Giurisprudenza e prassi amministrativa

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Giurisprudenza
e prassi amministrativa
CASSAZIONE, sez. V, 27 novembre 2013 - 7 marzo 2014 n. 5349, Pres.
Cappabianca, Rel Crucitti (*)
Reddito di impresa - Principio di inerenza - Deducibilità dei compensi agli
amministratori - Posta relativa ai compensi di ammontare non previsto nello statuto - Necessità di specifica delibera assembleare ex art.
2389 c.c. - Assemblea totalitaria avente per oggetto espressamente la
discussione e approvazione della proposta di determinazione dei
compensi agli amministratori - Legittimità ai fini della deduzione sussiste.
Con riferimento alla determinazione della misura del compenso degli
amministratori di società di capitali, ai sensi dell’art. 2389, comma 1 c.c.,
(nel testo vigente prima delle modifiche, non decisive sul punto, di cui al
D.Lgs. n. 6/2003), qualora non sia stabilita nello statuto, è necessaria una
esplicita delibera assembleare, che non può considerarsi implicita in quella
di approvazione del bilancio, attesa: la natura imperativa e inderogabile
della previsione normativa, discendente dall’essere la disciplina del funzionamento delle società dettata, anche, nell’interesse pubblico al regolare
svolgimento dell’attività economica, Conseguentemente, l’approvazione del
bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori non è
idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall’art. 2389 cit., salvo
che un’assemblea convocata solo per l’approvazione del bilancio, essendo
totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di
determinazione dei compensi degli amministratori. (*)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. - L’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate di
Roma, con avviso di accertamento emesso nei confronti di C. s.p.a., riprendeva
a tassazione (ai fini Irpeg, Ilor e TSS per l’anno di imposta 1994) ritenendole
indebite: le deduzioni di perdita su credito, di compensi erogati ai consiglieri
di amministrazione, di canoni di leasing e di costi aziendali.
Il ricorso proposto dalla Società avverso l’atto impositivo veniva integralmente accolto dall’adita Commissione tributaria provinciale, ma, la decisione,
appellata dall’Agenzia delle Entrate, veniva parzialmente riformata, con la
(*)
Segue nota firmata.
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PARTE SECONDA
sentenza indicata in epigrafe dalla Commissione tributaria regionale del Lazio
la quale rideterminava l’imponibile in euro 614.567,22 (rispetto a quello
accertato di euro 774.443,13).
In particolare, i Giudici territoriali respingevano i motivi di appello
relativi alla deducibilità dei compensi degli amministratori (siccome, anche se
non deliberati dall’assemblea, inerenti alla gestione dell’impresa) e dei canoni
di locazione finanziaria (perché effettuata in conformità al piano finanziario
della locatrice) ed accoglievano i motivi relativi al passaggio a perdite del
credito (ritenuto ingiustificato sulla base della sola comunicazione, da parte
del professionista all’uopo incaricato, di inesperibilità della procedura esecutiva) ed alla deduzione di costi aziendali (non avendoli la Società documentati
nel corso del procedimento impositivo né in quello contenzioso).
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due
motivi, C. s.p.a.
Ha resistito con controricorso l’Agenzia delle Entrate la quale ha, altresì,
proposto ricorso incidentale, affidato ad unico motivo e resistito con controricorso dalla contribuente.
MOTIVI DELLA DECISIONE. - 1. Con il primo motivo - rubricato violazione o
falsa applicazione di norme di legge art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione all’art. 66
Tuir - la ricorrente, nel ribadire tutte le argomentazioni già svolte nel corso dei
precedenti gradi di giudizio in ordine alla documentata irrecuperabilità del
credito portato a perdita (impossibilità di notificare il precetto per irreperibilità della società debitrice e del suo amministratore), deduce che la perdita
era, quindi, caratterizzata dai requisiti (di certezza e precisione) richiesti
dall’art. 66 Tuir onde l’errore cui era incorsa Commissionela tributaria regionale nell’avere ritenuto che fosse necessario esperire, a tal fine, una procedura
concorsuale.
1.1. Il motivo va rigettato per inconducenza rispetto al decisum. Contrariamente all’assunto della ricorrente e per come evincibile dalla lettura della
sentenza impugnata, la Commissione tributaria di appello non ha subordinato
il riconoscimento della deduzione esclusivamente alla dichiarazione di fallimento ma ha affermato che, al fine di verificare la sussistenza dei requisiti di
cui all’art. 66 Tuir, non era sufficiente la produzione della missiva inviata
dall’avvocato incaricato del recupero del credito, sia perché comunicazione di
parte sia perché, tutt’al più, attestante la mancanza di convenienza economica
dell’azione esecutiva e, non anche, l’insolvenza del debitore.
In materia questa Corte ha più volte enunciato il principio per cui: “in
tema di imposte sui redditi, non è necessario, al fine di ritenere deducibili le
perdite sui crediti quali componenti negative del reddito d’impresa, che il
creditore fornisca la prova di essersi positivamente attivato per conseguire una
dichiarazione giudiziale dell’insolvenza del debitore e, quindi, l’assoggettamento di costui ad una procedura concorsuale, essendo sufficiente che tali
perdite risultino documentate in modo certo e preciso, atteso che secondo il
disposto dell’art. 66, comma 3, DPR 22 dicembre 1986, n. 917, le perdite sono
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deducibili, oltre che se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali,
quando, comunque, risultino da elementi certi e precisi; la sussistenza di tali
requisiti costituisce oggetto di accertamento in fatto riservato al Giudice di
merito, (cfr tra le altre Cass. n. 23863 del 19 novembre 2007). Nella specie,
l’accertamento in fatto compiuto al proposito dalla Commissione tributaria
regionale (in ordine alla mancata prova della sussistenza di tali requisiti) non
ha formato oggetto di idonea censura sotto il profilo di vizio motivazionale.
Ne consegue il rigetto del motivo.
2. Con il secondo motivo - rubricato violazione o falsa applicazione di
legge art. 360 n.3 c.p.c. in relazione all’art. 32 DPR n. 600/1973 ed all’art. 21
DPR n. 633/1972 - la ricorrente, premesso di non avere aderito alla richiesta
di cui al mod. 55 di documentazione di tutti i costi dell’impresa diversi dalle
merci perché ciò avrebbe comportato un ingiustificato e notevole onere
amministrativo, deduce che tutta la documentazione richiesta era già stata
esaminata in sede di verifica dagli agenti della Guardia di finanza, come
risultava pacificamente dal processo verbale di constatazione.
A conclusione dell’illustrazione del motivo sono articolati i seguenti
quesiti: “se sia corretta o falsa l’applicazione dell’art.32 DPR n. 600/1973
operata dalla Commissione tributaria regionale laddove fa discendere dalla
mancata esecuzione di un mod.55 l’azzeramento di tutti i costi aziendali diversi
dalle merci”; “se, per quanto stabilito dall’art.21 DPR n. 633/1972 la fattura è
documento di per sé idoneo a documentare un costo dell’impresa e, se in
ipotesi di contestazione, incomba all’amministrazione finanziaria l’onere di
contestare la veridicità dell’operazione”.
2.1. Il motivo non merita accoglimento. In materia di accertamento dei
redditi di impresa costituisce principio consolidato che l’onere di dimostrare
l’esistenza dei fatti che determinano la sussistenza di costi ed oneri deducibili
nonché la presenza dei requisiti previsti dall’art. 109 DPR n. 917/1986 spetta
al contribuente. Da ciò consegue che spettava al contribuente, il quale aveva
omesso di rispondere al questionario, comprovare l’effettività e l’inerenza dei
costi dedotti. Né tale omissione appare giustificabile alla luce della paventata
difficoltà materiale alla produzione documentale costituendo onere del contribuente, ai sensi dell’art. 22 DPR n. 600/1973, la conservazione delle scritture
contabili nonché dei documenti relativi ai singoli affari sino al momento della
definizione degli accertamenti.
3. Con unico articolato motivo di ricorso incidentale, afferente violazione
di legge ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., l’Agenzia dell’Entrate censura la
sentenza, in primo luogo, per avere ritenuto che la misura della deducibilità
dei canoni di leasing dipendesse dal piano di ammortamento finanziario e che
la determinazione dell’importo deducibile fosse “indipendente dal tempo
trascorso nell’anno di competenza” in quanto rilevava unicamente “l’entità
monetariamente corrisposta nell’anno di riferimento”.
Secondo la prospettazione difensiva, invece, tale decisione viola i principi
generali per la determinazione del reddito di impresa indicando l’art. 67 Tuir
delle regole specifiche per il regime fiscale dei canoni di locazione finanziaria
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PARTE SECONDA
che, comunque, andavano integrate con i principi generali ed, in particolare,
con il principio di competenza di cui all’art. 75 Tuir.
Da ciò conseguiva, sempre per la ricorrente, che, nella specie, la contribuente (la quale aveva stipulato un contratto di leasing della durata di 36 mesi
a partire dal 1994) non poteva, come fatto, dedurre l’intero importo versato
nell’anno ma avrebbe dovuto imputare all’anno 1994 esclusivamente l’importo
corrispondente ai canoni dovuti per l’utilizzo del bene nel periodo di riferimento, maggiorati della spesa sostenuta per il canone anticipato, nella misura
imputabile pro quota a ciascuno dei mesi di durata del contratto.
3.1. II motivo è infondato.
3.2. Secondo la giurisprudenza, ormai risalente, di questa Corte, ai fini
dell’Irpeg sui redditi d’impresa e con riguardo ai costi per beni conseguiti in
locazione finanziaria, nel vigore del DPR 29 settembre 1973, n. 597, art. 74
come pure della legge n. 549/1995, i canoni corrisposti anticipatamente non
erano interamente contabilizzabili nell’esercizio di competenza.
Infatti, pur in mancanza di una norma espressa, tale principio, successivamente esplicitato dal DPR n. 917 del 1986, art. 67 era ricavabile dalla stessa
interpretazione sistematica del medesimo DPR n. 597/1973, artt. 68, 71 e art.
74, comma 1 (v. pure Cass.,sentt. n. 8139/2002, n. 10147/2000). Inoltre si
riteneva al riguardo che non era consentito all’imprenditore computare tra i
costi dell’esercizio un canone iniziale, relativo al contratto di leasing, maggiorato rispetto ai successivi, atteso che - essendo quello di leasing un negozio in
cui la periodicità delle prestazioni si correla alla utilizzazione frazionata del
bene nei singoli esercizi - la maggiorazione del canone stesso anticipava nel
tempo le spese di competenza degli esercizi successivi, nei quali i correlativi
ricavi venivano prodotti (Cfr. anche Cass.,sentt. n. 7209/1997, n. 3023/1996).
3.3. Tutto ciò premesso, questa Corte con sent. n. 9559/2011 ha precisato,
tuttavia, che “dal 1995 in poi tale sistema di locazione finanziaria ha subito una
radicale trasformazione, a seguito dell’innovazione introdotta al riguardo dalla
legge n. 549/1995, cd. finanziaria del 1996, applicabile nella specie, secondo cui
ex art. 3, commi 103, lett. c) e 109 nel caso in esame deve applicarsi il cd.
metodo finanziario adottato dall’impresa secondo il piano di ammortamento
previsto nel conto economico, con la conseguente deducibilità del maxicanone
corrisposto col pagamento della prima rata da parte del detentore, e cioè
secondo il criterio di competenza, come nella specie. Infatti la normativa al
riguardo chiaramente sancisce che “... la disposizione della lett. c) del medesimo comma 103 si applica per i beni consegnati a decorrere dal periodo di
imposta per il quale il termine per la presentazione della dichiarazione dei
redditi scade successivamente alla data di entrata in vigore della presente
legge; per i periodi di imposta precedenti sono fatti salvi gli effetti derivanti
dall’applicazione del criterio previsto dalla predetta lett. c) e delle disposizioni
di cui alla lett. e) del medesimo comma 103. Per i contratti di locazione
finanziaria relativi a beni il cui ammortamento sia iniziato anteriormente al
predetto periodo di imposta, ai fini del computo del limite previsto dall’art. 71
del citato testo unico delle imposte sui redditi, approvato con DPR n. 917 del
1986, si considerano anche i crediti impliciti su tali contratti, se l’ammorta-
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mento di detti beni è computato con i criteri introdotti dalla lett. c) del comma
103. Per i periodi di imposta precedenti sono fatti salvi gli effetti derivanti
dall’applicazione dei criteri adottati anche se diversi da quello previsto da tale
disposizione”.
La Commissione tributaria regionale ha, pertanto, alla luce di detti
principi, cui si ritiene dare continuità, correttamente applicato la normativa di
riferimento, laddove il riferimento operato in ricorso all’art. 75 Tuir, oltre a
non essere stato compiutamente esplicitato, appare errato laddove la stessa
norma prevede l’applicabilità delle sue disposizioni “ai ricavi, le spese e gli
altri componenti per i quali le precedenti norme non dispongono diversamente”.
3.4. In secondo luogo, la sentenza viene censurata per avere ritenuto la
correttezza della deducibilità dei compensi degli amministratori.
In materia di determinazione del compenso all’amministrazione sono
intervenute le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 21933 del 29
agosto 2008, affermando il principio cui il Collegio ritiene di adeguarsi per cui
“con riferimento alla determinazione della misura del compenso degli amministratori di società di capitali, ai sensi dell’art. 2389, comma 1 c.c., (nel testo
vigente prima delle modifiche, non decisive sul punto, di cui al D.Lgs. n.
6/2003), qualora non sia stabilita nello statuto, è necessaria una esplicita
delibera assembleare, che non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio, attesa: la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa, discendente dall’essere la disciplina del funzionamento delle
società dettata, anche, nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica, oltre che dalla previsione come delitto della percezione di
compensi non previamente deliberati dall’assemblea (art. 2630, comma 2 c.c.,
abrogato dall’art. 1 D.Lgs. n. 61/2002); la distinta previsione delle delibera di
approvazione del bilancio e di quella di determinazione dei compensi (art.
2364 n. 1 e 3 c.c.); la mancata liberazione degli amministratori dalla responsabilità di gestione, nel caso di approvazione del bilancio (art. 2434 c.c.); il
diretto contrasto delle delibere tacite ed implicite con le regole di formazione
della volontà della società (art. 2393, comma 2c.c.). Conseguentemente, l’approvazione del bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori non è idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall’art.
2389 cit., salvo che un’assemblea convocata solo per l’approvazione del
bilancio, essendo totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la
proposta di determinazione dei compensi degli amministratori”.
La Commissione tributaria regionale dando per scontato l’effettivo svolgimento dell’attività gestoria e, conseguentemente, solo per questo la deducibilità dei relativi costi, a prescindere dalla sussistenza di tali necessari
presupposti (preventiva delibera assembleare per il compenso dell’amministratore) onde conferire certezza alla spesa dedotta si è discostata dai superiori principi.
Ne consegue, la cassazione su tale capo della sentenza impugnata ed il
rinvio al Giudice del merito perché proceda, alla luce dei superiori principi, ad
un nuovo esame sul punto con nuova determinazione del reddito imponibile.
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PARTE SECONDA
In conclusione, rigettato il ricorso principale ed in parziale accoglimento
del ricorso incidentale, la sentenza impugnata va cassata con rinvio a diversa
sezione della Commissione tributaria regionale del Lazio che provvederà
anche al regolamento delle spese processuali di questo grado di giudizio.
P.Q.M. riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso principale e, in parziale accoglimento del ricorso incidentale cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per
il regolamento delle spese processuali di questo grado, a diversa sezione della
Commissione tributaria regionale del Lazio.
Principio di inerenza e anti-economicità della remunerazione degli
organi societari tra determinazione e attribuzione del reddito.
Con la decisione in esame la Corte di cassazione stabilisce che per esser deducibili
le somme relative alla retribuzione degli amministratori devono essere oggetto di
specifica ed espressa approvazione ad opera di apposita delibera dell’assemblea dei
soci.
The Supreme Court’s decision is focused on the principle of the art. 109 Italian Tax
Code: to be deductible an expenditure must be incurred in carrying on a trade or business
but also qualified as ordinary and necessary. According to these requirements, tha tax law
should bar deduction of directors’ fees only if they are not discussed and approved by
sharehold
SOMMARIO: Premessa. 1. - Utilizzo strumentale dei compensi agli amministratori tra
presunzioni di deducibilità e reazione dell’Erario. 2. - Può l’Erario valutare in
modo “quantitativo” gli elementi negativi? Sussistenza del potere e “contaminazione” del profilo probatorio. 3. - Inerenza e onere probatorio: un “canone
inverso”? 4. - Conclusioni
Premessa. Il principio di inerenza desta da tempo l’interesse della
dottrina, così come l’attenzione della giurisprudenza.
Esso rappresenta la chiave di lettura degli elementi negativi nella
determinazione del reddito d’impresa e discende dalla considerazione
secondo la quale la misurazione del reddito d’impresa stesso muove dal
risultato economico-contabile del conto economico come ricorda l’art. 83
Tuir.
Solo tal connessione assicura all’imposta una base economica attendibile (1), in quanto formata in via analitica secondo i criteri propri delle
scienze aziendali (2).
(1) Senza certo ridimensionare l’importanza delle risultanze contabili, che consentono la determinazione analitica del reddito d’impresa, va ricordato che l’esistenza
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Muovendo da tale elemento, l’esistenza e puntuale applicazione del
principio di inerenza consente all’ordinamento tributario di meglio garantire - sempre nella complessa disciplina del reddito d’impresa - il rispetto
del principio costituzionale di capacità contributiva di cui all’art. 53,
comma 1, Cost.(3).
Si richiede quindi che tra i componenti negativi di reddito e l’attività
di impresa o di lavoro autonomo debba intercorrere quale condizione
essenziale per la deducibilità “un nesso di causalità o attinenza, escludendosi quindi la deducibilità di quei costi che appaiono estranei alle finalità
dell’attività del soggetto passivo” (4).
In buona sostanza è pertanto il principio della tassazione “al
netto” (5) che viene considerato dalla maggior parte della dottrina - anche
sulla scorta delle diverse pronunce della Corte Costituzionale - quale
diretta espressione del principio di capacità contributiva, al punto da
render dubbia la legittimità dei sistemi che non prevedono la depurazione
dell’imponibile dalle componenti passive (6).
di una pluralità di sistemi contabili consente e ammette una certa varietà di strumenti
atti a quantificare l’imponibile”; basti riferirsi alla sussistenza - e alle relazioni - dei
principi contabili nazionali e dei principi contabili internazionali, come sottolineano
MELIS - RUGGIERO, Pluralità di sistemi contabili, diritto commerciale e diritto tributario:
l’esperienza italiana, in Rass. trib., 2008, 1624 ss.
(2) L’analiticità della formazione dell’imponibile ha il fine di consentire sia una
corretta quantificazione del presupposto sia un’efficace ricostruzione del fenomeno
economico come predeterminato nella fase procedimentale dell’accertamento del
tributo. In tema NUZZO, Libri di commercio e scritture contabili delle imprese commerciali nel diritto tributario, in “Digesto” IV ed., sez. comm., IX, Torino, 1993, 37.
(3) Sul principio di cui nel testo, e pluribus leggasi GIARDINA, Le basi teoriche del
principio di capacità contributiva, Milano, 1961, che ne sottolinea il valore orientativo
per il legislatore, così come con dovizia di argomenti scrive MANZONI, Il principio della
capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965; si leggano
anche MICHELI, Capacità contributiva reale e presunta, in Giur. Cost.,1967, I, 1525;
GAFFURI, L’attitudine alla contribuzione, Milano, 1969,63 ss.; MAFFEZZONI, Il principio di
capacità contributiva nel diritto italiano, Torino, 1970; MOSCHETTI, Il principio della
capacità contributiva, Padova, 1973; e dello stesso Autore anche,Capacità contributiva,
in Enc. Giur. Treccani, V, Roma, 1988, 180; DE MITA, Capacità contributiva, in Dig.,
Disc. Priv., sez. comm., Torino, 1995, 454; MARONGIU, I fondamenti costituzionali
dell’imposizione tributaria, Padova, 1995, 108 ss.; ANTONINI, Dovere tributario, interesse
fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996.
(4) Letteralmente, PROCOPIO, L’inerenza nel sistema delle imposte sui redditi,
Milano, 2009, 4.
(5) Utilizza il concetto per sottolineare la contrapposizione tra costi e ricavi
FANTOZZI, Imprenditore e impresa, Milano, 1982, 500.
(6) GAFFURI, L’attitudine alla contribuzione, cit., 180; MOSCHETTI, Il principio
della capacità contributiva; cit., 373; DE MITA, L’influsso della giurisprudenza della Corte
Costituzionale nel diritto tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1981, I, 594; INGROSSO, Diritto,
sistema e giustizia tributari, in Rass. trib., 1990, I, 173 ss. Vanno registrate anche le
posizioni critiche rispetto a tale impostazione, tra le quali ANTONINI, Discrezionalità del
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PARTE SECONDA
La più chiara affermazione sul punto si ritrova in quella dottrina
secondo la quale è “fuori discussione che l’effettiva capacità contributiva
può aversi solo al netto dei relativi costi effettivamente sostenuti nell’esercizio” (7)
Gli studiosi ne hanno esaminato a fondo il concetto (8), giungendo a
descriverne in modo ormai consolidato il contenuto.
Tale elaborazione ha avuto luogo in completa assenza di un appiglio
normativo espresso, tanto che la dottrina ritiene che il principio in esame
sia una “regola priva di disposizione, trovando nel nesso di dipendenza del
reddito d’impresa dal risultato del conto economico, con il rinvio alla
disciplina civilistico-contabile del bilancio che implica, il suo fondamento
positivo” (9).
In questo senso dobbiamo ritenere che la necessaria presenza del
concetto di inerenza nell’imposizione reddituale imponga l’enunciazione
di un contenuto primo del principio, come sopra esposto consistente nel
legame tra costi e oneri ed attività, di tal forza e centralità da renderlo
esistente nell’ordinamento iuris et de iure (10).
Le pronunce giurisprudenziali, specie di merito, hanno fatto applicazione di tali indicazioni non di rado elaborando soluzioni controverse: di
fronte al rischio di condotte abusive o ingannevoli si è ritenuto di reagire
delimitando in modo assai restrittivo il perimetro di applicazione del
legislatore e apriorismo della Corte in materia tributaria, in Giur. Cost., 1996, 1496;
MARONGIU, La crisi del principio di capacità contributiva nella giurisprudenza della
Corte Costituzionale dell’ultimo decennio, in Dir. e prat. trib., 1999, I, 1773. Tra gli
interventi della Corte Costituzionale che hanno messo in luce la necessità di un
collegamento tra il fenomeno economico oggetto dell’imposizione e le regole di
determinazione dell’ammontare, onde garantire la sussistenza delle condizioni di
certezza, attualità ed effettività della capacità contributiva, si rammentano le sentenze
del 16 giugno 1964, n. 45, del 31 marzo 1965, n. 16, del 10 luglio 1968, n. 97, del 10 luglio
1975, n. 201, del 15 luglio 1976, n. 179, del 28 luglio 1976, n. 200, n. 143 dell’8 luglio 1982.
Per i profili relativi alle relazioni cross-border, sia consentito il rimando al mio Sui limiti
alla deduzione di costi per non residenti nel diritto tributario comunitario, in questa
Rivista, 2008 I, 276-295.
(7) MOSCHETTI, voce Capacità contributiva, in Enc. Giur. Treccani, 1988, 14.
(8) Quanto all’evoluzione del concetto nella dottrina, si vedano GRAZIANI, L’evoluzione del concetto di inerenza e il trattamento fiscale dei finanziamenti ad enti esterni
di ricerca, in Falsitta e Moschetti (a cura di), I costi di ricerca scientifica, Milano, 1988,
51ss. Per note sistematiche leggasi TINELLI, Norme generali sui componenti del reddito
d’impresa (commento all’art. 109 Tuir), Commentario al Testo unico delle imposte sui
redditi (a cura di TINELLI), 2009, 980 ss.
(9) Così ZIZZO, in FALSITTA, Manuale di diritto tributario, parte speciale, Padova,
2007, 441.
(10) In tal senso si esprime TABELLINI, L’imposta sul reddito delle persone
giuridiche, Milano, 1977, 360.
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principio, al punto di correre il rischio di giungere alla sua ingiustificata
disapplicazione (11).
D’altronde solo una disamina caso per caso (12) permette la ricerca di
una soluzione corretta al problema, dovendosi ogni volta verificare la
finalità alla quale è diretto il costo perché solo la finalità d’impresa o di
lavoro autonomo fissa l’elemento negativo in quel nesso di correlazione
che lo fa ritenere dall’imprenditore o dal lavoratore autonomo utile per il
conseguimento di benefici e come tale deducibile in applicazione del
principio in parola.
Per vero infatti, lo stesso principio di capacità contributiva sopra
riportato trova equilibrato contrappeso costituzionale nella tutela dell’interesse erariale che tende a impedire quella forme non consentite di
riduzione dell’imposta che sono rappresentate dai fenomeni di evasione ed
(11) In tema di antieconomicità si vedano le acute considerazioni di nei vari
seguenti scritti: BEGHIN, Atti di gestione “anomali” o “antieconomici” e prova dell’afferenza del costo all’impresa, in questa Rivista, 1996, I, 413 ss.; È “comportamento
antieconomico” l’attività di amministratore svolta senza percepire compensi?, in Corr.
trib., 2008, 955 ss.; Perdite su crediti, antieconomicità dell’operazione e giudizio d’inerenza, in Corr. trib., 2008, 377 ss.; Spese di pubblicità e requisito dell’inerenza: una
lampante svista giurisprudenziale, in questa Rivista, 2008, II, 378 ss. Sul medesimo tema,
si veda altresì FANTOZZI, Sindacabilità delle scelte imprenditoriali e funzione nomofilattica della Cassazione, in questa Rivista, 2003, II, 553 ss.; LUPI, A proposito di inerenza
... Il fisco può entrare nel merito delle scelte imprenditoriali?, in questa Rivista,, 1992, I,
940 ss.; osservazioni critiche ulteriori espone lo stesso autore in, Equivoci in tema di
sindacato del fisco sull’economicità della gestione aziendale, in Rass. trib., 2001, 211 ss.;
e ulteriori puntualizzazioni in, L’inerenza e il sindacato delle scelte imprenditoriali sul
versante dei costi, in Crovato-Lupi, Il reddito d’impresa, Milano, 2002, 85 ss.;ID., Crediti
verso clienti, interessi attivi ed economicità della gestione aziendale, in Corr. trib., 2008,
465 ss.; SCHIAVOLIN, Comportamento “antieconomico” dell’imprenditore e potere di
accertamento dell’amministrazione finanziaria, in Giur.imp., 2004, 245 ss.; STEVANATO,
L’indeducibilità dei compensi “abnormi” agli amministratori-soci, in Corr. trib., 2002,
597 ss; ID., Il “dover essere” fiscale e la tassazione dei redditi figurativi, in Dialoghi trib.,
n. 2/2008, 34 ss.; GULINO - LUPI - STEVANATO, Il sindacato del fisco sui compensi degli
associati in partecipazione, in Dialoghi dir. trib., 2007, 659 ss.; VIGNOLI - STEVANATO,
Comportamenti antieconomici e rettifiche fiscali, in Dialoghi dir. trib., n. 3/2003, 359 ss.;
INGRAO, Il regime fiscale delle perdite su crediti da rinunce e il sindacato dell’Amministrazione sull’economicità delle operazioni aziendali, in GT-Riv. giur. trib., 2008, 209 ss.;
ZOPPINI, Sul difetto di inerenza per “antieconomicità manifesta”, in questa Rivista, 1992,
II, 937 ss.; VOGLINO, Ancora sulla insindacabilità, da parte della amministrazione
finanziaria, della convenienza economica delle operazioni poste in essere dai contribuenti, in Boll. trib., 1993, 1642 ss.; PANIZZOLO, Il principio di insindacabilità delle scelte
imprenditoriali in diritto tributario: conferme e limiti, in GT-Riv. giur. trib., 2001, 1033 ss.;
ROCCHETTI, Spese di pubblicità e sindacato di inerenza, in Corr. trib., 2008, 1544 ss.;
SCANDIUZZI, Spese di pubblicità e giudizio di inerenza tra congruità, razionalità e
antieconomicità, in Boll. trib., 2008, 1197 ss.; ID., Atti antieconomici e qualificazione dei
crediti commerciali in crediti da finanziamento, in GT-Riv. giur. trib., 2008, 451 ss.
(12) Si esprimono in questo senso DE MITA, Principi di diritto tributario, Milano,
2004, 240 e LUPI, Diritto tributario, parte speciale, Giuffrè, 2005, 108.
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PARTE SECONDA
elusione (13). È quindi del tutto naturale che il principio di inerenza
influenzi in modo determinante l’analisi sulla categoria giuridica dei costi,
che contribuiscono grandemente alla quantificazione del reddito inteso
come “prodotto” (14).
(13) Come ricorda acutamente FALSITTA, L’imposizione delle imprese in Italia tra
corretti principi contabili ed “estrogeni tributari”, in Giustizia tributaria e tirannia fiscale,
Milano, 2008, 397, il diritto tributario è “un diritto fatto precipuamente di deroghe, ora
in bonam ora in malam partem”, così che “nel modellare le fattispecie imponibili il
legislatore può utilizzare vicende e istituti di diritto privato (quale ad esempio l’utile del
conto economico civilistico) discostandosene più o meno intensamente. Non esiste, in
altri termini, un dovere del legislatore fiscale di ricalcare fedelmente gli stampi civilistici
utilizzati. Tuttavia, occorre che ogni regola “derogatoria” formuli varianti giustificate
da “ragioni convincenti”. Se mancano i “validi motivi” di supporto la deroga è
irragionevole”. Si legga in argomento anche ZIZZO, Abuso di regole volte al “gonfiamento” della base imponibile ed effetto confiscatorio del prelievo, Rass. trib., 2010, 39 ss.
L’Autore ricorda anche l’ulteriore giustificazione, oltre alla ragion fiscale, che sorregge
le deroghe in parola, costituita dall’impedire “l’inquinamento dei bilanci di esercizio
con poste economicamente non giustificate, unicamente asservite al risparmio d’imposta, e quello di promuovere l’efficienza, il rafforzamento e la razionalizzazione degli
apparati produttivi”.
(14) Il concetto di “reddito prodotto” trova il primo sostenitore nell’autore
secondo il quale “il prodotto o reddito della società consiste nella massa dei beni di
primo grado annualmente prodotti o consumati”. Così DE VITI DE MARCO, Principi di
economia finanziaria, Torino, 1953, 218 ss.; pertanto “la traduzione al netto o l’epurazione dei redditi, è un procedimento tecnico-contabile, a mezzo del quale la massa dei
beni diretti annualmente prodotti in un Paese e il relativo totale onere tributario
vengono ripartiti tra gli agenti della contribuzione e tra i contribuenti. Nessuna parte
del così detto reddito lordo sfugge alle imposte sul reddito. La deduzione delle quote
di produzione, risultanti dal bilancio dell’azienda, impedisce che ogni parte di reddito
sia colpita più di una volta”. Detta definizione si contrappone a quella pure nota di
“reddito entrata”, secondo la quale il reddito è costituito dall’“entrata di ricchezza di un
determinato periodo economico, inclusi gli aumenti di valore, incluse le donazioni e le
successioni (tassate a parte per ragioni fiscali), comprese le attività provenienti da terze
persone”. Si leggano in tema SCHANZ, Der Einkommensbegriff und die Einkommensteuergesetze, Finanzarchiv, 12-13, 1896, e per la corrispondente dottrina italiana GRIZIOTTI, I concetti giuridici dogmatici di reddito di ricchezza mobile e di capacità
contributiva, Riv. dir. fin. sc. fin., 1940, I, 13 ss. e PUGLIESE, I concetti di reddito e di
entrata in economia e in finanza, in AA.VV., Studi in onore di C. Supino, Padova, 1936,
377 ss. In generale, per una ricostruzione distintiva delle nozioni di “reddito prodotto”,
“reddito entrata” e “reddito consumo”, sotto il profilo economico, cfr. STEVE, Lezioni
di scienza delle finanze, Padova, 1976, 304; BOSI, Corso di scienza delle finanze, Bologna,
2000, 453 ss. Sempre in tema di “reddito prodotto” si rimanda ai contributi di MICHELI,
Corso di diritto tributario, Torino, 1981, 375; FRANSONI, Il sistema dell’imposta sul
reddito, in Manuale di diritto tributario - Parte speciale a cura di Russo, Milano, 2009, 59
ss. L’evoluzione normativa successiva pare aver valorizzato la rilevanza di componenti
tipici di una nozione di “reddito entrata”, ad esempio considerando la rilevanza
reddituale delle plusvalenze patrimoniali ovvero l’imponibilità dell’avviamento realizzato in caso di cessione onerosa dell’azienda; sul punto, si legga FANTOZZI, Contributo
allo studio della realizzazione dell’avviamento quale presupposto dell’imposta di ricchezza mobile, in Riv. dir. fin sc. fin., 1964, I, 584 ss.; FALSITTA, Le plusvalenze nel sistema
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GIURISPRUDENZA E PRASSI AMMINISTRATIVA
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Lo stesso autore appena citato segnala immediatamente il connesso
profilo relativo alla deducibilità di componenti negativi in presenza di
ricavi o proventi non computabili nel reddito d’impresa: è chiaro quindi
che nel regolamentare le modalità di tal deduzione, l’art. 109 comma 5
Tuir implicitamente sottintende l’esistenza del principio di inerenza che la
stessa deduzione disciplina (15).
Sul tal substrato è intervenuta ultimamente - e con frequenza - la
Suprema Corte, che ha invero esercitato in modo ondivago il proprio
potere nomofilattico suscitando quindi continue occasioni di riflessione e
perenni tentativi di non semplice né definitiva sistematizzazione (16).
Punto di partenza di ogni decisione deve a mio modo di vedere restare
l’assunto, ormai incontestato, secondo il quale ogni onere sostenuto “in
dipendenza dell’attività d’impresa (17)” che possa fornirle una qualche
utilità anche in via non immediate né diretta, deve assumere la debita
rilevanza (18).
Si sono via via individuate - nell’ampia casistica dove il principio trova
applicazione - fattispecie di particolare complessità (19), in grado di
interrogare l’interprete e lo studioso.
dell’imposta mobiliare, Milano, 1966, 48; ID., Manuale di diritto tributario - Parte
speciale, Padova, 2005, 1 ss.; PUOTI, Riflessione sulla nozione giuridica di reddito, in Riv.
dir. fin. sc. fin., 1976, I, 276 ss.; CICOGNANI, L’imposizione del reddito d’impresa, Padova,
1980, 3 ss.; GALLO, Prime riflessioni sulla disciplina dei redditi di capitale nel nuovo T.U.,
in Rass. trib., 1988, I, 40; GLENDI, La nozione di reddito fiscale, in AA.VV., Il reddito
d’impresa nel nuovo testo unico, Padova, 1988, 125; TINELLI, Il reddito d’impresa nel
diritto tributario, Milano, 1991, 54.
(15) Si leggano in argomento BEGHIN, Disciplina fiscale degli interessi passivi,
inerenza del costo e onere della prova, nota a Comm. Trib. Prov. Venezia, sez. IV, 22
ottobre 1996, n. 1289, in GT-Riv. giur. trib., 1988, 376;
(16) Svolge un’analisi dettagliata della giurisprudenza della Corte Suprema
FANTOZZI, Sindacabilità delle scelte imprenditoriali e funzione nomofilattica della Cassazione, in questa Rivista, 2003, I, 552.
(17) ZIZZO, in FALSITTA, cit., 443.
(18) Si vedano Cass., sez. trib., 27 aprile 2012, n. 6548; Cass., sez. trib., 21 gennaio
2011, n. 1389; Cass., sez. trib., 21 gennaio 2009, n. 1465; Cass., sez. trib., 30 luglio 2007,
n. 16826, in Rass. trib., 2007, con nota di ZIZZO, inerenza ai ricavi o all’attività? Nuovi
spunti per una vecchia questione. Tutte le pronunce annotate dall’Autore ritengono
l’elemento negativo inerente ove connesso con attività potenzialmente idonea a produrre utili.
(19) Sul potere dell’amministrazione finanziaria di sindacare la congruità dei
compensi degli amministratori sono da ricordare, tra varie pronunce di legittimità:
Cass., sez. VI-T, ord. 11 febbraio 2013, n. 3243, in Banca Dati BIG Suite; Cass., sez. trib.,
27 settembre 2000, n. 12813, in GT-Riv. giur. trib., 2001, 399, con commento di RAVACCIA,
Brevi riflessioni sul sindacato di inerenza e sulla deducibilità dei compensi agli amministratori; Cass., 30 ottobre 2001, n. 13478, in Giurisprudenza Tributaria, n. 7/2002, 597,
con commento di STEVANATO e in Banca Dati BIG Suite; Cass., ord. 20 giugno 2002, n.
9026, in Giurisprudenza Tributaria, n. 39/2002, 3556, con commento di MARONGIU;
Cass., 25 settembre 2006, n. 20748. Contra, Cass., 9 maggio 2002, n. 6599; Cass., 31
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158
PARTE SECONDA
All’esito della disamina si potrà fors’anche prender atto di come il
principio in esame assuma l’ulteriore funzione di separare quelle spese che
immediatamente o in via mediata afferiscono alla produzione del reddito
(e quindi contribuiscono a determinarlo, dal momento che anteriormente
alla loro sopportazione e computazione esso non esiste) da quelle che a
ben vedere costituiscono atti di disposizione del reddito medesimo, che
viene a esistenza anteriormente al loro verificarsi e che con il compiersi di
tali spese viene all’occorrenza trasferito da un soggetto a un altro. È
questo secondo genere di operazioni che può far nascere un beneficio
illegittimo: ove provi e dimostri che ciò è avvenuto, il Fisco avrà titolo per
agire.
Questione particolarmente delicata, specie alla luce della sopra esposta precisazione, è quella relativa ai compensi deliberati a favore degli
amministratori di società, oggetto di approfondimento in questo breve
contributo.
Tali costi rientrano nello stesso contesto di acquisizione di servizi la
cui inerenza qualitativa appare indiscutibile, in linea di principio, in
quanto prevista espressamente dalla legge: l’art. 2389 c.c. per le società di
capitali - nel disciplinare la funzione dell’organo gestorio - è fondamento
civilistico della previsione tributaria di cui all’art. 95 Tuir.
Detti compensi sono soggetti solamente alla formalizzazione deliberativa da parte dell’assemblea o del consiglio di amministrazione, come
prevede il comma 3 dell’art. 2389 c.c.: la sentenza in esame precisa come
- sembrerebbe di comprendere anche ai fini della deducibilità fiscale - sia
ottobre 2005, n. 21155, in GT,-Riv. giur. trib., 2006, 325, con commento di PROCOPIO,
L’insindacabilità dei compensi erogati agli amministratori; più recentemente, Cass., 2
dicembre 2008, n. 28595 e Cass., 6 agosto 2009, n. 21169, che ha però affermato, al pari
dell’ordinanza della Suprema Corte n. 3243 del 2013 come la sindacabilità sia da
esaminare alla luce del diverso strumento interpretativo dell’abuso del diritto, mentre
Cass., 10 dicembre 2010, n. 24957, in questa Rivista, 2011, II, 400, con commento di
NUSSI, Il giudizio di inerenza dei compensi agli amministratori tra insindacabilità delle
scelte imprenditoriali e autonomia dai fenomeni simulatori o elusivi, in GT-Riv. giur. trib.
2011, 404, ha valorizzato l’argomento relativo alla mancata riproposizione nel Tuir del
rimando all’art. 59 del DPR n. 597/1973 quanto ai limiti delle misure dei compensi
correnti, e ulteriormente ritenuto che la deducibilità di tali compensi deriva dal mero
consenso che si forma tra le parti senza uno specifico potere di deduzione del Fisco. In
tal modo si propone una soluzione interpretativa intermedia, che peraltro non disconosce le indicazioni contenute nella Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 113/E del
31 dicembre 2012, con commento di FERRANTI, L’Agenzia delle entrate riconosce la
deducibilità dei compensi di amministratori e liquidatori, in Giurisprudenza Tributaria,
n. 9/2013, pag. 695, per la quale, fermo il principio della insindacabilità della misura dei
compensi, è tuttavia consentito all’Erario di negare la deduzione di quelli considerati
eccessivi, in quanto elusivi. Contesta questa prospettazione DAMIANI, Tassazione per
cassa dei redditi professionali e assimilazione dei professionisti alle imprese: inerenza
temporale, antieconomicità e abuso del diritto, in questa Rivista, 2013, II, 404.
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GIURISPRUDENZA E PRASSI AMMINISTRATIVA
159
necessaria non solo l’approvazione del bilancio, inclusiva delle remunerazioni in argomento, ma anche la esplicita approvazione della proposta di
determinazione dei medesimi.
La delibera societaria in tal senso ha natura di vero e proprio
regolamento contrattuale, quindi - ex art. 1372 c.c. - forza di legge tra le
parti.
Sotto questo profilo ritengo che la Corte dopo aver preso atto della
previsione civilistica, pretenda ingiustificatamente di trarre rilevanza tributaria dalla previsione codicistica, la cui finalità e funzione non è certo
quella di regolamentare la deducibilità di un costo, ma di garantire il
controllo dell’assemblea sull’organo amministrativo anche in punto remunerazione dei gestori.
È peraltro vero che a differenza di altri costi afferenti beni e servizi
che hanno, in misura maggiore o minore, riferimenti alle condizioni
praticate nel mercato di riferimento e per i quali possono perciò essere
utilizzate comparazioni orientative, i compensi agli amministratori di
società unipersonali in cui il socio unico è anche l’amministratore o
quando l’assemblea che delibera è sotto l’influenza dominante dello stesso
amministratore, che ne ha il controllo di diritto o di fatto, hanno la
specificità di essere la risultante di rapporti tra parti correlate se non
addirittura con se stessi.
Il compenso riconosciuto potrebbe quindi essere in tali casi agevolmente manipolato o influenzato da fattori estranei alla logica economica
di mercato, e riflettere interessi diversi, non necessariamente di natura
fiscale e tuttavia rilevanti ai fini tributari.
Il contrasto di interessi è quindi utile elemento per una oggettiva
valutazione dell’economicità di una spesa di acquisizione di servizi che
può garantire la genuinità del prezzo (compenso) pattuito rispetto alle
condizioni correnti di mercato, mentre l’esistenza di correlazione tra
società e suoi amministratori può costituire elemento idoneo ad alterare
un corretto rapporto economico, come tale meritevole di sindacato più
approfondito da parte dell’Erario.
Ponendo le considerazioni sopra esposte a confronto con il principio
di inerenza, che va applicato con rigore anche a tali situazioni, potrebbe
risultare utile indagare le singole fattispecie al fine di determinare se nella
dosimetria delle remunerazioni dell’organo gestorio si sia compiuto un
atto di determinazione del reddito (come tale in via generale non sindacabile dal Fisco) o viceversa sia stato ripartito tra gli aventi diritto un
reddito già determinato, e determinato per giunta in misura maliziosamente alterata in favore del contribuente, o di uno dei contribuenti che
sono coinvolti nell’operazione.
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160
PARTE SECONDA
1. Utilizzo strumentale dei compensi agli amministratori tra presunzioni di deducibilità e reazione dell’Erario.
In passato, in un contesto normativo nel quale la deduzione non era
correlata all’effettivo pagamento, potevano essere poste in atto con una
certa facilità manovre dirette a ottenere indebiti vantaggi tributari consistenti nella deduzione dal reddito della società da un lato e nel rinvio della
tassazione a carico dell’amministratore che decideva di non incassare i
compensi.
Per vero il meccanismo è stato disinnescato dal nuovo dettato dell’art.
95 Tuir, il quale dall’entrata in vigore del medesimo subordina - derogando al principio di competenza di cui all’art. 109 comma 1Tuir- la
deducibilità del medesimi per la società erogante al loro effettivo pagamento e nell’anno di erogazione.
Parallelamente era possibile che la misura del compenso fosse eccessiva in quanto finalizzata ad assorbire parte degli utili; poteva in tal modo
realizzarsi una trasformazione di utili in compensi per ridurre, ad esempio,
la base imponibile Ilor.
Sotto questo profilo dall’introduzione dell’Irap e dell’Ires tale escamotage è stata resa sostanzialmente inutile: ai fini del tributo regionale i
compensi agli amministratori non risultano deducibili, e l’aliquota dell’Ires è stata ridotta sino a determinarla nella misura del 27,5% (20).
La disposizione del ridetto art. 95 Tuir è stata ritenuta da parte della
dottrina l’unica condizione posta dal sistema alla deducibilità dei compensi agli amministratori, in quanto “ubi lex voluit dixit”: nell’introdurla
nel sistema il legislatore ha definitivamente precisato tutti requisiti previsti
per la rilevanza fiscale di tali costi, e nessun altro (21). L’assenza nell’intero Testo Unico - di un qualsivoglia appiglio normativo che autorizzi una limitazione quantitativa alla deduzione di detti costi è quindi
espressione del volere legislativo di non attribuire all’Erario potere alcuno
di sindacato in ordine alla congruità (22).
Per vero, l’unica disposizione che pare legittimare tale valutazione
potrebbe essere al più l’art. 110 comma 7 Tuir, peraltro espressamente
(20) Si legga sul punto VANTAGGIO, L’inerenza dei compensi agli amministratori (e
gli altri costi dell’impresa) è sindacabile sotto un profilo quantitativo?, in questa Rivista,
2001, II, 960.
(21) In tal senso leggasi BRACCO, La deducibilità dei compensi agli amministratori
nel contesto della valutazione delle scelte imprenditoriali: spunti di riflessione, in questa
Rivista, 2003, 492 ss.
(22) In giurisprudenza leggasi Cass. n. 21155/2005 e n. 6599/2002, già citate, che
costituiscono un vero revirement giurisprudenziale. In dottrina per un commento a tali
pronunce leggasi anche CAPELLO, Sull’insidacabilità dei compensi agli amministratori, in
GT-Riv. giur. trib., 2002, 897.
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GIURISPRUDENZA E PRASSI AMMINISTRATIVA
161
limitato nella sua applicazione - per espressa previsione - ai rapporti
infragruppo nel contesto internazionale.
Altro Autore(23) puntualizza però come essa non abbia risolto del
tutto il problema della congruità nella sua relazione con il principio di
inerenza, dovendosi pur sempre disconoscere quei compensi del tutto privi
di proporzione rispetto all’attività svolta.
Si è quindi sostenuto con frequenza e anche in tempi recenti da parte
dell’Erario che il compenso agli amministratori, per quanto oggetto di
determinazione e corresponsione dalla società, non rappresenterebbe sebbene deliberato e versato - dato sufficiente per ritenere che il costo
relativo sia deducibile dal reddito imponibile dell’ente societario, specie
nelle società a ristretta base azionaria.
Sarebbe necessario in tali casi verificare con esito positivo, per consentirne la deduzione, anche la compatibilità con i ricavi realizzati, dipendendo da tale verifica la sussistenza del requisito dell’inerenza all’attività
o all’oggetto dell’impresa (24).
Solo i compensi il cui ammontare risulta compatibile con i ricavi
sarebbero quindi inerenti e come tali deducibili.
È evidente quindi che la disamina della compatibilità risulta costituire
- in tal prospettazione - vera analisi del requisito dell’inerenza.
Primo punto di discussione è pertanto quello relativo alla possibilità o
meno dell’Erario di sindacare la congruità dei compensi corrisposti agli
amministratori di società, così come avviene per le altre componenti del
reddito d’impresa.
In particolare detto sindacato potrebbe e dovrebbe riguardare la
economicità o meno di tali poste negative, che se e in quanto antieconomiche non sarebbero deducibili (25).
(23) CIPOLLINA, Misura per misura: i compensi agli amministratori di società tra
autonomia privata e sindacato del fisco, in Giur. comm. 2000, 662; in senso contrario
STEVANATO, Davvero insindacabili i compensi degli amministratori?, in questa Rivista,
1993, I, 1145.
(24) Vedi TESAURO, Esegesi delle regole generali sul calcolo del reddito d’impresa,
in Commentario al testo unico delle imposte sui redditi e altri scritti, in Fisco, 1990, 217
ss. A parere dell’Autore laddove le norme fiscali nulla prevedono devono avere
rilevanza, anche ai fini fiscali, le norme civilistiche in ordine alla determinazione del
risultato dell’esercizio.
(25) L’antieconomicità va evidentemente valutata ex ante, in quanto ammettere
una valutazione ex post significherebbe negare la deduzione per ogni elemento negativo
che semplicemente - anche per fatti estranei all’impresa, o meramente casuali - non
abbia prodotto il risultato sperato e preveduto, anche se indiscutibilmente connesso
all’impresa e all’attività della stessa. L’utilità va quindi valutata al momento in cui
l’operazione ha avuto inizio. Si leggano sul punto VOGLINO, Ancora sulla insindacabilità,
da parte dell’amministrazione finanziaria, della convenienza economica delle operazioni
poste in essere dai contribuenti, nota a Comm. trib. centr., sez. XVIII, 13 maggio 1993,
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PARTE SECONDA
L’attuale sistema normativo non pare per la verità legittimare de
plano tale interpretazione; anzi chi scrive ha l’impressione dell’esatto
contrario.
L’art. 62 comma 3 Tuir, ove si specifica che sono deducibili dal reddito
d’impresa i compensi spettanti agli amministratori delle società in nome
collettivo e in accomandita semplice, esaminato alla luce del suo chiaro
disposto, indicherebbe infatti l’esistenza di una sorta di presunzione legale
tacita di inerenza del compenso all’impresa (26).
L’analisi storica dell’evoluzione normativa pare confermare in pieno
quanto appena enunciato.
L’art. 61 comma 3 DPR n. 597/1973, precisava al tempo che “i costi e
gli oneri diversi da quelli espressamente considerati dalle disposizioni di
questo titolo sono deducibili se ed in quanto siano stati sostenuti nell’esercizio dell’impresa e si riferiscano ad operazioni da cui derivano ricavi o
proventi che concorrono a formare il reddito di impresa”.
La questione dell’inerenza sorgeva dunque in relazione a costi ed
oneri che non risultavano fra quelli previsti nelle disposizioni del titolo V
del predetto decreto, mentre per quelli previsti - che non erano contemplati né richiamati in alcun modo dalla disposizione di cui sopra - doveva
ritenersi esistente una vera e propria presunzione implicita ma non meno
cogente che fossero stati ritenuti inerenti per natura dal legislatore.
Nell’art. 75, comma 5 Tuir si precisava invece, che le spese e gli altri
componenti negativi “sono deducibili se e nelle misura in cui si riferiscono
ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a
formare il reddito”. Nella relazione del relatore di maggioranza allo
schema di testo unico, si puntualizzava come il criterio per definire il
concetto di inerenza previsto al comma 5 dell’art. 75, “esaurisce la sua
portata nei confronti delle imprese individuali laddove esiste la necessità
di distinguere fra le spese private e quelle riguardanti l’azienda. Nei
confronti delle imprese societarie sembra invece sufficiente affermare
unicamente la indeducibilità delle mere liberalità. Nelle società, infatti,
l’unica differenza che conta è quella che divide le spese effettuate nell’ambito della gestione sociale e quelle che invece rappresentano atto di
disposizione dell’utile” (27).
n. 1860, in Boll. trib., 1993, 1642; e BEGHIN, Atti di gestione “anormali” o “antieconomici” e prova dell’afferenza del costo all’impresa, in questa Rivista, 1996, I, 413.
(26) Sulle presunzioni legali tacite, cfr. ITALIA., Le presunzioni legali, Milano,
1999, 29, secondo il quale vi sono delle presunzioni tacite che si basano su regole
precedenti di cui costituiscono come un corollario. In altri termini, alcune presunzioni
tacite sono espresse attraverso una affermazione o una negazione, e la presunzione
opera attraverso un parallelo o un collegamento con esse.
(27) Cfr. ROSA, Il principio di inerenza, in Il reddito d’impresa,a cura di Tabet,
Padova, 1997, 137 ss.
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GIURISPRUDENZA E PRASSI AMMINISTRATIVA
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Chiaro appare il riferimento, in tal autorevole sede, alla necessità di
valutare gli effetti delle spese in parola: un conto sono quelle che si
collocano nei meccanismi di gestione dell’impresa, e che influiscono come elementi in divenire - sull’utile, un conto sono quelle che non
possono influire o in concreto non influiscono sull’utile, che è già quantificato al momento della loro venuta a esistenza.
Possiamo quindi ritenere che quello della congruità (o della economicità) delle spese sostenute dall’impresa rappresenta senz’altro uno dei
punti centrali del tema dell’inerenza: il giudizio di congruità consiste
sempre in una valutazione di merito nel rapporto di inerenza diretta ad
individuare la proporzionalità, la convenienza e l’adeguatezza delle spese
sostenute in relazione all’attività esercitata dall’impresa.
Tale valutazione va però operata in modo completo, senza limitare
l’esame agli aspetti meramente esterni.
Parte della dottrina (28) ha notato come “dalle vecchie querelles
sull’inerenza quantitativa, da eccessività dei costi rispetto al contenuto
delle prestazioni, recentemente “riverniciate” e aulicamente ridefinite
come sindacato di (anti)economicità, scaturisce come questo non sia mai
un elemento di accertamento autosufficiente dovendosi, invece, inquadrare in un contesto di addebiti che deve spiegare quale sia stata la
convenienza fiscale indebita perseguita dal contribuente o da altri soggetti
correlati”.
In buona sostanza quindi non è sufficiente che l’Erario dimostri e
provi l’antieconomicità del costo, vale a dire la non rispondenza a parametri sempre discutibili e non di rado del tutto opinabili e fumosi; è
necessario si dimostri e provi che da tal costo antieconomico il contribuente ha tratto un vantaggio e che detto vantaggio non è consentito
dall’ordinamento.
Sotto questo profilo l’Autore pare prendere le mosse proprio dalla
presunzione di cui sopra: difettando la prova del vantaggio fiscale, la
deducibilità è salva.
In altre parole, quindi la mera irragionevolezza non avrebbe di per sé
alcuna rilevanza, dovendosi verificare caso per caso se da tal - per quanto
effettivamente sussistente - irragionevolezza sia derivato o meno un indebito vantaggio per il contribuente.
Non va taciuto come nessuna norma preveda in modo esplicito tale
sindacato di economicità da parte del Fisco, e che risulti anche del tutto
astratto, a un primo esame, lo stesso concetto di antieconomicità che
dovrebbe fungere da parametro per verificare la congruità dei compensi.
Tal concetto pare davvero impalpabile: potrebbe forse esser qualificato come limite - appunto - concettualmente insito nel principio dell’i(28)
DAMIANI, op. loc. ult. cit.,
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PARTE SECONDA
nerenza quantitativa dei costi in relazione al riconoscimento del diritto alla
loro deduzione ai fini delle imposte sui redditi, ovvero come paradigma
per i ricavi contabilizzati.
In concreto quindi solo se e nella misura in cui tali elementi risultano
inspiegabili, in forza di macroscopiche differenze rispetto a quelli di
mercato o a quelli che ci si attende siano realizzati rispetto alla struttura
dei costi aziendali, potrebbero allora qualificarsi come non economici.
L’anti economicità può ritenersi pertanto sinonimo di irragionevolezza, da cui desumere argomenti per avversare la versione dei fatti
addotta da chi si è comportato in modo che appare irragionevole e che
richiede adeguate e accettabili spiegazioni. In difetto di ciò, venendo meno
la ragionevolezza dei costi ne sarebbe pregiudicata la deducibilità.
Possono poi darsi in concreto situazioni nelle quali determinati costi
- antieconomici - risultano in concreto giustificati e inerenti l’attività: ma
tal profilo deve essere adeguatamente dimostrato dal contribuente.
L’inversione dell’onere probatorio avrebbe qui la funzione di consentire la difesa del medesimo legittimando il recupero solo in difetto dell’adempimento in esame.
Un ulteriore corollario discende dall’affermazione sopra formulata:
nella misura in cui si identifica l’esistenza di un vantaggio, e quindi
successivamente si acclara che detto vantaggio deriva da una irragionevole
determinazione dei compensi in argomento, si rende necessario esaminare
da vicino l’aspetto quantitativo dell’inerenza che diviene allora espressione dalla coerenza della misura della spesa rispetto all’utilità prodotta
nell’ambito del processo produttivo.
Tal disamina sarà “da attuare con criteri di usualità, congruenza e
proporzionalità” (29).
Tali parametri appaiono da un lato ovvi e indiscutibili nel concetto
che sottintendono, dall’altro risultano troppo vaghi e indeterminati quanto
alla loro applicazione; di qui la delicatezza della questione, che non
appena approfondita suscita ulteriori complessi problemi.
Nel momento in cui ci si accinge a tal approfondimento, in concreto
si accetta il rischio che deriva dalla stessa ammissione dell’esistenza del
potere in esame in capo alla Finanza di operare il sindacato in esame.
Non ci si può infatti spingere sino a conferirle - pur ai fini dell’esercizio della doverosa funzione di controllo - un illegittimo potere gestionale
che è e deve restare proprio ed esclusivo dell’imprenditore (30); diversa(29) DAMIANI, Deducibilità dei compensi agli amministratori: una vicenda apparentemente senza fine, in Corr. trib., 2013, 3554.
(30) Così BEGHIN, Atti di gestione cit., 414 ss. Si vedano in tema anche LUPI, A
proposito di inerenza ... Il fisco può entrare nel merito delle scelte imprenditoriali?, in
questa Rivista, , 1992, II, 940 ss.; ID., Equivoci in tema di sindacato del fisco sull’economicità della gestione aziendale, in Rass. trib. 2001, 211 ss.; ID., L’inerenza e il sindacato
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GIURISPRUDENZA E PRASSI AMMINISTRATIVA
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mente si limita indebitamente l’iniziativa economica costituzionalmente
protetta dall’art. 41 Cost. (31).
E ciò senza dubbio si verifica con ogni probabilità se all’impresa viene
imposta un’applicazione del principio di inerenza tale da sostituire politiche meramente fiscali a quelle imprenditoriali, dirette dalle scienze aziendalistiche. È quindi evidente che se prevalesse la tesi della sindacabilità
sulle scelte imprenditoriali ne deriverebbero decisive implicazioni su numerosi settori della fiscalità in grado di portare un vero eccessivo scompiglio.
Si pensi al sindacato di merito degli organi di controllo dell’amministrazione finanziaria sulle spese di pubblicità, di rappresentanza, propaganda, ovvero sull’ammontare degli acquisti di beni e servizi; entrare nel
merito delle scelte in parola disconoscendo alcuni costi perché ritenuti
eccessivi rispetto ai risultati sperati significherebbe indurre l’impresa a
modificare i programmi aziendali con possibile (se non addirittura inevitabile) danno alla gestione dell’impresa e conseguente impoverimento del
patrimonio sociale e in ultimo con riduzione dello stesso gettito tributario.
Per la verità autorevoli dottrine in epoca non più recente hanno
sottolineato con forza e dovizia di argomenti l’esposto principio (32), in
questo dapprima ben supportati da quella giurisprudenza che non accetta
l’imposizione ex lege di comportamenti sterotipati o determinati a posteriori e apoditticamente come astrattamente “migliori” rispetto a quelli
concretamente tenuti.
Il fatto stesso che un imprenditore commerciale - che deve agire
secondo criteri di economicità in concreto, e non in astratto, per conseguire il massimo guadagno - ponga in essere invece operazioni antieconomiche può di per se stesso integrare gli elementi indiziari legittimanti un
accertamento tributario, sicché un operatore economico, costituito in
delle scelte imprenditoriali sul versante dei costi, in Crovato-Lupi,Il reddito d’impresa,
Milano, 2002, 85 ss.; ID., Crediti verso clienti, interessi attivi ed economicità della gestione
aziendale, in Corr. trib., 2008, 465 ss.
(31) BARUSCO, Considerazioni sulla indeducibilità delle somme pagate da una
società per la liberazione di un proprio dirigente sequestrato, in in questa Rivista, 1996,
II, 366.
(32) LUPI, Manuale giuridico, cit., 579; TESAURO, Istituzioni,cit., 111. Tali Autori
concordano che l’amministrazione finanziaria non può interferire nel merito delle
scelte imprenditoriali disconoscendo la deducibilità dei costi sostenuti anche se essi
siano o si rilevino successivamente, a cose fatte, di scarsa utilità per l’impresa; in tema
vedasi anche Equivoci in tema di sindacato del fisco sull’economicità della gestione
aziendale (nota a sentenza Cass., sez. trib., 18 ottobre 2000, n. 1821), in Rass. trib., 2001,
213 ss. Afferma l’Autore che in tali fattispecie si porrebbero inquietanti interrogativi in
quanto se l’amministrazione finanziaria potesse interferire sui prezzi applicati infragruppo varrebbe a significare che i prezzi stessi, sia pure effettivi e reali (senza quindi
simulazioni o dissimulazioni), potrebbero essere messi in dubbio in base a vaghe
considerazioni di economicità.
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PARTE SECONDA
forma di società commerciale, e non quindi un privato non imprenditore,
non solo è soggetto a tutti gli obblighi di carattere formale che gravano
sugli imprenditori, ma soprattutto è tenuto ad agire con fini di lucro (33).
Da ciò può derivare al più la legittima esecuzione dell’attività di
controllo, non certo l’automatica indeducibilità delle perdite derivanti
dagli atti ritenuti non conformi ai dettami del buon imprenditore.
Difatti, la non più recente giurisprudenza della Corte di cassazione
formatasi sul punto ha correttamente stabilito come l’attività di controllo
dell’amministrazione possa e debba avvenire prendendo come riferimento
regole fondamentali di ragionevolezza o canoni dell’economia e del buon
senso (34).
Sottolinea la Corte - ad esempio - come la contabilità del contribuente
può ben essere inattendibile quando essa “confligge, oltre che con il senso
comune, con regole fondamentali di ragionevolezza”. Pertanto, diventa
incontestabile ritenere in siffatti casi che la documentazione contabile e
fiscale sia inaffidabile, qualora il reddito determinato dal contribuente si
ponga “al di sotto di un credibile limite, in riferimento all’impiego desumibile dalle operazioni attestate dalle scritture contabili o, comunque, da
esse ricavabili” (35).
L’inattendibilità della documentazione contabile può derivare,
quindi, “dall’abnormità dell’espressione finale”, rappresentata dal reddito, senza riguardo al fatto che essa sia da mettere in relazione a
omissioni o a false o inesatte indicazioni constatate nei modi stabiliti dalle
disposizioni di legge. Nell’esercizio di un’attività economica, spiega la
Corte, il soggetto contribuente obbedisce alla regola “di ridurre i costi, a
parità di tutte le altre condizioni”.
È chiaro che se c’è un comportamento che si sottrae al “parametro di
buon senso”, appena indicato, diventa legittimo ritenere che la incongruenza rilevata sia soltanto apparente e che dietro di essa si celi una
realtà contrastante con quanto appare: di fronte ad una situazione determinata da “un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia”, che il contribuente non riesce a spiegare o a giustificare in
(33) Vedi, in tal senso, Cass., 22 maggio 2002 - 14 gennaio 2003, n. 398, con nota
di SCALINCI, Rilevanza fiscale del corrispettivo contrattuale ed accertamento contabile
analitico-induttivo, in questa Rivista, 2003, II, 504.
(34) Si legga si tema FANTOZZI, Sindacabilità delle scelte imprenditoriali e funzione nomofilattica della Cassazione,in questa Rivista, 2003, II, 553 ss.
(35) Cass. 17 ottobre 1995, n. 10823, in Boll. trib., 1996, 1708. Cfr. per un’analisi
critica delle conclusioni della Corte, VOGLINO, I presupposti degli accertamenti disciplinati dall’art. 39 del DPR, 600 del 1973 fra realtà normativa e strappi interpretativi, in Boll.
trib., 1996, 1709 ss
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GIURISPRUDENZA E PRASSI AMMINISTRATIVA
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maniera convincente, l’amministrazione ben può rettificare induttivamente le componenti positive del reddito d’impresa (36).
Non è inutile rilevare che anche a livello legislativo vengono assunti a
elementi per legittimare l’accertamento induttivo del reddito d’impresa o
di componenti di esso, non solo fatti che provano l’esistenza di omissioni,
false o inesatte indicazioni, ma incongruenze o contraddizioni, cioè, valutazioni sulle componenti del reddito dichiarato o sui dati rappresentati
nelle scritture contabili.
All’art. 62sexies,comma 3, DL 30 agosto 1993, n. 331, viene disposto,
infatti, che gli accertamenti di cui all’art. 39, comma 1, lett. d), DPR n.
600/1973 o dell’art. 54 DPR n. 633/1972, possono basarsi anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi
dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle
condizioni di esercizio della specifica attività svolta (37).
Sotto questo profilo, può dirsi che la contestazione della deducibilità
di un costo, regolarmente imputato in contabilità per difetto di inerenza
non potrà realizzarsi mediante la semplice affermazione in sede di accertamento della mancata dimostrazione di tal requisito, ma dovrà passare
per la prova, anche presuntiva dell’inesistenza della passività dichiarata,
secondo la previsione contenuta nell’art. 39 comma 1 lett. d) DPR n.
600/1973.
Le considerazioni sopra svolte, in realtà, hanno il pregio di indicare un
(36) Si legga Cass. 9 febbraio 2001, n. 1821, in Corr. trib., 2001, 1060, la quale
chiarisce anche che il principio dell’economicità del comportamento ha trovato conferma nell’art. 37bis, DPR n. 600/1973 in cui viene precisato che “sono inopponibili
all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti o i negozi, anche collegati tra loro, privi di
valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario”. Nel commento, PISANI, ivi, 1062, osserva come la Corte abbia esteso
all’attività d’impresa in generale un principio che invero è già presente in modo pur
inespresso nell’ordinamento. Verrebbe da notare come anche il principio di inerenza sia
nei fatti inespresso.
(37) Nella Circ. 29 novembre 1999, n. 386000 del Comando gen. della Guardia di
finanza, in Fisco, 2000, 115, si precisa che “l’art. 62-sexies del d.l. 30 agosto 1993, n. 331,
conv.to in l. 29 ottobre 1993, n. 427, prevede che l’applicazione degli studi può dar luogo
ad accertamenti in rettifica delle dichiarazioni dei redditi e Iva, qualora essi consentano
di rilevare l’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi contabilizzati e quelli fondatamente desumibili tenuto conto delle effettive condizioni di operatività delle imprese. In
sostanza, tali strumenti statistici evoluti permettono di determinare i ricavi di gestione
che, con maggiore probabilità e gradi di approssimazione al vero, possono essere
attribuiti ai singoli contribuenti, sulla base delle caratteristiche strutturali di ogni
specifica attività economica, sia interne (il processo produttivo, l’area di vendita, la
struttura aziendale, ecc.) che esterne (l’andamento della domanda, il livello dei prezzi,
la concorrenza, l’area territoriale, ecc.)”. Sull’accertamento ai sensi dell’art. 39, comma
1, lett. d), DPR n. 600/1973 e dell’art. 62 sexies, comma 3, cfr. TOSI, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Milano, 1999, 274.
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PARTE SECONDA
preciso punto di equilibrio tra i contrapposti interessi entrambi meritevoli
di tutela.
Se è senza dubbio meritevole di approfondimento l’agire antieconomico dell’imprenditore, non è detto che risultato certo e automatico
dell’approfondimento sia la sottrazione di materia imponibile.
Certo è invero che questa prospettazione identifica quale conseguenza legittima e corretta della antieconomicità unicamente l’esercizio
più approfondito del controllo; ove da tal approfondimento si riscontrino
ulteriori indizi di violazioni di norme o di evasione, l’Erario potrà procedere ai rilievi e anche all’accertamento extracontabile o induttivo del
reddito: non certo a negare in via automatica la deducibilità delle poste
negative derivanti da atti antieconomici (38).
Come nota la dottrina, “una scelta non in linea con la normale
tendenza degli operatori economici a massimizzare i proventi ed a minimizzare gli oneri può solo giustificare un sospetto di non corrispondenza
tra i dati contabilizzati e dichiarati e quelli effettivi” (39).
Il contribuente che tiene comportamenti contrari alla logica economica potrà quindi esser soggetto a più rigoroso controllo, non di per sé
vedersi negata la rilevanza tributaria degli atti “sospetti” di antieconomicità.
Sotto questo profilo, il ragionamento sopra esposto se da un lato
consente anzi suggerisce il controllo, dall’altro non limita la reazione
dell’Erario alla sola ripresa a tassazione delle poste dubbie, di fatto
ampliandone il potere di accertamento ben di più di quanto potrebbe farsi
con la sola indeducibilità “indotta”.
Non solo: se la valutazione è ammessa, essa potrebbe - o dovrebbe investire sia la sfera qualitativa che quella quantitativa (40).
Questo secondo ulteriore profilo è meritevole di analitico approfondimento, proprio con riferimento alle remunerazioni degli organi gestori
delle società.
2. Può l’Erario valutare in modo “quantitativo” gli elementi negativi?
Sussistenza del potere e “contaminazione” del profilo probatorio.
L’ampliamento che progressivamente ha registrato il concetto di
(38) Valorizza l’antieconomicità di un comportamento come serio elemento di
prova dell’evasione Cass., 2 febbraio 2001 n. 182, vedila in www.finanze.it., anche se
conforme formalmente a una delibera o a un contratto: si veda sul punto anche Cass.,
27 settembre 2000, n. 12813, cit.
(39) SCHIAVOLIN, Comportamento “antieconomico” dell’imprenditore e potere di
accertamento dell’amministrazione finanziaria, in Giur. imp., 2004, 262
(40) Si veda FERRANTI, Il principio di inerenza “quantitativa” e la sindacabilità dei
comportamenti antieconomici, in Corr. trib., 2010, 1409-1418.
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GIURISPRUDENZA E PRASSI AMMINISTRATIVA
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inerenza, legittima l’imprenditore ad effettuare, con discrezionalità, le sue
scelte in ordine alla gestione aziendale e quindi a “valutare” il grado di
utilità dei beni e servizi acquistati nel contesto della gestione aziendale; e
sotto tale profilo egli non deve essere condizionato da norme che restringano la deducibilità di quei costi ed oneri che, pur inerenti, possano essere
contestati da parte degli organi di controllo dell’amministrazione finanziaria.
Si è detto in esordio e va qui ribadito come tali “valutazioni” siano nei
fatti imposte dal codice civile, in tema di bilancio dell’impresa, il cui art.
2424 e le norme connesse prescrive agli amministratori di rappresentare
fedelmente la situazione patrimoniale e finanziaria e il risultato economico dell’esercizio.
Di qui la conseguenza che il requisito dell’inerenza non può essere
valutato in termini qualitativi (o oggettivi). Il concetto di inerenza si
risolve, in tali ipotesi, in una regola di collegamento formale dei componenti negativi all’organizzazione dell’impresa, così come concepita dall’imprenditore, con l’evidente fine di ottimizzare i risultati della gestione (41).
Va da sé che il sindacato di merito sarà sempre possibile qualora un
costo dovesse risultare manifestamente estraneo all’attività dell’impresa;
in questo caso, tuttavia, non si sarebbe in presenza di una scelta che
investe i profili qualitativi, ma di un costo non inerente in sé.
Il giudizio sull’inerenza non può che fondarsi sulla valutazione ex ante
del collegamento tra la spesa che l’impresa intende sostenere ed i benefici
che derivano o potranno derivarne. Ed è da tale funzionale “collegamento
che si potrà ritenere sussistere o meno il requisito dell’inerenza...verificando in concreto il nesso tra il componente elementare e la più ampia
serie tipica di atti o fatti riconducibili, nell’id quod plerumque accidit, alla
specifica attività economica, ponendosi... un duplice profilo probatorio,
rispettivamente connesso alla dimostrazione del tipo di attività e alla
dimostrazione del collegamento tra tale attività e il componente economico” (42).
Questo elemento indica e comprova come in linea generale il collegamento con l’organizzazione dell’impresa, diretto alla realizzazione dell’utile, difficilmente sia compatibile con valutazioni puramente quantitative: tali valutazioni dovrebbero anche involvere il costo di acquisto delle
singole materie prime, o dei servizi, consentendosi all’Erario di disconoscerne la rilevanza in quanto altrove sarebbe stato astrattamente o concretamente possibile (in forza di valutazioni che sono necessariamente ex
(41) Condivide tale impostazione, LUPI, Diritto tributario - parte speciale,cit., 97.
(42) TINELLI, Il principio di inerenza, cit., 461.
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PARTE SECONDA
post, perché la verifica è sempre necessariamente posteriore all’operazione imprenditoriale in parola) acquistarli a minor prezzo.
In questo contesto, pare pertanto ultronea la considerazione che nega
la possibilità di tal sindacato dell’Erario in forza del rispetto dovuto al
principio di intangibilità dei corrispettivi, generalmente applicabile alle
imposte sul reddito, per le quali il disposto dell’art. 110 Tuir in tema di
transfer pricing- come già detto - rappresenta una assoluta eccezione.
Il giudizio di inerenza non può pertanto fondarsi sul mero confronto
tra il prezzo prestabilito tra le parti e il “valore normale” nel senso di cui
sopra: sono in realtà numerose le situazioni nelle quali l’acquisto o la
vendita di un bene a prezzo ben differente rispetto al valore normale trova
giustificazioni imprenditoriali.
Con riferimento al tema in esame, basti pensare al caso dell’impresa
che intende sottrarre un manager a un gruppo avversario, e pertanto la
remunera in modo irragionevolmente - in apparenza - generoso, pur
impedire all’avversario di avvalersi della di lui opera.
Senza dubbio la produzione normativa in argomento è tra le più
estese tra quelle del Giudice di Legittimità (43).
(43) Tra le pronunce più recenti leggasi Cass., sez. V, 2 dicembre 2008, n. 28595,
la quale ribadisce il recente orientamento che afferma la non sindacabilità della misura
dei compensi agli amministratori di società, inaugurato da Cass., sez. trib., 9 maggio
2002, n. 6599, in Giur. it., 2003, 189, con nota di MARELLO, Deducibilità fiscale dei
compensi corrisposti agli amministratori: il revirement dellaCassazione. La sentenza
ridetta è commentata anche da CIPOLLINA, “Misura per misura”: i compensi agli
amministratori di società tra autonomia privata e sindacato del fisco, in Giur. comm.,
2002, II, 658; VIGNOLI, La deduzione dei compensi agli amministratori, tra valori normali,
corrispettivi contrattuali e spiragli di riqualificazione contrattuale, in questa Rivista,
2002, II, 563; BRACCO, La deducibilità dei compensi agli amministratori nel contesto della
valutazione delle scelte imprenditoriali: spunti di riflessione, ivi, 2003, II, 476. Nel senso
della insindacabilità v. anche Cass., sez. trib., 31 ottobre 2005, n. 21155, in Fisco,1, 2006,
449, e in Riv. giur. trib., 2006, 325, con nota di PROCOPIO, L’insindacabilità dei compensi
erogati agli amministratori. Prima della sentenza n. 6599 del 2002, la Suprema Corte si
esprimeva nel senso della sindacabilità e non deducibilità dei compensi in eccesso. Cfr.
Cass., 30 ottobre 2001, n. 13478, in Boll. trib., 2002, 147, con nota di ARDITO, Nuovamente sulla rettificabilità dei compensi agli amministratori di società; in Dir. e prat. trib.,
2002, II, 21, con nota di GIULIANI, Sulla sindacabilità fiscale dei compensi agli amministratori (soci) di società di capitali; in Corr. trib., 2002, 597, con nota di STEVANATO,
L’indeducibilità dei compensi “abnormi” agli amministratori-soci; in questa Rivista,
2001, II, 960, con nota di VANTAGGIO, L’inerenza dei compensi agli amministratori (e
degli altri costi dell’impresa) è sindacabile sotto un profilo quantitativo? La si veda anche
commentata da MENTI, Ancora sulla deducibilità dei compensi agli amministratori di
società ritenuti sproporzionati, in Dir. e prat. trib., 2002, 470 e ss. Pure nel senso della
sindacabilità cfr. Cass., 27 settembre 2000, n. 12813, in Giur. it., 2001, 179; in Boll. trib.,
2001, 309, con nota di MASTROGREGORI, Sulla rettificabilità dei compensi agli amministratori di società; in Riv. giur. trib., 2001, 403, con nota di RAVACCIA, Brevi riflessioni sul
sindacato di inerenza e sulla deducibilità dei compensi agli amministratori; in Dir. e prat.
trib., 2001, II, 487, con nota di MENTI, Il compenso agli amministratori di società
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GIURISPRUDENZA E PRASSI AMMINISTRATIVA
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La Cassazione ha dapprima valorizzato (44) la considerazione secondo la quale nel vigente Tuir non è stata riprodotta la disposizione contenuta nell’art. 59 DPR 597/1973 - secondo la quale i compensi degli
amministratori erano deducibili in misura non superiore a quella “corrente per gli amministratori non soci”.
In altra occasione (45) la Suprema Corte ha apertamente dichiarato
prevalente nella giurisprudenza della Sezione tributaria la tesi secondo la
quale la rimozione del riferimento al limite delle misure dei compensi
correnti avesse “senza dubbio natura innovativa”, di fatto sottraendo
all’amministrazione “il potere di ricondurre ai prezzi di mercato previsti
per gli amministratori non soci (prezzi facilmente individuabili nel concreto) i compensi sproporzionati”.
La deducibilità dei compensi agli amministratori doveva, quindi,
essere determinata “dal consenso che si forma o tra le parti..., senza che
all’amministrazione finanziaria sia riconosciuto un potere specifico di
valutazione di congruità”.
Sin qui dunque il concetto di inerenza viene individuato - quanto al
suo contenuto - come munito di rilevanza sotto il profilo qualitativo, e non
quantitativo.
Se da un lato quindi il rimando era al corrispettivo contrattualmente
stabilito, come elemento imprescindibile, d’altro canto speculare rinvio
era fatto al principio di carattere generale della sindacabilità dei costi
apposti a conto economico in presenza di comportamenti evidentemente
antieconomici.
D’altro canto, come nota illustre dottrina, “al di fuori delle ipotesi
previste dalla legge deve escludersi la possibilità di un giudizio di congruità
del componente economico finalizzato alla verifica della relativa inerenza
all’attività dell’impresa, in quanto l’inerenza riguarda il profilo qualitativo
del componente stesso e non quello quantitativo, che viene ad essere
invece recepito ai fini fiscali nella misura risultante dalla formalizzazione
formale” (46).
È quindi l’ingresso sulla scena del principio dell’abuso del diritto che
ha senza dubbio fornito ulteriore supporto alla tesi che ritiene esperibile
in tal direzione il potere di controllo, non prevedendo l’art. 37 bis DPR n.
600/1973 la fattispecie in esame tra i casi per i quali l’Erario può far
applicazione della norma antielusiva ivi prevista.
sproporzionato e la deducibilità dal reddito d’impresa, cui aggiungasi Cass., 21 giugno
2000, n. 8458; 31 ottobre 2005, n. 21155; 2 dicembre 2008, n 28595 e 10 dicembre 2010,
n. 24957.
(44) Così Cass., maggio 2002, n. 6599 vedila anche in Boll. Trib., 2002, 949 con
nota di commento di ARDITO.
(45) Si tratta di Cass., 10 dicembre 2010 n. 24957, cit., infra.
(46) Letteralmente TINELLI, Il principio di inerenza, cit., 464.
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PARTE SECONDA
Prevedibile risulta quindi la presa di posizione dell’Agenzia delle
Entrate la quale ha affermato, nella Risoluzione n. 113/E/2012, la possibilità di disconoscere totalmente o parzialmente la deducibilità dei compensi in tutte le ipotesi in cui gli stessi appaiano “insoliti, sproporzionati e
strumentali all’ottenimento di indebiti vantaggi”. Evidente risulta la preoccupazione dell’Erario: la completa intangibilità di tali importi può
celare condotte abusive non neutralizzabili se non con l’introduzione e
l’applicazione di una clausola antiabuso.
Per la verità, l’Agenzia associa con evidenza la indeducibilità dei costi
antieconomici proprio all’abuso del diritto, più che all’applicazione del
principio di inerenza.
È però con un recente provvedimento (47) che il Giudice di Legittimità pare mutare il suo precedente orientamento, introducendo il principio di diritto secondo il quale il principio di inerenza quantitativa si applica
anche ai compensi degli amministratori e non assume, a tal fine, rilievo “il
mancato riferimento a tabelle o altre indicazioni rilevanti che pongano
limiti massimi di spesa, oltre i quali essi non possano essere deducibili”.
Per vero autorevole dottrina ha da subito segnalato come in motivazione la Corte non dia pienamente conto delle ragioni sottese a tal colpo
d’ala, tanto da far notare come il provvedimento in esame sia “motivato
con quattroespressioni di stile” (48), finendo per fondarsi su general
statements che risultano tanto impalpabili quanto indiscutibili, e in ultimo
privi di utilità per comprendere se in quel caso il contribuente ha occultato
materia imponibile o ha inseguito e ricavato vantaggi che il sistema non
ammette.
L’amministrazione, ovviamente, avrà da subito - apparentemente - un
ulteriore input per negare la deducibilità di “parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa”, come si legge in motivazione,
con conseguente ribaltamento sul contribuente dell’onere di provare
l’inerenza degli stessi anche sub specie di congruità dei medesimi (49).
Ritiene chi scrive che se invero non si può negare che il compenso agli
amministratori sproporzionato - ad esempio rispetto all’ammontare dei
ricavi o alla dimensione dell’impresa (50) - possa far sorgere il lecito
(47) Si tratta dell’ordinanza Cass. 15 aprile 2013, n. 9036, vedila online su
www.finanze.it
(48) Così letteralmente LUPI, Compensi amministratori: un inutile altalenante
“tormentone”, in Dialoghi trib., n. 12 del 2013, 5.
(49) In questi termini, sinteticamente, Cass., sez. V, sent. n. 5349 del 7 marzo
2014, inedita.
(50) Sottolineano la necessità di esaminare le situazioni reali sotto sia il profilo
soggettivo (guardando cioè a chi deduce) sia sotto il profilo oggettivo (guardando cioè
a che importo si deduce) sia FANTOZZI, Diritto tributario, cit., 859 che LUPI, Diritto
tributario, cit., ed. 2005. L’ultimo Autore efficacemente osserva come “una spesa
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dubbio in ordine alla deducibilità, tuttavia, la mera sproporzione ex se non
può costituire nel vigente sistema elemento di prova per negare la deducibilità dal reddito d’impresa dell’ammontare del compenso, né può
dimostrare che vi è stata inesatta applicazione delle disposizioni di legge
sulla determinazione del reddito imponibile, o ancora e a fortiori che
l’ammontare del costo posto in deduzione è oggetto di falsità sub specie
della sua inesistenza.
Prima infatti di far esondare la problematica in esame in conseguenze
procedimentali e processuali, ritengo necessario sottolineare come pare
ormai assodato, nel vigente sistema, che la distribuzione del reddito in
capo al socio della società quale socio o quale amministratore è fiscalmente ormai fatto non rilevante.
Sotto questo profilo, spostare la disamina del problema sul fronte
processuale significa non contribuire ad una più netta determinazione
dell’oggetto di studio.
Se è vero che la sola apposizione in bilancio di tal costo, non seguita
dalla sua sopportazione, o seguita dalla sua sopportazione solo parziale,
con conseguente sua esistenza solo parziale, è fenomeno non meno
pericoloso e per vero costituente evasione e non elusione, esso risulta
immediatamente non adeguatamente perseguibile con lo strumento giurisprudenziale dell’abuso del diritto, che è istituto di creazione giurisprudenziale prossimo all’elusione, ben lontano sia concettualmente che empiricamente dall’evasione, e che pare aleggiare sulla presente tematica
come un vero fantasma (51).
Difatti, in un passaggio della motivazione del sopra citato ultimo
arresto della Corte Suprema si ricorda la inopponibilità all’Erario “dei
vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante
con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere
un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera
aspettativa di quei benefici”.
promozionale di notevole importo può essere inerente per un istituto di credito e non
per un parrucchiere; l’acquisto di una Land Rover sarà senz’altro inerente per una
impresa mineraria e non lo sarà per un parrucchiere”. Peraltro, facendo applicazione
degli stessi principi appare difficile negare la deduzione dei compensi agli amministratori soci che magari nulla si siano attribuiti in anni di difficoltà dell’impresa e ora passato il periodo negativo e riportata in buon utile la società - si attribuiscano una
somma importante a detto titolo; è evidente che il maggior compenso ora liquidato
trova giustificazione e nesso con l’attività svolta negli anni difficili da costoro, attività
senza dubbio funzionale all’impresa al punto da averne consentito il salvataggio e il
ritorno all’utile.
(51) Si legga D.D., Una contestazione lontana dall’abuso e dall’elusione, in Il Sole
24 ore 19 febbraio 2013, 15.
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Sul punto, chi scrive sottolinea come proprio il vantaggio fiscale stante la irrilevanza nel nostro caso della collocazione del reddito - sia qui
inesistente; eppure la Corte non sembra accorgersene, anzi ritiene che
proprio per combattere tal fenomeno (nel nostro caso irrealizzabile) sia
consentito, anzi doveroso, estendere ultra legem- tanto da giungere a
collocarsi contra legem - il confine della indeducibilità.
Ancora, in ulteriore e ancor più pericoloso equivoco cade il Giudice
di Legittimità: dopo aver affermato quanto sopra, e aver ricordato le
previsioni di cui all’artt. 95 e 62 Tuir che non osterebbero alla propugnata
interpretazione, si fa riferimento al potere dell’ufficio finanziario qui
esercitato definendolo come di “verifica dell’attendibilità economica delle
rappresentazioni esposte nel bilancio e nella dichiarazione”.
Pertanto, il recupero a tassazione in via automatica della parte del
compenso corrisposto agli amministratori valutato eccedente il limite al di
sopra del quale il relativo ammontare dovrebbe essere ritenuto proporzionato, in quanto inattendibile, sarebbe illegittimo.
Anche con tal affermazione, la Corte non convince, anzi utilizza in
modo improprio il concetto di “attendibilità”.
Per vero, l’inattendibilità dei dati indicati in bilancio e in dichiarazione, derivando dalle scritture contabili, è fatto dal quale per previsione
normativa e per costante insegnamento della dottrina, derivano ben altri
effetti giuridici.
L’Erario può trarre da tal iper-quantificazione un indizio per approfondire l’attività di controllo, indagando dapprima l’effettiva sopportazione del costo, quindi richiedere al contribuente di ricostruire in modo
analitico la sua determinazione. Potrebbe darsi infatti che manchi completamente ogni elemento, non fornendo questi alcuna indicazione di
metodo preordinata alla sua determinazione; l’ammontare indicato sarebbe risultato in tal caso di un mero atto di arbitrio e come tale potrebbe
esser talmente disconnesso dai risultati dell’impresa da far ipotizzare una
loro alterazione per favorirne l’esistenza.
Non solo: ove invece il contribuente dimostri di aver determinato
preventivamente tal compenso in modo oggettivo, e ne fornisca prova,
l’Erario dovrà prender atto della legittimità del comportamento senza che
possa attribuirsi rilevanza ai risultati dell’impresa, anche ove l’esercizio
chiuda in perdita ed essa sia magari superiore al compenso in parola;
diversamente il costo dovrebbe ritenersi indeducibile per inerenza “sopravvenuta”.
Infine, ove dall’approfondimento del controllo, risultasse l’inattendibilità di cui sopra, come si è già detto in precedenza, dovrebbero trarsi le
conseguenze necessarie, vale a dire l’esperibilità dell’accertamento induttivo ed extracontabile.
Sotto questo profilo, dunque, la Corte non apporta alcun elemento
chiarificatore nel contesto; essa pare addirittura ammettere una sorta di
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sovrapposizione procedimentale, certamente non attuabile, legittimando
nella medesima fattispecie sia la negazione della deduzione del costo, sia
l’accertamento induttivo quale conseguenza della non inerenza, sotto il
profilo della non congruità, del costo.
3. Inerenza e onere probatorio: un “canone inverso”?
Il tema in esame presenta anche un profilo processuale, ad ora tutto
da esplorare autonomamente, riferito all’onere probatorio.
Per la verità, autorevole dottrina non manca di segnalare come “il
giudizio sull’inerenza è quindi questione di diritto, cioè di qualificazione
giuridica di eventi storici non controversi” (52)
La dottrina invece ha in svariati casi affrontato il tema partendo
proprio dall’individuazione del soggetto in capo al quale grava l’onere
probatorio consistente nel dare la dimostrazione dell’inerenza (contribuente) o delle non inerenza (Fisco) del costo in esame, implicitamente
ammettendo quindi che il contraddittorio possa e debba vertere sul tema.
Pertanto, secondo tal approccio marcatamente processuale, dovrebbe
farsi applicazione di quell’insegnamento della Corte Suprema secondo il
quale “l’onere della prova deve essere preferibilmente addossato alla
parte che si trova nelle migliori condizioni per assolverlo, e ciò in un’ottica
di valorizzazione del diritto di difesa delle parti coinvolte e di attuazione
del giusto processo” (53).
Se così fosse, dovrebbe concludersi che tal onere grava sul contribuente, soggetto a favore del quale la prova verterebbe se fornita, e
parimenti soggetto in grado di dimostrare che quel costo è connesso con
l’attività d’impresa e come tale meritevole di deduzione.
L’affermazione non trova d’accordo chi scrive.
In primo luogo, non è certo che il contribuente sia in condizioni
migliori dovendo fornire prova della deducibilità rispetto all’Erario che sia
onerato di fornire prova della non inerenza.
È agevole pensare che il debitore d’imposta farà ricorso alle scritture
contabili, ai contratti, alle delibere, alla documentazione bancaria, vale a
dire agli stessi mezzi di prova documentali ai quali farebbe ricorso l’Erario, se si esclude, come pare di dovere escludere, ogni presunzione di
deducibilità come ogni presunzione di indeducibilità.
Secondariamente, la sola norma che è dato ritrovare nel sistema del
reddito d’impresa sul punto - proprio con riferimento alle scritture contabili - prevede all’art. 61, comma 3, DPR n. 600/1973 - la preclusione per
(52) Letteralmente LUPI, L’inerenza e il sindacato delle scelte imprenditoriali sul
versante dei costi, in Il reddito d’impresa, Milano, 2992, 85 ss. ma spec. 94.
(53) BALLANCIN, Inerenza, congruità dei costi e onere della prova, in Rass. trib.,
2013, 593 ss.
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il contribuenti di provare, con riguardo alle imposte dirette, le circostanze
omesse nelle scritture contabili o in contrasto con le loro risultanze.
Ne discende che onerare questi di provare altro rispetto a quanto ivi
documentato comporterebbe introdurre un elemento contrario al sistema
normativo e quindi inammissibili diverrebbero le istanze processuali dirette a ottenere tale risultato.
D’altronde, nel processo è ormai pacifico che sia il contribuente a
dovere fornire la prova della veridicità di quanto indicato nelle scritture le
cui risultanze sono versate nel bilancio e quindi nella dichiarazione,
producendo ai verificatori la documentazione contabile ed extracontabile.
A fronte di ciò, l’Erario potrà quindi legittimamente escludere la
deduzione di quei costi non indicati a conto economico o di quelli indicati
ma non ritrovati nell’esame della documentazione contabile ed extracontabile.
Pare quindi improprio addossare l’onere probatorio al contribuente
solo in forza del fatto che il fatto da provarsi è a suo vantaggio, costituendo
fatto estintivo o modificativo della pretesa, senza tener conto che tal prova
è necessariamente concentrata e limitata alle scritture contabili.
In realtà per collocare in modo armonico le esigenze probatorie nel
concetto e nel contenuto del principio di inerenza, ritengo necessario
porre come punto di partenza rovesciare i passaggi logici: non si tratta di
qualificare non deducibili - negando il beneficio fiscale - in quanto inerenti
i compensi dei quali non si provi l’inerenza, elemento centrale del sistema
tributario, ma di identificare e quantificare il beneficio fiscale contrario al
sistema tributario, che nel concreto viene ottenuto con la deduzione di tali
compensi: solo allora essi diverranno non deducibili (54).
Viene infatti istintivo chiedersi, anche a ritenere privi di senso e
ingiustificati i compensi in esame, non solo quale disposizione di legge (sul
quale ex art. 23 Cost. il sistema si regge) essi violino, ma anche quale sia
il beneficio fiscale contrario al sistema che con la loro esistenza tali
remunerazioni provochino e consentano, se è vero come è vero che
l’asserita minor imposta versata dalla società che li deduce sarà versata
quale maggior imposta dai percettori dei medesimi. La domanda non pare
peregrina se si riflette sul senso che avrebbe vietare - quindi imporre
all’Erario di reprimere, con costi rilevanti per il sistema in termini di tax
audit - un comportamento irrilevante per la corretta determinazione
dell’imposta dovuta dai soggetti passivi qui coinvolti.
(54) Sotto questo profilo, l’ordinanza n. 3423 del 2013 della Corte di cassazione
pare non risolvere in modo chiaro né definitivo l’impasse, ferma soprattutto restando la
vaghezza del concetto di abuso del diritto, impalpabile in sé e inopportunamente
richiamato in tale sede; diversamente la successiva ordinanza n. 9036 del 2013 pare - di
converso - entrare in scena come un toro in cristalleria, per le ragioni indicate nel testo.
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Perseguire la creazione di un sistema tributario semplice, efficiente,
equo e in grado di ridurre situazioni che scoraggino concussione e corruzione significa certamente anche questo.
4. Conclusioni
Ritengo, tornando al tema di queste righe, che la ricerca di un punto
di equilibrio tra il rispetto del legame tra compenso degli amministratori
e attività dell’impresa, da un lato, e contrasto all’evasione ed elusione
tributaria possa determinarsi attribuendo all’Erario un “pilotato” potere
di controllo e graduandone la invasività.
Ove il costo sia - per fatto certo, documentato e provato - effettivamente sostenuto e di ammontare non giustificato logicamente né economicamente, ma attribuito per mero atto di volontà assembleare o contrattuale, sia pure anche sul punto espressamente manifestata in una delibera
ad hoc, come ritiene la sentenza in esame, l’Erario dovrà approfondire
l’attività di controllo alla ricerca di ulteriori atti privi di logica imprenditoriale per verificare se nel loro complesso possano far ritenere inattendibile l’intera gestione dell’impresa.
Conseguentemente, il reddito della stessa sarà rideterminabile - e
giustamente - senza tener conto dell’impianto contabile, sia pur formalmente tenuto.
Viceversa, ove tal discrasia sia semplicemente derivante da un singolo
per quanto apodittico atto di gestione, dovrà l’Erario ricercare il beneficio
tributario eventualmente ottenuto dalla società o dagli amministratori, e
verificarne la conformità o meno al sistema (55).
Significativamente, anche la pronuncia qui commentata pur introducendo, con funzione creativa (che lascia invero sbigotittito un giurista di
civil law, avvezzo alla centralità del principio di soggezione del giudice alla
legge), l’ulteriore elemento dell’espressa approvazione assembleare della
remunerazione degli amministratori, singolarmente considerata, non impone certo alcun “onere di motivazione” in capo ai soci.
In altre parole, costoro potranno approvare un importo a tal fine
senza nulla dire in ordine al perché si è deliberato quell’ammontare e non
quell’altro ammontare.
(55) Sotto questo profilo dunque sarebbe necessario un passo ulteriore rispetto
alla schematizzazione di LUPI, A proposito di inerenza ... Il fisco può entrare nel merito
delle scelte imprenditoriali?, in questa Rivista, 1992, I, 940 secondo il quale il fisco non
può sindacare la scelta dell’imprenditore, ma di fronte a comportamenti palesemente
antieconomici “i giudici non negano al fisco di presumere, in assenza di altri elementi
di giudizio, un fine extra imprenditoriale, con la conseguente necessità che il contribuente spieghi quali elementi rendevano comprensibile l’operazione in una logica
d’impresa”.
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PARTE SECONDA
Se in siffatto contesto esiste un vantaggio in termini di imposta, ed
esso è in contrasto con i principi cardine del sistema, allora il Fisco lo
contesterà al contribuente, ben ricordando che anche ad ammettere la
possibilità di applicare alla presente fattispecie la norma antielusiva di cui
all’art. 37 bis DPR n. 600/1973, possibilità invero assai remota, sarà
comunque necessario per la Finanza dar prova nei fatti e conto nella
motivazione dell’avviso di accertamento della sussistenza di tal elemento.
Particolare centralità nel provvedimento dovrà l’Erario riservare a
chiarire le ragioni dell’operato del contribuente ove esso riguardi soci
amministratori di società, specie laddove la società deduca una somma con
IRES al 27,50 per cento per onerare il percettore della stessa - socio della
società - per oltre il 40per cento di imposte complessive.
In buona sostanza quindi, sia l’Erario a ricercare in primis il vantaggio, e a dimostrarne la contrarietà al sistema; concentrare l’attenzione
dell’amministrazione sugli strumenti e le modalità di governance, per
quanto insoliti e inusuali, ma praticamente utili, e non sui risultati,
potrebbe risultare inutile spreco di limitate risorse e ingiustificato esercizio di potere nei confronti di contribuenti che in verità - sotto questo
profilo – sono in realtà del tutto illibati.
ROBERTO SUCCIO