Panoramiques 56 - Film Commission Vallée d`Aoste

PANO
RAMI
QUES
Periodico semestrale – Sped. in a.p. – art. comma 20/c legge 662/96 – Filiale di Aosta – Tassa riscossa / Taxe perçue
VALLE D’AOSTA – VALLÉE D’AOSTE
CORNELIU PORUMBOIU • NADAV LAPID
A B D E R R A H M A N E S I S S A KO
BERTRAND BONELLO • OSSAMA MOHAMAD
L U C I E B O R L E T E A U
S E V E R I N F I A L A & V E R O N I C A F R A N Z
56
II SEMESTRE 2014
E ÉDITORIAL
Tra passato e futuro
Agli inizi degli anni 90, Panoramiche
/Panoramiques appariva per la prima volta in Valle d’Aosta. L’iniziativa,
sostenuta dall’Assessorato Istruzione e Cultura, aveva uno scopo ben
preciso e articolato. La rivista doveva raccogliere il materiale critico/
informativo che sarebbe servito agli
spettatori del Giro del Mondo, sezione cinematografica della Saison Culturelle, per arricchire d’interessanti
stimoli l’interpretazione dei film
presentati. Essa assicurava anche
delle importanti riflessioni sull’evoluzione del cinema, sia dal punto di
vista teorico sia attraverso l’esperienza dei festival internazionali.
La rivista conteneva dei testi scritti
da specialisti, valdostani, italiani o
europei, in italiano o francese. Essa
permetteva dunque evidenziare a livello internazionale una peculiarità
culturale della Valle d’Aosta, il suo
bilinguismo, uno dei punti cardine
del suo statuto d’autonomia. Panoramiche /Panoramiques era non solo
un mezzo per fare conoscere fuori
dai nostri confini tali aspetti della
Valle d’Aosta, ma anche un modo di
aprire al mondo l’ambiente regionale, sovente sterilmente autoreferenziale. La rivista era diffusa fra
i professionisti del settore a livello
europeo, formava i giovani alla scrittura critica, era un mezzo per essere
accreditati nei più importanti festival internazionali.
Tale iniziativa ha avviato la carriera
di molti professionisti valdostani,
incluso chi scrive, e potrebbe continuare a farlo. Tuttavia oggi, in tempo di crisi economica e finanziaria,
il rischio è che una tale piattaforma
non riscontri più lo stesso interesse
da parte degli amministratori. Forse,
per continuare ad esistere, la rivista deve trasformarsi, mantenendo
la forza del suo discorso critico, ma
evolvendo al passo dei tempi e delle
nuove tecnologie. Il cinema è ancora
là; i giovani hanno voglia di misurarsi con la scrittura; cineasti e cinefili
aspettano sempre di sentire la nostra voce.
Luciano Barisone
Presidente Film Commission
Vallée d'Aoste
Quello che vi presentiamo potrebbe
essere l’ultimo numero di questa rivista che da oltre vent’anni ha cercato
di offrire una ricognizione del cinema, allargando come in una panoramica l’orizzonte visivo dello spettatore. O forse – così speriamo – sarà il
primo di una nuova stagione.
Fedeli a una tradizione che ha fatto
di queste pagine una piattaforma di
lancio per registi poco conosciuti, abbiamo deciso di affiancare al consueto gruppo di schede dedicate ai film
presentati nella Saison Culturelle
2013/2014 e all’approfondimento
delle attività di Film Commission VdA,
una galleria di registi che con le loro
opere hanno segnato l’anno appena
concluso. Alla logica della classifica,
che in questo periodo spopola anche
presso riviste prestigiose, vorremmo sostituire quella del confronto.
Un confronto che non intende contrapporre pratiche opposte, facendo
emergere premiati e sconfitti, ma
vuole mostrare come la vitalità della
settima arte sia definita proprio dalla
sua ricchezza. Questo obiettivo è per
noi tanto più importante quanto maggiormente notiamo una contrazione
nella possibilità offerta agli spetta-
tori di accedere a film diversi. Se è
vero che il passaggio al digitale sta
determinando un aumento dei film
indipendenti distribuiti – con la nascita di nuovi e dinamici soggetti – è
d’obbligo notare come a tale situazione non abbia fatto seguito una reale
diffusione degli stessi sul territorio
italiano. Forse a causa di informazioni
mancanti o difficilmente raggiungibili, la maggior parte degli esercenti
finisce per scegliere i titoli più noti
e pubblicizzati. Da questo punto di
vista, il corpo delle schede dei film
mostrati al Giro del Mondo si offre
già come un caso felice.
Vero è che a chi frequenta il circuito festivaliero il quadro offerto
dalla distribuzione italiana risulta
ancora fortemente deficitario. Se
la palma d’oro di Cannes ha avuto una coraggiosa uscita e le oltre
cinque ore del fluviale From What
Is Before, Leopardo d’oro a Locarno,
non davano adito a molte speranze;
diverso è il discorso per l’Orso d’oro
di Berlino, l’avvincente noir cinese
Black Coal Thin Ice.
Nel periodo di vita di questa rivista,
i festival si sono affermati non solo
come luoghi di scoperta per nuovi
talenti, ma come veri e propri circuiti alternativi. Rispondendo a questa realtà e cercando di ridurre le
distanze tra i due circuiti (quello ufficiale e quello delle manifestazioni
cinematografiche), Panoramiques
ha dedicato uno spazio privilegiato
alla proposta festivaliera. La consapevolezza che i film dei giovani
registi difficilmente avrebbero raggiunto il lettore della rivista – che
nasce in una regione piccola e raccolta, ma che vuole essere aperta al
mondo – non ci ha fermato, ma ha
rappresentato uno stimolo a proseguire il cammino. Oggi, nel momento in cui le potenzialità della
distribuzione in streaming (in VOD
o grazie a piattaforme come MUBI,
Festival scope…) sono conosciute da tutti, questo compito si arricchisce di un senso supplementare.
Speriamo, quindi, che il lavoro di
apripista condotto in queste pagine
non vada perduto, ma diventi un importante accompagnamento e un impulso a una pratica della
visione più consapevole
e aperta.
Carlo Chatrian
Editorial 2
FILM COMMISSION VALLÉE D’AOSTE
Un anno di Film Commission di Alessandra Miletto
America, conversazione con Alessandro Stevanon,
a cura di Elisa Collé
L’immaginario che racconta il reale,
conversazione con Giovanni Cioni, a cura di Elisa Collé
4
8
11
FILM A proposito di Davis, di Roberto Manassero
14
American Hustle, di Leonardo Gandini
15
All Is Lost - Tutto è perduto, di Grazia Paganelli
16
Au bout du conte, par Charlotte Garson
17
Before Midnight, di Roberto Manassero
18
Bling Ring, di Roberto Manassero
19
Blue Jasmine, di Grazia Paganelli
20
Il caso Kerenes, di Roberto Manassero
21
C’era una volta un’estate, di Alexine Dayné
22
Un castello in Italia, di Daniela Persico
23
Che strano chiamarsi Federico, di Umberto Mosca
24
Come il vento, di Federico Pedroni
25
Dallas Buyers Club, di Leonardo Gandini
26
Dietro i candelabri, di Francesca Monti
27
A Lady in Paris, di Umberto Mosca
28
Foxfire, confessions d’un gang de filles, par Thierry Méranger 29
Les garçons et Guillaume, à table! par Charlotte Garson
30
Gloria, di Francesca Monti
31
Holy Motors, par Charlotte Garson
32
Ida, di Elisa Collé
33
In Another Country, di Roberto Manassero
34
L’inconnu du lac, par Charlotte Garson
35
Infanzia clandestina, di Giuseppe Gariazzo
36
L’intrepido, di Giuseppe Gariazzo
37
Giovane e bella, di Marco Gianni
38
Lunchbox, di Giuseppe Gariazzo
39
La mia classe, di Giuseppe Gariazzo
40
Miele, di Grazia Paganelli
41
Il mondo di Arthur Newman, di Alexine Dayné
42
Nebraska, di Roberto Manassero
43
Ninotchka, par Mathieu Macheret
44
No - I giorni dell’arcobaleno, di Silvia Colombo
45
Il passato, di Giuseppe Garazzo
46
Philomena, di Alexine Dayné
47
La prima neve, di Roberto Manassero
48
Questione di tempo, di Silvia Colombo
49
Sacro Gra, di Leonardo Gandini
50
panoramiques
Année XXV, n°56
Revue de cinéma
Fondateur
Luciano Barisone
Directeur
Carlo Chatrian
Rédaction
Andrea Carcavallo, Elisa Collé,
Alessandra Miletto
Salvo, di Mauro Gervasini
51
La scelta di Barbara, di Simone Emiliani
52
Stoker, di Silvia Colombo
53
Sugar Man, di Grazia Paganelli
54
Superstite, di Francesca Monti
55
Sur le chemin de l’école, par Charlotte Garson
56
Vogliamo vivere! di Leonardo Gandini57
To the wonder, di Marco Gianni
58
La variabile umana, di Lorenzo Esposito
59
La vénus à la fourrure, par Charlotte Garson
60
La vita di Adele, di Daniela Persico
61
Vijay - Il mio amico indiano, di Francesca Monti
62
The Wolf of Wall Street, di Daniele Dottorini
63
FESTIVAL
Berlinale 2014
Corneliu Porumboiu – Al doilea joc, di Lorenzo Esposito
64
Vision du Réel, Nyon 2014
Robert Greene – Actress, di Giona A. Nazzaro
65
Festival international du film, Cannes 2014
Nadav Lapid – Haganenet, par Olivier Père
Il mistero della poesia, conversazione con Nadav Lapid,
a cura di Roberto Manassero
Bertrand Bonello – Saint-Laurent, di Roberto Manassero
Ossama Mohammed – Ma’a al-Fidda, di Daniela Persico
Lisandro Alonso – Jauja, di Carlo Chatrian
Abderrahmane Sissako – Timbuktu, di Giuseppe Gariazzo
Shira Geffen – Self Made, par Fernando Ganzo
Festival del film, Locarno 2014
Lucie Borleteau – Fidelio (L’odyssée d’Alice),
par Charlotte Garson
Lucie Borleteau, entretien avec Lucie Borleteau,
par Carlo Chatrian
Matias Piñeiro – La princesa de Francia, par Emilie Bujès
66
67
71
72
73
74
75
76
77
81
Mostra internazionale d’Arte Cinematografica, Venezia 2014
Severin Fiala – Ich seh, ich seh, di Carlo Chatrian
82
Essere o apparire, conversazione con
Veronika Franz e Severin Fiala, a cura di Nora Demarchi
83
Alix Delaporte – Le dernier coup de marteau,
di Mauro Gervasini
87
Collaborateurs
Propriété
Emilie Bujès
Silvia Colombo
Alexine Dayné
Nora Demarchi
Daniele Dottorini
Leonardo Gandini
Fernando Ganzo
Giuseppe Gariazzo
Charlotte Garson
Mauro Gervasini
Marco Gianni
Simone Emiliani
Lorenzo Esposito
Mathieu Macheret
Roberto Manassero
Thierry Méranger
Francesca Monti
Umberto Mosca
Giona A. Nazzaro
Grazia Paganelli
Federico Pedroni
Olivier Père
Daniela Persico
Film Commission Vallée d'Aoste
Direction et rédaction
33, rue de Paris – 11100 Aoste – Italie
Tél. : +39 0165 26 17 90
[email protected]
Graphisme et mise en page
Pier Francesco Grizi
Charvensod (AO) – Italie
Enregistrement au tribunal d’Aoste
n°8/90
Expédition par
abonnement postal
Art. 2, alinéa 20/c de la loi n°662/96
Aoste
La version PDF de la revue est disponible
en ligne sur le site
www.filmcommission.vda.it
Impression
ITLA - Aoste
En couverture :
Verso dove,
Luca Bich (2014)
UN ANNO DI
FILM COMMISSION
A
nno di grandi eventi per la Film
Commission, il 2014. Una stagione che ha visto consolidarsi il rapporto tra la Valle d’Aosta ed il cinema
internazionale grazie alla presenza di
due tra le più importanti produzioni
hollywoodiane in uscita per il 2015,
Avengers – Age of Ultron e il remake
di Point Break. Una troupe colossale e
i supereroi più famosi al mondo per
il film della Marvel Studios diretto da
Joss Whedon che ha girato tra il Forte
di Bard, Aosta, Pont Saint Martin,
Donnas e Verrès. Sequenze spettacolari in Valgrisenche e nella zona di
Courmayeur per Point Break, tra inseguimenti sulla neve, esplosioni e un
grande numero di maestranze e servizi coinvolti, tra guide alpine, tecnici,
trasporti, strutture alberghiere.
Non solo Hollywood, ma anche
grandi produzioni nazionali: è stato
infatti chiuso a novembre l’accordo tra Film Commission VdA e Mir
Cinematografica che porterà in valle
le riprese di Bianco, il nuovo film di
Daniele Vicari interpretato da Elio
Germano e Luca Argentero ispirato
alla vicenda di Walter Bonatti e dei
suoi compagni di cordata al Pilone
Centrale del Frêney. Le riprese inizieranno a fine estate 2015.
Produzioni ad alto budget ma anche
supporto a programmi tv (il 2014
si è aperto con il grande successo di
Pericolo Verticale, factual di Sky Uno
condotto da Luca Argentero e dedicato
al Soccorso Alpino valdostano, sostenuto da Film Commission VdA), pubblicità, documentari di creazione e piccoli
film indie, come Richard the Lionheart:
Rebellion di Stefano Milla, che ha popolato i castelli valdostani di donne,
cavalieri armi e amori. Un anno che ha
visto la crescita di tanti filmmaker valdostani e rafforzarsi la collaborazione
tra questi autori e la Film Commission,
non solo in termini di sostegno economico ma anche di consulenza, supporto, iniziative condivise.
Tra i film sostenuti dal Bando Doc
Film Fund ha spiccato quest’anno
Alessandro Stevanon con il suo cortometraggio America, giunto ormai
a 70 festival e 22 riconoscimenti,
ma la vivacità del comparto locale è
testimoniata dalle molte produzioni: Verso dove, di Luca Bich e Enrico
Montrosset premiato al 62° Trento
Film Festival e al Mountain Film
Review di Ladek Zdroj; Ninì, di Gigi
Giustiniani che ha aperto la sezione Prospettive del FilmMakerFest di
Milano; Sul Filo di Joseph Péaquin
e Le montagne non finiscono là di
Arianna Colliard e Maurizio Pellegrini,
5
entrambi in programmazione nei cinema piemontesi. Molti altri sono i
film in realizzazione e in fase di post
produzione che vedranno la luce nel
2015.
Tra le attività di Film Commission
Vallée d’Aoste, prioritaria è la formazione: cinema literacy rivolta soprattutto alle scuole e formazione di giovani filmmaker e figure professionali
dell’audiovisivo. Intorno a questo
binomio si è strutturato AlpLabDoc,
laboratorio cinematografico organizzato in collaborazione con il Liceo
Classico, Artistico e Musicale di
Aosta. Sotto la guida di professionisti, i partecipanti hanno realizzato sei
Ulisse, In Purgatorio, Gli Intrepidi). Un
laboratorio dove esplorare l’idea di
confini attraverso la scrittura e realizzazione di una serie di film corti,
prove di cinema, cinema del reale o,
appunto, “cinema oltre confine”.
Per le iniziative di audience development Film Commission ha organizzato la rassegna di documentari
“PalaDoc” (in collaborazione con
Moebius Film e CSC Courmayeur) e la
rassegna di cortometraggi “A Corto di
Idee” (in collaborazione con APA Vd’A
e la Biblioteca di Saint-Christophe);
occasioni, rispettivamente, per vedere cinema che di rado riesce ad approdare nelle sale valdostane e per
e informare le imprese valdostane delle opportunità connesse alla
presenza delle produzioni cinematografiche sui territori, a novembre
Film Commission, in collaborazione
con l’Associazione dei professionisti
dell’Audiovisivo VdA e con la locale
Camera di Commercio ha organizzato il convegno “Cinema e imprese: le
opportunità del tax credit e le agevolazioni fiscali”. Alberto Tulli, per la
Direzione Generale per il Cinema del
MiBACT, Guido Cerasuolo, presidente
dell’Associazione Italiana Produttori
Esecutivi) e Paolo Tenna, amministratore delegato di Top Time, hanno illustrato gli strumenti a disposizione
cortometraggi che sono stati presentati in anteprima nell’edizione 2014
del Cervino Cine Mountain.
La chiusura di AlpLabDoc è stata l’occasione per presentare al pubblico i
lavori realizzati e per creare un momento di confronto tra i giovani filmmaker e il mondo della produzione e
dei festival in un incontro dal titolo
“Le vie del documentario sono infinite ”: Alessandro Borrelli, produttore di La Sarraz Pictures, Umberto
Migliaccio del collettivo Todomodo
e Philippe Clivaz, segretario generale
del festival Visions du Réel di Nyon
hanno discusso con i partecipanti al
corso e con i filmmaker valdostani di
percorsi produttivi e distributivi del
film documentario.
Alto profilo per il laboratorio che ha
preso il via a dicembre e si svilupperà
nel corso del 2015: “Oltreconfine”,
laboratorio di cinema del reale condotto dal regista Giovanni Cioni (Per
scoprire la produzione degli autori
locali. Tra i documentari proiettati a
Courmayeur “TIR” di Alberto Fasulo,
sostenuto da Film Commission VdA
e vincitore del Marc’Aurelio d’Oro al
Festival Internazionale del Cinema di
Roma nel 2013.
Il già citato Cervino Cinemountain
ha riservato diversi spazi alle produzioni e alle iniziative legate a Film
Commission VdA: oltre alla proiezione dei corti di ALpLabDoc, la giornata di apertura è stata dedicata alle
produzioni sostenute (America, di
Alessandro Stevanon, Pianeta Bianco
di Francesco Mattuzzi e Mezzalama
maratona di ghiaccio di Angelo Poli) e
il festival ha chiuso con la proiezione
di Verso dove, di Luca Bich ed Enrico
Montrosset.
L’audiovisivo è anche industria, con
importanti ricadute economiche sul
territorio; per consolidare la percezione di questo dato oggettivo
delle imprese per creare nuove sinergie con l’industria cinematografica:
tax credit esterno e product placement.
Anche per il 2014 la Valle d’Aosta è
stata scelta per ospitare la seconda
edizione di “The Italian Screenings
in Courmayeur”, organizzata da
Cinecittà Luce in collaborazione con
Film Commission Vallée d’Aoste. Dal
3 al 6 luglio Courmayeur ha ospitato
un centinaio tra i più importanti produttori e distributori del cinema europeo ed italiano per il più significativo
appuntamento commerciale della
stagione. Un’occasione per i professionisti del mercato del cinema di
scoprire le bellezze della nostra regione, per un’iniziativa pubblicizzata a Berlino e Cannes e che ha avuto
ampia diffusione su importanti riviste internazionali di settore tra cui
Variety USA.
Alessandra Miletto
UN ANNO DI
FILM COMMISSION
PRODUZIONI
AMERICA
Regia: Alessandro Stevanon
Produzione: Ezechiele 25:17 Film
Production
Genere: documentario
Paese: Italia
Anno: 2013
Location VdA: Aosta
Periodo riprese: gennaio 2013
Budget sul territorio: 24.000 Euro
Sostegno Film Commission VdA:
11.000 euro
Prima proiezione: gennaio 2014
BIANCO
Regia: Daniele Vicari
Interpreti: Elio Germano, Luca
Argentero
Produzione: MIR Cinematografica
Genere: drammatico
Paese: Italia
Anno: 2015
Location VdA: Courmayeur
Periodo sopralluoghi: 2014
Periodo riprese: 2015
Budget sul territorio: 425.000 Euro
Sostegno Film Commission VdA:
60.000 euro
Uscita prevista: 2016
AVANZI DI BALERA
Regia: Alessandro Stevanon
Produzione: La Fournaise
Genere: documentario
Paese: Italia
Anno: 2015
Location: Emilia Romagna, Veneto,
Friuli Venezia Giulia
Periodo riprese: 2016
Budget sul territorio: 31.000 Euro
Sostegno Film Commission VdA:
15.000 euro
Uscita prevista: 2016
GEO & GEO
Regia: Anna Bonfiglioli
Produzione: Cineteulada
Genere: trasmissione TV
Paese: Italia
Anno: 2014
Location Ozein, Cogne, Valpelline,
Ollomont
Periodo riprese: Ottobre 2014
Budget sul territorio: 1.000 Euro
Sostegno Film Commission VdA:
logistico
Uscita: marzo 2015
AVENGERS: AGE OF ULTRON
Regia: Joss Whedon
Interpreti: Samuel L. Jackson, Aaron
Johnson, Elizabeth Olsen, James
Spader, Chris Hemswoth, Chris
Evans, Mark Ruffalo, Jeremy Renner,
Scarlett Johansson, Don Cheadle,
Robert Downey Jr., Paul Bettany,
Stellan Skarsgard
Produzione: Marvel Studios
Genere: action
Paese: USA
Anno: 2015
Location VdA: Aosta, Forte di Bard,
Verres, Donnas, Pont Saint Martin
Periodo riprese: marzo 2014
Budget sul territorio:
2.417.000 Euro
Sostegno Film Commission VdA:
logistico
Uscita prevista: 22 aprile 2015
FURIA
Regia: Marcello Vai
Produzione: Moebius Films
Genere: documentario
Paese: Italia
Anno: 2014
Location: Aosta, Sarre, Chatillon
Periodo riprese: 2014
Budget sul territorio: 16.000 Euro
Sostegno Film Commission VdA:
5.000 euro
Uscita prevista: primavera/estate
2015
LE MONTAGNE NON
FINISCONO LÀ
Regia: Arianna Colliard
Produzione: VideoAstolfoSullaLuna
Genere: documentario
Paese: Italia
Anno: 2013
Location: Perù
Periodo riprese: 2013/2014
Budget sul territorio: 18.000 Euro
Sostegno Film Commission VdA:
8.000 euro
Prima proiezione: gennaio 2015
NINÌ
Regia: Gian Luigi Giustiniani
Produzione: La Fournaise
Genere: documentario
Paese: Italia
Anno: 2014
Location: Massiccio del Monte
Bianco
Periodo riprese: 2014
Budget sul territorio: 13.000 Euro
Sostegno Film Commission VdA:
6.000 euro
Prima proiezione: novembre 2014
PERICOLO VERTICALE
Regia: Simone Gandolfo
Interpreti: Luca Argentero
Produzione: Inside Productions di
Luca Argentero e Myriam Catania
Genere: serie TV / action-Reality
Paese: Italia
Anno di produzione: 2013
Location VdA: Aosta, Cervinia,
Courmayeur e in generale tutto il
territorio valdostano
Periodo riprese:
gennaio/febbraio 2013
Budget sul territorio: 247.000
Sostegno Film Commission VdA e
RAVA: 120.000 euro
Data di trasmissione della serie:
gennaio/febbraio 2014
POINT BREAK
Regia: Ericson Core
Interpreti: Luke Bracey, Edgar
Ramirez, Teresa Palmer
Produzione: Alcon Entertainment,
DMG Entertainment, Warner Bros
Genere: action
Paese: USA
Anno: 2015
Location VdA: Aiguille de la Grande
Sassière a Valgrisenche
Periodo riprese: febbraio 2014
7
Budget sul territorio: 1.800.000
Euro
Sostegno Film Commission VdA:
logistico
Uscita prevista: 25 dicembre 2015
RICHARD THE LIONHEART:
REBELLION
Regia: Stefano Milla
Interpreti: Malcolm McDowell,
Gregory Chandler, Debbie Rochon
Produzione: Claang Entertainment,
Whonderphil Productions e Doma
Entertainment
Genere: storico-epico
Paese: Italia, USA, Russia
Anno: 2014
Location VdA: Fénis, Introd
Periodo riprese: settembre/ottobre
2013, marzo 2014
Budget sul territorio: 25.000 Euro
Sostegno Film Commission VdA:
5.000 euro
Uscita prevista: 2015
SUL FILO
Regia: Joseph Péaquin
Produzione: DocFilm
Genere: documentario
Paese: Italia
Anno: 2013
Location: tutto il territorio regionale
Periodo riprese: 2013
Budget sul territorio: 53.000 Euro
Sostegno Film Commission VdA:
26.000 euro
Uscita: settembre 2014
IL TRAFORO DEL MONTE BIANCO
Regia: Riccardo Piaggio, Marco
Serrecchie, Luca Bich,
Daniele Di Gennaro
Produzione: Associazione Pourparler
Genere: documentario
Paese: Italia
Anno: 2014
Location: Courmayeur
Periodo riprese: 2013/2014
Budget sul territorio: 107.000 Euro
Sostegno Film Commission VdA:
18.000 euro
Uscita prevista: primavera 2015
VERSO DOVE
Regia: Luca Bich
Produzione: L’Eubage
Genere: documentario
Paese: Italia
Anno: 2013
Location: Sud-Tirolo, Trentino,
Salisburgo, Bologna
Periodo riprese: 2013
Budget sul territorio: 41.000 Euro
Sostegno Film Commission VdA:
20.000 euro
Prima proiezione: aprile 2014
FORMAZIONE
ALPLABDOC
Tipologia: formazione di base per
giovani aspiranti registi valdostani
Formatori: Liceo Classico, Artistico e
Musicale di Aosta
Periodo: autunno 2013/
primavera e autunno 2014
Partner: Liceo Classico, Artistico
e Musicale di Aosta, Chambre
Valdôtaine, Spazio 4K, L’Eubage,
Stefano Ceccon
OLTRECONFINE
Tipologia: formazione per
professionisti dell’audiovisivo
valdostano
Formatori: Giovanni Cioni
Periodo: inverno 2014/primavera
2015
Partner: Biblioteca Comunale
di Saint Christophe
EVENTI
A CORTO DI IDEE
Tipologia: rassegna di corti
valdostani
Periodo: dicembre 2014
Partner: Biblioteca Comunale
di Saint Christophe, APA VdA
CINEMA E IMPRESE:
LE OPPORTUNITÀ DEL
TAX CREDIT E LE
AGEVOLAZIONI FISCALI
Tipologia: incontro riservato ai
professionisti dell’audiovisivo
valdostano
Relatori: Alberto Tulli (MIBACT),
Guido Cerasuolo (pres. Ass. italiana
Produttori), Paolo Tenna
(a.d. Top Time)
Periodo: novembre 2014
Partner: Chambre Valdôtaine,
APA VdA
THE ITALIAN SCREENINGS
IN COURMAYEUR
Tipologia: incontro riservato
a produttori e distributori
internazionali
LE VIE DEL DOCUMENTARIO
SONO INFINITE
Tipologia: formazione per
professionisti dell’audiovisivo
valdostano
Formatori: Alessandro Borrelli (La
Sarraz Pictures), Umberto Migliaccio
(Collettivo Todomodo), Philippe
Clivaz (segretario generale festival
Visions du Réel di Nyon)
Periodo: Novembre 2014
Partner: L’Eubage
Periodo: luglio 2014
Partner: Cinecittà Luce
PALADOC
Tipologia: rassegna di corti italiani
Periodo: 2014
Partner: Moebius Film, CSC
Courmayeur
SEPHORA: WHERE BEAUTY BEATS
Tipologia: concorso per giovani
registi valdostani
Periodo: novembre 2014
Partner: Sephora Italia
8
V
AMERICA
Conversazione con
Alessandro Stevanon
Come sei arrivato alla decisione di
realizzare un cortometraggio su Pino
America?
Pino America è una persona che
conosco fin dalla mia infanzia. L’ho
sempre scorto nelle vie di Aosta
esibirsi in scenette eccentriche con
i suoi costumi bizzarri. Nel 2002, lo
coinvolsi come comparsa nel mio
primo film, Niet No Nein, cortometraggio sulla Seconda Guerra Mondiale. Pino interpretava il ruolo di
un soldato della campagna del Don
verso la Russia, che veniva immediatamente fucilato. Due giorni con
noi sul set sono bastati per fargli
nascere il desiderio di replicare l’esperienza, cosa di cui discutevamo
ogni volta che capitava l’occasione
di incontrarci. Dopo dieci anni, gli
ho detto: “Va bene Pino, se vogliamo
fare qualcosa insieme, raccontiamo
la tua storia”. E da lì è nato America.
Quali sono state le diverse fasi di produzione?
Tutto ciò che fa parte della voce narrante di Pino è stato registrato in
studio durante due mesi, nell’estate
2012. In queste sessioni abbiamo
raccolto circa trenta ore in cui Pino
mi raccontava di lui e della sua vita.
Da questo enorme materiale sono
partito per scrivere la sceneggiatura.
Le riprese sono durate una decina
incitore di numerosi riconoscimenti tra cui il
Premio Michelangelo Antonioni al Bif&st 2014
e il Miglior Cortometraggio al XII Ischia Film Festival, America, ultima opera del regista valdostano
Alessandro Stevanon, presenta la storia vera di Giuseppe Bertuna, meglio conosciuto come Pino America nelle vie di Aosta. Figlio di un maresciallo delle
Guardie Carcerarie, Pino si trasferisce nel capoluogo valdostano dalla Sicilia negli anni ’50, passando
la sua infanzia nelle case popolari alla periferia della città. Nel ’73 effettua un breve soggiorno negli
Stati Uniti, che gli varrà il soprannome di «America» per tutta la vita. Da più di trent’anni è “primario
del reparto eternità”, come egli stesso ama definirsi, preparando i defunti per il loro ultimo viaggio.
Nelle vie aostane, è conosciuto da tutti per i suoi costumi stravaganti e i suoi turpiloqui notturni, sfogo
sfrenato e dissoluto, ma liberatorio, per tornare ad
affrontare la morte ogni giorno. America è un cortometraggio che ha saputo, con eleganza e tecnica,
restituire lo spirito e i sogni di un personaggio eccentrico e bizzarro, rivelandone anche quelle sfumature più nascoste e introspettive, permettendo
allo spettatore di vedere oltre la maschera.
Il cortometraggio è stato prodotto dal regista Alessandro Stevanon, con la collaborazione di Nikon e
il sostegno della Film Commission Vallée d’Aoste.
di giorni. Le fasi più lunghe e impegnative sono state la preparazione
e la post-produzione, in particolare
il montaggio. Sia in fase di registrazione, che sul set, Pino è stato molto
preciso e partecipe. Si è creato con
tutta la troupe un bel rapporto.
Il sogno americano vissuto nella giovinezza, ma immediatamente perduto, fa parte della vita di Pino per
sempre.
La porzione della sua vita che Pino
trascorre in America è una parentesi brevissima. Dura soltanto tre anni,
ma è l’emblema di quello che è stato
il percorso della sua esistenza. Per
tutti il «sogno americano» è il sogno
che si ha nel cassetto e che si cerca
in tutti i modi di realizzare. Per Pino
così non è stato. Pino non è mai riuscito a realizzarsi in termini professionali, affettivi e artistici. Un po’ per
colpa sua, un po’ a causa del destino
o del periodo in cui è nato. Questa
componente americana è legata a un
senso di rimpianto, vibra in tutto ciò
che fa e condiziona in modo positivo
o negativo la sua vita ancora oggi.
Inoltre rappresenta un pesante identificativo, essendo parte integrante
del suo nome.
Pino America è una persona reale, ma
pare provenire da un altro mondo. Tu
ne fai il simbolo di una città, Aosta.
Io ho vissuto la mia infanzia e la mia
adolescenza nel centro storico di Aosta, e sin da ragazzino collegavo le
mie prime uscite serali con gli amici
alla presenza, più o meno gradita, di
Pino America. Anche le persone che
vengono da fuori o che frequentano
in modo sporadico la città, si ricordano di Pino. In questo senso, Pino
America è uno dei simboli di Aosta.
La tua regia è molto discreta, dà il
senso di irrealtà e visionarietà al film.
Quando Pino è nel centro storico e si
abbandona ai suoi sproloqui, ai suoi
deliri poetici, la regia è dinamica,
danza con lui, mentre in altri momenti appare più statica.
Questo faceva parte delle mie intenzioni, perché lui vive, secondo
me, due momenti, che ho cercato di
riportare nel film attraverso le scelte
registiche. Quando è solo, quando
cioè è sprovvisto di un «pubblico»,
è un uomo senza maschere. Questa
è l’unica occasione in cui è davvero se stesso. In questi attimi, Pino è
malinconico, riflessivo, taciturno e
rielabora tutto ciò che ha vissuto e
ciò che avrebbe voluto vivere. Mentre quando si trova a bighellonare
nelle vie di Aosta, recita i personaggi
di cui è diventato vittima. I ruoli che
impersona sono tanti e dipendono
9
anche da chi lo osserva, che può vedere in lui l’ubriacone, il matto del
villaggio, l’artista, il clown, il personaggio stravagante, il becchino…
Queste sono maschere che la gente
ha finito per affibbiargli e che lo hanno fagocitato.
Le location sono gli ambienti della
sua vita?
Sì, abbiamo girato a casa sua, nel
centro storico di Aosta e nel suo ambiente di lavoro, la camera mortuaria. Ci siamo concentrati in questi
spazi, perché Pino si muove a piedi o
in autobus e il suo raggio d’azione è
molto circoscritto. Il cimitero, in cui è
ambientata la parte finale, è uno degli elementi di fiction, poiché non fa
parte dei luoghi della vita quotidiana di Pino.
Quanta componente di fiction è presente nel corto?
Nel film ci sono situazioni in cui abbiamo ricostruito alcuni momenti
della giornata di Pino, come la scena in cui è al lavoro. È un contesto di
fiction, creato ad hoc, ma in cui Pino
riproduce le azioni che compie normalmente. Altre scene sono, invece,
di puro documentario, come le ripre-
se in notturno, in cui Pino girovaga
nelle vie di Aosta. La parte finale, in
cui il protagonista si trova nel cimitero, è completamente di finzione.
Nel film, ci sono alcuni oggetti messi
in evidenza che sembrano dei coefficienti scenici, come la valigia in cui
Pino ripone le tette finte, la corona
vichinga, il cappello da cowboy. Sembrano tanti arredi di teatro…
In maniera del tutto involontaria
Pino America si fa simbolo di quella che è la commedia dell’arte, in
particolare grazie al suo gusto del
travestimento. Pino dispone di una
collezione infinita di cappelli e altri
oggetti stravaganti. Il suo obiettivo
è colpire l’immaginazione, in parte
per esaltare il suo ego, come tutti
gli artisti, ma anche per strappare un
sorriso. Nonostante la sua presenza
a volte rozza e vulcanica, Pino ha un
rapporto privilegiato in particolare
coi bambini, con cui riesce a entrare
immediatamente in sintonia, rivelando la sua vera natura, che è quella di
un clown. Nel film, infatti, la sua voce
narrante dice “il mestiere più difficile è far ridere”, rimpiangendo di non
essere entrato a far parte del circo
quando era giovane.
Spesso Pino è ripreso incorniciato da
quadri o da finestre che incombono.
Che significato hanno?
Pino guarda la sua vita come uno
spettatore. Guarda fuori dalla finestra quando è in autobus, quando è a
piedi, quando è in casa. È un guardare
oltre. Oltre questa realtà che da una
parte non è stata generosa con lui ma
che dall’altra gli ha dato soddisfazioni
importanti come il suo lavoro. Affrontare il suo mestiere con delicatezza e
sensibilità non è facile. Sul lavoro dà
prova di un’empatia straordinaria, in
particolare con i parenti dei defunti,
che, nella maggior parte dei casi, non
conosce. Trovandosi di fronte alla
morte tutti i giorni, vivendo continuamente emozioni forti, Pino è costretto a cercare un modo per esorcizzare
la pressione, trovando una valvola di
sfogo nelle sue passeggiate notturne. In una scena che non ho inserito
nel film, Pino descrive il ciclo in cui è
bloccato e che non può più rifiutare,
fatto di sere in cui fa festa e beve, e di
mattine, in cui la malinconia e la realtà prendono il sopravvento. Questo
personaggio non è perfetto, però, sa
essere pesante, misogino e volgare,
ma nasconde un altro sé dietro la
maschera.
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La fotografia è un elemento molto
importante in America. Negli interni,
in particolare, la luce contribuisce a
donare un senso di sogno e visionarietà al film.
È mia abitudine lavorare con un
comparto tecnico di professionisti
di altissimo livello, per conferire più
forza a elementi come luce e audio.
Ogni mio film è molto studiato e
costruito, perché secondo me bisogna utilizzare il mezzo tecnico come
strumento narrativo ed emozionale,
altrimenti, la tecnica fine a se stessa
non serve a niente.
Parlando dell’audio, la voce narrante
del protagonista sembra intonare a
tratti una poesia, una cantilena, una
filastrocca, in particolare nella scena
conclusiva.
La parte finale è proprio una poesia
che Pino aveva scritto e poi gettato
via. Noi l’abbiamo recuperata basandoci sulla sua memoria. Nella sua
sfortuna, nel suo malessere, Pino
ha comunque affrontato tutta la sua
esistenza con un’enorme poesia, anche se la sua è una poesia allucinata,
sfrontata, provocatoria, ma anche
malinconica e dura.
Parlando del pubblico, che differenza
hai notato tra l’accoglienza del film
da parte degli spettatori di Aosta, che
conoscono Pino, e la ricezione degli
altri pubblici?
Gli spettatori di Aosta erano «prevenuti», pensavano inizialmente
di trovarsi di fronte al Pino che conoscono per come appare esteriormente, un personaggio scurrile,
strambo, alienato, ubriacone. Nel
film, sono invece riusciti a vedere la
parte dell’«iceberg» che sta sotto
la superficie, la più nascosta, importante e imprevedibile.
America è stato anche l’unico film
italiano selezionato nella Competizione Internazionale del 36ème Festival International du Court Métrage
di Clermont Ferrant.
America è stato l’unico cortometraggio italiano tra 7.200 opere presentate al festival, selezionato tra 500
film provenienti dall’Italia. La mia
paura era il fatto che l’interesse che
provavo per questo film potesse
essere legato esclusivamente all’affezione che io sentivo per il personaggio. Non sapevo ancora quanto
potesse essere una bella storia, indipendentemente dal mio apporto
emotivo.
Che ruolo ha per te il sostegno della
Film Commission?
Da quando è stata istituita la Film
Commission in Valle d’Aosta, ho notato un passaggio ulteriore di maturità nelle produzioni cinematografiche
locali. I produttori, i registi, gli autori
locali si sono resi conto che il prodotto che avevano in mente doveva
dare prova di una certa completezza
progettuale oltre alla sola parte creativa, per rispondere a quelle che sono
le esigenze corrette di finanziamento da parte della Film Commission.
Il progetto, cioè, doveva avere una
sostenibilità, un suo disegno solido.
Quando questo è avvenuto, la maggior parte dei progetti finanziati hanno ottenuto dei grandi riconoscimenti, cosa che nel passato non accadeva
così spesso. Oltre a un sostegno economico importantissimo per poter
portare a termine progetti altrimenti
irrealizzabili, la spinta attuata da parte della Film Commission verso una
visione più progettuale dell’opera cinematografica ha fatto sì che si pensasse molto di più sia alla storia che
al soggetto, ma soprattutto a come
distribuire il film, a considerarlo per
un pubblico altro, portando le produzioni locali a dei risultati molto positivi, a riconoscimenti nei festival, a
premi, a grandi distribuzioni. Quello
della Film Commission in Valle d’Aosta è stato un impulso, un motore, un
sostegno alla creatività nel settore
cinematografico.
All’Ischia Film Festival 2014, dove
hai vinto il premio come Miglior Cortometraggio, Pupi Avati ha detto del
tuo film: “ho visto in questo modo di
fare cinema una libertà della quale
non disponiamo più”.
Pupi Avati, intervistato dopo la proiezione del mio cortometraggio, parlando del futuro del cinema italiano,
ha preso come esempio America, sostenendo che ha visto nel mio film
ciò che la categoria dei professionisti dell’audiovisivo non può più fare,
a causa dei canoni cui è subordinata.
Ha affermato che una scena come il
finale di America non sarebbe mai
stata accettata dal cinema «commerciale», perché ha un ritmo molto dilatato. Ha sottolineato, infine,
che le produzioni indipendenti dispongono di una grande libertà stilistica, tecnica e narrativa nel creare
prodotti diversi rispetto all’omologazione del cinema inteso come industria. È stato molto emozionante
ricevere questi complimenti da un
regista del suo calibro.
Com’è stato ricevere il Premio Michelangelo Antonioni per il regista del
miglior cortometraggio al Bari Film
Festival 2014?
Il Bif&st è stato il primo festival italiano a cui ho partecipato con America e non mi aspettavo di vincere il
premio. Sono sceso all’anteprima di
Bari a spese mie pensando di rimanere un giorno solo. Quando sono
atterrato all’aeroporto di Torino intenzionato a tornare a casa, ho ricevuto la telefonata che annunciava
la mia vittoria: ho fatto dietrofront
e sono salito sul primo aereo per
la Puglia. È stata una grande emozione trovarsi nel foyer, poco prima
della premiazione, insieme a grandi
registi italiani come Castellitto, Scola, Sorrentino, Garrone, Tornatore.
La premiazione è avvenuta sul palco del Teatro Petruzzelli di fronte
a duemila persone e il premio mi è
stato consegnato da Lou Castel, che,
mentre ero sul punto di stringergli
la mano, mi ha scostato e mi ha abbracciato. È stato forse il momento
più bello che mi ha regalato America.
a cura di Elisa Collé
L’IMMAGINARIO
CHE RACCONTA IL
REALE
Conversazione
con Giovanni Cioni
G
iovanni Cioni è un regista cosmopolita, nato in Francia, cresciuto
in Belgio e trasferitosi da parecchi
anni a Barberino di Mugello, vicino
Firenze. Il suo è un cinema del reale, fatto non «sulle» persone, ma
«con» le persone. Attraverso i suoi
film, Giovanni Cioni entra in contatto
con la gente, esplora la realtà filtrandola con la lente d’ingrandimento
dell’immaginazione, guardando oltre la patina dell’attualità, cercando
nuovi significati. Il suo ultimo film,
Per Ulisse, vincitore del Festival dei
Popoli 2013, è una polifonia di voci,
un racconto universale, fatto di tante
storie, quelle dei frequentatori del
centro di socializzazione Ponterosso
di Firenze.
Come sei arrivato alla decisione di realizzare un film con le persone di Ponterosso?
Nel 2006, sono stato invitato al Ponterosso dal mio amico Stefano Serri, animatore e fondatore di questo
centro di accoglienza per ex-tossico-
dipendenti, per persone uscite dal
carcere, per senzatetto e per chi ha
percorsi psichiatrici alle spalle. Mi ha
chiamato in occasione di un festival
del disagio da lui organizzato, per cui
ho inventato dei «provini» sul tema
“Chi sta peggio di me”. Da quel momento è come se mi fossi innamorato di queste persone. Ho cominciato
a frequentare Ponterosso, che è un
centro di socializzazione diurno dove
si gioca a carte, si parla, si mangia, si
fanno attività teatrali. È soprattutto
un posto dove incontrarsi, per persone che stanno tornando alla vita.
Ho deciso di farne un film, ma non
un documentario su di loro, sulle loro
storie: non mi interessava raccontare
come erano arrivati lì, o interrogarli
sul percorso che li aveva portati in
carcere o alla tossicodipendenza. Immaginavo un film da fare insieme.
E la metafora del viaggio di Ulisse?
Ulisse è colui che è stato nel paese
dei morti; è lo sconosciuto che torna,
colui che era scomparso e di cui non
si avevano più notizie. Dicevo loro
che pensando a Ulisse avrebbero potuto anche inventare scene, situazioni. Mi sembrava che questo richiamo
a una materia immaginaria permettesse loro di raccontarsi meglio.
Ti sei ispirato anche alla struttura del
poema omerico?
Sì, ho utilizzato la struttura narrativa
dell’Odissea, nel senso che ho ripreso le sue tre parti: la prima, in cui c’è
Telemaco, il figlio, che non ha più notizie del padre scomparso, la seconda,
in cui è Ulisse a raccontarsi, raccolto
naufrago nell’isola dei Feaci, e la terza, il ritorno a Itaca. Questo schema
mi è servito come una sorta di mappa,
che mi permettesse di organizzare la
polifonia di storie che mi raccontavano. Anche se il film appare in molte
parti improvvisato, in realtà è stato
molto scritto, molto costruito, in parte insieme a loro in parte da me stesso. Per ognuno di loro era un passare
molto tempo soprattutto a parlare. E
poi molti momenti sono andati al di là
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di ciò che avevamo immaginato, perché molte situazioni programmate
servono per farne nascere altre, più
vere e più spontanee.
Ci sono delle parti esplicitamente
teatrali. Il personaggio di Silvia, per
esempio, è molto emblematico nella
sua recitazione, in particolare quando
racconta di Ulisse smarrito.
Silvia, che forse rappresenta sia la
madre sia l’amante di Ulisse, è stata
proprio l’elemento che poi ha dettato
la cifra del film. Quando io le ho parlato del tema, Silvia mi ha fatto leggere un testo che aveva scritto su Ulisse
a San Salvi, l’ex ospedale psichiatrico
di Firenze. Durante un sopralluogo,
Silvia è improvvisamente entrata in
campo, ha cominciato a raccontare
la storia che aveva immaginato e a
parlare di sé attraverso il racconto. È
stato il montaggio di questa sequenza, che ho mostrato a Silvia e agli altri
protagonisti, che ha permesso alla
mia intuizione di prendere forma e
rivelarsi, facendo capire a tutti come
sarebbe stato il resto del film.
Per quanto riguarda il tuo stile, i movimenti di macchina spesso sono guidati
dall’emozione, dalla persona che ti sta
di fronte e da quello che ti sta raccon-
tando. I primi piani sono numerosi…
Il volto è un grande e bellissimo mistero in cui si può leggere molto e in
cui si crede anche di leggere molto.
Se ci si concentra su un volto, si apre
un abisso di interpretazioni, di emozioni. Quindi, inizio spesso filmando
questa parte. Poi, mi faccio guidare da ciò che nasce in corso d’opera. Quando comincio una ripresa, è
come se mi inventassi una storia nel
suo svolgersi, la lascio aperta agli
imprevisti e mi lascio trasportare da
quello che succede. La mia inquadratura è come uno spazio mentale in
cui entro, tenendo conto anche molto del fuori campo, che è ciò che non
si vede, ma si immagina. Quello che
si può chiamare il mio «stile» nasce
anche e soprattutto dal montaggio,
attraverso cui creo «avventure mentali». Il raccordo tra elementi che
possono sembrare completamente
diversi, questo collegamento quasi
musicale del cinema, è estremamente importante per me.
In Per Ulisse, il montaggio crea infatti
la poesia, perché alterna le vite delle
persone di Ponterosso a versi omerici su fondo nero e alle immagini del
mare, formando un connubio estremamente suggestivo…
La mia intenzione era di creare una
polifonia di voci e di storie che sembrassero in realtà una sola, quella di
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Ulisse. Il montaggio mi ha permesso
di utilizzare l’immagine del mare per
esprimere questo concetto. Le onde
che s’infrangono sulla riva rappresentano ognuna un’unicità, ma in
fondo sembrano tutte la stessa onda.
Il mare è una sorta di sottofondo
permanente, anche a livello sonoro.
Volevo che si sentisse anche quando
non è presente.
Anche in altri tuoi film, utilizzi la finzione per raccontare e creare il reale:
Gli Intrepidi è ispirato alla storia del
pirata Morgan di Salgari, in Nous/Autres è presente un incipit teatrale…
Per ogni film vi è una spiegazione
differente, legata al contesto. Non si
tratta di una fuga dal reale o dell’intenzione programmata di mescolare
finzione e realtà; penso sia un dispositivo per cercare di indagare maggiormente il reale, come se questo
potesse essere ancora più «vero»
se guardato attraverso la finzione.
In Nous/Autres, il fatto che due attori raccontino in prima persona,
come se fosse una testimonianza, le
dure vicende di Helga e Yann, rappresenta la distanza che ci può essere tra la memoria del vissuto e il
presente in cui si vive, l’abisso che
intercorre tra avvenimenti passati
e le persone a cui appartengono.
Quando in seguito compaiono i veri
Helga e Yann, è come se dovessero
riprendere possesso di pezzi della
loro esistenza. Un giorno Helga mi
disse: “Io sono venuta qui in Belgio
per fuggire dalla Germania nazista,
mia sorella è stata deportata, non
ho più avuto notizie di lei. Eppure,
quando ripenso alla mia storia, è
come se non fossi io, come se fosse
un romanzo”.
Gli Intrepidi, invece, è nato da una
proposta di Giovanni Maderna
nell’ambito del Cinema Corsaro di
Venezia del settembre 2012. La mia
idea era di realizzare un film pensando ai pirati raccontati da Salgari,
il creatore di Sandokan a cui è ispirata la rassegna, insieme a ragazzi
delle scuole medie di Barberino di
Mugello con i quali avevo fatto dei
laboratori. Il tema dei
corsari è diventato in
realtà un pretesto per
realizzare un ritratto
dei giovani protagonisti del film. Un ritratto
attraverso quello che è
il loro immaginario, intrecciato con l’idea che
ho io dei pirati.
Che reazioni ti aspetti
dallo spettatore di fronte ai tuoi film?
In tutti i miei film, c’è
sempre un momento
in cui lo spettatore si sente perso,
forse troppo, e questo è sempre
difficile da valutare durante la realizzazione del film. Tuttavia, è in
questo smarrimento che lo spettatore ricostruisce le fila del racconto
e si apre all’ascolto perché non ha
più certezze, creando collegamenti
inaspettati. Il cinema deve permettere allo spettatore di scoprire una
realtà quasi come se entrasse in una
dimensione clandestina del mondo,
un mondo che crede di conoscere,
ma che non conosce affatto. In Per
Ulisse, volevo offrire allo spettatore
uno sguardo diverso sulla situazione di persone che vivono nel disagio, aprendo un’altra dimensione di
questo mondo. Per accogliere questo sguardo bisogna accettare di
uscire dagli schemi, accettare quasi
di non sapere, ed è molto difficile.
Nel cinema di finzione, lo spettatore
entra nella storia e crede alla realtà
del racconto, mentre nel cinema
documentario, paradossalmente,
bisogna lottare contro il fatto che
le persone hanno le proprie convinzioni e credono di sapere già tutto
su un determinato argomento.
Tu sei un documentarista?
Io sono un cineasta, faccio cinema
senza chiedermi a quale categoria
appartengo. I miei primi lavori sono
stati sperimentali, esploravo i linguaggi del cinema per esplorare il
mondo. Il cinema era per me una
forma di percezione e di riflessione. Quindi, poco importava che fos-
se finzione o realtà, ciò che contava
era la verità del film stesso. Mi hanno segnato molto spettacoli teatrali
come quelli di Romeo Castellucci,
in cui vi è il senso di qualcosa che
è «più vero del vero», qualcosa di
indefinibile che va al di là del razionale.
Puoi darmi qualche anticipazione
del laboratorio che svolgerai in Valle
d’Aosta insieme alla Film Commisssion VdA?
Il progetto che farò con la Film Commission sarà incentrato sul tema dei
confini. L’idea è di realizzare una
specie di sopralluogo nelle terre
«incognite», nel senso che ogni luogo, in base a come lo si osserva, può
nascondere altri significati, come le
giostre de Gli Intrepidi che rappresentano un tesoro. Oltre a Gli Intrepidi, ripenso molto anche a Temoins,
Lisbonne, aoüt 00, che ho realizzato
nel 2003, in cui sono partito dal
fatto che ero in un luogo che non
conoscevo e mi sono lasciato trasportare dalle storie che vedevo e
che immaginavo. Allo stesso modo,
quando la Film Commission mi ha
proposto di tenere un laboratorio
in Valle d’Aosta, ho cominciato a immaginare. Tra i materiali da cui trarre ispirazione, mi è venuto in mente
il racconto breve di H. G. Wells che
si intitola Il Paese dei Ciechi, ambientato in una valle. Ho pensato anche a
un progetto di film che non ho ancora
messo in atto basato sui Canti Orfici
di Dino Campana. In quest’opera, si
ritrova l’idea del confine tra quello
che si vede e quello che sta oltre il
visibile, quello che Campana definiva
“il panorama scheletrico del mondo”.
a cura di Elisa Collé
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IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
A PROPOSITO DI DAVIS
SAISON CULTURELLE
(Inside Llewyn Davis)
Regia, sceneggiatura: Joel e Ethan Coen.
Fotografia: Bruno Delbonnel. Montaggio:
Roderick Jaynes. Musica: T Bone Burnett.
Scenografia: Jess Gonchor. Costumi:
Mary Zophres. Interpreti: Oscar Isaac,
Carey Mulligan, Justin Timberlake, John
Goodman, Garrett Hedlund, F. Murray
Abraham, Ethan Phillips, Robin Bartlett,
Max Casella, Stark Sands, Jeanine
Seralles, Jerry Grayson, Adam Driver,
Alex Karpovsky. Produzione: Mike Zoss
Productions, StudioCanal. Distribuzione:
Lucky Red Distribuzione. Paese: USA.
Anno: 2013. Durata: 105 minuti.
Il mondo dei fratelli Coen è da sempre popolato da uomini senza qualità,
uomini che non ci sono, figure smarrite e inadatte alla vita. Il cantante
folk di inizio anni ’60 Llewin Davis,
personaggio liberamente ispirato al
musicista Dave Van Ronk (che realmente pubblicò un album dal titolo
Inside Dave Van Ronk), è uno di loro,
un artista come tanti nel Greenwich
Village di New York in pieno revival
folk, talentuoso, ma non abbastanza da emergere, e soprattutto così
cocciuto, orgoglioso e sfortunato da
perdere ogni occasione buona.
La circolarità e l’ironia beffarda che
da sempre imprigionano i personaggi dei Coen non danno scampo
nemmeno a Davis: egli vagabonda
di continuo per le vie di Manhattan,
senza una casa, un lavoro, un soldo,
un cappotto; viaggia per ore da New
York a Chicago per ritrovarsi con un
pugno di mosche; manca le uscite
dell’autostrada e permane immobile, stretto nelle spalle, a sopportare
la pioggia, la neve, il gelo, i piedi
fradici che non asciugano. L’altro,
l’altrove, l’obiettivo di una vita che
sfugge continuamente dalle mani,
non è come in A Serious Man una
figura inafferrabile e di spalle, intravista nel finale come sagoma ritagliata contro un tornado: questa
volta è afferrato al volo, portato in
giro, perso, ritrovato, scambiato, investito, forse ucciso, e poi ritrovato
ancora. Non è qualcosa di astratto,
ma di tangibile: è un gatto di nome
Ulisse, che il povero Llewyn incrocia di continuo sulla propria strada
e che si porta dietro, ingombrante e
pesante. Solo che Llewyn un posto
dove andare non ce l’ha, e nemmeno vi arriva, mentre Ulisse riesce
infine a trovare una casa. A Llewyn
Davis, inoltre, storpiano di continuo
il nome, lo fanno suonare e non gli
vendono i diritti, gli pubblicano un
disco e lo lasciano con uno scatolone pieno di copie invendute. Un
palco su cui suonare ce lo avrebbe,
quello del locale del Greenwich
dove si esibisce all’inizio e alla fine
del film, tuttavia, ogni volta, un individuo misterioso si presenta a malmenarlo dopo la sua esibizione. Nel
frattempo, arriva anche un ragazzino di nome Bob Dylan, che suona la
stessa «roba» folk di Llewyn, ma meglio di lui e di chiunque altro.
Tutto ciò che i Coen dicono in A proposito di Davis, lo hanno già raccontato altre volte: la parabola esistenziale
e novecentesca dell’eroe fallito, con
un personaggio ridicolo e grottesco
che potrebbe stare in un romanzo di
Saul Bellow, anche se meno ricco ma
altrettanto stupido. Llewyn è come il
Larry Gopnik di A Serious Man o l’Ed
Crane di L’uomo che non c’era, è la vittima di uno spazio e di un tempo impietosi, di una realtà che prima umilia
e poi prosegue indifferente. Solo che
questa volta i Coen sembrano più sereni e rassegnati, sanno che il tornado su cui si chiudeva A Serious Man
è passato, senza in fondo cambiare
nulla. Questa volta non ci si ammala
di tumore e non si finisce su una sedia
elettrica, ma si resta coi piedi per terra a camminare in tondo, un po’ ottusi,
forse, ma liberi e in fondo buoni.
L’elemento nuovo, allora, è una stra-
na, bellissima dolcezza di fondo,
un’aria malinconica e trasognata, un
abbandono al piacere della musica, ai
pizzichi di chitarra, ai sogni generati
da una canzone, che fanno di A proposito di Davis un film commovente
e piacevole. Non un film nostalgico
sugli anni ’60, ma un film pieno di
nostalgia su un tempo passato, con
le figure geometriche e gli elementi
concettuali tipici dei Coen (il nome di
persona nel titolo, contenitore vuoto di un’esistenza senza spessore; le
linee rette dei corridoi in cui Davis
resta imprigionato) che per una volta
non illustrano la vita come uno scontro tra razionalità e caos, ma partecipano alla scrittura gentile e pessimista di una canzone folk per un poveraccio sconfitto dalla Storia, e lasciato
sulla scena con le sue decine di copie
invendute.
Poiché intreccia gli aspetti filosofici
del cinema dei Coen con quelli più
umanisti e buffi, A proposito di Davis
è un film «derivativo» e già visto. Al
tempo stesso, però, potrebbe essere
finalmente il film della maturità dei
due registi, un’opera autunnale che
non ha la forza, o la voglia, di costruire
le impalcature perfette, lucide e
inquietanti dei film degli anni ’90, ma
si abbandona a sentimenti di compassione e intenerita derisione. Col tempo, i due fratelli sono divenuti più svagati, sperduti, e anche più distratti, ma
nel frattempo hanno anche scoperto
un paradossale affetto per i loro eroi,
uomini assenti, seri o risucchiati in
stretti corridoi, ma pur sempre uomini.
Roberto Manassero
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
AMERICAN HUSTLE
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Regia: David O. Russell. Sceneggiatura:
David O. Russell, Eric Warren Singer. Fotografia: Linus Sandgren. Montaggio: Jay
Cassidy, Crispin Struthers, Alan Baumgarten. Musica: Danny Elfman. Scenografia:
Judy Becker. Costumi: Michael Wilkinson.
Interpreti: Christian Bale, Bradley Cooper,
Amy Adams, Jennifer Lawrence, Jeremy
Renner, Robert De Niro, Michael Peña,
Jack Huston, Shea Whigham. Produzione:
Atlas Entertainment, Annapurna Pictures. Distribuzione: Eagle Pictures. Paese:
USA. Anno: 2013. Durata: 138 minuti.
I film sulla menzogna sono scatole a
doppio fondo. Poiché il cinema, almeno quello di finzione, si basa su
una bugia – corale e complessa, orchestrata e finanziata – la tematizzazione dell’argomento determina inevitabilmente un effetto speculare. Sta
poi al regista scegliere in che misura
lo spettatore debba essere cosciente
dello specchio, sino a che punto gli sia
lecito guardarlo direttamente piuttosto che coglierne la presenza attraverso immagini riflesse. American Hustle si apre proprio con uno specchio,
davanti al quale un attore – Christian
Bale – si sistema i capelli, nell’imminenza di un incontro nel quale dovrà
calarsi in un ruolo fittizio. L’effetto di
duplicazione viene dunque a essere
subito messo in evidenza: la contraffazione è il motore narrativo del film,
l’ artificio la sua architrave concettuale, la finzione il suo luogo nevralgico.
Proviamo a guardare il film senza
guardare lo specchio. American Hustle parla di un’America pacchiana e
chiassosa, sgargiante e ruffiana, che
vive di espedienti e spacconate, costantemente sopra le righe e al di là
dei propri mezzi. A mano a mano che
il racconto inanella frodi, imbrogli
e marchingegni truffaldini, diventa
chiaro che il film aspira a essere la
grande metafora di un paese nel quale l’american dream è stato corrotto
e piegato alla dinamica della ciarlataneria su grande scala. Scardinata
dalla logica del merito e dell’etica,
la ricchezza è ora a portata di mano
di bari, illusionisti e impostori. Il trasformismo, la spudoratezza e l’azzardo pagano dividendi altissimi, in una
sorta di primitivismo avanzato nel
quale a soccombere sono i più deboli
e dove la debolezza coincide con la
buona fede, la colpa con l’inclinazione a credere nel prossimo.
Alcuni critici hanno paragonato il film
di Russell a Goodfellas di Scorsese, ma
è forse più interessante e produttivo
accostarlo al suo film più recente, The
Wolf of Wall Street. Visti di seguito
– una consequenzialità legittimata
dalla progressione cronologica: American Hustle è ambientato alla fine degli anni Settanta, la storia del broker
di Wall Street ha inizio appena dieci
anni dopo – i due film tratteggiano
una sorta di unico, imponente apologo morale sulla corruzione della fiducia nell’America del tardo capitalismo.
Con un occhio alle vicende politiche e
finanziarie legate alle bolle speculative, Hollywood si interroga sui destini
di una nazione dove da tempo imperversano gli avventurieri, i professionisti della parola vuota e dell’asso nella
manica. Sotto questo punto di vista, i
protagonisti del film di Scorsese rappresentano uno stadio successivo
nell’evoluzione della specie truffaldina che vediamo all’opera in American
Hustle: i primi più organizzati e legittimati istituzionalmente, i secondi più
improvvisati e individualisti. Gli uni
e gli altri, però, esponenti della medesima tipologia umana, segnata dal
parassitismo e dalla vocazione a capitalizzare sulla disponibilità del prossimo a credere nell’american dream:
diventare ricchi, ricchissimi, in poco
tempo, praticamente subito.
Proviamo ora a guardare lo specchio,
e il film di riflesso. Posto che la storia
ruota intorno a una serie di interpretazioni, dalla cui validità ed efficacia
dipendono di fatto i destini stessi dei
personaggi, American Hustle è anche
un film sulla recitazione. Di più: è una
perfetta macchina narrativa finalizzata alla celebrazione e all’esibizione del talento dei suoi attori, che dal
canto loro non si fanno certo sfuggire
l’occasione. Sono diverse le scene che
presentano tratti di autosufficienza
tali da generare l’impressione che la
loro durata sia dipendente dalle capacità degli interpreti di improvvisare, arricchire di dettagli e sfumature
il ruolo richiesto dal copione in quel
momento. Sotto questo profilo American Hustle è un film modulare, fatto
di pezzi di bravura, di numeri di recitazione d’alta scuola, di virtuosismi
assortiti pronti per essere riversati e
apprezzati su You Tube. Perfetto per
la nostra epoca di cinema spezzettato
e frammentato, dove a contare è l’intensità del singolo momento, non la
tenuta complessiva della narrazione.
Ed è qui che – mettendo insieme i due
sguardi – il mondo del film e quello
del cinema si incontrano: entrambi
dipendono da una performance accattivante e magnetica, capace di sedurre
il pubblico in virtù della propria appariscenza. Saremo anche invasi e colonizzati dalla tecnologia, ma il centro
focale della nostra attenzione ha ancora bisogno di un vocabolario fatto
di gesti e sguardi, lacrime e grida, persino quando tutto questo ha l’inconsistenza di un’illusione o di una truffa.
Leonardo Gandini
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IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
ALL IS LOST – TUTTO È PERDUTO
SAISON CULTURELLE
(All Is Lost)
Regia: J.C Chandor. Sceneggiatura: J.C.
Chandor. Fotografia: Frank G. DeMarco,
Peter Zuccarini. Montaggio: Pete Beaudreau. Scenografia: Jess Gonchor. Musiche: Alex Ebert. Costumi: Van Broughton
Ramsey. Interpreti: Robert Redford. Produzione: Neal Dodson, Anna Gerb, Justin
Nappi, Teddy Schwarzman, per Before
the Door Pictures, Washington Square
Films, Black Bear Pictures. Distribuzione:
Universal. Paese: Usa. Anno: 2013. Durata: 100 minuti.
Un uomo solo, su una barca a vela,
da qualche parte al largo dell’Oceano indiano, scrive una lettera di scuse: “Ho provato. Credo siate d’accordo che ci ho provato. A essere
vero, a essere forte, a essere gentile,
ad amare, ad essere giusto. Ma non
lo sono stato. E so che lo sapevate. Ognuno a modo vostro. E mi dispiace. Tutto è perduto a eccezione
dell’anima e del corpo, o quel che
ne resta…”. Inizia così All Is Lost, il
secondo film da regista di C.J. Chandor (dopo Margin Call, 2011, girato
nella riserva di Rosarito, in Messico
dove James Cameron girò Titanic) e
con un unico protagonista, disperso in mare e provato dalla fatica di
resistere alla tempesta. Di lui non
sapremo nulla di più, neppure dopo
essere tornati indietro di otto giorni,
nel lungo flashback che costituisce
il nucleo centrale del film. Lo vedremo silenzioso pensare e agire senza
sosta, fino alla disperazione: lo vedremo tamponare la falla provocata
dall’urto con un container, riparare la radio danneggiata dall’acqua
di mare, cercare la rotta e andare
avanti, nonostante l’impossibilità
di trovare un approdo sicuro. A millesettecento miglia nautiche dallo
Stretto di Sumatra, come avverte
la didascalia iniziale, non c’è molto
da fare se non aspettare e lottare.
Sopravvivere senza mai fermarsi, muoversi nello stretto spazio di
una barca, identificare stratagemmi
sempre nuovi per poter bere acqua
dolce e sfidare le insidie di un mare
imprevedibile. Il «nostro uomo»
(così è identificato il personaggio
interpretato da Robert Redford nei
titoli di coda) è solo e senza parole,
ma il suo smarrimento, la sua paura, sembrano venire da più lontano,
da un’altra vita cui il nostro sguardo non sarà ammesso. E non c’è
una missione da portare a termine,
come accadeva in Gravity di Alfonso Cuarón, di cui questo film sembra
essere il virtuale controcampo e al
tempo stesso l’ideale continuazione. Dopo la deriva senza peso nello spazio, dopo i discorsi, i ricordi,
il melodramma solitario vissuto da
Sandra Bullock, dopo il suo atterraggio in mare, ecco che il nostro uomo
senza nome si abbandona al silenzio e alla più stretta essenzialità.
Non ha imprese grandiose da realizzare, né vi sono sfide o ossessioni a
tormentarlo. Solo il lavoro continuo,
per non smettere mai di vivere, nonostante non ci sia nulla e nessuno
attorno a lui.
Ci si accorge, però, che al centro di
questo racconto esemplare di sopravvivenza, ci sono un’infinità di
piccoli gesti e una molteplicità di relazioni che si instaurano con i rumori. Sono questi ultimi a tracciare la
linea limpida del racconto. Il fragore del mare, il fremere del vento, lo
sbattere delle vele, i passi, quel container pieno di scarpe che sembra
emettere lamenti. E poi la tempesta
che più volte irrompe con violenza.
Non c’è silenzio, in realtà, in questo
film senza parole, ma l’inquietudine dell’infinito spazio-temporale,
i giorni che si ripetono, l’orizzonte
ingannevole. E intanto gli spazi vitali si riducono nel passare dalla barca
al gommone. Si sottraggono i gesti.
La possibilità del fare cede di fron-
te all’attesa e al sentimento della
sconfitta. Tentenna l’uomo senza
nome ad abbandonare la sua barca:
ci ripensa, si volta più volte, torna
indietro a cercare oggetti che potrebbero essere vitali, mentre l’acqua divora tutto e oppone la forza
del suo silenzio. Chandor procede
per sottrazioni: in una forma quasi
paratattica va direttamente all’essenza di una storia che rievoca con
candore i suoi fantasmi letterari e
cinematografici (Hemingway, Melville, Zemeckis). L’uomo e il mare,
poi il nulla. Un messaggio nella bottiglia che ha il sapore della sconfitta: la resa e l’immobilità. Ma quando
il canotto prende fuoco tutto è di
nuovo messo in gioco, la prospettiva
cambia e il punto di vista si sposta in
fondo al mare: dal basso verso l’alto.
Nel lasciarsi avvolgere dall’acqua
scura, l’uomo sembra abbandonare
gli affanni, la rabbia. E allora si torna
con la memoria all’inizio, a quella
lettera. “Tutto è perduto”, però, non
sembra più riferirsi al naufragio di
un uomo nell’oceano, ma a una perdita più profonda prima di prendere
il mare. Ecco la deriva di cui il film
vuole essere il racconto. La vita senza vita, gli occhi che guardano e le
mani che lavorano, senza fretta, ma
con ritmo incessante, come se non
ci fosse un’idea di fine o di ritorno
alla normalità. Eppure tutto cambia di ancora: dalla disperazione a
una nuova ipotesi di sopravvivenza.
Fine della solitudine, del silenzio e
dei limiti dell’agire.
Grazia Paganelli
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
AU BOUT DU CONTE
17
Réalisation : Agnès Jaoui. Scénario : Agnès
Jaoui, Jean-Pierre Bacri. Image : Lubomir Bakchev. Montage : Fabrice Rouaud.
Musique : Fernando Fiszbein. Décors :
François Emmanuelli. Costumes : Nathalie Raoul. Interprétation : Agathe Bonitzer, Agnès Jaoui, Jean-Pierre Bacri, Arthur
Dupont, Benjamin Biolay, Laurent Poitrenaux, Béatrice Rosen, Dominique Valadié, Didier Sandre. Production : Les Films
A4, France 2 Cinéma, Memento Films
Production, La Cinéfacture, Hérodiade.
Distribution : Lucky Red. Pays : France.
Année : 2013. Durée : 112 minutes.
En substituant « conte » à « compte »,
le jeu de mots du titre fondé sur l’expression « au bout du compte » pointe
la tension fondatrice du dernier opus
du couple Agnès Jaoui-Jean-Pierre
Bacri : au lieu de souligner la féérie
de notre quotidien, leur plume acérée s’emploie à nous faire reprendre
nos esprits dans le domaine des sentiments, à prôner la fin d’un aveuglement qui souvent nous conduit à accepter passivement ce qui nous arrive
– et singulièrement pour les femmes,
à attendre le prince charmant. C’est
du moins ce qui ressort au premier
abord de cette réactualisation croisée de contes comme Cendrillon, Le
Petit Chaperon rouge ou La Belle au
bois dormant à travers le genre que
Jaoui et Bacri manient en maîtres : le
film choral. Ainsi jonglent-ils avec la
vie de Marianne (Jaoui), conteuse en
milieu scolaire malgré sa vocation
de comédienne, et celle de sa nièce
Laura (Agathe Bonitzer), qui rêve du
prince charmant et croise dans une
fête Sandro (Arthur Dupont), brillant
élève au Conservatoire de musique de
Paris qui doit vivre de petits boulots.
Mais les scénaristes s’amusent aussi
à partir de la « persona » cynique et
bougonne de Bacri acteur : Pierre,
athée invétéré, va se surprendre à
croire dure comme fer à la prédiction
macabre d’une voyante...
La spécialité du couple de scénaristes,
le portrait de groupe sociologisant et
acerbe entamé avec Cuisine et dépendances de Philippe Muyl (1992), fait
ici l’objet d’une jolie torsion vers la
stylisation. Les contes de fées servent
de canevas ou de sous-texte à ces
chroniques de la vie contemporaine.
L’ombre des archétypes de nos lectures d’enfance – la bonne fée, la
marâtre, la mère protectrice ou le
roi incestueux – étoffent les personnages d’une ombre portée que
l’écriture ne cesse de nuancer, voire
de déjouer. La mise au goût du jour
du monstrueux, par exemple, prend
le visage de Fanfan (Béatrice Rosen),
non pas sorcière maléfique qui se
nourrit de sang de vierges, mais
belle blonde d’aujourd’hui accro à la
chirurgie esthétique, et dont l’éclairage et un travail compliqué de maquillage font reparaître l’âge sous la
peau trop lisse.
Mais contre toute attente, cette toile
de fond archétypale met en valeur
son exact contraire : la coexistence
bon an mal an et avec les moyens du
bord de personnages qui aiment sans
demeurer totalement fidèles, qui ont
des enfants sans se définir exclusivement comme des parents, qui grandissent sans vieillir. Autant le grand
succès de Jaoui et Bacri, Le Goût des
autres (2000) tirait une grande partie
de son humour d’un certain cynisme
au détriment des personnages, autant
Au bout du conte prend le risque de
lâcher une part de la cruauté comique
qui reste leur marque de fabrique.
Jaoui et Bacri dépassent les oppositions tranchées des contes traditionnels en les passant au filtre des multiples oeuvres qui les ont médiées, de
Disney à Tarkovski, à partir d’une inspiration initiale, la comédie musicale
Into the Woods de Stephen Sondheim,
dans laquelle les personnages de
plusieurs contes se croisent dans
les bois. Autre référence, Peau d’âne
de Jacques Demy, dont le Président
Directeur Général Guillaume Casseul,
joué par Didier Sandre, rappelle le Roi
Bleu interprété par Jean Marais, et la
Marianne que joue Jaoui elle-même,
l’inoubliable Fée des Lilas incarnée
par Delphine Seyrig. De même que
dans On connaît la chanson d’Alain
Resnais, qu’ils ont écrit en 1996,
Jaoui et Bacri utilisaient le procédé
de chansons populaires préexistantes
chantées en playback par les acteurs,
ici les références au conte, distillées
dans le décor, la musique et les costumes, s’emploient à contredire le
réalisme psychologique et social. La
caméra volontiers mobile de Lubomir
Bakchev (connu pour son travail avec
Abdellatif Kechiche) participe de cet
assouplissement généralisé du trait.
Sur une prémisse démystificatrice (“
Ils vécurent heureux et eurent beaucoup d’enfants ”, et après... ? ), le film
part ainsi d’une vision désillusionnée
des rapports humains, mais il constate
la persistence indécrottable de la
croyance et la nécessité pour chacun
de vivre avec. C’est que la croyance
fonctionne à plusieurs niveaux : autant la naïveté ou le déni d’un personnage peut faire l’objet d’une caricature amusée, autant à l’échelle du
film lui-même, la croyance demeure
le socle de toute fiction. L’écriture
savoureuse des dialogues par Bacri
et le goût de la direction d’acteurs de
Jaoui s’avèrent précieux pour métamorphoser une croyance potentiellement destructrice en carburant cinématographique.
Charlotte Garson
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IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
BEFORE MIDNIGHT
SAISON CULTURELLE
Regia: Richard Linklater. Sceneggiatura: Richard Linklater, Julie Delpy, Ethan
Hawke. Fotografia: Christos Voudouris.
Montaggio: Sandra Adair. Musica: Graham
Reynolds. Scenografia: Anna Georgiadou. Costumi: Vasileia Rozana. Interpreti:
Ethan Hawke, Julie Delpy, Seamus Davey-Fitzpatrick, Jennifer Prior, Charlotte
Prior, Xenia Kalogeropoulou, Walter Lassally, Ariane Labed, Yannis Papadopoulos, Athina Rachel Tsangari. Produzione:
Venture Fort, Castle Rock Entertainment,
Detour Filmproduction, Faliro House Productions. Distribuzione: Good Films. Paese: Usa, Grecia. Anno: 2013. Durata: 108
minuti.
Prima l’alba, poi il tramonto, ora la notte. Il tempo fa il suo giro e il cerchio cinematografico di una giornata o poco
più, a partire da una mattina di estate
in Prima dell’alba ha impiegato quasi
vent’anni a unire le sue estremità, dal
primo film della trilogia di Jessy e Celine, cioè Ethan Hawke e Julie Delpy, del
1993, al secondo, Before Sunset, del
2004, e ora al terzo, Before Midnight.
Nel frattempo, Jessy e Celine sono stati
giovani viaggiatori da interrail a Vienna, adulti realizzati ma insoddisfatti a
Parigi e ora marito e moglie in vacanza
su un’isola greca, entrambi maturi e un
po’ sciupati ma ancora bellissimi, con
due gemelle bambine e un figlio adolescente che lui ha avuto in un matrimonio precedente. Come sempre, anche
questa volta (chissà se l’ultima) noi siamo lì con loro, coinvolti da una vicenda sentimentale che avremmo potuto
accantonare, ma che abbiamo invece
scelto di seguire. E se mai ce ne fosse
importato qualcosa di Jessy e Celine (o
se volete di Ethan Hawke e Julie Delpy,
ormai mimetizzati nei loro personaggi
e qui cosceneggiatori con Linklater)
siamo sollevati all’idea di sapere che
ce l’hanno fatta, che il loro legame è
durato e dura tuttora. Al terzo capitolo,
come se non ci si fosse mai lasciati, ci
ritroviamo a ricordare i trascorsi, a goderci il presente, a ipotizzare un futuro.
Perché prima di Jessy e Celine, il vero
protagonista della trilogia di Linklater
è il tempo. Il tempo come durata, come
scarto tra un prima e un dopo, come
terra piatta sopra la quale costruire,
distruggere e forse ricomporre una relazione. I dialoghi sono tutto in Before
Midnight, e dai dialoghi, a partire da
un parola, una frase, un passo falso
in quella sfida a due che è la coppia,
nascono lenti e crescono devastanti i
litigi, le discussioni, le parole di troppo che fanno dimenticare il passato e
portano a un passo dalla separazione.
Il tempo è soprattutto quello presente, dunque, e come tale si offre nella
sua piattezza, nella sua noia. Linklater
gioca sulla tenuta stilistica di uno stile
invisibile, su campi e controcampi infiniti (in macchina, a tavola, nella camera
d’albergo), su carrelli a precedere che
inquadrano Jessy e Celine o sui long
shot che osservano i loro scontri verbali. In scena non c’è l’amore, ma la durata di una relazione.
Per questo Before Midnight è tutto ciò
che una commedia non può e non dovrebbe essere: il racconto dell’orribile
verità che contraddistingue l’amore e
che giustamente Hollywood non si è mai
sognata di mettere in scena. Linklater costruisce e pesa le situazioni al millimetro,
si prende il tempo che ci vuole, e lascia
che siano i suoi attori e la macchina da
presa a decidere quando e come tagliare
o dare lo strappo che fa cambiare il passo. Il cinema c’è, ma sceglie di non staccare e di stare a guardare.
Il problema in fondo è che l’amore, la
materia narrativa per eccellenza, in realtà è troppo noioso per essere raccontato con una commedia; e a rappresentarlo così come è, spesso estenuante
e monotono, ha ben poco di cinematografico. La prospettiva dell’amore,
invece, o il desiderio dell’amore, funzionano perfettamente, sono cinema
puro.
L’amore vissuto va oltre il genere, oltre la narrazione, e appartiene piuttosto a un limbo indistinto dove il senso
di realtà influenza ogni sensazione
e dove la familiarità tra i personaggi
e lo spettatore conta più di qualsiasi
aspetto formale del cinema. E infatti
Before Midnight rinuncia a ogni tipo di
costruzione che non riguardi ciò che
succede dentro l’inquadratura e non
coinvolga i soggetti dell’amore, i corpi
e le teste parlanti dei due innamorati,
accettando un’ambientazione da ufficio turistico, una musichetta da filmino
delle vacanze e stacchi di montaggio
da sitcom.
A contare sono lo snodarsi della dolorosa banalità di ogni relazione, l’interazione naturale tra Hawke e la Delpy,
la consapevolezza di saperli fittizi e il
desiderio di averli per veri; a contare è
soprattutto la normale eccezionalità di
un’esperienza uguale a milioni di altre.
Ma non è la vita, quella sullo schermo:
è il miracolo di un amore visibile e credibile. Cosa che solo il cinema può fare,
avendo dalla sua il tempo e i corpi.
Before Midnight realizza così il sogno di
una finzione che dura il tempo di una
vita e di un cinema che può vivere oltre
se stesso, ricominciando ogni volta non
da capo, ma un poco più avanti della
volta precedente, nove anni fa con il
ritrovamento dopo l’abbandono e ora
con la normalità del quotidiano. Non
c’è bisogno di raccontare nulla, se non
la dinamica di una coppia che gestisce
la propria vita come milioni di altre e
proprio per questo, per essere credibile, non può e non deve separarsi. Altrimenti, addio alla credibilità e al sogno.
Addio, soprattutto, a quello stato di
grazia dove il desiderio incontra il senso di realtà, unendo su un solo piano il
massimo della finzione con il massimo
della banalità.
Roberto Manassero
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
BLING RING
19
(The Bling Ring)
Regia, sceneggiatura: Sofia Coppola.
Fotografia: Harris Savides, Christopher
Blauvelt. Montaggio: Sarah Flack. Musica:
Daniel Lopatin, Brian Reitzell. Scenografia: Anne Ross. Costumi: Stacey Battat. Interpreti: Emma Watson, Israel Broussard,
Katie Chang, Taissa Farmiga, Claire Julien, Leslie Mann, Gavin Rossdale, Kirsten
Dunst, Paris Hilton. Produzione: American
Zoetrope, Nala Films. Distribuzione: Lucky Red. Paese: Usa. Anno: 2013. Durata:
90 minuti.
Bling Ring è per molti versi la summa
del cinema di Sofia Coppola. La poetica iperrealistica e minimale di Lost in
translation e Somewhere, trova infatti
in questo ultimo film il proprio completamento, l’incontro cioè tra la città simbolo del vuoto d’immaginazione contemporaneo, Los Angeles, e la sua principale forma di espressione, lo showbiz
hollywoodiano, raccontato non più dal
punto di vista di chi ne fa parte e contribuisce a diffondere il morbo (come
gli attori depressi e spaesati dei due
film citati), ma attraverso lo sguardo e
il desiderio di chi, escluso, vorrebbe far
parte del grande banchetto.
Al di là dell’ispirazione da una storia
vera, Sofia Coppola ha scritto e girato il
suo film in maniera meno formalista e
cerebrale rispetto al resto della sua filmografia: proprio per questo, però, perché è piatto e senza profondità, Bling
Ring scandaglia il vuoto di rappresentazione della società dello spettacolo.
Il mondo delle star di Hollywood, l’indistinto universo di vip, star del cinema,
comparse televisive, icone del pop, che
ciascuno di noi immagina inaccessibile
e inarrivabile, nel film è in realtà alla
portata di tutti, facile da trovare e da
cliccare su Google Maps, con le porte
aperte, le chiavi sotto lo zerbino, i vetri
che mettono in vista la ricchezza, offrendola nella sua nudità a un doppio
saccheggio vero e figurato.
Bling Ring è un film sulla distanza che
separa i cittadini-spettatori dall’oggetto del loro sguardo e del loro desiderio: ma ciò che afferma è in realtà
un paradosso, perché quella stessa
distanza non esiste; così come non c’è
alcuna differenza tra il sogno e la sua
realizzazione, tra il desiderio e il possesso. Semplicemente, è il mondo dello
spettacolo a non esistere, a proiettare
ovunque la sua luce accecante che non
illumina nulla. Los Angeles, Hollywood, la metropoli del cinema, il fulcro
geografico dell’immaginazione contemporanea, la città che tutti vediamo
e che esiste principalmente per essere
guardata, in Bling Ring è filmata come
uno spazio orizzontale e abbacinante,
illuminata da una luce piatta di giorno e
da migliaia di luci la notte, un luogo che
tutti vogliono vedere, e che nessuno
vede veramente. Un po’ come il video di
sorveglianza su cui si apre il film, che da
solo dovrebbe dissuadere i protagonisti
dallo svaligiare le case dei vip, o convincere chiunque della loro colpevolezza, e invece non conta nulla, riprende il
vuoto e un gruppo di fantasmi.
La piattezza abbagliante della città,
così come la filma Sofia Coppola, con
il digitale che aumenta l’iperrealismo
della rappresentazione, rimanda alla
prosa post-modernista di molti romanzi
americani di fine Novecento, momento storico in cui l’arte contemporanea
ha accettato ed elaborato l’invasione
dell’immaginario collettivo da parte
dello show business e dei suoi prodotti
in serie. In particolare, la «visibilità invisibile» messa in scena in Bling Ring
ricorda Rumore bianco di Don De Lillo
(1985) e l’apparizione della «stalla più
fotografata d’America»: un luogo che
tutti fotografano, tutti guardano, tutti
visitano. E ovviamente nessuno vede.
Per la Coppola lo spazio metropolitano
e lo spazio americano in genere annullano il tempo e dissolvono ogni profondità. E ancora una volta, nel suo cinema
la geometria si carica di valore concettuale. La linea piatta su cui si apriva Somewhere, in Bling Ring (cioè «la cerchia
del bling», dal suono dei messaggi tele-
fonici) diventa un cerchio che si chiude
da sé: il mondo delle star e della gente
normale, separati dall’aura mediatica
di chi ce l’ha fatta e mette in mostra il
suo successo, arrivano a confluire l’uno
nell’altro, con i ladri che penetrano indisturbati in ville milionarie e la cultura
della ricchezza sfavillante che colonizza
con altrettanta facilità l’immaginario di
chiunque la guardi. La piattezza dell’immagine ha finito per condizionare la realtà fenomenica, creando una forma di
dominio culturale tanto efficace quanto
piatto e inesistente. Lo sguardo di Hollywood, secondo la Coppola, chiede sì
una distanza di sicurezza per desiderare
e sognare, ma in realtà basta saltare un
cancello per capire che il nulla è nella
vita così come sullo schermo.
E come scrive ancora De Lillo a proposito dei turisti che fotografano la celebre
fattoria: “Noi non siamo qui per cogliere un’immagine, ma per perpetuarla.
Ogni foto rinforza l’aura”. Bling Ring,
in fondo, ragiona nello stesso modo: il
moralismo con cui chiude la parabola
dei propri miseri protagonisti (il carcere per alcuni, la celebrità effimera per
altri, il tutto amplificato poi dall’articolo di Vanity Fair del 2010 The Suspects
Wore Louboutins di Nancy Jo Sales da
cui è nata l’idea del film) svela il desiderio della Coppola di dare un senso alla
sua operazione, di rinforzare l’aura di
un paesaggio umano e sociale in fondo
provvisto di anticorpi. Ed è un peccato,
perché sarebbe stato meglio lasciare
i ladri dei vip al loro delirio egotista,
offrendo lo spettacolo impudico di un
mondo che da sempre fa festa sul Titanic, incurante del naufragio senza fine
tutt’attorno.
Roberto Manassero
20
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
BLUE JASMINE
SAISON CULTURELLE
Regia e sceneggiatura: Woody Allen. Fotografia: Javier Aguirresarobe. Montaggio: Alisa Lepselter. Musica: Christopher
Lennertz. Scenografia: Santo Loquasto.
Costumi: Suzy Benzinger. Interpreti: Cate
Blanchett, Sally Hawkins, Alec Baldwin,
Bobby Cannavale, Peter Sarsgaard. Produzione: Perdido Productions. Distribuzione: Warner Bros. Paese: Usa. Anno:
2013. Durata: 98 minuti.
Immaginate tutte le donne descritte
da Woody Allen nei suoi film precedenti. Svampite, smarrite, prolisse,
intellettuali, ferite, divertenti, raffinate, crudeli… Jeanette, la protagonista
di Blue Jasmine, è tutte queste donne
contemporaneamente, ma con l’aggiunta di un lato imprevedibile, quasi
surreale, che la conduce a vivere al
di fuori di se stessa, come davanti a
uno specchio interattivo, dove poter
modificare e correggere i dettagli di
un manichino da rendere sempre più
perfetto. La vita della donna, che non
porta il suo vero nome e si fa chiamare Jasmine, è sempre stata, infatti, realizzata e appagante.
Moglie di un finanziere ricchissimo,
Jasmine è circondata solo di cose belle e preziose, indaffarata e immersa
nei rituali stabiliti. Viaggi, feste, case
lussuose, regali da capogiro: tutto è
portato alle vette estreme di una esistenza finta, esaltata e impersonale.
C’è da aspettarselo che l’identità plastificata costruita con tanta dedizione
mostri i suoi difetti nel momento in
cui il castello di carte crolla sulla sua
testa. Niente più marito, niente più
soldi e privilegi. D’un colpo precipita nella vita reale che, però, la donna
non riconosce. Si scoprirà solo alla
fine che è stata proprio lei a premere
il bottone della crisi, ma nulla potrà
più cambiare, anzi, sarà la forma stessa che si è data plasmandosi a non
consentire nessuna trasformazione.
L’amara storia di un automa, si potrebbe dire, in estrema sintesi, quella
raccontata da Woody Allen, che, forse per la prima volta, delinea i tratti
di un personaggio senza vie d’uscita.
Neppure trasferirsi da New York a San
Francisco, dai quartieri alti alla periferia povera, ha alcun effetto su di lei.
Accade, anzi, l’esatto opposto: è lei
a forzare la mano sull’ambiente e le
persone che si ritrova intorno (la sorella Ginger, il fidanzato di lei, gli amici e addirittura un diplomatico che
riesce, in parte, a sedurre). Eppure anche in questo caso tutto risulta vano.
Jasmine è per Allen una «creatura»
tragica e sola, beffata mille volte dalla vita e tradita proprio da se stessa.
Dopo aver perfezionato la creazione
del suo personaggio, tagliando ogni
legame con le proprie origini (a partire dal nome), Jasmine non riesce più
ad adattarsi al presente, alla sua sorte
avversa, e così resta legata al passato
che continua ad affiorare incontrollabile nei pensieri, nelle parole, persino nei comportamenti. Non c’è mai
«qui ed ora», perché ogni gesto è
la ripetizione di mille altri compiuti nei soli tempi e luoghi che voglia
«autorizzare». La scommessa vinta
da questo film è di aver saputo descrivere un mondo spoglio, adornato
da rapacità, inganno e autoillusione.
A Cate Blanchett, che per l’interpretazione si aggiudica l’Oscar 2014
come Miglior attrice protagonista, il
compito di rendere questo mondo
elegante, a tratti freddo, ma desiderabile e poliedrico. L’immaginario è
più forte della realtà, ci dice Allen. Per
questo non distoglie mai il suo sguardo dall’automa di una donna con gli
occhi fissi sull’ideale che vorrebbe incarnare (e che ha incarnato per anni),
facilitata dall’assenza vera di radici.
Jasmine e sua sorella ripetono spesso
di essere state adottate e lei, “dotata dei geni migliori”, ha saputo rein-
ventarsi al punto da perdere di vista
il confine tra vero e falso, scordare i
differenti piani temporali, ignorare il
concetto stesso di identità.
Tutto è confuso, ora che la scenografia è cambiata. Tutto si sovrappone
senza possibilità critica. E tutto si
ripete, in una giostra quasi grottesca. È come se nella testa di questa
donna risuonassero ininterrottamente le note di Blue Moon, la canzone
che era nell’aria quando incontrò il
marito fedifrago. L’inizio della sua
vita coincide con l’inizio della sua
lamentazione. Allen organizza con
sapiente tensione l’inganno di una
struttura narrativa ripetitiva e senza
uscita. Con raffinata leggerezza, ci
porta verso il dramma più profondo,
e lo interrompe senza esaurirlo, proprio quando la disperazione cresce e
si tinge di nero. Malinconica Jasmine,
incapace di uscire dal suo dolore, non
può far altro che riformularlo, nella
nostalgia, riproponendo il canto triste della sua vita. Come il blues, cui
sembra far riferimento il titolo, Blue
Jasmine è un gioco infinito di scatole
cinesi, che si chiude al punto di partenza. Da sola, seduta, a parlare dei
suoi ricordi, per trattenerli e, di nuovo,
non riuscire ad accettare la catastrofe
che l’ha travolta, Jasmine è pronta a
ricominciare dal principio il suo lungo
percorso, senza cambiare alcun dettaglio, inconsapevole e assente, come
un robot guasto che non ha in se stesso alcuna immagine possibile o reale.
Le basta un uditore, non importa quale, e la sua dolente ballata è pronta a
ricominciare.
Grazia Paganelli
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
IL CASO KERENES
21
Pozitia copilului
Regia: Calin Peter Netzer. Soggetto e
sceneggiatura: Razvan Radulescu, Calin
Peter Netzer. Fotografia: Andrei Butica.
Montaggio: Dana Lucretia Bunescu. Musica: Cristian Tarnovețchi Scenografia:
Malina Ionescu. Costumi: Irina Marinescu.
Interpreti: Luminita Gheorghiu, Bogdan
Dumitrache, Ilinca Goia, Natasa Raab,
Florin Zamfirescu, Vlad Ivanov, Adrian
Titieni. Produzione: Calin Peter Netzer
e Ada Solomon per Parada Film. Distribuzione: Teodora Film. Paese: Romania.
Anno: 2013. Durata: 112 minuti.
Il titolo originale del film, Pozitia copilului, in rumeno significa «la posizione del bambino», e indica almeno
due concetti: una posizione dello yoga
che imita il feto nel ventre materno e
l’immagine con cui la polizia descrive
la postura con cui viene ritrovata una
persona investita da un’auto, rannicchiata su se stessa, raggomitolata
come un bambino. Entrambi i significati hanno a che fare con ciò che
racconta Il caso Kerenes. Il film, che in
Italia presenta un titolo più piatto, ma
forse commercialmente più efficace,
racconta di una madre che accudisce
il figlio quarant’enne come fosse un
neonato, il quale al contrario desidera più di ogni altra cosa liberarsi dalla
morsa dell’affetto non richiesto, e di
un incidente stradale in cui un ragazzino rom viene travolto e ucciso da
un Suv. Alla guida dell’auto c’è il figlio
bamboccione della madre possessiva,
donna benestante e altolocata che impiegherà ogni mezzo per salvare dal
carcere l’amore della sua vita. Il film
mette in discussione lo scontro razziale e sociale tra i ricchi bianchi e i rom
poveri; l’evoluzione della classe media
rumena da borghesia affrancata dal
comunismo a oligarchia deresponsabilizzata; la coercizione di un affetto che
protegge e insieme distrugge…
C’è molta carne al fuoco, nel Caso Kerenes, forse troppa, ma l’intenzione di
Calin Peter Netzer è proprio quella di
scrivere un racconto massimalista della società rumena di oggi, tarato sulla
complessità e la stratificazione della
realtà contemporanea, con l’immagine
della «posizione del bambino» a racchiudere l’intera vicenda nel segno di
una simbologia di nascita e morte: un
feto, quello del bambino mai cresciuto
agli occhi della madre, e un cadavere,
bambino pure lui, ma per davvero e
destinato a rimanere tale nella memoria dei suoi genitori. In mezzo, lo
spettacolo ampio e ingarbugliato della
vita, che il regista rumeno prova a rappresentare muovendo la macchina da
presa con nervosismo e inquietudine,
mai frenetico eppure indomito, all’inseguimento di eventi e relazioni che
sfuggono di mano ai personaggi stessi.
Per Cornelia Kerenes, la madre incapace di accettare il distacco dal figlio, la
donna che porta il nome di una figura
storica (Cornelia, madre dei Gracchi)
simbolo di autorevolezza e potere
femminile, tutto dovrebbe rimanere come recita la canzone di Gianna
Nannini che la donna balla all’ inizio
del film: “nell’anima”, “lì per sempre”, immobile ed eterno. Ma il senso
della vita risiede nella sua continua
evoluzione, nella naturale crescita
del neonato da bambino ad adulto;
e per quanto il destino costringa una
madre a occuparsi ancora del figlio
a quarant’anni, nulla si può opporre
all’inesorabile scorrere del tempo e
all’altrettanto inevitabile declinare
degli affetti.
Non c’è colpa, in tutto questo. La responsabilità, semmai, sta nel considerare come scontato un sistema di
valori e gerarchie dove la madre svetta
sempre sul figlio (anche quando non è
richiesta), esattamente come, su piani
che Netzer vuole tenere paralleli, il ricco gestisce la tragedia del povero, ponendosi a lato della legge in virtù della
sua presunta autorevolezza.
Il dramma di Cornelia – e per estensione di una società di genitori che si è
mangiata i figli e che nella gestione del
potere si è semplicemente sostituita
alla dittatura – sta nella comprensione
della propria ininfluenza, nella consapevolezza di essere stata superata,
non solo dalla legge, ma dalle sue stesse vittime, il figlio cresciuto e traditore
e il rom straziato e orgoglioso. E se la
macchina da presa segue per l’intero
film la «madre-orca», la Cornelia benintenzionata, ma distruttrice, suona
proprio come una condanna, per lei e
per la sua classe di riferimento, la scelta del regista di tenerla fuori, immobile e distante, nel momento di massima
emozione: quello, cioè, in cui il figlio
assassino e il padre della vittima finalmente si incontrano. La madre osserva
la scena nel riflesso di uno specchietto
retrovisore, la camera si ferma su di lei
e ne coglie l’impotenza, la rassegnazione con cui accetta di mollare la presa su una trama che voleva a tutti costi
tessere in prima persona.
Per la protagonista è una chiara sconfitta; ma per Netzer, che aveva chiuso
in modo simile il precedente Medalia
de onoare (2009) – con un piano fisso
lungo e insostenibile, marchio di fabbrica del cinema rumeno almeno dai
tempi di 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni –
segna una sorta di liberazione, la possibilità di affidarsi senza affanni e rincorse al naturale scorrere del tempo,
lasciando alla realtà il compito di assestarsi su un nuovo equilibrio. Ne ha
bisogno il suo film, dopo tanti, troppi
movimenti di macchina; ne ha bisogno
il suo Paese, la Romania democratica e
borghese, bianca e rom, ricca e povera,
dopo tanti, troppi errori.
Roberto Manassero
22
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
C’ERA UNA VOLTA UN’ESTATE
SAISON CULTURELLE
(The Way, Way Back)
Regia e sceneggiatura: Nat Faxon, Jim
Rash. Fotografia: John Bailey. Montaggio:
Tatiana S. Riegel. Musica: Rob Simonsen.
Scenografia: Mark Ricker. Costumi: Ann
Roth, Michelle Matland. Interpreti: Steve Carell, Sam Rockwell, Toni Collette,
Amanda Peet, Allison Janney, Annasophia Robb, Maya Rudolph, Liam James.
Produzione: Sycamore Pictures, The
Walsh Company, OddLot Entertainment.
Distribuzione: 20th Century Fox. Paese:
Stati Uniti d’America. Anno: 2013. Durata: 103 minuti.
L’estate, come il titolo italiano lo ribadisce, è il periodo scelto dai due
esordienti registi, vincitori dell’oscar per la miglior sceneggiatura
non originale assieme ad Alexander
Payne per Paradiso Amaro. I due autori recuperano l’approccio umanista e classico già sperimentato in
quel film, per raccontarci in maniera efficace una semplice storia di
formazione, che sa restituirci quella giusta nostalgia per cui, anche se
la regia emerge poco incisiva, rimane un risultato molto interessante.
È un momento complicato quello che sta vivendo il protagonista
quattordicenne Duncan: è un adolescente taciturno e timido, la sua
famiglia si è separata da poco e
nessuno si dimostra capace di comprenderlo. Egli non sa con quale
genitore deve vivere, la madre ha
cominciato a frequentare un altro
uomo e questa è la prima vacanza
in cui è costretto a stare con i nuovi
parenti.
L’incipit del viaggio in macchina
per arrivare a Cape Cod - che rimanda anche alla scena di chiusura
del film - dove Duncan si trova rivolto verso il bagagliaio nel sedile
in fondo di una vecchia auto, ci rivela subito un patrigno prepotente
nei suoi confronti. Lo sguardo del
ragazzo, che per forza di cose si
oppone a quello degli altri, è sintomo della sua solitudine, ma anche
del suo essere molto più profondo
rispetto alla superficialità degli
altri personaggi. La domanda e la
risposta iniziale del patrigno Trent,
impersonato da un Steve Carrell
non più nella solita vis comica, ma
in una veste sgradevole, abbassano
la già fragile autostima di Duncan:
sarà questo dialogo che innescherà
l’allontanamento dell’adolescente
verso la propria strada.
I personaggi che ruotano attorno
alla casa estiva di Duncan sono tipi
ben definiti che servono a creare
quel senso di disagio che egli prova quotidianamente: il patrigno
così fedifrago e insolente con lui,
la sorellastra indifferente, egoista
e viziata, la vicina folle e ubriacona
con il figlioletto strabico e gli amici del compagno della madre che
sembrano più bambini che adulti.
Egli spera che almeno la madre lo
possa capire e aiutare a uscire da
una situazione intollerante, tuttavia la donna appare tanto insicura e
incapace a mantenere un equilibrio
stabile, da affidarsi totalmente alla
presenza del compagno e alla sua
finta durezza che lei scambia per
responsabilità di padre. Schiacciato
dal rapporto con Trent e sentendosi
«diverso» dalla cerchia familiare,
Duncan non riesce neanche a socializzare e a scambiare quattro parole
con Susanna, la bella ragazza della
porta accanto.
Vagando con la sua bicicletta senza
meta, Duncan troverà un nuovo stimolo e un confronto nel parco acquatico Water Wizz e nel suo gestore Owen, che diventerà suo amico.
Il parco, mai stato rimodernato, fa
tornare in mente le estati dell’adolescenza in località di villeggiatura
in cui il tempo sembrava scorrere
molto più lento rispetto al resto del
mondo. L’apparente aspetto bizzarro di quest’uomo, che gli chiederà
di lavorare come suo assistente,
assomiglia a quello dei precedenti
personaggi, ma sotto la sua superficiale immaturità, nasconde un animo dolce, comprensivo e sensibile
che lo fa diventare quella figura
paterna che il ragazzo non ha mai
avuto. Circondato dal funambolico
team del complesso balneare, l’adolescente incontrerà tanti coetanei con cui scherzare e divertirsi,
dimenticherà la tesa situazione
famigliare e riuscirà a trovare la fiducia in se stesso per affrontare la
vita con entusiasmo e forza.
Tra una giusta commistione di umorismo e drammaticità, tenerezza
e malinconia, questa commedia
familiare «estiva» si lascia piacevolmente scorrere nella trasformazione dall’età adolescente al
mondo dei «grandi». Un adorabile
Sam Rockwell nei panni dell’amico Owen ci regala alcuni passaggi
davvero goliardici, mentre la madre rappresentata da Toni Collette
sa mostrare le giuste sfumature
di una donna molto fragile che ha
paura di relazionarsi con gli altri.
Un film dalla freschezza e dal retrogusto amaro capace di far riflettere in maniera straordinariamente
realistica sulle incoerenze, le paure
e le incertezze di un’età delicata in
cui è difficile stare soli e riuscire ad
affermare la propria identità senza
uniformarsi alla massa.
Alexine dayné
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
UN CASTELLO IN ITALIA
23
(Un Château en Italie)
Regia: Valeria Bruni Tedeschi Sceneggiatura: Valeria Bruni Tedeschi, Noémie
Lvovsky, Agnès de Sacy. Fotografia: Jeanne Lapoirie. Montaggio: Francesca Calvelli, Laure Gardette. Musica: Emmanuel
Croset, François Waledisch. Scenografia:
Emmanuelle Duplay. Costumi: Caroline
de Vivaise. Interpreti: Valeria Bruni Tedeschi, Filippo Timi, Louis Garrel, Marisa
Borini, Xavier Beauvois, Céline Sallette,
Pippo Delbono, Silvio Orlando. Produzione: SBS Production. Distribuzione: Teodora Film. Paese: Francia, Italia. Anno: 2013.
Durata: 104 minuti.
Esperimenti di «auto-finzione».
Contro la volontà e le dichiarazioni
dell’autrice, questo termine atipico
per la storia del cinema si ripropone
più volte quando si tenta di descrivere i film di Valeria Bruni Tedeschi.
Dal suo esordio con È più facile per
un cammello... (2003), passando per
Attrici (2007), fino a questo Un castello in Italia (2013), il «fil rouge»
resta la rielaborazione delle proprie
esperienze offerte allo spettatore
nei toni della commedia, a volte romantica, altre volte farsesca, capace
di affrontare il lato tragico dell’esistenza senza mai rinunciare alla
speranza.
Proprio la morte è il movente
dell’ultimo film: non tanto la morte
corporale del padre (avvenuta anni
prima), quanto il deperimento del
patrimonio che l’uomo ha lasciato
alla propria famiglia. Affrontare il
lutto paterno, nell’ottica borghese,
implica accettare di gestirne l’eredità (il bellissimo castello di Castagneto, in Piemonte, di cui parla il titolo):
tenuto in piedi dalla madre, ora deve
essere preso in mano dai figli, l’indecisa Louise e il carismatico Ludovico,
eterni bambini nonostante l’età. Lo
spazio del lutto sono le ampie stanze
della dimora, il giardino geometrico,
l’ombra di un albero troppo alto, luoghi di gioco e di distrazione, di riposo
e d’accoglienza, che non hanno mai
ospitato un divenire, ma reiterato (o
tenuto in serbo) una presenza fanciullesca e spensierata che stride
con la realtà dei fatti. Il rifugio del
sé bambino richiede la presenza del
sé adulto (colui che prende una deci-
sione in grado di cambiare non soltanto la propria vita, ma anche quella
delle persone che ha attorno), un
colpo inaspettato che apre lo stato
di crisi descritto dal film. Uscita dal
giardino incantato, dove la protezione paterna ha reso sempre sfumato
l’incontro con il mondo, Louise è dominata dall’isteria, scelta come cifra
stilistica per una società che vive
uno shock emotivo tra vita ricordata
e vissuta, tempo soggettivo e anagrafico, bisogni autentici e imposti. Il
tutto confluisce nell’ansia per la maternità, che appare come la via più
compiuta (nella realtà dei fatti, così
come espediente di sceneggiatura, e
questo dovrebbe far pensare...) per
chiudere un cerchio.
Se raccontare la propria vita implica
un crescente controllo nei confronti
della scrittura e della messa in scena, Valeria Bruni Tedeschi ha sempre
scelto di osare, puntando su alcune
caratteristiche precise proprie del
suo nucleo familiare. Innanzitutto
una sofisticata popolarità, che a causa principalmente della sorella prima top model e poi première dame,
ha riacceso i riflettori sui Bruni Tedeschi, conosciuti per una prolifica
industria e per il repentino trasferimento dal Piemonte in Francia nei
problematici anni Settanta. La vita
della famiglia è sempre stata pubblica e proprio per questo mascherata dalla recitazione, quella offerta
ai politici locali, quella giocata con
i dipendenti, quella dolcemente imposta nell’alveo familiare (dove i figli
sono ancora figli). Una simulazione
che ha a che fare con il cinema, in-
tuizione dell’autrice che sa di potersi
affidare al proprio corpo attoriale e
a quello della madre - Marisa Borini,
che interpreta splendidamente il suo
ruolo tra battutine pungenti e sconforti combattivi - abituati a replicare
gesti e maniere, a controllare (che
non vuol dire per forza moderare)
sguardi e sentimenti. In questa simulazione della vita, grande spazio
riveste il desiderio che non sa mai
trasformarsi in azione: seguita in un
bosco, cercata fin sotto casa, presa
d’assedio e catturata in una storia
d’amore che fa il verso alla sua con
l’attore Louis Garrel, Louise si trova
imprigionata tra movimenti artefatti
(la mensa per i poveri a cui aderisce
pensando ad altro) o scomposti (la
lunga serie di gag relative ai tentativi
di diventare mamma). Il corpo della
Tedeschi sembra ribellarsi al lato fattivo dell’esistenza, in una progressiva disarticolazione che nel finale la
porta a riacquistare la propria compostezza quando sono gli altri a scegliere, lottare e correre, mentre lei
deve solo sorridere.
Un percorso compiuto come attrice
e come autrice verso i confini del
proprio io, della performatività sulla scena, cardine delle sue scelte di
regia, che offrono palchi d’esibizione
per attori sideralemente distanti. L’egocentrismo di alcuni, il narcisismo
d’altri, il solipsismo dei benvoluti,
la morte dei rari, veri rapporti. Una
società a pezzi, tenuta insieme dalla
propria storia in prima persona: un
male per alcuni, l’unico rimedio per
altri.
Daniela Persico
24
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
CHE STRANO
CHIAMARSI FEDERICO
SAISON CULTURELLE
Regia: Ettore Scola. Sceneggiatura: Ettore, Paola e Silvia Scola. Fotografia: Luciano Tovoli. Montaggio: Raimondo Crociani. Musica: Andrea Guerra. Scenografia:
Luciano Ricceri. Costumi: Massimo Cantini Parrini. Interpreti: Sergio Rubini, Vittorio Viviani, Tommaso Lazotti, Giacomo
Lazotti, Emiliano De Martino, Antonella
Attili. Produzione: Palomar. Distribuzione: BIM, Istituto Luce. Paese: Italia. Anno:
2013. Durata: 93 minuti.
“In sé «bozzettismo» non è un termine
negativo. Chi oserebbe togliere dignità
al bozzetto? Il bozzetto è il progetto di
qualcosa da sviluppare che comunque
ha già valore in sé. Se in un film vengono accennate le linee umane e psicologiche di un personaggio, sia pure per
tratti sommari, impressionistici, non
mi sembra che questa «figura» debba
essere meno valida del personaggio a
tutto tondo. I critici usano «bozzettismo» non come sinonimo di notazione, ma come sinonimo di superficialità.
Bozzettismo se ne trova anche nei Promessi sposi, se è per questo…”. In queste parole, pronunciate molti anni fa da
Ettore Scola, è possibile identificare le
vicende legate al suo ultimo film: sia le
critiche spietate degli addetti ai lavori,
che accusano il regista di aver realizzato, con poco sforzo, niente più che un
esercizietto di maniera, sia uno sguardo registico che fa di tutto per segnare
con agilità e leggerezza il tema quasi
proibitivo dell’omaggio a Fellini nei
vent’anni dalla sua morte.
Liquidato sbrigativamente dalla critica
e anche per questo completamente
ignorato dal pubblico, Che strano chiamarsi Federico rappresenta, invece, un
esperimento tanto originale quanto
interessante nel panorama del cinema
italiano più recente. Scola realizza un
film leggero e quasi «impalpabile», al
limite dell’insignificante: il modo migliore, secondo il regista, per raccontare il giovane Fellini, l’ambiente del
Marc’Aurelio, quel gusto fresco per la
satira basato sull’osservazione curiosa,
che tuttavia deve fare i conti con la diffidenza e le pronte censure degli ambienti fascisti o clericali. La Roma del
Marc’Aurelio datata 1939 e ricostrui-
ta da Scola, che la attraversò qualche
anno dopo, è descritta come una sorta
di limbo sociale e culturale dove si apprezza la battuta arguta, ma dove manca completamente qualsiasi interesse
o legame con l’attualità politica e sociale. Una sorta di estrema propaggine
di una cultura fascista in cui il disimpegno era un valore assoluto, ma anche
un’interessante palestra per imparare
a osservare i dettagli più insignificanti, legati ai costumi e alle manie delle
persone ordinarie a cui Scola riserba
un’attenzione specifica e non comune,
che consente agli artisti più visionari e
agli spettatori più sensibili di cogliere
l’essenza di un dato periodo, i valori nascosti e le abitudini che segnano
un’intera epoca.
“Nella nostra giornata, negli incontri
che facciamo, possiamo continuamente venir accusati di bozzettismo: in
autobus notiamo un certo passeggero,
per strada troviamo qualcuno di cui fissiamo nella mente i dati più evidenti
e immediati; nessuno nega che quegli
sconosciuti abbiano sentimenti, implicazioni e complicazioni personali e
profonde, ma vengono da noi notati e
fissati per l’apparenza fisica, per un gesto, un’espressione. Nei film mi piace
mettere delle «annotazioni» di questo
tipo, continuerò a farne e i critici continueranno a dire che faccio del bozzettismo”. Mai parole furono più profetiche,
ma anche portatrici di un forte livello
di coerenza che attraversa tutta l’opera
del regista campano. Un’idea di cinema
interessata più alle scie emozionali lasciate dagli eventi che non agli eventi
stessi, più orientata alla rivelazione e
all’emersione del ricordo che non alla
messa in scena dei fatti nel momento
in cui avvengono. È per tale ragione
che il film di Scola su Fellini parrebbe
far di tutto per sembrare un divertissement senza pretese, un modo per non
prendere mai troppo sul serio il peso
del passato, per sfuggire ai ricatti troppo strazianti dei ricordi e per fissare il
vissuto in qualcosa che assomiglia a un
albo a fumetti, dove la grafica del tratto
in bianco e nero rende più stilizzata la
memoria ed è per certi aspetti anche
molto impersonale.
Più che la rievocazione di un personaggio, cosa che sul piano artistico e psicologico sarebbe stata davvero ardua
nella sua notevole complessità, Che
strano chiamarsi Federico preferisce
dunque essere la rievocazione di uno
stile culturale, il prodotto bizzarro di
uno sguardo disincantato e ironico verso la realtà, unito alla straordinaria verve creativa insita in un tale approccio.
Del resto, il genio di Fellini da qualche
parte deve per forza avere la sua origine, e Scola la individua nel momento particolare in cui il maestro inizia
la sua avventura artistica e creativa,
sul finire degli anni Trenta appunto,
nell’immersione in una strana euforia
che rende folli, ma al contempo irresistibili, coloro che della realtà vedono le
cose meno visibili ma alla fine più preziose per cogliere l’essenza di un’intera epoca e della sua cultura. Tutto il
resto è venuto di conseguenza, è l’omaggio fatto da un amico a un amico,
presentato nella maniera liberatoria e
quasi irresponsabile di chi, conoscendo troppo bene le cose della propria
vita, si commuove semplicemente a
mostrarle, senza preoccuparsi più,
neppure minimamente, di spiegarle.
Umberto Mosca
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
COME IL VENTO
25
Regia: Marco Simon Puccioni. Sceneggiatura: Nicola Lusuardi, Marco Simon Puccioni, Heidrun Schleef. Fotografia: Gherardo Gossi. Montaggio: Roberto Missiroli, Catherine Maximoff. Musica: Shigeru
Umebayashi. Scenografia: Emita Frigato.
Costumi: Ginevra Polverelli. Interpreti:
Valeria Golino, Filippo Timi, Francesco
Scianna, Marcello Mazzarella, Salvio Simeoli, Chiara Caselli, Francesco Acquaroli, Vanni Bramati, Enrico Silvestrin. Produzione: Intelfilm, Amovie, Rai Cinema. Distribuzione: Ambi Pictures. Paese: Italia.
Anno: 2013. Durata: 118 minuti.
Dalla Lombardia del 1989, nei giorni
della vigilia di un lutto indelebile, alla
Sulmona del 19 aprile 2003, quando
con un colpo di pistola si compie un
destino da sempre in agguato: quattordici anni nella vita di Armida Miserere,
la prima donna in Italia a diventare direttore di carcere, a entrare dalla porta
principale in un mondo ferocemente,
esclusivamente, prepotentemente maschile, dentro e fuori dalle celle. Le scene iniziali di Come il vento, la biografia
cinematografica che Marco Simon Puccioni ha dedicato a Miserere costruendola sul corpo febbrile e la rocciosa
fragilità di Valeria Golino, uniscono
l’alfa e l’omega della storia, contrapponendo in montaggio alternato le
ultime – uniche – scene di felicità
sentimentale vissute con il compagno
Umberto Mormile, educatore carcerario ucciso misteriosamente a Milano
nel 1990, e il rabbioso risveglio di una
mattina abruzzese in cui Armida raggiunge il carcere dove ha passato gli
ultimi anni della sua vita. Nel mezzo
c’è un quotidiano di durezze e sacrifici: la direzione di carceri difficili – a
Voghera con le terroriste irriducibili,
a Pianosa tra i boss mafiosi, all’Ucciardone di Palermo rifiutato da tutti – e il
rimpianto di non avere mai cancellato
i dubbi sull’assassinio del compagno,
la cui soluzione – un omicidio di camorra per non essersi piegato ai ricatti – Armida non farà in tempo a vedere.
La prima parte del film alterna esterni
affettivi (il privato) e interni carcerari
(il pubblico) suggerendo un tono melodrammatico che fa da contrappunto
alla durezza caratteriale a cui la donna
approda negli anni successivi. Dopo la
morte di Mormile, Armida si getta nel
lavoro, indossa un’armatura – simboleggiata chiaramente dalle uniformi
che si abitua a portare – e si rinchiude,
letteralmente, nelle carceri che dirige.
Come il vento si sviluppa costruendo
una continua dicotomia tra passato e
presente, tra dentro e fuori, tra donna
e uomini, in cui si dibatte il sofferente personaggio di Armida, sempre in
lotta contro gli elementi che la circondano, con l’inseparabile sigaretta
in mano impugnata come una pistola.
Puccioni segue con partecipe affetto
il percorso impervio della sua protagonista, il suo scegliere sempre la
strada più faticosa, senza volerne fare
un monolite privo di contraddizioni.
Miserere è una donna di limpida fermezza etica che scivola in momenti di
rigidità legalitaria. Come il vento non
la giudica né la imbalsama in una raffigurazione puramente morale, ma cerca
– non sempre riuscendoci – di ricomporre le sue pulsioni in una psicologia
disomogenea perché profondamente
umana. L’interpretazione minuziosa di
Golino riesce a far dimenticare alcune
frizioni di una sceneggiatura spesso
troppo occupata a fornire un resoconto completo degli avvenimenti reali
che a costruire cinematograficamente
una storia compatta. Miserere però è
un personaggio affascinante e il film
sa coinvolgere insistendo sulla peculiarità del suo percorso emotivo. Il coraggio di questa donna ferita e inflessibile si specchia nel retrogusto amaro
di una felicità negata, ma la necessità
di definizione del racconto a volte genera risultati meccanici, appesantiti da
qualche scelta stilistica che sfiora la
retorica (l’uso enfatico del ralenti, la
bella, ma onnipresente colonna sonora melò di Shigeru Umebayashi, certe
scelte convenzionali di montaggio, la
cristologica voce off del finale). Quello
che interessa di più in Come il vento è
la capacità di descrivere l’inserimento
di una donna in un corpo sociale dominato da maschi, non avvezzi a ricevere
ordini da una bionda in mimetica. Non
è un caso che le parti più compiute e
sincere del film siano proprio quelle
all’interno della sequenza di carceri
che Armida abita come in un prison
movie rovesciato. Il racconto della direzione di Pianosa – un istituto di massima sicurezza che è un’isola nell’isola
– mette compiutamente in risalto (in
scene che brillano di una luce solare
che si distingue dai lugubri interni penitenziari di altre galere) le peculiarità
di un microcosmo concentrazionario, i
rapporti ambivalenti che si costruiscono, la pressione psicologica del vivere
in una gabbia immersa in un paradiso.
Nel descrivere – nel diventare – Miserere, Golino sottolinea con meticolosa
precisione le debolezze, le incrinature, l’ossessione rigorosa che sconfina
in menomazione relazionale. Minore
intensità e cura caratterizzano i personaggi secondari, più legnosi nella
tessitura psicologica e nei dialoghi (in
particolare il personaggio di Francesco
Scianna, a cui toccano le battute più
apertamente didascaliche). La quantità degli elementi a disposizione, frutto di minuziose indagini e ricerche,
porta Puccioni a scelte troppo inclusive: la spinta didattica a raccontare un
personaggio complesso trasforma in
alcuni momenti il film in una sovraccarica enunciazione dei fatti, ma la messa in scena vagamente convenzionale
non depotenzia il ritratto di una donna pubblica (una “femmina bestia”,
com’era stata battezzata dai detenuti
dell’Ucciardone) in eterno equilibrio
tra il dovere e il dolore.
Federico Pedroni
26
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
DALLAS BUYERS CLUB
SAISON CULTURELLE
Regia: Jean-Marc Vallée. Sceneggiatura:
Craig Borten, Melisa Wallack. Fotografia:
Yves Bélanger. Montaggio: Martin Pensa,
Jean-Marc Vallée. Musica: Danny Elfman.
Scenografia: John Paino. Costumi: Kurt &
Bart. Interpreti: Matthew McConaughey,
Jennifer Garner, Jared Leto, Steve Zahn,
Dallas Roberts, Michael O’Neill. Produzione: Voltage Pictures, Truth Entertainment. Distribuzione: Good Films. Paese: Usa. Anno: 2013. Durata: 117 minuti.
Quella dei generi è una delle lenti
d’ingrandimento più utilizzate per
analizzare il cinema hollywoodiano.
Come tutte le chiavi di lettura, il genere favorisce alcune interpretazioni a scapito di altre, tracciando un
percorso lungo il cinema americano
che trascura traiettorie importanti.
Il problema non riguarda semplicemente il privilegio accordato alla
struttura narrativa: anche rimanendo
nell’ambito dell’intreccio, è possibile
individuare costanti diverse, trasversali ai generi, riconducibili in linea di
massima a un repertorio ristretto di
motivi che ossessionano la produzione hollywoodiana (e, più in generale,
la cultura americana) da un secolo a
questa parte.
Tra queste figura il conflitto di un singolo individuo contro un’istituzione
– sociale, politica, economica – enormemente più autorevole e potente
di lui, contro la quale egli tuttavia si
batte senza paura, forte delle proprie
convinzioni. Il tema attraversa il cinema hollywoodiano come un fiume
carsico: talvolta scaturisce fuori con
grande impeto narrativo (il cinema
di Capra negli anni trenta, per esempio), in altri periodi invece corre sotterraneo, quasi invisibile. Allo stesso
modo, può innervare di sé la commedia o il dramma, a seconda che il
conflitto premi il coraggio del personaggio nel gettarsi nella mischia o lo
punisca per il suo tentativo di volare
sul nido del cuculo.
Dallas Buyers Club appartiene a
questa tradizione, ne costituisce un
esempio nobile e convincente. Il
protagonista si batte contro un apparato medico–farmaceutico che al
contempo lo osteggia, lo sovrasta
e lo limita, ma che – qui sta il bello
della faccenda – non lo scoraggia. Ed
è proprio questa persistenza, questa ostinazione scolpita nella pietra
delle proprie convinzioni, a dare al
personaggio e al film tratti di americanità e classicità, a dispetto del
fatto che il cineasta sia canadese e lo
stile – frammentato, graffiato da un
montaggio inquieto – proprio della
nostra epoca. Il paradigma narrativo
della contrapposizione fra individuo
e istituzioni manifesta qui tutta la
sua elasticità. Può aprirsi a declinazioni di estrema attualità e contemporaneità nei temi, nella caratterizzazione dei personaggi e nell’organizzazione della messa in scena.
Una volta scandito sul presente, non
perde nulla della propria efficacia. Al
contrario, ne guadagna in credibilità.
Mi sembra esemplare, al riguardo, la
caratterizzazione del protagonista,
dal quale sono scivolati via i tratti di
idealismo e nobiltà d’animo che lo
caratterizzavano in epoca classica. Il
personaggio di Ron Woodroof ci appare sin dal principio come un uomo
tutt’altro che gradevole, rozzo nelle
maniere e negli atteggiamenti, la cui
scarsa inclinazione per la solidarietà
culmina in forme di esplicita omofobia. Come già l’eroina di un film che
ha più di un tratto in comune con
questo, Erin Brokovich, la battaglia
di Woodroof inoltre non nasce da
convinzioni ideologiche, ma da un
partito preso che viene determinato da circostanze personali. A essere
celebrata nel film è dunque la forza
dell’individualismo americano, la
sua ostinazione nel perseguire una
battaglia dove la posta in palio è la
libertà del singolo di battere strade
inconsuete, equipaggiato solo della
forza delle proprie convinzioni. Figure come Erin Brokovich e Ron Woodroof diventano alfieri di una causa
nobile quasi per caso, loro malgrado,
in ragione dell’avversione di un sistema di potere convinto di poterle
neutralizzare e ridurre al silenzio.
Inoltre su questo sfondo – a evidenziare ulteriormente la flessibilità del
paradigma – si muove la malattia,
sotto forma di conto alla rovescia
verso la morte. C’è dunque un’altra battaglia che Woodroof deve
condurre, e questa volta è di quelle
perdute in partenza, poiché nulla
può fermare la degenerazione del
suo corpo. Sotto questo profilo film
e protagonista hanno un respiro
tragico, nella storia soffia un vento
di ineluttabilità, rafforzata peraltro
dall’ambientazione d’epoca. La lotta
contro l’istituzione si tramuta allora
in una lotta contro il destino, lo scenario politico si fa metafisico, il rodeo diventa la splendida metafora di
una vita alla quale puoi aggrapparti
solo per un po’, perché prima o poi
ti disarciona. La dimensione esistenziale e quella sociale confluiscono
in un personaggio antico e moderno
al tempo stesso, capace di incarnare
la ribellione dell’uomo a eventi più
grandi di lui, improcrastinabili come
la morte e inossidabili come il ministero della sanità. Senza arretrare
di un passo, buttando il cuore oltre
l’ostacolo. Cadere, sì, visto che non
se ne può fare a meno: ma farlo con
dignità.
Leonardo Gandini
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
DIETRO I CANDELABRI
27
(Behind the Candelabra)
Regia: Steven Soderbergh. Sceneggiatura: Richard LaGravenese. Fotografia: Peter Andrews. Montaggio: Mary Ann Bernard. Musica: Marvin Hamlisch. Scenografia: Patrick M. Sullivan Jr. Costumi: Ellen
Mirojnick. Interpreti: Matt Damon, Michael Douglas, Rob Lowe, Dan Aykroyd, Debbie Reynolds, Scott Bakula, Boyd Holbrook. Produzione: HBO Films. Distribuzione:
01 Distribution. Paese: USA. Anno: 2013.
Durata: 118 minuti.
Si dice che il pianista di origini italopolacche Liberace fosse, tra gli anni
Cinquanta e Settanta, il musicista più
pagato al mondo. La chiave del suo
successo era racchiusa nella capacità
di rendere popolare un prodotto culturale «alto» come la musica classica,
e nella facilità con cui riusciva a interagire con il pubblico attraverso battute, scenografie strabilianti e costumi
barocchi. Pur giocando sull’ambiguità
sessuale del proprio look, Liberace
entrò prepotentemente nell’immaginario americano come oggetto del
desiderio femminile, favorito dalla
televisione che per un certo periodo
divenne il suo palcoscenico privilegiato insieme a quelli di Las Vegas. Fu
anche artefice di una vera e propria rivoluzione linguistica del medium, «inventando» lo sguardo in camera, fonte
assoluta di seduzione per il pubblico
del piccolo schermo.
Soderbergh prende le mosse dalla visione priva di ingenuità di Liberace,
qui interpretato da Michael Douglas,
per restituire la dinamica che scaturisce dall’incontro mediato tra il divo modello da imitare e al tempo stesso
ideale irraggiungibile, per dirla con Edgar Morin - e lo spettatore. Il dispositivo messo in atto è sottile e ingegnoso:
la storia d’amore tra Liberace e il giovanissimo Scott Thorson (Matt Damon)
non è che una copertura per esplorare
l’ingresso di un fan nel mondo fantasmatico della star, una soglia misteriosa che fino a poco prima apparteneva
soltanto al suo desiderio. In Thorson,
che rimprovera a Liberace il fatto di
destinare il suo sguardo anche ad altri
uomini, ritroviamo così la frustrazione
dello spettatore di fronte all’infranger-
si dell’illusione di un rapporto privilegiato con il divo della cultura di massa.
E nel piccolo schermo che rimanda le
immagini degli show del musicista,
contemplato dai due amanti distesi
sul divano, possiamo leggere la fantasia di Thorson di possedere l’icona di
Liberace in tutte le sue dimensioni, da
quella domestica a quella televisiva.
Lo specchio, vera e propria figura dominante in tutto il film, porta al parossismo il desiderio di compenetrazione
del fan con l’icona, e realizza il sogno
di potersi rimirare insieme, in un’unica immagine compiuta. Ma Soderbergh sviluppa tale dinamica anche in
senso contrario, con un cambio di registro che, prima di toccare il tragico,
sfiora l’irreale fantascientifico (benché i fatti siano realmente accaduti):
Liberace vuole che Scott abbia il suo
stesso volto, e per questo gli impone
alcune operazioni di chirurgia plastica,
eseguite da un vampiresco Rob Lowe.
Come a rivelare una reciprocità del desiderio e una volontà della star di farsi
immortale attraverso la riproducibilità
della sua effigie e della sua fisionomia.
Ma anche, forse, l’origine di quella malattia contemporanea che trova nella
tecnologia digitale lo strumento per
rimodellare corpi e identità.
Steven Soderbergh ha annunciato che
Dietro i candelabri sarà il suo ultimo
film da regista. Ironia della sorte, il
lungometraggio è stato prodotto e
trasmesso proprio in televisione dalla
HBO, e solo dopo il passaggio in concorso allo scorso Festival di Cannes ha
trovato una distribuzione nelle sale
europee. Un motivo in più per considerarlo una (eventuale) perfetta uscita
di scena, capace di riflettere l’ambi-
valenza del rapporto di Soderbergh
con l’industria dell’intrattenimento,
peraltro già espressa nel precedente
Magic Mike. Da un lato, infatti, si rimane abbagliati dalla fotografia patinata
e scintillante del film, di cui si occupa
lo stesso Soderbergh, e dalle miriadi
di oggetti kitsch che invadono la casa
di Liberace, ma dall’altro si prova un
senso di rigetto e claustrofobia per la
freddezza con la quale ogni singolo
dettaglio è minuziosamente riprodotto. Il regista non cerca di umanizzare
i suoi personaggi, ma se ne tiene a
debita distanza, costringendoli entro
cornici ridondanti dove arte e paccottiglia si confondono. Nonostante il
soggetto trattato, Dietro i candelabri
trasgredisce dunque le principali convenzioni del biopic contemporaneo,
rinunciando a diminuire la distanza tra
lo spettatore e il personaggio famoso.
In primis perché non c’è nessun retroscena da svelare (la vicenda è già stata
resa pubblica in un’autobiografia dello
stesso Thorson), e poi perché per Liberace, così come per la società dello
spettacolo di cui è rappresentante, il
confine tra sfera pubblica e privata è
saltato già da tempo. Non a caso il momento in cui il ruolo di Thorson acquisisce spessore - attraverso un primo
piano rubato al fuori fuoco - coincide
con la realizzazione della vera natura
del suo rapporto con Liberace: non
può esserci matrimonio non tanto per
le limitazioni imposte dalle istituzioni in materia di unioni omosessuali,
quanto per l’incapacità della star di accettare l’ordinarietà della vita (e della
sua morte).
Francesca Monti
28
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
A LADY IN PARIS
SAISON CULTURELLE
(Une estonienne à Paris)
Regia: Ilmar Raag. Sceneggiatura: Ilmar
Raag, Lise Macheboeuf, Agnès Feuvre.
Fotografia: Laurent Brunet. Montaggio:
Anne-Laure Guégan. Musica: Dez Mona.
Scenografia: Pascale Consigny. Costumi:
Ann Dunsford. Interpreti: Jeanne Moreau,
Laine Mägi, Patrick Pineau. Produzione: TS
Productions, Amrion, Le Parti Productions.
Distribuzione: Officine UBU. Paese: Francia,
Belgio, Estonia. Anno: 2012. Durata: 94
minuti.
“Si, ci sono delle cose interessanti nei film della Nouvelle Vague, ci
sono delle idee di regia, un certo
senso dell’immagine, del ritmo…
Ma gli attori non sono diretti, recitano male. Prenda per esempio Une
femme est une femme. Raramente
si è visto un Belmondo così falso.
Quanto a Brialy, si direbbe che stia
cercando di trovare un personaggio per il prossimo film. E Anna
Karina… È affettata, fa delle smorfie, si guarda allo specchio. Si ha la
sensazione di assistere a una prova,
mentre il regista è assente. È una
brutta copia dell’arte drammatica –
Questa non è recitazione. (…) Prima
che Une femme est une femme fosse un documento su Anna Karina,
come attrice e come donna, Viaggio
in Italia è stato un documento
su Ingrid Bergman, come attrice
e come donna. Rossellini, come
Renoir e prima dei registi della
Nouvelle Vague, ha cercato un tipo
di interpretazione in cui la finzione
rimandi al documento e viceversa”.
Nelle parole di Jean Collet, troviamo lo spunto per mettere a fuoco
il lavoro del regista estone Ilmar
Raag. Il suo secondo film, dopo il
fortunato esordio con The Class
(2007), può essere letto come un
interessante studio sui rapporti tra
l’interprete e il personaggio. A Lady
in Paris basa buona parte del suo
fascino su una fitta serie di rimandi
che collegano personaggi e luoghi
attraversati dalla macchina da presa a modelli resi celebri dalla settima arte. Da una parte, infatti, tra le
lande innevate delle infinite notti
baltiche, fatte di perdita di memoria e di brutali tentativi di violenza,
emergono le atmosfere e la poetica
del cinema di Aki Kaurismaki, grazie anche ai rimandi della protagonista Anne alle donne interpretate
da Kati Outinen, icona del regista
finlandese. Quando Anne si trova a percorrere, in una tenue alba
parigina, la spianata del Trocadero
prospiciente la Tour Eiffel, è invece
un’altra memoria cinematografica
ad apparire. La storica sede della
Cinémathèque Francaise fondata
e diretta da Henry Langlois, dove
si formarono i futuri autori della
Nouvelle Vague e dove gli stessi
scesero in strada a fianco degli studenti nel maggio del ‘68, apre uno
squarcio – per chi lo sa cogliere –
verso quell’amore per la settima
arte che ha nutrito generazione di
francesi e non per tutto il secolo
scorso.
Seguendo le vicende di Anne e
Frida, interpretata da un’altra icona del cinema moderno, Jeanne
Moreau, A Lady in Paris arriva a fondere due «Europe», quella dell’Est
e dell’Ovest, in un loop geograficoculturale che ci proietta nel passato
ottocentesco del nostro continente.
Il tutto declinato dietro il prisma di
una storia esilissima, dove la figura
narrativa del «triangolo amoroso»
trova una sua personale interpretazione. Se cinquant’anni fa Nouvelle
Vague significava raccontare storie
che prima non si sarebbero raccontate, il film di Raag coglie in pieno
quello spirito artistico e morale,
restituendo freschezza alla questio-
ne dell’amore intergenerazionale,
che costituì uno dei topoi narrativi di tutte le «nouvelles vagues»
internazionali, dal Bertolucci di
Prima della rivoluzione a Hal Ashby
di Harold e Maude.
François Truffaut disse: “Ogni volta che me la immagino a distanza,
la vedo che legge non un giornale,
ma un libro, perché Jeanne Moreau
non fa pensare al flirt, ma all’amore”. Nel film di Raag, Moreau incarna
una donna dal passato movimentato, dove le tante storie amorose sembrano esser state segnate
dall’intensità della passione, dalla
vitalistica attrazione scatenata, ma
in modo tale da non consentire allo
spettatore, che raccoglie le informazioni attraverso i racconti del personaggio, di distinguere tra il vero
amore e la semplice avventura. Ed è
su questo confine che il film di Raag
si dispone, cercando di suggerire
quella componente di «invisibile»
teorizzata da Godard e che il cinema
ci può aiutare ad afferrare, anche se
per pochi attimi. Jeanne Moreau è
oggi una donna di 85 anni, con una
formidabile carriera di successi alle
spalle, che si rivolge con memorabile disincanto e una lucidissima volontà al suo voluttuoso passato. Del
suo personaggio in A Lady in Paris dicono che coltivava abitudini piuttosto
libertine (“se così si può dire”), a noi
non può non venire in mente invece
la Catherine di Jules e Jim, il cui anticonformismo appare come condizione essenziale dell’arte e un sorprendente antidoto alla morte.
Umberto Mosca
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
FOXFIRE, CONFESSIONS
D’UN GANG DE FILLES
29
Réalisation : Laurent Cantet. Scénario :
Robin Campillo et Laurent Cantet. Image :
Pierre Milon. Montage : Robin Campillo,
Sophie Reine, Stéphanie Léger et Clémence Samson. Musique : Timber Timbre.
Décor : Franckie Diago. Costumes : Gersha
Phillips. Interprétation : Raven Adamson,
Katie Coseni, Madeleine Bisson, Claire
Mazerolle. Production : Haut et Court, The
Film Farm. Distribution : Teodora Film.
Pays: France, Royaume-Uni, Canada. Année : 2012. Durée : 143 minutes.
Le dernier film de Laurent Cantet affiche, dès son titre, la hauteur de ses
ambitions. Frappe d’abord, à première
vue, le décalage qu’il semble instaurer
avec les œuvres les plus connues du
cinéaste – parmi lesquelles un César à
Paris, un Lion à Venise et une Palme à
Cannes : Ressources humaines, L’Emploi
du temps et Entre les murs – ancrées
dans une société française dont il
ausculte les failles pour mieux exhiber le tragique discret des destinées
individuelles qui s’y abîment. De fait,
très loin du collège de banlieue ou de
l’usine en restructuration, Foxfire, bien
plus que les mineurs Sept Jours à La
Havane et Vers le Sud, superficiellement exotiques, traduit un irrépressible
désir de cinéaste : celui de filmer hors
les murs, qu’il s’agisse d’adapter une
romancière américaine – Joyce Carol
Oates – , de multiplier les séquences en
extérieurs ou de se plonger dans le film
d’époque en décrivant le quotidien
étasunien des années 50. A l’opposé
de toute veine semi-documentaire et à
rebours de toute prétention historique,
Foxfire désigne une société secrète qui
montre, en action, un gang de filles
qui choisissent de se rebeller contre
les faux-semblants d’un univers phallocrate et étriqué. Le film, en ce sens,
utilise les métaphores de l’incendie
de la lumière. La troupe délinquante,
dirigée par la charismatique Legs, décrite comme une “ perpétuelle étoile
filante ”, n’a pas son pareil pour mettre
le feu aux poudres. Ces Bonnies sans
Clyde n’existent que sur le mode de
l’affranchissement. Educateurs veules,
figures patriarcales perverses, parents
eux-mêmes assujettis ou inexistants,
notables suffisants : aucune autorité
mâle ne semble pouvoir résister à une
soif d’émancipation qui fait évoluer
le film vers la description parallèle
d’une utopie communautaire et d’un
basculement irrésistible dans le banditisme, voire le terrorisme. Livrées
à elles-mêmes, privées de toute instance régulatrice, les filles semblent
faire l’épreuve de tous les possibles.
Leur échec programmé ne fera que
souligner l’illusion du rêve adolescent
ainsi que l’impossible rupture avec le
réel et les conventions sociales. Que
ces femenistes avant l’heure ne soient
pas à l’abri des préjugés raciaux – le
groupe, qui vote démocratiquement,
refuse d’admettre en son sein une
jeune femme noire que Legs a connue
pendant sa détention – montre d’ailleurs la lucidité d’un scénario cosigné
par Robin Campillo qui, s’il joue immanquablement de l’empathie envers
le gang, ne saurait se satisfaire d’un
acquiescement simpliste et béat. C’est
justement sur ce point que le spectateur se retrouve finalement en terrain
de connaissance. Cantet, s’il suggère
clairement son point de vue anti-machiste et ses options politiques, à l’opposé du discours capitaliste ultra-libéral d’un des personnages, rend compte
des contradictions de ses héroïnes et
témoigne de son habileté à filmer un
groupe, sans tomber pour autant dans
le pointillisme du film choral. Ce sont
les errances et les déchirements d’un
corps non homogène qui sont décrits
dans cette chronique de l’inéluctable.
Le choix d’actrices inconnues – pour
beaucoup non professionnelles –
contribue à donner l’impression qu’un
groupe se soude puis se délite sous nos
yeux. Il n’est pas anodin de souligner
que le cinéaste a repris, pour Foxfire,
la technique d’improvisation par ate-
liers qui avait déjà présidé à l’écriture
du scénario d’Entre les murs ; mais aussi
de préciser qu’il a tourné l’essentiel du
film à deux caméras, soucieux de parvenir à la fluidité de champs-contrechamps tournés en une même prise.
Certains moments témoignent ainsi,
contre toute attente dans ce contexte
très fictionnalisé, d’une influence du
réel dont on constate in fine qu’elle a
nourri toute la mise en scène. A y regarder de plus près, le principe d’hybridation vaut aussi pour l’habillage sonore,
qui recourt tout autant aux ressources
du sound design qu’à une restitution
réaliste des bruits et des voix. Dans
ce contexte, la musique n’est pas de
reste, puisqu’aux arrangements fifties
se superpose presque imperceptiblement les sonorités du groupe canadien
actuel Timber Timbre. On comprend
mieux, dès lors, que l’expatriation du
cinéaste, loin de faire de Foxfire une
parenthèse dans son travail, renforce
l’universalité et la modernité de son
propos. Ses choix narratifs s’inscrivent
dans la même perspective. L’histoire est
racontée par Maddy, qui est la mémoire
de la bande tout en étant l’une de ses
fondatrices et l’une de ses premières
exclues. Son point de vue tient donc
à la fois de l’immersion, du recul du
temps et de la distance critique. C’est
en ce sens qu’une des scènes capitales
du film se situe au début. L’acquisition
de la machine à écrire apparaît comme
une première conquête, au delà de la
victoire remportée par les filles sur
la cupidité et l’ignominie. La fable est
limpide : la seule réussite incontestable
du gang tient à sa capacité à inventer et
à restituer sa propre histoire.
Thierry Méranger
30
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
LES GARÇONS
ET GUILLAUME, À TABLE !
SAISON CULTURELLE
Réalisation et scénario : Guillaume Gallienne. Image : Glynn Speeckaert. Montage : Valérie Deseine. Musique : MarieJeanne Serero. Décor : Sylvie Olivé.
Costumes : Olivier Bériot. Interprétation :
Guillaume Gallienne, André Marcon,
François Fabian, Nanou Garcia. Production : LGM Films, Rectangle Productions,
Don’t Be Shy Productions, Gaumont,
France 3 Cinéma. Distribution : Eagle
Pictures. Pays : France, Belgique. Année :
2013. Durée : 86 minutes.
“ Pardon, certains doivent se dire ‘Y’
en a marre de voir sa gueule’. Je pense
à mes professeurs Daniel Mesguich,
François Florent [NDR : sens professeurs de comédie dans des cours
prestigieux]... ” : début 2014, Guillaume
Gallienne soulignait pendant la cérémonie des César 2014 son embarras
de voir pleuvoir sur lui et son film toute
une série de récompenses (dont celles
du meilleur film et du meilleur acteur).
“ Voir sa gueule ”, et seulement la sienne,
c’est pourtant la clé de la réussite de sa
pièce, qu’il adapte ici lui-même. Hilarante, cette autofiction est avant tout
œdipienne dans les grandes largeurs
– c’est-à-dire sur toute une gamme qui
va de l’émotion pure au burlesque à la
Tootsie. Soit donc Guillaume, qui dès
son plus jeune âge (l’enfant étant bien
entendu interprété par l’auteur-acteur
quarantenaire), avait une gestuelle et
des goûts modelés sur les figures féminines qui l’entouraient – au premier
chef sa mère. Des figures elles-mêmes
androgynes, ou du moins des femmes
de poigne, qui, tante et grand-mère
comprises, n’hésitent pas à lâcher des
mots crus ou des répliques cinglantes.
Gallienne relate à merveille le véritable
catalogue d’attitudes et de tics qu’il en
vient à constituer dès l’adolescence. À
l’encontre de bien des teen movies dans
lesquels la différence entre les sexes fait
l’objet d’un mystère et d’une érotisation, Les Garçons et Guillaume... l’aborde
par le biais d’un mimétisme quasi-scientifique : “ la plus grande différence des
femmes, c’est leur souffle, plus ou moins
variable, plus ou moins linéaire ”...
Sensible à ces infimes modulations,
Gallienne apparaît aussi dans ce filmthérapie comme un nourrisson mal
grandi, qui malgré le passage des
années se percevrait encore comme
indifférencié du corps de sa mère, qu’il
interprète avec la truculence péremptoire d’une Josiane Balasko ? “ Ça nous
arrangeait, elle pour avoir une fille, moi
pour me distinguer de mes frères ” : tardivement avancée en voix off, cette hypothèse psychanalytique est en fait débordée joyeusement d’un bout à l’autre
du film par la matérialité concrète de
cette incarnation féminine, comme
dans la séquence de “ Sissi impératrice ” où un édredon fait office de robe
de taffetas, ou dans celle des cours de
Sévillane lors de vacances en Espagne,
au parfum tendrement transgressif de
movida des premiers Almodovar.
Outre son indéniable efficacité comique et la réussite de son double rôle
mère/fils, le film est sorti en France à
point nommé, dans un contexte social
marqué par une crispation conservatrice autour de la notion de « genre »,
distincte de la biologie : manifestations qui ont suivi la promulgation de
la loi sur le mariage entre personnes
de même sexe, polémique autour de
la présentation aux collégiens du film
Tomboy de Céline Sciamma et recul du
gouvernement de centre-gauche sur la
loi concernant la Procréation médicalement assistée ainsi que sur la mention de la théorie du genre dans les
nouveaux manuels scolaires. Tout cela
paraît bien éloigné des souvenirs d’enfance d’un garçon de la haute-bourgeoisie extravagante dans des boarding
schools anglaises, et pourtant... Pourtant Les Garçons et Guillaume, à table !
revient avec originalité et vis comica sur
la distinction entre sexe, genre et orientation sexuelle : s’il s’identifie toute son
enfance aux femmes hautes en couleur
qui l’élèvent, Gallienne découvre à me-
sure qu’il grandit que contrairement à
ce que présume sa famille, il n’est pas
homosexuel. Clé de voûte du scénario,
ce coming out à l’envers est présent dès
l’ouverture sous la forme d’un démaquillage paradoxal. Dans les coulisses
d’un théâtre, on entend le régisseur
crier : “ On commence dans 5 minutes !
En scène, s’il-vous-plaît ! ” ; Gallienne,
dans sa loge, regarde dans un miroir
son visage grimé ; il en ôte le fard, on se
dit qu’à la faveur d’une ellipse, le spectacle est fini et qu’il va partir. Mais non :
c’est la face nue, son masque de geisha effacé, qu’il quitte la coulisse pour
entrer en scène. Cette belle ouverture
ne met pas seulement en abyme le film
en désignant son origine théâtrale. Elle
révèle l’ambivalence profonde de la
notion de mise à nu dans une œuvre.
Pour un acteur de la Comédie-Française comme l’est Gallienne, le visage
sans fard ne constituerait-il pas le plus
sûr des masques ? Ce début dans la
loge programme en réalité la question
centrale du film : moins celle de l’orientation sexuelle (l’aventure infructueuse
dans une boîte de nuit gay) que celle
plus vaste d’un rapport particulier de
l’acteur à son corps. De l’Acteur avec
un grand A, faudrait-il écrire, car le principe d’ubiquité est ce qui caractérise
le Fregoli Guillaume Gallienne, à l’aise
autant dans Astérix et Obélix que dans
une pièce de Sartre ou de Tchekhov. En
ce sens, incarner deux générations et
deux sexes, c’est pousser à l’extrême
la boulimie d’altérité à l’origine de la
vocation d’acteur : dans le “ à table ! ”
du titre, il faut aussi entendre l’appétit
insatiable d’un être dont on se dit que
cesser de jouer un(e) autre signifierait,
ni plus ni moins, mourir.
Charlotte Garson
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
GLORIA
31
Regia: Sebastián Lelio. Sceneggiatura:
Sebastián Lelio, Gonzalo Maza. Fotografia: Benjamín Echazarreta. Montaggio:
Soledad Salfate, Sebastián Lelio. Scenografia: Marcela Urivi. Costumi: Eduardo
Castro. Interpreti: Paulina García, Sergio
Hernández, Diego Fontecilla, Fabiola
Zamora, Coca Guazzini, Hugo Moraga.
Produzione: Fabula, Nephilim Producciones. Distribuzione: Lucky Red. Paese: Cile,
Spagna. Anno: 2013. Durata: 109 minuti.
La macchina da presa scopre Gloria in
discoteca, sui versi malinconici di Duele, duele: un cocktail tra le mani e il resto del mondo filtrato dall’ampia montatura dei suoi occhiali. Quando il personaggio incarnato da Paulina García
(Orso d’argento per la miglior interpretazione femminile alla Berlinale 2013)
raggiunge la pista da ballo, a risuonare
è invece I Feel Love di Donna Summer,
sensuale preambolo a una danza di corteggiamento. Due canzoni che scandiscono l’avvicinamento a un potenziale
partner e trasmettono la conflittualità
degli stati emotivi di Gloria: da un lato,
la nostalgia per il passato; dall’altro, un
vitalismo che le impedisce di arrendersi alla propria condizione di tranquilla
solitudine. La musica popolare ritorna,
nuovamente centrale, quando Gloria è
alla guida della sua automobile: l’emulazione delle voci ascoltate alla radio
diventa infatti una piena manifestazione del suo desiderio di fuga e movimento. Il girovagare della donna approda così, quasi inevitabilmente, a una
versione spagnola di Gloria di Umberto
Tozzi, che allontana l’idea di sconfitta
suggerita dal corso degli eventi, senza
tuttavia aprire alla possibilità di un reale riscatto. Per Gloria non c’è resa né
vittoria, bensì un viaggio dell’eroe privo della sua condizione essenziale: una
manifesta evoluzione del protagonista.
Sebastián Lelio - che, insieme a Pablo
Larraín, qui in veste di co-produttore,
è tra i nomi di punta di una straordinaria stagione del cinema cileno - sceglie
infatti un percorso narrativo differente.
Avvicinandosi alla pratica di osservazione dei personaggi di Mike Leigh,
esplora Gloria e le diverse sollecitazioni emotive a cui questa è soggetta,
rifuggendo ugualmente dall’illusione
documentaristica. Il suo occhio riflette i
comportamenti ondivaghi della donna,
tramutandoli in reazioni ai vari soggetti
in cui Gloria si imbatte: la figlia Ana, che
sta per conoscere il peso delle responsabilità; il nuovo compagno Rodolfo,
irrigidito dal fardello del passato; un
gatto glabro, perturbante figurazione
del decadimento fisico; una marionetta danzante a forma di scheletro, che
sembra prendersi gioco della propria
morte; infine un pavone bianco, forse
emblema di una sana vanità, per la
quale - a dispetto delle più diffuse rappresentazioni sociali dell’età matura non esistono limitazioni anagrafiche.
Sviluppandosi tra queste relazioni ed
elementi totemici, il percorso di Gloria
non contempla punti di svolta o apici,
ma scorre come una corrente fluida,
portando con sé dramma e ironia. E
anche qualche accenno al grottesco,
come nella sparatoria colorata ai danni di Rodolfo, dove manca la solennità
del redde rationem e prevale, invece, la
riscoperta del piacere di uno scherzo
infantile.
La fluidità sembra appartenere anche
alla cornice del racconto, il Cile contemporaneo. Uno dei punti di forza del
film sta infatti nel riuscire a far convivere due dimensioni differenti, senza
che nessuna di queste appaia imposta.
Lo studio di un personaggio si integra
così a una più ampia contemplazione
dello stato in cui versa il Paese. Similmente a Gloria e Rodolfo, che sperimentano un nuovo tempo della loro
vita, anche il Cile è alle prese con una
transizione - che passa dalle tracce incancellabili della dittatura per arrivare
a un modello democratico più flessi-
bile - che sembra non arrivare mai a
compimento. Gloria sembra disattenta
rispetto all’agire collettivo, se non per
un dialogo con amici in cui lamenta il
costo delle cure mediche, ma le interferenze della Storia sulle vicissitudini
private aprono brecce attraverso uno
schermo televisivo che riporta immagini di contestazioni, o direttamente
dalle strade di Santiago, dove i manifestanti marciano con i loro cartelli,
incorniciando per un istante la protagonista.
Così, studiando una donna e i luoghi
- fisici e simbolici - in cui questa si
muove, Lelio scopre il codice di comportamento sociale che meglio descrive questo stato di cose: una costante
distanza di sicurezza tra gli individui,
marcata da un obiettivo che raramente mette a fuoco più di un soggetto
per volta, come a evidenziare la paura
della condivisione di uno spazio, fosse
anche il quadro cinematografico. Un
interstizio che sembra scomparire solo
nell’intreccio dei corpi nudi di Gloria e
Rodolfo, unico angolo di socialità autentica. Il resto è simulazione, di luoghi e situazioni comunicative estinti o
mai esistiti: la discoteca che riproduce
un dancefloor degli anni Settanta, il corso dove si ride a comando, il parco dei
divertimenti di Rodolfo, in cui la guerra
è trasfigurata in un gioco a squadre.
Tutto questo in un Cile che “… sembra ormai il fantasma di se stesso, una
copia sbiadita di ciò che era”. E in cui,
verrebbe da aggiungere di fronte a un
personaggio come Gloria, si continua a
danzare soli, ma ci si può sempre far coraggio cantando il proprio nome.
Francesca Monti
32
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
HOLY MOTORS
SAISON CULTURELLE
Réalisation, scénario: Leos Carax. Image:
Caroline Champetier. Montage: Nelly
Quettier Musique: Erwan Kerzanet.. Décor: Florian Sanson, Emmanuelle Cuillery.
Costumes: Anaïs Romand. Interprétation:
Denis Lavant, Edith Scob, Eva Mendes,
Kylie Minogue, Elise Lhomeau, Michel
Piccoli, Leos Carax. Production: Pierre
Grise Productions. Distribution: Movies
Inspired. Pays: France. Année: 2012. Durée: 115 minutes.
Un homme (Leos Carax lui-même) sort
de son lit et trouve dans le mur de sa
chambre un passage secret. La porte
dérobée ouvre sur une salle de cinéma.
Par ce geste, le cinéaste-dormeur nous
invite à entrer dans une extraordinaire
œuvre à plusieurs panneaux, qui font
se succéder les différentes vies de
monsieur Oscar (Denis Lavant). Tourné
de main de maître par le grand directeur de la photographie Caroline Champetier, Holy Motors déploie comme peu
d'autres films d’aujourd’hui les puissances du cinéma. Carax, qui l’a réalisé
faute de pouvoir avancer sur un autre
projet, y fait preuve d’une liberté de
ton qui peut dérouter. Au début, des
bandes d’Etienne-Jules Marey, le précurseur du cinéma, ont parfois suscité
des protestations dans la salle (“ le son,
le son! ”) alors qu’elles sont, historiquement, muettes. Plus tard, un éblouissant
entracte musical voit l’acteur principal
mener un orchestre en marche dans
la nef d’une église. Chacune de ces
audaces revêt une fonction rythmique
vitale, donnant au film un nouveau
souffle : la trouvaille a toujours été le
« moteur sacré » du réalisateur de Mauvais sang (1986) et des Amants du PontNeuf (1991).
Mais qu’on se rassure, dans Holy Motors,
il y a bien une histoire ! Et même une
dizaine d’histoires. Monsieur Oscar, banquier de haut vol, s’engouffre un matin
dans sa limousine blanche. Quelques
minutes plus tard, il en ressort en vieille
Roumaine voûtée qui mendie près de la
Seine, méconnaissable d’authenticité.
Thriller d’espionnage à la Mission impossible ? L’intérieur de la limousine suggère non pas une autre piste narrative
mais, de manière plus ambitieuse, un
autre régime de fiction. Embarqués dans
cette voiture déraisonnablement étirée,
nous avons quitté les rives rassurantes
du réalisme cinématographique sans
pour autant avoir rejoint celles tout aussi confortables du film de genre. Nous
sommes dans les limbes entre vie et
théâtre. La voiture abrite une véritable
loge. Oscar enchaîne tout le jour des
« rendez-vous », des situations qu’il joue
après s’être soigneusement grimé et
déguisé. Denis Lavant, alter-ego de Carax qui l’a révélé dans son premier long
métrage Boy Meets Girl, a on le sait une
agilité d’acrobate, mais ici, c’est tout son
être qui semble malléable, élastique.
On songe au grand acteur du muet
Lon Chaney, surnommé « l’homme aux
mille visages ».
A chaque nouveau rendez-vous où le
conduit son chauffeur Céline, Oscar sort
de la voiture entièrement déguisé et
maquillé pour ce qui apparaît autant
comme une mission que comme un
rôle. Réflexion sur la condition du comédien ? Il y a de cela, et la présence de
grands acteurs de théâtre – Lavant mais
aussi Edith Scob et Michel Piccoli – va
dans ce sens. Mais le film va plus loin en
creusant jusque dans l’image les présupposés réalistes du cinéma. Quand
Oscar entre dans un studio de cinéma
et enfile une combinaison recouverte de
points destinés à enregistrer ses mouvements en motion capture, la séquence,
inouïe, s’offre en élargissement des possibles de la fiction cinématographique.
Ni organique ni électronique, ce combat
érotique nous plonge à nouveau dans
un autre régime d’images.
Un homme perpétuellement autre : ce
n’est pas seulement ce qui définit le
métier d’acteur, pourtant. Le cinéaste
aussi passe par ces transformations, surtout Carax, dans les films duquel un Alex
(son premier prénom dans la vie) ou
un Oscar (son deuxième prénom) fonctionnent comme d’évidentes projections à travers le corps d’un acteur. Mais
Holy Motors n’est pas seulement un film
sur le cinéma. La succession de rôles est
la métaphore de toute vie, des rendezvous amoureux manqués à jamais, des
choix de vie irréversibles, des répétitions mortifères. “ No New Beginnings ”,
“ pas de secondes chances ”, chante une
ancienne amoureuse d’Oscar dans un
segment du film en comédie musicale
d’autant plus émouvant que Kylie Minogue chante en son direct. A la fin, une
autre chanson (de Gérard Manset), résume à la fois le dispositif du film et une
angoisse existentielle : “ On voudrait
revivre/Mais il faudrait/Revivre la même
chose ”. Le temps qui passe sans espoir
de retour, la boucle temporelle comme
tentation : entre ces deux gouffres, Holy
Motors rugit sans jamais ronronner. Sa
force vitale dépasse la mélancolie qu’il
dégage. Parfois, une séquence s’égare,
digresse puis tombe toute seule, comme
la tige en excès d’une plante qui peut
grandir sans elle. On se sent un moment
perdre pied dans le récit, mais le retour à
la limousine aux mille costumes ramène
à cette évidence : pour monsieur Oscar
comme pour nous spectateurs, ce ne
sont pas les rôles qui importent, mais
les passages de l’un à l’autre, le soin apporté à ses maquillages donc à la préparation d’une « action » à faire. Quelque
part, dans un grand hangar, les longues
loges ambulantes reposent comme autant de boîtes où des histoires attendent
leur heure.
Charlotte Garson
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
SAISON CULTURELLE
IDA
33
Regia: Pawel Pawlikowski. Sceneggiatura:
Pawel Pawlikowski, Rebecca Lenkiewicz.
Fotografia: Lukasz Zal, Ryszard Lenczewski. Montaggio: Jaroslaw Kaminski.
Musica: Kristian Selin Eidnes Andersen.
Scenografia: Marcel Slawinski, Katarzyna
Sobanska. Costumi: Aleksandra Staszko.
Interpreti: Agata Trzebuchowska, Agata
Kulesza, Dawid Ogrodnik, Joanna Kulig.
Produzione: Opus Film, Phoenix Film Investments. Distribuzione: Lucky Red, Parthenos. Paese: Polonia, Danimarca. Anno:
2013. Durata: 80 minuti.
Una rivelazione sul ciglio di una scelta,
una fenditura nella coscienza di sé, un
viaggio nella femminilità e nella fede:
questo è Ida, lungometraggio del polacco Pawel Pawlikowski e miglior film al
London Film Festival 2013.
Polonia, 1962: Anna è una giovane novizia, orfana cresciuta in convento e
allevata dalle suore al rigore morale e
alla religione cristiana. L’unica certezza della sua vita è il suo rapporto con
Dio, vero e profondissimo. Tuttavia, sul
punto di prendere i voti, scopre che ha
ancora una parente in vita, la zia Wanda,
e decide di farle visita.
Affascinante nelle sue pellicce e nei suoi
foulard costosi, con il girocollo di perle,
il rossetto sulle labbra e la sigaretta in
bocca, Wanda è apparentemente una
femme fatale, che ottiene sempre ciò
che desidera e piega gli uomini ai suoi
voleri. La sua irruenza, portatrice di una
sciatteria sensuale e provocatoria, disturba sin dall’inizio l’integrità di Anna,
definitivamente sconvolta in seguito
alle verità che la zia, con apparente
noncuranza e freddezza, le rivela. Anna
scopre non solo di chiamarsi Ida e di
essere ebrea, ma viene anche a sapere
dell’esistenza di un mistero che avvolge la morte dei suoi genitori, profughi
ebrei che per fuggire alle persecuzioni
durante la Seconda Guerra Mondiale,
avevano chiesto aiuto a una famiglia di
contadini. Spinta dalla volontà di scoprire le circostanze del loro decesso e di
trovare i corpi per donare loro degna sepoltura, Anna inizia con la zia un viaggio
nelle campagne polacche alla ricerca
dei luoghi in cui avevano vissuto.
Il confronto improvviso con questo fardello storico destabilizza, in principio,
il mondo austero e disciplinato della
novizia. Tuttavia, la comprensione del
proprio passato la porterà a scoprire se
stessa e la verità colmerà vuoti rimasti
fino a quell’istante inesplorati. Per le
due protagoniste, infatti, la ricerca delle
proprie origini si trasforma in un viaggio alla ricerca di sé, alla fine del quale,
però, daranno risposte profondamente
differenti.
Gradualmente Wanda rivelerà tratti di
disperata umanità celati dietro alla falsa
durezza del personaggio che si è creata.
Smantellerà la maschera che nasconde
un tormentato passato di procuratore
socialista, i cui oscuri segreti, che affiorano con violenza in rapidi flashback, la
portano a naufragare nell’alcool e nelle
avventure facili. L’incontro-scontro fra
le due donne farà inoltre emergere una
duplicità nella personalità della nipote.
Anna e Ida sono, infatti, due sfumature
della stessa persona, due identità opposte che convivono da sempre. Anna
è devozione, purezza e assidua dedizione alla preghiera. Tuttavia, le domande
impertinenti e dirette della zia (“Fai mai
pensieri impuri?”) la portano a scoprire dentro di sé Ida. Il passaggio avviene tramite la graduale «svestizione»
della novizia, costretta nel suo abito
castrante e nel grigio copricapo che le
nasconde i lunghi capelli, che verranno
a poco a poco scoperti del tutto. Anna
diventa consapevole della sua fisicità,
del fascino che suscita negli uomini, dei
suoi impulsi sessuali, emersi in particolare grazie all’incontro con un attraente
sassofonista girovago, grazie al quale
conosce anche la bellezza della musica
jazz, elemento che dona colore all’intero film. Le cose vane e profane della vita
lentamente la sedurranno fino a catturarla, costringendola a fare una scelta.
Alla parola a tratti petulante, provocante
e sfacciata della zia, si contrappongono
i silenzi impenetrabili di Anna/Ida. Gli
intensi e lunghi primi piani del regista
risaltano con delicatezza gli enigmatici
occhi neri di Ida, in cui si nascondono
tutte le sue inquietudini interiori, ben
celate da un’apparente fissità e rigidità
corporea del personaggio, interpretato
da un’eccellente Agata Trzebuchowska.
Stabilità emotiva, solidità, spensieratezza si alternano nel film e nelle vite
dei personaggi a momenti di grande
incertezza, esitazione e dolore, durante i quali la macchina da presa taglia i
corpi, frantuma i volti, li relega ai margini dell’inquadratura, ai limiti della visione: muri, paesaggi, brandelli di cielo
entrano prepotentemente nel quadro e
schiacciano la figura umana, che si ritrova a essere di colpo piccola, insignificante, mutilata, per riprendere nuovamente
possesso dell’immagine una volta che i
personaggi riguadagnano la sicurezza.
Il bianco e nero dell’elegante fotografia
di Lukasz Zal contribuisce a donare un
senso di sofisticata sobrietà al film, di
contemplazione e introspezione, creando un mondo altro impalpabile e lontano, come lo spazio del ricordo.
Il viaggio nella memoria creato da
Pawlikowski delinea la dura tematica
dell’antisemitismo e dei difficili anni
della ricostruzione in Polonia senza la
retorica di un film di genere, privo di
intenti moralizzanti. Il regista evoca la
Storia attraverso l’intimo punto di vista
di due donne diversissime, testimoni indirette dello strazio del conflitto.
Le originali scelte registiche di Pawel
Pawlikowski spiazzano, ma non disturbano, incuriosiscono e affascinano, intrigano lo spettatore, lo portano a voler
conoscere la verità, come le due protagoniste del film.
Elisa Collé
34
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
IN ANOTHER COUNTRY
SAISON CULTURELLE
Da-reun na-ra-e-suh
Regia, sceneggiatura: Hong Sang-soo.
Fotografia: Park Hong-Yeol, Jee Yune-Jeong. Montaggio: Hahm Sungwon. Musica:
Jeong Yong-Jin. Interpreti: Isabelle Huppert, Yu Jun-Sang, Jung Yumi, Youn Yuhjung, Moon Sori, Kwon Hae-Hyo, Moon
Sungkeun. Produzione: Jeonwonsa Film.
Distribuzione: Tucker Film. Paese: Corea
del Sud. Anno: 2012. Durata: 89 minuti.
In Another Country è il primo film di
Hong Sang-soo a essere distribuito in
Italia. Presentato al Festival di Cannes
nel 2012, dopo più di un anno di attesa, è finalmente arrivato nelle sale
anche nel nostro Paese: un piccolo, ma
significativo riconoscimento per uno
dei registi coreani più celebri a livello
internazionale, ma pressoché sconosciuto al pubblico italiano. Nel frattempo, però, tra la primavera del 2012
e l’estate del 2013, Hong Sang-soo
di film ne ha girati altri due (tre, anzi,
contando il suo contributo al film collettivo ideato per i settant’anni della
Mostra di Venezia), Nobody’s Daughter
e Our Sunhi, il primo presentato a Berlino, il secondo vincitore a Locarno
del Premio per la migliore regia. Una
produttività senza sosta, una bulimia
di parole e personaggi, della quale
Hong Sang-soo sembra non poter fare
a meno.
La sola spiegazione è che i suoi film
il regista coreano li crei, li scriva e li
diriga come i suoi personaggi, spesso cineasti anche loro: cioè in modo
distratto e svagato, come se creare
fosse la combinazione tra un lavoro
di routine e un’esigenza personale,
un obbligo e insieme uno svago, compreso tra una bevuta e una chiacchierata, tra una litigata e un pensiero su
altri mondi e altre vite, possibilmente
non troppo diverse da quell’unica che
si possiede e dalla quale si vorrebbe
uscire. È un labirinto senza uscita, il
cinema di Hong Sang-soo, e forse lo è
anche l’ispirazione artistica del regista
stesso. Non è che siano in blocco creativo, Hong Sang-soo e i suoi personaggi così simili a lui, semplicemente
– proviamo a ipotizzare – si annoiano,
fanno gli artisti perché non saprebbero cos’altro fare, si pongono alla fine di
tutto, del cinema, dell’arte contemporanea, dell’avanguardia, e ne prendono atto senza vittimismo.
Cosa ci sia di tanto interessante nel
raccontare, film dopo film, di gente di
cinema che parla di cinema, che scrive
film, che frequenta festival, che beve,
mangia e litiga, è in realtà un mistero:
a volte non funziona, annoia e disinteressa; altre voce, invece, come nel caso
di In Another Country, le cose vanno
decisamente meglio, lo stile di Hong
Sang-soo si fa così fluido da avvicinarsi alla dimensione della veglia o del
sonno, e tutto il suo cinema diventa un
sogno imperscrutabile e affascinante.
Non a caso i suoi film sono illogici e
stranianti come ogni struttura onirica,
mostrano e non spiegano, si ripetono
e contraddicono. Anche In Another
Country, in cui una sceneggiatrice inventa la storia di una regista francese
invitata in Corea del sud e costretta
a passare le giornate in un villaggio
costiero, tra gente di cui non capisce
la lingua, con cui comunica in un inglese stentato, con cui intreccia relazioni impacciate e ambigue. L’effetto
è quello di una finzione dentro la finzione, con la francese Isabelle Huppert che restituisce perfettamente,
tra ironia e fastidio, la sensazione di
spaesamento e curiosità tipica del visitatore imbambolato: la donna rivive
per un’ora e mezzo più o meno sempre
le stesse situazioni, visita più o meno
sempre gli stessi luoghi, incontra più o
meno sempre le stesse persone, capisce poco o nulla di quello che le capita
e per questo diventa lineare e sottile
come una figura scontornata (con il
suo vestito rosso e il suo ombrello),
una magnifica immagine di estraneità
allo spazio e al tempo.
Perché in fin dei conti il cinema di
Hong Sang-soo è il resoconto di una
continua crisi esistenziale, o se vogliamo, grazie ai suoi elementi metalinguistici e autoreferenziali, una riflessione sull’eterno conflitto tra creatività e noia, tra immaginazione e pensiero automatico, che risolve in chiave
rassegnata e sardonica uno dei grandi
crucci dell’essere umano: perché creiamo? perché inventiamo storie, quando forse sarebbe molto meglio dedicarsi ai piaceri semplici della vita, al
bere, al mangiare, all’innamorarsi, al
fare le cose seguendo l’impulso e non
la razionalità?
Con In Another Country, Hong Sangsoo ha così realizzato uno dei suoi
film più ispirati e divertenti: la luce del
villaggio marittimo in cui è ambientato ricorda il Rohmer del Raggio verde,
la voluta trasandatezza della regia fa
pensare allo Iosseliani di Addio terraferma; e in più, come sempre nel cinema del regista coreano, la sensazione
di perenne torpore dei personaggi, la
loro solitudine e sottile disperazione,
fa intravedere una visione drammatica dell’esistenza e dei rapporti umani.
Per fortuna è solo cinema, e prima o
poi tutto finisce: salvo ricominciare la
volta successiva in maniera sempre diversa eppure sempre uguale.
Roberto Manassero
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
L’INCONNU DU LAC
35
Réalisation, scénario: Alain Guiraudie.
Image: Claire Mathon. Montage: JeanChristophe Hym. Musique: Philippe Grivel. Décor: Roy Genty, François Labarthe,
Laurent Lunetta. Costumes: Veronica
Fragola. Interprétation: Pierre Deladonchamps, Christophe Paou, Patrick Dassumçao, Jérôme Chappatte. Production:
Les Films du Worso (Sylvie Pialat, Benoît
Quainon). Distribution: Teodora Film.
Pays: Francia. Année: 2013. Durée: 97
minutes.
Des inconnus, il y en a beaucoup au
bord du lac du Sud de la France où Alain
Guiraudie plante son décor. Serviettes,
t-shirts et baskets sur les galets, ce lieu
de drague homosexuel s’offre en empire de l’anonymat. Au bord de l’eau,
sur des hauteurs plus sombres, un
sous-bois garantit aux ébats une certaine confidentialité, à défaut de l’invisibilité. Ce décor est unique et central
dans le scénario comme dans la mise
en scène de ce film majeur du réalisateur de Pas de repos pour les braves. Les
voyeurs y ont leur place (un onaniste
qui épie les autres dans les fourrés, un
homme tout habillé qui observe les nudistes plus loin sur la rive). Les voyeurs,
et même les femmes : un passant assure
qu’il y en a parfois dans les parages, ce
qui ne manque pas d’étonner Franck,
visiteur assidu du lac mais depuis une
date toute récente.... A l’évidence, Alain
Guiraudie se plaît à déjouer la piste
d’un lieu communautaire et par voie
de conséquence, extirpe d’emblée
son film d’une catégorie « gay », qui ne
s’adresserait qu’à une portion de l’auditoire. Il a raison : l’hédonisme et sa
récupération possible par une logique
consumériste, la passion et la pulsion
de mort qu’elle contient sont l’affaire
de tous, et cela, le cinéma le sait au
moins depuis L’Aurore de F.W. Murnau
(1927) !
Soit donc Franck, jeune homosexuel qui
se fait un ami sur ce lieu a priori dédié
exclusivement au sexe sans lendemain.
Henri, bûcheron en vacances plutôt hétérosexuel, bedonnant et récemment
séparé, lui propose une alternative aux
corps musclés et calibrés des autres
visiteurs, et un contrepoint méditatif
à la déambulation permanente des
regards en chasse. Certes, pas au point
de détourner Franck du nouvel arrivant
au sex-appeal irrésistible et à la moustache qui lui donne des faux airs de
Tom Selleck dans Magnum... Il faut en
fait très longtemps pour que les prénoms des trois hommes soient prononcés dans le film. Cela n’arrive qu’après
que le regard du dragueur a été lesté
d’un poids nouveau : un soir, caché dans
les bois, Franck croit voir le bel inconnu
noyer son amant. Comme lui, on s’interroge un peu : s’il s’agissait d’un jeu qui a
mal tourné? Ou même du fantasme de
Franck, projeté comme un film sur l’eau
trop calme du lac, dans lequel le silure
géant ( qui peut atteindre jusqu’à cinq
mètres) est trop inoffensif pour distiller le moindre mystère ?
Dès le corps repêché, la nouvelle relatée dans les journaux et la machine
policière en route, l’anonymat se dissipe, même si seul le mort se trouve
entièrement nommé dans le dialogue.
Pourtant « l’inconnu » du titre se creuse
– ce n’est plus tant une personne
qu’une notion. Peu à peu, même si
comme résume Franck à l’inspecteur,
“ on ne va pas s’empêcher de vivre ”,
le plaisir sans conséquence de ce lieu
de « tolérance » (où le nudisme est en
principe interdit, mais règne de facto)
perd de sa légèreté. Un meurtre a eu
lieu, et ce coup d’arrêt temporel bouleverse la durée propre du lieu, celle de
la répétition des scènes sexuelles, du
retour cyclique du même, scandé dans
le découpage du film par le parking qui
s’emplit et se désemplit jour et nuit. Ce
temps répétitif et sans butée, Michel
s’y sent bien, qui a par ailleurs « sa vie »
et refuse de partager davantage avec
Franck, qui aimerait dîner et dormir
avec lui.
Dans les précédents films d’Alain Guiraudie, l’homosexualité a sa place hors
de tout cadre moralisateur. Ici, face à
l’hédonisme cynique de Michel ou à
l’hygiénisme inquiet d’un autre visiteur barbu, la lassitude d’Henri et de
Franck dresse un bilan perplexe. Dans
ce film aussi taraudant que visuellement splendide, le cinéaste s’enfonce
dans le sous-bois de la passion et de
son revers, la pulsion mortifère. Les
personnages les plus « romantiques »
sont aussi ceux qui prennent le plus
de risques. Jusqu’où l’Autre me détruira-t-il ? La pratique sexuelle de Franck,
qui se passe volontiers de préservatifs,
pose déjà la question d’une tentation
autodestructrice ou du moins d’un goût
du risque assimilé un peu vite au goût
de la vie. Le lac et ses environs, filmés
en Scope dans une lumière magnifique
et rehaussés au montage par un sens
de l’ellipse magistral, sont le lieu de
l’idylle comme de sa négation – lieu de
la vie la plus intense avant que d’être
lieu de mort. Est-ce un hasard si le réalisateur, non crédité au générique, apparaît dès les premiers plans sur la plage,
nu jambes écartées, premier interlocuteur de Franck ? “ Ça commence pas trop
mal ”, dit-il en parlant de la journée de
drague, mais aussi du récit. Connu pour
ses douces utopies sociales et paysagères, Guiraudie a souvent forgé des
néologismes topographiques, inventant des territoires aussi régionalement
marqués que clairement inventés. La
nouveauté de L’inconnu du lac, c’est
que l’Imaginaire y rencontre le Réel.
Il est beau, moustachu, bon nageur. Et
dangereux.
Charlotte Garson
36
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
INFANZIA CLANDESTINA
SAISON CULTURELLE
Infancia clandestina
Regia: Benjamín Ávila. Sceneggiatura:
Benjamí Ávila, Marcelo Müller. Fotografia:
Iván Gierasinchuk. Montaggio: Gustavo
Giani. Musica: Marta Roca Alonso, Pedro
Onetto. Scenografia: Yamila Fontan. Costumi: Ludmila Fincic. Interpreti: Natalia
Oreiro, Ernesto Alterio, César Troncoso,
Cristina Banegas, Teo Gutíerrez Moreno.
Produzione: Historias Cinematograficas
Cinemania, Habitacion 1520 Producciones, Antartida Produccions. Distribuzione: Good Films. Paese: Argentina, Spagna,
Brasile. Anno: 2011. Durata: 112 minuti.
Infanzia clandestina, opera prima del
cineasta argentino Benjamín Ávila,
non è un altro film sui desaparecidos durante gli anni della dittatura
militare. È un lungometraggio che
descrive quel tragico periodo della
storia argentina osservando la quotidianità di alcune persone adulte
aderenti all’organizzazione armata
dei Montoneros, in lotta con la giunta al potere che dette loro una caccia
spietata. Ci sono Horacio e Cristina,
marito e moglie, e Beto, il fratello di Horacio. E c’è Juan, ragazzino
di dodici anni figlio della coppia.
La vita di quegli uomini e di quelle
donne è osservata, soprattutto, dal
suo punto di vista. Come quella dei
genitori, costretti a nascondersi e a
cambiare luoghi di residenza, anche
l’esistenza di Juan è segnata dalla
clandestinità. E in maniera ancora
più profonda rispetto a quella di suo
padre e sua madre, poiché si trova a
vivere una doppia identità, ad avere
due famiglie e due nomi: se in casa
è Juan, a scuola e in ogni situazione
pubblica si chiama Ernesto.
Ávila racconta questi personaggi
stando accanto a loro con discrezione, con una camera a mano sempre sensibile nel cogliere gli stati
d’animo, le emozioni, le paure e le
complicità, gli affetti, gli istanti di
tenerezza. Sono personaggi che il
regista argentino conosce bene. Infanzia clandestina si basa sulla sua
storia personale, pur non essendo
un film espressamente autobiografico. Si tratta di un viaggio verso la
presa di coscienza di un bambino
alle soglie dell’adolescenza, fatto di
continue esplorazioni e separazioni,
sia geografiche, dalla propria terra
(gli spostamenti in Brasile e a Cuba
con i genitori, il rientro in Argentina
fingendosi, insieme alla sorellina di
pochi mesi, figlio di un’altra coppia
per ingannare le autorità), sia da persone amate, vissute in modo traumatico (la morte dello zio, l’uccisione
del padre appresa da un notiziario
televisivo, la sparizione della madre
e della sorellina sequestrate dai militari) o dolorosamente consapevole
(l’impossibilità per Juan/Ernesto di
proseguire la sua prima storia d’amore con Maria).
Infanzia clandestina si concentra
quasi esclusivamente su quel che
accade a Juan e alla sua famiglia.
Significativamente, né le azioni dei
guerriglieri né la repressione dell’esercito vengono mostrate. Anche
questo distingue il film di Ávila dalla maggior parte degli altri realizzati
su tale argomento. Ed è sorprendente la scelta di ricorrere al fumetto
(di alta qualità) per sintetizzare le
situazioni che hanno a che fare con
scontri armati, rappresaglie, arresti.
L’inizio è esemplare e ben disegna
il percorso creativo del regista che
ha impiegato quasi dieci anni per
portare a compimento il film, avendo cominciato a scrivere la sceneggiatura nel 2002. Di notte, in auto,
Juan e i genitori stanno rientrando a casa. La macchina da presa li
«abbraccia» in un’intensa vicinanza fisica. Poi, l’agguato da parte di
un’altra auto mentre loro sono sul
marciapiede. A quel punto, le tavole del fumetto si sostituiscono alle
immagini «reali» per descrivere la
sparatoria. Al fumetto si delega anche il compito di mostrare la morte
di Beto e l’irruzione dei militari nella casa per catturare Cristina. Il fumetto visualizza, inoltre, quello che
sta nella mente di Juan, cose che ha
visto, che ha immaginato (come il
nascondiglio costruito fra le mura
domestiche) o che ha sognato. Al
pari delle sequenze animate, i sogni
entrano in modo naturale nelle scene, sono un’espansione dei fatti in
un’altra dimensione, dove trovano
nuova consistenza ed elaborazione.
Ma Infanzia clandestina contiene
anche bellissimi sogni a occhi aperti, quelli che vivono Maria e Ernesto
vicino ai resti dell’auto bruciata,
trovata nel bosco durante la gita
scolastica, sognando di viaggiare in
Brasile tra palme e spiagge, oppure
alle giostre, tra ottovolanti e specchi, raggiunte fuggendo per qualche
ora dalla scuola e dalle famiglie. Il
montaggio, le luci e alcuni passaggi
narrativi evocano il sogno, le immagini fluiscono radicate in un preciso
contesto e al tempo stesso sono sospese in uno spazio della memoria
(si pensi alla scena in cui i genitori di
Juan e i loro amici cantano e bevono,
colti in tutta la loro bellezza di giovani innamorati della vita). Sospeso
è anche il finale: ormai «orfano» e
divenuto «adulto», Juan si reca dalla nonna materna e scandisce il suo
vero nome riappropriandosi della
sua identità, prospettando, forse, un
nuovo inizio.
Giuseppe Gariazzo
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
L’INTREPIDO
37
Regia: Gianni Amelio. Sceneggiatura:
Gianni Amelio, Davide Lantieri. Fotografia: Luca Bigazzi. Montaggio: Simona Paggi. Musica: Franco Piersanti. Scenografia:
Giancarlo Basili. Costumi: Cristina Francioni. Interpreti: Antonio Albanese, Livia
Rossi, Gabriele Rendina, Alfonso Santagata, Sandra Ceccarelli, Bedy Moratti.
Produzione: Palomar, Rai Cinema. Distribuzione: 01 Distribution. Paese: Italia.
Anno: 2013. Durata: 104 minuti.
Gianni Amelio continua a raccontare, con tenerezza e lucidità, l’essere
umano e la società in trasformazione, il ruolo degli individui di fronte a
profonde situazioni di cambiamento.
E lo fa con una ritrovata leggerezza,
già evidente nel suo «omaggio» a Albert Camus, il film del 2011 Il primo
uomo. Lasciato quel film, che univa
idealmente l’Algeri dello scrittore
francese con la Calabria del secondo dopoguerra del regista, Amelio
è tornato in Italia per rappresentare con L’intrepido i resti di un paese frastornato dalla crisi. Evitando
di ricorrere al film di denuncia e ai
limiti narrativi che spesso contiene,
Amelio ha costruito una commedia
malinconica, ha fatto ricorso alla
favola e a toni talvolta surreali per
portare in primo piano i disagi singoli e collettivi dell’Italia di oggi.
Ne è scaturita un’opera importante,
percorsa da una costante tensione
visiva, come una scarica elettrica
che attraversa le inquadrature, collegandole fra loro e impedendo che
disperdano l’energia accumulata.
Le brevi scene iniziali, che costituiscono una sorta di prologo, sono significative della poetica attuata da
Amelio. Si tratta di porre lo sguardo,
con tocco quasi documentaristico e
ricorrendo all’uso del carrello (strumento fondamentale nel cinema di
questo autore per andare alla scoperta fisica e interiore dei personaggi nei loro ambienti), su alcuni luoghi di Milano (un cantiere in cima a
un edificio, un centro commerciale,
gli spazi che mutano la città in occasione dell’esposizione universale)
nei quali sosta un uomo come tanti,
ma dal mestiere singolare.
Protagonista de L’intrepido è Antonio Pane. Per lui Amelio ha immaginato un lavoro chiamato «rimpiazzo», ovvero un non-lavoro, la forma
estrema del precariato sottopagato
o per nulla retribuito. Disoccupato,
Antonio prende il posto, anche per
poche ore, di chi deve assentarsi
dalla propria occupazione, diventando di volta in volta, e magari nel
corso di una stessa giornata, muratore, libraio, tranviere, uomo-sandwich, venditore di rose nei ristoranti… Come un moderno Chaplin,
Antonio entra ed esce dalla catena
di montaggio della provvisorietà
con la faccia, i gesti di Antonio Albanese che dà mirabilmente corpo a
un personaggio molto vicino a quello del suo esordio da regista, Uomo
d’acqua dolce. L’Antonio Pane da lui
interpretato è un semplice, si accontenta di poco, e trova in una giovane
donna incontrata per caso qualcuno
con cui poter condividere pensieri e
sentimenti (bruscamente interrotti
dalla tragica fine della ragazza). La
sua vita sentimentale è inesistente,
la moglie (Sandra Ceccarelli), che
ama ancora, lo ha lasciato, e con il figlio talentuoso sassofonista, ma pieno di ombre, il rapporto è complice e
al tempo stesso problematico.
Se Albanese è il professionista che
abbandona i travestimenti e i personaggi multipli per riappropriarsi
delle venature più stralunate e commoventi della sua recitazione e per
il quale Amelio ha scritto di getto il
soggetto, “sul corpo e l’anima di un
attore che amo molto”, Livia Rossi (la
giovane donna) e Gabriele Rendina
(il figlio) sono due esordienti, scelti dal regista proprio per creare un
contrasto con Albanese, perché “regalassero un po’ della loro innocenza
agli altri protagonisti”. In conclusione, il film devia verso un epilogo collocato lontano dall’ambientazione
principale. Avvilito da una squallida
esperienza in un negozio di scarpe,
in realtà contenitore di scatole vuote, Antonio se ne va di spalle lungo il
viale, una chiusura a iride lo nasconde per farlo ritrovare, la scena successiva e qualche anno più tardi, in
Albania. Ha abbandonato l’Italia e ha
trovato lavoro e amici. Ha compiuto
un viaggio di migrazione al contrario,
ha imparato la lingua e iniziato una
nuova vita, ritrovando anche il figlio
e aiutandolo a superare un malessere esistenziale che gli impedisce di
salire su un palco e suonare. In linea
con altri lavori di Amelio, i personaggi de L’intrepido ritrovano se stessi
in un posto diverso. Ma l’Albania di
questo film assume un ruolo particolare, essendo Amelio l’autore de Lamerica, che quasi vent’anni fa descriveva l’approdo sulle coste italiane
dei profughi albanesi. Amelio, come
Antonio, compie un viaggio: dentro il
suo cinema. Realizzando anche, con
L’intrepido, un ideale «contro campo» di quel film del 1994 e, in maniera sempre discreta, una spietata
istantanea di un Occidente che solo
in un altrove, prossimo o lontano,
può cercare di ritrovarsi.
Giuseppe Gariazzo
38
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
GIOVANE E BELLA
SAISON CULTURELLE
(Jeune et Jolie)
Regia e sceneggiatura: François Ozon.
Fotografia: Pascal Marti. Montaggio:
Laure Gardette. Musica: Philippe Rombi.
Scenografia: Katia Wyszkop. Interpreti:
Marine Vacht, Géraldine Pailhas, Frédéric
Pierrot, Fantin Ravat, Johan Leysen, Charlotte Rampling. Produzione: Mandarin
Cinéma, France 2 Cinéma. Distribuzione:
Bim. Paese: Francia. Anno: 2013. Durata:
94 minuti.
François Ozon è disarmante. Da un
lato non ha paura, per mantenere
regolare e costante il ritmo della sua
produzione, di ricorrere a scelte formali e narrative di grande, apparente banalità. E dall’altro, ha il talento
di nascondere i suoi film sotto il velo
di uno scandalo ben orchestrato.
E se Jeune et Jolie si offre alla nostra visione come l’occasione unica
di essere promiscui testimoni della
manifestazione reale di un’antica
rêverie erotica maschile (l’oggettivazione funzionale al proprio desiderio del bellissimo corpo di una
donna giovanissima), il suo autore ci
svende le sue raffinate intuizioni inquadrandole in una struttura di racconto, se così si può dire, di seconda
mano (il susseguirsi delle quattro
stagioni, con l’inevitabile introduzione costituita da un cartello descrittivo: estate, autunno, …).
Adolescenza? Sesso? Frattura culturale tra la generazione dei figli e
quella dei genitori? Certamente sì,
sono questi i temi che Jeune et Jolie
declina articolandoli su quattro cicli
temporali. Eppure l’impressione finale è che per Ozon l’unica cosa che
conti sia raccontare il potere distruttivo e ri-generativo dello sguardo.
D’altra parte è proprio su uno sguardo (binoculare) che il film si apre,
quello del fratello di Isabelle sul
corpo della sorella. E non è la «prima volta» di Isabelle la scintilla che
mette in moto la sua vicenda, bensì
lo sguardo su di sé che questa esperienza fa nascere in lei: uno sguardo
su se stessa che non porta senso né
chiarimento, ma solo consapevolez-
za della propria capacità di muoversi nel reale e di riuscire nel medesimo tempo a prendere dall’esterno
le misure – senza analisi, senza bisogno di tradurre l’esperienza in comprensione – della propria capacità
di muovere il reale, di modificarlo
agendo al suo interno.
In altre parole, se in principio era lo
sguardo, questo sguardo è per Isabelle un atto di potere sul mondo al
di fuori di sé. È il suo modo di sapere, di rendersi conto di esistere. Ed
è curioso in questo senso come in
molti abbiano confuso Isabelle con
altre icone poco meno o poco più
che adolescenti del cinema francese, dalla figura archetipale di Antoine Doinel a quelle più contemporanee proposte da Olivier Assayas. In
Isabelle non c’è nessuna carenza,
nessun bisogno, nessun vero desiderio. E la citazione di Rimbaud,
infilata in una scena «di ambientazione» di Isabelle nel suo liceo, funziona più in chiave ironica che non
come riferimento ideale: se lo scandalo di una gioventù che si fa nuova,
distruggendola, rispetto alla generazione precedente diventa vulgata
universalmente accettata dell’istituzione scolastica, allora ha un senso e un valore per Isabelle diventare
radicalmente altra e andare al di là
della convenzionale esperienza di
vita che le viene offerta.
Un capitolo a parte, nel film, è rappresentato proprio dallo sguardo
degli adulti su Isabelle, dopo lo
svelamento della sua attività di prostituta. La madre, il patrigno, la funzionaria di polizia, l’analista sono
le figure che si propongono a vario
titolo come portatori di un asse di
riferimento, sia esso affettivo, culturale, valoriale o normativo, offerto a
Isabelle come una guida nell’oscurità. Isabelle ha però già bruciato i
ponti dietro di sé – in questo sì, autenticamente epigona di Rimbaud
– vivendo la sua vita «solo qui, solo
ora», senza passato né futuro.
Nessuno – noi spettatori meno di
tutti – saprà alla fine perché Isabelle si comporta come fa. È una chiamata, o almeno così ce la presenta
Ozon. Una chiamata all’età adulta,
se si vuole, ma in realtà soprattutto una chiamata ad avventurarsi in
un passaggio, in una strettoia verso
l’ignoto. È interessante allora, ed
esteticamente avvincente, il ruolo
dei corridoi scuri e curvilinei dell’albergo dove Isabelle si trasforma
in Léa per incontrare il suo primo
cliente, per ritrovarlo ancora e infine per ricordarlo: canali di un parto
ricercato e non subìto, ma non per
questo dall’esito meno incerto e misterioso.
Marco Gianni
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
LUNCHBOX
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(The Lunchbox)
Regia: Ritesh Batra. Sceneggiatura: Ritesh Batra, Rutvik Oza. Fotografia: Michael Simmonds. Montaggio: John F. Lyons.
Musica: Max Richter. Scenografia: Shruti
Gupte. Costumi: Niharika Khan. Interpreti: Irrfan Khan, Nimrat Kaur, Nawazuddin Siddiqui. Produzione: Sikhya Entertainment, Dar Motion Pictures, NFDC,
Roh Films, ASAP Films, Cine Mosaic. Distribuzione: Academy Two. Paese: India.
Anno: 2013. Durata: 104 minuti.
Se un mattino di un giorno qualsiasi,
non fosse stato commesso un errore
nella consegna del contenitore per
il pranzo nei luoghi di lavoro, effettuata da fattorini chiamati «dabbawallahs» (vero e proprio rituale
risalente al 1890 e che da allora si
ripete quotidianamente per le strade
di Mumbai), l’impiegato Saajan, prossimo alla pensione, e la casalinga Ila,
appassionata di cucina e moglie di
un uomo che la trascura, non si sarebbero mai conosciuti. Su questo
esile soggetto si basa Lunchbox, opera prima del regista indiano Ritesh
Batra. E attorno a tale pretesto narrativo si dipanano, con delicatezza e
con tocchi leggeri di scrittura e messa in scena, le situazioni che, lentamente e sempre a distanza, faranno
avvicinare i due personaggi, che pure
non si incontreranno mai. Dialogheranno, ogni giorno, attraverso una
corrispondenza scritta, dal momento
in cui Saajan si renderà conto che il
pranzo non proviene dal consueto
ristorante e Ila che i suoi cibi preparati con passione non sono giunti nel
posto dove lavora il marito. Si scriveranno biglietti nascosti nelle ciotole,
piccole grandi lettere che li renderanno un po’ meno soli, nell’affollato
ufficio di una società o nella cucina
di un appartamento.
Senza mai far sentire il peso della
macchina da presa e costruendo il
film con i toni della commedia romantica, nella quale inserire il ritratto sociale di una città complessa
come Mumbai, Ritesh Batra si allontana dalle convenzioni e dai generi
per i quali il cinema indiano è noto
in patria e all’estero. Non ci sono
numeri musicali, sfarzi estetici, personaggi e scene cromaticamente
sopra le righe. Batra, nato nella città
che descrive così bene, compie il percorso opposto, prosciuga le immagini
da qualsiasi eccesso pur riempiendo
ogni inquadratura di un’infinità di
dettagli utili a rappresentare, a dare
consistenza a un ambiente. Non solo
gli interni abitati e frequentati da Ila
e Saajan, ma anche le strade o i treni
- che trasportano milioni di persone,
stipate nei vagoni in un perenne falso
movimento dalle abitazioni ai luoghi
di lavoro e viceversa - diventano in
Lunchbox spazi da osservare e filmare con sguardo in grado di cogliere
sfumature, particolari, gesti compiuti
dai protagonisti o da figure anonime
ma, nell’istante in cui sono portate in
primo piano, altrettanto rilevanti. Non
è quindi casuale che Lunchbox si apra
sull’inquadratura di una stazione ferroviaria ripresa dall’alto con due treni
che viaggiano in direzioni opposte.
Il treno come insostituibile mezzo di
trasporto popolare e come metafora
di destini che si sfiorano e si incrociano. Unitamente a quell’immagine d’esordio, la frase che pronuncia Shaikh,
il giovane nuovo impiegato assunto
per prendere il posto di Saajan, e che
alla fine dirà anche Ila, è emblematica
e racchiude il senso del film: “Qualche volta il treno sbagliato porta alla
stazione giusta”. D’altronde, i cinquemila trasportatori che ogni giorno
consegnano duecentomila pasti caldi
a Mumbai disegnano, con i loro gesti,
con i lunch box spostati dalle biciclette alle portantine ai treni, una immaginaria linea ferroviaria. E un errore,
raro a verificarsi, ma possibile, nella
consegna di un pasto trasforma le
vite di un uomo e una donna di età ed
estrazione sociale differenti. Il “treno
sbagliato” mette in atto una comunicazione altrimenti inesistente. Inoltre, il treno avrà un ruolo significativo
anche per quel che concerne il futuro
di Ila e Saajan, sospesi fra Mumbai e
nuove destinazioni.
Profondamente indiano e, al tempo
stesso, in sintonia con un cinema
universale dei sentimenti (da quello
classico americano alle dinamiche
epistolari create da François Truffaut), Lunchbox è un’opera che, come
il mondo interiore dei personaggi,
vive in un tempo intimo del presente e della memoria. I volti e i corpi di
Saajan (Irrfan Khan, ovvero l’attore
indiano più conosciuto all’estero) e
Ila (Nimrat Kaur, attrice di cinema e
teatro) sono contenitori di un vissuto
ben più ricco della loro attuale quotidianità, di una nostalgia per un modo
di comunicare lontano da frenesie,
che ha bisogno del tempo dell’attesa. Saajan e Ila sono in un tempo che
sembra ancora (r)esistere nei gesti
dei dabbawallahs, nelle vecchie canzoni e in programmi tv degli anni Ottanta che Ritesh Batra omaggia con
affetto con citazioni visive e sonore.
La parola è fondamentale in
Lunchbox. Quella scritta nei biglietti-lettere d’amore che si scambiano
Saajan e Ila. E quella teneramente
pronunciata, oltre che dai due protagonisti, da Shaikh e dalla zia di
Ila, personaggio-memoria che non si
vede mai, di cui si sente solo la voce
dal piano di sopra, attraverso le finestre aperte.
Giuseppe Gariazzo
40
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
LA MIA CLASSE
SAISON CULTURELLE
Regia: Daniele Gaglianone. Sceneggiatura: Gino Clemente, Daniele Gaglianone, Claudia Russo. Fotografia: Gherardo
Gossi. Montaggio: Enrico Giovannone.
Scenografia: Laura Boni. Costumi: Irene
Amantini. Interpreti: Valerio Mastandrea,
Bassirou Ballde, Mamon Bhuiyan, Gregorio Cabral, Jessica Canahuire Laura,
Metin Celik, Pedro Savio De Andrade,
Ahmet Gohtas, Benabdallha Oufa, Shadi
Ramadan, Easther Sam, Shujan Shahjalal, Lyudmyla Temchenko, Moussa Toure,
Issa Tunkara, Nazim Uddin, Mahbobeh
Vatankhah, Remzi Yucel. Produzione:
Axelotil Film, Kimerafilm, Relief, Rai Cinema. Distribuzione: Pablo Distribuzione
Indipendente. Paese: Italia. Anno: 2013.
Durata: 92 minuti.
La mia classe è un film a più strati, a
scatole cinesi, come una lavagna sulla
quale si scrivono e si cancellano parole, frasi, pensieri. Le parole rimosse,
come immagini che lasciano posto ad
altre, non spariscono, si sedimentano
nella memoria, al tempo stesso nascosta e percepibile, della lavagna e dello
schermo, per riaffiorare nelle situazioni
più inattese. La mia classe è un esperimento, un oggetto non identificabile
nelle consuete, e spesso desuete, categorie dentro le quali si tende a inserire
i film. Il nuovo lavoro di Daniele Gaglianone - regista fin dagli esordi a suo
agio in una narrazione e in un filmare
generati dalla contaminazione e dalla
sovrapposizione di elementi volutamente in contrasto fra loro - è un’opera
coraggiosa, fuori dagli schemi, ruvida e
dolce. Frantumando i confini della finzione e del documentario, La mia classe
racconta una storia di estrema attualità,
quella dei migranti e della loro integrazione, e si espone, quasi come segno
inevitabile, al rischio dell’imperfezione, sbandando nell’aderire, di volta
in volta, alle dinamiche del «film nel
film», della realtà, del fuori campo doloroso e indicibile che entra in campo e
va elaborato. In tal senso, La mia classe
è un film stratificato e complesso, pur
mostrandosi
contemporaneamente
fluido e leggero nel muoversi fra materiali differenti che stridono entrando in
contatto.
Nato da un’idea di Gino Clemente e
Claudia Russo, che con Gaglianone
hanno scritto la sceneggiatura, La mia
classe nasce dalla necessità di parlare
con toni originali delle difficoltà vissute quotidianamente dalle persone
straniere che vivono in Italia, la cui
permanenza è legata alla validità di
un permesso di soggiorno. Così, l’idea
del regista di Pietro è stata quella di
mettere insieme un gruppo di adulti,
incontrati in diverse scuole serali per
stranieri di Roma, e formare una vera e
propria classe che, nel corso del film, si
racconta seguendo le lezioni di italiano (richieste per legge al fine di conseguire i documenti per continuare a
rimanere in Italia) di un maestro interpretato da Valerio Mastandrea. L’idea
era semplice e chiara: creare e rendere sempre meno separabili il livello in
cui agiscono l’insegnante e gli studenti
e l’ambito in cui si evidenzia che si
sta girando un film. Perché, come ben
sintetizza Gaglianone, “l’obiettivo era
quello di fare in modo che lo spettatore smettesse di chiedersi che cosa sta
vedendo, un documentario, un film di
finzione, un docufiction, un backstage…
semplicemente perché tutte queste categorie non hanno più senso in questo
contesto”.
Fin dalla scena d’apertura, Gaglianone
(con la complicità del direttore della
fotografia Gherardo Gossi, già autore
delle luci di altri suoi film: I nostri anni,
Nemmeno il destino, Pietro, Ruggine)
esprime questa ricerca creando un
continuo slittamento, un movimento
avanti e indietro nel tempo e nello spazio, mantenendo l’aula come ambiente pressoché unico che si trasforma
in continuazione proprio come si trasformano le vite degli studenti e della
troupe. In un corridoio deserto, Valerio
Mastandrea cammina, si volta, viene
preceduto dalla macchina da presa
che si avvia verso uno stanzone vuoto
e buio seguendo due poliziotti. Solo
verso la fine del film, in una delle tante
possibili «fini» alle quali il testo accenna, si comprenderà il senso di quell’incipit. Senza offrire appigli narrativi
rassicuranti, «costringendo» anche chi
guarda a mettersi in gioco, Gaglianone
sposta lo sguardo su banchi di scuola e
su un’aula che di lì a poco si riempirà
della presenza degli studenti, del maestro/attore e dei fonici che preparano
i microfoni chiedendo agli stranieri di
fare delle prove di voce. Si tratta di una
scena emblematica non solo perché
dichiara la contaminazione e la compresenza del campo e del fuori campo
ma anche perché quelle donne e quegli
uomini iniziano, lentamente, e ognuno
con i propri «tempi», a presentarsi, a
dire un nome, a indicare una provenienza. Gaglianone osserva e disegna
traiettorie, coglie le parole e i gesti che
nascono da contesti diversi: dialoghi fra
quelle persone giunte da varie parti del
mondo (Guinea, Bangladesh, Filippine,
Perù, Turchia, Brasile, Tunisia, Egitto,
Nigeria, Ucraina, Senegal, Costa d’Avorio, Iran) oppure tentativi di dare voce
a frammenti del loro passato. Ci sono
cose che non si possono dire o che si
possono accennare solamente grazie
a un intervento esterno, magari di una
canzone (come fa la ragazza iraniana,
ovvero la persona/personaggio più
commovente con i suoi sguardi, sorrisi,
malinconie, turbamenti, silenzi esplosivi). La mia classe è ricca di tali lampi da
scovare fra gli strati di cui si compone,
fra scene espanse e forti di una valenza
anche didattica o di breve durata, inserite come fossero sogni a occhi aperti,
possibili altre strade da percorrere, altri
film da fare.
Giuseppe Gariazzo
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
MIELE
41
Regia: Valeria Golino. Sceneggiatura: Valeria Golino, Francesca Marciano, Valia
Santella. Fotografia: Gergely Pohárnok.
Montaggio: Giogiò Franchini. Scenografia: Paolo Bonfini. Costumi: Maria Rita
Barbera. Interpreti: Jasmine Trinca, Carlo
Cecchi, Libero De Rienzo, Vinicio Marchioni, Iaia Forte, Roberto De Francesco.
Produzione: Riccardo Scamarcio, Viola
Prestieri per Buena Onda, in collaborazione con Rai Cinema, Les Films des
Tournelles, Cité Films. Distribuzione: BIM.
Paese: Italia, Francia. Anno: 2013. Durata:
96 minuti.
Una ragazza esce da una stanza,
fa qualche passo in un corridoio
stretto, si mette le cuffie e si siede in silenzio. Ha appena portato
a termine il suo compito, aiutare
a morire i malati in fase terminale
che vogliono porre fine alle loro
sofferenze. Si chiama Miele (ma il
suo vero nome è Irene) vive in una
casa sul mare, non lontano da Roma
e passa il suo tempo libero a nuotare da sola. È schiva, all’occorrenza trasparente, immobile, eppure
è sempre in movimento frenetico,
come a voler sfuggire dalla fissità
delle morti cui assiste. È convinta e
sola, Irene, granitica nel suo silenzio e nel suo sguardo lievemente
fragile. Si isola dal mondo ascoltando ossessivamente musica, ma
poi cerca il contatto con l’aria, nelle corse a perdifiato in bicicletta, e
con l’acqua fredda del mare invernale. Vive contrapponendo presenza ad assenza, fino a confondere i
desideri e le regole di una vita tanto discontinua. Miele è un film sulla
morte, che, però, non si vede mai,
e sulle scelte sofferte di porre fine
alla vita, di cui, però, non si parla.
Nella sua prima opera da regista
(liberamente ispirata al romanzo di
Mario Covacich A nome tuo), Valeria
Golino si lascia guidare dall’energia
del suo personaggio e lo segue con
ostinazione, sfiorandolo attraverso
i vetri che separano Irene/Miele dal
resto del mondo, la filma nei suoi
viaggi in aereo tra Italia, Stati Uniti
e Messico (per acquistare i barbiturici a uso veterinario che in Italia
sono proibiti), attraverso i vetri delle case in cui «opera», o al di qua di
finestrini appannati di un’auto. Ma
non si tratta mai di distanza, perché
quei vetri sottolineano un legame,
una fisicità che, però, ha bisogno
di essere vista ogni volta. Come se
solo così potesse imporre la sua
esistenza. Nel muoversi ordinato
e ripetitivo, la macchina da presa
segue i passi della protagonista e
al suo «ordine» si adegua in uno
scambio continuo tra lo sguardo e
il suo oggetto. La storia di Miele è
quella di un cambiamento che si
consuma in profondità e affiora in
poche parole e in pochi gesti. Le
porte, le frontiere, i ponti che si
trova continuamente ad attraversare rappresentano i passi discreti
di questa trasformazione. Anche i
luoghi che la circondano sembrano essere lo specchio dei suoi stati
d’animo: non solo il mare, ma gli
angoli insoliti di una città mutevole
nella densità dell’aria, nella luce,
tra i vicoli stretti e ombrosi e i viali
inondati di sole. La luce, appunto, si
insinua con sorpresa in questo film
che nasce cupo e ripiegato su se
stesso e ci congeda nell’apice di un
dolore e di una nuova consapevolezza che dona sollievo. Il silenzio
lascia il posto alle parole, ai racconti, a spiegazioni tenute segrete,
piccole confidenze che portano altrove l’urgenza di vita.
Ci si accorge così che il percorso di
Miele è maturato all’interno di una
serie di forti contrasti e a partire
dallo slancio vitalistico inscritto
nella sua stessa fisicità (quasi in
contrapposizione con il «lavoro»
che ha scelto di fare). Quasi ragazzo, con la giacca di pelle e lo sguardo assorto, istintivamente protesa
verso il mondo, anche quando sembra schivarlo. L’angelo della morte
sceglie la vita nel momento in cui
morire le appare impossibile. E allora dimentica le regole (“Ci sono
delle regole. Dovevo aspettare che
finisse”, dice all’ingegner Grimaldi,
raccontando di aver lasciato il suo
«paziente» prima che tutto fosse
finito) e smette di essere invisibile.
Miele è un film raffinato per la sua
capacità di trattenere, di raccontare
in soggettiva una storia interiore,
è preciso nell’entrare in simbiosi
con la sua protagonista, coraggiosa
nel lasciarsi alle spalle la tentazione del formalismo. Valeria Golino
controlla con meticolosa passione gli elementi della sua materia,
senza concedere troppo spazio
all’aspetto emotivo della vicenda.
Osserva coinvolta, ma accarezzando la freddezza di uno stile libero
e maturo. Abile nel perseguire un
equilibrio instabile, perfettamente rappresentato dalla geometrica
sregolatezza entro cui si muovono
i suoi personaggi. Ambienti stretti
in ampi paesaggi, situazioni aperte
e indefinibili nell’ottusità delle situazioni famigliari. E poi, alla fine
di questi labirinti, l’idea di libertà e
leggerezza che si scopre in un «altrove», dove un edificio intero si
può reggere solo sull’aria.
Grazia Paganelli
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IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
IL MONDO DI ARTHUR NEWMAN
SAISON CULTURELLE
Arthur Newman
Regia: Dante Ariola. Sceneggiatura: Becky Johnston. Fotografia: Eduard Grau.
Montaggio: Olivier Bugge Coutté. Musiche: Nick Urata. Scenografia: Christopher
Glass. Costumi: Nancy Steiner. Interpreti:
Emily Blunt, Colin Firth, Anne Heche, Nicole Laliberte, Kristin Lehman, Sterling
Beaumon, David Andrews, Peter Jurasik,
Anthony Reynolds. Produzione: Vertebra
Films, Cross Creek Pictures. Distribuzione: Videa. Paese: USA. Anno: 2012. Durata: 101 minuti.
Arthur Newman è una persona vera,
reale, non come Wallace Avery,
uomo triste e apatico che ha bisogno di riflettersi nei vetri dei grandi
palazzi di Los Angeles per capire di
esistere e di voler cambiare vita, acquisire una nuova personalità e scegliere di credere in quello che una
volta sognava e che non ha seguito
fino in fondo: essere un giocatore
di golf sicuro di sé. Colin Firth, nei
panni dell’«uomo nuovo», vuole
cancellare il suo passato, lasciare
il monotono lavoro che lo rende insoddisfatto, dimenticare il divorzio
e la relazione annoiata con la nuova compagna, abbandonare il figlio
che mostra per lui solo indifferenza, e inventarsi una nuova identità.
Questa volta l’attore britannico, rimasto ingabbiato nel ruolo di A single man, non ci convince appieno,
forse perché la sceneggiatura non
attribuisce una forte e precisa caratterizzazione al personaggio, soprattutto dal momento dell’incontro con la misteriosa e fragile Mike.
Tra queste due anime perdenti, che
ripercorrono le lunghe strade dimenticate di un’America di provincia, tra la Florida e l’Indiana, nasce
una vicinanza che non riusciamo
a sentire veramente e per cui non
riusciamo a provare empatia, tra
una complicità di piccole azioni criminali e alcuni riferimenti sessuali non motivati, tanto da lasciare
questa relazione in superficie e in
sospeso.
In concorso al Torino Film Festival
2012, quest’opera prima del regista pubblicitario Dante Ariola si
ispira a una storia di pirandelliana
memoria e prende avvio da un’ambiziosa idea di partenza, che ci
fa riflettere in un’epoca tra le più
grigie sulla tematica dell’identità:
bisogna inscenare la propria morte
visto che la società contemporanea
ci costringe spesso a vivere una
vita che, forse, non è la nostra, e si
decide di ricominciare da capo per
poter vivere un’esistenza che si è
sempre sognata.
Attraverso lo stereotipo del «roadmovie» con autostrade, motel, piccoli supermercati e negozi di hotdog in mezzo al nulla, i due protagonisti vivono una nuova avventura
permeata di identità altrui, come in
Ferro 3 di Kim Ki-duk. Si intrufolano nelle case vuote, si immortalano
in scatti fotografici con le stesse
espressioni di persone che non conoscono, dormono nei loro letti e si
travestono da personaggi che non
gli appartengono.
La falsa identità dell’uomo è subito
svelata dall’esuberante compagna
di viaggio: dotata di una personalità borderline, in fuga da se stessa,
Mike è incarnata da una Emily Blunt
che riesce a esser in alcuni momenti
brillante, forse perché ha un ruolo
leggermente più stratificato e con
qualche sfumatura in più rispetto
alla parte del suo collega. L’uomo
vuole adattare se stesso a un’immagine di sé che si è inventato,
mentre la donna vuole eliminare lo
spettro della malattia mentale, ma
il film risulta incapace di descrivere
ed entrare realmente dentro ai personaggi. A un certo punto, lo spet-
tatore si lascia coinvolgere e spera
di potersi avvicinare almeno ai due
personaggi secondari, il figlio Kevin
e la fidanzata di Newman/Avery, che
sembrano rivelare emozioni e gestualità soffocate e il cui incontro e
legame potrebbe far ri-nascere una
dolorosa storia drammatica densa
di solitudini e insoddisfazioni.
Una commedia dolce-amara e un
dramma intimista che privilegia
uno stile virtuoso e lento fra lunghe
panoramiche e insistenti piani fissi
che si soffermano sui dettagli, gli
sguardi e gli smarrimenti, così come
sul bisogno di follia ed evasione.
Una sceneggiatura lineare con dialoghi essenziali e monosillabici, che
non riesce a dare la giusta intensità alle reazioni dei due personaggi
che hanno deciso di intraprendere
una seconda avventura, ma che poi,
senza giustificazioni, ritornano sui
loro passi.
Durante il viaggio, il protagonista si
domanda se sia davvero possibile
essere Arthur Newman da un giorno
all’altro, oppure se bisogna inevitabilmente e senza appelli, fare i conti
con ciò che si è stato, con le proprie
responsabilità, manifestando però
una presa di coscienza raccontata in
maniera un po’ affrettata. Anche la
parte conclusiva sembra non voler
essere coraggiosa nell’affrontare la
realtà, ma preferisce rimanere conciliatoria: l’impressione che ne rimane è quella di aver condiviso un
percorso con qualcuno che alla fine
è rimasto per noi un estraneo.
Alexine Dayné
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
NEBRASKA
43
Regia: Alexander Payne. Sceneggiatura:
Bob Nelson. Fotografia: Phedon Papamichael. Montaggio: Kevin Tent. Musica:
Mark Orton. Scenografia: J. Dennis Washington. Costumi: Wendy Chuck. Interpreti: Bruce Dern, Will Forte, June Squibb,
Bob Odenkirk, Stacy Keach, Missy Doty,
Devin Ratray. Produzione: Bona Fide Productions. Distribuzione: Lucky Red Distribuzione. Paese: Usa. Anno: 2013. Durata:
110 minuti.
La New Hollywood non è mai del tutto
finita. Nemmeno il road movie è mai
del tutto finito. Un regista come Alexander Payne, ad esempio, fin dagli
esordi (La storia di Ruth, donna americana, 1996) ha preso come modello il
cinema americano degli anni ’70 e la
sua inconfondibile aura malinconica,
il suo umanesimo e la sua vitalità. Al
road movie, poi, che di quella stagione è il genere simbolo, ha dedicato
diversi film, da A proposito di Schmidt
a Sideways fino a questo suo ultimo
Nebraska.
Per Payne, dopo le Hawaii cementificate e borghesi di Paradiso amaro,
si tratta di un ritorno a casa (è nato a
Omaha, nel 1961), nonostante il film
sia il primo del quale firma solamente la regia e non la sceneggiatura. Il
racconto di un viaggio che dal Montana porta al Nebraska, protagonisti un
anziano padre smemorato e un figlio
quarantenne, tra riunioni di famiglia,
ricordi, liti e riconciliazioni, evoca lo
spirito nomade della New Hollywood
e riporta il regista ai toni tragicomici
del suo cinema migliore. Il bianco e
nero luminoso delle immagini riporta
poi agli anni ’70 quasi come un riflesso condizionato, una scelta naturale, e
fa pensare al Bogdanovich di L’ultimo
spettacolo o Paper Moon. Allo stesso
modo, l’anziano genitore protagonista, instancabile e scorbutico, rimanda
all’analoga figura di Harry e Tonto di
Mazursky, un altro dei film simbolo di
quel periodo, mentre l’umorismo sulla
vita di provincia fa pensare alle tonalità tragicomiche di Harold e Maude o
allo sguardo sociologico di un capolavoro semisconosciuto come Smile
di Michael Ritchie. Gli anni ’70 sono
ovunque, in Nebraska, lo trasformano
in un film di rimandi e reminiscenze
cinefile. Per fortuna, però, non compongono un puro e semplice catalogo di citazioni: Payne riprende sì una
tradizione, ma la aggiorna; gira sì un
film inattuale, un po’ derivativo, ma in
modo autentico.
Nebraska è un racconto sulla vecchiaia, sul disfacimento del fisico e la resistenza della mente, sui ricordi che perseguitano e sugli affetti che svaniscono. E per questo è una storia universale
che gioca sui tempi morti e sull’ironia,
sulla rabbia repressa e il senso di rivalsa. La struttura è quella tipica del road
movie, con due personaggi che partono
per un viaggio impossibile, ma è evidente che il vero fulcro della commedia
sono i rapporti umani e non la dinamica
del viaggio.
Payne non è Lynch, Nebraska non ha la
potenza teorica e filosofica di Una storia vera, e nemmeno vuole averla. Immerso fra autobiografia e classicità, il
regista americano infarcisce il suo film
del tipico umorismo grottesco e buffo
di certo cinema indie, e per questo sa
anche essere profondamente drammatico. Nel volto scavato e malandato di
Bruce Dern (altra presenza che rimanda
alla New Hollywood, a capolavori come
Driver l’imprendibile o Il re dei giardini di
Marvin) Payne trova la desolazione del
tempo che scappa e condanna alla vita,
la pesantezza di un corpo fragile, zoppicante, che inchioda il suo proprietario a
un’esistenza di fastidio e insofferenza.
Come sempre, lavora sui dettagli, sui
volti, gli abiti, gli interni, su tutto ciò
che, a partire dal catalogo di orrori della
famiglia di origine dell’anziano protagonista, rivela cultura, tradizione e de-
solazioni di un capitalismo morbido e
in fondo innocuo. La vera vita americana è quella del Nebraska e del Montana,
punto di partenza del viaggio al centro
del film, del ritorno a Itaca di un Ulisse
in minore, una vita piatta come le pianure a perdita d’occhio, una main street
deserta da attraversare in macchina a
passo d’uomo (in una scena, questa sì,
che ricorda il trattore di Lynch e la sua
apparizione quasi magica) come a una
sfida al desolante paesaggio fisico e
umano.
Payne però non è rabbioso come il
suo protagonista. Con Nebraska vuole
raccontare soprattutto la reazione al
torpore della vecchiaia e della vita; l’energia vitale che si percepisce in tutti i
suoi personaggi è infatti ciò che rende
il film un’opera viva, nonostante i riferimenti al passato. L’imprevedibilità
delle situazioni e dei dialoghi scardina
la composizione formale controllatissima, il bianco e nero grigiastro, la trama prevedibile e pietosa del racconto
(non c’è redenzione o soddisfazione,
solo affetti da recuperare e accettare). Certo, il protagonista è un musone
scorbutico e insoddisfatto che forse
preferirebbe essere già morto, ma al
tempo stesso è una specie di monumento alla cultura americana, uno
degli ultimi uomini ad avere ricordi
diretti della guerra di Corea, uno degli
ultimi, come dice il figlio, a fidarsi di
quello che la gente gli dice. E Nebraska
è così: un film che crede nelle persone,
che racconta vicende ordinarie e un
po’ scontate di uomini tristi ma veri,
credibili, condannati dalla loro mediocrità a vivere vite infelici, ma in realtà
non ancora sconfitti dalla vita.
Roberto Manassero
44
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
NINOTCHKA
SAISON CULTURELLE
Réalisation : Ernst Lubitsch. Scénario :
Charles Brackett, Billy Wilder, Walter
Reisch. Image : William H. Daniels. Montage : Gene Ruggiero. Musique : Werner
R. Heymann. Décor : Cedric Gibbons,
Randall Duell, Edwin B. Willis. Costumes :
Adrian. Interprétation : Greta Garbo,
Melvyn Douglas, Ina Claire, Bela Lugosi,
Sig Ruman. Production : Ernst Lubitch
pour Loew’s. Distribution : Metro Goldwin Mayer (1939), Cineteca di Bologna et
Circuito Cinema (2014). Pays : États-Unis.
Année : 1939. Durée : 110 minutes.
Lorsqu’il tourne Ninotchka, de mai à juillet 1939, Ernst Lubitsch, entre dans la
dernière phase de sa carrière, période
d’une créativité intense où il enchaînera
les chefs-d’oeuvre d’année en année. Il
reste un peu moins de dix ans à vivre au
célèbre cinéaste berlinois, émigré aux
États-Unis fin 1922. Il vient de quitter
la Paramount où, pendant onze ans, il a
dirigé sa propre unité de production et
achevé un cycle de comédies classiques,
dont le style sophistiqué – marivaudages
dans les milieux aisées d’une Europe
fantaisiste – ont durablement marqué
Hollywood. Lubitsch rêve alors d’indépendance et Ninotchka lui sert de passeport auprès de David O. Selznick, patron
de la M.G.M., pour l’aider à fonder sa
maison de production et réaliser, l’année
suivante, un projet qui lui tenait à cœur :
The Shop around the Corner (1940).
Ninotchka, film transitoire et satire politique acide, marque donc une inflexion
dans le cinéma jusqu’alors intemporel
de Lubitsch : une ouverture sensible aux
réalités de l’histoire qui aboutira, trois
ans plus tard, à cette détonnante dérision du nazisme à l’œuvre dans To Be or
Not To Be (1942).
Le film raconte le passage à l’Ouest
d’une jeune soviétique rigide, assouplie par son contact avec les charmes
du monde capitaliste. Ninotchka (Greta
Garbo) est envoyée à Paris pour suppléer
trois agents pieds-nickelés à la vente
problématique de bijoux confisqués
par le jeune État soviétique. Mais, dans
la rue, elle fait la rencontre d’un parasite mondain, le comte Léon d’Algout
(Melvyn Douglas), gigolo de la Grandduchesse Swana (Ina Claire), une russe
blanche exilée et propriétaire putative
des bijoux. Ninotchka se laisse d’abord
promener dans toute la capitale par
d’Algout, suave séducteur qui, petit à
petit, parvient à briser sa froideur pragmatique et fait naître l’amour dans son
cœur. Mais, derrière lui, sa vieille maîtresse délaissée veille à reconquérir ses
droits et ses bijoux.
À première vue, l’intrigue pouvait laisser
craindre une charge anti-soviétique primaire combinée à une glorification satisfaite du monde capitaliste. Mais le scénario, signé une seconde fois par le brillant
duo Billy Wilder-Charles Bracket après
La Huitième Femme de Barbe-Bleue, multiplie les délicieuses saillies renvoyant
l’Est et l’Ouest dos à dos – l’irritante
extravagance de la duchesse, la filouterie du bijoutier. De son côté, Lubitsch a
horreur des simplifications, des situations manichéennes. Sa mise en scène,
merveilleux jeu de cache-cache entre
ce que l’image désigne et ce que le son
ne dit qu’à demi-mot, met absolument
tout le monde en boîte. S’il transporte
ses personnages et leurs idées sur une
scène imaginaire, ce Paris hollywoodien
de fêtes et de rires, zone de mélange et
d’hétérogénéité où toute rencontre devient possible, c’est bien pour s’éloigner
des logiques partisanes. Il s’amuse surtout des frictions et incompréhensions
que provoque, dans ce décor grisant, le
croisement de deux visions du monde
diamétralement opposées. Lorsque Ninotchka arrive en gare, elle plaint le porteur qui s’empare de ses valises : “ C’est
de l’injustice sociale !” .
“ - Ça dépend du pourboire ”, lui répond-il,
penaud. Ainsi, le film ne raconte pas tant
l’histoire d’une conversion, forcément à
l’avantage d’un camp, que d’un échange,
d’une transformation commune. Certes,
Ninotchka s’humanise à la découverte
de l’amour, mais d’Algout est à son tour
revitalisé par l’idéalisme et la franchise
de l’héroïne. La nature humaine, si changeante, si versatile, mais par cela-même
si précieuse, demeure au centre des préoccupations de Lubitsch.
Dès lors, ce n’est pas tant le communisme
en lui-même que vise la satire, mais la
doctrine, l’utopie politique, toutes ces
fictions d’État qui s’interposent entre un
être et le monde extérieur. Si Ninotchka
se montre d’abord intransigeante, c’est
par un excès de croyance qui confine à
l’aveuglement : elle n’a en tête que des
images de grandeur. La scène où d’Algout, dans une petite cantine ouvrière,
tente de la faire rire, agit comme le véritable pivot de sa transformation. C’est
moins par le discours que le comte parvient à lui décrocher un sourire, qu’en
tombant de sa chaise par maladresse.
Tout à coup, Ninotchka surprend le ridicule, la petitesse, la chute burlesque qui
ravale tous les hommes au même niveau.
Sa vision du monde chancelle et, soudain, change d’échelle. Elle lâche alors
un immense éclat de rire qui ne serait
pas si émouvant s’il ne rencontrait aussi
la mue de l’actrice qui l’incarne. Greta
Garbo jusqu’alors célèbre pour ses rôles
tragiques, nourrissait depuis longtemps
le désir de travailler avec Lubitsch. À
cet instant où elle rit d’un si bon cœur,
c’est son masque de cire qui se craquèle
et dévoile une nouvelle actrice, moins
sérieuse, plus fantasque, plus fraîche,
plus humaine aussi. Ninotchka s’ignorait en tant qu’amoureuse et Garbo en
tant qu’amuseuse : les deux naissent à
elles-mêmes simultanément, et c’est un
événement comme il en existe peu dans
l’histoire du cinéma.
Mathieu Macheret
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
NO – I GIORNI DELL’ARCOBALENO
45
No
Regia: Pablo Larrain. Sceneggiatura: Pedro Peirano. Fotografia: Sergio
Armstrong. Montaggio: Andrea Chignoli,
Catalina Marin Duarte. Musica: Carlos
Cabezas. Scenografia: Estefania Larrain.
Costumi: Catherine George. Interpreti:
Gael Garcia Bernal, Alfredo Castro, Antonia Zegers, Marcial Tagle. Produzione:
Canana Films, Fabula. Distribuzione: Bolero Film. Paese: Cile, Francia, Usa. Anno:
2012. Durata: 118 minuti.
“Questa pubblicità sta nella società”. Questo è lo slogan con cui
René Saavedra, che lavora come
creativo in un’agenzia pubblicitaria
di Santiago del Cile, presenta tutte
le campagne da lui stesso ideate.
Siamo negli anni ottanta e la società dei consumi, già ampiamente affermata negli Stati Uniti, comincia a
prendere piede anche in realtà economicamente più arretrate come il
Sud America.
No, quarto film del regista cileno
Pablo Larrain, prende le mosse da
fatti realmente avvenuti: nel 1988
il dittatore cileno Augusto Pinochet
è costretto a cedere alla pressione
dell’opinione pubblica internazionale e a sottoporre a referendum
popolare il proprio incarico di presidente, ottenuto grazie al colpo
di stato che nel 1973 rovesciò un
governo democraticamente eletto
e uccise il presidente Salvador Allende, cui Larrain aveva dedicato il
suo film precedente Post Mortem.
Attraverso il referendum, i cileni
possono decidere se affidare a Pinochet altri otto anni di potere; per
la prima volta da anni, anche i partiti di opposizione potranno avere
uno spazio quotidiano in televisione, e la possibilità di trasmettere
uno spot a favore del no, della durata di 15 minuti.
Ispirato a un testo teatrale di Antonio Skàrmeta, il film di Pablo
Larrain compie una scelta stilistica
originale e coraggiosa: girato con
una macchina da presa analogica in
formato 4:3, la stessa che si usava
negli anni ottanta (cioè all’epoca in
cui si svolgono i fatti narrati), No si
compone di immagini di finzione
che hanno lo stesso look e la stessa
aurea dei filmati di repertorio che
compaiono all’interno del testo (ad
esempio Karol Wojtyla che sorride
al dittatore e gli stringe la mano,
ma anche tutti i video per il «no» e
per il «si» sono autentici).
In questo modo, la superficie del
testo si presenta e scorre in maniera omogenea, dando allo spettatore
l’impressione di essere di fronte
a una testimonianza dell’epoca,
immediata nella sua ruvidezza e
sincera nel suo mettere a nudo le
proprie strategie. Ed è sconcertante
come la qualità dell’immagine del
film rimandi continuamente alla
memoria televisiva dello spettatore – in primo luogo a quelle telenovelas spesso citate all’interno
del film – e mai all’immaginario cinematografico dell’epoca. Proprio
qui sta il valore aggiunto del lavoro
di Larrain: per raccontare il decennio che vide tramontare la retorica
aulica del cinema e l’affermazione
dell’eloquio quotidiano del piccolo
schermo, il film si avvale degli stessi mezzi che aveva a disposizione
chi faceva comunicazione trent’anni fa.
Il fatto di mettere in parallelo due
percorsi storici così tradizionalmente lontani – la dolorosa vicenda politica di un paese sconvolto da
una dittatura sanguinosa e l’evoluzione dei mezzi di comunicazione di
massa – e di intrecciarli, costruendo
un quadro storico in cui il politico e
il culturale diventano uno lo spec-
chio dell’altro, è il vero merito del
film. No mette in evidenza come
il linguaggio politico – per guadagnarsi il favore del popolo, che è
anche il pubblico – debba adeguarsi alla comunicazione pubblicitaria, facendo suoi gli strumenti del
marketing e del linguaggio dello
spot. Il prezzo da pagare è alto e
Larrain non cerca giustificazioni: il
dolore dell’ingiustizia e della violenza perpetrata per decenni a un
intero paese deve essere superato
(dimenticato?) per dare spazio a
quelli che sono gli imperativi della
comunicazione televisiva: ottimismo, leggerezza, benessere economico. Il fatto di promuovere un referendum contro una dittatura non
fa nessuna differenza: il linguaggio
dello spot è sempre lo stesso, sia
che si parli di democrazia negata, di
una bibita analcolica o di un forno a
microonde. L’appiattimento estetico a cui va incontro l’immaginario
di un’intera nazione è il prezzo da
pagare alla storia per essere traghettati nel futuro. La democrazia
deve essere «cool» e «liberal», e
deve sposare l’ideologia del libero mercato. Solo così anche il Cile
potrà addentrarsi davvero negli
anni ottanta, lasciarsi alle spalle la
dittatura politica ed entrare a far
parte della dittatura della finanza
internazionale.
Silvia Colombo
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IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
IL PASSATO
SAISON CULTURELLE
(Le passé)
Regia e sceneggiatura: Asghar Farhadi.
Fotografia: Mahmoud Kalari. Montaggio:
Juliette Welfling. Musica: Evgueni Galperine, Youli Galperine. Scenografia: Claude
Lenoir. Costumi: Jean-Daniel Vuillermoz.
Interpreti: Bérénice Bejo, Ali Mosaffa, Tahar Rahim, Pauline Burlet, Jeanne Jestin,
Elyes Aguis, Babak Karimi. Produzione:
Memento Films Production, France 3
Cinéma, Bim. Distribuzione: Bim. Paese:
Francia, Italia. Anno: 2013. Durata: 130
minuti.
Nel suo primo film girato lontano
dall’Iran, e finanziato da una coproduzione franco-italiana, Asghar
Farhadi continua a elaborare una
personale, e sempre più complessa riflessione sulle relazioni sentimentali e sulle dinamiche, i fragili
equilibri, le instabilità e le identità precarie di coppia. Il passato è
così l’ideale prosecuzione di Una
separazione, il lavoro precedente
del cineasta iraniano che gli valse
l’Orso d’oro al festival di Berlino
nel 2011 e l’Oscar come miglior
film straniero l’anno successivo.
Il passato espande e moltiplica le
situazioni descritte in Una separazione, allarga la crisi di un rapporto
per coinvolgervi più coppie e i figli,
bambini e adolescenti, di quelle famiglie esistite, finite, ricominciate
con nuovi protagonisti. Di film in
film, Farhadi confeziona un feroce
mosaico nel quale intrappola i personaggi, un vero e proprio «cul de
sac» dei sentimenti. Lucido e crudele, il cinema di Farhadi è reso
possibile da progressive confessioni, rivelate dalla moltitudine delle
figure maschili e femminili che entrano ed escono di scena, necessarie per far deviare le storie verso
ulteriori esplorazioni dei conflitti
interiori. Quando sembra sul punto di sciogliere anche solo qualche
nodo dell’intreccio, Farhadi apre
nuove porte e lascia tutto in sospeso. Nulla è iniziato e nulla termina.
Basta un minimo accadimento e ci
s’immerge, ancora una volta, nella disamina dei comportamenti di
un gruppo di personaggi chiamati
a duellare in una infinita «luna di
fiele» (rivelandosi Farhadi come un
autore sempre più in sintonia con la
poetica di Roman Polanski, si pensi
a Carnage).
Il pretesto per avviare l’inestricabile gioco delle parti è semplice e
in questa scelta Farhadi si mostra
cineasta profondamente iraniano, essendo tradizione del cinema
di quel paese mettere in funzione
narrazioni e far compiere deviazioni di percorso ai personaggi a partire da un esile punto di partenza. Ne
Il passato l’iraniano Ahmad torna a
Parigi per firmare le carte del divorzio dalla moglie francese Marie.
Nella scena d’apertura a Farhadi
non servono dialoghi, che in seguito saranno fondamentali, per descrivere l’impossibilità a ricondurre
alla «normalità» un rapporto segnato da un’incrinatura indelebile.
Farhadi condensa in un’immagine
il senso del discorso, evita fronzoli,
raggiunge l’essenziale. Prima ancora che Ahmad e Marie si parlino
sono i vetri dell’aeroporto a spiegare, in maniera inequivocabile, la
distanza fra i due. Lui è nella hall,
lei all’esterno. I vetri sono una superficie che impedisce loro di parlarsi o, anche se cercassero di farlo,
di non riuscire a sentirsi.
Ma vi è anche un altro dettaglio, apparentemente marginale, che sintetizza la frattura creatasi fra Marie e
Ahmad. La donna (interpretata con
intensità da Bérénice Bejo, mentre
nei panni di Ahmad c’è una star del
cinema iraniano, Ali Mosaffa, già in
Una separazione) porta una fascia
al polso, conseguenza di un lieve
incidente. Tuttavia, la fasciatura
(che già compariva in un altro film
di Farhadi, Chahar Shanbeh Souri,
del 2006) ha ben altro significato:
è la metafora di un rapporto non
più saldabile, custode della memoria di quel che è successo alla coppia e rappresentazione della fine
- che, nel cinema di Farhadi, non è
mai schematica, in quanto i fantasmi del non detto continueranno
ad aleggiare nelle menti e nei corpi
dei protagonisti.
Il passato è un film corale e, appena
si entra nella casa di Marie, le scene
si popolano degli altri personaggi
che condividono con lei la quotidianità e che Ahmad ritrova dopo la
sua assenza o incontra per la prima
volta. Ci sono la piccola Léa e l’adolescente irrequieta Lucie, le due
figlie che Marie ha avuto da altre
relazioni; il compagno attuale di
Marie, Samir, e suo figlio Fouad. E
c’è Céline, la moglie di Samir, che
è così presente nella sua assenza,
dato che è in coma dopo avere tentato il suicidio.
Farhadi non chiude le storie, è un
tratto del suo cinema. I particolari
si sono accumulati, come gli oggetti nelle stanze dell’abitazione
di Marie. Ognuno è indispensabile
per aggiungere informazioni che il
regista inserisce nelle inquadrature, lasciando al tempo stesso intravedere in esse inesauribili punti di
fuga.
Giuseppe Gariazzo
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
PHILOMENA
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Regia: Stephen Frears. Sceneggiatura:
Steve Coogan, Jeff Pope. Fotografia: Robbie Ryan. Montaggio: Valerio Bonelli.
Musiche: Alexandre Desplat. Scenografia: Alan MacDonald. Costumi: Consolata Boyle. Interpreti: Judi Dench, Steve
Coogan, Neve Gachev, Charlie Murphy,
Simone Lahbib, Sophie Kennedy Clark,
Charles Edwards, Xavier Atkins, Charlotte Rickard. Produzione: BBC Films, Baby
Cow Productions, British Film Institute,
Magnolia Mae Films, Pathé. Distribuzione: Lucky Red. Paese: Regno Unito. Anno:
2013. Durata: 98 minuti.
Basato sul romanzo di Martin Sixmith
The Lost Child of Philomena Lee e tratto quindi dalla vera storia di Philomena, il film ripercorre la vicenda di
questa donna, attraverso alcuni flash
back ben dosati: negli anni Cinquanta, ancora adolescente, Philomena
rimane incinta, viene cacciata dalla
famiglia e trasferita in un convento
a Roscrea in Irlanda, ma dopo pochi
anni le viene cinicamente e definitivamente sottratto il bambino. Il silenzio e il segreto che la donna porta
dentro di sé per ben cinquant’anni
si rompe e si svela, portandola alla
ricerca di quel figlio perduto grazie
all’aiuto e al fervore disincantato del
giornalista Martin (Steeve Coogan).
I due straordinari protagonisti, pur
avendo vite completamente in contrasto, compiono un viaggio in Irlanda e negli Stati Uniti, tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, metafore
rispettivamente della visione salda
e combattiva della religiosa donna
di campagna, e del pensiero di vendetta dell’uomo della città da poco
disoccupato che sta cercando il suo
status sociale. Entrambi, quindi, sono
alla ricerca di una nuova vita e questo conflitto così netto in principio, si
riunirà in seguito in una condizione
universale di umanità tollerante e
paziente, portandoli infine a elaborare la loro sofferenza.
Lo scontro e l’incontro tra questi due
individui, Martin e Philomena, è diretto da Frears con consapevolezza e
intelligenza, riuscendo a evitare stereotipi azzardati e affidandosi al valore indiscutibile di due attori come
Judi Dench e Steve Coogan che, nel
corso dell’opera, mettono in luce
sfumature sempre più interessanti
nei loro personaggi. È soprattutto il
dono dell’ironia e quella capacità di
toccare argomenti scottanti in modo
delicato, ma sempre con rispetto e
lucidità, che lega Frears ai suoi attori
e segna la differenza tra la sua pellicola e altre commedie, accostabili a
essa per genere o tono.
Toccando temi profondi e drammatici, la pellicola riesce a essere emozionante – raggiungendo anche alcune corde più intime – delicatamente
divertente e a tratti frizzante, degna
dello humour inglese, caratteristico
di Frears, che esorcizza così questo
racconto tanto doloroso.
Il perdono è insito in Philomena,
che per tanti lunghi anni non si è
mai arrabbiata, non ha mai giudicato, né portato rancore perché capace di provare una vera e sana fede
e un’obbedienza che vanno oltre il
cattolicesimo di Roscrea, relegato
nel suo squallore inquisitorio, vestito di abiti monacali, altari con crocifissi, confessionali e penitenze senza
limiti corporali e psicologici.
Philomena è un esempio positivo, è
consapevole della sua talvolta eccessiva semplicità, e non avverte mai
disagio, anzi, coltiva la virtù. Il suo è
un amore materno, incondizionato e
infinito che, attraverso il passato così
sofferto e conflittuale, deve ricercare la verità e la quiete nel presente.
Philomena è una madre che si strugge per aver permesso di allontanare
il piccolo Anthony dalle sue braccia,
ma che ritrova sempre la forza vitale
e la speranza di poterlo incontrare o
di conoscere la sua realtà grazie ai ricordi vividi del suo sorriso e dei suoi
teneri baci.
Frears sceglie ancora la sua icona:
una meravigliosa Judi Dench, che si
mostra allo spettatore forse ancora
più vera, con gli occhi colmi di lacrime e segnata dalle rughe per una
vita «amputata», diversa dalle sue
interpretazioni eccentriche, ma con
la stessa carica comunicativa e non
per questo meno signorile. Forse ancora più vera, basta una leggera modulazione del viso a restituirci la profondità di questo personaggio che ci
rimanda subito al ritratto della reale
Philomena, priva di autocommiserazione, e così credente nonostante le
ingiustizie subite. Sicuramente il film
non vuole dare giudizi né tantomeno
risposte al cattolicesimo e alla fede,
ma ci invita a riflettere, lasciandoci la
libertà di interpretare che cosa sia il
perdono.
Alexine Dayné
48
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
LA PRIMA NEVE
SAISON CULTURELLE
Regia: Andrea Segre. Sceneggiatura: Andrea Segre, Marco Pettenello. Fotografia:
Luca Bigazzi. Montaggio: Sara Zavarise.
Musica: Piccola Bottega Baltazar. Costumi: Silvia Nebiolo. Interpreti: Matteo
Marchel, Jean-Christophe Folly, Anita
Caprioli, Giuseppe Battiston, Peter Mitterrutzner, Paolo Pierobon. Produzione:
Jolefilm, Rai Cinema. Distribuzione: Parthenos. Paese: Italia. Anno: 2013. Durata:
105 minuti.
Con La prima neve Andrea Segre prosegue l’idea di un cinema umanista,
radicato in una provincia italiana
quieta e dimenticata. Dopo la Chioggia di Io sono Li, piccola Venezia che
con i suoi canali e le sue nebbie avvolgeva l’amore impossibile tra una
cinese e uno slavo, per il secondo film
di finzione il regista veneto ha scelto
di posare il suo sguardo, ancora condizionato dal lavoro di documentarista, sull’alta montagna del Trentino.
A Pergine, per la precisione, località
della Val dei Mocheni appoggiata
sul versante dolce di una montagna
accogliente e bellissima, colorata
del giallo intenso dell’autunno e del
bianco sparso di paesini impegnati ad
aggrapparsi per non cadere.
In questa montagna vicina eppure distante, spesso invisibile per il cinema
italiano, Segre racconta la silenziosa
quotidianità di personaggi autentici
e sommessi. Quanta Italia sconosciuta eppure familiare è annidata nei
luoghi fisici e nei paesaggi umani
dei suoi film. L’Italia normale, né giusta né sbagliata, della provincia che
con l’immigrazione sa convivere, che
nell’incontro con il diverso non frappone pregiudizi o interessi, ma semplicemente si impegna per accogliere,
offrire e chiedere in cambio. L’Italia
delle corriere che fanno la spola tra
la città e le alture; l’Italia dei lavoratori onesti ma disillusi; l’Italia che la
domenica va ancora in chiesa, senza
rabbia o ideologia, ma come un rituale senza peso; l’Italia che frequenta i
pub della città più vicina, che indossa
vestiti dozzinali alla moda, che abita
case anonime e pulite, che sopporta
drammi personali e convive con tra-
gedie universali, vicinissima al cuore
degli uomini e distante anni luce dal
palcoscenico del mondo. Se esiste
ancora la possibilità di un cinema realistico, narrativo e romanzesco, Segre
la individua nel melodramma di La
prima neve, condotto su toni minori e
infelicità silenziose. Nei boschi giallastri di un autunno che volge all’inverno, in attesa della prima neve, il film
racconta la nascita dell’amicizia tra
un ragazzino non ancora adolescente e un trentenne togolese arrivato
in Italia attraverso l’inferno della Libia. Michele e Dani, biondo il primo
scurissimo il secondo, sono segnati
dal dolore e dalla perdita, uno perché orfano di padre, una guida alpina
travolta da una valanga, l’altro perché
distrutto dalla morte della moglie
durante l’attraversata del Mediterraneo. Michele non ha ancora superato
l’idea dell’abbandono, sente il vuoto
per la mancanza del padre e rivolge
la rabbia verso la madre; Dani, invece,
rimasto solo con i suoi pensieri, con
le lettere che scrive alla moglie nella
sua testa, è incapace non solo di occuparsi della figlia neonata, ma addirittura di guardarla, di cogliere nei suoi
occhi lo sguardo dell’amore perduto.
Segre ha la capacità e il coraggio di
raccontare storie sentimentali senza
il cinismo e la distanza emotiva che il
postmoderno richiede. Il suo cinema
è piacevolmente inattuale, filma spazi geografici che gli sono familiari e a
partire da questa prossimità emotiva
li trasforma in luoghi ideali. La costruzione del racconto procede con un andamento classico, segue le vite parallele dei due protagonisti e le avvicina
poco alla volta, senza stabilire a priori
la dinamica del loro rapporto, ma facendo emergere un legame tra giovane e adulto che rifugge il racconto
di formazione e allestisce un’amicizia
sincera. Tutt’attorno, a conferma di
una rete di relazioni romanzesche, le
figure minori guadagnano spazio e
profondità: la madre di Michele, giovane vedova piena di affetto, sensi di
colpa e desideri; il nonno falegname
e apicoltore, uomo rude, antico e capace di grandi generosità; lo zio sognatore fallito e rassegnato… Quello
di Segre è un affresco realistico, la
descrizione a tratti minuziosa di un
paesaggio umano attraversato da tensioni dirompenti, attenuato dall’enormità dello spazio circostante. I campi
lunghi sui paesi di montagna sovrastati dalle cime si alternano ai primi
piani dei personaggi; l’andamento incomprensibile delle emozioni umane
si confronta con il passo immutabile
dei giorni e delle stagioni. In questa
dialettica tra immensità e intimità,
tra irrequietezza e regolarità, La prima neve trasforma l’incontro tra un
ragazzino e un adulto nel confronto
universale di due solitudini, di due
abbandoni, affidando alla natura stessa, accogliente e insieme distante, il
compito di sciogliere il dolore.
Con la prima neve dell’inverno, infatti, la tragedia si stempera, la vita può
ricominciare a prevalere sulla morte,
mentre sui sentieri di montagna il
manto bianco cresce a vista d’occhio,
non per seppellire il passato, ma finalmente per purificarlo.
Roberto Manassero
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
QUESTIONE DI TEMPO
49
(About time)
Regia e sceneggiatura: Richard Curtis.
Fotografia: John Guleserian. Montaggio:
Mark Day. Musiche: Nick Laird-Clowes.
Scenografia: John Paul Kelly. Costumi:
Verity Hawkes. Interpreti: Domhnall Gleeson, Rachel McAdams, Bill Nighy, Tom
Hollander, Lee Asqith-Coe, Margot Robbie, Lindsay Duncan, Paul Blackwell. Produzione: Translux, Working Title Films.
Distribuzione: Universal Pictures. Paese:
Gran Bretagna. Anno: 2013. Durata: 123
minuti.
Il viaggio nel tempo è un archetipo
cinematografico: il cinema ha spesso
messo in scena personaggi che appaiono e scompaiono dal presente per le ragioni più varie. La maggior parte di questa produzione si posiziona all’interno
del filone fantascientifico (da Terminator a L’esercito delle 12 scimmie, passando per Man in Black e Looper), ma si è
utilizzato questo espediente anche per
esplorare le origini famigliari, o l’intero
arco di una vita (si può considerare Peggy Sue si è sposata come uno delle pietre miliari del genere). Da un certo punto in avanti, inoltre, il viaggio del tempo
si è verificato senza alcun bisogno di
congegni o artifici tecnologici (come
accadeva in Ritorno al futuro dove era
una macchina a trasportare Micahel J.
Fox negli anni Cinquanta): i personaggi
utilizzavano solo il corpo come veicolo
(e come causa) di spostamenti lungo
l’asse temporale.
Da questo punto di vista il film di Richard Curtis (noto per aver creato il personaggio di Mr. Bean e per esser stato
lo sceneggiatore di grandi successi di
pubblico come Quattro matrimoni e un
funerale, Il diario di Bridget Jones e Notting Hill) porta alle estreme conseguenze la semplificazione e la naturalezza di
questo meccanismo.
Non c’è nessuna spiegazione per cui il
giovane Tim, una volta compiuti i ventun’anni, possa viaggiare nel tempo:
semplicemente è una caratteristica che
tutti i membri maschi della famiglia
possiedono. Basta che Tim si apparti in
un luogo buio e stringa i pugni per poter tornare a rivivere qualunque giorno
della sua vita. Non può cambiare epoca o luogo, ma può influire sul proprio
futuro e su quello delle persone a lui
più vicine (genitori, sorella, fidanzata).
Quello di Questione di tempo è una visione domestica, intimista e privata
del viaggio a ritroso nel tempo: non vi
è nessuna implicazione politica, sociale, storica e nessun impegno contratto
con l’umanità intera (come accade nella saga di Terminator). Non vi si trova
il senso di una predestinazione, né il
gusto del pittoresco di un’esperienza
estetica e artistica (come in Midnight
in Paris di Woody Allen). Ciò che interessa al protagonista è solo portare
a buon fine la sua relazione e riuscire
a ricucire i piccoli, ma dolorosi strappi che costellano i rapporti nel nostro
quotidiano. Questo film rappresenta un esempio interessante di come
la romantic-comedy utilizzi il fattore
tempo per raccontare storie d’amore
e sotto questo profilo è molto simile
a Un amore all’improvviso di Robert
Schwentke, pellicola che condivide con
il film di Curtis la presenza dell’attrice
protagonista (Rachel McAdams, perfetta nel mettere in scena la moglie
e la fidanzata modello). Il paragone
tra i due film mette in luce l’assenza
di ogni problematicità in Questione
di tempo: se nel film di Schwentke, il
protagonista Eric Bana – a causa di un
difetto genetico – scompariva dal proprio presente senza volerlo, in modo
improvviso e doloroso, lasciando ogni
volta un vuoto nella vita di chi restava
(spezzando anche il tessuto del testo
e il fluire della narrazione), Tim parte
e torna – aggiustando di volta in volta il proprio presente a seconda delle
sue necessità – senza che nessuno si
accorga di niente, senza che si verifichi
alcuna alterazione nel fraseggio della
macchina da presa e senza nessuno
scossone a livello di regia. Questo
aspetto rappresenta senza dubbio la
fragilità di un film che spesso si installa sui binari di una narrazione più
convenzionale, passando in rassegna
le tappe di una storia d’amore un
po’ troppo perfetta, innestata sullo
schema incontro-matrimonio-figli.
Tuttavia, il film si riscatta affinando
sempre più i suoi obbiettivi: se viaggiare nel tempo significa semplicemente tornare alle giornate storte per
eliminare qualche rimpianto, allora si
può arrivare a rivivere il medesimo
momento due volte, senza cercare di
cambiare nulla, ma con una diversa
disposizione d’animo. La sequenza
che ripercorre la banalità di una giornata qualunque – con le sue piccole
vittorie, i suoi banali disagi, la noia e
la fatica della vita quotidiana tra impegni famigliari, lavoro, pause pranzo e
spostamenti in metropolitana – viene
riproposta due volte e le differenze
sono minimali: un primo piano in più,
un leggero spostamento del punto di
vista, la macchina da presa che coglie
un dettaglio che prima non veniva registrato, un sorriso sul volto dell’attore, una parola di più o di meno, un gesto d’affetto che prima non c’era. Nella
realtà non è cambiato niente: nessuna
vita è stata salvata, nessuna sciagura
scongiurata, il presente rimane sostanzialmente lo stesso. Eppure la giornata
è stata vissuta in modo diverso. Forse è
proprio in queste impercettibili alterazioni, nello scarto minimale che si apre
tra due sequenze quasi identiche che
si deve cercare il senso più profondo
dell’intera operazione: un piccolo, raffinato elogio alla vita di ogni giorno.
Silvia Colombo
50
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
SACRO GRA
SAISON CULTURELLE
Regia, fotografia, suono: Gianfranco Rosi.
Montaggio: Jacopo Quadri. Interpreti: Cesare, Paolo, Amelia, Roberto, Francesco,
Filippo, Xsenia, Gaetano. Produzione:
DocLab, La Femme Endormie, in collaborazione con Rai Cinema. Distribuzione:
Officine UBU. Paese: Italia. Anno: 2013.
Durata: 93 minuti.
Nell’immaginario collettivo il Grande
Raccordo Anulare è un luogo di passaggio: la sua funzione principale è quella
di consentire alle persone di transitare con (relativa) disinvoltura da una
parte all’altra di Roma. L’iconografia
del GRA, immortalata da centinaia di
servizi televisivi sul traffico nella capitale, è fatta di asfalto e automobili;
la sua simbologia, come si conviene a
un luogo di intenso transito automobilistico, è quella di una modernità
sintonizzata sulle rotte della comunicazione a quattro ruote. Il film di Rosi
colpisce innanzitutto per il coraggio
con cui tutto questo apparato iconografico e simbolico viene deliberatamente ignorato e stravolto. Sin dal
titolo, che in qualche modo attesta e
rivendica – al di là del gioco di parole
– una dimensione sacrale per un luogo che, a partire dai suoi tratti di modernità, sembrerebbe esserne sprovvisto. Ma a scardinare l’immagine
convenzionale del GRA è soprattutto
la scelta di raccontarlo come fosse un
villaggio, una comunità di persone
che risiedono ai margini dell’anello di
asfalto, le cui vite vengono osservate
nel dettaglio e a più riprese. Il GRA
ci viene dunque presentato come un
luogo non di transito, ma di stasi, non
di comunicazione, ma di residenza, incentrato non sulle macchine, ma sulle
persone. Rovesciata la prospettiva,
la sua immagine canonica – asfalto e
automobili – rimane confinata sullo
sfondo, mentre a risaltare sono le storie degli individui che risiedono nella
zona. Ed è a questo livello che il film
recupera e giustifica la sacralità del
titolo, se ricolleghiamo il termine sa-
cer alla sua accezione originaria, che
fa riferimento ai modi con cui nell’antichità l’uomo regolava e spiegava il
proprio rapporto con la natura, ovvero con il paesaggio da una parte e con
i legami di sangue dall’altra.
Diversi critici hanno osservato come
le vicende messe a fuoco da Rosi
corrispondano ad altrettanti generi
del cinema, talvolta considerando
questa scelta come un limite alla presunta «purezza» della forma documentaria. Non credo, tuttavia, abbia
senso interrogarsi sulla conformità
del suo metodo verso un genere che
è ormai oggetto di svariate (e non di
rado fertili) contaminazioni. Più interessante mi sembra guardare alle
storie da una prospettiva che ne individui i denominatori comuni. Due
sono gli elementi che attraversano
il paesaggio umano tratteggiato da
Rosi: il primo riguarda il rapporto con
la natura, esplicitato nell’episodio
del pescatore di anguille e in quello
del botanico impegnato a difendere
le palme dall’attacco dei parassiti; il
secondo invece ruota intorno alle relazioni familiari, in primo luogo quelle
tra individui di generazioni differenti,
dal barelliere che conversa con la madre malata, all’anziano signore che
condivide un mini appartamento con
la figlia, al nobile decaduto che promuove la propria residenza appunto a
partire dall’illustre lignaggio della sua
famiglia. Ciascuno degli episodi costituisce il tassello di un mosaico attraverso il quale Rosi prova a interrogarsi
sul senso e sulla possibilità, oggi, di
condizioni esistenziali che la modernità – rappresentata in modo esemplare,
sul piano visivo e simbolico appunto
dal GRA – sembra avere condannato
all’obsolescenza e all’anacronismo.
La presenza stessa del raccordo anulare rimanda a un mondo tecnologico e atomizzato, cinetico e disperso,
rispetto al quale le storie raccontate
dal film si configurano come altrettante sacche di resistenza, punti di attrito all’affermazione della modernità.
La protezione delle palme e la pesca
delle anguille richiamano un universo
il cui centro è incredibilmente ancora
rappresentato dal rapporto fra l’uomo
e la natura; mentre le relazioni familiari – pur nella pittoresca originalità che
a tratti le caratterizzano – attestano
legami antichi, indissolubili, passati
indenni attraverso generazioni e peripezie di cui ignoriamo i contenuti, ma
vediamo gli esiti.
È sotto questo punto di vista che Sacro
GRA si rivela, rispetto al genere documentario, un film eretico. Ma si tratta
di un’eversione intelligente, che elude
i compiti descrittivi apparentemente
sollecitati dal titolo (alla fine sul grande raccordo anulare in sé non ci viene
detto assolutamente nulla: non sappiamo quanto è lungo, quante uscite
ha, se ci sono stazioni di servizio…)
per affrontare la questione da una
prospettiva diversa. Attraverso questo
nuovo punto di vista, la strada del titolo diventa un microcosmo sociale dove
è possibile osservare nel dettaglio le
contraddizioni della modernità: accanto alle traiettorie delle macchine continuano a correre quelle degli uomini,
tuttora ancorate ad abitudini, pratiche
e pulsioni vecchie come il mondo.
Leonardo Gandini
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
SALVO
51
Regia e sceneggiatura: Fabio Grassadonia, Antonio Piazza. Fotografia: Daniele
Ciprì. Montaggio: Desideria Rayner. Musica: Modà, Emma. Scenografia: Marco Dentici. Costumi: Mariano Tufano. Interpreti:
Saleh Bakri, Sara Serraiocco, Mario Pupella, Giuditta Perriera, Luigi Lo Cascio.
Produzione: Acaba produzioni, Cristaldi
Pictures, MACT Productions, Cité Films,
arte France Cinéma. Distribuzione: Good
Films. Paese: Italia, Francia. Anno: 2013.
Durata:104 minuti.
Salvo è un nome. Quello di un infallibile e silente killer di Cosa nostra interpretato dall’attore palestinese Saleh
Bakri. È anche un aggettivo, «colui che
si è salvato», anche se si sospetta da
subito che la salvezza del protagonista
possa essere solo simbolica, perché la
mafia non perdona chi, come lui, sgarra. Salvo è, infine, il titolo emblematico
di questo noir italiano molto originale,
premiato doppiamente (dal pubblico e
come miglior esordio) alla Semaine de
la Critique di Cannes 2013. Due registi, Fabio Grassadonia e Antonio Piazza,
prendono spunto da un loro cortometraggio di qualche anno fa, Rita, storia di
una ragazzina cieca che ritrova la vista
in modo misterioso, quasi mistico. L’adolescente, in questo lungometraggio,
diventa una giovane donna, e l’evento
che le ridà luce è legato a un trauma terribile, l’uccisione del fratello, che, però,
si trasformerà in qualcosa di nuovo. La
possibilità di un’isola, per dirla con Houellebecq: un mondo altro che si apre
alla passione inattesa e sconvolgente,
all’«amour fou».
Nella prima parte del film, Salvo è vittima di un agguato. Non solo ne esce
vincitore, ma scova subito il mandante,
il fratello di Rita, e lo va ad aspettare a
casa sua per ammazzarlo. Lei prima lo
sente, poi lo vede. Lui la risparmia e la
nasconde, contravvenendo alla regola
numero uno della malavita: non si lasciano testimoni. La seconda parte del
lungometraggio è incentrata sul tentativo assurdo di eludere la prevedibile
ritorsione del boss Mario Pupilla, che
finora aveva protetto il sicario nascondendolo in casa di due «associati» mesti
e insospettabili, il sarto (Luigi Lo Cascio)
e la moglie (Giuditta Perriera). Il film,
da un punto di vista narrativo, è molto
semplice. Al netto della trovata fantastica (una cieca vede e ama il carnefice)
ripercorre modelli piuttosto noti. Prima
di tutto ricorda Frank Costello faccia
d’angelo di Jean-Pierre Melville (Le samouraï, 1967), il cui protagonista, Alain
Delon, è un killer altrettanto meticoloso
e silente che sceglie di non eliminare la
testimone del suo ultimo delitto, causa
dei suoi futuri guai. Entrambi i film vivono di suggestioni simboliche; tuttavia,
dove è la morte a sorridere all’assassino
di Melville, è invece l’amore a stravolgere Salvo, che nel rapporto con Rita è il
primo a trovare finalmente uno sguardo
«morale». Non si vorrebbe, però, caricare il film di Grassadonia & Piazza di
troppe chiavi di lettura. Salvo è prima di
tutto un’opera «fisica», capace di farsi
apprezzare a pelle. I due autori scelgono una messa in scena che coinvolge lo
spettatore emotivamente. Ci si immedesima non tanto nei personaggi, ridotti
al grado zero delle rispettive psicologie
(le sfumature maggiori, e sorprendenti,
nella definizione della coppia Lo Cascio
– Perriera), quanto nell’azione e nella
tensione. Emblematica la scena del delitto in casa di Rita: un piano sequenza
di quasi venti minuti in cui la soggettiva del sicario si lega alla presenza della
ragazza, in grado di sentire, ma non di
vedere, l’intruso. E questo rimbombo
sensoriale è una caratteristica di tutto
il film, luminosissimo di giorno, livido
e vivido nell’oscurità, quasi a descrivere un mondo iperreale tempestato da
rumori improvvisi quanto ricorrenti e
persistenti: un motorino in lontananza,
le radioline, le voci vicine e lontane. Il
contesto sonoro, retaggio del mondo di
Rita prima dell’«evento», pervade tutto
il film e stride con la visione straniante
di una Sicilia fuori registro, solo periferica, dove la campagna e gli spazi aperti
rimandano volutamente al paesaggio
del western all’italiana. I riferimenti si
sprecano, ma anche qui, faremmo torto a Grassadonia & Piazza se volessimo
ricondurre forzatamente Salvo a una
tradizione specifica del cinema italiano. Il poliziesco di Fernando di Leo (la
discarica palermitana era già lo sfondo
minaccioso di Il Boss, del 1973) o di
Sergio Leone sono più intuizioni che
ispirazioni, la prima addirittura inconsapevole (mentre certe strizzate d’occhio a Leone, lo dicono gli autori, sono
volute). Quello che conta è il coraggioso
tentativo di costruire un cinema diverso,
in Italia, oggi. Salvo è un «UFO»: sceglie un linguaggio al quale non siamo
più abituati. Se oggi le storie di genere
sono raccontate con un didascalismo
televisivo che nulla lascia all’immaginazione, il meccanismo narrativo del film
viene invece innescato da un evento
non spiegabile razionalmente. L’aspetto
allusivo del rapporto tra Salvo e Rita è
alla base della loro comunicazione, fatta
di attese e silenzi. Questo scarto tra la
prevedibilità (letterale) tipica della nostra fiction e la sospensione dell’incredulità che Salvo chiede allo spettatore,
spiega bene due concetti: da una parte,
l’ostinazione con cui il nostro sistemacinema ha a lungo rifiutato di finanziare
un film considerato anomalo; dall’altra,
il suo felice riscontro internazionale, cominciato con i prestigiosi riconoscimenti del Festival di Cannes, proseguito con
la distribuzione in molti paesi, e in parte dovuto al suo linguaggio finalmente
«sprovincializzato».
Mauro Gervasini
52
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
LA SCELTA DI BARBARA
SAISON CULTURELLE
(Barbara)
Regia: Christian Petzold. Sceneggiatura:
Christian Petzold, Harun Farocki. Fotografia: Hans Fromm. Montaggio: Bettina
Böhler. Musiche: Stefan Will. Scenografia: K. D. Gruber. Costumi: Anette Guther.
Interpreti: Nina Hoss, Ronald Zehrfeld,
Jasna Fritzi Bauer, Rainer Bock, Christina
Hecke, Claudia Geisler, Peter Weiss, Carolin Haupt, Deniz Petzold. Produzione:
Schramm Film Koerner & Weber/ZDF. Distribuzione: Bim. Paese: Germania. Anno:
2012. Durata: 105 minuti.
Ci sono tanti muri che segnano lo spazio in La scelta di Barbara. Alcuni ben
evidenti e visibili come le porte, le
finestre e i vetri delle auto. Le prime
come molteplici frontiere da attraversare in continuazione, le altre come
punti di controllo da cui osservare ossessivamente i movimenti della protagonista. Altri invece sono più nascosti,
ma anche più oppressivi, che impediscono o rallentano ogni azione.
Nell’estate del 1980 Barbara, un
medico, richiede un visto d’espatrio
dalla Germania dell’Est, ma per punizione viene allontanata da Berlino e
mandata in un ospedale di campagna,
dove può continuare a svolgere il suo
lavoro. Barbara si tiene in disparte
e aspetta le mosse del suo compagno Jörg, che si trova nella Germania
Ovest e le sta pianificando la fuga. La
donna comunica solo con il suo capo
André, che mostra, però, un atteggiamento ambiguo: è innamorato oppure la sta controllando?
Vincitore dell’Orso d’Argento al Festival di Berlino 2012, La scelta di Barbara è un altro affresco del recente
cinema tedesco che vuole fare i conti
col proprio passato. I primi piani sul
volto di Nina Hoss, che aveva collaborato con Petzold già in Jerichow
(2008), rivelano il riflesso di un Paese
visto dagli occhi di una donna in fuga:
ossessive sensazioni di pedinamento,
figure che hanno atteggiamenti sospetti. Solo con i pazienti Barbara si
apre: da Stella, che vede in lei l’unico spiraglio della sua vita, al ragazzo
ricoverato dopo essere precipitato
dal terzo piano. Sembrano esserci
tante presenze nascoste, minacce nel
fuori-campo come in Le vite degli altri
(2006) di Florian Henckel von Donnersmark, oppure in quella pericolosa omologazione di L’onda (2008)
di Dennis Gansel, dove il diverso è
visto come una costante minaccia.
Christian Petzold, uno dei nomi più
interessanti del recente cinema tedesco, lavora ancora su personaggi in
clandestinità, circondati dalla solitudine, come la ragazzina del suo film
Die Innere Sicherheit (2000). Barbara
è sospesa tra ambienti spogli, si sente
spesso osservata sul trenino, oppure
attraversa in bicicletta la campagna,
dove i colori tendono a spegnersi e
ad amalgamarsi indifferentemente in
un persistente grigiore. Il bosco in cui
si trova con il suo compagno non ha
respiro: sembra un labirinto, circondato dagli alberi, dove la macchina
da presa di Petzold si muove sempre
in sospensione, come se stesse per
inquadrare la salvezza e, insieme, il
pericolo.
Se può apparire troppo segnato dalla
scrittura il rapporto tra la protagonista e il suo capo (soprattutto nel momento in cui lui le confessa il suo errore professionale), La scelta di Barbara ha al tempo stesso il merito di non
dare dei punti di riferimento, anche se
la macchina da presa non lascia mai
la protagonista. Il suo nome si trova
nel titolo, come era accaduto in Yella
(2007), dove il personaggio principale,
anche qui, si trasferisce da un posto
all’altro per iniziare una nuova vita.
In questo film, il regista sembra, da una
parte, sezionare quello che inquadra,
come se nei dettagli ingranditi si potessero scorgere altri particolari, come
avviene nella citazione del dipinto
Lezione di anatomia del dottor Tulp di
Rembrandt (1632). Dall’altra, dona al
film un respiro più arioso, come nella fuga di Stella, «ragazza selvaggia»
quasi truffautiana, in cui si evidenziano alcuni degli omaggi del regista tedesco al cinema europeo e americano.
La rappresentazione della provincia
chiusa rimanda per molti aspetti al cinema di Chabrol in cui «dietro le porte
chiuse» potrebbero avvenire i crimini
più insospettabili. L’atmosfera oppressiva della Germania dell’Est può rifarsi a quella del Mercante delle quattro
stagioni (1971) di Fassbinder, dove il
passato e il presente si confondono
e lasciano galleggiare i personaggi in
uno stato di persistente immobilità in
attesa che accada qualcosa. Gli sguardi
di Barbara, che fuma nervosamente sigarette, alla ricerca di altri occhi complici, ricordano l’Hawks più depistante,
quello di Acque del Sud (1944) dove
Humphrey Bogart e Lauren Bacall,
spiati dagli agenti della polizia segreta,
comunicano «a vista». Dietro questa
scelta, c’è la nostalgia di un cinema del
passato: idealmente Petzold avrebbe
potuto fare il suo cinema anche negli
anni Settanta e Ottanta. Al tempo stesso, però, La scelta di Barbara è anche
una riuscita radiografia sulle ombre
di una nazione prima della sua ri/nascita, la caduta del muro di Berlino, e
un potente ritratto femminile che non
dà risposte, ma lascia aperte diverse
soluzioni. Come nel finale. Dove sta
guardando Barbara? Verso il medico o
lo spettatore?
Simone Emiliani
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
STOKER
53
Regia: Park Chan-wook. Sceneggiatura:
Wentworth Miller, Erin Cressida Wilson. Fotografia: Nicolas de Toth, Chung
Chung-hoon. Montaggio: Nicolas de
Toth. Musica: Philip Glass, Clint Mansell.
Scenografia: Thérèse DePrez. Costumi:
Kurt & Bart. Interpreti: Mia Wasikowska,
Nicole Kidman, Matthew Goode, Dermot
Mulroney, Jacki Weaver, Lucas Till, Alden
Ehrenreich, Ralph Brown, Phyllis Somerville. Produzione: Fox Searchlight Pictures, Scott Free Productions. Distribuzione: 20th Century Fox. Paese: Usa. Anno:
2013. Durata: 99 minuti.
Un inizio raccontato per splendide
ellissi: il diciottesimo compleanno
di una fanciulla, la ricerca di un regalo misterioso, la morte improvvisa del padre amatissimo, la comparsa - durante il funerale - di una
misteriosa figura.
Al centro di un susseguirsi di splendidi quadri, si impone il ritratto di
una ragazza che sembra provenire
da un altro secolo: in questo film
Mia Wasikowska (nei panni della
protagonista India Stoker) mostra
alla macchina da presa un viso
dall’espressione impenetrabile, a
metà tra il ritratto vittoriano e le
reminescenze dell’horror asiatico.
Così Stoker, attraverso la luce che
disegna i tratti somatici di un viso,
si presenta subito per ciò che è: un
interessante incrocio tra l’iconografia di Ring (per lo stampo giapponese), e la tradizione del cinema
classico americano. Non è un caso
che Park Chan-wook, qui alla sua
prima trasferta americana dopo il
successo di Thirst (Premio della
Giuria al Festival di Cannes 2009),
abbia più volte parlato dell’hitchcockiano La donna che visse due volte
come il film che più ha influito sulla
sua decisione di fare il regista. Ed è
forse proprio in Stoker che questo
grande autore del cinema internazionale rivela come la sintassi del
cinema classico e i temi del regista
inglese abbiano influenzato la sua
opera. Per raccontare la storia della famiglia Stoker – che nasconde
nel suo passato l’impronta di un
male ereditario che passa nel sangue dei suoi membri – Park Chan-
wook si intrufola nella grande villa
di famiglia e riempie gli spazi con
eleganti e semicircolari movimenti
di macchina che esplorano le stanze, le riempiono con la grazia delle
vele gonfiate dal vento e ne escono
dopo aver raccontato tutto, o quasi. Sono spazi in cui ogni oggetto,
ogni accostamento di colore, ogni
gesto sono collocati con la perizia
e la visione dei grandi maestri, che
sanno calcolare quando andranno
incontro a una ciocca di capelli che
scende sul viso, a una sfumatura
che colora la parete, a uno sguardo
calibrato con la precisione con cui
si prende la mira.
Prodotto da Ridley Scott e scritto
da Wentworth Miller, Stoker può essere letto come una dichiarazione
d’amore per gli oggetti. L’omicidio
raccontato attraverso una cintura,
una camicetta gialla indossata nel
finale, il colore di un bicchiere di
vino, un fiore bianco sporcato di
sangue, la vita di una bambina dalla sua nascita fino al compimento
del suo diciottesimo compleanno
sintetizzata da un paio di scarpe.
Sono gli oggetti - bellissimi oggetti
- a essere il centro dell’interesse e
della narrazione e a sottoporsi con
docilità a uno sguardo da esteta.
Ma cosa interessa davvero a Park
Chan-wook?
Il ritorno di un morto? La vendetta
per una vita rubata? L’educazione
sentimentale di una fanciulla? Il
vampirismo come metafora di una
distruttiva sensualità?
In questo film, lo spettatore si incanta davanti a un décor che nem-
meno la violenza, quell’etica della
violenza estrema che era la cifra
dei lungometraggi precedenti, riesce a scardinare o quantomeno
a intaccare (si veda la scena della
morte del ragazzo nel parco, ripetuta esattamente nel sottofinale).
Letto sotto questo aspetto, Stoker
è esattamente descritto attraverso la qualità dei suoi movimenti
di macchina: seducenti e seduttivi,
sinuosi e insinuanti nel loro sussurrare segreti inquietanti, eppure cristallizzati in una perfezione dura,
inscalfibile. Sguardi ottusamente,
duramente innamorati delle cose
che si trovano a sfiorare.
Silvia Colombo
54
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
SUGAR MAN
SAISON CULTURELLE
(Searching for Sugar Man)
Regia e sceneggiatura: Malik Bendjelloul. Fotografia: Camilla Skagerström.
Montaggio: Malik Bendjelloul. Musiche:
Rodriguez. Interpreti: Stephen «Sugar»
Segerman, Dennis Coffey, Mike Theodore, Dan DiMaggio, Eva Rodriguez, Sixto
Rodriguez, Regan Rodriguez, Sandra
Rodriguez-Kennedy. Produzione: Red Box
Films, Passion Pictures, The Documentary Company, SVT, Saperi Film Sweden
AB. Distribuzione: The Space Extra. Paese:
Svezia, Gran Bretagna. Anno: 2012. Durata: 86 minuti.
La prima parte del documentario
Searching for Sugar Man è un viaggio
di ricerca, che dal Sud Africa approda
a Detroit, per scoprire l’origine e la
storia di un uomo che ha cambiato
la vita di moltissimi suoi fan, e che
con le sue canzoni di ribellione ha
lottato con loro, senza però saperlo,
contro la discriminazione razziale.
Searching for Sugar Man è la storia
di un’assenza tanto «invadente»
da spingere il regista svedese Malik
Bendjelloul (che è anche un collezionista di dischi) a costruire un film
insolito, proprio come il suo personaggio, talmente ricco di dettagli e di
racconti, da aprire davanti agli occhi
dello spettatore un quadro storico,
politico e umano di grande intensità.
La vicenda è quella del cantautore di
origine messicana Sixto Rodriguez
che, all’inizio degli anni Settanta,
pubblicò due dischi, tanto amati
dalla critica, quanto completamente
trascurati dal pubblico. Due dischi in
cui si cantavano i temi della disuguaglianza e del razzismo, la necessità
della riscossione da parte dei più deboli e della ribellione contro l’establishment.
“Uno spirito che vagava per la città”,
dice di lui il suo agente di allora, per
sottolineare lo sguardo acuto e sensibile nel descrivere i sentimenti e le
emozioni della vita di quegli anni travagliati. Tanto profondo da diventare
universale e attraversare le frontiere
e i divieti e approdare nel Sudafrica
della segregazione razziale. Qui la
storia cambia completamente, perché, se negli Stati Uniti non si erano
venduti più di sei dischi (come dice
con sarcasmo il suo discografico di
allora), dall’altra parte del mondo
le cose si ribaltano: Sixto Rodriguez
diventa una star e il suo Cold Fact
un disco famosissimo. Molto più dei
Rolling Stones e di Elvis Presley, le
canzoni di Rodriguez hanno ispirato
un’intera generazione, diventando
l’inno della rivoluzione anti-apartheid. Eppure di quel musicista non
si sapeva nulla. La sua identità era
avvolta nel più fitto mistero (iniziarono presto a moltiplicarsi le leggende del suo suicidio). Da qui, dunque,
la ricerca a ritroso nel tempo e il desiderio di dare un volto a quella voce.
Il percorso di Malik Bendjelloul (che
in principio pensava a un cortometraggio per la televisione svedese) è
molto chiaro. Divide il film in due parti, tra Sudafrica e Stati Uniti appunto, facendo compiere allo spettatore
due viaggi: quello della scoperta di
un musicista, e quello della scoperta
di un uomo e della sua vita. È questa
seconda parte a caricarsi di maggiore
pathos, perché è qui che i discorsi si
completano, acquistano una dimensione esistenziale che tiene conto
dell’aspetto umano di quel mito di
cui si è parlato finora. Rodriguez
compare per la prima volta in forma di sagoma dietro al vetro scuro
di una finestra. Quando si affaccia
lo vediamo composto, invecchiato e
straordinariamente normale. Gli occhiali scuri coprono parte del volto,
ma i suoi modi sono di profonda pacatezza. Anche durante le interviste,
le sue parole appaiono pure, talvolta sorprese, ma sempre concrete e
quotidiane. Un uomo che non ha mai
conosciuto la fama e la scopre all’improvviso senza capogiri. Si dice che
sia stato riluttante a concedersi alla
macchina da presa, e stesse dormendo quando il film vinse l’Oscar come
miglior documentario (poco prima
aveva vinto il premio della Giuria al
Sundance). Tuttavia, quando si esibisce per la prima volta sul palco in
Sudafrica, davanti a una folla sterminata, non sembra aver fatto altro
per tutta la vita. In questo momento
il cerchio sembra chiudersi. I misteri
sono stati svelati mostrando il valore
universale della musica e di quella di
Sixto Rodriguz in particolare. Di lui,
però, resterà l’immagine di un uomo
che cammina lungo i marciapiedi
della città, quarant’anni fa come
oggi, intento ad assaporare il gusto
della vita e a esaltare il valore profondo della ribellione.
È vinta, quindi, la sfida dei due fan sudafricani Stephen «Sugar» Segerman
e Craig Bartholomew Strydom, iniziata con la ricerca del cantore della libertà di espressione nel loro paese e
finita incontrando un musicista straordinario, cresciuto nei sobborghi
«neri» di una città industriale degli
Stati Uniti. Una storia inimmaginabile raccontata da Bendjelloul con diversi formati (super8 e, per limiti di
budget, anche un cellulare), spezzando la narrazione in innumerevoli interviste, immagini d’epoca, ricostruzioni animate, canzoni e paesaggi
evocativi, mentre il ritmo è serrato,
ma talvolta si distende, si sospende
nell’ascolto e nella riflessione.
Grazia Paganelli
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
IL SUPERSTITE
55
(For Those in Peril)
Regia e sceneggiatura: Paul Wright. Fotografia: Benjamin Kracun. Montaggio:
Michael Aaglund. Musica: Erik Enocksson.
Scenografia: Simon Rogers. Costumi: Jo
Thompson. Interpreti: George MacKay,
Kate Dickie, Michael Smiley, Nichola Burley. Produzione: Warp Films. Distribuzione: Nomad Film. Paese: Gran Bretagna.
Anno: 2013. Durata: 93 minuti.
Dopo essere stato insignito di vari riconoscimenti per i suoi corti (tra cui
un BAFTA per Until The River Runs Red),
Paul Wright esordisce al lungometraggio con un’elegia visiva e sonora
ispirata alla sua stessa infanzia, trascorsa non lontano dal mare e a stretto
contatto con le storie e i miti che da
sempre accompagnano chi osa avventurarsi nel suo mistero. Presentato alla
Semaine de la Critique durante la sessantaseiesima edizione del Festival di
Cannes e prodotto dalla lungimirante
Warp Films, casa indipendente a cui
si devono titoli come This is England
(Shane Meadows, 2006) e Tyrannosaur
(Paddy Considine, 2011), Il superstite
è una riflessione sulla sospensione
dell’incredulità e sul nostro rapporto
con la narrazione, vista come esperienza imprescindibile per restituire
un senso alle inaspettate tempeste
dell’esistenza.
Per rappresentare un mondo in cui a
occultare il pensiero della morte non
sono ancora i mass media, ma una cultura popolare intrisa di superstizione,
Wright sceglie un piccolo villaggio di
pescatori dell’Aberdeenshire, in Scozia, ancora estraneo alle dinamiche
dell’economia industriale. Il mare, qui
unico orizzonte e unica fonte di sostentamento, è così eletto sin dall’incipit a motore propulsivo della tensione umana al racconto: offerto come
immagine in bianco e nero, sgranata
e senza tempo, è lo spazio che, in virtù della sua inconoscibilità, concede
all’uomo di credere ancora nel fantastico e nell’irrazionale. Nel film tutti i
personaggi coinvolti – incluso il regista – tendono infatti a raccontare (ma
soprattutto a raccontarsi) una storia
di fantasia per assorbire la portata
tragica di un incidente avvenuto in
mare. Cinque uomini hanno perso la
vita nel naufragio, compreso il fratello
maggiore del protagonista Aaron, che
invece è l’unico superstite. I membri
della comunità costruiscono così lo
spettro di una maledizione che pone
Aaron in una posizione di colpevolezza. Il ragazzo rintraccia invece nei meandri del proprio subconscio la favola
su un mostro marino che sua madre
Cathy raccontava a lui e a suo fratello
da bambini, e la utilizza per rileggere
il trauma. Accecato dal dolore e dalla
follia, decide di inoltrarsi in mare aperto per ritrovare il fratello, rifiutandosi
di credere alla sua morte.
È soprattutto il ricorso alla figura del
mostro a innalzare la vicenda individuale di un giovane posto di fronte
alla propria linea d’ombra all’universalità del mito, che sublima le difficoltà
dell’esistenza rendendole sopportabili. Si tratta di uno spunto narrativo che
peraltro avvicina i fantasmi di Aaron
a quelli dei piccoli protagonisti di Nel
paese delle creature selvagge (Spike
Jonze, 2008) e Re della terra selvaggia (Benh Zeitlin, 2012), pellicole che
potrebbero aver influenzato Wright,
insieme alle ultime due opere di Terrence Malick, almeno per quanto riguarda la costruzione del racconto e
la relazione instaurata tra immagini e
paesaggio sonoro.
La messa in scena di questa stratificazione di narrazioni collettive e individuali spinge il regista a ricorrere a una
varietà di formati che vanno dal Super
8 al video televisivo, fino ai grossolani
pixel della fotocamera del cellulare.
Ma è proprio in questa scelta che si
annida uno dei punti critici dell’operazione: se da un lato è vero che il
collage di immagini di diversa fattura
dinamizza il racconto e permette di visualizzare la casualità dello stream of
consciousness di Aaron, dall’altro rivela una certa stanchezza insita nella ricerca linguistica di Wright. La memoria
dell’infanzia filtrata nostalgicamente
attraverso la grana della pellicola, così
come l’incidente improvviso catturato
dalla ripresa a scatti del cellulare sono
diventate marche talmente diffuse e
riconoscibili, anche nel cinema mainstream contemporaneo, che finiscono
per indebolire il tentativo del regista
di disorientare lo spettatore. A questo si aggiunge una rappresentazione
del reale concepita rigorosamente
come documentarismo o secondo
stilemi (come le semisoggettive sul
protagonista) che richiamano direttamente il cinema dei fratelli Dardenne.
In un’opera che intende porsi come
soggettiva, totalmente sottomessa al
punto di vista fragile e disturbato del
protagonista, i confini tra immagini di
(finto) repertorio, oniriche e reali appaiono perciò troppo precisamente
definiti per consentire una totale immersione nell’incubo allucinatorio di
Aaron. Così, se il finale suggerisce una
linea di demarcazione ben precisa tra
chi rimane sulla soglia del racconto e
chi invece la varca per rimanerne imprigionato, noi non possiamo che sostare sulla riva, impossibilitati a farci
catturare completamente dal mostro
dell’oceano.
Francesca Monti
56
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
SUR LE CHEMIN DE L’ÉCOLE
SAISON CULTURELLE
Réalisation: Pascal Plisson. Scénario:
Marie-Claire Javoy, Pascal Plisson. Image:
Simon Watel. Montage: Sarah Anderson,
Sylvie Lager. Musique: Emmanuel
Guilonet, Laurent Ferlet. Interprétation:
Jackson Saikong, Salome Saikong, Samuel
J. Esther, Gabriel J. Esther, Emmanuel
J. Esther, Zahira Badi, Noura Azaggagh,
Zineb Elkabli, Carlito Janez, Micaela
Janez. Production: Winds, Ymagis,
Hérodiade. Distribution: Academy Two.
Pays: France. Année: 2012. Durée: 77
minutes.
Prendre le chemin de l’école plutôt
que celui de la guerre, et ce, non
pas idéologiquement, mais très
concrètement. C’est une vision,
presque un mirage, qui a donné à
Pascal Plisson l’idée de Sur le chemin de l’école un jour qu’il voyageait au nord du Kenya près du lac
de Magadi : de jeunes guerriers
Massaï approchaient vers lui sans
armes ni boucliers, un sac de jute
au dos. Ces écoliers lui ont raconté
avoir décidé de leur propre chef de
troquer l’initiation guerrière pour
l’ardoise et le stylo. Pour le réalisateur de Massaï les guerriers de
la pluie – fiction initiatique dans
un Kenya qu’il connaît bien pour
y avoir vécu –, le documentaire né
de cette rencontre ne pouvait que
prendre la forme d’un film d’aventures. Quatre enfants, quatre pays –
Kenya, Maroc, Inde, Argentine –, des
couleurs et des cadres à la hauteur
d’un grand reportage photographique, et le choix assumé de faire
du trajet vers le lieu de savoir une
épopée du quotidien, un périple
parfois accompli dans des conditions climatiques extrêmes (20
degrés au-dessous de zéro dans la
vallée d’Imlil au Maroc).
Soit, donc, un dispositif : des enfants qui ont entre 9 et 12 ans et
qui doivent parcourir plus de dix kilomètres pour aller à l’école, alors
que dans leur pays l’enseignement
n’est pas forcément obligatoire.
Quels que soient les moyens de
locomotion de Jackson, Zahira,
Carlito et Samuel – à pied, à cheval, en stop, en fauteuil roulant... –,
ces personnes-personnages ont
l’étoffe de héros de contes de
fées. Ni sorcières ni dragons, les
malveillants et les embûches
qu’ils rencontrent sur la route ont
au moins autant d’ampleur que
dans les fictions : conducteurs
potentiellement dangereux pour
les trois petites Marocaines autostoppeuses du Haut-Atlas, bandits
de grands chemins ou attaques
d’éléphants dans la Savane pour
Jackson et sa sœur, par ailleurs souvent contraints d’avancer entre les
girafes, ou encore fauteuil roulant
bricolé qui menace de se démantibuler... Quant aux « adjuvants »
croisés habituellement dans les forêts des frères Grimm ou de Charles
Perrault, ils prennent ici le visage
d’un grand frère ou d’une grande
sœur, d’amis prêts à pousser le
siège roulant pendant des heures
sur un chemin escarpé, voire d’un
cheval (la petite sœur de Carlito
élève un poulain qui lui permettra
bientôt de se véhiculer jusqu’à son
école de Patagonie sans devoir partager la selle de son frère). En laissant en grande partie hors-champ
les adultes mais aussi la nature de
l’enseignement dispensé à ces enfants, Pascal Plisson affirme nettement que la détermination des écoliers transcende leurs conditions
de vie, fussent-elles spectaculairement difficiles. La route lui importe
davantage que la destination.
Ainsi, d’un côté, Sur le chemin de
l’école fonctionne comme un puissant miroir inversé pour les écoliers occidentaux : nul doute que
les classes entières qui ont massivement assisté au film dans les
salles de France et dans le reste de
l'Europe aussi se soient entendu
souligner leur chance de n’avoir
pas à parcourir une telle distance
pour atteindre l’école. Il est certain
que le didactisme du projet a été
reçu cinq sur cinq par des enseignants parfois découragés de voir
leurs élèves démotivés.
Mais par-delà ce décentrement du
regard offert aux enfants « d’ici »,
les vies parallèles de ces quatre super-écoliers dégagent autre chose
qu’un désir d’apprendre ancré dans
un espoir de développement économique et culturel. La capacité
de certains êtres à s’adapter à des
environnements hostiles conserve
une part de mystère : le même mystère, à la réflexion, qui nous fait
croire, nous spectateurs, à l’improbable survie d’un James Bond pris
dans une souricière ou d’un Jason
Bourne piégé par ses commanditaires. Chez ces enfants, l’énergie,
la force d’âme et la résilience ne
sauraient s’expliquer par le seul espoir d’un avenir meilleur que leurs
parents. Célébration de l’appétit de
savoir, Sur le chemin de l’école est
tout autant un éloge de la fiction
comme désir d’inconnu.
Charlotte Garson
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
VOGLIAMO VIVERE!
57
To B e o r N o t t o B e
Regia: Ernst Lubitsch. Soggetto: Ernst Lubitsch, Melchior Lengyel. Sceneggiatura:
Edwin Justus Mayer. Fotografia: Rudolph
Matè. Montaggio: Dorothy Spencer. Musica: Werner Richard Heymann. Scenografia: Julia Heron, Vincent Korda. Costumi:
Irene. Interpreti: Carole Lombard, Robert
Stack, Jack Benny, Felix Bressart, Henry
Victor, Sig Ruman, James Finlayson, Frank
Reicher, Lionel Atwill. Produzione: Ernst
Lubitsch e Alexander Korda. Distribuzione: Enic (1942), Teodora Film (2013). Paese: USA. Anno: 1942. Durata: 99 minuti.
È possibile raccontare l’orrore? Molto
tempo prima che la filosofia cercasse risposte nella banalità del male o
nella sua irrapresentabilità, Lubitsch
aveva già riflettuto sulla questione.
Vogliamo vivere! (titolo italiano di To
Be or Not to Be) ne è la risposta. Non la
banalità, ma la teatralità del male è il
grimaldello per cogliere l’essenza del
nazismo, guardare nel suo cuore di
tenebra e uscirne vivi, forse persino
col sorriso sulle labbra. Incrociando i
destini di una compagnia di teatranti
mediocri con quelli di un gruppo di ufficiali nazisti, Lubitsch affronta la questione dal punto di vista della messinscena. In entrambi i campi domina
un repertorio fatto di costumi, divise,
parole vuote, gesti plateali, espressioni retoriche, posture enfatiche. La
maschera – in tutte le declinazioni
possibili del termine – rappresenta
l’anello di congiunzione fra chi, nello
stesso periodo, calca il palcoscenico
della storia piuttosto che quello del
teatro. Al punto che le due comunità
si incrociano con grande disinvoltura,
in un gioco vertiginoso di parti e ruoli
che si scambiano e sovrappongono in
continuazione. Quanto più procede la
narrazione, tanto più la relazione fra
i due gruppi si fa ingarbugliata, pressoché inestricabile. Se il teatro ha la
facoltà di irretire e zittire una folla anche quando è di scarsa qualità, allora
perché il potere non dovrebbe imitarne modi, tempi e cadenze? Mentire
con convinzione, costruire un impero
sulla spudoratezza delle proprie bugie, l’appariscenza dei propri costumi,
l’autorevolezza del proprio eloquio.
Lo spettacolo del potere ha così le
proprie fondamenta nel potere dello
spettacolo.
Vogliamo vivere! appartiene alla galassia del cinema classico americano,
il che significa che Lubitsch dovette
all’epoca sintonizzare il tema sulla
lunghezza d’onda dell’intrattenimento, regola aurea e principe dell’universo hollywoodiano. Da qui l’idea di
evidenziare i tratti teatrali del nazismo
non attraverso una semplice critica del
suo apparato marziale e militare, ma
costruendo invece una impalcatura
narrativa che portasse degli attori ad
intrufolarsi negli uffici e nelle segrete
stanze del potere hitleriano. La loro
stessa presenza costituisce una sorta
di reagente, in virtù della quale la teatralità pacchiana del nazismo viene
improvvisamente ed evidentemente
messa in luce: se quattro attori modesti possono impersonare con efficacia
spie e gerarchi nazisti, allora quella
del potere hitleriano non è, in fondo,
niente di più che una messinscena mediocre.
Ma come tutte le opere universali, anche Vogliamo vivere! è tale perché invecchia splendidamente, resistendo al
tempo, in virtù di una profondità che
gli permette di offrire contenuti diversi a spettatori diversi in epoche diverse. Cosa può dire oggi, a settant’anni
di distanza dalla sua uscita, il film di
Lubitsch? Cosa può dire ad un pubblico per il quale il nazismo è poco più di
un capitolo su un manuale di storia?
Se preso da questo punto di vista, dal
film trapela uno sbalorditivo senso di
lungimiranza. Prima che Debord parlasse di società dello spettacolo, prima
che negli Stati Uniti un attore venisse
eletto presidente, prima che in Italia la
politica venisse dominata da uomini di
televisione, Lubitsch aveva costruito
un apologo sul pericolo della teatralità coniugata alla politica, sulle insidie di un mondo nel quale l’eleganza
della dissimulazione occulta ideologie
criminali e manie di grandezza, totalitarismi e ansie di potere. Qua sta la
grandezza di Vogliamo vivere!, la sua
splendida attualità. Nella sua funzione
di ammonimento a non cadere nelle
trappole di chi ammanta la propria miseria morale e intellettuale in un apparato scenico in grado di avvalorarlo
e celebrarlo. Il teatro è una cosa seria,
troppo seria per lasciarla alla politica. L’unico momento in cui il film non
ci appare felicemente immerso in un
clima di farsesca approssimazione, è
quello del monologo di Shylock tratto
da Il mercante di Venezia (“do we not
bleed?”), dove improvvisamente i versi shakespeariani aprono una finestra
di intensità drammatica in un copione
altrimenti dominato dalla comicità. A
renderli dirompenti, la loro pertinenza a quello che gli ebrei polacchi stavano subendo durante l’occupazione
nazista. È qua, nell’istante in cui torna a connettersi con le disgrazie e le
sofferenze di un popolo oppresso e
perseguitato senza ragione, che il teatro – vituperato sino a quel momento quale orpello ridicolo di un potere
improbabile – trova il proprio riscatto, la sua profonda ragione d’essere.
Come cassa di risonanza della sofferenza degli uomini, non come amplificatore delle loro manie di grandezza.
Leonardo Gandini
58
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
TO THE WONDER
SAISON CULTURELLE
Regia, soggetto e sceneggiatura: Terrence
Malick. Fotografia: Emmanuel Lubezki.
Montaggio:A.J. Edwards, Keith Fraase,
Shane Hazen, Christopher Roldan, Mark
Yoshikawa. Musiche: Hanan Townshend.
Scenografia: Jack Fisk. Costumi: Jacqueline West. Interpreti: Ben Affleck, Olga
Kurylenko, Rachel McAdams, Javier Bardem, Charles Baker, Romina Mondello.
Produzione: Redbud Pictures. Distribuzione: 01 Distribution. Paese: USA. Anno:
2012. Durata:112 minuti.
To the Wonder può essere un film incredibilmente difficile da accettare,
nato com’è da un impulso tutto intimo
e personale del suo autore e costruito
orchestralmente attorno a temi resi
impalpabili fino all’astrazione. Ma è
anche un film incredibilmente bello
da guardare e da ascoltare, di una bellezza che si fa contemplare senza mai
nascondere le proprie fragilità.
È una storia di emozioni, prima che
diventino sentimenti, di intuizioni,
prima che diventino parola, di pensieri, prima che diventino azioni. Questo
è To the Wonder: un poema sinfonico
composto attorno al mistero della relazione tra un uomo e una donna, tra
un uomo e l’assoluto. Come in un poema sinfonico, anche qui l’unità di una
composizione indivisa in movimenti o
in parti riconoscibilmente separate tra
loro non impedisce, anzi veicola con
maggiore vigore, una grande varietà di
approcci e punti di vista.
Il cambiamento naturale al quale ogni
persona va incontro nel corso della
propria vita diventa – nel quadro del
tempo condensato e sospeso nel quale
Malick immerge i propri personaggi – la
trasparenza di un’anima che muta senso e colore al minimo soffio del vento e
al più debole dei raggi del sole.
E in quest’ottica è straordinaria la fede
che Terrence Malick ha nel potere del
singolo di porsi – tramite i propri interrogativi – in contatto con l’assoluto,
un assoluto che di volta in volta si può
manifestare come il «dio interiore»,
del quale parla il sacerdote cattolico
interpretato da Javier Bardem, oppure
come il bisogno d’amore, avvolto nel
mistero, di Ben Affleck e delle sue due
compagne. Ovvero, per tutti, nel sole
che all’alba e al tramonto chiama a sé
ogni personaggio, rivelazione dell’eterna intimità tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande.
Solido come la sua fede in una qualche
forma di assoluto, Malick si concede la
libertà e il privilegio di scelte al limite
del fraintendimento o dell’equivoco,
come quella di associare alla meraviglia che dà il titolo al film il Mont Saint
Michel, un luogo talmente abusato
dell’immaginario turistico di massa da
essere diventato, comunque lo si guardi, la cartolina di se stesso.
O come quella – mediata dal precedente Tree of Life – di accordare il respiro del film al ritmo di infiniti «jump
cuts», la tecnica di montaggio che
consiste nel rimuovere una sezione
intermedia all’interno di una ripresa
originariamente effettuata in continuità. Il jump cut, sul quale Dziga Vertov
costruì il suo Uomo con la macchina da
presa, divenne, soprattutto tra gli anni
Cinquanta e Sessanta, una delle tecniche predilette di altri due grandi autori
d’avanguardia: Alain Resnais e JeanLuc Godard. Come Malick, Resnais e
Godard non sono solo grandi registi,
ma anche grandi montatori. È in fase
di montaggio, infatti, che il loro cinema si fa arte, linguaggio e segno. Ed è
in fase di montaggio che l’intuizione
alla base di To the Wonder si trasforma
in creazione, ricorrendo a una tecnica
che, perduto il carattere rivoluzionario
del secolo passato, è diventata oggi
lo strumento semplice e antico per
trasformare un’idea in una creazione
e la proiezione di un sopporto solido
e intangibile in un’esperienza parago-
nabile all’esecuzione di una partitura.
Si può anzi dire che la fuga dal senso
e la ricerca della creazione di un’emozione, di un sentimento attraverso l’esperienza del simbolo siano gli
obiettivi primari che Malick si è dato
con To the Wonder. In questo è grande
l’accento che viene posto non solo sul
montaggio delle immagini ma anche
su quello dei suoni. Come ad esempio
gli «ostinati» dei rumori-ambiente
che parassitano i pochi dialoghi e
spesso sversano in dissolvenza sulla
scena successiva, facendosi densa e
magmatica colla che unisce situazioni
senza apparenti relazioni. O come l’uso della musica, posta in trasparenza
sotto le immagini, con una grande cura
nell’evitare la sottolineatura o il contrappunto.
Che una sintesi – del valore o del senso – di To the Wonder sia impossibile è
senza dubbio un indice della sua riuscita e del successo del suo autore nel
centrare i bersagli che si è dato. Uno di
questi è quello di fare un film che appartenga pienamente alla sua epoca
più di tutte le opere narrativamente
formattate e stilisticamente codificate
alle quali siamo più inclini ad accordare il nostro favore di spettatori. Grazie
alla sua unicità di film esperienziale,
di film-poesia, To the Wonder è davvero un film del XXI secolo, di un’epoca
nella quale il cinema, persa del tutto
la sua centralità nel mondo delle immagini in movimento, sussiste come
pulviscolo all’interno di una sterminata galassia mediale in cui l’elemento
chiave non sono i contenuti, ma il supporto digitale che li veicola.
Marco Gianni
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
LA VARIABILE UMANA
59
Regia: Bruno Oliviero. Sceneggiatura: Valentina Cicogna, Doriana Leondeff, Bruno
Oliviero. Fotografia: Renaud Personnaz.
Montaggio: Carlotta Cristiani. Musica: Michael Stevens. Scenografia: Silvia Nebiolo, Luigi Maresca. Costumi: Silvia Nebiolo.
Interpreti: Silvio Orlando, Giuseppe Battiston, Sandra Ceccarelli, Alice Raffaelli,
Renato Sarti, Arianna Scommegna, Giorgia Senesi, Dafne Masin, Mao Wen, Davide Tinelli, Caterina Luciani. Produzione:
Lumière & Co., Invisible Film, in collaborazione con Rai Cinema. Distribuzione:
BIM. Paese: Italia. Anno: 2013. Durata: 83
minuti.
Ammesso (e non concesso) che sia possibile una distinzione fra documentario
e finzione, è interessante notare come
di recente alcuni cosiddetti documentaristi italiani, passati al confronto con
una narrazione (definiamola così) classica, lo hanno fatto perfettamente consapevoli, da un lato, di come la fiction
possa arrivare a documentare l’inesorabile impurità e fuggevolezza del reale,
e dall’altro di come la non-fiction possa
a sua volta incarnare il maggior grado di
«fantasticazione» della realtà.
E se il caso di Gianfranco Rosi resta del
tutto anomalo e sintetico insieme (Sacro GRA è un punto d’arrivo, ma non
c’è suo film che non intenda per documentario solo quel naturale spazio di
tempo necessario alla narrazione reale
per raggiungere l’ancor più naturale
infingimento della visione), è su registi
come Bruno Oliviero (e poi Alessandro
Rossetto, Andrea Segre e altri) che vale
la pena di soffermarsi.
La variabile umana è sicuramente un
noir, ma di quel tipo (ne esistono altri?
La grande tradizione americana del
noir è leggibile anche come gigantesca mappatura documentaria dei mutamenti metropolitani, antropologici,
dei conflitti di un’epoca intera…) che
ammanta le procedure fiction di una
complessa stratigrafia paesaggistica,
la quale di fatto produce una frattura
nello schema narrativo, depistandolo
rispetto all’aderenza di genere, e bruciandolo tutto non a partire dal superamento dei confini, ma proprio nello
sconfinarsi dello sguardo, fino a porsi
come intervento politico tout court sul
territorio e sul territorio dell’immagine
(e non era questo che faceva, uno su
tutti, Fritz Lang?).
Allora forse bisogna partire, parlando dei protagonisti del film, dalla città, quella Milano che già in passato
Oliviero ha scandagliato a fondo (da
Milano 55,1 a MM – Milano mafia).
Anche perché, mai come stavolta, la
metropoli non è altro che il riflesso
inconscio di un Paese intero e, nello
specifico, dell’intreccio investigativo che chiama in causa i personaggi
dell’ispettore Monaco (un rinnovato,
e probabilmente al suo massimo, Silvio Orlando) e di sua figlia Linda (Alice
Raffaelli, all’esordio). Ebbene, questa
Milano disarticolata, soporifera, notturna, smarginata, piovosa, disillusa,
riflette bene l’intontimento iniziale
dei protagonisti, la loro chiusura verso
l’altro, il ripiegamento in se stessi fatto di ottusa e molle cecità (l’ispettore
Monaco confessa al suo compagno di
investigazione interpretato da Giuseppe Battiston: “Io questa città non
la riconosco”). E conduce il film su una
linea narrativa atipica, di cui l’omicidio e il coinvolgimento della figlia
dell’Ispettore Monaco, sono solo «pretesti», mentre la storia davvero appassionante da raccontare è il processo di
fuoriuscita dal tunnel di due persone
accecate che lentamente imparano di
nuovo a guardare.
Forse allora anche La variabile umana
è un documentario? Certo, un documentario traslucido, suscettibile di
generare ulteriori scintille e riverberi
dal caos primordiale. Un documentario sulla non linearità del reale. Un documentario sentimentale che fa un’inchiesta sui sentimenti delle persone
coinvolte e sullo stato antropologico
(e architettonico) di una città, richiamandosi anche a una crisi collettiva
più ampia (in questo non dissimile dal
lavoro fatto da Alessandro Rossetto sul
Veneto in Piccola patria).
Cosa vogliamo per la nostra Italia ferita, sembra domandarsi Oliviero, dei
poliziotti o dei padri? Ecco allora che
un noir contemporaneo come questo
ha per l’appunto la classicità necessaria per investigare l’universo privato
di un uomo pubblico, non con la mannaia volgare e sensazionalistica tipica
di certa cosiddetta comunicazione
nazionale, ma piuttosto cogliendo nel
«paesaggio» umano il nucleo politico
incancellabile di ogni nostro atto quotidiano. La soluzione del giallo dipende dal risolversi dei conflitti interiori
dei personaggi, investendo, inoltre, gli
interpreti di un lavoro fisico raro, che
non ha nulla di sociologico, ma è invece strettamente filmico: cerca in loro
una mutazione che vada di pari passo
al trasformarsi delle immagini (quella
di Silvio Orlando è, in tutta sincerità,
stupefacente).
Resta infine la capacità di Oliviero di
costruire un’orchestrazione filmica
sospesa e diluita, capace di toccare
dei vertici di tensione laddove al contrario il vuoto sembra farsi spazio (la
sequenza più bella rimane in questo
senso quella che conduce progressivamente, e in modo quasi inatteso,
l’Ispettore Monaco a sospettare della
figlia), e mantenersi anti-didascalico
al momento della verità (vedi la scelta della confessione di Linda in flashback), fino alla pausa dolorosa e ambigua del finale. Non c’è che dire: per
essere una fiction, La variabile umana
accumula un bel po’ di documenti che
non possono passare inosservati.
Lorenzo Esposito
60
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
LA VÉNUS À LA FOURRURE
SAISON CULTURELLE
Réalisation : Roman Polanski. Scénario :
Roman Polanski, David Ives, d’après la
pièce de David Ives, d’après le roman
érotique La Vénus à la fourrure de Léopold von Sacher-Masoch. Image : Pawel
Edelman. Montage : Hervé de Luze et
Margot Meynier. Musique : Alexandre
Desplat. Décor : Bruno Via et Philippe
Cord’homme. Costumes : Denise Diallo.
Interprétation : Emmanuelle Seigner,
Mathieu Amalric. Production : R.P. Productions, A.S. Films. Distribution : 01
Distribution. Pays : France. Année : 2013.
Durée : 96 minutes.
“ J’arrive trop tard, c’est ça ? Putain de
merde ! ” : maquillée comme une voiture volée, jurant comme un charretier,
la dernière candidate au casting d’une
pièce tirée de la Vénus à la fourrure de
Leopold von Sacher-Masoch achève de
ruiner la journée du dramaturge et metteur en scène Thomas. Au téléphone, ce
théâtreux arrogant et plaintif confie à
celle que l’on présume être sa compagne
qu’il vient de faire passer des auditions
à “ à trente-cinq pétasses à moitié habillées en putes ou en goudous ”... Dans ce
réjouissant duel pour un homme et une
femme qui est aussi un hommage à son
épouse actrice Emmanuelle Seigner,
Roman Polanski distribue ainsi d’emblée très équitablement la vulgarité.
Indépendante de leurs origines sociales
contrastées, elle réside en effet tout autant dans le regard du metteur en scène
machiste que dans celle de l’aspiranteactrice. Commencé à armes inégales
puisque l’homme a le pouvoir de donner ou non le rôle à cette retardataire, le
duel s’enclenche donc dans les termes
d’un sadomasochisme moins pur que
celui de Sacher-Masoch, et mis au goût
du jour avec un certain humour puisqu’il
est question d’un chien prénommé Derrida ou de la chaîne Arte, et que le téléphone portable endosse une bonne partie du hors-champ. Ces anachronismes
qui viennent parasiter l’audition sont
importants car à la supposée pureté
artistique qui ressort de l’arrogance de
Thomas s’oppose la vérité humaine plus
terre à terre mais aussi plus sincère de
la jeune femme, pour qui ce rôle se présente d’abord comme un job.
Qui a vu par exemple Le Bal des vampires et se souvient de la vulnérabilité
comique de son héros ne sera guère
surpris de voir le rapport de force s’inverser à mesure que s’exhale de cette
Vénus à la fourrure un fumet de féminisme triomphant. De ce retournement,
l’unité d’action et de lieu et le nombre
très limité d’acteurs sont les garants.
Nous sommes en effet dans l’épure des
espaces que tout amateur de Roman Polanski identifie depuis plusieurs années
comme des huis-clos : intérieur newyorkais chez les « bobos » de son récent
Carnage (2011), appartements reclus
de Répulsion (1965) ou du Locataire
(1976) et même, plus anciennement,
confinement du yacht du Couteau dans
l’eau (1962) : le huis-clos s’est toujours
imposé chez lui comme un territoire
de condensation des affects, véritable
cocotte-minute prête à exploser. À la
double mise en abyme (pièce originale,
roman de 1870 dont est tiré le film) se
surajoute ici l’autofiction amusée : non
seulement l’évolution de Vanda offre à
Seigner l’un de ses rôles les plus riches
puisqu’elle interprète tour à tour la candidate à côté de la plaque, la Vénus de
la pièce et même quand le metteur en
scène inverse les rôles et lui donne la réplique en se travestissant, le valet soumis à Vénus ; mais Polanski fait porter à
Amalric une hilarante perruque à longue
mèche qui en fait inévitablement un
sosie du cinéaste, non sans une pointe
d’autodérision.
Érotisme, travestissement, soumission,
domination : tous les thèmes de la
longue filmographie de Polanski se retrouvent ici condensés dans l’espace a
priori neutralisé d’un théâtre sans spectateurs, une scène qui n’est pas encore
offerte à l’œil public. En ce qui relève
d’un tour de force, la dérision voire la
caricature délibérée (voir le contraste
chromatique de l’affiche : un stilletto
noir sur fond rouge) n’empêche jamais
le sérieux des moments érotiques, de
la tension sadomasochiste qui s’en dégage. Pour autant ; le huis-clos n’est pas
entièrement coupé du monde : le film
s’ouvre sur un plan-séquence d’orage
sur les Grands-Boulevards parisiens
dont l’élégance laisse dans la mémoire
du spectateur le “dehors” du décor
unique qui va suivre. Certes en mode
mineur, ce n’est rien moins que le jeu
d’un Jean Renoir entre vie et théâtre
(Le Carrosse d’or, Le Petit Théâtre de Jean
Renoir) qui sont lointainement convoqués : “ où commence le théâtre ? Où
finit la vie ? ” La question finale de la
Camilla du Carrosse d’or est ici reposée,
dans ce dispositif d’une grande nudité.
Ce n’est pas un hasard si au cours du
dialogue il est question de La Walkyrie:
Vanda Jourdain, qui monte en puissance
à mesure que la soirée se prolonge, se
révèle une étonnante incarnation de la
« vierge guerrière » wagnérienne. Vous
avez dit Vanda Jourdain ? Écorchée vive
comme la paumée de Wanda de Barbara Loden, jouant de mieux en mieux
presque sans le savoir à la manière du
Monsieur Jourdain du Bourgeois gentilhomme de Molière connu pour faire
des vers sans le savoir, Vanda finit par
devenir l’incarnation même d’une ubiquité des genres et des classes sociales :
pas seulement la capiteuse Vénus mais
aussi les hommes qui l’ont soumise ou
servie, pas seulement l’actrice mais en
définitive l’auteure. Il s’agit pour elle
de rien moins que de réécrire pour les
années 2010 un roman influent dont le
philosophe Gilles Deleuze – avant Vanda ! – avait démontré le sexisme.
Charlotte Garson
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
LA VITA DI ADELE
61
( L a v i e d ’A d è l e )
Regia: Abdellatif Kechiche. Sceneggiatura: Abdellatif Kechiche, Ghalya Lacroix.
Fotografia: Sofian El Fani. Montaggio:
Camille Toubkis, Albertine Lastera, JeanMarie Lengelle, Ghalya Lacroix. Musica:
Jean-Paul Hurier, Jérôme Chenevoy. Scenografia: Julia Lemaire. Interpreti: Adèle
Exarchopoulos, Léa Seydoux, Salim Kechiouche, Jeremie Laheurte, Aurelien Recoing. Produzione: Wild Bunch, Quat’sous
Films, Alcatraz Films, Vertigo Films, Scope Pictures. Distribuzione: Lucky Red. Paese: Francia, Spagna, Belgio. Anno: 2013.
Durata: 179 minuti.
Nonostante le polemiche e le discussioni sorte attorno al film, riguardando
La vita di Adele ci si rende immediatamente conto che è un volto a riempire
lo schermo, a dettare con i suoi sguardi
e i suoi smarrimenti l’andamento di un
melò iperrealista, dal fascino sinuoso
e tracotante. I lineamenti di Adele, lo
spaesamento identitario, i dubbi e le
incertezze che le invadono la testa
e che si iscrivono sul viso, le prese di
coraggio sottolineate dai continui aggiustamenti alla sua scomposta coda
di cavallo, il sorgere dell’amore e della possibilità di una nuova consapevolezza che la fa subito sembrare più
adulta e poi di nuovo la precarietà e lo
smarrimento che in un attimo la ritrasformano in bambina, pronta a dilatare le pupille e trasformare lo sguardo
in cieca disperazione.
Prima di tutto, La vita di Adele è la
sfida cinematografica di farci vivere
nella pelle, mutevole e palpitante,
dell’adolescenza, proseguendo un
percorso che riunisce i momenti più
alti del cinema di Abdellatif Kechiche:
la fuggevolezza di un bacio in La faute
à Voltaire, le liti tra ragazzi e gli sguardi mancati de La schivata, l’impeto
inarrestabile dei giovani di Cous cous,
motore della narrazione con i loro
«peccati» e le loro «virtù». La dimensione corale questa volta viene sacrificata per favorire un’adesione alla
vicenda singolare, che in un attimo
sa trasformarsi in parabola universale
sulle storie d’amore, ripercorrendone
con estrema lucidità le tappe fondamentali: il colpo di fulmine, il primo
incontro, il primo bacio, l’esplosione
della passione, la quotidianità, il tra-
dimento, la rottura e la drammatica
fine di un rapporto esclusivo. Una
manciata di momenti, quelli che non
si possono dimenticare, galleggiano
nella sospensione temporale dettata
dalle forti ellissi: la scelta di lasciare allo spettatore il tempo di vedere
affiorare sui volti e nei piccoli gesti
i turbamenti che animano Adele, si
contrappone ai decisi vuoti temporali
in cui passano giorni, mesi e anni a cui
il regista restituisce uno spazio che
sembra non avere la stessa importanza del destino, già segnato fin dal
primo scambio di sguardi tra Adele ed
Emma.
Nella sua ricerca di iperrealismo, Kechiche ha sempre lavorato sulla durata delle singole scene, amplificandola
per mezzo di un continuo e veloce
cambio di inquadrature, un «micromontaggio» che permette al meglio
di cogliere la naturalezza delle interpretazioni isolandole dal contesto e
immergendo lo spettatore nell’essenzialità del personaggio. Sembra particolarmente interessante che il metodo del regista sia messo a confronto
con una pratica che si basa sulla stessa rilevanza del particolare e gioca su
continue ellissi, come la graphic novel.
È stato questo genere a ispirare il film,
che si fonda appunto sul romanzo a
fumetti Il blu è un colore caldo di Julie Maroh. Tuttavia, La vita di Adele ha
scontentato diversi critici e intellettuali, soprattutto in Francia, per il deciso cambio del punto di vista tra il testo
originale e la sua trasposizione filmica.
Si è accusato il regista di voyeurismo e,
in maniera più generale, la storia d’amore saffico non ha soddisfatto pro-
prio chi avrebbe dovuto sostenere la
vittoria e la rilevanza pubblica assunta dal film. Tuttavia, Kechiche sembra
aver trovato nella narrazione per vignette un perfetto punto di partenza,
capace di riunire la precisione di alcuni
istanti alla rammemorazione di particolari del presente nel mare magnum
del sogno. Se nella graphic novel è il
ricordo a offrire il punto di partenza
per ripercorrere la vita di Adele, nel
film il recupero di Emma per comprendere Adele è affidato al regista e, di
conseguenza, allo spettatore, che giocano un ruolo più complesso rispetto
all’ingresso «schermato» nella diegesi che avviene nel testo di Julie Maroh.
Se da una parte Kechiche ha la grande
intuizione che descrivere una passione voglia dire viverla, e non attraverso le parole, ma attraverso i pori della
pelle, le pieghe della carne e i sussulti
del cuore, dall’altra cerca di compiere
un percorso che offra delle «spiegazioni» della rottura, che trasformerà
la struttura drammatica nella tragedia
di cui parla, non ascoltata, una professoressa all’inizio del film. Le distanze
sociali tra le due ragazze, le diverse
prospettive per il futuro, gli ambienti
professionali così irrimediabilmente
lontani sono i segnali che il regista si
sente di dover offrire per rendere più
«comprensibile» e «dicibile» questa
fine di un amore: una sorte di paracadute offerto allo spettatore per evitare
di gettarsi nel vuoto, catartico e sorprendente, che la cultura può soltanto
indicare e l’arte riesce a farci ri-vivere
e superare.
Daniela Persico
62
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
VIJAY – IL MIO AMICO INDIANO
SAISON CULTURELLE
(Vijay and I)
Regia: Sam Garbarski. Sceneggiatura: Philippe Blasband, Sam Garbarski, Matthew
Robbins. Fotografia: Alain Duplantier.
Montaggio: Sandrine Deegen. Musica:
Steve Houben. Scenografia: Veronique
Sacrez. Costumi: Catherine Marchand.
Interpreti: Moritz Bleibtreu, Patricia Arquette, Danny Pudi, Michael Imperioli,
Catherine Missal, Jeannie Berlin, Moni
Moshonov. Produzione: Entre Chien et
Loup, Samsa Film, Pandora Filmproduktion, Senator Film Produktion, RTBF.
Distribuzione: Officine Ubu. Paese: Belgio, Lussemburgo, Germania. Anno:
2013. Durata: 96 minuti.
Prima di introdurre all’esistenza grama
di Will, Sam Garbarski prova a depistarci
con una sequenza animata che illustra
il passato del personaggio. Le figurine
à la Peynet, accostate a un motivo jazz
piuttosto tradizionale, rinviano direttamente all’immaginario della commedia
sofisticata americana e ci illudono di
poter navigare entro i saldi confini di un
genere che proprio ai piedi dello skyline di New York ha trovato la sua patria
elettiva. Garbarski sembra così volersi
affrancare dal registro che aveva caratterizzato il precedente successo Irina
Palm (2007), dove la comicità delle situazioni era raffreddata dalla plumbea
ambientazione british e dalla serietà
del dramma che muoveva l’eroina interpretata da Marianne Faithfull. Invece, in
questa sua quarta pellicola veniamo immersi in un universo diegetico sfuggente, nel quale il romanticismo lascia via
via il posto al grottesco, in un continuo
dialogo con la dimensione tragica della
rielaborazione del lutto e della morte
(compresa la propria).
Collocandosi in una zona al confine tra
l’indagine sentimentale e la commedia
degli equivoci - non è necessario ricordare che Will di cognome faccia Wilder
per identificare A qualcuno piace caldo
come una delle principali fonti di ispirazione di Garbarski - il film trova piuttosto la sua cifra distintiva nel cosmopolitismo e nel mix culturale che lo contraddistinguono. Sono questi aspetti, infatti,
a fare da trait d’union fra la dimensione
extratestuale e quella narrativa, che si richiamano a vicenda nella moltiplicazione dei riferimenti geografici: così, una
co-produzione che ha coinvolto Belgio,
Lussemburgo e Germania mette in scena la storia di un tedesco che vive negli
Stati Uniti e che si deve mascherare da
indiano per vedere migliorata la propria
esistenza. Si parte dunque dal vecchio
continente per cercare di narrare qualcosa di molto contemporaneo, ovvero il
confronto a cui l’Occidente è costretto
- per ragioni che hanno più a che vedere
con i sommovimenti dell’economia globale che con semplici flussi migratori con il mondo asiatico, e quello indiano
nello specifico. Il meccanismo comico
per eccellenza, lo scambio d’identità,
diviene perciò il dispositivo che, da un
lato, realizza il sogno universale di poter
assistere al proprio funerale, ma, dall’altro, smaschera l’ipocrisia celata dietro
all’apparente progressismo della nostra
società. Una società in cui, come dimostrano i suoceri di Will, essere europei
significa provenire da una delle aree
del pianeta che più hanno patito la crisi
economica del 2008 e dunque essere
guardati con sospetto, mentre essere
cresciuti nella nuova India del benessere e delle società informatiche costituisce la massima garanzia di benevolenza.
Will conosce il calore dell’accoglienza
solo indossando i panni di un finto banchiere Sikh. Il travestimento consiste di
ben pochi elementi - un turbante, una
barba posticcia e una parrucca - e sintetizza nella sua essenziale naiveté il più
trito stereotipo dell’indiano secondo
l’immaginario occidentale. Un esotismo
da cartolina che restituisce un modello
facilmente riconoscibile, che può essere assorbito dalla cultura dominante
senza il timore che alla richiesta di accoglienza segua quella di integrazione
(com’era invece per il tedesco Will una
volta giunto negli Usa). Non a caso, in
una delle gag più riuscite del film, assistiamo a una lezione impartita a un
cameriere sudamericano per farsi passare per indiano dall’abituale clientela
borghese. E d’altra parte anche la moglie del protagonista, Julia, interpretata
da Patricia Arquette, sembra non (voler)
riconoscere dietro alla maschera così
grossolanamente abbozzata il volto del
marito. Al di fuori del suo studio di psicoanalista, Julia è decisamente refrattaria alle complicazioni nelle relazioni
umane, e perciò le è molto più semplice accogliere nell’intimità del proprio
letto Vijay - che risponde a tutti i luoghi
comuni sull’India in materia di sesso e
religiosità - piuttosto che Will e il suo
carico di complessità. La maschera di Vijay agisce invece sullo spettatore con un
effetto diverso: se da un lato la sua semplicità rende difficile quella sospensione
dell’incredulità che permette l’immedesimazione, dall’altro essa funziona come
una sorta di cartello brechtiano (non a
caso, forse, Will vanta una memorabile
interpretazione ne L’opera da tre soldi),
a ricordarci la necessità di mantenere
una certa distanza dai personaggi e dal
loro universo emotivo. Come a ribadire
che non ci troviamo nella rasserenante
commedia sentimentale dell’esordio, ma
siamo precipitati con Will in una parabola pessimista sulle maschere che bisogna
indossare quotidianamente, per apparire
speciali agli occhi degli altri. Dopo Irina
Palm, quindi, un film di Garbarski reca
nuovamente nel titolo il nome d’arte di
qualcuno che si trova obbligato dalle circostanze ad assumere una diversa identità, pur di ristabilire un equilibrio. Ma
l’esito di Vijay, costretto a rinunciare a se
stesso e a prendere atto di un fallimento
irreversibile, fornisce l’esatta misura del
sopraggiunto pessimismo.
Francesca Monti
SAISON CULTURELLE
IL GIRO DEL MONDO
IN 60 FILM
THE WOLF OF WALL STREET
63
Regia: Martin Scorsese. Sceneggiatura:
Terence Winter. Fotografia: Rodrigo Prieto. Montaggio: Thelma Schoonmaker.
Musica: Howard Shore. Scenografia: Bob
Shaw. Costumi: Sandy Powell. Interpreti:
Leonardo Di Caprio, Jonah Hill, Margot
Robbie, Matthew McConaughey, Kyle
Chandler, Rob Reiner, Jon Bernthal, Jon
Favreau, Jean Dujardin, Joanna Lumley,
Shea Whigham, Spike Jonze, Jordan Belfort. Produzione: Sikelia Productions, Appian Way, Red Granite Pictures, EMJAG
Productions. Distribuzione: 01 Distribution. Paese: USA. Anno: 2013. Durata: 180
minuti.
C’è un cinema che può essere visto a
partire dalle linee di movimento che
lo attraversano, che ne determinano
non solo la struttura, ma anche l’idea, la
particolarità di uno sguardo sul mondo:
un cinema circolare, angolare, lineare.
Quello di Scorsese è ossessivamente
attraversato da una linea vorticosa, in
salita, seguita da una linea opposta che
cade, inesorabilmente. È il movimento
costante che caratterizza gli eroi tragici
ed eccedenti del regista italo-americano, sempre protagonisti di un’ascesa
che li porta al successo, e oggetto di
una successiva caduta rovinosa, che ne
mostra la fine, l’eclisse. L’equilibrio tra i
punti di questo doppio movimento è in
Scorsese fondamentale, sempre delicato, poiché esso si determina attraverso
l’eccesso, che sia esso dei corpi o delle
storie, dei sogni e dei desideri, che siano quelli di Jacke La Motta o di Howard
Hughes, di Henry Hill o di Trevis Bickle.
Contrariamente allo sguardo di altri registi – come Werner Herzog per
esempio – interessati all’eccesso in sé,
al titanico desiderio di personaggi che
vivono oltre se stessi, Scorsese ama i
punti di frattura, si interessa alle modalità della caduta inesorabile dei titani
della contemporaneità. Questo è anche
il movimento di Jordan Belfort, ex broker newyorkese che, lungo l’estasi del
decennio reaganiano, incarna l’assoluta
immaterialità della finanza, la brama
del denaro fatto di stock, di azioni, di
promesse di ricchezza e felicità estorte
ai suoi clienti. Con queste attività Belfort costruisce un impero effimero e
virtuale, come i soldi, che agiscono su
ciò che è altrettanto effimero, ma che
invece è decisamente reale: il corpo, la
vita. Jordan Belfort è infatti attraversa-
to da un doppio eccesso: da una parte
quello virtuale, spettrale, del successo
economico fondato sul valore immateriale del denaro e sulla truffa; dall’altra, l’eccesso che Belfort vive su di sé,
attraverso il consumo spasmodico di
droghe, alcool e sesso che il suo corpo
esaurisce come una macchina del godimento, rendendolo inumano. Nella
lunga sequenza dell’overdose da Qualuude, in cui senza più controllo fisico
cerca di raggiungere l’auto parcheggiata all’esterno di un locale, Belfort è un
corpo senza più centro che disperatamente cerca di riguadagnare invano
il dominio di sé. Leonardo Di Caprio,
ormai nuovo attore-feticcio scorsesiano, dopo l’eclisse di Robert De Niro,
disegna perfettamente il percorso di
un soggetto nell’atto del suo svuotamento, del suo trasformarsi in immagine e della perdita della sua corporeità. Il suo ritratto, il ritratto del suo
movimento è, cinematograficamente,
il ritratto di un mondo. Scorsese lavora
infatti su questa doppia dinamica, duplice elica di un’azione che tende allo
spasimo, introducendo alla caduta,
fino al punto in cui la corda si spezza
e inizia la «discesa degli dèi». Da una
parte, vi è la struttura frenetica delle
immagini, in cui il ritmo sincopato del
montaggio, la composizione geometrica e quasi da commedia dell’assurdo delle inquadrature compongono il
ritratto ironico di un mondo tragico e
osceno al tempo stesso. Dall’altra, la
perdita dell’equilibrio, caratterizzato
invece da lunghe sequenze in cui la cinepresa cattura ogni movimento, ogni
segno di mutazione dell’umano, disegnandone la smaterializzazione.
Quasi rinfrancato, rinato dopo il tuffo
rigenerante nelle sue origini magiche
con Hugo, in cui Scorsese ritrova il senso unico del cinema come grande macchina della vita e del sogno, con The
Wolf of Wall Street il regista crea un
perfetto dispositivo analitico e ludico
al tempo stesso. Ogni inquadratura lavora sulle situazioni, incessantemente
introdotte dalla voce fuori campo di
Belfort, segnando di volta in volta l’ascesa e la caduta dell’eroe, secondo
una logica dell’accumulo. La struttura
classica della narrazione viene rispettata, ma domina il gusto per l’eccesso
visivo – la cura maniacale per la composizione geometrica dell’inquadratura, per la struttura delle situazioni costruite come molteplici e infinite gag,
per il tono ironico che attraversa ogni
spazio tragico – e verbale. La parola
infatti, in quello che forse è il film più
parlato di Scorsese, è parte integrante
di un flusso vitale che ricopre ogni realtà, ogni punto fermo. La parola descrive
e al tempo stesso nasconde, crea una
realtà illusoria all’interno della quale si
muove a suo agio un uomo che diventa
la perfetta immagine del soggetto contemporaneo. È la dimensione ironica
che attraversa tutto il film a mostrarlo:
il soggetto che vive il suo smarrimento,
la disseminazione in un mondo smaterializzato, è il perfetto esempio della contemporaneità come esperienza
della perdita di sé. Ciò che il cinema
racconta e dispiega con i suoi mezzi più
classici è l’impossibilità della tragedia
o dell’epica, la consapevolezza che la
farsa è l’unica forma capace di raccontare il vuoto di un’esperienza. È anche
così che il cinema di Scorsese continua
a essere contemporaneo.
Daniele Dottorini
BERLINO
64
CORNELIU PORUMBOIU
AL DOILEA JOC
S
pesso un’immagine, non importa
quanto casuale, inconscia o certosinamente preparata, può racchiudere e convogliare su di sé, l’intero
mondo poetico di un regista. Così fa
la sequenza «gastrica» di When Evening Falls on Bucharest or Metabolism.
Dopo un ironico andirivieni attorno
al farsi indolente di un film, il regista
si ammala di un male misterioso (il
cinema?) e i medici ne ispezionano
lo stomaco, trasformandone il corpo
nell’unico cinema possibile. Mentre
avanziamo, grazie alla sonda che si
incunea morbidamente nelle viscere
del cineasta, capiamo forse il segreto
del discorso, solo in apparenza divagante, di Porumboiu: c’è sempre una
verità fisica che a un certo punto chiarisce l’ineffabilità e l’impossibilità di
spiegarsi proprie della realtà. Questo
avviene quando la concentrazione di
tutte le immagini nel particolare, non
è altro che l’universale cui sempre
tendiamo (a ben vedere è su questo
«piccolo» abisso che si è sempre
mosso Porumboiu, dalla questione
della resistenza della memoria indagata nell’esordio 12:08 East of Bucharest al racconto puramente surreale di
Police, Adjective).
Questa sintesi, benché di potente trasparenza, non chiude il discorso, ma
lo rilancia; ed è ora pronta a giocare
una nuova partita. E infatti, ecco The
Second Game. Non è la prima volta
che dalla Romania giungono dei lavori che riorganizzano la memoria
storica, prolungandone la resistenza
attraverso una procedura che fa del
dubbio e dell’illimitatezza dell’interpretazione i suoi punti focali. Il
repertorio stesso diventa il terreno
scivolosissimo su cui affiorano brani
di qualcosa che, a partire dalla loro
inesattezza e al tempo stesso necessità storica, ancora speriamo di poter
chiamare «realtà» e «verità» (tutti
i film di Andrei Ujica sono l’esempio
maggiore e più immediato).
In Al doilea joc (The Second Game),
Porumboiu non deve far altro che
ottenere dalla tv romena la cassetta
del derby del 3 dicembre 1988 che
vide confrontarsi Dinamo Bucarest
e Steaua Bucarest, la squadra della polizia segreta contro quella dei
militari. Il film sarà «solo» la durata
integrale della partita. Il resto è dato
dal fatto che un’incredibile nevicata
rese il terreno di gioco pressoché impraticabile; che suo padre era Adrian
Porumboiu, l’arbitro in campo che
seguitò a far giocare decidendo di
non interrompere quasi mai le azioni,
concedendo a più riprese la regola
del vantaggio; che i ventidue in campo erano uomini d’altri tempi, duri,
tecnici, rispettosi, veri calciatori che
non rinunciarono mai a giocare un
solo pallone anche se sepolti dal fango e dal freddo; che il risultato finale
di 0-0 è, come ebbe a dire Jerzy Skolimowski, la partita perfetta; che non
un solo spettatore – tifoso puro, poliziotto, militare – lasciò gli spalti spazzati via dalla tormenta; che il regista
della trasmissione tv dell’epoca (che
ora è di fatto anche il regista del film
di Porumboiu), per tutta la durata del
match portò avanti un discorso parallelo fatto di carrellate sulle tribune,
primi piani sugli spettatori, movimenti a scoprire dagli alberi innevati
al totale del campo; che, infine, padre
e figlio (Corneliu stesso e Porumboiu
senior), senza mai entrare in campo,
sono le due voci off che commentano «in diretta» di nuovo la partita,
rivedendola in VHS, ragionando sulla
Romania di allora, su un calcio che
non c’è più (la metà delle regole sono
cambiate), sulle scelte dell’arbitro,
sulla fantasia e l’ardore dei giocatori
che resistono alle intemperie, e sul
cinema di Porumboiu, che lui stesso
a un certo punto paragona ironicamente alla partita, definendolo lungo,
noioso, privo di fatti rilevanti (ma sappiamo che non è così).
E noi cosa vediamo, cosa ci illudiamo
di vedere mentre la palla gialla spesso scompare dallo schermo e i fiocchi
ci confondono, e mentre le voci dei
due commentatori ci guidano timidamente e spesso si ammutoliscono,
lasciandoci nel silenzio abissale del
più affascinante esperimento di ipnotismo degli ultimi anni? Non si vede
nulla. La vista è tutta rivolta all’interno, diventa un occhio interiore che
ricorda, che guarda al di là della tormenta, riconoscendo forse, nel buio,
l’Europa delle dittature, l’anonimato
nostro e di tutti gli interpreti di allora, la malinconia e il romanticismo del
vedere e dell’avere improvvisamente
memoria del nulla.
Lorenzo Esposito
65
N
ell’arco di soli quattro film, Robert Greene si è rivelato uno
dei nomi di maggiore interesse del
cinema americano degli ultimi anni.
Con una formazione di montatore
(l’ultimo film in ordine di tempo è
Listen Up Philip di Alex Ross Perry)
e una cultura cinefila vorace, colta e
selettiva al tempo stesso, in grado di
analizzare in profondità Ocean’s Eleven 2 di Steven Soderbergh, Michael
Bay e il cinema di Laura Kraning, Greene è un cineasta che sfida le distinzioni convenzionali fra il cosiddetto
documentario e la presunta finzione.
La sua sensibilità cinematografica,
nutritasi di classici e di cinema che
si muove alle soglie della sperimentazione e del documentario, rappresenta un’appassionante eccezione
in un contesto nel quale invece
distinzioni e differenze servono a
conservare le distanze piuttosto che
abbatterle.
Kati with an I, diretto nel 2010, rivela subito uno sguardo maturo e
autonomo. Successivo di un anno a
Owning the Weather (documentario
di impianto ecologico sugli stravolgimenti del clima), il film è fotografato
da Sean Price Williams, in assoluto
uno dei direttori della fotografia più
originali degli ultimi anni. L’attenzione ambientale di Greene, sia ai colori
che ai suoni e agli accenti della lingua, coglie la realtà della protagonista, che si trova di fronte a uno snodo
cruciale della sua vita, con una pregnanza degna di nota. I colori dell’Alabama esplodono densi, come se a
ACTRESS
manovrare lenti e obiettivi ci fosse il
Nestor Almendros de I giorni del cielo,
mentre il montaggio di Greene è così
preciso da lasciare sorgere il sospetto che in realtà ci si trovi di fronte a
un film di finzione. Echi di Faulkner
e Steinbeck emergono potenti, ma
è lo sguardo di Greene a fare la differenza. La sua capacità di cogliere
il mondo non come cosa vista ma
riverbero di un sentire non ha pari
(esemplare in questo senso il corto
Firefly Boy). Fake It So Real, incentrato
su una troupe di wrestlers itineranti,
con i suoi toni aldrichiani, evidenzia
ulteriormente l’ampiezza del respiro
di Greene, la sua capacità di intercettare il battito di un’America lontana
e dimenticata. Film stratificato e picaresco, in grado di suscitare anche
interrogativi non banali inerenti al
gender, evidenzia sia la precisione
antropologica di Greene che la sua
capacità di rielaborare elementi della cultura popolare in chiave umanista e drammatica.
A collocare definitivamente Robert
Greene sulle mappe delle navigazioni cinefile contemporanee è Actress,
il suo terzo film, melodramma documentario costruito intorno al corpo
di Brandy Burre. Attrice co-protagonista della serie televisiva The Wire
prodotta dalla Hbo, Burre si è ritrovata, dopo una serie di scelte esistenziali problematiche, lontana dal set e
con un matrimonio a pezzi. Greene,
dunque, come nel caso di Kati, coglie una situazione di transizione e
la filma dall’interno. Esemplare di
quell’approccio che Greene definisce cinematic nonfiction, Actress
s’innesta nel solco della tradizione
cassavetesiana recuperando la spigolosità del lavoro più sperimentale
di Soderbergh. La visionaria locandina del film, che pare omaggiare le
tavole di Jack Kirby per fumetti ormai dimenticati come Young Romance (pages from real life… comics), dichiara che “Brandy Burre is Actress”.
Questa intuizione, che elimina la distanza fra la persona e la rappresentazione del personaggio, cortocircuita l’idea di riproduzione del reale e
della natura ontologica che sta alla
base del documentario. Greene filma la protagonista nella casa divisa
con il marito che si eclissa come un
fantasma creando per lei vaporosi e
dissonanti stacchi onirici. Si pensa
ovviamente ai melodrammi di Douglas Sirk ma anche a un film come
Puzzle of a Downfall Child di Jerry
Schatzberg. L’immagine diventa così
il luogo nel quale il principio di realtà si offre a un’indecidibilità che
diventa strategia del filmare. Greene apre il dispositivo documentario
a una radicale ambiguità che si ipotizza come strumento d’indagine del
cinema e del reale. In questo senso
Robert Greene ci sembra davvero il
primo e più innovativo esponente
di nuovo territorio cinematografico
situato fra documentario e finzione
che potremmo iniziare a definire
come post-fiction.
Giona A. Nazzaro
NYON
ROBERT GREENE
66
CANNES
NADAV LAPID
HAGANENET
M
a première rencontre avec Nadav Lapid remonte à un voyage
en Israël en 2011, au cours duquel je
découvris – en sa compagnie – Le Policier qui m’impressionna beaucoup et
que j’invitai en compétition au Festival
de Locarno quand j’en étais le directeur
artistique. Le film allait remporter le
Grand Prix du Jury quelques mois plus
tard et débuter une brillante carrière critique dans les festivals internationaux.
Cela faisait longtemps à mes yeux qu’un
premier long métrage n’avait démontré
une telle maîtrise dans la mise en scène,
capable de dialoguer immédiatement
avec les films de Godard ou Bresson, et
de susciter chez les spectateurs les plus
clairvoyants la certitude d’assister à la
naissance d’un excellent cinéaste, mais
aussi de découvrir un film important,
aussi brillant dans sa forme qu’intelligent dans son propos. Nadav Lapid (né
en 1975) ose faire du cinéma politique.
On pourrait dire qu’il est israélien, donc
qu’il n’a pas le choix. La formidable nouvelle du Policier, c’est qu’il est à la fois
le meilleur film ouvertement politique
vu depuis des lustres (y compris et surtout en Israël), et que c’est également
une des plus stimulantes propositions
cinématographiques de ces dernières
années, capable de résoudre le problème de la forme et du fond, grâce à
l’invention d’une dramaturgie spectaculaire qui exprime par la force de la mise
en scène des idées tout aussi radicales.
Avec Nadav nous nous sommes tout de
suite entendus sur l’essentiel, à savoir
les bons et les mauvais films, une certaine idée de la mise en scène et nous
avons entrepris une conversation stimulante sur le cinéma – et bien d’autres
choses, régulièrement entretenue au
fil des rencontres en France, en Israël
et partout où les festivals et les projections de son film nous emmenait.
Mon arrivée à ARTE coïncida fort heureusement avec la production de son
projet suivant, dont j’avais déjà pu lire
et apprécier le scénario au Jerusalem
Film Lab. ARTE France Cinéma participa
à la production de L’Instructrice, coproduction franco-israélienne, et j’eu la
chance de discuter avec Nadav de son
nouveau film aux étapes successives
de sa création, de l’écriture aux différentes versions du montage, en passant
par le tournage auquel je pus assister
une journée à Tel Aviv. L’Institutrice fut
présenté en séance spéciale au Festival
de Cannes à la Semaine de la Critique,
s’imposant comme l’une des œuvres
les plus passionnantes du festival,
toutes sections confondues.
L’histoire de L’Institutrice est inspirée
d’une expérience autobiographique
de Nadav Lapid, également écrivain,
qui écrivit enfant des poèmes dont
certains sont utilisés dans le film. Le
Policier et L’Institutrice sont à la fois
très différents – sur le plan formel et
narratif - et presque jumeaux, creusant
le même sillon politique. Une nouvelle
fois il s’agit d’analyser, davantage que
de dénoncer, les dysfonctionnements
de la société israélienne contemporaine, ou plutôt son fonctionnement
implacable, étouffant et aliénant. Une
nouvelle fois il s’agit d’associer à cette
critique radicale une mise en scène
qui soit aussi puissante, et pertinente,
que le regard de Nadav Lapid sur son
propre pays. Inventer de nouvelles
formes, adaptées à une pensée, ce devrait être l’ambition - sinon le rôle - de
tout cinéaste qui se respecte. Ce n’est
hélas pas toujours le cas mais c’est
indubitablement ce qui motive Nadav
Lapid. En cinéaste moderne il saisit et
interprète les images les plus triviales
de notre époque pour les intégrer à son
propre système esthétique d’un perfectionnisme sidérant. Il ne s’agit pas
seulement de mettre la caméra à hauteur d’enfant dans la cour et la classe
de la maternelle. Ces hyper gros plans,
ces corps qui vont et viennent devant
l’objectif en se heurtant parfois à lui
proviennent directement de la vidéo
domestique ou des téléphones portables, Nadav Lapid leur offrant pour la
première fois une grâce purement cinématographique. Savoir regarder notre
époque pour la critiquer. Savoir filmer
la poésie sans la sacraliser, ni chercher
les effets « poétiques ». Le propos du cinéaste dépasse la situation israélienne.
Lapid questionne le rôle de la poésie –
et donc du cinéma et de la culture en
général – dans un monde matérialiste,
contaminé par le cynisme et la vulgarité, qui ne lui accorde plus aucune place
et encore moins de valeur. L’Institutrice,
sans provocation ni grand discours,
mais avec une intelligence et une sensibilité artistique exceptionnelles, est
un grand film de résistance.
Olivier Père
Directeur général d’ARTE
France Cinéma
67
IL MISTERO
DELLA POESIA
Conversazione
con Nadav Lapid
H
aganenet è un film sul mistero
della poesia, e più in generale
dell’arte: perché hai scelto un tema
così complesso e insieme di straordinaria importanza per un cineasta?
Viviamo in un mondo dove è chiaro a
tutti il fatto che ci sia stata una battaglia tra la poesia e il materialismo – o
se vuoi lo spirito del materialismo
– e che la vittoria sia andata senza
ombra di dubbio a quest’ultimo. Al
tempo stesso, sono convinto sia altrettanto innegabile che il mistero
della poesia continui ad avere degli
effetti su di noi, e che in un certo
senso si ponga come sfida una visione pratica della vita, che poi è quella che la maggior parte di noi è costretta ad avere. La poesia svanisce
di fronte all’occhio, sfugge, si rende
inafferrabile. Nessuno può dire dove
cominci la parola che diventa poesia
e dove poi finisca; e proprio questo
aspetto rende l’esperienza della poesia unica e irripetibile, soprattutto
se confrontata con la ripetitività del
pensiero contemporaneo. Ciò che è
unico, spesso, non è né utile né ragionevole. Dunque, se proprio dobbiamo considerare la questione in
termini conflittuali, la poesia e in generale, forse, tutta l’arte hanno perso
contro il pensiero moderno, anche
se non del tutto. Ecco perché l’indefinitezza e l’inafferrabilità dell’arte e
della poesia possono ancora essere
una via di fuga.
In effetti, credo che il vero tema di
fondo del tuo film sia una domanda
poco ragionevole, una domanda decisiva, quasi un’ossessione: da dove
vengono le parole? In che posto risiede la poesia prima di diventare
linguaggio? Pensi che possa anche
essere una domanda spirituale e
quindi Haganenet un film sulla ricerca di Dio, sul suo silenzio?
Penso che ci sia, da parte di tutti noi, un rapporto frustrante con
l’arte. Chiunque fa dei tentativi,
chiunque si mette di fronte a uno
specchio e si chiede cosa possa esserci dall’altra parte. Ci ho pensato
qualche giorno dopo la proiezione
di Haganenet a Cannes, quando Leo
Carax è venuto qui in Israele a tenere una master class durante un festival di cinema: in molti gli chiedevano da dove venissero la sua arte e
la sua ispirazione, e lui ovviamente
non era in grado di dare una risposta
o una spiegazione. Non penso, però,
che si trattasse di domande stupide,
quanto, piuttosto, della ripetizione
di un sistema, la conferma del fatto che ogni tanto abbiamo bisogno
di porci degli interrogativi destinati a rimanere senza risposta. Resta
misterioso, dunque, il posto da cui
provengono le parole, le immagini,
l’arte in generale – ed è necessario
che sia così.
Ma allora Dio? O forse, meglio ancora, la religione, la tradizione religiosa? A me sembra che nel tuo film ci
sia una forte influenza dell’Ebraismo
e in particolare un richiamo alle figure dei profeti biblici…
Il bambino comunica attraverso il
suo corpo e non c’è un’interpretazione precisa delle sue parole. Non
c’è spiegazione. Ci sono solo le sue
parole, generate da gesti, rituali e
movimenti ripetuti (da destra a sinistra, da sinistra e destra…). Sì, certo,
in lui c’è qualcosa di ancestrale, e
al tempo stesso di trascendentale,
di biblico, di antico e misterioso. Al
tempo stesso, però, è qualcosa di
molto concreto, e in questo senso
molto cinematografico. Se apri gli
occhi e guardi oggettivamente la
scena, tutto ciò che vedi è un bambino di cinque anni che si comporta
in maniera strana. È la sua maestra,
affascinata e impotente, a chiedergli spiegazioni a proposito delle
sue poesie e su ciò che esprimono.
Il bambino è come se fosse cieco e
insieme materiale, concreto. Mentre
tutto ciò che il suo atteggiamento
esprime sta, in realtà, nell’occhio
dello spettatore e nell’orecchio
dell’ascoltatore.
E qual è secondo te, nel tuo film, il
legame fra la parola poetica e la parola sacra della tradizione ebraica?
La tradizione ebraica è fondata sul
linguaggio, un linguaggio comune, segreto, proibito; un linguaggio
usato solo nei momenti sacri; un linguaggio trascendentale, la definizione di ciò che significa essere ebrei.
Nella società israeliana c’è, perciò,
68
uno scontro molto forte fra l’idea
giudaica, che considera il linguaggio
sacro, e la natura stessa dello stato
di Israele, che è il Paese di quelli
che fanno e non parlano. Oggi, dalle
mie parti, quelli che parlano sono
visti in maniera negativa, mentre si
ha un’ottima considerazione degli
uomini d’azione, quelli che agiscono. Penso che questo sia un aspetto decisivo della nostra situazione.
Cosa farebbe, allora, un profeta biblico che arrivasse oggi in Israele?
Ci metterebbe di fronte alla prospettiva di un fallimento rispetto
alla tradizione: e io penso che il legame con il passato sia alla base del
presente e del futuro del mio Paese.
Come affermavi prima, in Haganenet
è fondamentale l’elemento dello
sguardo. Quindi, anche l’elemento
del linguaggio cinematografico. In
tal senso il punto di vista della macchina da presa è imperscrutabile:
mai troppo lontano, mai troppo vicino. Potrebbe essere il punto di vista
del mistero, della paura, forse di Dio?
Sono stato guidato da una domanda
non dissimile da quella che si pone
la maestra: come filmare la poesia?
Come rappresentare l’atto di scrivere poesie? Per me, c’è qualcosa
di molto potente nel modo in cui
la macchina da presa può operare:
perché spesso si rifiuta di seguire
l’unicità del momento, coglie situa-
zioni che fanno parte del mondo,
non ne sono separate. Filmare in
campo totale o in piano americano
un bambino che compie gesti meccanici fa parte del mio tentativo di
raggiungere un linguaggio primitivo, basico, che in definitiva è molto più affascinante di uno sguardo
generato da una macchina da presa
che cerca di raddoppiare o inseguire l’effetto della poesia (con un primo piano di una bocca, delle gambe,
di un particolare…). Ho tentato così
di «guardare la poesia», di coglierla come parte del mondo, cercando
qualcosa di imprecisato, di trascendentale per l’appunto. E così ho
ottenuto quello che mi sembra un
doppio approccio, uno votato all’aspetto materiale e l’altro a quello
spirituale.
E la macchina da presa? Dà sempre
l’impressione di essere piazzata in
un punto preciso, unico, come se non
potesse stare in altro luogo.
Rispetto alla posizione della macchina da presa, devo ammettere
che in un film la messinscena spesso è determinata più dagli attori
che dalla camera. La macchina sta
al suo posto, mentre gli attori vanno e vengono, dichiarando in questo modo la loro presenza e la loro
funzione determinante nel gestire
il film stesso. Sono loro, gli attori,
che vanno verso la camera, e non
viceversa. È vero, ovviamente, che il
lavoro degli attori lo si decide insieme, ed è il regista a gestirlo, ma in
definitiva sono gli attori a decidere
cosa fare e come farlo.
Immagino, quindi, che il lavoro svolto con l’attrice Sarit Larry sia stato
fondamentale, perché è lei che aiuta
il bambino protagonista a interagire.
Sì, assolutamente. Il lavoro preliminare con lei è stato decisivo. Sarit
è una grande attrice, abbiamo effettuato una grande preparazione.
Non era mai stata protagonista in un
film, dal momento che aveva smesso di recitare a ventisette anni per
frequentare un dottorato in filosofia a Boston. All’inizio, quindi, era
spaventata, e per questo motivo in
diversi momenti del film la si vede
solamente attraverso dei «reaction
shot» e se ne può percepire il disagio, qualcosa che va oltre le emozioni del personaggio. Poi ha acquisito
sicurezza e decisione, e soprattutto
ha compreso che tutto il film nasce da un solo movimento: da un
«salto» esistenziale e filosofico in
un universo molto specifico, quello
dell’arte e del talento, generato da
una fede, dalla fede nei confronti di
un bambino e delle sue creazioni,
del suo mondo e soprattutto della
sua parola (ndr: gioco di parole intraducibile tra «world», mondo, e
«word», parola). Nel momento in cui
69
compie un salto del genere, non c’è
più nulla a cui la maestra d’asilo non
possa credere, e in un certo senso
neanche la donna che la interpreta,
perché Sarit ha cominciato a comprendere meglio quello che stava
facendo e a esprimerlo in maniera
più decisa. Non voglio interpretare
le cose in modo troppo psicologico,
ma penso che l’elemento della fede
unisca attrice e personaggio, perché
anche Sarit nella vita è «credente»
e questo la avvicina allo stupore
affascinato del personaggio. Sarit è
nata in una famiglia religiosa, poi ha
abbandonato Dio e ha cominciato a
credere nel teatro; e in un secondo
momento ha lasciato anche il teatro
per dedicarsi alla filosofia. È come se
ogni cosa nella sua vita nascesse da
un atto di devozione.
Un aspetto che forse si sottovaluta del film è lo straordinario ritratto
psicologico della protagonista, una
donna sola, per quanto sposata e con
dei figli, che trova soddisfazione nel
legame con un bambino. Potrebbe
sembrare patetico, ma tutto questo è rappresentato in modo
molto umano, compas-
sionevole…
Credo che una tale idea del personaggio, il suo essere una perdente,
una vittima, venga dal fatto che io
sono un uomo e come tutti gli appartenenti al mondo occidentale vivo in
una società patriarcale. Ogni situazione del nostro mondo, non solo
della società israeliana, si può infatti
ridurre a questo: gli uomini creano
l’ordine, lo impongono, mentre le
donne lo difendono. La protagonista
di Haganenet è circondata da uomini che si occupano di consolidare e
confermare l’ordine, che le mostrano
come va il mondo: il marito le spiega
come si educano i figli, l’insegnante
come si scrive una poesia (anche un
artista, quindi, partecipa all’ordine),
il padre del bambino come funziona
la società capitalista… La differenza,
allora, non sta tra l’essere un poeta o
un uomo d’affari, o un soldato o un
impiegato, ma tra il rispettare le gerarchie di una società e credere invece nelle parole che quella società
ha creato. Parole
che quel-
la stessa società potrebbe non saper
più gestire. Inoltre, non va dimenticato che la protagonista è una maestra d’asilo e il suo compito, idealmente, è quello di educare le nuove
generazioni a rispettare quell’ordine imposto dalle vecchie (esattamente come, in quanto madre, ha
educato il figlio a essere un buon
soldato, come dice il comandante
del ragazzo). L’insegnante, invece,
si rifiuta di rispettare il ruolo stabilito dalle gerarchie di una società. E
non è nemmeno una buona madre,
perché non frequenta i figli, non li
sente, si allontana addirittura dalla
festa di fine servizio.
Mi piace il modo in cui rendi l’idea di
imprigionamento del personaggio.
In particolare, in due scene: quella
della festa dei militari, in cui la maestra d’asilo è stretta fra il marito e
il figlio, e in quella successiva nella
discoteca, dove la donna balla per
sentirsi libera, ma anche in questo
caso finisce stretta fra due persone.
Queste due scene le hai pensate correlate?
A dire il vero le ho pensate
come due momenti
70
per osservare la natura della gente
che balla. Nella prima scena, ci sono
dei soldati che saltano, che si sfogano in maniera indisciplinata e cameratesca, nella seconda, invece, tre
persone che si muovono a ritmo, che
trovano un movimento unico, prima
di perdere. In tutto questo, ovviamente, c’è la figura della donna, della madre: nella prima, guardando il
figlio e il marito ballare, vede la sua
stessa vita, e non la accetta, si perde
di fronte all’immagine del figlio e di
un gruppo di persone stupide, innocenti, ma violente; nella seconda,
invece, inizia per lei una sorta di liberazione, ma finisce anche in quel
caso oppressa. La donna si affranca
nuovamente dalla realtà ballando
da sola, creando il momento più liberatorio del film. Tuttavia, il taglio,
lo strappo è violento, portandola
alla violenza, alla fuga.
Pensando alle due scene messe in relazione, mi viene da chiederti come
lavori fra le riprese e il montaggio,
come costruisci il ritmo del tuo film…
Le riprese sono state programmate rigidamente. Haganenet era un
film molto difficile da girare e abbiamo cercato di pianificarlo il più
possibile. Ho cercato di stare attento a quello che succedeva sul set,
ai momenti in cui venivano fuori
possibilità di inventare, di cambiare, ma alla base c’era una scrittura
solida. Per quanto riguarda il montaggio, invece, penso che uno dei
compiti di questa specifica fase di
lavorazione sia quello di «smontare», paradossalmente, la natura
auto-compiuta, finita, spesso anche
arrogante, delle riprese. Le riprese
possono essere un bel momento di
condivisione, tutti sono felici e soddisfatti. Successivamente, durante
il montaggio, si scoprono elementi
che non funzionano, o semplicemente si prende coscienza del fatto
che è necessario essere brutali e de-
cisi. Bisogna ricreare la tensione interiore del film, cercare quelle contraddizioni che pianificandolo si è
cercato di evitare. In un certo senso,
il montaggio contraddice le riprese,
e in tale direzione, costruendo il ritmo del film, ho cercato di ottenere
una contrapposizione fra alto e basso, fra «estasi spirituale» e bassezza, materialità, freddezza, oggettività. Il montaggio aiuta a creare questa tensione.
A cura di Roberto Manassero
71
SAINT-LAURENT
I
l corpo è da sempre al centro del
cinema di Bonello. Un corpo reso
meccanico, accecato, mutilato, trasformato in oggetto e in gioco; un
corpo, soprattutto, che porta su di
sé, in maniera visibile e cinematografica, la spinta autodistruttiva che
muove ogni personaggio del regista
francese, protagonista da sempre, di
film in film, di una guerra contro se
stesso.
Yves Saint-Laurent, artista fra i più
noti del ’900, brand, industria, modello di stile, icona da biopic milionario, non fa eccezione. Bonello ne
fa una propria creatura, lavora di
fantasia a partire da elementi, personaggi ed episodi reali per iscrivere il suo lavoro nel grande conflitto
tutto novecentesco fra arte e riproducibilità della merce, fra genio e
ripetizione.
In maniera inattesa, non sorprendente ma in virtù di una straordinaria intuizione d’autore, SaintLaurent diventa la creazione più
compiuta e sofferta di tutta la filmografia di Bonello, quella a cui tocca
saldare l’ineluttabile corso della
Storia con i tormenti dell’anima inquieta e insoddisfatta. È un prigioniero, Saint-Laurent, un prigioniero
del proprio talento, un prigioniero di
se stesso: come le prostitute dell’Apollonide rinchiuse in un bordello;
o il travestito Tiresia, sequestrato e
accecato; o ancora i registi-alter ego
e gli intellettuali di De la guerre e Il
pornografo, reclusi pure loro, e per
loro volontà, in castelli, ville, trincee, bare da morto. Tutti loro sono,
soprattutto, vittime del loro linguaggio, dei loro pensieri, dei loro corpi.
Vittime di se stessi.
Per Bonello la vita si declina al singolare, è una questione individuale.
Di conseguenza, l’arte è una proiezione di sé negli altri, un complesso
della mummia degenerato in egotismo che non prosegue la realtà, ma
al massimo ripete in modo mortifero
l’io. Saint-Laurent non vede altro che
sé negli altri: si innamora della modella Betty Catroux, una sera in discoteca, proiettandosi in lei; la osserva, la studia, ne rimane colpito e nel
controcampo si vede letteralmente
nei suoi panni d’alta moda. È un attimo, ma è lo stacco decisivo: da lì in
poi, ogni disegno, corpo modellato o
abito non è altro che la riproduzione
coatta di un solo corpo, quello primario, quello del soggetto.
Bonello non potrebbe essere più
esplicito. Il suo film racconta la resa
tutta novecentesca dell’arte alla
freddezza meccanica della ripetizione, non a caso chiama in causa il carteggio fra Saint-Laurent e Warhol. Ma
siccome è un artista di questo tempo,
e non degli anni ’60 e ’70, Bonello
va anche oltre: pecca forse di didascalismo quando riassume in splitscreen gli eventi chiave del periodo,
dal maggio ’68 al Vietnam, ma trova
la chiave per leggere la contemporaneità proprio nella rappresentazione
e nella meccanizzazione del corpo.
“Sono stanco di vedere me stesso”,
dice Saint-Laurent di fronte all’ennesima sfilata di capi da lui creati,
ormai nauseato dall’unico gesto che
l’artista può fare, e cioè riprodursi
nell’altro da sé. E allora, come tutti i
personaggi di Bonello, anche questo
stilista miliardario e geniale, omosessuale innamorato, ma inappagato,
cerca se stesso nella negazione di sé,
nella terra sporca da ingoiare mentre
fa sesso clandestino, nell’autodistruzione che permetterebbe di sfuggire
alla trasformazione in icona, in corpo
mummificato in vita, ma fallisce.
Come altre grandi produzioni cinematografiche della stagione (Sils Maria, The Wolf of Wall Street, Open Windows, la serie The Knick), anche SaintLaurent è un film sulla condanna del
corpo: la condanna a vivere, a restare
in scena, a inseguire inutilmente la
sparizione e a godere del proprio dispiacere. Saint-Laurent non muore,
nel biopic che Bonello gli ha dedicato. Il tempo si piega all’indietro e
lui, Saint-Laurent, per smentire una
diceria sul suo conto, si mette per
l’ennesima volta in mostra: l’artista
resta vivo, l’artista è presente, come
direbbe Marina Abramovic, l’artista è
ricco, infelice, prigioniero.
Roberto Manassero
CANNES
BERTRAND BONELLO
72
CANNES
OSSAMA MOHAMMED
MA'A AL-FIDDA
“C
he cosa filmeresti se fossi qui?”
una domanda che arriva come
una limpida richiesta d’aiuto. Wiam è
una curda a Homs durante i bombardamenti, nel caos di una guerra senza
fine, tra le rovine di una città che è stata
la sua casa. Ossama è lontano: dal maggio 2011, quando partì dalla Siria per
partecipare al Festival di Cannes, non
è più potuto rientrare. É diventato un
esule, che ricerca tracce del suo Paese
nel flusso d’immagini indistinte che riempiono la rete. Lui è un cineasta, lei
una semplice cittadina che sceglie di
rischiare, portando sempre con sé una
telecamera accesa, cercando il suo
sguardo tra le macerie di una civiltà.
Il dialogo che si apre tra queste due
voci organizza e compie un’accurata
ricerca e una preziosa riflessione sulle
immagini in tempo di guerra e sulla
loro immediata e pervasiva presenza
nella sfera mediatica contemporanea.
Sono sequenze “oscene” quelle che
aprono il film: un adolescente offeso
nella sua dignità di uomo, il suo corpo
nudo vessato sotto la telecamera vigile del carnefice. La grana rarefatta del
digitale a bassa definizione sembra
spalancare il proprio corpo, cancellare
i confini tra sé e mondo, come in un
disturbante dipinto in cui il pittore abbia scelto di spandere il candore della
pelle giovane e intatta per illuminare
lo squallore della cella e dare un nuovo
senso a un’inquadratura di sopraffazione. C’è una prova che appare intatta in
queste sequenze sottratte al magma
indistinto della rete: la resistenza del
cinema di fronte alla tracotanza del
reale, la sua capacità ancora oggi – in
tempi lontani dal valore indicale delle
immagini e dal loro potere ontologico –
di restituire la maestà della vita, come
canta nel finale la moglie del cineasta
Norma Omran (anche lei esule a Parigi)
fondendo ritmi e testi che rappresentano il mosaico di religioni e etnie sul territorio siriano. Proprio questa inviolabile verità sembra dettare le scelte di un
regista che non ha mai ceduto di fronte
alle sopraffazioni del potere. Ossama
Mohammed è uno di quei cineasti che
dopo un esordio presentato al Festival
di Cannes nel 1988 Stars in Broad Daylight, è diventato immediatamente inviso alle autorità ed è riuscito a completare il suo secondo lungometraggio di
finzione, The Box of Life, solo nel 2002.
Ma la sua attività di militante è prosegita
negli anni, portando in Siria un cinema
che renda consapevole lo spettatore,
invitando i giovani a prendere in mano
le telecamere e filmare, continuando a
credere nella potenza delle immagini e
nella loro forza liberatrice.
Da un esule arriva dunque il film collettivo, profondamente connesso alla
prima persona eppure libero nel seguire lo sguardo dell’altro, che è capace di
riassumere la tensione di un’immagine
che ormai è corpo. “Cerca di realizzare
un’inquadratura fissa”, proverà a dire
il regista nella prima parte del film a
un giovane dimostrante. Non esistono
più inquadrature nel flusso della rete,
il linguaggio sembra annientato dalla
primordialità del respiro/urto/strappo/
scatto con cui l’occhio digitale vive insieme all’uomo con la camera. Così la
telecamera diventa arma: quella dei
carnefici, intenti in una autorappresentazione di milizia festosa o di brigata
della morte, quella delle vittime che
non chiudono gli occhi nei confronti
del massacro e continuano impavidi a
cercare un nuovo posto in cui rifugiarsi
gridando al cielo la loro storia, per non
dimenticare.
La memoria del conflitto resta sui loro
corpi segnati, così come sulle immagini che hanno realizzato a singhiozzi e
strattoni, cogliendo le tracce di un sangue che sarà difficilmente lavato dalle
strade. E la giovane Wiam Simav Bedirxan lo intuisce, dimostrando di avere
il coraggio di riaccendere la telecamera
per registrare la ferita che porterà per
sempre sul suo corpo come gli oggetti
di un antico benessere che riaffiorano
tra le macerie di una città. Sono tracce di
una comunità che resiste, capace di cogliere fiori tra la polvere, di commuoversi ascoltando un vecchio disco, di credere in una terra madre in cui rinascerà la
pace. L’acqua argentata, immagine simbolo del film e nome poetico della coregista, diventa un inno alla possibilità
di rinascita di una nazione dalle ceneri
delle proprie immagini di guerra. Nel
gesto, carico di speranza, di un’ostetrica
che recide il cordone ombelicale di un
neonato.
Daniela Persico
73
JAUJA
H
o incontrato Lisandro Alonso per
la prima volta nel 2001 a Cannes,
dove aveva presentato il suo lungometraggio d’esordio, La Libertad. Il film
segue alcune giornate di un boscaiolo
della pampa argentina: evitando ogni
sussulto narrativo lo sguardo si perde
nel ritmo placido della vita dell’uomo,
facendoci assaporare il suo rapporto
con le cose. Il titolo dà il senso di un
film che evita ogni slancio metafisico,
ma si concentra su un dilemma etico.
Dove sta la libertà? Nel possesso indifferente dei mezzi che sembra garantirci la società dei consumi? O piuttosto
nella vita povera di risorse ma ricca di
tempo di Mizael, il boscaiolo?
Senza fornire risposte, Alonso offre
un materiale che pone interrogativi.
Come ci aveva detto in quell’occasione: “Non mi interessa documentare,
nel senso di fornire un allegato audiovisivo dello stadio primitivo che
Mizael rappresenterebbe. Non voglio
nemmeno puntare il dito sulle condizioni pessime in cui vive la gente del
Sud America. La storia di Mizael non
ci dice nulla delle sue sofferenze. Ci
dice che sebbene viva in modo semplice, la sua esistenza può conoscere
momenti di serenità. M’interessava
parlare di un essere umano e dei suoi
sentimenti. Tra me e lui c’è troppa differenza e distanza perché possa anche
solo abbozzare un giudizio. Farne una
vittima o un eroe selvaggio sarebbe un
tentativo di appropriazione che non mi
compete. Né a me né allo spettatore”.
Quasi quindici anni dopo, Alonso non
ha cambiato posizione: il suo fare cinema è funzionale a porre domande
senza garantire risposte. Si confronta
con l’idea della libertà e del destino,
con una visione dell’uomo come essere fragile e periferico rispetto alla
grandiosità della natura. Sebbene
Jauja segni un importante passo in
avanti in una poetica che cerca di includere forme diverse di racconto, il
senso ultimo del viaggio dell’ufficiale
danese di stanza in Sud America si perde nelle pieghe di un paesaggio che lo
oltrepassa - così come il racconto velocemente oltrepassa la dimensione
storica. Certo, qui esiste un presupposto narrativo ben preciso – l’uomo è
alla ricerca della figlia scappata con un
soldato e poi rapita da Zuluaga un misterioso uomo che terrorizza il territorio – ma nelle lunghe inquadrature che
ritmano la spedizione appare chiaro
che è la natura e non gli uomini a farla
da padrone. Come accadeva per Mizael
anche qui l’uomo è un ospite, un viandante il cui passaggio è destinato a
cancellarsi in fretta. Il vento, le rocce,
la poca erba che le ricopre occupano
l’inquadratura dove per poco si proietta l’ombra fuggitiva degli uomini.
Quasi a sottolineare che si tratta di
un racconto intimo, il film sceglie
un formato inusuale, quadrato, che
impedisce ogni deriva trascendentale: non è l’orizzonte lontano ma
il qui ed ora a imporsi. La macchina
da presa diretta di Timo Salminen
(operatore di Aki Kaurismaki) ha il
grande merito di non rendere banali
gli ovvi riferimenti (Apocalypse Now
e Sentieri Selvaggi), appoggiandosi alla luminosità eccessiva del sud
patagonico crea un universo cromatico che finisce per ricollegarsi a
un cromatismo da paese nordico. La
presenza di Viggo Mortensen, nei
panni di Dinesen, l’ufficiale danese
alla ricerca di sua figlia, contribuisce alla sensazione di un antipode
capovolto, di un estremo sud che si
rovescia in nord scandinavo. Il tutto
diventa lampante quando il racconto
abbandona la superficie delle cose
per tuffarsi in un universo dal sapore favolistico. Arrivato in cima a una
montagna – descritta come il margine
ultimo del mondo – Dinesen incontra
un’anziana signora, che sembra venuta fuori dall’universo di Bergman. La
donna lo conduce in una grotta dove
il tema del sognare appare in tutta la
sua flagrante evidenza. Qui il testo
di Fabian Casas – il poeta scelto da
Alonso per quella che è la sua prima
collaborazione con uno scrittore - dà
il meglio di sé, giocando su una trasognata semplicità. E in fondo poco importa se il viaggio si rivelerà nient’altro
che il frutto di un’agitata notte di una
smagata e ricca ragazzina danese come
l’epilogo svelerà.
Carlo Chatrian
CANNES
LISANDRO ALONSO
74
CANNES
ABDERRAHMANE SISSAKO
TIMBUKTU
T
imbuktu, ritorno di Abderrahmane Sissako alla regia di un lungometraggio otto anni dopo Bamako, è
un’opera importante. Per il cineasta
mauritano e per il cinema africano.
L’ampio iato che separa i due film,
interrotto solamente da tre brevi
realizzazioni (i due segmenti all’interno dei lavori collettivi Stories on
Human Rights e 8, e il documentario
per la televisione Je vous souhaite
la pluie), non ha per nulla intaccato
lo sguardo poetico di Sissako. Anzi,
con Timbuktu il regista attualmente
più rappresentativo del cinema subsahariano (insieme a Mahamat-Saleh
Haroun) ha raggiunto uno dei vertici
della sua filmografia, sia dal punto di
vista della narrazione che da quello
del discorso filmico.
È un testo profondamente politico,
Timbuktu. Un’immersione nell’attualità, un grido urlato contro ogni pratica
integralista ricorrendo a una scrittura
luminosa, calda, ma al tempo stesso
dura, implacabile. Il titolo, nella sua
essenzialità quasi documentaria, richiama il luogo dove, in anni recenti,
sono stati compiuti da gruppi jihadisti
atti spregevoli verso siti considerati
patrimonio dell’umanità. Timbuktu, in
Mali, città simbolo della cultura e della memoria, e i suoi dintorni, sono gli
spazi scelti da Sissako per elaborare
una riflessione sull’essere umano, sulla follia di un potere poliziesco che, in
nome dell’Islam e del Corano, impone
uno spietato radicalismo fondamentalista, e sulla resistenza a tali leggi da
attuare utilizzando la forza destabilizzante della parola o di un cammino in
grado di frantumare i percorsi obbligati stabiliti da un regime. È quello che
compiono i personaggi di Timbuktu,
andando incontro alla morte o a un
fuori campo, un altrove nel quale avventurarsi correndo a perdifiato.
A Sissako, com’è nella sua tradizione di
autore che sa coniugare mirabilmente
nelle singole inquadrature e nelle scene un’espressione minimalista e monumentale, bastano pochi tocchi, con
la complicità di un montaggio nitido,
per disegnare ritratti indelebili di donne, uomini, bambini, animali. Si pensi
alla gazzella in fuga da uomini che le
sparano, per spaventarla, non per ucciderla; alla bambina sopravvissuta alla
guerra o, meglio, alle guerre mostrate
o evocate, che corre fino a dissolvere
nel nero allontanandosi da quel posto; alla giovane donna lapidata o alla
mucca trafitta da una lancia per macabro desiderio di vendetta; ai ragazzini
che, in una scena surreale, comica e
tragica, inventano una partita di calcio
senza pallone perché quel gioco è uno
dei molteplici piaceri vietati. Non sono
solo alcune delle scene che fanno di
Timbuktu uno dei migliori film di questi anni, sono anche dei vertici, poetici
e politici, di tutta l’opera di Sissako.
In questo film, si ritrovano gli elementi
sui quali il regista mauritano ha costruito la sua filmografia, fin dal folgorante corto d’esordio Le jeu (1990),
di cui si sente l’eco in Timbuktu. In
entrambi ci sono bambini e guerre con
le quali convivere, siano esse drammaticamente filmate oppure, come in Le
jeu, fatte percepire nella loro assenza,
nel loro condizionare, da lontano, la
quotidianità di un villaggio e i giochi
dei più piccoli. Senza dimenticare il
deserto, vero e proprio protagonista
da Le jeu a Timbuktu, passando per
Sabriya (episodio del film collettivo
Africa Dreaming, del 1997), La vie sur
terre (1998), Heremakono (2002) e
il poco conosciuto, ma emblematico
del percorso dell’autore, Le chameau
et les bâtons flottants (1995), corto di
sei minuti ispirato a una favola di Jean
de La Fontaine. Concreto e metaforico, il deserto è un set imprescindibile,
mauritano e non solo (Le jeu, prodotto
dalla scuola Vgik di Mosca frequentata
da Sissako, è stato girato nel deserto
sovietico, Sabriya in quello tunisino).
In Timbuktu, un’illuminazione calda,
che trasmette l’odore e la luce della
sabbia, rende immediatamente riconoscibile un cinema in cui si entra in
contatto con una dimensione espansa
del tempo e con un umorismo sferzante che si insinua nelle immagini e che
in certe scene non può non far pensare
a quello del palestinese Elia Suleiman.
In tal senso, e sempre più di film in
film, il cinema di Abderrahmane Sissako è pan-africano e pan-arabo, sintesi
visiva in cui ogni immagine contiene
una pluralità di immagini, facendosi
contemporaneamente discorso soggettivo e memoria di cinema.
Giuseppe Gariazzo
75
C’
est rare de voir, de nos jours,
un film intelligent capable
de se passer sans afficher sa propre
intelligence. Self Made, un long-métrage froid, brillant, surprenant, y
réussit. Shira Geffen avait déjà été
repérée grâce à Jellyfish, Caméra d’Or
à Cannes 2007. Mais, vie étrange des
films, des festivals, des prix, tout faisait penser que Self Made n’était pas
le film attendu après ce début prometteur. Et pourtant est un vrai film
de cinéaste, une confirmation.
Self Made est un film drôle où on
n’arrive pas à rigoler, où tout se
passe de façon absurde quand la
situation est normale et de façon
normale quand la situation est absurde. L’histoire se passe en Israël
et deux femmes sont les protagonistes. Michal (Sarah Adler) est une
artiste contemporaine israélienne
qui se réveille amnésique quand
elle tombe d’un lit en mauvais état.
Nadine (Samira Saraya) est une palestinienne à la limite de l’autisme
qui travaille dans une espèce de
centre commercial du type Ikea.
Les deux femmes participent d’un
handicap semblable : l’une est incapable de comprendre ce qui lui arrive car elle ne peux pas établir un
dialogue avec ses souvenirs. L’autre
est également incapable de vivre
normalement à cause de son mutisme. L’une et l’autre développent
donc deux univers filmiques très
SELF MADE
différents, puisque leurs vies n’ont
rien à voir, mais semblables, en tant
que marquées par une présence
constante de l’absurde, provoqué,
chez Michal, par son incapacité à
comprendre un entourage qu’elle a
oublié, et, chez Nadine, par son incapacité à se repérer dans le monde.
Michal s’enferme dans sa maison extrêmement moderne, où les
visites le plus incongrues (depuis
son point de vue), n’arrêtent de
venir : une livraison pour un meuble
qu’elle doit monter elle même, une
interview pour une télévision étrangère, son baignoire qui se retrouve
rempli de langoustes pour un dîner.
Nadine, par contre, doit marquer son
chemin avec des vises qu’elle récupère de son travail afin de retrouver
sa route pour traverser à nouveau
le point de contrôle qui la sépare
de l’usine. Mais tout changera un
jour où les deux vont traverser le
checkpoint en même temps, et une
confusion mettra l’une à la place de
l’autre. Deux vies de deux femmes
échangées, sans que personne ne
s’en aperçoive, de deux côtés de la
barrière qui divise la vie d’Israël et
Palestine : véritable subversion discrète du film.
Nadine et Michal, avant et après
« l’échange », participent d’une
violence absurde en permanence,
que Shira Geffen travaille avec une
précision de mise en scène remar-
quable. Si Geffen est une grande
cinéaste, c’est parce qu’elle est capable de créer un monde dans son
cinéma, un monde qui n’est pas le
réel, mais qui en parle. Si formellement on est loin d’un film choquant
(ce qui a provoqué qu’il passe injustement inaperçu dans les festivals
où il a été projeté), c’est parce que
sa plus grande beauté est de montrer l’absurdité comme si rien n’en
était. Un équilibre de pure mise-enscène qui nous ramène au cinéma
de Buñuel. Et, dans cette structure
d’un double personnage principale
qui vit dans l’absurde, placer au
milieu avec un réalisme frappant
le checkpoint. Difficile d’imaginer
une plus belle façon de pointer du
doigt l’absurdité de cette réalité.
Geffen est consciente que parfois il
faut regarder les choses un peu de
biais, qu’il faut l’artifice de la fiction pour parler de la réalité et la
montrer sous un nouveau jour. C’est
quelque chose qui était évident
dans la littérature, depuis les années 20, mais j’ai l’impression que
la bataille n’était pas gagnée dans
le cinéma. Comme quoi parfois les
films de combat ne ressemblent pas
à ce qu’on croit.
Fernando Ganzo
CANNES
SHIRA GEFFEN
LOCARNO
76
LUCIE BORLETEAU
FIDELIO, L’ODYSSÉE D’ALICE
«T
u te prends pour Kate Winslet ? » La question du capitaine, alors que sa seconde admire
la mer sur la proue du cargo, a des
accents légèrement condescendants :
il suppose forcément qu’Alice, mécanicienne et seule femme de l’équipage, rêve de troquer son bleu de travail pour une tenue hollywoodienne.
Sa réponse androgyne et prolétaire
claque sans pour autant renoncer à
la séduction : « Pour DiCaprio, plutôt ». Marin et femme, amoureuse et
infidèle, l’héroïne de Lucie Borleteau,
qui travaille sur un porte-conteneurs
en Méditerrannée, veut « tout ». C’est
même la définition exacte qu’elle
donne de l’amour. Lucie Borleteau
aussi, vue dans une quinzaine de films
sans que sa carrière d’actrice ne lui
offre (pour l’instant) de premier rôle,
a assisté notamment Arnaud Desplechin et coécrit avec Claire Simon. Elle
signe à trente-quatre ans son premier
long métrage, a commencé avec des
moyens métrages plutôt qu’avec des
courts, et Fidelio donne l’impression
enthousiasmante qu’elle aussi veut
tout : une chronique de la vie sur un
cargo, salle des machines comprise,
et le romanesque éhonté, le choix de
placer absolument au centre du film
l’amour et la sexualité de Lucie. Fermement campé dans un sens aigu de
la composition dans un formidable
décor naturel (un cargo filmé en
pleine mer), Fidelio écarte vite l’hypothèse d’une exploration sociologique
du milieu. L’intéressent plutôt des
trouées documentaires qui au lieu
de détoner sur le tissu romanesque
viennent au contraire l’étoffer : ainsi
de cette séquence où un lent mouvement d’appareil s’approche des marins philippins qui prient en chantant
(ils ont donné un nom au moteur), qui
émeut au lieu d’informer.
En refusant de s’en tenir au seul
temps de la chronique, Lucie Borleteau, qui a co-écrit avec une amie
elle-même femme marin, introduit
dans le scénario une tout autre temporalité : moins celle du quotidien
que celle au plus long cours d’une
femme qui va avoir trente ans et
se demande ce qu’aimer Félix, son
amant resté à terre, peut bien signifier pour elle. Même à un moment où
elle semble conclure qu’elle choisit
de ne pas choisir, Alice est confrontée
à des choix beaucoup plus pragmatiques, efficaces : que faire quand
un chefaillon pénètre dans votre
cabine la nuit ? Rarement dans le
cinéma récent une femme n’a été
si prosaïquement héroïsée. Rarement un tel cap féministe n’a été
tenu aussi sereinement, la victimisation étant souvent supposée plus
féconde du point de vue dramaturgique. Remarquablement incarnée
par une Ariane Labed royale, à la carrure impressionnante, cette héroïne
devient même Poséidon en personne
à la faveur du bizutage d’un nouveauvenu. Mais qui dit mythe ne dit pas
mythologie : il ne s’agit pas de faire
d’Alice le porte-drapeau de la liberté sexuelle. Un peu comme Justine
Triet qui dans La Bataille de Solferino
enroulait autour de la garde de l’enfant d’un couple séparé la chronique
d’une élection présidentielle, Fidelio
tricote en mailles serrées l’éternel
retour des beuveries et des pannes
à bord et un vrai questionnement sur
la nécessité (ou non) du couple, questionnement qui fait tache dans cette
mer d’huile.
Son personnage d’abord dessiné
d’un tracé net – presque trop – se
charge d’ombres portées, Borleteau
lui apportant une profondeur insoupçonnée : le journal de bord du mort
qu’elle remplace – un homme qui n’a
jamais connu l’amour – n’est sans
doute pas pour rien dans sa maturation un peu sombre. Autre fantôme,
de cinéma celui-ci : Gaspard, l’adolescent inventé par Éric Rohmer pour
Conte d’été, et à qui Melvil Poupaud,
qui joue ici le commandant, prêtait
ses traits il y a presque vingt ans. À
Dinard, la vacance amoureuse de
Gaspard se traduisait par des tournoiements dilatoires autour de trois
amoureuses qu’il finissait par esquiver. Ce n’est pas tant à des retrouvailles avec Melvil/Gaspard qu’invite
Lucie Borleteau dans son film qu’à
un transfert discret sur la fille de la
valse-hésitation amoureuse du garçon. Comme en navigation, où parce
que la terre est ronde, le parcours en
ligne courbe va plus vite qu’un tracé
droit sur la carte (une séquence nous
détaille la différence entre loxodromie et orthodromie), il faut ce détour
d’Alice par deux spectres de la friabilité masculine pour parvenir à bon
port, et boucler l’odyssée.
Charlotte Garson
LUCIE
BORLETEAU
77
Entretien avec
Lucie Borleteau
Locarno 2014
C
haque film naît d’une histoire,
d’un souvenir, d’une image ou
d’un mot, mais au départ il y a toujours un désir. Quel est le désir qui
gît derrière Fidelio?
« Fidelio » part d’un désir très simple
mais très fort que j’ai gardé en moi
comme un diamant brut pendant
toute l’écriture et toute la fabrication
du film : le désir de faire le portrait
d’une amie très proche, qui est entrée
à l’école de la Marine Marchande,
à peu près quand je suis montée à
Paris pour faire du cinéma. Après
avoir rêvé un documentaire pendant
des années sur cette femme marin,
j’ai décidé d’écrire une fiction parce
que je voulais faire un film d’amour.
Je trouvais difficile de demander à
des personnes réelles d’exposer leur
vie sentimentale, leur intimité dans
mon film. Aussi j’ai écrit un scénario
romanesque, j’ai créé des personnages, et Alice est restée au centre,
mais j’y ai aussi beaucoup mis de
moi-même, pour ce qui est de l’expérience amoureuse. Un nouveau désir
était là pour compléter le premier :
faire le portrait d’une femme libre en
amour, se plonger dans la mécanique
des sentiments pour un discours
amoureux contemporain.
Une femme et le métal: cette équation nous amène dans un univers
moderne. D’autre part, il y a le visage
très classique de Ariane Labed.
J’avais découvert Ariane Labed
grâce à Attenberg de Rachel Athina
Tsangari et depuis, je pensais à elle
comme une Alice possible. Lorsque
nous nous sommes rencontrées pour
que je lui donnasse le scénario, j’ai
été frappée par sa ressemblance
avec mon amie-muse. Elles partagent toutes les deux cette beauté
classique, à la Botticelli et même à
ses héritiers, comme le peintre préraphaélite Dante Gabriel Rossetti.
Un visage paysage, mythologique,
pictural. Un corps à la fois gracile et
puissant, comme celui de mon amie
à l’œuvre dans la salle des machines.
Il est vrai que le contraste entre le
monstre d’acier que constitue le bateau et la sensualité du corps d’Alice
sous le bleu était présent à mon esprit dès l’écriture. En même temps,
ce sont deux forces qui semblent se
contredire mais ne s’annulent pas ; au
contraire, elles font monter l’adrénaline, « m
onter l’aventure au dessus de
la ceinture » comme chante Bashung
– même si les machines, l’étrave
qui fend les flots, sont des forces
sexuelles brutes évidentes comme
dans les films soviétiques. La joie,
la sensualité du travail ; la beauté du
métal, la poésie industrielle : tous ces
éléments étaient présents très tôt
dans la genèse de Fidelio.
Nombre de films ont été tournés sur les
navires, est-ce que tu avais quelques
modèles en tête? Je m’étais fait une petite « filmographie maritime », pas vraiment pour y
faire référence comme à des modèles,
plutôt pour y puiser des idées de fabrication, y compris dans la fabrication du scénario d’ailleurs. Ainsi E la
nave va de Fellini, revu très tôt pendant l’écriture, un film aux conditions
de fabrication contraires aux miennes
(tout en studio), où la mort mène le
bal – il s’agit aussi d’une cérémonie
funèbre en mer, tout en explorant le
corps monstrueux du navire, de la
profondeur de la salle des machines
au pont supérieur et ses couchers de
soleil « tellement beaux qu’on dirait
qu’ils sont faux », en passant par un
catalogue impressionnant de perversions sexuelles qui semblent animer
78
tous les passagers. Il y avait les films
de Grémillon, Remorques, où le héros,
capitaine joué par Jean Gabin, est tiraillé entre deux femmes, et aussi un
film plus rare d’une modernité stupéfiante, Daïnah la métisse – un des rares
films où la caméra s’aventure dans
la salle des machines. Un classique
comme Le crabe tambour de Pierre
Schoendoerffer, film très apprécié
dans le milieu maritime, m’a permis
de récupérer quelques « trucs » pour
faire croire à la navigation lorsque
l’on est à quai : objets qui roulent sur
la table, acteurs qui miment le déséquilibre, caméra qui tangue.
Pour Ariane et pour la costumière,
notre seule référence était Ripley
dans le premier Alien de Ridley Scott,
qui est aussi d’une certaine façon un
film de marins. Pour Melvil Poupaud,
notre référence durant la préparation
était Le Renard des océans de John
Farrow, avec John Wayne en commandant « oldschool », noble et séduisant. C’était aussi un film tourné en
scope, qui a contribué à mon engouement pour ce format. Mais il y a bien
d’autres films de marins qui à plusieurs titres ont hanté la préparation
de Fidelio : Querelle de Fassbinder, La
peau trouée de Julien Samani, Titanic
de James Cameron, Lightship de Jerzy
Skolimovski, la partie paquebot de
Film Socialisme de Godard…
Je voudrais des renseignements sur
la scène d’ouverture: c’est une belle
façon de planter le décor. Et dans ce
décor il y a un corps nu dans les eaux,
celui de Ariane. Après une citation de Sylvia Plath placée en exergue - « She is in love with
this beautiful formlessness of the
sea », voici quels étaient les premiers
mots du scénario : « Le mouvement
des vagues. Le corps nu d’une jeune
femme glisse sous l’eau. » Parce c’est
sa première passion, celle à laquelle
elle est fidèle. Le premier plan plante
ça, et la première scène installe, très
vite, sa relation amoureuse avec Félix,
comme une chose simple, évidente,
un éden qu’elle risque ensuite de
perdre tout au long du film. D’où ce
choix de décor très fort visuellement,
une calanque intemporelle.
Comme c’étaient les premiers mots
du scénario, l’actrice qui le lisait ne
pouvait ignorer dès le début de la lecture qu’elle allait tourner nue. Et pour
Ariane ce n’était pas un problème. De
mon côté, ayant eu quelques expériences de la nudité sur un plateau
comme actrice, j’ai veillé à préserver
mes acteurs pour le tournage de ces
scènes-là. Pour qu’ils ne soient, non
pas dans le confort, qui est l’ennemi
du jeu, mais libres, libres de jouer.
Pour cette première scène qui était
aussi la première scène de nu dans
l’ordre du tournage, j’était en maillot de bain comme Ariane, par solidarité (et parce que c’était pratique :
la caméra avait les pieds dans l’eau).
J’ai même montré un sein à l’équipe
avant elle pour briser ce fameux problème de nudité.
Comment avais-tu envisagé la scène
lors de l’écriture et comment as-tu
décidé de la tourner?
Ce qui n’était pas prévu au scénario, ce sont les premiers mots que
l’on entend dans Fidelio, un peu de
Norvégien tout de suite traduit en
mots un peu crus « J’aime ta chatte.
– J’aime que tu lèches ma chatte. –
C’est cochon ? – Non, mais c’est vrai ».
Ces dialogues viennent d’une improvisation entre Ariane Labed et Anders
Danielsen Lie et n’auraient pu préexister au choix d’Anders pour jouer
Félix (qui était écrit pour un Français).
J’aime ce moment, qui sans rien montrer (puisque je pense que c’est bien
d’en garder sous le boisseau pour
la suite du film, on a vu seulement
de loin ce corps nu), nous fait comprendre que leur vie sexuelle est épanouie – détail important pour la suite
du film, Alice ne cherche pas ailleurs
parce qu’elle est frustrée.
Le tournage de cette scène était une
lutte contre le réel : je voulais un
Eden et l’eau était froide, le soleil se
cachait derrière les nuages, les méduses ont commencé à affluer… Mais
en cherchant une douceur, en écoutant de la musique mièvre des années
60, les acteurs ont trouvé le courage
de plonger dans la bonne tonalité. Ils
avaient aussi le plaisir de se découvrir, quelque chose de pur (c’était
leur première scène ensemble).
Le soleil est reparu pour quelques
prises, et si la scène existe c’est aussi
par contraste avec la scène suivante,
79
l’arrivée du bateau dans la brume. Par
le fondu du jaune pâle au bleu obscur,
du sable sec à la brume au dessus des
vagues, ces scènes sont devenues intimement liées et fonctionnent l’une
avec l’autre.
Pour la scène de l’arrivée dans la
brume je ne peux expliquer ma
chance que par un soutien des dieux
de la mer : si j’avais écrit cette brume
digne du Fog de Carpenter, je ne l’aurais jamais eue. C’est une chance que
notre caméra tournait pendant les dix
minutes que cela a duré. Une chance
que l’équipage du cargo que nous
avons contactés sur le moment, par
radio, aient accepté d’allumer leurs
projecteurs, et même de laisser notre
actrice monter à l’échelle !
Peux-tu me raconter un peu les choix
de casting – les deux hommes et les
autres marins, surtout.
Le choix de Melvil Poupaud pour incarner Gaël, j’en ai beaucoup parlé,
relevait de l’obsession cinéphile.
Je trouve très juste que le spectateur puisse ressentir, comme Alice,
un pincement en le voyant, parce
que cet homme trimballe un passé
– puisqu’on l’a vu dans beaucoup
de film, avec beaucoup de rôles très
séduisants.
Comme je le disais plus haut, au départ le personnage de Félix était écrit
pour un Français. Mais c’était un défi
de bien l’incarner. Comme on le voit
très peu au début, dans la scène de la
plage, puis un peu sur Skype, et puis
c’est seulement au bout d’une heure
que le personnage a des scènes
pour se déployer, il fallait quelqu’un
qui marque. Non seulement Anders
Danielsen Lie a un accent charmant
qui lui donne un côté Anna Karina,
mais surtout il crève l’écran. Je l’avais
découvert dans Oslo, 31 août et j’ai
été très honorée qu’il accepte ma
proposition.
Une fois que j’avais choisi Ariane
Labed, autour de qui tout le film
rayonne, et le commandant Melvil
Poupaud, c’était une joie de composer le casting de l’équipage qui devait
être comme une sorte de patchwork
correspondant aux différentes nationalités, aux différents parcours des
personnages. J’ai pu retrouver JeanLouis Coullo’ch, qui avait joué dans
mon premier court-métrage, et dont
tous les oncles étaient marins. J’ai invité à bord de nouvelles têtes, comme
Pascal Tagnati, un acteur découvert
grâce à Thierry de Perretti, Nathanaël
Maïni, vu dans le téléfilm de Pierre
Schoeller sur l’affaire Erignac, MarcAntoine Vaugeois repéré dans La
bataille de Solférino, Thomas Scimeca
rencontré à la descente des planches
de sa troupe des Chiens de Navarre.
Quand on aime les acteurs – et je les
adore – il faut être à l’affût partout,
tout le temps. Pour le peu de rôles
féminins j’ai eu la chance de travailler avec deux étoiles « montantes »
que j’admire énormément, Laure
Calamy (la sœur du mort) et Vimala
Pons (une des sœurs d’Alice), ou en-
core de vieilles complices, comme
Laure Giappiconi ou ma propre mère,
Brigitte Borleteau.
Pour les Roumains le casting a été
plus compliqué mais ce sont bien
deux acteurs, Corneliu Dragomirescu
et Bogdan Zamfir (qui a trouvé avec
Vali son premier rôle), qui incarnent
les deux marins roumains.
En revanche, les Philippins sont
tous des acteurs non professionnels, découverts à Marseille grâce au
talent de casting sauvage de Nicolas
Gambini. Certains sont des acteurs
nés, doués d’instinct sur le plateau,
comme Marlo Aznar (le cuisinier).
Parmi eux il y a aussi quelques vrais
marins, et leur présence était comme
une bonne étoile – Manuel Ramirez,
fitter à la retraite, était heureux de
retrouver un bleu de travail et des
tâches mécaniques, nous avons pu
filmer ce bonheur.
Les acteurs sont notre trésor. Ils sont
à la fois notre force et si précieux
parce que fragiles, humains. Pour moi
il n’y a pas de réelle différence entre
un acteur de métier et un acteur non
professionnel, entre un débutant
et une star. Je m’adresse à eux de la
même façon. En revanche chaque
manière de travailler est différente
selon la personne qui se cache derrière l’acteur, selon le personnage
et/ou la situation qu’il doit incarner,
aussi. C’est un travail de précision sur
quelque chose d’insaisissable.
Quel univers a nourri ton film? On y
80
ressent beaucoup d’inspirations: le
journal intime, le dessin, un imaginaire (le capitaine, les marins…).
La première source d’inspiration est
le réel : même le journal intime ! Je
n’aurais pas osé commettre cet acte
scénaristique si je n’avais pas connu
un homme, un marin, qui tenait
comme Le Gall un journal de bord
avec de belles envolées poétiques.
Mais le goût du monde maritime a
été initié chez moi, et chez mon amie
marin, par la littérature, par la bande
dessinée – Corto Maltese, romans
de Conrad ou de Jack London, de
Jules Verne ou de Marguerite Duras.
Sirènes, naufrages, goût du large et
des chants de marin, où tout est dit. Je
ne voulais pas abandonner tout cela
en tournant Fidelio et ces éléments
s’incarnent souvent au premier degré
dans le film. Mais c’est aussi, sans
doute, ces sources qui m’ont donné
envie d’insuffler à Fidelio un peu
d’imaginaire, avec un fantôme qui
parle, un frigo hanté, une machine
personnifiée répondant au doux
nom de Demonia, des dessins qui
viennent s’incruster dans les constellations. Filmer la mer, filmer sur un
bateau, avec des moyens très classiques, convoque de toute façon une
dimension magique, mythologique. Il
allait de soir qu’il fallait l’accueillir à
bras ouverts dans le film.
Est-ce que le tournage, que j’imagine a
dû être compliqué, a changé beaucoup
de choses dans ton projet?
Le tournage était compliqué, tourner
sur un bateau donnait énormément
de contraintes, mais nous y étions
bien préparés. J’ai plutôt l’habitude
de considérer ces contraintes comme
des cadeaux, de toute façon je voulais
absolument tourner sur un vrai navire
et les difficultés ont été fertiles pour
la mise en scène, donc pour le film. Je
crois que le film ressemble vraiment
au scénario, avec parfois de bonnes
surprises météorologiques saisies au
vol comme la brume au début, le plan
où Alice fume une cigarette après la
tentative de viol et où la mer scintille
comme du métal, le mauvais temps
pour la cérémonie du mort.
Nous n’avions pas beaucoup de
temps donc tout était préparé, découpé, même si je reste toujours ouverte
à l’inspiration du moment – beauté du
ciel ou désir soudain d’improvisation
des acteurs qui me font alors de nouveaux cadeaux (le « dragon chinois »,
la scène du calva…). Nous faisions
entre deux et dix prises. Parfois
une seule, par exemple quand Alice
démarre le moteur et fait un chassé
à l’air avec les jets de poussière très
visibles, nous n’avions droit qu’à une
prise, après il faut attendre plusieurs
semaines pour que les tuyaux s’encrassent à nouveau !
Au montage, j’ai l’impression d’avoir
tout gardé. On a plutôt enlevé des
choses au sein des scènes pour en
garder le plus dense, le plus suspendu, le meilleur. Avec un peu de
recul, je m’aperçois que j’ai enlevé
quelques éléments explicites au début, où j’avais peur que le spectateur
soit perdu et ne comprenne pas qui
était qui et qui faisait quoi sur ce bateau, alors qu’il le voit et que ça suffit.
J’ai coupé aussi quelques détails qui
faisaient plus « ouvertement » d’Alice
une héroïne féministe. Or, je pense
que le féminisme du film, qui est réel,
est maintenant beaucoup plus fort
parce qu’il avance masqué, et peut
toucher un plus large public. Comme
nous avions un budget serré, je pense
que j’avais déjà coupé beaucoup de
choses avant le tournage, c’est pourquoi nous n’avons pas coupé tant de
choses au montage.
Ton film, je crois, a beaucoup à voir
avec la joie de vivre et l’énergie qu’elle
entraîne; pourtant, la mort y tient une
grande place. C’est le point de départ
de l’histoire… Peux-tu me parler du
rapport entre les deux ?
C’est un peu « bateau », mais je pense
que l’un ne va pas sans l’autre. On
décide parfois de vivre sa vie plus
intensément lorsque l’on pense à sa
propre fin. En cela la découverte du
carnet du mort compte beaucoup
pour Alice et pour son odyssée personnelle à travers le film.
C’est ce qui donne son prix à la vie,
qu’elle soit si courte. Cela appelle
l’aventure. Plus prosaïquement, c’est
aussi parce que la vie de marin est
dangereuse, outre le fait de quitter
le foyer et de rendre les liens entre
humains plus intenses, c’est aussi
aller au devant de la mort, la braver. Comme dit cette chanson que
nous avons coupée au montage « à
moi forban que m’importe la gloire,
les lois du monde et qu’importe la
mort ». C’est aussi une bonne morale
pour qui veut faire des films !!
Par Carlo Chatrian
81
S
LA PRINCESA DE FRANCIA
ur un écran noir, la voix d’un animateur radio annonce le premier
mouvement de la Symphonie no 1
de Robert Schumann, « spécialement
dédié à Lorena ». A l’image, une autre
Lorena, interpellée de la cour, suscite
un plan en plongée sur un match de
football qui lentement se voit couvert de la liste des personnages. Dans
une scène subtilement cocasse, les
joueurs au maillot orange semblent
progressivement disparaître, tandis
qu’ils sont remplacés par d’autres
plus nombreux, en jaune. Le gardien
enfin, qui n’est autre que Lorena,
abandonne le terrain à la hâte face
à l’assaut des adversaires désormais
sans autres rivaux que celle-ci.
Dernier opus de la trilogie shakespearienne du réalisateur argentin Matías
Piñeiro, La princesa de Francia s’inspire
librement de « Peines d’amour perdues », l’une des premières comédies
de l’auteur britannique, et s’inscrit
sans nul doute de façon aussi pertinente qu’aisée dans la filmographie
de Piñeiro. Toutefois, et c’est là une
distinction plutôt essentielle, là où
Viola (2012) et les films le précédent
étaient presque intégralement habités ou menés par les femmes, celui-ci
installe d’emblée un homme au cœur
du récit et de l’intrigue.
Après une année passée au Mexique,
Victor rentre à Buenos Aires avec pour
dessein d’enregistrer une pièce radiophonique à partir de la mise en scène
qu’il avait produite au théâtre avant
son départ. Au fur et à mesure qu’il
retrouve les membres de la troupe, se
dévoilent, dans un même mouvement,
les relations complexes et enchevêtrées que le metteur en scène – dans le
film – entretient avec les nombreuses
actrices. Nous sommes ici face à une
mise en abime ponctuée de passages
de « Peines d’amour perdues », euxmêmes interprétés de façon éloquente par les filles alors même qu’il
est question du Roi de Navarre et de
ses trois compagnons (choix d’autant
plus intéressant que les rôles des
femmes furent longtemps joués exclusivement par les hommes dans le
théâtre élisabéthain).
Matías Piñeiro poursuit ainsi sa quête
cinématographique étroitement liée
au texte et au verbe ; celui de l’intellectuel, militant et homme d’Etat Domingo
Faustino Sarmiento (1811-1888) dans
ses deux premiers films El hombre robado (2007) et Todos mienten (2009),
puis William Shakespeare pour Rosalinda (2010), Viola et ce dernier travail.
L’œuvre littéraire subrepticement pourvoit une structure imprégnant la narration et son développement, ainsi que
les protagonistes et acteurs, qui d’un
film à l’autre se glissent dans une autre
incarnation, en complicité évidente
avec le réalisateur. L’espace souvent se
voit restreint – peut-être est-ce là l’une
des allusions formelles à la relation au
théâtre – contraignant les corps dans
une certaine contiguïté et permettant à
la caméra de rendre compte de la texture de la peau et du jeu des ombres
engendré par le relief des faciès. C’est
particulièrement le cas dans les scènes
tournées dans la pénombre et d’autant
plus manifeste dans la très belle séquence du musée ; Victor y rencontre
deux de ses anciennes comédiennes,
dont Ana, enceinte (d’un autre), avec
laquelle il a entretenu une liaison épistolaire durant son absence. Aux corps
des personnages répond alors le travail pictural de la chair sur les tableaux
accrochés dans la salle, à commencer
par celui du peintre français WilliamAdolphe Bouguereau qu’Ana étudie.
S’il évolue dans une proximité esthétique avec certains autres réalisateurs
argentins de la même génération, tels
Lisandro Alonso ou Alejo Moguillansky
avec lequel il a notamment collaboré sur
le montage de Viola, Piñeiro embrasse
sans doute également une recherche
conceptuelle pouvant être affiliée à la
leur du point de vue de la composition
narrative et spatiale. Quoique les nombreuses scènes parlées et la dimension
sinueuse de la trame puissent évoquer
Jacques Rivette ou certaines comédies
rohmériennes, il semble tout autant
pertinent de songer à Hong Sang-soo
quant à l’usage des répétitions et à la
sensation de circularité en découlant.
C’est une approche et une vision fondamentalement contemporaines du
théâtre au cinéma que propose le réalisateur, associées à l’empreinte d’un
auteur qui n’a de cesse de dévoiler une
musicalité certaine, emplie de sensualité. La réécriture, qui s’articule à travers les micro-récits jalonnant le film,
entremêle réalité et artifice, dans une
tension constante entre texte et image.
Emilie Bujès
LOCARNO
MATIAS PIÑEIRO
82
VENEZIA
SEVERIN FIALA e VERONICA FRANZ
ICH SEH, ICH SEH
L’
universo di Severin Fiala e Veronica Franz è imparentato con
quello di uno dei più originali e acuti
indagatori del presente, il regista Ulrich Seidl. Veronica Franz è, infatti, la
compagna e co-autrice di alcuni degli
ultimi lavori del cineasta austriaco,
autore della trilogia sulla nuova accezione del concetto di “paradiso” (Paradise: Hope, Paradise: Love, Paradise:
Faith). E’ lei, oltre ad aver co-scritto i
tre film in questione, che ha avuto l’idea di spingere il marito a indagare
ciò che accade nelle cantine austriache in un film (Im Keller, 2014) capace
di ribaltare l’accezione classica del
documentario, facendone non tanto il luogo d’esposizione della doxa
quanto il rivelatore delle ossessioni,
spesso inconfessate, che attraversano un paese.
Su questo crinale, sotterraneo e ossessivo, si muove anche Ich Seh Ich Seh,
film diretto insieme al nipote Severin
Fiala, che segna l’esordio al lungometraggio. I bui scantinati sono qui sostituiti dalla calda luce del sole: la vicenda si svolge nel contesto bucolico di
una moderna abitazione immersa nella campagna in quella che potrebbe
essere una vacanza estiva; basta poco
però a rendere evidente come quello
che potrebbe rappresentare la normalità si traduca invece in una situazione
paradossale - e forse paradigmatica.
Gli elementi che definiscono luogo,
epoca, caratterizzazione sociale e psi-
cologica dei personaggi sono ridotti
all’osso: sappiamo che sono occidentali, bianchi, benestanti. Lo spunto di
partenza è fornito nella decisione da
parte di una donna di sottoporsi a un
intervento di chirurgia estetica, salvo
poi non essere riconosciuta dai figli al
suo rientro a casa. Costretti all’isolamento, i due gemelli hanno sviluppato non solo un rapporto simbiotico tra
di loro ma anche una quasi totale autonomia dal mondo dei grandi; così il
rapporto madre/figli, assunte le forme
di un puro gioco di forza, può prendere pieghe inaspettate. L’idea di reclusione partecipa del progetto del film,
finendo per fare della casa da piccolo
eden riparato dai rumori del mondo
un universo concentrazionario dove
le spinte violente hanno libero sfogo.
Partito da una base realistica e, per
così legata alla società dell’apparire, il
film si sposta gradatamente verso un
tipo di racconto debitore del cinema
di genere. Con il deteriorarsi dei rapporti tra madre e figli, il carattere assoluto della loro relazione si fa palese:
il loro scontro non è più solo quello legato alla contingenza dell’intervento
subito dalla donna ma diventa l’estraneità di una generazione verso l’altra.
Giocando sugli stilemi di quel cinema
horror che rovescia il bello nel terribile, il pulito nell’asettico, la difesa nella violenza, Fiala e Franz prendono di
petto una società che non riesce più a
guardare negli occhi il prossimo, che
non solo confonde l’essere con l’apparire, ma che non ha più alcun rapporto
con la realtà delle cose e delle persone. Ciò che colpisce e ferisce in Ich Seh
Ich Seh è il fatto che, avendo abdicato
dalla sua funzione educatrice, il genitore si riduce a pura autorità, vuota di
significato. Bendata per tutta la durata del film, la madre è davvero una
mummia che viene da un altro mondo
e come una creatura pericolosa viene
trattata.
La diversità è il grande tema di fondo
che ossessiona tutta una generazione
di cineasti austriaci. Qui essa è costantemente respinta nel fuoricampo: il
diverso non ha diritto di residenza
nella casa. Senza voler svelare l’assunto che regge la trama del film, è
importante sottolineare come le assenze occupano il racconto molto più
di quanto non facciano i personaggi in
campo. La casa filmata da Fiala appare
perennemente vuota: il silenzio è la
dimensione dominante, metafora di
una morte (dello scambio) che è già
avvenuta prima ancora che la macchina da presa posi il suo sguardo. Se
nella sua versione originale, il titolo fa
riferimento alla duplicità e all’essere,
nella sua versione internazionale “Goodnight Mommy”, il titolo allude alla
notte e a quell’universo di quiete (e
non di silenzio) che sembra proprio
venire meno.
Carlo Chatrian
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ESSERE
O APPARIRE
Conversazione con
Severin Fiala
e Veronika Franz
Venezia 2014
C
ome è nata l’idea di questo film?
S.F.: Il nostro intento era quello
di narrare la storia di una donna che
ritorna a casa dopo un intervento
di chirurgia estetica. Secondo i modelli contemporanei, questa donna
avrebbe dovuto ritrovarsi, dopo l’operazione, con una qualità di vita
migliore. Più bella, più realizzata,
avrebbe dovuto avere davanti a sé
un’esistenza più appagante; invece,
noi abbiamo letto questo ritorno alla
quotidianità, come qualcosa di disturbante, di pauroso.
Da dove siete partiti nella scrittura?
V.F.: Il punto di partenza del nostro
film è stata l’idea di una madre che
torna a casa dopo un intervento di
chirurgia estetica e non viene riconosciuta dai suoi stessi figli. Abbiamo
quindi cercato di immaginare che
cosa sarebbe successo se avessimo
spinto quest’idea fino in fondo, fino
alle conseguenze più impensabili.
Nel nostro caso, la madre desidera
cambiare la propria vita, vorrebbe
iniziare una nuova esistenza e pensa
alla chirurgia. Ha una sua personale
visione su come ottenere questo miglioramento e questa rinascita, ma
non ne parla ai propri figli, e questo
creerà non pochi problemi.
È presente nel film una sorta di critica
per un certo tipo di modello imposto
alle donne oggi?
S.F.: No, il film non vuole essere
un’opera che interviene nel dibattitto sociale; credo invece che sia un
film che ha come obiettivo quello di
suscitare delle domande più esistenziali: siamo quello che rivela la nostra apparenza? E se modifichiamo la
nostra faccia, il nostro aspetto fisico,
diventiamo persone diverse?
V.F.: Ich Seh, Ich Seh è un film sull’apparenza, su quanto questa conti per
noi e per gli altri, quindi è anche un
film sulle maschere, sulle bende,
sull’aspetto fisico. La madre è una
persona che lavora in televisione,
perciò per lei è fondamentale avere
un bell’aspetto e prendersene cura.
Il cuore del film è che cosa sia l’identità per ognuno di noi, in che percentuale ci identifichiamo con il nostro
aspetto fisico e con la percezione
che gli altri hanno di noi. Inoltre, è un
film sull’identità in senso lato. Credo,
infatti, che ognuno di noi possa essere una persona diversa in momenti
diversi, tutto dipende dal contesto.
Altrimenti, non si potrebbe spiegare come durante le guerre uomini
ordinari si trasformino in assassini e
stupratori. Penso che ognuno di noi
abbia il proprio mostro dentro di sé e
che il fatto di riuscire a controllarlo o
meno dipenda dalla situazione.
Uno dei punti interessanti di questa
indagine è che chi si pone queste domande sia una madre. Mi piacerebbe
che voi parlaste del ruolo della mater-
84
nità nel vostro film e di questa madre
che agisce e si comporta in un modo
piuttosto ambiguo.
S.F.: Per noi questo è un film sulla
famiglia, nel senso che parla della
relazione fra una madre e i suoi figli,
sull’educazione, e sul fatto che non
è sempre la madre ad avere la responsabilità di quello che avviene.
V.F.: Nel nostro film presnetiamo una
donna che tenta di controllare tutto.
Da un lato, cerca di curare se stessa,
poiché sta passando un periodo di
degenza tipico di chi ha subito un’operazione chirurgica. Dall’altro lato,
si sforza di controllare la situazione
con i bambini e cerca di farlo a modo
suo. Magari questo non si rivelerà il
modo migliore, ma credo che ogni
madre cerchi di fare lo stesso. Lei
non è perfetta, ma almeno prova a
ristabilire un equilibrio. L’aspetto
tragico del film è dato dal fatto che
anche i bambini ci provano, e tutti e
tre i protagonisti sono tesi nel tentativo di riuscire a riportare la situazioni alla normalità.
La famiglia vive in una sorta di isolamento dal resto della società.
V.F.: È una storia che ricalca una situazione molto diffusa in Austria:
quando i genitori si separano, accade spesso che la madre venga lasciata sola con i figli. La protagonista di
questo film ricerca la solitudine; è
una persona che ha un po’ di notorietà in televisione, non vuole che il
pubblico sappia che ha avuto un’operazione chirurgica. Così, sembra
quasi tormentare i bambini persuadendoli a dire a tutti che è malata
e che non vuole vedere nessuno.
Abbiamo usato questa situazione
anche per drammatizzare la storia.
A un certo punto del film, si condivide
pienamente il punto di vista dei bam-
bini, con i quali lo spettatore entra
quasi in simbiosi, e fino alla fine si
resta in uno stato di suspense, chiedendosi “Che cosa sta succedendo? è
davvero la loro madre o no?” Credo
che questo sia un punto centrale del
film. Com’è stato lavorare con due
bambini piccoli?
S.F.: Non è stato difficile, al contrario, è stato molto interessante perché con i bambini il lavoro diventa
più spontaneo che con gli attori professionisti. Abbiamo fornito loro soltanto lo stimolo iniziale dello script,
dicendogli “Mamma è tornata a casa,
ma è strana”. Abbiamo girato le scene in ordine cronologico e i bambini
ogni giorno si inserivano sempre di
più nel film, nella parte e nella situazione. Erano molto motivati e cercavano di sapere cosa sarebbe successo quel giorno, e se lei fosse davvero
la loro madre.
V.F.: Abbiamo cercato di rendere il
85
lavoro divertente, abbiamo giocato
con loro prima, dopo e durante le riprese, perché ci piace molto giocare.
È stato davvero piacevole lavorare
con dei bambini perché affrontano
la realtà con più leggerezza.
Nella prima parte del film, infatti,
sembrano davvero molto contenti:
sono nella natura, giocano, saltano,
passeggiano nei boschi e nei laghi.
V.F.: Entrambi affermano che è stata l’estate migliore che abbiano mai
trascorso. Siamo stati fortunati perché hanno lavorato molto duramente e in modo molto disciplinato. Le
riprese sono durate più di un mese
e per mantenere alto il loro livello
di attenzione abbiamo utilizzato più
volte l’effetto sorpresa. Per esempio, per riprendere la scena in cui si
svegliano di soprassalto gli abbiamo detto: “Stendetevi qui, dovrete
svegliarvi quando sentirete questo
suono molto dolce provenire dalla
stanza accanto, chiudete gli occhi e
ascoltate attentamente”. Poco dopo,
siamo arrivati urlando come pazzi e
loro si sono alzati di colpo, con l’aria
atterrita. Abbiamo utilizzato questa
scena nella prima parte del film.
Tuttavia, questo espediente ha funzionato solo all’inizio, poi non siamo
più riusciti a incastrarli! A quel punto erano loro a coglierci di sorpresa,
coinvolgendo in poco tempo l’intero set, che era diventato teatro di
scherzi verso tutti. Per trovare i due
piccoli protagonisti abbiamo affrontato un casting di più 220 gemelli.
S.F.: Il che è stato molto divertente
perché entravi in quella stanza ed
eri circondato solo da gemelli vestiti
uguali.
All’inizio nel film, mi sono sentita
un po’ come in una fiaba per bambini, dalla ninna nanna iniziale ad
altri elementi che costellano l’intero
lungometraggio: la casa isolata nel
bosco, il tema dello specchio e del
doppio. Avete tratto ispirazione dal
mondo delle fiabe?
V.F.: Abbiamo, in effetti, raccontato
loro la favola del lupo e dei sette
capretti, in cui un lupo scaltro e affamato si presenta alla porta di sette
capretti fingendosi la loro mamma
tornata con le vivande, cambiando
di volta in volta le sue fattezze per
convincere i capretti a farlo entrare.
Alcuni punti della favola sono stati
usati per inserire i bambini nella situazione, e mi fa piacere che emergano dal film, anche se in modo non
troppo esplicito.
La scena in cui i due bambini trovano un gatto in una specie di ossario è
piuttosto curiosa.
V.F.: È un posto reale, vicino a un cimitero, con una porta di legno e al
cui interno è possibile trovare tantissime ossa umane, oltre che spazzatura. Quando l’abbiamo visto, abbiamo immediatamente pensato che
avremmo dovuto inserirlo nel film.
Nessuno ci ha posto dei problemi
86
per le riprese, perché il luogo è stato sconsacrato, e quindi le ossa non
hanno alcun valore dal punto di vista religioso. Le complicazioni sono
sorte più per noi e per la troupe, perché dovevamo camminare su delle
ossa umane e alcuni si sono rifiutati.
Tornando alle differenze fra il mondo dei bambini e quello degli adulti,
i piccoli protagonisti non hanno minimamente badato al fatto che fossero in un ossario, saltando sui resti
come se niente fosse. A quel punto
siamo dovuti intervenire dicendo
loro di fare attenzione. Questo riassume ciò che abbiamo voluto mostrare nel corso di tutto il film, cioè
che i bambini hanno un altro punto
di vista, un altro approccio alla vita,
ma anche alla morte.
vece, che l’ultima parte fosse molto
chiara e realistica. Per quanto riguarda la scenografia, abbiamo lavorato molto per modificare la casa,
che è enorme e in origine non aveva né tende né imposte. L’abbiamo
arredata completamente, abbiamo
dovuto ricreare tutto dal nulla, nel
modo più congeniale per noi. Anche
le foto che ci sono nel corridoio e in
tutta la casa sono state poste e create per rivelare qualcosa in più sul
personaggio, qualcosa sul carattere
di chi abita quel luogo.
S.F.: Abbiamo cercato di pensare
quale tipo di casa, di foto, di decorazioni potesse avere una persona
della televisione, in modo che anche
l’abitazione diventasse un personaggio del film.
Potreste parlarmi un po’ della fotografia e della scenografia di questo
film?
V.F.: Volevamo creare un contrasto
fra l’esterno e l’interno della casa,
dove si svolge l’azione principale.
Nella prima parte del film, volevamo fosse accentuata l’oscurità della
casa rispetto all’esterno, che doveva
essere luminoso. Desideravamo, in-
E per quanto riguarda gli elementi
religiosi? Nella camera dei bambini
c’è un crocefisso, in seguito, i due costruiscono una specie di altare, e infine troviamo una chiesa. Perché avete
deciso di inserire tutto ciò?
V.F.: Volevamo che uno dei bambini fosse credente, che pregasse, ma
solo uno dei due, come spero si noti
nel film. Quando i bambini esco-
no dalla casa e cercano aiuto, in un
primo momento trovano un signore
che sta bruciando le sterpaglie nei
campi, ma che li allontana. E allora
dove andare? Dal prete, ovviamente,
in chiesa. Lì, però, non troveranno
quello che cercano, poiché il prete
non li condurrà dalla polizia, non
credendo a quello che i due bambini
gli raccontano, e li riporterà a casa.
S.F.: Era importante per noi che uno
dei due bambini credesse a qualcosa oltre la morte, all’esistenza di una
trascendenza.
Il vostro film non può essere catalogato come un horror, ma un mix tra
dramma psicologico, thriller e horror.
Come lo classifichereste voi?
V.F.: Esattamente come hai appena
fatto. Viviamo in un tempo di etichette, ma noi proviamo a lavorare
nel modo che hai descritto, mescolando i generi.
S.F.: Cerchiamo di creare film che
noi stessi guarderemmo volentieri
o ci piacerebbe vedere, film frutto
di un insieme di generi diversi che
si amalgamano senza classificazioni.
A cura di Nora Demarchi
87
A
LE DERNIER
COUP DE MARTEAU
nno di gran qualità del cinema
francese il 2014, come testimoniato dalla presenza di numerosi
titoli di valore in molti festival. Ben
quattro in concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di
Venezia, tra i quali Le dernier coup de
marteau, secondo lungometraggio,
dopo l’acclamato Angèle et Tony, di
Alix Delaporte, che già al Lido vinse
il Leone d’oro per il miglior corto nel
2006 con il film Comment on freine
dans une descente?.
La vicenda ruota intorno a un ragazzino, Victor (l’esordiente Romain
Paul), che finalmente conosce il padre, Samuel Rovinski (Grégory Gadebois), celebre direttore d’orchestra,
dal quale non era stato riconosciuto
alla nascita. All’Opéra di Montpellier,
Rovinski sta per dirigere la Sesta Sinfonia di Mahler, la cosiddetta Tragica,
il cui fragoroso colpo di «martello»
finale dà il nome al film. È proprio
all’Opéra di Montpellier che Victor
inizia un percorso di conoscenza del
genitore che passa anche attraverso
la scoperta della musica. Il percorso
si rivelerà reciproco, dato che il Maestro, inizialmente disturbato dal
ragazzino, finisce per accettare lo
«scambio» e l’assunzione del ruolo
di padre. Tuttavia, è sulla complessità della situazione familiare, e di riflesso esistenziale, dell’adolescente
che si concentra Delaporte (anche
sceneggiatrice). La madre di Victor,
Nadia (Clotilde Hesme), ha una grave
malattia, e a causa delle scarse risorse economiche, è costretta a vivere
insieme al figlio in una roulotte in
Camargue, con un gruppo di gitani di
origine spagnola. Nonostante Victor
sembri avere un futuro assicurato
nelle giovanili di una grande squadra di calcio del nord, è irrequieto e
sfugge di continuo all’allenatore e al
suo ruolo educativo.
Un elemento che accomuna Le dernier coup de marteau ad altri film
francesi visti in festival recenti è la
definizione dei personaggi attraverso il nomadismo, anche letterale. In Vie sauvage di Cédric Kahn, in
concorso a San Sebastian, un padre
scappa con i due figli per vivere allo
stato brado (in realtà ispirandosi ai
modi di vita dei nativi americani) e
incontra viaggiando per la Francia
centrale e nord occidentale «tribù»
di apolidi come lui, in perenne fuga.
In Mange tes morts di Jean-Charles
Hue, vincitore del Torino Film Festival 2014, i protagonisti sono addirittura due fratelli e un cugino gitani i
quali, seppure in un contesto «a soggetto», mettono in scena se stessi.
Delaporte sceglie nomadi stanziali,
pronti però a spiccare il volo in qualsiasi momento, ritratti quindi in una
sorta di falso movimento amplificato
dall’attenzione ai mezzi di trasporto
(le varie automobili dei «passaggi» a
Victor, il motorino che finisce in mare
in una sequenza magnifica, il fatto
che sin dalla prima scena l’autostop
sia per lui pratica abituale). Lo stesso
arrivo del padre rappresenta la tappa
di un viaggio anche metaforicamente in divenire: quello del ragazzino
attraverso l’adolescenza e una piena
consapevolezza identitaria e sentimentale (il rapporto con la coetanea
gitana Luna, bello e fondamentale);
quello del direttore d’orchestra verso la paternità; quello della madre
nella malattia. Le varie traiettorie
esistenziali trovano una compiuta
soluzione nel finale, ed è sorprendente come la regia di Delaporte,
sempre misurata ma non per questo
meno emozionale, riesca a conferire
intensità al racconto rendendolo essenziale e mai retorico nonostante la
sua articolazione e le aperture al tragico. Forse è scontato pensare al primo Truffaut, come ha sostenuto a Venezia qualche commentatore. In realtà, la scrittura visiva della cineasta
riesce a essere molto originale calibrando il legame tra ambiente, non
estraneo all’impatto emozionale, e
personaggi: più canonico, freddo e
impersonale quello «naturale» del
padre (il camerino, il teatro vuoto, il
palcoscenico, la macchina di grossa
cilindrata) e ovviamente più «sauvage» quello di Victor. Magnifici tutti
gli interpreti, dalla coppia HesmeGadebois già protagonista di Angèle
et Tony a Romain Paul, vincitore del
Premio Marcello Mastroianni dedicato al miglior attore emergente.
Mauro Gervasini
VENEZIA
ALIX DELAPORTE