Febbraio 2015 - Diocesi Suburbicaria Velletri

Registrazione al Tribunale di Velletri n. 9/2004 del 23.04.2004 - Redazione: C.so della Repubblica 343 - 00049 VELLETRI RM - 06.9630051 - fax 0696100596 - [email protected] Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti della Curia e pastorale per la vita della Diocesi di Velletri -Segni Anno 12, n. 2 (116) - Febbraio 2015
Febbraio
2015
2
- 2 febbraio: Festa dell’incontro di Dio col suo
Popolo,
+ Vincenzo Apicella
p. 3
- Discorso alla plenaria della II Conferenza
Internazionale sulla Nutrizione, nella sede
FAO in Roma, S. Fioramonti
p. 4
- Il Messaggio Urbi et Orbi nel giorno
di Natale 2014, S. Fioramonti
p. 5
- Messaggio del Santo Padre Francesco
per la Quaresima 2015
p. 6
- Giornata Mondiale del Malato,
11 febbraio 2015, a cura di S. Fioramonti
- Eutanasia, accanimento terapeutico e pietà
medica: il punto di vista di un medico,
Massimiliano Postorino
- Gli errori sull’uomo. Una sfida sempre aperta,
Marta Pietroni
- Un saluto al Presidente Giorgio Napolitano,
Stanislao Fioramonti
- L’Europa e l’Islam dopo l’attentato di
Charlie Hebdo, Wasim Salman
- Il mondo ha bisogno di tenerezza,
Sara Gilotta
p. 10
- La Preghiera Eucaristica II parte,
don Alessandro Tordeschi
p. 13
p. 8
p. 9
p. 11
p. 12
p. 14
- Flash Report sulla povertà ed esclusione sociale.
17 ottobre 2014 Giornata mondiale di lotta alla
povertà,
Paola Cascioli
p. 15
- Cammino verso il diaconato: istituiti due lettori,
G. Baroni e C. Barone
p. 16
- Don Alessandro Dordi, un italiano ne “El Ojo
que Ilota” di Lima, Gabriella Fioramonti
p. 18
- La fuga mundi, vocazione di tutti i religiosi,
don Antonio Galati
- Obbedienza: dono di libertà,
Laura Dalfollo
- Artena: il Convento francescano di Santa
Maria di Gesù / 2. La fondazione,
Sara Calì
- Chiamati e formatori: bambini sulle spalle
dei giganti, mons. Franco Risi
- Per chi ha voglia di credere:
Io che non credo, don Gaetano Zaralli
Ecclesia in cammino
p. 21
p. 22
Bollettino Ufficiale per gli atti di Curia
Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti
della Curia e pastorale per la vita della
Diocesi di Velletri-Segni
p. 23
p. 24
Direttore Responsabile
Mons. Angelo Mancini
- Colleferro 3 gennaio: Serata evento nella
Chiesa Maria SS.ma Immacolata,
Giovanni Zicarelli
p. 25
- Una Giornata della Memoria “particolare”
Claudio Gessi
p. 26
- Velletri, Parrocchia S. Maria del Carmine:
La “fortuna” gira a Pratolungo,
educatrici dell’ ACR
p. 27
- Velletri, scuola di teologia: conferenza
su Etica, Finanza e Mercati,
Giovanni Zicarelli
p. 28
- Colleferro, Parrocchia san Bruno:
rinnovata la tradizione della Benedizione
degli Animali, Giovanni Zicarelli
p. 29
- Colleferro: consegnati quattro defibrillatori,
Giovanni Zicarelli
p. 29
- Colleferro, 29 gennaio 1938: scoppio nello
stabilimento BPD,
Valeriano Valenzi
p. 30
- Montelanico, il Santuario della Madonna
del Soccorso,
Alessandro Ippoliti
p. 31
- Il Sacro intorno a noi / 10: Da Anagni
a Piglio, il cammino del Beato Andrea,
Stanislao Fioramonti
p. 32
- Il disastro di Valmontone: 100 anni fa
la frana nel quartiere Broglio,
Stanislao Fioramonti
p. 34
- La musica sacra popolare,
Mara Della Vecchia
p. 35
- Educare oggi: Alberto Manzi: maestro
geniale del popolo / 1. Non è mai troppo tardi,
Antonio Venditti
p. 37
- Velletri, Parrocchia SS.mo Salvatore:
Restaurata la tela del Sacrificio di
Santa Eurosia, Sara Bruno
p. 38
- Caravaggio,
Riposo durante la fuga in Egitto / 2,
don Marco Nemesi
p. 40
- Nomine si Decreti vescovili
Collaboratori
Stanislao Fioramonti
Tonino Parmeggiani
Mihaela Lupu
Proprietà
Diocesi di Velletri-Segni
Registrazione del Tribunale di Velletri
n. 9/2004 del 23.04.2004
Stampa: Tipolitografia Graphicplate Sr.l.
Redazione
Corso della Repubblica 343
00049 VELLETRI RM
06.9630051 fax 96100596
[email protected]
A questo numero hanno collaborato inoltre:
S.E. mons. Vincenzo Apicella, rev.do Wasim Salman, mons.
Franco Risi, don Marco Nemesi, don Gaetano Zaralli, don
Alessandro Tordeschi, don Antonio Galati, Massimiliano
Postorino, Marta Pietroni, Claudio Gessi, Gabriella
Fioramonti, Antonio Venditti, Sara Gilotta, Giovanni Zicarelli,
Paola Cascioli, Giuseppe Baroni e Claudio Barone, Laura
Dalfollo, Cristina, Laura, Martina e Serena - educatrici
ACR, Valeriano Valenzi, Sara Bruno, Alessandro Ippoliti,
Mara Della Vecchia.
Consultabile online in formato pdf sul sito:
www.diocesi.velletri-segni.it
DISTRIBUZIONE GRATUITA
p. 39
p. 20
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In copertina:
Gruppo di giovani
in ambito parrocchiale.
Febbraio
2015
+ Vincenzo Apicella,
vescovo
3
ro, dopo Roma, Loreto,
Palermo e Verona, si
terrà nella città simbolo
della cultura e dell’aropo il mese di
te, che è stata la culgennaio,
la di quella rivoluzione
caratterizzaspirituale, che rese
to dal tema della
l’Uomo protagonista
Pace, aperto con la
della sua storia, proprio
celebrazione in cui è
in quanto “immagine e
stato consegnato ai
somiglianza” di Dio.
Sindaci dei comuni delIl dramma successivo
la diocesi il Messaggio
è stato quello di aver
del Papa e conclusodimenticato o di aver
Presentazione al tempio di Gesù, Nicolaas Verkolje, sec XVIII.
si con la bella e gioiovoluto rimuovere quesa Marcia dei ragazste ultime parole, che
zi dell’Azione Cattolica
fondano le precedena Segni, ecco febbraio, che inizia con la Festa della Presentazione ti e, una volta eliminato il fondamento, di aver fatto precipitare
di Gesù al Tempio, la Festa dell’Incontro di Dio col suo Popolo, l’uomo nell’abisso delle sue passioni e di una stupida superbia:
dedicata tradizionalmente a sottolineare l’importanza della vita il rischio, fin dal tempo di Adamo, è sempre di voler tagliare il ramo
religiosa nel cammino della Chiesa.
su cui si è seduti.
Quest’anno la ricorrenza acquista una importanza tutta partico- A Firenze, patria dell’Umanesimo, ci interrogheremo su come riporlare, poiché dal 30 novembre scorso fino al 2 febbraio del 2016 tare al centro della nostra pastorale e del nostro impegno civile
tutti siamo invitati da Papa Francesco a prendere coscienza del la persona umana, con la sua dignità assoluta, poiché partecigrande dono che il Signore ha fatto e continua a fare alla sua pe di quella divina, con i suoi diritti inalienabili e con la sua responSposa, suscitando innumerevoli forme di vita consacrata, da quel- sabilità nei confronti del creato e della storia.
le contemplative e monastiche a quelle di fraternità e di servizio Le comunità cristiane sono chiamate a dare concretezza a cinattivo alle tante povertà del mondo.
que movimenti, cinque verbi, in cui è sintetizzato il processo che
I religiosi e le religiose sono stati chiamati a ritrovare la freschezza già è iniziato, ma dobbiamo più decisamente portare avanti e approdel carisma dei loro Fondatori e delle loro Fondatrici, per esse- fondire: uscire, annunciare, abitare, educare e trasfigurare. Sono
re presenza credibile ed efficace della carità di Cristo tra gli uomi- stati definiti, nella Traccia preparatoria ,come “le cinque vie verni di oggi, con lo sguardo pieno di speranza rivolto al futuro. Se so l’umanità nuova” e a tutte le diocesi italiane è stato richiesto
da essi il papa attende una testimonianza gioiosa e profetica, uno di dare il proprio apporto alla riflessione comune; per questo, nelspirito di comunione non solo al loro interno, ma anche al servi- le prossime settimane, in ogni Comune della diocesi, anche noi
zio di tutta la Chiesa, una verifica del loro carisma e una capa- ci ritroveremo per prepararci a vivere questo evento, che coincità di uscire e affrontare le nuove esigenze, allo stesso tempo volgerà tutte le Chiese d’Italia.
egli richiama tutti i cristiani a sentirsi partecipi di questo cammi- Un altro evento ci attende, e questo riguarda la Chiesa sparsa
no, in quanto, come egli stesso disse nel Sinodo del 1994, la vita su tutta la Terra: il secondo e conclusivo Sinodo dei Vescovi sul
consacrata “è dono alla Chiesa, nasce nella Chiesa, cresce nel- tema della Famiglia. Grande è stato l’interesse suscitato, nell’ottobre
la Chiesa, è tutta orientata alla Chiesa”.
scorso, dalla prima fase della riflessione dei vescovi delegati, di
Per questo, ancora una volta, il pomeriggio del 2 febbraio ci sia- cui è stata inviata una sintesi, accompagnata da una ulteriore richiemo ritrovati in Cattedrale con tutte le religiose ed i religiosi del- sta di partecipazione, attraverso un articolato questionario.
la diocesi per celebrare la Liturgia della Luce, che è Cristo stes- Lo esamineremo e ne discuteremo nel primo incontro del rinnoso, il quale ci illumina e ci rende capaci di essere luce per gli altri, vato Consiglio Pastorale diocesano, per poter inviare anche il nostro
a partire dal Battesimo e per tutto il pellegrinaggio della nostra piccolo contributo alla Commissione preparatoria del Sinodo.
vita. Di questo itinerario la tappa che ci sta davanti è particolar- Come si può vedere, l’agenda che ci sta di fronte è ricca, intemente stimolante e ricca di spunti di riflessione, poiché nell’an- ressante ed impegnativa e ci offre anche l’occasione per poter
no che si è aperto vivremo alcuni momenti straordinari e decisi- proseguire ed approfondire il percorso iniziato con la Visita Pastorale,
vi e non soltanto per la nostra diocesi. Il primo riguarda tutte le che ci ha provvidenzialmente predisposti a condividere l’ansia di
Chiese d’Italia, che si ritroveranno a Firenze, nel prossimo novem- maturazione e di crescita che si avverte in tutta la Chiesa, anche
bre, per il quinto Convegno Ecclesiale Nazionale, che avrà come per l’impulso del carisma straordinario di Papa Francesco.
tema: “In Gesù Cristo, il Nuovo Umanesimo”.
Il Signore, che sempre guida il suo Popolo, ci sostenga e ci conL’appuntamento, che si rinnova ogni dieci anni e ci consente di ceda sapienza e coraggio per renderci degni di essere e di chiaverificare la situazione delle nostre comunità e orientarle al futu- marci “cristiani”.
D
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4
sintesi a cura di
Stanislao Fioramonti
1. I destini di ogni nazione sono più che mai collegati tra loro. Ma viviamo in un’epoca in cui i
rapporti tra le nazioni sono troppo spesso rovinati dal sospetto reciproco, che a volte si tramuta in forme di aggressione bellica ed economica,
mina l’amicizia tra fratelli e rifiuta o scarta chi
già è escluso. Lo sa bene chi manca del pane
quotidiano e di un lavoro dignitoso.
Questo è il quadro del mondo, in cui si devono
riconoscere i limiti di impostazioni basate sulla
sovranità di ognuno degli Stati, intesa come assoluta, e sugli interessi nazionali, condizionati spesso da ridotti gruppi di potere. (…)
Il diritto all’alimentazione sarà garantito solo se
ci preoccupiamo del suo soggetto reale, vale a
dire la persona che patisce gli effetti della fame
e della denutrizione. Oggi si parla molto di diritti, dimenticando spesso i doveri; forse ci siamo
preoccupati troppo poco di quanti soffrono la fame.
È inoltre doloroso constatare che la lotta contro la fame e la denutrizione viene ostacolata
dalla “priorità del mercato”, e dalla “preminenza del guadagno”, che hanno ridotto il cibo a
una merce qualsiasi, soggetta a speculazione,
anche finanziaria. E mentre si parla di nuovi diritti, l’affamato è lì, all’angolo della strada, e chiede diritto di cittadinanza, chiede di essere considerato nella sua condizione, di ricevere una
sana alimentazione di base. Ci chiede dignità,
non elemosina.
2. Questi criteri non possono restare nel limbo
della teoria. Le persone e i popoli esigono che
si metta in pratica la giustizia; non solo la giustizia legale, ma anche quella contributiva e quella distributiva. Pertanto, i piani di sviluppo e il
lavoro delle organizzazioni internazionali dovrebbero tener conto del desiderio, tanto frequente
tra la gente comune, di vedere in ogni circostanza
rispettati i diritti fondamentali della persona umana e, nel nostro caso, della persona che ha fame.
Quando questo accadrà, anche gli interventi umanitari, le operazioni urgenti di aiuto e di sviluppo - quello vero, integrale – avranno maggiore
impulso e daranno i frutti desiderati.
3. L’interesse per la produzione, la disponibilità di cibo e l’accesso a esso, il cambiamento
climatico, il commercio agricolo devono indubbiamente ispirare le regole e le misure tecniche,
ma la prima preoccupazione deve essere la persona stessa, quanti mancano del cibo quotidiano
e hanno smesso di pensare alla vita, ai rapporti
familiari e sociali, e lottano solo per la sopravvivenza. Il Santo Papa Giovanni Paolo II, nell’inaugurazione, in questa sala, della Prima Conferenza
sulla Nutrizione, nel 1992, mise in guardia la comunità internazionale contro il rischio del “paradosso
dell’abbondanza”: c’è cibo per tutti, ma non tutti possono mangiare, mentre lo spreco, lo scarto, il consumo eccessivo e l’uso di alimenti per
altri fini sono davanti ai nostri occhi. Questo è
il paradosso!
Purtroppo questo “paradosso” continua a essere attuale. Ci sono pochi temi sui quali si sfoderano tanti sofismi come su quello della fame;
e pochi argomenti tanto suscettibili di essere manipolati dai dati, dalle statistiche, dalle esigenze
di sicurezza nazionale, dalla corruzione o da un
richiamo doloroso alla crisi economica. Questa è la prima sfida che bisogna superare.
La seconda sfida che si deve affrontare è la mancanza di solidarietà. Una parola che abbiamo inconsciamente il sospetto di dover togliere dal dizionario. Le nostre
società sono caratterizzate da un
crescente individualismo e dalla divisione; ciò finisce col privare
i più deboli di una vita degna e
con il provocare rivolte contro le
istituzioni. Quando manca la solidarietà in un paese, ne risentono tutti. Di fatto, la solidarietà è
l’atteggiamento che rende le persone capaci di andare incontro
all’altro e di fondare i propri rapporti reciproci su quel sentimento
di fratellanza che va al di là delle differenze e dei limiti, e spinge a cercare insieme il bene comune. Gli esseri umani, nella misura in cui prendono coscienza di
essere parte responsabile del disegno della creazione, diventano
capaci di rispettarsi reciprocamente,
invece di combattere tra loro, danneggiando e impoverendo il
pianeta. Anche agli Stati, concepiti
come comunità di persone e di
popoli, viene chiesto di agire di comune accordo, di essere disposti ad aiutarsi gli uni gli altri
mediante i principi e le norme che il diritto internazionale mette a loro disposizione.
Una fonte inesauribile d’ispirazione è la legge
naturale, iscritta nel cuore umano, che parla un
linguaggio che tutti possono capire: amore, giustizia, pace, elementi inseparabili tra loro.
Come le persone, anche gli Stati e le istituzioni internazionali sono chiamati ad accogliere e
a coltivare questi valori, in uno spirito di dialogo e di ascolto reciproco. In tal modo, l’obiettivo di nutrire la famiglia umana diventa realizzabile.
4. Ogni donna, uomo, bambino, anziano deve
poter contare su queste garanzie dovunque. Ed
è dovere di ogni Stato, attento al benessere dei
suoi cittadini, sottoscriverle senza riserve, e preoccuparsi della loro applicazione. Ciò richiede perseveranza e sostegno. La Chiesa cattolica cerca di offrire anche in questo campo il proprio
contributo, mediante un’attenzione costante alla
vita dei poveri, dei bisognosi in ogni parte del
pianeta; su questa stessa linea si muove il coinvolgimento attivo della Santa Sede nelle organizzazioni internazionali. S’intende in tal modo
contribuire a identificare e adottare i criteri che
devono realizzare lo sviluppo di un sistema internazionale equo. Sono criteri che, sul piano etico, si basano su pilastri come la verità, la libertà, la giustizia e la solidarietà; allo stesso tempo, in campo giuridico, questi stessi criteri includono la relazione tra il diritto all’alimentazione
e il diritto alla vita e a un’esistenza degna, il diritcontinua nella pag. accanto
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sintesi a cura di Stanislao Fioramonti
Cari fratelli e sorelle, buon Natale!
Gesù, il Figlio di Dio, il Salvatore del mondo, è nato per noi. E’ nato a
Betlemme da una vergine, realizzando le antiche profezie. La vergine
si chiama Maria, il suo sposo Giuseppe. Sono le persone umili, piene
di speranza nella bontà di Dio, che accolgono Gesù e lo riconoscono.
Così lo Spirito Santo ha illuminato i pastori di Betlemme, che sono accorsi alla grotta e hanno adorato il Bambino. E poi lo Spirito ha guidato gli
anziani Simeone e Anna, umili, nel tempio di Gerusalemme, e loro hanno riconosciuto in Gesù il Messia.
«I miei occhi hanno visto la tua salvezza» - esclama Simeone - «salvezza preparata da [Dio] davanti a tutti i popoli» (Lc 2,30). Sì, fratelli,
Gesù è la salvezza per ogni persona e per ogni popolo! A Lui, Salvatore
del mondo, domando oggi che guardi i nostri fratelli e sorelle dell’Iraq
e della Siria che da troppo tempo soffrono gli effetti del conflitto in corso e, insieme con gli appartenenti ad
altri gruppi etnici e religiosi, patiscono
una brutale persecuzione.
Il Natale porti loro speranza, come ai
numerosi sfollati, profughi e rifugiati, bambini, adulti e anziani, della Regione e
del mondo intero; muti l’indifferenza in
vicinanza e il rifiuto in accoglienza, perché quanti ora sono nella prova possano ricevere i necessari aiuti umanitari per sopravvivere alla rigidità dell’inverno,
fare ritorno nei loro Paesi e vivere con
dignità. Possa il Signore aprire alla fiducia i cuori e donare la sua pace a tutto il Medio Oriente, a partire dalla Terra
benedetta dalla sua nascita, sostenendo
gli sforzi di coloro che si impegnano fattivamente per il dialogo fra Israeliani e
Palestinesi. Gesù, Salvatore del mondo, guardi quanti soffrono in Ucraina
e conceda a quell’amata terra di superare le tensioni, vincere l’odio e la violenza e intraprendere un nuovo cammino di fraternità e riconciliazione.
Cristo Salvatore doni pace alla Nigeria,
dove altro sangue viene versato e troppe persone sono ingiustamente sottratte ai propri affetti e tenute in ostaggio o massacrate. Pace invoco anche per altre parti del continente africano. Penso in particolare alla Libia, al Sud Sudan, alla Repubblica
Centroafricana e a varie regioni della Repubblica Democratica del Congo;
e chiedo a quanti hanno responsabilità politiche di impegnarsi attraverso il dialogo a superare i contrasti e a costruire una duratura convivenza fraterna. Gesù salvi i troppi fanciulli vittime di violenza, fatti oggetto di mercimonio e della tratta delle persone, oppure costretti a diventare soldati; bambini, tanti bambini abusati. Dia conforto alle famiglie dei
segue da pag. 4
to a essere tutelati dalla legge, non sempre vicina alla realtà di chi soffre la fame, e l’obbligo
morale di condividere la ricchezza economica
del mondo.
Se si crede al principio dell’unità della famiglia
umana, fondato sulla paternità di Dio Creatore,
e alla fratellanza degli esseri umani, nessuna
forma di pressione politica o economica che si
serva della disponibilità di cibo può essere accettabile. Pressione politica ed economica. E qui
penso alla nostra sorella e madre terra, al Pianeta.
Se siamo liberi da pressioni politiche ed eco-
bambini uccisi in Pakistan la settimana scorsa. Sia vicino a quanti
soffrono per le malattie, in particolare alle vittime dell’epidemia di Ebola,
soprattutto in Liberia, in Sierra Leone e in Guinea. Mentre di cuore
ringrazio quanti si stanno adoperando coraggiosamente per assistere i
malati ed i loro familiari, rinnovo un pressante invito ad assicurare l’assistenza e le terapie necessarie. Gesù Bambino. Il mio pensiero va a
tutti i bambini oggi uccisi e maltrattati, sia a quelli che lo sono prima di vedere la luce, privati dell’amore generoso dei loro genitori e seppelliti nell’egoismo di una cultura che non ama la vita; sia a quei bambini sfollati a motivo delle guerre e delle persecuzioni, abusati e sfruttati sotto i nostri occhi e il nostro silenzio complice; e ai bambini massacrati sotto i bombardamenti, anche là dove il figlio di Dio è nato.
Ancora oggi il loro silenzio impotente grida sotto la spada di tanti Erode.
Sopra il loro sangue campeggia oggi l’ombra degli attuali Erode. Davvero
tante lacrime ci sono in questo Natale insieme alle lacrime di Gesù Bambino!
Cari fratelli e sorelle, che lo Spirito Santo illumini oggi i nostri cuori, perché possiamo riconoscere nel Bambino Gesù, nato a Betlemme dalla
Vergine Maria, la salvezza donata da Dio ad ognuno di noi, ad ogni uomo
e a tutti i popoli della terra. Il potere di Cristo, che è liberazione e servizio, si faccia sentire in tanti cuori che soffrono guerre, persecuzioni,
schiavitù. Che con la sua mansuetudine questo potere divino tolga la
durezza dai cuori di tanti uomini e donne immersi nella mondanità e nell’indifferenza, nella globalizzazione dell’indifferenza. Che la sua forza redentrice trasformi le armi in aratri, la distruzione in creatività, l’odio in amore e tenerezza. Così potremo dire con gioia: “I nostri occhi hanno visto
la tua salvezza”. Con questi pensieri, buon Natale a tutti!
nomiche per custodirlo, per evitare che si autodistrugga. Abbiamo davanti Perù e Francia, due
conferenze che ci lanciano una sfida.
Custodire il Pianeta. Ricordo una frase che ho
sentito da un anziano, molti anni fa: “Dio perdona sempre, le offese, gli abusi; Dio sempre
perdona. Gli uomini perdonano a volte. La terra non perdona mai!
Custodire la sorella terra, la madre terra, affinché non risponda con la distruzione. Ma, soprattutto, nessun sistema di discriminazione, di fatto o di diritto, vincolato alla capacità di accesso al mercato degli alimenti, deve essere pre-
so come modello delle azioni internazionali che
si propongono di eliminare la fame.
Nel condividere queste riflessioni con voi,
chiedo all’Onnipotente, al Dio ricco di misericordia,
di benedire tutti coloro che, con responsabilità
diverse, si mettono al servizio di quanti soffrono la fame e sanno assisterli con gesti concreti
di vicinanza. Prego anche affinché la comunità internazionale sappia ascoltare l’appello di questa Conferenza e lo consideri un’espressione
della comune coscienza dell’umanità: dare da
mangiare agli affamati per salvare la vita nel pianeta.
Febbraio
2015
6
Cari fratelli e sorelle,
la Quaresima è un tempo di
rinnovamento per la Chiesa,
le comunità e i singoli fedeli. Soprattutto però è un
“tempo di grazia” (2 Cor 6,2).
Dio non ci chiede nulla che
prima non ci abbia donato:
“Noi amiamo perché egli ci
ha amati per primo” (1 Gv 4,19).
Lui non è indifferente a noi.
Ognuno di noi gli sta a cuore, ci conosce per nome, ci
cura e ci cerca quando lo lasciamo. Ciascuno di noi gli interessa; il suo amore gli impedisce di essere indifferente
a quello che ci accade. Però
succede che quando noi
stiamo bene e ci sentiamo
comodi, certamente ci dimentichiamo degli altri (cosa
che Dio Padre non fa mai),
non ci interessano i loro problemi, le loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… allora il
nostro cuore cade nell’indifferenza: mentre io sto
relativamente bene e comodo, mi dimentico di
quelli che non stanno bene. Questa attitudine egoistica, di indifferenza, ha preso oggi una dimensione mondiale, a tal punto che possiamo parlare di una globalizzazione dell’indifferenza. Si
tratta di un disagio che, come cristiani, dobbiamo affrontare.
Quando il popolo di Dio si converte al suo amore, trova le risposte a quelle domande che continuamente la storia gli pone. Una delle sfide più
urgenti sulla quale voglio soffermarmi in questo
Messaggio è quella della globalizzazione dell’indifferenza. L’indifferenza verso il prossimo e
verso Dio è una reale tentazione anche per noi
cristiani. Abbiamo perciò bisogno di sentire in ogni
Quaresima il grido dei profeti che alzano la voce
e ci svegliano. Dio non è indifferente al mondo,
ma lo ama fino a dare il suo Figlio per la salvezza
di ogni uomo. Nell’incarnazione, nella vita terrena,
nella morte e risurrezione del Figlio di Dio, si apre
definitivamente la porta tra Dio e uomo, tra cielo e terra. E la Chiesa è come la mano che tiene aperta questa porta mediante la proclamazione della Parola, la celebrazione dei Sacramenti,
la testimonianza della fede che si rende efficace nella carità (cfr Gal 5,6). Tuttavia, il mondo
tende a chiudersi in se stesso e a chiudere quella porta attraverso la quale Dio entra nel mondo e il mondo in Lui. Così la mano, che è la Chiesa,
non deve mai sorprendersi se viene respinta, schiacciata e ferita.
Il popolo di Dio ha perciò bisogno di rinnovamento,
per non diventare indifferente e per non chiudersi
in se stesso. Vorrei proporvi tre passi da meditare per questo rinnovamento.
1. “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono” (1 Cor 12,26) - La Chiesa
La carità di Dio che rompe quella mortale chiusura in se stessi che è l’indifferenza, ci viene offerta dalla Chiesa con il suo insegnamento e, soprat-
tutto, con la sua testimonianza. Si può però testimoniare solo qualcosa che prima abbiamo sperimentato. Il cristiano è colui che permette a Dio
di rivestirlo della sua bontà e misericordia, di rivestirlo di Cristo, per diventare come Lui, servo di
Dio e degli uomini. Ce lo ricorda bene la liturgia
del Giovedì Santo con il rito della lavanda dei piedi. Pietro non voleva che Gesù gli lavasse i piedi, ma poi ha capito che Gesù non vuole essere solo un esempio per come dobbiamo lavarci
i piedi gli uni gli altri. Questo servizio può farlo
solo chi prima si è lasciato lavare i piedi da Cristo.
Solo questi ha “parte” con lui (Gv 13,8) e così
può servire l’uomo.
La Quaresima è un tempo propizio per lasciarci servire da Cristo e così diventare come Lui.
Ciò avviene quando ascoltiamo la Parola di Dio
e quando riceviamo i sacramenti, in particolare
l’Eucaristia. In essa diventiamo ciò che riceviamo: il corpo di Cristo. In questo corpo quell’indifferenza che sembra prendere così spesso il
potere sui nostri cuori, non trova posto. Poiché
chi è di Cristo appartiene ad un solo corpo e in
Lui non si è indifferenti l’uno all’altro. “Quindi se
un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui” (1 Cor 12,26).
La Chiesa è communio sanctorum perché vi partecipano i santi, ma anche perché è comunione
di cose sante: l’amore di Dio rivelatoci in Cristo
e tutti i suoi doni. Tra essi c’è anche la risposta
di quanti si lasciano raggiungere da tale amore.
In questa comunione dei santi e in questa partecipazione alle cose sante nessuno possiede
solo per sé, ma quanto ha è per tutti. E poiché
siamo legati in Dio, possiamo fare qualcosa anche
per i lontani, per coloro che con le nostre sole
forze non potremmo mai raggiungere, perché con
loro e per loro preghiamo Dio affinché ci apriamo tutti alla sua opera di salvezza.
2. “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9) - Le parrocchie e le comunità
Quanto detto per la Chiesa universale è neces-
sario tradurlo nella vita delle parrocchie e comunità. Si riesce in tali realtà ecclesiali a sperimentare di far parte di un
solo corpo? Un corpo che
insieme riceve e condivide quanto Dio vuole donare? Un corpo, che conosce e si prende cura dei
suoi membri più deboli,
poveri e piccoli? O ci rifugiamo in un amore universale che si impegna
lontano nel mondo, ma
dimentica il Lazzaro seduto davanti alla propria porta chiusa ? (cfr Lc 16,1931). Per ricevere e far fruttificare pienamente quanto Dio ci dà vanno superati i confini della Chiesa
visibile in due direzioni.
In primo luogo, unendoci alla Chiesa del cielo nella preghiera. Quando
la Chiesa terrena prega, si instaura una comunione di reciproco servizio e di bene che giunge fino al cospetto di Dio. Con i santi che hanno trovato la loro pienezza in Dio, formiamo parte di quella comunione nella quale l’indifferenza
è vinta dall’amore. La Chiesa del cielo non è trionfante perché ha voltato le spalle alle sofferenze
del mondo e gode da sola. Piuttosto, i santi possono già contemplare e gioire del fatto che, con
la morte e la resurrezione di Gesù, hanno vinto
definitivamente l’indifferenza, la durezza di cuore e l’odio. Finché questa vittoria dell’amore non
compenetra tutto il mondo, i santi camminano con
noi ancora pellegrini. Santa Teresa di Lisieux, dottore della Chiesa, scriveva convinta che la gioia
nel cielo per la vittoria dell’amore crocifisso non
è piena finché anche un solo uomo sulla terra
soffre e geme: “Conto molto di non restare inattiva in cielo, il mio desiderio è di lavorare ancora per la Chiesa e per le anime” (Lettera 254 del
14 luglio 1897).
Anche noi partecipiamo dei meriti e della gioia
dei santi ed essi partecipano alla nostra lotta e
al nostro desiderio di pace e di riconciliazione.
La loro gioia per la vittoria di Cristo risorto è per
noi motivo di forza per superare tante forme d’indifferenza e di durezza di cuore.
D’altra parte, ogni comunità cristiana è chiamata a varcare la soglia che la pone in relazione
con la società che la circonda, con i poveri e i
lontani. La Chiesa per sua natura è missionaria,
non ripiegata su se stessa, ma mandata a tutti
gli uomini.
Questa missione è la paziente testimonianza di
Colui che vuole portare al Padre tutta la realtà
ed ogni uomo. La missione è ciò che l’amore non
può tacere. La Chiesa segue Gesù Cristo sulla
strada che la conduce ad ogni uomo, fino ai confini della terra (cfr At 1,8). Così possiamo vedere nel nostro prossimo il fratello e la sorella per
i quali Cristo è morto ed è risorto. Quanto abbiacontinua nella pag. accanto
Febbraio
2015
7
Claudio Gessi
D
omenica 4 gennaio, presso la
Cattedrale di San
Clemente a Velletri si è svolta la 6a Giornata Diocesana
della Pace, organizzata dalla Commissione Diocesana
per la Pastorale Sociale
e il Lavoro, rappresentata per l’occasione dal
diacono Paolo Caponera
e dal direttore della
Commissione Regionale
PSL della Conferenza
Episcopale Laziale Claudio
Gessi. Come da tradizione il Vescovo Diocesano
Mons. Vincenzo Apicella
ha celebrato la S. Messa alla presenza dei sindaci dei Municipi ricadenti sul territorio diocesano. Quest’anno erano presenti i rappresentanti di 6 degli 8 Comuni interessati: Velletri con
segue da pag. 6
mo ricevuto, lo abbiamo ricevuto anche per loro.
E parimenti, quanto questi fratelli possiedono è
un dono per la Chiesa e per l’umanità intera.
Cari fratelli e sorelle, quanto desidero che i luoghi in cui si manifesta la Chiesa, le nostre parrocchie e le nostre comunità in particolare, diventino delle isole di misericordia in mezzo al mare
dell’indifferenza!
3. “Rinfrancate i vostri cuori !” (Gc 5,8) - Il singolo fedele
Anche come singoli abbiamo la tentazione dell’indifferenza. Siamo saturi di notizie e immagini sconvolgenti che ci narrano la sofferenza umana e sentiamo nel medesimo tempo tutta la nostra
incapacità ad intervenire. Che cosa fare per non
lasciarci assorbire da questa spirale di spavento e di impotenza?
In primo luogo, possiamo pregare nella comunione della Chiesa terrena e celeste. Non trascuriamo
la forza della preghiera di tanti! L’iniziativa 24 ore
per il Signore, che auspico si celebri in tutta la
Chiesa, anche a livello diocesano, nei giorni 13
e 14 marzo, vuole dare espressione a questa necessità della preghiera.
In secondo luogo, possiamo aiutare con gesti di
il vice sindaco Marcello Pontecorvi, Lariano con
il sindaco Maurizio Caliciotti, Artena con il sindaco Felicetto Angelini, Valmontone con il vice
sindaco Eleonora Mattia, Segni con il sindaco
carità, raggiungendo sia i vicini che i lontani, grazie ai tanti organismi di carità della Chiesa. La
Quaresima è un tempo propizio per mostrare questo interesse all’altro con un segno, anche piccolo, ma concreto, della nostra partecipazione
alla comune umanità.
E in terzo luogo, la sofferenza dell’altro costituisce un richiamo alla conversione, perché il bisogno del fratello mi ricorda la fragilità della mia
vita, la mia dipendenza da Dio e dai fratelli. Se
umilmente chiediamo la grazia di Dio e accettiamo i limiti delle nostre possibilità, allora confideremo nelle infinite possibilità che ha in serbo l’amore di Dio. E potremo resistere alla tentazione diabolica che ci fa credere di poter salvarci e salvare il mondo da soli.
Per superare l’indifferenza e le nostre pretese di
onnipotenza, vorrei chiedere a tutti di vivere questo tempo di Quaresima come un percorso di formazione del cuore, come ebbe a dire Benedetto
XVI (Lett. enc. Deus caritas est, 31). Avere un
cuore misericordioso non significa avere un cuore debole. Chi vuole essere misericordioso ha
bisogno di un cuore forte, saldo, chiuso al tentatore, ma aperto a Dio. Un cuore che si lasci
compenetrare dallo Spirito e portare sulle stra-
Maria Assunta Boccardelli e Colleferro
con il commissario prefettizio
Alessandra de Notaristefani di
Vastogirardi.
Nel corso dell’omelia il vescovo ha ricordato i
punti fondamentali del Messaggio di Papa Francesco
per la 58a Giornata Mondiale della Pace: Non
più schiavi ma fratelli.
Il Messaggio ed un’ampia riflessione di Mons.
Apicella sullo stesso sono state riportate nel
precedente numero di Ecclesia.
Al termine dell’omelia il vescovo ha fatto dono
della pregiata edizione in pergamena del
Messaggio, edita dalla Libreria Editrice
Vaticana.
Come consuetudine, dopo la S. Messa il vescovo, con un cordiale brindisi tenuto nei locali della Cattedrale, ha scambiato gli auguri
per un costruttivo 2015 con tutti i presenti.
de dell’amore che conducono ai fratelli e alle sorelle. In fondo, un cuore povero, che conosce cioè
le proprie povertà e si spende per l’altro.
Per questo, cari fratelli e sorelle, desidero pregare con voi Cristo in questa Quaresima: “Fac
cor nostrum secundum cor tuum”: “Rendi il nostro
cuore simile al tuo” (Supplica dalle Litanie al Sacro
Cuore di Gesù). Allora avremo un cuore forte e
misericordioso, vigile e generoso, che non si lascia
chiudere in se stesso e non cade nella vertigine della globalizzazione dell’indifferenza.
Con questo auspicio, assicuro la mia preghiera
affinché ogni credente e ogni comunità ecclesiale
percorra con frutto l’itinerario quaresimale, e vi
chiedo di pregare per me. Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca.
Dal Vaticano, 4 ottobre 2014
Festa di San Francesco d’Assisi
Francesco
Nell’immagine del titolo: Gesù guarisce il paralitico,
Betsaida, Carl Heinrich Bloch.
Febbraio
2015
8
a cura di Stanislao Fioramonti
Sapientia cordis. “Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo” (Gb 29,15)
Cari fratelli e sorelle,
in occasione della XXIII Giornata Mondiale del
Malato, istituita da san Giovanni Paolo II, mi rivolgo a tutti voi che portate il peso della malattia e
siete in diversi modi uniti alla carne di Cristo sofferente; come pure a voi, professionisti e volontari nell’ambito sanitario.
Il tema di quest’anno ci invita a meditare un’espressione del Libro di Giobbe: «Io ero gli occhi
per il cieco, ero i piedi per lo zoppo» (29,15). Vorrei
farlo nella prospettiva della “sapientia cordis”, la
sapienza del cuore.
1. Questa sapienza non è una conoscenza teorica, astratta, frutto di ragionamenti. Essa piuttosto, come la descrive san Giacomo nella sua
Lettera, è «pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera» (3,17). È dunque un atteggiamento infuso dallo Spirito Santo nella mente e
nel cuore di chi sa aprirsi alla sofferenza dei fratelli e riconosce in essi l’immagine di Dio. Facciamo
nostra, pertanto, l’invocazione del Salmo:
«Insegnaci a contare i nostri giorni / e acquisteremo
un cuore saggio» (Sal 90,12). In questa sapientia cordis, che è dono di Dio, possiamo riassu-
mere i frutti della Giornata
Mondiale del Malato.
2. Sapienza del cuore è servire
il fratello. Nel discorso di Giobbe
che contiene le parole «io ero gli
occhi per il cieco, ero i piedi per
lo zoppo», si evidenzia la dimensione di servizio ai bisognosi da
parte di quest’uomo giusto, che
gode di una certa autorità e ha
un posto di riguardo tra gli anziani della città. La sua statura morale si manifesta nel servizio al povero che chiede aiuto, come pure
nel prendersi cura dell’orfano e
della vedova (vv.12-13).
Quanti cristiani anche oggi testimoniano, non con le parole, ma
con la loro vita radicata in una fede
genuina, di essere “occhi per il cieco” e “piedi per lo zoppo”!
Persone che stanno vicino ai malati che hanno bisogno di un’assistenza continua, di un aiuto per
lavarsi, per vestirsi, per nutrirsi.
Questo servizio, specialmente quando si prolunga nel tempo, può diventare faticoso e pesante.
È relativamente facile servire
per qualche giorno, ma è difficile accudire una persona per
mesi o addirittura per anni, anche
quando essa non è più in grado
di ringraziare.
E tuttavia, che grande cammino
di santificazione è questo! In quei
momenti si può contare in modo
particolare sulla vicinanza del Signore, e si è anche
di speciale sostegno alla missione della Chiesa.
3. Sapienza del cuore è stare con il fratello. Il
tempo passato accanto al malato è un tempo santo. È lode a Dio, che ci conforma all’immagine
di suo Figlio, il quale «non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20,28).
Gesù stesso ha detto: «Io sto in mezzo a voi come
colui che serve» (Lc 22,27). Chiediamo con viva
fede allo Spirito Santo che ci doni la grazia di
comprendere il valore dell’accompagnamento, tante volte silenzioso, che ci porta a dedicare tempo a queste sorelle e a questi fratelli, i quali, grazie alla nostra vicinanza e al nostro affetto, si sentono più amati e confortati.
Quale grande menzogna invece si nasconde dietro certe espressioni che insistono tanto sulla “qualità della vita”, per indurre a credere che le vite
gravemente affette da malattia non sarebbero degne
di essere vissute!
4. Sapienza del cuore è uscire da sé verso il fratello. Il nostro mondo dimentica a volte il valore
speciale del tempo speso accanto al letto del malato, perché si è assillati dalla fretta, dalla frenesia del fare, del produrre, e si dimentica la dimensione della gratuità, del prendersi cura, del farsi carico dell’altro. In fondo, dietro questo atteggiamento c’è spesso una fede tiepida, che ha dimenticato quella parola del Signore che dice:
«L’avete fatto a me» (Mt 25,40).
Per questo, vorrei ricordare ancora una volta «l’assoluta priorità dell’“uscita da sé verso il fratello”
come uno dei due comandamenti principali che
fondano ogni norma morale e come il segno più
chiaro per fare discernimento sul cammino di crescita spirituale in risposta alla donazione assolutamente gratuita di Dio» (Esort. ap. Evangelii
gaudium, 179). Dalla stessa natura missionaria
della Chiesa sgorgano «la carità effettiva per il
prossimo, la compassione che comprende,
assiste e promuove» (ibid.).
5. Sapienza del cuore è essere solidali col fratello senza giudicarlo. La carità ha bisogno di tempo. Tempo per curare i malati e tempo per visitarli. Tempo per stare accanto a loro come fecero gli amici di Giobbe: «Poi sedettero accanto a
lui in terra, per sette giorni e sette notti. Nessuno
gli rivolgeva una parola, perché vedevano che
molto grande era il suo dolore» (Gb 2,13). Ma
gli amici di Giobbe nascondevano dentro di sé
un giudizio negativo su di lui: pensavano che la
sua sventura fosse la punizione di Dio per una
sua colpa. Invece la vera carità è condivisione
che non giudica, che non pretende di convertire l’altro; è libera da quella falsa umiltà che sotto sotto cerca approvazione e si compiace del
bene fatto. L’esperienza di Giobbe trova la sua
autentica risposta solo nella Croce di Gesù, atto
supremo di solidarietà di Dio con noi, totalmente gratuito, totalmente misericordioso.
E questa risposta d’amore al dramma del dolore umano, specialmente del dolore innocente, rimane per sempre impressa nel corpo di Cristo risorto, in quelle sue piaghe gloriose, che sono scandalo per la fede ma sono anche verifica della fede
(cfr Omelia per la canonizzazione di Giovanni XXIII
e Giovanni Paolo II, 27 aprile 2014). Anche quando la malattia, la solitudine e l’inabilità hanno il
sopravvento sulla nostra vita di donazione, l’esperienza del dolore può diventare luogo privilegiato della trasmissione della grazia e fonte per
acquisire e rafforzare la sapientia cordis.
Si comprende perciò come Giobbe, alla fine della sua esperienza, rivolgendosi a Dio possa affermare: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma
ora i miei occhi ti hanno veduto» (42,5). Anche
le persone immerse nel mistero della sofferenza e del dolore, accolto nella fede, possono diventare testimoni viventi di una fede che permette
di abitare la stessa sofferenza, benché l’uomo
con la propria intelligenza non sia capace di comprenderla fino in fondo.
6. Affido questa Giornata Mondiale del Malato alla
protezione materna di Maria, che ha accolto nel
grembo e generato la Sapienza incarnata,
Gesù Cristo, nostro Signore.
O Maria, Sede della Sapienza, intercedi quale
nostra Madre per tutti i malati e per coloro che
se ne prendono cura. Fa’ che, nel servizio al prossimo sofferente e attraverso la stessa esperienza
del dolore, possiamo accogliere e far crescere
in noi la vera sapienza del cuore. Accompagno
questa supplica per tutti voi con la mia
Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 3 dicembre 2014,
Memoria di San Francesco Saverio
Febbraio
2015
9
prof. Massimiliano Postorino*
I
l sole appena caldo filtrava attraverso i vetri
opachi di una finestra nella camera anonima di un comune ospedale; volti bassi
e attoniti circondavano un’esile donna malata, distrutta dalla chemioterapia e da ore ormai
in coma, pietosamente indotto dai farmaci per
annullare l’ansia di morte imminente che la poverina avvertiva. La sua fine naturale, che mai
avremmo voluto, era ormai vicina. Entrai nella stanza dove il silenzio era rotto solo dal gorgoglio dell’ossigeno ed il volto desolato di un
medico rianimatore trovò di slancio il mio sguardo, quasi a cercar conforto. Entravo in quella camera come il medico di quella povera donna, ma soprattutto e più ancora come figlio.
Questo duplice ruolo, questa pesante croce
di decidere su mia madre, malata terminale
di un cancro inguaribile, mi era stata data dal
Signore e sfortunatamente sulla mia strada non
avevo incontrato un Cireneo che , mossosi a
pietà, mi avesse alleggerito il peso. In tante
occasioni, per il mio lavoro di oncologo, mi ero
trovato di fronte a Sorella Morte, la più onesta e leale nemica di un medico, ma anche la
più pietosa ed imparziale resa di ogni battaglia: se infatti le malattie sono spesso subdole,
nascoste, infami e tenaci, la Morte al fine pietosamente chiude ogni esistenza e congeda
l’anima a Dio.
Quel giorno mi trovai di fronte lo spettro che
tante volte avevo immaginato, nella duplice
veste di una fredda mente medica ed il cuore caldo di figlio: decidere di metter fine alle
terapie o accanirmi per tenerla legata alla vita.
Il collega animosamente insisteva per intubare
mia madre, per effettuare l’ultimo estremo tentativo che avrebbe allungato la sua “agonia”
per ore, forse per giorni. Con la freddezza di
chi, portando un camice, spesso dimentica la
sensibilità di un’anima ed il rispetto di una vita,
mi parlava di percentuali infinitesime di tamponare il problema, come se ragionasse di un corpo senza nome.
Ad un tratto risposi: “collega è mia madre.. lascia
che la mia pietà di medico e di figlio si ricongiungano”.
Il collega abbassò lo sguardo ed andò via, lasciandomi con lei, con i suoi respiri, il suo battito che
avrei per poco ancora ascoltato, senza infliggerle
altri inutili tentativi di egoistico trattenimento in questa vita. Quella è stata per me la più difficile decisione medica della mia carriera.
Oggi si parla senza alcuna cognizione scientifica e senza alcuna esperienza , né tantomeno rispetto, di EUTANASIA. La fredda opinione pubblica,
l’attuale società che ha sostituito il “consumismo”
,esaurito dalla crisi, con “l’egocentrismo razionale”,
cerca di esorcizzare e pretende di rendere la morte ciò che vuole e non ciò che è, per il semplice
motivo che essa, Sorella Morte, non si lascia comprare o nascondere.
A questa società fa paura la Morte e dunque cerca di farne un razionale oggetto su cui programmare
e scegliere; le attuali generazioni sono convinte
che l’egoistica qualità della vita sia il valore più
importante ed in nome di ciò, per sillogistico quanto disperato e folle ragionamento, se una vita ha
perso i “canoni della qualità”, allora come qualsiasi oggetto va gettato.
In realtà anche nella sofferenza e nel dolore , paradossalmente, si può trovare la Bellezza: io ricordo l’ultimo anno di vita di mia madre come il più
intenso, il più umanamente e drammaticamente
dolce condiviso insieme, sebbene era chiaro ad
entrambi che giorno per giorno si avvicinava la
sua fine terrena. In quei giorni abbiamo ripercorso
la nostra storia di figlio e di madre e la forza ed
il coraggio vicendevolmente trasmessoci sono stati la sua pace e le mie fondamenta per il futuro.
Pertanto come può essere lecito un atto di eutanasia solo perché non siamo ciò che vorremmo?,
solo perché la nostra qualità di vita non è al top
e nei limiti che giudichiamo “decenti”’?
Non è certo semplice ne per il paziente ne per i
congiunti sapere che la parabola della propria o
altrui vita si sta concludendo, ma essa stessa è
sempre e comunque vita e va vissuta con le sue
emozioni e le sue pietose sofferenze. Il compito
dei medici non è quello di assecondare gli ideali sconsiderati di questa società, ma impegnarsi
a rimuovere il dolore con i farmaci, a rendere l’ultima parte di vita vivibile fino al suo naturale spegnimento. I medici non abbiano paura di usare
morfina o di indurre stati ipnotico-anestetici per
togliere gli unici veri Nemici dell’ultima ora: il dolore e l’umana disperazione.
Altresì essi non dovrebbero allungare l’agonia finale solo per temporanei tamponamenti delle
situazioni quando un corpo “naturalmente” si sta
spegnendo e l’aspettativa di vita è di ore o forse pochissimi giorni.
Questo io lo definisco “pietà medica” e il codice
deontologico la chiama “astensione dall’accanimento terapeutico”. Ippocrate diceva “un medico che pensa è un dio”, perché può dare o togliere la vita, ma proprio in relazione alla grande responsabilità che assolve, ogni medico deve sentire dentro di se che non gli è dato di metter fine ad alcuna vita, perché essa è degna di essere vissuta
fino in fondo, rendendola vivibile con coraggio,
sacrificio ed amore fino alla fine.
*Cattedra di Malattie del Sangue
Università degli studi di Tor Vergata, Roma
Nell’immagine del titolo: opera pittorica di Xiao Gou Hui.
Febbraio
2015
10
Marta Pietroni
L
e terribili notizie di attentati e stragi, di
violenza e mancanza di rispetto per la
vita umana riempiono quotidianamente
le pagine dei giornali e i telegiornali. Bisogna
però riconoscere che il profondo sconcerto che
deriva dalla presa di coscienza di tali realtà, si
accompagna sempre più spesso ad una sorta
di assuefazione.
Questo meccanismo mentale entra facilmente
in gioco anche quando ci troviamo di fronte a
notizie eticamente rilevati e la riflessione critica cede il passo alla sospensione del giudizio
e al dominio di un pericoloso relativismo. Questo
sarebbe il più grande errore, l’errore di non riconoscere gli “errori sull’uomo”. In passato si sono
commessi orrori terribili, perpetrati sulla base di
concezioni dell’uomo sbagliate.
Oggi possiamo affermare che la mancanza di
rispetto per le altre culture, il razzismo, la schiavitù siano errori e non semplicemente un modo
di vedere le cose, frutto di una certa cultura. Errori
sull’uomo, errori antropologici.
Già all’indomani della Seconda Guerra Mondiale,
dopo il processo di Norimberga - che dovette
prendere posizione circa gli immensi delitti commessi nei confronti dei prigionieri e compiuti con
la collaborazione di medici e scienziati sotto il
regime nazista - si acuì la necessità di stabilire delle frontiere di etica e di comportamento
che avessero valore per tutti gli uomini, in ogni
situazione culturale o storica. Anche dalla
scienza e dalla medicina si doveva pretendere
un senso di responsabilità, non solo nei confronti
del singolo individuo ma dell’intero genere umano, una responsabilità che oggi coinvolge tutti
i membri della comunità sociale perchè l’umanità intera è chiamata a proteggere sé stessa.
Questo il clima generale che nel 1948 ha portato alla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo da parte dell’ONU.
Le innovazioni della tecnica e l’imperante egoismo individualista, gli interessi economici e la
mancanza di rispetto verso l’uomo in tutta la sua
complessità e profondità richiedono un urgente e sempre rinnovato impegno di difesa nei confronti di quei valori e diritti che sono fondamento
della nostra società.
Nell’editoriale del 14 dicembre scorso, Avvenire
ha pubblicato un’interessante riflessione del prof.
Carlo Cardia che inizia proprio con il denunciare
quella tendenza occidentale a porsi come contraria ad alcuni diritti umani che costituiscono
una difesa per la dignità della persona. Una nuova idea di diritto sta mettendo a dura prova i fondamenti stessi dei diritti della persona, così come
è accaduto in Francia, dove il Parlamento ha
approvato un risoluzione che vuole elevare l’aborto a diritto fondamentale.
Questo solo uno dei tanti casi in cui emerge il
totale errore sull’uomo, un’incapacità di discer-
Scheda informativa:
I giudici della Corte di Giustizia europea accolgono il ricorso dell’azienda americana Stem Cell Corporation, che ha messo a punto una produzione di linee cellulari staminali embrionali umane a partire da ovociti attivati per
partenogenesi. Il 18 dicembre scorso la stessa Corte ha sentenziato che la cellula uovo non fecondata ma stimolata attraverso manipolazioni può essere studiata e le sue applicazioni brevettabili e sfruttabili commercialmente, ribaltando
la precedente sentenza del 2011.
Il 18 ottobre 2011 i giudici europei si erano pronunciati sul caso Brüstle
stabilendo che la nozione di embrione comprendeva gli ovuli umani non fecondati. “Costituisce un embrione umano qualunque ovulo umano fin dalla fecondazione, qualunque ovulo umano non fecondato in cui sia stato impiantato il nucleo
di una cellula umana matura e qualunque ovulo umano non fecondato che, attraverso partenogenesi, sia stato indotto a dividersi e a svilupparsi”.
All’epoca era stata l’Associazione Greenpeace ad aver presentato ricor-
nere il giusto e il bene che mina le basi del diritto, inteso come strumento di difesa e tutela dei
più deboli e di chi non si può esprimere. Il prof.
Cardia parla proprio di un processo involutivo
che sta coinvolgendo l’intera Europa, un processo
che, come ha affermato Vittorio Possenti in un
articolo apparso sempre su Avvenire lo scorso
17 dicembre, è processo di imbarbarimento nella comprensione dei diversi diritti umani, palesando un esplicito antiumanesimo e un compromesso
libertarismo da parte degli adulti.
Lo scorso 18 dicembre la Corte di giustizia europea, rovesciando un precedente verdetto del 2011,
ha stabilito la brevettabilità di un ovocita umano non fecondato, riaprendo il dibattito sulla liceità delle tecniche di manipolazione di parti del
corpo umano. Questo ovulo potrà pertanto essere comprato, venduto, usato per sperimentazioni,
oggetto di sfruttamento scientifico, economico
e industriale. Sarà tra l’altro estremamente difficile il controllo su tali ovociti una volta venduti e chi potrà garantire i confini della sperimentazione
una volta che essi siano passati di mano? Ma
perché anche questa sentenza rappresenta una
sfida per la coscienza critica? Perché essa pone
in ballo una questione fondamentale: non soltanto la questione sull’embrione, quanto in primis il rapporto di priorità tra economia ed etica. Il corpo umano, anche se nella forma di una
piccolissima parte, può essere occasione di lucro
e speculazione? Può sottostare alle leggi del mercato e ai suoi meccanismi economici? Può essere trattato come cosa? Si può mercificare l’umano? Prima ancora che la difesa dell’embrione,
si tratta qui di difendere la vita umana dall’uso
strumentale per profitti commerciali ed economici e garantire il massimo controllo sul materiale umano. Tale sentenza apre inoltre la via
alla selezione di ovociti garantiti e perfetti e la
tentazione un giorno di commercializzarli per la
fecondazione eterologa possiamo tutt’altro che
escluderla. Il rischio di derive non più contenibili è purtroppo reale.
Sempre si difende la libertà di agire anche in
campi così delicati in nome della ricerca e della scienza, ma anche la ricerca e la scienza poggiano su basi etiche fondamentali senza le quali inevitabili sarebbero quei gravi errori sull’uomo che già in passato hanno avuto terribili conseguenze.
Nella foto del titolo:
la Corte di giustizia europea.
so contro il neurobiologo Oliver Brüstle dell’Università di Bonn, per il suo brevetto sull’uso di embrioni umani. Con la sentenza del 2014 i giudici europei rivedono la loro posizione sulla partenogenesi, procedura che prevede l’attivazione di un ovocita per via chimica o elettrica, senza seme maschile. L’ovocita così
attivato non contiene Dna paterno ma solo cromosomi di origine materna.
I giudici hanno affermato che stando alle attuali conoscenze, un organismo così sviluppatosi - il “partenòta” - non è in grado di divenire essere umano e pertanto non costituisce un embrione umano. La procedura di partenogenesi risulta però molto discussa e non può escludere in realtà in assoluto che
lo sviluppo dell’ovocita non vada oltre il primo stadio. Come ha affermato il prof.
Augusto Pessina in un’intervista riportata su Avvenire del 19 dicembre 2014:”chi
garantisce che ciò che si è stimolato non possa diventare un embrione?”
Nel 2004 in Giappone, proprio attraverso partenogenesi, furono attivati degli ovociti di topo che, dopo il trasferimento in utero, diedero vita a delle topoline.
Le incognite di tale operazione sono ancora molte, senza considerare la necessaria stimolazione ovarica alla quale la donna deve sottoporsi per
produrre gli ovociti da utilizzare.
Febbraio
2015
Stanislao Fioramonti
P
er una singolare coincidenza, mentre il
pontefice incontrava la stampa internazionale sorvolando due oceani, il
Presidente dimissionario della Repubblica
Italiana Giorgio Napolitano lasciava il Palazzo
dove è vissuto per i nove anni del suo prestigioso incarico. Un periodo che, tra tutte le altre
cose, gli ha dato molte possibilità di confrontarsi
con il suo vicino dell’altra sponda del Tevere.
Pur essendo di cultura marxista, Napolitano ha
avuto gesti di grande delicatezza ed amicizia con
i due pontefici del suo periodo presidenziale, Benedetto
XVI e Francesco.
11
Con papa Ratzinger
i legami erano di
tipo soprattutto cronologico (solo di 2 anni
la differenza di età tra
loro) e culturale, vista
la passione di entrambi per la musica e per
una identica visione
della laicità personale.
E’ inoltre molto significativo il fatto che il
loro ultimo incontro ufficiale sia avvenuto il
4 febbraio 2013,
appena una settimana
prima delle dimissioni di
Benedetto XVI, che - a
proposito della comune
passione musicale - ha
ricordato che Beethoven
mutò nome all’Eroica, inizialmente dedicata a
Napoleone, quando questi soppresse la
Repubblica, proclamandosi imperatore.
Il rapporto del Presidente
della Repubblica italia-
na con papa Francesco è stato forse più limitato nel tempo, ma non meno profondo nei sentimenti; in questo senso, dopo la visita di Bergoglio
al Quirinale nel 2013 (14 novembre), non si può
non ricordare la visita a sorpresa, in forma strettamente privata, di Napolitano del 21 novembre 2014, quando per più di un’ora ha dialogato col pontefice nella residenza di Santa Marta.
Si è trattato, ha scritto la stampa nazionale, di
una visita di congedo svoltasi – lo ha sottolineato
il comunicato ufficiale del Quirinale – “in un’atmosfera che ha confermato l’intensità e l’affabilità del rapporto personale tra il Pontefice e il
Presidente”.
Febbraio
2015
12
questa crisi d’identità non potrebbe diventare una via d’identificazione con un’ideologia di distruzione e di terrorismo?
È ora di ripensare il nostro metodo di
ridurre l’identità delle persone ad un solo
elemento, la religione, dimenticando che
i musulmani che vivono in Europa non
sono un gruppo omogeneo, ma provengono
da diverse nazioni. Questo modo semplicistico e naif ci impedisce di conoscere la loro storia, la diversità della loro
stessa visione dell’islam. È ora di ripensare il concetto di limite culturale, etnico o religioso, per comprendere come
la diversità culturale ha prodotto diverse forme d’islam, da quello razionale
dell’Andalusia a quello integralista
dell’Arabia.
In altre parole, il fondamentalismo è una
questione politica e culturale che
l’Europa dovrebbe smettere di ridurre
alla sicurezza, affinché possa combattere
il fondamentalismo alle sue radici, rilevando la sua retorica e i suoi meccanismi. La cultura è la parola-chiave della battaglia, è l’unica via per affrontare le tenebre del fondamentalismo e del
terrorismo.
Rev.do Wasim Salman
I
l conflitto fra l’islam e l’Occidente, come sappiamo, si è aggravato
dopo la guerra contro il terrorismo, e questa situazione sembra scoraggiante, in quanto la guerra vuol sostituire la ricerca vera sulle radici culturali delle nostre civiltà e il contributo stesso della cultura islamica alla costruzione dell’Europa. Il XX secolo testimonia un grande movimento d’immigrazione, che fa sì che i musulmani diventino una componente significativa della demografia europea.
Con l’attentato contro Charlie Hebdo la Francia torna in prima pagina,
dopo qualche anno di calma in seguito alla decisione del presidente francese di togliere i simboli religiosi dai luoghi pubblici. La Francia vuole
difendere la laicità della Stato contro la predicazione di alcuni leader musulmani che rilevano nel secolarismo una minaccia alla stessa identità dei
cittadini francesi musulmani. Le autorità religiose musulmane denunciano
il modello europeo imperiale che vuole imporre con la forza la sua modernità, razionalità e democrazia, per dominare e sfruttare il mondo.
Tuttavia, i politici radicali e neo-liberali, a loro volta, sfruttano gli attentati per divulgare un discorso anti-islamico, ricorrendo a slogan come
“nostra cultura”, “nostra civiltà” o “nostra democrazia” e ribadendo l’incompatibilità dell’islam con la cultura occidentale. Salva la libertà d’espressione, ricordiamo però che le famose vignette danesi, i film come
Submission e Fitna, e le caricature anti-islamiche di Charlie Hebdo intendevano identificare l’islam con una dottrina jihadista.
La reazione immediata dopo ogni atto terroristico fa aumentare la tensione fra l’Occidente e l’islam, facendo dominare un’atmosfera di diffidenza contro ogni musulmano che vive sul nostro territorio, il quale diventa ipso facto criminale e protettore del terrorismo. Nonostante la nostra
indignazione, le minacce persistono, il terrore non viene eliminato ma
esteso al mondo intero, al-Qaeda e ISIS continuano ad organizzare i
loro attentati. In effetti questo discorso contro l’islam, dal punto di vista
intellettuale e politico, è irresponsabile poiché ostacola l’integrazione dei
musulmani, che ormai fanno parte della stessa Europa.
I musulmani non sono soltanto degli immigrati, ma anche dei cittadini
nati e cresciuti nelle nostre scuole europee. I giovani musulmani, però,
soffrono per la loro non-appartenenza, essi non fanno parte né della società europea né di quella dei loro paesi d’origine, perché se sono europei
dal punto di visto linguistico, restano radicati nella cultura islamica. Ma
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don Alessandro Tordeschi
C
ome abbiamo già visto le preghiere cominciano con il dialogo, un prefazio e il canto dell’inno angelico. Ora il sacerdote, nel
continuare, “confessa”, Dio. Cioè, si rivolge a Lui
con le parole che riconoscono la sua gloria. Il linguaggio usato è poetico ed elevato. Nel riconoscere Dio ricordiamo davanti a lui le meraviglie
della creazione e le grandi opere che ha compiuto nella storia per la nostra salvezza. Attraverso
di esse Dio ha parlato a noi; attraverso di esse
ha dato suo figlio al mondo. Ora le nostre parole riconoscono questo e lo celebrano.
“Padre veramente santo, a te la lode da ogni creatura”1. Qui è un linguaggio poetico, denso ed evocativo. Una singola frase o parola, un singolo concetto rappresenterà davanti a Dio epoche intere di ciò che ha fatto per noi. Se noi riconosciamo al Padre ciò che ha fatto per noi, arriveremo
presto al figlio e allo Spirito Santo che ci ha mandati. “Per mezzo di Gesù Cristo, tuo Figlio nostro
Signore, nella potenza dello Spirito Santo fai vivere e santifichi l’universo”.2
Ovviamente Dio sa già queste cose. Sa quello
che ha fatto per noi. Egli vuole sentire da noi che
le conosciamo e questo è proprio quello che vogliamo dire a lui. È questo il senso biblico di confessare.
Ricordiamo davanti a Dio quello che ha fatto il
nostro narrare ri-attiva in mezzo a noi l’evento salvifico ricordato.
Il denso riassunto poetico della terza preghiera
eucaristica esprime il culmine del piano salvifico di Dio per il mondo: “e continui a radunare intorno a te un popolo, che da un confine all‘altro della terra offra al tuo nome il sacrificio perfetto”.3
È una espressione che troviamo nel profeta Malachia,
che i cristiani intesero come una profezia dell’eucarestia.
“Poiché dall’oriente all’occidente grande è il mio
nome fra le genti e in ogni luogo è offerto incenso al mio nome e una oblazione pura, perché grande è il mio nome fra le genti, dice il Signore degli
eserciti.” 4 Il popolo cristiano era “le genti” di questo testo e l’eucarestia era il loro sacrificio e la
loro oblazione pura.
IL SACERDOTE INVOCA LO SPIRITO
LA PRIMA EPICLESI
Epiclesi letteralmente in greco significa “invocare su”. Abbiamo visto che dopo l’inno angelico,
il primo movimento della preghiera era il riconoscimento di quello che Dio ha fatto per noi nella creazione e nella storia e un dispiegarsi del
mistero trinitario (preghiera eucaristica III).
Dopo questo movimento, c’è un notevole cambiamento segnato da una forte richiesta, chiamata
epiclesi. Se traduciamo letteralmente dal latino
nella terza preghiera, percepiamo come la preghiera esprima la consapevolezza di ciò che stiamo per chiedere. Comincia con “Supplice ergo
te, Domine, deprecamur”, che potrebbe essere
tradotto con “Supplici ti chiediamo, pertanto Signore…”.
Quello che stiamo per chiedere in questo
momento si basa su ciò che Dio ha mostrato come
suo piano: cioè che gli sia offerto un sacrificio perfetto. Pertanto noi ora chiediamo che il pane e il
vino sull’altare diventino il corpo e il sangue di
Cristo. Questa è la richiesta della prima epiclesi: “ut hæc múnera, quæ tibi sacránda detúlimus,
eódem Spíritu sanctificáre dignéris”, “Santifica questi doni perché diventino per noi il corpo e il sangue di Gesù Cristo”.5
Le mani del sacerdote sono stese sul nostro pane
e sul nostro vino. È rendere visibile qualcosa che
è, ovviamente, invisibile: la discesa dello Spirito
Santo nel pane e nel vino e farli diventare corpo e sangue di Cristo. L’azione dello Spirito Santo
in questo momento della liturgia è esattamente
parallela all’opera dello Spirito Santo nell’incarnazione di Cristo e all’opera dello Spirito Santo
durante tutta la vita di Cristo.
Noi sperimentiamo concretamente lo svelarsi del
mistero trinitario, perché lo Spirito mandato dal
Padre opera ora per trasformare i nostri doni nel
corpo e nel sangue del Figlio.
Lo Spirto che ha formato un corpo per il Verbo
nel grembo della Vergine Maria, lo Spirito che ha
risuscitato il corpo di Gesù dai morti, ora questo
medesimo Spirito riempie i doni che la Chiesa porta perché siano trasformati e li fa diventare un’unica e medesima cosa: il corpo formato nel grembo della Vergine Maria, il corpo risorto dai morti, il corpo di Cristo reso presente nei doni che
la Chiesa ha portato.
IL RACCONTO DELL’ISTITUZIONE
Ora viene raccontato un evento preciso e specifico delle vita di Gesù, cioè la cena con i discepoli prima di morire. Non viene raccontata tutta
la cena, ma solo due momenti particolari, uno che
riguarda il pane e l’altro che riguarda il vino. Il sacerdote lo racconta non solo con le parole, ma anche
con i gesti. È molto quello che accade in questo
momento della preghiera. Il sacerdote non sta facendo qualcosa per essere visto e udito dal popolo, ma perché possa essere visto e udito da Dio
Padre. Egli compie la sua narrazione davanti a
Dio in un altare del cielo.
Il Sacerdote ri-racconta il momento, facendo davanti al Padre, con gesti semplici e stilizzati, ciò che
Gesù ha detto e ha fatto durante la cena. Quindi
quello che fa è quello che realmente Gesù ha fatto. Fino a questo punto il sacerdote racconta il
fatto usando i tempi al passato, perché in effetti quello che viene ricordato davanti a Dio è un
evento passato.
Per cui Gesù prese il pane, benedisse, spezzo,
diede, disse. Ma citare Gesù, ripetendo le sue
precise parole al tempo presente sottolineandole con un leggero inchino del corpo.
Sentiamo che l’evento passato definisce completamente
anche l’evento presente di questa liturgia: sopra
il pane che il popolo ha portato, il sacerdote dice
le parole di Cristo: “Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per
voi” (in latino: Accipite et manducate ex hoc homnes:
hoc est enim Corpus Meum, quod pro vobis tradetur). Poi il sacerdote cade in silenzio e l’attenzione
di tutti i fedeli è sul pane mentre il sacerdote lo
tiene alto davanti a loro. Lo tiene alto perchè il
popolo lo veda, perchè lo fissi in adorazione. Ma
allo stesso modo lo tiene alto davanti a Dio Padre,
al cui cospetto questa storia fondamentalmente
viene raccontata. Poi si inginocchia in segno di
adorazione davanti al pane, e questo gesto esprime tutta la fede della Chiesa riguardo a quanto
è accaduto in questo momento.
La nostra supplica perchè venisse lo Spirito a trasformare le nostre offerte è stata esaudita nel corso di questo racconto, dicendo di nuovo le parole di Gesù. La stessa cosa accade per il vino. L’effetto
è lo stesso, il vino durante il racconto è trasformato in sangue di Gesù.
Questo per quanto riguarda un’attenta descrizione
delle parole e dell’azione del rito. Già dicono molto. Abbiamo bisogno di esaminare alcune dimensioni di questo inesauribile mistero, questo
inesauribile “qualcosa”.
Sappiamo che, insieme all’epiclesi, questo racconto compie la trasformazione dei doni che abbiamo portato. Quello che ha fatto Gesù nell’ultima
cena - quello che ancora fa in questo momento,
poichè questa è un’ora che non passa mai - doveva mettere in moto potenti eventi che avrebbero costituito il culmine della sua vita. Ai discepoli
stava dando, insieme al comando di ripeterlo in
continua a pag. 14
Febbraio
2015
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Sara Gilotta
uando Papa Francesco ha affermato che il mondo ha bisogno
di tenerezza, all’improvviso nella mia memoria sono tornati i versi di una poesia, che imparai a memoria in un lontano passato
e che ora più che mai mi sembra racchiudere il significato più vero della parola “tenerezza”. La poesia è intitolata “la
madre” e fu scritta da Giuseppe Giusti.
Già nell’incipit , secondo me, è racchiuso
il senso più vero ed autentico della parola “ tenerezza”, che appunto appartiene alla madre e al suo amore grande
e disinteressato; esso così dice: “Presso
la culla in dolce atto d’amore, che intendere non può chi non è madre tacita siede e immobile: ma il volto nel suo vezzoso bambinel rapito, arde, si turba e
rasserena in questi pensieri della mente inebriata…”
Perché solo chi è madre sente, quasi
ispirata dalla natura, la vera tenerezza,
quel sentimento, cioè, che nasce dall’amore che è germinato dall’anima e che
dura eterno senza mai indebolirsi e senza mai entrare in crisi. E l’amore della
madre, infatti, che da solo è capace di
educare il corpo e l’anima del figlio, di
sorridere e gioire con lui, ma anche di
portare su di sé il peso delle sue pene
nella speranza di poterle alleviare e nella certezza che solo lei può davvero ed
appieno condividerle con il figlio. E’ la
madre, dunque, il simbolo più autentico di tenerezza, che anche molto avanti negli anni nessuno può dimenticare,
perché il solo ricordo riscalda la nostra
anima, fa sentire ad essa ancora il tepore delle sue braccia, delle sue carezze
e dei suoi sorrisi.
La tenerezza materna è il primo e forse l’unico modo di sentire la vita e di riempirla d’amore di cui ciascuno di noi sente un bisogno irrimediabile e che, se non nutrito adeguatamente, produce immensa sofferenza. Poiché, per dirla con Pasolini, ciascuno di noi
sente” una infinita fame d’amore” ed è dalla tenerezza materna che
deriva la capacità di capirsi e di capire gli altri, per considerarli “degni”
dei nostri sentimenti più generosi di fratelli comprensivi, pronti ad ascoltare e a confrontarsi senza pregiudizi. Soprattutto ora che il mondo sem-
Q
bra sempre più incline alla discriminazione, all’esclusione di chi per qualunque motivo appare più debole o più pericoloso. Perché senza amore per l’altro, anzi per eccessivo ed errato amore per se stessi derivano le passioni più nefaste, quelle che generano l’odio e le guerre.
Guerre, che , purtroppo, troppo spesso covano già all’interno delle famiglie, che sembrano aver perso il senso stesso dell’amore e del rispetto reciproco senza dubbio minati da legami sempre più deboli ed egoistici.
E’ vero d’altra parte che la famiglia si
è adeguata alla realtà attuale, divenendo
come la società stessa “liquida”, cioè
inconsistente, leggera, incapace di veri
sacrifici e, soprattutto fondata sull’egoismo che divide ed esige cambiamenti continui nell’inganno di una felicità continuamente da inseguire e ricercare a tutti i costi, spesso ignorando
anche quale sia il vero oggetto o il vero
fine di tale ricerca affannosa.
E tutto ciò non può tenere in alcun conto la tenerezza, che deriva solo da un
amore disinteressato, di cui persino le
madri sembrano divenute incapaci.
Spesso le madri, infatti, non riescono
più ad essere, come scriveva Rilke, la
“pianta” da cui la famiglia trae la linfa vitale e il coraggio di vivere non semplicemente accanto all’altro ma per l’altro. Sapendo sorridere anche nei momenti più difficili di cui la vita ci fa carico.
E sono convinta che se la famiglia vorrà ritrovare la sua forza pur nella difficoltà dei tempi, allora anche tutta la
società si gioverà di questa forza e forse essa sarà capace di influire positivamente sullo svolgimento della storia. Anche se il rapporta tra microstoria
e macrostoria è difficile da indagare e
da comprendere, è indubbio che tra loro
c’è un rapporto biunivoco indiscutibile, per il quale in qualche modo ciascuno di noi fa la storia e contemporaneamente la subisce in un gioco continuo bello e crudele.
Per questo mi piace concludere con alcuni versi che Dante dedica alla
Madre Celeste e in cui si sintetizza in poesia altissima il vero ed ultimo
significato di maternità e di tenerezza: ”Qui se’ a noi meridiana face di
caritate, e giuso, intra i mortali se’ di speranza fontana vivace.“
Nell’immagine del titolo: opera di Munazza Naeem.
segue da pag. 13
sua memoria, un segno. Questo segno avrebbe
rivelato il significato della sua morte, che sapeva sarebbe avvenuta l’indomani.
Gli eventi che circondano la sua morte e le lunghe ore durante le quali rimase appeso alla croce sono troppo terribili per essere capiti, forse neanche
da colui che le ha patite. Ma con questo fatto prima e ripetuto dopo, Gesù rivelava il significato
della sua morte e dichiarava la sua volontaria sottomissione ad essa.
Quello che colpisce è il linguaggio che Gesù usa.
Possiamo chiamarlo “sacrificale”, anche se la parola sacrificio non compare. Il suo è un corpo consegnato. Il suo è sangue versato per stabilire una
nuova ed eterna alleanza. La ripetizione di questo segno e le parole di Gesù ci fanno capire l’eucarestia e la morte di Gesù come sacrificio. Il mistero a questo punto è molto denso. Si arriva a
comprendere che la morte di Cristo è di fatto il
sacrificio. Non ve ne può essere un altro.
Un’altra cosa che colpisce in questo segno è
come questo agisca, come funziona in quanto segno.
Il racconto dell’istituzione attraverso i segni e gesti ricorda la cena della notte prima che Gesù morisse. Non descrive la scena del Calvario. Ma questa cena indica il significato della croce, significato
che è alla fine rivelato dalla risurrezione.
Pertanto, ricordare la cena, che prefigurando la
sua morte ci immette nella sua ora, è il nostro
modo di ricordare la sua morte ; perchè la cena
ora”ri-figura” per noi quell’ora e quindi ci immette in essa. Ricordare, in definitiva, è ricordare questo. La presenza risorta di Gesù crocifisso è il fatto eternamente presente della nuova creazione,
della nuova alleanza. In questa scena il sacrificio del Calvario è presente e rappresentato nel
vino e nel pane trasformati. La “tecnica” del memoriale ci unisce a questo fatto.
1
2
3
4
5
Preghiera eucaristica III Messale Romano.
ibid.
ibid.
Mal 1,11.
Messale Romano preghiera eucaristica III.
Febbraio
2015
no due elementi: si sta assistendo ad una recrudescenza delle ormai note situazioni di criticil 17 ottobre 2014 è stata la Giornata mon- tà; accanto alle vecchie e irrisolte situazioni se
diale della Lotta contro la Povertà. In occa- ne aggiungono delle nuove, che definiscono inesione di questa ricorrenza, istituita dall’ONU diti percorsi di impoverimento. Il Sud, che pria ricordo del 17 ottobre 1987, quando più di cen- ma della crisi evidenziava situazioni di svantaggio,
tomila persone si riunirono al Trocadéro di Parigi sembra vivere adesso situazioni di autentico dram(dove fu firmata la Dichiarazione Universale dei ma sociale. In termini assoluti si contano in queDiritti Umani nel 1948) per ricordare le vittime ste aree oltre 3 milioni di incapienti, praticamente
della povertà estrema, della violenza e della fame, la metà dei poveri di tutta la nazione.
Caritas Italiana ha diffuso un documento di ana- Tuttavia non è solo il Mezzogiorno a registrare
lisi e proposta sul fenomeno della povertà in Italia segnali negativi. Le aree del Centro e del Nord
e in Europa. Il Flash Report contiene i dati rac- in poco più di cinque anni hanno visto praticacolti nel corso nel primo semestre 2014 prove- mente raddoppiare il peso dei poveri sul totale
nienti da 531 Centri d’Ascolto in 85 diocesi. In della popolazione. Infine se fino a qualche anno
questo articolo vi proponiamo un riassunto del fa le categorie più vulnerabili erano perlopiù le
documento, nel quale abbiamo trovato piena cor- famiglie di anziani, i nuclei con 5 o più comporispondenza con i dati raccolti nell’anno appe- nenti, le famiglie con disoccupati, oggi a quena trascorso presso il nostro Centro di Ascolto ste se ne aggiungono di nuove: nuclei di giodiocesano dai quali si evince chiaramente che vani, famiglie con uno o due figli, famiglie il cui
il Terzo Mondo non è più solo in Africa, ma si capofamiglia risulta occupato. Si registra un fortrova nelle vie delle nostre città, nei nostri quar- te aumento dell’incidenza degli italiani tra gli utenti Caritas. Tra gli assistiti oggi quasi uno su due
tieri e condomìni.
É per questo motivo che in questi anni più che è di nazionalità italiana.
mai dovremmo lottare contro la Povertà e dar Tra gli stranieri risulta più alta l’incidenza degli
voce a tutti coloro che, per diversi motivi, si tro- under 34; tra gli italiani al contrario è più elevano costretti a vivere in situazioni di indigen- vato il peso degli over 55. Come un anno fa
za economica. In Italia nel 2013 le persone in prevalgono i bisogni legati a situazioni di
povertà assoluta risultano essere 6 milioni e 20mila; povertà economica: più di un utente su due ammetle famiglie 2 milioni e 28mila. L’incidenza della te di vivere in uno stato di deprivazione. Tali situapovertà risulta in continua crescita. Dal 2007 ad zioni vissute in modo analogo da italiani e straoggi i livelli di povertà risultano più che raddoppiati, nieri coincidono spesso con l’assenza di un redpalesando così tutte le difficoltà di un Paese che dito o con un livello di reddito insufficiente. Seguono
non conosce segnali di ripresa. I dati della sta- poi i problemi occupazionali (45,0%) e abitatitistica ufficiale consentono di evidenziare alme- vi (20,1%). Tra gli italiani molte le situazioni di
chi vive disagi e vulnerabilità familiari (15,9%). Rispetto agli interventi prevale l’erogazione di beni
e servizi materiali; tra questi spicDATI CENTRO DI ASCOLTO
cano in particolare la distribuDIOCESANO 2014
zione di viveri e di vestiario e
i servizi mensa.
La seconda voce di intervenI nuclei familiari seguiti ed aiutati tramite acquisto di beni di prito è quella dei sussidi economa necessità (medicinali, viveri, prodotti per igiene) nel periomici, in particolare: pagamendo gennaio-ottobre 2014 sono stati 50, considerando una media
to bollette, contributi per le spedi componenti di quattro persone ogni nucleo, sono state aiuse di alloggio, acquisto di
tate circa 200 persone. L’assistenza è stata diretta anche a singeneri alimentari, sostegno
goli individui: 10 persone, dunque il progetto ha contribuito all’asper le spese sanitarie. Tra gli
sistenza di 210 persone in tutto.
interventi realizzati, alto è
I destinatari di un contributo al reddito (destinato all’acquisto
anche il peso delle attività di
di viveri, medicinali, bombole del gas, libri scolastici, pagamento
orientamento, in crescita rispetutenze domestiche o rate di affitto, ecc.) sono stati sia famiglie
to al passato; a beneficiare di
che singoli individui. Da gennaio a dicembre hanno beneficiatali servizi sono soprattutto i citto di questo intervento complessivamente 10 famiglie (con una
tadini stranieri, presumibilmedia di tre figli ognuna).
mente i più fragili sul fronte ammiInoltre il Centro, durante questo anno di riferimento, ha ospinistrativo-legale. In molti, infitato e sostenuto 4 nuclei familiari di cui due composti da 4 perne, hanno beneficiato del solo
sone e due composti da 3 persone (tutti con minori) e 2 singoascolto, magari in profondità e
li individui per un totale di 16 persone
reiterato nel tempo.
Abbiamo ascoltato 150 italiani (di cui 11 nuovi, cioè non già regiNel corso del 2013 e del
strati negli archivi di cui 5 femmine e 6 maschi); 350 stranieri
2014 Caritas Italiana ha sup(di cui 36 nuovi, di cui 18 femmine e 18 maschi) per un totale
portato le Caritas diocesane,
di 500 persone circa di cui 47 nuove. L’età media degli assisticon sostegni economici ad hoc
ti va dai 25 ai 65 anni. Abbiamo distribuito circa 1000 pacchi vive(le cosiddette Iniziative Anticrisi
ri ed erogato 8 microcrediti.
di cui anche la nostra Diocesi
ha beneficiato), nella realizzazione
15
Paola Cascioli
I
di interventi di contrasto alla crisi economica in
atto in ordine soprattutto ai seguenti ambiti: abitazione, lavoro, spese di prima necessità,
sostegno al credito.
Il 2015 non sarà, per il nostro Paese, l’anno della svolta. Il quadro economico è segnato da indicatori ancora più negativi degli anni precedenti. Le misure specifiche anti-crisi finora introdotte
non hanno generato effetti rilevanti (poco
meno che una famiglia in povertà assoluta su
quattro ha avuto il “bonus di 80euro mensili” introdotto dal Governo Renzi). A meno di ulteriori sviluppi finora non annunciati, l’onda delle povertà assoluta nel nostro Paese verrà contrastata
dal probabile rifinanziamento della social card
tradizionale, dalla prosecuzione delle sperimentazioni
previste già dal governo Letta, dall’avvio progressivo
dell’utilizzo delle risorse del FEAD, il nuovo fondo europeo per sostenere i cittadini sprovvisti
di beni essenziali.
A nostro avviso, queste misure non sono in grado di prendere in carico le povertà vecchie e nuove del Paese, e questo anche a causa del carattere eccessivamente categoriale di molti di tali
provvedimenti, limitati a segmenti di famiglie in
condizioni di disagio. Condividiamo la necessità espressa dal ministro Poletti di un piano nazionale di contrasto alla povertà: a quest’ultimo riguardo, pesa la scomparsa della Commissione nazionale di indagine per l’esclusione sociale, provocata dai tagli al bilancio del Governo Monti,
e di altri luoghi di consultazione sociale e scientifica, in grado di superare pregiudizi e luoghi
comuni sulla povertà.
Per tutte queste ragioni Caritas Italiana ha promosso – insieme ad altri soggetti sociali e forze sindacali - l’Alleanza contro la povertà in
continua a pag.16
Febbraio
2015
16
Giuseppe Baroni e
Claudio Barone
N
– Ministero del Lettore –
el mese di dicembre 2014 due
Comunità, della nostra Diocesi
suburbicaria di Velletri-Segni,
hanno avuto la gioia di vedere conferito
il ministero del Lettorato, per mano del nostro
Vescovo, Sua Ecc.za Rev.ma Mons. Vincenzo
Apicella, a due aspiranti al diaconato permanente: l’8 dicembre 2014, solennità
dell’Immacolata Concezione della Beata
Vergine Maria, a Claudio Barone durante la Celebrazione Eucaristica presso la
parrocchia San G. Battista in Velletri ; sempre nello stesso mese ed esattamente il
giorno 28 Dicembre 2014, a Giuseppe Baroni
della Comunità Parrocchiale Santa Maria
degli Angeli, durante la celebrazione
Eucaristica presieduta da sua Eccellenza
Rev. ma Mons. Vincenzo Apicella, presso la Concattedrale Santa Maria Assunta
in Segni, in occasione della ricorrenza della memoria di San Tommaso Becket.
In entrambe le celebrazioni il Vescovo ha
consegnato la Sacra Scrittura ai candidati
al ministero, chiedendo loro di impegnarsi
ad essere annunziatori della Parola di Dio,
chiamati a collaborare a questo impegno
primario nella Chiesa e perciò investiti di
un particolare ufficio che li mette a servizio della fede, la quale ha la sua radice
e il suo fondamento nella Parola di Dio.
Dopo l’ammissione all’Ordine Sacro avvenuta il 1° Maggio 2014, i candidati hanno compiuto un altro passo avanti, che li porta a servire Cristo Redentore.
Questa notizia ha suscitato nelle parrocchie non poca curiosità, portando
i fedeli a chiedersi il significato del Ministero del Lettorato, e proprio per
questo, cercheremo di dare una breve spiegazione su questo ministero e per far ciò ci avvaliamo di parti salienti del testo magisteriale.
Oggi dopo la riforma del Vaticano II,
i ministeri istituiti sono due e fanno riferimento al libro e all’altare: il Lettorato
e l’Accolitato. Questi ministeri nascono dai sacramenti dell’iniziazione
cristiana e “sono ‘istituiti’ dalla Chiesa
sulla base dell’attitudine che i fedeli
hanno in forza del battesimo, a farsi
carico di compiti e mansioni speciali nella comunità.
Costituiscono anch’essi una grazia,
ossia un dono che lo Spirito Santo concede per il bene della Chiesa, essi comportano, per quanti li assumono, una
grazia non sacramentale, ma invocata
e meritata dall’intercessione e dalla
benedizione della Chiesa.”(EM62) .
Il primo dei ministeri istituiti è il Lettorato,
questo ministero evidenzia lo stretto
rapporto tra Parola di Dio e liturgia.
La Celebrazione, non solo presuppone
l’ascolto della Parola di Dio, e quindi la fede e la conversione a Cristo
“Parola Vivente”(cfr SC,9), ma è il luogo privilegiato in cui questa Parola risuona oggi nella Chiesa. …..omissis.
Attraverso questa Parola, proclamata nell’assemblea cristiana, “ Dio parla al suo popolo e Cristo annunzia ancora il suo Vangelo”(ivi,33); nella Parola,
Cristo Risorto si fa realmente presente
tra i suoi e dona lo Spirito per la glorificazione del Padre e la loro santificazione. Attraverso la Parola che si annuncia, si compie nella Chiesa
una vera “Epifania” del Signore. È Lui dunque che parla quando nella
Chiesa si leggono le Scritture (SC,7). Proprio in forza di questa presenza
reale e operante del Risorto, la proclamazione della Parola, nella liturgia, diventa un evento che attualizza la storia della salvezza e perciò
avvenimento salvifico. Quando colui che legge fa risuonare tra i fratelli
continua nella pag. accanto
segue da pag. 15
Italia, allo scopo di sensibilizzare il Paese su
questo tema e proporre una nuova misura di contrasto universale ai fenomeni connessi, il
Reddito di inclusione sociale, in una forma
progressiva e sostenibile sul piano della finanza pubblica, per fornire risorse e progetti di inclusione a quanti vivono sotto la soglia della povertà assoluta. Come ammonisce don Luigi Ciotti
: “accanto alla povertà materiale, (sussistono)
quelle immateriali: la povertà di senso, la povertà culturale, la povertà politica. Il risanamento
economico non può prescindere da un profondo rinnovamento etico, da un superamento degli
egoismi, dal riconoscimento dei legami sociali. Avremo vinto la povertà non solo quando saremo liberi dal bisogno, ma quando avremo scoperto che la libertà, come la speranza, sono beni
collettivi, che tocca a ciascuno di noi promuovere e diffondere”.
Al termine di queste pagine ci piace ricordare
anche le parole di Papa Francesco nell’
Evangelii Gaudium:
“Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non
è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro «considerandolo come
un’unica cosa con se stesso».
Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera
preoccupazione per la sua persona e a partire
da essa desidero cercare effettivamente il suo
bene. Questo implica apprezzare il povero nella sua bontà propria, col suo modo di essere,
con la sua cultura, con il suo modo di vivere la
fede. L’amore autentico è sempre contemplativo, ci permette di servire l’altro non per necessità o vanità, ma perché è bello, al di là delle
apparenze.
«Dall’amore per cui a uno è gradita l’altra persona dipende il fatto che le dia qualcosa gratuitamente». Il povero, quando è amato, «è considerato di grande valore», e questo differenzia l’autentica opzione per i poveri da qualsiasi ideologia, da qualunque intento di utilizzare
i poveri al servizio di interessi personali o politici. Solo a partire da questa vicinanza reale e
cordiale possiamo accompagnarli adeguatamente
nel loro cammino di liberazione. Soltanto questo renderà possibile che «i poveri si sentano,
in ogni comunità cristiana, come “a casa loro”.
Non sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace presentazione della buona novella del Regno?».
Senza l’opzione preferenziale per i più poveri,
«l’annuncio del Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare
in quel mare di parole a cui l’odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone».”
Fonti:
Caritas Italiana: Flash Report sulla povertà in Italia ed
in Europa;
Don Luigi Ciotti: discorso per la Giornata Mondiale della
lotta contro la povertà;
Evangelii Gaudium, cap. IV, II, 199
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2015
la Parola di Dio, non racconta una storia del passato, non
fa una lezione di scuola, ma
annuncia un “mistero” che si
realizza qui e oggi per quanti l’ascoltano con attenzione e
l’accolgono con fede. In concreto, la liturgia della Parola,
in ogni celebrazione sacramentale, è glorificazione di Dio,
sorgente di salvezza e di
santità per gli uomini.
Questo dato, che appartiene
alla fede della Chiesa, ha delle conseguenze notevoli nell’ambito pastorale; ricordiamone almeno due:
anzitutto la necessità per la comunità cristiana di recuperare una viva
esperienza della presenza del Signore nella Sua Parola, e poi l’attenzione che occorre attribuire alla sua proclamazione da parte di coloro che se ne
fanno portavoce nell’assemblea cristiana. I compiti del lettore sono descritti nel
m.p. “Ministeria Quaedam” e suonano in
questi termini: “ Il Lettore è costituito per
l’ufficio, a lui proprio, di leggere la Parola
di Dio nell’assemblea liturgica. Egli potrà
anche curare la preparazione degli altri
fedeli, i quali abbiano ricevuto temporaneamente l’incarico di leggere la Sacra
Scrittura nelle azioni liturgiche.
Il lettore deve curare la preparazione dei
fedeli alla comprensione della Parola di
Dio, educare nella fede i fanciulli e gli
adulti ed esercitare il ministero di annunciatore, di catechista, di educatore alla vita
sacramentale, di evangelizzatore a chi non conosce o misconosce il Vangelo.
È un ministero, come si vede, da attribuire soprattutto a quanti vogliano impegnarsi oltre che nelle celebrazioni liturgiche, nell’organizzazio-
17
ne evangelizzatrice e catechistica, rendendo così
autentico e coerente il loro servizio liturgico. Inoltre il lettore deve avere la
consapevolezza
gioiosa di essere
il porta parola di
cui Dio si serve per
suscitare, risvegliare e far vibrare la fede di quanti ascoltano. Egli
dovrà avere una solida formazione biblica. Il lettore è costituito anche
per svolgere un compito specifico fuori dal contesto cultuale. Nella Chiesa
del nostro tempo, dove si evidenzia sempre più la necessità di avere dei laici che
si facciano direttamente carico e sostengano con impegno le numerose iniziative
intorno alla Parola di Dio, il lettore dovrebbe essere il promotore e l’animatore di queste iniziative rivolte all’annuncio o all’approfondimento della Parola di Dio.
Per questi compiti affidatigli dalla Chiesa,
il lettore dovrà avere una sua propria fisionomia spirituale e apostolica: dovrà essere testimone, insegnante, educatore, ben
preparato, idoneo a orientare, formare e guidare i catechisti più giovani o comunque
coloro che di fatto esercitano nella comunità il servizio della catechesi, e coordinare la loro attività.
Per tutto questo egli dovrà tenersi in stretto collegamento e in piena comunione con i pastori, ai quali compete primariamente e in pienezza il dovere di educare i fratelli nella fede.
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Gabriella Fioramonti
C
amilla Paganoni vive a Tranica, nella immediata periferia di Bergamo. Nonostante
i suoi 85 anni (è nata nel 1930), ogni
mattina prende la macchina e va in città a dare
una mano, da volontaria, al Centro Missionario
Diocesano. Nell’agosto del 1991 era volontaria
in Perù nella parrocchia di Santa ed è stata testimone dell’omicidio del parroco, il bergamasco
don Alessandro Dordi. Questi è l’unico italiano
tra i più di 15 mila nomi di vittime del terrorismo
o della reazione militare e paramilitare scritti finora nel Memorial “El Ojo que llora” di Lima, del
quale ho parlato nel numero di dicembre di Ecclesìa
in cammino, alle pagine 16 e 17. Poiché di don
Sandro e di due francescani conventuali polacchi uccisi 15 giorni prima di lui in una parrocchia vicina alla sua è quasi al termine la causa ecclesiastica di beatificazione, vale la pena
raccontare la sua storia, che è paradigmatica
degli ideali, del lavoro e dei rischi di tanti missionari in terra straniera e in paesi socialmente e politicamente instabili.
Camilla aveva conosciuto don Sandro in
Svizzera, a Le Locle (cantone Neuchatel), dove
nel 1979 andò a collaborare con lui, cappellano di una comunità di emigrati italiani e anche
prete operaio - senza trascurare i suoi impegni
pastorali, sottolinea Camilla - nell’Ufficio
Informatica della Zenith, nota fabbrica di orologi
di lusso fondata proprio a Le Locle.
Nel 1980 don Sandro decise di iniziare una nuova esperienza in un paese povero dove servisse
la sua opera di sacerdote. La diocesi di
Bergamo aveva inviato diversi missionari fidei
donum soprattutto in Bolivia; don Sandro non
la scelse perché, diceva, lì di preti già ce n’erano, lui cercava un posto tra i più poveri. Una
scelta che contrastava anche con il desiderio
del suo vescovo di Bergamo, che pensava di
“sfruttare” le capacità amministrative di don Sandro
– affinate con un corso specifico durante il periodo (1954-65) trascorso nel Polesine dopo l’alluvione del fiume - affidandogli incarichi economici
(gestione di alcuni immobili di proprietà diocesana). Prima di optare per l’America Latina, il
sacerdote fece un giro anche in Africa e in Australia,
alla ricerca di un luogo adatto alla sua idea di
missione. All’inizio del 1980 giunse infine in Perù
nella diocesi di Chimbote, retta dal 1983 dal vescovo peruviano e gesuita Luìs Bambaren.
Dopo un periodo nella città (capoluogo di provincia, nel dipartimento di Ancash), gli viene affidata la parrocchia di Santa, vasta come la diocesi di Bergamo, una comunità di pescatori e
contadini della costa a nord di Lima, tra
Oceano Pacifico e Cordigliera Andina. Vi trovò
alcune suore americane - qualche tempo dopo
sostituite da tre suore della Congregazione del
Buon Pastore (perciò dette Pastorcitas o
Pastorelle) - e don Carlo Jadicicco, un prete di
Capua che dopo si spostò a lavorare più in alto
verso la cordigliera. Subito scrisse in Svizzera
a Camilla Paganoni, invitandola a venire da lui
perché c’era molto da fare, specie nella pastorale femminile e familiare. Lei accettò e dopo
aver frequentato il 31° Corso CEIAL a VeronaSan Massimo (uno stage di due mesi per i sacerdoti, religiosi, suore e laici in partenza per l’America
Latina), nel gennaio 1981 lo raggiunse, trovando
avviata l’opera di promozione femminile, in una
società maschilista dove le donne non contavano nulla, di catechesi familiare e un asilo nido
e una scuola materna per la gioventù.
Dice Camilla che don Sandro aveva un carattere sobrio e riservato, era molto schivo e introverso, ma attivo e preciso; non amava le cose
vistose, si sentiva e si vestiva come la sua gente; era un lavoratore e aveva una resistenza fisica notevole. Nell’azione pastorale puntava a organizzare gruppi di educatori e di animatori autonomi nei vari villaggi della sua vastissima parrocchia, che visitava regolarmente seguendo un
programma ben preciso.
Nel lavoro manuale lui era sempre il primo quando si trattava di costruire una casa, una cappella, un capannone per le attività necessarie.
Non ci metteva solo la forza fisica, ma anche
una preparazione specifica.
Nella zona di Santa non pioveva mai - racconta il fratello di don Sandro, Alcide - ma una volta una disastrosa alluvione distrusse i canali di
irrigazione che don Sandro stava costruendo.
Senza pensarci troppo, finita l’emergenza riprese la progettazione e l’esecuzione materiale di
quell’opera, che era di un’importanza fondamentale
per l’economia del suo territorio e che lo fece
entrare definitivamente nel cuore della sua gente. Anche per lui infatti gli inizi erano stati difficili. Per due o tre anni aveva dovuto stringere i denti, sia per vincere la diffidenza delle persone, sia per superare le difficoltà di adattamento
del suo fisico.
All’inizio, per contrastare la fatica, masticava foglie
di coca come i campesinos. Invece poco prima
dell’attentato gli venne una brutta tosse e le radiografie rivelarono macchie nei polmoni: era la tubercolosi. A quelli che lo invitavano a rientrare in
Italia per curarsi rispondeva: “O andiamo via tutti o resto”; restò e si curò in Perù, con le medicine che erano lì, come si curavano i malati peruviani. La stessa fermezza dimostrò durante l’epidemia di colera che colpì la sua regione nel
1990, una costanza che anche Assunta
Tagliaferri, una insegnante italiana, ha descritto nel libro “Cento giorni in Perù” pubblicato dopo
aver trascorso tre mesi nella “mission” di don
Sandro. Don Sandro è stato sempre distaccato dalla politica, ma le interferenze della guerriglia comunista di Sendero Luminoso e le reazioni spesso durissime dell’esercito e delle formazioni paramilitari sulle popolazioni dei villaggi
andini nella zona di Santa iniziarono fin dall’arrivo
di Camilla (gennaio 1981).
Anno dopo anno diventarono sempre più
pesanti: nel novembre 1990 il sacerdote e il vescovo Bambaren, che in macchina percorrevano il
corso di Santa, furono presi a mitragliate e scamparono per miracolo alla morte. A luglio 1991,
dopo il ferimento di un padre spagnolo, “Si mette male”, aveva commentato don Sandro. La voce
di Camilla tradisce un dolore ancora vivo. “Sono
stati tempi tremendi. Si viveva in un clima di paura e don Sandro da un po’ sembrava preoccupato. Ne aveva motivo, del resto. Le minacce
nei suoi confronti erano sempre più esplicite. E,
dopo l’agguato del novembre 1990, al quale era
sfuggito insieme al Vescovo di Santa, non si poteva certo pensare che i terroristi di ‘Sendero Luminoso’
non avessero degli obiettivi precisi”.
continua nella pag. accanto
Febbraio
2015
Don Sandro si sentiva nel mirino di coloro che,
dopo una lunga serie di uccisioni di politici e sindacalisti, avevano dichiarato: “La Chiesa la lasceremo come dolce, a fine pasto”.
E, nell’estate del ’91, già stavano cominciando
ad assestare i primi morsi a questo ‘dolce’, che
intendevano punire perché, con il suo impegno
a favore del popolo, ostacolava l’azione rivoluzionaria di Sendero Luminoso.
Il 9 agosto 1991 i guerriglieri uccisero due giovani francescani conventuali polacchi nella vicina parrocchia di Pariacoto (don Sandro li incontrava regolarmente a Chimbote nel corso delle riunioni diocesane). Qualche giorno dopo sul
muro del mercato di Santa comparve una scritta minacciosa.
A caratteri cubitali qualcuno notte tempo aveva scritto: “Yankees, el Perù serà tu tumba”. “Straniero,
il Perù sarà la tua tomba”. Parole che non indicavano in modo esplicito il destinatario di quel
messaggio di morte. Don Sandro, però, commentò subito: “E’ stato scritto per me”. Non si
sbagliava, purtroppo. Ma non si nascose, non
scappò, rimase al suo posto. La sua vita sarebbe durata ancora soltanto una decina di giorni.
E a lui che anni prima aveva scritto: “E’ il Signore
che opera la salvezza. Non ci domanda di imporre la Verità. Ci chiede solo di essere dei testimoni”, proprio a lui il Signore ora chiedeva la
testimonianza suprema.
Domenica 25 agosto, verso le cinque del pomeriggio don Sandro, accompagnato da due giovani (seminaristi, ha scritto qualcuno) e da una
19
donna col suo bambino
incontrata per strada, tornava con la sua Toyota da
Vinzos, un villaggio dove
aveva celebrato la messa.
A un curvone due uomini
armati e col volto coperto
fermarono l’auto e fecero
scendere i passeggeri;
don Sandro sapeva bene
quello che stava per succedergli: avrebbe pagato
con la vita il prezzo della
sua fedeltà e del suo
impegno.
Fedeltà al Vangelo che il
Signore gli aveva chiesto
di annunciare, impegno a
fianco di un popolo che da
undici anni stava aiutando
a crescere nella consapevolezza di sé e nella fede.
Non volle essere portato via
per il processo politico
prima dell’esecuzione,
come facevano sempre i
terroristi, così uno dei due
lo uccise subito con due colpi, uno al cuore e uno alla
testa; gli altri passeggeri non
li toccarono perché, dissero,
il loro obiettivo erano solo
i preti. La notizia si sparse immediatamente in
Perù e in Italia
a Bergamo; alcuni suoi familiari partirono da Gromo San Marino e dopo
i funerali a Santa e nella cattedrale
di Lima, riportarono in patria la vittima per seppellirla nel suo paese natale; con loro tornò anche Camilla
Paganoni.
La morte di don Sandro lasciò un
vuoto grandissimo nella parrocchia
di Santa, che nell’anniversario
dell’omicidio celebra il suo ricordo
con manifestazioni religiose e
pubbliche. Nella sua chiesa parrocchiale, nel primo anniversario
del suo martirio, si tenne un festival di canzoni per ricordarlo, per
onorarne la memoria; a don
Sandro profeta in una di queste canzoni l’autore fa dire: “Devo gridare, devo rischiare: guai a me se non
lo facessi!
Come fuggire da Te, come non parlare di Te, se la tua voce mi brucia dentro?”. E’ questo il fuoco della missione. Il Signore gliel’aveva
messo nel cuore. Don Sandro, missionario e martire, ha permesso che
divampasse. La sua non è stata una
morte inutile. Dal punto di vista spirituale don Sandro non è mai morto nel cuore della gente di Santa,
che si rivolge a lui come a un protettore speciale che dal cielo continua a vegliare sulle loro
vite; per questo lo vuole vedere al più presto annoverato tra i beati della Chiesa; il suo sacrificio
inoltre ha “fruttato” l’ordinazione sacerdotale di
due ragazzi di Santa.
Dal punto di vista sociale e politico essa ha rappresentato - lo sottolinea il fratello Alcide - l’inizio della fine dell’azione eversiva di Sendero
Luminoso, il cui leader Abimael Guzman fu catturato e condannato all’ergastolo un anno dopo,
il 12 settembre 1992. Alcide, che degli otto fratelli di don Sandro è uno dei più giovani (è del
1949), lo ricorda soprattutto per le gite in montagna che faceva con lui quando tornava in paese nei periodi di riposo.
Dice che era un camminatore instancabile, che
stava tutto il giorno in movimento per le sue montagne spesso dimenticando anche di mangiare. Frequentava le sue Alpi Orobie: il monte Redosta,
Pizzo Coca, i rifugi Brunone e Curò, la Val Sedornia,
il lago di Vignavaga, la Cappella della Manina…
Aveva una resistenza fisica incredibile, la stessa mostrata in tutte le situazioni vissute nella
sua esistenza: con gli alluvionati del Polesine
subito dopo l’ordinazione sacerdotale, correndo in bicicletta per la provincia di Rovigo; con
gli emigranti italiani in Svizzera per altri 14 anni;
con i pescatori e i campesinos di Santa, per i
quali ha speso tutto, anche la vita, a soli 60 anni.
Febbraio
2015
20
don Antonio Galati
I
l numero 44 della Lumen gentium, nel capitolo riguardante i religiosi, si occupa di descrivere la natura e l’importanza dello stato religioso nella Chiesa. Questi due argomenti strutturano il numero in questione che, quindi, è distinguibile in due parti: nella prima si sottolinea la caratteristica propria dello stato di vita religioso, mentre nella seconda se ne evidenzia il ruolo all’interno della Chiesa, riprendendo, con altre parole e in maniera più esplicita, quanto veniva lasciato intendere nel numero precedente (cfr. LG 43)
e che, in qualche modo, è detto anche nel capitolo riguardante la vocazione universale alla santità (cfr. LG 39.42), e cioè che i religiosi incarnano,
attraverso i vari carismi degli istituti e loro personali, quei doni dello Spirito che manifestano la
Sua presenza e, quindi, la santità della Chiesa.
Per quanto riguarda la prima parte, se si vuole
individuare qui una definizione del religioso, è possibile riconoscerla in questa affermazione del concilio: «il fedele cristiano, che si obbliga a seguire i tre predetti consigli evangelici [di povertà, castità e obbedienza] mediante i voti, o altri sacri vincoli assimilati in misura loro propria ai voti, viene donato in totale proprietà a Dio sommamente amato» (LG 44).
Per i padri conciliari, in altre parole, il religioso è
colui che è di totale proprietà di Dio, che appartiene in tutto e per tutto solo a Lui. Quest’appartenenza
esclusiva viene sancita per mezzo di voti, attraverso i quali il battezzato vincola la propria esistenza «al servizio e all’onore di Dio a nuovo speciale titolo» (LG 44).
In effetti, la consacrazione religiosa opera una trasformazione di quella vocazione battesimale che
rende comune a tutti l’essere al servizio e all’onore di Dio (cfr. LG 8). Detto in altro modo, la vita
religiosa è una specificazione e una concentrazione di quella vocazione battesimale che chiama al servizio e alla lode di Dio con la propria
vita, in maniera tale da dedicare tutto per la sola
lode di Dio, a differenza di chi, vivendo nel mondo, è diviso nelle sue varie preoccupazioni (cfr.
1Cor 7,32-34). È quella vocazione alla fuga mundi che caratterizzò la vita religiosa, specie
monastica, nella storia della Chiesa e che, in qualche modo, è riproposto dal concilio Vaticano II,
in questo stesso numero 44 della Lumen gentium,
per tutti i religiosi. Infatti, affermano i padri conciliari: «egli [il religioso] intende liberarsi anche
da ciò che potrebbe distoglierlo dal fervore della carità e dalla perfetta adorazione di Dio, professando nella chiesa i consigli evangelici; e viene così consacrato ancor più intimamente al servizio di Dio» (LG 44).
In altre parole il concilio effettua una reinterpretazione della fuga mundi, ampliandone lo stile a
tutti i religiosi e non solo a chi, tradizionalmente, sanciva e sancisce ancora oggi, anche visibilmente, questa condizione con la stretta clau-
sura monastica.
Infatti, se prima il religioso che voleva ritirarsi dal
mondo e stare solo nell’intimità di Dio si rinchiudeva nelle mura del convento, rompendo i rapporti con il mondo, oggi il concilio permette di affermare che la vera fuga mundi è quella che permette di rompere i rapporti con ciò che distoglie
dal servizio e dalla lode di Dio, in ultima analisi
morendo al peccato e consacrandosi a Dio. E qui
si viene riportati alla vocazione del religioso che
è quello di attualizzare e concretizzare la vocazione di tutti i battezzati.
Infatti, prima di affermare questo stile della fuga
mundi per i religiosi, viene detto che tutti i battezzati, in forza del sacramento ricevuto, sono morti al peccato e consacrati a Dio (cfr. LG 44), per
questo motivo a tutti viene ricordato che si è già
celebrata la fuga mundi, intendendola come separazione dal peccato, ma ciò che compete al religioso è quello di viverla in pienezza, concretizzandola nella propria esistenza e mostrandola agli
altri. Conseguentemente, la reinterpretazione della fuga mundi e l’estensione di questo stile di vita
a tutti i religiosi permette di ricomprendere tutte
le vocazioni specifiche degli istituti religiosi
all’interno dell’unico obiettivo della vita dei consacrati, che è la lode di Dio e il servizio a Lui, il
quale viene poi ricompreso anche come servizio
alla Chiesa: «per mezzo della carità alla quale
conducono, i consigli evangelici congiungono in
modo speciale chi li professa alla chiesa e al suo
mistero; per questa ragione la vita spirituale dei
religiosi deve essere dedita anche al bene della chiesa intera» (LG 44).
Per il concilio è chiaro e sottinteso che l’intimità
di rapporto con Dio implica e significa necessariamente una congiunzione più stretta con la Chiesa,
in quanto è il Popolo santo di Dio radunato nell’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo
(cfr. LG 4). Per questo motivo, il servizio a Dio
al quale si consacra il religioso si concretizza, di
fatto, nel servizio alla Chiesa e per la Chiesa. Perciò,
sia con la preghiera, sia con l’operosa attività, il
religioso deve intendere la sua vita a servizio della missione della Chiesa, per l’estensione del Regno
di Cristo, e del suo bene (cfr. LG 44). Ed ecco
che, di nuovo, si reinterpreta la vocazione originale dei religiosi, non separando prima di tutto
tra coloro che sono di vita attiva da quelli che sono
di vita contemplativa, ma, all’origine, includendo
tutti sotto l’ottica del comune obiettivo di vita: il
servizio della Chiesa.
Praticamente poi, ma solo in seconda battuta, questo servizio viene distinto per ogni religioso, in
base alle «proprie forze e la sua specifica vocazione» (LG 44). In altre parole, si riafferma quel
dinamismo di concretizzazione, per
cui, se per tutti vale la vocazione al
servizio della Chiesa, questa poi prende forma in maniera specifica nella
vita di ogni religioso e di ogni istituto, esprimendosi nella varietà dei carismi e degli stili di vita propri a ciascuno.
Nell’immagine del titolo:
Le tentazioni di Sant’Antonio,
Domenico Morelli, 1878.
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2015
21
Laura Dalfollo
P
roponiamo una riflessione di partenza sul voto di obbedienza che
non vada a collocare come riflessione propria per la vita consacrata, bensì si possa estendere alla totalità dei credenti in Cristo
nei loro propri stati di vita. L’obbedienza si radica in quella comune consacrazione in Cristo avuta nel battesimo e ad essa rimandiamo nella convinzione che nelle sue caratteristiche generali l’obbedienza è propria di
ogni credente e rimanda agli aspetti comuni della vita umana. La nostra
esistenza, nella sue differenti sfumature, vive di obbedienza. Ogni essere umano è chiamato a obbedire a leggi biologiche che lo sovrastano,
come a leggi convenzionali, siano esse l’obbedienza del figlio al genitore come l’atto di fermarsi di fronte al semaforo rosso.
L’obbedienza ha molte sfumature e facile sarebbe cadere nell’inganno
della semplificazione secondo la quale l’obbedienza sarebbe la rinuncia
alla volontà personale per una volontà altra, nel caso della riflessione specifica sull’obbedienza come voto religioso per la volontà del superiore.
Si esprime cosi la complessità e la profondità antropologica prima, cristica poi del concetto che stiamo per trattare tale da chiederci di frenare il desiderio di una conclusione nel tentativo di gustare il cammino, di
assaporare il dono.
L’obbedienza come consiglio più oggetto di critica teologica che critica
morale ci fa intendere - soprattutto nel tempo di Lutero, tempo in cui si
ritrova S. Teresa - i molteplici interessi che gravitano attorno all’esistenza umana e l’attenzione alla dimensione di sequela Cristi a cui i consigli evangelici devono condurre, senza ripiegare sul limite della dimensione egoistica e mondana del vivere umano.
Non si tratta di additare o elencare con precisione le mancanze a tale
voto, le inadempienze riconoscibili e riconosciute. Si tratta invece
di strutture mondane che rimandano all’uomo e non a Dio, che
smorzano l’obbedienza nel suo senso proprio trasformandola in una trappola mortale per l’orgoglio e la vanità umana.
Obbedire si chiude nei desideri umani, nella ricerca di
sé e della propria personale felicità, senza porre lo sforzo di alzare lo sguardo per guardare, cercare chi è
accanto a noi, chi vive vicino a noi, colui con il
quale possiamo lasciare il nostro piccolo ego
per cercare qualcosa di più grande, quella
comunione grazie alla quale l’obbiettività chiama ad obbedire per un obbiettivo comune.
Per Teresa il fondamento primo
e ultimo dell’obbedienza sta nell’amore di Dio e a Dio. Dio
mi ha amato e ha dato se
stesso per me, il mio
amore per lui mi rende naturale l’obbedienza, la
vita donata nella gratuità e
nella comunione con Lui
che si è fatto
obbediente fino
alla morte e alla morte di croce. Nella vita consacrata la ricchezza della
storia e la varietà delle forme in cui essa si esprime non permette una
precisa analisi o riferimento. Per fortuna, è il primo pensiero che ci sfiora. Giustizia vorrebbe infatti un’analisi di tutto, in fondo in una costrizio-
ne intellettuale e non esistenziale.
L’obbedienza diviene, nella sua dinamicità, la porta verso la libertà. Il paradosso della vita in Cristo, in questo aspetto illuminata, diviene il paradosso evangelico del nostro testo, che trova il suo eco nelle parole stesse di S. Teresa, «nulla desiderando, tutto possiedono. Nulla desiderano,
né sono turbati dalle fatiche, o disturbati dalle grandi gioie. Nulla insomma, può togliere loro la pace, perché questa da Dio solo dipende»1.
È interessante notare come il legame fra carità e obbedienza sia per Santa
Teresa inscindibile, non solo nella struttura della realtà, bensì nel suo vivere nell’esistenza concreta della persona. In questo modo la vita pratica
e la vita spirituale divengono uno. Nel pensiero del suo tempo la via perfetta per vivere in Dio poteva vedersi come via contemplativa in cui l’obbedienza era identificata con l’assidua preghiera e meditazione delle cose
di Dio o di Dio stesso, così da considerare perdita di tempo la presenza
nel mondo. Invece no, la tensione fra concreto e trascendenza, porta al
cammino che permette di riconoscere l’inabitazione di Dio nel quotidiano del vivere dentro le cose del mondo, sapendo guardare a Lui, in ogni
cosa, in ogni momento, in ogni azione, solo in questa tensione perfetta.
L’obbedienza prima, quella che sta oltre ogni definizione di ordine o famiglia religiosa, è questo assumere il mondo in cui si esiste per portarli al
Padre nella comunione con Cristo uomo perfetto.
L’obbedienza perfetta è a Cristo, uomo perfetto. Sono in Lui la comunione
con Dio è perfetta da poter dire “sia fatta la tua volontà”, qualunque essa
sia, qualunque richiesta venga riconosciuta nel profondo della propria coscienza. Ora in questo momento la mente corre ai sacrifici più alti, alle penitenze più dure, da subire in offerta a Dio….ma Dio ha bisogno del nostro
sacrificio? Ciò che faccio deve essere obbedienza all’amore verso il fratello, proprio in quel continuo di vicinanza che fa il mio essere presenza
di Dio, presenza silente. Cosa è l’obbedienza nel suo primo esprimersi
se non il seguire il patto di alleanza fatto con il Signore?
Certamente idealmente pronti alle richieste più grandi, lo dobbiamo essere anche a quelle più lunghe. La fedeltà di una donna consacrata vissuta tutta la sua vita con amore e gioia contagiosa nella preghiera, chi
la può giudicare minore nel suo valore di quella di un religioso martirizzato? «La santità non consiste nelle consolazioni interiori, nei grandi
rapimenti, nelle visioni o nello spirito di profezia; ma nel conformare
la nostra volontà a quella di Dio, che qualunque cosa intendiamo
lui voglia, anche noi la vogliamo con tutto il nostro cuore, e con
gioia accettiamo il dolce e l’amaro, comprendendo come l’uno e l’altro provengano da Sua Maestà»2.
È interessante riflettere su questo realismo a cui S. Teresa
ci richiama, riportandoci nella dimensione Cristica dell’incarnazione. Dio non è venuto sul mondo per alienarvi da esso, per farci “vivere” una vita angelica. Con gioia siamo chiamati a conformarci a
Dio in Cristo, in una vita di “oblazione pura
e santa”, nella comprensione che non siamo noi dobbiamo essere noi a definire e decidere gelosamente la nostra
esistenza, ma nell’abbandono
fiducioso accettare ciò che
“Sua Maestà” ha posto come
nostra via.
Ciò che ora giunge alla
nostra bocca come
amaro, troverà il
suo senso nella
fiducia, nell’abbandono, più
grandi della fatica, del dolore, del
sacrificio che ci
pone in comunione privilegiata con Cristo. Si vede dunque come l’obbedienza abbia
la necessità di una riflessione universale, che sia riferita a tutta la famiglia cristiana prima di poter essere trattata nello specifico della vita concontinua nella pag. 22
Febbraio
2015
22
osì lo storico Stefano Serangeli descrive il quieto chiostro del Convento di Artena
con i suoi quattro ingressi che convergono verso la fonte d’acqua centrale, una cisterna, una volta ad uso dei frati e della popolazione
nei periodi di siccità, e verso la statua della Madonna.
beni, passarono allo Stato.
I frati continuarono ad officiare senza legale proprietà e riconoscimento. In seguito il Convento
fu affittato al sig. Raffaele Roia, i beni preziosi della chiesa vennero portati nel palazzo del
Principe o affidati a persone benemerite.
Nel giugno del 1878 il Comune di Artena rese
pubblico un avviso d’asta firmato dall’allora Sindaco
Cesare Tomassi, essendo Segretario comunale Alessandro Luchetti, che dice testualmente:
“Indicazione sommaria della qualità, situazione,
denominazione e confini degli immobili posti in
vendita. 1° Fabbricato ad uso Convento, con chiesa annessa, composto di numero 3 piani e n.
59 vani, con cortile, cisterna ed orto annessi,
Le lunette che lo contornano, relizzate con la
tecnica dell’ “a fresco”, sono di discreta fattura,
restaurate poco prima del 2000, accompagnano il visitatore che voglia recarsi al Convento
per trovare un’oasi di pace e respirare la serenità di San Francesco. In passato numerose sono
state le vicissitudini subite a seguito delle svariate chiusure, la prima delle quali avvenne nel
1810 ad opera di Napoleone, una seconda volta, nel 1874, quando il Convento e tutti i suoi
provenienti dal già Convento dei Minori Riformati
soppressi. 2° Terreno boschivo, seminativo, vitato, olivato, e bosco da frutto ed aperto, cinto di
muro sito in contrada del Convento, quella di
Salvatico, e con i beni dei fratelli De Angelis, dei
fratelli Mancini fu Angelo, salvi ecc.”.
Il 3 luglio dello stesso anno tenutasi l’asta pubblica con base di partenza di lire 21.100, venne notificato un altro avviso “...avendo il signor
Cascioli sacerdote Carlo fu Luigi elevato il prez-
Sara Calì
“...assai vago, non solo per l’architettura a
grandezza riquadrata con sette archi in ciascuna parte, ma anche per le pitture assai
ben disposte nelle lunette, rappresentanti la
metà la vita e i miracoli di San Francesco, e
l’altra la vita di S. Antonio da Padova…”
C
zo suddetto fino alla concorrenza di lire 21.200
e risultando il migliore offerente, vennero al medesimo aggiudicati provvisoriamente gli stabili suddetti…..” (Archivio del Convento).
Pertanto il Convento e tutti i suoi beni furono
restituiti ai Frati. Padre Cadderi nel suo libro Artena,
riferisce invece che fu il Vescovo di Segni, Mons.
Antonio Testa, a stipulare l’atto di acquisto del
Convento, davanti al Sindaco Tomassi, al
Segretario Luchetti, ai testimoni Elia De Vecchi,
Marcantonio Palladini e al notaio dott. Luirino
Barbetta di Velletri.
Un’altra chiusura si ebbe nel 1907 per questioni
interne alla Provincia Romana. La possibilità di
vendita fu sventata dalla mobilitazione della popolazione che in quell’occasione mostrò
tutto l’attaccamento per i buoni
Frati, con una sottoscrizione
pubblica ed unanime ottenendo
la riapertura del Convento.
Nel 1910, avendo la Provincia di
San Michele Arcangelo riavuta
la sua autonomia, il Convento di
Artena fu destinato a sede del
Collegio Serafico per i giovani avviati al sacerdozio.
Ancora una volta la cittadinanza intervenne per soccorrere i frati in occasione del terremoto nel
gennaio del 1915 a seguito del
quale, per alcuni mesi, i conventuali
furono ospitati a Valmontone per
poi tornare ad Artena con grande gioia dei cittadini.
I fratini crebbero tanto di numero che si dovette ingrandire l’edificio che li ospitava.
La loro attività non tendeva
solo all’educazione dei giovani
religiosi ma anche all’istruzione
degli adulti che lì imparavano a
leggere e a scrivere, oltre ad essere istruiti nel catechismo e nei doveri religiosi. A questo si aggiungeva
la cura che avevano nell’esercizio quotidiano del
Ministero sacerdotale, nell’amministrazione dei
Sacramenti, nella predicazione e nelle altre opere a vantaggio del progresso spirituale e morale dei fedeli.
Per tutti questi meriti il Convento si trasformò
in Parrocchia nel 1927 e per diversi anni ospitò anche una sezione staccata della Scuola Media
Statale locale (circa otto classi), insieme al biennio del ginnasio per i fratini.
segue da pag. 21
sacrata al fine di non far sentire alcuni esenti da tale chiamata.
Le diverse espressioni e caratteristiche con cui i diversi ordini e famiglie
religiose hanno assunto tale voto è espressione propria della ricchezza
dello Spirito che “soffia dove vuole”.
La riflessione ulteriore, che cercheremo di sviluppare in questo tempo di
preghiera e riflessione per la vita consacrata, avrà il piccolo obiettivo di
confrontarsi con l’esperienza di S. Teresa e cercare da lei spunto per una
maggiore comprensione, una tensione ad una sempre più grande consapevolezza dell’infinità dei doni che lo Spirito offre, nella possibilità del-
la loro assunzione e attuazione, in una reale personale relazione con Dio,
relazione d’amore, relazione di libertà.
1
2
Le Fondazioni, 7.
Le Fondazioni, 10.
Nell’immagine del titolo: Allegoria dell’obbedienza,
Giotto 1330, Assisi
Febbraio
2015
23
mons. Franco Risi
G
li antichi immaginavano il giovane da educare come un bambino sulle spalle del gigante: sulle spalle del passato, i giovani intravedono l’avvenire e lanciano nel futuro i loro sogni. Tutto
ci fa capire che la solidarietà tra le generazioni richiede la generosità
dei formatori e la disponibilità dei formati: gli adulti per trasmettere fedelmente e i giovani per accogliere con gratitudine. Se dal punto di vista
umano per la crescita dell’individuo il punto di partenza è la famiglia; da
quello spirituale per la maturazione della preghiera, della fede e per la
creatività nel mettere in pratica il Vangelo, il punto di partenza è la parrocchia. Per far sì che ciò avvenga in modo equilibrato è necessaria
una proficua collaborazione educativa tra le famiglie e i sacerdoti, i religiosi e le religiose. I sacerdoti, insieme con le famiglie, sono chiamati a
curare la vita umana e spirituale del popolo di Dio nelle realtà in cui vivono e svolgono il loro servizio; i religiosi e le religiose, invece,
aderendo a Gesù in modo
più radicale, compiono la loro
missione a servizio di tutta la Chiesa universale.
Tutti, però, sono accomunati dal forte desiderio di seguire Gesù che «è lo stesso,
ieri, oggi e sempre» (Eb 13,
8). Il protagonista è Cristo:
Egli, tramite i formatori, agisce sui quanti (ragazzi e
ragazze) con generosità
rispondono alla sua chiamata
e li attira chi alla vocazione della famiglia, chi a quella sacerdotale e chi alla vocazione alla vita consacrata:
a tutti è richiesto di vivere
secondo il Vangelo nel
seno della Chiesa.
Infatti i formatori devono essere consapevoli che la decisione dei chiamati è un fatto strettamente personale,
mentre la formazione assume un risvolto ecclesiale. Per questo i formatori sono chiamati a trasmettere
i valori spirituali autentici e dare quegli strumenti necessari per superare le difficoltà qualora ci fossero: solo in questo modo l’uomo riesce a
realizzare se stesso e la propria vocazione per essere felice, altrimenti
si perde a metà strada dietro i propri desideri e dietro le false ideologie
e le menzogne della cultura dominante.
La Chiesa, consapevole di ciò, ha sempre pregato per avere santi sacerdoti e ferventi religiosi, perché dalla loro testimonianza e dal loro apostolato dipende la qualità della vita cristiana del popolo di Dio.
In questo senso il Concilio Vaticano II aveva affermato che: «Il desiderato rinnovamento di tutta la Chiesa dipende in gran parte dal ministero dei sacerdoti» (OT prologo), e per mostrare il valore ecclesiale della
vita consacrata aveva espressamente detto: «Lo stato religioso più fedelmente imita e continuamente rende presente nella Chiesa la forma di
vita che il Figlio di Dio abbracciò quando venne nel mondo» (LG 44).
Per questo giustamente si pone l’accento sull’importanza del servizio di
ogni formatore, affinché sappia suscitare sentimenti di fiducia nei giovani e sappia aiutarli a progredire nella formazione umana, spirituale,
intellettuale e pastorale. Questi quattro pilastri formativi sono indicati nella Pastores dabo vobis di Giovanni Paolo II (numeri 42; 43-58) a cui recentemente papa Francesco ha aggiunto quella comunitaria (Osservatore
Romano, 14/05/2014, pag. 4), sottolineando l’importanza dell’incontro
tra le persone e il valore dell’amicizia.
Tutto questo ideale formativo richiede da parte dei giovani la propria collaborazione per ricevere l’attrezzatura spirituale per affrontare il futuro.
Questo bagaglio necessario per progredire nei cinque pilastri formativi
richiede tra i formatori e i giovani piena armonia per attingere a tutto l’ampio patrimonio spirituale della Chiesa.
Certamente il primo e fondamentale strumento per conoscere ed amare Gesù è il libro della Sacra Scrittura. È necessario, quindi, imparare
a meditare la Scrittura per trovare in essa la chiave di lettura e per capire il senso di ciò che avviene nel cuore dell’uomo e della donna di oggi:
questo aiuta a diventare uomini di Dio, pronti ad annunciare il Vangelo
a tutti e così preparati per svolgere la missione salvifica a vantaggio dell’intera umanità.
Un secondo strumento è la Liturgia e la spiritualità dell’anno liturgico, in
cui la fede si trasforma in preghiera; in questo ambito hanno particolare importanza le feste
solenni di Cristo, della
Madonna e dei Santi del presente e del passato, che guidano il cuore del chiamato alla sequela di Gesù. Inoltre,
basti pensare ai fondatori
e alle fondatrici dei grandi
Ordini religiosi, profondamente ricchi di una letteratura
ascetica e mistica.
Il terzo strumento riguarda
il Magistero della Chiesa,
i cui documenti sono ricchi
di suggerimenti culturali e
spirituali.
Nello specifico, il Concilio
Vaticano II propone a tutti
coloro che sono impegnati nella pastorale la virtù della carità verso tutti, con una
attenzione particolare verso i poveri (LG 41).
Tutto questo patrimonio
spirituale aiuta i giovani a
fare esperienza dell’incontro con Gesù e con la
sua Madre, che supera ogni
conoscenza umana (cfr. Ef
3, 19). Per l’esercizio della carità papa Francesco ha sottolineato che tutti i sacerdoti devono avere l’odore delle pecore, nel senso che devono condividere la vita della
gente e farsi carico dei loro problemi per aiutarli nelle situazioni della
quotidianità. In riferimento a quanto riportato, certamente i formatori devono vivere e trasmettere ai giovani un grande amore per Cristo e per la
Chiesa, sia quella diocesana in riferimento al Vescovo, sia quella universale, in riferimento al Papa. Ne segue che i giovani sono invitati ad
accogliere con fiducia l’invito dei formatori per intraprendere all’inizio del
proprio cammino la purificazione e la lotta contro il peccato, andando
alle radici che sono i vizi capitali o passioni; così essi potranno più facilmente conoscere ed assimilare i comportamenti positivi del Vangelo, per
diventare veri e autentici discepoli di Gesù.
In questo percorso prendono significato nella loro vita i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza, così da essere capaci di interiorizzare i comportamenti di Gesù ed imparare a vivere come Lui e progredire nella sua amicizia: in questo modo attivano la virtù della generosità e la capacità di rinuncia e di sacrificio mediante una vita spirituale costantemente impegnata. Questo aiuta i giovani a mettere da parte
i propri interessi per farsi carico degli interessi di Cristo e di quelli degli
altri. Tutto questo progresso si potrà realizzare solo se tra i formatori ed
i giovani vi sia piena armonia e collaborazione, come il bambino in groppa al gigante che, scendendo dalle sue spalle, è diventato finalmente
capace di camminare da solo.
Febbraio
2015
24
don Gaetano Zaralli
P
erché Mirko, vicino ormai alla maggiore età, pur ammettendo
di non credere in Dio, chiese di ricevere il sacramento della
cresima? Lui con sincerità spiegava questa sua scelta, appellandosi ad un atto di amore che chiamava “favore” nei confronti della zia che con insistenza gli chiedeva di essere padrino al battesimo
della cuginetta. Non era la prima volta che qualcuno decideva di ricevere la cresima solo perché messo alle strette dal prete con argomenti che si rifanno alla coerenza o dai parenti con motivazioni che
amorevolmente giocano al ricatto. E non sempre in circostanze del
genere i neocresimandi, ormai in età avanzata, riescono a nascondere il disappunto o a fingere una fede appena poggiata sulla instabilità delle tradizioni familiari.
La responsabilità di concedere un sacramento nella quasi certezza
che di questo si stava facendo uno strumento di comoda acquiescenza,
era rilevante, D’altronde chi può dire che non sia proprio quella circostanza l’occasione propizia per ristabilire un contatto con la chiesa e per riscoprire dei valori cristiani persi nella confusione degli opportunismi disseminati ormai ovunque?
Questa fu la speranza che mi condusse a portare Mirko alla cresima, nonostante la confessione che mi fece:
“Per me credere in Dio rappresenta il bisogno che un uomo
ha di creare un’entità soprannaturale alla quale attribuire quegli avvenimenti della vita che altrimenti non si spiegherebbero…
In questo modo, però, una persona non si pone alcuna domanda sulla propria esistenza e sui misteri della vita, perché pensa
che è tutto voluto da Dio, casomai si chiede perché mai Dio non
interviene in certe situazioni drammatiche.
Io che non credo mi faccio mille domande tutti i giorni e cerco risposte documentandomi, e più vado avanti, più riesco a trarre conclusioni del tipo che Dio è il frutto dell’immaginazione dell’uomo, è una leggenda, è un tizio con cui noi parliamo, a cui
chiediamo favori, perdono, ecc…”
Chi si fa domande tutti i giorni e cerca risposte (anche su Dio) documentandosi in modo serio, vive sicuramente nel dubbio e, per la mente che va alla ricerca di una qualsiasi verità, il dubbio è l’alimento
quotidiano. Perciò l’“Io che non credo…” di Mirko potrebbe essere
tradotto tranquillamente, senza contraffare l’essenza del suo pensiero,
in:“Io che penso di non credere…”.
Di Mirko mi piacque il suo atteggiamento critico e la sua voglia di capire perché mai e da chi gli veniva quell’idea di Dio che ora non riusciva a digerire. Purtroppo si cresce in età e delle fonti innumerevoli che
offrono risposte ai problemi che più assillano l’umanità, si prediligono quelle che più agevolmente soddisfano la ragione.
Si cresce in età e con gli anni aumenta il bagaglio di nozioni scientifiche a danno, però, e questo è il vero problema, di un Dio che nella immaginazione e nel cuore di un ragazzo forse è rimasto bambino. Scrisse ancora Mirko:
“…il bene e il male, il buono e il cattivo fanno parte della natura, perché anche noi siamo animali, non siamo speciali.
C’è sempre il più forte e il più debole; combattiamo tutti per la
sopravvivenza, come i leoni nella savana. Una volta combattevamo per catturare un animale, oggi combattiamo per la ricchezza,
per i soldi. Ecco il motivo delle guerre.
Oggi la nostra preda sono i soldi, senza quelli non si ha
né cibo né cure. Solo i più favoriti vivono: è la selezione naturale. Questa è un’altra motivazione per cui non credo in Dio, perché se esistesse non ci sarebbe un buono e un cattivo, il bene
e il male, perché lui ci avrebbe fatto stare tutti sullo stesso livello e in questo modo non ci sarebbero state le guerre, perché ci
saremmo aiutati l’uno con l’altro, io ti do quello che manca a te
e tu quello che manca a me. Tutto questo mi fa pensare e riflettere su Dio e la sua esistenza e sul fatto se credere o no!”
Mirko mi si presentava come un ateo profondamente cristiano, o meglio,
come un cristiano deluso che non riesce a mettere insieme il libero
arbitrio che dell’animale fa un uomo, il senso di giustizia che nei disegni della provvidenza ha dinamismi complessi e l’amore di Dio che
si concretizza nella reciprocità dal vangelo insistentemente auspicata.
Quando un ragazzo, dando ragione alle proprie intransigenze, con
taglio netto, senza lasciare spazio alla morbida comprensione di ciò
che appare diverso, divide il mondo in due, è bene che non lo si prenda sul serio: potrebbe spaventarsi, lui per primo, dinanzi ai pareri che
con la bocca esprime e che con il cuore coltiva tra le più assurde
fantasie…
E’ troppo facile sottolineare le contraddizioni dei giovani… ma è anche
troppo comodo non dedicarsi alla fatica del dialogo, spazio prezioso, in cui si dà ai pensieri la possibilità di maturare. Mirko fece la cresima e quel giorno ci guardammo negli occhi.
Ormai l’idea di un Dio fatto in casa che appare come fantasma di comodo, era scomparso dietro l’immagine più concreta di Gesù, di un Gesù
Figlio di Dio che propone agli uomini la “Buona Novella”. Mirko non
conosceva il Vangelo, Mirko, come i discepoli di un tempo, quasi per
caso, ebbe modo di incontrare il Maestro…
Nell’immagine del titolo: Gesù cena in casa di Simone il Fariseo,
1554, Moretto, Venezia.
Febbraio
2015
25
Giovanni Zicarelli
T
re cori, ognuno con un proprio repertorio,
hanno dato vita, con il patrocinio dal Comune
di Colleferro, ad un grande “Concerto di
Natale”. In una navata gremita, il parroco, un emozionato padre Antonio Scardella, ha annunciato
l’esibizione dei tre cori dopo un breve commento introduttivo in cui, ricordando i suoi trascorsi
da corista, ha posto un particolare accento sulla
fondamentale importanza della musica nei luoghi
sacri, per gli officianti quanto per i fedeli, poiché
le note sprigionano un effetto particolarmente positivo nell’elevazione dello spirito.
Il primo ad esibirsi, alle ore 18 circa, è stato il coro
“Nuove Armonie Ensemble” che, nato da poco più
di un anno (dicembre 2013), era alla prima esperienza fuori dalle mura natie, Castelvecchio
Suequo, in provincia dell’Aquila. A dirigerlo, un conterraneo da anni trapiantato a Colleferro, il M° Giuseppe
Pignatelli, artista di esperienza internazionale notissimo al pubblico colleferrino per via della sua apprezzata attività concertistica in città. Il coro è stato
accompagnato dalle note di cinque impeccabili strumentisti, tra cui, al pianoforte, il M° Cesare Buccitti
che, insieme al direttore Pignatelli, ha curato l’adattamento e l’elaborazione delle corali. L’esibizione
è consistita in una iniziale fantasia di canti di Natale
seguita da sei brani: “Quid mihi est in coelo”, graduale di padre Domenico Maria Stella (1881-1956),
compositore nativo della nostra Diocesi (Carpineto
Romano); “Gloria RV 589”, la più famosa opera
sacra di Antonio Vivaldi (1678-1741); “Happy Xmas”,
celebre canzone natalizia del 1971 di John Lennon
(1940-1980) e Yoko Ono (n. 1933); “I cieli immensi narrano”, salmo di Benedetto Marcello (1686-
1739); “White Christmas”, tradizionale canto di Natale
di Irving Berlin (1888-1989); in conclusione, il vecchio spiritual americano “Glory glory”.
È stata poi la volta della corale “Anima e Coro”,
diretta dal figlio d’arte Tonino Pignatelli, anche curatore degli arrangiamenti e chitarrista. Un gruppo
vede quali autori il M° Cesare Buccitti e padre Antonio
Scardella; seguono: “O Pastorelle addio”, brano
tratto dall’opera “Andrea Chénier” di Umberto Giordano
(1867-1948); “We wish you a merry Christmas”,
celebre canto natalizio della tradizione inglese (XVI
secolo); “Oh Holy Night”, canto natalizio compo-
di ragazzi, nato nel giugno 2012, di cui si è già
scritto su queste pagine (numero di settembre 2014)
quale positiva realtà giovanile della città di
Colleferro. Il coro, accompagnato da quattro giovani musicisti, ha iniziato con “Tu scendi dalle stelle” di Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), forse il più classico fra i canti di Natale; a seguire:
“Feliz Navidad”, canzone pop-natalizia del 1970
di José Feliciano (n. 1945); infine una divertente esibizione con “Lollipop”, canzone
pop scritta da Julius Dixson e Beverly
Ross nel 1958.
Ultimo ad esibirsi, l’“Ensemble
vocale strumentale Butterfly”, coro
femminile di Colleferro fondato
dal suo direttore, il M° Giuseppe
Pignatelli, nel febbraio 1998, e coadiuvato dai cinque musicisti “prestati” all’inizio al coro “Nuove Armonie
Ensemble”. Elaborazioni ed adattamenti, come per il primo coro, a
cura dei Mi. Pignatelli e Buccitti. La
prima esibizione, “Vergine Immacolata”,
sto da Adolphe Adam (1803-1856); “Down by the
riverside”, spiritual nero risalente a prima della guerra civile americana; “Gesù bambino”, canto di Natale
composto da Pietro A. Yon (1886-1943); “On the
blue Danube”, celebre valzer composto da
Johann Strauss, Jr. (1825-1899). Gran finale a cori
riuniti con “Siyahamba”, un inno sudafricano dal
titolo in lingua Zulu che significa “stiamo marciando”
che i cori hanno cantato in tre lingue: afrikaans,
inglese e spagnola. Al termine, scambio di targhe
ricordo fra i cori a futura memoria della serata.
Una serata in cui si è assistito a esibizioni anche
notevoli, specie se si considera il carattere amatoriale dei cori, frutto della grande abnegazione
degli artisti dettata solo da pura passione e al caloroso apprezzamento del numeroso pubblico che
si è manifestato con lunghi applausi alla fine di
ogni brano e varie standing ovation.
Dare spettacolo ed emozioni senza altro chiedere
che ascolto, sperando solo in una buona presenza
di pubblico e nel suo gradimento. Quando regna
la passione, qualunque altro interesse resta fuori, sulla soglia del Tempio.
Febbraio
2015
26
U N A G I O R N ATA
DELLA MEMORIA
“ PA R T I C O L A R E ”
Claudio Gessi
I
l 26 e 28 febbraio Cattolici
e Valdesi di Colleferro
insieme per ricordare
Dietrich Bonhoeffer
Nelle prime ore del mattino del 9
aprile del 1945, nel campo di sterminio di Flossenburg, presso
Monaco di Baviera, su diretto ordine di Hitler, fu impiccato Dietrich
Bonhoeffer, giovane pastore luterano, simbolo della resistenza tedesca contro il nazismo. A 70 anni
dal suo martirio, su iniziativa
dell’Associazione “Città dell’Uomo”
presieduta da Claudio Gessi, le
comunità valdese e cattolica di
Colleferro celebrano insieme una
significativa “Giornata della
Memoria” nel ricordo di questa straordinaria figura di credente.
DIETRICH BONHOEFFER
Teologo protestante,
martire del nazismo
Nella Germania nazista, non tutti i tedeschi condividevano le politiche naziste, alcuni vincendo la
paura della famigerata Gestapo (polizia segreta), furono in aperta contrapposizione e molti pagarono con il carcere, le torture, i lavori forzati, la
vita stessa, la loro libertà di espressione e l’anelito di indipendenza dal rigido regime. Fra queste persone di varia estrazione sociale e di pensiero, vi fu il teologo e pastore protestante Dietrich
Bonhoeffer, uno dei maggiori e più aperti oppositori dell’ideologia nazista, che per questo era
già detenuto dal 5 aprile 1943.
Dietrich era nato il 4 febbraio 1906 a Breslau,
una città della Slesia, allora in Germania, ma
dopo la II Guerra Mondiale ritornò ad essere parte della Polonia con il nome di Wroclaw, dopo
quattro secoli di dominio austriaco, prussiano
e nazista. Il padre Karl era un professore di Neurologia
e Psichiatria, la madre Paula cristiana fervente, era dedita all’educazione dei suoi otto figli,
quattro maschi e quattro femmine.
Quando Dietrich aveva sei anni, la famiglia Bonhoeffer
si trasferì a Berlino di dove era originaria; i suoi
genitori frequentavano la Chiesa Luterana. Il giovane Dietrich si avvicinava sempre più alla religione, decidendo di dedicarsi agli studi teologici. Aveva 16 anni quando la mattina del 21 giugno 1921, era a scuola nel ginnasio del quartiere residenziale di Grunewald e udì gli spari
che a poca distanza dall’istituto, uccisero
Walter Rathenau, ministro degli Esteri, davanti alla porta di casa. E da allora, Dietrich molto
turbato, cominciò a domandarsi quale futuro pote-
va avere una Germania, che assassinava i suoi
figli migliori. La sua vocazione allo stato religioso,
fu accolta in casa con una certa sorpresa, considerandola una scelta curiosa, perché lo studio della teologia, era una cosa che non portava da nessuna parte.
Durante i suoi studi all’Università, prima di Tubinga
e poi di Berlino, maturò convinzioni politiche; l’incontro con il pacifista francese Jean Lasserre,
eliminò quell’amarezza contro i trattati di
Versailles, che avvelenava l’opinione pubblica
tedesca e che porterà poi all’appoggio popolare alla politica rivendicativa di Adolf Hitler. Influenzato
in modo significativo dalla teologia dialettica e
dal pensiero del teologo protestante svizzero Karl
Barth (1886-1968), Dietrich Bonhoeffer si laureò nel 1930 con una tesi sulla Chiesa, dal titolo “Sanctorum communio”, diventando pastore
luterano e ottenendo a soli 24 anni, l’abilitazione per la docenza universitaria.
Dal 1931 al 1933, insegnò teologia all’Università
di Berlino, coinvolgendo gli studenti con il suo
approccio innovativo e impegnato, teso a sensibilizzare le coscienze, sulla situazione politica della Germania di allora. La sua attenzione
era concentrata sulla Chiesa, intesa come concreta comunità di uomini, che, in quanto tale,
ha il dovere di calarsi nella realtà e combatterne le distorsioni, per realizzare una società giusta, lontana dalla violenza.
In quegli anni Dietrich, maturò la sua forte oppo-
sizione al nazismo; a contatto
con Gerhard Leibholz di origine ebrea e marito della sua
gemella Sabine (la coppia nel
1933, lascerà la Germania a
seguito delle leggi razziali),
prese coscienza del grande
peccato costituito dall’antisemitismo e si opporrà in seguito pubblicamente alla “clausola ariana”, contenuta negli
statuti della Chiesa Protestante,
imposti dal regime nazista;
tutto ciò porterà la sua discesa in campo in prima persona,
per denunciare la deriva del
potere politico in Germania.
Il suo itinerario di studioso,
insegnante, pastore, fu interrotto solo dai viaggi fatti in Italia
e a New York; ma nel 1933
in Germania, avvenne la
svolta radicale dell’avvento
al potere di Adolf Hitler e Dietrich
Bonhoeffer fece subito e
chiaramente la sua scelta, schierandosi con la cosiddetta
“Chiesa confessante”, cioè quella parte della comunità evangelica, che aveva imboccato la via della resistenza al
regime nazionalsocialista,
organizzando per essa seminari e corsi di studio, stabilendo contatti anche all’estero,
affinché fosse sostenuta la
resistenza tedesca.
Per questo la sua voce fu progressivamente spenta, in particolare nel 1933, quando partecipò ad
una trasmissione radiofonica, definendo pubblicamente
Hitler “un seduttore”, provocando così l’interruzione del programma; l’interferenza del regime
diventò sempre più capillare ed invasiva e gli
fu proibito man mano di insegnare, di predicare, di scrivere.
Trovatosi nell’impossibilità di portare avanti il suo
programma d’insegnamento, Bonhoeffer, lasciò,
nell’ottobre 1933, la Germania, scegliendo di fare
il pastore a Londra. Uomo audace e profondamente religioso, era convinto della necessità per
la Chiesa e i suoi esponenti, di risvegliare la coscienza critica degli uomini e di diffondere la Parola
di Dio anche, e soprattutto, nei momenti storici più difficili; una volta rientrato in Germania,
si unì per questo al gruppo di Resistenza sorto attorno all’ammiraglio Wilhelm Canaris (18871945), impegnato a cercare una via d’uscita che
evitasse il disastro totale. Ma il 5 aprile 1943,
Dietrich Bonhoeffer fu arrestato dalla Gestapo;
iniziava così il suo calvario in varie prigioni del
Reich; nelle carceri di Tegel e Berlino, scrisse
le celebri lettere e appunti, raccolte poi nel vol.
“Resistenza e resa” (pubblicato nel 1951), esempio di lucida coerenza in principi come libertà,
patria, democrazia, pace, dialogo, ascolto dell’altro. In quelle pagine, ora dolci ora drammatiche, pronte a scavare nel mistero di Dio e delcontinua a pag. 27
Febbraio
2015
27
Cristiana, Laura,
Martina e Serena
T
re generazioni insieme a
festeggiare, quella dei
nonni, insieme a quelle dei
nipoti e perché no anche quella
dei genitori. Tutto questo è stata
la «Tombolata dei Nonni» organizzata dai gruppi ACR della
Parrocchia S. Maria del Carmine
di Velletri. Siete curiosi di conoscere le origini della tombola? Eccovi
accontentati:
Il gioco della tombola è figlio della tombola napoletana e del gioco del lotto. Le sue origini risalgono infatti a trecento anni fa,
al 1734, in seguito a uno “storico”
litigio tra il re di Napoli, Carlo III di Borbone e il
frate domenicano Gregorio Maria Rocco. A quell’epoca nel Regno delle due Sicilie, e soprattutto
a Napoli, il gioco d’azzardo del lotto era particolarmente diffuso. Il re voleva renderlo legale
per poter così incassare i tanti soldi spesi dal popolo, il
frate invece si opponeva dicendo che
la legalizzazione del gioco avrebbe allontanato ancora di più i fedeli dalla preghiera. Alla
fine della disputa il re ebbe la meglio, tuttavia
concordò con il frate che il gioco sarebbe stato sospeso durante le festività natalizie. Ma i napoletani (e gli altri abitanti delle città del regno) non
erano disposti a rinunciare a quel divertimento
e continuarono a giocare al lotto... in famiglia! I novanta numeri del lotto furono così messi dentro “panarielli” (appositi cestini
di vimini) e vennero inventate le
cartelle con i numeri disegnati
per tenere conto delle estrazioni
successive.
Ma torniamo a noi …
Tra un terno ed una cinquina,
con la compagnia di vallette improvvisate e di “bellissime” Befane
(le educatrici dell’ACR), ha avuto luogo nei locali della parrocchia questo appuntamento giunto ormai alla quarta edizione.
Tanti dolci premi per tutti e una
merenda offerta dalla parrocchia.
A ricordarci del grande valore che
hanno i nonni nelle nostre famiglie è stato Papa
Francesco nell’Angelus del 28 Dicembre 2014
che ha visto protagonista anche la nostra comunità parrocchiale. Ed è proprio vero!
L’amore che essi dedicano ai nipoti è un
bene prezioso che va
salvaguardato. Nonni
e nipoti hanno concluso così le festività
natalizie in un pomeriggio spensierato e
ricco di sorrisi.
*Le educatrici
dell’ACR
segue da pag. 26
l’uomo, espressione ardente di una vita con Dio
e per Dio, con gli uomini e per gli uomini, si delineavano alcune tesi del suo pensiero, che avevano avuto una vasta trattazione già in altri suoi
scritti precedenti, come “Agire ed essere”
(1931), “Sequela” (1937), “La vita comune” (1939)
ed “Etica”(1949, opera postuma).
Le lettere, maturate negli anni di carcere, rappresentano l’opera più conosciuta di Bonhoeffer,
documento frammentario, ma interessantissimo
di una vicenda umana esemplare. Bonhoeffer
credeva nei valori della comunità, come necessaria risposta religiosa all’esistenza, come luogo del rispetto reciproco e in quelli dell’interiorità, che nessuna tirannia avrebbe potuto violare. Nel Natale 1943, il teologo Bonhoeffer così
pregava: “È buio dentro di me, ma presso di te
c’è luce; sono solo, ma tu non mi abbandoni,
sono impaurito, ma presso di te c’è aiuto; sono
inquieto, ma presso di te c’è pace; in me c’è amarezza, ma presso di te c’è pazienza, non comprendo le tue vie, ma tu conosci la mia vita”.
Dopo un breve passaggio nel campo di concentramento di Buchenwald, fu trasferito nel lager
di Flossenbürg presso Monaco; là dopo un processo sommario, fu condannato a morte e impiccato il 9 aprile 1945, a 49 anni, insieme all’ammiraglio Canaris, per espresso ordine di Hitler.
In quei mesi che precedettero il crollo finale del
nazismo, e che seguivano il fallito attentato ad
Hitler del 20 luglio 1944, anche altri suoi familiari furono uccisi, quali dissidenti del regime: suo
fratello Klaus Bonhoeffer avvocato, i mariti delle due sorelle Christine e Ursula, Hans von Dohnanyi
e Rudiger Schleicher, con loro Ernst von
Harnack, parente e frequentatore del circolo musicale, dove il gruppo clandestinamente congiurava. Il cardinale Gianfranco Ravasi, in un suo
articolo su Famiglia Cristiana, così sintetizza il
pensiero di Bonhoeffer: “Egli esaltava la necessità dell’impegno del cristiano nelle “realtà penultime”, cioè in quelle della storia e dell’azione sociale e politica, per poter accedere alle “realtà ultime” della fede e della pienezza di vita in Dio.
Egli sentiva fortemente l’importanza di un confronto col mondo diventato “adulto” e secolare,
e questo dialogo doveva avvenire attraverso un
cristianesimo “non religioso”, cioè ripensato in
una nuova forma, non più sacrale.
Queste ed altre tesi, alcune di forte impronta mistica, altre di tonalità esistenziale, contenevano reazioni e fremiti legati alla sua esperienza e al contesto di quel tempo e sono poi state sottoposte
a critica”. Il suo Dio, non è assente ma nascosto e la storia umana è un susseguirsi di balenanti sue apparizioni e rivelazioni, di segni misteriosi, di tracce certe anche se spesso indecifrabili
della sua presenza, che consentono di ricostruire
l’itinerario che conduce a Lui.
Rimane indubbia, però, la fede pura di
Bonhoeffer e la sua testimonianza integra, e con
questa fede egli si avviò al martirio. Scrisse di
lui più tardi uno dei medici del lager: “Mi ha scosso nel profondo… Nei quasi 50 anni di pratica
medica, non ho mai visto morire allo stesso modo,
un uomo consacrato al Signore”. In una sua lettera dal carcere, Bonhoeffer scrisse: “Quando
si è rinunciato del tutto a fare qualcosa di se stessi: un santo, un peccatore convertito o un uomo
di Chiesa, un giusto o un ingiusto, un malato o
un sano, allora ci si getta interamente nelle braccia di Dio, allora si prendono finalmente sul serio
non le proprie, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nei Getsemani e,
io penso, questa è fede; e così diventiamo uomini, diventiamo cristiani”. Dietrich Bonhoeffer, viene considerato uno dei dieci “testimoni” delle cristianità del secolo scorso.
A questo titolo, dal 1998, la sua statua è stata
collocata in una nicchia della facciata dell’abbazia di Westminster, in Inghilterra; tiene in mano
una Bibbia, ed è in compagnia, fra gli altri, di
Martin Luther King, del vescovo Oscar Romero,
di san Massimiliano Kolbe, in un ecumenismo
del martirio, più eloquente di qualsiasi solenne
dichiarazione. È ricordato il 9 aprile, giorno della sua morte.
Febbraio
2015
28
Giovanni Zicarelli
opo la conferenza “Coscienza e Politica”,
di cui si è scritto nel numero di dicembre 2014, nella chiesetta del SS.mo
Crocefisso, in Velletri, si è tenuta, venerdì 16
gennaio, “Etica, Finanza e Mercati”, la seconda, dunque, di un ciclo di tre conferenze che si
concluderà giovedì 5 febbraio con “Il futuro del
Lavoro”. Anche per questo secondo appuntamento, un titolo che strapperà più di un sorriso
sarcastico, dato che mercato e finanza, in genere, hanno sempre avuto poco o nulla da spartire con l’etica, probabilmente fin dal primitivo
baratto ed oggi meno che mai. Come per la precedente conferenza, un breve intervento iniziale
del vescovo, S. E. mons. Vincenzo Apicella, per
presentare agli intervenuti, dopo qualche accen-
D
no sull’argomento, il relatore: prof. Romeo Ciminello,
docente presso l’Università Cattolica di Kinshasa
(Repubblica Democratica del Congo).
L’etica in generale, afferma il prof. Ciminello nella sua lineare ed esaustiva esposizione, non consiste nel “comportarsi bene” secondo i comuni
dettami della società ovvero facendosi influenzare dal mondo esterno, bensì è “conoscenza
del bene”, alla quale si giunge attraverso un percorso interno in cui si è scissa l’“etica teorica”
dall’“etica applicata”.
La prima, a concepire astrattamente il bene come
raggiungimento della perfezione comportamentale e la seconda a individuare l’unica e giusta azione da praticare per cercare di realizzarlo
ovvero a riprodurre al meglio il bene teorizzato. Traslitterando ciò nei valori cristiani, si ottiene che l’etica teorica indirizzi verso il concetto
di bene comune che consiste nel rispetto del prossimo e che l’etica applicata porti a metterlo in
pratica attraverso azioni concatenate che, partendo dalla carità, portino alla solidarietà e infine alla responsabilità verso gli altri, nascendo,
quest’ultima, dalla concezione che la società è
data dall’azione che ogni uomo compie.
La cosiddetta “crisi economica” o lo scontro fra
culture che oggi si ritiene siano in atto, derivano dall’ignorare la necessità del “bene comune” cioè dell’insieme di quelle condizioni
che permettano ai vari popoli e ai singoli individui di vivere secondo le proprie aspirazioni. Quindi, riferendosi a quanto scritto nella costituzione pastorale promulgata da papa Paolo VI l’8 dicembre 1965
Gaudium et spes (n. 26), ognuno, popolo o individuo, dovrebbe agire sempre tenendo conto, oltre che delle proprie, anche delle esigenze degli altri, lasciando sempre
prevalere il bene per le persone; ciò si può
raggiungere solo attraverso un rinnovamento
della mentalità e profondi mutamenti della società.
L’Uomo arriverebbe così a sfruttare appieno ciò che gli è stato donato in più rispetto alle
altre specie viventi sulla Terra: l’intelletto, quella caratteristica che lo fa essere presente a se
stesso, diversificandolo dallo statico oggetto, esistente solo per chi l’osserva e dall’inconsapevole animale, dominato da puro istinto di
sopravvivenza. La politica, sempre avvertita dagli
uomini come una necessità per far fronte all’esigenza di vita comunitaria della natura umana,
è pertanto chiamata a far sì che si realizzino quel-
le condizioni di vita sociale che consentano agli
esseri umani di dar vita ad una società in cui
tutti possano contribuire, in base alle proprie capacità, a raggiungere sempre di più il bene comune, concetto anche questo espresso dalla Gaudium
et spes (n. 74).
Se oggi, in questa tragedia che è nuovamente
divenuto l’intero Mondo, c’è una cosa certa, è
proprio il completo rifiuto dell’Etica da parte del
sistema finanziario che ha reso completamente sua succube la politica la quale, invece, dovrebbe porsi ad arbitro imparziale fra mercato finanziario da una parte e imprese e lavoratori dall’altra, fra economia virtuale ed economia reale, fra ciò che sembra e ciò che è.
La questione è che l’Uomo è ancora, e a quanto pare sempre più, dominato da un istinto di
conservazione, da una territorialità e da un senso del possesso snaturati perché affatto necessari dato che il Mondo odierno potrebbe dare
sufficiente benessere a tutti e questo smarrimento
di finalità si ripercuote nella gestione politica che
pare sempre più perdersi fra avidità, egoismo,
incapacità e svogliatezza. Oggi, come recita l’esortazione apostolica promulgata il 24 novembre 2013 da papa Francesco “Evangelii
Gaudium” (n. 57), «All’etica si guarda di solito
con un certo disprezzo beffardo. La si considera
controproducente, troppo umana, perché relativizza il denaro e il potere. La si avverte come
una minaccia, poiché condanna la manipolazione
e la degradazione della persona.».
Ne consegue la degenerazione a livello globale, a cui stiamo assistendo, del sistema societario attuale, il Capitalismo, con una netta propensione, nella società, soprattutto negli organi che la gestiscono, a relazionarsi, senza troppa cernita morale, solo con quanto porti profitto e quindi potere, illogicamente ritenendo secondario ciò che questo stia comportando in termini
etico-umanitari. Rimane da capire se e quando l’Uomo inizierà ad applicare l’intelletto di cui
è stato dotato anche e soprattutto al pensiero
oltre che alla tecnologia, così da invertire questa tendenza.
Romeo Ciminello, docente incaricato presso
l’Università Cattolica di Kinshasa (Repubblica
Democratica del Congo), è laureato in Scienze Politiche
(“La Sapienza”, 1978), specializzato in Commercio
estero e Marketing (I.C.E. Roma, 1980), in Cambi
(S.B.C. Zurigo, 1981) e in Discipline Bancarie (“La
Sapienza”, 1985); è stato, tra l’altro, docente incaricato di Scienze Sociali presso la Pontificia Università
Gregoriana.
Tra i suoi insegnamenti: “Dottrina ed etica sociale”, “Economia dello sviluppo”, “Rapporto capitale-lavoro”, “Etica, finanza e mercati”, “Economia
degli intermediari finanziari”, “Lobbies, gruppi di
pressione e controllo etico”, “Lobbies e advocacy:
aspetti economici”. Tra le sue pubblicazioni: Le
Operazioni in Cambi (1983); Ipotesi per un nuovo assetto del sistema monetario internazionale
(1989); Banche e Fondi Etici: una riflessione sul
sistema finanziario (1997); Fondamenti di tecnica delle vendite (1998); Finanza internazionale per
l’Impresa export Oriented (1998); Etica, Finanza
e Mercati (1999); Il significato cristiano del lavoro (2006); Il significato cristiano della responsabilità sociale dell’impresa (2008). Autore di diversi articoli apparsi sulla stampa specializzata.
Febbraio
2015
29
Giovanni Zicarelli
I
l 17 gennaio è il giorno che la Chiesa dedica a sant’Antonio abate (circa 251 - 357),
eremita egiziano considerato come protettore degli animali domestici, tant’è che viene solitamente raffigurato con accanto un maiale recante al collo una campanella.
A ciò corrisponde che nel giorno che lo ricorda, in varie parrocchie si benedicano gli animali domestici. Pertanto, domenica 18 gennaio,
dal sagrato della chiesa di San Bruno, in Colleferro,
il parroco don Augusto Fagnani ha impartito
la solenne e suggestiva benedizione agli animali che alcuni fedeli si sono premurati di portare e con cui hanno trasformato, per circa mezz’ora (prima della Messa delle 11,30), il cortile della chiesa in una piccola Arca di Noè, per
via della presenza di svariate specie: dai classici cosiddetti animali d’affezione o da compagnia quali cani, gatti, canarini e pesci rossi a quelli un po’ meno tradizionali, come può
esserlo una tartaruga o un coniglio, fino ad animali da fattoria e da lavoro come pecore, maiali e cavalli. Tutti i
“padroni”, ad ogni
modo, nessuno escluso, esibivano con
autentico orgoglio i
propri compagni a
quattro zampe che, nell’occasione, hanno
portato, nel cortile parrocchiale, un’allegra
ventata di spensieratezza e di curiosità.
Pare, comunque, che questa tradizione non sia propriamente legata alla vita
di Sant’Antonio, ma che sia nata nel Medio Evo, in Germania, ove si benedicevano più che altro i maiali donati dagli allevatori ai monaci Antoniani per
nutrirne i malati del loro ospedale. Questo rito è andato poi diffondendosi
fino in Italia (in cui oggi sant’Antonio abate è patrono di varie località) dove
agli inizi, nel giorno dedicato al santo, venivano benedetti più che altro animali da fattoria e stalle.
Opportuno, durante la cerimonia, è stato l’accento posto da don Augusto
sull’antico legame tra uomo e animali che tanti vantaggi ci ha portato, con
particolare riferimento alla semplice, incondizionata compagnia con cui alcune di queste creature riescono a riempire la vita e dare felicità a persone
malate o di cui la società pare essersi dimenticata.
Giovanni Zicarelli
abato 17 gennaio,
nell’ampia sala del
Centro Sociale
Anziani di Colleferro, si è
svolta la cerimonia di consegna di quattro defibrillatori
ad altrettante società sportive della città: S.S.D.
Colleferro Calcio, ritirato dal
presidente Americo Talone;
S.D. Città Colleferro Calcio
a 5, ritirato dal presidente Michela Allegrini; A.S.D.
Colleferro Atletica, ritirato
dal presidente Gianluca
Bonanni e l’A.S.D.
Pallacanestro Colleferro, ritirato da Donato
Avenia. Promotori dell’iniziativa, Paolo Pelacci,
collaboratore del C.O.N.I. Colleferro e Adriano
Corsetti, delegato C.O.N.I. Monti Lepini nonché appartenente al gruppo interparrocchiale
di Colleferro, quest’ultimo, con base per gli
incontri presso la parrocchia di Santa Barbara,
molto sensibile a simili iniziative meritorie
volte al benessere dei cittadini e attualmente
S
attivo nel cercare di avviare il recupero e
la riconversione della zona industriale oggi
dismessa e farlo coincidere con la creazione di occupazione per i giovani della città e del circondario.
Il finanziamento è stato offerto dalla
Banca di Credito Cooperativo di Roma mediante la filiale di Artena. Gli interventi di alcuni partecipanti alla cerimonia hanno pre-
ceduto la consegna
effettuata poi dal
Presidente del
C.O.N.I. Lazio
Riccardo Viola.
Nella stessa mattinata di sabato e della successiva domenica, sempre nei
locali messi a disposizione dalla
Consulta Anziani, si
è svolto, a cura
del C.O.N.I. Lazio e
della Federazione
Medici Sportivi, un
corso di addestramento all’uso del defibrillatore rivolto a 24 operatori indicati dalle società sportive che hanno usufruito della donazione.
La speranza che questa iniziativa lascia intravedere è che questi apparecchi, ormai così
compatti, maneggevoli e relativamente semplici da usare (sempre previo corso) siano sempre più diffusi in qualsiasi tipo di ambiente, sportivo come lavorativo.
Febbraio
2015
30
Valeriano Valenzi*
e istituzioni civili e religiose non mancano
di ricordare ogni anno, con la celebrazione di una S. Messa e con la deposizione di una corona di fiori innanzi al sacrario
dei caduti, la ricorrenza del 29 gennaio 1938,
che seminò il lutto in molte famiglie di Colleferro
e dei paesi limitrofi. Con le mie memorie di ragazzo, allora undicenne, vorrei, invece, far rivivere l’angoscia di quel giorno ai pochi, oggi viven-
ti a piedi alla stazione ferroviaria per salutare
la sorella di mio padre, Suor Anna, in servizio
all’istituto psichiatrico San Nicolò a Siena, che
transitava da lì verso le 23.00, diretta ad un paese del Sud per prelevare un malato.
Ritornato a Segni, mi ero recato nella chiesa di
Santa Lucia, per assistere alla Messa, quando
alle 7.40, si sentì un boato che fece spalancare il portone centrale della bussola, per lo spostamento dell’aria; uscimmo, immediatamente,
fuori e vedemmo una colonna di fumo sopra il
ti, che ne furono testimoni, se non protagonisti, e rappresentarne la drammacità ai molti che
non ancora erano nati.
Giornata fredda e triste quella del 29 gennaio
1938! Io, mia zia Amandina e mio cugino Gabriele
eravamo appena tornati da Colleferro, dove avevamo pernottato a casa di Marcella Sportoletti,
amica di famiglia, situata sopra il suo bar, di fronte alla chiesa di Santa Barbara. Eravamo anda-
polverificio dello stabilimento BPD di Colleferro.
Il mio pensiero volò subito a mio padre che lavorava all’officina falegnami.
Andai, di corsa, a casa da mia madre e, poi, a
Pianillo per cercare di rendermi conto della situazione: lungo la via Traiana un serpentone di persone veniva verso Segni per fuggire dal pericolo o avere i primi soccorsi nel locale ospedale
civico, perché Colleferro ne era sprovvisto.
L
Era una folla di gente disperata: molti temevano per le sorti dei loro familiari in fabbrica, alcuni erano feriti, tutti procedevano in preda al panico, non sapendo se sarebbero mai potuti tornare nelle proprie case.
A detta dei fuggitivi, all’inizio della salita verso
Segni, la madre della compianta signora
Geltrude Fagiolo, che aveva una rivendita di legname poco oltre l’attuale ospedale, aveva cercato, con grande generosità, di rifocillare i più smarriti con latte caldo e bicchieri di cognac.
Cominciai a chiedere, affannosamente, notizie
di mio padre alle prime persone che incontravo ma, purtroppo, nessuno me le seppe dare.
Dopo le prime confuse supposizioni, si seppe
che c’era stato un primo scoppio nel reparto del
tritolo; molte persone, accorse per portare aiuto, morirono alla seconda deflagrazione, ancora più violenta. Il bilancio fu di 60 morti e 1.500
feriti. Fu risparmiata al paese una più grave perdita di vite umane, in quanto la maggior parte
degli operari era a riposo a casa per il sabato
fascista. Mio zio Amerigo, che abitava a Roma,
avvertì un forte boato ed intuì che era successo qualcosa di grave a Colleferro. Prese l’automobile e si precipitò a Segni, riuscendo a superare a fatica il blocco stradale che avevano posto
sulla Casilina, all’altezza del bar Marini.
Accorsero, immediatamente, a Colleferro tutte
le alte cariche dello Stato, da Re Vittorio Emanuele
III al Capo di Governo, compreso il Sen. Parodi
con la famiglia, proprietari dello stesso stabilimento. Il Capo di Governo, Benito Mussolini, decretò il lutto nazionale. Intanto le ore passavano
con angoscia e di mio padre non c’era traccia;
qualcuno mormorò che era morto. Ma, per fortuna, nella tarda serata lo vedemmo ricomparire con il Sig. Marsili, suo caporeparto, entrambi feriti. Ci raccontò che dal crollo del tetto, a
seguito del primo scoppio, lo aveva salvato un
bancone di lavoro, sotto il quale si era riparato. Poi, dopo che era stato diramato l’ordine di
evacuazione, i sopravvissuti si erano allontanati
sgomenti dal luogo del disastro, arrivando, senza rendersene conto, fino sotto Fermentino, guardando ripetutamente all’indietro, nel timore di
un altro scoppio, ancora più violento.
Colleferro era in quei giorni un paese dominato dal dolore: dappertutto c’era un sentore di morte, ogni famiglia era in lutto. I feriti furono trasportati negli ospedali di Valmontone, Anagni,
Roma e, perfino, di Napoli.
Per curare i feriti si offrì, tra gli altri, l’archiatra
pontificio, Prof. Aminta Milani, di origine segnina. Per i morti del Paese, fu allestita, a Segni,
una camera ardente nel bar di Battaglia, a Piazza
Cesare Battisti. Prima della tumulazione delle
bare, alla presenza delle autorità civili, fu celebrato, in Cattedrale, dal vescovo Mons. Fulvio
Tessaroli, un solenne funerale, cui partecipò tutta la cittadinanza.
*Storico segnino, tratto dal libro ’’I Ricordi’’
Foto del titolo: immagine tratta da internet sullo
stabilimento BPD Colleferro.
Febbraio
2015
31
Alessandro Ippoliti
I
n origine si chiamava S. Maria
dei Vaccari, come riporta la bolla di Papa Lucio III del 2 dicembre 1182, scritta a Velletri e inviata
al Vescovo di Segni per competenza. Il documento cita inoltre altre chiese, sempre appartenenti al castello
di Montelanico, S. Angelo, S. Pietro
e S. Egidio.
Di questo patrimonio, la chiesa del
Soccorso, come comunemente chiamata da noi montelanichesi, è quella che non ha perso il contatto con
la popolazione perché, per nostra fortuna, non è rimasta coinvolta in nessuno degli eventi calamitosi che hanno danneggiato le altre, assumendo
il ruolo di riferimento per le richieste
di aiuto. Le tante testimonianze di gratitudine in vario modo espresse le
conferiscono una sua particolare atmosfera mistica che coinvolge emotivamente
i fedeli, tutti. Ma cosa è successo alle altre chiese medievali? La chiesa di S. Angelo è rimasta danneggiata dal terremoto del 1915, non più
restituita al culto per inagibilità, i suoi ruderi nel
1954 hanno fatto spazio all’attuale “Asilo
Infantile”; S. Egidio, nota come chiesa del Gonfalone,
rimasta anch’essa danneggiata dal terremoto
del 1915, ridimensionata a semplice cappella,
è stata coniugata architettonicamente al monumento dei caduti (merita un approfondimento);
S. Pietro dal 2009, anno del terremoto dell’Aquila,
è in attesa di essere restituita ai fedeli.
A questo punto, non si può non citare la settecentesca chiesa di S. Antonio che ha ottenuto
il suo agognato restauro in coincidenza della inagibilità della chiesa parrocchiale. Peccato che
il frettoloso restauro, per ovvie necessità di culto, l’abbia menomata della sua caratteristica essenziale, il soffitto ligneo a cassettoni che la collegava al suo periodo storico (la rappresentazione
grafica è quella disegnata nella volta della cappella maggiore).
Torniamo a Santa Maria dei Vaccari, divenuta
per volere dei suoi fedeli, Santuario della Madonna
del Soccorso. Posta nella periferia est del castello di Montelanico, sulla riva sinistra del torrente
Rio, fu chiamata “dei Vaccari” perché frequentata in modo particolare da questi allevatori di
bestiame.
Inizialmente doveva essere una cappella con
una modesta effige, la cui iconografia era sicuramente diversa da quella che vediamo nell’affresco
sopra l’altare maggiore. Per avere un’idea di come
potrebbe essere stata la sua immagine si potrebbe pensare alla Madonna di Capo Colonna presso Crotone, poiché oltre all’effige, anche l’approdo affacciato ad oriente si inserisce nel contesto storico e iconografico mariano. Ma sarà
proprio questa arcaica effige che raccoglierà le
invocazioni di aiuto dei montelanichesi, i quali
ringrazieranno la Madonna per la sua intercessione.
Dobbiamo quindi ritenere che a seguito di un
evento miracoloso, l’appellativo di “S. Maria dei
Vaccari” è cambiato in “Maria SS.ma del
Soccorso”. Abbiamo consultato uno specifico calendario degli eventi epidemici e calamitosi per individuare un periodo entro il quale collocare l’intercessione miracolosa.
E’ emerso che Montelanico subì due calamità,
una dietro l’altra: la peste del 1348 per la quale la popolazione fece ricorso a S. Angelo e a
S. Egidio e il terremoto del settembre 1349, la
cui richiesta di aiuto fu fatta alla Madonna dei
Vaccari. L’evento è stato documentato dalla cronaca di Buccio da Ranallo, testimone diretto della calamità. Egli riferisce che nella sola città dell’Aquila
ci furono 800 vittime. Le cronache successive
stabiliranno che il sisma avendo epicentro sull’appennino abruzzese ebbe il suo effetto
devastante anche nel basso Lazio, coinvolgendo
molti comuni della Ciociaria. Inoltre, una interessante cronaca della metà del Quattrocento
di Bernardino Cirillo,
Annali della città
dell’Aquila, cita il completamento del restauro della chiesa dedicata
alla Madonna del
Soccorso danneggiata
dal citato terremoto.
Pertanto è più che
probabile che, un giorno successivo al 9 del
mese di settembre
1349 la nostra chiesa
perse l’appellativo “S.
Maria dei Vaccari” ed
assunse quello di “Maria
SS.ma del Soccorso”.
Dopo questa data non
si riscontrano calamità eccezionali, sia di natura epidemica che naturali, sarà solo il tempo
a chiedere il suo prezzo alle strutture della
modesta chiesa. Per conoscere il successivo percorso storico del Santuario è opportuno leggere, “La Chiesa del Soccorso in Montelanico”, di
Giovambattista Ronzoni del 1975. Chi non trovasse il testo, in attesa di una nuova riedizione, può collegarsi al sito internet, www.ippolitialessandro.it.
Dopo questa breve escursione tra storia e ipotesi, emerge un dato certo e implacabile, gli edifici religiosi rischiano e invecchiano come
qualsiasi altro manufatto ed hanno bisogno di
costose opere di manutenzione. Questo patrimonio d’arte e di fede deve essere salvaguardato con un preciso calendario di interventi conservativi, affinché esso, quale costola della nostra
cultura, sia come il faro per i naviganti, sempre
in perfetto stato di efficienza.
Foto del titolo di Mauro Riccioni.
Febbraio
2015
32
Stanislao Fioramonti
A
deroghe alla Regola circa l’osservanza integrale
della povertà; una corrente però profondamente
evangelica, come dimostrò anche la scelta del
giovane Andrea, la cui fama di santità “bonificò” tutta la zona ed è giunta intatta fino a noi
attraverso quasi otto secoli.
Frate Andrea restò a Piglio per 40 anni dimorando in una grotta, nella solitudine, nella preghiera e nello studio della Teologia, dal quale
scaturì verso il 1280 un trattato sulla maternità di Maria (De partu Virginis) purtroppo perduto.
Si racconta che per la sua santità trovò la salvezza eterna Carlo I d’Angiò re di Sicilia e fratello di S. Luigi IX re di Francia. E’ anche tradizione che fosse visitato da fra Pietro del Morrone,
il solitario della Maiella che fu papa Celestino
V per soli 6 mesi (agosto-dicembre 1294), al quale successe proprio il nipote di Andrea,
Benedetto Caetani (Bonifacio VIII).
Questi nutriva una venerazione particolare per
lo zio materno eremita, tanto che nel concisto-
ndrea Conti nacque ad Anagni verso
il 1240 da famiglia nobile: il padre Stefano
era fratello di papa Alessandro IV (12541261), che proprio ad Anagni nel 1255 canonizzò
Chiara di Assisi, e nipote di altri due pontefici,
Innocenzo III (1198-1216) e Gregorio IX (12271241). La sorella Emilia sposerà Roffredo Caetani
e sarà madre di un altro papa, Bonifacio VIII.
Dopo una giovinezza di studio, entrò nell’Ordine
Francescano, fondato circa 50 anni prima ad Assisi
e molto difeso proprio dai papi della sua casata (Gregorio e Alessandro erano stati anche cardinali protettori dell’Ordine), che ne facilitarono
l’insediamento anche nella diocesi anagnina.
Nell’autunno del 1262 frate Andrea lascia la sua
città, che nel Duecento fu un importante centro di storia francescana, per ritirarsi nel territorio del castello di Piglio, in un romitorio alle
falde del monte Scalambra aperto dai Minori quando il loro fondatore era ancora in vita. Come quel momento storico, l’epoca dei Comuni,
Piglio, il convento di San Lorenzo.
era caratterizzato dall’abbandono delle campagne per le città, così pure nell’Ordine francescano diventava sempre più
frequente l’abbandono dei primitivi romitori extraurbani per
conventi cittadini più ampi e comodi, più sicuri e adatti all’apostolato
popolare. Ma il beato Andrea
optò per il percorso inverso e
andò a nascondersi in un eremo come chi, nella ormai
grande famiglia francescana, privilegiava la vita contemplativa
rispetto a quella attiva.
Una corrente, questa dei cosiddetti frati spirituali o “zelanti”,
in polemica con i confratelli “conventuali” perché non ammetteva
ro del 17 dicembre 1295 lo
nominò cardinale; frate
Andrea rifiutò la carica, ma
forse suggerì al pontefice l’idea del Perdono giubilare
(1300), che portò a Roma più
di 200.000 pellegrini da tutta Europa. Andrea Conti morì
il 1° febbraio 1302 e fu beatificato l’11 dicembre 1732 da
Innocenzo XIII, ultimo papa
della famiglia Conti. Il suo corpo è venerato nella chiesa
del convento di S. Lorenzo
a Piglio (FR), dei Frati Minori
Conventuali, sotto un altare
nuovo consacrato nel 1954
da vescovo di Anagni Enrico
Romolo Compagnone.
Il “Cammino del Beato
Andrea” è una ricostruzione del percorso compiuto a
piedi dal beato nel 1262 da
Anagni a Piglio, attraverso
la frazione di San Filippo e la campagna ernica, ricca di vigneti e oliveti.
Un viaggio lungo circa 15 km (da Anagni alla
Anticolana 6-7 km; dall’Anticolana a Piglio 8 km),
che secondo la tradizione il beato completò in
circa 3 ore, e che previde forse questi passaggi da noi attualmente individuati sul territorio:
A. Anagni (m 460) (Cattedrale, piazza, S. Andrea,
Porta Cerere, km 0,0).
B. Viale Regina Margherita, viale G. Matteotti
(m 398, km 0,300).
C. Discesa per la Strada Comunale Berso Rio.
D. Incrocio con la strada comunale la Cicogna
e la frazione di San Filippo (m 330) (km 2,8).
E. Strada Comunale Anagni - Piglio fino al ponte (km 4,6) e poi quasi tutta sterrata fino allo sbocco, sempre in località S. Filippo, sulla superstrada
Anticolana (SS155 Dir., Anagni-Fiuggi), a 6 km
da Anagni.
F. Subito oltre l’Anticolana, bivio e territorio di
Piglio in Contrada Grotte (SP 156).
G. Dopo 2 km, poco dopo
l’inizio della salita, è la contrada Vado Oscuro.
H. Si continua a salire e, superato un bivio con una stradina asfaltata che sale a sinistra, riservata solo al traffico locale, la strada compie un’ampia svolta a destra
e dopo altri 2 km sbocca al
km 40,5 della SS 155 di
Fiuggi (Prenestina) in contrada Moretto (m 489).
I. Dopo circa 2 km (km 41,6
della SS 155 di Fiuggi) poco prima della Cantina
Sociale, dell’ex convento OFM
di San Giovanni Battista e
del cimitero - si è alla vecchia stazione ferroviaria di
Piglio (m 500 c.) e alla chiesa rurale di S. Rocco, nota
continua nella pag. accanto
Febbraio
2015
segue da pag. 32
dal 1634, probabilmente riferibile al secolo XIII
–XIV e inizialmente dedicata alla Madonna della Valle, nella quale nel 1984 è stato scoperto
un affresco di stile giottesco raffigurante la Madonna
col Bambino tra alcuni Santi.
L. Dalla chiesa di S. Rocco la via (contrada)
Marini sale dritta verso il paese, asfaltata nei
primi 150 metri poi, a un incrocio che ha a destra
una cappelletta della Madonna del Rosario (“La
Madonnella”), sterrata (via Valle San Rocco) fino
al paese alto (scuole elementari).
Tra il santuario della Madonna delle Rose e la
ex stazione Stefer, in contrada Pietra Toda, è il
cosiddetto Luogo della sosta, dove il beato Andrea
si sarebbe riposato e, prima di riprendere il cammino, inginocchiandosi avrebbe benedetto
Anagni dove non sarebbe più tornato; sulla pietra sarebbero restate le sue impronte.
Dalla chiesa di San Rocco a destra prosegue
invece la strada asfaltata (contrada Croce Arringo)
per i due versanti del paese (circonvallazione);
mentre a sinistra sale ripida via Madonna delle Rose, che porta al santuario seicentesco omonimo e quindi a Porta Pei, l’ingresso inferiore
(meridionale) di Piglio. La parte centrale del paeL’altare del Beato Andrea.
33
su un terreno ricevuto in dono dal Card.
Giovanni Colonna Vescovo di Sabina (m.
1216), suo amico e consigliere.
In realtà il cardinale Vescovo di Sabina
morto nel 1216 era il benedettino
Giovanni di San Paolo, che non apparteneva alla famiglia Colonna. Un Giovanni
Colonna fu cardinale dal 1212 (altri dicono dal 1205) alla morte (1245): lui potrebbe aver donato il convento ai frati, ma
non sapremmo a che titolo, dato che nella prima metà del Duecento il castello di
Piglio ricadeva nell’orbita della famiglia
Conti, e solo più tardi divenne feudo dei
Colonna.
Certamente però quello di Piglio dovrebbe essere uno dei primi insediamenti francescani del Lazio perché nel periodo 12281253 era già pienamente funzionante.
Lo dimostra il miracolo accaduto a Piglio
il giorno della festa liturgica di San Francesco
Anagni, Cattedrale .
(4 ottobre) di un anno compreso tra la
canonizzazione del
santo (1228) e la stese è tutta percorsa dalsura del Trattato dei
la Via Maggiore, che dal
Miracoli di Tommaso
basso incontra la chieda Celano (1253),
sa di S. Lucia, poi la parche lo riporta per
rocchiale di S. Maria nelesteso (FF 924) rispetla piazza omonima, la piazto alla Legenda Maior
za G. Marconi e la Porta
di Bonaventura da
superiore (del Capitano),
Bagnoregio che lo
che esce con un fontaaccenna soltanto (FF
nile sulla piazza alta
1317). Secondo lo
del paese (piazza Roma,
storico cappuccino p.
m 621), su viale Umberto
Mariano d’Alatri, festegI e sulla strada provinciale
giare così solennemente
n. 20 per gli Altipiani di
la festa del Poverello
Arcinazzo.
già nella prima metà
M. Si prosegue salendel Duecento non si
do per la prima parte di
spiegherebbe senza la
via S. Lorenzo verso la
presenza di un concona del beato Andrea,
vento francescano in
una roccia dove il religioso
loco. Dopo il bomLa grotta del beato Andrea.
si fermò per benedire il
bardamento del 1944
sottostante paese che lo
la chiesa fu ripristinata
accoglieva. Si attravernelle forme tardo
sa poi la provinciale e riprendendo via S. Lorenzo barocche assunte tra il 1767 e il 1773, quando
si incontra una fontana, la Cappella del mira- fu completato il restauro dall’architetto Giuseppe
colo dei pesci e finalmente la chiesa e il con- Ferroni. Il luogo sacro ospitò una schiera di Frati
vento di San Lorenzo m 840, Minori Conventuali, tra i quali S. Massimiliano
con la grotta del beato Kolbe e p. Quirico Pignalberi (1891-1982). Questi,
Andrea ricavata da una fen- nato a Serrone,visse nel convento di San Lorenzo
ditura della parete rocciosa (luo- per circa 40 anni, come professore e padre spigo del miracolo dei fichi) e con rituale dei fratini; è in corso la causa per la sua
la cappella del Sacro Cuore beatificazione.
dove è la tomba del p. Quirico San Massimiliano Kolbe, il religioso polacco che
Pignalberi. Si ritiene che il pri- affrontò volontariamente la morte per fame in
mo impianto del convento di un campo di sterminio nazista al posto di un padre
S. Lorenzo possa risalire al XIII di famiglia, dimorò in San Lorenzo dal 4 al 6 febsecolo. La tradizione lo met- braio 1937 per incontrare, dopo molti anni, l’ate in relazione con il passag- mico p. Quirico, con lui fondatore della Milizia
gio nella zona verso il 1223 dell’Immacolata, associazione che oggi ha cirdi S. Francesco che, di ritor- ca un milione di iscritti nel mondo. Il 17 ottobre
no dalla Terra Santa e diret- 1982 la popolazione pigliese ha voluto ricorto a Subiaco, avrebbe avvia- darlo innalzando una croce di ferro sulla vetta
to la costruzione del complesso del monte Scalambra, che sovrasta il paese.
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sintesi a cura di Stanislao Fioramonti
N
ella notte di Natale di 100 anni fa, alle
ore 19,30 del 24 dicembre 1914, una frana nel quartiere Broglio di Valmontone
provocò 30 morti e 20 feriti. I corpi delle prime
28 vittime (due moriranno più tardi) furono allineati nella chiesetta di S. Antonio Abate; i 20 feriti vennero ricoverati nell’ospedale civile del paese. Riportiamo in sintesi la cronaca della tragedia come fu riferita, con lo stesso titolo di questo articolo, dal quindicinale valmontonese dell’epoca “La Difesa del Contadino”, nel numero
del 5 gennaio 1915. Un articolo che non ha un
autore perché voleva essere la voce e la posizione di tutto il giornale.
“La sventura immane. Una immane sventura
colpì Valmontone la vigilia di Natale.
Mentre alle ore 19,30 di sera erano tutti in famiglia in attesa del Cenone, un masso enorme di
tufo distaccatosi da una rupe si abbatteva su
tre fabbricati in contrada Broglio, presso il paese, parte schiacciandoli e parte lanciandoli per
il contraccolpo a più di quindici metri lontano nella sottostante via della Forma e riducendoli ad
un informe ammasso di rottami. Appena si spar-
se la tragica notizia dalla guardia Moratti che
si trovava in quei paraggi, fu un accorrere di gente. I primi a dar l’opera loro furono Recchia Rinaldo
presidente della Lega, Masella Giuseppe capo
Cantoniere provinciale, la guardia scelta di città Attiani Giuseppe, Masella Antonio, Polce Claudio,
Caporossi Nazzareno, Giorgi Santino, e Romeo
ed altri contadini. Accorsero subito dopo il sig.
Umberto Cremona, Fusani Emilio, il Delegato
di P. S. signor Dante, tre carabinieri, il maresciallo
ed i militi, con le barelle delle P. A. Croce d’Oro
e Vittorio Emanuele III ed infine il Sindaco, Segretario
e parecchi altri cittadini, che si diedero con grande abnegazione e coraggio a scavare tra le macerie, continuamente esponendo la propria vita per
salvare i sepolti.
L’opera loro fu molto proficua giacché alle quattro del mattino erano stati disseppelliti parecchi
morti e dieci feriti. A quell’ora giunse il treno di
soccorso da Roma con cento uomini di truppa
e carabinieri e con un capitano del genio che
allontanarono i cittadini. Precipua cura del Capitano
del genio, che aveva la direzione dei lavori di
sgombro, fu quella di assicurare l’incolumità dei
soldati e quindi tutta la giornata del 25 passò
nel togliere travi, nel puntellare od abbattere muri
pericolanti e nel gettar acqua sugli incendi che in vari punti da sotto le macerie
si erano sviluppati. Fu così perduta ogni
speranza, che in tutti era vivissima, di
salvare qualche altro disgraziato! Il presidente della Lega Contadini Recchia
Rinaldo, dopo aver lavorato tutta la notte, inviò la mattina del 25 il seguente telegramma al Presidente del Consiglio On.
Salandra: “Nel luttuoso infortunio che ha
colpito il paese urge non solo estrarre
dalle macerie i cadaveri, ma ancora provvedere ai superstiti che mancano di tutto. Preghiamo cuore Vostra Eccellenza
inviare sussidio”. Ed immediatamente
S. E. Salandra fece tenere all’On. Veroni
lire mille. Dopo aver fatto issare la bandiera abbrunata nella sede della Lega
l’infaticabile Presidente diresse ancora
al Prefetto di Roma quest’altro telegramma:
“Lega Contadini, ringraziando V. S. per
pronti provvedimenti adottati onde lenire immane sventura che ha colpito il paese, nutre fiducia che sarà accertata grave responsabilità contro chi mancò di provvedere al preveduto infortunio”. Oltre il Commissario cav. Ripandelli due
delegati ed il dott. Badaloni medico Provinciale,
giunsero anche da Velletri il sottoprefetto cav.
De Dura, il delegato Argenti ed il capitano dei
RR. CC.
Giunse anche da Roma il prefetto Aphel, l’onorevole
Veroni che premurosamente tornò altre due volte a Valmontone e che molto si adoprò nel sollecitare sussidi da ogni parte, e la principessa
ed il principe don Giovanni Borghese, Consigliere
Provinciale del Mandamento.
La visita del Re. S. M. il Re volle personalmente
rendersi conto della gravità della sciagura, e comparve improvvisamente a Valmontone accompagnato dal suo aiutante di campo. Accolto con
rispettosa simpatia dal popolo che gradì molto
la visita, si recò all’ospedale ove ebbe per tutti i feriti una parola di conforto e di augurio. Non
appena tornato a Roma, S. M. inviò lire 5000
per le povere vittime.
40 anni fa. Raccontano i vecchi che 40 anni fa
una frana nel medesimo punto rovinò il muro
di una casa che venne rifabbricato. In seguito
il tempo produsse altre corrosioni alla rupe tufacea e da quattro anni a questa parte sassi e
macigni distaccatisi dall’alto misero in grande
apprensione ed allarme i poveri abitanti del Broglio,
che vivamente e incessantemente reclamarono al proprietario Comm. Borgogno ed al Municipio
perché si togliesse il pericolo. Ed il parroco Fortuna,
morto due mesi fa, abitante in quella contrada
stese una domanda che firmata da esso e dai
proprietari sigg. Cristino Cristini, Giovanni
Livignani e Claudio Polce e… dallo stesso attuale Sindaco e da tutti gli inquilini, fu presentata
da Almerinda ved. Pontecorvo al Commissario
Regio comm. Giannone. Il detto Commissario,
che era al termine della sua missione, subito
provvide. Mandò i due operai Giuseppe Cerci
e D’Emilia Umberto sulla rupe.
Questi che sono due esperti cavatori di sassi
rimossero i pericoli imminenti e dopo aver con
continua nella pag. accanto
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terrore visto uno spacco formato nel masso entro
cui scandagliarono l’intera lunghezza del manico della pala, ridiscesero facendo agli abitanti
una brutta profezia, oggi pur troppo avverata,
qualora non si fosse abbattuta la rupe. Si dice
anzi che essi si offrirono di far gratis tal lavoro
in cambio dei sassi, ma che la loro proposta venne respinta.
La rupe tragica. Il Commissario Regio fece anche
di più: incaricò l’ing. De Bonis di visitare la rupe.
Questi pur troppo confermò il pericolo. Da quell’epoca continuarono sempre a cader sassi dall’alto e a mettere in pericolo i passanti. E tutti
coloro che dieci mesi sono presero parte alla
passeggiata di beneficienza per sovvenire
la famiglia di Luigi
Masella a cui si era incendiata la casa, ricordano che giunti al fatal punto, alla vista dei sassi caduti e sparsi sulla strada, dal Direttore della Difesa che seguiva il carro fu impedito di proseguire, e gli abitanti vennero anche esortati a
ricorrere sollecitamente.
Il triste presagio. Due o tre giorni prima del disastro si ebbe un sintomatico preavviso: un grosso macigno si distaccò dall’alto senza però colpire alcuno. Dicesi che il sig. Cristino Cristini mostrando alla guardia comunale Moratti Domenico i sassi precipitati, l’esortò a far rapporto perché urgentemente si provvedesse ad evitare il disastro.
Parimenti qualche giorno prima del disastro fu
notificata al comm. Borgogno, nell’interesse di
Lorenzo Castrucci una diffida a riparare un’altra rupe lontana da quella franata appena una
sessantina di metri. L’ufficiale giudiziario nel riconsegnare l’originale dell’atto notificato disse
all’avv. Bernardi: “Speriamo che questa diffida
ottenga che sia provveduto a rimuovere il pericolo di far la fine dei sorci, che corrono gli abitanti del Broglio”. Virginia Marinotti, una contadina abitante nel Broglio fortunatamente scampata, racconta che dopo la caduta del sasso il
Cerci Giuseppe passando di là le disse: “Non
passano due giorni che resterete tutti sotto questo sasso”, additando la rupe. E perché - fu domandato alla Marinotti - non avete reclamato al proprietario comm. Borgogno ed alle Autorità Comunali?
Essa rispose: “Abbiamo reclamato tante volte
ma nessuno ci sente”.
La “pinticchiata” fatale. Nella vigilia di Natale
è costume che il fidanzato, accompagnato dai
parenti, vada la sera in casa della promessa spo-
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sa e porti qualche liquore, per lo più acquavite
o rosolio che si offre, e si beve, bene auspicando
al futuro matrimonio. Questa cerimonia è una
specie di compromesso che si chiama “pinticchiata”. Antonio Natalizia assessore Comunale
fu condotto dal figlio Oreste nella casa della sua
fidanzata Pizzuti Armida. Si dice che egli, o perché non si sentisse, o perché non avesse piacere che il figlio si ammogliasse non volesse andarvi, ma che alle insistenze del figlio finalmente
si decidesse. E s’incamminò con una bottiglia
di rosolio. Egli passò avanti l’ufficina elettrica che
è a pochi metri dal luogo del disastro, e da uno
ivi addetto fu invitato ad accettare un bicchiere di vino. Grazie, rispose il poveretto, ora debbo fare, ripassando entrerò… Un minuto dopo,
appena imboccata la porta della casa del Pizzuti
veniva schiacciato dal masso, ed il figlio Oreste
che lo precedeva gravissimamente ferito. La bottiglia della “pinticchiata” che
portava, fu ritrovata tra le macerie incartata, intatta.
Il destino di Cecco e Pasqua.
Era destino che Cecco Lombardi
di Vallecorsa dovesse restare vittima di un infortunio. Da
pochi mesi era tornato
dall’America ove aveva
lasciato un braccio
sotto una frana!
Mezz’ora prima del disastro il Lombardi e la moglie
Monti Pasqua erano tornati bagnati fradici da
Zagarolo e Palestrina ove erano stati a vendere aranci e limoni. Pensarono perciò di andare
ad asciugarsi e scaldarsi nella confinante casa
del compare Natalizia Erminio ove furono
accolti con grande cordialità. Le due famiglie riunite, che formavano undici persone, perirono tutte e furono trovati i loro cadaveri raggruppati insieme e sopra il gruppo la vecchia Ascenza Natalizia
con le braccia aperte come se volesse in un abbraccio supremo salvarli! Il macabro spettacolo terrorizzò i soldati adibiti all’opera di diseppellimento.
Particolari orrendi. La famiglia di Coccia Luigi
facocchio, di sei persone, perì egualmente tutta. Un figlio del Coccia venne ritrovato con cinque soldi in mano ricevuti allora dal padre in premio del sermone recitato! Gli altri ragazzini vennero sorpresi dalla morte mentre giuocavano ad
oca! Il vecchio
Pontecorvo
Giovanni fu ritrovato con un piatto di maccheroni
che si accingeva
proprio in quel fatale momento a
mangiare. Il cadavere di Orlando
Pilozzi aveva la
pipa in bocca!
La sorte di due
fidanzati. Lanna
Luigi amoreggiava con la figlia
di Polce Pietro,
Elisa, una bella ragazza di 18 anni. Come d’uso, il fidanzato s’era recato con la tradizionale
bottiglia di “pinticchiata” e si preparavano a passare felicemente la cena di Natale. Tutta la famiglia venne travolta e seppellita. Il Lanna, salvatosi, così racconta: “Sentivo da sotto le macerie gridare Elisa: Aiutami! Salvami, Gigio, sono
viva! Io feci sforzi sovrumani, ma non mi potevo muovere e le risposi: Non posso, ho una gamba sotto un masso! Rimasi in quella penosa posizione fino a che non fui tolto da Antonio Masella,
ma nell’operare il salvataggio si dovettero muovere dei massi che rotolando dovettero finire la
mia povera Elisa!” Il Lanna, non gravemente ferito, è sorvegliato. Egli è pazzo di dolore e a chi
lo cura ripete la solita frase: Lasciatemi, tanto
tutto è inutile. Appena guarito mi getto dalla finestra; non posso vivere: quel grido di “Salvami,
Gigio!” mi risuona ripetutamente all’orecchio.
Gamba salvatrice. Angela Attiani, un’altra bella ragazza di 20 anni che si trova ferita gravemente all’ospedale, così descrive il momento tragico: “Mi trovavo con la mia famiglia e i parenti formanti in tutto 11 persone compreso il mio
fidanzato; ad un tratto sentii un cupo rombo e
la terra tremare tutta. Si spense il lume e mi sentii sbalzata a grandissima distanza coperta dai
sassi ad eccezione di una mano che restò fuori. Credetti fosse avvenuta la fine del mondo e
rimasi muta con questa persuasione finché questa voce non mi giunse all’orecchio: “Si è spallato il Broglio! Correte! Correte!”. Allora solo intesi quel che era avvenuto ma non potevo emettere nessun grido perché la bocca era chiusa
da calcinacci. Dopo molto sentii vicino a me muovere delle tavole; mi accorsi che una gamba d’una persona rasentava la mia mano; l’afferrai con
la forza che da la disperazione, e non la lasciai
fino a che non ebbi la certezza che operavano
il mio salvataggio!”
Il dolore di un fratello. Polce Claudio boattiere era con la sua famiglia in una delle case che
trovansi mezze diroccate, giocava ad oca con
un suo figlietto, quando sentì tremare fortemente
il pavimento. I figli, la moglie e la suocera, credendo il terremoto, alzarono alte grida, egli saltò subito alla finestra, proprio in quel mentre che
il grande masso distaccatosi dalla rupe precipitava verso la sua casa abbattendone lo spigolo e la porta e rovinando le case vicine tra le
continua a pag. 36
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Mara Della Vecchia
A
ccanto alle cattedrali musicali dei capolavori della musica sacra
dei grandi autori, esiste il grande filone della musica sacra popolare, una musica, se volete, minore, ma altrettanto vitale e significativa dal punto di vista culturale, espressivo e soprattutto religioso
ed emotivo. La musica sacra popolare si esprime in modo particolare
nell’ambito del culto religioso più semplice e immediato proprio delle
manifestazione, ovviamente, popolari quali le feste patronali dedicate
in moltissime occasioni al culto della vergine Maria, oltre che ai vari santi della tradizione cattolica.
Naturalmente, la creatività musicale è anche molto attiva per le più importanti feste della cristianità, il Natale e la Pasqua. Pensiamo ai canti
processionali che si eseguono durante i festeggiamenti delle numerose feste dedicate alla Madonna in tutti i nostri paesi, risuonano nelle
nostre teste come familiari e rassicuranti. Presentano un testo così sem-
segue da pag. 35
quali quella di un suo fratello Pietro. Egli allora non potendo uscire dalla porta coraggiosamente saltò sul masso dalla finestra e si precipitò sulla strada chiamando a gran voce: Pietro!
Pietro! Ma di Pietro e della famiglia più nulla restava; erano morti ad eccezione della moglie Lavinia
che trovasi ferita all’ospedale. Mentre si affannava in cerca del fratello sentì strillare: Aiuto,
Claudio! Si volta e vede sporgere una testa dalle macerie: era la testa di Natalizia Oreste ora
gravemente ferito all’ospedale, e in pericolo di
vita. Coll’aiuto di Antonio Masella e della guardia di città Attiani Giuseppe ch’era tornato a far
le feste in famiglia, e che molto si distinse nell’opera di salvataggio, salvò il Natalizia, Luigi Lanna,
Anna Pizzuti ed altri.
Salvi per miracolo. Pellegrini Benedetto contadino abita una delle case rimaste illese, ma
lesionate. Poco prima del momento fatale, uscì
di casa per andare a prendere del vino nella sua
cantina che trovasi sotto la casa distrutta di Pizzuti
Andrea. Ma non avendo il budello, andò a farselo prestare dal cognato Zaccagnini Adriano
dal quale gli venne offerto un bicchiere di vino
che trangugiò avviandosi alla cantina. Esterrefatto
nell’assistere alla catastrofe, il pensiero volò alla
sua famiglia e si dié a gridare, a chiamare la
moglie e i figli che credeva seppelliti.
La moglie dall’altra parte avendo vista la casa
plice, a volte addirittura ingenuo, specchio di una fede
semplice, immediata, ma piena di speranza e di fiducia
incondizionata come è quella dei bambini nei confronti
della propria madre. Anche la voce delle persone che intonano il canto colpisce per la loro naturalezza, voci che
si mescolano tra di loro in modo casuale, che rispettano un ritmo personale, più o meno regolare, dove gli attacchi di ogni strofa sono sempre molto inaspettati, dove le
voci si rincorrono in una sorta di canone inconsapevole, una canto che nasce dal cuore, incurante del risultato che ne scaturisce, non ha alcuna importanza la tecnica o la bellezza del timbro vocale: ognuno canta per
sé, per pregare per sé, tuttavia insieme a tutti gli altri fedeli, che cantino o solo assistano ai bordi della strada al
rito processionale, non importa, il canto deve coinvolgere
tutti i presenti. Ognuno canta a suo modo: chi si accompagna con un suo strumento che spande il suo suono
per guidare i pochi intorno che ne riescono a seguire l’accompagnamento; chi canta sicuro più forte che può, chi
non conosce bene né la melodia, né le parole del canto e così si appoggia alla voce degli altri, confondendo le parole e stonando un po’; chi
canta a bassa voce quasi bisbigliando.
I canti processionali costituiscono una forma di musica sacra davvero
suggestiva, ma la musica religiosa popolare risiede anche in tutto quel
vastissimo repertorio di canti che vengono eseguiti ogni domenica nelle parrocchie, dove gruppi di fedeli più volenterosi organizzano l’animazione della liturgia. Eseguono in genere canti composti da autori contemporanei di musica liturgica oppure canti scaturiti dalla creatività dei
parrocchiani stessi, così che ogni celebrazione ha la sua musica particolare, perché ogni gruppo elabora il suo proprio modo di arrangiare,
seguendo le personali capacità, possibilità e gusto.
Non sempre, dunque, la musica sacra popolare è bella, gradevole e
ben eseguita, ma è molto democratica, in quanto l’essenza della musica sacra resta comunque la preghiera, e ognuno che ha desiderio di
pregare deve poterlo fare liberamente.
del Pizzuti distrutta si diede essa pure a gridare e piangere il marito morto. Nessuno dei due
poteva correre in aiuto dell’altro perché l’enorme masso che aveva abbattuto le case ostruiva la strada! Fu una scena commovente quando si ritrovarono insieme tutti sani e salvi.
Due bimbi. Due ragazzetti erano usciti allora
da casa per andare a chiamare la nonna, quando furono sorpresi e schiacciati dal masso.
La responsabilità. Non saremo noi che faremo il torto a chi di dovere di chiedere che giustizia sia fatta e che le responsabilità del disastro siano accertate. Ma a gran voce, col popolo di Valmontone, urliamo: vogliamo che ogni responsabilità sia vagliata: che sia chiarito se il disastro
poteva evitarsi, che se vi sono sospetti infondati siano eliminati e sia ridata la pace a chi può
essere turbato da ingiuste indicazioni, che se
vi sono colpevoli siano puniti. Il popolo attende
fiducioso giustizia dalla Giustizia, ma giustizia
deve essere fatta.
Un fatto come questo non può esser chiuso da
polemiche sterili o da ripicche di partiti locali:
Valmontone non può rimanere sotto la taccia che
c’è chi vuol sfruttare il sangue cittadino a scopi partigiani. Sui giornali di Roma sono apparse accuse chiare o velate, si è detto pur senza ambagi che il disastro poteva evitarsi, che
era stato preveduto e preannunciato…
Non si può scherzare col sangue del popolo e
del povero e non si può mettere tutto a tacere
perché sotto le macerie non sono rimasti dei “pezzi grossi”. Attendiamo e invitiamo ad attendere. L’autorità giudiziaria è investita non solamente
di una missione legale”.
I NOMI DELLE VITTIME
AURELI PIETRO, 65 ANNI
COCCIA LUIGI (33),
LA MOGLIE PONTECORVO PASQUA ELENA (28)
I FIGLI AGISMONDO (7), MARIA (5), NARCISO (2 MESI)
LOMBARDI FRANCESCO (35) DI VALLECORSA (LT)
LA MOGLIE MONTI PASQUA NATALINA (28)
I FIGLI DI LEI CERCI GIUSEPPE (8) E
CERCI ORSOLA (5)
MASELLA GIUSEPPE (54)
NATALIZIA ANTONIO (60)
IL FIGLIO ORESTE
NATALIZIA ASCENZA (68)
NATALIZIA LUIGI ERMINIO (38)
LA MOGLIE MUZI ESTER CELESTE (31)
I FIGLI PAOLO (9), QUIRINO (5), GUIDO (2) E ANNA (4
MESI)
PILOZZI VINCENZO (31)
LA MOGLIE RECCHIA VITTORIA (MARIA) (29)
PIZZUTI VITTORIO (21)
IL FRATELLO PIZZUTI SISTO (13)
POLCE PIETRO (50)
LE FIGLIE ELISA (18) E AMERICA (2 ANNI E 4 MESI)
IL FIDANZATO DI ELISA LANNA LUIGI
PONTECORVO GIOVANNI (77)
RECCHIA VINCENZO (68)
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Antonio Venditti
“Non è mai troppo tardi”, celebre programma
di istruzione popolare del 1960, è stato rievocato doverosamente dalla Rai, con validi attori, tra cui Claudio Santamaria, nel ruolo impegnativo del “maestro d’Italia” Alberto
Manzi, capace di gestire anche la classe più
numerosa, comprendente gran parte dei milioni di analfabeti di ogni età, ancora esistenti
nel Paese che decollava verso il boom economico. Utile ai fini della conoscenza dello
“stravagante” personaggio, che aveva subito fatto presa nell’anima popolare, è l’annotazione che era, nel contempo, sottoposto ad
un’inchiesta ministeriale per “omissione d’atti d’ufficio”, a causa del rifiuto di assegnare
“voti” ai suoi alunni della quinta elementare,
di cui era titolare, osando, addirittura sostituire la valutazione, con una dicitura unica,
apposta con un timbro sulle pagelle, esprimente il concetto che ogni alunno/a fa “quel
che può” e non ci si può attendere che faccia quello che non può fare, per tutta una serie
di validi motivi. Ai suoi alunni che avevano avvertito il travaglio dell’amatissimo insegnante, cercando di rasserenarli, aveva detto che anche
lui doveva sostenere un “esame”: cosa che
avvenne davanti ad una scettica commissione
ministeriale; però, nel poco tempo che gli fu
concesso per parlare, si difese efficacemente,
mostrando la sua autentica passione per l’insegnamento, con innegabili risultati, in ogni contesto, per quanto difficile fosse. Si deve dire che,
già da quegli anni, si cominciava a riflettere sull’utilità ed efficacia, nella scuola dell’obbligo, dei “voti da 0 a 10”, valutazione ritenuta troppo
sommaria ed inadatta soprattutto ad esaltare lo scopo fondamentale della scuola di “promuovere”, senza discriminare, il processo di armoniosa crescita e di sviluppo della personalità di ogni alunno/a, da considerare secondo le possibilità ed i ritmi di sviluppo e di apprendimento, con
gli opportuni stimoli, esaltando i progressi anche minimi, con fiducia nel
superamento delle lacune e nel miglioramento continuo.
Dopo un lungo dibattito sulla necessità di riforma di tale sistema valutativo, i voti saranno sostituiti dai “giudizi”, più articolati e consoni a misurare i risultati dell’azione educativa e didattica, tenendo conto imprescindibilmente
del “punto di partenza” di ogni alunno/a, singolarmente valutato, per lo
sforzo ed i “possibili” risultati conseguiti.
Il maestro Manzi prefigurava tale esigenza pedagogica nel suo rifiuto di
assegnare “voti”, ad alunni/e in situazione grave di svantaggio e
deprivazione socio-culturale, che , altrimenti, sarebbero stati inevitabilmente demoralizzati e “respinti” dalla scuola, con conseguente
aggravamento dell’emarginazione culturale e sociale. La storia del
maestro Manzi è davvero esemplare, nonostante la difficoltà e le
palesi ingiustizie, indici di un sistema, già nel dopoguerra, gravemente viziato. Pensando di poter aspirare ad un sicuro incarico,
per i suoi elevati titoli, all’inizio si ritrovò fuori graduatoria; e dal Provveditore
di Roma, nel cui Ufficio era entrato con irruenza, si sentì rispondere che quell’”errore” sarebbe stato corretto l’anno successivo.
Da un funzionario “comprensivo”, incontrato per caso, gli fu offerto l’incarico ancora disponibile, perché da tutti rifiutato: l’insegnamento nel riformatorio “Aristide Gabelli”.
Secondo il Direttore del carcere minorile, avrebbe dovuto insegnare
- inutilmente per lui che considerava quei ragazzi soltanto “delinquenti” già segnati per tutta la vita - non solo senza libri, ma anche
senza quaderni e senza matite o penne, e quindi soltanto con la
“voce”. Nell’assurdità della situazione, il maestro ugualmente si calò
e vinse l’ostacolo più grande, quello dell’ostilità iniziale degli stessi alunni, ritenuti da tutti “incorreggibili”, ma da lui subito trattati
come persone, il cui riscatto, attraverso la conoscenza e l’acquisizione
degli strumenti linguistici indispensabili per affermare la loro personalità, non solo era possibile, ma stava a cuore a lui, come se fossero suoi
figli. Si dovette ricredere il Direttore del riformatorio e, lusingato dall’interesse mostrato dal Ministero per quell’esperienza unica ed incredibile, assecondò l’azione del maestro, che portò addirittura alla realizzazione di un giornale ciclostilato, vanto di quei soggetti recuperati, attraverso l’acquisizione degli indispensabili strumenti culturali, alla dignità
umana e sociale.
L’attività si concluse con una gita al mare di Ostia, dove Manzi rischiò
il suo posto e la futura carriera d’insegnante, perché i ragazzi, lasciati
liberi, potevano non rientrare; ma alla fine tutti mantennero fede alla parola data, compreso il “capobanda”, che effettivamente aveva deciso di
evadere, ma ebbe un ripensamento, per amore del suo “professore”, al
quale resterà attaccato per tutta la vita, imboccando anche lui, più faticosamente degli altri, la via dell’onestà, garantita dal lavoro.
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Sara Bruno*
D
opo un accurato intervento di restauro, la tela del Sacrificio di Santa Eurosia
di Aurelio Mariani è tornata sull’altare
dedicato alla Santa nella chiesa veliterna del SS.
Salvatore. L’intervento, voluto dal parroco emerito della parrocchia, don Paolo Picca, è stato
eseguito da Federica Moretti, restauratrice formatasi presso l’Istituto Superiore per la
Conservazione ed il Restauro (ISCR), che collabora da tempo con la diocesi Suburbicaria VelletriSegni. Il restauro ha restituito una lettura completa dell’opera; i depositi e i traumi che la stessa aveva subito negli scorsi decenni avevano
comportato una sorta di oscuramento del tratto dell’artista, e in alcune parti erano state alterate da ridipinture volte a compensare delle abrasioni del tessuto pittorico.
Il dipinto ci appare oggi come tipico della pittura di Mariani con un tocco più fresco, nonostante
la posa accademica e il tratto prudente e piut-
tosto debole della resa drammatica ed espressiva.
Volutamente retorico, forse per volontà degli stessi committenti, il dipinto appartiene comunque alla fase
matura dell’artista.
Mariani, quarantenne, è nel
pieno della maturità, che si
coglie nella resa dei particolari che la pulitura ha reso
nuovamente leggibili; l’architettura arabeggiante sulla sinistra, per esempio, con
l’altare su cui brucia il fuoco del sacrificio pagano, i
radi fili d’erba alla base dello scalino, i calzari della santa, la corona ai suoi piedi,
la decorazione dello scollo della veste. La perizia
ed il talento dell’artista si colgono adesso nei panneggi, nei calzari, nei particolari delle architetture e nel pavimento
su cui è inginocchiata la santa e
poggia il moro; è rialzato da uno
scalino e si leggono data e firma
dell’artista, emerse dopo la pulitura. Proprio la lettura della data
consente di collocare con certezza
la fine del lavoro al 1906.
La tela, prima committenza ufficiale dell’artista a Velletri, viene
commissionata dalla famiglia
Filippi, che aveva il juspatronato della cappella della santa nella chiesa di San Salvatore. Forse
per volontà della famiglia stessa,
l’iconografia di Eurosia è puramente
narrativa; la violenza del suo martirio è mitigata, quasi censurata,
per lasciare spazio alla preghiera prima del sacrificio.
La ragazza affida la sua anima
a Dio e accetta il martirio: rifiutando il matrimonio con un
musulmano, subisce l’amputazione
delle mani e delle gambe prima
di essere decapitata.
Aurelio Mariani è figlio di un sarto che commercia in stoffe e la
profonda conoscenza dei tessuti si percepisce attraverso la resa
materica degli abiti dei due personaggi; gli abiti indossati dalla
santa, sono preziosi e palpabili,
ricchi di particolari ricercati, la corona ai suoi piedi indica la nobile
origine della famiglia di Eurosia,
rapita durante il viaggio che la conduceva dal suo promesso spo-
so, quelli del carnefice sono
meno preziosi ma resi con
efficacia, in maniera particolare il turbante che gli cinge il capo. In alto una croce simboleggia il martirio e
la santità della ragazza
che sembra volgere a lei lo
sguardo in un totale abbandono, fulcro dell’opera.
Prima del restauro si scorgeva un fulmine in lontananza,
dipinto successivamente
per alludere all’iconografia
con la quale la santa è comunemente identificata nella zona,
come protettrice dei raccolti
e delle messi contro le
tempeste e le grandini ( la
festa della santa fissata al
25 giugno è a Lariano, fino
al 1967 frazione del comune di Velletri, celebrata
durante l’ultima domenica di
maggio, quindi nel periodo immediatamente precedente al raccolto). La pulitura ha restituito un
tratto fresco e garbato tipico del pittore che a
causa delle pesanti ridipinture era completamente
nascosto. Il volto della santa è tipico dell’artista, che nonostante la posa accademica dei personaggi, riesce a rendere efficace e prelude alle
opere degli ultimi anni, cariche di intensità espressiva. La santa, patrona della città di Jaca, lungo il cammino per Santiago de Compostela, non
figura nel martirologio di Cesare Baronio, forse perché è da ricercare come Orosia. Il culto
potrebbe essere arrivato a Velletri secondo due
comuni tradizioni; la prima la vede collegata ai
padri somaschi, da sempre legati alla santa, ma
che a Velletri pur presenti nella chiesa di San
Martino non le hanno dedicato alcun altare.
L’altra, e più probabile ipotesi, è legata allo stanziamento delle truppe spagnole nella città di Velletri
durante la battaglia del 1744, che ha visto lo scontro tra le truppe austriache e quelle iberiche, che
avrebbero portato a Velletri il culto di Eurosia.
In quegli stessi anni risulta inoltre la prima opera dedicata alla santa in lingua italiana, ad opera dei carmelitani scalzi.
Oltre che nella cappella di San Salvatore a Velletri
e nella città di Lariano ha mantenuto anche un
toponimo, sempre a Velletri, nella zona chiamata
appunto Sant’Eurosia fuori dalle antiche mura
cittadine dove c’era il casale dei Filippi. Tutti i
luoghi sono da ricondurre alla famiglia dunque;
storicamente filo spagnola, era stata proprietaria della tenuta dell’Algido, l’attuale Maschio di
Lariano, e possedeva una villa nella zona dell’attuale toponimo extra moenia, luogo nel quale si svolsero importanti battaglie della campagna già citata del 1744.
*Conservatore del Museo Diocesano, VelletrI
Febbraio
2015
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Bollettino diocesano:
Prot. VSC A 01/ 2015
Accogliendo la richiesta presentata dall’Associazione Privata di Fedeli “Famiglia di Santa Paola Frassinetti - Beati i puri di cuore” la cui sede principale è ubicata in Velletri, Via Morice 76, con riconoscimento da parte di questa diocesi in data 12.11.2009 (prot VSCA/40/2009),
col presente decreto si determina che i membri effettivi della suddetta Associazione,
fino al presente denominati “Missionarie di Santa Paola Frassinetti”,
assumono la nuova denominazioni di “Missionarie Figlie della Fede”.
Il Signore benedica e accompagni il cammino dell’Associazione.
Velletri, 13.01.2015
+ Vincenzo Apicella, vescovo
————————————————————————————————Prot. VSC A 2/ 2015
A norma della delibera della XLV Assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana (Collevalenza 9-12. 11. 1998), la quale si è disposto che il vescovo diocesano può stabilire “una diminuzione della quota capitaria fino ad una percentuale del 90% qualora la parrocchia versi in
straordinarie difficoltà economiche, limitatamente al 15% del numero delle parrocchie della diocesi”;
Vista la disciplina delle norme emanate dalla C.E.I. (art. 4, §3 lettera B, della delibera n° 58) che consente al vescovo diocesano :
di graduare l’onere delle parrocchie in relazione alle reali possibilità economiche di ciascuna di esse;
di diminuire la quota capitaria fino ad una percentuale del 90% .
Tenuto conto delle straordinarie difficoltà economiche in cui si trovano alcune parrocchie
DECRETA
che possano usufruire per l’anno in corso 2015
della quota capitaria diminuita , fino alla percentuale del 90% (cioè € 0,00723),
le seguenti parrocchie:
Parrocchia di San Clemente I, p.m. in Velletri
Parrocchia Regina Pacis in Velletri
Parrocchia S. Maria in Trivio in Velletri;
Parrocchia di Santa Maria Assunta in Segni.
Velletri 14.01.2015
+ Vincenzo Apicella, vescovo
————————————————————————————————Prot. VSC A 3/ 2015
Decreto di Nomina a Vicario Parrocchiale della Parrocchia del Ss.mo Salvatore in Velletri
Secondo quanto disposto dal can. n° 547 del C.D.C. , volendo rispondere alle attese della Parrocchia del Ss.mo Salvatore in Velletri con il presente decreto
nomino te
Rev.do Marchetti don Fabrizio
nato il 05.08.1977 a Roma
Ordinato Sacerdote il 16.07.2005
Vicario Parrocchiale della Parrocchia del Ss.mo Salvatore in Velletri
Nell’attuare quanto richiesto dai cann. 545§1, 548 e ss. in sintonia con il parroco, ti assista la mia paterna benedizione.
Velletri, 20.01.2015
Il cancelliere vescovile
Mons. Angelo Mancini
+ Vincenzo Apicella, vescovo
Caravaggio,
Riposo durante la fuga
in Egitto / 2,
1595-1596, Galleria Doria Pamphilj, Roma
don Marco Nemesi*
C
aravaggio, già dalla giovane età, si era
mostrato abilissimo nell’esplorare le diverse emozioni umane: il dolore, la sorpresa,
la fatica etc … Dal volto di questo Gesù Bambino
traspare certamente la stanchezza ma soprattutto la serena fiducia di poter riposare “tranquillo
e sereno in braccio a sua madre”, come afferma il salmo 131 al versetto 2, un testo pieno di
speranza. Abbiamo già intuito tuttavia che il sonno viene interpretato come un simbolo della morte: dunque, in questa immagine, che evoca una
Pietà, noi dobbiamo cogliere anche una profezia del mistero pasquale; per rafforzare questo
richiamo allegorico della Pasqua, dietro al braccio sinistro di Maria che regge il Bambino spunta anche un ramo di spine.
La dolce scena pastorale che appare davanti
ai nostri occhi, Caravaggio la trasforma dunque,
da genere ameno a immagine di grande serietà e profondità spirituale: la tela va interpretata come un’esegesi sapiente del testo del Vangelo
di Matteo, in cui la minaccia di Erode e la sua
violenza omicida, gettano un’ombra sul futuro
del Bambino, al momento ignaro di tutto, che
nella Settimana Santa noi vedremo
strappato da queste braccia materne per essere consegnato nelle mani
degli uomini: allora, al posto del caloroso abbraccio materno, Cristo
sperimenterà l’impatto doloroso
con il duro legno della Croce.
Ma dopo questo dramma segnato
dal pianto, incontreremo un altro angelo, che dalla pietra rovesciata del sepolcro annuncerà la vittoria de Cristo
sulla morte … e farà ritornare il canto e la lode. Intanto lo spettatore viene però come rapito in estasi, mentre rivolge lo sguardo su questo bambino bellissimo, il cui corpo ed il cui
respiro si unisce a quello della madre,
in un clima di pace che scende nel
cuore di chi sa contemplare in silenzio questo capolavoro. È grazie a
questo bambino che il mondo sarà
pacificato, e già fin d’ora chi a lui
si rivolge può pregustare un anticipo di quella
pace messianica che Caravaggio ha saputo magistralmente rappresentare in questo suo capolavoro. Stupendo e davvero commovente è il dettaglio di Maria, dipinta come una vera mamma
che coccola il suo bambino; con la sua attenzione caratteristica alla resa naturalistica delle
cose, Caravaggio con questa immagine viene
in un certo modo a santificare ogni gesto d’amore materno. È interessante infatti osservare
che l’artista interpreta un tema sacro con la stes-
sa modalità di adesione al vero con cui realizza le scene di soggetto
profano: egli infatti non
ha esitazioni nel mostrarci la figura di Maria stremata dalla fatica del viaggio, mentre dorme
anche lei col capo
appoggiato a quello di
suo figlio, offrendogli col
suo corpo totale protezione. Questo realismo
però non scade in grossolanità: la Madonna e
Gesù bambino sono infatti resi con un disegno
elegante, costruito con
delle dolcissime linee curve. L’artista con la netta divisione in due della composizione, allude anche alla contrapposizione tra lo sposo terreno, Giuseppe, e lo Sposo
divino, il Cristo, come già suggeriva la citazione del Cantico dei Cantici. È risaputo come il
culto di Maria fosse particolarmente sentito nell’ambiente romano della Controriforma: Caravaggio
stesso realizzerà in seguito alcune delle
Madonne più belle della Storia dell’Arte
(Madonna dei Pellegrini, Madonna dei Palafrenieri),
ma già da questo capolavoro giovanile noi percepiamo l’intensità della rappresentazione di que-
sta figura femminile materna dai capelli ramati, così umile e popolana, eppure così poetica
ed emozionante. Questa Madonna è discesa dagli
altari, così come suo Figlio è disceso dal cielo,
ed è seduta su quella stessa terra che è sta fatta dimora del Verbo incarnato: madre e figlio,
insieme a Giuseppe con l’asino, ci appaiono come
gente modesta, figure che compongono una scena di dignitosa povertà segnata però da relazioni vere di presenza, di vicinanza, di sostegno reciproco, di resistenza nella prova, di fedel-
tà. Caravaggio riassume
in questa donna, quella
accoglienza e quella
cura che stanno al centro del messaggio del quadro e che sono pure le
attitudini mariane che caratterizzano la vita del vero
cristiano.
All’estrema sinistra la presenza di un sacco e di
un grosso fiasco: si tratta di due elementi solo
apparentemente decorativi,
perché in realtà sono caricati di forte valore simbolico, in quanto richiamano l’Eucaristia.
Nel sacco infatti sta la farina per fare il pane,
mentre nel fiasco è contenuto il vino. Il mondo del giovane Caravaggio,
artista lombardo, da poco arrivato a Roma ed
ancora sconosciuto, è come quello del piccolo
Bambino di Betlemme: gli mancano punti di riferimento sicuri, resta ai margini della gloria mondana, lontano dei palazzi del potere con le sue
logiche, le sue cerimonie, le sue ipocrisie e le
sue crudeltà. Perciò questa tela, nella sua originalità seducente e graziosa, racconta allo stesso tempo un episodio del vangelo, ma anche
ci parla dell’autore … e parla anche di noi, di
ogni uomo e di ogni donna che sperimenta la fragilità della vita.
Caravaggio, tra le altre doti che lo
rendono uno dei massimi maestri della pittura, va riconosciuto come un
grande perché sa rileggere la propria vita nel dramma della narrazione
delle Scritture e perché sa fare della sua pittura religiosa l’espressione della sua tragedia del quotidiano, in cui la parola di Dio si rivela
con tutta la sua carica d’illuminazione
ma anche di denuncia e di appello
alla conversione.
Caravaggio ha dipinto questa tela
con tutto il suo anelito per una religione più umana, con la sua fede
nel Cristo vero Dio e vero Uomo che
ha scelto di sperimentare la nostra
debolezza; e ci ha consegnato un’immagine eccezionale della semplice
bellezza della maternità. Il suo pennello si carica di rispetto, di tenerezza, di compassione, di devozione intensissima. Così, la verità umana, semplice e quasi dimessa dei suoi
personaggi ci fa ritrovare le luci e le ombre dei
giorni autunnali dell’esistenza umana, quelli in
cui potrebbe prevalere lo sconforto, la paura, la
voglia di arrendersi. Ma il passaggio che
abbiamo visto accadere nella tela tra l’aridità ed
i colori terrosi del lato sinistro e il contrastante
fiorire di vita e di verdi del lato opposto, apre
una prospettiva di speranza e di salvezza legata alla venuta in mezzo a noi di
questo bambino, bisognoso di tutto, ma portatore di vita.
*Direttore Ufficio diocesano
Beni culturali, Chiese e Arte sacra