Elémire Zolla, Lo stupore infantile (pdf)

DELLO STESSO
AUTORE:
Uscite dal mondo
ELÉMIRE ZOLLA
stupore infantile
ADELPHI EDIZIONI
Prima
Seconda
©
edizione: febbraio
edizione:
giugno
1994
1994
1 9 9 4 ADELPHI E D I Z I O N I S.P.A. MILANO
ISBN 88-459-1028-8
INDICE
Intrattenimenti e liberazioni
11
L'infanzia assassinata
13
Conoscenza senza dualità: nasce la filosofìa
33
La luce
51
Obliata Naturphilosophie
65
La montagna
77
La migrazione
Un capolavoro narra la migrazione
Caratteri del migratore
L'uso mistico della migrazione
I Mongoli
Israele
La migrazione e la storia d'Italia
93
93
95
98
100
102
105
Apocalissi e genesi
111
Il matriarcato e le selve
121
Religiosa follia
143
Il buddhismo e i jàtaka
155
Sciamanesimo a Myanmar
165
Si ritira ogni indizio del sesso
Che fare dei cadaveri
169
173
Un pontefice imperiale ebreo. Una chiesa
a Trastevere
179
Lorenzo il Magnifico
183
Le due massime opere liriche
189
Truffe e nazioni
197
William Butler Yeats
203
Karl Kerényi
215
Kawai Hayao
219
Kuki Shuzo
225
Il decennio 1970-1980 in America
Pagine di diario
La realtà virtuale 1992-1993
237
248
265
Indice dei nomi
283
LO STUPORE INFANTILE
I N T R A T T E N I M E N T I E LIBERAZIONI
Qui dell'infanzia come premessa gloriosa e tradita
dell'esistenza si parla, luogo ideale dove si cela l'Unità ed estasi da cui ogni sentimento promana. E nell'esperienza dell'infanzia che nasce la conoscenza senza dualità, la filosofia spinta al di là delle parole,
sorta in India e di lì diffusa fino in Giappone come
zen, in Tibet come rDsogs-chen. Dove si può ritrovare l'incanto dell'infanzia? Forse nella filosofia più
pura, nella luce e nella tenebra pazientemente contemplate dalle tante tradizioni, nella rievocazione
della natura vista da Goethe, nell'ascensione in montagna, nella migrazione costante, che ci porta alla
periferia della verità, o p p u r e oltrepassando apocalissi e genesi; ma anche rievocando il matriarcato e le
selve o i taoisti e i folli bizantini, gli sciamani birmani,
i malati di koro, i seppellitori di cadaveri, lasciandoci
cullare dai jàtaka, studiando la nascita del papato
medioevale, rivivendo il sogno di trapiantare a Firenze la sapiente Bisanzio, rivisitando la truffaldina
nascita delle nazioni moderne, riascoltando, a congedo dall'Occidente, Il flauto magico e il Parsifal, riand a n d o i versi e la vita di Yeats o le ricostruzioni di
11
Kerényi, accostandoci infine a Kawai Hayao o a Kuki
Shuzó, che ci avvolgeranno nella sapienza custodita
in Giappone, riesaminando la strana rinascenza spirituale americana del decennio 1970-1980, riflettendo sulla realtà virtuale che annuncia il futuro.
Ghigo Daishi, Ritratto di Kukai fanciullo (XIV secolo), particolare.
T h e Art Institute o f C h i c a g o
L'INFANZIA ASSASSINATA
Q u a n d o nelle fiabe la g e n t e si ridesta d a u n
s o n n o p r o f o n d o e incantato, si trova in questa
situazione: si d o m a n d a se tutto ciò c h e ha v e d u t o
nei s o g n i f r a m m e n t a t i n o n sia alla fin fine reale,
m e n t r e il n u o v o m o n d o , così l i m p i d o all'apparenza, è un'illusione. Q u a n d o mi inoltrai sul c a m m i n o , d o p o il c o m p i m e n t o dell'infanzia, a v e v o
p r e c i s a m e n t e q u e s t o s e n s o di d i s l o c a z i o n e .
Sarà f o r s e u n e r r o r e c o n s i d e r a r e la fanciullezza c o m e u n a f o r m a di s o p o r e , u n p e r i o d o di
r i p o s o p e r la vita spirituale, m a per far m a t u r a r e
ciò c h e nell'infanzia f u s e m i n a t o , s e m b r a c h e
o c c o r r a u n a f o r m a di s o n n o , u n a d i s a t t e n z i o n e
ai piatti stereotipi dai quali s i a m o circondati.
KITA MORIO,
Ghosts
T r a gli insegnamenti di J u n g svetta la trattazione
del Fanciullo Eterno come archetipo centrale.
Il gioco è l'apice dell'uomo, l'esercizio dello spirito
che così diventa un corpo, attività fine a se stessa,
significativa ma non mirata, uguale in Grecia, in
Israele e nella cristianità. Il bambino che si balocca
diviene l'illustrazione di un'esistenza beata smarrita,
che si spera di riprendere nell'aldilà.
Se Kerényi e J u n g individuarono l'archetipo del
fanciullo divino intento a trastullarsi, questo si ripresenta al nuovo m o n d o cristiano attraverso il detto
evangelico: soltanto chi ridiventi fanciullo può accedere al regno dei cieli. Il cristiano ideale è colui che
storna da sé il m o n d o col gesto leggero del ballerino,
stringendoselo nel contempo al petto come immagine che gli rivela il Creatore, il quale per gioco lo
portò all'essere. Già Platone aveva celebrato l'archetipo dichiarando nella sesta lettera che sono fratelli
la burla e la serietà, parlando nel Fedro e nelle Leggi dell'uomo come « giocattolo » di Dio.
Filone ci mostra un Logos giocoso che stende la
storia nel tempo via via sollevando e abbattendo gli
13
imperi: Cartagine, Grecia, Macedonia; ne proverrà,
secondo H u g o Rahner, il Logos ragazzino di Valentino. Nella sapienza ebraica la Sapienza si rallegra
d a n z a n d o e giocando alla presenza di Dio e Dio dalle
sue movenze trae la bellezza di cui irrora il mondo.
Tertulliano a f f e r m e r à che Dio e la Sapienza modellano e dipingono insieme il m o n d o e secondo Origene « questa è la Sapienza della quale Dio si rallegrava
di continuo allorché ebbe terminato il m o n d o » .
Proprio perché assorto in un gioco, l'uomo è serio e allegro insieme, vive, secondo insegna Platone
nel Filebo, contemporaneamente una tragedia e una
commedia. Le verità più alte si a p p r e n d o n o , dice
Platone nelle Leggi, soltanto sapendo intuirne il ridicolo e Origene si spingerà, nel commento a Matteo,
a proclamare che il sapiente è simile al fantolino che
gioca davanti alle bare dei genitori: l'archetipo nella
sua purezza.
N e u m a n n lo espose nella sua genesi tortuosa.
In genere ogni archetipo, groviglio di simboli, si
presenta di contro a un opposto; la T e r r a si coagula
in contrapposizione al Cielo, come Donna contro a
Uomo. Nel Medioevo la T e r r a raccolse tutto ciò che
impauriva e sgomentava; l'Uomo era formato da un
sozzo sperma, concepito da un prurito, nutrito di
i m m o n d o sangue mestruale: quello che arresta le
crescite, dissecca i frutti e r e n d e idrofobi i cani. Così
elencava Innocenzo III. Soltanto con Leonardo mutò questo orrore e si volle « provare la nobiltà del
nostro m o n d o ». Cominciò a sciogliersi la psiche aggroppata, radicale, fanatica e debole; ebbe inizio il
diverso dilemma moderno, che oggi ci stringe addosso una serqua di fatti e continua a suscitarci nell'inconscio la figura di una T e r r a madre generatrice
oscura, divoratrice inflessibile di ogni vita, il cui ventre è un sepolcro e un inferno, che chiama con insistenza a sacrifici di sangue. Ogni iniziazione la deve
a f f r o n t a r e in forma di labirinto, mostro, drago, in14
ferno. Tuttavia, dice N e u m a n n , chi accetti i serpenti
della Madre e riconosca la Madre come tale, sarà
trasformato. Sarà come una lucciola emanante da se
stessa il lume che la guida, permetterà la crescita del
_Lumen naturae, la coagulazione del Cristo e del Serpente diabolico per f o r m a r e il Dio tolstoiano di Karataev o quello delle Elegie di Rilke. Su questa via si
giungerà infine a veder emergere il Fanciullo ermafrodita, posto al di là del matriarcato e del patriarcato, creativo in un presente dove passato e f u t u r o si
identificano, su una terra diafana illuminata da Sofia. Questo nuovo archetipo affiora secondo J u n g
all'interno di un mandala e nei sogni assume ogni
forma: gioiello, perla, fiore, vaso, ghiaccio dorato,
quaternità, sfera d'oro.
Sospetto tuttavia che non si sia a p p r o f o n d i t o a
dovere questo fanciullo eterno e divino.
Anche se in tutti è sepolto il gran tesoro dell'infanzia, esso si trova a irraggiungibili profondità.
Strati su strati, discorsi e formulette lo ricoprono e,
induriti dal tempo, diventano le difese invalicabili
dell'ordine sociale. Sicché si sta su una piatta terra
che si stende fino all'orizzonte, una distesa di noia e
sconforto. Quasi nessuno sa applicarsi, con l'assidua
ed estenuante fatica che sarebbe necessaria, a scavare e ritrovare il tesoro nascosto; quasi tutti passano la
vita intera vedendo d'attorno null'altro che un suolo
miserando e inerte: la vita quotidiana, strumentale,
irretita nelle categorie note, recintata in ogni minimo
aspetto.
Lavorati a puntino sono gli uomini da un'educazione avvilente, ronzano loro costantemente nell'orecchio i ricatti degli affetti e dei doveri.
E p p u r e qualcuno fa eccezione. Rarissimo, isolato
nell'interiorità, sa a f f o n d a r e fino alle sue iniziali memorie, rivive quei lembi remoti e annebbiati, talvolta
ne ricontempla lo splendore.
Nel momento più distante cui la sua memoria si
15
spinga, costui si ravvolge come in un bozzolo d'oro
d o n d e proietta i delicati filamenti dell'attenzione a
cogliere realtà che le parole ancora non sono riuscite ad alterare, ordinare, ripartire, giudicare. Ma « cogliere » non è un verbo proprio. E piuttosto come se
costui dalle realtà si staccasse appena appena: si avverte sì distinto, e p p u r e ancora intriso, pervaso, rapito. In un attimo trasognato e sospeso rivive l'infanzia. Qualcosa ne ridonda nei grandi entusiasmi, negli
amori e nelle stupefazioni.
Distingue questa estaticità infantile una assenza.
Vi manca infatti del tutto la suddivisione per noi
fondamentale dell'universo nelle due metà rigorosamente, furiosamente contrapposte:
pulito e sconcio
normale e mostruoso
benodorante e fetido
accetto e repellente.
Dai d u e anni e mezzo circa di età questo gioco di
opposizioni è risolutamente impiantato in noi.
E p p u r e dovrebbe essere chiaro il suo artificio: dipende da epoca, classe, geografia.
Quale a f f a n n o di purezza ci avvolge e soffoca entrando in un ambiente ebraico ortodosso o in una casa sciita! Se poi si osa spingerci in una dimora bramina sembrerà barbara la nostra igiene, poiché ogni
giorno lì tre volte ci si doccia e cambia d'abito e se mai
si attinga un boccone da un recipiente, tocca poi
gettarne l'intero contenuto.
Ispirano orrore i nostri fazzoletti, le nostre dita, i
nostri piedi calzati e volti in direzione di chi ci ospita,
l'abitudine nostra di non gettare i cocci dai quali si sia
mangiato, in India.
In buona parte dei paesi mediterranei o in Corea
l'aglio si mangia golosamente, il suo fetore è ostentato. Altrove i suoi zolfi f a n n o orrore.
Una fanciulla cinese f r e m e di disgusto al fetore del
latte e dei formaggi, cibo di barbari pastori.
Queste non sono contrapposizioni sicure, fisiolo16
giche, come si dà a credere; spesso smottano. C'è chi
accoglie grato nel dormiveglia i propri fetori, prolungando la prima infanzia. E p p u r e nella veglia,
gonfio di falsa coscienza, giura d'essere interamente
dalla parte della purezza. La pretesa e finzione della
pulizia è la base della vita sociale quotidiana e tuttavia
fu assente e inimmaginabile nell'estaticità infantile.
Ecco perché pieno e pacifico, disteso e abbandonato,
esente da parole, conferme, rassicurazioni, si solleva
il tripudio dell'infante.
Nell'infanzia càpita che una soave meraviglia accompagni il sapore di u n o sputo galleggiante nella
gola. Sembra una sfera aurea, pulsante, irraggiante,
vagheggiata. Questo piccolo ammaliamento sarà di
poi impossibile, la palla ora appare di muco repellente, sarà classificata e sentita come disgustosa immondizia, scatenerà il vomito.
Sano, solo, adagiato nella fresca penombra l'infante vive dentro il suo lieve, ineffabile paradisino. Scorre su di lui il tempo e delicatamente lo carezza. Non è
scisso dalla realtà circostante. Ne è anzi così compenetrato e perfuso che n e m m e n o si preoccupa di stabilire dove esattamente abbia inizio, a che p u n t o
incominci. Tenera, permeabile è la sua pelle, non lo
immaglia, lo dischiude.
Ha l'impressione di un convergere su se stesso di
innumerevoli formicolìi, cenni, suggestioni. Sonno e
veglia lascia confluire. La mente gli ondeggia; scherza, gode, rumina ogni sensazione nuova: bolla d'aria,
f r a m m e n t o di cibo, trascolorare dell'aria, ronzio d'insetti (che a volte giganteggia e fa, per gioco, rabbrividire).
Q u a n d o in questa beata solitudine irrompono gli
adulti, restano spesso esterrefatti per le cristalline
verità che ne possono emergere. Nella sua condizione regale e distaccata l'infante a p p r e n d e d'acchito
sistemi di complessità incalcolabile. Basta che le sue
sonde trepide sfiorino una struttura e subito essa è
assimilata. L'infante ascolta distratto un fluir di paro17
le e di colpo, senza fatica, senza avvedersene, impara
le regole segrete di una lingua, la può parlare, o
forse sarà meglio dire potrà farsene parlare.
Con le parole l'infante intreccia un rapporto curioso, gli appaiono un universo coerente e sono tuttavia libere, indipendenti unità, fluttuano: ci giocherella. Il bambino a f f e r r a al volo gli idiomi che si
parlano, anche se questa capacità vertiginosa d'apprendimento è celata oggigiorno nelle nostre metropoli, dove taluno fa di tutto per impedirne l'esercizio, inventandosi pericoli per il bambino. Ma si pensi
al fanciullino balinese, che impara tutt'insieme il
balinese, il sanscrito dei riti, il giavanese antico del
teatro, l'indonesiano della vita civile. Snyder rammenta i villaggi indù del settentrione, dove al dialetto
locale si aggiunge il gergo di casta, il dialetto regionale, il braj degli asceti krsnaiti, l'avädhl dei devoti a
Räm, lo hindi e talvolta anche il sanscrito. Di colpo,
senza fatica, tutti gli idiomi sono assimilati. Si dice
oggi che nel fanciullino le due metà del cervello
collaborano come in seguito non sarà più dato, sicché
esso assorbe ogni idioma con il pieno vigore della
facoltà sintetica.
Parlo d'un fanciullo non tartassato da richiami oppressivi. Purtroppo sempre, o quasi, da noi si trama il complotto per strapparlo alla sua autonomia e
magia. Gli si rivolge la parola non già con il tono
trasognato e melodioso che sarebbe proprio. Prevale
il timbro aspro del comando o quello insidioso del
raggiro pedagogico o quello trepidante del ricatto
sentimentale, e ben presto le sue difese saranno sbriciolate.
Ecco, l'incanto è ormai sbandito: l'infante smarrisce il trasognato sorriso e n e m m e n o più avverte il
piano sottile degli eventi.
Una possibilità sublime, un'ulteriore maestà è stata
estinta.
Riaccostarsi a quel passato: tale la chiave per vivere
una vita illuminata; l'illusione comune invece crede
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che riattingere quella immensa capacità d'imparare e
c o m p r e n d e r e sia un regresso.'
Nel dizionario di bestie immaginarie Borges accenna all'uccello cui interessa di dove è venuto piuttosto che dove sia diretto. E una definizione fra le
mille che si possono dare del mistico. Uno degli esercizi mistici più frequenti e altresì più inquietanti porta a pargoleggiare, a tornare completamente fanciullini. Il culto egizio di Horo e quello cristiano del
Bambino forse implicarono esotericamente una teoria dell'infanzia illuminata; inducono a sospettarlo le
leggende di H o r o e certe icone russe dove il crocifisso
è avvolto nelle ali d'un arcangelo e sopra il suo capo
danza un bambino abbigliato da re, situato nel cuore
del Padre che tutto sovrasta. Esaminiamo minuziosamente i volti del Bambino che si moltiplicano nella
storia della pittura d o p o l'icona: credo che ben spesso
vi si possa scorgere (altro che gli intenerimenti uggiosi della devozione moderna!) una sapienza perfetta.
Nella mistica cristiana si parte da Origene e si arriva a chi meglio s'accorse della condizione eccelsa
dell'infante, il secentista inglese T r a h e r n e : ricordava
che da fanciullo gli apparivano auree le pietre, cherubini i vecchierelli, essendo per lui ogni cosa eterna:
Ero un'interiore sfera della luce,
un'interminabile orbita della vista
trascendente ciò che costruisce i giorni,
1. I n d a g i n i recenti sull'infanzia p a i o n o d a r m i c o n f o r t o : M.
Haith all'Università di D e n v e r d i m o s t r a le capacità di analisi e di
f o r m u l a r e ipotesi n e g l ' i n f a n t i p r o i e t t a n d o d i s e g n i sulle pareti di
u n o s c a t o l o n e n e r o e r e g i s t r a n d o le loro reazioni; C. R o v e e Collier all'Università R u t g e r s agisce c o n sculture mobili e arriva
a c o m p r o v a r e lo s v i l u p p o p i e n o della m e m o r i a a d u e mesi e
m e z z o ; K. W i n n all'Università d e l l ' A r i z o n a c o n f e r m a c h e a cinq u e mesi i b a m b i n i già s a n n o a d d i z i o n a r e e sottrarre; P. Kuhl
all'Università di Seattle m o s t r a c h e p r i m a di parlare i b a m b i n i
d i s t i n g u o n o i 150 s u o n i f o n d a m e n t a l i d e l l e l i n g u e ; E. S p e l k e
alla C o r n e l l svela c h e i b a m b i n i a n c o r p r i m a di m a n e g g i a r e gli
o g g e t t i h a n n o p i e n a c o n o s c e n z a d e l l e leggi fisiche più c o m u n i .
19
vivente Sole che spande i suoi raggi,
tutto vita e senso,
nuda, pura intelligenza.
Non percepivo né fame né sete,
né dura necessità
né bisogno m'erano noti:
senza turbamento ricevevo allora
le vere idee d'ogni cosa
godendo il miele senza le punture.
Ma quale ricchezza non si trova nel culto di Krsna
bambino!
Spicca in Giappone l'infante meraviglioso; anche
nelle cerimonie di Nara lo si vede passare a cavallo
col faccino imbiancato, triangolini neri sulle gote,
sotto un cappello conico da cui spenzolano piume di
fagiano. Talvolta da questo re della festa si traevano
responsi, dopo averlo isolato con pochi compagni
per giorni, facendogli fare bagni gelidi che si concludevano con un'immersione nell'Oceano, fino al momento in cui era issato insonne sul cavallo con un
ventaglietto in mano: ben presto il capo gli si abbatteva sul ventaglietto ed egli cominciava a parlare
in transe. All'Istituto d'Arte di Chicago si conserva
un'immagine di Chigo Daishi del secolo XIV sprigionante tutta la grazia androgina dell'infanzia: effigia
Kukai, del quale sono scritte in alto le parole: « T a n to tempo fa, q u a n d o vivevo coi miei genitori, tra i
cinque e i sei anni, mi scorgevo spesso in sogno
seduto su un loto a otto petali in atto di conversare
con i Buddha. Ma non ne parlai con nessuno, neanche coi genitori, figuriamoci con altri ».
Il Bodhisattva della s u p r e m a sapienza è raffigurato come fanciullino azzurro: Nawa nonju. Nei templi
shintó questo ruolo è assunto dal Principino ( w a h a 1
miya), androgino perfetto.
1. G. Martzel, La possession divine dans les fètes rituelles d'aujourd'hui, in « C i p a n g o », 2, 1993; C.M.E. Guth, The Divine Boy in
Japanese Art, in « M o n u m e n t a n i p p o n i c a », 42, 1, S p r i n g 1987.
20
Ma chi come Pavel Florenskij seppe addentrarsi
nell'enigma dell'universo infantile? Egli n a r r ò di come vivesse da fanciullo in una famiglia mite e distante, distaccata dal passato, incurante del f u t u r o .
Un dì gli accadde di scorgere nel cortile della casa
un arrotino all'opera e di colpo f u atterrito dall'archetipo: gli apparvero le ruote di Ezechiele, il vortice ardente di Anassimandro, il ricircolare dell'eternità, l'essenza del fuoco; gli stettero dinanzi svelate
le Madri di Goethe, il n o n - f o n d o di Böhme, l'abissalità. Capì allora la temibile unità che congiunge ogni
cosa.
Andava spesso al mare. Sulla rena raccolse via via
calcedonie turchine o violette, ardenti all'interno;
corniole rosse o arancione corse da straterelli bianchicci; ametiste; quarzi e talvolta topazi che parevano perle veneziane, racchiudenti nella loro fina
struttura cristallina enigmatici messaggi. Il p a d r e gli
n a r r ò come si erano formate negli anfratti sottomarini e l'evento gli sembrò presente, poiché per lui il
tempo si espandeva o si raggrinziva e celava, sicché
quelle nicchie operose nei millenni gli comparvero
all'occhio. La pietra, cristallina e indecifrabile, lo sedusse: somigliava a un libro dove il tempo si fosse
tutto assiepato e compresso.
L'acqua respirante, anelante, amara e salata come
le lacrime lo riattraeva senza fine col suo sentore
iodato, con la sua molteplicità infinita di fruscii,
colpetti, frulli, strosci, bisbigli che andavano a condensarsi nel rombo incessante e uniforme. Questo
faceva poi tutt'uno col verde fluorescente che attraeva nel suo abisso.
Irrecuperabile è quel mare, fluito verso dove corre ogni tempo, il n o u m e n o che soltanto l'infanzia
vede, fiuta, ode, tocca. A volte ci riapparirà ascoltando preludi o f u g h e bachiani, osservando strisce
fluorescenti, o d o r a n d o un'alga.
Indugiamo dunque, posiamoci accanto al mistero
dell'infanzia, la quale ben più della veglia d'un adul-
21
to è prossima all'unità: l'io e il mondo, interiorità
ed esteriorità in essa si congiungono e si p e r m e a n o
reciprocamente in maniera inestricabile. Sprofondare nel ricordo dell'infanzia, cessare d'essere una persona è come riandare all'inizio della giornata, all'aurora, q u a n d o le f o r m e del m o n d o si erano appena
appena stagliate e una nebbiolina di rugiada sospesa
le attenuava, allorché il chiarore incerto del sole, che
andava innalzandosi verso l'orizzonte, allo stesso
tempo le profilava e le confondeva. Noi le osservavamo, ma ancora impastati di sonno, calati in una rada,
ovattata veglia non del tutto consapevole, trasognata,
e da ciò che si guardava non ci si sentiva separati, anzi
si seguiva la curva dei colli, l'ombra più parca o più
densa, come se fossero stati dei movimenti psichici,
dei sentimenti appena a p p e n a esternati, giusto giusto posti a distanza.
Accosto all'unità si stava, più tardi si potrà soltanto
sforzarsi di operare un'unificazione.
Vale a dire: si era allora quasi uno. Lo si f u ancor di
più al primo cenno dell'alba, ovvero verso i d u e anni
di età. La memoria vi si spinge a gran fatica, perché a
quel limite le articolazioni apparivano sì e no accennate, quasi del tutto sommerse nell'uno. Si giunge
infine all'assoluta unità di q u a n d o non ci si distingueva dalla madre. Di lei si era fatto parte intima e
stretta e le si era restati caldamente legati ancora per
lungo tempo dopo l'orrido urlo della nascita e l'inizio
dell'atto respiratorio. Madre, si dice; ma allora non
era affatto la persona che in seguito si sarebbe lentamente appreso a conoscere, bensì un anonimo corpo, una massa carnale pulsante, nutritiva, riscaldante, carezzevole. Una m a d r e divina, impersonale, senza volto. Si dimorò accanto a lei nell'assoluta unità,
che è la condizione, a rigore di definizione, divina:
f o n d o segreto e intimissimo che allora ci resse e
governò. Identifichiamoci con quel fondo: saremo
senza coscienza, né vivi né morti, meramente potenziali, come di fatto si f u nella primissima infanzia. Il
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massimo cui ci è dato di tendere allorquando ci
troviamo nella nostra quotidiana vita cosciente di
veglia è il ritorno a questa creatività o causa delle
cause, inconscia, impersonale, bianconera, lievepesante, nottegiorno, verofalsa, tuttonulla: l'essere ancora non manifestato pienamente, divino, onnisciente al quale ci è concesso di retrocedere soltanto
con una meditazione in cui occhi e orecchie si serrino, naso e bocca si turino, ogni percezione si sospenda.
! In un tempietto buddhista di Bangkok s'innalza j
l una colonnina sui cui lati compare una fanciulla che !
si tiene le mani sulle orecchie e poi sulle labbra e ,
infine chiude gli occhi, sicché non può in lei rimane- j
re altro che una cenestesi giusto giusto consapevole, \
la quale rammenta che l'essere poggia sul non essere, il tutto sul nulla, il pieno sul vuoto, la veglia sul
sonno. Così la luce diurna poggia sull'oscurità notturna e al crepuscolo vi si fonde.
Platone nel Menone a f f e r m a che conoscere è rammentare: si coglie coi sensi la varietà degli oggetti,
ma la loro essenza universale dobbiamo averla già
veduta e ce ne risovviene. Egli dice che così abbiamo
la prova che si calcò la terra e l'Ade in vite trascorse.
Ma si tratta di un'invenzione fantasiosa: è nella prima infanzia che si ebbe esperienza dell'uno. Se sapienza è semplicemente conoscersi, è nel nostro passato puerile che trovammo, d o p o l'uno, le idee essenziali cui le cose sono improntate e che ricordiamo
via via nell'esistenza, vincendo l'amnesia.
Per vincere l'amnesia i taoisti « tornavano all'origine », fino a « ripenetrare nell'utero »: riacquistavano
l'infanzia.
La prima certezza che mi fu chiara da bambino f u
quella di non avere un'esistenza circoscritta, sicura e
garantita, di non essere un io. I confini del sentire
erano sempre sul punto di sprofondare e svanire.
Giungevo spesso a verità che non avrei saputo chiarire ed enunciare e n e m m e n o ero certo d'essere
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proprio io a coglierle. Mi arrivavano nella fanciullezza premonizioni, avvisi su cose da compiere e non
sapevo di dove. « Non infilare quella strada, entra
in quella bottega, varca quell'uscio, acquista il terzo
volume di quella catasta». Erano suggerimenti ora
nitidi ora borbottati a p p e n a appena, ma provvidenziali. Provenivano da chi? Di dove?
Sulla strada che sentivo di dover schivare si scatenava un disastro. Nel libro che avevo sentito di dover c o m p r a r e scoprivo la verità di cui avevo bisogno.
E perché avevo dato retta? Ero stato io, quale mi
conoscevo, a ubbidire?
No, se quei cenni li avessi chiariti, li avrei respinti:
non esibivano nessuna motivazione. E p p u r e erano
scivolati in me, agendo su un mio centro a me ignoto, indirizzandomi dove dovevo pervenire. Chi li suscitava? Non io, che non ne sapevo nulla, anzi restavo
stupito a ripensarci e li percepivo come estranei.
Diceva Plotino (Enneadi, IV, iv, 36, 18-21) che quanto vive sensibilmente è formato di parti che sensibilità non h a n n o e tuttavia recano meravigliose potenze
di vita all'insieme.
Q u a n d o talvolta esibivo sentimenti, sdegni, curiosità, stizze nella puerizia, mi domandavo sempre
perché. Non fingevo, esistevano, l'uno accanto all'altro, colui che provava quei moti e colui che li sogguardava. Agivo e annotavo, fremevo e restavo immobile. Chi ero io? Potevo dar ordine alle lacrime di
accalcarsi alle palpebre, alle risate di scuotermi il
petto e tuttavia rimanere indifferente, lontano. Una
passione poteva sembrare a tratti dominante, ma
d e n t r o di me sapevo che mai lo era. Così sentivo
piene di sentimenti ascoltando la musica, vibravo
come un fuscello al trepido vento dei tempi rubati,
piangevo calde lacrime, e p p u r e non ero propriamente io a farlo. Era una mia parvenza. Ma era
anche una parvenza l'osservatore f r e d d o e distante.
Osservava in me lo scorrere delle ore una coscienza
che non ero io, era anzi nitidamente distinta da me
24
quale mi conoscevo e quale apparivo: non era né me
né in me né fuori di me.
E quanto ai sentimenti e ai pensieri che mi si
facevano incontro, che via via affioravano, fino a
qual punto erano veramente miei? Di dove provenivano? Non da me. Né io li prendevo mai del tutto
sul serio: non mi ci cancellavo. Inoltre mi rendevo
conto che mai le parole avrebbero saputo raffigurarli e definirli. Già evocare parole per parlarne era
un atto che allontanava la loro presenza, la attenuava, la metteva in dubbio e in forse.
_J
Questa certezza f u tra le prime di cui m'accorsi. Vi
tornai nella vita successiva: i significanti non attingono mai i significati, parole e segni non raggiungono
mai la realtà indicata. Altri modi esistono per far
a p p r e n d e r e davvero; altro che parole: melodie, gesti, occhiate. Mi p a r e che questa sicurezza sull'insufficienzixlelle _parole sia il centro della conoscenza ;
esoterica. Adopero la parola nel senso in cui D o - j
ghen usava il giapponese mitsu, « esoterico » come i
equivalente di shimitsu, «intimità». Egli insegnavai
che non si perviene all'esoterico finché si crede che \
soltanto io conosca la mia persona privata e che sia ;
impossibile conoscere gli altri: l'intimo è il prossimo j
e « tutto esiste mercé l'intimità ». In altri termini, uso i
la parola esoterico per designare il grado della meditazione che permette di conciliare e f o n d e r e ogni
filosofia o fede, grado lambito all'acme della fioritura fiorentina, nel secolo XV, dal Ficino e ancor più
dal Pico, che ci rimise la pace e rischiò la vita, grado
al quale pervennero già Avicenna, Ibn 'Arabi e alSuhrawardi, che ci rimise la vita.
Quasi mai fu esente dal pericolo di morte dichiarare apertamente la verità esoterica per cui ogni
filosofia o fede enunciata trova contatto, osmosi,
fusione con ogni altra.
Non c'è una sostanziale comunicazione f r a significante e significato, essendo sempre labili e ambigui i
significanti. Qualunque idioma rinvia, addita, allu25
de, indica, ma non assorbe mai, non comprende mai
una realtà.
Perciò il tempo corrode i dogmi più saldamente
definiti, l'interpretazione li altera, la traduzione li
traspone, la memoria li confonde: il significante è
vittima del tempo e dei mutamenti. Questa verità
non si p u ò alterare: la parola non imita la realtà,
anche se sembra a volte onomatopeica. Può aderire
alle linee di una scena alla maniera delle note nei
Quadri di una esposizione di Musorgskij ma, seppure
deliziosa, non fornisce mai un calco perfetto. La
realtà infatti non è soltanto vista: fa impressione
nell'esperienza virtuale udire il fruscio dei prati battuti dal vento, è questa la sensazione che soggioga. E
anche odorata, degustata, palpata la realtà, e la sua
verità sì a f f e r r a infine soltanto allorché si comprenda, diventi parte di noi, confluisca nel nostro nucleo
più segreto, silenzioso, inattingibile, in noi stessi là
dove si è incomunicabili, suggellati, inesprimibili.
Aggiungo; dove non si è più «io».
Anche sull'insussistenza dell'io, verità che è la prima impartita nell'educazione buddhista, ebbi l'assoluta certezza da fanciullo: da sempre m'è apparso
una menzogna, l'io.
M'accorsi ben presto che potevo appassionarmi a
una compagna o anche a u n a persona adulta o a un
gioco. Potevo perderci la testa e ritornare in me d o p o
un certo tempo. Ma chi ero io? L'entusiasta o l'osservatore? Lo stregato o colui che notava il rapimento e
l'ebbrezza?
Io era un ammassarsi d'impressioni casuali, cui si
addossavano delle responsabilità, cui si infliggevano
dei conti da saldare, ma a guardarlo con attenzione,
quell'affastellio si sbriciolava e sperdeva. Quanti io
potevano essere additati nell'arruffio reale, quante
persone diverse, chiamale pure morti, dèi, demoni,
finzioni, invenzioni, inganni.
Dal m o n d o fuso, possente e risonante dell'infanzia
si cade in quello scisso tra vita interiore ed esterna,
26
dove nulla più echeggia liberamente, ogni cosa è!
.soffocata dalla definizione e circoscrizione che le infliggiamo.
La vita interiore è il centro più intimo dell'esistenza, dove si è se stessi e si gioca con le immagini infinite che trascorrono nella fantasia, si riflette e talvolta
perfino si medita. Qui, all'interno di noi stessi, può
serbarsi qualcosa del m o n d o infantile abbandonato.
Dentro di noi sopravvive infatti il suo ricordo e talvolta si riaccende con l'antica intensità: di f r o n t e a
un paesaggio, a una cortina di nebbia, a un cielo rannuvolato o splendidamente turchino, all'ascolto d'una musica, osservando ipnotizzati una natura morta,
un'ansa di vaso, u n o scorcio di linee che paiono reminiscenze. Tenta di fissare questi ritorni all'infanzia il
pittore o l'esecutore o il poeta che riesca a imbrigliare
in giri di pennellate, di tocchi, di parole la commozione trasognata che un dì lontano, fino ai d u e anni e
mezzo, f u costante.
Da una certa età in poi, presto o tardi a seconda di
ciascuno, la suddivisione atroce fra l'interiorità e il
m o n d o esteriore si solidifica senza speranza. Nemmeno il fatto che almeno di notte per forza si debba
uscire da questa prigione duale riesce a dissipare
l'inganno che si presenta per realtà: per pressoché
incrollabile illusione.
Invece della pienezza naturale si profila, da noi
rigidamente, violentemente separato, uno spazio che
ci rinserra ineluttabile, soverchiarne, e taluni dei suoi
abitanti ci si stringono addosso, ci forzano a guardarli e ad ascoltarli, a interrogarci su di loro, sicché
crediamo che tutto si riassuma non in noi, ma nel sito
molteplice dove ci si trova.
Eppure, ripetendo Pascal, non ho mai saputo perché fossi situato proprio a un certo punto nell'eternità del tempo: altro non ho veduto di fatto se non
infiniti che da ogni angolo facevano per inghiottirmi ed enormi spazi in procinto di serrarmisi addosso. Questo non provochi terrori, ma un'esultazione
27
grandiosa: accettandolo, scancellandoci nell'immensità, ci liberiamo in vita.
Forse questa liberazione la possiamo capire osservando marine. Quante distese di mare mi si riaffollano nella mente, dallo sconfinato minaccioso oceano visto su spiagge giapponesi o californiane, al familiare, caldo e modesto mare di passeggiate liguri o
israeliane; al Mare del Nord torbido, arruffato, infinito, che trascolora nella sovrastante nuvolaglia nerastra; all'Oceano Indiano lúgubremente uniforme;
all'Atlantico ora estatico e fiero ora cupo e serrato:
sulla sua sponda l'allievo di de Santillana mi spiegava la mitologia greca come storia di pesci e molluschi. Sempre, comunque, passeggiando lungo una
costa m ' h a n n o colpito uomini o d o n n e soli seduti
sulle rocce, l'occhio fisso al f r a n t u m i o delle ondate,
al respiro delle mareggiate, allo svariare di tinte
dorate, azzurrine, verdastre, brunicce, marroncine,
nere. Immobili stavano, come studiando, contemplando, come tentando di decifrare un accavallio di
geroglifici.
Come nessun altro paesaggio il mare tranquilla,
assorbe, ricolma.
Distesamente f u esplorato per due o tre secoli dai
pittori di marine olandesi e inglesi l'inesauribile Mare del Nord; talvolta gli Olandesi raffigurarono con
stupore estasiato e colori paradossali anche il mare
dei tropici. Forse al colmo della trafila va posto
Caspar David Friedrich, le cui marine sembrano
svelarci il mistero del mare quale appare agli occhi
dei suoi uomini visti di spalle o ai suoi romiti ricurvi,
ma non sapremmo certo esprimere quel disvelamento in parole; quei mari sono semplicissimi eppure complessi come strutture cristalline o come gli
odori molteplici di certi fiori. Sono ragione di sgomento, silenzio, esultanza.
Càpita talvolta che l'impressione del mare penetri
perfino in gente che ne ha una conoscenza costante,
quotidiana. Come sottrarsi all'enigma di una miria28
de di dati diversi, visioni, profumi, rombi assimilati
in qualcosa di unico e unitario? Questo è lo spettacolo indicibile che intrattiene i tanti osservatori del
mare che rammento. Il brivido delle luminescenze
sulla cresta dei flutti, il loro trascolorare incessante,
il profilarsi di correnti più fonde e oscure sulla superficie, l'ansito vasto, l'odore di pesce fresco, che
ha una punta amara, si congiungono in una unità
che assorbe e fonde. Una vita u m a n a intriga per
l'identico motivo, per la fusione di realtà separate.
Anche un individuo è un mare di persone diverse:
ereditate, imitate, subite, assimilate, confuse, spesso
nemiche fra loro, per buona parte inconsce, tutte
c o m u n q u e riassunte nell'impressione unica e complessiva e inconfondibile, per cui un uomo ci colpisce come una schietta individualità e tuttavia sappiamo che è un caos. Come la distesa dei flutti. Costantemente mutevoli e frastagliati l'uno e l'altro, sempre più si conferma la somiglianza fra l'uomo e il
gioco delle onde.
Nei tempi antichi vigeva la facoltà di avere visioni,
cioè sogni da svegli, di un travolgente nitore, e in
esse comparivano, esseri vividi, gli dèi; così le egloghe marine popolarono di naiadi e tritoni le ondate, vi installarono Polifemi tratti dalle voragini vulcaniche, Teti soavi e pacificanti, vi celebrarono nozze sacre grandiose, maestose, inebrianti. Ancora nei
Lusiadi l'Oceano trabocca di queste presenze. Attira
verso la distesa del mare la facilità con cui ci calma in
o n d e alfa il cervello lo spettacolo di conciliazione fra
la sua molteplicità infinita di particolari e la sua
unità, mediate insieme in maniera miracolosa, naturale, semplicissima.
Credo che a contemplarlo lungamente si agevoli
la strada verso il passato; il mare si trasforma nello
specchio della psiche.
Faccio fatica a calarmi indietro ai tre anni, ma
credo di veder emergere un intérieur: nel salotto
29
dalle alte tende si sparge un velo di luce, il tappeto
attenua i suoni. Esala dal pavimento l'odore di legno
incerato. Sul tavolo centrale il vaso stringe un mazzo
di rose dai petali tesi. Rispondono le roselline dipinte sulle tazze di porcellana e una rosa ricamata sul
pannello che scherma il camino.
Al nero pianoforte mia m a d r e suona la Marcia dei
seguaci di Davide contro i Filistei dopo lo Chopin. I
capelli raccolti nella crocchia le scoprono l'orecchio
e la nuca. T r e liste di trina le scendono lungo il petto
fino al lembo della gonna, sporge la punta aguzza
della scarpa sospesa sul pedale.
Io ascolto dalla seggiola del corridoio, voglio star
fuori del salotto, nell'oscurità. Ho pianto quietamente q u a n d o mia madre ha suonato lo Chopin,
dondolando le gambe, le mani poggiate sui braccioli
imbottiti. La Marcia dei seguaci di Davide mi fa sorridere.
La luce del salotto, un lieve biancore, si d i f f o n d e
come grana tenera e tiepida.
Lo Chopin sembra parlare della tenebra che pervade il corridoio. Una tenebra che la luce, p u r penetrando fin lì, non dissipa. È straziante lo Chopin e la
sua tonalità si coglie in quelle ombre. In qualche
m o d o capisco che devo prestarmi a patire gli esitando, le note puntate del tempo rubato, non devo
oppormi alle lacrime, soltanto così potrò gettarmi
nello scintillante tripudio di accordi che scandisce la
marcia dei seguaci di Davide, simile a quella dei
puttini danzanti sotto l'orologio dorato sul camino.
Sul tavolo del salotto, sotto le rose, accanto alle
ciambelle, la teiera mostra un argento spento, appannato dal tempo. Mentre mia madre sta suonando, il tè intride l'acqua e le toglie la crudezza. T u t t o
si sacrifica, le foglie di tè, la luce, le superfici brillanti, i suoni che debbono reggersi come uccelli sospesi,
isolati f u o r del tempo: il la-mi-fa-fa sbrigativo, il do-re
che fa sostare.
30
Delle foglie di tè resta l'essenza, della voce il nucleo; il pedale è usato a p p e n a appena, negli anni di
studio f u proibito; la luce non deve erompere; le
rose sono isolate nell'acqua sufficiente; il mio cuore
è libero di espandersi nello spazio enorme che così si
apre, p u ò diventare fiero, incurante. Inoltre, poiché
tutto attorno a me si ritrae, imparo a compormi.
Sento un misto di gioia e di rinuncia che fa tutt'uno
con il timbro del pianoforte, con le penombre della
casa.
Dà voce alla casa il pianoforte, se a esso ci si siede
pronti e senza tensione.
Il suo timbro un poco appenato somiglia alle ciambelle dove il b u r r o assorbe il ruvido, dove si è posto
un tuorlo crudo e uno cotto e il lievito si è disciolto
nel latte tiepido. Udrò, vedrò, fiuterò, mangerò questo ritegno.
31
CONOSCENZA SENZA DUALITÀ:
NASCE LA FILOSOFIA
Il sommo dono dell'India, la conoscenza senza
dualità, unitaria e unitiva, nasce in un ambiente plasmato da una quasi ininterrotta ritualità, dove ogni
evento si canta con gesti consacrati. In una famiglia
bramina si susseguono le recitazioni dei Veda e il
p a d r e agisce come sacerdote con la stretta partecipazione della moglie e l'aiuto dei figli.
Al giovane che fa il suo ingresso nella vita la letteratura vedica si schiude, tesoro orale che egli app r e n d e nella particolare versione della famiglia. Essa
copre ogni aspetto dell'esistenza. 1 Oltre agli inni vedici, gli incantesimi dell'Atharva-Veda affiancheranno la sua esistenza rigorosa e acquietata, f o r n e n d o le
formule nelle quali ogni passione si incastra, trasformata in lode agli dèi o maledizione dei nemici. L'intera sua volontà si proietta in questi canti e subisce
una strana modificazione. Non si trasformerà in santo chi li esegue, poiché l'induismo non mira a soppriI. J.F. Staal, Nambudiri Veda Recitation, G r a v e n h a g e , M o u t o n ,
1961 e F. Staal, Ritmo nel rito, in « C o n o s c e n z a religiosa », 2,
1983.
33
mere il male, ma affianca agli scongiuri e alle maledizioni gli inni e le benedizioni: la luce si profila sempre su u n a tenebra, la bruttezza è sempre il f o n d o sul
quale la bellezza si staglia; e p p u r e il cantore resta
trasformato e illuminato, perché coltiva un'allucinazione volontaria: gli esseri soprannaturali intravisti
fra sogno e dormiveglia o sfiorati nel delirio gli entrano allucinatamente nel pieno della veglia, scendono per istrada, fra le m u r a di casa; per lui l'amuleto
sulla pelle regola la vita; i semplici sparsi nei prati
diramano visibili energie; schiere divine si piazzano
ai quattro punti cardinali. Via via che le invocazioni si
infittiscono, la realtà cambia: al nemico devono cadere le braccia e piegarsi le ginocchia, la d o n n a vagheggiata assumerà un'aria esangue e trepida, t r e m a n d o
di desiderio e invocando disperata il cantore, al cui
scrigno insperate ricchezze affluiranno e alla fine
egli diventa un dio. Già all'inizio della raccolta atharvavedica si stabilisce il tono:
« Dal tre volte sette che vanno d'attorno, portatori
di tutte le forme, il Signore della parola mi conceda
oggi i poteri e le manipolazioni ».'
Che cosa sono i tre volte sette?
Possono essere tre o sette: Brahmà creatore, Visnu
reggitore, Siva estintore ovvero i tre strati dell'universo, terra, atmosfera e cielo, accanto ai quali possono porsi i sette cantori sapienti che con i loro versi
g e n e r a r o n o il cosmo o p p u r e i sette pianeti che imp r o n t a n o il mondo.
Possono altresì essere i tre sette ovvero tre volte i
punti cardinali più zenit, nadir e centro.
Infine possono essere i tre per sette, vale a dire i
ventuno, dodici mesi più cinque stagioni, tre strati del
m o n d o e il sole.
Questi archetipi supremi « vanno d'attorno »: circondano e determinano incessantemente ogni aspet1. Athanaveda.
Inni magici,
L I E I , T o r i n o , 1992.
a cura di C. Orlandi e S. Sani,
34
to della realtà, facendone un organismo strettamente compaginato e coerente. Nel tre e nel sette il cantore si immerge, vi si immedesima, così ponendosi
alla radice dell'essere, padroneggiando ogni potere.
Per ottenere questa trasfusione nel tre e nel sette,
evoca la Parola, Brhaspati affine al fuoco-luce, sacerdote degli altri dèi, tramite f r a loro e l'uomo, nemico
ai demoni, liberatore, signore delle preghiere, della
sapienza e dell'eloquenza, rettore di Giove, Cristo
induista, marito di colei che traghetta da questo all'altro mondo. E lui che deve trattenere nel cantore
l'inno e quindi la «sapienza divina», superiore a
quella trasmessa in famiglia.
L'inno conclude dicendo: « S'è invocato il Signore
della Parola; che ora il Signore della Parola invochi
noi. Uniamoci alla divina sapienza». Il cantore s'è
fatto u n o con la Parola, adesso invoca dolcezza, luce,
spazio e, veracemente persuaso, conclude:
« H o creato in tutta la loro estensione la terra e il
cielo; ho generato tutte insieme le sette stagioni. Con
la mia parola rendo vero ciò che non è vero ».
Con la parola egli accresce il potere che convoca da
ovunque si sia disperso: da tra gli alberi, da tra i
cespugli, da tra le folate di vento. Lo reincamera.
L'inno giunge a termine celebrando la trasformazione del cantore in dio: egli è il paradiso, i suoi
nemici l'inferno. Da lui defluisce ogni difetto, portato via dal quotidiano sacrificio; ne scaturiscono le
acque purificatrici che scorrono a travolgere i nemici, sui quali sono spediti anche i cattivi sogni (« il
brutto sogno della veglia e quello del sonno »).
L'ingiuria cantata va ad abbattersi su chi ingiuria
con falsità, sulla strega che corre nella notte simile a
un gufo, nascondendo le sue forme. Si canta: « La
mancanza di figli, la morte del bambino, lacrime e
sterilità ponili tutti sul nostro nemico come spiccando dall'albero una ghirlanda ». Ci sono riti per uccidere, ipnotizzare, arrestare, allontanare, creare dissensi.
35
Chi abbia raggiunto inneggiando il grado divino
del potere e della conoscenza, vede ogni cosa nell'intrico delle cause. Dalla freccia corre al padre remoto,
il dio delle piogge che fece crescere la canna; alla mad r e remota, la terra multiforme. Riesce a far avvolgere attorno al proprio corpo la corda dell'arco, finché
il corpo gli diviene un sasso e scaccia ogni offesa.
Infine si arriva a evocare la consacrazione del re
posto su una pelle di tigre, cui si ingiungeva di percorrere su di essa l'intero spazio del cielo, come una
tigre. Lo si spruzzava d'acqua, dicendo che come essa
smaniava di inzupparlo, così gli uomini lo agognavano.
Si lanciavano su un bramino palle di letame, perché quel letame bruciando genera una stria di f u m o
bianco simile alla Via Lattea regina delle stelle.
L'uomo tramutato in dio adorerà anche la tenebra, che è « una giovane d o n n a padrona della casa, colma di ogni bellezza, profonda, protesa all'am o r e ».
Chi abbia seguito questo ammaestramento rituale
perviene all'identica condizione di cui parla l'egizio
Plotino, che tanto aveva bramato d'andare in India e
certo era stato impregnato d'insegnamenti indù.
Nelle Enneadi egli affermava che ogni anima deve
riflettere sul « fatto » di aver generato « tutti i viventi
della terra, del mare e del cielo, il sole e gli astri dai
moti stupendamente regolari: come i raggi solari
avvampano una nube oscura, così egli si e f f o n d a nei
cieli ». Siamo dinanzi alla stessa allucinazione magica
che prescrivono i canti vedici sul sole, identificato
con l'intimo del cuore umano. 1 Di lassù in alto, prescrive Plotino, ci si porti al proprio cuore, fino all'intelletto, e da questo si giunga all'Uno, n u m e r o che
1. Plotino, Enneadi, a c u r a di G. F a g g i n , R u s c o n i , Milano, 1992,
s p e c i e a p. 7 9 5 . Sulle f o n t i p l o t i n i a n e , specie egizie: T . D u Q u e s n e , A Coptic Initiatory Invocation, Edizioni D a r e n g o , T h a m e ,
1991.
36
non è numero, bensì potenza d'ogni n u m e r o e d'ogni
numerabile.
Tutti gli uomini si servono dei sensi e buona parte
di loro non va mai al di là dell'orizzonte sensibile,
sono simili a uccelli incapaci di innalzarsi sulla terra.
Altri provano il misterioso piacere della bellezza pura, ma in alto n o n sanno trattenersi. Infine c'è la^
schiatta divina, che s'innalza al di là di ogni nube:
costoro soffrono le doglie del parto perché la vista
del bello li penetra e li feconda, sicché dalla sua
visione traggono, partoriscono la bellezza p u r a e infine « il Primo che è bello in sé e per sé », l'intelletto che
c o m p r e n d e simultaneamente ogni essere e così guida all'Uno. Identico è il processo esposto nei Veda, 1
anche nel Rg-Veda si parla dei saggi che « si librano sul letto dei venti q u a n d o gli dèi penetrano in
loro » (X, 136, 2). Sono perfettamente sovrapponibili il bramino praticante e il maestro platonico.
Meta comune, dell'uno e dell'altro, è l'Uno.
Credo che nell'Uno siano contenuti sette concetti
convergenti: 1) la semplicità, 2) l'identità e l'uguaglianza, 3) l'apparenza come immagine o sembianza
identica alla cosa, 4) la permanenza e l'istantaneità,
5) la congregazione, 6) la quiete, 7) la solitudine.
Questa costellazione di idee è insita nello spirito delle
lingue indoeuropee e d'altre famiglie linguistiche.
Dalla radice indoeuropea sem scaturiscono infatti i
latini 1) simplex e 2) similis, 3) l'inglese to seem, 4) il
latino simul, 5) il sanscrito samana con i tedeschi samt,
sammeln, zusammen, 6) il sanscrito sàman, « quieto », 7)
il polacco sam, « solo ».2
Questo concetto di U n o è inteso come fonte d'ogni
lume sia dai bramini che da Plotino. Ma per intende1. J. Miller, The Vedas. Harmony,
Meditatìon
and
Fulfillment,
Rider, L o n d o n , 1 9 7 4 (trad. it. Veda. Armonia, meditazione e realizzazione, A s t r o l a b i o - U b a l d i n i , R o m a , 1976).
2. E. Zolla, Le parole e la cosmogonia,
1-2, 1 9 7 2 .
37
in « C o n o s c e n z a religiosa »,
re a f o n d o il concetto bramino, occorre esaminare un *
sinonimo di Uno (eka), brahman, sostantivo neutro
che soltanto oggidì si riesce ad afferrare, d o p o gli
studi di Renou-Silburn e di Gonda. 1
L'etimo è incerto. E altamente probabile che venga
dalla radice che denota la crescita e l'espansione, ma
potrebbe anche essere la radice di « parlare ». Secondo Renou l'uso vedico induce ad assegnare a brahman
il senso di potere magico derivante dalla recitazione
vedica imperniata su brevissime, fulminanti allusioni
agli dèi, su rivelazioni improvvise di verità sovrannaturali. È probabile che suo significato siano l'effusione, la dilatazione interiore che scaturiscono dalla
preghiera, dall'invocazione, dalla lode agli dèi. Questo sentimento proviene dalla scansione dei versi
sacri e insieme dalla particolare ebbrezza che si scatena con l'ingestione del soma, di cui così poco sappiamo e che potrebbe essere ricavato da\\'amanita muscaria. Pare che procurasse un'estasi tripudiante e insieme una lucidità intellettuale straordinaria; su questo
aspetto ci istrada l'opera di Gonda. I Veda insistono
nel dirci che il soma non soltanto « accresce » brahman,
ma conferisce l'immortalità. Come leggere questo
vocabolo, amrtaì Di per sé è composto dall'a privativo
e dalla parola « morte ». Potrebbe essere interpretato
come la sensazione di chi si strappi alla stretta della
morte e resti librato nell'assolutezza dell'infinito presente, nella condizione estatica. Brahman viene così a
denotare l'esperienza massima che all'uomo sia concessa, il culmine della creatività, dell'intellettualità,
della vitalità, della meraviglia. Questo apice coincide
con l'Uno, ne è l'esperienza diretta. Credo che fra
tutti nei nostri tempi fosse Artaud a capire tale fondamento della concezione indù; nel suo scritto sul
1. L. R e n o u e L. Silburn, Sur la notion de brahman, in « J o u r n a l
A s i a t i q u e », 2 3 7 , 1949, pp. 7 - 4 6 e J. G o n d a , The Vuion of the
Vedic Poels, M o u t o n & Co., 'I'he H a g u e , 1963.
38
teatro.Vegli parla dell'intensità trabocchevole che
coincide con la nozione vera e profonda dei « princìpi » metafisici. Per noi essi sono semplici designazioni astratte di premesse logiche a concetti quotidianamente usati, per l'Indù dei testi classici f u r o n o la
formulazione di un'esperienza esaltante e lucidissima, la massima concepibile. Ciò che fonda l'assetto
logico del reale è questo vertice della sensazione che
sospinge fuori della struttura sensibile e dà l'immediata conoscenza delle premesse generali. Che cosa
ci fa conoscere il brahmani Secondo il Rg-Veda semplicemente « Quello » (tad), p r o n o m e neutro che dovrebbe racchiudere la somma dell'esperienza, la totalità del percepibile concentrata nell'istante. In tad
nasce il desiderio che è seme della mente in genere
(X, 129, 4). A questo infinito presente, « che è essenzialmente uno nell'essere, i poeti danno molti nomi » (X, 114, 5): i poeti, nell'empito ispirato e rigorosamente scandito, trascorrono per tutte le metafore che s'accordino con la loro estasi, sicché è in
questa che si trova compiutamente definito brahman
o tad.
Scorgo una conferma di questa tesi nell'altra dichiarazione (V, 73, 10), che i veggenti foggiano come cocchi le preghiere (brahmani) che d a n n o appagamento (vardhana). Vardhana significa «che accresce, rafforza, conferisce prosperità » (nel Rg-Veda),
« animante, rallegrante, esilarante » (nel Mahàbhàrata).'2 L'idea che si confezioni la preghiera come si
costruisce e appresta un cocchio è comune nel linguaggio vedico e si può anche pensare al parallelo
significato mistico di « carro » (merkàvàh) in ebraico.
Occorre richiamare alla mente il senso di ebbrezza
che coglieva il cocchiere lanciato di gran carriera sul
cocchio da guerra, ma qui si tratta della corsa verso
1. « La N o u v e l l e R e v u e Française », f e b b r a i o 1932.
2. M. M o n i e r - W i l l i a m s , A Sanskrit-Engluh
O x f o r d , 1 9 7 9 ( 1 8 9 9 ) , p. 9 2 6 , col. 1.
Dictionary,
9 a ediz.,
la visione, al di là d'ogni spazio noto, verso la fonte
d'ogni luce (svar), verso l'asse dell'universo (skambha,
secondo dice, avverte J e a n i n e Miller, VAtharva-Veda:
« chi conosce brahman conosce implicitamente l'asse
del cosmo »), verso l'Uno. Il dio che promuove brahman è Agni, signore del fuoco.
Si parla anche di un « quarto brahman » come stato
cui si perviene disfacendoci del corpo fatto di cibo,
del respiro che lo regge e sostiene, della mente che
ne vive, e consiste nella visione trascendente (vijnànamayakosa): l'attività intellettuale è l'ultimo, l'estremo, più alto prodotto del corpo. Questo p u n t o di
perfezione intellettiva è proprio del più perfetto
asceta (paramahamsa), « privo di desiderio, sapiente, senza-morte, autogeno, succoso, senza difetto »
(Atharva-Veda, X, 8, 44: akàmo, dhiro, amrtah, svayambhù rasena, trpto na), inafferrabile, impensabile, uno
con l'essere (ekàtman), senza dualità, al di là del manifesto e del non manifesto, della vita e della morte,
dotato della scintilla interiore che abbraccia ciò che
è, che fu, che sarà (Yajur-Veda, XXXIV, 4).
Per completare il raggio delle accezioni di brahman, si può aggiungere che esso c o m p r e n d e il potere eroico (suvirya) (VIII, 3, 9).
Si può concludere che l'Uno si percepisce mercé
l'enfasi travolgente di cui ci si è imbevuti cantando le
formule dei Veda e scorgendo le visioni in stato di
ebbrezza drogata, compendiare tutto questo lungo
discorso con l'equazione semplicissima: l'estasi è l'Uno presente alla mente. Questa condizione strappa
alla molteplicità, fa apparire l'unità di tutti i fenomeni.
I testi indù elencano i sinonimi di Uno; Quello e
l'intraducibile brahman, che alla meglio si può rendere con « essere », ma in realtà va al di là dell'opposizione di essere e non essere, coincide con lo zero.
Finora ho tentato di accostarmi alla concezione
offerta al giovane bramino dalla tradizione di fami40
glia. Ciò che ci interessa più da vicino è lo svolgimento che questa conoscenza religiosa conobbe verso il
settimo secolo, q u a n d o si manifestò nella sua pienezza il pensiero p u r a m e n t e filosofico, staccato dalla
tradizione e dalla recita vedica, affidato alla semplice
operazione logica della mente. Il filosofo non si appoggiava a nessun presupposto, svolgeva le conseguenze implicite nei concetti, rifletteva senza riferimento a nulla. Q u a n d o Sankara dice che è simile a
uno sciocco chi non abbia tradizione (sampradàya), si
riferisce forse all'apprendimento presso il maestro di
filosofia, «colui che largisce l'insegnamento».
Il fine ultimo della filosofia è identico a quello della
tradizione bramina, perché lì essa conduce, ma non
nel senso che ad esso si subordini previamente. Il
filosofo è del tutto libero da qualsiasi coercizione o
suggestione, ha abbandonato ogni condizionamento
sociale, attenendosi all'unica necessità di rispettare le
n o r m e della coerenza logica fra un concetto e l'altro.
Il primo filosofo della conoscenza non duale che
segue ai Veda (Advaita Vedànta) e del quale si possiedano i testi è Gaudapàda, di epoca ignota, fissata tra
il 500 e il 780 d.C. E probabile che avesse raccolto
l'insegnamento buddhista più estremo, quello di Nàgàrjuna (del II secolo a.C.), il quale aveva sviluppato
a fondo, secondo indicava Dasgupta, 1 l'affermazione
che già faceva Subhuti al Buddha: sentimenti, concetti e f o r m e (samskàra) sono arte suggestiva (maya),
sicché tutto è vuoto e la cognizione del vuoto è conoscenza perfetta (prajnapàramità). Dato questo vuoto,
non c'è processualità e non c'è cessazione o morte.
Altra fonte di Gaudapàda è la Màndùkya Upanisad.
Ma il suo filosofare a nulla s'appoggia, è semplice
cogenza logica.2
1. S. D a s g u p t a , A History of Indian Philosophy,
( 1 9 2 2 ) , p. 127.
voi. I, D e l h i , 1 9 7 5
2. I testi di G a u d a p à d a e le n o t i z i e sulle sue o p e r e s o n o reperibili in Encyclopedia of Indiati Philosophies. Advaita Vedànta up to
41
Il primo passo che compie è una tripartizione
degli stati umani, innanzitutto la veglia, che tratta
oggetti grevi (sthùla) e ne è consapevole. L'Uno vi
a p p a r e come corpo visibile che percepisce e agisce.
Quindi nel sogno si è consapevoli di oggetti posti
nella nostra interiorità, l'oggettività è di qualità sottile e la luce che delinea gli oggetti non proviene dal
sole o dalla luna o dal fuoco, ma è proiettata dalla
mente stessa. Infine il sonno, nel quale ogni distinzione cade e sussiste apparentemente l'Uno, poiché
d o p o il sonno ci si rammenta di essere se stessi, ma
pràjnà predomina: la piena (pra) assenza d'ogni moto conoscitivo (a-prajnà).
Gaudapàda tuttavia a f f e r m a che dopo, al di là di
questi tre stati, ne sopravviene un quarto, contrario
a pràjnà, essendo onnisciente e onniveggente. E posto al di là della dualità di veglia e di sonno; se il
m o n d o esistesse, a questo punto dovrebbe cessare,
ma essendo illusione e prodotto di artificio (màyà),
soltanto ora lo si coglie nella sua verità. Credo che
sia o p p o r t u n o a questo proposito riflettere sulle illusioni ottiche: Pavel Florenskij dimostrò' che sono
alla radice di ogni vedere, il quale si determina come
confronto e conflitto fra vedute contrastanti. A prò
di quella fra di esse prevalente si può soltanto asserire che sia conforme alla media.
Veglia, sogno e sonno sono tutt'e tre irreali, è dato
di ridestarsene entro una quarta dimensione dove
non si è né svegli, né sognanti, né addormentati, ma
straordinariamente attenti. Fin qui le dichiarazioni
esplicite di Gaudapàda.
Ma che significa questo quarto stato, diverso dai
tre generalmente noti?
Non è un sogno e nemmeno una piena veglia,
perché riconosce il reale della veglia come un'illusioSamkara and His Pupils, a cura di K . H . Potter, P r i n c e t o n U n i v e r sity Press, 1982.
1. La legge dell'illusione,
in « C o n o s c e n z a religiosa », 2, 1977.
42
ne pari a quella onirica e come un incognito indistinto pari a quello dominante nel sonno. Dal sogno ci si
ridesta pienamente nel passaggio alla quarta dimensione e tuttavia della veglia si acquista soltanto l'attenzione rigorosa e la capacità d'azione, del sonno
p r o f o n d o soltanto l'acquietamento e la consapevolezza dell'indistinzione e tenebra sottostante al tutto.
L'attenzione in questo quarto stato è più acuta che
nella veglia, perché sa che tutto riposa sull'incognito
indistinto del sonno completo e sull'illusorietà del
sogno: lo sa come se contemporaneamente dormisse
e sognasse. Dei vantaggi del sonno e del sogno si
avvale nella veglia poiché considera il m o n d o come
uno spettacolo al pari di ciò che si svolge d u r a n t e un
sogno, e sottostante alla sua luminosità e chiarezza
avverte la tenebra del sonno: sottostante alle rigorose distinzioni della veglia o del sogno ravvisa l'indistinzione notturna. Certo, si desta pienamente dall'annullamento del sonno e dall'inganno del sogno,
ma anche dalle illusioni della veglia. Coincide forse
con quello stato fuggevole, istantaneo che sempre si
attraversa al risveglio e all'assopimento, q u a n d o ci è
largita la pace del sonno, ma tuttavia sopravvive una
punta d'attenzione, essendo il passaggio dalla veglia
al sonno una linea continua dove ogni trapasso è
graduale all'infinito.
Fra i commenti 1 uno dice che ciascuno stato si
suddivide a sua volta triadicamente: c'è una veglia
pienamente sveglia, una trasognata e un'altra assonnata; un sonno altresì quasi lucido, uno quasi sognante, uno profondo; un sogno consapevole di esser tale, uno abbandonato al fluire delle immagini,
uno f r a m m e n t a t o e incerto, prossimo al sonno.
Ciò può voler dire che in ciascuno stato sempre si
oscilla fra tutti e tre gli stati e aguzzando l'attenzione
si arriva a rendercene conto: nella veglia alla consa1. Si v e d a sopra, p. 4 1 , nota 2.
43
pevolezza lucida si alterna una sfumatura di sogno o
u n o sprofondare quasi inavvertibile nel sonno; nel
sogno si può avere una consapevolezza chiara del
fatto di sognare o si è trascinati dalla trama del
sogno o si avverte appena un barlumio di immagini
nel sonno; nel sonno ci può essere un velo di assopimento che copre l'attenzione o un formicolio d'immagini oniriche indistinte o infine uno scancellarsi
totale d'ogni sensazione.
Nel dormiveglia è un arruffio di veglia, sogno e
sonno che domina la mente, manca del tutto l'attenzione lucida; al contrario nel quarto stato un'attenzione impeccabile domina un'identica fusione dei
tre stati e, proprio perché è perfettamente avvertita,
avverte la loro compenetrazione: l'illusorietà del
reale e il fatto che sia fondato sul nulla.
Questa dottrina a p p a r e assai più nitida in un ambiente dove sia frequente la transe (in India e in
Cina, in Siberia, nell'Africa e America indigene) o
dove si appunti l'attenzione al sonnambulismo, specie degli adolescenti, d u r a n t e il quale si agisce da
svegli nel pieno d'un sogno dominante, si ha la
compiuta percezione del luogo dove ci si muove e
tuttavia del sogno si resta preda. Ricco di spunti in
questo senso è il coma, ma c'è una forma di delirio
che passa inosservato, tuttavia è frequente dovunque, salvo che nessuno se ne rammenta: quello esibito alle adunate e sfilate politiche o sindacali o nelle
marce militari, in cui domina la transe, o quello
manifestato nei discorsi a vasti collettivi o comunque
declamati con l'anima a fior di pelle o nel pieno d'un
furore, nei quali l'oratore si mostra alla mercé dei
suoi scatti e delle sue torsioni, travolto dalle scariche verbali. Ci si p u ò d u n q u e facilmente accorgere
del trasfondersi da uno all'altro dei tre stati, avvedere che quasi mai prevale di netto u n o dei tre.
Alla quarta dimensione, dice Gaudapàda, ci si
ridesta. Non è d u n q u e un'acquisizione graduale,
f r u t t o di riflessioni, ma u n a catastrofe nel senso che
44
ora si dà al termine, u n a caduta improvvisa: un
rendersi conto di ciò che in f o n d o sempre si è saputo. Il ridestarsi a noi noto è il passaggio dal sonno o
dal sogno alla veglia: comporta la lucidità che ci fa
capire l'illusorietà dei sogni o la nullità del sonno.
Ridestarsi significa acquisire l'attenzione più netta
come per d o n o o per grazia, tanto che « g r a n d e risveglio » si chiamò la conversione subitanea seguita
in tante comunità alle prediche metodiste di Wesley
in Inghilterra, per diffondersi quindi nell'America
puritana. « Risvegliato » si chiama il Buddha, che è
ma non si può afferrare, che è « venuto così ». Nella
teoria buddhista si espone nei particolari il sorgere
improvviso del risveglio, che può essere generato
dalla contemplazione d ' u n oggetto di somma bellezza e straordinariamente evanescente o da u n gioioso
trasalimento. Il buddhismo elenca sette fattori che
agevolano lo scatto se accompagnati dall'arresto delle cause viziose. Il settimo e supremo fattore è l'imparzialità, che tramuta in spettatori divini e imparziali del d r a m m a cui f a n n o da palcoscenico le individualità nel loro insieme, la nostra inclusa. Si sta
estatici dinanzi alla bellezza, ma un trauma può
improvvisamente rovesciare quella contemplazione
estetica nella consapevolezza dell'Uno; Coomaraswamy annotò questo processo via via nel buddhismo, nell'islamismo sufico, in Agostino e Meister
Eckhart, ma ne indicò la più perfetta espressione nel
Prema Sàgara, dove Krsna m o r e n d o m a n d a un messaggio alle pastorelle innamorate: cessino di pensarlo da ora in poi come un uomo, riconoscano in lui
un dio e ricordino che come tale è immanente in
loro. A questo punto le pastore si ridestano.'
Gaudapàda insegna che questo ridestarsi porta ad
accorgersi che la personalità ( jìva: il vivente, distinto
dall'essere universale, jivàtman) è un'illusione. Egli
1. A . K . C o o m a r a s w a m y , « Samvega-, lo shock e s t e t i c o » , in II
grande brivido, A d e l p h i , Milano, 1987, pp. 169-75.
45
usa la metafora del serpente che ci spaventa, ma che
si rivela come una semplice corda allorché ci accostiamo; del pari avvicinandoci con la meditazione a
ciò che ci sembra la nostra personalità, ci si accorge
che è soltanto una combinazione fortuita di elementi
transitori. Acquisita questa certezza, ci avvieremo
nel m o n d o inerti, senza lodi né saluti né riti, agendo
come l'occasione richiede: liberi. Saremo un'attenzione esente da ogni costruzione mentale. Ma questa, osserva Gaudapàda, non è nata e non può morire e fa tutt'uno col suo oggetto, l'essere (brahman),
che neanch'esso è nato o può morire.
Che l'essere, il nesso fra percepito e percipiente,
non possa essere mai nato non è certo una verità
ignota fra noi, poiché la a f f e r m a n o tutti coloro che
mai tentarono di a f f e r r a r e l'idea d'un inizio dell'essere e del mondo. Aristotele considerava senza origine il m o n d o e definiva il tempo come rapporto
fra un prima e un poi, Filone giudicò necessaria la
coesistenza di tempo e mondo; il tempo, non essendo altro che uno spazio misurato dal movimento del
mondo, nasce con esso o d o p o di esso. Agostino
nella Città di Dio ripete che il tempo consta sempre
d ' u n prima e d'un poi, sicché all'inizio non poteva esserci tempo, poiché non esistevano i moti che
scandendolo lo suscitano.
T e m p o proviene nelle nostre lingue da « tendere » o « tagliare » o fors'anche da « rimescolio e accordo fra elementi»,' sicché sempre vi è implicita
l'idea d'un atto u m a n o che lo determina. Quest'atto
Kant lo attribuiva a ciò che fantasiosamente denominava « io trascendentale »; comunque lo escludeva dai caratteri intrinseci della realtà. Di fatto è
un'aggiunta nostra a ciò che percepiamo, ma rendercene intimamente conto non è facile, implica
conseguenze sconvolgenti, liquida i nostri più con1. G. M a r r a m a o , Kairòs. Apologia
1992.
46
del tempo debito, Laterza, Bari,
naturati errori e ritengo faccia aderire all'Advaita
Vedànta.
Si può avvicinare il concetto di Gaudapàda anche
da un'altra prospettiva: la creazione non regge come
atto avvenuto nel tempo, varie metafisiche l'hanno
considerata invece un atto continuo, ininterrotto,
sempre presente, che capovolge il non essere in essere. Non rimane d u n q u e che accettare l'idea dell'eterno presente quale definizione del percepito: soltanto
l'istante è, la molteplicità di stati non esiste perché è
sempre soltanto una proiezione dell'istante.
Dunque nella misura in cui ci si liberi dall'io per
diventare pura attenzione, senza costruzioni mentali
aggiunte (come l'idea a p p u n t o dell'io o del tempo),
si cessa di essere nati, ovvero limitati dalla condizione d'essere stati partoriti a una certa data da una certa madre. I praticanti di Vedànta infatti esortano a
rendersi conto di non aver nessun ricordo della
nascita, di essere sorti come facoltà di pensare assai
più tardi: di non avere nessun nesso necessario con
quell'atto di procreazione nella misura del nostro
retto pensare.
Gaudapàda aggiunge che nel sonno la mente si
oblia, ma nel momento dell'attenzione pura che risplende a mente soppressa, ovvero avendo estirpato
tutte le costruzioni mentali arbitrarie di cui ci serviamo quotidianamente nello stato ordinario, la luce
emana da noi come p u r a attenzione ed è effusa da
ogni lato, sicché non ci si distingue più da brahman,
che a questo punto significa soltanto « essere ».
Si è non nati, privi di sonno o sogno, senza nome
né forma, onniscienti. Ci si trova in u n o stato di
totale concentrazione (samàdhi) estatica, al di là del
linguaggio e del pensiero analitico: calmi, imperturbabili, luminosi, senza paura. Volendo, si può sottolineare che la paura viene in f o n d o all'elenco, forse
perché ne è il punto principale e primordiale: tutta
la costruzione mentale in cui di solito si è imprigionati nasce soltanto dal timore di essere l'essere. Non
47
si pensa a oggetti separati da noi o distinti dalla
nostra persona: l'oggetto è in noi o non lo conosciamo, ma accumuliamo soltanto accostamenti mentali
e parole definitorie, senza comprenderlo; viceversa
se si è concentrati in noi stessi: si è estatici, equanimi
e comprensivi.
Gaudapàda dà anche qualche consiglio per trasporsi in questo stato di beatitudine: basta regolare la
mente, r a m m e n t a n d o buddhisticamente che tutto è
sofferenza; la mente se acquietata va ravvivata, se
distratta va pacificata, se contratta (sakasàya) va compresa, se equanime va mantenuta tale.
Q u a n d o l'attenzione ci assorbe interamente, non si
lascia distrarre da progetti o da immagini, coincide
con brahmani è indipendente, calma, quieta (sanirvàna), posta di là dal linguaggio e dai giochi di metafore, beata, non nata, onnisciente perché in presenza
dell'Uno, identica al suo oggetto, brahman. E siamo
liberi di leggere la parola semplicemente alla maniera filosofica come « essere » o alla maniera vedica.
Il passaggio da G a u d a p à d a a Sankaràcàrya si opera semplicemente introducendo un nuovo concetto:
la sovrimposizione (adhyàsa), definita da Sankaràcàrya come apparenza (àbhàsa) in forma di memoria
o p p u r e come apparenza di proprietà di u n a cosa in
un'altra. O f f r e d u e metafore: la conchiglia a p p a r e
argentea perché la qualità argentea le è stata sovrapposta, la luna appare doppia perché le è stata sovrapposta la duplicità. Così sovrapponiamo allo spazio
l'azzurro e lo chiamiamo « cielo ».
Chi volesse scoprire come questa filosofia si attui
oggigiorno in tanti angoli dell'India, vederla nella
sua pratica gioiosa al cuore delle attività quotidiane,
non ha che da leggere u n o dei tanti libri che sono
stati ricavati dalle parole liberatorie d'un tabaccaio di
Bombay, Nisargadatta Mahàràj.'
1. I arri That, C h e t a n a , B o m b a y , 1 9 7 3 (trad. it. Io sono Quello,
voli., Rizzoli, Milano, 1 9 8 1 - 1 9 8 2 ) .
48
2
Ma le aree dove si è diffuso lo zen possono offrire
esempi analoghi. Zen è semplicemente la traduzione
del sanscrito dhyàna, che proviene da dhi, parola che
Gonda ha spiegato come semplice visualizzazione
illuminativa assai vicina a brahman. Anche nello zen
si esorta a eliminare l'idea della nascita, che sta all'origine di buona parte dei nostri errati pensieri: basterà eliminare questa nozione e si sarà liberi. Ci si
r e n d e r à conto d'essere noi a proiettare il tempo
sulla realtà, e automaticamente si saprà di coincidere con l'essere. In giapponese non-nascita si dice
musho (mu è la negazione); Dóghen insegnò che musilo non è un'illusione, ma un fatto. 1 Se non viviamo
come individui separati e autonomi, ma come semplice attenzione, di nascita non abbiamo nessun bisogno. E soggiunge che se « abbiamo avuto l'illuminazione », significa che prima non la si aveva, e se di
fatto non si è più come prima, bensì liberi, non si ha
più bisogno d'illuminazione. « Sedere zen » significa
che passato, presente e f u t u r o non si distinguono
più l'uno dall'altro: « c'è chi l'ha capito vedendo
sbocciare dei fiori di pesco o u d e n d o il saltellio
dell'acqua nel torrente o a f f e r r a n d o la sabbia o un
sasso » dice Dóghen, per far intendere che capire è
un accorgersi semplicissimo, uno scarto di illusioni
che mostra la verità. Così tutte le cose appaiono
immutevoli sotto il profilo della continuità e tutte
sono mortali sotto il profilo della distruzione, ma
non di per se stesse, poiché se le vedo per davvero,
le assimilo in me e come p u r a attenzione mi trasfondo nell'essere come tale. Musho significa senza morte, eterno, illimitato. È soltanto l'io che muore, dire
« io » significa votarsi al decesso per il fatto stesso
che ci si identifica con qualcosa che ebbe a nascere.
Al m o m e n t o in cui si pratichi questa costante,
semplice, facile, agiata liberazione, i Veda, dai quali
1. D ó g h e n E i h e n , Shóbóghenzó Bendòwa (trad. it. Il cammino
gioso. Bendòwa, Marietti, G e n o v a , 1992).
49
reli-
essa prese nascita in tempi remoti, diventano privi di
importanza, come insegna Sarikaràcàrya, sono basati sulla mancanza di conoscenza (avidyà), sovrappongono casta, età, attributi dipendenti dai rapporti umani col corpo e con gli organi, sul testimone ovvero
sull'attenzione, che si scambia per u n agente, per un
goditore. Per liberarsi da questa sovraimposizione,
basta studiare il testo p u r a m e n t e logico d'un maestro vedantico o ascoltare, se la f o r t u n a assiste, un
maestro fra i tanti che senza chiasso, talvolta con un
semplice sorriso o o f f r e n d o un fiore, divulgano la
verità in India o nel Giappone, in Birmania o in
Thailandia.
Ridestarsi significa avvedersi che le « realtà » della
veglia e le fantasie del sogno sono parimenti illusorie, che l'individualità non esiste, come, avendo ved u t o un serpente, rendersi conto che è una corda. Il
nostro io, la nostra individualità è quel serpente.
Questa verità così semplice e strabiliante arrise via
via a coloro che seppero staccarsi dalle parole, dall'umanità, dalla nascita. Un poeta ebbe la costanza sublime di arroccarsi in questa verità, Fédor
Tjutcev, sprofondato in una natura cui sono estranei i nostri anni-fantasmi: noi se ne è il sogno e si
potrebbe in lei cantare come i flutti marini, sapendo
che non esiste e nulla sa. Tjutcev meditò su
Pensiero dopo pensiero, onda dopo onda,
Due manifestazioni d'uno stesso elemento!
Sempre lo stesso fantasma inquietante-vuoto!
Si vide nella sequela dei blocchi di ghiaccio scorrenti lungo il fiume come sull'abisso, contemplò i
propri sogni e sentimenti scoprendo che il cuore è
per essenza inesprimibile e « ogni pensiero espresso
è menzogna»: a scavare si intorbidano le fonti alle
quali occorrerebbe bere e tacere, sicché: si ascoltino i
pensieri oscuri, interiori, in rigoroso silenzio.
50
LA LUCE
In tante maniere si p u ò parlare della luce. Squadernandole, alla fine si rimane convinti che ogni
parola è caduca e la stessa percezione della luminosità, così chiara, la più chiara possibile, si appanna.
Questo è lo schema di una completa meditazione
sulla luce, che incomincia con un entusiasmo esultante, q u a n d o ci si accorge che l'intera concezione
del m o n d o ne discende. Così ne scrìvevo in un vecchio libro:
« Vivere è assorbire luce. Si guardino le verdure
negli orti. Prima di verdeggiare erano celate, virtuali, nel seme. E che cosa r e n d e seme un d u r o e ruvido
granello? Che cosa r e n d e seme il seme? Il bisogno di
luce, il quale, per poco che possa, esplode fuori da
quella scorza. Il seme è un bisogno di luce, la verdura
è quel bisogno che si appaga. Mangiando le verdure,
cuocendole e distillandole nello stomaco, l'animale
ne estrae un'essenza che assimila a se stesso, sicché, al
colmo dell'interna cottura e distillazione, esse diventano parte dell'animale che vede la luce, diventano
visione di luce.
51
« La vita sulla terra è luce che ritorna luce.
« Come potrebbe, la luce che illumina il mondo,
non essere lume a se stessa come è lume a noi? E noi,
q u a n d o si giunga ad abbracciare l'intero ciclo della
luce, q u a n d o si sia cioè illuminati, siamo il luogo dove
la luce torna a se stessa e sa di tornare a se stessa.
Osservando da illuminati il pane che si mangia, vi si
riconosce il sole che l'ha estratto dal grano, e se siamo
ciò che mangiamo, siamo luce che vuol tornare se
stessa, a se stessa.
« E questo il segreto che muove la vita intera.
« L'uomo trova pace e senso soltanto n u t r e n d o
in sé questa conoscenza, mangiandola. E se altro va
cercando, insegue sotto false specie questa visione.
« Annotò Leonardo:
« "Guarda il lume e considera la sua bellezza. Batti
l'occhio e riguardalo: ciò che di lui tu vedi, prima
non era, e ciò che di lui era, più non è.
« "Chi è quel che lo rifa se '1 fattore al continuo
more?".
« Ecco un buon avvio a maturare dentro di noi
l'opportuno stupore dinanzi alla luce, che genera e
spazio e tempo, la cui natura è imperscrutabile, come
quella di Dio che sacrifica ininterrottamente Se stesso a Se stesso ».
E p p u r e questa esultanza è soltanto una prima maniera di accostarsi alla luce.
Osservava infatti Böhme che l'abisso delle tenebre è vasto quanto il dominio della luce: i d u e non
sono distanti, ma compenetrati. Si noti che in quasi
tutte le iniziazioni sacerdotali, dal Tibet al Dahomey,
vige l'abitudine di rinchiudersi in un ambiente privo
di luce: soltanto immergendosi nella tenebra si può
sperare di raggiungere una conoscenza della più
vera luce, distinta da quella che ci circonda d u r a n t e il
dì. Sempre si è adorato, contrapposto alla fonte maggiore della luce, il sole nero, ed esso era l'emblema
della malinconia, che scavando in noi in maniera
52
disperata e ossessiva apre la strada a conoscenze
profonde. Si scopre che della tenebra è possibile
stendere un panegirico non meno rapito di quello or
ora citato alla luce. Fulcanelli ce ne provvede uno dei
più persuasivi e intensi. Soltanto nell'assenza totale
di luce, egli scriveva, la fecondazione scatta, la germinazione scaturisce, la digestione si compie. Soltanto
di notte si ergono ai piedi degli alberi i popoli di
funghi, mentre la mente umana si annulla e rinnova.
Guai a lasciare che la luce piova su uova fecondate:
ne nascerebbero pulcini offesi o intormentiti. E i
minerali nascono anch'essi nel buio e le loro trasformazioni chiedono spesso l'assenza di luci, alla luce
cloro e idrogeno scoppiano. Fausta, amica è la tenebra, ci riporta alla matrice ospitale, le vanno lodi
fervide come quelle alla luce.
Si è rinviati a ciò che della luce e della tenebra
concepirono i vari popoli, a cominciare da quello che
ci o f f r e la più antica tradizione in Occidente, Israele.
Nel Genesi luce e tenebra sono create insieme da
Dio, che dichiara « buona » la luce. Ma esistono due
luci, la prima, misteriosa, creata il primo giorno,
l'altra, che coincide con quella a noi familiare, creata
il quarto giorno, col sole e la luna. Sulla diversità di
queste d u e illuminazioni si è discusso a non finire e il
mistero intriga ancora. Forse l'ebraismo desunse
questa duplicità da Babilonia, se anche neWEnuma
Elìsh (IV, 138) compare questo concetto interpretabile in sconfinate maniere. I commenti rabbinici definirono la prima luce, a noi invisibile, come lume
tale da consentire di vedere da un capo all'altro del
mondo. Ma esso è oggi celato; Dio lo mostrerà soltanto alla fine dei giorni, e sarà uno fra gli elementi
maggiori della palingenesi. Ora di quella luce primordiale è ammantato Dio, essa fa tutt'uno con la
sua maestà e magnificenza. Sarà d u n q u e di essa che
si coglie un barbaglio nell'elevazione mistica?
Nella Qabbàlàh si dice che la luce del primo giorno
53
era stata « già sigillata e incisa prima [della sua manifestazione] nel segreto dell'aria [la prima sephiràh di
Dio] » (Le Zohar, voi. I l i , Paris, 1991).
Nella Qabbàlàh tarda si dirà che Dio emana il
m o n d o restringendosi su se stesso, liberando, svuotando uno spazio. Lo fa su due linee distinte, l'una di
luce irraggiante via via sapienza, misericordia, vittoria, qualità femminee, e un'altra, opposta, di luce
soverchiarne, accecante, nera, fatta via via di conoscenza, violenza, gloria, qualità virili. Questa opposizione tra luce e tenebra si può comporre nell'androginia di bellezza, fertilità e regno.
Una delle più profonde riflessioni sulla luce a partire da questi archetipi si trova in un commento a
Menaham Recanati, opera del 1558 di Yehudah Hayat
(citato nei Textes de la Gabbale di Mopsik). Vi si dice:
come il corpo emana dall'anima, così irraggiano dalla luce di Dio gli archetipi, essi « sono come la luce
dell'occhio che dall'occhio emerge: nulla è la luce,
ma grazie ad essa l'oggetto che essa fa vedere è appreso dalla rappresentazione del pensiero nel cuore
e la forma si disegna nel cuore dell'uomo per la forza
dell'immaginativa ».
Ma ai testi non va concessa un'attenzione esclusiva:
i cabbalisti meditano sul fuoco che arde un legno, in
cui si distingue la parte inferiore, la radice nera che
s'abbranca al legname divorandolo, per poi espandersi nel rosso dei crepuscoli, affinandosi in ultimo
dal giallo al bianco, fino a sparire. Ma da invisibile
arde con furia.
Nella pratica ebraica si festeggia la « dedicazione »
proprio accosto al Natale dei popoli prima pagani,
che celebravano il genetliaco del sole, e poi cristiani,
che vi h a n n o posto la nascita del Cristo. Gli Ebrei non
si concentrano sulle linfe che ora cominciano a risalire per i calami, ma sulla luce che scoppiò allorquando Mosè dedicò l'altare a Dio, e accendono candelabri sui quali fiammeggia una luce sotto la quale nessuma opera profana si può eseguire.
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La luce, elemento creato e duplice per gli Ebrei,
per i cristiani è Dio. La radicale diversità si annuncia
all'inizio del Vangelo di Giovanni, dove la luce è
consustanziale con la Parola che è Dio e in Dio.
Mercé la Parola ovvero la luce, tutto fu fatto « all'inizio », cioè nel corso della creazione. La luce tuttavia,
si dice, non è compresa dai malvagi. I teoreti della
cristianità si chinarono su queste dichiarazioni enigmatiche e gnostiche, ricavandone il concetto di Dio
come trinità. In Dante tutto è esposto con soave
melodia:
ché quella viva luce che sì mea
dal suo lucente, che non si disuna
da lui né da l'amor ch'a lor s'intrea,
(Par.,
xiii,
55-57)
Dio è il lucente o Padre, la luce che ne sgorga è il
Figlio, fra loro è l'amore o Spirito. Da questa trinità
tutto procede e si spiega, secondo disse Beatrice:
Io veggio ben sì come già resplende
ne l'intelletto tuo l'etterna luce,
che, vista, sola e sempre amore accende;
e s'altra cosa vostro amor seduce,
non è se non di quella alcun vestigio,
mal conosciuto, che quivi traluce.
{Par.,
v,
7-12)
Come è possibile conciliare il Genesi, che p u r e è
adottato dai cristiani, con le parole di Giovanni? La
luce f u creata da Dio o è Dio? Al dilemma dovettero
pensare con angoscia i teologi cristiani, non è dato di
eludere la contraddizione. Alla fine del secolare conflitto si giunge all'ultimo tentativo, nel quale il divario è esposto con onestà e senza speranza di spiegarlo, il Paradiso perduto di Milton.
Esso principia dall'inferno come fornace le cui
fiamme tuttavia non spandono luce, bensì « un'oscurità visibile ». Oscuro ossimoro! Sarà qualcosa di simile alla tenebra in cui volano coi loro radar i pipistrelli? Certo è una tenebra colma d'angoscia, in cui
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nessuna visione si accende, da cui nessuna fronda
può trarre verzura.
Dopo d u e canti immersi in questo buio, il terzo si
a p r e con u n grido festoso, un'esplosione di luce:
Haìl, holy light!
Salve, sacra luce! Sacra è la luce primordiale perché
primogenita, direbbe un seguace del Genesi, ma un
cristiano la vede invece come un « raggio coeterno
dell'Eterno », essendo Dio luce e lucente. Nel dilemma Milton si trova irretito: la luce (avrebbe dovuto
aggiungere, la luce primordiale, che non ci è dato di
vedere) è of heaven first born, primogenita fra le creature, come aveva detto Roberto Grossatesta: prima
f o r m a corporea. Ma potrebbe anche essere of th'Eternal co-etemal bearti, raggio coeterno dell'Eterno.
Milton parla delle d u e possibili interpretazioni
della luce e non osa dirimere il contrasto.
Ma subito innalza un canto disteso e melodioso:
« Dio è luce e fin dall'eternità ha sempre dimorato
nella luce inaccessibile, effusione di brillante essenza
increata. O si preferisce sentir parlare di una corrente eterea la cui sorgiva è indescrivibile? Prima del
sole, prima dei cieli tu luce fosti e alla voce di Dio
avvolgesti come un mantello il m o n d o delle acque
oscure e p r o f o n d e che sorse strappato al vuoto infinito e informe ».
Credo sia lecito e giusto dire che la melodia maestosa di Milton copre u n a confusione insanabile,
sommerge nella sua piena l'inconciliabilità del Genesi
e del Vangelo giovanneo.
All'inizio delle riflessioni cristiane apparve un testo sublime, la Theologia mystica dello Pseudo-Dionigi,
assunta tra i documenti fondamentali. Da essa presero avvio innumerevoli meditazioni mistiche.
Parte da Dio come trinità, ma ne tratta con un
rigore da metafisico ebreo:
« T u sei al di là dell'essere, del divino, del bene ».
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Ci costringe così in a p e r t u r a a un regresso al di qua
di questi concetti sui quali siamo fondati, sbarazzati
dei quali possiamo dire di trovarci a cospetto del
nulla. Se siamo in grado di reggere alla spoliazione,
ci troveremo in una caligine luminosa, in un silenzio
parlante, nella luce inaccessibile, supereminente
in cui si dice che dimori Dio. Dionigi soggiunge:
« Q u a n t o più fitta è la tenebra, tanto più risplende e
altamente irraggia; quanto più è impalpabile e invisibile, tanto più inonda di mirabili splendori le menti
senza sguardo per le cose sensibili ».
Siamo fuori della logica, non importa nemmeno più dirimere il contrasto fra Genesi e Vangelo di
Giovanni. Ma soltanto a patto di avere esperienza del
nulla, del vuoto.
Per lo Pseudo-Dionigi e per i mistici che lo seguir a n n o Dio è caligine raggiante, al di là dell'essere,
dell'anima, dello spirito, della parola e del pensiero.
Come conciliare questa premessa alla comprensione
di Dio mediante la dottrina della trinità con l'ufficio
del Verbo, con l'intera concezione dell'azione divina
nella storia?
Lo Pseudo-Dionigi conclude: « Precisiamo infine
quest'ultima cosa, né affermazione né negazione sono degne di lui, che anzi, sia che si possa affermare,
sia che si possa negare, noi nulla affermiamo o neghiamo di lui ».
Quale assurdo, a questa altezza, discorrere della
luce come diretta emanazione da Dio, come luce di
Dio! Né la Chiesa cristiana ammise mai apertamente
la possibilità di una dottrina esoterica, salvo forse
talvolta in Oriente, unico modo di salvare la concezione rigorosa, pseudodionisiana, accanto al comune
discorso teologico.
Sopravvisse nella storia cristiana una dottrina antica: luce sarebbe il quinto elemento, dopo terra, acqua, aria, fuoco, e avrebbe un carattere seminale,
procreativo e compaginante, servirebbe a connettere
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l'anima al corpo. La luce in questa prospettiva diventa sinonimo di seme, etere, connettivo. Questo quinto elemento sarebbe celato nella materia e l'alchimista riuscirebbe a estrarlo; sarebbe un punto inesteso
che e m a n a n d o forma una sfera, per poi tornare alla
sua originaria inestensione. I vari oggetti del mondo
sono imbevuti di questa forza o forma esemplare in
misura varia e graduata.
Nella versione platonica la luce visibile è una propaggine della più vera luce, quella puramente intellettiva, che finisce per coincidere con l'uno. Dall'uno
emana l'essere o luce visibile.
Il pensiero iranico faceva risalire tutto l'universo
alla forza connettiva e travolgente, che s'incarnava
soprattutto nel re sacrale. Il re vittorioso sparge attorno a sé una luce che tutto ravviva o spegne, ed essa
risiede originariamente nel cuore regale. Si chiamava, questa gloria, xvarsnah, parola legata a hvars, sole. La radice indoeuropea da cui originano queste parole è suel, la stessa da cui discende il nostro « sole »
o il sanscrito svar, luce. Seguiamo questa via glottologica che casualmente si a p r e e rechiamoci in India,
dove il cosmo ha inizio allorché Siva scorge e onora la
sua Sposa T r e m e n d a , distesa sterminata di luce abbagliante, sorta di colpo, senza causa. Alla luce furono dedicate meditazioni accuratissime, distinguendo
la luce del giorno da quella più fina che origina dalla
mente stessa e delinea le figure dei sogni. E la luce
primitiva, rispetto alla quale la luce cruda e abbagliante della veglia a p p a r e come una violenta illusione. Illusione è a rigore anche la luce onirica, ma di
grado minore. La Brhadàranyaka Upanisad (4, 3) spiega che l'intelletto emana l'essenza della luce, il p u r o
fulgore (jyotis), e in essa si cela l'essere (àtman). A
distanza di secoli queste riflessioni appaiono ancor
più convincenti: sappiamo che onde, esigua porzione dello spettro elettromagnetico, lambiscono le nostre retine e sono tramutate in immagini. Fuor della
mente esistono soltanto queste onde minime che fan58
no generare dalla nostra mente il m o n d o luminoso,
ma la luce emana da noi e la sua forma prima crea i
sogni, indipendenti da queste sollecitazioni esteriori.
Sempre nella Brhadàranyaka Upanisad un re discorre
con un sapiente ed estrae nel più semplice dei modi
la dottrina della luce. « Qual è la luce che muove
l'uomo? » domanda, e il saggio risponde: « Prima il
sole e, quand'esso manchi, la luna e q u a n d o anch'essa manchi, il fuoco». Ma senza nessuno di questi
lumi esteriori, da che cosa sarà mosso l'uomo?
Da un discorso che gli dia luce. E q u a n d o non
risuoni neanche un discorso? L'uomo allora si reggerà nel buio e nel silenzio, mercé il suo semplice esserci: la luce coinvolta nei soffi che lo reggono, emananti dal cuore, vera fonte d'ogni luce. Luce nera.
Ma già nei testi vedici, in forma mitica, queste
certezze erano state formulate. Tuttora nei riti vedici
esse tornano a illuminare l'induista fedele. Giorno e
notte sono un androgino direttamente emanato dalla Voce del cosmo. Come rappresentarsi il cosmo?
Con una parola che non ha altro significato, AUMm.
O nella forma della luce come occhio e fuoco congiunti e fusi. I trattati di meditazione insegnano
come estrarre da A U M m il cosmo. Si rappresenti
AUMm sul proprio cuore, come loto inclinato. Si
figuri di operare su questa forma, sollevandola.
Quindi le si guardi dentro. Dovrebbe emanare una
luce e al centro di essa la lettera A (che figura il disco
solare e la veglia). A p p r o f o n d e n d o si deve veder
emergere U (il disco lunare, il m o n d o dei sogni), più
vero. Si continui ad a p p r o f o n d i r e e sorgerà M, il
sonno senza sogni. Chi sappia spingersi ancora oltre,
addentrandosi nella tenebra assoluta, in una specie
di catalessi o consapevolezza nel sonno, in u n o stato
di completa liberazione, vedrà la lettera « m », il vago
mormorio in estinzione, l'essenza della luce nera.
Questa luce nera sta sotto ogni fulgore nella tradizione più p r o f o n d a di ogni popolo. Può essere utile
osservare come ci si arrivi nella filosofia islamica, alla
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cui soglia incontriamo una concezione che potrebbe
sembrare ingenua, in cui Dio appare come luce.
T u t t o origina in un mirabile passo del Corano
(sura XXIV):
« Dio è la luce dei cieli e della terra e si rassomiglia
la sua luce a una nicchia in cui è una lampada e la
lampada è in un cristallo e il cristallo è come una
stella lucente e arde la lampada dell'olio di un albero
benedetto, un olivo né orientale né occidentale, il cui
olio per poco non brilla anche se non lo tocchi fuoco.
E luce su luce ».
Forse il massimo commento è quello di al-GhazzàII: la nicchia è la sensibilità dell'uomo, la lampada è lo
spirito profetico e il fuoco è lo spirito divino, illuminativo. Soltanto Dio stesso è in se stesso luce. Q u a n d o
questa luce cala nel cuore, sfolgora la lampada. Il
cristallo è l'immaginazione, che va purificata e corretta, finché non divenga p u r a trasparenza immaginale degli archetipi cosmici. L'albero invece è lo
spirito ragionante, l'olio che se ne trae è lo spirito
profetico.
I m p r e g n a t o di Plotino, al-Ghazzàli dice che la parola luce data a cosa diversa da Dio è metafora senza
realtà. La parola luce ha varie accezioni: nella più
volgare essa designa ciò che è visibile e rende visibili
altre cose, come sole, luna, fuochi; nella seconda
accezione, propria di chi abbia una certa elevatezza,
luce designa la facoltà visiva. Ma esiste una terza
significazione, veridica: la luce è la facoltà intellettiva
che tutto discerne: l'occhio merita di chiamarsi luce
più della luce, l'intelletto ancor più dell'occhio, poiché alla fin fine la luce è Dio. Memorabile è anche il
commento di Sultàn Walad, il figlio di Jalàl ad-DIn
Rumi: la lampada del passo coranico è l'essere del
santo, l'olio è il suo cuore, dove Dio risiede e di lì
emana la luce che illumina gl'intelletti e quindi ravviva ogni cosa.
Ma forse f u al-Suhrawardl il filosofo che seppe
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parlare con la massima esattezza e poesia nel Racconto dell'Arcangelo imporporato.
Dov'è la fonte di vita? Egli si d o m a n d a e risponde:
Mettiti i sandali di Elia profeta e avviati fiducioso là
dove si ha una piena coscienza della tenebra. Quando di tenebra sarai circondato e serrato, q u a n d o
sarai confitto nella notte, avrai fatto il primo passo.
Seguiranno stupefazioni e strazi, poiché da questo
punto di vista la realtà si capovolge. Ma alla fine
attingerai la fonte e lì scorgerai il lume. Non scappare, ma bagnati in quella luce. Dopo non potrai più
essere colpito o insudiciato. Immergiti in quella luce
e dirai:
Dinanzi a me le letture si allontanano
Presso di me i sensi si aguzzano.
Si potrebbe recitare anche un altro passo di alSuhrawardl:
Eleva la salmodia della luce,
Soccorri il popolo della luce,
Guida la luce alla luce.
Da queste premesse parte tutta una trafila di cercatori di luce nella tenebra, a cominciare da Najm
ad-DIn Kubrà, che esorta a chiudere gli occhi e a
vedere così finalmente la luce: « Puoi vedere, ma
l'oscurità della tua natura ti sta così addosso, che
t'impedisce la vista interiore. Se vuoi vedere la luce
tenendo gli occhi serrati, comincia con l'allontanare
o diminuire qualcosa nella tua natura »: occorre lottare per diminuirsi o eliminarsi, ma alla fine la nube
nera del male si muta in rossa e infine sbianchisce. Al
culmine irradia una luce verde, che proviene dal
cuore. Così nella filosofia persiana risorge l'idea, così
diffusa in Oriente, d ' u n a luce smeraldina della conoscenza; anche il buddhismo tantrico himalayano ne
parla e la vede in f o r m a di una fanciulla di color
verde o di fulgida scrofa, traghettatrice verso la liberazione.
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Un allievo di Kubrà, Najm ad-DIn Ràzì, parlò
ancora più a f o n d o dei colori: primo si accende il
bianco dell'abbandono, segue il giallo dell'orazione,
il turchino della benevolenza e infine il verde dell'anima pacificata. Lo stesso verde di cui parlava Kubrà, ma RàzI aggiunge d o p o di esso la luce glauca
della certezza spirituale e quella rossa dell'intelletto
attivo, divino. Infine prospetta la suprema, la luce
nera, settima e ultima tappa: l'amore estatico, il fondo entusiasta, ululante, scatenato, il cuore segreto
dell'anima. Nera, dice RàzI, è la maestà che incendia
e annienta, suprema teurgia, al di là dei sei colori,
dove pullula la fonte della vita. Su questa coincidenza del color nero con l'annientamento estatico di noi
stessi, mezzogiorno tenebroso, notte abbarbagliante,
parlerà anche Làhìjì nel Roseto del mistero.
E superfluo menzionare le notti mistiche d'Europa, specie secentesche, che p r o p o n g o n o la stessa
verità: dal nero assoluto ogni luce interiore sprigiona. Ma per raggiungere questa regione spirituale
suprema di tenebra totale, occorre intraprendere
un viaggio pericoloso. Osò parlarne con la massima
precisione Ibn 'Arabi, dicendo che per avviarsi occorre diventare come animali, spogliarsi della ragione umana, tenersi nei limiti della percezione d'una
fiera, che discerne gli archetipi supremi. Così in Ibn
'Arabi è ripetuto il messaggio costante di tutte le
civiltà sciamaniche. Lo stesso ci giunge ripetuto in
ogni regione sciamanica, dal Labrador di cui ci parlò
Rasmussen, con gli sciamani iglulik che si isolano
nella tenebra in attesa che luce erompa dalla loro
interiorità e intanto si trasmutano in tutte le fiere
della loro terra, fino al Tibet dove i romiti si facevano m u r a r e in celle buie fino a scordare la differenza
fra luce e tenebra, fino a che discernevano una
nuova, diversa luce e m a n a r e dalle loro viscere, o
nelle foreste del Gabon, dove ripetono l'insegnamento i seguaci dell'Ombouiri: grazie a un inebriante, Yiboga, accedono a un m o n d o di quiete e di gioia,
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colmo di verzura, corso da acque abbondanti, dove
non brilla il sole, ma dilaga una luce soverchiante e
amabile.
Nelle varie civiltà sciamaniche sempre si ripresenta la cosmogonia che p r e n d e inizio da un ritmo sonante nella tenebra, si articola a poco a poco in
musica e infine si accende in luce. Fra i Matsunaga
peruviani si dice che questa trasmutazione nodale
dal fremito sonoro alla vibrazione luminosa emana
dalle piume che o r n a n o il capo dello sciamano: lievi
sono le piume, quasi immateriali, fluttuano però,
ritmano, cantano col loro fruscio e sono d u n q u e la
premessa dell'accensione.
Questa genesi sempre p e r m a n e al centro del cuore
umano. L'Oro del Reno p r e n d e inizio a sala rigorosamente buia e a poco a poco si solleva l'onda dei suoni
fondata sul mi bemolle dei contrabbassi, finché al suo
culmine si occhieggia una cascata di flutti, un a r r u f farsi di foschie e in ultimo il q u a d r o risplende. T u t t o
si era composto nella mente di Wagner nel 1853,
q u a n d o nel dormiveglia si sentì sprofondare in un
rifluir d'acque che era un mi bemolle e quindi si destò
col terrore di trovarsi sommerso, ma anche con il
primo trepido annuncio della verità che la vita non
gli affluiva dal di fuori, ma gli emergeva dall'interno.
Il percorso normale dello sciamano è tuttavia ancor più vasto poiché procede anche dalla luce alla
tenebra risonante e quindi al buio silenzio generativo, centrale.
Questa varietà di luci che conducono al culmine
del nero ci torna negli ammaestramenti taoisti, che
insegnano a far fiorire l'addome oscuro; i maestri di
immaginazioni guidate visitavano paradisi dove alberi di vita e acque cristalline fornivano loro cibo e
bevanda che tramutavano il nero ventre in una girandola di luci. Essi assorbivano gli effluvi degli astri
finché generavano fanciulli di vario colore, il verde
del fegato, il rosso del cuore, il bianco dei polmoni, il
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giallo della milza, l'arlecchino della cistifellea e infine
il nero delle reni.
Nella gran diversità delle premesse metafisiche,
nella differenza del linguaggio, tutto il m o n d o tuttavia si mostra uniforme nell'insegnamento sulla ricerca della luce nel nero tenebroso che è fonte della vita.
Sciamani, sapienti indù, maestri platonici, sufi persiani ripetono unanimi queste verità frutti d'una meditazione intorno alla luce che ne abbia sondato tutti
gli aspetti.
Fra i moderni uno ce n'è che è stato vilipeso nella
misura del suo coraggio, Carlos Castañeda. In lui
tutto il vasto moto storico che s'intreccia intorno alla
luce si ripropone: egli invita a fare la tenebra fino a
che emergano in noi gli esseri circostanti in agglomerati di fibre luminescenti il cui disegno esprime la
loro natura profonda. Se impariamo a « sentire » gli
uomini come crisalidi di luce palpitante nella nostra
nera intimità, avremo imparato a vivere nella verità
più profonda. Vibrano, sussultano quelle crisalidi e
così comunicano. Nel tempio di Madurai nel Tamil
Nadu c'è una raccolta di disegni di yogin, che mostrano come a loro appare sullo schermo della fantasia la varietà degli esseri umani, schizzati come groppi di sentimenti che assumono certe figure: la loro
natura più intima. Castañeda ci parla d u n q u e di una
verità ben nota in civiltà lontane dalla sua. Se si
cancella la luce del sole e della luna e si piomba in
un'assenza radicale di luce, il p u r o lume della facoltà
fantastica ci disegna in filamenti trepidi e brillanti
l'essenza di ciò che ci sta d'intorno.
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OBLIATA « NATURPHILOSOPHIE »
Fra i tanti Musei della Scienza che il positivismo
edificò, il Deutsches Museum di Monaco resta nel
ricordo anche di un renitente al culto scientista. Non
perché abbia di proprio un qualche artificio pedagogico o una qualche spettacolarità singolari o perché
meglio sfrutti l'ingenua meraviglia per le conquiste
tecniche; per questi versi non so se la vinca sui musei
d'altre parti.
Si fa ricordare tuttavia per una modesta vetrinetta
che parla, goethianamente, dell'unità della natura.
Vi stanno in fila un pezzo di legno, un bicchier d'acqua, un g r u m o di pece, un minerale scintillante, un
cristallo di rocca.
Le didascalie invitano a rappresentarsi il nesso che
li congiunge, come perle d ' u n a collana.
Il cristallo è uno spazio attraversato dalla luce,
delimitato da piani precisi. Il minerale è un agglomerato, una frantumazione di cristalli minuti, sui quali
la luce si rifrange. Dalla materia peciosa, viceversa,
ogni cristallo è assente; ha perciò una forma plastica,
incerta: tende al liquido, all'assenza di forma, benché
mantenga una sostanza spaziale immutevole (« ein
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unveränderlicher Raumgehalt »). Il liquido a sua volta
è una tensione all'evaporazione, al gas che non ha
n e m m e n o più u n o spazio suo, delimitato.
T u t t o l'esistente, dal limite alPillimite, si ricapitola
nell'organismo vivo: i vari stati della materia sono
presenti nel legno, che racchiude anche l'aria nei
pori. T u t t o è compressione o dilatazione, polarizzazione.
Dalla stanza goethiana del Deutsches Museum ci
getta il suo sommesso richiamo l'unità primordiale
della natura, ci attrae la rivelazione del f o n d a m e n t o
d'ogni fenomeno.
Nel cuore dello spiegamento ferrigno, della scienza quantificata, quella stanza rammenta la possibilità
di osservare la qualità della natura con occhio commosso, cuore e mente congiunti.
Goethe insegnò a sentire nel molteplice l'unità
d'un unico etere imponderabile, polarizzato tra luce
e tenebra, sistole e diastole, espansione e contrazione. Da questo magnetismo e moto vibratorio tutte le
spirali della vita e m e r g o n o e si svolgono; ma esse si
a p p r e n d o n o e accertano soltanto se si vibra in consonanza, con amorosa rispondenza - cogliendo nelle
cose concrete il ritmo sottostante. Nelle più solide
f o r m e il nucleo è musicale, anche il Sole è nel Faust
una sonorità vestita di luce avanzante per il cielo. Per
chi si lancia e si immedesima nell'oceano delle sonorità colorate («Klangfarben »), per chi ode le pietre,
per lui il tempio della natura echeggia, ogni colonna
e triglifo canta:
Der Säulenschaft,
auch die Triglyphe
klingt.
Ich glaube gar der ganze Tempel
singt.
Questo ascolto della musicalità nei fenomeni è l'apice di una conoscenza amorosa che va acquisita a
grado a grado.
L'opera goethiana vi conduce, si può dire tutta
pedagogica. Come primo passo abitua a tenere congiunti due apparenti incompatibili: sentire e ragio66
namento, cuore e mente: la conoscenza deve essere
una mimesi esultante, un'identificazione patetica con
la genesi intima dei fenomeni. Protei e Taleti del
Faust (il, 821-22) esortano a cedere alla bella brama
di tornare ai princìpi della creazione:
Gib nach dem löblichen
Von vorn die Schöpfung
Verlangen
anzufangen.
H e r d e r ammirava una simpatia del genere verso
la natura metamorfica e una nel visnuismo, ma Goethe la potè imparare sulle pagine di Plotino che esortano a osservare come le cose si producano, immedesimandosi con la loro crescita, tracciando insieme al
Creatore nell'uomo il cerchio degli occhi fra orecchie
e narici, tendendo e attaccando alle ossa i muscoli,
conducendo per la carne le arterie, separando le
dita, allargando i piedi, innalzando la piramide del
cuore. Questa immedesimazione Goethe la chiama
con la formula di Spinoza: conoscenza intuitiva. Grazie alla conoscenza intuitiva (dice una lettera a Jacobi
del maggio 1786) non si crede in Dio, ma lo si vede,
cogliendo gli archetipi o attributi divini che sono
essenza, causa formale delle cose.
La causa formale delle cose è una divina impronta:
riconoscendola si scopre che il mondo non è composto di forme e materie morte, anzi si svela come
matrice vivente, Natura madre e vergine, eterna
femminilità. In un inno-saggio alla Natura che ritenne suo Goethe la chiama manifesta e imprendibile,
incessante divenire e costanza immobile, che sviluppa il gioco delle metamorfosi. Forse la natura pensa
ciò che opera, ma certo non in modo umano. Essa
gode a illudere, e colui che si disilluda punisce. Chi
confida in lei, essa stringe al cuore. E tutta nel presente, tutta amore e inganno. In un colloquio con
Müller Goethe soggiungerà: inconoscibile, ironica,
contraddittoria è la Natura. Provi a vederla come un
gioco chi ne subisce la serietà tremenda.
Le d o n n e ne sono simboli viventi.
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Chi s'accosta alla Natura con la scienza mimetica e
patetica goethiana impari dagli amanti, assimili la
loro pietà e devozione («Frömmigkeit »). Così potrà
provare la pace profonda che pervade l'amante accanto all'amata, pace così p r o f o n d a da c o m p r e n d e r e
in sé la gioia del dolore e l'inquietudine stessa, in una
sintesi ineffabile propria dell'alcova come delle celle
dove abitavano gli «Stillen im Lande», i mistici pietisti.
Accanto alla Natura come presso l'amata, si sappia
che il gioco amoroso è ingannevole e guai a non
lasciarsi ingannare, occorre bere alla coppa d'amore,
inebriarsi.
Da un lucido ed esaltato amore la natura si fa
conoscere.
Nel saggio su Winckelmann Goethe dice che l'uomo dapprima si protende verso il mondo, il sole, per
tornare quindi su se stesso, creandosi circolarmente
un proprio mondo interiore, come un'unità, un intero, ma infine esce da sé, riconosce frazionati nel
m o n d o esterno i simboli di ciò che ha dentro di sé,
provando esultanza («Entzückung »). Allora è come
se la realtà contraccambiasse, simile a una d o n n a
amata e riamante, perché egli la completa: a che fine
lo sfoggio di galassie e comete se non se ne rallegra
un uomo felice?
Le forze che tessono il m o n d o costui sente come
suoi antenati: godimenti e sacrifici diventano per lui
appassionati adempimenti di doveri d'amore.
A distanza di più d'un secolo Kafka criticherà implicitamente nel suo atto unico (Der Gruftwächter)
quella metafora goethiana degli antenati (« hohe Ahnen»), e un ciclo della storia spirituale si chiuderà.
L'artista che accetti d'essere un f edele d'amore alla
Natura ne fisserà soltanto i perfetti archetipi. La
perfezionerà, perché, simpatizzando, leggerà le sue
intenzioni divine.
Così operò lo scultore del Partenone. I destrieri
del fregio sono conformi a un'osteologia divina, sono
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archetipi del cavallo. 1 H a n n o , a differenza dei cavalli
ordinari, occhi sporgenti, ravvicinati alle orecchie, e
sollevano una testa che appare, dice Goethe, in grado sia di sentire d e n t r o di sé che di guardar fuori di
sé. Sono fulminei e intensi, quali un divino appassionato, amantissimo allevatore li plasmerebbe.
Ma come mantenersi nell'esultanza che vede simili
creature? Goethe segue un metodo: suscita attorno
alle cose un'aura luminosa, le aureola mediante una
particolare, tenace, incessante aggettivazione; come
l'innamorato loda senza tregua l'amata con rosari
d'appellativi, così Goethe dinanzi alla natura trascorre incessante dal tenero sussurro al grido d'entusiasmo. Basta una breve lettura goethiana a raccogliere
il rosario d'aggettivi sempre uguali: « sano, mite, allettante, leggiadro, delicato, grazioso, degno, splendido, beato, allietante, incantevole, smagliante, ardente, abbagliante, spumeggiante » (gesund, mild, lockend,
zierlich, zart, hold, würdig, prächtig, selig, segnend, herrlich, glänzend, glühend, blendend, schäumend).
E il salmodiante innamorato delle meraviglie di
natura si confessa, via via alzando la voce: « sereno,
ricco, augusto, gaio, allegro, bravo, risucchiante, giubilante » (getrost, reich, hehr, froh, heiter, wacker, saugend, jauchzend).
La litania è cadenzata da certi nessi costanti come «ottener favore, gioia», «aspirare a donazioni
e fiducia » (Gunst, Glück erlangen-, Spende, Vertrauen
erstreben).
Gli appellativi di questa lode perpetua s f u m a n o
l'uno nell'altro, si scambiano il posto a caso, come sfumature d ' u n o sfondo oro sempre uguale, ebbramente confondendosi. Così « sano » (gesund) in un tratto
del Faust può egualmente applicarsi via via a « luna » (Mond), a « pianta » (Pflanze), a « zampa » (Tatze).
1. M. Pavan, Antonio Canova e la discussione sugli « Elgin Marbles », in « Rivista dell'Istituto N a z i o n a l e d ' A r c h e o l o g i a e Storia
dell'Arte», XXI-XXII, 1974-1976.
69
Goethe crea un mondo che abbaglia col suo libero
gioco sensuale, attira il cuore umano a felici peccati:
blendet mit freien
Sinnenspiel,
verlockt das Menschenbrust
zu
heitern
Sünden.
Oltre che al giocondo peccare, questa modulazione porta alla conoscenza della natura. L'aggettivazione aureolante è forse più esclusivamente solenne in
Hölderlin. Goethe non mostrò di gradire di vedersi
riflesso in quell'anima affine. L'ugual modo, benedicente e trasfigurante, di corteggiare la Natura, dovette provocare una ripicca gelosa. T o r n e r e m o su
questa capacità d'angusta gelosia in un cuore immenso.
La Natura corteggiata cede conoscenze, mostra interne rispondenze, svela unità compositiva. La stessa
che traluce dalla modesta vetrinetta del Deutsches
Museum.
Goethe aveva da giovane giocato con operazioni
alchemiche - riducendo a liquore siliceo i sassi del
Meno che aveva prima vetrificato, sperando così di
ottenere, secondo la promessa dei testi, l'utero della
natura, dove tutti i semi minerali o metallici si potessero sviluppare.
T e n t ò anche di creare un sale volatile che attirasse come un magnete i semi dall'aria. Tali lavori gli
dovettero aprire gli occhi alla presenza dell'anima e
dello spirito nelle sostanze, mostrandogli la loro anima che stillava come olio volatile quando ne distillava
il corpo macerato, e il loro spirito che sprigionava
come alcol dal corpo in fermento. Il corpo d'una
sostanza — separato dall'anima che lo tinge e dallo
spirito che lo conforma - diventa un p u r o magnete
salino, un grembo della natura.
Come l'alchimista, così operano le entelechie nella
natura. L'entelechia delle piante distilla la linfa via
via di nodo in nodo, espandendola in foglie, condensandola in fusto, alternando espansione e condensa70
zione nella ruota del calice, fino a estrarne lo spirito,
il polline o pienezza dell'intimità più vera (« die Fülle
des eigentlichen Innern »), ciò che resta q u a n d o è stata
espulsa ogni traccia d'umore, di passione. Nel polline è celato lo stampo invisibile della pianta visibile,
che ogni foglia ripete, mostrando nel picciolo il fusto, nella nervatura i rami e nella pagina la chioma.
Linneo già aveva detto « principium florum et foliorum idem », ma altro è vederne l'identità come mente
e volontà all'opera, quali Goethe mostra e descrive in
un linguaggio spoglio di gergo alchemico, ma strettamente conforme ad alchimia. 1
Goethe insegnò a vedere gli archetipi.
Si contemplino a lungo fiori d'ogni specie sentendone la dinamica: il seme nel boccio, il boccio nel
seme; quindi si chiudano gli occhi. Apparirà fra gli
occhi, si vedrà col terzo occhio la pianta archetipale
che cresce e si riassorbe in seme come uno zampillo
incessante. Così Goethe ci confida.
La stessa dinamica è all'opera dovunque, avvita
1. L'idea dell'alchimia c h e si f a c e v a n o i seguaci della Naturphilosophie f u c o m p e n d i a t a dal l o r o m a g g i o r d i s c e p o l o inglese, S.
C o l e r i d g e , in u n a p a g i n a dei suoi Notebooks (a cura di K. Cob u r n , R o u t l e d g e & K e g a n Paul, L o n d o n , 1957, 4 4 1 4 ) , d o v e gli
alchimisti s o n o equiparati ai pitagorici, c o m e c r e d e n t i nella natura i n t i m a m e n t e m u s i c a l e della realtà: « ... i n t e n d o n o p e r z o l f o
la luce o i raggi del sole, p e r m e r c u r i o il p r i n c i p i o di p o n d e r a b i lità, sicché la teoria è eraclitea, c o n f o r m e alla
Naturphilosophie
t e d e s c a c h e trae le c o s e dalla luce e dalla gravitazione, e n t r a m b e
bipolari. Gravitazione è n o r d - s u d , attrazione e ripulsa; luce è
est-ovest, c o n t r a z i o n e e dilatazione. L'oro è la t e t r a d e o c o m p e n e t r a z i o n e dei d u e , c o m e l'acqua la d i a d e della luce e il f e r r o la
d i a d e della gravitazione » (« It is clear that by S u l p h u r they
m e a n t t h e solar Light or Rays, a n d by Mercury t h e p r i n c i p l e o f
Ponderability - so that the T h e o r y is the s a m e with that o f t h e
Heraclitic Physics, or to m o d e r n G e r m a n N a t u r - P h i l o s o p h i e ,
w h i c h d e r i v e s all t h i n g s f r o m Light and Gravitation, e a c h bipolar. Gravitation: N o r t h a n d S o u t h or Attraction a n d R e p u l s i o n ;
Light = East a n d West, or C o n t r a c t i o n a n d Dilatation. G o l d
b e i n g the T e t r a d , or i n t e r p e n e t r a t i o n o f both, as water is the
D y a d o f Light a n d Iron the D y a d o f Gravitation »).
71
fìsso e volatile, luce e oscurità. La luce stringe, l'oscurità allarga la pupilla, che però vuole mescere luce e
tenebra in un calice, facendoli fermentare insieme e
liberandone lo spirito: il colore. La luce velata da
vapori è gialla; fusa, sposata alla caligine è rossa;
soffusa d'ombra è celeste. Del pari un acciaio arroventato trascolora dal giallo alla porpora al celeste.
Certi quadri di T u r n e r alla Tate Gallery sciorinano il
colore per illustrare questa legge.
La stessa legge di sistole e diastole e di crescita a
spirale crea il mondo delle pietre secondo affinità
elettive e amorosi congiungimenti - a partire dalla
triade di quarzo, feldspato e mica nel granito. La
stessa crea il cielo, dove l'aria, grembo, magnete solare, aspira gli umori, le passioni terrene, g e n e r a n d o la
tensione dei nembi, che distilla in cumuli e infine
purifica in cirri, in pecorelle anelanti a estinguersi
nell'azzurro. Sempre più in alto si spinge il nobile
impulso, la liberazione è un dovere celeste e lieve:
Doch immer höher steigt der edle Drang!
Erlösung ist ein himmlisch leichter Zwang. '
L'animale stesso, la cui essenza formale è lo scheletro, cresce a spirale, dalla vertebra seminale, su per lo
stelo della colonna vertebrale fino al calice del teschio. Sulla vertebra, anello rotante, si impernia la
vita. Cinque vertebre si stendono e si racchiudono
a pugno, a calice, e il teschio è formato. Goethe a
questo punto, immaginandosi nella parte del Creatore, conducendo il gioco, la danza della genesi, sentì
che anche nella testa dell'uomo, come in quella di
tutti gli animali, modellata secondo quella sequenza
e quei movimenti, per forza gl'incisivi si dovessero
conficcare in un osso intermedio fra i due lati della
1. J . W . G o e t h e , Werke. Gedenkausgabe der Werke, Briefe und Gespräche, a c u r a di E. B e u t l e r , A r t e m i s V e r l a g , Stuttgart-Zürich,
1 9 4 9 sgg., vol. X V I I , 2 a ediz., 1966, p. 6 7 1 .
72
mascella. Scoprì così l'osso che gli osteologi non avevano notato.
A J e n a c'era chi provava per questa dinamica cosmogonica lo stesso amore travolgente di Goethe: un
giovane professore, Lorenz Oken. Anche per lui la
vertebra era l'anello della vita e ne scorse la genesi
formale: una sfera di materia plastica, mucosa si
contrae e allarga, respira, assimilando ed espellendo;
è la prima vita, l'infusorio. Pietrificandosi essa f o r m a
la vertebra e dalla vertebra lo scheletro sale come dal
seme u n o stelo. Nel teschio si ricapitola l'intero corpo: le gambe e le braccia nella mascella, le unghie nei
denti.
Oken ebbe una serie di rivelazioni che gli permisero di abbracciare l'intera natura, tutte le specie animali, i generi delle piante e le pietre fino alla materia
cosmica essenziale - l'etere vibrante e al di là di esso
lo 0, l'essere non manifestato che si manifesta afferm a n d o le d u e polarità, positiva e negativa. Le rivelazioni di Oken allargarono in una sintesi totale vertiginosa le verità scoperte da Goethe, scandite dalle
famose rivelazioni dell'archetipo vegetale ai Giardini
botanici di Palermo e di Padova e dell'archetipo
osteologico, ravvisato nel cranio di montone al Lido
di Venezia.
Goethe provò per Oken, ancor più che per Hölderlin, una cupa gelosia, ottenne perfino che il duca
di Weimar gli impedisse di pubblicare la sua rivista
« Isis » a Jena. Viene alla mente Puskin sulla gelosia
di Salieri per Mozart, ma orridamente capovolta: di
Mozart per Salieri.'
1. L ' i n c o n t r o di G o e t h e e di O k e n , allorché questi t e n n e la sua
f a m o s a p r o l u s i o n e a J e n a sulla vertebra p r i m o r d i a l e , f u oltrem o d o cordiale; e n t r a m b i f a c e v a n o parte della L o g g i a m a s s o n i c a
A m a l i e . In s e g u i t o G o e t h e rivendicò a sé le s c o p e r t e di O k e n e
d o p o la R e s t a u r a z i o n e lo a c c u s ò di far parte di u n a società
segreta « d e m o c r a t i c a », q u a n d o era s e m m a i stato lui m e m b r o
d e g l i Illuminati di Baviera (cfr., alle varie voci,
Internationales
Freimaurer Lexikon di E. L e n n h o f f e O. P o s n e r , A m a l t h e a , Zìi-
73
Fu Oken a portare a compimento in un sistema
mirabile l'intera Filosofia della natura. Accanto a lui
Cari Gustav Carus seppe dare altri tocchi alla cattedrale analogica della Naturphilosophie, mostrando insetti e piante retti dallo stesso ritmo, onde la pianta è
larva q u a n d o si sprigiona dal seme, pupa q u a n d o
fruttifica nel calice, imago q u a n d o il calice si spampana ed è impregnato.
La creazione in sei giorni si ripete a ogni ingestione: il cibo o cielo entra in contatto con la terra, la
bocca; quindi si tramuta in chimo nello stomaco, in
chilo nel duodeno, in sangue venoso nella succlavia,
finché al quinto giorno dal ventricolo destro passa ai
polmoni e purificato infine si dirama per le arterie
nei tessuti.
L'impulso goethiano in Carus si accrebbe, trovò la
perfezione metafisica in Oken, ma oggi, tesoro celato, vorrebbe essere conosciuto.
In una Goethegedenkrede, Werner Heisenberg domandava se Goethe davvero potesse opporsi alla costruzione della natura inaugurata da Newton: « Hat
Goethe mit seiner Naturwissenschaft, mit seiner Art,
die Natur anzusehen, der in der Nachfolge Newtons
entstandene technisch-naturwissenschaftlichen Welt,
etwas wirksames entgegenzusetzen? ».'
Non difenderò certo la Naturphilosophie con ricatti
alla scienza moderna rea di distruzioni, ma rammenterò che teorie scientifiche generali soltanto oggi osabili sono il cuore stesso della Naturphilosophie goethiana. La matesi preliminare della metafisica di Oken
r i c h - L e i p z i g - W i e n , 1932). Q u a n d o uscì l'edizione curata dal Mic h e l e t d e l l ' o p e r a di H e g e l , d o v e O k e n era a c c u s a t o di aver plagiato G o e t h e , lo s t u d i o s o c a l u n n i a t o r e p l i c ò in m o d o i n o p p u g n a bile: la v i c e n d a è o n e s t a m e n t e narrata dallo scienziato i n g l e s e Sir
Richard O w e n alla v o c e « O k e n » dell' Encyclopaedia
Britannica,
1884.
1. In « S ü d d e u t s c h e Z e i t u n g », 2 3 m a r z o 1967.
74
potrebbe soddisfare le geometrie della non-localizzazione, ma soprattutto la sua idea dell'universo come proiezione del sistema percettivo oggi rinasce nel
principio antropico di Wheeler e Dick.'
Nel 1808 Oken stampava Über das Universum als
Fortsetzung des Sinnensystems: dalla conformazione del
teschio, che è creato dall'impulso oculare, auditivo,
olfattivo delle sue vertebre rispettive, egli partiva per
comporre l'intero cosmo quale loro funzione.
Il principio antropico oggi riprospetta l'universo
dalle condizioni di possibilità dell'osservatore. Una
particella ha probabilità di trovarsi in un certo punto
secondo una probabilità uguale al quadrato dell'ampiezza dell'onda in quel punto, ma che la particella si
trovi o no in quel punto è determinato soltanto dal
fatto di esservi osservata: la realtà è funzione del
sistema percettivo, e questo spiega le condizioni dell'universo, non viceversa.
Dove la scienza tocca i suoi assiomi, là può intervenire la Naturphilosophie, perché concerne l'esemplare
e il formale al di sopra del materiale. Heisenberg
accennava anche alla spirale dell'acido desossiribonucleico come inveramento dell'idea goethiana di
archetipo di vita, di spiritus rector. Ma la spirale
microbiologica è il codice, non il codificante e informante, perciò si vede col microscopio e non col terzo
occhio.
E la specifica capacità di osservare le cause formali
che lo spirito goethiano può restituire. Esse non interferiscono con la scienza delle cause materiali, anche se possono talvolta aiutarla non soltanto a chiarirne l'assiomatica, ma anche a far scoperte sul suo
livello, come q u a n d o Goethe completò il catalogo
delle ossa con l'intermascellare. Le « cause formali »
si riconducono al concetto di « fantasia della natu1. G. Gale, The Anlhrupìc
d i c e m b r e 1981.
Princìple,
75
in « S c i e n t i f i c A m e r i c a n » ,
ra », che f u elaborato in spirito goethiano con metodo kantiano da J . Frohschammer. 1
La scienza delle cause formali sta a quella delle
cause materiali come la pittura di paesaggio alla
cartografia. Tenerle distinte è salute. Stima la prima
al di sopra della seconda l'intelletto d'amore.
1. L ' o p e r a d o v e F r o h s c h a m m e r d e f i n i s c e m e g l i o il c o n c e t t o di
fantasia c o s m i c a è Die Phantasie als Grundprincip des Weltprocesses,
A c k e r m a n n , M ü n c h e n , 1877. Sulla sua scia si mise u n c h i r u r g o
e s p e r t o di a n e s t e s i e isteriche, K.L. S c h l e i c h (il s u o Die Wunder
der Seele, e s t r e m a p r o p a g g i n e del g o e t h i a n i s m o , uscì a B e r l i n o
nel 1 9 3 4 c o n p r e f a z i o n e di C.G. J u n g ) .
76
La Natività, icona russa
LA M O N T A G N A
Le m o n t a g n e d i m o r a n o s e m p r e in p a c e e
sempre camminano. Esaminate attentamente questa qualità d e l l e m o n t a g n e ... S e dubitate della qualità c a m m i n a t r i c e d e l l e m o n t a g n e , n o n c o n o s c e t e il vostro stesso c a m m i n a re ... N o n s o n o n é s e n z i e n t i n é i n s e n z i e n t i le
verdi m o n t a g n e , voi n o n siete n é s e n z i e n t i n é
insenzienti. A q u e s t o p u n t o n o n p o t e t e d u b i tare c h e le m o n t a g n e c a m m i n i n o .
D a Moon in a Dewdrop:
Writings
of zen Master Dógen.
Che cosa attrae alle vette?
Che cosa fanno mai guadagnare le fatiche di
un'arrampicata? Quale paesaggio offerto dal cocuzzolo di una montagna giustifica lo sforzo e la pena
per raggiungerlo?
I primi buddhisti respinsero con fastidio razionale
la seduzione delle montagne tanto venerate dall'induismo; Nàgasena lo spiega chiaramente a re Milinda.
Apollonio di Tiana, q u a n d o scoprì che i barbari
ritenevano i monti dimora degli dèi, dichiarò che
non era certo arrampicandosi sui costoni che sarebbe
stato possibile c o m p r e n d e r e l'Essere Supremo, la
Bontà e la Virtù.
Eppure, q u a n d o i buddhisti raggiunsero Cina e
Giappone, si immedesimarono nella geografia locale, imperniata su vette venerate.
E proprio mentre Apollonio pronuncia i suoi razionali discorsi, che non si saprebbero confutare,
varca le soglie del m o n d o antico una fede nuova,
divelta dall'ebraismo, nata tra le alture.
77
All'inizio della sua vocazione Gesù fu rapito sui
picchi: « fu condotto dallo Spirito su nel deserto » e
dopo un digiuno di quaranta dì portato in cima a una
montagna (Mt, 4). Il suo massimo sermone f u pronunciato sul Monte delle Beatitudini. Amava inerpicarsi sul Monte degli Ulivi, che dai suoi ottocento
metri guardava in basso il Monte Moria, dove si
ergeva il Tempio. Lì pregava e trascorreva la notte
(Mt, 22, 39-, Me, 14, 26).
Ma questo verbo, « pregare », va scrutato. Già scalava quella cima re Davide per fare orazione, essa fu
tramutata dalla fantasia dei profeti poiché Ezechiele
ci vide sorgere la Gloria di Dio nell'ultimo dì, Zaccaria vi scorse i « piedi di Dio », e si disse che il Messia o
Cristo l'avrebbe scalata. Inoltre, di lì Ezechiele avrebbe suonato la tromba per far risorgere i morti.
Nel periodo arabo gli Ebrei dovevano e m a n a r e dal
Monte degli Ulivi l'annuncio delle lune nuove e delle
feste a venire: da dove si trovava « il posapiedi di
Dio ». Lassù pensavano di poter celebrare il sacrificio
della vacca rossa (la madre del vitello d'oro?), un'oblazione solenne: gettava nell'impurità tanto il sommo sacerdote che la praticava quanto i suoi aiutanti
fino all'imbrunire, ma consentiva di preparare, mescolando ad acqua di fonte la cenere della vacca, il
liquido lustrale capace di purificare i contatti con
cadaveri. Al primo atto di questo olocausto sul Monte degli Ulivi il sacerdote sgozzava la vacca tenendo
lo sguardo fisso al T e m p i o sottostante.
L'ultima vacca rossa sarebbe stata lassù sacrificata
dal Messia.1
Gesù compì d u n q u e quella scalata per impersonare il Messia o Cristo, ponendosi in contatto tangibile,
diretto con il Padre. Di lassù sarebbe stato assunto in
cielo d o p o la resurrezione. Lì aveva profetato la caduta di Gerusalemme.
1. Si veda la v o c e « M o u n t o f Olives », in Ermrlopaedia
J e r u s a l e m , 1971.
78
Judmca,
Il T a b o r , seconda montagna dei Vangeli, si erge,
piramide isolata, nella parte settentrionale del paese.
Era sacro a Zeus Atabyrios. La tradizione fece salire
su di esso Gesù con i discepoli Pietro, Giovanni e
Giacomo, « e f u trasfigurato in presenza loro, i suoi
vestiti divennero sfolgoranti, candidissimi, d'un candore che nessun lavatore di panni sulla terra può
dare » (Aie, 9, 12).
Fra T a b o r e Monte degli Ulivi vibra il preludio alla
passione. La fantasia antica fu affascinata e travolta
da questo racconto alpestre di trasfigurazioni e di
strazi.
Dure arrampicate avevano preceduto e introdotto
preghiere e visioni cristiane. Sulle vette cristiane erano sbocciate visioni simili alle sciamaniche.
Nella solitudine ventosa delle balze infatti si colgono messaggi tenui, sottili, sconvolgenti, si avvertono
comunicazioni enigmatiche e gravi, si provano arcane emozioni, ribelli alle parole, che tramutano chi le
prova.
Si passeggia lungo i crinali osservando lo spettacolo delle nuvole, del sole, della luna e si rimane sedotti. Da che cosa? Credo da un bene smarrito, la visione
rivelata, l'iniziazione di cui rimane in quella nudità
una traccia, un'eco, un a p p a n n a t o ricordo, una risonanza.
Càpita ancora oggi, f r a le tribù americane dove
sopravvivano società iniziatiche, che ci si spinga digiuni fino ai nidi delle aquile, e lì ci si disponga in
perfetta quiete all'allucinazione redentrice, all'incontro con una parvenza o realtà dell'altro mondo:
avvoltoio, aquila, civetta, colombo o lupo, pantera,
orso o nembo o macigno o pianta parlante. Questi
esseri compaiono e impartiscono soprattutto un canto, che rimarrà il possesso più segreto e prezioso di
chi lo riceve, da serbare nel cuore, da ripetere sottovoce, da levare infine come canto di morte.
Su un monte gira la vita degli Indiani, quasi tutta
79
la loro letteratura è consacrata alle vette. Alce Nero
insiste su Horney Peak, dove si riceve l'illuminazione
e che si trova dovunque u n u o m o ne senta la necessità. Per ottenere le guarigioni più difficili gli Apache
si appellavano agli spiriti della montagna e li imitavano. Ogni anno i Cheyenne erigevano sulla pianura
un simulacro della Montagna Sacra e lì il sacerdote
del sole possedeva una d o n n a per risuscitare la natura e far riverdeggiare i prati. Gli sciamani pellegrinavano alla caverna sul monte che è l'utero del cosmo e
ottenevano per breve in sposa la figlia di Coyote e di
Donna Bisonte.
Scott Momaday da un tumulo nell'immensa distesa di campi fa dipendere la sorte dei suoi Kiowa. La
giovane narratrice Leslie Marmion Silko n a r r a nel
suo maggior romanzo come un uomo indemoniato
dalla guerra guarisca salendo una montagna, dove fa
l'amore con una ragazza che gli insegna a guardare
con devozione i semplici. Egli sente che la montagna
si erge al di sopra di tutti gli orrori della pianura,
come fosse infissa nel suo stesso scheletro, come emanasse dalla stessa fonte delle sue ossa. Sulle pendici
montane egli sosta, inala l'odore dei fiori gialli e
setosi ascoltando il ronzio di api e calabroni, raccogliendo delicatamente il polline, volgendosi infine al
bocciolo nero dei fiori come fosse il centro del sole.
Fra i Sioux sopravvive la cerimonia Yuwipi. Un
giovane e un vecchio salgono il monte, vi trovano il
fosso della visione e il vecchio lo prepara, con un
vessillo n e r o all'occidente, u n o rosso al settentrione,
u n o giallo all'oriente e u n o bianco al mezzodì. Per
d u e giorni e notti il giovane rimane a pregare, senza
p r e n d e r e cibo, nella fossa, la pipa stretta in mano. Il
vecchio lo ha abbandonato. In seguito il nuovo sciam a n o sarà capace di sciogliersi dai ceppi.
Alfonso Ortiz, un Pueblo che insegna all'Università del Nuovo Messico, descrive con cura che cosa è
un insediamento tewa incentrato sulla piazza, domi80
nio della gente comune. I quattro poggi d'intorno
a p p a r t e n g o n o invece ai capi della tribù e si dice che
vi dimorino gli « Sferzatori », i quali ai primordi della storia espulsero gli uomini da sottoterra. Ancora
più lontano s'alzano quattro monti, verdazzurro a
settentrione, bianco a oriente, rosso a mezzogiorno,
giallo a occidente, la cinta della comunità dove abitano esseri lacustri che provocano le piogge; essi sono
dominati dai buffoni, dagli sciamani, dai membri di
società esoteriche.'
Queste notizie di tante tribù diverse sono sparsi
esempi dello statuto mistico ed esoterico riserbato
ai picchi f r a gli Indiani d'America. Ugualmente nel
Messico le montagne sacre attirano i pellegrinaggi
delle tribù, spesso largendo sulle falde i f u n g h i o i
cactus allucinogeni. Ma sono pressoché spariti i rituali complessi e sacrificali delle antiche civiltà.
Nell'America meridionale basterà r a m m e n t a r e le
sedi sacrali appollaiate sui greppi più erti e vertiginosi del Perù, o p p u r e il Chimborazo, che o f f r e tutti
i climi della terra via via che lo si salga, o p p u r e il
Cotopaxi.
Ancora molti giovani solitari in America s'arrampicano a cercare il f o n d a m e n t o aspro e gelido della
vita. Ancora pellegrinaggi tribali s'inerpicano sulle
vette. E stato restituito ai Taosiani il loro lago azzurro. Lassù essi compiono ogni anno il pellegrinaggio e
quando, varcata la cresta, scendono a spirale nella
conca dove giace il lago, da questo salgono a fior
d'acqua i pesci a salutarli, componendo figure che
predicono il f u t u r o .
La barbarie bianca ha scaraventato fra gli indigeni
americani una valanga di negri; come per incanto
questi si accomunano a quelli nel culto della montagna. Il merito d'averlo notato va a Lydia Cabrera,
studiosa delle cerimonie negre e della magia che le
1. E. Zolla, I letterati e lo sciamano,
401-21.
81
Marsilio, V e n e z i a , 1989, p p .
regge a Cuba: ella ritrova nei negri la credenza nelle
montagne come luoghi gremiti di spiriti, retti dalla
divinità del monte stesso, dalla quale tutto riceviamo,
di cui siamo figli, alla quale torniamo morendo. Conoscere l'intimo della realtà si dice « entrare nella
montagna », con sommo rispetto e compostezza, off r e n d o un sacrificio devoto, salutando i venti che
ruotano attorno alla vetta.
Se gettiamo uno sguardo al Medio Oriente, dove il
nostro universo occidentale spinge le sue radici, la
funzione della montagna sacra appare analoga. Su di
essa avveniva la ierogamia tra la sacerdotessa in veste
di dea e il re iniziato. La tradizione proseguì via via
con Enlil, Bèi, T a m m u z e con quest'ultimo la montagna diventa il sepolcro del dio che muore e rinasce.
Ishtar è dea della montagna. Iside nel papiro magico di Parigi è chiamata anche lei dea della montagna.
In Grecia i monti erano dimora di Zeus (re dell'Olimpo, del Licaone, dell'Elicona) e di dee come Giunone e Artemide. Nelle figurazioni arcaiche si vede
la dea che dalla cima montana emerge n u d a fino al
ventre, cinta d'una gonna a balze, stringendo la bipenne. Talvolta affiora la semplice bipenne.
Dio della montagna f u J H V H , sui picchi egli si manifestava, parlava e si rendeva visibile.
Bozzetto esemplare f u l'avventura di Elia, che dopo una lunga marcia e una d u r a ascesa si rifugiò
nella caverna dove trascorse la notte. Udì la voce di
Dio domandargli che cosa facesse, e rispose dichiarando il suo amore cocente. Allora Dio gli ordinò di
uscire dalla caverna e di fermarsi sul monte davanti
all'Eterno. A vedere d u n q u e l'Eterno (la dilatazione o il raggrinzirsi del tempo che si annienta, interpreto).
Ancora indugia nella caverna Elia, q u a n d o ode un
vento furioso che squassa il macigno. Ma Dio non è
82
in quel turbine. Elia sente quindi un terremoto che
squassa e un incendio che avvampa. Dio non è in essi.
Giunge infine un suono soave, sommesso. E Dio che
sta parlando ed Elia esce dalla caverna, riceve i comandi.
Secondo la tradizione ebraica Sinai e Moria sono il
f o n d a m e n t o del mondo. Se Israele non fosse rimasto
sotto il Sinai, tutto sarebbe ripiombato nel caos. Forse perché la montagna non ha, ma è e dà significati.
Dirà lo Zòhar che la scala al cielo vista da Giacobbe
d o r m e n d o sul sasso « era il Sinai », Sinai e scala sono
parole che hanno uguale valore numerico. « Il Sinai
è piantato nella terra e si ritiene che la sua cima
tocchi il cielo ».'
Q u a n d o Mosè condusse il popolo ai piedi del Sinai,
si inerpicò da solo in una nube che lo santificò, e Dio
scese sulla vetta a proclamargli la sua legge. Il monte
f u quindi ravvolto in una nube, nella quale si discerneva il fiammeggiare di Dio. Si favoleggia che sul
Monte Moria di Gerusalemme fosse stato per compiersi il sacrificio di Isacco. Lì si recava a pregare, s'è
detto, re Davide, Salomone vi eresse il T e m p i o dove
s'installò la presenza di Dio o Shekìnàh. Si a f f e r m ò che
Dio scendesse a godere della Shekìnàh ogni notte,
o p p u r e ogni notte di venerdì, q u a n d o i pii celebrano
l'unione coniugale con devozione. Si diceva anche
che la Shekìnàh uscisse periodicamente dal Tempio,
scendendo in Gerusalemme, per poi inerpicarsi sul
Monte degli Ulivi e infine entrare nel deserto.
Aleggia ancora la tradizione delle ierogamie sumeriche. Nella liturgia dello sventurato nono giorno
di Av si recita: « Sion, eri la bellezza dei luoghi di
riposo e dei letti coniugali q u a n d o il tuo innamorato
entrava nel talamo». 2
1. Le Zohar, a cura di C. M o p s i k e B. Maruani, V e r d i e r , Paris,
1984, voi. II, p. 3 2 9 .
2. A. R o s e n f e l d , The Authorized
1970, p. 158.
Kinot for the Ninth of Ab, L o n d o n ,
83
Nello zoroastrismo vige lo stesso culto delle sacre
montagne, ma in più si celebra e beve lo haoma,
inebriante ricavato da piante di alta montagna. Ancora oggi il sacerdote zoroastriano sulle alture cerca
la pianta ricca di efedrina e coramina.
Zoroastro si inerpicò su per il Monte del Signore o
Mons Victorialis, che la leggenda cristiana collegherà
alla spedizione dei re magi. Esso era avvolto della
Luce di Gloria e Zoroastro non vi gettava più ombra.
Di lui Porfirio narra il ritiro in una caverna microcosmica e Dione Crisostomo ne descrive l'ebbrezza da
luce. 1
Ma è soprattutto nell'induismo che si preserva l'amore della montagna. Non si scambi questo culto,
per carità, con le nostre passioni alpinistiche, Giuseppe Tucci ne illustrò la diversità radicale: « Uno
spettacolo di bellezza si trasforma [per gli Indù] in
incitamento alla meditazione e invece di scorrere con
l'occhio sui ghiacciai e sulle cime immacolate e fissarne nella memoria i contorni e le linee ed i colori,
essi scendono nelle inesplorate regioni dell'essere in
cui s'asconde la sorgente di quella vita che crea le
montagne e le creature». 2
Forse lo spettacolo che meglio introduce alla riverenza indù verso la montagna è il pellegrinaggio
sivaita alla caverna di Amarnàth (l'Immortale). Sotto
la luna piena nella tarda estate si snoda la colonna dei
pellegrini verso le cime nevose, il camminamento
accidentato passa accanto a tante dimore di romiti,
fino a raggiungere la caverna dove, sotto questa luna, si f o r m a un Unga di ghiaccio, Siva autocreato
(svayambhu). Vederlo, sfiorarlo fa piombare al centro
del mondo, a Siva.
1. H. C o r b i n , Corps spirituel et Terre céleste, B u c h e t - C h a s t e l , Paris, 1 9 7 9 , capitolo su « H u r q a l y à » (trad. it. Corpo spirituale e
Terra celeste, A d e l p h i , Milano, 1986).
2. G. T u c c i , Forme dello spirito asiatico, Principato, Milano-Messina, 1940, p. 149.
84
Raggelato nell'ammanto delle rocce Siva concepisce, comprende, attua la realtà.
Nelle pianure tutto vive in grazia dell'acqua che
sgorga dalle sorgive, le manifestazioni femminee di
Siva che si possono chiamare Durgà (l'Inaccessibile)
o PàrvatI (il Torrente).
Il primo a i n t r o d u r r e sistematicamente ai tesori
dell'India sul finire del Settecento, Sir William Jones,
compose questo inno a Siva (Ìsvara):
Tremendo ìsvara, amava sugli orridi monti,
Rapito in preveggenza profonda, aggirarsi,
Là soprattutto dove sgorgano i sacri fiumi
Scintillando dalle fonti segrete
Per scorrere sui regni di Brahmà.
Nemmeno il più aspro calore estivo
Poteva animare il palazzo del sovrano
Seduto sul trono imperlato di gelo
(Tanto in alto giunse la sua rigida virtù).1
Siva-ìsvara incenerì il Desiderio (Kàma) e sdegnato si ritirò sul monte. PàrvatI si disperò, f u tentata di
buttarsi in un torrente, ma un bramino la f e r m ò e la
sollecitò a cambiare il dio cui era tanto devota. La
risposta di PàrvatI f u un salto nel torrente, ma i venti
la ressero, adagiandola su d'un prato. Il bramino era
Siva dissimulato.
Colpisce la continuità nei millenni di questo culto
indù, già ne\YAtharua-Veda si pregano le montagne e
nel mito si configura il Sumeru, asse, loto della terra,
calice del seme sulla cui cima si estende la quadrata
città di Brahma. Dirà il Mahàbhàrata che sul Meru
1. « D r e a d Ishwara, w h o l o v e d o'er a w f u l m o u n t a i n s , / Rapt in
p r e s c i e n c e d e e p to r o a m , / B u t chiefly t h o s e , w h e n c e h o l y rivers
g u s h , / B r i g h t f r o m their secret f o u n t a i n s , / A n d o'er the r e a l m s
o f B r a h m a rush. / N o r e'en the fiercest s u m m e r h e a t / C o u l d
thrill the palace, w h e r e their m o n a r c h reign'd / O n his frosti m p e a r l e d seat / (Such h e i g h t h a d u n r e m i t t e d virtue gain's) »
(Works, L o n d o n , 1799, vol. V I , p. 3 2 3 ) .
85
dimora Siva e che gli altri dèi e semidei e servi di Siva
vi a r d o n o come fuochi. La montagna è una massa di
energia più forte del sole, vi crescono erbe divine.
Questa prospettiva detta ancora i canti all'Annapurna di Ramana Maharshi nel nostro secolo. Il monte,
egli scrisse, è il magnete d'ogni vita, arresta i movimenti di chi lo pensa, attira a sé e fissa nella propria
immobilità. La roccia incarna l'unità: possiede la potenza da cui procedono i fantasmi della mente umana, proiettati all'esterno come realtà oggettiva. Contemplare la montagna significa ritrarsi all'origine e
nell'assoluto.
In Cina gli sciamani delle epoche arcaiche coltivarono il culto delle montagne, dove si recavano a
comunicare con il loro avo. I taoisti ereditarono queste tradizioni: si mortificavano sulle cime, dove si
f o r m a n o i fiumi e le nubi, per p r o d u r r e « le divine
medicine » e comunicare con i draghi della montagna cavalcati da immortali e spiriti. Le cime sono
gremite di spiriti dai mille aspetti e separano dal cielo
o consentono di salirvi fin dai tempi Zhou. 1
Nell'epoca Han sorge la storia taoista di Zhang
Ling, che iniziò Zhao Sheng sui monti Yuntai: prima
lo invitò a balzare dalla vetta su un pesco nel fondovalle, a riportarne i frutti, e q u a n d o quegli l'ebbe
fatto, si buttò a sua volta nell'abisso, per scomparire.
La gran parte dei discepoli cadde nel panico, ma due
eletti rimasero imperturbati e subito lo seguirono. Si
ritrovarono accanto a lui, che stava disteso sopra un
giaciglio ad aspettarli. Allora f u r o n o istruiti sulla via
da seguire. Ma siamo già in tempi buddhisti e il
buddhismo aveva assimilato il culto dei monti, creando una teologia minuziosa di rincalzo.
Samantabhadra, Bodhisattva androgino dal volto
di smeraldo, investì della sua forza spirituale il mon1. M u n a k a t a Kivohiko, Sacred Mountains
sity o f Illinois Press, 1991.
86
in Chinese Art, U n i v e r -
te dai settanta templi, Emei (« Sacro al fuoco ») nello
Si chuan. Q u a n d o avviene un cambiamento improvviso e, scompigliandosi le nubi, s'invertono i venti,
attorno a esso compare un cerchio radioso, iridescente come un arcobaleno. Se sopra questo cerchio
si proietta la propria ombra, vi si vedranno profilarsi nitidi i nostri occhi. Anche q u a n d o il cerchio si
sarà dissolto, l'intero costone continuerà a rifulgere.
Il f e n o m e n o è considerato un rivelarsi di Samantabhadra.
Q u a n d o poi il sole è tramontato, si spinga lo sguardo fra le rocce oscurate di E mei e si scorgeranno
lumini che si moltiplicheranno all'infinito.
Il Wutai Shan o montagna dalle cinque terrazze
nello Shanxi, sacro al Bodhisattva Manjusrl o Sapienza, dove si mostra una specie di aurora boreale,
incarna l'elemento dell'aria come E mei il fuoco. A
completare la quaternità c'è l'isola di Putuo nello
Zhejiang, sacro al Bodhisattva Avalokitesvara, la
quale sta per l'acqua, mentre J i n h u a nell'Animi,
sacro al Bodhisattva Ksitigarbha, rappresenta la
terra.
In Giappone sulla montagna dimorano gli dèi, che
nelle stagioni del raccolto scendono in pianura, essendo le rupi la f o r m a più compatta e pregnante e
muta, dove si concentrano i morti q u a n d o divengono antenati.
Anche in Giappone il buddhismo assunse dallo
shintò la geografia delle montagne sacre. Primeggia
il Fuji, che s'alza sulle nubi come un ventaglio rovesciato, spettrale e maestoso, cui è dedicata la setta
shintò Fuso-kyo. E abitato dalla Principessa che porta gli alberi alla fioritura.
Si dice che sulla vetta stilli l'elisir di vita. Si scala
invocando via via la purezza della vista, dell'udito,
dell'odorato, del sentimento e della percezione spirituale.
Furono ereditati dallo shintò anche il Koya, adot87
tato dal buddhismo shingon, e lo Hiei, adottato dal
buddhismo tendai. 1
Nacque un rito frutto della fusione di tanti culti, lo
Shugendó (shu è l'illuminazione iniziale, gen la comprensione totale, dò la via che porta al Nirvana). Lo
praticarono i maghi della montagna o yamabushi, i
quali col tempo badarono piuttosto alla redenzione
che all'acquisto di poteri, piuttosto all'identificazione
con il Buddha cosmico che alla dominazione dei
demoni.
Lo yamabushi si fa flagellare dalle acque gelide di
una cascata, preludio all'identificazione con i vari
regni della realtà: progressivamente con l'inferno, il
m o n d o degli affamati, delle belve, dei titani e degli
uomini, via via che si inerpica cantando e diteggiando. Così nel regno dell'inferno egli si confessa e
mentre sta librato sopra un precipizio riceve una
subitanea, terrificante rivelazione. Il regno degli affamati percorre a digiuno, quello dei titani impegnandosi in gare di sumó. E sopravvissuta nei secoli
fino a oggi la pratica di assieparsi in gran n u m e r o
d e n t r o una capanna buia, ruotando attorno a una
colonna e ripetendo certe frasi, finché all'improvviso
rimbomba un campanone e le porte si spalancano
sull'abbacinante chiarore meridiano.
Nella prima settimana dell'ascensione ci si considera embrioni. Il capo porta un cappello che raffigura la placenta. La montagna è l'utero. Infine si è
pronti e l'ascensione termina con un urlo di nascita. 2
Sono stralci di un m o n d o esoterico millenario,
complesso aldilà di ogni tradizione nostra. Se torniamo in Occidente, ben poco vi resta della magia alpestre. Forse il documento più alto che vi si trovi è la
1. J. S t e v e n s , The Marathon
B o s t o n , 1988.
Monks
of Mount
2. C. Blacker, Iniliation in the Shugendo,
C.J. B l e e k e r , Brill, L e i d e n , 1965.
88
Hiei,
in Initiation,
Shambala,
a c u r a di
poesia Mont Blanc di Shelley. Essa dice che la fonte
del pensiero inoltra il suo flusso, attraversano la
mente gli oggetti a rapide ondate, ora cupe ora brillanti: così del pari procede il torrentello fra boschi
selvaggi spazzati dai venti, correndo « con un suono
che è suo a metà ». Shelley contempla il fiume Arve
mentre i ventacci scendono a bersi i p r o f u m i delle
fitte pinete e fra i suoi pensieri si staglia fermo,
nevoso, sereno tra le rupi slabbrate e percosse, il
Monte Bianco. Dal paesaggio terribile e remotissimo proviene un discorso, che insegna un dubbio
atroce o un'esile fede: nel Monte Bianco abita la
forza segreta del pensiero che impartisce leggi alla
volta celeste; se quel silenzio e quella solitudine apparissero vuoti alla fantasia, che sarebbero più l'uomo,
la terra, le stelle, il mare?
Le parole di Shelley costringono a riguardare con
attenzione le distese dei monti. Essi dominano la
terra, la n u t r o n o impregnandola, animandola, ricoprendola di verde. Sulle loro balze si può immaginare una scala a gradini, le tappe di un'ascesa spirituale, che sono tre, sette o nove nelle tradizioni sciamaniche.
Alle falde del monte si estendono le selve che più
in alto si vanno diradando, finché si stagliano soltanto macigni rosati o gialli o neri. Sulle vette più erte
sostano sempre le nevi e si ravvolgono costanti le
nubi. Infine la montagna configge il picco, estrema
propaggine del suolo, nel firmamento.
Qui si vedono d u e opposti entrare in contatto, il
cielo attivo, donatore o minaccioso di folgori con la
terra ricettiva, intrisa di guazze e piogge o solcata da
fulmini. E un incontro che fa rabbrividire chi sia in
grado di percepirlo davvero. Quei due estremi, la
volta celeste e la pianura motosa, simboleggiano realtà antagoniste. E tuttavia un'attenzione meditativa,
un'esperienza densa di vita, o anche soltanto un adeguato trascorrere del tempo, faranno dileguare la
loro opposizione reciproca così violenta e radicale.
89
T a n t e sono le coppie di opposti analoghi: bene e
male, maschio e femmina, luce e tenebra, gioia e
dolore, finito e infinito: la saggezza pitagorica li riconduceva tutti ai numeri, al finito e all'infinito. Ma
fra i numeri regge un logos, l'unità. Memore del
pitagorismo, Simone Weil citava senza tregua l'uguaglianza:
1
numero
numero
infinito
Disse il Cusano che Dio è circondato da una compatta fila di scudi abbarbaglianti: le coincidenze di opposti. Soltanto oltrepassandoli, evitandone cioè l'abbaglio, si può raggiungere Dio. Ma che significa oltrepassarli? Sperimentare con tutto il nostro essere, non
soltanto con i giochi di parole della ragione, il confluire degli opposti. L'edenica distanza da bene e
male, l'estatica fusione dell'androgino, la visione di
un lume che soltanto il fragile occhio scinde in visibile e in accecante, il rapito abbandono al destino:
queste le grazie necessarie per accedere al divino.
Così l'uno e l'infinito si abbracceranno sul cocuzzolo
d'un monte dove lo sguardo meditativo sia capace di
vedere congiungersi, fondersi ed esaltarsi cielo e
terra.
Ma c'è anche un altro registro, per chi osservi una
montagna, al cui interno si intersecano minimi meati
che filtrano le acque, delle quali si ode da certe caverne il mormorio. L'acqua abissale è innalzata dalle
profondità del sottosuolo e quindi sospinta alle sorgive ricca di minerali, sapida di gusti sottili. Nel monte f r e m e un ritmo di attrazione e di espulsione. E
non è l'unica vita rupestre, in quel cuore di roccia si
plasmano i cristalli, crescono minerali e metalli.
Guénon nei Sìmboli della scienza sacra svela la simbologia del monte e della caverna, notando che monte è anche la piramide eretta dall'uomo. Simbolicamente si descrive un triangolo nel cui cuore si dise90
gna come caverna un triangolino capovolto. Se questo si abbassa sotto la base del triangolo maggiore, ne
forma il riflesso rimpicciolito.
Questo rapporto simbologico dei due triangoli apparve alla fantasia religiosa come il rapporto nuziale
fra il dio supremo che spinge la vetta al cielo e la dea
provvidenziale che ne fa stillare le acque.
Ma una faticosa arrampicata simboleggia in primo
luogo l'ascesi e la finale liberazione; la metafora d u r a
nei millenni fino alla salita del Monte Carmelo di san
Giovanni della Croce. Di fatto un'arrampicata strappa alle ugge, disperde le ossessioni, infrange il comune regime della mente. In cima si arriva emendati e si
presterà quindi ascolto a un succedersi di eventi tutto
particolare: giochi di nebbie e schiarite; terse apparizioni del sole, della luna, delle stelle fiammeggianti;
corse di sizze e nuvolaglie; paesaggi sottostanti che la
prospettiva dall'alto sembra stia per capovolgere e
far ruotare (così la valle del Liri a chi la guardi dai
costoni di Montecassino) e infine, intime al punto
che la mente se ne sente aggirata, vertigini che ghermiscono le viscere improvvisamente allo svelarsi di
uno strapiombo. Momenti di un fraseggio che le
parole non saprebbero riferire.
Spettacoli si succedono sotto l'occhio di chi cammini sulle alture. Se poi lassù la solitudine, la rezza,
l'atmosfera rarefatta, attonita f a r a n n o inclinare la
mente alla transe, si aprirà allora, alla lettera e per
traslato, una porta al cielo. O almeno una porta alla
bellezza, sogno di pietra, diceva Baudelaire, eterno e
muto, materia al di là del pianto e del riso:
Je suis
Et mon
Est fait
Eternel
belle, ô mortels! comme un rêve de pierre,
sein, où chacun s'est meurtri tour à tour,
pour inspirer au poète un
amour
et muet ainsi que la
matière.
Et jamais
je ne pleure
et jamais je ne ris.
(La Beauté,
1-4, 8)
91
LA MIGRAZIONE
U N CAPOLAVORO NARRA LA MIGRAZIONE
Migrazioni s'intitola il capolavoro di Milos Crnjanski, il romanzo uscito fra il 1929 e il 1962,' capolavoro della letteratura serba moderna, storia disperata e
barocca che racconta le vicissitudini d ' u n esercito
serbo voivoda al servizio della monarchia austriaca,
migrante attraverso tutto l'Impero, fino al cuore della Germania, nel 1744.
E lungo quanto Guerra e pace, attanagliato da uno
smisurato orrore e però redatto con una cura così
allegra che ogni sua pagina canta a piena gola.
Che cosa tiene insieme e compagina l'esercito di
poverelli scellerati? L'entusiasmo per l'Impero? Ma
si risolve tutto nell'urlio alla parata, non sorge certamente dal cuore. Forse forse la « dolce ortodossia »
di cui sempre si parla o i poeti che colmano le sere
con i loro mesti canti? Ma no, soltanto il cieco impulso della vita n o m a d e di per se stesso urge per le
strade dell'Europa i feroci e desolati guerrieri.
S'è detto, ogni riga è una melodia dolcissima, le
1. T r a d . it., A d e l p h i , Milano, 1 9 9 2 (parte prima).
93
metafore liturgiche pravoslave le fanno vibrare fin
nell'intimo.
Dall'inizio tutto ci è sbattuto sotto gli occhi. Il comandante Isakovic è turbato, come quasi sempre, da
una rabbia impotente, che lo strema; ha appena condannato uno dei tanti rei delle infinite colpe che la
t r u p p a commette e all'improvviso lo aggredisce con
intensità smisurata l'idea del supplizio, allora: « Chinandosi dalla sella, al p u n t o da far traballare il cavallo, vide che il poveretto era l'ex sacrestano del suo
villaggio e che piangeva. Allora, con l'animo colmo di
turbamento gli sussurrò dolcemente: "Oh, Sekula,
Sekula, caro al mio cuore, perdona! Esitante e incerto, che fare in tanta afflizione? Sii tu mio giudice: il
mio cuore è costretto e schiacciato! Ma tu non versare lacrime, diletto! T r o v e r e m o mai, il reggimento e
io, la via che conduce alla radiosa stella del mattino?
La mia lunga vita trascorrerà al modo stesso della
vita più breve. Ovunque diriga il mio passo, scorgo
l'amarezza della morte"... ».
Parla distesamente, Isakovic, vive il più p u r o momento della sua vita, ma anche questo è falso e ingannevole. Nel rotolio dei giorni questa esplosione di
sentimenti non è che una nota nella melopea del
terrore. La via alla radiosa stella del mattino non
pesa più del moscone che ronza, del ramo che ondeggia, del lievissimo sussurro che fa il fiume scorrendo.
Questa espressione così netta della vita inaccettabile, che torna a ogni passo, ci preme a ridosso di
quell'evento complesso, misterioso, indefinibile da
quanto è archetipico, la migrazione ininterrotta come condizione di vita, come ultimo orizzonte, che
scancella al ritmo della marcia ogni paesaggio, ogni
edificio, ogni volto umano, che sradica dal cuore
l'idea di casa, sicché l'uomo corre coi venti finché lo
reggono le gambe e, canti o si disperi, poco importa,
non ha altra realtà, questo è il suo destino. Goffi e
sempliciotti paiono questi spaventosi soldati, ma ab94
b a n d o n a n o appena svegli la loro consapevolezza; le
razzie, i furti, l'ubriachezza li terranno nel loro sinistro sogno e q u a n d o capiterà di combattere saranno
avvolti in un incubo, non si desteranno di certo:
« Scannavano i nemici. Li afferravano al petto, li
buttavano a terra e li sgozzavano, squarciando la gola
con le mani, lacerando pelle e carne come stracci,
s f o n d a n d o costole e spezzando braccia e ginocchia
con i fucili, spaccando crani come fossero zucche.
Per questo, e solo per questo a Corte, q u a n d o qualcuno gli diceva beffardo: "I vostri panduri", Berenklau rispondeva con orgoglio: "Sì, i miei panduri" ».
Al comandante Isakovic si apre talvolta il vuoto
senza fondo, come lo sconfinato paesaggio sul quale fissano lo sguardo i personaggi di Caspar David
Friedrich. Così sua moglie Dafina, che si è trovata a
essere adultera, semicosciente nelle braccia del cognato, stesa sul letto di morte vede ogni cosa svanire:
le tinte cangianti di continuo, i disegni delle cose ora
netti ora smarriti nel buio, il rimbombare dei mosconi, il lieve sussurro del fiume. Anche lei tocca in
quell'attimo, appena a p p e n a sveglia, il nulla che si
cela al cuore dell'esistenza.
Credo che soltanto il romanzo di Crnjanski esponga a puntino il tema della migrazione come stato
estremo e disperato. La vita che di solito è ricoperta
da consuetudini quasi inavvertite, da m u r a di casa,
da ritorni incessanti di certe vedute e di certi volti,
nella migrazione si d e n u d a . Così si rivela perché
Ermete f u dio della sapienza e del vagabondaggio.
CARATTERI DEL MIGRATORE
Ci sono popoli inf atti che della migrazione si f a n n o
un destino, un vanto, una garanzia di purezza. Una
purezza insolita. Inevitabilmente la migrazione, come Ermete, si associa al furto, alla rapina, alla fuga,
alla truffa. Ne o f f r e l'occasione. Ma si associa in
95
primo luogo alla lievità, alla freschezza e al loro capovolgimento, la cupa chiusura.
Un popolo p r o f o n d a m e n t e migratorio, confinato
dagli Stati Uniti in tetre riserve, è quello dei Sioux.
Per certe strade del Dakota li vedi impenetrabili,
silenziosi, lievi, violenti, ubriachi. Ma a studiarli con
calma si penetra al di là di questa maschera lugubre e
forse si mette a n u d o un carattere fondamentale
d'ogni nomade.
Cominciò a essere notato molto tempo addietro lo
strano nesso che un Sioux spontaneamente stabilisce
fra una serie di enti per noi disparati: i bozzoli, che si
legano alla nascita di ragni, farfalle, falene, ma anche
agli alci, ai bisonti e ai lupi. 1 Si è ricostruito il perché
di questa trafila. Si osservi un bozzolo o crisalide: è
l'avvolgersi vorticoso di fili setosi attorno a un asse
vuoto; osservando con partecipazione si può sempre
avvertire, ricostruire quel vorticare costitutivo. Dal
bozzolo della crisalide spesso vediamo nell'estate nascere ragni, farfalle e falene, che osserveremo di poi
vorticanti nel vento. Vedremo i ragni, avvolti nella
loro tela, trasportati dal vento, percorrere centinaia
di chilometri. Ma consideriamo nella secca estate
alci, bisonti, lupi. Il maschio all'improvviso scalcia il
suolo e la polvere si solleva in un gorgo, avvolgendosi
alla femmina prescelta, isolandola.
La stessa girandola esprime d u n q u e anche l'essenza di questi quadrupedi.
Tutti questi esseri incarnano ciò che il Sioux agogna di ottenere: con l'aria anche lui desidera entrare
in una relazione intima, con essa si vorrebbe immedesimare. Aspira a essere un vento rapinoso, ad attorcigliarsi subitaneo attorno alle prede e quindi a
volar via di scatto. La sua sensibilità è più sottile della
nostra. Coglie un'infinità di particolari, che sfuggono ai sensi riposati. S o r p r e n d e la velocità delle sue
1. J.E. B r o w n , I soci inverosimili,
1970.
96
in « C o n o s c e n z a religiosa », 2,
associazioni. Vive in un tempo accelerato rispetto al
nostro e capirlo è arduo; così è quasi impossibile
ghermire un animale dal tempo più svelto del nostro, colombo o rondinella che sia.
Con la nostra la moralità del Sioux non coincide.
Pregia la fedeltà ai suoi, a una sua barocca costruzione dell'onore, ma ignora o disprezza le n o r m e dei
sedentari. E o f f e r t o all'incognito, crede al destino.
Vive al margine. È indifferente in cuor suo alle strutture che reggono le varie comunità con le quali entra
in rapporto: cammina negli interstizi ed è, a dirla con
Victor T u r n e r , infrastrutturale. 1 Dumézil preferiva
scansare la parola, ma dovette ammettere che soltanto « struttura » garantisce che non si coinvolga affatto la volontà e la coscienza, meglio ancora di « ciclo »
o di « sistema ». Strutture f o r m a n o i fiori complessi,
le costumanze, i miti e infine le lingue che ci parlano.
Il migratore che scivoli tra le strutture dei sedentari,
vive nello stesso stato infrastrutturale che introduce
alle iniziazioni, nel quale, dice Eliade, affiorano simboli di vita e di morte, di dissoluzione della società e
di capovolgimento sessuale. Chi è per essere iniziato
mantiene all'erta la coscienza anche quand'è immerso nel patimento fra evocazioni inconsuete di bestie o
di dèi e tocca così il f o n d o di ogni ordine, il panico.
Dal caos panico nascono, insegna Platone, le città.
Privazioni e dolori, fame, fatica, sottrazione di sonno
angustiano, finché si accede infine alla condizione
iniziatica e s'imparano cose ignote a chi non abbia
subito le prove.
Il migrante vive sempre e costantemente nella vita
infrastrutturale. Non necessariamente è tormentato,
ma senza tregua sta prossimo alla disperazione ed è
troppo leggero e svelto per caderci. Sempre gli è
prossimo il rischio, non lo turba. Se ne sta tranquillo
su quest'orlo.
1. V . W . T u r n e r , The Foresi of Symbols: Aspects of Ndembu
C o r n e l l U n i v e r s i t y Press, Ithaca, N . Y . , 1967.
97
Ritual,
In un certo senso il migratore in genere si trova virtualmente nella condizione dello yogin che si
identifichi interamente con il centro vorticante del
cuore, il quarto circolo (o cakra) chiamato l'intatto o
immacolato (anàhata), simboleggiato da un loto che
contiene un triangolo di linee rosse con un puntolino
rosso al centro, segno dell'aria. In quest'elemento
sito nel cuore ci si deve trasfondere. Un'esperienza
del genere è accennata nella tradizione occidentale
nell'episodio di J a n Baptiste van Helmont, che toccando con la punta della lingua un aconìtum napellus
sentì il cervello gelarsi e i pensieri fiottargli caldi e
sovrabbondanti dal cuore.
Le combinazioni di elementi ed enti proprie ai
Sioux sono mezzi per ottenere questa trasfusione in
aria. Ma nell'esperienza dello yogin questo concentrarsi della vita al suo centro porta anche a udire il
suono prefonico, AUM, non nato da vibrazioni materiali, quindi innalza al vortice della gola un loto con
al centro un quadrato simbolo di stabilità, segno
dello spazio stesso. Tutta la trafila dei vortici dal
coccige al cervello si unifica qui in gola al m o m e n t o
supremo della meditazione, chi vi arriva si può chiamare « colui che ha il vento per protettore » (vàyugopa) ed è diventato lui stesso aria (vàyusama, vàyubhuta), «mangia aria», come si dice in sanscrito che
facciano asceti e serpenti. Sta al di là delle f o r m e
fenomeniche che rinserrano il sedentario. Questa
condizione non è certo comune allo yogin e al migratore e tuttavia questi vi è più prossimo del sedentario.
L'USO MISTICO DELLA MIGRAZIONE
I fondatori di religioni hanno voluto avvalersi di
questa disposizione connaturata al migrante, non a
caso Gesù e i suoi vivevano in una perpetua migrazione. Nella cristianità si perpetua questa consuetudine che deriva dalla mistica siriaca, e soltanto con
98
san Benedetto si f o n d ò un monachesimo sedentario.
Ma l'impulso al nomadismo si trasmise perfino in
Occidente. Basta un nome, san Benedetto Labre. In
Russia si stabilì la tradizione dei migranti laici o stranniki in preghiera ininterrotta.
Ma ancor prima che sorgesse il cristianesimo, la
predicazione del B u d d h a migrante aveva suscitato
schiere di monaci che avevano coperto tutte le piste
dell'Asia. Esistono esempi svariati di nomadismo sacro nell'Asia buddhista.
In Corea vagavano per i villaggi t r u p p e di attori
forse esoterici che vendevano talismani monastici e si
offrivano in esibizioni erotiche. In prossimità d'un
villaggio si mettevano in testa portabandiera e reggipalo, li seguiva l'orchestra e quindi la t r u p p a di recitanti e di buffoni, che disegnavano via via labirinti,
rose dei venti e caducei. 1
In Giappone a mezza estate e agli equinozi certe
comunità buddhiste mandavano i loro membri di
borgo in borgo a cacciare gli spiriti nefasti con la
menzione del B u d d h a (nembutsu); così facendo, tutto
dimettevano e scordavano, creavano un vortice in
cui ogni influsso nocivo naufragava.
Nella setta shugendò i maestri dei templi di montagna d ' a u t u n n o partivano per lunghe traversate circolari del paese, senza mai soggiornare, sempre esorcizzando e celebrando, per tornare all'inizio dell'estate.
Lo Shingon annoverava asceti che per tutta la vita migravano soli e casti.
E importante annotare che questa disposizione migratoria sulla quale così spesso le religioni si chinano per trarne enormi vantaggi, di per sé non comporta un'etica. Può prestarsi tanto alla completa immoralità che alla rigorosa ascesi, indifferentemente.
Spesso è difficile dire quale prevalga, come nel caso
1. Survey of Korean
S e o u l , 1974.
Arts. Folk Aris, N a t i o n a l A c a d e m y o f Arts,
99
degli Arioi, la società esoterica diffusa in Polinesia,
votata a p p u n t o alla migrazione di atollo in atollo,
composta di uomini e di donne. Offrivano al popolo
spettacoli di esibizione erotica e vivevano senza rispettare nessun tabù. Peraltro facevano da polizia,
r e p r i m e n d o d u r a m e n t e ogni infrazione di tabù.
I MONGOLI
Furono un popolo esemplare di nomadi i Mongoli. Genghiz Khan, nel 1206 incoronato, li seppe riunire con astuzia straordinaria. Come si a d u n a n o senza
preavviso le cavallette innocue e di colpo coprono il
cielo della loro immensa nube nera, piombando su
campagne che lasceranno deserte come plaghe lunari, così i Mongoli f o r m a r o n o masse compatte che si
rovesciarono sul m o n d o circostante portando stragi
immani e sottomettendo. Aveva aiutato a renderli
compatti lo sciamano che nell'inverno s'era recato
n u d o fra i monti ed era tornato annunciando l'Impero universale mongolo. Efferati, calcolatori, dotati di
cognizioni sorprendenti, pareva che nulla potesse
arrestare i Mongoli. Sgominarono Russi, Polacchi,
Ungheresi e Tedeschi, tutti i principati arabi e turchi
del Medio Oriente, la Cina, Giava e la Birmania.
Dovunque giungessero, informa Marco Polo, imponevano come moneta scorze di gelso con una loro
dichiarazione di valore e con queste pagavano i massimi tesori, poiché uccidevano sui loro territori chi
rifiutasse quei fogli, segno, dice Polo, che avevano
« l'archimia perfettamente». Perfezionarono le comunicazioni, provvidero alle carestie distribuendo
incarichi di erigere magnifici palazzi.
Di dove provenissero tali nozioni non si sa. Quando f u incoronato nel 1206 Genghiz Khan, sciamani
abbigliati di bianco lo seguivano in groppa a cavalli
bianchi e fino a tardi lo sciamanesimo f u riverito, ma
alla corte giunsero confuciani e taoisti dalla Cina,
100
nestoriani e poi cattolici, manichei e zoroastriani (che
dovettero unirsi al culto mongolo del fuoco), infine
buddhisti, lamaisti, islamici con schiere di sufi e mercanti ebrei. Il più impeccabile sincretismo reggeva
questa compagine di ogni culto, finché nell'Estremo
O r i e n t e i Mongoli divennero, mercé la medicina tibetana e le pratiche tantriche, lamaisti, e viceversa
islamici nel Medio Oriente. Dal 1251 al 1259 rimasero sciamanici e tolleranti M a n g u e Kubilay, ma Hulàgu, m o r t o nel 1265, ancora sciamanico, era marito
d ' u n a nestoriana e tendeva al b u d d h i s m o . Suo figlio
A r g h u n tentò di convertire al b u d d h i s m o la Persia.
Nel 1295 Ghàzàn diventò sunnita. Sopravvissero tuttavia, anche se in secondo piano, gli sciamani estatici
e tremolanti d u r a n t e i riti, in contatto con gli antenati, i quali giocavano con figurine o bambole animate,
recavano specchi sul costume e u n grembiule sui
fianchi che si diceva abitato d a draghi. L'unica debolezza che s e m p r e afflisse i Mongoli f u la necessità di
r a d u n a r s i dai q u a t t r o cantoni a ogni decesso d'imperatore. Nel 1525 l'ultimo di loro rimasto n o m a d e ,
Bàbur, si gettò sull'India settentrionale e la sottomise. Il m o m e n t o più felice f u toccato q u a n d o il suo
successore Akbar salì sul trono. Estese le conquiste e
c o n f e r m ò il p r i m o stato imperiale m o d e r n o , restaur a n d o il sincretismo liberale d e l l ' I m p e r o r o m a n o .
Ancor più, se possibile, d e l l ' I m p e r o cinese e di quello
giapponese, Akbar fece sfilare alla sua corte tutte le
fedi, accolse gesuiti, sufi, indù, zoroastriani, che soav e m e n t e gli f o r n i r o n o a mannelli responsi astrologici, pitture, nozioni filosofiche. Ma aveva anche istituito una società esoterica che si faceva u n p u n t o di
m a n t e n e r e quel regime r u o t a n t e su di lui come polo.
In u n ' o p e r a recente 1 Giorgio Franchetti mostra nei
particolari come q u e l l ' I m p e r o mongolo si accordasse
con il tentativo d ' u n o Stato platonico lanciato dai
1. Lo specchio del principe,
fante, R o m a , 1991.
a cura di D. J o n e s , Edizioni dell'Ele-
101
Medici più o meno alla stessa epoca, fino al culto
delle pietre d u r e e dei giardini di delizie.
Ma i successori di Akbar di rado tennero fede a
quel suo sogno pacificatore; resta confitta nella memoria la moschea che oltraggia il tempio di Siva sulle rive del Gange a Benares, a prova della violenza
moghul e del fallimento di Akbar.
Dunque dalla potenza micidiale del nomadismo
può scaturire un impero spirituale sincretista.
ISRAELE
La tradizione più antica in Occidente ha inglobato
nel suo sistema anche la migrazione, dandole ugual
potere rispetto alla sedentarietà. La Bibbia ebraica
tempera il passato migratorio e il presente sedentario templare; l'Israele successivo ha studiato sia le
regole migratorie che quelle rituali templari. Israele non ha più né profezia né tempio, ma studia gli
scritti secondo sue regole senza intermissione e include nel suo anno le feste migratorie, come la Pasqua, in cui ciascun Ebreo si rievoca nell'atto di dare
inizio alla migrazione, e la Festa dei tabernacoli, nei
quali egli si installa di nuovo con gioia sotto le frasche. Inoltre Israele ha creato una filosofia della
migrazione come esilio. Il personaggio che si è imposto in essa, arduo da definire, è la presenza di Dio o
Shekinàh, parola che significa dimorare e riposare.
Può indicare la ierofania divina che s'imprime su un
luogo. Ma designa anche la vicinanza di Dio; si dice
che i mistici s'accostino alla Shekinàh e che dopo l'esilio questa numinosità sia simile a una cerva giacente
nella polvere, gemente e lacrimosa. Si dice anche che
sia una luminescenza ed essa f u presente nel primo
T e m p i o all'occhio umano. La luce, che fa tutt'uno
con Dio nella Cristianità e nell'Islam, per Israele è
una creatura. La più prossima a Dio: nella Qabbàlàh
è l'estrema manifestazione archetipica di Dio, la
102
sephlràh Malkut o Regno. Questa creatura immateriale è in esilio col popolo ebraico e l'esilio è morte e
abisso. Ma è anche gioia.
Complesso e vertiginoso è l'esilio di Israele e della
presenza di Dio, che dovrebbe aver fine all'erezione
del terzo Tempio. Di natura radicalmente diversa è
la migrazione che il messianismo millenaristico, invano sbandito dalle chiare romane affermazioni di
Gregorio Magno, riserba alla Cristianità. Credo che
un passo di Bernanos ne condensi in breve il carattere nel modo più compatto: « Credo che questo mondo finirà un giorno. Credo che la nostra specie, avvicinandosi alla sua fine, conservi in f o n d o alla coscienza cose da far trasecolare qualunque psicologo e moralista, e altre bestie che scrivono. Si vede bene che il
presentimento della morte comanda la nostra vita
affettiva. Che cosa diventerà tale vita q u a n d o il presentimento della morte individuale si sarà esteso a
quello della Catastrofe destinata ad inghiottire tutta
quanta la specie? Servirà ancora il vecchio vocabolario: con la parola amore designiamo il desiderio che
spinge ad avvicinarsi, tremando, le mani di d u e
amanti, e anche la nera voragine in cui precipita, le
braccia in croce, con un grido di lupa, Fedra». 1
Ma questa nera voragine si copre di una fantasticheria allegra e demenziale, che veste il f u t u r o di
colori magnifici, a partire da q u a n d o i gioachimiti
medioevali favoleggiarono intorno all'èra dello Spirito Santo, della Chiesa libera e interiore, del Q u a r t o
Vangelo cui si aggiunse infine, specie nell'Ottocento,
un Messia femminile. Nei nostri giorni ne fornì la
più raffinata versione Henry Corbin, connettendo in
uno con lo Spirito cristiano venturo il Saoshyant
zoroastriano, il Maitreya buddhista, il dodicesimo
Imam sciita, entro il suo tempo che non si stendeva
1. I grandi cimiteri sotto la luna, citato da G. C e r o n e t t i su « La
S t a m p a » , 12 a g o s t o 1992.
103
nella storia, ma piombava nell'istante fra cielo e terra, nel tempo gnostico, individuale.
L'esaltazione delirante, che può sprigionare dai
testi apocalittici interpretati entro la storia collettiva
e astratta, perdura ininterrotta dal secolo XI al nostro, nella versione rovinosa e schizofrenica o nella
felice e progressista, con pari d a n n o allo spirito di
verità.
Una grande narratrice estone, Aino Kallas, scrisse
un romanzetto, Il pastore di Reigi,x su un pastore
luterano attratto nel vortice del millenarismo e sospinto alla migrazione. Persuade l'intera sua comunità a seguirlo verso il mare, dove le profezie si
dovrebbero avverare. La Kallas narra con distacco
ed esattezza come la comunità in attesa si sfasci.
Successe qualcosa del genere pochi anni fa, quando un predicatore negro di Los Angeles, attivista di
Edward Kennedy, si trascinò dietro a Georgetown,
in Guyana Britannica, un migliaio di seguaci devoti,
e lì un giorno predicò il suicidio collettivo. Non c'era
un gran legame con la tradizione cristiana nel repertorio del prete, che era soprattutto marxista, e p p u r e
l'invito non incontrò ostacoli, tutti i mille adempirono con entusiasmo.
Q u a n t e volte lo stesso strappo a tutto ha spiantato
intere tribù nel Brasile lungo tutto l'Ottocento e nel
nostro secolo! Quante volte è stato diffuso nell'Islam
l'annuncio che era comparso il Mahdi!
Sembra che il messianismo congiunto all'ordine di
migrare verso una trasfigurazione fatalmente mortuaria rimanga insediato e irrimediabile nel cuore
u m a n o e basti una certa cadenza, un certo motto per
scatenarlo.
1. Reigin Pappi, K u s t a n n u s o s a k e y h t i ò Otava, Helsingissà, 1 9 2 6
(trad. it., B o m p i a n i , Milano, 1941).
104
LA MIGRAZIONE E LA STORIA D'ITALIA
Perfino nella storia degli Italiani è celata la migrazione, anche se essi ne sembrerebbero alieni.
Nell'Italia preromana vigeva la norma che provvedeva a lanciare su cammini migratori una gioventù
folta e condannata, la primavera italica. Q u a n d o una
catastrofe si abbatteva su una città, si decretava che
tutti i nati nei mesi di marzo e aprile, consacrati a
Marte, fossero spediti in esilio e che tutto il bestiame
in quel periodo venuto alla luce fosse sacrificato. Si è
supposto fin dai tempi romani che così si sostituisse
un eccidio, si mandasse alla conquista di un qualche
paese una generazione che si sarebbe dovuta sterminare. Il massacro degli innocenti si immagina dunque che precedesse la primavera fatale. L'ultima f u
celebrata nel 194 a.C. a Roma. L'esercito r o m a n o in
quell'anno s'era trovato ad attraversare in un gran
nebbione le sponde del Trasimeno sotto la catena di
montagnole colleganti Cortona a Perugia. All'improvviso i soldati di Annibale scivolarono dai bassi
costoni in mezzo alla t r u p p a e la sterminarono. La
notizia gettò nell'angoscia Roma. I decemviri consultarono i Libri Sibillini e decretarono, consenziente
il Senato, la primavera italica. I nati di quel marzoaprile a ventun anni sarebbero migrati.
L'animale della migrazione pare fosse il toro, e
Altheim mostrò il nesso col vitello d'oro ebraico adorato nel Sinai d u r a n t e l'assenza di Mosè. Dovette
esserlo anche il lupo.
L ' I m p e r o cancellò questa traccia migratoria. Ma
ben presto cominciarono ad assieparsi ai confini altri
migratori temerari. Dopo l'esperienza dell'invasione
gota, alla quale per l'ultima volta i Romani seppero
o p p o r r e la loro cultura in m o d o quasi vittorioso,
seguì l'ultima e più efferata invasione longobarda.
Erano il risultato, i Longobardi, di una scelta risoluta della vita migratoria. Prima del 400 d.C. erano
vissuti in riva all'Elba con Angli e Sassoni, forse paci105
ficati da un regime matriarcale, simile a quello che
incanterà le scene viennesi con la Libussa di Grillparzer. Veneravano Frea, la somma cagna o lupa. Non
credo sia difficile ricostruirne l'indole. Il nome proviene dalla radice dell'amore, la stessa che genera in
sanscrito la parola preman. Nelle lingue germaniche
fa nascere anche la parola libertà. Per intendere Frea
credo che giovi ricordare il racconto di Verga La
lupa, dove si mostra una d o n n a libera e libidinosa che
si p r e n d e con furia suo genero. Il pathos è quello che
può immaginarsi un u o m o come Verga avvinto al
sogno patriarcale, tremante dinanzi al paradigma
d'una d o n n a così diversa. Il personaggio della Lupa è
la cagna Frea dei Longobardi arcaici. La stessa che
veneravano Arcadi, Romani e Senesi, i quali ne adottarono l'immagine come emblema cittadino.
Forse capostipite dei Longobardi è da considerare
Lamissione, figlio d'una cagna meretrice, che lo buttò con sette fratellini in u n o stagno. Si narra che il re
longobardo passasse lì accanto e rovistasse il mucchio
di corpicini con la lancia. Lamissione ghermì il legno
del potere, che più tardi gli f u conferito.
Si dice anche che all'inizio ci f u la coppia di fratelli
Ibor e Aion, « le zanne di cinghiale », figli della profetessa Gambara, la forte e strenua.
In origine il popolo si chiamò Winnili, i protesi, gli
Streber. Ma attorno al 400 i Winnili abbracciarono il
culto capovolto di Woden, il marito di Frea. Il nome
proviene dalla stessa radice del latino vates, designa il
veggente. Ma ne proviene in tedesco Wut, la furia, e
in anglosassone e antico islandese le parole che designano il canto. Woden f u d u n q u e la possibilità di
perdere la testa come un poeta che canta f u o r di sé
ed è anche il Dio della furia guerriera, simile a quella
dei panduri di Crnjanski. Spinti da una furia traboccante i Winnili si buttarono sui Vandali ed ebbero la
meglio. Adottarono un n o m e nuovo, Longobardi; si
tagliarono i capelli sulla nuca e divisero le chiome a
metà in due bandoni, che raccolsero sulla barba. Le
106
d o n n e li legarono attorno al mento. Erano immagini del dio Woden, che nella Ynglinga saga lancia un
incantesimo e fa impazzire il colpito. Ma la magia di
Woden era considerata effeminata. Usava il seifr,
parola che proviene dalla stessa radice del latino
semen, ciò che si spande ed è colmo di forza. Credo
fosse lo scatto, lo sparo del mago. Si dovette acquistare con una torsione dolorosa e inebriante delle viscere. Forse si otteneva questa stretta con l'uso di funghi
allucinogeni. Sappiamo che nel seidr Woden tempestava su d'un coperchio proiettandosi in una transe
d u r a n t e la quale errava per l'universo.
Ricostruisco la spiritualità dei migratori longobardi, indifferenti allo spazio, all'edificazione, scatenati
in una rabbia di lupo. Forse divoravano il corpo ai
nemici, del cui cranio si servivano come coppa.
Conobbero un secolo e più di vittorie, finché vennero a trovarsi ai confini giuliani dell'Impero bizantino, dove Narsete ebbe m o d o di servirsene. Valicarono nel 568 la frontiera, penetrarono in Italia, dirà
Paolo Diacono, sterminando i preti e facendosi consegnare un terzo delle rendite dai proprietari romani che lasciarono in vita, demolendo le città. Usavano, come i criminali di Sicilia e di Sardegna ancora
oggi, violentare i vinti. Già erano da un secolo in
Italia e sterminarono gli abitanti di Oderzo e Forlimpopoli.
La rete dei monasteri toscani f u spiantata. Le pievi
romaniche sono di epoca successiva. Il culto di Woden sullo sfondo di Frea dovette r e n d e r e inflessibili i
guerrieri contro la religione cattolica. Ma i loro sovrani sentirono, come quelli anglosassoni in Inghilterra, che una consacrazione cattolica poteva essere
più forte di quella odinica. Attorno al 595 cominciò
la conversione. Dopotutto si trovavano entro i confini di un impero che razziavano sì, ma riconoscevano,
e che era un impero cristiano. Cominciò fin da Gregorio Magno la repressione d'ogni traccia dei culti
germanici: contro i pasti rituali, le pertiche sormon107
tate da colombelle nei cimiteri, l'immolazione d'un
capro a T h o r signore del tuono, seguita da una danza velocissima al suono di ciò che Gregorio Magno
chiamerà un canto nefando, la venerazione infine
dei serpenti e delle vipere. Rimase tuttavia nel diritto
longobardo la decalvatio o strappo dello scalpo.
La cristianità longobarda si dedicò al culto di certi
santi, ma specie di san Michele, che sostituisce Mitra
tauroctono.
Nel 774 Carlo Magno sopprime ogni traccia di
monarchia longobarda e la lenta agonia del popolo
già migratore proseguirà per pochi secoli. Taluni
angoli di Toscana restarono in m a n o a un'aristocrazia longobarda fedele agli imperatori tedeschi e vi si
m a n t e n n e l'uso d ' u n donativo alla sposa la mattina
successiva alle nozze. Anche il dialetto friulano, dopo
quello toscano, abbonda di vocaboli longobardi.
Parecchie tracce p e r m a n g o n o nell'italiano d'oggidì. Parole legate alla falegnameria, alla cura del cavallo; le circonda un alone truce, aspro e terragno,
talvolta sinistramente buffo. E tutto ciò che l'italiano
preserva della furia scabra, dell'irruenza perentoria
proprie dei tremendi migratori.
I loro boschi si dissero gualdi; il loro recinto dei
cavalli gahagi e diverrà « cafaggiaio », che significava
l'incaricato di un certo terreno e designò Cafaggi o
Cafaggiolo. Le corti longobarde, sai, si trasformer a n n o in toponimi e così anche i loro villaggi di confine o fara. I vocaboli d'origine longobarda sono
pregni di quotidianità: alazzire (toscano per « stancare »), banco, biacca, bica, catro (un cancelletto, simile
al tedesco Gatter), guarire (in luogo di « risanare »),
graffio, grimo (nei dialetti settentrionali designa il
miserello), grinfia, gualchiera, gruzzolo, lefa (laziale
per « cinghialetta », da leha), lonzo (ovvero «floscio»), magone (che sta per «stomaco», affine al
tedesco Magen), nocca, palco, riffa, riga (come il tedesco Reihe), rosta (l'inferriata del buco al di sopra
della porta), russare o sornacchiare, sbreccare, sca108
fo, scaffale, schiena (invece di « dorso »), scranno,
sgherro, sguillare (toscano per «sfuggire», da quillón, « zampillare »), sguintro (toscano per « magro »),
sprocco (per « germoglio »), staffa, staffile e staffetta,
stecco e stecchire, stamberga, sterzo, stinco, stocco,
stracco, strale, stronzo, taccola, tecchio (toscano per
« grasso », da thichi), tocca o tocco, tonfano (il buco
più f o n d o in un fiume), tonfo, trappa e trappola,
trogolo, zacchera, zaino, zanna, zazzera, zeppa, zinna o zizza, zipolo.
In friulano: pangón (il f u n g o porcino, dal longobardo bango), bisià (« lavoricchiare », dal longobardo,
così simile all'inglese, bisig), bleòn (« lenzuolo »), braide
(da braida, « luogo deserto »),farc (« talpa », affine al
tedesco Ferkel), grima (« vecchia torva »), racli (« ramo
di sostegno »). Sono frequenti nomi improntati alle
credenze longobarde: i commutati in lupo divennero
Adinolfi, Aghinolfi, Astolfi, Randolfi, Golfieri, Gandolfi (che recano anche la verga); i commutati in orso
invece Benno, Bernardo, Umberto, Berengario (un
orso con scudo); i commutati in corvo Alerami e
Beltrami, mentre Volframio è lupo e corvo allo stesso tempo o alternativamente; il commutato in aquila
è Arnaldo, i Guidi traggono potenza dal bosco, dalla
freccia invece Adalgisa e Gisella, mentre Alighiero,
Garibaldo, Gelindo e Gerardo, Tancredi, Edgardo,
Gilfredo, Manfredi e Gherardi dalla lancia, Anselmo
dal cappuccio, Grimaldo e Guglielmo dall'elmo, Ermengarda, Ildegarda e Irma dalla verga magica, Ermelinda, Rosalinda, Teodolinda dallo scudo di tiglio.
Aldo infine è il potere in sé e per sé.1
1. A. Fatucchi, Persistenze germaniche nelle valli aretine, in « Crozières », I, 2, M o n t r e a l , 1990; S. Gasparri, La cultura
tradizionale
dei Longobardi. Struttura tribale e resistenze pagane, C e n t r o S t u d i
A l t o M e d i o e v o , S p o l e t o , 1983; G. D e v o t o , Avviamento alla etimologia italiana. Dizionario etimologico, Le M o n n i e r , F i r e n z e , 1967;
M. C o r t e l a z z o e C. Marcato, Dizionario etimologico dei dialetti
italiani, U T E T , T o r i n o , 1992; F. Sabatini, Riflessi linguistici della
dominazione longobarda nell'Italia mediana e meridionale, Olschki,
Firenze, 1963.
109
Ascoltando tali vocaboli si coglie una forza r u d e e
anche una schiettezza campagnola. E la traccia ultima dell'universo lieve e terrificante dei nomadi che si
esaltano a lupi o orsi, pronti alla furia, immediati e
tetri. Da queste tracce non speriamo di accostarci alle
prospettive alte che i migratori possono attingere
alla fine dei loro percorsi, q u a n d o inventano un sincretismo. Né possiamo sperare, accanto a questi residui di linguaggio, di accostarci a quel m o n d o interiore dei migranti librato fra le strutture aliene, abbandonato ai venti, prossimo alla liberazione e p p u r e di
essa ignaro.
Se vorremo procedere verso la liberazione, tuttavia, questo stato lo d o v r e m o assimilare.
110
APOCALISSI E GENESI
F i n e e inizio: n o n e s i s t o n o
cose del genere,
esiste soltanto ciò c h e sta in m e z z o .
ROBERT FROST
A chi si lanci in un deliquio che lo porti f u o r del
mondo, pare sia largita la profezia. Egli si strappa ai
limiti dell'orizzonte, canta distesamente o farfuglia e
fa nascere un'apocalisse.
Molte piccole apocalissi vidi nascere in Estremo
Oriente. Nei templi cinesi a Taiwan, a Singapore, dovunque l'orrore comunista non li diroccò, di tra le
loro figure buddhiste e taoiste, spesso rimescolate
alla rinfusa o secondo soave sincretismo, fra il tamburo rullato da una d o n n a a sinistra e a destra l'armonium suonato da un uomo, il sacerdote siede,
spesso immerso nell'oppio, davanti a un tavoloncino,
tra f u m i d'incenso, e va in transe: a f f e r r e r à il pennello e traccerà dei segni. Talvolta del tutto enigmatici.
Talvolta contenenti apocalissi. Nell'Ottocento cinese
da simili rivelazioni f u r o n o provocate guerre atroci.
In taluni templi giapponesi va in transe e profeteggia la sacerdotessa. Nel 1892 una donniciola, Deguchi Nao, si sentì pervasa da un dio che s'era giusto
giusto liberato da demoni oppressori: doveva rinnovellare il m o n d o e intanto le dava il potere di guarire.
Le si unì Deguchi Onisaburó, predicatore shintò,
111
che annunciò l'arrivo di Miroku (Maitreya). Si scatenò la furia del governo nel 1921, ma la religione così
fondata sopravvive in Giappone. Ancor più di frequente emana la profezia in Corea, dove le sciamane
balzano e danzano con spada sguainata fino a farsi
possedere, e dalle loro gole, che gettano suoni così
diversi dalla voce, possono sgorgare apocalissi che
non di rado spingono al disastro comunità popolose.
Una furia sconfinata nell'apocalittica p r o f o n d o n o
gli indigeni del Brasile; l'intero secolo scorso fu uno
stillicidio di tribù lanciate così verso la morte per
fiducia in loro apocalissi. Uno scenario uguale o f f r e
l'Africa. Frontiers: The Epie of South Africa's Création
and the Tragedy of the Xhosa People di Noël Mostert'
narra come gli Xhosa f u r o n o via via tramortiti dall'avanzata incessante degli Inglesi dalla colonia del Capo, finché s'accesero della speranza che gli antenati li
venissero a salvare. Un veggente li spinse in guerra e
quindi nel 1856 una ragazzina proclamò un suo sogno di antenati che avevano annunciato l'incantamento maligno del bestiame. Promettevano di intervenire a patto che si macellassero le mandrie. Fu
adempiuto e 40.000 Xhosa morirono di fame, gli
altri si buttarono prigionieri in mano agli Inglesi.
Un tempo Israele annoverò comitati di profeti,
d o p o un periodo in cui erano state rare « le parole di
Dio e le visioni»; quei danzatori comunicarono il
loro empito a Saul. Dalle profezie emanate al tempo
degli scontri con gli imperi mesopotamici, l'ebraismo trasse i testi che articolarono la sua previsione
dell'avvenire. Così l'Ebreo imparò come sarebbe stato il finimondo; Abacuc si lamenta disperato e Dio gli
risponde con una visione « che attesta un termine,
parla d'una scadenza». T u t t o il sistema ebraico è
fondato su proiezioni estreme, insegnava Benamo-
1. C a p e , L o n d o n , 1992.
112
zegh, su termini e scadenze ultimativi e trasmutatori: l'uomo in sé e per sé scaglia chi l'osserva verso
l'idea dell'immortalità, verso la concezione d ' u n a longevità sconfinata senza dolore né malattia. Considerato viceversa nella sua socialità, l'uomo proietta
nel messianismo e nella redenzione. Come mero
corpo, egli ci spinge la mente all'idea di resurrezione, sicché Anna dice che Dio fa scendere nella tomba e ne fa risalire. Se si contempla invece l'universo
materiale, ci si sente lanciati nella palingenesi. Forse
questa divaricazione protesa all'ultimo confine pensabile f u un imprestito iranico, tuttavia ha assunto
un carattere specifico ebraico; di certo va contro la
tendenza greca a venerare il limite, che Aristotele
formulò nel motto « mesótes-akrótes » (« medietà-vertice »). La tragedia ateniese era fondata sulla certezza
che varcare il p u n t o mediano conducesse alla hybris.
La propensione greca a p p a r e la più giusta, finché ci
si attenga alla vita di veglia, ma esiste anche il sogno,
che a ogni confine e medietà contravviene allestendo spettacoli di sconfinamento e di oltraggio, di
sfrenamento e di scandalo. Li o f f r e col tono dell'incubo o della naturalezza, comunque stronca ogni
progetto di ragionevole ritegno. Se l'uomo sogna,
come potrà assestarsi senza gettare lo sguardo e i
sentimenti al di là del presente, fino al massimo
immaginabile? Fino all'Eden del passato o del futuro, fino ai nuovi cieli e alle nuove terre d'Isaia, al
giudizio finale e alla resurrezione di Daniele, al messia trionfatore sull'antimessia.
Questi quadri sognati con costanza non avranno
un potere magico? Se lo domandava Disraeli, consid e r a n d o una capanna di sukkót nella Londra dei suoi
dì; infatti, a poca distanza di tempo gli Ebrei tornavano in Israele, l'erezione delle sukkót aveva riportato nella terra avita.
Compaiono negli ultimi tempi ebraici d u e messia
(in greco: cristi ovvero unti; unto era il re o il profeta d'Israele). Prima il figlio di Giuseppe, l'impertur113
babile che, secondo Daniele, combatterà, sarà battuto e ucciso dall'anticristo, identificato come Armilus o Romulus nel settimo secolo. Questo Cristo
impassibile modellò forse l'immagine di Gesù, che la
Chiesa d'Oriente sostenne non avesse mai sofferto?
In seguito interverrà il secondo messia, il figlio
di Davide, e trionferà su Romulus-Armilus, « figlio
della pietra ». Ma, attesta Numeri rabbà, di messia ce
ne sono sette o otto. 1
Il Primo libro di Enoc asserì che il messia fu creato
prima della terra. Si disse altresì che egli nacque alla
distruzione del Tempio, rimanendo da allora in vita,
nascosto e presente: idea ripresa dalla shl'a, che dà
per certa e nascosta la presenza del dodicesimo
Imam, pronto a svelarsi in sogno ai degni. Anche il
secondo e ultimo imperatore PahlavT diceva d'averlo
intravisto. Dal II secolo fra gli Ebrei si raccontò che
il messia giace coi mendichi alle porte di Roma e per
essere pronto a balzare all'opera, non scioglie gli
stracci dalle gambe piagate. Pellegrini ebrei andarono in seguito a sedersi sul ponte eretto da Adriano
dinanzi a Castel Sant'Angelo, per contemplare la
presenza messianica straziata e possente invisibile
all'occhio profano, simile allo specchio che in Giappone si manifesta ai degni sulla porta del gran tempio di Ise. Oggi in cima a Castel Sant'Angelo si
innalza oscuro il grande attore dell'apocalisse, san
Michele, e sul ponte si ergono i dieci angeli bianchissimi, sconvolti dai venti in maniera solenne e graziosa, opera dei discepoli di Bernini.
Maimonide doveva tracciare i retti confini della
fede messianica: nulla di preciso si sa del finimondo,
a partire dalla guerra di Gog e Magog prevista da
Ezechiele in poi, e pensarci non giova a nulla; basti
sapere che il messia vittorioso sgominerà i nemici e
1. R. Patai, The Messiah
TexLs, A v o n , N e w York, 1979, p. 27.
114
che liberi e riveriti saranno allora i sapienti o, come
dirà Rav Nachman di Breslav, « quando verrà il messia non cambierà nulla di nulla, ma gli stolti si vergog n e r a n n o della loro stoltezza ».
Verso la fine della vita Ernesto De Martino fu attratto a questo tema. Non so se osò confessarsi lucidamente che come comunista anche lui confidava di
poter anticipare l'Eden rinnovellato dopo strazi ed
eccidi, perfezionata imitazione dell'Eden goduto dai
primi raccoglitori. Di certo si dedicò con cura alla
raccolta dei testi psichiatrici intorno a u n o dei sintomi dell'incipiente schizofrenia, il finimondo cui farebbero da premonizione per il malato il sole indebolito, lo scoppio metallico dei colori, la generale
atmosfera da venerdì santo. Per annunciare a uno
schizofrenico l'apocalisse basta un nonnulla, che egli
graverà d'ogni significato: entra in un caffè e vede
tre tavoli bianchi, per lui sono segno del finimondo.'
Fu nel Cullmann che De Martino trovò l'interpretazione dell'apocalisse cristiana. Lo Spirito Santo inebriò i primi cristiani a premonizione e arra dell'avvento, rinviato o all'avvenuta predicazione presso
ogni popolo o all'annuncio fatto in tutte le città d'Israele. La Chiesa celebrava, sulla falsariga del banchetto messianico ebraico, i banchetti eucaristici. Si
disse con autorità (Aie, 9, 7; 13, 30) che la generazione presente avrebbe visto l'arrivo del regno messianico. Paolo fu d'accordo (7 Ts, 4, 75). Ma vide in
seguito con sgomento che gli abitanti di Tessalonica
buttavano all'aria ogni opera per fiducia nell'avvento
e così finì con l'affermare che esso sarebbe giunto
soltanto dopo la morte di quella generazione. Forse
l'Apocalisse inserita a capo delle Scritture cristiane
ricalcava la tesi ebraica del tempo, che Roma fosse
l'ostacolo alla parusia: pare sicuro che vi compaia
1. W. Mayer-Gross, Clinical Psychiatry,
238.
775
Cassel, L o n d o n , 1954, p.
Nerone, identificato con l'anticristo. Ignoriamo a
quali conclusioni De Martino sarebbe approdato.
Viceversa ci rimane nell'ultima opera di Ioan Culianu un'indagine esauriente e chiara del genere
letterario apocalittico. Fu un g r u p p o di studiosi guidato da J.J. Collins, egli addita, a raccogliere insieme
tutte le apocalissi, le ebraiche, le cristiane e le gnostiche, nel 1979. L'apocalittica cristiana riprese pari
pari i temi dell'ebraica, ma continuò in seguito a
ripetere e a evolvere alcuni motivi, anche nel suo
passaggio attraverso le terre di civiltà celtica, fino a
sfociare nel capolavoro dantesco. Forse in esso confluirono motivi tratti dall'apocalittica maomettana,
che narra il viaggio del profeta dalla pietra del tempio di Gerusalemme al sommo dei cieli, vicenda che
si estrae a fatica dalla XVII sura del Corano, il cui
verso fluttua enigmatico all'occhio di chi entri nella
moschea di al-Aqsà a Gerusalemme. Forse intervennero anche influssi iranici; i sacerdoti zoroastriani di
T e h e r a n me lo garantirono: Dante f u influenzato
dal Dènkart, scritto da un imperatore iranico imbevuto d'oppio.
Il culmine dell'apocalittica cristiana si manifesta,
pienamente consapevole dell'apporto dantesco, nel
Duomo d'Orvieto, alla Cappella Nuova o della Mad o n n a di San Brizio. E tutta incentrata sull'anticristo predicante su dettato del diavolo e praticante la
resurrezione d'un morto fra gli strumenti strappati
al Tempio. Ma l'apogeo, nell'apocalisse del Signorelli, è il finale glorioso dei corpi nudi e maestosi
incoronati dagli angeli. A questa scena conclusiva ci
entrano in cuore i dubbi. Quei fasci di muscoli da
p u r o disegnatore sono sensuali ma spesso anche acri
e severi, così tipici del Signorelli. Stranamente inquietanti. Ci si d o m a n d a se riflettano l'estrema visione apocalittica cristiana o viceversa una grecità rediviva nelle forme ora aspre ora delicate del pittore,
un'affermazione tutta rinascimentale e non più del
tutto cristiana.
116
T o r n i a m o alla scaturigine che ha portato fino a
queste scene, alle apocalissi ebraiche narranti una
chiamata ai cieli con una guida angelica che solleva
via via a vari livelli successivi e infine fa visitare un
tempio simile a quello di pietra a Gerusalemme, ma
fatto di cristallo e di fuoco. Si incomincia dal Primo
libro di Enoc, tramandato in etiope, ritrovato a Q u m ran in aramaico. Esso culmina nella visione del trono divino in un abbaglio di luce. Ma Enoc visita
anche uomini, angeli e stelle colpevoli che sono puniti agli estremi della terra. Seguono il Secondo libro
di Enoc e il Testamento di Levi.
Il Libro di Baruc porta a livelli celesti dove compaiono il serpente e il drago che trangugia i malvagi,
mentre i giusti volteggiano nei cieli come uccellini. Il
Testamento di Abramo mostra Abramo condotto sul
cocchio di Michele al bivio tra inferno e paradiso.
Tutta l'apocalittica cristiana è l'assunzione pari
pari di questa ebraica: annovera la Visione di Isaia,
dove compare Samaele, il demonio che è Roma e
comanda a settantadue demoni, le nazioni pagane.
Forse l'apocalisse che chiude le Scritture cristiane è
una elaborata maledizione di Roma. Q u a n d o Roma
si convertì, l'apocalisse infatti f u sconfessata da Eusebio di Cesarea.
Di recente Ithamar Gruenwald 1 ha mostrato che in
genere l'apocalittica ebraica si mescolava a prescrizioni mistiche, per cui l'ascesa attraverso sette palazzi
celesti imitò strettamente i sette giorni della purificazione in abiti bianchi, da candidati, col bagno e
l'interrogatorio finale da parte dei Leviti, premesse
necessarie all'accesso nel T e m p i o di Gerusalemme.
Seguiva la visita al T e m p i o per i pellegrini, mentre
nella pratica mistica a quel punto si calava la testa fra
le ginocchia e si cantava digiuni, fino a che fiamme
scendessero dai cieli e gli angeli d'intorno danzassero. Il rabbinato fece scomparire questa tradizione.
1. Apocalyptic
and Merkavah
Mysticism,
117
Brill, L e i d e n , 1980.
Del tutto distinte f u r o n o le apocalissi gnostiche
studiate da Giovanni Casadio, basate sulla contemplazione del fallo nella vulva, da cui nascerebbe
l'Intelletto, che avrà bisogno dell'aiuto del Cristo per
liberarsi da quei suoi genitori.
Un'acme dell'apocalittica, com'è noto, si celebrò
nell'anno 1000, che parve tanto significativo ai cristiani. Il re di Francia sperava di riagguantare l'Impero, nella città che doveva sostituirsi a Roma, Aquisgrana. La regina Gerberga perciò scrisse nel 954
all'abate Adzo per farsi istruire sul 1000 e le fu
assicurato che sarebbe giunto coi popoli di Gog
e Magog l'anticristo, capovolgimento puntuale del
Cristo. Egli avrebbe ristabilito il culto dei demoni
mercé i suoi ministri (i quali già erano comparsi in
figura di Nerone o di Domiziano). Doveva essere un
Ebreo, la cui madre sarebbe stata ricolma del diavolo. Terribile si doveva abbattere con terrori, doni e
miracoli sui credenti. Enoc ed Elia si sarebbero fatti
vivi a convertire gli altri Ebrei, destinandoli però in
tal modo al martirio. L'anticristo era destinato a
essere ammazzato infine sul Monte degli Ulivi a
opera di Gesù o di san Michele. Il re di Francia, che
intanto doveva pervenire alla piena potestà imperiale, avrebbe consumato l'Impero romano sul Monte
Uliveto: una delle innumerevoli interpretazioni dell'apocalisse, naturalmente, come sempre, combinata
a puntino con la situazione politica dell'istante.
Oggidì questi scombiccherati conforti a chi vorrebbe appoggiarsi alla preistoria da un lato e al suo
perfezionamento nel finale della storia dall'altro,
sopravvivono soltanto, nella maniera più cruda e
violenta, nelle schizofrenie.
La storia non è un decorso unitario e lineare, né ha
un inizio certo e univoco, né una sua fine è immaginabile se non nei fumi d'una malattia e, q u a n d o pure
si prospetti, servirà da specchio a chi l'avrà formulata, offrendogli nient'altro che una diagnosi delle sue
deficienze. Si può tuttavia vivere in certo m o d o la
118
genesi del cosmo, è dato infatti di trapassare dall'esistenza ordinaria all'intuizione di un'origine sacrale
d'ogni cosa: basta capovolgere il piano sul quale di
solito si vive.
Si è circondati per lo più dalle molteplici realtà
visibili che la realtà acustica sorrade, avvolge, accarezza.
Questo assetto si può rovesciare, installandoci nella successione dei suoni e spingendo sullo sfondo
tutto quanto colpisce l'occhio, che diventa accompagnamento, conseguenza, riflesso delle frasi musicali.
Soltanto così o p e r a n d o diviene chiaro e accetto l'arcaico dogma secondo cui il visibile trasse origine
dall'acusticità. Si narrava in epoche remote che all'inizio del tempo sorsero suoni nella tenebra e presero un ritmo e a poco a poco divennero intelligibili,
tramutandosi in fili di luce ondulante, per assumere
infine la forma di corpi investiti dalla luce.
Se si presta fede a questa genesi, basterà chiudere
gli occhi e concentrarsi sulle musiche della natura:
esse esprimono con precisione gli eventi, poiché
questi in un ritmo celano il loro più intimo segreto,
la loro essenza, chiave e origine. Ogni sentimento si
risolve nel ritmo che ne f o r m a il sigillo e ne o f f r e la
definizione. Si tengano chiusi gli occhi e cadenze
bene rullate ci comunicheranno tutto ciò che le pupille spalancate ci mostrerebbero. Ce ne informeranno anzi assai meglio di qualunque vista o definizione verbale. I vocaboli sono miseri sussidi, rispetto
al ritmo che li lega, connette, articola, atteggia, disponendoli in frasi musicali, in versi. Il vocabolo
significante denota e connota, il timbro e il ritmo
imitano il significato. L'errore platonico fu di credere che le parole imitassero le cose denotate.
Si presti orecchio alle sequenze ritmiche che attraversano le foreste africane: con la massima cura
d i f f o n d o n o i loro messaggi, meglio d'ogni sequenza
di parole e frasi. Chi le ascolti, può credere che il
m o n d o f u creato dal suono e che la visibilità ne sorse
119
in un secondo momento. O p p u r e si ascoltino musiche nella notte fonda. Come dice Cioran, esse possono diventare « il linguaggio della trascendenza » e
questo spiega le complicità che sanno creare: introducono in un universo dove le frontiere sono abrogate: « peccato che Proust, tanto impegnato ad analizzare la musica e i suoi effetti, ignori la sua capacità
di trasporre al di là della sensazione ». Questa genesi
innocente sta a eoni di distanza dalle fantasticherie
su Eden primordiali o su società matriarcali di raccoglitori.
120
IL M A T R I A R C A T O E LE SELVE
IN CUI SI SOSTIENE UN NESSO TRA L'IDEA MATRIARCALE
E IL VALORE DELLA SELVA, SICCHÉ
IL SOMMO RISCOPRITORE DEL MATRIARCATO,
BACHOFEN, EBBE UNA FORTUNA
CHE È DATO DI NARRARE A PARTIRE
DALLA SPARIZIONE DELLA SOMMA P I T T U R A ,
TARDOGOTICA O BOTTICELLIANA,
FONDATA SULLA SIMBOLOGIA SILVESTRE
Marija Gimbutas insegnò all'Università di California a Los Angeles; i suoi scavi ad Achillion in Tessaglia, compiuti nel 1973-1974, che allineò con quelli
fatti da altri nei decenni precedenti in Ucraina e nei
Balcani, oltre che a Qatal Hùyiik in Anatolia, le permisero di dare la prova, attraverso centinaia di manufatti, della sua tesi più amata: fra il 7000 e il 3500
a.C. dominò un matriarcato, che già era stato ricostruito da Bachofen sui testi classici. L'invasione indoeuropea travolse quella pacifica civiltà. Dumézil
non s'era accorto che le divinità « polifunzionali »
come Atena testimoniavano di quel passato.
L'antica dea uccello, che portava la vita e decretava
la morte, divenne Atena in Grecia, Morrighan in
Irlanda, Laima fra i Baltici. Rimase viva la sua figura
di vergine e regina: riaffiora al termine dell'Asino
d'oro di Apuleio, che la definì con nitore, sopravvive
nella Vergine cristiana. Nella sua sfera il colore funebre è il bianco delle ossa, non il nero degli Indoeuropei. Il suo culto si perpetua accanto ai pozzi, alle
acque termali e nei centri di tessitura. Gli otto milioni
di streghe sterminate dai cristiani f u r o n o l'ultimo
121
atto di u n a guerra millenaria che non l'ha ancora
cancellata, poiché i bambini ancora crescono fra le
sue immagini preservate nelle fiabe e anche nelle
semplici parole.
La Gimbutas la ritrova come dea della forgiatura
del rame oltre che degli strumenti musicali, dei tamburi a clessidra e dei flauti (torna in mente lo stupendo altorilievo etrusco finito nelle collezioni russe, con le sirene in fila a suonare ogni strumento,
come un'orchestra, davanti alla nave di Odisseo patriarcale). Non a caso si amò dare agli strumenti la
forma di uccelli.
Le decorazioni che significano la dea possono essere trilineari, triangolari, a scaglioni, a zigzag, a V,
X, M e sono incise sui vasi, sui sigilli, sulle cocche dei
fusi.
Sacro alla dea è l'ariete, onde le sue corna figurano in testa alle figure d'uccello. Il suo vello diventa
pelo di pube, lana, rete. Nelle sale da parto, i massimi santuari di Qatal Hùyùk, accesi dalle pareti e
dai pavimenti vermigli, le decorazioni raffigurano il
passaggio dalla cervice all'utero, il cordone ombelicale, il liquido amniotico.
La dea f u anche Cerva, Orsa (a Creta ancora si
venera la Vergine Orsa), Serpe, Oca o Anatra, Scrofa (il cui grembo è simboleggiato dai tumuli), Cornacchia, Civetta profeta, Cuculo, Colomba. Spesso
f u vista come lavandaia magra, alta, famelica, con
lingua pendula e velenosa. La rappresentarono le
uova, le barche (spesso figurate come fila di linee
unite da una striscia sul fondo). Ma il suo aspetto di
utero fu ravvisato soprattutto nei rospi (Baubo in
greco è il rospo), nelle rane, nei porcospini (utero di
mucca e porcospino in tedesco si dicono entrambi
Igei), nei pesci (in greco delphis è il delfino, delphys
l'utero), nei tori, prima che gli Indoeuropei li tramutassero in simbolo di virilità. I pettini e le spazzole f u r o n o in origine fusi con le ali della dea-uccello.
Le paia ovvero i doppi tuorli, i due bruchi o nautili,
122
le d u e falci di luna, i gemelli, le natiche sono suoi
emblemi.
Matriarcali in certa misura f u r o n o in seguito, f r a
gli Indoeuropei, i Celti: per loro le d o n n e racchiudevano i misteri della fecondità, della crescita, del desiderio ed erano perciò punite q u a n d o sul paese calava
la carestia, ma finché la vita tumultuava imperterrita,
era la donna che si sceglieva lo sposo, porgendogli
una coppa di vino tagliato con acqua, e di sposi se ne
poteva eleggere fino a dodici.
Nella letteratura irlandese spiccano terrificanti,
scatenate sacerdotesse guerriere, allenate a smorfie
raccapriccianti, a balzi folli, a urla micidiali. In certe
cerimonie religiose le d o n n e intervenivano n u d e e
tinte d'azzurro. T a l u n e si riunivano in conventi su
isole sacre e vivevano in castità, praticando la profezia: una volta all'anno ricostruivano il tetto del tempio e se una inciampava nel farlo, era soppressa.
L'immaginazione celtica era arroventata e ricchissima; ahimè è difficile ricostruirla, pochi cenni sugli
dèi ci sono trasmessi da gente come Cesare, che con
impeto sincrético r o m a n o assimilava alle sue le divinità celtiche così diverse. Dice che in cima sta Mercurio inventore delle arti, protettore delle vie, guida,
manipolatore delle ricchezze; seguono Apollo, Marte, Giove, Minerva. Forse Mercurio era Lug e Giove
Taranis, dio della quercia e della folgore. Forse Marte è Moccus il maiale e Apollo Belenus il bel giovinetto. C'è anche un Ercole celta, Ogmios, che si raffigurava con catenine esili esili che dalla lingua gli partivano a n d a n d o ad annodarsi alle orecchie della gente.
Tanti altri dèi sono testimoniati mutamente da statue
e altorilievi: Epona la cavalla, Arduinna la scrofa
delle Ardenne, Alísanos degli ontani, l'orso Matunus, la « grande » o Brigantia, Cernunnos cervino,
cornuto, in posizione yoga; c'erano anche i Dusii, che
provocavano alla libidine.
Stregavano la fantasia celtica pietre, venti, foreste
123
che non si tagliavano ma si ornavano coi resti delle
vittime sacrificali e servivano da tempio. Per eccitare
l'immaginazione degli dèi si ricorreva al sacrificio. Il
sangue sparso si beveva e di esso ci si spalmava il
corpo. L'olocausto più grandioso andava celebrato in
u n ' e n o r m e forma u m a n a fatta di vimini e di legno,
inzeppata di persone e poi data alle fiamme. A ogni
dio andava rivolto un sacrificio speciale: a Teutate si
offriva la gente immergendola e soffocandola in bagni, a Esus invece si dedicavano uomini impiccati ad
alberi e fatti dissanguare.
Il malato o minacciato votava sé o altri al sacrificio;
i sacerdoti druidici accoglievano ed eseguivano il voto, traendo responsi dalle viscere sparse.
Orribile è il gusto, lo scialo del sangue f r a i Celti.
Ma esuberante, forsennata perfino, sempre entusiasta, ebbra appare la vita del popolo. Vigeva una democrazia quasi anarchica, ma ci si riconosceva in
tre caste, le solite degli Indoeuropei.
Dumézil ha dipanato i pochi documenti, specie
per ciò che attiene ai cantori, che erano di casta
sacerdotale, conoscevano la straordinaria magia della verità e decretavano la fama di ciascuno, potere
supremo. In cima alla società stavano druide e druidi, che conoscevano, per averle studiate d u r a n t e
vent'anni, migliaia di enigmatici versi, mai trascritti,
dove tutta la cosmologia, la filosofia, l'astrologia erano racchiuse. Non erano puri studiosi tuttavia, praticavano immolazioni mostruose e presagivano il f u t u ro. Custodivano inoltre i segreti della metempsicosi,
così generalmente creduta che prestiti e prestazioni
potevano essere rinviati a vite venture. Oltre ai druidi c'erano anche vati e sacerdoti particolari.
I druidi non andavano in guerra e non erano
soggetti a tributi. Al contrario dovevano dedicarsi
alle armi i guerrieri, alla produzione dei beni gli
agricoltori, e gli allevatori erano tenuti a pagare le
imposte. In cima a tutt'e tre le caste sedeva il re, che
acquistava il regno sposando (in sogno? in fantasia?
124
ritualmente?) la Dea della terra. L'Ulster era dominato dalle tre Macha e con una di esse il re si doveva
accoppiare. Poteva essere una vecchiaccia orrenda,
che si convertiva in vezzosa giovinetta, tramutata dai
soavi baci e dal fiero abbraccio. Geraldo Cambrense
r a m m e m o r a un rito irlandese in cui il re doveva
possedere una giumenta e poi dividerne le carni col
seguito, un ricalco del sacrificio equino indù, Yasvamedha.
Una vaga e arbitraria ricostruzione della religione
druidica ispirò nel secolo XVIII una setta o scuola
britannica, la quale ne traeva conforto per un'azione
abbastanza segreta a favore della democrazia. Disraeli a essa attribuì la fondazione delle prime T r a d e
Union. All'inizio di questo secolo a Dublino u n gruppo di appassionati e veggenti si dedicò a riscoprire i
misteri della religione celtica nei racconti, nelle occhiate, nei magnanimi gesti dei contadini irlandesi
bizzarri, rissosi, ubriaconi, permalosi, canori, credenti. Yeats ritenne di poter risuscitare un'alba celtica dedicandosi a riti esoterici, al deliquio, all'ispirazione e al suo ansioso amore del passato. Ma fu
soprattutto Robert Graves a riportare in vita la psiche celtica nel suo capolavoro La Dea Bianca (uscito
nel 1948, ma completato nel 1961),1 in cui decifrò le
r u n e celtiche, gli ogham o doni di Ogmios, l'Ercole
celta.
L'opera incomincia con una poesia, canta che meritò la cicuta, Socrate: meritò la piantina di Ecate dai
fiori bianchi e dal sentore di sorcio, poiché aveva
tradito Moira-Ilizia-Calloné, Morte, Rinascita, Bellezza, poiché aveva abbandonato i misteri d'Eleusi, di
Corinto, di Samotracia, che sarebbero sopravvissuti
nei collegi poetici dell'Irlanda e del Galles, fra le
streghe, fra i sufi. Su questi misteri Graves si lanciò
con erudizione appassionata, scavando nel patrimo1. The White Goddess, Faber a n d Faber, L o n d o n , 1 9 4 8 ,
(trad. it., A d e l p h i , Milano, 1992).
125
1961
nio celtico di origine prearia e matriarcale, di gente
ancora esaltata e inorridita dalla Musa lunare. Lui
era ritirato in un angolo delle montagne di Mallorca,
s'era rimosso dalla civiltà patriarcale e industriale,
poteva riprendere contatto con i primi bardi gallesi,
devoti cantori dell'Anno Crescente che ingaggia la
battaglia e la p e r d e coll'Anno Calante, suo Destino,
suo Doppio, ma poi risorge nella trafila dei tredici
mesi, per amore disperato della Triplice, madre,
amante e prefica, pallida con labbra di sorbo selvatico, occhicerulea, bionda Dea Bianca, che a vederla si
rabbrividisce, ci si rizzano i peli, si piange col cuore in
tumulto. Questa vicenda sta dietro alla teoria dell'alfabeto magico celtico o ogamico, fondato sulla serie di
tredici alberi-mesi-consonanti: B betulla, L sorbo selvatico, N frassino, F ontano, S salice (sacro a Ecate,
Circe, Era, Persefone, alle streghe), H biancospino,
D quercia, T agrifoglio (combatteranno fino al dì del
giudizio ogni Calendimaggio i cavalieri della quercia
e dell'agrifoglio), C nocciolo, M vite, P sambuco selvatico, R sambuco decembrino delle streghe. Ci sono
poi le vocali: abete, ginestrone, erica, pioppo, tasso
(AEIOU). Il libro denso ed esultante, teso sul filo di
una conoscenza minuta della letteratura gallese e
irlandese, dei primordi greci ed ebraici, finisce con
un giudizio avverso su Ramakrishna, traditore di
KàlI a prò di una « psicosi » chiamata samàdhi: Graves
è matriarcale, prostrato ai piedi della Dea, in lei trova
la sua libertà, estasi e morte.
Forse dovremmo stornarci a questo punto da
Graves: Tucci espose così diversamente il culto bengalese della Dea. In Bengala nell'autunno si celebrava KàlI o Durgà, al momento delle guerre che in
antico dovevano offrire loro il sangue dei prigionieri. Nel cerimoniale interiore si meditava sulla Dea:
vedendola seduta su d'un trono lunare, che consentiva a scendere nel cuore del meditante. Viaggiando
nel Bengala tanti riti alla Dea si o f f r o n o all'occhio,
ma nello yoga essa diviene la serpe Kundalinl, che
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d o r m e attorno all'ano e può scattare in su, liberandosi: allora si potrà intonare veracemente coi T a n t r a :
L a d o n n a è il c r e a t o r e d e l l ' u n i v e r s o .
E il v e r o c o r p o d e l l ' u n i v e r s o .
N o n c ' è f e l i c i t à c o m e q u e l l a c h e d à la d o n n a .
T o r n i a m o al cuore della Dea Bianca: la prima
impressione che ne viene è di sgomento e meraviglia,
come per la parte dell'opera di Tolkien dove, dopo
vicende fittissime di uomini e di mostri in lotta, si
varca la soglia della foresta e ci si accorge della vita
potente, soverchiante dei grandi alberi che stanno
per intervenire nel conflitto. Ci si risovviene delle
notazioni di certi etnologi, come Alexander Goldenweiser, che in North American Indian Life, un'opera
collegiale uscita a New York nel 1922, mostrava come f r a gli Irochesi la natura vegetale spettasse alla
donna: la fanciulla cominciava a connettere nicchi e
boccioli con l'ago e via via si legava a semi, fiori,
fogliami propri alle donne, ignoti agli uomini.
Si riconnette ogni nostro problema, se accettiamo
il regime matriarcale, al m o n d o arboreo e vegetale:
questo il punto centrale, il nucleo delle civiltà il cui
asse è la donna: le piante diventano intrinseche all'umanità, nelle selve si cela il nocciolo della vita. Tale
certezza fu al cuore delle civiltà sciamaniche.
L.L. Gabysheva, dell'Università di Jakutsk, si domanda se il dio degli sciamani sia buono o malvagio e
risponde mostrando l'intreccio di contrapposizioni,
per cui quel dio è un mediatore tra spiriti buoni e
malvagi, promuove lo sciamanesimo (che media fra
umanità e divinità, f r a terra e cielo, vita e morte) e
divampa nel fuoco (che media fra natura e cultura,
uomini e dèi). Figlio del dio è il corvo, che mangia
carne ma non uccide, spezzando così l'opposizione
fra predatori e mansueti. Egli media f r a estate e
inverno, giorno e notte, ma lo capiremo soltanto
nelle selve, dove la betulla è buona, le conifere mal127
vagie e media il larice, la conifera che cambia veste
una volta all'anno. Infine si può concepire il volto del
dio sciamanico: è tremendo, tuona e lampeggia, ma
scaccia gli spiriti malvagi, lo si ravvisa contemplando
gli alberi, in fraternità con essi.
L'aspirante sciamano buriato è toccato con una
scopetta di rami di betulla bagnata in una marmitta
dove bollono timo, ginepro, corteccia d'abete. Per le
cerimonie iniziatiche si alzano betulle che f a n n o salire in cielo, al suono del tamburo, la cavalcatura dello
sciamano, la cui a r m a t u r a è fatta di betulla. Perché la
betulla ha il primato e non il più alto e anziano abete?
Forse per il candore crescente via via che si sale per il
tronco. Androgina è la betulla e ai suoi piedi si trova
assai spesso l'amanita muscaria, il massimo inebriante e allucinante.
Questo m o n d o sciamanico pervade il buddhismo
via via che esso si d i f f o n d e per l'Asia. Che cos'è un
Bodhisattva se non u n o sciamano che si p r o f o n d e ad
aiutare e guarire il prossimo? In tocario sàmam vuol
dire monaco buddhista. Ma tutta la leggenda del
B u d d h a si può leggere come adorazione dell'albero
sotto il quale egli ebbe l'illuminazione.
In India è il fico a rappresentare l'asse del cosmo e
la sua simbologia fu studiata nei particolari dai testi
filosofici: il tronco è l'intelletto, le cavità interne sono
i sensi, i rami sono gli elementi, foglie e fiori sono
bene e male, i frutti piacere e sofferenza. La conoscenza metafisica spacca l'albero e fa salire in cielo.
In India vige il culto dell'albero rovesciato, dalle
radici in cielo, e lo ritroviamo nel m o n d o intero, f r a
Lapponi e Australiani, nell'Islam, in Dante, nell'ebraismo.
In Grecia la quercia domina e all'origine ebbe un
culto femminile. La driade quercina dava responsi a
Dodona e nel Lazio dovette vigere un culto identico,
la cui driade si chiamò Egeria e la cui leggenda si
riflette nel mito del lago di Nemi. Nelle origini minoiche Rea fu la driade e suo fu il bell'adolescente
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Zeus, poi si passò al culto della quercia come Zeus e
dell'olivo come Atena. Accanto a loro l'antico e cretese Dioniso f u invece sentito nel mirto, nel pino, nel
melograno, nel fico e quindi nell'edera e nella vite.
Q u a n d o la vite muore, fiorisce l'edera e viceversa, le
d u e sono il giorno e la notte alterni, Dioniso li congiunge. Si può interpretare la guerra di Troia come
lotta del melo di Afrodite contro il pero di Atena e di
Era.
Così ci conduce nel m o n d o vegetale, dagli sciamani ai sacerdoti greci, Jacques Brosse, nel suo Mythologie des arbres.1 Vorrei aggiungere un delizioso poemetto carelio, tipico della profondità e libertà di chi
comunica con le piante: Luojan Virsi, raccolto dal
Lònnrot nel secolo scorso. Esso ci traspone in un
universo fluido e accavallato, dove ogni antinomia si
smussa e fonde, n a r r a n d o la nascita del messia Gesù.
La Vergine Maria, dalla cintura di rame e dal candido velo, si sente chiamare da un mirtillo, che lo colga
prima che un bruco lo morda. Così ella fa e il mirtillo
le salta addosso, corre dal grembo alla cinta, ai seni,
al labbro, di dove cade nella pancia, che gonfia e la
costringe dopo nove mesi e mezzo a partorire. La
moglie di Erode non la vuole nel bagno, la m a n d a
dove partoriscono le puttane e le streghe. Maria
chiede al cavallo il suo fiato caldo e partorisce il figlio
nel fieno. Ma appena l'ha deposto, esso scompare e
Maria corre a cercarlo, ne chiede alla via, alla luna, al
sole, il quale infine le dice: « Egli è nei cieli, al posto di
Dio Padre e di lì scenderà a giudicare ». Cristianesimo e paganesimo si sono fatti liquidi e si sono mescolati, h a n n o prodotto un m o n d o nuovo, scintillante,
equivoco come la distesa di sorbi e mirtilli, di larici e
pini.
Questa ricchezza dei fiori e degli alberi ancora
nella Rinascenza p e r d u r a , anche se noi s'incontra
1. Plon, Paris, 1989.
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difficoltà nel decifrare gli arazzi e le pitture tempestati di fiori, ornati di piante che non sono soltanto
macchie di colore, elementi compositivi, ma enigmi,
messaggi coperti, chiavi filosofiche, come l'aquilegia,
simbolo del perfetto amore, che « firma » certe opere
della cerchia leonardesca.
Dove più preme capire il significato delle piante è
in certi arazzi tardogotici, specie del ciclo La dama e
l'unicorno. Il Museo medioevale di New York, T h e
Cloisters, che ne possiede una notevole raccolta, annovera un esperto di orticultura simbolica, J o h n Williams. Sul numero di marzo della rivista « Horizon »
del 1979 egli fornì alcune indicazioni di lettura per la
Caccia all'unicorno.
La serie degli arazzi si divide in tre parti; l'unicorno corre via via verso la Dama Celeste nella sua
forma di sposa e di primavera, di madre e di estate,
di vecchia invernale. La prima fase, degli sponsali,
vuole il sorbo dalle foglie smerlate; la seconda, della
concezione e fecondità, la fragola e il garofano; la
terza il nocciolo e il fagiolo che cresce a spirali e
allude alla resurrezione, oltre alla pervinca e alla
primula. E possibile una decifrazione cristiana, improntata al culto di Maria, che protegge la purezza
(l'unicorno), come attestano fiordalisi e iris, mentre i
pioppi dalle tremule foglie dichiarano la paura e il
tremore della purezza insidiata in un m o n d o ostile.
Ma un'altra lettura riconduce al mito pagano del
vecchio re (la quercia) che si sacrifica perché trionfi il
re giovane (l'agrifoglio), anche se si può interpretare
la coppia quercia/agrifoglio come simbolo del Battista e del Cristo.
Nella grande pittura rinascimentale la botanica
permane, altrettanto cruciale. Mirella Levi D'Ancona ne trattò in The Garden of the Renaissance: Botanical
Symbolism in Italian Painting1 e quindi presentò il con1. Olschki, Firenze, 1977.
130
tributo suo e di alcuni suoi allievi alla decifrazione
della Primavera botticelliana. 1
Che Botticelli coltivasse un meticoloso simbolismo
botanico è provato dalla Pala Bardi di Berlino, andata distrutta d u r a n t e la guerra. Rappresentava la Madonna fra il Battista e Giovanni Evangelista e aveva
un intento teologico, affermava la dottrina maculista, sostenuta dall'Ordine domenicano, secondo cui
la Vergine, concepita macchiata dal peccato, f u purificata, al pari del Battista, già nel grembo materno. I
francescani viceversa la volevano già immacolata nel
concepimento. Come dirlo meglio che con i fiori? Per
accertarsi d'essere capito, Botticelli avvolse a ogni
stelo un cartiglio con una citazione da\\Ecclesiastico,
salvo una tratta dal Cantico dei Cantici.
Dopo aver analizzato la pala, la Levi D'Ancona era
attrezzata per a f f r o n t a r e La Primavera, dopo i recenti
restauri perfettamente leggibile nei particolari botanici. A n d a n d o da destra a sinistra essa mostra Zèfiro
come angelo che irrompe dal mare (era in origine di
color celeste) piombando sulla sgomenta Clori (la
ninfa degli sbocci), la quale si trasforma in Flora (la
fioritura), sicché Venere dà inizio alla danza delle tre
Grazie: Amore, Bellezza e Castità (si può interpretare: la bellezza volge la castità all'amore, tanto che
tutt'e tre le Grazie fan sporgere un dito malizioso nel
darsi la mano). Intanto Cupido scocca un d a r d o infiammato a Castità, ed essa volge lo sguardo a Ermete, che sta innalzando la verga alle nubi.
Facile è la trasposizione astrologica: a marzo spira
Zèfiro scaldando la terra e facendola germogliare,
sicché in aprile, dice Ovidio, essa è tutta aperta e in
fiore, sotto il segno di Venere, mentre maggio, mese
di Maia, madre di Ermete, prepara il regno di Ermete, il quale reggerà i Gemelli e disperderà le ultime
nubi.
Altro piano di lettura è quello ermetico: l'Amore
1. Botticelli's
Primavera,
Olschki, Firenze. 1983.
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scende sulla terra come f u r o r e passionale, che si
tramuta in voluttà e in grazia gentile, per affinarsi
infine in celeste contemplazione.
Ma il perno del q u a d r o è Primavera, la stagione in
cui l'invisibile m o n d o delle forme scende a modellare la materia, trasformandola da potenzialità in atto.
La Primavera è il punto di congiunzione fra le divine
f o r m e e la materia visibile. Questa visione filosofica
della primavera si traspone alla primavera politica
che i Medici sembravano per suscitare, facendo calare nella politica italiana la luce del neoplatonismo
greco, l'eredità di Bisanzio. Il quadro celebra anche il
matrimonio cruciale fra Lorenzo di Pierfrancesco
(l'Ermete sulla sinistra) e la figlia del signore dell'Elba (forse la Castità), il grande evento preparato per il
maggio, appunto, del 1482.
La Levi D'Ancona ritrova nelle metafore del Ficino lo spunto delle più enigmatiche figurazioni del
q u a d r o (come mi accadde di fare con le statue di
Bomarzo). Le più felici scoperte le arridono esamin a n d o l'Ermete. Egli posa i piedi su un prato di
crescioni e il panno di lino che reca ad armacollo è
tempestato, sul grembo, di asteracee: nel De Amore
Ficino parla dell'energia generativa che prima dà
l'impulso alla crescita e quindi spinge verso gli astri
amorosi; parla inoltre del lino che attrae le fiamme
ed è perciò metafora dell'anima ben disposta ad accogliere l'amore celeste: di lino è il p a n n o che avvolge Ermete e una pianta di lino gli cresce accanto.
Botticelli potè anche aver richiamato un motto
scherzoso per la sposa del giovane Medici (« non è
fatto il lin per l'oche »). A ribadire i riscontri, tutto il
panno è tempestato di fiammelle, talune calanti dal
cielo, altre erompenti verso l'alto: il cielo ama riamato l'Ermete.
Ma la conferma finale la dà il boschetto dove tutta
la scena si svolge, che è un aranceto. Vale a dire, sui
vari piani di lettura: è il giardino delle Esperidi dove si colgono i frutti della conoscenza ermetica, è la
132
scena d ' u n matrimonio (dopo le Crociate i fiori d'arancio denotarono le nozze, soppiantando un poco
l'agrifoglio), è la famiglia dei Medici, essendo l'arancia (per il bisticcio citrus medica) il loro f r u t t o araldico.
Non si stacca facilmente dallo schermo della memoria La Primavera, ammaliante capolavoro dell'età
laurenziana, addio estremo, trasognato all'ultimo ricordo del passato remoto matriarcale.
Ma nell'Ottocento riaffiorò una volontà politica
matriarcale. Fu conseguente, sul piano speculativo,
alla riscoperta della simbologia: vale la pena di ridisegnarla nei suoi prodromi generali, poiché non per
tutti è chiaramente profilata.
Le premesse f u r o n o poste da Georg Friedrich
Creuzer (morto nel 1858), autore di Symbolik und
Mythologie der alteri Vólker,] la simbologia e mitologia
dei popoli antichi che ravvivò la sapienza perenne,
durata dai più remoti popoli alle tradizioni dei misteri ellenici. Creuzer sovvertiva l'ordine progressista
imposto alla storia dalla propaganda degli illuministi, introduceva a una scienza simbologica, che si
presentava decaduta rispetto ai fasti dei primordi,
q u a n d o aveva impostato tutta l'esistenza sulla lettura
della cosmogonia e sulle purificazioni possibili per
l'anima. Creuzer aveva sciorinato le conoscenze sulla
mitologia antica, sempre tenendo ferma la conoscenza simbologica, idea e fatto uniti in sintesi istantanea
(exaiphnes) al di sopra della conoscenza emblematica,
allegorica, arida, progressista.
Il tono, il metodo, la ricchezza di Creuzer destarono la paura degli illuministi, che lo accusarono di
ispirazione gesuitica e lo occultarono.
La storia di questa operazione fa rabbrividire, per
la prima volta si organizzò la mezzacultura per
schiacciare un lavoro immenso, e a causa di futili
sospetti politici.
1. Leske, Leipzig, 1 8 1 0 - 1 8 1 8 .
133
Q u a n d o la ricerca della filosofia perenne sarà continuata, nell'opera straordinaria di Albert von Thimus, Die harmonikale Symbolik des Altertums,' essa sarà
ormai automaticamente accantonata dall'opinione
pubblica.
Ma la vita delle idee non è mai dominabile con
rigore ferreo; l'allievo del Savigny, J o h a n n Jakob
Bachofen, dalla quieta specola di Basilea, riprese le
vie della cultura simbologica. Nelle sue visite alle
antichità sparse per l'Italia fu investito da una commozione intensa, pari alla molteplicità della sua erudizione. Aveva scansato l'insegnamento di Mommsen, ignaro, poniamo, dell'emozione mitologica, della forza archetipale che Bachofen coglieva principalmente nella figura etrusca di Tanaquilla.
Che cos'è per Bachofen un simbolo? Il suo discepolo K.A. Bernoulli ne tratta in Johann Jakob Bachofen
und das Natursymbol.2 A rigore è indicibile, un simbolo: indica una causa che si impone per una sorta
di risonanza morfica (strappo l'espressione a Sheldrake), si esprime in una tensione fra il terreno e il
celeste.
Il mito è l'esegesi del simbolo, la sua dilatazione
narrativa, che ha però una funzione speculativa. « Il
simbolo desta presagi, la lingua può soltanto interp r e t a r e » : il simbolo tocca insieme, di colpo, tutti i
piani della coscienza e della natura, la lingua mitologica invece trascorre da un piano all'altro. Il simbolo
si può certo trattare, ma soltanto a patto di non
ridurre la sua ricchezza a definizioni o a impressioni.
E la sintesi fra le une e le altre e occorre annotare via
via i suoi riflessi innumerevoli e inesauribili, se ci si
vuole accostare ad esso asintoticamente. Accanto a
un simbolo occorre sostare infatti con pazienza infinita. E ciò che Bachofen fa col simbolo dell'uovo nel
1. D u M o n t - S c h a u b e r g , Köln, 1 8 6 8 - 1 8 7 6 .
2. S c h w a b e , Basel, 1924.
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Simbolismo funerario degli antichi.' Volendo, l'intero
volume è una contemplazione dell'uovo inesauribile.
E pieno di partecipazione, poiché chiama tutta l'anima a sentire il mistero dell'uovo, ma anche instancabilmente esploratore, gettato sulle piste d'ogni analogia, d'ogni riscontro, d'ogni postilla erudita, avendo l'intera storia dell'antichità squadernata a disposizione.
Che cosa non è l'uovo, utero esposto, dove morte e
vita convergono con cielo e terra? È immagine del
mondo, della fecondità, della luna. È il microcosmo.
Nato prima dell'uccello, insegna la filosofia, l'uovo
simboleggia ogni origine e racchiude i quattro elementi: dal guscio terreno al follicolo aereo alla chiara
acquea al tuorlo di fiamma.
Sia questo l'avvio al viaggio che Bachofen farà fare
per tutta l'antichità, la quale attorno alle uova dei
sepolcri si manifesta.
Del m o n d o sepolcrale sono esaminati con rapimento i gioielli grazie ai quali sentiamo qui, sotto
terra, fra i morti, la sensualità dionisiaca, femminile,
avvertiamo goethianamente la presenza di Elena che
incendia perfino gli anziani. La donna ha bisogno dei
gioielli per piacere al suo signore come perfetta Elena-Afrodite e gli Eroti la servono. Ha bisogno della
collana di Armonia, la quale è piena di paurose minacce, ma non si può che a f f e r r a r e con desiderio.
Afrodite è aurea e splendida ma colma di veleno, il
suo piacere chiama la tragedia. Occorre accogliere
questo destino bianco e nero, terreno e celeste.
La luna è Lunus, Dioniso, il dio androgino, tellurico e solare: fiore e f r u t t o insieme, indissolubilmente
congiunti. E la prima p r o f o n d a esplorazione dell'androginia, il capitolo VII di Bachofen, m e m o r e degli
studi leopardiani sulla luna che umetta e r e n d e deli1. Versuch iiber die Gràbersymbolik der Alteri, B a h n m a i e r , Basel,
1 8 5 9 (trad. it., G u i d a , N a p o l i , 1988).
135
~ata la donna, fa crescere le piante e decompone le
carni, altera il vino, marcisce i legni e fa partorire gli
uteri. La luna è la nostra m a d r e benefica e distruttiva; forse soltanto con Cari Gustav J u n g si rivivrà
questa femminilità paurosa così intimamente. Ma è
anche Lunus. Bachofen ne sente la presenza anche
alle origini del diritto e la contrappone alla potestà e
all'imperio virili. La m a d r e pronuncia il diritto.
Questo processo di evocazione drammatica ci conduce a vivere nell'interiorità degli antichi, ci fa sentire l'ondeggiare della loro psiche, ci introduce agli
archetipi dai quali f u r o n o retti.
Non è una storia in senso stretto. Non ci assicura
dell'esistenza accertata di regni matriarcali, è spostata al di qua del m o n d o reale, studiato dal Mommsen;
Bachofen ci presenta le scaturigini psichiche e religiose della realtà.
Questa sua sottigliezza non f u capita ed egli fu
sistematicamente frainteso.
La fortuna di J o h a n n J a k o b Bachofen o f f r e una
storia tragica e raccapricciante, ma anche augusta.
Egli fu oggetto di un saggio di Walter Benjamin, nel
quale lo stile smagliante r e n d e quasi invisibile la volgarità marxista di chi esalta la maternità ginecocratica dei primordi come unica luce nell'orrore dell'esistenza, su cui doveva poi incombere l'avanzata triadica della storia, che i marxisti adottarono pari pari
dall'americano Lewis Henry Morgan.
Ma fu soprattutto l'accoglienza di Bachofen nel
circolo dei Cosmici Monacensi prima a esaltare e poi
a d e p r i m e r e e a imbarbarire la sua opera.
Nel 1926 Bachofen f u pubblicato e studiato dal
pedagogista nietzschiano e di poi nazista Alfred
Bàumler, che lo pose (correttamente) nella linea che
parte da Gòrres e da Creuzer, ma non capì la sua
radicale, violenta divergenza da Hegel. La fine essenza della simbologia bachofeniana non riesce a
delinearsi chiaramente nel tumulto storicista delle
pagine di Bàumler.
136
Ludwig Klages pose entro le prospettive bachofeniane la sua stupenda ricostruzione dell'erotismo antico, prospettando una caduta di qualità interiore
come legge dello sviluppo storico. Dell'Eros cosmogonico' è un capolavoro che fa rivibrare il pathos e
ripristina le conoscenze bachofeniane. Ma Klages era
soggetto ad alternanze e certi suoi aspetti andanti
apparvero in m o d o clamoroso nell'edizione che curò
dell'opera postuma 2 d'un ambiguo maestro monacense, Alfred Schuler, bachofeniano minore, che
aveva sondato con partecipazione sconvolgente la
simbologia vertiginosa delle terme nel circo romano.
Klages premise una indagine incerta e lenta, da cui
risulta che lui e Schuler ebbero quello che egli ritenne un cattivo incontro col poeta George e col critico
Wolfskehl. Le tracce del conflitto con loro ancora lo
tormentano e non riesce a chiarircele. Ma n e m m e n o
cessa di discorrerne e per aguzzare la ricusa dell'ebreo Wolfskehl si concede una perorazione antiebraica molto triviale, con citazione minuta dei piccoli
autori che la propaganda nazista allineava.
Il volume di Klages e Schuler attrasse un altro
intervento, che si ascrive con rammarico alla storia
della fortuna di Bachofen.
Evola aveva introdotto in Italia Bachofen cavandone le categorie che avrebbero dovuto esplicitare il
m o n d o antico. La tesi sull'antichità di Evola narra
che una progenie aria, virile e solare proveniente dal
Polo Nord avrebbe fra l'altro fondato Roma, spazzando via la melma u m a n a dionisiaca, democratica, lunare e matriarcale. Questa melma si era sempre rifatta al gran principio del Male, il Semitismo,
Israele.
Questa fiaba sinistra, facile a memorizzare e ad
1. Vom Kosmogonischen Eros, Müller, M i i n c h e n , 1 9 2 2 (trad. it. a
cura di U . Colla, Multhipla, Milano, 1979).
2. Fragmente undVortràge
aus dem Nachlass,
137
Barth, L e i p z i g , 1940.
applicare a una storia semplificata, sostituì per Evola
le dottrine sull'antichità che s'era proposto di instillargli l'ultimo esponente della Scuola italica e pitagorica, u o m o maldestro ma di p r o f o n d e conoscenze,
A r t u r o Reghini, col quale si scontrò in modo plateale
q u a n d o Reghini si ritirò dal fascismo, al momento
del patto col Vaticano.
La maniera classica di prospettare la storia antica,
che fu della Scuola italica e che Spaventa aveva respinto a prò della tradizione hegeliana napoletana,
non poteva essere più accolta n e m m e n o da Evola.
Dopo lo screzio con Reghini egli elaborò una sua
ricostruzione forzata, ricavandola sul piano meramente letterale da Bachofen.
Nel gennaio 1942 Evola recensiva il libro di Klages
e Schuler su « La Vita Italiana » col titolo La nuova
religione della vita e la romanità efebico-amazzonica. Si
inorridisce al preludio, dove Evola propone u n o
scambio di kulturelle Ùberwachungsstellen (centri di
sorveglianza culturale) fra Italia e Germania. Sorveglierà lui la plaga germanica, sperando che ugual
servizio rendano i Tedeschi di rimando per l'Italia. E
subito vibra una coltellata: « Klages è d'intonazione
semitica, portata a una mistica naturalistica che riporta alle Madri della vita».
Benché il Klages sia di tipo fisico nordico, Evola
osserva, non ci inganni, è pericoloso quanto l'ebreo
Bergson « o quanto l'ebraizzato Cari Gustav J u n g ».
E viene in ballo Bachofen, che « aveva constatato
nel m o n d o degli antichi culti mediterranei l'opposizione di una visione della vita avente per centro il
culto delle Madri e per conseguenza un misticismo
panteistico-dionisiaco e orgiastico e, in particolare, il
matriarcato », ma « di massima » l'aveva subordinata
alla vita olimpica e virile. Lo stile è sempre il contrassegno rivelativo, quel di massima è il marchio della
cupa precisione, del superburocrate nazista. Schuler
sarebbe stato colpevole di favorire una « florescenza » vicina alla vita liberata di Krishnamurti, che por138
terebbe, con orrore di Evola, all'androginia. Proprio
alla tonalità androgina la vita romana si protese in
più e più modi, sicché Evola scaccia da essa « il cesarismo crepuscolare (un Nerone e un Eliogabalo compresi) ».
Qui si veda dove possa c o n d u r r e il travisamento di
Bachofen in un'epoca priva della sua cultura latina e
greca.
H o elencato una serie di deformazioni oltraggiose.
Ma Bachofen ebbe anche seguaci che ne moltiplicarono i doni e gli stettero fedelmente a lato. Basti
l'opera esemplare di Karl Meuli - che porrei accanto
a quella di Karl Kerényi —, autore di Bachofen und die
Zukunft des Humanismus.1 Fu il Meuli che proseguì
l'indagine di Bachofen sull'androginia in Scythica,
dove lo sciamanesimo è letto, tratto dopo tratto, nelle
informazioni sugli Sciti recate dagli antichi. I bagni
di vapore, il f u m o delle piante allucinogene, il canto
protratto sugli incontri con gli spiriti portano gli Sciti
a u n o stato di androginia e di potenza psichica travolgente. T u t t e le scoperte etnografiche posteriori a
Bachofen sono metodicamente annoverate ad arricchirne la visione. E qui compiuto lo stesso passo
straordinario verso il piano trascendente che noteremo nel libro di Kerényi sulle figlie del Sole. Dagli
Sciti Meuli ci conduce infine al pitagorismo.
Accanto a questo studio pongo l'ultimo stupendo
saggio di Meuli sul viaggio di Giasone, il Guaritore o
sciamano che allestisce la sua « piroga degli spiriti »
coi compagni allucinati d'essere animali: Autolieo è il
lupo, Anceo l'orso, Linceo la lince, Argo il toro.
Ma la storia delineata recò tra i suoi frutti la certezza di un m o n d o matriarcale, contro il quale la patriarcalità si erse violenta e persecutrice, e p p u r e anche insidiata nell'intimo, portata perciò a espressioni
cupe, acri, spasmodiche: il delirio ginnastico e milita1. Rascher, Ziirich, 1 9 4 5 .
139
re f u il fremito più sinistro nella sua resistenza alla
voce riaffiorante della matriarcalità.
La difesa patriarcale non ricorse soltanto alla furia. Una smaniosa, soavissima retorica volle preservare l'Ordine maschile. Esporla è arduo. Essa ci parla
innanzitutto con devozione stralunata del Grembo,
che sarebbe tutt'insieme Misericordia incarnata e Indifferenza provvidente. Una specie di forza divina,
non una Sofia, non una femminilità indipendente e
autonoma, ma qualcosa di trascendente che dame e
donnette, virtuose e puttane sarebbero chiamate ad
albergare e nutrire nel buio delle viscere, al caldo,
nell'intimo: Vaso d'elezione, Macchina concezionale
in grado di ricevere il germe e di espellere nel dolore
il feto. La femmina è dannata a dipendere da questo
organo minuto e f r e m e n t e e soltanto accettandolo
senza nessuna volontà di sovrapporsi ubbidirà al
p r o g r a m m a divino dell'universo.
Credo che ancora molti si facciano turbare e intenerire da queste allocuzioni. A considerarle con attenzione, esse sono tramate di vocaboli maiuscolati e
non sembrano esprimibili in m o d o piano e sensato.
Già sostituire metafore normali alle sovreccitate farebbe svanire l'effetto commovente: basterebbe dire
bicchiere invece di vaso o coppa e il rapimento cesserebbe.
Sono chiacchiere sfrangiate di ineffabilità, alónate di trasporto, chiedono u n cuore in tumulto, una
bocca trepida, occhi umidi e mani congiunte.
Si dà per scontato che tutti se ne commuovano. E
nel cedere all'emozione si proverà uno specialissimo
brivido: si uniranno nell'inconscio la sensazione
molliccia e calda delle viscere più interne e il soffio
d'una ispirazione religiosa. Chi restasse invece freddo f r e d d o e osservasse senza trasalire queste unioni
di contrari, si rassegni: incarna il sempiterno nemico, il privo di madre, Satana che deride l'utero santo.
Con tono assai parco Dacia Maraini intervenne
in questo minestrone con una citazione assennata:
140
Apollo toglie di mezzo le Erinni assetate del sangue
di Oreste matricida. Dice Apollo: Oreste ha distrutto
un vaso, la sua colpa non è quindi esorbitante. Preziosa citazione! Alla sua luce tutto si illimpidisce,
l'alone dei discorsi patriarcali ecclesiastici si disperde. La perorazione sulla sublimità intrinseca nell'utero si svela per nient'altro che un'ammirazione celata verso il maschio che solo contiene e dispensa la vita
e perciò solo può simboleggiare il Creatore.
Questo delirio ammirativo è così soverchiarne che
non si deve neanche enunciare, si dà per scontato,
come le cose essenziali. Ciò che si ostenta è semmai la
riverenza verso il grembo maiuscolato, il ricettacolo.
Non credo che il primato del maschio sia destinato
a permanere. Bachofen mostrò nella sua prosa squisita che alle radici delle nostre civiltà si cela un mondo matriarcale, che ancora ossessiona i Greci. Nel
nostro secolo la Gimbutas ha accertato e lodato questo sepolto m o n d o matriarcale.
Lodare il matriarcato non credo sia necessario;
basta capire che la patriarcalità, di cui siamo tutti
impregnati, che ci ha imbevuto delle sue metafore,
delle sue false tenerezze, non è l'unico assetto. Anzi, risulta soltanto da un combattimento arcaico, nel
quale figurarono vincitori i maschi. A partire dal secolo scorso è lentamente cresciuta la difesa della donna schiacciata, obbligata al rispetto dell'utero come
forza divina a lei affidata. In realtà l'utero è un organo poderoso, che può plasmare la mente e incatenarla, ma non è lecito c o n d a n n a r e la femmina a subirlo,
perché è semplicemente un fatto carnale. Mondi
straordinari si dischiudono al di là del potere uterino: la cognizione, la percezione pura, la dirittura, che
si salvano soltanto nella loro indipendenza.
Il grembo può anche ispirare, suggerire, può gettare sottili lame di illuminazione, ma non è il centro
metafisico e necessario della femmina, che è libera di
staccarsene, di entrare nel m o n d o androgino del
sacerdozio, della conoscenza, della previdenza. Lo
141
potrà fare tuttavia soltanto se sarà riconosciuta interamente libera dalla servitù e dalle illuminazioni carnali: libera di subire o ignorare gli impulsi che emergono dal grembo, come il maschio.
Rievochiamo i simboli e le sensazioni matriarcali,
addentriamoci con amore nelle selve, odoriamo e
palpiamo con devozione alberi e piante: riapprenderemo questa semplice verità.
142
RELIGIOSA FOLLIA
Rallegrano un villaggio primitivo il pazzo e l'ebete
nella piazza centrale, vi serve da a m m o n i m e n t o il
posseduto fra le tombe del cimitero. Costoro trovano
sempre cibo, sopravvivono, segno che sono guardati
dagli dèi. Il signorotto se li terrà vicino, perché lo
divertono e possono dirgli ciò che altri avrebbero
paura di proclamare. Sono veridici anche se insensati, le loro frasi a vanvera valgono come divinazioni.
Majnun, il pazzo per amore della poesia araba, il
folle di Shakespeare, gli idioti di Velàzquez ci rammentano queste verità e funzioni; q u a n d o ci soffermiamo su di loro, rivive in noi il sentimento che f u
dei nostri avi, una curiosità religiosa verso la demenza.
Come sempre è in India che troviamo la gamma
intera, ogni s f u m a t u r a possibile nel culto dei folli.
Già nel Rg-Veda l'inno Kesisukta (X, 136) parla di asceti seminudi, impolverati, le chiome prolisse, dementi nell'anima e nei gesti. Fra i primi tantrici i
pàsupata si fingevano assopiti, incapaci di tenere a
f r e n o le membra, facevano gesti osceni alle d o n n e
senza ritegno, parlando a vanvera, cercando di pro143
posito disonore e obbrobrio, imitando le fiere, p u r
di sperimentare la libertà assoluta di Siva, occhio di
scimmia, impuro e senza rito, nudo, capelli al vento, errabondo, lordo di cenere, adorno di collane
fatte d'ossi, con ghirlande di teschi, pazzo amato dai
pazzi.
Il tantrico kaulacari può mostrarsi civile e socievole, ma talvolta si aggirerà vestito da arlecchino, ignaro d'ogni differenza tra sacro e profano, sandalo e
fango, amico e nemico, casa e cimitero, oro ed erbaccia. I baul del Bengala folli e stracciati correvano
le campagne, esaltando il f o n d o demente dell'anima, alla maniera di Caitanya, abbigliato da d o n n a
per amore di Krsna. E Ràmdàs, il santo maràthi,
non era un fanciullino, un ubriaco, un posseduto? E
T u k à r à m ? E non si vedono passeggiare col portamento del drogato i Sikh armati di lancia per le città
dell'India, simili agli asceti biasimati da Patanjali?
Fra gli Indiani d'America, sia nomadi che sedentari, esistono società di buffoni, che a certe feste
stagionali scendono in piazza a esibire follie. Sono
esilaranti ma anche repellenti e minacciosi. Il loro
potere politico è immenso. H a n n o il monopolio di
certe terapie.
N e m m e n o al colmo dell'ordine confuciano in Cina f u r o n o mai estinti i forsennati taoisti, e il Tao tè
ching si può leggere come un manuale di sacra buffoneria. È forse la lettura più piana che esista, credo
che chiunque lo possa assimilare. Mi capitò fra le
mani quand'avevo sette anni e f u una festa. Che poi
si possa mettere in dubbio ogni notizia al riguardo,
ogni interpretazione dei suoi segni, è anche vero.
L'ultima tesi emersa vuole che si legga non più « Libro della via e della virtù » bensì « Libro della virtù e
della via ». Ma già la versione di tè come « virtù » è
sghemba: semmai si dovrebbe t r a d u r r e «energia».
Le prime versioni in lingua europea f u r o n o scombiccherature, la nettezza del cinese fu resa in maniera attenuata e sbiadita, addirittura moraleggiante.
144
Proprio la moralità dev'essere cacciata dalla mente, se si vuole accedere alla via taoista.
Si potrebbe riassumere questo breve capolavoro
come il risultato dell'affrancamento totale dalla moralità. Il re taoista tiene il popolo nell'ignoranza, lo
lascia libero di seguire istinti, costumanze, estri e
procura di star celato. Il saggio taoista si ritira sui
monti e riduce i pasti, disprezza il popolo. Sa che
essenza dell'universo è il vuoto. La sua azione è come
l'acqua, penetra dappertutto, non si o p p o n e a nulla, si restringe al minimo. Egli è vuoto e fuso nella
natura, la sua volontà emana dal f o n d o dell'essere.
Sa che il vuoto è la parte che serve d'ogni oggetto.
Cura la pancia, non l'occhio ingannatore. E soltanto
chi è capace di restringersi al proprio corpo è degno
di reggere l'Impero!
Massime minacce sono la rettitudine, la benevolenza: si scartino quelle piaghe e tutto tornerà alla perfezione originaria. Si caccino i pensieri dalla
mente, si rimanga inerti. Ci si ritiri quant'è concesso
all'origine dell'universo e si emergerà al p u n t o che il
destino ci assegna nel cuore dell'oggi. Debolezza e
sottomissione contengono la forza e il dominio: si
sappiano assumere fino alla follia.
Ogni mistica delle ere f u t u r e , da ogni parte della
terra, nel Tao té ching trova i suoi princìpi e le sue
certezze. Ma anche la saggezza m o n d a n a trova in
queste pagine deliziose le sue verità segrete.
Il buddhismo chan in Cina generò la scuola Linji,
che venera i folli, ululanti straccioni Hanshan e
Shide.
T r a Gli strani racconti di Liaozhai del 1740 figura
La pelle dipinta, nel quale una strega strappa il
cuore a un uomo, la cui moglie disperata si riduce a
implorare un sozzo folle adagiato nella polvere della
strada. Si getta ginocchioni, lo supplica, ed egli la
sbeffeggia, dicendole di prendersi qualunque maschio. Lei insiste, si lascia percuotere, finché alla fine
il folle sputa un muco repellente e l'invita a trangu145
giarlo. Lei osa farlo e lui si allontana, deridendola, la
sua innamorata.
La d o n n a torna a casa e desolata prepara la salma
per l'interramento, q u a n d o all'improvviso la scuote il
vomito e il muco salta fuori, ma tramutato in un
cuoricino rosso palpitante, che va a insediarsi nel
buco fatto dalla strega. Nel cadavere torna a battere
un cuore, la vita a poco a poco ritorna.
Era fatale che, dopo l'èra precedente, la quale vide
la fioritura dei cinici, il cristianesimo albergasse, sia
p u r e raramente, questo culto, e i primi documenti
li troviamo nella letteratura bizantina. Attorno al
1962 raccolsi, nell'antologia che preparavo dei mistici d'Occidente, alcuni passi dalla Vita di San Simeone
di Leonzio, vescovo di Neapolis in Cipro, risalente al
VII secolo. Tradussi quel testo vivace ma disarticolato, costellato di oscurità e di contraddizioni, forse
malamente trasmesso. Non volevo che si perdesse la
testimonianza preziosa di una bizzarria da trickster,
santa e pericolosa. Il p u n t o centrale dell'operetta è la
figura di Simeone come anacoreta impeccabile, che
in anni e anni di esercizi spirituali aveva raggiunto il
massimo grado di purezza e illuminazione; da questo
grado estremo, egli aveva deciso di tornare fra gli
uomini come pazzo, simulando il candore dell'ebete.
Soltanto così poteva insegnare l'abbandono radicale
della vanagloria. E un momento nella storia cristiana
in cui sembra quasi echeggiare quello buddhista di
q u a n d o il salvo, il liberato, decide di tornare fra gli
uomini per purissima carità, come Bodhisattva, e incomincia la tradizione Mahàyàna. Il vescovo Leonzio
si trovò a trattare questo tema eccelso. Ma come poteva? Era un uomo sconnesso e confuso, con un buon
addestramento rettorico (doveva aver letto a f o n d o
Ermogene) e ottenne ciò che le sue capacità gli consentirono, pressoché nulla. Fece intervenire un compagno di anacoresi ad ammonire che quanto l'eremo
aveva raccolto il m o n d o non disperdesse, che quanto
il silenzio aveva promosso il tumulto non ferisse,
146
che quanto le veglie avevano radunato il sonno non
smarrisse e via ampollosamente contrapponendo.
Rydén rifà la storia dei folli, a partire dalla Prima
lettera ai Corinzi (4, 10 « Noi stolti per Cristo »). Essi si
facevano tormentare dandosi per pazzi in un monastero (ce ne sono testimonianze in Egitto) o p p u r e
si ritiravano nelle campagne selvagge per tornare
quindi in città seminudi, trasformati, ormai apatici,
senza traccia di vanagloria. San Simeone era stato il
più celebre di questi liberati. Evagrio narra che si
lasciò accusare d'aver messa incinta una ragazza,
portò da mangiare a una prostituta affamata fingendo di frequentarla, e frustando le colonne del foro
predisse un terremoto. Leonzio raccolse tutto ciò che
potè di aneddoti scandalosi e perciò edificanti, alla
sua maniera scolastica e sconnessa: Simeone finge
d'essere epilettico, spegne i ceri in chiesa e spara
noccioline alle devote, irrompe nelle terme femminili.
La Vita di Andrea è invece composta con maggior
ordine e anche con delicata grazia. Andrea era uno
schiavo scita, favorito del suo padrone, esperto di
sacre letture. Un dì ebbe un sogno nel quale debellava il demonio e corse a narrarlo all'autore della sua
biografia, che gli consigliò di fingersi folle per servire
Iddio. Si ritirò a compiere atti dissennati in una
chiesa, finché il p a d r o n e lo congedò. Così potè esporsi sistematicamente a tutti gli oltraggi della plebe. Si lasciò c o n d u r r e da una prostituta in un bordello, ma non cedette all'invito « Fornica, folle! », bevve
acqua fangosa, digiunò per giorni. Venne un trem e n d o inverno e gli arrise un sogno paradisiaco di
tepori e dolcezze, d u r a n t e il quale compì un'ascensione ai cieli. Un giorno stupì dei filosofi con i suoi
discorsi alati e precisi sulla trinità e sulla triade di
grano, acqua e fuoco che si congiungono in un pane.
Un altro giorno, al foro, mentre muoveva lo sguardo
in tutte le direzioni e urlava, un giovinetto gli disse
dolcemente: « Dio del cielo, che cosa stai qui a vede147
re? ». Egli rispose: « Vedo un sogno, figliolo: questa
vana vita non è che ombra e f u m o ».
Esiste un'antologia dei detti mirabili di Andrea al
suo devoto Epifanio. Incuriosisce nel novero la negazione dell'ascensione di Elia in cielo, tema di un'icona famosa, cui Andrea contrappone l'idea che Elia,
Enoc e san Giovanni siano tutti ancor vivi al mondo,
come perle nel fango, deputati a impetrare il perdono di Gesù, « e molti giusti l'hanno veduto ma non
l'hanno rivelato a motivo della malvagia incredulità
curiosa della natura u m a n a » . Qui si tocca l'origine
della fede sciita negli I m a m nascosti ma destinati a
manifestarsi misteriosamente. Andrea diffondeva anche una sua forsennata apocalisse sulla prossima fine
del mondo.
Questo ritratto f u tradotto in russo almeno nel
XIII secolo, e la gran festa del pokrov, o velo della
Vergine, nacque dalla visione che ebbe Andrea della
Vergine che stendeva il velo sulla congregazione alla
chiesa delle Blacherne. E fu la follia di Andrea a
generare lo stuolo dei sacri idioti russi, fino al principe Myskin e al protagonista del Viaggiatore incantato
di Nikolaj Leskov.
Il giudizio implicito più sobrio e persuasivo è contenuto nelle così veridiche memorie d'infanzia di
Tolstoj, che descrive u n o degli innumerevoli jurodivye. Sui cinquant'anni, faccia pallida e butterata, barbetta rossiccia, insaccato in una casacca a brandelli,
armato d ' u n bastone, torce la faccia, dilata la bocca in
una risata innaturale e terrificante; cieco da un occhio, ruota l'altro con furia incessante, la voce gli
suona rauca e greve, si muove a scatti, fa discorsi
incoerenti, privi di pronomi. E il sacro folle, Grisa,
libero e foresto, quasi nudo. Che sia capace di profezia, dipende da chi lo ascolti.
Il f o n d a m e n t o scritturale per la pratica della follia
è l'ingiunzione di Gesù a scartare padre, madre,
moglie e figli « e anche la propria vita » (Le, 14, 26) e
l'esortazione di san Paolo a essere folli causa il Cristo
148
(1 Cor, 1, 25; 3, 18; 4, 10). Può confortare che anche
Gesù fosse giudicato d e m e n t e (Me, 3, 21) e violasse
ogni n o r m a f r e q u e n t a n d o scellerati. T r a i profeti
biblici già Isaia si aggirava nudo, Geremia indossava
il giogo, Ezechiele cuoceva il pane sulle feci, e si tace
di Osea.
Dove trovare nel m o n d o questa follia? Nei villaggi
del Maghreb si rintraccia qualche errabondo ignudo,
riverito o tollerato per millenaria consuetudine. Nel
Marocco non mancano confraternite dove la demenza si coltiva, anche se tendono a sparire. Capita nei
nostri manicomi di trovarne lo stampo; ricordo,
quand'ero studente, di tra le folli di Torino colei che
annotava le mistiche, soavi poesiole dettate dal feto
immaginario che recava nel grembo.
O p p u r e avviene d'incontrarne la specie dove meno si aspetta. Un giorno mi si parò dinanzi al Museo
Nazionale di Copenaghen, all'esposizione (si era nel
1985) intitolata Rastakunst: documenti, pitture, sculture della religione « rasta », nata in Giamaica negli
anni Trenta, celebre ormai nel mondo da q u a n d o
l'industria discografica spaccia una versione commerciale della musica liturgica rasta, il reggae.
Osservai dei ragazzi danesi: ascoltavano con aria
perplessa la musica di f o n d o dell'esposizione, una
serie di registrazioni autentiche, non il solito reggae.
Guardavano i quadri, le sculture, le gigantografie di
templi e interni domestici rasta; grazie al sinergismo
delle icone, del rustico ornato templare e della musica cadenzata, forse filtrava in loro una religiosità
lontana, solenne e tripudiante, d'intonazione un po'
demente.
« Rasta » è abbreviazione di rastafariano, come si
chiamarono i patiti giamaicani di ras Tafari, l'imperatore Häyla Seiläse. Il popolo negro che viveva alla
giornata nelle periferie di Kingston rimase colpito,
negli anni Trenta, dalla ricorrente fotografia di ras
Tafari sui giornali locali. Taluni se la ritagliarono, ci
149
fantasticarono su, la sognarono e si scambiarono notizia di quei loro sogni « rastafariani »: nacque un
movimento di follia religiosa.
A furia di contemplare le pupille imperiali malinconiche e gravi, il naso affilato e orgoglioso, le livree
dei funzionari ecclesiastici copti, molti Giamaicani
ebbero visioni vere e proprie, entrarono in un mondo ieratico che avevano nel sangue senza saperlo, si
sentirono partecipi di una monarchia nera, ben più
sontuosa e arcana della britannica che li amministrava.
Ras Tatari era « il leone di Giuda », « discendente
di Salomone e della regina di Saba »: ecco, le prediche dei missionari protestanti, che smortamente alludevano a quei miti, prendevano sostanza nell'immaginazione giamaicana: la monarchia di Giuda era
viva in Africa, reame di fiaba e notizia di stampa
tutt'insieme. I rastafariani conclusero di essere una
tribù dispersa di Israele, visto che Israele si trovava
in Africa e a loro Ezechiele aveva parlato. Si rilessero i miti biblici in chiave rasta, come li avevano letti in
chiave evangelica i cristiani secoli prima.
Q u a n t o può una fotografia in prima pagina!
A Kingston l'iconografia imperiale etiopica agiva
anche perché le menti erano sconvolte dal grande
agitatore politico giamaicano, Marcus Garvey, che
nel decennio precedente aveva esaltato i negri degli
Stati Uniti, gettando nel panico i bianchi (tuttora
VAmerican Dictionary of Biography tralascia, una volta
tanto, la sua pretesa di oggettività, e lo bolla come
« sciovinista negro »).
Garvey in realtà divulgava un vecchio sogno, sognato la prima volta nel Settecento da Emanuel Swedenborg, il quale presagiva la rinascenza religiosa
negra e voleva ricondurre in Africa le vittime della
tratta. La setta swedenborghiana tentò debolmente
lungo un secolo di promuovere quell'esodo; adesso
Garvey creava la Black Star, società di navigazione per rimpatriare i negri d'America. Come armato150
re fallì, e la Liberia fu indotta a rifiutare l'accesso ai
suoi seguaci. Il suo insegnamento in Giamaica confluì nel rasta.
Uno dei tratti più saggi e deliziosi del rasta è che
non si preoccupò mai di ras Tafari come persona
storica, anche se alcuni suoi interventi alla Società
delle Nazioni f u r o n o ritagliati e incorniciati: parole
del tutto ovvie, che potevano essere di chicchessia. Le
vicende di governo dell'Imperatore lasciarono indifferenti i rastafariani, che si attennero all'immagine
ieratica del loro idolo. Buon per loro. Infatti, un po'
prima di essere trucidato, ras Tafari r a m m o d e r n ò la
stupenda liturgia etiopica, nella quale il sistro egizio
ritmava ancora i sacri gesti, adottò la lingua volgare:
altro che Salomone redivivo, custode supremo dell'arcano! Era un dozzinale aggiornatore, indegno del
sogno rasta.
Il rasta provvede a isolare dalla storia esteriore i
fedeli mercé il suo sacramentale, la marijuana o
ganja, fumata con lunghe pipe ricurve.
La morale rasta, come la taoista, si compendia in
una parola: spontaneità. Unico precetto è non averne nessuno. T r a i simboli rasta è lo scudo di Davide,
due triangoli, l'alto e il basso compenetrati, e il centro
intagliato a forma di cuore.
La gaia spontaneità è elevata a imperativo categorico, ma è anche una realtà connaturata al popolo; i
sufferers, come a Kingston si chiamano i diseredati,
illuminano con un sorriso sgranato il loro m o n d o di
muraglie sbrecciate, di lamiere ondulate, di fetidi
scoli. Su questo f o n d o s'innesta il culto rasta.
Ma se la religione della spontaneità e della marij u a n a può portare alla benevola, trasognata quiete
dei rastamen, i contemplativi, può anche scatenare i
micidiali Natty Dread, i quali si fanno un punto
d'onore di coltivare chiome ispide da Siva furente: i
dread locks o boccoli del terrore. Pare che costoro nei
ghetti neri d'Inghilterra formino squadracce dedite
151
al saccheggio e all'incendio, eredi dei maroons, schiavi
fuggiaschi e indomabili delle montagne giamaicane.
Da sempre la Giamaica mostra due volti: il paradiso terrestre d'un popolo musicale, distesa di spiagge
pigre e interminabili che i crepuscoli tingono di rosa
f r a l'azzurro del mare e il turchino delle giogaie; ma
è anche la terra elettiva d'un paralizzante terrore
annidato nella boscaglia, come narra il racconto di
J e a n Rhys, Il grande mare dei sargassi.'
Rasta c o m p r e n d e tutto. Come dice una sua litania:
è amore, acqua, geometria, circolarità; è inizio, curva, fiume, pane, ironia, Africa, è.
Rasta offrì ai Giamaicani ciò di cui, più d'ogni altro
cibo, avevano bisogno: aure. Creò una simbologia
complessa e musiche e icone « to rebuild vibes», a
ripristinare le vibrazioni. Sono ormai tre le generazioni di artisti rasta, musicisti, pittori, scultori, arredatori. Un artista diventa tale perché dei « Vecchi
Rasta » lo visitano in sogno e glielo ordinano. Lui
recalcitra: dove trova i soldi per colori e pennelli, per
maglietti e ceselli?
Ma i signori del sogno sono più forti di lui.
E sorgono i templi dai frontoni dipinti, con le d u e
metà, femminile sinistra e maschile destra: pesce e
coccodrillo, due tori o d u e leoni affrontati. Si è sviluppata un'architettura rasta: camminamenti in tondo, di vimini e rafia, saloni retti da colonne di legno
intagliato coi personaggi della cosmogonia rasta, i
cui capitelli a calice, di vincigli intrecciati, confluiscono nella volta a botte, che p u ò assumere la forma
d'una piroga capovolta o sciorinare cestoni e panieri
di vermene. Nella penombra odorosa di giunco,
spiccano icone sgargianti: ras Tafari, Marcus Garvey, i grandi del reggae, i battelli della Black Star,
fallita a norma della legge degli Stati Uniti, ma semI. Wide Sargasso Sea, D e u t s c h , L o n d o n , 1 9 6 6 (trad. it., A d e l p h i ,
Milano, 1980).
152
pre festosamente in navigazione nella fantasia dei
Giamaicani.
A conclusione si può r a m m e n t a r e una sequela tibetana: chi incomincia timidamente la pratica liberatoria, si ritira « come un cervo ferito » e soltanto così
si mantiene intatto; chi si sente saldo, a f f r o n t a ogni
situazione con disinvoltura, «come un leone»; chi
infine non conosce scissioni né ostacoli e reagisce
sempre a tono, ignorando ogni regola sociale, sarà
« come un selvatico folle ».
153
IL B U D D H I S M O E I « J À T A K A »
Nell'induismo si racconta, fiaba o utopia si potrà
chiamare, che un giorno un re si libera da istinti e
opinioni e la realtà gli si svela per un inganno, come il
serpente che si scopre essere soltanto un bastone
nell'erba. Il re vive in una recita, tranquillo e impeccabile. Sono dapprima i suoi ministri che se ne accorgono e si sforzano di adeguarsi a quella regale perfezione, quindi i vari strati sociali via via si convertono.
Si arriva al punto che gli attori rappresentano soltanto commedie che deridono la vita imperfetta, le donne allevano i bambini alla massima ambizione, i buffoni si fanno beffe di ciò che dalla liberazione possa
distogliere.
Q u a n d o il buddhismo si diffuse, adottò questa
fiaba o utopia o mito della redenzione universale,
trasponendo tutto nei suoi termini particolari parlando non più di «liberati in vita», ma di «gente
entrata nel Nirvana ». La differenza è minore di quel
che possa sembrare. Il Nirvana è la cessazione del
fuoco di vita, qualcosa di ineffabile quanto la condizione del liberato. Tuttavia a questi fini supremi è
pur dato di alludere, avvicinandosi a essi con metafo155
re svariate. Il buddhismo apparirà a ciascuno secondo il suo destino. C'è chi lo incontrerà nella forma
d ' u n sorriso incantevole in una pagoda, in una conversazione di monaco, in un q u a d r o sacro, nella statua di B u d d h a racchiuso in una sua calma inavvicinabile. Il buddhismo è una sovversione radicale che
attorno al 500 a.C. sradicò le certezze più salde:
l'attaccamento alla gioia, la credenza nella realtà.
Q u a n d o i missionari buddhisti inviati da Asoka nell'Occidente portarono la grande notizia presso di
noi, forse qualcuno la introdusse negli insegnamenti
di Gesù, che spesso parla come un monaco buddhista, ripete luoghi comuni buddhisti e rifiuta l'offerta
d ' u n impero che il diavolo gli fa, al modo stesso del
Buddha. Aufhauser nel 1926 pubblicò una rassegna
di tutti gli apparenti ricalchi cristiani. 1
Fra le possibilità d'incontro sentimentale, ci sarà
fors'anche la seduzione delle reincarnazioni, che in
Occidente i teosofi m o d e r n a m e n t e tentarono di ripristinare, ma i più trovano insulse.
Spesso si interpreta tuttavia la reincarnazione come un abbaglio, nell'esegesi buddhista. Sàkyamuni
d'altronde « conobbe » la reincarnazione come esperienza allucinatoria d u r a n t e la sua meditazione.
E p p u r e il segreto più riposto del buddhismo, semplicissimo ma anche pressoché incomunicabile, è di
tutt'altra natura. Se si vuole esso si contiene tutto
nella conversazione d u r a n t e la quale il B u d d h a Sàkyamuni insegnò che scopo dell'uomo non dev'essere il piacere, ma n e m m e n o la mortificazione: occorre
stare a metà, nella mediazione fra i due scopi errati.
Chi può a f f e r m a r e di capire che cosa sia questa via di
mezzo? Il buddhismo è lo sforzo insistente, disperato
o trionfale, di a f f e r r a r e che cosa sia quel varco tra
piacere e mortificazione.
Esso insegna a togliere di mezzo la fascinazione del
1. Buddha
Bonn.
und Jesus in ihren Paralleltexten,
156
Marcus u n d W e b e r ,
linguaggio, il culto delle parole: quel varco non si
potrà mai designare con dei segni linguistici. E ineffabile. Per vincere la seduzione del linguaggio, si fa
appello alla logica. Per una certa parte della giornata
il monaco buddhista argomenta con un compagno.
C'è tutta una serie di pose da adottare nel farlo: chi
attacca sta in piedi e cala fendenti, via via che individui un argomento, sopra il compagno acquattato per
terra, il quale risponde stornando con un gesto e una
inesorabile refutazione. Ogni adesione va tolta ai
quattro estremi sbagliati: evitando di dire che qualcosa sia, che qualcosa non sia, che qualcosa sia e non
sia, che qualcosa né sia né non sia. Librarsi bisogna al
di sopra di questi errori equivalenti tra loro. Il grande buddhologo russo d'origine polacca, Scerbatskoj,
pubblicò la sua versione dei grandi trattati buddhisti
di logica: espongono u n sistema di argomentazione
forse più stringente di quello aristotelico e credo che
in esso sia raccolta l'essenza del buddhismo, il quale
nega che qualcosa sia perché tutto fluisce e si p e r d e e
tuttavia n e m m e n o è pura inesistenza; non è nemmeno in parte essere e in parte non essere e tantomeno
è inesistente e non inesistente nel contempo. Questa
dimostrazione dev'essere costante, ininterrotta: i
monaci, ripetendo la discussione distruttiva ogni
giorno, giungono a immedesimarsi in essa, a reiterarla naturalmente. Finiscono col sapere fino in fondo, con sovrabbondanza d'argomenti, che la lingua
non è in grado di dire la verità. Sfuggono alla presa
delle parole i m p a r a n d o a usarle con abilità travolgente.
Il grande teorico buddhista indiano vissuto attorno al 600 d.C., Candraklrti, insegnava che vuoto è
ogni fenomeno, quanto un riflesso: non è permanente e non ha un'essenza intrinseca, tuttavia non è
neanche un nulla. T u t t o è come un'illusione, perciò
non ha senso attaccarsi alle cose. Negli esercizi buddhisti da allora si ripete che osservando le cose se ne
scopre il vuoto (questa è la dimensione della legge),
157
tuttavia si continua a osservarle sempre più chiaramente (questa è la dimensione della gioia), infine si
alternano la constatazione che tutto è vuoto e la
chiarezza dell'osservazione (e questa è la dimensione
della trasformazione costante: il vuoto si tramuta in
chiarezza e la chiarezza in vuoto). Q u a n d o quest'alternanza sarà fissa, i sogni diverranno radi radi, senza impurità, consapevoli. Il consulente spirituale del
Dalai Lama, Lhalungpa, mi insegnò la via perfetta
per giudicare d'ogni religione: che cosa f a n n o i fedeli dei loro sogni?
Un'altra conversazione del B u d d h a Sàkyamuni suscitò riflessioni altrettanto estese, q u a n d o egli insegnò che sentimenti, concetti e forme sono prodotti
dell'arte suggestiva e illusioni, tutto è vuoto e la conoscenza del vuoto è la conoscenza suprema (prajnapàramila): tutto essendo vuoto, non sussistono né nascita né morte e l'io non sussiste.
L'insegnamento dell'insussistenza dell'io è fra i
primi e i più fondamentali impartiti dal buddhismo.
Come si fa a credere che l'io esista e sia permanente,
se risulta da reti di cause ed effetti sempre mutevoli?
Come si fa a scambiare per un ente saldo l'arruffio di
conscio e inconscio che produce le nostre infinite
personalità? In Europa soltanto David H u m e impartì questo insegnamento inflessibile.
Ma è una semplice premessa: non hanno esistenza
reale e sicura né la nascita né la morte, essendo
fondamentale soltanto la mente che non è personale,
risultando dall'intreccio delle infinite menti sparse
nell'universo. Ciascuna è come uno specchio che riflette tutte le altre, legate a ciascun nodo della rete
universale, colmate dallo spettacolo reciproco. Ciascuna poi muta e s'intorbida per l'aggrapparsi demente alle cose piacevoli o il rifiutarsi altrettanto
demente alle cose spiacevoli. La mente appare in un
corpicino, scompare da un corpo morente, ma la sua
funzione universale è costante: emana il m o n d o come un'irradiazione, lo proietta come un'ombra e
158
queste emanazioni della mente noi si scambia per
realtà oggettiva. T u t t o è vuoto, sia la mente che
quanto ne scaturisce. E vuoto, tuttavia non è nulla: è
un'illusione. L'essenza della mente non è oggettiva e
non si trova n e m m e n o nel tempo: tempo e spazio
sono vuote illusioni suscitate dalla mente.
Vuoto significa che è impossibile dire che è e dire
che non è: sta al di là delle parole. Sussiste un'interdipendenza dei tanti fenomeni, la loro essenza è vuota.
Non si confonda il vuoto con un f o n d a m e n t o assoluto dell'essere: chi compie questo errore è come chi si
rivolga a un mercante per ottenere una merce, si
senta dire che essa non è disponibile e risponda: « E
allora vendimi l'assenza della merce».
Nel Suràhgamasamàdhi sùtra si dice che un re dom a n d ò al B u d d h a quale fosse il principio imperituro
dell'essere e il B u d d h a rispose invitandolo a pensare
al Gange identico in tutte le sue età, tale perché non
ha né nascita né morte.
Il Lahkàvàtara sùtra insegna che gli eventi non vanno e vengono, essendo al di là dell'essere come del
non essere e non sono perché risultano da flussi di
cause ed effetti, ma proprio perché legati a questi
flussi non sono n e m m e n o inesistenti. Nel Majjhimanikàia si mostra la futilità di tutte le questioni verbali
intorno all'esistenza: di che materia sia composto
l'universo, se esso sia eterno, se abbia dei limiti, e
inoltre: in che modo sia costituito, quale sia l'ideale
della società umana.
Si distolga l'attenzione da questi problemi insolubili, futili e ci si concentri piuttosto a liberarsi, a
raggiungere la condizione ineffabile che va sotto il
nome di estinzione del fuoco, Nirvana.
I flussi di cause ed effetti originano infatti dalla
mente che li proietta perché è offuscata e malata. Se
mai si riuscisse a sciogliere la mente da questi inganni, ci si troverebbe in un luogo indicibile, che taluno
ha tentato di menzionare, parlandone come « terra
del B u d d h a » , situata al f o n d o della mente: al suo
159
centro si stende un lago tranquillo e radioso, che
getta ritmiche ondate sulle sabbie d'oro della sponda. E colmo di loti, odoroso, sulle sue acque sono
scaglionati padiglioncini di lapislazzuli e quarzi e
tutt'attorno risuona il canto di innumerevoli uccelli,
voce del Buddha.
Invece della terra del B u d d h a si può parlare di
questo centro remoto in termini di « istante » (ksana).
Il tempo non vi sussiste, esiste soltanto l'istante senza
tempo, simile al punto che non occupa spazio. Fra il
suo sorgere e il suo svanire non c'è durata: scocca, e
tutto si trova in esso. Da questo istante che è la mente
tutto lo spettacolo del m o n d o scaturisce come dalla
manica d ' u n prestigiatore. La mente non è un io, una
persona: spesso devia dal bene, con riluttanza insegue il male e nulla accade come essa desidera: mutevole, simile a fiume o fiamma di candela, saltella come una scimmia; vita e morte, nascita e sparizione emergono dalla sua attività ininterrotta. Dice il
Dhammapada: il m o n d o è creato dalla mente, asservito alla mente, regolato dalla mente.
Fra le illusioni dell'uomo è anche la quantificazione dell'universo: dice il Lankàvàtara sutra, come un
trattato pitagorico, che i numeri sono completi e
autosufficienti, non h a n n o quantità, ma noi li quantifichiamo per convenienza e così immaginiamo nascita e morte, bene e male. Il B u d d h a è colui che invece
guarda il m o n d o come u n o scenario di nuvole che
trascorrono. L'uomo comune si a f f e r r a a certe cose,
s'inventa bene e male, giusto ed errato, esistenza e
inesistenza, babele di parole. Il B u d d h a non loda il
bene né condanna il male, non disprezza il bene né
condona il male: vive nell'unità, nell'infinitesimo, nel
tutto.
Il buddhismo coltivò u n o smisurato desiderio di
avvicinarsi ai cuori più ignari e semplici, perciò rin a r r ò la storia della redenzione in una serie di raccontini puerili sulle tante vite anteriori del B u d d h a , i
jàtaka. Li raccolse un letterato abilissimo, Aryasura,
160
in sanscrito, prima del IV secolo dell'èra nostra, e in
pàli essi si moltiplicarono. L'opera f u tradotta in
inglese nel 1895.
Puerile, essoterica è la premessa di tutte le sue
fiabe: l'uomo rinasce innumerevoli volte. I più non
se ne accorgono, perché la consapevolezza fra l'una e
l'altra rinascita si spegne, ma a taluni è concesso di
ricuperare memoria dei momenti di vita anteriori
alla nascita mercé esercizi spirituali. Come che sia,
tutti si è stretti nella rete dei debiti via via contratti
con le male azioni ovvero sollevati alla felicità grazie
alle buone azioni di vite precedenti. Così si placa
l'ingenua sete di giustizia.
Q u a n t e volte si incontrano gli episodi dei jàtaka a
cominciare dallo stùpa di SàncI: in Srl Lanka, in Thailandia, in Birmania, in innumerevoli templi, tutti
ripetono l'identico insegnamento: la compassione è
la legge maggiore, trasforma chi la prova e chi la
riceve, stacca dal mondo, investe di gioia quieta e
sottile. La maggior parte dei jàtaka è una variazione
del racconto di redenzione universale induista. Il
B u d d h a nelle vite precedenti f u innumerevoli volte
un re, ma liberato, appassionato di carità. Il culmine
della perfezione sta nella rinuncia gioiosa al corpo.
Questo fine è il centro della rivoluzione buddhista,
che capovolse l'attaccamento alla vita e l'adorazione
della fertilità rimasti al centro delle civiltà sciamaniche, ancora dominanti nell'induismo. Oggi in Thailandia, in Birmania, in Corea regge ancora il culto
sciamanico fondato sulla transe, e anche in Giappone sopravvive la devozione shintó all'eros e alla contentezza naturale. Il buddhismo invece propose un
rovesciamento radicale e i jàtaka esaltano il sacrificio
del corpo come l'atto più luminoso ed estatico fra
tutti.
I vari tipi di B u d d h a d a n n o l'esempio tutti quanti
di questo atto supremo.
II Buddha re dispensa a occhi sgranati per la gioia
cibi e bevande, finché le schiere di mendicanti si
161
diradano e allora che cosa gli rimane da fare se non
regalare le proprie membra? Un jàtaka narra che gli
si presenta il re degli dèi come cieco e gli chiede gli
occhi. Tutti i buoni motivi per negarglieli sono esposti dai ministri e a uno a uno ribattuti dal re, che
infine si cava gli occhi. La storia continua con il re
degli dèi che restituisce la vista al re caritatevole:
trema allora la terra, il mare soverchia le sponde,
risfolgora il sole.
Il B u d d h a è così giusto che il suo regno vive soddisfatto e contento, finché alcuni demoni decidono
di turbarlo. Gli richiedono carni umane fresche da
mangiare e subito egli o f f r e loro il proprio corpo.
Invano i ministri sciorinano i buoni motivi per negare: egli si fa aprire le vene, e mentre i demoni gli
inghiottono il sangue il suo corpo brilla come oro.
Alla fine, morendo, somiglierà a una montagna avvolta di basse nubi rosseggiami. I demoni si convertono.
Il Buddha re ricusa i sacrifici, rifiuta le regole dell'antico machiavellismo indù. Egli si regge sulla virtù: rifiuta una ragazza bellissima, che così va sposa a
un suo ufficiale. Avviene che un giorno dal terrazzo
della sua bianca casa la ragazza si mostri al re « come
un lampo in una nuvola bianca » ed egli cade innamorato. Subito l'ufficiale gliela o f f r e ed egli col cuore
a f f r a n t o e l'animo tranquillo la rifiuta.
Il Buddha principe ereditario regala l'elefante più
bello del reame, sicché il popolo tumultua ed egli è
costretto a ritirarsi con la moglie e i figlioletti nella
foresta. Ma gli è fatta richiesta anche del cavallo, dei
figlioletti e della moglie e a tutti concede ciò che
chiedono.
Infine il Buddha bramino si concesse in pasto a una
tigre affamata che si asteneva dal divorare i suoi
tigrotti; il Buddha ministro era felice, ma sua suocera
interrogò la moglie domandandole se la trascurasse,
162
e q u a n d o lei disse che era virtuoso come un asceta, la
vecchia capì che si fosse fatto asceta e cominciò a
levar lamenti; la moglie credette di capire che la
vecchia era stata informata di quell'intenzione dal
marito e a sua volta levò lamenti. Furono circondate
da una folla urlante e q u a n d o il Buddha ministro lo
seppe, pensò di non doversi sottrarre a simili aspettative e si ritirò nella foresta.
Il Buddha asceta nella foresta fu circondato dalle
inebriate d o n n e del re e il re geloso lo tagliò a pezzi,
senza strappargli la pazienza. Il Buddha itinerante fu
ospitato da un re, ma i ministri ne sparlarono ed egli
si allontanò, per poi tornare, travestito da scimmia
parlante, a confutare quello f r a loro che credeva in
Dio, quello che rimetteva tutto al caso e quello che
non credeva agli altri mondi.
Ma c'è la serqua di Buddha animali. La lepre che
volle buttarsi nel fuoco d'un asceta « come uno smanioso di ricchezze su un tesoro ». Il Buddha cigno che
un re volle catturare, ma ne f u fatto vergognare. Il
Buddha scimmia che salvò la sua tribù dai cacciatori e
m o r e n d o convertì il re.
Strana, antichissima narrazione è quella del Gran
Nocchiero ormai vecchio e incapace di guidare navigli. Alcuni mercanti lo vogliono tuttavia a bordo del
loro, che un uragano caccia nell'oceano dei pesci
guizzanti, nell'oceano di latte, nel mare dai flutti
arrossati, in quello screziato di schiume, finché un
r u m o r e t r e m e n d o annuncia la gola dei fuochi sottomarini. Ma il n u d o merito che il nocchiero tranquillamente dichiara arresta i venti, la nave si volta e
ritorna in patria. Quei mari si succederanno alla
stessa maniera nel poema di Coleridge, nel romanzo
di Poe.
Fu forse Watsuji Tetsuro, l'autore di Fudo, « Vento
e terra», a c o m p r e n d e r e fino in f o n d o l'indole dei
jàtaka: esprimono il clima monsonico, tutto vi è avvolto d'un u m o r e caldo e nutritivo e ogni creatura vi
163
si fonde con ogni altra, l'uomo cessa di credersi il
perno dell'universo. Nella forma attuale si assomma
tutta la storia trascorsa. Lo snodo del serpente, l'occhiata della vacca parlano di esperienze u m a n e . Il
clima dell'India genera c o i jàtaka un sogno più intensamente onirico d'ogni sogno.
164
SCIAMANESIMO A MYANMAR
Q u a n t e storie di sciamane e di alchimisti in ciò che
f u sino al 1885 l'Impero birmano!
Qui come in Corea lo sciamanesimo sopravvive
tollerato ma disprezzato dal buddhismo dominante.
Alle anime belle (come si dice in birmano) continuano a essere attratti gli spiriti, che le mettono in transe
per farne le loro amanti. « Sposa di uno spirito » è il
nome delle sciamane e dei più rari sciamani. A un
primo incontro, in transe o in sogno, con u n o spirito,
seguono gli sponsali, q u a n d o in segno di fidanzamento si beve dell'acqua pura, atto solenne che preserva dagli assalti troppo irruenti e sregolati del celeste amante. A p p e n a possibile si festeggeranno le
nozze, che vogliono u n costoso corredo, costumi cerimoniali, offerte di cibo e incenso, l'ingaggio di
un'orchestra esperta in musiche per spiriti, l'affitto
di un « palazzo di spiriti » e infine l'opera di sciamani
celebranti.
La cerimonia mira a legare al corpo l'anima-farfalla in m o d o che non vada più errando, fantasticando,
ma rimanga ferma a disposizione delle celesti visitazioni. Il celebrante maggiore avvince l'anima-farfal165
la, la sposa dello spirito, mostrandole uno specchio in
cui si vede riflessa, e strusciando poi lo specchio su
tutto il corpo; le lega quindi i polsi e le caviglie, le
incrocia sul petto una cordicella e nella crocchia le
infila un ago col refe incrunato. La sposa consuma
infine il matrimonio eseguendo una danza in transe.
L'idea dominante della possessione erotica da parte d ' u n o spirito fa dello sciamanesimo, nell'opinione
di molti, prerogativa di d o n n e leggere e di uomini effeminati: il ragguaglio del capitano Alexander
Hamilton, nel 1710, parlava di balli frenetici di
« ermafroditi ». Ma nella realtà tutto è straordinariamente elastico e fluido. Valga il caso di Ko Maung,
posseduto dalla « Madre » che abita il cono vulcanico
Popa.
A n d ò così: un giorno egli volle offrire dei fiori a
un'attrice che stava girando un film sulla « Madre del
Popa », ma come fece per porgerli, cadde svenuto. A
giudizio degli astanti l'attrice in quel momento doveva essere ancora posseduta dalla « Madre ». A questa
Maung dedicò una statua e, d u r a n t e la cerimonia
indetta per consacrarla, f u posseduto per la prima
volta ed eseguì in transe la danza della « M a d r e » .
T o r n ò periodicamente a eseguirla, con impeccabili
movenze: aveva « p e r d u t o la sua vita umana », e danzò anche per altri spiriti che via via lo possedettero,
sia maschili che femminili. Sempre si fece un punto
d'onore di non indossare mai abiti da donna, di non
confondersi con la gente di sesso ambiguo. E p p u r e i
suoi subitanei entusiasmi e affetti non sono certo la
regola virile birmana.
Gli spiriti che più di frequente possiedono le anime belle sono i 57 nat: coloro che nella storia del
paese più ingiustamente soffrirono e trovarono morte violenta, sicché ancora vanno errando nell'aria,
forze convulse che scatenano danze, dettano ora166
coli, ispirano musiche appassionate, a contrasto con
la modestia e la quiete buddhiste.'
Un rango superiore rispetto alle spose degli spiriti
spetta agli alchimisti, eredi d'una religione anteriore
a quella attuale instaurata nel 1066, e di stampo più
affine al tantrismo. L'alchimia si chiama aggiya, « lavoro col fuoco », e insegna, in un gergo immaginoso,
a trattare il mercurio e il ferro in modo da ottenere
palline di un metallo alchemico, capaci di conferire
poteri perché impregnate di «materia prima», la
sostanza incorruttibile che sta alla base degli elementi visibili e tangibili. Ma ottenere queste palline o
pietre filosofali è soltanto la prima fase dell'opera.
Segue la fabbricazione, mediante le palline, di
composti che si ingeriscono e provocano il coma di
una settimana, d u r a n t e il quale l'alchimista deve essere sepolto senza contatto con l'aria. Pericolosa settimana! Il suo corpo è fragrante, chi lo mangiasse
acquisterebbe i poteri, occorre perciò che un discepolo stia in guardia, facendo invocazioni sulla sepoltura. Passato il periodo di morte apparente, l'alchimista risorge, lascia in dono al fedele discepolo la
pallina, di cui non ha più bisogno essendo lui stesso
ormai una pietra filosofale, e diventa un uomo dei
boschi: godrà di un'eterna giovinezza, vivrà senza
cibo, i suoi desideri ardenti non li potrà soddisfare
con le d o n n e normali, dall'odore di carne, perciò
tramuterà in d o n n a certi frutti dello Himàlaya. La
sua vita sarà un p e r p e t u o incanto. Un d r a m m a t u r go del secolo scorso, U Kyin U, mise in scena un uomo dei boschi che canta le meraviglie della natura:
« Guarda i fiori, la cascata, il ruscello, lo stagno, i
ciottoli, la rena color dell'argento. Cresce il muschio
verde sulla rupe, scorre la verde acqua sul sasso. Non
1. S.M. B e k k e r , Talent for Trance: Dancing for the Spirits in
Burma, su « N e w O b s e r v a t i o n s , S h a m a n i s m », G u e s t Editor Elém i r e Zolla, l u g l i o - a g o s t o 1988.
167
brucia il sole di mezzodì f r a questi alberi fitti, alcuni
allacciati come amanti, altri solitari ... ».
Fra le leggende di alchimisti va ricordata quella del
lavorante che per la disperazione dei suoi fallimenti
si cavò gli occhi e ordinò all'apprendista di gettare
nel cesso la pietra incompiuta. Ma nella notte il cesso
diventò fulgido: glielo dissero ed egli capì d'aver
letto male il trattato, non andavano usati gli acidi
(chin) ma il fimo (chu). Allora fece ritirare dal liquame
la pietra, finalmente giunta alla perfezione, e ricuperò la vista mettendosi nelle orbite vuote l'occhio d'un
toro e quello d'un caprone, che all'applicazione della
pietra divennero i suoi nuovi occhi, spaiati.
Fece f o n d e r e il piombo e il bronzo disponibili e
mercé la pietra ne cavò argento e oro, consentendo al
re di erigere la selva di templi dorati a Pagan. Raccolse infine sul cono vulcanico di Popa le erbe necessarie, le polverizzò con la pietra e le mangiò, trasformandosi in u o m o dei boschi. Il discepolo non le potè
mangiare, a lui sembrarono brandelli di carne umana insanguinata.
168
SI R I T I R A O G N I I N D I Z I O DEL SESSO
Fino a qual punto sono invenzioni sociali le malattie mentali? Basta, per rispondere, pensare a una tutta orientale, la malattia epidemica, diffusa in
Thailandia, nel Bengala, a Singapore, in Indonesia e
soprattutto in Cina, che va di solito sotto il n o m e di
koro, in malese: tartaruga. A Sulawesi si crede che
colpisca chi non abbia l'avvertenza di cambiar subito
strada q u a n d o vede u n a tartaruga ritrarre sotto il
guscio capino e zampette. Come la tartaruga fa sparire capino e zampette, così koro all'uomo fa dileguare
il sesso nell'addome, alla d o n n a assorbe la vulva e
appiattisce i seni. O meglio, i pazienti si allucinano
che così sia e soffrono l'indicibile, temendo di morire. Strano effetto, per una visione. La tartaruga che
si ritrae, nelle tecniche spirituali indù si evoca al fine
di raffigurare la perfetta pace e autonomia. Dice la
Bhagavadgìtà: chi raggiunge la salda sapienza (prajnà) fa come la tartaruga (kùrma) che si rannicchia in
se stessa. La stessa connessione di immagini vige in
Grecia, dove i serpenti allacciati, emblema di unificazione e sapienza, per Tiresia segnarono la perdita
del sesso.
169
In Cina scoppiò l'ultima epidemia qualche anno
fa, tra Canton e Hainan. Il malato ha dapprima l'impressione che l'atmosfera sia turbata, non p r e n d e
sonno, poi crede che gli si stia ritraendo il pene, cade
nel panico e infine nel marasma. La sindrome non
m'interessa più di tanto, ma sì la reazione delle comunità: scopro che, nonostante gli anni atroci della
psicosi di Stato, le care vecchie nevrosi del taoismo
popolare sopravvivono intatte.
Q u a n d o il malato di koro lancia le sue urla strazianti, il vicinato non ha dubbi, si tratta d'un attacco di suo
yang, il nome mandarino del koro: una volpicina soprannaturale sta tentando di trafugare il sesso al
poverello. Quella figura universale che è la Dama
Celeste, l'Amante Soprannaturale, in Cina assume
l'aspetto di una d o n n a volpina, che non è necessariamente una perfida ladra di sessi, anzi può essere
un'amante di sogno che largisce estasi, fortuna e
poteri soprannaturali. Ma, essendo soprannaturale,
è imprevedibile, capace di tutto.
Perché i cinesi la ravvisano in forma di volpe o di
d o n n a volpina? Jilek rammenta la collezione di storie
di volpi soprannaturali opera di Pu Song ling, che
uscì in versione inglese a New York nel 1946 (Chinese
Ghost and Love Stories) con una prefazione di Martin
Buber. Buber invitava a considerare i significati che
germogliano nella mente osservando una volpe che
d'inverno attraversa un fiume o un lago ghiacciati.
Mentre trotta, di continuo abbassa il capo per cogliere con l'orecchio i fruscii delle correnti nascoste sotto il lastrone: vive nel mondo superiore, luminoso,
yang, ma nello stesso tempo ascolta i moti nascosti
della tenebra, yin\ è consapevole dell'una e dell'altra
sfera. Media. Lo spirito volpino appartiene al m o n d o
delle pure energie, ma cala nel nostro, nella materia,
attraverso la porta dei sogni. Se lo fa con dispetto e
perfidia, addio sesso.
170
Durante l'epidemia nella regione di Leizhou, c'era
chi giurava d'aver « visto » la Dama Celeste Hu Li
Jing, vezzosa maliarda volpina, correre in giro a
commettere i suoi furti. A Hainan c'era chi scorgeva
la Dama discesa dal cielo, inoltre qualcuno riteneva
d'aver visto una vecchiaccia correre la campagna
con d u e ceste appese al bilanciere, e ad avvicinarsi si
scopriva, visione vomitevole, che erano colme di sessi
rubati.
Di norma, q u a n d o un malato subisce l'attacco del
male strilla, piange disperato. I vicini accorrono e
applicano gli immemorabili rimedi. Urlano, sparano
mortaretti, battono gong, rullano tamburi: il fragore
allontana gli spiriti, che sono delicati. Naturalmente
il baccano innervosisce ancor più il malato e chi lo
vorrebbe soccorrere, si cerca quindi una rete da pesca da gettargli addosso, sperando di catturarvi lo
spirito che lo molesta. Gli si menano botte con una
vecchia ciabatta e lui non sente dolore: sa che le
percosse sono dirette allo spirito. Per dargli busse
più dure, si cerca un r a m o di pesco, l'albero dell'immortalità, o di artemisia, la pianta calda in massimo
grado, che occorre per una malattia così raggelante.
Qualcuno intanto gli ha stretto fra d u e bastoncini
l'indice sinistro; a torcere bene, dovrebbe sgusciarne
fuori lo spirito. E si d a n n o inoltre dei gran strattoni
alla parte del corpo che minaccia di dileguare.
Fra tanti affanni, a chi fare appello? Nonostante i
templi diroccati, i monasteri spopolati, il contadino
cinese sa quale immagine può aiutare, e a p p e n d e alla
parete l'eroe Zhong Kui: occhi d'ipnotista nel volto
marziale, barba al vento, pugno saldo attorno all'elsa
dello spadone, e con un pipistrello che gli svolazza
intorno. È simbolo di felicità il pipistrello, ma forse
rientra in queste immagini terapeutiche perché in
volo lo guida un sesto senso, un radar. Così Zhong
Kui avverte con percezione sottile da pipistrello la
171
presenza di spiriti volpini e, vibrando di punta o di
taglio la lama, li dissolve nel nulla.
Stando alia storia, Zhong Kui era un medico. Respinto ingiustamente a un esame di Stato, si uccise
davanti all'Imperatore, che per placarne l'ombra lo
proclamò Esorcista dell'Impero. Questo avveniva
sotto i Tang. Un imperatore Ming vide in sogno
Zhong Kui e potè descriverne le fattezze al pittore
Wu Daozi, che ne dipinse l'icona canonica, la quale
ancora circola in Cina, non più, non meno efficace
dei rimedi moderni.
172
C H E FARE DEI CADAVERI
Quasi dappertutto a sortilegi si è attribuito il decesso; sempre ci si è industriati di allontanare lo
spirito del morto ancora un po' vivo facendone un
buon morto, accompagnandolo, sospingendolo via
nel suo viaggio.
A Bali, la civiltà che ha preservato il modello archetipico, globale dell'onoranza funebre, il morto
prima si seppellisce, che lavori, concimi la terra;
quindi si esuma e brucia; infine, terza purificazione,
se ne sperdono in mare le ceneri; ne resta in casa la
statuina, il lare, che il giorno dell'estremo addio si
butterà alle onde, con una liberazione integrale del
morto dai vivi e dei vivi dal morto.
La vita d'oltretomba non consta che sia mai ritenuta uguale per tutti. Buddhisti, cristiani e islamici
f a n n o dipendere da un voto di buona condotta la
sorte oltreterrena, che per Maya e Aztechi invece
dipendeva dal tipo di morte: beato chi morisse di
gotta o d'idropisia, o l'affogato, destinati, per connessione con l'umidità, al verde paradiso di Tlaloc,
dio della pioggia.
Imperscrutabili cicli ritmano la vita di popoli ora,
173
come gli Europei medioevali, incuriositi fino all'angoscia dall'aldilà, ora quasi indifferenti, come gli
Ebrei dell'epoca biblica.
La fiera delle vanità f u n e r a r i e trascorre dalle cornaline persiane per u n a placida agonia alle sciarpe e
giubbe antiproiettile cambogiane, agli allumi beirutini a scongiuro degli incidenti, all'amuleto a f g h a n o
contro la malamorte, fatto di chiodi di garofano,
vetrini, lustrini, e infine 5 n a p p i n e come le stelle a 5
p u n t e che simboleggiano l'eterno dalla Spagna alla
Macedonia, come le 5 dita della m a n o levate in alto
nelle commemorazioni dei martiri sciiti. Se il 5 è
requie eterna, 40 è il n u m e r o del viaggio d'oltretomba, in cui per lo più accompagna u n cane; 40 d o g a n e
passa il m o r t o r u m e n o , via via sfiorando astri ardenti
e plaghe gelate; 40 chiavi p o r t a n o in processione i
fanciullini di Mashhad r i m e m b r a n d o i martiri; a 40
giorni dalla morte gli ortodossi c o m m e m o r a n o i loro
defunti.
Si accavallano tante f o r m e del culto f u n e r a r i o , ma
nessuna è gratuita, ogni popolo sembra aver rifinito
u n tratto particolare, universalmente latente. Il paesaggio globale, virtuale in ogni u o m o risulta dall'inventario di tutte le f o r m e , comprese le più esotiche.
C'è u n a tribù, i Tini dama, abitanti in P a p u a - N u o va Guinea la valle del Keram, u n affluente del Sepik,
e suggerimenti a non finire p u ò t r a r r e dalle loro costumanze lo psicologo: in ogni essere u m a n o c'è in
potenza la visione delle d o n n e Tini dama, p e r le
quali ai primordi le f e m m i n e , prive di sesso, non
conoscevano la morte, salvo q u a n d o concepivano
per o p e r a magica degli spiriti della foresta, e il feto
per nascere le doveva lacerare. Di una vergine inviolabile in procinto di m o r i r e p e r f o r a t a ebbe pietà u n a
ninfa, che le incise il g r e m b o con un affilato b a m b ù .
Quella p r i m a sopravvissuta al parto insegnò ai maschi l'amplesso, col quale e n t r a r o n o nel m o n d o il
f u r t o e l'omicidio. Le d o n n e p e r ò avevano cessato di
174
morire, e ne provò dispetto l'orca Bana, che, oltre a
divorarsi i neonati, cominciò ad ammazzare le donne. Venne il giorno in cui ne pagò il fio, ma quando il
coltello vendicatore la colpì al grembo, questo scoppiò: i brandelli divennero le stelle, il clitoride la luna.
Da allora, ogni 28 dì Bana-volta notturna chiama le
d o n n e a morire un poco, sanguinando. Dalla pubertà al matrimonio le vergini rischiano di essere fecondate da uno spirito della foresta, diventando anch'esse spiriti. Salvo q u a n d o incinta, la donna via via cede
vita a ogni mestruo, finché con la menopausa incomincia l'agonia. Si celebra allora il rito funebre: vestita a lutto la d o n n a danza impersonando Bana; dopo
sarà aperta ai morti, che parleranno per sua bocca,
sarà visitata da sogni premonitori. Non più la palude
fermentante e feconda frequenterà, ma la foresta.
Oltre a perlustrare le idee ricorrenti nell'inconscio, si può anche cercare di comporre con pezzi
sparsi nei cinque continenti certi archetipi, come in
un gioco di pazienza a incastro.
Archetipo principale è forse il cadavere squisito: si
ritiene che una vita perfetta imbalsami il corpo facendone un'immortale, p r o f u m a t a statua terapeutica. Gli esempi sono innumerevoli, dai mosci di Kiev
(eliminati dai bolscevichi), alle salme incorrotte dei
santi della shi'a, agli I m a m incorruttibili nelle loro
venerate, miracolanti tombe, ai cadaveri prima cinesi
e di poi giapponesi.
Questi ultimi f u r o n o esaminati da Massimo Raveri,1 nel q u a d r o della tradizione importata dalla Cina
in Giappone nel secolo XII, sopravvissuta alla condanna generale, seguita spesso da banditi scampati
alla legge e rifugiati in templi montani, accolti negli
Ordini buddhisti più severi.
Il candidato si isola in una grotta dove dimora per
tre anni, senza mangiare carni, senza assaporare sale, rinunciando a cuocere il parco cibo, eliminando
1. Il corpo e il paradiso,
Marsilio, V e n e z i a , 1992.
175
infine i cereali aborriti dal taoismo: riso, grano, miglio, orzo, e i legumi.
Nei cinque anni successivi, egli attinge cibo soprattutto dalle conifere, limitandosi a pigne, castagne,
foglie, radici, cortecce e mangiando terra. Riduce al
minimo il sonno. In ultimo giunge a bere soltanto
acqua, senza più i n t r o d u r r e nessuna vivanda nel corpo. Ora è al punto desiderato, può assumere la posa
della meditazione nella bara, e un discepolo getterà
terra su di lui seppellendolo, lasciando tuttavia una
canna di bambù confitta nel suolo a dargli aria.
Dopo tre anni ha termine la prima sepoltura giapponese, si mette a n u d o il cadavere. Così si scava la
fossa dell'asceta, ma si dovrà trovare una salma intatta, una mummia che si incenserà, si abbiglierà di
paramenti e si collocherà in un tabernacolo, per adorarla.
Qualcuno, di q u a n d o in quando, raggiunge questa
meta immergendosi nella meditazione tantrica buddhista shingon, identificandosi con il mandala del
diamante, la rappresentazione che lo Shingon o f f r e
dell'essere. Mi capita di leggere l'ultimo saggio di
Izutsu Toshihiko e Izutsu Toyo su questo mandala di
nove figure, in cui si comincia dalla centrale: l'essere
f u o r del tempo. Si passa alla seconda, dove una durata fluisce e comincia a far emergere le funzioni del
cosmo in forma di suoni; alla terza, in cui quei suoni
assumono una veste sottile, invisibile; alla quarta, in
cui quei suoni ormai quasi materializzati f o r m a n o il
mondo; alla quinta, in cui si forma l'unità di questo
mondo; alla sesta, in cui ci si rende coscienti di questa
unità; alla settima, in cui da questa consapevolezza
pura si passa all'Io che proietta fuori di sé l'illusione
del m o n d o esterno; all'ottava, in cui ci si smarrisce in
questo m o n d o esterno, facendosi ingannare dalle
dualità (bene-male, positivo-negativo); alla nona infine, in cui l'estasi scancella questo inganno. E si torna
alla perfezione della prima figura.
Contemplare questo mandala sarà l'esercizio pri176
mario del suicida, che s'immergerà nel suo moto
circolare, incessante, creativo.
Raveri tenta di scovare la radice sociale dell'esperienza, nota che la salma mummificata del suicida
sacro è un paradosso, natura e artificio congiunti,
non è né del tutto morta né del tutto viva, è divenuta
un i m p u r o purissimo, immobile. Ha d u n q u e le f u n zioni d ' u n dio-uomo. Si è fatta violenza, come ad un
capro espiatorio, ma ne risulta una purezza esemplare.
Si d o m a n d a : la consuetudine di mummificarsi è
diventata meno frequente nell'epoca m o d e r n a perché l'Imperatore ha assunto alcune di queste funzioni mediatrici paradossali?
Il corpo mummificato è anche legato al culto del
messia buddhista Miroku, e può essere segno di una
trasfigurazione sociale, di una libertà scatenata o di
una potenzialità pura: i fedeli a f f e r m a n o che l'asceta
si rianimerà, uscirà dalla contemplazione in cui si è
calato fino a sembrare d e f u n t o .
Nell'epoca settecentesca di Edo, Miroku Jikigyo,
un operaio, si dedicò alla propaganda confuciana,
prodigandosi per anni senza che nessuno gli badasse. Poi andò sul Fuji, digiunò secondo le regole, si
fece sotterrare e d o p o tre anni fu riesumato intatto.
La venerazione delle masse si riversò allora freneticamente sul suo corpo preservato.
UN P O N T E F I C E IMPERIALE EBREO
UNA CHIESA A TRASTEVERE
Nel 1143 m u o r e a Roma Innocenzo II Papareschi,
una nuova epoca della Chiesa prende inizio. Si comincia a distinguere Guelfi da Ghibellini e le loro
lotte insanguineranno i secoli successivi.
Innocenzo II chiuse una fase della storia, nei pochi
anni del suo regno successivo alla morte dell'antipapa Anacleto, deceduto nella medesima Roma nel
1138. In quei pochi anni, dal 1138 al 1143, egli si
dedicò a riedificare la chiesa che era stata del suo
rivale Anacleto: Santa Maria in Trastevere. Vi fece
innalzare ventidue colonne ricavate dalle T e r m e di
Caracalla, a comporre un'abside solenne. Erano istoriate di emblemi egizi, dei quali soltanto nel 1865
Pio IX le farà oltraggiosamente nettare.
Soprattutto, Innocenzo II si dedicò a far brillare il
f o n d o dell'abside con dodici figure impastate in tessere di vetro. Ancora oggi, nonostante le rovine e le
alterazioni, possiamo contemplarle e tentare di comprenderle, anche se il loro sfondo dorato rimane
quasi sempre spento e ci vuole del tempo perché
riemerga ai nostri occhi il ricordo del fulgore antico.
Lo spettacolo si protende sotto un ventaglio di
179
motivi simbolici, fra i quali spicca una mano impugnante una coroncina di foglie sopra la testa del
Cristo. Cristo sta seduto su un ampio trono, ma è per
girare a sinistra, protende la mano e afferra la spalla della Vergine. Ha volto e veste bizantini, pupille
veementi in parte coperte dai sopraccigli. Come la
Vergine, nella destra regge una scritta; quella materna è grigia su nero, la sua nera su bianco. « Vieni,
prescelta, in te porrò il mio trono » grida il proclama
del Cristo; la Vergine, incoronata, avvolta di paramenti regali, canta l'abbraccio del Cristo.
A destra del Cristo san Pietro si slancia ad additarlo, mentre a ciascuno dei d u e lati della triade stanno
tre figure. A destra Cornelio papa, che combatté i
novazianisti, Calepodio martire, Giulio I, sotto il
quale Ario lanciò la sua offensiva contro Atanasio e
la chiesetta fu compiuta la prima volta. A sinistra
viceversa stanno papa Callisto I, che riedificò la chiesetta, Lorenzo martire, Innocenzo II reggendo in
mano la chiesa rieretta. Colpisce di quest'ultimo la
faccia stanca, disfatta: è il più tormentato e umile del
gruppo.
Stanley Chodorow sosteneva, nel 1972,' che la contesa fra i due rivali Innocenzo II e Anacleto era
dovuta all'opinione di Innocenzo II, che ormai fra
pontefice e imperatore non c'erano più motivi di
lotta, m e n t r e Anacleto insisteva nella disputa e voleva appoggiarsi ai Normanni contro gli imperatori
germanici. Per Mary Stroll 2 viceversa il conflitto non
aveva più senso e la disputa dei due rivali rimase
strettamente politica. Doveva pesare in modo perentorio sulle sorti di Anacleto la sua discendenza dalla
famiglia di banchieri ebrei convertiti, i Pierleoni, che
in Francia non si esitava a maledire.
1. Christian Politicai Theory and Church Politics in the Midtwelfth
Century, University o f C a l i f o r n i a Press, B e r k e l e y , 1972.
2. The Jewish Pope. Ideology
1130, Brill, L e i d e n , 1987.
and Politics
180
in the Papal
Schism of
Nel 1130 il g r u p p o di cardinali che reggeva il
governo r o m a n o si affrettò d u n q u e a eleggere papa
Anacleto Pierleoni, ma tosto si a d u n ò un nugolo
d'altri cardinali sostenuto dalla famiglia Frangipane,
che gli contrappose Innocenzo II Papareschi. Molti
documenti sono stati soppressi, ma sappiamo che
Innocenzo II dovette scappare dalla città. La sua
missione in Francia f u un trionfo, e l'Imperatore con
una scarsa t r u p p a lo riportò in Roma. Soltanto la
Sicilia n o r m a n n a e la Scozia rimasero fedeli ad Anacleto, che nel 1138 moriva.
Anche la Stroll si sforza di interpretare le figure di
Santa Maria in Trastevere: il papa sta a pari grado
fra i suoi predecessori e i martiri. Sono sullo stesso
piano, nessuno è coronato di un'aureola. Per l'ultima
volta nella storia dell'iconografia cristiana un papa
vivo si allinea tra i santi.
E inoltre un papa al quale sono riconosciuti i titoli
di « Cesare e reggitore del mondo intero », di « vero
imperatore»: audacie inimmaginabili nell'avvenire.
Siamo così indotti a identificare questo momento
come l'apice di una lenta opera ecclesiastica che,
iniziata q u a n d o si convinse l'Imperatore a dimettere
il titolo troppo pagano di « pontefice », qui finalmente viene portata a termine; lo stesso titolo imperiale è
strappato e attribuito al papa. Alla morte di Innocenzo II il cadavere f u deposto in un sarcofago di porfido, imperiale, e va r a m m e n t a t o che non appena
eletto, nell'anno 1130 Anacleto aveva mandato a incoronare « re di Sicilia e Italia » il n o r m a n n o Ruggero a Palermo, ritenendo d'averne la potestà.
Se questa chiesa fu costruita con scarsi fondi e ogni
pagliucola d'oro deve significare, ogni colonna gridare il suo messaggio, la sfilata raffigurata nella chiesa sta dichiarando che scomparsa è la rivalità fra
papato e impero, stemprata quella fra papato e Ordini religiosi.
La Stroll si adopera a convincerci che queste non
erano idee esclusive di Innocenzo II, al quale la
181
vittoria era andata perché i suoi avevano una facondia duttile e acuta, m e n t r e i sostenitori di Anacleto
erano stati più impediti, ed egli aveva dovuto reggere all'accusa di ebraismo. Il libro conclude: « Voci
ragionevoli, come quelle di Rambaldo di Liegi e Pietro di Porto, che invitavano a meditare sui d u e candidati e sulla loro elezione, si spersero nel frastuono ».
Mi d o m a n d o : che cosa sognavano i due? Prima del
1130 Anacleto aveva mostrato simpatia per le innovazioni religiose e Innocenzo II, da parte sua, diede
forza alle istituzioni più riformatrici. Dunque soltanto l'occasione politica li contrappose?
Resta un'ipotesi: forse la scelta di Santa Maria in
Trastevere, legata a entrambi, segnò un tentativo di
a n d a r e al di là dei loro apparenti contrasti, proclam a n d o le idee che li avevano in f o n d o accomunati.
182
LORENZO IL M A G N I F I C O
Adolescente, elegante, assorto a p p a r e il volto di
Lorenzo il Magnifico, se davvero è lui che cavalca nel
Viaggio dei Magi dipinto da Benozzo Gozzoli, il discepolo di Fra Angelico, nel 1459-1463. E una eterea,
squisita pittura, con i suoi ori, reliquia di Bisanzio,
con i suoi verdi ramati, i suoi cieli di lapislazzuli, le
sue lacche di carminio. Mostra i magi cavalcanti alla
volta di Cafaggiolo e condotti dal Medici, giovinetto
di sedici anni all'apparenza trasognato, ma interiormente prontissimo e cauto quale dovette mostrarsi ai
consessi dove si decise la vita politica italiana. A Milano, a Roma, a Napoli. Poco dopo sposava Clarice
Orsini, insinuandosi nel cuore dei poteri che reggevano Roma. Ancora così chiara e fresca era la sua
fisionomia e già con inflessibile cura reggeva l'equilibrio italiano! Nel 1469, alla morte di Piero il Gottoso,
gli f u offerta la successione nella Signoria.
Chi era? Certamente un allegro compagno della
brigatella che il Pulci descriveva con una serqua di
nomignoli: era composta da tristerelli, trillolini, vagheggini, spiacevoletti, gabbadei e via e n u m e r a n d o ,
alla fiorentina, gli epiteti. Certo era un buon compar i
gno, lo attestano i versi carnevaleschi, spensierati e
cantanti. E f u uno spasimante senza requie, non
soltanto un poeta stilnovista, ma anche un amatore
che si condurrà, secondo il Machiavelli, a morte precoce per la sua incontinenza. E p p u r e questo aspetto
leggero era anche una copertura. Certo, ordiva le
processioni più rutilanti, le scene più voluttuose in
quella Firenze festosa, ma ricordiamoci che si trattava di discorsi simbolici, di esposizioni trasposte delle
nuove idee filosofiche, d'origine bizantina, che i Medici avevano introdotto in città. Idee sottili e liberatrici, che dal tempo di Cosimo si erano esposte e
discusse a Careggi, dove la filosofia più segreta e
audace dei Greci era stata squadernata. Credo che
soltanto George Eliot abbia saputo dar pieno conto
di questa migrazione di Bisanzio a Firenze.
Lorenzo f u imbevuto del sapere di Marsilio Ficino
fin dalla prima età. Ma non esisteva soltanto Careggi.
La società più viva di Firenze si riuniva nella confraternita laica dei re magi, presso il convento di San
Marco. I magi erano, per i membri della confraternita, i sapienti più remoti dell'antichità pagana, ispirati
a una conoscenza astrologica sovrana. Una cometa
dai movimenti f u o r dell'ordinario li avvisò che il
Cristo era nato. Ma la loro sapienza era alla pari di
quella che essi andavano ad a p p r e n d e r e alla grotta di
Betlemme. Il Ghirlandaio mostra il loro corteo in
arrivo, là dove già Augusto e le Sibille sono convenuti. « Venite meco, o figliuoli de' sancti Magi al celeste
presepe. Dove non fede, non speranza vi conduce,
ma solo amore » perora alla confraternita Giovanni
Nesi nel 1486. E così proclamata la verità più cara
a Lorenzo, l'eminenza dell'amore. Un amore che
ridonda in voluttà, in magnificenza, nelle delizie dei
cortei. E quale pittura non sorse attorno a Lorenzo!
Basti il maggiore di quegli artisti, il Botticelli, che
effigiava volti medicei f r a i magi dell'Adorazione nel
1476. Nella confraternita non meno che a Careggi
trionfava il più audace sincretismo e si dipanava la
184
più sottile medicina. Scrisse il Ficino nel de vitaproducenda (II, 19): i magi recavano oro, incenso e mirra.
L'oro è la materia meglio temprata, emblema di Giove; l'incenso, che brucia con tanto ardore, rappresenta il Sole o Apollo; la mirra compatta denota il
saldo Saturno. I tre doni conferiscono e restaurano
la giovinezza. Due parti d'incenso, una di mirra e una
fogliolina d'oro vanno tritate e mischiate e ridotte in
pilloline. Si inghiottiranno con vino fulvo q u a n d o la
Luna guardi il Sole o Giove al crepuscolo. Così gli
umori saranno preservati e irrobustiti. Così si sarà
disposti ad ascoltare la verità.
Da Bisanzio Lorenzo trasse l'ideale del filosofo re e
sicuramente mirò a immettere nell'Occidente una
religione diversa e più pura. Strumento della purificazione sarebbe stato l'Impero fiorentino. Nel suo
commento alla Divina Commedia il Landino, compagno di Lorenzo, prediceva la data dell'evento: il
1484, q u a n d o nell'autunno si sarebbero congiunti
Giove e Saturno sotto lo Scorpione, restaurando i
regni saturnii. Dopo la morte di Lorenzo è lecito
immaginare che il figlio, il quale divenne Leone X,
ne avrebbe ereditato il programma. Ancor Cari
Gustav J u n g sognava la libertà che avrebbe potuto
irraggiarsi da Roma, se Leone X avesse avuto tempo
e m o d o di imporsi.
Innanzitutto Platone e Aristotele, T o m m a s o e Scoto, Averroè e Avicenna sarebbero stati congiunti e
fusi dalla dialettica del circolo di Careggi. Nel 1484 si
unì a Lorenzo il giovane Pico della Mirandola, il
quale portò la ricchezza del cabbalismo ebraico in
aggiunta alla sapienza cristiana e islamica, ed espose la sua simbologia universale basata sulle lettere
ebraiche, che costituivano il Verbo creatore. Ad assimilarne il sistema, si poteva esclamare: « Noi saremo chi ci fece ». Pico voleva andare a dimostrare le
sue tesi a Roma, ma il papato ritrovò la sua violenza
antica e si scatenò contro di lui. Gli rimase fedele
185
Lorenzo, che non deviava d'un palmo dall'attenzione
alle minime oscillazioni dell'equilibrio italiano: parò
la congiunzione fra Venezia e il papato con la guerra
di Ferrara dal 1482 al 1484, mantenne rovente la
rivalità f r a il papato e Napoli. Q u a n d o nel 1492 morì, l'ago della bilancia scomparve.
Sarebbe tuttavia un errore pensare che Lorenzo
fosse un politico f r e d d a m e n t e intento al suo fine. Le
sue poesie religiose vibrano di potenza. Soprattutto
riuscì a comporre un poema ispirato alle dispute con
Marsilio Ficino, XAltercazione, in terzine, nel 1473 o
1474. Forse non è una composizione impeccabile.
Del resto dopo Dante e Petrarca, chi poteva mai
sperare di trattare la religiosità e la filosofia in versi?
Se si cerca una vezzosa poesia nelle composizioni di
Lorenzo, si vada ai canti più popolari e distesi
(« Quand'i te vidi uscir dalla capanna / Col cane
innanzi e colle pecorelle, / E me ricrebbe el cuor più
d ' u n a spanna / E le lacrime vennon pelle pelle / E poi
me caccià giù con una canna / Dirietro a' miei giovenchi e le vitelle »).
L'Alienazione tratta rigorosamente di Dio come
sommo bene, dimostrando che non può confondersi
con i beni di fortuna né con la speculazione comune,
che parve così importante a Democrito. Lorenzo ripete il Ficino: « Questo ardore noi piuttosto con l'ardore della volontà che con la scintilla della mente
proviamo». Dio ci sovrasta in modo irrimediabile
nella potenza intellettiva; ma con l'amore fervente lo
si attrae e ne siamo impregnati. La luce divina non si
intende, ma le si può credere e la si può amare,
finché si infonde in noi, ci riscalda e ci fa soavemente godere. Ci sono animali più acuti di noi, ma non
più felici, perché il dolore si mescola sempre alle loro voluttà. Si passi d u n q u e alla virtù attiva. Questa,
tuttavia, se resta ferma ai fini materiali conduce allo
stoicismo. Dobbiamo a n d a r e oltre Marta, verso Maddalena. Il vero bene non vive sotto la luna, « d u n q u e
186
non è nel contemplar di quelle / cose che si disfanno a
una a u n a » . Anassagora non seppe sollevarsi al di
sopra della volta celeste, ma lassù si spinse viceversa
Aristotele. A questa suprema contemplazione si può
arrivare staccando l'anima dal corpo, e qui occorre il
soccorso di Minerva senza m a d r e e l'ardore di Apollo, che deve accendere Laurenzo come accese Dafne.
Laurenzo diventa quindi una versione di Laura, dell'aura, dell'aurora, dell'oro, del lauro (lo chiama
« Laur » il Poliziano nella quarta stanza), e così giunge alla causa delle cause, « ch'è nell'arcan di Dio
serrata e clausa ». Occorre che l'anima sia « interita »,
morta al m o n d o e ami Dio amplificando la mente:
« questo par sia vera beatitudine ».
Dio si presenta allora come « semplice, puro, immaculato agnello » e converte in sé, d a n d o un godimento che non cessa. Così san Paolo (2 Cor, 12, 2-4)
parlò del rapimento al cielo di Venere, il terzo cielo,
e quivi « udì parole che all'uomo non è lecito pronunciare». Lorenzo si rifa a questa dichiarazione,
che riconosce il piano esoterico. Così il poema si
chiude con un canto di p u r o tripudio, implora la
distensione e amplificazione dell'occhio e il suo innalzamento a una sublimità « che è eminente / ed alta
più che alcun'altra virtù ».
187
LE DUE MASSIME OPERE L I R I C H E
Chi trascorra per le tante opere delle varie letterature d'Europa potrà forse rintracciare la storia delle
idee, ma non raggiungerà un q u a d r o sufficiente senza aggiungere la serie dei sommi melodrammi, dalla
fine del Cinquecento ai giorni vicini. In realtà l'opera
lirica soddisfa un bisogno represso, di rifondere nella musica le parole e i gesti. E un testo su vari piani,
dove ogni sillaba, ogni apparizione, ogni atteggiamento si rifanno alla linea espressiva essenziale, musicale. Di nu^vo, d o p o i tempi arcaici, si canta sapendo c h e l a parola è insufficiente. Non basta n e m m e n o
che abbia una sua musicalità prosodica; perché diventi tramite di verità, occorre un seguito di note e la
verità dei gesti. Da Mozart a Wagner si estende la
storia intima dell'Europa. Ben di rado sono perfettamente riusciti i melodrammi: così a r d u o è far confluire insieme concetti, sentimenti, melodie, versi e
scenari. Ma d u e capolavori straordinari possono definire il m o n d o del Settecento e quello dell'Ottocento, Il flauto magico e il Parsifal: non ci si illuda di
c o m p r e n d e r e l'Europa senza ascoltarli. L'uno spera
di far rivivere una Grecia e un Egitto arcaici parlan189
doci della politica asburgica d o p o la morte di Maria
T e r e s a , l'altro immagina u n cristianesimo esoterico
ghibellino che si congiunga a un'etica buddhista.
Sono tentativi di uscire dal retaggio cristiano ecclesiastico, c h e forse non toccano a p u n t i n o quel fine,
ma soavemente incantano chi rimediti i bisogni spirituali del continente.
Q u a n d o f u r a p p r e s e n t a t o nel 1791 a Vienna II
flauto magico, credo che quasi tutti lo interpretassero
come un'allegoria politica: il principe T a m i n o mand a t o dalla Regina della Notte a salvare la fanciulla
Pamina, rapita dai nemici, non poteva che essere
G i u s e p p e II esortato da Maria T e r e s a a salvarle l'Austria (Pamina) dai massoni. Maria T e r e s a tuttavia
fallisce: T a m i n o si fa s e d u r r e dall'iniziazione e il
capo massonico Ignaz von Born, a u t o r e d ' u n trattatello sui riti egizi, impersonato da Sarastro (forse: la
luce che spazza via gli astri), concede al nuovo imper a t o r e e alla sua nazione la semplice saggezza che
mette al b a n d o ogni sdegno, f u g a gli inganni e largisce la pace.
T u t t o all'interno del libretto si spiega a questa
maniera. Perfino il personaggio dell'uccellatore che
provvede di volatili la Regina, Papageno, è semplicem e n t e u n a specie di Pinocchio, che allevato da u n
vecchierello uccellatore nulla sa della sua nascita, e in
qualche m o d o si farà trascinare dal principe. Il flauto
d ' o r o che T a m i n o riceve dalla Regina e che scopre i
segreti, guida i cuori, è infine u n p r o n u b o e l'amore è
la soluzione d'ogni problema, p e r c h é dove a m o r e li
accoppii, u o m o e d o n n a appaiono l'uno all'altra fulgidi numi.
A controprova di questa lettura, la Regina dichiara
che suo marito diede m o r e n d o u n disco solare a
Sarastro, sicché T a m i n o e Pamina per sottrarsi a lui
dovrebbero scendere sottoterra, f u g g i r e il l u m e sup r e m o : i benefici della libertà.
L'aria egizia che soffia sulla vicenda, il fatto che
190
Sarastro sia sacerdote di Iside e Osiride, sono dovuti
a una moda generale: nel 1784 Cagliostro aveva
fondato a Parigi la sua Loggia egizia, che f u la trascinante novità massonica di quegli anni e aveva origini
ben remote. Si può risalire addirittura al Genealogiae
deorum gentilium del Boccaccio, passare per le sale
Borgia, in Vaticano, decorate di egizie eleganze dal
Pinturicchio, rileggere le dichiarazioni di devozione
egizia in Giordano Bruno, riguardare la storia sulla
scorta del Piranesi; alla fine del Settecento Iside e
Osiride sono evocati nelle Logge e di lì a poco spingeranno in Egitto le navi di Napoleone. Le fantasie
erano state accese dalle scene del romanzo Séthos del
1731, opera dell'abate Terrasson, varie volte tradotto in tedesco: piramidi e sotterranei dove si subivano
le prove degli elementi vi erano descritti con cura e
sgomento.
Nell'ouverture dell'opera mozartiana il picchiare
dei martelli sulla pietra significa la ripulitura dell'uomo naturale che avverrebbe nelle Logge; nel cuore
del melodramma s'intrecciano con una grazia spesso
acerba la puerilità popolaresca e lo sbigottimento
tragico. E una musica che solleva fuori delle vicende
p u r a m e n t e politiche, e parla dei misteri più terribili
che circondano la vita. Conviene esplorare il f o n d o
del libretto sempliciotto di Schikaneder.
Fra l'altro il tema egizio torna proprio in questi
anni a riaffacciarsi, d o p o essere rimasto una fantasticheria di Loggia per tanto tempo. E uscito di recente
Black Athena. The Afroasiatic Roots of Classical Civilization (London, 1987), in cui Martin Bernal riprende
una tesi finora rimasta nelle mani di teorici negri
americani: la civiltà greca originò dall'Egitto. In particolare le Danaidi f u r o n o egizie e recarono in Grecia
il culto di Demetra.
D u n q u e si può riportare l'intero complesso dei riti
eleusini a fonti egizie. Non so quanto sia vero, so
però che nell'antichità ci si lasciava andare a queste
ipotesi, come risulta chiaramente alla lettura di Dio191
d o r o Siculo, ma mi basta leggere il trattato su Iside e
Osiride di Plutarco, dove i vari miti sono capovolti,
fatti proliferare, ricomposti incessantemente, e via
via si rivela che Plutone è Serapide, anzi Osiride, che
Persefone è Iside, che Serapide proverrebbe da salreìn ed è colui che rimette in ordine il cosmo, perché
sairein vuol dire spazzare, ordinare e abbellire, che
infine a Sais la statua di Atena è di fatto una figura di
Iside. Altrettanti spunti di rimeditazione e di rinarrazione. Sulla scia di questa mitologia fantastica credo che dovettero dipanare le loro storie i massoni
settecenteschi, proiettando i misteri eleusini in forme egizie.
Si diceva che a Eleusi era giunta una vecchia grama
e luttuosa, raminga e disperata, Demetra digiuna e
affamatrice della terra, in cerca della figlia Kore
misteriosamente rapita. Fu accolta amorevolmente
dalla famiglia reale, ma l'amorevolezza u m a n a come
può trattare con una dea disperata? Gli equivoci
dolorosi si moltiplicano. E p p u r e gli scherzi popolareschi delle serve riescono a estrarre una risata da
quella bocca affranta. Alla fine Trittolemo, il principe regale, il Tamino, le dà notizia d'un cocchio che f u
visto precipitarsi nella terra, sopra il quale il guidatore stringeva una fanciulla piangente. Demetra corre
dal Sole e ottiene il nome del cocchiere: Ade, re del
sottosuolo.
Alla fine Kore, divenuta Proserpina, dimorerà nove mesi con la m a d r e e tre con il rapitore. A Trittolemo Demetra insegnerà l'arte agraria.
E se si fosse alterata questa vicenda per cavarne
l'allegoria politica dell'Austria illuminista? Se Plutone diventa Sarastro, se Trittolemo diventa Tamino?
Riuscire a rianimare la vicenda eleusina in termini
così stravolti poteva illuminare la mente come la
accendevano le giravolte di Plutarco.
Col Parsifal, rappresentato nel 1882, Wagner toccò il culmine della sua vasta, maestosa ricostruzione
192
dei miti europei. Da tempo preparava quell'esito!
Almeno dal 1843, q u a n d o lesse l'opera stupenda,
aspra ed enigmatica di Wolfram von Eschenbach,
dove il mito del Graal, l'ultimo che si diffuse nei
cuori europei, si era concluso. Esso narrava che una
coppa cristallina era custodita da un Ordine cavalleresco stretto attorno a un re infermo che aspettava
l'arrivo di un p u r o folle destinato a sanarlo e a far
rifiottare la benedizione da quella coppa. E un arcano, innumerevoli ne sono le interpretazioni.
Dopo i tempi di Wagner si è battuta una nuova
strada: si è calata l'attenzione sulle processioni del
Graal, dove passano via via una lancia, una coppa e
più patene, gli strumenti liturgici della proskomidé, la
parte della messa bizantina che prelude all'azione
visibile, fuori dell'iconostasi. Dunque quell'ostensione denota la parte più esoterica della messa, che
Roma fece sparire. Il mito del Graal rivendica questa
liturgia, esalta Bisanzio che la preservò, dove I m p e r o
e Chiesa f u r o n o distinti e indipendenti, come esigeva
il ghibellinismo. Wagner intuì che la lancia era il
centro dell'azione mitica, senza riflettere sulla sua
centralità nel rituale imperiale bizantino. A questo
aspetto sarebbe pervenuto Yeats.
La lancia era nelle mani del re Amfortas, q u a n d o
gli si accostò la d o n n a selvaggia, Kundry, colei che
aveva deriso il Cristo ansimante sotto la croce, la
strega che il p u r o può redimere. Lei lo trascinò nella
sua ora di libidine. Giunse a sorprenderlo il mago
Klingsor, che gli sottrasse l'arma e gliela inferse nei
lombi. Da allora Amfortas giace gemebondo circondato dal suo esercito affranto.
Klingsor, mago e asceta, per superare il desiderio
si evirò, quindi riunì un consesso di guerrieri divorati da un erotismo infinito, serviti da fanciulle smaniose, creò loro un giardino incantato, di cui parve a
Wagner di trovare l'immagine a Ravello. Ora Klingsor ha una forza smisurata: impugna la lancia (la
stessa che attraversò il costato del Cristo), legge nel
193
suo specchio metallico l'occulto e il futuro. Al suo
servizio sta perfino la selvatica Kundry dall'occhio
ora sfavillante sulla carne rosso-nera, ora a p p a n n a t o
e come morto.
Giunge all'inizio dell'opera al campo dei cavalieri
del Graal il semplice Parsifal, assiste alla processione
del Graal e alle sofferenze t r e m e n d e di Amfortas,
ma non gli viene da porre la d o m a n d a che potrebbe
redimere: perché Amfortas spasima? Più tardi assalirà il campo di Klingsor, Kundry gli si avvicinerà e lo
bacerà. Quel bacio gli scende in cuore, lo strazia: egli
rabbrividisce, c o m p r e n d e perché Amfortas patisce e
scaccia Kundry, penetra il mistero del Graal e della
redenzione, la quale esige un u o m o intatto capace di
rinunciare a Eros.
Non so quanto rimanga ancor vivo di questa ideologia che impregnò la storia dell'Occidente fino a
poco fa. Wagner ne f u un credente, fino alla morte.
Ma non fu soltanto avvinto a questa esasperazione
dell'eros conculcato: come disse Benjamin, egli f u un
grande pensatore sincretista. In lui si f o r m ò un impasto di cristianesimo e di buddhismo. Dal buddhismo assunse un amore imperioso verso gli animali. Il
campo del Graal ne è pervaso. Q u a n d o Parsifal vi
compare, distrattamente, come fosse un atto da nulla, saetta un cigno. G u r n e m a n z lo rimprovera con
dolore. C'è un episodio, nelle scritture buddhiste, in
cui il B u d d h a scorge un cigno e prova meraviglia; un
suo compagno scocca una freccia e glielo uccide. Il
B u d d h a lo rampogna e addita lo spettacolo orribile
dell'agonia. Nel farlo guarisce il cigno. Mathilde Wesendonk mise in versi l'episodio. Ma è anche citata
un'altra fonte dell'aneddoto che dà inizio al Parsifal:
la forma poetica più usata in sanscrito è chiamata
sloka e consta di quattro versi ottosillabici o di d u e
versi di sedici sillabe, il suo nome si dice nel Ràmàyana che provenga da soka, dolore, perché il sommo
Vàlmlki, afflitto alla vista d'un uccello trucidato, la
194
inventò per esprimere la sua piena di orrore e compassione.
Ma è di fonte buddhista il nucleo stesso del Parsifal. T r a la Walkiria e il Sigfrido, nel 1856, Wagner
buttò giù il progetto di un'opera in cui il bellissimo
Ananda beve alla fonte di Prakriti, che s'innamora di
lui e corre dal B u d d h a per ottenerlo. Il B u d d h a le
d o m a n d a se accetta le condizioni di una tale unione e
la informa che fra esse c'è la castità. Prakriti sviene.
Ma il Buddha spiegherà che in una vita precedente
Prakriti, bramina, aveva sdegnato un pretendente di
casta inferiore. Illuminata sul suo destino di espiazione, Prakriti accetta: vivrà con Ananda come una
sorella. Nel 1882, Wagner dichiara che quest'opera
buddhista è stata accantonata per il Parsifal, che ne
riceve tutti i motivi e ne ripete il messaggio sulle
reincarnazioni. Gurnemanz spiega il mistero di Kundry « per colpa d'una vita precedente » e per Klingsor ella è la semplice incarnazione d'un modello via
via appena variato: « Fosti Erodiade e che cos'altro? /
Gundryggia laggiù, qui Kundry ». Con un computo
di vite precedenti si scioglie l'intreccio di ululati e di
gemiti, di risa estatiche e di gridi addolorati, di cavalcate furibonde e di sonni profondi e anche su di lei
può scendere il miele della compassione.
Si è discorso a lungo sul finale del Parsifal, q u a n d o
il Graal irraggia salute e il cavalierato intero canta
« Redenzione al Redentore ». Mi pare molto semplice: Parsifal, rinunciando alla libidine, ha avuto accesso ai misteri e ha salvato la comunità, ha redento; con
fiotti di luce il Graal a sua volta lo redime. La frase ha
intrigato: Nietzsche fa dire a Zarathustra: « Oh se
qualcuno li redimesse dal loro Redentore » e interpreti successivi h a n n o ritenuto senza motivo che la
frase sia pregna di sensi esoterici.
L'operazione sincretista di Wagner commuove e
solleva, ma forse fu imperfetta. Egli scrisse a Mathilde Wesendonk nel 1855 che tutta la nostra educazione resta svergognata dalle rivelazioni più p u r e
195
dell'Oriente. Tuttavia, sempre a Mathilde, nel 1860,
confessa: « nostalgicamente guardo alla terra del
Nirvana. Ma il Nirvana mi diventa rapidamente Tristano ». Tristano: la voluttà tormentosa e infinita, la
consapevolezza del peccato e il sospetto che esista un
amore redentore. Questo f o n d o psichico strugge
Wagner perfino nei momenti eccelsi.
E come se Wagner per tutta la vita si protendesse
invano verso una formulazione che doveva fatalmente sfuggirgli. In una lettera a Mathilde disse che
gli animali presentono la morte come unico m o d o di
liberarsi e come conferma che meglio sarebbe stato
non nascere affatto.
Quale fine può mai avere la loro terribile sofferenza, se non la pietà che essa ispira all'uomo, che così
riconosce l'errore dell'esistere? Wagner si avvicina
all'intuizione straordinaria che del segreto sciamanico ebbero i Mohave: sciamano è colui che non volle
nascere, che tentò di uccidere dal grembo la m a d r e e
ne fu tratto con violenza, facendo quanta resistenza
poteva, e dopo l'orrore della nascita desidera la morte e la persegue, crea l'insieme delle condizioni necessarie per essere ucciso. Al venerdì santo del Parsifal ci si accosta a questo segreto, ma mai sarà dato a
Wagner di formulare limpidamente la liberazione.
196
T R U F F E E NAZIONI
Una consuetudine si può perpetuare senza pensarci: si è sempre fatto così e basta. Una tradizione,
viceversa, si segue con la convinzione di trasmettere,
piccolo o grande, un valore, e si tende a farla risalire
al passato remoto, a crearle un mito di fondazione.
Chi abbraccia una tradizione non ama sentirsi raccontare come essa nacque, in che m o d o qualcuno
gliela congegnò. Eric Hobsbawm promosse una ricerca, con vari suoi colleghi, sulla genesi delle tradizioni di massa nate col trionfo dell'industria pesante
e col trionfo del suffragio universale, d o p o il 1870.
Ne risulta il volume The Invention of Tradition,' a cura
di Hobsbawm stesso e di Terence Ranger, nel quale
l'indagine è estesa alla nascita settecentesca dei miti
nazionali di Scozia e Galles.
Hobsbawm elenca le trovate pseudotradizionali
escogitate q u a n d o le nazioni europee a f f r o n t a r o n o
l'èra delle masse.
In Francia, soltanto il mito della G r a n d e Rivoluzione sempre minacciata permise ai radicali di man1. C a m b r i d g e University Press, 1983.
197
tenersi al potere fra destra e socialisti. Per ribadirlo
collocarono dovunque poterono busti di Marianna,
col seno più o meno scoperto a seconda dell'estremismo locale. Inventarono la liturgia di folla del 14
luglio, si assicurarono come clero il ceto degli insegnanti.
In Germania il compito era più arduo, perché la
confezione politica bismarckiana non poteva richiamarsi all'unica istituzione permanente tedesca, il Sacro Romano Impero di nazione tedesca. Si fece perciò un cortocircuito storico-mitico erigendo d u e enormi statue, al duce barbaro Arminio e alla battaglia di Lipsia, in cui s'era temprata la coalizione antinapoleonica.
Gli Stati Uniti allestirono coreografie accorte, da
circo equestre, si stabilì una diade celebrativa, fra il 4
luglio dedicato allo Stato e il Giorno del Ringraziamento, più domestico e segnato dal sacrificio d'un
tacchino. Q u a n d o la massa degli Irlandesi divenne
esuberante, se ne incamerò la festa di San Patrizio
come Giornata di Colombo.
Intanto l'Inghilterra confezionava un'immagine
di massa della monarchia, specie attraverso la celebrazione dei giubilei regali.
Sul versante socialista, il Primo Maggio assorbì la
carica simbolica del Calendimaggio. Engels l'aveva
chiamato dapprima una dimostrazione, ma dal 1893
in poi lo denominò Feier e Andrea Costa lo definì la
Pasqua dei lavoratori. Sulla scia delle antiche maggiolate nacque un « ditelo coi fiori » proletario basato
via via su garofani, rose rosse di carta, eriche e biancospini.
La liturgia ossessiva del football segnò in tutto il
continente l'adozione dei metodi britannici, l'imbrigliamento delle masse mercé attività fisiche prive di
senso; una certa resistenza f u fatta soltanto in Germania dalle società ginniche nazional-liberali antibritanniche. All'inizio del secolo signorini anglomani si
esibirono in una partita in Piazza d'Armi a Torino,
198
ma f u r o n o bersagliati da manciate di fango, tanto
irritarono i popolani presenti, i quali di lì a poco li
avrebbero imitati con folle zelo.
La tradizione sportiva delle masse investì di sacralità gli stadi, che divennero l'arengo politico più efficace (Vel' d'hiv, Sportspalast), mettendo in ombra i
complessi monumentali (Ringstraße, Altare della Patria).
Le confezioni mitologiche e liturgiche escogitate
dagli Inglesi in India forniscono l'occasione di un
saggio spassoso a Bernard Cohen, che narra come f u
convocata l'Assemblea Imperiale a Delhi. Il modello
inevitabile era la cerimonia del darbàr, q u a n d o l'imperatore moghul riuniva in una tendopoli i capi del
subcontinente e si procedeva fra lui e loro a uno
scambio di donativi e di favori. Il meccanismo di
questi scambi non si poteva spiegare come combinazione economica, utilitaria, ma gli Inglesi non riuscirono a vederci altro, perciò l'Assemblea Imperiale
risultò uno spettacolo grandioso e buffo, non emanò
l'aura che si sarebbe voluto. Alla riesumazione di cerimoniali moghul si volle aggiungere della paccottiglia araldica inglese che stava a paro con Grazzano
Visconti o il Borgo Medioevale del Valentino.
Fra i contributi darei la palma a quello sulla tradizione scozzese, di Trevor Roper.
È una tradizione tra le più seducenti, la scozzese,
come ben sa chi ricordi un matrimonio in costume, lo
spettacolo dello sposo e dei suoi amici su un sagrato
di Scozia: i jabots che garriscono al ventaccio, le daghe
infilate nei calzettoni, le gonne a bande smeraldine e
turchine intonate al prato! E lassù i più insospettabili
finiscono col seguire una sfilata militare come dei
fanciullini, tanto intrigano i timbri aguzzi e lamentosi delle cornamuse, capaci di eccitare alla lotta più
d'ogni boato o ruggito.
Diverte scoprire che è quasi tutto frutto di truffe.
Prima del secolo XVII gli Highlander erano semplicemente Irlandesi d'oltremare; q u a n d o i puritani
199
occuparono l'Ulster, i contatti con la madrepatria
irlandese e la sua cultura bardica cessarono e la Scozia gaelica declinò. Nel Settecento tre imbroglioni
che portavano lo stesso cognome asserirono che il
vero centro della cultura gaelica erano le Ebridi.
James Macpherson aveva rifatto ad arbitrio, ritoccandoli alla moda preromantica, dei canti popolari
gaelici, attribuendoli al bardo Ossian, q u a n d o s'imbattè in un suo omonimo, parroco a Skye, il quale gli
diede manforte con disquisizioni erudite, seguito dal
figlio, più tardi governatore dell'India, che perfezionò l'opera. La tradizione confezionata dai tre omonimi travolse l'Europa, la Staél equiparò Ossian a
Omero, perfino Edward Gibbon ci cascò in pieno.
Dobbiamo alla truffa i bei brani sinfonici di Mendelssohn e un esercizio su tonalità gaeliche di Beethoven.
In questa ventata di entusiasmo ossianico s'inserì
l'industria tessile, lanciando la moda del gonnellino.
Ma i veri Highlander, da quegli Irlandesi che erano,
portavano un camicione su cui gettavano un mantellaccio, il plaid per lo più color ruggine per mimetizzarsi con l'erica. Mentre i signori indossavano un
capo metà calza e metà calzone (i trews), il popolo
stringeva il plaid alla vita e lo lasciava spenzolare sulle
gambe. Nel 1751 un industriale inglese che vedeva i
suoi operai scozzesi infagottati e impediti dal plaid, li
fornì di comode gonnelline. Capitò poi che alcuni
signori, indignati dal divieto inglese di indossare costumi nazionali, s'impuntarono a portare il gonnellino, scambiando per contrassegno nazional-popolare
l'utilitaria tenuta da fatica. Il loro punto d'onore
patriottico coincise con l'esaltazione ossianica.
Q u a n d o il vecchio Pitt decise di sfruttare la furia
degli Highlander arruolandoli come mercenari per
le campagne dell'Impero, li volle in costume nazionale, ed ebbero il gonnellino ignoto ai loro avi. Un
colonnello scrisse al ministero della Guerra che le
frustate d'aria frizzante tra le cosce giovavano alla
baldanza guerriera.
200
I mercanti di tweed lanciarono quindi la fola che
ogni disegno di tweed fosse di spettanza a un clan
particolare. Si misero al loro servizio due Inglesi, i
fratelli Alien. Girarono per i salotti scozzesi nel nuovo abbigliamento, comunicando di possedere un manoscritto antico che confermava la tesi, Vestiarium
scoticum. Sir Walter Scott li smascherò e scomparvero. T o r n a r o n o vivi col cognome Sobieski-Stuart nelle
terre del cattolico Lord Lovat, d a n d o a credere, mediante la pubblicazione di un romanzo a chiave, d'essere i discendenti dell'ultimo Stuart. T e n n e r o corte,
si recarono a messa su una barca pavesata dello stemma regio scozzese. Q u a n d o morirono, la regina Vittoria volle assicurarsi a ogni buon conto che le loro
carte non nascondessero niente di pericoloso per la
sua dinastia.
201
WILLIAM BUTLER YEATS
Fra i grandi del Novecento, Yeats è il più impregnato di dottrine e di esperienze esoteriche. Lo è in
maniera dichiarata e intima. E p p u r e s'è opposto un
rifiuto accanito a riconoscerlo, ci si è chiusi nella
valutazione dei suoi ritmi, dei suoi colori, delle sue
fonti.
S'è arrivati al punto che A u d e n sosteneva di doversi rimuovere vantaggiosamente ogni influsso esoterico dalla poesia yeatsiana, che Eliot in After Strange
Gods dichiarava l'esoterismo u n o stimolo deplorevole
per la poesia in genere.
Con l'andar del tempo questa prevenzione si è
allentata, oggigiorno non ne vedo gran traccia. Ormai si dà per certo che perfino le esperienze dell'atemporalità e della trascendenza d'ogni spazio in
Yeats sanno presentarsi con nitore d'immagini e con
forza ritmica. Oggi, con The Mystery Religion ofW.B.
Yeats di Graham Hough, 1 disponiamo di un'esposizione diligente delle dottrine esoteriche yeatsiane.
1. H a r v e s t e r , S u s s e x , 1984.
203
In una raccolta del 1988' è apparso un saggio di
J e n n i f e r L. Léonard, Singing Masters of the Soul, dedicato ai maestri cantori dell'anima, che sarebbero
de Pasqually, il misterioso maestro spirituale ebreo,
Saint-Martin, il pitagorico del tempo rivoluzionario,
Swedenborg e infine, loro successori e prosecutori,
Blake e Yeats, che la Léonard chiama visionari. A
tutti loro è comune la convinzione che « la resurrezione dell'anima avviene adesso, in questo mondo,
mercé un atto dell'immaginazione» (p. 170). L'anima di solito è contratta su se stessa, ma l'immaginazione la può ravvivare, staccare da torpore e miseria.
La Léonard illustra questo principio nella sua analisi
di Sailing to Byzantium. Parte, come altri han fatto, da
un passo di A Vision2 in cui Yeats ci dice che se gli si
offrisse un mese da trascorrere in tempi antichi,
sceglierebbe la Bisanzio di appena prima che Giustiniano facesse chiudere l'Accademia di Atene. Lì, a
Bisanzio, avrebbe cercato l'osteria dove incontrare il
mosaicista capace di illustrare Plotino. In lui avrebbe
colto quello stato di completa immersione nella visione ellenica di purezza e sapienza, la capacità di
vivere sotto la cupola bizantina dove scompare
Tutto ciò che l'uomo è,
Tutte le mere complessità,
La furia e il fango delle vene umane. 3
Bisanzio, colta in questo trapasso dal paganesimo
al cristianesimo, è l'archetipo evocato da Yeats per
eclissare Roma, egli sa che soltanto appoggiandosi a
Bisanzio potrà suscitare un mito britannico o irlandese. Charles Williams f r a le d u e guerre compì la
1. Emanuel Swedenborg. A Continuing Vision, a cura di R. Larsen,
S w e d e n b o r g F o u n d a t i o n , N e w York, 1988.
2. Privately p r i n t e d by T . W e r n e r Laurie, L o n d o n , 1925; a
reissue with the author's final revision, Macmillan, L o n d o n ,
1 9 3 7 (trad. it. Una visione, A d e l p h i , Milano, 1973).
3. « Ali that m a n is, / Ali m e r e c o m p l e x i t i e s , / T h e fury a n d t h e
m i r e o f h u m a n veins ».
204
stessa operazione, intuì che soltanto sullo sfondo
bizantino si poteva sperare di dar forza a un mito
celtico britannico.
Santa Sofia diventava a questo punto l'emblema
dell'estasi che in un saggio del 1915 Yeats definiva il
fine dell'arte; essa non si attinge senza dolori e consiste in un improvviso senso di pace e di potenza,
nato dal rapporto perfetto con immagini adeguate.
Sailing to Byzantium descrive una salita in quattro
tempi al di sopra del piano materiale, fino all'estasi.
Essa ci dà il succo della conversazione che Yeats
avrebbe voluto tenere con il mosaicista. Egli voleva
trasferire il suo lettore al piano esoterico insegnandogli a dischiudere innanzitutto la piena della fantasia. Sapeva che era un'operazione rischiosa. Anche
Cari Gustav J u n g aveva raccomandato l'uso della
cosiddetta immaginazione attiva, in cui si lasciano
emergere e si connettono le immagini, partecipando
con l'emozione ai loro significati. Marie-Louise von
Franz ha chiamato questo procedimento, con brutale esattezza, una psicosi volontaria. Yeats per conto
suo sapeva bene che q u a n d o ci ritiriamo in noi stessi,
evitando ogni stimolo esterno, emergono immagini in vortice, e che corriamo gravi rischi a farcene
rapire, poiché esse celano, come dice, « una profondità senza fede » che si diletta di « immagini inintelligibili ». Q u a n t o gli era noto il pericolo, quante volte
ne era stato travolto, sperimentando la mancanza di
significato in ciò che l'aveva rapito in maniera tanto
prepotente! Anche q u a n d o la moglie cominciò a
cadere in transe e a fornirgli immagini, personalità
loquaci, sistemi complicati, ed egli si dedicò a ricostruire in ordine, con una cura estenuante, questo
nuovo mondo, non esitò ad ammettere che i fornitori di sogni che dominavano la mente della moglie
erano ben lontani dall'impeccabilità. Tuttavia insisteva a dire che avevano una qualità estetica. Letto e
riletto A Vision, dove sono enunciate queste rivelazioni, giungo alla conclusione che il materiale è spes205
so insignificante. È di straordinaria efficacia la costruzione generale, ma le singole componenti sono,
talvolta o spesso, piene di cianfrusaglie.
Nei suoi saggi Yeats procura di fissare le regole da
seguire: il livello esoterico si può raggiungere mercé
la meditazione, che spalanca all'irruzione di immagini. Per farle affluire in ordine e in abbondanza, occorre innalzare un simbolo esoterico, oggetto della
meditazione. Allo stesso tempo si possono usare profumi, spargendo semplici sul nostro guanciale. Il
biancospino aiuterà a infondere saggezza al corso
delle immagini. La tradizione sulla cui scia Yeats si
mette è antica, risale per i tempi nostri a Marsilio
Ficino.
In Per amica silentia lunae1 Yeats insegna a sospendere l'uso della critica, in m o d o da far fluire le figure
nella mente, ma anche a tacitare i nostri desideri,
anzi ogni sentimento, attraendo così una luce potente che schiarisce e articola le immagini. Dobbiamo
permettere che esse si intreccino, si accavallino e si
f o n d a n o l'una nell'altra. Sono capitali gli esempi che
Yeats fornisce. Un giorno stava meditando e gli parve che la mente gli fosse circonfusa dai raggi del sole.
La notte successiva sognò una donna con la testa
incendiata. Si svegliò, accese una candela e scoprì,
nel farlo, d'essersi bruciato i capelli. Così gli si presentò l'immagine archetipica di straordinaria importanza, la testa in fiamme. Essa era il risultato d'un
confluire e intrecciarsi di sogni e di reminiscenze.
Già da giovane a Dublino aveva incontrato un ipnotista americano che aveva abitato tra gli Zuni e narrava d'uno Zuni talmente infastidito dalle lodi del telefono e del telegrafo che urlò: « E questo lo sanno
forse fare? », gettandosi sopra la testa della sabbia,
1. M a c m i l l a n , L o n d o n , 1918 (trad. it. Per amica silentia
Cavaliere A z z u r r o , B o l o g n a , 1986).
206
lunae,
che scoppiò in una vampa, avvolgendogli la testa di
fuoco.
E come se in Yeats una lontana memoria dei battesimi del fuoco gnostici, q u a n d o gli gnostici coronavano di fiamme il capo degli adepti, affiorasse tra
sogno, reminiscenza e visione.
In un'altra occasione Yeats sognò di scrivere una
storia e di essere nel contempo uno dei personaggi,
che stava corteggiando una fanciulla contro la sua
volontà di autore della storia. Allo stesso tempo tentava di colpire una giara cinese col bottoncino d'un
fioretto.
Così le immagini debbono liberamente potersi avvolgere e compenetrare. I libri profetici di Blake
presentano questo genere di fusioni.
Yeats insiste anche sulla necessità di trattenere in
mente un'immagine, lavorando su di essa per farla
persistere e acquisire forza. Ciò che poteva nascerne
egli spiega nella parte delle Autobiografie1 intitolata
Hodos Chameliontos, «La via del camaleonte». Il camaleonte era già stato uno dei simboli prediletti di
Ficino e del Pico, per i quali denotava il sincretismo
che accetta tutte le filosofie e le fedi amalgamandole
e assorbendole. Ma credo che la fonte sia per Yeats
più prossima, che si trovi nella lettera di Keats a
Woodhouse nella quale si dice che il carattere poetico comporta l'impersonalità, si delizia della luce e
dell'ombra, concependo sia Iago che Imogen, la soave e intrepida eroina del Cimbelino, il massimo della
perversione e la più limpida innocenza, con pari
gioia. In breve, dice Keats, il poeta dev'essere un
camaleonte e non un moralista. Yeats riprende la
vena in The Celtic Twilight"1 raccomandando che la
fantasia si mantenga, come il capriccio, distante dal
1. Autobiographies,
Macmillan, L o n d o n , 1955.
2. L a u r e n c e 8c B u l l e n , L o n d o n , 1 8 9 3 (trad. it. Il crepuscolo
co, T h e o r i a , R o m a - N a p o l i , 1987).
207
celti-
bene e dal male. Per lui il camaleonte era d u n q u e
simbolo del matrimonio di cielo e inferno.
Con questi avvedimenti è dato di esplorare i limiti
dell'immaginazione.
Yeats illustra raccontando che un giorno stava
camminando sulla sponda del mare d'Irlanda con lo
zio, un alto funzionario massonico, e si figurò un
idolo rosso oggetto di adorazione. Non rivelò la fantasia allo zio, il quale disse di ravvisare in mente un
essere austero e immenso seduto su un trono, avvolto di un'opalescenza rossiccia. I d u e tornarono a casa
per scoprire che i loro esercizi immaginativi avevano
eccitato la fantasia della cameriera. Avvenne in seguito che essi giostrarono con immagini del matrimonio fra cielo e terra e la cameriera sognò che il
vescovo era partito in compagnia d'una signora e che
l'intero clero stava per scappar via e sposarsi.
A un ricevimento Yeats scrisse su un foglietto che
qualcuno avrebbe menzionato un fuoco. Nascose il
foglietto e si mise seduto in disparte. Qualcuno prese
a parlare e concluse il suo dire n a r r a n d o di un incendio.
Egli insiste altresì su Gemma Galgani, la mistica
lucchese del suo tempo, la quale incideva il proprio
corpo di ferite via via che si raffigurava i patimenti
del Cristo.
E ci racconta di come si esercitasse con amici a evocare episodi di quelle che chiamavano loro vite anteriori. Via via che u n o lanciava un'idea, una scena medioevale, gli altri via via aggiungevano particolari,
svolgimenti, finché si dipanava una storia.
Yeats riassunse tutte queste operazioni in un volantino su un Ordine segreto che pubblicò a Londra
nel 1902: se formuliamo un'immagine con forza
sufficiente, essa si attuerà nelle circostanze della vita, agendo sulle anime nostre o attraverso gli spiriti
della natura. Questa dottrina, espressa in astratto da
Yeats, Charles Williams avrebbe esposto in f o r m a di
208
romanzo nel 1931. In The Place of the Lion1 narra che
un leone scappa da un circo e un occultista decide di
evocarne in giardino la forza archetipale. Q u a n d o
questa si manifesta, l'occultista sviene. L'apparizione
si d i f f o n d e e molti ne sono travolti, taluni si sentono
tramutati in fiere. Il disordine si sparge per l'Inghilterra.
Concludeva Yeats: i confini della mente svaniscono, più menti si possono fondere e confondere e
così più memorie.
L'affermazione dovette sembrare sconvolgente ai
suoi dì. Oggi sarebbe più facilmente accettata, con
tutto il f u r o r e di ricerche promosso da The Presence
of the Past2 uscito a Londra pochi anni fa. L'autore è
Rupert Sheldrake, che si f o n d a su fatti paralleli alle
esperienze personali di Yeats, come la facilità che ha
una specie di imparare certe novità d o p o che una
sua parte isolata è stata istruita. C'è una specie di
uccellino, il blue tit, che all'improvviso si è messo a
sollevare i coperchietti delle scatole di latte depositate alle soglie delle case. Certi primati sportivi subito
sono eguagliati nel m o n d o intero. Secondo Sheldrake tutti i sistemi naturali, dai cristalli agli animali,
condividono una memoria collettiva che è comune
all'intera specie, e un m e m b r o comunica con l'altro
mercé una risonanza morfica simile alla risonanza
acustica che fa vibrare le corde tese all'unisono, o
alla risonanza elettromagnetica che intona la radio a
una frequenza. Le memorie forse non sono chiuse
nei cervelli, ma si animano anche per risonanze
morfiche e sono perciò collettive.
Si finisce così per trovarsi in una Mente e Memoria vaste, sovrumane, cosmiche, che f o r m a n o l'ente
noto come Anima del m o n d o ai platonici tardi. I
1. Victor Gollancz, L o n d o n , 1931 (trad. it. Il posto del leone, Jaca
B o o k , Milano, 1980).
2. Collins, L o n d o n , 1988.
209
singoli pensieri per Yeats sono simili a una linea di
schiuma all'orlo basso di un vasto mare luminoso.
Egli narra che un giorno stava lavorando a un poema e gli cadde la penna. Allorché si curvò a raccoglierla, gli venne in mente un'avventura onirica.
Q u a n d o si rese conto che era stata un mero sogno,
procurò di r a m m e n t a r e i fatti della vita di veglia, ma
nel farlo il sogno svanì. Sicché se la penna non fosse
caduta, egli non avrebbe capito di trovarsi in una
transe.
Ma solitamente ci rendiamo davvero conto di chi,
di che cosa, di quando, di dove siamo?
L'immaginazione ci p u ò spingere nel mare immenso dell'anima o mente cosmica (dice un verso:
« avviene che una vasta immagine emersa dallo Spiritus Mundi / mi turbi la vista »). Ma essa si può
anche tramutare in un dio. Gli dèi si possono chiamare usando i simboli appropriati, coi suoni e gli
odori corrispettivi. Anche questo è un insegnamento del Ficino e f u sempre praticato dagli occultisti,
come l'arcinemico di Yeats, Aleister Crowley, maledetto da un gusto volgare, ma anche lui capace di
prodigarsi a evocare gli dèi, ad ascoltare le errabonde enunciazioni d'una compagna in transe, a comporre complicate vicende emanate da deliqui e trasognamene.
In Rosa alchemica1 Yeats narrerà di aver spesso
chiamato Eros o Ate, che disseminano di follia i
sogni degli inquieti, o p p u r e Ermete (« talché se vi
immaginate possentemente un cane al capezzale, esso monterebbe la guardia ») o p p u r e Afrodite (« talché se con un forte immaginare faceste un colombo incoronato d'argento e gli deste ordine di
volarvi sul capo, il suo tubare soave infonderebbe
sogni dolcissimi »).
1. In « T h e Savoy », aprile 1896 (trad. it. Rosa alchemica, a c u r a
di R. Oliva, E i n a u d i , T o r i n o , 1976).
210
Yeats andò cercando negli anni un sistema che lo
guidasse. Accumulò una serqua di metodi magici
tratti da tutte le tradizioni d'Occidente e ritenne di
aver stabilito contatti con fonti sovrumane mercé i
sogni della moglie. Ma raggiunse davvero un sistema
coerente e tradizionale soltanto aderendo al metodo
indù, che gli fu d a p p r i m a insegnato quand'era diciottenne, a Dublino, da Mohini Chatterjee (« Domandai se dovessi pregare / Ma il bramino disse: /
"Non pregare per niente..."»). Attinse dal repertorio della Golden Dawn i simboli elementari indù: il
quadrato giallo della terra, il circolo azzurro dell'acqua, il triangolo rosso del fuoco, il crescente argenteo dell'acqua, l'ovale nero dell'etere. Fissando fermamente su di essi lo sguardo, fino a calcarne l'immagine sulla retina, gli si apriva l'accesso alle visioni.
Finalmente stabilì un contatto con un maestro verace, Shri Purohit, nel 1935, e ne divenne l'araldo e
l'aiutante nella trasmissione della dottrina upanisadica.
Shri Purohit era un maràthi pervenuto alla beatitudine inconscia o susupti, in cui s'identificano l'idea e il
fatto, il pensiero e il significato. Grazie a susupti si
acquista la percezione diretta di ciò che Yeats doveva
descrivere in Ideas of Good and Evil: il fluire del sangue, le riparazioni incessanti alle nostre lenti oculari,
le modifiche del nostro tessuto cerebrale a ogni raggio di luce o ogni suono che ci pervengano, diventano tutt'uno con le forze che f a n n o arrugginire il
f e r r o o fanno crescere il grano. In A Dialogue of Self
and Soul dice: « L'intelletto non riconosce più / L'È rispetto al Dovrebbe, il Conoscitore dal Conosciuto / Vale a dire: ascende ai cieli ».
Ma Shri Purohit era andato oltre questa condizione, e n t r a n d o in savikalpa samàdhi, un atto senza tempo allorché la luce diventa totale e tutti gli oggetti vi si
sperdono, allorché si può veracemente dichiarare:
« Io sono » e si è consapevoli ma non legati a verun
oggetto, beati ma non fissi a uno scopo.
211
Susupti è come una luna piena, savìkalpa samàdhi
come una notte senza luna.
Yeats si trovò in difficoltà q u a n d o dovette adattare
questi insegnamenti indù al sistema lunare appreso
dalle rivelazioni della moglie. Purtroppo non potè
beneficiare del sistema detto delle yogint, messo in
chiaro soltanto di recente dal professor Heinrich von
Stietencron di Tubinga, il quale si rifà a testi del VI
secolo e illustra il culto delle 64 yogint che attorniano
in un tempio circolare l'immagine di Siva o di u n o
sciamano. C'è un m o n u m e n t o dell'Orissa, il tempio
di HIràpur, dove così sono armonizzati il sistema
solare e il lunare.
Chiunque attraversa susupti e poi savikalpa samàdhi,
d o p o aver liberato la mente da ogni passione, può
proiettare la sua anima passionale in una forma animale, aggiungeva Yeats. Egli ignorava il passo di Ibn
'Arabi che insegna la facoltà di riconoscere gli archetipi soltanto dopo essere diventati come animali: era
giunto da solo a questa scoperta.
La vita di Yeats fu ben spesa, alla fine era giunto a
discernere le possibilità di un'immaginazione allenata e aveva anche esplorato i meandri che possono
c o n d u r r e fuori dall'esperienza quotidiana. Aveva attinto « la misteriosa visione ottenuta a fatica » e aveva
scoperto ciò che osava chiamare « la faccia che aveva
prima della creazione del m o n d o ».
C'è un poemetto giovanile, The Rose, del 1893, in
cui un d r u i d o avvisa re Fergus dicendogli:
Prendi, se così devi, questo fastello di sogni;
Sciogline la corda, ed essi ti si avvolgeranno attorno. 1
E la prima traccia, l'avvio allo svolgimento che
c o n d u r r à al finale di Ali Souls' Night, del 1920, in cui
si parla dei sogni che si avvolgono attorno a un u o m o
fino a trasformarlo e mummificarlo in vita:
1. « T a k e , if you m u s t , this little b a g o f d r e a m s ; / U n l o o s e t h e
c o r d , a n d t h e y will w r a p y o u r o u n d ».
212
Un tal pensiero — un tal pensiero ho che lo tengo stretto
Finché la meditazione ne padroneggi ciascun tratto,
Nulla resiste al mio sguardo
Finché questo sguardo corra a dispetto del mondo
A dove i dannati hanno speso l'anima in ululati
E dove i beati danzano;
Un tal pensiero che, avvolto in esso,
Altro non mi occorre,
Avvolto nell'errare della mente
Come le mummie sono avvolte nel sudario.1
Il t r a n s i t o d a l p r i m o al s e c o n d o p a s s o m o s t r a ciò
c h e Yeats s e p p e a t t i n g e r e : il p e n s i e r o p e n e t r a t o e d
e s p l o r a t o a f o n d o avvolge c o m e u n s u d a r i o sì d a
t r a s f o r m a r e il p e n s a t o r e ; q u e s t o è il c o r o n a m e n t o
della vita esoterica.
1. « S u c h t h o u g h t - s u c h t h o u g h t h a v e I that h o l d it tight / Till
m e d i t a t i o n m a s t e r all its parts, / N o t h i n g can stay m y g l a n c e /
Until that g l a n c e run in the world's d e s p i t e / T o w h e r e the
d a m n e d have h o w l e d away their hearts, / A n d w h e r e t h e b l e s s e d
d a n c e ; / S u c h t h o u g h t , that in it b o u n d / 1 n e e d n o o t h e r thing, /
W o u n d in mind's w a n d e r i n g / As m u m m i e s in the m u m m v cloth are w o u n d ».
213
KARL KERÉNYI
Moriva nel 1973 ad Ascona Karl Kerényi, esule
per tutto il tempo del dopoguerra. Fu tra le durezze
più vergognose di Lukács averlo sbandito dall'Ungheria.
Ciò che più colpisce nell'opera di Kerényi è la sua
fedeltà all'idea di natura, la medesima esposta in un
saggio che Goethe credeva d'aver scritto lui, ma era
invece dovuto a Georg Christoph Tobler, meditazione fervida sulla natura, forza significativa e insignificante, amabile e terribile, che crea e divora, saturnina.
Essa ci fa ballare, ci racchiude e inghiotte. Di dove
affiora? Kerényi ci porta a scrutare la parola greca
physis. Designa un essere celato sotto un rivelarsi e un
divenire, in cui si ravvisa la potenza degli dèi, una
necessità o una sapienza. Parmenide vi allude anche
se non la nomina, Platone la chiama Genesi, talvolta
fu detta Afrodite. Alla fine del m o n d o antico appartengono le belle preghiere magiche rivolte a questo
ente, chiamato Afrodite, Luna o Rea Cibele o Adrastea, fino all'inno orfico in celebrazione della Natura
che Tobler traduceva.
215
Nel 1976 vedeva la luce l'opera postuma di Kerényi Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile.'
In realtà da sempre l'opera era stata covata, rimeditata, ampliata, rafforzata, via via che Kerényi aveva
aggiunto i vari tasselli alla sua ricostruzione del mondo greco. Mi pare che l'acme gloriosa della preparazione sia rappresentata da Figlie del Sole* dove sfolgora l'intuizione dei significati celati dietro la figura
di Circe. Tutta la catena dei lavori filologici era stata
poi ornata dagli incontri che Kerényi ebbe con Mann
e altri maestri del Novecento. In questa complessità
ricchissima forse Kerényi fu guidato dall'insegnamento del suo massimo ispiratore, Bachofen.
Nell'interpretazione di Dioniso egli sconvolse la
traccia storica tradizionale, l'origine del dio dalla
Tracia: grazie agli studi di Ventris del 1952, poteva
ricondurre tutto il m o n d o dionisiaco alle origini
minoiche della civiltà greca. Dal secondo millennio
avanti Cristo Dioniso era stato vivo! Rappresentava il
terrore ebbro e creatore, la stessa forza che in India
porta il nome di Siva, ma Kerényi non lo nota. Dal
terrore panico nasce lo Stato, diceva Platone: dall'anarchia micidiale nasce il bisogno di coesione e unità.
Avrebbe potuto dire: da Dioniso. Già Otto nel suo
libro del 1933 3 parla di Dioniso come dio della follia
creatrice.
A suscitare la visione di Dioniso contribuirono i
sogni da svegli, tanto più netti e vividi delle esperienze di veglia. Erano frequenti nell'epoca minoica, pensa Kerényi, quanto fra gli Indiani d'America. Mi resi conto, leggendo questo accostamento, del perché
di tanta letteratura tedesca, specie di Werner Müller,
1. Dionysos. Urbild des unzerstörbaren
Lebens, Albert L ä n g e n G e o r g M ü l l e r Verlag, M ü n c h e n - W i e n , 1 9 7 6 (trad. it., A d e l p h i ,
Milano, 1992).
2. Töchter der Sonne, R o s c h e r , Zürich, 1 9 4 4 (trad. it., E i n a u d i ,
T o r i n o , 1948).
3. Dionysos: Mythos und Kultus, K l o s t e r m a n n , F r a n k f u r t a.M.,
1 9 3 3 (trad. it. Dioniso: mito e culto, Il M e l a n g o l o , G e n o v a , 1990).
216
sugli Indiani d'America, nella selettiva bibliotechina
di Kerényi ad Ascona. Verso la fine della loro esistenza le tribù visionarie si gettarono a consumare il
mescal per mantenersi in quello stato di esaltazione
veggente.
« Che cosa aveva stimolato la percezione del mondo dionisiaco presso i Minoici? » si d o m a n d a Kerényi, e la risposta gliela d a n n o le tacche sulle capsule
di papavero negli affreschi di Cnosso: all'origine
Dioniso fu il dio dell'oppio mescolato al miele fermentato. Quale sentimento risponde a questa droga?
Un oceano di quiete festosa, alcionia, risponde Kerényi, citando i vocaboli prescelti da Baudelaire. Il
passo dell'insetto, lo strappo del fiore calpestato diventano udibili q u a n d o l'idromele oppiato affina i
sensi. Così dovette essere a Creta, dagli inizi fino alla
fine, se prestiamo ascolto alla pittura incantevole dei
palazzi di Cnosso. Vediamo i gesti che accolgono e
festeggiano le epifanie divine: di Artemide sui gioghi, di Persefone come serpente nell'erba, di Ilizia
nelle caverne. Demetra o Rea f u la dea specifica
dell'oppio.
L'anno minoico incominciava a mezza estate, come
in Egitto, al sorgere di Sirio sul far dell'alba. Il palazzo di Cnosso a Sirio era orientato.
Dioniso allora nasceva, in una grotta isolana dove
avveniva la lievitazione del miele raccolto in un otre
di pelle taurina, mescolato ad acqua ed esposto al
sole. Ne resta traccia in Ovidio, che attribuisce a
Bacco la scoperta del miele. A quel fermentare del
miele, si accesero fiaccole nelle caverne, d a n d o inizio
al nuovo anno. Ma sopravvenne in seguito il vino, e
Dioniso fu effigiato nel soffice legno della vite selvatica. Centro rituale del suo culto fu la pigiatura dei
grappoli sotto l'egida duplice della vite amante della
calura e dell'edera fredda, amante del buio, simile a
un serpente. Mai si mostrò la sacra pigiatura nella
pittura minoica; soltanto in Grecia si vedranno contadini mascherati da Sileni o da Satiri smembrare
217
Dioniso nel tino. Questo f u il nodo del rituale, lo
s m e m b r a m e n t o o sparagmós cui si aggiungeva la consuetudine di divorare carni crude, come ancor oggi
presso gli 'Isàwiyyah marocchini. Dioniso smembrato è anche il toro o il capro fatto a pezzi dai pigiatori
inebriati.
Dioniso è il dio dell'irruzione, de\Y epidemia o apparizione nel villaggio. In Attica f u accolto da giovinetti
danzanti in abbigliamento femminile, portato dalla
regina alla quale si univa nella stalla regale. Dioniso subiva la morte, ma sempre risorgeva, f u g g e n d o
presso Teti o presso le Muse. Poteva anche sparire
nel lago di Lerna, ma u n o squillo di trombe lo faceva
riemergere. Una folla di riti particolari, diversi a
seconda delle regioni, costellava questa immolazione, risurrezione e matrimonio, come le salite di corsa
sul costone di Delfi. Così diffuso fu il culto, che Gesù
potè dire di esser lui la vite vera (Gv, 15,7); il vignaiolo evangelico fu il Padre, gli apostoli f u r o n o i grappoli. Vino è il sangue di Gesù. Il 25 dicembre, nascita
di Dioniso, fu trasferito al genetliaco di Gesù.
Qualcosa di Dioniso era preservato dopo lo smembramento, il cuore secondo gli Orfici, forse piuttosto
il fallo, cui si tributò un culto.
Dai riti dionisiaci ateniesi sorsero tragedia e commedia, perché si uccideva un capro (tràgos) ma si era
rosi dalla compassione e si diceva di farlo per istigazione del dio stesso, che così pativa la morte; ma
anche la commedia (da kòmos, venerazione di Dioniso
da parte di uomini del villaggio vestiti da donna, la
faccia lorda di feccia) nacque da quel ceppo.
Forse la rappresentazione più perfetta che ci resti
del rito si contempla nella Villa dei misteri di Pompei. La signora che vi compare forse è la regina
d'Atene.
Il dionisismo stava per degenerare in una rappresentazione dell'aldilà come luogo di nozze, di cui
rosette, mirti, spirali e pesci simboleggiano la gioia.
218
KAWAI HAYAO
Kawai Hayao ha adottato i metodi di Cari Gustav
J u n g , e p p u r e li ha anche trasformati in qualcosa di
assolutamente autonomo, immergendoli nelle parti
più segrete della storia psichica giapponese, come il
culto del sogno.
Il sogno f u oggetto di venerazione in Giappone, si
praticavano pellegrinaggi a divinità shintò o a Bodhisattva, astenendosi dalle carni, dall'aglio e dalla
cipolla, standosene isolati nel tempio sette o ventuno
o cento dì, p r e g a n d o e facendo sacrifici per strappare un sogno terapeutico. Del XV secolo è u n o dei più
ricchi resoconti di sogni, simili a quelli dei templi di
Esculapio, spesso connessi a una guarigione da turbamenti psichici.1
Strani e inconfondibili impulsi è andato scovando
Kawai, come quello che si manifestò nel prete buddhista Myóe (1173-1232), autore d'un diario di sogni, spesso telepatici, tenuto per tutta la vita, da quan1. C. Blacker, Rêves guérisseurs
possession, Serre, N i c e , 1 9 8 6 .
au Japon,
219
in Transe,
chamanisme,
do giovinetto s'era ritirato su una montagna. 1 Prima
sognò la propria morte, certo segno di trasformazione. Seguì il sogno di diventare la madre dei Buddha,
la misericordiosa, segno di una concezione dell'unione sensuale molto giapponese, come ritorno al grembo piuttosto che come incontro d'opposti. Ebbe un
periodo di detestazione del corpo, culminato nel sacrificio dell'orecchio, parte a rigore superflua del
corpo, significativamente simile all'atto di Van Gogh.
Sogno liberatore fu la visione di Mañjusri, la Sapienza, tutto d'oro, in groppa a un leone. Ebbe il desiderio quindi di un viaggio in India, proprio l'anno in
cui il buddhismo indiano fu scancellato dall'Islam,
ma prima lo arrestò una d o n n a posseduta da una
divinità shintò e tutta fragrante, quindi un essere
soprannaturale lo tormentò finché non lo fece rinunciare al viaggio. Culmine della distesa onirica, in
cui la sua esistenza raggiungeva l'apice, f u il sogno in
cui un tubo di vetro gli si accostò e q u a n d o egli lo
ebbe afferrato si sentì issare su in cielo. In cima al
tubo ravvisò una palla preziosa, da cui fluiva un'acqua santa che lo irrorò tutto. Volle allora vedersi e
s'accorse che la faccia gli era diventata u n o specchio
fulgido e il corpo gli si era raggomitolato in una palla
di cristallo, che rotolò via. Una voce gli disse: « Tutti i
B u d d h a ti sono entrati dentro. Ti trasformerai in un
corpo più vasto e sarai benedetto! ».
Il metodo generale di Kawai segue una pratica
delle più limpide e semplici: individua il mito che
meglio esprime il nevrotico e nient'altro si propone.
Per lui tutto sta nel raccogliere i miti, facendone
un'incetta quant'è possibile abbondante. Si è quindi
prodigato a scoprire tutta la ricchezza propriamente
giapponese. Ne ha individuato l'essenza: i miti locali
1. Kawai H a y a o , Kyoto: Bodies in the Dream Diari of Myòe, in
« E r a n o s 1 9 8 3 », Insel V e r l a g , F r a n k f u r t a.M., 1 9 8 4 e q u i n d i in
The Buddhist Priest Myoe: A Life of Dreams, Lapis Press, V e n i c e ,
Ca., 1992.
220
si distinguono perché al loro centro figura sempre il
vuoto, quello stesso vuoto che regge una vita zen.
Nella storia mitica sarà espresso da un impedito, da
uno zoppo, da un infante. Penso che fino all'epoca
Meiji, verso la fine del secolo XIX, quel vuoto centrale f u incarnato dall'Imperatore, cui non spettava
nessun potere. Questo era esercitato dai feudatari in
lizza fra loro o dominati da una famiglia. Così attorno all'inerte centro dei miti giostrano infiniti personaggi: fra loro si istituisca un equilibrio e ne risulterà l'armonia. Non si tenterà di diventare radicalmente buoni e non ci si illuderà di redimere i più
maligni, basta graduare le s f u m a t u r e di bene e male.
Questo significato sta alla radice d'ogni mito giapponese: occorre trovare il centro inerte, far ruotare
intorno a esso elementi che si contemperino pacificamente.
Da qualche tempo Kawai viene r a d u n a n d o una
serie di miti finora ignoti, quelli prodotti dal piccolo
stuolo di convertiti vissuti attorno a Nagasaki e ostinatamente cristiani nonostante i divieti dal secolo
XVII alla fine del XIX, q u a n d o f u proclamata la
libertà di culto, e rimasti per tutta la trafila di questi
secoli clandestini.'
I gesuiti avevano battezzato un piccolo nucleo,
introducendo con il cristianesimo anche la scienza
occidentale, che subito aveva sedotto i Giapponesi.
Molti feudatari ricavarono dai missionari armi occidentali impeccabili e l'equilibrio f u minacciato. L'esoterismo tradizionale giapponese reagì con l'avvedimento di sempre. Scatenò una guerra in Corea e i
convertiti non ebbero scelta: erano i meglio armati e
non potevano che stare agli avamposti, dove f u r o n o ,
come si poteva prevedere, sbaragliati. Quindi scattò
contro i convertiti l'editto che li fece a p p e n d e r e a
croci, editto emanato lo stesso giorno in cui doveva
di poi cadere la bomba atomica su Nagasaki. Per
1. In « E r a n o s 1992 ».
221
garantirsi dal pericolo di cristiani nascosti, il governo obbligò la gente di Nagasaki a calpestare una
volta all'anno dei calchi di immagini sacre cristiane.
Un piccolo nucleo di cristiani accettò e sopravvisse.
Non ebbero né clero né testi, ma si trasmisero dei
canti religiosi che con l'andar degli anni si modificarono sempre più, fino a diventare un repertorio di
miti nuovissimi. Kawai dice d'averli ascoltati dai pochissimi ultimi cantanti.
Alla fine del secolo XIX metà dei cristiani clandestini si ricollegò alla Chiesa cattolica, ma l'altra metà
rimase indipendente e continuò a confidare nei suoi
canti, priva di sacramenti e di testi sacri. Si denomin a r o n o «cristiani senza chiesa». Ne conobbi in India, dove si aggregavano a studiosi vedantici. Uno
era il fedele seguace di Saran, un professore di
J o d h p u r maestro nel ridurre diritto e sociologia inglesi o americani nel sistema vedantico. Perché questa ricerca in India? Credo dipenda dall'ammirazione per la scienza imparata insieme alla dottrina cristiana; questi giovani cristiani senza chiesa erano
sedotti dalla logica vedantica, che può essere l'ideale
presupposto di un sistema scientifico.
Resta da spiegare la nascita dei miti. Immagino
che si debba c o m p r e n d e r e innanzitutto lo smarrimento che travolge una società religiosa improvvisamente amputata della sua fonte. Se osservo i rituali
mafiosi rivelati da Valachi, noto somiglianze puntuali con i rituali delle società sufi e congetturo che
q u a n d o si trucidarono o convertirono i maomettani
di Sicilia sussistette una setta sufi senza nessun rapporto con l'esterno, che smarrì ogni idea religiosa,
p u r m a n t e n e n d o cerimoniali come l'atto di riverenza verso i tre centri sottili del caporione o l'abbruciamento dell'immaginetta santa fra le mani del candidato e poi in genere un certo atteggiarsi, un certo
porgere, che diventarono il sostegno del delitto.
Nel caso giapponese si aggiunse alla scissione dal
centro anche il severissimo vaglio che impone la
222
lingua giapponese stessa, in cui non c'era un equivalente di « Dio creatore » o di « peccato originale » o
di « Satana ».
I cristiani clandestini dovevano ogni anno presentarsi davanti alle autorità per calpestare sotto i piedi
le immagini sacre. L'atto era una prova terrificante,
quasi non c'erano parole per esprimerlo, ma i poveretti avevano a disposizione due parole il cui senso
era quasi inintelligibile: «peccato originale». Chiamarono così la loro tragedia annuale; non erano più
ammutoliti, la potevano argomentare ed esporre
come necessità inderogabile, per cui diventavano
pari nel peccato ad Adamo ed Eva. Anche la creazione dell'universo si snodò in una successione di
miti e la Trinità ugualmente inintelligibile si venne
via via a d e g u a n d o a una triade di cui faceva parte
quell'ineffabile designato come « Deus », Gesù e Maria. A questa maniera si sormontava anche un'altra
difficoltà, l'idea, per un Giapponese inammissibile,
che la divinità suprema fosse esclusivamente maschile.
223
KUKI S H Ù Z Ó
Sei Shónagon nel pieno Medioevo si dilettava di
allestire elenchi di sostantivi piccanti o commoventi,
di esporre cataloghi di cose disordinate e rumorose
(sawagashìki mono)-, corvi becchettanti il riso sparso
sopra un tetto, uno stuolo di fedeli nel buio, un
improvviso spruzzo di scintille, il ritorno a casa del
padrone, la fine di u n o spettacolo con una ressa di
carrozze in partenza. O p p u r e cose che ci rimettono a
essere dipinte o che sembrano imponenti soltanto a
scriverle in ideogrammi cinesi. Questa abitudine leggiadra e faceta continuò fino a Hata Shuha (morto
nel 1607), che annoverò ad esempio le cose che fanno rabbrividire: racconti di fantasmi, a r m a t u r e indossate sulla pelle nuda, fiumi di cui si ignori il
fondo, la malaria, la notte in cui si sussurra col cinedo, la camera dove prega un esorcista.
Credo che questi cataloghi non siano soltanto giocosi e burleschi, essi ci mostrano come in una lingua
si possano elencare espressioni, stampi, vocaboli accostando cose disparate: d e n u d a n o il processo essenziale che edifica un idioma come irradiazione di associazioni. Inoltre sono tipici della sensibilità giappo225
nese, così attenta sia agli inganni che alle straordinarie risorse del linguaggio. Si può immaginare un
vocabolario confezionato con questi accumuli di scene e d'impressioni che si affastellano attorno a una
locuzione come « cose disordinate e rumorose » o
« cose che fanno rabbrividire », e questo vocabolario
è svelato nella sua scherzosa, schernevole natura.
Si conferma così la relatività del linguaggio. Uno
dei più esemplari saggi di Suzuki Daisetz, sull'idea di
natura, illustra questa concezione dell'idioma come
semplice « appoggio », sostegno arguto e lieve al pensare.
Nello zen un maestro dichiara: « Non pensare nulla di bene. Non pensare nulla di male. Q u a n d o non ci
sarà nessun pensiero, mi mostrerai il tuo volto originario ».
Un monaco gli replica: « Non ho niente di armonioso da mostrarti ». Noi si vorrebbe c o m p r e n d e r e il
senso del colloquio, ma si sbaglia; esso è privo di un
senso ordinario. E un invito a trasferirci nella realtà
in cui potrebbe avere un senso. Il linguaggio zen non
usa parole come essere, ragione, realtà, ma parla
soltanto di pietre, fiori, nubi o uccelli. Uno d o m a n d a :
« C h e uccello è?», l'altro risponde: «E già volato
via», allora il primo gli torce il naso, dicendo: «E
ancora là ».
Così ci si proietta al di là della storia e della tradizione, a dove non sussiste una distinzione fra io e
natura, a dove vige un'identità atemporale e vuota
che non deve avere un nome.
Il linguaggio non ci s'illuda di coglierlo, e chi usa il
linguaggio sappia sviscerarlo fino all'estenuazione, al
nulla, alla facezia. Il massimo di facezia fu raggiunto
dal gergo scherzoso (asobase kotoba) dell'aristocrazia
femminile, in cui tutto, anche il morire, fu designato
come gioco.
Per la sensibilità giapponese la parola è simile al
colore, si tende a trascenderla. Izutsu Toshihiko parlò del colore come elemento che si deve superare.
226
Ogni tinteggiatura è negata, ci si riduce a bianco e
nero e perfino questo infine è trasceso, nell'arte cinese e giapponese. Si tende al limite: dipingere con sfumature esilissime o con sciabolate violente di nero.
Il Giapponese è attratto al velo sottile che si stende
sulle tinte della sua natura, ma attorno al 1000 ci f u
una fioritura di tinte, si f o r m a r o n o 170 nomi di
colori, le vesti f u r o n o costruite a 12 strati di colori
variamente eloquenti. I più raffinati però capovolsero le reazioni naturali, ponendo in cima, alla sommità delle tinte, il nero. Nel Genji Monogatari si fa strada
infine la nostalgia per l'assenza completa del colore.
Il periodo militaresco Momoyama fra Cinquecento e Seicento segnò una nuova entusiastica gioia per
l'abbondanza cromatica, nacque la pittura su f o n d o
oro di « disegni decorativi in cremisi, viola, lapislazzulo, smeraldo e azzurro ». Così erano pavesati i saloni dei palazzi. Ma le stanze più importanti e personali
erano ispirate a wabi, una sensibilità fondata su
tre princìpi: solitudine, povertà o contatto col Vuoto
e infine semplicità. La coloritura si estinse. Zeami
teorizzò allora il colore spento per il noh. I pittori si
ridussero a un grigio estenuato e culmine della capacità artistica divenne l'accenno quasi impercettibile.
L'arte si protese a cogliere l'istantanea rivelazione,
il guizzo momentaneo che chiude la storia. L'uomo
che riesca a vivere questa esperienza indicibile diventa come assopito, fa tutt'uno con la natura vegetale,
anzi minerale: si cancella.
La stessa vicenda del colore si può ripetere per la
parola, un bene che si innalza al massimo spengendosi, ammutolendo. Disse Koito Shuichi che si genera una forte diffidenza se dei Giapponesi tentano di
esprimere tutto a parole.
Entrambi, il linguaggio articolato e il velo cromatico, sono inganni, insegna ancor prima della filosofia
la sensibilità giapponese. Al loro annientamento è
necessario portarsi, soltanto così si ha accesso all'arte
maggiore e alla sapienza muta, incolore.
227
La mente, sulla scia di questa verità ultima, mi si
rifà a un remoto ricordo.
Nel lontano 1956 a Venezia si celebrava il terzo
congresso internazionale di Estetica. Mi emersero in
mente queste consuetudini e queste riflessioni giapponesi discorrendo in un caffeuccio, per un lungo
pomeriggio piovoso, con N o m u r a Yosio Francesco,
che m'intrattenne sui termini giapponesi yübi, « grazia, finezza, bellezza »,sükó, « sublime », kaigyaku, « umorismo», che traducono i nostri fondamentali
concetti estetici, per dirmi quindi all'improvviso che
non si trattava affatto dei termini giusti: appartenevano alla cultura Meiji, erano improntati alla filosofia
tedesca. Se ci si a d d e n t r a invece nella letteratura
giapponese, diceva, come si espande la mente e quale
differenza di vocaboli ci rallegra! Ci fu chi selezionò
le locuzioni proprie e antiche, anzitutto mono no awaré che forse si può t r a d u r r e lachrimae rerum: indica un
oggetto intriso di sentimento, di malinconia, può
significare anche simpatia o dolore o senso del bello.
Dovevo di poi scoprire che su mono no awaré si può
parlare per ore e ore, estraendone sensi incalcolabili.
Ne f u il teorico Norinaga Motoori alla fine del secolo
XVIII. Awaré è l'esclamativa (« Ahimè! »), ma di poi
si fece prevalere il senso stringente dell'effimero, e
mono no awaré è la compassione per tutte le cose che
proviene da una intima intuizione della loro effimera bellezza. Anche yügen, che si può t r a d u r r e « mistero » o « p r o f o n d i t à » , significò la bellezza, una risonanza sottile e diffusa inaccessibile al volgo. 1 Stile
yügen f u quello che suggeriva cose ineffabili, indefinitamente simboliche, immagini invisibili nell'apparenza immediata di un poema. Si disse che il poeta
dell'epoca Heian sentiva awaré q u a n d o vedeva rughe
riflesse nello specchio, ma non arrivava a yügen, che è
1. K u s a n a g i N a s a o , Metafiguratìon
ab Form der japanischen
miltelalterlichen Kunst. Zur Theorie von Yügen und Yojyò, in « Aesthetics », T o k y o , 1, 1, o t t o b r e 1983.
228
un sentire comprensibile sì, ma indicibile: vi possono
alludere un lievissimo vapore che sovrasti una lana,
una foschia che aleggi su mazzi di foglie rosse. Se
qualcuno ci interroga su che cosa sia yugen in queste
visioni, non potremo rispondere con chiare parole.
E p p u r e yugen può farci scoppiare in lacrime. Lo
esprimono perfettamente un vaso impeccabile, il gemere del flauto nel noh, il gesto d'un maestro del tè.
Si disse: un poema sulla luna autunnale, che fa udire
il gemere del cervo senza doverlo menzionare, è un
esempio di yugen perfetto. Fujiwara no Teika narrava che un imperatore cinese ebbe, amante invisibile,
una dea, e q u a n d o si separarono lei lo invitò a contemplare le nuvole mattutine sopra un monte. L'imperatore intento a guardarle è yugen.
Jojò è lo yugen fondato sull'inespresso, sui significati non detti d'un poema, sulla superficie n u d a d'un
quadro.
Infine N o m u r a mi menzionò, terzo termine, fuga,
« raffinatezza ». Senza awaré, yugen, fuga, con tutte le
loro accezioni così trepidamente svarianti, sempre
sull'orlo dell'inesprimibile, non c'è una bellezza giapponese. Mi invitò a meditare su una parola dalla
lunga storia, furyu, scritta con un ideogramma dove
figurano « vento » e « corrente », che significò « corrente del vento », ma in Giappone assunse il significato di urbanità, eleganza, e nel periodo Edo designò
la sprezzatura dei quartieri allegri e dei teatri, mentre assumeva un senso austero, fino a coincidere, in
Bashó, con la solitaria perfezione morale. Se vorremo t r a d u r r e il « bello » dell'estetica occidentale, forse
la parola furyu è la più propizia, ma è così variegata,
imprendibile, ambivalente.
Dopo quei deliziosi colloqui del 1956, quanti altri
vocaboli mi sono stati offerti, altrettanto vicini all'inattingibile bellezza! Leggo T o m o n o b u Imamichi e
scopro che all'origine esistette una denotazione di
bellezza, kuashi, che designava, in senso letterale, il
fogliame fitto e compatto; in seguito si usarono
229
« fiore » (hana) o « seme » {tane) e per sublimità « albero alto » (taketakashì), perché la bellezza era intrinseca
alla vegetazione, sicché Bashó indicherà nell'albero il
maestro.' Ma quante parole rampollarono! Sàbi, che i
vocabolari traducono « r u g g i n e » , ma significò alla
fine del periodo Heian « essere desolati » e « invecchiare » e designò infine il sentimento che nasce dalla
cerimonia del tè, dove tutti gli utensili sono vecchi e
tozzi, sbiaditi, senza splendore, e tuttavia ne sprigionano pace, armonia, trasognamento. Si pensa sàbi
q u a n d o un ramo è rinseccolito e un fiore ne cade o
allorché la luna è ottenebrata dalla pioggia. Ma non
c'è nessun significato simbolico dietro sàbi, esso fa
pensare ai petrarcheschi « dolci lumi » che « s'acquistan per ventura e non per arte ». Infine iki, sinonimo di sui, che significò u n o spirito nobile e adattabile,
con una punta di awaré. Si differenziò da sui come
alieno dallo sgargiante e variopinto, teso semmai al
bigio e turchino, sempre mondano, sensuale e, nel
caso della prostituta, di cuore virile. Nel secolo
XVIII illuministico il teatro sfoggia personaggi iki, la
cui solitudine inevitabile include, nel profondo, un
tocco di awaré.
Di recente m'è capitato di leggere un articolo di
Katò Shinrò intorno all'idea di essere. Come esprimerla in giapponese? Egli invita a concentrarsi su
katachi'. « forma, figura, sagoma » dicono i vocabolari; tuttavia il termine denota l'energia d'una cosa, la
perfezione in un'esecuzione musicale, la disposizione favorevole d'uno schieramento di pedine. Da katachi, prendendolo a paradigma, si passa a kata, che è
lo stile, il modello a p p u n t o che unisce varie cose in
una classe. Dando forma, stile, kata a un'opera, si
crea katachi. Fra kata e katachi c'è un rapporto reciproco. Entrambi confluiscono in sugata, che è la figu1. T o m o n o b u I m a m i c h i , The Character of Japanese Thought, in
« C o n t e m p o r a r v P h i l o s o p h v . A N e w S u r v e v », V I I , 1993, pp.
274-75.
230
ra d ' u n a cosa quale a p p a r e a un osservatore, l'immagine o idea della cosa, se vogliamo, ma in cui risuona
il sentimento di chi la nota. Da sugata, dove katachi e
kata s'incontrano, si può d e d u r r e l'idea di essere.
Ma questa ricerca di parole che ci spingono accanto al senso elusivo di bellezza o di essere si riproduce
per quanti mai altri significati! Noi si sta chiusi nella
diade di conscio e inconscio, ma in giapponese, notò
Kuroda Ryó, c'è un termine intermedio, kan, la parte
dell'uomo che entra in gioco nelle arti marziali e in
genere nell'arte, una capacità intuitiva che non analizza e non ragiona in maniera conscia e tuttavia non
è inconscia.
L'eros giapponese è un altro mistero sfuggente.
Kawai sostiene che non è un incontro di opposti, come presso di noi, ma, sia per l'uomo che per la donna,
uno sprofondare nel grembo. Credo che giovi evocare le danze delle feste, dei matsuri di campagna, per
accostarci a quest'eros, le danze nelle quali l'uomo si
assimila alle tante specie che danzano per esprimere
il desiderio: il porcospino, l'airone, il fagiano. Alle
antiche feste giapponesi, così simili a quelle ricostruite da Granet nella Cina arcaica, si beveva saké e le coppie si allontanavano, per far ritorno l'indomani mattina. Fino al secolo scorso a Usuke ogni d o n n a doveva
godersi tre maschi. I falli erano offerti alla vista con la
stessa insistenza che si ritrova nel mondo grecoromano, segno di semplice felicità e agio.'
Da questo f o n d o campestre si trapassa alle soavi
pene d'amore delle corti, al detto di Nichiren, che il
sublime si attinge q u a n d o stretti in abbraccio si concepisce il vero, e infine si trascorre per il m o n d o
fluttuante, scatenato e soave dell'epoca Edo. Il risultato è l'eros di oggi, coperto appena appena da una
tradizione di confuciano ritegno e da una moralità
Meiji improntata all'Occidente o da più remote ascesi buddhiste.
1. Sull'eros g i a p p o n e s e : Eros, in « Kyoto J o u r n a l », 18, 1991.
231
Da questo enigma dell'eros giapponese e dall'enigma affine della bellezza e dell'essere giapponesi
credo si debba partire per intendere uno degli scrittori più semplici e raffinati dei nostri tempi, Kuki
Shuzò.
Era figlio d'un consigliere di Hirohito, filosofo,
erudito nelle cose patrie, ma conoscitore altresì del
sanscrito e quindi del greco, esperto delle lingue
europee moderne. Ma accanto agli studi coltivò un
interesse bramoso per l'eros delle cortigiane. Le d u e
passioni lo consumarono e lo esaltarono. Venne in
Europa fra le due g u e r r e mondiali e f r e q u e n t ò
Bergson, quindi Heidegger, col quale fece lunghi
discorsi, che Heidegger rammenta nel volume del
1959 tradotto da noi come In cammino verso il linguaggio.1 Vi si menziona il vocabolo che Kuki tentò
d'illustrare nel suo raffinato tedesco, iki. Heidegger
p r o p o n e di tradurlo con «grazia». Q u a n t o ne era
distante!
Kuki, che doveva morire giusto prima che finisse
la guerra, tentò di rimediare negli anni T r e n t a con
un delizioso trattatello, La struttura dell'iki.
Se si consulta il vocabolario, iki con certo ideog r a m m a significa «respiro», con ideogramma diverso «sciccheria», «stile». Esso apparve tardi, all'inizio dell'Ottocento, a designare l'eleganza delle
cortigiane, sintesi di spontaneità e di artificio in cui
Kuki vede affiorare tre elementi: una seduzione che
inquieta, una forza spirituale che mantiene distanti,
una rinuncia ai giochi consueti dell'amore passionale.
Kuki mette quest'eleganza in rapporto con i tre
talismani dello shintò imperiale: il gioiello, o magatama in forma di feto, che è la bellezza della seduzio1. Unterwegs zur Sprache, N e s k e , P f u l l i n g e n , 1 9 5 9 (traci, it. a
c u r a di A. Caracciolo, Mursia, M i l a n o , 1973).
232
ne; la spada, che è la forza del distacco; lo specchio,
che è rinuncia e distanza contemplativa. F u r o n o i tre
doni della dea solare alla dinastia imperiale e tornano in essere con le mosse incantevoli e austere delle
cortigiane. Iki ha qualcosa a vedere con la sprezzatura, un vocabolo di Baldesar Castiglione, così amato
in Giappone, cui si dedicò, con tanta delicata passione, Cristina Campo.
Pare a Kuki che l'iki sia esclusivamente giapponese. Il suo significato si potrà tentare di accostare, con
infinita difficoltà. Ma quale vocabolo che davvero si
faccia risuonare è mai traducibile? Himmel, sky, ciel
sono forse equivalenti? Proviamo a t r a d u r r e iki.
Kuki suggerisce chic, che proviene da chicane, l'arzigogolo furbo, o forse dal tedesco Schick, l'abilità,
l'eleganza. Si può anche pensare a coquet, « galante »,
ma q u a n d o Carmen canta con insistenza la habanera per sedurre Don José non è certo iki. Kuki arriva
a concludere che esiste un'incommensurabilità irriducibile fra l'esperienza d'un significato e la sua significazione. Invoca Anselmo, il quale potè sostenere che le T r e Persone erano un'unica sostanza perché credeva alla realtà dei generi, mentre Roscellino
riteneva che il genere fosse soltanto un significante e
sostenne perciò che le T r e Persone erano tre diverse
divinità. Dobbiamo attenerci al brillante, eretico Roscellino, sostiene Kuki, stare all'esperienza dell'ito.
Esso comporta una seduzione irregolare, un'aria
conturbante, che riduce la distanza fra la cortigiana
e l'uomo da sedurre e tuttavia la mantiene. Iki comporta uno spirito forte nella donna, perfino una
riluttanza al sesso e un'indifferenza al d e n a r o e infine una rinuncia o conoscenza che ha nozione del
destino e si è liberata dagli attaccamenti.
L'iki lambisce l'esperienza buddhista dell'irrealtà
d'ogni cosa. E nasce in una casa di geisha.
Iki è una seduzione fine a se stessa, ignara delle
ossessioni amorose, esige la libertà di chi non si fa
più avvincere, anche se concede il capriccio della
233
lieve infatuazione. Suo colore non è il rosato dell'amore appassionato di Stendhal, ma il beige. Iki è
opposto alla dolcezza come l'austerità alla goffaggine; sta all'austerità come la distinzione alla modestia,
la vistosità alla volgarità.
Si pronunci una parola prolungandola, poi si tronchi di netto: si sarà parlato iki, specie se si sarà usato
un timbro di mezzosoprano. Si tenga una postura
inoltre mezzo inclinata. Ci si avvolga di stoffe trasparenti. Si abbia l'aspetto di chi esce dal bagno
(momento squisito, che la pittura occidentale ignora).1 Il profilo iki sarà snello snello, il volto affilato.
Lo sguardo iki è di sottecchi, con pupille che esprimono una rinuncia senza sforzo. Le guance saranno
giusto giusto sorridenti, i capelli, senza unguento,
non p e n d e r a n n o come quelli di Melisenda, « color
pacchiano dell'oro». Sarà iki mantenere il colletto
spostato dalla nuca, evitando la volgarità occidentale
del décolleté. Il piede sia nudo, la mano arcuata.
L'abbigliamento ideale iki vuole righe verticali che
infondano l'idea della pioggerella lieve, delle f r o n d e
di salice. Iki non sono di certo le linee convergenti,
come stecche di ventaglio sul perno, come fili di
telaragno sul centro, come raggi di sol levante: questi perseguono a f o n d o u n o scopo. T a n t o meno lo
sono le svastiche o i triangoli e n e m m e n o le curve,
essendo Viki lineare e inflessibile. Mai si sventaglino
troppi colori, la tinta iki è cinerina, sbiadita, semmai
fredda come l'azzurro, il verde, il viola, il marrone.
Kuki parla di iki nell'architettura. Non dice nella
città. Forse perché in Giappone città a rigore non
esistono, è assente l'irradiazione dalla piazza, le casette sono assiepate. Ma dice che iki sarà il bambù di
contro al legno. Se l'architettura è musica rappresa,
la musica è architettura fluente: iki sarà nello scarto
1. H o q u a l c h e d u b b i o : p e n s ò Kuki al castello di F o n t a n e l l a t o ?
O a certi B o u c h e r ? Alle tante D i a n e ?
234
tra teoria e prassi musicale, che ridotto dà nell'austero, eccessivo produce il volgare.
Ogni momento dell'arte parla di un'esperienza
precisa, come il larghetto del secondo movimento
del concerto in fa minore di Chopin, che vi esprime
il suo amore per la Gladkowska, ma è un nesso quasi sempre inconscio. Sicché iki potrebbe perfino affiorare nell'arte d'Occidente e sembra davvero accennato in certi passi di Baudelaire. Ma come si farà
a preservarlo, a coltivarne l'anamnesi? Risponde
Kuki: ricordando l'etica giapponese del guerriero,
la teoria altresì giapponese dell'irrealtà buddhista,
m a n t e n e n d o lo sguardo lucidamente a p p u n t a t o al
destino, con un'aspirazione struggente alla libertà
spirituale.
Mentre leggevo questo trattato, mi tornavano alla
mente i ricordi d'una puntata in Giappone. Il p r o f u mo austero delle vecchie strade di Nara e l'attrazione
discreta, austera delle entrate ai palazzi. Ma soprattutto la straordinaria carità che vedevo ovunque profusa. Da noi non userei mai la parola, tanto è proclamata, urlata, questa che dovrebbe essere il colmo
della segretezza, del silenzio operoso, dell'intima allegria.
In Giappone vige la consuetudine di non portare
bagagli pesanti. Io stavo all'inizio d'una scala in una
stazioncina e posai la valigiona facendomi animo a
salire, q u a n d o un signore mi sfiorò, a f f e r r ò la valigiona e me la issò in cima alla scalinata, subito sparendo. Con la valigiona entrai quindi in u n o scompartimento e una d o n n a mi osservò, mi d o m a n d ò in
un perfetto francese se non mi occorresse un facchino alla stazione. Estrasse un telefonino e chiamò la
stazione, sicché all'uscita dal treno mi s'inchinò davanti un facchino. Ma incontrai anche quanto iki\
Entrai in una botteguccia a comprare delle cravatte.
Chiesi alla commessa di mettermene una al collo. Si
235
sollevò sui piedini, alzò verso l'alto le lunghe esili
dita, stette un attimo immobile.
Quindi cominciò una danza a passettini rapidissimi, circondandomi, e infine mi venne incontro lenta
lenta, avvolgendomi con grazia la cravatta, stringendomela con gesto squisito. Infine si scostò coprendosi la bocca ridente con l'avambraccio, chinandosi
appena. Era iki.
Iki quanto la deliziosa prefazione di Giovanna
Baccini.'
1. Una grazia inflessibile, in Kuki S h u z ó , La struttura dell'iki, A d e l phi, Milano, 1992, p p . 9 - 3 8 .
236
IL D E C E N N I O 1970-1980 IN AMERICA
... G r i d e r ò dal
finestrino
Ai b a m b i n i del cortile: « Cari,
C h e m i l l e n n i o fa, f u o r i ? ».
p a s t e r n a k , Sorella mia, la vita
Attorno al 1970 dilagò anche al di là dei confini
californiani una rinascenza mistica che doveva improntare la società americana nel decennio successivo. La novità colpì, al suo sorgere, per un effetto di
chiaroscuro: era il rovescio del fervore politico che
l'aveva preceduta. I d u e momenti storici adiacenti e
opposti vanno letti e valutati a contrasto.
L'impegno sociale degli anni Sessanta sbandierava
dei fini ideologici che paiono in parte pretestuosi;
secondo Leslie Fiedler (nei saggi di No! In Thunder)1
già la campagna kennediana per i diritti civili era
servita come falsa ragione a forze puramente nichiliste, le quali usarono, come successiva copertura, la
campagna contro la guerra in Vietnam, spacciandosi
per una specie di Quinta Internazionale o per un
marxismo paradossalmente apartitico. Il materiale u m a n o disponibile a queste finte, controfinte e
schermature ideologiche erano le masse giovanili
che grazie al benessere generato dalle commesse bel1. Evre & S p o t t i s w o o d , L o n d o n , 1963.
237
liche si trovarono sciolte non soltanto dalla disciplina del lavoro, ma perfino dal ricordo delle necessità
economiche (Galbraith stava teorizzando il salario
garantito universale con un soprassoldo per i lavoratori). Così avvenne che una generazione intera si
potè dedicare alle tracotanze burlesche delle bande
giovanili ricorrenti nella storia moderna, sempre
peraltro minoritarie, dai bellimbusti chiamati mohocks che atterrivano la Londra di Giorgio III ai
moscardini loro emuli nella Parigi del Direttorio.
Gli interessi politici impegnati a fermare le operazioni militari nel Vietnam e a porre fine al regime
delle commesse ebbero gioco facile scatenando lo
squadrismo tra le folle ozianti nelle università, suscitando il carnevale politico che f u fatto esplodere a
Berkeley nel 1965 per essere esportato pari pari,
come un cartone di teatro, in tutto il mondo non
sovietico, da Parigi a Kinshasa, nel 1968: segnò il
preludio alla colossale crescita del traffico internazionale della droga e o f f r ì un analogo tardoindustriale alla varia patologia delle società premoderne,
con le loro epidemie coreutiche, scorribande di flagellanti, comunità di adamiti erranti, crociate di fanciulli e sommosse contro l'istruzione - quali descrisse
Shakespeare in Enrico VI (parte seconda, atto IV,
scena n):
chierico
La Dio mercé fui allevato a modo, so scrivere il mio nome.
f o l l a
Ha confessato! Facciamolo fuori! Ribaldo, traditore!
capopopolo
Fatelo fuori! Impiccatelo e che abbia
penna e calamaio al collo! 1
Dura alla distanza il disagio per ciò che fu allora
perpetrato e ancor più propugnato; traspare perfiI. « c l e r k
Sir, I thank G o d I h a v e b e e n so well b r o u g h t u p
that I can write m y n a m e . / a l l
H e h a t h c o n f e s s e d : away with
h i m ! he's a villain a n d a traitor. / c a d e A w a y with h i m ! I say:
h a n g h i m with his p e n a n d i n k - h o r n a b o u t his neck ».
238
no dal titolo che h a n n o dato al loro libro nostalgico i
protagonisti di quei giorni: The Sixties Without Apology.1 C u r a r o n o l'opera Sayres, Stephanson, Aronowitz, Jamieson, tentando una reazione al solido, stagionato, definitivo disprezzo che sulla « loro » stagione aveva versato Joseph Conlin con la sua postuma cronaca The Troubles. A Jaundìced Glance Back at
the Movement of the Sixties.2
T u t t o lo scenario nichilista (o, come si preferì dire sulla « Partisan Review », narodnik) nel 1970 si capovolse nel suo opposto; nel giro di pochi anni le
masse californiane dimisero il culto del collettivismo
e della promiscuità, scordarono la recitata militanza
marxista, per votarsi alla ricerca interiore.
Mentre la nuova corrente trascinava la nuova gioventù, la farsa trascorsa teneva ancora il proscenio,
facendo deflagrare i suoi ultimi fuochi in una strepitosa girandola che mise in imbarazzo perfino l'industria culturale, la quale fino ad allora aveva tutto
premurosamente compreso, spiegato e applaudito: 3
ecco i sacrifici umani consumati dalla banda Manson, la gragnuola di attentati dinamitardi (dei Weathermen) e di rapimenti (dei Symbionesi) e infine,
q u a n d o la temperie generale era ormai cambiata, il
suicidio collettivo dei fedeli del reverendo Jim Jones
in Guyana. Si osò imputare questo postumo coronamento degli anni Sessanta alla sopravvenuta atmosfera di fervore religioso, ma la comunità di Jones
era un relitto del m o m e n t o storico anteriore: amalgama di millenarismo e di marxismo orecchiato, formava un tassello fra i molti nel mosaico di grup-
1. U n i v e r s i t y o f M i n n e a p o l i s Press, 1984.
2. Watts, N e w York, 1982.
3. S p i c c a n o i p o c h i c h e o s a r o n o m o s t r a r e la comicità della p s e u d o r i v o l u z i o n e , c o m e il f u m e t t i s t a Al C a p p o il giornalista brillante T o m W o l f e (che in Italia e b b e p e r c i ò il b i a s i m o di C.
Gorlier).
239
puscoli che a Los Angeles animavano l'attivismo elettorale kennediano. 1
Il ribaltamento dialettico del nichilismo, u n o degli
ondeggiamenti fra poli estremi quali il cardinale di
Retz amava illustrare ai suoi dì, non è tuttavia l'unica
chiave interpretativa degli anni Settanta. Oltre all'attrazione magnetica fra gli opposti, nella genesi
dell'ondata mistica giocò un altro meccanismo storico abbastanza frequente, la traduzione d ' u n a corrente letteraria in movimento sociale (l'esempio da
manuale resta l'impresa di Fiume, studiata da un
giovane storico americano di questa generazione,
Michael Ledeen). 2 Dopo un'incubazione secolare
stava trovando una risonanza di massa l'esotismo
letterario, specie la sua variante orientale, che risaliva, alla lontana, ai trascendentalisti ottocenteschi:
era stato celebrato da Walt Whitman in Passage to
India ed era rimasto attivo come saltuario f e r m e n t o
fino al profetico romanzo di Kerouac The Dharma
Bums del 1958.3
L'esotismo novecentesco che portò Gauguin a Tahiti, Artaud sul pianoro dei T a r a h u m a r a , Leiris a
Gondar, Ségalen in Cina e in Oceania, Michaux in
Cina e a Giava, e che si espresse in trucioli di prosa o
in schegge liriche, ebbe un corrispettivo americano
nelle poesie zen di Snyder, nei sedicenti mantra di
Ginsberg, nei quali è come se la furia dello spaesamento avesse lacerato le forme letterarie prima di
trasformarsi in una voga collettiva/
1. A d a c c e r t a r n e la natura del tutto secolare, basta u n a lettura
accurata dei servizi su « W a s h i n g t o n Post », 2 5 n o v e m b r e 1978,
e « N e w York T i m e s », 2 6 n o v e m b r e 1978.
2. D'Annunzio
a Fiume, Laterza, Bari, 1975.
3. N e w A m e r i c a n Library, N e w York (trad. it. I vagabondi
Dharma, M o n d a d o r i , Milano, 1961).
del
4. Cfr. L'esotismo nella letteratura angloamericana,
saggi di p i ù
autori a c u r a di E. Zolla; voi. I, La N u o v a Italia, F i r e n z e , 1978;
voli. II e III, Lucarini, R o m a , 1 9 7 9 e 1982.
240
La generazione passata dall'esibizione sediziosa alla religiosità aveva cominciato centellinando gli umbratili e pudibondi cenni mistici di Salinger (nei racconti di Franny and Zooey,'1 scritti nel lontano 19551958), ma doveva scoprire la sua proiezione eroica e
ideale nei romanzi di Castañeda, la cui strabiliante
fortuna sigillò la fine dell'attivismo nichilista e introdusse il decennio affascinato dal sacro. Ma l'opera di
Castañeda non è stata mai accolta « di pieno diritto »
nei ranghi della letteratura, con le due eccezioni
della Oates, che ne seppe valutare lo stile, e di Sukenick, che ne tentò un'emulazione; gli scrittori più
propriamente letterari non ispirarono la nuova temperie, ma ne f u r o n o permeati, come si può osservare
particolarmente in Ginsberg, e alla fine del decennio
i resti dell'avanguardia anteriore insieme alla nuovissima pleiade poetica, quasi tutta californiana d'origine ed esotistica d'ispirazione, trovarono la loro sede
istituzionale più consona pour cause nel centro d'insegnamento mistico tibetano di Boulder, il Naropa
Institute. 2
Ciò che fu visibile a colpo d'occhio nelle città
americane fu la comparsa di centri indù, buddhisti,
sufi e accanto a essi di sette nuove assai somiglianti a
truffe. Anche le librerie più riluttanti dovettero offrire scaffali alla letteratura mistica. L'ondata si diffuse di riflesso, in minore, in Europa e in Australia e
a distanza di tempo in Unione Sovietica.3
1. Little, B r o w n , B o s t o n , 1961 (trad. it. Franny e Zooey, E i n a u d i ,
T o r i n o , 1963).
2. Talking Poetics from Naropa Institute, a cura di A. W a l d m a n e
M. W e b b , S h a m b a l a , B o u l d e r - L o n d o n , 1978. Sulla poetica b u d dhista di G i n s b e r g si v e d a Writers in East-West Encounter, a cura
di G. A m i r t h a n a y a g a m , M a c m i l l a n , L o n d o n , 1982, p p . 10 sgg.
3. R. T e m p e s t , Youth Soviet Style, in « P r o b l e m s o f C o m m u n ism », W a s h i n g t o n , D.C., m a g g i o - g i u g n o 1984, p. 6 3 . U n d r a p p e l l o di studiosi s'è d e d i c a t o a tracciare la storia della nascita in
A m e r i c a o d e l l ' i m p o r t a z i o n e dall'Asia dei singoli culti, del l o r o
241
Restano da fare alcune annotazioni in margine,
tra le quali: il riflesso che il decennio ebbe nella
cultura delle minoranze amerindia, negra e chicana;
l'incontro che si stabilì fra le scienze e gli interessi
mistici e infine la particolare reazione degli intellettuali cattolici.
A misurare l'influsso del nostro decennio sugli
studi indiani basta rileggere Apologies to the Iroquois
(« Dovuto agli Irochesi ») di E d m u n d Wilson, del
1966;' l'attenzione è tutta calamitata dalle rivendicazioni politiche e il lettore potrebbe perfino ignorare
che la cultura indigena è di natura strettamente
metafisica e mistica, che le trafile iniziatiche formano l'ossatura della vita tribale. Negli anni Settanta la
particolare spiritualità indiana doveva essere addirittura divulgata negli aspetti che dianzi erano vietati dalla legge: chi mi faceva ascoltare le registrazioni
della danza del sole nel 1968 si accertava che nessuno passasse vicino alla casa; q u a n d o l'atmosfera fu
mutata, tutti poterono assistere alla cerimonia, filmata in A Man Called Horse. Alla nuova temperie si
dovette l'introduzione di cattedre di Indian Studies
nelle università e anche il configurarsi di una nuova
c r e s c e r e e ramificarsi, e la l o r o o p e r a f o r m a u n a bibliotechina
storica c h e raccoglie i protocolli del d e c e n n i o . S t a n d o al m i n i m o
essa c o m p r e n d e : J. N e e d l e m a n , The New Religions, D o u b l e d a y ,
N e w York, 1970; P. R o w l e y , New Gods in America, Me Kay, N e w
York, 1 9 7 1 ; R.S. E l w o o d , Religions and Spiritual Groups in America, E n g l e w o o d Cliffs, 1 9 7 3 ; Religious Movements in Contemporary
America, a c u r a di I.J. Zaretsky e M. L e o n e , P r i n c e t o n , 1974;
The New Religious Consciousness, a cura di C.Y. C l o c k e R . N .
B e l l a h , University o f C a l i f o r n i a Press, B e r k e l e y , 1 9 7 6 ; R. Wallis, The Rebirth of the Gods?, Q u e e n ' s University, Belfast, 1978;
Understanding New Religions, a c u r a di J. N e e d l e m a n e G. Baker,
H a r p e r & Row, N e w York, 1 9 7 8 ; R. W u t h n o w ,
Experimentation
in American Religion, U n i v e r s i t y o f California Press, B e r k e l e y ,
1978; S.M. T i p t o n , Getting Saved from the Sixties, University o f
C a l i f o r n i a Press, B e r k e l e y , 1 9 8 2 .
1. V i n t a g e , N e w York.
242
disciplina, l'etnopoetica.' Non soltanto le tribù furono riportate alla loro tradizionale vita mistica e rituale grazie al movimento missionario panindiano,
ma alcuni bianchi f u r o n o ammessi a fruirne, sia
a d e r e n d o alla Native American Church, che conobbe un rigoglio, sia accedendo a trafile iniziatiche. 2
Stanno in funzione gli uni degli altri gli studi
orientali, specie tibetani, e quelli sulla vita spirituale
amerindia, per una reciproca, intima affinità, che
nel 1984 doveva essere sancita da un incontro fra gli
anziani Hopi e il Dalai Lama. La vita dell'orientalista
W.Y. Evans-Wentz si svolse tutta sotto il segno di
queste confluenze. Agli inizi del secolo si addottorò
a Oxford con una tesi sulle sopravvivenze magiche
e mistiche pagane nel contado celtico, nella scia di
W.B. Yeats; si trasferì quindi nello Himàlaya, dove
tradusse dal tibetano alcuni testi tantrici esoterici, la
Vita di Milarepa e il Libro dei Morti, che doveva conoscere una diffusione massiccia negli anni Settanta.
Nella vecchiaia tornò in California per dedicarsi alla
spiritualità indigena e tentò di far rivivere il culto
delle montagne sacre americane. 3
Il parallelismo fra le d u e spiritualità, amerindia
ed esoterica buddhista, si avverte anche nell'opera
di Castañeda. 4
La cultura afroamericana, dianzi ristretta ai temi
1. Uscì p r e s s o la B o s t o n U n i v e r s i t y dal 1 9 7 6 la rivista « A l c h e ringa: E t h n o p o e t i c s ». I p r o m o t o r i e r a n o T . T e d l o c k e J. Rothenberg.
2. Sulla trafila risalente ad A l c e N e r o cfr. W.S. L y o n , in Proceedings of the International
Conference on Shamanism
(coord.
R.I. H e i n z e ) , B e r k e l e y , 1984.
3. W . Y . E v a n s - W e n t z , Cuchama
C h i c a g o , 1982.
and Sacred Mountains,
Swallow,
4. G. M a r c h i a n o , Carlos Castañeda, in Novecento americano, vol.
III, Lucarini, R o m a , 1981; M. M a c D o w e l l , A Comparative
Study
of the Teachings of Don Juan and Madhyamaka Buddhism, Motilal
Banarsidass, N e w D e l h i , 1981 e i n f i n e E. Zolla, I letterati e lo
sciamano, Marsilio, V e n e z i a , 1989, p p . 3 6 5 - 9 2 .
243
della protesta sociale che fu riangolata nel nostro
decennio specie grazie all'opera di Ishmael Reed, 1
riprese coscienza delle sue radici mistiche, riesum a n d o l'opera di Zora H. Neale.
Ultima venuta tra le letterature minoritarie, la chicana, sensibile all'influsso di Castañeda, 2 si volse al
suo patrimonio magico ancora vivo; si può considerare un prodotto chicano anche uno dei metodi di
trasformazione interiore che ebbero maggior voga
alla fine del decennio, il « metodo Silva», basato su
un complesso lavoro di visualizzazioni. 3 La nuova
atmosfera culturale doveva insegnare a guardare
con comprensione i sincretismi popolari dei rioni
dove vennero mescolandosi i negri e gli ispanici delle
nuove migrazioni. 1
Fin dall'inizio le nuove religioni si erano intrecciate alla varia prassi psicoanalitica californiana e alle
tecniche di « espansione della coscienza » sviluppate
nei laboratori; in certi casi la confluenza r e n d e impossibile distinguere l'atteggiamento psicologico sperimentale o sedicente tale dalla religiosità, come nel
caso della Chiesa della Scientologia. Un altro punto
di fusione è sul confine tra nuovi culti ed ecologia. 5
Ma l'incontro più clamoroso avvenne tra i culti orientali e la scienza nucleare.
Un fisico, F. Capra, riuscì a stabilire che la struttura concettuale delle metafisiche orientali (l'Advaita
Vedànta come il Màdhyamaka buddhista) e quella
1. F. G i o r d a n o , Ishmael Reed, in Novecento americano, cit., voi. I l i
e F. G i o r d a n o , p r e f a z i o n e a I. R e e d , Murnbo Jumbo, Rizzoli,
Milano, 1981.
2. The Don Juan Papers: Further Castañeda Controversies, a cura
di R. D e Mille, Ross-Erikson, S a n i a Barbara, 1980, pp. 2 7 1 sgg.
3. J. Silva e P. Miele, The Silva Mind
S c h u s t e r , N e w York, 1978.
Control Method,
S i m o n 8c
4. P.L. Wilson, « El arte espiritual
Le « botánicos •• di New
in « C o n o s c e n z a religiosa », 2, 1983.
5. Cfr. l'opera di T . Roszak, s p e c i e l'antologia Sources,
8c Row, N e w York, 1972.
244
York,
Harper
della fisica quantistica erano perfettamente sovrapponibili punto su punto. La sua operazione intellettuale non era dettata dalla ricerca di visioni alternative
della realtà, né egli era mosso da un'adesione sentimentale preliminare, d o n d e il tono di dimessa chiarezza e di razionalità rigorosa del volume The Tao of
Physics,1 cui andò una fortuna paragonabile a quella che aveva arriso a Castañeda (in seguito Capra
smarrì le sue qualità, cadde nella sdolcinatura ideologica di The Turning Point).1 Per la nuova generazione la dimostrazione che i metodi della mistica indù e
buddhista erano basati su una metafisica rigorosamente sovrapponibile alla teoria dei quanti giunse
come una buona novella. Dianzi avevano prevalso i
rettorici appelli a una « scientificità alternativa », come nell'opera di W.I. T h o m p s o n Al the Edge of History,3 da cui erano nate varie iniziative comunitarie,
come Findhorn o la Lindisfarne Foundation. La
ricerca di scienze alternative portò ad avallare alcuni
funambolismi perfino nella preziosa antologia di ricerche psicologiche Frontiers of Consciousness, a cura
d i J . W . White.'
La persistenza della nuova temperie f u dovuta al
sinergismo dei tanti disparati apporti. Il risveglio
religioso (great awakening) è un fenomeno ricorrente
nella società americana fin da quello iniziale, « scoppiato » alle frontiere del Massachusetts nel secolo
XVIII, ma questo degli anni Settanta fu il primo di
durata ultradecennale, di dimensioni nazionali e infine con scarsi rapporti con il cristianesimo (la moda
dei Jesus freaks rimase effimera, fallì il trapianto in
1. S h a m b a l a , B e r k e l e y , 1 9 7 5 (trad. it. Il Tao dellafisica,
Milano, 1982).
Adelphi,
2. S i m o n & S c h u s t e r , N e w York, 1 9 7 2 (trad. it. Il punto di svolta,
Feltrinelli, Milano, 1984).
3. I r v i n g t o n , N e w York, 1971 (trad. it. All'orlo della stona,
sconi, Milano, 1972).
4. J u l i á n , N e w York, 1 9 7 4 .
245
Ru-
America dei « folli in Cristo »; persistette viceversa il
fervore glossolalico e pentecostale). 1
Non va attribuito al risveglio mistico il rafforzamento organizzativo, missionario, elettorale del fondamentalismo protestante, che reagì con greve ritardo agli anni Sessanta.
Mancò una reazione cattolica alle mode orientali:
il patrimonio mistico della Chiesa non fu contrapposto alle nuove religioni. In tal senso non si può certo
interpretare l'iniziativa di lanciare una grande collana di mistici da parte della Paulist Press, che nella
folta lista incluse classici dell'Islam e dei culti indigeni americani. Forse gli intellettuali cattolici erano
totalmente impegnati in una teologia della liberazione politica?
Il maggior poeta e poligrafo cattolico, T h o m a s
Merton, aveva precorso la nuova temperie. Autore
del best seller del 1948, The Severi Storey Mountain,2
non aveva cessato di riproporre in forma nitida e
confidenziale la dottrina della settemplice scala coeli,
ma alla fine degli anni Sessanta sentì il bisogno di
« purificare la visione », « di tornare alla casa dove
con il suo corpo presente non era mai stato », e partì
alla volta dell'India. F u r o n o i metodi di meditazione buddhista a impegnarlo e li stava praticando a
Bangkok q u a n d o lo colse la morte nel 1968. Lasciava un'opera postuma, The Asian Journal,3 alle folle di
giovani americani che avrebbero rifatto di lì a qualche anno quel percorso. Al momento della sua morte era ancora impensabile che l'America fosse per
1. F.D. G o o d m a n , Speaking in Tongues: A Cross-Cultural Study of
Glossolalia, University o f C h i c a g o Press, 1972; J.P. Kildahl, The
Psychology of Speaking in Tongues, H a r p e r 8c Row, N e w York,
1972; W.J. S a m a r i n , Tongues of Men and Angels. The Religious
Language of Penlecostalism, M a c m i l l a n , N e w York, 1972.
2. H a r c o u r t , Brace & C o , N e w York (trad. it. La montagna
sette balze, Garzanti, Milano, 1950).
3. N e w Directions, N e w York, 1 9 7 3 (trad. it. Diario
Garzanti, Milano, 1975).
246
dalle
asiatico,
aprirsi a una rinascenza contemplativa, secondo fu
notato nelle commemorazioni del decennale. 1
Forse nutriva qualche riserva mentale il noto teologo battista Harvey Cox, q u a n d o decise di esplorare di persona le vie mistiche orientali. Il preludio
della sua avventura era stato faceto: un suo studente
sikh si imbatté nei « Sikh americani » e ne nacque
una spassosa commedia degli equivoci; questa celia
iniziale non impedì a Cox di condurre un'indagine
accurata fra i nuovi mistici e di darne onestamente
conto in Turning East,2 Rinunciò alla bieca catalogazione sociologica («Qual è la natura di classe del
fenomeno? »), ammise che le sue categorie mentali
non erano affatto più complesse di quelle che veniva
esaminando: le due maggiori « risorse di cui disponeva per praticare una disciplina spirituale postmod e r n a » , Simone Weil e Bonhoeffer, non bastavano
a metterlo in una posizione di vantaggio.
Non si f e r m ò alla superficie buffa, da « supermercato spirituale», ma cercò di ricostruire le origini
remote del fenomeno. Giunse così a scoprire l'importanza che aveva avuto il Parlamento delle Religioni riunito a Chicago nel 1883, esperienza che la
società americana aveva assimilato lentamente e come di nascosto. Il suggerimento di andarsi a leggere
gli Atti di quel lontano convegno è prezioso, il tempo non ne ha smorzato il significato. Cox r a m m e n t a
l'intervento di Vivekànanda, ma è altrettanto ricco
quello dell'inviato imperiale cinese e parlò a quelle
giornate per la prima volta in America, inviato del
Giappone, un maestro zen, Shaku Soyen.
Le dottrine orientali f u r o n o finalmente negli anni
Settanta non soltanto oggetto di studio, ma se ne
praticarono le discipline ascetiche e i metodi mistici.
1. W . H . C a p p s , Religion
l o g u e », 12, 3, 1979.
in America. T. Merton s Legacy, in « Dia-
2. S i m o n & S c h u s t e r , N e w York, 1977 (trad. it. La svolta
Oriente, Q u e r i n i a n a , Brescia, 1978).
247
ad
Così una tendenza letteraria divenne un'esperienza
collettiva; tale la conclusione dell'opera di Cox, la
quale forse meglio di altre registra il tono del periodo, che f u un intreccio di curiosità intellettuali e di
esperimenti spirituali combinati con un bisogno di
completo spaesamento. Soltanto nello specchio di
una coscienza quella realtà elusiva può rivivere; si
sfalda a ridurla nei termini d'una cronaca di iniziative e di fatti concreti. Riraccontino perciò gli eventi
alcune pagine che stralcio dai diari fra 1970 e 1982,
colpi di sonda in un m o n d o stratificato, molteplice,
impervio alle definizioni perentorie e riassuntive.
PAGINE DI DIARIO
1970, Roma. Il primo annuncio d'un eccezionale
m u t a m e n t o d'atmosfera in America, addirittura d'una rinascita mistica, mi viene da Jacob Needleman,
un professore di filosofia all'Università di San Francisco, che se ne è fatto il fedele e accorto cronista.
Credo di poterne enunciare il metodo: a ogni nuovo
caso di professione religiosa che incontri, egli pone la
d o m a n d a : fino a che p u n t o le parole, i simboli adoperati, i riti eseguiti, gli atti compiuti corrispondono a esperienze interiori reali, specifiche, inconfondibili?
Di passaggio in Europa, egli cerca consonanze a
ciò che vede crescergli d'attorno in California, ma la
vita mistica cristiana è spenta e ogni altra inesistente;
gli pare di cogliere fili di una trama lacerata parlando con un monaco dell'Athos o con Cristina Campo
a Roma.'
Needleman mi reca tante notizie, ma mi soffermo
su una, marginale, che per me è decisiva: egli immetterà nella collana di tascabili che dirige (i Pen1. Cfr. J. N e e d l e m a n , Tradizione
n o s c e n z a religiosa », 4, 1974.
248
sacra e bisogni presenti,
in « Co-
guin di Baltimora) gli scritti di René Guénon. Crollerà così un divieto che pesa d u r a m e n t e sulla cultura
del Novecento. Una censura automatica e indiscussa
vieta di menzionare Guénon: non si tollera che egli
abbia ignorato, chiuso inflessibilmente tra parentesi,
il pensiero moderno, attenendosi alla metafisica
orientale. Gide lo capì a f o n d o e temette di dover
modificare la propria esistenza accogliendolo, Breton non disperò di guadagnarlo a sé, Daumal e Artaud lo assimilarono e perciò s'inoltrarono su strade
solitarie. 1 Quelle strade parrebbero oggi in America
le uniche transitate e a questo punto Needleman non
può concepire che si continui a ignorare un'opera
indispensabile.
Ma quale alterazione delle consuetudini intellettuali comunemente accettate si prepara, se una così
tacita consegna del silenzio sta per essere violata!
1973, Houston. Nel pieno dell'euforia conciliare il
magnate cattolico e patrono dell'avanguardia J o h n
De Menil fece erigere a Houston nel Texas la Rothko
Chapel, tondo tempietto aconfessionale, panconfessionale, alle cui scure pareti egli appese delle tele di
Rothko consistenti di poche sfumature di nero. Qui
si tiene un convegno su Contemplazione e azione. Gli
invitati non sono quelli di prammatica: un diverso
m o n d o intellettuale avrà la parola e l'evento coincide
con il dilagare dei nuovi culti. Anche il Texas ne è
lambito. In una strada accanto alla Rothko Chapel
m'imbatto in una delle tante nuove librerie esoteriche e il gestore mi confida di essere del tutto estraneo
alla merce, ha semplicemente investito in un a f f a r e
d'oro. Così ogni dubbio che potessi nutrire sulla consistenza della voga si dissipa.
Dell'ambiente conciliare che anche un anno fa
avrebbe monopolizzato tutto, noto soltanto la fine
1. La d o c u m e n t a z i o n e è raccolta in René Guénon, a c u r a di P.M.
S i g a u d , L ' A g e d ' h o m m e , L a u s a n n e , 1984.
249
fleur: l'archimandrita Scrima, tessitore della rete fra
Paolo VI e il patriarca di Costantinopoli Atenagora.
Scrima regge iridescenti discorsi ecclesiali e politici
su un abisso metafisico vertiginoso, ama ripetere che
non si fonda su un Urgrund, sull'idea d'un principio
originario e originante, ma sul bòhmiano Ungrund,
lo zero apofatico che nelle metafisiche orientali è la
radice dell'essere (e proprio perché capaci di reggere la conoscenza dello zero anteriore all'Uno, Guénon le ritenne superiori ai sistemi occidentali). Accanto a Scrima siede R. Panikkar, che f o n d e con la
conoscenza del pensiero vedantico un cristianesimo
percorso da reminiscenze del Numquid et tu... gidiano (« com'è possibile aver fede in buona fede? »).
T r a gli altri partecipanti, Needleman dichiara di
parlare a nome della nuova California, ma l'interesse maggiore sembra sia di porre un discrimine fra
quanto nella nuova ondata è tradizionale e quanto è
spurio.'
Il mio intervento enuncia i caratteri che nella
contemplazione e nell'azione conforme permangono identici attraverso i tempi. Potrei servirmi di
qualsiasi linguaggio, ma scelgo quello delle epistole
paoline, forse perché il loro significato mistico è oggi rigorosamente disatteso, forse perché la potenza
suggestiva del testo non mi suona estinta. Mi rallegra che le due relazioni strettamente vedantiche, di
T.M.P. Mahadevan e di A.K. Saran e quella del
tibetano Lobsang P. Lhalungpa siano di non dissimile tenore.
Non è tradita la nostra speranza di ascoltare la
voce della religiosità africana liberata dall'ultima ombra dell'ipoteca culturale bianca: il sacerdote yo1. Gli Atti a p p a r v e r o a distanza di c i n q u e anni:
Contemplation
and Action in World Religions: Selected Paperi from the Rothko
Chapel Colloquium Traditional Modes of Contemplation and Action, a
cura di Y. Ibish e I. M a r c u l e s c u , R o t h k o C h a p e l , S e a t t l e - L o n d o n , 1978.
250
ruba W. Abimbola introduce alla tecnica del culto
divinatorio ifé e illustra l'uso della transe. Una sua
frase compendia l'apporto africano al profilo della
tradizione contemplativa perenne: « Non c'è religione senza possessione ». Tutti si dovrà essere trascinati davanti al tribunale di Dioniso, affermava
Nietzsche.
Sono presenti Y. Ibish e S.H. Nasr, d'una trafila
sufi siriana e iranica rispettivamente, insieme a L.
Schaya, ebreo osservante e sufi, come tanti cabbalisti
medioevali. Il sufismo è una prassi di vita che o f f r e
tecniche di attuazione spirituale e non soltanto strutture di significanti, che mira all'esperienza contemplativa di là dalla devozione. Tanti ne cercano l'insegnamento in America, che le contraffazioni quasi
sopraffanno le f o r m e autentiche. C'è chi va girando
per l'Iran e l'Afghanistan alla ricerca dei luoghi d'iniziazione di Gurdjieff.
Esprime puntualmente la filosofia perenne il giapponese T. Izutsu, il cui discorso si rifà a scuole ancora operanti, la buddhista zen e la sufi quale erede
storicamente legittima della Scuola d'Atene.
Q u a n d o il convegno dovrebbe tirare le somme,
circoscrivendo la credibilità religiosa, affiora una riluttanza a farlo: ogni delimitazione affidata a segni
esteriori sarebbe contraria all'idea d'una perennità
preservata attraverso le scuole filosofiche fedeli al
deposito immutevole.
1983. A distanza di anni annoto alcuni contrasti
fra l'esperienza del colloquio di Houston e gli eventi
posteriori.
I convenuti scrutavano i giovani californiani affluiti ad assistere; i meno interessanti fra costoro
erano i più loquaci, come il regista che proiettò un
suo film dove sgranava a perdifiato scene di àsram,
monasteri buddhisti, ritiri sufi, aule chassidiche,
campeggi di ignudi adoratori della natura. Nelle
251
scene sufi la colonna sonora fece udire non l'ipnotico
flauto di bambù (negli intervalli dei cui fori è iscritta
la sapienza pitagorica, cui vanno i più ebbri versi di
Rumi), bensì un gracidante ansito di fisarmonica. I
sufi presenti scoppiarono a ridere, il regista s'indispettì. Si erse tutto ad ammonire: se « noialtri » si
voleva d i f f o n d e r e la nostra roba, questa era un'occasione unica, ma guai se si torceva il naso... In tal caso
niente, chiuso, e sparì con sussiego.
Nota Cioran che la mistica di Spagna, di Fiandra,
di Renania affiora, tocca un apice e infine scade a
caricatura.
Nel risveglio religioso californiano si cominciò da
quello che di n o r m a sarebbe un penoso epilogo,
e p p u r e si osò sperare che il fiume limaccioso avesse a
illimpidirsi via via. Non era una speranza impropria,
perché l'America ha in sorte di accogliere tutto trasformandolo in fiera; come Kafka intuì, la f o r m a
essenziale di questa civiltà è il Gran Circo di Oklahoma. Ma lo squallore sgargiante e sgangherato cela
sorprese; dalla desolazione sprigionano bagliori di
sapienza o di eleganza, da un deserto spirituale nacque Moby Dick. A proposito di queste sorprese, tornava nelle conversazioni dei partecipanti al convegno il
nome di Castañeda: la povera fiera dei nuovi culti
non aveva espresso, in lui, un'inedita e imprevedibile
rivelazione sapienziale?
Nessuno prevedeva che di lì a qualche anno sarebbe calata sulla sua opera una inesorabile, rabbiosa censura (in America non è infrequente, uno scrittore al colmo della celebrità viene scancellato dall'oggi al domani: avvenne con Odets, Dos Passos,
Saroyan). L'industria culturale americana non è ingenua: non si sarebbe lasciata sfidare impunemente,
e, « sia intellettualmente che esistenzialmente, la rivendicazione da parte di Castañeda di un'esperienza
percettiva radicalmente diversa da quella dell'Occidente moderno, rappresentava una sfida di prima
252
grandezza alle f o r m e americane del pensiero e dell'azione ».'
Alla provocazione intollerabile era stato dato troppo spazio: non soltanto gli intenditori raccolti a
Houston seguivano l'evolversi dell'opera di Castañeda, ma un pubblico incalcolabile, anche nelle università (nel 1974 usciva un volumetto di d o m a n d e e
risposte per esami universitari su Castañeda nella
collana più diffusa, i manuali Cliffs Notes).
Attorno al 1978 scattò l'opera di scancellamento, si
abbinò sistematicamente al nome da esecrare l'appositivo hoax (« truffatore »), si stampò un'opera monumentale 2 che raccoglieva tutte le accuse affastellabili,
con ferreo e specioso puntiglio, si perorò in nome di
un'etica puritana offesa (« con lui i ragazzotti delle
università capitaliste ottengono quello che vogliono,
fantasie di potenza, senza in cambio dover diventare più compassionevoli o onesti » scriveva un santo
giansenista, insolito collaboratore della « New York
Times Book Review», il 22 aprile 1979).
Da allora soltanto fuori del suggestionabile m o n d o
anglosassone si osa parlare di Castañeda come prima
dell'offensiva a tappeto. 3
A un altro tema delle conversazioni di Houston si
torna con animo modificato dagli eventi posteriori,
all'immagine d'un Islam sapienziale che poteva irridere l'Occidente quale si era esibito nella carnevalata
del 1965-1968. Di lì a un lustro l'Islam del sufismo,
fiorito nella corte dell'ecumenico imperatore moghul Akbar, doveva restare eclissato dalla riscossa
integralista dell'Islam storicamente ben più comune,
che aveva demolito le università buddhiste di Nalan1. P.W. Williams, Popular Religion
L o n d o n , 1980, p. 54, nota 25.
2. The Don Juan Papers,
in America,
Prentice-Hall,
cit.
3. H.P. D u e r r p u b b l i c ò nel 1987 u n ' o p e r a collegiale sul t e m a
Authentizität
und Betrug in der Ethnologie, S u h r k a m p , F r a n k f u r t
a.M.
253
da e i templi di Benares, oltre a eliminare i maestri
sufi da al-Suhrawardl ad al-Hallàj.
Ancora un esempio, tratto dalle reminiscenze di
Houston, mostra come la storia ami beffarsi delle più
giudiziose speranze. Abimbola rivendicava alle religioni africane un'elastica tolleranza, luminosamente sconvolgente per degli Occidentali capaci di pensare soltanto a furia di canoni definitori pesanti come pietre tombali. In religioni basate sulla transe si
accoglieva tutto e di tutto: qualcuno è posseduto
dal capostazione inglese? Il capostazione entrerà nel
pantheon.
Dieci anni più tardi proprio dal sacerdozio yoruba
partiva una crociata antisincretista, che imponeva
rigorose definizioni canoniche alle forze divine, escludendo quelle di provenienza cristiana. 1
1980, Berkeley. Le metafisiche orientali h a n n o davvero soppiantato le ideologie occidentali? C'è stata
una d u r a t u r a conversione o l'improvvisa folata sta
per dissolversi?
Ho cercato da varie parti in California la risposta.
Qui a Berkeley spero di ottenerla definitiva e chiara.
Lentamente mi lascio portare dalla calca lungo Telegraph Avenue verso l'ingresso dell'università dove
covò ed esplose il 1965. I capi di questa stagione,
come Harry Rubin, h a n n o per primi chinato la testa
ai guru. Il passato di rivolta e di furia è davvero
dileguato, si respira un'aria mite, festevole, fantasiosa lungo Telegraph Avenue incoronata dai poggi
1. J.E. Gallardo ( C o n j u n t u r a histórica del sincretismo, in « La N a ción », B u e n o s Aires, 2 7 n o v e m b r e 1983) racconta c o m e il movim e n t o di ritorno a stretti c a n o n i africani sia passato dalla N i g e ria al Brasile. Il c l e r o cattolico, c h e u n a volta d e p r e c a v a le
c o m m i s t i o n i di santi cristiani e divinità a f r i c a n e , a d e s s o vorrebb e d i f e n d e r l e . U n a p r e s u l e di t e m p i o m a c u m b e i r o s p i e g a perc h é ha levato di m e z z o i simulacri di santa Barbara: « Santa
Bárbara, u n espíritu e l e v a d o , sin d u d a . P e r o s a b e m o s q u e J a n s á
es otra e n e r g í a , n o es santa Bárbara ».
254
verdi biancheggianti di villini; è l'aria stessa di certe
gaie sere di primavera a Saint-Germain-des-Prés. La
folla che gremisce la via sembra ignorare la famiglia,
il peso dell'esistenza, tutti paiono proiettati, galleggianti in un'avventura, in un carnevale. Basta appostarsi qui e si vedranno passare le ragazze dei racconti di Barthelme, come quella di Perpetua: « pantaloni
aderenti scamosciati, camicetta di sciarpe cucite insieme, un anellone di legno intagliato al collo, il
mantello alla d'Artagnan foderato d'argento».
Passa il bovaro per burla, cappellaccio a sghimbescio, stivaloni a tacco alto, bolerino perlaceo sbatacchiarne sul camicione quadrettato. Passa l'indianizzato: barba e chioma di seta, tunica violetta frusciarne
sui sandali. Q u a n d o trascorre uno sciame di ragazzine in brache metallizzate, un giovanotto si volta e
grida, a chi lo vuole sentire, che le ama, oh come le
ama, quelle brache, e che q u a n d o se le mette oddio se le mettono « sente che stanno facendo qualcosa per lui » (they do something far me). I bravacci tutti
cuoio e borchie di f e r r o dei quartieri duri qui non
calano: la parata è sorridente, indaffarata per gioco.
Il grosso emporio di dischi si chiama Rasputin, che
l'insegna designa come « il protomartire del punk ».
La sua fotografia benedicente domina i banchi di
dischi, insieme a quella della famiglia imperiale. Non
trovo più la musica indiana, che qualche a n n o fa, con
Ravi Shankar, era entrata nel circuito delle vendite
di massa, dei milioni di dischi. E tornata ai negozietti
per intenditori. Tuttavia nelle musichette dozzinali e
vendibili qualche traccia è rimasta, forse si scialano meno i sentimenti spudorati, a volte traspare un
rozzo amore del timbro, delle dissonanze protratte.
Dall'altro lato della via una bottega o f f r e narghilè,
targhe al laser con lodi alla droga, manuali per la
coltivazione in giardino della canapa. Il « Los Angeles Times » porta un servizio sulle cerimonie per il
raccolto della marijuana celebrate su una deserta
spiaggia di Big Sur. I devoti a migliaia si raccolgono
255
in cerchio a contemplare per una silenziosa ora un
mannello di piantine, poi una vedetta lontana lancia
per aria il sombrero: il sole sta calando nell'oceano, ora il gran sacerdote, smilzo e barbuto come un
satiro, va incontro a una dama drappeggiata d ' u n
candido velo e insieme appiccano il fuoco alle piantine, la vampata s'innalza al dio della marijuana.
Come mai il rito si può svolgere se le leggi sono
quelle che sono? Timothy Leary resta in galera, eman a n d o di q u a n d o in q u a n d o dei ciclostilati per riaff e r m a r e la sua dottrina: che pigliando a m o d o l'LSD
ci si immerge nel sistema nervoso, si arriva quindi
alla molecola, infine ci si identifica col messaggio del
DNA e con la forza cosmica che l'ha stampato, spedito sulla terra. Come suona già stantio, questo giudizioso materialismo neurofisiologico spacciato per
« liberazione » !
Accanto alla bottega dei narghilè c'è il sacrario da
cui la nuova cultura californiana è partita, la libreria
Shambala. Credo nell'interrogazione delle buone librerie (da quelle di Lisbona, al tempo di Caetano, si
poteva inferire il decorso della rivoluzione dei garofani). L'oracolo mi risponde che la ventata orientale
non resterà un f e n o m e n o di massa e perciò attirer a n n o sempre meno le grevi divulgazioni, si approfondirà ciò che negli anni scorsi si abbracciò alla
brava. Cominciano a comparire trattati rari delle
varie discipline. Risuona nella libreria in continuazione una serie di raga per flauto di bambù suonati
da Sachdev. Il loro ascolto e ancor più la loro esecuzione sono una forma di esercizio mistico, con un suo
locale «centro d'insegnamento». La sinuosa linea
melodica emerge quasi per miracolo, trasognatamente si libera dalla ruvida voce del bambù.
Negli ultimi anni i centri spirituali intorno a San
Francisco hanno pullulato: u n o per la contemplazione dei cristalli liquidi e l'esperienza mistica della
smaltatura tramezzata e della ciré perdue, altri per la
magia hawaiana, per il rolfing e il metodo Felden256
kreis, che « scolpiscono » il corpo, educandone le
posizioni fino a provocare una « metamorfosi », altri
ancora per il rebirthing o rinascita mediante immersioni collegiali in bagni caldi, di moda nella dissoluta
zona di Marin, o per la flowship i cui adepti si lasciano
fluttuare in una vasca al buio e in ermetico silenzio, o
per arti marziali coreane. Ci sono apposite guide di
questi centri.
O p e r a in grande una nuova chiesa taoista. Si rinnova l'attività dei pagani (druidi, norreni, greci antichi) e degli gnostici. Sul neognosticismo si è confezionata una bibliografia (G. Melton, Magical Religioni in
the U.S., Evanston) dove sono elencati 641 volumi e
114 riviste. E appena uscito Drawing Down the Moon.
The Resurgence of Paganism in America della Adler,' e
di David Boadella The Spirai Dance: Rebirth of the Ancient Religion of the Goddess.2
In capo a Telegraph Avenue si entra nell'università. La folla pare ignorare l'annuncio al megafono
d'una riunione di studenti iraniani (mi dicono sia
khomeinista il professore di turco e di persiano, dedito a testi mistici). Nel piazzale un banchetto sionista
o f f r e bollettini che mettono in guardia dai metodi di
reclutamento delle nuove sette. Non lontano il banchetto dei seguaci del rabbino chassidico di Lubavich
invita gli studenti ebrei alla J M (Jewish Meditation),
metodo di trasformazione interiore « d e p u r a t o da
ogni idolatria ». C'è anche un banchetto di Jews for
Jesus, g r u p p o di cui da tempo avevo p e r d u t o le
tracce. C'è anche un banchetto dei seguaci di Eckankar, un'arte di viaggiare f u o r del corpo. In braccio a
una ragazza cinese, al bar, noto dei libri insoliti: mi
spiega con fare goloso che sono riservatissimi, soltanto chi segue il metodo Silva può vederli.
Al limite dei prati dell'università sorge la Graduate
Theological Union, una scuola di perfezionamento
1. N u o v a ediz., riv. e ampliata, B e a c o n Press, B o s t o n , 1987.
2. H a r p e r & Row, N e w York, 1979.
257
gestita insieme da cattolici, protestanti ed ebrei. In
una saletta fa lezione J o h n Welwood, uno psichiatra
autore dell'ennesimo libro sull'incontro di Oriente e
Occidente. È presente Needleman, che qui dirige
l'Istituto per le nuove religioni. Il tema è: che cosa
avviene fra maestro e discepolo? Il discepolo, dice
Welwood, ha in sé un'idea di maestà, di infinitezza,
che proietta sul maestro e il buon maestro insegna
che essa è celata, virtuale, nel discepolo stesso. La
tesi funziona? Non per un cristiano, obietta Needleman. Welwood ammette di essersi basato sulla sua
esperienza di buddhista. Il dialogo comincia ad animarsi, percorre l'aula a zigzag, e finisce con l'arrivare al tema che si agita forse nella mente di quasi tutti
e che uno dei presenti enuncia così: « Questa generazione ha rifiutato la mentalità occidentale, ma ciò
che sta avvenendo in Iran fa esitare dinanzi all'idea
d'un ritorno p u r o e semplice a una società religiosa». Un riverbero degli anni Sessanta lo colgo soltanto in una ragazza che a proposito dell'Iran rimbecca che si dovrebbe « badare alle brutture di casa
nostra ».
Mi apparto con Needleman. Ciò che è nato dalla critica alla religione, si riflette insieme, non può
essere a sua volta criticato con un p u r o ritorno indietro: soltanto l'esperienza interiore dei princìpi
metafisici libera e rifonda l'esistenza e di questo una
religione può essere e può non essere il tramite.
Rammentiamo le visite fatte insieme ai centri sufi in
Iran: erano certamente islamici, ma talvolta retti da
zoroastriani.
Needleman mi porta su per le colline, da dove la
baia di San Francisco a p p a r e nella lieve b r u m a come
un acquerello cinese. Sopra un'erta, un edificio tibetano, la sede dell'Ordine rNyiri-ma che è diventata
una specie di università dove s'insegna anche filosofia e psichiatria alla luce della metafisica dell'Ordine.
Q u a n d o giungo al giardino interno entro in contatto con il nucleo vivo, simbolico di quella che po258
trebbe diventare una diversa cultura, emersa dalla
miriade di confusioni e illusioni, come un loto dalla
mota. E un giardinetto costruito secondo le sacre
proporzioni, un ponticello dà accesso, separando dal
m o n d o profano, e nell'interno Eden tutto s'incurva,
non c'è linea spezzata, flessuosi sono i rami e le schiene dei gatti nell'erba, i viottoli serpeggiano; al centro
s'innalza una macina da preghiera che gira incessante mostrando i vari lati via via, ciascuno recante il
simbolo d'uno degli archetipi del cosmo. Il brusio
della macina distende, acquieta ma non a d d o r m e n t a .
Needleman dice: « E il battito del cuore ».
1982, New York. La crescita delle nuove religioni
alla fine del decennio cominciò ad allarmare le forze
tradizionalmente laiche dell'America. L'accusa che
un tempo si rivolgeva alle tendenze mistiche era di
svenevolezza e imprecisione, ciò che lo slang designa
come corny, comball, mush, marshmallow,' ma il buddhismo è un esercizio logico che ignora l'amor di
Dio e spesso le nuove religioni sono di questo stampo asciutto e razionale. Lo spiraglio aperto nella loro
corazza parve piuttosto, alla fine degli anni Settanta,
la struttura gerarchica e il pericolo rappresentato
dalla sottomissione dei convertiti ad autorità improvvisate. 2 Si cominciò a denunciare i pericoli delle
conversioni, che potevano separare i neofiti dalle
famiglie, provocare devoluzioni di patrimoni e diventò normale parlare di « cambiare il p r o g r a m m a »
(deprogram) ai convertiti.
Alla conversione aveva dedicato, all'inizio del secolo, le pagine più memorabili di Varieties of Religious
1. E s e m p i della vecchia c e n s u r a alle « s m a n c e r i e dell'irrazionale »: J. G r e e n f i e l d , The Marshmallow Literature, in « M a d e m o i s e l le », 6 8 , 5, m a r z o 1969; M. E p h r o n , Mush, in « E s q u i r e », g i u g n o
1971.
2. P e r f i n o un'istituzione c o m e il N a r o p a Institute è stata s o t t o
tiro: P. Marin, Spiritual Obedience, in « H a r p e r ' s », f e b b r a i o 1979.
259
Experience1 William James. Era un problema endemico nella patria dei protestanti « rinati » e del great
awakening, ma il m o n d o intellettuale, James in particolare, era sconvolto dalla tremenda conversione del
vecchio Tolstoj, il narratore più sano e oggettivo che
si conoscesse.
James spiegò la conversione facendo giocare il
concetto, appena introdotto in psicologia, di inconscio e quello, affinato da Kierkegaard, di angoscia
immotivata (l'antica depressione malinconica). Se la
psiche è per essenza materiata di inconscio e perennemente esposta all'angoscia, la conversione è sempre latente, nessuna prevenzione razionalista la può
estirpare.
Q u a n d o la campagna contro i metodi di reclutamento delle nuove sette ebbe toccato il punto di
saturazione, gli organi legislativi intervennero, senza tener conto delle riflessioni jamesiane. Nello Stato
di New York f u promulgata nel 1980 la legge sulla
salute mentale, che istituiva pubblici tutori per i
neoconvertiti a una religione (curatori). Questa normativa sigillava un'operazione anzitutto linguistica,
per cui a conversione si associava automaticamente
lavaggio del cervello.2 La diffidenza suscitata verso le
sette ne arrestò la diffusione, si crearono aziende di
deprogramming per cancellare le tracce del « lavaggio
del cervello » e l'ostilità si manifestò anche nelle
labirintiche difficoltà frapposte ai guru di recente
arrivo dagli uffici d'immigrazione.
La questione è di per se stessa insolubile: talvolta
le sette si f o n d a n o su un insegnamento di impeccabile qualità speculativa 1 e tuttavia il culto del guru o
1. L o n g m a n s , L o n d o n , 1902.
2. New Religioni and Menlal Health, a cura di H. R i c h a r d s o n ,
M e l l e n , N e w York, 1980; The Social Impact of New
Religious
Movements, a cura di B. W i l s o n , L'nification T h e o l o g i c a l S e m i nary, N e w York, 1981.
3. T r a le sette d ' o r i g i n e i n d ù q u e l l e di M u k t a n a n d a (su cui
C.S.J. W h i t e , in « H i s t o r y o f R e l i g i o n s », m a g g i o 1974) o di
260
shayk comporta aspetti puerili e nella storia della
mistica il bamboleggiamento deliberato è una costante.
Ma se la minaccia di un ingresso delle sette più
aggressive nell'arena politica è esorcizzata e l'America non conoscerà qualcosa di analogo al periodo
in cui il Sóka Gakkai dominava il m o n d o politico
giapponese, resta intatta la diffusa volontà di esplorare le vie della trasformazione interiore, con la solita mescolanza di dozzinalità e applicazione meditativa.
Lo rilevo nel fare un giro di conferenze sullo sciamanesimo. Espongo la lenta penetrazione del tema
nella cultura occidentale, da q u a n d o Coleridge nel
poema The Destiny of Nations descrisse una sessione sciamanica eschimese. Potrei ritenere di aver sollecitato un interesse p u r a m e n t e erudito, ma mi accorgo che il pubblico considera anche lo sciamanesimo una proposta pratica possibile, un'esperienza
pienamente disponibile. Q u a n d o lascio intendere
che non prevedo applicazioni, dalla sala immancabilmente mi si d o m a n d a : « Ha letto il libro di
Harner? ».
Q u a n d o cerco il volume in libreria, ricevo da altri
clienti un sorriso d'intesa settaria. H a r n e r infatti, in
questo The Way of the Shaman1 arriva al sodo: fornisce indirizzi per procurarsi il tamburo, le maracas,
cassette di canti sciamanici e raccomanda il Center
for Shamanic Studies di Norwalk (Connecticut).
Scopro che ci sono workshops per « fare sciamanesimo » anche in Canada. A Watsonville in California
certo Prem Dass o f f r e iniziazioni allo sciamanesimo
Rajneesh, e n t r a m b i i m m i g r a t i negli Stati Uniti. T e s t i di Muktan a n d a c o m p a r v e r o in « C o n o s c e n z a religiosa », 1, 1977; u n ragg u a g l i o sulle iniziazioni largite d a Rajneesh, in Maa V e e t Sand e h , Iniziazione alla quiete costante, ibid., 1, 1975.
1. H a r p e r & Row, N e w York, 1980.
261
huichol e i laboratori per la transe a Berkeley, condotti dalla Heinze, mirano a creare stati sciamanici.
Felicitas G o o d m a n n al Cuyamunga Institute nell'Ohio ha sviluppato un metodo per l'induzione di
stati sciamanici (rilassamento, concentrazione su ritmi veloci: a seconda della posizione del corpo si
tenderà a sensazioni di volo o di sprofondamento).
Il libro di H a r n e r resta il più influente. Racconta
d'essere stato fra gli Jívaro e d'aver assaggiato l'ayahuasca. Si sentì morire, f u preso in consegna da pterodattili che gli mostrarono come avevano creato la
terra e gli insegnarono a discernere draghi all'opera
entro ogni essere vivo. Se applico l'analisi formale al
racconto, lo devo classificare con certa fantascienza
spagnola che piazza anche all'estero i suoi prodotti.
Dalla sua esperienza H a r n e r ricaverebbe il metodo
buono per tutti. Prima immaginarsi di calare nella terra attraverso un baratro montano o un albero
cavo o una fonte o una palude o un cunicolo di roditori. Aiutarsi con registrazioni di tamburo sciamanico se non si dispone di un assistente tamburino.
Dopo la discesa agli inferi, bisogna immaginarsi la
terra e il cielo nuovi, secondo le istruzioni accluse. Si
p u ò anche operare in compagnia, utilizzando la fantasia collettiva di trovarsi su una « piroga degli spiriti». Secondo esercizio: identificarsi con il proprio
totem, eseguirne la danza a ritmo sempre più rapido.
Il discepolo a chiusura di libro è avviato alla carriera
di guaritore e veggente.
Noto che i docenti di antropologia che incontro
sono perfettamente condizionati: una smorfia di deprecazione per Castañeda, un'accigliata stima per
Harner.
Così la moda dello sciamanesimo fatto in casa
provvede a prolungare l'atmosfera degli anni Settanta. Intanto almeno qualcosa rimarrà come un
saldo acquisto: in America si è potuta salvare in parte
la sapienza tibetana e certi rami del buddhismo (co262
me il giapponese Shugendo);' alcune trafile sufi qui
h a n n o attecchito 2 e qualche trasmissione sapienziale
indù è forse più al riparo in California che nella
terra nativa, che sta per essere o modernizzata o
paralizzata dal disordine.
1. Sul b u d d h i s m o a m e r i c a n o c o m e forza a u t o n o m a :
Prebish, American Buddhism, P W S - K e n t , B o s t o n , 1 9 7 9 .
C.S.
2. L ' o r d i n e ni'matullàhì dall'Iran, di cui e s c o n o i testi p r e s s o la
K h a n i Q a h i - N i m a t u l l a h i di N e w York.
263
LA REALTÀ V I R T U A L E
1992-1993
Vidi nel 1992 nelle librerie giapponesi quattro
libri meticolosi sulla realtà virtuale.
Negli Stati Uniti apparve un volume faceto: The
Archaic Revival: Speculations on Psychedelic Mushrooms,
the Amazon, Virtual Reality, UFOs, Evolution, Shamanism, the Rebirth of the Goddess and the End of History.'
L'autore, Terence McKenna, riuscì a infilare nel
mazzo di novità perfino gli UFO. Accomuna fra le
realtà del f u t u r o lo sciamanesimo (in America prosperano decine di centri d'allenamento all'attività
sciamanica), i funghi psichedelici e infine la virtualità. Perché ci si sente spinti a infilare questa nuova
tecnica, consistente, per il momento, in un elmetto e
due paia di guanti, piuttosto pesanti, tra compagnie
così scatenate o addirittura psicotiche? In parte si è
giustificati dalle grida di entusiasmo che lanciò il
profeta dell'LSD Timothy Leary, già professore di
psicologia a Harvard, ma travolto dall'uso dell'LSD
alla fine degli anni Sessanta e in seguito capo di una
turbolenta masnada rivoluzionaria che egli agitò con
I. H a r p e r , San Francisco, 1992.
265
proclami sempre più deliranti, fino a cozzare con le
leggi americane, fuggendosene in Algeria. T o r n ò
quindi in patria e da anni ha scelto un tenore meno
esaltato. Ha capito che molti dei motivi che lo spinsero ad abbracciare l'LSD potrebbero essere soddisfatti con la realtà virtuale. Di fatto non c'è limite alla
programmazione di vicende virtuali, sicché esse potrebbero assorbire tutta la gamma delle esperienze
ottenute con gli stupefacenti: il tempo si può allentare o accelerare, la luminosità si può espandere senza
limiti, fin dove la sensibilità riesca a percepire. Di
certo, con una realtà virtuale a disposizione, diventa
insensato rischiare di danneggiare il sistema nervoso
con l'uso delle droghe. Gli stessi effetti saranno disponibili senza rischio.
Uscì, della pornografa lesbica raffinata Susie
Bright, Susie Bright's Sexual Realìty: A Virtual Sex
World Reader,* dove un capitoletto risponde al titolo e
a f f r o n t a l'oltraggio minacciato dalla realtà virtuale:
la caduta della fantasticheria, che sarebbe per essere
spaventosamente attuata.
E uscì, a firma di Mondo, A User's Cyberpunk, Virtual Reality Wetware Guide to Designer Aphrodisiacs and
Artificial Life* dove si a f f r o n t ò un altro aspetto del
f u t u r o : la realtà virtuale sviluppata appieno, con una
tuta che avvolga l'intero corpo, dotata di sensori e
trasmettitori. Essa fornirà esperienze erotiche con le
immagini delle più incantevoli creature del sesso
opposto o meno.
Questa sarebbe una terribile minaccia, secondo le
nostre n o r m e morali, ma dubito che si possa arginare. Buona parte delle religioni inorridiranno, ma
anche chi si senta lontano da ogni sistema religioso
potrà temere le conseguenze. La scimmia che può
pigiare un tasto che le ecciti attraverso un elettrodo il
1. Cleis Press, Pittsburgh, 1992.
2. H a r p e r Collins, B e r k e l e y , 1 9 9 2 .
266
centro del piacere nel cervello, insiste a pigiare fino
a morirne. Non so calcolare quanti uomini agiranno
alla stessa maniera, potendo abbandonarsi ad amori
costanti con d o n n e ideali. Forse su questa fabbricazione di programmi erotici interverrà il legislatore,
sicché si svilupperà una pornografia virtualmente
reale e clandestina.
Sono incerto: n u t r o una speranza, che la gran
parte degli uomini riesca a vincere il proprio istinto
erotico grazie alla possibilità di una sua soddisfazione illimitata, ma credo che la questione sarà risolta
nei parlamenti.
Uscì anche un manuale generale: di Steve Aukstakalnis e David Blatner: Silicon Mirage: the Art and
Science of Virtual Reality,' e con esso due volumi di
atti d ' u n convegno sulla realtà virtuale: l'ultimo è a
cura di Sandra K. Helsel: Virtual Reality 'Ninety-one:
Proceedings of the Second Annual Conference on Virtual
Reality, Artificial Reality and Cyberspace?
Sul mercato aperto alla realtà virtuale comparve
di Sandra Helsel e Susan Doherty Virtual Reality
Market Place? mentre a cura della società per il disegno computerizzato nella progettazione architettonica f u stampato Reality and Virtual Reality4 di Glenn
Goldman e Michael S. Zdepski. La facoltà d'architettura dell'Università della Carolina del Nord già mette a disposizione dei clienti di progetti un apparecchio di realtà virtuale grazie al quale possono modificare le case progettate spostando infissi, alterando
proporzioni, muovendo pareti, a p r e n d o finestre.
1. P e a c h p i t Press, San Francisco, 1992.
2. M e c k l e r C o r p o r a t i o n , W e s t p o r t , 1992. Il v o l u m e relativo al
p r i m o c o n v e g n o f u curato, p r e s s o lo stesso e d i t o r e , d a T . Midd l e t o n : Virtual Worlds: Real Challenges: Papers from SRI's 1991
Conference on Virtual
Reality.
3. M e c k l e r C o r p o r a t i o n , W e s t p o r t , 1992.
4. A s s o c i a t i o n f o r C o m p u t e r
( A C A D I A ) , 1991.
A i d e d D e s i g n in
267
Architecture
Alla lista dei volumi vanno aggiunti Benjamin
Woolley, Virtual Worlds: a Journey in Hype and Hyperreality1 e Francis Hamit, Virtual Reality: Adventures in
Cyberspace.2
Il volume che più s'è venduto in questa filza è però
Howard Rheingold, Virtual Reality: the Revolutionary
Technology of Computer-Generated Artificial Worlds and
How it Promises to Transform Society.3
Rheingold non ha soltanto scritto di scienza computeristica, sul rapporto f r a la mente u m a n a e le
macchine computeristiche in particolare, ma anche
sui sogni lucidi, ovvero manovrati dal sognatore.
Con Stephen Laberge ha compilato Exploring the
World of Lucid Dreaming
Egli parte dalla premessa che il computer o f f r e
una visione della realtà radicalmente diversa da
quella del microscopio o del telescopio. Grazie alla
computeristica, noto, si giunge non soltanto a simulare la realtà, ma a ordinarla non già dal p u n t o di
vista della materia e in base al rapporto fra energia
spesa e risultato ottenuto (per cui la realtà diventa
esclusivamente quella che si può d e d u r r e dalla fatica
operaia), bensì in funzione della forma. Col computer è dato di proiettare le entelechie, di estenderle e
modificarle, o p e r a n d o perciò da un punto di vista
prossimo alle facoltà più u m a n e dell'uomo. L'atto
materiale della fatica cessa di stare al centro dell'universo. La meccanica recede nello sfondo delle discipline e l'operaio non è più al centro del quadro. Fra
qualche anno avremo una prova di questa rivoluzione: spariranno in gran parte i meccanici addetti alle
automobili e agli autocarri, che saranno azionati da
1. Blackwell Publishers, C a m b r i d g e , 1992.
2. Miller F r e e m a n , San Francisco, 1992.
3. S i m o n & Schuster, N e w York, 1992.
4. Ballantine, N e w York, 1991.
268
intelligenze artificiali. La concezione meccanicistica
sarà cancellata. Si dovrà accedere a un'intelligenza
formale a partire dal principio di informazione.
Rheingold non saprebbe enunciare queste premesse, ma in certo senso ne partecipa.
All'Università della Carolina del Nord, alla Facoltà di Scienze, poté accedere a molecole ingigantite,
che si manovravano con le mani. Gli parve di possedere un microscopio non più per l'occhio soltanto,
ma per la mente intera. Non seppe, come avrebbe
saputo un chimico, trovare le molecole foggiate come chiavi per certe proteine, ma poteva tuttavia
sentirle. Ebbe un'esperienza diretta della struttura
molecolare. Prima aveva avuto, alla NASA, l'accesso
a una realtà virtuale, entro lo spazio costruito col
computer, che si suole chiamare cyberspace. In seguito ebbe accesso alla Kansai Science City di Kyoto,
dove si allestiscono « ambienti sensitivi », e a Tsukuba, dove poté osservarsi dal di fuori mercé un telerobot. Alla NASA entrò nella realtà virtuale che riproduce l'ambiente extraterrestre dove si riparano
missili, a Vancouver visse realtà virtuali che lo portarono negli abissi oceanici e dentro al suo stesso sistema arteriale e venoso. Nel campo medico egli nota
che le prospettive si a p r o n o vertiginosamente, si pianificano immissioni di calore da varie fonti, che s'incrocino e arrivino al massimo in certi tumori. Si
prevede l'educazione di chirurghi mediante corpi
virtuali sui quali potranno acquisire l'agio naturale
nelle operazioni. Vorrei aggiungere che si f a n n o già
esperimenti con realtà virtuali per riabituare alle
percezioni normali i cerebrolesi, e nella psicologia
T a r t ha avuto l'intuizione straordinaria di proiettare
in realtà virtuale la scena centrale delle nevrosi: in
tal m o d o i nevrotici potranno rivivere quel nodo
traumatico, abituarsi a esso, imparando ad a f f r o n tarlo e dominarlo.
Rheingold fa la storia dei vari tentativi che h a n n o
prodotto la realtà virtuale, concludendo con un pro269
lisso ritratto di Jasor Lanier, il Californiano che
lanciò per primo il volo come colombi sulla baia di
San Francisco, ma sviluppò anche un simulatore di
disegni per un fabbricante di automobili, fece tentativi di simulare corpi da sottoporre a operazioni
chirurgiche, nonché macchine per simulare corpi a
scopi diagnostici e attuazioni in termini ottici del
flusso d'informazioni relativo alla Borsa.
Lo stile di Rheingold è diffuso, decorato alla maniera giornalistica media americana, ma egli o f f r e il
vantaggio di squadernare tutti gli elementi disponibili in America e in Giappone.
Quale influsso avrà la realtà virtuale sulla condizione sostanziale dell'uomo? Credo che buona parte
della giornata entro il 2030 ne sarà assorbita, essa
dominerà sia l'informazione che l'intrattenimento. I
viaggi saranno spesso compiuti in realtà virtuale e
l'intrattenimento assumerà aspetti per noi ancora
inconcepibili. Immagino che avrà pieno sfogo il desiderio di lotta e di sopraffazione che già oggi colma
di prodotti i negozi .di videoprogrammi. Nella realtà
virtuale credo si arriverà alla radice sadica e masochista dell'istinto. Si potrà sfogare in pieno il desiderio di tortura e anche il diletto della sofferenza.
Ciò che più mi preme è però cogliere l'effetto
globale.
L'uomo sarà modificato in virtù dello spostamento costante da una realtà ordinaria a una pluralità di
realtà virtuali: il primato, l'assolutezza della realtà
concreta ordinaria crolleranno. Molti temono precisamente questo effetto.
Penso che questa trasmutazione sia auspicabile. Il
senso dell'io si stempererà, vari io si succederanno
lungo la giornata. Ci si avvicinerà, in Occidente,
all'idea dell'io che prevale fra i Giapponesi. Non
soltanto essi ricevono per tanta parte un'educazione
buddhista, la cui prima mira è estirpare il senso
dell'io, illusione formata da una serie di cause for270
tuite, composta di elementi variabili e mutevoli. Occorre avvedersi di questa labilità, accrescerne la consapevolezza, sentendosi aggregati in mutamento costante, senza f o n d a m e n t o o radice, esenti da
personalità. In Giappone la lingua stessa favorisce
questa pedagogia: « io » si denomina in tanti modi o
viceversa non si denomina affatto. La lingua giapponese non configura l'io come il centro del mondo, ma
lo articola in funzione d ' u n a pluralità di dèi e questo
è implicito nella parola hito, «persona», in cui hi
designa il sole o la spiritualità, e il termine designa un
p e r m a n e r e della spiritualità. O, come dice Naka Masao,1 l'uomo è denotato « portatore dell'azione solare». Naka si d o m a n d a come mai un Giapponese
tenda a non parlare di sé come « io » e risponde che
occorre sentire la presenza del mondo divino nel
cuore dell'uomo: esso smentisce l'indipendenza violenta e illusoria di chi pronuncia naturalmente « Io ».
Jean Paul narra come un episodio straordinario della sua infanzia il m o m e n t o in cui s'accorse d'essere un
io, rivelazione che lo rese consapevole d'una singolarità linguistica: io è insieme nome e pronome, implica un'interiorità e un'esteriorità che guarda quell'interiorità. Designa una contraddizione. In giapponese viceversa hito non è mai un pronome. Corrisponde
al nostro si, che si usa per indicare uno stato o un'azione a parte chi è o chi agisce. Spesso « vado a casa »
in giapponese si dice « si va a casa ».
Tuttavia la parola io è anche talvolta usata, però
in maniera da denotare quale aspetto dell'aggregato
impermanente che si è, di fatto, emerga. Sicché
q u a n d o un Giapponese si trova di fronte a un superiore, pervaso da sentimenti di sottomissione e di
rispetto, dirà « io » con la parola watakushi, mentre
q u a n d o parla con un intimo, dirà « io » con le parole
dimesse watashi o boku. Con un superiore denotereb1. In Ich-Darstellung
Stuttgart, 1988.
im Deutschen
271
und Japanischen,
Urachhaus,
bero arroganza. Ma di equivalenti per « io » ce n'è
undici, alcuni femminili, altri maschili, altri ancora
ambosessi. Q u a n d o poi a un Giapponese capiterà di
essere il superiore gerarchico, si denominerà con la
propria posizione, perché nient'altro entra in gioco.
In una mente così conformata dall'idioma a sentire la volatilità, la formalità transitoria dell'io, cadono
come ovvie le parole dell'educazione buddhista sull'io da eliminare, da ignorare.
I r r o m p o n o viceversa come una rivelazione violenta o come un oltraggio nella mente d'un Occidentale,
la cui lingua l'ha condotto a comprimere le fuggevoli
sensazioni interiori in un'essenza incrollabile, che
egli proietta addirittura nell'eternità, se ancora crede
alla religione avita. Alla saggezza di H u m e , che negava la sussistenza dell'io, nella storia filosofica d'Europa si sovrappose la complicata costruzione kantiana,
che ristabilì con ragionamenti brillanti e contorti il
dominio dell'io.
Credo che nella realtà virtuale entrerà con somma
facilità un Giapponese, e che l'Occidentale viceversa
attraverserà un periodo di tragico adattamento. Il
suo io gli traballerà, non potrà illudersi d'essere lo
stesso nell'esperienza virtuale e in quella « reale » cui
non potrà attribuire un primato, perché apprendendo per via virtuale egli porrà automaticamente in
cima alla sua personalità quotidiana la sua figura di
uomo che impara, si sviluppa e migliora.
Ma in gioco non ci sarà soltanto l'indurito e, a mio
parere, artificioso io occidentale, bensì anche il concetto di « realtà ». L'idea, così riverita, di « concretezza ». Questa infatti si spezzerà, assumerà una pluralità di volti, moltiplicandosi senza tregua. Non sarà
più la suprema istanza.
Tutta l'arte illusionistica f u un tentativo di pervenire al completo inganno della realtà virtuale. Già le
caverne incise, scolpite e dipinte erano destinate a
racchiudere in un'allucinazione. L'idolo fu spesso
272
un abbaglio, una vertiginosa simulazione. Entriamo
nel gran salone delle figurine antiche al Museo Archeologico di Bari e raggiungiamo il nucleo, quelle
ancora intrise di tinte vivaci e incantevoli; forse l'esultanza che ci a f f e r r a insegnerà che cosa f u r o n o le
statue greche colorate, ben altro dal trasognato gelo
neoclassico. Q u a n d o la Chiesa d'Oriente fissò l'icona
canonica, mirava a deviare dall'allucinazione semplice per istradare a una visione conoscitiva teologica. Q u a n d o Roma tradì il dettato conciliare e avviò
la riforma illusionistica ovvero, dicono i Greci, carnale, diede inizio a un processo che doveva concludersi alla fine dell'Ottocento con la morte dell'illusione. A quali punti si spingesse, nel culmine controriformistico, la volontà di suggestionare, si può vedere nella ricostruzione della Gerusalemme dove
si svolse la passione, via via la cappella gremita di
statue a San Vivaldo in Valdelsa, ultimata attorno al
1516 con bolla di Leone X, quindi la pleiade di sacri
monti narrati da Federico Zuccaro nel 1606, Gerusalemmi lombardo-piemontesi di Orta, Oropa,
Graglia, Andorno, Domodossola, Belmonte, Montà,
Mongardino, fino alla Cappella del Paradiso nel
santuario di Crea in Monferrato, dove dal primo
Seicento incombono sulla testa del fedele trecento
statue colorate sospese alla volta, stuolo di angeli e
santi festosi attorno allo scorcio vertiginoso di Gesù,
della Vergine, del Padre e della colomba svettante
su di loro. Fanno da sfondo angioli musicanti e santi
a vivide tinte.
O, ancor meglio, il Sacro Monte di Varallo: a partire dalla chiesa di Santa Maria delle Grazie, affrescata dal Ferrari della vita di Gesù, ci si spinga verso
la cima per le quarantacinque cappelle dove statue
colorate di contro ad affreschi del tutto verosimili,
con volti grifagni di persecutori e visi soavi di santi
percossi, ci vogliono ingannare.
Fu altresì sviluppata una tecnica di allucinazioni
minutissime mercé gli esercizi di sant'Ignazio di
273
Loyola, per far plasmare fantasticamente le scene
salvifiche.
Ma come potrebbe la Chiesa mai riprendere quest'arte simulatrice mercé realtà virtuale? L'ultimo
tentativo di simulazione f u perpetrato con il filmetto
di Pasolini esibito ai Padri conciliari, sua biografia
d ' u n Cristo a metà fra Chiesa e URSS. Il Kitsch
ottocentesco f u una dichiarazione di decesso. La
miseria della mostra d'arte m o d e r n a ai Musei Vaticani, voluta da Paolo VI, ratifica il giudizio.
Non sarebbe oggi ammissibile una riproduzione
della vita di Gesù che ignorasse la presenza d'un
avvocato ebreo del tempo e l'adesione stretta ai fatti
sconfiggerebbe quell'alone fumoso e oratorio senza
il quale il messaggio ecclesiastico non si lascia trasmettere. Non credo d u n q u e che la realtà virtuale
possa essere usata dalla Chiesa cattolica.
Non credo peraltro che le religioni aniconiche
possano rifiutare la realtà virtuale, che non è idolatria, ma esperienza. Dalla realtà virtuale sono condannati gli spettacoli. Il teatro che ha mostrato negli
ultimi suoi anni di voler avvolgere, impegnare, coinvolgere, troverà nella realtà virtuale l'appagamento
totale e morirà. Il cinema che già Huxley immaginava dovesse spingersi all'illusione più totale, con sussulti e folate di odori, sarà del tutto soddisfatto ed
estinto e la televisione del pari.
Non credo che ci sia un f u t u r o virtuale per le
religioni e gli spettacoli presenti nel mondo, ma
sono sicuro che delle esperienze mistiche mandaliche buddhiste e delle sciamaniche si potrà fornire
una riproduzione puntuale. Mentre della realtà terrena e ultraterrena la realtà virtuale darebbe una
simulazione esiziale, togliendo di mezzo l'offuscamento e il flou che le sono irrimediabilmente connessi, l'immersione mandalica e l'ascesa sciamanica sarebbero del tutto riproducibili. Mi basta pensare a
come potrei allestire una realtà virtuale impeccabile
in Corea, col corredo di pellicole che è custodito al
274
centro culturale governativo di Seul, e con la consulenza di sciamane praticanti ed esperte. La sciamana
coreana ha mantenuto intatta una tradizione che
risale alla preistoria tungusa, le sue allucinazioni sono rigorose e anche variabili. Posso indicare le mie
annotazioni su una iniziazione sciamanica in Corea,
che inclusi in Aure nel 1985,1 o indicare di Nina Otis
H a f t An Interview with Hi-ah Park, a Korean Mudang,
in « Shaman's D r u m » , 26, inverno 1991-1992.
Resta il quesito: fino a qual punto sarà accessibile il
rito sciamanico a chi non abbia sofferto della sciamana la malattia iniziatica e i dolori dell'allenamento?
La risposta è incerta: la vivezza sarà forse attenuata o
forse reggerà interamente. Dopotutto l'esperienza
risulta incisiva in m o d o vario, è calibrata sulla persona. Analogamente la visita a un sito sacro sarà forse
strettamente condizionata alle fatiche del viaggio?
Non credo in m o d o rigoroso. Può anche darsi che
noi si sia suggestionati dal principio economico che il
guadagno è subordinato alla fatica per ottenerlo. In
breve: un'esperienza è pagata con il dolore o si potrà
anche ottenere a titolo gratuito? Di fatto la pratica
mistica non è necessariamente condizionata a una
purificazione, già lo sapevano i redattori delle teologie mistiche cattoliche d'altri tempi.
Sicché ci si potrà virtualmente inerpicare per i
dodici gradini dell'ascesa compiuta dalla sciamana
coreana, salendo via via ai regni celesti, fino a raggiungere un grado di esultanza che consenta di evocare i morti e gli dèi, guidando e risanando i vivi.
Ma torniamo nel presente; mi capitò nel settembre 1993 di soffermarmi con Aiba Atsushi, direttore
della rivista « Shisó » e redattore all'editrice Iwanami, ed egli mi d o m a n d ò il motivo per cui mi ritrovavo in Giappone. Gli risposi che volevo sapere dove ci
si spingesse nella ricerca sulla realtà virtuale. Fui
1. Marsilio, V e n e z i a .
275
sconcertato dal lampeggiare dei suoi occhi, da uno
scatto gioioso della mano: mi confessò che toccavo la
sua passione maggiore; prevedeva che l'editoria si
dovesse inoltrare al di là della produzione di libri.
Già Raymond Kurzweil l'aveva annunciato sul « Library J o u r n a l » del 15 marzo. Aiba aveva appena
pubblicato un sistema multimediale sui monasteri
del Ladakh e i loro mandala, ma si stava prodigando
ora nella preparazione della prima realtà virtuale
per l'iwanami. Me ne parlò con precisione esultante: avrebbe fatto vivere l'esperienza di un sommo
mistico buddhista, Kükai, di q u a n d o sostava in una
caverna giapponese, incerto se recarsi in Cina, e
sognò che gli si manifestava il pianeta Marte. Lentamente questo gli si accostò, fino a scivolargli nella
bócca. Una visione breve, forse sarebbe stata pronta
f r a tre anni.
Avevo a p p u n t o pensato e anche scritto che il buddhismo avrebbe potuto accogliere la realtà virtuale,
e quale ambiente più di quello giapponese poteva
essere propizio? Qui le stanze delle case tradizionali,
anche le più riservate e care, sono sempre e soltanto
una momentanea illusione; si fa scivolare una parete
di carta e tutto cambia da cima a fondo. Un'apertura
sotto il livello dell'occhio dà sul verde del minuscolo
giardino, ma sembra di scorgere un'immagine di
selva: la vita è un contesto di parvenze.
Ci si congedò con un lieto « Fra due o tre anni! ».
Mi recai al laboratorio d'un giovane professore
del Dipartimento di informatica all'Università di
Tokyo, Hirose Michitaka, dove mi f u presentata la
schiera di ragazzi che manovravano un parco di
computer. Il più raccomandato dal professore era
quello che aveva inventato la creta virtuale. Mi fu
mostrata. Un accavallio di montagnole dove si poteva intervenire con una specie di mouse per modellare.
Mi si mostrò anche l'elmo che s'indossa per entra276
re in una realtà virtuale e per continuare altresì a
vedere la realtà ordinaria o per sovrapporre la prima alla seconda: un chirurgo potrà farsi squadernare sul corpo del paziente le figure rivelate dalle
risonanze magnetiche, un ingegnere potrà scorgere
le tubature sepolte sotto un edificio. Ma il progetto
che più alletta Hirose è la realtà virtuale in cui si fa
viaggiare la luce a una velocità ridotta, sperimentando così tutti gli effetti einsteiniani: lo spazio si deforma e gli oggetti in movimento si rastremano: l'educazione alla fisica diventa diretta, visibile e tangibile.
Mi assicura che la realtà virtuale accrescerà l'intelligenza negli anni Novanta.
I piccoli problemi si moltiplicano e risolvono di
furia; già al simposio di Tsukuba del novembre
1992 si era notato che nel trasferimento di realtà
lontane alla presenza dell'osservatore lo spazio percorso produce alterazioni, i movimenti della testa si
comunicano con ritardi che finiscono col frastornare
e nauseare: s'è scoperto che basta accogliere il messaggio entro una capsula.
Mi porta in tutt'altra direzione l'incontro con Ito
Hayura ai laboratori Fujita, per lui l'impegno è di
p r o d u r r e esserini immaginari dotati d'intelligenza e
sentire. Li chiama charlottes, non dice perché. H a n n o
un loro ritmo di vita, alternano razionalità e istinto
nel comportamento, sono in grado di comunicare
con noi e forse di aiutarci. Per comunicare con loro
si può parlare, ma anche fare cenni come un direttore d'orchestra. « Eccogliele » mi dice Ito, e vedo
dei corpicini tondi che a prenderli in mano paiono
pesare fino a 20 chili, programmati a seguire l'ideale
giapponese: sono intelligenti, spiritosi e fortemente
socievoli, capaci di intonarsi al ritmo dell'osservatore
e di mettersi a cantare se gli si agiti dinanzi il braccio
come direttori d'orchestra.
La società dei telefoni lavora a creare ambienti
virtuali dove più persone si ritrovano a manipolare
277
oggetti a tre dimensioni, senza più usare occhiali. Per
ora si mira a collegare docenti e allievi, si fanno fare
spese a un mercato virtuale, si aiutano i paralitici a
muoversi e districarsi, ma nulla vieta di andare oltre:
penso a q u a n d o si sarà forniti di una molteplicità di
braccia come divinità indù o giapponesi.
La persona più affascinante tra tutti i giovani (nessuno mi pare al di sopra dei trent'anni) nei quali mi
sono imbattuto e r r a n d o f r a grandi aziende, università e centri di ricerca autonomi, f u certamente un
venezuelano, volto latinamente modellato, gesti gentili, l'occhio quieto e pronto. Si chiama Yuri Tijerino,
lavora al centro di ricerche A T R accanto a Kyoto. La
sua carriera di studi f u esemplare. Cominciò a frequentare università americane, in Arizona prima e
quindi in California, dove si laureò. Capì che il futuro forse non si stava più p r e p a r a n d o là dove si trovava e studiò per un anno, per dodici ore al dì, il
giapponese. Si trasferì quindi a Osaka, dove ebbe il
Ph.D. Fu subito assunto qui all'ATR, gli si mise f r a le
mani tutto ciò che desiderava. Con lui posso gettare
lo sguardo ai margini più remoti: il suo progetto
finale è di combinare un gioco di specchi che circondi lo spettatore delle immagini sgranate dal computer, mentre un sistema di campi magnetici gli fa
provare le sensazioni tattili e u n sistema stereofonico
gli fa udire i suoni della scena virtuale.
Nel f u t u r o ci si sarà spogliati degli strumenti che
oggi ci aduggiano, si entrerà nella stanza della realtà
virtuale e la si vivrà esattamente come l'ordinaria.
Tijerino conclude: « La telepresenza disincarnerà la
mente ».
Lenta lenta si va scaglionando la bibliografia della
realtà virtuale, con pochissime opere per ora e spesso con un'ostentazione di puerilità da lasciare allibiti. E p p u r e un primo contributo, quasi impeccabile,
uscì addirittura nel 1966, nel raccontino intitolato
Trattamento di quiescenza compreso nelle Storie natu278
rali di Primo Levi.' Prima c'era stata soltanto una
patente nel 1962, che però usava raggi catodici davanti all'occhio dello spettatore, soltanto negli anni
Ottanta Gershom Gale avrebbe prodotto un'apparecchiatura adeguata, con un generatore di odori. 2
Primo Levi era giunto alle ultime conclusioni, il che
non stupirà coloro che avevano già misurato le sue
straordinarie facoltà. Nel 1985 arrivò a descrivere
tre eventi di laboratorio non riproducibili in maniera meccanica, ma possibili, vale a dire: tre prove
della realtà alchemica (quale è stata descritta, poniamo, dalla Dobbs nel suo trattato del 1975 sugli esperimenti alchemici di Newton). 3 Levi aveva segnalato
d'aver veduto d u e volte su migliaia di casi essiccarsi
una palla di resina semifusa a 65 gradi centigradi;
aveva osservato un filo di rame smaltato d e n t r o al
f o r n o che non cedeva lo smalto a schegge, bensì in
forma di elica dal passo regolare; una volta aveva
versato in un mulino i componenti d ' u n o smalto tra
sferette d'acciaio che divennero dei pentagonododecaedri (questi straordinari rilievi si trovano
nell'articolo Riprodurre i miracoli, comparso sulla
« Stampa » il 15 settembre del 1985).
Il raccontino del '66 descrive una macchina costituita da un casco che trasmette « sensazioni visive,
auditive, tattili, olfattive, gustative, cenestesiche e
dolorose; inoltre le sensazioni per così dire interne,
che o g n u n o di noi allo stato di veglia riceve dalla
propria memoria». Rispetto ai caschi attuali che
trasmettono attraverso i sensi, questo immaginato
da Levi trasmette e riceve a livello nervoso. Soltanto alla fine del 1993 i Giapponesi sono arrivati a un
modello che registra i segnali cerebrali!
1. E i n a u d i , T o r i n o .
2. J. Siegel Itzkovich, Virtual Millionaire,
27 n o v e m b r e 1993.
3. The Foundations of Newton's Alchemy,
Press, C a m b r i d g e - N e w York, 1975.
279
su « J e r u s a l e m P o s t » ,
Cambridge
University
Levi si rendeva conto che questa macchina sarebbe stata l'ultimo passo d o p o gli spettacoli e le comunicazioni di massa: somma soddisfazione dell'età anziana, cui avrebbe o f f e r t o una ricchezza di esperimenti sconfinata, ma anche ausiliario didattico per
lo studio della geografia e delle scienze naturali. Si
sarebbero compilati programmi con esperienze di
aviatori, esploratori, subacquei, seduttori e seduttrici.
Il protagonista del raccontino fa provare a un
amico una partita di calcio con « l'onda di allegrezza
nel sangue, e poco d o p o in bocca il sapore a m a r o
della scarica di adrenalina » e soprattutto gli fa riprovare la sensazione di lievità e prontezza della
gioventù. Quindi o f f r e una serie di viaggetti ed
esperimenti di grossi eventi naturali, registrati a
partire dall'insieme di sensazioni e pensieri d'un
artista rifinito.
T u t t o avviene con un'immediatezza sorprendente: « si è tutti come concentrati in un punto come dei
proiettili », con un corpo agile e docile, e si dispone
di una programmazione che sconcerta: violenza,
guerra, sport, autorità, ricchezza sono alcuni dei
temi proposti; si potrà subire o scatenare un pestaggio, si potrà essere provocati in modo crudele e
perseguitati a sangue o p p u r e si potrà interpretare la
parte attiva e crudele, a n d a n d o fino in f o n d o all'odio e alla collera. C'è anche l'esperienza erotica, sulla
quale è superfluo intrattenersi: basta menzionare la
possibilità di provare le esperienze del sesso opposto
al proprio. « Credo che nessun teologo ci troverebbe
nulla a ridire: chi commette peccato non è mica lei »
dice il protagonista all'amico. A questo punto ci si è
spinti su un limite temibile. Q u a n d o l'amico si ritrova a essere corteggiato e sconvolto da un seduttore e
getta uno sguardo nello specchio per vedersi nella
forma d ' u n a donna incantevole, in un attimo di
disperazione tenta di strapparsi il casco. I due si
g u a r d a n o esterrefatti, riflettono sulle esperienze di
280
Tiresia, immaginate dai Greci, che avevano pensato
anche ad addomesticare le formiche e già avevano
avuto coi delfini rapporti come quelli escogitati da
Lilly.
Esisterà la serie delle programmazioni chiamata
« effetto Epicuro », fondate sul fatto che la cessazione di uno stato di sofferenza o di bisogno concede
il massimo di piacere: sono centoni di f a m e o di sete placata, di dolori interrotti. Inoltre si estende la
serqua delle gioie, che f a n n o affiorare il dubbio:
non saranno forse diserzioni, solipsismi, vizi di solitari? Ma si avranno di queste remore a settanta o
ottant'anni?
Il protagonista « illustrò poi brevemente i nastri ...
a fascia blu (salvataggi, sacrifici, esperienze registrate su pittori, musici e poeti nel pieno del loro sforzo
creativo), e i nastri a fascia gialla, che riproducono
esperienze mistiche e religiose di varie confessioni ».
Infine segue la serie nera; esperienze costruite ex
novo, onda su onda, come si combina la musica sintetica, vite di neonati, psicopatici, idioti, animali. Una
di queste l'amico vuole provare: vola nella notte
sulle Alpi u d e n d o gli scrosci di torrenti, le sferzate
del ventaccio, la pressione delle correnti addosso al
corpo e alle ali. Sente soltanto ciò che gli si agita
dentro di n o r m a allorché si rammenta senza parole di dover fare qualcosa in certa direzione, entro
un paesaggio stampato chiaramente nella fantasia.
Scorge una lepre e raccoglie le ali, precipita, finché a
ridosso dell'animaletto riestende le ali e si blocca,
traendo fuori gli artigli. Segue l'eccidio.
Ma perché non provare la sequenza all'incontrario?
Alla conclusione del raccontino Levi annota che
nella realtà virtuale non ci potrà essere assuefazione,
perché, se si agirà sulla memoria, si potrà accendere
una memoria d'accatto. T r a un programma e l'altro
il protagonista rilegge YEcclesiaste, unico libro che
trovi ancora degno di meditazione: parla dell'itera-
281
zione infinita dell'esperienza, non v'è nulla di nuovo
sotto il sole, soltanto l'eterno ritorno. Alla fine si
sente confluire nella persona di Salomone sazio di
sapienza e di giorni accanto alla sua regina nera. Ma
Salomone era com'era per una lunghissima vita piena di opere e di colpe, m e n t r e il protagonista è il
f r u t t o di incalcolabili registrazioni e si avvia perciò
verso la morte già sperimentata tante volte sui nastri.
Levi aveva colto tutto ciò che gli era concesso. Ciascuno potrà arrancare verso il punto cui egli si portò nel
1966. Potrà forse immaginare d'andare oltre? Credo
che, avendo percorso i sentieri innumerevoli dell'esplorazione sciamanica, qualche estensione sia lecita.
Forse forse avendo acquisito la libertà di concezione
che si dischiude a partire dallo stato di liberazione
teorizzato da indù e buddhisti, qualche orizzonte
diverso si profila. Ma Levi era pervenuto ai limiti che
l'Occidentale non può valicare.
282
INDICE DEI NOMI
I n u m e r i in corsivo rinviano alle note
Abimbola, W„ 251, 254
A d l e r , Margot, 2 5 7
A d r i a n o , i m p e r a t o r e , 114
A d z o , abate, 118
Aiba A t s u s h i , 2 7 5 , 2 7 6
A libar, 101, 102, 2 5 3
Al C a p p , 239
A l c e N e r o , 80, 243
Alien, 201
A l t h e i m , Franz, 105
A g o s t i n o , sant', 4 5 , 4 6
A m i r t h a n a y a g a m , G u y , 241
A n a c l e t o II, a n t i p a p a , 1 7 9 - 8 2
A n a s s a g o r a , 187
A n a s s i m a n d r o , 21
A n d r e a Salos, 147, 148
A n g e l i c o , il B e a t o , 183
A n n i b a l e Barca, 105
A n s e l m o d'Aosta, sant', 2 3 3
A p o l l o n i o di T i a n a , 7 7
A p u l e i o , 121
A r g h u n , 101
Ario, 180
Aristotele, 4 6 , 113, 185, 187
A r m i n i o , 198
A r o n o w i t z , Stanley, 2 3 9
Artaud, Antonin, 38, 240,
249
Aryasura, 160
A s o k a , 156
A t e n a g o r a , patriarca di Costantinopoli, 2 5 0
A u d e n , Wystan H u g h , 2 0 3
A u f h a u s e r , J o h a n n Baptist,
156
Aukstakalnis, S t e v e , 2 6 7
A v e r r o è , 185
A v i c e n n a , 2 5 , 185
B à b u r , 101
Baccini, G i o v a n n a , 2 3 6 ^
' B a c h , J o h a n n Sebastiani 21'
Bachofen, Johann Jakob,
121, 134, 135, 136, 137,
138, 139, 141, 2 1 6
Baker, G e o r g e , 242
Barthelme, Donald, 255
Bashó, 229, 2 3 0
Baudelaire, Charles, 9 1 , 2 1 7 ,
235
B à u m l e r , A l f r e d , 136
/ B e e t h o v e n , L u d w i g van, 2 0 0
B e k k e r , Sarah M., 167
285
B e l l a h , R o b e r t N „ 242
B e n a m o z e g h , Elia, 1 1 2 - 1 3
B e n e d e t t o d a Norcia, san,
99
B e n e d e t t o G i u s e p p e Labre,
san, 9 9
B e n j a m i n , Walter, 136, 194
B e n o z z o di Lese, d e t t o B e n o z z o Gozzoli, 183
B e r g s o n , H e n r i - L o u i s , 138,
232
B e r n a l , Martin, 191
B e r n a n o s , G e o r g e s , 103
/^Bernini, G i a n L o r e n z o , 114
Bernoulli,
Karl
Albrecht,
134
Blacker, C a r m e n , 88, 219
Blake, William, 2 0 4 , 2 0 7
Blatner, David, 267
B l e e k e r , Claas J o u c o , 88
Boadella, David, 257
B o c c a c c i o , G i o v a n n i , 191
B ö h m e , J a k o b , 21, 5 2 , 2 5 0
B o n h o e f f e r , Dietrich, 2 4 7
B o r g e s , J o r g e Luis, 19
B o r n , I g n a z von, 190
Botticelli, S a n d r o , 131, 132,
184
Carlo M a g n o , 108
Carus, Cari Gustav, 74
C a s a d i o , G i o v a n n i , 118
C a s t a n e d a , Carlos, 6 4 , 2 4 1 ,
243, 245, 252, 253, 262
Castiglione, Baldesar, 2 3 3
C e r o n e t t i , G u i d o , 103
C e s a r e , Caio Giulio, 123
Chatterjee, M o h i n i , 2 1 1
C h i g o Daishi, 2 0
C h o d o r o w , Stanley, 180
C h o p i n , Fryderyk Franciszek, 2 3 5
C i o r a n , E.M., 119, 2 5 2
C o h e n , B e r n a r d , 199
Coleridge, Samuel Taylor,
71, 163, 2 6 1
Colla, U m b e r t o , 137
Collins, J o h n J., 116
Conlin, Joseph, 239
C o o m a r a s w a m y , A n a n d a K.,
45
C o r b i n , H e n r y , 84, 103
C o r n e l i o , papa, 180
C o r t e l a z z o , Manlio, 109
Costa, A n d r e a , 198
Cox, Harvey, 247, 2 4 8
C r e u z e r , G e o r g Friedrich,
133, 136
Crnjanski, Milos, 9 3 , 9 5 , 106
C r o w l e y , Aleister, 2 1 0
C u l i a n u , I o a n Petru, 116
C u l l m a n n , Oscar, 115
Cusano, Niccolò da Cusa
d e t t o il, 9 0
B o u c h e r , François, 234
Breton, André, 249
B r i g h t , Susie, 2 6 6
B r o s s e , J a c q u e s , 129
B r o w n , J o s e p h E., 96
-' B r u n o , G i o r d a n o , 191
B u b e r , Martin, 170
D a n t e Alighieri, 5 5 , 116,
128, 186
D a s g u p t a , S u r e n d r a n a t h , 41
Daumal, René, 249
D e g u c h i N a o , 111
D e g u c h i O n i s a b u r ó , 111
D e Martino, E r n e s t o , 115,
116
Cabrera, Lydia, 81
Caetano, 2 5 6
Cagliostro, A l e s s a n d r o , 191
Caitanya, 144
Callisto I, p a p a , 180
C a m b r e n s e , G e r a l d o , 125
C a m p o , Cristina, 2 3 3 , 2 4 8
Candrakïrti, 157
C a n o v a , A n t o n i o , 69
C a p p s , W a l t e r H „ 247
C a p r a , Fritjof, 2 4 4 , 2 4 5
Caracciolo, A l b e r t o , 232
D e Menil, J o h n , 2 4 9
D e Mille, Richard, 244,
D e m o c r i t o , 186
D e v o t o , G i a c o m o , 109
286
253
Dick, 7 5
D i o d o r o Siculo, 1 9 1 - 9 2
Dione Crisostomo, 84
Disraeli, B e n j a m i n , 113,
D o b b s , Betty J o T e e t e r ,
D ó g h e n Eihen, 25, 4 9
Doherty, Susan, 267
D o m i z i a n o , T i t o Flavio,
p e r a t o r e , 118
D o s Passos, J o h n , 2 5 2
D u e r r , H a n s Peter, 253
Dumézil, Georges, 97,
124
Fujiwara n o T e i k a , 2 2 9
Fulcanelli, 5 3
125
279
G a b y s h e v a , L.L., 127
Galbraith, J o h n
Kenneth,
238
Gale, G e o r g e , 75
Gale, G e r s h o m , 2 7 9
Galgani, G e m m a , 2 0 8
Gallardo, J.E., 254
Garvey, Marcus, 150, 152
Gasparri, S t e f a n o , 109
Gaudapàda, 41, 42, 44, 45,
46, 47, 48
G a u g u i n , Paul, 2 4 0
G e n g h i z K h a n , 100
G e o r g e , S t e f a n , 137
G e r b e r g a , r e g i n a , 118
G h à z à n , 101
al-Ghazzàli, 6 0
G h i r l a n d a i o , D o m e n i c o , 184
Gibbon, Edward, 2 0 0
Gide,
André-Paul-Guillaume, 249, 250
G i m b u t a s , Marija, 121, 122,
141
im-
121,
D u n s Scoto, G i o v a n n i , 185
D u Q u e s n e , T e r e n c e , 36
Eckhart, Meister, 4 5
Einstein, Albert, 2 7 7
• Eliade, Mircea, 9 7
Eliogabalo, 139
Eliot, G e o r g e , 184
Eliot, T h o m a s Stearns, 2 0 3
E l w o o d , R.S., 242
E n g e l s , Friedrich, 198
E p h r o n , M., 259
E r m o g e n e , 146
E u s e b i o di Cesarea, 117
E v a g r i o P o n t i c o , 147
E v a n s - W e n t z , Walter Y e e l ing, 2 4 3
- Evola, Julius, 137, 138, 139
F a g g i n , G i u s e p p e , 36
Fatucchi, A l b e r t o , 109
Ferrari, G a u d e n z i o , 2 7 3
Ficino, Marsilio, 2 5 , 1 3 2 , 1 8 4 ,
185, 186, 2 0 6 , 2 0 7 , 2 1 0
Fiedler, Leslie A a r o n , 2 3 7
Filone di A l e s s a n d r i a , 13, 4 6
Florenskij, Pavel A l e k s a n drovic, 2 1 , 4 2
Franchetti, G i o r g i o , 101
F r a n g i p a n e , famiglia, 181
Franz, M a r i e - L o u i s e von, 2 0 5
Friedrich, C a s p a r David, 28,
95
Frohschammer, Jakob, 76
G i n s b e r g , A l i e n , 2 4 0 , 241
G i o r d a n o , F e d o r a , 244
G i o r g i o III, re di G r a n Bret a g n a e Irlanda, 2 3 8
G i o v a n n i della C r o c e , san,
91
G i o v a n n i Evangelista, san,
5 5 , 5 7 , 131
Giulio I, p a p a , 180
G i u s e p p e II, i m p e r a t o r e , 190
G i u s t i n i a n o I, i m p e r a t o r e ,
204
G l a d k o w s k a , Costanza, 2 3 5
Glock, C h a r l e s Y., 242
Gòrres, J o h a n n J o s e p h v o n ,
136
V Goethe, Johann Wolfgang,
11, 2 1 , 6 5 - 7 6 , 135, 2 1 5
Goldenweiser,
Alexander,
127
Goldman, Glenn, 267
Gonda, Jan, 38, 4 9
287
I g n a z i o di Loyola, sant',
273-74
I n n o c e n z o II, papa, 1 7 9 - 8 2
I n n o c e n z o III, p a p a , 14
Ito H a y u r a , 2 7 7
Izutsu T o s h i h i k o , 176, 2 2 6 ,
251
Izutsu T o y o , 176
G o o d m a n , Felicitas D., 246,
262
Gorlier, C l a u d i o , 239
G r a n e t , Marcel, 2 3 1
Graves, R o b e r t , 125, 126
G r e e n f i e l d , J., 259
G r e g o r i o M a g n o , san, 103,
107, 108
Grillparzer, Franz, 106
G r u e n w a l d , Ithamar, 117
G u é n o n , R e n é , 90, 2 4 9 , 2 5 0
G u r d j i e f f , G e o r g e s Ivanovic,
251
G u t h , C . M . E . , 20
/
Jacobi, Friedrich H e i n r i c h ,
67
J a m e s , William, 2 6 0
Jamieson, 239
J e a n Paul, 2 7 1
Jilek, W o l f g a n g G e o r g e , 170
J o n e s , D a l u , 101
Jones, Jim, 239
J o n e s , Sir William, 8 5
J u n g , Cari Gustav, 13, 1 5 , 7 6 ,
136, 138, 185, 2 0 5 , 2 1 9
Haith, Marshall, 19
al-Halläj, H o s a y n ibn Mansür, 2 5 4
H a m i l t o n , A l e x a n d e r , 166
H a m i t , Francis, 2 6 8
H a n s h a n , 145
H a r n e r , Michael, 2 6 1 , 2 6 2
Hata Shüha, 225
Hayat, Y e h u d a h , 5 4
H ä y l a Sellâsé, d e t t o ras T a lari, 1 4 9 - 5 2
H e g e l , G e o r g W i l h e l m Friedrich, 74, 136
H e i d e g g e r , Martin, 2 3 2
H e i n z e , R u t h - I n g e , 243, 2 6 2
H e i s e n b e r g , W e r n e r , 7 4 , 75
H e l m o n t , J a n Baptiste van,
98
H e l s e l , S a n d r a K„ 2 6 7
Herder, J o h a n n Gottfried,
67
Hirohito, 232
H i r o s e Michitaka, 2 7 6 , 2 7 7
H o b s b a w n , Eric J o h n , 197
H ö l d e r l i n , Friedrich, 70, 7 3
Hough, Graham, 203
H ü l ä g ü , 101
H u m e , D a v i d , 158, 2 7 2
Huxley, Aldous
Leonard,
274
Kafka, Franz, 6 8 , 2 5 2
Kallas, A i n o , 104
Kant, I m m a n u e l , 4 6 , 7 6 , 2 7 2
Katö S h i n r ö , 2 3 0
Kawai H a y a o , 12, 2 1 9 - 2 3 ,
231
Keats, J o h n , 2 0 7
K e n n e d y , E d w a r d , 104
Kerényi, Karl, 12, 13, 139,
215-18
K e r o u a c , Jack, 2 4 0
Kierkegaard, S0ren Aabye,
260
Kildahl, J o h n P., 246
Kita M o r i o , 13
Klages, L u d w i g , 137, 138
Koito S h ü i c h i , 2 2 7
Ko M a u n g , 166
K r i s h n a m u r t i , J i d d u , 138
Kubilay, 101
Kubrä, N a j m a d - D i n , 6 1 , 6 2
Kuhl, Patricia, 19
Kükai, 20, 2 7 6
Kuki S h ü z ö , 12, 2 2 5 - 3 5
K u r o d a Ryö, 2 3 1
Kurzweil, R a y m o n d , 2 7 6
K u s a n a g i N a s a o , 228
Ibish, Y u s u f , 250, 2 5 1
Ibn 'Arabi, 2 5 , 6 2 , 2 1 2
288
Laberge, Stephen, 268
Làhijl, 6 2
L a n d i n o , C r i s t o f o r o , 185
Lanier, Jasor, 2 7 0
L a r s e n , Robin, 204
Laurie, T h o m a s
Werner,
204
Leary, T i m o t h y , 2 5 6 , 2 6 5
Ledeen,
Michael
Arthur,
240
Leiris, Michel, 2 4 0
L e n n h o f f , E u g e n , 73
L é o n a r d , J e n n i f e r L., 2 0 4
- L e o n a r d o d a Vinci, 14, 5 2
L e o n e X, papa, 185, 2 7 3
L e o n e , M., 242
L e o n z i o di N e a p o l i s , 146,
147
v
L e o p a r d i , G i a c o m o , 135
Leskov, Nikolaj S e m é n o v i c ,
148
Levi D ' A n c o n a , Mirella, 130,
131, 132
Levi, P r i m o , 2 7 9 , 2 8 1 , 2 8 2
L h a l u n g p a , L o b s a n g P., 2 5 0
L i n n e o , Carlo, 71
L ò n n r o t , Elias, 129
Lovat, L o r d S i m o n Fraser,
201
Lukàcs, G y ò r g y , 2 1 5
L y o n , W.S., 243
Maa V e e t S a n d e h , 261
M a c D o w e l l , Mark, 243
Machiavelli, N i c c o l ò , 184
McKenna, Terence, 265
Macpherson, James, 200
Mahadevan, T.M.P., 250
M a i m o n i d e , 114
M a n g ù , 101
Mann, Thomas, 216
Manson, 239
Maraini, Dacia, 140
Marcato, Carla, 109
M a r c h i a n o , Grazia, 243
M a r c u l e s c u , Ileana, 250
Maria T e r e s a d ' A b s b u r g o ,
i m p e r a t r i c e , 190
Marin, P„ 259
M a r r a m a o , G i a c o m o , 46
Martzel, G., 20
M a y e r - G r o s s , Willy, 115
Medici, famiglia, 102, 133,
184
Medici, C o s i m o de', 184
Medici, L o r e n z o de', d e t t o il
M a g n i f i c o , 133, 1 8 3 - 8 7 ,
Medici, L o r e n z o di P i e r f r a n c e s c o de', 132
Medici, Piero de', d e t t o il
G o t t o s o , 183
M e l t o n , G., 2 5 7
M e n d e l s s o h n - B a r t h o l d y , Jak o b L u d w i g Felix, 2 0 0
Merton, Thomas, 2 4 6
Meuli, Karl, 1 3 9
Michelet, J u l e s , 74
Middleton, Teresa, 2 6 7
Miele, Philip, 244
Milinda, re, 7 7
Miller, J e a n i n e , 5 7 , 4 0
Milton, J o h n , 5 5 , 5 6
M i n g , dinastia, 172
M i r o k u J i k i g y o , 177
M o m a d a y , Scott, 8 0
M o m m s e n , T h e o d o r , 134,
136
Mondo, 266
M o n i e r - W i l l i a m s , M o n i e r , 39
M o p s i k , Charles, 5 4
M o r g a n , Lewis H e n r y , 136
Mostert, N o é l , 1 1 2
/ Mozart,
Wolfgang
Amad e u s , 73, 189
Müller, Friedrich, 6 7
Müller, W e r n e r , 2 1 6
M u k t a n a n d a , 260, 261
M u n a k a t a K i y o h i k o , 86
Musorgskij, M o d e s t Petrovic, 2 6
Myòe, 219
N a c h m a n di Breslav,
115
N ä g ä r j u n a , 41
289
Rav,
N à g a s e n a , 77
N a k a Masao, 2 7 1
N a p o l e o n e I B o n a p a r t e , 191,
198
N a r s e t e , 107
N a s r , S e y y e d H., 2 5 1
N e a l e , Zora H . , 2 4 4
N e e d l e m a n , J a c o b , 242, 2 4 8 ,
249, 250, 258, 259
Nerone, imperatore,
116,
118, 139
N e s i , G i o v a n n i , 184
N e u m a n n , Erich, 15
^ N e w t o n , Isaac, 74, 2 7 9
Nichiren, 231
' Nietzsche,
Friedrich
Wilh e l m , 136, 195, 2 5 1
N i s a r g a d a t t a Mahàràj, 4 8
N o m u r a Yosio Francesco,
228, 229
Norinaga Motoori, 228
Pasqually, Martines d e , 2 0 4
Pasternak, B o r i s L e o n i d o v i c ,
237
Patai, R a p h a e l , 114
Patanjali, 144
Pavan, M . , 6 9
Petrarca, Francesco, 186
Pico d e l l a M i r a n d o l a , Giovanni, 25, 185, 2 0 7
Pierleoni, famiglia, 180
Pietro di Porto, 182
Pinturicchio, B e r n a r d i n o di
B e t t o , d e t t o il, 191
Piranesi, G i o v a n n i Battista,
191
Pitt, William, 2 0 0
Platone, 13, 14, 2 3 , 5 8 , 9 7 ,
119, 185, 2 1 5 , 2 1 6
Plotino, 24, 36, 37, 6 0 , 6 7 ,
204
Plutarco, 192
Poe, E d g a r Allan, 163
Poliziano, A n g i o l o , 187
Polo, Marco, 100
Porfirio, 8 4
P o s n e r , Oskar, 73
Potter, Karl H „42
Prebish, Charles S., 263
P r e m Dass, 2 6 1
Proust, Marcel, 120
Pseudo-Dionigi, 56, 57
Pulci, Luigi, 183
Purohit, Shri, 2 1 1
Puskin, A l e k s a n d r S e r g e e -
Oates, J o y c e Carol, 2 4 1
Odets, Clifford, 252
O k e n , L o r e n z , 73, 74, 75
Oliva, R e n a t o , 210
- Omero, 200
O r i g e n e , 14, 19
O r l a n d i , C., 34
O r s i n i , Clarice, 183
Ortiz, A l f o n s o , 8 0
O s e a , 149
• Ossian, 2 0 0
Otis H a f t , N i n a , 2 7 5
O t t o , Walter Friedrich, 2 1 6
O v i d i o N a s o n e , Publio, 131,
217
O w e n , Sir Richard, 74
vic, 7 3
Pu S o n g ling, 170
R a h n e r , H u g o , 14
Rajneesh, B h a g w a n Shree,
261
R a m a k r i s h n a , Sri, 126
R a m a n a Maharshi, 8 6
R a m b a l d o di Liegi, 182
R ä m d ä s , 144
R a n g e r , T e r e n c e , 197
Rasmussen, Knud, 62
Raveri, M a s s i m o , 175, 177
Ràzi, N a j m a d - D i n , 6 2
Pahlavi, i m p e r a t o r e , 114
Panikkar, R a i m u n d o , 2 5 0
Paolo VI, papa, 250, 274
P a o l o A p o s t o l o , san, 115,
148, 187, 2 5 0
P a o l o D i a c o n o , 107
Parmenide, 215
• Pascal, Blaise, 27
Pasolini, Pier Paolo, 2 7 4
290
S c h u l e r , A l f r e d , 137, 138
Scott, Sir Walter, 2 0 1
Scrima, a r c h i m a n d r i t a , 2 5 0
S é g a l e n , Victor, 2 4 0
Sei S h ò n a g o n , 2 2 5
S h a k e s p e a r e , William, 143,
238
Shaku Soyen, 247
S h a n k a r , Ravi, 2 5 5
S h e l d r a k e , R u p e r t , 134, 2 0 9
Shelley, Percy B y s s h e , 8 9
S h i d e , 145
Siegel Itzkovich, J., 279
S i g a u d , Pierre-Marie, 249
Signorelli, Luca, 116
Silburn, L., 3 8
Silko, Leslie M a r m i o n , 8 0
Silva, J o s é , 244, 2 5 7
S i m e o n e Stilita il V e c c h i o ,
san, 146, 147
S n y d e r , Gary, 18
Socrate, 125
S p a v e n t a , B e r t r a n d o , 138
S p e l k e , Elizabeth, 19
Spinoza, Baruch, 67
Staal, Frits 33
Staal, J.F., 33
Staèl, M a d a m e d e , 2 0 0
Stendhal, 234
Stephanson, 239
S t e v e n s , J o h n , 88
Stietencron, Heinrich von,
Reed, Ishmael, 244
R e g h i n i , A r t u r o , 138
R e n o u , L., 3 8
Retz, J e a n - F r a n g o i s - P a u l d e
G o n d i , c a r d i n a l e di, 2 4 0
Rheingold, Howard,
268,
269, 270
J i h y s , J e a n , 152
R i c h a r d s o n , H e r b e r t , 260
\ Rilke, R e i n e r Maria, 15
R o b e r t o Grossatesta, 5 6
Roper, H u g h Redwald Trevor, 193
R o s c e l l i n o di C o m p i è g n e ,
233
R o s e n f e l d , A., 83
Roszak, T h e o d o r e , 244
R o t h e n b e r g , J., 243
R o t h k o , Mark, 2 4 9
R o v e e - C o l l i e r , C a r o l y n , 19
R o w l e y , Peter, 242
R u b i n , Harry, 2 5 4
R u g g e r o II, re di Sicilia, 181
R ü m i , Jaläl ad-DIn, 6 0 , 2 5 2
R y d é n , 147
Sabatini, F r a n c e s c o , 109
Sachdev, 256
Saint-Martin, Louis C l a u d e
de, 204
Salieri, A n t o n i o , 7 3
Salinger, J e r o m e David, 241
S a m a r i n , William J., 246
Sani, Saverio, 34
Sarikara (Sankaräcärya), 4 1 ,
48, 50
Santillana, G i o r g i o Diaz d e ,
212
Stroll, Mary, 180, 181
al-Suhrawardl, 25, 60, 61,
254
Sukenick, Ronald, 241
Sultàn Walad, 6 0
Suzuki Daisetz T e i t a r ó , 2 2 6
S w e d e n b o r g , E m a n u e l , 150,
204
28
Saran, A.K., 2 2 2 , 2 5 0
S a r o y a n , William, 2 5 2
S a v i g n y , Friedrich Karl v o n ,
134
Sayres, S o h n y a , 2 3 9
Scerbatskoj, F è d o r I p p o l i t o vie, 157
Schaya, L e o , 251
S c h i k a n e d e r , E m a n u e l , 191
S c h l e i c h , Karl L u d w i g , 76
T a n g , dinastia, 172
Tart, C h a r l e s Y„ 2 6 9
T e d l o c k , T „ 243
T e m p e s t , R., 241
T e r r a s s o n , J e a n , abate, 191
291
T e r t u l l i a n o , 14
T h i m u s , A l b e r t v o n , 134
T h o m p s o n , William Irwin,
245
T i j e r i n o , Yuri, 2 7 8
T i p t o n , S t e v e M., 242
T j u t c e v , F é d o r Ivanovic, 5 0
Tobler, Georg Christoph,
215
Tolkien, J o h n Ronald Reuel,
127
T o l s t o j , Lev Nikolaevic, 15,
148, 2 6 0
T o m m a s o d ' A q u i n o , s a n , 185
T o m o n o b u Imamichi, 229,
230
T r a h e r n e , T h o m a s , 19
T u c c i , G i u s e p p e , 8 4 , 126
T u k ä r ä m , 144
Turner,
Joseph
Mallord
William, 7 2
T u r n e r , Victor Witter, 9 7
Wallis, Roy, 242
Watsuji T e t s u r o , 163
W e b b , Marilyn, 241
Weil, S i m o n e , 9 0 , 2 4 7
Welwood, John, 258
W e s e n d o n k , M a t h i l d e , 194,
195, 196
Wesley, J o h n , 45
Wheeler, 75
W h i t e , C.S.J., 260
White, J o h n Warren, 245
W h i t m a n , Walt, 2 4 0
Williams, Charles, 2 0 5 , 2 0 8
Williams, J o h n , 130
Williams, Peter W „ 253
Wilson, B r y a n , 260
Wilson, E d m u n d , 2 4 2
W i l s o n , Peter L a m b o r n , 244
Winckelmann, Johann Joachim, 68
W i n n , K a r e n , 19
W o l f e , T o m , 239
Wolfram von Eschenbach,
193
U Kyin U , 167
W o l f s k e h l , H e n r y , 137
Woodhouse, 207
Woolley, Benjamin, 268
W u Daozi, 172
W u t h n o w , Robert, 242
Valachi, J o s e p h Michael, 2 2 2
V a l e n t i n o , 14
V à l m i k i , 194
Van Gogh, Vincent, 2 2 0
Velazquez, Diego Rodriguez
d e Sylva y, 143
Ventris,
Michael
George
Francis, 2 1 6
V e r g a , G i o v a n n i , 106
Vittoria, r e g i n a d e l R e g n o
Unito, 201
Vivekänanda, 247
Yeats, William B u t l e r , 11,
125, 193, 2 0 3 - 1 3 , 2 4 3
Zaccaria, 7 8
Zaretsky, I.J., 242
Z d e p s k i , Michael S., 2 6 7
Zeami Motokiyo, 227
Z h o n g Kui, 171, 172
Zolla, E l e m i r e , 37, 81,
240,
243
Zoroastro, 8 4 , 103, 116
Zuccaro, F e d e r i c o , 2 7 3
• W a g n e r , W i l h e l m Richard,
6 3 , 189, 192, 193, 194,
195, 196
W a l d m a n , A n n e , 241
292