Elémire Zolla, Storia del fantasticare (pdf)

STORIA
DEL FANTASTICARE
Elémire Zolla
PORTICO
CRITICA
E
BOMPIANI
SAGGI
©
1964 Casa Ed. Valentino Bompiani, Milano
"The poet and the dreamer are distinct,
Diverse, sheer opposite, antipodes.
The one pours out a balm upon the
The other vexes it."
JOHN KEATS, The
world,
Fall of
Hyperion
"Tutte le forze del sogno gonfiavano il cuore dei Terrestri rivolti
all'Assunzione dell'Uomo. L'anima immensa aveva valicato il secolo,
accelerato il tempo, profondato la vista nel futuro, inaugurato la novissima età. Il cielo era diventato il suo terzo regno, non conquiso col
travaglio dei macigni titanici ma col fulmine schiavo."
GABRIELE D'ANNUNZIO, Forse
che si forse
che
no
LA FANTASTICHERIA
Esistono luoghi dove si è condannati a fantasticate:
la catena di montaggio, il colombario burocratico, la sala
d'attesa, la prigione, ogni radunanza dove manchi la passione spirituale o l'esercizio dei muscoli se non della
mente.
Allorché comparvero le catene di montaggio si osò
congetturare che gli operai addetti (o, che è lo stesso,
coloro che sorvegliano i quadranti delle fabbriche automatiche o i guidatori al volante su un'autostrada), una
volta perfettamente allenati alle loro manovre meccaniche, avrebbero avuto la mente del tutto sgombra per pensare. In verità alla catena di montaggio e in altrettali frangenti l'uomo può soltanto fantasticare.
La differenza tra fantasticheria e pensiero, sia pure un
pensiero riccamente nutrito di fantasia, è manifesta; basta il colpo d'occhio su due opposte figure: l'uomo che
fantastica seduto in un'anticamera con il piede o la mano
che tradiscono nei loro movimenti automatici e nervosi
il lavorio dell'immaginazione, e, di contro, l'uomo che
medita o contempla, assorto senza alcun gesto o contrazione.
Nella lingua italiana la condanna della fantasticheria
era implicita: fantasticamente voleva dire nel buon secolo: con modo rincrescevole, molesto ed in latino l'uomo fantastico si diceva morosus, che significa altresì stravagante, morboso.
Opera fantastica equivaleva per la Crusca a "senza
fondamento" e uomo fantastico era come dire intrattabile dall'aver sempre la fantasia occupata. Dunque non si
distinguevano il rêveur e l'uomo molesto, stranito che andasse producendo fantasime, incubi. L'atto del fantasticare dicevasi altresì stillare il cervello, mulinare, ghiribizzare, girandolare, grillare. Con curiosi giochi d'immagini, il
repertorio delle locuzioni popolari esortava a "non aver
grilli per la testa" e tanto più, a "non mettere in valigia", cioè nella pancia, il grillare o ribollire della fantasia. L'uomo fantastico veniva posto sotto l'egida del grillo, suo animale totemico, cui egli si condannava a rassomigliare. Il grillo è inquieto e capriccioso, l'opposto dell'ape operosa e sapiente; quello ha voce stridula, eccitata e monotona, questa, viceversa, grave, maestosa e modulata. L'ape è un animale sacro talché porge insegnamenti a chi la osservi e simboleggia il pensiero; il grillo
sta agli antipodi, sa modulare il suo canto solamente
quando gli si accosta la femmina; quando poi è della
specie affine alle talpe, si scava cunicoli sotterranei e riesce disastroso alle piante poiché divora le tenere radici.
La fantasticheria, come il grillotalpa ai coltivi, è esiziale
alla cultura dei sentimenti.
Il genio della lingua ordina in varie specie il fantasticare: l'arzigogolo è quello del truffatore, simile all'almanaccare che però è più futile, come stabili il Tommaseo;
il cincischiare è del linfatico e l'armeggiare del nervoso,
l'immaginarsi cose infondate è poi altra cosa dall'immaginarie, essendo più morboso. In latino fantastico si diceva
anche cerebrosus, che in italiano si traduce lambiccato, ed
è aggettivo pertinente a chi si stilla, si rompe la testa invece di abbandonarsi e che perciò smarrisce i doni della
prontezza naturale. Il fantastico non ha coscienza pura, ma
ha coscienza di aver coscienza: è compiaciuto.
Questo è un punto non facile da afferrare per menti moderne: "L'attenzione estrema somiglia a un'incoscienza... quando si fa moltissima attenzione ad una cosa
non si ha tempo di saperlo... Si dice che si è agito macchinalmente per designare atti mancati; di aver agito per
abitudine per designare atti che si sanno compiere. Si ha
coscienza del controllo che si esercita soltanto quando
qualcosa non va..."; tali sono i principi posti da Simone
Weil per distinguere fra i due ordini dell'attività mentale,
il luminoso pensiero e il grigio arrovellarsi o rimuginare
o trastullarsi con immagini mentali, ossia fra attenzione
e immaginazione.
Il fantasticare si presenta come cosa innocua, ma la lingua italiana annovera il proverbio: "immaginazione fìssa fa talora caso", a rammentarci che nessuno può fantasticare impunemente, poiché presto o tardi le fantasticherie pigliano corpo, e se ne palesa la deformità, come
di meduse tratte a riva, ridotte a gelatina.
"È un uomo tutto d'un pezzo", "non ha grilli per il
capo" sono lodi che raffigurano la sanità mentale non insidiata dai piaceri segreti e aridi dell'immaginazione;
chi è coperto dal velo delle fantasticherie non può deliberare prontamente, né pensare ordinatamente, né concedere il gioco spontaneo ai muscoli. Tant'è: ottima medicina
dell'immaginazione disordinata è l'esercizio armonioso del
corpo in paraggi e compagnie armoniose e lo sguardo
placido dell'atleta esercitato proviene dall'avere una mente sgombra di ubbie, fisime, fantasmi, al pari del pensatore.
L'uomo risentito e vizioso respira scorrettamente, ha
gesti privi di agio, è incapace di deporre nell'oblio gli avvenimenti ma anzi li cincischia, allestisce castelli in aria,
ordisce "bei sogni", ha volto contraffatto o imbronciato o
vacuamente sorridente aux anges.
La fantasticheria può essere di tre specie: se si trastulla con il passato è il compiacimento, se gioca col futuro
è il desiderio, futile e obbrobriosa occupazione che sradica la forza della volontà; se tenta di impegnare altri
nel suo vizio è la bugia disinteressata, la chiacchiera fantastica.
Sano è chi non conosce nessuna di queste tre facce
della dissipazione, come il contadino che, finita l'opera, affonda di colpo nel sonno, e non necessariamente per spossatezza; come l'attento lavoratore e buon pensatore che
non si permettono sogni a occhi aperti. L'autorevolezza
è incompatibile con la fantasticheria, poiché d'istinto tutti
diffidano dell'uomo trasognato e tutti disprezzano d'acchito come schiavo chi covi i torti patiti e tutti sanno senza
bisogno di venire ai fatti che chiunque stia nel glutine
delle sue immaginazioni è incapace di carità e di generosità, essendo tutto perso a confezionarsi le sue bolle iridescenti di fandonie e desideri. I dannati dei quadri di
Bosch sono chiusi in globi di vetro. I fantastici sono timidi, e si reputano sfortunati perché non riescono mai a
dire nella realtà la battuta che arride loro nel rimuginio
e non sanno che proprio per aver abituato la mente a
escogitare battute durante i sogni a occhi aperti, l'hanno
altresì disabituata a pronunciarle tempestivamente.
L'uomo di mente disciplinata è spedito senza enfasi, e
quanto al parlare, pronto e mordace, capace di silenzio
e di severi piaceri, laddove, come dice Santa Teresa d'Avila "la malinconia fabbrica le sue chimere nell'immaginazione". Guai all'artista che si immagini le scene dei suoi
racconti o quadri invece di scoprirle seguendo docilmente
l'idea narrativa, la macchia figurativa; guai a chi ascoltando una musica campisca delle scene o guardando un
quadro si figuri che cosa sta per avvenirvi; l'educazione
estetica insegna proprio a svellere queste gramigne. E guai
anche all'uomo di azione che si dipinga nella mente quel
che gli deve accadere: il prigioniero del racconto di Borges immagina tutte le sevizie che gli possano mai infliggere i carcerieri perché sa che nessuna immaginazione
può corrispondere al reale e spera perciò di esaurire mentalmente tutte le possibilità di tortura. Un paradosso che
dovrebbe argutamente guarire dall'illusione che serva a
prepararsi alle prove della vita il lugubre esercizio d'immaginarsela.
L'immaginazione deturpa la capacità fantastica dell'artista, toglie energia a chi agisce, in torpida il pensiero di
chi riflette, e vera reminiscenza è l'involontaria, che non
sta a rovistare nella pattumiera della memoria. Come
dicono i versi danteschi: "tu stesso ti fai grosso / col falso
imaginar, sí che non vedi / ciò che vedresti, se l'avessi
scosso". Ogni educazione è allenamento a non fantasticare; a svegliarsi con nettezza, tagliandosi fuori dal sonno, senza starsene a nutrire le chimere della notte, imparando a correre incontro alla luce; a non lasciare nella
giornata lacune in cui il presente possa essere sopraffatto dal passato o dal futuro. Soltanto col romanticismo cominciò a essere elogiato il sognatore, Fantasio o Pierrot,
ma tuttavia la ripugnanza naturale verso l'uomo sognante continuò a esprimersi nella stima per l'uomo "deciso",
"che conclude".
Oramai i sogni a occhi aperti non sono più soltanto il
vizio della solitudine e dell'ignavia, ma una merce che
senza pudore viene prodotta e spacciata sotto specie di
vicende cinematografiche o televisive o di canzonette o di
irreali romanzi. A tutti è concesso di essere viziosi, nella
civiltà moderna, cosi longanime; purché i vizi sieno prefabbricati. La longanimità verso i vizi si paga con la degradazione dei vizi stessi, da privati a collettivi.
Come vincere la tendenza al fantasticare?
Rispondono varii simboli: il sistro che usava agitare
alle feste isiache, il rombo o raganella che si faceva fremere durante le iniziazioni tribali, e che ancora oggi i fanciulli inglesi fanno girare durante le partite di pallone,
la trottola che era oggetto sacro dei pitagorici, il rosario
che in quasi ogni religione si insegna a snocciolare rapidamente, le corse e i giochi con la palla che mirano a
tenerla costantemente in volo. Bisogna imprimere alle
immagini, alle parole che affiorino nella mente (o che ci
si vengano a imprimere attraverso i sensi) un movimento celere, impedire che mai possano fermarsi. Mai ci dev'essere ristagno, tutto ci deve scorrere nella mente come
da una fonte, senza assembramenti o incanti: nulla può
accadere di male se col cuore della mente spingeremo
in vortice la massa delle immagini. Le acque stagnanti,
i rettili che strisciano sono emblema del male; il serpente diventa sacro allorché è alato oppure allorché l'a-
quila lo solleva in alto: il miracolo è che s'innalzi ciò
che per natura striscia.
Una volta che si sia impressa la corsa alle immagini
mentali, si sarà sempre alla loro testa, imprendibili, o
al loro centro, immobili nell'occhio del tifone, come si
preferisce. Ciò che ostacola questa salvezza, che consiste
nel dare continuamente, virilmente, colpi alle immagini affinché passino in fretta, si chiama pietrificazione, incantamento, legatura, ristagno. Cancellando le fantasticherie si
purifica la fonte della vita: "Poiché di dentro, cioè, dal
cuore degli uomini, procedano pensieri malvagi, adulterii,
fornicazioni, omicidii. Furti, cupidigie, malizie, frodi, lascivie, occhio maligno, bestemmia, alterezza, stoltizia. Tutte queste cose malvagie escon di dentro l'uomo, e lo contaminano" (San Marco, VII, 21-23).
LA CARITÀ FANTASTICA OVVERO IL
CRISTIANESIMO DI MASSA
Si libera la pianta dalle foglie vizze, si appoggia l'arboscello al piolo, si raddrizza ogni cosa storta badando a evitare le simmetrie visibili, s'intonano le tinte, si offre ristoro alle bestie, si aiuta il malato a ritrovare l'armoniosa e
incurante salute oppure ad approfittare della malattia, il
povero a rifocillarsi, l'oppresso di animo augusto a fuggire o a colpire: sono, tutti questi, atti dello stesso ordine
perché tutti mossi dal bisogno di perfezionare ciò che è
manchevole, di far giungere a destino ciò che si va sperdendo. Chi li compie, sostituendosi al tempo che por|a ogni
cosa a maturazione, diventa simile al tempo stesso invece di esserne il servo, acquista qualcosa della sublime
natura delle tessitrici eterne che aiutano i fili delle vite
a emergere, 'li umettano, li troncano al momento giusto
seguendo l'istinto della giusta forma.
Chi invece si "mette al posto degli altri" conduce una
farsa, si traveste "negli altrui panni", staccandosi dall'oggettiva carità e degradandola ad abietta resa dinanzi alle
persone che il caso accozzi insieme. Si impartisce allora
un inconsulto perdono il quale tollera gli esseri manchevoli che richiederebbero invece il beneficio della correzione oppure andrebbero abbandonati a Dio. Si trasforma cosi un'idea sacra e paurosa in atto suicida.
Angelo Sikelianos, in Via sacra racconta d'un iniziato
di Eleusi che, seduto su una pietra in mezzo ai campi,
vede avvicinarsi uno zingaro con due orsi; lo zingaro gli
fa ballare la bestia più grande, un'orsa
formidabile come un idolo antico
della Gran Dea, della Madre Eterna,
che soffre la pena sacrosanta,
e quando acquista nel tempo
figura umana, si chiama Demetra,
se piange la figlia
e quando il figlio, Alcmena,
o la Vergine Maria.
Una moneta allo zingaro e lo spettacolo crudele è terminato, il poeta dice fra sé:
"Verrà la volta, il giorno,
in cui l'anima dell'orso e dello zingaro,
e la mia anima, iniziata a quel che credo,
si rallegreranno insieme?"
La notte
cadeva. Sentivo a mano a mano che progrediva
come per la stessa ferita del destino
l'ombra si precipitava sul cuore
come per una falla i flutti
nella nave che a poco a poco affonda.
E frattanto, quasi assetato
di questo fluire il mio cuore oscuro
annegandosi nelle ombre,
si sparse attorno a me un mormorio
che pareva dire:
— Giungerà —.
Il gioco delle metafore, indipendente dalla volontà sentimentale del poeta, fa si che il sogno della conciliazione
sia abbinato all'immagine del naufragio e della tenebra,
proscritto.
Infatti, il consorzio col torturatore dell'Orsa è proibito, in questa vita non ci si deve mescolare ai peccatori,
ammoni San Paolo (Ep. agli Efesi, 5, 7, che ha riscontro
nel detto di Rabbi Aqiba, che addirittura commina le pene dei prevaricatori ai loro compagni, e concede il com-
penso del bene compiuto dai buoni a chi si associa a loro).
La contraffazione della carità, che parifica virtù e peccato, nasce dalla fantasticheria che indora il male,vcon
qualche lezio. Ci s'immagina colmi di un fuoco di carità che avvampa, trasfigura e purifica ogni più laida cosa;
ci si rappresentano con viziosa simpatia gli altrui peccati
per accollarseli in nome della comunità dei peccatori e
quindi farli perdonare in nome della comunità degli
aventi diritto al perdono in quanto "molto umani". La
letteratura moderna ha preceduto il costume in questa
turpitudine fantastica, gabellando ogni peggior magagna
per cosa squisitamente umana, a saperla compenetrare, il che sarebbe fra l'altro perfino giusto qualora
non seguisse l'apodosi tacita: "Se nulla di umano reputo da me alieno, altresì nulla di ciò che celo in me disprezzerò." La fornicazione fino alla promiscuità è il
peccato che più è stato oggetto di fantasticaggini assolutorie. Subito nel catalogo dei perdoni seguono la ribalderia plebea o addirittura la meschinità piccolo-borghese;
quanto al malgarbo, viene assunto a prova di schiettezza.
Terzo oggetto d'assoluzione: l'assenza di studio o di cura
della forma. Ogni movimento di vera carità educativa viene cosi represso, poiché si offre in cambio il piacere di
codesto francescanesimo contraffatto, si rappresenta se
stessi a se stessi come Redentori sullo schermo dell'immaginazione; da tale tolleranza automatica non può nascere alcuna azione che non sia complicità, o nel caso
meno grave, curiosità.
Ovviamente della loro antica fede codesti cristiani di
massa trascelgono una parte occultandone un'altra. Cristo che perdona l'adultera campeggia nel loro Vangelo,
ma essi preferiscono lasciare in ombra Cristo che caccia
a nerbate i mercanti o insegna parabole sui talenti (s'è
udita la scusa: "Cristo può permetterselo, una persona
della mia ammirevole umiltà, no"); eppure soltanto identificandosi coi mercanti percossi costoro potrebbero sperare di trarre qualche frutto dalla lettura del testo. La spiegazione di questa nuovissima eresia è facile: per i cristia-
ni la visione del malfattore era stimolo non già a giudicarlo (non in male e tanto meno in bene), essendo un
tal giudizio operazione superflua e di nessuna utilità, e
propriamente fantastica; ma si a cavare un beneficio
per se stessi da quel male, riconoscendo di poterne restar
vittime e di esserne, semmai, esenti per grazia e non per
merito; temendo quindi, provando vergogna per l'embrione di quel vizio che indubbiamente alligna nella pattumiera del cuore, sia pure sotto specie di mera curiosità. Quanto al peccatore, è caritatevole regalargli il bene
della pena medicinale, secondo la possibilità e perciò il
dovere del momento, e se non c'è speranza gioverà fuggirlo affinché non contagi. E dovendolo tuttavia sopportare per sorte dolorosa, il cristiano è nondimeno soccorso
dalla nozione che il diavolo è la scimmia di Dio e l'inferno rappresentazione rovesciata del cielo; questa è la
chiave per trasformare subito, traendone vantaggi, i bassi
spettacoli: la ferocia dell'iracondo mostra, salvo per la
sua errata direzione, la furia che gioverebbe scatenare
contro il vizio; la smania dell'uomo erotico, capace di
profondere ogni sforzo e incurante d'ogni rischio, presenta, salvo per il suo incongruo fine, il volto della tenacia
serafica di chi nulla risparmi pur di giungere al bene della
pace interiore; l'indifferenza verso la società che mostrano
gli ossessi indica l'animo indipendente che occorre avere.
Sulla scorta di quest'arte antichissima della corrispondenza fra cielo e inferno si scioglie la difficoltà in cui
s'impiglia tutta l'arte d'avanguardia: "come da sempre
si è tramutata la natura in sublime simbologia della
vita spirituale, perché altrettanto non si potrebbe fare
con il mondo artificiale delle macchine?" Si può, a patto
di riconoscere il vero: che il mondo dell'artificio macchinale corrisponde soltanto all'artificioso inferno e non
alla natura o al soprannaturale, onde uno schermo su
cui si profilino figure è la rappresentazione plastica del
peccato d'immaginazione, una trasmissione di voci è raffigurazione della schiavitù e del gelo, e tutte le macchine
sono emblemi di bestie ridotte a schiavitù cosi assoluta
da perpetuarsi al di là dalla loro morte. E la possibilità
di rappresentare l'assoluto orrore si spegne dopo un
grido. L'impossibilità di trarre partiti d'arte dalle macchine è causata dall'assenza di distanza fra il simbolo e
l'oggetto simboleggiato, tra la raffigurazione e la cosa raffigurata: mentre gli animali e gli uomini grotteschi dei
quadri di Bosch sono analoghi o simili al vizio assoluto
che designano, le macchine sono uguali al vizio assoluto.
Nessuna scienza, salvo segreta e usata da una casta sacerdotale che la riconosca pericolosa quanto il fuoco, e conosca l'arte della rinunzia, può cessare di proliferare ordigni che consumano le facoltà dell'uomo, e ben presto
le macchine diagnostiche assorbiranno quel poco che
avanza della capacità clinica, le cibernetiche per fare riassunti o per descrivere situazioni elimineranno la potenza
sintetica della mente umana. Chi oggi predica il buon
uso d'ogni congegno esistente è persona per eccellenza
incapace di prescriverlo, poiché mostra, con la sua sete
di luoghi comuni e di programmi o sfumatissimi o irreali,
d'essere già essa stessa ridotta a macchina.
Questo del buon uso possibile delle macchine a patto
soltanto che ci si consegni in mano a questa o quella
fazione o N addirittura individuo è un tratto abbastanza
costante del cristianesimo di massa, anche se non ne forma un dogma. Ma è tacito per la massa che la Scienza
in se stessa sia buona.
La scienza viceversa è il Male allorché si volga a cosa
diversa dalla salute spirituale, di questa certezza il comune cristiano è andato via via perdendo coscienza, eppure essa fu viva fino a Galileo, anzi, ancora per Hawthorne e Melville il peccato imperdonabile è la scienza
mossa da mera curiosità.
Ancora il 5 agosto 1702 Bartholomeu Louren?o de
Gusmào venne incarcerato dall'Inquisizione per aver inventato un apparecchio mosso da un combustibile segreto,
con cui aveva volato per l'aria a Lisbona, sopra gli occhi
del re e d'una vasta folla. L'apparecchio fu distrutto. Ancora suonavano in Portogallo le parole del grande Antonio
2. - Storia del
fantasticare.
Vieira, il predicatore che aveva dedicato il suo apostolato
ai negri delle fabbriche di zucchero in Brasile e che nella
sua Historia do Futuro (Lisbona, 1718) scriveva: "Il miglior servizio che può recare un vassallo al re è di rivelargli le cose future; e se non c'è fra noi vivi chi le manifesti, si cerchi fra i sepolti e si troverà. Saul trovò Samuele morto e Baldassarre Daniele vivo, perché uno uccideva i profeti e l'altro premiava le profezie. Daniele dichiarò intrepidamente a Baldassarre la scrittura fatale sulla parete, annunciandogli che avrebbe perduto quella stessa notte la vita e l'impero. E che importò a Daniele questa triste interpretazione? Subito, dice il testo, Baldassarre
comandò che egli fosse rivestito di porpora e gli si desse
l'anello regale e che fosse riconosciuto per Tetrarca di
tutto l'impero degli Assiri... Se tanto vale la conoscenza
d'un futuro, benché tanto triste... io, o Portogallo, cui ora
parlo, non spero la tua gratitudine né temo la tua ingratitudine. Infatti se non mi annoveri con Daniele fra i vivi,
mi annovero con Samuele fra i morti."
Era ufficio proprio di buon vassallo proscrivere il futile
e funesto volo. Ma proscrivere senza spargere sangue,
mediante la sola forza della profezia, poiché la violenza
della proscrizione può (forse) essere pari alla violenza scatenata dall'appello al proprio uso che ogni ordigno imperiosamente, irresistibilmente emana. Il conflitto d'una
coscienza messa a tal bivio è atroce, secondo l'archetipo
del sacrificio di Isacco o di Ifigenia; tuttavia soltanto il demonio può consigliare di rinunciare alla verità a causa del
terrore che coglie dinanzi ad una scelta umanamente impossibile, e la verità ripete che la conoscenza non è un fine
in sé.
Il cristianesimo ereditava dal mondo antico la nozione
che plus scire velie quam sit satis genus intemperantiae est
secondo l'avvedimento di Seneca, e se Ockham avvertiva
che intellectus vix sufficit ad illa quae sunt necessaria ad
salutem, egli era ispirato insieme dalla tradizione greca,
che vietava l'uso tecnologico delle conoscenze matematiche
superiori, e dall'ebraica. È in questa che il divieto della
curiosità veniva posto all'inizio dell'antropologia teologica, e la Legge mosaica era una bilancia, "che preservava
dalla frenesia del lavoro e dall'avidità di conoscere" come
scrisse in un memorabile saggio André Amar1: quell'equilibrio è stato rotto; allorché la ragione e la conoscenza si
trasformano da mezzi in fini "si vedono trasposti al temporale tutti i miti spirituali. A quello della salvezza si sostituisce il progresso, a quello della città di Dio la repubblica degli spiriti. Il razionalismo trasforma il fervore religioso in fervore scientifico, come muta il castigo divino
in lavoro economico... Le crisi scoppiano quando i granai
sono pieni, non già quando sono vuoti... Da duecento anni
l'uomo europeo vive per suo conto il mito di Faust, ha
sacrificato la sua vita eterna ad una terrestre, fatta di conoscenza e potenza. Il Diavolo col quale ha firmato un patto ha approfittato di tutto il fervore religioso che era volto
a Dio... Ma ancora non abbiamo toccato il fondo della paura, lo spavento assoluto." Anche la saggezza ellenica forniva una bilancia, e anche la tradizione della Chiesa seppe come la mosaica correggere le conseguenze del peccato, che fu colpa di conoscenza.
Ed oggi sembra impossibile evocare la parola di equilibrio e saggezza che ripeta ancora intellectus vix sufficit...,
che distrugga le applicazioni della scienza; eppure che altro mai vale la pena di evocare? La Nuova Atlantide di
Bacone è una fantasia peccaminosa quanto quella d'un
lupanare sereno.
Oltre al dogma del perdono universale senza penitenza, il cristianesimo di massa, ne ha solo altri
quattro. La forma, cioè la bellezza che è la luce d'ogni carità, viene ritenuta un'ostentazione, un'umiliazione
degli afflitti da respingere anziché da coltivare. La giustizia, che dovrebbe essere estinzione del proprio interesse al
fine di ravvisare quale sia in realtà la distribuzione più armoniosa dei beni, diventa per il cristianesimo di massa attribuzione in parti uguali d'ogni bene, pareggiamento
1
Evìdences,
Parigi, aprile 1952 — Science
et
pécbé.
dell'errore e della verità in nome dell'incertezza d'ogni
giudizio umano. Terzo dogma è la necessità della speranza, ma non già della virtù antica, che dava la sicurezza d'una liberazione possibile dai vizi, e restava salda
nei peggiori frangenti della tentazione, stimolando il peccatore a riformarsi: nel cristianesimo di massa vige come
virtù l'opposto di quella speranza santa, cioè la rassicurazione sulla buona sorte mondana, la sicurezza d'una crescente prosperità geologica ed economica, d'una salute fiorente, d'un'evoluzione favorevole della materia secondo
gli schemi di Teilhard de Chardin1. Quarto dogma è l'esaltazione della semplicità; non più l'antica virtù che consisteva nell'unificazione della mente, cioè nell'eliminazione
d'ogni sdoppiamento o fantasticheria, bensì lo stato di
ebetudine e di trivialità che si ritroverebbe nell'esercizio
delle incombenze più tetre, nell'esclusione della riflessione
e dello studio, nell'appartenenza alla cattiva società. Come molte altre cose, questa nuova religione senza nerbo
né scheletro fu individuata in germe da Herman Melville1:
"... c'è un cortese congedo nell'aria
e Gesù è il Dio indulgente.
Questo mutamento, questo mutamento offuscante
[che scivola
(come penombra sul sole),
1
A codesto maestro del cristianesimo di massa, non farebbe bisogno di contrapporre se non una sensibilità stilistica. Al più si può
opporgli una pagina del Libro delle fonti di Sejestànì (Henry Corbin, Trilogie ismaelienne, Parigi, 1961, p. 74): "Chi dichiara che il
Demiurgo ha creato prima un uomo unico e quindi, attraverso generazioni successive, molte creature, lo mette al rango d'un pastore guardiano di cammelli, buoi e montoni il quale risolva di comprare una
cammella, una vacca o una pecora per ottenerne, dopo il debito numero d'anni, molti individui della stessa specie. Cosi si degrada la potenza del Demiurgo al rango di tale impotenza. In verità il Demiurgo
ha potestà di instaurare di colpo le molte creature, come produce di
colpo la Manifestazione grandiosa che comprende Cieli, Astri, elementi."
J
Clarel,
I I I , V.
sopra la fede trasmessa,
ne adombra dunque l'eclissi completa?"
Domanda che non chiede una risposta, ma un'elusione:
basta rifugiarsi dietro il velo delle lacrime, che, al dire di
Claude de Saint-Martin, filtrano la verità come l'acqua del
cristallino la luce.
LA RECITAZIONE FANTASTICA
Chi può recitare in un'epoca fantastica? Si può fare
il caratterista ma non l'attore, allorché da ogni parte si
osservino soltanto volti impietriti a furia di esprimere un
rimuginio o un'ossessione (o l'assimilazione di rimuginii
e ossessioni altrui proiettati su schermi). Le facce quotidiane suggeriscono interpretazioni di personaggi di Beckett, non già di drammi antichi. E perché mai dovrebbe
esserci un volto clemente o riverente tra gli spettatori di
televisione o sorveglianti di fabbriche automatiche? Quali
occasioni avrebbero costoro di manifestare simili sentimenti? Si può provare devozione per un ente di assicurazioni sociali, se ne può forse ammirare la magnanimità o Ipnganimità? Come potrebbe un burocrate essere aggraziato e maestoso? Un capufficio augusto? Soltanto attraverso i quadri conservati nelle pinacoteche potrebbe
un attore imparare l'arte dell'espressione, e cosi tentare
un'archeologica imitazione dell'imitazione. Una disanima
accurata gl'insegnerebbe la misura dell'attuale disordine
fisiognomia), la mancanza di distensione e mobilità dei
muscoli facciali, il carattere di maschera che tutti hanno
assunto, senza rapporto con le circostanze o gl'interni affetti. Gli uomini sono modellati sugli esempi cinematografici o televisivi, su fantastici caratteristi i quali non vogliono veramente parlare con i loro tratti ma soltanto
presentare una certa maschera imponendone la moda:
se li si dovesse leggere secondo le norme naturali della
fisiognomia si coglierebbe un incongruo assieme di segni,
frantumi di linguaggio: i dittatori esprimevano il panico,
James Dean la cefalea. È cosi che si palesa la fantastiche-
\
ria generale, la quale spezza la corrispondenza immediata fra l'animo e il viso, disturba con le sue interferenze
il gioco dei muscoli, fino a provocare i tic. Un tratto della psicologia dell'uomo massa è la sua "simpatia" per coloro che portano con ostentazione i loro tic o altre magagne fisiognomiche: i caratteristi sono oggetto d'imitazione.
È raro oggi chi abbia occhio per il linguaggio del volto
o delle mani, anzi, viene spesso tributata ammirazione a
gente manifestamente tarata, come i guitti dal volto stuporoso e ammiccante di drogati; infine, l'uomo massa non
saprebbe neanche determinare le varietà dell'espressione,
essendo sfornito di vocaboli che vadano al di là della dicotomia "bello-brutto" o "simpatico-antipatico". I popolani d'un tempo sapevano descrivere le persone con esattezza mediante paragoni con bestie, che era un modo argutamente totemico di giudicare le fisionomie ed il probabile destino che esse manifestavano.
L'attore non deve immaginarsi nel suo ruolo, non deve
domandarsi: "Come sarei se fossi re, capitano, mercante."
Il vero attore non fantastica: senza aggiungere nulla
al testo ne ricava razionalmente i gesti impliciti, altrimenti
è un prevedibile caratterista e non un interprete; Garrick
componeva in quiete perfetta il suo volto e quindi lasciava affiorare la passione che il testo chiedeva. Al contrario procede il metodo moderno dell'Actor's Studio, dove
s'impara a seguire la strada opposta e diabolica, di evocare un proprio trauma passato per individuare la smorfia
più forsennatamente appropriata al proprio fantasticare,
che viene poi applicato alle circostanze da interpretare.
D'altronde oggi non si saprebbe purificare i volti dalle
espressioni spurie. Le parti di personaggi eccelsi o dignitosi sono le più inaccessibili all'attore moderno; quelle di
gente prava, più agevoli, perché le fisionomie di dannati
quali si vedono nella pittura o statuaria antiche sono dominanti nella massa. Questo estremo disintegrarsi del linguaggio del viso è stato percepito senza chiara coscienza verso
la fine del secolo XIX, allorché non a caso, avvertendo che qualcosa si andava mutando, cominciò l'uso di
indicare i tratti delle persone amabili attraverso somiglianze con figure di quadri antichi, come a nobilitarli,
a proclamarne la grazia superiore, la distinzione rispetto
alla massa. In Proust un innamoramento spesso avviene
in virtù di tali corrispondenze. Il messaggio segreto di
codesti passi proustiani è: "Esistono ancora, benché rari
da individuare, volti di antica leggiadria ed espressività." Non a caso, nello stesso momento storico l'arte
d'avanguardia propose, invece di volti, maschere negroidi o di teatro Kabuki (impossibili a decifrare dunque
insulse per chi non conosca a fondo le convenzioni teatrali giapponesi o le consuetudini rituali negre) come ad
abituare all'incongrua fissità, all'espressione lemurica che
sono propri della massa. L'arte del ritratto moriva appunto
in quegli anni in cui Gordon Craig voleva trasformare
gli attori in fantocci, e non solo perché la fotografia ne
aveva usurpato la parte più materiale, e perché è difficile
per un'anima vivere senza il suo corpo, ma anche perché non è dato di trascrivere un linguaggio che cominci a
non essere più parlato con coerenza sintattica, ed appunto
allora i tratti cominciavano a non rispondere più a chiare passioni cosi come la mancanza di drappeggio negli
abiti vietava l'espressività artistica dei panni. Già da secoli del resto si era andata estinguendo la capacità plastica
del corpo intero, che vien coltivata dalla danza tradizionale;
i pittori dipingeranno gli ultimi nudi tentando ancora di
farli "parlare" nel secolo XIX.
Questa morte del linguaggio muto dei muscoli s'accorda con la crescente preponderanza del fantasticare, che
prima immalinconisce i tratti e poi li rende caotici.
Basta osservare un bambino che sia allevato accanto
alla televisione, imbevuto di fantasticherie nemmeno sue:
non lo distingui da un pupazzo. Sarebbe incongruo vederlo, fatto uomo, nella penombra, fra i velluti d'un
palco, piangente su un'Ofelia che deliri sul proscenio cosi
come egli delira costantemente fra sé e sé o fra sé e gli
schermi che antepone alla realtà.
FANTASTICHERIA E STREGONERIA
Nelle civiltà tradizionali la fantasticheria era sconosciuta
o condannata, la mente veniva ammutolita dal lavoro fisico o disciplinata dalla preghiera; il pensiero si avvaleva
di immagini si ma non ne era mai vittima. La perfezione
aboliva perfino il sogno: " I saggi dell'antichità vegliando si scordavano di se stessi. Quando dormivano non sognavano. Perché mai avrebbero parlato a vuoto?" scrisse
Lie-tseu {k3). Ogni fiaba insegna a non trastullarsi con
le facoltà immaginative; "di fiaba in fiaba impariamo
come il desiderare sia un surrogato dell'azione; ma i desideri, volti al bene o al male che sieno, sono tremendamente reali e tali che non li si può intrattenere impunemente" scrisse W. H. Auden nella sua prefazione alla
raccolta dai fratelli Grimm. Fino dai primordi vennero
suggeriti dai testi religiosi gl'incantesimi contro il vizio;
nél'Atharva Veda è fornita la preghiera: "O tu che
sciogli, slégaci i ceppi più alti e più bassi, quelli di Varuna; allontana da noi il cattivo sognare e la difficoltà"; è
consigliato anche lo scongiuro: "Il cattivo sognare che è in
noi, quello che è nei nostri familiari, quello che è nel nostro cavallo, che se lo metta come collana colui che non è
dei nostri, colui che spregia Iddio, il motteggiatore" {XIX,
57,3).
Pitagora dava come massimo precetto: Fa' ciò che fai,
cioè: attendi al presente, tronca le divagazioni. Non solo,
ma egli insegnava a purificarsi in modo da regolare
altresì i sogni, ottenendo un'immaginativa simile ad uno
specchio grazie a certi canti ed a certi suffumigi serali
che sciolgono da ogni preoccupazione senza dare euforia
(ci è tramandata la composizione del profumo: miele,
vino, zibibbo, resina, mirra, legno di rosa, seseli, lentisco, bitume, giunco, ginepro, cardamone, calamo). E
ogni religione ripete l'ammonimento: disciplina la tua mente, impedisci che divaghi da una ad altra immagine, che
ordisca discorsi fra sé e sé: unificala. Chi fantastica si
sdoppia, è in sé ma è per l'altro se stesso, che vive nelle fantasticaggini; chi si osserva sarà inetto cosi all'azione che non tollera divisioni interiori, come al pensiero che vuole intensità ed un fondo vuoto. E ogni religione, ad una fase più alta, insegna che il peccato non
è del senso ma del consenso, non già delle azioni, ma
del pensiero, ché soltanto dei propri pensieri si è responsabili. Soltanto dai pensieri nascono conseguenze: pesi
che si è costretti in seguito a portare; le azioni sono meri
sintomi che consentono di sapere a qual punto si è nella
purificazione o nell'intorbidamento della mente; se in
questa trascorrono immagini disordinate, analoghe azioni
seguiranno.
Nella tragedia The Borderers Wordsworth mise sulle
labbra di Oswald i versi:
"L'azione è transitoria — un passo, un colpo,
Il moto di un muscolo — da questa o quella parte —
È fatta, e nel vuoto che poi segue
Stupiamo di noi come uomini traditi.
La sofferenza è permanente, oscura e tenebrosa
E percepita all'infinito."
Ma l'azione è di nessun momento, un'ombra che subito trascorre, anche in un altro senso; è inutile che la
si renda immacolata se i pensieri non lo sono, e se questi lo saranno lo sarà anch'essa ineluttabilmente, e perciò
si dice: guai ai farisei impeccabili. Il motto latino assai
enigmatico: affrettati adagio, fu rettamente interpretato
dagli umanisti italiani: medita a lungo e agisci senza indugio di riflessione. Ma questa è una saggezza riposta e
difficile, che è anche male inculcare in chi non abbia prima cominciato l'opera di purificazione della mente e per-
tanto non sappia ancora il valore né della lunga meditazione né dell'azione scattante. I sacerdoti celti insegnavano che il salmone della conoscenza brucia le mani (gli
strumenti dell'azione) a toccarlo, ma in bocca conferisce
sapienza.
Quando una liturgia ritma tutta l'esistenza della comunità è consentita all'uomo l'impersonalità, egli è tutto assorto nell'opera che la sua condizione gl'impone e nelle
immagini che la tradizione gli offre. Quando la comunità si decompone, allora viceversa l'abbandono dell'individuo al suo ambiente sociale provoca cecità e corruttela, nella misura della decomposizione generale; ma può
avvenire che nella monade della sua persona si salvi
assai più della tradizione di quanto non se ne preservi
nell'agglomerato: cosi nella casa di certi borghesi ottocenteschi o nell'anarchia di certi refrattari viene conservato
il ricordo delle norme naturali che nella società è o del
tutto estinto oppure oggettivamente dileggiato essendo le
superstiti tracce ridotte a parodie. Proprio l'opposizione al
costume sociale diventa allora il primo passo per riacquistare il beneficio della tradizione. Proprio allora il segno
dell'elezione è il non far parte di nessuna forza sociale.
In'società non del tutto disfatte, la famiglia era l'associazione dedita al culto degli antenati e delle divinità del focolare (delle ceneri, delle soglie, e d'ogni tratto della casa)
e non già il nido dove si può sognare insieme, e sanciva il
contegno, la dignità relativa di ciascuno, nel comando
o nell'obbedienza; fuor d'essa la confraternita o ghilda o
fratria insegnava la liturgia d'un mestiere; all'intorno era la
comunità intera che raccoglieva ognuno nelle feste comuni. Il lavoro, il gioco, la cerimonia, la preghiera chiudevano ai quattro punti cardinali l'accesso alle forze maligne della personalità e della fantasticheria che nella personalità può allignare, poiché l'immaginazione veniva educata nel modo più diligente.
In varie civiltà esiste un momento dell'anno in cui pare
che si lasci campo alla fantasia di mostrarsi nella sua turpe autonomia, come a esorcizzarla per tutto un ciclo: il
carnevale; ed esiste anche una classe di persone destinate ad assumersi la parte dell'uomo fantastico: i buffoni segnati da qualche deformità o i ragazzi. Il carnevale e la buffoneria sono salutari perché servono come
un apostema provocato a trarre i succhi maligni dal corpo
sociale, e ostentare i mali alla luce della società è pur
sempre meno pericoloso che covarli in segreto, perché,
palesati in certe circostanze, vengono altresì arginati: il
pensiero è potente, ma l'azione è circoscritta: solo il pensiero si propaga fuor dall'attimo. Infine il contatto con
oggetti licenziosi e buffoneschi è degradante ma non alienante come il fantasticarne.
Il buffone d'altronde non è semplicemente un uomo
fantastico, egli compare alle feste in cui un ciclo si chiude e se ne apre uno nuovo, quando tocca mutare consuetudine. Allora è possibile che restino residui delle cose da
abbandonare, dell'inverno ozioso quando sopraggiunga la
primavera, dell'estate laboriosa allorché tocchi richiudersi
nelle case, e questo potrebbe distrarre, togliere attenzione
al presente. Si devono uccidere le abitudini contratte, i
rimpianti: il fomite delle distrazioni. Allora il buffone le
incarna e suscita la risata liberatrice o l'allegra persecuzione. Perciò il buffone è insieme goffo, come ciò che vorrebbe sussistere fuor del suo ciclo, e astuto, pieno di risorse, spesso frustrate, talvolta fortunate. Egli è un esorcista, perché tiene lontani i miasmi spirituali delle cose morte,
le malignità dell'invidia o le depressioni della nostalgia,
ed è protetto dal dio dei mutamenti che presiede anche
agli scambi ed al commercio. Spesso è diviso in due, forma una coppia di gemelli uguali oppure opposti, essendo
all'incrocio di due stagioni, di due condizioni, del vecchio e del nuovo, di ciò che può soltanto sussistere per
opera di fantasia e di ciò che dev'essere vissuto nel modo
più sveglio possibile. Perciò potrà essere mezzo uomo e
mezzo animale, mezzo maschio e mezza donna, mezzo
bambino e mezzo adulto; e la sua duplicità fa ridere,
perché egli si comporta con la spudoratezza della bestia
pur essendo un uomo, con la maestà del comando pur es-
sendo passivo, e cosi insegna che si diventa come lui a
immaginare cose bestiali o a pargoleggiare o a scimmiottare l'età grave o a confondere il morto ed il vivo o
a sdoppiarsi formando una coppia di buffi gemelli, magari l'uno saggio e fattivo (Prometeo) e l'altro stolto
(Epimeteo).
Il buffone antico aveva un carattere schiettamente esoreistico: il suo costume a tinte stridenti era un'uniforme,
il suo comportamento, ora jattante ora vigliacco, il suo
stile ad antitesi, onde pronunciava con grazia le cose aspre
e viceversa, le sue storpiature di parole, le sue metafore incongrue, erano modi di mettere in burla i dolci ricordi, le impuntature altere, le distrazioni sognanti. Poiché scioglieva e capovolgeva ogni cosa, era chiamato a curare i malati, affinché dissolvesse ciò che negava la salute: nella negazione della negazione diventava medicinale. Il male del male fa bene.
Il buffone insegnava ad accogliere l'elemento della sorte o fortuna che poteva deviare ogni tanto il corso del
destino; mediante la risata si evitava di somigliargli. Infatti quando ci si avvede di essergli affini ci si libera dell'affinità ridendone, ed egli provvede a che ciò avvenga
commettendo stravaganze: grazie a lui ci si scioglie dal contegno tracotante oppure floscio, dalle distrazioni, dalle bugie e dalle locuzioni stereotipe che egli beffeggia con le sue
storpiature, dalla ghiottoneria che egli spinge alla demenza,
dalla lussuria e dissolutezza che egli dimostra buffe.
Suoi animali sono l'asino o il porco. Durante le feste carnevalesche venivano accesi falò e torce, che dovevano bruciare ogni residuo del passato, o si buttavano nell'acqua esseri simbolici. La vecchia Beffana o il Corvo nero
erano emblemi del passato da cui ci si doveva liberare
con ebbrezza.
In epoche già decadute tutta la plebe e la parte più
corrotta dei signori si assume il ruolo del buffone: durante i carnevali i bambini vengono mascherati da adulti, gli
adulti da bestie o da morti o da pazzi, si fanno capriole,
si agisce con licenziosità e crudeltà, si adopra un linguag-
gio assurdo, osceno e divertono le cose ripugnanti; intanto il clero usa paramenti cupi e si ritira dalla comunità dove ciò che si è osato concepire nella mente viene
compiuto all'aperto sotto la maschera, da parte dei deboli, immaturi, larvali.
In febbraio, alla fine dell'inverno, avvenivano tali purificazioni febbrili mediante feste carnevalesche; al calendimaggio quando si riportano nei prati rinverditi i greggi, nel culmine del calore canicolare quando sono in pericolo i pascoli, e alle calende di novembre quando i
greggi tornano negli stazzi, si sfrenano gli elementi, e di
nuovo si accendono i falò e ci si concilia coi morti. Oltre che a queste date, che saranno quelle dei Sabba, il
buffone era chiamato a prestare la sua opera ai funerali,
quando doveva equilibrare con la sua scurrilità il cordoglio: il lutto ed il buffone sono congiunti, associazione salutare non solo per il motivo ovvio che il cordoglio funebre non può non essere interrotto ma altresì per
un'altra causa: la burla, la licenza, la storpiatura, la
mimesi, venivano associati all'idea del rischio e della
morte, e così servivano soltanto da vaccini contro il
pericolo di cadere nel fantastico, senza diventare suggestioni o incitamenti alla prevaricazione1. L'armonia era raggiunta, e soltanto coloro che sfidassero il pericolo di morte,
e facessero della buffoneria luttuosa una cosa seria, della
mostruosità una norma, restavano fuori dell'ordine. Accanto al buffone esorcista, forse soltanto in comunità già
intaccate dove il gioco minuzioso dei contrappesi posti dalla tradizione non riesce più a svolgersi, compare il cultore
della magia nera, non esorcista ma untore e non si provvede più a cacciare le ossessioni in figure come il porco o
l'asino o il corvo o gli uccelli notturni, ma anzi si coltivano.
Oggi i movimenti dell'anima vengono denominati impulsi, istinti, scariche emotive (o addirittura, emozionali).
1
II Gregorovius cita la saggia osservazione del tempo di Teodorico: "Expedit interdum desipere, ut populi possimus desiderata gaudia
continere"; questa è una delle servitù dell'imperio, la più greve.
Metafore che riconducono l'anima ad un impianto idraulico o a una stazione di smistamento di fili elettrici o ad
una macchina elettronica, e vengono scambiate per rappresentazioni razionali, neutre, oggettive, laddove appare irreale l'antico metaforeggiare che parlava di ispirazioni di
demoni o altri spiriti. Il fantasticare era opera, secondo i
traslati antichi, di uno spirito di tenebra: chi si favoleggiava potente e satrapico era detto in preda al demonio della superbia, chi si ammanniva scene erotiche era considerato vittima del demone della lussuria, chi comunque si
attediava con frasi e figure vacue era reputato sofferente di accidia, cioè colpito dal demone meridiano. L'attribuzione ai demoni di queste tentazioni interiori consentiva
almeno di alienarle, di strapparle al buio tepore dell'intimità.
Con la caduta delle divinità pagane spesso si attribuirono a loro questi misfatti interiori, e Apollo divenne Lucifero, demone d'orgoglio, Diana divenne strega, condotterà di fantasmi notturni. Il padre assiro Taziano (110172), nella sua Allocuzione ai greci scrisse:
" I dèmoni, mossi da frenesia contro gli uomini a causa
della loro cattiveria, ne pervertono le menti, che già di
per se stesse declinano verso il basso, con varie ingannevoli rappresentazioni sceniche, per impedire che si sollevino verso il sentiero che mena al cielo... Ci sono malattie e turbamenti della materia che sta in noi, ma quando
essi si producono, ecco i demoni che se ne attribuiscono
la causa e s'avvicinano all'uomo, non appena egli s'ammali... Ci sono visitazioni demoniache e chi sta male e chi
dice d'essere innamorato e chi odia e chi desidera d'essere
vendicato, tutti costoro accettano i demoni come loro aiutanti. Ed il modo di procedere di questi è il seguente:
come le forme delle lettere e le loro linee da sole non
significano niente, però gli uomini hanno inventato dei segni che esprimono i pensieri, imparando dalle combinazioni delle lettere ciò che queste erano destinate a esprimere, cosi le varie specie di radici e il rapporto fra tendini e ossa non possono niente di per se stessi, ma sono
3. - Storia
del
/jnldsticure.
la materia elementare su cui opera la cattiveria dei demoni, i quali hanno determinato il fine che possono servire a raggiungere. E quando essi s'accorgono che gli
uomini consentono a farsi servire, li sorprendono e se ne
fanno degli schiavi. Ma come sarà mai onorevole essere
d'aiuto in adulterii? Come sarà mai nobile sollecitare degli uomini a odiarsi fra loro? Come sarà mai giusto attribuire alla materia e non a Dio la guarigione d'un malato? I dèmoni con le loro arti persuadono gli uomini a distogliersi dal pio riconoscimento di Dio, inducendoli a porre la loro fiducia in erbe e radici."
Atenagora, l'altro padre della scuola alessandrina (morto nel 177), è ancora più esplicito nella sua Supplica per
i cristiani:
" I moti irrazionali e fantastici dell'anima intorno alle
opinioni producono una quantità di immagini, talune ricavate dalla materia e talaltre formate e prodotte autonomamente; questo accade nell'anima specie quando essa partecipa dello spirito materiale e si confonde con
esso senza più guardare alle cose celesti ed al loro Fattore, ma anzi bada alla terra, riducendosi a carne e sangue
senza uno spirito. Tali movimenti irrazionali e fantastici
dell'anima fanno sorgere vuote visioni nella mente, talché essa si fissa follemente sulle immagini... I dèmoni
che aleggiano sulla materia, ingordi di esalazioni sacrificali e sempre pronti a indurre gli uomini in errore, si
avvantaggiano degl'ingannevoli moti delle anime sparse
nella moltitudine, e, impossessandosi dei loro pensieri,
fanno fluire nelle menti vuote visioni che paiono provenire dagl'idoli e dalle statue e perfino quando un'anima, spontaneamente, immortale com'è, si dirige verso la
ragione, sanando il presente e prevedendo il futuro, i dèmoni se ne attribuiscono il merito."
Clemente d'Alessandria, il primo dei grandi teologi, chiaramente studia il rapporto tra la fantasticheria e la demonologia nel capitolo XVIII del IV libro delle sue Miscellanee o Stromata.
Egli invita a non dar peso ai sogni, e narra l'aneddoto
di Beccoride: a costui una cortigiana si rivolse per ottenere giustizia da un cliente il quale, dopo averla ingaggiata, l'aveva respinta senza pagare dicendo d'averla già
avuta in sogno; Beccoride ordinò al cliente di mettersi
controluce e di tendere con la mano una borsa d'oro e
invitò la cortigiana a pigliarsi l'ombra della borsa. Ma, respinti cosi i sogni, Clemente soggiunge: "Sogna però da
sveglio chi guarda per poi desiderare, e non solo, come
disse uno gnostico, allorché guardando una donna immagini nella sua mente un amplesso, perché questa è
già patente lussuria, ma quando guardi alla bellezza della
persona e, come afferma il Verbo (Matteo V, 28), la
carne gli paia bella a fini di lussuria; se l'ha rimirata
carnalmente e peccaminosamente, egli sarà giudicato per
aver ammirato. D'altra parte colui che guarda alla bellezza con casto amore, non pensa che la carne è vezzosa, ma che lo sia lo spirito e ammira il corpo quale immagine la cui bellezza lo trasporta al Creatore e alla vera
bellezza e mostra il sacro simbolo, l'impronta chiara della giustizia agli angeli che attendono all'ascesa, voglio
dire, l'unzione dell'accettazione, la qualità dell'atteggiamento dell'anima che si rallegra per la comunicazione dello Spirito Santo."
La visione di questo schieramento di opposte presenze
ai due lati dell'uomo aiuta ad acquistare una completa padronanza dell'immaginazione, a fermare la ruminazione interiore, rigettando su enti estranei i movimenti che vengono dichiarandosi nell'animo.
Nel suo trattato sulla perfezione il secentesco gesuita
Alfonso Rodriguez (III, IV, VII) compendiò cosi la dottrina dei Padri:
"La tentazione carnale non nasce dalla carne allorché
si combatte più con i pensieri e con le sozze immagina"zioni che con i sozzi sentimenti e movimenti del corpo,
ovvero quando questi ci sono, si, ma la tentazione non
piglia inizio da essi; allorché, cominciando dai pensieri,
risultano sentimenti e movimenti nella carne, la quale
essendo a volte debolissima e come morta, i pensieri cat-
tivi sono tuttavia vivissimi, come avveniva a San Girolamo, secondo egli stesso racconta, che essendo il corpo
debole e consumato e quasi morto dalle penitenze e grandi asprezze che faceva, gli pareva di trovarsi tra i balli
e festini delle ragazze di Roma. E alle volte i pensieri sono
tanti e tali che la persona non ha mai saputo né udito
né immaginato cose simili a quelle che le si presentano.
E nella forza e nell'impeto con cui esse gli giungono addosso e in ciò che ode interiormente, l'uomo sente che esse non nascono da lui, ma un altro le dice e le fa. Tutti
questi sono segni manifesti che quella persecuzione proviene dal Demonio, e non nasce dalla carne, benché si patisca nella carne."
Il Rodríguez elenca gli accorgimenti Coi quali i Padri
fugavano queste fantasticaggini, raccomandando anzitutto di burlarsi del Demonio, "ed alcune volte lo si può
fare fischiandogli dietro, senza dire cosa e senza entrare
in ragioni con lui". Fischiare, crollare il capo, schioccar
le dita, sono tutti mezzi per cacciar le fantasticherie
(c. V I I I ) .
Il maggior maestro, la cui opera venne travolta ahimè
dalla condanna inflitta alle dottrine origeniane durante il
quinto concilio ecumenico, fu l'abate Evagrio, del IV secolo. Egli spiegò tutta la vita monastica come spegnimento
durevole dell'immaginazione:
"Le divagazioni mentali sono placate dalla lettura dei
libri sacri, dal non indulgere alla sonnolenza fisica, dalla
preghiera...
"L'agitata inquietudine è calmata dal canto dei salmi,
dalla magnanimità e dal cuore misericordioso.
"Ciascun rimedio produce il suo effetto se usato tempestivamente e con discrezione. Il rimedio inopportuno e
indiscreto è di breve durata; ciò che dura poco è dannoso, non utile.
"Ogni pensiero che viene dai dèmoni, porta nell'anima delle immagini di oggetti sensibili; la mente, una volta ricevutele, le rumina. Cosi dall'oggetto predominante nei pensieri possiamo sapere se il dèmone si è in-
trodotto in noi. Per esempio, il ripetersi dell'immagine
di qualcuno che mi ha amareggiato o offeso indica che
il dèmone del risentimento mi ha sfiorato; se il pensiero
del denaro o di qualche ghiottoneria torna frequente,
subito so chi è che mi importuna. Non voglio dire con
questo che ogni ricordo di tali cose venga dal demonio,
la mente stessa riproduce a volontà le immagini di eventi
passati. La chiarità della mente, ferma nel pensiero costante di Dio, appare quando, nella preghiera, i pensieri che
nascono dalle realtà esteriori sono aboliti1."
Ma Evagrio avverte altresì che "talvolta avviene che i
dèmoni ti suggeriscano pensieri e nello stesso tempo ti
stimolino a pregare contro di loro o a rispondere loro,
e poi, spontaneamente, si ritirano. Questo fanno affinché
tu ne tragga fierezza e t'immagini di aver cominciato a
vincere i pensieri ed a mettere in fuga i dèmoni." (Trattato dell'Orazione, 134)
Perciò occorre: "che tu sia il portinaio del tuo cuore,
e che non lasci entrare alcun pensiero senza interrogarlo.
Interrogali a uno a uno, ed a ciascuno di': — sei dei nostri
o della fazione dei nostri avversari? — E se ti è domestico ti colmerà di pace e se invece dell'Avversario, ti
agiterà di collera o ti turberà con desideri. Devi ad ogni
istante scrutare dunque lo stato della tua anima" (lettera XI).
In tal modo il perfetto cristiano è costantemente
sveglio, non permette l'accesso ad alcun dèmone, ad alcuna immaginazione. Beninteso la sua fantasia non viene
da ciò indebolita, anzi cresce grazie alla flagellazione diuturna, facendosi sempre più obbediente e insieme robusta. Essa accompagna il pensiero, del tutto priva di autonomia, adusata a seguire le leggi stesse della speculazione e della crescita organica. Eccola tutta rinnovata, addomesticata, in questa serie di immagini che sempre ritornano negli scritti patristici:
Una Torre si alza su uno sperone di Roccia, — Una
1
Traduzione di Giovanni Vannucci, in La Filocalia, Firenze, 1963.
38
ELÉMIRE
zolla
Coppia d'Uomo e Donna, — Una Testa sopra un Corpo, — Cristo e la Chiesa, — l'Intelletto e la
Sensibilità
pura —
Potrebbe essere un accavallarsi e imbrogliarsi di rappresentazioni fortuite simili alle trascrizioni surrealiste di fantasticherie automatiche, se i singoli momenti non costituissero invece un seguito strettamente vincolato, se essi non
rispondessero di sé davanti ad un intelletto che se ne è
fatto responsabile asservendoli: essi sono l'uno all'altro
equivalenti e rappresentano una serie di figure le quali durante la contemplazione dei primi cristiani tornavano ritmicamente, aprendosi come in cerchi concentrici. La meditazione consisteva nel trasferire le qualità di ciascuna
immagine alla prossima, ottenendo arricchimenti memorabili e arguti. In quella serie di coppie di figure equivalenti non gioca dunque la fantasticheria, ma l'ingegno fantastico, il raziocinio immaginoso; l'uomo che vi si esercita
non versa in uno stato di inerzia, di passività e confusione,
anzi, è raccolto e vigile: pensa1.
Ma la dottrina e pratica cristiana intorno alla fantasia
è tutta compendiata nell'interpretazione che Agostino diede del racconto della caduta (nella Enarratio in Psalm.
CXLIII, XC, e nel De Trin. XII). Il serpente tentatore è
l'immaginazione, che si presenta a Eva (la concupiscenza
o sensibilità) la quale corrompe Adamo (la volontà).
I tre personaggi della caduta sono tre parti dell'uomo:
la sua immaginazione, che va castigata; la concupiscenza,
cioè la sua parte femminile, la quale viene impersonata
1
L o stesso risultato era raggiunto dai pagani nei loro misteri, come attesta Proclo: "Nelle iniziazioni e nei misteri gli dèi spesso ostentano molte forme di se medesimi e si mostrano mutando molte parvenze. E si proietta da loro una luce ora informe e ora conformata ad
aspetto umano e ora tramutantesi in altra forma... Detta l'invocazione,
vedrai o un fuoco simile a un fanciullo che allargherà il suo fiotto nell'aria come uno sprazzo o anche un fuoco informe da cui verrà una
voce, o una ricca luce che si volverà stridendo sul suolo, o anche vedrai lampeggiare un cavallo pieno di luce o anche un fanciullo ardente
cavalcante il veloce dorso di un cavallo, sia tutto coperto d'oro, sia
invece nudo, o anche dardeggiarne, oppure stante sul dorso" (cit. in
V. Macchioro, Orfismo e paolimsmo,
Montevarchi, 1922, p. 147-148).
da Eva ed è peccaminosa, ma potrebbe anche per grazia
trasformarsi in Saggezza fatta carne, e infine la sua parte
virile, che sola è responsabile di vero peccato, allorché
acconsenta ai diletti che la parte femminile si piglia con
il serpente.
Il rapporto fra serpente e fantasticheria è archetipico,
ritorna spontaneamente nel metaforeggiare dei poeti,
come in Dejection (VII) di Coleridge:
"Via, pensieri, vipere chi vi avvolgete attorno alla mia
mente,
fosco sogno della realtà!"
Coloro che firmano il patto col serpente entrano in un
universo dove tutto viene rovesciato, la fantasticheria invece che messa in fuga vien coltivata, ornata, ci si offre in pasto ad essa, anzi la si aiuta con istituzioni, con culti che
sono lo stravolgimento dei riti sacri. Le fantasie di vendetta, di fornicazione, di dominio vengono sfrenate, se ne
seguono i dettami senza badare ai limiti imposti dalla realtà. La parte virile dell'uomo viene sottomessa alla femminile, che adora il serpente e lo interroga come oracolo.
Plutarco narra (De Is. 46) le cerimonie con cui, secondo
i precetti di Zoroastro, si doveva prestare culto ad Arimane, il dio della tenebra. Come il sacerdote del Dio Buono
doveva essere attirante, quest'altro occorreva che fosse all'incontrario allontanante e luttuoso, e usava pestare in un
mortaio un agliaceo (gli agliacei contengono un volatile
composto dello zolfo, refrattario ad una digestione ordinata; ancora in Isidoro di Siviglia l'aglio è emblema di
peccato), invocando Ade e la Tenebra; usava anche sgozzare un lupo (la lupa è libidinosa, donde lupanare, il
lupo è feroce) e mischiarne il sangue alla schiacciata
d'agliaceo e bisognava celare l'immondo intruglio in un
luogo dove il sole mai risplendesse. Questa cerimonia
scongiurante poteva anche essere rovesciata, diventare impetrante, ed allora si entrava nella magia nera, di cui
sono preservati tratti in Stazio, Lucano e Apuleio.
Le streghe tessaliche erano assai simili a sciamani: celebravano il culto di notte in solitudine o con pochissimi
astanti; si spalmavano di unguenti lievemente velenosi che
davano senso di volo; spesso irroravano di sangue sacrificale e caldo un cadavere, per costringerlo a parlare e
per conto loro contorcevano la faccia, scarmigliavano i
capelli e forse lasciavano che fra le ciocche si ergessero
serpentelli, come a diventare di casa nell'orrore, a entrare
nei panni di quanto v'è di ripugnante e terrificante; poi
cominciavano un brontolio cupo che si modulava a poco a
poco: guaivano come ulule, bubbolavano come il gufo
reale, latravano come il gufo di palude in foia, ridevano e abbaiavano come civette. Diventavano streghe, cioè
strigidi: uccelli notturni avidi di carne cruda, dallo sguardo fisso, dalle gesticolazioni bizzarre, dagli strani ritornelli.
Ma la civetta è anche l'animale di Atena e il grido propizio alla dea della saggezza è un ululato (ololu, ololu:
Iliade, VI, 297 sgg. ): Atena è colei che sa maneggiare le
forze tenebrose.
Ecco una traccia di spiegazione dei miti che si formarono,
attorno al totem della civetta o del barbagianni: Atena
è forte perché ha un'egida, un sacco, suppose Robert Graves, di pelle caprina difeso dalla testa della Gorgone, con
dentro racchiuso un serpente. Ora se si vuole accettare l'identità di serpente e immaginazione, cioè se si ammette che Agostino traesse dalla tradizione comune la sua
interpretazione del serpente biblico, il significato dell'egida
di Atena diventa leggibile: Atena è forte perché tiene
l'immaginazione chiusa e ne volge all'esterno la faccia pietrificante. Inoltre Atena insegna a congiungere l'orrido
e terrificante, il gorgonico, al sibilante e strisciante immaginare che serpeggia nella testa. Cosi Atena è la saggezza che sa porre nel giusto orientamento la parte sinistra,
cioè femminile, bubbolante e civettuola dell'uomo. Uno
studioso di strigidi, il Newton, suppose, osservando gli attuzzi, le moine della carina noctua che è l'uccello di Minerva inciso sulle medaglie ateniesi, che essa fosse attribuita ad Atena sotto l'egida della figura rettorica dell'ironia, ex contrario, E infatti Atena adopra la civetta,
mentre la maga tessalica di cui parla Apuleio diventa,
dopo le sue operazioni solitarie, dopo aver assorbito il suo
stupefacente, uno strigide (bubo). Atena inoltre è figlia di
Metis, figura titanica (corrispondente al dio della metamorfosi, Mercurio) venerata alle feste della vigilia di calendimaggio, rimaste nel calendario stregonesco come data d'un
convegno del Sabba. Ma Atena è figlia e non figlia, perché suo padre, la saggezza virile che contempera giovialmente le varie disposizioni, Zeus, ingoiò e fece sparire
Metis, e dopo partorì la figlia dal proprio cranio. Esculapio, informa Apollodoro (III, X, 3), risuscitava perfino i
morti "avendo ricevuto da Atena il sangue sparso dalle
vene della Gorgone, e mentre egli usava il sangue uscito
dalle vene della parte sinistra a jattura dell'umanità, quello uscito dalla parte destra l'adoprava a salvamento".
È qui accennato il valore della fantasia completamente
trasformata dall'ascesi, da successive trasmutazioni e morti,
e capace ormai di bene, pur restando ambigua. Il motivo
del sacco o cesta di Atena che contiene il serpente e non
si deve aprire torna nel mito delle figlie di Cecrope, le
quali osano tuttavia schiuderlo e vengono divorate dal serpente, Erittonio. Lo stesso significato ha la favola di Lucio in Apuleio: egli vuole fare come la strega, abbandonarsi all'immaginazione notturna, usare gli stupefacenti, e
allora si converte in asino: l'animale più lamentevolmente
schiavo; tale la sorte della volontà virile che si lasci irretire per curiosità dalle bubbole della Gorgone. Non
a caso egli si è lasciato invescare, fino a diventare marcidus, negli amplessi della servetta della strega, e la lussuria provoca la curiosità inane, il desiderio di sperimentare
fantasticamente.
In India il popolo crede che la carne di strigidi sia un
afrodisiaco e che renda stupidi. Un avvedimento simile a
quello racchiuso nel mito delle figlie di Cecrope è contenuto nella leggenda della figlia della fornaia mutata in civetta
per aver voluto assaggiare il pane preparato per Gesù
dalla madre.
Fra gl'indiani dell'America settentrionale è preservatg
il culto delle strigidi in forma molto più completa che non
presso gli altri popoli o di quanto possa insegnarci la letteratura antica.
Fra tutti è di grande profondità il mito dei Kiowa:
dopo morto lo stregone ¿venta uno strigide e lo strigli e dopo morto diventa un grillo. La sequenza si può
leggere nei due sensi, e indica che morendo alla saggezza si diventa streghe e morendo alla stregoneria si resta
fantastici: l'innocuità dell'aver grilli per la testa può morire e allora si diventa notturni e sinistri con bubbole da
allocchi, morendo a questa notte sinistra si diventa saggi.
Il gufo impagliato è usato fra altre tribù come figura
propizia alla preparazione delle medicine; ma in tutti
i popoli gli strigidi sono associati alle macchinazioni stregonesche, ai rapporti con l'immaginazione e la morte, e
talvolta li si riverisce come potenze pericolose mediante
danze che esprimono almeno due concetti: lo strigide vede
nelle tenebre, è di malaugurio e perciò può essere medicinale se volto contro cose malaugurate, come le malattie1.
Gli stessi concetti sono propri dei Padri della Chiesa;
San Massimo di Torino (Migne, P. L. LVII, 458) paragona gli eretici e increduli a gufi: "Sono acuti nella superstizione, tardi nelle cose divine e mentre credono di volare nell'empito del discorso, vengono accecati come gufi
dallo splendore della vera luce." Ma al rovescio, come
osservò Paolino da Nola (P. L. LXI, 371): "la civetta
della muraglia (Salmo 101,7), cioè della casa del Signore, può spingere nelle tenebre di questo mondo lo sguardo acutissimo della sua anima purificata, si da poter dire,
secondo la parola del profeta, chiaroveggente com'è — A
1
Vd. Funk & Wagnall's, Standard Dict. of Folklore e te., New
York, 1950. Come le strigidi cosi la pianta sulfurea, l'aglio, viene appesa affinché attiri su di sé le malattie aleggianti in un luogo, cioè diventi un capro espiatorio (C. M. Skinner, Myths and Legends of Flowers etc., Filadelfia e Londra, 1911). Già nella caverna preistorica di
Ariège il'mago con palchi di corna ha faccia di civetta. Diversi sono
i misteri di Ecate, che hanno per totem il cane, per luogo sacro i trivi,
per manifestazioni gl'incubi, il sonnambulismo. Esiste anche un'Ecate
Afrodisia.
me la tenebra non è tale, la notte è chiara come il
giorno — . "
La facoltà fantastica e buffonesca può diventare del tutto sottomessa, illuminante nella notte del peccato, purché
ogni figura notturna diventi per essa spunto di richiami
celesti.
La coltivazione del male fantastico nel mondo antico era
condannata; anche Augusto decretò la persecuzione del
reato e Apuleio dovette difendersi dall'accusa di esservi
incorso.
Presso talune sette gnostiche una forma del culto perverso dovette esserci, poiché Ireneo da Lione ed Epifanio
danno contezza di riti assai sordidi. Anche se mancava
il culto del totem degli strigidi, le sette propugnavano l'ideologia stregonesca: soltanto attraversando ogni
male si giunge a liberarsene; certo, si possono anche
esaurire i mali rappresentandoli in tutta la loro estensione
desertica e notturna con meticolosa fantasia: le pitture
dell'inferno nelle chiese avevano tale ufficio; ma questa è una strada pericolosa, poiché si può guardare per curiosità e non per istruzione, si può essere attratti dall'orrore, dall'effeminatezza lubrica e informe, dal totem della
civetta.
Il cristianesimo rafforza le barriere contro l'obbrobrio
magico satanico, ma non le fonda. Avvenne semplicemente che con il cristianesimo passarono alla parte tenebrosa forze che prima erano state solari, come Apollo o Venere, ma nemmeno questo è del tutto vero.
Apollo può, allorché il suo culto viene abbattuto, lasciare qualche residuo di venerazione non del tutto assimilato nell'immagine del Cristo come Sol ìnvìctus e nuovo Apollo, e allora, diventando fonte d'inquietudine, si
trasforma in fantastico e stregonesco.
Cosi San Benedetto a Monte Cassino, secondo narra
San Gregorio, "trovando un tempio dove da' stolti villani
si adorava il dio Apollo, commosso dal gran zelo d'Iddio, ruppe l'idolo... Di ciò molto turbandosi il Nemico,
non per sogno né per modo occulto, ma per visione manifesta Io molestava e venivagli infino agli occhi... visibilmente gli appariva molto nero e ardente". Sono metafore assai efficaci per dire il turbamento rimasto in San
Benedetto dopo aver estirpato il culto: il residuo fantastico lo tormentava tanto più quanto meno era smaltito. Cosi Ennodio nell'Epitalamio mostra come Venere, disprezzata nei chiostri, si vendichi: "dopo gli ozi conviene che divampi maggior fiamma: imparino i popoli che
proprio allora cresce la divina allorché giace negletta". Essa è però una forza visibile nella primavera:
"Quando il nuovo anno forma le tenere spighe
La natura siede nei talami ed è calda la terra.
Il mondo è dipinto da varietà di fiori:
Una sola faccia al sole: grazia, culto, amore.
Gli arboscelli umidi radunano il vapore,
Il succo alimenta gl'ignei semi.
Al demone marito si erge la terra rigonfia,
La turgida selva verdeggia di spoglie voluttuose.
L'erba adescante è spinta al nodo dei cespi,
Le braccia della vite danno dita gemmate.
Sul volto delle cose la pronuba norma congiunge
[le faci,
Come uno sposo il vento del polo fa tutto germinare1."
L'amore universale, Venere, non è qui il dèmone fantastico, ma un'idea servita dalla fantasia. Il cristiano Ennodio non relega l'amore fra i dèmoni, e ancora gli dà
l'antico nome di Venere; grazie ai matrimoni di coloro che
non sono chiamati allo stato clericale o monastico, si placa la divinità, che altrimenti imperverserebbe come strega,
al modo stesso dell'Apollo stroncato da San Benedetto e
però convertito in demonio.
La magia nera è già insita in germe in ogni tentazione maligna, il Sabba non è che l'espressione più nefasta
della fantasticheria in sé nefanda. Scrisse Origene (Omelia
1
M. F. Ennodii Opera Omnia, ree. G, Hattel, Vindobonae, 1882.
XX su Numeri)-, "se t'accorgi che uno spirito maligno
parla nel tuo cuore, volendo indurti in un'opera di peccato, comprendi bene che vuole iniziarti al culto d'un demonio". Cosi si spiega il passo di San Paolo (II Tessalonicesi, 2,7): "Già si compie il mistero d'iniquità." I dèmoni
vanno errando, le fantasie aleggiano attorno a ogni creatura, a vedere se qualcuno voglia essere iniziato ai loro
misteri, ai loro rituali; nelle Omelie Clementine li si descrive imboscati nell'anima, intenti a suggerire i cattivi
pensieri che gli uomini scambiano talvolta per impulsi,
non sapendo chi li stia ispirando.
Satana, come più tardi lo Spirito della massa, sceglierà
sempre gli esseri più deboli e stolti come leve per aprirsi
un varco nelle comunità. Il Malleus maleficarum dirà che
egli trasceglie vecchierelle rapaci, maliziose, ridotte a far
lavorare indefessamente l'immaginazione, e fa loro balenare visioni d'abbondanza e di potenza, finché il loro intelletto cede e adorano quelle visioni1. Le vicende del Sabba
erano immaginate, come riconoscevano i migliori demonologhi, e ben di raro torme di pervertiti si radunavano a
commettere le azioni assaporate con l'immaginazione esasperata. Ma bastava aver fantasticato, magari facendosi
suggestionare da un animale bizzarro, drogandosi con
aconito fino al punto in cui appaiano scene di volo e
di promiscuità collettiva, per incorrere nel reato, il quale
talvolta era considerato una specie dell'eresia, in quanto
implicava il patto con il Demonio (secondo l'apocrifo canone del concilio di Ancira del 314), talaltra era ritenuto
un delitto d'intenzione (basta la credenza delle streghe di
poter arrecare danni reali per mezzo dei fantasmi evocati,
per concretare il delitto, affermava George Gifford in A
Dialogue Concerning Witches and Witchcraftes, nel 1593).
1
Un teologo cattolico d'oggi, il Ttuchlat in Antinomiae
vitae
spiritualis (Roma, 1961) dice: "le tentazioni procedono o sono accompagnate dall'attività del diavolo... si può pervertire l'interiorità e dirigersi non già verso Dio ma egoisticamente verso il proprio io;
una più intensa riflessione su se stessi si può mutare in analisi morbose della propria coscienza: una più intensa solitudine interiore può
tralignare nella vita delle fantasticherie e dei sogni."
L'ESASPERAZIONE TERAPEUTICA DEL
FANTASTICARE
Ma esiste anche un modo di esaurire la fantasticheria
esasperandola: togliendole l'occultezza. Indubbiamente è
una strada pericolosa, adatta a persone di indole speculativa, una via della mano sinistra. Si perseguano fino in
fondo le immagini che i demoni suscitano, vien suggerito,
le si costringano a scomporsi nei loro elementi concettuali,
a svelare anticipatamente tutto il Sabba cui vorrebbero
condurre, ed ecco che si convertirà il falso oro in cenere,
si mostrerà la tristezza ed il fastidio che seguirà alla lussuria, l'inanità d'ogni appagamento dell'orgoglio o dell'ambizione, la goffaggine della vendetta, la compensazione
che annulla tutti gli acquisti che l'immaginazione propone.
William Blake pose tra i proverbi d'inferno: "la strada
dell'eccesso porta al palazzo della saggezza" e "se lo sciocco
persistesse nella sciocchezza diventerebbe saggio" e "chi
desidera ma non agisce produce pestilenza".
Via della mano sinistra, via pericolosa, ma anche via
da principianti o da malati gravi, perché meglio sarebbe
non costringere il serpente a esaurire le sue lusinghe
ma semplicemente ignorarlo. Via della mano sinistra perché via del ripiego, questo interrogare la fantasticheria,
questo maneggiarla e spingerla al suicidio per mezzo della
determinazione minuziosa delle sue offerte. Taluni dottori accennano all'uso di questo mezzo, che non va scambiato comunque con una attraversata reale di tutti i vizi al
fine di liberarsene, come vollero farlo sembrare certi
eretici1, precursori di Hegel, il quale dirà che ottimo modo
1
Gli gnostici
infami,
ai
quali
Sant'Ireneo
da
Lione
replicava
di liberarsi da un desiderio è l'appagarlo, frase d'una volgarità heiniana, assai poco cinica, poiché l'esecuzione comporta inevitabilmente la sua ideologia giustificativa, e diventa ben presto assuefazione e cecità. La traversata dei
vizi si faccia, ma in immaginazione, per mezzo d'una disciplinata esplorazione delle possibilità d'ogni maligno suggerimento, esercizio di determinazione e specificazione che
sbaraglia la fantasticheria sul suo terreno, poiché nulla è
più contrario alla sua natura aerea e vaga della rappresentazione meticolosa e particolareggiata.
L'abate Evagrio consiglia la mano sinistra con questo
metodo: "Analizza la suggestione diabolica domandandoti cosa è in se stessa, quali le sue componenti, in che
cosa influisce sulla tua mente.
"Supponi che ti abbia suggestionato col pensiero dell'oro, nella mente separa il pensiero dell'oro, l'oro in se
stesso, dalla passione che propende verso l'oro. Domandati ora: Quale di queste cose è peccato? La mente forse? Ma come può essere, se essa è l'immagine di Dio? Il
pensiero dell'oro? Chi essendo sano di mente può asserire ciò? È l'oro in se stesso peccato? Allora perché fu
creato? Non resta che la quarta possibilità: la passione
avida dell'oro. Essa non è né una cosa concreta a se stante, né l'apprensione di un dato oggetto, ma un'avidità indegna dell'uomo, nata dal libero arbitrio e che urge la
tua mente ad abusare della creazione di Dio. Se la tua
discriminazione sarà del tutto perfetta, il pensiero malefico,
scomposto nelle sue parti, si dileguerà; e il demone fuggirà via non appena il tuo pensiero volerà alto sulle ali
di questa conoscenza1."
Nel De diligendo Deo San Bernardo giustifica la via
della mano sinistra:
"Ciascuno potrebbe pervenire all'ottimo, se prima poche, se volevano davvero attraversare tutte le esperienze, cominciassero
coll'imparare tutte le lingue e coll'impratichirsi di tutte le arti.
Traduzione di Giovanni Vannucci, Op. cit., p. 75-76.
tesse possedere tutto ciò che desidera fuori del vero ottimo, Dio.
"Ma siccome questo non è possibile per la brevità della
vita, per l'insufficienza delle forze e per il numero troppo grande di uomini, coloro che vorrebbero raggiungere
tutti gli oggetti dei loro desideri perdono inutilmente tempo e fatica, mentre non potranno mai finire di passare
tutte le cose desiderabili. E volesse il cielo che costoro si
accontentassero di voler raggiungere tutte queste cose
solo con il desiderio e non con l'esperimento! Almeno potrebbero farlo facilmente e non invano.
"Difatti il desiderio è tanto più veloce del senso carnale, quanto è più perspicace, dal momento che ci fu dato
perché prevenga in tutto il senso, e perché il senso non
vada cercando nulla che la mente prima non abbia provato essere utile.
"Credo che sia stata scritta a questo proposito quella parola: — Esaminate tutto, tenete ciò che è buono, — e cioè
che la mente provveda, ed il senso non raggiunga il
suo desiderio se non a giudizio di quella1."
Può illustrare questo metodo la favola di Sindbad sulle cui spalle si era issato il Vecchio del mare, e che riuscì
a scrollarselo di dosso soltanto dandogli da bere fino a ubriacarlo, e una volta avutolo ebbro ai suoi piedi lo uccise.
Non è lontano da questa saggezza della mano sinistra
Montaigne, che ripete in forma laica le norme della tradizione (L. I. c. V i l i ) : "come le donne da sole possono
anche buttar fuori ammassi informi di carne, ma per creare
un figlio hanno bisogno di seme diverso dal loro, così gli
spiriti fantastici privi d'una disciplina producono fantasticherie; l'anima senza scopo si perde, poiché non essere in
un luogo è come essere per ogni dove. L'ozio genera chimere e mostri senz'ordine né proposito, e per contemplarne a mio agio l'insulsaggine e la stranezza, ho cominciato a disporli in schiera, sperando col tempo di fare che
si vergognino di se stessi."
1
Traduzione di Luigi
4. - Storia del fantasticare.
Ajme.
IMMAGINAZIONE E OPINIONE
Nell'uso antico immaginazione e sogno sono spesso sinonimi di opinione e di apparenza, cioè di giudizio soggettivo; è su questo traslato che s'imperniano Don Chisciotte o La vita è sogno, opere che inducono a meditare
lo scambio del reale con l'immaginario, cioè col puramente opinabile, onde il re sogna d'essere re, finché la morte
non muti in cenere e vento l'applauso che lo illuse d'esser tale. Nell'Orlando Furioso il mondo della luna è il
luogo dove stanno accatastati le preghiere vacue, le lacrime e i sospiri degli amanti, l'inutil tempo che si perde a gioco e l'ozio lungo d'uomini ignoranti, vani disegni
che non han mai loco, biche di vani desideri, le fame invecchiate, le adulazioni come cicale scoppiate e via enumerando le fantasticherie e, per traslato, le apparenze e le
opinioni; la mondanità appare simile ad un sogno, se
messa a paragone con l'oltremondano e spirituale. In
questa accezione usa il termine Pascal allorché annota
come l'immaginazione fabbrichi, su immagini prestigiose, opinioni di verità, ammantando di toghe i magistrati, vestendo di sottana e pantofole i medici, sicché
l'ingenuità rimane sedotta dalla prosopopea e si resta incapaci di sceverare la sostanza dalla veste che la copre.
L'immaginazione, dice Shakespeare (Midsummer Night's
Dream, IV, I), muove il lunatico che si figura attorniato
da dèmoni, l'amante che vede Elena in un volto fosco, il
poeta rapito nel suo estro. Ma il poeta plasma e forma cose dianzi sconosciute: la sua fantasia, per incarnarsi in
forme esatte, cessa d'esser tale. La fantasticheria in senso
stretto era, prima del Romanticismo, semplicemente
il più vistoso e condannato sintomo della malattia mentale detta malinconia. Amleto confessa d'avere una fantasia laida come l'antro di Vulcano (III, I I : "And my
imaginations are as foul as Vulcan's stithy"), e che altro
è Macbeth se non la tragedia della resa alla fantasticheria? Le streghe fanno ribollire con il loro ritmo sincopato,
derisione degl'inni sacri, tutte le sozzure dell'ambizione:
Macbeth viene sedotto dal loro culto, la moglie gli rinfocola il male, e tutto in lui avviene quindi in pieno sogno,
è fatto da lui ed egli rimane tuttavia estraneo. Robert Burton nella sua Anatomy of Melancholy (1621) configura il
carattere melanconico ovvero fantastico sulla falsariga
allora comune, che Shakespeare aveva disegnato al vivo
in Macbeth o Amleto, e secondo il suo più bell'emblema,
la Melancholia di Duerer, "triste femmina con lo sguardo
fisso, gli abiti negletti". I malinconici, dice Burton, compendiando le diagnosi della medicina antica, "quand'anche essi parlino con voi, e appaiano intenti a ciò che voi
dite, rimuginano tuttavia i loro pensieri nelle loro menti,
quei timori, quei sospetti, quelle gelosie, quelle angoscie,
quei soprusi che immaginano di aver subiti, quei castelli
in aria, quei loro sogni da desti, spiacevoli o piacevoli
che sieno".
Quali che fossero i significati, che per immaginazione
s'intendesse l'opinione, oppure l'impressione in contrasto
col maturato giudizio, oppure la vena fantastica dei poveri melanconici, non si nutrirono mai dubbi sulla sua natura perniciosa, e l'educazione mirava a scalzarla. Ben si
sapeva che negl'interstizi offerti dall'immaginazione s'insinuano debolezza e corruttela. Il male colpisce nell'attimo
di tempo che gli è concesso, ma è la fantasia che lo distende, gli conferisce durata, echi, paragoni, fa soffrire
commemorandolo o paventandolo; la saggezza viceversa lo delimita al suo istante inevitabile e fatale, si burla
degl'inutili timori, si fa beffe dei ricordi, col sarcasmo con
cui si butta in acqua o si sega o si brucia la Vecchia
del Carnevale, Anna Perenna, Perchta, Beffana.
LE NORME E LA FANTASIA
Il mondo interiore si denominava foro interno, metaforicamente rappresentandolo come piazza d'affari e di
scambi, con templi e botteghe; si chiamò anche forum
poli, cioè foro del cielo o della tramontana; la preghiera diuturna invoca l'adempimento della volontà paterna,
originaria, tanto in terra quanto in questo cielo.
Nessun ordinamento giuridico trascura l'interiorità,
anzi, chiedendo ai giudici di appurare dolo o premeditazione, i motivi oltre che le cause dei contratti, il diritto
mostra di considerarla il cielo da cui proviene ogni efletto
in terra.
Nell'ordinamento canonico della Chiesa cattolica un
atto di volontà meramente interiore contrario alla validità di un matrimonio lo rende senz'altro invalido, e a
ben guardare tra una fantasticheria intensa fomentata da
chi la vive ed una risoluzione nitidamente formata ma
del tutto interiore la differenza è di grado, più che di qualità. Il suddiacono deve prestar voto di castità perfetta,
e incorre in sacrilegio allorché si diletti liberamente, sia
pure senza cadere in desideri, di immagini contrarie al
voto; del pari sono ordinati ai chierici atti di meditazione
o esami di coscienza, del tutto interiori. Il detto di Innocenzo I I I , che non si possa giudicare degli atti interiori,
è smentito dalla condanna della proposizione modernista secondo la quale la Chiesa non potrebbe esigere dal
fedele l'interiore assenso ai suoi giudizi. E anche il detto
di San Tommaso, che il giudizio umano non possa riguardare gli atti inappurabili (S. T., 1,2, q. 91, a. 4c) si
suole restringere all'applicazione di leggi d'origine urna-
na e non divina. Già la distinzione assoluta fra atti interni ed esterni è irreligiosa; mentre l'applicazione del
diritto è costretta a separare gli atti occulti dai palesi, non
c'è motivo di porre limiti alla potestà di giudicare il foro
interiore. Nel Talmud è detto: "La fantasticheria licenziosa è più nociva dello stesso peccato", al pari del sole
che è più dannoso se l'aria è spessa di vapori, cosi come
un vaso d'aceto non aperto bensì appena socchiuso dà un
odore più acuto (Yoma, 29a).
Concedere franchigia all'uomo nel suo foro interiore è
un invito al fariseismo o addirittura alla doppiezza.
E quali vantaggi possono mai arridere ad un uomo che
abbia licenza di fare ciò che vuole fra le mura del suo
corpo? Egli perderà se stesso proprio per essersi voluto
sciolto dalle norme divine e naturali grazie alle quali egli
è uomo.
Ancora in ciò tradizionali, Hegel e Kierkegaard, talmente diversi per mille aspetti, sono concordi, in pieno
secolo XIX, nel negare all'uomo il dono avvelenato della franchigia interiore. Hegel tratta con disprezzo tutto
ciò che non si sa attuare, e invita a soddisfare l'istinto o
ad assopirlo nell'abitudine pur di non lasciarlo fermentare; "lo spirito è il destarsi", è la pietra angolare della
sua filosofia. Kierkegaard condanna il sentimento fantastico come ciò che trasporta l'uomo nell'infinito e gl'impedisce di tornare in se stesso; quando il sentimento diventa fantastico, l'uomo si volatilizza, proprio per aver
voluto sigillare la sfera dell'assolutamente individuale,
incoercibile, interiore. Un tal sentimento non appartiene ad alcun singolo, ma "disumanamente partecipa col
sentimento al destino di una qualunque astrazione, per
esempio dell'umanità in astratto"; come chi soffra di reumatismi è alla mercè del tempo che fa, cosi chi nutra il
sentimento fantastico.
La tolleranza per ciò che non si vede, per ciò che avviene nel foro interiore, è l'arma della dissipazione.
Nel secolo XVIII si smarrì la nozione della custodia
del cuore, cioè del principio d'ogni sanità morale e da que-
sto crollo consegue poi la caduta degli altri argini, minori,
che non reggono dopo che il bastione è scomparso. Nel
libro dei Proverbi era indicato quel centro d'ogni ordinata condotta: "Conserva con ogni guardia il tuo cuore
perché da esso procede la vita." Dice uno degli innumerevoli trattati che insegnavano quest'arte cordiale, Il Principe virtuoso di Ottavio Durante (stampato a Viterbo nel
1614), che quando il diavolo ingerisce nel cuore di continuo cattivi pensieri, essi restano tuttavia senza quel frutto che i dèmoni si ripromettono di cavarne, quando non
si dia alcun consenso e allorché non ci tornino graditi,
perché allora svaniscono, come suole il vento o il fumo.
Durante rammenta il detto riferito nelle Collezioni
dei Padri, che la mente umana è simile ad una mola, mossa in giro dal concorso dell'acqua e che rivolta grano o
loglio o quel che sia, e che del pari l'uomo si volge secondo i buoni o cattivi pensieri che gli si somministrano;
"e nella Vita dei Santi Padri, un certo vecchio rispose a
uno che ricercava la causa delle proprie passioni, dicendo; — i tuoi pensieri, e le immaginazioni carnali trattenendosi quivi, mentre non le discacci virilmente e con
prontezza; che però dice San Bernardo: Praeteritae cogitationes, dum in animo ludunt, illudunt ed in Geremia
si dice: Lava a malitia cor tuum, usque quo morabuntur
in te cogitationes noxiae."
Dio, che altro è se non la Presenza alle nostre immaginazioni ed ai nostri più occulti pensieri? Egli discaccia tutto quanto non sia contemplazione o meditazione, simile
ad un Padre che tiene a freno un figlio o ad un Pastore che non lascia disperdersi il suo gregge. Raccogli
il tuo cuore ed espellerai da te la tristezza, era il precetto
che si traeva dalla secolare esperienza di disciplina interiore. Ogni cosa procede dalla buona o cattiva custodia del
cuore, dalla vigilanza ferma o fiacca dei movimenti di pensieri e immagini, tant'è vero che: "Quale ciascuno è e
quali cose va ruminando e pensando nel segreto del suo
cuore, tale sarà il più frequente discorso della sua bocca"1
e anche il più frequente comportamento del suo corpo.
I monaci badavano a fugare i fantasmi della mente
mediante le veglie notturne, durante le quali, se si sa custodire il cuore, la mente diventa lucidissima; tanto è proficuo alla felicità il superamento del sonno quanto quello
della carne, rispettivamente nella disciplina della mente
e del corpo. Coloro che non sappiano vegliare sono inetti
alla vita monastica; vigilia est phantasmatum fuga, la veglia è fuga dei fantasmi, disse l'abate Tritemio; dove si
allenti la regola sulle veglie notturne, si concederà alla sua
mente di divagare in modo scandaloso.
Questa illuminazione profondissima, questa quiete assoluta che s'ottiene coi vari regimi notturni delle varie regole
monastiche (o nelle veglie che precedono ogni gran festa,
quasi a creare nella mente il vuoto, la cassa di risonanza
per la solennità), è un punto fondamentale nella depurazione della mente; ma tali benefici, se anche non del
tutto sostituiti, possono essere attinti in piccola parte da
una vita altrimenti disciplinata, da parte di coloro che si
adoprano con tanta forza nella giornata da dormire quindi un sonno puro, senza immagini di veglia.
Le metafore che designano questa conquista della pace
ben custodita sono improntate sovente alla guerra; e un
intelletto moderno è tratto a immaginarsi la milizia contro le divagazioni come uno stringere di denti: affare di
volontà; ben difficile è fargli capire che la custodia del
cuore può non essere affine alle pene della disciplina
bellica o agli altri modi di piegarsi a compiere ciò che non
alletta il cuore. Non è per niente una rinuncia alla custodia dei pensieri quella, per esempio, compiuta nell'atto
d'abbandono di padre Claude de la Colombière: "Risolvo d'abbandonarmi talmente a Dio, il quale si trova
sempre presente in me, e nel quale ho esistenza e vita,
da non darmi più pensiero della mia condotta esterna e
1
p. 72.
Joannis
Tritemii,
Ad
monachos
dehortationes,
Vaticano,
1898,
interna, riposando fra le sue braccia; senza temere né
tentazione né illusione; né prosperità né avversità, né le
mie cattive inclinazioni, né gli stessi miei difetti; sperando che la somma bontà e infinita sapienza di Dio condurranno e dirigeranno tutto per la maggior gloria1."
G. Languet, Vita
184.
1
p.
di Santa Margherita
Alacoque,
Firenze,
1920,
L'INGHILTERRA E LO SPLEEN FANTASTICO
Ludovico Antonio Muratori nel suo trattatello Della
forza dell'immaginazione (1740) comprende ancora nitidamente il nesso della fantasticheria con la stregoneria:
"non hanno saputo alcune sciocche femmine coprire la
sregolata loro incontinenza che col fingere l'accesso a
quegli Spiriti dipinti per sé libidinosi, e l'han persuaso a
chi specialmente è portato a credere tutto quel che porta
livrea di meraviglioso e soprannaturale... Che nondimeno
esse non abbiano da andare esenti da qualche gastigo,
si reputa ben giusto, se non per altro, perché il palesare la
lor vita bestiale basta per invogliar altre lor pari a imitarle. La conclusione si è che la sola forte fantasia cagione si è dei lor creduti viaggi per aria e de' brutali sfoghi della loro lussuria. Hanno esse inteso da perversi uomini o da iniquissime femmine le feste che si fanno al
diabolico fine sabato; ed avendo piena l'immaginazione
di queste false adunanze, sognando per loro d'essere
trasportate colà e di trattenervisi in allegria con gl'immaginari spiriti amanti. In una parola, va a finire tutta la
loro avventura in uno sporchissimo sogno, figlio della loro
laida fantasia. Donne melanconiche, dotate di vigorosa immaginazione e di feroci spiriti animali oppur vecchie
consumate in tutte le sozzure della libidine, che si ajutano ancora con generosi liquori1..."
1
Martino del Rio (Dtsquisitiones magicae, Lovanio, 1599, p. 200),
afferma che il consenso sulle circostanze sabbatiche in testimoni diversissimi nel tempo smentisce il loro carattere immaginario essendo peculiare a ciascuno l'azione della mente e ciascuno immaginando in modo
diverso. Ma la fantasticheria è uniforme, nella segretezza più privata
Ma questo nesso si andava oscurando, i pensatori inglesi, più moderni, cominciavano a non afferrare più
né l'orrore della stregoneria né la peccaminosità della delectatio morosa; John Hobbes nel Leviatano (1651) aveva esteso la sua meramente sperimentale modernità anche su questo reame impalpabile, trattandolo come cosa
neutra, da esaminare senza alcun orientamento morale:
' Per treno di pensieri intendo quella successione da un
pensiero all'altro che viene detta Discorso Mentale. Quando un uomo pensa ad una cosa qualsiasi, il pensiero seguente non è affatto casuale come può sembrare. I pensieri non si seguono indifferentemente: è certo anzi che
saranno gli stessi in un'altra occasione. Questo treno di
pensieri o discorso mentale è di due specie: la prima non
si diventa pubblici. Ribatterà a del Rio, Girolamo Tartarotti nel Congresso notturno delle Lamie (in F. Bolzoni, Le streghe in Italia, Bologna, 1963, p. 66): "Segue di notte il congresso, e non di giorno,
perché la notte si dorme e si sogna. Ma, anche senza questo, la notte
con la sua quiete, col coprire le cose agli occhi, dà gran campo alla
fantasia di lavorare. Chi è dominato da questa potenza, facilmente sogna anche vegliando e racconta a una giovane, che le è vicina o nipote,
d'aver partecipato al congresso. Il racconto di una cosa cosi nuova e
mirabile eccita lo stupore di chi ascolta. La fiducia che la giovane ha
per l'amica o congiunta, persona vecchia, affettuosa, d'autorità, che
parla di cose a lei stessa accadute, fa si ch'ella tutto creda. L'ombra
del dubbio non le passa per la mente. L'idea di una potenza invisibile, e superiore a noi, qual è il demonio, s'imprime con forti e gagliarde vestigia nell'avida immaginazione dell'ascoltante. La giovane,
ripiena di un'insolita meraviglia, resta alterata da tal racconto, e in
certo modo pervertita, e torna a pensare a quanto ha sentito, e va
ravvivando le confidenze avute nella memoria. L o stimolo che ella prova di tentare l'esperimento, è grandissimo. La curiosità e la propensione alle cose del senso la combattono. Le persuasioni continue della
zia, o vicina, che più volte le va ripetendo da capo tutta la storia,
fanno in modo che, rotto ogni ritegno e riguardo di religione, si risolva finalmente a fare l'esperimento. Le viene spiegato come non si
possa ottenere il fine desiderato se non servendosi di un unguento.
La confidente le dà l'unguento, che è un narcotico che seppellisce i
sensi in un profondo sonno. La giovane si unge, con quella disposizione si mette a letto e dorme. La fantasia, presa dai racconti uditi,
incomincia con la maggiore attività del mondo a riscaldarsi, a bollire
e va al vivo rappresentando alla dormiente la magica avventura. Risvegliatasi, trovato che essa corrisponde a puntino alla relazione avuta,
resta cosi persuasa e convinta che non c'è più via di farla ricredere e
sospettare che possa essere stato un sogno".
guidata, senza disegno di sorta e incostante, nel qual caso
si dice che i pensieri vagano, sembrano poco pertinenti
l'uno all'altro come in un sogno, eppure questo spazio
selvaggio della mente può essere interpretato da un uomo
che ne discerna l'indirizzo nonché la dipendenza di un
pensiero dall'altro."
John Locke dette al treno di pensieri il nome di associazione d'idee e Dugald Stewart tentò di determinare le
leggi che regolano il flusso delle associazioni, riducendole alla somiglianza, contrarietà, vicinanza nel tempo o
nello spazio, ed alle coincidenze accidentali dovute al suono dei vocaboli. In momenti di attenzione vigono viceversa le leggi di causa ed effetto, mezzo e fine, premessa e
conclusione. Hume proclamò (Human Nature, I, I, 4) la
parificazione del mondo interiore e dell'esteriore, essendosi scoperte le leggi dell'associazione in quello e della
gravitazione terrestre in questo.
Fu Laurence Sterne a mostrare le conseguenze della
nuova scienza psicologica puramente sperimentale, separata da ogni giudizio di valore, nel Tristram Shandy, uscito dal 1759 al 1767. Non a caso egli parla del suo mostruoso libro come di una macchina (VII,I), di fatto i treni di idee (trains of ideas) di cui è ordito seguono le regole della meccanica psichica della specie più passiva e disattenta; egli si compiace di fantasticare senza vergogna
di sorta, come mai nessuno aveva osato prima salvo con
professa intenzione di ridursi a giullare. In Sterne c'è una
differenza capitale rispetto alle buffonate precedenti: egli
presenta le sue divagazioni con il sottinteso: "Non esiste altro, non c'è differenza fondamentale tra queste mie
esibizioni di scurrilità, fra questi bisticci, queste insistenze e le associazioni da causa ed effetto, da premessa e
conclusione, perché tutto ciò che in me avviene, poiché
avviene a me, ha una consacrazione, e i valori diversi dalla mia persona sono buffonate peggiori di questa." Il
valore fondamentale è il linguaggio, Sterne gli si accanisce contro per tutti i volumi di Tristram Shandy, ma
con mezzi del tutto nuovi, inauditi proprio per la loro
infantile goffaggine. Confucio voleva promuovere la moralità riformando il vocabolario, attribuendo significati esatti ai vocaboli, sapendo che nessun peccato riesce a guardarsi in faccia cinicamente, ma anzi cerca un'ideologia
che lo giustifichi e perciò stravolge il senso delle parole.
Sterne nega che una parola abbia un senso, poiché la
fantasticaggine le tesse attorno corone di associazioni,
talché essa si liquefà e diventa allusiva. Nel I I I libro
(XXXI) di Tris tram egli espone con greve giocosità questa sua teoria della parola liquescente e mobile, pigliando a partito chiunque protesti:
"definire — è mostrare sfiducia — Cosi trionfai di Eugenio; ma, come sempre, trionfai come uno stolto. —
Mi conforta comunque di non essere uno stolto ostinato,
perciò — Definisco un naso come segue — ma prima H
prego e supplico i miei lettori, maschi e femmine, di qualsivoglia età e condizione, per amor di Dio e delle loro
anime, di stare in guardia contro le tentazioni e suggestioni del diavolo, impedendogli di mettere loro in testa
con arti o astuzie idee diverse da quelle che pongo nella
mia definizione."
Sterne usa il ricatto: chi non fantastica affatto, chi
non si sottomette alle arti del demonio, lui stia alle definizioni. Il tratto da teppista ridacchiante, sicuro che nous
sommes tous frères et cochons, diventa addirittura sarcasmo (ibid.): "lascio adito a tante critiche equivoche perché mi affido, come sempre ho fatto, alla pulitezza dell'immaginazione dei miei lettori".
Regine e monache in preda ad associazioni verbali
oscene sono lo spettacolo che più esalta l'anima plebea
di Sterne; è sicuro che certe parole debbano destare pensieri turpi e sorprende golosamente i segni con cui inavvertitamente si comunicano fra le persone queste aure
di fantasticheria che circondano i discorsi più seri (VII,I):
"Ci sono certi treni di idee che lasciano l'impronta loro
attorno ai nostri occhi ed alle sopracciglia; e c'è una consapevolezza di ciò da qualche parte attorno al cuore, che
vale a rendere ancor più forti queste incisioni... La mi-
glior parola, nel miglior linguaggio del miglior mondo,
deve aver sofferto di simili combinazioni. Il curato di
d'Estella scrisse un libro contro di esse, esponendo i pericoli delle idee accessorie."
Sterne scrive i suoi libri sotto l'imperio della coercizione associativa: il Viaggio sentimentale iin Francia ed in
Italia è una fantasticheria in cui gli episodi del viaggio
vengono ammanniti con tutti i più tediosi ghiribizzi, spesso promossi dal puro suono d'una parola, mentre fatalmente, come avviene quando la lussuria abbia soppiantato l'ambizione, ogni episodio conduce ad un coito. "Voglio soltanto che possa riuscire di lezione al mondo lasciare che
la gente racconti le sue storie a modo suo" è detto nel
Tristram Shandy, e viene indubbiamente impartita una lezione di tolleranza verso le divagazioni ed i capricci, verso l'ostentazione della fisiologia come punto di fratellanza degli uomini; è messo al bando tutto ciò che ostacoli
la curiosità e l'abiezione. Si è fatto un gran parlare dell'arte che avrebbe Sterne di unire in un nodo straordinariamente umoristico la tristezza e la comicità della
vita: ma è la tristezza della rêverie, la quale ineluttabilmente prova l'inquietudine della cattiva coscienza, è la
comicità della rêverie, che riesce esilarante soltanto a patto di essere favorita da un terrorismo ideologico che estirpi la naturale repulsione. Un animo ben conformato ripudia questo humour con le parole di Thackeray:
"Sterne mi affatica con la sua perpetua irrequietezza ed
i suoi penosi appelli alle mie disposizioni al riso o al sentimentalismo. Continua a fissarmi in faccia, osservando
l'effetto che sta facendo."
L'ammicco, Va parte è l'atteggiamento proprio dei servitori nell'opera buffa. Il secolo XIX vedrà al potere una
classe che riesce a staccare del tutto la dignità dal comando, la maestà dal potere, e governa senza uno stile, impone vessazioni, balzelli, imposte ma non sa patrocinare
una propria forma: mobili, edifici, vestiti, quadri, consoni alla propria essenza. Il dominio diventa nudo e macchinale.
Tutto ciò era già implicito nel fatto che un guazzabuglio come Tristram Shandy non venisse ignorato o bruciato nel secolo XVIII. Con Sterne già si svelano i caratteri della modernità: un sentimentalismo spudorato unito ad una derisione della coerenza logica ormai inattingibile, un'adorazione sfrontata dell'io, per cui nessuno si
vergogna di intrattenere sui propri gusti, ancorché insignificanti o morbosi. Ecco uno dei primi esempi di umorismo romantico, la cui ilarità proviene dal fatto che l'abbandono alla fantasticheria è analogo a quello del buffone rustico alla scurrilità:
"Presi un solo prigioniero, e avendolo prima chiuso nella sua segreta, guardai attraverso la penombra della porta a graticcio per farne il ritratto. Vidi il corpo quasi consunto dalla lunga attesa e segregazione, e sentii quale malessere del cuore sorga dalla speranza differita. A guardare più da vicino lo vidi pallido e febbricitante; da trent'anni la brezza d'occidente non aveva nemmeno una
volta rinfrescato il suo sangue; non aveva visto né sole
né luna, per tutto quel tempo, né voce di amico o parente aveva soffiato attraverso la grata; i figli — ma
il mio cuore cominciò a sanguinare, e dovetti procedere ad un'altra parte del ritratto. Era seduto in terra su
della paglia, nell'angolo più remoto della cella, che era
alternatamente sua sedia e letto; un calendariuccio di bastoncini era al capo del letto, tutto intaccato dai segni
dei miseri giorni e delle misere notti quivi trascorsi; ed uno
dei bastoncini egli stringeva in mano intagliandovi con un
chiodo rugginoso un altro giorno di miseria da aggiungere
al cumulo. Poiché gli toglievo la scarsa luce che aveva,
sollevò un occhio senza speranza verso la porta, scosse
il capo e continuò la sua opera d'afflizione. Udii le catene ai suoi piedi, mentre volgeva il corpo per riporre il
bastoncino nel mucchio. Sospirò profondamente: vidi il
ferro entrargli nell'anima. Scoppiai in lagrime: non riuscivo a sopportare il quadro di reclusione che la mia fantasia aveva disegnato." Questo passo famigerato di Sentimental Journey ha almeno la virtù di mettere a nudo la na-
tura giocosa degl'intenerimenti del borghese, la frode che
sta alla radice dei suoi buoni sentimenti; sovente nel pieno
dell'era borghese questo piacere fantastico del sentimentalismo si offrirà come vera e propria bontà del cuore, diverrà la maschera fìssa del cinismo.
La vena familiare e fantastica di Sterne sarà ripresa da
Lamb, che in Popular Fallacies (1833) cosi tesse l'apologia della dilettazione viziosa:
"Amiamo ruminare una passata visione di sogno cagliata... riandare con più saldi nervi le più tristi tragedie notturne, trarre alla luce del giorno un incubo che si dibatte
ed è sul punto di svanire; maneggiare e esaminare i terrori o gli aerei diletti... Nella carestia di ambizioni mondane, contraiamo alleanze politiche con spettri. È bene
avere amici a corte. Un tempo credemmo che la vita fosse qualcosa, ma ci è scaduta inspiegabilmente, prima del
tempo designato. Perciò scegliamo di indugiare fra le visioni. Il sole non mostra alcun proposito di illuminarci.
E perché mai dovremmo levarci dal letto?"
Con Lamb d'altronde l'umorismo alla Sterne non conosce più limiti, assume tutti i tratti della rispettabilità
e dopo aver dissociato il romanzo, fa deflagrare la forma
del saggio a furia d'includervi tutto quel che salti in testa.
Eppure ancora nel secolo di Sterne la parola stessa,
immaginazione, aveva presso i letterati inglesi il suo significato giusto e aureo, i piaceri dell'immaginazione erano per un Akenside o un Pope quelli di una vivacità ordinata, di una pienezza di colore e passione conforme all'armonia oggettiva della natura, laddove la fantasticheria
era il frutto dell'atrabile, della malinconia, della debolezza intellettuale, come disse in un più sano secolo il personaggio di The Indian Emperor di Dryden ( I I I , 1):
" Fortemente desidero ciò che pallidamente spero,
Come sogni a occhi aperti di malinconici,
Penso e ripenso a cose impossibili,
Eppure amo vagare in quel dorato labirinto.
5. - Storia del
fantasticare.
Pope ha ancora dell'immaginazione l'idea classica, come di facoltà la quale dalla provvigione della Natura
coglie le dolcezze sempre in boccio, le forme cioè primordiali in perpetua e diversa manifestazione, e la sua mente
ordinata e composta nemmeno sospetta che si possa compiacersi di un'immaginazione scissa dalla contemplazione
della natura:
Those ever-blooming sweets, which from the store
Of Nature fair Imagination culls
To charm the enlivened soul...
E non a caso, poiché nel poema The Dunciad egli
compone altresì la prima orazione contro l'industria culturale, che ha la sua origine nella strada di Londra dove
s'impiantarono le prime aziende per la divulgazione della cultura, Grub Street, donde prese avvio lo smercio di
opere tutte calcolate per il mercato. La fantasticheria solitaria e il sistematico calcolo del mercato nascono insieme.
E con Pope John Byrom (1692-1763) avvertiva la sua
generazione delle benedizioni e delle jatture che possono
nascere dalla mercuriale immaginazione, bona cum bonis, mala cum malis:
"L'immaginazione, benché sembri un'inezia,
Gravida di conseguenze, prolifera la sua stessa creali zione.
Crediamo che desideri e vagheggiamenti sieno un
[gioco,
E cosi dissipiamo facoltà di gran momento!
Sono taglienti gli strumenti coi quali cosi ci trastulliamo
E scalcano per noi realtà profonde1."
1
Imagination, trifling as it seems,
Big with effects, its own creation teems.
We think our wishes and desires a play,
And sport important faculties away:
Edg'd are the tools with which we trifle
And carve out deep realities for us.
thus,
Cadde nelle conseguenze dello sperpero d'immaginazione James Boswell, ma ne seppe dar conto con dolore nel
saggio The Hypocondriack (1777-1783), in cui ripeteva
con nostalgia il verso dei Salmi: "Nella moltitudine dei
miei pensieri, i Tuoi conforti dilettano l'anima mia," inetto a trovare per sé, incanaglito dall'illuminismo fino all'ipocondria, il sostegno della fermezza e della verecondia che
soltanto l'abitudine alla preghiera sa dare. Dice, dell'ipocondriaco, dell'uomo moderno: "La fantasia stravolta gli
dardeggia in fulminei scorci, vividi e sinistri, pel campo
del tempo e dello spazio. Vuole affisarsi in qualcosa di
preciso, e non gli vien fatto; anzi gli si formano in mente
le effimere immagini di mille cose diverse... Talora è debole e timoroso, e s'impaura di tutto ciò che può presentare il più piccolo pericolo; tal'altra s'abbandona a smodati o a disperati impulsi di temerarietà... si che potrebbe
assai bene adottare per sé l'esclamazione di sconforto che
si legge in una delle tragedie dello Young:
Portami, Aulete, a forza alla mia stanza,
Ivi in catene me da me proteggi.
Il meschino è capace di ragionare; e sa che l'animo suo è
malato.1"
Secondo la poetica di William Blake l'immaginazione
è l'ingegno plastico che sa ricalcare lo sviluppo delle forze organiche della natura:
"La natura della fantasia visionaria o immaginazione è
assai poco conosciuta e la natura eterna e permanente
delle sue immagini sempre mai sussistenti è considerata
meno permanente delle cose di natura vegetale o generativa; eppure la quercia muore come la lattuga, ma la
sua immagine è eterna e la sua individualità non muore
mai, ma si rinnova per il suo seme; proprio cosi l'immagine fantastica ritorna per il seme del pensiero contemplativo" (VLJ 605). "Tutte le cose sono comprese nel1
Trad. L. Meneghello in Saggisti
di E . Chinol, Milano, 1963.
inglesi
del
Settecento,
a cura
le loro forme eterne nel divino corpo del Salvatore, il
vino vero dell'eternità, l'immaginazione umana" (VLJ
606).
L'immaginazione come l'intende Blake è tutt'uno con
la ferma attenzione materiata di fede, con la visione piena degli oggetti, la quale è, come dice nel suo dialogo
con Isaia, l'opposto della fantasticheria o ipnagogia:
— Come osate affermare cosi decisamente che Dio
vi parlò? — domandai.
Isaia rispose: — Non vidi Dio, né udii alcun essere
con determinata percezione organica, ma i miei sensi scoprirono l'infinito in ogni cosa e come fui allora persuaso e
in seguito rimasi confermato a credere, la voce dell'onesta indignazione è quella di Dio, talché non curai le
conseguenze ma scrissi.
Allora domandai: — Una ferma persuasione che una
cosa sia in un determinato modo fa si che essa sia tale?
Egli rispose: — Tutti i poeti ne sono convinti e in epoche d'immaginazione questa ferma persuasione smuoveva
i monti; ma molti sono incapaci di una ferma persuasione di qualsiasi cosa."
Questa immaginazione è minacciata dalle sataniche fabbriche, dalla filosofia sensista di Locke.
Le sataniche fabbriche che deturpano Albione, l'astratta filosofia che guerreggia con l'immaginazione plasmatrice, avevano, come la loro progenitrice, la magia
nera, il sussidio delle droghe allucinanti; nelle drogherie
degli agglomerati proletari d'Inghilterra si vendevano
agl'intontiti artigiani e contadini strappati al mestiere avito ciò che consentiva loro di gettare la nube della fantasticheria sull'angoscia, le pillole d'oppio.
I destini degl'interpreti d'un popolo sono solidali con
quelli degli oppressi: l'oppio diventa una droga simbolica del suo tempo anche per i grandi poeti.
La fantasticheria dei primi romantici inglesi, promossa,
accelerata e condotta al suo estremo dall'uso dell'oppio
ha il pregio di indicare grado a grado la carriera disa-
strosa dell'uomo fantastico, il processo intero, che in Sterne o Lamb si fermava ad una fase un poco turpe e molto
bonaria. Nelle Confessioni d'un mangiatore d'oppio Thomas De Quincey traccia l'itinerario del totale abbandono
alla fantasticheria; l'oppio scioglie le inibizioni, secolari da
sembrare fatali, che avevano impedito il dilagare dell'orrore ed ecco il primo momento: cominciano a stagliarsi sul fondo nero della notte o delle palpebre abbassate processioni d'immagini ancora dominate dalla vittima, però doviziose e tanto insidiosamente prensili da ripresentarsi nel sogno: "quando tali fantasmi mi si erano
una volta presentati in lievi e vaporosi colori, come parole scritte con inchiostro simpatico, l'impetuosa alchimia dei
miei sogni li rivestiva di uno splendore insopportabile che
riempiva di fremiti il mio cuore". Questa comunicazione
tra veglia e sonno disfa il senso del tempo e dello spazio
che paiono raggrinzirsi o dilatarsi a capriccio, si piomba in
una malinconia funerea, in una continua, involontaria
e oppressiva reminiscenza di fatti sepolti nell'oblio. Nei
primi tempi i sogni erano città e palazzi che avevano
affinità con le visioni che ci si illude di scorgere nelle
nuvole: De Quincey cita i versi dell'Excursion di Wordsworth che descrivono questa fase:
"Visione improvvisa, si stendeva
una città turrita, una distesa
di palazzi sfumanti in lontananze
di splendori e baleni senza fine.
Materiati d'oro e diamanti,
alti castelli, domi d'alabastro,
minareti d'argento, in ardue spire
scalanti il cielo, e poi terrazze ergentisi
su terrazze; qui azzurri padiglioni
profondantisi in fughe di viali;
più in là torri, i cui mobili fastigi
accendean d'un fulgore siderale
tutte le gemme...1"
1
Trad. di Aldo Traverso, in Confessioni
Milano, 1956.
d'un
mangiatore
d'oppio,
Alle architetture seguono distese d'acqua, laghi che
a poco a poco si trasformano in mari, e dopo un tratto
comincia l'ossessione della faccia umana, di folle di facce.
Ultime appaiono forme di bestie, e infine: "i coccodrilli
mi baciavano dei loro baci cancerosi, mentre confuso a
indicibili lordure, giacevo disteso fra i giunchi, nelle paludi del Nilo".
Si può attingere la poesia dopo aver subito questa sorta
di fascinazione soltanto a patto di averla allontanata, di vederla dal di fuori. Ogni complicità o ideologia dell'immaginazione morbosa stronca la forza poetica. I frantumi
che affiorano via via potrebbero anche essere trasfigurati
in simboli, e perfino l'ultima fase, cloacale e palustre, potrebbe usarsi come vaccino, ma la fantasticheria è come
le opere moderne, come Finnegans Wake, non ha ossatura né orientamento, sicché ogni cosa vi trascorre come
alberi e rovine di case e corpi sulla melma d'un'alluvione.
Al tempo di De Quincey la facoltà sintetica della mente
non era ancora colpita dall'infezione, sicché quanti sapevano riscuotersi dalla fantasticheria, riuscivano ancora a
dar forma, sia pure lievemente confusa, o come allora
usava dire "aerea", ai materiali fantastici. Rispetto alle
opere perfettamente composte le descrizioni di fastigi, pinnacoli svettanti, fughe di sale e scale alla Piranesi (ma
senza la nettezza tutta desta del tracciato di Piranesi), sono
pervertimenti, perdite di precisione. A offuscare l'evidenza di questo scadimento estetico valse la vicinanza
di una poesia neoclassica imbalsamata, fatta marmorea,
rispetto alla quale le fantasie romantiche riuscivano alla
prima impressione più delicate e palpitanti. Nel Kubla
Khan di Coleridge, si delinea la più perfetta rappresentazione della prima fase dell'intossicazione da fantasticheria:
"L'ombra della reggia del piacere
Galleggiava a metà cammino sui flutti
Dove s'udiva il mescolato ritmo
Dalla fonte e dagli antri.
Era un miracolo di raro artificio
Una reggia di piaceri solatia con antri di ghiaccio!
Una damigella con salterio
Vidi una volta in una visione:
Era una donzella abissina
E sul salterio suonava
Cantando di Monte Abora.
Oh potessi ravvivare in me
La sua sinfonia e la sua canzone,
Mi condurrebbe ad un tal diletto
Che con musica risonante e lunga
Costruirei quella reggia nell'aria,
Quella reggia solatia, quegli antri di ghiaccio!
E quanti l'udissero li vedrebbero
E griderebbero: Attenti! Attenti!
Oh i suoi occhi folgoranti, la sua chioma ondeggiante!
Chiudetegli attorno tre volte un cerchio
E chiudete gli occhi con sacro orrore
Poiché s'è nutrito di melata
Ed ha bevuto il latte del paradiso!"
L'effetto è quello mareggiante delle litanie, ma vi si
ritrova anche la loro tessitura speculativa? Questa non
spiica nelle litanie a causa del loro effetto sonnambolico,
della danza ipnotica suggerita dal ritmo uguale (Kyrie eleison, Christe eleison, Kyrie eleison, Christe audi nos,
Chris te exaudi nos, Pater de Coelis Deus, Fili Redemptor
Mundi Deus, Spiritus Sancte Deus, Sancta Trinitas Unus
Deus, Sancta Maria...) e poco più possono ravvisarvi i
fedeli intellettualmente assopiti; però quel grigiore viene solcato, per l'iniziato ai riti cristiani, da folgori improvvise: è un rituale di risveglio, perché ogni invocazione è
un rinvio a qualche testo biblico (nell'ordine: Abacuc,
3,3; I I I Re 2,20; Ebrei 4,16; II Cronache 7,14; Deut.
9,19; Gen. 24,23; Giobbe 19,25; Cantico 6,8; Giov. 5,7;
Giuditta 13,17; e cosi via per ognuno degli attributi della Mediatrice)1. L'atto intellettuale di ricordare, grazie
all'accenno, il testo intero e di porre in rapporto fra loro
1
Vedi Cari van Treeck e Aloysius Croft: Symbols
Milwaukee, 1960.
in the
Church,
i vari passi, il cui nesso non è fornito ma ricostruibile
(e consiste in una lettura dell'Antico Testamento sulla
scorta del Nuovo), è tanto arduo e inebriante quanto
l'ambiente sonoro è d'una monotonia raccolta e maestosa.
C'è una struttura analoga in Kubla Khan?
È arduo decidere, di fatto cogli in esso la tendenza immanente d'ogni fantasticheria, specie se oppiata, nel succedersi delle immagini di cupole aeree, di architetture campate fra nubi, della visione di acque e poi di facce,
e infine di una faccia, ossessiva.
Ma Coleridge fu il martire dell'oppio, che con i suoi
patimenti forni i vaccini contro il male. Egli distinse l'associazione d'idee (fancy) dall'immaginazione (imagination) che è la capacità di sintesi figurativa, senti "la
necessità di riconciliare l'irrequietezza d'una fantasticheria
(fancy) sempre operante con la brama intensa di un asilo
di quiete per i pensieri, posto in un qualche principio desunto dall'esperienza, ma rispetto a cui ogni conoscenza
fosse semplicemente una ripetizione variamente limitata,
cosi come circoli, quadrati, triangoli eccetera sono soltanto altrettante posizioni di spazi1". Nella Biographia Literaria Coleridge dà due esempi capitali rispettivamente della fantasia poetica e della fantasticheria: gl'immaginosi
versi di Milton o di Shakespeare da un lato e questo da
Venice Preserved di Otway dall'altro:
"Liuti, aragoste, mari di latte e navi d'ambra."
Egli stesso tendeva a cadere in associazioni come queste: "vedendo uno sgombro capita che io pensi subito
al ribes, perché mangiai sgombri in salsa di ribes e
poiché la prima sillaba di gooseberry (ribes) corrisponde all'oca (goose), mi viene in mente magari un'oca.
Subito dopo può sorgermi alla mente l'immagine d'un
cigno benché i due volatili non li abbia mai veduti appaiati". Lo stesso Keats si sorprendeva talvolta ad associare porpora [purple) e azzurro {blue) ed a dilettarsi della
1
N. Sutter, The Dark Night
p. 207,
of T. S. Coleridge,
New
York,
I960,
parola composta purplue. Sono, tuttavia, momenti di indugio splenetico, che rafforzano nei poeti il senso della distinzione assoluta fra fantasia poetica e fantasticheria. Col
progredire dell'infezione fantastica, a distanza d'un secolo, gli stessi studiosi di Coleridge, come John L. Lowes
o Lascelles Abercrombie, cominciano a domandarsi se la
distinzione sia veramente fondata, se la poesia non sia
soltanto una fantasticheria meglio organizzata, che è come
dire che il vino è un aceto meglio strutturato o addirittura
che lo scultore è un pezzo di marmo più articolato. Quanto
lontani i tempi in cui Locke osservava che in inglese mancava la parola per esprimere il fluttuare irrazionale delle
idee e introduceva il francesismo "Resvery"!
Di quanto la fantasticheria nella nuova era aumentava,
di tanto svaniva la fantasia, "mentre le arti meccaniche,
le manifatture, l'agricoltura ed il commercio e tutti i
prodotti della conoscenza che sono limitati a oggetti grossolani, definiti e tangibili, si sono ammantati sempre più,
con l'aiuto della filosofia sperimentale, di colori via via
più brillanti, lo splendore della fantasia è andato svanendo" annotava Coleridge in The Convention of Cintra.
Wordsworth fu quanto Coleridge sull'avviso e seppe
mantenersi indenne anche grazie agli studi di geometria:
"Potente è l'incanto
di quelle astrazioni per una mente occupata
da immagini e ossessionata da se medesima"
scrisse in The Prelude (VI). La poesia di Wordsworth,
come quella di Goethe, insegna a non lasciar divagare
la fantasia, ma a tenerla tutta rivolta agli spettacoli della natura, a impedirle ogni distrazione, a usarne come
d'un lievito che aggiunga profondità agli oggetti. Tieck
ebbe ragione di chiamarlo il Goethe inglese, poiché la sua
fantasia è d'una natura tutta obbediente all'attenzione.
Ma, come uomo vissuto nel pieno orrore dell'industria,
Wordsworth sapeva con massima nettezza che l'attenzione non si può esercitare sullo squallore industriale; sol-
tanto un occhio educato alle assonanze fra ritmi umani e
forme campestri è sereno:
"Pur fra immagini sciamanti...
Nitide forme mi ressero.
Ogni aereo pensiero girò
Su un centro vivo che lo spingeva
E raffrenava. Non ne fui illanguidito
Come chi sia cresciuto in città..." (Vili)
È la visione di forme naturali che guarisce dalla fantasticheria e fonde l'immaginazione con la conoscenza. Leavis
ha contrapposto al Mont Blanc di Shelley i versi di Wordsworth sul Sempione, additando come in questi il mondo
esteriore e l'interiore si fondano dandosi la mano, l'uno
si converta nell'altro soavemente:
"L'universo sempiterno degli oggetti
Fluisce nella mente, e rivolge i suoi flutti rapidi
Ora oscuro, ora brillante, ora con riflessi di mestizia
Ora conferendo splendore, dove da sorgenti segrete
La fonte del pensiero umano reca il suo tributo
D acque.
»
_
»
In Shelley il reale e l'immaginario sarebbero, invece
che connessi e fusi, gettati insieme, confusi e aggrovigliati:
"Rupi nere bagnate che al margine della strada
[parlavano
Come avessero in sé una voce, la vista di vertigine
E la prospettiva del ruscello tortuoso,
Le nubi sfrenate e la regione celeste,
Tumulto e pace, tenebra e luce
Erano come operazioni della mente, tratti
Della stessa faccia..."
La contrapposizione forse è dettata a Leavis dall'amore della sua tesi e dei suoi chiaroscuri, poiché anche Shel*
ley è avvisato contro il mostro, e ne sa delineare il volto nel suo Prometeo, che prima del colloquio con la Madre
Terra non ha ancora superato il momento fantastico:
"Oscuramente per il mio cervello, come opache
[ombre,
trascorrono tremendi pensieri, rapidi e spessi. Io
[mi sento
languido, come uom commisto in avvolgente amore;
pure non è piacere1."
Sempre mai ritorna l'avvedimento contro la fantasticheria nei grandi profeti che gettarono l'anatema contro
l'industria: Wordsworth, Coleridge, Carlyle e Ruskin (che
nella prefazione a Modem Painters, nel 1843 scriveva
contro "la facoltà di degradare le opere di Dio, che l'uomo chiama la sua immaginazione.") E la poesia di Keats
è d'una realtà cosi piena da vietare ogni trascorso fantastico, anche quando egli tratti temi di natura romantica,
come Lamia; nella prefazione a Endymion è detto:
L'immaginazione d'un fanciullo è sana, e l'immaginazione matura d'un uomo è sana, ma c'è un tratto di mezzo nella vita, in cui l'anima è in fermento, il carattere indeciso, il modo di vita malcerto, quando l'ambizione annebbia la vista e di qui nasce la sdolcinatura (mawkishness)."
Anche nell'umanistico educatore di "gentiluomini cristiani", Matthew Arnold, l'indole della fantasticheria è talmente chiara che egli la sa interpretare alla maniera antica, come momento della stregoneria, in The ScholarGipsy (1853). Un'osservazione di Joseph Glanvil in The
Vanity of Dogmatizing (1661) sugli zingari, capaci di
operare portenti con la forza della loro fantasticheria, in
grado di legare l'altrui, ispirò il poema sul giovane studioso che rischia d'essere travolto dalla febbrile incontinenza fantastica degli zingari, i quali l'avvertono:
1
Prometeo
liberato,
I, I, 146-149, trad. Raffaello Piccoli.
"Fuggi il nostro febbrile contatto!
Forte è il contagio del nostro tumulto mentale,
Che, sebbene dia brio, impedisce la quiete.
E noi ti strapperemmo alla tua bella vita
Riducendoti come noi stravolti e senza benedizione.
E ben presto la tua allegria smorirebbe,
Timorose si farebbero le tue speranze, senza radici
[le tue potenze
Ed i tuoi nitidi scopi si farebbero obliqui."
•>»
Lo scozzese James Hogg dettò i canoni del rapporto
fra fantasticheria e stregoneria nelle Memoirs of a Justified Sinner, in cui il diavolo appare al protagonista e lo
seduce semplicemente approvandolo in tutto ciò che gli
passa sullo schermo della mente, presentandosi a lui come
il suo doppio mirifico, il suo specchio, lasciando che si spinga innanzi senza alcun ostacolo, senza incontrare alcuna
realtà, e cosi lo trascina nel delitto; Hogg spiegò altresì
('Tales, II, 251) che "gli spettri non possono parlare a cristiani battezzati fintanto che non si rivolga loro la parola".
Ma la fantasticheria andava sempre più permeando il
corpo sociale a dispetto della resistenza offerta dai maggiori, e si creava un nuovo eroe, non tale per gagliardia,
ardimento, acume, ma perché immerso in sogni a occhi
aperti, e perciò incapace di autentici affetti, persuaso che
la sua duplicità e mancanza di spontaneità fossero pregi
satanicamente interessati, da distinguerlo dalla massa. Byron nell'apertura di Childe Harold mette in campo questo eroe capovolto:
"Se tu vedessi, ó cara, in questo subisso di distrazioni
come sono disseccate le mie sensibilità, senza un solo
momento di vera emozione, una sola ora benedetta!"
Non è a stupire che in tale aridità si riduca chi abbia
scambiato il sogno con un araldo dell'eternità (in A
Dream Byron scrisse:
" I sogni nel loro svolgersi hanno respiro,
E lacrime e torture e il tocco della gioia;
Pesano sui nostri pensieri di veglia
E paiono araldi d'Eternità").
Alfred Tennyson, com'era naturale in un minore, scriveva con The Lotus-Eaters l'apologia del fantasticare,
"Dacci la lunga quiete o la morte, la cupa morte
[o l'agio sognante.
Come sarebbe dolce, udendo l'acqua che scorre
[verso il basso,
Con occhi semichiusi credersi
Sul punto di addormentarsi in un mezzo sogno!
Sognare e sognare, come quella luce ambrata laggiù
Che non lascerà il cespuglio di mirra sull'altura
Lasciare sotto l'influsso della mite malinconia
I nostri cuori e i nostri spiriti
Fantasticare e rivivere nel ricordo."
Ed i personaggi amabili di Charles Dickens sono rappresentati come soavi vittime di fantasticaggini, assorti in vicende immaginarie, e vilmente disturbati dai cattivi uomini operosi. David Copperfield sogna continuamente, si
vede come capitano della Marina, asciutto il ciglio in mezzo alle vicissitudini più disperanti, si figura salvatore della fanciullina vagheggiata e, quando non venga frustato dalla realtà, sta sempre a mezz'aria, pieno d'illusioni
e di fantasmi svanenti. Dickens avvolge di sogni i protagonisti alla vigilia delle loro prove più terribili, forse
per destare la simpatia del lettore ottocentesco, e perciò
commuoverlo ancor più allorché la catastrofe piombi sull'eroe, o forse perché è ancora viva in lui l'antica saggezza
che avverte del nesso tra fantasticaggine e sciagura. Oliver Twist è ravvolto di fantasticherie allorché incontra il
suo persecutore Fagin; la prima volta è in un dormiveglia gremito di sogni, con la mente "libera dal freno del
suo socio corporeo" e la seconda volta:
"Nella misura in cui una pesantezza travolgente, una
prostrazione delle forze ed un'impossibilità completa di
dominare i pensieri o la facoltà di movimento possa chia-
marsi sonno, questo è un sonno; eppure siamo consapevoli di tutto quel che avviene attorno a noi, e se in un
tal momento sognamo parole che vengono pronunciate
davvero o suoni che veramente si producono, si combinano con sorprendente prontezza con le nostre visioni,
la realtà e l'immaginazione si fondono cosi fittamente
che dopo è pressoché impossibile separarle. Né questo è
il fenomeno più singolare di codesto stato, perché è un
fatto indubitabile che, per quanto sul momento sieno
come morti i nostri sensi del tatto e della vista, i nostri
pensieri assonnati e le scene visionarie che trascorrono
dinanzi a noi saranno influenzati e influenzati materialmente dalla pura silenziosa presenza di qualche oggetto
esterno che poté esserci stato accanto allorché chiudemmo
gli occhi, e della cui vicinanza non abbiamo alcuna coscienza": pare una pagina di Gérard de Nerval.
Nei posteriori narratori di ugual misura sarà il ritorno
al passato agreste od allo studio del destino, e il disdegno
del fantasticare, come in Thomas Hardy. Sono talvolta
colti all'improvviso in gorghi di memoria, sorpresi da certe sensazioni di déjà vu i personaggi un poco proustiani
di George Eliot, ma l'edificio d'un romanzo levato su una
pianta nitida è contrario alle prevaricazioni fantastiche.
Coloro che vi indulgono dopo la seconda metà del secolo dovranno pagare un prezzo crescente, rinunciare
alla severa arte del racconto verosimile e credibile, lasciare che la fantasticheria distrugga il tessuto narrativo.
Chi fantastica non narra: la legge è manifesta nel Richard Feverel di Meredith. Virginia Woolf conduce al suo
punto estremo la tensione della forma narrativa, ma non
già per insinuarvi brani di fantasticheria bensì per squarciare laboriosamente la cortina di nebbie che avvolge ormai l'uomo, come scrisse in Gita al faro-.
"Sembra a volte che la Bontà Divina, impietosita dall'umana penitenza e dal travaglio che questa comporta,
schiuda le cortine mostrando dietro di esse, nette e distinte, la lepre eretta, l'onda ricadente, la barca oscillante;
tutte cose che, se ne fossimo degni, potremmo contem-
piare per sempre. Ma ahimè, ben presto la Bontà Divina,
tirando il cordone, richiude le cortine; è crucciata."
Nella poesia Swinburne è fra gli ultimi, con le litanie a Nostra Signora dei Dolori, a reggere ad una metrica pur concedendosi la dissipazione immaginativa. Un
grande poeta minore, John Clare (1793-1864), morto pazzo, aveva ricavato dal fondo della notte della sua pazzia
l'avvedimento che sarebbe rimasto inascoltato: "La felicità dissemina d'attorno la felicità fintanto che è presente,
ma quando se ne è andata, non serbiamo alcuna impressione delle sue gioie, ma un deserto di fantasmi diacci e
di reali delusioni, salvo che non si sia decisi a modellare
il nostro comportamento sulla sua approvazione; allora
sempre essa sta accanto a noi, e non già la sua immagine,
ma la sua perfezione, non la sua ombra, ma la sua realtà.
Rileggi e cavane profitto."
Una sua poesia compendia questa saggezza riscossa a
prezzo dell'inferno:
"Sono: ma ciò che sono a nessuno è noto o importa.
Gli amici m'abbandonano come un ricordo perduto,
Sono, io stesso, il divoratore delle mie pene
Che sorgono e svaniscono in oblioso stuolo,
Come ombre negli spasimi folli e soffocati del[ l'amore.
Eppure sono, e vivo, come vapori scagliati
Nel nulla dello scorno e del frastuono,
Nel vivente mare dei sogni a occhi aperti,
Dove non c'è senso di vita né gioie...'"
Che fare?
Si tornerà indietro nel passato, si eluderà il presente
per sfuggire alla dominazione del sogno. T. S. Eliot
1
"I am: yet what I am none cares or knows / My friends forsake me like a memory lost, I I am the self consumer of my woes — /
They rise and vanish in oblivious host, / Like shadows in love's frenzied, stifled throes: — / And yet I am, and live — like vapours tost /
Into the nothingness of scorn and noise, / Into the living sea of waking
dreams, / Where there is neither sense of life nor joys..."
porrà a questo crocevia disperante i personaggi di Cocktail Party. Vi è detto, nel dialogo fra Celia ed il gran medico Reilly:
"Reilly ...
Ogni strada significa solitudine e comunione. Entrambe le vie schivano l'ultima desolazione
Della solitudine nel mondo spettrale,
Dell'immaginazione che mischia memorie e desideri.
Celia - Questo è l'inferno dove sono stata.
Reilly - Non è l'inferno,
Finché non si diventi incapaci d'altro."
È un inferno, perché incapace d'altro, buona parte della poesia contemporanea, perfino quella di Dylan Thomas che forse fu capace, a sprazzi, di ravvisare la forza
verde che sale nella pianta, ma la cui poetica era un culto
della rêverie. Scrisse Praz:
"... ecco il metodo di Dylan Thomas, molto diverso da
quello di D'Annunzio, che raccoglieva il suo miele in quell'orto dei semplici che era la collezione dei testi citati dalla
Crusca (e il metodo di D'Annunzio era quello di Chaucer che aveva scritto: 'Poiché dagli antichi campi viene
tutto questo nuovo grano un anno appresso all'altro, e
dagli antichi libri, in verità, vien tutta questa nuova scienza che gli uomini apprendono'): 'Una mia poesia abbisogna d'una falange d'immagini. Io creo un'immagine —
sebbene creo non sia la parola giusta; io lascio, forse
che un'immagine si crei in me emotivamente e quindi vi
applico quel tanto di potere critico e intellettuale che posseggo — lascio che ne generi un'altra, lascio che questa
nuova immagine contraddica la prima, faccio, della terza
immagine generata dalla congiunzione delle altre due,
una quarta immagine contraddittoria, e lascio, nell'ambito
dei limiti formali che mi sono imposto, che cozzino tutte
insieme. Ciascuna immagine racchiude in sé il germe della propria distruzione, e il mio metodo dialettico, cosi
come io lo intendo, è un costante sorgere e crollare delle immagini che si sprigionano dal germe centrale, che
è esso stesso a un tempo distruttivo e costruttivo.' O, in
forma più concisa: 'Io faccio si che un'immagine affiori dal subconscio, e da questa prima immagine lascio sorgere il suo opposto. Queste due immagini allora entrano
in conflitto, producendone una terza, e cosi la poesia
diventa una colonna stagna d'immagini.' Stagna, cioè, in
fondo, impenetrabile al lettore... Da un altro punto di
vista una poesia di Thomas, anziché parere un monolito
inattaccabile, potrà abbagliare come quelle metamorfosi di ladri nel venticinquesimo dell'Inferno, o come le
trasformazioni di Proteo che nella vecchia versione del
Pindemonte suonano:
Leone apparve di gran giubba, e in drago
Voltossi ed in pantera, e in verro enorme,
E corse in onda liquida, e in sublime
Pianta chiomata verdeggiò1."
L'eroe in antico sapeva che Proteo era un mostro e
sapeva piegarlo, ma nemmeno gli uomini comuni in quei
tempi lo riverivano, ancorché, ignari d'eroismo e sapienza, rinunciassero ad affrontarlo.
Il disordine dell'immaginazione che in Thomas è cosi
pateticamente palese era stato arginato soltanto da Eliot
grazie alle immagini di verità, ai razionali simboli della
vita mistica che egli trasse dalla tradizione di Little Gidding, e da Yeats in virtù di un più tortuoso e pericoloso
esercizio. Yeats vagheggiò la Bisanzio dell'anno mille come centro di simboli perfetti, ma rischiò di cadere nella
più dissoluta cultura dell'allucinazione; in una delle prose
egli narra della sua prima visita al cabbalista McGregor
Mathers, durante la quale s'ingaggiò fra lui ed i coniugi
Mathers una vera e propria partita di immaginazioni; ad
un segno del cabbalista egli prese a ravvisare figure ed a
seguirne le vicende, e ognuno dei presenti aiutava, manifestando la propria visione, a determinare sempre meglio
1
In La Sfinge
e Proteo,
6. • Storia de! iantaslicare.
in II Tempo,
n. 2 1 8 , 1963.
la fantasia collettiva. Turpitudini romantiche o sogni terapeutici come usavano nei templi di Esculapio e ancora venivano indotti dai maestri chassidici? Visioni come quelle
che Proclo attesta comuni nei misteri antichi o divagazioni viziose? La perfezione delle poesie di Yeats fa risolvere l'alternativa a favore della seconda ipotesi, ed il particolare processo di purificazione del fantasticare che egli
seppe portare a compimento è attestato nella sua novella
Rosa alchemica:
"Ripetei a me stesso la nona chiave di Basilio Valentino
in cui egli paragona il fuoco del giorno del giudizio a quello di un alchimista, e il mondo alla fornace di un alchimista, e ci annunzia che tutto deve dissolversi prima che
la sostanza divina, l'oro materiale, si desti... Pensando
queste cose scostai le tende e guardai fuori nelle tenebre,
e sembrò alla mia fantasia turbata che tutti quei piccoli
punti luminosi che riempivano il cielo fossero le fornaci
di innumerevoli divini alchimisti, che s'adoperano continuamente, trasformando il piombo ih oro, la stanchezza nell'estasi, i corpi nelle anime, le tenebre nella Divinità; e
dinanzi al loro perfetto operare la mia mortalità si fece
greve, ed io invocai, come tanti sognatori e poeti dei nostri tempi hanno invocato, la nascita di quella elaborata
bellezza spirituale che sola può sollevare anime gravate da
tanti sogni'".
Benché spesso Yeats si faccia animo nel concepire e nel
generare quella "elaborata" bellezza, ricorrendo a mezzi
perfino superstiziosi, come la credenza nella metempsicosi,
tuttavia ha una guida sicura nel suo maestro Mathers e
trapassa alla visione di archetipi mistici tradizionali, scampando dagli scogli della fantasticheria soggettiva.
1
Trad. Giorgio Melchiori.
IL MAGISTERO DI GOETHE E LA FANTASIA
TEDESCA
In Goethe la fantasticheria è premonizione di catastrofe, i suoi due suicidi, Werther e Ottilia, incorrono in sogni perigliosi perché sono per lasciarsi travolgere dal loro
destino. Nella vita Goethe era impaziente allorché vedeva
affiorare una qualche tendenza a frugare tra i sogni, "il
mondo dei sogni non è mai altro che un'urna di lotteria dove si trovano alla rinfusa innumerevoli bigliettini
bianchi e premietti senza valore. Si diventa noi stessi un
sogno ed un bigliettino bianco allorché ci si occupa seriamente di questi fantasmi" scriveva in una lettera a Herder del 1788.
Werther (/. I, 22 maggio) annota sul suo diario:
"Che la vita degli uomini sia mero sogno già è occorso a
taluno e volentieri mi avvolge questo sentimento. Se osservo la limitazione in cui sono chiuse le forze operose
e indagatrici dell'uomo, se considero come ogni realtà promani dalla soddisfazione dei bisogni che a loro volta non
hanno uno scopo salvo quello di prolungare la nostra
povera esistenza e poi che ogni sicurezza su determinati
punti della meditazione non è se non sognante rassegnazione, perché ci si dipinge di variopinte figure e lucenti
vedute le pareti fra le quali si è prigionieri — , tutto ciò
mi ammutolisce. Torno in me stesso e ci trovo un mondo!
Più in presentimento e in oscuro desiderio che in figura e
forza vitale. E li tutto ondeggia davanti ai miei sensi,
e cosi, con un risolino trasognato, avanti, procedo nel
mondo."
La conseguenza di tali indugi e indulgenze è la perdi-
ta della libertà: "Rido del mio cuore... e finisco col farne la volontà."
Il rêveur Werther è la raffigurazione di tutto quanto
Goethe combatté in sé e attorno a sé, e quel suo sogno a
occhi aperti è l'ombra che il futuro disastroso getta sul
presente, la colpa che attira quel futuro, un avvertimento emblematico. Come Werther, cosi Ottilia incorre nella
fantasticheria, nelle Affinità elettive: "La sera quando
riposava e si trovava nel dolce stato intermedio fra sonno
e veglia, le pareva di spingere lo sguardo in uno spazio
dolcemente illuminato. Vi scorgeva nitidamente Edoardo,
non già vestito come di solito, ma in uniforme di guerriero ed ogni volta in una posa diversa ma perfettamente
naturale e senza alcuna singolarità, fosse in marcia o in
atto di alzarsi o sedersi o di montare a cavallo. Ne seguiva ogni movimento senza avervi parte, né volerlo, né
cercare di immaginarselo. Talvolta ella si vedeva circondata d'ombre mobili che si stagliavano brune sul fondo
chiaro, ma non le distingueva, sembrandole ora uomini
ora cavalli ora alberi ora montagne. Di solito su tali immagini si addormentava."
Fatale permesso, questo che Ottilia concede alla sua
immaginazione, di allestirle tali spettacoli; nella realtà della veglia si ritroverà affranta e vittima di quella forza
che ha creduto di poter lasciar emergere impunemente.
Ma quale perfetta assenza di complicità e quanta compassione mostra la prosa di Goethe nell'esporre questo
stato, che appare nitido, simile alle raffigurazioni d'ombre in Omero o Virgilio, senza traccia di partecipazione
dell'autore, di romantica simpatia.
Ottilia è una creatura vereconda, perciò soffre la sua malattia senza compiacenze, riconoscendola come jattura:
"Sono uscita dalla mia strada, e non debbo più rientrarvi. Un dèmone avverso che ha preso potere su di me
sembra trattenermi dall'esterno, quand'anche io potessi
ritrovare il mio equilibrio interiore." Ottilia con tanta nobiltà e lucidità legge il proprio destino, che ritorna al linguaggio della chiara demonopatia.
Nella pantomima Pandora Goethe ripiglia il tema. Nel
mito ellenico Pandora è stata mandata da Zeus sulla terra
e porta in dote un vaso che racchiude tutte le sciagure. Il
buffone Epimeteo, a differenza del preveggente fratello
Prometeo, s'innamora di lei e la sposa. Il vaso viene aperto e si spargono per la terra le sciagure, salvo una che
resta dentro: la speranza. Almeno di quella il saggio sa
non portare il peso, tenendola chiusa dove sta. La rielaborazione goethiana del mito risente del suo secolo, ed il
buffone Epimeteo è considerato, con indulgenza, un uomo
trasognato, impulsivo, che ama indugiare fra ricordi di
felicità carnale. Ma Goethe sa ancora quanto sieno pericolose le fantasticherie, e per lui sono esse il contenuto del
vaso funesto.
Goethe imparò e insegnò un'arte di educare la fantasia affinché essa servisse docilmente la ragione, trasformò
il lupo in docile cane. In Zur Morphologie und Naturwissenschaft egli ne dà una dimostrazione: "Avevo un
dono particolare. Se chiudevo gli occhi e chinavo la testa
rappresentandomi un fiore al centro esatto dell'organo
della vista, esso si metteva a mutar forma: sbocciava, e
dal suo cuore ecco uscire nuovi fiori, ora petali colorati,
ora foglie verdi. Non erano reali, ma piuttosto fiori di
sogno e tuttavia regolari come i rosoni degli scultori. Non
c'era verso di fermare questa profusione, che durava per
tutto il tempo che io la contemplavo, senza scemare né
crescere."
Come osservò Johannes Mueller nella sua opera I fantasmi retinici (1826), l'immaginazione virtuosa tocca il
suo apogeo allorché segue le stesse leggi delle metamorfosi naturali, e diventa pertanto intuizione, pensiero ancorché non discorsivo: quello grazie al quale Goethe giunse alle sue scoperte di osteologia, di botanica, di scienza
dei colori, facendo si che la sua immaginazione, disciplinata a non concedersi alcun arbitrio, ma a evolvere secondo le leggi immanenti all'oggetto immaginato, vedesse le fasi attraverso a cui necessariamente dovevano essere
passati lo scheletro della specie o la foglia della pianta
o la combinazione di luce e tenebra. Questa sorta di immaginazione sa ben discernere e stampare materialmente sulla retina il volto che un vegliardo ebbe da ragazzo
o l'alzarsi della spina dorsale da orizzontale a perpendicolare rispetto alla terra o il suo arricciarsi all'estremità a
formare il cranio, il lento modificarsi della testa della rana
attraverso tutte le varietà di fisionomia umana, dalla tarata fino alla schietta e classica.
Mueller richiama un frammento di Goethe in particolare, Lo scheletro dei roditori, del 1824:
"Nel suo insieme, la specie dei roditori mostra tendenze originarie bene equilibrate; le dimensioni del corpo
permangono misurate, l'organismo è sensibile alle svariate influenze grazie ad una plasticità che si offre a tutte le
possibilità.
"Questa variabilità delle forme potrebbe attribuirsi ad
una dentizione incompleta, relativamente imperfetta,
benché robusta. Grazie ad essa, la specie dispone d'una
mezza libertà nella creazione di nuove forme che possono perfino rasentare il deforme mentre nelle bestie selvagge, che hanno una dentatura compiuta, con sei incisivi ed un canino, ogni deformazione del tipo diventa impossibile.
"A riflettere seriamente su codesto fenomeno, come
farà un onesto scienziato a non rimanere disorientato
da tali variazioni che possono passare dalla forma alla
deformità per tornare quindi alla forma? Infatti noi creature limitate preferiamo spesso un errore stabile ad una
verità in movimento. Tuttavia in questa vasta estensione proviamo a disporre qualche gradino. Taluni animali
come il leone, l'elefante, traggono il loro carattere dall'importanza che assumono le loro estremità. Qui crediamo di vedere la possibilità per l'uomo di raggiungere la
statura eretta nella sua forma più pura. Ora, ciò che
colpisce nei roditori, è che questa tendenza in essi provoca uno squilibrio.
"Ma per apprezzare queste metamorfosi nella loro ampiezza e per identificarne l'origine, ci conviene ravvisare
l'influsso dei quattro elementi sui vari tipi di roditori, alla
buona maniera antica.
"Nell'acqua troviamo il castoro, che ricorda il maiale,
e costruisce sulle rive delle acque correnti i suoi edifici.
Altre specie si cacciano nella terra per dissimularvisi, temendo la presenza dell'uomo e d'altre creature diverse
da loro. Il roditore che vive alla superficie della terra si
muove a balzi e saltelli, ed è allora che assume la posizione eretta, fino a poter correre sui due piedi con singolare rapidità. Nelle regioni del tutto aride, sotto l'influsso dell'aria e della luce, egli diventa di un'estrema mobilità, si sposta e agisce con la massima agilità fino a far
salti che paiono dei voli."
La fantasia e il pensiero qui sono uniti strettamente,
come cane e cacciatore, non c'è alcuno scarto fantastico,
la proliferazione stessa delle immagini è nient'altro che
lo sviluppo logico dell'idea espresso geroglificamente.
Quale distanza dal morboso asservimento di Werther o
dal compassionevole cedimento di Ottilia.
Ma l'educazione dell'immaginare che Goethe propone
non è affare di piccoli accorgimenti, di esercitazioni interiori più o meno costanti, per quanto questi ci vogliano;
per individuare le metamorfosi delle forme bisogna seguire due orme: osservare anzitutto senza distrazione
ogni fenomeno, sapendolo richiamare alla sua genesi, alla
sua specie, senza mai abbandonarsi a divagazioni o capricci, e, soprattutto, ricordare sempre che le metamorfosi delle forme si spiegano a partire non già dalla loro
origine ma dal loro fine, non dall'inizio materiale e storico ma dall'apice perfetto: le metamorfosi dello scheletro
si spiegano a partire da quello dell'uomo di Prassitele,
quelle della pianta (radici, stelo, boccio) dalla forma della foglia; l'imperfetto è un momento del perfetto. Perciò bisogna educare la fantasia a stravolgersi tendendo
non già all'informe, bensì affisando soltanto forme perfette. La sua natura corrotta la porterebbe al movimento
contrario, a baloccarsi con rifiuti e capricci, a frugare
nei bassifondi e sottoboschi, in desideri e paure; invece,
distogliendo lo sguardo da tutto ciò, imparando a schivarlo e a trattenersi sugli spettacoli di augusta pienezza, la
fantasia sarà allenata a vedere in rapporto a questi, prospetticamente, tutti gli altri, compassionando senza troppo
indugiare, mettendo ogni cosa al suo posto, al suo grado
di sviluppo, non solo discorsivamente, ma visivamente;
vedendo sorgere come da un lento vortice il bene dal
male, l'anziano dall'imberbe, l'uomo dalla belva, il frutto dallo stelo e viceversa. Questa è la sola arte che difenda dal disordine e sarà infatti ignorata dai romantici, che
ridurranno la fantasia da mansueta e attiva ancella a imperiosa Megera.
Le forme pure accanto alle quali è concesso di far sostare l'immaginazione, che nell'atto di fermarsi in tal
modo diventa contemplazione, sono designate in Goethe
da una raggiera di aggettivi tematici, da un alone verbale:
schaümend, glänzend, glühend, segnend (abbagliante, fulgido, ardente, benedicente) che è corrispettiva quasi sempre, nella persona che riceve la presenza augusta, ad
un'altra raggiera: heiter, sehnend, saugend, jauchzend
(sereno, anelante, suggente, esultante). Questa abitudine
stilistica sarà propria anche di Hölderlin, nel quale gli aggettivi prediletti a designare il divino, cioè la compiutezza
e l'originarietà, sono hold e segnend, né lo stile può
staccarsi dalla cosa stilizzata; in Hölderlin fu uguale il
pathos della purezza, della fantasia abitata soltanto da
figure eccelse, ma in lui era addirittura innato, non abbisognò di pedagogia.
Il poeta, secondo il Wilhelm Meister, nutre dal profondo del cuore le radici della pianta che fiorisce in saggezza: "e mentre gli altri uomini sognano da svegli e sono
tormentati dalle paurose immagini che suscitano i loro sensi, il poeta vive, desto, il sogno della sua vita e gli avvenimenti più strani sono per lui passato e avvenire insieme", parole che s'addicono a Hölderlin per eccellenza.
*
* rt
Eredi di questa dottrina goethiana della fantasia (o, piuttosto: dell'ingegno plastico) furono assai pochi; intravide
il principio su cui essa poggiava Gérard de Nerval quando
tracciò questa nota tra le molte rimaste fuori dalla stesura
di Aurélia:
"Nutrirsi d'idee pure e sane per avere sogni logici.
Guardatevi dall'impurità che rende feroci gli spiriti buoni e attira le divinità fatali. Quando i vostri sogni sono
logici, sono una porta aperta, d'avorio o di corno, sul
mondo esterno."
È un antico principio tradizionale che l'uomo sia responsabile dei suoi sogni, tremendi allorché egli attraversi
la fase purgatoriale, limpidi messaggi e profezie allorché
sia giunto alla quiete. Ogni trattato d'ascetica ripete che
una veglia non contaminata da fantasticherie illimpidisce
la notte e gli antichi conoscevano, nei templi d'Esculapio,
l'arte di provocare sogni terapeutici grazie a cerimonie
purificatone e a preghiere. Il teologo secentesco Juan Caramuel affermava in una lettera ad Athanasius Kircher:
"Chi dorme può talvolta peccare non soltanto a causa
della precedente libertà, cosa che parecchi ammettono,
ma anche a causa della presente libertà1," perché nei sogni talvolta si esercita l'intelletto.
Henrik Steffens, il norvegese autore di favole filosofiche e autentico erede di Goethe scrisse:
"La riflessione che vuole cogliere se stessa partendo da
se stessa, la coscienza che non cessa di riflettere se stessa
produce una veglia eccessiva, una morbosa separazione
da ciò che vi ha di puramente positivo nel sonno... Ed
è cosi che la coscienza morbosa dei tempi moderni è essa stessa un dormiveglia, una fantasticheria crepuscolare
che non è già il vero sonno ma la sua caricatura.
"È questa veglia sognante che impedisce il vero so1
Carta X I I I , Revista de filosofia, Madrid, t. X I I , n. 44.
elemire
90
zolla
gno interiore, il profondo ritorno dell'anima nella pienezza della sua esistenza interiore, esattamente come il
sogno di pieno giorno può turbare la veglia. Questi turbamenti sono legati l'uno all'altro indissolubilmente e non
concedono che la profondità infinita del Tutto getti la sua
luce nell'esistenza individuale della veglia, né che la ricchezza infinita dell'esistenza individuale rischiari di rimando la profondità notturna del sonno. Il significato profondo dell'esistenza ne viene soffocato ed i nostri attuali
sogni sono sogni superficiali1."
La saggezza di Goethe si stacca sulla tenebra dei suoi
contemporanei ridotti all'umorismo soggettivo delle fantasticherie; egli continuò a coltivare le sue doti allorché
attorno a lui la moda invincibile dettava l'ossequio al capriccio personale, agli accostamenti insulsi, alla sbrodolatura psicologica.
Hegel doveva invano mettere sull'avviso, Holderlin
invano offrire l'esempio d'una poesia tutta indenne dal
contagio, diafana contemplazione di oggetti puri; la Germania dei minori, cioè della maggioranza attiva, si esaltava ad andare in sfacelo.
Prima ancora di Jean Paul Richter, di Ludwig Tieck,
di Friedrich Schlegel, Karl Philipp Moritz, morto nel
1793 dopo una vita di vagabondaggi sovvenuta in ultimo da Goethe, aveva proclamato la scomparsa delle linee di separazione tra sogno e realtà. Il falso problema
dei romantici era posto: certamente le barriere possono
annebbiarsi, perché il loro nitore è opera della volontà e
basta non congedarsi risolutamente ogni mattina dal mondo vaporoso dei sogni per poter poi dimostrare con sfoggio di poetico acume che i confini sono brumosi. Comincia con Moritz la smania del viaggio non più pratico o
educativo, ma incitante allo stato fantastico: la mutevolezza del paesaggio, e perciò la sua indeterminatezza di
fronte all'occhio ancora non assuefatto gli sembrò un grazioso specchio del caos interiore. L'impressione d'aver già
2
Cit. in Albert Béguin, L'âme
romantique
et le rêve, Parigi, 1956.
veduto talune cose che di fatto si scorgono per la prima
volta, l'accavallarsi dei ricordi, l'assaporare i nomi dei
luoghi come avessero in se stessi qualche magia, il riandare sulla scia d'un odore per i sentieri dell'infanzia, mentre attorno svaria il paese, sono per lui stimoli alla confusione. Nel romanzo Anton Reiser questo modo di viaggiare per la prima volta viene decantato.
Ma è con Jean Paul Richter che si perfezionano codesti misteri d'iniquità.
Già la sua iniziazione, fulminante rispetto a quelle diaboliche tradizionali, ha in meno soltanto la coscienza palese del demonio:
"Io stavo un pomeriggio, in età ancor molto infantile,
sotto la porta di casa, e guardavo verso la legnaia, quando d'un tratto il volto interno — Io sono Io — mi apparve dinanzi come un lampo del cielo rimanendo poi sospeso, luminoso: il mio io aveva allora per la prima volta visto se stesso, e per sempre1."
Da una tale rivelazione Jean Paul trasse i precetti della nuova demonologia borghese: ogni più insulsa esistenza sarà da adorare, ogni vita è un lungo sogno sul
quale come piante di fantasia sono dipinti e ricamati i
fiorellini dei singoli sogni d'ogni notte, com'è detto nel
suo romanzo Vita del soddisfatto maestrino Maria Wutz,
dove la bonarietà, la bonomia, il lezio che si pretende delicato compongono il primo capitolo della storia del
Kitsch. Jean Paul scriveva a Baader che tutto quanto
ci s'immagina è reale: "ciascuno porta in se stesso la sua
sonnambula di cui è lui stesso il magnetizzatore". Ora
è proprio della strega tener con sé un essere magnetizzato,
uno spirito asservito e Jean Paul trasferisce in se stesso codesto rapporto da ipnotista a vittima più o meno veggente. E il ricordo dei tempi religiosi quando gli uomini pii
tentavano di ottenere dentro di sé una calma assoluta in
cui potesse risuonare il Verbo, viene da lui sovrapposto
ai suoi empi esercizi: "tutte le nostre azioni sono della
1
Trad. di Elena Croce.
specie sonnambolica, cioè risposte a domande, e siamo noi
a interrogarci... Dio nel cuore: questo è un fenomeno del
tutto sonnambolico. Lo stato di veglia non ne serba memoria . Non stupisce che, avendo cosi scambiato la quiete, che l'uomo devoto attinge dopo aver stroncato in sé
il germe della fantasticheria, con la resa alla fantasticheria, egli spacci il suo vizio per rapporto con Dio, e da
questa frode essenziale proviene la freddezza diabolica
che senti sotto le elargizioni di intenerimenti. Egli è "senza pietà né crudeltà1" e ondeggia, com'è norma del Kitsch,
fra trame intricate, mirabolanti di chiaroscuri (il romanzo Titan) e idilli domestici dove le più miserande incombenze o piccinerie della famigliola borghese vengono esasperate, messe in piena luce, incipriate (Siebenkàs). L'avventura fantastica e la soddisfatta prigionia nella vita
quotidiana fatta di scherzetti, dispettucci, rabbiette, sdilinquimenti, carezzine: i due poli dell'orrore borghese, che
la poesia non poteva e non doveva toccare, pena la sua
agonia, come invano avvertiva Hegel nelle lezioni di estetica. Che questa sia la nuova demonicità parrebbe inaudito e puramente metaforico, tanto il demonio ha curato
di ammantarsi di melensa trasognatezza, ma a poco a poco
vedi affiorare nel Kitsch tutti i tratti stregoneschi, squallidi come mai, diacci come sempre: dal rapporto con la
marionnette o il diableteau ovvero con la sonnambula,
che ormai è la propria immaginazione, fino al sadismo.
Jean Paul definì l'umorismo "alchimia del cuore" grazie a cui le cose piccine sono contrapposte alle grandi e
queste a quelle, "perché dinanzi all'infinito tutto è uguale
e Nulla"; ma che cosa intendesse per infinito egli svela in
un altro passo: "Ciò che i campi distinti della natura negano al nostro senso dell'infinito, gli concedono i campi
elisi ondeggianti e nebulosi della fantasia."
Ma c'è una macchina politica che sfrutta codesti campi
elisi? Colui che colse il nesso occulto tra fantasticheria e
spirito rivoluzionario e pertanto tra innocente sogno e
1
Elena Croce, in Quaderni
della Critica,
VII.
Terrore fu Georg Büchner; la scoperta gli arrise per un
baleno, approfondendo il personaggio di Robespierre in
La morte di Danton (del 1835), e non gli valse a fermare
dentro di sé l'orribile tormento del progresso perpetuo,
della moda che è la demonicità propria dell'uomo moderno
(Herzen paragonò la mente dell'uomo moderno, che vive
nel suo tempo e per il suo tempo, ad una ghigliottina operosa senza tregua, il cui lavoro viene interrotto soltanto
dal fantasticare). Ecco le parole del Robespierre di
Büchner:
"Io non so cosa in me stesso inganni l'altra parte di
me... La notte respira pesante sopra la terra e si rivolta in
un sogno confuso. Pensieri, desideri appena presagiti, arruffati ed informi, che alla luce del giorno s'eran ritratti e
nascosti spauriti, ora acquistano forma e s'insinuano nella
silenziosa dimora del sogno. Aprono le porte, guardano
dalle finestre, si fanno quasi di carne, le membra si stendono nel sonno, le labbra mormorano. E non è la nostra
veglia un sogno più chiaro? non siamo forse dei sonnambuli? e il nostro agire non è forse come quello del sogno,
solo più netto, più determinato, più concluso? Chi ci vorrà rimproverare per questo? In un'ora lo spirito compie
più atti di pensiero di quanti non possa realizzare in anni
il pigro organismo del nostro corpo. Il peccato è nel pensiero. Se poi il pensiero si traduce in atto, se il corpo l'esegue, è puro caso1."
Büchner, se deve concedere al prototipo del progressista in buona fede un attimo di decenza, gli fa barlumare
alla mente l'antica saggezza che nel Macbeth Banquo cosi
compendiava:
"Assai spesso, per piegarci al nostro danno,
Gli strumenti delle tenebre...
Ci vincono con oneste inezie, per farci scivolare
Nelle più abissali conseguenze."
1
Trad. G. Dolfini.
I lumi del secolo XVIII, l'idea del progresso e dell'ottimismo e della fede nell'uomo, sono le fosforescenze che
si levano sopra il pattume rimescolato dalle streghe che
aspettano al varco l'ingenuo e sventurato Macbeth.
•k -k *
La forma dei vari generi viene corrosa dalla fantasticheria che fa proliferare come cancri le narrazioni, svuota di
intreccio le poesie, introduce dovunque certi suoi motivi
fissi, le immagini sacre del suo culto quali le bambole
e i meccanismi misteriosi, che per il rêveur si confondono col suo prossimo. Achim von Arnim è ammalato
forse quanto Jean Paul, ma più di lui consapevole che
il male è un male, più risoluto nel trattarlo senza troppa
compiacenza, perciò più vicino alla guarigione. Del monologo interiore, o flusso del preconscio, largheggiò e non
ebbe pudore dell'incontinenza fantastica (l'immaginazione
spiritualizza la materia, è mediatrice fra noi ed i mondi
superiori, egli ripete con Jean Paul). Le sue trame sono
sfilacciate, talvolta le pagine vagano alla deriva. Ma ogni
tanto egli prova orrore per ciò che lo tiene affascinato, e
nella Principessa Dolores il protagonista, il Conte, prova
raccapriccio allo spettacolo d'uno scienziato "completamente solo, inselvatichito nei suoi sogni... prossimo insieme al cielo ed all'inferno e incapace di operare una scelta".
L'abbandono al sogno consegna alle assurdità, ai mostri,
alla sperimentazione con macchine funeste; questo nesso
Arnim lo colse assai bene, abbagliato ma lucidissimo.
Con Hoffmann si vive già in un mondo che ha accettato la fantasticheria come suo elemento, egli non curerà
tanto la sdilinquita celebrazione del fantasticare, ma tesserà fiabe sul mondo diviso tra fantasticheria e percezione,
donde i continui umoreschi salti da un ambito all'altro
(quello in cui i soldatini di piombo sono guerrieri e quello
in cui la realtà è normale), che sostituiscono la sorpresa
che un tempo era ottenuta con soluzioni avventurose; in
lui sono tematici lo specchio o il cristallo', oggetti sacri che
paiono simboleggiare, agli occhi del romantico, l'esasperazione dell'io, e pertanto il rimuginare sulle proprie qualità, aspirazioni, tendenze, nonché lo sdoppiamento fra
colui che vive trame immaginarie e Valtro che assiste alla
recita. Quando Hoffmann vuole designare il momento supremo di qualche personaggio, lo fa entrare in un universo dove le sensazioni delle cinque specie si fondono,
dove (in Kreisleriana) i garofani rossi sono associati ad
un suono di corno di bassetto oppure (nello Schiaccianoci) profumi d'arancio sono mischiati a mandorle e zibibbo, e voci sussurranti o giubilanti alla vista di scimmiotti
con giubbe rosse. Anche gli antichi misteri nel momento supremo dell'iniziazione conducevano all'estasi insegnando la lettura simultanea delle sensazioni fra loro corrispettive sui cinque diversi piani: l'azione mimica e danzata corrispondeva cosi a un canto, a un racconto mitico,
a una visione di certe forme e colori, all'ingestione di certi
cibi e bevande, tratto a tratto. Era, questo, un modo di
apprendere con tutta l'anima e tutto il corpo i rapporti
segreti per cui la gamma dei colori era sovrapponibile a
quella dei suoni, a quella degli odori e via enumerando,
secondo tavole di traduzione dei vari mondi: il sidereo,
l'aereo, l'acquatico, il terrestre, il vegetale, l'animale. Ma
le corrispondenze romantiche sono tutt'altra cosa: gratuite anzitutto, perché è smarrita la conoscenza dei testi antichi (e poteva bastare a ricostruirli la lettura di Cornelis
Agrippa von Nettesheim o di Athanasius Kircher o dell'abate Tritemius, ma i romantici sono di erudizione vaga),
e anche diaboliche, perché scimmiottano i misteri divini,
dandone l'esteriorità, cioè la fusione dei cinque sensi
però priva dell'essenza: la rigorosa legge della trasposizione, che viene sostituita dal suo contrario, la mescolanza di un ordine con l'altro. In Kreisleriana Hoffmann afferma:
1
R. Miihler, Liebestod
Vienna, 1951.
und Spiegelmythos,
in Dicbtung
der
Krise,
"Non tanto nel sogno quanto nel delirio che precede
il sonno, e specie quando ho ascoltato parecchia musica,
colgo un accordo fra colori, suoni e profumi. Mi sembra
allora che tutti si palesino allo stesso modo misterioso,
nella luce del sole, per fondersi poi in un meraviglioso
concerto."
Codesto stato lo ritrovi, ormai endemico, nelle lettere
di Riccardo Wagner a Cosima:
"Devo trasportare la mia vita intera sul piano dei sogni. Tutto anderà a posto e riuscirò a scrivere tutte le
mie opere, se non sarò strappato al mio sogno, di cui il
mondo è lo scenario. Non ne devo vedere la realtà...
Ti chiudo con me in questo sogno, mia Cosima, resta
sempre presso di me, sempre con me, nel mio sogno.
Soffrire si, però sempre sognando! Non parlare mai più
dell'amore, neanche del nostro, ma amare e sognare. Ed
in questo sogno creeremo ciò che cullerà il mondo nei
suoi sogni. Sarà meraviglioso morire, scivolare dal sogno
nel sonno e affondarvi" (3 settembre 1865). Assai più che
nella Sinfonia fantastica di Berlioz infatti scopri nei procedimenti ipnotizzanti della tecnica wagneriana il corrispettivo musicale dei sortilegi onirici di un'Europa ribelle a Goethe. Ed i cromatismi del primo Schònberg
o di Berg protraggono lo stato morboso fino alla meravigliosa morte della musica.
L'olandese volante era stato concepito da uno spunto
del caposcuola dei Sognatori romantici, Heinrich Heine.
Già in Heine l'erotismo sempre serpeggiante è un'eccitazione immaginativa che accresce l'ambiguità dei sentimenti, suscitando scene macabre o cupe; alla fine delle
Notti fiorentine (1836), il protagonista e narratore ode
fra sé e sé una melodia frullante e ronzante, e racconta
una sua lontana notte d'amore con una tal damigella Laurenzia: "mentre immagini grottesche e terrificanti mi passavan dinanzi agli occhi con indisponente rapidità, come
giochi d'ombre, sentivo madamigella Laurenzia respirare
sempre più affannosamente. Un brivido freddo le intirizziva tutto il corpo e come sotto dolori atroci si torceva-
no le sue belle membra. Alla fine, flessuosa come un'anguilla, mi sgusciò di tra le braccia". Ella piglia a ballare
una pantomima a occhi chiusi, spettralmente, rappresentando i dolori della sua infanzia. "In verità quella scena
non era affatto piacevole per me. Ma l'uomo s'abitua a
tutto. Ed è perfino possibile che quel che v'era d'indisponente in quella donna le aggiungesse un fascino speciale
e mescolasse una tenerezza paurosa alle mie sensazioni..."
Il fascino, di specie tutta fantastica, di codesta donna
sta nella sua simiglianza ad una statua, ad una morta,
ad un sogno. Heine prelude al racconto d'amore con
questa allocuzione alla lettrice: "Penso che lei non abbia
pregiudizi banali, in fatto di sogni; le apparizioni notturne
hanno senz'altro tanta realtà quanto le forme ben più rozze che di giorno possiamo toccare con mano e alle quali
non di rado c'insudiciamo1." Come l'amore anche la musica in Heine diventa un ondeggiare di sogni: la si ascolta
per delirare sulla sua traccia.
In Ludwig Tieck il tema dello specchio, fonte di raddoppiamento e di capovolgimento dei rapporti, fu imperioso quanto quello della statua in Heine, fin dal primo
romanzo, William Lovell, dove il mondo è smorto e bigio,
la fantasticheria vivace: la sinistra, come allo specchio, diventa la destra e tutto sembra immutato. Goethe ha tuttavia lasciato qualche traccia, e benché Tieck si senta
attratto dagli stati sognanti, tuttavia gli echeggiano in
mente gli avvedimenti della saggezza, e li pone sulle labbra di Clara in II superfluo della vita: "Possiamo fantasticare, abbandonarci al sentimento e al presentimento,
sognare ed essere spiritosi, quando l'arida ragione abbia
educato il nostro talento simile ad un puledro." Solo allora. Ma chi non si riterrà già educato?
La stessa avvedutezza emerge in una lettera di Novalis
del 1799 a proposito del famigerato ma sconnesso e fantasticante romanzo di Friedrich Schlegel, Lucinde:
"L'immaginazione predilige quanto c'è di più immora1
Trad. Enrico Rocca, Milano,
7. • Storia del fantasticare.
1933.
le... Il sogno e l'immaginazione sono il nostro bene più
personale: destinati tutt'al più a due persone e non di
più... Il sogno e l'immaginazione sono fatti per l'oblio.
Non ci si deve arrestare ad essi."
Ma ormai questo avvedimento viene pronunciato trasognatamente; spadroneggia la fantasticheria fin nell'intimo
delle forme, e non paghi di straziare il romanzo con digressioni insensate, con scherzi smancerosi, i romantici tedeschi si creano un genere tutto loro, la fiaba. E ancora
una volta l'usurpazione è diabolica: come la fiaba classica
e popolare era stata densa di significati mistici e tramite
di comunicazioni morali travestite, cosi la fiaba romantica sarà del tutto priva di simboli che non sieno banali
o indefiniti, coltivata soltanto perché è un genere ormai,
nel mondo moderno, spaesato, e perciò, all'apparenza,
gioco fantastico in cui, come doveva dire Tieck nel Phantasus, la rappresentazione ha da essere "come una musica soavemente fantasticante" (sanft fantasierende). La fiaba di Goethe è un travestimento di dottrine gnostiche e
massoniche simile al libretto del Flauto magico (nei Discorsi di emigrati tedeschi, il Serpente verde), perciò di natura ancora tradizionale, laddove i romantici sfrontatamente vagheggiavano l'insensatezza, l'orecchiabilità, le delizie puramente foniche: componevano esercizi per attingere stati deliranti. L'idea che una parola possa mai essere
bella di per se stessa, che un suono sia più grazioso dell'altro introduce il capriccio della paranoia nella vacuità
della schizofrenia.
Nella sua Estetica Hegel denunciava tali suicidi per
fantasticheria, mentre nei suoi frammenti ddl'Athenàum
Friedrich Schlegel componeva l'estetica del suicidio
estetico.
"Moderno, interessante" furono, per Friedrich Schlegel, le lodi da sostituirsi a "bello"; egli patrocinò la
combinazione di vari generi e la mescolanza della poesia con la prosa, affermò che l'essenza dell'arte moderna
è il suo divenire, il suo rinvio al futuro, precedendo Heidegger, e osò scrivere: "Il filosofo deve parlare di se stes-
so, al pari del poeta lirico"; nel 1800 egli già elogia l'arte
come gioco e ironia, o, francamente, come buffonata ossia
coscienza del caos che si unisce alla coscienza di averne
coscienza e infine, con parola decisiva: come manipolazione. In lui trovi l'elogio della "poesia informale" e "inconscia" sparsa nell'alma natura, dell'immaginazione malata, della "lentissima dissezione di voluttà innaturali... di
impotenze sensuali o spirituali". Friedrich Schlegel era un
pensatore squinternato ma sensitivo come una cartomante; oggi riesce illeggibile da quanto è bolso. Era pertanto
nel suo tornaconto patrocinare, come fece, la critica d'impressione, nonché la critica come polemica. Fu lui a ordire
l'intelaiatura d'ogni posteriore avanguardia. Egli proponeva, nel Discorso sulla mitologia, di aspettare che dal
caos graziosamente accettato scaturisse una nuova mitologia, nata non dal mondo sensibile ma dall'arte stessa.
Invano Hegel doveva confutare questo coacervo di parole
d'ordine micidiali; con Hegel per l'ultima volta si osserva
il panorama delle varie arti secondo uno spirito oggettivo,
secondo un gusto.
Purtroppo in seguito, quand'anche si osi ribellarsi alle
asserzioni provocatorie e narcotiche di Friedrich Schlegel,
il gioco è già fatto, qualcosa sarà ormai inafferrabile, la
totalità smarrita. Sarà ripetuto, fino ad affatturare tutti, il
ritornello delle streghe del Macbeth: "fair is foul and foul
is fair".
Hegel nell'Estetica osservò a uno a uno i segni d'un
futuro nefasto all'arte.
Lo Stato, dopo la codificazione e l'istituzione dell'anagrafe, toglie la sostanza agli individui perché nello Stato
si "suddivide il lavoro per l'universale, come nella società
si fraziona l'attività mercantile"; perciò, meglio o peggio
che ciò sia, ne viene scalzata l'arte, che poggia sull'identità
dell'universale e dell'individuo, quale esisteva nei tempi
antichi, quando il legame sociale non era una "relazione
legale fissa e precedente che costringesse a necessità", talché l'uomo, anche se vassallo, formava una totalità con
i suoi atti. Noi esigiamo la consapevolezza e deliberazione
per imputare un atto a chi lo compie, ma Edipo non distingueva fra sé e il proprio destino, fra mire soggettive
e fatto oggettivo. "Nello sviluppo di un'azione moderna
ciascuno incrimina tutti gli altri e rigetta da sé quant'è
possibile la colpa" e cosi ancora si procura di scansare
la colpa degli avi che un tempo gravava naturalmente
sui nipoti. Questo distacco dell'individuo dal suo destino
non può procedere oltre un certo segno senza levar la
terra di sotto i piedi all'artista, che viene defraudato perfino di quel genere che sembrerebbe dover restare immune, non avendo rapporto con la società, l'idillio, "poiché
oggi quella semplicità domestica e campestre nel sentimento dell'amore o nel gustare alla libera un buon caffè, è di pochissimo interesse", talché Goethe dovette
collegare il suo Hermann e Dorothea alle vicende storiche per evitare che si sciogliesse nella scipitaggine.
Quanto alle altre forme di racconto, in tutte le arti,
il protagonista dev'essere un uomo regale "e non per
amor dell'aristocrazia o delle distinzioni, ma a causa della
perfetta libertà di volere e agire che si trova attuata nel
concetto di monarca", salvo nel genere comico, che si
attaglia a gente impedita. Se in Shakespeare vi sono alti
personaggi di rango basso è perché grazie allo stato di
rivolta sono affrancati, principeschi di fatto. E se ci si delizia di quadretti di genere olandesi o di ragazzotti mendichi del Murillo è perché nei primi c'è una "risvegliata libertà spirituale e vitalità" tenuta nei giusti limiti dalle
dimensioni stesse dei minuscoli quadri, che non pretendono di appagarci interamente; quei mendichi d'altro canto non son tali se "seggono al suolo calmi e beati, quasi
Dèi dell'Olimpo: non parlano, non agiscono, sono uomini d'un pezzo, senza noia né inquietudine; e su questo fondamento di ogni abilità si ha concetto che di questi
fanciulli si possa far tutto". Ma guai a chi voglia inscenare le "storie domestiche quotidiane", "i lamenti del padre con la signora, coi figli e con le figlie, con i salariati quanto alle spese, la dipendenza dai ministri e gli intrighi dei camerieri e segretari come pure la bisogna della
signora con le serve della cucina e le care, delicate cosucce delle signorine nelle stanze intime", tutto ciò fa provare ribrezzo come leziosa "voluta naturalezza".
Nei tempi moderni un magistrato è una macchina e
"ciò che i magistrati aggiungono di loro, dolcezza di maniere, avvedutezza e via dicendo, non è cosa principale
e contenuto sostanziale, ma indifferente e accessoria e gli
stessi capi di Stato e generali non hanno mai potere sostanziale"; l'interesse per il personaggio diventa mera curiosità di vedere "come gli vanno le cose", senza rapporto
con le potenze oggettive: il diritto, il costume; la stessa
rivolta o vendetta contro la società "racchiude l'ingiustizia che vuol reprimere".
Questa condizione suscita l'ironia. Ironicamente si
eleva a personaggio la miseria del cuore che desidera senza volere, che fantastica o si compiace delle minime cose
quotidiane ed insulse, e poi si ironizza su ciò che trascende
questa trivialità. Friedrich Schlegel, emanando le norme
di questo atteggiamento, e chiamandolo poesia della poesia, fu il primo a promuovere la dissoluzione delle arti,
essendo, nell'epigrafica sentenza di Hegel, "la poesia della poesia nient'altro che la più liscia prosa".
Alla dottrina hegeliana dell'estinzione dell'arte per effetto dell'ironia romantica si è sempre opposto un bonario
e becero: "Tant'è: vedi se dopo è morta." (E magari
nel frattempo l'ironia romantica è diventata una meccanica distruzione senza neanche l'ombra d'un sorriso, s'è
fatta, col cubismo, priva d'umore, ebete.)
Goethe e Hegel sono i solitari censori dei loro tempi
già moderni, quando, come suonava il verso di Lamartine, la nuit sanglotait pleine du bruit des rêves. Dalla
loro avevano la tradizione immemoriale, la forza della ragione, la dimostrazione poetica o speculativa, dalla parte degli avversari baluginava lo splendore del diavolo, la
seduzione dell'arbitrio presentato come ardimento; quel
barbaglio da solo spiegherebbe però soltanto un momentaneo traviamento: l'errore riusciva a diventare istituzione, forza sociale perché usava l'antichissimo accorgimento
satanico di rivolgersi agli esseri più fragili facendone massa. Costruire un poema è arduo, lasciarsi portare dall'onda
dei suoni carezzevoli o eccitanti e dar nome di fiaba o
poema in prosa al risultato, abbastanza facile. Costruire
con blocchi di realtà, con situazioni verosimili e credibili,
in lingua solenne un romanzo è impresa da fiaccare il
miglior conoscitore del cuore, ma lasciare libero campo
alle stravaganze quotidiane o fantastiche, arruffare la vicenda e poi darsi l'aria di riderne, è un esercizio aperto all'uomo più vano.
La congiura degl'inetti scalza cosi le norme dello scrivere (o del dipingere o dello scolpire o dell'edificare), e
rinfaccia a chi procuri di restar fedele d'essere accademico.
E poiché dei molti che studiano nelle accademie pochissimi hanno un destino creativo, non ci vuole molto a
scoraggiare la benintenzionata maggioranza. E poi gli avanguardisti fantastici hanno un punto di vantaggio: la psicologia più complicata, che scandaglia sub limine conscientiae. Anche questo è un dono diabolico perché rimestare
nelle tenebre presuppone il vizio dello sdoppiamento e
l'esasperazione dell'io, che sono frutti del fantasticare: un
autore classico non ha bisogno di tali contorsioni per far
agire nel modo più naturale i suoi personaggi, anche perché mette in campo uomini troppo occupati a vivere per
fantasticare e non si perde ad analizzare gli sventati.
D'altra parte il lavoro industriale, come notava SaintSimon, richiedeva una mescolanza di azione e riflessione,
e il carattere del nuovo tempo era, pertanto, l'autocoscienza; viene cosi dato un avallo storico all'illuminazione
famigerata di Jean Paul: ogni atto nel nuovo clima dev'essere pianificato, deliberato, recitato. Se queste erano le
tendenze implicite del lavoro industriale, se cioè esso suggeriva tali movimenti dell'anima, il romanticismo che esaltava l'io, lo sdoppiamento e la fantasticheria, preparava
proprio l'adattamento alle nuove condizioni tutte artificiose, dove ogni atto era voluto. La società frammentante
era la naturale patria di uomini frantumati. Tutti questi
malanni interiori venivano chiamati, con improprietà, da
quanti li sdegnavano: cerebralismo, intellettualismo. Ancora oggi si suole chiamare "intellettualistica" un'avanguardia che è la rinuncia ad ogni intelligenza rettorica o
logica.
LA FANTASTICHERIA DELL'ISTINTO
L'uomo che fantastica è vittima designata dello sdoppiamento, e tutto il romanticismo è ossessionato da questa minaccia d'una perdita assoluta della propria identità;
Andersen dedicò all'ombra che si stacca dall'uomo fino a
diventare una creatura autonoma una fiaba sinistra e Stevenson raffigurò la resa al fantasticare come vero e proprio avvelenamento che estrae dall'uomo il demonio; il
dottor Jekyll, dopo aver ingerito la pozione che trasforma il suo doppio nel suo stesso volto, dice:
"C'era qualcosa di strano nelle mie sensazioni, qualcosa d'indescrivibilmente nuovo, e, per la sua stessa novità, incredibilmente dolce. Mi sentivo più giovane, leggero, felice quanto al corpo; interiormente provavo una
spensieratezza inebriante, sentivo una corrente di disordinate immagini sensuali in turbine nella mia immaginazione, uno sciogliersi dei vincoli d'obbligazione, una sconosciuta ma non innocente libertà dell'anima. Seppi subito, al primo alito di questa nuova vita, d'essere più malvagio, dieci volte più malvagio, venduto schiavo al peccato originale; ed il pensiero di ciò mi diede forza e piacere come un vino. Stesi le mani, esultando alla freschezza
di tali sensazioni; e nel farlo m'avvidi subitamente d'essere diminuito di statura."
Il dottor Jekyll ha vissuto secondo le regole della società, da buon fariseo, ma senza mai purificare il cuore,
senza custodire i suoi pensieri: questi alla fine chiedono
d'essere manifestati e attuati. Il borghese è vissuto ormai
per un secolo con licenza interiore e severità esteriore, ir-
religiosamente ed eticamente; nel nuovo secolo erediterà
la pena di questo sdoppiamento.
Morte a Venezia di Thomas Mann, il monumento all'immaginazione dell'era imperialistica, è la storia d'una
caduta nella libidine fantastica, inevitabile, quasi organica per un uomo come il protagonista, lo scrittore borghese Aschenbach, il cui equilibrio è all'incontro delle
due opposte e pari forze, l'adeguamento volitivo alla società qual è da un verso e l'istinto dall'altro, che si traducono nei due principi letterari, la stilizzazione ed il
contenuto. Tale fu il borghese nell'era imperialistica, in
sé diviso, affidato a un compromesso ondeggiante tra la
Haltung (il contegno, con cui si finge ancora intatto l'antico
ordine delle famiglie, dei ceti, dei ranghi) e l'JJrschrei,
l'Urlo dell'informe disgregazione individualistica.
Nell'equilibrio fra i due mali era concesso alla creatività
di fiorire, esilmente. Gustav von Aschenbach è uno scrittore ufficiale, il suo stile s'indovina di maggior rigore
che maestà, laborioso e rifinito anche se non carnalmente,
sanguignamente perfetto: egli concepisce la spontaneità
nella sua mera astrattezza, come carica vitale e la sente
come una minaccia.
Ricevere ispirazione e impeto vorrà dire, per un tal uomo, inoltrarsi fra i vapori agliacei e caprigni della volgarità e poi affrontare, fremente a causa del contrasto, il mondo dell'ufficialità, dove il contegno dev'essere compassato e
fiero. Il contrasto che rugge nel cuore strazia e inorgoglisce, dà angoscia ed esaltazione, come un tradimento.
Profondo Abisso
Mondo della notte
Irrazionale cieco
Animalità oscura
Istinto odoroso di sangue
Mistica barbarie
sono alcune fra le tante denominazioni che i borghesi
credevano dotate d'un significato, e che certamente sarebbero parse cerebrali ad un antico: a volerne afferrare il
senso storico occulto si rivelavano null'altro che un traslato dei globi rossi, delle insegne dei bassifondi fitti di taverne e lupanari, del fiddler's green, dove vigevano un linguaggio misero e turpe, maniere viscide o brutali, dove ti
trovavi a sfiorare ciò che avevi imparato a borghesemente
schivare ma non a religiosamente aborrire e commiserare, dove poteva capitare di pigliar gusto a capovolgere
10 stile, considerando come profumi i tanfi, come raffinatezze le trivialità, come voluttà le umiliazioni (il tutto,
magari, se i tempi lo consigliavano, sotto colore di intenerimento giacobino, di ugualitarismo sentimentale, di protesta naturalistica).
Una situazione assai astrusa, che si potrebbe dire decadente se la parola non fosse stata usurpata dalla massa
per designare, tutt'insieme, con la decomposizione la fruttificazione, con la belluria la finezza, con l'ostentazione
11 gusto, con l'orpello lo stile, con il lezio la letteratura,
con lo sdegno della volgarità l'orgoglio sociale.
Perché Aschenbach è l'emblema di tale groviglio?
Egli viene incantato dalla vista d'un vezzoso giovinetto
polacco e drappeggia di sogni ellenici l'incontro, ma a
questa mescolanza di erotismo e di garbi letterari, di
immaginazione eccitante e di alibi archeologici, congiunge
l'inclinazione, più o meno involontaria, a cadere in frangenti sempre più volgari, causa la tendenza all'abisso che
sarebbe, secondo Mann, connaturata all'artista, ovvero, a
parlare con maggior proprietà, all'uomo fantastico che
Aschenbach è, a dispetto e non già a misura della sua vocazione d'artista.
Salvo l'errore di Mann, il quale spartisce con Aschenbach l'illusione che esista un nesso fra perversa fantasticaggine e opera d'artista, il racconto è veridico da quanto è archetipico.
Tutta la rovina di Aschenbach proviene da un ammaliamento: un passante gli ha colpito l'immaginazione, ed
ecco s'instaura "un nuovo e strano atteggiamento del suo
spirito: una specie d'inquietudine vagabonda, un desiderio
giovanile di paesi lontani, un sentimento cosi vivo, cosi
nuovo o perlomeno da lungo tempo dimenticato, che egli,
le mani incrociate dietro e lo sguardo a terra, rimase
come incantato per assaporarlo interamente.
"Una sete di viaggiare, non altro, lo aveva assalito all'improvviso, che prendeva man mano proporzioni esagerate, diveniva passione, illusione perfetta dei sensi. La sua
brama divenne veggente, la forza dell'immaginazione...
creò una visione che gli permetteva di concretare tutte le
meraviglie e gli orrori di quel mondo multiforme, balzatogli d'un tratto dinanzi agli occhi.
"Egli vide un paese, una paludosa regione tropicale delineantesi sotto un cielo di piombo, umida, lussureggiante
e spaventosa."
La visione di tropici in decomposizione è un emblema
abbastanza frequente dell 'abisso o Grande Irrazionale. A
furia di fantasticare senza esternamente peccare, Aschenbach si troverà da un parrucchiere veneziano il quale, senza quasi neanche chiedergli il permesso, gli truccherà la
faccia.
Il tanfo di carbolo, di detriti lagunari, di peste, sono le
manifestazioni sensibili della malattia dell'immaginazione
che è poi, nel sogno finale e preagonico, svelata come una
ossessione fallica: il sogno del sogno. Come Rimbaud ormai Aschenbach "cherche lui-même, aiguise en lui tous les
poisons... Ineffable torture où il devient entre tous le
grand malade, le grand criminel, le grand maudit."
David Herbert Lawrence era agli antipodi di Aschenbach: ben scarso stilista, a immagini brividanti ma di trasandata determinazione; eppure anche lui celebrò il culto
del grande Abisso che la civiltà industriale vorrebbe colmare di detriti. Alla fin fine la sua immaginazione erotica si
dimostra assai più forte della sua volontà di tornare alla natura. La sua fantasticheria oscena più riposta era callipigia, cosa assai buffa, specie a causa della accigliata ideologia che l'ammantava ("burning out the roots of shame"
è la frase con cui vi accenna, nel modo più ideologicamente pudibondo).
Che venga cercata salvezza nello stile inteso come con-
tegno pietrificato oppure nella ribalderia plebea ed informe, poco importa: dove si è più deboli ci si fa forti, il
male segreto è la fabbricazione di chimere come sono il
Contegno, la Volontà ferrea da un lato e la Ferinità, la
Forza dell'Istinto dall'altro (reincarnate negli ultimi anni
in modo umbratile ma almeno chiaramente sciocco come
Costruzione e Alea).
IL MAGISTERO DI SURIN E LA FANTASIA
FRANCESE
Prima che in Francia nascesse la moda sfrontata delle
confessioni, dei diari gettati in faccia al pubblico, dei denudamenti spirituali, prima che la sincerità diventasse un
ridicolo vanto invece di una premessa urbanamente tacita o una componente del pudore, la tendenza a gridare
le proprie fantasticherie aveva a lungo fermentato. JeanJacques Rousseau sarà il primo a proclamare i suoi vizi,
se non il primo a coltivarli. Sarà il primo a teorizzare
la delicieuse rêverie, l'arte di carezzare i movimenti interiori grazie a suoni monotoni come il flusso e riflusso dell'acqua, senza pensare, ma adagiandosi sull'onda delle
figure, dei discorsi disordinati. Ma già in precedenza s'era
andato diffondendo il vizio dei diari intimi cui venivano
consegnate le aspirazioni, i vagheggiamenti, le rimembranze: teche di rifiuti spirituali che servivano a fomentare il
culto dell'io come i reliquiari quello dei Santi.
Come Sterne in Inghilterra, Jean-Jacques Rousseau
con maggior decenza in Francia, fu il primo ad assaporare il sentimento di sé; lui che vagheggiava un mondo
primitivo incorrotto dove l'uomo avesse la fierezza e la
libertà, non s'accorgeva di vivere il più corrottamente possibile, o forse l'utopia era una proiezione capovolta delle
sue prevaricazioni raccontate in Les rêveries d'un promeneur solitaire-, "non trovando più alimento per questo
cuore sulla terra, mi abituai a poco a poco a nutrirlo
della sua stessa sostanza e a cercar tutto il suo sostentamento entro di me... steso tutto lungo nella barca, con
gli occhi volti al cielo, mi lasciavo andare lentamente in
balia delle onde, talvolta per più ore, immerso in mille
fantasticherie confuse ma deliziose che non avevano nessun oggetto determinato e costante, eppure mi riuscivano
infinitamente più gradite di tutto quel che di più dolce
può trovarsi in quelli che si chiamano i piaceri della vita"1. Ciò che campeggia forsennatamente nelle fantasticherie del passeggiatore solitario, è la commiserazione di
se stesso, il gusto morboso di elencare le persecuzioni
subite, di destare pietà.
Già aveva sentito levarsi questa marea di obbrobrio
uno degli ultimi grandi autori della Francia religiosa, padre Surin, nel suo trattato della perfezione cristiana, in
pieno secolo XVII, mettendo in guardia contro il sentimento di sé, "che significa godere e provare soddisfazione
di quelle cose che ci riguardano, escludendo gli interessi
di Dio. Questo difetto ha tre gradi.
"Il primo è proprio di coloro che sono sempre occupati intorno al proprio io, e non trovano conforto né coraggio che pensando ai propri vantaggi e contemplando
le loro doti; quando non hanno altro da fare, si abbandonano totalmente alla considerazione di se stessi; si compiacciono delle loro perfezioni o dei beni che credono
di possedere; questo vuol dire provare il sentimento di
sé. Coloro che si lasciano trasportare da tale eccesso di
amor proprio che, non contenti del piacere che recano
loro questi pensieri, arrivano fino a compiacersi di una certa sregolatezza molto comune ai nostri giorni, la quale
consiste nel descrivere se stessi, autoritrattandosi non col
pennello, ma con la penna. È un'usanza comune oggigiorno a parecchi spiriti mondani, tutti pieni di sé, che
sprecano il tempo nel descriversi, mettendo in carta i lineamenti del loro volto, il portamento, la statura, le perfezioni, la loro complessione, e tutto ciò che conoscono
di se stessi. È una deplorevole cecità, della quale persino
i profani dovrebbero vergognarsi: poiché l'uomo ha il dovere di dimenticare se stesso e di occuparsi di Dio, men1
Trad. N. Cappelletti, Milano, 1957, p. 25, 70.
tre costoro dimostrano di ricordarsi tanto di sé, che spesso
donano ai loro amici questi ritratti stesi di loro pugno allo
scopo di metterli a parte di queste loro idee delle quali dovrebbero vergognarsi. Essi denunciano in sé tre gravi difetti: il primo è l'oziosità dello spirito che permette loro, grazie alle scarse occupazioni a cui devono attendere, di perdersi in riflessioni e disegni su ciò che la stessa saggezza
umana consiglia di dimenticare. Il secondo è la grande
stima e l'orgoglio, che li fa credere a se stessi degni dell'altrui attenzione con tutto ciò che li concerne. In terzo
luogo abbiamo lo spirito di vanteria, una vuotaggine che
li spinge a mettere in mostra e a compiacersi di quanto
tornerebbe odioso a chi ha un tantino di saggezza. Questa minuziosa rassegna intorno a se stessi è utile quando
si tratta di fare una confessione generale, quando l'umiltà vera obbliga a non nascondere ciò che rende abbominevole dinanzi a Dio e degno di disprezzo di fronte agli
uomini; ma lo sprecare il tempo, per altri motivi, nell'indagare minutamente dentro di sé, significa essere ravvolti
nell'amor proprio, e mettersi in' contrasto con la dottrina
di Gesù Cristo, il quale ha detto: Chi vuol venire dietro
a me, rinneghi se stesso (Matt. 16, 24)."
Prima della Rivoluzione francese si sapeva che la fantasticheria era un male, perciò o non si ammetteva o essa
suscitava vergogna e dileggio. La modificazione moderna
è tutta nell'indifferenza con cui, dopo una certa data del
secolo XVIII, si è cominciato a transigere su questa norma
tradizionale, fino ad esaltare senza pudore ciò che sempre
si era almeno celato se non impedito.
Fissare la data della caduta è difficile, ma i prodromi
che l'annunciarono sono manifesti, specie in Francia, dove
il processo fu più spiccato e rapido che non nell'Inghilterra la cui economia aveva cominciato fin dal secolo XVII
a trasformarsi, spopolando le campagne ridotte a pascolo,
cacciando in manifatture il popolo cosi sradicato, preparando il brodo di coltura della fantasticaggine.
In Francia il preannuncio è una certa qual febbre che
rende rapidi i pensieri fino alla frenesia impaziente che
8. - Storia del
jantastìcare.
alla fine, da briosa si fa disattenta e precipita nella trasognatezza. Bernard Groethuysen1 ha descritto quel fermento:
"Ecco lo scintillio della successione delle idee, il loro andirivieni, il pensiero che si coglie al volo, il nuovo motivo che s'introduce prima che il primo abbia cessato di
risuonare, l'incrocio e accavallarsi di vari temi l'uno sull'altro, che conferiscono il non so che alla conversazione. Il
non so che si ritrova da qualche parte in un giardino, dice
Marivaux in una delle sue allegorie. Pare che il caso ed
il disordine sieno padroni in questo giardino... Questo non
so che te lo ritrovi in ogni abito e in ogni mobile. L'occhio
non deve mai intravedere il profilo d'un oggetto, dev'essere costantemente fermato, attratto da un particolare o
l'altro. Cosi nei quadri di Watteau si vede entrare coppie... il ginocchio piegato come a non interrompere il loro
cammino... L'arte in ciò non fa che imitare la natura, pensa Diderot, essa ci nasconde nel modo più sottile i nessi che
conferiscono unità ai suoi fenomeni e lo stesso vale per
l'anima umana, che trascorre per i più diversi stati. Cosi
almeno la concepisce Marivaux, e ognuno di codesti stati
ispira una moltitudine di pensieri, sentimenti, impulsi,
desideri, velleità fra cui sarebbe difficile stabilire i nessi. Si
pensa a qualcosa, la si aspetta, non ci si crede del tutto
e tuttavia la si spera. Dopotutto non è escluso che capiti.
E poi, d'un tratto, qualcosa emerge, che deprime. Si medita su se stessi, ci si muovono dei rimproveri. E poi, perché tormentarsi? Lontani ricordi tornano alla memoria.
E la calma ritorna. Ma ecco risorgere antichi scrupoli. E
tutto ciò avviene nello spazio di un momento. Migliaia
di minimi movimenti, trepidazioni dell'anima, pensieri,
sentimenti appena sbozzati si alternano senza susseguirsi.
Ora è un desiderio quasi impercettibile, ora un'eco che
dura appena un istante, la sparizione e riapparizione di
un'immagine. Come trovar parole per esprimere tutto ciò?
È già molto trattenerne le briciole... Questi vari stati d'ani1
Philosophie
de la Revolution
française,
Parigi, 1956, pp. 98 sgg.
mo si riflettono sulle fisionomie dove tutto è mobile del
pari."
Questo febbricitare è detto marivaudage e la futilità ne è
inseparabile; in Diderot esso diventa ancor più convulso,
egli osserva "gli stupefacenti salti del funzionamento del
nostro spirito... onde spesso un'idea risvegliata fa fremere
un'armonica che sta ad un intervallo incomprensibile" (Entretien de d'Alembert et Diderot).
Nel Neveu de Rameau egli offre uno spaccato veridico
di una mente tutta dedita a questo libertinaggio dei sentimenti, che impedisce ogni profondità, ogni meditazione sistematica o simbolica, ma sfrena all'impazzata, dà i conforti della velocità, del brio, quanto toglie la capacità
di disputa ragionata. Diventa di cattivo gusto indugiare
su un argomento con ordine, il principio dello scambio,
fondato sulla carta moneta e poi sui titoli di credito e poi
sui riporti vertiginosi, si introduce nel commercio delle
idee e dei sentimenti e, come alla borsa si smarrisce ogni
rapporto sensato, tangibile con i beni che i titoli dovrebbero
rappresentare, cosi nella spiritosa conversazione, interiore o
dialogata, della generazione rivoluzionaria si perde ogni
ricordo di quel che era dimostrazione, persuasione, verità.
Vige invece il consumo della merce spirituale alla moda.
Ancora un passo, un abbandono all'intontimento della
velocità o un attimo di ozio ed ecco che comincia il canto
delle lugubri sirene della fantasticheria. Per il momento
tacciono: comincia a serpeggiare il loro sussurro nel secolo
seguente, dopo il crollo di Napoleone.
Soltanto due enormi mostri osano fantasticare senza
ritegno già nel secolo XVIII: il marchese di Sade ed Emmanuele Swedenborg. L'uno nelle sue prigioni sazia la sua
libidine con un corteo di sevizie, ordisce l'edificio più comico che sia immaginabile, senza un momento d'umore, e
tanto insiste che alla fine non si ride nemmeno più: il
tedio più svergognato è la sorte ultima del lettore. Sade
immagina tutte le varietà dello stupro, dell'umiliazione
per mezzo di torture sessuali, di ingestioni orripilanti, di
stravolgimenti, vagheggia poteri assoluti in abbazie remote,
in castelli feudali, in covi di malandrini, in regge di sovrani
dispotici e consuma vittime in misura fantastica, meccanica, indefinita, giacobina. Sade vagheggia di far subire ad
una fanciulla o ad un garzone tutti i martiri, d'infliggerne
a se stesso fino all'impiccagione pur di esaurire l'inventario degli orgasmi. All'orgasmo egli devolve la funzione
che era stata della metafisica, la prova dell'essere.
Del sognatore a occhi aperti il quale ha combinato libidine e ambizione, Sade ha anche la lagrimosità.
Non a caso tutto Sade si può spiegare da un suo sogno,
quello in cui la sua antenata, la Laura amata dal Petrarca,
emerge dalla tomba in abito luttuoso e lo invita a
seguirla; egli piange, anche lei si stempra in lacrime,
egli tende le braccia ma il fantasma svanisce e "qualcosa
di lei restò nella più oleografica delle sue creazioni: la
pura, disgraziata Justine... Non ci si sorprenda poi di tante lagrime. Come i tiranni, i condottieri, gli efferati rivoluzionari suoi contemporanei, Sade in letteratura era facile alla commozione. Nelle campagne militari Napoleone
si portava dietro i patetici romanzi di Madame Riccoboni, degni secondo Vigny di far singhiozzare le portinaie
e deperire le ricamatrici1."
Quanto agli equivoci che dopo più d'un secolo di réverie
di smisurata sconcezza si poterono tessere intorno a Sade,
che trovò poi in Lautréamont un calligrafico prosecutore,
tutto è compendiato nella frase tra infame e ingenua di
Paul Eluard: "Sade volle restituire all'uomo civile la
forza dei suoi istinti primitivi, liberando l'immaginazione
amorosa dai suoi oggetti", dove si confonde la forza dell'istinto con la sua consunzione fantastica. Sade è pura
fantasticheria, come si può avvertire leggendolo sulla scorta dell'osservazione di Proust:
"Come la pietà per le disgrazie non è forse molto esatta, perché con l'immaginazione ricreiamo tutto un dolore
1
Giovanni Macchia, II nipote
febbraio 1963.
di Laura,
"Corriere
della Sera",
22
sul quale lo sciagurato costretto a lottare non pensa affatto a commuoversi, cosi la cattiveria non ha probabilmente nell'animo del malvagio la pura e voluttuosa crudeltà che ci fa tanto male immaginare. L'odio la ispira,
movimento che nulla ha di gioioso. Ci vuole il sadismo
per estrarne piacere; il malvagio crede di far soffrire un
malvagio1."
Un contemporaneo di Sade, non molto dissimile da lui,
Reveroni de Saint-Cyr, autore di Pauliska ou la perversità moderne, mémoires recentes d'une polonaise (1798),
narrò la storia di Pauliska, profuga polacca che capita
in mano del barone d'Olnitz, "maniaco spaventevole, chimico profondo, naturalista in delirio" che le inocula a morsi i germi dell'amore e le annuncia:
"Il magnetismo vi ridurrà ad un tal punto di debolezza
che esisterete soltanto negli spazi e nella vostra immaginazione. Il resto non è che materia."
L'esercizio della libidine a freddo è qui indicato, ancor
meglio che da Sade, come risorsa per ridursi a pura immaginazione.
Sade contiene in sé i germi del futuro mondo dominato
dalla rèverie, come nessun altro suo contemporaneo previde tutte le teorie rivoluzionarie più biecamente consequenziarie, tutte le fantastiche riforme; lo schema della letteratura per le masse lo trovi già nei suoi romanzi e certi costumi di massa sono contenuti già in forma pura nei suoi
libri2.
Le còte de Guermantes, I, 156.
Tutta la letteratura industriale americana ne ha i colori (dimostrò
Leslie Fiedler, nel suo Love and Deatb in the American Novel) e Geoffrey Gorer afferma che il tipo di musical come Gentlemen Prefer
Blondes
ha origine nei dittici di Justine e Juliette. " L e moderne squadre sportive,
il cui gioco d'insieme è esattamente regolato, sicché nessun membro può
dubitare della sua funzione e per ciascuno sta pronto chi lo sostituisca,
hanno il loro modello nelle squadre sessuali di Juliette, nelle quali ogni
attimo è utilizzato, ogni apertura del corpo sfruttata. Nello sport, come
in ogni branca della cultura di massa, domina una laboriosità ansiosa e
tesa allo scopo" (T. W . Adorno e M. Horkheimer, Dialektik der Aufklärung, Amsterdam, 1946, p. 108). L'uomo moderno fa le sue orge
fantastiche di sadismo negli stadi, tanto poco ha importanza il pretesto
concreto dell'astratta libidine.
1
1
Swedenborg all'opposto mostra il misticismo ridotto a
rêverie-, l'eredità di simboli, di figurazioni mistiche ed
esoteriche egli riduce a spunti di fantasticaggine; vede angeli sbavati, imprecisi, percorre lande fra le nubi del sogno, e
vi campisce edifici cosparsi di berilli, calcedonie, crisopazi, e altri bei suoni, s'intontisce con la dilettazione fonica di cocchi, unicorni, draghi, azzimi, arche. La rêverie
di Swedenborg è domestica quanto stravagante, i suoi angeli, come osservava Emerson, sono ottusi, il loro paradiso
somiglia a una merenda evangelica all'aperto, i dialoghi con
gli abitanti dell'ai di là sono scipiti come conversazioni borghesi. Nel contempo egli coltiva il gusto della parola come
allusione indistinta e vaporosa, la teoria delle corrispondenze dei suoni e dei colori: un'avvisaglia di ciò che sarà l'andirivieni fra salotto piccolo borghese e festival d'arte nuova.
Sade e Swedenborg, in un secolo non ancora del tutto in preda al fantasticare incarnano il futuro, il secolo XX,
quando si attueranno i sogni di Sade nella misura del possibile e le vaghe nostalgie di vita spirituale s'impiglieranno
in contraffazioni ed in buoni sentimenti di stampo swedenborghiano.
Oltre che alle rêveries del promeneur solitaire, Rousseau consegnò il ritratto raccapricciante della sua attività
di rêveur alle Confessions, ma con una serietà meditabonda che lo distingue da Sterne; il vizio gli ha fatto appassire il carattere ma non l'intelletto, sicché discerne le conseguenze delle sue orge interiori. Queste nascono sulla scia
d'un ricordo, che ne fa germogliare altri, e cosi egli si trova
a immaginare convegni di tutte le amiche che ha corteggiato, le cui immagini gli si affollano attorno: "mi vedevo
circondato da un serraglio di uri, dalle mie vecchie conoscenze, e il forte desiderio che ne provavo non era una
novità. Il sangue mi si scaldò, a dispetto dei capelli grigi
mi girava la testa".
La consuetudine con tali sogni a occhi aperti gli aveva
fin dalla giovinezza corrotto il senso della realtà:
"Non avevo alcuna idea delle cose e già tutti i senti-
menti m'erano noti; non avevo concepito nulla e tutto
già avevo provato. Le emozioni confuse che provavo l'una
dopo l'altra non alteravano la ragione che ancora non
avevo, ma me ne formarono un'altra d'altro stampo, e
della vita umana mi diedero dei concetti bizzarri e romanzeschi di cui l'esperienza e la riflessione non m'hanno
mai potuto veramente guarire."
Sentimentalismo, incontinenza, pietà di se stesso, frigidezza, complicazioni psicologiche: tutto il retaggio della
fantasticheria è esibito in Rousseau e tale sarà il suo influsso che la generazione posteriore non s'accorgerà nemmeno più di fantasticare, non avrà nemmeno più un sospetto del carattere vizioso delle sue dissipazioni. Perfino
un restauratore della dovizia della lingua francese dopo
gl'impoverimenti settecenteschi, Chateaubriand, spesso denuncerà il segreto che, come tutti, cova in sé, lamentandosi come Werther dei limiti che la realtà impone alle forze dell'uomo, mostrandosi incapace di ravvisarne la provvidenzialità; in René dice: "Mi si accusa di gusti incostanti, di non poter gioire a lungo della stessa chimera, d'essere preda d'un'immaginazione che si affretta ad arrivare
in fondo ai piaceri, come fosse schiacciata dalla loro durata; mi si accusa di oltrepassare sempre il fine che posso
attingere: ahimè, cerco un bene sconosciuto il cui istinto
mi rincorre. È colpa mia se trovo da ogni parte dei limiti,
se ciò che è finito non ha per me alcun valore?"
Nasce da tale accompagnamento di fantasticaggini una
recitazione perpetua, palese nel testamento preliminare
ai Mémoires
d'outre-tombe:
"Mi sono mescolato alla pace e alla guerra; ho firmato
trattati, protocolli, pubblicato cammin facendo numerose
opere. Sono stato iniziato ai segreti dei partiti, della corte
e dello Stato; ho visto dappresso le più rare disgrazie,
le più eccelse fortune, le massime celebrità. Ho assistito
ad assedi, congressi, conclavi, alla riedificazione ed alla
demolizione dei troni. Ho fatto la storia e potrei scriverla.
E la mia vita solitaria, sognante, s'inoltrava in codesto
mondo di realtà, catastrofi, tumulti, fragori coi figli dei
miei sogni... con le figlie delle mie chimere... Nelle mie
successive carriere mi sono proposto un grande compito;
viaggiatore, ho aspirato alla scoperta del mondo polare;
letterato, ho procurato di ristabilire la religione sulle sue
rovine; uomo di Stato, mi sono sforzato di dare al popolo il vero sistema monarchico..."
Un sogno a occhi aperti con i materiali forniti dalla
memoria atteggiati secondo la moda della scultura eroica neoclassica, e come in un sogno non è data l'esattezza
del reale ma la decoratività del desiderio, anche un progetto
men che nebuloso, come l'esplorazione polare, viene utilizzato per questo ritratto equestre; il mito dell'uomo di
molta esperienza è una proliferazione del sogno a occhi
aperti che vieta appunto ogni esperienza.
Ma questo rêveur, che pure fu scrittore sublime, ha
un fratello: il giovine stroncato dai sogni eccelsi, consumato dall'infinito, il Louis Lambert di Balzac.
Balzac è troppo accorto per non affiancargli peraltro
un'ideologia accetta sul mercato: egli afferma che la
rêverie prepara alla vita; questa giustificazione tutta pratica e materiata di buon senso è però soltanto un tratto accessorio, il pathos del bel rêveur travolge ed esalta:
"la fantasticheria istintiva con cui un fanciullo s'abitua
ai fenomeni della vita diventa più ardita con le percezioni morali o fisiche; è una cultura involontaria che più
tardi porta i suoi frutti nell'intelligenza e nel carattere...
[Louis Lambert] faceva deliziosi viaggi imbarcato su
una parola sopra gli abissi del passato, come l'insetto che
posato su qualche filo d'erba naviga dove lo porta il
fiume... vaporoso come una donna, dominato da una malinconia cronica, malato del suo genio come una fanciulla lo è dell'amore che ella chiama e ignora... Werther
è lo schiavo d'un desiderio, Louis Lambert era tutta un'anima schiava". Gli uomini, salvo le anime gentili, lo disprezzano o perseguitano, ed egli vive assediato da "masse
d'idee", volteggia come una rondine fra di esse, si rompe
la testa con sforzi di rappresentazione fantastica.
Un romanzo batacchiano è tutt'insieme uno sfogo e una
terapia del fantasticare poiché, se da un verso promette
al fantastico di aprirgli le porte dei palazzi e dei tuguri,
dietro le quali s'immaginano confuse scene di ambizione
soddisfatta, di lussuria trionfante, di astuzia efferata, esso
fornisce però altresì fatti determinati, nozioni scientifiche,
commerciali, storiche. Nella misura in cui il romanzo particolareggia e sta alla precisione delle varie arti
e dei vari mestieri e segue le leggi immanenti dei destini
dei personaggi senza mai badare ai bisogni di lieto fine,
di consolazione, di "ottimismo" propri del rêveur, esso è
terapeutico. Louis Lambert è una narrazione sfatta e vaporosa, perché è uno sfogo.
Nella società dei liberali, Madame de Staël e Benjamin
Constant costituiscono una coppia di mostruosi e tipici rêveurs, le loro vite sono aggrovigliate e talvolta laide a
furia di sovrapposizioni fantastiche; la dedizione e la semplicità sentimentale sono impedite se metà dell'esistenza è perduta nell'esaltazione di se medesimi. Madame
de Staël traccia in Corinne ou l'Italie il percorso dei più
buffi sogni di gloria letteraria o politica che infesteranno
le menti delle future donne emancipate (semplice, bella
e intelligente quanto un Gesù fra i dottori, Corinna viene
condotta all'incoronazione in Campidoglio). La passione veritiera fu peraltro il farmaco che destò Madame de Staël
dalla sua vanità e le conferì il virile dono del giudizio. Il
suo amante, Constant, si contempla mentre trapassa da un
sentimento all'altro, da un atteggiamento al successivo, volubile come una morbinosa. I sessi, come ogni valore, vengono rovesciati dalla fantasticheria.
In Adolphe Constant si svela: "Non avendo mai impegnato le mie forze, le immaginavo senza limiti, e le
maledicevo; avrei voluto che la natura mi avesse creato
debole e mediocre per preservarmi almeno dal rimorso di
degradarmi volontariamente... La mia anima, affaticata da tali sentimenti amari, cerca di colpo un rifugio nei
sentimenti contrari." I sessi sono scambiati, poiché di sogni si tratta, dove poco importa che cosa si rappresenta:
Constant piange, ma piange in sogno; distrugge le altrui
vite, ma nei sogni non si può peccare; "n'ayant de la
réalité qu'une idée sourde et confuse", le decisioni che egli
pur prende sono irruzioni dal mondo fantastico nella realtà, senza coerenza, né meditazione, alla sprovveduta, al modo di uno spettatore indifferente ("dopo un'azione clamorosa, mi sono trovato di colpo seccatissimo della solennità necessaria per sostenerla e per noia ho disfatto l'opera
mia..." "quasi sempre per vivere in pace con noi stessi, travestiamo da calcoli e sistemi la nostra impotenza o la nostra debolezza: in tal modo contentiamo
quella parte di noi che è per cosi dire spettatrice
dell'altra").
Gli Adolphe del tempo spregiavano la comune umanità che si mostrava ignara dei contorcimenti interiori,
delle doppiezze fra cui essi vivevano ("chiunque m'avesse
letto nel cuore, assente Ellenora, m'avrebbe scambiato
per un freddo e insensibile seduttore; chiunque m'avesse
veduto al suo fianco avrebbe riconosciuto in me un amante novellino, interdetto e appassionato. Avrebbe sbagliato in tutt'e due i giudizi: non c'è completa unità dell'uomo, e quasi mai nessuno è del tutto sincero o del
tutto in malafede": il rêveur proietta su tutti la propria
impotenza). Per parte loro le Corinne, praticamente spietate all'occorrenza, si immaginavano dolci, eteree presenze
angeliche, raramente comprese dai loro amanti. George
Sand, la più turpemente prolifica genitrice di Corinne, creò
il suo personaggio più tipico di rêveuse con Lélia, che "riunisce tutti gli ideali perché riunisce il genio di tutti i poeti,
la grandezza di tutti i caratteri". A che cosa sta pensando
Lélia? Ecco la domanda che George Sand vorrebbe far risuonare con echi infiniti nell'animo dei suoi lettori, e la vacuità delle rêveries della sua protagonista si può supporre
soltanto pari alla volgarità delle serenate che la prima musica per le masse borghesi andava componendo in quel giro
di anni. Comincia con lei il cristianesimo di massa, allorché
nella prefazione a Mademoiselle La Quintinie afferma che
un vero cristiano non può credere all'inferno.
La generazione del '30 ondeggia fra tali languori e ghi-
ribizzi, De Musset combina l'infantilismo, l'estro, l'inquietudine, esalta il cafard del fantasioso, il pallore, la
luce lunare, la goduta falsità del melodramma, Lamartine stempra le melodie in motivi orecchiabili, Gautier tesserà gamme cromatiche, barcarole, Théodore de Bainville eleverà il funambolo ed il buffone a emblemi di
fantasticheria nobilitante. Tutta questa generazione soffre, a usar le parole lanciate da Baudelaire contro De
Musset, d'una "impuissance totale à comprendre le travail
par lequel une rêverie devient un objet d'art".
Ma i grandi teorici della fantasticheria sono Victor
Hugo, che la presenta come sublimità eroica e Gérard de
Nerval che la spaccia per iniziazione esoterica.
Allorché l'Emani di Victor Hugo è giunto finalmente all'ora del connubio con Doña Sol, le dice che il suo pensiero erra nelle fantasticherie di lei; nella Tristesse d'Olympio il vate intona una marcia funebre per le fantasie
defunte:
"Quando l'anima nostra fantasticando scende nelle
[nostre viscere
Numerando nel nostro cuore che il ghiaccio infine
[ha raggiunto,
Come si contano i morti sul campo di battaglia,
Ogni dolore caduto e ogni sogno estinto
Come chi cerca, alta levando una lampada,
E lungi dagli oggetti reali, dal mondo irridente
Giunge a lenti passi, per una rampa oscura
Fino al desolato fondo dell'abisso interiore
E sente ancora qualcosa che palpita sotto un velo,
Sei tu che dormi nell'ombra, o sacra rimembranza!
Il mondo deride il sognatore? Il sognatore lo disprezzerà
come vile e si ergerà fieramente a proclamare la propria
ardimentosa singolarità:
"La fantasticheria ha i suoi morti, i pazzi. E pur s'incontra qua e là in queste tenebre dei cadaveri d'intelligenza...
Questi esploratori dell'anima umana sono minatori espo-
sti al pericolo. Avvengono sinistri in queste profondità. Eplosioni di grisù," dice l'accigliato, roboante Postscriptum de ma vie.
Il De Sanctis, seguace di Hegel nel disprezzo della
rêverie, scrisse delle Contemplations che l'arte in esse rimane nelle basse regioni dell'immaginazione senza sublimarsi a fantasia (egli usa distinguere l'ingegno plasmatore o fantasia, l'imagination di Coleridge, dalla sbavatura d'immagini o immaginazione, la fancy dei teorici inglesi), "vi hai i colori senza la faccia, i raggi senza il sole,
la pioggia d'oro senza Giove, fermenti e trasformazioni,
contorni svanenti, una danza perenne senza musica che
la regoli, un mondo mobile senza un centro quieto attorno a cui si limiti; e, come effetto, il capogiro".
Victor Hugo scrive romanzi proletari, nei quali si sfrena la fantasticheria delle nuove classi condannate a non
aver radici, e perciò prive di realtà, tutte abbandonate ai
desideri confusi, alle supposizioni ri vendicai orie. Jean Valjean è una figura di sogno: divorato dal risentimento,
indurito dalle offese, ma buono nel fondo, come tutti suppongono di essere, con un segreto infamante che lo rode
anche nella prosperità. Il segreto oscuro è ciò che il rêveur si compiace di indovinare in ciascuno. Della fantasticheria è proprio il portare fino all'estremo un rischio,
una sciagura, per poi risolvere tutto con qualche trovata.
Valjean a dispetto di tutto si salva sempre e ancora sul letto di morte riceve un raggio di felicità; motti
del rêveur sono: "nulla è mai del tutto orrido", "c'è sempre la casina illuminata in fondo al bosco". Anche se tutto si volge al peggio, la fine sarà clamorosa, ravvolta in
colori sontuosi, patetica da strappare lacrime soavissime,
come la morte del comico lavoratore protagonista dei
Lavoratori del mare, che imperterrito si lascia sommergere dalla marea, spietatamente fedele all'immagine di se
stesso.
Fra i romanzi proletari della fantasticheria i Misteri di
Parigi di Eugène Sue, criticati da Marx, presentano tutte le
situazioni predilette dai rêveur, si comincia con la scena in
cui Fleur-de-Marie, prostituta ovviamente di cuore puro,
viene percossa da un bruto che ovviamente ha una sua
dirittura nascosta; interviene il granduca di Gerolstein in
incognito che salva Fleur-de-Marie dalle busse e s'accapiglia col bruto. Dopo che si sono combattuti, i due si stringono la mano e diventano amici: rovesciamento consono alle rêveries (cosi come è tipico delle rêveries il capovolgimento obbligatorio dei personaggi di Victor Hugo: il
re è un ribaldo volgarissimo, il buffone Triboulet ha sentimenti profondi, Lucrezia Borgia è tenera mamma). I bassifondi possono essere attraversati senza alcun danno, nei
misteri di Parigi come nelle fantasticherie; una ragazza
può essere puttana ma di castissimo cuore, un gentiluomo può frequentare gaglioffi e mantenersi intatto, e la
gentaglia si può redimere di punto in bianco, non appena
i suoi lati sgradevoli comincerebbero a soverchiare quelli
pittoreschi.
Gérard de Nerval celebrò il sogno come seconda vita,
e in Aurélia racconta non già una fantasticheria gabellata per realtà ma una fantasticheria cosi ineluttabile da
rasentare l'allucinazione involontaria:
"L'unica differenza per me tra la veglia ed il sonno era
che nella prima tutto ai miei occhi si trasfigurava; tutti
coloro che mi si accostavano mi parevano cambiati, gli oggetti materiali erano cinti d'una penombra che ne modificava la forma ed i giochi della luce, le combinazioni
dei colori si scomponevano in modo da trattenermi in una
serie d'impressioni che si legavano l'una all'altra e di cui
il sogno, essendo meglio svincolato dagli elementi esterni,
prolungava la probabilità."
Alla fine egli non sa più che cosa gli stia capitando:
"coricato su una brandina militare, udivo i soldati che
parlavano di uno sconosciuto arrestato come me e la cui
voce era risuonata nella stessa sala. Per un singolare effetto di vibrazione mi pareva che questa voce mi risuonasse nel petto e che l'anima mi si sdoppiasse per cosi dire,
divisa nettamente fra visione e realtà". Come Swedenborg, Nerval mischia alle sue fantasticherie figure, simboli
di misteri antichi, di testi occultistici, illudendosi di penetrare cosi in mondi soprannaturali a furia di sfumare i
contorni degli oggetti, rendendo indistinti i personaggi, fatiscente se stesso.
Fu Charles Nodier, in mezzo a una società di rêveurs
d'ogni specie, titanici come Hugo oppure elusivi come
Nerval o sprezzanti come De Musset, a scrivere qualche
pagina assennata sui sogni con cui tutti s'intontivano.
Nei suoi Contes en prose et en vers (1837, tomo XI)
si legge:_
"Negli uomini di buona organizzazione esiste un dolce stato del pensiero in cui esso si isola a talento da tutte le realtà della vita. Crea, agisce su ciò che ha creato,
reagisce su se stesso per mezzo delle impressioni che presta alle sue creature; eleva un ostacolo per abbatterlo, suscita difficoltà per superarle, provoca il combattimento per
goderne la vittoria. Chi stupirà mai se la monomania riflessiva non è stata ancora denominata, poiché la deliziosa estasi dello spirito che ho adesso descritto, e di cui tutti gli uomini hanno assaporato le dolcezze, non si può
designare se non con una locuzione incompleta e triviale nella nostra lingua cosi ricca di vane nomenclature e
cosi povera di vocaboli intellettuali e fisici?... Ecco il castello in aria, libero figlio del sogno e dell'immaginazione,
che incanta la penosa solitudine del poeta, le noie del prigioniero, la stanchezza del viaggiatore... Quando l'anima
ha verificato con l'esperienza che la sua felicità ideale
non era che una menzogna, si afferra con crudele dispetto ai rigori della vita positiva, li abbraccia, li stringe,
ne fa il suo balocco e il suo pascolo, affonda nel triste piacere di contemplarli, sicura com'è che la realtà, almeno,
non deluderà le sue speranze. Allora il castello in aria
diventa per lei un tormento prescelto, un supplizio prediletto, segreta, patibolo, sepolcro in aria... Essa contrae a
poco a poco tre appetiti progressivi estranei al suo istinto naturale, che chiamerei con nomi più speciali e filosofici, se li trovassi: appetito del pericolo, della sofferenza,
della morte... Il primo grado è una propensione quasi in-
vincibile a provocare il pericolo, senza conoscibile motivo
o con un frivolo pretesto."
È spiegata in una tavola di reazioni meccaniche ogni
specie di malattia romantica: dalla fantasticheria nasce
il bisogno di esacerbata realtà, della specie più aspra,
dolorosa, ripugnante, il bisogno della scossa micidiale, del
pericolo e infine, l'attrazione della morte; morire di colera a Calcutta sarà il traguardo di Baudelaire, quanto basta
alla soddisfazione completa e mortale del rêveur.
Ma quando si arriva a questi esiti masochistici e ferali, si è già molto al di là del mondo del 1830, a paragone ingenuo e quasi amabile. Il mondo del 1830 era
stato la premessa degli orrori seguenti, delle prime
industrie e del primo proletariato in fermento, ed in
Sylvie Gerard de Nerval lo descrive come "un'epoca strana, come quelle che di solito seguono alle rivoluzioni
ed ai crolli dei grandi regni. Non v'era più la galanteria
erotica come sotto la Fronda, il vizio elegante e ornato
come sotto la Reggenza, lo scetticismo e le folli orge come
sotto il Direttorio, ma un miscuglio di attività, di esitazione, di pigrizia, d'utopie brillanti, d'ispirazioni filosofiche
o religiose, di entusiasmi vaghi, misti a certi istinti di rinascita, di noia per le passate discordie, di malcerte speranze". Dopo, con le prime rivoluzioni proletarie, con la creazione dell'industria pesante, dalla fantasticheria si passa
alle conseguenze del suo abuso.
Il cordoglio di Baudelaire, la sua ostentazione del male
è segno di esasperata insofferenza dinanzi alla degradazione
industriale, ma la fantasticheria è da lui invocata oltre che
aborrita:
"Si vede il cenciaiolo che viene, crollando la testa,
Inciampando, dando nei muri come un poeta
E senza badare alle spie, suoi sudditi,
Spande il cuore in gloriosi progetti.
Presta giuramenti, detta leggi sublimi,
Abbatte i malvagi, le vittime solleva,
E sotto il firmamento, come sotto un baldacchino
S'inebria degli splendori della sua virtù."
Come ha doppia vita il miserabile cenciaiolo, anche una
stanza può sdoppiarsi, e da ammasso di rovinosi rifiuti
convertirsi in "rêverie, camera davvero spirituale, dove la
stagnante atmosfera è lievemente intrisa di rosa e d'azzurro.
"L'anima vi fa un bagno di indolenza, aromata dal rimpianto e dal desiderio. — Un che di crepuscolare, bluastro, rosaceo; sogno di voluttà durante un eclissi.
" I mobili hanno forme allungate, prostrate, illanguidite. I mobili hanno l'aria di fantasticare; li si direbbe dotati
d'una vita sonnambolica, come il vegetale e il minerale.
Le stoffe parlano una lingua muta, come i fiori, come i
cieli, come i soli al tramonto."
Il liberty e YArt nouveau tradurranno in modellini queste prescrizioni d'ammobiliamento, creeranno gl'interni
fantastici, come i romanzi d'appendice s'incaricano di coagulare le espansioni del cenciaiolo che rade i muri. In
Spleen de Paris è la raffigurazione degli sciagurati che
camminano ciascuno oppresso dalla sua Chimera appollaiata sulle spalle. Il rêveur di quando in quando vuole irrompere dal suo sogno nella realtà e allora, con un'energia non si sa di dove scaturita, come invasato, compie gli atti più efferati, "per vedere, per tentare il suo
destino", procurando con uno scatto di ripristinare lo
smarrito rapporto con la realtà.
Rimbaud entra nella pelle dei rêveurs-, non pago di fissare con ammirazione tortuosa e affascinata i cenciaioli,
i passanti curvi sotto le loro Chimere, è e procura d'essere uno dei loro, le parole gli affiorano sconnesse, allusive
non sai più a che cosa, alonate d'ipnosi, con la perentorietà dell'ubriachezza:
"Diventai" dice una pagina di Une saison en enfer,
"un'opera favolosa: vidi che tutti gli esseri hanno un
destino di felicità: l'azione non è la vita, ma un modo di
sprecare una forza, una snervatezza. La morale è la debolezza del cervello.
"A ogni essere parecchie altre vite mi parevano dovute.
Questo signore non sa che cosa sta facendo: è un angelo.
Questa famiglia è una nidiata di cani. Dinanzi a molti
uomini, conversai ad alta voce con un momento delle loro altre vite. — Cosi, ho amato un maiale.
"Nessuno dei sofismi della follia, — quella che si rinchiude, — è stato da me scordato: potrei ridirli tutti,
tengo il filo del loro sistema.
"La mia salute ne fu minacciata. Il terrore arrivava. Cadevo in sonni di giorni e giorni, e, alzato, continuavo i
più tristi sogni. Ero maturo per il trapasso, e attraverso
una strada di pericoli la mia debolezza mi menava ai confini del mondo e della Cimmeria, patria dell'ombra e dei
turbini.
"Dovetti viaggiare, distrarre gl'incantesimi radunati sul
mio cervello. Sul mare, che amavo come mi dovesse lavare d'una sozzura, vedevo levarsi la croce consolatrice.
Ero stato dannato dall'arcobaleno."
Le ultime frasi appartengono a ciò che gli psichiatri denominano verbigerazione. Rimbaud ancora si dava la briga
di fornirne spiegazioni, come questa: che esiste un modo
di trasfigurare ogni oggetto mediante una lettura presuntiva dei sogni che lo alonano, talché si può anche conversare con il doppio etereo di un essere porcino. Oppure,
quest'altra: che si può fare deliziosamente apposta a incanaglirsi, fino alla demenza, a furia di fantasticare. Ma
le posteriori avanguardie poetiche tralasceranno le faticose giustificazioni, si lasceranno portare sull'onda delle parole, creeranno senza ritegno bellurie come "essere dannati dall'arcobaleno"; il poeta d'avanguardia attuerà con
gravità troppo accorante per riuscire comica il programma
che in una delle sue burchiellate intitolate I mattaccini
Annibal Caro aveva tracciato:
"Di ciò che si farnetica e si sogna
Tenea certi fantastici alfabeti
Sgraffignati da lui nella sua fece."
L'avanguardia ebbe un elemento, sfuggevole, quasi insensibile, di nobiltà, e fu la sua reazione alla bruttezza del
9. • Storia del
fantasticare.
secolo industriale, per cui provava se non altro bisogno
di trasfigurarlo, di fingerlo un sogno; ma era una reazione che ovviamente serviva proprio a cancellare, in seconda istanza, la salutare repulsione. Il principio fu fornito anche in questo caso da Rimbaud, ancora in Une
saison en enfer\
"Mi abituai all'allucinazione semplice: vedevo assai
francamente una moschea al posto d'una fabbrica, una
scuola di tamburi fatta dagli angeli, dei calessi sulle strade
del cielo, un salotto in fondo al lago; i mostri, i misteri;
un titolo di farsa mi sollevava dinanzi degli spaventi.
"Poi spiegai i miei magici sofismi con l'allucinazione delle parole!
"Finii col trovare sacro il disordine del mio spirito. Ero
ozioso, preda d'una febbre pesante..."
Poiché si deve ben immaginarsi una moschea al posto
della fabbrica, se si vuole rendere tollerabile la presenza di una fabbrica, ne segue altresì che in tale stato sia,
se non arguto, almeno provocatorio rovesciare nel loro
opposto anche i residui delle belle arti o almeno del decente artigianato che si abbiano d'attorno: se un'officina
diventa moschea, una moschea può diventare officina; il
contrappasso del sogno trasfigurante è la trasfigurazione in sogno della realtà che potrebbe essere contemplata.
"Da parecchio tempo mi vantavo di possedere tutti i
paesaggi possibili, e trovavo risibili le celebrità della pittura e della poesia moderna. Amavo le pitture idiote, insegne, scenari, tele di saltimbanchi, cartelloni di botteghe,
stampe popolari, letteratura fuori moda, latino di chiesa,
libri erotici senza ortografia, romanzi dei nostri vecchi,
racconti di fate, libriccini per bambini, antiquati melodrammi, ritornelli scimuniti, ritmi ingenui... Fissavo vertigini,"
scriveva Rimbaud: con mortale gravità di lì a qualche
decennio la pittura sarebbe consistita nel dipingere apposta come pittorastri da fiera, la letteratura avrebbe coltivato una pornografia sgrammaticata, il decreto della Moda avrebbe promosso ad apice della raffinatezza la scurrilità ed il bamboleggiamento. Il concistoro dei dementi,
induriti e temprati da un inveterato fantasticare, avrebbe
poi formato la società dei produttori, mediatori e consumatori di arte d'avanguardia.
L'amore è da reinventare, si sa; si fa dell'infamia una
gloria, della crudeltà un incanto, sono alcuni dei motti
coniati da Rimbaud che diventeranno massime nelle congreghe dei rêveurs-, costoro si riconosceranno come cani all'olfatto, al loro lezioso entusiasmo dinanzi a frasi come:
"La mia vita è consumata. Via, fingiamo, impoltroniamoci, o pietà! Ed esisteremo divertendoci, fantasticando
di amori mostruosi, e universi fantastici, lamentandoci e
attaccando briga con le apparenze del mondo, saltimbanco, mendicante, artista, bandito — prete!" Ma, a parte
la posa terroristica, si giungerà a credere poesia il
"Creux néant musicien
aboli bibelot d'inanité sonore"
di Mallarmé; e codesto vacuo nulla musicale, (abolito?)
gingillo d'inanità sonora, dopo Mallarmé cesserà perfino
d'essere melodioso.
La breve voga dei parnassiani dalle superfici certe e
definite non valse a scongiurare l'alluvione di fantasticherie scatenata da Rimbaud; Mallarmé rivendicherà contro i parnassiani: "la contemplazione degli oggetti,
l'Immagine che si libra dalle fantasticherie che essi suscitano, ecco il canto"; le poesie di Mallarmé sono dedicate
a "rêveuses", tutto in lui è fluido, le tinte sono di pastello,
il ceruleo, l'oliva, il rosato ed il grigio perlaceo diventano
i colori della sua fantasticheria diafana, fiera di sé, tortuosa e allusiva, che nella mezzatinta, nell'imprecisione perseguita calcolatamente esprime e consacra lo stato di chi
non ha più contatto alcuno con il mondo palpabile e ordinato:
"Je m'accroche à toutes les croisées
D'où l'on tourne l'épaule à la vie".
Mallarmé non a caso, ma per necessità del destino, il
quale si compiace di situazioni emblematiche, ebbe gran
parte nel creare una delle massime industrie culturali del
secolo XX, la moda. Creò il gergo isterico, barlumante,
della critica che fu prima dell'abbigliamento femminile e
poi perfino delle arti maggiori. La donna è naturale,
dunque abominevole, scrisse Baudelaire; in Mallarmé ormai essa è diventata mero pretesto, innaturalezza assoluta grazie all'artificio di garze, piumaggi, drappeggi sventaglianti che le avvolge attorno la nuova industria, la
Moda parigina, concentrata come il potere finanziario in
poche mani; nei suoi prodotti il valore non è più dato
dalle rifiniture ma dal modello, dalla sagoma generale,
il Gusto è imposto in serie ed è in esclusiva tutt'insieme.
Grazie alla moda la donna reale diventa creatura di fantasticheria collettiva e industrializzata, cessa di essere abominevole realtà terrestre, ed un discepolo di Mallarmé,
certo Christian Dior, capo d'una grossa azienda di mode
del secondo dopoguerra, scrisse: "Il disegnatore di mode
non è un pittore della scuola di Barbizon, non lavora all'aperto; la sua creazione è prossima all'espressione poetica. Una certa nostalgia gli è indispensabile, l'estate è
sognata nel pieno inverno e viceversa": ecco attuato il
"quadro da sognare piuttosto che da dipingere" del Mallarmé'.
Nemmeno a Mallarmé era però rimasta ignota la radice
masochistica del fantasticare, come attestano i versi di Apparition :
"Alla mia fantasia piacendo un martirio,
s'inebriava sapiente
di quel profumo di tristezza che lascia
anche senza disagio o rimpianto
il cogliere un sogno all'anima che l'ha colto."
Ma era stato Stendhal a esaltare il rêveur come eroe.
In lui il Primo Mobile è l'energia; il suo culto di
1
R. G. Saisselin, From Baudelaire to Christian
Aesthetics and Art Criticism, sept. 1959.
2
Trad. Luciana Frezza.
Dior,
Journal
of
Napoleone è materiato dall'ammirazione per colui che
agisce, e che al rêveur sembra non già un uomo naturalmente fattivo, ma un maestro nell'arte di strapparsi alle
fantasie per deliberare e scattare. Con Stendhal tutta la
tematica della malattia fantastica, della schizofrenia impotente ma anelante alla potenza pura e senza qualità
viene presentata con l'aria della naturalezza. Nessuno
aveva osato mostrare creature oggettivamente grottesche,
come Julien Sorel, di cosi lepida irresolutezza, come fossero, nonché normali, normative e adorabili. Julien Sorel
ama fantasmi di donne e quando si tratti di trapassare
da tali immagini ad abbracci carnali la coscienza l'avverte
dell'incongruità meramente volontaristica, ed allora, invece di tornare in sé, egli s'adopra a tacitare la coscienza,
compromettendosi. Sedurre e approfittare della seduzione da ardimentoso e glaciale, napoleonico o rinascimentale manipolatore di energia pura: ecco il sogno che Julien si prefigge di incarnare; l'asciuttezza quasi triviale,
da codice civile dello stile, Stendhal la deve ben perseguire
per dar colore ferrigno, animazione freddamente drammatica a situazioni e personaggi che un tempo avrebbero
formato oggetto di satira. Fabrizio del Dongo vagheggia
battaglie, gloria militare, inebriandosi di gergo strategico,
di propaganda giornalistica, di ampollosi proclami e bollettini, mescolandovi come lievito il suo narcisismo. Le
immagini del sovrano battagliero avvolgeranno della stessa nebbia di sogni Andrej Bolkonski, Guskòv, Alànin alla vigilia delle grandi battaglie di Guerra e pace. Stendhal, come Tolstoj, svelerà però il volto della battaglia vera, disordinato seguito di circostanze meccanicamente inerti, da scoraggiare il più mitomane Narciso. In questa capacità di ricondurre alla verità vituperosa lo sfarzo dei sogni
militari è la grandezza di Stendhal, ma il vizio gl'impedisce di giudicare, come Tolstoj, i suoi personaggi, il
fatto che essi si sieno fatti abbagliare dalle loro immaginazioni è motivo d'affetto nella stessa misura in cui dovrebbe
essere, secondo oggettività, ragione di burla.
Il narcisismo impedisce il giudizio, impone sotto colore
di tenerezza, di onniveggente e onniperdonante carità,
l'assoluzione smancerosa: la complicità si traveste da amorevolezza. In una sua lettera, Stendhal aveva già abbozzato la delusione celebre del giovinetto Fabrizio sui campi
di Waterloo, indizio, se fosse necessario, del narcisismo
della sua tenerezza:
"Dalle 12 alle 3 vedemmo tutto ciò che si può vedere
in un combattimento, cioè niente. Il piacere dell'osservazione si riduce all'agitazione data dalla coscienza che avviene qualcosa di terribile. Il grandioso rombo dei cannoni
contribuisce a questa impressione."
Come Fabrizio alla guerra, cosi Emma Bovary sconta la
sua fantasticheria con la frivolezza micidiale delle situazioni in cui si va a cacciare. Ma Flaubert per Emma Bovary
non sprecò le lodi che Stendhal profuse per Julien Sorel. Questi, quando si trova tra le braccia madame de
Renai, non se ne può deliziare perché ha la "grandezza" del
sognatore imperterrito ("ce qui faisait de Julien un être supérieur fut précisément ce qui l'empêcha de goûter le bonheur qui se plaçait sous ses yeux"). Invece quando Emma sta seduta davanti all'asilo di suore a Rouen riesce a
meditare e perciò a stracciare il velo dei sogni; allora, invece di cincischiare e pavesare gli avvenimenti, riflette
e scopre lo sbadiglio che nascondevano i sorrisi, i ribrezzi
celati dai piaceri, gli aneliti verso altra cosa e diversa che
i baci avevano tentato di sedare. Anche lei come i personaggi di Stendhal ha almanaccato fino a trovarsi invischiata nella sua stessa bava di fantasie, i suoi fluidi sogni si
sono cristallizzati, diventando ossessione e servitù tristissima. Ma non si glorifica.
A Emma non fecero difetto le parole per dire ciò che
provò: non senti nulla, solo s'immaginò di sentire. Nemmeno è esatta l'opinione di Sainte-Beuve (e con lui cosi
giudicheranno tutti i filistei), che la paralisi della volontà
nei nuovi personaggi del romanzo ottocentesco provenga
da un eccesso di riflessione e analisi: semmai dal contrario,
dall'incapacità di riflettere senza immaginazioni.
L'infelicità, la timidezza e l'irruenza, tutti i malanni di
madame Bovary provengono dalla sovrapposizione del
sogno alla realtà: quando ella giunge infine all'immaginato adulterio, deve darsi degli strattoni per convincersi
di non immaginare ciò che è accaduto:
"Ho un amante! Ho un amante!
"Allora si ricordò le eroine dei libri che aveva letto, e
la lirica legione delle sue mogli adultere le si mise a cantare
nella memoria con voci di sorelle che l'incantavano."
Stendhal coglierà nel melodramma italiano il fremito
delle passioni ancora plastiche, incorrotte; Flaubert cercherà la passione nello stile stesso, il quale insegna, mediante
la ricerca della parola giusta, a scartare la folla dei vocaboli spurii, enfatici o incerti ed a scostare anche, per analogia,
la calca dei sogni. Queste pietre di paragone consentiranno a Stendhal e poi a Flaubert di configurare dall'esterno,
cioè dal versante della realtà, i loro personaggi, oggettivamente goffi, patologici, per aver essi "formato un'idea preventiva dei sentimenti che proveranno... Le circostanze
porteranno alla bancarotta, prima quell'idea preliminare
e poi loro stessi" come scriverà Paul Bourget. Ma sia
Flaubert che Stendhal rimarranno invescati nei loro sogni
e resterà loro preclusa la sfera che trascende del tutto l'immaginario: la religiosità sarà gabellata da entrambi per una
particolarissima allucinazione.
Come i ramoscelli buttati nelle miniere di sale di Salisburgo, cosi i frammenti di realtà buttati nell'immaginazione di un rèveur tornano alla superficie tutti scintillanti di
cristalli e talvolta proprio Flaubert che insegna gli orrori di
queste cristallizzazioni, tenta di fingere che esse sieno segni
di beatitudine. L'apice della sua corrività lo cogli in una
lettera a Louise Colet del 31 marzo 1858, dove disegna una
traccia di romanzo:
"Un protagonista pittore vissuto a lungo in Oriente, che
può con la sua volontà sfuggire all'esistenza, popolandosi
l'immaginazione. Disgrazie sempre peggiori s'abbattono su
di lui, ma l'immaginazione procede all'incontrano, sempre
più dorata, talché trionfa dei peggiori dolori. Lo chiù-
dono in un manicomio ed egli qui perviene alla compiuta felicità."
Come Rimbaud, Flaubert scriveva (in una lettera a
mademoiselle Leroyer de Chantepie, del 18 maggio 1857):
"Nella mia testa era un turbinio d'immagini e d'idee,
dove sembrava che la mia coscienza, il mio io s'inabissasse come un vascello nella bufera... Altre volte con
l'immaginazione mi procuravo sofferenze orribili. Ho giocato con la demenza ed il fantastico come Mitridate coi
veleni."
Ai tempi di Flaubert e Stendhal sussistevano comunque
ancora delle arti e dei mestieri che costringevano, in virtù
del contatto con la materia da foggiare, a sbarazzarsi del
vizio. Lo stile era ancora una salvezza, la caccia alla parola giusta una preghiera che disperdeva la legione dei demoni; in poesia il verso libero avrebbe tolto questo appoggio ai poeti.
FANTASTICHERIE PROUSTIANE E GIDIANE
Si può anche vedere la Recherche come un tortuoso
risanamento dell'immaginazione grazie alla sua esasperazione, ma il momento di guarigione, o almeno, di circoscrizione del male, giunge soltanto alla fine, nel paesaggio di Parigi illividita retrovia del fronte; questo spieghi come, fra i molti patiti di Proust, scarsi ne trovi che
citino di frequente il Temps retrouvé: preferiscono ridurre il loro autore a fonte di autorizzazioni, di nobilitazioni della rêverie, come colui che li rifornisce di lussuose scuse, tuttora indenni dalle risate e dalla polvere che il
tempo sparge su ogni ideologia. Pochi oserebbero ripigliare l'elogio del Sogno dei primi romantici, cacciato, insieme
alla schiera dei buoni sentimenti e delle alte commiserazioni di se stessi, nei fogli per le massaie; ma gli smalti stesi sulla melma della fantasticaggine da Proust tuttora paiono intatti. E tuttavia la volgarità del rêveur vi
emerge alla luce con una crudezza, che, a isolarla dal
sontuoso contesto, nausea come una confidenza di caserma o un discorso sorpreso nelle cucine: in Le côté de
Guermantes si legge':
"mi abbandonavo alle immaginazioni che sono inizi di
carezze, carezze che ci si arrabbia di non poter far completare dalla donna stessa... da vari giorni, con incessante
attività, i miei desideri avevano preparato questo piacere
nella mia immaginazione, e questo soltanto, perché un
altro (il piacere con un'altra) non sarebbe stato pronto,
non essendo, il piacere, altro che l'attuazione d'una vo1
p. 383.
glia preventiva e non è sempre lo stesso, ma anzi muta
con le mille combinazioni della fantasticheria, con i casi
della rimembranza, lo stato del temperamento, l'ordine
di disponibilità dei desideri, di cui gli ultimi esauditi si riposano un poco fintanto che non si sia scordata alquanto
la delusione del compimento."
La fantasticheria tiene luogo per Proust di spiritualità
e anzi egli osa contrapporla, come squisitezza, alle illusioni collettive, al lustro degli onori sociali che le sono invece massimamente affini e sono da lei nutrite, e venivano
chiamate appunto, da Pascal, immaginazione:
"mio destino era di inseguire soltanto fantasmi, creature
la cui realtà era per buona parte nella mia immaginazione;
esistono esseri infatti che, come nel caso mio fin dalla giovinezza, non fanno alcun conto di tutto ciò che abbia
un valore fisso e constatabile da altri: la fortuna, il successo, le posizioni ragguardevoli; costoro hanno bisogno
di fantasmi. Per questi sacrificano tutto il resto, pongono
tutto in opera; fanno servire ogni cosa all'incontro con
tali fantasmi, i quali però non tardano a svanire, e allora
si corre dietro ad altri salvo poi a tornare dai primi1."
Oppure:
"Si piglia un appuntamento, e benché non sia avvenuto
nessun mutamento, si credeva d'incontrare la fata Viviana,
e ci s'imbatte nel Gatto con gli stivali. Tuttavia le si dà
appuntamento per l'indomani, perché è pur sempre di lei
che si tratta, ed è lei che si desiderava. Orbene, questi
desideri di una donna sognata non rendono necessaria la
bellezza di un tratto preciso, poiché tali vagheggiamenti
sono desiderio soltanto di un certo quale essere; vaghi
come profumi, come lo storace era il profumo di Porfiria,
lo zafferano il desiderio etereo, gli aromi il desiderio di Era,
la mirra il profumo di nubi, la manna il desiderio di Nike,
l'incenso il profumo del mare2"; per allestire una delle sue
feste sfarzose attorno ai lemuri della fantasia, Proust si
1
Sodome
2
Ibid.,
et Gomorrhe,
p. 839.
p. 1012.
avvale delle nozioni apprese negli Inni Orfici sulla corrispondenza di certi profumi a certi culti, a certi significati e passioni e concetti e colori e animali totemici: tutto
il passato religioso e mistico diventa un arsenale da rapinare
per scovarci stucchi e orpelli, essendo il rêveur un barbaro saccheggiatore del passato:
"Meno numerosi dei desideri, i profumi si mutavano
in delusioni e tristezze assai simili fra loro. Non ho mai
voluto la mirra. L'ho riserbata al desiderio di Jupien e
della principessa di Guermantes, perché è il desiderio
di Protovonos, di duplice sesso, con muggito di toro, dalle
numerose orge, memorando, inenarrabile, che scende
gioioso ai sacrifici degli Orgiofanti." Il culto religioso che
si avvale di profumi viene preso a partito, interpretato a
modo suo dal rêveur: a che cosa possono mai alludere
i sacri riti, per lui insignificanti, se non alle sue ossessioni, ai suoi sogni, che senso potrà mai avere una teologia se
non serve da cifrario per i suoi vagheggiamenti e le sue ossessioni? "Mais ces parfums sont bien moins nombreux que
les divinités qu'ils chérissent", i fantasmi della mente viziosa eccoli trasformati in divinità.
Il conformismo sempre più atroce delle società industriali fa che le arti, al cui esercizio sono necessari l'indipendenza e l'affidamento alle proprie impressioni di verità,
diventino appannaggio di coloro che vengono per un qualche motivo gettati in disparte dalla società, e sono pertanto materialmente impediti di adattarsi, costretti a far
da sé, senza dare peso ai precetti collettivi. Costoro sono
d'altro canto un focolaio d'isterie, di disperazioni sconsigliate, di adattamenti codardi, di rivalse insensate, e soprattutto di fantasticheria.
I fantastici ossessivi cercano in ogni cosa conferma,
interpretano tutto come allusione al loro segreto, alle
loro pene od ai loro piaceri. Proust pronuncia la sua confessione allorché ravvisa nelle liturgie orfiche accenni ai
suoi sogni ed ai suoi pervertimenti, non maggiori forse,
ma neanche minori della perversione generale della società; almeno egli è esemplare e franco nel confessarsi e dia-
gnosticare. Egli appartiene alla genia che si trova al
bivio tra l'esecuzione ossessiva, meccanica dei suoi sogni
libidinosi quanto grotteschi e la pratica puramente interiore del male; coloro che scelgono quest'ultima condizione "nella loro vita relativamente pura, per difetto d'esperienza, per saturazione della fantasticheria cui sono ridotti, sono segnati più profondamente dai particolari caratteri di effeminatezza, che i professionisti hanno procurato di scancellare. E bisogna confessare che presso taluni di questi novellini, non solo la donna è interiormente
unita all'uomo, ma orrendamente visibile, agitati come
essi sono da uno spasimo d'isteriche, da un riso acuto che
mette loro in convulsione ginocchia e mani". Fra i ritratti di rêveurs questo si può porre accanto a quello della
monaca di Monza.
Le regole psicologiche del rêveur (comiche, ma Proust le
traveste tragicamente, spesso innalza su coturni Pulcinella)
sono le seguenti:
"Ciò che è lontano diventa prossimo
Ciò che nella realtà sfugge diventa prezioso
Ciò che ci viene donato perde i suoi colori fantastici."
Ma gli esseri che soggiacciono a queste tre norme soffrono di impotenze in fondo amate, di sottomissioni vagheggiate, di torture invocate, i loro dubbi e tormenti sono in realtà avarizia di sé: "l'amore adotta un ritmo binario presso
tutti coloro che troppo dubitano di se stessi per credere che
mai una donna li possa amare, e che essi stessi possano mai
amare davvero. Si conoscono abbastanza per sapere che accanto alle donne più varie han provato le stesse speranze, le
stesse angosce, inventato gli stessi romanzi, pronunciato
quelle stesse parole, e si rendono conto appieno che i loro
sentimenti e le loro azioni non hanno un rapporto stretto
e necessario con la donna amata, ma la sfiorano appena,
la spruzzano, la circonvengono come il flusso che si
butta attorno agli scogli, ed il sentimento della loro instabilità accresce in loro la diffidenza onde sospettano
che la donna, da cui tanto vorrebbero essere amati, non li
ami affatto".
Il rêveur proustiano non soffre, come egli vorrebbe dare
a credere, di una insoddisfazione connaturata al rapporto inevitabilmente tragico fra la sua finitezza e l'infinito ma ondeggia fra la smania d'agire e la mancanza d'un
destino che spinga ad agire. Egli pare spinto da un Dovere
della lussuria, buffo come oggi obbligazione civica poco
amata, o da un Dovere dell'Ambizione e dell'Avarizia, che
ha i caratteri della farisaica applicazione a freddo più che
d'una tentazione carnale. Il salvacondotto concesso alla
fantasticheria si paga nei modi più strabilianti, anche con
questa deformazione radicale del carattere.
Tale rêveur (religioso e di mali costumi com'è) ha il
culto della Bellezza. Che questa sia un che di mediato,
di storicamente determinato e significativo, non è tollerabile alla sua mente, essa dev'essere qualcosa di puro, assoluto, un meteorite cascato sulla terra, da adorare superstiziosamente. Egli elargisce l'aggettivo "bello" come un apprezzamento da mercante di schiavi in pectore ed esso significa non già "consono alle norme della sanità fisica e morale", al canone fissato dagli scultori greci, oppure "rispondente alla funzione" (onde bella fanciulla è quella che promette buona applicazione ai compiti donneschi, feracità e
abbondanza di latte; bel garzone vuol dire pronto alle sue
bisogne, e bel pittore uomo capace di ben dipingere e
via dicendo), ma semplicemente: "ciò che fa scattare il
meccanismo delle mie fantasticherie", che equivale anche a
"ciò che ho deciso di considerare avvenente, di stuprare in
fantasia, perché mi incombe l'obbligo di avere un mio carattere, di imprimere sulla materia cancerosa e proliferante
dei miei sogni un qualche sigillo che li renda inconfondibili e miei o conformi a quella collettività più o meno ristretta cui ho deciso d'aggregarmi, perciò trascelgo codesto tipo d'oggetto, come insegna di riconoscimento, parola
d'ordine".
Bello e simpatico, tali i due aggettivi nei quali si risolve
ogni capacità d'encomio dei fantastici; inutile chiedere
determinazioni meno triviali, bisognerebbe all'uopo vedere, e il fantastico non guarda, il suo occhio trascorre cercando gli appigli che gli bastino per sfrenare un sogno.
L'industria culturale sa cosi bene di poter contare su questi suoi sudditi amorfi, che proclama bello ciò che vuole,
esseri d'ogni forma, condizione, qualità, possono essere annotati nel catalogo del Don Giovanni rêveur, investiti della
Simpatia dalla macchina pubblicitaria. Regine di bellezza e re del convito vengono nell'era moderna proclamati
per sorteggio.
La serqua di ragazze che Proust fa entrare nell'alcova
mentale di Marcel sono equivalenti a pupazzi o a piante,
l'unico legame è una qualità puramente fantastica di bellezza, che unisce Gilberte a mademoiselle de Stermaria,
a tutte le giovinette in fiore, che possono naturalmente
anche essere ragazzotti: qualsiasi cosa che sia in astratto
utilizzabile in quel fantastico lupanare che troverà la sua
più particolareggiata descrizione nell'opera di Jean Genêt,
Le Balcon, gran teatro della rêverie al suo culmine, diventata tutt'uno col gran teatro del mondo.
La rêverie presentata con i caratteri della razionalità è
la più subdola, e Gide fu maestro di codesta perfidia. Egli
mirò al cuore della moralità, al disinteresse, e procurò
di valersi dei termini stessi del bene per contrabbandare
il vizio: nelle Caves du Vatican fa tenere questo dialogo:
«"Son d'avviso che, dopo La Rochefoucauld, e sulla sua
scia, ci siamo cacciati in testa che l'uomo non sia stato sempre mosso dal profitto, che esistano azioni disinteressate..."
"Spero bene," disse candidamente Fleurissoire.
"Per favore, non si affretti tanto a capirmi. Per disinteressato intendo gratuito. E che il male, o ciò che si scambia per tale, possa essere gratuito quanto il bene."
"Ma in tal caso, perché farlo?"
"Appunto! Per lusso, per bisogno di scialo, per gioco.
Perché vorrei dire che le anime più disinteressate non
sono di necessità le migliori." »
Se le azioni gratuite non sono di necessità caritatevoli,
se il protagonista delle Caves butta dal treno il compagno
di viaggio, se libertà e alcatorietà non differiscono ("il
sublime è irragionevole, ma dichiarare che i grandi pensieri provengono dal cuore porta soltanto a concordare
con Montaigne: 'nulla di nobile si compie senza casualità""), quante conseguenze non si possono mai trarre! Ci si può liberare dell'io per stare in un sogno
anonimo quanto gratuito, in un balletto di marionette
surreali: si può rendere fantasticheria la realtà con l'aria
di compiere una divozione. E se Gide era troppo affezionato alla realtà della lingua francese per convertirsi in
manichino avanguardista, tuttavia nella sua psicologia
trovi tutte le condizioni del trapasso. Cosi nei Faux Monnayeurs egli ostenta la sua natura fantastica per bocca
d'un personaggio:
"Non sono mai ciò che credo di essere, e ciò varia
senza tregua... Talvolta attingo un'intima continuità...
Ma allora mi sembra che la vita si allenti e vada a rilento... che, a parlare con esattezza, io stia per cessare
di essere." E cosi si giunge all'arte d'amare come fantasticaggine:
"Fra amare meno e immaginarmi di amar meno, qual
Dio ci vedrebbe una differenza? Nell'ambito dei sentimenti il reale non si distingue dall'immaginario... talché
basta che ci diciamo d'immaginare d'amare, allorché amiamo, per amare meno"; quanto a prove tangibili e visibili: "per ottenere da noi una smorfia basta molto amore
o anche un po' di vanità".
Il castello di carte di Gide è edificato; in un mondo di
rêveurs chi s'accorge che la sua teoria dell'atto gratuito
non ha che vedere con l'atto libero, cioè del tutto desto,
ma s'attaglia solo all'atto trasognato? Una volta abolita
questa differenza, certo crolla anche ogni altra, e la libertà può coincidere con l'aleatorietà, e si può far sfoggio
di catene sofistiche come questa: "ciò che chiamate atto
libero sarebbe secondo voi un atto che non dipende da
1
Journal,
1927.
niente, seguitemi: distaccabile, osservate la mia progressione: sopprimibile, nonché la mia conclusione: privo di
valore".
E cosi anche i sentimenti diventano questione di moda
(Gide spacciava queste affermazioni come eleganze, mentre
già gli agenti di pubblicità andavano creando i sentimenti
al modo stesso che i sarti lanciavano i vestiti):
"Anche i sentimenti invecchiano, esistono mode anche
nei modi di soffrire o di amare... Sempre un po' di fasto
s'insinua tra i pianti scriveva deliziosamente La Fontaine. Non c'è neanche la più diretta, voglio dire meno interpretata sensazione di cui non sia per lo meno imprudente affermare che rimane la stessa. Penso ali 'et violae nigrae sunt che Virgilio traduce da Teocrito e che permette di indurre che l'occhio a quel tempo ancora non discerneva i colori ultrablu" (Journal, 1931). Il sofisma della
storicità (dunque convenzionalità) dei sentimenti, della
natura, delle norme è fra i principali cui ricorre il rèveur
imperterrito, ma la conseguenza dovrebbe essere la rescissione d'ogni giudizio di valore, delle categorie stesse,
del parlare stesso. Almeno Joyce non si trattenne fra i sofismi, ma si trasformò in coleottero, si sciolse in muco. La
norma è una convenzione, la libertà è una posa: Gide
per l'intera vita ricamò queste equivalenze. I suoi contemporanei surrealisti viceversa, invece di giustificare la
fantasticheria, la praticavano in modo sistematico, tentando di evitare perfino il risveglio intermittente e perciò il
bisogno, di quando in quando, di trovare le scuse per
ricadere nel vizio.
È superfluo scremare nei manifesti surrealisti le esortazioni a infliggersi una macabra e automatica fantasticheria,
nella speranza che dall'accidentalità del flusso di coscienza sprizzi veggenza o delirio poetico o demenza felice o
voluttà d'agonia.
LA FANTASTICHERIA AMERICANA
ED IL MAGISTERO PURITANO
Tra gli americani, come tra gente esposta più d'ogni altra all'astrattezza della tetraggine industriale, la rêverie
fu endemica. Operava come contrappeso la tradizione
contraria, puritana, esautorata dall'illuminismo. Per i
puritani era stato principio d'ogni vita ordinata la repressione delle fantasticherie, come è detto in un sermone
di John Eliot, l'apostolo degl'indiani: per l'uomo buono
vivente in una comunità puritana non resta alcun spiraglio nella maglia fittissima di occupazioni e devozioni e
riti giornalieri dove possa infiltrarsi la fantasticheria: un
settimo del tempo è dedicato comunque alle devozioni
continue della domenica, al ricordo della propria nullità e delle cose divine; inoltre vari giorni, oltre alla
domenica, sono dedicati a digiuni e rendimenti di grazie, e negli altri giorni esistono altresì le conferenze
pie dei pastori, i raduni in cui si discute dei sermoni uditi, si canta in coro. E durante il tempo che resta,
vissuto non più in pubblico, nella comunità pia, ma nella
famiglia, non c'è traccia di intermissione, perché in famiglia si fanno preghiere e sacrifici e si catechizzano i minori; e ritraendosi anche dalla famiglia, entro la sua intimità individuale, il puritano si dedicherà, sempre ancora,
all'orazione. All'infuori di tali atti restano le opere di carità,
le meditazioni occasionali (promosse da qualsiasi avvenimento, che si procurerà via via di allegorizzare), gli atti di
mangiare e di bere, che si compiranno però coll'intenzione
di servire a Dio.
Il grande predicatore secentesco Thomas Hooker inse10. - Storia
del
fantasticare.
gnava in un suo sermone l'arte della meditazione che altro non era se non una custodia accanita del cuore onde
si tagliava il passo a ogni chimera nascente: coi propri pensieri si doveva essere inflessibili come contro i vagabondi.
Anche quando l'ordine teocratico puritano scomparve
e cessarono d'essere perseguitate le streghe, fomentatrici
di disordini immaginativi, gli uomini della giovane democrazia laica settecentesca erano troppo fattivi per cadere
vittime del male contro cui non esistevano più esorcismi
pubblici; ma i loro figli, la generazione romantica, soccombettero senza rimedio. Nelle loro menti mareggiava
la fantasticheria a segno che fu un americano a scrivere le
notazioni più lucide e complici insieme sul nuovo stato
mentale: Edgar Allan Poe. Molte sue poesie sono dedicate al sogno, e la sua stessa poetica era volta a ottenere
effetti mesmerici sul lettore mediante il calcolo dei suoni,
che dovevano lenire cantilenando.
In Berenice Poe distingue due specie di fantasticheria,
l'ordinaria cioè il rimuginio ("mare di deduzioni e suggestioni, sogno a occhi aperti spesso pregno di voluttà al cui
termine ci si accorge che Vincitamentum o causa prima
è del tutto svanito e dimenticato") e la straordinaria o
immobile, che non si distrae da un oggetto: la fissazione
su un qualche frivolo richiamo cui si presta "un'importanza irreale e rifratta". In questa seconda forma, che
fu Poe il primo a descrivere, non esiste neanche sembianza di deduzione, il treno dei pensieri è fermo:
"Meditare instancabilmente lunghe ore fissando l'attenzione su qualche frivola nota marginale; rimanere assorto, la maggior parte d'una giornata estiva, a contemplare un'ombra bizzarra cadente di sbieco sulla tappezzeria
o sul pavimento; perdermi, un'intera notte, fissando la
fiamma immota d'una lampada o le braci del focolare;
fantasticare per giorni di fila sul profumo d'un fiore; ripetere in maniera monotona una parola qualsiasi, finché
il suono, continuamente replicato, si vuotasse d'ogni significato; perdere ogni senso del movimento e dell'esi-
stenza fisica, in un'immobilità assoluta, ostinatamente
prolungata."
Assai più tardi la musica doveva cominciare a riprodurre questo effetto di stuporosità procurata, gabellata per
brivido d'ebbrezza: dapprima timidamente, in certe insistenze wagneriane ottenute tuttavia con progressioni,
quindi in certi ritmi innaturali nel Sacre du printemps
o nella celebrazione della demenza immobile, il Bolero
di Ravel. La musica Kitsch usufruirà di questa mimesi della fantasticheria raggelata con tutta l'incontinenza possibile. È come se la fantasticheria temesse di
se stessa e restasse paralizzata dal suo stesso volto, "sognando sogni che nessun mortale mai aveva osato sognare". Ne
proviene una dislocazione dei movimenti dell'anima, come
attesta ancora il protagonista di Berenice:
"Nella strana anomalia della mia esistenza, i miei sentimenti non erano mai venuti dal cuore, e le mie passioni
erano sempre venute dalla mente." Cerebralismo o intellettualismo suole denominarsi lo stato di morbosa eccitazione fantastica per cui viene impedito l'equilibrio degl'impulsi e del raziocinio.
Uno stadio più in là nell'abbandono alla fantasticheria
e si giunge al vagabondaggio di Walt Whitman, che infrange ogni ordine metrico e la struttura stessa del periodare; è evidente specie in The Sleepers dove l'io abnorme
e turgido vagola nella notte osservando i dormienti, entrando nei loro sogni: "errabondo e confuso, avendo smarrito
ogni contatto con me stesso, malcombinato, contraddittorio,
/ Sostando, guardando, chinandomi e piegandomi". Quasi
ogni canto di Whitman è una rêverie inebriata di se stessa,
una visione da cenciaiolo baudelairiano.
Soltanto gli eredi dei puritani riescono ancora ad avver
sare l'epidemia di rêverie che imperversa in America. È puritanamente sull'avviso Nathaniel Hawthorne nei suoi racconti di stregoneria, specie in John Goodman Brown.
Vi si narra di Giovanni Buonuomo Bigio, che una mattina si stacca dalla sua fida moglie, Faith, la Fede, e abbandona, con intenzione di tornarci subito, il villaggio pu-
ritano, addentrandosi nella foresta dell'immaginazione,
dove incontra il demonio, e più permettendoselo che volendolo, capita nel Sabba, dove ode la voce stessa della sua Fede che "alza lamentazioni ma con un dolore
malcerto, quasi implorando un favore che le sarebbe
dispiaciuto ottenere", e vede i buoni che non si scostano
con orrore dai malvagi, e ne riceve il dono maligno di
penetrare nel peccato altrui, intendendolo, subodorandolo
grazie allo sfrenamento della sua fantasticheria: "Potrai penetrare, in ogni petto, il profondo mistero del
peccato... che inesauribilmente rifornisce di sempre nuovi impulsi maligni, in misura maggiore di quanto possa manifestare nei fatti il potere umano." Egli ha permesso alla sua fantasticheria di sfrenarsi fino all'estremo,
fino alla visione sadica compiaciuta e sghignazzante: da
allora, tornando nel suo villaggio puritano non avrà più
lo sguardo limpido né la mente sgombra, ma continuamente andrà sospettando in ognuno un complice dei suoi
sabba interiori: il sapore delle cose è stato senza speranza
smarrito.
Nei diari Hawthorne di continuo insegna l'arte antica
e puritana di allegorizzare ogni evento, trascendendolo
cosi senza fatica, impedendo, con un'alzata d'ali, che la
melma tenace impedisca la libertà.
Ma in Herman Melville quest'arte è recata al suo fastigio, ogni frase si carica di simboli innumerevoli, e la
fantasia diventa orazione. Melville riconduce ogni fantasticheria a contemplazione; egli non teme la massa dei
sogni che lo circonda (come dice nel capitolo The Pacific
di Moby Dick: "milioni di velature ed ombre, di sogni
affogati, sonnambulismi, fantasticherie, ecco qui tutto ciò
che chiamiamo vita e anima giace trasognato e sognante"),
poiché ogni incanto ozioso viene in lui spezzato dall'empito mistico. Ecco come in Clavel (I, I I I ) la visione del
sepolcro di Cristo a Gerusalemme suscita prima una fancy
archeologica e subito s'impone, di contro, l'ardente severità dzWimagination, secondo la distinzione di Coleridge:
"Non mancano i sogni dal brivido romantico:
Nel silenzio in cui si fermano maree e città,
Goffredo e Baldovino fuor dai loro sepolcri
Giustamente vicini alla Pietra riscattata,
Si levano, in armi. Con raggianti spade
Guardano e difendono l'urna conquistata.
Cosi gioca fantasticheria, cui tutto è facile:
Fantasia, invece, severa sempre,
Rievoca il venerdì remoto,
Rivive la crocifissione —
Mostra la passione e quel che segui,
Condividendo l'animo delle tre pallide Marie."
Un altro puritano sopravvissuto, fra i minori, fu Cullen
Bryant, che lasciò i versi:
"Lungi dai colli che splendono diurni
La terra dei Sogni si distende,
Verso più cupi monti e più fosche valli
E campi che fioriscono ai celesti venti,
Qui sono le stanze del colpevole diletto,
Qui s'aggirano gli spettri del timore
E basse voci morbide aleggianti nella notte
Sussurrano il peccato nell'inerme orecchio.
Oh fanciulla di cuore lieve, attenta ai tuoi passi!
Férmati là dove cade quel raggio di Cielo!"
i; * *
Andare a passeggio per una metropoli industriale è come
camminare in sogno. Non solo il traffico vieta di vedere gli edifici, ma neanche si può sostare, e quand'anche
si possa, una costruzione moderna (anche solo un veicolo) ha una sagoma che equivale, fra le linee ed i volumi aulici, al frastuono d'un motore nel contesto d'un
concerto. Vengono scancellati gli edifici che sieno pur rimasti incontaminati, l'occhio si disabitua a osservare, la varietà e la monotonia delle scene instillano una specie di
sogno.
Che cos'è lo strano, indebito fascino di una Londra? Ri-
spose Henry James, nelle pagine dedicate alla città
dreadful, delightful (in English Hours):
"Non è cosa che si attagli al gusto di tutti, ma per
il vero amatore di Londra la pura immensità del luogo è gran parte del suo sapore. Una piccola Londra sarebbe un abominio, cosi come è fortunatamente un impossibile, perché l'idea ed il nome sono oltre ogni altra
cosa espressione di estensione e di quantità. Di fatto si
vive ovviamente in un quartiere, in un isolato; ma con
l'immaginazione e mediante un atto di perpetuo riferimento il frequentatore che si sia adeguato gode del tutto — e solo di lui credo valga la pena di parlare. Egli
s'immagina, come suol dirsi, una particella di questo agglomerato senza l'uguale, e la sua smisurata superficie,
ancorché non visitata e avvolta di fumo, gli dà il senso
di un margine sociale, intellettuale. C'è un lusso nel sapere di poter andare e venire, perfino quando le sue
andate e venute non hanno alcun nefando fine... La caratteristica maggiore è forse la mancanza di insistenza.
Abitudini e inclinazioni a Londra fioriscono e scadono, ma
l'intensità non ne fa mai parte.
"Lo spirito della metropoli non è mai analitico; allorché un tema si presenta, assai di rado vi vien trattato in
modo noiosamente serio o sgraziatamente completo...
(Queste verità) colorano le dense e sbiadite distanze che
a parer mio formano le vedute di città più romantiche;
si mescolano alla luce turbata... si mescolano anche al cielo
basso e magnifico, dove fumo e bruma e il tempo in genere, l'ora stranamente maldefinita del giorno e della stagione, le emanazioni delle industrie ed il riflesso delle
fornaci, i bagliori rossi e le macchie che possono essere e
non essere del tramonto — non si può mai dire poiché
non accade di scorgere la fonte di un irraggiare — tutti
pendono in una confusione, una complicazione, sotto un
baldacchino che svaria ma resta immoto."
Non potrebbero essere meglio riprodotti l'incantamento, l'invito a fantasticare, emanati da una moderna metropoli.
Ma quante ambiguità in questa mimesi! Ciò che James
dice: Noiosamente serio, sgraziatamente completo è il
tutto tondo amato dall'uomo ancora naturale; lo sfilacciarsi degli oggetti, l'avvizzire della sensibilità vengono gabellati per eleganze: ancora un passo e si è nella pittura dell'ultimo impressionismo, nella poesia allusiva; cadano per avventura anche l'educazione e il riserbo, l'abitudine al ritegno, al rispetto, al contegno e si piomba in Joyce;
basta che svaporino anche quelle virtù della buona società
come sono sfumati, fino a diventare puro sfavillio luminescente, iridazione e opalescenza, i solidi volumi degli oggetti. In una città industriale perfino l'ora del giorno è maldefinita, la vita è un baldacchino svariante e immobile: i giardini segreti dell'alta società nei quali ancora s'aggirano gli
Henry James estenuati e gentili, non dureranno a lungo;
a furia di estenuazioni i giardini e i gentiluomini svaniranno. Joyce combinerà i lezzi e le fermentazioni come
James aveva coltivato gli aromi e le efflorescenze.
In James era già virtuale il seguito orrendo; i suoi interni alla Carrière, proprio a causa della loro evanescenza, facevano presagire la loro morte e putrefazione.
LA FANTASIA RUSSA
ED IL MAGISTERO DI TOLSTOJ
In Russia il culto della fantasticheria penetra con gli
eserciti napoleonici ed il primo eroe rêveur lo creò Puskin con Eugenio Onièghin:
"Per lui si salvano alcuni romanzi
Nei quali viene rappresentata l'epoca
E l'uomo moderno vi è ritratto
Abbastanza fedelmente,
Con la sua anima immorale,
Arida, egoista,
Eccessivamente predisposta al sogno,
Con il suo intelletto inasprito."
nostra,
Tatjana, l'innamorata di Eugenio, è, come disse Dostoevskij, la persona "coi piedi in terra" che stenta a
capire che cosa sia questo nuovo essere comparso nella
patriarcale società, ma ella ne viene altresì contagiata, o
piuttosto, si allaccia forse un'intesa inconscia fra le due
femminilità fantastiche, quella fisiologica di Tatjana e l'altra coltivata, fiera di sé di Onièghin? La fantasticheria di
Onièghin tenta di rompere la cerchia in cui sta confitta
mediante il cinismo e le scosse violente della sensibilità,
si compiace d'intrattenere "il nobile demonio della noia
segreta"; in questa disperazione arida è il suo fascino.
Ai mostri del sogno di Tatjana somigliano quelli che
abitano le novelle di Gogol', ma i personaggi di Gogol'
sono già creature tutt'insieme e della burocrazia e della fantasticheria, e non sai quale aspetto sia meno ripu-
gnante, la loro vita o i loro sogni mostruosi e meschini.
Julyi Aichenval'd li descrisse perfettamente:
"Quando diventa loro insopportabile la spaventosa realtà della vita quotidiana, essi l'adornano col palco di Nozdrëv in Le anime morte e di Chlestakòv in L'ispettore generale e fantasticamente la riducono ad una ancor maggiore assurdità. Le loro fantasie opprimono non meno della loro presenza... Il mercante gogoliano dice al suo commesso: 'Dài il panno, quello lassù, il numero 43. Ma
che cos'hai che sei sempre al di sopra della tua sfera, proprio come un proletario?' I proletari morali di Gogol'
tendono ad andare oltre la loro sfera. Per questo Chlestakòv s'immagina di vivere al piano nobile, d'essere un
altro Puskin o un maresciallo, per questo il consigliere titolare Popriscin in Diario d'un pazzo s'immagina d'essere il re di Spagna."
La bizzarria fantastica gogoliana diventa uno stato criminoso perpetuo nel protagonista delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij. Comicamente, nonostante la sua
natura tutta fantastica, egli non si perita di spregiare la
fantasticheria:
"Noi russi non abbiamo mai avuto, in generale, degli
stupidi romantici simili a quelli tedeschi e specialmente
francesi, che non fanno altro che sognare e fantasticare.
Crolli la terra sotto i lor piedi, o perisca la Francia intera in un tumulto rivoluzionario, essi restano sempre uguali, non vogliono cambiare, per pudore, e continuano a
cantare i loro sogni fino al tramonto della loro vita. Perché? Perché sono stupidi."
L'abitante del sottosuolo è il più compiuto rêveur della
letteratura ottocentesca, salvo che appartiene ad uno stadio posteriore a quello ancora aereo e fluttuante dei tedeschi e francesi, in lui la fantasticheria è lagrimosa e
fremente di buoni sentimenti. Egli è ricolmo "di tutto
ciò che è bello ed elevato" che "veniva a sbalzi, come a
risuscitare in lui la memoria, ma il suo apparire non interrompeva i suoi stravizi, anzi li rianimava per il contrasto e li condiva di contraddizioni, di sofferenze, di dolo-
rose analisi interne che li rendevano più attraenti e meno
assurdi". Il sentimento buono, l'accaloramento patetico
s'accordano con la furfanteria, ne sono il sigillo. A petto
del nuovo rêveur che profonde aspirazioni edificanti da
strappare le viscere nel pieno delle sue turpitudini, il romantico Eugenio Onièghin, che almeno inalberava la bandiera nera del suo cinismo provocatorio e baldamente sarcastico, diventa un paragone di purezza.
L'uomo del sottosuolo non ha più alcuna forza di volontà, o meglio, per lui l'azione diventa problema di forza
volitiva, egli deve infondersi una tenacia tutta astratta, che
consenta il trapasso dal vagheggiamento trasognato alla
contrazione muscolare (dalla fantasticheria vendicativa
intorno al tenente che deve partire per la Circassia, all'atto
materiale di schiaffeggiarlo).
L'uomo del sottosuolo è già uno spettatore del cinematografo; è migliore dei suoi pronipoti, chiusi nelle caverne
cinematografiche con le spalle alla luce diurna, perché
sa allestirsi da solo le sue pellicole; in una di queste ottiene una gran quantità di denaro, e la sacrifica interamente: "Tutti piangevano e m'abbracciavano", quindi va a
predicare, scalzo e affamato, "poi si sentiva suonare una
marcia, veniva proclamata un'amnistia, il papa acconsentiva a lasciare Roma e ad andare in Brasile".
Ogni opera di Tolstoj è una requisitoria contro le fantasticaggini; sul loro sfondo campeggia, a contrasto con
la folla dei malati, la sanità tradizionale del contadino,
quell'eroe della prefazione a Sebastopoli, il quale ha perduto una gamba in battaglia ed al visitatore dice: "La
cosa principale, Eccellenza, è di non pensare a niente:
quando non ci si pensi, niente ti fa più caso. Tutto, all'uomo, sembra più grosso per il fatto che ci si pensa sopra."
Tolstoj presentò la rêverie nella figura di Anna Karenina,
nella scena celebre della passeggiata in carrozza per San
Pietroburgo (VII, XXVIII), che è già una fetta di coscienza allo scoperto: Anna è portata dal lene dondolio delle ruote molleggiate e si attenua in lei il pensiero della
morte che l'attira:
'"Imploro (Vronsky) di perdonarmi. Mi dichiaro vinta.
Riconosco il mio torto. Perché? Non posso vivere forse
senza di lui?'
"Senza cercare risposta a questa domanda, rimase assorta a leggere le insegne: Ufficio e deposito. Dentista.
'Si, racconterò tutto a Dolly. Non ha simpatia per
Vronsky. Soffrirò, mi sentirò umiliata, ma le dirò tutto.
Mi vuol bene, e seguirò il suo consiglio. Non mi sottometterò a lui, non gli permetterò di trattarmi cosi.' Panetteria Filippov. 'Dicono che mandi i suoi prodotti fino a
Pietroburgo... L'acqua è molto buona a Mosca. I pozzi di
Mitiscensk e le buone frittelle che vi si fanno...' ricordò
Anna, e rivide il tempo in cui, fanciulla diciassettenne, ci
si era recata in compagnia di sua zia durante le feste della
Trinità. 'Allora si viaggiava in carrozza... Possibile che sia
stata io, quella ragazza dalle mani rosse? Quante cose che
a quei tempi mi parevano belle ed inaccessibili, ora mi
paiono misere! E quel che possedevo allora, ora è perduto
per sempre. Avrei forse potuto immaginare a quei tempi,
che sarei giunta a questo avvilimento? Come si sentirà superbo e orgoglioso, leggendo il mio biglietto... Che cattivo odore ha questa vernice! Perché costruiscono e verniciano dappertutto?' Mode e confezioni, lesse ancora.
"Ma un uomo la salutò, era il marito di Annuska. 'I
nostri parassiti' le risuonò all'orecchio, una frase di Vronsky. 'Nostri? E perché nostri?... È una cosa tremenda che
non si possa distruggere il passato, estirparlo...'1"
Di li a poco questo vagabondaggio fra le immagini
della fantasticheria intrecciate alle scritte, agl'incontri che
offre il percorso in carrozza parrà addirittura eletta,
quando James Joyce avrà la sfrontatezza di mettere in
campo, all'ultimo capitolo di Ulysses, la sua Venere Cloacina, Marion Bloom, che se ne sta a rimuginare immondezze che non osavano certo affacciarsi alla mente di Anna. Ma in entrambe uguale è l'accompagnamento di sensazioni indifferenti, di ciarpame atono: pubblicità, fran1
Trad. Ossip Felyne, Milano, 1937.
turni di conversazione, insegne, e, per Marion, titoli di
canzonette o operette: ne sembra derivare una specie di
indulto per tutto il resto, per le loro divagazioni sempre
più incontinenti. Tuttavia la licenza fantastica che Anna si
concede è tutta trascrivibile, buona parte di quella di
Marion si preferisce nemmeno citarla, poiché le virgolette forse non sono un cordone sanitario sufficiente a fermarne il miasma.
Nei confronti di Anna è forse ancora possibile un
esorcismo, la sua fantasticheria non ha ancora spento la vita, anche se l'ha sfilacciata e intrisa di lagrimosità. L'educazione ricevuta da Anna, il fatto che nel suo mondo vivano
ancora uomini come Levin la rendono capace di estrarre da
un'immagine un discorso etico di qualche sorta, ancorché
malcerto, e quando ella scorge due fanciulle a passeggio
riesce ancora a trarne una tal quale meditazione:
"...vedendo sorridere due fanciulle che passavano, si
domandò perché sorridessero: 'Probabilmente, l'amore.
Non sanno ancora quanto sia doloroso e umiliante!'"
Marion Bloom a vedere una statuetta di adolescente
pensa anche lei all'amore ma in forma del tutto tecnica, da meretrice.
Il mondo interiore di Anna, benché paia infermo (e basso se posto a confronto con quello candido, sgombro
d'immagini d'una sua antenata occupata nei suoi uffici
di donna o di quel contadino che ha convertito Levin
dandogli la definizione dell'uomo buono: "Colui che si
ricorda della sua anima"), piglia colore di discrezione e
gentilezza, se accostato alle crude bambocciate che si allestisce Marion. Il trapasso dalle fantasticherie d'una donna
ottocentesca a quelle d'una piccola borghese o proletaria novecentesca, trasporta dall'umano peccato alla coazione meccanica. Ad Anna un predicatore avrebbe potuto rivolgere la parola, un'allocuzione a Marion sarebbe grottesca. Ad Anna si potrebbe ancora dire: "Sii grata dell'aridità che senti accanto a Vronsky, della parte umiliante che l'amore per lui ti infligge, volgi al bene questo
male e non distrarti a contemplare le scritte delle botte-
ghe. E non cercare l'approvazione di Dolly. Che cosa te
ne vuoi fare dell'approvazione altrui? Non ha neanche la
consistenza d'una moneta o di un fronzolo. E cosi staccati da lui, da lei, da te stessa, senza almanaccare sull'effetto che produci, senza circondarti di larve che t'approvano o rimbrottano." Ma sarebbe certo già diffìcile persuadere Anna.
Marion non è tormentata, ma si posseduta, e da un
demonio salace e ghiotto e affamato di Kitsch; ella vive
una fantasticheria ancor più crassa della vita, non già più
flebile. Come l'uomo del sottosuolo si creava il suo cinematografo interiormente, Marion Bloom si procura la
sua trasmissione di radiolina portatile, preannuncia il profluvio di canzonette Little dreamer, Lazy Lagoon, Dreamland I dream of you, I ivant a paper doli I can cali my
own\ e le insegne dei negozi che già cominciavano ad affascinare, senza che se n'accorgesse, la povera Anna, diventeranno, per le Marion innumerevoli fornite di radio, la
pubblicità inserita tra una canzonetta e l'altra. Ciò che
era interiore è diventato materiale, i padri hanno mangiato l'uva acerba ed i figli ne hanno i denti allegati.
LE FANTASTICHERIE ITALIANE
ED IL MAGISTERO DEL MANZONI
Giovane Santo Stefano lapidato dal Dubbio dell'età
empia, fu chiamato da Melville Giacomo Leopardi, e se
fra i colpi della lapidazione i lamenti risuonarono in eletto e armonioso italiano, le sofferenze annebbiarono talora in lui la nozione del bene e del male interiori. Se
egli pur seppe, unico in Italia, cantare gli orrori dell'industria nella Palinodia, tuttavia non arrivò a discernere la
radice più teneramente occulta della magagna: la fantasticheria. Nella Palinodia sono dileggiate le gazzette e le
macchine dell'Inghilterra nonché le guerre moderne; ma
Leopardi non s'avvide che a furia di sognare ci si riduce a consumare le gazzette ed a svenarsi per illusioni
frivole come le dispute della nuova età. Egli aveva smarrito il senso delle parole che in italiano distinguono
e giudicano l'immaginativa disciplinata e feconda dal vizio, e persegui il "bello aereo, le idee indefinite", le impressioni fuggitive. Fu salvato dall'oggettivo nitore della
tradizione linguistica italiana, a dispetto della sua modernità, la quale gli faceva annotare nello Zibaldone:
"La malinconia, il sentimentale moderno ecc., perciò appunto sono cosi dolci, perché immergono l'anima in un
abisso di pensieri indeterminati de' quali non sa vedere
il fondo né i contorni1." La sua poesia fu tale nonostante
la poetica dell'intenerimento sulle cose vaghe e svanenti,
della commiserazione di se medesimo, dei vagabondaggi
mentali onde "l'anima s'immagina quel che non vede,
1
Zibaldone,
pp. 187 sgg., ed. a cura di F. Flora.
che quell'albero, quella siepe, quella terra gli nasconde,
e va errando in uno spazio immaginario". E pure egli seppe che "la vita occupata è la più felice".
Tutto sull'avviso fu invece il Manzoni, che mostrò in
Don Abbondio e Gertrude i disastri dell'immaginazione
erratica per apprensività o per smania, secondo il modello della tradizione augusta shakespeariana.
Gertrude è il Julien Sorel, la Emma Bovary, la Anna
Karenina italiana e spagnolesca. Come la fisionomia del
cardinale Borromeo è tutta composta, esaltata, a segno
della sua consuetudine con pensieri solenni e benevoli,
cosi quella di Gertrude è scompaginata dai rimuginii:
ella ha una fronte bianca ma pronta a contrarsi, occhi portati a investigare con fissità superba le persone quanto a
chinarsi in fretta, quasi cercando un nascondiglio; quando
poi essi "restavano immobili e fissi senza attenzione", si
sarebbe potuto "sospettarci il travaglio d'un pensiero nascosto, d'una preoccupazione familiare all'animo, e più
forte su quello che gli oggetti circostanti"; ma la persona
stessa di Gertrude parlava, la sua ben formata grandezza
scomparendo nell'abbandono del portamento o comparendo sfigurata in mosse troppo repentine o troppo risolute. Non si saprebbe disegnare meglio di quanto fece
Manzoni i caratteri dell'uomo fantastico tradito dalle fattezze del suo viso, e manca soltanto la piega che offusca
per lo più al rêveur la linea della bocca; quell'imperfetto dominio dell'occhio è colto alla perfezione, come anche il tono muscolare o troppo teso o fiacco. I delitti
di Gertrude sono soltanto le occasioni fortuite che hanno
portato all'evidenza l'interno fantasticare. Quanto alla genesi di questo, Manzoni l'addita nella superbia di lei,
coltivata imprudentemente dal padre, che voleva persuaderla a compiacersi degli omaggi che avrebbe ricevuto da
badessa, ma non sapeva quale incendio stesse appiccando.
La superbia è affare d'immaginazione.
Già in collegio l'immaginarsi la vita mondana aveva
cagionato a Gertrude un brulichio di pensieri sciamanti,
già nell'adolescenza ella s'era fatto "nella parte più ripo-
sta della mente, come uno splendido ritiro: ivi si rifugiava dagli oggetti presenti: ivi accoglieva certi personaggi
stranamente composti... si tratteneva con essi, parlava
loro, e si rispondeva in loro nome; ivi dava ordini, e riceveva omaggi d'ogni genere", tali le sue feste brillanti
e faticose. Negli Sposi Promessi è ancor più crudamente
svelato il labirinto in cui Gertrude si va a cacciare:
"com'avrebb'ella mai potuto vedersi ai piedi quel tal
giovine del monastero, che, senza contare tutte le altre
difficoltà, non era a questo mondo?... V'era rischio, per
altro, che s'egli tardava troppo ad esistere, l'immaginazione di Gertrude, stanca di aggirarsi nel vuoto, gli trasferisse la bontà che aveva per lui, al primo ente reale
che non fosse troppo diverso da questo immaginato":
di qui il peccato, più propriamente di fantasia che di lussuria, col paggio di casa, il consenso alla monacazione, il
rodio in convento, l'uggia ed il vuoto dove dovranno
piombare, come massi attratti dalla gravità, la risposta a
Egidio, prima, gli omicidi infine.
Ma invano Manzoni doveva avvertire dei pericoli dell'immaginazione; gl'italiani non si conformavano al modello del cardinale Borromeo, ma a quello di Gertrude.
E non solo gl'imitatori dei romantici francesi o tedeschi, ma
gli stessi artigiani del verso suonante elogiarono la funesta fonte dei delitti della monaca di Monza, donde
quell'aria di falsità, l'asfissia e, nei casi migliori, la decorazione archeologica che appannano la letteratura della Nuova Italia. Si volle vedere nel Carducci un poeta della sanità o virilità, ma non si sa quale significato dare a tali
parole quando si vanno a leggere quelle poesie cariche
di fantasticherie declamatorie, di evocazioni storiche estratte a forza di rimuginii ("Ahi fu una nota del poema
eterno. / Quel ch'io sentiva e picciol verso or è"); non si
dica poi del Pascoli:
"Signore, fa' ch'io mi ricordi!
Dio, fa' che sogni! Nulla è più soave,
Dio, che la fine del dolor; ma molto
11. - Storia
del
jantasticare.
duole obliarlo; che gettare è grave
il fior che solo odora quando è colto."
E che cosa poté mai attribuire il Pascoli ad Alessandro il Macedone, a conclusione della carriera di conquiste? Il rimpianto di non aver speso il tempo a fantasticare:
"era miglior pensiero
ristare, non guardare oltre, sognare:
il sogno è l'infinita ombra del Vero."
Il giubilo per Pascoli sta in lagrimóse e trepide partite di
fantasticheria, in cui due persone che abbiano qualche ricordo in comune si incitano a vagheggiarlo, premendosi le dita;
il poemetto Digitale purpurea narra una tal partita di
piacere spettrale fra due donne che furono convittrici nello stesso convento:
"Memorie (l'una sa dell'altra al muto
premere) dolci, come è tristo e pio
il lontanar d'un ultimo saluto!"
A furia di pressioni delle dita quasi furtive, una delle
compagne rammenta, senza osare di sollevare lo sguardo,
una digitale purpurea dei tempi dell'adolescenza:
"Si, sentii quel fiore. Sola
ero con le cetonie verdi. Il vento
portava odor di rose e viole a
ciocche. Nel cuore il languido fermento
d'un sogno che notturno arse, che s'era
all'alba, nell'ignara anima, spento.
Maria, ricordo quella grave sera.
L'aria soffiava luce di baleni
silenziosi. M'inoltrai leggera,
cauta, su per i molli terrapieni
erbosi. I piedi mi tenea la molle
erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!
Vieni! E fu molta la dolcezza! Molta!
tanta, che, vedi (l'altra lo stupore
alza degli occhi, vede ora, ed ascolta
con un suo lungo brivido...) si muore!"
L'interpunzione dice le enfasi e i tremolìi e gli esitando dell'eloquio sdolcinato proprio di chi gioca una
tale partita, la quale porta allo spasimo allorché le due
giocatrici riescono, con doppio salto mortale, a rievocare
fantasticando una fantasticheria.
Forse non vale la pena di andare in traccia delle tante
varie contemporanee aridità larvate di chimere, numerando gl'indrappellati nelle due schiere dei sentimentali o
dei ruggenti; fra i primi si stagliava il Fogazzaro, che
non si peritò in Leila di dipingere senza alcun ribrezzo la rêverie più triviale: "Chiusi gli occhi, immaginò due
braccia morbide che gli cingevano il collo, due labbra che
s'imprimevano nelle sue, due roventi labbra che gli si affondavano nell'anima, le labbra di una giovinetta semplice, dallo spirito gentile, punto sfinge..."
Almeno il D'Annunzio profondeva nei suoi sogni le
cure di un grande arredatore o regista teatrale, illuminando gli scenari di taglio, a sghimbescio. Tant'è, servì assai bene a far sognare i più alacri e fragili di mente, allorché fu conveniente farli piombare nella guerra, con
"nelle stanche ossa inserte le invitte ali dei sogni". Chi
meglio di lui avrebbe potuto assolvere l'incarico? I suoi
sortilegi avrebbero fatto apparire una gran vampa di
pira sacrificale la guerra moderna, intessuta di sconnesse
azioni, quale ambiziosa e quale accidiosa e quale pavida
e quale puramente dolorosa, di tedi burocratici, di oscenità,
di abnegazioni: di bisogne meccaniche, di vuotaggini svariate da pene. Impresa che egli condusse a destino non
già infittendo le ombre in modo da nascondere con il loro
dilagare i profili delle cose, anzi, e fu trovata straordinaria di regista, annientò le ombre, e la concretezza scomparve. Assoluta luce e assoluta tenebra sono equivalenti, il
sogno può nutrirsi cosi del demone meridiano come del-
l'incubo notturno. Ecco un plotone di soldati trasformato in fantasia abbacinante:
"Il sole monta al meriggio. Le ombre sono brevi. Nella gran luce i corpi umani hanno un che di sparente,
di labile. Quella massa di carne mortale scorre su la prateria, non men lieve che la fuga d'una nuvola. Il passo
misurato risuona, come una pesta sorda, ma sembra che,
dal ginocchio in su, gli uomini sieno avviluppati di silenzio, d'un silenzio remoto come quello che s'incurva laggiù su l'Alpe bianca della prima neve."
Le esortazioni dell'oratoria bellica di D'Annunzio davano per presunto che tutti fossero "travagliati da vortici
interiori", sicché nella guerra
" . . . e r a il sogno simile alla vita
com'è simile al mosto il sangue ardente."
Due tratti sempre hanno fatto soffermare i lettori di
D'Annunzio, la sensibilità un poco animalesca, che fu tra
le sue migliori qualità, cioè fra le più deste (pur con intermittenti languori:
"...l'occhio mio, se ti smarrisce, a pena
ti ritrova, pe'l sogno che l'appanna")
e la sua buffa ossessione erotica. Questa era la propaggine
dei sofismi del rêveur romantico, quali erano stati condensati nell'allocuzione del Don Giovanni di Lenau (del 1842),
dove il seduttore già cosi parlava ad una donna ingannata
mediante sostituzione di persona: "Non esiste fedeltà sulla terra. Quel che è accaduto e ti turba, accade a ogni
donna nell'accoppiarsi con un maschio. Ella ama un fantasma nel mondo dei sogni. E quando accoglie tra braccia un uomo, ne stringe uno ben diverso da quel che
immagina. Questa maledizione perseguita la menzogna dei
sensi: abbaglio, inganno, perfino nell'ebrezza legittima.
Anche il matrimonio è adulterio1."
1
Trad. Giovanni Macchia.
La torvaggine dell'uomo del sottosuolo non era ancora
attecchita in Italia, allorché D'Annunzio scrisse L'Innocente, il romanzo in cui il rêveur italiano del tempo avrebbe potuto, volendo, specchiarsi e rabbrividire quanto il
suo genitore nel Fede e bellezza del Tommaseo. Ecco il momento in cui il protagonista fantastica attorno alla moglie
Giuliana (l'Illusa) e all'amante (l'Assente):
"Io m'indugiai a esaminare il mio sentimento con quella specie d'amara compiacenza, mista di disgusto, che portavo nell'analisi di tutte le manifestazioni interiori le quali
mi paressero fornire una prova della malvagità fondamentale umana... Perché un germe della tanto esecrata
perversione sadica è in ciascun uomo che ama e che desidera? — Questi pensieri più che il primitivo spontaneo
sentimento di bontà e di pietà, questi pensieri obliqui mi
condussero in quella notte a raffermare il mio proposito in favore dell'Illusa. L'Assente mi avvelenava anche
di lontano. Per vincere la resistenza del mio egoismo, ebbi
bisogno di contrapporre all'imagine della deliziosa depravazione di quella donna l'imagine di una nuovissima depravazione che io mi promettevo di coltivar con lentezza nella onesta oscurità della mia casa. Allora con quell'arte che io aveva di combinare i vari prodotti del mio
spirito, analizzai la serie degli 'stati d'animo' speciali in
me determinati da Giuliana nelle diverse epoche della
nostra vita comune, e ne trassi alcuni elementi i quali
mi servirono a costruire un nuovo stato, fittizio, singolarmente adatto ad accrescere l'intensità di quelle sensazioni che io voleva esperimentare. Cosi, per esempio, allo
scopo di rendere più acre quel 'sapore d'incesto' che mi
attraeva eccitando la mia fantasia scellerata io cercai di
rappresentarmi i momenti in cui più profondo era stato
in me il 'sentimento fraterno' e più schietta mi era parsa
l'attitudine di sorella in Giuliana."
Questo gioco con le associazioni d'idee viene esaltato
come un sabba: "silenziose onde di sangue e d'idee facevano fiorire sul fondo stabile del suo essere, a gradi o a un
tratto, anime nuove. Egli era multanime".
La realtà viene fatta lievitare, fino a che svanisca in un
ribollio, come in quest'altro passo del romanzo: "... volto
misterioso nell'ombra prodotta dalla grande capellatura
arborea che ci pioveva sopra. I baleni dell'acqua al sole
guizzando tra i lunghi rami dalle foglie diafane davano
all'ombra una vibrazione allucinante. Gli echi fondevano
in una monotonia cupa e continua le voci dei getti sonori. Tutte le apparenze esaltavano il mio essere fuori della
realtà". Le immagini di piogge, di capellature, di baleni e di getti d'ombra, che accompagnano come uno scintillio elettrico ogni oggetto al suo comparire, suscitano una
sorta di divaricazione dell'attenzione, che provoca una trasognatezza penosa.
Ma le divaricazioni psicologiche divennero un sistema
inflessibile col Pirandello. Le sue varie teorie sono fondate sulla presunzione della costanza del fantasticare, e le
allucinazioni sulle quali egli indugia con impettita gravità
tutte si ritrovano, compendiate in questo passo di Quand'ero matto-.
"Mi mettevo a sedere a piè d'un albero, e allora il genio della mia follia cominciava a suggerirmi le più strambe idee: che l'umanità avesse bisogno di me, della mia
parola esortatrice: voce d'esempio, parola di fatto. A un
certo punto m'accorgevo io stesso che deliravo, e allora
mi dicevo: — Rientriamo nella nostra coscienza... — Ma
ci rientravo, non per vedere me, ma per veder gli altri
in me com'essi si vedevano, per sentirli in me com'essi
in loro si sentivano e volerli com'essi si volevano."
In quell'atmosfera di sdoppiamenti, di persone che dovevano camminare aspettandosi da un momento all'altro
di voltarsi e vedere che lo scenario dei fatti era dileguato
lasciando posto al nulla, la poesia era imperniata su scorci
subitanei come scoppi, disperate irruzioni di realtà in un
mondo di mero sogno: ogni oggetto diventa un talismano
che può provocare la rivelazione della lontana realtà in
baleni ormai fuggevoli e occasionali'. Il romanzo storico
1
La poesia, allorché s'accende, è sempre un risveglio ad un arche-
manzoniano emanando la sua luce in quella tenebra permise ancora per qualche tempo di raffigurare personaggi
schietti e non sfarinature di sogno.
In quella tenebra avevano osato levare la loro voce gli
araldi dell'avanguardia europea, nella specie lugubre dei futuristi, già attrezzati con intonarumori e con cucine di sapori fantastici.
Durante i primi tempi dei vari "movimenti" futuristici o
affini, si proclamava la loro essenza: l'odio della bellezza
tradizionale, il desiderio di schiaffeggiare il gusto, di far
cessare la venerazione dei maestri antichi; più tardi le forze
della violenza saranno più accorte, fingeranno di rispettare il
passato per meglio distruggerne le vestigia, impadronendosi di pinacoteche, riproducendo e degradando pertanto i capi d'opera, accostandoli alla loro parodia moderna, facendosi nominare custodi ovvero "specialisti" di ciò che si proporranno di contaminare. Cosi si attua con serietà il presagio infame della poesiola giovanile di Rimbaud Ce qu'on
dit au poète à propos des fleurs:
"Voilà! c'est le Siècle d'enfer!
Et les poteaux télégraphiques
Vont orner, — lyre aux chants de fer,
Tes omoplates magnifiques!"
tipo, quale ne sia l'occasione. L'atmosfera crepuscolare e pirandelliana
del momento storico fa intravedere un fantasticante che senza destarsi s'accorge di fantasticare nella lirica montaliana sull'uomo che nell'aria
arida, di vetro, andando, prevede il crollo della finzione che l'attornia.
Eppure la sua poeticità la solleva fuor del sogno, talché essa diventa una
visita ad uno degli archetipi del risveglio: la distruzione del mondo.
KAFKA DEMONOLOGO MODERNO
Nei Diari di Kafka si svela quali stalle d'Augia di fantasie (simili alle immonde che rifluirono nell'Oratorio apocalittico di Adrian Leverkiihn) egli dovesse nettare; ma dal
1911 vedi crescere la sua consapevolezza del bene e la
sua volontà di aggrappargli. Ha imparato gli insegnamenti
di Goethe ma ancora non ha la forza di inculcarseli:
"Ho la vecchia consuetudine di non far assorbire da
tutto il mio essere come un beneficio le pure impressioni, sieno dolorose o liete, purché abbiano raggiunto la
loro massima purezza, ma di turbarle e scacciarle mediante impressioni nuove, deboli, impreviste. Non è mala
intenzione di danneggiare me stesso, bensì debolezza nel
sopportare la purità dell'impressione, debolezza che però
non viene confessata, ma piuttosto, nel silenzio interiore,
cerca di cavarsela provocando la nuova impressione con
atto apparentemente arbitrario, anziché rivelarsi (che sarebbe l'unica cosa giusta) e invocare altre forze in soci»
corso.
E comincia a lottare con i demoni come un moderno
Evagrio, ricco d'ironia:
"Il mio triste prossimo avvenire non mi pareva degno
che io vi entrassi: abbandonato, camminavo per la Ferdinandstrasse. Ed ecco che allo sbocco del Bergstein mi
ritornarono i pensieri del futuro. Come avrei potuto tollerarlo con questo corpo ricavato da un ripostiglio di
ciarpame? Dice anche il Talmud: Un uomo senza donna
non è una creatura umana. Di fronte a siffatti pensieri
Trad. Ervino Pocar, Milano, 1960, p. 117, voi. I.
non mi rimane questa sera altra via che dire a me stesso: 'Ora, venite, cattivi pensieri, ora perché sono debole e
con lo stomaco guasto. Proprio adesso volete essere pensati
a fondo. Tornate un'altra volta, quando sarò più in forze. Non sfruttate cosi la mia situazione.' Difatti senza
neanche aspettare altre prove si ritrassero, si dispersero
lentamente e non mi disturbarono più durante il seguito
della mia passeggiata, beninteso non troppo felice. Dimenticarono però evidentemente che, volendo rispettare tutte le mie cattive condizioni, avranno il loro turno
soltanto di rado1."
E annota, rischiarandosi:
"odio l'attiva osservazione di se stessi. Interpretazioni
psichiche come: ieri ero cosi e precisamente per questo
motivo, oggi sono cosi per quest'altro. Non è vero, non
per questo e non per quest'altro, e pertanto neanche cosi o cosi. Sopportarsi tranquillamente senza precipitare,
vivere come si deve, non corrersi intorno come cani"2.
La fonte delle allegorie di Kafka è l'eterna lotta spirituale, egli sa trarre edificanti narrazioni dall'orrore che la
meditazione scopre: "A un certo livello della conoscenza di se stessi, e quando ci siano circostanze favorevoli
all'osservazione, avverrà regolarmente che uno si veda
abominevole. Neanche l'atto meno importante sarà privo
di questi pensieri segreti. Ed essi saranno cosi sporchi che
nel momento di osservare se stesso uno non vorrà neanche pensarli, ma si accontenterà di guardarli da lontano.
A proposito di questi pensieri reconditi, non si tratterà di
solo egoismo: questo sembrerà di fronte ad essi un ideale del bene e della bellezza. Il sudiciume che si troverà
ci sarà di per se stesso, e si riconoscerà che siamo venuti
al mondo grondanti di questo peso e ce ne andremo irriconoscibili o troppo bene riconoscibili per esso. Questo
sudiciume sarà il fondo più basso che si possa trovare e
questo fondo non conterrà lava, ma sporcizia. Sarà il più
1
2
Ibid.,
Ibid.,
p. 160.
I, pp. 317-318.
basso e il più alto e persino i dubbi dell'osservazione di
sé saranno presto deboli e compiaciuti di sé come il barcollare d'un porco nel brago1."
Quale forza arrivare a questa visione dell'inferno! Dice
San Paolo che giova considerare tutto ut stercora, per
guadagnare Cristo. Sono infatti gli umili e i pentiti e vergognosi che vengono sollevati (ma anche, come dice una lettera di Kafka a Milena: "Nessuno canta cosi puramente come coloro che si trovano nel più profondo inferno;
è il loro che scambiamo per canto degli angeli").
Kafka fu l'unico (non gli riuscirono compagni né Thomas Mann nel Doktor Faustus né Gide nei Faux Monnayeurs, per difetto d'esperienza di combattimento) a
creare una demonologia moderna, specie nei mistici appunti dei quaderni segreti2.
1
'
Ibid.,
I I , pp. 116-117.
Ed. it. Confessioni e immagini,
Milano, 1962.
MUSIL E L'AVANGUARDIA
Una protratta lotta con la fantasticheria è l'Uomo senza qualità di Musil: non un respiro è concesso al mostro,
ma nemmeno al lottatore. Musil scardina le apparizioni
con le sue metalliche metafore, insegue ogni diramazione dei dubbi che gli si affacciano, aspira al risveglio con
tenacia grandiosa, ma la sua opera rimase incompiuta e
dopo aver conosciuto Swedenborg (ma anche Meister Eckhart) egli non seppe addentrarsi nella selva e durevolmente destarsi. È da sospettare che l'ostacolo in lui fosse una
libidine fantastica mai domata, bensì sublimata o palliata.
Ecco un suo memento tipico: "Involontariamente ma
con un po' d'ironia per proteggersi dalla suasione del
desiderio e perciò con una certa povertà di realizzazione,
Ulrich immaginò quel che sarebbe successo. Cosi come
un cavallo di circo al suono della musica si mette in moto
da sé e tuttavia, ogni volta facendo tintinnare i suoi finimenti lucenti, fa turbinare in un cerchio magico la sua
essenza superiore e irregolare: cosi, in Ulrich o davanti a
lui la sua esercitata fantasia cominciò a lavorare e gli rappresentò il più frequente di tutti i drammi umani, sempre recitato senza spettatori, cosi vivamente, che per poco
egli non alzò la mano a dare il segno del vero inizio. Sarebbe bastato forse che egli afferrasse la mano della sorella
e con un pretesto tanto trasparente quanto possibile le proponesse, ad esempio, di scambiare il giorno abbagliante
con il più raccolto ritiro in casa, che già un tremito negli occhi li avrebbe traditi uno all'altro, e le mani nella loro cecità, le anime nel loro abbandono, li avrebbero inarrestabilmente pòrtati più oltre. La vita è terribilmente fa-
cile nel concedere, a chi segua il cammino consueto. Ulrich sentiva l'allettamento della vita quasi come la vertigine che ci coglie quando protesi su un precipizio pensiamo che basterebbe lasciarsi andare o fare uno sbaglio per
essere inesorabilmente travolti. E nello stesso tempo sorse
in lui uno strano, nuovo e vivo sentimento della realtà,
per il fatto che egli restava immobile e non usciva dalla
fantasia: qualcosa come i movimenti dietro una parete
sottile che rimangono mutilati, ma si odono con maggior
eccitazione che se si vedessero."
La lotta col sogno ebbe in Musil un campione sventurato, la cui ombra chiederebbe un appassionato epitaffio.
La sua interpretazione dei nuovi tempi fu esemplare,
non esitò a proclamarne l'orrore. Nella terza parte del romanzo egli dimostrò l'uguaglianza di demenza e arte moderna nel personaggio di Clarisse:
"Nel luogo dove ci si trova s'incide su un sasso un disegno; si doveva sentire che anche questa era arte, come
la più grande... Non si raccolgono le proprie idee per farne un io come un freddo pupazzo di neve, quando come
Clarisse si va di catastrofe in catastrofe. Clarisse scopri che
bisognava scegliere parole le quali non fossero concetti;
ma poiché pareva che non ve ne fossero, si rifugiò nelle
parole composte. Quando diceva 'io', mai questa parola
era capace di scattare su dritta, come la sentiva lei, mentre 'rosso-io' non era trattenuta da nulla e partiva, come
un razzo. Altrettanto necessario era liberare le parole dalle relazioni grammaticali, che sono del tutto impoverite.
Clarisse ad esempio sottopose ad Anders tre parole e lo
pregò di leggerle nell'ordine che più gli piacesse. Se erano 'Dio', 'rosso', e 'cammina', egli leggeva 'Dio cammina rosso' o 'Dio, rosso, cammina', cioè il suo cervello le
accoglieva subito come frase, o le divideva con virgole per
accentuare che non lo faceva. Clarisse chiamava chimica
delle parole il fatto che si unissero sempre in gruppi, e prescriveva regole per impedirlo...
"Non si può negare che da queste immagini emani un
fascino oscuro e confuso, un fuoco vulcanico divampante,
come a guardare nelle viscere della terra. E pochi anni
più tardi un gioco con le parole simile a quello di Clarisse divenne infatti, fra i sani, un approdo pregno di presagi.
"Clarisse ne traeva strane deduzioni. I poeti rubavano
fiocchi di fuoco al vulcano della follia; in altri secoli, nei
tempi primitivi e più tardi, ogni volta che un genio riappariva sulla terra, queste combinazioni di parole, fiammeggianti, non ancora soffocate da precisi significati, furono trapiantate nel terreno della lingua corrente e ne divennero la fecondità. La quale, come è noto, proviene
dalla sua origine vulcanica. Ma ne consegue, concludeva
Clarisse, — che lo spirito deve sempre tornare a scindersi
nei suoi elementi primitivi affinché la vita resti feconda.
"Cosi la responsabilità d'una immensa irresponsabilità
era posta nelle mani di Clarisse; ella sapeva di non essere
affatto colta, in fondo, ma sentiva un'eroica mancanza di
rispetto per tutto ciò che era stato creato prima di lei.
"Fin qui Anders poteva seguire i giochi di Clarisse, e
l'irriverenza della gioventù gli permetteva di immaginare, fra le macerie dello spirito, le nuove forme che se ne
sarebbero potute estrarre; un processo che molte volte si
è ripetuto tra noi, tanto intorno al 1900, quando si amavano gli abbozzi e gli schizzi, come dopo il 1910, quando
in arte si soggiaceva al fascino dei più semplici elementi costruttivi e si facevano tintinnare i misteri del mondo
visibile recitando una specie d'alfabeto ottico.
"Ma il declino di Clarisse era cosi rapido che Anders
stentava a seguirlo. Un giorno arrivò con una nuova scoperta. — La vita sottrae forze alla natura senza possibilità di recupero, — incominciò, citando le poesie che strappano parole alla natura per sterilizzarla lentamente, mentre la vita trasforma queste forze sottratte in un nuovo stato irreversibile che si chiama coscienza1.
1
Qui Musil annota in margine: "Leone Tolstoj: La coscienza è la
peggior sventura morale che possa colpire un essere umano. - Fiòdor
Dostoevskij: Ogni coscienza è una malattia (Dal diario di Gorki)".
"Era sera, Anders e Clarisse andarono a passeggio nel
buio per prendere il fresco, in un piccolo stagno tambureggiavano centinaia di ranocchi e i grilli frinivano, cosi
che la notte era animata come un villaggio negro che si
prepara alla danza. Clarisse chiese ad Anders che entrasse
con lei nello stagno e si uccidesse, affinché la loro coscienza si trasformasse a poco a poco in fango, carbone e pura
energia1."
In Musil hai spesso lo stato di rêverie per eccesso di
lotta contro la rêverie, per incapacità di sciogliersi mai
dalla stretta di Proteo; le metafore di Musil sono
simili a quelle delle poesie di Pasternak, i personaggi delle cui prose giovanili vivono perpetuamente nello stato di
stremata vittoria sulla rêverie che minaccia di suscitare una
nuova sorta di rêverie un poco diabolica (come è detto in
questa pagina di un racconto giovanile di Pasternak sui
sottili rapporti fra il giovane protagonista, Sergio, e sua sorella:
"Ho cavalcato giorno e notte, ecco tutto, — disse Sergio e si mise a rassicurarla dicendo che nessun godimento poteva paragonarsi a questo genere di galoppo che
egli chiamò l'esaltazione dell'eccessiva fatica. A dargli retta questo sport cerebrale l'aveva aiutato a vincere le tentazioni innate... La sorella fu colpita dalla perspicacia
malsana con cui Sergio, sempre più spesso e con sempre
maggiore sicurezza, preveniva le sue curiosità. Allora capi quanto fosse spossato, e con desiderio inconscio di sottrarsi a quella lettura del pensiero, gli suggerì di spogliarsi e dormire.")
1
Da L'uomo
senza qualità, I I I , Torino, trad. Anita Rho.
JOYCE O L'APOTEOSI DEL FANTASTICARE
I primi tentativi di registrare al vivo le réveries furono
Fraiilein Elsa dello Schnitzler e Les lauriers sont coupés del
Dujardin; nel primo è denudata la delectatio morosa d'una
ragazza che progetta di uccidersi, nell'altro è dato il meccanico calco dei desideri, delle associazioni gratuite più
triviali del protagonista. Il gusto delle sbavature della fantasticheria aveva osato mostrarsi in Maldoror e in JJbu
Roi, le opere che annunciano i surrealisti. Poi venne Joyce a comporre l'apoteosi della nausea e delle tristi curiosità che le gravitano attorno. Egli ebbe a soffrire a sua detta
d'un iniquo abbandono, che lo lasciò nelle sabbie mobili
dell'accidia; un'indolenza speculativa, piuttosto che uno
scetticismo, lo impregnò tutto.
Joyce intravide chiaramente l'altra strada, quella dell'estasi, in cui: "l'anima, l'essere ci investe sciogliendosi
dal velo dell'apparenza, l'anima dell'oggetto più comune,
la cui struttura sia cosi conformata, ci sembra raggiare.
L'oggetto celebra la sua epifania".
La visione esaltante fu, di rado, raggiunta, come nella
frase assai garbata: "i gridi erano acuti limpidi e sottili
e cadevano come fili di serica luce dipanati da rocchetti
turbinosi", o nella più convulsa: "la livida mano accartocciata e bruciante sussultava come una foglia staccata nell'aria'". In codesti tratti avviene ciò che Joyce amava chiamare
enfaticamente, col secentista Morgagni, "incanto del cuore".
Sono, questi del giovane Joyce, commoventi e maldestri approcci a quella sfera di cui parlò Rilke nella setti1
Dedalus,
trad. Cesare
12. - Storia del fantasticare.
Pavese.
ma elegia, sfera in cui si fondono il cielo interiore e la
terra visibile e che s'impara a raggiungere contemplando
a lungo oggetti armoniosi e secondo natura, come la cattedrale di Chartres:
"Essere, qui, è stupendo. Lo sapeste perfino voi fanciulle
Che chiaramente defraudate affondaste nelle più maligne
Stradine di città, piagate o appena inclinate sopra
La frana. Poiché ciascuna ebbe un'ora, forse
Neanche un'ora intera, neanche misurabile
Con le misure del tempo tra due pause, in cui ebbe
L'essere, tutto. Le vene colme dell'essere.
Ma cosi facilmente scordiamo ciò che il prossimo
Ridente non ci confermi o invidii. Vogliamo innalzare
Visibilmente, quando la più visibile gioia
Ci si rivela solo allorché in noi la trasformiamo
Là dove tuttora rimanga
Un oggetto un tempo supplicato, servito in ginocchio,
Esso perdura, qual è, nell'invisibile."
Eppure un diverso e tetro regno parve a Joyce il più
vero. Cosi in Ulysses pone i termini della sua scelta: "Vi
sono peccati... o cattivi ricordi che sono nascosti dall'uomo nei recessi più oscuri del cuore, eppure là rimangono
in attesa. Egli può lasciar appannare il loro ricordo, lasciarli stare come se non fossero mai esistiti e quasi convincersi che non furono o che almeno furono altrimenti. Eppure una fortuita parola d'un tratto li chiamerà ed
essi sorgeranno dinanzi a lui nelle circostanze più varie,
in visione o in sogno o mentre l'arpa e il tamburello gli
leniscono i sensi o nella fresca argentata calma vespertina
o alla festa di mezzanotte quando egli è appena sazio di
vino. Non per insultarlo verrà la visione, come a chi soggiaccia alla sua ira, non per maligna volontà di rescinderlo dai viventi, ma avvolta dal pietoso manto del passato,
silenziosa, remota, rimproverante. Lo straniero osservò
sul volto che aveva dinanzi recedere lentamente la falsa
tranquillità imposta, si sarebbe detto, dall'abitudine o da
qualche trucco studiato, di fronte a parole cosi amareg-
giate da rivelare in chi parlava una morbosità, un fiuto
attratto dagli aspetti più crudi della vita."
È lo stesso abbrivo fantastico di Proust, ma Proust tesse una rete per agguantare una magnifica preda, una
sensazione che gli faccia provare quel suo particolare sfinimento del cuore, mentre Joyce, per acre piacere di degradarsi (già nel passo citato c'è una tonalità d'abiezione
nell'esercizio della reminiscenza) sconnette le maglie della sua sintassi (che già negli scritti giovanili non era fittamente ordita, tanto che è raro scoprirvi subordinate) al
fine di lasciarsi invadere dalla molteplicità del flusso di coscienza. Non contento di obliterare la subordinazione sintattica, egli neanche rispetta l'interezza degli atomi del discorso, le parole. Ed ecco che cosi attua la sua metamorfosi, si disossa, si affloscia come mucillagine (Spitzer parlò
del Molluskenbafte des Stils di Joyce), ammasso viscerale
duttile, scivoloso. Il paragone con Proust, data l'analogia
delle premesse e la divaricazione dei risultati, ha sempre colpito gli osservatori dall'occhio bovino. C'è perfino in Proust, e Spitzer omise di ricordarlo, un esempio di ruminazione interna del personaggio nel famoso passo: "cerf, Francis ]ammes, fourchette".
Spitzer
dice: "Nel caso di Jingle a tinkle taunted, in cui Joyce
lascia riecheggiare nella ruminazione interiore tanto lo
scalpiccio come lo scampanellare, Proust si varrebbe di
parentesi basate sul tandis que... né giungerebbe a folgorazioni immaginifiche come Bloomusalem." Frase che è
un ragguardevole esempio di amoralità classificatoria e filologica, ove si chiamano Augenblicksbildungen biascichii
d'infante e questi si spacciano per equivalenti all'antico
ordine sintattico che divide le specie e soppesa gli oggetti.1
1
I più pericolosi eversoli non sono i rivoluzionari schietti, come
i futuristi russi del famigerato proclama " U n o schiaffo in faccia al gusto
pubblico" del 1912 (Burljuk, Khlebnikov, Kruchionykh, Majakovskij) i
quali confessavano di voler "buttare Puskin, Dostoevskij e Tolstoj dal
piroscafo dei tempi moderni", di nutrire "un odio senza compromessi
verso la lingua finora usata", di voler "scuotere la sintassi fino a farla
a pezzi"; assai più efferati sono i subdoli e colti, come Cari Gustav
Jung, il quale di Joyce scrisse: "Nell'U/me c'è vita, e la vita non è
La metamorfosi in verme non potè tuttavia compiersi senza un iniziale moto di disgusto, l'identificazione
con la nausea mediante la nobilitazione del linguaggio del^ la nausea, non fu affare da poco e l'artista giovane disse:
"le fantasticherie mostruose erano balzate innanzi improvvise e furibonde, da semplici parole, ed egli aveva presto
ceduto e se le era lasciate imperversare avvilenti nell'intelletto, domandandosi sempre di dove, da quale tana di
mai esclusivamente malvagia e distruttrice. Per quanto tutto ciò che si
riesce ad afferrare in questo libro sia negativo e dissolvente, si finisce
col presentire un che di inafferrabile, uno scopo recondito che gli
conferisce un significato e, con ciò, della bontà. Che in fin dei conti
questo variopinto tappeto di parole e di immagini sia simbolico? Non
certo — per carità — un'allegoria, ma simbolo quale espressione di
essenzialità inafferrabili?" Ecco uno Jago perfetto: egli precede la ripugnanza che si prova naturalmente alla lettura di Ulysses, e fa appello
proprio ai principi che sono connaturati ad un animo incorrotto, che
sia tale non per esperienza del male, ma per fiducia nel bene che
suppone attorno a sé forte quanto lo sente in se stesso; alla prova
d'un'analisi il discorso di Jung svela la sua sciattezza: se l'essenzialità
è inafferrabile, è disonesto parlarne; se la vita ha sempre un qualche
barlume di decenza, e se Ulysses è indecente, è una sopraffazione la
battuta introduttiva dell'imbonimento. Ma nello stesso saggio su Ulysses,
Jung butta la maschera dell'insinuazione sdolcinata e si svela brutale
come il seduttore che, alle strette, insulta, fa paragoni incongrui ed
isterici: "Anche se (in Ulysses) prevalgono gli elementi malvagi e distruttori, questi vivono accanto e forse più in alto del 'bene', del 'bene'
tradizionale che si rivela come un tiranno; come un illusorio sistema
di preconcetti che impoverisce con molta crudeltà la possibile ricchezza
della vita reale... Il non dover più essere bello e buono e intelligente
è addirittura una redenzione per l'uomo medievale." Il ritornello del
giacobinismo etico, tous frères et cochons, risuona appena velato, in
questa esortazione in cui "vita reale" è sinonimo di "scurrilità". Ma
almeno un insegnamento si può trarre da queste sgradevoli scaltrezze:
lo Spirito della Modernità procede sempre a falsi dilemmi, dice: "Che
cosa preferite, in luogo di questo che vi offro? Qualcosa dovete consumare, o questo o qualcosa di peggio." Naturalmente non esiste alcun
obbligo di consumare, e non c'è ragione di scegliere fra le mucillagini
joyciane ed un "sistema di preconcetti", specie se per avventura si vive
in un organico edificio di concetti, cosi come non c'è motivo di scegliere fra un film ed un brutto libro, fra l'avanguardia ultima e la precedente; questo è il gioco dei falsi opposti, un trucco tanto banale
quanto incredibilmente efficace. Come non bastasse, i manipolatori della
massa sono riusciti a far credere che sia di cattivo gusto ritenere
obbrobriosa la canaglia, sicché soltanto Virginia Woolf osò dire di
Ulysses: "it is underbred, not only in the obvious sense, but in the
literary sense" (A Writer's Diary, Londra, 1954, p. 49).
immagini mostruose erano sbucate. E sempre restava debole e umile di fronte agli altri, irrequieto e nauseato di
sé, dopo che gli erano imperversate attorno.1" Eppure non
tennero gli argini del cuore e dell'intelletto, il cuore era
bacato: "nulla si moveva nella sua anima, tranne una libidine fredda, crudele e senza amore." La mente è indifferente: non importa sapere se si crede o no, afferma Stephen, con la tracotanza dell'accidia: "non voglio servire
né Dio né l'uomo," proclama, e almeno di questo è ben
certo senza scetticismo alcuno. Che gli resta? Soltanto di
"tollerare cinicamente i particolari vergognosi delle sue
orge segrete, in cui esultava a deturpare pazientemente
qualunque cosa lo avesse colpito". E allora si lasciò invadere da questa sua moderna versione della possessione diabolica, dalla "presenza sottile come un mare... come una
moltitudine che dorma", dal "grido contro un iniquo abbandono, un grido che non era che l'eco di un osceno
scarabocchio letto sulla parete grondante di una latrina".
Joyce mostra la faccia dell'avanguardia senza veli, e in
lui puoi leggere tratto per tratto l'intera, ormai vetusta fisionomia.
Egli comincia con una serie di racconti intrisi d'un simbolismo smanioso: Dubliners. Al paragone certo sembra
un sollievo Stephen Fiero dove viene consacrato l'imperio
del fantasticare osceno e turpiloquo e spesso soltanto ebete,
posto alla pari con l'erudizione, lo studio, il garbo, e
a furia d'essere giustapposto con aria umoresca, giustificato. Al paragone sembra poi grandioso Ulysses, dove il
gioco di parole, l'abbandono alla fantasticheria diventa indistinguibile dal pensiero e dalla rappresentazione artistica, quando pure questi compaiano. Con Finnegans Wake,
com'è noto, si va ancora un passo in là, la fantasticheria
è ridotta alla sua purezza. Non ci si può arrestare, una
volta accettato un invito di Joyce, bisogna seguirlo fino
al fondo del suo antro: in ciò la sua demonicità e la sua
unica decenza; molti vorrebbero dire: "fermiamoci a...,"
1
Dedalus,
pp. 137 e 142.
e il limite sarà a Dubliners per chi vuole soltanto il sentimentalismo; a Stephen Hero per chi vuole soltanto vizi
moderati come il gioco di parole o l'accostamento osceno,
consuetudini di quasi tutti i borghesi del tempo di Joyce;
a Ulysses per chi vorrebbe soltanto mescolare sogno e realtà
in un complesso che abbia tutti i vantaggi e dell'ostentazione erudita e del racconto realistico e della fantasticheria dissipata. Ma l'opera di Joyce è una macchina inarrestabile, travolge tutti a loro dispetto nel suo giro, conduce ad una spoliazione progressiva da tutto ciò che sia
armonioso (l'eleganza verbale sarà l'ultimo velo a cadere),
non permette che i vizi restino segreti, li vuole manifesti, e
non permette alla fine neanche la cognizione del vizio,
ma esige la resa totale alla schizofrenia. Se si vuole scampare, bisogna colpire le radici al primo apparire della
fantasticheria, e del sentimentalismo che ne è l'avvisaglia,
altrimenti occorre procedere fino ad averne l'occhio vitreo
e la lingua impastata. Questo è il carattere orrido e insieme
salutare dell'avanguardia in genere, che non permette il
"fin qui e non oltre"; accolta la sua prima istanza, a grado a grado essa porta all'ultima distruzione; s'incomincia con i contorni smussati, con il sentimentalismo grondante, e non si può non finire al tozzo di plastica bruciacchiata, al cicaleccio di Finnegans Wake.
Con Joyce s'impara altresì un'altra lezione: rinunciando alla misura goethiana che toglie dalla visuale tutto
quanto non si conformi al canone della rappresentazione
esemplare, si è tratti in un vortice che di giro in giro
s'inabissa fino al fondo del mare; a poco a poco, rinunciando ad attenersi alle cose auguste grazie alle quali si
educa la fantasia, si perde anche l'ultimo appiglio, lo stile:
la fantasticheria non si riesce neanche più a esprimerla,
ad accennarla; come un acido corrode il suo recipiente, essa
slabbra e infine assottiglia fino alla sfarinatura la sintassi.
Questo si era annunciato già in Jens Peter Jacobsen, come
notava Hugo von Hoffmansthal :
"Ciò che egli ha rappresentato per primo: quel vedere le
cose doppiamente, insieme reale e stilizzato. Nei vecchi ro-
manzi psicologici (Werther, Adolphe, Manon Lescaut)
si rappresenta il contenuto della vita psichica, in Jacobsen la sua forma, osservata con precisione psichiatrica;
l'incrociarsi, il sollevarsi ed il perdersi dei pensieri, l'illogicità, il ribollire e il fluttuare dell'anima. Il rapido fastidio
delle cose, il loro appassire e perdere splendore, la gioia dei
colori e la nostalgia dei colori — idealismo nevropatico."
Questo corrisponde un poco al primo Joyce, che battezza
epifania spesso non tanto un momento di riuscita stilistica, di attenzione, ma un attimo di stupefazione vacua,
di fantasticheria simile a quella descritta da Edgar Alian
Poe in Berenice.
Joyce offre i vantaggi di certi baracconi delle fiere d'un
tempo, dove venivano mostrati attraverso quadri successivi gli effetti di certe infezioni dai modesti ponfi sino
alle piaghe nauseose, o di certi cartelloni di cantastorie
con le vignette sulla sorte della ragazza che ascoltò le lusinghe d'un giovane brillante e fini, di peccato in peccato,
fra gl'incurabili.
Con Joyce non ci si ferma più all'idealismo nevropatico, si giunge alla semplice neuropatia. In Ulysses il protagonista Leopold Bloom parrebbe a tutta prima oggetto
di sarcasmo perché nulla è più oggettivamente comico
d'un uomo simile, licenzioso nella mente, goffo nei movimenti, osceno quanto umanitario, alla mercè d'ogni avviso pubblicitario che gli avvenga di scorgere per la strada,
dei motivetti musicali che coglie nell'aria e che racimola
come uno scarabeo stercorario. La poetica di Joyce è però
l'opposto dell'educazione dei sentimenti attraverso alla
cultura dell'immaginazione e della vista: egli abitua a
soffermarsi su ciò che andrebbe scartato il più rapidamente possibile. Intelligenza vorrebbe che di Bloom e di
sua moglie si desse un profilo satirico, se ne ridesse e via;
tutt'al più li si può nominare re e regina di Carnevale.
T'accorgi, leggendo Ulysses, che Joyce mira invece all'opposto: Leopold giganteggia, diventa un personaggio
tragico, Marion impersona la Terra, la Madre, l'Abisso, le
associazioni mentali dei due diventano materia eletta, de-
gna di studio e di affetto. Chi avesse scambiato Joyce
per un medico, s'avvede che è un untore; non un artista
che rappresenta, ma un vizioso che chiede complicità.
Marion Bloom capisce male una parola, metempsychosis. La situazione è inveterata: da Plauto in qua spesso si è
visto l'ignorante alle prese con la parola dotta, storpiarla in
modi esilaranti, ma questa è la prima volta che si diventa
come lui, e ci si sofferma sui suoi fraintendimenti con amore. Marion Bloom capisce Met htm pike hoses, e fantasticando sul marito che le ha spiegato il significato del
vocabolo ignoto, borbotta fra sé: "That word meant something with hoses in it and he carne out with some jawbreakers about the incarnation he never can explain a
thing simply." Lo stesso qui pro quo affiora nella mente del
marito nelle più varie situazioni. Tutte queste vacue storpiature, e questo loro intrecciarsi ed appastarsi insieme,
formano agli occhi di Joyce uno spettacolo da delibare come
un mosaico musicale. Invece dell'oro egli lavora escrezioni
psicologiche, come un cane ritorna al proprio, vomito. Non
a caso la cloaca era stata il centro delle vicende dei romanzi d'appendice ottocenteschi; nella loro apoteosi joyciana
non si distingue fra cartacce e gioielli scivolati nella mota,
ricordi di cultura antica e di miti sono trascinati via nella
colluvie insieme agli avvisi economici, ai qui pro quo, alle
notizie di giornale, alle canzonette.
Le opere antiche possono raccomandarsi agl'ignari per
l'alone di difficoltà, di complessità che le circonda; gli
avanguardisti di ciò s'avvalgono per giustificare opere
composte soltanto di quell'alone, invocano i bisticci dei
classici per avallare Joyce. Crittogrammi sempre si sono
usati, Saint Graal era tutt'uno con Saing Réal, e Pietro
fu la Pietra, e VITRIOL volle anche dire Visita Interiora
Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem, e via
enumerando, ma il gioco fonico era al servizio del senso
occultato, laddove in Joyce viene rovesciato l'ordine: la
gamma delle elucubrazioni erudite serve a gettare un
manto di nobiltà sull'abitudine di storpiare vocaboli. Usa
allineare le opere di Joyce con le polifonie di Rabelais, di
Melville o d'altri classici, si dà a credere che dietro le fantasticherie immonde di Bloom e di sua moglie esista un'architettura di richiami filosofici.
È detto nella prefazione del Gargantua-. "Bien aulire
gouste trouverez et doctrine plus absconce, laquelle vous revelera de tres haults sacrements et mysteres horryficques",
dove horrificques alluderà a aurificques-. alchemici; persino l'uso della scurrilità è in Rabelais simbolo scandaloso
di concetti alchemici. In Joyce hai il contrario, un uso di
concetti variamente eruditi al fine di dar pimento o colore
di dottrina alla mediocre scurrilità. Il gioco della confusione è reso possibile anche dall'incapacità crescente di
discernere il divario tra una fantasticheria materiata di
erudizione ed una vigile cultura (coelestis agricultura).
Rabelais adopra spesso quegli scherzi cui egli accenna
nella prefazione alla sua opera: qualcosa di simile ai
lazzi con cui i buffoni di talune tribù d'America debbono mimare le cerimonie sacre; egli parla degli arcani fornendone il riflesso grottesco, e perfino nei momenti più
licenziosi cela dietro al pagliaccio l'officiante. Il culmine delle avventure horryficques è l'abbazia di Thélème.
Sulla porta di Thélème sta scritto Fa' ciò che vorrai,
che è insegna da luogo di licenza se letto da occhi plebei, e perciò il lettore comune si divertirà a quell'invenzione d'un'abbazia centro di pantagruelismo', ma, sorridendo paternamente di quelle risate, il teologo saprà ricondurre tutto ad una occulta citazione di Sant'Agostino1.
1
Valga questa pagina di Ottavio Durante a illustrare il concetto
adombrato da Thélème:
"la vera manna ha virtù di purificare e modificare il sangue, che però vale nelle febbri acute, benché provengano dalla collera; (ma l'adulterata apporta piuttosto nocumento che
giovamento). Questa è forse quella manna della quale furono nutriti
gli ebrei 40 anni nel deserto, che fu quivi creata per miracolo di
Dio, mutata in meglio nella bellezza e nel sapore, della quale Sant'Agostino dice: Faciat unusquiqtie secundum quod vult; et
secundum
quod per fidem suam, ac devotionem
noverit esse faciendum, hoc est
enim quod in Libro Sapientiae dicitur Manna secundum desideria singulorum sapiebat in ore omnium. M a in un altro luogo dice l'istesso
Santo, che quella manna era diversa da questa, perché era simile al
Colui che si divertiva alle avventure di giganteschi,
osceni beoni, con animo fanciullesco, suscitava la condiscendenza del saggio, il quale pensava al contraccolpo che
in lui, fatto adulto, avrebbe prodotto la scoperta di sensi nascosti in ciò che gli era sembrata, nella sua verde
età, una farsa villereccia.
Qualcosa di simile al gusto che si può provare insegnando un catechismo ordito da teologi e grandi pontefici a bambini che lo ripetono come una filastrocca; se la
dottrina forma e informa ogni parte della vita del catechista, egli si delizierà di impartirla, pregustando il piacere che l'alunno sarà per provare allorché più tardi nella
vita imparerà certe verità, con risentimento e stupore e
commozione vieppiù grandi perché scoprirà che esse erano racchiuse, seme nella polpa, in quei giochi catechistici che l'avevano divertito da fanciullo, di cui s'era vergognato da giovanotto. Cosi l'iniziato antico poteva ridere allorché il poeta comico, Catullo o Giovenale, designava un turpe invertito con i nomi che competevano
all'iniziando consacrato sposa del Dio, poiché ben ridicolo era un uomo che confondesse i diletti sublimi
dello sposalizio ad un Dio con quelli d'un congiungimento perverso, anzi poche cose potevano essere più lepide (cosi dimostrò Jean Colin nel suo saggio sulla satira
romana).
Nello stesso spirito operavano i costruttori delle pantagrueliche cattedrali medioevali: "... cerimonie assai attraenti per la folla vi si mantennero durante il bel periodo
medioevale. La festa degli stolti, — o dei saggi — kermesse ermetica processionale, che partiva dalla chiesa con
il suo papa, i suoi dignitari, i suoi devoti, il suo popolo
— il popolo del medioevo, fragoroso, saputo, faceto, traseme del coriandro, e '1 sapore simile al miele; il che si deve intendere ancora del nostro pane spirituale, cioè del giocondissimo
pane
dell'Eucarestia, il quale è tanto più giocondo, quanto si prende con
maggior
effetto
di devozione."
Ecco
le
armoniche
che
risuonavano
ad una lettura bene avvisata di Rabelais. Inoltre la Divg Bottiglia
rata a Thélème era una Sacra Coppa come il Graal.
ado-
bocchevole di vitalità, d'entusiasmo e di foga — e si sperdeva per la città... Ah, la festa dei pazzi, col suo carro del Trionfo di Bacco trascinato da un centauro ed
una centauressa, nudi come lo stesso dio, accompagnato dal suo grande Pan; carnevale osceno che s'impadroniva delle navate ogivali! Ninfe e naiadi uscite dal
bagno; divinità dell'Olimpo senza nuvole né farsetti: Giunone, Diana, Venere, Latona... ideata dall'iniziato Pierre
di Corbeil arcivescovo di Sens, secondo un rituale pagano
e dove le pecorelle del 1222 gettavano il grido di gioia
dei baccanali: Evoè, evoè. E gli scolari in delirio rispondevano:
Haec est clara dies clararum clara dierum!
Haec est festa dies festarum festa dierum!
Ci fu anche la festa dell'asino, fastosa quasi quanto la
precedente, con l'entrata trionfale, sotto i sacri archi, di
maestro Alibron, il cui zoccolo calpestava un tempo il
selciato ebreo di Gerusalemme. Il nostro glorioso san Cristoforo vi era celebrato con un ufficio speciale ove si esaltava dopo l'epistola questa potenza asinina che ha valso
alla chiesa l'oro dell'Arabia; l'incenso e la mirra del paese
di Saba, per non dire delle immagini scolpite rappresentanti la festa dell'asino o della volpe nella navata di Nostra
Signora a Strasburgo, o delle feste della Flagellazione dell'Alleluia in cui si cacciavano fuor della cattedrale di Langres a frustate le trottole (sabots)"'.
Nel secolo XX sono ben diradati coloro che possano,
non si dice cogliere per erudizione i segreti delle satire
antiche, di Rabelais o delle cattedrali, ma viverli con pienezza quotidiana, si da guardare con condiscendenza
a coloro che ne intendano soltanto la scorza e mondiglia.
Pochi giungono, a fatica, ad apprendere certi materiali giochi d'erudizione, in ambienti dove per bizzarria del caso
e della storia tuttora essi abbiano un pregio economico.
1
Fulcanelli, Le mystère
des
calhédrales,
Parigi, 1957, pp. 29-30,
I cultori di tali ricerche, non essendo ormai per tempra di carattere, per pratica quotidiana diversi dall'uomo comune e meccanico, giustamente quest'ultimo
non viene più deriso, ma deride. Il plebeo, oltre che sentimentale, è d'umore grasso e si diletta di storpiature di
vocaboli: questi tratti sono ripresi, sia pure con la metallica diligenza e indifferenza sua propria, dall'uomo massa. L'opera di Joyce attesta ma non esprime questo trapasso del plebeo nell'uomo massa.
Il genere di giochi di parole joyciano è nuovo soltanto
per la sua sistematicità poiché i bambini e gli ebbri ne
fecero sempre uso ed il lezio secentesco abusò pubblicamente di trovate, come nel caso occorso a Torino nel
1660, del balletto composto da Tommaso Borgonio per
il matrimonio d'una sorella di Carlo Emanuele I I I di
nome Margherita con il duca di Parma e intitolato L'unione per la peregrina Margherita dove per la poteva diventar Perla, sinonimo di Margherita ovvero di Margarita, e dove peregrina indicava sia che la novella sposa
s'allontanava da Torino, sia che ella era preziosa. La pubblicità, che mira a far tornare infanti sfruttando quanto
di infantile è in ciascuno, adoprò questi ritrovati industrialmente; dal canto suo Joyce offri ogni sorta di suggerimenti ai mercanti di propaganda.
Che sia stretto il legame tra la prosa giornalistica o burocratica e le parole in libertà delle varie scuole, dal futurismo in poi, è ormai non più materia di intuizione
critica ma rapporto sperimentalmente comprovato dalla traduttrice elettronica, la quale tutt'insieme ha la scorrevolezza senza intralci e la prosopopea burocratica quando fornisce versioni di passi di prosa (traduce "illimitato dalle
condizioni temporali" invece di "fuor del tempo", ma
scarta ogni costruzione non corrente) e la laconicità stravolta, la asintattica fulmineità della poesia cubofuturista
quando traduca dei versi.
Fra la massima contaminazione utilitaria, l'industria
culturale, e la massima purificazione arbitraria del lin-
guaggio, lo sperimentalismo avanguardistico, esistono
punti di osmosi che danno a pensare che la loro natura
sia la stessa come comune è la loro origine nello sviluppo
d'una civiltà industriale.
Nel 1929 il fumettista De Beck cominciò a coniare
espressioni meramente onomatopeiche o parole formate da
frasi di più parole agglutinate; Joyce stava facendo altrettanto. Il più timorato conformista sarebbe incapace di affermare che ci sia una differenza qualitativa fra insulsaggini
joyciane come betterflies (gioco su butterflies, farfalle, e
better, meglio) e quelle del fumettista americano Al Capp,
che crea parole e personaggi come Shmoo che è un animale
tondo il quale agogna di farsi mangiare e si riproduce
a perdifiato; smooth, smug, small sono alcune delle parole che Al Capp ha messo a bollire insieme. Dopo gli
Shmoo Al Capp inventa i Kigmie (Kick me), animaletti
masochisti che evitano a tutti gli altri di maltrattarsi attirando addosso a sé con tripudio calci e sevizie. Bifolchi balordi consumano queste creature orribilmente allegre del proprio sacrificio: una combinazione che ha fatto
gridare ad arte hogarthiana, addirittura a teorie del capro espiatorio o del redentore divino i critici più blasfemi. Con Al Capp si tocca il punto più tortuoso nella storia della volgarità: Vintellettualizzazione, per cui sono
spesso i devoti dell'avanguardia letteraria o cinematografica a fornire analisi estetiche elaborate dei fumetti. Capita
infatti che in questi vengano già adoprate tecniche quali
più tardi saranno riprese nei circoli d'avanguardia, come
avvenne già attorno all'anno 1900: il fumettista Charles
Dana Gibson per rappresentare un uomo incerto fra due
belle, gli disegnava una testa a piani sovrapposti di varie
teste in varie pose, si da dare l'impressione del movimento
in vortice; più tardi il cubista Duchamp ed il futurista
Balla avrebbero fatto ricorso allo stesso espediente.
Dal sogno dell'avanguardia, chi mai si stacca, quando
si avanzi nei secoli XIX e XX? È vano a tal punto voler sceverare un'arte sana da un'altra decadente e morbo-
sa, perché, nelle parole di Musil, "la villania universale,
è insopportabile, oggi. Ma giacché è cosi, anche la bontà
dev'essere falsa. L'una non dipende dall'altra come i due
piatti d'una bilancia, di cui l'uno scende quando l'altro
sale, ma piuttosto come due parti d'un corpo che sono
insieme malate e sane. Nulla dunque è più sbagliato che
immaginare, come accade in generale, che il prevalere dei
sentimenti cattivi sia causato dalla mancanza dei buoni,
al contrario, il male cresce evidentemente col crescere di
una falsa bontà."
Cosi sono individuate le due sole forze che esistano nel
mondo artistico industriale, la falsa bontà d'una tradizione riformata e deformata e i cattivi sentimenti dell'ultima avanguardia, il penultimo e l'ultimo passo verso la
catastrofe (poco importa il segno che si presta ai due termini: si può anche dire che la falsa bontà è l'ultimo e
la cattiveria il penultimo passo: il rapporto non muta).
Ma le due forze possono pareggiarsi. Si forma allora
fra esse un vuoto, un luogo dove vengono sospese le gravitazioni: un'isola di libertà (e, sia pure una gobba di cetaceo, che s'inabisserà subito; ci si può celebrare una messa, come fece sul dorso di balena San Brandano).
Il vuoto della libertà non è un compromesso fra le ragioni delle forze contrapposte, ma una sospensione totale
delle ragioni della forza a prò della forza della ragione:
e questa significa diritto di natura quanto all'azione, principio di non contraddizione e del terzo escluso nel pensare, le
leggi tratte dalle armoniche in musica e via elencando le garanzie necessarie seppure, ovviamente, insufficienti della
veglia.
Fare un censimento del popolo dei vigilanti è tentazione diabolica, come sperimentò Davide allorché volle numerare la sua gente. Ma si potrà rammentare che Melville seppe fondere le tradizioni ismaelitiche in una narrazione biblica, Emily Dickinson enunciò aforismi di etica
puritana, Kafka richiamò le tradizioni cabbalistiche in
una narrazione di stampo chassidico, Pasternak trasfuse in
uno studio sul destino la tradizione serbata dalla liturgia
greca, Eliot riuscì a riplasmare in versi la tradizione del
ritiro secentesco di Little Gidding, Djuna Barnes evocò la
tradizione del teatro in versi. E quasi tutti dovettero liberarsi prima del fango dell'avanguardia e fino all'ultimo
portarono ancora traccia dell'obbrobrio.
Melville aveva amato e imitato Obermann nelle opere anteriori al suo capolavoro, Kafka ebbe un momento iniziale espressionistico e quasi joyciano (in talune novelle
o in Beschreibung eìnes Schlachtes), Pasternak del pari
nelle poesie quasi futuristiche o in Anna Ljuvers, Eliot
ancora in Waste Land non s'era sciolto dai collages e dall'umorismo soggettivo, Djuna Barnes prima di Antiphon
indulse nel gusto dell'orrido e della stravaganza.
Tutti ebbero la forza di calarsi indietro vertiginosamente; Melville alla Bibbia di Re Giacomo e a Shakespeare,
Emily Dickinson alla pleiade secentesca che va da Vaughan
a Herbert, Kafka al Baal-Scem, Pasternak a Puskin, Eliot alla "poesia del secolo XVII e X V I I I " che "anche nelle produzioni minori, possiede un'eleganza e una nobiltà che
manca alla poesia popolare e ambiziosa dei romantici e
dei loro seguaci1," Djuna Barnes a Marston e Shakespeare.
Soltanto nel precipizio del passato si trova il fiore. Condizione per coglierlo: che non si schivino le prove di tirocinio, e davvero si imparino le regole dei Maestri Cantori che destano alla difficoltà della veglia, che non si tema
di piombare in direzione di un punto del passato il quale, punto essendo, non ha estensione: la comunità armonica, della quale è lecito dire soltanto che ogni tradizione, ogni vita ad essa rimanda e che la sua immagine è
conservata, per l'Occidente, nel Crizia di Platone.
1
Prefazione a Homage to Dryden,
europea, Bologna, 1963, p. 380.
citato da R. Curtius,
Letteratura
FANTASMAGORIA DELL'AVANGUARDIA
Dar conto di quanto sia fantastica l'avanguardia è imbarazzante a causa della sua facilità. Tre dichiarazioni
di fantasticheria si possono trascegliere, nelle quali si coglie la radice d'ogni rivolta avanguardistica: una lettera
di Van Gogh, una di Schönberg, un paragrafo di Wittgenstein.
Se si vuole una data presunta della morte dell'arte, essa
è proprio il momento in cui non ci si accorge quanto
siano compassionevoli le confessioni sciorinate in questa
lettera di Van Gogh, le quali cosi bene descrivono il volontarismo, e trattano la pittura come spunto d'immaginazioni (Heine aveva osato altrettanto con la musica, descrivendo i quadri da lui immaginati durante l'ascolto
di Paganini):
"Vorrei fare il ritratto di un amico artista, che fa sogni grandiosi e lavora come l'usignolo canta. Egli è biondo, e vorrei infondere nel quadro l'amore e la stima che
sento per lui. Comincerò dunque con il dipingerlo tale e
quale, quanto più fedelmente mi sarà possibile. Ma il quadro non è completo cosi. Per completarlo mi trasformo
in un colorista arbitrario: esaspero il biondo dei capelli,
mi spingo verso l'arancione, il cromo, il limone pallido.
Dietro la testa, al posto del muro banale del povero appartamento, ci metto come sfondo l'infinito, uno sfondo
semplice del più carico e intenso turchino che riuscirò a
confezionare": velleità, prevaricazioni, quali possono allignare soltanto se quella prima operazione, della fedeltà,
è negata ormai alla mano. Dire che i risultati della poetica sdolcinata di Van Gogh sono affini all'arte primitiva
13. • Storia del
fantasticare.
è un abuso frequente e fraudolento; i primitivi coltivano
un'arte liturgica, compongono dei mandala, cioè subordinano la loro pittura al fine della meditazione religiosa o
della magia; la pittura della Rinascenza è classica perché
è in se stessa, nella disposizione dei suoi elementi retti
dalla legge della sezione aurea, un'azione liturgica o, almeno, mistica. L'arte moderna non si rifa ai primitivi, ma
agl'inetti che allignano nelle masse, ed in una lettera di
Van Gogh a von Rappard si legge addirittura che un banale disegno dello zar morente sul Punch "ha quasi più
sentimento del Totentanz di Holbein". Ancora un passo
innanzi e si giunge alle ingiurie di Léger contro "l'estasi
del soggetto nobile" della Rinascenza. La perversione era
cominciata (addita Lawrence Alloway, elogiandola) con il
critico Campfleury, che nel 1850 prese ad applicare le categorie dell'estetica aWimagerie de cabaret, alle ceramiche rozze, alle caricature. Allorché un tal Pierre de Massot scrive che le gambe delle canzonettiste e le pitture di
Duchamp "sono l'unico regno poetico nel quale posso
vivere", egli mostra di aver terminato il periplo del male,
d'essere l'uguale del più miserabile abitante della sua città.
Il punto d'avvio era stato l'intenerimento per la patetica
"arte volgare"; Van Gogh, a furia di predicare ai minatori
aveva scordato di predicare a se medesimo le parole di
San Paolo (I ai Corinzi, 14,20): "Fratelli, non siate fanciulli di senno; ma siate bambini in malizia, e uomini compiuti in senno."
La dodecafonia fu la sistematica réverie musicale:
come Joyce utilizzava frantumi di cronache di giornale
per cavarne materiale narrativo, cosi il dodecafonista
mette a frutto in modo arbitrario un materiale musicale";
1
Come il cuore vizioso almanacca, cincischia valendosi dei dati accidentali raccolti nella realtà, cosi l'avanguardia compone "al quadrat o " ; nel 1918, a Parigi, Strawinsky si era fatto spedire dall'America
un pacco contenente tutta la musica volgare, jazz e ragtimes, che fosse
reperibile e quindi, servendosi di queste musiche come materiale, aveva composto il suo celebre Ragtime. " P o c o prima James Joyce si era
fatto spedire da Dublino una quantità di novelettes volgari di appendice... e aveva costruito con quegli ingredienti il celebre capitolo Nau-
l'equazione nascosta da cui l'uno e l'altro si sentono autorizzati suona: Realtà è Immaginazione, da cui proviene
l'altra, la quale equipara le norme che dalla realtà si distillano (la teoria armonica che si ricava dalle armoniche naturali) alle convenzioni escogitate dalla Moda, figlia della Morte.
Ecco il passo di Schonberg: "l'unità dello spazio sonoro
richiede una percezione assoluta e unificata. In questo
spazio cosi come nel cielo di Swedenborg non esiste un
sopra, un sotto, una destra, una sinistra e nemmeno un
assoluto avanti e dietro. Nello stesso modo in cui il nostro
spirito può riconoscere sempre un coltello, una bottiglia
oppure un orologio indipendentemente dalle posizioni in
cui tali oggetti si possono trovare, come la nostra coscienza, in virtù della forza immaginativa, può percepire le
cose in ogni posizione, cosi la coscienza del compositore
può operare spontaneamente con una serie di suoni, quale
ne sia la direzione o la maniera in cui si costituiscono
le forme riflesse dei loro rapporti reciproci, che permangono come quantità invariabili".
Lo spazio sonoro della musica d'avanguardia è quello
dell'uomo che immagina, non quello percepito dall'uomo
che contempla; in esso può avvenire soltanto ciò che si
sia convenuto per arbitrio totalitario, cioè innaturale, e ne
nasce un sistema come la dodecafonia o i ritorni tematici
di Joyce, sciarade e rebus da dilettarne i patiti dei giochi
di pazienza. Quando manchi ogni arbitrario sistema di
convenzioni a regolare le combinazioni, si ha la musica
atonale o i vari generi di parole in libertà. È noto che
regolando ogni parametro, alla fine ci si conduce a risultati identici a quelli dell'arbitrio assoluto. Nel gergo si suole affermare: "la costruzione assoluta e l'aleatorietà assoluta coincidono", che vale a dire: "un sistema giuridico
del tutto sciolto dal diritto naturale e divino coincide con
sicaa del suo Ulysses" (A. Plebe, La dodecafonia, Bari, 1962, p. 22).
Che si segua o meno un sistema nella "quadratura" o ci si valga di
materiale proprio invece che altrui (come fu il caso di Schonberg), poco
importa, l'essenza viziosa del procedimento resta immutevole.
l'anarchia". Ed equivale ad affermare che nella fantasticheria non esistono norme che non sieno trovate arbitrarie, cioè negazioni della normatività; cosi negli stati totalitari l'irreggimentazione assoluta coincide con l'assoluto spadroneggiare di bande di gangster.
Il terzo caso è dato da un paragrafo delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein: « Posso forse immaginare (benché la cosa non sia per niente facile) che le persone che
mi vedo d'attorno sieno afflitte da atroci sofferenze, ma
che tuttavia riescano artificiosamente a celare il dolore?
È importante che io debba immaginarmi in loro un'artificiosa volontà di fingere. Che non mi possa semplicemente dire: "Va bene, la sua anima soffre, ma che c'entra il corpo?" oppure: "Tutto sommato, non ha bisogno
di dimostrarlo col corpo."
E quando immagino ciò, che cosa faccio, che cosa dico,
come guardo alla gente? Forse guardo uno di loro e penso: "Deve essere difficile ridere quando si soffre cosi," e
osservazioni simili. Come se recitassi una parte fingendo
che gli altri soffrano ».(I, 391)
Da questo atteggiamento di modesto fisionomista, frutto inevitabile d'un'abitudine alla rêverie che smaterializza
ogni cosa, nasce tutta la narrativa d'avanguardia, con la
sua insistenza sull'inconoscibilità reciproca, sui "problemi della comunicazione", sulla scissione dei pensieri presumibili dal comportamento oggettivamente registrabile.
Di fatto, nel mondo dei rêveurs tutti si sentono doppi,
recitano la loro parte nella realtà come un attore si presenta sul proscenio, e debbono ogni volta farsi forza
per infondere calore alla loro azione cosi come per investirsi della parte l'attore deve dar credito alla recitazione dei colleghi. Talché ancor prima di recitare amore,
indifferenza oppure odio del suo prossimo il rêveur si domanda se quel prossimo esista, se stia recitando al pari
di lui. L'illusione di essere dotato di sottigliezza psicologica ("quelli credono che io sia davvero tutto qui, in questo attimo e intanto trasvolo per tutta la gamma di reci-
tazioni possibili") o di asciuttezza ("mi attengo al nudo
comportamento, all'oggettività assoluta, misurabile"), solleva il cuore del rêveur.
La chiara coscienza che conduce Manzoni a sceverare
come principale vizio di Gertrude l'orgoglio, scartando la
lussuria o la ferocia, non è concessa al rêveur, maestro nel
supporre, nell'almanaccare, nel rompersi la testa, nel seminare sospetti cervellotici; egli è fondato su un presupposto gratuito e allettante: "tutti sono rêveurs", basta accettarlo e ogni cosa si arruffa, acquista mille penombre
misteriose. Wittgenstein non fa che codificare l'opposto di
codesta frenesia analitica, ovvero la paralisi che irrigidisce.
Ma alla storia della fantasticheria nel secolo dell'avanguardia non si sta più dietro poiché diventa fantasticheria la storia stessa, allorché vengano tralasciate le norme
della natura. Alla fantasticheria puoi acconciare l'orazione che il Bartoli pose in bocca al denaro: "Ma che più
mi stendo io in farvi una efemeride della mia vita, e in
raccontarvi i miei fatti ad uno ad uno e i miei misfatti?
Quante volte a' consiglieri ho fatto perdere la fede, a' giudici l'equità, alle matrone l'onestà, alle vergini l'innocenza, agli Ecclesiastici la coscienza? Quante ne' contratti
ingannevole, maliziosa ne' doni, ingiusta ne' furti, nelle
paghe crudele? Quanti ho accecati con la mia luce, sicché han perduto di vista, chi la verità, chi la pietà, e chi
l'anima? Quanti sordi a prieghi e minacce, ho incantati
col mio suono ottuso? Quanti col peso mio ho tirati dalle
più alte cime del paradiso all'imo più profondo dell'inferno? Bastivi sapere, che per poche menti io sono passata, che non le abbia lasciate, o men giuste, o men caste, o men fedeli, o meno innocenti."
Per giungere alle ultime conseguenze, alla trasposizione della fantasticheria dalla mente viziosa sopra uno
schermo collettivo, si è dovuto faticare per un secolo di
avanguardia. Infine, ecco il risultato, l'apogeo, un autore di romanzi cinematografici, Robbe-Grillet, diventato
regista di film, il quale confessa:
"Il tempo mentale è proprio ciò che ci interessa con
le sue stranezze, le sue ossessioni, le sue ragioni oscure,
perché è quello delle nostre passioni, della nostra vita. I
ricordi che rivediamo, le regioni lontane, gli incontri futuri, o anche gli episodi passati, che ognuno combina
nella propria testa, modificandone a piacere il corso. È
come un film interiore, che si svolge continuamente in
noi, non appena cessiamo di interessarci a quanto accade
attorno a noi. Ma in altri momenti registriamo al contrario, con tutti i nostri sensi, questo mondo esterno che si
trova sotto i nostri occhi. Cosi il film totale del nostro
spirito ammette contemporaneamente, di volta in volta...
frammenti passati, futuri o totalmente fantasmagorici."
Il corsivo non è di Robbe-Grillet, ma serve a isolare
un esempio di logica fantasmagorica, di apparente deduzione, quale si ritrova di quando in quando nei discorsi dei rêveurs, i quali spesso hanno l'aria di voler dimostrare qualcosa ma non fanno seguire concatenazione di sorta. La trama del film scaturito da questa ostentazione della fantasticheria, L'immortelle, è il risultato delle
distruzioni perpetrate dagl'inizi del romanticismo a oggi:
"Un professore francese arriva a Istambul. Sulle rive
del Bosforo incontra una bella e giovane donna che gli
fa visitare la città. Fra i due sboccia un idillio, ma la
donna scompare senza aver detto chi è. Il professore la
cerca dappertutto. Gli consigliano di non insistere. La ritrova ugualmente in un quartiere popolare. La bella sconosciuta viaggia a bordo di una lussuosa automobile bianca, ma è sempre spiata da un uomo con gli occhiali neri
che tiene al guinzaglio due enormi cani. Nel corso di
una nuova passeggiata la donna muore. Il professore continua a cercare di sapere chi era quella donna misteriosa, che diventa per lui importante. Ma finirà per restare
ucciso anche lui'." Qui tutti i motivi della rêverie sono impastati insieme: il cinema vi tocca la sua perfezione di
1
Lorenzo Bocchi, corrispondenza da Parigi su Corriere
23 agosto 1962.
della
Sera,
spettacolo di massa. Già basta la nuda situazione dello
spettatore cinematografico in sala, che ripete quella degli
uomini chiusi nella caverna di Platone, a dire quanto il
cinematografo sia orrido in se stesso, come proiezione
del fomite d'ogni vizio in una macchina apposita; ma la
sua perfezione come franca sfilacciatura di sogni a occhi
aperti senza neanche più il riferimento a situazioni in
qualche modo mitiche, archetipiche e narrative è raggiunta da Robbe-Grillet. Dapprima la macchina cinematografica inghiottiva come poteva leggende, miti, frantumi del
passato, cosi le catapecchie della Roma medioevale si valevano di frontoni, di colonne dei tempi cesarei. Era ancora cannibalico e usava temi come il fantasma, il robot,
il vampiro, l'utopia. Il futuro della rêverie totale, sistematica, incancellabile, è quello che un Robbe-Grillet collabora a creare, ma egli è solo uno dei tanti operai di
questa Fabbrica per la distruzione della realtà, che lavora
assiduamente giorno e notte, con sussidi sempre più automatizzati. Il giorno in cui la Fabbrica sarà diventata
l'unica realtà è già avviato al suo meriggio.
RIPRODUZIONE E IMMAGINAZIONE
La riproduzione di una cosa è già un atto d'immaginazione, in quanto compie il lavoro proprio di questa: conserva la realtà, sia pure monca di certi aspetti; più la
riproduzione coincide con la realtà e più s'apparenta con
l'immaginazione, che è capace di serbare calchi esattissimi
e allucinatoti, ai quali fa soltanto difetto un ineffabile:
la vita.
Le varie arti insegnano a cogliere la realtà con maggior trasporto, perché il quadro, nel segno che l'ha tracciato, offre la traduzione in movimenti muscolari e manuali delle impressioni stampate sulla retina, e cosi la statua:
la plastica è danza congelata, mentre la poesia individua
il riverbero ritmico, timbrico, tonale delle impressioni che
un avvenimento suscita nei cinque sensi, e non è tale
se non trasmette con la voce che la dice un aroma, una
qualità di luce, un sapore; del pari la musica, che alle origini era una parte della prosodia.
Le arti non sono riproduzione se non di riflesso: i movimenti dello scalpello, del pennello, delle corde vocali
sono l'espressione della media proporzionale fra i due estremi, realtà e riproduzione. Platone sbandi dalla Repubblica perfetta le arti; esse vi sarebbero state superflue, poiché
l'elemento di riproduzione, di mimesi della realtà che esse
contengono nella perfezione assoluta del reggimento platonico avrebbe potuto recare fastidio, rammemorare l'origine d'ogni vizio: la diminuzione dell'essere attraverso
la sua riproduzione. L'arte conosce questa sua macchia
d'origine, tant'è che un'opera eccelsa tende alla morte
d'ogni altra, ed esige perfino il superamento di se stessa, è "una porta che si spalanca sulla realtà".
Finché tuttavia le riproduzioni vengono fatte a mano,
qualcosa si salva (anche se, per imperizia dell'artista, scarsamente). Quando si riproduce a macchina, invece altro
non si fa se non coniare fantasticherie e le si danno poi
da consumare all'occhio o all'orecchio altrui, esercitando
opera diabolica, cioè presentando come fosse realtà un
fatto d'immaginazione. La consuetudine di questo consumo (di fotografie, di film, di registrazioni televisive e
via elencando) implica una diffusione della fantasticheria
di secondo grado attraverso i sensi, i tramiti che dovrebbero invece aprire alla realtà. L'uomo nel secolo XX vive
sogni altrui quando non suoi, tanto che la sua mano ormai
non sa più ritrarre, e il suo orecchio non percepisce neanche i suoni perché stanno per diventare antiquati gli strumenti coi quali essi si definivano, in grazia di certi movimenti della mano.
Filtra sempre meno luce nella vita degli uomini, i quali sognano socialmente, ormai, senza alcun lucido intervallo. Ed i pochi desti che rimangono, capaci tuttora di
individuare con la mano o con le corde vocali il tracciato
che definisce la mediazione fra riproduzione e realtà, vengono stregati: accantonati come relitti, sia che coltivino
un orto, o che attendano ad una bestia, o che raffigurino senza deformazione la realtà, sia che semplicemente
se ne stiano seduti sulla soglia di casa a guardare una campagna, in silenzio e senza divagare, con un chiodo infisso
nel cuore a tenerlo immobile: la riverenza verso chi contiene quella materia e dispone quelle forme. Naturalmente questo prevalere del sogno sulla veglia finisce col corrodere perfino il sogno, togliendogli via via le tracce che
esso pur serbi della realtà: un occhio colpito da riproduzioni meccaniche di immagini alla fine perde la facoltà
di riprodurne fantasticamente; un orecchio sommerso in
concerti permanenti riprodotti meccanicamente è ottuso
nella facoltà di amare l'ordine tonale. Perciò coloro
che vogliono fantasticare per conto proprio, fantasticano
astrattamente, atonalmente; di qui l'avanguardia artistica,
che sarebbe un misterioso spettacolo altrimenti, poiché
in nessun altro secolo si sono visti uomini dedicarsi a cose
siffatte ed a spiegarlo non basterebbe da sola la tendenza a fìngersi libidinosa la sopportazione d'un fastidio.
Una notazione del diario di Corrado Alvaro è assai felice e palesa l'origine dell'obbrobrio: "Dopo aver fumato
più del solito, e uscito da un cinema, ho sognato non
uomini ma oggetti in movimento, come una riproduzione esatta della fantasia di tutta una successione di quadri. Solo che, invece di essere animati, i protagonisti erano
oggetti, superfici bianche e grigie." Chiamare tragici gli
abitatori d'una tal epoca è scorretto, perché ogni loro dolore volontario è comico. È ben raro che un tiranno
costringa sulla punta della spada a intossicarsi, a cacciarsi
in cinema e guardare televisori; come i più buffi pervertiti, costoro pagano per essere frustati.
La notazione di Alvaro dà conto di moltissimi effetti:
come mai proprio sul diluvio dei romanzi, degli spettacoli "commerciali" galleggi l'avanguardia ("superfici bianche e grigie").
Le scene predilette del rêveur sono quelle stesse del medio film-, come il cenciaiolo di Baudelaire, il medio rêveur profonde bontà, viene posto in pericolo, ma scampa
fortunosamente, a scorno dei suoi nemici malvagi. C'è
in lui come nei film un inseguimento, un combattimento, una morte o un perdono. L'arringa difensiva perpetua
che il rêveur va pronunciando a proprio favore dentro di
sé è sostituita dalle scene di tribunale o simili, di indole
rivendicatoria, dei film. Si sa quale parte abbia nelle rêveries la scena del funerale o dell'apertura del testamento:
del pari nei film. Il genere comico, che sempre è stato
imperniato sullo smascheramento del rêveur, non ha più
efficacia terapeutica, perché l'uomo massa non è mai sarcastico o ironico, ma solo umoristico, e nutre non già disprezzo ma tenerezza o curiosità per le bambocciate. Ormai il contrasto fra avanguardia e immagini diffuse da
"reti" di varia natura, è soltanto quello fra sogni provocati originalmente e sogni predigeriti; gli apologeti dell'avanguardia credono di dover spiegare che bisogna abituarsi ai nuovi prodotti, fare il callo alle novità che essi
patrocinano, lasciarsi andare, non irrigidirsi, permettere
che i loro sogni invadano la nostra mente. La questione
del grado di perizia e del grado di imitazione della realtà è
stata accantonata, e nessuno osa più porla: la scelta è fra
sogni già sognati e sogni nuovi, nel mondo dei rêveurs.
Ma che si voglia non sognare, non pare scelta concepibile.
Ciò che l'uomo massa chiama "realtà" è un'orditura di
fantasticherie, e questo dà conto della strana asserzione
che di quando in quando odi da lui, a spiegazione del
suo vario seppur parziale suicidio: "Bisogna tenersi in contatto con la realtà."
Il massimo di fantasticheria è quel che oggi si presenta come informazione e ragguaglio; disse Daniel J. Boorstin: "il potere di riferire e ritrarre ciò che accadeva fu
una tentazione che indusse a creare immagini probabili
o a preparare ragguagli già pronti di ciò che ci si aspettava accadesse. Come spesso capita, gli uomini finirono
con lo scambiare il loro potere e i loro bisogni. Lettori e
spettatori dovevano tosto preferire la vivacità del servizio, il candore della fotografia alla schiettezza di ciò che
veniva narrato." A ciò s'aggiunse l'esigenza industriale
della produzione perpetua; oggi le notizie debbono non
essere più soltanto quotidiane, come al tempo dei giornali,
ma d'ogni momento, e bisogna anche fabbricarle sinteticamente perché i giacimenti della storia contemporanea
non reggono ad uno sfruttamento cosi massiccio.
La stessa quantità delle melodie, frasi, effigi le rende
fantastiche; questo è uno dei volti della chimera, l'altro
è la incapacità dell'uomo massa di attenersi alle notizie che
almeno lo incuriosiscano, se non interessino (primo passo
per inoltrarsi verso il limite ottimo: attenersi a ciò che
conduca alla salvezza).
Pochi sanno che l'uomo vale per ciò che non fa, per
le cose trascurabili che sa scartare, per gli accadimenti dai
quali sa distogliere lo sguardo, per i bisogni che sa estinguere. Si fa una statua asportando il marmo superfluo dal
blocco, si diventa schietti e pronti levando di mezzo le
abitudini dannose, gl'impedimenti; alla stessa stregua: si
impara a far attenzione togliendo di mezzo le informazioni di nessun conto.
Al contrario l'uomo massa: in grazia dell'accumulo forsennato e distratto di notizie e di rappresentazioni, le quali restano poi tutte inutili perché non allegorizzate, egli
smarrisce ogni possibilità di incontrare un limite, un
destino.
La formula prevalente seguita nella fabbricazione di
notizie è quella dell'intervista (nata sul New York Tribune del 20 agosto 1859): un'intrusione nella sfera privata
ormai generalmente tollerata. I secolari diritti della privatezza sono stati distrutti da una serie di contrarie consuetudini dell'industria culturale (fu eroso lo stesso diritto
all'immagine, che viene confiscato a chi entri nella sfera dell'interesse pubblico, curiosa reincarnazione della caduta in
schiavitù e del pari si perde il sacro diritto all'integrità del
cadavere nei pubblici ospedali, e la promessa mendace al
pubblico o la concorrenza sleale vengono ristrette dalle norme tacite ma dotate di maggiore autorità, del sistema pubblicitario). L'intervista è non solo un invito a fantasticare,
a fornire un'immagine di se stessi, un proprio doppio spettrale con la scusa di offrire un pezzo vivo della propria
persona, ma è anche prefabbricabile, e perciò, tutte le volte che convenga, prefabbricata. Il primo a creare un'azienda per la fabbricazione del proprio calore umano fu Franklin Delano Roosevelt, che disponeva di un comitato di
giornalisti, poeti, commediografi, incaricato di confezionare le sue apparizioni sui mezzi di massa. Il caso finora
più accuratamente studiato di fabbricazione d'un avvenimento fu l'accoglienza di Chicago al generale McArthur:
"Lo spettatore della televisione, con gli occhi fissi ora
sul Generale ora sulla folla entusiasta, le orecchie colmate da una narrazione che senza tregua ribadiva lo scambievole effetto di folla e celebrità, non poteva che riceve-
re un'impressione di continuo e drammatico fasto... Gli
spettatori reali furono doppiamente delusi, non solo perché vedevano ben poco e per poco dal luogo dov'erano capitati, ma anche perché sapevano di perdere una rappresentazione assai migliore (e d'una maggior drammaticità
di quanto s'aspettassero) sullo schermo della televisione...
ma per molti presenti uno dei brividi più intensi della
giornata era la possibilità di essere ripresi dalla televisione."
Cosi Boorstin compendia i risultati d'una indagine fatta
da trentun sociologhi dell'Università di Chicago diretti
da Kurt Lang. Un osservatore non sfornito dei cinque sensi e di quella capacità di coordinarli un tempo detta mente, sarebbe bastato a capirlo, ma affinché un'osservazione
abbia oggimai prestigio bisogna che si presenti sotto specie accademica, come ridicola perizia.
Gli avvenimenti prefabbricati, cioè le immagini che si
modellano sulle aspettative dell'interesse o della fantasticheria, sono oggi la maggioranza. La reazione dell'uomo
ingenuo, dunque assetato di furbizia, viziato insieme e
sentimentale è la seguente: "se gli avvenimenti sono ormai fabbricati, il potere sarà della minoranza dei fabbricanti; basterà che ne faccia parte io e questa forza sarà
volta al bene". In realtà non c'è una casta di signori che
domini i mezzi di massa, poiché i mezzi stessi signoreggiano, chi li manipola è manipolato, chi ne usa viene usato: la vendetta del mezzo è certa, cóme la spinta dell'aria
sicuramente solleva le ali che le corrono incontro. Un autore non può fabbricare interviste a se stesso e scrivere
sceneggiature senza sentire, dopo qualche tempo, una strana difficoltà a concepire una narrazione genuina; un uomo politico non può stare alla parte fatua, generica, ritoccata che i mezzi di massa gl'impongono conservando un angolo intatto della propria volitività; è vietata
la riserva mentale a contatto con i mezzi di massa poiché si può agire subdolamente con un altro uomo, non
con un meccanismo. Il nuovo Mazzarino si fa truccare
per la sua comparsa alla televisione, impara la parte che
gli è assegnata alla "conferenza stampa", ma chi è l'in-
gannato? Il suo comitato di esperti di relazione pubbliche? Sono suoi complici. Gl'intervistatori? Sono comparse nello stesso dramma prefabbricato per lui o da lui.
Gli spettatori? Essi non lo vedono, egli entra nei loro dormiveglia come uno spettro, al pari di tutte le altre ombre,
e non verso di lui ma verso la sua persona prefabbricata
nutrono essi i loro sentimenti fantastici: sono conniventi. Alla fine, se un ingannato s'ha da trovare, è proprio colui che si ripromette di essere duttile, accorto, sottilmente
compromissorio, diabolico all'occorrenza nell'esercizio d'una "ridimensionata" arte del possibile. Crede di usare
senza essere usato, di conservare la sua libertà di scelta
scegliendo fra le scelte che sono state scelte per lui, come
tutta la massa.
Le burocrazie imperano assai meno dei mezzi di massa,
il cui ipnotismo consiste nel dar l'illusione ai loro padroni
d'essere gl'ipnotisti. Ma questo è un inganno che tosto
svanisce, dando luogo alla mera diligente esecuzione trasognata; il re ieratico, prigioniero del rituale, in mano ad
eunuchi e maestri di palazzo, si reincarna senza fasto, senza rituale augusto ma con molto maggiore impotenza
nell'uomo politico d'oggi.
Agesilao Spartano, quando gli fu detto che c'era un uomo capace di rifare al naturale il canto degli usignoli,
se ne spacciò dicendo che non vedeva il motivo di ascoltare quel canto d'imitazione. All'opposto, l'uomo massa
non lo riscuoti ma anzi affascini vieppiù, dandogli un
ragguaglio di come si fabbricano i falsi accadimenti, i
quali ai suoi occhi appaiono più vivaci, più intelligibili,
più rassicuranti della realtà spontanea ed il fatto che qualcosa sia fabbricata, gli sembra semmai una garanzia di
eccellenza. L'applauso registrato per i concerti, il folklore
stipendiato, il finto rustico popolare non gli ripugnano,
come al vizioso non danno fastidio un volto nascosto da
cosmetici o una capigliatura tinta, anzi, li preferisce all'incarnato e ai capelli veri.
Gli ideali d'un tempo sono sostituiti dalle immagini di
cose, istituzioni, persone: "Più importante di ciò che pen-
siamo del candidato alla Presidenza è ciò che pensiamo
della sua immagine pubblica. Votiamo per lui perché
è la specie di immagine pubblica che vogliamo alla Casa
Bianca. L'immagine della Buick è più importante di ciò
che la Buick realmente è. Essa ci viene venduta e noi ne
godiamo a causa della sua immagine. Il linguaggio delle
immagini non è circonlocutorio, ma soltanto un modo
semplice di descrivere ciò che domina la nostra esperienza" osserva Boorstin. Se invero ciò che ti è sempre presente
allo spirito è il tuo Dio, ecco il loro, la Contraffazione.
La pubblicità crea costantemente nuove immagini; il
pubblico ne è vittima quanto il produttore costretto a spendere un'alta somma per vendere complicate fantasticherie
sul prodotto insieme al prodotto; e nemmeno si può rendere responsabile il perito di psicologia che congegna i
mezzi finanche subliminari per instillare quella fantasticheria nei consumatori; chiunque dia licenza alla sua
mente ha posto in essere la causa di quella riduzione
del commercio a rapporto fantastico tra produttore e consumatore, come della corrispettiva irrealtà propagandistica
della vita politica.
L'azione pubblicitaria o propagandistica fornisce motivi per sogni a occhi aperti, che s'insinuano nel flusso e
possono affiorare anche in atti d'acquisto. Perciò poco importa che chi la subisce le dia fede. A chi non fantastica
il terrorismo pubblicitario in tutte le sue propaggini (e quale immagine o seguito di note musicali riprodotti a macchina non sono pubblicità di se stessi, se non d'altro?), appare inspiegabile; un tal uomo non sopporta le varie concatenazioni surreali fra immagini e prodotti.
In un tiepido bagno solvente s'aggirano gli uomini massa, immagini e suoni ne riproducono il lavorio fantastico e fantasticano per loro, fuori di loro e dentro di loro;
essi ignorano la distinzione stessa fra originalità e imitazione fantastica; anche quando s'imbattano in una forma incorrotta della natura o dell'arte, continueranno a vedere e a udire come sono addomesticati a fare, lasceranno
scorrere il loro nastro di sogni, e cosi molle è ormai la loro
indole, dopo più d'un secolo d'industria culturale dispiegata, che quel nastro nemmeno sanno di poterlo fermare.
Te ne avvedi da quanto l'uomo sia inetto ormai a tener ferma l'attenzione con assiduità; se di bestiale, quanto a baldanza di istinti o a nitore di percezioni, l'uomo
non ha quasi più traccia, è invece tutto animale quanto
all'incapacità di trattenersi con perseveranza e logica su
un qualche oggetto: divaga, storpia, scherza o corre alla
conclusione: "e allora, che fare?"; qualsiasi richiamo
lo sollecita e nessuno lo arresta, nulla egli discrimina e a
nulla rinuncia; è gelatinoso, dove si trova li s'affloscia.
Come il cane disabituato alla caccia o alla custodia di
greggi, ogni odore, brulichio o vento lo svaga, eppure
neanche un fulmine lo strapperebbe, per più del baleno,
dal flusso d'immagini in cui si stempra.
Niente incastella, dà travatura e forma a tali vite simili a otri gonfi di liquame cadaverico, di fantasticheria.
Per costoro non sussiste questione che non sia comparativa, propria d'un settore industriale e quando odano diagnosi della loro esistenza sono capaci perfino di consentire, scambiandole per ragguagli sullo stato vacillante
della produzione libraria o dello smercio di dischi di musica antica o sulla penuria di istituti d'istruzione, ovvero
sulla scarsa propensione del mercato ad accogliere come
personalità commerciabili poeti, scrittori, musici. Di conseguenza uno di loro può persino correre a comunicarci
che sono in aumento le vendite di dischi di Lorca (quasi
che gran parte di Lorca non fosse una contaminazione
di rêveries e cartelloni turistici), che le riviste più diffuse
non respingono collaboratori appartenenti al panteon consacrato, che il pubblico non rifiuta film di registi intellettuali. Tutti segni che l'uomo massa non ha nemmeno
più la dignità che gli conferiva il gusto sicuro nel respingere le cose non fatte per lui, ma che è anzi tanto
mitridatizzato da non discernere più i cibi che dovrebbero avvelenarlo.
La divulgazione è un atto sacrilego, che vieterà di osservare le cose degne per avventura preservate, perché le
14. - Storia del
fantasticare.
facezie o le seriose ostentazioni dell'uomo massa si udranno
fra le rovine e nelle pinacoteche, a farci risovvenire le parole di Lord Melbourne citate da Dwight Macdonald:
"L'eleganza, la grazia e il sentimento che costui contempli
sia pure con costanza non possono mescolarsi ai suoi pensieri e insinuarsi nella loro espressione; egli rimane rozzo,
insolente e goffo, ancor più dell'ignorante e incolto."
Si può rinviare al racconto del Novellino: "Fue uno filosofo lo quale era molto cortese di volgarizzare la scienza,
per cortesia, a signori e altre genti. Una notte, li venne
in visione, che le dee della scienza, a guisa di belle donne,
stavano al bordello. Ed elli, vedendo questo, si maravigliò molto e disse: 'Che è questo? Non siete voi le dee
della scienza?' Ed elle risposero: 'Bene è vero: perché
tu sei di quelli che vi ci fai stare.' Isvegliossi e pensossi
che volgarizzar la scienza, si era menomar la deitade. E
rimasesene e pentessi fortemente."
Il male che tutto ammorba è l'idea del pubblico, cioè
d'un fantasma che non è una società organica e presente, né
una generazione né una setta né una comunità; il suo incombere segreto rende tutto spettrale, tenerne conto significa piombare nell'irrealtà.
Il gusto dell'ovvio è il segno del rispetto per il pubblico;
ormai pochi sentono ripugnanza per l'ovvio, e soltanto
questa repulsione distingue la cultura dalla divulgazione.
L'ovvio è la terra: vi germogliano fiori e frutti; ma consumarla è segno di follia; Nabucodònosor impazzi mettendosi a divorare la terra.
In un mondo non meccanico l'uomo massa sarebbe inetto a sopravvivere civilmente. Un mito tutt'affatto moderno è viceversa quello dei ragazzini che, abbandonati
a se stessi a causa di una qualche catastrofe, creano una
società barbarica, con una sua liturgia sanguinosa. Tale
l'impianto, ogni narratore varia poi il colore degli elementi, in Lord of the Flies di William Golding la catastrofe iniziale è un'esplosione, in Our Mother's House di
Julian Gloag è la morte della madre il cui cadavere viene
nascosto dai figlioletti. Ma ragazzotti d'oggi, inebetiti dal-
l'industria culturale, non saprebbero creare rituali e se di
certo abbonderebbero fra loro i macelli, difficilmente essi
saprebbero elevare altari di sacrifizio; è fuor di dubbio che
se di ogni semplice rapporto creerebbero una burocrazia
non saprebbero però dar forma a una cerimonia.
Stupisci vedendo che, in qualche loro modo, i réveurs
nondimeno qualcosa edificano e compongono, e spesso
compiono imprese che vorrebbero menti deste e mani ferme; ma non un uomo sibbene un comitato è l'autore di
ciò che si attua. Dove s'è potuto, s'è procurato di amputare l'uomo dall'esecutore, la genialità dalla perizia, sicché un medico, un giureconsulto o altro dotto ancora oggi
sopravvivente si svela una scimmia addomesticata, capace
di far buone diagnosi o di sciogliere grovigli d'affari e
poi, uscito di clinica o di tribunale, appare trasognato
neanche avesse lavorato ad una catena di montaggio: un
consumatore in più per l'industria culturale. La civiltà moderna è come quel tiranno antico il quale, a garantirsi i
prigionieri, faceva recidere loro il pollice, per averli inetti
a scagliare una lancia ma atti al remo; saranno stati anche rematori di scarso piglio. Lo spareggio che ci sia fra
dignità del lavoro e tono della vita privata sarà sempre
temporaneo e parziale; ineluttabili e crescenti sono la
sterilità e fatuità del clinico o del giureconsulto, a mano
a mano che consumino più docilmente le distrazioni dell'industria culturale; verrà il giorno in cui non sapranno
più dischiudere in se stessi quel silenzio interiore da cui
affiora l'intuizione clinica o giuridica, avendo contratto
in modo inguaribile la coazione a stivare di pattume sonoro e visivo il tempo di vacanza. Infatti a poco a poco
muoiono gli ultimi uomini completi e perciò gli ultimi
clinici o giuristi geniali, e sempre più si opera in comitato, con varie scuse (lavoro sovrabbondante, informazioni straripanti da assimilare) e per una unica causa: la distrazione crescente, l'incapacità progressiva di apprendere, assimilandola organicamente, la materia di studio. E,
naturalmente, il rancore verso chi faccia eccezione.
Non è possibile che un uomo tollerante come un vaso per
l'immondezza, che accolga cronaca fatua (nera e rossa e
sportiva) e tritume fotografico o rifiuti musicali, poi si
trasformi, al varco del laboratorio o dello studio, in un
sapiente che trama i suoi sistemi come un ragno la tela,
che trasceglie i concetti come un'ape i fiori e non permette che una stilla del suo tempo si perda. Nelle arti e
nella filosofia la cosa è ben più manifesta, perché un artista o un pensatore che amino ottundere la loro sensitività sono inauditi, e anzi è perfino impensabile un uomo
per il quale l'arte o la filosofia sieno cose diverse dalla rêverie, e nondimeno sia "uno come tutti". Se è uno
come tutti, al più, amerà l'avanguardia, ed il passato delle
arti e del pensiero in quanto ripostiglio o fondaco dell'avanguardia. Perciò l'idea di un uomo massa al concerto
o alla pinacoteca intento a studiare i classici, ripugna
come un accoppiamento contronatura che già si sa destinato a svelarsi sterile, come una messa officiata da scimmie.
L'arte o la filosofia classica educheranno e convertiranno con la loro vicinanza? Si lascia edificare accanto ad
un edificio medioevale una torre di cemento, eseguire un
concerto in mezzo a spari e gracidìi, o esporre un dipinto
in una foschia rossigna (già nessuno trova demente esporre quadri alla luce non già di lucernari ma di lampadine), o recitare un poema austero con voce di cerretano e
gesti di Pulcinella, scusandosi col dire che la cosa eccelsa
conquisterà il peggio, che basta far attenzione solo a quella, distogliendo lo sguardo dal male, con savia miopia.
Ma un fermo e vero proponimento educativo anzitutto
insegnerebbe l'immobilità ed il silenzio e poi a distinguere il bene dal male e a non mescolarli. Perciò imporre
programmi "culturali" alle varie reti è il principio della
diseducazione; come sarebbe profumare rifiuti, invece di
sbarazzarsene. Dai mezzi di massa si potrebbe cavar
qualche bene? Si dovrebbe poter utilizzare a buon fine
il Kitsch o l'avanguardia sua sorella? Se è cosi, a che
diventino un tesoro manca soltanto che si seppelliscano.
Prima cura del pedagogo sarebbe di preservare dalla cor-
ruzione la cosa da impartire, con la cura incendiaria
con cui qualche santa plebe islamica ancora ricusa di permettere una pellicola su Maometto.
Credere che sia possibile educare alle difficoltà d'un classico, allorché l'agevolazione di non consumare più immagini industriali sembra una cima inattingibile, è ben frivolo inganno. Soltanto dopo la purificazione lo Spirito
dice: "Egli è un vaso eletto da me, per portare il mio
Nome" (Atti 9, 15).
15. - Storia del
fantasticare.
ANTROPOLOGIA FANTASTICA
L'uomo d'immaginazione dissipata può anche non vivere
come nel ritmo di una barcarola, come trasportato
lungo un fiume ora impaludato ora precipitoso, ma piuttosto starsene murato vivo in un unico sogno tessuto e ritessuto. Può darsi che la scena da lui perpetuamente ribadita nella sua immaginazione sia un'avventura vissuta,
che lo riempie o d'orgoglio o di diritti; sia pure con qualche ritocco fantastico, sempre il rèveur la rivisita e ripercorre, cosi rallentando il tempo della réverie, togliendole
l'unico bene che le sia connaturato, la facilità a passare, a
essere smaltita. Spesso dietro il sogno fisso se ne cela un
altro, taciuto, che ha rapporti di una tal quale analogia col
primo, che gli fa da schermo. La rivelazione improvvisa di
questo segreto può guarire dal fantasticare, perché dà una
scossa e ridesta. L'uomo del sottosuolo di Dostoevskij sogna di andare ramingo come un pellegrino santo, senza possesso che lo distragga dal costante sacrificio e di impartire
con parole arroventate la buona novella, sicché il papa cessa
di occupare gli Stati pontifici e le rivoluzioni diventano superflue; quale sia il sogno vero, che si nasconde dietro a
questo scudo istoriato, ce lo svelerà il comportamento dell'uomo del sottosuolo con la povera meretrice. Ogni volta,
per scoprire il sogno segreto d'un uomo basta domandarsi:
"Entro quale vicenda si giustificherebbe il suo comportamento, in se stesso insensato?" Com'è noto, dietro c'è sempre una qualche scena traumatica dell'infanzia; l'uomo fantastica di un'altra e diversa al fine di non pensare ad essa.
D'altra parte il fantasticare non fa che approfondire la ferita del trauma, talché è terapeutico non solo scoprire al vivo
la "scena capitale", ma soprattutto far cessare il lavorio immaginativo. Il réveur dedito alla sua scena fissa vi torna,
come il cane al suo vomito, senza intermissione, e la sua
malattia può essere di tre specie, a seconda che colpisca
l'una o l'altra fra le potenze dell'anima. Allorché ne è afflitta la memoria la scena ossessiva sarà una rimembranza. Allorché invece è l'intelletto a soffrirne, si suole immaginare di pensare a qualcosa, ed il sintomo di quest'ultima
forma morbosa è l'abitudine di distinguere fra intenzione
e atto, fra mezzi e fine e non già per disprezzare le intenzioni senza esito o i fini malraggiunti, ma anzi, per
circondarli di cure e carezze, e allora nascono le frasi:
"Io ho tentato di esprimere..., a voi giudicare se ci sono
riuscito."
"Non so quale, ma un'idea c'è."
"Non importano i mezzi, conta il risultato."
Sono asserzioni d'apparenza innocua, di sostanza dolosa, poiché vorrebbero dare a credere che esista da un lato
un bugno ronzante di pensieri, e dall'altro uno strumentario in se stesso neutro, col quale li si traduce o meno
in atto, quasi si potessero dividere cose organicamente avvinte, ed i mezzi non fossero la definizione dei fini, e l'espressione non costituisse l'attuazione del contenuto; ogni
delitto diventa lecito quando si cominci a ragionare separatamente dei fini e dei mezzi, di intenzioni e di tecnica. La fantasticheria viene troncata se si riconducono gli
aspetti delle cose alla loro unità organica.
Non c'è alcun rèveur moderno che non si trastulli con
progetti per mettere a frutto le forze esistenti a scopi diversi da quelli che esse hanno in concreto e per loro essenza; egli vuol ottenere che l'uomo si serva della macchina invece di servirla, si valga dei mezzi di diffusione
di massa per meditare e criticamente riflettere, che l'intellettuale si inserisca nella macchina della produzione, e via
conciliando il sogno e la veglia, immaginando d'affidare
a saltimbanchi la celebrazione di sacri riti, e nascondendosi cosi che una ben più straordinaria conciliazione sta av-
venendo sotto i nostri occhi, fra la decrepitezza e la puerizia, in coloro che nutrono tali chimere.
La scena madre o capitale dei viziosi è spesso di una
demenza che ne vieterebbe ogni espressione, salvo faceta;
perciò resta muta, e quando procuri di esprimersi dà come
risultato tronconi ermeticamente allusivi.
A giudicare dalla diffusione del turpiloquio e della letteratura sconcia tal scena dovrebbe essere un atto di libidine ma fors'anche più spesso è un'ostentazione di prestigio,
di fortuna e di forza, magnanima o brutale, comunque frustrata. Molti sono anche gli adepti del "bel gesto da restarne allibiti". I rèveurs hanno voglia di fermare chicchessia per potergli raccontare la loro scena madre: il
giorno che concessero (o rifiutarono) soccorso al nemico,
che il medico li rassicurò che avevano un cuore eccezionale (o malato), che dissero una certa qual frase all'automobilista che li aveva urtati, che incontrarono quella tal
donna...
Ogni avvenimento nuovo viene da costoro trascurato,
o riversato in quella forma cava e spesso incontri uomini
stati nei frangenti più atroci e grandiosi delle guerre, delle
lotte per il potere, i quali rimuginano soltanto una qualche scena madre inconsistente o scurrile: quella è stata
il centro della loro sognante esistenza; alla fine dell'Education sentimentale di Flaubert il protagonista s'accorge
che la sua scena madre non è stato questo o quell'incontro con la donna sempre amata, ma una visita impacciata ad un lupanare in compagnia d'un amico, e tutto
il romanzo verte su questo scambio di scene madri. Chi
è occupato a covare la scena madre è malvivo, noioso e
annoiato, monotono e ciarliero.
Hawthorne, nella prefazione alla Scarlet Letter fu il
primo a cogliere il raccapriccio che destano persone la
cui vita è stata una traversia, che dovrebbero essere gloriose di esperienze e nondimeno hanno confitta nella
mente soltanto una scheggia, magari una qualche arguzia
burocratica: cosi i vecchi capitani di marina dalla vita mol-
teplice, i quali rimasticano le loro scenette nella dogana
di Salem.
L'immaginazione è come una resina che cola dalla
mente ferita: invischia e poi invetria. Le facce dei réveurs
finiscono coll'esprimere le vicende immaginate; se ci si
guarda attorno in un qualunque luogo si vedono le torme
dei sonnambuli tutti atteggiati in modo incongruo, con
una qualche smorfia sempre ripetuta e infine pietrificata
sul volto. L'uno vi ha dipinti dolori atroci sopportati con
fierezza, l'altro una truculenza che maschera la bonarietà,
l'altro una sufficienza clemente dinanzi a insistenti omaggi; paura, furbizia, supplica sono il lembo visibile del sogno, meglio evidente nella piega delle bocche. Ma anche
le mani esprimono, disegnando il gesto fondamentale della scena madre; un altro modo di esternare il sogno è
l'andatura, guardinga, truce o spavalda, impetrante od
astuta. Il corpo è costretto, schiavo della mente, a fare
la sua parte nella farsa. Non manca di un fondamento il
culto della forza fisica e del corpo perfettamente addestrato: è difficile avere un gioco muscolare sciolto senza
tensioni né rilassamenti, allorché si farnetica. Se la mente
è tirannica invece che regale, il corpo si vendica; se si
protendono i nervi nel regno dei fantasmi, essi ricorrono
alle consuete risorse degli sfruttati: la lungaggine nell'accorrere, il languore nell'ubbidire, la dilazione nell'udire.
Una branca della medicina s'occupa dei malanni che nascono dal fantasticare, delle occlusioni dovute al non poter "mandar giù" qualcosa, delle asme dovute al sentirsi
soffocati dall'ambiente, delle ulcere scavate da trafiggenti
preoccupazioni. I corpi obbligati a comporre i geroglifici
dell'immaginazione intristiscono come schiavi di miniera.
Era una vecchia nozione della demonologia, che il diavolo non sa nulla di ciò che gli uomini pensino, deliberino o rammentino, sa però tutto ciò che essi immaginano; perciò gli riesce di quando in quando d'impressionare con rivelazioni di segreti. I vicari del diavolo sono
numerosi: con gusto indovinano e attizzano le altrui im-
maginazioni, sono lenoni di fantasie. Le persone diaboliche sono misteriose all'apparenza, perché paiono dotate di
penetrazione inconsueta; ma siano messe a fronte di persone che non immaginano ed ecco: il loro potere si scioglie; esse non leggono il pensiero, a parlare propriamente, ma soltanto la fantasticheria. Appaiono sciocche allorché s'imbattano in una persona vereconda, che non offra
esca alla loro diabolicità, perché allora vanno attribuendole intenzioni, sogni, desideri, in modo del tutto incongruo. Le vedi in tali casi scambiare una riflessione per
una manovra politica, un apprezzamento estetico per
una voluttà, un bisogno per un vizio, una ripugnanza morale per orgoglio di classe, uno sdegno etico per una presunzione di superiorità, una devozione religiosa per una
sensualità travestita, un eroismo per una parata romantica, uno studio appassionato per un'avara o stravagante accumulazione. Maldestri, inveleniti, questi Iago riescono
però assai sovente a sorprendere i candidi Otelli, se a costoro non viene insegnata l'astuzia del serpente.
L'indovinare le altrui fantasticherie, che è concesso soltanto a chi si abbandona in modo diabolico alle proprie,
può essere spinto fino alla medianità: non a caso nelle
congreghe spiritiche d'ogni specie, come osservò Hawthorne e dopo di lui Benedetto Croce, non è mai emerso nulla
che somigliasse ad un concetto o ad un'immagine poetica:
esse celebrano le feste dell'immaginazione oziosa.
Fra le consuetudini della vita di massa alcune hanno
la forza diabolica delle sedute medianiche e d'altrettanto
irrobustiscono la potenza del fantasticare: le interviste,
che sono vere e proprie partite di immaginazioni, durante
le quali ci si eccita con quesiti ("quale personaggio storico vi piacerebbe essere stato? " "con quale tipo di donna
vi piacerebbe di trovarvi su un'isola deserta?")
Nelle famiglie di massa lo scarso tempo sottratto ai sogni collettivi dei vari apparecchi viene dedicato ad un
esercizio immaginativo che consiste nel domandarsi di
ogni avvenimento, anche del più trascurabile, la causa,
nell'ingigantire i fatti di nessun conto.
Accostarsi ad una famiglia di massa è come entrare in
una tana dove si è sorvegliati da enormi occhi polimeruli, da antenne sibilanti.
Sintomo decisivo da cui riconosci se un uomo è rêveur:
che ami o no il silenzio. Esiste gente che lo detesta al
punto non solo di farcirlo di chiacchiere ma di tenere acceso continuamente un "rumore di fondo", perfino quando studia. I film allenano alla disintegrazione del vecchio
rapporto di ritmo e lavoro o di raccoglimento e studio,
con la loro divaricazione voluta tra colonna sonora e azione (suona il valzer, il ferito s'accascia). Le orchestrine di
cannibali scheletriti nei campi di concentramento nazisti non furono che l'applicazione fortuita d'un principio che esige la musica di fondo cosi durante convegni
erotici come durante la guida dell'automobile, quasi a
riaffermare: "siamo qui eppure non ci siamo, esistiamo
e fantastichiamo". È come se si avesse sempre seco un
doppio minorato che si deve tener sveglio in qualche
modo, come usano fare le nutrici coi loro fantolini;
al doppio si dà da ascoltare un programma radiofonico
o un disco, o da guardare, con la coda dell'occhio, un
qualche seguito di immagini. Non a caso una delle situazioni archetipiche del mondo attuale è K nel Castello,
che si deve portare dietro i due aiutanti scimuniti dovunque vada. È per tener buono questo doppio che anche
nei raduni più seri si fanno giochi di parole, si indugia
su bisticci, su qui prò quo voluti. Una persona che sia
stata sottoposta a questa tortura per molto tempo (ed ormai non c'è quasi nessuno al mondo che non ne sia stato
pervertito) non può più essere integra, dedita interamente
a ciò che fa: è stata sdoppiata alla perfezione e non c'è
più molta speranza di indurla a vergognarsi, non già di
aver venduto la sua ombra al diavolo, come nella favola
di Chamisso, ma, peggio, di trattarla come fosse un infermo o un pargolo.
PSICOANALISI E FANTASTICHERIA
Quando uno psicoanalista invita ad associare, talvolta
gli capita d'incontrare una radicale incomprensione; taluni
davvero non sanno che cosa egli stia chiedendo: sono le
persone perfettamente sane (oppure cosi malate e intimorite dalle loro fantasticherie da doverle negare).
La psicoanalisi nacque sul ceppo di una certa letteratura minore, scolaticcio della novellistica tedesca: quella
di Joseph Popper, che usò lo pseudonimo di Linkeus
(1838-1921), e che nel 1899 scrisse Phantasien eines Realisten, dove celebrava l'ideale di un mondo onirico organizzato come il tempo di veglia, e quella di Jensen, l'autore della rêverie su Pompei, Gradiva. Furono i testi fondamentali, sui quali Freud edificò la psicoanalisi, in grazia
degli accostamenti puramente associativi che vi campeggiavano.
Eppure lo studio scientifico moderno della fantasticheria
è assai scarso: non la si è ancora misurata né ridotta in
un linguaggio chimico, per parlarne si usa tuttora la propria lingua e non un insieme di segni convenzionali.
Freud ne scrisse abbastanza poco; osservò che oltre alle
fantasticaggini dei paranoici, i quali di continuo si rappresentano le proprie grandigie o le proprie magnifiche sofferenze con monotoni stereotipi, ed a quelle dei pervertiti sessuali, sempre occupati a proiettarsi lussurie, esistono
quelle specifiche degl'isterici e degli adolescenti, di contenuto erotico nelle donne ed erotico misto d'ambizioso negli
uomini: "questi sogni a occhi aperti ci forniscono la chiave
per capire i sogni notturni, il cui nucleo altro non è se
non queste fantasticherie diurne complicate e deformate,
16. - Storia del
faniaiticare.
e malcomprese dal sistema psichico cosciente1". Colui che
nutre tali sogni a occhi aperti si riconosce dai sorrisi subitanei e distratti, dalle parole mormorate fra sé e sé, dall'accelerazione improvvisa dell'andatura allorché la vicenda fantastica s'avvia alla conclusione: "tutti gli attacchi
isterici che ho potuto finora indagare si sono rivelati sogni a occhi aperti involontari di questa sorta che irrompevano nella vita quotidiana"; i sintomi isterici non sono
che l'espressione della fantasticheria fondamentale e "gl'isterici incapaci di esprimere come sintomi le loro fantasticherie le attuano consapevolmente nell'azione e cosi
immaginano e perfino provocano nella realtà attacchi o
violenze sensuali".
Il fondamento su cui Freud poggiava la sua analisi
della fantasticheria era tradizionale: "Le persone felici
non fantasticano mai, soltanto le insoddisfatte... Se le
fantasticherie diventano esuberanti e prepotenti, ecco poste le condizioni per lo scoppio d'una neurosi o psicosi;
le fantasticherie sono altresì lo stadio preliminare e mentale dei sintomi di malattia." Ma egli cadde nella confusione allorché volle stabilire quale nesso esistesse fra il poeta
o narratore ed il sognatore a occhi aperti, quesito che
si scioglie assai facilmente: un poeta o narratore è tale
nella misura in cui non fantastica; ma Freud non aveva
sensibilità estetica e scrisse alcune frasi inconsulte per spiegare come mai ci attraggano le opere d'arte e invece il
racconto di fantasticherie da parte dei nevrotici che ne
soffrono ci ripugni o lasci freddi: "l'arte poetica sta nella tecnica con cui il nostro sentimento di disgusto viene
superato... Lo scrittore ammorbidisce il carattere egotistico della fantasticheria con mutamenti e dissimulazioni,
e ci attira con l'offerta di un piacere puramente formale,
cioè estetico nella presentazione delle sue fantasticherie2":
un'estetica che si attaglia soltanto al meccanismo di produzione dei valzer di Johann Strauss, delle operette di
1
Le fantasie isteriche
2
II poeta e la fantasticheria
ed il loro rapporto con la bisessualità,
(1908).
(1909).
Offenbach, dei romanzi d'appendice o delle farse del café
chantant (o dei film).
Freud non distinse bene neanche fra giochi infantili e
fantasticheria: i giochi tradizionali sono per lo più addottrinamenti mimati (attraverso i quali vengono insegnate la
prontezza, la rassegnazione, e altre virtù); quelli che i fanciulli abbandonati a se stessi viceversa s'inventano sono
pur sempre ancorati alla realtà, anche se stabiliscono fra
gli oggetti rapporti diversi dai consueti, e vanno giudicati esercizi di interpretazione o allenamenti piuttosto che
fantasticherie.
Fra i seguaci di Freud l'argomento non ebbe che un
solo cultore minuzioso, il fiammingo Varendonck1 il quale si osservò con cura e sistematicità, ricavando una serie
di leggi della fantasticheria o, com'egli dice, delle catene
di pensieri preconsci:
Una catena è una successione di ipotesi e repliche e
quesiti che viene interrotta di quando in quando da allucinazioni mnemoniche. Il processo è diretto da certi desideri predominanti ed è vivace nella misura della loro forza. Ogni catena nasce da un commosso ricordo che può
scaturire da un'occasione ovvero imporsi all'improvviso
senza causa.
La catena si avvia come una trance dopo una sorta di
sospensione, di vuoto, che ne è l'abbrivo, e a mano a mano
che si evolve, dominano gli elementi visivi allorché essa
affonda nell'inconscio, e gli elementi discorsivi allorché
ne emerge.
Le catene sono irreversibili, non consentono verifiche,
ritorni e perciò neanche correzioni e critiche.
"Le catene terminano in un momento di passività mentale che le fa affiorare alla superficie, oppure perché la
memoria viene messa in moto dall'appercezione in seguito
a stimoli esterni; in entrambi i casi l'effetto è un ritorno
alla coscienza desta."
1 " y
Varendonck, Ueber
Vienna, 1922.
das vorbewusste
phantasierende
Detiken,
Nel vago restano gli altri psicoanalisti: Bleuler chiama
la fantasticheria pensiero autistico; la produzione di pleonasmi non è buon segno, tant'è vero che egli confonde la
fantasticheria con il gioco che allena all'azione, la paragona
alle capriole con cui i gattini si abituano a cacciare i sorci;
Rapaport obiettò che mancano alla fantasticheria due operazioni essenziali del progettare: la facoltà di arrestarsi per
analizzare certi minti ed il riesame di fatti già trascorsi1.
Sartre fece quache osservazione simile a quelle di Freud
sugl'isterici: l'uomo fantastico è un essere senza rapporto
con l'uomo reale insieme a cui convive, e questo sdoppiamento fa si che l'azione progettata sia sempre diversa
dal progetto, e quando nonostante tutto si compia proprio
l'azione progettata è perché si è presi alla sprovvista e
non si ha altra risorsa a disposizione oppure si è mossi
da una cocciutaggine che s'è acciecata e fa agire "d'une
manière raide et cassante", come di chi "dice quel che ha
da dire" senza guardare l'interlocutore, si da compromettere irrimediabilmente la realtà nel senso voluto dal sogno.
La plasticità e l'adattabilità vengono distrutte dalla rêverie, lo schizofrenico che vi trova riparo non incontra
cosa alcuna che possa eluderlo, resistergli, sorprenderlo,
tanto sono povere le sue immaginazioni, e chi fantastichi
eroticamente, è ridotto cosi "non tanto perché sia stato deluso in amore, ma perché non è più capace d'amore2". Queste osservazioni sono sparse da Sartre nel contesto programmatico che esige il metodo fenomenologico, rêvasserie dell'intelletto.
Le analisi delle cosiddette immagini ipnagogiche sono
di qualche utilità perché mostrano quali sono i caratteri
facciali cui tende il rêveur. Nello stato ipnagogico il tono
muscolare s'allenta, salvo che viene teso l'orbicolare dell'occhio; la pupilla si restringe, lo sguardo si fa convergente, gli occhi ruotano nell'orbita, le palpebre stanno
serrate.
1
David Rapaport, Orgcmizatìon and Pathology
York, 1951.
' J. P. Sartre, L'imaginaire, Parigi, 1948.
oj Thoughl,
New
Le immagini che appaiono allora, sono tutt'uno con la
loro interpretazione, non esiste una distanza fra la loro
apparizione sensibile e il loro riconoscimento e la loro
classificazione, non avviene alcun adeguamento della
mente alla cosa, poiché la cosa è già la sua nozione.1
L'oggetto ipnagogico non è particolareggiabile, non si può
scomporre, il suo nome è ante rem e l'abbondanza dei
particolari che possono riferire certi allucinati è illusoria,
perché ogni particolare è già la propria descrizione e perciò non si può ulteriormente approfondire.
La legge più importante che la psicologia abbia assodato, fra quante reggono l'uomo fantastico, è quella per
cui: " I movimenti scaturiti dall'immaginazione sono sentiti come del tutto involontari2."
1
Leroy, Les visions du demi-sommeil,
Parigi, 1926.
2
Journal
1946, vol. 41, pp. 107 sgg.
of Abn.
and Social Psycb.,
L'IMMAGINAZIONE BUONA
L'immaginazione buona è quella morta, come il buon
pane è grano macinato, impastato, infornato. L'immaginazione è femminile, nefasta perciò a chi la tratti femminilmente, con arrendevole soggezione o con irruenza
simulata. Può conoscere, possedere l'immaginazione colui
che non sappia concepire cose sgraziate e imperfette;
che abbia del tutto distrutto, asceticamente, la sua fantasticheria.
L'immaginazione non si dà al pavido, ama l'aria della
sprezzatura e del torneo, preferirebbe, con femminile saggezza, l'uomo che agisce male senza pensarci, con ferocia infantile, a chi nutra, con mano innocente, un'idea
torbida; sdegna con femminile spietatezza l'uomo infreddolito e incerto ("o sollecito dubbio e fredda tema che
pensando t'accresci!" lamentava il Tasso). La ottiene,
la fa prolifica e felice chi sia temprato bene, cioè sappia
fare a meno di lei, e all'occorrenza sia in grado di darle
il bene del castigo disciplinare che da sola non si sa
procurare, tale essendo il suo limite e sesso. Essa diventa,
una volta rapita, inanellata e resa fedele, fonte di ricchezza
e d'intuitivi soccorsi, metà dell'uomo.
Un'immaginazione disciplinata arride soltanto a chi abbia su di lei autorità e questa ottiene soltanto un pensiero
che non pecchi (e l'unico peccato è di pensiero). Quando
tale sia il pensiero, l'immaginazione si adegua, e cosi
subisce una metamorfosi, diventa l'intuizione che discerne
alberi nel seme, figli nel padre, sistemi scheletrici nella
vertebra, destini nel carattere, concetti in ogni immagine.
Dal pensiero ismaelitico questa facoltà cosi rara a fiorire
e che costituisce il semenzaio delle idee o figure, questo
mondo mediatore fra intelligibile e sensibile fu minutamente studiato; nella tradizione occidentale fu Goethe a
insegnare come l'immaginario si depuri fino alla sua
metamorfosi.
L'intuitivo sa che se l'idea, cioè la forma o carattere
di una cosa, non gli si sviluppa appieno in tutte le sue
determinazioni organiche, rimanendogli oscura e confusa,
è perché egli è asservito a quella forma o carattere: a
causa d'un suo peccato. Sa anche che Dio è ciò che è
presente | con costanza alla mente, e se il suo Dio è un
idolo o un agglomerato di idoli egli non avrà saggezza,
ma se invece è l'essere che non ammette immagine
e da cui perciò emanano tutte le immagini, allora si
aprirà l'occhio dell'anima, l'immaginazione diverrà la compagna fedele e sottomessa con cui si vivrà felicemente da
allora in poi.
Quando si provveda alla custodia del cuore con desiderio e amore, ci si accorge che per quanto si divaghi,
si cada, ci si assopisca durante la custodia, si può nondimeno essere riaccolti nella quiete; questa è clemente
e misericordiosa senza fine, simile ad un padre il quale
festeggi il figliol prodigo tornato da luoghi stranieri o
ad una madre che perdoni con pazienza smisurata un
bambino. Ci si accorgerà che talvolta la quiete arride
subito a un dissipato che si volga a chiederla e non si
concede a chi si sorveglia con solerzia; che è simile ad
un padrone tremendo che dà o toglie secondo disegni
disumani. A meglio osservare appare chiaro che la quiete
è la bontà stessa; si concede benché nessuno ne sia davvero degno, tale essendo la facilità di ciascuno a divagare;
ed è altresì il bene perché nessun bene ha durata e consistenza senza di essa.
La parabola degli operai della vigna, quella delle nozze
del figlio del re, quella delle vergini savie e delle folli,
quella dei talenti sono tutte rappresentazioni di codesta
misteriosa amministrazione della quiete.
L'immaginativa combattuta da un'ascesi che l'abbia ben
spenta, diventa la facoltà che fa scorgere il polo opposto ovvero futuro d'ogni cosa: nel bulbo raccolto la
pianta espansa, nella voracità del bruco la farfalla astinente, nell'umanitarismo fraterno la ghigliottina operosa,
nella restaurazione industriale della bellicosità le camere
a gas, nella redenzione del proletariato il regno dell'intrigo
burocratico, nella lava il sasso, nella seduzione il ricatto,
nella bruscheria il pianto, nelle buone intenzioni i lastrichi dell'inferno, nel mezzo stesso il fine del suo uso,
nella fantasticheria l'abominio, nella trasgressione l'inquietudine, nell'acquisto il fastidio, nella vertebra lo scheletro,
nello sperma il figlio, nel sangue il latte. Poiché ciò vede,
l'uomo sagace non s'impone di essere ma è continente,
casto, rispettoso d'ogni vita, ligio a ogni norma naturale
e, come dice Melville nel Moby Dick, "perciò i veri principi dell'impero di Dio sono trattenuti dal prender parte
ai comizi elettorali, lasciando i più alti onori agli uomini
che si rendono famosi più per la loro infinita inferiorità
a quel pugno di uomini scelti dal Divino Inerte, che non
per la loro indubbia superiorità al morto livello della
massa".
Occorre abituare l'immaginativa ad assorbire le spirali
con cui evolvono gli organismi; se la si lascia incancrenire o servire i desideri personali, la si debilita, da forza
che sarebbe diventa fardello. Essa è portata germinalments
a rendere il suo naturale servizio, che è poi quello descritto nel capitolo XIV della prima epistola ai Corinzi
di San Paolo, dove fra l'altro si dipinge al vivo quel che
è una comunità di persone dall'immaginazione risanata e
pura. È ben raro chi intenda quel capitolo. Se cogli
l'immaginazione allo stato nascente essa ti fornisce avvertenze; lo sa assai bene la saggezza popolare, che si
regola sulla prima impressione.
Germinalmente vuol però dire debolmente: la ghianda
è minima, l'embrione ha tanta potenza quanta inermità.
L'immaginazione dev'essere difesa e lasciata libera di of-
frire le sue primizie, di far udire la sua voce rapida e delicatissima, di lampeggiare nel buio. Il Talmud attesta l'uso
di accostare fallo e teschio, che era un inculcare mediante
l'orrore la comprensione delle polarità; bene insegnò Goethe a nutrirsi soltanto di forme, di organismi compiuti,
evitando ogni chimera, qualsiasi figura superflua o meccanica. Chi anticamente voleva un'immaginativa robusta, si
ritirava in romitaggi o si velava il capo. Ma tutti sapevano
comunque di dover curare la loro alimentazione di immagini, badando a non ingozzarsi ma a trascegliere, contemplando soprattutto crescite regolari (donde il savio uso di
coltivare piante, aver sempre sott'occhio fiori, putti, bestie graziose), temperanze di calori e umidità (donde la
savia consuetudine di intrattenersi su presagi del tempo e del raccolto), oggetti modellati dalla mano umana
secondo ritmi fisiologici e simboli religiosi. Si acquista
cosi l'abito di cogliere al volo l'inclinazione, la virtualità
d'ogni organismo; e di tale consuetudine alata è lecito
dire soltanto che lasciata libera si sviluppa in modi oggigiorno rarissimi, un tempo, secondo attestano poemi epici
e scritture, frequenti; che veleno per essa sono curiosità,
frivolezza, vanagloria. Ogni immagine nata ineluttabilmente ha radici nella realtà, di cui esprime o simboleggia
qualche lato nascosto o futuro; ma quando si è assediati
da immagini superflue questo araldo del reale o non ci
può raggiungere o, se pure sopravviene, si confonde con
gli assedianti.
Tutto è infine compendiato nelle parole del trattato
alchemico intitolato Rosarium Philosophorum, stampato a
Francoforte nel 1550: "E sta' bene attento che la tua
porta sia saldamente chiusa, sicché colui che è dentro non
possa fuggire... la tua immaginazione deve indirizzarsi secondo natura. Ed osserva dunque secondo natura (vide
secundum naturam), i cui corpi si rigenerano nelle viscere
della terra, e quindi immagina ciò secondo fantasia veridica e non fantasticando {et hoc imaginare per veram.
imaginatìonem et non phantasticam)."
I N D I C E
La fantasticheria
La carità fantastica ovvero il cristianesimo di massa
La recitazione fantastica
Fantasticheria e stregoneria
L'esasperazione terapeutica del fantasticare
Immaginazione e opinione
Le norme e la fantasia
p.
7
13
23
27
47
51
53
PARTE II
L'Inghilterra e lo spleen fantastico
Il magistero di Goethe e la fantasia tedesca
La fantasticheria dell'istinto
Il magistero di Surin e la fantasia francese
Fantasticherie proustiane e gidiane
La fantasticheria americana ed il magistero puritano
La fantasia russa ed il magistero di Tolstoj
Le fantasticherie italiane ed il magistero del Manzoni
Kafka demonologo moderno
Musil e l'avanguardia
Joyce o l'apoteosi del fantasticare
PARTE III
Fantasmagoria dell'avanguardia
Riproduzione e immaginazione
Antropologia fantastica
Psicoanalisi e fantasticheria
L'immaginazione buona
59
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105
111
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