Sacratissimo Cuore di Gesù A 2014

Sacratissimo Cuore di Gesù
Dt 7,6-11; Sal 103; 1Gv 4,7-16; Mt 11,25-30
Prima Lettura Dt 7, 6-11
Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti.
Dal libro del Deuteronòmio
Mosè parlò al popolo dicendo: «Tu sei un popolo consacrato al Signore,
tuo Dio: il Signore, tuo Dio, ti ha scelto per essere il suo popolo particolare
fra tutti i popoli che sono sulla terra.
Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di
tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli –, ma
perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto
ai vostri padri: il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha
riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re
d’Egitto. Riconosci dunque il Signore, tuo Dio: egli è Dio, il Dio fedele, che
mantiene l’alleanza e la bontà per mille generazioni, con coloro che lo
amano e osservano i suoi comandamenti; ma ripaga direttamente coloro
che lo odiano, facendoli perire; non concede una dilazione a chi lo odia, ma lo ripaga direttamente.
Osserverai, dunque, mettendoli in pratica, i comandi, le leggi e le norme che oggi ti prescrivo».
Seconda Lettura 1 Gv 4, 7-16
Dio ci ha amati.
Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo
Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e
conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.
In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché
noi avessimo la vita per mezzo di lui.
In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo
Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
Carissimi, se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha visto Dio;
se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi. In questo si conosce che
noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha donato il suo Spirito.
E noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo.
Chiunque confessa che Gesù è il Figlio di Dio, Dio rimane in lui ed egli in Dio. E noi abbiamo conosciuto e
creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui.
Vangelo Mt 11,25-30
Io sono mite e umile di cuore.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste
cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua
benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno
conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e
imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è
dolce e il mio peso leggero».
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La prima lettura (Dt 7,6-11) ci aiuta a conoscere il Dio di Israele che si rivela senza reticenze, con
immagini di tipo nuziale. Perciò la missione del popolo di Israele, considerato segullàh «proprietà
particolare», nasce esclusivamente dal cuore di Dio. «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti … perché il Signore
vi ama» (7,7-8).
Dt 7,6: Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore, tuo Dio: il Signore, tuo Dio, ti ha
scelto per essere il suo popolo particolare fra tutti i popoli che sono sulla terra (ki 'am
qadosh 'attah lashem 'eloheýka beka bachar hashem 'eloheýcha lihyot lo le'am segullah mikkol ha'ammim
'asher al-pene ha'adamah, lett. «Poiché popolo santo tu per Adonay, Dio tuo, te scelse Adonay, Dio tuo, per essere per lui
popolo particolare da tutti i popoli che su faccia della terra»).
- Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore, tuo Dio (ki 'am qadosh 'attah lashem 'eloheýka). Questo versetto
esprime il contenuto fondamentale della teologia d'elezione di Israele. Il testo in prosa del Deuteronomio
raggiunge in questa formulazione altamente artistica toni lirici elevati, paragonabili allo stile poetico. La
formula «JHWH, tuo Dio» è ripetuta 2 volte; inoltre il verso termina con una rima tra segullàh «proprietà» e
adamàh «terra, suolo». La santità - qadosh letteralmente, «essere separato, consacrato» - del popolo è sempre
spiegata all'interno del Deuteronomio in termini di scelta divina. Adonay ha scelto Israele fra tutte le nazioni
della terra (Dt 14,2; 26,19; 28,9).
- il suo popolo particolare (le'am segullah). Il termine segullàh appartiene al linguaggio di corte e qualifica i beni
personali di un re, in opposizione ai beni della corona che spettano alla casa regnante (cf Qo 2,8; 1Cr 29,3). Il
termine segullàh «proprietà particolare» rimanda a un testo importante come quello della teofania sinaitica,
quando Dio afferma: «ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatto venire fino a me. 5Ora, se darete ascolto alla mia
voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la
terra! 6Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,4-6). Questo vocabolo esprime l'affetto
speciale di Adonay per il suo popolo. La terminologia è quella propria dei contratti tra signore e vassallo e
tuttavia il Deuteronomio sottolinea da una parte la libertà della scelta di Adonay, e dall'altra il sentimento di
comunione e appartenenza che si sviluppa all'interno del popolo. La scelta divina riguarda tutto il popolo
ed è in contrasto con l'idea dell'elezione di un singolo individuo, sia esso un re o un messia. L'identità di
Israele dipende da questo appellativo: segullàh di Adonay. A parte Qo 2,8 e 1Cr 29,3, che si riferiscono alle
ricchezze del re, le altre 6 occorrenze del vocabolo (Dt 7,6; 14,2; 26,18; Es 19,5; Ml 3,17; Sal 135,4) sono di
ambito deuteronomistico. Il senso del vocabolo è quello di un bene personale (sikiltu nei testi giuridici
mesopotamici, cf Cod. Ham. §141). Nella Vulgata, Girolamo utilizza peculium o popolus peculiaris: forse si è lasciato influenzare dall'uso talmudico, in quanto peculium sta a indicare un possesso acquisito da coloro che
hanno capacità giuridica limitata (donna, ragazzo, schiavo o straniero). Evidentemente un tale significato
non poteva essere facilmente adattato in senso metaforico a Dio, e ciò spiega come mai i traduttori aramaici e
siriaci abbiano preferito risalire alla versione greca dei LXX, che avevano optato per λαὸς περιούσιος,
«popolo eletto», traducendo con chabbibin «prediletti» o «am chabbìb «popolo prediletto». Ma in almeno tre
testi (Dt 7,6; 14,2; Es 19,5), segullàh sta con mikkol-ha'ammim «tra tutti i popoli», e ciò dimostra che l'autorità
divina ha un progetto universale. Israele è scelto come proprietà personale di Adonay, rispetto a tutti gli
altri popoli. La segullàh «proprietà particolare» si distingue da nachalà «eredità» in quanto implica un'iniziativa personale da parte di Adonay: il valore di un bene guadagnato in questa maniera risulta
maggiormente apprezzabile. Il termine finisce per indicare una proprietà cui si tiene particolarmente; da
qui viene la sfumatura semantica "tesoro", suggerita per segullàh in Qo 2,8 e in 1Cr 29,3, la quale per gli
antichi traduttori aramaici di Es 19,5; Dt 7,6; 14,2; 26,18 conservava un significato spirituale (cf E. LIPINSKI,
GLAT, VI, 72s). Rashi così spiega il dilemma fra Israele e le genti: «E non dite che solo voi appartenente a me
e non mi appartengono altri con voi. Ma che altro dovrei fare perché sia noto l’amore che ho per voi? Perché
mia è tutta la terra, ed essi (gli altri popoli) ai miei occhi sono come un niente». Israele certo non può pensare
di essere l’unico popolo che appartenga al Signore, ma l’affermazione che tutta la terra è di Dio serve solo a
evidenziare con quale amore particolare egli si sia legato a Israele: Dio - se così si può dire (kiviakol)- non
ha occhi che per lui! L'elezione non è un motivo di vanto o di sciovinismo nazionalistico Come da sempre
hanno insegnato i profeti (cf Am 3,1-2), «elezione» significa responsabilità e Israele potrebbe essere proprio
definito il «popolo della risposta». Se Israele è la segullàh di Adonay e Israele è nato nel peccato (cf Es 32-34)
bisogna riconoscere che l'azione di Adonay nei riguardi di Israele - come nei riguardi di tutta l'umanità - è
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totalmente gratuita. Per usare un'affermazione di Paolo: «Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per usare a
tutti misericordia» (Rm 11,32). L'esperienza d'Israele è l'esperienza di ogni uomo, quando tenta di costruirsi
una falsa libertà, apparentemente "emancipata" da Dio: è il momento in cui si sperimenta la peggiore
schiavitù. Il popolo, liberato dall'Egitto, ha dimostrato di aver bisogno di una liberazione ancora più
radicale: quella di capire che Adonay, il Dio vivo e vero, non è manovrabile o influenzabile, come se fosse
una statua di legno e d'oro. È un Dio "totalmente Altro".
7,7-8: Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli
altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli –, 8ma perché il Signore vi ama e
perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri: il Signore vi ha fatti uscire
con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del
faraone, re d’Egitto (lo' merubbekem mikkol-ha'ammim chashaq hashem bakem vayyivchar bakem ki'attem hame'at mikkol-ha'ammim. 8 ki me'ahavat hashem 'etkem umishomro 'et-hashevu'ah 'asher nishba'
la'avótekém hotzi hashem 'etkem beyad chazaqah wayyifdeka mibbet 'avadim miyyad par'oh melekmitzráyim).
- Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti … perché il Signore vi ama (chashaq hashem bakem vayyivchar bakem …
ki me'ahavat hashem, lett. «si legò il Signore a voi e scelse voi … ma per amore del Signore a voi»). All'idea della
«scelta» qui si aggiunge quella dell'«amore» (cf Dt 4,37). Questo nuovo concetto è espresso mediante l'uso di
due vocaboli: la radice verbale chashaq «legarsi sentimentalmente» (Dt 7,7) e il nome 'ahavah «amore» (7,8). Il
verbo chashaq significa «unire, collegare», ma è utilizzato anche con un significato traslato per parlare sia del
rapporto tra individui (cf Dt 21,11), sia di quello tra il Signore e il popolo (cf Dt 10,15). In questi casi il verbo
esprime un attaccamento amorevole fondato su una decisione assoluta di dedizione da parte di Adonay.
Anche questa dimensione di dedizione amorevole è una caratteristica dei trattati di vassallaggio. Nonostante
che si tratti di un termine tecnico, l'«amore» all'interno del Deuteronomio non è mai slegato da una
dimensione affettiva ed emotiva. Tipicamente deuteronomica è l'idea del riscatto di Israele dall'influsso e
dalla schiavitù in Egitto. Israele è riscattato, poiché è stato scelto e ora non è più schiavo del faraone, ma
appartiene ad Adonay.
- vi ha riscattati (wayyifdeka). Il verbo padah, che esprime la liberazione dall'Egitto, è tipico del Deuteronomio
(9,26; 13,6; 15,15; 21,8; 24,18) ed è particolarmente appropriato nel contesto dell'elezione (bekhirà).
7,9-10: Riconosci dunque il Signore, tuo Dio: egli è Dio, il Dio fedele, che mantiene
l’alleanza e la bontà per mille generazioni con coloro che lo amano e osservano i suoi
comandamenti, 10ma ripaga direttamente coloro che lo odiano, facendoli perire; non
concede una dilazione a chi lo odia, ma lo ripaga direttamente (weyáda'ta ki-hashem 'eloheýka
hu ha'elohim ha'el hanne'eman shomer habberit wehachésed le'ohavayw uleshomre ch mitzwoto k
mitzwotayw le'élef dov. 10 umeshallem leson'ayw el-panayw leha'avido lo' ye'acher lesón'o 'el-panayw
yeshallem-lo).
- Riconosci dunque il Signore, tuo Dio (weyáda'ta ki-hashem 'eloheýka). Questo comando è la conseguenza di
un intervento di Dio in favore di Israele. Quanto è avvenuto nel passato è fondamento di ciò che Israele è
chiamato a compiere oggi. Il riconoscimento del Signore non è privo di motivazione.
- egli è Dio, il Dio fedele, che mantiene l’alleanza e la bontà (hu ha'elohim ha'el hanne'eman shomer habberit
wehachésed, lett. «lui (è) Dio, il Dio fedele, osservante l'alleanza e la bontà»). Il Signore è descritto con le medesime
caratteristiche di 5,9-10. La prosa poetica raggiunge qui un altro dei suoi apici. Lo stile rispecchia quello di
un inno con la ripetizione della formula di fede: «JHWH, nostro Dio, è Dio». L' ´ël qannä´ «il Dio geloso,
passionale» di Dt 5,9 è presentato ora come ha'el hanne'eman «il Dio fedele». Significativa è la ripresa del
termine chesed, che l'ottimo vocabolario Mandelkern traduce con «amore, benignità, clemenza, benevolenza,
misericordia, pietà, grazia, bellezza, decoro». Corrisponde al greco ἔλεος, éleos, «misericordia, pietà» o
ἀγάπη «agape»; e al latino misericordia «pietà, compassione, misericordia» o caritas «carità». Esso
contribuisce alla Tikkun Olam «riparazione del mondo». La fedeltà di Dio si rivela prima nel mantener fede
alla berit e poi nel chesed. Oltre a ciò, la punizione non viene più estesa fino alla quarta generazione (cf Dt
5,9), ma ricade unicamente sul singolo individuo.
- con coloro che lo amano e osservano i suoi comandamenti (le'ohavayw uleshomre mitzwotayw, lett. «per amanti lui
e per osservanti ordini di lui»). Sorprendente è l'affermazione secondo la quale l'alleanza (berìt) e l'appartenenza
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reciproca (chesed) non siano riservate unicamente al popolo, ma possano essere estese a tutti coloro che
amano Adonay e rispettano i suoi comandi. Questa visione universalistica sarà ripresa soprattutto in Dt 23 e
introduce la possibilità di appartenere a Israele indipendentemente dalla propria origine, se il rapporto con
la divinità è corretto. All'amore di Adonay (7,8) deve corrispondere necessariamente l'amore dell'uomo (7,9).
- direttamente (el-panayw). Quest'avverbio alla lettera significa «al suo volto».
- coloro che lo odiano … a chi lo odia (leson'ayw … lesón'o). Il Testo Masoretico presenta due volte il participio
del verbo sane «odiare» nel v. 10a al plurale, nel v. 10b al singolare. Non è necessario correggere il testo per
armonizzarlo (come fanno la Settanta, il Pentateuco Samaritano e la Peshitta): il passaggio tra le due forme è
una caratteristica del capitolo.
7,11: Osserverai, dunque, mettendoli in pratica, i comandi, le leggi e le norme che oggi ti
prescrivo (weshamarta 'et-hammitzvah we'et-hachuqqim we'et-hammishpatim 'asher 'anoki metzawweka
hayyom la'asotam).
- Osserverai … i comandi, le leggi e le norme (weshamarta 'et-hammitzvah we'et-hachuqqim we'ethammishpatim, lett. «E osserverai il comando, i precetti e i giudizi»). Il contenuto centrale dell'elezione divina è
l'osservanza della legge, presentata con la classica terminologia deuteronomica: «comando, ordinamenti e
decreti». «Scelta e amore», come anche «alleanza e giuramento ai padri» sono messi definitivamente nel
contesto dell'«osservanza dei comandamenti». Il concetto teologico di «santità del popolo» assume quindi
un'ulteriore connotazione. A tutti coloro che accettano e rispettano i comandi di Adonay è dato di entrare
in alleanza con lui, indipendentemente dal popolo cui appartengano.
L'elezione divina (vv. 6-11). L'elezione (bekhirà) divina rende Israele un popolo santo,
consacrato al Signore (v. 6). Israele è un popolo qadosh «santo» nel senso che è separato da «tutti i popoli che
sono sulla faccia della terra» e tale separazione vuol dire appartenere al Signore. Il linguaggio utilizzato
riprende quello dei trattati di vassallaggio: Israele è un popolo particolare non per natura, ma in virtù
dell'alleanza stretta con Adonay che lo rende segullàh «proprietà peculiare».
I vv. 7-11 ribadiscono con enfasi che l'elezione di Israele si fonda solamente sulle azioni e sul
carattere di Adonay. Il Signore ha scelto Israele, lo ha liberato dall'Egitto e ha mantenuto il giuramento fatto
ai padri perché è un Dio che ama (v. 8) e si lega all'uomo. Il v. 7 presenta anche il principio che regola la
scelta divina: il fondamento dell'elezione è la piccolezza. Perciò nei vv. 2 e 17 si afferma che i popoli
cananei sono numerosi e potenti mentre Israele è debole. Il sentirsi forti spesso si traduce in una trappola.
La sottolineatura della piccolezza di Israele come motivo di compiacimento da parte di Dio introduce un
criterio differente di valutazione che permette al popolo di non allontanarsi dal Signore. Solo la relazione
con lui dà la vita, non le alleanze con i potenti.
Nei vv. 8-11 si ritrova il cosiddetto «schema di dimostrazione». Il verbo shamar «custodire,
mantenere, osservare» ricorre in questi versetti con una certa frequenza. Il primo a essere soggetto di questo
verbo è Dio che, nel momento originario della storia di Israele, agisce da solo, liberando dalla schiavitù il
popolo. Il fatto che mantenga il suo antico giuramento attesta che solo Adonay tra gli dèi è veritiero e fedele.
In questa fedeltà si fonda quella dell'uomo che consiste nel custodire i comandamenti. L'elezione significa
così che Israele è un popolo definito dall'amore e dall'obbedienza. I vv. 9-10 confermano che l'amore
dell'uomo attira la benevolenza divina, mentre l'odio provoca la punizione.
La seconda lettura (1Gv 4,7-16) continua a proporci la prima Lettera di s. Giovanni, ove leggiamo un
accorato inno all'amore di Dio, sorgente di ogni amore vissuto dall'uomo.
1Gv 4,7-8: Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è
stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è
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amore (ἀγαπητοί, ἀγαπῶμεν ἀλλήλους ὅτι ἡ ἀγάπη ἐκ τοῦ θεοῦ ἐστιν, καὶ πᾶς ὁ ἀγαπῶν ἐκ τοῦ θεοῦ
γεγέννηται καὶ γινώσκει τὸν θεόν. ὁ μὴ ἀγαπῶν οὐκ ἔγνω τὸν θεόν, ὅτι ὁ θεὸς ἀγάπη ἐστίν).
- Carissimi, amiamoci gli uni gli altri (ἀγαπητοί, ἀγαπῶμεν ἀλλήλους). L'appellativo ἀγαπητοί «amati,
carissimi» e il congiuntivo esortativo ἀγαπῶμεν «amiamoci a vicenda» sono segni che ci troviamo di fronte
a un'esortazione. Il tema è l'amore, infatti il versetto riporta tre parole appartenenti alla stessa area
semantica: l'aggettivo ἀγαπητός «amato», il verbo ἀγαπάω «amo» e il sostantivo ἀγάπη «amore».
L'esortazione comprende anche una motivazione: ὅτι ἡ ἀγάπη ἐκ τοῦ θεοῦ ἐστιν «perché l’amore è da Dio».
Questa specificazione dà il tono a tutta la nostra pericope, che tratta proprio della provenienza divina
dell'amore vissuto dai cristiani: Dio è il modello e la fonte dell'amore cristiano.
- chiunque ama … chi non ama (πᾶς ὁ ἀγαπῶν … ὁ μὴ ἀγαπῶν). Il primo participio (ἀγαπῶν) non è seguito
da alcun complemento oggetto. Solo il codice Alessandrino (A) aggiunge τὸν θεόν («chiunque ama Dio»),
ma questa va considerata un'integrazione successiva. Come specificato in 3,23 e 4,7a, l'amore di cui si parla è
quello vicendevole tra fratelli e non tanto quello rivolto verso Dio. Notiamo i due participi antitetici: ὁ
ἀγαπῶν «l'amante» (v. 7) e ὁ μὴ ἀγαπῶν «il non amante» (v. 8). Nel primo caso si afferma che chi ama ἐκ
τοῦ θεοῦ γεγέννηται καὶ γινώσκει τὸν θεόν «è generato da Dio e conosce Dio». Chi vive la dimensione
dell'amore fraterno ha un reale legame con Dio, espresso in termini di figliolanza e di conoscenza. Nel
secondo caso, chi non ama non conosce Dio, ὅτι ὁ θεὸς ἀγάπη ἐστίν «perché Dio è amore». Tale affermazione
è la vetta dell'intera pericope: l'amore non si riconosce solo nel comportamento di Dio, ma è piuttosto
l'essenza stessa di Dio, la sua natura. Pertanto, amare diventa la via sulla quale si incontra Dio, per
rimanere per sempre in Lui.
- chiunque ama è stato generato da Dio (πᾶς ὁ ἀγαπῶν ἐκ τοῦ θεοῦ γεγέννηται). Il verbo γεγέννηται,
gegénnētai, «è generato», perf. ind. pass. di γεννάω, è tipico della prima Lettera di Giovanni. Parallelo di questo
verbo è un'altra espressione: τέκνα θεοῦ εἶναι, tékna theoũ eĩnai, «essere figli di Dio». L'equivalenza emerge
dal confronto tra 1Gv 2,29; 3,9 «essere generati» e 3,1.2.10 «essere figli di Dio». Per Giovanni la generazione
di Dio è una realtà che tocca l'uomo nel profondo. Non si sta parlando solo di un nuovo rapporto giuridico
o morale, né di semplice adozione o amicizia. Il confronto con Gv 3,3.5 fa pensare a una trasformazione
dell'essere. La stessa osservazione vale per il termine usato da Paolo: υἱοθεσία, huiothesía (Rm 8,15).
- non ha conosciuto Dio (οὐκ ἔγνω τὸν θεόν). Ci sono pervenute testimonianze discordanti circa il tempo di
questo verbo: il codice Alessandrino (A), seguito da alcuni minuscoli, riporta il presente οὐ γινώσκει, «non
conosce»; la prima mano del codice della Laura del monte Athos e la seconda mano del Sinaitico attestano il
perfetto οὐκ ἔγνωκεν, «non ha conosciuto». La versione accolta, οὐκ ἔγνω, ind. aoristo di γινώσκω, è
sostenuta da tutti gli altri testimoni. Il passaggio dal presente all'aoristo del verbo γινώσκω (4,7.8) può essere
spiegato come variazione stilistica, già usata dall'autore in 3,1.
4,9-10: In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo
Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. 10In questo sta l’amore: non
siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come
vittima di espiazione per i nostri peccati (ἐν τούτῳ ἐφανερώθη ἡ ἀγάπη τοῦ θεοῦ ἐν ἡμῖν, ὅτι τὸν
υἱὸν αὐτοῦ τὸν μονογενῆ ἀπέσταλκεν ὁ θεὸς εἰς τὸν κόσμον ἵνα ζήσωμεν δι' αὐτοῦ 10 ἐν τούτῳ ἐστὶν ἡ
ἀγάπη, οὐχ ὅτι ἡμεῖς ἠγαπήκαμεν τὸν θεόν ἀλλ' ὅτι αὐτὸς ἠγάπησεν ἡμᾶς καὶ ἀπέστειλεν τὸν υἱὸν
αὐτοῦ ἱλασμὸν περὶ τῶν ἁμαρτιῶν ἡμῶν).
- In questo … Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito (ἐν τούτῳ … τὸν υἱὸν αὐτοῦ τὸν μονογενῆ
ἀπέσταλκεν ὁ θεὸς εἰς τὸν κόσμον, lett. «in questo … il Figlio di lui l'unigenito ha mandato Dio nel mondo»).
Entrambi questi versetti sono introdotti dalla locuzione dimostrativa ἐν τούτῳ, en toútō, «in questo». Se nel
brano precedente l'autore, partendo da un'analisi dell'agire umano, era giunto ad affermare la connaturalità
tra chi ama e Dio, qui egli vuole specificare in che cosa consista quell'amore che ha proclamato come
essenza stessa di Dio. Ebbene, l'amore di Dio trova la sua più alta dimostrazione nella missione del Figlio
unigenito nel mondo, missione intesa come incarnazione ἵνα ζήσωμεν «perché noi avessimo la vita» (v. 9) e
ἱλασμὸν περὶ τῶν ἁμαρτιῶν ἡμῶν «come vittima di espiazione per i nostri peccati» (lett. «sacrificio
propiziatorio per i peccati di noi» v. 10). Il primo periodo (v. 9) afferma che l'amore di Dio si è reso manifesto nella
storia degli uomini grazie all'invio di Gesù - chiamato enfaticamente «suo Figlio, l'unigenito» - allo scopo di
donare al mondo la vita. Il nesso tra Gesù e la vita dell'umanità è un tema chiave della letteratura giovannea
(cf Gv 5,21.40; 6,33.51-58; 10,10; 11,17- 27; 1Gv 1,2; 5,12). Esso è posto in evidenza nel prologo del quarto
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vangelo: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (1,4); nella sua prima finale: «Questi [segni] sono stati
scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (20,31) e nel
prologo della nostra lettera: «la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi
annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi» (1,2). Ci troviamo quindi in un luogo
privilegiato dell'opera giovannea, nel quale l'autore ci offre il suo messaggio: l'incarnazione del Figlio
unigenito manifesta al mondo l'essenza stessa di Dio, ossia il suo amore, e comunica a tutti gli uomini la
vera vita.
- unigenito (τὸν μονογενῆ). L'aggettivo μονογενής, «unico nato, unigenito», nel NT viene riferito a Gesù
solo nella letteratura giovannea. Questo aggettivo nella Bibbia comunica anche l'idea dell'essere prediletto;
il termine ebraico soggiacente, yachid, viene infatti reso in greco talora con μονογενής, «unico», talaltra con
ἀγαπητός, «amato». Così avviene per Isacco, chiamato ἀγαπητός (Gen 22,2.12.16) e μονογενής (Eb 11,17), e
per Gesù, definito ἀγαπητός (Mc 1,11; 9,7) e μονογενής (Gv 1,14.18; 3,16.18; 4,9). È possibile che le opere
giovannee abbiano optato per il secondo aggettivo in relazione a Gesù in quanto attribuiscono il primo a
tutti i cristiani, chiamati spesso ἀγαπητοί, «amati» (1Gv 2,7; 3,2.21; 4,1.7.11).
- 10non siamo stati noi ad amare Dio (οὐχ ὅτι ἡμεῖς ἠγαπήκαμεν τὸν θεόν). Il codice Sinaitico, l'Alessandrino
(A), l'onciale 048 e il testo bizantino riportano il verbo all'aoristo: ἠγαπήσαμεν, «amammo». La versione con
il verbo al perfetto ἠγαπήκαμεν «non siamo stati noi ad amare» è sostenuta solo dal codice Vaticano (B), da
quello della Laura del monte Athos e da alcuni minuscoli greci, ma viene accolta in quanto lectio difficilior.
L'aoristo indica un'azione puntuale, quella di Dio che dimostra all'uomo il suo amore inviando nel mondo
suo Figlio; il perfetto invece può essere letto con un senso durativo, indicante più uno stato che un'azione
singola.
- 10In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio (ἐν
τούτῳ ἐστὶν ἡ ἀγάπη, οὐχ ὅτι ἡμεῖς ἠγαπήκαμεν τὸν θεόν ἀλλ' ὅτι αὐτὸς ἠγάπησεν ἡμᾶς καὶ
ἀπέστειλεν τὸν υἱὸν αὐτοῦ). Il secondo periodo riprende il tema dell'invio del Figlio come dimostrazione
dell'amore del Padre. Quasi a dire che non esiste amore lontano da Dio e che chiunque pretende di amare
rinnegando Dio è un bugiardo. Anche qui si può leggere in filigrana una sottile polemica contro i cristiani
apostati.
- Espiazione (ἱλασμός). Troviamo qui un raro riferimento al valore espiatorio dell'opera di Gesù, che
cancella i nostri peccati (cf 1Gv 2,2 legato al «sangue» di Cristo cf 1Gv 1,7). In tutto il NT il termine è usato
solo qui e in 4,10. Nella grecità ἱλασμός indica l'atto rituale (danza, preghiera, sacrificio) con cui si intende
placare la divinità e ottenere la rimozione di una colpa. Ha quindi un significato ambivalente, testimoniato
nella Settanta anche dal verbo corrispondente ἱλάσκομαι, usato per indicare sia l'azione del «rendere
benevolo» Dio sia quella del «purificare» l'uomo. La 1Gv, riferendo il termine alla persona di Gesù Cristo,
non sottolinea la dimensione del propiziarsi la divinità, bensì quella del togliere «i nostri peccati».
4,11: Carissimi, se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri
(ἀγαπητοί, εἰ οὕτως ὁ θεὸς ἠγάπησεν ἡμᾶς, καὶ ἡμεῖς ὀφείλομεν ἀλλήλους ἀγαπᾶν).
- Carissimi (ἀγαπητοί). Per la terza volta in questa pericope (4,1.7.11) l'autore si rivolge direttamente ai
propri destinatari chiamandoli «carissimi, amati». Siamo quindi di fronte alla terza esortazione della sezione,
la cui costruzione si regge sul verbo ὀφείλομεν «dobbiamo», ind. pres. di ὀφείλω «devo, sono tenuto,
bisogna». L'esortazione risulta perfettamente inserita nel discorso. Anche qui ritroviamo la figura retorica
della paronomasia, consistente nella triplice ripetizione di termini che appartengono all'area semantica
dell'amore: l'aggettivo ἀγαπητός «amato» e le due occorrenze del verbo ἀγαπάω «amo». Dopo aver
presentato Dio nella sua essenza che è l'amore, qui l'autore passa a richiamare l'amore vicendevole dei
cristiani.
4,12-13: Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e
l’amore di lui è perfetto in noi. 13In questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in
noi: egli ci ha donato il suo Spirito (θεὸν οὐδεὶς πώποτε τεθέαται. ἐὰν ἀγαπῶμεν ἀλλήλους ὁ
θεὸς ἐν ἡμῖν μένει καὶ ἡ ἀγάπη αὐτοῦ ἐν ἡμῖν τετελειωμένη ἐστιν. ἐν τούτῳ γινώσκομεν ὅτι ἐν αὐτῷ
μένομεν καὶ αὐτὸς ἐν ἡμῖν, ὅτι ἐκ τοῦ πνεύματος αὐτοῦ δέδωκεν ἡμῖν.).
- Nessuno mai ha visto Dio (θεὸν οὐδεὶς πώποτε τεθέαται). I vv. 12-13 si aprono con un'affermazione sulla
invisibilità di Dio, che sarà ripresa come inclusione nel v. 20: «non vede [Dio]». Segue un periodo
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condizionale che lega la presenza di Dio nei fedeli al loro amarsi vicendevole. Il filo del ragionamento è
chiaro: anche se nessuno mai ha visto Dio, ciò non significa che sia inconoscibile. Essendo amore (4,8), Egli
si rende presente nell'uomo ogniqualvolta questi vive amando.
- l’amore di lui è perfetto in noi (ἡ ἀγάπη αὐτοῦ ἐν ἡμῖν τετελειωμένη ἐστιν). L'amore vicendevole dei
cristiani non solo permette a Dio di diventare in qualche modo visibile, ma rende anche perfetto, completo il
suo amore, quando spinge l'uomo a viverlo a sua volta. Il verbo τετελειωμένη è part. perf. di τελειόω,
«conduco a termine, finisco, compio, conduco a maturità, a completezza, a perfezione». Il tema della
perfezione dell'amore, caratteristico dell'opera giovannea, era già stato affrontato in 1Gv 2,5, dove si legge
che l'amore di Dio è perfetto in quanti osservano la sua Parola.
- egli ci ha donato il suo Spirito (ἐκ τοῦ πνεύματος αὐτοῦ δέδωκεν ἡμῖν, lett. «dallo Spirito suo ha dato a noi»). Il
periodo con cui si chiude il brano riprende quanto espresso in 3,24: il dono dello Spirito concesso da Dio ai
credenti è il segno visibile della loro comunione con Lui, espressa mediante una formula di immanenza
reciproca: ἐν αὐτῷ μένομεν καὶ αὐτὸς ἐν ἡμῖν «noi rimaniamo in lui ed egli in noi» (cf 3,24; 4,15.16).
L'autore indica ai suoi destinatari due prove visibili della realtà invisibile della comunione dei fedeli con
Dio: queste sono il loro amore vicendevole e la partecipazione al dono dello Spirito.
4,14-15: E noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio
come salvatore del mondo.15Chiunque confessa che Gesù è il Figlio di Dio, Dio rimane in
lui ed egli in Dio (καὶ ἡμεῖς τεθεάμεθα καὶ μαρτυροῦμεν ὅτι ὁ πατὴρ ἀπέσταλκεν τὸν υἱὸν σωτῆρα
τοῦ κόσμου. 15ὃς ἐὰν ὁμολογήσῃ ὅτι Ἰησοῦς (Χριστὸς) ἐστιν ὁ υἱὸς τοῦ θεοῦ, ὁ θεὸς ἐν αὐτῷ μένει καὶ
αὐτὸς ἐν τῷ θεῷ).
- E noi stessi abbiamo veduto (καὶ ἡμεῖς τεθεάμεθα). Nel greco classico si hanno attestazioni molto antiche del
verbo θεάομαι, «guardare, contemplare, osservare, esaminare» usato per indicare il vedere meravigliato o
attento. Nella Settanta ricorre otto volte; nel NT ventidue, di cui sei in Gv (1,14.32.38; 4,35; 6,5; 11,45) e tre in
1Gv (1,1; 4,12.14). Il verbo suggerisce il concetto di contemplazione disinteressata, come assorbiti
dall'evento. Quindi, usando θεάομαι l'autore pone l'accento non tanto sull'operazione soggettiva del
vedere, bensì su quella oggettiva del manifestarsi della realtà contemplata. In questo caso l'uso del verbo è
significativo anche perché richiama il discorso sul fondamento della verità espresso nel prologo della lettera
(cf 1,1). L'autore prende in considerazione la funzione sorgiva degli apostoli, ossia quella di testimoni
oculari che contemplano in prima persona la missione del Figlio di Dio per poi trasmetterla ai credenti di
ogni epoca. Quest'affermazione richiama il prologo della nostra lettera, dove quanto udito, visto, contemplato e
toccato dagli apostoli (1Gv 1,1) diventa l'oggetto della loro predicazione, fissata poi nella scrittura: alla base
della fede della Chiesa sta l'evento storico della missione di Gesù, prima vissuto e poi testimoniato dai
discepoli. È proprio questa testimonianza a condurre i cristiani a credere in Lui, tema sviluppato nel v. 15. In
esso l'autore riprende l'idea che la confessione di fede nel Figlio di Dio è il segno esteriore della
comunione spirituale del credente con Dio. Affinché l'amore del Padre possa diventare il modello del
nostro agire (4,16) occorre prima credere che Gesù è il Figlio di Dio (4,14) e che nelle sue opere il Padre si è
voluto rivelare come amore (4,14.16).
- salvatore del mondo (σωτῆρα τοῦ κόσμου). Il termine σωτήρ, «salvatore», hapax nelle lettere giovannee, è in
realtà un titolo che i cristiani attribuirono a Gesù solo in epoca recente. Il quarto vangelo lo usa una sola
volta, nella professione di fede della Samaritana (Gv 4,42).
4,16: E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi
rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui (καὶ ἡμεῖς ἐγνώκαμεν καὶ πεπιστεύκαμεν
τὴν ἀγάπην ἣν ἔχει ὁ θεὸς ἐν ἡμῖν. ὁ θεὸς ἀγάπη ἐστίν, καὶ ὁ μένων ἐν τῇ ἀγάπῃ ἐν τῷ θεῷ μένει καὶ ὁ
θεὸς ἐν αὐτῷ μένει).
- E noi abbiamo conosciuto e creduto (καὶ ἡμεῖς ἐγνώκαμεν καὶ πεπιστεύκαμεν). Qui l'autore parte di nuovo
da un'affermazione sul valore della testimonianza apostolica; se in 4,14 concentrava la sua attenzione sul
momento sorgivo del vedere e raccontare quanto visto, qui i verbi usati: ἐγνώκαμεν (ind. perf. di γινώσκω) καὶ
πεπιστεύκαμεν (ind. perf. di πιστεύω) «abbiamo conosciuto e creduto» indicano uno stadio successivo
dell'esperienza degli apostoli, ossia quello della riflessione e della rielaborazione che conducono alla fede.
La scrittura giovannea rappresenta il vertice del pensiero neotestamentario riguardo al rapporto tra visione
e fede: la raffinata teologia della visione, soprattutto a partire da Gv 20, è presente anche nella 1Gv. Tutta la
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testimonianza del Discepolo amato ci mostra che «a un determinato momento della storia, Gesù si è offerto
allo sguardo degli uomini, e che questa percezione è stata il punto di partenza di un approfondimento
mediante il quale Gesù è stato colto nel mistero della sua persona» (C. Traete). Il risultato di questo processo
cognitivo è il riconoscere nell'esperienza terrena di Gesù la manifestazione dell'amore di Dio. La
contemplazione del Figlio (4,14) porta a professare la sua divinità (4,15), a credere che Dio è amore (4,16) e a
impegnare la propria vita in scelte d'amore: solo chi «dimora nell'amore», ossia fa dell'amore la propria
casa e la propria vita, «rimane in Dio e Dio rimane in lui» (v. 16).
Giovanni, nel vangelo, afferma che πνεῦμα ὁ θεός, pneũma ho theós «Dio è Spirito» (Gv
4,24). All'inizio di questa Lettera sostiene che ὁ θεὸς φῶς ἐστιν, ho theòs phỗs estin, «Dio è luce» (1Gv 1,5). In
1Gv 4,8.16 troviamo la terza e ultima definizione: ὁ θεὸς ἀγάπη ἐστίν, ho theòs agápē estín, «Dio è amore».
L'A. non afferma semplicemente che Dio ama; nel qual caso amare non sarebbe altro che un'azione di Dio,
fra le altre, come creare, governare, salvare. Indica invece un'identità tra l'essere di Dio e l'amore, per
mostrare che in Dio tutta la sua essenza, la sua vita, il suo modo proprio di esistere sono sostenuti e
strutturati dall'amore. L'amore raccoglie in sé tutta la realtà divina. In forza di questa identificazione,
l'amore acquista così un valore infinito ed eterno, un valore divino, così che esso può appartenere
soltanto a Dio, perché solo Dio lo possiede in maniera piena ed eterna. Dio è amore e l'amore è Dio.
Nell'ineffabile connubio tra Dio e l'amore, riconosciamo la pienezza della vita e della felicità. Lì c'è tutto e tutto
proviene da lì. Ogni attività di Dio è un'attività amorosa.
Al centro di tale amore vive il cristiano, figlio di Dio, «generato da Dio», colui che ama con lo
stesso amore di suo Padre e vive in un rapporto di conoscenza profonda con Dio. Se siamo diventati figli di
Dio, se ci amiamo reciprocamente, lo dobbiamo unicamente all'amore del Padre. Ogni forma di amore è
possibile, perché Dio è la fonte primordiale sia dell'amore che ci è stato donato da Cristo e sia dell'amore
fraterno. Dio Padre e Madre si è manifestato in pienezza nell'invio del Figlio. Il verbo «mandare»
(ἀποστέλλω, apostéllō) è ripetuto due volte (vv. 9-10). Grazie a questo invio del Figlio, noi siamo passati
dalla morte alla vita e siamo stati redenti dai peccati. L'Autore invita a guardare il Figlio, non solo nel
momento della sua venuta su questa terra, ma anche nel suo sacrificio finale, quando egli diventa ἱλασμὸν
περὶ τῶν ἁμαρτιῶν ἡμῶν «vittima di espiazione per i nostri peccati» (4,10). Il Figlio, per mezzo del quale
noi viviamo, è l'Unigenito (monoghenés, usato nella Lettera solo in 4,9), l'unico Figlio che il Padre possiede, che
ha generato e ricolmato del suo Spirito, espressione massima del suo amore. Senza Gesù, il Figlio fatto
carne, l'uomo non può capire l'amore di Dio nel suo senso più pieno e toccante; senza la rivelazione di
Gesù Cristo l'amore di Dio rimane lontano e inaccessibile.
Al v. 10, l'apostolo ribadisce che se si guarda in profondità il mistero dell'amore, bisogna riconoscere
che non siamo stati noi per primi ad amare Dio, ma Dio ha amato noi. Là dove si parla dell'origine, non
appare il nostro amore per lui, ma, al contrario, il suo per noi. Quindi, nel suo inizio, l'amore non può
essere dato, ma solo ricevuto dall'uomo. È questo un pensiero di fondamentale importanza, che dovrebbe
entrare nelle radici dell'animo umano e lì rimanervi come forza rigeneratrice. L'uomo, di per se stesso, è
incapace di amare, come è incapace di esistere, di vivere, di agire. L'amore è una realtà divina; se esso è
presente sulla terra, lo si deve solamente alla divina disponibilità che ha voluto rendere partecipi del suo
amore le creature umane. L'uomo possiede solo la capacità di accoglierlo, non di produrlo a suo
piacimento. Perciò all'inizio di tutto sta l'atteggiamento povero dell'accoglienza, dell'apertura del cuore,
in modo che l'amore scenda in lui, lo purifichi dai suoi peccati, lo guarisca dalle innumerevoli ferite
provocate dal non amore e lo ricolmi di libertà e di gioia.
Nel vangelo (Mt 11,25-30) Gesù, πραΰς καὶ ταπεινὸς τῇ καρδίᾳ «mite e umile di cuore», ci mostra
in che senso Dio è forte e ci aiuta a comprendere il vero significato dell’onnipotenza divina. La misericordia
ha spinto Dio ad abbassarsi per sollevare il suo popolo, per ristorare quanti si sentono oppressi. Nella
sezione dei capp. 11-13, dedicata in gran parte al rifiuto di Gesù e del suo messaggio, Matteo ricorda il
genere di persone che accolgono il Messia: i νήπιοι, népioi, «piccoli».
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Mt 11,25: In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra,
perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli (ἐν ἐκείνῳ
τῷ καιρῷ ἀποκριθεὶς ὁ Ἰησοῦς εἶπεν• ἐξομολογοῦμαί σοι, πάτερ, κύριε τοῦ οὐρανοῦ καὶ τῆς γῆς, ὅτι
ἔκρυψας ταῦτα ἀπὸ σοφῶν καὶ συνετῶν καὶ ἀπεκάλυψας αὐτὰ νηπίοις).
- In quel tempo (ἐν ἐκείνῳ τῷ καιρῷ). La frase introduttiva ἐν ἐκείνῳ τῷ καιρῷ «in quel tempo» collega
questo inno al dispiacere di Gesù per l'indifferenza di «questa generazione» (vv. 16-19) e alla sua
lamentazione per l'atteggiamento impenitente delle città della Galilea (vv. 20-24). Il riferimento alla
misteriosa sapienza di Dio, che nasconde queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le rivela ai piccoli,
spiega in un certo qual modo perché questa generazione non abbia dato segni di pentimento. L'espressione,
che ricorre anche in 12,1 e 14,1, può alludere a un «momento difficile» come quello di cui parla Paolo in Rm
13,11: questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno …, dove viene usato il
termine καιρός. Alcuni esegeti intendono così e parafrasano: «In quel momento, rispondendo a tale
incredulità...».
- Ti rendo lode (ἐξομολογοῦμαί σοι). In questo contesto di preghiera il verbo ἐξομολογέω, exomologéō può
essere tradotto con «rendere lode», «rendere grazie» e «confessare». L'equivalente ebraico halal al pièl
(intensivo attivo) «lodare» lo troviamo spesso nei Tehillim «Salmi» biblici ed è frequente anche negli Hodayot
«Salmi di Ringraziamento» di Qumran (cf 1QS 7,26-27; 10,14; 11,3-4; 11,15). In questo senso, la preghiera è
intesa come una lode e un ringraziamento per ciò che Dio ha fatto in nostro favore. Il motivo del rendimento
di grazie non sta, come potrebbe sembrare a prima vista, nel fatto che la rivelazione è stata nascosta ad
alcuni e concessa ad altri. Benché la costruzione della frase possa suggerire questa interpretazione, il
confronto con altri testi di spiccato stile semitico mostrano che la contrapposizione tra l'occultamento e la
rivelazione è destinata a far risaltare l'idea che si vuole esprimere positivamente: «perché hai rivelato».
- Padre, Signore del cielo e della terra (πάτερ, κύριε τοῦ οὐρανοῦ καὶ τῆς γῆς). L'espressione, rara nell'AT
(«Signore del cielo» Tb 7,17; cf Gdt 13,18), si trova altre due volte nel NT (Lc 10,21; At 17,24) ma è presente
negli scritti di Qumran, sulla bocca di Malkizédeq mentre benedice Abraam: «Benedetto sia Abraam per il
Dio Altissimo, Signore del cielo e della terra» (Apocrifo della Genesi [IQapGen] 22,16; cf Gen 14,18-19). La
formula è soprattutto liturgica e si trova in apertura alle «Diciotto Benedizioni» (Shemoneh ‘Esreh Berakhot o
Amidàh o Tefillà, pregata due volte al giorno in piedi).
- perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli (ὅτι ἔκρυψας ταῦτα ἀπὸ σοφῶν καὶ
συνετῶν καὶ ἀπεκάλυψας αὐτὰ νηπίοις). Il rendimento di grazie è animato dalla contemplazione della
bontà e del beneplacito del Padre, che fa sì che i più semplici e insignificanti siano i suoi preferiti. Il
fondamento di questa predilezione non è altro che l'amore libero e gratuito di Dio. Nessun merito umano lo
motiva o condiziona. L'espressione «sapienti e intelligenti» rimanda ai dottori della Legge, che occupano
la cattedra di Mosè (23,2) e attribuiscono l'opera di Gesù al potere di Beelzebul, il principe dei demoni
(12,24).
Il nome ebraico del dio di Ekron, Baº`al zübûb, «Baal di ciò che vola» è reso dalla LXX con Βααλ μυῖαν, Baal
muĩan, «Baal delle mosche» (cf 2Re 1,2); ma questa interpretazione non è sicura. È più probabile che il
nome originale faccia riferimento alla divinità fenicia Baʿal zĕbūl, «Baal il principe».
Essi ritengono di non avere nulla da imparare da un uomo così umile e semplice come Gesù. Questa idea
è presente negli scritti di Qumran (cf Regola della Comunità (1QS) 4,6). La frase potrebbe alludere implicitamente a Is 29,14, dove si legge che «perirà la sapienza dei suoi sapienti [di Israele] e si eclisserà l'intelligenza dei
suoi intelligenti», ma Dio continuerà «a operare meraviglie e prodigi con questo popolo». Il detto matteano si
riferisce chiaramente agli scribi e ai farisei che rifiutano Gesù, ma anche agli abitanti delle città
impenitenti: Corazìn «un forno di fumo», Betsàida, in greco Βηθσαΐδα, «casa della pesca», Cafàrnao, in ebr.
Kefar Nahum «villaggio di Nahum» (Mt 11,20-24). Ciò che Dio ha tenuto nascosto a questa gente è
l'importanza delle opere di Gesù e la presenza del regno di Dio nel suo ministero.
- queste cose (ταῦτα). Il pronome ταῦτα «queste cose» non è sufficientemente specificato. Quali sono le cose
occulte e rivelate? Dato che si parla di una rivelazione, si dovrebbe pensare ai misteri del regno di Dio, in
base a 13,11: «A voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato» (cf Mc 4,11).
- ai piccoli (νηπίοις). I νήπιοι, népioi «infanti, bambini che non sanno ancora parlare, neonati» sono i discepoli
di Gesù che lo ascoltano. Nonostante la loro mancanza di prestigio sociale e di competenza nel campo
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religioso, i «piccoli» sono in grado di percepire e di conoscere. Matteo 13 svilupperà ulteriormente questo
contrasto.
11,26: Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza (ναί ὁ πατήρ ὅτι οὕτως εὐδοκία
ἐγένετο ἔμπροσθέν σου, lett. «Sì, o Padre, perché così cosa gradita è stata davanti a te»).
- così hai deciso nella tua benevolenza (ὅτι οὕτως εὐδοκία ἐγένετο ἔμπροσθέν σου, lett. «così cosa gradita è stata
davanti a te»). Il lessema εὐδοκία alla lettera rimanda al «beneplacito» divino (cf Vulgata: placitum; versione
CEI: «benevolenza»). La parola greca ricalca il concetto giudaico di ratzón, col quale si intendeva la «volontà
di Dio» che vuole salvare tutti gli uomini (cf il parallelo di Lc 2,14; 10,21). Questo concetto, che ricorre solo
qui in Matteo, si distingue da quello che deriva dal più comune θέλημα, «volontà» (cf 6,10; 7,21; 12,50;
18,14; 21,31; 26,42; termine reso nella Vulgata con volúntas). In Matteo tuttavia anche θέλημα è sempre
attribuito a Dio: γενηθήτω τὸ θέλημά σου, «sia fatta la tua volontà» (6,10) e ha un significato simile a quello
di εὐδοκία. Il Vangelo ebraico di Matteo del medico giudeo-spagnolo Shem Tov ben Isaac del XIV sec. sceglie
ratzón, per dire quello che nel greco è θέλημα, «volontà» in due luoghi importanti: il «Padre nostro» (6,10), e
nel Getsemani (26,39.42). Questa «volontà di bene» è ἔμπροσθέν σου «davanti a te» (cf Mt 18,14).
L'espressione è documentata nei Targumim (cf Targum Neofiti a Gdc 13,32: «Se fosse stata la volontà davanti
a Dio») e nel lessico rabbinico come una forma di rispetto. Nella letteratura giudaica l'espressione andrà a
rappresentare la gloria del trono divino.
11,27: Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e
nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo (πάντα μοι
παρεδόθη ὑπὸ τοῦ πατρός μου, καὶ οὐδεὶς ἐπιγινώσκει τὸν υἱὸν εἰ μὴ ὁ πατήρ, οὐδὲ τὸν πατέρα τις
ἐπιγινώσκει εἰ μὴ ὁ υἱὸς καὶ ᾧ ἐὰν βούληται ὁ υἱὸς ἀποκαλύψαι)
- nessuno conosce il Figlio (οὐδεὶς ἐπιγινώσκει τὸν υἱὸν). Il verbo ἐπιγινώσκω «conosco completamente,
riconosco, comprendo, capisco» ha qui un valore teologico e significa non un fatto intellettuale, ma
l'accoglienza reciproca che lega il Padre al Figlio. Dopo aver pronunciato questo rendimento di grazie, Gesù
rivela la propria identità. Questo «inno di giubilo» manifesta la consapevolezza che Gesù ebbe della propria figliolanza divina durante la sua vita terrena. Perciò dichiara anzitutto che nessuno conosce il Figlio se
non il Padre, facendo vedere in tal modo che il riconoscimento del Figlio è sempre un dono che proviene
dal Padre. Poi afferma che nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e a motivo di questa reciproca conoscenza soltanto il Figlio può dare la vera conoscenza del Padre. Ovviamente i discepoli non potevano
comprendere tutto il senso di questa rivelazione quando l'ascoltarono per la prima volta. I vangeli ci dicono
ripetutamente che Gesù costituiva un enigma per il popolo, e anche per i suoi discepoli.
- e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo (καὶ ᾧ ἐὰν βούληται ὁ υἱὸς ἀποκαλύψαι, lett. «e al quale voglia il Figlio
rivelare»). La conoscenza reciproca tra il Padre e il Figlio è resa accessibile dal ruolo di Gesù nella veste di
rivelatore. Il verbo ἀποκαλύπτω, «rivelare» costituisce un legame con il detto di Mt 11,25.
11,28: Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro (δεῦτε πρός με
πάντες οἱ κοπιῶντες καὶ πεφορτισμένοι κἀγὼ, ἀναπαύσω ὑμᾶς)
- voi tutti che siete stanchi e oppressi (πάντες οἱ κοπιῶντες καὶ πεφορτισμένοι). L'invito di Gesù è rivolto a
tutti quelli che sono ancora al di fuori della cerchia dei suoi discepoli. La descrizione degli scribi e dei farisei
in Mt 23,4: «Legano fardelli pesanti e difficili da portare e li impongono sulle spalle della gente» lascia intendere che
in 11,28 Gesù offra una scuola diversa, il cui «giogo è dolce e il peso leggero» (Mt 11,30).
- e io vi darò ristoro (κἀγὼ, ἀναπαύσω ὑμᾶς). Il verbo al futuro di ἀναπαύω «do ristoro, riposo, refrigerio»
non deve essere preso come un riferimento a dopo la morte. Il ristoro si trova addossandosi il giogo di Gesù.
11,29: Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore,
e troverete ristoro per la vostra vita (ἄρατε τὸν ζυγόν μου ἐφ' ὑμᾶς καὶ μάθετε ἀπ' ἐμοῦ, ὅτι πραΰς
εἰμι καὶ ταπεινὸς τῇ καρδίᾳ καὶ εὑρήσετε ἀνάπαυσιν ταῖς ψυχαῖς ὑμῶν).
- Prendete il mio giogo (ἄρατε τὸν ζυγόν μου). L'immagine del ζυγός, zygós, lat. jugum, «giogo, asta della
stadera, bilancia» evoca la scena di un bue bardato per lavorare; il giogo garantisce disciplina e direttiva.
L'immagine del giogo, già conosciuta nell'AT (Ger 2,20; 5,5; Os 10,11), nel giudaismo solitamente designa
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la legge di Dio scritta e orale (cf 15,2). Questo giogo non costituisce per i giudei un carico insopportabile,
giacché la Torà era dolce come il miele del favo, motivo di compiacenza e lampada per i passi di quanti la
meditano giorno e notte (cf Sal 1; 19,8-15; 119). Anche prendere su di sé il giogo è un'espressione metaforica
del linguaggio rabbinico, che designa l'accettazione e il riconoscimento della dottrina di un maestro. In Sir
51,26 la Sapienza personificata invita gli aspiranti studenti dicendo: «Sottoponete il collo al suo [della sapienza]
giogo e la vostra anima accolga l'istruzione» per trovare «una grande pace». Nel nostro passo, dallo spiccato tono
sapienziale, Gesù utilizza questa stessa immagine per rivolgersi a quelli che sono «affaticati e oppressi». Ma
parlando del «mio giogo» non si riferisce alla sapienza o alla Legge antica, ma a se stesso e alla gioia che
deriva nel seguire i suoi passi.
- imparate da me (μάθετε ἀπ' ἐμοῦ). Il verbo μάθετε, «imparate» è impt. aor. di μανθάνω, manthánō,
«imparo, apprendo», da cui deriva il sostantivo deverbativo μαθητής, mathētés «discepolo». Dunque, Gesù
chiede ai suoi seguaci che si lascino istruire da lui e si facciano suoi discepoli, associandosi alla sua scuola.
Al tempo stesso, presenta se stesso come modello, cosicché la sequela implica l'imitazione. Quest'ultima
idea si trova espressa nel modo più pieno in 1Pt 2,21: «Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne
seguiate le orme». La scuola dell'amore offerta gratuitamente da Gesù rimane per sempre una scuola di
umiltà. Di tutte le sue virtù, Gesù ci ha chiesto di apprendere da lui solo l’umiltà. San Bernardo (1091-1153),
colui che conobbe forse il più grande successo possibile per un monaco nella storia, sperimentò pure un’ora
di umiliazione, di fragilità e di miseria anche esistenziale. Solo così comprese che nella debolezza si impara
meglio la relazione con gli altri e con Dio e conobbe veramente cos’è la grazia, la misericordia di Dio.
Perciò esclamò: «Optanda infirmitas!», «O desiderabile debolezza!» (Discorsi sul Cantico dei cantici 25,7).
- mite e umile di cuore (πραΰς εἰμι καὶ ταπεινὸς τῇ καρδίᾳ). I due aggettivi πραΰς, praũs, «mite» e ταπεινός
tapeinós «umile» hanno praticamente lo stesso significato. L'aggettivo «mite» viene usato in tutto il Nuovo
Testamento (eccetto 1Pt 3,4) solo da Matteo, che presenta la mitezza come una beatitudine (cf 5,5), ma
soprattutto come una qualità di Gesù (cf 11,29; 21,5). Gesù, così, viene dipinto come il Messia-servo
obbediente a Dio, mite e misericordioso verso i piccoli. Ciò si coglie nell'episodio dell'ingresso messianico
a Gerusalemme, avvenimento letto attraverso la citazione del profeta Zaccaria sul «re mite» (Mt 21,5). La
mitezza e l'umiltà sono caratteri radicati nella tradizione ebraica; così infatti sono raffigurati Mosè, David,
Isaia, Zaccaria. Probabilmente, Matteo sottolinea queste prerogative del Messia anche in dialettica con altri
messianismi che si affermavano al suo tempo: Gesù, pur essendo della linea davidica, non sarà un politico o
un guerriero vittorioso, e nemmeno un potente sacerdote o un profeta che arringa la folla. La sua personalità
è quella del servo obbediente: è veramente il Messia di Giuseppe.
- troverete ristoro per la vostra vita (εὑρήσετε ἀνάπαυσιν ταῖς ψυχαῖς ὑμῶν). Testo parallelo: troverete pace per
la vostra vita (Ger 6,16).
11,30: Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (ὁ γὰρ ζυγός μου χρηστὸς καὶ τὸ φορτίον
μου ἐλαφρόν ἐστιν).
- Il mio giogo è dolce e … leggero (ὁ γὰρ ζυγός μου χρηστὸς καὶ … ἐλαφρόν ἐστιν). La dolcezza (χρηστότης)
del giogo e la leggerezza (ἐλαφρία) del peso derivano dal rapporto con Gesù πραΰς καὶ ταπεινὸς, «mite e
umile» che dà sollievo al presente. Anche se Gesù non può in alcun modo essere accusato di lassismo, il suo
insegnamento riguardo all'osservanza del sabato nelle pericopi che seguono (Mt 12,1-8.9-14) lo distingue dai
farisei per la «leggerezza» del suo peso. Mosè trovò riposo: «Il mio volto camminerà con voi e ti darò riposo» (Es
33,14) contemplando la gloria di Dio (cf Es 33,18-23). Mosè è definito l'uomo più «mite» della terra (cf Nm
12,3) e la Torà di Mosè è definita il «giogo» che l'ebreo accetta di portare per servire Dio. Nei Pirqè Avot 3,6
si afferma: «Se qualcuno prende su di sé il giogo della Torà, allora quello del governo e delle responsabilità del
mondo gli vengono tolte», a significare che coloro che si dedicano alla fatica di studiare e vivere la Torà
sono sollevati dalle preoccupazioni mondane.
Il «vangelo dei poveri», il «detto giovanneo» dei Sinottici, la più «felice sintesi
messianica», la «grande rivelazione del mistero di Dio», l’«inno di giubilo», la «grande confessione di lode»
di Gesù: queste e altre definizioni sono state attribuite a questo vangelo a motivo della sua ricchezza
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teologica. Nel contesto del rifiuto che Gesù subisce da parte dell’aristocrazia ebraica (Mt 11,20-24), gli
emarginati, i poveri, i semplici sono scelti come gli ideali compagni di viaggio e amici di Gesù ed è a loro che
egli rivela nell’intimità i segreti del suo cuore, il mistero della sua missione di salvezza.
Gesù, dopo aver rimproverato le città lacustri di Corazìn, Betsàida e Cafàrnao «perché non si erano
convertite» nonostante la realizzazione della «maggior parte dei suoi prodigi» (11,20), esultando «di gioia
nello Spirito Santo» (Lc 10,21) rivolge al Padre un inno di lode. Il testo è composto da tre strofe.
La prima strofa (vv. 25-26) consiste in un ringraziamento rivolto al Padre che rivela ai νήπιοι, népioi,
«infanti, piccoli» i misteri nascosti ai sapienti (σοφοί) e ai dotti (συνετοί). I piccoli sono coloro che credono in
Gesù.
La seconda strofa (v. 27) rappresenta un soliloquio di Gesù, Figlio che rivela il Padre a chi vuole.
La terza strofa (vv. 28-30) è un'esortazione di Gesù che invita οἱ κοπιῶντες καὶ πεφορτισμένοι, «gli
stanchi e gli oppressi» a porsi alla scuola del Regno. Gesù, di chi sta parlando? Di coloro che non hanno
ancora incontrato il Maestro che può dare senso a un’esistenza in avaria, perché priva di riposo, di
contemplazione.
Gesù, poi, sembra rispondere all’implicita domanda sul dove si trovi una tale scuola; essa non è un
edificio scolastico, ma la sua stessa persona e precisamente il suo cuore mite e umile, vero luogo di incontro
ove trovare riposo. Siamo così rimandati alla scuola delle relazioni personali, certo non di tipo superficiale
ed evasivo dove non si accettano responsabilità nei confronti degli altri, ma a relazioni fondate sull’intimità
condivisa, fonte di conoscenza tra il Maestro e il discepolo, come tra il Padre e il Figlio.
Anche Paolo ha avuto occasione di sperimentare la stessa incomprensione quando cita Is 29,14 per
parlare di quel Dio che distrugge la sapienza dei sapienti e annulla l'intelligenza degli intelligenti (1Cor
1,19). Ma chi sono i sapienti e gli intelligenti che non si aprono a Dio, e chi sono i piccoli? Una particolarità
grammaticale ci aiuta a caratterizzare la frase di Mt 11,25: i termini «sapienti e intelligenti» e «piccoli» sono
usati nel testo senza articolo. L'assenza dell'articolo sottolinea la qualità piuttosto che gli individui: tutti
possono rivestire questo ruolo. Nel primo vangelo infatti l'opposizione antitetica tra i sapienti e i piccoli
suscita l'attenzione del lettore: Erode e tutta Gerusalemme rispetto ai magi (2,1-12); i farisei e i sadducei
rispetto a Giovanni (3,7-12); i falsi profeti rispetto ai veri discepoli (7,15-27); i farisei rispetto agli esattori
delle tasse e ai peccatori (9,9-13). Insomma, nel contesto matteano, i piccoli possono essere considerati come
i destinatari del vangelo di salvezza, coloro che credono e accettano Gesù Messia e il regno di Dio
proclamato da lui. Gesù è il mite per eccellenza.
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