Giornale del 01/10/2014

òς
European Journalism - GNS Press Ass.tion - The ECJ promotes publishing, publication and communication- P. Inter.nal
I COMPORTAMENTI A RISCHIO
LE DIPENDENZE ( 6 parte )
ANNO X N.RO 10
del 01/10/2014
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Pag. psicologica
Ritorno alle armi
Strane coincidenze
Flessibilità o rigore
Il teatro romano
De cognomine
Una donna nella lett.
Siamo soli al mondo?
Certificati particolari
Il racconto del mese
Momento tenero
La donna nella storia
Otto settembre
Aforismi
Racconto del mese
A cosa serve la NATO
Storia della musica
La donna nella letterat.
Quanti l’avevano capito?
La prostituta
Dentro la storia
Mondo giovani
I grandi pensatori
Politica e nazione
Dentro le istituzioni
I piatti tipici
Dalla Red.di Bergamo
Dalla Red.di San Valent.
L’angolo dl cuore
Regimen sanitatis saler.
Leviora
Elaborazioni artistiche
Lettere al Direttore
Sul portale
http://www.andropos.eu/antroposint
heworld.html
L’uso di sostanze illecite, cannabinoidi, tra cui appunto la marijuana, è
un fenomeno che interessa tutte le fasi del ciclo di vita, ma rimane
prevalentemente diffuso nell’adolescenza e nel periodo giovanile.
Il problema principale è però dato dal fatto che lo spinello per gli
adolescenti di oggi non è più soltanto un atto trasgressivo.
La canna è diventata un rito di appartenenza al gruppo di amici, un’abitudine che diventa pericolosa quando l’adolescente non è ascoltato e
viene lasciato tutto solo con la sua voglia di crescere e la sua cannabis .
Un buon numero di adolescenti prova prima o poi tale sostanza perché è
molto diffusa, si trova facilmente a scuola, o comunque è facilmente reperibile
e se molti coetanei la usano il ragazzo è portato a credere che non sia poi così
grave.
Effetti: può provocare dipendenza, compromissione dei processi mnemonico-cognitivi, alterazioni della percezione e condurre a distorsioni della capacità di giudizio, produzione di euforia e senso di benessere cui può seguire
sonnolenza e depressione, tremori e senso di freddo, può provocare deficit
dell’equilibrio e nella coordinazione dei movimenti, crisi respiratorie. Gli
effetti cominciano subito dopo l’arrivo della sostanza al cervello e durano 1-3
ore. Tra i sintomi vi sono nausea, mal di testa, sonnolenza, riflessi lenti.
Spesso è associata all’alcol.
Da come si evince dalla tabella a lato, la maggioranza dei ragazzi dichiara
di non aver mai fatto uso di cannabis, e tra questi, la percentuale più alta è
quella delle ragazze.
(Solo 15enni) Quante volte, nel corso della tua vita, hai fatto uso di
cannabis?
Tra i ragazzi che si dichiarano consumatori,la maggior parte riferisce di
aver fumato un numero di volte variabile tra 1 e 9 volte nel corso della vita.1
(continua)
Su facebook
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roposintheworld/755101491196213/?n
otif_t=like
1) F. Pastore, LE PROBLEMATICHE DELL’ADOLESCENZA, pag. 47- 48 A.I.T.W. ed.SA. 2013 – cod
ISBN Cod. SBN: IT\ICCU\MOD\1622636
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Antropos in the world
BULLISMO ED EROI DI CARTONE
Adolescenti come plotoni di esecuzione, pronti
a destabilizzare i più deboli, sempre addosso a chi
non può reagire.
Bullismo ed eroi di cartone, furbi e codardia
sospesa a mezz’aria, una dimensione di imbecillità
con la patente a punti di bravi ragazzi, il tutto ben
nascosto dalla viltà del gruppo che opprime il singolo.
Se non ricordo male ai miei tempi, esisteva
l’esatto contrario del bullismo attuale, infatti il disagio aggrediva il singolo, ponendolo solo contro
tutti.
Il solitario scopriva gli strumenti della violenza e
della diversità, per diventare protagonista, per
apparire, nel tentativo di colmare il vuoto in famiglia, la precarietà finanziaria, la mancanza di
riferimenti certi, di valori condivisi.
Quel ragazzo scelse la diversità come propria
corazza e propria spada, fino al giorno dell’abbandono della scuola, della famiglia, all’incontro
con la strada e con il carcere.
In questo presente c’è una scuola priva di autorevolezza, una scuola e una famiglia prive di allenatori alla vita, perché dispersi dalla delegittimazione.
C’è invece un recinto dove incontrarsi per scontrarsi, in preparazione del botto finale da pagare al
destino sempre in agguato.
Le teorie si sprecano nei riguardi della trasgressione, della violenza giovanile, del bullismo,
un dispendio inusitato di tautologie inconcludenti,
di dottrine pedagogiche che adottano l’eteroeducazione invece di una sana autoeducazione, per
cui chi sta in cattedra ritiene di educare solamente
gli altri, negando la necessità di doversi formare e
rinnovare a un nuovo “sentire educativo “. C’è un
disamore adulto, che permette fughe in avanti a
quanti pensano di aggiustare la propria personalità
inadeguata, con la prepotenza degli atteggiamenti
omertosi, che mettono in “sicurezza “ i pochi
“duri” dell’ultimo banco, dietro ai tanti inconsapevoli complici di molteplici vigliaccate.
Ieri il bullo era l’unico diverso, destinato immediatamente al macero, oggi è divenuto eroe manifesto, non tanto per la sua fisicità, soprattutto per
la silenziosa maggioranza all’ intorno. E’ un’ anomalia istituzionale lo spazio in cui il bullo rimane 1.
in piedi, eretto come un vessillo, mentre la vittima
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incassa l’ennesima sconfitta in termini di dignità rapinata e giustizia beffata. In questo mare apparentemente sommerso di contraddizioni, incontro tanti giovani, e rimango stupito,
perché sebbene non riesca a individuaduare bulli, furbi, né ottusi, questa mimetizzazione mi conferma l’urgenza di
raccontare la storia di quel bullo di altri tempi, di
quel coetaneo che s’è perduto in tragedie irripetibili,
perché viltà non è dignità, e imbecillità non è intelligenza.
Diviene davvero un dovere raccontare di quel
confine, sì, sottile, ma irrinunciabile, che separa
sempre una legge di sangue da una legge del cuore,
oppure di quanto è difficile essere uomini per saper
scegliere, per saper credere negli altri, per farsi
aiutare a diventare architetti di domani.
Noi continuiamo a parlare di bullismo, mai di
professori e genitori in disarmo, perché divenuti
autorevoli assolutori, ognuno indaffarato a delineare
la soglia minima di attenzione, ciascuno a definire
bravate le future scivolate.
Forse per arginare lo scempio, non serve
assumere toni salvifici, o quel falso interventismo di
un momento, forse per rendere quel ragazzo meno
strafottente, occorre trovare il tempo per guardarlo
negli occhi, in forza di una autorevolezza riconosciuta, perché guadagnata sul campo, non certamente perché ereditata dalle fatiche e dai sacrifici altrui.
Antropos in the world
JOB ACT DI RENZI LE “TUTELE CRESCENTI” CHE NON
TUTELANO NESSUNO
“Job Act”: significa semplicemente piano per il lavoro (o legge per il lavoro), ma detto in quell’altro modo
fa tanto americano, tanto progressista, tanto mostrarsi
adeguato a “un mondo che cambia”; in sintesi, tanta obbediente omologazione allo stile (e alla lingua) dei padroni.
E, di fatti, la proposta indecente del pifferaio dell’Arno è
totalmente ispirata al verbo liberista e globalista che nell’ultimo ventennio ha imperversato sul pianeta, recando
alle genti la cattiva novella dell’arretramento, dello impoverimento, dell’asservimento all’usura finanziaria internazionale.
Orbene, il Job Act renziano si inserisce perfettamente
in un panorama di tal fatta. Il lavoro vi è concepito come
un optional nella vita degli individui, qualcosa che si deve
faticosamente conquistare e che si deve essere pronti ad
abbandonare ad ogni stormir di foglia, sacrificando sull’altare della “mobilità” anche il semplice progetto di
creazione di un nucleo familiare. Degno emblema di questa “riforma” è l’invocata abolizione dell’articolo 18 dello
Statuto dei Lavoratori. Quello Statuto – che è Legge dello
Stato – prevede che nelle grandi aziende (quelle che
occupano più di 15 dipendenti) il lavoratore licenziato
ingiustamente – e riconosciuto tale da una sentenza
giudiziaria – venga reintegrato nel proprio posto di lavoro.
E ciò in un contesto in cui tutte le imprese (piccole o
grandi) hanno, giustamente, la piena libertà di licenziare
chiunque per “giusta causa” o anche per motivi economici
(mancanza di sbocchi produttivi, ristrutturazioni aziendali, eccetera).
I gagliardi innovatori renziani (con montiani, alfaniani e similberlusconiani al sèguito) propongono di abolire ogni garanzia contro i licenziamenti ingiusti, offrendo
in cambio delle “tutele crescenti in relazione all’anzianità
di servizio”. E questo – udite, udite – per i nuovi contratti
“a tempo indeterminato”; che così cesserebbero, automaticamente, di esser tali.
Altra porcheria: le cosiddette tutele sono, appunto,
“crescenti”; la qualcosa significa che all’inizio – diciamo
per i primi tre anni di lavoro – sono praticamente inesistenti, e che il lavoratore potrà essere licenziato anche il
giorno dopo essere stato assunto: forse – ma non ne sono
tanto sicuro – tacitato con una piccola mancia. Se dovesse
fermarsi in azienda oltre i tre anni, il lavoratore poi licenziato ingiustamente avrà diritto ad un modesto risarcimento pecuniario; risarcimento poi via via crescente (e
non so fino a che punto crescente) in proporzione all’anzianità. Tradotto in parole povere: le grandi aziende avranno la possibilità di assumere giovanissimi apprendisti,
spremerli fino all’osso per uno, due o tre anni, e poi buttarli fuori e sostituirli con altri giovanissimi per il successivo triennio. E così via, di tre anni in tre anni. In questo
modo, le grandi aziende (e sottolineo: le grandi aziende,
perché il Job Act è utile soprattutto a loro) potranno avere
personale sempre giovane, in forma perfetta e praticamente privo di tutele, con l’unico disturbo di dare qualche
modestissima regalìa ai “vecchi” appena licenziati.
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Naturalmente, per salvare la faccia, è prevista
l’estensione a tutti di certi “privilegi” oggi riservati a chi è
“eccessivamente garantito”: per esempio, alcune tutele
connesse alla maternità. Ma, attenzione, anche queste
tutele sono concesse in modalità “crescente”. La qualcosa
comporta, per esempio, che una neo-assunta possa essere
licenziata in tronco alle prime avvisaglie di gravidanza, e
cioè prima di aver maturato il diritto ad essere
“crescentemente” garantita dopo il parto.
Cosa significa tutto ciò, al di là del contingente?
Significa che si vuol distruggere il modello di società
europea progredita che ha contraddistinto il nostro sistema
di vita fino ad oggi, sostituendolo con un modello
ultraliberista di matrice americana. Un sistema basato
sulla mancanza di certezze, sulla impossibilità di
programmare una vita “normale”, di sposarsi e mettere al
mondo dei figli, di contrarre un mutuo per una casa, di
avere una regolare vita lavorativa, di aspirare ad una
pensione decente. È questo “lo spirito dei tempi”, è questo
“il nuovo che avanza”, sono queste “le riforme che
l’Europa ci chiede”.
Nel caso in specie, peraltro, v’è un supplemento di
volgare, becera demagogia: la “riforma”, infatti, viene
invocata in nome dell’uguaglianza di tutti i lavoratori.
Però, considerato che l’articolo 18 tutela solamente i
lavoratori licenziati ingiustamente dalle grandi aziende,
non si chiede di tutelare anche i dipendenti delle piccole
aziende, bensì di togliere a tutti indistintamente ogni
tutela. Pardon: di sostituire le anacronistiche tutele del
passato con le nuove e progressiste “tutele crescenti” che
sono gradite ai “mercati”. È il solito appello all’invidia: in
nome, beninteso, dell’abolizione dei privilegi.
Naturalmente, anche questa “riforma” è da
considerarsi, per definizione, buona. Di converso, chi si
oppone è cattivo. In particolare, chi vuole conservare
qualcosa di civile è un “conservatore”, se non proprio un
fascista. Invano il povero Nichi Vendola si affanna a
squittire che il Job Act è “una porcheria di estrema
destra”. No, caro Nichi: è una porcheria di sinistra. Di
quella Sinistra – beninteso – che ha venduto l’anima a
Wall Street. Esattamente come una certa Destra.
M.Rallo
Tutele crescenti?
Altra porcheria.C
Ci
credono tutti dei fessi!
Antropos in the world
REALIZZATA A PAGANI LA KERMESSE MATER DEI IUNIOR
Con il patrocinio del Comune di San Valentino Torio
Nella splendida cornice della chiesa del SS. Corpo
di Cristo, si è realizzata a Pagani la premiazione degli
alunni vincitori del secondo Concorso di letteratura religiosa Mater Dei Iunior.
Un folto pubblico ha applaudito lungamente le
ottime esecuzioni per organo di Don Flaviano Calenda,
mentre il Coro del Carminello ha addolcito gli animi di
tutti gli astanti. Una grande manifestazione, dunque, promossa dalla rivista salernitana ANTROPOS IN THE
WORLD, in collaborazione con la Parrocchia della Chiesa Madre di Pagani. Nell’occasione, il direttore responsabile dott. Franco Pastore ha presentato al pubblico lo staff
della rivista, evidenziando che esso era formato da alcune
delle menti più brillanti d’Italia, dall’onorevole Rallo di
Trapani, alla dottoressa Anna Burdua di Erice; dalla brillante professoressa Maria Imparato di Bergamo, al giornalista Carlo D’Acunzo di Angri, al mariologo dott.
Renato Nicodemo, presente il sala con una delle sue profonde dissertazioni sulla Vergine. Inoltre, dietro al banco
della presidenza figuravano: la Direttrice del giornale
Rosa Maria Pastore, il redattore capo della redazione di
San Valentino Torio, l’avv. dott. Vincenzo Soriente ed il
Sindaco di San Valentino, dott. Felice Luminello, che è
stato insignito dell’onorificenza di Mecenate della cultura, per aver favorito la crescita socio-culturale di San Valentino Torio e dell’agro nocerino-sarnese. Mancavano: il
dott. Raffaele Villani, il giornalista Silvestri Cesare della
redazione di Torre del Lago, il dott. Farina di Salerno, il
grafico Paolo Liguori ed il giovane giornalista Paolo
Zinna. Purtroppo, I dirigenti degli istituti ed i docenti di
religione non erano presenti, né rappresentati ed i premi
alle scuole sono stati inviati attraverso gli alunni, a
Gli alunni premiati sono stati:
testimonianza del degrado delle istituzioni.
Purtroppo, proprio il sindaco di Pagani, Salvatore
Bottone, era assente alla manifestazione.
Presente, invece, TELENUOVA, che con il bravissimo Pierino Califano, ha realizzato un superbo servizio,
andato ripetutamente in onda su tutto il territorio.
Don Flaviano Calenda, da bravo “padrone di casa” ha
arricchito la manifestazione con due belle musiche per
organo, di J. Sebastian Bach.
– EMANUELA MURA – V C - SAN VALENTINO T. – PRIMO
PREMIO, CON MADONNINA MIA
- EMANUELE BISOGNO – III A SCUOLA MEDIA
– SAN
MARZANO S.S. – II PREMIO, CON REGINA DEI CELI
– GABRIELE PISAPIA – II H – SCUOLA MEDIA SOLIMENA
NOCERA INF. – III PREMIO, CON DONNA DI SALVEZZA
– ILARIA LUPORINO – IV A – CARMINELLO PAGANI –
TERZO EX AEQUO, CON IL FIORE PIU’ BELLO
– ANGELICA VOLPICELLI – IV E SAN VALENTINO T.
QUARTO PREMIO, CON MADONNA MADONNINA
– MIGLIARO LUCA, ANTONIO CINQUE, 2° F - SCUOLA
MEDIA SAN VALENTINO – IV EX AEQUO, CON AMO LA
MADONNA DI POMPEI
- GABRIELE AMBRUOSI – IV D – SAN MARZANO - V PREMIO, CON GRAZIE TANTE MADONNA
– PETROSINO ALESSIA PIA – III M – NOCERA INF. - SCUOLA MEDIA SOLIMENA -VI PREMIO, CON O MADONNA.
- segue a pag. 19 -
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Antropos in the world
IL TEATRO COMICO ROMANO a cura di Andropos
La parola commedia è tutta greca: κωμῳδία, "comodìa", infatti, è composta da κῶμος, "Kòmos", corteo festivo e
ᾠδή,"odè", canto. Di qui il suo intimo legame con indica le antiche feste propiziatorie in onore delle divinità
elleniche, con probabile riferimento ai culti dionisiaci . Peraltro, anche i primi ludi scenici romani furono istituiti,
secondo Tito Livio, per scongiurare una pestilenza invocando il favore degli dèi. I padri della lingua italiana, per
commedia intesero un componimento poetico che comportasse un lieto fine, ed in uno stile che fosse a metà strada
fra la tragedia e l'elegia. Dante, infatti, intitolò comedìa il suo poema e considerò tragedia l’Eneide di Virgilio. La
commedia assunse una sua struttura ed una sua autonomia durante le fallofòrie dionisiache e la prima gara
teatrale fra autori comici si svolse ad Atene nel 486 a.C. In altre città si erano sviluppate forme di spettacolo
burlesche, come le farse di Megara, composte di danze e scherzi. Spettacoli simili si svolgevano alla corte del
tiranno Gerone, in Sicilia, di cui purtroppo, non ci sono pervenuti i testi.
A Roma, prima che nascesse un teatro regolare, strutturato cioè intorno a un nucleo narrativo e organizzato
secondo i canoni del teatro greco, esisteva già una produzione comica locale recitata da attori non professionisti, di
cui non resta tuttavia documentazione scritta. Analogamente a quanto era accaduto nel VI secolo a.C. in Attica,
anche le prime manifestazioni teatrali romane nacquero in occasione di festività che coincidevano con momenti
rilevanti dell’attività agricola, come l’aratura, la mietitura, la vendemmia.
TERENZIO: Adelphoe (rappresentata nel 160 a.C.)
La data di nascita di Terenzio non è conosciuta con precisione; si ritiene sia nato lo stesso anno della morte di Plauto,
nel 184 a.C., e comunque tra il 195 e il 183 a.C.. Di bassa statura, gracile e di pelle scura, nacque a Cartagine ed arrivò
a Roma come schiavo del senatore Terenzio Lucano. Quest’ultimo lo educò nelle arti liberali, e in seguito lo affrancò
ed assunse il nome di Publio Terenzio Afro. Fu in stretti rapporti con il Circolo degli Scipioni, ed in particolare
con Gaio Lelio, Scipione Emiliano e Lucio Furio Filo: grazie a queste frequentazioni, apprese l'uso alto del latino e si
tenne aggiornato sulle tendenze artistiche di Roma. Il grammatico Fenestella cita però altri esponenti della "nobilitas",
ossia Sulpicio Gallo, Quinto Fabio Labeone e Marco Popillio. Durante la sua carriera di commediografo (dal 166, anno
di rappresentazione della prima commedia, Andria,al 160 a.C.), venne accusato di plagio ai danni delle opere di Nevio
e Plauto e di aver fatto da prestanome ad alcuni protettori, impegnati in politica, per ragioni di dignità e prestigio
(l'attività di commediografo era considerata indegna per il civis romano), tanto che Terenzio stesso si difese tramite le
sue commedie: nel prologo degli Adelphoe (I fratelli), per esempio, egli rifiuta l'ipotesi che lo vede prestanome di altri,
segnatamente dei membri dello stesso Circolo degli Scipioni. Venne accusato di mancanza di vis comica e di uso
della contaminatio. Morì mentre si trovava in viaggio in Grecia nel 159 a.C., all'età di circa 26 anni. Terenzio scrisse
soltanto 6 commedie, tutte giunte a noi integralmente.
TRAMA DELLA COMMEDIA –
Démea, un uomo di vecchio stampo, ha due figli,
Eschino e Ctesifone, il primo lo fa adottare dal
fratello Micione, il secondo lo educa egli stesso.
Micione è un uomo di mentalità aperta e liberale, ed
educa il figlio adottivo con un metodo basato sulla
reciproca fiducia e liberalità; Demea, invece, educa
il proprio con il metodo tradizionale, basato sui
principi del mos maiorum, il costume degli antenati,
e sull'esercizio della patria potestas, l'autorità paterna. Eschino rapisce da una casa una citarista, Bacchide, perché di lei si è innamorato il fratello, che
per terrore del padre non ha mai osato nulla per
realizzare la sua storia d'amore. Eschino, però, non
è libero, infatti precedentemente aveva violato una
giovane, Panfila, che adesso aveva partorito e della
quale era innamorato. Panfila, temendo che Eschino
la abbandoni, rivendica i propri diritti e manda
Egione a lamentarsi con Micione. Intanto, Demea
scopre la relazione del figlio con la citarista e sfoga
la sua rabbia contro il fratello, accusandolo di avergli rovinato e corrotto i figli. Infine, Demea deci-
ritiene che in questo modo sia più facile guadagnarsi il rispetto e la simpatia dei figli. La commedia si conclude con il matrimonio di Eschino e
Panfila e con l'acquisto di Bacchide da parte di Ctesifone.
Sinossi: Nella commedia si differenziano alcuni
stili di linguaggio, che garantiscono una migliore
connotazione del personaggio interessato. Ad
esempio, il linguaggio di Siro è incalzante, sfrontato
ed a volte ironico, in perfetta sintonia con il personaggio. Micione, invece, usa un linguaggio scherzoso ma garbato, in sintonia con il suo esser cordiale e tollerante. Come, alla fine, Demea, quando
decide di comportarsi in modo garbato e generoso.
de di cambiare e di diventare liberale, poiché
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ASSOCIAZIONE LUCANA
“G. Fortunato” - SALERNO
SEDE SOCIALE in Via Cantarella
(Ex Scuola Media “A. Gatto”)
Antropos in the world
DE COGNOMINE DISPUTĀMUS
“ Il soprannome è l’orma di una identità forte, che
si è imposta per una consuetudine emersa d’improvviso, il riconoscimento di una nobiltà popolare, conquistata in virtù di un ruolo circoscritto alla persona,
quasi una spinta naturale a proseguire nella ricerca
travagliata di un altro sé. Il sistema antroponimico
era dunque binominale, formato da un nome seguito
o da un’indicazione di luogo (per es.: Jacopone da
Todi), o da un patronimico (Jacopo di Ugolino) o da
un matronimico (Domenico di Benedetta) o da un attributo relativo al mestiere (Andrea Pastore), et cetera. Il patrimonio dei cognomi era pertanto così scarso, che diventava necessario ricorrere ai soprannomi, la cui origine non ha tempi e leggi tali, da permettere la conoscenza di come si siano formati, e la
maggior parte di essi resta inspiegabile a studiosi e
ricercatori.
Spesso, la nascita di un soprannome rimanda ad
accostamenti di immagini paradossali ed arbitrari.
Inutilmente ci si sforzerebbe di capire il significato e
l’origine di soprannomi come "centrellaro" o come
"strifizzo" o "trusiano",lavorando solo a livello di ricerca storica e filologica. Così, moltissimi soprannomi restano inspiegabili, incomprensibili, perché si
è perso ormai il contesto storico, sociale e culturale
o, addirittura, il ricordo dell’occasione in cui il soprannome è nato. Verso il XVIII° secolo, il bisogno
di far un po’ d'ordine e la necessità di identificare
popolazioni diventate ormai troppo popolose porta
all'imposizione per legge dell'obbligo del cognome.
Questo mese, ci occuperemo del cognome: Bruno
Il cognome Bruno, insieme a tutti i suoi numerosi
derivati, come i diminutivi Brunino e Brunetto o ancora Brunone e Brunello, Bruneti e Brunero, è uno
dei più diffusi in territorio italiano, con più di 22.000
persone che lo portano, senza distinzioni di sorta tra
il nord e il sud della Penisola. Come ben sanno gli
appassionati di araldica e cognomi, infatti, un Bruno
si può incontrare di frequente a Milano così come a
Palermo ed è ben attestato nelle regioni del centro.
Nella classifica di diffusione dei cognomi italiani,
Bruno occupa infatti le prime posizioni e si colloca
tra i primi venti, con una più marcata concentrazione
in Piemonte, Lombardia, Lazio, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia. Esattamente come
molti altri cognomi italiani, anche Bruno ha significato e origini molto interessanti ed antiche. In particolare, l'origine del cognome si ricollega, ed è del
resto piuttosto evidente, al significato stesso della parola. Bruno è infatti un appellativo che nasce in
stretta connessione con l'aspetto della persona a cui si
-6-
a cura di Andropos
riferisce, legato al colore della carnagione, un po'
più scuro del normale, o magari ai capelli neri o
castani tipici delle popolazioni del bacino del
Mediterraneo. Del resto la storia del nome risale
addirittura ai tempi dell'antica Roma, quando si
iniziò a collegare tale appellativo alle persone che
presentavano quelle ben determinate caratteristiche fisiche. L'etimologia del cognome in senso
stretto, tuttavia, non va associata al mondo latino,
bensì a quello germanico. Erano infatti le lingue
nordiche ad avere in origine nel loro vocabolario
l'aggettivo Brun, utilizzato per l'appunto con il
significato di scuro. Da lì tale sostantivo passò poi
alle lingue latine e iniziò pian piano a diffondersi.
PERSONAGGI:
Bruno, Giordano. - Filosofo (Nola 1548 - Roma
1600). Filippo della famiglia dei Bruni, assunse il
nome di Giordano entrando a 17 anni nel convento
di S. Domenico a Napoli. Sospettato di eresia,
riparò a Roma (1576), di qui, deposto l'abito
ecclesiastico, andò peregrinando di città in città; fu
a Ginevra (1579), dove per alcuni mesi abbracciò
il calvinismo, a Tolosa, a Parigi (dove pubblicò nel
1582 il De umbris idearum e la commedia il
Candelaio), in Inghilterra (1583-1585), dove per
alcuni mesi insegnò a Oxford e pubblicò a Londra,
con il finto luogo di Parigi e di Venezia, Cena de
le ceneri, De la causa principio et uno, De l'infinito
universo et mondi, Spaccio de la bestia trionfante
(1584), De gli eroici furori (1585). Dopo un breve
soggiorno a Parigi, passò nell'agosto del 1586 in
Germania, e tra il 1590 e 1591 a Francoforte
pubblicò i poemi latini De minimo, De monade,
De immenso et innumerabilibus. Nel 1591 accogliendo l'invito di G. Mocenigo, si recò a Venezia
dove, denunziato come eretico dal suo ospite, fu
nel 1592 arrestato dall'Inquisizione e processato.
Si dichiarò disposto a fare ammenda, ma, trasferito
all'Inquisizione di Roma, e sottoposto a nuovo processo, rifiutò di ritrattarsi, onde fu come eretico
condannato al rogo, che egli affrontò impavido a Roma in Campo de' Fiori.
BRONTOLO
IL GIORNALE SATIRICO DI SALERNO
Direzione e Redazione
via Margotta,18 - tel. 089.797917
Antropos in the world
UNA DONNA NELLA LETTERATURA – A cura di Andropos
CLITENNESTRA
Eroina greca, moglie di Agamennone. Tradì il
marito con il cugino Egisto e lo uccise al suo
ritorno da Troia. Suo figlio, Oreste, vendicò il
padre uccidendo C. ed Egisto. La vicenda è
trattata in numerose tragedie greche, fra cui
l'Orestea di Eschilo, l'Elettra di Sofocle e l'Elettra di Euripide. Tra i latini, compare nelle tragedie di Livio Andronico e Lucio Accio (170-84
a.C. ca.); tra i moderni, in quelle di J. Racine e
V. Alfieri.
Leda, figlia di Testio, fu sedotta da Zeus
nelle vesti di cigno sulle rive del fiume Eurota, e
depose un uovo che, schiusosi, lasciò uscire
Elena, Castore e Polluce. Quella stessa notte, la
donna si giacque con il marito Tindaro e partorì
dunque Clitennestra. Altri tramandano che Leda
depose due uova, da cui rispettivamente emersero Castore e Clitennestra, di stirpe mortale e
figli di Tindaro, e Polluce ed Elena, figli di Zeus.
Alcune varianti del mito e la pittura si legarono a
una lettura più semplice dell'episodio e immaginarono che le quattro creature uscite dall'uovo,
e dunque anche Clitennestra, fossero figlie di
Zeus.
Clitennestra aveva sposato in prime nozze
Tantalo, figlio di Tieste e re di Pisa (città del
Peloponneso), ucciso da Agamennone che gli
aveva mosso guerra. Clitennestra sposò allora
proprio l'uccisore del marito, Agamennone, re di
Micene e fratello di Menelao, re di Sparta.
Dall'unione dei due nacquero: Elettra, Ifigenia,
Crisotemi e Oreste.
Al momento della partenza delle navi achee
per la guerra di Troia, viene imposto ad Agamennone il sacrificio di Ifigenia per placare l'ira
di Artemide che non permetteva alla flotta di
salpare. Agamennone acconsente e attira Clitennestra e la figlia in Aulide con l'inganno (la promessa di darla in sposa ad Achille). La principessa viene salvata miracolosamente dalla dea
stessa che aveva preteso il sacrificio e rapisce
Ifigenia avvolgendola nel suo velo. Il sacrificio
dunque non si consuma, ma la figlia è stata ingannata e sottratta alla madre. Questa vicenda
produce in Clitennestra un rancore inestinguibile. Rancore alimentato dalle insidie del cugino
di Agamennone, Egisto, figlio di Tieste.
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I cugini di primo grado, Egisto e Agamennone erano figli dei fratelli Tieste ed Atreo discendenti del ceppo di Pelope, sul quale gravava
una maledizione che avrebbe colpito la dinastia.
Tornato a Micene dopo la distruzione di Troia,
Agamennone conduce con sé la schiava Cassandra, figlia di re Priamo. A palazzo lo attende
la congiura ordita da Egisto e Clitennestra che
porta all'uccisione dell'Atride e della sua schiava.
Agamennone sarà vendicato dai figli, Elettra
e Oreste. L'uccisione della madre scatena però
su Oreste le Furie, divinità vendicatrici; solo
l'intervento di Atena lo libererà dalla loro persecuzione.
Clitennestra è un personaggio di grande rilievo e di forte temperamento, in quanto incarna il
rancore femminile dovuto alla gelosia e il sentimento materno di fronte alla minaccia che
incombe sulla prole. Grazie alle opere dei poeti
tragici, colpiti dal suo destino e dalla sua gelosia, Clitennestra ricopre un ruolo di rilievo
nella mitologia greca, pur avendo episodi limitati nei grandi miti. Essi si servirono di pochi
stralci sparsi nell' Odissea per comporre struggenti drammi che vedono protagonista Clitennestra.
Ἄνθρωπος μικρὸς κόσμος.
Ànthrōpos mikròs kòsmos
L’uomo è un microcosmo
----Democrito,allievo di Leucippo e cofondatore dell'atomismo
Antropos in the world
L’ISLAM
Di san Francesco, a parte alcune strumentalizzazioni,
come quella di Saramango che, ne “La seconda vita di
Francesco d’Assisi”, ne fa un contestatore e marxista, o
quella di Dario Fo che, ne “Lu santu jullare Francesco”, ne fa un rivoluzionario, abbiamo delle visioni in
campo storico, letterario, cinematografico che poco
corrispondono al santo reale.
Si tratta per lo più di visioni edulcorate e politicamente corrette che trasformano il sale del Vangelo
in zucchero ecumenico, il fuoco della vocazione in
brodino caldo filantropico. Il cardinale Biffi,
celebrandone la festa ad Assisi nel 2004, disse che
vedeva in giro “un francescanesimo di maniera,
svigorito in un estetismo senza convinzioni esistenziali”, un brodino tale “ che tutti lo posono assumere
senza ripulse e drammi interiori, stemperato in una
religiosità indistinta che non inquieti nessuno”.In modo
più diretto, Benedetto XVI, in occasione della visita ad
Assisi nel giugno del 2007 parlò di un Francesco mutilato “quando lo tira in gioco come testimone di valori
pur importanti, apprezzati dall’odierna cultura, ma
dimenticando che la scelta profonda, potremmo dire il
cuore della sua vita, è la scelta di Cristo […]voler separare, nel suo messaggio, la dimensione “orizzontale” da
quella “verticale” significa rendere Francesco irriconoscibile”.
Il poverello d’Assisi aveva due crucci: il catarismo e
l’Islam. Il primo perché aveva invaso la sua amata
Provenza, patria di sua madre (in onore della quale era
stato chiamato Francesco). Per questo vi mandò il suo
uomo migliore, S. Antonio di Padova. Riguardo all’islam, mandò i cinque Protomartiri Francescani a (cercare di) predicare in Africa. Ma la predicazione in
Marocco non trovò consenso e furono tutti massacrati
(FF2329-2330). Così uno storico riporta l’episodio:
” Allora quello impio et crudele, tutto infuriato et pieno
de ira, dixe a quilli santi frati questa diabolica et iniqua
parola:” Adiutave, se può, lo vostro Dio, et libereteve
da le mei mane”. Et presa la spada […] li tagliò la
testa per mezzo la fronte, et nel tagliare ce ruppe tre
spade, sempre ferendo più crudelmente.”
Decise poi di portare personalmente il Vangelo in
terra islamica. Dopo un paio di tentativi falliti, fu nel
1219 che il santo riuscì a entrare in contatto con gli
infedeli, approfittando della crociata, la quinta. Accompagnato da frate Illuminato raggiunse nel 1219
il
campo dei crociati che assediavano Damietta. Tra la
fine di quell'estate e l'inizio dell'autunno, i due frati
attraversarono la «terra di nessuno» che divideva i crociati dai musulmani e chiesero di parlare con il sultano
d’Egitto Malik al-Kamil, discendente del grande Saladino; i due s’incontrarono e, tramite interpreti, si parlarono.
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L’incontro è riportato da Tommaso da Celano (FF
421-423), da san Bonaventura (FF 1169-1175), da
Giacomo da Vitry (FF 2212, 2227), da
Ernoul (FF 2231-2234) e da fonti arabe; su cosa si dissero abbiamo purtroppo la sola testimonianza di frate Illuminato da Rieti. Al n. 2691 delle FF leggiagiamo:”Il sultano gli sottopose un’altra questione:” Il vostro Signore insegna nei Vangeli che
voi non dovete rendere male per male [...] Quanto più
voi cristiani non dovreste invadere le nostre terre,
ecc.”. Rispose il beato Francesco: "Mi sembra che voi
non abbiate letto tutto il Vangelo. Altrove, infatti, è
detto: “Se il tuo occhio è occasione di scandalo, cavalo e gettalo lontano da te”. E con questo ha voluto
insegnarci che se anche un uomo ci fosse amico o
parente, o perfino fosse a noi caro come la pupilla
dell’ occhio dovremmo essere disposti a separarlo, ad
allontanarlo, a sradicarlo da noi, se tenta di
allontanarci dalla fede e dall'amore del nostro Dio.
Proprio per questo, i cristiani agiscono secondo
giustizia quando invadono le vostre terre e vi
combattono, perché voi bestemmiate il nome di Cristo
e vi adoperate ad allontanare dalla religione di lui
quanti più uomini potete. Se invece voi voleste conoscere, confessare e adorare il Creatore e Redentore
del mondo, vi amerebbero come se stessi." Tutti gli
astanti furono presi da ammirazione per le risposte di
lui”.
L'episodio viene spesso liquidato come un evento
minore e secondario della sua biografia, perché Francesco rimase solo qualche giorno presso i musulmani,
senza peraltro ottenere un particolare successo.
Oppure viene citato come uno dei più straordinari
gesti di pace nella storia del dialogo tra Islam e
Cristianesimo. A supporto di quest’ultima lettura
viene citato un passo del cap. XVI della “Regola non
bollata” che recita:”I frati poi che vanno fra gli
infedeli, possono ordinare i rapporti spirituali in
mezzo a loro in due modi. Un modo è che non
facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni
creatura umana per amore di Dio e confessino di
essere cristiani” (FF 43 – La proposta sparì nella
“Regola bollata”) Ma le cose stanno veramente così?
Vediamo:
Al-Kamil usò il Vangelo come strumento per accusare i crociati di violenza e aggressione. Ma Francesco
in un colpo solo difese l'opera del crociati e propose al
sultano la conversione. Egli infatti sostenne che i
crociati combattevano coloro che bestemmiavano
Cristo, negando la Trinità e la sua divinità.
[ Continua a pag. 13 ]
Antropos in the world
DALLA REDAZIONE DI S.VALENTINO TORIO: Una rilettura originale del Bonaparte.
NAPOLEONE, L’ASCESA
Non mi cimenterò a scrivere di un personaggio della storia di cui si è scritto tanto,
un personaggio multiforme e complesso che
non potrebbe trovare spazio in un articolo necessariamente contenuto: mi soffermerò solo
su alcuni aspetti della sua personalità davvero poliedrica, ma meno conosciuti.
Napoleone nacque ad Ajaccio (in Corsica) il 15 Agosto
1769. Francese ? Certamente, con un distinguo, però. Quando nacque Napoleone, la Corsica era, da poco, francese; per
cui, poco ci mancò che non ebbe natali italiani. Infatti, la
cessione della Corsica da parte della Repubblica di Genova
alla Francia risale al 15 Maggio 1768, quindi Napoleone fu
concepito circa sette mesi dopo il passaggio della Corsica alla
Francia. E come l’avrebbero presa i Francesi se Napoleone
fosse nato quando la Corsica era italiana, anzi genovese? Fu
avviato alla carriera militare e si distinse per i suoi meriti
speciali; iniziò una carriera fulminante favorita, in parte, dal
periodo storico post rivoluzione. Fu uno stratega geniale e le
sue numerosissime vittorie furono il frutto di studio tattico e
personale espresso in maniera maniacale.
La sua vita fu costellata di successi militari prima e politici
dopo. Una delle prime importanti imprese militari fu la
Campagna d’Italia. Seguì, poco dopo, la Campagna d’Egitto,
nel corso delle quali compì grandiose razzie di opere d’arte.
Fu nominato Primo Console e con questa carica cominciò a
dare segnali politici interessanti, mostrando anche l’aspetto del
vero statista. Durante questo periodo riorganizzò completamente lo stato, cominciando a dargli quella autorevolezza
che ancora oggi mostra lo stato francese: le prefetture, introdotte da Napoleone, rappresentarono il vero legame
importante tra lo stato centrale e le province (altro che il decentramento dello stato italiano!). Napoleone obbligò i comuni
a creare degli appositi spazi per ospitare, per ragioni igieniche,
i defunti e nacquero i cimiteri ( e da allora, anche in Italia, i
defunti furono sistemati nei cimiteri al posto dei locali interrati
delle chiese). Volle cambiare la società con importanti leggi
(con un nuovo codice civile, che fu preso a modello da tutti gli
stati europei, Italia e Germania compresi). Regolamentò i
rapporti con la Chiesa con il Concordato ( questo concordato
pure fu preso a modello da qualcuno in Italia l’11/02/1929),
istituì la Banca di Francia e i licei.
Nel 1802 è nominato Console a vita; il 2 Dicembre 1804 è
consacrato Imperatore dei Francesi, l’anno successivo Re
d’Italia a Milano (in questa occasione pronunciò la celebre
frase :”Dio me l’ha data, guai a chi la tocca” riferendosi alla
corona).
Altre importanti vittorie militari: quella, durissima, di Austerlitz, contro gli Austriaci e i Russi. Napoleone rivolse ai
suoi soldati, con i quali aveva un rapporto particolare, il famoso proclama: “Soldati, sono contento di voi: D’ora innanzi vi
basterà dire:”Ero alla battaglia di Austerlitz” perché vi si
risponda: “Ecco un eroe!”.
Nessuna sconfitta? Arriva quella subita dagli Inglesi (sempre molto temuti sul mare) a Trafalgar: E questa volta capì che
era meglio lasciare il dominio del mare agli Inglesi.
Altra vittoria importante fu quella riportata contro la te-
mibile Prussia a Iéna. Trattato di pace di Tilsitt con lo
zar Alessandro I. E siamo
all’apogeo dei suoi trionfi
militari ma anche espansionistici: una metà della
Europa è ai suoi piedi, l’altra metà sta con la Russia
che è sua alleata. A seguire,
la guerra in Spagna. Subito
dopo fonda la Università
imperiale. Nel 1810, Napoleone batte l’Austria a Wagram. Nel 1812 intraprende la Campagna di Russia, durante la quale, come capitò a qualche altro
alla fine della seconda guerra mondiale, con l’ausilio del
grande alleato (il freddo) finì la grande avventura della sua
potenza militare. A seguire, la prigionia di Napoleone all’Isola
d’Elba, fuga e avventura dei Cento giorni. Questa volta l’Europa è tutta coalizzata contro Napoleone che rimane definitivamente sconfitto a Waterloo; prigionia, questa volta, all’Isola di Sant’Elena, molto distante dalla Francia, ove morì il 5
Maggio del 1821. Nel 1840 la salma di Napoleone fu portata a
Parigi ove riposa sotto la cupola della chiesa di Saint Louis
all’Hôtel des Invalides. Dal 1821 al 1840, all’Isola di Sant’Elena, rimase sepolto sotto tre salici piangenti in una tomba
senza neppure il nome, perché non si trovò un accordo, tra i
fedelissimi di Napoleone e il governatore inglese dell’isola, sul
nome da indicare (Napoleone o Bonaparte ?).
Ma visto da vicino, Napoleone com’era? Si racconta che
Napoleone abbia scritto circa 50.000 lettere: è verosimile che
la maggior parte di esse non siano state scritte materialmente
da Napoleone ed è altrettanto verosimile che siano state scritte
dai suoi segretari sotto sua dettatura ( si racconta, in proposito,
che era capace di dettare 5 lettere contemporaneamente). E’
facile immaginare a quale stress sottoponesse i suoi segretari,
che, oltre al loro lavoro dovevano essere interrotti dall’ingresso di ministri, generali ecc.. Un giorno Napoleone sorprese
il suo segretario intento a scrivere una lettera che cominciava
così “Cara amica, da 36 ore non ho potuto lasciare il gabinetto
dell’ Imperatore ….” La lettura di questa lettera non stupì più
di tanto Napoleone che commentò così: “Ma guardate un po’!
Trova ancora il tempo di scrivere sdolcinature alla sua donna
e si lamenta pure!”. Una giornata-tipo di Napoleone: egli si
alza alle ore sette. Il segretario ha aperto le lettere e le ha
disposte nell’ordine voluto dall’Imperatore. Questi butta per
terra tutte quelle che gli sembrano senza importanza, scarabocchia qualcosa a margine di altre e si accinge a dettare la
risposta a quelle veramente importanti. Poi comincia a camminare lentamente nel suo studio, con le mani dietro alla schiena per tutto il tempo della dettatura. E si prosegue fino alla ore
diciotto, ora della cena,( la colazione era consumata alle ore
9,30) ricevendo le varie personalità e svolgendo il suo ruolo
istituzionale. A mezzanotte si corica per svegliarsi verso le ore
tre e stazionare ancora nel suo studio dove ha convocato il suo
segretario. Verso le ore cinque si ricorica per svegliarsi un’ora
o due dopo. – Continua –
Vincenzo Soriente(1)
1) V. Soriente, avvocato, dirigente scolastico e giornalista.
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Antropos in the world
IL RACCONTO DEL MESE:
NUNZIATINA
( VI parte - ultima)
eBook di Franco Pastore - ISBN 9788868143053
Alla stazione di Napoli, incominciò a respirare
l'aria della sua terra. Nell'animo, i sentimenti più
contrastanti si alternavano ad una gioia immensa. Il
treno si mosse a l'ansia crebbe con la stessa velocità
della campagna che gli veniva incontro.
La piccola stazione di Capaccio Scalo era gremita: Carminuccio, vestito a festa, andava su e giù,
sorridendo a tutti coloro che si rallegravano per
l'arrivo del compaesano. Era come se aspettasse il
fratello, quello che aveva perso nel carcere di Portolongone. Pochi erano rimasti della vecchia guardia, ma tutti sapevano del fatto accaduto ventotto
anni prima.
Compare Albino era stato tra i primi a recarsi alla
stazione‚ partendo di buon mattino col suo abito
buono ed il mezzo sigaro in bocca. C'era pure
Micheluccio‚ l'ex tirapiedi di don Filippo. Finalmente‚ il fischio del treno ruppe l'ansia di tutti e la
piccola folla si accalcò nei pressi dei binari.
- Eccolo‚ eccolo! - qualcuno gridò‚ ma il treno
era ancora distante e si scorgeva solo la testa del
macchinista‚ che guardava preoccupato la folla. Il
treno sbuffò‚ rallentò‚ si fermò con un lungo sibilo.
La folla assaltò i primi due vagoni, qualcuno gridò
in corrispondenza dei finestrini :
- Giuvanniè‚ Giuvanniè! –
Per cinque lunghi minuti nessuno scese‚ nessuno si
mostrò. La piccola folla ondeggiò‚ mentre il mormorio si fece sempre più forte. Qualcuno chiese:
Carminuccio‚ si sicuro ch'è chìsto ‘o treno? –
Il giovane non rispose a si spostò lungo i Vagoni‚
verso destra. Nel quarto‚ lo sportello si aprì.
Carminuccio accorse‚ si fermò e guardò nel vano:
Giuvanniello era là‚ con due valige in mano ed il
volto rigato di lacrime. Un modesto vestito blu‚ a
righe bianche delineava il corpo ancora snello, ma
come era diverso al giovane che era partito tanti anni
prima. I capelli brizzolati con due grosse ciocche
bianche alla tempie‚ mettevano in risalto le
rughe del viso scavato dalla sofferenza. Scese
due gradini del treno e si fermò lasciando cadere
la valigie. Si strinsero in un abbraccio senza
parole, mentre il treno ripartiva con un lungo
fischio. La folla attese‚ pazientemente‚ che si
salutassero‚ poi‚ con grida festose‚ corse verso
di loro, con una generosità che è tipica dei
meridionali:
- Giuvanniè‚ salute! –
- Ben tornato Giuvanniè! -.
L'uomo si fece largo ringraziando e si diresse
verso l'uscita‚ dove compare Albino aspettava. Il
vecchio lo guardò‚ con le mani che gli tremavano ed
una lacrima‚ che subito asciugò con l'indice destro.
- Giuvanniè!.. - mormorò, con un filo di voce,
che era un singhiozzo. L'uomo abbracciò quel povero vecchio ed insieme uscirono fuori sulla strada‚
dove Carminuccio attendeva con il calesse‚ già
carico delle due valigie. Salirono e si allontanarono‚ salutati calorosamente dalla folla. Nessuno dei
tre parlò‚ nel lungo tragitto verso casa. Il mattino era
pieno di sole e gli alberi ombreggiavano silenziosi e
tranquilli.
Per qualche chilometro‚ la strada continuò
diritta e polverosa‚ poi‚ uscirono all'aperto‚ tra due
ali immense di campi‚ con lunghi filari di salici
all'orizzonte. Una leggera brezza‚ da sinistra‚
portava il profumo del mare. Giuvanniello chiuse gli
occhi a respirò a pieni polmoni l'aria della "piana".
Una grossa mandria di bufali si godeva il sole‚
nell'ultimo tratto della terra dei Casati‚ quando il
calesse rallentò. Giuvanniello fissò Carminuccio‚
quasi a chiedergli il perché‚ il giovane guardava
verso una piccola fattoria‚ con l'entrata rivolta verso
il mare ed un vialetto‚ costeggiato da gerani a rose‚
che immetteva sulla strada. Una donna‚ non più
giovane guardava verso di loro‚ si alzò‚ fece un
passo avanti e si fermò incerta. Giuvanniello si
accorse di lei e la fissò finché il calesse non si fermò
completamente‚ a pochi passi da lei. Il volto stanco
mostrava le rughe del tempo‚ gli occhi tristi avevano
qualcosa di familiare:
- Giuvanniè! - I singhiozzi della donna erano
penosi‚ ma li soffocò in un grosso fazzoletto
colorato. L'uomo si sentì turbato e‚ reggendosi sul
ginocchio del giovane amico‚ scese dal calesse:Mariu'! –
Si abbracciarono. Dov'era finita la sua
meravigliosa freschezza! In quell' abbraccio vi era il
dolore di trent'anni. Giuvanniello l'allontanò con
garbo e guardò con tristezza la casa solitaria‚
desolata‚ come la povera donna‚ vestita di nero‚ che
gli stava di fronte.
- E tuo marito? –
- È morto l'altr’anno –
- Come è andata l'annata scorsa –
- 10 -
Antropos in the world
- Quest'anno andrà meglio - gli rispose‚ alzando le
In lontananza, un antico canto popolare si sciospalle con una rassegnazione, che Giuvanniello non glieva malinconico nella piana. Era una voce di donna
ricordava.
che lanciava, nella sera, il pianto di una terra:
-Vienimi a trovare‚quando avrai un poco di tempo Cantane 'e cicale,
- Verrò! - rispose l'uomo‚ guardandola allontanarsi
sott'ò sole ca còce'e cumme coce.
per lo stretto viale‚ verso la casa grigia. Risalì sul
Tutt' é suònne fenìscene 'cca'
calesse‚ che riprese la sua corsa verso "femmena
nda' sta terra bruciata,
morta".
'addò 'o vìne è sànghe
Le prime case gli venivano incontro‚ con quell'
'e 'o viénte porte l'èco
aria tra il triste ed il dormiente‚ mentre i raggi del
de' battaglie luntàne
sole‚ mettevano in risalto il giallo delle facciate‚
e nu pòpele antìche,
sotto gli spioventi di tegole cotte. Non era poi
ca lòtte ancòre
cambiato molto il suo paese‚ pensava Giuvanniello
'ndé tèrre,...'ndé vìche,
ed aveva la piacevole sensazione di non essersi mai
c'a fàmme 'e c'a misèria...
allontanato dalla sua terra. Ed i caporali? Quelli
avevano finito di stuprare e schiavizzare‚ ma c'eraCàntene 'e cicàle
no ancora e ci sarebbero sempre stati‚ finché ci
sott' ò sole ca còce,
sarebbero stati loro: i padroni e la povera gente‚
vòlle 'o sànghe 'ndé vvéne
quella che non ha altro che due braccia per
'e 'nu po' truvà pàce...
lavorare‚ con la schiena ricurva e le mani deturpate
dai calli‚ con le macchie delle piante ruvide dei carSi si 'n'òmme,
ciofini.
sta a sente 'a voce e chésta gènte
I caporali‚ razza dura a morire‚ indistruttibili come
do' pòpele 'o lamiénte da ' fàmme
la gramigna‚ che spunta ovunque e non si distrugge
e da ' miseria.
mai. Cambiano i tempi e cambia il loro approccio
Si si 'n' òmme,
con il mondo del lavoro‚ ma in sostanza il risultato
guàrdete attuòrne 'e chiàgne:
è il medesimo: lo sfruttamento delle masse‚ un dise' làcreme cchiu' amàre.
sanguamento costante‚ parassitario‚ volto alla spe'A terra è fatt'é sànghe, ch'é càlle
culazione.
'mmiéze 'e mmàne e senza
Forse‚ anche essi servono‚ come servono gli
mànch'a fòrze e te guardà.
ignoranti e gli sciacalli‚ servono al gioco dei potenti per creare nuove forme capitalistiche poggiaSi si ' n'òmme,
te sull'illegalità.
scìnne 'mmiéze 'a sta gènte e dice
Felice‚ scarcerato‚ un anno prima non era andato
onestamènte: chéste nunn'è campà!
alla stazione per ricevere l'amico. Forse per un sensi
di colpa verso il fratello di sventura‚ che aveva paE' 'a storie 'e 'n' ingiustizia,
gato per il suo delitto. I due s’incontrarono due
ca 'nisciùne vòle,
giorni dopo‚ in quella stessa campagna che era stato
ma porte 'o capurale
il teatro della loro impresa.
ca' 'o sànghe fa iettà
- Siamo dei sopravvissuti - iniziò Felice‚ parlando a
testa bassa e con le mani in tasca‚ come per prenE' 'a storia 'é tanta gente
dere coraggio.
ca' 'o mùnno malamènte
- Quel che abbiamo fatto‚ andava fatto! È la
nu 'vòle fa' campa':
legge della vita! - aggiunse Giuvanniello‚ appogso 'uòmmene senza cappiélle
giandosi sulla gamba buona‚ quella che non aveva
so 'fémmene ca vanno 'o maciélle,
subito le conseguenze dell'anello della prigione. Il
so' muòrte senza tavùte,
discorso andò avanti per un bel pezzo e si concluse
'ndà terra da' 'nfamità
con un abbraccio e qualche lacrima amara.
' O be ne ?
Il sole tramontava all'orizzonte e la piana andava
O bene è 'nu suònne,
riempiendosi della voci della sera‚ del fumo dei foca 'more lentamente 'ndà l' ànema
colari e del latrato dei cani nelle aie. Nulla era camda 'gente, ca 'lotta pe 'campà…biato e la nuova generazione era forse più vivace‚
ma con lo stesso sguardo deciso‚ quello che scruta
la terra‚ ma sa opporsi alle ingiustizie dei caporali.
- 11 -
Antropos in the world
DA TRAPANI
“SUICIDARSI O RUBARE”
L’ALTERNATIVA DEI SENZA LAVORO:
Ho sotto gli occhi l’articolo d’apertura
dell’ultimo numero di “Social”, che così titola: «Non
c’è più neanche il lavoro nero. O ci si suicida o si
ruba». Il pezzo – dovuto al sempre bravo Maurizio
Macaluso – si basa sulle dichiarazioni di tre disoccupati-tipo: Rosario Miccichè, ex piccolo imprenditore ed ex operaio edile; Serafino Fazio, ex autista
di una cantina sociale; Rosanna Lentini, ex addetta
alle pulizie di una società partecipata dalla Provincia. Tre storie diverse, ma legate da un comune
denominatore: tre persone non più giovani, sostegni
unici dei rispettivi nuclei familiari, espulsi dal
mondo del lavoro a causa della crisi ed impossibilitati a trovare una nuova occupazione.
Sono storie ormai di tutti i giorni, come le
tantissime altre che abbiamo sentito e sentiamo da
vent’anni a questa parte. Eppure, io non riesco ad
abituarmici. E a colpirmi – ogni volta – non sono
tanto le vicende drammatiche dei singoli individui,
quanto piuttosto l’indifferenza con cui lo Stato
registra queste vicende. Dico “lo Stato”, e non “il
governo” o “i partiti” o altro; e dirò poi il perché.
Rendiamoci conto dell’enormità della
cosa. Innanzitutto, poniamo mente al soggetto: si
tratta di cittadini italiani, cittadini di uno Stato la cui
Costituzione recita all’articolo 1: «L’Italia è una
Repubblica democratica fondata sul lavoro» (non,
con buona pace di Renzi, sui licenziamenti).
Dopo avere appurato che si tratta di
cittadini italiani (e non, magari, di “migranti” mantenuti da noi a 40 euro al giorno, più le sigarette),
attenzioniamo qualche attribuzione di quei soggetti:
hanno superato i trent’anni, e non sono quindi più
appetibili per quel “mercato del lavoro” che cerca
soltanto giovanissimi da spremere e gettare via (e
ogni riferimento al Job Act è puramente casuale).
Dirò – tra parentesi – che, da deputato, ebbi a
presentare nel lontano 1996 una Proposta di Legge
(mai discussa) per l’occupazione dei soggetti non
tutelati dalla normativa “giovanilistica”. Chiusa
parentesi. Altra attribuzione: sono individui capifamiglia; hanno, cioè, la responsabilità di provvedere al mantenimento di coniugi e prole. In certi casi
– come in quello della Lentini – si tratta di donne
sole con figli a carico.
Ebbene, in casi come questi, lo Stato
italiano non fa nulla. Non si interroga, lo Stato, sul
come un esodato (grazie, Fornero) o anche un
disoccupato “normale” possa – una volta esauritisi
gli “ammortizzatori sociali” – mantenere la famiglia,
sul come talora possa anche soltanto “portare il pane a
casa” (e non è più un modo di dire). Lo Stato provoca
con le sua normativa (o con quella di una Unione
Europea cui ha devoluto ampie fette della propria
sovranità) la chiusura della tua azienda, lo Stato ti
torchia con una tassazione spropositata che ti priva del
necessario, lo Stato ti impone tariffe sempre più esose
per i servizi essenziali (acqua, luce, gas, sanità, scuola,
trasporti), lo Stato affama il tuo Comune e lo obbliga a
tassarti ulteriormente, lo Stato – in una parola – ti
getta sul lastrico… E non si preoccupa – questo Stato
– di come tu possa sopravvivere e mantenere la tua
famiglia. Per lo Stato non c’è problema: tu puoi andare a rubare, o puoi andare a chiedere l’elemosina (a
patto di strappare una postazione d’accattonaggio alle
bande di zingari), o puoi anche suicidarti. Non sono
cose di cui lo Stato italiano si interessi.
Per lo Stato, per questo Stato-ragioniere che
ha rinnegato ogni eticità (retaggio del passato fascista
o, in altri casi, comunista) contano soltanto i denari.
C’è, però, un piccolo particolare: una volta lo Stato si
stampava i suoi soldini e – il deprecato Stato etico, ma
anche il semplice “Stato sociale” di epoca democristiana – li utilizzava oltre che per pagare i suoi dipendenti e per saldare i suoi debiti, anche per costruire
strade e ponti, scuole e ospedali, per finanziare i Comuni e – orribile dictu – le Province, per stimolare la
crescita e per creare lavoro.
Adesso, invece, ad imitazione del sistema
“liberale” americano, lo Stato-ragioniere ha rinunziato
al potere di battere moneta, delegandolo prima ad una
Banca d’Italia divenuta soggetto privato, e quindi ad
una Banca Centrale Europea parimenti privata. Ne
consegue che, se lo Stato italiano – dal 1990 in poi –
ha avuto bisogno di denaro per costruire un ospedale o
per mettere la benzina nelle auto della polizia, deve
esserselo fatto prestare dal sistema bancario privato o,
peggio, da altri soggetti finanziari che scorrazzano sul
“mercato”.
Ma v’è di peggio: negli ultimi tempi
(soprattutto dal governo Monti in poi) i governi dello
Stato-ragioniere hanno avuto il solo incarico di “fare i
compiti a casa” (come dice l’acida maestra tedesca)
ovvero – come dicono i governanti-scolaretti italiani
per addolcire la pillola – di “mettere in ordine i conti”.
Questo Stato anti-etico, quindi, deve soltanto risparmiare per pagare gli interessi sui prestiti che abbiamo
contratto col “mercato”, e non può prestare attenzione
- 12 -
Antropos in the world
ad alcuni “effetti collaterali” del suo conto economico: la disoccupazione, la miseria, la disperazione, i
suicidi.
Ecco il perché di questa crisi cattiva, senza
pietà. Ed ecco perché da questa crisi non potremo
uscire che in un modo soltanto: riappropriandoci non
solo della nostra sovranità politica, ma anche della
nostra sovranità monetaria.
E – aggiungo – il mondo intero non potrà
uscire dalla crisi, se non sarà attuato un nuovo
ordinamento internazionale che tolga alle banche il
potere di creare denaro e che tale potere restituisca
agli Stati. D’altro canto, perché viene considerato un
bene pubblico l’acqua, talora anche l’aria (penso per
esempio alle frequenze televisive), e non il denaro?
E non è forse il denaro di uno Stato, la moneta
nazionale, «proprietà del popolo» (come diceva
Giacinto Auriti) né più né meno che gli altri cespiti
della ricchezza nazionale?
Utopia? Non credo. Fino a non moltissimi
anni fa era la norma. Anche in America. Diceva un
grande Presidente americano del passato, Abramo
Lincon: «Il privilegio di creare ed emettere moneta
non è solo la suprema prerogativa del Governo, ma è
anche la sua più grande opportunità creativa.»
Purtroppo, ad un secolo di distanza, la politica
degli Stati Uniti d’America è andata nella direzione
esattamente opposta a quella indicata da Lincon. E la
politica delle colonie europee si è sùbito servizievolmente adeguata. Ecco perché i nostri disoccupati
possono solamente porsi il quesito se andare a rubare
o suicidarsi. Perché lo Stato ha ceduto il privilegio di
«creare ed emettere moneta» e, così facendo, ha
rinunziato anche a «la sua più importante attività
creativa».
Lo Stato, quello con la S maiuscola, non c’è
più. C’è “il mercato”. E il mercato non può preoccuparsi degli scarti di lavorazione.
Michele Rallo
[Da “Opinioni eretiche]
L’ISLAM
Il santo poté quindi predicare ai musulmani, ma
senza ottenere successo. Tornò quindi al campo crociato e poi in Italia.
Per quanto riguarda poi il riferimento alla
“Regola non bollata” ci si dimentica di riportare il
secondo modo di approccio:”L’altro modo è che,
quando vedranno che piace al Signore, annunzino la
parola di Dio perché credano in Dio onnipotente
Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le
cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, e siano
battezzati, e si facciano cristiani, poiché, se uno non
rinascerà per acqua e Spirito Santo non potrà
entrare nel regno di Dio”.
Pertanto conclude bene Marco Meschini:
“Francesco sapeva che i musulmani negano la
divinità di Cristo, "bestemmiando" — tecnicamente
parlando, non moralmente — il suo nome. Per
questo si adoperò in parole e opere perché
divenissero cristiani. Anche in questo caso, dunque,
Francesco è il perfetto cavaliere di Dio. Pacifico, ma
non pacifista. Amante, ma non succube. Innamorato
di Dio, e non delle lodi del mondo”.
Il Francesco che emerge è un santo medievale saldo
nella fede e nei principi, che brucia dal desiderio di
testimoniare in parole e opere la verità di Cristo e
del suo Vangelo; e che si espone personalmente alla
violenza e alla morte per suo amore.
[continuazione di pag 8]
Volle andare presso gli infedeli “per sete di martirio”.
Non ci sono dunque tracce di “dialogo” di mediazione. Sempre secondo le fonti cristiane, in effetti,
Francesco propose al sultano anche un «giudizio di
Dio» con i sufi islamici presenti: ovvero li sfidò ad
affrontare i carboni ardenti per dimostrare la veridicità delle rispettive fedi. Ma quelli rifiu-tarono, e tra
di loro vi fu forse un certo Fakhr al-Farisi, celebre
consigliere del sultano, sulla cui tom-ba è scritto che
ebbe "un famoso caso con un monaco cristiano".
Sappiamo anche che a quel punto Francesco propose di affrontare da solo la prova del fuoco, ma il
sultano si oppose.
Renato Nicodemo
Cf:
(1) F. CARDINI, Francesco d’Assisi, 1989;
(2) F. GABRIELLI, San Francesco e l’Oriente islamico, in
Espansione del francescanesimo fra Occidente e Oriente nel
secolo XIII, 1978;
(3) G. JEUSSET, Francesco e il sultano, 2008;
(4) M. MESCHINI, San Francesco e l’Islam, Il Timone, marzo
2007;
(5) G. MICCOLI, Francesco d'Assisi. Realtà e memoria di
un'esperienza cristiana1992;
(6) R. NICODEMO, Maryam – La Vergine nel Corano, Arezzo
2003;
(7) P. ROSSI, Francescani e Islam – I primi cinque martiri, Intra
Tevere et Arno Editrice.
- 13 -
Antropos in the world
LA DONNA NELLA STORIA
RACHELE GUIDI
Ultima di cinque sorelle, nacque a Predappio
Alta, l’11 aprile del 1890 da una famiglia di
contadini. . Frequentò la scuola elementare dove
conobbe per la prima volta Benito Mussolini che,
maestro elementare, sostituiva talvolta la madre,
Rosa Maltoni.
All'età di otto anni rimase orfana di padre: cominciò così per la sua famiglia un periodo di
estrema miseria, umiliazione e fame.
Si trasferirono a Forlì, dove Rachele andò a
servizio in alcune ricche famiglie. Nel 1909,
Benito convocò il padre Alessandro Mussolini e la
madre di Rachele, entrambi rimasti vedovi, comunicando loro che avevano intrapreso una stabile
relazione e indicando Rachele con una rivoltella in
mano minacciò di uccidere la giovane e se stesso
se non avesse ottenuto il permesso di sposarla. In
seguito, durante e dopo il ventennio fascista, come
Donna Rachele convisse con Mussolini fin dal
gennaio 1910 a Forlì e ne ebbe una figlia, Edda,
prima del matrimonio, quindi illegittima secondo
la legislazione dell'epoca. Fu registrata all'anagrafe come figlia di Mussolini e di madre ignota,
anche se in alcune versioni storiche è il padre di
Edda ad essere ignoto in quanto Mussolini non
credeva nello stato e quindi non firmò all'anagrafe,
contrassegnando il padre di Edda come ignoto.
Benito Mussolini sposò poi Rachele una prima
volta con rito civile il 17 dicembre 1915 durante
una degenza come ferito di guerra all'ospedale di
Treviglio ed una seconda volta con rito religioso
nel 1925, quando era ormai presidente del Consiglio.
Donna Rachele ebbe cinque figli:
• Edda (1 settembre 1910 - 9 aprile 1995)
• Vittorio (27 settembre 1916 - 13 giugno 1997)
• Bruno (22 aprile 1918 - 7 agosto 1941)
• Romano (26 settembre 1927 - 3 febbraio 2006)
• Anna Maria (3 settembre 1929 - 25 aprile 1968).
Dopo la fine della guerra, Donna Rachele e i
figli Romano e Anna Maria furono mandati al
confino ad Ischia, dove rimasero fino al 1957.
Questa data segna anche il ritorno della salma del
Duce a Predappio in seguito alle numerose istanze
di Donna Rachele. Dopo questa data, si ritirò a
Villa Carpena, in provincia di Forlì, dove trovò
nella solidarietà delle persone i mezzi per vivere
nei "suoi famosi orto e pollaio".
Donna Rachele percepì una pensione di reversibilità che ammontava a 200.000 lire mensili (in pratica, uno stipendio da impiegato dell' epoca) solamente a partire dal 1975: risultò infatti che Mussolini non aveva percepito alcuno stipendio dallo
Stato, quindi i contributi non risultavano versati e di
conseguenza non aveva accesso alla pensione.
PREDAPPIO 30 AGOSTO 1957 –
Dalla vettura proveniente da Milano, viene
scaricata la cassa d’imballaggio con il corpo del
marito, Donna Rachele volle che la cassa fosse
messa nel sarcofago, così come era stata consegnata,
ed aggiunse:
- La devono ritrovare così!Morì a Forlì il 30 ottobre del 1979.
- 14 -
Antropos in the world
ANNA BURDUA DA ERICICE
IL MONASTERO DI SAN PIETRO
Fu nell’antichità sede militare dei venerei, i legionari inviati da Roma per la tutela e la sorveglianza
del Santuario della dea Venere. Erice era fra le diciassette città più fedeli a Roma alle quali era affidato il patronato della Divinità. Scomparso il culto
della Dea scomparve anche la presenza dei legionari.
Trascorsero molti secoli – circa ottocento anni –
durante i quali la caserma rimase abbandonata nel più
assoluto silenzio. In epoca normanna, forse nel 1365,
in quel luogo fu costruita da ignoti benefattori una
piccola chiesa intitolata a San Pietro. Due secoli
dopo il sacerdote ericino Giovanni Pietro Maranzano
appartenente ad una famiglia patrizia donava tutti i
suoi beni per costruire un monastero aggregato alla
Chiesa unito ad essa da un corposo cavalcavia per
facilitare il libero accesso e transito all’interno fra i
due luoghi. L’opera fu completata nel 1543. La comunità delle Clarisse, poco numerosa all’inizio, fu la
prima ad essere ospitata nel convento ed era
costituita da giovani donne provenienti da famiglie
nobili ericine. In pochi anni il Monastero si arricchì
non solo delle donazioni elargite per testamento
dalle famiglie patrizie ma anche delle doti che
portavano le novizie. Questi rilevanti fattori contribuirono, pertanto, alla crescita non solo economica
ma anche sociale dell’importante monumento che divenne centro propulsore di aggregazione delle forze
cittadine, meta di richiamo di visitatori provenienti
da ogni parte della Sicilia attratti fra l’altro dalla sua
austerità e la sua imponenza.
Ad accrescere ulteriormente l’importanza della
prestigiosa sede contribuì anche un’ordinanza del
Vescovo della Diocesi che stabiliva che tutte le doti
delle giovani suore provenienti dalle famiglie patrizie
fossero consegnate alla badessa di San Pietro che si
sarebbe occupata della custodia e della tenuta del
denaro e dei capitali delle Istituzioni di beneficenza
ed assistenza dell’Universitas.
Il Monastero divenne il deposito dei capitali di
tutta la Città acquisendo un ruolo di potere e
preminenza non indifferente, destinato comunque a
venire meno con l’emanazione delle leggi Siccardi.
Nel luglio 1866, infatti, una serie di provvedimenti
legislativi decretava la soppressione delle Corporazioni religiose ad eccezione delle chiese che rimanevano aperte al culto.
Una circolare prefettizia dell’ottobre del 1866
dava istruzioni al Sindaco di Monte San Giuliano,
l’antico nome di Erice, per esercitare i suoi poteri
nella qualità di responsabile della Pubblica Sicurezza
affinché venissero sgomberati per primo i conventi
maschili in quanto non più Enti Morali. I frati potevano dedicarsi alla vita monastica solo fuori dai
Conventi altrimenti venivano arrestati ed imbarcati
per le isole.
Le suore votate potevano rimanere nei loro
Istituti ma, essendo state confiscate le rendite, il Governo assicurava loro una pensione. I Conventi maschili furono immediatamente utilizzati dal Comune
per usi sociali, quelli femminili rimasero a disposizione delle suore.
Trascorsero circa trent’anni dall’emanazione
delle leggi Siccardi ed anche per San Pietro venne il
momento della chiusura. Il Consiglio Comunale si
adoperò subito per chiedere la cessione del Monastero. Nel 1915, quando fu necessario reperire nuovi
locali per ospitare la Pretura, il Consiglio Comunale
deliberava la permuta dell’ex Monastero di San
Pietro con l’Istituto San Rocco, nato dalla fusione
con l’altro orfanotrofio femminile San Carlo. La
Congregazione di Carità proprietaria del San Rocco
trasferiva l’Istituto in San Pietro dove continuò ad
esercitare attività didattiche e formative alle giovani.
Negli anni ’60 il Monastero di San Pietro fu
ceduto al Centro di Cultura Scientifica Ettore Majorana fondato dallo scienziato Antonino Zichichi.
- 15 -
Anna Burdua
Amoris vulnus sanat idem
qui facit.
Solo chi la fa può guarire una ferita d’amore
Antropos in the worldc
PROVERBI E MODI DI DIRE - OVVERO ELEMENTI DI PAREMIOLOGIA
1. Lu quazz ca' nun vol fott ric' ca' trova gli pil
p'nnand.
2. Fa male e penza, fa 'bbene e scorda.
3. Quann ven da la muntagn' pigl la zapp e va
guadagn, quann ven da la marein, lass la
zapp e va cucein.
Esplicatio: Chi non vuol far niente riesce sempre
a trovare una scusa. Quando fai del male riflettici, quando fai del bene dimenticatene. Quando
il brutto tempo viene dalla montagna, prendi la
zappa e vai a guadagnare, quando viene dal mare lascia la zappa e va a cucinare.
Riflessio: Sono proverbi lucani che hanno corrispondenza con la cultura popolare di tutta Italia.
Implicanze semantiche:
Fott: dal latino futūere, presente in
quasi tutti i dialetti della penisola.
Fraseologia:
Sirica Dora
Chi fa male ha da pagà – Quanne
‘o ciuccio nu’ vvò beve, hai voglia do siscà.Tiempe d’autunno chiove a zeffunno – Tiempe
d’ estate, pure ‘a fica s’affàta.
Antropologia:
Tutte le attività che hanno a che fare con la terra
ed il bestiame, sono soggette alle condizioni del
tempo ed alle stagioni, per la scelta del tempo
propizio: vedi la pesca e la transumanza.
Progetto Famiglia Network Filiale Angri
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problematiche: specialisti nelle cure mediche e
nel sostegno degli ammalati, son pronti a raggiungere ogni luogo ed ogni abitazione per portare, a chi ne ha bisogno, i benefici
della loro competenza. Un grazie a coloro che si sono adoperati nella realizzazione
del progetto. Da settembre, l’iniziativa sarà seguita molto dalla direzione di
ANTROPOS IN THE WORLD che darà tutte le informazioni che i lettori della rivista
vorranno ottenere.
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- 16 -
Antropos in the world
LA PAGINA MEDICA: a cura di Andropos
COS'È IL VIRUS EBOLA E QUALI SONO I SINTOMI?
È un virus estremamente aggressivo, appartenente alla famiglia dei Filoviridae, come il virus Marburg, che causa problemi simili. Ebola provoca una
serie complessa e rapidissima di sintomi, dalle febbri
emorragiche al dolore ai muscoli e agli arti e numerosi problemi al sistema nervoso centrale.

Nello specifico i sintomi di Ebola sono: febbre, forte
mal di testa, dolore muscolare, diarrea, vomito, dolori
addominali ed emorragie inspiegabili.

Il periodo di incubazione (dal momento del
contagio all'insorgenza dei primi sintomi) va da 2 a 21
giorni. La morte è fulminante e sopraggiunge nello
stesso periodo (2-21 giorni).

Il materiale genetico è RNA, che va incontro a
mutazioni non particolarmente rapide e contiene solo
sette geni. Sono stati isolati finora cinque ceppi
diversi del virus, di cui quattro sono letali per l'uomo.
La prima scoperta del virus risale al 1976, in Congo e
Sud Sudan. Di solito il virus è molto infettivo e virulento, e quindi se colpisce una o due persone di un
villaggio si diffonde con estrema rapidità e "consuma"
tutte le persone che colpisce.
Il cosiddetto serbatoio naturale del virus sono
molto probabilmente le volpi volanti, grossi chirotteri
che mangiano frutta e abitano le foreste tropicali; si
pensa che il virus "viva" all'interno di questi animali
da moltissimo tempo perché non causa in essi nessuna
sintomo.
Per arrivare all'uomo il virus potrebbe essere passato dalle volpi volanti alle scimmie, o altri animali
della foresta, e infine all'uomo attraverso il fenomeno
del bush-meat, cioè la carne ricavata da animali selvatici come antilopi o scimpanzé. Il fenomeno si è aggravato da quando compagnie occidentali e cinesi
sono penetrate nella giungla per il disboscamento e la
ricerca di fonti di minerali. Mangiando la carne di
questi animali gli uomini possono essere rapidamente
contagiati.
Si può contrarre il virus Ebola, baciando una
persona malata o toccando qualcosa su cui è caduto
del fluido corporeo di una persona malata, per esempio un cellulare, la maniglia di una porta o la tastiera
di un bancomat.
Come può accadere una cosa simile? Il virus Ebola
sopravvive alcune ore all’esterno di un organismo; se
si tocca la superficie infetta e. poco dopo, ci si toccano
gli occhi o si mettono le dita in bocca potrebbe
avvenire il contagio. Si può contrarre l’ Ebola mangiando il cibo di un malato. Per la stessa ragione di cui
sopra, può essere entrato in contatto con la saliva
- 17 -
infetta, o essere punti dall'ago di una siringa ,usata
per curare un paziente con Ebola.
Pulire il cadavere di una persona morta di Ebola è una delle
principali vie di diffusione del
virus nei Paesi africani, dove
si eseguono particolari rituali
durante i funerali.
E’ altresì pericoloso fare sesso
con un malato o con una persona guarita da Ebola. Sembra,
infatti, che il virus riman1.
ga attivo nello sperma, anche a distanza di 3 mesi dalla guarigione.
L’ Ebola si può prendere solo da persone che
hanno già i sintomi della malattia, o viaggiando
in aereo con una persona, che poi ha sviluppato i
sintomi. L’Ebola si diffonde solo tra mammiferi e
non non ci sono prove dirette che venga trasportato
dagli insetti come avviene per esempio per la malaria con le zanzare. Al momento solo uomini, scimmie, primati e pipistrelli possono venire contagiati e
trasmettere il virus.
L’Ebola ha una percentuale di fatalità del 68% tra le
persone colpite . Pur essendo mortale, non è riuscito
a diffondersi al di fuori dei villaggi in cui è scoppiata
l'epidemia, fermato solo dalla fatto che colpiva regioni e agglomerati remoti e isolati. Qui spesso uccideva la maggior parte della popolazione e l'isolamento e la mancanza di strade rendeva facile iniziare
una quarantena. Per questo, l'arrivo in una città popolosa e con rapidi collegamenti con l'esterno potrebbe essere molto preoccupante. Le condizioni di
una grande città sono ideali per la trasmissione di un
virus così aggressivo.
C'È UNA CURA O UN VACCINO?
Non esistono cure o vaccini, anche se ci sono stati
tentativi con la trasfusione di individui colpiti ma sopravvissuti. Sono alla studio metodi estremamente
avanzati, come la cosiddetta tecnologia antisenso o il
farmaco sperimentale Zmapp, ma non si hanno ancora risultati clinici.
A oggi - quando le vittime vengono immediatamente
idratate, nutrite e curate con appositi farmaci antipiretici - c'è comunque una probabilità di sopravvivenza, come è successo a due medici a cui è stato somministrato in via eccezionale il farmaco Zmapp ma
soprattutto curati negli Stati Uniti con farmaci antipiretici e reidratati.
Antropos in the world
I GRANDI PENSATORI: a cura di Andropos
DOMENICO REA
Parlare di Mimì, che ho conosciuto a metà degli anni
settanta, mi emoziona fortemente. Conservo ancora alcune
foto, fatte durante la presentazione del VANGELO DI
MATTEO.
Suo padre Giuseppe è un ex carabiniere, sua madre,
Lucia Scermino, una levatrice, il vero sostegno economico
della famiglia. Prima di Domenico, sono nate due sorelle,
Raffaella e Teresa. Nel 1924 la famiglia si trasferisce a
Nocera Inferiore, paese dell’entroterra vesuviano e luogo
d’origine del padre. Da piccolo Rea vive un’infanzia libera, aperta alle esperienze della strada e della campagna, è
un bambino volitivo, ma rivela anche, in ambito scolastico,
una forte volontà di apprendere e notevoli attitudini per la
ginnastica e lo studio, in particolare della geografia e dell’italiano. Dopo le elementari frequenta una scuola
d’avviamento professionale e non va al ginnasio, nonostante il consiglio degli insegnanti. Inizia per il futuro scrittore
un periodo di assoluta libertà. Spesso accompagna il padre
e i suoi amici in escursioni nei paesi vicini, alla ricerca di
fiere e osterie, e l’incontro con la letteratura avviene in
modo casuale.
I suoi primi due libri li ruba da un carretto, durante un
mercato a Salerno: le Operette morali di Leopardi e il
primo volume della Storia della letteratura italiana di De
Sanctis; da questo momento Rea inizia la formazione di
una vastissima biblioteca. Ancora adolescente a Nocera
incontra per la prima volta interlocutori in grado di
renderlo consapevole del suo talento: sono il frate
francescano Angelo Iovino – che gli trasmetterà la passione per i novellieri trecentisti – lo psichiatra Marco Levi
Bianchini, amico di Sigmund Freud, Luigi Grosso, uno
scultore anarchico confinato dal regime fascista a Nocera,
e Pasquale Lamanna, raffinato uomo di lettere, che insegna
al liceo di Castellammare. Al Centro di ricerca per la tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei
dell’Università di Pavia sono conservati circa quattordici
quaderni, che vanno dal 1937 al 1940, più un numero
notevole di fogli sparsi, che testimoniano come per Rea
scrivere è già diventato un bisogno vitale e persistente.Nel
1939, a diciassette anni, partecipa a un concorso letterario
bandito dalla rivista «Omnibus», diretta da Leo Longanesi,
con il racconto È nato: non vince il concorso, ma Longanesi lo elogia e lo invita a continuare a scrivere. Comincia
a collaborare al settimanale salernitano «Il Popolo fascista»
e a «Noi giovani», il quindicinale del GUF.
Durante la guerra conosce Michele Prisco e Annamaria
Perilli, che diventerà sua moglie. Nel 1944 si iscrive al PCI
e diventa segretario della sezione di Nocera. Inizia a
frequentare spesso Napoli e il gruppo di giovani intellettuali che darà vita alla rivista «Sud » e stringe amicizia con
Luigi Compagnone, l’eterno “amico-nemico”.In una di
queste incursioni napoletane conoscerà Francesco Flora,
amico intimo di Benedetto Croce. Flora sarà il primo a
credere veramente in lui come scrittore, e lo aiuterà a
pubblicare sulla rivista «Mercurio», diretta da Alba de
Céspedes un racconto La figlia di Casimiro Clarus.
Conclusa la guerra, l’attenzione di Rea
si sposta su Milano, in cerca di agganci
editoriali. Ritrova Luigi Grosso, che
gli procura l’ ospitalità di Giacomo
Manzù e la conoscenza di intellettuali come Montale, Quasimodo, Gadda, Rèpaci, Anceschi. L’incontro determinante sarà quello con Arnoldo Mondadori e suo figlio Alberto; con loro avvia una vivace quanto sofferta corrispondenza, che precede e accompagna le
sue pubblicazioni con la grande casa editrice.
Dopo l’esperienza milanese torna a Nocera, dove scrive, ma passa anche da un lavoro all’altro, sempre pressato
da necessità economiche. Alla fine del 1947 Mondadori
pubblica il libro di racconti Spaccanapoli, grande successo di critica, ma non di vendite: Rea continua a scrivere
racconti, ma Mondadori aspetta da lui il romanzo.
Nel 1948 esce il dramma Le formicole rosse, e per
quanto l’impresario Remigio Paone e il regista Giorgio
Strehler gli facciano sperare in un allestimento teatrale,
dovrà passare molto tempo prima che questo avvenga.
Dopo qualche mese d’emigrazione in Brasile, dove tenta
di trovare la concentrazione per scrivere, Rea fa ritorno in
Italia. Nel maggio del 1949 muore la madre Lucia, da lui
molto amata, e, nell’autunno dello stesso anno, sposa
Annamaria Perilli. Privo di un lavoro fisso, collabora a
varie testate, ma alla fine dello stesso anno trova un
impiego alla Sovraintendenza alle Gallerie d’Arte e va ad
abitare a Napoli.
Nel contempo, un nuovo libro di racconti sta
prendendo forma, con la prefazione di Francesco Flora:
Gesù fate luce. Uscito nel 1950, il libro riscuote grande
successo di critica e di pubblico, partecipa al premio
Bagutta; è quinto nella cinquina dello Strega; primo al
Viareggio presieduto da Leonida Repaci. È un momento
di grande successo per Rea; cominciano le prime traduzioni all’estero, le prime richieste di diritti cinematografici, le collaborazioni a giornali importanti. Nel 1953 è
pubblicato Ritratto di maggio, un libro quasi autobiografico sulla scuola, che viene definito l’ “Anti-Cuore”: il
libro ha successo, ma più che un romanzo è un racconto
lungo.
Nel 1954 nasce la figlia Lucia. Il cruccio di Rea continua a essere il romanzo che Mondadori pretende, mentre
lui insiste a dichiararsi uno scrittore di racconti. La
signora scende a Pompei, Gli oggetti d’oro, Idillio, Quel
che vide Cummeo, Madre e figlia, La spedizione e, in
appendice, il saggio Le due Napoli, costituiranno il libro
Quel che vide Cummeo, pubblicato nel 1955. Di ritorno
da un viaggio a Praga, nel 1956, Rea, non senza sofferenza, si distacca dal PCI, ma continua a frequentare i
suoi amici intellettuali, che sono tutti legati al partito.
(Continua)
- 18 -
Antropos in the world
REALIZZATA A PAGANI LA KERMESSE MATER DEI IUNIOR
- Continuazione da pag.4 -
Il dott. Soriente consegna il premio all’unica docente
presente in sala, la dott.ssa Cristina Strianese delle
scuole di San Valentino Torio.
Don Flaviano con una delle alunne premiate, in un momento della manifestazione.
Una visione globale della magnifica chiesa, con il
numeroso pubblico intervenuto.
Il Sindaco di San Valentino, dott. Felice Luminello, ringrazia commosso per la onorificenza di Mecenate della
Cultura, ricevuta dalla Commissione del Premio
Il magnifico coro del Carminello.
Il momento dei saluti, con l’appuntamento alla manifestazione del 2015.
- 19 -
Antropos in the world
IO LA VEDO COSI’
TRA CIELO E MARE
Il mondo culinario al servizio dei disabili
Dalla passione e dalla competenza della dottoressa Alfonsina Longobardi, psicoterapeuta, è nata
l’associazione “Tra cielo e mare”, con finalità di promozione sociale.
La proficua idea della dottoressa Longobardi ha
consentito ai giovani con disagi psichici di inserirsi
nel mondo del lavoro, nello specifico in quello
culinario, ottenendo con costanza e pazienza grandi
risultati. La dottoressa ci ha spiegato che, essendo
anche fisioterapeuta, ha a che fare da 13 anni con il
disagio e tramite quest’ iter lavorativo, ha voluto
proseguire gli studi per capire cosa ci fosse alla base
delle problematiche psichiche. Grazie al suo coraggio, supportato dal desiderio di conoscere, si è impadronita di quelle tecniche psicologiche, che la
mettono costantemente a contatto con persone disagiate; di qui il suo impegno a trasmettere ai profani
gli elementi indispensabili a capire che il limite tra
‘normalità’ e ‘anormalità’ è labile, leggero e, pertanto, facilmente valicabile.
La sua associazione si appoggia al locale Nonna
Giulia di Lettere e, nell’incantevole scenario del golfo di Napoli, dove l’azzurre del cielo si fonde con
l’azzurro del mare, avvia i ragazzi con disagi mentali
nel mondo culinario.
Lo scenario partenopeo, la tranquillità dei monti
di Lettere, l’aria leggera ed il clima sereno e familiare del ristorante, incoraggiano un sempre maggior
numero di famiglie ad iscrivere all’associazione i
propri figli, cercando di arginare le loro patologie e
soprattutto cercando di integrare in un universo più
vasto, questi ragazzi non sempre accettati dalla comunità.
Il ristorante Nonna Giulia, uno dei rarissimi ristoranti italiani a promuovere l’integrazione sociale,
mette a disposizione il proprio locale alla disabilità,
fornendo laboratori di pittura e di cucina. I giovani
dell’associazione si sono prodigati nella produzione
di sottaceti, propria del locale, collaborando anche
nel lavoro di sala.
Le difficoltà non sono mancate – ci spiega la
dottoressa Longobardi - in quanto la cucina e la sala
sono piene di utensili pericolosi per i ragazzi, ma con
buona volontà si è cercato di avviarli ad una manualità più sicura. Ciò ha condotto ad un doppio,
incoraggiante risultato: dal punto di vista medico, la
manualità e la fisicità ha realizzato pienamente il
fine della integrazione consentendo ai medici di ridurre l’uso dei farmaci. Dal punto di vista umano,
- 20 -
poi, l’associazione Tra cielo e mare ha aiutato
soprattutto noi ‘normali’ a capire che dietro
un’apparente incomunicabilità, si nasconde la nostra paura di confrontarci con situazioni di disagio. Un primo passo, dunque, per abbattere tutte le
barriere è buttar giù la paura e, con essa, il falso
preconcetto che tra la ‘normalità’ e l’’anormalità’
ci sia un limite oltre il quale è impossibile andare.
L’integrazione sarà possibile solo se capiamo che
la spontaneità e la serenità sono le uniche chiavi
per entrare in un meraviglioso mondo di umanità
semplice e genuina. L’associazione ha promosso
l’integrazione con varie iniziative, come L’allegria dell’epifania e Cenando sotto un cielo diverso. I clienti del ristorante, dopo una fase iniziale
d’incertezza, si sono lasciati andare senza remore,
approcciandosi con i disabili dell’associazione, sono molto calorosi e hanno molto da offrire, senza
nulla chiedere in cambio.
Questo è, in sostanza, il messaggio che la dottoressa Longobardi cerca di diffondere: abbracci e
sorrisi, prima ancora delle cure mediche!
Maria Rosaria Maresca
-‘A femmina è ‘na cosa assai curiosame diceve ‘n’amico, ‘na matina,
- si, te vo bene ed è affettuosa,
ma, si c’è ‘nate appriésse, fa ‘a cretina
e lle s’allenta tutt’a frenesia -.
Pure ‘a guagliona mia, ch’è tant’onesta,
credo ch’adda tené ‘sta malatia …
Antonio Galdi
[Da “Lamico fidato”]
Antropos in the world
DALLA REDAZIONE DI BERGAMO:
L’ESSERE INSEGNANTE E’ UN MESTIERE DIFFICILE
di Maria Imparato
L’essere insegnante oggi è davvero un mestiere
difficile, che impone continue riflessioni e revisioni
del proprio operato.
Racconto questa storia in prima persona, perché
si tratta di fatti avvenuti proprio nella scuola in cui
insegno dal lontano 1991. Si tratta del Liceo
Scientifico Statale “Filippo Lussana” di Bergamo,
oggi tristemente noto per il tentato suicidio di uno
studente di 15 anni. Ci si interroga inevitabilmente
su quanto accaduto, proprio nel primo giorno di
scuola (15 settembre), nella prima ora di lezione,
quando a prevalere dovrebbero essere i sorrisi e gli
abbracci, e le pacche sulle spalle, dopo mesi di
assenza fra compagni di classe. Eppure è successo.
Uno studente brillante, dicono i colleghi, all’inizio
del triennio, con tutta la vita davanti e il ricordo
dell’estate alle spalle. Eppure, contro ogni logica e
contro ogni istinto di sopravvivenza questo ragazzo
(che non aveva ancora compiuto i 16 anni) ha
salutato i suoi compagni di classe con grandi sorrisi,
ha lasciato ordinatamente in aula il suo zaino, ha
atteso il suono della campanella che siglava l’inizio
ufficiale del nuovo anno scolastico e si è gettato nel
vuoto, su una lastra di cemento deserta, mentre
nella voragine infernale del cortile della scuola gli
operai stavano lavorando nella struttura ipogea, che
diventerà la nuova palestra, non potendo né sentire
né vedere nulla, inghiottiti dalla terra. Attualmente
il ragazzo è sospeso fra la vita e la morte, in stato di
coma vegetativo, e nessuno osa sperare.
Nulla di più funesto e di più calcolato di questo
assurdo gesto, che lascia aperti interrogativi
disperati ed irrisolti: perché proprio nel primo giorno di scuola, e proprio nel cuore pulsante della
scuola? Perché aspettare il suono della campanella
della 1ª ora per lanciarsi da quell’orrendo 4^ piano
del Liceo, da 16 metri di altezza, a cortile vuoto ma
con un cantiere aperto in piena attività? E poi l’urlo
dell’ambulanza, le voci che corrono fra gli studenti
e quella terribile macchia di sangue, che neppure la
segatura riesce a nascondere.
Le lezioni non vengono sospese, i camion
continuano ad entrare ed uscire dal cancello della
scuola, calpestando il selciato ancora macchiato di
rosso. Non un fiore, non un segno di umana pietà,
non un gesto per bloccare la marea di giornalisti e
fotografi, che come avvoltoi invadono la scena,
mentre lo sgomento del dirigente scolastico (appena
insediato nella scuola), dei ragazzi, degli insegnanti
e dei collaboratori scolastici si legge sui volti e nelle
parole. E così trascorrono le cinque ore di questo
tremendo primo giorno di scuola..
Bisogna interrogarsi: perché questa vita spezzata? Perché questo gesto estremo? Perché nessuno
si è accorto di nulla? Che cosa può spingere un
giovane brillante e pieno di potenzialità per il futuro,
di ottima famiglia, a compiere un gesto definitivo di
tale portata? E perché proprio dentro la sua scuola?
Questi ragazzi devono tornare a vivere la vita in carne ed ossa, devono tornare a parlare non attraverso la
dimensione virtuale della Rete ma nelle piazze, nelle
strade, nei cortili delle case e della scuola.
Devono uscire dal vuoto cosmico della loro solitudine esistenziale e sentire la vera amicizia, la solidarietà degli adulti, l’essenza stessa della loro umanità, che passa anche attraverso la disperazione e la
crisi adolescenziale dei 15 anni, ma viene colmata
dalla carezza della vita, di un abbraccio forte o di
una parola autentica, capace di consolare e di far
crescere. La colpa è anche nostra: adulti spesso assenti, incorporei, insegnanti trasformati in funzionari, in burocrati, politici ed imprenditori sempre più
cinici ed egoisti che non pensano alle nuove generazioni, ma solo a interessi corporativistici. Forse è
davvero tempo di riforme, ma non solo di natura
istituzionale.
- 21 -
Amor tussique non celatur.
L’amore e la tosse non si possono celare
Antropos in the world
MICHELUCCIO
Di Egidio Siviglia
“Micheluccio, non ti vedevo da tempo. Finalmente … Dove sei stato? Non ti si vedeva in giro da un
bel po’ di tempo!”.
“E ora che mi avete visto. Siete contento?”.
“Certamente! E ora dove sei diretto? “.
“In verità a voi non posso mentire, perché, oltre ad
essere una brava persona, non mi fate alcun ritaglio
alla mia condotta”.
“Michele…. Michele, le persone sagge, se non hanno
responsabilità e sono abilitati a correggere, rischiano
di non essere ascoltate. E… dal momento che a me
dici la verità, ora dove sei diretto?”.
“Se percorriamo la stessa strada, durante il comune
percorso, vi illustrerò il futuro progetto”.
Amare un delinquente non è affare di tutti i giorni e,
sperare che Micheluccio venisse a resipiscenza delle
sue male fatte, era pura follia.
Micheluccio, senza scomporsi non incontrò difficoltà
e presentare il suo piano di lavoro e continuò: “Son
passati due mesi e ormai è quasi prosciugato il contributo governativo che la nostra simpatica società
mette a disposizione di coloro che dovrebbero reinserirsi nella comunità di persone come voi”.
“Michele perché si dovrebbe… vuol dire che non
ami la libertà; ti piace tanto stare in galera?”.
Michele non rispose e dopo una pausa riprese: “La
libertà… che bella parola”.
“Professore, voi avete studiato, ma io no… se me lo
consentite vi faccio osservare: ho dato uno sguardo
alla vostra casa e ho notato che appeso a un gancio,
in una gabbia pieno di gioia, un simpatico cardellino
saltellava e emetteva un canto celestiale. Perché, povera bestiola, deve essere bloccato in poco spazio?”.
La risposta, per quanto garbata ed esauriente, fu molto chiara.
“La società per difendersi ha inventato i pesticidi e
allo stato brado il cardellino che hai notato nella
veranda di casa mia, sarebbe morto per l’ingestione
di un erba o di un seme, sarebbe morto nello spazio
di un po’ di tempo”.
“Ecco, professore qui vi volevo e ci siete cascato: e
la libertà dove la mettiamo?”.
“Ma caro amico, non consideri la dignità dell’uomo,
la funzione sociale, il rispetto degli altri e cosi fino
all’infinito”.
Michele non percepiva nessun argomento e,
ricordando la domanda iniziale, ora vi dico dove vado: son partito da casa col fermo proposito di chiedere al mio boss un piccolo lavoro. Mi coglieranno
con le mani nel sacco e tornerò in prigione: e, questo
perché non so fare niente e non voglio far niente nel
collegio, luogo di pena come dite voi, sono felice e
non mi manca niente; sono come il vostro cardellino,
sono felice. Vi dico di più in collegio ho avuto modo
di apprendere qualcosa: la libertà è una semplice
parola, voi dite che dentro non sono libero, ma voi
che state fuori siete veramente libero?
Quando le persone si convinceranno che la libertà è
una cosa che sta dentro in ognuno il discorso e da
rifare daccapo.
ARTE IN VETRINA
Si è tenuta a San Severo al Pendino (via Duomo 286) la
mostra di pittura “ARTE IN VETRINA” organizzata dal
generoso quanto tenace Enzo Falcone. Artisti di vero
spessore hanno esposto per “ARTE IN VETRINA”, dalla
Nadia Basso con il suo stupendo “SOGNO”, dove riesce a
sviscerare il racconto del sogno con un gioco di frantumazione dell’ io, a Silvia Rea con il suo “fiammeggiante” “
ABBANDONO” che esprime il lasciarsi prendere naturalmente dalla “forza rapitrice del destino”!... Poi il bel
Palazzo Donn’ Anna, caldeggiato dai i vivi colori di Rino
Guzzi e tanti tanti altri Artisti come il magistrale Fortunato
Danise i cui disegni e tecniche pittoriche si aprono sensibilmente a tutti gli altri linguaggi. Interessantissimo il “San
Gennaro” di Pasquale Manzo, nella scomposizione di mille
modi di pregare nell’ unicità della fede. Come pure va
sottolineato il capolavoro di Elena Tabarro “COSCIENZA”; il quadro è parte di un trittico che racconta del sogno
dell'artista di vedere questa città rinata lontana dal
desiderio avido del potere di pochi che vorrebbero tutto per
sè... nella visione di una collaborazione di "idee", "mani" e
"braccia"che potessero trasformare il peggio in meglio... a
favore dell'uomo e della natura nostra grande madre…
Tutto questo è stato possibile, grazie alla inesauribile
energia di Enzo Falcone, l’appassionato tipografo che serba in mente e in cuore un ambizioso progetto per Napoli.
Vincenzo Falcone ha il merito di portare avanti il suo
antico mestiere, mutando la centenaria “Antica Tipografia
Falcone” nel “Museo e Laboratorio delle Arti Tipografiche”. Cultura, tecnica ed artigianato si fondono attraverso
“processi di conservazione, innovazione e reinterpretazione” del percorso umano che porta i ragazzi a diventare
artigiani. Sta tentando con tenacia di recuperare uno spazio
pubblico, nei pressi della storica quanto stupenda chiesa di
Sant' Eligo, da destinare alla crescita culturale dei giovani.
Uno spazio interattivo per dare voce alle Arti visive, al
Teatro, alla Musica, alla Letteratura. Enzo Falcone, uomo
colto, fervido e vero di Napoletanità, merita tutta la nostra
stima e sostegno, morale e materiale, per questa sua nobilissima iniziativa!
Ciro Ridolfini
- 22 -
Antropos in the world
DA ALTRI GIORNALI
La Merkel ha dimenticato quando l’Europa
dimezzò i debiti di guerra alla Germania
«Scheitert Europa?», «L’Europa fallisce?» si
chiede l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka
Fischer nel suo libro, appena pubblicato, in
Germania che è un durissimo atto di accusa contro le
«politiche di euroe-goismo» attuate dalla Cancelliera
Angela Merkel e dal suo ministro delle Finanze,
Wolfgang Schaeuble, la politica dell’«ognuno per
sé», come la definisce l’ex leader dei verdi, politicomaratoneta, voce critica dell’attuale dirigenza
tedesca. Fischer scrive che è «sorprendente» che la
Germania abbia dimenticato la storica Conferenza di
Londra del 1953, quando l’Europa le cancellò buona
parte dei debiti di guerra. «Senza quel regalo - scrive
l’ex ministro tedesco nel suo libro - non avremmo
riconquistato la credibilità e l’accesso ai mercati. La
Germania non si sarebbe ripresa e non avremmo
avuto il miratolo economico La cura di austerità imposta dalla coppia Merkel-Schaeuble, secondo l’ex
ministro tedesco, è stata «devastante» perché ha
imposto ai Paesi del Sud Europa «una deflazione dei
salari e dei prezzi» impossibile da superare con il
peso del rigore; «alla trappola della spirale dei
debiti», che condanna questi Paesi a non uscire dalla
crisi con il pretesto del risanamento dei conti.
Fischer, in definitiva, accusa la Germania della
signora Merkel e della sua grande coalizione di
«euroegoismo» e di avere la memoria troppo corta.
«Se la Bce non avesse seguito le decisioni di Draghi
ma le obiezioni dei tedeschi a quest’ora l’euro non
esisterebbe più. Il più grande pericolo per l’Europa conclude il politico tedesco - attualmente è la
Germania». Ma cosa si decise alla Conferenza di
Londra del 1953? La prima della classe Germania è
andata in default due volte durante il Novecento (nel
1923 e, di fatto, nel secondo dopoguerra). In quella
conferenza internazionale le sono stati condonati i
debiti di due guerre mondiali per darle la possibilità
di ripartire. Tra i Paesi che decisero allora di non
esigere il conto c’era l’Italia di De Gasperi, padre
fondatore dell’Europa, e anche la povera e malandata
Grecia, che pure subì enormi danni durante la
seconda guerra mondiale da parte delle truppe
tedeschi alle sue infrastrutture stradali, portuali e ai
suoi impianti produttivi. L'ammontare del debito di
guerra tedesco dopo il 1945 aveva raggiunto i 23
miliardi di dollari (di allora). Una cifra colossale che
era pari al 100% del Pil tedesco. La Germania non
avrebbe mai potuto pagare i debiti accumulati in due
guerre. Guerre da essa stessa provocate. I sovietici pretesero
e ottennero il pagamento
dei danni di guerra fino
all’ultimo centesimo. Mentre gli altri Paesi, europei e
non, decisero di rinunciare a più
di metà della somma dovuta da Berlino. Il 24 agosto
1953 ventuno Paesi (Belgio, Canada, Ceylon, Danimarca, Grecia, Iran, Irlanda, Italia, Liechtenstein,
Lussemburgo, Norvegia, Pakistan, Regno Unito di
Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Repub-blica francese, Spagna, Stati Uniti d'America, Svezia, Svizzera, Unione Sudafricana e Jugoslavia), con un trattato firmato a Londra, le consentirono di dimezzare
il debito del 50%, da 23 a 11,5 miliardi di dollari,
dilazionato in 30 anni. In questo modo, la Germania
poté evitare il default, che c’era di fatto. L’altro 50%
avrebbe dovuto essere rimborsato dopo l'eventuale
riunificazione delle due Germanie. Ma nel 1990
l’allora cancelliere Helmut Kohl si oppose alla
rinegoziazione dell’accordo che avrebbe procurato
un terzo default alla Germania. Anche questa volta
Italia e Grecia acconsentirono di non esigere il
dovuto. Nell’ottobre 2010 la Germania ha finito di
rimborsare i debiti imposti dal trattato del 1953 con
il pagamento dell'ultimo debito per un importo di
69,9 milioni di euro. Senza l’accordo di Londra, la
Germania avrebbe dovuto rimborsare debiti per altri
50 anni. Il resto della storia è noto. E’ scritto nei sacrifici imposti dalla rigida posizione tedesca ai Paesi
del Sud Europa che da anni combattono con una
crisi che sembra senza fine. Fischer non ha dubbi. E
punta il dito contro la sua connazionale Merkel: «Né
Schmidt e né Kohl avrebbero reagito in modo così
indeciso, voltandosi dall’altra parte come ha fatto la
cancelliera. Avrebbero anzi approfittato della impasse causata dalla crisi per fare un altro passo avanti
verso l’integrazione europea. La Merkel così distrugge l’Europa».
- 23 -
Riccardo Barlaam
[Da Il sole 24ore del 19 ott.2014]
Antropos in the world
STORIA DELLA MUSICA - A cura di Ermanno Pastore
LA MUSICA LEGGERA - I BEATLES
La storia dei Beatles ha inizio sabato 6 luglio
1957. In quella data, nella chiesa di St. Peter a
Liverpool, in occasione della festa annuale della
parrocchia, era in corso un'esibizione dei Quarrymen, un gruppo skiffle di cui era leader il sedicenne John Lennon. Ivan Vaughan, già compagno
delle elementari di John ed ex componente della
band, gli presentò il quindicenne Paul McCartney,
all'epoca suo compagno di scuola al Liverpool Institute. Paul si presentò suonando Long Tall Sally di
Little Richard e Twenty Flight Rock di Eddie
Cochran. Durante le sue esibizioni, John usava cambiare parole e accordi a suo piacimento; oltre che
dall'abilità di Paul alla chitarra, rimase quindi colpito
dalla sua memoria, dato che ricordava alla perfezione i testi delle canzoni che eseguiva. Sebbene
John ben sapesse che invitare Paul a far parte del
gruppo avrebbe significato condividerne la leadership, si risolse ben presto a farlo entrare nei Quarrymen. Pete Shotton fu incaricato di invitarlo; Paul
McCartney accettò, dicendo però che si sarebbe unito al gruppo dopo le vacanze.
Il 1963 rappresentò l'anno in cui esplose la
popolarità del gruppo. A essa concorsero le loro produzioni musicali, i concerti in speciali occasioni (il
Val Parnell's Sunday Night at the London Palladium
e la storica esibizione al Royal Variety Performance,
alla presenza dei reali inglesi), le apparizioni televisive. Testimonianza del boom della celebrità è fra
l'altro l'andamento delle adesioni al Beatles fan club;
a inizio del 1963 gli aderenti ammontavano a un
migliaio, alla fine dello stesso anno il numero degli
iscritti era salito vertiginosamente a ottantamila. E al
termine di quell'anno i giornali inglesi riconoscevano quasi unanimi le qualità del gruppo.
Ancora più motivante fu la tournée successiva come
gruppo di spalla di Helen Shapiro che si svolse dal 2
febbraio al 3 marzo dello stesso anno e che toccò
quattordici centri inglesi. Il tour contribuì al definitivo amalgama di Ringo con gli altri tre Beatles e
all'affiatamento del gruppo.
Di nuovo John giudicò che «cambiare ogni sera
locale fu un vero toccasana».Tornati a Liverpool il 4
marzo, dopo cinque giorni con altri artisti erano
nuovamente in tournée – che sarebbe durata fino al
31 marzo – per le maggiori piazze inglesi, sempre
più popolari fra il pubblico dei concerti, sempre più
in risalto nei cartelloni pubblicitari e sempre più im-
portanti tanto da essere
loro a esibirsi in chiusura degli spettacoli. A fine ottobre volarono in
Svezia per il primo tour
all’estero. Lì per una settimana alternarono incisioni radiofoniche, concerti
live e registrazioni per il programma televisivo svedese Drop In. Consapevoli di dover conquistare il
pubblico scandinavo, i Beatles si esibirono alla stazione radiofonica Karlaplansstudion in uno spettacolo di
qualità eccellente. La maturità artistica del gruppo di
Liverpool è da molti critici considerata il biennio
1966-67. Nel 1966 viene pubblicato Revolver, che
molti esperti ritengono un picco nella creatività dei
Beatles. Il nuovo LP iniziò la fase in cui la musica dei
Beatles prendeva forma in lunghe e articolate sessioni
in studio, con l'assistenza di Geoff Emerick, giovane
tecnico assunto in EMI cinque anni prima all'età di 15
anni, piuttosto insofferente alle normative consolidate
da anni ad Abbey Road riguardanti le metodologie da
usare nella presa del suono. Emerick sfruttò con abilità tutte le risorse fornite dalla primitiva tecnologia
dell'epoca, ne introdusse di assai innovative, e così
vennero alla luce capolavori sul piano del suono che
sarebbe stato impossibile riprodurre in concerti dal
vivo. Revolver parlò di amore, di droga, ma anche di
tasse con il pezzo di apertura Taxman, critico verso i
politici inglesi dell'epoca, composto e cantato da
George Harrison. Parlò anche di morte: con Tomorrow Never Knows di John Lennon che si era ispirato
al Libro tibetano dei morti – con la voce immersa tra
suoni di nastri riprodotti al contrario, anticipando Sgt.
Pepper's – e con Eleanor Rigby di McCartney. I suoni
si arricchirono di strumenti indiani e di molte altre
innovazioni elaborate in studio in modo artigianale
ma dalla grande resa finale.
Il 26 ottobre 1965 i Beatles arrivarono a Buckingham Palace per ricevere la medaglia dell'Ordine dell'Impero Britannico in un'atmosfera di grande eccitazione e con migliaia di ammiratori urlanti che assediavano il Palazzo Reale. La leggenda vuole che i
quattro abbiano fumato uno spinello nei bagni della
residenza reale per calmare il nervosismo causato dall'ufficialità della cerimonia, e questo coincide con
l'ammissione che John Lennon fece in seguito. Successivamente, George Harrison smentì Lennon dichiarando che si era trattato di sigarette. (Continua)
- 24 -
Antropos in the world
POLITICA E NAZIONE
DOVE STA LA DEMOCRAZIA
Ovvero il pensiero spicciolo della gente comune
L’Europa invece di aprirsi verso nuovi sistemi si sta
chiudendo su se stessa. Di conseguenza in questa fase
di crisi nera gli economisti sconsigliano qualsiasi tipo
di investimento nell’eurozona.
La crisi è ben lungi dal termine ed oggi dobbiamo
aver paura specialmente dopo le dichiarazioni della
Bundesbank e le catastrofiche previsioni sul futuro del
nostro Paese. Però il problema non è solo dell’Italia
perché se l’Europa non prende le misure adatte sarà
trascinata in un inferno dal quale sarà difficile uscirne.
Ci chiediamo come è possibile che i politici al governo
ci dicano ancora che nulla è cambiato e che basta
qualche riforma (taxi, ex art. 18 etc.) per riprendere a
crescere dimenticando che il paese è in ginocchio, le
famiglie non arrivano a metà mese, sempre più sono le
aziende che chiudono i battenti, la gente si è
indebitata, le amministrazioni locali si arrampicano
sugli specchi e le tasse aumentano di giorno in giorno.
I cittadini italiani non ne possono più e lo dimostrano
in tutti i modi ma i vari politici di turno vanno in
televisione e con la massima naturalezza dichiarano
che questo o quel governo non è peggio degli altri.
Gli stessi sindacati non si sono resi conto del momento
tragico ed invece di suggerire proposte per creare
lavoro pensano ai loro interessi ed a proclamare lo
sciopero generale. Gli interessi li curano, a discapito
dei veri lavoratori e del popolo italiano, facendo
assumere presso il sindacato, per un solo mese, un
proprio familiare e, grazie ad una legge da loro voluta
“ad hoc” , riescono a dare la pensione a vita al fratello,
alla moglie, etc. di questo o di quel dirigente sindacalista. Che vergogna. I sindacati si sono allineati ai politici che curano in primis i loro interessi senza curarsi
del popolo che soffre. Poi in tutta questa confusione
causata dalla recessione si permettono di proclamare
lo sciopero generale per salvaguardare l’ex articolo 18
che serve a tutelare principalmente i lavativi.
Ma dove siamo ? Democrazia ? Quale ? Dove ?
Tutti coloro che sono al vertice ad incominciare dal
Capo dello Stato, da coloro che ci governano, dai
sindacati etc. debbono essere più seri.
Tutti vogliono sembrare ciò che non sono invece di
assumersi le responsabilità e le conseguenze del loro
operato. L’ Italia ha bisogno di avere una politica seria
scollegata dal mondo dell’alta finanza e vicina al
mondo reale. Invece di demolire l’Italia come sta
facendo Giorgio Napolitano con decisioni che lasciano
allibiti (ad incominciare da Monti nominato senatore
- 25 -
e poi presidente del Consiglio dei Ministri, poi Letta
e poi Renzi e poi forse un domani anche Della Valle
che si è proposto pur non avendo nessun titolo e
nessuna specifica competenza).
Gli italiani sperano che i politici veri prendano
coscienza del fatto che le imprese non possono
assumere a tempo indeterminato perché altrimenti
sono spinte ad andare a produrre all’estero,
togliendo posti di lavoro all’Italia.
Peraltro le tasse di importazione sono quasi nulle per
le merci provenienti dalla Cina e dai mercati
orientali ma, al contrario, le merci di esportazione
provenienti dall’Italia sono più che mai tassate.
A ciò si aggiunga che le imprese italiane, sempre
additate di evadere il fisco, sono oberate e soffocate
da un sovraccarico di leggi e debbono ottemperare a
mille adempimenti che aumentano di legislatura in
legislatura.Va inoltre affrontata la questione dell’euro perché tutti i paesi sono in declino strutturale.
In effetti l’entrata della moneta unica non ha portato
i giovamenti a lungo sbandierati
Ricordate Prodi quando disse che avremmo lavorato
un giorno in meno e avremmo avuto grandi benefici
come se avessimo lavorato un giorno in più ?
Solo uno sprovveduto come Prodi poteva dire queste scemenze nel mentre il primo ministro inglese
affermava che l’euro avrebbe favorito le economie
forti e distrutto quelle deboli.
Tra l’altro è venuto meno anche il teorema secondo
cui lo scudo dell’euro avrebbe consentito ai singoli
paesi di resistere meglio alle crisi. Anzi è vero il
contrario. Chi ha adottato l’euro paga un prezzo
molto elevato in termini di crescita e di occupazione
per cui diventano più poveri e vedono sparire le
prospettive di crescita.
Oggi che siamo in piena recessione abbiamo
bisogno di avere la politica, quella seria però e non
quella degli interessi di parte voluta da Napolitano
che si dovrà assumere le proprie responsabilità di
fronte al popolo italiano, quella vicina al mercato del
lavoro e all’interesse della gente, che si presta a
operare per ricostruire il paese che oggi pare una
gruviera.
MARIO BOTTIGLIERI
Amor gignit amorem.
Amore genera amore
Antropos in the world
PIATTI TIPICI DEL MEDITERRANEO - A cura di Rosa Maria Pastore
Zucche e zucchine(ricette)
CREMA DI ZUCCA CON GAMBERETTI
Ingredienti
1 kg di zucca gialla
300 g di gamberetti
2 spicchi d’aglio
1 peperoncino - Olio d’oliva, prezzemolo, sale.
Preparazione
Soffriggere uno spicchio d’aglio ed il peperoncino nell’olio,
eliminare l’aglio, unire la zucca tagliata a dadini, coprirla d’acqua,
salare e farla cuocere dolcemente a tegame coperto. Quando la
zucca sarà completamente disfatta, passarla al passatutto e
rimetterla nel tegame aggiungendo se necessario un po’ d’acqua
per avere la densità giusta per una crema. Nel frattempo rosolare
l’altro spicchio d’aglio in poco olio e scottarvi a fuoco vivace per
un attimo i gamberetti sgusciati rigirandoli velocemente con un
pizzico di sale. Versare i gamberetti nella zucca, far dare un bollo
tutto insieme, passare nella zuppiera e guarnire con prezzemolo
tritato.
MINESTRA DI TALLI E FIORI DI ZUCCA
Ingredienti
300 g di talli di zucchini - 300 g di fiori di zucchini
500 g di zucchini piccolissimi e teneri
1 fascetto di cipolline novelle
olio d’oliva, basilico, sale, crostini di pane.
Preparazione
In una pignatta di coccio rosolare in poco olio le cipolline
finemente affettate, unire gli zucchini tagliati a dadini, i talli di
zucchini puliti, lavati e spezzettati ed i fiori puliti e sciacquati.
Salare, coprire la pentola e portare dolcemente a cottura le
verdure, mescolando ogni tanto con un cucchiaio di legno ed
aggiungendo se occorre un poco di acqua calda. A cottura ultimata
aromatizzare con basilico fresco spezzettato e servire con crostini
di pane tostato a parte.
RISO CON LA ZUCCA
Ingredienti
350 g di riso Arborio
200 g di zucca gialla - mezza cipolla
1 l di brodo di carne o anche di dado
30 g di burro
vino bianco, olio d’oliva, parmigiano, sale, pepe.
Preparazione
Lessare per 15 minuti nel brodo la zucca tagliata a dadini, scaldare
in un tegame la metà del burro e poco olio e rosolarvi la cipolla
finemente tritata senza farla colorire. Unire il riso, tostarlo,
bagnare con mezzo bicchiere di vino bianco e, quando sarà
evaporato, aggiungere poco alla volta il brodo con i pezzetti di
zucca portando a cottura il riso. Verificare il sale e fuori dal fuoco
completare col burro rimasto, una macinata di pepe fresco ed una
mangiata di parmigiano grattugiato. Servire con altro parmigiano
a parte.
SPAGHETTI CON GLI ZUCCHINI
Ingredienti
400 g di spaghetti - 500 g di zucchini
80 g di burro - 4 cucchiai di formaggi misti dolci grattugiati
(caciotta, provolone, parmigiano)
Basilico, olio d’oliva, sale, pepe.
Preparazione
Spuntare gli zucchini, lavarli e tagliarli a rondelle sottili,
lasciarli asciugare all’aria per una mezz’ora e friggerli in olio
d’oliva. Fondere il burro in una larga teglia,
unire gli zucchini fritti tenendo la fiamma
bassissima. Nel frattempo cuocere molto
al dente gli spaghetti, versarli nella teglia
con gli zucchini, spargere i formaggi, il basilico ed il pepe e mescolare. Aggiungere un
po’ d’acqua della pasta che sciogliendo i formaggi formerà una specie di crema in cui vanno
amalgamati gli spaghetti. Completare con altro basilico fresco.
PAPPARDELLE CON FUNGHI E ZUCCHINI
Ingredienti
400 g di pappardelle
400 g di funghi - 400 g zucchini
aglio, cipolla, prezzemolo, olio d’oliva
parmigiano grattugiato sale, pepe.
Preparazione
Pulire i funghi, lavarli velocemente ed affettarli, spuntare gli
zucchini, lavarli e tagliarli a rondelle. In una padella antiaderente
soffriggere uno spicchio d’aglio (che poi va eliminato) e uno
spicchio di cipolla finemente tritata, unire funghi e zucchini, salare
e farli appassire a fuoco moderato mescolando spesso. In abbondante acqua giustamente salata cuocere le pappardelle, scolarle al
dente e versarle nella padella con le verdure, insaporirle per
qualche minuto a fuoco basso, passarle nel piatto di portata e
cospargere di parmigiano e prezzemolo tritato.
FIORI DI ZUCCA FRITTI IN PASTELLA
Ingredienti
250 g di fiori di zucca - 150 g di farina
2 uova - Vino bianco, olio d’oliva, sale, olio per friggere.
Preparazione
Preparare la pastella incorporando nella farina i tuorli d’uovo, un
po’ d’olio d’oliva, 2 dita di vino e tanta acqua tiepida da ottenere
una pastella morbida, coprire e lasciarla riposare. Nel frattempo
pulire e lavare i fiori di zucca, farli sgocciolare bene ed asciugarli
delicatamente in un canovaccio. Al momento di friggere montare a
neve gli albumi, amalgamarli delicatamente alla pastella ed
immergervi i fiori di zucca per poi friggerne pochi alla volta in olio
caldo ma non bollente. Passarli su carta assorbente e solo a questo
punto salare.
TORTINO DI RICOTTA E ZUCCHINI
Ingredienti
400 g di pasta brisée
300 g di zucchini
200 g di ricotta
100 g di pancetta a fettine
3 uova - 100 g di latte
mezza cipolla, olio d’oliva, parmigiano, basilico, sale, pepe.
Preparazione
Stendere la pasta, foderare una tortiera imburrata e metterla in
frigorifero. Nel frattempo consumare in un po’ d’olio a fuoco molto
basso la cipolla finemente tritata e appena comincerà a colorirsi
unire gli zucchini a tocchetti e farli stufare. Incorporare la ricotta
alle uova sbattute con latte e parmigiano, mescolarvi il basilico
tritato, salare e pepare. Nella tortiera foderata di pasta fare uno
strato di pancetta, poi uno strato di cipolle e zucchini ed infine
versare l’impasto di ricotta e uova. Cuocere in forno moderato a
180° per circa mezz’ora finché il tortino risulterà ben dorato in
superficie. Consumarlo tiepido.
- 26 -
Antropos in the world
QUANDO LE INTITUZIONI FUNZIONANO
APERTA LA RASSEGNA BERGAMO SIENZA
“Non basta guardare, occorre guardare
con occhi che vogliono vedere, che credono
in quello che vedono”. (Galileo Galilei)
Questo il motto della Rassegna BergamoScienza, giunta
quest’anno alla XII edizione, che si svolge dal 3 al 19
ottobre a Bergamo. Filo conduttore dell’edizione 2014
sono l’ambiente marino e l’uso sostenibile delle sue
risorse.
Per l’occasione, è stata presentata in anteprima la mostra
interattiva “Risorsa mare. La trasformazione della materia
di origine marina - cibo e materiali”, realizzata in
collaborazione con la Fondazione Città della Scienza di
Napoli, all’insegna del rapporto di forte solidarietà e di
partnership, che da oltre un anno unisce la città di Bergamo
a Napoli, per la ricostruzione di questo importante polo
scientifico-didattico, distrutto dal rogo doloso del 4 marzo
2013. “Il primo risultato concreto di questa collaborazione
a distanza, che unisce Nord e Sud d’Italia all’insegna della
scienza e della divulgazione scientifica, è la grande Mostra
sul mare, che apre quest’anno il Festival di Bergamo
Scienza – afferma Mario Salvi, presidente dell’Associazione BergamoScienza -. La nostra sfida è far conoscere
la manifestazione oltre i confini della Lombardia, stringendo legami con i festival scientifici italiani e internazionali,
a partire dal Festival della Scienza di Genova, in vista della
prossima partecipazione all’Expo 2015 con una serie di
eventi ospitati dal Padiglione Italia”.
La rassegna BergamoScienza si è aperta all’insegna
dei Nobel, a pochi giorni dall’assegnazione dei Premi del
2014. Il festival è stato inaugurato dalla seconda “Levi
Montalcini’s Lecture” – una lectio magistralis in onore
della scienziata, scopritrice del fattore di crescita dei nervi,
scomparsa il 30 dicembre 2012 -, tenuta dal biologo
molecolare sudafricano Sydney Brenner, che ha ricevuto
nel 2002 il prestigioso riconoscimento in medicina per i
suoi studi sulla regolazione genica e il suicidio cellulare
programmato. Lo scienziato si è occupato del tema “Biologia umana: il futuro della ricerca biomedica” e, in particolare, degli studi legati al genoma umano. La conferenza
iniziale è stata, inoltre, preceduta dalla presentazione del
volume “Le forme della vita.
Scienza e bellezza nelle lezioni dei Nobel”, una raccolta
degli interventi dei nove premi Nobel, che hanno preso
parte alle precedenti edizioni di Bergamo-Scienza. La
giornata conclusiva, invece, ha avuto come protagonista un
altro Nobel in Medicina, Michael Stuart Brown, premiato
nel 1985 per le sue ricerche sul metabolismo del colesterolo,
a chiusura della rassegna, con una conferenza dal titolo “Un
secolo di colesterolo e coronarie”.
Un programma di due settimane fitto di appuntamenti - 176
tra spettacoli, laboratori, proiezioni cinemato-grafiche e
conferenze -, eventi gratuiti che è possibile seguire anche in
streaming sul sito del Festival. Difficile elencarli tutti. Si
parla di staminali e tumori con Pier Paolo Di Fiore, dell’Istituto europeo di oncologia e di vaccini con Ian Wilson,
dello Scripps Research Institute californiano.
Il neurofisiologo Marcello Massimini tratta, invece, l’affascinante tema di come capire e misurare la coscienza umana. Molte le conferenze di paleontologia. David Lordkipanidze, racconta la storia dei fossili del cosiddetto “Homo
Georgicus”, il più antico esemplare del genere Homo,
rinvenuto fuori dall’Africa, a Dmanisi, in Georgia, risalente
a circa 1,8 milioni di anni fa.
Michael Benton, dell’University of Bristol, discute della
più grande estinzione di massa di tutti i tempi. Dominique
Raynaud, membro del comitato Onu sui cambiamenti
climatici (Ipcc), ricostruisce, invece, la storia climatica della
Terra. Altro tema trattato è lo sviluppo delle nanotecnologie, con un intervento di Roberto Cingolani, direttore
scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia.
In programma anche tavole rotonde su alcuni temi di attualità, che suscitano dibattiti accesi, come la sperimentazione
animale o l’uso delle cellule staminali a scopo terapeutico,
nonché l’esplorazione spaziale, con l’intervento d’eccezione dell’astronauta Luca Parmitano, ambasciatore del semestre italiano di Presidenza dell’Ue, che racconta i suoi
166 giorni nello spazio, a bordo della Stazione spaziale internazionale (Iss).
Maria Imparato
ELOGIO DELLA PENSIONE RETRIBUTIVA
di Michele Rallo
C’era una volta un’Italia normale, scrivevo qualche
numero fa, tessendo l’elogio del tanto vituperato “posto fisso”.
E a quella stessa “Italia normale” mi riferisco anche adesso,
accingendomi ad elogiare la pensione “retributiva”, un’altra
bestia nera di quella “Italia ufficiale” che recepisce con bovina
acquiescenza tutte le castronerie che ci vengono propinate
dalla Grande Alleata e dalla sua succursale di Bruxelles.
Dunque, nell’Italia normale, cioè nell’Italia moderna, nell’
Italia del XX secolo ( Fascismo compreso ed Euro escluso,
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piaccia o non piaccia), la gente – dopo una vita di lavoro –
aveva la certezza di una pensione. Una pensione d’oro per i
grandi manager e per pochissimi fortunati; una pensione
d’argento per una platea un pochettino più vasta; una pensione
di bronzo – diciamo così – per la gran parte dei cittadini; una
pensione di cartapesta (ma tale comunque da poter garantire la
sopravvivenza) per quanti non avevano potuto costituirsi una
posizione previdenziale adeguata. L’età pensionabile era
generalmente di 60 anni per gli uomini e di 55
Antropos in the world
per le donne; erano previste delle deroghe che, a fronte di una
riduzione della pensione, consentivano di anticipare i tempi
(le “pensioni d’anzianità”).
Dal 1969 (riforma Brodolini, ricorderanno i meno
giovani) era definitivamente introdotto il metodo “retributivo” per il calcolo della pensione. Cioè, a prescindere da
quanto effettivamente versato durante la propria vita lavorativa dal soggetto (e nel caso di lavoratore dipendente
anche dal suo datore di lavoro), lo Stato corrispondeva al
pensionato un assegno mensile pari all’80% dell’ultima
retribuzione. Tutto ciò – si badi bene – non era una regalìa
che uno Stato prodigo faceva ai suoi cittadini più anziani; ma
era il frutto di un contratto che, all’inizio della propria
attività lavorativa, il cittadino stipulava con le strutture
previdenziali statali o con i “fondi sostitutivi”; un contratto
del tutto simile a quello di una polizza-vita che si stipula con
una normale società assicurativa. Questo contratto prevedeva
che il singolo cedesse all’ente previdenziale una quota-parte
del proprio reddito, che l’ente incamerasse quelle somme, le
investisse al meglio e, con gli interessi generati da quell’investimento, corrispondesse poi al lavoratore una pensione,
trattenendo per sé il capitale. Ripeto: non era una regalìa.
Provate a pensare a quanto, in una vita lavorativa di 30 o 40
anni, avete versato alle strutture previdenziali, ed immaginate
quanto avrebbe potuto rendere una tale cifra investita in un
comune fondo fruttifero. Immaginate, poi, che a quel fondo
fruttifero non chiediate la restituzione del capitale – nel
frattempo almeno triplicato – ma la corresponsione di un
vitalizio. Ecco: questa è la vostra pensione. Vi è stato dato
soltanto l’interesse differito sull’investimento che è stato fatto
con il vostro denaro. Non avete rubato nulla, non siete
vissuti “al di sopra delle vostre possibilità”, non avete messo
in pericolo il futuro dei vostri figli.
Questo, in estrema sintesi – e mi si perdonino genericità
ed approssimazioni – era il sistema che, bene o male, aveva
retto dal 1933, anno di fondazione dell’INPS (allora si
chiamava INFPS, Istituto Nazionale Fascista della Previdenza
Sociale) e fino al 1992, anno della riforma Amato, la prima
forte picconata alle nostre pensioni. Da allora era tutto un
crescendo di allarmi, di terrorismo mediatico. La scusa
ufficiale erano i debiti dell’INPS; debiti, in realtà, non dovuti
alla normale attività previdenziale (contributi incassati,
capitali incamerati, somme investite, pensioni erogate), ma al
saccheggio delle sue casse da parte di governi spendaccioni e
pasticcioni, che caricavano l’INPS di anomali compiti assistenziali e ne saccheggiavano le casse per far fronte ad un
debito pubblico che già dagli anni ’80 aveva assunto proporzioni abnormi. Che il dare-e-avere del normale meccanismo previdenziale fosse perfettamente in grado di funzionare, peraltro, era dimostrato dall’ottimo stato di salute di
molti enti previdenziali autonomi: «Anzi, quei fondi erano
addirittura ricchi – scrivevo qualche anno fa sulla “Risacca”
– avevano una possidenza immobiliare di tutto rispetto, ed
una liquidità che consentiva loro di elargire ai propri
associati dei consistenti prestiti a tasso di assoluto favore.»
Quale la differenza fra questi enti autonomi e l’INPS?
Semplice: che, nel caso degli enti “sostitutivi”, i capitali e gli
interessi servivano soltanto per la previdenza (unico scopo
istituzionale) e non anche per l’assistenza o per tappare
qualche buco di altre amministrazioni.
Pure per l’INPS, comunque, nulla di tragico, nulla di
irreparabile, nulla che una salutare inversione di marcia non
potesse normalizzare. E, invece, si incominciava a parlare –
con insistenza crescente – di un sistema pensionistico al
collasso, che non era in grado di onorare i suoi impegni, che
non teneva conto dell’allungamento della vita media, che da lì
a qualche anno non sarebbe stato in grado di erogare le
pensioni. Questa campagna terroristica è durata fino ai nostri
giorni, e non si è acquetata fino a quando non ha potuto offrire
ai “mercati” – su un piatto d’argento – la “riforma” più
agognata, quella che uccideva la pensione della nostra
generazione, quella calcolata con il sistema retributivo e che ci
consentiva una retribuzione non lontana dall’ultimo stipendio
percepito. In sua vece, per i nostri figli, ci veniva proposto un
modello di pensione “politicamente corretto”: quello contributivo, secondo il quale il trattamento di quiescenza sarà commisurato «a quello che è stato versato». E immaginatevi quanto
– da qui all’età pensionabile – potrà versare all’INPS un
giovane dei giorni nostri, di quelli che lavoricchiano due o tre
mesi all’anno, magari in attesa delle tutele farlocche del Job
Act.
In realtà, è tutto riconducibile ad una manovra diretta a
ridurre in miseria i pensionati europei di domani. Esattamente
come i pensionati russi che, all’indomani della fine dell’URSS,
negli ultimi giorni del mese andavano letteralmente a chiedere
l’elemosina agli angoli delle strade. E forse – mi si perdoni la
digressione – fra le cose che non vengono perdonate a Putin vi
è anche quella di avere dato benessere al suo popolo. Chiusa
parentesi.
Torniamo a noi: quella dell’aumentata “speranza di vita”
è semplicemente una scusa, per giustificare una “riforma” che
– esattamente come quelle che mirano alla eliminazione del
“posto fisso” – non può che condurre ad un risultato:
l’impoverimento della popolazione italiana (in parallelo a
quella delle altre popolazioni europee, tedesca compresa) e la
sua definitiva colonizzazione da parte dell’economia americana. E, a breve, questa condizione di vassallaggio potrebbe
essere consacrata con la creazione di una “zona di libero
scambio” fra USA ed Unione Europea. Ne parlerò in una
prossima occasione; così come vorrei tornare su alcuni
argomenti che ho qui soltanto accennato, come quello del
rapporto fra durata della vita media e prestazioni pensionistiche.
Adesso (lo spazio è tiranno) vorrei chiudere queste brevi
note con una considerazione. La pensione “retributiva” è stata
– come il “posto fisso”, come la sanità pubblica, come tante
altre conquiste civili – un elemento che ha caratterizzato il
nostro modello sociale; un modello che ha consentito
all’economia italiana ed europea di crescere e di assicurare un
benessere diffuso. Un modello – aggiungo – che ci ha anche
consentito di sopravvivere alla crisi nera di questi anni, quando
le pensioni dei nonni hanno sopperito agli stipendi dei figli
licenziati ed alle esigenze dei nipoti senza un lavoro. Oggi,
invece, ci viene imposto – dalle banche e dalle forze politiche
collaborazioniste – l’adozione di un modello sociale yankee,
utile ai mercati ed alle multinazionali, ma non ai popoli,
certamente non ai popoli europei, certissimamente non ai
popoli dell’Europa latina e mediterranea. Ciò, naturalmente,
fino a quando questi popoli sopporteranno.
- 28 -
Antropos in the world
IMMAGINI DI UN ALTRO TEMPO
‘O CAZZIMBÓCCHIO
Sul «bere freddo» nella storia della gastronomia esistono esempi che datano fin dall’antichità, comprese alcune leggende destituite di
qualunque fondamento, come uno pseudo passaggio della Bibbia, spesso citato, dove Abramo avrebbe offerto al figlio Isacco latte di capra e neve perché potesse dissetarsi.
È invece del tutto vero che già al tempo dei
Cesari miscele di neve o ghiaccio addizionate
con frutta comparivano nei banchetti come un
raffinato diversivo. Un abitudine che riprese nel
Rinascimento e col geniale pollivendolo Ruggeri che Caterina de’ Medici, sposa al futuro Re
di Francia, si volle portare con sé, tanto la
prodigiosa invenzione del «ghiaccio all’acqua
inzuccherata e profumata» (si era nel 1533)
aveva stregato il palato della Corte.
Negli anni seguenti troviamo il genio di
Bernardo Buontalenti, architetto e uomo eclettico, che introduce i sapori ghiacciati nei banchetti di corte impiantando in Firenze apposite
«neviere». Allo stesso modo compare «l’acqua
ghiacciata» in una patente reale di Luigi XIV a
favore del messinese Procopio de’ Coltelli,
fondatore del celebre Caffè Procope, cui si
deve l’introduzione di gelati, granite e sorbetti
in Francia. La «grattachecca» non è altro che
un capitolo tutto romano di questa storia. [...]
Invenzione rinfrescante di fine ‘800, diventò
rapidamente un cibo di strada, servito in chioschi.
La grattachecca, oltre che essere un alimento
rinfrescante tipico della città di Roma, è molto
diffusa anche a Napoli col nome di 'a rattata (la
grattata) o più volgarmente 'o cazzimbocchio.
II "Grattachecca" era uno strumento costituito
da lame e somigliava a una sorta di grattugia o,
meglio ancora, ad una pialla del falegname, era
un mestiere del passato, ormai scomparso, il cui
posto è stato preso oggi dal gelataio. Tutta
l'attrezzatura era trasportata su un carro o su un
"motom", il ghiaccio "grattato" veniva deposto
in un bicchiere a cui si aggiungevano diversi
tipi di sciroppi oppure liquori, caffè, etc.... Si
girava bene con un cucchiaino e si otteneva una
specialità simile alla granita.
- 29 -
Al costo di 5, al massimo 10 lire, gli adulti, ed
in particolare i ragazzi, si dissetavano e
cercavano di trovare sollievo dalla calura
estiva. Il venditore girando per tutto il paese e
per le diverse frazioni, gridava: "Grattachècca"!! "Grattachècca"!!...
IN FONDO AL VIALE, di Anna Burdua, "Una sto-
ria d'amore tenera, avvincente: la storia di Marina
e Francesco. I due ragazzi si incontrano per la prima volta all'università, quando lei doveva sostenere il suo primo esame. E' amore a prima vista, il
primo amore,quello che non vuole farsi sfuggire
quei piccoli momenti di felicità nascosti in ogni
giornata. La storia si dipana in un alternarsi di
momenti eccitanti e cupi per gli avvenimenti vissuti dai protagonisti. Un racconto suggestivo, per
chi si emoziona ripensando a un amore lontano.Ne
esce una testimonianza che diventa riflessione su
come un amore possa perpetrarsi oltre la vita"
Antropos in the world
ELOGIO DEL POSTO FISSO
C’erano una volta regole di lavoro “normali”,
in un’Italia “normale”, in un’Europa “normale”.
Queste regole prevedevano che, a conclusione del
ciclo degli studi o – per i meno fortunati – ancora
prima, i nostri giovani cercassero un lavoro e che,
una volta trovatolo (più o meno presto) se lo
tenessero ben stretto e, attorno a quel lavoro,
iniziassero a costruire la loro vita: che mettessero
da parte i primi soldi (e i primi contributi previdenziali), che facessero le prime spese “importanti”,
che acquistassero un’auto a rate, che stipulassero un
mutuo per un appartamento, che si sposassero, che
mettessero al mondo dei figli, che iniziassero a
rincorrere qualche modesto “scatto d’anzianità”, e
che – in prospettiva – dopo una vita di lavoro,
maturassero il diritto ad una pensione decente, tale
da non abbassare eccessivamente il loro tenore di
vita. Erano regole e ritmi “normali”, comuni più o
meno a tutti i paesi dell’Europa occidentale, compresi quelli economicamente meno dotati.
Dopo la caduta del muro di Berlino – però –
insieme alla dittatura della globalizzazione economica, ai paesi europei è stato imposto anche di abbracciare lo stile di vita americano. Certo, non siamo
ancòra alla demen-zialità del sistema yankee, ma
abbiamo imboccato con lena la lunga strada della
trasformazione della nostra società: abbiamo cominciato a smantellare la sanità pubblica, abbiamo vandalizzato il sistema pensionistico, stiamo vendendo
(o svendendo) quel che rimane della nostra fiorente
industria di Stato e – ultimo non ultimo – stiamo
riscrivendo le regole e il concetto stesso di “lavoro”.
Per noi europei, dire “lavoro” significava dire
“posto fisso”: intoccabile per i lavoratori dello Stato
e degli Enti pubblici, ma da ricercare anche per i
dipendenti del settore privato, protetti dalla legge
contro i licenzia-menti arbitrari e, nel caso di perdita
del lavoro a causa di dissesti economici delle aziende
di riferimento, “accompa-gnati” dagli ammortizzatori
sociali nella ricerca di un impiego equipollente
presso altre imprese. Era il nostro sistema “sociale”
(dai finanzieri americani definito sprez-zantemente
“socialista”) che seguiva l’individuo se non proprio
“dalla culla alla bara” – secondo l’invidiato modello
svedese – almeno dal primo giorno di lavoro al pensionamento. Sul “posto fisso” (pubblico o privato,
più o me-no ambìto, più o meno ben retribuito) si
basava la possibilità di disegnare un progetto di vita
individuale e/o familiare, programmando spese e calibrando impegni che – protraendosi nel tempo –
potevano essere assunti solamente con la sicu-rezza
economica derivante dalla certezza di introiti costanti
e regolari: dal semplice acquisto a rate di un elettrodomestico alla stipula di un mutuo ventennale o trentennale per l’acquisto di un appartamento o di una
casa al mare. Certezze per le famiglie, dunque; ma
certezze pure per le aziende, che nel tempo accumulavano un “capitale umano” ricco di capacità, di abilità e di esperienza.Tutto ciò, però – si badi bene – non
aveva riflessi soltanto sul benessere degli individui e
sulla salute delle singole imprese, ma “muoveva” una
intera economia. Sarebbe stato possibile, senza il “posto fisso”, il boom italiano degli anni ’60? La Ignis, la
Indesit avrebbero venduto milioni di frigoriferi e di
lavatrici? La Magneti Marelli avrebbe sfornato televisori a getto continuo? E la FIAT – la medesima
FIAT che oggi guida la crociata per l’abolizione dell’articolo 18 – avrebbe venduto vagonate di macchine? La stessa “Cinquecento” – concepita per chi
poteva permettersi solamente una modesta rata
mensile – sarebbe stata inventata?
E non è soltanto questo, perché lo sviluppo di un
settore fondamentale della nostra economia nazionale,
quello dell’edilizia abitativa, non ci sarebbe proprio
stato, se gli italiani non avessero potuto con-tare sul
“posto fisso” e quindi sulla possibilità di ono-rare le
rate di un mutuo bancario.
Gli stessi mutui non sarebbero stati nemme-no
erogati, se le banche (le nostre vecchie e oneste banche così diverse da certe “banche d’affari” globalizzate) non avessero avuto la certezza di incassare
le rate in scadenza; certezza – anche questa – legata al
reddito “da posto fisso” di chi il mutuo aveva contratto. E potrei continuare così all’infinito, citando i
tanti settori dell’indotto legati all’edilizia, ma anche
tutti gli altri diversi comparti dell’economia italiana –
dall’agricol-tura al turismo, dall’abbigliamento alla
editorìa e via di sèguito – che nel tempo sono stati
alimentati dal flusso costante (ancorché non gigantesco) di danaro proveniente da impiegati e salariati a
reddito fisso.
Non è dunque soltanto del “posto fisso” che i
sostenitori delle “riforme strutturali” hanno decretato
la fine; ma, insieme a questo, anche dell’intera economia italiana ed europea della nostra epoca, cioè addire
di quel modello sociale fatto di ragionevoli certezze,
di relativa tranquillità economica, di un benessere modesto ma diffuso e tale da garantire anche ai più poveri
il minimo vitale.
- 30 -
In sua vece ci viene proposto un modello americano di
Antropos in the world
società e, con esso, un modello economico “globalizzato” che genera necessariamente lavoro precario e
sempre peggio retribuito: allo scopo di produrre a
costi sempre più bassi, per poter competere con la
concorrenza planetaria di sistemi industriali che
remunerano in misura irrisoria la propria forzalavoro. In questo sistema, ovviamente, non può
esistere il “posto fisso” che ha fatto la fortuna della
nostra economia. Perché? Perché questo sistema
deve fare la fortuna dell’economia americana, non
della nostra.
È naturale, dunque, che i nostrani “piccoli
fans” di Barak Obama facciano a gara per chi è più
bravo ad affossare il concetto stesso di “posto fisso”.
Ricordo una memorabile performance televisiva di
Mario Monti: «I giovani devono abituarsi all’idea
che non avranno un posto fisso per tutta la vita. Del
resto, diciamo la verità, che monotonia un posto
fisso per tutta la vita!»
Ma il destrorso Torquemada della Bocconi rischia di
essere surclassato dal sinistro Boy-scout di Palazzo
Strozzi, che vola felice verso il traguardo dell’abolizione dell’articolo18:via libera – per legge – ai licen-
ziamenti (ai licenziamenti ingiusti, si badi bene) e
istituzionalizzazione del modello di lavoro made in
USA. Cioè addire, tre anni di lavoro quando si è
giovanissimi, poi il licenziamento e la ricerca
quotidiana dell’indispensabile per sopravvivere fino
all’età della pensione: a 65, a 67, o forse anche a 70
anni.
Intanto, a conferma che “posto fisso” ed
economia nazionale viaggiano su binari paralleli, in
questi giorni i rappresentanti dei grandi gruppi
finanziari inglesi e americani sono calati in Italia per
comprarsi a prezzi stracciati le industrie private
italiane che ancòra “tirano”. Vent’anni fa, sul
“Britannia” – lo yacht della Regina Elisabetta – si
erano messi d’accordo per papparsi la nostra
industria pubblica. Oggi si sono rivisti alla “Four
Seasons” di Milano per prendersi anche la nostra
industria privata. Per una strana coincidenza, proprio nelle stesse ore il Vispo Tereso sbaragliava i
suoi avversari interni alla Direzione nazionale del
PD ed otteneva il via libera definitivo per le sue
sospirate “riforme”.
Michele Rallo
LE API STANNO MORENDO
Senza che ce ne accorgiamo, miliardi di api stanno morendo e la nostra
catena alimentare è a rischio. Le api non si limitano a fare il il miele: sono
una forza lavoro immensa e umile, che impollina il 75% delle piante che coltiviamo. Tra pochi giorni gli USA potrebbero decidere di vietare i pesticidi
tossici che le stanno sterminando. Arrivare a quel divieto è possibile e noi
lo sappiamo bene: dopo una mega campagna Avaaz dell' anno scorso, l’ul' Unione Europea ha proibito quel gruppo di veleni che numerosi scienziati
accusano per la morte delle api. Proprio ora le società dell'industria chimica stanno facendo pressione senza tregua sulle
autorità statunitensi per impedirlo. I nostri alleati interni, però, ci fanno sapere che l'opinione pubblica potrebbe
rovesciare la situazione in favore del divieto. Facciamoci sentire, allora! Se gli USA si muovono, daranno il via ad
una reazione a catena nel resto del mondo. Non abbiamo tempo da perdere: la task force della Casa Bianca per le
api presenterà le sue proposte tra pochi giorni. Non si tratta solo di salvare le api, si tratta della nostra stessa
sopravvivenza
Le api sono cruciali per la vita sulla Terra: ogni anno impollinano piante e raccolti per un valore stimato di 40
miliardi di dollari. Se non verrà fatto nulla per salvaguardarle, molta della frutta e verdura che amiamo rischia di
scomparire e un terzo delle scorte di cibo andrà perduto. Negli ultimi anni stiamo assistendo al rapido declino nella
popolazione delle api: alcune specie si sono già estinte proprio in California -- dove si produce la maggior parte del
cibo negli USA -- ogni anno gli apicoltori perdono un terzo delle api. Gli scienziati sono alla disperata ricerca di
risposte. Mentre alcuni studi, spesso finanziati dalle industrie chimiche, affermano che la causa potrebbe essere una
combinazione di fattori, tra cui malattie, perdita dell'habitat e sostanze chimiche tossiche, altri studi, indipendenti e
autorevoli, sono giunti alla conclusione che i colpevoli siano i pesticidi neonicotinoidi.
Grazie a queste prove schiaccianti e ad una campagna super efficace di Avaaz e dei suoi partner, l'UE li ha
messi al bando. L'Agenzia statunitense per la protezione dell'ambiente (EPA) è incaricata dal Congresso di regolamentare le tossine, ma per anni ha aggirato la legge, sottostando alle pressioni dell'industria chimica. Ora, la task force
della Casa Bianca per la salute delle api potrebbe convincere l'EPA e cancellare la registrazione dei pesticidi, così non
potranno più essere venduti negli USA. Ecco la nostra opportunità! La task force pubblicherà il suo rapporto tra
pochi giorni. Non possiamo più lasciare la nostra delicata catena alimentare nelle mani delle aziende chimiche e dei
legislatori sul loro libro paga. Il bando di questi pesticidi ci avvicinerà ad un mondo più sicuro per noi e per le altre
specie che ci stanno a cuore e dalle quali dipendiamo.
- 31 -
Antropos in the world
Regimen Sanitatis Salernitanum
- Caput XXXIX
DE PYRIS
Ad potum pyro: nux est medicina veneno.
Fert pyra nastra pyrus, sine vino sunt pyra virus: si pyra sunt virus,
sit male dicta pyrus. Si coquis, antidotum pira sunt, sed cruda venenum.
Cruda gravan stomachum, relevant pyra cocta gravavatum.
Post pyra potum: post poma vade cacatum.
it.dreamstime.com
Un buon farmaco è la noce/ per il velen: la pera nuoce, / in veleno va conversa,
se non è di vino aspersa./Se velen la pera è detta,/ sia la pera maledetta.
Cruda è tal, ma quando è cotta, / ad antidoto è ridotta. il ventricolo ti
aggreva, cruda e cotta lo solleva. / Se la pera il vino anel,
tortir devi dietro la mela
L’ANGOLO DEL CUORE
LILIUM
(1)
Come si può bruciar d’amore,
quando la tristezza si scioglie
in smarrita malinconia.
Continuo ancora a vivere
sul filo dei miei sogni.
Fluttuano le ombre,
nella notte,
ed una voce, intessuta d’infinito,
frantumando angoscia,
mi sussurra pace.
E allora,
abbracciato allo stelo,
un giglio1 immane
mi trasporta in celo.
______
1) Da “IL PROFUMO D’ERMIONE” di Franco Pastore –
cod.IT/CCU/-NAP/0568683.
- 32 -
-Antropos in the world
BRONTOLO
LEVIORA
IL GIORNALE SATIRICO
DI SALERNO
Direzione e Redazione
via Margotta,18
tel. 089.797917
ISTITUTO
S.GIUSEPPE
via Ferrante, 2
P<agani (Sa)
Il BASILISCO
Periodico della
Associazione Lucana
Salerno
Presidente: Rocco Risolia
Al commissariato - Una donna telefona alla stazione di polizia e dice: - Salve, credo che ieri ab-
biate trovato il corpo di un uomo nel fiume e che non avete ancora identificato-.
- E' esatto, signora, forse potrebbe essere qualcuno che conosce?- Mio marito è scomparso ieri, dopo un litigio e da allora non l'ho più visto- , dice la signora
piangendo.
- Mi può dire qualcosa che possa aiutarci ad identificare il cadavere?" chiede il poliziotto.
-Si - risponde la donna, - è strabico ed ha un forte accento napoletano-.
Curiosità
-Sai che è stato un carabiniere a inventare il gioco del rugby?-.
- E come è successo?-.
-Durante una partita di calcio un giocatore gli ha detto: Allungami quella palla! E lui l’ha
allungata-.
In Paradiso - In Paradiso arriva un nuovo cliente che si presenta a San Pietro. Questi lo porta un
po' in giro a fargli vedere le bellezze del posto. Gli fa vedere il bar, la piscina, lo stadio e altri bei
posticini dove passare l'eternità. Poi lo porta in una stanza dove ci sono miliardi di orologi appesi
ai muri. L'ometto incuriosito gli chiede spiegazioni e San Pietro spiega che sono collegati alla vita
di ogni umano sulla terra, ognuno ha il suo tempo determinato e quando scade è l'ora di morire.
L'ometto nota che ce ne sono alcuni che periodicamente accelerano e chiede spiegazioni anche di
questo e gli viene risposto che le accelerazioni corrispondono alle bugie che uno racconta durante
la vita terrena, più bugie si dicono, prima arriva la propria ora. L'ometto ne nota uno sul soffitto
con le lancette che corrono velocissime. "Ma... e quello?". "Quello è di un politico, lo usiamo
come ventilatore".
Tra moglie e marito - Nonna e nipotina ventenne vanno dal dottore.
Il dottore chiede: "Qual e' il problema?".
E la nipotina: "Mal di gola...".
Il dottore: "Va bene, si spogli".
La nipotina: "Veramente e' mia nonna che sta male...".
E il dottore: "Capisco, signora, tiri fuori la lingua!..."
- 33 -
Antropos in the world
LETTERA AL DIRETTORE
Caro Direttore, Tre settimane fa in centinaia di
migliaia abbiamo deciso di organizzarci fuori da
Internet per combattere il cambiamento climatico.
Ora dobbiamo fare esattamente lo stesso per
fermare l’Ebola. Il virus sta andando fuori
controllo. In Africa Occidentale i casi raddoppiano ogni 2-3 settimane e secondo le ultime
stime entro gennaio potremmo arrivare a 1
milione e 400mila persone contagiate. Con
queste cifre l’emergenza potrebbe presto diventare mondiale.
L’Ebola è stato più volte circoscritto a pochi casi.
Ma le dimensioni dell’epidemia attuale hanno
mandato nel caos i fragili sistemi sanitari della
regione. In Liberia c’è meno di 1 dottore ogni
100mila abitanti. I governi stanno mandando
aiuti, quello che manca è proprio il personale
medico necessario a fermare l’epidemia.
Ed è qui che possiamo fare la differenza. 39 milioni di persone ricevono questa email. Il nostro
sondaggio di qualche mese fa mostra che il 6%, 2
milioni di noi, sono dottori o infermieri. E, di
dottori, ne basterebbero 120 per *raddoppiare* quelli oggi presenti in Sierra Leone.
Servono anche altri volontari: tecnici di laboratorio, logisti, esperti idrici e trasportatori. Partire
volontari significa molto più che dedicare il proprio tempo. Significa rischiare. L’Ebola è altamente contagioso. Sono già morti diversi professionisti sanitari per combatterlo. Ma se esiste una
comunità pronta a prendersi questo rischio per
l’intera umanità, beh, quella comunità siamo noi.
Io e altri del team di Avaaz siamo pronti a partire
insieme a voi verso il fronte della crisi.
Ascoltare il nostro istinto può portare a cose
grandiose. Se sei un professionista del settore
sanitario o hai altre capacità che possono essere utili, ti chiedo di prenderti un momento,
ascoltare quella parte di te di cui sai di poterti
fidare, e seguirla.
Candidarsi come volontaria o volontario è solo
un primo passo. Dovrai conoscere bene l'inglese o
il francese. E ti serviranno, e dovrai fornire, molte
più informazioni per capire se sei la persona giusta per una delle posizioni disponibili. Dovrai
probabilmente discuterne con la tua famiglia, e
anche più tardi potrai fare un passo indietro se lo
vorrai. Avaaz sta lavorando con Partners in Health, Save the Children e gli International Medical
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Corps, tre delle principali organizzazioni al lavoro
contro questo virus. Siamo anche in contatto con i
governi di Liberia, Sierra Leone e Guinea, e con la
Organizzazione Mondiale della Sanità.
Dallo sconforto più buio si accendono le luci più
abbaglianti: dagli abissi dell’incubo Ebola, possiamo scoprire un mondo nuovo fatto di un popolo
solo, persone unite dall’amore e dalla voglia di lottare, e di sacrificarsi, le une per le altre.
Esiste un rischio sostanziale, ma ci sono anche
metodi sicuri per ridurre questo rischio. L’Ebola è
un virus da contatto, quindi prestando estrema
attenzione al contatto fisico si può minimizzare
il contagio. Fino ad ora sono già morti 94 professionisti sanitari in Liberia ma erano quasi tutti
lavoratori locali, che purtroppo sono equipaggiati
molto peggio dei volontari internazionali. Con le
giuste cure, le possibilità di sopravvivere al virus
sono superiori al 50%
In molti, abbiamo lavori che ci portano a rischiare la vita continuamente: da chi lotta ogni giorno il
crimine organizzato, a chi si batte per i diritti degli
ultimi, o la sicurezza di noi tutti. Rischiare la vita
per gli altri è la risposta più forte che si può dare
alla domanda “per cosa vale la pena di vivere?”.
Prendersi questo rischio per affrontare l’Ebola,
significa affermare che quel qualcosa per cui vale
la pena vivere siamo tutti noi, ovunque nel mondo.
Se Ebola andrà ulteriormente fuori controllo,
presto potrebbe essere una minaccia per tutti. Il
fatto che un sistema sanitario debole in una piccola
nazione possa far crescere questo mostro fino a
farlo diventare una minaccia per il mondo intero ci
fa capire quanto siamo interconnessi. Ma questa
connessione va al di là del mero interesse. Siamo,
tutti noi, un’unica comunità di esseri umani.
Stanno cadendo tutte le bugie che ci hanno
diviso sulle nazioni, la religione, la sessualità, e
ci stiamo rendendo conto che siamo un solo
popolo, una sola tribù. Che una giovane madre e
sua figlia in Liberia temono le stesse cose, e amano
le stesse cose, di una giovane madre e sua figlia in
Brasile, o in Olanda. E da questa consapevolezza
con speranza e determinazione.
Ricken, John, Alice, Danny
con tutto il team di Avaaz
https://secure.avaaz.org/it/ebola_volunteers_thank_
you_3/?bQNYqfb&v=47392
Antropos in the world
SIMBIOSI TRA SCIENZA ED ARTE
Quanto esplicito di seguito è una semplice nota riflessiva inerente alla valenza di una forma d’arte contemplante
più linguaggi artistici. Io vedo la Poesia e la interpreto
quale linguaggio artistico multimediale (è disegno, pittura, musica, scultura, innanzitutto, poi vi è ’il verso’); una
risorsa interiore che si libera utilizzando la Parola, la quale rappresenta non l’atto terminale di un processo di creatività, ma appartenente ad una azione energetica simultanea, ovvero la conversione di più energie equilivello; secondo la mia visuale, senza il supporto ’materiale e sonoro/visivo’di altre Arti sullo stesso piano, la Poesia è un
mezzo di comunicazione un po’ ridotto.
In estrema sintesi:la romanza Nessun dorma privata del
’Vincerò’ finale, quale effetto sortirebbe? Non è una scoperta di sconcertante ampiezza il fatto che milioni di persone le quali ’incolonnano le parole’, si arroghino la presunzione di esser poeti/poetesse; oltretutto non sapendo
tenere una matita o un pennello in mano, non sapendo distinguere un DO da un RE, e non avendo la benché minima idea di una realizzazione pratica della elaborazione
scultorea; ed è naturale che occorre conoscere, amare profondamente ed essere portati per più linguaggi artistici,
qualora si intenda attuarli. La capacità autocritica, poi, riguarda la sensibilità , la cultura di chi disegna, dipinge,
compone, scolpisce, insomma di colui/colei che crea;
mentre la capacità critica ritengo consista essenzialmente
nel cogliere ’attimi di purezza’ (se esistono) in determinati messaggi artistici diversi dalla Parola. D’altronde, sin
dal I secolo a. C. il celebre architetto e scrittore romano
Vitruvio, ritenuto il maggiore teorico dell’Architettura di
tutti i tempi, nel suo trattato De Architettura auspicava
l’unire tanti cuori artistici’ in uno. In tempi assai più recenti, l’ingegnere–poeta Leonardo Sinisgalli, fondatore
nel 1953 della rivista Civiltà delle macchine, in uno dei
suoi primi articoli trattava della ’possibilità d’intersezione’ tra culture considerate antitetiche, mondi perentoriamente contrapposti: il sapere tecnico/scientifico e
quello umanistico/estetico; lo intitolò: Come può un poeta
ignorare il secondo principio della Termo-dinamica? Nel
1959 lo scrittore scienziato Snow pubblicò un saggio, Le
due culture, fonte di un acceso dibattito al quale parteciparono moltissimi letterati e scienziati. In sintesi, Snow
sosteneva che la padronanza del secondo principio della
Termodinamica era perfettamente equivalente, sul piano
culturale, alla conoscenza di un dramma Shakespeariano.
Due posizioni significative: quella del romanziere, saggista e drammaturgo Moravia, l’altra del filosofo, matematico ed epistemologo (ovvero studioso della interazione
tra i modelli scientifici ed i modelli della società umana)
Geymonat. Moravia: « Vi è una differenza capitale tra
scienza e arte, perché carattere principale della scienza è
di essere dominio della ragione, dell’arte di essere
dominio della soggettività, dell’irrazionale; dalla prima si
ricaverà una cognizione razionale, dalla seconda un’intuizione». Geymonat: <<Moravia ha sbagliato … Il problema oltre che culturale è anche esi-stenziale: si tratta di
affrontare uno dei più grandi enigmi ancora
irrisolto dello uomo del nostro tempo, diviso dall’insanabile contrasto tra un malessere di tipo esistenziale,
l’angoscia e la fiduciosa attesa che viene dal cammino
della scienza …>>. Sinisgalli ribadì il suo pensiero
”globale”, progettando una cultura avente ampiezza totale.
In definitiva, collegandoci a questo tema ed inserendolo in
un contesto poetico, alcuni quesiti per i Lettori: E’
sufficiente la sola Lirica oppure possono coabitare, in una
singola forma d’arte più mezzi espressivi, dunque senza
discriminante di una emozione (la comunicazione verbale)
rispetto ad altre? Sarebbe più ricca insieme alla eterogenea
coesistenza di sguardo ed ascolto, di impatto visivo ed
impatto sonoro, oppure cambierebbe veste la Poesia? Se
esistesse un insieme unente ’più energie in una’, quali
legami avrebbe col Verso inteso in maniera classica?
SCULTURA COMPOSTA: 1) DA UNA FORMA PARABOLICA AMB ;
2) DA UNA LASTRA TRIANGOLARE,APB, DI VETRO; 3) INFINE,
DA UNA NOTA MUSICALE,N, (UNA CROMA) CHE “OSSERVA” LA
STRUTTURA; LA FORMA PARABOLICA AMB E’ IN LEGNO, E’
DIPINTA COLOR VERDE CON VENATURE DI NERO, E SU DI ESSA
E’ APPLICATO UN RIVELATORE DI PRESENZA, IN AGGIUNTA VI
SONO SCRITTE: FORMULE MATE-MATICHE, SIMBOLI
E
GRAFICI DI FUNZIONI ((DIAGRAM-MI). INOLTRE, SU AMB, SONO
INNESTATE: 2 CASSE ACUSTICHE K e D, INSIEME AD UN
LETTORE OTTICO DI COMPACT DISK,U, CONTENENTE UN CD
CON INCISO UN BRANO INTITOLATO “E’ IL TUO SEGNO CHE
INVOCO”.
UNA NOTA MUSICALE IN LEGNO, N, ALTA 40 CENTIMETRI,
DISTANTE ALL’INCIRCA
UN METRO,“GUARDA” LA STRUTTURA. LA SCULTURA E’ INCASTRATA SU UNA BASE DI LEGNO
A PROFILO RETTANGOLARE.
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Giuffrida Farina
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