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BEATLES !
di Luciano Gentile
con
Stefano Cattaneo
Marcello Colò
Manuel Corato
Luciano Gentile
Lorenzo Definti
Walter Muto
SCHEDA PER INSEGNANTI
Ci sono canzoni che non si riescono a dimenticare. Canzoni che vengono continuamente rivisitate o
riproposte nella loro versione originale.
Le canzoni dei Beatles sono tra queste.
Eppure sono passati trentasette anni dall’uscita del loro primo 45 giri.
Perchè i ragazzi conoscono, imparano a memoria e suonano anche oggi quelle canzoni?
Perchè molte canzoni dei Beatles, che non erano destinate al consumo e non erano nemmeno
ballabili, restarono saldamente ancorate nelle prime posizioni delle classifiche di tutto il mondo per
interi mesi?
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A quali stili attinsero i “quattro di Liverpool” prima di approdare al proprio inconfondibile
sound?
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E infine: perchè suoniamo in sei e non in quattro? Perchè proponiamo tra gli altri alcuni brani che i
Beatles registrarono in studio con arrangiamenti orchestrali e non eseguirono mai dal vivo.
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Sfogliando un dizionario di musica, troviamo una definizione sintetica ma assai interessante per il
nostro approfondimento:
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“Musica BEAT - Tipo di musica di consumo nata nel 1960 in sale da ballo di Liverpool dalla
fusione di elementi di rhythm & blues e del rock’n roll, basata su un’iterazione stretta di impulsi
ritmici.
I complessi beat sono di solito costituiti da strumenti ritmici e da tre chitarre elettriche, cui si
possono unire uno o più cantanti. Nelle espressioni più riuscite (Beatles), la musica beat tende a
situarsi in una zona intermedia fra la musica di evasione (ballo o ascolto) e la musica d’arte
d’avanguardia. Non infrequenti sono le assunzioni di elementi propri della musica barocca,
classica, elettronica e dei raga indiani.”
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L’ipotesi che vogliamo verificare è che i Beatles (e tra loro in particolare John Lennon e Paul
McCartney) riuscirono ad essere veramente originali e creativi perchè impararono da altri
compositori ed attinsero a diversi stili musicali.
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Sappiamo di certo che il gruppo si ispirava chiaramente al rock’n roll e al rhythm & blues. Basta
riascoltare il loro più antico repertorio per constatare quale fosse il rispetto dei Beatles per Little
Richard.
Il fatto che tre dei loro primi quattro album contenessero vari pezzi di importanti compositori
contemporanei, indica che i Beatles non avevano ancora scelto definitivamente una loro strada
coerente.
Perchè all’inizio incidevano canzoni altrui? Due possono essere state le ragioni principali. In primo
luogo non avevano ancora un numero adeguato di canzoni proprie, o di qualità abbastanza elevata
da poter essere inserite in un LP contenente dodici “pezzi”.
La seconda ragione è che i Beatles vollero di proposito incidere canzoni di quegli autori, alla cui
musica si ispiravano, per un gesto di omaggio, riconoscimento e imitazione.
L’interesse dei Beatles per il rhythm & blues precedette di almeno quattro anni quello del pubblico.
Anzi si può dire che il pubblico, soprattutto europeo, incominciò veramente a conoscere quella
produzione attraverso i Beatles.
Essi non nascosero mai la grande influenza esercitata su di loro dai campioni del rock’n roll: Chuck
Berry, Buddy Holly e Little Richard.
Nel 1965 una canzone inclusa nell’LP “Help!” intitolata “You’ve got to hide your love away”
denotava così evidenti influssi da parte di Bob Dylan che contribuì a lanciare questo cantautore
americano in Europa. E’ indubbio che i Beatles hanno subito numerose influenze. La cosa strana è
che molti di quelli che li avevano influenzati come autori o come esecutori, alla fine subirono a loro
volta l’influenza dei Beatles!
C’è un personaggio la cui importanza nella storia dei Beatles è fondamentale: George Martin. Vale
la pena soffermarsi su alcuni aspetti che lo riguardano.
Anzitutto qualche cenno alla sua formazione musicale e di seguito alcuni aneddoti che permettono
di comprendere il peso della presenza e dell’esperienza di George Martin nella valorizzazione e
nell’arrangiamento di molte canzoni dei Beatles. I brani sono tratti da una delle tante biografie dei
Beatles.
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Martin imparò da solo a suonare il piano, e a scuola formò una propria orchestrina da ballo. In
seguito frequentò la Guildhall School of Music di Londra dove perfezionò gli studi di pianoforte e
di oboe.
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Quando, nel 1950, George Martin entrò alla EMI, si suonavano ancora i grammofoni a manovella,
e i dischi erano degli oggetti neri e pesanti del diametro di trenta centimetri, che si rompevano se
cadevano a terra. Gli studi di registrazione erano dei luoghi scialbi e istituzionali, sotto la
supervisione di uomini col camice bianco, e così rigidamente formali da vietare perfino al
batterista di un’orchestra jazz di togliersi la giacca durante la registrazione. A ventinove anni
diventò un manager della EMI.
Quando arrivò il rock’n roll, George Martin condivise la generale avversione di tutti i musicisti
colti. Tuttavia era suo dovere ricercare nuovi talenti per la casa discografica.
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L’11 settembre 1962 i Beatles incidevano “Love me do”; Martin spiegò che, grazie ai prodigi della
tecnica della EMI, essi potevano registrare le voci e gli strumenti su piste separate, che poi
venivano mixate in modo da ottenre la migliore resa e il miglior equilibrio. Dopo la registrazione li
portò nella sala di controllo per risentire la canzone. Quando chiese se c’era qualcosa che non
fosse di loro gradimento, George Harrison, nel suo modo lento e burbero, disse: “Be’, tanto per
cominciare non mi piace la sua cravatta.”
“A quell’uscita tutti scoppiarono a ridere” ricorda George Martin “Gli altri gli facevano cenni
d’intesa, come fanno gli studenti quando uno di loro si è mostrato insolente con l’insegnante”
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...era una canzone che John e Paul avevano affrettatamente buttato giù, nella loro camera
d’albergo, tre notti prima. La suonarono a Martin, come al solito con la loro Gibson acustica, e,
come al solito, Martin ebbe un suggerimento da dare. Disse che, invece di incominciare con il
primo verso, sarebbe stato meglio partire dal coro - She loves you- e così via. Martin disse anche
che il finale era un po’ trito; che Glenn Miller era solito finire con un accordo di sesta maggiore,
quello su cui le loro voci si erano trovate per caso. Ma quel pezzo poteva rimanere. Se c’era
qualcosa che avrebbe fatto vendere “She loves you”, pensò Martin, quel qualcosa era il primo
coretto di cinque secondi: lo “yeah, yeah, yeah”.
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L’importanza di George Martin non sarà mai sottolineata abbastanza. Innanzi tutto fu lui a far loro
firmare un contratto. In secondo luogo non li ingannò. In terzo luogo non li adulterò. Sarebbe stato
facile per lui, nella sua veste di onnipotente produttore discografico, insistere che ogni disco
portasse un lato B composto di mano sua. Si dava il caso, invece, che Martin appartenesse alla
rara specie di coloro che sono contenti di valersi delle proprie capacità per migliorare l’opera
altrui. Per Lennon e McCartney egli fu l’editore in cui gli spiriti creativi promettenti si imbattono
quando li assiste la fortuna. Martin prese le canzoni grezze, le plasmò, le limò, le levigò e, con
altruismo quasi incredibile, non chiese nulla per sé, se non lo stipendio della EMI e la
soddisfazione di vedere le canzoni venir fuori bene. E, via via che le canzoni si facevano più
complesse, diventò più complesso anche il ruolo di Martin, che non lo vedeva nè nelle vesti di
cantante nè in quelle di autore delle canzoni cantate.
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Tanto John quanto Paul seguivano George Martin nel suo regno (la sala d’incisione) come bambini
in un negozio di giocattoli, illuminandosi rapiti davanti a questa o quella novità del suono. C’erano
stati momenti in cui Martin si chiedeva se fosse lecito che i Beatles si spingessero oltre certi limiti.
Una volta, per esempio, gli era stato chiesto di fornire i rumori di una fattoria, fra cui l’abbaiare di
una muta di foxhound. C’era stata poi la questione degli organi a vapore vittoriani, l’orchestra di
quarantuno elementi che dovevano suonare senza alcuna partitura, e le ore passate alla ricerca di
una nota che solo i cani potevano sentire. In tali occasioni il produttore discografico dei Beatles
aveva temuto che quel nuovo album avrebbe finito, ammesso che fosse stato finito, con lo
sconcertare i suoi ascoltatori.
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A George Martin si deve l’influenza della musica colta nelle brevissime canzoni dei Beatles:
quartetti d’archi, a solo strumentali dei maestri della London Simphony Orchestra, arrangiamenti
sugli stili dei primi decenni del secolo.
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Ma qual’era l’origine di questa diversità? Semplice: non aver mai rinunciato alle proprie radici.
Paul era un ragazzo per bene, proveniente da una buona famiglia cattolica di origine irlandese,
dotato di quel particolarissimo tipo di musicalità che ogni persona di sangue irlandese porta con sé
dalla culla alla tomba.
John, un’infanzia difficile alle spalle nel panorama di disgregazione urbana di una grigissima
Liverpool industriale del primo dopoguerra, senza dubbio un carattere instabile, complesso, sempre
teso alla trasgressione anche dal punto di vista musicale.
George, classico giovane all’inglese, tutto correttezza e serietà in apparenza, con un vulcano interno
di istanze represse e di espressività naturalmente selvaggia ben canalizzata dal proverbiale self
control. Innovazione, quindi, nel solco della tradizione, una tradizione fondamentalmente personale alla
quale nessuno dei quattro, nel bene e nel male, ha mai rinunciato, sebbene il fenomeno Beatles sia
stato uno dei rari episodi di eclettismo musicale autenticamente proficui della più recente storia
della cultura. Buona parte della produzione del gruppo, infatti, ripropone moduli tipici della
tradizione europea, colta e folklorica (quest’ultima soprattutto di derivazione inglese), unitamente
ad un ricorrente occhieggiare a certa musica da ballo in gran voga in Inghilterra durante gli anni ‘30
e ‘40 che ha nel “two step” corrispondente europeo dell’americano “ragtime”, il motivo ritmico più
utilizzato.
I Beatles in ogni caso ascoltavano di tutto, senza il minimo pregiudizio, dal rock’n roll americano
del quale i giovani di Liverpool si nutrivano, alla musica colta europea rinascimentale e barocca e
persino più tardi musica indiana e chissà quant’altra. Fu questo il modo in cui costruirono un nuovo
tipo di gusto musicale, con l’aiuto insostituibile di George Martin, un musicista di estrazione
classica, che non aveva avuto particolare fortuna nel suo campo di provenienza, ma che con i
Beatles rivelò tutto il suo talento inventando una figura europea di arrangiatore di musica leggera,
dando prova di grande sapienza musicale in molte canzoni del complesso; citiamo fra tutte come
esempio “Martha my dear” l’arrangiamento finale della quale prevede un doppio organico di archi e
di ottoni utilizzati secondo uno stile che si ispira in parte al primo barocco strumentale, in parte
addirittura alla scuola veneziana del rinascimento italiano, sfruttando naturalmente anche i moduli
ritmici basati sulla sincope. Anche per quanto riguarda la produzione e l’impresariato, i Beatles si
guardarono bene dal seguire i soliti canali della discografia maggiore. Il loro impresario, Braian
Epstein, in realtà aveva esperienza più come impresario teatrale che non come produttore musicale
ed il modo in cui promosse il gruppo di Liverpool all’inizio fu abbastanza stentato. Nessuno forse
avrebbe scommesso un penny sui futuri trionfi del complesso. Fatto sta che Epstein se la prese
veramente a cuore, fece molti viaggi a Londra ed alla fine, non si sa come, riuscì a fissare
un’audizione presso gli studi EMI con George Martin. Fu lo stesso Martin a chiedere ai Beatles di
cambiare batterista, così Pete Best fu rimpiazzato da Ringo Starr.
La vera storia dei Beatles era iniziata.
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Breve sguardo critico sul fenomeno Beatles
di Ausonio Calò
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I Beatles costituirono negli anni ‘60 un avvenimento musicale di proporzioni globali, destinato ad
influenzare il panorama della musica di largo consumo per almeno tre decenni, suscitando
incondizionata ammirazione nella gente comune, nelle persone musicalmente acculturate e persino
nei musicisti di formazione accademica.
Detto questo, è possibile analizzare i motivi essenziali del successo del quartetto di Liverpool.
Innanzitutto va sicuramente chiarito quanto segue: i Beatles non furono uno dei tanti prodotti
preconfezionati dall’industria musicale, per due ragioni storicamente inconfutabili. La prima è che
negli anni ‘60 non esisteva nel Regno Unito un apparato industriale relativo alla musica leggera
degno di competere con la valanga di prodotti sfornati dall’industria discografica americana, una
macchina efficace e ben lubrificata da decenni di esperienza nel campo della musica commerciale,
dallo swing di largo ascolto degli anni ‘40, al rock di Presley nei ‘50, al soul anni ‘60. Una presenza
costante quella americana nel dopoguerra, che si avvale in maniera assai persuasiva dei mezzi
radiofonico e cinematografico, trasformandoli in potenti fattori promozionali per moltiplicare a
livello intercontinentale la vendita dei dischi.
La seconda ragione che conferma che i Beatles non furono progettati da altri se non da loro stessi, è
che come è ben noto la loro formazione subì alcune importanti variazioni di organico prima di
giungere ad elaborare uno stile musicale definitivo all’interno del quale fossero chiaramente messi a
fuoco i ruoli e le potenzialità dei singoli componenti.
I Beatles rappresentarono anche una fortunata coincidenza, un felice incontro fra personalità
differenti dal punto di vista musicale, ma straordinariamente complementari: il raffinato melodismo
di McCarteney, la spregiudicatezza e l’originalità di Lennon, la semplicità disarmante ed insieme
intrigante di Harrison ed infine lo stile tecnicamente povero ma essenziale ed efficace di Starr,
inventore in buona misura dello stile beat destinato ad influenzare tutta la storia del rock a venire.
Il quinto Beatle, George Martin, il coltissimo arrangiatore della loro produzione matura, ravvisò
subito una evidente originalità nel modo di scrivere canzoni del gruppo di Liverpool.
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Programma
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Il rock’n roll americano degli anni ‘50
Get back
Back in the U.S.S.R.
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Il folk europeo
Norwegian wood
We can work it out
Blackbird
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Il beat, nuovo ritmo per il folk
Nowhere man
Here comes the sun
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Il folk americano
You’ve got to hide your love away
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L’influenza classica
Eleanor Rigby
Yesterday
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Lo stile orchestrale anni ‘30 e ‘40
Honey Pie
Martha my dear
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Il sound originale
Let it be
Love me do
I feel fine
Day tripper
Lady Madonna
Hey Jude
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