Scuola

Approfondimenti
IRC
Inserto redazionale
de IL SEGNO
a cura del Servizio IRC
Informazioni
2 /2014
SUSSIDIO PER INSEGNANTI DI RELIGIONE
CATTOLICA DELLA DIOCESI DI MILANO
C
Ricordo di mons.
Vincenzo Vismara
Il card Scola
incontra il mondo
della scuola
Perché iscriversi
all’Irc
Liberi di scegliere
22 gennaio 2014: una serata indimenticabile!
arissimi idr,
scrivere questo editoriale dopo la serata del 22 gennaio 2014 è ben diverso che averlo scritto prima.
Cosa esprimere dopo questo evento così bello e significativo? Innanzitutto ringrazio con tutto il cuore, anche a nome vostro, il nostro Arcivescovo, che ha creduto in questa proposta che gli abbiamo presentato fin dal mese di giugno 2013.
In Duomo faceva freddo, ma il Cardinale ci ha scaldato il cuore e ha fatto percepire a tutti noi la bellezza e la limpidità della sua fede, che diventa passione per
ogni persona, per ogni situazione, per ogni realtà umana. Ci ha mostrato la sua
competenza: conosce e ama la scuola! Ha fatto emergere che questa realtà preziosa del popolo italiano non può essere trascurata, maltrattata o invasa dalle ideologie.
Ci ha fatto comprendere che la scuola non è “l’addestramento” per i piccoli uomini e donne, ma è quell’esperienza che insieme alla famiglia, alla comunità cristiana e civile, forma tutta la persona e la educa a compiere scelta di libertà e di
responsabilità, nella verità.
Ci ha ricordato che solo docenti e dirigenti che impegnano la vita per istruire
ed educare gli alunni rispettosi della loro “unicità”, diventano così credibili da essere visti come modelli. Ci ha parlato degli idr come quelle persone che a motivo
della loro squisita appartenenza ecclesiale, per una fede genuina, e non a prescindere da essa, come taluni sciaguratamente auspicherebbero, sono per tutti un
punto di riferimento credibile e affidabile, non solo per i cristiani, ma anche per
tutte quelle persone oneste intellettualmente. Ci si fida di una persona che ha una
precisa identità e per questo offre e cerca il dialogo e il confronto con tutti!
Se questa serata, come ha detto il Cardinale, è solo un aperitivo, abbiamo cominciato davvero bene. Non lasceremo questo incontro come un’esperienza isolata nella nostra vita, ma faremo seguire una serie di appuntamenti sul nostro
territorio diocesano per poterci preparare all’incontro a Roma con il Santo Padre
il 10 maggio 2014.
Come non ringraziare inoltre tutti quelli che erano presenti? Come non ringraziare anche tutti quelli che avrebbero voluto esserci, ma erano a scuola a fare
gli scrutini?
Inoltre, finalmente c’era una sola scuola pubblica: statale e paritaria, senza po-
Ricordo di mons.Vismara
lemiche che solitamente alimentano alcuni giornali. C’era
una sola scuola pubblica e c’erano coloro che vogliono tutta
la scuola bella e buona e non solo una parte di essa.
C’erano le autorità: i dirigenti scolastici, i gestori della
scuola pubblica paritaria, il direttore generale De Santis e
molti suoi stretti collaboratori, i docenti di Irc e di altre discipline, il personale ausiliario: grazie per tutta la vostra generosa partecipazione.
Il 22 gennaio 2014 cadeva nel tempo degli scrutini, l’orario dell’incontro era l’unico possibile per avere con noi l’Arcivescovo, ma non l’ideale, un giorno feriale e d’inverno, eppure 4000 persone erano presenti e con un grande desiderio
di attenzione e di partecipazione. È un buon segnale, abbiamo raccolto un forte desiderio che da tempo veniva manifestato e la risposta è stata ottima. Desidero ringraziare anche
tutto il nostro personale di Irc e della Pastorale scolastica
perché si è impegnato con amore e intelligente passione!
Un caloroso ringraziamento a tutti i presidenti delle Associazioni e delle Federazioni della scuola, si sono fidati della Diocesi e di questo non li ringrazierò mai abbastanza!
Buon cammino insieme!
Don Michele Di Tolve
Responsabile per l’Irc e la Pastorale Scolastica
Arcidiocesi di Milano
Mons.Vincenzo
Vismara
Il 27 dicembre è morto
mons. Vincenzo Vismara,
Prelato d’Onore,
Canonico onorario emerito del Capitolo Maggiore
della Basilica Metropolitana.
Era residente presso il ricovero
“Sironi” a Oggiono,
paese in cui era nato il 28-1-1921.
Ordinato sacerdote nel 1943,
è stato collaboratore del Servizio diocesano
per l’insegnamento della religione cattolica
ed educatore dei giovani seminaristi.
I funerali si sono svolti il 29 dicembre
presso la parrocchia
di Santa Eufemia a Oggiono.
Lettera dell’Arcivescovo
ai fedeli della Parrocchia S. Eufemia
Carissimi fedeli,
partecipo con viva commozione al vostro cordoglio per la
morte di mons. Vincenzo Vismara e mi unisco a tutti voi nell’elevare la preghiera cristiana di suffragio.
Il lunghissimo ministero di don Vincenzo è iniziato con
un intenso impegno educativo: dopo l’ordinazione nel 1943
fu professore e Rettore nel Seminario di Masnago poi Direttore Spirituale per vent’anni presso il Seminario del
Duomo. Ha saputo inoltre tradurre questa passione educativa come Ispettore coordinatore della scuola elementare
presso l’Ufficio catechistico. Canonico ordinario del Capitolo Metropolitano, ha sempre vissuto questo compito con
grande fedeltà e onestà. Per motivi di salute nel 2007 ha dovuto lasciare il servizio alla Cattedrale per recarsi alla Villa
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Aldè non sottraendosi mai alla volontà di Dio che lo chiamava a vivere gli ultimi anni della sua vita nell’offerta quotidiana della malattia.
È questo il momento di ringraziare un’ultima volta don
Vincenzo per quanto ha donato alla nostra Chiesa ambrosiana nei lunghi anni del suo operato. Ora lo affidiamo all’abbraccio del Padre celeste e gli chiediamo di continuare a
vegliare sul nostro cammino.
Con affetto, invoco su tutti voi la benedizione del Signore.
Card. Angelo Scola
Ricordo di mons.Vismara
Mons.Vincenzo
Vismara e l’Irc
Dopo tanti anni passati anche con lui nell’ufficio per
l’Irc, lo ricordo sempre con stima e gratitudine. Perché? Da
pretino giovane (1958-67) fui destinato al seminario di Masnago come professore dei chierici assistenti dei ragazzi, per
varie materie di teologia, in particolare per la Bibbia. Anni
duri per me inesperto come docente, anche perché soffiava
il vento delle novità del concilio. Mons. Vismara era rettore
e mi fu varie volte di appoggio discreto ma utile e incoraggiante. Col 1967 i nostri cammini divaricarono, perché fui
chiamato come biblista ufficiale nel seminario di Venegono
e vi rimasi fino all’anno 1983/84.
In quell’anno il card. Martini mi volle come direttore dell’Ufficio per la Catechesi e per l’Irc in Curia. Lì ritrovai il
mio rettore di un tempo, ma a ruoli invertiti: lui subalterno
e collaboratore, io direttore. Catapultato, benché contento,
dal seminario in quel nuovo incarico mi sentii spaesato, sia
per la mole di lavoro per la catechesi e per 2000 e più insegnanti di religione, sia per le novità introdotte anche per
l’Irc dalla revisione del Concordato: nuova mentalità, nuo-
Nel ricordo
di monsignor
Vismara
Con alcune colleghe stiamo rientrando dal funerale di
monsignor Vismara e, mentre commentiamo la cerimonia,
un po’ alla volta il discorso si sposta (era inevitabile!) sugli
anni che abbiamo vissuto e lavorato a stretto contatto con
lui. Sto parlando di una ventina d’anni di cui lo spartiacque
significativo è l’insieme degli avvenimenti immediatamente successivi alla revisione del Concordato (1984).
E ora, mentre scrivo, i ricordi cominciano a sgorgare
spontaneamente dalla mente e dal cuore come marea irrefrenabile. Le situazioni passate si materializzano con la vivacità e il pathos di allora come fosse il presente. È la memoria di qualcosa, che a vederla oggi, con qualche inclusione mitica, ha tutte le caratteristiche di una piccola epopea.
La “nostra” epopea.
In quel periodo l’Ufficio dell’Irc della Curia era diretto da
monsignor Giavini e, come responsabile della primaria (allora detta “elementare”), monsignor Vismara. C’era poi
una “Consulta per l’Irc” del Sinascel (ora Cisl Scuola) rappresentativa delle “specialiste” della primaria e dell’infanzia, della quale anch’io facevo parte in qualità di coordina-
ve norme, problemi politici e sindacali, sforzi per aggiornare clero (vescovi compresi) e laici non solo ambrosiani ma
anche lombardi e nazionali; a volte gli stessi Provveditori agli studi ci chiedevano lumi sull’Irc e la sua organizzazione
da rinnovare; d’altra parte anche noi avevamo bisogno di loro, di sindacati, di esperti vari.
In ufficio godetti della vicinanza e collaborazione sia di
ottimi impiegati/e, sia e più ancora di due... bulldozer:
mons. Ubaldo Valentini, precedente direttore, e mons. Vincenzo Vismara. Ambedue lavoratori instancabili e zelanti.
Ma Vismara possedeva anche una chiarezza di idee e una
memoria preziosissima in quel frangente (sembrava un
computer vivente). Il suo settore era soprattutto quello delle “specialiste/i” delle scuole primarie: un esercito specialmente di donne piene di buona volontà, di esperienze, ma
anche alla ricerca di nuove vie. Vismara profuse tempo ed energie, creando anche una bella rete di specialiste collaboratrici. Ne nacque un clima di appassionata e competente
famigliarità. Vismara, certamente, amò le “sue” specialiste
e ne fu riamato.
Così anch’io potei coordinare tutti i settori dell’Irc (e darmi ancora alla mia cara Bibbia qua e là), se non altro perché anche il mio vecchio rettore mi sosteneva e mi aiutava.
Anni laboriosi e anche felici. Il ricordo sia per tutti un incoraggiamento a continuare nel campo dell’educazione delle
nuove generazioni, sempre tanto caro a mons. Vismara.
Mons. Giovanni Giavini
trice. Quindi Ufficio, docenti e sindacato “comunicanti” tra
loro...
Per capire al meglio la figura di monsignor Vismara e la
sua opera sarebbe necessario tracciare qualche linea contestuale per offrire a molti, che allora non c’erano, una comprensione più ampia ma non è questo l’ambito. Posso solo
dire che l’agire comune più significativo e combattivo fu
volto al miglioramento delle condizioni giuridiche per le
“specialiste” (non erano ancora chiamate idr) della scuola
primaria e dell’infanzia che, tra gli stessi insegnanti di religione, erano le più precarie. Il nostro stato giuridico definito sarebbe stato importante non solo per la nostra dignità
lavorativa ma anche perché, in tal modo, l’Irc si sarebbe incardinato più profondamente nella Scuola secondo le sue finalità. Tale obiettivo fu un impegno della Chiesa italiana
tutta, però noi, “specialiste” di Milano, per ragioni storiche
e organizzative, fummo punto di riferimento per diverse altre diocesi.
Lavorammo duramente e contro corrente per far funzionare, nella pratica, il famoso e rivisto articolo 9 della Costituzione italiana.
Credo di non esagerare nel dire che in quegli anni per
quanto concerneva gli intenti e l’agire, fummo tutti in grande sintonia. A me tante volte è sembrato di essere“ un cuor
solo e un’anima sola”.
Monsignor Vismara fu grande protagonista nelle vicende
di quei tempi.
Era imponente nella persona e faceva soggezione. Il cuore invece era tenero. Aveva una mente limpida ed era un
computer vivente: non si dimenticava di nulla e aveva ben
presente ogni particolare delle “sue” insegnanti e delle loro
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Scuola
situazioni personali e scolastiche. Cercava sempre di fare il
meglio e di aiutare ma sapeva anche farsi sentire quando
qualche cosa non andava per il verso giusto. Era uomo di
“sostanza” e andava sempre al cuore di un problema. Era
attento e cercava di fare sempre la cosa “giusta” per le persone. Le sue valutazioni sulle situazioni erano guidate da discrezione, intelligenza amorevole e finezza d’animo.
Gli anni in cui collaborammo più strettamente furono,
anche prima della revisione del Concordato, caratterizzati
da un contesto sociale, politico, sindacale molto acceso: da
tante parti si lottava con tutti i mezzi contro l’insegnamento della religione e quindi per l’eliminazione dei suoi insegnanti.
Fu un periodo di “bufera”, di durezze, di intralci dolosi,
di sofferenze, di situazioni dalle quali sembrava impossibile
uscire, ma anche di esaltazione, di amicizie, di condivisioni
profonde.
In quel periodo si mossero i primi decisivi passi per ottenere il giusto riconoscimento giuridico agli insegnanti di religione nella scuola che avvenne più tardi con il Concorso riservato (2005).
Ogni volta che ripenso a queste cose, lette a posteriori,
quando il peggio è passato, posso solo dire che quello che riesco a vedere con chiarezza è soprattutto il disegno della
Provvidenza che emerge e risplende. Ci furono allora tanti
duri avversari ma anche tante persone che, al proprio posto
e secondo la propria responsabilità, combatterono la “buona battaglia”: la ricerca della giustizia per l’Irc e per lo status dei suoi insegnanti. Monsignor Vismara in prima persona.
Fu con noi della Consulta sempre aperto e propositivo,
disponibile all’ascolto, alle idee, al confronto, a capire le situazioni, a incoraggiare e, con umiltà, anche, talvolta a lasciarsi incoraggiare…
Per concludere e non rimanere sulle generali desidero riportare un episodio nel quale egli, dall’inizio forse non troppo convinto, ci appoggiò poi con decisione e fermezza.
Questo accadde quando decidemmo di fare un’azione di
forza, (eravamo pur sempre una consulta sindacale!) una
specie di sciopero, durato due mesi, per non voler accettare
le nomine con la collocazione dell’Irc alla prima e all’ultima
ora. Monsignore, in accordo con l’Ufficio, espresse le sue
perplessità ma, sempre in accordo con l’Ufficio tutto, fu con
noi e si fidò e si spese completamente. Non fu una situazione facile su tanti fronti e credo che sia anche facile intuire
le difficoltà e le amarezze però, alla fine, avemmo ragione e
vincemmo.
Grazie Monsignore per la persona che Lei è stata e per
tutto ciò che il Signore le ha concesso di fare per l’insegnamento della religione nella Scuola e per tutti noi suoi amati
e amate insegnanti.
Il Cardinale
Angelo Scola
incontra
la scuola
Sono seguite la lettura di Don Fabio Landi di un passo
del documento conciliare Gravissimum educationis sulla
missione della scuola e sulla vocazione degli educatori, e la
lettura di Don Gianbattista Rota del capitolo 6 del libro del
Siracide (vv.18-37) sulla ricerca della sapienza, della saggezza e sull’importanza dell’ascolto della parola di Dio.
Subito dopo Don Michele, nel Duomo gremito di docenti, dirigenti e genitori, e in un silenzio composto e carico di
aspettative, ha chiamato i rappresentanti delle associazioni a leggere le sei domande all’Arcivescovo su tematiche educative, religiose e pedagogiche.
È il momento delle risposte!
Il Cardinale esordisce affermando che non ha ricette risolutive per le questioni poste, ma può esplicitare come
sente e vive i problemi essendo educatore, in quanto la
Chiesa è un soggetto educativo. Per dar voce alle risposte
parte da una importante citazione di J. Maritain, tratta dal
libro Per una filosofia dell’ educazione, secondo il quale “la
cosa più importante non è l’educazione e nemmeno l’insegnamento, ma l’esperienza, frutto della sofferenza e della
memoria attraverso la quale avviene la formazione, e che
non può essere insegnata in nessuna scuola e in nessun
corso”.
È importante, spiega l’Arcivescovo, la forza dell’esperienza, la cui azione ci porta fuori da noi stessi e ci fa incontrare e scontrare con l’altro, ponendo come basi il proprio “io-in-relazione”, che è composto di presente, di futuro, di modalità con cui si affronta la società dove si mette
in campo la propria persona nella sua interezza.
L’educazione diventa, così, un’arte che nasce dall’esperienza di vita dell’essere umano da realizzare con un’alleanza fra tutte le componenti educative scolastiche ed ex-
22 gennaio - Duomo di Milano.
Il giorno 22 gennaio alle ore 18.30 il cardinale Angelo
Scola ha incontrato nel Duomo di Milano le scuole statali,
le scuole paritarie e le associazioni scolastiche a ispirazione cristiana di Milano e provincia.
Don Michele Di Tolve, responsabile del servizio per la
pastorale scolastica e del servizio per l’Irc, ha introdotto
per un breve saluto, prima il Vicario episcopale monsignor
Pierantonio Tremolada che ha auspicato un confronto fra
tutti per sentirsi più uniti nell’accompagnare in modo costruttivo le nuove generazioni, poi il Direttore generale
dell’ufficio scolastico regionale della Lombardia Francesco
De Santis che ha sottolineato l’importanza dell’attenzione
della Chiesa per l’unica Scuola Lombarda, la scuola statale e paritaria e ha dichiarato la disponibilità a riflettere
sulle risposte del Cardinale.
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Rita Scarpa
Scuola
trascolastiche per evitare le difficoltà e per superare la
frammentazione del soggetto che insegna e del soggetto
che impara. Occorre, pertanto, partire dalla visione unitaria dello studente ed educarlo alla sintesi esistenziale in un
contesto unitario e comunitario.
Prima di fare bisogna “essere” e “conoscersi” per cui
l’educatore deve chiedersi con quale tipologia di “io” vuole identificarsi in ambito educativo. È auspicabile, suggerisce il Cardinale, l’acquisizione consapevole di un io-inrelazione per imparare il principio sintetico di interpretazione reale che consente la crescita della persona umana.
L’io porta alla Comunità educante, terreno dell’alleanza
educativa, a cui partecipano tutti i docenti, i genitori, gli
alunni.
L’alleanza educativa permette un incontro di libertà tra
docenti e studenti che affrontano l’affascinante avventura
del reale nella sua profondità, a partire dal dono della presenza di Gesù Cristo e dall’appartenenza ai principi evangelici. Cristo diventa il principio esistenziale concreto che
svela la presenza di Dio e infonde, in modo trasversale, le
azioni del genitore, dell’educatore e dei ragazzi, esaltandone il senso di appartenenza.
Alla seconda domanda sul dialogo interculturale e l’attenzione ai bisogni dei più deboli, Sua Eminenza ha messo l’accento sull’apertura del cuore degli uomini che deve
essere a 360°, dato per assodato quanto specificato ampiamente nella prima domanda sulla funzione della comunità
educante.
In un’ottica interculturale lo studente, di conseguenza,
deve essere considerato una risorsa e un fattore di crescita per la classe e per il docente. Questi deve essere ricettivo al cambiamento, deve mettersi in gioco e porsi col cuore aperto, affinché l’incontro con lo studente sia un’incontro di libertà reciproca e di approccio globale che evitano lo
scivolamento verso la visione della frammentazione dei saperi e dell’alunno.
La scuola nel contempo dovrà compiere scelte che indirizzino verso l’integralità della persona e l’interdisciplinarietà dell’insegnamento , affinché i più deboli possano trovare la valorizzazione delle loro potenzialità attraverso la
personalizzazione e l’ integrazione.
Nella terza domanda sulla comprensione positiva del
Cristianesimo nei contesti culturali non cattolici, il Cardinale specifica che oggi la società è caratterizzata da pluralità dove convivono più religioni. In tale contesto l’insegnante di Religione Cattolica non si deve concepire come
singolo, ma viversi come io-in-relazione comunitaria con
tutti e vivere un’appartenenza religiosa grata e consapevole, fatta di persone, immerso nel pensiero di Cristo e di
disponibilità a mettersi in gioco e portare con convinzione
la propria testimonianza in ogni occasione della sua vita e
in ogni ambiente scolastico e non. Egli, in ambito sociale e
scolastico, deve avere capacità e disponibilità a portare
nell’insegnamento non solo gli elementi contenutistici del
cristianesimo, ma anche le implicazioni antropologiche esistenziali e sociali per capire quali ricadute ha tutto questo per la vita. Questa è la condizione per educare chi apprende.
L’idr, nell’opera del “ministero” di insegnamento fa emergere le implicazioni che nascono a partire dalla risposta alle grandi domande della vita e questo permette di
dialogare con tutte le religioni e il dialogo porta alla fecondazione delle idee e del confronto partecipato. Nella scuola, l’insegnante, dunque, esaltando il concetto di dialogo,
di libertà e di implicazione esistenziale comunitaria, può
favorire l’apertura del ragazzo al senso della vita, anche
attraverso l’insegnamento della propria materia. E ciò dà
gioia, significato e senso all’insegnamento.
Nella quarta domanda, letta dal rappresentante delle
associazioni ecclesiali dei docenti e dirigenti, il Cardinale
ha dichiarato di non potere entrare nello specifico delle
tante questioni relative alla funzionalità e alla qualità della scuola, ma si sarebbe cimentato nel cuore delle tematiche e nelle radici dell’io che ha esigenza di stare insieme agli altri e condividerne il compito educativo, elemento basilare per la nascita delle associazioni dei docenti, dei dirigenti e dei genitori, il cui punto di partenza deve essere
rappresentato dalla visione unitaria del soggetto che apprende.
Le associazioni, nate nella Chiesa o ispirate ai principi
cristiani, in prima istanza, devono affrontare i bisogni specifici della categoria, ascoltare le esperienze del loro percorso e le loro difficoltà per tentare, in seguito, di dare risposte in una dimensione comunitaria associativa e interassociativa. Ne consegue la necessità di dialogo, di alleanze educative, di comune e unitario percorso pedagogico-didattico che deve caratterizzare le associazioni e far vivere, dentro e fuori, la dimensione comunitaria. Ciò contribuirà ad evitare la frammentazione dell’insegnamento
e dei saperi, derivata dalla complessità della società.
Ogni singola persona deve impegnarsi, protendersi verso l’altro nel percorso educativo e mettere in campo la propria esperienza per donarla agli altri, poiché “la vita viene
destata e accesa solo dalla vita” e per la vita lo studente deve essere educato ed aiutato a trovare se stesso e la strada
verso Dio, che è elemento imprescindibile per un’educazione integrale, completa e universale.
La quinta domanda, sul ruolo del genitore cattolico, suscita una risposta ovvia, quasi consequenziale, in quanto
non può esserci alcuna differenza nel ruolo, nei comportamenti e nella presa di posizioni educative dei genitori cristiani sia che agiscano nella scuola cattolica sia in quella
statale. Il punto di riferimento educativo per un genitore
deve incentrarsi nell’insegnare ai propri figli ad amare la libertà che non significa non correggere gli atteggiamenti errati, o lasciare i figli in balia a se stessi, ma vuol dire comunicare, riflettere insieme, condividere con loro la realtà, accompagnandoli con amore nel processo di crescita.
L’ultima domanda, formulata dal rappresentante dei
gestori delle scuole pubbliche paritarie e cattoliche e di ispirazione cristiana, pone l’attenzione sulla responsabilità
della famiglia il cui diritto non è ancora formalmente garantito e sul ruolo della Chiesa. Il Cardinale, pur costatando l’esistenza dell’anomalia del diritto nella responsabilità educativa della famiglia, sprona i convenuti a fare
sacrifici perché la libertà di educazione diventi libertà effettiva e incita a mantenere il principio di sussidiarietà tra
le varie scuole, le quali devono offrire qualità adeguata, offerta formativa e affermare la propria libertà come scuola
in cui ogni ente esercita le proprie competenze nel rispetto dei ruoli reciproci e in un’ottica collaborativa in cui la
presenza di tutti diventa un segno di speranza.
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IRC 5
Scuola
Sua Eminenza conclude le risposte invitando tutti ad
applicare il metodo pedagogico dove il tutto viene prima
della parte.
Prima della conclusione, don Michele Di Tolve informa
che, in preparazione della festa della scuola italiana con
papa Francesco, in programma in Vaticano il 10 maggio, si
terranno degli incontri nelle zone pastorali con le associazioni degli insegnanti, dei genitori e con le scuole.
La recita del Padre Nostro e la benedizione del Cardinale ai convenuti ha rappresentato l’apoteosi di un incontro tra credenti e ricercatori della parola di Dio e tutti coloro che hanno a cuore il futuro delle generazioni e che si
sono ritrovati per volontà e ispirazione divina poiché i
tempi sono maturi: Chiesa e scuola, con grande sinergia,
guardano con grande interesse al loro rinnovamento e all’azione concreta nel territorio.
La Chiesa, oggi, è per la scuola perché ha sposato il progetto di una formazione integrale e armonica dell’“io-inrelazione”, i cui cardini essenziali abbracciano i concetti di
alleanza educativa, sussidiarietà, senso di appartenenza,
innovazione, dialogo, apertura totale del cuore, religiosità
e apprendimento continuo (lifelong learning). In quest’ottica la Chiesa vuole far sentire, intenzionalmente e per ispirazione divina, la propria vicinanza agli insegnanti e ai
genitori, consapevole della responsabilità della comunità
cristiana nella società civile.
Questo è il messaggio forte, suggerito dalle parole ispirate del Cardinale Scola e dal quale tutta la scuola deve iniziare a riflettere per attuare un coerente e progressivo
rinnovamento, indispensabile nell’attuale società complessa, globalizzata e digitalizzata.
Emanuele Verdura
Presidente provinciale AIMC Milano Monza
Perché
iscriversi all’Irc?
Un’occasione
per crescere
Pur in un ambiente “laico”, di tutti e per tutti,
come la scuola pubblica, l’insegnamento
della religione cattolica ha saputo collaborare
«per la promozione dell’uomo e il bene del Paese».
Come ogni anno, la presidenza della Conferenza episcopale italiana torna, in prossimità della scadenza per le iscrizioni scolastiche, a invitare studenti e genitori alla
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febbraio 2014
scelta per l’Insegnamento della religione cattolica (Irc). Lo
fa con un messaggio che, pur avendo una sua ritualità, non
è la ripetizione di un adempimento scontato, quasi meccanico e dovuto, a “onorare” la scadenza. Piuttosto, ogni volta, il tradizionale messaggio in vista della scelta di avvalersi dell’Irc, è una riflessione rinnovata sull’identità di tale insegnamento, sulle ragioni che lo sostengono nella
scuola di tutti, sull’impegno della Chiesa italiana per l’educazione dei giovani e il bene del Paese. È come se ogni
anno si cogliesse l’occasione per comprendere meglio una
prospettiva - quella dell’Irc neoconcordatario - adottata
ormai trent’anni fa, per molta parte “figlia” del Concilio,
frutto di un cammino importante di riflessione nella Chiesa e nella società civile.
Ogni volta, nel messaggio, parole “fresche” e provocanti, come quelle di papa Francesco, ricordate dalla presidenza della Cei: «La scuola è uno degli ambienti educativi
in cui si cresce per imparare a vivere, per diventare uomini e donne adulti e maturi, capaci di camminare, di percorrere la strada della vita. Come vi aiuta a crescere la
scuola? Vi aiuta non solo nello sviluppare la vostra intelligenza, ma per una formazione integrale di tutte le componenti della vostra personalità» (Discorso agli studenti delle scuole gestite dai gesuiti in Italia e Albania, 7 giugno
2013).
E viene in mente la “stagione dei dibattiti”, le lunghe
discussioni, negli anni che hanno preceduto e preparato la
revisione concordataria, sulla necessità di caratterizzare
l’ambiente educativo scolastico, di puntare alla formazione integrale, di cogliere l’opportunità dell’educazione, anche religiosa, pur in un ambiente “laico”, di tutti e per tutti, come la scuola pubblica. L’Irc nasce in questo contesto:
offrire alla scuola un’opportunità perché possa essere sempre più e meglio... scuola. Nasce nella convinzione di una
comunità cristiana che non chiede privilegi, ma riconosce
l’autonomia delle diverse realtà e sa mettersi al servizio,
con umiltà, di un’istituzione non sua, collaborando «per la
promozione dell’uomo e il bene del Paese», come recita il
Nuovo Concordato.
Questa comunità, negli anni seguiti agli accordi, si è misurata con le difficoltà, anche con le ambiguità che possono sussistere, muovendosi però sempre con chiarezza al
servizio dell’educazione e della scuola: impegnandosi a
raccogliere, di volta in volta, le esigenze dei più giovani, ad
adeguarsi ai cambiamenti rapidissimi della scuola stessa,
a proporre una formazione iniziale e in servizio costante e
qualificata per i suoi docenti, “volto” concreto di una Chiesa che si spende per tutti, con lealtà e professionalità.
Ecco, tutto questo viene in mente leggendo il messaggio
di quest’anno, che ricorda le nuove Indicazioni didattiche,
la stipula dell’Intesa sui titoli di qualificazione, richiama
una volta di più l’orizzonte delle “finalità della scuola” e
precisa come l’Irc «consente a tutti, a prescindere dal proprio credo religioso, di comprendere la cultura in cui oggi
viviamo in Italia, così profondamente intrisa di valori e di
testimonianze cristiane». A questo Irc vale la pena d’iscriversi, per non perdere un’opportunità. Per questo Irc vale
la pena d’impegnarsi, per continuare a offrire un’occasione alla scuola italiana di fare bene il proprio mestiere.
Alberto Campoleoni
www.agenziasir.it – 11 dicembre 2013
Scuola
Liberi di
scegliere
Venerdì 8 novembre ho partecipato, insieme ad altre cinquecento persone, ad un incontro promosso dalla rete delle
scuole cattoliche di Varese e provincia sul tema “Liberi di
scegliere”. Riprendo alcuni contenuti dell’intervento di
suor Monia Alfieri (presidente FIDAE1), che ha riproposto
la centralità per il nostro Paese, tanto più nel momento di
profonda crisi che sta vivendo, della questione scuola. Le
sue parole, dai toni molto forti, hanno disegnato un Sistema
Scolastico di istruzione e formazione integrati, ove gli istituti pubblici, statali e non statali, convivendo gli uni accanto agli altri, si confrontano e collaborano a parità di condizioni, in un contesto caratterizzato da libera concorrenza e capace, proprio per questo, di rendere più agile e dinamico l’intero sistema scolastico.
L’attuale sistema al contrario poggia sull’idea che l’unica opzione in fatto di educazione debba essere costituita dalla scuola di Stato e che sia unicamente lo Stato a dover provvedere al compito educativo. Le alternative possibili (le
scuole paritarie per intenderci), vengono pregiudizialmente
considerate “dannose” per l’ecosistema, essendo immediatamente equiparate a scuole private, a diplomifici oppure a
scuole per ricchi o di preti e di suore (ecc.).
Al cuore della questione sta l’esercizio del diritto alla libertà di scelta educativa che è in capo alla famiglia. L’art. 30
della nostra Costituzione prevede il diritto/dovere dei genitori ad istruire ed educare i figli ed al secondo comma precisa: “Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a
che siano assolti i loro compiti”. Uno stato che decide per i
genitori la scuola senza concedere una effettiva libertà di
scelta (una scelta cioè a parità di condizioni) mostra di equiparare le famiglie a quei “soggetti incapaci” dei quali si
fa menzione nel comma 2 dell’art. 30.
Occorre restituire dignità di ruolo e di azione alla famiglia ed è necessario che ognuno ne prenda coscienza. La
questione della scuola è di natura in primo luogo culturale.
Scriveva don Luigi Sturzo: «Finché gli italiani non vinceranno la battaglia delle libertà scolastiche in tutti i gradi e
in tutte le forme, resteranno sempre servi (…) di tutti perché
non avranno respirato la vera libertà che fa padroni di se
stessi e rispettosi e tolleranti degli altri, fin dai banchi della
scuola, di una scuola veramente libera»2.
Sento speso dire che le scuole “private” sottraggono risorse alla scuola di stato, già penalizzata dai tagli di bilancio.
Diamo allora alcuni numeri: dal 2002 le sovvenzioni dello
Stato per il settore paritario (oltre un milione di allievi) sono
state mediamente poco più di 500 milioni di euro l’anno (497
milioni nel 2011, 483 nel 2012, ma versate solo in parte). Per
il settore delle scuole statali (allievi circa 8 milioni) lo Stato
versa oggi una cifra attorno ai 50 miliardi di euro (...). Lo
Stato, grazie alle paritarie, risparmia annualmente e
complessivamente 6.245 milioni di euro.
La spesa dello Stato per ogni studente è cosi suddivisa:
Allievo Scuola Statale
6.116 euro MATERNE
7.366 euro PRIMARIE
7.688 euro MEDIE
8.108 euro SUPERIORI
Allievo Scuola Paritaria
584 euro
866 euro
106 euro
51 euro
In un sistema integrato, come quello cui si accennava all’inizio, si individuerebbe un costo standard per allievo e si
darebbe alla famiglia la possibilità di scegliere fra buona
scuola pubblica statale e buona scuola pubblica paritaria,
favorendo così una sana competizione fra le scuole, sotto lo
sguardo garante dello Stato. Cesserebbe così quel conflitto
che vede oggi lo Stato assommare in sé il ruolo di gestore e
garante. Non solo: un tale impianto innalzerebbe il livello di
qualità del sistema scolastico italiano e ne abbasserebbe i
costi. Quando si è in crisi un buon amministratore elimina
gli sprechi; oggi invece si persegue come obiettivo, per ragioni di natura esclusivamente ideologica, l’eliminazione
dei finanziatori buoni, cioè della scuola paritaria, che fa risparmiare allo Stato Italiano sei miliardi di euro annui!
Principi semplici, elementari diremmo, già “storia in Europa”, eppure costantemente ignorati in Italia3.
Filadelfo Ferri
Preside Istituto Rosetum (Besozzo)
Note
La FIDAE è la Federazione di Scuole Cattoliche primarie e
secondarie, dipendenti o riconosciute dalla Autorità ecclesiastica.
2
Politica di questi anni. Consensi e critiche dal settembre
1946 all’aprile 1948.
3
Si ricorda la Risoluzione del Parlamento europeo n. 1904,
F-67075, Strasburgo, 4 ottobre 2012, “Il diritto alla libertà
di scelta educativa in Europa.” Il Parlamento europeo con
ben due Risoluzioni, una del 1984 e l’altra del 2012, ha richiamato gli Stati membri perché non pratichino alcuna discriminazione e rendano reale l’esercizio del diritto alla libertà di scelta educativa che è in capo alla famiglia.
1
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IRC 7
Evalgelii Gaudium
Prima di tutto
c’è il bene
da fare e da far
crescere
L’«umanesimo del sì»
di Francesco è fedeltà
al Vangelo
Scendendo dalle sicurezze oggettive della norma
alla sua mediazione nel vissuto soggettivo
delle persone, si può incorrere nell’errore.
Questo pericolo non può arroccarci sulla norma
e abbandonare le coscienze alla loro solitudine.
La morale è norma del bene per le persone. Essa insegna a vivere bene facendo il bene. Il Vangelo è via alla vita
buona e ci dà norme per percorrerla. Sono qui le due polarità della morale: la persona e la norma. La persona anzitutto, soggetto dei propri atti. E la norma che li dirige al
bene. La Chiesa, istruita dal Vangelo, ha assolto lungo i secoli il servizio della verità morale, insegnando norme di azioni nei vari campi dell’agire. Come in altri ambiti della
teologia e del magistero – quando occorre declinare insieme due coefficienti distinti ma complementari di uno stesso assetto di vita – anche tra “persona” e “norma” si sono
avuti degli squilibri, sull’una o l’altra polarità. A seguito
delle sollecitazioni venute dai rivolgimenti scientifici e culturali del nostro tempo, specialmente nel campo delle cosiddette “questioni eticamente sensibili”, il magistero e la
teologia hanno dovuto elaborare norme per orientare i
comportamenti. La catechesi e la predicazione ne mediano
l’insegnamento e la diffusione, rischiando però di limitare
l’attenzione a ciò che la Chiesa autorizza o proibisce. A
questa deviazione normativistica e proibizionistica contribuisce molto l’enfasi dei mass-media, che riducono la dottrina morale della Chiesa – e il suo umanesimo del “sì” – a
una serie di “no”. Cosicché agli orecchi della gente arrivano perlopiù princìpi, leggi, veti, divieti. Norme fredde, rigorose: incuranti delle persone, delle loro situazioni, delle
loro storie – nella unicità, singolarità, concretezza di ciascuna. In un simile habitat etico molte persone finiscono
per sentirsi più giudicate che comprese, più gravate che
sorrette, più colpevolizzate che accompagnate. E si perdono d’animo, s’allontanano.
Consapevole di questo sbilanciamento, papa Francesco
ha voluto riequilibrare sulla “persona” il rapporto con la
“norma”. Lo fa ogni giorno con i suoi gesti, nelle sue omelie.
Lo ha fatto intravedere in alcuni dialoghi-interviste. Lo ha
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spiegato nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, cui
attingiamo in questa riflessione (che segue quella pubblicata il 20 dicembre scorso, ndr). La teologia e la catechesi in
campo morale, non esauriscono il loro compito con l’elaborazione e l’enunciazione della norma. La legge è oggettiva:
valet ut in pluribus, vale in generale e in astratto. L’agire è
soggettivo: singolare e concreto.
L’annuncio morale deve farsi carico di questa singolarità
e concretezza, in ciò che essa ha di complesso, conflittuale,
sofferto, drammatico per le persone. Caricarle esclusivamente del peso della norma, abbandonandole al suo giudizio, non è conforme né al messaggio del Vangelo né alla missione della Chiesa. Non è consono, ci sta dicendo il Papa, al
Vangelo della misericordia e al volto della Chiesa, a un tempo Maestra di verità e Madre di misericordia.
Non si tratta di sminuire la radicalità e l’ideale evangelico.
Si tratta di evitare la subordinazione delle persone alla
legge. Non è la persona per la legge, ma la legge per la persona. In ordine non al bene ideale, ma al bene possibile, di
cui una persona è capace in una situazione o in una fase del
suo cammino di vita. In questa attenzione alla persona, il
Papa ricorda ai Pastori i condizionamenti del conoscere e
del volere, che abbassano o annullano il grado di responsabilità delle persone. Essi «non possono dimenticare ciò che
con tanta chiarezza insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica: “L’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate dall’ignoranza, dall’inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali”». Per
questo diventa difficile giudicare e vale il consiglio evangelico: «Non giudicate» (Mt 7,1).
Il Papa esorta i sacerdoti e gli operatori pastorali a una
proposta morale positiva e a una prassi pastorale d’accompagnamento. La catechesi morale non deve privilegiare le
proibizioni, i divieti, i mali da evitare, ma il bene da compiere: «Indicare sempre il bene desiderabile, la proposta di
vita, di maturità, di realizzazione, di fecondità, alla cui luce
si può comprendere la nostra denuncia dei mali che possono oscurarla. Più che come giudici oscuri che si compiacciono di individuare ogni pericolo o deviazione, è bene che possano vederci come gioiosi messaggeri di proposte alte, cu-
Santo Padre
stodi del bene e della bellezza che risplendono in una vita fedele al Vangelo».
L’altra esortazione è a una prassi etico-pastorale d’accompagnamento, in un cammino personalizzato di crescita graduale, segnato dalla forza sanante e vitale dei sacramenti:
«Bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo
giorno per giorno. Ai sacerdoti ricordo che il confessionale
non deve essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore, che ci stimola a fare il bene possibile. Un
piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più
gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà.
A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute».
Di qui il richiamo a tenere «le porte aperte». Dalle porte
delle chiese, a quelle della comunità ecclesiale, alle porte dei
sacramenti, le quali «non si dovrebbero chiudere per una
ragione qualsiasi». Questo vale in particolare per «il Battesimo che è “la porta”». E per l’Eucaristia, la quale «non è un
premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento
per i deboli». E invece «di frequente ci comportiamo come
controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa – ricorda a tutti il Papa – non è una dogana, è la casa pa-
terna, dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa».
Scendendo dalle sicurezze oggettive della norma alla sua
mediazione nel vissuto soggettivo delle persone, si può incorrere nell’errore. Questo pericolo non può arroccarci sulla norma e abbandonare le coscienze alla loro solitudine.
Fossero pure erronei – invincibilmente erronei, li dice la teologia morale –, i sinceri giudizi di coscienza sono da rispettare. Questo patrimonio personalistico della morale cattolica è alla base dell’incoraggiamento del Papa a non rinchiuderci nella legge, ma ad avvicinarci alle coscienze, accompagnandole nella deliberazione del bene possibile e aiutandole a rialzarsi da ogni caduta: «Più della paura di sbagliare
spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture
che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli».
Mettendo al centro la persona, il Papa polarizza sulla
grazia la morale. Morale della grazia, non della legge.
«Noi – infatti – non siamo più sotto la legge, ma sotto la
grazia», assicura san Paolo (Rm 6,15). Che non significa una
grazia senza la legge.
Ma una legge assunta dalla grazia, che è dono per conoscere e adempiere il bene, e perdono, misericordia, per non
soccombere al male.
La cultura
dell’incontro
zione con la Segreteria di Stato e con la Prefettura della Casa Pontificia; e della dimensione etica e spirituale che sapete cogliere in ciò che fate.
A riguardo proprio del valore, del significato del vostro operato, permettetemi di sottolineare una prospettiva che ritengo molto importante. Per il vostro servizio, voi siete nella condizione di favorire la cultura dell’incontro. Siete funzionari diplomatici e tutto il vostro lavoro tende a far sì che
i rappresentanti dei Paesi, delle Organizzazioni internazionali, delle Istituzioni possano incontrarsi nel modo più proficuo. Quanto è importante questo servizio! L’aspetto propriamente cerimoniale, più visibile, è finalizzato a ciò che
non appare, alla crescita di relazioni positive, basate sulla
conoscenza reciproca, sul rispetto, sulla comune ricerca di
vie di sviluppo e di pace.
In particolare, voi avete, in tutto ciò, una carta in più da
giocare: quella del patrimonio culturale italiano. L’Italia è
sempre stata nel mondo sinonimo di cultura, di arte, di civiltà. E voi contribuite a far sì che questo sia valorizzato per
la cultura dell’incontro, che tale patrimonio vada a vantaggio del bene comune, di quella che Paolo VI chiamava la civiltà dell’amore.
Il Natale ormai vicino è la festa dell’incontro tra Dio e
l’uomo. Ci viene donato un Bambino che nella sua persona
realizza pienamente questo incontro. Anche chi non è cristiano si sente interpellato dal messaggio del Natale di Gesù. Auspico che ciascuno di voi possa vivere intensamente
questo mistero d’amore, e che esso animi in profondità anche il vostro servizio.
Soprattutto desidero augurarvi che il Signore Gesù doni
tanta pace e serenità alle vostre famiglie, ai bambini, agli
anziani, alle persone malate. Vi ringrazio ancora e vi chiedo
per favore di pregare per me. Vi auguro buon Natale!
Parole del Santo Padre Francesco ai funzionari
del cerimoniale diplomatico della Repubblica
Italiana e ai funzionari dell’Ambasciata d’Italia
presso la Santa Sede.
Sala Clementina
Venerdì, 20 dicembre 2013
Signor Capo del Cerimoniale,
Signor Ambasciatore,
Illustri Signore e Signori,
Vi saluto tutti cordialmente e vi ringrazio per questa vostra visita, che il clima natalizio rende ancora più gradita.
Prima di tutto desidero esprimervi la mia riconoscenza
per tutto l’aiuto che voi date al mio ministero con il vostro
lavoro, specialmente quello nascosto, che non si nota, ma è
tanto prezioso. Grazie davvero di cuore!
Il 19 marzo scorso, ad esempio: è difficile rendersi conto
di tutta l’attività diplomatica che c’era dietro quel grande
incontro. E allora ecco oggi l’occasione propizia per ringraziarvi. Non solo, ma anche per dirvi che sono molto contento di quello che ho appena ascoltato: della vostra collabora-
www.avvenire.it
febbraio 2014
IRC 9
Chiesa
«Il Papa non
vuole riformare
la fede,
ma i fedeli»
Georg Gänswein: assoluta continuità tra lui
e Benedetto XVI. Il prefetto della Casa Pontificia
parla della sua esperienza tra i due pontificati
in un’intervista alla televisione bavarese
e un’altra a un mensile tedesco.
«Quando si è avvicinato e io l’ho osservato, mi ha parlato in tedesco – il che mi ha sorpreso, ma ha studiato a Francoforte – e mi ha subito chiesto: come sta papa Benedetto?».
Così l’arcivescovo Georg Gänswein, prefetto della Casa pontificia, ha raccontato il primissimo incontro con papa Francesco avvenuto pochi attimi dopo la sua elezione al Soglio
pontificio, nella Cappella Sistina. L’ha fatto in un’intervista
di venti minuti rilasciata alla giornalista Susanne Hornberger e trasmessa a Capodanno dalla tv bavarese BFS.
«Dolore, tristezza e incertezza» sono i sentimenti che
hanno segnato «le prime settimane» dalla rinuncia di Bene-
detto al pontificato per Gänswein, che si è ritrovato a fare
da ponte tra «due Papi con personalità diverse», ma uniti
non solo dalla «cordialità, dalla stima reciproca e dalla simpatia, intima ed esteriore » che caratterizza il loro attuale
rapporto. Il presule tedesco ha invitato a vedere l’«assoluta
continuità» nel loro Magistero, a partire dall’enciclica Lumen Fidei, «che come lo stesso papa Francesco ha detto è
stata scritta a quattro mani».
Le differenze fra i due riguardano «gli accenti, che mettono in evidenza contenuti diversi». «Fede e ragione, il relativismo, sono temi su cui papa Benedetto XVI ha insistito
molto negli ultimi anni e che in papa Francesco restano defilati», perché Bergoglio «proviene da un’esperienza molto
diversa vissuta in Argentina come arcivescovo di Buenos Aires, che ha portato con sé nel ministro petrino». Francesco
è «con tutti così come appare», ha sottolineato Gänswein,
che ha modo di frequentarlo quotidianamente, e che ne parla come di «un uomo senza paura, con una grande libertà interiore».
Sulla riforma della Curia romana dice: «Siamo in attesa
di vedere su quali punti si interverrà e come. Ma non vedo
nessuna rivoluzione... Neanche con la migliore volontà posso pensare che la Chiesa si trovi in una situazione così catastrofica che è ora di rimetterla in piedi». E aggiunge: «Papa
Francesco non vuole riformare la fede, ma i fedeli. È una distinzione importante. La sostanza della fede è quella, con
lui, con i suoi predecessori, e anche dopo di lui. L’importante è che i fedeli vivano veramente la fede, e ci sono diverse
forme per viverla che bisogna sostenere. Là dove ci sono forme sbagliate, bisogna aiutare a correggerle».
Quella alla televisione bavarese non è l’unica intervista
di monsignor Gänswein uscita in questi giorni in Germania. Il numero di gennaio del mensile Cicero riporta un lungo colloquio tra lui e il giornalista Alexander Kissler, intitolato «Quelli che fanno festa si
sorprenderanno», in cui il prefetto della Casa pontificia torna sul rapporto con il Papa attuale e l’emerito, e su questioni
che riguardano la Chiesa tedesca. Dalla Kirchensteuer, la tassa ecclesiastica – la sua impostazione «è migliore rispetto alla sua fama», dice, ma bisogna
riflettere se la sua applicazione
non porti a una «mondanizzazione» della Chiesa – e sul caso
della diocesi di Limburg, che ha
visto il vescovo contestato e poi
temporaneamente allontanato
dalla sua cattedra, su cui Gänswein invita ad andare oltre alle ricostruzioni mediatiche e a
guardare alle tensioni con Roma presenti all’interno della
diocesi stessa, su «questioni di
fede e di orientamento» generale.
Andrea Galli
Avvenire – 5 gennaio 2014
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Il Sacro e gli scrittori - Un epistolario Divino
Natale è l’irrompere di Dio nella storia dell’umano,
così radicale al punto che l’Eterno si fa carne nell’uomo
Dai primi secoli i cristiani hanno percepito una distanza più ravvicinata con l’Assoluto al punto da rivolgergli la parola con
confidenza filiale. È quello che fanno decine e decine di personalità della cultura, dell’arte, della società, tra i quali anche diversi “umanisti” o membri di altre religioni, nel libro Lettres à Dieu (Calman-Lévy), curato dallo scrittore e saggista René
Guitton, autore di diverse inchieste sui monaci di Tibhirine (Algeria).
Per gentile concessione del curatore del volume, pubblichiamo nelle prossime pagine tre delle «Lettere a Dio» (trad. it. di Lorenzo Fazzini): la prima a firma dello scrittore Roger Bichelberger del quale nel 2012 l’editore Albin Michel ha pubblicato il
romanzo Bérénice; la seconda della romanziera Sylvie Germain, nota in Italia per Il libro delle notti; la terza del vescovo-missionario nel Sahara, monsignor Claude Rault, appartenente all’Istituto dei Padri bianchi, autore del volume Désert, ma cathédrale edito da Desclée de Brouwer.
«M’interessi,
perché tuo
Figlio si è fatto
ultimo
tra gli ultimi»
«Secondo Voltaire, saresti il grande orologiaio;
oppure, per altri, impassibile come la pietra.
Ma questo è il Dio dei filosofi e dei sapienti.
Lontano da me».
Se ho esitato molto a scriverti, è per il fatto che io ti parlo
e tu rispondi. Allora, ecco una lettera... No, tu non sei colui
che crediamo tu sia e di cui gli uomini conoscono abbastanza: il Dio dei filosofi e dei sapienti. Se lo fossi, saresti l’esecutore potente delle tue sentenze, signore dei tornado, della peste e dell’Aids. Saresti l’orologiaio di Voltaire, un vero e proprio computer, il grande ordinatore dei mondi, il sovrano egoista, che crea ammiratori, adulatori e adoratori per il suo
proprio piacere. Insomma, il signore dell’Universo.
Tu saresti impassibile come la pietra e non avresti per gli
uomini viscere di madre. Tu saresti il dio che non mi interessa.
Se tu mi interessi (e io so che sorridi dei miei balbettii, visto che sei un Dio che ride) è perché sei il Dio che si inginocchia davanti ai suoi figli. Come Giacobbe al guado di Jabbok, quando vi siete battuti fino all’alba e tu hai fatto di tutto per non avere il sopravvento. Tu hai mostrato il tuo volto disarmato perché Giacobbe fosse “forte contro Dio” e divenisse Israele. Come è avvenuto con il tuo profeta Osea,
quando gli hai chiesto di essere la metafora dell’amore. Perché tu, mendicante di amore, sai cosa significa amare, e che
non esiste amore senza libertà. Su tua richiesta, Osea ha
preso in moglie Gomer la prostituta e ha iniziato a sedurla
come tu con il tuo popolo. “Ti condurrò nel deserto, parlerò
al tuo cuore”.
Se mi interessi, Padre, è perché tuo Figlio ha voluto farsi
carne e, con lo schiavo umiliato, la donna violentata, il bambino torturato, mettersi al livello più basso, su una croce.
Tu sai donarti senza riserva, consegnarti per amore e ridare speranza. È cosa bella e buona sapersi amati dal destino
e raggiunti nella nostra umanità da colui che ha voluto conoscere la debolezza per renderci forti. Grazie al tuo soffio,
vivere è possibile.
Questa sera ti ho scritto per dirti grazie di chi sei tu.
Roger Bichelberger
Presidente dell’Associazione degli scrittori credenti
«Nel silenzio
più profondo,
tutto il resto
è letteratura»
«A chi scrivere? Così mi rivolgo a te,
sconosciuto, ai confini del Cielo e della Terra,
qui nella polvere e nel fango,
in ogni momento, fino alla fine del tempo».
Una lettera a Dio?
Ma nessuna lettera può esserGli scritta, visto che nessuna parola può arrivare ad esprimere ciò che si vorrebbe dirGli, sia per presentare lodi, lamenti, suppliche, o per gridarGli la propria collera, tristezza, dolore di fronte al male
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IRC 11
Il Sacro e gli scrittori - Un epistolario Divino
che è sempre in piena attività, nel continuo guazzabuglio in
disordine di questo mondo. Oppure, per chiederGli perdono
di dubitare così tanto di Lui, di dubitare così tanto degli uomini, e di amarsi così poco gli uni gli altri. Il pensiero non finisce mai di sbagliare nei propri errori, porte aperte di fronte all’abisso di Dio.
Una lettera a Dio? Ma a che nome e a quale recapito indirizzarla? Da nessuna parte. Dunque dappertutto. Al Dio
sconosciuto, ai confini della Terra e del Cielo, qui nella polvere e nel fango, in ogni momento, fino alla fine del tempo.
Una lettera a Dio? Ma la maggior parte degli scritti, delle opere, dei pensieri degli uomini, le loro preghiere, le loro grida, i loro insulti, le loro lacrime e i loro sorrisi non sono
frammenti sparsi di un’immensa lettera collettiva che è
sempre in corso d’opera, che si sta radunando, che si sta lacerando e ricomincia? E questa lettera balbettante, “babeliana”, si compone nel cuore di ciascuno. In un silenzio così
profondo, talvolta, al punto che lo stesso scrivente ignora
che egli si sta rivolgendo a Dio, addirittura che la sta scrivendo. A Dio, nascosto nel posto più segreto di questo stesso cuore epistolare.
La lettera, l’indirizzo: i luoghi più reconditi del cuore umano. Non esiste un altro Tempio. Nessun altro Luogo santo. Il contenuto: un tremolio di silenzio, un confuso mormorio di sangue, un lungo sospiro del pensiero, una vibrazione
dell’anima. Un sorriso, tra una tristezza e una speranza.
Una chiamata, un ascolto. Un’attesa.
La firma: un semplice nome, sul confine della trasparenza. Tutto il resto è letteratura.
Sylvie Germain
Scrittrice e filosofa
«Pregare
insieme fra
credenti come
pellegrini
nel deserto»
Carissimo Dio, tu mi hai messo, per i casi della Storia e
dei meandri di un’itinerario di cui Tu solo conosci l’origine
e la fine, nel cuore del mondo dove ti si chiama Allah, il Clemente e il Misericordioso. Tu mi hai fatto vivere dentro questo popolo nella gioia e nelle lacrime, nei giorni più bui come in quelli più luminosi. Ho conosciuto e conosco ancora la
gioia e l’amarezza di questo popolo che amo. Talvolta amici
e vicini delle due rive del Mar Mediterraneo si interrogano
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ancora sul senso della presenza della nostra piccola e fragile Chiesa nel cuore di questo Paese. E quello che potrebbe
sembrare un’evidenza ci ritorna spesso come una domanda:
“Musulmani e cristiani, potete veramente pregare insieme?”.
Che ne pensi Tu, Tu che accogli ogni giusta preghiera e
che soddisfi ogni sete? Che ne dici Tu, che ci ascolti e ci guardi nel più profondo dell’angolo di Cielo più nascosto, il cuore di ogni essere umano? È vero, i nostri orizzonti religiosi
sono diversi, ma i nostri minareti e i nostri campanili sono
vicini. Noi lavoriamo insieme la terra che Tu ci hai affidato.
Il cielo che Tu hai creato, nuvoloso o pieno di sole, radioso o
oscuro, è lo stesso per tutti. Condividiamo gli stessi sforzi,
desiderosi di un mondo migliore, artigiani di una Terra più
fraterna. Gli antenati che ci hanno generato non sono il nostro padre Adamo e nostra madre Eva? Attraverso balbettii
e ricerche, parole e silenzi, canti e incantamenti, noi cerchiamo Te, carissimo Dio.
Eppure, ce lo dicono e spesso ce ne mettono in guardia
saggi e sapienti di ogni parte, chierici eminenti e dotti imam: Sì, possiamo pregare ‘fianco a fianco’, ma in silenzio.
Sì, possiamo pregare nello stesso momento, ma ben separati. Sì, possiamo pregare nello stesso luogo, ma gli uni dopo
gli altri. Sì, possiamo pregare lo stesso Dio, ma non con le
stesse parole. Sì, possiamo pregare... ma soprattutto... non
insieme! Carissimo Dio, Tu saresti così complicato? L’identica violenza ha scosso le nostre comunità. La stessa morte
ha creato un vuoto nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità e nei nostri cuori. La stessa speranza di un paradiso
senza frontiere condisce i nostri sogni più folli. Carissimo
Dio, il nostro sangue è mescolato. Affrontiamo le stesse prove, piangiamo insieme al capezzale dei nostri morti, sopportiamo le stesse sofferenze, subiamo la stessa morte. Siamo
riuniti nell’identico dolore per la morte di un amico, un fratello, una sorella scomparsi prematuramente, amici cristiani e musulmani mescolati, piccola folla mischiata nella stessa sofferenza.
Carissimo Dio, le nostre lacrime sono mescolate. Riuniti
per condividere le nostre feste famigliari o religiose, condividiamo lo stesso gusto di vivere. Muoviamo gli stessi passi
nella danza, lo stesso sorriso fiorisce sulle nostre labbra e
nei nostri cuori in festa. Carissimo Dio, la nostre gioie sono
mescolate.
Assetati di giustizia e pace, desiderosi di un futuro degno
di questo nome per la nostra gioventù e il nostro Paese, siamo insieme umili artigiani dell’avvenire. Rifiutando di rassegnarsi alla violenza da qualunque parte essa venga, ci impegniamo per un oggi che vogliamo migliore per l’indomani. Carissimo Dio, le nostre speranze sono mescolate.
Non sapendo cosa sarà per noi il domani, le nostre preghiere sgorgano dalle nostre labbra e dai nostri cuori, spontanee o rituali, silenziose o supplicanti.
Carissimo Dio, Dio del nostro futuro! Il nostro sangue è
mescolato, le nostre lacrime sono mescolate, lo sono anche
le nostre gioie e le nostre speranza. Così come le nostre preghiere!
E in questo fraterno mescolarsi, carissimo Dio, tu fai una
sola melodia di queste nostre voci, di ogni nostra lode, di
tutte le nostre suppliche.
Claude Rault
Vescovo di Laghouat-Ghardaia (Sahara algerino)
Il senso del giusto
Il mondo
di un eroe
Aitzaz, 14 anni, e il senso del giusto.
Basta leggere i commenti che da ogni parte del mondo, usando il riferimento #onemillionaitzaz, da giorni affluiscono alla bacheca elettronica di Twitter. Commossi quelli dei
non pachistani, che esaltano come un eroe Aitzaz Hassan, il
ragazzo di 14 anni che nel villaggio di Hangu, nel Pakistan
che confina con l’Afghanistan, si è immolato per fermare un
kamikaze che voleva farsi esplodere nella sua scuola. Arrabbiati quelli dei pachistani, che piangono il ragazzo come
una vittima. L’ultima di una serie sconfinata di vite: quelle
sacrificate al fanatismo e alla violenza.
Hanno ragione gli uni e gli altri, naturalmente. Come si
potrebbe non parlare di eroismo in questo caso? Minacce,
sparatorie e attentati sono da anni l’inevitabile accompagnamento della vita quotidiana nella regione del Khyber
Pass, Aitzaz non poteva non sapere quanto stesse rischiando nel momento in cui cercava di fermare l’attentatore. Ma
ancor più difficile sarebbe non capire i sentimenti dei pachistani, chiamati a piangere il ragazzo nelle ore in cui l’ex
presidente Ali Asif Zardari finisce sotto processo per corruzione per le ricchezze accumulate nel periodo in cui fu primo ministro della moglie (poi assassinata) Benazir Bhutto,
nei giorni in cui l’ex dittatore Pervez Musharraf viene accusato di tradimento dello Stato, nelle settimane in cui l’attuale premier, Nawaz Sharif, per la terza volta in carica, si
mostra sempre più incapace di affrontare le sfide del governo, siano esse il terrorismo, la disoccupazione o i cronici
black out della rete elettrica. Di fronte a questo non tutti i
giovani pachistani hanno lo spirito per affidare a Twitter un
commento come quello di Ishan Alì Sabiri, che cita Winston
Churchill per dire: «Nessun successo è finale, nessun fallimento è fatale: ciò che conta è il coraggio di andare avanti».
Al contrario, molti si sentono lasciati soli, abbandonati di
fronte ai violenti da un regime che oggi piange Aitzaz ma
dal 2009 tiene in carcere Asia Bibi e altre decine di persone
solo perché non ha (appunto) il coraggio di intervenire sull’assurda legge contro la blasfemia, usata come una clava
contro le minoranze dalle frange più fanatiche dell’islam
pachistano. È stato calcolato che metà delle vittime delle
guerre degli anni Novanta era formata da ragazzi di età inferiore ai 18 anni. Oggi è ancora così. E ancora una volta emerge quanto molti sostengono da tempo: la battaglia contro i fanatici si vince nelle scuole. Tayyab Younis, un giovane di Lahore (Pakistan), ha scritto su Twitter: «Malala ha rischiato la vita per l’educazione, Aitzaz ha sacrificato la propria per quelli che cercano un’educazione». Difficile descrivere in modo più efficace i due piani su cui impegnarsi per
il riscatto. Nel caso di Malala Yousafzai, la ragazza pachistana che fu ferita alla testa dai talebani e ora è candidata
al premio Nobel per la Pace, la difesa del diritto di tutti, ma
delle ragazze in particolare, a ricevere un’educazione utile e
completa. In questo la cooperazione dei Paesi democratici e
sviluppati, in primo luogo quelli occidentali, è fondamentale. Ma poi c’è il piano locale, l’azione nella comunità, in cui
nessuno può sostituire i cittadini dei singoli Paesi, siano essi afghani, pachistani, iracheni. Aitzaz ci ha dato un modello altissimo, in questo senso. Che dev’essere maturato, però,
in una famiglia, in un gruppo, in un quartiere, insomma in
un qualche contesto favorevole. Ecco: mentre onoriamo il
sacrificio di Aitzaz, non dimentichiamo il lavoro oscuro di
queste persone. Per lui possiamo solo tener desta la memoria, per loro possiamo fare anche molte altre cose.
Fulvio Scaglione
Avvenire.it – 11 gennaio 2014
Malala
si schiera con
il baby-eroe
Per i pachistani è già un eroe e come tale sarà probabilmente insignito di un’alta onorificenza dal suo governo. Aitzaz Hassan, il 14enne morto il 6 gennaio insieme al kamikaze del gruppo Lashkar-e-Jhangvi di cui ha impedito
l’accesso alla sua scuola nel distretto di Hangu, nella provincia di Khyber-Pakhtunkhwa. Il suo è già un esempio di
come proprio i giovani siano portatori degli anticorpi contro
i mali che assediano questo Paese, a partire dal terrorismo
e dal radicalismo religioso.
A chiedere alle autorità federali un’alta onorificenza civile, finora assegnata raramente a cittadini così giovani e
l’unica postuma, è Nasir Khan Durrani, capo della polizia
della provincia. In una lettera inviata al primo ministro del
governo del Khyber Pakhtunkhwa, Pervez Khattak, Durrani ha chiesto che venga riconosciuto il «coraggio» dimostrato da Hassan. Nel messaggio, Durrani ricorda che «l’attentatore suicida ha tentato di entrare nella scuola dove c’erano centinaia di studenti. Aitzaz Hassan ha sacrificato la sua
vita e fermato l’attentatore».
A sollecitare un riconoscimento a livello nazionale del sacrificio di Aitzaz è anche Malala Yousafzai, colpita alla testa
dai proiettili sparati da un sicario taleban il 9 ottobre 2012,
sopravvissuta e da allora ancora più convinta paladina del
diritto allo studio per le coetanee.
Proprio la famiglia di Malala ha deciso di donare mezzo
milione di rupie pachistane (3.500 euro) ai genitori del ragazzo che si è sacrificato per salvare un gran numero di coetanei.
«Sono orgogliosa di questa azione coraggiosa e pia. Mi auguro che il suo sacrificio porti la pace al mio popolo e al mio
Paese», ha dichiarato Malala, che ha chiesto al governo di Islamabad di riconoscere al giovane la massima onorificenza
civile. «Sono orgogliosa di appartenere a un Paese dove sono nate molte persone coraggiose come Aitzaz Hassan».
Stefano Vecchia
febbraio 2014
IRC 13
Il diario iracheno
Scuole
cristiane in Iraq:
educare alla
speranza
Mentre continua a scendere il numero dei cristiani in
Iraq (da oltre un milione a 450mila negli ultimi dieci anni), aumentano gli iscritti alle scuole cristiane. Un paradosso solo apparente.
«Il fatto è che le nostre scuole offrono standard superiori alla media sia nella dimensione dell’istruzione sia in
quella educativa – spiega monsignor Giorgio Lingua, un
piemontese alto e dai tratti signorili che da tre anni è nunzio apostolico a Baghdad -. Per questo molte famiglie musulmane le scelgono per i propri figli, unitamente a quelle cristiane che però rappresentano una minoranza».
Dopo essere state “statalizzate” durante l’epoca buia
La casa
di Abramo,
seme di fede
e pace
Missione compiuta. Quella che poteva apparire come
una sfida impossibile si è dimostrata una strada praticabile. Sono rientrati ieri dall’Iraq i venti italiani che hanno partecipato al “gesto profetico” promosso dall’Opera
Romana Pellegrinaggi e guidato dal vicepresidente monsignor Liberio Andreatta. La meta principale è stata la
casa di Abramo nella piana di Ur, nella parte meridionale del Paese, da dove quattromila anni fa ha preso le mosse la grande avventura umana e religiosa che ha dato origine al popolo ebraico e che ha trovato compimento in
Cristo. Come noto, Abramo viene venerato, oltre che dagli ebrei, anche dai musulmani che lo considerano uno
dei profeti che ha preceduto l’insegnamento di Maometto. L’altro gesto altamente significativo è stato l’incontro
con le comunità cristiane che vivono in Iraq, piccole e
sempre meno numerose (il totale è sceso da oltre un milione di fedeli a 450mila in dieci anni) ma animate da uo-
14 IRC
febbraio 2014
del regime di Saddam Hussein, da dieci anni questi istituti hanno ritrovato libertà d’azione e attirano un numero crescente di studenti, pur nella ristrettezza dei mezzi
e degli spazi a disposizione.
Non ci sono statistiche complete, ma il nunzio conferma il trend ascendente e sottolinea che “l’educazione è un
investimento strategico perché permette di far crescere
giovani con valori solidi, con una mentalità aperta all’incontro e al confronto con chi è diverso da sé, supera la tentazione del ghetto e contribuisce alla formazione di una
classe dirigente in grado di dare un futuro più solido a un
Paese ancora fragile e diviso. È la testimonianza che la
Chiesa, anche se piccola quanto a dimensioni, svolge un
grande compito di servizio alla nazione”.
Lo stesso si può dire di ospedali e centri di assistenza
di ispirazione cristiana, che godono di ottima reputazione
per la qualità del servizio offerto. Educare a uno sguardo
positivo sulla realtà, valorizzare la bellezza, lo spirito critico, la disponibilità all’incontro e al dialogo con tutti; sono elementi preziosi per un Paese che sta faticosamente
edificando il suo futuro, tra divisioni politiche e religiose
(soprattutto tra le componenti sciite e sunnite) e i guasti
provocati dal terrorismo di matrice qaedista che negli ultimi mesi ha ucciso migliaia di persone.
Giorgio Paolucci
Avvenire.it - 18 dicembre 2013
mini e donne di grande fede, che testimoniano una volontà di pace e di riconciliazione in una terra divisa e fragile.
Emblematica e commovente la Messa di martedì nella
cattedrale caldea di San Giuseppe a Baghdad, presieduta
dal patriarca Rapahel Sako e a cui hanno preso parte le
comunità che celebrano nei quattro riti presenti in Iraq:
oltre ai caldei, i latini, gli armeni e i sito-cattolici. Presenti in chiesa, oltre al nunzio vaticano Giorgio Lingua, anche alcuni musulmani che in questi giorni hanno accompagnato i pellegrini, a testimonianza della volontà di concordia presente in tanta parte della popolazione. «Celebrare il mistero della morte e resurrezione di Cristo con
voi questa sera rinvigorisce la nostra speranza, ci fa capire che non siamo soli e che l’unità è il bene più prezioso
che i cristiani devono coltivare tra loro e testimoniare a
questa società che ha bisogno di riconciliazione e di perdono reciproco». Alle parole del patriarca caldeo Sako si
sono aggiunte quelle di Andreatta, che ha rilanciato l’esortazione di Giovanni Paolo II: «Non abbiate paura, aprite le porte a Cristo. Siamo venuti in questa terra come
pellegrini di pace, abbiamo trovato accoglienza, calore, affetto da parte di tanta gente e la sicurezza necessaria per
compiere un gesto come questo. Non ci siamo fatti fermare dalla paura, e preghiamo perché chi vive in queste terre sia capace di guardare con fede e fiducia le difficoltà che
popolano l’esistenza quotidiana». Giovanni Paolo II desiderava andare come pellegrino in Iraq fino alla casa di Abramo, ma la guerra lo aveva fermato. «Non è potuto venire qui da vivo, ci viene ora idealmente da beato e prossimo santo», ha detto Andreatta. Infatti tra i doni portati
dall’Italia alle comunità cattoliche di Baghdad c’è un
Riflessioni
frammento della veste intrisa di sangue che Wojtyla indossava il 13 maggio 1981, il giorno dell’attentato in Piazza San Pietro. È stato offerto alla cattedrale siro-cattolica
di Nostra Signora della Salvezza, dove il 31 ottobre 2010
un gruppo di terroristi legato ad Al-Qaeda ha seminato
morte e devastazione facendo irruzione durante la celebrazione della Messa e uccidendo 47 persone. Papa Francesco aveva benedetto i doni prima della partenza, invitando a pregare «per la cara nazione irachena purtroppo
colpita quotidianamente da tragici episodi di violenza
perché trovi la strada della riconciliazione, della pace, dell’unità e della stabilità». Durante il pellegrinaggio, che si
è snodato da Bassora fino a Baghdad, ci sono stati anche
incontri significativi con alcuni leader religiosi musulma-
ni, con i pellegrini sciiti in cammino verso i luoghi santi di
Najaf e Karbala, e con i governatori delle province di Bassora e Thiqar, nella parte meridionale del Paese, impegnati a ricucire il tessuto sociale e umano di questa terra.
«Anche noi, come Abramo, ci siamo affidati con coraggio
alla Provvidenza – commenta Andreatta al termine della
settimana -. Abbiamo superato pregiudizi e scetticismi, e
si è aperto un nuovo cantiere per realizzare itinerari di
grande interesse religioso e culturale in una terra che è
culla millenaria di civiltà ed è rimasta a lungo preclusa ai
pellegrini. Anche così si può contribuire alla costruzione
della pace e a ridare fiducia al popolo iracheno».
Sorpresa
senza fine
posto’, sentirsi anzi sempre limitati e bisognosi di ricominciare, farsi compagni di cammino degli altri, cercare una risposta agli interrogativi della vita non in un cupo monologo interiore ma nella vertiginosa e consolante apertura della preghiera. L’«inquietudine della ricerca», che nasce dal
«pensiero incompleto» e «aperto» a un Dio «che ci sorprende senza sosta», garantisce un cuore «sempre in tensione»,
«che non si adagia, non si chiude in se stesso», non «atrofizzato» ma in continuo movimento. Quello che percorre gli
insegnamenti di Bergoglio è un dinamismo esigente ma lieto, lo stesso dal quale – in fondo – ci sentiamo istintivamente attratti: «Oggi Dio ci chiede questo: di uscire dal nido che ci contiene, per essere inviati». Lo dice ai religiosi,
ma alzi la mano chi si sente escluso da un simile invito. E
ancora, stavolta parlando ai gesuiti: «Bisogna cercare Dio
per trovarlo, e trovarlo per cercarlo ancora e sempre», proprio in quelle «acque profonde» dove Bergoglio più volte ha
chiesto di spingersi.
Un desiderio senza fine, ecco cosa muove il credente: lo
disse Agostino, lo ripete oggi il Papa che ci incoraggia a essere «audaci» e non «mediocri», capaci di «svegliare il mondo», come chiede ai consacrati. La vita di fede alla scuola
del Pontefice è infatti un nuovo inizio ogni volta che ci si
crede arrivati, o si teme di essersi persi, tentati di lasciar
perdere: è proprio allora che occorre «pregare per desiderare e desiderare per allargare il cuore», evitando che, col
tempo e le amarezze, questo diventi «acido come l’aceto».
Bisogna chiedersi spesso se si assomiglia a quelli che il Papa definisce cristiani «con uno stile di Quaresima senza Pasqua». Perché il movimento impresso da Francesco alla
Chiesa passa per la via della «tenerezza, anche una tenerezza materna», criterio per affrontare «sfide nuove che
per noi sono persino difficili da comprendere», come il caso
dell’annuncio a «ragazzi che hanno i genitori separati», o
con situazioni di convivenza anche complesse. A tutti «il
Vangelo si annuncia con dolcezza, con fraternità, con amore» e non «con bastonate inquisitorie», mossi piuttosto da
«una inquietudine anche apostolica» senza la quale si diventa «sterili».
Cristiani aperti, vivi, capaci di grandi desideri, e persino
di «pazzie». Sospinti da una parola e un sorriso che non
permettono di assopirsi.
Il Papa, la ricerca e l’incontro.
Ha ragione chi dice che con papa Francesco si ha l’impressione di un colloquio personale, uno sguardo diretto
sulla propria vita. Omelie, udienze e discorsi – letti o ascoltati – lasciano spesso un’impronta interiore, un’eco che resta e che non si può attribuire solo alla forza espressiva, o
alle immagine vivide cui il Pontefice ricorre parlando o scrivendo (è anche il caso della Evangelii gaudium, redatta con
uno stile così immediato da sembrare in realtà una coinvolgente chiacchierata spirituale). Le parole si trasformano in germogli, perché dal Papa non si viene solo interpellati ma anche invitati ad agire, a mettersi in discussione, a
cambiare la propria vita, magari proprio là dove inconsciamente la si pensava ormai indiscutibile. Forse è per questo
impulso segreto che la stessa sensazione di un dialogo a tu
per tu, di quell’espressione accogliente e benevola con la
quale Francesco guarda capi di Stato e gente comune, si
imprime nitidamente anche leggendo le ultime due riflessioni di questi giorni: l’omelia nella Messa di ringraziamento per la canonizzazione del gesuita Pietro Favre – figura decisiva per comprendere Bergoglio – e il lungo resoconto del dialogo con i superiori delle congregazioni religiose restituito da padre Antonio Spadaro su Civiltà Cattolica. In entrambi i casi il contesto e gli interlocutori potrebbero far pensare a interventi a uso interno del mondo
dei religiosi, ma non è così, o almeno non solo. Se la cornice resta importante per non manipolare parole il cui significato letterale va rispettato (evitando le operazioni strumentali tentate ieri da qualche agenzia di stampa, e rilanciate da vari organi informativi), gli spunti che il Papa propone hanno a che fare con l’esperienza cristiana di ciascun
credente proprio perché partono dall’essenziale: formare il
cuore, e non solo al rispetto di un codice di comportamento,
alimentare il desiderio di cose grandi, non credersi mai ‘a
Giorgio Paolucci
Avvenire.it – 19 dicembre 2013
Francesco Ognibene
Avvenire.it – 6 gennaio 2014
febbraio 2014
IRC 15
Riflessioni
Sette modi
di dire il falso
Da molti mesi (e non è ancora finita), giornali, televisioni, radio, internet stanno mettendo in scena l’infinito tira
e molla di notizie e non-notizie su Imu, Tasi eccetera. A più
riprese si è montata la macchina delle pensioni dell’Inps
quasi sempre senza mettere a fuoco i veri problemi e, nonostante smentite e precisazioni, si continua a girare e rigirare il mestolo. Poi c’è stato il cosiddetto “caso Cancellieri”, con tutte le sue implicazioni mediatiche e politiche.
Quindi l’epopea dei “forconi”, infine quella del Paese degli
evasi (due in tutto)... Si potrebbe proseguire a lungo negli
esempi, ma bastano questi per arrivare al punto che preme,
da semplice osservatore dei fatti: ossia delle modalità con
cui vengono date le notizie e propinate le non notizie.
Per il momento, ne avrei individuate sette.
1. La notizia-rotocalco. Si verifica quando, mettendosi
al traino di una sempre più omologata società di spettatori, si aggiunge all’articolo o al servizio quel quid di polemica e gossip che spettacolarizza la notizia e la rende “diversamente vera”.
2. La notizia semplificata. Un concetto complesso o sfumato viene ridotto ai minimi termini, in buona o cattiva fede, ma con l’identico risultato di non interpretarlo nel modo giusto.
3. La notizia estrapolata. È la frase isolata, sganciata
dal contesto nel quale è stata pronunciata e messa comunicativamente al centro. L’esito è sempre uno solo: rendere incompleto e spesso fuorviante l’intero discorso.
4. La notizia distorta. Un fatto o il gesto di una persona
non sono riportati per ciò che esprimono nella realtà, ma
vengono interpretati in modo parziale oppure manipolati
o collegati arbitrariamente ad altri contesti.
5. La notizia forzata. Un tipico modo di enfatizzare una
notizia oltre il dovuto è quello di attribuire grande risalto
al titolo, che cattura l’attenzione ma non corrisponde al testo che poi uno legge. In questo caso, oltre a travalicare le
intenzioni dell’autore o, peggio ancora, ad asserire il contrario di quanto scritto, si commette un abuso sul lettore,
ingannandolo.
6. La notizia amplificata. Sempre per dare alla notizia
un peso e una visibilità tale da suscitare un’eco più vasta,
un pensiero che in altro modo risulterebbe normale o espresso in modo normale viene reso ridondante nei contenuti o nelle sue applicazioni, caricandolo così di significati
anomali o rendendolo oggetto di ingiustificate deduzioni.
7. La notizia falsa. Si segnala per ultima questa che probabilmente, invece, è la prima modalità di racconto come
16 IRC
febbraio 2014
ordine di frequenza, o perché nasce da obiettivi precisi o
perché è il frutto di superficialità, involontarie omissioni,
radicati pregiudizi. Oltretutto, anche quando viene smentita, la notizia falsa resta, per il semplice fatto che una notizia falsa fa molto più rumore di una smentita vera. Obbedendo infatti a questa regola, giornali, televisioni, radio
continuano a dare imperterriti la notizia falsa, che agita le
acque, alimenta dibattiti sul nulla, mobilita gli ascolti.
Come chiunque può osservare dalla realtà quotidiana, il
pericolo che i mass-media si trasformino, almeno in una
parte non trascurabile, in una fabbrica del falso esiste davvero. Naturalmente, con sfumature di gravità più o meno
elevata nelle varie tipologie descritte, ma con la chiara percezione che comunque il fatto o il pensiero altrui non vengano interpretati in modo responsabilmente corretto, tradendo così l’obiettivo professionale ed etico di raccontare
le cose con verità.
Giuliano Vigini
Avvenire.it – 6 gennaio 2014
«Il pregiudizio
si batte
a scuola»
Di nazisti immaginari lo scrittore Eraldo Affinati ha
una certa esperienza. «C’era un mio allievo, che si dichiarava naziskin – racconta –. Gli ho consigliato di leggere Il
treno era in orario di Heinrich Böll, il romanzo anti-hitleriano per eccellenza. Il ragazzo mi ha dato retta, si è entusiasmato, ne ha parlato con gli amici. Segno che le sue convinzioni non erano poi così profonde, no?».
Insegnante di lettere in un Istituto professionale romano, Affinati si è trovato a commentare dalla cattedra anche
la notizia della morte di Erich Priebke: «All’inizio la classe era disinteressata, di via Rasella e delle Fosse Ardeatine sapevano poco e niente.
Ma quando hanno scoperto che quell’uomo era stato recluso nel loro quartiere, a Forte Boccea, l’atteggiamento è
cambiato. Si sono resi conto che la storia del Novecento
non era qualcosa di lontano. Al contrario, si intrecciava
con le loro stesse vite, proprio come accade fra vicini di casa».
La lotta al pregiudizi si gioca sul piano educativo, dunque. Ma va giocata con schiettezza. «La prima regola consiste nel non aver paura a ripartire sempre da capo – spiega Affinati –. Mai dare nulla per scontato e, più che altro,
mai prendere la scorciatoia della retorica, che suscita su-
Riflessioni
bito nei ragazzi l’istinto allo sberleffo. E qui interviene la
seconda regola, che consiste nell’evitare di allarmarsi davanti alle provocazioni. Anche quando sembra affiorare
una certa consapevolezza (penso, per esempio, ai cori razzisti negli stadi), a prevalere negli adolescenti è sempre la
volontà di affermarsi, con le buone o con le cattive.
Gli adulti devono rafforzare l’attitudine all’ascolto, sapendo che, anche nel momento in cui rivolgono la loro rabbia contro altri bersagli, in effetti i ragazzi se la stanno
prendendo con il mondo dei grandi, da cui non si sentono
accolti e compresi. Ogni anno, in classe, arriva qualcuno
con la croce celtica disegnata sullo zainetto. E ogni anno di
più mi appare chiaro che quello e altri simboli, svastica
compresa, sono adoperati come una specie di tatuaggio, un
graffito di cui si ignora il significato ma che comunque dovrebbe fare colpo sul professore. È una ricerca di identità
che chiede di essere guidata. Scandalizzarsi non serve a
niente, il dialogo è tutto. È la terza regola, la più importante».
Alessandro Zaccuri
Avvenire.it – 11 gennaio 2014
Io, prof,
degli spinelli
ho imparato
a scuola
Uno scrittore racconta la sua battaglia
e i suoi ragazzi.
Non è vero che un bravo insegnante deve insegnare bene, e basta. L’insegnamento non è cultura soltanto. È vita.
Per insegnare ai ragazzi, devi vivere la vita dei ragazzi.
Leggere quel che leggono. Interessarti a quel che li interessa. Vedere i film che vedono. E, oggi, fare i viaggi che
fanno, anche i viaggi in web.
Un insegnante è una guida, e oggi dovrebbe essere (è la
mia opinione) anche una guida nel web. Alcune esperienze che, mentre le vivevo, mi sembravano devianti rispetto
all’insegnamento, più passa il tempo più mi accorgo che erano centrali. Tra queste, il lavoro nel primo Centro Regionale Anti-Droga fondato in Italia. Ci si riuniva tutte le
settimane, tre professori e uno psichiatra che faceva da
presidente, si discutevano i rapporti della polizia (arresti,
sequestri, furti, risse), si discutevano le ultime notizie
(droghe tagliate male, cecità, collassi), si esaminavano le
direttive comportamentali dei movimenti giovanili, si visionavano i filmati di test ai ragazzi sotto droga, droghe
leggere, droghe pesanti. I movimenti giovanili più seguiti
allora diffondevano (anche nei manifesti e nelle scritte sui
muri) una direttiva che torna periodicamente fuori: «Fumo sì, buco no».
Tradotto significava: marijuana sì, eroina, acido e coca
no. Si diceva che il fumo non faceva male. Anzi, consolava,
ritemprava, confortava, infondeva euforia, faceva dormire
bene, aiutava a socializzare. Perciò, quando visionavamo i
filmati dei test su ragazzi che facevano uso di droghe, osservavamo con più attenzione i casi che presentavano le
droghe leggere. Erano test sull’attenzione, la sveltezza, la
reattività.
Il ragazzo è seduto, ha fumato una buona quantità di
marijuana, viene filmato di spalle. È alla playstation. Deve
guidare un’auto che va in là. Su una strada a due corsie,
una in là, l’altra in qua. Vede in tempo le auto che vengono in qua, sta sulla sua destra, le evita. Gira il volante con
garbo, ha una guida elegante, mi sembra sicuro. C’è un incrocio, un’auto si sta immettendo da destra, ha già iniziato la manovra. Il nostro pilota avanza imperterrito, l’auto
da destra deve frenare di colpo. Non succede niente, nessun incidente. Ma lo psichiatra ha un sussulto, e capisco
che nel suo cervello entra lo stesso dubbio che è entrato nel
mio: il nostro pilota vede in tempo le auto che s’immettono dai lati? Ha una buona visione laterale? O ha soltanto
una visione frontale? Poi, nel commento del test, lo psichiatra ci spiega che il ragazzo sotto marijuana «non sta
bene in piedi»: se si mette su una gamba sola, cade. E non
rispetta le distanze di sicurezza, nel senso che per lui le distanze diventano più lunghe. Se l’auto davanti a te impacca le ruote, tu, se sei sotto cannabis, perdi qualche secondo prima di frenare, col risultato che vai a sbattere.
Nei test, i nostri spinellati non vedono sempre lo stop, o
lo vedono con ritardo, quando ormai non ha più senso fermarsi, e allora proseguono. Un’indagine che ho qui davanti dice che in Italia i consumatori di marijuana sono il 15%
della popolazione. In quel 15% ci sono in gran parte i ragazzi delle scuole, ed esattamente nelle suole medie superiori. Ogni volta che sento le stragi del sabato sera, mi domando: non è che c’è un rapporto col non vedere le auto
che s’immettono dai lati, e non vedere in tempo gli stop, e
non farsi bastare le distanze di sicurezza?
Ho avuto studenti che fumavano marijuana, me li ricordo bene. Non erano infelici. Ma erano, moravianamente, indifferenti. Se prendevano un brutto voto, non se ne
facevano un problema. Li vedevo peggiorare di settimana
in settimana. Ero io ad essere infelice, per loro. Dico questo perché ho rilasciato dichiarazioni e interviste allarmate per la liberalizzazione delle droghe leggere, e mi arrivano insulti da ogni parte, come se io non volessi la felicità
dei ragazzi. Ma se non ho cercato altro che quella, in tutta
la vita! Ne ricordo di così spinellati, che non han superato
la Maturità e si son ritirati. Non era meglio se si maturavano e poi si laureavano?
Ferdinando Camon
Avvenire.it – 11 gennaio 2014
febbraio 2014
IRC 17
Notizie dalla Terra Santa
Notizie dalla
terra del Santo
Signor Presidente Mahmoud Abbas, Presidente della Palestina,
Signor Primo Ministro, Rami Al Hamadallah,
Signor Nasser Judeh, Ministro degli Esteri di Giordania,
Signore e Signori Ambasciatori e Consoli,
altri rappresentanti delle Chiese,
Celebrando Messa nella Basilica della Natività di Betlemme, alla presenza di Mahmoud Abbas e Rami Al Hamadallah,
rispettivamente Presidente e Primo Ministro palestinesi, e di
Nasser Judeh, ministro degli Esteri della Giordania, il patriarca latino di Gerusalemme, monsignor Fouad Twal, ha paragonato le circostanze della venuta al mondo del Figlio di Dio
allo scenario mondiale attuale, con particolare riferimento al
Medio Oriente. “Il mondo si trova di fronte ad una lunga notte di conflitti, di guerre, di distruzione, di paura, di odio, di
razzismo, e in questi giorni, di neve e di freddo”, ha detto il patriarca, alludendo alle guerre civili in Africa e in Siria, alle tensioni in Egitto e in Iraq e al recente tifone nelle Filippine.
Da Betlemme, tuttavia, parte il messaggio di salvezza che
non ci farà cedere alla disperazione: “Siamo invitati all’ottimismo e a rinnovare la nostra fede che questa Terra, patria
delle tre religioni monoteiste, possa un giorno diventare un
paradiso per tutti i popoli”, ha commentato Twal.
La risposta di fronte al conflitto in Terra Santa “non è né
l’emigrazione né il chiuderci in noi stessi” ma nel “rimanere
qui e vivere e morire qui”. In quanto tale, la Terra Santa “deve avere da noi una risposta di fedeltà perché la nostra permanenza in questa terra è una vocazione divina, una benedizione, un privilegio”.
Il patriarca ha concluso l’omelia con una invocazione speciale a Gesù appena nato: “O Bambino Divino, Dio di bontà e
misericordia, volgi il tuo sguardo buono alla Terra Santa e ai
nostri popoli che vivono in Palestina, in Israele e in Giordania
e a tutti i popoli del Medio Oriente”.
Cari pellegrini, cari fedeli,
dalla grotta di Betlemme desidero presentarVi i miei migliori auguri di gioia e di pace.
Signor Presidente, grazie di essere venuto oggi per celebrare il Natale con noi. Preghiamo per Lei e per la Sua missione affinché si possa trovare una soluzione giusta ed equa
al conflitto attuale, per l’unità tra i Palestinesi, per la pace
e prosperità del Suo paese. Preghiamo Dio di donarLe saggezza e coraggio. Preghiamo anche per tutti i governanti del
Medio Oriente, in modo particolare per Sua Maestà Abdullah II Ben Al-Hussein, Re di Giordania e Guardiano dei
Luoghi Santi in Palestina.
Cari fratelli,
La notte di Natale fu drammatica per la Santa Famiglia,
che non trovò posto nell’albergo né accoglienza (Lc 2,7).
Questa notte storica ci fa pensare alla lunga notte nella quale è immerso il nostro mondo e il nostro Medio Oriente.
Il mondo si trova di fronte ad una lunga notte di conflitti, di guerre, di distruzione, di paura, di odio, di razzismo, e
in questi giorni, di neve e di freddo. Da questo luogo santo
ricordiamo tutti i drammi dell’umanità in tutti e cinque i
continenti: le guerre civili in Africa, il tifone nelle Filippine,
per arrivare alla difficile situazione in cui versano Egitto e
Iraq e alla tragedia siriana, senza dimenticare i nostri problemi locali: i detenuti, le loro famiglie che continuano a
serbare la speranza di un loro rilascio, i poveri che hanno
perso le loro terre e hanno visto le loro case demolite, le famiglie che attendono il ricongiungimento, i disoccupati e
tutti coloro che soffrono per la crisi economica.
O Bambino di Betlemme, siamo stanchi. Di fronte a questa dolorosa realtà, preghiamo con questo canto dell’Avvento: Víde Dómine afflictiónem pópuli túi... Guarda o Signore l’afflizione del tuo popolo, e manda Colui che stai per
mandare: manda l’Agnello,… affinché Egli ci riscatti dal
giogo della nostra schiavitù.
Ma non dobbiamo mai cedere alla disperazione, perché
Gesù Salvatore ci annuncia che la pace è possibile, che la
fiamma della speranza rimane viva, che la giustizia, la pace
e la riconciliazione verranno. Da Betlemme è partito il messaggio della Salvezza; ed è a Betlemme che dobbiamo guardare. Perché in questa notte la promessa divina, cantata dagli angeli, si rinnova: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14).
Siamo invitati all’ottimismo e a rinnovare la nostra fede
che questa Terra, patria delle tre religioni monoteiste, possa un giorno diventare un paradiso per tutti i popoli.
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14).
La pace di Cristo è universale ed è basata sulla giustizia. Essa ci fa vedere in ogni persona una creatura di Dio.
Si tratta di una pace che dona la vita. Nessuno è autorizzato a volere uccidere nel nome di Dio. Per questo motivo
desidero rivolgere, insieme a Papa Francesco, “un forte appello a quanti con le armi seminano violenza e morte: ri-
La Terra Santa
può diventare
“un paradiso
per tutti i popoli”
Durante la Messa natalizia nella Basilica della
Natività a Betlemme, il patriarca Twal esorta i
cristiani del Medio Oriente a resistere e a non fuggire.
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e pace in terra agli uomini che egli ama». (Lc 2,14)
18 IRC
febbraio 2014
Notizie dalla Terra Santa
scoprite in colui che oggi considerate solo un nemico da abbattere il vostro fratello e fermate la vostra mano! Rinunciate alla via delle armi e andate incontro all’altro con il
dialogo, il perdono e la riconciliazione per ricostruire la
giustizia, la fiducia e la speranza intorno a voi! «In quest’ottica, appare chiaro che nella vita dei popoli i conflitti
armati costituiscono sempre la deliberata negazione di ogni possibile concordia internazionale, creando divisioni
profonde e laceranti ferite che richiedono molti anni per rimarginarsi»” (Messaggio per la XLVII Giornata Mondiale
della pace, 7).
In Terra Santa viviamo un conflitto che non sembra trovare una soluzione a breve termine e che pesa fortemente
su tutti i suoi abitanti, compresi i cristiani.
Questa dolorosa realtà solleva molte domande sul nostro
futuro in questo paese, ed è fonte di profonda preoccupazione. Abbiamo bisogno della risposta della fede. La risposta
non è né l’emigrazione né il chiuderci in noi stessi. La risposta è rimanere qui e vivere e morire qui. La nostra terra
è santa e in quanto tale deve avere da noi una risposta di fedeltà perché la nostra permanenza in questa terra è una vocazione divina, una benedizione, un privilegio. La fiamma
della fede brillerà come la stella dei Magi per indicarci il
cammino. Abbiamo bisogno di quel conforto che ci viene
dalla nostra fede assoluta nella provvidenza di Dio: “Ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi
consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi
da Dio” (2 Cor 1,4).
La luce della fede può illuminare tutti gli aspetti della nostra vita, il nostro presente e il nostro futuro. Con la fede, la
nostra visione diventa più intensa, più profonda, più sublime e più ampia, ciò che l’occhio umano, da solo, non può
raggiungere. Con la fede noi vediamo un po’, in un certo
senso, come Dio stesso vede. Pertanto, la fede è la saggezza
che ci fa prendere le decisioni giuste al momento opportuno.
Ma se questa luce viene a mancare, allora “tutto diventa
confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla mèta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione” (Lumen Fidei, 3).
È questo che rafforza la nostra fede, che Dio è onnipotente, onnisciente, fedele e ci ama. Ecco perché nulla ci deve spaventare, né il presente né il futuro, né i problemi né
le difficoltà che colpiscono il nostro Medio Oriente.
O Bambino Divino, che hai sperimentato la fuga in Egitto, dopo la minaccia di Erode, che uccise, duemila anni fa, i
bambini di Betlemme, abbi pietà dei nostri figli e di tutti i
bambini del mondo. Abbi pietà dei detenuti, dei poveri, degli emarginati e dei più vulnerabili. In questa notte, preghiamo per i vescovi e le religiose della Siria che sono stati
rapiti. Preghiamo per il loro ritorno e perché sia loro restituita la dignità. Ricordati di loro, Signore, e di tutti i rifugiati. Dona loro un segno di speranza per un futuro migliore, in modo che possano fare ritorno al loro paese, ritrovando una casa.
O Bambino Divino, Dio di bontà e misericordia, volgi il
tuo sguardo buono alla Terra Santa e ai nostri popoli che vivono in Palestina, in Israele e in Giordania e a tutti i popoli
del Medio Oriente. Dona loro la riconciliazione perché diventino tutti fratelli - figlio di un unico Padre.
O Bambino Divino, chiediamo la tua pace per interces-
sione della Vergine Maria, Tua Madre, figlia della nostra
terra.
Buon Natale e che la benedizione del Bambino di Betlemme vi accompagni.
+ Fouad Twal
Patriarca Latino di Gerusalemme
La mia notte al
Santo Sepolcro
Un idr in pellegrinaggio con il Servizio Irc,
nella terra del Santo.
Arrivato in albergo guardo l’orologio, sono le 18.43, è tardissimo! Prendo uno zainetto, ci infilo la Bibbia ed una coperta ed esco dall’albergo a rotta di collo. Uscito dalla porta
giro subito a destra e mi infilo nel suk.
Un po’ di paura mi assale, è la prima volta che mi inoltro
da solo senza la sapiente guida di don G.B. Vengo subito investito da una girandola di colori, odori di spezie esotiche e
suoni orientali. Mentre corro nella mia mente riaffiora un
ricordo di un’altra corsa, quella di Pietro e di Giovanni verso il sepolcro vuoto.
Giro a sinistra e di corsa imbocco S. Helena street, che mi
porta direttamente davanti alla Basilica del Santo Sepolcro.
Guardo l’ora sono le 18.50, tiro un respiro di sollievo, la Basilica chiude alle 19.00.
La vista della polizia davanti alla porta mi dice che non è
ancora finita. Il ricordo va subito al vangelo, quando i sommi sacerdoti andarono da Pilato per chiedere delle guardie
per vigilare il sepolcro.
Alcuni pellegrini cercano di entrare ma vengono allontanati senza troppi complimenti, mi faccio coraggio e mi dirigo verso la guardia che subito mi fa segno di allontanarmi.
Ciò nonostante mi avvicino ancora di più, la faccia del poliziotto non comunica segnali distensivi. Cerco di parlare ma
il ritornello è sempre lo stesso: “closed, closed”. Non so più
cosa fare; ad un certo punto pronuncio la parola magica:
“padre Andrea”. La guardia mi fissa e con la testa mi fa segno di entrare. Padre Andrea è il responsabile della comunità dei frati francescani all’interno della Basilica.
Sono le 19.00 le porte della Basilica del Santo Sepolcro si
chiudono alle mie spalle e si riapriranno soltanto alle 4.00 di
mattina. I pellegrini ammessi a passare la notte in Basilica
sono soltanto quindici. Improvvisamente l’atmosfera cambia, vedere la Basilica vuota e silenziosa senza le orde di pellegrini è impressionante.
Padre Andrea ci raduna per darci una serie di istruzioni
su quello che si può fare e quello che non si deve fare, lo Status Quo impone delle regole ben precise. Ci saluta e ci da apfebbraio 2014
IRC 19
Attualità
puntamento per le 23.30 nella cappella dei francescani per
partecipare alla loro preghiera comunitaria. Dobbiamo attendere ancora qualche minuto per dare il tempo agli addetti di ultimare le necessarie pulizie, poi eccoci lì davanti a
quella tomba vuota. Ci presentiamo in tre lì davanti.
Per entrare devo abbassarmi notevolmente, infatti l’entrata della tomba è fatta in modo che per accedervi è necessario inchinarsi. Altre parole di vangelo riemergono alla
mente: “Chinatosi, vide le bende per terra... Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e
vide e credette.” (Gv 20,5-8)
Appoggiamo la testa sulla lastra di marmo che fa anche
da altare, sento il profumo della pietra. La ragazza di fianco a me non riesce a trattenere l’emozione e piange a dirotto, anche i miei occhi si fanno lucidi.
Esco dal Sepolcro e mi metto in un angolo appartato a
pregare. Dopo un po’, calmata l’emozione, mi metto a girare per la Basilica. L’atmosfera è surreale. Grazie alle precedenti spiegazioni di don G.B. riesco a ricostruire senza fatica la geografia del luogo nonostante gli innumerevoli rifacimenti; in alto il Golgota, dietro la cisterna delle croci (dove
S. Elena ritrovò la croce di Gesù), in basso a destra la pietra
della deposizione.
Mi accorgo che questi luoghi sono vicini tra loro.
Mi siedo su una panca e comincio a sfogliare il Vangelo:
“Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino
e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora deposto. La dunque deposero Gesù, a motivo della
preparazione dei Giudei, poiché quel sepolcro era vicino”
(Gv 19,41). Leggo, alzo gli occhi e vedo: è andata proprio co-
sì, qui le pietre parlano.
Alle 23.30 l’atmosfera cambia, la comunità ortodossa
prende possesso del Santo Sepolcro. Dal silenzio si passa ai
possenti canti della liturgia ortodossa, lo scampanellio dei
turiboli non ci abbandonerà più fino al mattino. Tre monaci ortodossi girano per l’enorme Basilica incensando ogni
angolo, noi compresi, con un inchino contraccambiamo. Ci
infiliamo nella cappella dei francescani, salmodia latina da
una parte e inni orientali dall’altra si mischiano in un unica lode a Dio.
Finito l’ufficio ci spostiamo al piano superiore sopra il
Golgota. La Sacra Liturgia proseguirà per tutta la notte. Ai
Greci ortodossi si sostituirà la comunità Armena.
Alle 4.00 la basilica riapre, qualche pellegrino timidamente si affaccia. Alle 4.30 è di nuovo il turno dei Cattolici.
Il suono dei campanelli non si odono più, c’è silenzio. Un
prete francescano entra nel Santo Sepolcro e inizia la Messa. A fatica odo le parche parole sussurrate dal sacerdote:
“Nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo” un aria familiare mi invade.
Finita la Messa esco dalla basilica e ripercorro lentamente la strada per tornare all’albergo. Le vie sono deserte, i negozi chiusi, il rumore è quello dei miei passi.
Echi di parole risuonano dolcemente: “Presto andate a
dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco io ve l’ho detto. Abbandonato in fretta il sepolcro, con timore e gioia grande, le donne
corsero a dare l’annunzio ai suoi discepoli” (Mt 28,7).
Ma le tenebre
non l’hanno
accolto
chiesa non c’è più la capanna che accoglieva i personaggi del
presepe, realizzati quasi a grandezza naturale da alcuni artigiani di Ceranova. Un’assenza prematura, della quale apprenderò il motivo solo durante l’omelia che richiama l’atto
sacrilego: un Bambinello fatto a pezzi, la testa tagliata, e oltremodo oltraggiato, aveva scosso nei giorni precedenti l’intera comunità, e lascia anche me senza parole, con molta
rabbia, e con molte domande.
È così, penso, che la tenebrosa Gerusalemme si è manifestata nel presepe di Ceranova, e che senza volerlo, e senza nemmeno saperlo, i vandali si sono resi attori di questa
rappresentazione, anticipando il gesto distruttore dei soldati di Erode. È così, che la verità di Dio che si fa Bambino si
rende totalmente disponibile alla libertà dell’uomo, all’adorazione come all’oltraggio.
Ciò che non smette di inquietarmi, è l’impossibilità di misurare il vuoto della libertà di coloro che per sentirsi pieni,
soddisfatti, vivi, hanno oltrepassato l’irrisione di una sigaretta collocata tra le dita di san Giuseppe, per arrivare, in
pochi giorni, a devastare ciò che nel Bambino si manifesta,
testimoniandone la completa non-accoglienza, oltre, probabilmente, all’incapacità di accogliere.
È a questo punto che l’inquietudine si fa domanda, per
me e per ogni insegnante di religione che si inserisce, con il
suo lavoro, proprio nello spazio che il mistero di un Dio che
si fa uomo sceglie di lasciare tra la verità e la libertà: uno
spazio da percorrere con fede ed amore, ma non per insegnare a credere o ad amare la verità, quanto per insegnare
Un presepe deturpato in un paese. E le riflessioni
di chi con il presepe parla ai bambini della scuola
dell’infanzia raccontando il mistero dell’attesa e
della nascita di Gesù, come di quelle di ogni uomo.
Ceranova è un piccolo paese di frontiera della provincia
pavese, che vive all’ombra della cupola del Duomo di Pavia,
ma con lo sguardo rivolto verso la Madonnina di Milano, e
soprattutto verso la metropoli e il lavorio incessante che attira molti tra i 2000 abitanti che vivono qui.
Ed è qui che torno, anche io, come i molti che qui vivono
avendo però le famiglie lontane, al termine delle festività
natalizie: ancora due giorni per riposare, e per celebrare,
prima di rituffarsi nell’ordinarietà.
È domenica: recandomi a Messa, noto che accanto alla
20 IRC
febbraio 2014
Marco Pilotti
Idr nella scuola Primaria
Attualità
alla libertà a vedere e a cercare, ad entrare in dialogo con chi
la interpella.
Raccontando l’attesa, raccontando la nascita di Gesù, ho
fatto fare ai miei piccoli alunni un’esperienza di accoglienza? Fare esperienza è per i bambini della scuola dell’infanzia il volto dell’imparare, il modo in cui ogni cosa lascia nella loro vita un’impressione indelebile. Nel contesto in cui insegno - quell’ombelico del mondo che è ormai il comune di
Rozzano, alle porte di Milano - raccontare, componendo il
presepe, l’attesa e la gioia di una nascita, significa prima di
tutto ripercorrere una storia personale, quella del proprio
venire al mondo. È quando ciascuno dei piccoli alunni si fa
protagonista, immedesimandosi nelle storie dei tanti personaggi che incontrano nel racconto, che il simbolo si fa vivo,
diventando luogo di accoglienza data e ricevuta, ma anche
di incomprensione o di rifiuto, e quindi occasione di slancio,
e più in là, di scelta. Sono convinta che, nonostante siano
sempre meno i bambini che in famiglia predispongono il
presepe aspettando il Natale (anzi, forse proprio per questo)
non si debba abbandonare ciò che permise a Francesco, secoli fa, di raccontare in modo semplice e coinvolgente il mistero dell’Incarnazione, perché semplicità e coinvolgimento
sono ancora oggi le cifre di questo linguaggio fatto di muschio, casette e statuine.
Mi chiedo se chi ha provato gusto nel deturpare il Bambino, abbia mai realmente giocato con il presepe, proprio come si fa con le bambole, narrando e narrandosi una storia,
che deve essere raccontata, non perché debba essere necessariamente creduta, ma perché presenta una verità che è di
Dio, ma anche dell’uomo, e aiuta la nostra mano a fermarsi
prima di compiere gesti abominevoli.
Martina Ricca
www.vinonuovo.it - 09 gennaio 2014
Pericolosa
tendenza in
atto in Europa
L’ossimoro di una laicità che sceglie di censurare.
Si consolida in alcune parti d’Europa un’idea strana di
laicità, con sentenze, leggi, proposte, dirette a togliere spazio all’obiezione di coscienza, cancellare simboli religiosi,
parole radicate nell’intimità della tradizione familiare. Stefano Fontana – ragionando sul rapporto annuale dell’Osservatorio Van Thuân – ne ha scritto pochi giorni fa su queste colonne. E Lucia Bellaspiga ha poi ragionato sulla pretesa di imporre persino ai giornalisti italiani un lessico “politicamente corretto” sulla questione delle nozze gay, della
teoria del “gender”, dell’indegno mercato delle maternità
surrogate. In questa fase, e questo proposito, novità vengono soprattutto dalla Francia, da ultimo con il progetto di
una festa della laicité: poiché «la laicità è il principio fondamentale, ciò che ci permette di vivere insieme (...), si chiede
che la Repubblica francese fissi per il 9 dicembre una giornata nazionale della laicità». Il deputato Jean-Christophe
Lagarde ha specificato che «la laicità non si basa sulla tolleranza delle differenze, ma sull’eguaglianza dei cittadini».
Per parte sua, il ministro Vincent Peillon, aumenta la pressione sulla scuola, attuando idee esposte nel libro La Révolution n’est pas terminée (La Rivoluzione non è finita), ricco
di nostalgia per antiche glorie repubblicane.
Non è solo nostalgia. Il 30 ottobre scorso il Conseil Constitutionnel ha respinto l’obiezione di coscienza dei sindaci
che non intendono celebrare nozze gay. La sentenza poggia
su asserzioni apodittiche, ad esempio che la legge rispetta la
Costituzione perché «il legislatore ha inteso assicurarne
l’applicazione, garantire il buon funzionamento e la neutralità del servizio di stato civile». Ma l’obiezione si ribella
alla sostanza della legge, non alla sua applicazione eguale:
si può imporre egualmente a tutti una misura che offende.
L’obiezione è respinta poi perché si parla delle funzioni di
pubblici ufficiali dei sindaci; eppure proprio i sindaci hanno
fatto ricorso, e se la loro coscienza è ferita non può dirsi che
i pubblici ufficiali non hanno una coscienza, o che devono silenziarla.
Con questa logica non si riconoscerebbe mai l’obiezione
al servizio militare: il dovere di difendere la Patria è conforme a Costituzione, la legge chiede che tutti lo assolvano, se
poi si tratta di un ufficiale deve osservarlo più degli altri. In
realtà, mentre i legislatori da tempo riconoscono diverse obiezioni, anche di minor peso, e rendono onore a principi radicati nel sentire comune, la pronuncia francese azzera il
cammino compiuto dalla cultura giuridica europea.
Con analogo intento di mortificazione il Governo di Parigi vuole cancellare festività tradizionali, proibisce d’indossare il velo o simboli religiosi (se non piccolissimi) ai genitori che si uniscono ai figli in una gita scolastica, perfino se ci
si trova al museo, al ristorante, in un prato per il pic-nic. E
vorrebbe estendere il divieto dentro l’Università, che da
sempre è tempio della cultura e di confronto delle identità.
L’idea di una festa della laicità ha suggerito una singolare
riflessione a un nostro intellettuale. Il quale dopo averla criticata aggiunge che l’Italia comunque non avrebbe nulla da
festeggiare perché non sa nemmeno cosa sia la laicità: a suo
dire, su questioni come quelle del dolore, della malattia e
della morte, saremmo etero-diretti da «ayatollah teocratici»
che dettano legge. In altri termini dovremmo introdurre
l’eutanasia, il suicidio assistito, per dimostrare che siamo
un Paese laico. Il rapporto tra eutanasia e laicità è surreale
e funambolico, altrimenti dovremmo concludere che il Paese più laico al mondo sarebbe il Belgio che sta per introdurre l’orrore dell’eutanasia dei minori, senza soglia d’età.
Di altre patologie si è parlato a più riprese su “Avvenire”:
in Gran Bretagna si obbligano gli istituti religiosi ad affidare i bambini che hanno in custodia a coppie gay; in Norvegia una conduttrice televisiva ha dismesso un piccolo crocifisso per non perdere il posto di lavoro; pure in Italia ogni
tanto affiora questa tendenza, anche nei giorni scorsi è stata annunciata, questa volta al Liceo Mamiani di Roma, la
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IRC 21
Attualità
proposta di cancellare dai documenti scolastici le parole
“padre” e “madre”. Fantasie, eco di vecchie logiche, vere
censure, in questi fatti? C’è un po’ di tutto questo. Ma soprattutto c’è il filo rosso di una concezione deformata della
laicità, che censura idealità e momenti fondativi della comunità, preferisce l’orizzonte della solitudine a quello della
solidarietà, elimina le parole più belle dal lessico pubblico.
La laicità è altra cosa, è quella delle Carte dei diritti scritte in risposta ai totalitarismi del Novecento: è inclusiva, accogliente, anche per le differenze legittime, apre e non chiude la scuola alla religione, non offusca i colori delle fedi che
arricchiscono la nostra identità. È una laicità che alimenta
la cultura, invece di mortificarla, non stabilisce arbitrariamente i confini della civitas, li estende perché tutti si sentano a casa propria.
Carlo Cardia
Avvenire.it – 20 dicembre 2013
L’azzardo
non è un gioco
«Bisca Italia» ora una svolta vera.
Basta fariseismi.
Si dice che «non tutti i mali vengono per nuocere». Qualche volta è vero. Stavolta, se dovessimo giudicare dalla forza quasi corale delle reazioni suscitate ieri in Parlamento e
dintorni, dovremmo concludere che l’ultimo cinico azzardo
dei signori di Bisca Italia s’è trasformato in un boomerang
di devastante potenza. Aspettiamo i fatti, prima, ma intanto prendiamo buona nota degli impegni di leader di partito,
senatori e deputati. E alziamo la posta.
La vicenda. Mercoledì 18 dicembre è stata introdotta nel
cosiddetto “decreto SalvaRoma” una penalizzante normaricatto, confezionata per inceppare l’azione che sta arginando per via legislativa regionale e attraverso atti comunali il dilagare di slot machine e affini nel nostro Paese.
Perché una mossa così smaccata e rischiosa? Perché
troppe Regioni stanno ormai resistendo alla brutale invasione dell’azzardo, troppi Comuni rifiutano di collaborare
con gli “occupanti” e, per di più, un movimento di cittadini
– pacifico, determinato, appoggiato mediaticamente da “Avvenire”, da “Città Nuova” e dal mensile “Vita” – organizza
con successo, da quattro mesi in qua, gli SlotMob, manifestazioni di sostegno ai locali ancora liberi o liberati dalle
macchinette mangiasoldi.
La risposta dei signori di Azzardopoli era nell’aria. Ed è
arrivata con le consuete modalità tecnico-politiche: una relazione amica di alti burocrati ministeriali che precede e accompagna un emendamento ad hoc presentato da una senatrice (Chiavaroli) e accolto dal governo attraverso un sot-
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tosegretario (Giorgetti). Il tutto per spiegare in modo vago,
ma con tono competente e allarmato – traduciamo – che il
ben avviato meccanismo di concessioni non può essere fermato. Che l’azzardo produce lavoro, benessere e gettito fiscale. E che dunque vanno ulteriormente tagliati i fondi statali alle realtà locali che si mettono di traverso. Morbidamente brutale e abilmente dissimulatorio. Non c’è una parola sul continuo crescere di giocate e scommesse a cui corrisponde un calo delle entrate fiscali. Neanche un cenno ai
danni materiali che l’azzardo produce e agli immensi costi
sanitari, economici e civili che scarica sul Sistema Italia.
E in Senato – complici malizia, fretta e incapacità di ascolto reciproco – si approva, con automatismo ottuso. Poi,
però, e meno male, è il putiferio: lo sdegno di Matteo Renzi
che pretende riparazione dal suo Pd, le accuse del M5S, della Lega e del governatore lombardo Maroni, le recriminazioni di pochi altri avvertiti della prim’ora. Il meaculpa di
(quasi) tutti, a cominciare dai “distratti”.
Bene. Ma adesso servono fatti. Se si vuol riparare non basta cancellare l’ultima norma della vergogna. Occorre realizzare un grande “piano regolatore” nazionale, che riduca
gli spazi di Azzardopoli, li tenga lontano dai luoghi educativi, porti al congelamento di ulteriori concessioni e stabilisca
che le vecchie concessioni a scadenza verranno azzerate e ridiscusse. Niente più alibi, niente più greppie che si autoalimentano, niente più fariseismi. Governo e Parlamento ne
sono capaci?
Marco Tarquinio
Avvenire.it – 20 dicembre 2013
Ecumenismo
A 50 anni
dall’abbraccio di
Gerusalemme.
Il cammino
dei fratelli
«Ecco che, avendo cercato di incontrarci l’un con l’altro,
abbiamo incontrato, insieme, il Signore. E lui verrà a unirsi al nostro cammino e ci indicherà la via da seguire». Con
queste parole, il 5 gennaio 1964, il patriarca ecumenico
Athenagoras si rivolgeva a Paolo VI. Sono passati cinquant’anni dallo storico abbraccio tra il Papa e il Patriarca,
che quella sera a Gerusalemme rompeva secoli di distanza e
di estraneità tra la Chiesa di Roma e la prima sede dell’ortodossia, Costantinopoli. Nove secoli prima si erano reciprocamente scomunicate, ora si riconoscevano sorelle.
Quell’abbraccio veniva da lontano: era nato dal sogno
dell’unità tra i cristiani vissuto da Athenagoras nel confronto con le aspre sfide del nazionalismo e delle trasformazioni storiche del Novecento, che rendevano incerto il futuro delle comunità cristiane orientali. Era stato coltivato da
Angelo Roncalli, nei lunghi anni trascorsi in Oriente, a contatto con i «fratelli separati».
Era il frutto del Concilio Vaticano II e del coraggio di Paolo VI che, Papa da poco più di sei mesi, aveva deciso di iniziare il suo pontificato con un pellegrinaggio alle radici del
Vangelo. «Porteremo sul Santo Sepolcro e nella grotta della
Natività – aveva detto – i desideri di coloro che piangono,
che hanno fame e sete di giustizia».
Attorno a questo viaggio, che non ha precedenti, si era creata una immensa
mobilitazione.
Tutto il mondo – non solo
cattolico – segue i passi
del Papa che, primo nella
storia, sale la scaletta di
un aereo per raggiungere
i Luoghi Santi e pregare
sulla pietra del Santo Sepolcro.
«Stiamo assistendo –
si legge su un quotidiano
italiano – a uno dei fatti
più commoventi della
storia: è Gesù che dopo
duemila anni torna nella
terra sua». Stampa e televisione mandano nelle
case le immagini del Pa-
pa, della terra che attraversa e degli uomini che incontra:
cristiani cattolici e ortodossi, ebrei, musulmani. Accanto a
Paolo VI, la figura di Athenagoras, un anziano maestoso,
con una lunga barba bianca, diventa familiare oltre i confini del mondo ortodosso. Questa diffusione conferisce un valore aggiunto al pellegrinaggio del Papa: ‘l’altro’ fa irruzione nel panorama italiano ed europeo e il dialogo ecumenico
non è più un’opera di specialisti, né un colloquio bilaterale
tra leader, ma un evento di popolo. Sono i fedeli cattolici e
ortodossi che ricevono – è la prima volta che accade – la benedizione impartita insieme dai due patriarchi. Sono le folle che accompagnano il Papa ad ogni passo.
Nel luogo in cui era sorta la Chiesa indivisa, il Papa e il
Patriarca cercano le vie dell’unità. Dice Paolo VI: «Un’antica tradizione cristiana ama vedere il ‘centro del mondo’ nel
luogo dove fu alzata la croce gloriosa del nostro Salvatore.
Era opportuno – e la Provvidenza ce lo ha permesso – che in
questo centro benedetto e sacro, pellegrini da Roma e da Costantinopoli, potessimo rincontrarci e unirci in una preghiera comune. Da una parte all’altra le vie che conducono
all’unione potranno essere lunghe e cosparse di difficoltà.
Ma queste due vie convergono l’una verso l’altra e, in definitiva, raggiungono le fonti del Vangelo».
Non è un’esagerazione affermare che tanto, forse tutto è
cambiato da quell’incontro nel rapporto tra i cristiani d’Oriente e d’Occidente. Iniziava il «dialogo della carità» e si apriva una stagione di riavvicinamento che vide negli anni
seguenti momenti di forte contenuto teologico e storico: la
reciproca cancellazione delle scomuniche, il 7 dicembre
1965. Poi, nel 1967, il primo scambio di visite: il Papa si recava a Costantinopoli e il Patriarca ecumenico a Roma.
Ripartendo da Gerusalemme, a chi lo interrogava sui
tempi e i modi dell’unione, Athenagoras rispondeva con parole che ancora oggi indicano ai cristiani la via da percorrere: «Se noi sapremo restare grandi, l’unione si farà». E
grande è l’eredità che l’incontro di Gerusalemme ci consegna. In quell’abbraccio rinasceva la fraternità cristiana.
Quella fraternità che, ha ricordato papa Francesco nel messaggio per il nuovo anno, è fondamento della pace.
Marco Impagliazzo
Lo storico abbraccio tra Paolo VI e Athenagoras.
febbraio 2014
IRC 23
Arte e cultura
Le notti e i ritratti:
il mio Islam
Palermo conserva, all’interno del Palazzo della Zisa,
quell’edificio che testimonia l’incrocio formidabile di architetture antiche romane e di interventi di cultura araba, una
piccola stele funebre che Grisando, un chierico del re Guglielmo I, dedicò a sua madre Anna defunta nel 1148. Le iscrizioni dedicate alla memoria materna sono in quattro lingue, quelle che si reputava allora necessarie alla memoria, e
cioè in latino, in greco, in ebraico e in arabo.
Corrispondono ad un momento apicale della cultura mediterranea che gli anni successivi andranno a cancellare,
quando nel XIII secolo Federico II di Svevia eliminerà con
crudele fermezza l’ultima rimanenza araba in Sicilia. La Sicilia era stata araba per ben due secoli prima dell’arrivo
normanno e successivamente svevo e quei due secoli avevano lasciato tracce indelebili nell’architettura civile, ma anche in quella del culto cristiano. Le famose mujarnas, quelle decorazioni a nido d’ape che concludono le volte, ne sono
tuttora testimonianza viva in alcuni edifici abbandonati ma
in particolare nella Cappella Palatina del Palazzo dei Normanni. E lì si combinano, proprio come nella piccola lastra
funebre, in un grandioso gioco dell’architettura dove la
struttura romanica latina si decora con i mosaici di genesi
greco veneziana e con le rifiniture arabe. È di estremo interesse scoprire che le porzioni inferiori delle mujarnas si concludono con pitture arabe assai analoghe a quelle che si
ritroveranno anni dopo nei codici mogul di derivazione araba che, ad oriente e cioè in India, andranno a contaminare
l’estetica preesistente.
La figura umana in quegli anni (come è stato sottolineato in queste pagine nel dibattito scaturito dopo la presentazione del volume del domenicano Boespflug sulla rappresentazione artistica nel mondo islamico) non appare ancora proibita, quando concerna la narrazione della storia
degli uomini. Ciò che ancora più colpisce è che alcune di
queste figure laiche brindano versandosi vino rosso in eleganti bicchieri da caraffe che assomigliano assai a quelle che
erano in uso nelle osterie italiane finché la normativa europea attuale non le proibì per cervellotici motivi igienici. Il
Museo Benaki di Atene, che possiede una ricca collezione di
ceramiche arabe egizie appartenenti all’incirca alla stessa epoca fatimide, conserva un lacerto ceramico sul quale è dipinta una scena analoga. Il vino allora non era affatto proibito. La lettura di quel sommo capolavoro che è Le Mille e
una notte ne testimonia un uso assai apparente nelle feste
della corte. E le poesie della stessa epoca, sia quelle di Bagdad che quelle dei grandi poeti iraniani lo cantano con sottile passione legandolo alle storie d’amore come nelle rime
di Abu Nuwas, l’autore spesso citato nelle pagine delle Notti. È che, in realtà, allora non sembrava vietato l’uso della
bevanda, ma il suo abuso.
Ciò che era realmente proibito era l’etilismo conseguente, l’ebbrezza cronica e conclamata. In questo senso la normativa occidentale attuale ne riprende per fortuna la linea
24 IRC
febbraio 2014
Maometto prega davanti alla Kaaba,
miniatura di Siyer-i Nebi, Turchia.
di condotta proibendo l’abuso di alcol e reprimendolo con
determinazione nella guida automobilistica. Allora si andava a cavallo o a cammello ma la questione non era affatto
diversa… Alle radici della Storia, discendiamo tutti, noi monoteisti, dalla stessa stirpe di nomadi del deserto. E mi ricordo con commozione una mia salita sulla grande piana
delle Moschee a Gerusalemme. Quel giorno le forze dell’ordine locale avevano interrotto il passaggio dal Muro del
Pianto verso la Piana. Avevo litigato per passare lo stesso.
Era inverno ed ero vestito “all’inglese” nel modo più tradizionale possibile, compreso il gilet giallo a bottoni d’oro delle passeggiate in campagna. La Piana era quasi vuota se non
per un anziano arabo con barba profetica seduto su una pietra; l’aspetto suo era regale. Lo stile assoluto e inconfondibile, curato in ogni dettaglio della sua veste tradizionale. Mi
guardò con affetto, si alzò, mi venne incontro e mi abbracciò dicendomi in arabo: «Siamo tutti figli di Abramo». Gran
gentiluomo.
Con i miei occhi ho visto le splendide testimonianze dell’arte araba in cui non era ancora stata proibita la figura umana.
Philippe Daverio
Avvenire.it – 21 dicembre 2013
Il campo è il mondo
Dio e noi,
il senso di un
incontro che
ci trasforma
«Siamo rasserenati e responsabilizzati, siamo
preservati da due estremi: presunzione e sfiducia».
Alla base di ogni esperienza vera di fede c’è l’incontro con
Dio. È questo un punto su cui, nella sua lettera pastorale Il
campo è il mondo, il cardinale Angelo Scola insiste molto. In
un passaggio del terzo capitolo ritorna su questo argomento citando a sua volta una frase della prima enciclica apostolica di papa Francesco: «La fede – scrive il Papa – nasce
dall’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il
suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita» (Lumen Fidei, 4).
L’incontro con Dio è sempre qualcosa di misterioso. Misterioso e trasformante. Pagine indimenticabili come quella di
Mosè davanti al roveto ardente o di san Paolo sulla via di
Damasco ce lo ricordano. Ma ognuno vive questo incontro in
modo assolutamente personale. Non vi sono regole prestabilite. Dio, infatti, si fa incontrare in tanti modi, come i
Puecher, eroi di
padre in figlio
La tragedia di una famiglia borghese distrutta
dal nazifascismo e modello di una rivolta morale,
prima ancora che politica, contro la dittatura.
La scelta partigiana del giovane cattolico per
l’esempio di figure come Luigi Meda o padre
Turoldo. Giancarlo fu uno dei primi martiri
della Resistenza, fucilato 70 anni fa ad Erba.
Ma anche il papà Giorgio, notaio,
venne deportato e morì a Mauthausen.
«Muoio per la mia Patria. Ho sempre fatto il mio dovere
di cittadino e di soldato. Spero che il mio esempio serva ai
miei fratelli e compagni. Iddio mi ha voluto, accetto con rassegnazione il suo volere […] Non piangetemi, ma ricordatemi a coloro che mi vollero bene e mi stimarono. Viva l’Italia.
Raggiungo con cristiana rassegnazione la mia mamma che
grandi credenti potrebbero raccontarci.
Su un punto mi piace fissare l’attenzione: il verbo incontrare è un verbo con significato attivo, ma non è l’unico in
uso. Esiste anche il verbo incontrarsi, che invece è riflessivo. In realtà il senso dell’esperienza che i due verbi richiamano non cambia. Possiamo infatti dire: «Ho incontrato un
mio amico» oppure «ci siamo incontrati». Nell’incontro non
c’è un soggetto e un oggetto. Vi sono due soggetti ed entrambi sono protagonisti. L’incontro con l’altro chiama direttamente in causa me stesso e, quando è vero e intenso,
contribuisce a rafforzarmi nella percezione serena e sicura
della mia identità. L’apertura all’altro nel rispetto, nella stima, nell’affetto mi rende più vero e più vivo. In un incontro
che non si dimentica e che si ha piacere di rinnovare avviene un reciproco riconoscimento e una reciproca accoglienza,
il cui effetto è un più chiaro riconoscimento e una più chiara accoglienza di se stessi. È come se ognuno si consegnasse
all’altro, al suo sguardo, al suo sentimento, alla sua conoscenza in qualche modo assumendola, senza paura anzi con
fiducia, sentendosi rassicurato.
Questo vale a maggior ragione per l’incontro con Dio. Incontrarlo è incontrarsi con lui, riconoscerlo nella sua santità
misericordiosa e insieme riconoscere noi nell’ottica sua,
consegnarci al suo sguardo amorevole e vederci come lui ci
vede, con misericordiosa santità. Questo incontro ci rasserena e insieme ci responsabilizza, ci preserva dai due estremi della presunzione e della sfiducia in noi stessi. Chi ha incontrato Dio non teme le circostanze esterne ma neppure i
suoi moti interiori depressivi. Come scrive Giovanni nella
sua prima lettera: «Dio è più grande del nostro cuore».
Monsignor Pierantonio Tremolada
Vicario Episcopale
santamente mi educò e mi protesse per i vent’anni della mia
vita. L’amavo troppo la mia patria, non la tradite […] Perdono a coloro che mi giustiziano, perché non sanno quello
che fanno e non pensano che l’uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia […] .A te Papà vada l’imperituro
grazie per ciò che sempre mi permettesti di fare […]. Ho
sempre creduto in Dio e perciò accetto la Sua volontà».
Così Giancarlo Puecher nella sua lettera-testamento,
prima di essere fucilato dai fascisti nella notte fra il 20 e il
21 dicembre 1943 a Erba, nel comasco. A settant’anni da
quell’esecuzione avvenuta all’inizio della Resistenza, Giuseppe Deiana, presidente del Centro Comunitario Puecher
di Milano, manda in libreria una meticolosa biografia del ragazzo partigiano (quasi mezzo secolo dopo quella di Gianfranco Bianchi, valorizzata negli anni Ottanta anche da
Giacomo de Antonellis). E si tratta di molto più che di un
nuovo profilo dedicato al ventenne «ribelle», indicato come
modello a più d’una generazione senza memoria.
Il libro, infatti, si dilata nei suoi intenti storici – e di pedagogia civile – alla vicenda di Giorgio Puecher, tranquillo
notaio liberale ma appunto colpevole di essere padre di
Giancarlo, deportato a Mauthausen dove morì di stenti a 57
anni il 7 aprile 1945. Così sopra queste pagine, fitte di citazioni da documenti e testimonianze (Nel nome del figlio. La
famiglia Puecher nella Resistenza, Mursia, pp. 498, euro
24), si alza la tragedia di una famiglia borghese distrutta dal
febbraio 2014
IRC 25
Testimonianze
con capi d’accusa praticamente inventati
ad esecuzione avvenuta: come riconoscerà la successiva «riabilitazione giudiziaria» che certificherà la folle arbitrarietà dei carnefici, decisi a cancellare la
passione civile di Giancarlo eliminando la
sua vita.
Una passione che sarà l’unico motivo
dell’arresto, a Lambrugo il 13 novembre
1943, il giorno dopo la cattura del figlio,
di Giorgio Puecher. Liberato il 17 gennaio 1944, ma incarcerato nuovamente
il 15 febbraio successivo, il notaio Giorgio fu mandato da San Vittore al campo
di Fossoli e poi a Mauthausen.
«Il genere umano non vive più la sua
vita, qualcosa è scoppiato nel mondo,
qualcosa che ne ha infranto lo spirito. La
storia dirà che questo nostro tempo fu
uno dei più tristi e tribolati che l’umanità abbia vissuto: perché essa è stata investita da un’ondata di pazzia frenetica.
Quando la guerra sarà finita, nessuno
Giancarlo Puecher venne fucilato
Il padre Giorgio, notaio, l’avrà voluta, e pochi avranno interesse
dai nazifascisti a Erba (Como) nella
morto a 57 anni il 7 aprile 1945 a ricordarla. In questo momento i ‘saggi
notte tra il 20 e il 21 dicembre 1943.
nel lager di Mauthausen. di dopo’ dove sono? Cosa fanno? [...] Qui
hanno inventato la morte in serie, non
c’è scampo, se qualcuno tornerà e avrà voce per farsi intennazifascismo e degna, senza essere scalfita dai revisionismi
dere provi a dire, provi a raccontare queste pazzie, queste
nel segno dell’«anti-antifascismo», del più ampio riconoscinegazioni, queste infamie, provi. Dubito che possa essere
mento: per aver dato concretezza a forme che restano a fondamento della Costituzione e delle istituzioni democratiche.
compreso. Io sono certo di non tornare».
Questo detto senza enfasi retorica, ma nella consapevolezza
Queste, secondo le memorie di Mino Micheli, le parole
di due destini di morte, esiti di esperienze individuali – la
pronunciate da Giorgio nei giorni prima della morte nel lamilitanza partigiana e il vissuto concentrazionario – che leger. Insomma una storia umanissima che torna, qui, nell’egano figlio e padre.
co di un inno ai valori più puri. Eco che non arriva da due
I Puecher vivevano a Milano, ma a causa dei bombarsantini da martirologio laico o religioso, ma da due uomini
damenti angloamericani e continuando a mantenere rapche pagarono con il prezzo più alto – e c’è ben poco di retoporti con la metropoli erano sfollati nella loro villa di Lamrico – la loro adesione innanzitutto morale alla Resistenza.
brugo, in Brianza. Qui, subito dopo l’armistizio dell’8 setMario Roncalli
tembre, maturò su convinzioni etico-civili – radicate nelAvvenire.it – 21 dicembre 2013
l’educazione familiare e nella frequentazione di figure come l’avvocato Luigi Meda o il servita padre David Maria Turoldo più che su motivazioni ideologiche – la scelta partigiana di Giancarlo Puecher, fondatore di
un gruppetto autonomo (meno di
una ventina di amici fra i quali, come
cappellano e amministratore, il parroco di Ponte Lambro don Giovanni
Strada, e come comandante l’alpino
Franco Fucci).
Solo due i mesi che videro l’azione
del giovane idealista cattolico, dopo la
scelta di opporsi al fascismo «per il bene patrio». Una vita, la sua, spezzata
alla conclusione di un processo allucinante, imbastito come atto di rappresaglia dopo l’uccisione da parte di un
gappista di due fascisti, da un improvvisato tribunale militare straordinario, Carri armati tedeschi nelle vie di Milano subito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.
26 IRC
febbraio 2014
Storia della Chiesa
Un Papa tra
i grandi politici:
San Gregorio
Magno
a 1410 anni
dalla morte
Un Papa nel caos dell’Europa
Un Papa anche grande politico! Anche per mezzo della
regina Teodolinda e dei suoi mariti longobardi. Sì, perché
fu vedova del re Autari e poi di Agilulfo. Ma andiamo con
ordine.
Gregorio vive nel caos dell’Europa e in particolare d’Italia provocato dalle invasioni dei “barbari” (Unni, Vandali,
Goti, Burgundi, Anglosassoni, Longobardi) provenienti dall’est e dal nord, e dal crollo effettivo dell’antico impero romano specialmente in occidente. Nessuna potenza politica
era ancora riuscita a prenderne il posto. Ne andava di mezzo la vita quotidiana di popolazioni, alla mercé del più forte
del momento, che arrivava magari con orde selvagge alla ricerca di terre, donne, schiavi e ricchezze nuove (e la pianura padana faceva gola a parecchi). La Chiesa aveva perso
l’appoggio dell’impero che Costantino nel 313, Teodosio nel
380 e Giustiniano intorno al 550, sia pur in misure diverse,
le avevano assicurato; per di più Roma stessa aveva perso
prestigio e forza dopo terribili saccheggi nel secolo V; se ne
avvantaggiò un po’ il lontano impero d’oriente con la sua sede principale a Costantinopoli e un piede a Ravenna.
In questo triste periodo solo il Papato e il monachesimo
(san Benedetto: 480-547) non solo restano in piedi, ma anzi
riescono a poco a poco e pur solo in parte a educare i barbari. Così si salvano e si compongono in una nuova civiltà i valori dell’antica romanità, del cristianesimo (Bibbia e tradizione dei Padri) e delle stesse popolazioni arrivate nella
nuova Europa. Grande artefice di questa sintesi è proprio
Gregorio detto Magno, il Grande.
Originario di una ricca famiglia di Roma, lascia tutto e diventa monaco, collaboratore di Papi e Papa lui stesso dal 590
al 604 (allora però non si usava ancora il titolo di “papa”).
Preoccupato di salvare il salvabile e più ancora di curare il bene delle chiese occidentali e orientali e la vita delle popolazioni italiane e non solo, Gregorio intrattiene contatti con vescovi, monaci, clero, imperatori, re di Francia e Spagna, signori locali e gente di ogni tipo. Intanto governa anche il “patrimonio di san Pietro”, già abbastanza ricco per donazioni
ricevute, che poi diventerà lo Stato pontificio. Per questo dà
dell’“assassino di intere popolazioni” al pretore della Sicilia
perché non forniva più sufficiente grano. Famose alcune sue
lettere alla bavarese Teodolinda, regina dei Longobardi, risiedente a Pavia e, d’estate, nella più… fresca Monza.
Gregorio a Teodolinda e Agilulfo
I nostri antichi longobardi da feroci guerrieri nordici erano già diventati cristiani (prima nell’eresia di Ario, poi come cattolici) e, occupata l’Italia settentrionale e parte di
quella centro-meridionale, sognavano di prendersi anche
Ravenna e Roma. Ovviamente mediante conquiste armate
e conseguenti rovine. Ma si inserisce papa Gregorio: Gregorio a Teodolinda regina dei Longobardi. Abbiamo saputo
dal nostro figlio abate Probo come la vostra eccellenza si sia
impegnata, con la sollecitudine e la benignità che le sono
proprie, a ristabilire la pace. Né del resto c’era da attendersi altro dalla vostra grazia cristiana… e ne rendiamo grazie
a Dio, che governa il vostro cuore con la sua pietà… Avete acquistato non pochi meriti, dilettissima figlia, per il sangue
che stava per essere sparso da una parte e dall’altra… Vi esortiamo a operare presso il vostro eccellentissimo sposo...
Crediamo che voi sappiate fare in molti modi (con lui) se si
vorrà rivolgere al suo amore (all’amore di Dio o/e della moglie?)… ai fini della concordia e della pace…
Dopo aver finemente lavorato con la moglie, Gregorio
scrive al marito: Gregorio ad Agilulfo re dei Longobardi.
Ringrazio la vostra eccellenza, poiché, ascoltando la nostra
richiesta e come avevamo confidato, stabiliste quella pace
che avrebbe giovato all’una e all’altra parte… in particolare
ai nostri miseri contadini, il cui lavoro giova a tutti… Esortate dunque i vostri duchi e soprattutto quelli stabiliti in
questi luoghi (Spoleto, Benevento ecc.) a custodire questa
pace come con animo puro è stato promesso… Un Papa dunque davvero anche fine politico!
Gregorio a clero e laici
Gregorio manda in Inghilterra un suo amico, Agostino,
monaco a Roma, per aiutare quelle chiese. Interessante lo
stile pastorale suggeritogli: Tu conosci o fratello le abitudini
della Chiesa romana… È mio desiderio però che, se trovassi
qualcosa nella chiesa romana o gallica o altre ancora che potesse piacere di più a Dio onnipotente, la scelga con cura e la
introduca nella chiesa degli Angli ancora giovane nella fede… Perciò prendi da tutte le chiese quanto c’è di buono, di
religioso, di giusto e, facendone per così dire una collezione,
usalo per le anime degli Angli. È il metodo della inculturazione del Vangelo, voluto da Matteo Ricci in Cina (sec. XVI),
dal Vaticano II e dai Papi recenti fino a Francesco.
Gregorio scrive molte opere a commento della Bibbia e
per l’educazione specialmente del clero (non esistevano seminari!), in particolare una ricca Regola pastorale, da cui ascoltiamo una pagina che segue a tante indicazioni spirituali (parte II, cap. 8): Il metodo di governare deve essere così saggiamente impostato da permettere ai sudditi di poter
manifestare liberamente quanto credono di poter ragionevolmente e con umiltà osservare… È bene sapere quanto sia
utile per i superiori zelanti lo studiare un contegno esterno
febbraio 2014
IRC 27
che sia gradito, per trarre il prossimo con l’incanto del loro
fascino all’amore della Verità; non per il piacere di essere amati, ma per servirsi della simpatia che li circonda come di
una strada per condurre i cuori all’amore del Creatore… Pagina che, speriamo, rispecchia lo stile di successori di papa
Gregorio e di ogni pur minuscolo prete di parrocchia…
Al clero quel Papa suggerisce anche parole per gli sposi
cristiani. A costoro vanno proposti anche ideali molto alti,
quasi da martirio, ma sempre con sano e moderato realismo, come quello di san Paolo con i cristiani di Corinto (1
Cor 7): Sottolineata la grande dignità del matrimonio (teso
alla vita di comunione coniugale e alla procreazione), Paolo
concede anche qualcosa al piacere... Allude in tal modo ad
una certa colpevolezza cui dichiara di indulgere; essa però
vien rimessa più facilmente in quanto non è che si faccia
qualcosa di illecito (di peccaminoso), ma solo non si tiene
sotto il freno della moderazione ciò che è lecito… Se dunque
i coniugi effondono le loro preci a Dio, la loro vita coniugale non sarà certo condannata… purché, mediante la preghiera, non perdano di vista i beni eterni (parte III, cap. 30).
Un Papa precedente a Gregorio (Siricio: 384-398, contemporaneo di sant’Ambrogio) era stato molto più severo; e dopo Gregorio come fu la pastorale matrimoniale?... Papa Gregorio e papa Francesco ci aiutino tutti a ritrovare un equilibrio più evangelico(1).
Mons. Giovanni Giavini
Per saperne di più cfr. M. LEMONNIER, Storia della Chiesa, Vicenza (ed.ISG) 2013, cap.IX; PAOLO DIACONO, La
storia dei Longobardi, libro IV, 5-10, ed. Rizzoli 1967.
1)
San Gregorio Magno.
IL SEGNO+IRC+AVVENIRE (MILANO 7): ABBONAMENTO 2014
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Don Michele Di Tolve
IL DOVERE DI UNA SCELTA
28 IRC
febbraio 2014