-1901, con una ma non si è più arrestata. L'iniziativa era stata
derivazione dal fiume Adda, ed un piccolo «sal­ della società proprietaria dei tronchi ferroviari
to» (circa 30 m). L'elegante complesso, in stile in questione, la «Società Italiana per le Strade
«medievale-lombardo», è ancora visibile lungo Ferrate Meridionali (Esercizio della rete Adriati27
Il bacino di Cancano visto dalla diga di S. Giacomo e i resti del villaggio-cantiere
ca)», un importante gruppo finanziario che, ad
onta della sua ragione sociale, possedeva e ge­
stiva la maggior parte della rete lombarda. La
centrale di Campovico era di dimensioni medie
(5400 cavalli vapore), ma la sua presenza molti­
plicò per quasi quindici volte la produzione
idroelettrica provinciale allora disponibile.
«Le magnificenze di Grosotto», ovvero il primo intervento
deH’A.E.M. (1907-1910)
Ormai, però, l'attenzione sulle risorse idriche
della provincia di Sondrio si era risvegliata nel­
la «capitale morale» e produttiva d'Italia: nuovi,
temibili concorrenti si stavano facendo avanti
per ottenere le concessioni di sfruttamento delle
abbondanti acque provinciali.
E bensì vero che le forze politiche locali (in
primo luogo cattolici e socialisti, ma anche mo­
derati) sì resero conto del rischio che la struttura
produttiva locale correva cedendo a cuor legge­
ro le concessioni delle acque, ma questa oppo­
sizione, non sortì, dato il quadro istituzionale,
legislativo e politico, nazionale e locale, i risul­
tati sperati dai promotori, e le convenzioni con
gli aspiranti utilizzatori delle acque furono stipu­
late. La prima fu quella con il Comune di Mila­
no, col quale le trattative erano iniziate nel 1906,
relativamente alle acque dell'Adda nell'Alta
Valtellina.
L'iniziativa era di grande respiro, non soltanto
economico, ma anche di politica economica e
sociale: sul finire dell'anno 1903 l'amministrazio­
ne ambrosiana aveva intrapreso un'azione ten­
dente a «rompere il cerchio di ferro del monopo­
lio della Società privata» (nella fattispecie la po­
tente Società anonima generale italiana di elet­
tricità «Sistema Edison» di Milano, del pioniere
ing. Giuseppe Colombo, più nota come «Edi­
son»), così da poter costituire «il calmiere dei
prezzi, allora esageratissimi dell'energia e della
luce», come scriveva nel 1910 uno dei protago­
nisti della battaglia che, più tardi, si sarebbe
scatenata intorno alla realizzazione dei primi
impianti idroelettrici progettati e costruiti diretta­
mente dal Comune dì Milano, il repubblicano
Eugenio Chiesa. La prima operazione era stata,
nello stesso 1903, la disdetta dell'accordo con la
stessa Edison per la fornitura dì energia alla
rete tramviaria municipale, cui il Comune
28
29
I ruderi degli edifici di Soggiorno Dipendenti a Cancano, ora sommersi dalle acque
avrebbe poi provveduto con un proprio impian­
to termoelettrico (centrale di piazza Trento, 1903­
1905). In quello stesso storico (possiamo ben dir­
lo) torno di tempo, l'amministrazione ambrosia­
na approvò un ambizioso programma di svilup­
po del proprio sistema di impianti idroelettrici,
che puntava soprattutto sullo sfruttamento delle
acque valtellinesi.
Superato, quindi, l'ostacolo dell'opposizione
locale, si diede mano al primo impianto, quello
di Grosotto, che utilizzava le acque dell'Adda,
dopo un lungo canale di derivazione ed un salto
di 325 m. I lavori iniziarono nel 1907 e furono
portati a termine nel 1910 (lo stesso anno di costi­
tuzione dell'Azienda Elettrica Municipale), non
senza polemiche e discussioni sul costo finale
deH'impianto e sulla gestione dell'intera opera­
zione. Anche in questo caso l'architettura del
complesso è monumentale e celebrativa, propo­
nendo delle forme e dei dettagli decorativi pro­
pri del «revival» di fine Ottocento, nello specifi­
co caso neo-rinascimentale lombardo.
Gli altri interventi delle società private e pubbliche (1909-1920)
Contemporaneamente si stavano muovendo
anche le società private, che, nei primi due de­
cenni del secolo, realizzarono numerosi impian­
ti. La prima ad intraprendere dei lavori in Val­
tellina fu la Società Idroelettrica Italiana, che
negli anni 1909-1911 realizzò la centrale del Ma­
sino e poi, nel 1910-1912 quella del Mallero (det­
ta poi Superiore, quando ne sorse un'altra a
valle). Dopo questo periodo piuttosto intenso ci
fu una breve stasi, che si interruppe negli anni
della Grande Guerra, con una ripresa assai
consistente nelle realizzazioni idroelettriche, sia
da parte dei privati, che dell'A.E.M.
Il governo, infatti, preoccupato dei bisogni
energetici dell'industria bellica, aveva emana­
to, nel 1916-1917, una serie di norme destinate a
favorire lo sfruttamento delle acque e la produ­
zione di energia.
L'azienda comunale milanese, allora, mise in
funzione (1916-1917) l'impianto della centrale
della Boscaccia Nuova (in sostituzione dì una
piccola, omonima centrale precedente, costrui­
ta nel 1904, e che forniva l'energìa per l'illumi­
nazione ai Comuni di Grosio, Grosotto e Sonda­
lo) e poi quella del Roasco (o di Grosio) (191730
31
Paramento di monte della nuova diga di Cancano
1920), particolarmente interessante per i proble­
mi di tipo stilistico che pose: essa, così come la
centrale «Tacconi» di Trezzo d'Adda (1904-1906),
era sovrastata dai resti del trecentesco castello
dei Visconti Venosta. Le soluzioni architettoni­
che, però, non furono altrettanto originali, non
dìscostandosi, il complesso grosino, dall'ecletti­
smo revivalistico neo-rinascimentale che carat­
terizza le sue consorelle valtellinesi dello stesso
periodo.
La Società Lombarda Distribuzione Energia
Elettrica (Vizzola), dal canto suo, realizzò la se­
conda centrale del Mallero (Inferiore) (1916-1918)
e poi (1917-1920) quella del Poschiavino, nei
pressi di Tirano. Tra i suoi funzionari sondraschì
annoverò per qualche tempo, anche l'ing. Car­
lo Emilio Gadda, che stava scoprendosi la pas­
sione e la vocazione di scrittore.
Nella lizza, inoltre, era entrato anche un «au­
toproduttore» industriale, impegnato con le
commesse militari, e forte consumatore d'ener­
gia elettrica, la Società Anonima Acciaierie e
Ferriere Lombarde (Falck), che, negli anni 1917­
1918, realizzò la centrale di Boffetto.
L'attività di costruzione delle centrali idroelet­
triche riprese con più vigore dopo la fine della
prima guerra mondiale, in relazione con una
più decisa crescita industriale del Paese, con un
più consistente intervento dello Stato nella ge­
stione delle acque pubbliche, delle tariffe elettri­
che, dei rapporti produttori-consumatori (con
una normativa che prende corpo a partire dagli
anni della guerra), nonché nel sostegno alle im­
prese nazionali, con una più incisiva azione del­
le società «elettriche»; ma ormai si era usciti dal­
la fase iniziale, pionieristica, delle realizzazioni
idroelettriche in Valtellina e, perciò, nell'intero
Paese.
•
32
33
Gli sfioratori di superficie della nuova diga di Fusino
34
35
Lo sfioratore della vecchia diga di Fusino visto da valle, sullo sfondo la nuova diga
Lo sfioratore della vecchia diga di Caricano
La diga di Fusino I deirimpianto di Roasco
r^J
*
«Voltolina, come s’è detto; valle circundata d’alti e terribili
monti, fa vini potenti e assai, e fa tanto bestiame, che da
paesani è concluso nascervi più latte che vino. Questa è la
valle dove passa l’Adda, la quale prima corre più che
quaranta miglia per Lamagna. Questo fiume fa il pescio
témere, il quale vive d’argento, del quale se ne truova assai
per la sua rena.
In questo paese uno può vendere pane e vino, e ’1 vino
vale al più uno soldo il boccale e la libre di vitella uno
soldo, e ’1 sale dieci dinari e ’1 simile il burro, ed è la loro
libra trenta oncie, e l’ovo uno soldo la soldata.»
Leonardo da Vinci
•Codice Atlantico»
¥
In testa della Voltolina è le montagne di Bormi, terribili
piene sempre di neve; qui nasce ermellini.
A Bormi sono i bagni.
Leonardo da Vinci:
*Codice Atlantico»
38
39
Particolari del paramento di valle in granito della diga di Fusino l
r<\J
*
A Grosio già ci troviamo a soli 700 metri sopra il mare.
Robusta gioventù, donne ridondanti di vivacità e di salute,
alle cui sode bellezze dà spicco il particolare vestito, con
camicia sparata sul petto e abbottonata d’argento, corsetto
scarlatto, sottana corta nera a rigide crespe, calze rosse,
fiocchi di seta al capo, sotto ad un cappello cilindrico di
feltro.
Cesare Cantù:
da «Grande illustrazione del Lombardo Veneto»
Io
vi devo anche ricordare questo vengono da noi le
Società, le imprese che costruiscono impianti idroelettrici;
io non sono tra quelli che ostacolano queste iniziative,
anche perché molte volte a nome vostro ho dovuto
inginocchiarmi davanti ad alcune di queste imprese perché
venissero, perché cominciassero i lavori, perché
continuassero i lavori che avevano cominciato, però sono
anche persuaso che tutti questi lavori utilissimi per chi li fa
e per alcuni anni utili anche per voi attraverso cui si fanno,
hanno bisogno di essere collegati tra di loro da un’idea
centrale, da un programma centrale per cui non si facciano
certe opere in cui il danno arrecato alla montagna non è
sufficientemente equilibrato dal vantaggio che si porta alla
pianura e d’altra parte che tutte le opere che le società
private fanno, che lo Stato fa e che ancora in misura
maggiore potrà fare nel prossimo futuro siano tra di loro
collegate da un’idea centrale che si chiama migliore
organizzazione di sfruttamento e di difesa contro le nostre
acque, migliore regime idrografico di tutte le nostre acque.
Ezio Vanoni:
Centrali idroelettriche e programmazione economica,
da un discorso tenuto alla Camera di Commercio di Sondrio.
40
41
Paramento di valle della nuova diga di Cancano
Oltre questi sedici fiumi, cento sessanta torrenti
precipitano furiosi dalle laterali vallate a formare coi primi
la più terribile desolazione di questo paese non tanto
coll’impeto delle loro acque, quanto colla quantità delle
materie che giù fluttuano dai monti e diffondono a ventaglio
sulla pianura, sotto seppellendo campi e casali, e rialzando il
fondo dell’Adda di modo, che le sue acque si allargano per
l’adiacente campagna e vi si impaludano a grave scapito
della coltivazione e delle umane vite. È osservabile e strano
che molti villaggi sono messi ove appunto più chiare
appajono le vestigia delle antiche devastazioni, e in bocca a
queste acque desoiatrici, forse perchè quelle vergini macerie
si prestano assai alla prosperità della vite, e quei torrenti
danno la comodità dell’acqua; tanto è vero che gli uomini
abbadano più all’utile presente che al timore di un maggior
danno futuro. Sondrio mezzo distrutto nel 27 agosto 1834,
Stazzona ed altri casali ne’ quali mozzoni di case sporgono
dalle ruine, e si entra in esse per buchi che già si
chiamarono finestre, ed ora si chiamano porte, attestano
l’umana imprevidenza e il frequente rinnovarsi degli antichi
disastri. Le acque e gli uomini si disputano in Valtellina il
territorio, ma se gli uomini non usano più potenti mezzi di
intelligenza e di forza degli adoperati, temo non terminino
col soccombere...
La conservazione del territorio non vuol essere meno
raccomandata alla generosità del Governo della
conservazione dell’abitato, quando si rifletta che l’uomo ivi
edifica la casa ove il terreno lo alimenta: ma la casa è
presto desertata se la terra in luogo di pane dà micidiali
miasmi.
F. Visconti Venosia:
Notizie statistiche sulla Valtellina (Memoria per Carlo Cattaneo)
42
43
Diga di S. Giacomo, muratura del paramento di valle
t é * * ! «
44
45
Diga di S. Giacomo, speroni del paramento di valle
¡.-Cu?
... Il «lombardismo» si rivela in un altro punto: l’attività
industriale deve restare collegata all’agricola. Anche tra
questi monti domina l’idea lombarda, la stessa che si osserva
nelle terre privilegiate, a Cremona o a Pavia. Industria e
agricoltura devono essere complementari, anzi collegate in
un circolo.
E in genere all’artigianato, che brillò in Valtellina, come
dimostrano i vecchi ferri battuti, i bei lavori diligenti di
legno in abitazioni e chiese, le «stufe» di ceramica purtroppo
predate in buona parte dal commercio antiquario. Non vorrei
snaturata questa classica valle di montagna italiana, diversa
dalle valli svizzere che le stanno accanto per le usanze, per
l’arte e la stessa vegetazione. L’albero che vi predomina non
è Io abete, ma l’olmo, il pioppo, il faggio, il castano, come
nella nostra poesia, e la solcano le acque torrentizie
dell’Adda. Né la villetta svizzera, né il casamento d’affitto si
possono intonare con le vecchie case, con i campanili di
sasso, con le vie ciottolate nei borghi, con le cappelle e i
tabernacoli sparsi sui sentieri tra i greppi, con un modo di
vivere impregnato d’affetto, d’intelligenza ed anche di
comodità razionale. La povertà, dov’essa esiste, si manifesta
in purezza e non in disordine. Prediligo la Valtellina per i
colori «fini e mesti, intensi e teneri», ed aggiungerò
silenziosi, giacché essa, a differenza di altre vallate alpine,
non ci dà canti originali e non è portata al canto. Mi piace il
silenzio e l’assenza di quei monumenti celebri che attraggono
di più gli insopportabili turisti. Si scorgono invece dovunque
ì segni di un’arte paziente, casalinga, intonata alla natura ed
in gran parte inconsapevole; che però culmina a Chiavenna,
a Ponte, nei santuario di Tirano, nel palazzo Besta di Tegiio.
Questo è un commovente esempio di umanesimo montanaro,
e chiude nell’interno affreschi illustranti l’Eneide.
Guido Pioverle:
da «Viaggio in Italia », Arnoldo Mondadori Editore
46
47
Nuova diga di Fusino, speroni del paramento di valle
*
Se dal fondo della pianura saliamo ai monti, troviamo un
órdine sociale infinitamente diverso. Le rìpide pendici,
ridutte in faticose gradinate, sostenute con muri di sasso, su
le quali talora il colono porta a spalle la poca terra che
basta a fermare il piede d’una vite, appena danno la stretta
mercede della manuale fatica. Se il coltivatore dividesse gli
scarsi frutti con un padrone, appena potrebbe vìvere. La
terra non ha quasi valore, se non come spazio su cui si
esèrcita l’òpera dell’uomo, e officina quasi del coltivatore; e
il paesano è quasi sempre padrone della sua gleba; o
almeno livellario perpetuo; con patti le vigne e gli oliveti
ritornerèbbero ben presto selva e dirupo. Mentre una parte
della famiglia vi suda, e alleva all’amore del suolo nativo la
pòvera prole; un’altra parte scende al piano ad esercitarvi
qualche mestiere; o si sparge trafficando» oltremonte, e
riporta alla famiglia i risparmi, che le danno la forza di
continuare la sua lutta colla natura e colla povertà. Un
distretto di questa fatta conta tante migliaja di proprietari
quante sono le famiglie; ma la ricchezza non viene dal
suolo, e vi s’investe come frutto delle arti o del tràffico.
Laonde si vede una singoiar misura di costumi rusticali e
d’esperienza mondana, l’amore del luvro e l’ospitale
cordialità, la facilità di saper vìvere in terra straniera, e
l’inestinguibile affetto di paese, che presto o tardi fa
pensare al ritorno, - In alcuni monti la possidenza privata è
ancora un’eccezione; il comune possiede vastamente i
pàscoli e le selve e le acque e le miniere; il distretto di
Bormio era un solo commune, e ancora conserva indivisa fra
i nuovi communi molta parte dell’antica proprietà.
Carlo Cattaneo:
La vita del contadino nell’ottocento pre-ìndustriale,
da •Notizie naturali e civili sulla Lombardia».
48
Il bacino di Caricano a basso livello con vista della vecchia diga
51
50
Nel Lago di S. Giacomo i ruderi dell'impianto di lavorazione degli inerii per il calcestruzzo
-Q j»
'¥■
Taglia pel lungo tutta la Valtellina l'Adda che ha le sue
scaturigini nel Braulio e mette foce nel lago di Como,
arricchita in questo passaggio dalle acque di altri 13 fiumi
trasversali, i primari fra i quali sono il Fredolfo che bagna
Bormio scendendo la Valfurva, il Redasco e il Poschiavino
nel distretto di Tirano: il Mallero tanto terribile a Sondrio a
cui scorre nel mezzo; e il Masino e il Bitto in quel di
Morbegno.
«Indaffarate ragazze valtellinesi in costume con la tasca
del grembiule tintinnante di nummi,... arrivano subito con
Sassella, panini e brisavola del pizzo Palù... Sul banco, in
quelle ore critiche, la macchina affetta brisavola e va e viene
come un diretto: il rubinetto della birra non conosce
chiusura o strizione: il Sassella e l’inferno poi per quanto
amari, son soliti addolcire l’ingegno plerumque duro dei più
rognosi censori. Giosuè Carducci in quel Quarantotto, si
sarebbe sentito venire una poesia: “A una bottiglia di
Valtellina del 1848”. Io, purtroppo, sono ridotto al quartuccio
in un cantuccio.»
Carlo Emilio Gadda:
La Valtellina alla Piera di Milano del 1936
da «Le meraviglie d ’Italia», articolo apparso sull'«Ambrosiano»
v.
L'Adda dirupando dal monte Braulio passa in mezzo allá
Valtellina. Dominatrice di tutte le immense pianure situate
tra la doppia catena de’ monti, errante qua e là senza freno,
divora i terreni più fecondi ove trascorre violenta, o alla
sterilità li condanna ove s’arresta e impaluda. Dopo il corso
di circa 75 miglia entra orgogliosa con più foci nel Lario.
Uscita a stento da questo lago a Lecco, manda parte delle
sue acque a Milano pel naviglio della Martesana, parte al
Cremasco ed alla Gera d’Adda pel canale Ritorto, e quasi
tutto il restante al Lodigiano per la Muzza. Ella serve
principalmente al trasporto delle zattere e delle barche,
donando nel tempo stesso la fecondità ai terreni irrigandoli.
Melchiorre Gioia:
L'Adda dalla sorgente a Milano,
da •Sul dipartimento del Lario».
52
53
54
55
ingresso della centrale di Fraele
56
L’uomo, l'ambiente, le risorse nel territorio vaftellinese
Giovanni Bettini
Il quadro ambientale valtellinese che fa da
contesto agli impianti idroelettrici dell'Aem è
tra i più significativi dell'arco alpino per i carat­
teri di un paesaggio antropico contraddistinto
da profonde trasformazioni storiche, da com­
presenze di grandi modificazioni, elevate qua­
lità dell'ambiente, preesistenze importanti ed
avanzati processi di modernizzazione.
Cogliere le fasi successive del rapporto tra
l'uomo, l'ambiente e le risorse in quest'area ri­
sulta particolarmente interessante e congruen­
te rispetto all'oggetto di questo volume, in
quanto energia e territorio sono due termini in­
scindibili, essendo il governo dell'energia un
problema fortemente intrecciato al governo del
territorio.
La società rurale
L'agricoltura montana ha anche qui costituito
per secoli il principale rapporto tra l'ambiente e
l'uomo, organizzato nella forma della comunità
rurale, prevalentemente strutturata ai fini della
produzione di beni per l'autoconsumo. E stata
questa, fino a pochi decenni orsono, la condi­
zione prevalente da cui vanno ovviamente
esclusi quei centri di fondovalle influenzati da
transiti e commerci o dotati dì alcune presenze
di opifici. Premesso che per quanto riguarda
l'agricoltura, l'unica attività che fin dai tempi
storici si è misurata con il mercato è stata la
viticoltura, si può affermare che la vita rurale è
stata caratterizzata da una autarchia nella
quale l'assenza dì tecnologie e la scarsità di
risorse erano compensate da saggezze sedi­
mentate dallo stesso immobilismo, affinate dal
persistere delle usanze e da rapporti molto or­
ganici tra il coltivare l'abitare e la manutenzio­
ne del territorio. Rispetto alla società montana
rurale, esistono oggi molti atteggiamenti agio­
grafici che se da un lato tendono a mitizzare
eccessivamente l'oculatezza e sapienza conta­
dine, dall'altro trovano giustificazione nelle
constatazioni non rare di come oggi la moder­
nità si accompagni sovente allo spreco ed al­
l'assenza di lungimiranza.
Sta di fatto che la struttura produttiva è carat­
terizzata, in questa fase, da un atomismo della
vita economica. Ridottissimo è l'impatto am ­
bientale determinato da attività di coltivazione,
agro-silvo-pastorali, a basso (spesso bassissi­
mo) contenuto tecnologico: l'attività produttiva
è dotata di un «minimum» di artificialità e ade­
risce massimamente al naturale ciclo di produ­
zione delle risorse del territorio.
II basso tasso tecnologico è espressione di un
rapporto di proprietà fondiaria regolato dai
contratti «a livello»*: da un lato i proprietari (no­
biltà, clero, borghesia togata) assenteisti perce­
piscono la gran parte dei frutti del raccolto, dal­
l'altro i coltivatori diretti utilizzano a malapena
la rimanente ricchezza prodotta per la soprav­
vivenza alimentare della famiglia. A questo
proposito si può osservare che la lotta per la
sopravvivenza alimentare ha spinto, in alcuni
periodi storici, le popolazioni valtellinesi a for­
zare oltre i loro limiti naturali determinate attivi­
tà colturali o pastorali. Così è stato per le attivi­
tà vitivinicole, a causa dell'intrecciarsi delle ca­
ratteristiche dei mercati e della struttura pro­
prietaria di cui si è già detto. Così è stato anche
per il sovradimensionamento di allevamenti di
capre, determinato dalla insostenibilità in certi
periodi, e per certi strati sociali, della attività
zootecnica. Così, infine, è stato anche per certi
cicli colturali, ritenuti incoerenti agronomica­
mente dai contemporanei, ma indispensabili
per garantire la sopravvivenza delle famiglie
contadine.
57
Nell'agricoltura montana di sussistenza la
principale fonte di energia è stato il lavoro del­
l'uomo, abbinato all'energia solare che, fissata
in forma di energia alimentare fruibile dall'uo­
mo, tornava al campo coltivato in un ciclo ca­
ratterizzato da bassissima produzione, ma da
un'alta produttività energetica dell'ecosistema.
La legna e gli animali (oltre all'acqua la cui
valorizzazione sarà rilevante a partire dall'800)
affiancano queste risorse in una realtà valtellinese significativamente descritta da S. Jacini,
per il quale «nessuno degli elementi dì agiatez­
za che la natura suole largire ai paesi di monta­
gna è mancato alla Valtellina. I suoi monti era­
no in origine coperti da un magnifico manto di
foreste destinato ad offrir copiosissimo legna­
me, il quale avrebbe potuto essere in parte la­
vorato per l'esportazione col mezzo delle forze
idrauliche del luogo, in parte impiegato per l'u­
so dell'industria metallurgica...» e che infine
constata che invece di una varietà di attività
industriose, regna qui solo una stentata agri­
coltura che costa «indicibili fatiche», e il lavoro
umano «è l'unico fattore di produzione»2.
Per quanto concerne la forza animale, sulla
montagna valtellinese ha predominato il mulo,
sia per i piccoli trasporti tra gli insediamenti
che per gli attraversamenti dei valichi. L'uso
del legno, in quanto importante fonte di ener­
gia, è stato fin dall'antichità regolamentato con
statuti e consuetudini: il suo uso si spingeva in
molti casi oltre gli usi domestici, per la lavora­
zione dei metalli, la fabbricazione della calce e
del carbone. Mentre l'uso della energia del
vento sembra essere limitata in Valtellina a se­
parare la pula dalla segale, l'energia idraulica
fa registrare una sua consistenza in Valtellina,
seppure con qualche ritardo rispetto a quella
«rivoluzione» del XII secolo che ne determinò la
diffusione in Europa.
La cultura energetica di questi secoli è una
cultura «diffusa» poiché diffusa è l'esigenza dei
molteplici agenti economici e sociali di utilizza­
re al meglio le favorevoli congiunture territoria­
li per la propria attività produttiva. Ogni comu­
nità, ogni famiglia, conosce empìricamente il
proprio territorio e regola lo scambio con que­
sto. Questa forma di ricambio organico del­
l'attività produttiva con il territorio presenta pe­
58
rò, in una realìstica analisi costi-benefici, prezzi
molto duri: condizioni igienìco-sanitarie pessi­
me, livelli nutritivi al limite della sopravvivenza
alimentare, stagnazione produttiva, poca con­
trollabilità dei fenomeni naturali, incapacità di
prevenire fenomeni epidemici.
La situazione storica dì questo particolare
stato di equilibrio tra uomo e territorio, che vie­
ne talvolta portato come esempio dì «saggezza
ecologica» presenta dunque le sue luci ed om­
bre.
È dall'energia idraulica facilmente captabile
allo sbocco delle valli che si avvalgono alcuni
centri urbani come Sondrio e Chiavenna. L'os­
servazione di una mappa di Sondrio ai primi
dell'800, allora pìccolo borgo rurale,3 mostra
una intelligente soluzione di uso plurimo delle
acque: in primo luogo, la localizzazione di atti­
vità artigianali presso il corso del Mallero (muli­
ni e magli di Fraccaiolo), in secondo luogo, una
fìtta rete di piccole derivazioni per usi civili (i
Malleretti), infine la riutilizzazione delle acque
per scopi irrigui nella campagna sottostante.
A Chiavenna il corso del Mera determina fin
dal perìodo post-medievale una sorta di zona
industriale ante litteram caratterizzata da una
disposizione di opifici in serie.
L'uso diretto dell'energia idraulica prevarrà,
in Provìncia di Sondrio, nel corso dello stesso
secoloXIX. Infatti, nel 1886 risultano censite «sei
caldaie a vapore, che generano una forza mo­
trice di 21 cavalli dinamici» 4a fronte di un elen­
co 5che rileva la presenza di forza idraulica così
ripartita per lavorazioni:
-
Macinazione cereali
Conceria pelli
Cartiere
Industria seta
Industria cotone
Industria alimentari
Industria prodotti chimici
Fabbriche mobìli e barili
Segherie legname
Diverse
cav. din. 457
10
7
59
205
20
18
20
300
150
Questa energia idraulica copiosamente di­
sponibile in Valtellina come in Valchiavenna,
con un utilizzo che sì protrae fino alle soglie del
Tralicci della cabina elettrica di Grosio
Cabina elettrica di Grosio, selva di cavalletti e isolatori
'900 «pone all'industria gli inconvenienti tipici
di questa forza motrice (irregolarità stagionale,
lìmiti dimensionali, localizzazione obbligata)
accentuati dal disordinato regime ìdrico dei
corsi d'acqua locali. Se quindi l'energia è a
basso costo essa è tuttavia disponìbile solo in
forme contrastanti con le esigenze della moder­
na gestione industriale»6.
60
Le trasformazioni successive
I
primi interventi organici che contrastano
nettamente con l'assetto rurale del territorio
valtellinese sono quelli dell'infrastrutturazione
viaria e, successivamente, ferroviaria dell'800,
il secolo che vede anche l'avvìo di vere e pro­
prie opere di difesa idraulica e di bonifica, qua­
li segni delle volontà tecnocratiche ed ammini-
G tosìo , ca m p a la di attraversam ento d ella v a lle d e lle lin ee a 220 kV
strative sia napoleoniche che austriache.
Ma l'assetto urbanistico, gli usi del suolo e le
usanze permangono statici in gran parte del
territorio. E su questo scenario di staticità, che
si protrae per molti aspetti fino ai primi decenni
del '900, che vengono a collocarsi le grandi tra­
sformazioni dell'ambiente che si susseguiranno
da quel periodo in poi: gli interventi idroelettri­
ci, i processi di urbanizzazione di fondovalle, lo
sviluppo del turismo.
Benché non mancassero, nel periodo a ca­
vallo del '900, insediamenti industriali di una
certa rilevanza ed impatto ambientale (come
ad esempio gli stabilimenti tessili Fossati a Son­
drio), sì può pacificamente affermare che la
questione del rapporto uomo-risorse-territorio è
61
Sbarramento di Sernio, visto da monte
emersa soprattutto nella fase della costruzione
dei grandi impianti idroelettrici.
Si tratta, come è noto, di un periodo molto
lungo che va dalla prima realizzazione (Cen­
trale di Campo vico, 1900, costruita dalla Socie­
tà Strade Ferrate Meridionali) a tutt'oggi, con
due fasi particolarmente «calde»: gli anni '20'30 (Cancano, im pianti Falck delle Orobie,
Stuetta in Valchiavenna) e gli anni '50-'60 (Premadio, Grosotto II, S. Giacomo di Fraele, Cam­
pomoro).
E attraverso queste fasi successive che si per­
viene in Provincia di Sondrio alla attuale pro­
duzione idroelettrica, quantificabile in oltre 5
milioni di kWh.
In una sìa pur breve riflessione sull'uso del­
le risorse del territorio può essere utile sforzarsi
di comprendere i motivi che portarono, fra le
diverse opzioni di sfruttamento dell'energia
idroelettrica, alla affermazione di quella stori­
camente affermatasi.
Nella prima fase dello sfruttamento idroelet­
trico, si presentarono e si confrontarono due
ipotesi divergenti: una prima, fondata su picco­
li insediamenti gestiti da aziendine locali muni­
cipalizzate, piccoli imprenditori, cooperative di
consumo7, finalizzata alla soddisfazione degli
interessi civili e produttivi locali (si veda la elet­
trificazione della linea ferroviaria Colico-Chiavenna, prima in Italia); una seconda, fondata
«sull'evolversi della concezione di sfruttamento
integrale di una vallata»8, orientata alla soddi­
sfazione di enormi e crescenti bisogni della
grande industria e della metropoli milanese.
Sarebbe fuorviante, proprio in sede di corret­
ta ricostruzione storica, voler trarre dalla picco­
la scala degli impianti locali la «prova provata»
della coscienza ecologica ante litteram di que­
gli imprenditori locali pubblici e privati: molto
più banalmente la piccola scala era la dimen­
sione adeguata ai bisogni limitati di una strut­
tura produttiva e civile ancora prevalentemen­
te rurale, oltreché agli stessi mezzi finanziari
degli operatori locali.
Se piccola o grande scala dell'impianto idroe­
lettrico erano - nel quadro di una stessa cultura
di riferimento, basata sulle «magnifiche sorti e
progressive» - semplici funzioni di bisogni pro63
62
Scale di accesso alla cabina a 220 kV di
G
t o s ìo
duttivi, resta tuttavia l'interrogativo circa le ra­
gioni che hanno portato al sistema dei grandi
bacini idroelettrici, ed alla conseguente specia­
lizzazione funzionale del territorio valtellinese
nel contesto del quadro economico lombardo.
Non può reggere, anche se esiste al livello del
«senso comune», la tesi della coazione contro
la stessa volontà delle popolazioni locali, non
foss'altro per il motivo che lo schema giuridico
con il quale veniva regolato lo sfruttamento
idroelettrico dei corsi d'acqua era la «conces­
sione» da parte delle amministrazioni locali.
Se non si vuole banalizzare la questione adducendo un rapporto collusivo tra imprendito­
ria idroelettrica ed amministratori locali, una
risposta può essere cercata in fattori economici
e culturali.
La gran parte dei Comuni, fino a non troppi
anni fa, versava in una costante situazione di
gravissima ristrettezza finanziaria: una volta
decisa l'opportunità dello sfruttamento idroelet­
trico del corso d'acqua, il problema tendeva a
spostarsi, quasi meccanicamente, sull'entità
del compenso monetario che poteva essere ac­
quisito come contropartita. Ciò favoriva inevi­
tabilmente i grandi imprenditori «esterni» e
quindi la «grande scala» degli impianti.
Lo schema di convenzione approvato fra le
parti (Comune dì Milano-Comune di Grosotto)
per la realizzazione di Grosotto I presentava la
seguente lista dì voci come contropartite:
a) «il pagamento dì un canone annuo alla Pro­
vincia di Sondrio ed ai Comuni interessati, in
ragione di lit. 0,75 per ogni cavallo dinamico
nominale della potenza per la quale il Comune
dì Milano pagherà ogni anno il canone gover­
nativo»;
b) «l'obbligo di cedere per la ferrovia TiranoBormio o per le occorrenze locali dei Comuni l'8
per cento della forza ottenuta in concessione col
minimo di seicento cavalli per gli usi della fer­
rovia»;
c) «l'obbligo di riservare agli usi della irrigazio­
ne agrìcola locale determinate quantità d'ac­
qua»9.
Pesa inoltre sulla valutazione complessiva
«dell'affare energetico» operata dagli ammini­
stratori locali la durissima situazione economico-sociale delle popolazioni locali e la prospet64
65
La cabina elettrica di Premadio
tiva della stagnante situazione produttiva
(8-10.000 disoccupati su una popolazione di
140.000 unità, dati 1948). Gli amministratori lo­
cali non ignorano le aspettative di occupazione
nutrite dai valligiani e lo stretto rapporto che
esiste tra dimensione degli impianti e durata
del rapporto di lavoro.
Questo fattore relativo alla struttura del mer­
cato del lavoro non sarà un elemento congiun­
turale, ma durerà come elemento decisivo di
valutazione fino agli anni '60.
D'altra parte, non fu possibile coagulare at­
torno alla nascente imprenditoria locale qual­
cosa di più che non fosse una sorta di orgoglio
ferito per l'espropriazione dell'uso delle risorse
idriche. Non emerge, né poteva emergere rea­
listicamente, una cultura dello sviluppo locale
che vedesse come suo elemento strutturale-strategico un piano energetico. Non si forma­
no, a causa della estrema arretratezza produtti­
va e culturale, progetti collettivi capaci di supe­
rare i localismi e la congerie di interessi di una
struttura sociale micro-proprietaria.
A partire dal secondo dopoguerra prende
consistenza, nel territorio valtellinese, la tra­
sformazione ambientale legata ai fenomeni in­
sediativi; si avvia un'intensa urbanizzazione di
fondovalle con un crescente incremento del pa­
trimonio edilizio. Avviene un processo di pro­
gressiva sostituzione delle vecchie abitazioni
dovuto soprattutto all'abbandono dell'agricol­
tura di sussistenza come attività pressoché
esclusiva, al passaggio dell'emigrazione spes­
so definitiva al frontalierato ed a quella stagio­
nale in Svizzera. Questi ed altri fattori, come la
forte presenza di doppio lavoro, consentono a
buona parte delle famiglie la costruzione spesso l'autocostruzione - di nuove residenze
nel fondovalle o comunque negli abitati meno
decentrati. Ciò è stato facilitato dalla piccola
proprietà fondiaria diffusa su più livelli altime­
trici, e da un valore delle aree non spiccata­
mente urbane ancora basso negli anni cin­
quanta e sessanta.
Si è trattato di un processo più di sostituzione
che di recupero. Ma le vecchie case non furono
mai completamente abbandonate bensì utiliz­
zate per brevi periodi o funzioni accessorie le­
gate a prosecuzioni part-time dell'agricoltura.
66
67
Il portale di ingresso della centrale di Laverò
A questo rilevante processo di incremento del­
l'urbanizzazione legato alle esigenze abitative
dei residenti si è aggiunto, nel corso degli anni
sessanta, lo sviluppo edilizio legato al turismo.
Questo è andato incrementandosi sempre più,
unitamente alla prosecuzione di una forte dina­
mica edilizia, riguardante anche seconde case
nuove, anche da parte dei residenti.
Lo stesso intervento idroelettrico si trova dun­
que oggi in un contesto diverso e quindi con
nuove problematiche con le quali misurarsi.
La centrale idroelettrica come elemento antropologico
del territorio vattellinese
Lo sfruttamento dell'energia idroelettrica ha
comportato una profonda modificazione del­
l'antropologia del territorio valtellinese. Tutte le
tradizionali funzioni svolte dalla diffusa e capil­
lare presenza antropica contadina, preceden­
temente descritta, sono stati riscritti nel territo­
rio sub specie tecnologica. La semiotica umana
di questo ne è risultata radicalmente trasforma­
ta e il suo grumo architettonico visibile, la cen­
trale, ha finito per costituire l'epifania di una
nuova epoca della montagna. Rispetto all'es­
senza delle trasformazioni realizzate, i signifi­
cati antropologici della centrale trascendono
alcune contingenze storiche del dibattito politi­
co come il problema dei sovraccanoni e quello
tecnico-politico del governo globale delle risor­
se idriche, problemi questi indubbiamente im­
portanti, ma che, nella prospettiva del presente
contributo, non assumono rilevanza esplicati­
va. Noi dobbiamo chiederci in che modo l'ar­
chitettura della centrale idroelettrica ha ridise­
gnato la presenza dell'uomo nel territorio e, so­
prattutto, quali significati antropologici nuovi
ha indotto nelle comunità alpine.
Mentre il Risorgimento ha determinato l'unità
politica fra Valtellina e Italia, l'industria idroe­
lettrica ha determinato la prima vera occasione
di unità e integrazione economica. Per tutto
l'Ottocento, e soprattutto a partire dagli anni
'60, l'economia valtellinese era andata in cerca
di questa integrazione senza trovarla (Rullani).
L'industria idroelettrica ha rappresentato la pri­
ma chance storica effettiva in questo senso. La
centrale idroelettrica rappresenta dunque la
nuova alleanza fra pianura e montagna. An69
Il fabbricato della centrale di Fraele
che se nei documenti non fosse rintracciabile la
piena coscienza di questo fatto, nondimeno es­
so ha avuto una portata culturale dirompente.
Infatti il rapporto che la pianura ha storicamen­
te avuto con la montagna è stato di paura e di
diffidenza. Basti vedere le stampe ottocente­
sche dei valichi alpini, che sono tutto un ro­
mantico fremito di paura in un luogo selvaggio
e in una natura indomabile. Il nuovo patto fra
pianura e montagna, che la centrale idroelettri­
ca realizza abbattendo uno dei soggetti classici
della paura umana, spiana la strada al turismo
alpino. Ma nello stesso tempo la centrale realiz­
za la caduta di un altro tabù storico della mon­
tagna, la sua sostanziale estraneità alla storia,
la sua sottile ostilità alla civiltà. «La montagna,
per solito, - scrive Fernand Braudel in "Civiltà
e Imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II"
- è un mondo a parte dalle civiltà, creazioni
delle città e dei paesi di pianura. La sua storia
sta nel non averne, nel restare abbastanza re­
golarmente ai margini delle grandi correnti ci­
vilizzatrici, sebbene scorrano con lentezza. » La
centrale idroelettrica è l'immagine della tecno­
logia in un ambiente che ne era rimasto estra­
neo. Essa riconduce le comunità montanare
entro la storia ed entro le direttrici della civiltà
europea che è essenzialmente una civiltà della
tecnica. Le centrali idroelettriche stanno dun­
que all'origine di un processo oggi portato a
termine dal turismo e dai mass-media televisivi
che realizzano quel che McLuhan ha definito
un «villaggio globale».
Proprio la radicalità di queste trasformazioni
spiega l'ostilità iniziale di parte del movimento
operaio e socialista al progetto di realizzazione
delle centrali idroelettriche. Si trattava della di­
fesa della tradizionale autonomia montanara
nell'uso delle risorse idriche. Ma nell'orizzonte
tecnico dell'inizio del secolo, il problema idrolo­
gico valtellinese eccedeva i limiti della provin­
cia. Bisognava che per un lungo periodo, che
per certi aspetti dura tuttora, il tradizionale e il
nuovo convivessero gomito a gomito nel territo­
rio valtellinese, che il pilone su cui passavano i
fili dell'alta tensione fosse piantato nel maggen­
go dove il contadino lavorava il latte con la
zangola nella casera. Bisognava che l'antropizzazione diffusa di un tempo e le sue funzioni di
70
71
salvaguardia del territorio venissero lentamen­ no. Questo processo si sviluppa in diversi tempi
te trasferite alle centrali. Di questo momento di
successivi. Un primo feed-back culturale fra
trapasso ci resta una bella pagina di Giovanni
centrale e mondo contadino avviene nella fase
Bertacchi, il poeta chiavennasco che ebbe un
della sua costruzione quando viene impiegata
ruolo di primo piano nella formazione del mito
una manodopera che proviene in larga parte
della montagna della borghesia meneghina (il
dal settore contadino-montanaro. Ma tale feed­
suo «Canzoniere delle Alpi» fu pubblicato dal­ back avviene attraverso una rottura: le case dei
l'editore milanese Castoldi proprio nel 1911 e piccoli villaggi operai che sorgono accanto ai
Carlo E. Gadda più volte ha riconosciuto il suo
luoghi di costruzione della centrale si giustap­
debito nei confronti di Bertacchi):
pongono alle nidiate di baite contadine. La m a­
«Non si può in senso assoluto parlare ormai
nodopera inoltre è molto numerosa. Si forma
di paesi che non conoscano o che non siano per
una massa, disponibile, come tutte le masse,
conoscere in un prossimo avvenire le condizio­ alla sindacalizzazione. Le centrali deìl'A.E.M.
ni e i rapporti della grande industria, essendo
in Valtellina hanno costituito il terreno su cui si
troppo frequente il caso di regioni ove questa
è sviluppata l'organizzazione sindacale in pro­
s'accampa presso la piccola proprietà, sfruttan­ vincia di Sondrio. Se si sfogliano le raccolte dei
do le forze naturali finora neglette, e converten­ giornali locali di questo secolo si può notare
do in salariati i piccoli proprietari».
come la presenza deìl'A.E.M., introducendo
La centrale idroelettrica quindi entra nel con­ nell'economia provinciale il tipo pubblico di im­
testo territoriale valtellinese come elemento del
prenditorialità, dà una forte spinta progressiva
sincretismo culturale di un'epoca di profonde
a tutto il sistema delle relazioni industriali in
trasformazioni. Essa tende a centralizzare e Valtellina e favorisce una serie di conquiste sin­
controllare tecnologicamente quello che il con­ dacali che si estendono poi al settore dell'im­
tadino faceva empiricamente e diffusamente.
prenditoria privata e di quella locale. La terza
L'incubo delle alluvioni si riduce, il fondovalle
via attraverso cui la centrale idroelettrica entra
viene recuperato all'agricoltura, il vecchio ri­ nell'antropologia del paesaggio montano è la
tornello di tutta la pubblicistica scientifica sulla
sua persistenza nel tempo. Il tempo superando­
Valtellina nell'Ottocento, «le acque e gli uomini la la rende sempre più una sopravvivenza ar­
si disputano il territorio», non si ode più, ma
cheologica, la confina nell'archeologia del ter­
insorgono problemi di altra natura.
ritorio, la rende sempre più elemento di esso.
La centrale è la punta emergente e visibile di Ma è una assimilazione sui generis. In effetti la
un lavoro che si svolge nelle viscere della mon­ centrale gode di una sua solitudine, accentuata
tagna. E una presenza misteriosa e magica. La nello spazio circostante dalla casetta del guar­
diga, con la sua geometrica orizzontalità, ap­ diano che vi sorge accanto come quella del
pare eversiva della naturale tendenza dell'ac­
«guardiano del faro».
qua a incanalarsi verticalmente verso il basso.
La progressiva archeologizzazione della cen­
Questa geometrica immobilità orizzontale del­
trale nel territorio dà alla sua solitudine una
l'acqua la fa somigliare a una grande superfi­ profondità quadridimensionale, non solo cioè
cie di vetro. E si sa come il periodo in cui nasce
nello spazio, ma anche nel tempo. Questa ar­
la centrale idroelettrica sia quello in cui See­ chitettura solitaria del nuovo spazio montano
bart scrive la sua «Architettura di vetro» e Bru­ esprime la solitudine dell'uomo nello spazio na­
no Taut elabora le inquietanti utopie della sua
turale finalmente domato con i mezzi della tec­
«Alpine Architektur» che tanto si apparentano
nica. La stessa sonorità delle sue turbine è una
alla vitrea linearità dell'architettura delle cen­ sonorità ventriloquo, opposta alla rumorosità
trali idroelettriche figlie della civiltà del vetro,
meccanica della fabbrica tradizionale, una so­
del ferro e del cemento armato.
norità ritmica, mono tonica, cupa, rumori side­
E tuttavia la centrale diviene progressiva­
rei e viscerali ad un tempo, che avvolgono
mente un elemento architettonico che acquista
strettamente l'edificio e ne ovattano la solitudi­
una familiarità sui generis nell'ambiente alpi­
ne. Ma dalla centrale si protendono invisibil72
Centrale e condotta forzata di Grosotto
Il fabbricato della centrale di Grosotto
mente emanazioni fin dove non ci aspetterem­
mo. La costruzione della centrale comporta l'a­
pertura di nuove strade, il riadattamento delle
vecchie, la modificazione dì alcune strozzature
di percorso. Questo sistema stradale indotto
dalla centrale diviene elemento permanente
del paesaggio e consente una pratica nuova
della montagna, favorendo l'accesso di massa
alle medie ed alte quote. La centrale spiana
cioè la via al turismo alpinistico diffuso e all'e­
scursionismo. L'uomo ritorna alla montagna
non più come suo operaio, ma come consuma­
tore del proprio tempo libero.
•
NOTE
1. Sul tema si veda il contributo di G. Scaramellini Una valle
alpina nell'età pre-industriale - La Valtellina fra il XVIII e il
XIX secolo. Giappichelli, Torino, 1978.
2. S. Jacini (1858), Sulle condizioni economiche della Provincia
di Sondrio, ed. Banca Popolare di Sondrio. Sondrio, 1963.
3. M appa di Sondrio, 1816, propr. Bissoni. Sondrio.
4. B. Leoni, Cenni storici, tradizioni e caratteristiche dell'econo­
mia della Provincia di Sondrio in Annuario delle ditte indu­
striali e imprese artigiane della Provincia di Sondrio. Sondrio,
1962.
5. E. Bassi (1890), La Valtellina rist. anast. A. Forni ed. Bologna,
1975.
6. E. Rullani, L'economia della Provincia di Sondrio dal 1871 al
1971, ed. Banca Popolare di Sondrio. Sondrio. 1973.
7. E. Rullani, op. cit.
8. F. Carati, Nuova energia elettrica per Milano in Valtellina e
Valchiavenna - Rassegna economica della Provincia di Son­
drio, n. 1, gennaio 1953.
9. A. Manfredinì, Gli impianti idroelettrici di Valtellina e le in­
stallazioni elettriche del Comune di Milano, p. 5. Milano,
1910.
74
Dettaglio architettonico con le alte finestre della centrale di Grosotto
>xx«
m
76
m
m
77
11 complesso dell'ex centrale di Roasco, sullo sfondo la merlatura del castello Visconti-Venosta
AZIENDA ELETTRICA MLUCIFAU DI MILANO
78
79
Particolari architettonici dell'ex centrale di Roasco
80
Particolari architettonici dell'ex centrale di Roasco
81
L'ex centrale di fîoasco, vista da monte
82
83
Fontana, cabina elettrica e corpo dell'edificio
della centrale di Premadio
Dove, fra Colico e Sorico, il Lario lambisce lento la sponda
sinuosa e palustre che si svolge nel piano di Spagna, su cui
dal forte ruinato di Fuentes spira tanta tristezza di storia,
placidi, sboccano l’Adda e il Mera, creando quello che il
Longfellow chiamò il più beato dei laghi. Qui la provincia di
Como dà luogo alla consorella di Sondrio, composta di
Valtellina e vai Chiavenna, rispondenti ai due fiumi: la
provincia più settentrionale d’Italia, prima che destino di
popolo, sgominando gli esigli al Brennero, portasse la patria
fin lassù.
Diretta nel primo tratto a levante, indi, nel Tiranese, a
nord-est: limitata a sud dalle Orobie, fiancheggiata dalle alte
giogaie delle Alpi Retiche, la valle dell’Adda si dilata e
adagia uniforme in ascesa insensibile, ride aperta nel bacino
di Sondrio, dà uno scatto, sopra Tirano, per giungere a
Sernio, e sale poi risoluta fino a posare nella conca di
Bormio. Di qui la nuova fatica, visibile ai conati della strada,
serrata in forti risvolte, tesa in rigidi slanci per raggiunger lo
Stelvio, sovrano dei varchi d’Europa. Piatta la bassa valle e
la media, dove il verde profondo dei prati, rotto da campi di
granturco, denuncia gli acquitrini antichi; monotona in sua
natura, ma frequente di borghi, popolata a mezza costa di
villaggi emergenti da altipiani e da selve coi casolari
nerastri, simili a vichi apenninici affumicati dal tempo,
rigata via via da filari di viti e folta di castagni frondosi,
mossa in episodi tellurici al cuneo di Dazio, al gran ridosso
di Castione, nei poggi che dominano Sondrio, nell’Altura di
Teglio fronteggiante l’Aprica, belvedere panoramico sulla
vallata intera. Più in su il paesaggio s’aw ia ammantandosi di
vaste pinete, schiudendosi in balconi solatii, accennando per
ripiani e per ciglioni al bianco-azzurri ghiacciai del Cevedale,
deH’Ortles, dell’Umbrail, donde le alpi Retiche, annodandosi
pei monti di Livigno al gruppo eccelso del Bernina,
risobbalzano in quello del Masino e raggiungono per lo
Spluga il Tambò, coronando in questo ultimo tratto gli
estremi di vai di Chiavenna.
1932:
La Valtellina e il Chiavennasco
da •Attraverso l I’talia», collana del Touring Club
Giovanni Bertacchi,
84
85
L'esterno della sala quadri di Grosio e l'ingresso della centrale collocata in caverna
¥
Una sola delle nove provincie lombarde differisce quasi
totalmente, anche nei riguardi più generici, per condizioni
non meno territoriali che storiche, dalle altre, cosicché non
si lasci comprendere con queste in alcuna unità di concetto.
Essa è la Valtellina.
Or bene; la Lombardia, presa in complesso, fu dotata dalla
natura di elementi di prosperità, difficilissimi in vero ad
essere usufruttati, ma di un’indole affatto eccezionale, ed
intorno a questi andò accumulandosi il frutto del lavoro di
una lunga serie di generazioni; per il che poterono essere
create profondissime ed amplissime basi allo sviluppo
economico del paese, e tali da permettergli di resistere a
lungo contro i ripetuti assalti di un’avversa sorte. La
Valtellina invece ebbe dalla natura elementi di benessere
mediocri ed ordinarj, nè la sua storia civile le permise di
trarre anche da questi alcun partito straordinario, di modo
che non ebbe occasione di porre in riserva forze poderose
onde scongiurare gravi disgrazie eventuali che andassero
ripetendosi a lungo.
Stefano Jacini:
•Sulle condizioni economiche della Provincia di Sondrio», Milano,
Civelli, 1858
pKRM|
87
La cabina elettrica a 220 kV di Grosio
89
Piero Portaluppi, studio per una centrale elettrica
Le «cattedrali» del progresso
Daniele Baroni
L’architettura dell’età delle rivoluzioni
Le tematiche che più frequentemente hanno
gravitato intorno all'architettura, almeno dal ri­
nascimento in poi, costituendone probabilmen­
te anche l'equivoco maggiore, si cristallizzano
spesso sulla bipolarità «classico-anticlassico»,
riducendo la maggior parte dei problemi in
chiave esclusivamente formale. Classicismo
con il rinascimento, anticlassicismo con il baroc­
co e rococò, ancora classicismo con il Settecento
e l'epoca dei lumi, anticlassicismo con i revivals
medievali, fino alla più aperta convivenza di
stili nella seconda metà dell'Ottocento e alla
quasi totale confusione. Inoltre, esistono altre
contraddittorie teorie, come ad esempio quelle
dibattute tra naturalismo e geometrismo già al­
l'interno dell'ampia area del classicismo sette­
centesco. Secondo Blondel (1705-1774), infatti,
l'architetto dovrebbe attenersi «alle proporzioni
del corpo umano, far derivare le colonne dagli
alberi, l'ornamento dai fiori e dalle foglie. Para­
gonare la struttura dell'edificio allo scheletro
um ano».1 Di parere opposto, evidentemente,
Ledoux (1736-1806), uno dei grandi innovatori
dell'architettura che opera nel periodo a cavallo
della rivoluzione francese, il quale adotta nei
suoi progetti le forme primarie della piramide,
della sfera, del cubo, individuando proprio nel­
le volumetrie dell'edificio un significato alta­
mente simbolico. Tendenze e posizioni ideologi­
che influenzeranno anche la futura architettura
industriale, che difficilmente sfuggirà a certe
deformazioni congenite. Per risalire alle idee di
Ledoux va ricordato che nella sua veste di fun­
zionario statale (prima durante il Direttorio, poi
ancora con Napoleone), egli sviluppa un pro­
getto per le saline di Chaux (non costruito), an­
dando ben oltre l'esigenza utilitaristica e conce­
pendolo secondo una visione di «città ideale».
Convinzione questa che lo terrà impegnato fino
alla morte. Ledoux ha grande stima del proprio
mestiere e considera l'architetto «titano della
terra» e i suoi compiti simili a quelli del Creato­
re. «Nei miei giovani anni - egli afferma - nella
primavera della mia vita, vedo migliaia di uo­
mini unirsi alla mia gioia, li vedo costruire per
l'eternità. Voglio fondare una città per il popolo
felice nel lavoro. »2 Come è noto, Ledoux è an­
che l'architetto che dà forme al pensiero del
contemporaneo Rousseau e nell'adesione a
quello spirito, progetta «una casa dell'armonia»
che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe corri­
spondere all'ideale di fratellanza. Con lui si va
verso un sempre più concreto senso di cosmopo­
litismo, da cui prende avvio l'era moderna.
Siamo comunque ancora molto lontani da
una coscienza architettonica al servizio dei nuo­
vi processi di industrializzazione e alle esigenze
di una nuova società. Per fare un paragone di
tipo energetico, ci troviamo ancora all'età del
«gas». La prima centrale elettrica infatti, verrà
attivata a New York circa cento anni dopo
(1882); quella di Milano di via Santa Radegonda, l'anno successivo. Anche gli edifici di natu­
ra funzionale del tempo, come poteva essere ad
esempio un acquedotto, finivano sempre per as­
somigliare più a un tempio che a una moderna
fabbrica (si pensi al Cisternone di Livorno di
Pasquale Poccianti, 1829-1832).
Più avanzata sotto questo profilo l'Inghilterra,
dove dalla metà del Settecento è in atto la prima
fase della rivoluzione industriale: quella dei ca­
nali artificiali, dei telai meccanici, della macchi­
na a vapore, del primo ponte in ferro, e pertan­
to, della prima ingegneria e della nascita della
teoria funzionalista. Comincia da qui, dunque,
91
Claude-Nicolas Ledoux, veduta prospettica della
fonderia della città di Chaux (1770 ca.)
Ìean-Jacques Lequeu, «Le rendez-vous»
(casa di cam pagna con osservatorio)
92
l'era moderna e industriale. «Sarà la straordi­
naria vicenda dei canali - ha scritto Castelnuovo - queste artificiali vie acquee che superano
dislivelli, passano fiumi e colline, attraverso ac­
quedotti, ponti, gallerie. Gli illustratori giungo­
no ad immaginare una "navigatìon afloat in thè
air", bianchi grandi navìgli che veleggiano nel­
l'aria sospesi ad un ponte sotto il quale passa
maestosa un'intera flotta, immagine di un mon­
do stupefacente dalle dimensioni nuove e ambi­
gue.»3L'esperienza dello sfruttamento ìdrico na­
sce così su basi fantastiche. Tra i progetti di ca­
nali in Inghilterra, uno dei più grandiosi è il
Trent-Mersey, completato nel 1777 che ha ri­
chiesto complessi interventi dì ingegneria e di
idraulica. Spiega il Klingender: «Il canale TrentMersey era lungo poco più di 93 miglia, o circa
140 se si comprendono le congiunzioni con il
canale di Birmingham e il fiume Severn. Si in­
nalzava fino a 120 metri nel punto culminante a
Harecastle, dove passava attraverso una galle­
ria lunga quasi 3200 metri. A ovest della galle­
rìa Harecastle vi erano 35 chiuse e 40 a est. Nel­
l'insieme erano state costruite cinque gallerie,
cinque acquedotti importanti e circa 155 acque­
dotti minori».4Certamente un'impresa colossale
in un campo, quello della produzione di ener­
gìa, ancora molto lontano dai suoi reali sfrutta­
menti. Questo genere di costruzioni, quali stra­
de e canali che investono l'area delle nuove vie
di comunicazione, costituisce uno dei maggiori
sforzi da parte di amministratori pubblici e pri­
vati della fine del XVIII secolo in Inghilterra.
Nasce un po' alla volta l'orientamento alla
specializzazione nelle costruzioni. Anzi, proprio
il termine «costruzione» sembra venir contrap­
posto a quello di «architettura» e al tempo stesso
distinguere quella branca che non appartiene
alla tipologia dell'edificio tradizionale, fino a
quando non si creano vere e proprie specializ­
zazioni nel campo delle costruzioni, di cui è
esemplare il caso della ferrovia, soprattutto dal­
la metà del secolo scorso in poi. L'epoca della
ferrovia ha inizio nel 1830 con l'inaugurazione
della Liverpool-Manchester e quella del battello
a vapore, otto anni dopo, con il servizio transa­
tlantico da Bristol a New York. Sono anche gli
anni in cui si comincia a operare con i nuovi
materiali, come il ferro, le fusioni in ghisa, il
Gaetano Moretti, la centrale idroelettrica di Trezzo d'Adda, 1906
vetro trattato industrialmente e si affinano nuo­
ve tecniche di lavorazione.
L'architetto spesso non riesce a tenere il passo
con i continui aggiornamenti, o talvolta rimane
invischiato nelle querelles dei dettami stilistici di
scuole e accademie. Molto spesso egli si riserva
la parte artistica del progetto, demandando ad
altri le competenze tecniche. Si forma nel frat­
tempo la figura professionale dell'ingegnere
che si pone in una posizione di dualismo con
l'architetto, in taluni casi entrandone in conflitto.
I primi ingegneri specializzati e professionisti
fanno la loro comparsa alla fine del XVIII secolo,
e i più noti sono, in Francia P.M.J. Trésagnet
(1716-96) e in Inghilterra Thomas Telford (1757­
1834) e John Macadam (1756-1836). Nei primi de­
cenni dell'Ottocento, Telford è tra i primi ad uti­
lizzare la ghisa per costruire numerosi ponti,
ponti-canali e ponti-acquedotti. Dopo la Restau­
razione, anche in Francia si espande l'impiego
del ferro e neppure Percier e Fontaine, architetti
dell'impero, disdegnano l'uso della ghisa, spe­
cie per le parti più decorative degli edifici. Tra
gli orientamenti ingegneristici con l'uso di nuovi
materiali e con il sostegno di nuove teorie scien­
tifiche da una parte, e il dilagare del revival
storico e il recupero archeologico, da parte di
molti artisti, architetti, letterati e intellettuali, si
creano così inevitabili dicotomie. Gli architetti
sembrano preoccupati soprattutto di salvaguar­
dare l'«oggetto» architettonico, ma intanto la cit­
tà industriale, in rapida e talvolta abnorme cre­
scita, sfugge loro di mano. Alla città reale, essi
contrappongono frequentemente una loro città
ideale.
Codici strutturali e codici formali
L'Ottocento vede una richiesta crescente di
edifici da adibire al servizio pubblico: oltre alla
chiesa, si affrontano gli edifici per le assemblee,
il mercato, l'ospedale e la prigione, il cimitero e
il teatro, lo sferisterio e, per l'appunto tutte le
nuove costruzioni per la destinazione industria­
le. Un po' alla volta si forma anche una più am ­
pia coscienza urbanistica. Ma tutti questi edifici
necessitano di codificazioni tipologiche e di spe­
cifici e appropriati linguaggi. Sia sul versante
del dibattito stilistico, sia su quello della costru­
zione tecnica, è indispensabile formulare una
grammatica facile e inequivocabile del costrui­
re, individuare quella quantità di elementi com­
positivi, segni e stilemi, che organizzati e com­
posti permettano di raggiungere l'espressione
linguistica e l'approccio semantico.
A questo proposito risulteranno esemplari i
disegni tecnici del «trattato» di f.B. Rondelet
(1743-1829), il quale allinea in tavole incise, di
rara eleganza e chiarezza, tutti gli elementi del
93
Antonio Sant'Elia, studio per una centrale elettrica, 1913
A pagina 96:
Piero Portaluppi, centrale elettrica sul Roasco,
acquerello (1920 ca.)
Piero Portaluppi, studio per una centrale elettrica
a Cadarese, 1925
94
costruire conosciuti al suo tempo.5 Così come
risulta di capitale importanza il corso a dispense
di J.L.N. Durand (1760-1834), in cui l'autore trac­
cia i vari elementi architettonici e i metodi da
seguire nella progettazione di qualsiasi edificio;
Durand, analizza anche, e cerca di individuare
tutti gli aspetti, le varie possibili planimetrie per
ogni tipo di edificio.6Per limitarci poi soltanto a
citare le tavole esplicative riguardanti l'architet­
tura dell'Encyclopedie di Diderot, che dalla me­
tà del Settecento stanno a indicare un preciso
«sistema» iconografico, base indispensabile di
tutta la successiva didattica visiva. Va ricordato
inoltre, che sotto questo aspetto, sì possono far
risalire le prime interpretazioni del disegno tec­
nico d'ingegneria, al De Re M etallica di Georg
Agricola del 1556, momento in cui si va forman­
do quell'alfabeto in codice, indispensabile disci­
plina per comunicare tra operatori diversi, che
si è andato man mano arricchendosi con rap­
presentazioni sempre più raffinate. «Dopo il pe­
riodo sperimentale è sorto il nuovo codice» scrive il Kaufmann. «I progetti didattici di Du­
rand, rappresentano il tentativo di ricondurre il
principio sistematizzato nella varietà della pras­
si edilizia, di riportare le idee dell'epoca e la
necessità di tutti i giorni a quell'armonia che va
raggiunta, se si vuole che i nuovi princìpi entri­
no nella realtà architettonica. »7
Sul versante della codificazione degli stili, bi­
sogna invece ripartire dalla vasta cerchia di ri­
cercatori che imboccarono la strada del Winckelmann, che si sforzarono di reperire nel pas­
sato e tra i ritrovamenti archeologici quel rinno­
vamento estetico da tutti sperato. Con Thomas
Hope (1770-1831), autentico esempio di amateurdilettante, ci si apre allo studio della storia (so­
prattutto per gli egizi), secondo l'interpretazione
classicista, che porterà successivamente ad
avallare, come puntualmente ha sottolineato
Andreina Griseri, anche la moda dell'arte
extraeuropea («il gusto bizantino che conduce
al moresco, il gotico che approda alla scoperta
dello stile arabo»8). Hope compone una sua Sto­
ria dell'architettura, arricchita anche dalle per­
sonali esperienze di colto giramondo e di raffi­
nato collezionista (egli si fa costruire una casamuseo, i cui vari ambienti sono ispirati alle ten­
denze stilistiche della storia).
Piero Portaluppi, progetto di centrale elettrica (1920 ca.)
O lW "
Ben presto dunque, prevale il gusto per il pas­
sato più remoto, in cui si fanno risaltare le bel­
lezze della natura con effetti particolari, come
ad esempio, rovine artistiche (anche artificiali),
come grotte e templi. Tutto ciò si accompagna al
ritorno per il gusto medievale che, soprattutto
dopo il 1830, nel momento stesso che si produco­
no grandi riforme sociali e urbanistiche, si ma­
nifesta con un exploit a favore del movimento
neogotico in architettura. L'intero lessico gotico
soppianterà in breve tempo ogni riferimento al
classico. Ruskin, grande fautore del medievali­
smo, sostiene nel 1855 in Seven lam ps of Archi­
tecture: «Non ho dubbi che il solo stile adatto ai
lavori moderni nei paesi del nord, sia il gotico
settentrionale del XIII secolo».9 Tra i nomi che
più di altri sapranno celebrare il gotico ed ele­
varlo a valori morali, vi troviamo Pugin e Viollet-le-Duc; mentre più tardi Morris, Richardson,
Berlage opteranno per il romanico. Se all'inizio
il gotico appare come un insieme confuso dì tor­
rette e pinnacoli, in cui vi è il predominio del
sentimento sulla ragione, troverà in Pugin e in
Viollet-le-Duc i teorici che sapranno individuare
in esso un rinnovato sistema di regole, applica­
bile a tutti i nuovi edifici, senza ricadere in ba­
nali emulazioni. Anche la costruzione di edifici
a scopi industriali, dovrà passare per questa
strada.
L’eclettismo in architettura e l’estetica del sublime
Nel 1846 l'Academie des Beaux Arts francese,
che regola la formazione di intere generazioni
di architetti, condanna gli stili medievali e il go­
tico (a sostegno del classico), ma trova in Violletle-Duc un paladino difensore di questa causa;
quest'ultimo infatti riesce a contrapporre suffi­
cienti argomentazioni probanti delle sue tesi e
con un intervento presso il sovrano (Napoleone
IH), fa modificare il regolamento stesso della
scuola. Viollet-le-Duc, «pur restando nei termini
della cultura storicistica, mette in chiaro il carat­
tere arbitrario e convenzionale delle pretese
leggi generali dell’architettura sostenute dallAccademia, e contrappone a queste leggi, re­
gole meno ambiziose ma più aderenti al concre­
to: l'uso appropriato dei materiali, l'obbedienza
alle necessità funzionali».10 I suoi scritti teorici
circolano in tutto il mondo e avranno notevole
influenza sulla generazione che opera verso la
fine del secolo, da cui escono i maestri dell'art
nouveau. Per comunicare e divulgare teorie e
intuizioni, Viollet-le-Duc sceglie la formula del
dizionario e del manuale di carattere sperimen­
tale, e a questo proposito sono esemplari le voci
del suo Dictionnaire rasonné de l'architecture
française, pubblicato tra il 1854 e il 1868.
Con gli interventi teorici e didattici di A.W.
Pugin in Inghilterra e di Viollet-le-Duc in Fran95
eia, lo spirito neogotico ritrova l'armonia perdu­
ta della composizione, quella dimensionale, la
proporzione tra gli elementi, raggiungendo
dunque la formulazione del linguaggio compiu­
to e autonomo che farà scuola per diversi de­
cenni, certamente fino alle soglie dell'art nou­
veau. Meno pura sarà invece l'applicazione
della prassi operativa negli altri paesi del conti­
nente dove è prevalente un tipo di eclettismo
generalizzato. L'amore per il medioevo, per la
cattedrale, per il castello, inteso nei suoi valori
emblematici, si diffonde sempre più capillar­
mente e in modo irreversibile. E sarà soprattutto
il castello a prevalere come esempio per le altre
costruzioni, «come tipologia arricchita in senso
letterario, adatta a cogliere le antinomie della
matura coscienza romantica, che avvertiva
sempre più il sostanziale dualismo fra arte e vi­
ta...».11
Dopo che anche le Accademie si aprono ai
vari stili, l'eclettismo è interpretato non più come
una posizione di incertezza, ma come un siste­
ma da utilizzare a seconda dei casi e delle esi-
96
genze. L'accademico Julien Gaudet (1834-1908)
arriva ad affermare: «E classico tutto ciò che
continua a ricevere l'ammirazione universa­
le».12Si giunge addirittura ad una logica riparti­
zione tipologica degli stili, considerando il new
gothic più adatto alle chiese, agli edifici munici­
pali, ai cimiteri, mentre il classicismo che si ispi­
ra alla Grecia, è ritenuto più congeniale per gli
edifici parlamentari e per i musei. Quel che più
sorprende è appunto questa intercambiabilità
degli stili. Un caso macroscopico è costituito dal­
la costruzione della Ringstrasse a Vienna, vera
e propria esibizione di facciate eclettiche in uno
scenario di finzione che allinea secoli di storia.
Come si può facilmente intuire, comunque, si
creano poi sostanziali differenze tra paese e
paese; mentre a Parigi o a Vienna prevale un
eclettismo più diffuso, in Inghilterra come si è
detto predomina insistentemente la tendenza
del new gothic, di cui l'architetto Gilbert Scott ne
è probabilmente il più autorevole rappresentan­
te. In Italia è soprattutto l'esempio del tardo goti­
co, quello della Certosa di Pavia, a prevalere,
fino a sfociare nel neorinascimento. Ma che cos'è dunque in modo specifico questa architettu­
ra eclettica che ha dominato quasi un secolo di
storia e che ha investito di un monumentalismo
ogni tipo di costruzione? Roberto Gabetti, com­
pilando la voce per il Dizionario di Architettura
e Urbanistica, ne ha fatto questa classificazione:
«Eclettismo: Aspetto determinante della cultura
architettonica dell'Ottocento europeo, rilevabile
in un periodo compreso all'incirca fra il 1815 e il
1890, basato sulla sistematica tendenza ad ac­
cogliere consapevolmente - attraverso l'analisi
di monumenti appartenenti a civiltà lontane nel
tempo e nello spazio - elementi da ricomporre
secondo coerenti principi storici (composizione
stilistica), modi tipologici caratteristici della de­
stinazione di ciascun edificio (religiosi, termali,
ferroviari, ecc.) o ancora secondo accostamenti
bizzarri o stimolanti».13
Con l'eclettismo si va affermando anche un
forte senso per il pittoresco, secondo cui l'archi­
tettura viene vista nel rapporto con il paesaggio
che la circonda, come una «scena dipinta», con
un gusto scenografico dovuto soprattutto all'abi­
tudine delle rovine, della moda archeologica.
Tra le fonti che costituiscono il bagaglio ecletti-
co, uno dei capitoli che contraddistinguono l'ar­
chitettura romantica, è senza dubbio il tema del
castello, emblematica rappresentazione che
coinvolge anche pittura, letteratura e teatro. La
scelta tipologica del castello sarà protagonista
di tante scene che coinvolgono la pittura simbo­
lista, diventando elemento-simbolo del pittore­
sco negli ultimi decenni del secolo, specie nelle
scenografie wagneriane. Anche nel melodram­
ma italiano (la Norma di Bellini) spesso il castel­
lo fa da sfondo all'opera. Uno degli esempi più
tipici di questa passione diffusa per il «castello»
è l'edificazione a Torino del Valentino con l'an­
nesso borgo medievale, realizzati e conclusi nel
1884 dai revivalisti piemontesi, diretti dal D'Andrade, «una finzione storica sostenuta da un
mestiere appassionato e da ricerche puntiglio­
se. .. 14
Per una certa propensione al gusto scenograPiero Portaluppi, Progetto
d'impianto per le Officine
Elettriche Genovesi. Schizzo d'insieme
__-
_ ___-(
"
fico, si dichiara anche Camillo Boito (1836-1914),
il maggiore tra gli architetti italiani che raccol­
gono gli orientamenti di Viollet-le-Duc. Egli met­
te in evidenza l'aspetto bipolare dell'architettu­
ra: la parte organica e strutturale che deriva
dalle esigenze interne dell'edificio, e la parte
simbolica che si esprime «con allegorie diretti­
ve, con astratte analogie, o con l'indefinibile
spirito dell'arte».1SLa sua è comunque una posi­
zione critica e moraleggiante nei confronti dei
simbolismi sconclusionati e dell'anarchia com-
positiva. Nell'evanescente suggestione prodotta
dalla tendenza «impressionista», anche l'ombra
viene a costituire un nuovo elemento del fare
architettura, così che hanno buon gioco gli illu­
stratori e gli scenografi, in particolare coloro che
in Baviera operano al servizio della follìa di Lud­
wig II, tra castelli e rovine, torrioni e guglie, roc­
ce e grotte.
L’edificio industriale nella suggestione eclettica
Questa immagine visionaria dell'architettura,
il concetto del sublime e del pittoresco applicati
al paesaggio, è rimasta adesa a lungo alla pra­
tica progettuale degli architetti, che alla costru­
zione reale hanno sempre cercato dì sovrappor­
re un'architettura mentale e idealizzata. In que­
sto modo l'eclettismo è rimasto una consuetudi­
ne anche per le generazioni successive a quelle
che l'hanno effettivamente espresso, fin dentro
alla stessa produzione liberty. E il caso, ad
esempio, di Gaetano Moretti (1860-1938), allievo
di Camillo Boito, che nel 1906 realizza quella
centrale idroelettrica di Trezzo sull'Adda che di­
venta un po' il simbolo di questo genere di edifì­
ci industriali, e che nonostante l'elegante fronte
floreale traforata da cui sono ormai scomparsi i
sìa pur minimi riferimenti al gotico, al romanico,
al rinascimento lombardo, conserva tutti i valori
dell'opera monumentale; al pari dì un castello
medievale, di una fortezza merlata, essa sovra­
sta il paesaggio circostante e sembra dialogare
con le rovine del sovrastante castello trecente­
sco, doppiando poi la sua suggestiva immagine
nello specchio del fiume.
Anche se con minor lirismo e tensione decora­
tiva, gli edifici che accolgono gli impianti delle
centrali idroelettriche in Valtellina, vanno consi­
derati come pensati nello stesso spirito di opera
eclettica, e pertanto, l'edificio stesso è destinato
- avvalorato dagli attuali orientamenti dì ar­
cheologìa industriale - a trasformarsi nel tem­
po, anch'esso in rovine. Sia Grosotto prima, sìa
Grosio più tardi, risentono della cultura dell'e­
clettismo e i relativi progetti vanno letti come
contenitori di macchinari la cui facciata viene
utilizzata dall'architetto come suggestiva eserci­
tazione di partiture dimensionali e stilistiche,
dove il neoromanico si stempera nel brullo pae­
saggio che la circonda. L'edificio nasce con la
segreta aspirazione di castello, con un'immagi­
ne tesa a sublimare le connotazioni, anche se in
apparenza sembra che gli si voglia imprimere
soltanto dignità architettonica. In particolare
Grosio (la centrale del Roasco, progettata da
Piero Portaluppi), come la centrale del Moretti, è
posta in situazione privilegiata per dialogare
con le rovine del castello medievale retrostante;
addirittura gli viene innestato un coronamento
merlato dalle inequivocabili citazioni.
Anche Piero Portaluppi (1888-1967) non smen­
tisce la tradizione eclettica degli architetti lom­
bardi. Laureato al Politecnico di Milano nel
1910, ha come maestri Camillo Boito e Gaetano
Moretti e, nella loro scia, anch'egli si dedica al­
l'insegnamento. Dal 1948 al 1963 è preside della
Facoltà di Architettura, sempre a Milano. Nella
sua opera si ritrovano esperienze addirittura
contrastanti tra loro, come ad esempio, quella
classicista del Planetario di Milano o quella dé­
co del progetto per il piano regolatore nel quar­
tiere Monte Amarillo (1920), fino a quella indu­
striale delle centrali elettriche nella valle del To­
ce e in Valtellina. Certamente interessante la
sua attività nel campo del restauro architettoni­
co in alcuni edifici di Milano, come Casa Atellani (1922), S. Maria delle Grazie (1934-37), la Pi­
nacoteca di Brera e l'Ospedale Maggiore.
A Grosotto (1908) invece, è la finestra in stile
rinascimento lombardo nel suo sviluppo iterati­
vo a caratterizzare l'aspetto di castello gentilizio.
Mentre l'edificio della centrale idroelettrica, co­
me avviene nel caso della stazione in rapporto
all'impianto ferroviario, si traduce in testimo­
nianza, in «racconto», ed è sostenuto da criteri
emozionali, tutti i problemi inerenti agli impianti
vengono demandati agli ingegneri, agii esperti
di idraulica, ai geologi e agli altri specialisti.
Qui però non entrano in gioco gli sperimentali­
smi, l'uso dei nuovi materiali come la ghisa, an­
che se questo potrebbe creare un ulteriore arric­
chimento linguistico e rendere la centrale idroe­
lettrica un vero e proprio simbolo della civiltà
industriale che l'ha generata. Le costruzioni so­
no invece risolte in modo piuttosto semplice, in
mattone o in pietra, manifestando così una loro
rustica impronta di architettura di montagna.
Ci sembra di poter sostenere insomma, che
tutti quegli arricchimenti sintattici aggiunti all'e-
Piero Poitaluppi, impianto per le Officine Elettriche Genovesi, schizzo dell'interno della sala macchina, 1920
dificio e che vanno al dì là della pura funzione, lato a una prassi eclettica, e lo confermano, ol­
avrebbero potuto essere spinti oltre, fino alla tre al fatto di essere figlio spirituale del Sommapoesia architettonica.
ruga (anch'egli discepolo del Boito), la costruzio­
Nemmeno ì progetti della seconda generazio­ ne di un paio di villini nel gusto eclettico e la
ne quelli per intenderci, ideati da Antonio San­ partecipazione ad alcuni concorsi in cui risulta
t'Elia nel 1914, tra spirito futurista e gestualità molto vicino al repertorio della Secessione vien­
espressionista, hanno trovato poi alcuna collo­ nese e in particolare alla Wagnerschule. Si trat­
cazione nella realtà. D'altra parte a distanza di ta del concorso per il cimitero di Monza (con
decenni, ci rendiamo conto che l'esaltazione Italo Paternoster, 1912); per la facciata della
macchinista di quei progetti, il «lirismo ascen­ nuova stazione di Milano (per conto dell'archi­
sionale» dei suoi disegni, l'enfasi monumentali- tetto Cantoni, 1912); per la nuova sede della
sta un po' ridondante impresso all'oggetto archi­ Cassa di Risparmio di Verona (con l'arch. Can­
tettonico di tipo industriale, non troveranno al­ toni, 1913-14). Come ha fatto notare Luciano Ca­
cuna rispondenza nella successiva produzione ramel scrivendo di Sant'Elia, nonostante l'insod­
delle turbine che producono energia. Non ci si disfazione generale per l'accademismo e un de­
rendeva conto allora, che il progresso centupli­ siderio di rinnovamento, «... quasi tutti i costrut­
cava le sue forze riducendo proporzionalmente tori non riuscivano a liberarsi dell'eclettismo: la
gli spazi d'intervento, e che le macchine diven­ stessa assimilazione del liberty avvenne per lo
tavano sempre più potenti ma sempre più picco­ più con mentalità e procedimenti eclettici, come
le; pertanto non sarebbero servite architetture dimostra la disinvoltura di molti architetti nel
monumentali e gigantesche, sìa pure depurate passare dalla progettazione di edifici in stile "ro­
dalle sovrastrutture e dagli orpelli decorativi. mano'' o "rinascimentale" ad opere in stile liber­
Non ci pare azzardato affermare che, dopotutto, ty. Spesso inoltre, dell'art nouveau si accolsero
quello del «rivoluzionario» Sant'Elia sia stato solo i motivi ornamentali, inserendoli in una
l'ultimo, estremo gesto legato a una concezione struttura che rimaneva scopertamente tradizio­
ancora ottocentesca, o quantomeno espressione nale (si pensi agli edifici dell'Arata e del Coppedella seconda fase della rivoluzione industriale, dè)».16
Riferendoci all'architettura industriale e alle
quella appunto dell'energia elettrica e del moto­
costruzioni che hanno legami con il progresso
re a scoppio.
Lo stesso Sant'Elia, per formazione scolastica, dell'era delle macchine, abbiamo cercato di
nonostante vi sia un salto di almeno due gene­ evidenziare le più macroscopiche contraddizio­
razioni da quella del Boito, risulta ancora vinco­ ni, che soltanto all'interno di un linguaggio spe-
Piero Portaluppi, Crevola. Impianto idroelettrico per le Imprese Elettriche Conti. Disegni per le fronti.
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cialistico possono apparire come tensioni pola­
rizzanti o dicotomie, tra sviluppo ingegneristico
da una parte, ma spesso senza alcuno stile, e
preoccupazione formale da parte degli architet­
ti, che si risolve invece in un eccesso di stile e di
posizioni letterarie. La centrale idroelettrica
dunque, al pari di altre costruzioni del suo tem­
po, va anch'essa considerata di appartenenza
alla cultura ottocentesca, anche nei casi in cui
la sua realizzazione è dei primi due decenni del
nostro secolo. Ultima propaggine di una co­
scienza industriale ottocentesca, dunque, e
apertura verso nuovi orizzonti del secolo vente­
simo, in cui sono avvenute le più grandi scoper­
te scientifiche dell'intera storia dell'umanità.
Certamente tutto questo ha avuto sviluppo pro­
prio perché c'è stato l'Ottocento a preparare il
terreno per le successive conquiste. Come ebbe
a dire il Melani, «...il secolo che fora in pochi
anni il Cenisio, che taglia l'istmo di Suez, che
getta ponti tubolari sopra il più tempestoso brac­
cio di mare che divide nazioni europee, che in­
nalza all'industria, per fruirne in pochi mesi,
sterminati palazzi di cristallo,...»17non può che
inneggiare al «progresso» e sconfiggere ^oscu­
rantismo» (celebrazione che avviene puntual­
mente con il Ballo Excelsior, apoteosi del pro­
gresso in uno spettacolo di fine secolo). In archi­
tettura intanto, resta emblematica la realizzazio­
ne dell'ingresso dell'esposizione universale di Pa­
rigi dell'89: un misto di moresco con finestre goti­
che e cupola classicista, e accanto, la svettante
Tour Eiffel, sfida e scommessa con tutte le prece­
denti buone regole di comporre architettura. •
Note
1. J.F. Blondel, Cours d'architecture. Parigi, 1771.
2. Emil Kaufmann, Von Ledoux bis Le Corbusier. Ursprung und
Entwicklung der autonomen Archilektur. Veriag Roli Passer, Lei­
pzig - Wien, 1933 (trad. ìt. Da Ledoux a Le Corbusier. Origini e
sviluppo dell'architettura autonoma. Gabriele Mazzotta Editore,
Milano, 1973).
3. Enrico Castelnuovo. saggio introduttivo a Francis Donald Klin­
gender. Arte e rivoluzione Industriale. Einaudi, Torino, 1972 (tit.
orig. Art and thè Industriai Revolution. Adam & Mackay Ltd. 1968).
4. F.D. Klingender, op. cit.
5. J.B. Rondelet, Trattato teorico e pratico dell'arte di fabbricare,
1802-17.
6. J.L.N. Durand, Précis des leçons données à l'école royale Poly­
technique. Parigi. 1823.
7. Emil Kaufmann, op. cit.
8. Andreina Griser! e Roberto Gabetti, Architettura dell'ecletti­
smo. Saggio su Giovanni Schellino. Einaudi, Torino, 1973.
9. lohn Ruskin, Seven lamps of Architecture. Londra, 1848.
10. Leonardo Benevolo, Storia dell'architettura moderna. Laterza.
Bari, I960.
11. Andreina Griseri, in Griseri e Gabetti, op. cit.
12. Julien Gaudet, Eléments et théorie de ¡'architecture. Parigi,
1894.
13. Roberto Gabetti, la voce «Eclettismo» in Dizionario di Architet­
tura e Urbanistica, diretto da Paolo Portoghesi. Roma, 1968.
14. Andreina Griseri, in Griseri e Gabetti, op. cit.
15. Camillo Boito, Sullo stile futuro dell'architettura italiana, in
Architettura e Medioevo in Italia. Milano, 1880.
16. Luciano Caramel, presentazione al catalogo della mostra An­
tonio Sant'Elia, a cura di Luciano Caramel e Alberto Longatti.
Villa comunale delTOlmo, Como, 1962.
17. Alfredo Melani, Il secolo XIX nella vita e nella cultura dei
popoli. L'architettura. Milano, s.d. (1900 ca.).
101
Atrio della centrale di Premadio
¡02
Interno della centrale di Fraele, Ironte della sala quadri e gru carro ponte
103
La sala macchine della centrale di Fraele
¥
Mio padre amava i contadini e ne era fortemente riamato;
volontieri si tratteneva con loro, s’occupava dei loro
affarucci, e il suo studio era sempre frequentato da
contadini che venivano a chiedergli aiuto e consigli.
Specialmente affezionata gli era la intera popolazione di
Grosio, colla quale la nostra famiglia aveva avuto da parecchi
secoli tradizionali legami di interessi e di affetti...
Giovanni Visconti-Venosta:
da «Ricordi di gioventù», Rizzoli Editore
-CL1
I
villici sono portati a personificare gli enti morali, o per
meglio dire molti di questi. Quindi è che il giuoco, il ballo
ecc. sono per essi qualche cosa di reale, a cui danno
moglie. Queste mogli comprendono tutte le idee
schifose e ributanti; e quando si vuol nominare od indicare
con disprezzo una vecchia squarquoia, si dice della stessa
che assomiglia alla femmine del ballo o del giuoco. Questa e
le altre enunciate assurdità hanno suggerito a dei furbi la
maniera di sbrigarsi degli armenti che pascolano in tenute
di cui si vorrebbe ingiustamente profittare. Basta solo il
gettare una pianella per entro ai pascoli medesimi: questa
ritrovata dai pastori li getta nella maggiore costernazione, e
gli obbliga ad abbandonare il pascolo a coloro che meno
semplici non temono di valersene.
prefetto napoleonico:
Vita efolklore contadino.
Angelini,
104
105
Il gruppo 2 della centrale di Grosotto
'¥
«Valtellina, cantone svizzero, Sondrio come una Berna in
miniatura, - e rivolto alla simpatica sua madama, - ricordi,
Irma? - Ricordava, si, la elegante ben conservata signora non
senza una punta di nostalgia: - Ci andammo novelli sposi nel
1890, - come se parlasse alla giovane semplice signora
Monti, - begli anni luoghi d’incanto, una società che mai più
eguale?
-
La Valtellina, - continuava, - io la ricordo come un
paese, quasi uno staterello a sé, fra lago, Stelvio, Alpi
Retiche, Alpi Orobie, una Marca; e Sondrio che faceva da
capitale. Uffici, tribunali, ospedali, scuole, prefettura essa
offriva a professionisti d’ogni genere un abbastanza vasto
campo di attività, i migliori elementi delle migliori famiglie
da Colico a Bormio, Chiavenna, Morbegno, Teglio, Ponte,
Tirano, su su, non avevan bisogno d’andar a cercar a Milano
sfogo e impiego, e la loro terra non s’impoveriva delle loro
energie; grandi tradizioni di patriottismo e di coltura, i due
Quadrio, l’erudito e il patriota, i due Visconti-Venosta, non
ho bisogno di ricordare a te, - io m ’inchinavo al
complimento senza dir né si né no - son nomi che risentirai
risuonare lassù con quelli dei Guicciardi, Sertoli, Botterini,
dei Pelosi, Lambertenghi, Longoni, Merizzi, come risuonavano
allora nella vita pubblica e sociale di là. E fra tanti
funzionari sempre un gruppetto se ne trova che son dei
signori. E perfino fra i professori secondari medi, perfino fra
direttori e presidi ti capita, capitava, d’incontrar gente
divertente: quelli del luogo, stabili, fan comunella subito con
gli altri mobili e mutevoli, anno per anno ai Santi un gran
banchetto accomuna gli uni agli altri, professori e famiglie,
una volta in Val Masino un’altra a Chiesa di Val Malenco, o
aH’Aprica, in quei begli alberghi messi su alla svizzera, certi
antipasti, la brisavola, certi piatti locali, camoscio, luganega
fersa e polenta taragna... e quel vino...»
Augusto Monti:
da 4 miei conti con la scuola», Giulio Einaudi Editore
106
107
La sala macchine della centrale di Grosotto
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«Verso mezzodì alle falde dei monti, giace la signorile e
celebre borgata di Worms, detta in latino Bormium ed in
italiano Bormio... È un luogo antichissimo e può, per i suoi
edifici, le sue torri e la sua ampiezza essere paragonato ad
una cittadina; è munito di castelli e di fortezze ed è luogo
assai ricco e popoloso. Si annoverano in Bormio molte nobili
ed illustri famiglie... che in patria e all’estero sono specchio
di lealtà ed onoratezza. In Bormio si trova a buon prezzo
tutto il necessario; vi abbondano la carne ed il pesce, il
buon pane ed il vino. Anzi io ritengo non esista altro luogo,
dove si beva vino migliore. Infatti i bormiesi comprano i vini
più scelti, così in Valtellina che altrove. Il torrente Frodolfo
serve a trasportare molto legname, così per le fabbriche,
come per usi domestici... Perciò le abitazioni sono comode e
ben costruite.»
1616:
(traduzione dal latino)
Guber von Weineck,
«Raetia»
108
109
Gli alternatori 2 e l della centrale di Lovero
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«Viaggiando per le Fiandre io aveva
tradotti moltissimi squarci dell’Iliade
e il Viaggio d’Yorick...; quando fui mandato ad
esaminare le miniere di ferro nella Valtellina e sul
Bergamasco, sono ritornato ad Omero, e mi fu solo
compagno., ho bello e finito il primo libro (della versione) e
tutto il terzo. Gli altri sono a squarci sino al principio del
decimo...»
Ugo Foscolo:
Nelle miniere di ferro di Fraele
«Non è escluso che, fuggendo di qui cerchi riparo nelle
“verdi retiche vette" (che sono bianche, viceversa) e venga a
rivedere la vecchia Sondrio vizzoleggiante e che, (dimentico
che le azioni della Vizzola sono fra le più turpi e fetide e
fregative pezze d’appoggio per dimostrare che i senatori e i
gran cordoni sono dei geni, risfolgoranti di kilowattora a lire
1,85 cadauno, bollo compreso) - sia ancora capace di
riabbracciarti.»
Carlo Emilio Gadda:
flettere agli amici milanesi», Il Saggiatore
110
ili
La cabina elettrica di Grosotto
Scorcio dei fabbricati della cabina elettrica di Grosotto
L’arrivo del fuligginoso Segantini dalia barba nera,
accompagnato da una bella creatura bionda, richiamò
l’attenzione del villaggio. Era il sabato sera (il giorno della
stregoneria) ; i due viandanti furono ospitati malvolentieri. I
gesti e le parole della coppia misteriosa furono controllati e
discussi dai capoccia del villaggio. Lo sguardo acuto
dell’uomo ed il suo interessarsi ad ogni cosa, destarono
sospetto. Pareva che egli avesse con sé un libro sul quale
non scriveva mai parole, ma tracciava disegni indecifrabili e
strani. Il parroco consigliò il segretario del comune perché
procedesse ad un sommario interrogatorio. Donde venivano?
Che professione facevano? Di che nazionalità erano? Che
religione praticavano? Le risposte un po’ metafisiche ed
ironiche del Segantini avevano aumentato le meraviglie. Lo
stupore divenne ostilità e più tardi ira. Il mattino, invece di
andare a messa, i due Segantini si erano fatti servire
dall’atterrito oste, pane e salame, poi avevano preso la via
dei monti; l’uomo tenendo un libro da scrivere e la donna,
inaudita vergogna, un libro da leggere! La popolazione si
ammutinò contro gli intrusi e dovettero partire in fretta e
furia, inseguiti da poco benevole parole e da meno benevole
sassate dei ragazzi.
Raffaele Calzini:
«Giovanni Segantini a Livigno*, racconto.
114
115
Un trasformatore della cabina di Grosotto
116
Il trasformatore T. 1 della cabina di Grosotto
Polo di un interruttore a 220 kV della cabina di Grosio
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118
Archeologia industriale degli impianti idroelettrici in Valtellina
Aldo Castellano
L’archeologia industriale in Italia
Gli studi di archeologia industriale in Italia
sono spesso caratterizzati, tranne alcune note­
voli eccezioni, da una certa dose di provinciali­
smo, sia per il metodo seguito che per gli oggetti
di studio presi in esame. In effetti è spesso diffi­
cile uscire dagli schemi imposti da una cultu­
ra dominante com'è quella anglosassone, per
quanto riguarda la storiografia della rivoluzione
industriale (e, quindi, anche l'archeologia indu­
striale stessa) e muoversi con scarsi punti di
riferimento in situazioni nuove e praticamente
sconosciute, come sono quelle che molte nostre
realtà regionali ci presentano. Ma non sembra
esserci via d'uscita: per evitare la colonizzazio­
ne culturale, almeno in questo campo, occorre
prescindere dalla tradizionale concezione bri­
tannica della rivoluzione industriale, riassunta
nella triade «ferro-tessili/cotone-fabbriche», ed
affrontare la storia delle singole aree regionali
con nuovi modelli storiografici, adeguati ai sin­
goli e specifici «sentieri di sviluppo» che ogni
società per molteplici ragioni storiche ha potuto
e/o voluto intraprendere. Vediamo allora che
per molte zone dell'Europa continentale e so­
prattutto nel nostro paese dovremmo parlare di
rivoluzioni industriali fin dal Medioevo e non di
una, bensì di più rivoluzioni, perché anche l'in­
dustrializzazione può perdere di vigore, arre­
starsi e persino morire, dando luogo a quel pro­
cesso certo drammatico della de-ìndustrializzazione o destrutturazione industriale. E, come
possiamo constatare anche ai giorni nostri, non
si tratta solo di questioni abbastanza semplici di
«patologia» della struttura industriale, in qual­
che modo guaribile, ma di un fenomeno più
complesso che, continuando nella nostra meta­
fora biologica, potremmo chiamare di «necrosi»
del tessuto industriale, contro il quale è spesso
molto difficile intervenire efficacemente.1
I
«sentieri dello sviluppo» sono molteplici come ci ha indicato la storiografia economica
contemporanea - ed ugualmente molteplici
debbono essere i modi dello studio dell'archeo­
logia industriale, ossia, secondo una definizione
abbastanza comprensiva, la storia delle struttu­
re fisiche e delle attività produttive di ogni sìn­
golo paese; storia in cui confluiscono problemi
tecnologici, economici, sociali e culturali, ossia
tutto il mondo che ruota attorno e rende possibi­
le la produzione dell'industria e che quest'ultima a sua volta tende a trasformare.
Ogni attività produttiva richiede strumenti di
analisi adeguati e specifici, perché è differente
l'insieme dei problemi che essa coinvolge e, co­
sì, ogni singola area industriale dovrebbe ri­
chiedere strumenti di analisi specifici ed ade­
guati alla sua realtà e non invece schemi di
analisi validi dovunque e basati essenzialmen­
te, in mancanza di una precisa aderenza al­
la realtà in esame, sulla logica del «primato»,
del primo esempio o modello, come se la storia
delle società potesse essere ridotta e risolta
attribuendo a ciascuna voce un punteggio per
una improponibile classifica mondiale: i primati
tecnologici, tanto per fare un esempio, non por­
tano necessariamente anche a primati indu­
striali e, viceversa, questi ultimi non nascono
necessariamente dai primi.
Se tuttavia è talvolta di scarso interesse storio­
grafico parlare di primati nei diversi settori in­
dustriali, è invece sempre essenziale cercare di
comprendere il significato ed eventualmente l'o­
riginalità di ogni storia industriale, ossia delle
risposte, tra le tante possibili in base alla cultura
e alle possibilità materiali esistenti, che le socie­
tà danno ai loro problemi sociali ed economici.
Le brevi note che seguono non intendono af­
frontare esaustivomente il tema in esame, ma
solo indicare la ricchezza e la complessità del119
l'argomento che un approfondito studio di ar­
cheologia industriale può mettere in luce.
Archeologia industriale delle centrali idroelettriche in Valtellina
L'archeologia industriale delle centrali idroe­
lettriche della Valtellina superiore costituisce un
capitolo relativamente poco conosciuto della
moderna industrializzazione lombarda dei pri­
mi anni del secolo. Eppure è proprio l'elettricità
ed in particolare la houìlle bianche (espressione
coniata e fatta iscrivere su un padiglione dell'E­
sposizione parigina del 1889 da Aristide Bergès,
industriale cartario del Grésivaudan, che ebbe
l'idea di utilizzare le cascate d'acqua non solo
per attivare le turbine, usate sino allora per la
sola energia meccanica, ma anche per produr­
re energia elettrica)2che, insieme al vapore, av­
viano in Lombardia, ma non solo qui, l'indu­
strializzazione della vita, ossia, come scrive lo
storico economico Pierre Lebrun, la nascita del­
la nuova civiltà a primato economìco-tecnico-scientifico.3
Energia elettrica non significa solo un nuovo
genere di illuminazione, ossia una lenta ma ra­
dicale trasformazione della percezione del mon­
do notturno, ma significa anche e soprattutto
una rivoluzione dei trasporti urbani, della pro­
duzione industriale e, successivamente, della
vita domestica, cioè tutta una serie di trasforma­
zioni così importanti da aver dato luogo, insie­
me all'altra nuova fonte di energia, il petrolio, a
quella che alcuni storici hanno definito la «se­
conda rivoluzione industriale» (dopo quella del
vapore).4
Il controllo e l’utilizzo dell’energia elettrica
Le tappe fondamentali della storia dell'in­
dustria elettrica sono note e vogliamo solo ri­
cordarle rapidamente. Impiegando il famoso
«anello» del pisano Antonio Pacinotti, di impor­
tanza fondamentale per lo sviluppo della dina­
mo, in quanto, se girato entro i poli di una cala­
mita elettrica o naturale, permetteva di genera­
re una forza elettromotrice, nel 1872 il belga Zénobe Théophile Gromme, capofficina della fab­
brica di motori elettrici di Gustave Froment, do­
po un colloquio con il Pacinotti stesso, riusciva a
realizzare e costruire industrialmente la prima
dinamo per la produzione dì corrente continua.
120
I primi alternatori, cioè macchine fondate sullo
stesso princìpio della dinamo, che producono
però corrente alternata, fecero la loro comparsa
nel 1880, ma, quando furono esposti all'Esposi­
zione di Parigi del 1881, non ebbero molto suc­
cesso tra il pubblico specializzato, più favorevo­
le alla corrente continua, in quanto ritenuta me­
no pericolosa per gli uomini e le cose: H.P.
Brown, ingegnere presso l'industria di Thomas
Alva Edison, e presumìbile inventore della se­
dia elettrica, usata per la prima volta il 6 agosto
1890, si servì appunto dell'esempio di questo
strumento di morte per dimostrare la straordina­
ria pericolosità della corrente alternata.
L'ultima invenzione fondamentale è del 1882,
quando Gaulard e Gibbs costruirono i primi tra­
sformatori di uso pratico, modificati e migliorati
da Sebastian Zuani de Ferranti, un inglese dì
origine veneziana, che, in base al princìpio del­
l'induzione, servono a ridurre o aumentare la
tensione dì una corrente alternata, aumentando
o riducendo nello stesso tempo la corrente, sen­
za variazioni di potenza. Se paragoniamo la
tensione o differenza di potenziale o voltaggio
all'altezza di un serbatoio d'acqua, l'intensità di
corrente corrisponde alla portata della condut­
tura in cui scorre il liquido: la tensione moltipli­
cata per la corrente (cioè volt per ampère) dà
come prodotto la potenza, misurata in watt. Sic­
come nella trasmissione lungo i fili, per l'effetto
Joule, la dispersione di energia elettrica in calo­
re è proporzionale al quadrato dell'intensità di
corrente, risulta economicamente molto più
vantaggioso a parità di potenza trasportare alte
tensioni e basse correnti, sia per ridurre la di­
spersione, sia per diminuire anche il diametro
dei conduttori, proporzionale all'intensità della
corrente, e, quindi, risparmiare sulla quantità
di fili di rame nei cavi. Ma per raggiungere l'ot­
timizzazione dei costì erano appunto necessari ì
trasformatori, che consentivano di innalzare la
tensione, abbassando l'intensità della corrente,
e quindi era indispensabile impiegare, invece
che la continua, la corrente alternata, la cui ca­
ratteristica è appunto la trasformabilità, ossia la
possibilità di variare tensione e corrente di un
flusso elettrico, lasciandone immutata la poten­
za. Con l'alternatore, corrente alternata e tra­
sformatore, veniva aperta la strada al trasporto
Il trasformatore T.3 della cabina di Grosotto
’m
*
121
a distanza dell'energia elettrica, consentendo
quindi la massiccia elettrificazione della vita e
della produzione di beni.5
la «rivoluzione elettrica» in Lombardia
Gli ultimi due decenni dell'800 e i primi del
secolo successivo sono fondamentali per lo svi­
luppo dell'industria elettrica ed in questo la
Lombardia ha ricoperto un ruolo senz'altro deci­
sivo. E non solo per i «primati» conseguiti in
questo campo, come ad esempio la costruzione
della prima centrale termoelettrica europea per
l'illuminazione pubblica in via Santa Radegonda a Milano il 13 novembre 1882 (poi entrata in
servizio pubblico regolare il 28 giugno 1883),
cioè due mesi e nove giorni dopo la «prima»
mondiale di Pearl Street a New York, quanto
piuttosto per lo spirito che animava questa spe­
rimentazione, teso a realizzare non cattedrali
nel deserto, ma una rete diffusa di supporto alla
nascente industrializzazione della regione ed
alla modernizzazione dei centri urbani (illumi­
nazione e trasporti).6
È in questa ottica che vanno letti i grandi risul­
tati tecnologici ed industriali delle centrali idroe­
lettriche lombarde dei due decenni a cavallo
del XX secolo. Il 28 settembre 1898 veniva invia­
ta «per la prima volta l'energia a Milano» (Sedu­
ta consiliare del 9 ottobre 1898 della Società Edi­
son),7prodotta dall'impianto idroelettrico di Paderno (a circa 32 km da Milano) che utilizzava
una caduta media di m. 27 ed una portata nor­
male di mc/s 45-52 di acqua delle rapide dell'Adda, generando direttamente negli alterna­
tori una potenza utile di 10.500 kW (per molti
anni la maggiore d'Europa), che venivano tra­
sportati a Milano per la prima volta con pali
metallici, dotati di un nuovo e più efficiente tipo
di isolatori, su una linea a 13,5 kV, fino a Porta
Vittoria, all'ingresso della città, dove veniva ri­
dotta a 3.600 volt per la distribuzione urbana.8Il
progetto dell'impianto con trasmissione era dell'ingegner Guido Semenza, laureatosi al Politec­
nico di Milano (che tanta parte ebbe nella for­
mazione della Lombardia industriale) e risaliva,
almeno a livello di studio di fattibilità, al 1889: la
crisi economica ed aziendale della Società Edi­
son in quegli anni aveva costretto ad un ridi­
mensionamento dei programmi e all'accanto­
122
namento del progetto di Paderno, poi ripreso
solo nel 1895, dopo l'apertura di una linea di
credito da parte della Banca Commerciale Ita­
liana, che consentiva una nuova e decisiva
espansione della Società.9Grazie a questi moti­
vi di ordine economico il primato del primo im­
pianto idroelettrico eseguito nel mondo per tra­
sporti d'ingente potenza a rilevante distanza,
passò alla centrale idroelettrica e all'elettrodotto
Tivoli-Roma della Società Anglo-Romana, inau­
gurati nell'agosto 1892, che, sfruttando un salto
di quasi 50 metri sull'Aniene, portavano corren­
te alternata a Roma alla tensione di 5 kV.10
Ma quest'ultimo aspetto ha una rilevanza sto­
rica relativa: ciò che è importante è il risultato
tecnico-industriale complessivo che fa in questi
anni della Lombardia un punto di riferimento
internazionale. Una volta sperimentata con suc­
cesso la trasmissione dell'energia a distanza
verso la fine del 1895, si apriva la strada al vero
sfruttamento delle risorse idriche della regione e
quindi alla realizzazione dì una efficace rete
energetica.
Le centrali idroelettriche in Valtellina
Nel primo decennio del Novecento in Lombar­
dia il lìmite settentrionale dello sfruttamento del­
le risorse idriche aveva ormai raggiunto la Val­
tellina, regione tanto ricca dì acque e dall'oro­
grafia così particolare da vivere sempre sotto
l'incubo delle inondazioni dei suoi fiumi e tor­
renti. Le tappe della «colonizzazione» delle ri­
sorse energetiche della valle seguirono il corso
dell'Adda, risalendo la corrente: era infatti più
economico ed agevole localizzare le centrali
idroelettriche al confine con territori pianeg­
gianti ed attrezzati con infrastrutture o vicino ad
altri elettrodotti già in funzione, a cui potersi col­
legare (nel caso dì una stessa Società operatrice
o di Società collegate), in modo da ridurre al
massimo le difficoltà tecniche del trasporto su
terreno montuoso.
L'ingresso nella valle avvenne all'inizio del
nostro secolo con la costruzione della centrale
idroelettrica di Campovico, sulla riva destra
dell'Adda, di fronte a Morbegno, ad opera della
Società delle Strade Ferrate Meridionali, nel
1900: l'energia elettrica, sotto forma di corrente
trifase alla tensione di 20 kV, poi abbassati a 3
Interruttore a 130 kV nella centrale di Fraele
123
La vecchia sala quadri della centrale di Grosotto
kV nelle sottostazioni di trasformazione statica,
situate lungo le linee, e alla frequenza di 15 pe­
riodi, era destinata alla elettrificazione delle li­
nee ferroviarie Sondrio-Colico-Chiavenna e Colico-Lecco.
La tappa successiva era già all'imbocco del­
l'alta Valtellina. Nel 1905 entrava in esercizio la
centrale idroelettrica di Campocologno, poco
distante da Tirano, in Engadina, ad opera della
Società Lombarda per distribuzione di energìa
elettrica. Utilizzando l'acqua del torrente Poschiavino, emissario del Lago di Poschiavo, la
centrale produceva energia elettrica attraverso
12 gruppi turbina-alternatore dì 3.500 HP effetti­
vi, ciascuno a 7,5 kV. La corrente elettrica veni­
va poi trasportata alla tensione di 50 kV ed inne­
stata nella rete già esistente della Società me­
diante le sue due stazioni trasmettitrici di Lomazzo e Castellanza. Nel 1906-10 il processo di
risalita dell'Alta Valtellina sì concludeva con la
costruzione dei nuovi impianti idroelettrici dell'A.E.M., i quali aprivano sia dal punto di vista
tecnologico che da quello «sociale» un modo
nuovo nello sfruttamento delle risorse idriche da
parte di società operanti in aree lontane dal luo­
go di produzione. Infatti, a parte l'impianto di
Campovico, che serviva un ambito territoriale
locale (le ferrovie valtellinesi), quello di Campo­
cologno, in Svizzera, pur sfruttando le risorse
della valle ed attraversandola per raggiungere
lungo il lago di Como la rete ad alta tensione
già esistente nel nord Milanese, non aveva la­
sciato nulla alla società locale.11
«Acqua perenne, ottima e pessima, ora morte
ora vita, acqua, diventa luce!», scriveva con i
consueti toni retorici Giovanni Pascoli nel poe­
metto Italy, in occasione dell'entrata in funzione
della centrale idroelettrica di Paderno d'Adda
nel 1898; ma per la Valtellina questo sogno non
era ancora realtà e nella secolare disputa tra le
acque e gli uomini per contendersi il territorio
della valle, come scriveva nel 1884 F. Visconti
Venosta in una memoria preparata per il «Poli­
tecnico» di Carlo Cattaneo, era ancora la prima
sostanzialmente a vincere.
L'inversione di questa tendenza avveniva nel
giugno 1906, tre anni dopo la denuncia da parte
del consiglio comunale di Milano del contratto
in corso con la Società Edison per la fornitura
124
Vecchi telefoni nella sala quadri della centrale di Fraele
deH'ìlluminazìone elettrica delle vie e piazze
pubbliche e in scadenza il 31 dicembre 1904,
con l'acquisto dalla provincia di Sondrio di con­
cessioni per la derivazione di forze idrauliche
nell'alta Valtellina: con questo contratto il Co­
mune di Milano si impegnava a fornire 1.900 HP
per gli usi locali oltre a una somma di 25 milioni
di lire attuali da ripartire tra i Comuni dell'area
interessata allo sfruttamento.12
Sì trattava del programma innovatore di una
delle prime manifestazioni di quel «socialismo
municipale» che alimentò tante polemiche all'e­
poca e che sfociò nella costituzione dì aziende dì
produzione da parte degli enti locali.13E sì trat­
tava inoltre di una rete di trasporto a grande
distanza da costruire ex novo senza potersi ap­
poggiare a strutture preesistenti e soprattutto in
aperta concorrenza con le società private ope­
ranti a Milano.
La centrale di Grosotto
Il progetto dell'impianto per l'utilizzazione del­
l'energia idraulica dell'alto corso dell'Adda, nel
tratto fra Tirano e Bormio, e del torrente Roasco,
affluente di destra dell'Adda, presso Grosotto,
era stato affidato nel 1906 all'ing. Giacinto Mot­
ta, docente del Politecnico di Milano, e all'ing.
Carlo Mina, diplomatosi presso quell'istituto, e
prevedeva la realizzazione di 4 centrali minori
(in località Le Prese, Mazzo, Tirano e Roasco)
collegate alla centrale collettrice di Grosotto, da
cui partiva l'elettrodotto alla volta di Milano, per
complessivi 27.000 kW di potenza all'elevata
tensione di trasporto di 65 kV, poi abbassati per
la distribuzione in Milano a 8.650 Volt.14
L'impianto di Grosotto si basava su una deri­
vazione sulla sponda sinistra dell'Adda, in loca­
lità «Le Prese» a quota 948 m circa, che sfruttava
un bacino imbrifero di circa 560 kmq. La portata
nominale era di 6,50 mc/s ridotti per 65 gior­
ni all'anno a 4,50. Il canale, lungo circa 12 km
alla pendenza dell'1,2 per mille, era scavato in
galleria artificiale per gli ultimi 3.700 metri a
sezione fluida trapezio, con altezza dell'acqua
di m 1,50, larghezza in superficie di m 2,60 e al
fondo di m 2,30. Alla fine del canale l'acqua
poteva essere immessa direttamente nelle 3 va­
sche di carico, oppure, passava a queste, dopo
un bacino di deposito e riserva di oltre 10.000 me
126
127
Particolare dei quadri e degli strumenti nella sala gestione-impianti a Grosio
Officina mBccanica di Grosio, lavorazione al tornio di un otturatore di turbina
di capacità. Nelle vasche di carico la quota nor­
male del pelo d'acqua è di m 933: mediante tre
tubazioni di acciaio, costruite dalla ditta Togni
di Brescia, chiodate a monte e per il resto salda­
te, di diametro decrescente dall'alto al basso da
m 1,50 a m 1,10, l'acqua compiva un salto di 325
metri e mezzo (m 318 netti) per giungere a quota
m 607,50 sotto le cinque turbine di tipo Pelton, di
cui le tre più grandi azionavano direttamente gli
alternatori e le due minori mettevano in funzio­
ne due dinamo a corrente continua per l'eccita­
zione e per i servizi accessori della centrale.
La centrale di Grosotto, intitolata con delibera
del Consiglio Comunale milanese del luglio
1909 a Giuseppe Ponzio, ingegnere e professore
del Politecnico ed uno dei maggiori promotori
del programma di municipalizzazione della pro­
duzione dell'energia per il servizio pubblico,
concretatosi ufficialmente l'8 dicembre 1910 con
la costituzione dell'A.E.M. per l'esercizio, ap­
punto, della centrale di Grosotto, funzionava co­
me impianto sia produttore che trasformatore
dell'energia proveniente dagli altri impianti
idroelettrici minori (le officine di Roasco, di Maz­
zo, di Le Prese e di Tirano).
Le cinque turbine di tipo Pelton erano costrui­
te dalla ditta Ing. Riva e C. di Milano: le tre
maggiori, con la velocità di 315 giri al minuto ed
una portata nominale di 3,20 mc/s, esercitavano
ciascuna una potenza di 10.500 HP, elevabili
sino a 12 mila; le due più piccole erano capaci
di sviluppare ciascuna una potenza di 480 HP
a 630 giri, consumando 150 litri d'acqua al se­
condo. Ancora di produzione milanese (del Tecnomasio Italiano Brown Boveri) erano i tre al­
ternatori azionati direttamente dalle tre grandi
turbine che alla potenza da 7.000. ad 8.750 kW
e 42 periodi generavano corrente trifase a l­
la tensione di 10 kV. Le due dinamo per l'eccita­
zione e i servizi accessori erano invece della
potenza di 275 kW a 250 Volt. Trasformatori ele­
vatori monofasi, sempre del Tecnomasio Italia­
no, del tipo ad olio e raffreddamento ad acqua,
e potenza di 2.850 kW nominali, elevavano a
carico nominale la tensione di generazione da
10 a 65 kV.
Dalla centrale di Grosotto, inaugurata il 16
ottobre 1910, partiva una linea a 10 kV per con­
segnare ai Comuni valtellinesi l'energia dovuta
131
130
I
Manutenzione alle pale di una turbina Pelton
ai termini della convenzione del 1906 e 4 linee
per Milano a 65 kV. La linea di trasmissione ver­
so la capitale lombarda rappresentava per le
difficoltà del tracciato e per i suoi 150 km di svi­
luppo il più lungo e straordinario elettrodotto
d'Europa in quel momento.
La linea elettrica Grosotto-Milano era costitui­
ta da 12 conduttori di treccia di rame, ciascuna
della sezione di 80 mmq, poste sopra due palifi­
cazioni ad interasse variabile da 6 a 10 metri; il
palo normale, per campata di 200 metri, era in
traliccio di ferro, alto circa 20 m fuori terra e del
peso di circa 1.300 kg.
Invece di seguire la strada consueta in disce­
sa lungo la valle, l'elettrodotto puntava diretta­
mente verso sud, sulle montagne attraverso il
passo del Mortirolo a 1896 m di quota, per poi
scendere a Monno ed Edolo, dove era collocata
la prima delle cinque cabine di sezionamento e
manovra, che dividevano la linea in cinque
tronchi (Breno, Piangaiano [Endine] e Arcene):
di qui, percorrendo la Valcamonica e successi­
vamente la Val Cavallina, l'elettrodotto giunge­
va dopo 150 km nella apposita stazione ricevitri­
ce della centrale termica di Piazzale Trento a
Milano, realizzata già nel giugno 1905 dall'ing.
Tito Gonzales dell'Ufficio Tecnico Municipale e
poi direttore generale dell'A.E.M., in cui me­
diante trasformatori riduttori la tensione veniva
abbassata da 65 ad 8,65 kV per la distribuzione
urbana.
L'impianto di Grosotto costituiva indubbia­
mente un avvenimento di grande rilevanza,
non solo per i primati raggiunti, ma soprattutto
per il ruolo avuto nel processo di elettrificazione
del capoluogo lombardo e di sviluppo economi­
co della Valtellina superiore, sia diretto (attività
edilizia e infrastrutture di comunicazione) che
indiretto (attività estrattiva, del legno, fornaci,
meccanica). Nella disputa del territorio della
valle tra le acque e l'uomo, era ora quest'ultimo
ad avere maggiori possibilità di successo.
La centrale idroelettrica nel territorio e nella società valtellinese
Il
territorio della valle risultava trasformato.
Profonde ferite, visibili a distanza, solcavano
con tubi di acciaio le pendici boschive e coltiva­
te a vigne delle montagne; ma questo indispen­
sabile intervento brutale veniva ingentilito a
132
133
Valvola e interruttore di una turbina della centrale di Grosotto
valle dall'architettura delle centrali, vere e pro­
prie fabbriche senza operai ed uno dei monu­
menti più astratti e quasi «concettuali» del pro­
gresso tecnologico e industriale.
Solo vaste gallerie di macchine, disposte ordi­
natamente in un alto spazio rettangolare, quasi
vuoto, dove la presenza umana è minima, qua­
si accessoria: la macchina e il suo rumore sono i
protagonisti incontrastati dello spazio interno.
Attraverso ampie superfici vetrate l'illuminazio­
ne interna è a giorno, in stridente e quasi ironi­
co contrasto con l'oggetto di produzione, l'ener­
gia elettrica, a cui si deve l'illuminazione artifi­
ciale. Ma nei primi e migliori esempi di architet­
tura industriale le forme non assumono mai i
toni brutali dello sfruttamento di uomini e cose.
Si presta anzi grande attenzione a che la fabbri­
ca, elemento essenzialmente estraneo, si inseri­
sca nel territorio circostante con forme dignitose
e soprattutto significative per il pubblico a cui si
rivolge, cioè cariche di simbolismi facilmente
comunicabili. La fabbrica è un centro di produ­
zione con le sue proprie leggi e funzioni; ma è
anche un oggetto che si rivolge al pubblico, tra­
sformando sia visivamente che materialmente
la sua vita.
Se non si tiene conto di questa duplice esigen­
za di funzionalità e di comunicazione, non si
riesce a comprendere il caratteristico contrasto
tra gli interni e le forme esterne della prima ar­
chitettura industriale lombarda e non solo di
questa. Così pure non si riesce a capirne lo spo­
glio «modernismo» degli interni contrapposto ai
sempre misurati revivals stilistici degli involucri
esterni.
Storicismo, infatti, significa aggancio e conti­
nuità con la tradizione visiva di una cultura; ma
non si tratta di rivisitazioni filologicamente cor­
rette degli stili architettonici del passato, bensì
di contaminazioni eclettiche e quasi di gusto po­
polare tra diversi motivi del repertorio formale
della tradizione. Gli stilemi del gotico lombardo,
interpretato in chiave rinascimentale, si unisco­
no a suggestioni vernacolari e ad un sobrio de­
corativismo geometrico e policromo di gusto
medievaleggiante. Il risultato è talvolta straordi­
nario, come nella centrale di Grosotto con le sue
alte arcate che coprono quasi l'intera altezza
dell'edificio e che preludono al successivo «mo134
135
Turbine della centrale di Grosotto
numentolismo» archeologico del XX secolo, ma
sempre di grande dignità formale. Santuario o
fortilizio o semplice casa dell'energia, la centra­
le idroelettrica cerca di inserirsi nel territorio e
nella cultura del luogo senza nascondere la sua
estraneità, ma volendo comunicare con quanto
la circonda.
Oggi è difficile valutare l'impatto visivo che
queste architetture produssero sul pubblico lo­
cale; tuttavia per la loro localizzazione isolata
lungo i fiumi o ai piedi delle montagne e per la
loro qualità formale, divennero e furono ricono­
sciute senza dubbio come tratti distintivi del
nuovo territorio industriale e simboli di un pro­
gresso tecnologico e produttivo al servizio della
società piuttosto che in contrapposizione ad es­
sa, come ancora adesso possiamo osservare,
risalendo la valle dell'Adda fino alla Valtellina
superiore, davanti alle centrali idroelettriche,
da Campovìco fino a Le Prese, succedutesi nel­
l'arco dei primi due decenni del secolo: nel 1907­
10 la centrale di Ardenno allo sbocco della Val
Masino con la Valtellina; nel 1910-12 la centrale
di Ponchiera sul Mallero in Val Malenco, quasi
al suo sbocco nell'Adda, sopra Sondrio, affian­
cata nel 1917 da una seconda centrale detta
«Malleretto»; tra il 1917 e il 1919 le centrali di
Boffetto e sul Venina, affluente di sinistra dell'Adda, poco a monte di Sondrio, costruite dalla
Società anonima acciaierie e ferrerie lombarde
(oggi Falck) per i propri stabilimenti siderurgici
di Sesto San Giovanni in relazione all'aumentato fabbisogno dell'industria bellica; nel 1917 la
centrale della Società Lombarda per distribuzio­
ne di energia elettrica a valle di quella di Campocologno del 1905, in Val Poschiavina; ed infi­
ne, entrando nell'alta Valtellina, tra Tirano e
Bormio, le centrali dell'A.E.M. che dagli anni
Venti sino al 1964 si sono succedute a quella di
Grosotto: nel 1922 la centrale Roasco con una
potenza iniziale installata di 14.400 kW; nel 1928
la centrale Fraele con 15.000 kW; nel 1938 la
centrale Stazzona con 44.000 kW; nel 1948 la
centrale Lovero con 44.000 kW; nel 1950 la cen­
trale San Giacomo (cessata di funzionare nel
1955) con 6.250 kW; nel 1956 la centrale Premadio con 160.000 kW; ed infine nel 1960 la centrale
Grosio con 230.000 kW di potenza installata ini­
zialmente.15
136
L'eccitatrice dell'alternatore gruppo 1 della centrale di Grosotto
Le vecchie centrali idroelettriche: quale futuro?
L'awìcendamento generazionale ha portato
0 sta portando alla cessazione delle attività pro­
duttive di molte vecchie centrali idroelettriche,
trasformate ormai soltanto in splendidi monu­
menti di archeologia industriale. Emblematico
di questa storia è l'impianto di San Giacomo del
1950, ora inghiottito con la vecchia diga del 1928
dall'ampio serbatoio formato con la diga di
Cancàno II, costruita nel 1956.
Ma a parte questo caso (possibile oggetto di
una ricerca di archeologia industriale «subac­
quea»), c'è tutto il nucleo originario degli im­
pianti dei primi decenni del nostro secolo, anco­
ra intatto, a testimoniare il passato di questa
industria e una parte importante della storia di
questa valle. Le nuove tecnologie e le esigenze
della produzione hanno reso obsoleti questi
complessi: oggi tutto è concentrato - almeno per
quanto riguarda l'A.E.M. - nell'impianto di Premadio, completamente automatizzato, la cui
centrale (non più a vista come un tempo) è con­
tenuta interamente in una caverna larga 38,20
m, lunga 81,70 m ed alta 30,50 m, scavata all'in­
terno del monte Scale.
Paradossalmente in questa industria il nuovo
è nascosto, mentre il vecchio è ancora là, ben
visibile sul territorio, nella sua notevole dignità
formale e nella sua scala «umana», anche se
talvolta non priva di accenni monumentali. Si
tratta però di scheletri privi di vita, di farfalle in
formaldeide, belle a vedersi quanto inutili, per­
ché morte nella loro funzione originaria.
È inevitabile che tra presente e passato esista­
no una più o meno accentuata opposizione e
conflittualità. Solo gli antiquari più irriducibili o
1 nostalgici possono illudersi che la storia (dal
passato al presente) sia un continuum tempora­
le senza soluzioni di continuità. Ciò che è morto
è ingombrante e costituisce un peso sia fisico
che psicologico per il presente. E questo è tanto
più vero nel caso dell'archeologia industriale, i
cui edifici produttivi abbandonati costituiscono
per le loro dimensioni dei problemi talvolta irri­
solvibili dal punto di vista territoriale, urbanisti­
co ed economico ma anche culturale e politico:
basti pensare al caso limite di un Lingotto o a
quello prossimo venturo della Pirelli-Bicocca.
Molte epoche hanno voluto programmatica138
139
Particolare dell'introduttore dell'acqua in turbina della centrale di Grosotto
mente «uccidere» il passato per rifondare una
civiltà diversa e innovatrice; molte altre, invece,
terrorizzate dai problemi dell'oggi e dalle inco­
gnite del futuro, hanno preferito rinchiudersi nel
caldo grembo della storia alla ricerca di sicurez­
za e consolazione, anche se questo conservato­
rismo culturale e intellettuale spesso si amman­
ta di ironia e sofisticazione. Ma curiosamente
proprio in questi atteggiamenti assolutistici di
amore o di odio per la storia, l'oggetto principa­
le - la storia - scompare: quel che resta è solo la
storia addomesticata ad usum delphini, è la sto­
ria-aneddoto, è il romanzo storico, è la strumen­
talizzazione della storia in bianco e nero.
Certo, secondo l'anarchismo epistemologico
di un Feyerabend, anche questi atteggiamenti
«strumentali» sono positivi, se capaci di stimola­
re la riflessione ed indicare nuove vie di ricerca.
Tuttavia resta sempre che questo sterminato
serbatoio di idee, invenzioni ed esperienze, che
è il passato, non è un «mercato delle pulci» in
cui andare a scoprire oggetti démodé (e appun­
to per questo più sofisticati e alla moda); e nep­
pure un immenso cimitero dove fantasmi si ag­
girano minacciosi e pronti a schiavizzare i vi­
venti: è invece il territorio - quello stesso che
quotidianamente viviamo - che contiene tutto il
capitale fisso della società.
Conservare le testimonianze della storia non
significa affatto una difesa romantica del ricor­
do della tradizione contro la prepotenza dei
tempi presenti, ma semplicemente è la conclu­
sione quasi obbligata di un calcolo economico:
rendere produttivo il capitale a disposizione.
Certo, il genere di patrimonio, di cui si tratta,
ossia la cultura, necessita di investimenti a lun­
go termine, ed è impensabile voler adottare in
questo caso i criteri di economicità propri di uno
speculatore o di un ragioniere. La resa non è
immediata, ma, come dimostra la stessa espe­
rienza storica, solo i grandi investimenti sociali
in questo campo (che non siano però effimeri)
possono consentire lo sviluppo di lunga durata
di una società.
Oggi assistiamo a un nuovo interesse per la
storia ed anche da parte di coloro che per defi­
nizione sono risolti essenzialmente verso il futu­
ro: scienziati e ingegneri tornano ora ad essa
per trovare suggerimenti e per scoprire quelle
140
Particolare di un supporto dell'albero-alternatore di un gruppo di Grosotto
indicazioni che per fretta, incapacità o disinte­
resse un tempo si erano scartate e che oggi in­
vece ritornano di estrema attualità.
Anche gli oggetti di archeologia industriale
non possono sfuggire a questa logica. Spogliati
di ogni atteggiamento o spirito antiquario, ci tro­
viamo di fronte ai resti fisici di un passato pro­
duttivo, sociale e culturale. A parte la conserva­
zione delle testimonianze documentarie di que­
sta storia - esigenza imprescindibile per la cul­
tura non solo locale -, cosa fare dei monumenti
dell'industria? Conservazione museale? Riuso?
Distruzione? Atteggiamenti intellettuali «assolu­
tistici» hanno finito spesso per inquinare ed esa­
cerbare questo dibattito che proprio per la sua
complessità non può trovare una soluzione defi­
nitiva valida in ogni caso. Se una regola esiste,
è quella della necessità di portare la massima
attenzione alle cose da tutelare, prima che ad
altri problemi di contorno. Non è raro infatti ve­
dere il monumento di archeologia industriale
passare in secondo o terzo ordine rispetto a temi
di natura sociale e politica nei dibattiti circa la
sua futura destinazione.
Tra i vari criteri di scelta possibili la qualità
architettonica, tecnologica e ambientale dell'o­
pera e il suo significato sociale sono senz'altro
due aspetti principali da valutare con attenzio­
ne prima di decidere il tipo d'intervento. La con­
servazione integrale dell'intero patrimonio è
tecnicamente improponibile, ed è inevitabile
che gli interventi di museificazione debbano
concentrarsi sugli esempi più rappresentativi
delle diverse realtà.
Ad un gradino qualitativo immediatamente
inferiore (ma anche nei casi di gigantismo indu­
striale pur di altissimo livello formale) si contano
gli innumerevoli monumenti industriali la cui
sopravvivenza fisica è legata alla possibilità di
un loro riutilizzo con altre destinazioni. Al mo­
mento sembra questa la strada più praticabile
per evitare la definitiva obsolescenza dì tante
strutture che presentano un notevole significato
culturale e ambientale per una regione. Ma an­
che in questo caso si rende necessaria la massi­
ma attenzione alla conservazione delle strutture
e della natura del monumento, evitando di con­
siderare, come spesso accade, l'oggetto indu­
striale come un semplice contenitore da riempi142
re indiscriminatamente, ed al contrario cercan­
do di individuare quelle funzioni affini a quelle
originarie che consentano dì mantenere le ca­
ratteristiche «storiche» del monumento.
Le centrali idroelettriche della Valtellina rap­
presentano degli esempi di archeologia indu­
striale di notevoli qualità architettonico-ambien-
tali che meritano senza dubbio un dibattito ap­
profondito. Con esse non deve chiudersi un ca­
pitolo della storia della valle, perché dal dibatti­
to circa la loro destinazione può forse nascere
anche un argomento di riflessione circa il futuro
della valle stessa.
•
Note
1. Cfr. A A .W . La m acchina arrugginita (a cura di A. Castella­
no). Milano, 1982.
2. Cfr. J.-A. Lesourd-C. Gerard, Storia economica deh'Ottocento
e del Novecento. Milano, 1873 (Parigi, 1963), p. 277.
3. Cfr. P. Lebrun, L'industrialisation en Belgìque au XlXème sie­
de, in A A .W . L'industrialisation en Europe au XlXème siècle.
Parigi, 1972, p. 143.
4. Si veda J.-A. Lesourd-C. Gerard, op. cit.
5. Ibid. e A. Mondini, Dal Seicento al Novecento, voi. 3 di Storia
della Tecnica, a cura di A. A. Capocaccia. Torino, 1977, pp.
416-450.
6. Cfr. G.B. Stracca, Il Politecnico e il processo di industrializza­
zione della Lombardia, in A A .W . Il Politecnico di Milano. Mi­
lano, 1981, pp. 180-184.
144
7. Cfr. A. Confalonieri, Banca e industria in Italia, 1894-1906.
Milano, 1976, voi. HI, p. 238.
8. Cfr. G.B. Stracca, ari. cit.
9. Cfr. A. Confalonieri, op. cit.
10. Cfr. A. Mondini, op. cit., p. 439.
11. Cfr. O. Selvafolta-A. Negri, Le centrali elettriche delle valli, in
A A .W . Archeologia industriale in Lombardia. Milano, 1983,
voi. IH, pp. 209-219.
12. Cfr. G.B. Stracca, art. cit.
13. Cfr. A. Confalonieri, op. cit., voi. E, p. 70.
14. Cfr. G.B. Stracca, art. cit., p. 18,4, e a cura dell Associazione
fra Esercenti Imprese Elettriche in Italia, Notizie sui principali
im pianti elettrici d'Italia. Milano, 1911, pp. 171-174.
15. Cfr. O. Selvafolta-A. Negri, ari. cit.
Arrivo delle condotte forzate alla centrale di Fraele
145
Particolari del gruppo 2 della centrale di Grosotto
146
Particolari del gruppo 2 della centrale di Grosotto
¡47
Centrale di Grosotto, vecchi attrezzi meccanici per gli interventi di manutenzione
148
149
GLI IMPIANTI IDROELETTRICI DI VALTELLINA
E LE INSTALLAZIONI ELETTRICHE DEL COMUNE DI MILANO
Appendice
A por mano al nascente problema
dell'approvigionamento elettrico per Milano, fu
chiamata, nel lontano 1902, un'apposita commissione di
studio, nominata dalla Giunta municipale. Valutati i vari
studi di fattibilità e l'entità delle esigenze, la
commissione concluse il suo lavoro indicando a
soluzione lo sfruttamento delle risorse valtellinesi e la
gestione di queste tramite un'azienda municipalizzata.
La civica amministrazione preferì affidare una
decisione in merito al volere popolare, indicendo un
referendum che si esprimesse sull'oportunità di dar vita
alla A.E.M.
Le consultazioni si ebbero l'8 dicembre 1910 e si
conclusero con 15.059 «si» e 1.441 «no».
11 1 gennaio 1911 ¡'Azienda Elettrica Municipale iniziò
il suo lavoro.
Nel brano che segue, tratto da un conosciutissimo
periodico dell'epoca, sono riassunti i fatti ed i dibattiti
che condussero allo storico evento.
Un po’ di storia.
Nell'ottobre del 1902 la Giunta Municipale di Milano,
presieduta dal Sindaco on. Giuseppe Mussi, deliberava
di affidare ad una speciale Commissione «lo studio delle
modalità e norme per la migliore utilizzazione diretta da
parte del Comune di energia elettrica occorrente ai
diversi servizi pubblici», assegnando alla medesima
Commissione anche il mandato di esaminare e
formulare proposte circa le offerte già avanzate
all'Amministrazione Comunale per l'acquisto di
concessioni di forze idrauliche.
Tale Commissione - della quale formavano parte gli
ingegneri De Andreis, Dugnani, Masera, L. Mazzocchi,
Merlini, Ponzio e Pugno e presieduta dall'assessore del
competente riparto ing. Coucourde - esaminate le varie
proposte di concessioni idrauliche e considerato che, a
parte il merito intrinseco e la convenienza economica
assai discutibile di esse, nessuna delle offerte medesime
era tale da potersi arrivare in tempo ad ottenere la
energia elettrica a Milano per la fine dell'anno 1904 epoca per la quale veniva a scadere il contratto allora in
corso colla Società Edison per la illuminazione pubblica
elettrica - e considerato d'altra parte che, anche a volere
effettuare in qualsiasi momento un impianto idroelettrico
si sarebbe però sempre imposta la costruzione di una
150
centrale termica di riserva - la Commissione per queste
considerazioni concluse proponendo di sospendere
momentaneamente qualunque trattativa per acquisto di
forze idrauliche e di studiare invece subito la possibilità
e la convenienza di installare ed esercire una centrale a
vapore od a gas, atta a produrre l'energia necessaria
per i diversi servizi pubblici che il Comune credesse di
assumere m an mano in gestione diretta.
Secondo queste proposte della Commissione, l'ufficio
tecnico Municipale, per incarico della Giunta, studiava
siffatto problema a mezzo dell'ing. Tito Gonzales e
presentava le sue proposte, concretate in tre progetti
diversi, costituenti l'uno variante dell'altro, i quali si
proponevano un problema diverso da caso a caso.
E cioè un primo progetto considerava soltanto la
illuminazione elettrica con lampade ad arco delle
medesime aree pubbliche in tal guisa illuminate
all'epoca di quello studio, aumentando soltanto
l'intensità di illuminazione delle aree stesse.
Il secondo progetto, prevedendo la medesima intensità
come nel primo caso, estendeva la illuminazione
pubblica a tutte le strade percorse dalle tramvie, ed
inoltre contemplava la illuminazione di tutti gli stabili
comunali, nonché la fornitura di energia elettrica
occorrente per gli impianti di sollevamento d'acqua
potabile e per la tramvia municipale di comunicazione
col Cimitero di Musocco, e prevedeva altresì con
opportuni ampliamenti dell'impianto la possibilità di
distribuzione di energia ai privati sia per illuminazione
che per forza motrice.
Il terzo progetto non era che una soluzione ridotta e
parziale del secondo ed in questo l'impianto si limitava
alle sole occorrenze della pubblica illuminazione.
Esaminati dettagliatamente i tre progetti e svolte, a
proposito di ciascuno di essi, le opportune considerazioni
dal punto di vista non soltanto della risoluzione del
problema di necessità immediata, ma altresì in vista dei
nuovi e crescenti bisogni della città, la Commissione
concludeva proponendo alla Giunta Municipale di
Milano dì attuare il secondo dei tre progetti studiati
dall'ufficio tecnico e di impiantare cioè una centrale a
vapore atta a fornire energia per tutti i servizi pubblici di
illuminazione e di forza motrice ed atta altresì, con
opportuni incrementi degli impianti, a fornire energia
elettrica per illuminazione e per forza motrice anche ai
privati.
IMPIANTO
IbROeLETTRICO
OPERE
bl
ò I
G R O S SOTTO
T a v o l a . I.
P RE S / 1
Queste conclusioni della Commissione non furono
accolte con unanimità di consenso della Giunta
Municipale. Questa, dinanzi anche a proposte avanzate
all'ultimo momento dalla Società Edison, in base alle
quali il prezzo della lampada ad arco, ora per la
illuminazione pubblica, veniva notevolmente ridotto in
confronto di quello del contratto in corso, si trovò divisa
in due diversi campi: l'uno favorevole all'accoglimento
della proposta della Edison con la rinuncia alla
installazione di una qualsiasi centrale municipale; l'altra
invece favorevole a questa installazione per elevate
considerazioni di vantaggio cittadino pubblico e privato,
consiglianti a rompere il monopolio di fatto esercitato
dalla Edison in Milano per la produzione e distribuzione
di energia elettrica, anche quando con una installazione
autonoma la energia elettrica venisse a costare al
Comune per la illuminazione e per gli altri servizi
pubblici più cara di quanto la Edison fosse disposta a
farla pagare.
Questa seconda tendenza prevalse con larga
maggioranza nel Consiglio Comunale che nella seduta
del 28 dicembre 1903 adottò dopo lunga e vivace
discussione con larga preponderanza di voti il seguente
ordine del giorno proposto dal consigliere comunale
Eugenio Chiesa:
«Il Consiglio comunale non approva la Convenzione
2 dicembre 1903, progettata colla Edison; ed in ordine al
servizio della pubblica illuminazione elettrica, valendosi
delle facoltà implicite nell'art. 173 della legge comunale
e provinciale, invita l'on. Giunta ad attuare in massima
il progetto secondo di impianto a vapore di cui nella
relazione 20 ottobre 1903, presentata dalla Commissione
municipale per la migliore utilizzazione da parte dei
Comune di energia elettrica pei diversi suoi servizi; e in
relazione allo stanziamento di L. 600.000 predisposto
all'art. 143 del Bilancio di previsione pel 1904, autorizza
la Giunta a tutte le pratiche occorrenti all'uopo, ed
anche ad indire una gara, così come è indicato dalla
Commissione municipale, per tale impianto, colla facoltà
di proporre quelle modificazioni che si credessero
opportune alla migliore riuscita e richiedendo le volute
garanzie ai concorrenti;
delibera altresì di denunziare la convenzione 21 luglio
1892 fra il Municipio e la Società generale italiana di
elettricità, sistema Edison, ed invita l'onorevole Giunta a
trattare per l'acquisto di una forza idraulica con cui
dotare il Comune della voluta energia per servizi
pubblici, ed eventualmente per la distribuzione ai
privati; ed a iniziare le pratiche perché possa appunto il
Municipio assumere eventualmente tale servizio
d'illuminazione e di distribuzione di energia ai privati».
La votazione di questo ordine del giorno, al quale non
accedette la maggior parte dei membri della Giunta
Municipale, fra i quali lo stesso Sindaco Onorevole
Mussi, provocò una crisi di Giunta, che fu però presto
risoluta con la nomina del nuovo Sindaco nella persona
dell'avvocato Barinetti e con l'entrata di nuovi assessori.
L'Amministrazione così rinnovata si occupò subito
della costruzione della centrale elettrica a Porta Romana,
la quale iniziò il suo funzionamento nel Giugno del 1905.
151
E iniziò contemporaneamente le pratiche per acquisire al
Comune delle energie idrauliche, riprendendo anche in
esame le proposte precedentemente avanzate, nessuna
delle quali però venne giudicata conveniente.
Una trattativa assai seria e riflettente una conveniente
proposta di utilizzazione del Toce, in territorio di Borceno,
venne condotta dalla Giunta Barinetti nel 1904 ed erano
anche intercorsi degli impegni preliminari fra
l'amministrazione Comunale ed il proprietario di quella
concessione a mezzo dì un suo mandatario. Ma ad un
tratto il concessionario - per quanto impegnato, sebbene
non formalmente, di fronte all'autorità comunale, ruppe
bruscamente le trattative, e la concessione venne ceduta
ad un gruppo finanziario facente capo alla Società
Edison, la quale venne così a togliere al Comune la
base di una azione municipale in concorrenza con essa.
Caduta, in seguito alle elezioni generali del 1905 la
Amministrazione popolare, la nuova Amministrazione
presieduta dal Sindaco Ponti dette opera energica ed
alacre allo scopo di provvedere il Comune di Milano di
un conveniente impianto idroelettrico in relazione al
deliberato 28 Dicembre 1903 del Consìglio Comunale.
Della cosa si occupò con particolare amore e con
chiara competenza l'ing. Giuseppe Ponzio assessore dei
lavori pubblici nella Giunta Ponti, il quale già, come
consigliere comunale della minoranza nella
Amministrazione popolare, aveva spesa la sua parola
convinta ed autorevole in appoggio della proposta
municipalizzatrice che concluse coll'ordine del giorno
Chiesa.
Il Ponzio, del quale tutti ancora piangono la morte
immatura, esaminò le proposte che gli vennero
direttamente avanzate, altre proposte provocò.
Esaminò così la proposta di utilizzare la portata del
Tresa con la sistemazione a serbatoio del Lago di
Lugano; m a tale proposta, oltre che per le difficoltà
tecniche ed amministrative specialmente inerenti ai
rapporti col governo Svizzero, dovette essere
abbandonata per il fatto che persone in rapporti assai
stretti di interessi con la Edison erano riuscite ad
infiltrarsi nel gruppo possessore della concessione. Si
esaminò così anche una proposta avanzata dall'ing.
Luigi Sala per la derivazione dal Uro in territorio di
Chiavenna, ma tali proposte, a parte ogni giudizio sul
merito tecnico e sulla convenienza finanziaria di esse,
dovettero essere scartate perché le concessioni
medesime erano oggetto di gravi contestazioni giudiziali
assai complesse e di difficile e tarda risoluzione, sicché il
Comune si sarebbe trovato ingolfato in difficoltà e
pericoli senza fine. E così si esaminarono altre proposte
che per differenti ragioni si dovettero scartare senz'altro.
Vennero anche iniziate opportune trattative colla
«Società Lombarda per distribuzione di energia elettrica»
intese all'acquisto per parte del Comune di una
determinata quantità di energia trasportata e consegnata
ai quadri della centrale elettrica municipale e da pagarsi
in base a prezzi unitari decrescenti in proporzione degli
aumenti della fornitura. Ma anche tale proposta venne
abbandonata, e per le trasformazioni che la energia
152
della Lombarda avrebbe dovuto subire per essere
portata alle medesime caratteristiche della corrente
prodotta negli impiantì municipali a vapore, ed in
relazione altresì alla indubbia preferenza che doveva
essere accordata ad una soluzione, la quale non legasse
comunque il Comune, nemmeno in vìa temporanea, a
rapporti con Società private.
Parve invece che meritassero di venire prese in seria
considerazione le proposte che erano state avanzate al
Comune per l'acquisto di un importante complesso dì
energie idrauliche ritraibili dall'Adda, nell'Alta
Valtellina, in relazione ad un progetto tecnico dell'Ing.
Mario Azari, in base al quale i Sigg. Ingegneri Bracco e
Lavatelli avevano già inoltrato domanda per la relativa
concessione al Prefetto della provincia dì Sondrio. E,
come l'esame attento e particolareggiato di tali proposte
per parte dell’assessore Ponzio e dei tecnici di sua
fiducia da lui chiamati a consulto, dimostrò la
convenienza di massima dell'accoglimento di tali
proposte e la opportunità quindi di più maturi studi intesi
ad adottare una risoluzione definitiva, la Giunta
Comunale, fatta accorta dalla pratica del passato, e per
evitare che si rinnovassero anche per le energie
dell'Adda le dolorose sorprese e le gherminelle, per
effetto delle quali si era dovuto poco addietro rinunciare
alle forze prima del Toce ìndi del Tresa, la Giunta
Municipale credette opportuno di addivenire senz'altro
ad una convenzione coi Sigg. Ingg. Bracco e Lavatelli,
per la quale questi fossero definitivamente e
formalmente impegnati per un determinato tempo e a
determinate condizioni a cedere al Comune i loro diritti
sulle dette concessioni, riservato al Comune il diritto di
esercitare o meno, entro questo limite di tempo, il suo
diritto dì opzione per tale acquisto, e col solo obbligo nel
Comune di versare ai Sigg. Bracco e Lavatelli un
corrispettivo di L. 20 mila a fondo perduto, nel caso il
Comune non avesse perfezionato il contratto d'acquisto.
Essendosi poi saputo come l'Ing. Vladimiro Pinchetti di
Tirano avesse nel frattempo presentato a sua volta alla
Prefettura di Sondrio un complesso di domande di
concessione per la derivazione di energia idraulica
dall'Adda e dal Roasco, alcune delle quali domande
erano in contrasto con quelle avanzate dai Sigg. Bracco
e Lavatelli, ed altre invece, coordinate con quelle,
potevano migliorare dal punto di vista, sia tecnico che
finanziario, il complesso degli impianti, la Giunta
Municipale - anche allo scopo di eliminare perditempi o
controversie - credette conveniente di avviare trattative
collo stesso Ingegnere Pinchetti per la cessione al
Comune di Milano dei suoi diritti sulle concessioni
medesime, e si stipulò così con luì un preliminare di
convenzione in termini analoghi a quelli concordati coi
Sigg. Bracco e Lavatelli.
La notizia di queste trattative e di queste stipulazioni
da parte del Comune di Milano si divulgò facilmente in
Valtellina e diede tosto occasione ad una larga e vivace
agitazione, intesa ad impedire che il Comune di Milano
si impadronisse di quelle forze idrauliche esistenti nella
regione per trasformarle ed utilizzarle altrove,
sostenendosi da quelle popolazioni il loro diritto di
usufruire a loro vantaggio di queste forze naturali dei
corsi d'acqua locali, dalle piene dei quali esse avevano
sempre e ripetutamente subito i gravissimi danni. E per
quanto l'agitazione medesima non avesse un
fondamento di diritto, il Comune di Milano,
riconoscendole però un fondamento di equità e
considerando d'altra parte che l'agitazione medesima
avrebbe potuto costituire ragione di ritardo e di difficoltà
nel raggiungimento dei suoi fini, il Comune di Milano, o
meglio, la Giunta Municipale, credette conveniente di
addivenire ad accordi preliminari colla Deputazione
Provinciale di Sondrio, fissando a favore della Provincia
e dei Comuni interessati dei compensi dì varia forma ed
entità, da corrispondersi, naturalmente, soltanto nel caso
che il Comune di Milano acquistasse definitivamente le
concessioni per le derivazioni idrauliche ed eseguisse i
lavori per le relative utilizzazioni delle concessioni stesse.
Mentre si svolgevano le trattative colla Provincia di
Sondrio, e tosto stipulate le convenzioni preliminari cogli
ingegneri Bracco, Lavatelli e Pinchetti, la Giunta
Municipale incaricò gli ingegneri Carlo Mina e Giacinto
Motta di redigere un progetto tecnico-finanziario di
massima per l'impianto idroelettrico, inteso allo
sfruttamento delle dette concessioni ed al trasporto a
Milano della energia ritraibile. E i due egregi
professionisti - coadiuvati nello studio della parte
idraulica dall'ing. prof. Gaudenzio Fantoli, che si occupò
con una relazione veramente magistrale delle portate e
frequenze delle acque dell'Adda Valtellinese presentarono il loro elaborato in breve termine e in
forma chiara e completa.
In siffatto modo la Giunta Municipale si trovò in grado
di presentare al Consiglio Comunale nella seduta del
25 giugno 1906 la proposta di acquisto delle concessioni
IMPIANTO
IbROELETTRICO
CENTRALE
PROSPETTO
bl
A
Bracco, Lavatelli e Pinchetti, in relazione agli impegni
preliminarmente con loro stabiliti, sicché il Comune
potesse ad essi sostituirsi nella domanda della deiinitiva
concessione, e contemporaneamente la proposta di
tradurre in convenzione definitiva gli accordi intervenuti
colla Provincia di Sondrio anche in rappresentanza dei
Comuni Valtellinesi interessati, nonché finalmente, la
richiesta di autorizzazione a procedere nello studio dei
progetti tecnici esecutivi.
Diremo più innanzi in modo particolareggiato di tali
progetti e della relativa esecuzione, accennando anche
alle modificazioni introdottevi in corso di studio sia per
ciò che riflette le modalità delle concessioni stesse, sia
per ciò che riflette le condizioni di esecuzione. Basti per
ora accennare come il complesso delle concessioni
Bracco, Lavatelli e Pinchetti, impegnate per la vendita al
Comune di Milano per il corrispettivo totale di L. 300. 000,
contemplasse una energia idraulica totale alle centrali di
Valtellina di 50.041 cavalli tassabili, equivalenti ad una
potenza complessiva di 20.570 Kwatt, misurala al quadro
della Centrale di distribuzione a Milano.
Secondo i preventivi degli ingegneri Mina e Motta
annessi al loro progetto di massima, la spesa
complessiva deirimpianto sino ai quadri di distribuzione
a Milano e compresa quindi la centrale di riserva a
vapore sarebbe ascesa alla cifra di L. 23. 510. 000, pari a
circa L. 1140 per Kwatt.
Con unanime consenso e con plauso concorde di tutte
le parti del Consiglio, senza distinzione di parte politica,
le proposte della Giunta venivano approvate: vennero
solamente tenute in sospeso le deliberazioni relative alle
pattuizioni colla Provincia di Sondrio, per la
considerazione che, precisamente in quei giorni, quel
Consiglio Provinciale - adunatosi per deliberare a sua
volta sulla convenzione preliminare stipulata da quella
GROSSOTTO
V/IUUE
153
Deputazione Provinciale col Comune di Milano - votava
la sospensiva su quella proposta, ritenendo che i
corrispettivi convenuti a vantaggio della Provincia di
Sondrio e dei Comuni interessati non fossero sufficienti a
compensare tali enti dei danni loro causati dalla
esportazione dì quella energia idraulica, che poteva
rappresentare l'unica risorsa per l'avvenire industriale di
quella regione.
Venne per tal modo votato unanimemente dal
Consiglio Comunale di Milano lordine del giorno
seguente, che lo scrivente ebbe l'onore di proporre:
«Il Consiglio Comunale, riaffermando la volontà già
espressa nel voto del 23 dicembre 1903 di acquisire al
Comune un'ingente forza idraulica, la quale valga a
dotare la città della voluta energìa pei servizi pubblici ed
eventualmente per la distribuzione ai privati, approva la
deliberazione proposta al voto del Consiglio dalla Giunta
Municipale, sospesa ogni deliberazione in merito allo
schema di preliminare convenzione colla Deputazione
provinciale di Sondrio in vista della sospensiva della
corrispondente deliberazione votata dal Consiglio
Provinciale di Sondrio».
Mentre si svolgevano gli studi per il progetto esecutivo
e mentre progredivano le pratiche di carattere
amministrativo per il conseguimento delle concessioni
richieste dal Comune di Milano, l'Amministrazione
Comunale provvedeva agli studi ed alle ordinazioni per
l'ampliamento della centrale a vapore in Milano,
costituente riserva e complemento dell'impianto
idroelettrico in Valtellina, e si potevano nel contempo
definire e concretare gli accordi colla Provincia di
Sondrio e coi Comuni interessati per modo da derimere
ogni contrasto e competizione con essi, e per modo anzi
che il Comune di Milano trovasse in Valtellina un
ambiente favorevole alla esplicazione della sua attività
per la esecuzione dei lavori, degli esproprii e altre
pratiche attinenti.
Così in Aprile del 1907 il Consiglio Comunale, sempre
con voto unanime, approvava l'atto preliminare di
convenzione stipulato colla Amministrazione degli enti
pubblici Valtellinesi e dava termine ad una discordia, la
quale, se poteva riuscire di pregiudizio per il Comune di
Milano, specie dal punto di vista delle difficoltà e dei
perditempi per la attuazione dell'opera, rivestiva altresì
un carattere poco simpatico, per il carattere appunto di
entrambi gli enti che si trovavano in contrasto.
Gli oneri assunti dal Comune di Milano con tale
convenzione sommariamente riflettono: il pagamento dì
un canone annuo alla Provincia di Sondrio ed ai
Comuni interessati, in ragione di L. 0,75 per ogni cavallo
dinamico nominale della potenza per la quale il Comune
di Milano pagherà ogni anno il canone governativo;
l'obbligo di cedere al costo per la Ferrovia Tirano-Bormio
o per le occorrenze locali dei Comuni l'8 per cento della
forza ottenuta in concessione col mìnimo di seicento
cavalli per gli usi della Ferrovia; l'obbligo di riservare
agli usi della irrigazione agricola locale determinate
quantità d'acqua.
Successivamente, nel giugno del 1907, la Giunta
154
proponeva al Consiglio Comunale di procedere subito
direttamente alla esecuzione del primo impianto
idroelettrico con derivazione dell'Adda alle Prese Nuove
ed utilizzazione del salto con centrale a Grosotto, e
proponeva dì deferire ad una commissione consigliare,
d'accordo colla Giunta, lo studio della organizzazione
tecnico-amminìstrativa-finanziarìa a ciò occorrente. Il
Consiglio, con voto unanime anche questa volta,
approvava la proposta, e la nomina della Commissione
veniva deferita al Sindaco, il quale costituiva la
commissione medesima nelle persone dell'Assessore
Ponzio presidente e dei Consiglieri Ing. De Marchi,
A w . Majno, Ing. Manfredìni, Avv. Rougier.
Con sua relazione del 14 Novembre 1907, della quale
chi scrive ebbe l'onore di essere l'estensore, la
Commissione riferiva le sue conclusioni in ordine a detta
organizzazione tecnico finanziaria e proponeva uno
schema concreto di regolamento per la esecuzione
diretta da parte del Comune dei lavori del primo
impianto a Grosotto, riservate poi al Comune ulteriori
deliberazioni per la municipalizzazione dell'esercizio
dell'impianto una volta attuato.
Le ragioni della preferenza data dalla Commissione
alla esecuzione diretta dei lavori per parte del Comune,
anziché alla immediata municipalizzazione della
Impresa, erano chiaramente svolte in quella relazione, in
perfetto accordo coll'identico pensiero manifestato già
dalla amministrazione municipale nella relazione stessa
con la quale essa proponeva al Consiglio la nomina
della Commissione di studio, e tali ragioni erano basate
prevalentemente sul fatto che le pratiche per la
creazione dell'azienda speciale municipalizzata
avrebbero richiesto un tempo lunghissimo, il quale
sarebbe stato completamente perduto per gli effetti utili e
pratici della esecuzione dei lavori.
La commissione, per ragioni evidenti di opportunità specialmente basate sulle considerazioni relative alla
convenienza di procedere negli impianti idroelettrici per
gradi, correlativamente alle richieste dei servizi pubblici
e privati - propose di limitare per intanto la esecuzione
delle opere solamente ad una delle derivazioni, la più
importante, quella con derivazione alle Prese Nuove ed
utilizzazione alla centrale di Grosotto. Per la esecuzione
dei lavori la Commissione proponeva un concreto
regolamento, il quale, contemplando la esecuzione
diretta degli impianti da parte del Comune, creava però
a fianco della Giunta una speciale Commissione, la
quale presiedesse alla esecuzione dei lavori e ne curasse
in modo continuo la sorveglianza ed il controllo insieme
alla esecuzione.
Questa Commissione veniva costituita dall'Assessore
del riparto, presidente nato della commissione stessa, da
tre membri da nominarsi dal Consiglio Comunale di
Milano, dall'Ing. Capo dell'Ufficio tecnico Municipale dì
Milano, e da un funzionario dell'ufficio stesso,
specialmente all'uopo delegato, da un ingegnere
specialmente incaricato della parte meccanica ed
elettrica, e da un altro ingegnere specialmente incaricato
dei lavori idraulici, entrambi da nominarsi dal Consiglio
Comunale, senza concorso.
II regolamento stabiliva altresì che l'Assessore uscente
di carica ed i membri della Commissione nominati dal
Consiglio che fossero eventualmente Consiglieri
Comunali sarebbero rimasti membri della Commissione
anche in caso di decadenza dal pubblico ufficio; ciò allo
scopo di assicurare alla Commissione una continuità di
azione traducentesi in evidente immediato vantaggio per
l'esito del lavoro. Nella Commissione doveva poi per
regolamento venire creata una Sottocommissione
esecutiva, costituita dai due ingegneri incaricati
rispettivamente delle opere idrauliche e degli impianti
meccanici ed elettrici e dal funzionario dell'Ufficio tecnico
all'uopo delegato.
Queste proposte della Commissione formarono oggetto
di viva discussione nel Consiglio Comunale, per ciò che
rifletteva specialmente la forma adottata per la
rimunerazione dell'ingegnere preposto ai lavori idraulici;
e di ciò avremo occasione di occuparci più innanzi. In
questo cenno storico-riassuntivo delle fasi attraverso alle
quali nell'ambito della Amministrazione Comunale si è
svolta la proposta dell'impianto elettrico municipale,
basti il dire che con grandissima maggioranza, ed anzi
alla quasi unanimità, le proposte della Commissione,
appoggiate dalla Giunta, vennero approvate dal
Consiglio Comunale.
A seguito del voto del Consiglio, la Commissione di
Valtellina venne così costituita: Ass. Ing. Ponzio,
presidente; Ing. De Marchi, A w . Majno, Ing. Manfredini,
membri eletti dal Consiglio Comunale; Ing. Masera capo
dell'Ufficio tecnico Municipale; Ing. Carlo Mina per le
opere idrauliche; Ing. Giacinto Motta per gli impianti
meccanici ed elettrici; Ing. Tito Gonzales dell'Ufficio
tecnico municipale, dirigente i servizi elettrici del
Comune; gli ultimi tre costituendo così la
Sottocommissione esecutiva.
A seguito della morte del compianto Ing. Ponzio, la
presidenza della Commissione veniva assunta dall'Ing.
Cesare Saldini, Ass. Municipale; a seguito delle
dimissioni di quest'ultimo dall'Ufficio di Assessore, la
presidenza della Commissione venne assunta, come è
oggi tenuta, dall'Ing. Carlo Tarlarmi, Ass. del Riparto X,
pur rimanendo l'ing. Saldini, a norma di regolamento, a
far parte della Commissione.
I lavori si svolsero con rapidità veramente eccezionale
e sono si può dire oggi prossimi al loro compimento,
giacché le opere idrauliche si possono dire compiute e
sono anche molto avanzati gli impianti meccanici ed
elettrici e la palificazione della linea.
A completare ora le notizie storiche aggiungeremo che
con relazione dell'aprile 1909, la Giunta Municipale
avanzava al Consiglio Comunale la proposta di
municipalizzazione per azienda speciale dell'impianto
elettrico del Comune, presentando una relazione
finanziaria completa dell'impianto e dell'esercizio
dell'azienda stessa. La proposta venne approvata dal
Consiglio Comunale e ratificata recentemente dalla
Commissione Reale appositamente istituita presso il
Ministero dell'interno per le aziende municipalizzate. La
Baite di vai Grosina e scivoli degli sfioratori della nuova diga di Fusino
approvazione da parte della Commissione Reale
intervenne dopo non poche difficoltà frapposte dalle
lungaggini e dalle minuziosità della burocrazia, ma più
specialmente dalle opposizioni ed inframettenze per
parte dì qualcuno che, per ragioni di particolare
tornaconto, aveva interesse a che le domande del
Comune di Milano venissero respinte. Ma di queste
eccezioni ed opposizioni il voto della Commissione Reale
ha fatto completa ragione.
Non manca ora che il responso del corpo elettorale, il
quale dovrà pronunciarsi per referendum sulla proposta
di municipalizzazione.
Il referendum è stato già indetto per la data del 10 di
aprile, ed è per questo che noi troviamo di particolare
interesse ed importanza di far conoscere ai nostri lettori
ed al pubblico le condizioni tecniche e finanziarie degli
impiantì eseguiti e di quelli che si dovranno eseguire in
progresso di tempo.
Dell'esito del referendum noi non crediamo dì poter
mìnimamente dubitare; la proposta se è
amministrativamente utile per il Comune, è certamente
utilissima per la cittadinanza, considerata in tutte le sue
diverse classi sociali, le quali, come consumatrici di
energia elettrica hanno già ritratto da questa coraggiosa
e moderna iniziativa comunale vantaggi economici non
indifferenti; dappoiché il solo fatto della esecuzione di
questi impianti, anche prima che essi comincino a
funzionare in condizioni normali - mentre il
funzionamento della sola centrale a vapore non può
considerarsi che come una fase puramente transitoria ha indotto la Società Edison ad apportare
spontaneamente notevoli ribassi alle tariffe di vendita
dell'energia elettrica in Milano; ribassi per i quali il
complesso dei consumatori, a partire dal 1907, è stato
beneficiato in totale per una cifra annua media di
risparmio di oltre due milioni di lire.
D'altra parte poi ci è gradita l'occasione di portare per
primi ai nostri lettori ed al pubblico la cognizione di
questi impianti tecnici che onorano non soltanto la città
di Milano, la sua amministrazione, ma ancora e più
specialmente gli egregi professionisti ingegneri Mina e
Motta, che di queste installazioni furono progettisti e che
coll'ing. Gonzales presiedettero alla loro esecuzione.
Achille Manfredini
in «11 monitore tecnico»,
marzo 1910
156
Si ringraziano il «Touring Club Italiano» e la «Civica raccol­
ta di stampe Achille Bertarelli», Castello Sforzesco -Milano,
per la riproduzione cartografica.
A
Aem
Azienda energetica municipale
Presidente
Gianfranco Rossinovich
Commissione Ammimstratrice
Gaetano Maria Arena
Ennco Fiorentino
Giuseppe Magri
Girolamo Mezza
Maurizio Prada
Giorgio Salvini
Direttore generale
Augusto Scacchi
Comune di Milano
Assessore delegato all'Aem
Bruno Falconieri
Collana «Energia e Società»
a cura di:
Supervisione tecnica
Coordinamento editoriale:
Coordinamento immagine
aziendale
Coordinamento redazionale
Progetto grafico e copertina
Augusto Scacchi
Giorgio Soldadino
Roberto Vallini
Sergio Segre
Daniele Baroni
Italo Lupi
Coordinamento generale e
realizzazione.
Consorzio 3 C Milano
Fotocomposizione :
Fotolito:
Stampa:
Ciow srl
De Pedrini
Ubezzi & Dones srl
Risguardi:
Centrale di Grosotto, vecchi attrezzi
per gli interventi di manutenzione