natsume soseki io sono un gatto

NATSUME SOSEKI
IO SONO UN GATTO
Traduzione dal giapponese e note di
Antonietta Pastore
NERI POZZA EDITORE
Titolo originale: Wagahai wa Neko de Aru
2006 Neri Pozzi Editore, Vicenza
ISBN 88-7305-927-9
Il nostro indirizzo internet è: www.neripozza.it
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Io sono un gatto. Un nome ancora non ce l’ho.
Dove sono nato? Non ne ho la più vaga idea. Ricordo soltanto che miagolavo
disperatamente in un posto umido e oscuro. È là che per la prima volta ho visto un essere
umano. Si trattava di uno di quegli studenti che vivono a pensione presso un professore mi hanno poi detto - e che fra tutti gli uomini sono la specie più perversa. Si racconta che
costoro ogni tanto acchiappino uno di noi, lo mettano in pentola e se lo mangino. Però in
quel momento, non sapendolo, non ebbi paura. Provai soltanto un senso di vertigine
quando lo studente mi mise sul palmo della mano e di colpo mi sollevò per aria. Appena
ritrovai una certa stabilità lo guardai in faccia, era il primo individuo appartenente alla
specie umana che vedevo in vita mia. Che creatura curiosa, pensai, e quest’impressione di
stranezza la conservo tuttora. Tanto per cominciare il viso, invece di essere coperto di peli,
era liscio come una teiera. In nessuno degli innumerevoli gatti che ho conosciuto in seguito
ho mai riscontrato una tale deformità. Come se non bastasse, nel bel mezzo della
faccia aveva una protuberanza esagerata. Con due buchi dai quali ogni tanto uscivano
sbuffi di fumo. Mi sentii soffocare, stavo per svenire. Solo di recente ho saputo che era
tabacco, una cosa che agli uomini piace fumare.
Me ne stavo comodamente seduto nel palmo della mano di questo studente, quando a
un certo punto cominciai a spostarmi a una velocità incredibile. Non capivo se a muovermi
fossi io o lui, fatto sta che mi girava la testa. Mi venne la nausea. Già pensavo che fosse
giunta la mia ora, quando sentii un botto tremendo e vidi miriadi di stelle. I miei ricordi
arrivano fin là, oltre quel momento, per quanto mi sforzi di rammentare, è il nulla.
Quando tornai in me lo studente era scomparso. Dei miei numerosi fratelli non ne
vedevo nemmeno uno. Anche della mia preziosa madre non c’era più traccia. Inoltre, cosa
nuova per me che ero sempre stato al buio, c’era una luce accecante. Al punto che non
riuscivo a tenere gli occhi aperti. Dicendomi che tutto sembrava orribilmente strano, piano
piano provai a strisciare in avanti, ma sentii un dolore terribile. Dalla paglia dove avevo
vissuto fino ad allora, all’improvviso ero stato preso e gettato in un boschetto di bambù.
Quando con molta difficoltà riuscii a sgusciarne fuori, mi trovai di fronte a un grande
stagno. Mi sedetti sul bordo e cercai di riflettere: cosa dovevo fare? Non mi veniva in mente
nulla. Dopo un po’ ebbi un’idea: forse se avessi pianto, lo studente sarebbe tornato a
prendermi. Provai a miagolare un po’, ma non arrivò nessuno.
Intanto una lieve brezza si era levata sullo stagno e il sole stava tramontando. Mi era
venuta una fame tremenda. Volevo piangere, ma la voce non mi usciva. Non mi restava che
mettermi alla ricerca di cibo, così cominciai a girare intorno allo stagno sul lato sinistro,
deciso a camminare finché avessi trovato qualcosa da mettere sotto i denti. Il dolore era
atroce. Tenni duro, e a fatica, strisciando, finalmente arrivai in un posto dove fiutai odore
di esseri umani. Qui dentro qualcosa lo trovo, mi dissi, e da uno squarcio in una staccionata
di bambù mi infilai nel giardino di una casa. Com’è strano il destino. Se quella staccionata
non fosse stata rotta, è molto probabile che sarei morto di fame sul bordo della strada.
Tutto, anche un incontro all’ombra di un albero, dipende dalla vita precedente, dice una
massima molto giusta. Ancora oggi passo di là quando vado a trovare Micetta, la gatta di
tre colori che abita nella stradina qui dietro.
Comunque sia, una volta intrufolatomi in quel giardino non sapevo più in che direzione
avanzare. Ben presto calò il buio. Avevo fame, faceva freddo e alla fine si mise anche a
piovere: non potevo più aspettare nemmeno un secondo. Mi feci coraggio e presi
a camminare verso quello che sembrava un posto luminoso e caldo, avanti, sempre più
avanti… Adesso so che a quel punto mi trovavo già all’interno della casa. E fu là che ebbi
un’altra occasione di incontrare, dopo lo studente, delle creature appartenenti alla razza
umana. La prima fu O-san, la serva, che appena mi vide mi afferrò per la collottola, ih
modo ben più brutale dello studente, e mi buttò fuori. Sono spacciato, pensai, e chiusi forte
gli occhi affidandomi al Cielo. Ma resistere oltre alla fame e al freddo era impensabile,
aspettai che O-san si distraesse e per la seconda volta mi intrufolai in cucina. Dopo pochi
minuti eccomi di nuovo buttato fuori. Ogni volta che venivo cacciato, tornavo a infilarmi
dentro casa e viceversa, ricordo una sequela di quattro o cinque tentativi falliti. A quel
punto questa O-san mi era diventata antipaticissima. Poco tempo fa mi sono vendicato
rubandole un luccio, e finalmente mi sono tolto un peso dallo stomaco. L’ultima volta che
stava per prendermi e buttarmi fuori comparve il padrone di casa, che veniva a chiedere il
perché di tutto quel baccano. O-san si voltò verso di lui tenendomi per la collottola.
«È questo gattino randagio che mi fa disperare», rispose, «ogni volta che lo caccio via,
torna a infilarsi in cucina».
Il padrone, arricciandosi i peli neri che aveva sotto il naso, indugiò qualche secondo a
guardarmi.
«Allora lascialo stare qui», disse poi, e se ne tornò da dove era venuto. Sembrava un
uomo di poche parole. La serva, offesa, mi posò sul pavimento della cucina. Ed è così che
alla fine decisi che quella sarebbe stata la mia casa.
Il padrone non lo incontro spesso. Pare che sia un professore. Quando torna a casa da
scuola si chiude nello studio fino a sera e ne esce raramente. I suoi familiari sono convinti
che sia un grande studioso. Lui stesso si atteggia a grande studioso. In realtà lo è molto
meno di quanto i suoi credano. Ogni volta che vado a passi felpati a sbirciare, per lo più lo
vedo dormire. Di tanto in tanto una bava gli cola sul libro che tiene davanti a sé. È debole
di stomaco e presenta i sintomi tipici della dispepsia: colorito giallognolo, pelle spenta,
poco elastica… Ciononostante mangia enormi quantità di cibo. E dopo aver
mangiato enormi quantità di cibo prende il takadiastase per lo stomaco. Poi apre un libro.
Ne legge due o tre pagine e gli viene sonno. Gli cola no bave sul volume aperto. Questa è la
sua routine quotidiana. Io sono soltanto un gatto, però ogni tanto rifletto. Non c’è niente di
più comodo che fare il professore. Se mai rinasco uomo, diventerò professore, è deciso. Un
lavoro che permette di dedicare tanto tempo al sonno, chiunque è in grado di svolgerlo,
anche un gatto. Eppure a sentire lui pare che non ci sia mestiere più duro al mondo e non
fa che lamentarsi con gli amici che vengono a trovarlo.
Quando sono venuto a vivere in questa casa, a parte lui, tutti erano molto scontenti della
mia presenza. Dovunque andassi, venivo scacciato e nessuno si occupava mai di me. Il fatto
che ancor oggi non abbia un nome mostra quanto poco sia apprezzato. Non potendo
porre rimedio a questa triste situazione, cercavo di tenermi il più vicino possibile al mio
padrone, che mi aveva permesso di restare nella sua casa. Il mattino, quando leggeva il
giornale, mi mettevo sempre sulle sue ginocchia, e quando faceva il sonnellino
pomeridiano, gli salivo sulla schiena. Questo non perché provassi una particolare simpatia
per lui, ma non avendo altri protettori non potevo fare diversamente. Ora l’esperienza mi
ha insegnato a stare il mattino sopra il contenitore del riso, la sera sotto il kotatsu, e nelle
belle giornate nella veranda. Però la cosa che più mi piace, quando si fa notte, è infilarmi
nel futon delle bambine più grandi e dormire con loro. Hanno rispettivamente cinque e tre
anni, e la sera dormono in due nello stesso futon. In mezzo a loro trovo sempre
un posticino dove sistemarmi, ma se per disgrazia una delle due si sveglia, sono guai.
Foss’anche in piena notte, si mettono subito a strillare - «c’è il gatto, c’è il gatto!» - e la più
piccola è la più cattiva. Svegliano quell’isterico malato di stomaco del mio padrone, che
dalla stanza accanto si precipita dalle figlie. Solo pochi giorni fa mi ha picchiato fortissimo
sul sedere con un righello.
Vivendo con gli esseri umani, più li osservo più mi sento di poter affermare che sono
degli egoisti. Mi riferisco soprattutto alle bambine con le quali a volte dormo: sono
inqualificabili. Quando gli salta il ticchio mi fanno stare a testa in giù, mi infilano il muso
in una busta di carta, mi lanciano per aria, mi chiudono nel forno. In compenso, al minimo
sgarro da parte mia, tutta la famiglia unisce le forze per darmi la caccia e infliggermi
qualche castigo. L’altro giorno, soltanto perché mi sono affilato un po’ le unghie sui tatami,
la padrona è andata su tutte le furie e ora non mi lascia più entrare nelle stanze. Lo vede
bene che sul pavimento di legno della cucina tremo di freddo, ma se ne infischia. La gatta
che vive nella casa di fronte, Bianca, per la quale ho il massimo rispetto, ogni volta che ci
incontriamo mi dice che gli uomini sono le creature più perfide che esistano. Poco tempo fa
ha messo al mondo quattro perle di gattini. Il terzo giorno il suo padrone li ha presi tutti
e quattro ed è andato a buttarli nello stagno dietro casa. Questa storia Bianca me l’ha
raccontata fra le lacrime, e quando ha smesso di piangere ha detto che noi gatti, per poter
avere una bella vita di famiglia e allevare con amore i nostri figli, dovremmo dichiarare
guerra al genere umano e sterminarlo. Penso che abbia davvero ragione. Inoltre Micetta, la
gatta di tre colori, sostiene indignata che gli uomini non hanno il senso della proprietà. Da
sempre fra noi gatti vige un patto: chi trova per primo una cosa, che sia la testa di una
sardina essiccata o le interiora di una triglia, ha il diritto di mangiarla. E se qualcuno non
rispetta questa regola, la parte lesa è autorizzata a ricorrere alla violenza. Loro invece, gli
umani, pare che questo principio non lo conoscano, perché ci portano via sistematicamente
ogni cosa buona che troviamo. Avvalendosi della loro forza, non si fanno scrupoli a rubarci
il cibo che ci appartiene di diritto. Bianca vive in casa di un militare, mentre Micetta ha un
padrone avvocato. Io, che abito presso un professore, su questo argomento sono
più ottimista di loro due. Finché riesco a tirare avanti giorno per giorno, mi accontento. Gli
umani, per quanto forti, non saranno in auge per sempre. Meglio attendere
tranquillamente l’ora dei gatti.
A proposito di prepotenza, vorrei raccontarvi della figuraccia che ha fatto il mio padrone
proprio a causa del suo carattere egoista. Sostanzialmente non è mai riuscito a eccellere in
nulla, eppure prova sempre a cimentarsi in tutto. Compone haiku1 e li manda alla rivista
Hototogisu2, invia poesie in stile moderno a Myojo3, scrive prosa inglese infarcita di errori,
a volte si esercita nel tiro con l’arco, o nella recitazione di canti no4, o ancora prende il
violino e ne cava suoni stridenti, ma purtroppo non ottiene risultati decenti in nessuna di
queste attività. Ciononostante, con tutto il suo mal di stomaco, ogni volta che si applica a
qualcosa si infervora oltre misura. Declama i canti no nel gabinetto, tanto che i vicini lo
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Poesia in forma metrica tradizionale, di 17 sillabe divise in tre versi di 5, 7 e 5 sillabe ciascuno, derivata nel sedicesimo
secolo dal più antico tanka (vedi nota 16, cap. 2). All’epoca di Soseki scrivere haiku era diventato una sorta di passatempo in cui si
dilettavano le persone di cultura. Tuttavia nell’era Meiji (1868-1912), con l’apertura del Giappone all’Occidente, molti poeti,
influenzati dalla letteratura occidentale, iniziarono a scrivere poesie in forma libera, non vincolata alla metrica tradizionale.
Importante rivista letteraria fondata nel 1897 dai poeti Masaoka Shiki (1867-1902) e Takahama Kyoshi (1874-1959), il
primo dei quali amico di Natsume Soseki. È in questa rivista che Soseki, nel gennaio del 1905, iniziò a pubblicare a puntate Io sono
un gatto. L’ultimo capitolo apparve nel luglio del 1906.
Rivista di poesia fondata nel 1900 dai coniugi Yosano Tekkan e Yosano Akiko, entrambi poeti. Fu l’organo della Shinshi
Sha (Nuova Società di Poesia), creata l’anno precedente da Tekkan.
Nel teatro tradizionale no gli attori recitano i testi con una cadenza molto lenta, vicina al canto. Per un certo periodo
Soseki studiò recitazione no.
hanno soprannominato il «maestro delle latrine», ma lui se ne infischia e continua
a cantare: Io sono Munemori dei Taira…5 Ecco Munemori che ci riprova, dicono tutti
scoppiando a ridere. Un pomeriggio -abitavo qui da circa un mese -, non so cosa gli fosse
saltato in mente, tornò a casa di gran fretta con un grosso involto sotto il braccio. Mi chiesi
cosa diavolo avesse comprato. Erano acquarelli, pennelli e un tipo di carta che si chiama
Whatman: evidentemente aveva deciso che da quel giorno avrebbe abbandonato canti no e
haiku per dedicarsi alla pittura6. Come prevedevo, dal giorno seguente prese l’abitudine di
chiudersi nello studio a dipingere, rinunciando perfino a dormire; andò avanti così per
molto tempo. Peccato che a lavoro finito nessuno fosse in grado di capire cosa avesse
dipinto. Forse anche lui dovette riconoscere di non avere un gran talento, perché un giorno
che venne a trovarlo un suo amico che si occupa d’arte, sentii questa conversazione: «Non
c’è niente da fare, non riesco a dipingere. A guardare gli altri sembra una cosa da nulla,
ma quando si prova a prendere in mano il pennello, ci si rende conto che è proprio
difficile,» diceva il mio padrone. E in questo era sincero.
«È naturale che all’inizio si incontri qualche difficoltà», gli rispose il suo amico
guardandolo da sopra il bordo dorato degli occhiali.»Tanto per cominciare, nessuno è in
grado di dipingere chiuso dentro una stanza, aiutandosi solo con la fantasia. Un grande
pittore italiano dell’antichità, Andrea del Sarto, diceva che la pittura deve riprodurre la
natura così com’è. Nel cielo ci sono gli astri. Sulla terra lo splendore della rugiada. Ci sono
uccelli che volano. Animali che corrono. Pesci rossi negli stagni. E corvi l’inverno sui rami
spogli. La natura è un grande quadro vivente. Allora anche tu, se vuoi dipingere un quadro
degno di questo nome, comincia con il fare qualche schizzo dal vero».
«Ah, veramente Andrea del Sarto ha detto così? Non lo sapevo. Però è giusto. È giusto»,
approvò il padrone con indiscriminata ammirazione. Dietro gli occhiali dalla montatura
dorata colsi uno sguardo divertito.
Il giorno seguente ero nella veranda e stavo facendo un pisolino come d’abitudine,
quando il mio padrone uscì dallo studio, cosa che non gli accade quasi mai, e si mise a
trafficare con qualcosa alle mie spalle. A quel punto mi svegliai e socchiusi appena appena
gli occhi per vedere cosa stesse facendo… eccolo che si credeva Andrea del Sarto! A quella
vista non potei trattenere una risata. Come risultato della burla del suo amico, aveva deciso
di farmi il ritratto. Io avevo già dormito a sufficienza. Morivo dalla voglia di sbadigliare.
Però la repressi e rimasi immobile, dicendomi che sarebbe stato un peccato muovermi
proprio ora che lui stava disegnando con tanto fervore. In quel momento aveva appena
finito di tracciare il mio contorno e stava colorando la zona intorno alla mia faccia. Mi feci
un esame di coscienza. Come gatto non ero certo una bellezza. Non pensavo di valere più
degli altri, né per statura, né per lucentezza del pelo, né per avvenenza. Ero del tutto
ordinario, lo ammettevo, ma non potevo nemmeno dire di riconoscermi in quella strana
figura che il padrone stava disegnando. Tanto per cominciare il colore era diverso. Il mio
pelo è un misto di giallo e di grigio chiaro, come quello dei gatti persiani, con macchie che
ricordano il nero della lacca. Questo è un fatto che chiunque mi guardi non può negare.
Invece il colore che in quel momento imbrattava il foglio non era né giallo né nero, e
neppure grigio o marrone o un misto di queste tinte. Lo si poteva soltanto definire «un
colore». La cosa più strana era che nel disegno non avevo occhi. Assenza ammissibile,
poiché ero stato ritratto mentre dormivo, ma mancavano persino le palpebre, con
il risultato che non si capiva se fossi un gatto addormentato o un gatto cieco. Mi dissi che il
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Inizio di un dramma no di Zeami (1363-1443). Munemori era il capo del clan dei Taira, che nella guerra Genpei (11801185) vennero sconfitti dal clan rivale dei Minamoto nella battaglia navale di Dan-no-Ura.
Soseki stesso si dedicò per un certo periodo alla pittura ad acquarello. Molte sono le analogie fra l’autore e il protagonista
del romanzo. Soseki insegnò per molti anni l’inglese in diversi licei, studiò la recitazione di canti no, fece traduzioni dall’inglese.
padrone poteva pure credersi Andrea del Sarto quanto voleva, non aveva speranze. Eppure
ammiravo il suo entusiasmo. Avevo tutte le intenzioni di restare immobile il più a lungo
possibile, ma già da un po’ avevo bisogno di svuotare la vescica e sentivo formicolii in tutti i
muscoli. Non potendo resistere un solo minuto di più, ebbi la scortesia di allungare le
zampe anteriori, protendere il collo verso il basso e spalancare la bocca in un enorme
sbadiglio, non riuscii a trattenermi. A questo punto è inutile che resti fermo, pensai, ormai
avevo mandato all’aria il programma del padrone e tanto valeva che andassi sul retro a
sbrigare le mie faccende, così cominciai piano piano a strisciare via. Non l’avessi mai fatto!
Andò su tutte le furie.
«Fermo, cretino!» mi urlò con voce alterata dalla soglia dello studio. Quando si arrabbia
con qualcuno gli dà sempre del cretino. Visto che non conosce altri insulti, è inevitabile, ma
trovai veramente scortese da parte sua dirmi così, senza riconoscere che fino a quel
momento mi ero sforzato di portare pazienza. Avrei perdonato la sua villania se almeno si
fosse mostrato contento quando gli salivo sulla schiena, ma non si era mai degnato di
manifestare gioia per la mia presenza ed era davvero ignobile da parte sua darmi
del cretino solo per una pipi. Per natura gli uomini, tutti quanti, sono dei presuntuosi che
si compiacciono della loro forza. Se non si presentasse qualcuno più forte a dare loro una
bella lezione, non si potrebbe dire fino a che punto arriverebbe la loro arroganza. Passi
l’egoismo, si potrebbe ancora sopportare, ma ho sentito raccontare una storia ben più triste
che rivela l’immoralità degli umani.
Sul retro della mia casa c’è un campo di una decina di tsubo coltivato a tè. Non è grande,
ma è ben tenuto e piacevolmente soleggiato. Quando non riesco a fare la siesta perché le
bambine fanno troppo chiasso o quando la noia mi impedisce di digerire bene, ho
l’abitudine di andare là per rigenerarmi lo spirito. Un giorno, saranno state le due di un bel
pomeriggio di fine estate, dopo aver fatto un pisolino mi avviai verso quel campo per
sgranchirmi un po’ le zampe. Annusando a una a una le piante di tè arrivai fino alla siepe di
cipressi che si trova a ovest, quando vidi un grosso gatto che dormiva come un sasso
sull’aiuola di crisantemi, schiacciandoli tutti. Sembrava che non si fosse nemmeno accorto
di me che mi avvicinavo; o forse se n’era accorto, ma non ritenendomi degno d’attenzione
continuava a restare sdraiato sul fianco in tutta la sua lunghezza e a russare sonoramente.
Che qualcuno avesse il coraggio, anzi la sfacciataggine, di intrufolarsi in un giardino altrui e
dormire con tanta placidità, era qualcosa di cui in cuor mio non potevo fare a meno
di indignarmi. Il gatto era tutto nero. Il sole, che aveva da poco passato lo zenit, illuminava
il suo mantello di una luce calda, accendendo fiammelle tra i suoi peli morbidi e brillanti.
Era talmente grosso da meritare di venire eletto re dei gatti, doveva pesare almeno il
doppio di me. Per l’ammirazione e la curiosità rimasi stupefatto davanti a lui, a guardarlo
affascinato. All’improvviso la brezza gentile di fine estate scosse leggermente un ramo di
paulonia che sporgeva al di sopra della siepe di cipressi, e due o tre foglie caddero
sull’aiuola di crisantemi schiacciati. Il re di colpo spalancò due occhi rotondi come biglie.
Me li ricordo ancora adesso. Occhi molto più belli e splendenti di quella sostanza chiamata
ambra che gli uomini apprezzano tanto. Senza muovere un muscolo, concentrando sulla
mia minuscola fronte la luce che pareva provenire dal fondo delle sue pupille, il gatto nero
mi chiese: «E tu chi diavolo saresti?»
Il suo modo di esprimersi era un po’ rozzo per un re, ma nella sua voce roca c’era una
forza sufficiente ad annientare un cane, mi fece venire la tremarella. Non salutare era
pericoloso, così gli risposi con calma, senza agitarmi: «Io sono un gatto. Un nome ancora
non ce l’ho». Il cuore però mi batteva più velocemente del solito.
«Un gatto?» ripeté lui con disprezzo. «Cosa mi tocca sentire! E dov’è che abiti?»
Un’arroganza incredibile.
«Qui, in casa del professore».
«È quello che pensavo. Ma sei pelle e ossa, fai senso», proseguì lui con la teatralità che si
addice solo ai re. A giudicare dal modo di parlare, non doveva essere un gatto di buona
famiglia. Tuttavia per essere così bello grasso doveva mangiare a sazietà e vivere
nell’abbondanza. Non potei trattenermi dal chiedergli: «E tu, chi sei?»
«Io? Sono il Nero del vetturino», rispose lui in tono trionfante. Ora nel vicinato tutti
sanno che il Nero del vetturino è un violento. Ma siccome vivendo in una rimessa di risciò
si diventerà forse forti, ma non si acquisisce la minima educazione, nessuno vuole
frequentarlo. Di comune accordo lo teniamo a rispettosa distanza. Sentendo il suo nome mi
venne paura, ma al tempo stesso provavo un vago senso di superiorità. Per verificare fino a
che punto fosse ignorante, gli posi una domanda.
«Senti, tra un vetturino e un professore chi è più importante secondo te?»
«Il vetturino, è ovvio, è molto più forte. Guardalo, il tuo professore, è magro come un
chiodo».
«Tu invece sei piuttosto robusto per venire da dove vieni. Pare che si mangi bene in una
rimessa».
«Guarda che io, da qualunque parte vada, da mangiare ne trovo quanto ne voglio. Invece
di bighellonare in un campo di tè, perché non te ne vieni un po’ con me? In meno di un
mese diventeresti tanto grasso da sembrare un altro».
«Prima o poi te lo chiederò. Ma per il momento penso di restare qui, perché la casa di un
professore è più grande di quella di un vetturino».
«Che idiozia! La casa può essere grande finché vuoi, mica ti riempie la pancia».
Sembrava piuttosto irritato. Si alzò e se ne andò sbattendo più volte le orecchie
appuntite come bambù sezionati. Quel giorno feci dunque la conoscenza del Nero del
vetturino.
Da allora l’ho incontrato spesso. E ogni volta fa il gradasso, come ci si può aspettare dal
gatto di un conducente di risciò. Il fatto deplorevole cui ho accennato prima, è stato lui a
raccontarmelo.
Un giorno io e il Nero eravamo sdraiati al sole nel campo di tè e stavamo parlando del
più e del meno come ogni tanto facciamo, quando lui, ripetendo per l’ennesima volta il
resoconto delle sue prodezze come se fossero cosa nuova, si gira verso di me e mi fa:
«Tu finora quanti topi hai preso?»
Ora, quanto a cultura, credo di essere molto più progredito del Nero, ma per forza fisica
e coraggio riconosco di non poter competere con lui. Quella volta mi sentii veramente in
imbarazzo. Ma quel che è vero è vero, non c’era ragione di mentire.
«Penso sempre che dovrei decidermi, ma finora non ne ho preso neppure uno», gli
risposi. Lui scoppiò in una risata esagerata, i lunghi baffi ai due lati del naso fremevano. Il
Nero a vantarsi è bravissimo, ma in realtà di cervello ne ha poco, basta fingere rispetto e
ammirazione, fargli un po’ le fusa, per raggirarlo come si vuole, lo questa sua debolezza
segreta l’ho capita subito, appena ho cominciato a frequentarlo, così anche quella volta
ritenni stupido difendere la mia inettitudine, avrei fatto una figura ancora peggiore, mi
conveniva lusingarlo inducendolo a parlare delle sue prodezze.
«Tu, all’età che hai, devi averne presi parecchi, di topi», gli dissi in tono serio e
adulatorio. Come avevo previsto, abboccò immediatamente.
«Almeno trenta o quaranta», fu la risposta compiaciuta. Di topi, continuò, poteva
prenderne quanti voleva, anche cento o duecento, ma con le faine non c’era niente da fare.
«Una volta me la sono vista proprio brutta con una faina», disse.
«Ah sì?» chiesi per cortesia. Il Nero mandò un lampo dagli occhi enormi.
«È stato l’anno scorso, all’epoca delle grandi pulizie. Il padrone stava infilando un sacco
di calce sotto il pavimento della veranda, quando una grossa faina spaventata è balzata
fuori».
«Oh…» feci mostrandomi impressionato.
«Una faina? ho pensato, ma è solo poco più grossa di un topo, così mi sono messo a
darle la caccia senza pietà e alla fine l’ho incastrata nel fossato».
«Bravissimo!» commentai io.
«Figurati, quella disgraziata s’è raggomitolata tutta e ha mollato una scoreggia. Un
tanfo insopportabile, da quella volta quando vedo una faina mi viene il voltastomaco». Così
dicendo il Nero alzò una zampa e si pulì due o tre volte il muso, come se sentisse ancora la
puzza di un anno prima. A me dispiaceva un po’ per lui.
«I topi però ti basta guardarli, per stenderli», gli dissi per consolarlo. «Sei un cacciatore
famoso, è a forza di mangiar topi che sei diventato così bello grasso, con quel bel pelo
lucido, vero?» Gli avevo fatto questa domanda per rimetterlo di buonumore, però con mia
grande sorpresa ottenni l’effetto contrario. Il Nero sospirò con aria mortificata.
«Ogni volta che ci penso mi deprimo. Uno s’affanna tanto a dar la caccia ai topi, e poi…
Non c’è creatura al mondo più malvagia dell’uomo. Tutti i topi che prendo mi vengono tolti
e portati al posto di polizia. Il poliziotto dà cinque sen per ognuno, senza nemmeno sapere
chi li ha catturati. Il mio padrone per merito mio ha già guadagnato uno yen e cinquanta
sen, ma non per questo mi ha mai dato da mangiare qualcosa di buono. La maggior parte
degli umani sono dei ladri rifiniti».
In quell’occasione persino il Nero, ignorante com’è, mostrò di saper ragionare, il pelo
sulla schiena gli si era drizzato dalla collera. Provando un vago malessere, mi inventai una
scusa e tornai a casa. Quel giorno decisi che non avrei mai acchiappato un topo. Né ho mai
accettato di diventare l’apprendista del Nero e dare la caccia ad altre prelibatezze. È meglio
starsene comodamente in panciolle a mangiar bene. Vivendo in casa di un professore,
sembra che persino il gatto ne assuma il carattere. Se non sto attento, prima o poi anche il
mio stomaco si indebolirà.
A proposito di professori, il mio padrone negli ultimi tempi ha finito per ammettere di
non avere talento per la pittura, e nel suo diario, in data 10 dicembre, ha scritto:
Alla riunione di oggi ho fatto la conoscenza di XX. Corre voce che sia un uomo di mondo e
che abbia avuto una vita molto dissoluta. Poiché i tipi come lui piacciono alle donne, forse è
più appropriato dire che è stato indotto al vizio. Pare che sua moglie fosse una geisha, beato lui.
La maggior parte delle persone che parla male dei debosciati, per carattere non è capace di
dissolutezze. Anche molti di coloro che pretendono di essere dei libertini non ne hanno il carattere. Si
sforzano di esserlo, contro la propria natura, benché nulla li obblighi a farlo. Prendiamo i miei
acquarelli, è la stessa cosa, non c’è pericolo che qualcuno mi dia un diploma in pittura. Eppure gli
individui di quel tipo sono convinti di essere uomini di mondo. Se fosse dimostrato che si diventa
uomini di mondo bevendo sake nei ristoranti o frequentando le case d’appuntamento, allo stesso
modo dovrei acquisire una certa fama nella pittura. Ma come io farei meglio a non dipingere, allo
stesso modo un rustico appena sceso dai monti è superiore a un uomo di mondo stupido.
La sua teoria sugli uomini di mondo zoppica un po’. Anche il fatto di invidiare a quel tale
la moglie geisha, direi che è un pensiero sciocco per un professore, tuttavia la valutazione
che fa della propria pittura è giusta. Il padrone ha una conoscenza piuttosto obiettiva di se
stesso, ma non riesce a liberarsi della sua vanità. Ecco quanto ha scritto tre giorni dopo, il 4
dicembre:
L’altra notte ho sognato che buttavo via uno dei miei dipinti perché non ne ero soddisfatto,
ma qualcuno gli metteva una splendida cornice e lo appendeva a una trave. Osservando la mia
opera incorniciata, improvvisamente pensavo di essere diventato un bravo pittore. Ne ero
estremamente felice. Passavo il mio tempo a contemplare il quadro, dicendomi che era magnifico, ma
quando si è fatto mattino e mi sono svegliato, con la luce del giorno mi è tornata la chiara coscienza
della mia mancanza di talento.
Persino in sogno il mio padrone è assillato dal suo scarso talento artistico. Con
questo temperamento, non diventerà mai né un pittore, né tanto meno un uomo di mondo
avveduto. Il giorno dopo il sogno del quadro è venuto a trovarlo l’esteta con gli occhiali
cerchiati d’oro, che non si faceva vedere da tanto tempo.
«E come va la pittura?» ha chiesto per prima cosa appena si è accomodato sui tatami.
«Mi sto esercitando negli schizzi dal vero, come mi hai consigliato tu», ha risposto il mio
padrone con aria indifferente, dimenticando completamente quello che aveva scritto nel
diario, «e devo ammettere che in questo modo riesco a cogliere meglio la forma degli
oggetti, il modo delicato in cui si fondono i colori, tutte cose cui mai avevo fatto attenzione.
Se in Occidente la pittura si è sviluppata fino ad arrivare ai risultati attuali, credo che sia
perché fin dall’antichità si è insistito sulla copia dal vero. Proprio come ha detto Andrea del
Sarto».
Di nuovo era perso d’ammirazione per il pittore italiano. L’esteta ha sorriso.
«Sai, a essere sincero, me l’ero inventata io, quella storia», ha detto grattandosi la testa.
«Quale storia?» ha chiesto il padrone, senza rendersi conto di essere nuovamente
vittima di una beffa.
«Quella su Andrea del Sarto, che tu sembri ammirare tanto. È una mia invenzione. Non
pensavo che l’avresti presa sul serio, ha, ha, ha!» Da come rideva, l’esteta sembrava
esilarato.
Mentre ascoltavo questa conversazione dalla veranda, non riuscivo a immaginare cosa
avrebbe scritto il padrone quel giorno sul diario. L’esteta è il tipo d’uomo che si diverte a
farsi gioco di tutti raccontando ogni genere di panzane. Era chiaro che non si rendeva
lontanamente conto di quale effetto avesse avuto sulle emozioni del mio padrone la storia
di Andrea del Sarto, perché ha continuato in tono trionfante:
«È strano come a volte la gente prenda sul serio quello che dico per scherzo; è un
fenomeno interessante perché stimola il senso estetico della comicità. Di recente ho
raccontato a uno studente che Nicholas Nickleby7 aveva consigliato a Gibbon di riscrivere
la sua opera maggiore, Storia della rivoluzione francese, in inglese invece che in francese.
Quello stupido, che impara tutto pedestremente a memoria, ha ripetuto quello che avevo
detto, parola per parola, a una sessione della Società Letteraria Giapponese, non è
esilarante? Alla sessione era presente un centinaio di persone, e tutte, dalla prima
all’ultima, hanno ascoltato con la massima attenzione. E non basta. L’altro giorno
mi trovavo a una riunione insieme a un letterato, e siamo venuti a parlare del romanzo di
Harrison, Theofano. Io ho affermato che era un eccellente esempio di romanzo storico. E
quando ho aggiunto che la morte dell’eroina era un capolavoro dell’orrore, il letterato
seduto di fronte a me, che pretende sempre di sapere tutto, ha annuito asserendo che era
7
Protagonista del romanzo di Dickens La vita e le avventure di Nicholas Nickleby.
un passaggio veramente stupendo. Dal che ho dedotto che non aveva letto il libro. Come
non l’ho letto io, d’altronde».
Il padrone, che non ha i nervi molto saldi, ha spalancato tanto d’occhi.
«E se per caso l’avesse letto, come avresti giustificato una sciocchezza del genere?» ha
chiesto. Ciò che gli sembrava grave non era tanto la scorrettezza della beffa, quanto la
possibilità di venire scoperti.
«Figurati!» ha risposto imperturbabile l’esteta. «In quel caso avrei detto che mi ero
confuso con un altro libro o qualcosa del genere». Ed è scoppiato in una gran risata.
Quest’esteta porterà anche gli occhiali dalla montatura d’oro, ma come carattere mi ricorda
molto il Nero del vetturino. Il mio padrone è stato zitto, ma dall’espressione con cui
soffiava anelli di fumo sembrava rimpiangere di non avere lo stesso coraggio.
«Scherzi a parte, dipingere è difficile e impegnativo», ha continuato l’esteta guardandolo
come a dire «è per questo che non ci riesci». «Pare che Leonardo da Vinci una volta abbia
ordinato ai suoi allievi di copiare una macchia sul muro di una chiesa. Persino in un
gabinetto, se osservi attentamente le pareti dove s’infiltra la pioggia, noterai che si sono
formati dei motivi bellissimi, così, da soli. Perché non provi a riprodurli fedelmente, vedrai
che riuscirai a fare qualcosa di valido».
«Mi stai di nuovo prendendo in giro?»
«Niente affatto, questa volta sono serissimo. Non è un’idea stupenda? È una cosa che
poteva dire Leonardo».
«Sì, è certamente un’idea straordinaria», ha ammesso con riluttanza il mio padrone.
Però finora non l’ho mai visto dipingere nel gabinetto.
Poi è successo che il Nero del vetturino ha cominciato a zoppicare, il suo pelo lucente è
diventato sempre più sbiadito e rado, gli occhi, che un tempo giudicavo più belli
dell’ambra, ora sono pieni di muco. Ciò che soprattutto mi ha sorpreso, più ancora del
deterioramento fisico, è la sua mancanza d’energia. L’ultima volta che l’ho incontrato nel
solito campo di tè, gli ho chiesto come stava.
«Ne ho abbastanza delle scoregge delle faine e del bastone del droghiere», mi ha
risposto.
Le foglie sparse a terra fra i pini sono di due o tre sfumature di rosso, come un antico
sogno, e anche le camelie bianche e viola vicino allo stagno hanno lasciato cadere tutti i
loro petali. Nella veranda sul lato sud, che misura meno di sei metri e mezzo, il sole
invernale cala in fretta, e ormai non passa quasi giorno senza che soffi un vento gelido. E
ho l’impressione che anche il mio sonnellino pomeridiano sia diventato molto più corto.
Il mio padrone va a scuola ogni giorno e appena torna, si chiude nello studio. Se
qualcuno viene a trovarlo dice che è stanco di fare l’insegnante. Non dipinge quasi mai. Ha
smesso di prendere il takadiastase perché - sostiene - è del tutto inefficace. Le bambine
non stanno ferme un momento e ora vanno all’asilo. Quando tornano a casa cantano delle
canzoni, eseguono delle danze e qualche volta mi prendono per la coda e mi sollevano in
aria.
Io non ingrasso perché leccornie non ne mangio, ma sono in condizioni passabili e tiro
avanti giorno dopo giorno senza zoppicare. Topi non ne prendo di certo. O-san continuo a
non sopportarla. Un nome ancora non me l’hanno dato, ma poiché lamentarsi non serve a
nulla, anche senza nome conto di restare per sempre in casa del professore.
2
Il primo giorno dell’anno ho acquisito una certa celebrità, e da allora posso andare in
giro a testa alta, cosa che mi fa molto piacere.
Il mattino di Capodanno1, dunque, il mio padrone ha ricevuto una cartolina illustrata.
Una cartolina d’auguri per l’anno nuovo da parte di un suo amico pittore, rossa nella parte
superiore e verde scuro in quella inferiore. Nel mezzo, dipinto a pastelli, un animale
accucciato. Chiuso nello studio, il padrone la guarda e la riguarda da tutti i lati e poi ne loda
il colore. Poiché ha ormai espresso la sua ammirazione, mi aspetto che la metta via, ma lui
ricomincia a studiarla da sopra e da sotto. Torcendosi tutto la osserva allungando le
braccia, come farebbe un vecchio che si sforzi di leggere il Libro della Divinazione, poi si
gira verso la finestra e di nuovo la guarda avvicinandola alla punta del naso. In questa
posizione gli tremano le ginocchia e io spero che smetta in fretta perché traballo. Quando
finalmente il tremito si calma un po’, lo sento dire a bassa voce: «Ma cosa mai avrà
voluto dipingere?» Ecco perché da qualche minuto si dà tanta pena: apprezza i colori della
cartolina, ma non capisce che animale rappresenti! Possibile che per lui sia tanto difficile?
Socchiudo discretamente un occhio e guardando con calma constato che è un mio ritratto,
senza ombra di dubbio. Il pittore non si è atteggiato ad Andrea del Sarto come il mio
padrone, ma ci sa fare sia con le forme che con i colori. Chiunque capirebbe subito che si
tratta di un gatto. E chiunque con l’occhio un po’ allenato realizzerebbe che fra tutti i gatti
sono proprio io, magnificamente raffigurato. Al pensiero che qualcuno possa tribolare
tanto per comprendere una cosa così evidente, provo una certa pena nei confronti degli
uomini. Potendo, vorrei spiegare al padrone che su quella cartolina hanno dipinto me. O,
se questo è al di sopra delle sue possibilità, per lo meno fargli capire che si tratta di un
gatto. Tuttavia, poiché il Cielo non ha voluto dotare gli esseri umani della capacità
di intendere il linguaggio felino, purtroppo devo rassegnarmi a lasciare le cose come
stanno.
Vorrei avvisare i lettori che l’abitudine degli uomini di chiamarmi «il gatto» in tono che
definirei spregiativo, come se fossi un’entità trascurabile, è davvero biasimevole. L’idea che
le mucche e i cavalli siano fatti di escrementi umani, e i gatti di cacca di mucche e di cavalli,
è diffusa anche fra insegnanti e affini, gente che si dà arie senza rendersi conto della
propria ignoranza. Siate obiettivi, è una cosa vergognosa. È vero che sono solo un gatto, ma
non è lecito trattarmi in maniera così sbrigativa. A chi ci osservi dall’esterno noi gatti
sembriamo tutti uguali, indifferenziati sia nella forma che nella sostanza, privi di una
personalità individuale, ma chi entrasse nel nostro mondo constaterebbe che è molto
complesso, che vi si può applicare alla lettera il detto umano «dieci individui, dieci
caratteri». Occhi, naso, pelo, zampe… siamo uno diverso dall’altro in tutto. Dalla piega dei
baffi al modo di drizzare le orecchie o di muovere la coda, non ci sono due gatti simili. Uno
è bello, l’altro è brutto, a uno piace una cosa, a un altro un’altra, c’è il gatto elegante e
quello volgare, le variazioni sono infinite, lo si può affermare con certezza. Ciononostante
gli esseri umani, i cui occhi sono voltati verso il cielo con il pretesto di elevare lo spirito,
disgraziatamente non riescono a distinguerci l’uno dall’altro nemmeno nelle più evidenti
caratteristiche fisiche, figuriamoci nel carattere. L’antico motto «i simili con i simili» è
1
Probabilmente Soseki si riferisce al Capodanno del calendario lunare, che cadeva verso metà febbraio e segnava l’inizio
della primavera, anche se questo calendario venne sostituito da quello gregoriano nel 1893.
proprio vero: i bottegai sono bottegai e i gatti sono gatti, e quindi il mondo felino lo
possono capire soltanto i gatti. Con tutto il loro progresso, gli uomini non arrivano a tanto,
perché in realtà sono molto meno avanzati di quanto credano, e questo rende le cose tanto
più difficili. Chi soprattutto non ha speranza è quel campione di insensibilità del mio
padrone, perché non si rende conto che per capirsi fino in fondo l’un l’altro, l’essenziale è
l’amore. Chiuso e scorbutico come un’ostrica, resta rintanato nel suo studio
disinteressandosi del mondo esterno. La cosa più comica è che si atteggia a saggio e
pretende di aver raggiunto una levatura spirituale che lo pone al disopra di tutti. La prova
che non l’ha raggiunta è la sua ottusità davanti al mio ritratto, averlo sotto gli occhi non gli
impedisce di dire: «Questo è il secondo anno di guerra contro la Russia, quindi può darsi
che il disegno rappresenti un grande orso2», un’evidente assurdità.
Me ne sto a occhi chiusi sulle sue ginocchia, assorto nei miei pensieri, quando la serva
viene a portare un’altra cartolina. Nell’illustrazione stampata quattro o cinque gatti
d’oltreoceano messi in fila stanno studiando, chi con una penna in mano, chi davanti a un
libro aperto. Uno di loro, discosto dagli altri, esegue una danza popolare sull’angolo della
scrivania. Al di sopra delle figure qualcuno ha scritto con inchiostro di china nerissimo: «Io
sono un gatto», e sul lato destro vedo persino un haiku: «Danzano i gatti, e leggono bei
libri, in primavera». La cartolina è stata inviata da uno degli ex allievi del mio padrone, e il
suo significato sarebbe chiaro a chiunque alla prima occhiata, ma quella zucca vuota di
nuovo sembra non coglierlo e la guarda con espressione perplessa, chiedendosi se per caso
non siamo nell’anno del gatto. Non vuole rendersi conto del livello di celebrità che ho
ormai raggiunto.
Poco dopo la serva porta una terza cartolina. Non illustrata, questa volta. Accanto agli
auguri per l’Anno Nuovo c’è la preghiera di «porgere i migliori saluti anche al gatto».
Poiché è scritto nero su bianco, il padrone, per quanto ottuso, non può fare a meno di
capire, si volta a guardarmi e fa «uhm», come se finalmente si accorgesse della mia
presenza. Il suo sguardo, diversamente dal solito, sembra contenere un accenno di rispetto.
Uno sguardo più che meritato, visto che è grazie a me se di colpo ha acquisito nuova
considerazione, lui che in precedenza non ha mai ricevuto alcun tipo di riconoscimento
dalla società.
In quel momento si sente tintinnare il campanello alla porta d’ingresso. Una visita, con
ogni probabilità, la serva andrà ad aprire. Ho deciso di non mostrarmi nell’ingresso, tranne
quando viene il garzone del droghiere, quindi rimango seduto sulle ginocchia del padrone
senza scompormi. Lui invece guarda verso la porta con aria preoccupata, quasi si attenda di
vedere entrare un usuraio. Credo che non gli piaccia ricevere le persone che vengono a
porgere gli auguri di Capodanno e detesti bere con loro una tazza di sake. Non ci sono
giustificazioni per una persona che raggiunge un tale livello di misantropia! Se le visite lo
importunano tanto, potrebbe uscire di casa fin dal mattino, ma non ne ha il coraggio. Il suo
carattere di ostrica si manifesta sempre più. Dopo qualche secondo la serva viene ad
annunciare che c’è il signor Kangetsu3. Credo sia un ex allievo del mio padrone, ora si è
laureato e ha reputazione di essere diventato più bravo di lui sotto ogni punto di vista. Non
so perché, ma viene spesso a trovarlo. E ogni volta si mette a fare discorsi
terribilmente romantici… che c’è una tale che lo ama, o che non lo ama, che la società lo
2
3
L’orso è il simbolo della Russia. Nel febbraio del 1904 il Giappone attaccò la base navale russa di Port Arthur, nel Mar del
Giappone, e la mise sotto assedio. La flotta baltica russa, accorsa in maggio in aiuto di Port Arthur attraverso lo stretto di Tsushima,
venne intercettata e distrutta dalla flotta giapponese. La vittoria del Giappone venne sancita nel settembre del 1905, su intercessione
di Theodore Roosevelt, dal trattato di Portsmouth.
Personaggio ispirato probabilmente a un discepolo di Soseki, studente presso la Facoltà di Fisica dell’Università Imperiale
di Tokyo, la stessa dove Soseki si era laureato e dove insegnava letteratura inglese all’epoca in cui scriveva Io sono un gatto. Nel
1907 Soseki abbandonò l’insegnamento per dedicarsi esclusivamente alla scrittura.
appassiona, o che la trova priva di interesse, poi se ne va. È incomprensibile che cerchi la
compagnia di un uomo tanto inaridito per parlare di questi argomenti, ma è ancora più
divertente vedere quell’ostrica ascoltare queste confidenze e dare ogni tanto il suo parere.
«È da parecchio tempo che non mi faccio vivo, professore. È che dalla fine dell’anno
sono stato molto impegnato e, anche se ho pensato non so quante volte di venire, i piedi
non mi portavano da questa parte…» dice Kangetsu giocherellando con le stringhe del suo
haori, come volesse alludere a qualcosa.
«E dov’è che ti portavano?» chiede serio il mio padrone, tirando l’orlo delle maniche del
suo haori di cotone nero con gli stemmi di famiglia. Maniche troppo corte, tanto che la
fodera spunta di un paio di centimetri da entrambe le parti.
«Be’, in un’altra direzione…» ride Kangetsu. A quel punto noto che gli manca un dente
davanti.
«Cos’è successo al tuo dente?» domanda il mio padrone cambiando argomento.
«È che… ho mangiato dei funghi in un ristorante».
«Cos’hai mangiato?»
«Quello che le ho detto, dei funghi. Quando ho cercato di staccare con i denti la cappella,
un incisivo si è spezzato».
«I vecchi bavosi si rompono i denti con un fungo. Forse potresti trarne ispirazione per
un haiku, ma di certo non potrà favorire le storie d’amore», commenta il mio padrone
dandomi pacche sulla testa con il palmo della mano.
«È il solito gatto, quello? Mi pare bello grasso, batte persino quello nero del vetturino, è
davvero magnifico!» Le lodi di Kangetsu sono del tutto esagerate.
«Può darsi che di recente sia diventato più grosso», risponde con un certo orgoglio il
mio padrone, dandomi altre pacche sulla testa. Le lodi le apprezzo, ma i colpi no, mi fanno
un po’ male.
«Anche l’altra sera abbiamo dato un piccolo concerto», racconta Kangetsu tornando
all’argomento di cui stava parlando.
«Dove?»
«Be’, questo non glielo posso dire. Ma è stato interessante, c’erano tre violini e un
pianoforte. Tre violini insieme, anche se non valgono granché, si lasciano ascoltare. Le altre
due violiniste erano donne, io mi sono unito a loro e per quel che mi riguarda penso di aver
suonato piuttosto bene».
«Uhm… e chi erano queste donne?» si informa il mio padrone con una punta d’invidia.
Ha sempre un’aria apatica e disinteressata, ma non è certo indifferente alle signore. Una
volta, in un libro straniero ha letto di un tale che si innamorava della maggior parte delle
donne che incontrava. L’autore diceva per scherzo che su dieci donne che vedeva passare
per la strada, si poteva calcolare che il protagonista si innamorasse di sette, ma il padrone
leggeva pieno d’ammirazione senza cogliere l’ironia, questo è il suo livello. Ora, il fatto che
un uomo tanto volubile conduca la vita segregata di un’ostrica è qualcosa che io,
gatto come sono, non riesco a capire. Alcuni sostengono che è a causa di una storia d’amore
finita male, altri ne attribuiscono la colpa alla sua dispepsia, altri ancora alla penuria
cronica di quattrini e alla patologica timidezza. Ma che importanza può avere il perché,
considerato che non è uomo da esercitare qualche influenza sulla storia dell’era Meiji4? La
cosa certa è che si informa con invidia sulle donne di cui parla Kangetsu, il quale, l’aria
4
Periodo in cui regnò l’imperatore Meiji; va dal 1868 - anno in cui, con la destituzione del governo degli shogun Tokugawa
e la restaurazione del potere dell’imperatore, si pose fine all’epoca Edo - al 1912. Con l’era Meiji il Giappone si apre all’Occidente
dopo tre secoli di chiusura, avviandosi a diventare una nazione moderna, e nuove idee, tecniche, mode affluiscono nel paese. Molti
intellettuali di quest’epoca, fra cui Soseki, furono lacerati dal conflitto fra l’attaccamento alla tradizione e l’aspirazione alla
modernità che si fece sentire in tutti i campi, soprattutto in quello letterario.
divertita, prende con i bastoncini una fettina di kamaboko e ne morde la metà con i denti
davanti. Temo che ne perda un altro, ma questa volta non gli succede nulla.
«Sono tutte e due ragazze di buona famiglia, lei non le conosce», risponde con una certa
freddezza.
«Davv…» inizia a dire il padrone, ma il resto se lo tiene per sé. A questo punto Kangetsu
ritiene che sia ora di ritirarsi.
«È una bellissima giornata, se ha un po’ di tempo, perché non viene a fare una
passeggiata con me?» propone. «In città c’è grande animazione per la caduta di Port
Arthur».
Il mio padrone, che mi pare molto più interessato alle due violiniste che alla caduta di
Port Arthur, ci pensa su qualche secondo, poi prende una decisione e si alza di colpo.
«Quand’è così, andiamo!» esclama, e si avvia senza cambiarsi l’haori di cotone nero e il
vecchio kimono imbottito di seta tessuta a mano che indossa da vent’anni, un ricordo del
fratello maggiore. Un kimono può essere tessuto a mano quanto si vuole, ma difficilmente
sopporta di essere portato per tanto tempo. In più punti è talmente liso che guardandolo
controluce si vedono le cuciture delle pezze applicate all’interno. Lui in fatto
di abbigliamento non conosce né feste di fine anno né Capodanno, non fa distinzione fra gli
abiti da portare in casa e quelli da indossare fuori. Quando deve uscire, infila le mani nelle
maniche ed esce. Può darsi che non possieda dei kimono più belli, o che li possieda ma non
abbia voglia di cambiarsi, non lo so. In ogni caso non penso che il suo comportamento sia
dovuto a una delusione d’amore.
Quando i due sono usciti, mi sono preso la libertà di mangiare il kamaboko lasciato da
Kangetsu. Ormai non mi considero più un gatto ordinario. Valgo almeno quanto i gatti di
Momokawa Joen5, o quello che rubava i pesci rossi cantato da Gray 6. Quanto al Nero del
vetturino, mi sono reputato superiore a lui fin dall’inizio. Vorrei vedere che qualcuno mi
rivolgesse delle critiche soltanto perché ho mangiato una fettina di kamaboko. Senza
contare che l’abitudine di mangiare qualcosetta di nascosto tra un pasto e l’altro non
l’abbiamo solo noi gatti. O-san, per esempio, quando la padrona è assente non fa altro che
ingozzarsi di dolci e altre cibarie. E non solo O-san, anche le bambine, di cui la padrona
decanta sempre l’educazione raffinata, hanno questo vizio. Quattro o cinque giorni
fa quelle due sciocche si sono svegliate presto e, mentre i genitori stavano ancora
dormendo, si sono messe a tavola una di fronte all’altra. Il mattino hanno l’abitudine di
mangiare parte del pane destinato al mio padrone, cosparso di zucchero, e anche quel
giorno la zuccheriera era sul tavolo con un cucchiaino piantato dentro. Non avendo a
disposizione il pane su cui di solito sparge lo zucchero, la bambina più grande ne ha preso
una cucchiaiata e l’ha messa nel suo piatto. La più piccola l’ha immediatamente imitata, ha
preso un’uguale quantità di zucchero e anche lei se l’è messa nel piatto. Per un po’ sono
rimaste a guardarsi, poi di nuovo la maggiore ha preso una cucchiaiata di zucchero e se l’è
messa nel piatto. Subito la sorellina ha fatto la stessa cosa. Hanno continuato così, una
cucchiaiata la maggiore, una cucchiaiata la minore. Ogni volta che la prima portava la
mano alla zuccheriera, la seconda la imitava. E così nei loro piatti lo zucchero
andava accumulandosi formando due montagnole, mentre la zuccheriera si svuotava, ma a
quel punto il padre è uscito dalla stanza da letto strofinandosi gli occhi assonnati e ha
rimesso al suo posto lo zucchero che le figlie avevano estratto con tanta fatica. Assistendo a
simili episodi, ne deduco che l’egoismo permette forse agli esseri umani di raggiungere una
maggiore equità, ma quanto a saggezza noi gatti siamo molto superiori. Quella volta avrei
5
6
Cantastorie famoso per i suoi racconti sui gatti.
Thomas Gray (1716-1771), poeta inglese. Scrisse Ode on the Death of a Favourite Cat, Drowned in a Tub of Gold Fishes.
voluto consigliare alle bambine di mangiare lo zucchero subito, invece di accumularne una
tale quantità, ma poiché il nostro linguaggio è incomprensibile alle persone, purtroppo ho
potuto solo restare a guardare in silenzio dall’alto della credenza.
Il mio padrone, dopo essere andato chissà dove con Kangetsu, è tornato a casa tardi e il
mattino sono già le nove quando si mette a tavola per fare colazione. Osservandolo dalla
mia solita postazione sulla credenza, vedo che mangia il suo zoni senza dire una parola. Si
serve e si riserve. I mochi sono piuttosto piccoli, lui ne prende sei o sette, ma l’ultimo lo
lascia nella ciotola senza toccarlo e posa i bastoncini dicendo che ne ha abbastanza. Un
comportamento da bambino viziato che non permetterebbe a nessun altro membro della
famiglia, ma poiché si compiace di ostentare i suoi privilegi di padrone, vedere il cadavere
bruciacchiato di un mochi nel torbido brodo lo lascia indifferente. Sua moglie prende dal
mobiletto le pillole di takadiastase e le mette sul tavolo.
«Non servono a niente, quelle, non le voglio», dice lui.
«Però ti fanno molto bene, quando mangi troppi farinacei dovresti prenderle», insiste
lei.
«Sono del tutto inutili, sia per i farinacei che per qualunque altra cosa», continua
ostinato.
«Non hai la minima costanza», borbotta la moglie.
«Non è una questione di costanza, è che quella medicina non serve a niente».
«Allora perché fino a poco fa dicevi che faceva meraviglie e la prendevi ogni giorno?»
«Perché per un certo periodo ha fatto effetto, ma adesso non più», ribatte pronto.
«Se interrompi la cura tutti i momenti, anche la medicina migliore non può fare effetto.
Se non si ha un po’ di perseveranza, la dispepsia, diversamente dalle altre malattie, non
guarisce», dice la moglie cercando l’appoggio di O-san che sta portando un vassoio.
«È proprio così», commenta la serva fermandosi e prendendo immediatamente le parti
della padrona. «Se non la prova per un po’ di tempo, come fa a sapere se è una medicina
buona o no?»
«Fa lo stesso, tanto non la prendo e basta. Cosa ne capite voi donne? State zitte!»
«D’accordo, visto che sono una donna…» fa la padrona mettendo la scatola di
takadiastase davanti al marito per farglielo prendere a tutti i costi. Lui si alza senza una
parola e si ritira nello studio. La padrona e O-san si guardano e scoppiano a ridere.
Nei momenti come questo, se mi azzardo a seguire il padrone e salirgli sulle ginocchia,
mal me ne incoglie, così faccio il giro dal giardino, mi metto nella veranda e da uno strappo
negli shoji guardo all’interno dello studio. Vedo che ha aperto un libro scritto da un tale
Epitteto e lo sta leggendo. Se il livello di comprensione è quello solito, ci sarà davvero da
complimentarsi. Dopo cinque o sei minuti lo posa sulla scrivania. Me l’aspettavo e
continuo a osservarlo, questa volta estrae da un cassetto il suo diario e inizia a scrivere:
Con Kangetsu sono andato in giro per Nezu, Ueno, Ikenohata e Kanda. A Ikenohata delle
geisha che indossavano dei kimono primaverili dal bordo decorato di motivi giocavano a volano
davanti alle case da tè. I kimono erano belli, ma le loro facce piuttosto brutte. Mi ricordavano il
mio gatto.
Che bisogno aveva mai di portare me ad esempio di bruttezza? Se andassi dal barbiere
Kita e mi facessi radere, non sarei tanto diverso da una persona. È per questa loro superbia
che gli uomini sono insopportabili.
Quando abbiamo svoltato all’angolo di Hotan abbiamo visto arrivare un’altra geisha. Questa era
una donna snella con spalle dalla linea bellissima. Anche il modo in cui indossava il kimono viola
era molto elegante. Stava dicendo: «Scusa per la scorsa notte, Gen-chan… è che avevo troppi
impegni», e sorrideva mostrando i denti candidi. La voce però era roca come quella di un corvo e
riduceva il suo fascino, al punto che mi è passata la voglia di voltarmi per vedere che tipo d’uomo
fosse quello che aveva chiamato Gen-chan. Ho continuato per la mia strada senza nemmeno tirar
fuori le mani dalle maniche del kimono. Quanto a Kangetsu, sembrava piuttosto eccitato.
Non c’è nulla di più difficile da capire della psicologia umana. Non riesco assolutamente
a rendermi conto se in questi giorni il mio padrone sia di cattivo umore, se invece sia
allegro, o se cerchi parole rassicuranti negli scritti di qualche vecchio filosofo. Non ho la
minima idea di cosa gli passi per la mente, se si faccia beffe della società umana o desideri
avere rapporti con i suoi simili, se sia irritato per qualche ragione banale o ancora se si
tenga al di sopra di ogni preoccupazione mondana. In queste cose noi gatti siamo molto più
semplici. Se abbiamo fame mangiamo, se abbiamo sonno dormiamo, quando ci arrabbiamo
andiamo su tutte le furie, quando piangiamo lo facciamo con tutta l’anima. Tanto per
cominciare, non teniamo cose inutili come un diario. Perché non ne abbiamo bisogno. È
probabile che le persone che hanno due facce, come il padrone, sentano la necessità
di esternare gli aspetti del proprio carattere che non vogliono mostrare a nessuno
scrivendo un diario nell’intimità della loro stanza, ma per quanto concerne noi gatti, le
nostre quattro posture fondamentali camminare, stare fermi, stare seduti e stare sdraiati,
oltre a urinare e defecare - costituiscono già in sé un autentico diario, quindi siamo
esonerati dalla seccatura di tenerne uno per conservare la nostra identità. Se uno ha il
tempo di scrivere un diario, tanto vale che se ne stia a dormire nella veranda.
Abbiamo cenato in un ristorante di Kanda. Ho bevuto due o tre tazze di sake di marca Masamune,
e stamattina il mio stomaco era in ottime condizioni. Credo che per chi è debole di stomaco come me,
bere alcol a cena sia la cosa migliore. Il takadiastase invece non serve a niente. A niente, checché
ne pensino gli altri. Possono dire quello che vogliono, se una medicina non ha effetto, non ha effetto.
Incredibile la disinvoltura con cui discredita il takadiastase. Si ha l’impressione che stia
litigando con se stesso. Sta ancora sfogando il malumore di stamani. Può darsi che la vera
funzione dei diari che tengono gli esseri umani sia proprio questa.
L’altro giorno il signor XX mi ha detto che saltare la colazione fa bene allo stomaco, così per due
o tre mattine non ho mangiato nulla, ma non ha funzionato, il mio intestino non faceva altro
che protestare rumorosamente. Il signor Y invece mi ha fortemente sconsigliato di mangiare
alimenti sottaceto. A sentire lui sono all’origine di ogni malattia dello stomaco. Quindi eliminandoli si
rimuovono le cause della malattia e la guarigione totale è garantita, questa è la sua teoria. Allora
per una settimana non ho toccato sottaceti, ma non vedendo risultati, di recente ho ripreso a
mangiarne. Il signor Z invece dice che basta fare dei massaggi intestinali. Non dei massaggi
qualunque, però. Uno o due massaggi con il metodo tradizionale Minagawa sono sufficienti a curare
all’origine la maggior parte delle malattie dello stomaco. Un saggio confuciano come Yasui Sokuken li
apprezzava molto, e pare che persino un eroe come Sakamoto Ryoma ogni tanto se li facesse fare,
quindi sono andato subito da un massaggiatore di Kaminegishi per provare anch’io. Costui mi ha
detto che, perché la cura fosse efficace, prima doveva massaggiarmi le ossa in modo da capovolgere
completamente la posizione degli intestini. Insomma, questi massaggi si sono rivelati una vera
tortura. Dopo mi sentivo molle come uno straccio, mi pareva di soffrire di letargia cronica, così non ci
sono più tornato. Il giovane A mi ha detto che non devo assolutamente mangiare cibi solidi, così per
tutta una giornata ho bevuto soltanto latte. Risultato: rumorosi rimescolii nelle mie viscere, che mi
davano la sensazione di essere inondate. Non ho chiuso occhio per tutta la notte. Il signor B sostiene
che per fare andare a posto da soli gli intestini basta smuoverli respirando con il diaframma, e mi ha
consigliato di provare. Per un po’ l’ho fatto, poi ho avvertito nella pancia spostamenti sgradevoli che
mi hanno allarmato. Comunque ogni tanto ci penso e mi ci applico con attenzione, ma dopo cinque o
sei minuti me ne dimentico. E se cerco di ricordarmene, il pensiero del mio diaframma mi impedisce
di leggere o di scrivere. Meitei, l’esteta, vedendomi intento a respirare con il diaframma mi ha
detto piuttosto seccamente di smetterla perché i dolori del parto non sono cosa da uomini, così ora
ho smesso. Il dottor C sostiene che mangiare soba fa bene, così ho mangiato chili di pasta, in salsa di
soia o in brodo, ma mi ha soltanto fatto andare di corpo senza avere alcun effetto benefico.
Ho provato ogni metodo possibile per curare il mio vecchio mal di stomaco, tutto inutile. Soltanto
quelle tre tazze di sake che ho bevuto ieri sera in compagnia di Kangetsu mi hanno fatto davvero
bene. D’ora in poi a cena ne berrò due o tre tazze.
Anche questo proposito non verrà mantenuto a lungo. Lo spirito del mio padrone, lungi
dall’essere stabile, è mobile come gli occhi dei gatti. Qualunque cosa intraprenda, non
persevera. Inoltre, benché nel diario non faccia che preoccuparsi per il mal di stomaco, in
pubblico finge di essere stoico. È davvero ridicolo. Poco tempo fa è venuto a trovarlo un
suo amico, un certo professor Tal dei Tali, il quale sosteneva che in qualche modo la
malattia è il risultato dei peccati della persona che ne soffre e dei suoi antenati. Sembrava
aver studiato a fondo la questione perché esponeva in modo chiaro, con logica rigorosa.
Una dissertazione magnifica. Disgraziatamente un uomo come il mio padrone non ha né
l’intelligenza né l’istruzione necessarie per contestare una teoria tanto ben concepita.
Tuttavia, dato che è lui quello che soffre di mal di stomaco, ha cercato bene o male
di salvare la faccia trovando ogni sorta di scuse.
«La tua spiegazione è interessante, ma lo sapevi che Carlyle era debole di stomaco?» ha
detto del tutto a sproposito, come se il fatto di soffrire di mal di stomaco come Carlyle fosse
motivo di gloria.
«Se Carlyle era malato di stomaco, non significa che tutti i malati di stomaco siano
necessariamente dei Carlyle», è stata la pronta risposta del suo amico. Mortificato, il mio
padrone è stato zitto.
È gonfio di vanità, però preferirebbe non soffrire di dispepsia, quindi il suo proposito di
cominciare da stasera a bere sake è davvero comico. A ripensarci ora, il fatto che si sia
ingozzato di mochi a colazione, probabilmente era dovuto alla bevuta di ieri sera con
Kangetsu. Vorrei provare ad assaggiarli anch’io.
Io sono un gatto, però mangio di tutto. Non ho l’audacia di fare spedizioni in capo al
mondo, di spingermi fino al negozio del droghiere come il Nero del vetturino, né la mia
posizione sociale mi permette i lussi di Micetta, la gatta della maestra di koto a due corde
che abita nella stradina qui dietro. Di conseguenza non faccio tante storie. Mangio perfino
il pane che lasciano cadere le bambine e il ripieno di fagioli dei dolci. I sottaceti li trovo
disgustosi, ma tanto per provare una volta ho mangiato due fettine di rafano in salamoia.
La cosa strana è che quasi tutti i cibi, una volta che li assaggi, non sono male. Un gatto che
vive in casa di un professore non può permettersi il lusso di fare lo schizzinoso. Il padrone
una volta ha raccontato che in Francia c’era uno scrittore che si chiamava Balzac. Pare che
costui fosse uno stravagante: non riguardo al cibo ma, in quanto scrittore, nella creazione
letteraria. Balzac un giorno, volendo dare un nome al personaggio di un romanzo, si mise a
pensarne diversi, ma non ne trovava nessuno che lo convincesse. A un certo punto ricevette
la visita di un amico e insieme a lui andò a fare una passeggiata. Balzac, che aveva
trascinato fuori l’amico tacendogli il suo vero scopo, pensava solo a trovare il nome che
tanto lo ossessionava, e camminando per la strada non faceva altro che guardare le insegne
dei negozi. Però non vedeva un nome che gli andasse a genio. Continuava ad
avanzare tirandosi dietro l’amico senza badare minimamente a lui. E quello lo seguiva
senza capirci nulla. In conclusione, camminarono dal mattino fino a sera perlustrando
tutta Parigi. Al ritorno, tutt’a un tratto Balzac posò gli occhi sull’insegna di un sarto.
Marcus, c’era scritto. «Eccolo, l’ho trovato!» esclamò Balzac battendo le mani. «È il nome
ideale, Marcus. Lo faccio precedere da una zeta, ed è perfetto. La zeta è indispensabile: Z.
Marcus. Perfetto. Non c’è niente da fare, i nomi che penso io suonano sempre falsi, non
convincono. Finalmente ne ho trovato uno che mi piace», diceva tutto contento,
dimenticando il disturbo che aveva arrecato all’amico.
Era stato necessario perlustrare tutta Parigi per dare un nome al personaggio di un
romanzo, una bella fatica davvero. A questi livelli la stravaganza può essere geniale, ma per
un gatto nella mia situazione, un gatto che ha un padrone con il carattere di un’ostrica, una
tale condotta non sarebbe concepibile. La mia capacità di mangiare di tutto, purché sia
commestibile, la devo alle circostanze in cui mi trovo. Quindi anche il desiderio che provo
ora di assaggiare un mochi arrostito non è certo un capriccio, nasce dalla convinzione che
se c’è del cibo a disposizione non bisogna lasciarselo sfuggire, e dal pensiero che il mochi
lasciato dal mio padrone forse è ancora in cucina… andiamo a vedere.
Come ho già notato stamattina, il mochi, sempre dello stesso colore, è rimasto attaccato
al fondo della ciotola. Devo confessare che non ne ho mai assaggiato uno. A guardarlo
sembra buono, ma mi fa un po’ senso. Con la zampa anteriore gratto leggermente la foglia
di verdura che lo ricopre. Le mie unghie si conficcano nel mochi e diventano appiccicose.
Provo ad annusarle, l’odore è lo stesso che si sente quando qualcuno versa in una scodella
il riso rimasto attaccato alla pentola. Incerto se mangiare o no, mi guardo intorno. Fortuna
o sfortuna che sia, non c’è nessuno. O-san, con l’espressione indifferente che ha sempre,
estate e inverno, sta giocando a volano. Le bambine stanno cantando Cosa racconti
signor Coniglio? nella stanza in fondo. Se devo tentare il colpo, è il momento. Non posso
lasciarmi sfuggire quest’occasione, passerei un altro anno senza conoscere il gusto di un
mochi. A questo punto, benché sia soltanto un gatto, intuisco una verità profonda: è
l’occasione che induce tutti gli esseri viventi a fare quel che non desiderano. Perché a essere
sinceri non è che abbia tutta questa voglia di assaggiare il mochi: più lo guardo in fondo
alla ciotola, più mi fa senso, e mangiarlo non mi attira per niente. Se in questo momento Osan aprisse di colpo la porta, o se sentissi avvicinarsi il rumore dei passi delle bambine,
abbandonerei l’impresa senza rimpianti, però la curiosità per i mochi arrostiti mi
tormenterebbe per tutto l’anno. In ogni caso non viene nessuno, è inutile che cerchi di
prendere tempo, non viene nessuno. E provo un impulso irresistibile a mangiare in fretta,
in fretta! Indugio ancora a osservare il fondo della ciotola con la speranza che finalmente
arrivi qualcuno. Invece niente, nessuno. Ormai non posso fare altro che azzannare questo
dannato mochi. Alla fine, spingendo forte il muso contro il fondo della ciotola, ne mordo
un angolo. Stupore! Di solito se mordo con decisione una cosa questa si spezza, invece ora,
quando faccio per staccare i denti, non ci riesco. Riprovo a mordere, ma i denti non si
spostano. Mi accorgo finalmente che i mochi sono una diavoleria, ma è troppo tardi.
Quando un uomo cade in una palude, più si dibatte per uscirne più vi sprofonda, e allo
stesso modo più mordo meno riesco ad aprire la bocca e a staccare i denti. Fanno presa, ma
non posso assolutamente estrarli dall’impasto. Una volta il professor Meitei, l’esteta, ha
accusato il mio padrone di essere un uomo tutto d’un pezzo, e penso che avesse
perfettamente ragione. Questo mochi è come lui, tutto d’un pezzo. Mi dico che, anche
continuando a provare fino alla fine del tempo, non otterrei alcun risultato, è come
dividere dieci per tre. Nel bel mezzo di quest’agonia scopro un’altra verità: tutti gli esseri
viventi sanno per istinto cosa è loro confacente e cosa no. Ne ho già scoperte due, ma non
ne traggo gioia alcuna perché sono sempre attaccato al mochi. I miei denti sono
prigionieri dell’impasto e se cerco di estrarli mi fanno male. Se non mi sbrigo a liberarmi e
scappare, arriverà O-san. Anche le bambine sembrano aver smesso di cantare, di sicuro
verranno di corsa in cucina. Al colmo dell’angoscia provo a muovere la coda, ma non serve,
provo a drizzare e abbassare alternativamente le orecchie, nessun effetto. Poi ci ripenso e
mi dico che la coda e le orecchie non hanno alcuna relazione con il mochi., quindi agitare
l'una o muovere le altre è perfettamente inutile, tanto vale smettere. Alla fine mi viene
l’idea di usare le zampe anteriori per spingere giù il mochi. Alzo per prima la destra e mi
strofino il muso. Il mochi non si sposta di un millimetro. Poi allungo la sinistra e provo a
tracciare intorno alla bocca rapidi cerchi. Nemmeno questo rito spezza il maleficio.
Dicendomi che l’importante è conservare la calma, uso alternativamente la destra e la
sinistra, ma il risultato è che i miei denti sprofondano ancora di più nel mochi. Sempre più
irritato, uso le due zampe insieme. Ed ecco che accade il prodigio, riesco a stare in piedi
sulle zampe posteriori. Che strano, ho l'impressione di aver trasceso la mia natura felina…
Ma che importanza può avere in questo momento che sia ancora un gatto o meno! Prendo
a strofinarmi tutta la faccia come un pazzo, determinato a fare qualunque cosa pur di
spezzare il maleficio. Il movimento frenetico delle zampe anteriori rischia di sbilanciarmi e
farmi cadere. Ogni volta che sono sul punto di cadere devo ritrovare l’equilibrio
sulle zampe posteriori, e non posso restare fermo nello stesso punto. Prendo a saltare da
una parte all’altra della cucina. Sono sempre io, eppure sto in piedi con l’abilità di un
funambolo. La terza verità mi appare allora chiarissima: in situazione di grande pericolo, si
riescono a superare le proprie normali facoltà. È opera della Divina Provvidenza. Mentre
lotto strenuamente contro il maleficio del mochi - per fortuna con l’aiuto divino - sento un
rumore di passi, qualcuno sta venendo dall’interno della casa. Se arriva qualcuno a questo
punto sono spacciato, penso, e riprendo a girare ballando per tutta la cucina. Il rumore di
passi va avvicinandosi. Purtroppo la Divina Provvidenza non basta. Le bambine finiscono
per trovarmi.
«Presto, il gatto ha mangiato lo zoni e sta ballando!» si mettono a gridare. La prima a
sentirle è O-san. Abbandona subito racchetta e volano e si precipita in cucina.
«Oh, questa poi!» esclama.
«Ma è tremendo, questo gatto!» sentenzia la padrona nel suo kimono di crespo di seta.
Persino il padrone emerge dallo studio e dice: «Quant’è cretino!» Solo le bambine
continuano a gridare: «Che bello, che bello!»
Poi tutti insieme, come a un segnale, scoppiano a ridere. Io provo rabbia e dolore, ma
non posso smettere di ballare, non ce la faccio più! Alla fine, quando le risate si calmano, la
bambina di cinque anni fa: «Certo che esagera, questo gatto, mamma».
E tutti riprendono a ridere, come un’onda che torni alla carica. Sono stato spesso
testimone dell’insensibilità degli esseri umani, ma non ho mai provato un tale
risentimento. Poiché la Divina Provvidenza si è dileguata, torno a mettermi a quattro
zampe secondo la mia abitudine, roteando gli occhi per lo stupore e l’umiliazione.
«Be’, aiutalo a liberarsi di quel mochi», ordina allora il padrone a O-san, quasi gli
dispiacesse vedermi morire sotto i suoi occhi. O-san guarda la padrona con l’aria di
chiederle: perché non lo lasciamo ballare ancora un po’? La padrona non dice nulla, forse
vorrebbe godersi ancora la scena, ma non fino al punto di vedermi morire.
«Se non lo liberi in fretta muore, sbrigati!» ordina di nuovo il padrone. Allora O-san,
quasi venisse bruscamente destata da un sogno in cui stava mangiando qualche leccornia, a
malincuore afferra il mochi e me lo stacca dai denti. Pur non essendo Kangetsu, ho temuto
di perdere tutti quelli davanti. Un dolore indescrivibile, insopportabile, i denti che
affondavano nel mochi sono stati strappati dall’impasto senza riguardo né pietà.
Sperimento sulla mia pelle una quarta verità: il benessere si raggiunge solo attraverso la
sofferenza. Quando mi guardo intorno intontito, tutta la famiglia si è già ritirata nelle
stanze interne.
Dopo una simile figuraccia, sopportare lo sguardo di O-san che mi tiene d’occhio è una
punizione troppo severa. Per rinfrescarmi lo spirito decido di andare a trovare Micetta, la
gatta della maestra di koto a due corde, ed esco dalla cucina passando dal retro. Micetta nel
vicinato è una famosa bellezza. Anche se sono indubbiamente un gatto, non sono
insensibile agli affetti. Quando ho il morale a terra a forza di vedere la faccia scontenta del
padrone e di sopportare i rimproveri di O-san, vado sempre a trovare questa amica con la
quale discorriamo di tante cose. E parlando il mio spirito si rasserena, riesco a dimenticare
le preoccupazioni, la sofferenza, qualunque cruccio, mi sento rinascere. L'influenza
femminile è veramente qualcosa di prodigioso. Dà una fessura nella siepe di cipressi getto
un’occhiata intorno per controllare se Micetta c’è, e la vedo seduta compostamente nella
veranda, con un collarino nuovo in occasione del Capodanno. La curvatura della sua
schiena è di Un avvenenza indicibile. Ha in sé tutta la bellezza che può contenere una linea
curva. Il modo in cui tiene arrotolata la coda, in cui piega le zampe, il languore con cui
muove a piccoli colpi le orecchie sono uno spettacolo di ineffabile leggiadria. Il piacere di
stare seduta nella veranda calda e soleggiata le fa assumere un atteggiamento di calma e di
compostezza, ma il suo pelo folto e morbido come velluto ondeggia sinuoso alla brezza
leggera riflettendo la luce primaverile. Per un po’ rimango a contemplarla in ammirazione,
finché torno in me e le faccio segno con la zampa davanti.
«Signorina Micetta, signorina Micetta!»
«Oh, professore», fa lei scendendo dalla veranda. Il campanellino attaccato al collare
rosso tintinna. Che suono gradevole, penso, devono averglielo messo per Capodanno…
Intanto lei mi viene vicino.
«Tanti auguri, professore», dice spostando la coda a sinistra.
Noi gatti, quando ci salutiamo, prima teniamo la coda dritta come un bastone, poi la
giriamo svelti a sinistra. Nel vicinato è solo lei a darmi del «professore». Io, come ho già
detto, non ho un nome, ma poiché vivo in casa di un insegnante, Micetta per rispetto è
tanto gentile da chiamarmi così. Confesso che quest’appellativo non mi dispiace affatto.
«Tanti auguri a lei. Ma è splendidamente agghindata!» le rispondo prontamente.
«Sì, alla fine dell’anno la mia padrona mi ha comprato questo, è delizioso, non trova?»
chiede Micetta facendo tintinnare il campanellino.
«Ha proprio un suono stupendo. In vita mia non ho mai visto qualcosa di tanto
leggiadro».
«Non mi lusinghi, li hanno tutti, questi campanellini». E di nuovo lo fa tintinnare. «Che
bel suono, vero? È una gioia per le orecchie». Seguono altri scampanellii ancora più briosi.
«Ho l’impressione che la sua padrona le voglia molto bene», osservo, lasciando trapelare
una punta d’invidia per la sua felice condizione, tanto diversa dalla mia. Ma Micetta è senza
malizia.
«Infatti, mi tratta come se fossi sua figlia», risponde ridendo innocentemente.
Chi l’ha detto che i gatti non possono ridere? Gli esseri umani pensano di essere le
uniche creature al mondo capaci di farlo, ma sbagliano. Quando rido le mie narici formano
un triangolo e mi trema il pomo d’Adamo, per questo loro non se ne accorgono.
«Ma che tipo di persona è, la sua padrona?»
«Un tipo strano. È un’insegnante, una maestra di koto a due corde».
«Questo lo so anch’io. Ma come nasce? Sicuramente viene da una famiglia molto su».
«Infatti».
Intanto al di là degli shoji la maestra ha iniziato a suonare il koto:
Il piccolo pino
mentre ti aspetta…
«Ha una bella voce, non trova?» fa Micetta tutta fiera.
«Sì, mi pare di sì, ma non è che ci capisca granché, io, di queste cose. Come si chiama
questa canzone?»
«Questa che sta cantando? Mah, un nome deve averlo… alla padrona piace moltissimo.
Si figuri che ha già sessantadue anni. Li porta bene, vero?» Se una persona vive fino a
sessantadue anni, deve essere per forza in forma eccellente.
«In effetti», ammetto. Una risposta un po’ stupida, ma non me ne vengono in mente
altre.
«Ora non si direbbe, ma una volta la sua famiglia era molto, molto su. Me lo ripete di
continuo».
«Veramente? Che cos’erano?»
«Lei è la figlia del nipote della suocera della sorella minore del segretario privato della
consorte del tredicesimo shogun».
«La che… ?»
«La figlia del nipote della suocera…»
«Un momento, un po’ più piano. La figlia della suocera della sorella…»
«No. La figlia del nipote della suocera della sorella…»
«… del segretario privato, ho capito, ho capito».
«Bene».
«Allora, ricapitoliamo: è la figlia del nipote della suocera del segretario privato…»
«Della sorella del segretario privato».
«Giusto, giusto, mi scusi. La figlia della suocera della sorella…»
«Del nipote della suocera della sorella».
«La figlia del nipote della suocera della sorella?»
«Sì. Le è chiaro adesso?»
«No, è troppo complicato, non mi ci raccapezzo. In sostanza che grado di parentela ha
con il tredicesimo shogun?»
«Certo che ha la testa dura, anche lei. Se non faccio che ripeterle che è la figlia del nipote
della suocera della sorella del segretario della sua consorte!»
«Questo l’ho capito perfettamente».
«Allora se l’ha capito che problema c’è?»
«Nessuno». Mi arrendo, che altro posso fare? A volte siamo obbligati a dire delle piccole
bugie.
In quel momento al di là degli shoji la musica cessa bruscamente e si sente la voce della
maestra:
«Micetta? Micetta? La pappa!»
«Oh, la padrona mi sta chiamando, devo andare, le dispiace?» fa Micetta tutta contenta.
A cosa servirebbe dirle che mi dispiace infinitamente? «Venga di nuovo a trovarmi»,
aggiunge, e corre via fino al limite del giardino facendo tintinnare il campanellino. Poi
torna indietro. «Ha una pessima cera. Le è successo qualcosa?» mi chiede in tono
preoccupato. Non posso certo raccontarle che ho mangiato un mochi e mi sono messo a
ballare.
«No, no, niente di particolare… riflettendo su un argomento difficile mi è venuto un po’
di mal di testa, allora sono venuto qui, ho pensato che facendo due chiacchiere con lei
sarebbe passato».
«Ah, davvero? Be’, si riguardi. Arrivederci», dice Micetta un po’ rattristata, ridandomi
l’energia che avevo prima dell’avventura del mochi. Adesso sono di ottimo umore. Decido
di tornare a casa passando dal solito campo di tè. Mi avvio calpestando la brina che si sta
sciogliendo, e quando mi affaccio al buco nella staccionata di bambù vedo il Nero del
vetturino di nuovo sui crisantemi secchi: sta sbadigliando con la schiena sollevata ad arco.
Ormai non ho più paura quando lo incontro, ma parlare con lui mi annoia, quindi faccio
finta di niente e cerco di tirare diritto. Ma non è nel carattere del Nero sopportare in
silenzio di venire snobbato.
«Ehi, tu, Senzanome! Abbiamo la puzza al naso di questi tempi? Lo so che mangi la
minestra di un professore, ma non è il caso di darsi tante arie. Non è bello prendere gli
amici per cretini, sai?»
Pare che il Nero non sia al corrente del fatto che ormai sono una celebrità. Vorrei
poterglielo spiegare, ma non credo sia in grado di capire, meglio salutarlo, poi scusarmi e
andarmene il più in fretta possibile.
«Congratulazioni, caro il mio Nero. Mi sembri in ottima forma, come sempre», dico
drizzando la coda e piegandola a sinistra. Il Nero rimane con la coda dritta, senza
rispondere al mio saluto.
«Cosa c’è da congratularsi? Per l’Anno Nuovo? Tanto sei un cretino beato tutto l’anno,
tu! Attento a come parli, faccia di mantice!»
Quest’ultima espressione dev’essere un insulto, ma non so cosa voglia dire.
«Scusa, ti spiacerebbe dirmi cosa significa "faccia di mantice"?»
«Come? Brutto come sei, mi chiedi cosa significa? Lo vedi che sei un cretino beato!»
L’espressione "cretino beato" è quasi poetica, ma forse ancora più offensiva di «faccia di
mantice». Vorrei che mi venisse chiarito il senso di entrambe, a titolo d’informazione, ma
dal Nero non c’è da aspettarsi risposte chiare, così rimango semplicemente in piedi davanti
a lui, un po’ a disagio. Ma proprio in quel momento tutt’a un tratto si sente la padrona del
Nero gridare:
«Dov’è finito il salmone che avevo messo sulla mensola? Povera me! Di sicuro l’ha preso
di nuovo quel delinquente del Nero! Diavolo d’un gatto, quando torna gli faccio vedere io!»
La sua voce roca fa tremare spudoratamente l’aria quieta, quasi primaverile e inonda di
volgarità questo momento di pace in cui non si sentono nemmeno le foglie degli alberi
stormire al vento. Il Nero, per mostrare che le urla della padrona non gli fanno né caldo né
freddo, con aria sprezzante spinge in avanti il mento quadrato e mi fa un cenno come per
chiedermi: hai sentito che baccano? Solo allora mi accorgo di una lisca di pesce sporca di
fango ai suoi piedi. È quel che resta di un pezzo di salmone da pochi soldi.
«Dunque non hai perso il vizio, lo fai ancora!» dico al Nero dimenticando la nostra
scaramuccia ed esprimendogli la mia ammirazione. Ma il complimento non è sufficiente a
ridargli il buonumore.
«Fare cosa, cretino? Cos’è che continuerei a fare? Solo: per una fetta o due di salmone?
Parli proprio come gli uomini. Come ti permetti di trattarmi così? Sono il Nero del
vetturino, cosa credi?» E non potendo rimboccarsi le maniche, il Nero tira su la zampa
anteriore destra fino alla spalla.
«So benissimo che sei il Nero del vetturino, l’ho sempre saputo».
«E allora se lo sai, cosa parli di "farlo ancora"? Cosa vuoi dire?» tuona soffiandomi in
faccia folate di fiato rovente. Se fossimo delle persone, mi avrebbe già afferrato per il petto
e scosso come una foglia. Mi sto dicendo allibito che mi sono cacciato in un bel guaio,
quando si sente di nuovo sbraitare la padrona del Nero:
«Senta, signor Nishikawa! Ehi, dico a lei, signor Nishikawa! Ho bisogno di lei. Mi porti
subito una libbra abbondante di carne di manzo. D’accordo? Ha capito? Una libbra di
manzo bello tenero». La sua voce che fa l’ordinazione si ripercuote in tutto il quartiere.
«Urla così forte perché la carne la ordina solo una volta all’anno, è così fiera della sua
libbra di manzo che non si dà pace se non lo fa sapere a tutto il vicinato», spiega il Nero in
tono derisorio stirando le quattro zampe. Non sapendo cosa rispondere, me ne sto zitto.
«Una miserabile libbra. Non c’è di che fare indigestione, ma devo rassegnarmi. Mi
accontenterò di quella, me la terrò da parte», fa il Nero come se la carne fosse stata
ordinata per lui.
«Questa volta farai un vero banchetto, beato te», gli dico per spedirlo a casa.
«Tu cosa c’entri? Stai zitto, fatti gli affari tuoi!» risponde lui, e di colpo prende a raspare
la brina con le zampe posteriori, tirandomene dei pezzi in faccia. Mentre al colmo dello
stupore mi ripulisco, il Nero sguscia dietro la siepe e sparisce. Probabilmente è sulle tracce
della carne di Nishikawa.
A casa, quando faccio ritorno, c’è già aria di primavera, sento persino il padrone ridere
allegramente. Entrando dalla veranda, che è completamente aperta, mi avvicino e vedo che
c’è un ospite inusuale. Ha i capelli divisi da una scriminatura netta e indossa un haori di
cotone, decorato con gli stemmi di famiglia, su un hakama di tela di Kokura; dev’essere
uno studente universitario e sembra un tipo serio. Accanto al braciere su cui il padrone è
solito scaldarsi le mani noto un portasigarette in lacca e un biglietto da visita con alcune
parole scritte a mano: Mi permetta di presentarle Ochi Tofu. Con i complimenti di
Mizushima Kangetsu. Vengo così a sapere sia il nome del visitatore sia il fatto che è un
amico di Kangetsu. Sono arrivato a conversazione iniziata, per cui non capisco bene di cosa
stiano parlando, ma pare che c’entri Meitei, l’esteta che ho già menzionato.
«...e mi ha obbligato ad accompagnarlo, dicendo che aveva una buona idea», sta
raccontando il giovane tranquillamente.
«Cioè? Vuoi dire che la buona idea consisteva nell’andare in Un ristorante occidentale a
mangiare carne?» chiede il mio padrone riempiendo di tè una tazza e posandola davanti
all’ospite.
«Ma, non so, neanch’io ho capito quale fosse, quella sera, la buona idea, ma trattandosi
del professore mi sono detto che doveva essere per forza qualcosa di interessante…»
«Allora sei andato con lui? Bene».
«Però ho avuto una brutta sorpresa».
Con l’aria di dire "lo sapevo", il padrone mi dà qualche pacca sulla testa, visto che
intanto gli sono salito sulle ginocchia. Mi fa un po’ male.
«Immagino che ti abbia giocato qualche tiro. È una sua mania», aggiunge, ricordandosi
improvvisamente di Andrea del Sarto.
«Davvero? A ogni modo, ha proposto di mangiare qualcosa di originale…»
«E cos’avete mangiato?»
«Innanzitutto ha studiato il menu e mi ha spiegato in cosa consistessero alcuni piatti».
«Prima di ordinare?»
«Sì».
«E poi?»
«Poi, perplesso, si è rivolto al cameriere e gli ha detto che nel menu non c’era niente di
originale. Il cameriere, senza lasciarsi intimidire, gli ha proposto dell’anatra arrosto e delle
cotolette di manzo. «Mica siamo venuti fin qui per mangiare simili banalità!» ha protestato
il professore».
«Tipico suo».
«Poi si volta verso di me e mi fa: «In Francia e in Inghilterra si può mangiare ovunque la
cucina d’una volta, com’era nell’era Tenmei7 o ai tempi del Manyoshu8, ma in Giappone
dovunque tu vada il cibo è tutto uguale, al punto che non si ha più voglia di entrare in un
ristorante occidentale, è una vergogna…» Ma lui all’estero ci è stato?»
«Meitei? Figurati! Soldi ne ha e tempo pure, se volesse potrebbe andarci anche domani.
Forse ha intenzione di farlo in futuro, ma ha finto di esserci già stato per prenderti in giro»,
spiega il padrone, e scoppia a ridere come se avesse detto qualcosa di molto spiritoso. Il suo
ospite però non sembra molto divertito.
«Davvero? E io che lo prendevo sul serio, pensando che conoscesse l’Europa! Tanto più
che parla di brodo di lumache e bollito di rane come se li avesse visti con i suoi occhi».
«L’avrà sentito da qualcuno. È famoso per contare frottole».
«Già, pare proprio che sia così», sospira l’ospite guardando il vaso di narcisi nel
tokonoma. Sembra un po’ deluso.
«Allora la buona idea era quella?» chiede il padrone, tornando all’argomento iniziale.
«No, quello era solo l’inizio, il bello viene ora».
«Ah!» fa il mio padrone con una certa curiosità.
«Dato che anche volendo non potevamo mangiare né lumache né rane, mi fa: «Cosa ne
dici, potremmo accontentarci di un tochimenbo9, e io come un cretino gli rispondo che per
me va bene».
«Tochimenbo? Strano».
«Sì, stranissimo, ma il professore lo diceva con una tale serietà che ci sono cascato»,
continua il giovane rivolgendosi al padrone come se volesse scusarsi per la propria
ingenuità. La sua mortificazione non viene nemmeno notata.
«E poi cos’è successo?» chiede con indifferenza il mio padrone.
«È successo che ha chiamato il cameriere e gli ha ordinato del tochimenbo per due.
"Minchi bolu? Polpette di carne?" Lo ha corretto il cameriere. "No, non minchi bolu,
tochimenbo", ha insistito il professore senza scomporsi».
«Ma esiste, un piatto del genere?»
«Be', a quel punto cominciavo ad avere dei dubbi… ma il professore era serissimo e in
più aveva parlato con tanta purezza della cucina occidentale, dove ero convinto che fosse
già stato, che sono intervenuto anch’io e ho detto al cameriere che volevamo proprio del
tochimenbo».
«E il cameriere cos’ha risposto?»
«Il cameriere, ora che ci ripenso c’è da morire dal ridere, ha riflettuto per un po’, poi ha
detto: «Sono desolato, ma oggi tochimenbo non ne abbiamo, se volete delle polpette di
carne per due ve le porto subito». Al che il professore ha protestato che in tal caso avevamo
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L’era Tenmei va dal 1781 al 1789. Ogni era storica corrisponde alla durata del regno di un imperatore.
Antica antologia poetica che contiene circa 4500 opere di autori diversi che vanno dal quarto all’ottavo secolo.
In realtà tochimenbo è il nome d’arte del poeta Ando Rensaburo, discepolo di Masaoka Shiki.
fatto la strada fin lì per nulla. Sembrava molto contrariato. Non c’era proprio modo di
avere del tochimenbo?, ha insistito e ha dato due sen al cameriere. «Provo a chiedere al
cuoco», ha risposto quello, ed è tornato in cucina».
«Meitei moriva proprio dalla voglia di mangiare del tochimenbo, pare».
«Dopo un po’ il cameriere è tornato e ha detto che il tochimenbo poteva essere preparato
su ordinazione, ma sfortunatamente ci voleva molto tempo. Con molto contegno, il
professor Meitei ha risposto che non c’era nessuna fretta, di tempo ne avevamo perché era
Capodanno, poi ha tirato fuori dalla tasca della giacca un sigaro e ha cominciato a fumare
tranquillamente. Non sapendo cosa fare, ho preso il Nippon Shinbun10 dalla manica del
kimono e mi sono messo a leggere. Il cameriere è andato in cucina a consigliarsi».
«Che andirivieni!» commenta il padrone spostandosi in avanti per sentire meglio, con lo
stesso interesse con cui legge i bollettini di guerra.
«Quando il cameriere è ritornato, ha detto che sfortunatamente negli ultimi giorni gli
ingredienti per il tochimenbo non si trovavano neppure nei negozi specializzati come
Kameya o il Numero 15 di Yokohama, era desolato. «Che peccato», ha preso a dire il
professore rivolto a me, «pensare che siamo venuti apposta fin qui!» L’ha ripetuto più
volte. Stare zitto non era gentile, così ho convenuto anch’io che era una cosa seccante,
molto seccante».
«È comprensibile», approva il mio padrone. Cosa sia comprensibile, non mi è chiaro.
«Allora il cameriere, che sembrava davvero mortificato fa: «Se uno di questi giorni
riusciamo a procurarci gli ingredienti, la preghiamo di voler gentilmente tornare». Quando
il professore gli ha chiesto quali ingredienti usassero, il cameriere non ha saputo
rispondere, si è limitato a fare una risatina sciocca. Il professore allora gli ha spiegato che
bisognava usare haijin11 di scuola giapponese. «Ecco, proprio questi, di recente non si
trovano neanche a Yokohama», ha risposto il cameriere, «ne siamo veramente desolati, mi
creda»».
«Ha, ha, ha! Allora era questo lo scherzo? Questa sì che è bella!» esclama il padrone
ridendo forte, cosa inusuale per lui. Gli traballano le ginocchia e sto per cadere, ma lui
continua a ridere. Sembra che all’improvviso la consapevolezza di non essere il solo a
essere stato preso in giro da Meitei, con la storia di Andrea del Sarto, lo metta di ottimo
umore.
«Una volta usciti, il professore mi fa: «Be’, te la sei cavata bene anche tu! Grandiosa,
vero, l’idea di chiedere del tochimenbo?» Gli ho espresso la mia ammirazione e a quel
punto ci siamo salutati, ma ormai l’ora di pranzo era già passata da un pezzo e stavo
svenendo per la fame».
«Per te non dev’essere stato facile», commenta il padrone mostrando finalmente un po’
di comprensione. Questa volta non lo posso criticare. Segue un breve intervallo di silenzio,
durante il quale anche l’ospite può sentire il rumore delle mie fusa.
«In realtà, oggi sono venuto a trovarla per chiederle un piccolo favore», prosegue il
giovane Tofu dopo aver finito di bere in un sorso il suo tè ormai freddo.
«Ah, di cosa si tratta?» chiede il mio padrone senza scomporsi.
«Come lei sa, sono un appassionato di letteratura e di arte…»
«Un'ottima cosa», lo incoraggia il padrone.
10
Giornale, fondato nel 1889, nel quale ampio spazio era dedicato alla poesia. Della redazione faceva parte il poeta Masaoka
Shiki.
11
Poeta che compone haiku. "Scuola giapponese" è il nome con cui veniva comunemente chiamata la scuola di haiku
fondata dal poeta Masaoka Shiki.
«Di recente, con alcuni compagni che condividono la passione, abbiamo creato un
circolo di lettura, ci riuniamo una volta al mese e abbiamo intenzione d’ora innanzi di
leggere brani letterari. Il primo incontro l’abbiamo già tenuto alla fine dell’anno scorso».
«Aspetta, aspetta. Un circolo di lettura… suona come se vi metteste a declamare prosa o
poesia, ma è questo che in realtà fate?»
«Be’, sì, pensiamo di iniziare con opere di autori antichi, ma a poco a poco di cimentarci
anche con i contemporanei».
«Cosa intendi con opere antiche? Del genere La ballata della "pipa" di Bai Juyi? 12
«No, no».
«O una raccolta di poemi di Buson13, per esempio?»
«Nemmeno».
«E allora cosa intendete recitare?»
«L’ultima volta abbiamo letto Chikamatsu14, la storia di un doppio suicidio».
«Chikamatsu? Quello che ha scritto le ballate joruri?»
Non ci sono due Chikamatsu. Quando si dice Chikamatsu ci si riferisce necessariamente
all’autore di drammi. Sono molto sorpreso che il mio padrone chieda conferma, ma lui non
se ne rende conto e continua a carezzarmi gentilmente la testa. Lo lascio fare, a cosa serve
stupirsi per questo genere di errori in una società in cui ci sono uomini convinti di essere
guardati con amore da una donna senza accorgersi che è soltanto strabica…
«Sì…» fa il giovane Tofu spiando l’espressione del padrone.
«E hai letto tutto tu da solo? Oppure vi siete distribuiti i ruoli?»
«Abbiamo distribuito i ruoli e ognuno ha provato a recitare il suo. L’obiettivo principale
è immedesimarsi nel personaggio ed esprimerne il carattere, ma curiamo anche la
gestualità delle mani e del corpo. La cosa più importante è mostrare com’era la gente a
quell’epoca, che si tratti di una damigella o di un apprendista, bisogna cercare di renderli
come se fossero lì, presenti».
«Ma allora si tratta di una rappresentazione teatrale».
«Sì, ma senza costumi e coreografia».
«Scusa se te lo chiedo, ma funziona?»
«Be’, per essere la prima volta è andata piuttosto bene».
«E questo dramma in cui si parla di un doppio suicidio che avete letto la volta
scorsa… ?»
«Era una scena in cui un battelliere porta un cliente nel quartiere di Yoshiwara 15».
«Però, una delle più impegnative!» Il padrone assume l’atteggiamento critico
dell’insegnante, la testa piegata di lato. Il fumo diafano della sigaretta gli esce dal naso, gli
passa sopra l’orecchio e lungo la faccia.
«No, non è poi tanto difficile. I personaggi sono soltanto il cliente, il battelliere, una
prostituta d’alto rango, la sua nakai, una yarite e un kenban», dice il giovane Tofu come se
nulla fosse. Sentendo la parola «prostituta» il mio padrone fa una smorfia un po’
contrariata, ma degli altri vocaboli non sembra capire il significato perché domanda:
«Nakai indica una specie di serva in un bordello?»
12
13
14
15
Bai Juyi (772-846), uno dei maggiori poeti cinesi. Fra le sue opere più note La ballata della "pipa" e La ballata dell’eterno
dolore. La pipa è uno strumento musicale.
Yosa Buson (1716-1793), poeta e pittore, considerato da Masaoka Shiki uno dei migliori compositori di haiku.
Chikamatsu Monzaemon (1653-1724), uno dei grandi nomi della letteratura giapponese, autore di ballate (joruri) e di
drammi (kabuki) di argomento sia storico che d’attualità. Le sue opere vengono ancor oggi rappresentate sia nel teatro kabuki che
nel teatro delle marionette bunraku. Il suo dramma più noto è Doppio suicidio a Sonezaki.
Quartiere di Tokyo dove si trovava la maggior parte delle case da tè e dei postriboli. Nelle case da tè lavoravano le geishe,
artiste specializzate nelle arti tradizionali del canto, della danza e della musica. Nei postriboli invece lavoravano le prostitute, che si
dividevano in ranghi. Il quartiere di Yoshiwara è stato chiuso dopo la seconda guerra mondiale.
«Sì, ancora non abbiamo studiato bene l’argomento, ma nakai è la serva in una casa da
tè, e una yarite è una specie di mezzana in un postribolo». Nonostante abbia appena detto
che l’obiettivo principale è immedesimarsi nei personaggi, Tofu non sembra avere le idee
chiare riguardo alle funzioni di una nakai e di una yarite.
«Ho capito, una nakai lavora in una casa da tè, mentre una yarite in un postribolo.
Quanto alla parola kenban, indica una persona o un luogo? E nel caso si tratti di una
persona, è un uomo o una donna?»
«Credo che kenban stia a indicare proprio un controllore uomo».
«E cos’è che controlla?»
«Mah, non saprei, ancora non abbiamo studiato questo punto. Lo faremo presto».
Da tali parole deduco che la rappresentazione doveva mancare totalmente di coerenza e
alzo la testa a guardare il padrone. Lui però sembra prendere questa storia molto sul serio.
«E a parte te, chi sono gli altri membri di questo circolo di lettura?»
«Diverse persone. La prostituta d’alto rango l’ha interpretata K, un tipo laureato in
giurisprudenza, ma dato che ha i baffi, sentirlo parlare con la soavità di una donna faceva
uno strano effetto. E poi c’è una scena in cui questa prostituta è presa da convulsioni…»
«Ma era proprio necessario simulare anche le convulsioni? In fin dei conti era solo una
lettura…» chiede il padrone preoccupato.
«Sì, perché l’espressione è molto importante». A quanto pare Tofu si considera un attore
a tutti gli effetti.
«E sono venute bene, le convulsioni?» Questa volta il mio padrone scherza.
«No, nella prima riunione erano al di sopra delle nostre capacità. Solo quelle, però».
Anche Tofu fa la sua battuta.
«E tu, che ruolo hai interpretato?»
«Il battelliere».
«Cosa? Il battelliere lo hai fatto tu?» si lascia sfuggire il padrone come per dire che se
Tofu faceva il battelliere, lui sarebbe stato perfetto nella parte del kenban.
«Ma non era un po’ troppo difficile, per te?» chiede alla fine in tono innocente. Tofu
però non se la prende.
«È a causa del ruolo del battelliere che la rappresentazione, che era cominciata così
bene, è finita subito. Il fatto è che accanto alla sala di lettura c’è una pensione dove vivono
quattro o cinque studentesse, le quali, non so come, sono venute a sapere che quel giorno
avremmo tenuto la seduta, così si sono appostate sotto la finestra della sala e hanno
ascoltato tutto. Stavo recitando appunto la parte del battelliere, cercavo di imitarne
l’atteggiamento e devo dire che ci riuscivo piuttosto bene, ed ecco che proprio sul più bello,
quando avevo preso il ritmo giusto, quelle sciocche, che fino a quel momento si erano
trattenute, sono scoppiate in una fragorosa risata, tutte insieme… non so, forse mi ero
agitato un po’ troppo… Si figuri il mio sconcerto e il mio imbarazzo, a quel punto mi sono
scoraggiato e non sono riuscito ad andare avanti, così alla fine abbiamo lasciato perdere».
Se questa riunione viene considerata un successo per essere la prima, figuriamoci cosa
sarebbe un fiasco! A questo pensiero non posso fare a meno di ridere anch’io e il mio pomo
d’Adamo comincia a vibrare. Il padrone prende a farmi vigorose carezze sulla testa: mi fa
piacere che mi coccoli anche quando mi burlo di qualcuno, ma mi mette un po’ a disagio.
«Un vero peccato, mi dispiace!» commenta, nonostante Capodanno non sia periodo di
condoglianze.
«Dalla prossima seduta vogliamo veramente mettercela tutta e fare le cose in grande, ed
è questo il motivo che oggi mi ha portato qui. Vorrei che lei, professore, entrasse a far parte
del nostro gruppo e unisse le sue forze alle nostre».
«Ma io non sono capace di farmi venire le convulsioni!» ribatte immediatamente quel
disfattista del mio padrone.
«No, no, non deve simulare convulsioni o nulla del genere. Ecco, questa è la lista dei
membri sostenitori». Così dicendo Tofu estrae con molta precauzione un libriccino da un
fazzoletto viola e lo posa aperto davanti alle ginocchia del mio padrone. In fila uno dietro
l’altro vedo segnati i nomi di molti esimi letterati e professori di letteratura dei giorni
nostri. «La prego di voler gentilmente scrivere qui il suo nome e apporre il suo timbro».
«Be’, non è che non voglia diventare un membro sostenitore, ma un’eventuale adesione
quali obblighi comporterebbe?» chiede quell’ostrica del mio padrone tutto allarmato.
«Assolutamente nessun tipo di obbligo, basta che lei scriva il suo nome per esprimere il
suo favore».
«Allora firmo», concede lui con improvviso buonumore, visto che non c’è nessun
obbligo. Si direbbe che sia pronto a firmare anche un patto sovversivo, una volta appurato
che questo non comporta obblighi. E poi credo sia un bel vanto scrivere il proprio nome
accanto a quello di letterati illustri, per lui che non ha mai avuto una simile opportunità.
Nessuna sorpresa quindi per lo slancio nel dare una risposta positiva.
«Scusami un momento», dice, e si alza per andare a prendere il suo sigillo nello studio.
Io rotolo sul tatami. Tofu prende una fetta di pandispagna dal piatto dei dolci e se la ficca
in bocca. Per un po’ mastica con difficoltà. Mi fa venire in mente l’episodio del mochi di
stamane. Quando il padrone ricompare con il sigillo, il pandispagna sta già scendendo nelle
budella di Tofu. La mancanza di una fetta sembra non venire notata. Altrimenti il primo
sospettato sarei io.
Quando il giovane Tofu si congeda, il padrone torna nello studio e sulla scrivania trova
una lettera del professor Meitei, messa lì chissà quando.
I miei migliori auguri per un Felice Anno Nuovo…
Non è da lui iniziare in maniera seria, pensa il mio padrone. Le lettere del professor
Meitei raramente sono serie, l’altro giorno ad esempio ne è arrivata una che diceva:
…da allora non mi sono più innamorato, né ricevo lettere d’amore, sono vivo per miracolo e mi
limito a lasciar passare il tempo, ti prego quindi di non preoccuparti…
In confronto questo biglietto di auguri è un modello di serietà.
Vorrei venire a trovarti, ma al contrario di te che sei così abulico, ogni giorno ho un’infinità di cose
da fare per preparare questo nuovo anno, un anno che non ha precedenti nella storia, quindi
domando la tua comprensione…
Già, conoscendolo, a Capodanno sarà occupatissimo ad andare in giro a divertirsi,
immagina il padrone approvando in cuor suo il comportamento dell’amico.
Ieri, dato che avevo un momento libero, ho invitato il giovane Tofu a mangiare delle polpette di
tochimenbo, ma a causa dell’impossibilità di procurarsi gli ingredienti non è stato possibile, cosa di
cui sono profondamente desolato…
Lui sorride: Meitei è sempre il solito.
Domani giocheremo a carte a casa di un certo barone il gioco delle poesie da completare 16
dopodomani si terrà il banchetto di Capodanno alla Società degli Esteti, il giorno dopo una festa di
benvenuto per il professor Toribe e quello dopo ancora…
«Che noioso», fa saltando le righe.
Tra una festa e l’altra - feste durante le quali si recitano canti no, si compongono haiku, tanka17 ci
sono persino riunioni del gruppo «Nuova Poesia» - non sono riuscito a trovare il tempo di passare da
te e mi vedo nell’obbligo di farti gli auguri con questo biglietto…
«Non ha alcun bisogno di venire apposta», dice laconico.
La prossima volta che mi verrai a trovare, sarei molto onorato se accettassi di fermarti a cena,
visto che è da molto che non ho questo piacere. Non posso permettermi di offrirti delle prelibatezze,
ma mi rallegro fin da ora di servirti almeno delle polpette di tochimenbo.
«Di nuovo questa storia delle polpette di tochimenbo, che impertinenza!» Il padrone
sembra un po’ irritato.
Tuttavia, poiché di recente gli ingredienti delle polpette di tochimenbo sono quasi introvabili, può
darsi che non riesca a prepararlo in tempo. Permettimi in tal caso di farti gustare delle lingue di
pavone…»
«Bene, ha due corde al suo arco!» La lettura prosegue.
Come sicuramente saprai, la lingua di un pavone è grande meno della metà di un dito mignolo,
quindi per riempire uno stomaco come il tuo…
«Che spudorato!» fa rassegnato.
…ci vogliono di sicuro venti o trenta pavoni. Ogni tanto allo zoo o al parco dei divertimenti di
Asakusa qualche pavone lo si vede, ma dai normali pollivendoli non ne ho mai trovato, il che mi
rattrista profondamente…
«Sei tu che te la vai a cercare, questa tristezza», osserva senza mostrare la minima
gratitudine.
Le lingue di pavone si mangiavano nell’antica Roma quando l’impero era al colmo dello splendore.
Erano un piatto molto apprezzato, di conseguenza comprenderai quale intenso desiderio abbia
sempre nutrito in segreto di assaggiare quest’estrema manifestazione del lusso e dell’eleganza…
«Cos’è che dovrei comprendere? Quant’è cretino!» Il commento è freddo e distaccato.
16
17
Riferimento a un gioco di carte ispirato a cento famosi poeti dell’antichità. Su ogni carta, oltre a una figura, è riportata la
metà di una poesia. Uno dei giocatori tira a sorte una carta e la legge, gli altri giocatori devono trovare, nel mucchio delle carte
sparse nel mezzo, quella che la completa. Questo gioco è praticato ancor oggi, a Capodanno, nelle famiglie colte.
Poesia di 31 sillabe in forma metrica tradizionale, composta di cinque versi suddivisi in due strofe, secondo lo schema 5-75/7-7. Già nel Manyoshu (vedi nota 7, cap. 2) si trovano più di trecento tanka.
Nei secoli seguenti, fino al sedicesimo o al diciassettesimo, il pavone era una prelibatezza che non
poteva mancare nei banchetti. Se ricordo bene, quando il conte di Leicester invitò la regina Elisabetta
a Kenilworth, sicuramente ne mangiarono. È in uno dei dipinti di Rembrandt - una scena di
banchetto - un pavone con la coda dispiegata giace sul tavolo…
«Se ha il tempo di scrivere la storia del pavone nella cucina, non deve avere tutti gli
impegni che dice». Questa volta il tono esprime un crescente scontento.
In ogni caso, se mi nutrissi sempre di piatti prelibati come in questi giorni, di sicuro in un futuro
non molto lontano mi ritroverei con uno stomaco debole come il tuo…
«"Come il tuo" lo poteva evitare. Che bisogno ha di tirare in ballo me!»
Gli storici sostengono che gli antichi Romani facevano tre o quattro banchetti al giorno. Ma
mangiare tali quantità con tanta frequenza è impossibile anche per le persone con lo stomaco più
robusto, è ovvio che con il tempo si hanno dei problemi di digestione e si diventa come te…
«Di nuovo "come te", questo maleducato!»
Ma i Romani, che avevano studiato a fondo il modo di gioire sia del lusso che di una buona salute,
davanti alla necessità di mangiare quantità inverosimili di cibo e al tempo stesso di proteggere le
funzioni dello stomaco, trovarono un metodo segreto…
«Oh, bene!» Improvvisamente sembra interessato.
Dopo aver mangiato facevano sempre un bagno caldo. E dopo il bagno vomitavano tutto quello
che avevano ingoiato prima, pulendo così l’interno dello stomaco. Dopodiché si mettevano di nuovo a
tavola e gustavano fino in fondo ogni delicatezza. Poi, quando avevano finito, di nuovo facevano il
bagno e vomitavano. In questo modo, anche mangiando e rimangiando tutto quello che volevano, i
loro organi interni non si deterioravano. Se vuoi la mia modesta opinione, questo si chiama «non
privarsi di nulla».
«In effetti, non si privavano proprio di nulla». Nel suo tono si avverte l’invidia.
Oggi, nel ventesimo secolo, è superfluo dire che la vita è caotica e il numero dei banchetti sempre
crescente, quindi, poiché siamo nel secondo anno di guerra contro la Russia, sono fermamente
convinto che la popolazione del nostro vittorioso paese deve assolutamente imparare dai Romani e
cogliere ogni occasione di studiare quest’arte di fare il bagno e vomitare. Altrimenti nutro il segreto
timore che in un prossimo futuro il grande popolo giapponese corra il pericolo di diventare debole di
stomaco come te…
«Ancora "come te"! Ma rasenta l’isteria, quest’uomo!»
Se una persona come me, che ha una certa conoscenza dell’Occidente studiasse la storia e le
leggende antiche, ritrovasse questo metodo segreto ormai perduto e lo sfruttasse nella nostra era
Meiji, potrebbe prevenire l’insorgere di una calamità, compirebbe un’azione virtuosa che
compenserebbe la vita di piacere che mi sono egoisticamente concesso finora…
«C’è qualcosa che non mi convince», fa con aria perplessa.
Di conseguenza negli ultimi tempi mi sono dedicato allo studio di autori famosi come Gibbon,
Mommsen e Goldwin Smith, ma disgraziatamente non sono ancora riuscito a trovarvi il minimo
accenno a questo argomento. Tuttavia, come tu sai, non è nel mio carattere abbandonare qualcosa
finché non ho ottenuto l’obiettivo, e sono fermamente convinto che la riscoperta del metodo per
vomitare non è lontana. A questo proposito, penso sia meglio posporre la cena a base di tochimenbo e
di lingue di pavone a dopo la suddetta scoperta, cosa più conveniente sia per me nelle mie attuali
circostanze, sia per te che già soffri di mal di stomaco… Credimi, tuo umilissimo ecc. ecc...
«Ecco, di nuovo mi sono lasciato beffare! Tratto in inganno dal tono serio, ho letto con
attenzione fino alla fine. Deve avere proprio del tempo da perdere, Meitei, per fare simili
scherzi anche nell’euforia del Capodanno», conclude il mio padrone ridendo.
Dopo quest’episodio sono trascorsi quattro o cinque giorni tranquilli, che ho passato a
guardare i narcisi sfiorire nel vaso di porcellana bianca, o i fiori di prugno dallo stelo
azzurro sbocciare in un altro, annoiandomi mortalmente. Allora sono andato un paio di
volte a far visita a Micetta, ma non l’ho trovata. La prima volta ho pensato che fosse uscita,
ma la seconda mi sono nascosto dietro l’aspidistra che fiorisce nella vasca di pietra per
lavarsi le mani e ho ascoltato la conversazione che la sua padrona e la serva tenevano al di
là degli shoji. Ho appreso così che è malata e non si può alzare.
«Micetta ha mangiato?»
«No, stamattina di nuovo non ha toccato cibo. L’ho coperta e messa a dormire al caldo
nel kotatsu».
La trattano come se fosse un essere umano, non un gatto. Da una parte, facendo il
confronto con la mia situazione, provo una punta d’invidia, ma dall’altra sono felice che la
gatta che amo sia tanto vezzeggiata.
«È un bel guaio. Se non mangia diventerà ancora più debole».
«Sì, lo so. Persino io, se un giorno non mangio, l’indomani non riesco a lavorare»,
risponde la serva, presupponendo che Micetta sia superiore a lei. Ed è un fatto che in
questa casa la gatta viene considerata ben più importante di una domestica.
«L’hai portata dal medico?»
«Sì, ma quel medico lì è davvero un tipo strampalato. Quando sono entrata
nell’ambulatorio con Micetta in braccio, mi ha chiesto se avevo preso l’influenza e voleva
sentirmi il polso. Gli ho detto: «No, non sono io la malata», e ho posato Micetta sulle
ginocchia, ma lui ha riso e mi ha risposto che delle malattie dei gatti non ci capiva nulla
neppure lui. Che lasciandola tranquilla sarebbe guarita da sola. Sconcertante, non trova?
Ero così seccata che gli ho detto che non era più necessario che la visitasse, che Micetta era
molto preziosa per noi; poi l’ho infilata dentro il kimono e sono tornata a casa».
«In verità!»
«In verità» non è un’espressione che si senta pronunciare in casa mia. Solo la figlia di
qualcosa di qualcuno del tredicesimo shogun può usarla; tanta raffinatezza mi riempie di
ammirazione.
«Mi sembra che ansimi un po’…»
«Certo, deve aver buscato un raffreddore e le duole la gola. Tutti, quando buscano un
raffreddore, soffrono anche di una tosse considerevole».
Solo la serva della figlia di qualcosa di qualcuno del tredicesimo shogun può usare un
linguaggio così ridicolmente formale.
«Ho sentito che negli ultimi tempi si sta diffondendo una malattia polmonare che si
chiama tubercolosi».
«Proprio così, di recente sono comparse molte malattie nuove, la tubercolosi, la peste,
non ci si può permettere la minima negligenza».
«Tutto ciò che non esisteva ai tempi degli shogun non può essere buono, quindi fai
attenzione anche tu».
«Sì, signora, ha proprio ragione…» La serva sembra essere molto emozionata. «Chissà
come ha fatto a buscarsi un raffreddore, non esce quasi di casa…»
«No, è vero, ma di recente ha stretto amicizia con un cattivo soggetto».
Se le avessero appena rivelato un segreto di stato, la serva non sarebbe tanto stupefatta.
«Un cattivo soggetto?»
«Sì, quel gattaccio sempre un po’ sporco che vive in casa del professore nella strada qui
dietro».
«Il professore? Vuol dire quel tipo che ogni mattina fa quei versacci orribili?»
«Sì, quello che quando si lava la faccia sembra un’oca cui stiano torcendo il collo».
«Un’oca cui stiano torcendo il collo» mi pare una descrizione azzeccata. Il mio padrone
ogni mattina, quando fa i gargarismi in bagno, ha la strana abitudine di solleticarsi la gola
con lo spazzolino da denti. Quando è di cattivo umore gracchia orribilmente. E quando
invece è contento gracchia con ancora maggior vigore. Insomma, di qualunque umore sia
fa sempre una quantità di versacci rumorosi. A sentire la moglie, prima di trasferirsi qui
non aveva questa mania, ha cominciato all’improvviso e finora non è passato giorno senza
che facesse i gargarismi. È un’abitudine piuttosto fastidiosa, e quanto al motivo che
l’induce a mantenerla con tanta perseveranza, non chiedete a un gatto di immaginarlo!
«Chissà quale beneficio pensa di ottenere producendo dei suoni tanto sgradevoli. Prima
della Restaurazione18 tutti sapevano comportarsi educatamente, persino un popolano o un
servo addetto ai sandali… Nei quartieri residenziali nessuno si lavava la faccia in quel
modo».
«Ha proprio ragione, signora…»
La serva approva con estrema facilità, e con altrettanta facilità usa la parola «proprio».
«Il gatto di un tale padrone non può essere che una bestiaccia, la prossima volta che
viene dagli una bella lezione».
«Oh, gliela darò certamente, se Micetta si è ammalata è di sicuro colpa di quel gattaccio.
La vendicherò io».
Sono accuse assurde. Ma giudico più prudente non avvicinarmi troppo a quella lì e me
ne torno a casa senza aver visto Micetta.
Rientrando, trovo il mio padrone nel suo studio, tutto assorto nell’impresa di scrivere
qualcosa. Se gli raccontassi ciò che ho sentito a casa dell’insegnante di koto a due corde,
quale opinione ha di lui, andrebbe su tutte le furie, ma poiché l’ignoranza è misericordiosa,
come dice il proverbio, bofonchia atteggiandosi a poeta in pieno estro creativo.
Ed ecco che del tutto inaspettato arriva il professor Meitei, nonostante si sia già dato la
pena di mandare una lettera di auguri per l’Anno Nuovo nella quale scriveva che era troppo
occupato per venire di persona.
«Allora, ti stai esercitando a comporre poesie in stile moderno? Se te ne viene bene una,
fammela vedere», dice.
«Uhm, ho trovato una bella frase e ho pensato di tradurla», risponde il padrone con una
certa riluttanza.
18
Al tempo del governo degli shogun. Durante il periodo feudale la popolazione era suddivisa in quattro classi
rigorosamente separate: nobili e samurai, contadini, mercanti, commercianti.
«Una frase? Una frase di chi?»
«Questo non lo so».
«Un anonimo? Anche tra gli anonimi ci sono autori di tutto rispetto, non si deve
sottovalutarli. Dove l’hai trovata, questa frase?»
«Nel secondo libro di lettura inglese», ha risposto il padrone in tono molto calmo.
«Il secondo libro di lettura inglese? Che cosa c’entra?»
«La prosa che sto traducendo l’ho presa da lì».
«Vuoi scherzare? È un modo per vendicarti all’ultimo momento per la storia delle lingue
di pavone?»
«Non sono un fanfarone come te», fa imperturbabile il mio padrone arricciandosi i baffi.
«Si racconta che una volta un tale chiese a Sanyo se negli ultimi tempi avesse letto
qualcosa di notevole, al che Sanyo, indicando delle lettere scritte dal suo palafreniere a
proposito di un prestito, rispose che quelle erano la cosa migliore che avesse letto. Quindi
può darsi che anche il tuo occhio per le cose belle si riveli inaspettatamente acuto. Prova a
leggere, ti darò il mio parere», dice il professor Meitei che si ritiene l’arbitro del valore
estetico. Il padrone inizia la lettura nel tono di un monaco zen che declami le ultime
volontà di Daito Kokushi19: «Il Gigante Magnetismo».
«Il gigante magnetismo? Cosa vuol dire?»
«È il titolo».
«Un titolo molto strano. Non capisco cosa significhi».
«Probabilmente si tratta di un gigante che si chiama magnetismo».
«Mi sembra tirato per i capelli. Ma se è solo il titolo, lasciamo perdere. Comincia a
leggere, hai una bella voce, sarà interessante».
«Non devi interrompere», dice con enfasi il padrone per prevenire altri interventi, e
inizia.
Kate guarda fuori dalla finestra. Dei bambini stanno giocando a palla. La lanciano alta nel cielo. La
palla sale, sale, sale. Poi, dopo un po’, cade. I bambini di nuovo la lanciano in alto. Due, tre volte.
Ogni volta che la lanciano in alto, la palla ricade. Kate chiede perché, perché cada e non continui a
salire sempre più in alto. «Perché un gigante vive nella terra», le risponde la madre, «è il Gigante
Magnetismo. È molto forte. Attira tutte le cose verso di sé. Attira le case contro la terra. Se non lo
facesse ci involeremmo tutti nell’aria. Anche i bambini si involerebbero. Hai visto le foglie cadere,
vero? È perché la forza del gigante le chiama. Ti succede di far cadere un libro, no? È perché il gigante
lo chiama. La palla sale nel cielo. Il Gigante Magnetismo la chiama. E se la chiama, lei cade.
«Tutto qui?»
«Sì, ma è bello, non trovi?»
«D’accordo, sei riuscito a stupirmi. Un bel modo di ricambiare le polpette di
tochimenbo».
«Non sto ricambiando proprio nulla. L’ho tradotto semplicemente perché mi piace. A te
no?» chiede il mio padrone guardando l’amico dritto in fondo agli occhiali dalla montatura
dorata.
«Sono assolutamente stupefatto. Chi l’avrebbe detto che avevi questo talento… sì, questa
volta mi hai proprio spiazzato. Mi arrendo». L’esteta parla da solo, chi lo sa cosa si è messo
in testa. Il padrone non ci capisce niente.
«Non era mia intenzione farti capitolare, né nulla del genere. Ho soltanto tradotto
questo passaggio perché lo trovavo interessante».
19
Nome postumo dato al monaco zen Myocho (1282-1337), della setta Rinzai.
«Sì, davvero interessante. È così che un libro dovrebbe essere. Straordinario. Molto
obbligato».
«Non hai alcun bisogno di sentirti obbligato. Di recente ho abbandonato la pittura, e in
cambio ho deciso di dedicarmi alla scrittura».
«Meno male, la tua pittura era del tutto priva del senso della prospettiva e dei colori.
Ora invece sono al colmo dell’ammirazione, non c’è paragone».
«Con tutte queste lodi, mi sento incoraggiato», fa il mio padrone continuando a
fraintendere.
Proprio in quel momento entra il giovane Kangetsu, scusandosi per il disturbo dell’altra
volta.
«Oh, buongiorno a te», lo accoglie Meitei. «Ho appena ascoltato un passaggio stupendo
che ha scacciato il fantasma delle polpette di tochimenbo», aggiunge alludendo a chissà
cosa.
«Ah, veramente?» gli risponde in maniera altrettanto incomprensibile Kangetsu.
Soltanto il padrone non sembra tanto brioso.
«L’altro giorno è venuto a trovarmi un certo Ochi Tofu con una lettera di presentazione
da parte tua», dice.
«Ah, è venuto? È un bravo ragazzo, questo Ochi Tofu, ma ha anche un lato un po’ strano.
Temevo che potesse recarle disturbo, ma ha tanto insistito per esserle presentato…»
«No, non è stato di nessun disturbo…»
«Appena entrato, non si è messo per caso a parlare del suo nome?»
«No, non mi pare che l’abbia fatto».
«Davvero? E pensare che dovunque vada, appena conosce qualcuno, ha l’abitudine di
tenere una conferenza sul proprio nome».
«E che cosa racconta?» si intromette il professor Meitei; che muore dalla voglia di
sapere di cosa si tratti.
«Non gli piace che il suo nome venga letto Tofu invece di Kochi».
«Ma guarda», fa Meitei prendendo dalla tabacchiera di pelle dorata un po’ di tabacco.
«Dice che il suo nome non è Ochi Tofu, ma Ochi Kochi, rifiuta assolutamente che venga
letto Tofu».
«Che strano», osserva Meitei aspirando il fumo fino in fondo ai polmoni.
«È una fissazione che gli viene dall’amore per la letteratura: pronunciando kochi si
ottiene un’espressione idiomatica, ochikochi, vicino e lontano. Non solo, è molto fiero del
fatto che il nome faccia rima con il cognome, perciò se qualcuno lo legge tofu va su tutte le
furie, dice che la gente non capisce tutta la pena che si è dato».
«Be, in tal caso è proprio una strana persona», commenta il professor Meitei, facendo
risalire il fumo dai polmoni fino alle narici. Ma a metà strada il fumo gli si ferma in gola.
Allora si toglie di bocca la pipa lunga e sottile e dà qualche colpo di tosse.
«L’altro giorno, quando è venuto a trovarmi, mi ha raccontato che ha recitato la parte di
un battelliere in un circolo di lettura, provocando l’ilarità di alcune studentesse», dice
ridendo il mio padrone.
«Ecco, ecco», fa il professor Meitei posando la pipa sulle ginocchia. È pericoloso, mi
sposto un po’ più in là.
«Quel circolo di lettura, me ne ha parlato l’altra volta, quando l’ho invitato a gustare
delle polpette di tochimenbo. Abbiamo toccato anche quell’argomento. Vogliono fare le
cose in grande, per la seconda seduta, invitare dei letterati famosi, mi ha pregato di essere
presente anch’io, assolutamente. Gli ho chiesto se hanno intenzione di recitare di nuovo
uno dei drammi di Chikamatsu, ma ha detto di no, questa volta hanno scelto una cosa
nuova, Il demone color oro20. Mi ha anche detto che lui farà la parte di O-miya. Sarà
divertente, Tofu nei panni di O-miya. Devo proprio andarci e applaudire».
«Divertente davvero», concorda Kangetsu con uno strano sorriso.
«A ogni modo quel ragazzo mi piace perché è sincero, non è frivolo e volubile come te,
Meitei», commenta il padrone vendicandosi in un colpo solo di Andrea del Sarto, delle
lingue di pavone e delle polpette di tochimenbo. Indifferente all’attacco, Meitei ride.
«In ogni caso io sono solo un tagliere di Gyotoku21»
«Sì, più o meno», conferma il padrone. In realtà non capisce il significato
dell’espressione, ma facendo il professore da tanti anni è abituato a gettar fumo negli occhi
e in certi casi, quando si trova in società, la sua esperienza professionale gli torna utile.
«Cosa significa un tagliere di Gyotoku?» chiede ingenuamente Kangetsu. Il mio padrone
sposta lo sguardo verso il tokonoma.
«Quei narcisi li ho comprati alla fine dell’anno, tornando dai bagni pubblici. Li ho
disposti io in quel vaso. Hanno tenuto davvero bene», dice eludendo la questione del
tagliere di Gyotoku.
«A proposito di fine dell’anno, in quei giorni ho avuto un’esperienza davvero bizzarra»,
dice Meitei facendo girare la pipa sulla punta delle dita come un giocoliere.
«Che esperienza? Raccontaci tutto». Contento di essere scampato al pericolo del
misterioso tagliere, il mio padrone tira un sospiro di sollievo. Il professor Meitei inizia a
raccontare.
«Mi ricordo perfettamente che era il ventisette. Il solito Tofu mi aveva chiesto qualche
tempo prima se quel giorno potevo farmi trovare in casa, voleva venire da me per
consultarmi su certi argomenti letterari. Così fin dal mattino sono rimasto ad aspettarlo,
ma lui non si è fatto vedere. Avevo appena pranzato e stavo leggendo davanti alla stufa un
racconto di Barry Pain, una cosa esilarante, quando mi è stata recapitata da Shizuoka una
lettera di mia madre, che come tutti i vecchi genitori mi considera ancora un bambino. Mi
scriveva di non uscire la sera in inverno, di non fare docce fredde se non dopo aver acceso
la stufa e riscaldato bene la stanza, altrimenti mi sarei buscato un raffreddore… insomma
questo genere di consigli. Eh sì, dobbiamo proprio essere grati ai nostri genitori, nessun
altro si preoccupa per noi con tanta sollecitudine. Quella volta persino io, con tutta la mia
apatia, mi sono commosso, e di conseguenza mi sono detto che continuare questa vita da
perdigiorno non valeva la pena. Dovevo fare qualcosa di grandioso che desse lustro al nome
della famiglia. Rendere famoso sulla scena letteraria dell’era Meiji il nome del professor
Meitei prima che mia madre morisse, questo volevo ottenere. Ho continuato a leggere: «Sei
veramente fortunato», mi scriveva mia madre, «da quando è cominciata la guerra con la
Russia, tanti giovani patiscono sofferenze indicibili e si sacrificano per il loro paese, ma tu
passi la vita tra un divertimento e l’altro come se fosse Capodanno in tutte le stagioni…» In
realtà non faccio la vita da perdigiorno che pensa lei. Poi continuava con la lista dei miei
vecchi amici e compagni di scuola che sono andati in guerra e sono morti. Leggendo a uno
a uno quei nomi mi dicevo che gli esseri umani sono meno che polvere e mi è venuta una
malinconia tremenda. Il meglio è arrivato alla fine: «Anch’io sono ormai giunta a un’età
molto avanzata e può darsi che sia l’ultima volta che mangio lo zoni di Capodanno…» La
lettera era così deprimente che mi ha messo addosso una tristezza spaventosa, speravo che
Tofu arrivasse da un momento all’altro, ma lui non si faceva vedere. Intanto era giunta
l’ora di cena, ho pensato di rispondere a mia madre e ho buttato giù una dozzina di righe.
20
21
Konjiki Yasha: dramma tratto dal romanzo omonimo di Ozaki Koyo (1867-1903).
Uno stupido. I venditori ambulanti di taglieri che venivano dalla città di Gyotoku, ora parte di Ichikawa nella prefettura di
Chiba, avevano fama di essere stupidi.
Lei ogni volta mi scrive un rotolo lungo tre braccia 22, ma io non sono così bravo e me la
cavo sempre con qualche riga. A quel punto, non essendomi mosso per tutta la giornata, mi
sentivo lo stomaco stranamente pesante. Ho deciso di andare a fare una passeggiata fino
alla posta e imbucare la lettera: se Tofu fosse arrivato, mi avrebbe aspettato. Senza
rendermene conto, invece di andare come al solito verso Fujimi-cho, i miei piedi hanno
preso la direzione di Dote-sanban-cho. Quella sera il cielo era coperto e dall’argine opposto
soffiava un vento gelido, faceva molto freddo. Dalle parti di Kagurazaka si è sentito
fischiare un treno che costeggiava il fiume. Una sensazione tristissima. L’anno che era
finito, la guerra, la vecchiaia, l’insicurezza della vita… Tutte queste idee lugubri hanno
cominciato a girarmi nella testa. Mi sono chiesto se la gente non si impicchi con tanta
frequenza perché in momenti come questi risponde all’invito della morte. Alzando gli occhi
verso l’argine, mi sono accorto che ero arrivato sotto il famigerato pino».
«Cosa sarebbe, questo «famigerato pino»?» chiede in tono burbero il mio padrone.
«Il pino degli impiccati», risponde Meitei stringendo le spalle.
«Ma il pino degli impiccati si trova a Konodai», obietta Kangetsu.
«Quello di Konodai è il pino per appendere le campanelle votive, a quello di Dotesanban-cho la gente ci si appende per il collo. E volete sapere perché l’hanno chiamato in
quel modo? Perché secondo la leggenda fin dai tempi antichi chiunque arrivi sotto quel
pino prova il desiderio di impiccarsi. Sull’argine ci sono diverse decine di pini, ma quelli
che si vogliono suicidare finiscono tutti con il penzolare da quell’albero lì. Nessuno degli
altri ti dà altrettanta voglia di morire. Osservandolo, ho visto che uno dei rami si
protendeva orizzontalmente verso la strada. Un ramo bellissimo. Era quasi un peccato
lasciarlo solo soletto. Volevo assolutamente vedere un uomo penzolare da lì: mi sono
guardato intorno in tutte le direzioni sperando che venisse qualcuno, ma purtroppo non
c’era nessuno. Non mi restava che appendermici io. No, no, era pericoloso, se mi impiccavo
a quel ramo morivo. Però mi è tornato in mente quello che si racconta sull’antica Grecia,
che durante i banchetti si intrattenevano gli ospiti simulando impiccagioni. Un tale saliva
su uno sgabello e infilava la testa in un cappio, e in quell’istante qualcun altro dava un
calcio allo sgabello. Contemporaneamente quello con la testa nel cappio allentava la corda
e saltava giù, in questo consisteva il gioco. Se la storia era vera, non avevo nulla da temere.
Ho provato a prendere il ramo in mano, aveva proprio la flessibilità giusta. E una curva
estremamente artistica. A immaginare di appendermici per il collo e penzolare di lì non
riuscivo a contenere la felicità. Avevo deciso di passare all’azione, però mi è venuto in
mente che forse nel frattempo Tofu era venuto a casa mia e mi dispiaceva farlo aspettare.
Prima dovevo vederlo e intrattenermi con lui come gli avevo promesso, poi sarei tornato, e
con quell’intenzione sono andato a casa».
«Allora è finita bene?» chiede il mio padrone.
«Che storia interessante!» commenta Kangetsu sorridendo compiaciuto.
«Quando sono arrivato a casa Tofu non c’era, ma ho trovato un suo biglietto di scuse in
cui diceva di essere stato trattenuto da affari urgenti e improvvisi, e che sperava di avere un
colloquio con me entro breve tempo, così mi sono tranquillizzato. Che gioia, potevo andare
serenamente a impiccarmi. Di nuovo sono corso fino al famoso pino, più in fretta che
potevo, e cosa vedo?» Meitei fa una pausa a effetto guardando in faccia a turno il mio
padrone e Kangetsu.
«Be’, che cos’hai visto?» domanda il primo un po’ irritato.
«Siamo al punto cruciale», fa Kangetsu giocherellando con le stringhe dell’haori.
22
All’epoca di Soseki le lettere non si scrivevano su fogli staccati, ma su un rotolo di carta di riso che si avvolgeva poi intorno
a un righello in legno.
«Ho visto che qualcuno mi aveva preceduto e ora penzolava dal ramo. Per un pelo non
ero riuscito nel mio intento. A ripensarci ora, mi rendo conto che in quel momento ero
nelle mani del dio della morte. William James avrebbe detto che il lato più oscuro del mio
inconscio doveva aver interagito con la dimensione reale in cui mi trovavo per una sorta di
relazione di causa ed effetto. Comunque è stata una cosa davvero strana, non trovate?»
conclude con modestia Meitei.
Pensando di essere di nuovo vittima di una beffa, il mio padrone invece di rispondere si
ficca in bocca un mochi ripieno di purè di fagioli dolci e prende a masticare con difficoltà.
Kangetsu, mentre sposta delicatamente le ceneri nel braciere, tiene gli occhi bassi e
ridacchia.
«In effetti è una cosa tanto strana che si stenta a crederci», dice poi in tono molto
tranquillo, «ma anch’io di recente ho fatto un’esperienza simile, quindi mi guardo bene dal
metterla in dubbio».
«Volevi impiccarti anche tu?»
«No, no, niente del genere. Ma la cosa strana è che il fatto è successo proprio alla fine
dell’anno, e proprio nello stesso giorno in cui è successo a lei, professore».
«Questa è bella», fa Meitei cacciandosi anche lui un mochi in bocca.
«Quel giorno a Mukojima, a casa di un conoscente, c’è stata una festa di fine anno con
tanto di concerto, Io dovevo suonare il violino. È stata una festa splendida, c’erano quindici
o sedici signore e signorine, tutto era così ben organizzato che si può dire che sia stato
l’evento mondano più riuscito degli ultimi tempi. Finito di cenare e di suonare, ci siamo
messi a parlare di tante cose e si è fatto tardi. Proprio quando stavo per salutare e
andarmene, la moglie del dottor O… è venuta da me e mi ha chiesto se ero al corrente che
una certa ragazza si era ammalata. Visto che l’avevo incontrata tre giorni prima e l’avevo
trovata in ottima forma, ero molto sorpreso e mi sono informato meglio. Così sono venuto
a sapere che la sera stessa del giorno in cui l’avevo incontrata le era venuto un accesso di
febbre e si era messa a delirare. E come se non bastasse, nel delirio ogni tanto aveva fatto il
mio nome».
Ovviamente sia il padrone che Meitei si astengono dal dirgli quanto lo invidiano e simili
banalità. Ascoltano in silenzio.
«Il medico chiamato a visitarla aveva diagnosticato una febbre molto alta che aveva
colpito il cervello - ora non ricordo il nome della malattia - e se il sedativo non avesse
ottenuto l’effetto desiderato, la sua vita sarebbe stata in pericolo. Appena l’ho saputo ho
provato una sensazione orribile: un senso di pesantezza, come se avessi un incubo, mi
sembrava che l’aria improvvisamente si solidificasse tutt’intorno a me e mi schiacciasse.
Anche tornando a casa non riuscivo a pensare ad altro, stavo malissimo. Quella
meravigliosa ragazza così vivace, l’immagine della salute…»
«Scusa, fermati un momento. Da quando hai cominciato non fai che ripetere «quella
ragazza», ma se non hai nulla in contrario, vorremmo sapere di chi si tratta», dice Meitei
guardando il mio padrone, che si limita a fare «uhm».
«No, il nome non ve lo posso dire, non vorrei causare delle noie alla signorina in
questione».
«Ed è tua intenzione continuare in questo modo misterioso e oscuro?»
«C’è poco da prendermi in giro, è una storia molto seria… In ogni caso, al pensiero che
quella signorina si fosse improvvisamente ammalata, un profondo turbamento di fronte
alla precarietà della vita umana mi ha riempito il petto. Ho perso di colpo tutto il mio
vigore, mi sentivo mancare, come se il mio spirito si fosse messo in sciopero, ma ho
continuato ad avanzare titubando e barcollando fino al ponte di Azuma. Non so se il fiume
fosse in piena o no, fatto sta che guardando giù, appoggiato al parapetto, mi sembrava che
le acque nere si muovessero appena, come se fossero coagulate. Da Hanakawado è arrivato
un risciò e ha attraversato il ponte. Ho seguito con lo sguardo la luce della lampada, finché
è diventata piccola piccola ed è scomparsa dietro la fabbrica di birra Sapporo. Di nuovo ho
guardato l’acqua del fiume. Ed ecco che in quel momento, da molto lontano a monte della
corrente, sento una voce chiamare il mio nome. Chi poteva mai chiamarmi a quell’ora di
notte? Ho scrutato attentamente la superficie dell’acqua per capire chi fosse, ma nel buio
non si vedeva nulla. Sarà soltanto una mia sensazione, ho pensato, e mi sono incamminato,
era meglio tornare in fretta a casa. Fatti solo due o tre passi, di nuovo una debole voce ha
chiamato il mio nome da lontano. Mi sono fermato e ho teso le orecchie. Quando mi sono
sentito chiamare per la terza volta, le ginocchia hanno preso a tremarmi violentemente,
nonostante mi tenessi aggrappato al parapetto. Non capivo se la voce venisse da lontano o
dal fondo del fiume, ma era quella della ragazza che si era ammalata. Di riflesso ho detto:
«Sì?» La mia risposta è risuonata talmente forte che, ripercuotendosi sull’acqua silenziosa,
mi ha fatto sobbalzare. Mi sono guardato intorno. Non si vedeva nessuno, né un essere
umano, né un cane, nemmeno la luna. Allora in quel momento, avvolto dalle tenebre, ho
provato l’impulso irrefrenabile di andare verso quella voce. Che di nuovo mi chiamava, mi
trafiggeva le orecchie, una voce sofferente che sembrava pregarmi, chiedermi aiuto…
«Eccomi, vengo», ho risposto questa volta, e sporgendomi dal parapetto ho guardato
l’acqua nera del fiume. Per una sorta di miracolo la voce sembrava proprio venire da lì, dal
fondo del fiume. È lì, è lì sotto, ho pensato, e sono salito in piedi sul parapetto. La prossima
volta che mi chiama, mi butto, ho deciso contemplando la corrente, e di nuovo una voce
sottile come un filo è venuta a galla. È il momento, ho pensato. Ho raccolto le forze, ho
fatto un salto in aria, senza provare il minimo rimpianto, e sono caduto come un sasso».
«Allora ti sei davvero buttato?» domanda il mio padrone sbattendo le palpebre.
«Non credevo che saresti arrivato a tanto», aggiunge Meitei stringendosi la punta del
naso.
«Dopo aver saltato, ho perso i sensi, e per un po’ sono rimasto tramortito. Quando
finalmente ho aperto gli occhi e sono tornato in me, ho constatato che avevo sì freddo, però
non ero bagnato né avevo ingoiato acqua. Eppure ero sicuro di essermi buttato, che strano!
C’era qualcosa che non quadrava… allora mi sono guardato intorno e sono rimasto di
stucco. Invece di saltare nell’acqua, com’era mia intenzione, avevo sbagliato direzione ed
ero atterrato sul ponte, un errore davvero imperdonabile. Avendo perso il senso
dell’orientamento, non ero riuscito a raggiungere il luogo da dove proveniva la voce».
Sorridendo impacciato, di nuovo Kangetsu si mette a giocherellare con le stringhe
dell'haori, come fa sempre.
«Ha, ha, ha, questa sì che è bella! Curioso come la tua esperienza assomigli alla mia.
Possiamo diventare materiale di studio per il professor James. Se tu scrivessi un articolo
intitolato La sintonia umana, faresti scalpore nel mondo letterario. Ma come sta ora quella
signorina?» si informa il professor Meitei.
«Due o tre giorni fa, quando sono passato a fare gli auguri alla famiglia, stava giocando a
volano con la domestica vicino al cancello, quindi dev’essere del tutto guarita».
Il padrone, che non fiatava da qualche minuto, non volendo essere da meno a quel punto
interviene:
«Anche a me è successo qualcosa», dichiara.
«A te? Cosa è successo a te?» fa Meitei, che non tiene il mio padrone in alcun conto.
«E anche a me alla fine dell’anno».
«Strano che a tutti sia successo qualcosa alla fine dell’anno», ride Kangetsu. Sul dente
davanti rotto gli è rimasto attaccato un pezzo di mochi.
«E nello stesso giorno alla stessa ora, scommetto», incalza Meitei.
«No, il giorno non credo che fosse lo stesso. Credo che fosse il ventidue. Mia moglie mi
aveva chiesto, come regalo di Capodanno, di portarla a sentire Settsu Daijo 23. Non avendo
motivo di rifiutare, le ho chiesto cosa recitasse quel giorno e lei, consultato il giornale, ha
risposto: "Unagidani". Poiché Unagidani non mi piace, ho deciso che ci saremmo andati
un’altra volta. Il giorno dopo mia moglie porta di nuovo il giornale e mi fa: «Oggi danno
Horikawa, ci andiamo?» Ho rifiutato un’altra volta: Horikawa è tutto basato sul suono
dello shamisen, è troppo frivolo, non ha sostanza. Lei s’è allontanata delusa. Il terzo giorno
mi ha annunciato che davano Sanjusangendo. «Voglio assolutamente sentire
Sanjusangendo recitato da Settsu. A te può anche non piacere, ma visto che è un regalo per
me, per favore accompagnami», ha insistito per l’ultima volta. «Se ci tieni tanto, andiamo
pure», le ho detto, «ma ci sarà una gran folla perché hanno annunciato che è l’ultima recita
di Settsu, e presentandoci così senza prenotazione non riusciremo a trovare posto. Per
entrare l’unico modo è andare nella casa da tè adiacente e da lì negoziare per ottenere dei
posti convenienti. Senza rispettare questa prassi e ignorando le regole, non si riesce a
entrare, quindi mi dispiace, ma oggi non se ne fa nulla». A quel punto mia moglie si è
arrabbiata: «Io sono una donna e queste cose difficili non le capisco, ma la madre del
signor Ohara e Kimiyo, la figlia dei Suzuki, sono andate e hanno avuto degli ottimi posti,
anche senza fare tutta questa trafila. Stai veramente esagerando, non hai alcun bisogno di
fare tante storie, anche se sei un professore» e aveva già il pianto nella voce. «Allora
andiamo», ho detto, «anche se rischiamo di non trovare posto. Prima ceniamo, poi
raggiungiamo il teatro con il tram». «No, dobbiamo essere lì per le quattro, quindi non c’è
tempo da perdere». Improvvisamente era piena di energia. Quando le ho chiesto perché
bisognava essere lì così presto, mi ha ripetuto quello che le aveva detto Kimiyo, che se non
si arrivava con molto anticipo non si poteva entrare. «Allora dobbiamo assolutamente
essere lì per le quattro?» ho insistito. «Sì, esatto», mi ha risposto lei. In quel momento è
successa una cosa strana: sono cominciati i tremori».
«Tua moglie si è messa a tremare?»
«Mia moglie? No, io. Mia moglie era in perfetta forma. Tutt’a un tratto ho avuto
l’impressione di sgonfiarmi di colpo come un palloncino bucato, ho visto tutto nero e non
riuscivo più a muovermi».
«Un malore repentino», commenta Meitei.
«Sì, una cosa tremenda. Per una volta all’anno che mia moglie mi chiedeva qualcosa,
volevo a tutti i costi accontentarla. Non faccio che sgridarla o non risponderle, o criticarla
per come amministra le nostre finanze. Lascio che si occupi sempre lei delle bambine e non
l’ho mai ricompensata, nemmeno una volta, per tutta la pena che si dà. Quel giorno per
fortuna avevo un po’ di tempo, e quattro o cinque banconote nel borsellino. Potevo portarla
da qualche parte. Lei voleva uscire, e io ci tenevo a farla contenta. Davvero. Ma come
potevo salire su un tram con quei brividi, e senza vedere nulla? Non riuscivo nemmeno a
infilarmi le scarpe… Più continuavo a dirmi «quanto mi dispiace, quanto mi dispiace», più
i tremori aumentavano e meno ci vedevo. Ho pensato che se avessi consultato subito il
medico e mi fossi fatto prescrivere un farmaco, forse ce l’avrei fatta a guarire per le quattro,
così mi sono consigliato con mia moglie e ho mandato a chiamare il dottor Amaki. Ma il
dottore era di guardia all’ospedale universitario dalla sera prima e sarebbe tornato solo alle
due, ci è stato detto, appena fosse rincasato sarebbe subito corso da noi. Un bel guaio. Se
23
Nome d’arte di Takemoto Kojishidayu (1836-1917), attore specializzato nella recita di ballate.
avessi potuto prendere un infuso di noccioli d’albicocca sarei sicuramente guarito per le
quattro, ma quando la sfortuna ci si mette tutto va storto, la mia gioia al pensiero di vedere
una volta tanto il sorriso sul viso di mia moglie sembrava destinata a svanire. Mi ha chiesto
risentita se veramente non me la sentivo di andare. «Ci andiamo, stai tranquilla, ci
andiamo», le ho detto. «Per le quattro vedrai che starò bene, quindi non ti preoccupare.
Vai pure a lavarti la faccia e a cambiare kimono, poi aspettami». Dentro di me però ero in
preda a una profonda agitazione. I tremori andavano aumentando e il senso di vertigine
era sempre più forte. Se per le quattro non fossi stato meglio e non avessi potuto
mantenere la promessa, mia moglie, che è una donna piuttosto meschina, chi sa che
reazione avrebbe potuto avere! Ero in una situazione terribile. Non sapevo cosa fare. Poi mi
è venuto in mente che in quanto marito, finché ero ancora nel pieno possesso delle mie
facoltà mentali, era mio dovere spiegare a mia moglie le leggi e le vie dell’incostanza e della
caducità delle cose umane. L’ho fatta venire nel mio studio. Quando è arrivata le ho detto:
«Benché tu sia una donna, penso che tu sia a conoscenza di quel proverbio inglese che dice:
many a slip, twixt the cup and the lip 24», ma lei è andata su tutte le furie. «Cosa vuoi che
ne sappia di quella roba lì, di quelle frasi scritte in orizzontale! Lo fai apposta a usare
l’inglese anche se sai benissimo che non lo capisco, per prendermi in giro. Bravo! Se ti piace
tanto l’inglese, perché non ti sei sposato una di quelle ragazze che hanno studiato alla
scuola cristiana? Non ho mai conosciuto una persona senza cuore come te!» Così mi è
passata la voglia di mettere in atto i miei buoni propositi. Come voi comprenderete, non
avevo usato l’inglese con intenzione malevola. Era stato il sincero amore per mia moglie a
farmi uscire di bocca quella frase, perciò la sua interpretazione distorta mi ha disorientato.
Inoltre la mia mente cominciava a offuscarsi a causa dei tremiti e delle vertigini, e nella
fretta di spiegarle in blocco le ragioni dell’incostanza e della caducità delle cose umane
provavo un forte affanno. Per questo mi era venuto spontaneo parlarle in inglese,
dimenticando che lei non lo capisce. Ora mi rendo conto che ho fatto male, che è stato uno
sbaglio in conseguenza del quale i tremiti sono aumentati e le vertigini pure. Mia moglie ha
fatto come le avevo ordinato: è andata in bagno, si è svestita a metà, si è lavata e incipriata
le spalle, poi ha tirato fuori dal cassettone un altro kimono e si è cambiata. Dopodiché si è
messa in attesa, come chi è pronto a uscire in qualunque momento. Io ero sempre più
nervoso. Ho guardato l’orologio nella speranza che arrivasse Amaki. Erano già le tre,
mancava solo un’ora alle quattro. «Cominciamo ad avviarci?» ha chiesto mia moglie
aprendo la porta dello studio e sporgendo dentro la testa. So che non si deve lodare la
propria moglie, ma non mi è mai parsa così bella come in quel momento. La sua pelle,
lavata accuratamente con il sapone, messa in risalto dall'haori di seta nera, splendeva.
Sembrava brillare per ragioni sia materiali che spirituali, sia per il sapone che per il
desiderio di ascoltare Settsu Daijo. Mi sono detto che dovevo assolutamente soddisfare
quel desiderio e darle la gioia di portarla fuori. Rinvigorito da quella decisione stavo
fumando, quando finalmente è arrivato il dottor Amaki. Proprio al momento giusto, come
speravo. Gli ho descritto le mie condizioni e Amaki mi ha osservato la lingua, mi ha stretto
le mani, mi ha dato qualche colpetto sul petto, qualche pacca sulla schiena, sollevato le
palpebre, tastato la testa, poi per un po’ ha riflettuto. «Dottore, sono in pericolo?» ho
iniziato a dire, al che lui con molta calma fa: «No, no, non è niente di grave». «Uscire un
po’ non gli nuocerà certo, vero?» ha chiesto mia moglie. «Mah», ha risposto il dottore
riflettendo di nuovo, «se non si sente troppo male…» «Sì che mi sento male», ho detto io.
«Allora a ogni buon conto è meglio che le prescriva un tranquillante e una medicina da
bere». «Qual è la sua impressione, dottore, può essere pericoloso?» ho chiesto. «No, non
24
"Si possono fare molti sbagli nel tempo necessario per portare la tazza alla bocca".
c’è assolutamente da preoccuparsi, non si deve innervosire», ha risposto Amaki, poi se n’è
andato. Erano già le tre e mezzo passate. La serva è stata spedita a comprare le medicine. Si
è precipitata fuori di corsa su ordine di mia moglie, e di corsa è ritornata. Mancava un
quarto d’ora alle quattro. Ancora quindici minuti. E proprio in quel momento mi è venuta
la nausea, che prima non avevo. Mia moglie ha versato la medicina in una tazza e l’ha
posata davanti a me: l’ho presa in mano e ho fatto per bere, quando dal mio stomaco è
uscito un rutto che pareva un grido di battaglia. Ho dovuto posare di nuovo la tazza.
«Perché non bevi in fretta?» mi ha incalzato mia moglie. Già, dovevo bere in fretta e uscire
in fretta per mantenere la promessa. Ho afferrato di slancio la tazza e stavo per portarla
alle labbra, quando un altro rutto insopprimibile me l’ha impedito. E avanti così, ogni volta
che volevo bere dovevo posare la tazza, finché a un certo punto la pendola del soggiorno ha
suonato le quattro. Erano già le quattro. Bando agli indugi, mi dico, afferro ancora una
volta la tazza ed ecco che succede una cosa strana. Una cosa davvero strana, sapete?
Appena sono suonate le quattro, la nausea è sparita e sono riuscito a bere la medicina senza
problemi. E verso le quattro e dieci ho capito che l’ottima reputazione del dottor Amaki è
pienamente meritata: sia i tremiti alla schiena che il senso di vertigine si erano dileguati
come per incanto, con mia grande gioia quel malore che credevo mi avrebbe costretto a
letto era passato del tutto».
«Allora ci siete andati a teatro?» chiede Meitei con la faccia di chi non ha colto il punto
essenziale della storia.
«Ci volevo andare, ma ormai erano le quattro passate, anche mia moglie pensava che
non avremmo trovato posto, così abbiamo rinunciato. Se il dottor Amaki fosse arrivato un
quarto d’ora prima, avrei potuto mantenere la promessa e lei sarebbe stata contenta, ma
per una differenza di quindici piccoli minuti… che peccato! A ripensarci adesso, mi rendo
conto che ho corso un grosso rischio».
Finito il racconto, il mio padrone per un po’ assume l’atteggiamento di chi ha fatto il
proprio dovere. Forse pensa di essere ormai in pari con i suoi amici.
«Sì, un vero peccato», commenta Kangetsu con il solito sorriso che mette in mostra il
dente rotto.
«È proprio fortunata, tua moglie, ad avere un marito premuroso come te», fa Meitei con
finta innocenza, come parlando fra sé. Al di là degli shoji si sente la padrona schiarirsi la
gola.
Io ho ascoltato senza battere ciglio le storie che questi tre uomini hanno raccontato uno
dopo l’altro, senza trovarle né divertenti né tristi. Ho soltanto pensato che gli esseri umani
parlano a vanvera per far passare il tempo, ridono di ciò che non fa ridere, considerano
spassoso ciò che non lo è. Non sanno fare altro. Sapevo già che il padrone era egoista e
meschino, ma poiché d’abitudine non parla molto, mi ero fatto l’idea che ci fosse un lato di
lui a me ancora sconosciuto. E avevo anche un po’ timore di quel suo lato oscuro, ma dopo
averlo ascoltato parlare, di colpo provo per lui solo disprezzo. Perché non è rimasto in
silenzio, limitandosi ad ascoltare il racconto dei suoi amici? Cosa ci ha guadagnato a dire
tutte quelle ridicole sciocchezze, solo per non essere da meno? Mi chiedo se sia un
comportamento consigliato da Epitteto. In conclusione, il mio padrone, Kangetsu e Meitei
sono uomini egocentrici che non si curano di nessuno, credono di essere giunti a un livello
spirituale superiore, ma in realtà ondeggiano come zucche vuote al vento, mossi solo da
avidità terrene e cupidigia. L’ansia della competizione e il desiderio di vincere trapela dalle
loro conversazioni quotidiane, ancora un passo e diventeranno animali della stessa specie
di quegli uomini di mondo che criticano aspramente. Tutto ciò agli occhi di un gatto è
davvero pietoso. Il solo punto a loro vantaggio è l’eleganza dei loro discorsi, tanto lontana
dalla volgarità della gente comune.
A questo pensiero di colpo la conversazione dei tre uomini non mi interessa più e decido
di fare un giro nel giardino della maestra di koto a due corde per vedere come sta Micetta.
Ormai sono passati dieci giorni da Capodanno e la corona augurale di rami di pino è già
stata tolta dal cancello, il sole della radiosa giornata primaverile illumina in un colpo solo il
mondo intero, e il piccolo giardino di soli dieci tsubo è molto più allegro e vivace di quanto
non lo fosse a Capodanno nella prima luce del mattino. Un cuscino è posato nella veranda,
ma non si vede nessuno, anche gli shoji sono chiusi, forse la maestra è andata ai bagni
pubblici. La sua assenza mi importa poco, ciò che mi preoccupa è sapere se Micetta sta un
po’ meglio. Visto che in giro non c’è anima viva, salgo zitto zitto sulla veranda con le mie
zampe infangate e mi accoccolo sul cuscino, sto proprio comodo. Tanto che a poco a poco
mi dimentico di Micetta e finisco con l’appisolarmi, ma all’improvviso al di là degli shoji
sento delle voci umane.
«Grazie mille. Era pronta?» Evidentemente la maestra non era uscita.
«Sì. Mi scusi se ho fatto tardi, ma quando sono arrivata al negozio di pompe funebri il
padrone mi ha detto che la stava finendo».
«Fammela vedere. Oh, ma è bellissima! Con questa, Micetta potrà riposare in pace. La
doratura non verrà via, vero?»
«No, ho insistito perché usasse materiale di prima qualità, mi ha detto che durerà più a
lungo di una tavoletta mortuaria umana… inoltre ha detto che il carattere yo nel nome
postumo25 di Micetta, Myoyoshinyo, è più bello se scritto nel modo abbreviato, quindi ha
diminuito il numero dei tratti».
«Va bene ugualmente, adesso mettiamo subito la tavoletta sul butsudan e accendiamo
un bastoncino d’incenso».
Cos’è successo a Micetta? Questa conversazione non mi convince, mi alzo in piedi sul
cuscino. Si sente un tintinnio… poi la voce della maestra che intona un sutra: namu
Myoyoshinyo, namu Amida Butsu, namu Amida Butsu…
«Mettiti anche tu a recitare la preghiera per i morti», aggiunge.
Ora si sente anche la voce della serva intonare: namu Myoyoshinyo, namu Amida
Butsu, namu Amida Butsu… Tutt’a un tratto provo una grande agitazione. In piedi sul
cuscino, resto immobile come una statua, non muovo nemmeno gli occhi.
«Che tristezza! E pensare che tutto è cominciato con un raffreddore».
«Se il dottor Amaki le avesse dato una medicina, forse sarebbe guarita».
«Sì, è tutta colpa sua, non ha preso Micetta sul serio».
«Non devi parlare male della gente. Era il destino di Micetta». Pare che anche Micetta
sia stata visitata dal dottor Amaki.
«In conclusione, sai cosa penso? Che è tutta colpa di quel gattaccio che vive qui dietro, a
casa del professore, è lui che l’ha portata fuori senza riguardo per la sua salute».
«Sì, quel disgraziato è stato la rovina di Micetta».
Io vorrei difendermi, ma non è il momento di reagire, inghiotto la saliva e ascolto. La
conversazione prosegue a tratti.
«Nella vita non si può sempre fare come si vuole. Pensare che una gatta bella come
Micetta è morta così giovane… mentre quel gattaccio sta benone e continua a fare danni!»
«Ha proprio ragione, signora. Qualcuno adorabile come Micetta non lo si trova
nemmeno a cercarlo con il lanternino».
25
Nel rito buddhista il defunto riceve dal prete un nome diverso da quello avuto in vita, nome che viene iscritto su due
tavolette funerarie, poste una sulla tomba e una sul butsudan, l’altare per i defunti che si tiene in casa.
«Qualcuno», ha detto la serva, e non «un gatto». Evidentemente nella sua concezione
tra i gatti e gli esseri umani non c’è differenza. E, a guardarla bene, la sua faccia assomiglia
moltissimo a quella di un gatto.
«Se soltanto al posto di Micetta…»
«Fosse morto il randagio che vive da quel professore! Sarebbe stata la soluzione ideale!»
Peccato che questa soluzione ideale a me non vada affatto bene. Morire è un’esperienza
che non ho ancora fatto, quindi non posso dire se sia bella o brutta, ma l’altro giorno è
successo questo: faceva davvero freddo e mi ero raggomitolato nel vaso dove si butta la
cenere ancora calda, quando O-san, non sapendo che ero lì dentro, l’ha chiuso con il
coperchio. Ho ancora paura al ricordo del senso di soffocamento provato in quel momento.
La mia amica Bianca mi ha poi spiegato che se quel senso di soffocamento fosse durato
ancora un po’ sarei morto. Non avrei alcun rimpianto a prendere il posto di Micetta, ma se
per morire devo passare attraverso una tale sofferenza, non ho intenzione di farlo per
nessuno.
«Nonostante sia una gatta, le abbiamo fatto leggere i sutra dal prete del tempio Gekkei e
le abbiamo dato un nome postumo, non può davvero avere rimpianti».
«Ha proprio ragione, signora. È una gatta davvero fortunata. L’unica cosa, forse il rito
funebre di quel prete era un po’ troppo sbrigativo».
«Sì, anche a me è sembrato un po’ corto. Infatti gliel’ho detto, che era stato molto
rapido, e sai cosa mi ha risposto? «Sì, ho letto soltanto le parti essenziali, trattandosi di un
gatto è più che sufficiente per spedirlo dritto nella Pura Terra di Buddha»».
«Un bel coraggio! A ogni modo, nel caso di quel randagio…»
Ho più volte fatto presente che non ho un nome, ma questa serva continua a chiamarmi
«randagio». È una gran maleducata.
«…i suoi peccati sono così gravi, signora, che tutti i sutra del mondo non potrebbero
mandarlo in Paradiso».
Non so quante volte ancora mi hanno dato del «randagio». A un certo punto ho smesso
di ascoltare quella conversazione interminabile, sono scivolato giù dal cuscino, sono sceso
dalla veranda e drizzando tutti insieme i miei ottomilaottocentottantotto peli mi sono
scrollato. Da allora non sono più tornato a casa della maestra di koto a due corde. È
probabile che anche a lei ormai il prete del tempio Gekkei dedichi preghiere un po’ troppo
sbrigative.
Di questi tempi non ho il coraggio di uscire. Il mondo mi mette tristezza. Sono diventato
un gatto apatico quanto il mio padrone. Finalmente ora capisco perché la gente attribuisce
a una delusione d’amore la tendenza del padrone a starsene sempre rintanato nel suo
studio.
Visto che non ho ancora acchiappato un solo topo, una volta O-san ha osato proporre di
cacciarmi via, ma il padrone sa bene che non sono un gatto ordinario e mi ha permesso di
continuare a condurre la mia vita indolente in questa casa. Gli sono profondamente grato
della sua bontà e non esito a mostrargli rispetto per la sua perspicacia. Non me la prendo
quando O-san, ignorando chi veramente io sia, mi maltratta. Da un momento all’altro può
presentarsi un Hidari Jingoro26 a scolpire la mia immagine su un pilastro del portale del
tempio, oppure uno Steinlen27 giapponese che si incapricci di me e disegni la mia faccia su
una tela, e quel giorno gli stolti che non vedono più in là del loro naso per la prima volta si
vergogneranno della propria ottusità.
26
27
Jingoro il Mancino. Scultore di leggendaria abilità, vissuto forse nel diciassettesimo secolo, di cui non si sa quasi nulla.
Théophile Alexandre Steinlen (1859-1923), pittore francese d’origine russa.
3
Micetta è morta, il Nero del vetturino non è un interlocutore valido, e io mi sento un po’
solo, ma per fortuna conosco molte persone e almeno non mi annoio. Di recente un tale ha
scritto al mio padrone chiedendogli di spedirgli una mia fotografia. E qualcuno ha mandato
delle ciambelle di miglio, una specialità di Okayama, apposta per me. Più gli esseri umani
si mostrano solleciti nei miei confronti, più tendo a dimenticare che sono un gatto. A poco
a poco mi sento più vicino a loro che ai miei simili, e ho rinunciato del tutto al progetto di
chiamare a raccolta la gens felina per regolare il conto agli animali a due zampe, maschi o
femmine che siano. È incoraggiante il fatto che io sia evoluto al punto da prendermi a volte
per un uomo. Non che ora disprezzi la mia razza, semplicemente è naturale che mi trovi più
a mio agio presso coloro con cui mi sento più in sintonia. Mi dispiacerebbe molto se per
questo qualcuno mi accusasse di incostanza, superbia o viltà; chi esprime questo genere di
critiche spesso è un mediocre privo di elasticità mentale. Ora che mi sono liberato delle mie
abitudini feline, non posso più limitare i miei interessi alle vicende di Micetta e del Nero
del vetturino, mi viene spontaneo giudicare i loro pensieri e la loro condotta con
un’altezzosità pari a quella umana. È comprensibile. Ebbene, nonostante io abbia acquisito
un tale livello di discernimento, il mio padrone, che mi considera poco più di un gatto
ordinario, non si degna di rivolgermi la parola e purtroppo ha mangiato tutte le ciambelle
di miglio, come se il destinatario fosse lui. Quanto alla mia fotografia, ancora non l’ha né
scattata né spedita. Anche questo se vogliamo è ingiusto, ma lui è quello che è, io sono
quello che sono, e se le nostre opinioni divergono, non c’è nulla da fare. A ogni modo mi
considero ormai un essere umano a tutti gli effetti, quindi non riesco più a scrivere per
raccontare le imprese di gatti che non frequento più. Chiedo pertanto di esserne esonerato
per occuparmi soltanto di Meitei, Kangetsu e tutti gli altri eruditi.
Oggi è una domenica di sole, il mio padrone è emerso dallo studio, ha disposto in fila
accanto a me pennello, inchiostro e un bel foglio di carta, poi si è disteso bocconi e si è
messo a mugolare febbrilmente qualcosa. Lo tengo d’occhio, pensando che stia per
partorire qualche opera letteraria, e alla fine vedo che ha scritto in pennellate molto spesse:
bruciamo un bastoncino d’incenso. Che sia l’inizio di una poesia moderna o di un haiku,
sono parole un po’ troppo ricercate per lui. Comunque non finisce il verso e ricomincia da
capo, tracciando velocemente: è da un bel po’ che penso di scrivere qualcosa su
Tennenkoji1. Poi il pennello si ferma. Senza posarlo il padrone assume un’espressione
perplessa, ma non sembra che gli vengano idee brillanti perché comincia a leccarne la
punta. Finché le labbra gli diventano completamente nere, e a quel punto disegna un
cerchio sotto la seconda frase. Dentro il cerchio due punti, gli occhi. Nel mezzo il naso con
le narici e un singolo tratto orizzontale per la bocca: nell’insieme non è né una frase né un
haiku. Anche il padrone sembra disgustato di sé, perché si affretta a cancellare la faccia.
Inizia una nuova riga. È convinto che gli basti scrivere una riga perché questa si trasformi
in una poesia, un’iscrizione, un ricordo, insomma qualcosa, non nutre il minimo dubbio in
proposito. Alla fine scrive di slancio in stile colloquiale: Tennenkoji - il laico santo e
ragionevole - studiava l’infinito, leggeva Confucio, mangiava patate arrostite, e gli
colava il naso. Come periodo è zoppicante. Comunque lui ha la spudoratezza di rileggerlo
1
Nome postumo di un ex compagno di liceo di Soseki.
ad alta voce, poi stranamente scoppia in una risata ed esclama: «Divertentissimo! Gli
colava il naso però non è gentile», e tira una riga sulla frase. Una riga basterebbe, ma lui
ne tira un’altra, e un’altra ancora, tutta una serie di parallele perfette. Senza badare al fatto
che vanno a coprire parte delle altre frasi. Dopo averne tracciate otto, sembra che non
sappia cos’altro scrivere, per cui posa il pennello e comincia ad arricciarsi i baffi. Ad
arrotolarli furiosamente, come se volesse tirarne fuori delle parole, e proprio in quel
momento la moglie esce dal soggiorno e viene a sedersi esattamente di fronte a lui.
«Ti dovrei parlare», inizia.
«Di cosa?» risponde lui con una voce che ricorda un gong suonato sott’acqua.
«Ti dovrei parlare», ripete la moglie a quella risposta distratta.
«Che cosa c’è?» fa lui strappandosi un pelo da una narice con il pollice e l’indice.
«Questo mese siamo rimasti un po’ a corto…»
«Non capisco perché. Ho già pagato il medico e le medicine, e ho anche saldato il conto
del mese scorso alla libreria. Dovrebbero avanzare dei soldi, altro che non bastare!»
protesta il padrone osservando un altro pelo che si è strappato dal naso come se fosse una
delle meraviglie del mondo.
«Sì, però tu adesso il mattino vuoi pane e marmellata, invece del riso…»
«Non credo di averne consumati tanti barattoli!»
«Otto per la precisione, questo mese».
«Otto? Non mi pareva di averne mangiata tanta».
«Be’, non solo tu, anche le bambine».
«Sì, ma a dir molto quanto sarà costata? Cinque o sei yen?» ribatte il padrone con fare
distaccato, sistemando i peli del naso uno accanto all’altro sul foglio. Stanno dritti come
aghi sull’estremità cui è rimasta attaccata qualche particella di carne. Incantato da quella
scoperta, il padrone ci soffia sopra, ma i peli, che sono molto appiccicosi, non volano via.
«Ma guarda che testoni…» fa lui soffiando con più forza.
«Non c’è soltanto la marmellata. Le cose da comprare sono tante», insiste la moglie
gonfiando le guance per il disappunto.
«Già, è probabile», ammette lui infilandosi di nuovo due dita nel naso e strappandosi un
altro pelo. Tra i peli neri e quelli rossi ce n’è anche uno bianco. Lui lo osserva a lungo, al
colmo dello stupore, poi tenendolo fra la punta delle dita lo mette davanti agli occhi della
moglie.
«Che schifo», fa lei storcendo la faccia e spostando la mano del marito.
«Guarda qui, un pelo bianco, me lo sono tolto dal naso!» insiste il marito che sembra al
colmo dell’emozione. Come c’era da aspettarsi, la padrona alla fine ride e torna in
soggiorno, rinunciando evidentemente a risolvere il problema economico.
Essendo riuscito ad allontanare la moglie grazie ai peli del proprio naso, lui ritrova la
calma. Ha fretta di rimettersi a scrivere, ma si è bloccato con il pennello in mano.
«Anche mangiava patate arrostite non è necessario, togliamolo!» fa, e cancella la frase.
«Bruciamo un bastoncino di incenso non c’entra niente, via anche questo!» E lo
censura. Ormai resta soltanto una frase, Tennenkoji studiava l’infinito e leggeva Confucio.
Una sola frase è veramente troppo poco, pensa, ma ormai si è stufato, decide di lasciar
perdere e limitarsi a un epitaffio. Cancella tutto tracciando una croce con il pennello, poi
disegna malamente un’orchidea come facevano i pittori-letterati. Dopo tanti sforzi ha
prodotto soltanto questo, non ha lasciato nemmeno una riga. Ora gira il foglio dall’altra
parte e sul retro scrive: Nacque nello spazio, studiò lo spazio e nello spazio infinito morì;
in-finito, Tennenkoji, ma nel bel mezzo di questa frase dal significato oscuro ecco che entra
il solito Meitei. Il professor Meitei sembra convinto che non ci sia differenza tra la sua casa
e quella degli altri, entra senza essere introdotto e a volte gli succede addirittura di
intrufolarsi non visto dalla porta sul retro, è un uomo che al momento della nascita si è
liberato una volta per tutte di ansia, discrezione, senso del dovere, sofferenza.
«Ti stai ancora occupando del Gigante Magnetismo?» domanda prima ancora di
prendere posto su un cuscino.
«Non è che passi il mio tempo a tradurre il Gigante Magnetismo. Stavo componendo un
epitaffio per la lapide di Tennenkoji», risponde con enfasi il padrone.
«Tennenkoji? Cos’è, un nome postumo del genere di Guzendoji, «figlio del caso»?»
chiede facendo una delle sue stupide battute.
«Esiste il nome Guzendoji?»
«No, ma pensavo che fosse più o meno la stessa cosa».
«Non ho mai sentito di qualcuno che si chiami «figlio del caso», ma Tennenkoji è una
persona che tu conosci».
«A chi mai possono aver appioppato un nome del genere?»
«A Sorozaki. Dopo la laurea è entrato nel corso di dottorato e ha scritto una tesi dal
titolo Teoria dello spazio, ma ha studiato troppo, gli è venuta una peritonite ed è morto.
Era un mio carissimo amico».
«D’accordo, era un tuo carissimo amico, non lo sto criticando. Ma chi ha avuto la cattiva
idea di trasformare il suo nome in Tennenkoji - il laico santo e ragionevole?»
«Io. Gliel’ho dato io questo nome. Perché i nomi che danno i preti buddhisti sono
sempre molto banali», risponde il padrone, fiero di quella che considera una pensata
geniale.
«Be’, fammi vedere l'epitaffio allora», fa Meitei ridendo. Prende il foglio e legge ad alta
voce: «Dunque… Nacque nello spazio, studiò lo spazio e nello spazio infinito morì. Infinito, Tennenkoji. Bene, ottimo. Proprio quel che ci voleva per Tennenkoji».
«Allora ti piace?» domanda il padrone tutto contento.
«Dovresti farlo scolpire su una di quelle pietre che si usano per tenere schiacciati i
sottaceti, poi deporla dietro il padiglione principale del tempio dove lui riposa, potrebbe
servire per allenarsi al sollevamento pesi. Sarebbe molto elegante, Tennenkoji ne sarebbe
felice».
«Sì, anch’io pensavo di fare così», risponde il mio padrone con la massima serietà. «Ma
scusami un momento, torno subito, intanto puoi giocare con il gatto». Ed esce senza
attendere la risposta dell’amico.
Poiché mi è stato ordinato di intrattenere il professor Meitei, non posso permettermi di
mostrarmi scontento, lo lusingo con qualche miagolio e gli salgo sulle ginocchia. Al che
Meitei mi prende senza tanti riguardi per la collottola e sollevandomi a mezz’aria fa:
«Ehi, ti sei fatto bello grasso, tu! Guarda come lasci pendere le zampe posteriori,
scommetto che non prendi nemmeno un topo… Cosa mi dice, signora? Acchiappa topi,
questo gatto?» continua rivolto verso la padrona nella stanza accanto, osservandomi con
l’aria di non considerarmi granché.
«Altro che prendere topi, questo mangia mochi e poi si mette a ballare», risponde la
padrona, rivelando del tutto a sproposito il mio vecchio crimine.
Sospeso per aria, muoio di vergogna. E Meitei non mi mette giù.
Tanto per continuare a parlare con la padrona, dice la prima cosa che gli passa per la
testa:
«Già, ha proprio la faccia di uno capace di mettersi a ballare. Signora, questo gatto
dev’essere un furbo di tre cotte. Somiglia a Nekomata, quel gatto mostruoso eroe di tanti
libri illustrati di una volta».
La padrona smette di cucire e con aria tediata viene nello studio.
«Mi spiace che lei si stia annoiando, mio marito torna subito», dice versando del tè in
una tazza pulita e posandola davanti a Meitei.
«Dove può essere andato?»
«Oh, chi lo sa, non c’è mai una volta che dica dove va. Forse si è recato dal medico».
«Il dottor Amaki? Una bella disgrazia anche per lui, aver a che fare con un paziente
come suo marito!»
«Già», si limita a rispondere la padrona, non trovando nient’altro da dire.
«Negli ultimi tempi come si sente?» continua Meitei senza scoraggiarsi. «Il suo stomaco
è un po’ migliorato?»
«Nessuno può dire se sia migliorato o peggiorato. Può andare dal medico quanto vuole:
mangiando tutta la marmellata che mangia, non potrà mai guarire». La padrona non
resiste al desiderio di tornare sull’argomento dolente rimasto in sospeso.
«È una cosa del tutto infantile, mangiare tanta marmellata».
«Fosse solo la marmellata! Di recente si rimpinza di rapa grattugiata con il pretesto che
cura le malattie di stomaco…»
«Questa poi!» fa Meitei stupefatto.
«Perché ha letto sul giornale che la rapa grattugiata contiene diastase».
«Ma guarda. Forse pensa di compensare così i danni della marmellata. Proprio un’idea
intelligente, ha, ha ha!» Meitei sembra divertirsi un mondo ad ascoltare le rimostranze
della padrona.
«L’altro giorno l’ha data da mangiare persino alla più piccola…»
«Le ha dato della marmellata?»
«No, della rapa grattugiata… si figuri che le ha detto: Vieni da papà, che ti dà una cosa
buona». Per una volta che mostra un po’ di tenerezza verso le figlie, lo vede che guai
combina? Due o tre giorni fa ha preso in braccio la bambina di mezzo e l’ha messa sopra il
cassettone…»
«Con quale intenzione?» Qualunque cosa gli raccontino, Meitei cerca sempre la
spiegazione nelle intenzioni.
«Nessuna intenzione in particolare, semplicemente voleva vederla saltare da lì, una
bambina che non ha neanche quattro anni come può fare certe acrobazie?»
«In effetti, forse parlare di intenzioni è esagerato. Comunque è una brava persona, non
nutre alcun sentimento cattivo».
«Se in più nutrisse sentimenti cattivi, come potrei sopportarlo?» risponde
enfaticamente la padrona.
«Su, su, sono sicuro che non merita tante critiche. È già fortunata, signora, a poter
passare giornate tranquille, senza mancare di nulla… In fin dei conti Kushami è un uomo
riservato, per natura dedito alla famiglia, non spreca il tempo in bagordi, né il denaro in
abiti…» Meitei impartisce in tono scanzonato una predica che non è nel suo carattere.
«Guardi che le cose non stanno proprio così, sa?»
«Ha qualche vizio segreto? Certo che viviamo in una società dove non si può essere
sicuri di nessuno!» butta lì Meitei con noncuranza.
«No, vizi segreti non ne ha, ma compra di continuo libri che poi non legge. Se li
comprasse con un certo discernimento, non mi lamenterei, ma ogni volta che gli salta il
ticchio va alla libreria Maruzen e ne fa scorta, e quando arriva alla fine del mese fa finta di
niente. L’anno scorso ho faticato a pagare le somme che mese dopo mese aveva
accumulato».
«Perché non dovrebbe procurarsi tutte le letture che vuole? Quando vengono a chiedere
di saldare, dica loro che pagherà presto e li mandi via».
«Sì, ma non è che si possa rimandare all’infinito», fa la padrona delusa.
«Allora deve parlare a suo marito e convincerlo a comprare meno libri».
«E lei crede che ascolti, se gli dico una cosa del genere? L’altro giorno mi fa: «Tu non sei
proprio adatta a essere la moglie di uno studioso, non capisci il valore dei libri, senti questa
storia che è successa nella Roma antica. Ascoltala e cerca di trarne lezione»».
«Ah, davvero? E che storia era?» chiede Meitei con improvviso interesse. La curiosità è
più forte del desiderio di mostrarsi solidale con la moglie dell’amico.
«Nell’antica Roma pare che ci fosse un re che si chiamava Taru-kin…»
«Taru-kin? Un barile d’oro? Che nome curioso…»
«Io ho difficoltà con i nomi stranieri, non riesco a ricordarli. Comunque mi pare che
fosse il settimo re».
«Strano che il settimo re fosse un barile d’oro. Comunque che cosa ha fatto, questo
Taru-kin?»
«Cos’è, mi prende in giro anche lei? Allora non ho speranza! Se sa di cosa parlo, me lo
dica per favore. Non è gentile fare così». La padrona ora se la prende con Meitei.
«Non mi sognerei mai di prenderla in giro, signora, mi crede capace di essere tanto
scortese? Semplicemente trovavo strano che il settimo re di Roma fosse un barile d’oro…
Dunque, aspetti un momento, il settimo re, ha detto? Non sono sicuro di ricordare bene,
ma dovrebbe essere Tarquinio il Superbo. Comunque fa lo stesso, chiunque sia. Cos’ha
fatto, questo re?»
«Una donna portò a casa di questo re nove libri e gli propose di acquistarli».
«Bene».
«Il re domandò a quanto li vendeva, e siccome il prezzo era altissimo, le chiese di fargli
uno sconto. Allora la donna prese tre libri, li buttò nel fuoco e li lasciò bruciare».
«Che peccato!»
«In quei tre libri c’erano scritti dei presagi, o qualcosa del genere, che non si potevano
leggere da nessun’altra parte».
«Incredibile!»
«Visto che i libri da nove erano diventati sei, il re pensava che il prezzo fosse un po’
sceso, ma invece era lo stesso, neanche un soldo di meno. «Questo è un sopruso», disse.
Allora la donna prese altri tre libri e li gettò nel fuoco. Il re doveva tenerci davvero ai libri,
perché chiese quanto costassero i tre restanti. Ma il prezzo era lo stesso di prima, come per
tutti e nove. Da nove erano diventati sei, da sei erano diventati tre, ma il prezzo non
scendeva nemmeno di un soldo. Se le chiedo di farmi una riduzione, butterà nel fuoco
anche questi, pensò il re, e finì con il comprarli pagando una somma esorbitante…
«Allora», mi ha chiesto mio marito tutto esaltato, «da questa storia hai capito quanto
dobbiamo ai libri?» Io però non so proprio di cosa debba essere grata».
Chiarita la sua posizione, la padrona attende la risposta di Meitei. Ma persino lui sembra
perplesso, estrae dalla manica del kimono un fazzoletto e cerca di farmi giocare, poi, come
se improvvisamente gli fosse venuto in mente qualcosa, dichiara in tono enfatico:
«Però sa, signora, se Kushami viene a volte indicato come uno studioso di valore, è
perché compra tanti libri e se ne riempie la casa. L’altro giorno, su una rivista letteraria, era
citato il suo nome».
«Veramente?» fa la padrona voltandosi a guardarlo. Il fatto che si preoccupi della
reputazione del marito dopotutto è segno che è una brava moglie. «E cosa c’era scritto?»
«Mah, erano solo due o tre righe… Che la prosa di Kushami è come lo scorrere delle
nuvole, o dell’acqua».
«Tutto qui?» fa la padrona con un mezzo sorriso.
«Poi diceva… «Appena appare si dilegua, e quando si è dileguata, dimentica in eterno di
tornare»».
La padrona sembra poco convinta e chiede in tono preoccupato:
«E questo sarebbe un elogio?»
«Be’, sì, probabilmente sì», taglia corto Meitei sventolandomi il fazzoletto davanti agli
occhi.
«I libri sono il suo strumento di lavoro e mi devo rassegnare, ma lui è veramente troppo
strampalato».
«Per essere strampalato, un po’ lo è», fa Meitei, che si è accorto che la padrona ha
cambiato tattica, «ma gli studiosi sono tutti così». Una risposta ambigua che non prende le
parti di nessuno.
«L’altro giorno, quando è tornato da scuola, doveva subito uscire di nuovo, e siccome
non aveva voglia di cambiarsi, si è messo a mangiare senza nemmeno togliersi il cappotto,
si figuri un po’! Ha posato il vassoio sopra il kotatsu, e io mi sono seduta sui tatami
accanto a lui con la pentola del riso, c’era davvero da ridere…»
«Come nei tempi antichi, quando si ispezionavano le teste tagliate dopo l’esecuzione. In
questo però consiste la sua originalità. Per lo meno non è banale». Una lode un po’ tirata
per i capelli.
«Noi donne certe cose non le capiamo, non so se sia banale o meno. Ma in ogni caso è un
prepotente».
«Sempre meglio prepotente che banale, no?»
Visto che Meitei insiste a difenderlo, la padrona sbotta contrariata: «Tanto per
cominciare, tutti non fanno altro che dire «è banale», ma mi può spiegare cosa significa?»
«Banale? Banale vuol dire… be’, è difficile da spiegare…»
«Se è una cosa tanto dubbia, forse ha anche un lato apprezzabile», incalza la padrona
con tipica logica femminile.
«Non è affatto una cosa dubbia, l’ho ben chiara in testa, semplicemente è diffìcile da
spiegare».
«Non è che si definisce banale tutto ciò che non piace, per caso?» Senza rendersene
conto la padrona coglie nel segno. A questo punto Meitei è obbligato a dare una definizione
del concetto di banalità.
«Signora… banale, per esempio, è chi se ne sta tutto il giorno sdraiato, a ventotto o
ventinove anni, perso nei propri pensieri, oppure quando fa bel tempo se ne va a
passeggiare lungo il fiume Sumida portandosi dietro una bottiglia di sake».
«Ma esistono delle persone così?» Non capendo di cosa stia parlando Meitei, la padrona
dice la prima cosa che le viene in mente. « È troppo complicato, non mi ci raccapezzo», si
arrende infine.
«Supponga di attaccare la testa del maggiore Pendennis2 sul busto di Bakin3 e di esporre
il tutto per uno o due anni all’aria europea».
«In questo modo si otterrebbe una persona banale?»
Meitei ride, ma non dà una risposta soddisfacente. «Non sarebbe necessario arrivare a
tanto», dice, «basterebbe addizionare un allievo delle medie con un garzone di bottega e
dividere il risultato per due, si otterrebbe un magnifico esemplare di banalità».
2
3
Eroe del romanzo semiautobiografico Pendennis, di William Thackeray (1811-1863).
Takizawa Bakin (1767-1848), uno degli ultimi romanzieri dell’epoca Edo.
«Veramente?» fa la padrona piegando la testa di lato, per nulla convinta.
«Sei ancora qui?»
È il padrone, che nel frattempo è ritornato e viene a sedersi sui tatami di fianco a Meitei.
«Ancora qui? Certo che hai una bella faccia tosta. Se sei stato tu a dirmi di aspettarti
perché saresti tornato subito!»
«È sempre così», fa la padrona voltandosi verso Meitei.
«Mentre eri via ne ho sentite di tutti i colori su di te».
«Il problema con le donne è che parlano troppo. Che bello se la gente potesse tacere
come questo gatto!» commenta il padrone carezzandomi la testa.
«Pare che tu abbia dato da mangiare della rapa grattugiata alla più piccola».
«Mmh», sorride lui, «ma ai giorni nostri i bambini sono molto svegli, fin da piccolissimi.
Da allora, quando le chiedo dov’è che le pizzica tira sempre fuori la lingua, incredibile,
no?»
«È una cosa crudele, non è mica un cane da addestrare! Tra parentesi, da un momento
all’altro dovrebbe arrivare Kangetsu».
«Kangetsu sta venendo qui?» chiede scocciato il mio padrone.
«Sì. Gli ho mandato un biglietto per chiedergli di trovarsi qui a casa tua entro l’una».
«Senza nemmeno sapere se ero d’accordo! Fai tutto come ti pare e piace, tu! Perché
diavolo l’hai invitato?»
«Figurati, non sono stato io a invitarlo, è lui che vuole vedermi. Pare che debba tenere
una conferenza all’Associazione dei Fisici, e mi ha chiesto se poteva leggermene il testo. Gli
ho detto che capitava bene, l’avremmo fatto sentire anche a te. È per questo che l’ho fatto
venire qui a casa tua. Tanto hai tutto il tempo che vuoi, che fastidio ti dà? Non ti
preoccupare, basta che lo ascolti», insiste Meitei convinto di sapere di cosa parla.
«Cosa vuoi che capisca io di fisica!» Il padrone mi sembra un po’ offeso dalla
sfrontatezza di Meitei.
«Sai, non si tratta di uno di quegli argomenti aridi come «il magnetismo applicato a un
tubo» o roba del genere. Il tema della conferenza è veramente originale: La dinamica
dell’impiccagione, vale la pena che l’ascolti con attenzione».
«Sei tu che dovresti ascoltare bene, visto che stavi per impiccarti, a me…»
«Uno che si è fatto venire i tremori per uno spettacolo teatrale non può tirarsi indietro»,
butta lì con noncuranza Meitei. La padrona fa una risatina guardando dritto in faccia il
marito e si sposta nell’altra stanza. Lui rimane in silenzio ad accarezzarmi la testa. Questa
volta sono carezze davvero affettuose.
Circa sette minuti dopo questo scambio di battute arriva Kangetsu, ligio alla
convocazione. Visto che stasera deve tenere una conferenza, contrariamente alle sue
abitudini, indossa una magnifica redingote con l’alto colletto immacolato, e sembra due
volte più bello del solito.
«Scusate il ritardo», saluta contegnoso.
«È da un bel po’ che ti aspettiamo, tutti e due. Forza, non perdiamo tempo», fa Meitei
guardando il padrone.
«Mmh», concede lui con riluttanza. Ma Kangetsu non pare avere fretta.
«Posso avere un bicchiere d’acqua, per favore?» chiede.
«Ah, ma allora fai sul serio, la prossima sarà una richiesta di applausi?» Meitei si sta
eccitando da solo.
Kangetsu estrae dei fogli scritti a mano da una tasca interna e dice lentamente: «Com’è
d’uso, se avete delle critiche da fare, vi prego di non avere reticenze». Dopo questa
prefazione dà inizio alla lettura.
«L’impiccagione come esecuzione di una condanna a morte viene utilizzata
principalmente presso le popolazioni anglosassoni, mentre nei tempi antichi era
soprattutto un mezzo di suicidio. Pare che presso gli Ebrei vi fosse l’usanza di lapidare i
criminali. La lettura dell’Antico Testamento ci informa che la parola «impiccare» si riferiva
alla pratica di appendere il cadavere dei condannati in pasto alle bestie selvatiche e agli
uccelli carnivori. Secondo Erodoto, gli Ebrei, anche prima dell’esodo dall’Egitto,
detestavano l’idea che un cadavere venisse lasciato fuori la notte. Quanto agli Egiziani, pare
che decapitassero i criminali e inchiodassero soltanto il busto a una croce per lasciarlo
esposto. I Persiani…»
«Ehi, Kangetsu, ti stai allontanando sempre più dal tema dell’impiccagione, sei sicuro
che vada bene?» interviene Meitei.
«Adesso entro in argomento, la prego di pazientare un momento… dunque, riguardo ai
Persiani, anche loro usavano la crocifissione come forma di pena capitale. Non è chiaro
però se piantassero i chiodi quando il condannato era ancora vivo, o quando era già
morto…»
«Non abbiamo alcun bisogno di chiarirlo», commenta il mio padrone sbadigliando
annoiato.
«Ci sarebbero ancora molte cose da dire su questo tema, ma potrebbe risultare tedioso
per quest’onorevole assemblea…»
«"Essere tedioso", non "risultare", suona meglio. Vero, Kushami?»
Di nuovo Meitei sta cercando il pelo nell’uovo, ma il padrone risponde con noncuranza:
«Fa lo stesso, l’uno o l’altro è uguale».
«Bene, entrerò ora nel vivo dell’argomento iniziando a raccontare…»
«I cantastorie raccontano. Da un conferenziere ci si attende una parola più
appropriata», interrompe di nuovo» professor Meitei.
«"Raccontare" le pare troppo generico? Cosa dovrei usare allora?» ribatte Kangetsu un
po’ offeso.
«Non badare alle sciocchezze che dice il professor Meitei, Kangetsu, non si capisce se
stia ascoltando o si diverta a interrompere. Forza, vai avanti!» lo esorta il padrone, che
vorrebbe superare lo scoglio il più presto possibile.
«Oh, il conforto di un salice, mentre racconto offeso la mia storia…» Come sempre
Meitei tira fuori versi a sproposito. Kangetsu non può fare a meno di scoppiare a ridere.
«Dalle mie ricerche risulta che nel ventiduesimo canto dell’Odissea si fa riferimento
all’impiccagione in quanto pena capitale. Nel passo in cui Telemaco impicca le dodici
ancelle infedeli di Penelope. Potrei leggervelo direttamente in greco, ma darei forse
l’impressione di fare un inutile sfoggio di erudizione, quindi me ne asterrò. È il passaggio
compreso tra la riga 465 e la riga 473…»
«Meglio che tagli questa cosa della lettura in greco, sembra che tu voglia far sapere che
conosci il greco antico. Vero, Kushami?»
«Sì, sono d’accordo. Molto più elegante evitare le ostentazioni». Per una volta tanto il
padrone concorda con Meitei. Né l’uno né l’altro infatti sono in grado di leggere il greco
antico.
«Allora stasera questo paragrafo lo salto. Bene, passo ora a raccontare, uh… a esporre
l’episodio. Proviamo a rappresentarci l’impiccagione: ci sono due modi di metterla in
pratica. Il primo è quello usato da Telemaco che, con l’aiuto di Eumeo e Filezio, legò
un’estremità della corda in cima a un pilastro. Poi praticò nella corda diversi nodi scorsoi,
vi infilò le teste delle donne, una per nodo e, afferrata l’altra estremità della corda, tirò
forte sollevandole».
«Insomma, dobbiamo immaginarci che ha appeso queste donne alla corda come camicie
in una lavanderia?»
«Esattamente. Il secondo modo consiste nel fissare un’estremità della corda a un
pilastro, come nel primo, mentre l’altra estremità fin dall’inizio è attaccata al soffitto. A
questa prima corda se ne appendono diverse altre, si pratica a ognuna un nodo scorsoio e
vi si fa passare la testa delle donne. Il meccanismo consiste nel far saltare via nel momento
fatale il piedistallo su cui le donne poggiano i piedi».
«Mi ricorda quelle tende di corda alla cui estremità sono attaccate tante lanternine, se
ho capito bene».
«Non le ho mai viste, queste tende con le lanternine, quindi non saprei rispondere, ma
se veramente esistono, sì, dovrebbe essere qualcosa del genere. Ora procederò a dimostrare
come il primo metodo non sia possibile dal punto di vista della dinamica».
«Però, interessante», lo incoraggia Meitei.
«Sì… interessante», fa eco il mio padrone.
«Prima di tutto, ipotizziamo che le donne siano appese alla corda a intervalli regolari. E che il
tratto di corda tra le teste delle due donne appese più vicino al suolo sia orizzontale. Con α1, α2, α3...
fino ad α6 indichiamo gli angoli che la corda forma con la linea dell’orizzonte. Considerando che la
forza esercitata su ogni porzione di corda è T1, T2… fino a T6, quella esercitata sulla parte inferiore
sarà pari a T7 = x. Abbiate la cortesia di notare che il peso delle donne è ovviamente P… come va,
mi seguite?»
Meitei e il suo amico Kushami si scambiano uno sguardo.
«Più o meno», rispondono in coro. Poiché sia l’uno che l’altro hanno deciso a proprio
arbitrio il grado di questo «più o meno», è possibile che non sia applicabile a terzi.
«Dunque, riguardo agli angoli, secondo la teoria della compensazione che lor signori sicuramente
conoscono, si possono stabilire le seguenti dodici equazioni: T1 cos α1 = T2 cos α2… (1), T2 cos α2 =
T3 cos α3… (2) …
«Con le equazioni direi che può bastare così», interrompe senza riguardo il padrone.
«Ma se sono la parte essenziale del discorso!» protesta Kangetsu, che sembra tenerci
molto.
«In tal caso, non puoi dircene solo la parte essenziale?» Anche Meitei sembra
apprezzarle poco.
«Senza queste equazioni, lo studio dell’impiccagione dal punto di vista della dinamica
non ha più senso…»
«Non hai bisogno di farti tanti scrupoli, saltale a pie pari e vai avanti», insiste Kushami,
indifferente allo sconcerto di Kangetsu.
«Visto che è quello che volete, le salterò, anche se è assurdo».
«Magnifico», fa Meitei con un applauso del tutto estemporaneo.
«Spostandoci in Inghilterra, in Beowulf4 troviamo la parola «forca», quindi siamo sicuri
che la pena di morte per impiccagione veniva praticata fin da quei tempi. Blackstone 5 da
parte sua sostiene che un condannato all’impiccagione che non muoia al primo tentativo
per qualche difetto della corda, deve venire impiccato una seconda volta, ma stranamente
in Piers Plowman6 troviamo scritto che nessuno dovrebbe venire impiccato due volte. Io
non saprei dire cosa sia giusto, ma è successo spesso che qualcosa non abbia funzionato e il
condannato non sia morto al primo tentativo. Nel 1786 un famoso criminale di nome
4
5
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Poema epico inglese scritto sicuramente prima del decimo secolo, che narra la storia di un principe svedese. Il poema, di
cui si è conservato il manoscritto, era recitato dai menestrelli.
William Blackstone (1723-1780), giurista inglese, autore di Commentaries on the Laws of England.
Piers Plowman (o Visio Willelmi de Petra Ploughman), poema inglese del sedicesimo secolo, attribuito a William
Langland.
Fitzgerald venne impiccato. La prima volta, quando gli tolsero lo sgabello, la corda si
spezzò. Ci riprovarono, ma anche questa volta andò male, la corda era troppo lunga e i
piedi del condannato toccavano terra. La terza volta riuscirono finalmente ad ammazzarlo
con l’aiuto degli spettatori».
«Buona, questa!» fa Meitei, cui l’episodio sembra aver infuso nuovo vigore.
«Veramente una pellaccia, quello lì». Persino il padrone riemerge dall’apatia.
«Altro aspetto interessante, a impiccagione avvenuta si diventa più alti di circa tre
centimetri. Sono state effettuate misurazioni scientifiche, quindi è una cosa appurata».!
«Questa è una novità. Cosa ne dici, Kushami, perché non provi a farti impiccare? Con tre
centimetri in più, diventeresti quasi una persona normale», suggerisce Meitei voltandosi
verso l’amico.
«Ma si sopravvive a questa estensione della colonna vertebrale di tre centimetri?»
risponde lui in tono sorprendentemente serio.
«No, è impossibile. È vero che quando si viene impiccati il corpo si allunga, ma in realtà
la spina dorsale non si tira, si spezza».
«Allora rinuncio», fa il mio padrone rassegnato.
La lettura è durata ancora a lungo, Kangetsu avrebbe voluto parlare anche delle funzioni
fisiologiche di un impiccato ma, a causa delle continue interruzioni di Meitei con
osservazioni sciocche e sfrontate, e degli indelicati sbadigli del mio padrone, ha smesso a
metà e se né andato. Come se la sia cavata la sera, quale eloquenza abbia sfoggiato, non
posso saperlo, perché la conferenza ha avuto luogo molto lontano da qui.
Un paio di giorni dopo, un pomeriggio verso le due si presenta il professor Meitei con la
sua solita aria noncurante da «figlio del caso».
«Di’, hai sentito quello che ha combinato Ochi Tofu a Takanawa?» chiede dopo essersi
seduto, eccitato come se avesse appena annunciato la caduta di Port Arthur.
«No, è da un bel po’ che non lo vedo», risponde con la flemma abituale il mio padrone.
«Con tutto il lavoro che ho, oggi sono venuto apposta per raccontarti della figuraccia che
ha fatto».
«Di nuovo le tue esagerazioni! Sei un uomo di pessimi principi».
«Ha, ha, «di pessimi principi»! No, di’ piuttosto «senza principi». Insisto perché tu
distingua, ne va del mio onore».
«È la stessa cosa», risponde Kushami con finta indifferenza. Sembra la reincarnazione di
Tennenkoji, il laico santo e ragionevole.
«Pare che domenica scorsa Tofu sia andato al tempio Sengaku a Takanawa. Poteva
risparmiarselo, con questo freddo, tanto più che al giorno d’oggi solo i provinciali che non
conoscono Tokyo vanno al tempio Sengaku».
«Tofu può andare dove vuole, non hai alcun diritto di criticarlo per questo».
«D’accordo, hai ragione, non ne ho il diritto, ma lasciamo perdere. All’interno di quel
tempio sono conservate ed esposte le reliquie dei Quarantasette Samurai 7, lo sapevi,
questo?
«Mmh, sì…»
«Non lo sapevi? Ma al tempio Sengaku ci sei stato, no?»
«No…»
«Non ci sei mai stato? Sono stupefatto. Ecco perché difendevi con tanto ardore Tofu!
Una persona nata a Tokyo dovrebbe conoscere il tempio Sengaku».
7
Nel 1702 quarantasette samurai, per vendicare il loro comandante che era stato obbligato a suicidarsi, si introdussero
nella dimora del rivale, lo uccisero, ne portarono la testa sulla tomba del loro comandante e poi si suicidarono dal primo all’ultimo
col rito del seppuku, il taglio della pancia. Questa storia, molto amata dai giapponesi, è diventata il soggetto di numerosi racconti
romanzati, drammi teatrali, film. La tomba dei Quarantasette Samurai è tuttora oggetto di culto.
«La cosa non mi impedisce di svolgere il mio lavoro di insegnante». Il padrone sta
diventando sempre più santo e ragionevole.
«Sia pure. Comunque, Tofu era entrato nella sala d’esposizione e stava ammirando le
reliquie, quando è arrivato un signore tedesco con la moglie. All’inizio ha chiesto qualcosa a
Tofu in giapponese. Ma come sappiamo Tofu muore sempre dalla voglia di far sapere che
conosce il tedesco, quindi ha detto due o tre parole in tedesco con una certa disinvoltura.
Gli altri due ne hanno dedotto che parlasse correntemente la loro lingua - e a ripensarci
ora, questa è stata la causa del malinteso».
«Ma cos’è successo?» domanda Kushami cedendo alla curiosità.
«I tedeschi hanno indicato un portaoggetti in legno laccato e decorato che era
appartenuto a Okata Gengo8 e gli hanno chiesto se era in vendita, nel qual caso volevano
comprarlo. A quel punto Tofu ha dato una risposta straordinaria: che sicuramente non era
possibile perché i giapponesi sono tutti persone degne e oneste. Fin qui tutto bene. Peccato
che i tedeschi, convinti di aver trovato un valido interprete, abbiano iniziato a subissarlo di
domande».
«A che proposito?»
«Proprio questo è il punto. Se Tofu avesse almeno capito cosa gli chiedevano, tutto
sarebbe andato liscio, ma quelli si sono messi a porre domande a tutta velocità, una dopo
l’altra, e lui non capiva una parola. A un certo punto ha creduto di cogliere qualcosa,
volevano informazioni su un uncino o una mazza… Ma siccome non conosceva il termine in
tedesco, non sapeva cosa dire».
«È comprensibile», commenta il padrone, con una solidarietà che gli viene dalla sua
esperienza di insegnante.
«Intanto diverse persone che avevano tempo da perdere si sono incuriosite e sono
andate a fare capannello intorno a loro, circondandoli completamente. Non sapendo che
pesci pigliare, Tofu è diventato paonazzo. Il suo entusiasmo iniziale era svaporato e ora
appariva molto confuso».
«Insomma, com’è finita?»
«È finita che Tofu, incapace di sopportare l’imbarazzo, ha lanciato un sainara in
giapponese ed è venuto via di corsa. Quando gli ho chiesto se nella sua regione al posto di
sayonara si dica sainara - che suona un po’ strano - mi ha risposto: «Ovviamente no, si
dice sayonara, ma parlando a degli stranieri sainara mi sembrava più armonioso». Tofu è
uomo da preoccuparsi dell’armonia anche in un frangente del genere, ha tutta la mia
ammirazione».
«Lasciamo perdere il sainara o sayonara, i tedeschi cos’hanno fatto?»
«Pare che il loro sconcerto fosse tale che sono rimasti imbambolati, ha, ha, ha!
Esilarante, non trovi?»
«No, non ci trovo niente di divertente, quello che è comico piuttosto è che tu sia venuto
fin qui per raccontarmi questa storia», ribatte il mio padrone scuotendo nel braciere la
cenere della sigaretta. In quel momento una scampanellata vigorosa alla porta d’ingresso ci
fa sobbalzare.
«È permesso?» chiede una voce acuta di donna.
Meitei e Kushami si scambiano uno sguardo, ammutoliti. Mi sto giusto dicendo che la
visita di una signora è molto rara in questa casa, quando la persona cui appartiene quella
voce entra strascicando sui tatami l’orlo di un kimono di seta a due strati: è una donna
sulla quarantina o poco più. I capelli dall’attaccatura molto arretrata si ergono verso il cielo
come una diga, inclinati in avanti e alti almeno quanto metà della faccia, che già non è
8
Uno dei Quarantasette Samurai.
piccola. Gli occhi, piegati all’insù come strade tagliate in un pendio, sono due segmenti di
linea appesi a destra e a sinistra del naso, più stretti di quelli di una balena. Solo il naso è
incredibilmente grosso. Sembra che l’abbia rubato a un’altra persona e se lo sia appiccicato
in mezzo alla faccia. Un naso che domina la scena, fuori luogo come lo sarebbe una
lanterna di pietra spostata dal recinto di un tempio in un giardinetto di tre tsubo. Lo si
potrebbe definire un uncino, perché dopo un primo slancio verso l’alto si tira indietro,
come stanco di troppo sforzo, con il risultato che la punta perde tutto il vigore iniziale e si
piega a guardare verso la bocca sottostante. È talmente sensazionale che questa donna,
quando parla, dà l’impressione di parlare con il naso e non con la bocca. Per mostrare il
mio rispetto verso quest’organo regale, d’ora in poi quando mi riferirò alla sua proprietaria
la chiamerò Hanako9 - la Nasona.
«Complimenti, ha proprio una bella casa», dice la Nasona guardandosi intorno, una
volta terminate le presentazioni.
Che bugiarda, borbotta tra sé il mio padrone continuando imperterrito a fumare.
«Dimmi, Kushami», chiede in quel momento Meitei, alzando melanconicamente lo
sguardo al soffitto, «che cos’è quello strano motivo, un’infiltrazione d’acqua piovana o la
venatura del legno?»
«Un’infiltrazione d’acqua piovana, naturalmente», gli risponde lui.
«Mica male», osserva Meitei.
La Nasona penserà che sono due maleducati. Per un po’ restano tutti e tre seduti in
silenzio.
«Sono venuta a parlare di una certa faccenda», fa a un certo punto la Nasona per
rilanciare la conversazione.
«Ah», è la laconica risposta del mio padrone.
«In realtà abito qui vicino», riprende lei contrariata, «dall’altra parte della strada, nella
villa all’angolo dell’isolato».
«Quella villa in stile occidentale con il magazzino annesso? Se non sbaglio sulla
targhetta c’è scritto Kaneda10». Il mio padrone si rende conto finalmente che si tratta dei
Kaneda che hanno una grande casa con tanto di magazzino a prova d’incendio, ma non per
questo si mostra più rispettoso verso la signora.
«In realtà avrebbe dovuto venire a parlarle mio marito, ma ha sempre tanto da fare in
ditta…» prosegue la Nasona, sicura questa volta di sortire qualche effetto. Il padrone resta
impassibile. L’atteggiamento della donna non gli è piaciuto fin dall’inizio, la giudica troppo
disinvolta nei confronti di persone che ha appena conosciuto. «Anche perché non lavora
soltanto per una ditta, ma per due o tre. E in ognuna di queste occupa un posto di grande
responsabilità. Ma probabilmente lei lo sa già…» Eccoti sistemato, sembra dire la faccia
della Nasona. Ma il mio padrone, che nutre il massimo rispetto nei confronti di professori e
titolari di cattedra in genere, stranamente non tiene in alcun conto gli uomini d’affari. È
convinto che un insegnante delle medie valga più di un industriale. In ogni caso ha
rinunciato, a causa della sua rigidità, a ottenere favori da uomini d’affari e milionari. E se
una persona non è atta a procurargli benefici, per quanto potente o ricca sia, lui se ne
disinteressa totalmente. Il risultato è che si occupa soltanto degli eventi che si verificano
nel mondo accademico e ignora tutto della società produttiva, non sa chi faccia cosa né
dove. E anche se lo sapesse, non per questo proverebbe rispetto per le persone in
questione.
9
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Il suono hana, a seconda dell’ideogramma con cui viene scritto, può significare sia «fiore» che «naso». Il nome Hanako
solitamente si scrive usando l’ideogramma di «fiore» più ko, «bambino», desinenza usuale per i nomi femminili. Soseki però scrive
Hanako usando l’ideogramma che significa «naso», anche quando, più avanti, lo fa dire al marito della signora.
Il nome significa «campo d’oro».
Quanto alla Nasona, non si era mai nemmeno sognata che al mondo potesse esistere,
che potesse vivere sotto la luce del sole un individuo tanto strampalato. Nella vita ha avuto
modo di incontrare un gran numero di persone, e ogni volta che ha detto di essere la
moglie di Kaneda, ha visto il suo interlocutore scattare quasi sull’attenti. In qualunque
ambiente si rechi, anche tra le persone più influenti, sempre in quanto signora Kaneda
riceve la massima considerazione, di conseguenza si era immaginata che quell’oscuro
professorucolo, sentendo di trovarsi davanti alla proprietaria della villa all’angolo
dell’isolato, sarebbe rimasto impressionato, prima ancora di conoscere la professione di
suo marito.
«Conosci qualcuno che si chiama Kaneda?» chiede invece ingenuamente il mio padrone
a Meitei.
«Certo che lo conosco, è un amico di mio zio», risponde in tono compassato Meitei.
«L’altro giorno è venuto a una festa da noi».
«Ma va? E chi è tuo zio?»
«Il barone Makiyama». Meitei è sempre più serio. Il padrone sta per obiettare qualcosa,
ma la Nasona lo previene e si volta a guardare Meitei; il quale, nel suo bel kimono di seta di
Oshima, è l’immagine della compostezza.
«Oh, lei dunque… è parente del barone Makiyama? Non ne ero assolutamente al
corrente, le faccio le mie scuse. Il barone si è sempre mostrato molto sollecito verso di noi,
mio marito me lo ripete ogni giorno». Di punto in bianco la Nasona adotta un tono molto
riguardoso, fa addirittura un inchino.
«Ma cosa mi dice mai…» risponde Meitei con una risatina.
Il padrone, allibito, guarda in silenzio gli altri due.
«Credo che lo abbia anche pregato di volersi gentilmente occupare del matrimonio di
nostra figlia…»
«Sul serio?» Nella voce di Meitei c’è una nota di allarme, è stato colto di sorpresa.
«A dire la verità ci arrivano proposte da ogni parte, ma lei capirà che non possiamo certo
accettare il primo venuto, dobbiamo considerare la nostra posizione sociale».
«È più che comprensibile», fa Meitei rassicurato.
«È per chiederle qualcosa a questo proposito che sono venuta qui oggi», fa la Nasona
rivolgendosi al mio padrone e riprendendo di colpo il tono familiare. «So che viene spesso
a trovarla un certo Mizushima Kangetsu. Che tipo d’uomo è, nel complesso?»
«Perché vuole informazioni su Kangetsu?» fa lui piuttosto seccato.
«Forse la signora vuole sapere qualcosa sul carattere e sulla condotta di Kangetsu in
vista del matrimonio della signorina sua figlia», suggerisce Meitei con tatto.
«Se fosse possibile, lo apprezzeremmo molto…»
«Insomma, dobbiamo dedurne che vuole dare in moglie sua figlia a Kangetsu?» chiede il
padrone.
La Nasona passa subito all’attacco: «Non è esattamente così. Ci arrivano di continuo
proposte interessanti, non abbiamo alcuna fretta di darla via a tutti i costi».
«Allora che bisogno ha di informarsi su Kangetsu?» Anche il mio padrone comincia a
scaldarsi.
«E lei che bisogno ha di rifiutarsi di dare queste informazioni?» ribatte battagliera la
Nasona. Seduto sui tatami in mezzo agli altri due, Meitei tiene la sua pipa d’argento come
se fosse il ventaglio dell’arbitro in un incontro di sumo e si gode la scena, curioso di vedere
come andrà a finire.
«Kangetsu ha per caso dichiarato di volerla sposare?» Il mio padrone mette a segno un
colpo frontale.
«No, non ha detto proprio così, però…»
«Però lei pensa che lui desideri farlo?» Ormai ha trovato il modo di metterla alle strette.
«Ancora non si è parlato di matrimonio, ma… ma sono sicura che il signor Mizushima
ne sarebbe felice». Già alle corde, la Nasona si riprende.
«C’è qualcosa che possa farle pensare che Kangetsu sia innamorato di sua figlia?»
ribatte prontamente il mio padrone sporgendo il mento in avanti, a significare: se c’è, forza,
dillo!
«Be’, sì, direi che più o meno ha indovinato», risponde la Nasona togliendo efficacia ai
colpi del padrone. Le sue parole devono aver risvegliato anche la curiosità di Meitei, che
finora è stato a osservare atteggiandosi ad arbitro, perché posa la pipa e si sporge in avanti.
«Kangetsu ha per caso mandato a sua figlia una lettera d’amore? Ma è fantastico!
Un’altra storia interessante da aggiungere alle altre che mi sono state raccontate dall’inizio
dell’anno!» esclama con allegria non condivisa.
«Non una semplice lettera d’amore, qualcosa di molto più ardito, possibile che voi due
non ne siate al corrente?» chiede sospettosa la Nasona.
«Ne sapevi qualcosa, tu?» fa il mio padrone girandosi sconcertato verso l’amico. Anche
Meitei sembra cadere dalle nuvole.
«Io? No, niente. Semmai sei tu che potevi saperlo», si difende con una modestia fuori
luogo.
«No, no, sono sicura che ne siete al corrente entrambi», dice trionfante la Nasona.
«Cooosa?» esclamano all’unisono il mio padrone e Meitei.
«Se ve ne siete dimenticati, posso rinfrescarvi la memoria. Alla fine dell’anno c’è stata
una serata musicale nella villa del signor Abe, a Mukojima, una serata cui ha partecipato
anche il signor Mizushima, ricordate? Quella stessa sera, tornando a casa, sul ponte di
Azuma gli è successo qualcosa… Non entrerò nei dettagli, sarebbe imbarazzante per lui.
Allora, cosa mi rispondete?» Posando una accanto all’altra sulle ginocchia le mani su cui
sfavillano anelli di diamanti, la Nasona prende una postura ben eretta. Il suo naso
sensazionale risplende sempre più, annientando le difese del padrone e di Meitei.
Sia l’uno che l’altro sembrano annichiliti da quest’attacco a sorpresa, per un po’ se ne
stanno seduti attoniti, come due epilettici appena usciti da una crisi. Passato il primo
stupore però si riprendono lentamente e ritrovano il senso dell’umorismo. Come se si
fossero messi d’accordo, scoppiano entrambi in una risata irrefrenabile. La Nasona, un po’
spiazzata da questa reazione irriguardosa, li guarda fisso.
«Allora si trattava di sua figlia? Questa sì che è buona! Ha ragione signora, Kangetsu è
innamorato pazzo di sua figlia. Vero Kushami?… Be’, ormai non ha senso tenerlo nascosto.
Dai, raccontiamo tutto!»
«Mmh», si limita a dire il mio padrone.
«Proprio così, non ha senso tenerlo nascosto. Tanto ormai la verità è venuta a galla». La
Nasona ha riacquistato la sua aria trionfante.
«A questo punto ci arrendiamo. Meglio raccontare alla signora tutto quello che
sappiamo di Kangetsu. Kushami, il padrone di casa sei tu, non restartene lì a ridacchiare,
non serve a nulla. Che cosa pericolosa sono i segreti, hai un bel cercare di tenerli nascosti,
da qualche parte trapelano. Però per essere strano è strano, sa, signora Kaneda? Come ha
fatto a venire a conoscenza di questa storia? È veramente incredibile», conclude il suo
monologo Meitei.
«Ho semplicemente tenuto gli occhi aperti», ribatte la Nasona, un’espressione di vittoria
sul viso.
«Anche troppo aperti. Insomma, da chi è che l’ha saputo?»
«Da qualcuno che vive qui dietro, la moglie del vetturino».
«Quella che ha un gatto nero?» chiede il padrone spalancando tanto d’occhi.
«Sì, il signor Mizushima mi è costato un bel po’ di soldi! Volevo sapere di cosa parlava
ogni volta che veniva qui, così ho chiesto a quella donna di riferirmi tutto, parola per
parola».
«Ma è scandaloso!» tuona il mio padrone.
«Non si scaldi, di quello che lei fa o dice non mi importa nulla, mi interessa solo il signor
Mizushima».
«Lui o un altro, non è questo il punto… La moglie del vetturino è veramente ignobile!»
Sta cominciando ad arrabbiarsi sul serio.
«A ogni modo è libera di stare dall’altra parte della sua staccionata quanto le pare. Se
non vuole essere ascoltato, non ha che da parlare a voce più bassa. Oppure trasferirsi in
una casa più grande». La Nasona non ha il minimo senso della decenza. «E non l’ho saputo
soltanto dalla moglie del vetturino, anche la maestra di koto a due corde, nella stradina qui
dietro, me ne ha raccontate delle belle».
«Su Kangetsu?»
«Non solo su di lui».
Il tono è un po’ minaccioso, ma il padrone non si lascia impressionare.
«Si dà un sacco di arie, quella lì, crede di essere la sola persona come si deve nel
vicinato, è una cretina!»
«Guardi che sta parlando di una donna, razza di screanzato!» A poco a poco il linguaggio
della Nasona rivela la sua naturale volgarità. A questo punto la conversazione si è
trasformata in una lite bella e buona, mentre Meitei secondo il suo solito si limita ad
ascoltare con interesse lo scontro verbale. Il suo viso ha l’impassibilità di un saggio cinese
che assista a un combattimento di galli.
Rendendosi conto che in questo scambio di ostilità non può spuntarla contro la Nasona,
il padrone si costringe a restare in silenzio per qualche minuto, poi gli viene un’idea.
«Signora, lei non fa che ripetere che Kangetsu si è innamorato di sua figlia, ma da
quanto ho sentito le cose stanno diversamente. Vero, Meitei?» chiede cercando sostegno
nell’amico.
«Sì, stando al racconto che Kangetsu ci ha fatto quella. volta, è sua figlia che è caduta
malata e si è messa a delirare…»
«Tutto falso», risponde senza esitazione la Nasona.
«Però Kangetsu l’ha sentito dire dalla moglie del dottor O…»
«Sì, ma anche quella era una cosa pilotata da noi. Abbiamo chiesto alla moglie del dottor
O… di dirgli così per sondare i suoi sentimenti».
«E la signora O… ha accettato di farlo con cognizione di causa?»
«Sì, ha accettato… non gratuitamente, s’intende. Insomma, tra una cosa e l’altra
abbiamo già speso un sacco di soldi».
«Così è determinata a non andarsene via finché non le avremo raccontato vita e miracoli
di Kangetsu, vero?» Meitei dev’essere un po’ irritato, perché usa un linguaggio brusco che
non gli è consono. «Be’, Kushami, diciamole tutto, cosa ci perdiamo? Le diremo tutto
quello che sappiamo su Kangetsu senza nasconderle nulla, signora, sia io che il professore.
Ma sarebbe meglio che lei ci ponesse le domande con ordine, una alla volta».
Finalmente ammansita, la Nasona dà inizio al suo interrogatorio, ritrovando nei
confronti di Meitei il tono complimentoso che per un momento aveva accantonato.
«So che il signor Mizushima è laureato in fisica, ma può dirmi in che cosa si è
specializzato?»
«Frequenta un corso di dottorato in cui sta studiando il magnetismo terrestre»,
risponde con gravità il padrone.
«Oh!» fa la Nasona perplessa, non sapendo, per sua disgrazia, di cosa si tratti. «E
studiando quell’argomento lì, c’è la possibilità di ottenere un diploma di dottorato?»
«Ci sta dicendo che deve per forza averlo?» chiede il padrone seccato.
«Sa com’è, di semplici laureati ce ne sono quanti se ne vuole», risponde con la massima
tranquillità la Nasona. Il padrone lancia un’occhiata a Meitei e assume un’espressione
ancora più contrariata.
«Visto che non possiamo garantire che ottenga un dottorato, forse è meglio che passi
alla domanda seguente».
Anche Meitei non sembra di buonumore.
«E negli ultimi tempi sta ancora studiando questo… questo qualcosa terrestre?»
«Due o tre giorni fa ha tenuto una conferenza sui risultati dei suoi studi sulla dinamica
dell’impiccagione», risponde in tutta innocenza il mio padrone.
«L’impiccagione, che orrore! Non sarà mica un po’ squilibrato? E si diventa dottori
occupandosi di impiccagione e roba del genere?»
«Se si impicca lui stesso, sarà difficile, ma studiando la dinamica dell’impiccagione non è
detto che un dottorato non glielo diano», fa Meitei.
«Sul serio?» La Nasona si volta a scrutare il viso del padrone. Mortificata di non
conoscere il significato della parola «dinamica», non riesce a rassicurarsi, ma teme che
chiedere spiegazioni possa farle perdere la faccia - a lei, la signora Kaneda! - e cerca di
trarre lumi dall’espressione dei suoi interlocutori. Quella del mio padrone è severa.
«E oltre a quella roba lì, studia qualcos’altro, magari un po’ più facile?» chiede ancora la
Nasona.
«Be’, negli ultimi tempi ha sostenuto una tesi sulla stabilità delle ghiande, e ne ha scritta
un’altra sul moto dei corpi celesti».
«All’università si studiano le ghiande?»
«Mah, non essendo un universitario non lo so, ma visto che Kangetsu le studia,
varranno la pena di essere studiate, presumo», la liquida freddamente Meitei. La Nasona
deve rendersi conto che se insiste con le domande sugli studi universitari la situazione
rischia di sfuggirle di mano, perché cambia argomento.
«Non c’entra niente, ma ho sentito dire che a Capodanno si è rotto un incisivo
mangiando dei funghi».
A questa domanda Meitei, sentendosi nel suo territorio, ritrova improvvisamente il
buonumore. «Sì, e un pezzo di mochi gli è rimasto attaccato al dente rotto».
«Non sarà per caso un po’ trasandato? Magari non usa nemmeno lo spazzolino da
denti…»
«La prossima volta che lo vedo gli dirò di prendersi miglior cura dei suoi denti», fa il
padrone ridacchiando.
«Per spezzarseli sui funghi, deve averli in pessimo stato. O sbaglio?»
«In effetti, non si può dire che siano molto sani… vero, Meitei?»
«No, i suoi denti non sono in buone condizioni, ma questo gli dà un certo fascino. La
cosa strana è che non se l’è ancora fatto aggiustare; quello spezzone sul quale i mochi
restano attaccati offre tuttora uno strano spettacolo».
«Li lascia così come sono perché non ha i soldi per farseli aggiustare o perché non gliene
importa niente?»
«Non si preoccupi, non credo che voglia continuare a presentarsi in eterno come il
«Signor Senza Incisivo»». Meitei è di umore sempre più allegro. La Nasona cambia di
nuovo argomento.
«Professore, se avesse qui a casa una lettera o qualcosa scritto da lui, di suo pugno, mi
piacerebbe vederlo». Il mio padrone va nello studio e torna con una trentina o una
quarantina di cartoline.
«Cartoline ne ho quante ne vuole, guardi qui».
«Non ho bisogno di vederne tante, me ne bastano due o tre…»
«Lasci che scelga le più belle», interviene Meitei. «Guardi questa, divertente, vero?» E
tende alla Nasona una cartolina con un disegno.
«Oh, ma c’è anche un disegno! Be’, è piuttosto bravo. Mi lasci guardare… oh no, è un
tasso11! Chissà per quale ragione ha voluto disegnare proprio un tasso… Comunque gli
assomiglia, è impressionante», conclude con una nota di ammirazione.
«Legga quello che ha scritto, per favore», suggerisce sorridendo il mio padrone.
La Nasona inizia a leggere con la lentezza di una serva che si sforzi di compitare il
giornale:
La notte di Capodanno i tassi sui monti fanno festa e danzano felici battendosi la pancia. «Questa
è la notte di Capodanno, non verranno i guardiaboschi, suppoko pon no pon!» dice la loro canzone.
«Cos’è, una presa in giro?» La Nasona sembra piuttosto seccata.
«Forse preferisce questa donna angelica?» chiede Meitei tendendole un’altra cartolina
sulla quale è raffigurata una giovane con un abito di piume che suona il liuto.
«Mi pare che abbia il naso troppo piccolo, per essere una donna angelica».
«Niente affatto, è appena normale. Ma invece di pensare al naso, perché non legge le
parole?»
C’era una volta da qualche parte un astronomo. Una notte salì come sempre al suo posto di
osservazione ed era assorto nella contemplazione delle stelle, quando nel cielo gli apparve una donna
angelica che si mise a suonare una musica meravigliosa, celestiale, tanto che l’astronomo, dimentico
del freddo che gli penetrava fino alle ossa, rimase rapito in ascolto. Il mattino dopo il suo cadavere
venne trovato bianco di brina gelata. Questa è una storia vera che mi ha raccontato un vecchio
bugiardo.
«Cosa diavolo significa questa roba, non ha né capo né coda! E pensare che ha una
laurea in fisica! Dovrebbe leggere qualche rivista letteraria, gli farebbe bene!» La collera
della Nasona si abbatte sul povero Kangetsu.
«E questa, come le pare?» fa Meitei divertito, porgendole una terza cartolina su cui,
sotto la figura stampata di una barca a vela, si leggono alcune parole:
La scorsa notte una piccola prostituta di sedici anni,
mi ha detto che non ha più i genitori,
e ha pianto al risveglio,
come un piviere su una costa spazzata dal vento.
Erano entrambi pescatori
e ora sono sotto le onde.
11
Il tasso ha fama di essere furbo e cattivo, e di amare il sake. Per questo motivo Un tasso in terracotta è posto accanto
all’ingresso dei locali dove si può bere alcol.
«Oh, ma è bravo! Ammirevole, una grande sensibilità!»
«Trova che abbia sensibilità?»
«Sì. Questi versi li si potrebbe cantare accompagnandosi allo shamisen».
«Allo shamisen? Allora siamo davanti a un capolavoro. E questa, come la trova?» fa
Meitei prendendo un’altra cartolina a caso.
«No, grazie, ne ho viste a sufficienza, non ho bisogno di guardarne altre. Ho già capito
che dopotutto non è una persona rozza». La Nasona, convinta di saperne abbastanza, non
sembra desiderosa di fare altre domande su Kangetsu. «Bene, allora tolgo il disturbo. Vi
prego di non parlare al signor Mizushima della mia visita». Da questa richiesta illegittima
si deduce che la Nasona crede di avere il diritto di frugare nella vita di Kangetsu senza che
lui ne venga informato.
«Come?» fanno incerti Meitei e il padrone, ma lei aggiunge con determinazione: «Uno
di questi giorni avrò occasione di ricambiare», e si alza.
Dopo averla riaccompagnata, Meitei e il padrone tornano a sedersi.
«Cose da pazzi!» esclama immediatamente Meitei.
«Già, cose da pazzi!» gli fa eco il mio padrone. Nella stanza accanto si sente ridacchiare
la padrona, che non riesce a trattenersi oltre.
«Signora!» le grida allora Meitei. «Quella che è appena venuta era un ottimo esempio di
banalità. Quando arriva a tal punto, la banalità è quasi edificante. Rida pure quanto vuole,
non si faccia scrupoli!»
«Tanto per cominciare, è orrenda», commenta corrucciato il padrone; dal tono si
direbbe che la odi.
«E quel naso che le campeggia in mezzo alla faccia! Grottesco!» aggiunge Meitei
cogliendo la palla al balzo.
«Ed è anche storto».
«Ricurvo, direi. Sembra un gatto che solleva la schiena. Fin troppo originale!» Meitei
ride divertito.
«Ha la faccia di una che comanda il marito a bacchetta», continua il mio padrone, ora
quasi mortificato.
«Una fisionomia rimasta invenduta nel diciannovesimo secolo che nel ventesimo è
diventata un fondo di magazzino». Meitei ormai sproloquia.
A quel punto la padrona esce dalla stanza accanto e li mette in guardia con prudenza
tipicamente femminile:
«Attenti, malelingue, la moglie del vetturino vi sentirà di nuovo».
«Tanto meglio se ci sente, signora».
«E poi non è una bella cosa criticare la gente per il suo aspetto. Nessuno sarebbe
contento di avere un naso del genere. Siete davvero cattivi, tanto più che state parlando di
una donna». Quest’intervento della padrona in difesa del naso della signora Kaneda è un
elogio indiretto alla propria faccia.
«Cosa c’è di male? Non è una donna, quella. È una spostata. Vero, Meitei?»
«Sarà anche una spostata, ma è in gamba. Ti ha dato del filo da torcere, eh?»
«Non ha il minimo rispetto per gli insegnanti».
«Probabilmente crede che un insegnante valga più o meno quanto il vetturino qui
dietro. Per ottenere il rispetto di una come quella è necessario avere un dottorato, in fin dei
conti è colpa tua che non hai tale qualifica, non è vero, signora?» fa Meitei e si volta
ridendo a guardare la padrona.
«Lasciamo perdere, non mi ci faccia pensare». A quanto pare il padrone non gode
nemmeno della considerazione della moglie.
«Hai poco da deridermi, posso ottenere un dottorato quando voglio. Probabilmente non
lo sai, ma nell’antichità un certo Isocrate scrisse le sue opere maggiori all’età di
novantaquattro anni. E Sofocle era quasi centenario quando creò quei capolavori che
hanno stupito il mondo intero. Simonide a ottant’anni scriveva poesie. Quindi io…»
«Non dire sciocchezze, con il tuo stomaco non puoi sperare di vivere tanto a lungo»,
pronostica la padrona.
«Molto gentile. Prova a chiedere al dottor Amaki! Comunque è colpa tua se quella donna
non mi prende sul serio, sei tu che mi fai mettere questo haori di cotone nero tutto
stropicciato e questo kimono pieno di toppe. Da domani indosserò solo kimono eleganti
come quelli di Meitei, tirali fuori!»
«Come faccio a tirarli fuori se non ne hai. E poi la signora Kaneda è diventata gentile con
il professor Meitei solo dopo che lui ha accennato a suo zio. Gli abiti non c’entrano niente».
Alla parola «zio» il mio padrone sembra ricordarsi di qualcosa. «Non sapevo che avessi
uno zio, l’ho sentito oggi per la prima volta. Esiste davvero?» chiede.
Meitei doveva aspettarsi la domanda.
«Sì…» fa, guardando ora il mio padrone ora la moglie. «Sì, uno zio ce l’ho. Una testa di
legno, un reperto archeologico che dal diciannovesimo secolo è riuscito a campare fino ai
giorni nostri».
La padrona si fa una risatina.
«È sempre spiritoso, lei. E dove vive, ora, questo zio?»
«A Shizuoka. Ma non si limita a vivere, porta ancora i capelli legati sulla testa come i
samurai, è imbarazzante. Quando gli consigliano di mettere un cappello per ripararsi dal
freddo, risponde che è arrivato alla sua veneranda età senza mai sentirne il bisogno. Se gli
dicono che farebbe meglio a restare a letto quando fa freddo, dichiara che a una persona
quattro ore di sonno devono bastare. Per lui dormire più di quattro ore è una
manifestazione di pigrizia quindi il mattino si alza quando fa ancora buio. Non fa che
vantarsi: «Mi ci sono voluti anni di esercizio per arrivare a questo risultato», dice.
«Quand’ero giovane cascavo sempre dal sonno, ma ormai finalmente mi sono liberato da
certe esigenze, e mi sento sempre bene». È ovvio che a sessantasette anni non si ha più
bisogno di dormire molto, l’esercizio non c’entra niente, ma lui è convinto di esserci
riuscito con la sola forza dell’autocontrollo. In più quando esce porta sempre con sé un
ventaglio di ferro».
«Per farne cosa?»
«Non ne ho la minima idea, so solo che se lo porta dietro. Chissà, invece di portarsi un
bastone… A proposito di mio zio, poco tempo fa ne ha combinata una delle sue». Questa
volta Meitei si rivolge alla padrona.
«Ah sì?» fa lei senza grande interesse.
«La primavera scorsa mi è arrivata una lettera in cui lo zio mi diceva di spedirgli al più
presto una bombetta e una marsina. Ero così sorpreso che gli ho scritto chiedendo
spiegazioni, e lui mi ha risposto che li avrebbe indossati personalmente. Il giorno ventitré a
Shizuoka ci sarebbe stata la celebrazione della vittoria, di conseguenza mi ordinava di
spedirglieli subito in modo che arrivassero in tempo. La cosa più divertente è che scriveva:
«Compra un cappello della grandezza che ti pare adatta, e anche la marsina, ordinala da
Daimaru della taglia che reputi opportuna»».
«Adesso da Daimaru fanno su misura anche i vestiti all’occidentale?»
«Figuriamoci! Si era confuso con Shiroki-ya».
«Ma come potevi valutare la taglia a occhio, è impossibile!»
«Un comportamento tipico di mio zio».
«Allora come hai fatto?»
«Gli ho mandato una marsina che mi sembrava della sua misura, cos’altro potevo
fare?».
«Hai corso un bel rischio, anche tu! Ed è arrivata in tempo?»
«Sì, credo di sì, perché non ho sentito più niente. Ho poi letto su un giornale locale che il
giorno della celebrazione il signor Makiyama era apparso eccezionalmente in marsina, con
in mano il solito ventaglio…»
«Sembra che non voglia assolutamente separarsi da quel Ventaglio».
«Infatti. Quando morirà, pensiamo di metterglielo nella bara».
«Comunque, meno male che il cappello e la marsina gli andavano bene!»
«No, è qui che ti sbagli. Anch’io ero contento che la cosa fosse andata in porto, ma dopo
un po’ di tempo dal paese mi è arrivato un pacco.
Credevo che fosse un regalo per me, per ringraziarmi, ma quando l’ho aperto, cosa ci
trovo dentro? La bombetta. Nella lettera che l’accompagnava lo zio scriveva: «Ti ringrazio
per tutto il disturbo che ti sei dato, ma è un po’ troppo grande, potresti avere la gentilezza
di rimandarla dal cappellaio e chiedergli che me la stringa? Provvederò a spedirti con vaglia
postale la somma necessaria alla riparazione»».
«Un po’ stordito, direi». Il padrone sembra molto soddisfatto di scoprire che al mondo
c’è qualcuno più balordo di lui. «E poi cos’è successo?»
«Cos’è successo? Gli ho chiesto di regalarmela e ora la porto io, cos’altro potevo fare?»
«È quella bombetta lì?» chiede il mio padrone sogghignando.
«E questa persona è un barone?» si informa con aria perplessa la moglie.
«Chi è che sarebbe un barone?»
«Questo suo zio che porta sempre un ventaglio di ferro».
«Neanche per sogno, è un letterato, un esperto di letteratura cinese. Da giovane ha
studiato a Yushima, in un tempio dedicato a Confucio, ed è diventato un tale fanatico del
neo-confucianesimo, o cosa diavolo è, che porta i capelli legati sopra la testa ancora oggi
che abbiamo la luce elettrica. È senza speranza», conclude Meitei carezzandosi il mento.
«Tu però prima, a quella donna, hai detto «il barone Makiyama»».
«Sì, ha detto proprio così, ho sentito anch’io dall’altra stanza», conferma la padrona,
mostrandosi per una volta d’accordo con il marito.
«Ho detto veramente così? Ha, ha, ha!» fa Meitei scoppiando a ridere senza motivo e
senza mostrare il minimo imbarazzo. «Be’, non è vero, se avessi uno zio barone, adesso
sarei un alto funzionario statale».
«Mi sembrava strano», osserva il padrone, il cui viso esprime soddisfazione e
inquietudine insieme.
«Certo che è proprio bravo, lei, a raccontare bugie, le spara proprio grosse». La padrona
è molto impressionata.
«Quella donna di prima è molto più brava di me».
«No, no, stia tranquillo che lei non è da meno».
«Però, signora, le mie sono bugie innocenti. Quelle della signora Kaneda invece sono
macchinazioni, menzogne pretestuose. Sono malignità. Se si mettono sullo stesso piano i
trucchi escogitati da quella furbastra con l’estro burlesco che mi ha dato il Cielo, il dio della
commedia non potrà fare a meno di deplorare una tale mancanza di perspicacia».
«Mah, non ne sono sicuro…» fa il mio padrone abbassando lo sguardo.
«Per me sono la stessa cosa», dice ridendo la moglie.
Fino a oggi non mi sono mai avventurato dall’altra parte della strada. E naturalmente
non ho mai visto che tipo di edificio sia la villa dei Kaneda all’angolo. È la prima volta che
ne sento parlare. Qui in questa casa la conversazione non cade mai sugli uomini d’affari, e
poiché mangio il cibo che mi passa il mio padrone, condivido la sua indifferenza per queste
persone del tutto prive di interesse. Tuttavia, dopo aver assistito alla visita a sorpresa della
Nasona e aver ascoltato la conversazione che ha avuto luogo, ho provato a immaginare la
bellezza e il fascino della figlia, mi sono figurato la ricchezza e il prestigio della famiglia… E
ora, benché sia solo un gatto, non sopporto più di passare il tempo a poltrire sdraiato nella
veranda. E non è tutto, comincio a provare simpatia per Kangetsu. Mentre la controparte
zitta zitta corrompeva la moglie di un dottore, la moglie del vetturino, e perfino sua altezza
la maestra di koto a due corde, mentre dama Kaneda veniva subdolamente a conoscenza
persino del dente rotto di Kangetsu, il poveraccio da parte sua si limitava a sorridere,
preoccupato soltanto delle stringhe del suo haori… è veramente troppo ingenuo, anche per
un neolaureato in fisica. Detto ciò, solo una persona molto decisa sarebbe in grado di far
fronte a una donna sulla cui faccia campeggia un naso così imponente. Riguardo a questo
genere di cose il mio padrone non nutre alcun interesse, in più è troppo debole
economicamente. A Meitei i soldi non mancano, ma è improbabile che un «figlio del caso»
come lui abbia intenzione di venire in aiuto a Kangetsu. Gira e rigira, l’unica persona da
compiangere è il giovane fisico che ha tenuto una conferenza sulla dinamica
dell’impiccagione. Sarei veramente ingiusto se non facessi almeno lo sforzo di intrufolarmi
nella roccaforte del nemico e spiarne i movimenti. È vero che sono un gatto, ma poiché vivo
in casa di uno studioso in grado di sbattere sul tavolo un libro di Epitteto appena letto, mi
ritengo ben più nobile e istruito dei soliti sciocchi, lunatici gatti che circolano per il mondo.
Nella punta della coda ho abbastanza spirito cavalleresco da tentare quest’avventura. Non
è che abbia debiti di riconoscenza verso Kangetsu, né mi lancio in questa folle impresa per
il bene di un solo individuo. Se mi permettete un po’ di retorica, compio questa bella,
nobile azione al fine di realizzare la volontà del Cielo, che ama la giustizia e ha a cuore
l’equità. Considerato che la Nasona tira in ballo l’episodio sul ponte di Azuma senza il
permesso dell’interessato, che piazza spie sotto le finestre altrui e diffonde poi a destra e a
manca le informazioni ottenute, che non si fa scrupolo di servirsi di conducenti di risciò,
stallieri, poco di buono, intellettuali, ruffiani, vecchie serve, levatrici, maghe, massaggiatori
e sempliciotti di ogni sorta per mettere nei guai un uomo che può essere di grande utilità al
paese, anche un gatto si sente obbligato a intervenire.
Per fortuna il tempo è bello, peccato che la brina sciolta intralci i miei passi, ma per la
causa bisogna essere pronti a dare anche la vita. Le mie zampe sporche di fango lasceranno
sul legno della veranda impronte di fiori di prugno che probabilmente manderanno O-san
su tutte le furie, ma questo pensiero non mi turba. Senza rimettere a domani quel che può
essere fatto oggi, prendo la temeraria decisione di uscire, ma arrivato a balzi fino alla
cucina mi fermo: un momento! mi dico. È vero che sono giunto al limite estremo
dell’evoluzione possibile a un gatto, e sono anche convinto che lo sviluppo del mio cervello
sia pari a quello di un ragazzino di terza media; disgraziatamente però la struttura della
mia gola resta quella di un felino e non sono in grado di parlare il linguaggio umano.
Ammettendo che riesca a intrufolarmi in casa Kaneda e a informarmi sulle intenzioni del
nemico, non potrei comunicarle alla persona cui importa conoscerle, Kangetsu. Né
parlarne al mio padrone o al professor Meitei. E non potendone far parte a nessuno, le
informazioni ottenute con tanta fatica non servirebbero a nulla, così come non brilla la luce
di un diamante sepolto nella terra. Farei una cosa stupida. Incerto se rinunciare al mio
piano o meno, mi fermo sulla soglia di casa.
Interrompere a metà una cosa iniziata, tuttavia, lascia un senso di rimpianto, come
quando si vedono andare verso altre contrade le nuvole nere che promettevano un
bell’acquazzone. Insistere nell’errore quando si ha torto è diverso, ma procedere lungo la
via che porta alla giustizia e alla verità, anche a costo di fare una morte vana, è il desiderio
più ardente di chi sa qual è il suo dovere. È quindi giusto per un gatto rompersi le ossa per
nulla o sporcarsi inutilmente le zampe. Poiché il mio karma mi ha fatto nascere gatto, non
ho la capacità di scambiare pensieri usando la punta della lingua, come fanno Kangetsu,
Meitei, il mio padrone e tanti altri professori, ma ho l’abilità solo felina e ben più utile di
intrufolarmi inosservato. E avere il talento di fare ciò che è impossibile ad altri è fonte di
piacere: la gioia di essere il solo a conoscere i segreti di casa Kaneda sarà più forte del
rimpianto di non poterli comunicare a nessuno. Almeno darò ai Kaneda la consapevolezza
che qualcuno ne è venuto a conoscenza. Alla fine di questa successione di piacevoli pensieri
non posso fare altro che procedere. Di conseguenza, avanti!
Ricordando quanto ha detto la Nasona, arrivo fino all’angolo dell’isolato e lì vedo una
grande villa in stile occidentale che occupa una vasta area, sembra comandare sul quartiere
intero. Il padrone di casa dev’essere pieno di sé come la sua abitazione, mi dico
sgattaiolando sotto il cancello e fermandomi a osservare l'edificio: non ha nulla di speciale,
è un’insignificante costruzione a due piani senza altra caratteristica che la volontà di
impressionare e sovrastare il passante. Un esempio di banalità, direbbe Meitei. Lasciando
l’ingresso alla mia destra, passo sotto un cespuglio e raggiungo l’entrata di servizio sul
retro. Come previsto, la cucina è grande dieci volte quella del mio padrone. Così bella,
pulita e luccicante da poter essere paragonata a quella del barone Okuma, di recente
descritta in dettaglio su un giornale nazionale. Una cucina modello, mi dico entrando a
passi felpati. Nella parte in terra battuta, ben compressa dal mortaio e larga un paio di
tsubo, vedo la moglie del vetturino che discute animatamente con una sguattera e con un
conducente di risciò al servizio dei Kaneda.
Attenzione, questa è pericolosa, penso nascondendomi dietro la tinozza dell’acqua.
«Veramente quel professore non sapeva chi fosse il mio padrone?» chiede la sguattera.
«Figurati, certo che lo sa! In questa zona solo un mostro deforme, senza occhi né
orecchie, potrebbe ignorare chi vive in questo palazzo!» È la voce del conducente di risciò.
«Tutto è possibile, quello è uno svitato che a parte i libri non conosce nulla. Se avesse
idea di chi è il signor Kaneda, ne avrebbe una sacrosanta paura. Ma è senza speranza, non
ricorda nemmeno l’età dei suoi figli», dice la moglie del vetturino.
«Non ha paura del signor Kaneda? Che razza di imbecille! Merita una bella lezione.
Perché non cerchiamo di spaventarlo, tutti insieme?»
«Buona idea! Ha detto che la mia padrona è brutta, che ha il naso troppo grosso. Come
osa insultarla in questo modo! Proprio lui che ha la faccia di uno di quei tassi di terracotta
che si mettono sulla porta delle taverne. E si crede chissà chi, è insopportabile».
«Fosse solo la faccia! L’avete visto quando va ai bagni pubblici con l’asciugamano
appeso al braccio? È di un’arroganza tremenda, non vi pare? è convinto che nessuno sia
degno di stare alla pari con lui». Anche la sguattera sembra nutrire una forte antipatia per
il mio padrone.
«Forza, andiamo tutti insieme a piazzarci dietro la sua staccionata e a gridargli insulti».
«Andrà su tutte le furie».
«Ma noi non facciamoci vedere, altrimenti che gusto ci sarebbe? Facciamoci solo sentire.
Così lo esasperiamo e gli impediamo di lavorare, sono gli ordini che ci ha dato poco fa la
mia signora».
«Questo lo so», dice la moglie del vetturino, ben determinata a fare la sua parte.
Così questo è il drappello che verrà a mettere in ridicolo il padrone, penso, e scivolo
accanto ai tre addentrandomi nella casa.
Le zampe dei gatti, ovunque si posino, sono così silenziose che non tradiscono mai la
loro presenza, quasi calpestassero il cielo o le nuvole. Sono come un gong suonato
sott'acqua o un koto pizzicato in una grotta, sono l’intuizione muta e immediata delle
delizie della vita.
Per me questa banale casa in stile occidentale, questa cucina modello, la moglie del
vetturino, il conducente di risciò, la sguattera, e anche la Nasona, sua figlia, la sua
cameriera, persino il suo signor marito non esistono. Vado dove voglio, ascolto quel che mi
garba, dopodiché tiro fuori la lingua, agito la coda, frizzo i baffi e me ne torno indisturbato
a casa. Detto per inciso, in tutto il Giappone non troverete un altro gatto abile come me in
questo campo. A volte mi chiedo se nelle mie vene non scorra veramente il sangue di
Nekomata, il gatto raffigurato nei libri antichi. Si dice che sulla fronte dei rospi ci sia una
gemma che la notte splende, ma io nella coda ho un filtro miracoloso che potrebbe trarre in
inganno non soltanto gli dei, Buddha, l’amore e la morte, ma anche l’umanità intera.
Percorrere inosservato i corridoi di casa Kaneda per me è più facile che per una delle
divinità guardiane di un tempio schiacciare l’erba sotto i propri piedi. A questo punto sono
così impressionato dal mio potere che provo il desiderio irresistibile di rendere omaggio
alla mia coda, che me lo infonde. Volendo pregare perché la fortuna l’assista in battaglia e
venerare la divinità che vi risiede, abbasso la testa, ma ho fatto un errore di calcolo. In
teoria dovrei inchinarmi tre volte verso la mia coda, ma quando mi volto a guardarla, anche
lei per forza di cose si sposta. Mi giro per inseguirla, ma lei scappa in avanti mantenendo la
stessa distanza. Trattandosi di un’entità tanto miracolosa da contenere in tutta la sua
lunghezza l’universalità del cielo e della terra, è normale che non obbedisca ai miei
comandi, perciò dopo averla inseguita per sette giri e mezzo, spossato, rinuncio. Ho un
leggero capogiro. Non ricordo bene dove mi trovo. Comincio a gironzolare per la casa senza
preoccuparmi di essere visto. Quando tutt’a un tratto, al di là degli shoji, sento parlare la
Nasona. Ecco quello che cercavo, penso bloccandomi. Drizzo le orecchie trattenendo il
respiro.
«Che impertinenza, per un insegnante squattrinato come lui!» grida la Nasona con la
sua voce stridula.
«Sì, è un gran maleducato. Merita una punizione, gliela faremo pagare. Nella sua scuola
ci sono un paio di professori che vengono dal mio paese».
«Chi sono?»
«Tsuki Pinsuke e Fukuchi Kishago. Chiederò loro di fare in modo di isolarlo».
Non so quale sia la regione d’origine di Kaneda, ma è sorprendente che vi si trovino
nomi così bizzarri.
«Insegna inglese, quello lì?»
«Sì, a sentire la moglie del vetturino è incaricato soprattutto della lettura in inglese o
qualcosa del genere».
«Tanto sono sicuro che non vale una cicca, quello lì, come professore».
Però, bel modo di esprimersi, complimenti!
«L’altro giorno ho incontrato Pinsuke e m’ha detto: «Nella mia scuola c’è un tipo strano,
uno dei professori gli ha chiesto come si chiama in inglese il tè ordinario, di qualità
inferiore, e lui ha risposto savage tea. Sul serio, non stava scherzando. Ora è diventato lo
zimbello del corpo insegnanti, però quando in una scuola ci sono degli elementi del genere,
è un problema per tutti». Probabilmente parlava di quell’imbecille».
«Parlava certamente di lui, ha la faccia di uno capace di dire simili idiozie, si è anche
fatto crescere dei baffi orrendi».
«È semplicemente indecente».
Se basta farsi crescere i baffi per essere indecenti, i gatti sono i primi a non avere il
minimo senso del pudore.
«In più quel Meitei, quell’ubriacone, che faccia tosta venirmi a raccontare un’assurdità
del genere… che il barone Makiyama è suo zio. Figuriamoci, come se uno con la sua faccia
potesse avere uno zio barone!»
«È anche colpa tua, che prendi per oro colato quello che ti dice il primo venuto, senza
sapere da che famiglia proviene».
«Colpa mia… Lui però ha esagerato, farsi gioco di una signora in quel modo». La Nasona
sembra terribilmente mortificata. La cosa strana è che non hanno ancora menzionato
Kangetsu. Può darsi che abbiano esaurito l’argomento prima del mio arrivo, oppure che
abbiano già bocciato la sua candidatura e non se ne interessino più. Questo dubbio mi
preoccupa, ma non posso fare niente per dissiparlo. Per un po’ rimango acquattato, finché
sento suonare un campanello nella stanza all’altra estremità della veranda. Anche lì devono
succedere cose interessanti. Non volendo perdermi nulla, mi dirigo in fretta da quella
parte.
Giunto lì, sento una donna parlare da sola. La voce è molto simile a quella della Nasona,
quindi dev’essere la signorina di questa casa, la creatura per la quale Kangetsu ha fatto quel
patetico tentativo di suicidio per annegamento. Disgraziatamente gli shoji mi impediscono
di vedere se è quella bellezza rara che si dice. Né posso verificare se anche in mezzo alla sua
faccia campeggi una proboscide. Ma a giudicare dal tono di voce e dal vigore del respiro,
non deve avere un nasino che passa inosservato. Poiché si sente solo la sua voce e non
quella del suo interlocutore, ne deduco che sta parlando in quell’aggeggio di cui si dicono
meraviglie, il telefono.
«Sto parlando con il teatro Yamato? Senta, voglio dei posti per domani, mi riservi il
terzo palco di platea, d’accordo? Ha capito? Come non ha capito? Vuole scherzare? Esigo il
terzo palco di platea… Come? Non è possibile? Non dica sciocchezze, me lo riservi… Come
osa chiedermi se sto scherzando? Perché dovrei scherzare? È un gran maleducato, lei…
Tanto per cominciare, mi dica il suo nome… Chokichi? Mi sembra che lei non si renda
conto, Chokichi, mi faccia il favore di passarmi la padrona… Cosa? Dice che può spiegarmi
benissimo lei? Come osa parlarmi così, lei non sa chi sono io! Mi chiamo Kaneda! Ah sì, sa
perfettamente chi sono? Allora è proprio scemo… Le ho detto Kaneda, ha capito? Cosa? Mi
ringrazia per tutte le volte che le abbiamo fatto l’onore di usufruire dei vostri servizi? Cosa
vuole che me ne faccia dei suoi ringraziamenti? Se li tenga pure! E non rida, dev’essere
proprio scemo, lei! Come, ho ragione? Se non la smette di prendermi in giro le sbatto il
telefono in faccia. Non ha obiezioni? Guardi che se ne pentirà… Perché sta zitto adesso,
dica qualcosa… Pronto? Parli, dica qualcosa! Pronto? Pronto?»
Dall’altra parte Chokichi deve avere messo giù, perché pare che non risponda. In preda
all’ira, la signorina gira freneticamente la manovella. Ai suoi piedi un pechinese, svegliato
di soprassalto, si mette ad abbaiare. Pericolo in vista! Salto subito giù dalla veranda e mi
infilo sotto la casa.
Si sente un rumore di passi, poi quello degli shoji che vengono aperti. Sta arrivando
qualcuno, meglio tenere le orecchie aperte.
«Signorina, i suoi genitori la desiderano», fa una voce, probabilmente quella di una
cameriera.
«Non me ne importa niente», ribatte la ragazza.
«Mi hanno mandato a chiamarla perché devono parlarle di qualcosa».
«Non mi seccare, ti ho detto che non me ne importa niente», ripete la ragazza. E siamo
alla seconda sfuriata.
«Credo che sia a proposito del signor Mizushima Kangetsu», cerca di rabbonirla
gentilmente la cameriera.
«Me ne infischio di questo Kangetsu, Suigetsu, o come diavolo si chiama… lo trovo
orrendo, ha la faccia di una zucca stordita». La terza sfuriata è per il povero Kangetsu,
benché non sia presente.
«Ehi, quand’è che sei andata dalla pettinatrice?»
La cameriera sobbalza.
«Oggi», si limita a rispondere con modestia.
«Pettinarsi all’occidentale! Una bella faccia tosta, per una cameriera!» La sua quarta
sfuriata prende una strada diversa. «E poi non è un colletto nuovo, quello lì?»
«Sì, me lo ha regalato lei poco tempo fa, signorina. Mi sembrava sprecato per me e
finora l’ho tenuto nel cassetto, ma quello vecchio era davvero troppo liso, così l’ho
cambiato».
«Quand’è che te l’avrei dato?»
«A Capodanno. Quando è andata da Shiroki-ya a fare compere… Come può vedere, è
quel colletto con i gradi dei lottatori sumo stampati su fondo verdognolo. Lei ha detto che
lo trovava un po’ triste, per questo lo ha dato a me…»
«Sì, ma ti sta troppo bene, non mi piace affatto questa cosa... è una provocazione».
«Le sono molto obbligata».
«Non ti sto facendo un complimento, ti ho detto che è una provocazione».
«Sì».
«Allora perché l’hai accettato senza dirmi che ti stava così bene?»
«Be’…»
«Se a te sta bene, a me deve stare ancora meglio, non pensi?»
«Certamente, signorina, le starebbe d’incanto».
«E se lo sapevi, perché l’hai accettato senza dire niente? E hai anche avuto il coraggio di
metterlo, sei una sfacciata». Una pioggia inesauribile di rimproveri. Sto ascoltando
attentamente, chiedendomi cosa succederà, quando dall’altra stanza Kaneda padre tuona:
«Tomiko! Tomiko!»
«Sìì?» non può fare a meno di rispondere la figlia, e lascia la stanza del telefono. Il
pechinese, che è un po’ più grosso di me e ha gli occhi e la bocca radunati in mezzo alla
faccia, la segue.
Sempre a passi felpati esco in strada dalla porta della cucina e mi affretto a tornare a
casa del mio padrone. La spedizione è durata dodici minuti ed è stata un successo.
Passando di colpo da una bella dimora in una vecchia casa malandata, ho l’impressione
di spostarmi da una collina soleggiata all’interno di una caverna semibuia. Durante la
spedizione, distratto da tante cose, non ho badato all’arredamento delle stanze, alla
decorazione dei fusuma, alle condizioni degli shoji, ma rendendomi conto ora di quanto sia
brutto il posto dove abito, comincio ad apprezzare la tanto vituperata banalità. Credo
proprio che un uomo d’affari valga mille volte più di un professore. Sentendomi un po’
confuso, provo a consultare la mia coda. E così, hai proprio ragione, è il responso che mi dà
agitando la sua punta flessuosa.
Quando entro nella stanza degli ospiti, rimango sorpreso nel vedere che Meitei non se
n’è ancora andato. Il portacenere dove ha piantato i mozziconi delle sue sigarette sembra
un alveare. Sta parlando, seduto a gambe incrociate. C’è anche Kangetsu, arrivato chissà
quando. Il padrone, disteso con la testa poggiata sulle mani, sta guardando con aria assente
la macchia d’acqua piovana sul soffitto. È un’altra di quelle tranquille riunioni di
intellettuali.
«Caro Kangetsu, tu l’altra volta non ci hai voluto svelare il nome della donzella che ti ha
chiamato nel delirio, ma ormai ne puoi parlare tranquillamente», attacca subito Meitei.
«Visto che non sono il solo in causa, parlandone rischio di compromettere la signorina
in questione».
«Allora ti ostini nel tuo silenzio?»
«Inoltre ho fatto una promessa alla moglie del dottor O…»
«Le hai promesso di non dire nulla a nessuno?»
«Esatto», fa Kangetsu torcendo come al solito le stringhe dell'haori. Sono viola, di una
sfumatura che ormai non si trova più in vendita.
«Si usava durante il regno dell’imperatore Tenpo 12, quel colore», osserva senza cambiare
posizione il mio padrone, che tutta questa storia dei Kaneda lascia indifferente.
«Infatti. Non è certo adatto a questi tempi di conflitto con la Russia. Delle stringhe così
potevano andare bene per le uniformi dei soldati sotto gli shogun. Pare che Oda
Nobunaga13 nel giorno del suo matrimonio si sia acconciato i capelli a forma di frustino per
il tè, sono sicuro che per legarli si è servito di stringhe come le tue». Le frasi di Meitei sono
sempre lunghissime.
«Ha ragione, queste stringhe le portava già mio nonno quando i Tokugawa 14
combattevano contro il clan Choshu15, risponde serissimo Kangetsu.
«Potresti anche farne dono a un museo, non ti pare? Per un esperto della dinamica
dell’impiccagione come te - Mizushima Kangetsu, laureato in fisica - non è decoroso andare
in giro conciato così, sembri l’ultimo vassallo dello shogun rimasto in circolazione».
«Potrei anche seguire il suo consiglio, ma c’è una persona che dice che queste stringhe
mi donano…»
«E chi è che ti fa questi complimenti?» s’informa il padrone girandosi sul fianco.
«Non è una persona che lei conosce».
«Non fa niente se non la conosco, chi è?»
«Una certa signorina».
«Ha dei gusti davvero strani, ha, ha, ha! Scommettiamo che indovino? Non è la fanciulla
che ha invocato il tuo nome dal fondo del fiume Sumida? Perché non provi a buttartici
dentro un’altra volta con quell’haori addosso?» Questa volta Meitei attacca al fianco.
«He, he, he… ormai non mi chiama più dal fondo del fiume. Ora è al sicuro, all’angolo a
nord-ovest da qui».
«Al sicuro! Quel naso è velenoso, altroché!»
«Eh?» fa Kangetsu disorientato.
«Il naso dell’isolato di fronte poco fa è venuto a trovarci. Proprio in questa casa. Io e il
professore, qui, siamo rimasti di stucco, vero Kushami?»!
«Già», fa il mio padrone che ora, sempre sdraiato su un fianco, sta bevendo il tè.
12
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15
L’imperatore Tenpo regnò dal 1830 al 1844.
Oda Nobunaga (1534-1582), grande comandante militare, nato in una famiglia di piccoli daimyo (signori di un territorio)
nella regione a est di Kyoto. Conquistò ogni provincia mettendo fine alle guerre civili che devastavano il paese da più di un secolo e
avviò l’unificazione del Giappone. Hideyoshi (1536-1598) e gli shogun della famiglia dei Tokugawa, a cominciare da Ieyasu (15421616), continuarono e completarono la sua opera.
Gli shogun che per trecento anni tennero il potere in Giappone, destituiti poi nel 1868, con l’avvento dell’era Meiji.
Clan che si rivoltò nel 1864 contro il governo dei Tokugawa, al fine di ripristinare il potere dell’imperatore.
«Il naso? Ma di chi parlate?»
«Della rispettabilissima madre della fanciulla che amerai in eterno»«
«Cosa?»
«La moglie del signor Kaneda è venuta a chiedere informazioni su di te», spiega con
maggior serietà il mio padrone. Osservo Kangetsu per vedere se è stupito, contento o
mortificato… Niente, il suo volto non lascia trapelare la minima emozione.
«È venuta a chiedere se voglio prendere in sposa sua figlia?» domanda nel tono pacato
che gli è abituale, e intanto riprende a girare e rigirare le stringhe viola.
«No, niente affatto. Quella rispettabilissima signora, proprietaria di quel grandissimo
naso…» inizia a dire Meitei, ma il padrone lo interrompe con noncuranza:
«Ehi, da quando quella lì se n’è andata sto cercando di comporre una poesia in stile
nuovo sul suo naso, senti qui…» Nella stanza accanto la padrona comincia a ridacchiare.
«Certo che prendi la cosa sottogamba, anche tu! E ci sei riuscito?»
«Quasi. Il primo verso fa: In questa faccia si fa festa al naso.
«Poi?»
«… e gli si offre sake consacrato…»
«Poi?»
«Per il momento ne ho pensati solo due».
«Non sono male», osserva Kangetsu sorridendo.
«Potresti aggiungere: due narici informi…» propone Meitei. A quel punto anche
Kangetsu dice la sua:
«…tanto profonde che non si vedono i peli. Suona bene, no?»
Stanno facendo a gara a dire sciocchezze, quando tutt’a un tratto dietro la staccionata di
bambù un coro di quattro o cinque voci si mette a gridare:
«Faccia di tasso, faccia di tasso!»
Il padrone e Meitei, stupefatti, cercano di vedere chi sia da uno squarcio nella
staccionata, ma sentono solo una risata fragorosa e il rumore di piedi che scappano via.
«Cosa significa faccia di tasso?» chiede perplesso Meitei al mio padrone.
«Non ne ho la minima idea», risponde lui.
«Saranno dei balordi», suggerisce Kangetsu.
A quel punto Meitei si alza di colpo, come colto da un’improvvisa ispirazione, e inizia a
declamare in tono enfatico: «Signori, avendo condotto alcune ricerche sul naso dal punto
di vista dell’estetica - materia al cui studio ho dedicato diversi anni - vorrei chiedere la
vostra gentile attenzione per illustrarvi l’argomento». Il padrone, preso alla sprovvista,
resta attonito a guardare l’amico. Kangetsu invece risponde con voce appena udibile:
«Sono lieto di essere messo a parte delle sue osservazioni».
«Pur avendo svolto studi approfonditi, non sono riuscito a determinare l’origine del
naso, se non vagamente. La prima questione che dobbiamo affrontare è la seguente: se
partiamo dal presupposto che il naso abbia soltanto una funzione utilitaria, basterebbero
due orifizi. Non sarebbe necessario che sporgesse vistosamente dal volto. A qual fine allora
si protenderebbe in avanti come questo che vedete sulla mia faccia?» Così dicendo Meitei si
pizzica il naso.
«Veramente a me sembra piuttosto piatto», è il commento estemporaneo del mio
padrone.
«In ogni caso non è infossato, no? Scusate, insisto perché prestiate la massima
attenzione: confondendo il naso con due buchi posti semplicemente uno accanto all’altro,
potrebbero crearsi dei malintesi. È mia modesta opinione che lo sviluppo di quest’organo
negli esseri umani sia il risultato delle nostre piccole azioni quotidiane - quale ad esempio
soffiarsi il naso - e abbia raggiunto la sua fenomenale dimensione attuale per un processo
naturale».
«Deludente, la tua modesta opinione», commenta il padrone.
«Come certamente saprete, quando ci si soffia il naso, è necessario stringerlo tra le dita,
e stringendolo si produce uno stimolo su un’area ridotta, il che secondo la teoria
dell’evoluzione fa sì che quest’area, per reazione allo stimolo, si sviluppi in maniera
esagerata rispetto alle altre. La pelle a poco a poco si ispessisce, la carne gradualmente si
indurisce, finché diventa osso».
«Be’, questo è un po’ arrischiato… Non può sostenere che la carne diventi osso così, da
sola, di colpo», obietta Kangetsu con l’autorevolezza che gli conferisce la sua laurea in
fisica. Meitei non si lascia scoraggiare.
«L’obiezione è sensata, ma il fatto che ci sia un osso è una prova più valida di qualsiasi
teoria, quindi è inutile che protesti. L’osso c’è, e di conseguenza il naso protrude. E se
protrude, viene voglia di soffiarlo. In questo processo il naso ha la peggio e diventa sempre
più alto e stretto. È un processo davvero impressionante quello in cui l’arco del naso viene
formandosi per sfregamento. Ricorda la goccia d’acqua che rode la roccia, per citare uno
dei tanti, straordinari esempi analoghi».
«Peccato che il tuo sia largo e piatto».
«Chiedo scusa, ma mi sono intenzionalmente astenuto dal soffermarmi su questa
particolare configurazione del sottoscritto. Permettetemi invece di presentarvi il naso
dell’illustrissima madre di madamigella Kaneda, organo che si è sviluppato fino a
raggiungere un volume e una magnificenza senza precedenti sulla faccia della terra».
Kangetsu approva con entusiasmo.
«Tuttavia, quando le cose si sviluppano fino al limite estremo, se è vero che offrono uno
spettacolo grandioso, è altrettanto vero che inevitabilmente finiscono con l’incutere timore
e diffidenza. È innegabile che quel naso sia magnifico, ma possiamo affermare con
altrettanta sicurezza che ha una curva troppo accentuata. Se consideriamo dei personaggi
storici quali Socrate, Goldsmith e Thackeray dal punto di vista della struttura del naso,
probabilmente non erano perfetti, ma tali imperfezioni avevano il loro fascino. Si dice che il
valore di una cosa non dipende dalle sue dimensioni ma dalla qualità, e nel linguaggio
popolare la sostanza vale sempre più della forma, quindi dal punto di vista estetico il naso
del sottoscritto è di misura soddisfacente».
Kangetsu e il mio padrone scoppiano in una risata. Lo stesso Meitei sorride soddisfatto.
«Dunque, ciò che vi ho raccontato finora…»
«Professore, «raccontare» non è un po’ terra terra per una dissertazione? Ci faccia la
cortesia di usare un termine più appropriato», interviene Kangetsu prendendosi la rivincita
per la critica incassata l’altro giorno.
«Più che giusto, chiedo scusa e ricomincio… Dunque… vorrei dire ora due parole a
proposito della proporzione tra il naso e la faccia. Se consideriamo soltanto il naso, isolato
da altri elementi, l’illustrissima madre della signorina Kaneda ne possiede uno che non
sfigurerebbe in nessun luogo, vincerebbe di sicuro il primo premio anche fra i tengu che
vivono sul Monte Kurama. Disgraziatamente però il suo naso è stato concepito senza tener
in alcun conto gli occhi, la bocca e le altre parti circostanti, un capriccio della natura. È
provato che Giulio Cesare aveva un naso imponente. Ma tagliando con le forbici il naso di
Cesare e piazzandolo sconsideratamente sulla faccia di questo gatto, cosa si otterrebbe? La
fronte dei gatti è sempre presa ad esempio di una piccola superficie, erigervi sopra la torre
di quel naso eroico sarebbe come mettere su una scacchiera il grande Buddha di Nara, si
creerebbe uno squilibrio che ne sminuirebbe il valore estetico. Il naso di dama Kaneda,
come quello di Cesare, è sicuramente un’elegante e nobilissima, protuberanza. Ma che
figura fa nel contesto facciale che lo, circonda? Lungi da me l’intenzione di fare paragoni
con questo gatto, il cui livello è infimo. Ma la verità è che la faccia di quella signora, con gli
occhi obliqui stretti come fessure e le sopracciglia sempre corrugate, sembra quella distorta
di un epilettico. Ora vi chiedo, signori, quale naso sarebbe accettabile su una tale faccia?»
In una pausa nel discorso di Meitei, sul retro della casa si sente una voce dire: «Sta
ancora parlando del naso della signora, non la finisce più!»
«È la moglie del vetturino», spiega il mio padrone. Meitei riprende il suo discorso.
«Scoprire sul retro della casa un’inattesa ascoltatrice del gentil sesso è per l’oratore un
altissimo onore. Che un suono soave e gradevole porti un tocco di leggiadria alla mia arida
esposizione, è una gioia in cui sinceramente non osavo, sperare. Per conquistare il favore
della bella dama cercherò di adottare uno stile più colloquiale, ma poiché stiamo per,
affrontare una questione che fa appello alla scienza della dinamica, è possibile che risulti di
difficile comprensione alla signora. La prego quindi di voler portare pazienza».
Sentendo menzionare la dinamica, di nuovo Kangetsu sorride.
«Ciò che mi accingo a dimostrare oggi è che un tale naso e una tale faccia non possono
combinarsi in modo armonico. Infrangono infatti la «regola d’oro» di Zeising 16, e ve lo
proverò servendomi di una formula della dinamica. Se h è l’altezza del naso e α l’angolo
formato dal naso con la superficie della faccia, p sarà naturalmente il peso del naso. Fin qui
mi seguite?»
«Come si fa a seguire una roba del genere?» chiede il mio padrone.
«E tu, Kangetsu?»
«Sinceramente, anch’io faccio un po’ fatica…»
«Mi deludete. Pazienza Kushami, ma tu, Kangetsu, che hai una laurea in fisica! Questa
formula è la parte essenziale della mia dissertazione, se la salto, tutto quello che vi ho detto
finora non ha senso. Bah, pazienza. Salterò la formula per passare subito alle conclusioni».
«Perché, ci sono delle conclusioni?» domanda scettico il mio padrone.
«È ovvio, una dissertazione senza conclusioni è come una cena occidentale senza
dessert. Quindi fate bene attenzione, l’uno e l’altro, che ci sto arrivando. Se, alla luce della
formula ora citata, facciamo riferimento alle teorie di Virchow17 e Wiseman18, non possiamo
non tener conto dell’ereditarietà delle forme congenite. È vero che autorevoli studi
sostengono che i caratteri acquisiti non sono ereditari, però bisogna ammettere che le
caratteristiche sviluppatesi in risultanza delle forme congenite in qualche misura
necessariamente lo sono. Ne consegue che la figlia nata dalla proprietaria di un naso
talmente sproporzionato ne avrà anche lei uno abnorme. Kangetsu, data la sua giovane età,
non ha ancora notato se la struttura del naso della signorina Kaneda presenti delle
anomalie o meno, ma poiché i geni ereditari hanno un lungo periodo di incubazione, è
possibile che a un certo punto, così come cambia il tempo, una protuberanza identica a
quella della madre le cresca all’improvviso sulla faccia. Ragion per cui, stando alla
dimostrazione scientifica che vi ho appena fatto, sarebbe più prudente che Kangetsu
rinunciasse finché è in tempo a questo progetto matrimoniale. Sono convinto che non solo
il padrone di questa casa - cosa scontata - ma anche messer Gatto qui sdraiato concordino
con la mia opinione».
«Questo è ovvio», fa alzandosi a sedere il mio padrone, che sembra prendere la
questione molto a cuore, «chi sarebbe tanto scemo da pigliarsi la figlia di una come quella?
16
17
18
Adolf Zeising (1810-1876), esteta tedesco. Secondo la «regola d’oro» dividendo una linea in due segmenti il rapporto tra il
più lungo e il più corto deve essere uguale al rapporto tra la linea e il segmento più lungo.
Rudolf Virchow (1821-1902), patologo e politico tedesco.
Richard Wiseman (1622-1676), chirurgo inglese.
Guai a te se la sposi, Kangetsu». Per mostrare un minimo di approvazione, miagolo anch’io
un paio di volte. Kangetsu tuttavia non sembra particolarmente impressionato.
«Se questa è la vostra opinione, signori, posso anche rinunciare. Ma non vorrei che per il
dispiacere la signorina in questione ne facesse una malattia…»
«Sarebbe quasi un delitto passionale, ha, ha, ha!» esplode Meitei. Il padrone invece
prende la cosa molto seriamente.
«Come si può essere così ingenui? Puoi stare sicuro che ne uscirà indenne, essendo la
figlia di quella lì. Di una presuntuosa che la prima volta che è venuta in questa casa ha
cercato di mortificarmi!» si arrabbia. In quel momento da dietro la staccionata si sentono
di nuovo le risate di tre o quattro persone.
«Testa di legno!» dice una voce.
«Ti piacerebbe stare in una casa più grande, eh?» grida un’altra.
Poi una terza, molto forte: «È inutile che ti dai tante arie, sei solo un pallone gonfiato!»
A quel punto il padrone, al colmo dell’irritazione, passa nella veranda e con voce
altrettanto forte urla:
«Screanzati! Cosa diavolo venite a fare dietro la mia staccionata?»
«Ha, ha, ha! Savage tea! Savage tea!» lo irridono gli altri incoro.
Il mio padrone, fuori di sé, si volta di scatto, afferra il bastone da passeggio e si precipita
in strada.
«Bravo, dai loro una lezione!» applaude divertito Meitei. Kangetsu ridacchia,
attorcigliando le stringhe dell'haori. Io seguo il padrone ed esco attraverso uno squarcio
nella staccionata: trovo solo lui, fermo in mezzo alla strada, che si guarda attorno
brandendo il bastone. Non si vede nessun altro. Ha fatto di nuovo la figura del cretino.
4
Come al solito, mi intrufolo in casa Kaneda.
Non è necessario spiegare qui il significato che attribuisco all’espressione «come al
solito», diciamo che grosso modo equivale a «molto spesso» elevato alla seconda potenza.
Una cosa che si è fatta una volta, la si vuole fare una seconda, e poi una terza… La curiosità
non è un attributo solamente umano, anche i gatti vengono al mondo dotati di tale
caratteristica psicologica, abbiate la cortesia di accettare questo dato di fatto. Dopo la terza
volta si comincia a parlare di abitudine e la cosa cui ci si è assuefatti diventa necessaria alla
vita quotidiana, anche in questo siamo uguali alle persone.
Se vi chiedete perché mi intrufoli tanto spesso in casa Kaneda, permettetemi
innanzitutto di analizzare la natura umana. Perché gli uomini immettono fumo dalla bocca
per buttarlo poi fuori dal naso? Visto che non si vergognano a inspirare ed espirare senza
pudore qualcosa che non riempie la pancia né cura il capogiro, li pregherei di non fare la
voce grossa e non criticare me perché entro ed esco da casa Kaneda. Casa Kaneda è il mio
tabacco.
La parola «intrufolarmi» può dar luogo a malintesi. Fa pensare, a un ladro, o a un
amante segreto. È vero che in casa Kaneda non sono invitato, ma non ci vado certo per
rubare un pezzo di tonno o per fare due chiacchiere con quello stupido pechinese con gli
occhi e la bocca raggruppati in mezzo alla faccia! O pensate forse che voglia origliare? Siete
fuori strada. Se mi chiedessero quali sono le due professioni più degradanti al mondo,
risponderei l’investigatore e lo strozzino. Ammetto di avere osservato una volta di nascosto
quel che succedeva in casa Kaneda per aiutare il povero Kangetsu, mostrando uno spirito
cavalleresco indegno di un gatto. Ma è stato un singolo episodio, da allora non ho mai più
commesso bassezze di cui un gatto onesto si debba vergognare. In tal caso - chiederete perché ho usato una parola ambigua come «intrufolarmi»? Be’, ho le mie buone ragioni. È
mia opinione che il cielo sia fatto per coprire tutte le creature, e la terra per sostenerle.
Nemmeno le persone più polemiche e petulanti possono negare questa verità. Se poi
andiamo a vedere quanto abbia contribuito il genere umano alla creazione di cielo e terra,
mi pare che non sia stato del minimo aiuto. Che diritto hanno dunque gli uomini di
dichiararsi padroni di un luogo che non hanno creato? È vero che nulla impedisce loro di
arrogarsi questa facoltà, ma non ne consegue che possano proibirne ad altri l’accesso. Però
piantano pali e mettono staccionate sull’immensa superficie terrestre per delimitare un
terreno e dichiararlo di loro proprietà, e con la stessa impudenza sarebbero capaci di
recintare il cielo azzurro e registrarne un pezzo come appartenente a Tizio e un altro come
spettante a Caio. Ora se è lecita la suddivisione della terra in lotti e la compravendita del
diritto di proprietà a un tanto a tsubo, dovrebbe essere giusto anche dividere l’aria che
respiriamo e venderla a un tanto a metro cubo. Visto però che non è lecito recintare e
vendere l’aria, perché allora dovremmo considerare legittima la proprietà della terra? Da
queste riflessioni sono arrivato a convincermi che posso entrare dove mi pare e piace.
Ovviamente evito i posti che non mi interessano, ma quando voglio andare da qualche
parte, a nord, sud, est o ovest che sia, ci vado, serenamente e senza pensarci due volte.
Perché mi farei dunque scrupolo a entrare in casa Kaneda?
Tuttavia noi gatti, per nostra disgrazia, non possediamo la forza fisica degli uomini. E
poiché viviamo in un mondo dove vige il detto «la forza dà il diritto», anche se abbiamo
ragione le nostre argomentazioni non sono prese in alcun conto. A cercare di imporle a
tutti i costi, come fa il Nero del vetturino, c’è il rischio di assaggiare il bastone del droghiere
nel momento in cui meno ce l’aspettiamo. Quando la ragione sta da una parte e il potere
dall’altra, il più debole ha due soluzioni: sottomettersi subito volgendo la ragione in torto,
oppure far valere il proprio diritto eludendo la vigilanza del potente. Io naturalmente ho
optato per la seconda, e volendo evitare il bastone, devo per forza «intrufolarmi» di
soppiatto. Anche se non commetto infrazioni perché nulla mi vieta l’accesso alla proprietà
di chicchessia.
Benché non sia mia intenzione curiosare, a forza di frequentare casa Kaneda finisco per
vedere cose che mi si imprimono mio malgrado nel cervello. Ogni volta che si lava la faccia
la Nasona si strofina il naso, soltanto quello, con estrema cura, e sua figlia Tomiko si
ingozza di mochi ripieni di purè di fagioli dolci. Il bravo Kaneda, al contrario della moglie,
ha il naso piatto. Anzi, tutta la sua faccia è piatta come una sogliola, al punto che
guardandolo viene da pensare che da bambino abbia litigato con il capo di una banda di
monelli, sia stato afferrato per il collo e mandato a sbattere con violenza contro un muro…
con conseguenze visibili ancora oggi, dopo quarant’anni. La sua è una faccia senza dubbio
pacifica e priva di aggressività, ma del tutto inespressiva. Resta piatta anche quando il suo
proprietario è in preda alla collera. Quando mangia sashimi di tonno il signor Kaneda si dà
rumorose pacche sulla testa pelata, e porta sempre cappelli e geta altissimi, perché oltre ad
avere la faccia come una sogliola è di statura molto bassa - lo racconta spesso ridendo
esilarato il vetturino dei Kaneda allo studente che vive in quella casa, il quale lo ascolta
pieno di ammirazione e loda il suo straordinario spirito d’osservazione. Ne sento delle belle
lì dentro, se dovessi raccontare tutto non finirei mai.
Di recente ho preso l’abitudine di entrare nel giardino dall’ingresso di servizio e
acquattarmi dietro una collinetta artificiale a osservare la casa; poi, quando sono sicuro che
gli shoji sono chiusi e tutto è tranquillo, sguscio fuori con cautela. Ma se per caso sento voci
animate o reputo che ci sia il rischio di essere visto dalle stanze, giro verso est intorno allo
stagno, passo accanto al gabinetto e mi infilo zitto zitto sotto la veranda. Non che intenda
nascondermi o abbia timore di qualcosa, considerato che non commetto alcuna infrazione,
ma se per colmo di sfortuna mi trovassi faccia a faccia con uno di quei senzalegge che sono
gli esseri umani, dovrei rassegnarmi a battere in ritirata. D’altronde anche voi, per quanto
virtuosi siate, vi comportereste come me se abitaste in un mondo popolato da tanti
Kumasaka Chohan1. Certo non ho da temere che un uomo d’affari importante come il
signor Kaneda sopraggiunga di corsa roteando una sciabola lunga due braccia, come si
racconta fosse quella di Kumasaka. Ma da quel che ho capito, pare che soffra di una
patologia che lo induce a non considerare le persone come tali. Probabile quindi che non
consideri i gatti dei gatti. Di conseguenza qualunque mio simile, anche il più virtuoso,
entrando nel suo territorio deve muoversi con la massima cautela. Si dà il caso però che io
trovi divertente stare sempre all’erta, quindi è forse solo per soddisfare il mio gusto del
pericolo che entro ed esco di continuo dal cancello di casa Kaneda. Rifletterò
sull’argomento più tardi, e quando avrò completato un’analisi esaustiva della mentalità
felina, la pubblicherò ufficialmente.
Chiedendomi cosa succederà oggi, appoggio il mento sull’erba della collinetta artificiale
e studio la situazione: in una stanza che misura una quindicina di tatami, aperta alla bella
giornata di primavera, i signori Kaneda, marito e moglie, stanno conversando con un
ospite. Disgraziatamente il naso della Nasona è voltato verso di me e guarda dritto in
direzione della mia fronte al di qua dello stagno È la prima volta in vita mia che vengo
1
Famigerato ladro vissuto nel XII secolo.
guardato da un naso. Per fortuna il signor Kaneda, che siede davanti all’ospite, è girato di
profilo; vedo soltanto metà della sua faccia piatta, nella quale però non riesco a distinguere
bene il naso, soltanto i baffi sale e pepe spuntano arruffati a un'altezza più o meno congrua.
Ne deduco che subito al di sopra devono trovarsi le due narici. Questa visione mi fa
indulgere nell’ardita fantasia che per la brezza primaverile sarebbe un piacere accarezzare
solo facce piatte come la sua. Dei tre, l’ospite è quello che ha la fisionomia più normale.
Non ha cioè nulla di cui valga la pena parlarvi. Normale ha spesso la valenza di buono, ma
quando la normalità è eccessiva diventa ordinarietà, squallida condizione vicina alla
volgarità. Chi sarà mai la persona cui è toccato in sorte di nascere nella gloriosa era Meiji
con una faccia tanto insignificante? Se non raggiungo la mia solita postazione sotto la
veranda e non ascolto la conversazione, non lo saprò mai.
«… allora mia moglie è andata a casa di quell’uomo apposta per chiedere informazioni».
Il signor Kaneda, com’è sua abitudine, parla in tono arrogante. Arrogante ma non
incisivo. Le sue parole sono una vasta piattitudine, come la faccia.
«In effetti, quell’uomo è stato insegnante del signor Mizushima… una buona idea, in
effetti…» All’ospite non mancano gli «effetti».
«Però non è riuscita a cavare un ragno dal buco».
«Lo immagino, non si riesce a cavare mai niente da Kushami. Già al tempo in cui
alloggiavamo nella stessa pensione era così irresoluto… una vera calamità», fa l’ospite
rivolgendosi alla Nasona.
«Calamità o meno, è la prima volta in vita mia che vado a casa di qualcuno e ricevo
un’accoglienza così sgarbata», risponde lei sbuffando dal naso come fa sempre. L’ospite si
conforma premurosamente al suo umore.
«Le ha detto qualcosa di irrispettoso? Fin da giovane era così scorbutico… D’altronde
non c’è da stupirsi, sono più di dieci anni che insegna con lo stesso libro di lettura!»
«Non vale nemmeno la pena di parlarne, ogni volta che mia moglie gli ha fatto una
domanda, le ha sempre risposto con insolenza».
«Che villano… In effetti, certi individui, basta che abbiano un po’ di istruzione per
mettere su delle arie, e se in più sono poveri diventano pure invidiosi… alcuni possono
mostrarsi molto aggressivi. Invece di rendersi conto che non valgono granché, se la
prendono con le persone benestanti. Come se le ricchezze fossero state sottratte a loro, è
incredibile, ha, ha, ha!» L’ospite ride divertito.
«È proprio come dici tu, quella è gente viziata che si comporta così perché non sa come
va il mondo. Ma lo sistemo io, quello lì, perché si merita una bella lezione».
«In effetti, sono sicuro che gli servirà, che gli farà un gran bene». L’ospite si dichiara
d’accordo con il signor Kaneda prima ancora di sapere in cosa consista la «lezione».
«Tra parentesi, signor Suzuki, quell’uomo è veramente cocciuto», interviene la signora
Kaneda. «A scuola pare che non rivolga la parola né al signor Fukuchi né al signor Tsu-ki.
Pensavamo che fosse per timidezza, ma l’altro giorno ha inseguito con un bastone lo
studente che vive da noi, che non gli aveva fatto proprio niente. A trent’anni suonati si
lascia ancora andare a certe pagliacciate! Deve avergli dato di volta il cervello per la
disperazione».
«Veramente si è abbandonato a un gesto così violento?» Questa volta l’ospite sembra un
po’ sorpreso.
«Certo! Il ragazzo passava soltanto davanti a casa sua, quando all’improvviso quello è
saltato fuori a piedi nudi, brandendo un bastone. Mettiamo pure che il ragazzo gli abbia
detto qualcosa, non è un comportamento infantile per uno studioso con tanto di baffi, e in
più professore?»
«Già, e in più professore», ripete l’ospite.
«… in più professore», gli fa eco Kaneda.
Tutti e tre sono evidentemente convinti che se uno è professore, deve sopportare senza
reagire i peggiori insulti, neanche fosse una statua di legno.
«Inoltre quel tale, quel Meitei, anche lui è un bel tipo. Ha raccontato una sfilza di bugie
assurde. Non avevo mai incontrato un simile pagliaccio!»
«Ah, Meitei? Be’, non è cambiato, è sempre stato un fanfarone. L’ha incontrato a casa di
Kushami? Meglio non frequentarlo, quello lì. Anche lui da studente abitava nella mia
stessa pensione… si divertiva a prendersi gioco di tutti noi, non facevamo che litigare».
«Anche un santo perderebbe la pazienza con uno così. Tutti qualche volta diciamo bugie,
per educazione, o per evitare problemi… in certe occasioni siamo obbligati a dire cose che
non sentiamo veramente. Ma lui mente così, senza bisogno, non perché lo richiedano le
circostanze. Racconta frottole ogni volta che gliene salta il ticchio. Mente in maniera così
spudorata…»
«Il problema è che mente per divertimento».
«Sa, sono andata da quel professore per avere informazioni attendibili sul signor
Mizushima, ma mi hanno raccontato un sacco di sciocchezze. Mi sono sentita così
mortificata, così offesa… A ogni modo, visto che sono una persona educata, non vado a
chiedere informazioni a casa di qualcuno senza ringraziare, così dopo gli ho fatto recapitare
una cassa di birra dal nostro vetturino. Lo sa cos’ha fatto quello lì? Gli ha detto di riportarla
indietro perché non ne aveva bisogno. «La mia padrona gliela manda per ringraziare, la
prego di accettarla!» ha insistito il vetturino. «Io mangio marmellata ogni giorno, di questa
roba qui, di questa roba amara, non ne ho mai bevuta», ha risposto lui, e si è ritirato dentro
casa. Non è odioso? Rifiutare un dono! È una villania inaudita, non crede?»
«È imperdonabile». Questa volta l’ospite sembra veramente convinto di quello che dice.
Una pausa, poi si sente di nuovo la voce del signor Kaneda.
«Se oggi ti ho mandato a chiamare, è perché…» Rumore umido di pacche sulla pelata,
probabilmente sta mangiando sashimi di tonno. Da dove mi trovo, sotto la veranda, non
posso vedere cosa fa, ma ormai questo rumore mi è familiare e appena lo sento capisco
immediatamente che viene dalla testa di Kaneda, come le monache di un tempio sentendo
il colpo secco delle bacchette di legno sanno che la cerimonia è iniziata. «… è perché avrei
un favore da chiederti…»
«Se posso esserle utile in qualcosa, la prego, conti su di me. È solo grazie al suo
interessamento che sono stato trasferito all’ufficio di Tokyo». A giudicare dal suo tono,
l’ospite, che acconsente subito alla richiesta, deve avere verso Kaneda un debito di
riconoscenza. Credo che valga la pena di ascoltare. Oggi venendo qui non credevo di
trovare materiale così succulento, solo il bel tempo mi ha spinto fuori casa. È come se uno
andasse al tempio per dire una preghiera e venisse invitato a mangiare mochi nella stanza
del priore. Dal mio nascondiglio tendo dunque le orecchie per sapere cosa voglia Kaneda
dal suo ospite.
«Quel pazzo, quel Kushami, per qualche ragione mette strane idee in testa a Mizushima,
pare che gli abbia suggerito di non sposare mia figlia… vero, Hanako?»
«Altro che suggerito! Gli ha detto: «Chi sarebbe tanto scemo da prendersi la figlia di
quella lì? Guai a te se te la sposi»».
«Ha detto veramente «quella lì»? Che maleducato!»
«Eccome se l’ha detto! La moglie del vetturino è venuta apposta a riferirmelo».
«Cosa ne pensi, Suzuki? Come hai sentito, quello sta diventando veramente pericoloso».
«Sì, potrebbe creare dei problemi. Queste faccende sono particolarmente delicate, gli
estranei non dovrebbero metterci il becco. Persino uno come Kushami dovrebbe saperlo.
Cosa diavolo crede di fare?»
«Quindi, visto che da studenti abitavate nella stessa pensione, e da quel che mi pare di
capire eravate abbastanza in confidenza, avrei un favore da chiederti: dovresti andare a
trovarlo, e cercare di farlo ragionare. Può darsi che la prenda male, ma in tal caso si
metterebbe dalla parte del torto; se invece reagisce bene, i suoi affari personali ne
trarranno gran beneficio, è già previsto, e smetteremo di dargli fastidio. Se poi nonostante
tutto dovesse continuare a fare di testa sua, saprò cosa fare… Insomma, ostinandosi nel suo
atteggiamento ha tutto da perdere».
«Più che giusto… una stupida resistenza danneggerebbe solo lui e non gli porterebbe
alcun vantaggio, cercherò di farglielo entrare nella zucca».
«Un’altra cosa: considerato che i pretendenti alla mano di nostra figlia sono molti, non
possiamo assicurare nulla a Mizushima. Però dalle informazioni ottenute risulta essere una
persona come si deve, con un buon livello di istruzione, quindi se si impegna nello studio e
ottiene in breve tempo un dottorato, potremmo anche concedergli Tomiko in moglie…
Ecco quello che sei autorizzato a lasciar intendere».
«Questo dovrebbe senz’altro stimolarlo a studiare. Bene, allora siamo intesi».
«Aspetta… ti parrà un po’ strano, ma troviamo indisponente il fatto che Mizushima
tenga in grande considerazione quel pazzo, quel Kushami, e prenda per oro colato tutto
quello che dice, la cosa non gli fa onore. Questo naturalmente vale per tutti, non solo per
lui, e se Kushami continua a cercare di mettere i bastoni fra le ruote, da parte mia non
glielo posso impedire…»
«Ci dispiacerebbe per Mizushima, però…» interviene la Nasona.
«Non ho incontrato di persona questo Mizushima, ma considerato che un legame con la
vostra famiglia gli assicurerebbe la felicità per il resto dei suoi giorni, sono sicuro che non
avrà nulla da obiettare alle vostre richieste».
«Sì, Mizushima è intenzionato a sposare nostra figlia, ma quei due balordi, Kushami e
Meitei, non fanno altro che mettergli strane idee in testa…»
«Assurdo, un comportamento indegno di persone istruite. Comunque vado a parlargli
io, a Kushami».
«Bene, ti siamo molto grati di prenderti questo disturbo. Dovresti farci anche un altro
piacere: visto che Kushami è la persona che conosce meglio Mizushima, se ti potessi
informare un po’ sul carattere e sulle prospettive professionali del ragazzo… mia moglie
quando si è recata in visita l’altro giorno non è riuscita a capirci nulla».
«Siamo intesi. Dunque, oggi è sabato… se ci vado subito dovrei trovarlo in casa. Dove
vive, adesso?»
«Quando esce di qui svolti a destra, poi all’angolo a sinistra, alla fine dell’isolato troverà
una casa con una palizzata nera tutta sfasciata. È lì», spiega la Nasona.
«Allora è proprio a pochi metri. Nessun problema, ci passo un momento uscendo di qui.
Troverò la casa leggendo il nome sulla targhetta».
«La targhetta non sempre c’è. Perché quello lì si limita a incollare un biglietto da visita
al cancello con qualche chicco di riso bollito. Quando piove il biglietto si stacca e cade, ma
lui appena torna il sole lo riattacca. Di conseguenza non conti sulla targhetta. Ci si
domanda perché debba complicarsi tanto la vita quando gli basterebbe far incidere il nome
su una tavoletta di legno, come tutti. Non ha proprio il minimo buon senso, quell’uomo!»
«Sono senza parole. Vuol dire che chiederò della casa con la staccionata nera
semisfasciata».
«Sì. Di case malandate come quella nel quartiere non ce ne sono altre, la troverà subito.
Ah, se poi queste informazioni non le bastassero, cerchi una casa con il tetto invaso dalle
erbacce, non potrà sbagliare».
«Una dimora davvero originale, ha, ha, ha!»
Devo assolutamente tornare a casa prima che ci arrivi Suzuki. Ormai di questa
conversazione ho sentito abbastanza. Passando sotto la veranda avanzo verso il gabinetto,
ci giro intorno e guadagno la strada al riparo della collinetta, dopodiché torno a tutta
velocità alla casa dal tetto ricoperto di erbacce e con aria innocente vado a piazzarmi
davanti alla stanza degli ospiti.
Trovo il mio padrone nella veranda, sdraiato bocconi sulla coperta di lana bianca stesa a
terra, che si sta scaldando al sole della bella giornata primaverile. Poiché i raggi del sole, a
differenza di tante altre cose, hanno il senso dell’equità, rendono una squallida casupola
malandata calda e accogliente quanto il salotto di villa Kaneda, ma disgraziatamente è la
coperta a fare a pugni con la primavera. In origine, quando è stata tessuta, doveva essere
bianca, e anche il negozio di merce d’importazione deve averla venduta per bianca, e
sicuramente il padrone quando l’ha comprata avrà domandato una coperta bianca… ma
tutto questo è successo dodici o tredici anni fa e ormai il periodo «bianco» è alle nostre
spalle da un pezzo, ora siamo entrati nel periodo «grigio». Nutro forti dubbi sulla capacità
della coperta di superare questa tappa e vivere tanto a lungo da assumere colorazioni più
scure. Già adesso è così uniformemente lisa che se ne distingue a occhio nudo la trama
orizzontale. Ormai è in condizioni tali che per chiamarla ancora coperta ci vuole una
notevole faccia tosta. Tuttavia è convinzione del mio padrone che una cosa che dura da un
anno, due, cinque o dieci, deve durare per tutta la vita. È di una sciatteria incredibile. Ma
adesso cosa sta facendo, sdraiato bocconi su questa coperta dal lungo passato, il mento
appoggiato sulle mani, una sigaretta fra le dita? Niente, se ne sta lì in ozio. È possibile che
nella sua testa cosparsa di forfora riflessioni sui massimi sistemi si rigirino come una ruota
di fuoco, ma a osservarlo da fuori non si direbbe.
Mentre fuma, la brace della sigaretta si avvicina sempre più alla bocca, un tratto di
cenere cade sulla coperta ma lui non ci fa caso, continua a fissare assorto il fumo che si alza
dal mozzicone e, fluttuando alla brezza primaverile, forma mobili volute che vanno a
lambire i capelli corvini della moglie, appena lavati. Ah, sì, mi ero scordato di segnalare la
sua presenza.
La padrona volta le spalle al marito. Forse per villania? Certamente no. La buona o mala
creanza sono solo un problema d’interpretazione. Se lui se ne sta placidamente con il
mento appoggiato sulle mani a poca distanza dal sedere della moglie, mentre lei non
sembra preoccuparsi d’aver posato il suo maestoso deretano davanti alla faccia del marito,
non è perché siano l’uno o l’altra dei maleducati. Queste due persone formano una coppia
distaccata dalle piccole questioni banali e già dopo un anno di matrimonio avevano
superato gli stretti confini delle regole dell’etichetta. Comunque sia, la signora che volta le
spalle al marito ha pensato bene di approfittare della bella giornata per lavarsi i lunghi
capelli con una mistura di alghe e uova, e adesso, mentre cuce assorta e in silenzio un
kimono senza maniche per le bambine, eccezionalmente li lascia sciolti sulle spalle e lungo
la schiena. In realtà credo che sia per farli asciugare che ha portato nella veranda la scatola
da cucito e uno zabuton di mussola di lana, accomodata sul quale mostra ora
rispettosamente le terga al marito. Ma può anche darsi che sia stato lui a spostare la faccia
in prossimità del suo sedere. In ogni caso, per tornare al discorso di prima, il mio padrone
sta osservando con aria assente il fumo che passa tra i capelli folti e fluttuanti della moglie
creando l’effetto di onde di calore fuori stagione. Peccato che il fumo non resti fermo in un
punto, è nella sua natura salire, quindi il padrone, affascinato da quello strano spettacolo,
per seguirne il percorso fra i capelli della moglie deve per forza alzare gli occhi. Dalle reni
piano piano sposta lo sguardo alla schiena, alle spalle, poi superando la nuca lo posa sulla
cima della testa, e a quel punto si lascia sfuggire un grido di sorpresa. Nel bel mezzo del
cranio della donna che ha promesso di amare per tutta la vita ha visto una sorta di tonsura.
Una zona calva che splende con estemporanea lucentezza riflettendo i caldi raggi del sole.
La osserva intensamente, con gli occhi sbarrati, le pupille dilatate nonostante la luce
violenta, a dimostrare lo stupore per la straordinaria scoperta. La prima cosa che gli viene
in mente vedendo quel tondo pelato è il portacandele decorato posto davanti al butsudan
che in famiglia viene tramandato da generazioni. La sua famiglia appartiene infatti alla
setta buddhista Shinshu, nella quale vige l’usanza di spendere somme di denaro enormi per
gli altari che si tengono in casa. Gli torna in mente che da bambino aveva visto per la prima
volta quel butsudan - un altare piccolo e piuttosto scuro arricchito da spesse dorature - nel
magazzino. All’interno del butsudan era appeso un piattino d’ottone sul quale spesso
bruciava pigramente una candela, anche in pieno giorno. Nella semioscurità del magazzino
sembrava fare molta luce, e l’impressione suscitata nel suo cuore di bambino da quel
piattino lucente, risvegliata dalla calvizie sulla testa della moglie, gli torna in mente di
colpo. Ma in meno di un secondo la luce si spegne, sostituita dal ricordo dei piccioni al
tempio di Kannon, la dea della Misericordia. Tra i piccioni del tempio e la calvizie della
moglie non c’è nesso apparente, ma nella mente del padrone l’associazione di idee è molto
precisa. Quando da bambino veniva portato al tempio, nel quartiere di Asakusa, comprava
sempre dei fagioli per i piccioni. Fagioli da pochi soldi al piattino. I piattini erano d’argilla
rosata, molto simili, per colore e grandezza, alla calvizie della moglie.
«Sì, tale e quale», osserva meravigliato.
«Che cosa?» chiede la moglie senza nemmeno voltarsi.
«Come che cosa? In cima alla testa hai un grosso tondo pelato, lo sapevi?»
«Sì», risponde la moglie con la stessa flemma, senza smettere di cucire. Né sembra
imbarazzata dalla scoperta del marito. È una moglie perfetta nella sua compostezza.
«L’avevi già prima che ci sposassimo o ti è venuto dopo?» si informa lui. Se l’aveva già,
mi ha ingannato, deve pensare in cuor suo, ma non lo dice.
«Non ricordo quando è apparsa. Comunque che importanza ha un po’ di calvizie?» La
moglie è la serenità fatta. persona.
«Si tratta della tua testa, non te ne importa nulla?» insiste il mio padrone leggermente
irritato.
«Non me ne importa nulla proprio perché la testa è mia», risponde la moglie, ma questa
volta sembra un po’ allarmata e alza la mano destra a tastarsi adagio la parte calva. «Oh, si
è allargata, non pensavo che fosse così grande». Finalmente ammette che questa calvizie è
un po’ troppo estesa considerata la sua età, e tenta di giustificarsi: «Tutte le donne perdono
i capelli in questo punto, a forza di tirarli su, perché è lì che si esercita la trazione».
«Se li perdessero a questa velocità, a quarant’anni sarebbero tutte calve come teiere.
Dev’essere una specie di malattia, la tua. Magari infettiva, meglio che tu vada subito a farti
vedere dal dottor Amaki», suggerisce il padrone accarezzandosi preoccupato la testa.
«Hai poco da criticare! E tu allora, che nelle narici hai dei peli bianchi? Se la calvizie si
trasmette, figuriamoci i peli bianchi!» La padrona comincia ad arrabbiarsi.
«I peli dentro le narici non si vedono, quindi non danno fastidio. Invece una testa calva,
in una donna ancora giovane, non è un bello spettacolo. È una deformità».
«Se mi trovi deforme, perché mi hai sposata? Un bel coraggio, dire che hai sposato di tua
scelta un mostro…»
«Ma io non lo sapevo. Non ne sapevo nulla fino a oggi. Se sei tanto sicura di te, perché
non mi hai mostrato la testa prima che ci sposassimo?»
«Che idiozia! Quando mai in questo paese le ragazze devono subire un esame della testa
prima di andare spose!»
«Be’, passi per la calvizie, la posso ancora ammettere. Ma prendiamo la tua statura, sei
molto più bassa della media. Il che non e certo un pregio».
«La statura però si vede subito, no? Quando mi hai chiesta in moglie sapevi benissimo
che ero bassa, fin dall’inizio».
«Certo che lo sapevo, è ovvio, ma pensavo che saresti cresciuta ancora, per questo ti ho
sposata».
«Quando mai si cresce ancora a vent’anni! Ti diverti a prendermi in giro, di’ la verità!»
La padrona sbatte giù il kimono senza maniche e si volta a guardare il marito con aria di
sfida, come per dirgli di stare attento a come risponderà.
«Non c’è una legge che impedisca di crescere dopo i vent'anni. Pensavo che nutrendoti
bene, magari dopo il matrimonio ti saresti allungata un po’». Il padrone sta per sviluppare
seriamente la sua assurda teoria, quando si sente una vigorosa scampanellata alla porta e
subito dopo una voce energica chiede permesso. Evidentemente il signor Suzuki, guidato
dalle chiazze d’erba sul tetto, ha scovato la tana dell’illustre Kushami.
La padrona prende la scatola da cucito e il kimono e si ritira subito nella stanza accanto
rimandando la discussione a un altro giorno. Il marito arrotola la coperta color topo e si
precipita nello studio. Quando guarda il biglietto da visita che la serva finalmente gli porta
sembra sorpreso, ma le dice di far entrare il visitatore e, sempre con il biglietto in mano,
corre al gabinetto. Non ho la più pallida idea del motivo per cui abbia tanta fretta di
chiudersi in quel luogo maleodorante, ma sarebbe ancora più difficile spiegare perché ci
vada portando con sé il biglietto da visita di Suzuki Tojuro. In ogni caso una bella sfortuna
per quel biglietto!
Quando la serva, dopo aver sistemato uno zabuton di cotone stampato davanti al
tokonoma e invitato l’ospite ad accomodarsi, si ritira, il signor Suzuki si guarda attorno.
Osserva una dopo l’altra ogni cosa, l’imitazione di una calligrafia di Mokuan 2 nel tokonoma
- I fiori si schiudono in primavera - un ramo di pesco a fioritura precoce in un vaso
verdolino da pochi soldi comprato a Kyoto… Poi il suo sguardo si posa sullo zabuton messo
lì per lui e vede che un gatto vi si è placidamente raggomitolato sopra. Superfluo dire che
quel gatto sono io. A quel punto nel petto di Suzuki si solleva una piccola tempesta che
nulla nel suo aspetto esteriore, nemmeno una lieve tensione del viso, tradisce. Quel cuscino
è stato posto lì per lui, senza ombra di dubbio. Ma lui non ci si può sedere perché è stato
preceduto da uno strano animale che se n’è tranquillamente appropriato senza attendere il
permesso. Questa è la prima circostanza che offusca la serenità d’animo del signor Suzuki.
Se lo zabuton offerto fosse libero ed esposto alla brezza primaverile, probabilmente Suzuki,
in segno di modestia, sopporterebbe il disagio di restare sui nudi tatami fino a quando il
mio padrone non l’invitasse ad accomodarsi. Ma chi è quella creatura che è salita senza
degnarlo di un saluto sul cuscino che gli era destinato? Si trattasse di una persona
chiuderebbe un occhio, ma un gatto, che sfrontatezza! Gli fa anche un po’ senso. Ed è
questa la seconda circostanza che turba l’animo del signor Suzuki. Per finire, quel gatto ha
un atteggiamento fortemente provocatorio. Siede con arroganza su un cuscino cui non ha
alcun diritto, senza il minimo scrupolo, e lo guarda fisso in faccia con gli occhi tondi e
ostili, che sembrano chiedergli: e tu chi sei? Terza causa di tensione per il signor Suzuki. Se
è veramente tanto irritato, perché non mi fa sloggiare prendendomi per la collottola? No,
2
Maestro calligrafo cinese, monaco appartenente alla setta zen Obaku.
mi guarda in silenzio. È assurdo che una persona grande e grossa abbia paura di un gatto al
punto da non toccarlo. Probabilmente è per orgoglio che Suzuki non osa esprimere il
proprio malumore e cacciarmi via, in quanto essere umano vuole conservare la stima di sé.
Se fosse soltanto una questione di forza fisica, anche un bambino alto tre spanne potrebbe
prendermi e scuotermi come uno straccio, ma poiché entra in ballo l’autostima, persino
Suzuki Tojuro, il braccio destro del signor Kaneda, non riesce a fare nulla contro la divinità
felina seduta nel bel mezzo di un cuscino quadrato che misura poco più di mezzo metro di
lato. Benché non ci siano testimoni, non sarebbe degno di un uomo disputare con un gatto
un posto a sedere. Per una persona adulta, mettersi a litigare seriamente con un gatto su
chi ha torto e chi ha ragione sarebbe inammissibile. Addirittura ridicolo. Per evitare una
tale vergogna, Suzuki deve sopportare un minimo di disagio. Ragion per cui il suo odio per
i gatti va aumentando e ogni tanto mi lancia occhiate malevole. Io invece mi diverto a
vederlo così contrariato e faccio finta di nulla reprimendo la voglia di ridere.
Mentre tra me e Suzuki si svolge questo dramma muto, il mio padrone, risistematosi gli
abiti, esce dal gabinetto.
«Qual buon vento…» fa, venendosi a sedere. Del biglietto da visita che teneva prima in
mano non c’è più traccia, dal che deduco che il nome di Suzuki Tojuro è condannato a
restare a vita in quel luogo puzzolente. Sto pensando che è un ben triste destino per un
biglietto da visita, quando lui mi afferra per la collottola tuonando: «Via di qui tu!» e mi
scaglia nella veranda.
«Prego, accomodati», dice poi, indicando al suo vecchio amico il cuscino. «È da un bel
po’ che non ci vediamo. Quando sei arrivato a Tokyo?» Suzuki volta il cuscino dall’altra
parte e ci si siede sopra.
«Be’, non ti ho messo al corrente perché ho avuto mille cose da fare, ma in realtà
qualche tempo fa sono stato trasferito alla sede centrale, qui a Tokyo…»
«Oh, congratulazioni! Quand’è stata l’ultima volta che ci siamo visti? Prima che tu
andassi a stare in provincia, se non sbaglio».
«Sì, fanno quasi dieci anni. Be’, ogni tanto sono venuto a Tokyo, ma sempre per lavoro,
non ho proprio avuto il tempo di passare da te. Non giudicarmi troppo male, per favore. In
ditta abbiamo sempre da fare fin sopra i capelli, non è come nella tua professione, sai?»
«Certo che sei cambiato parecchio, in dieci anni», osserva il padrone mettendosi a
studiare Suzuki dalla testa ai piedi. L’uomo è pettinato con la riga in mezzo e indossa un
vestito di tweed di fattura inglese con una vistosa cravatta, sul petto gli brilla persino la
catena d’oro di un orologio, non si direbbe mai che è un vecchio amico di Kushami.
«Già, ormai sono obbligato a portare questa roba qui», risponde Suzuki mostrando la
catena con aria un po’ imbarazzata.
«Ma è oro vero?» domanda con poca discrezione il padrone.
«Sì, a diciotto carati», ride Suzuki. «Anche tu sei invecchiato, però. Ormai avrai anche
dei figli. Quanti ne hai, uno?»
«No».
«Due?»
«No».
«Nemmeno? Allora sono tre?»
«Sì, tre. E non so quanti altri ne arriveranno».
«Sei sempre il solito buontempone. E il più grande quanti anni ha? Sarà grandicello,
ormai…»
«La più grande deve averne sei o sette, non so di preciso».
«Ha, ha, ha! Voi professori siete proprio degli spensierati. Avrei dovuto fare anch’io
l’insegnante».
«Per carità, te ne saresti pentito in capo a tre giorni».
«Mah, non so… è una professione di alto livello, tranquilla, avete molto tempo libero,
potete studiare quello che vi piace… Mi sembrano ottime condizioni. Anche il lavoro in
ditta non è male, ma io ne ho ancora di strada da fare… perché bisogna salire fino in alto,
quando si è in una ditta, se si resta nei ranghi inferiori ci si deve piegare a tante esigenze
assurde, sbattersi di qua e di là in cerca di appoggi, accompagnare il capo a bere dopo il
lavoro…»
«A me gli uomini d’affari non sono mai andati giù, fin da quando ero studente. Pur di
guadagnare sono disposti a tutto, senza il minimo scrupolo, perché sono dei «vili
mercanti», come si diceva una volta». Seduto di fronte a un uomo d’affari, il padrone si
permette di dire quel che gli passa per la mente.
«Figurati, non siamo mica tutti così… è vero che ci sono aspetti un po’ volgari, perché
per avere successo bisogna essere pronti a suicidarsi per amore del denaro, e il denaro è un
ruffiano… Sono appena stato da un uomo d’affari che mi ha detto che per fare soldi bisogna
fare tre cose: cancellare gli obblighi morali, cancellare le emozioni umane, cancellare il
senso del pudore, lui la chiama la tecnica del triangolo. Interessante vero?» conclude
Suzuki con una risata.
«Chi è questo cretino?»
«Non è affatto un cretino. Anzi, è un uomo molto intelligente. E nel mondo degli affari
ha un’ottima reputazione. Forse non lo conosci, ma abita qui accanto».
«Non sarà mica Kaneda, per caso? Non mi parlare di quello lì».
«Perché ce l’hai tanto con lui? Voleva solo scherzare, dire che per fare soldi bisogna
essere disposti quasi a tutto. Il problema con te è che prendi tutto sul serio».
«La sua teoria sarà pure uno scherzo, ma il naso della moglie no di certo. Se vieni da
casa loro, l’avrai ben vista, quella proboscide».
«La moglie? Mi sembra una persona di gran buon senso, una che conosce il mondo».
«Sto parlando del suo naso, del suo naso gigantesco. L’altro giorno ho composto una
poesia in stile moderno, in onore di quel naso».
«In stile moderno? Cosa significa?»
«Non conosci lo stile moderno? Certo che anche tu… sei completamente all’oscuro dello
spirito del nostro secolo».
«Sì, è vero, non ho il tempo di occuparmi di letteratura e tutta quella roba lì… Tanto più
che non mi è mai piaciuta».
«Sai com’era il naso di Carlo Magno?»
«Ha, ha, ha, sei il solito buontempone! No, non ne ho la minima idea».
«E Wellington? I suoi soldati lo chiamavano Nasuto. Lo sapevi?»
«Perché ti preoccupi tanto di questa storia dei nasi? Che importanza può avere che un
naso sia tondo o a punta?»
«Ha molta importanza. Conosci Pascal?»
«Dovrei conoscere anche lui? Mi stai facendo un esame? Cos’ha fatto, questo Pascal?»
«Ha detto una cosa molto saggia».
«Cioè?»
«"Se il naso di Cleopatra fosse stato un po’ più corto, le sorti del mondo sarebbero state
diverse"».
«In effetti…»
«Di conseguenza sbagli a prendere i nasi alla leggera».
«D’accordo, d’ora in poi li terrò in grande considerazione. A parte ciò, oggi sono venuto
a trovarti anche per un altro motivo… Insomma avrei delle informazioni da chiederti. A
proposito di quel tuo ex studente, Mizushima… Mizushima… non ricordo come faccia di
nome. Comunque mi dicono che viene a trovarti spesso».
«Kangetsu?»
«Sì, ecco, Kangetsu. Vorrei avere qualche informazione su di lui».
«Si tratta di quella faccenda del matrimonio, vero?»
«Sì, più o meno si tratta di quello. Oggi, quando sono andato dai Kaneda…»
«L’altro giorno è venuta qui la Nasona in persona».
«Veramente? Ah sì, me l’ha detto anche lei, la signora. Mi ha detto: «Sono andata a
trovare il signor Kushami, ma sfortunatamente c’era anche quel Meitei, ha fatto tante di
quelle interruzioni senza senso che non ci ho capito più niente»».
«La colpa è sua, che va a casa della gente con un naso del genere».
«Ma non ce l’aveva con te. Le rincresceva di non averti potuto domandare quello che le
stava a cuore a causa della presenza di Meitei. Per questo mi ha chiesto di venirti a parlare.
Finora non mi sono mai occupato di questo genere di transazioni, ma se i due giovani in
questione si piacciono, non c’è nulla di male a fare da intermediario per mandare avanti le
cose… Per questo sono qui».
«Grazie per il disturbo», risponde il mio padrone. Il tono è freddo, ma per qualche
ragione oscura alle parole «se i due giovani in questione si piacciono» si è sentito smuovere
il cuore da una vaga emozione, ha provato un senso di refrigerio, come quando una folata
d’aria fresca si infila su per le maniche del kimono in un’afosa notte estiva. Per natura è un
testardo burbero e disincantato, tuttavia non è certo un prodotto di questa nostra civiltà
moderna, disumana e priva di sentimenti. Direi piuttosto che è in grado di comprendere le
ragioni altrui, nonostante si infuri facilmente. Se l’altro giorno ha litigato con la Nasona, è
perché non sopporta le sue maniere, ma riconosce che la figlia non ne ha colpa alcuna. È
vero che detesta gli uomini d’affari e in particolare quel campione della categoria che è
Kaneda, tuttavia non ce l’ha affatto con la figlia. Nei confronti della ragazza non prova né
amore né odio; quanto a Kangetsu, che è uno dei suoi studenti preferiti, gli vuole bene
come a un fratello. Se, come dice Suzuki, i due giovani provano attrazione reciproca, metter
loro i bastoni fra le ruote, anche indirettamente, non sarebbe un’azione degna di un
gentiluomo. Perché il professor Kushami, malgrado tutto, si ritiene un gentiluomo. Quindi
se i due si piacciono… Questo però non è affatto provato: per decidere che atteggiamento
prendere in questa faccenda, prima di tutto deve conoscere la verità.
«Pensi davvero che quella ragazza sia contenta di sposare Kangetsu? Quello che
vogliono Kaneda e la Nasona non ha importanza, cosa vuole la figlia?»
«Be’, questo… cioè… sì, certo… sì, è probabile che lo voglia sposare».
La verità è che Suzuki non sa assolutamente cosa desideri la ragazza e nonostante la sua
abilità nel raggiro sembra un po’ spiazzato.
«È probabile? Questo vuol dire che non ne sei sicuro», risponde il mio padrone, che in
qualunque circostanza non è soddisfatto se non affronta le cose di petto.
«No, no, sono io che mi sono espresso male. Anche la figlia vuole questo matrimonio, ne
sono certo. Assolutamente certo… Come? Me lo ha detto la madre. Anche se ogni tanto
parla male di Kangetsu».
«Chi, la figlia?»
«Sì».
«Che sfrontata! E tanto per cominciare, se ne parla male significa che non ha alcuna
intenzione di sposarlo, non credi?»
«A questo riguardo, per quanto strano ti possa sembrare, succede di parlare male
proprio della persona di cui si è innamorati».
«È inaudito, solo uno squilibrato farebbe una cosa del genere!» Il padrone, nella sua
semplicità, non è in grado di capire sentimenti tanto tortuosi.
«Ebbene, squilibrati di tal fatta esistono. Anche i Kaneda, marito e moglie, spiegano in
questo modo il comportamento della figlia. Se ogni tanto se ne viene fuori con certe
critiche, vuol dire che ci pensa di continuo, che ha perso completamente la testa».
A questa assurda spiegazione, che mai gli sarebbe venuta in mente, il padrone resta
senza parole, spalanca tanto d’occhi e guarda Suzuki come se fosse un indovino. Quanto a
Suzuki, davanti al suo sconcerto deve dirsi che rischia di rovinare tutto, perché passa ad
argomenti più comprensibili.
«D’altronde basta che ci pensi un momento, con tutti i soldi che ha e con la sua bellezza,
la ragazza potrebbe andare sposa nelle migliori famiglie. Il tuo Kangetsu sarà anche molto
intelligente, ma dal punto di vista della posizione sociale… no, non voglio tirare in ballo la
posizione sociale, non è corretto. Parliamo invece della situazione economica, chiunque
capirebbe che c’è un forte squilibrio. Quindi, se i genitori si sono dati la pena di chiedermi
di venire da te, è ovvio che il motivo è uno solo, la ragazza è innamorata di Kangetsu».
Questa volta Suzuki ha usato il cervello e ha trovato un argomento convincente. Vedendo
che il mio padrone sembra persuadersi, si rilassa un po’, poi si rende conto che allentare la
guardia adesso è rischioso, che la tattica migliore è battere il ferro finché è caldo per
concludere felicemente la missione il più presto possibile.
«Perciò, per le ragioni che ti ho appena spiegato, da parte loro i Kaneda non domandano
né capitali né sostanze, ma in compenso vorrebbero che il giovanotto in questione fosse
qualificato… che avesse un titolo, in altri termini… Questo non significa che in tal caso il
matrimonio sarebbe assicurato, non fraintendermi. L’altro giorno, quando la signora è
venuta a trovarti, Meitei ha detto tante di quelle stupidaggini che… no, non è colpa tua.
Anzi, la signora ha avuto parole d’elogio per te, ha apprezzato la tua franchezza e il tuo
senso della dignità. Solo Meitei è da biasimare… Insomma, se Kangetsu ottenesse un
dottorato, la sua posizione sociale migliorerebbe e anche per i Kaneda sarebbe un genero di
cui andare fieri. Eh, cosa ne dici? Pensi che possa presentare la tesi e ottenere il titolo in
tempi brevi? Figurati, fosse soltanto per i Kaneda, non avrebbero bisogno né di dottorati né
di lauree, ma c’è di mezzo l’opinione pubblica, che non si può certo prendere alla leggera».
Presentata in questo modo, la richiesta della controparte di un alto titolo accademico
non appare sconclusionata, quindi al padrone viene spontaneo seguire i suggerimenti di
Suzuki, nel quale ha ormai piena fiducia. È proprio vero che è un uomo semplice e onesto.
«Bene, allora la prossima volta che Kangetsu viene a trovarmi, farò del mio meglio per
convincerlo a scrivere la tesi. Prima però devo assicurarmi che lui la voglia davvero
sposare, la signorina Kaneda».
«Sì, ma evita di essere troppo formale, altrimenti le trattative rischiano di andare per le
lunghe. La cosa migliore è che tu cerchi di sondare le sue intenzioni nel corso di una
normale conversazione».
«Sondare le sue intenzioni?»
«Sì, anche se l’espressione non è delle più felici… anzi no, non hai bisogno di sondare
nulla. Basta che parli normalmente con lui, riuscirai a capire cos’ha in mente».
«Ci riusciresti forse tu, io se non faccio domande precise non capisco nulla».
«Be’, fai un po’ come ti pare. Però è meglio evitare gli interventi inutili e stupidi di
Meitei, sono controproducenti. In queste faccende non sono necessari incoraggiamenti, la
volontà dei diretti interessati dovrebbe bastare. La prossima volta che viene Kangetsu, fai
in modo che non ci siano intoppi… No, non sto parlando di te, mi riferisco a Meitei. Se si
finisce in bocca a quell’uomo, non c’è scampo».
Mentre Suzuki, non potendo criticare il mio padrone, sparla dell’amico, ecco che il
professor Meitei in persona, portato dalla brezza primaverile, entra dalla porta della cucina
e fa la sua inattesa comparsa in scena. A riprova del fatto che quando si parla del lupo…
«Toh, guarda chi si vede! Un ospite d’eccezione! Eh, quelli consueti come me, Kushami li
tiene in poco conto… Bisognerebbe venirci una volta ogni dieci anni, a casa di Kushami.
Anche questi dolci sono molto più buoni di quelli che mi propina di solito…» blatera Meitei
infilandosi maleducatamente in bocca una fetta di yokan della confetteria Fujimura.
Suzuki si agita per la tensione. Il padrone sogghigna. Meitei mastica tranquillo. Io, che
dalla veranda mi godo la scena, mi dico che il teatro muto può raggiungere livelli sublimi.
Se gli adepti dello zen sono in grado di comunicare fra loro senza parole, con la sola forza
del pensiero, di sicuro ci riescono anche i protagonisti di questa pantomima. Brevissima,
ma di rara intensità.
«Ti credevo uccello migratore per il resto dei tuoi giorni, Suzuki, quand’è che sei tornato
alla terra natia? Spero proprio di campare a lungo, perché può sempre succedere qualcosa
di bello quando meno te l’aspetti».
Meitei si rivolge a Suzuki con la stessa familiarità con cui parla al mio padrone. È vero
che da studenti abitavano nella stessa pensione, ma forse gli converrebbe trattare con un
po’ più di riserbo qualcuno che non vede da dieci anni… Lui invece sfoggia la sua tipica
disinvoltura. Sarà un segno di intelligenza o di stupidità? Non lo so, difficile dirlo.
«Per favore, non sono poi così scemo», risponde Suzuki tenendosi sulle generali, ma
dev’essere molto teso perché torce e ritorce nervosamente la catena dell’orologio.
«Sei già salito su uno di quei tram che vanno a elettricità?» gli chiede di punto in bianco
il mio padrone.
«Pare che oggi sia venuto fin qui per farmi prendere in giro da voi due. È vero che arrivo
dalla provincia, ma questo non mi impedisce di possedere sessanta azioni della Compagnia
Tranviaria di Tokyo».
«Allora dobbiamo portarti rispetto. Io ne avevo ottocentottantotto e mezza, ma
disgraziatamente la maggior parte se la sono mangiata le tarme, mi resta solo la mezza. Se
solo fossi venuto a Tokyo un po’ prima, quando me ne restavano ancora una decina, te le
avrei date volentieri… Peccato!»
«Vedo che non sei cambiato, sei sempre il solito sbruffone. Comunque, a parte gli
scherzi, non si sbaglia ad avere qualcuna di quelle azioni, di anno in anno le quotazioni non
fanno che salire».
«Veramente? Allora una mezza azione, se me la tengo per mille anni, mi frutterà tanto
che avrò bisogno di tre casseforti. Senti, noi due siamo persone al passo con i tempi,
conosciamo la Borsa, ma prendi il povero Kushami. È convinto che stiamo parlando della
borsa della spesa», fa Meitei infilandosi in bocca un’altra fetta di yokan e guardando
l’amico che, contagiato dall’appetito di Meitei, sta tendendo anche lui una mano verso il
piatto dei dolci. A questo mondo le persone intraprendenti hanno quasi sempre il privilegio
di venire imitate.
«È vero che della Borsa e tutta quella roba li non mi importa nulla, però avrei voluto che
Sorozaki prendesse almeno una volta il tram», risponde il mio padrone contemplando con
aria assente i segni lasciati dai suoi denti sulla fetta di yokan appena morsa.
«Se avesse preso il tram, Sorozaki sarebbe finito al capolinea, a Shinagawa. Sta meglio
dov’è ora, «il laico santo e ragionevole», con il suo nuovo nome scolpito sulla lapide».
«A proposito di Sorozaki, ho sentito che è morto. Mi dispiace, poveretto. Era un uomo
intelligente, è un peccato…» dice Suzuki, subito interrotto da Meitei.
«Sarà stato pure intelligente, ma in cucina era un disastro. Quando toccava a lui cuocere
il riso, per sopravvivere ero costretto ad andare a mangiare soba da qualche altra parte».
«Sì, è vero che faceva schifo, il riso di Sorozaki, puzzava di bruciato ed era troppo duro.
E come se non bastasse per accompagnarlo ci dava sempre del tofu crudo e freddo,
disgustoso». Anche Suzuki ripesca in fondo alla memoria lagnanze vecchie di dieci anni.
«Già a quel tempo Kushami era un suo grande amico, ogni sera andavano insieme a
mangiare una ciotola di shiruko, è per questo che Kushami si è rovinato lo stomaco e ora
soffre le pene dell’inferno. A dire tutta la verità, visto che ne mangiava molto di più di
Sorozaki, sarebbe stato più giusto che morisse lui per primo».
«Dove sei andato a pescarlo, questo ragionamento? Lascia perdere i fagioli dolci che
mangiavo io, parliamo piuttosto di te, che ogni sera con il pretesto di fare esercizio andavi
nel cimitero dietro la pensione a colpire le steli di pietra con una canna di bambù. Finché il
prete ti ha scoperto e ti ha dato una bella lezione, ricordi?» Non volendo essere da meno,
anche il mio padrone tira fuori gli antichi misfatti di Meitei.
«Ha, ha, ha, è vero! A un certo punto è spuntato un prete con la testa rapata come un
Buddha che mi ha detto di smetterla perché disturbavo la pace dei morti. E dire che io
maneggiavo solo una canna di bambù, mentre il campione di sumo Suzuki, qui, con le steli
di pietra ci faceva la lotta, ne ha buttate giù ben tre!»
«Quella sera è andato su tutte le furie, il prete. Mi ha ordinato di rimetterle al loro posto,
e quando gli ho chiesto di aspettare perché da solo non ce la facevo, mi ha detto: Non devi
farti aiutare, per espiare la tua colpa devi rimetterle al loro posto da solo, altrimenti ti
porterai addosso il risentimento dei defunti…»»
«Se ti fossi visto, quella volta! Tutto teso nello sforzo, in camicia di calicò e fundoshi nel
bel mezzo di una pozzanghera, perché aveva appena piovuto…»
«Mentre tu, disgraziato, te ne stavi a guardare come niente fosse! Io mi arrabbio di rado,
ma in quell’occasione ti ho trovato veramente detestabile, ti ho odiato dal profondo del
cuore. Non ho dimenticato quello che mi hai detto quella sera. Te lo ricordi?»
«Come faccio a ricordarmi quello che ho detto dieci anni fa? Le parole scolpite sulla stele
però non le ho scordate: Kisen Inden Kokaku Daikoji, primo mese del quinto anno dell’era
An-ei3. Aveva una bellezza classica, quella stele. Tanto che mentre la tiravi su ero tentato di
rubarla. Era in puro stile gotico, perfettamente conforme ai principi estetici». Di nuovo
Meitei tira fuori le sue bislacche teorie.
«Lascia perdere lo stile, torniamo a quello che hai detto. «D’ora in poi ho intenzione di
consacrarmi allo studio dell’estetica, quindi cercherò sempre di riportare per iscritto ogni
avvenimento interessante che avvenga nel mondo, perché serva da riferimento nei tempi
futuri. Non è degno del grande studioso che diventerò esprimere sentimenti personali
come la pietà e la compassione». Questo hai osato dire senza scomporti. Ti ho giudicato
così cinico che con le mani sporche di fango ho afferrato il tuo quaderno e l’ho strappato in
mille pezzi».
«Ed è sicuramente in quel momento che il mio promettente talento artistico è stato
soffocato per non rinascere mai più. Sei stato tu a tarparmi le ali. Per questo provo ancora
un certo rancore verso di te».
«Non cercare di prendermi per fesso, sono io che dovrei provare rancore».
«Meitei è sempre stato un pallone gonfiato», interviene il mio padrone che, avendo
finito la sua fetta di yokan, si unisce di nuovo alla conversazione. «Non ha mai mantenuto
3
L’era An-ei va dal 1772 al 1780. Il quinto anno è il 1776. Kisen Inden Kokaku Daikoji è un nome postumo.
una promessa. E quando la gente esige una spiegazione, riesce sempre a trovare un
pretesto. Una volta - era il momento della fioritura del mirto nel terreno del tempio qui
vicino - ha giurato che avrebbe scritto una tesi sui principi dell’estetica prima che i fiori
cadessero. «Non ce la farai mai», gli ho detto. Sai cos’ha risposto? Che lui, nonostante le
apparenze, era un uomo dalla volontà di ferro, e se ne dubitavo, era pronto a scommettere.
L’ho preso sul serio e abbiamo deciso che la posta in gioco era una cena in un ristorante
occidentale di Kanda. Ho accettato perché ero sicuro che non ce l’avrebbe fatta, però un po’
preoccupato in fondo in fondo lo ero. Non avevo certo i soldi per pagare una cena in un
ristorante occidentale… Comunque Meitei non dava segno di mettersi al lavoro. Le
settimane passavano e lui non aveva scritto neanche una pagina. In capo a cento giorni sul
mirto non restava un solo fiore, ma lui non sembrava darsene cura. Allora mi sono detto
che ormai la cena l’avevo in tasca e gli ho ricordato la scommessa. Ma lui se n’è
infischiato».
«Ti avrà di nuovo gabbato con i suoi ragionamenti, immagino».
«Infatti. È veramente una faccia di bronzo. Si è ostinato a sostenere che forse non aveva
altre qualità, ma quanto a determinazione non era da meno di nessuno di noi».
«Nonostante non avessi scritto nemmeno una pagina?» Questa volta è Meitei a fare la
domanda.
«Esatto. Sai cosa mi hai detto quella volta? Che in quanto a determinazione non eri
inferiore a nessuno, ma purtroppo non avevi molta memoria. Che avevi sì promesso di
scrivere una tesi sui principi dell’estetica, ma il giorno dopo te n’eri scordato. Quindi, se
non avevi mantenuto la promessa prima che il mirto sfiorisse, la colpa non era da attribuire
alla tua volontà bensì alla tua memoria. E visto che la tua volontà non era in causa, non eri
tenuto a offrirmi nessuna cena, questo hai avuto il coraggio di sostenere».
«Una storia interessante. In effetti, mette in luce un lato tipico di Meitei», commenta
Suzuki, che per qualche ragione sembra incuriosito. Il suo tono è molto più conciliante di
quello che aveva in assenza di Meitei. Che sia un atteggiamento tipico degli uomini
intelligenti?
«Cosa ci trovi di interessante?» chiede il padrone, ancora in collera per quella
scommessa mai onorata.
«Sono desolato», interviene Meitei. «Sappi che è proprio per fare ammenda che sto
spendendo soldi ed energie al fine di servirti delle lingue di pavone. Quindi non te la
prendere e porta ancora un po’ di pazienza. Ah, a proposito di tesi, sono venuto a portarti
una notizia sensazionale».
«Non mi cogli impreparato, porti notizie sensazionali ogni volta che vieni».
«Sì, ma la notizia di oggi è davvero eccezionale. Epocale, vale un tesoro. Lo sapevi che
Kangetsu si è messo a scrivere una tesi di dottorato? Un eccentrico come lui, sempre
convinto di sapere tutto, lanciarsi in un’impresa tanto noiosa! Non l’avrei mai detto. Ma
cosa ci vuoi fare, è innamorato… c’è da morire dal ridere. Devi assolutamente farlo sapere
alla Nasona, che in questo momento sta probabilmente sognando di dottorati
sull’argomento ghiande».
Nel sentire nominare Kangetsu, Suzuki inizia a far cenni con il mento e con gli occhi al
padrone: che non dica nulla, per carità! Lui però non ne coglie il senso. Da quando Suzuki,
poco fa, gli ha spiegato la situazione, prova un po’ di pena per la figlia dei Kaneda, ma
adesso che Meitei ha fatto il nome della Nasona gli è tornata in mente la lite dell’altro
giorno. Quel ricordo lo diverte, ma continua a irritarlo. Però il fatto che Kangetsu si sia
messo a scrivere la tesi è per lui il miglior regalo, aveva ragione Meitei a vantarsi di portare
una notizia sensazionale. Altro che sensazionale, è una notizia magnifica che gli fa davvero
piacere! È un’ottima cosa per Kangetsu ottenere un dottorato, indipendentemente dal fatto
che sposi o meno la figlia dei Kaneda. Se una statua di legno mal riuscita come me - pensa resta ad ammuffire in un angolo di magazzino finché i tarli se la mangiano, non ha
importanza, ma un’opera tanto ben riuscita vorrei che venisse verniciata il più presto
possibile.
«Ha veramente iniziato a scrivere la tesi?» chiede infervorato, ignorando i segnali che
continua a mandargli Suzuki.
«Se te lo dico, perché ne dubiti? L’argomento però non lo conosco, non so se sia la
stabilità delle ghiande o la dinamica dell’impiccagione. In ogni caso, trattandosi di
Kangetsu, la Nasona apprezzerà certamente», fa Meitei.
Da quando Meitei ha cominciato a parlare della Nasona, Suzuki sembra a disagio. Meitei
però non se ne accorge e continua come se nulla fosse: «Inoltre volevo informarti che ho
fatto delle ricerche sul tema del naso, e di recente ho trovato che in The Life and Opinions
of Tristram Shandy, Gentleman, c’è una teoria in proposito. Peccato che Sterne non abbia
potuto ammirare il naso della Kaneda, sarebbe stato per lui un materiale di studio
prezioso… È una cosa tristissima che il naso più grande del reame debba marcire così,
senza ottenere alcun riconoscimento. La prossima volta che viene a trovarti voglio
disegnarlo, me ne servirò come riferimento per i miei studi di estetica». Dalla bocca di
Meitei come al solito esce una valanga di spropositi.
«Sì, però sembra che la ragazza ci tenga a sposare Kangetsu», dice Kushami riferendo
quello che ha appena saputo, al che Suzuki, visibilmente allarmato per quella che giudica
una gaffe, comincia a strizzargli l’occhio. Il padrone resta insensibile alla sua mimica
quanto un materiale non-conduttore lo è a una scarica elettrica.
«Strano, però, che la figlia di quello lì sia capace di amare. Sono sicuro che non è un
grande amore, sarà soltanto un’infatuazione».
«Anche se è solo un’infatuazione, Kangetsu farebbe bene a sposarla».
«Farebbe bene a sposarla? Ma se soltanto l’altro giorno sostenevi l’esatto contrario!
Com’è che sei venuto a più miti consigli?»
«Non sono venuto a più miti consigli, non sono il tipo da cambiare parere con tanta
facilità, però…»
«Però è successo qualcosa, vero? Di’ un po’, Suzuki, voglio dirti una cosa che potrà
tornarti utile, a te che nel mondo degli affari sei ancora sull’ultimo gradino. A proposito di
quello lì, di Kaneda. È assurdo pensare che la figlia di uno come lui possa un giorno venire
considerata con il rispetto dovuto alla moglie di quell’uomo di immenso talento che è
Mizushima Kangetsu. Sarebbe come mettere una lanterna di carta accanto alla campana di
un tempio, e noi che ci diciamo suoi amici non possiamo tacere davanti a un misfatto del
genere, persino un uomo d’affari come te deve ammetterlo».
«Vedo che hai sempre la stessa energia. Complimenti, sei riuscito a restare esattamente
com’eri dieci anni fa», risponde disinvolto Suzuki, cercando di minimizzare.
«Visto che mi fai i complimenti, lascia che ti esponga un argomento un po’ più erudito.
Gli antichi Greci tenevano in gran conto l’educazione fisica e avevano adottato la politica di
incoraggiare le competizioni atletiche con premi importanti. Stranamente però non ho mai
trovato scritto da nessuna parte che abbiano attribuito qualche riconoscimento alla
sapienza degli studiosi, cosa che ho sempre considerato un mistero».
«Già, in effetti è un po’ strano», concorda imperturbabile Suzuki.
«Tre giorni fa, tuttavia, nel corso delle mie ricerche nel campo dell’estetica, di colpo ne
ho scoperto la ragione, dissipando un dubbio che mi tormentava da anni. Sono finalmente
uscito da una condizione crudele per raggiungere l’illuminazione, ho toccato il limite
estremo di ogni gioia terrestre e celeste».
Sulla faccia di quel ruffiano di Suzuki, disorientato dal fiume di parole di Meitei, si
dipinge un’espressione di impotenza. Il mio padrone abbassa lo sguardo come a dire «ci
risiamo» e si mette a picchiettare sul piatto con i bastoncini d’avorio. Solo Meitei,
infervorato, continua la sua arringa.
«E chi credete che abbia spiegato questa contraddizione, che abbia fatto emergere per
l’eternità dal profondo delle tenebre il mio dubbio? Il più grande studioso di tutti i tempi, il
famoso filosofo greco della scuola peripatetica, Aristotele in persona. Secondo la sua teoria
- Kushami, piantala di picchiare su quel piatto e ascolta - se i premi che i Greci assegnavano
nelle competizioni valevano di più delle capacità di coloro cui venivano attribuiti, era
perché costituivano, oltre a una ricompensa, anche un incoraggiamento. Ma se avessero
dovuto premiare la sapienza, cosa avrebbero potuto offrire che valesse di più della sapienza
stessa? Esiste al mondo qualcosa del genere? Ovviamente no. E offrendo qualcosa di più
vile, avrebbero finito con il ledere la dignità della sapienza. Hanno provato di tutto - a
mettere uno sull’altro sacchi pieni d’oro fino all’altezza del Monte Olimpo, ad accumulare
tutte le ricchezze di Creso - ma non riuscendo a fare un’offerta adeguata, hanno capito che
per quanto si spremessero le meningi, non avrebbero mai potuto trovare qualcosa che
reggesse il confronto con la sapienza. E allora hanno deciso che non le avrebbero attribuito
alcun premio. Con questo credo che abbiate capito che non c’è denaro che possa venir
comparato alla sapienza. Bene, cerchiamo di metterci in testa una volta per tutte questo
principio e applichiamolo ora alla nostra vicenda. Kaneda non è altro che una banconota
fornita di naso e di occhi, una banconota che ha avuto il dono della vita, per usare una
metafora originale. Quindi la figlia di una banconota vivente potrà essere al massimo un
assegno ambulante. Prendiamo invece il nostro Kangetsu: ha frequentato le migliori scuole
e si è brillantemente laureato con il massimo dei voti, primo in tutta la prefettura; poi
senza risparmiare le forze, tormentando le stringhe del suo haori risalente alla rivolta del
clan Choshu, giorno e notte si è dedicato allo studio della stabilità delle ghiande; non pago
di tanto risultato, ha deciso di pubblicare in tempi brevissimi un’importante tesi destinata
a offuscare l’opera di quel grande fisico che fu Lord Kelvin. È vero che una volta,
attraversando il ponte di Azuma, ha tentato di buttarsi nel fiume, ma questo gesto, ispirato
dalla passione giovanile, non può creare inquietudini riguardo alle sue immense riserve di
sapienza. Applicando a Kangetsu una delle mie espressioni preferite, possiamo affermare
che è una biblioteca ambulante. È un proiettile calibro 28 caricato di sapienza. Se questo
proiettile scoppia nel mondo accademico al momento giusto, supponendo che scoppi… nel
caso scoppiasse…» Arrivato a questo punto, Meitei sembra far fatica a continuare con la
consueta eloquenza e perde un po’ della sua baldanza, come un animale dalla testa di drago
che finisce in una coda di serpente, ma subito si riprende: «In una tale esplosione, di un
assegno ambulante, di migliaia di assegni ambulanti, resterebbe soltanto un mucchietto di
polvere. Per questa ragione Kangetsu non può sposare una donna tanto inferiore a lui.
Sono assolutamente contrario a questa unione. Sarebbe come se un elefante, il più saggio
tra gli animali, sposasse un maialino, il più ingordo. Dico bene, Kushami?» conclude
Meitei. Il mio padrone resta in silenzio e riprende a battere i bastoncini contro il piatto.
«Non sono d’accordo», fa allora Suzuki senza molta baldanza, incapace di rispondere
per le rime. Fino a poco fa ha detto peste e corna di Meitei, e se a questo punto commette
un’imprudenza, chi lo sa cosa può uscire dalla bocca di un uomo privo di tatto come
Kushami. La cosa migliore è cercare di venirne fuori indenne incassando nel modo più
indolore i colpi di Meitei. È un uomo intelligente, Suzuki. È convinto che al giorno d’oggi
sia preferibile evitare ogni resistenza inutile, che le vane polemiche siano un retaggio
dell’epoca feudale. Che lo scopo della vita non siano le parole, ma l’azione. Se le cose
procedono nella maniera voluta, lo scopo è raggiunto. Raggiunto possibilmente in
dolcezza, senza fatica, preoccupazioni o conflitti. Basta che si vada avanti. In virtù di questa
teoria Suzuki ha avuto successo dopo la laurea e adesso porta un orologio d’oro; in virtù di
questa teoria ha accolto la richiesta dei signori Kaneda e brillantemente abbindolato
Kushami. Peccato che sia entrato in scena un vagabondo dalla mentalità inadeguata alle
circostanze che cogliendolo di sorpresa lo ha spiazzato. La teoria del «procedere in
dolcezza» è stata inventata da gentiluomini dell’era Meiji e viene applicata da individui
come Suzuki Tojuro, ed è lui ora a trovarsi in difficoltà.
«È perché non sai niente di tutta questa storia che dai certe risposte come «non sono
d’accordo»…» continua Meitei. «Contrariamente al tuo solito hai l’eleganza di trattenerti e
controllare il linguaggio, ma se fossi stato qui l’altro giorno, quando si è presentata la
proprietaria di quel naso, e avessi visto come si è comportata, scommetto che saresti
rimasto sconcertato anche tu che ami tanto gli uomini d’affari. Vero, Kushami? Avete fatto
una litigata memorabile».
«Eppure sembra che io sia stato giudicato meglio di te».
«Ha, ha, ha, certo che hai una notevole fiducia in te stesso! D’altronde, se così non fosse,
non oseresti più presentarti a scuola, con tutti i colleghi e gli studenti che ti sbeffeggiano
chiamandoti savage tea. Anch’io sono cocciuto e non cedo facilmente, ma non credo che
avrei tanto coraggio, hai tutta la mia ammirazione!»
«Non vedo perché dovrei aver paura di qualche stupida chiacchiera. Sainte-Beuve è
stato forse il più grande critico di tutti i tempi, ma all’epoca in cui faceva lezione
all’università di Parigi era così malvisto che quando usciva, per difendersi dagli attacchi
degli studenti, era obbligato a portarsi un pugnale nella manica. E quando Brunetière
attaccò i romanzi di Zola alla Sorbona…»
«Tu però non sei un professore universitario. Sei un semplice insegnante d’inglese e non
puoi paragonarti a certi luminari. Sarebbe come se un pesciolino si comparasse a una
balena. Diventerai lo zimbello generale…»
«Taci. In quanto studioso, mi considero allo stesso livello di Sainte-Beuve».
«Una bella presunzione! Evita però di imitarlo e andare in giro con un pugnale, potresti
farti male. Se a un professore universitario si addice un pugnale, be’, a un insegnante
d’inglese un temperino dovrebbe bastare. Comunque le lame sono pericolose, la cosa
migliore è che tu vada a comprarti un fucile a tappi in un negozio di Asakusa, te lo metta a
tracolla, e vada a spasso con quello. Saresti molto carino. Vero, Suzuki?»
«Siete così spensierati che è sempre un piacere stare con voi. Rincontrandovi dopo dieci
anni, mi sembra di sbucare da un vicolo buio in un campo all’aria aperta. Riusciamo a
parlare con la spontaneità che avevamo ai vecchi tempi, quando abitavamo nella stessa
pensione. È duro dover stare attenti a tutto quello che si dice, stare sempre sul chi va là, è
un’oppressione, un vero supplizio! Invece una chiacchierata innocente allarga il cuore, non
c’è nulla di più rilassante che parlare con i vecchi compagni d’università. Mi ha fatto
piacere vederti oggi, Meitei! Ora però devo andare, ho un impegno». Dopo questa
dichiarazione Suzuki fa per alzarsi.
«Vengo anch’io», dice Meitei. «Devo andare a Nipponbashi, a una riunione del Comitato
per la Rinascita Morale degli Intrattenimenti, ti accompagno fin lì».
«Magnifico, facciamo due passi insieme, dopo tanti anni!» E se ne vanno tutti e due a
braccetto.
5
Se dovessi scrivere tutto ciò che accade nelle ventiquattro ore di una giornata, senza
omettere nulla, ce ne vorrebbero altre ventiquattro per leggere, e per quanto sia favorevole
allo stile descrittivo in letteratura, devo confessare che è un’impresa al di sopra delle mie
forze, dopotutto sono un gatto. Le bizzarrie cui si compiace di abbandonarsi il mio
padrone, sia nel linguaggio che nel comportamento, meriterebbero di essere raccontate in
dettaglio ai lettori una per una, lo so, ma per mia disgrazia non ho né il talento né l’energia
per farlo. Ne sono desolato, ma dovete rassegnarvi. Anche i gatti ogni tanto hanno bisogno
di fare una pausa.
Dopo che Suzuki se n’è andato in compagnia di Meitei, è tornata la calma, come nelle
notti invernali quando il vento cessa e inizia a nevicare nel silenzio. Il padrone come di
consueto si è ritirato nello studio. Le bambine dormono una accanto all’altra nella stanza di
sei tatami. Al di là dei fusuma, nella stanza contigua esposta a sud, la padrona è distesa e
allatta la piccola Menko, che ha ormai due anni. È stata una di quelle giornate di primavera
velate di foschia e la sera è calata presto, il rumore dei geta di un passante risuona sulla
strada come se fosse dentro casa. Nella pensione qualche via più in là, qualcuno sta
suonando il flauto interrompendosi di continuo, e disturbando con quel suono
intermittente le mie orecchie insonnolite. Fuori dev’essere scesa la nebbia. Ho appena
ripulito la conchiglia, che mi serve da scodella, del pesce in brodo che mi hanno dato per
cena, e ora che ho la pancia piena sento la necessità di riposare un po’.
Ho sentito dire che tra gli appassionati di haiku c’è una nuova usanza, dire «amori di
gatto» per indicare una poesia che parla della primavera… è vero che in primavera tanti
miei simili invece di dormire vagano per il quartiere tutta la notte, ma io non sono per il
momento in questa disposizione d’animo. Tanto per cominciare, penso che l’amore sia
un’energia cosmica. È nella natura di tutte le creature viventi, da Giove nell’alto del cielo
giù giù fino alle cavallette e all’ultimo verme che brulica dentro la terra, consumarsi al
fuoco della passione, quindi non c’è nulla di strano se anche noi gatti diventiamo
sentimentali e propensi a pericolosi romanticismi. C’è stato un tempo in cui anch’io ero
profondamente innamorato di Micetta. E corre voce che persino quella golosa di Tomiko,
la figlia del fondatore della teoria del triangolo, abbia perso la testa per Kangetsu. Di
conseguenza non è mia intenzione disprezzare quei gatti randagi del mondo intero, e le
loro gatte, che nelle belle sere di primavera si abbandonano ai loro istinti lussuriosi e
perdono il lume della ragione. Io però non sono in questo stato d’animo e a nulla serve
sollecitarmi. Tutto quello che desidero adesso è riposare. Come si può amare quando si
casca dal sonno? Quatto quatto giro intorno al futon delle bambine, mi sistemo
comodamente sul bordo e mi addormento.
Quando mi sveglio, vedo che il padrone non è più nello studio: chissà quando è venuto
in camera da letto e si è infilato nel futon accanto a quello della moglie. Prima di andare a
dormire ha l’abitudine di prendere con sé un libro di letteratura occidentale. Una volta
sdraiato però, non riesce a leggerne nemmeno due pagine di fila. Spesso gli succede di
posarlo accanto al cuscino e di non toccarlo neanche. Se non ne legge neppure una riga, che
bisogno ha di portarselo in camera da letto? Ma questo è uno dei suoi tipici comportamenti
e quando la moglie glielo fa notare ridendo, la ignora. Ogni sera si prende il disturbo di
arrivare con un volume che non leggerà. A volte, non contento di uno, ne ha tre o quattro
sotto il braccio. C’è stato un periodo, qualche tempo fa, in cui si portava addirittura il
grande dizionario inglese Webster. A pensarci bene, la sua dev’essere una sorta di nevrosi,
come ci sono degli stravaganti che non riescono ad addormentarsi senza il mormorio
dell’acqua che bolle in una teiera, così lui ha bisogno di avere qualche libro accanto al
cuscino. Il che significa che per lui i libri, non servono a essere letti ma a indurre il sonno.
Una specie di sonnifero stampato su carta.
Quando getto un’occhiata per capire cos’ha portato stasera, vedo che si tratta di un
piccolo libro rosso aperto a metà e quasi posato sui suoi baffi. Dal fatto che il pollice è
ancora infilato tra le pagine, deduco che questa volta miracolosamente è riuscito a leggerne
un po’. Vicino al libro rosso, al solito posto, c’è l’orologio da tasca di nichel, con il suo
colore freddo che tanto stona in questa dolce notte di primavera.
La padrona ha un po’ scostato la bambina che prima stava allattando e dorme russando
con la bocca aperta, la testa fuori dal cuscino. Credo che di tutte le cose che fanno gli
umani, la più antiestetica sia proprio dormire con la bocca aperta. Noi gatti non ci
permetteremmo mai una simile indecenza. Per natura la bocca serve a emettere suoni e il
naso a respirare. Nel nord del paese la gente ormai è diventata estremamente pigra, apre la
bocca il meno possibile, e il risultato di questo risparmio di energie è che parla con il naso,
che però è meno sgradevole che chiudere il naso e usare la bocca per respirare, cosa
peraltro pericolosa per la salute: dal soffitto potrebbero cadere degli escrementi di topo!
Quando mi volto a guardare le bambine, le vedo distese sul futon con la stessa
ineleganza dei genitori. Tonko, come per affermare i suoi diritti di sorella maggiore, ha
allungato una mano fino a coprire l’orecchio di Sunko. Questa giace supina e per rivalsa ha
posato una gamba sul petto di Tonko. Entrambe da quando si sono addormentate hanno
compiuto una rotazione di novanta gradi, ma dormono tranquille senza rendersi conto di
aver preso una posizione innaturale.
C’è qualcosa di particolare nella luce di una lampada in primavera. Il suo riflesso sul
pavimento dona a questa scena tanto semplice e modesta tutta la bellezza della notte. Mi
guardo intorno chiedendomi che ore siano: il silenzio è profondo, i soli rumori che si odono
sono il ticchettare della pendola, il russare della padrona e in lontananza il digrignar di
denti della serva. O-san, ogni volta che le fanno notare che nel sonno digrigna i denti, nega.
Si ostina a dire di non ricordare di averlo mai fatto in vita sua e lungi dal promettere di
correggersi, si accanisce nel suo diniego. Poiché digrigna nel sonno, è ovvio che non può
ricordare. Che se ne renda conto o meno, però, il problema è che lo fa. Ci sono al mondo
persone che pur comportandosi male, sono convinte di essere nel giusto. Se pensano di non
avere colpa di un contrattempo, non se ne danno pensiero, infischiandosene del disagio
causato ad altri. Credo che questi gentiluomini e queste raffinate signore appartengano allo
stesso albero genealogico della nostra serva. Intanto la notte avanza…
Tutt’a un tratto sento due colpetti leggeri alle imposte della cucina. Improbabile che
qualcuno venga in visita a quest’ora. Saranno di sicuro dei topi, ma possono ballare quanto
vogliono, io ho deciso di non catturarne… Di nuovo due colpi. No, non si direbbe un topo.
E nel caso lo sia, dev’essere molto prudente. I topi di questa casa, come gli allievi della
scuola del padrone, non hanno altra idea in testa che creare confusione e turbolenza giorno
e notte. Disturbare i sogni del mio povero padrone è per loro una vocazione, il pensiero di
usargli dei riguardi non li sfiora neanche. Il rumore che ho appena sentito non l’hanno
fatto i topi. È troppo delicato per delle creature che l’altro giorno hanno avuto la
spudoratezza di intrufolarsi in camera da letto, mordere il naso del padrone e darsela a
gambe squittendo. No, non è un topo. Ecco, ora sento un cigolio… è un’imposta che viene
sollevata, poi uno shoji che viene fatto scivolare di lato lungo la rotaia il più
silenziosamente possibile. No, no, altro che topo, questo è un uomo! E né il professor
Meitei né quel tale, Suzuki, entrerebbero a quest’ora di notte senza farsi annunciare, dopo
aver forzato il chiavistello. Non sarà mica uno di quei gentiluomini ladri di cui ho tanto
sentito parlare? In tal caso, voglio vedere che faccia ha. In questo momento mi pare che
stia entrando dalla porta sul retro con i suoi grossi piedi sporchi di fango e faccia due passi
all’interno. Al terzo passo deve aver calpestato un’asse della botola, perché un forte
scricchiolio riempie la notte. Provo la sensazione di venire strigliato contropelo con una
spazzola. Per qualche minuto non si sente più nulla. Guardo la padrona: sta dormendo
come un ghiro, l’aria che entra ed esce dalla bocca aperta. Il padrone sta forse sognando, il
pollice sempre tra le pagine del libro rosso. Ed ecco che in cucina sento strofinare un
fiammifero. Evidentemente il signor ladro, al contrario di me, al buio non ci vede. Un
inconveniente non da poco per lui.
A questo punto mi acquatto in un angolo e rifletto. Il ladro attraverserà la cucina e farà
la sua apparizione dal soggiorno, oppure svolterà subito a sinistra e andrà nello studio
passando dall’ingresso? Il rumore dei passi insieme a quello di un fusuma spostato mi
segnala che si trova nella veranda. Ecco, ora è nello studio. Poi tutto tace, non si sente più il
minimo rumore.
Mi viene in mente che devo svegliare il padrone e la moglie finché sono in tempo, ma in
che modo? Per quanto mi sprema le meningi non riesco a trovare assolutamente nulla, non
il più pallido barlume viene a illuminarmi. Forse potrei addentare il bordo della trapunta e
tirarlo… provo un paio di volte, ma non ottengo alcuna reazione. Vado a strofinare il mio
naso freddo contro la guancia del padrone e resto in attesa davanti alla sua faccia, ma lui,
senza svegliarsi, protende infastidito un braccio nel sonno e con una manata sul naso mi fa
volare via. Il naso è un punto molto delicato per noi gatti, estremamente sensibile al
dolore. Non mi resta che svegliarli miagolando, ma per qualche misteriosa ragione, per la
prima volta in vita mia, la voce mi resta strozzata in gola, bloccata da qualcosa. Mi sforzo
ripetutamente e quando alla fine riesco a produrre un debole miagolio, mi fermo
allarmato: non che il padrone, di cui ci sarebbe urgente bisogno in questo momento, abbia
dato segno di svegliarsi, ma ho di nuovo sentito muoversi il ladro. Si sta avvicinando a
passi felpati lungo la veranda. E qui, ormai è troppo tardi, non posso più fare nulla. Mi
nascondo tra un fusuma e un baule di bambù e osservo quel che succede.
I passi del signor ladro si fermano davanti agli shoji della camera da letto. Trattengo il
respiro e attendo al colmo dell’ansia la mossa seguente. Mi viene in mente che se dessi la
caccia ai topi, questa sarebbe l’emozione che proverei. Per la tensione mi sembra che
l’anima debba schizzarmi fuori dagli occhi. Sono davvero grato a questo gentiluomo di
darmi l’opportunità di provare almeno una volta una simile estasi. L’attimo seguente vedo
che un punto nel bel mezzo del terzo shoji sta cambiando colore, come se venisse bagnato
dalla pioggia. Al di là mi pare di scorgere in trasparenza una cosa violacea. La carta si
strappa lasciando passare una lingua rossa. Poi la lingua sparisce di nuovo nel buio. Al suo
posto, oltre il buco che si è formato nella carta, compare qualcosa che luccica in maniera
inquietante. Non c’è dubbio, è l’occhio del signor ladro. Stranamente l’occhio non guarda in
giro per la stanza, ma sembra fissare soltanto me che me ne sto nascosto dietro il baule di
bambù. Questo scambio di sguardi dura solo pochi secondi, ma mi mette così a disagio che
mi sembra mi abbia accorciato la vita. Non riuscendo a sopportarlo sto già per uscire
dall’ombra del baule, quando gli shoji si aprono silenziosamente e il ladro appare davanti ai
miei occhi.
Seguendo il corso logico della narrazione, adesso dovrei descrivervi quell’ospite inatteso
che è il signor ladro, ma prima permettetemi di sottoporre al vostro giudizio una mia umile
teoria. Nei tempi antichi gli dei venivano considerati onniscienti e onnipotenti, e in quanto
tali rispettati. Questo avviene ancora oggi, nel ventesimo secolo, per il Dio cri stiano.
Tuttavia, quella che viene considerata onniscienza e onnipotenza dall’uomo della strada, da
un’angolazione di versa può apparire ignoranza e impotenza. È un paradosso e se penso
che dalla creazione del mondo sono io a enunciarlo per la prima volta, sono tentato di
vantarmi di capacità superiori alla media. Quindi ne esporrò qui le motivazioni per ficcare
in testa una volta per tutte a quei presuntuosi degli umani che non devono prendere per
scemi i gatti. L’universo intero è stato creato da Dio, di conseguenza anche gli uomini sono
creature di Dio, così è scritto, pare in un libro che si chiama Bibbia. Come dicevo, gli esseri
umani, dopo aver accumulato per millenni ogni sorta di osservazioni su se stessi, per un
senso di profonda meraviglia e incredulità tendono ad attribuire a Dio onniscienza e
onnipotenza. La ragione di tanto stupore va cercata nel fatto che nonostante ci sia al
mondo una moltitudine inimmaginabile di persone, non ne esistono due con la stessa
faccia Gli elementi necessari a formare una faccia sono ovviamente costanti, e anche le
dimensioni variano di poco da una all’altra. In altre parole le facce sono tutte fatte degli
stessi materiali, eppure non ne sono venute due uguali. Come non ammirare dunque l’estro
e l’abilità di Dio, che con mezzi tanto rudimentali è riuscito a creare una varietà incredibile
di fisionomie? Impossibile produrre una tale gamma di variazioni se non si ha una
straordinaria capacità immaginativa. Il più eccelso degli artisti, anche sforzandosi fino
all’esaurimento della propria ispirazione, riuscirebbe a disegnare dodici o tredici facce al
massimo, e alla luce di queste riflessioni non si può fare a meno di meravigliarsi dell’abilità
di quel Dio che si è dato la pena di creare da solo gli uomini. È una tecnica sconosciuta
nella società umana, di conseguenza non può stupire che venga giudicata frutto di
un’intelligenza onnipotente. Cosa che ispira agli uomini un sacro timore di Dio, più che
plausibile dal loro punto di vista. Nell’ottica di noi gatti tuttavia è comprensibile che queste
stesse circostanze provino l’impotenza di Dio. O per lo meno che ci inducano a non
giudicarlo superiore agli uomini quanto a inventiva. È vero che ha creato quell’infinità di
persone ognuna con una faccia diversa, ma erano differenze da lui progettate fin
dall’inizio? Non è che per caso voleva fare delle facce tutte uguali come quelle di noi gatti,
ma non riuscendoci alla fine di innumerevoli tentativi è giunto a questa situazione
confusa? Non è escluso. La creazione dei volti umani viene celebrata come un successo di
Dio, ma al tempo stesso non la si può forse giudicare la prova di un clamoroso fiasco? La
famosa onnipotenza, nulla impedisce di considerarla impotenza. Nel volto umano gli occhi
stanno uno accanto all’altro su una superficie piatta, quindi per loro sfortuna gli uomini
non possono vedere al tempo stesso a destra e a sinistra, nel loro campo visivo entra solo
un lato delle cose. Questa semplice verità si manifesta di continuo, in dimensione più vasta,
nella loro società, ma gli uomini, incapaci di comprenderla, hanno perso il lume della
ragione e finito con il credere ciecamente in Dio. Se è difficile creare due cose differenti, lo
è almeno altrettanto crearne due identiche. Se a Raffaello avessero ordinato due quadri
uguali della Madonna, per lui sarebbe stato forse più complicato che non dipingere due
Madonne una diversa dall’altra. Anche Kobo Daishi 1, famoso calligrafo, avrebbe trovato
forse più difficile riprodurre tali e quali due caratteri scritti il giorno precedente che
riscriverli in altro modo. L’apprendimento delle lingue avviene per imitazione: i bambini
sentono pronunciare parole d’uso quotidiano dalle madri, dalle balie e da tante altre
persone, e le riproducono così come sono senza uno scopo particolare. Cercano con tutte le
loro forze soltanto di imitare gli adulti. Tuttavia in dieci o vent’anni emergeranno alcune
1
Nome postumo di Kukai (774-835), il monaco che dopo un lungo soggiorno in Cina introdusse in Giappone la setta
buddhista Shingon.
differenze di pronuncia, a riprova che gli umani non hanno la capacità di imitare alla
perfezione. L’imitazione perfetta è quasi impossibile. Se Dio fosse stato capace di creare gli
esseri umani uno identico all’altro, tanto da sembrare fatti con lo stampo, allora sì che
avrebbe manifestato la sua onnipotenza! Invece, come possiamo constatare oggi con un
senso di vertigine, ha messo sotto la luce del sole tutte le facce che gli sono saltate in
mente, provando così senza scampo la propria incapacità.
Ora però non ricordo cosa mi abbia indotto a dilungarmi in questa spiegazione. Ma visto
che gli uomini sono i primi a scordare le cose, vorrete ben concedere una piccola
dimenticanza a un gatto. Comunque sia, nel momento in cui il signor ladro ha aperto gli
shoji ed è apparso sulla soglia della camera da letto, i pensieri che vi ho appena esposto
hanno iniziato a girarmi in testa. Per quale ragione? Se mi pongo questa domanda, ci devo
di nuovo riflettere… dunque, ecco, credo di avere la risposta.
Quando il ladro mi è apparso davanti senza scomporsi, appena ho visto il suo volto tutti i
miei dubbi sull’insufficienza, anzi sull’impotenza creativa di Dio si sono dileguati
all’istante: perché aveva dei tratti inconfondibili, quelli tanto attraenti del nostro amato
Mizushima Kangetsu, ne era la copia esatta. Non conosco ovviamente molti ladri, ma
basandomi sull’iniquità della loro condotta mi ero formato un’immagine approssimativa
della loro fisionomia. Ero sicuro che avessero le narici schiacciate sui due lati della faccia,
occhi grandi come monete da un sen, e i capelli quasi rasati. Ma tra la realtà e la fantasia c’è
la stessa differenza che intercorre tra il cielo e la terra, non bisognerebbe mai dar libero
corso all’immaginazione. Questo ladro è alto e snello e ha un bel viso nobile, con la
carnagione piuttosto scura e le sopracciglia diritte. Deve avere ventisei o ventisette anni, ed
è l’immagine vivente di Kangetsu. Se Dio è riuscito a creare due facce così perfettamente
uguali, non si può certo considerarlo un incapace. Anzi, per dire tutta la verità, la
somiglianza è tale che in un primo momento mi sono chiesto se Kangetsu non fosse
impazzito e fosse venuto fin qui in piena notte. Solo quando ho visto che il labbro superiore
non era ombreggiato da corti baffetti mi sono reso conto che non si trattava di lui.
Kangetsu è un bel ragazzo di nobile aspetto, un uomo modellato con tanta cura da
affascinare persino la creatura che Meitei definisce un assegno ambulante, Kaneda Tomiko.
Ma anche questo ladro, a giudicare dal viso, non dovrebbe essere inferiore a Kangetsu
quanto a capacità di sedurre la signorina in questione. Se la figlia di Kaneda ha perso la
testa per i begli occhi e la bocca di Kangetsu, sarebbe scorretto che non ardesse di un
amore altrettanto intenso per questo ladro. Correttezza a parte, sarebbe anche illogico. Una
persona sensibile e perspicace come lei dovrebbe capirlo subito, senza bisogno di farselo
spiegare. Se quindi al posto di Kangetsu le venisse proposto questo ladro, non c’è dubbio
che lo amerebbe alla follia e sarebbe pronta a condividere con lui le gioie di una felice vita
coniugale. Nel caso Kangetsu dovesse lasciarsi convincere dagli argomenti di Meitei e
spezzare un legame che pensavamo ideale, finché questo ladro è vivo e vegeto possiamo
stare tranquilli. Dopo essermi spinto fin qui nel pronosticare gli sviluppi della situazione,
smetto di preoccuparmi per Tomiko. La presenza sulla terra di questo ladro è garanzia
della sua felicità futura.
Il signor ladro tiene qualcosa sotto il braccio. Guardando meglio mi accorgo che si tratta
della vecchia coperta che oggi il mio padrone ha lasciato nello studio. Indossa una casacca
di cotone legata intorno alle reni con una fascia a righe bianche, rosse e blu. Le sue gambe
pallide sono nude dalle ginocchia in giù, ora ne ha sollevata una e sta per posarla sui
tatami. Quand’ecco che il padrone, forse sognando che il libro rosso gli stia mordendo un
dito, si muove nel sonno e grida: «È Kangetsu!» Il ladro lascia cadere la coperta e tira
subito indietro la gamba che aveva già proteso. Nell’ombra che disegna sugli shoji le sue
gambe lunghe e magre tremano leggermente. Il padrone mugugna qualcosa, spazza via il
libro rosso e si gratta furiosamente il braccio scuro come se avesse la scabbia. Poi si calma,
allontana il cuscino e riprende a dormire. Quando ha chiamato Kangetsu doveva parlare
nel sonno.
Il ladro rimane qualche minuto in piedi nella veranda fermo, le orecchie tese ad
ascoltare se qualcosa si muove nella stanza, poi, dopo essersi assicurato che il padrone e la
moglie dormono profondamente, prova di nuovo ad allungare un piede sui tatami. Questa
volta nessuno grida il nome di Kangetsu. Ora tira dentro anche l’altro piede, la stanza di sei
tatami, rischiarata dalla luce calda della lampada nella notte di primavera, viene spezzata
in due dall’ombra del ladro, ombra che passa sopra la mia testa e proietta oltre il baule,
sulla parete. Voltandomi a guardare vedo che a due terzi dell’altezza della parete la faccia fa
vaghi movimenti. Anche se un uomo è bello, la sua ombra ha sempre qualcosa di
mostruoso, di spettrale. Il ladro osserva dall’alto il viso addormentato della padrona e per
chi sa quale ragione sorride. Incredibile, persino il sorriso sornione è identico a quello di
Kangetsu.
Una scatola rettangolare di circa quaranta centimetri per dodici e alta una spanna,
fornita di lucchetto, è posata accanto al cuscino della padrona. È la scatola di patate dolci
che il signor Tatara Sanpei ha mandato l’altro giorno da Karatsu, il suo paese natale.
Andare a dormire con una scatola di patate dolci accanto al cuscino è certamente una cosa
insolita, ma la padrona ha una così scarsa nozione del giusto collocamento delle cose da
conservare lo zucchero nel cassettone, quindi troverà naturale mettere le patate dolci
addirittura le rape sottaceto in camera da letto. Il ladro però, che non ha facoltà
divinatorie, non può conoscere le sue abitudini, quindi è comprensibile che vedendo una
scatola tenuta per precauzione a portata di mano, ne deduca che contenga qualcosa di
prezioso. Solleva la scatola di patate dolci e dall’aria soddisfatta che assume si direbbe che
il peso corrisponda alle sue aspettative. A me invece, al pensiero che stia per rubare delle
patate, che un ladro elegante come lui stia per impossessarsi di un tale bottino, tutt’a un
tratto viene da ridere. Ma se mi sentisse chissà che reazioni potrebbe avere, meglio che mi
trattenga.
A questo punto il ladro inizia ad avvolgere la scatola di patate nella vecchia coperta. Si
guarda intorno alla ricerca di qualcosa per legarla. Per fortunata combinazione, trova il
vecchio obi di crèpe che il padrone si è tolto quando è andato a dormire. Il ladro se ne serve
per legare saldamente la scatola, che si mette senza sforzo sulla schiena. Non credo che ora,
così combinato, avrebbe un gran successo con le donne. Poi infila due kimono delle
bambine nei mutandoni di lana del padrone ammucchiandoli dalle parti del cavallo,
insomma dà ai mutandoni la forma di una biscia che ha mangiato una rana, o forse sarebbe
meglio dire di una biscia gravida. In ogni caso una forma molto strana. Se pensate che stia
mentendo, provate voi stessi. Il ladro si avvolge i mutandoni intorno al collo, dopodiché,
con non so quale intenzione, distende un kimono di spugna come se fosse un telo da bagno,
vi posa sopra l'obi della padrona, l'haori e la biancheria del padrone e vari altri indumenti e
li avvolge con cura. Sono estasiato dalla sua abilità e dalla padronanza dei suoi gesti.
Annodando insieme la cintura e il nastro per stringere l'obi della padrona ne fa una corda
per legare saldamente il fagotto, poi lo solleva con una mano. Si guarda di nuovo intorno
per vedere se non ci sia qualcos’altro da prendere, scopre davanti alla faccia del mio
padrone un pacchetto di sigarette Asahi e se lo infila in una manica, ma ci ripensa, ne tira
fuori una e l’avvicina alla lampada per accenderla. Il fumo che inspira ed emette
voluttuosamente avvolge il tubo color latte della lampada e, prima che svanisca nell’aria, il
rumore dei passi del ladro si allontana nella veranda. I miei padroni continuano a dormire
beati, ignari di tutto. Gli esseri umani, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, sono
creature molto distratte.
Ho bisogno di riposare un po’. Continuando con questo ritmo, il mio fisico non reggerà
alla fatica. Mi addormento subito profondamente e quando mi sveglio il cielo di marzo è
già pieno di luce e il mio padrone e la moglie stanno parlando con un poliziotto sulla porta
della cucina.
«Quindi è entrato di qui ed è passato in camera da letto, dico bene? Voi eravate
addormentati e non vi siete accorti di nulla».
«Esatto», fa il padrone perplesso.
«E a che ora pensa sia avvenuto il furto?» chiede illogicamente il poliziotto. Se fossero
stati in grado di capire l’ora, avrebbero evitato di venire derubati. Ma i miei padroni non si
rendono conto dell’assurdità della domanda e si consultano.
«Che ore saranno state…»
«Mah, chi lo sa…» La padrona riflette. Come se riflettendoci potesse capirlo. «Tu ieri
sera a che ora sei venuto a dormire?»
«Dopo di te».
«Lo so, io ero già addormentata».
«A che ora vi siete svegliati?»
«Verso le sette e mezzo, più o meno…»
«Quindi il ladro a che ora sarà entrato?»
«Be’, sicuramente a notte fonda».
«Questo lo sappiamo, ma a che ora?»
«Così su due piedi non lo ricordo, bisogna che ci pensi», fa la padrona, ancora
intenzionata a meditare seriamente sulla questione. In realtà il poliziotto, che ha posto la
domanda per formalità, dell’ora se ne infischia. Gli basta una risposta qualunque, vera o
falsa che sia, e comincia a irritarsi vedendo che gli altri due non se ne rendono conto e
continuano a discutere.
«Bene, diciamo che l’ora del furto non è determinabile», taglia corto.
«Sì, più o meno è così», fa il mio padrone con la consueta apatia. Il poliziotto non
accenna nemmeno un sorriso.
«Allora: lei può mandare una lettera di denuncia in cui dichiara che nel trentottesimo
anno dell’era Meiji2, il giorno tale del mese tale, mentre dormivate con porte e finestre
chiuse un ladro si è intrufolato in casa vostra sollevando le imposte della tale stanza, ha
rubato tali e tali oggetti e se n’è andato. Badi che non è una semplice segnalazione ma una
denuncia, quindi è meglio farla contro ignoti».
«Devo elencare tutti gli oggetti uno per uno?»
«Sì, faccia una lista dei vestiti e indichi anche il loro valore approssimativo… No, non
serve a nulla che io entri a dare un’occhiata, tanto ormai il furto è avvenuto», fa il poliziotto
con grande disinvoltura, e se ne va.
Il mio padrone, sistematosi nel bel mezzo della stanza con tutto l’occorrente per scrivere,
chiama la moglie perché venga a sedersi davanti a lui.
«Devo scrivere la denuncia, dimmi esattamente cos’hanno portato via, ogni singolo
oggetto. Forza, comincia!» le ingiunge in tono bellicoso.
«"Forza, comincia"? Con chi credi di parlare, cos’è quest’arroganza?» ribatte lei ancora
mezzo svestita, lasciandosi cadere sui tatami.
«E tu, cos’è questa sciatteria? Perché non ti metti l'obi? Sembri una prostituta in una
stazione di posta!»
2
Siamo nel 1906.
«Se non ti vado bene così, vai a comprarmelo tu, un altro obi! Sembrerò pure una
prostituta, ma cosa ci posso fare se me l’hanno rubato?»
«Ha portato via anche il tuo obi? Che mascalzone! Allora comincio da quello. Che obi
era?»
«Che obi era? Come se ne avessi chissà quanti! Era quello di satin nero da una parte e di
crepe dall’altra».
«Un obi di satin nero e crèpe… Quanto poteva valere?»
«Mah, circa sei yen…»
«Però, ti permetti degli obi piuttosto cari! D’ora in poi accontentati di quelli da uno yen
e cinquanta».
«Esistono obi da uno yen e cinquanta? Lo vedi quanto sei egoista? Non te ne importa
nulla se tua moglie va in giro come una stracciona, ti basta essere ben vestito tu».
«Va bene, va bene, dimmi cos’altro manca».
«Un haori tessuto con filo di seta. L’ho ricevuto in regalo dalla zia Kono, non ne fanno
più, adesso, di haori così».
«I commenti sono superflui. Quanto poteva valere?»
«Una quindicina di yen».
«Quindici yen? E poi sono io che mi concedo lussi sconsiderati!»
«Cos’hai da obiettare? Non me l’hai mica comprato tu!»
«Poi?»
«Un paio di tabi neri».
«Tuoi?»
«No, tuoi. Ventisette sen».
«Poi?»
«Una scatola di patate dolci».
«Si è preso anche le patate? Chissà se vuole farle lesse o mangiarle crude, grattugiate!»
«Come le voglia mangiare non lo so. Vallo a chiedere al ladro».
«Quanto costavano?»
«Non pretenderai che lo sappia».
«Allora scriviamo dodici yen e cinquanta sen».
«Non dire sciocchezze, saranno pure patate di Karatsu, ma non possono costare tanto».
«Non hai appena detto che non sai quanto costano?»
«È vero, non lo so, ma dodici yen e cinquanta sen: sembrano un’esagerazione».
«Ammetti di non saperlo, ma dici che dodici yen e cinquanta sen sono un’esagerazione.
Manchi di coerenza In questo sei un Otanchin Paleologo3».
«Che cosa sarei?»
«Un Otanchin Paleologo».
«E che cosa significa, Otanchin Paleologo?»
«Non ha importanza. E poi? Non abbiamo ancora segnato il mio kimono».
«Al diavolo il tuo kimono! Dimmi cosa significa Otanchin Paleologo».
«Ma non significa assolutamente nulla!»
«Allora perché non me lo dici? Sono sicura che mi stai prendendo in giro. Che è un
insulto, approfitti del fatto che non so l’inglese».
«Non dire sciocchezze, piuttosto sbrighiamoci a completare questa lista. Se non
sporgiamo subito denuncia, non recupereremo mai le cose rubate».
«Tanto ormai è troppo tardi, puoi fare tutte le denunce che vuoi. Spiegami piuttosto
cosa significa Otanchin Paleologo».
3
Nome inventato da Soseki per assonanza con Costantino Paleologo; otanchin è sinonimo di stupido.
«Quanto sei seccante! Se ti ho detto che non significa nulla!»
«In tal caso, anche nella lista non c’è più nulla da aggiungere».
«Che stupida testona! Fai come ti pare, vuol dire che non farò nessuna denuncia».
«Tanto non ti dico che cosa manca. La denuncia è affar tuo, per me puoi anche non farla,
non me ne importa niente».
«Allora lasciamo perdere», conclude il padrone, e con l’abituale malagrazia si alza e se
ne va nello studio. La moglie si ritira nel soggiorno e si siede davanti alla scatola da cucito.
L’uno e l’altra restano per molto tempo in silenzio a osservare gli shoji.
In quel momento la porta d’ingresso viene aperta dalla mano vigorosa del signor Tatara
Sanpei, il donatore delle patate dolci. Tatara da studente alloggiava presso i miei padroni,
poi si è laureato in giurisprudenza e ha trovato lavoro in una compagnia mineraria. Anche
lui è un promettente uomo d’affari come Suzuki, ma ha qualche anno in meno. In virtù
della passata relazione, ogni tanto viene a far visita all’ex padrone di casa nella sua umile
dimora, ed è in termini tanto confidenziali con la famiglia da fermarsi a volte tutta la
domenica.
«Ha visto che bel tempo, signora?» fa con il suo accento di Karatsu, venendosi a sedere
davanti alla padrona a gambe incrociate, senza timore di sgualcire i pantaloni.
«Oh, è lei signor Tatara!»
«Il professore è uscito?»
«No, è nel suo studio».
«Signora, al professore fa male studiare tanto! Oggi è domenica!»
«Sì, ma se glielo dico io non mi ascolta, glielo spieghi lei».
«In questo caso…» inizia a dire Sanpei; poi, guardandosi intorno: «Oggi le bambine non
ci sono?» Non fa in tempo a finire la frase che Sunko e Tonko irrompono nella stanza.
«Ci ha portato il sushi, signor Tatara?» chiede Tonko sfrontata, ricordandosi di una
vecchia promessa. Tatara si gratta la testa.
«Che memoria! Te lo porto la prossima volta, giuro. Oggi me ne sono dimenticato»,
ammette.
«Cattivo!» fa Tonko, subito imitata dalla sorellina che ripete: «Cattivo!»
La padrona, ritrovato finalmente il buonumore, sorride.
«Non vi ho portato il sushi, ma vi ho mandato le patate dolci. Le avete mangiate?»
«Che cosa sono le patate dolci?» chiede Tonko, e di nuovo Sunko le fa eco: «Che cosa
sono le patate dolci?»
«Non le avete ancora mangiate? Chiedete alla mamma di cucinarvele quanto prima. Le
patate dolci di Karatsu sono molto più buone di quelle che si comprano a Tokyo», dice
Tatara, fiero della specialità del suo paese. A questo punto la padrona si ricorda di
ringraziare.
«È stato molto gentile l’altra volta a mandarci tutte quelle patate, signor Tatara».
«Com’erano? Le avete mangiate? Le ho fatte mettere in una scatola perché non si
rompessero, sono arrivate intere?»
«Be’, deve sapere che le patate che lei ci ha gentilmente mandato, ieri notte ci sono state
rubate».
«Rubate? Chi è l’imbecille che ruba delle patate dolci? C'è gente che le ama a tal punto?»
Tatara è stupefatto.
«Mamma, ieri notte è entrato un ladro?» chiede Tonko.
«Sì», risponde la madre senza agitarsi.
«È entrato un ladro? Qui? Un ladro? E che faccia aveva?» Questa volta è Sunko a voler
sapere.
«Di sicuro aveva una faccia terribile», risponde la madre non sapendo bene cosa dire,
lanciando un’occhiata complice verso Tatara.
«Terribile come quella del signor Tatara?» insiste Tonko senza nessuna pietà per il
poveruomo.
«Tonko! Come ti permetti di dire una cosa tanto scortese?»
«Ha, ha, ha! Fa davvero tanta paura la mia faccia? Povero me!» ride Tatara grattandosi
la testa. Sulla parte posteriore ha una calvizie di un paio di centimetri di diametro. L’ha
scoperta circa un mese fa ed è subito corso a consultare un medico, ma ancora non accenna
a guarire. Tonko è la prima ad accorgersene.
«Oh, la testa del signor Tatara brilla come quella della mamma!»
«Quante volte ti ho detto di stare zitta?»
«Anche la testa del ladro di ieri notte brillava, mamma?» domanda a sua volta Sunko. La
padrona e Tatara loro malgrado scoppiano a ridere, ma sono troppo preoccupati per
parlare serenamente della questione.
«Su, su, andate a giocare in giardino, voi due. Poi vi porto dei dolci buonissimi», fa la
madre spedendo fuori le bambine. «Cos’è successo ai suoi capelli, signor Tatara?» chiede
poi cambiando tono.
«Se li è mangiati un battere. E non vogliono ricrescere. Succede anche a lei, signora?»
«No, che orrore, nel mio caso non si tratta di un battere! è normale che le donne
perdano un po’ di capelli nel punto dove l’acconciatura tira di più».
«Ma la calvizie è sempre provocata da un battere».
«No, nel mio caso non è un battere».
«Non si impunti così, signora».
«Guardi che è vero, le assicuro che non è un battere. Ma senta, come si dice in inglese
calvizie?»
«Calvo si dice bald, mi pare».
«No, ci dev’essere un’espressione più lunga».
«Perché non lo chiede al professore? Farà prima».
«Perché non me lo vuole dire. Per questo lo chiedo a lei».
«Io conosco solo questa parola, bald. Ma come suona, quest’espressione più lunga?»
«"Otanchin Paleologo". "Otanchin" starà per calvo, e "paleologo" per testa…»
«Può anche darsi. Ora che vado nello studio del professore lo cerco sul dizionario. Certo
che anche il professore è proprio un originale, chiudersi in casa con questo tempo
splendido… Per forza il suo stomaco non guarisce, signora! Cerchi di convincerlo ad andare
almeno al parco di Ueno a vedere i ciliegi in fiore».
«Ce lo porti lei, per favore. Non ascolta mai quello che dicono le donne».
«Continua a mangiare marmellata?»
«Si, al solito».
«L’altro giorno si lamentava: «Mia moglie dice sempre che mangio troppa marmellata,
ma non è vero, credimi…» Sostiene che è lei a misurarla male, quindi non sarà per caso lei
a mangiarne troppa, signora? Lei e le bambine?»
«Signor Tatara! Come osa dire una cosa del genere?»
«Lei però ha la faccia di una a cui piace la marmellata».
«Come se si potesse capire dalla faccia…»
«In effetti non si può… ma dica la verità, qualche volta non la mangia anche lei?»
«Sì che la mangio, che male c’è? È roba nostra».
«Ha, ha, ha, lo sapevo! Ma parlando seriamente, quel ladro l’ha davvero fatta grossa. Ha
portato via solo le patate dolci?»
«Se avesse preso solo quelle, non sarebbe un gran danno. Ha rubato tutti i vestiti d’uso
quotidiano».
«È grave? Dovrete di nuovo chiedere un prestito? Peccato che questo gatto non sia un
cane… avete fatto uno sbaglio a tenerlo. Signora, deve assolutamente prendere un cane,
uno grosso e feroce. I gatti non servono a nulla, sanno solo mangiare. Almeno acchiappa
topi, questo qui?»
«Non ne ha mai preso uno. È soltanto un pelandrone ingordo».
«Allora cosa lo tiene a fare? Lo cacci via al più presto. Se lo dà a me, me lo mangio
bollito».
«Non mi dica che mangia i gatti!»
«Ne ho già mangiati. Sono ottimi».
«Ha un bel coraggio…»
In effetti corre voce che tra gli studenti delle classi più basse ci siano dei selvaggi che
mangiano i gatti, ma fino a ora non mi era mai passato per la mente che Tatara, con cui ero
in termini di amicizia, potesse essere uno di loro. Inoltre non è più uno studente, ma un
distinto giurista impiegato nella stimata ditta Mutsui, anche se non è passato molto tempo
dal giorno della laurea. La condotta del sosia di Kangetsu mi ha già provato la saggezza del
proverbio: «Se vedi un uomo, consideralo un ladro», ma grazie a Tatara ho capito che
sarebbe altrettanto veritiero dire: «Se vedi un uomo, sappi che mangia i gatti». Vivendo in
questo mondo si imparano tante cose, e imparare è una bella cosa, ma diventiamo ogni
giorno più prudenti man mano che prendiamo coscienza dei pericoli in agguato. La
conoscenza ci rende furbi, meschini, profittatori, è questo il prezzo da pagare in cambio
degli anni di vita che accumuliamo. Ecco perché tra i vecchi non si trova una persona per
bene, penso rannicchiandomi in un angolino. A questo punto il padrone, che si era ritirato
nello studio dopo aver litigato con la moglie, sentendo la voce di Tatara torna nel
soggiorno.
«Professore, ho saputo che sono venuti i ladri. Che stupido contrattempo!»
«Sì, quello che è entrato a rubare era proprio uno stupido», conferma il padrone, che
nonostante tutto continua a ritenersi un uomo intelligente.
«Il ladro era certamente stupido, ma anche il derubato non è stato molto furbo».
«I più furbi sono quelli come lei, che non ha nulla da farsi rubare, signor Tatara»,
interviene la padrona prendendo una volta tanto le parti del marito.
«Il più stupido di tutti però è questo gatto, chissà cos’ha in testa. Topi non ne prende, se
entra un ladro fa finta di niente… Professore, perché non lo dà a me? Tenerlo qui non serve
a niente».
«Te lo potrei anche dare. Cosa vuoi farne?»
«Mangiarmelo bollito».
A questa frase atroce il padrone risponde con una risata imbarazzata da malato di
stomaco, ma non dice né sì né no, e Tatara non insiste. Per me è una fortuna insperata.
«Lasciamo perdere il gatto, il problema è che ho freddo perché mi hanno portato via i
vestiti», riprende il padrone cambiando argomento, l’aria depressa. Nulla di strano che
abbia freddo. Fino a ieri indossava uno sull’altro due kimono imbottiti, mentre oggi ha solo
una casacca a maniche corte sopra un leggero kimono foderato, è rimasto tutto il giorno
seduto senza fare il minimo esercizio, e il poco sangue che ha lavora soltanto per aiutare lo
stomaco, senza arrivare fino alle braccia e alle gambe.
«Il fatto è che sbaglia a restare nell’insegnamento, professore. Basta che un ladro le porti
via qualcosa e si trova in difficoltà… ma è ancora in tempo a ripensarci e a diventare un
uomo d’affari, sa?»
«Al professore non vanno a genio gli uomini d’affari, quindi è fiato sprecato», risponde
la padrona, che invece sarebbe molto contenta se il marito entrasse in una ditta.
«Quanti anni sono che si è laureato, professore?»
«Con quest’anno fanno nove», risponde di nuovo la padrona guardando il marito. Lui
non si degna di fare commenti.
«E dopo nove anni il suo stipendio è sempre lo stesso. È inutile che studi tanto se
nessuno l’apprezza. «Il signore è solo con i suoi tristi pensieri…»»
Tatara cita a beneficio della padrona il verso di una poesia imparata a scuola, ma lei che
non la conosce non fa commenti.
«È ovvio che non sono soddisfatto della mia professione, ma non mi piacerebbe
nemmeno essere un uomo d’affari», dice il padrone, che sembra riflettere su cosa
amerebbe fare.
«A mio marito non piace mai nulla…»
«Tranne sua moglie, suppongo».
«Lei meno di ogni altra cosa». La risposta del padrone è lapidaria. La moglie offesa volta
per un attimo il viso dall’altra parte, poi girandosi di nuovo verso il marito: «Suppongo che
nemmeno vivere ti piaccia?» gli chiede, intenzionata a dargli il colpo di grazia.
«No, infatti non mi piace molto», risponde lui con indifferenza. Nulla ha presa su
quest’uomo.
«Professore, se non fa qualche energica passeggiata ogni tanto, finirà per rovinarsi la
salute. E poi deve entrare nel commercio. Guadagnare soldi non è affatto difficile».
«Senti chi parla, se guadagni una miseria».
«Sì, ma sono entrato in ditta soltanto l’anno scorso. Eppure ho già messo da parte più di
lei».
«Quanto ha messo da parte, più o meno?» chiede con evidente interesse la padrona.
«Adesso sono arrivato a cinquanta yen».
«E qual è il suo stipendio mensile?» È di nuovo la padrona a porre la domanda.
«Trenta yen. Dai quali la ditta ogni mese ne trattiene cinque, per darmeli in caso di
emergenza. Signora, perché con i suoi risparmi sulle spese quotidiane non compra qualche
azione della compagnia tranviaria? In tre o quattro mesi varranno il doppio. Se ha una
piccola somma da parte, in brevissimo tempo può raddoppiarla e anche triplicarla».
«Se l’avessi, questa somma, ora non sarei in difficoltà per un piccolo furto».
«È proprio per questo che dico che suo marito dovrebbe cambiare mestiere. Se il
professore avesse studiato giurisprudenza e fosse entrato in una ditta, o in una banca,
adesso guadagnerebbe tre o quattrocento yen al mese, ha fatto davvero uno sbaglio…
Professore, lei conosce Suzuki Tojuro, vero? Laureato in ingegneria…»
«Sì, è stato qui proprio ieri».
«Sul serio? L’ho conosciuto a un banchetto, a un certo punto il discorso è caduto su di
lei, professore, e Suzuki mi fa: «Ah, così da studente stavi a pigione da Kushami? Quando
eravamo all’università abitavamo nella stessa pensione, presso il tempio di Koishikawa, la
prossima volta che vai a trovarlo salutalo da parte mia, digli che mi riprometto di passare
da lui anch’io fra non molto»».
«Pare che di recente sia venuto a stare a Tokyo».
«Sì, fino a ora lavorava in una miniera di carbone nel Kyushu, ma adesso l’hanno
trasferito a Tokyo. È uno in gamba. Mi ha parlato in tono amichevole, a un pivellino come
me… Professore, quanto crede che guadagni, quell’uomo?»
«Non ne ho la minima idea».
«Duecentocinquanta di stipendio, più due grossi premi annuali, arriverà a quattro o
cinquecento al mese. Pensare che un uomo come lui guadagna tutti quei soldi, mentre lei,
che è professore d’inglese, stringe la cinghia da dieci anni… è una presa in giro».
«Sì, una vera presa in giro». Anche un uomo superiore e distaccato come il mio padrone,
quando si tratta di soldi, non si distingue dai comuni mortali. Anzi, proprio perché è
sempre al verde, è tanto più smanioso di averne. Tatara, dopo aver vantato in lungo e in
largo i vantaggi del commercio, non sapendo più cosa dire si rivolge adesso alla padrona.
«Signora, per caso un certo Mizushima Kangetsu viene a trovare il professore?»
«Sì, viene spesso».
«Che genere di persona è?»
«Credo sia un uomo molto colto».
«È un bel ragazzo?»
«Oh, be', più o meno come lei…» risponde la padrona con una risatina divertita.
«Davvero? Più o meno come me?» fa Tatara seriamente.
«Come mai conosci il nome di Kangetsu?» interviene il padrone.
«L’altro giorno qualcuno mi ha chiesto di informarmi su di lui. Vale questo disturbo,
quell’uomo?» A quanto pare Tatara si è già formato un’opinione su Kangetsu prima ancora
di saperne qualcosa.
«Sì, vale molto più di te».
«Veramente? Vale più di me?» ripete Tatara, né divertito né irritato. Quest’indifferenza
è la sua caratteristica. «Ed è vero che otterrà ben presto un dottorato?»
«Sta scrivendo adesso la tesi».
«Lo sapevo che era uno stupido. Scrivere una tesi! Credevo fosse qualcuno di cui valeva
la pena parlare…»
«Lei non è cambiato, è sempre un gran presuntuoso», commenta la padrona ridendo.
«Mi hanno detto che se ottiene un dottorato, qualcuno potrebbe anche dargli la figlia in
sposa… Si può essere più stupidi di così, prendere un dottorato per sposare una ragazza?
Allora ho risposto: «Meglio darla a me, piuttosto che a un elemento del genere»».
«Hai risposto a chi?»
«Alla persona che mi ha chiesto di prendere informazioni su Mizushima».
«Non sarà mica Suzuki, per caso?»
«No, no, non sono abbastanza in confidenza con lui per parlare di certe cose… È stata
una persona molto influente a chiedermelo».
«Signor Tatara, ho l’impressione che lei sia quel che si dice un leone in casa. Quando
viene qui si dà un sacco di arie, ma davanti alle persone come il signor Suzuki si fa piccolo
piccolo».
«Per forza, mica voglio correre rischi».
«Perché non andiamo a fare una passeggiata, Tatara?» propone di punto in bianco il
padrone. Un’iniziativa molto insolita per lui, è probabile che speri di riscaldarsi facendo un
po’ di esercizio, fin da stamattina indossa solo quel kimono leggero e dev’essere intirizzito.
«Sì, andiamo! Suggerisco il parco di Ueno. Potremmo mangiare i dango di Imozaka. Li
ha mai assaggiati, professore? Li provi una volta anche lei, signora. Sono morbidissimi e
costano poco. Servono anche sake». Mentre quel confusionario di Tatara sta ancora
blaterando, il padrone è già in attesa nell’ingresso con il cappello in testa. Quanto a me, ho
di nuovo bisogno di un po’ di riposo. Non ritengo necessario andare a controllare cosa
faranno i due nel parco di Ueno, o quanti piatti di dango mangeranno, e soprattutto non
ho il coraggio di seguirli, quindi sorvolerò sulla loro spedizione perché nel frattempo devo
rigenerarmi. Il diritto a un adeguato riposo è qualcosa che tutte le creature hanno avuto in
dono dal Cielo che le regola e le protegge. Chi ha il dovere di sopravvivere, per compiere
questo dovere deve riposare, quindi se Dio mi dicesse che sono nato per lavorare e non per
dormire, dovrei rispondergli che per lavorare ho necessariamente bisogno di dormire.
Persino quel pavido del mio padrone, che passa le giornate a lamentarsi del sistema
scolastico, ogni tanto prende un giorno di ferie supplementare, anche se ci rimette di tasca
sua. Quindi io che sono una creatura sensibile e sentimentale, io che pur essendo un gatto
mi logoro i nervi dal mattino alla sera, ho tanto più bisogno di rigenerarmi. Il fatto che
poco fa Tatara guardandomi mi abbia accusato di saper solo dormire, di essere un inutile
scansafatiche, mi preoccupa un po’. Per gli individui come lui, mossi soltanto da ragioni
terra terra, senza altra vita se non quella dei cinque sensi, apprezzare qualcosa che
trascende la materia è uno sforzo al di sopra delle loro possibilità. Sono convinti che solo
chi si rompe la schiena e suda sette camicie svolga un lavoro. Si racconta che il monaco
Dharma4 rimase in ginocchio in meditazione finché le gambe non gli andarono in cancrena,
che non si mosse nemmeno quando l’edera che si arrampicava lungo la parete della
caverna arrivò a coprirgli gli occhi e la bocca, ma non per questo dormiva o era morto.
All’interno della sua testa la mente lavorava, scandagliava i principi e i misteri dello zen.
Anche i seguaci del confucianesimo praticano la meditazione in ginocchio. Questo non
significa che passino il tempo in ozio. Nel loro cervello l’energia brucia con intensità
eccezionale, benché all’esterno nulla trapeli. Il volto di questi saggi eminenti esprime solo
una calma solenne, con il risultato che agli occhi dei profani sembrano uomini qualunque
caduti in catalessi, passano per inutili parassiti e fannulloni perdigiorno. Le persone volgari
per natura vedono solo la superficie delle cose, non sanno leggere nel cuore… quindi non
devo stupirmi se un individuo come Tatara Sanpei, campione di quel genere umano che si
ferma all’apparenza, guardandomi mi abbia considerato come sterco secco su una scopa.
Quel che trovo offensivo è che il mio padrone, nutrito in qualche misura di letture classiche
e moderne e quindi dotato presumibilmente di un certo discernimento, si sia dichiarato
d’accordo con Sanpei senza la minima obiezione e non si sia opposto al suo progetto di
bollirmi in pentola. Se però facciamo un passo indietro e riconsideriamo la questione, il
loro disprezzo nei miei confronti non è del tutto inspiegabile. È risaputo fin dai tempi
antichi che una voce troppo elevata non entra nelle orecchie della massa, e che poche sono
le persone in grado di apprezzare musica sublime. Sforzarsi di mostrare la bellezza dello
spirito a chi non è in grado di vedere nient’altro se non l’apparenza è come chiedere a un
monaco rapato di legarsi i capelli, a un pesce di tenere una conferenza, a un tram di uscire
dalle rotaie, al mio padrone di cambiare mestiere o a Sanpei di non pensare solo al denaro.
Insomma non si può cavare sangue da una rapa. Tuttavia noi gatti siamo animali socievoli,
di conseguenza, per quanto alta sia la considerazione che abbiamo di noi stessi, dobbiamo
cercare di essere in sintonia con la società. È sconfortante che il padrone, sua moglie o
Sanpei non mi valutino quanto merito, ma devo rassegnarmi. Sarebbe molto più grave,
tragico direi, che mi scuoiassero e vendessero la mia pelle a un fabbricante di shamisen,
che facessero a pezzi la mia carne e la servissero sulla tavola di Tatara. Perché io sono il
Gatto per antonomasia, il Gatto di tutti i tempi, venuto al mondo con la missione di usare il
cervello, e la mia incolumità è d’importanza estrema. A riprova che gli esseri superiori
vanno trattati con il dovuto riguardo, citerò il proverbio: «Non fate sedere il figlio di un
ricco nel posto più scomodo». Quindi chi per leggerezza mettesse la mia vita in pericolo,
oltre a ledere me, andrebbe contro la volontà del Cielo. Detto ciò, anche la tigre più feroce,
una volta rinchiusa in uno zoo, deve abituarsi a vivere accanto al lurido maiale, e la nobile
4
Bodhidharma, originario dell’India, che probabilmente introdusse il buddhismo zen in Cina nel VI secolo. La scuola zen
giapponese lo considera il primo patriarca della setta.
anatra selvatica, una volta catturata dal pollivendolo, finisce sul tagliere come un volgare
pollastro. Quindi anch’io, se devo vivere insieme a gente ordinaria, devo trasformarmi in
un gatto ordinario. E cosa fanno i gatti ordinari? Danno la caccia ai topi… Ebbene sì, ho
finalmente deciso di catturare un topo.
Pare che da qualche tempo il Giappone sia in guerra con la Russia. Io che sono un gatto
giapponese, ovviamente sto dalla parte del mio paese. Ho persino considerato di
organizzare una brigata mista di gatti che vada a piantare le unghie fra i ranghi delle truppe
nemiche. Ora se un gatto audace ed energico come me decide di acchiappare un topo o due,
dovrebbe riuscirci a occhi chiusi. Una volta, tanto tempo fa, qualcuno chiese a un famoso
saggio cosa bisognava fare per raggiungere l’illuminazione. «Fate come il gatto che dà la
caccia al topo», rispose lui. Voleva dire che un gatto non si lascia distrarre da nulla quando
insegue un topo. C’è anche il proverbio: «La donna troppo intelligente non vende la sua
mucca», ma non mi pare che si sia mai detto: «Il gatto troppo intelligente non prende
topi». Figuriamoci dunque se non riuscirò nel mio progetto, non c’è alcuna ragione perché
fallisca. Se finora non ho preso topi, è semplicemente perché non ho voluto.
Oggi è una bella giornata di primavera, proprio come ieri, e attraverso uno strappo in
uno shoji alcuni petali di fiori di ciliegio sollevati dalla brezza si sono infilati in cucina. Ora
galleggiano sull’acqua della tinozza, bianchi alla luce fioca della lampada. Ormai ho deciso,
è stanotte che sorprenderò tutta la casa con una grande impresa, quindi devo controllare il
luogo in cui avverrà la battaglia e memorizzare la topografia. Il campo di manovra non è
molto vasto. Misurato in tatami, ne farebbe quattro al massimo, di cui mezzo occupato dal
lavello e un altro mezzo dallo spazio in terra battuta dove si fa entrare il negoziante di
liquori o il verduriere. Sulla grande stufa, fin troppo imponente per una casa modesta, c’è
un lucido bollitore in rame e dietro, in uno spazio di una decina di centimetri, la conchiglia
che mi serve da ciotola, posata sul pavimento di assi. Sul lato adiacente al soggiorno una
credenza lunga quasi due metri, contenente piatti e ciotole, riduce ulteriormente la
superficie della piccola cucina e, accanto alla credenza, su tutta l’altezza, mensole di legno
grezzo sporgono dal muro. Su quella più bassa è posato un mortaio dentro il quale è stato
messo un piccolo secchio, voltato al contrario con il fondo verso di me. Un pestello e una
grattugia sono appesi uno accanto all’altra, solo il recipiente per spegnere le braci se ne sta
in un angolo con aria sconsolata. Dal punto in cui si incrociano le travi annerite sporge un
uncino, al quale è appeso un grosso cesto piatto. Ogni tanto dondola maestosamente alla
corrente d’aria. Al momento del mio arrivo in questa casa mi sono chiesto - povero ingenuo
- a cosa mai potesse servire, ma quando sono venuto a sapere che viene tenuto in questo
modo fuori dalla portata dei gatti, ho sentito con dolore la malevolenza degli esseri umani
nei nostri confronti.
Ora devo mettere a punto una strategia. Per dare battaglia ai topi, devo per forza
appostarmi in un punto dove ce ne siano. Se il nemico manca all’appello, disporre le
proprie truppe nel modo più astuto non serve a nulla, non si può combattere da soli. A
questo punto s’impone una ricerca sistematica delle vie d’uscita dei topi. Mi piazzo nel bel
mezzo della cucina e mi guardo attorno per capire da che direzione arrivino. Mi sento come
l’ammiraglio Togo5 prima della battaglia di Tsushima. La serva è andata ai bagni pubblici e
ancora non è tornata. Le bambine stanno dormendo. Il padrone, tornato dalla spedizione
per mangiare i dango di Imozaka, secondo la sua abitudine si è chiuso nello studio. La
padrona… la padrona non so cosa stia facendo. Forse sta dormendo anche lei, e sognando
dango. Ogni tanto sulla strada passa un risciò, e quando si allontana il silenzio è ancora più
5
Togo Heihachiro (1847-1934), l’ammiraglio che comandava la flotta giapponese e che il 27 maggio del 1905 distrusse
quella russa nello stretto di Tsushima.
profondo. Tutto è perfetto, la mia determinazione, il mio coraggio, la coreografia della
cucina, il grigiore dell’atmosfera… tutto contribuisce ad accrescere il pathos del momento.
Come non considerarmi l’ammiraglio Togo dei gatti? Chiunque, trovandosi in una
situazione simile, proverebbe un senso di esaltazione, ma al di là di questo sentimento
scopro in fondo al mio animo anche una forte ansia. Combattere contro i topi, anche
dovessero saltarne fuori a dozzine, non mi fa paura, ormai sono risoluto a farlo. Ciò che mi
innervosisce è non sapere da dove arriveranno. Dalle mie accurate osservazioni desumo
che tre sono le vie d’accesso possibili a questi subdoli ladri. Se sono topi di fogna, saliranno
senza dubbio lungo le tubazioni, usciranno dal lavello e gireranno intorno alla stufa. Per
fronteggiare costoro, potrei nascondermi dietro il recipiente per spegnere le braci,
tagliando loro ogni via di scampo. Può darsi però che entrino prima in bagno dal foro
praticato nella parete per far rifluire l’acqua nel canale di scolo, e da lì poi sbuchino
all’improvviso in cucina. In tal caso dovrei piazzarmi sul coperchio della pentola per il riso
e attendere che un topo passi sotto di me per piombargli addosso dall’alto e catturarlo.
Guardandomi attorno ancora una volta, noto che l’angolo in basso a destra nell’anta della
credenza è stato rosicchiato, c’è un buco a forma di mezzaluna, un passaggio ideale per quei
briganti. Ci appoggio il naso e annuso, puzza un po’ di topo. Potrei mettermi in agguato
dietro il pilastro e, se un topo irrompe da lì al grido di guerra, lasciarlo passare, e poi
piantargli le unghie addosso assalendolo di lato. Guardo ancora in alto, domandandomi
cosa fare nel caso arrivino dal soffitto, le travi nere come la pece luccicano alla luce della
lampada, impossibile per me arrampicarmi o scendere da quello che sembra un inferno
appeso all’incontrario. Ma non riuscirebbero mai a saltare giù da un’altezza simile, almeno
da questa parte posso allentare la guardia. Sì, però l’attacco può comunque arrivare da tre
direzioni diverse, penso preoccupato. Fosse solo una, li sbaraglierei tranquillamente anche
con un occhio chiuso. Se si presentassero da due direzioni, bene o male dovrei riuscire a
cavarmela. Ma nel caso giungessero da tre, nonostante tutta la mia famosa capacità
istintiva di acchiappare i topi, non avrei modo di metter loro le zampe addosso. E andare a
chiedere aiuto a quello sbruffone del Nero del vetturino non sarebbe dignitoso. Che fare?
Quando si è incerti sul comportamento da tenere e non si trova una risposta soddisfacente,
il sistema più rapido per ritrovare la tranquillità è evitare di mettersi nella circostanza
temuta. D’altronde si tende sempre a pensare che non ci saranno problemi. Provate a
guardarvi intorno, osservate quel che accade nel mondo. Nulla esclude che la donna
appena ricevuta in sposa non possa morire domani, eppure lo sposo non sembra darsene
pensiero e recita felice canti augurali. Non perché non abbia motivo di preoccuparsi,
semplicemente sarebbe inutile. Nel mio caso, nulla mi autorizza a escludere la possibilità
che l’attacco arrivi da tre direzioni diverse, ma negandola mi sento più tranquillo, quindi
mi conviene attenermi a questa soluzione. La tranquillità è necessaria a ogni creatura.
Anche a me. Di conseguenza decido che un attacco da tre parti non può verificarsi.
Eppure continuo a sentirmi agitato. Da cosa? Rifletto intensamente sulla questione
finché trovo la risposta. A tenermi in apprensione è la difficoltà di valutare quale sia la
migliore fra le tre strategie. Nel caso i topi escano dalla credenza, so cosa fare. Se fanno il
loro ingresso dal bagno, ho già un piano pronto. E ho buone possibilità di accoglierli come
meritano anche se salgono dal lavello. Ma la necessità di scegliere una di queste tre
strategie mi innervosisce. Pare che anche l’ammiraglio Togo fosse teso, non sapendo se la
flotta baltica russa sarebbe arrivata dallo stretto di Tsushima, da quello di Tsugaru, oppure
se avrebbe fatto un giro più largo attraverso lo stretto di Soya, tra l’Hokkaido e l’isola di
Sachalin. Ora che mi trovo in circostanze analoghe, riesco a mettermi nei suoi panni e a
immaginare quale fosse la sua inquietudine. L’ansia di Sua Eccellenza è la mia.
Sono tutto assorto nello sforzo di risolvere le mie perplessità, quando all’improvviso lo
shoji strappato si apre e appare la faccia di O-san. Non che da qualche parte non ci siano
anche le braccia e le gambe, non è questo che intendo dire, ma nel buio non si vedono,
soltanto la sua faccia congestionata mi si para davanti. O-san è tornata dai bagni pubblici
con le guance ancora più paonazze del solito, e memore dei rimproveri ricevuti ieri vuole
chiudere a chiave al più presto la porta della cucina. Dallo studio giunge la voce del
padrone che le dice di mettergli il bastone da passeggio accanto al futon. Chissà perché
vuole il bastone da passeggio vicino al futon… Possibile che sia tanto ubriaco da vedersi nei
panni di quel sicario cinese che dovendo uccidere l’imperatore ascoltava le vibrazioni della
sua sciabola? Ieri erano le patate dolci, oggi il bastone da passeggio, domani cos’altro
metteranno accanto al cuscino?
Non è ancora notte fonda, i topi ancora non si arrischiano a mostrarsi. Prima della
battaglia ho bisogno di un po’ di riposo.
Nella cucina di questa casa non ci sono finestre. C’è solo un lucernario largo una trentina
di centimetri, aperto estate e inverno, da cui entrano aria e luce. Una folata di vento che
porta con sé petali di fiori generosamente caduti mi sveglia di soprassalto, quando già i
raggi di una luna nebulosa proiettano l’ombra obliqua della stufa sulle assi del pavimento.
Temendo di aver dormito troppo muovo due o tre volte le orecchie e mi guardo intorno per
controllare la situazione. Tutto tace, si sente solo il ticchettio della pendola, come ieri notte.
Ormai i topi non possono tardare. Da dove sbucheranno?
Un leggero trapestio all’interno della credenza. Come se i topi avessero appoggiato le
loro zampette sul bordo di un piatto e stessero cercando di rubarne il contenuto. Di sicuro
ora salteranno fuori, mi dico appostandomi di fianco al buco a forma di mezzaluna. Invece
non sembrano intenzionati a uscire. A un certo punto il rumore contro il piatto cessa, ora
devono essersi aggrappati a una ciotola, perché ogni tanto si sentono dei colpi sordi. Tutto
questo succede subito al di là dell’anta, a una distanza di non più di dieci centimetri dalla
punta del mio naso. Ogni tanto il fruscio delle zampette arriva molto vicino al buco, poi di
nuovo si allontana senza che un solo topo sporga fuori la testa. Si stanno dando alla pazza
gioia, là dentro, e tutto quello che posso fare è stare immobile in agguato di fianco al buco,
una noia mortale. Nella baia di Port Arthur i topi stanno tenendo una serata danzante. Se
almeno quella stupida montanara mi avesse lasciato l’anta della credenza aperta quel poco
che mi sarebbe bastato per sgusciare dentro…
Ora è la mia conchiglia dietro la stufa a fare rumore. Ci siamo, il nemico arriva anche da
lì… Mi avvicino a passi felpati, ma faccio appena in tempo a vedere una coda guizzare fra le
tinozze e sparire sotto il lavello. Passano pochi secondi ed ecco che nel bagno sento
sbatacchiare la tazza dei gargarismi contro il ripiano di metallo. Questa volta, nell’istante
preciso in cui mi volto, vedo un grosso topo lungo almeno quindici centimetri far cadere
una bustina di dentifricio e infilarsi poi sotto le assi della veranda. Non devo lasciarmelo
scappare, penso precipitandomi su di lui, ma non ne vedo più nemmeno l’ombra. Dare la
caccia ai topi è molto più difficile di quanto immaginassi! Che non possieda la capacità
innata di catturarli?
Se corro nel bagno, spuntano dalla credenza, se mi apposto davanti alla credenza,
saltano fuori dal lavello, allora mi piazzo in mezzo alla cucina, e li sento far baldoria da
tutte le parti. Come definirli? Impudenti? Codardi? In ogni caso non sono degli avversari
leali. Quindici o sedici volte corro a perdifiato di qua e di là, esaurendo le mie energie
fisiche e mentali, sempre senza successo. Me ne rammarico infinitamente, ma contro dei
nemici tanto vigliacchi nemmeno il grande ammiraglio Togo l’avrebbe spuntata. All’inizio
ero pieno di coraggio e di spirito battagliero, provavo persino una nobile sensazione di
tragedia imminente, ma ormai trovo questa caccia così noiosa e stupida, ho talmente sonno
e sono tanto stanco che mi siedo al centro della cucina e non mi muovo più. Non mi
muovo, ma tengo d’occhio la periferia, il nemico lo sa e vigliacco com’è non oserà tentare
colpi audaci. Quando si scopre che quello che si credeva un valido avversario è in realtà un
vile codardo, il senso della nobiltà della battaglia viene meno per lasciare solo pensieri
d’odio. E quando questi si disperdono, lo spirito battagliero svanisce dalla nostra mente
intontita e si finisce con il permettere al nemico di fare quel che gli pare, tanto non lo si
ritiene capace di azioni intelligenti. Il disprezzo è tale che il sonno viene a offuscarci la
mente. Attraverso anch’io tutte queste fasi e alla fine sento arrivare il sonno. Mi
addormento. Il riposo è una cosa necessaria, persino in mezzo ai nemici.
Dal lucernario sotto il soffitto una nuova folata di vento porta un vortice di petali di fiori
di ciliegio che mi avvolge. Faccio appena in tempo a rendermene conto che dal buco nella
credenza un topo schizza fuori come un proiettile e, prima che possa evitarlo, fende l’aria e
viene a piantarmi i denti nell’orecchio sinistro. Subito dopo ho l’impressione che un’ombra
scura giri dietro di me, l’ho appena pensato che mi si aggrappa alla coda. Un attacco a
sorpresa. Automaticamente balzo in piedi, senza uno scopo preciso. Drizzo il pelo e mi
scrollo con tutte le forze per scuotermi di dosso i due mostri. Quello che mi addenta un
orecchio perde l’equilibrio e mi cade sulla faccia. L’estremità della sua coda, elastica come
un tubo di gomma, inaspettatamente mi si infila in bocca. Allora l’addento e tenendola
saldamente stretta comincio a scuotere la testa a destra e a sinistra per sbattere il topo a
terra, ma la coda mi rimane fra i denti e il corpo finisce contro la parete di cartongesso, poi
cade sulle assi del pavimento. Piombo addosso al mostro senza lasciargli il tempo di alzarsi,
ma lui mi passa davanti al naso rimbalzando come una palla, contrae le zampe e balza sul
bordo di una mensola. Poi dall’alto mi osserva, mentre io dal pavimento alzo la testa per
guardarlo. Tra noi ci sarà una distanza di un metro e mezzo, uno spazio che illuminato dai
raggi obliqui della luna sembra una larga cintura dispiegata nell’aria. Mettendo nelle
zampe tutta la forza di cui sono capace, cerco di saltare anch’io su una mensola. Con le
zampe anteriori riesco ad aggrapparmi al bordo, ma quelle posteriori restano penzoloni:
attaccata alla coda ho sempre quella cosa nera di prima, che non molla neanche a costo di
morire. Sono in pericolo. Cerco di spostare in avanti le zampe anteriori in modo da tenermi
meglio. Altro che avanzare, il peso sulla coda mi tira indietro! Se scivolo ancora di mezzo
centimetro sono fritto. La situazione è disperata. Le mie unghie raspano rumorosamente il
legno. Devo fare qualcosa, cerco disperatamente di portare avanti la zampa sinistra, ma le
unghie per chissà quale prodigiosa anomalia non fanno presa e io resto appeso a una
zampa sola. Incomincio a dondolare per effetto del topo attaccato alla coda. Proprio in quel
momento il mostro sulla mensola superiore, che è rimasto per tutto il tempo immobile a
guardarmi, mi piomba sulla fronte come una pietra scagliata dall’alto. Le mie unghie
perdono la presa. Avvinghiati tutti e tre in una massa confusa, tagliamo la luce della luna e
precipitiamo a terra come un corpo solo. Al passaggio trasciniamo con noi il mortaio
posato sulla mensola inferiore con il secchiello che c’è dentro e i barattoli vuoti di
marmellata, che rovesciano il recipiente per spegnere le braci e finiscono metà nella tinozza
dell’acqua, metà a rotolare sul pavimento. Nel silenzio della notte il fracasso raggela
persino me, impegnato in una lotta disperata per la vita.
«Al ladrooo!» urla istericamente il mio padrone con voce roca, accorrendo dalla camera
da letto, in una mano la lampada, nell’altra il bastone da passeggio. Dagli occhi assonnati
lancia sguardi incendiari ben giustificati dalle circostanze. Io mi acquatto accanto alla mia
conchiglia e resto tranquillo. I due mostri spariscono dentro la credenza.
Il padrone è perplesso.
«Chi va là? Chi è che fa tutto questo baccano?» sbraita adirato, benché non ci sia
nessuno. La luna si è spostata a occidente e il suo fascio di luce bianca ora è largo solo
quanto un foglio di carta da scrivere.
6
Questo caldo è insopportabile anche per noi gatti. Si racconta che un inglese, un certo
Sydney Smith, patisse tanto il caldo da volersi strappare la pelle e la carne per restare con
le nude ossa, ma anche senza arrivare a tali esagerazioni, vorrei almeno potermi sfilare di
dosso questa pelliccia gialla e grigia e farla lavare e strizzare, oppure darla in pegno per
qualche tempo. Può darsi che gli umani, dal loro limitato punto di vista, considerino noi
gatti dei sempliciotti noiosi da quattro soldi perché abbiamo la stessa faccia tutto l’anno e
portiamo lo stesso abito in tutte le stagioni. Eppure anche noi patiamo il caldo e il freddo. E
non nego che mi piacerebbe almeno una volta farmi un bagno, ma il giorno in cui dovessi
inzuppare d’acqua calda questa pelliccia, poi asciugarmi sarebbe un’impresa tale che
preferisco sopportare la puzza di sudore e fino a oggi non sono mai passato sotto la tenda
di un bagno pubblico. Qualche volta mi viene voglia di usare un ventaglio, ma vi ho
rinunciato per l’impossibilità di tenerlo in mano. Questo mi fa venire in mente che gli
uomini sono proprio stravaganti. Il cibo che si dovrebbe mangiare crudo, loro lo
preferiscono bollito o arrostito, oppure lo fanno marinare nel sake, lo cospargono di miso…
Tutta fatica inutile dalla quale traggono un gran piacere. La stessa cosa vale per gli abiti.
Portare tutto l’anno lo stesso vestito come i gatti è probabilmente al di sopra delle loro
capacità, dal momento che sono stati creati in modo imperfetto, ma che bisogno hanno di
mettere sulla pelle quella varietà inverosimile di abiti? Fanno ricorso alle pecore, ai bachi
da seta, chiedono la carità persino ai campi di cotone, sono così poco autonomi che la loro
stravaganza può essere considerata il frutto della loro impotenza. Ma mostriamoci
indulgenti e perdoniamo loro queste debolezze in fatto di cibo e abbigliamento… Ciò che
non capisco è perché tengano tanto a cose che non apportano alcun miglioramento alla
loro vita. Prendiamo i capelli, tanto per cominciare: poiché crescono naturalmente, la cosa
più semplice e pratica sarebbe lasciarli così come sono, invece fanno prove su prove per
pettinarli in fogge complicate e vanno molto fieri del risultato. I monaci invece hanno
sempre la testa rasata. Però in estate la proteggono dal sole con un copricapo, mentre
d’inverno l’avvolgono in un cappuccio. Raparsi a zero non è dunque un controsenso, vi
chiedo? In effetti lo è, penserete, ma allora che dire di quanti si compiacciono di usare un
arnese che viene chiamato pettine - un assurdo strumento simile a una sega - per dividere i
capelli in due, a destra e a sinistra? C’è anche chi non li separa in parti uguali ma a tre
settimi del cranio, in maniera del tutto innaturale. E chi prolunga la scriminatura oltre la
sommità del capo e divide i capelli in ciocche anche nella parte posteriore. Si direbbero
foglie di banano finte. Altri hanno i capelli tagliati piatti sulla sommità del capo, mentre sui
lati li lasciano cadere lisci. Una faccia rotonda in una cornice quadrata fa pensare a un
quadro raffigurante una siepe di cipresso cui un bravo giardiniere abbia dato una bella
forma sferica. Poi c’è chi porta i capelli lunghi un centimetro e mezzo, chi un centimetro,
chi mezzo centimetro… Chissà, magari finiranno per tagliarseli anche dentro la testa, gli
originali lanceranno la moda di portarli a meno-uno o meno-tre. In ogni caso non capisco
cosa credano di ottenere gli esseri umani dedicando tanta cura ai capelli. La cosa più
sconcertante però è che, pur avendo quattro zampe, si permettono il lusso di usarne solo
due. Se camminassero su tutte e quattro avanzerebbero a velocità doppia, invece si
contentano sempre e solo di due. Le due restanti si limitano a lasciarle penzolare inerti
come stoccafissi, non è da stupidi? Alla luce di queste considerazioni si capisce perché gli
uomini si divertano a inventare certe diavolerie: si annoiano a morte, essendo molto più
inoperosi di noi gatti. La cosa più comica è che quando questi sfaccendati si incontrano,
non solo passano il tempo a lamentarsi di quanto lavoro hanno, ma assumono anche
l’atteggiamento di chi non ha un minuto libero, al punto che viene da domandarsi se
l’eccessiva attività non li ucciderà per poi divorarli. A volte alcuni di loro, guardandomi,
dicono che sarebbero contenti di fare la bella vita che faccio io, ma se amano tanto la
comodità, perché non si rilassano? Nessuno ha chiesto loro di agitarsi tanto. Crearsi
un’infinità d’impegni per poi lamentarsi che non si riesce a far fronte a tutti, che si è
stanchi morti, è come accendere il fuoco e poi protestare perché fa troppo caldo. Anche noi
gatti non potremmo condurre questa comoda esistenza se dovessimo pensare a venti modi
diversi di acconciarci i capelli. Se gli uomini vogliono una vita tranquilla, basta che si
allenino a portare una pelliccia anche in estate come me… Però devo ammettere che fa un
po’ caldo. Troppo, per tenersi addosso una pelliccia.
Con quest’afa non riesco nemmeno a fare il sonnellino pomeridiano, che è il mio unico
piacere. Come passare le ore? Dal momento che ho trascurato per qualche tempo lo studio
della società umana, potrei anche dedicare la giornata a osservare l’assurda agitazione che
la caratterizza, ma disgraziatamente il mio padrone è simile a noi gatti quanto al carattere.
I suoi sonnellini pomeridiani sono lunghi come i nostri, e da quando sono cominciate le
vacanze estive non ha svolto la minima attività che meriti di venir chiamata «lavoro».
Quindi posso osservarlo quanto voglio, non c’è assolutamente nulla che valga la pena di
essere osservato. Nei momenti come questo, solo una visita di Meitei riuscirebbe forse a
provocare qualche minima reazione nella sua pelle di malato di stomaco, a tirarlo fuori
dalla sua apatia felina… Sto giusto pensando che è ora che Meitei si faccia vedere, quando
nel bagno si sente un gran sciabordio. Non solo qualcuno si sta buttando acqua addosso,
ma fa commenti ad alta voce… «Oh, che meraviglia!» «Questo sì che è un piacere!»
«Ancora un secchio per favore», esclama facendosi sentire in tutta la casa. C’è solo una
persona capace di venire a casa del mio padrone, fare tanto baccano e comportarsi con
tanta malacreanza: Meitei.
Finalmente è arrivato, ho di che riempire metà della giornata. Ho appena formulato
questo pensiero che il professore entra asciugandosi, le maniche del kimono rimboccate
sulle spalle.
«Signora, Kushami è in casa?» chiede posando il cappello sui tatami. La padrona, che
nella stanza vicina sta sonnecchiando placidamente accanto alla scatola da cucito, al suono
di quella voce tonante che riecheggia contro il soffitto si sveglia di soprassalto. Cercando di
tenere aperti gli occhi assonnati viene subito nella stanza degli ospiti, dove Meitei, nel suo
bel kimono di lino di Satsuma, ha già piazzato uno zabuton dove meglio gli è parso, vi si è
accomodato e si sta sventagliando freneticamente.
«Prego, si accomodi», fa la padrona in tono leggermente costernato, «non sapevo che
fosse qui…» e mentre si inchina il sudore le scivola sulla punta del naso.
«No, sono appena arrivato. O-san mi ha buttato addosso qualche secchiata d’acqua nel
bagno. Mi sento rinascere… fa un caldo tremendo, non trova?»
«Sì, è davvero insopportabile, in questi ultimi tre giorni si suda anche a stare fermi
senza fare nulla… Lei però mi sembra sempre in ottima forma», risponde la padrona,
astenendosi per ritegno dall’asciugarsi il sudore.
«Sì, grazie. Non mi lascio abbattere da un po’ di caldo. Adesso però sta davvero
esagerando, mette addosso una fiacca terribile».
«Proprio così, io di solito il pomeriggio non dormo, ma con quest’afa…»
«Si era addormentata? Beata lei. Sarebbe bello poter dormire di giorno e poi anche di
notte…» Come sempre Meitei sta parlando a vanvera, ma qualcosa deve lasciarlo
insoddisfatto perché aggiunge: «Io d’abitudine non dormo molto, per natura, quindi ogni
volta che vengo a trovare Kushami, trovandolo invariabilmente addormentato, provo una
grande invidia. Be’, questo caldo avrà sicuramente ripercussioni sul suo stomaco. In giorni
come questi anche le persone in buona salute fanno fatica a mantenere la testa sopra le
spalle. Ma nemmeno possiamo toglierla, visto che ce l’abbiamo». Per la prima volta Meitei
sembra preoccuparsi della sua testa. «Lei, signora, con tutti i capelli che ha sul capo, strano
che riesca a stare seduta. Già solo il peso del suo chignon le farà venire voglia di sdraiarsi».
«Ma cosa dice…» risponde la padrona con una risatina, convinta che Meitei abbia
accennato al suo chignon in disordine per alludere al fatto che dormiva, e si tocca la testa
per controllare.
«Lo sa, signora, che ieri ho provato a far friggere un uovo sul tetto di casa mia?» chiede
Meitei saltando di palo in frasca, perché i capelli della padrona sono l’ultimo dei suoi
pensieri.
«Con quali risultati?»
«Le tegole del tetto erano talmente arroventate che mi sono detto che era un peccato
lasciarle così, senza usarle. Ci ho spalmato sopra del burro e ci ho fatto cadere un uovo».
«Non mi dica!»
«Purtroppo però il sole non ha svolto l’azione che speravo. Visto che l’uovo non cuoceva
mai, sono sceso e mi sono messo a leggere il giornale, e a quel punto è venuto qualcuno a
trovarmi e l’uovo mi è passato di mente. Me ne sono ricordato di colpo solo stamattina, e
sono salito subito a vedere pensando che doveva essere cotto».
«E com’era diventato?»
«Invece di cuocere, era colato giù».
«Oh, per carità!» fa la padrona aggrottando sconcertata le sopracciglia.
«Comunque, è strano che per tutta l’estate il tempo si sia mantenuto fresco e adesso
faccia questo caldo tremendo».
«Proprio così. Fino a poco tempo fa con un kimono estivo avevamo quasi freddo, ma
dall’altro ieri all’improvviso è scoppiata la canicola…»
«I granchi camminano di lato, ma il tempo quest’anno cammina all’indietro. Forse ci
vuole dire che «a volte conviene andare all’incontrario»».
«Che cosa significa?»
«No, non significa niente. Soltanto che questa stagione va all’incontrario come il bue di
Ercole».
Trascinato dalla sua stessa facondia, Meitei continua a sproloquiare. La padrona, che
non capisce dove voglia andare a parare, avendo appena fatto una figuraccia chiedendo
spiegazioni per la frase «conviene andare all’incontrario», questa volta si limita a fare
«oh!» senza aggiungere altro. Non era questa però la reazione sperata da Meitei.
«Signora, conosce la storia del bue di Ercole?»
«No, non conosco questo bue».
«Veramente? Vuole che gliela racconti?»
«Sì, prego», risponde la padrona, che non può rifiutarsi di ascoltare.
«Una volta, nei tempi antichi, Ercole si presentò tirando un bue».
«Chi era questo Ercole? Un pastore?»
«No, non era un pastore. E nemmeno il padrone di una catena di macellerie. A quei
tempi in Grecia di macellerie non ne esisteva nemmeno una».
«Ah, ma allora è una storia greca? Poteva dirlo subito», fa la padrona, tutta fiera di
conoscere il nome del paese europeo.
«Ma se le ho detto che si trattava di Ercole!»
«Perché, era greco Ercole?»
«Sì, è uno degli eroi greci».
«È ben per questo che non so chi sia… insomma che cosa ha fatto quest’uomo?»
«Quest’uomo aveva sonno e si addormentò profondamente, proprio come lei, signora».
«Oh, la smetta!»
«E mentre dormiva arrivò il figlio di Vulcano…»
«Vulcano? Chi è?»
«Vulcano era un maniscalco, e suo figlio rubò il bue di Ercole. Ma siccome lo portò via
tirandolo per la coda, quando Ercole si svegliò e si mise a cercarlo non lo trovò. Per forza.
Perché il bue era stato portato in una direzione, ma si era allontanato andando all’indietro
e le tracce delle sue zampe erano rivolte nell’altro senso. Piuttosto scaltro per essere il figlio
di un maniscalco, non trova?» Meitei ha già dimenticato che stavano parlando del tempo.
«A proposito, suo marito che fine ha fatto? Sta facendo il suo solito sonnellino
pomeridiano? In un’antica poesia cinese un sonnellino sembra molto elegante, ma in un
personaggio familiare come Kushami diventa qualcosa di molto terra terra. È come se
cercasse di morire a poco a poco giorno dopo giorno. Mi scusi, signora, ma non potrebbe
andare a svegliarlo?»
La padrona sembra accogliere con favore questa richiesta.
«Ha ragione, questa sua abitudine sta diventando un problema. Tanto per cominciare,
professore, gli fa male alla salute, ha appena finito di mangiare…» dice, e fa per alzarsi, ma
Meitei la blocca osservando con la sua solita faccia tosta:
«A proposito di mangiare, signora, non mi ha ancora offerto niente».
«Oh, mi scusi, è vero che è ora di pranzo… Be’, non ho niente di speciale da offrirle, ma
se si accontenta di una scodella di riso innaffiato con un po’ di tè…»
«No, grazie, della scodella di riso innaffiato con il tè ne faccio volentieri a meno».
«Peccato, perché non abbiamo nulla che possa soddisfare i suoi gusti raffinati»,
risponde la padrona in un tono leggermente piccato che non sfugge a Meitei.
«Accetti le mie scuse per il riso e per il tè, ma cammin facendo ho ordinato qualcosa di
buono, e pensavo di mangiarlo qui», annuncia con una disinvoltura che non è alla portata
di chiunque.
«Ah!» si limita a dire la padrona. In quell’esclamazione si sentono la sorpresa, lo
sconcerto, e anche un certo sollievo per il disturbo evitato.
In quel momento il padrone, svegliato dal rumore della conversazione, arriva
barcollando dallo studio, molto seccato.
«Sei sempre il solito scocciatore. Mi ero appena appisolato, mi hai guastato tutto il
piacere…» fa, sbadigliando con aria truce.
«Oh, ti ho svegliato? Ti presento le mie umili scuse per aver disturbato il tuo augusto
sonno. Ma non tutto il male viene per nuocere. Su, accomodati», lo invita Meitei come se
fosse lui il padrone di casa. Kushami si siede senza dire una parola, prende una sigaretta
Asahi dalla scatola di legno intarsiato, e attacca a fumare. Poi gli occhi gli cadono sul
cappello di Meitei rotolato in un angolo.
«Hai un cappello nuovo?» chiede.
«Cosa ve ne pare?» fa subito Meitei prendendolo e mostrandolo con orgoglio.
«Be’, è molto bello. È intrecciato molto finemente, ed è anche morbido», concede la
padrona accarezzandolo.
«Questo cappello, signora, non ha prezzo. Perché fa tutto quello che gli chiedo». Così
dicendo Meitei assesta un pugno sul lato del suo Panama, ammaccandolo com’era sua
intenzione. La padrona non ha nemmeno il tempo di emettere un grido di sorpresa che lui
dà un altro pugno all’interno del cappello e la parte ammaccata torna su. Poi lo prende e ne
schiaccia le falde sui due lati. Il cappello diventa piatto come la pasta sotto il mattarello. A
quel punto Meitei lo arrotola stretto stretto partendo da un’estremità, come se fosse una
stuoia.
«Allora? Che ve ne pare?» chiede infilandosi il cappello arrotolato in una manica del
kimono.
«È davvero straordinario!» esclama meravigliata la padrona, come se avesse assistito a
uno dei numeri del famoso prestigiatore Kitensai Shoichi.
Allora Meitei, preso anche lui dall’entusiasmo, tira fuori dalla manica sinistra il cappello
che aveva infilato nella destra e fa: «Guardate, nemmeno un graffio!» Poi gli ridà la forma
originaria e poggiandolo sul dito indice lo fa girare come una trottola. Sto già pensando che
abbia finito, quando lo butta dietro di sé e ci si siede sopra.
«Sei sicuro che non si rovini?» chiede il padrone, perplesso persino lui.
«Un cappello così bello, sarebbe un peccato rovinarlo, credo che possa bastare così»,
aggiunge la moglie, comprensibilmente preoccupata.
«Niente paura, non si rovina, è questa la cosa meravigliosa», afferma con fierezza il suo
proprietario. Lo tira fuori da sotto il sedere e se lo mette in testa schiacciato com’è:
prodigiosamente il cappello ritrova all’istante la sua forma rotonda.
«È veramente un cappello molto forte, che strano, come mai?» La padrona esprime
finalmente tutta la sua ammirazione.
«Non ha nulla di speciale, è un cappello fatto così», le risponde Meitei con il copricapo
ancora in testa.
«Perché non te ne compri uno uguale?» aggiunge lei dopo un po’ rivolgendosi al marito.
«Ma Kushami ha già un magnifico cappello di paglia».
«Sì, ma le bambine l’altro giorno ci hanno camminato sopra e l’hanno schiacciato».
«Oh, che peccato!»
«Quindi non pensa che questa volta farebbe bene a procurarsene uno bello solido come
il suo?» continua la padrona, che non conosce il prezzo dei Panama. «Allora compratene
uno così, d’accordo?» dice al marito.
In quel momento Meitei tira fuori dalla manica destra del kimono un temperino nel suo
fodero rosso e glielo mostra.
«Lasci perdere il cappello, signora, e guardi qui. È un’altra meraviglia. Si può usare in
quattordici modi diversi».
Non fosse per la tempestiva entrata in scena del temperino, il mio padrone sarebbe stato
perseguitato con la storia del Panama, ma poiché ha una moglie curiosa come tutte le
donne, è scampato al pericolo grazie al tatto di Meitei, o più probabilmente grazie alla sua
fortuna.
«Come si fa a usarlo in quattordici modi?» chiede la padrona.
Meitei è raggiante d’orgoglio.
«Adesso ve li spiego uno per uno, quindi aprite bene gli occhi e le orecchie. Dunque.
Vedete quest’apertura a forma di falce di luna? Infilando qui un sigaro si taglia via netta la
punta. Poi vedete questo coso vicino al manico? Con questo si taglia il filo di ferro come
fosse burro. Appoggiamo ora il temperino su un foglio di carta, serve da righello. Questa
lama sul retro, che è graduata, serve a misurare. E qui dietro c’è una lima per le unghie. Fin
qui mi seguite? Se poi sollevate la testa di questa levetta, facendola girare potete usarla
come cacciavite. Se invece l’aprite tutta serve da tenaglia, apre il coperchio di qualunque
scatola senza difficoltà. L’estremità di questa lama invece è un succhiello. Con quest’altra,
se scrivendo fate degli errori, li potete cancellare, e staccandola del tutto diventa un
coltello. E per finire - stia bene attenta, signora, il bello viene adesso - la vede questa
pallina non più grande di una mosca? Guardi un momento qui dentro, per favore».
«Non ci penso neanche, sono sicura che vuole farmi uno scherzo».
«Abbia un po’ di fiducia! Pensi pure che le voglia fare uno scherzo, ma dia almeno
un’occhiata. Come? Non vuole? Solo un’occhiatina». Così dicendo Meitei tende il
temperino alla padrona. Lei lo prende con riluttanza e appoggia l’occhio contro la pallina
grande come una mosca, sforzandosi di vedere qualcosa.
«Cosa vede?»
«Niente, è tutto nero».
«No, non lo tiene bene, si avvicini un poco agli shoji. Tenga il temperino un po’ più
dritto… ecco, così… adesso vede qualcosa?»
«Oh, ma è una fotografia! Come sono riusciti a fare una foto così piccola e a metterla qui
dentro?»
«È questa la meraviglia».
Meitei e la padrona sono assorti nella conversazione. A questo punto il padrone, che
finora è stato zitto, sembra interessato anche lui a vedere la foto.
«Lascia guardare anche me!» fa alla moglie, che tiene il temperino appoggiato contro
l’occhio senza accennare a staccarsene.
«Oh, ma è molto bella, è una donna nuda…»
«Ehi, ti ho detto di farmi guardare!»
«Aspetta un momento. Ha dei capelli stupendi, le scendono fino alle reni. È leggermente
voltata verso l’alto… è un po’ troppo alta, ma è davvero bellissima».
«Dal momento che ti dico di farmi vedere, potresti anche darmi retta», insiste il marito,
diventando aggressivo per la fretta di guardare.
«Tieni, ammira finché vuoi», dice la padrona passandogli il temperino.
Giusto in quel momento dalla cucina entra O-san annunciando che hanno portato
qualcosa ordinato dal professore, e posa sui tatami due scatole di zarusoba.
«Signora, questo è il piatto che avevo ordinato, mi permetta di mangiarlo qui», dice
Meitei con un inchino educato. Poiché il suo atteggiamento è tra il serio e il faceto, la
padrona, un po’ perplessa, si limita a rispondere «prego», restando a guardare.
«Ti avverto che i soba con questo caldo sono veleno», fa il mio padrone, che ha
finalmente staccato gli occhi dalla fotografia.
«Figurati, le cose che piacciono raramente fanno male», risponde Meitei sollevando il
coperchio di una delle scatole «Meno male che sono freschissimi. Della pasta vecchia di
qualche giorno, come degli uomini stupidi, non ci si può fidare». Poi aggiunge alla salsa
delle spezie e gira energicamente.
«Guarda che se ci metti tutto quel wasabi saranno troppo piccanti», lo avvisa
preoccupato il padrone.
«I soba bisogna mangiarli con la loro salsa, e molto wasabi. A te non piacciono, vero, i
soba?»
«Preferisco gli udon».
«Gli udon sono roba da vetturini. Chi non apprezza la delicatezza dei soba è da
compiangere». Così dicendo Meitei infila i leggeri bastoncini di cipresso nella pasta e ne
tira su quanti più fili può. «Lo sa, signora, che anche riguardo al modo di mangiare i soba
ci sono vari stili? I principianti li inzuppano troppo nella salsa, poi se ne riempiono la bocca
e masticano come capita. In questo modo il gusto si rovina. Invece bisogna fare così,
prenderne un po’ alla volta…» Accompagnando le parole con il gesto Meitei porta a
un’altezza di una trentina di centimetri i lunghi fili di pasta che stringe fra i bastoncini. Poi
guarda in basso per controllare che tutto vada bene e vede che dodici o tredici fili hanno
ancora l’estremità ingarbugliata nel vassoietto di bambù. «Ma quanto sono lunghi? Cosa ne
pensa, signora, non sono troppo lunghi?» chiede rivolto di nuovo alla padrona.
«Ha ragione, sono proprio lunghissimi», fa lei in tono meravigliato.
«Dunque, si inzuppano nella salsa solo per un terzo, poi si buttano giù tutti in una volta.
Non bisogna assolutamente morderli. Mordendoli il gusto si perde. Il bello è farli scivolare
in gola così come sono».
Meitei solleva in alto i bastoncini, permettendo finalmente ai soba di staccarsi dal
vassoio, poi li abbassa a poco a poco facendo entrare le estremità dei soba nella ciotola che
tiene nella mano sinistra. Ma obbedendo al principio di Archimede la salsa, che già in
partenza occupava i quattro quinti della ciotola, spostata dalla massa dei soba ne raggiunge
il bordo prima che Meitei riesca a metterci un quarto della pasta che intendeva inzuppare.
Per cui resta bloccato con i bastoncini sollevati a una quindicina di centimetri al di sopra
della ciotola. Sosta giustificata. Se li abbassa anche solo un po’, la salsa tracima. Allora,
dopo qualche secondo di esitazione, in uno slancio repentino porta la bocca verso i
bastoncini, muove la lingua un paio di volte avanti e indietro con un rumore di suzione e,
prima che gli altri abbiano il tempo di rendersene conto, i soba che teneva per aria sono
spariti. Dall’angolo degli occhi gli colano due o tre gocce che potrebbero essere lacrime.
Forse aveva messo troppo wasabi, oppure lo sforzo di inghiottire è stato eccessivo.
«Complimenti! Mai visto ingoiare tanti soba in un boccone solo!» commenta il mio
padrone stupefatto.
«Davvero prodigioso», aggiunge la moglie lodando la prodezza di Meitei.
Lui non risponde subito, posa i bastoncini dandosi due o tre colpetti sul petto, poi fa:
«Be’, signora, i soba freddi devono essere mangiati in tre, quattro bocconi al massimo.
Se ci si mette più tempo, non sono più buoni».
E tirato fuori il fazzoletto si asciuga la bocca, poi fa un grosso sospiro.
In quel momento ecco che arriva Kangetsu, che per qualche misteriosa ragione con
questo caldo torrido porta un cappello invernale. Entra nella stanza con i piedi tutti
impolverati.
«Oh, guardate chi c’è! Il nostro bel ragazzo! Scusami, ma stavo pranzando», lo accoglie
Meitei, e davanti alla numerosa assemblea riprende senza ritegno a mangiare quel che
resta nel vassoietto di bambù. Questa volta si limita a finire alla svelta i suoi soba, non
ripete la prodezza di poco fa, evitando gesti poco eleganti come pulirsi con il fazzoletto o
fare rumorosi sospiri.
«Kangetsu, sei a buon punto con la tesi di dottorato?» chiede il padrone.
«Sbrigati a presentarla, visto che la signorina Kaneda non vede l’ora di sposarti»,
aggiunge Meitei.
«Sì, mi sento in colpa, vorrei presentarla al più presto in modo che si tranquillizzi. Ma
l’argomento è quello che è, richiede ricerche molto complesse», risponde Kangetsu con il
solito sorriso un po’ sornione, parlando con estrema serietà di qualcosa che nessuno
prenderebbe sul serio.
«Infatti, l’argomento essendo quello che è, non è facile esaudire i desideri della Nasona.
Ma trattandosi di tanto naso, vale la pena di cercare di ingraziarselo», fa Meitei imitando lo
stile di Kangetsu.
«Qual era l’argomento della tua tesi?» chiede invece il padrone con un certo interesse.
«"L’effetto dei raggi ultravioletti sulla funzione galvanica del globo oculare della rana"».
«Straordinario. Degno del professor Kangetsu. Il globo oculare delle rane ne sarà
estasiato. Eh, Kushami? Prima che finisca la tesi, non pensi che sarebbe meglio mettere i
Kaneda al corrente almeno dell’argomento?»
Il padrone però non sta al gioco di Meitei.
«Ma c’è da spezzarsi la schiena su una ricerca del genere», dice rivolto a Kangetsu.
«Sì, è davvero difficile. Innanzitutto perché la struttura del cristallino negli occhi della
rana è molto complessa. Dovrò fare un gran numero di esperimenti, ma all’inizio penso di
servirmi di biglie di vetro e solo in un secondo tempo passare alla ricerca vera e propria».
«Biglie di vetro ne trovi quante ne vuoi da un vetraio».
«Sì, però…» risponde Kangetsu buttando un po’ indietro la testa, «però il cerchio e la
linea retta sono concetti matematici, nel mondo reale non si trovano forme ideali che
corrispondano a tali definizioni».
«Se non si trovano, meglio che lasci perdere, allora», interviene Meitei.
«Così ho deciso di fabbricare prima di tutto una biglia di vetro da poter utilizzare negli
esperimenti. Ho cominciato qualche giorno fa».
«E ci sei riuscito?» chiede ingenuamente il mio padrone.
«No, è ovvio», risponde Kangetsu, ma poi si rende conto che si sta contraddicendo e
aggiunge: «Cioè, è estremamente difficile. Mentre limo, a un certo punto mi accorgo che da
una parte il diametro è troppo lungo, allora raschio in quel senso, e questa volta il diametro
diventa più lungo dall’altra parte. Cerco con gran fatica di ridurlo, ed ecco che tutta la
biglia prende una forma ovale. Immediatamente cerco di correggerla, ma ora è la tangente
a saltare. Insomma, una sfera che in origine aveva la grandezza di una mela, a poco a poco
si riduce a una fragola. Io non mi do per vinto e continuo a limarla, finché diventa grande
come un fagiolo. Ma neppure così è perfettamente rotonda. Ci metto tutto il mio ardore,
eppure… da Capodanno è la sesta sfera di vetro che cerco di creare».
Kangetsu racconta infervorato le sue disavventure, ma non è escluso che si stia
inventando tutto.
«E dov’è che limi queste biglie?»
«Nel laboratorio dell’università, ovviamente. Inizio il mattino, a mezzogiorno faccio una
breve pausa, poi ricomincio e vado avanti fino a quando fa buio, non è una cosa facile, ve
l’assicuro».
«Ecco perché di questi tempi ti lamenti che hai troppo lavoro! Passi le giornate
all’università a limare biglie di vetro, inclusa la domenica».
«Sì, ormai vedo solo biglie, dal mattino alla sera».
«Potresti avere accesso a casa Kaneda facendoti passare per dottore nella fabbricazione
delle biglie, come quel tale della ballata joruri che entrava facendo finta di essere un
giardiniere…» interviene Meitei. «A ogni modo persino la Nasona, se viene a sapere del tuo
ardore, ne sarà colpita. Sai, l’altro giorno, uscendo dalla biblioteca, sul cancello ho
incontrato Robai. Mi sorprendeva che pur essendo già laureato da un pezzo venisse ancora
in biblioteca e gli ho espresso la mia ammirazione per la sua costanza, ma lui tutto stupito
mi fa: «Cosa dici, mica vengo qui per studiare! Passando davanti al cancello mi è venuta
voglia di fare pipì e ho pensato di usare i gabinetti di qui». Da morire dal ridere, mi è
venuta voglia di inserire te e Robai in una nuova edizione di quel vecchio dizionario dei
contrari, sareste un ottimo esempio». Uno dei consueti, interminabili commenti di Meitei.
L’atteggiamento del mio padrone invece è leggermente più serio.
«Senti, passare le giornate a strofinare una biglia di vetro va bene, ma la tesi quando
pensi di finirla?» chiede.
«Be’, di questo passo ci vorranno circa dieci anni», risponde Kangetsu, che non sembra
trovare il ritardo problematico.
«Dieci anni? Cerca di accelerare i tempi, con quelle biglie!»
«Dieci anni è il minimo. È possibile che ci voglia tutta una vita».
«Ma sarebbe un disastro! Non otterresti mai il dottorato!»
«Lo so. Vorrei sbrigarmi per tranquillizzare tutti, ma se non riesco a fabbricare una sfera
di vetro, non posso iniziare gli esperimenti veri e propri… Ma perché si preoccupa tanto?»
chiede Kangetsu dopo una breve pausa di silenzio. «I signori Kaneda sanno benissimo della
mia ricerca con le biglie di vetro. Due o tre giorni fa, quando sono andato a trovarli, ho
spiegato loro come stanno esattamente le cose», conclude con espressione compiaciuta.
«Ma i Kaneda non sono tutti quanti a Oiso dal mese scorso?» interviene in quel
momento con aria dubbiosa la padrona, che finora è stata ad ascoltare la conversazione dei
tre uomini senza capirci granché.
«Che strano», risponde Kangetsu a disagio, fingendo di cadere dalle nuvole. «Com’è
possibile?»
In questi casi, quando la conversazione si interrompe, quando si crea un momento di
imbarazzo, quando il sonno incombe, è sempre Meitei a salvare la situazione, qualunque
sia il problema, rivelandosi prezioso.
«Che si possa incontrare a Tokyo qualcuno recatosi a Oiso il mese scorso, è un mistero,
ed è bene che resti tale. Credo che si possa parlare di scambio delle anime. Questi fenomeni
si verificano spesso quando due persone che si amano vengono separate. Sogni, direte voi,
ma in questo caso il sogno è più vero della realtà. Per lei, signora, che ha sposato Kushami
senza che ci fosse una particolare attrazione né da una parte né dall’altra, è impossibile
capire le vie dell’amore eterno, quindi dubitare…»
«Ma che cosa sta dicendo? Cosa ne sa lei? Parla davvero a vanvera», lo interrompe
bruscamente la padrona.
«Sei tu che non sai nemmeno cosa siano le pene d’amore!» interviene in suo aiuto il
marito.
«Oh, ho avuto anch’io le mie storie sentimentali, ma sono tutte lontane e nessuno ne
parla più, probabilmente non le ricordate nemmeno voi… In realtà, se alla mia età sono
ancora scapolo, è tutta colpa di una delusione d’amore», annuncia Meitei guardando gli
altri a turno.
«Questa sì che è buona…» ribatte con una risatina la padrona.
«Piantala di prenderci in giro», aggiunge il marito voltandosi a guardare il giardino.
Solo Kangetsu sorride e chiede gentilmente: «Professore, mi racconti di questa sua
antica passione, per favore, ne farò tesoro per il futuro».
«Anche la mia storia ha qualcosa di misterioso, se l’avessi raccontata a Koizumi Yakumo 1
ne sarebbe rimasto commosso, ma disgraziatamente è passato a miglior vita… Se devo dire
la verità sono un po’ restio a parlarne, ma visto che ci tenete, ve la racconterò. Però dovete
ascoltare in silenzio fino alla fine. Dunque… quanti anni fa sarà successo? Non ho voglia di
contarli, diciamo quindici o sedici anni fa».
«Vuoi scherzare?» fa il mio padrone sbuffando dal naso.
«Mi pare che lei non abbia buona memoria», aggiunge la moglie. Solo Kangetsu
mantiene la promessa e non fiata, l’espressione attenta come se non vedesse l'ora di sentire
il seguito.
1
Nome che assunse in Giappone lo studioso e scrittore inglese Lafcadio Hearn (1850-1904), che fu il primo professore di
letteratura inglese all’Università imperiale di Tokyo. Il suo posto andò poi a Soseki.
«Insomma, era l’inverno di non so quale anno. Ero passato dalla Valle dei Bambù nel
distretto di Kanbara, nella provincia di Echigo, e stavo percorrendo il Passo del Vaso dei
Polipi per recarmi nel territorio di Aizu…»
«Che nomi strampalati!» interrompe di nuovo il mio padrone.
«Stai zitto e ascolta per favore, è interessante», lo redarguisce la moglie.
«Il sole stava già tramontando, io non conoscevo la strada e avevo fame, così mi sono
rassegnato a bussare a una casa a metà del passo, ho chiesto ospitalità per la notte
spiegando perché ero finito lì. Una ragazza mi ha invitato a entrare, «prego, si accomodi»,
ha detto tendendo verso di me una semplice candela: quando ho visto il suo viso per
l’emozione mi sono messo a tremare. E in quel momento che ho capito tutta la forza
misteriosa di quel bricconcello che si chiama amore».
«Questa poi, vuol dirmi che tali bellezze vivono anche in cima ai monti?»
«In cima ai monti o in mezzo al mare, signora, quella ragazza era così bella che vorrei
che lei l’avesse vista almeno una volta… aveva i capelli tirati su alla Shimada 2»
«Oh!» fa la padrona stupefatta.
«Mi hanno fatto accomodare in una stanza di otto tatami con un grande braciere posato
nel mezzo, intorno al quale ci siamo seduti in quattro, la ragazza, i suoi nonni e io. Mi
hanno chiesto se avevo fame. «Per me va bene tutto», ho risposto, «purché mi diate in
fretta qualcosa da mangiare». Allora la nonna ha detto che per una volta che c’era un
ospite, voleva cucinare la zuppa di riso al serpente. Ascoltate bene, perché stiamo per
arrivare alla delusione d’amore».
«Professore, non perdiamo una parola di quanto dice, ma in inverno ci sono i serpenti?
Sarà pure stato nella provincia di Echigo, però…»
«Uhm, buona domanda. Però fissarsi su certe inezie, in una storia poetica come questa,
non è molto intelligente… In un romanzo di Kyoka3 a un certo punto un granchio sbuca
dalla neve…»
«In effetti», risponde Kangetsu a quell’osservazione, e si dispone di nuovo ad ascoltare.
«A quel tempo mi piaceva assaggiare cose strane, però ne avevo abbastanza di mangiare
cavallette, lumache o rane rosse, e il riso al serpente era il benvenuto. Ho detto alla vecchia
di prepararlo a tutta velocità. Allora lei ha messo una marmitta sul fuoco che ardeva nel
braciere, vi ha versato il riso e ha lasciato che cominciasse a bollire. La cosa strana è che nel
coperchio della marmitta erano stati praticati una decina di fori. Io guardavo affascinato il
vapore che usciva dai fori, dicendomi che per essere gente di campagna era molto
ingegnosa… ed ecco che il marito all’improvviso si alza ed esce, senza dire dove va, e torna
dopo pochi minuti portando sotto il braccio una grossa cesta che posa con indifferenza
accanto al braciere. Ho sbirciato per vedere cosa conteneva… c’erano dei serpenti lunghi
così, rigidi e arrotolati su se stessi per il freddo».
«Non è necessario che continui, ne abbiamo sentito abbastanza. Non è una storia
piacevole», dice la padrona aggrottando le sopracciglia.
«Devo continuare per forza, perché questa storia è all’origine della mia delusione
d’amore. Allora, il vecchio ha sollevato il coperchio della marmitta con la mano destra, con
la sinistra ha afferrato una manciata di serpenti e li ha gettati di colpo nell’acqua.
Dopodiché ha subito messo il coperchio, ma durante quei pochi secondi, nonostante non
sia un fifone, ho avuto un attimo di sgomento».
2
3
Stile di pettinatura molto appariscente, con i capelli tirati su in modo da formare una sorta di anello sulla cima del capo.
Un tempo portata dalle signore altolocate, ora viene sfoggiata dalle poche geisha rimaste e dalle spose il giorno delle nozze.
Izumi Kyoka (1873-1939), uno dei principali scrittori del periodo Meiji, appartenente alla corrente romantica che fu
popolare in Giappone nell’ultimo decennio del diciannovesimo secolo e fino ai primi anni del ventesimo, quando scoppiò la guerra
contro la Russia.
«Adesso la smetta per favore, è disgustoso», fa di nuovo la padrona, che comincia ad
avere paura.
«Porti ancora un po’ di pazienza, arrivo subito al punto. Non passa nemmeno un minuto
che la testa di un serpente sbuca da uno dei fori nel coperchio. Non faccio in tempo a
riavermi dalla sorpresa, che dal foro vicino sbuca un’altra testa. Guardo da quella parte, ed
ecco che da un altro buco ne esce una terza. E una quarta di qua. In poco tempo il
coperchio della marmitta era pieno di teste di serpente».
«Perché mettevano fuori la testa?» chiede il padrone.
«Perché nella pentola si scottavano e volevano scappare. A un certo punto il vecchio ha
detto: «Bene, tirateli fuori» o qualcosa del genere. «Sì», risponde la vecchia, la ragazza
annuisce, e tutt’e due afferrano una testa ciascuna e cominciano a tirare con tutte le forze.
La carne è rimasta nella pentola, soltanto le ossa sono venute via… Tirando, la spina
dorsale veniva fuori pulita, era divertente».
«Insomma hanno disossato i serpenti», commenta sorridendo Kangetsu.
«Esatto, hanno disossato i serpenti, un metodo ingegnoso, non trovate? Poi hanno
sollevato il coperchio, hanno mescolato con la spatola il riso e la carne, e mi hanno invitato
a mangiare».
«E tu hai mangiato?» chiede con distacco il padrone.
«Basta, la smetta», si lamenta invece la moglie con espressione sofferente. «Ho la
nausea, mi è passata la voglia di mangiare riso o qualunque altra cosa».
«Lo dice perché non ha mai gustato il riso al serpente, signora. Lo assaggi una volta, non
se lo dimenticherà finché campa».
«Che orrore, si figuri se mangio una roba del genere!»
«Io invece ne ho mangiato a sazietà, avevo dimenticato il freddo, guardavo in viso la
ragazza senza imbarazzo… insomma, mi sentivo in paradiso, così quando mi hanno
augurato la buonanotte, stanco per il viaggio com’ero, ho accolto il loro invito, mi sono
sdraiato e sono immediatamente sprofondato in un sonno di piombo».
«E poi cos’è successo?» Adesso la padrona è curiosa di conoscere il seguito.
«È successo che il mattino, al risveglio, ho avuto il cuore spezzato».
«Le hanno fatto qualche brutto scherzo?»
«No, non mi hanno fatto proprio nulla. Appena svegliato mi sono acceso una sigaretta e
mi sono messo a guardare fuori dalla finestra sul retro… Accanto alla pompa dell’acqua
c’era qualcuno che si stava lavando la testa calva come una teiera».
«Chi era? Il vecchio o la vecchia?»
«Be’, anch’io mi sforzavo di vedere meglio perché facevo fatica a capire, ma quando la
teiera si è voltata verso di me sono rimasto allibito. Era la ragazza della sera precedente, il
mio primo amore».
«Ma se poco fa ha detto che era pettinata come le spose!»
«Sì, la sera aveva i capelli tirati su alla Shimada, e in maniera stupenda. Ma alla luce del
mattino era calva come una teiera».
«Piantala di prenderci in giro», fa il mio padrone alzando gli occhi verso il soffitto.
«Anch’io ero sconvolto e in fondo al cuore avevo anche un po’ di paura, ma ho
continuato a guardare di nascosto. Quando finalmente la teiera ha finito di lavarsi la faccia,
come niente fosse si è messa in testa la parrucca pettinata alla Shimada, che era posata
sopra una pietra vicino a lei, ed è rientrata tranquillamente in casa. Allora ho capito. Ho
capito, e non mi sono mai più ripreso da quella delusione d’amore, questo è stato il mio
triste destino».
«Che ridicola delusione d’amore! Vero, Kangetsu? Se per lui le delusioni d’amore sono
queste, non c’è da stupirsi che sia sempre tanto in forma e allegro!» sentenzia il padrone
voltandosi verso Kangetsu, il quale osserva:
«Sì, ma forse il professore sarebbe sempre di buonumore anche se quella ragazza non
fosse stata calva, se l’avesse sposata e portata a Tokyo. Che peccato però che proprio la
fanciulla che amava avesse perso i capelli! Chissà come mai una donna tanto giovane si era
ridotta in quelle condizioni…»
«Ci ho riflettuto molto anch’io e sono arrivato alla conclusione che di sicuro era tutta
colpa del riso al serpente, ne aveva mangiato troppo, non si spiega diversamente. Perché
sale alla testa, quella roba lì».
«Meno male che a lei non è successo nulla…» fa la padrona.
«Sì, per fortuna non ho perso i capelli, ma in compenso da quella volta sono diventato
miope, come potete vedere», risponde Meitei togliendosi gli occhiali e iniziando a pulire
accuratamente le lenti.
Tutt’a un tratto al mio padrone torna in mente qualcosa:
«E cos’avrebbe di misterioso, questa storia?» chiede per togliersi il dubbio.
«La parrucca. Dove poteva averla comprata o trovata? Ci ho pensato e ripensato, ma
fino a oggi non sono riuscito a trovare una spiegazione. È questo il mistero», risponde
Meitei rimettendosi gli occhiali sul naso.
«Mi sembra di aver ascoltato le fantasie di un menestrello», osserva in tono critico la
padrona.
Poiché la storia di Meitei è arrivata alla conclusione, immagino che non abbia più nulla
da dire, ma lui, che è incapace di stare zitto a meno di essere imbavagliato, riprende a
parlare.
«Ho passato un brutto momento, a causa di quella delusione d’amore, ma se avessi
sposato la ragazza senza sapere che era calva, per tutta la vita il mio senso estetico ne
avrebbe sofferto. Quindi bisogna pensarci bene, se non si vogliono avere brutte sorprese.
Una volta sposati, all’ultimo momento, quando è troppo tardi, si scoprono difetti nascosti
nei posti più inverosimili. Quindi non consumarti nel desiderio, Kangetsu, mettiti il cuore
in pace e continua a limare le tue biglie».
«Sì, nella misura del possibile vorrei continuare a occuparmi delle mie biglie di vetro»,
risponde Kangetsu a questo consiglio, «ma i Kaneda non mi lasciano in pace, non ne posso
più». Sembra contrariato.
«Già, nel tuo caso è la controparte che si dà un gran da fare, comunque ci sono anche
delle storie comiche. Come quella di Robai, quel tipo strano che è venuto a fare pipì nei
gabinetti della biblioteca».
«Che cos’ha fatto?» chiede il mio padrone ritrovando un certo interesse per la
conversazione.
«Cos’ha fatto? Te lo racconto subito. Una volta, tanto tempo fa, si è fermato a dormire
alla locanda Est-Ovest - una notte soltanto, badate - e la sera stessa ha fatto una proposta
di matrimonio a una delle cameriere. Io riconosco di essere piuttosto superficiale, ma non
arriverei a tanto. Comunque non c’è da stupirsi, perché quella volta alla locanda lavorava
una ragazza famosa per la sua bellezza, una certa O-natsu, e proprio lei era stata assegnata
al servizio della stanza di Robai».
«Non sarà mica una storia come la tua, quando ti sei fermato a dormire al passo di non
so cosa?»
«Be’, una certa somiglianza c’è. Perché a dire la verità io e Robai abbiamo molte cose in
comune. A ogni modo lui ha chiesto a questa O-natsu di sposarlo, e prima ancora di
ricevere la risposta gli è venuta voglia di mangiare un’anguria».
«Di mangiare cosa?» chiede il padrone stupefatto. E non è il solo a mostrare sorpresa,
anche la moglie e Kangetsu piegano la testa di lato, perplessi. Meitei non ci bada e continua
a raccontare imperterrito:
«Ha chiamato O-natsu e le ha chiesto se a Shizuoka si trovavano angurie. O-natsu gli ha
risposto che, anche se erano in provincia, a Shizuoka ce n’erano quante voleva, e gli ha
portato una gran quantità di fette di anguria su un vassoio. Robai le ha mangiate tutte. Ha
fatto fuori una montagna di fette di anguria mentre aspettava la risposta di O-natsu, e
prima di sapere se accettava o no di diventare sua moglie, gli è venuto un mal di pancia
terribile. Ha cominciato a lamentarsi ad alta voce, ma siccome non serviva a niente, ha
chiamato O-natsu e questa volta le ha chiesto se a Shizuoka c’era un medico. «Shizuoka
sarà pure una città di provincia, ma un medico c’è», ha risposto di nuovo lei, ed è andata a
cercare un certo dottor Tenchi Genko. Un nome chiaramente preso dai classici cinesi. Il
mattino dopo, tutto contento di constatare che il mal di pancia era passato, dieci minuti
prima di partire Robai ha chiamato O-natsu e le ha chiesto di dare una risposta alla sua
domanda di matrimonio. Allora O-natsu gli ha detto ridendo che a Shizuoka era possibile
trovare angurie, era possibile trovare un dottore, ma non una moglie nel giro di una notte,
ed è uscita senza farsi più vedere. Da quella volta Robai è rimasto con il cuore infranto,
esattamente come me, e se ormai viene alla biblioteca solo per fare pipì, a pensarci bene è
tutta colpa di quella donna».
«Hai ragione», interviene inopinatamente a suo sostegno il mio padrone, «è proprio
così. Di recente ho letto un libro di de Musset in cui un personaggio, citando un poeta
latino, dice: più leggera di una piuma è la polvere, più leggera della polvere è la brezza,
più leggera della brezza è la donna, più leggera della donna non c’è cosa alcuna . Ben
detto, non trovi? Le donne sono senza speranza». La moglie tuttavia non gli lascia passare
quest’estemporanea esibizione di cultura.
«Critichi le donne per la loro leggerezza, ma cosa c’è di buono nel fatto che voi uomini
siete tanto pesanti?» dice.
«Pesanti? Cosa vuoi dire?»
«Pesanti vuol dire pesanti. Come te».
«Perché sarei pesante io?»
«Perché lo sei».
Una delle solite assurde discussioni tra marito e moglie sta per iniziare. Meitei ascolta
divertito. Alla fine non resiste alla tentazione di dire la sua.
«Il fatto che vi scaldiate tanto, che vi scambiate tutti i momenti critiche e attacchi, prova
che siete davvero una coppia. Nei tempi antichi la vita matrimoniale doveva essere
noiosissima, ne sono convinto».
Non si capisce bene se voglia elogiare il mio padrone e la moglie o burlarsi di loro, ma
sarebbe sufficiente visto che è riuscito a farli smettere. Invece si sente obbligato a
continuare.
«Un tempo di donne che osassero rispondere per le rime al proprio marito non ce
n’erano, cosa che a me non sarebbe piaciuta affatto, tanto valeva avere per moglie una
sordomuta. Preferirei di gran lunga avere a che fare con una donna come lei, signora,
capace di dire al marito che è pesante. Se fossi sposato, mi piacerebbe fare ogni tanto una
bella litigata con mia moglie, altrimenti morirei di noia. Prenda mia madre, per esempio,
davanti a mio padre sapeva soltanto dire «sì» e «va bene». E nei vent’anni in cui hanno
vissuto insieme, credo che sia uscita solo per andare al tempio. È assurdo, non vi pare? In
compenso sapeva a memoria il nome postumo di generazioni di antenati. Tutte le relazioni
tra uomini e donne erano di questo tipo, quando ero bambino era impensabile partecipare
a una serata musicale insieme alla fanciulla amata, o incontrarla in maniera misteriosa
scambiandosi le anime, come fa Kangetsu».
«Che cosa triste…» commenta Kangetsu abbassando il capo.
«Sì, era davvero triste. Inoltre non è detto che le donne di quel tempo si comportassero
meglio di quelle di oggi. Sa, signora, la gente critica tanto le studentesse, dice che sono
delle scostumate, ma una volta le cose andavano molto peggio».
«Davvero?» chiede la padrona interessata.
«Veramente, non sto scherzando. Ne ho persino le prove, quindi nessuno lo può negare.
Kushami, te lo ricordi anche tu, vero? Quando avevamo cinque o sei anni c’erano ancora
degli uomini che andavano in giro a vendere bambine trasportandole come zucche dentro
ceste appese a un basto che portavano sulla spalla. Ricordi?»
«Non ricordo nulla del genere».
«Be’, forse al tuo paese non si faceva, ma a Shizuoka sì».
«Non ci posso credere», commenta la padrona con un filo di voce.
«Sul serio?» chiede scettico Kangetsu.
«Certamente. Una volta anche mio padre ha chiesto il prezzo. A quell’epoca dovevo
avere sei anni. Ero andato con lui a fare una passeggiata ad Aburamachi e passando per
una strada secondaria abbiamo visto un uomo venire verso di noi gridando: «Bambine in
vendita! Bambine in vendita!» Quando siamo arrivati all’angolo del secondo isolato ce lo
siamo trovati di fronte, proprio davanti al negozio di tessuti Isegen. Isegen era il primo
negozio di tessuti di Shizuoka, con dieci vetrine e cinque magazzini. Se avete occasione di
andare a Shizuoka dateci un’occhiata. È un edificio magnifico. Il capocommesso si
chiamava Jinbei. Stava sempre seduto dietro la scrivania, con una faccia da funerale,
neanche gli fosse morta la madre tre giorni prima. Poi c’era un certo Hatsu, poteva avere
ventiquattro o venticinque anni. Aveva il colorito livido, come quei seguaci della setta
Shingon che per ventun giorni si nutrono soltanto dell’acqua di bollitura della pasta.
Accanto a Hatsu c’era Chodon, sempre piegato sul pallottoliere con aria afflitta, si sarebbe
detto che il giorno prima gli fosse bruciata la casa. Vicino a Chodon…»
«Insomma, vuoi parlarci del negozio Isegen o del venditore di bambine?»
«Ah, giusto, stavo parlando del tipo che vendeva bambine. In realtà a proposito di
Isegen ci sarebbe un aneddoto molto curioso, ma per oggi lascerò perdere, mi limiterò alle
bambine in vendita».
«Potresti lasciar perdere anche quelle».
«Cosa dici? È una storia che fornisce materiale di riferimento prezioso per confrontare le
donne di oggi, del ventesimo secolo, con quelle dell’inizio dell’era Meiji. Figurati se lascio
perdere… Dunque, quando siamo arrivati davanti a Isegen, il venditore si rivolge a mio
padre e gli fa: «Signore, queste bambine sono le ultime, ne vuole una? La compri, le faccio
un bello sconto», e mette il basto a terra asciugandosi il sudore. Nelle ceste abbiamo visto
due bambine, una per parte, che avranno avuto circa due anni. «Se mi fa uno sconto, potrei
anche comprarne una, ma ha solo queste?» ha chiesto mio padre. «Mi dispiace, ma oggi le
ho già vendute tutte, me ne sono rimaste solo due», ha risposto l’uomo. «Scelga quella che
vuole, l’una o l’altra è uguale». Ne ha sollevata una e l’ha messa sotto il naso di mio padre,
proprio come se fosse una zucca. Lui le ha dato due o tre colpetti con le nocche sulla testa e
ha detto che faceva un buon suono. Allora sono cominciate le trattative, e quando il prezzo
è sceso di parecchio mio padre ha detto che intendeva comprarla, ma voleva essere sicuro
che la merce fosse di buona qualità. «Sì, per quella davanti posso garantire perché ce l’ho
sotto gli occhi tutto il tempo, ma quella nella cesta dietro, cosa vuole che le dica, non posso
tenerla d’occhio e può darsi che da qualche parte sia incrinata 4. Se la prende, in cambio del
fatto che non è garantita, le faccio uno sconto speciale». Questa risposta la ricordo ancora
adesso, e anche che quel giorno nella mia mente di bambino ho pensato che le donne non
bisogna mai perderle di vista… A ogni modo oggi, nel trentottesimo anno dell’era Meiji,
non c’è nessuno tanto scemo da andare in giro a vendere bambine come quello lì, e non si
sente più dire che quella nella cesta di dietro non è garantita perché non si può tenerla
d’occhio. Quindi sono convinto che grazie all’influenza della civiltà occidentale il
comportamento delle donne sia molto migliorato, tu cosa ne pensi, Kangetsu?»
Prima di rispondere Kangetsu fa un generoso tentativo di schiarirsi la gola, poi dice in
tono forzatamente pacato:
«Le donne di oggi vanno e vengono da scuola, partecipano a serate musicali, a feste di
beneficenza, a riunioni in giardino… In questo modo ci pensano già loro a vendersi, a
trovarsi un acquirente che le apprezzi. Non c’è alcun bisogno di pagare i servizi di un
rigattiere o di un volgare venditore ambulante. Lo spirito d’indipendenza porta a questo
risultato, è un’evoluzione naturale. I vecchi si creano preoccupazioni inutili e si lamentano
di continuo, ma in verità la tendenza della civilizzazione è questa, e io ne sono felice. Lo
trovo un fenomeno positivo e in fondo al cuore me ne rallegro. Anche per quanto riguarda
gli acquirenti possiamo stare tranquilli, non ci sono più bruti che vanno in giro a picchiare
sulla testa della merce per controllarla. In questo mondo complicato, a prendersi il
disturbo di verificare ogni volta, non si finirebbe più, le donne arriverebbero a cinquanta o
sessantanni senza aver trovato marito, resterebbero tutte zitelle».
Dopo aver espresso il suo pensiero illuminato, Kangetsu, che è un giovane del ventesimo
secolo al passo con i tempi, soffia il fumo della sigaretta verso la faccia di Meitei. Ma Meitei
non è uomo da lasciarsi spaventare da qualche sbuffo di fumo.
«Hai ragione, le studentesse e le signorine di oggi l’autostima e la fiducia in se stesse ce
l’hanno nelle ossa, nella carne, ne sono piene fino a scoppiare, non vogliono essere da
meno dei ragazzi e in questo sono ammirevoli. Prendi le ragazze che studiano al liceo
femminile vicino a casa mia, sono molto in gamba. Si infilano delle braghe da contadina e
si appendono a testa in giù alla sbarra fissa, hanno tutto il mio rispetto. Ogni volta che le
guardo dalla finestra del primo piano di casa mia, mi fanno venire in mente le donne della
Grecia antica».
«Ci risiamo con la Grecia!» fa il mio padrone con un sorrisetto ironico.
«Per forza, il senso estetico ha origine principalmente in Grecia, non la si può ignorare.
Un esteta e la Grecia sono due entità inseparabili… Quando vedo quelle ragazze con la pelle
scurita dal sole fare ginnastica tutte infervorate, mi ricordo sempre la storia di Agnodice»,
continua Meitei in tono professorale.
«Di nuovo un nome difficile!» fa Kangetsu sorridendo sarcastico.
«Agnodice era una donna estremamente intelligente, io l’ammiro molto. A quel tempo la
legge ateniese vietava alle donne di fare le levatrici. Una cosa molto poco pratica. Ovvio che
Agnodice si rendesse conto dell’assurdità di questo divieto».
«Chi era questa… ? Questa tale, insomma».
«Una donna. Agnodice è un nome di donna. A forza di riflettere arrivò alla conclusione
che era ridicolo che le donne non potessero diventare levatrici, era una cosa contraria a
ogni buonsenso. E poiché voleva assolutamente fare quel mestiere, rimase per tre giorni e
tre notti a pensare al modo per riuscirci. La sera del terzo giorno, giusto quando nella casa
4
Un episodio molto simile si trova in Gargantua e Pantagruel di Rabelais.
vicina si udì il pianto di un bambino appena nato, di colpo le venne un’idea geniale. Si
tagliò in fretta i lunghi capelli, indossò vesti da uomo, e andò ad ascoltare le lezioni di
Erofilo di Calcedonia. Dopo aver seguito il corso dall’inizio alla fine, ritenne di saperne
abbastanza e iniziò l’attività di levatrice. E bisogna dire, signora, che aveva un gran
successo. Bambini sbraitanti nascevano di qua e di là, tutti grazie ad Agnodice che
guadagnava fior di quattrini. Tuttavia, dato che le sorti umane sono sulle ginocchia di
Giove, che per sette giri ci sono otto cadute e le disgrazie non vengono mai sole, il suo
segreto venne scoperto. Per aver infranto la legge di cui sopra, Agnodice stava per essere
condannata alla pena più severa».
«Un autentico cantastorie…»
«Sono bravo, vero? A ogni modo le donne di Atene unirono le forze per fare appello ai
giudici, i quali non potevano rispedirle a casa con un semplice rifiuto. Risultato, la diretta
interessata se la cavò con un verdetto di non colpevolezza. Venne allora proclamato un
decreto che autorizzava le donne a svolgere la professione di levatrice, e tutti vissero felici e
contenti».
«Certo che sa proprio tante cose, lei, complimenti!»
«Sì, signora, conosco più o meno tutto. Quello che non conosco è soltanto la mia
stupidità. Ma ne ho comunque una vaga idea….»
«Oh, ha sempre voglia di scherzare, lei…» fa la padrona ridendo di cuore. In quel
momento il campanello alla porta si mette a tintinnare, il vecchio suono familiare negli
anni non è cambiato.
«Oh, un altro ospite!» esclama la padrona ritirandosi nel soggiorno. Mi sto chiedendo
chi entrerà al suo posto, quando nella stanza fa il suo ingresso il giovane Ochi Tofu, che già
conoscete. Con il suo arrivo, forse non si può dire che il gruppo di eccentrici che
frequentano la casa del mio padrone sia al completo, ma per lo meno sono riuniti tutti
quelli in grado di alleviare la noia di un gatto, lo ammetto. Dire che non mi bastano sarebbe
davvero scortese. Se avessi la disgrazia di vivere presso un’altra famiglia, alla fine di
un’esistenza passata in mezzo agli esseri umani sarei probabilmente morto senza sapere
che ci sono al mondo persone di tanto valore. Ma per fortuna sono stato adottato dal
professor Kushami, e stando dal mattino alla sera vicino a lui, ho l’immenso privilegio di
poter osservare il comportamento di questo gruppo di eroi, di cui non si trovano gli eguali
in tutta l’immensa Tokyo: il mio padrone innanzitutto, ma anche Meitei, Kangetsu e Tofu.
Grazie a loro, malgrado il caldo riesco a dimenticare il disagio che mi procura la pelliccia
che ho addosso, e a passare in maniera divertente metà della giornata: hanno tutta la mia
gratitudine. In ogni caso, quando si riuniscono in tanti, è difficile che non succeda qualcosa
di singolare. Mi metto discretamente in attesa nel mio posto di osservazione, dietro i
fusuma.
«È da tanto che non venivo a farle visita», saluta Tofu, e si inchina lasciando vedere la
scriminatura che gli divide i capelli. A giudicare soltanto dalla testa, lo si potrebbe prendere
per un attore di terz’ordine, ma il fatto che indossi un formale hakama bianco inamidato con un certo disagio pare - fa pensare piuttosto a un allievo della scuola di scherma fondata
dal fu Sakakibara Kenkichi. L’unica parte normale del suo corpo è quella compresa tra le
spalle e le reni.
«Che bravo, sei venuto con questo caldo! Su, entra», lo accoglie Meitei, che ormai fa il
padrone di casa.
«È da tanto che non la vedo, professore».
«È vero. Dalle sedute di lettura di questa primavera. A proposito, come vanno di questi
tempi le riunioni? Dopo quella volta hai ancora recitato la parte di una prostituta d’alto
bordo? Sei stato bravissimo. Ti ho applaudito freneticamente, te ne sei accorto?»
«Sì, mi ha dato coraggio, grazie a lei sono riuscito ad arrivare fino alla fine».
«Quando sarà la prossima seduta?» chiede il padrone.
«Per tutta l’estate ci riposiamo, ma in settembre volevamo leggere qualcosa di allegro.
Ha qualcosa di divertente da suggerire?»
«Mah…» risponde il padrone con poco interesse.
«Perché non provi uno dei miei drammi?» interviene questa volta Kangetsu.
«Un’opera tua dev’essere di sicuro interessante, di cosa si tratta?»
«Di un’opera teatrale», risponde Kangetsu con aria d’importanza. Come si aspettava, gli
altri tre, quasi si fossero messi d’accordo, si voltano a guardarlo trasecolati.
«Fantastico! è una commedia o un dramma?» chiede Tofu spezzando il silenzio.
«Né un dramma né una commedia. Negli ultimi tempi sia i sostenitori del teatro classico
che quelli del teatro moderno non sono mai contenti, così ho pensato di inventare un
genere nuovo, il dramma-haiku».
«Il dramma-haiku? E che cos’è?»
«Un dramma pervaso dall’atmosfera di un haiku. Ho abbreviato la definizione in due
parole». A questa spiegazione di Kangetsu il mio padrone e Meitei, disorientati, non fanno
commenti.
«E qual è la trama?» si informa di nuovo Tofu.
«Dal momento che l’atmosfera dev’essere quella di un haiku, ho pensato che l’eccessiva
lunghezza, o l’eccessiva tortuosità, fossero sconsigliabili, e ho deciso di limitarmi a un solo
atto».
«Giusto».
«Lasciatemi prima descrivere l’ambientazione, anche questa deve essere molto semplice.
In mezzo al palcoscenico c’è un grande salice. Uno dei rami del salice si protende diritto
verso destra, e sul ramo c’è un corvo».
«Speriamo che se ne stia tranquillo», borbotta preoccupato il padrone.
«Niente paura, le zampe del corvo saranno legate al ramo con del filo. Sotto il ramo c’è
una tinozza piena d’acqua. Nella tinozza una bellissima donna messa di profilo si sta
lavando».
«Questa scena mi sembra un po’ decadente. Tanto per cominciare, chi è che farà la parte
della donna?» chiede Meitei.
«Per questo non c’è problema, basta far venire una modella della Scuola d’Arte».
«La sezione Buon Costume della Polizia può crearvi un sacco di grane». Di nuovo il mio
padrone sembra preoccuparsi.
«No, se non è una rappresentazione pubblica non dicono niente. Se fossero così
intransigenti, nelle accademie non si potrebbero fare schizzi di nudi».
«Ma nelle accademie si studia, non si sta soltanto a guardare, è diverso».
«Tante obiezioni da parte di voi professori non me le aspettavo, è proprio vero che in
Giappone siamo ancora indietro. Pittura o teatro che sia, non si tratta sempre di arte?»
chiede Kangetsu infervorato.
«Lasciamo perdere le discussioni teoriche, poi cosa succede?» Tofu, forse intenzionato a
rappresentare il dramma, vuole conoscere il seguito.
«A questo punto dalla passerella entra in scena il poeta Takahama Kyoshi 5, un bastone
in mano, un cappello estivo bianco in testa. Indossa un haori di garza di seta e un kimono
5
Takahama Kyoshi (1874-1959), uno dei maggiori poeti dell’epoca, noto soprattutto come compositore di haiku.
bianco di cotone di Satsuma con il bordo inferiore sollevato e infilato nella cintura. Ai piedi
ha degli stivaletti. Dall’abbigliamento si direbbe un fornitore dell’esercito, invece è un
poeta e deve camminare con indolenza, l’aria ispirata, come assorto nella composizione di
un haiku. Quando ha percorso tutta la passerella ed entra finalmente nel palcoscenico vero
e proprio, alza gli occhi e davanti a sé cosa vede? Un grande salice, e all’ombra del salice
una giovane donna dalla pelle candida che si fa il bagno. Sorpreso guarda in alto: su un
lungo ramo un corvo sta osservando la donna. Qui Kyoshi si ferma cinque secondi, per far
capire che è in preda all’emozione, poi declama con voce ferma:
Un corvo innamorato
di una donna
che fa il bagno?
Subito dopo questa frase il pubblico applaude e cala il sipario. Eh, che te ne pare? Bel
soggetto, non Ti piace? Molto meglio interpretare la parte di un poeta che quella di una
prostituta, non credi?»
Il giovane Tofu però non sembra soddisfatto.
«Be’, è un po’ troppo corto. Ci vorrebbe un po’ più di azione, un po’ più di sentimento»,
risponde con la massima serietà. Meitei però, che finora si è tenuto relativamente
tranquillo, non è uomo da starsene zitto a lungo.
«Così questo sarebbe un dramma-haiku? Tutto qui? Ma è terribile! Secondo Ueda Bin 6
l’atmosfera poetica e la comicità sono elementi negativi, al pari del ritornello sulla rovina
del paese, e ha detto una cosa giusta, come sempre. Prova a rappresentare una roba del
genere davanti a Ueda, ti coprirebbe di ridicolo. Tanto per cominciare, ha una dimensione
negativa e non si capisce se si tratti di un dramma o di una farsa, non credi? Scusami,
Kangetsu, ma è molto meglio che tu continui a limare biglie di vetro nel laboratorio
dell’università. Di drammi-haiku puoi scriverne quanti ne vuoi, ma se annunciano la
rovina del tuo paese, non ci siamo»
«Davvero lo interpreta negativamente?» chiede Kangetsu un po’ offeso, poi cerca di
difendere la sua insignificante creazione: «Nelle mie intenzioni aveva una sua positività
Vede, tutto sta in Kyoshi. Kyoshi, dicendo un corvo innamorato di una donna, cioè
supponendo che un corvo si sia innamorato di una donna, ha un’intuizione molto
positiva».
«Questa sì che è una teoria nuova. Esigiamo spiegazioni».
«Ecco, per me, che sono laureato in una materia scientifica, l’idea che un corvo si
innamori di una donna è del tutto irrazionale».
«Per l’appunto».
«Però quest’idea irrazionale, espressa in maniera semplice, spontanea, non sembra
diventare possibile?»
«Mah…!» interviene il mio padrone con aria molto dubbiosa, ma Kangetsu non gli bada:
«E perché sembra diventare possibile? La psicologia ce lo spiega in maniera molto
convincente. In realtà l’innamoramento è un’emozione che appartiene al poeta stesso, non
ha alcuna relazione con il corvo. Di conseguenza è assurdo discutere sul fatto che quel
corvo sia o meno innamorato, insomma discutere sul corvo, chi è innamorato è il poeta. È
chiaro che Kyoshi, nel momento in cui vede quella bella donna che fa il bagno, resta
folgorato e si innamora all’istante. E vedendo con i suoi occhi innamorati il corvo sul ramo
che guarda fisso in basso… Ah, pensa, anche quello lì, come me, ha perso la testa. È ovvio
6
Ueda Bin (1874-1916), allievo di Lafcadio Hearn, si distinse soprattutto come traduttore di poeti inglesi e francesi.
che si sbaglia, ma proprio lì sta la dimensione letteraria, la positività. La facilità con cui
trasferisce sul corvo qualcosa che sente soltanto lui non è estremamente positiva? Cosa ne
pensa, professore?»
«Bravo, è un argomento valido. Se ti sentisse Kyoshi, ne sarebbe sicuramente colpito. La
spiegazione sarà anche positiva, ma il giorno in cui metteste sul serio in scena quella roba,
gli spettatori ne avrebbero un’impressione negativa. Vero, Tofu?»
«Sì, lo penso anch’io», risponde Tofu con grande serietà.
«Dimmi, Tofu, di recente hai per caso scritto qualche capolavoro?» chiede di punto in
bianco il padrone, che non sembra molto interessato alla discussione.
«No, nulla che sia degno di nota. Ma l’altro giorno mi è venuto in mente che potrei
pubblicare una raccolta di poesie. Per caso ho con me il manoscritto, potrebbe darmi il suo
parere?» Tirato fuori dal kimono un pacco avvolto in carta violetta, Tofu ne estrae un
quaderno da composizione di una cinquantina di fogli e lo posa di fronte al mio padrone.
«Permetti», fa lui prendendo in mano la prima pagina con aria solenne.
All’incomparabile Tomiko, la più fragile fra le creature
Alla vista delle due prime righe, resta a osservare la pagina con un’espressione così
meravigliata che Meitei non resiste e chiede:
«Cos’è? Poesia moderna?» Poi sbirciando di lato: «Oh, ma è dedicata alla signorina
Tomiko! E bravo Tofu, tu sì che hai coraggio!» E continua a guardare.
«Senti, Tofu», chiede ancora il mio padrone, «questa Tomiko è una persona che esiste in
carne e ossa?» Sembra molto perplesso.
«Sì, è una delle signorine che ho invitato alla nostra ultima rappresentazione, insieme al
professor Meitei. Vive qui vicino. In realtà sono appena passato da lei, pensavo di
mostrarle la mia raccolta di poesie, ma non c’era, mi hanno informato che la famiglia dal
mese scorso è in villeggiatura a Oiso», risponde Tofu nel tono più innocente.
«Kushami, siamo nel ventesimo secolo. Invece di fare quella faccia, perché non leggi il
capolavoro? Però, Tofu, permettimi di dirti che questa dedica non è delle più felici. Questo
«fragile», in che senso lo intendi?»
«Nel senso di delicata, dolce».
«Capito. Sì, si può anche intendere così, ma il senso proprio direi che è «debole». Io non
avrei usato questa parola».
«Allora cosa dovrei scrivere per rendere la dedica più poetica?»
«Be’, questo per esempio: All’incomparabile Tomiko, la più fragile fra le creature, a
parte il naso. Ci sono solo quattro parole in più, ma la presenza o meno di a parte il naso
fa una differenza enorme».
«In effetti», risponde Tofu, che pare aver capito la spiegazione e condividere l’idea di
Meitei.
Finalmente il padrone, dopo aver contemplato a lungo il fascicolo, inizia a leggere il
primo capitolo:
Nell’aroma dell’incenso che brucio per noia,
è la tua anima che esala il fumo del nostro amore?
Oh io, ah io, in questo mondo amaro,
ho solo la dolcezza del tuo bacio ardente.
«Questo è un po’ al di là della mia comprensione», commenta con un sospiro mentre
passa il manoscritto a Meitei.
«Mah, soprattutto direi che è troppo ostentato», fa Meitei passandolo a sua volta a
Kangetsu.
«Proprio così», concorda secco Kangetsu, e restituisce il I manoscritto a Tofu.
«È comprensibile che voi signori professori non capiate questo genere di poesia. In dieci
anni il mondo poetico ha compiuto una tale evoluzione che non lo riconoscereste. La poesia
attuale non è qualcosa che si possa leggere sdraiati sui tatami o alla fermata del tram,
succede spesso che un autore abbia difficoltà a spiegare i suoi stessi versi. Solo l'ispirazione
conta, tutto il resto non deve importare al poeta. Analisi e recensioni noi le lasciamo ai
critici professionisti, ci sono del tutto indifferenti. Di recente un mio amico, un certo
Soseki, ha scritto un racconto breve intitolato Una notte7, un’opera così confusa che
nessuno ci capisce niente, allora quando ho incontrato l’autore gli ho chiesto quali fossero i
passaggi significativi. Sapete cosa mi ha risposto? Che non ne aveva la più pallida idea e
non gliene importava nulla. Un atteggiamento tipico del poeta moderno».
«Sarà anche un poeta, ma di sicuro è un tipo strano, quello lì», commenta il mio
padrone.
«Un cretino», sentenzia Meitei, liquidando in due parole il povero Soseki.
Ciononostante Tofu continua a perorare la propria causa: «Comunque Soseki non fa parte
del nostro gruppo di amici, vi prego di considerare la mia poesia per quello che è.
Soprattutto richiamo la vostra attenzione sul contrasto tra l’amarezza di questo mondo e la
dolcezza che ho trovato in un bacio… Su questo punto ho penato parecchio».
«Sì, decisamente le tracce di questa fatica si vedono».
«La contrapposizione tra amaro e dolce è molto interessante, è come se tu avessi messo
un po’ di pepe sulle diciassette sillabe di un haiku», fa Meitei che si diverte a prendere in
giro quel ragazzo per bene. «Riconosco qui il talento particolare del nostro Tofu, che
merita tutto il nostro rispetto».
In quel momento il padrone, mosso da chissà quale proposito, improvvisamente si alza e
sparisce nello studio, per tornare poco dopo con un foglio di carta in mano.
«Visto che abbiamo sentito la poesia di Tofu, ora se permettete vi leggerei questa mia
composizione e vi chiederei di darmi la vostra illustre opinione», dice. Non mi pare che stia
scherzando.
«Se si tratta dell'epitaffio per la lapide di Tennenkoji, il laico santo e ragionevole, me lo
sono già sorbito due o tre volte».
«Vuoi farmi il piacere di stare zitto? Tofu, non è nulla di speciale, è una cosetta che mi
sono divertito a buttare giù, ma ti prego di ascoltare».
«Certo, con grande piacere».
«Anche tu, Kangetsu, ascolta già che ci sei».
«Già che ci sono? Ma ci tengo moltissimo, sono tutt’orecchi! Non è una cosa molto
lunga, vero?»
«No, una sessantina di parole al massimo», taglia corto il padrone e inizia subito a
leggere la nobile prosa di sua composizione:
Spirito di Yamato! gridano i giapponesi tossendo come tisici.
«Fortemente incisivo, questo sì che scuote il pubblico», lo elogia Kangetsu.
7
Titolo di un racconto che Soseki pubblicò nel 1905-Qui però «Soseki» è scritto con ideogrammi diversi da quelli che
compongono il nome dell’autore.
Spirito di Yamato! dicono i giornali. Spirito di Yamato! dicono i borsaioli. Lo spirito di Yamato con
un balzo solo ha attraversato il mare. Su di esso si tengono conferenze in Inghilterra. Mentre in
Germania lo si rappresenta a teatro.
«Però, è addirittura superiore all'epitaffio per Tennenkoji», commenta Meitei alzando la
testa.
L’ammiraglio Togo possiede lo spirito di Yamato. Al pari di lui lo possiede il droghiere. E il
falsario, il truffatore, l’assassino, tutti hanno lo spirito di Yamato.
«Professore, scriva che ce l’ha anche Kangetsu, per favore», suggerisce Kangetsu.
Se chiedete loro in cosa consista, lo spirito di Yamato, vi rispondono: ovviamente è lo spirito di
Yamato, e se ne vanno. E dopo che si sono allontanati di qualche passo, li si sente schiarirsi la gola.
«Questa frase ti è venuta benissimo. Lo sai che hai un grande talento, Kushami? Forza,
continua!»
È triangolare, lo spirito di Yamato? È quadrato? Lo spirito di Yamato, come dice il nome stesso, è
puro spirito. Di conseguenza lo spirito di Yamato è qualcosa di vago, di inconsistente.
«Professore, è davvero strepitoso, ma non ci sono un po’ troppi spirito di Yamato?»
obietta con prudenza Tofu.
«Pienamente d’accordo». Questa è ovviamente la voce di Meitei.
Tutti ne hanno parlato, ma non c’è nessuno che l’abbia visto. Tutti ne hanno sentito parlare, ma
non c’è nessuno che l’abbia incontrato. Che sia soltanto un tengu?
Il mio padrone termina la lettura con un’enfasi carica di aspettativa, ma gli altri tre,
forse perché non prestavano molta attenzione, restano in attesa del seguito, forse trovano
la composizione un po’ corta. I secondi passano, ma dal mio padrone non arriva più un
suono.
«È tutto qui?» chiede allora Kangetsu.
«Mmh», risponde con noncuranza il padrone. Un po’ troppa noncuranza.
Stranamente, Meitei ha evitato di lanciarsi nelle sue solite divagazioni durante la lettura
dell’opera. Ora però recupera.
«Perché non scrivi anche tu una raccolta di pezzi brevi e la dedichi a qualcuno?»
suggerisce.
«Sì, potrei dedicarla a te», ribatte il padrone.
«Ci mancherebbe altro!» fa Meitei, e subito comincia a tagliarsi le unghie con il
temperino con cui poco fa aveva voluto impressionare la padrona.
A questo punto Kangetsu si volta verso Tofu.
«Non sapevo che conoscessi la figlia dei Kaneda…» gli dice.
«Questa primavera, dopo la famosa riunione di lettura, siamo diventati amici e da allora
ci vediamo spesso. Quando mi trovo davanti a quella ragazza provo sempre una certa
emozione, e nel mio entusiasmo incontenibile riesco a comporre su due piedi una poesia, in
qualunque stile. Se in questa raccolta le poesie d’amore sono molte, è perché sono stato
fortemente ispirato da quest’amica del gentil sesso, credo. E poiché sento il dovere di
esprimerle tutta la mia gratitudine, non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di dedicarle la
mia opera. Fin dai tempi antichi, solo chi aveva un’amicizia femminile ha scritto poesie di
grande valore».
«Davvero?» commenta Kangetsu, un’espressione divertita in fondo agli occhi.
Una riunione di affabulatori, tuttavia, non può durare più di tanto, e il fuoco della
conversazione si è quasi spento. Anch’io, non avendo l’obbligo di ascoltare fino a sera i loro
vaniloqui sempre uguali, tolgo il disturbo e passo nella veranda, in cerca magari di una
mantide. I raggi del sole calante filtrano attraverso il fogliame di una paulonia verde
proiettando macchie sul terreno, sul tronco dell’albero le cicale cantano con tutta l’anima.
Chissà, forse stasera pioverà.
7
Di recente ho iniziato a fare un po’ di esercizio fisico. Chi ha mai sentito di un gatto che
fa dell’esercizio! diranno in tanti beffandosi di me, ma a costoro vorrei rammentare che
fino a pochi anni fa non sapevano nemmeno che lo sport esistesse, e ritenevano che il solo
scopo della vita fosse mangiare e dormire. Sostenevano che quanto più irrilevanti erano i
loro pensieri, quanto più cieche le loro azioni, tanto più si elevavano le loro anime.
Dovrebbero ricordare che passavano le loro giornate con le mani in mano, il posteriore
incollato a marcire su un cuscino, vantandosi di un’inerzia totale che andava a gloria del
loro signore. Il bisogno continuo di fare esercizio, bere latte, fare docce fredde, e in estate
tuffarsi in mare o andarsi a seppellire in montagna per nutrirsi praticamente d’aria, è una
sorta di malattia che dall’Occidente si è propagata negli ultimi anni in questo nostro paese
degli dei, una malattia della stessa famiglia della peste, della tubercolosi e della
nevrastenia, sarebbe bene rendersene conto. Io sono troppo giovane per ricordare quando
la gente ha cominciato a soffrire di questi mali - essendo nato solo un anno fa, all’epoca
non venivo ancora sballottato in questo mondo effimero - ma posso affermare che un anno
di un gatto ne vale dieci di una persona. La nostra esistenza è due volte, se non tre, più
corta di quella degli esseri umani, ma considerando che in questo breve arco di tempo un
gatto raggiunge il suo pieno sviluppo, calcolare la durata della vita umana e di quella felina
con lo stesso metro è un grave errore. Tanto per cominciare, io che ho un anno e qualche
luna sono già in possesso di un vasto sapere, mentre la figlia minore del mio padrone, che
ne compirà tre quest’anno, se venisse valutata dal suo livello di conoscenze, verrebbe
giudicata una ritardata mentale. Sa solo piangere, fare pipì nel letto e succhiare il latte della
madre. In confronto a me, che mi indigno e mi preoccupo per il decadimento della società,
è di una puerilità desolante. Perché sorprendersi dunque che io abbia immagazzinato nella
memoria la cronistoria della ginnastica, del nuoto e del giovamento che arreca il
cambiamento di clima? Se c’è qualcuno che si meraviglia per così poco, non può essere che
uno di quegli imbecilli cui mancano due zampe, un uomo. Gli esseri umani sono sempre
stati stupidi. È questa la ragione per cui solo di recente hanno cominciato a vantare l’utilità
dell’esercizio fisico e i benefici del nuoto, e a considerarli una grande invenzione. Tutte cose
che io sapevo benissimo già prima di nascere. Innanzitutto basta andare al mare per capire
per quale motivo fare una nuotata giovi alla salute. In quell’immensità liquida c’è una
quantità innumerevole di pesci, ma nulla prova che uno di loro sia mai caduto malato o
abbia mai dovuto consultare un medico. Tutti nuotano beati in piena salute. Nel caso si
ammalino, non riescono più a muoversi e di conseguenza vengono a galla, sempre. Per
questo si dice che la morte dei pesci è un’ascensione mentre quella degli uccelli è una
caduta; quanto agli uomini, se uno di loro passa a miglior vita si dice semplicemente che è
crepato. Ora provate a chiedere a qualcuno che è stato all’estero, che ha attraversato
l’Oceano Indiano, se ha mai visto un pesce morto, nessuno vi risponderà di sì. Per forza.
Perché nemmeno andando avanti e indietro in continuazione si vedrà mai galleggiare sulle
onde un pesce che abbia appena esalato il suo ultimo respiro - anzi, trattandosi di un pesce
dovrei dire buttato fuori la sua ultima sorsata d’acqua. In quella sconfinata vastità dove
non esiste né giorno né notte non si è mai trovato, né si troverà mai, un pesce venuto a
galla, nemmeno a fare il giro dei mari a forza di carbone, dunque si può saltare alla
conclusione che i pesci sono creature estremamente robuste. E perché sono tanto robusti?
Anche questa risposta è ovvia, ma non aspettatevela da un essere umano. Perché bevono
solo acqua salata e fanno di continuo il bagno nel mare. I pesci traggono un benefìcio
immenso dall’acqua di mare. E se giova ai pesci, figuriamoci alle persone! Tuttavia solo nel
1750 un certo dottor Richard Russel annunciò con grande enfasi che tuffandosi nel mare di
Brighton si poteva guarire da quattrocentoquattro malattie, come non ridere di un simile
ritardo? Anche noi gatti, quando arriverà il nostro momento, abbiamo intenzione di recarci
in massa a Kamakura. Ma non è ancora giunta l’ora, ogni cosa a suo tempo. I giapponesi
vissuti prima della Restaurazione sono morti senza conoscere i benefici dei bagni di mare,
quindi anche noi gatti è meglio che attendiamo il momento opportuno per tuffarci nudi
nelle onde. La fretta è cattiva consigliera. Finché i nostri fratelli portati a Tsukiji e buttati in
acqua ad affogare non saranno capaci di tornare sani e salvi a casa, non è prudente per noi
provare a nuotare. Finché le leggi dell’evoluzione non avranno dotato noi gatti della forza
di resistere alla furia delle onde - in altre parole finché invece di dire che un gatto è morto
non si dirà che è asceso - non potremo gustare i piaceri della balneazione.
Ho quindi deciso di rimandare a più tardi i bagni di mare e accontentarmi per ora di fare
movimento. In questo ventesimo secolo chi non allena il fisico si crea una pessima
reputazione e passa per un pezzente. Di lui si penserà che non ha i mezzi o il tempo di farlo.
Verrà bollato come un poveraccio che non dispone della minima libertà. In passato chi
faceva movimento veniva preso per il galoppino di un samurai e guardato dall’alto in
basso; oggi è il contrario, chi non si esercita viene tenuto in poco conto. La considerazione
di cui godiamo varia con la rapidità con cui i miei occhi reagiscono alla luce. Con la
differenza che le mie pupille possono soltanto allargarsi o restringersi, mentre il giudizio su
una persona cambia dal bianco al nero per le ragioni più banali. È inevitabile, perché ogni
cosa ha due facce, e due estremi. Ora se gli esseri umani possono prenderle entrambe in
considerazione e dare giudizi tanto discordanti su uno stesso fenomeno, è perché sono
dotati di un’immensa capacità di adattamento. È affascinante vedere come il significato
delle parole cambi invertendo l’ordine degli ideogrammi da cui sono composte. E
guardando il paesaggio di Ama no Hashidate1 all’incontrario, a testa in giù attraverso le
proprie gambe, se ne ha un’impressione del tutto diversa. Da sempre Shakespeare è
Shakespeare, ma se non ci fosse qualcuno capace di giudicare Amleto con criteri originali e
dire «non mi piace», la cultura non farebbe progressi. Ecco perché tutti coloro che prima
svalutavano l’esercizio fisico tutt’a un tratto muoiono dalla voglia di fare sport, persino le
donne vanno in giro con una racchetta da tennis sotto il braccio senza destare meraviglia
alcuna. Non ho obiezioni nella misura in cui nessuno si fa beffe di me sostenendo che il
movimento non ha mai giovato ai gatti. In molti si chiederanno tuttavia che genere
d’attività ci sia consona. Ve lo spiego volentieri.
Come certo saprete, per me è impossibile tenere un attrezzo fra le zampe, di
conseguenza ho una certa difficoltà a maneggiare una palla o un bastone. E anche se ci
riuscissi, non potrei comprarli per mancanza di denaro. Per queste due ragioni devo
limitarmi a esercizi che non costino e non richiedano alcun tipo di attrezzatura. In tal caso,
penserete forse, posso soltanto camminare a passo veloce o scappare a gambe levate con
una fetta di tonno fra le fauci. Ora, spostarmi sul terreno muovendo semplicemente le
quattro zampe, seguendo le leggi della dinamica e della gravità, è troppo facile per
presentare un qualche interesse. Mi ricorderebbe i movimenti che esegue ogni tanto il mio
padrone, gesti puramente simbolici che offendono la dignità dell’esercizio fisico. È ovvio
che non c’è nulla di male nel semplice movimento se è giustificato da uno scopo.
1
Luogo sul Mar del Giappone, nella provincia di Kyoto, considerato uno dei più belli del paese. La tradizione vuole che lo si
guardi a testa in giù.
Competere per un pezzo di tonno o andare in cerca di salmone sono attività lodevoli, ma
solo in quanto perseguono un obiettivo importante, eliminato il quale diventano vuote e
perdono ogni attrattiva. Se non c’è in gioco una posta allettante, preferisco fare degli
esercizi che richiedano una certa abilità. Ne ho pensati diversi. Saltare dal tetto della cucina
su quello di casa, stare fermo con tutte e quattro le zampe su una delle tegole a forma di
fiore di prugno che chiudono il colmo del tetto, camminare sulla pertica di bambù dove si
stende la biancheria - cosa che mi riesce raramente perché le unghie non fanno presa sulla
superficie dura e scivolosa del bambù - saltare all’improvviso sulla schiena di una delle
bambine… Questo è uno degli esercizi più divertenti, ma se mi prendono mi conciano per le
feste, quindi lo provo al massimo tre volte al mese, e con estrema prudenza. C’è anche il
gioco di infilare la testa in un cartoccio, ma la sofferenza è tale che annulla tutto il piacere.
E soprattutto, altro aspetto negativo di quest’esercizio, per eseguirlo con successo è
necessaria la collaborazione di una persona. Un diverso genere di ginnastica consiste nello
strappare con le unghie la copertina di carta dei libri… ma a parte il pericolo che il padrone
mi scopra, nel qual caso me le suona senza pietà, è solo una prova di relativa abilità per le
mie zampe, non fa lavorare tutti i muscoli del corpo. Questi sono gli esercizi tradizionali
che possono fare i gatti. Fra quelli moderni, alcuni hanno veramente un significato
profondo. Primo fra tutti, la caccia alle mantidi religiose.
La caccia alle mantidi non comporta il dispendio di energia della caccia ai topi, ma in
compenso è molto meno pericolosa. Come sport da praticare tra la fine dell’estate e l’inizio
dell’autunno, è l’ideale. Il metodo è il seguente: prima di tutto vado in giardino a scovare
una mantide. Se il tempo è bello, trovarne una o due non è un’impresa. Scelta la mantide,
le piombo accanto in un baleno. Lei si mette subito in posizione di difesa, tirando su la
parte superiore del corpo dalla tipica forma a collo d’oca. Le mantidi sono piccole ma
coraggiose, pronte a reagire anche senza conoscere la forza dell’avversario, per questo sono
divertenti. Con la zampa anteriore destra do alla bestiola qualche colpetto sulla testolina. Il
collo, che è molto flessibile, si piega subito di lato. L’espressione di forte stupore che
assume la mantide in questo momento è veramente interessante. Con un balzo mi metto
dietro di lei e le gratto piano piano le ali che tiene prudentemente ripiegate sulla schiena.
Se gratto forte però si aprono di colpo, lasciando intravedere al centro un secondo abito di
un bel giallo. È proprio una stravagante, la mantide, per mettere due kimono uno sull’altro
anche in estate. A questo punto gira invariabilmente la testa e il lungo collo verso di me.
Qualche volta mi viene contro, ma per lo più resta semplicemente ferma così, con il collo
eretto. Sembra che aspetti che io faccia la prima mossa. Poiché mantenere troppo a lungo
questa posizione non serve ai fini dell’esercizio fisico, non attendo molto per darle un altro
colpetto. Il che dovrebbe bastare a qualunque mantide con un po’ di sale in zucca per
darsela a gambe. Invece ci sono mantidi barbare e prive di educazione che hanno
l’impudenza di avanzare contro di me. Quando ho a che fare con una di queste zotiche,
aspetto che attacchi, poi con una sberla la faccio volare a un metro di distanza e anche più.
Se però l’avversaria fa la brava e batte in ritirata, mosso a pietà vado a fare due o tre giri di
corsa intorno a un albero del giardino, come un uccello svolazzante. Peccato che la mantide
riesca ad allontanarsi solo di pochi centimetri. Ormai ha capito qual è la mia forza e non
osa più affrontarmi. Cerca soltanto di fuggire barcollando a destra e a sinistra, ma io le sto
addosso dai due lati, così alla fine per l’angoscia sbatte le ali in un ultimo tentativo di
scappare.
Ora dovete sapere che le ali di una mantide sono molto lunghe e strette, come il collo,
ma hanno una funzione puramente ornamentale, non sono di alcuna utilità pratica.
Esattamente come l’inglese, il francese o il tedesco per gli esseri umani. Di conseguenza
agitarsi e tentare di servirsi di queste cose lunghe e inutili per difendersi da me non serve a
nulla. Ho detto agitarsi, ma in realtà tutto quel che la mantide riesce a fare è camminare
trascinando le ali a terra. Mi fa un po’ pena, povera bestiola, ma non è colpa mia se devo
esercitare i muscoli, quindi le chiedo perdono e in un balzo sono di fronte a lei. Per natura
la mantide non è in grado di girare su se stessa, può soltanto avanzare verso di me, che le
do una zampata sul naso. Lei cade di lato con le ali aperte. Io la tengo schiacciata a terra
con una zampa e prendo il tempo di tirare il fiato. Poi la lascio di nuovo andare. La
riacchiappo posandole sopra le zampe anteriori. Il mio attacco si basa sulla celebre tattica
dello stratega cinese Kung Ming, che consisteva nel lasciar andare il nemico sette volte per
catturarlo nuovamente altre sette volte. Ripeto questa manovra per una trentina di minuti,
e quando vedo che la mantide non riesce più nemmeno a muoversi, la prendo in bocca e la
scuoto un po’. Poi la sputo. Questa volta resta distesa a terra, immobile. Provo a urtarla con
la zampa. Per effetto della spinta cerca ancora di sollevarsi, ma io la schiaccio subito. A
questo punto ormai sono stufo, l’addento e me la pappo in qualche boccone. Visto che ci
sono, vorrei informare le persone che non hanno mai mangiato una mantide che non è
affatto buona. Anche il valore nutritivo pare che sia minimo.
Dopo le mantidi, un altro esercizio è catturare le cicale. Dico cicale per semplicità, ma ne
esistono diverse specie. Come fra gli esseri umani ce ne sono di grassi, di forti e di
rumorosi, così fra le cicale abbiamo quelle grosse e scure, quelle robuste e quelle canterine.
Le prime sono molto cocciute, meglio lasciarle perdere. Ancora peggio quelle robuste,
arroganti come sono. Le uniche divertenti da catturare sono le canterine. Lo si può fare
solo verso la fine dell’estate. Quando un soffio di vento autunnale si insinua nel kimono e
viene ad accarezzare la pelle, provocando il primo starnuto di un raffreddore, ecco che
iniziano a frinire drizzando fieramente la coda. Lo fanno con tanta energia che dal mio
punto di vista potrei pensare che cantino per provocare noi gatti, che sia il loro unico scopo
nella vita. Sono loro che acchiappo all’inizio dell’autunno nell’esercizio che si chiama
«caccia alla cicala». Vi avverto subito che in nessun caso le cicale si trovano per terra,
quelle cadute a terra sono sempre coperte di formiche. Io non mi interesso a queste cicale
finite nel territorio delle formiche, catturo quelle che stanno sui rami alti degli alberi, a
cantare a squarciagola il loro oshii-tsuku-tsuku. A questo proposito, vorrei chiedere agli
specialisti se le cicale dicono oshii-tsuku-tsuku oppure tsuku-tsuku-oshii. Credo che la
risposta possa pesantemente influenzare il futuro degli studi in materia. Dal momento che
gli studi sono il solo campo in cui gli uomini sono superiori a noi gatti - cosa di cui vanno
tanto orgogliosi - se non possono rispondermi subito, vorrei che almeno ci riflettessero su.
Naturalmente la questione non ha alcun nesso con il mio esercizio della caccia alla cicala,
io devo soltanto arrampicarmi su un albero verso il punto da dove arriva la voce e
piombare sulla cicala che canta trasognata con tutta l’anima. Detto così sembra
semplicissimo, ma c’è da rompersi le ossa. Finché si tratta di camminare sulla terra,
essendo provvisto di quattro zampe non penso di essere inferiore ad alcun animale. Per lo
meno non inferiore agli uomini, se giudichiamo in base alle nostre conoscenze
matematiche, che vogliono che quattro sia il doppio di due. Ma quando si tratta di scalare
un albero, ci sono molte creature più abili di me. A parte le scimmie, che sono delle
professioniste, anche gli uomini - che dalle scimmie discendono - non sono da
sottovalutare. Fondamentalmente si tratta di uno spostamento forzato, contrario alla legge
di gravità, quindi non c’è da vergognarsi se non si è portati per questo esercizio, però nella
caccia alle cicale si parte svantaggiati. Per fortuna quegli ottimi strumenti di cui sono
dotato -le unghie - bene o male mi permettono di arrampicarmi, ma vi assicuro che non è
facile come potrebbe sembrare. Tanto più che le cicale, contrariamente alle mantidi,
volano. E una volta che hanno preso il volo, vanificano tutta la pena che mi sono dato per
salire sull’albero, pena che mi potevo risparmiare: purtroppo sono disgrazie che capitano.
Infine c’è il rischio che la cicala mi faccia la pipì in testa. Ogni volta sembra che prenda di
mira proprio i miei occhi. È comprensibile che voglia scappare, ma vorrei che mi
risparmiasse la pipì. Mi domando quale fattore psicologico influisca su quale organo per
indurre le cicale a urinare prima di prendere il volo. Che sia effetto della paura? Oppure
una tattica per cogliere il nemico di sorpresa e darsi il tempo di scappare? In questo caso è
un fenomeno che rientra nella stessa categoria dell’inchiostro emesso dalle seppie, dei
tatuaggi esibiti dai malavitosi, o ancora delle citazioni in latino del mio padrone. Anche
questo è un problema che la scienza che studia il comportamento delle cicale dovrebbe
analizzare, una ricerca approfondita sull’argomento varrebbe una tesi di dottorato. Ma non
divaghiamo, torniamo a noi. Il posto dove le cicale tendono a concentrarsi - se la parola
«concentrarsi» vi sembra inadeguata, userò «radunarsi», ma è troppo banale, preferisco
«concentrarsi» - il posto dicevo dove le cicale tendono a concentrarsi, è la paulonia verde.
Che in Cina, pare, viene chiamata «parasole cinese». Comunque sia, la paulonia verde ha
un fogliame foltissimo, e come se non bastasse le foglie sono grandi e a forma di ventaglio,
in certi punti tanto fitte da nascondere i rami. E dunque sono d’intralcio alla caccia alle
cicale. Al punto che mi domando se la famosa canzone che dice: … si sente la voce, ma non
si vede il cantante non sia stata composta apposta per me. Tutto quel che posso fare è
dirigermi verso la voce che canta. A un’altezza di neanche due metri il tronco della paulonia
si divide in due. Ne approfitto per fare una sosta e, nascosto dietro una foglia, cercare di
vedere dove si, trovano le cicale. Peccato che alcune di loro, avvertendo la mia presenza, si
alzino immediatamente in volo con un rumore di foglie secche. Basta che ne parta una
perché tutte le altre la seguano, mandando a monte la caccia. Infatti le cicale, nella loro
tendenza a imitare gli altri, non sono meno stupide degli uomini. Dopo tutto lo sforzo fatto
per arrivare alla biforcazione, mi accorgo che nell’albero regna un silenzio assoluto. Una
volta mi sono arrampicato fin lì per non trovare più traccia delle cicale: avevo un bel
guardarmi intorno e drizzare le orecchie, nulla. Di riprovare su un altro albero non ne
avevo voglia, così ho pensato di riposare un momento sulla biforcazione e aspettare una
seconda occasione, ma senza accorgermene mi sono addormentato e mi sono perso nel
mondo dei sogni pomeridiani. Mi sono svegliato di botto cadendo dall’albero su una pietra
ornamentale del giardino. Di solito però a ogni arrampicata catturo una cicala. Peccato che
la necessità di tenerla in bocca finché non metto piede a terra riduca l’interesse
dell’esercizio. Quando finalmente la porto giù e la sputo, per lo più è già morta. Per quanto
la provochi e la stimoli con la zampa, non reagisce. Il momento più divertente della caccia
alle cicale è quando mi avvicino in silenzio a quella che ho preso di mira, tutta assorta ad
allungare e restringere la coda, e l’afferro d’un balzo con le zampe anteriori. In quel
momento la nostra canterina emette un grido straziato e sbatte convulsamente le sottili ali
trasparenti. La rapidità e lo splendore dei suoi gesti sono indescrivibili, costituiscono tutta
la miracolosa bellezza del mondo delle cicale. Ogni volta che catturo una di queste
canterine, la prego di darmi una prova del suo talento artistico. Poi, quando mi stufo, le
chiedo scusa e l’addento. Ci sono cicale che continuano la loro esibizione anche dentro la
mia bocca.
Dopo la caccia alle cicale, un buon esercizio è la «scivolata dal pino». Vi spiego in cosa
consiste, non ci vorrà molto tempo. Dal nome, tutti avrete dedotto che si tratta di scivolare
giù da un pino, invece sbagliate, è un tipo di scalata. Nella caccia alle cicale si sale su un
albero per catturare le cicale, invece nella «scivolata dal pino» ci si arrampica con il solo
obiettivo di scendere, è questa la differenza. Il pino sempreverde è sempre stato
sgradevolmente ruvido al tatto, dal giorno in cui venne bruciato per offrire una cena al
priore del tempio Saimyo2. Di conseguenza non c’è albero su cui sia altrettanto difficile
scivolare, e altrettanto facile aggrapparsi con le mani… aggrapparsi con i piedi… insomma
piantare le unghie. Sul tronco di un pino ci salgo in un batter d’occhio, ma una volta salito,
devo tornare giù. Ci sono due modi di scendere: voltandosi all’incontrario, con la testa
rivolta verso il basso, o mantenendo la stessa posizione di quando si è saliti. Ora chiedo a
voi esseri umani: quale dei due credete sia più agevole? Considerato che non vedete più in
là del vostro naso, penserete che dal momento che si scende, sia più facile stare girati verso
il suolo. Ebbene vi sbagliate. Forse avete in mente Yoshitsune 3 che caracolla giù dalla
collina di Hiyodori-goe affrontando il nemico di faccia, e pensate che un sistema scelto da
tanto eroe dovrebbe andar bene a un gatto. Avete torto a considerarmi con tanta
superficialità. Cercate di capire che un gatto, per poter far presa, ha le unghie piegate
all’indietro e può agganciare le cose e tirarle verso di sé usando le unghie come l’uncino dei
pompieri. Mettiamo ora che io sia appena salito di slancio su un pino. Essendo per natura
un animale che vive sulla terra, ammetterete che non posso restare all’infinito in cima a un
albero. Se non faccio qualcosa, prima o poi cadrò. Ma cadendo a corpo morto acquisterei
troppa velocità, devo quindi trovare un mezzo per rallentare in qualche misura questo
moto naturale. È quel che si chiama scendere. Tra cadere e scendere può sembrare che ci
sia un abisso, ma in realtà non è così. Rallentando la caduta si scende, e accelerando la
discesa si cade. La differenza è minima. Però precipitare dalla cima di un pino è molto
sgradevole, meglio scendere a velocità rallentata. Servendomi di qualche strumento che
faccia resistenza. Le mie unghie, come ho già detto, sono girate all’indietro, se le tiro fuori
restando voltato verso l’alto posso usare appieno la loro forza per contrastare la rapidità
della caduta. Che si trasforma così in una discesa. È davvero semplice come vi dico. Una
volta ho provato a venir giù all’incontrario, come avrebbe fatto Yoshitsune. Le unghie non
mi erano di alcuna utilità. Scivolavano in giù, e nulla frenava il peso del mio corpo. Il mio
progetto di scendere da un albero si è trasformato in un rovinoso ruzzolone. Ho capito in
quel momento l’eccezionalità dell’impresa di Yoshitsune. Tra tutti i gatti, probabilmente
sono il solo capace di una tale prodezza. Ecco perché ho chiamato quest’esercizio la
«scivolata dal pino».
Per finire vorrei dire una parola sul «giro del recinto». Il giardino del mio padrone è
chiuso da una staccionata di bambù su tutti e quattro i lati. Sui lati paralleli alla veranda
misura una quindicina di metri, mentre a destra e a sinistra non arriva a otto. L’esercizio
che ho menzionato ora, il «giro del recinto», consiste nel camminarci sopra tutt’intorno
senza cadere. Non sempre ci riesco, è vero, ma quando lo percorro tutto dall’inizio alla fine
mi diverto immensamente. A intervalli regolari ci sono dei grossi pioli rotondi, bruciati in
cima, molto comodi per riposarsi e tirare il fiato. Oggi mi sentivo particolarmente in forma
e già stamattina ho fatto tre giri, diventando ogni volta più bravo. E più bravo diventavo,
più mi divertivo. Il pomeriggio stavo per fare un quarto giro, ma arrivato a metà percorso,
dal tetto della casa vicina sono arrivati volando tre corvi e si sono posati sulla staccionata a
un metro da me, uno dietro l’altro. Tre screanzati. A parte il fatto che mi impedivano di
fare il mio esercizio, che diritto avevano quei corvacci di dubbia estrazione di fermarsi sul
recinto di un altro? Ho gridato loro di sgombrare la strada. Il corvo davanti si è voltato
verso di me sogghignando. Il secondo ha continuato a contemplare tranquillamente il
2
3
Ex comandante militare del tredicesimo secolo che prese i voti e divenne monaco buddhista. Secondo la leggenda, un
giorno in cui fece visita a un ex vassallo, questi bruciò per lui pini e altri alberi per lui preziosi.
L’eroe per antonomasia della storia giapponese. Fratellastro di Yoritomo, capo del clan Minamoto, vinse le battaglie di
Yashina e quella navale di Dan-no-ura, che mise fine alla guerra Genpei. Tradito da Yoritomo, si suicidò all’età di trent’anni per non
cadere nelle sue mani.
giardino. Il terzo si strofinava il becco contro il bambù della staccionata. Di sicuro avevano
appena mangiato qualcosa. Fermo dove mi trovavo, ho concesso loro tre minuti di tempo
per obbedire al mio ordine. Non c’è da stupirsi se i corvi vengono chiamati kanzaemon4,
meritano appieno quest’appellativo. I minuti passavano ma loro non si degnavano
nemmeno di rispondere, tanto meno di volare via. A quel punto non potevo fare altro che
avanzare. Ed ecco che il primo dei kanzaemon allarga finalmente le ali. Pensavo che stesse
per scappare, spaventato dalla mia determinazione, ma ha fatto soltanto un mezzo giro su
se stesso. Che maleducato! Fossimo stati a terra li avrei conciati per le feste, ma in bilico sul
recinto non potevo certo permettermi di combattere contro dei corvi, rischiavo di
rompermi l’osso del collo. Però non avevo intenzione di starmene tranquillo ad aspettare
che togliessero il disturbo. Prima di tutto perché stando fermo troppo a lungo avrei finito
con il perdere l’equilibrio. Se quei tre si permettevano di fare sosta in cima a una
staccionata, dovevano ringraziare le loro ali. Potevano restarci per sempre, se ne avevano
voglia. Mentre io ero stanco morto, ero già al quarto giro di un esercizio che ha un grado di
difficoltà pari al funambolismo. Non si è garantiti dal pericolo di cadere nemmeno in
assenza di ostacoli, figuriamoci con tre corvi che sbarrano la strada! Se la situazione non si
sbloccava, non mi restava che interrompere l’allenamento e scendere dalla staccionata. Era
seccante, ma forse mi conveniva, il nemico era in forze e inoltre si trattava di individui mai
visti da queste parti. Avevano il becco stranamente appuntito, niente di più facile che
fossero i figli di un tengu dai poteri sovrannaturali. In ogni caso erano palesemente dei
poco di buono. Battere in ritirata era più sicuro, se mi lasciavo coinvolgere in un corpo a
corpo correvo il rischio di cadere, esito ben più vergognoso. Mentre stavo facendo queste
riflessioni, il corvo che si era girato mi fa: «Cretino!» Il secondo l’ha subito imitato:
«Cretino!» e il terzo è stato tanto gentile da gracchiare due volte: «Cretino, cretino!» Per
quanto affabile io sia, non potevo chiudere un occhio su una cosa del genere. Prima di tutto
per amor proprio, non potevo lasciarmi insultare da un paio di corvi, ne andava del mio
buon nome. A chi obiettasse che non avendo ancora un nome, non corro il rischio che
venga infangato, ribatterò che ne andava del mio onore. Fare marcia indietro era escluso.
Di una fila caotica di persone si dice che sono «disordinate come corvi», quindi anche
questi tre non erano forse molto organizzati. Allora mi sono fatto coraggio e ho iniziato a
camminare adagio, deciso ad avanzare finché potevo. I corvi facevano finta di nulla,
parlottavano fra loro. Mi davano veramente sui nervi. Se per lo meno la staccionata fosse
stata un po’ più larga, avrei dato loro una bella lezione, ma disgraziatamente, malgrado la
mia collera, dovevo stare attento a dove mettevo i piedi. Quando finalmente sono arrivato a
pochi passi dal primo corvo, ecco che quei delinquenti sbattono un paio di volte le ali e si
mettono a svolazzare a mezzo metro sopra di me: dovevano essersi accordati prima. Il
vento che sollevavano mi ha colpito in faccia prendendomi di sorpresa, ho messo una
zampa in fallo e sono caduto come un sacco. Mortificato per il mio errore, da terra ho
alzato gli occhi e ho visto che i corvi erano tornati al posto di prima, uno accanto all’altro, e
mi guardavano dall’alto in basso. Che impudenza! Ho provato a sostenere il loro sguardo,
ma non è servito a nulla. Allora ho inarcato la schiena e ho emesso minacciosi brontolii,
tutto inutile. Come l’uomo della strada non può capire il valore della poesia simbolista, così
i segnali di collera che inviavo ai corvi non avevano su di loro alcun effetto. Ripensandoci
ora, è comprensibile. Perché fino a quel momento li avevo trattati come dei gatti. Questo è
stato il mio errore. Un gatto avrebbe reagito alla mia mimica nel modo giusto, ma per mia
sfortuna avevo a che fare con dei corvi, il cui comprendonio è così scarso che ogni sforzo
fatto per loro è sprecato. Sprecato come il desiderio di un uomo d’affari di schiacciare il
4
Nome con cui vengono designati i corvi nel linguaggio popolare: ha acquisito il significato di «lento», «pesante».
mio padrone, il professor Kushami. Come regalare una mia copia in argento massiccio a
Saigyo5. Come la cacca che questi kanzaemon fanno cadere sulla statua di bronzo di Saigo
Takamori6. Sono molto svelto a capire l’aria che tira, e quando mi sono reso conto che
buttavo via il mio tempo, con un balzo mi sono messo in salvo sulla veranda.
E intanto si è fatta ora di cena. La ginnastica fa bene a patto di non esagerare, mi sento
spossato, le ossa rotte. Come se non bastasse, durante l’esercizio la mia pelliccia si è presa
la libertà di assorbire miriadi di raggi solari, che in un pomeriggio d’inizio autunno sono
ancora forti, e ora mi tiene un caldo insopportabile. Se almeno il sudore che filtra
attraverso i pori scorresse via! Invece si attacca come grasso alla radice dei peli e mi fa
prudere la schiena. Sì, riesco a capire quando il prurito è dovuto al sudore e quando invece
è causato da qualche pulce che mi striscia nel pelo. Se la zona che prude è alla portata della
mia bocca posso mordicchiarmi, se ci arrivo con le zampe posteriori mi gratto, ma quando
il prurito è intorno alla spina dorsale, con le mie sole forze non riesco a fare nulla. In questi
casi ho solo due possibilità: strusciarmi energicamente contro il primo uomo che incontro,
oppure strofinarmi contro la corteccia di un pino. Gli esseri umani sono davvero strambi,
quando miagolo con voce carezzevole - no, carezzevole è la voce che fanno loro quando mi
parlano. Pensandoci bene, la mia è la voce di chi è accarezzato… - basta così, gli esseri
umani sono davvero strambi, se vado a strusciarmi miagolando contro le gambe di uno di
loro, maschio o femmina che sia, di solito fraintende e crede che stia facendo una
dichiarazione d’amore, di conseguenza mi lascia fare e si mette a carezzarmi la testa. Di
recente però dei parassiti - pulci, probabilmente - hanno fatto la loro comparsa nel mio
pelo, e quando mi avvicino vengo regolarmente preso per la collottola e buttato fuori.
L’uomo sembra provare un forte disgusto per questi minuscoli insetti appena visibili e
difficilmente afferrabili. Il suo affetto è effimero, muta con una rapidità ben espressa dal
proverbio: «Il tempo di chiudere la mano e le nuvole diventano pioggia». Come si può
prendersela tanto per la presenza di mille o duemila pulci? Il primo paragrafo del
regolamento dell’amore vigente nella società umana pare che dica: «Ama qualcuno finché
può tornarti utile». Ora, poiché l’atteggiamento dei miei padroni verso di me ha subito una
brusca svolta, per quanto mi prude la schiena non posso sfruttarli. Non mi resta che
ricorrere al secondo metodo, strofinarmi contro la corteccia di un pino. Sono pronto per
scendere dalla veranda per andare a darmi una grattatina, quando mi rendo conto che sto
per fare una sciocchezza. Una sciocchezza bella e buona che mi procurerebbe solo noie.
Perché i pini hanno la resina. Una resina così tenace che, se decide di attaccarsi ai peli del
mio mantello, dovesse cadere il fulmine, dovesse venire annientata la flotta del Baltico, non
si stacca più. E non basta. Non appena cinque peli restano appiccicati insieme, subito se ne
aggiungono altri cinque. E non si fa in tempo ad accorgersene che sono già trenta. Io sono
un gatto pulito che ama l’eleganza. Detesto la gente ostinata, appiccicosa e malevola. Fosse
anche la gatta più bella del mondo, la rifiuterei. Figuriamoci se faccio combutta con la
resina dei pini! Sarebbe scandaloso che una sostanza paragonabile al muco che esce dagli
occhi del Nero del vetturino quando soffia la tramontana venisse a rovinare il mio bel pelo
grigio e giallo. Basterebbe che ci pensasse un po’, quella stupida, ma non c’è pericolo che lo
faccia. Appena uno fa tanto di avvicinarsi alla corteccia del suo pino, in un attimo gli si
attacca alla schiena e ci resta appiccicata, non c’è scampo. Se prendessi sul serio una simile
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Monaco del dodicesimo secolo e poeta, cui Minamoto Yoritomo, che apprezzava molto la sua poesia, offrì un piccolo gatto
in argento. Saigyo lo buttò subito via.
Saigo Takamori (1827-1877). Nato nella provincia di Satsuma da una famiglia della piccola nobiltà, fu membro del
Governo Meiji, alla cui formazione contribuì, ma nel 1873 diede le dimissioni per contrasti sulla politica estera. Messo suo malgrado
a capo di una rivolta di ex samurai della provincia di Satsuma, si suicidò quando la rivolta venne definitivamente schiacciata dalle
truppe governative. Nella battaglia queste utilizzarono armi moderne contro le sciabole dei samurai, circostanza che diede all’evento
un risvolto romantico e contribuì a fare di Saigo l’eroe dell’epoca Meiji.
pazza non solo perderei la faccia, ma recherei anche un danno al mio lignaggio. Quindi
devo portare pazienza: anche se il prurito diventa insopportabile, non ho altra soluzione. È
scoraggiante però che entrambi i metodi siano inapplicabili, se non mi faccio venire
un’idea, il fastidio sarà tale che finirò per ammalarmi. Mi sono appena seduto sulle zampe
posteriori a riflettere, che di colpo mi torna in mente una cosa! Il mio padrone a volte esce
di casa senza preavviso, portando con sé un asciugamano e un pezzo di sapone. Quando
torna, dopo trenta o quaranta minuti, la sua faccia di solito livida ha un colorito un po’ più
sano, un po’ più luminoso. Se la cosa ha un effetto tale su un uomo grigio come il padrone,
su di me deve sortire risultati magnifici. Non che abbia bisogno di migliorare il mio
aspetto, bello come sono, ma ammalarmi e morire prematuramente a un anno e qualche
luna sarebbe una colpa imperdonabile nei confronti delle creature di questo mondo. Mi
sono informato, mi è stato detto che il padrone si reca in un bagno pubblico, un’altra delle
diavolerie che gli uomini hanno escogitato per ammazzare il tempo. Trattandosi di
un’invenzione umana, non c’è pericolo che sia qualcosa di intelligente, ma in questo caso
forse vale la pena di provare. E se non fa effetto, basta che smetta. Ma gli uomini avranno
l’apertura mentale sufficiente per ammettere in uno stabilimento balneare concepito per la
propria comodità un individuo appartenente alla gens felina? Questo è il dubbio che mi
coglie. In un luogo dove è permesso entrare al mio padrone, non c’è ragione che l’accesso
venga rifiutato a me, ma nel caso molto improbabile che debba subire quest’affronto, la
mia reputazione ne soffrirebbe parecchio. È più prudente andare prima a fare un giro di
perlustrazione. Dopodiché, se lo riterrò opportuno, potrò tuffarmi nell’acqua con un
asciugamano fra i denti. Messo a punto il mio piano fin qui, senza fretta mi reco al bagno
pubblico.
All’angolo dell’isolato giro a sinistra e vedo, proprio di fronte a me, un tubo molto alto,
simile a una canna di bambù, dalla cui estremità esce del fumo leggero. Il bagno pubblico è
lì. Mi intrufolo all’interno dalla porta sul retro. Entrare di soppiatto può sembrare un segno
di codardia o insicurezza, ma è un’obiezione che solleva, per invidia, chi è capace soltanto
di entrare dalla porta principale. Da sempre gli uomini scaltri attaccano di sorpresa dal
retro. Così c’è scritto nel primo capitolo del secondo volume del Manuale del gentiluomo, a
pagina 5. Alla pagina seguente si dice persino che nel testamento di un gentiluomo chi ha
accesso alla porta di servizio ottiene di più. Io che sono un gatto del ventesimo secolo,
queste cose le ho studiate. Fate male dunque a disprezzarmi. Allora, una volta entrato alla
chetichella, alla mia sinistra trovo una montagna di ceppi di pino spessi una spanna, e
accanto una collina di carbone. A chi mi domandasse perché di legna ce n’è una montagna
e di carbone una collina, non saprei cosa rispondere, è così che sono disposti. A forza di
mangiare riso, volatili, pesci, animali con il pelo e tante altre porcherie, gli esseri umani
sono arrivati alla depravazione di nutrirsi di carbone, sono veramente dei miserabili.
Guardandomi intorno noto una grande porta aperta e getto un’occhiata all’interno:
silenzio. Ma dall’altro lato si sente un rumore incessante di voci umane. Il bagno dev’essere
lì. Passo nell’avvallamento che si apre tra la montagna di ceppi e la collina di carbone, giro
a destra, e avanzando ancora trovo una finestra, sotto alla quale vedo dei catini rotondi che
formano una piramide triangolare. Immaginando quanto dev’essere innaturale per degli
oggetti rotondi creare una forma triangolare, in cuor mio mi sento solidale con quei poveri
catini. Un paio di metri più a sud c’è un’asse di legno non più lunga di un metro e mezzo,
che sembra invitarmi. Trovandosi a un’altezza di circa un metro dal suolo, sembra fatta su
misura per me. Bene, mi dico salendoci con un guizzo, e mi trovo la sala da bagno davanti
al naso, sotto gli occhi, a poca distanza dalla mia faccia. Non c’è nulla al mondo di più
divertente che mangiare o vedere qualcosa per la prima volta. Se il lettore, come il mio
padrone, tre volte alla settimana passa trenta o quaranta minuti nel mondo dei bagni
pubblici, può evitare di scomodarsi, ma se come me non ha mai visto una sala da bagno,
farebbe bene a sbrigarsi ad andarla ad ammirare. Non importa se per farlo deve rinunciare
a dare l’ultimo saluto ai genitori morenti, un bagno pubblico non può lasciarselo sfuggire.
È vero che il mondo è grande, ma una seconda occasione di vedere uno spettacolo
altrettanto straordinario potrebbe non presentarsi.
Cos’ha di tanto straordinario? Be’, è così bizzarro che esito a descriverlo. Inquadrati
nella finestra si vedono tanti uomini nudi che si agitano e fanno un baccano tremendo.
Come tanti aborigeni di Taiwan. Tanti Adamo del ventesimo secolo. Se dovessi fare una
storia dell’abbigliamento - ma ci vorrebbe troppo tempo, ne lascerò la cura al professor
Teufelsdrockh7 - direi che gli esseri umani traggono il loro prestigio dai vestiti.
Nell’Inghilterra del diciottesimo secolo Beau Nash stabilì delle regole molto severe negli
stabilimenti termali: uomini e donne dovevano essere coperti dalle spalle fino ai piedi
anche quando facevano il bagno. Circa sessant’anni fa, di nuovo in una città inglese, venne
fondata una scuola d’arte nella quale, com’è ovvio, c’erano numerose riproduzioni di
dipinti e di statue di nudi. Fu organizzata un’esposizione, ma al momento
dell’inaugurazione sia le autorità che il personale insegnante della scuola dovettero
affrontare un grave problema: bisognava invitare anche le signore importanti della città.
Peccato che queste dame fossero convinte che gli esseri umani nascessero provvisti di
vestiti. Non che discendessero dalle scimmie che hanno addosso solo la pelle. Per loro una
persona senza vestiti era come un elefante senza proboscide, una scuola senza allievi, un
soldato senza coraggio, insomma perdeva il suo aspetto originale. E non solo, cosa già
abbastanza sgradevole, ma da essere umano si degradava a membro della specie animale.
Ora per delle signore rispettabili, venir messe sullo stesso piano delle bestie, per quanto si
trattasse di riproduzioni, costituiva una perdita di dignità. Di conseguenza fecero sapere
che se queste fossero state presenti, loro non avrebbero partecipato all’inaugurazione. Gli
insegnanti le giudicarono sciocche e in cuor loro pensavano che non valesse la pena di
ascoltarle, ma in Occidente come in Oriente le donne sono una presenza decorativa. Non
sanno spulare il riso né possono diventare soldati, ma costituiscono un ornamento che non
può mancare in un’inaugurazione. Non restava altro da fare che comprare metri e metri di
tessuto nero e confezionarne dei vestiti per le bestie umane. Per essere certi di non
commettere gaffe, gli insegnanti spinsero lo zelo fino al punto di coprire interamente le
statue, lasciando fuori solo la testa. Grazie a quest’accorgimento la cerimonia si svolse
senza intoppi. Vedete dunque fino a che punto i vestiti sono importanti per gli esseri
umani. Ai nostri giorni molti artisti sostengono l’importanza del nudo nella pittura, ma
penso che sbaglino. È un errore evidente, se consideriamo che dal giorno in cui sono nato
fino a oggi non sono mai andato in giro nudo. Il corpo nudo è un retaggio della Grecia e di
Roma tornato di moda nel Rinascimento italiano, ma gli antichi Greci e gli antichi Romani
erano abituati a vedere corpi nudi e non pensavano che questo potesse avere un influsso
sulla morale pubblica. Altra cosa è l’Europa del Nord, un posto molto freddo. Nemmeno in
Giappone una persona potrebbe andare in giro nuda, ma in Germania e in Inghilterra
morirebbe. E questo sarebbe un peccato, meglio allora indossare degli abiti. E quando tutti
indossano degli abiti, gli esseri umani diventano animali vestiti. Per un animale vestito,
incontrare all’improvviso un animale nudo è sconcertante, pensa di avere a che fare con
una bestia. Di conseguenza è normale che gli europei, soprattutto gli europei del nord,
considerino i quadri e le statue di nudi delle bestialità. Per loro una persona nuda è
inferiore a un gatto. È esteticamente bella? Questo non ha la minima importanza, la si può
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Personaggio di un’opera di Carlyle che aveva scritto una storia sull’abbigliamento.
benissimo considerare un bell’animale nudo. Forse tra voi c’è qualcuno che mi vorrebbe
chiedere se ho visto gli abiti da sera delle signore occidentali. Ovviamente no, dal momento
che sono un gatto. Ma ho sentito dire che mostrano le braccia, le spalle e anche il petto.
Uno scandalo! Fino al quattordicesimo secolo le donne non avevano l’abitudine di
abbigliarsi in maniera così bizzarra, indossavano le vesti che usano di solito gli esseri
umani. Allora perché si sono trasformate in volgari acrobate? Scusate, ma raccontarvelo
sarebbe troppo noioso. Chi lo sa lo sa, e chi non lo sa se ne può tranquillamente infischiare.
La storia è quella che è, fatto sta che queste signore la notte - soltanto la notte - vanno fiere
di mostrarsi in un abbigliamento tanto assurdo, ma quando viene il giorno non solo
nascondono le braccia, le spalle e il petto, ma dal modo in cui si coprono si direbbe che si
vergognino di mostrare anche solo un dito del piede, segno che in fondo al cuore devono
conservare qualche sentimento umano. Queste riflessioni ci inducono a pensare che i loro
vestiti da sera siano delle manifestazioni contraddittorie inventate da qualche pazzo, su
consiglio di un pazzo. Se si vergognano di questa contraddizione, perché non mostrano
anche di giorno braccia, spalle e petto? La stessa cosa vale per i nudisti. Se pensano che
andare in giro nudi sia edificante, perché non denudano le loro figlie? Perché non se ne
vanno a spasso tutti nudi nel parco di Ueno? Non si può? Certo che si può! Non lo fanno
soltanto perché imitano in tutto gli occidentali. Infatti li si può vedere recarsi tutti impettiti
all’Hotel Imperiale nei loro scomodi, strampalati vestiti da sera. Se cerchiamo una ragione
storica a quest’abbigliamento, non la troviamo. Semplicemente viene giudicato elegante
perché lo portano gli occidentali. Gli occidentali sono forti, quindi bisogna imitarli a tutti i
costi, anche a rischio di coprirsi di ridicolo. Ci si sottomette spontaneamente alla forza e al
potere. Ma ha senso questa sottomissione? Se mi rispondete che è sciocca ma inevitabile,
mi arrendo, però non venitemi a dire che i giapponesi sono intelligenti. In campo
accademico vale la stessa cosa, ma poiché non c’è relazione tra la scienza e l’abbigliamento,
sorvolerò.
Come ho appena spiegato, gli abiti, per gli esseri umani, hanno un’importanza tale che
viene da chiedersi se è l’abito che fa la persona o viceversa. Vorrei dire che la storia
dell’umanità non è la storia della carne, non è la storia del sangue e delle ossa, è
semplicemente quella dei vestiti. Ecco perché quando vediamo qualcuno che non ne porta
abbiamo l’impressione di trovarci di fronte a una creatura mostruosa, a un bruto, non a
una persona. Se gli uomini si mettessero d’accordo per diventare tutti, dal primo all’ultimo,
dei bruti, a quel punto non sarebbero più tali, però si troverebbero in una situazione
problematica. In origine la natura li ha creati e messi in questo mondo tutti uguali, ognuno
di loro nasce completamente nudo. Se fosse nella loro natura contentarsi dell’uguaglianza,
dovrebbero essere soddisfatti di crescere e invecchiare nudi. Ma un giorno uno di questi
uomini nudi probabilmente si è detto: visto che siamo tutti uguali, qual è l’utilità dello
studio? Che risultato danno lo sforzo e la fatica? In qualche modo vorrei distinguermi dalla
massa, vorrei essere unico e inconfondibile. Dovrei indossare qualcosa che stupisca tutti.
Dopo aver riflettuto una decina d’anni per trovare quel che faceva al caso suo, il nostro
uomo inventò finalmente delle corte braghe, se le infilò immediatamente e se ne andò in
giro pavoneggiandosi e cercando di intimidire la gente. Costui era l’antenato degli odierni
conduttori di risciò. Vi sembrerà forse strano che abbia impiegato dieci lunghi anni a
trovare qualcosa di tanto semplice come un paio di braghe, ma questa valutazione non
tiene conto dell’ignoranza del mondo a quell’epoca, nei tempi antichi un’invenzione del
genere era un evento straordinario. A Cartesio ci sono voluti dieci anni per partorire una
verità evidente anche a un bambino di tre anni: penso, dunque sono. La scoperta più
banale richiede uno sforzo straordinario, perché sorprendersi dunque se qualcuno con la
sapienza di un conduttore di risciò ha impiegato dieci anni per inventare delle braghe? E da
quel momento nella società solo i vetturini hanno contato. Alcuni dei nudi, trovando
insopportabile vedere costoro circolare per le strade del mondo con l’aria di esserne i
padroni, per non sfigurare in sei anni hanno creato quella cosa inutile che è un haori. A
quel punto la forza delle braghe si è indebolita e l’haori ha avuto il suo momento di gloria. I
verdurieri, i droghieri, i sarti sono tutti pronipoti di quei magnifici precursori. Dopo l’epoca
delle braghe, dopo quella degli haori, è venuta l’epoca degli hakama. Gli hakama sono
un’invenzione di coloro cui era venuto a noia l’haori, e da essi discendono sia i samurai del
passato che i funzionari statali dei nostri giorni. La verità è che i bruti sono sempre in
competizione l’uno con l’altro per trovare qualcosa di nuovo, al punto da inventare un abito
tanto assurdo come una marsina a coda di rondine, e considerando la storia di
quest’evoluzione si capisce come le circostanze attuali non siano il frutto della confusione,
della stupidità e del caso. Sono stati lo spirito di competizione e l’audacia a produrre tante
forme d’abbigliamento nuove, tanti abiti diversi che si indossano per proclamare la propria
unicità. Pensandoci bene, da questo studio psicologico possiamo dedurre una grande,
nuova verità: come la natura aborrisce il vuoto, così gli esseri umani detestano
l’uguaglianza. E poiché questa è la loro indole, oggi che indossano i vestiti come una
seconda pelle, se volessero privarsi di questa parte di sé, del proprio corpo, per tornare
all’originaria condizione di parità, sarebbero dei folli. Né d’altronde potrebbero farlo,
infischiandosene dell’accusa di follia. Perché di nuovo le persone tornate indietro
sembrerebbero dei bruti agli occhi di quelle civilizzate. E anche trascinando tutta la
popolazione mondiale allo stato originario, vincolandola all’impegno di non cercare segni
distintivi in futuro, promettendole che nessuno dovrà vergognarsi perché tutti saranno
nella stessa condizione, non potrebbe funzionare. Il giorno stesso in cui ridiventassero dei
bruti, gli esseri umani ricomincerebbero a competere gli uni con gli altri. E non potendo
questa volta competere nell’abbigliamento, lo farebbero con i mezzi a loro disposizione.
Tutti nudi come vermi riuscirebbero a creare delle differenze. Alla luce di queste
considerazioni, si capisce come non sia possibile liberarsi dei vestiti.
Tuttavia gli esseri umani che ho ora sotto gli occhi non hanno indosso né le braghe, né
gli haori, né gli hakama che non si dovrebbero mai togliere, hanno posato tutto sopra un
ripiano e senza il minimo imbarazzo si espongono al reciproco sguardo in uno stato
scandaloso che li riporta alle loro origini, e intanto chiacchierano tranquillamente. È
questo che intendevo dire prima parlando di uno spettacolo straordinario. Ho l’onore di
presentarne qui uno scorcio ai miei lettori, che sono persone civili.
La scena è così confusa che non so nemmeno da dove incominciare. Poiché il
comportamento dei bruti non obbedisce a regola alcuna, descriverlo in maniera metodica è
un’ardua impresa. Proviamo a iniziare dalla vasca. In realtà non sono sicuro che di vasca si
tratti, è solo una mia supposizione. È larga circa un metro e lunga forse sei, ed è divisa in
due sezioni. La prima è piena d’acqua calda di un colore bianco torbido, come se fosse
satura di calce, probabilmente è quella che chiamano acqua medicinale. Ha un aspetto
oleoso e pesante. Pare che la cambino soltanto una volta alla settimana, niente di strano
quindi che sembri marcia. L’altra sezione contiene acqua calda normale, ma anche questa
non è certo limpida o trasparente. Ha un colore indefinibile, devono averla mescolata con
l’acqua piovana che si raccoglie nelle apposite tinozze. Ora passiamo a descrivere i bruti,
impresa ancora più difficile. Due giovani stanno in piedi uno di fronte all’altro accanto alla
seconda vasca e si gettano addosso secchiate d’acqua. Un bel divertimento! La loro pelle
orribilmente scurita dal sole sembra quasi nera. Mi sto dicendo che hanno un aspetto
molto robusto, quando uno dei due comincia a strofinarsi il petto con un asciugamano e
dice:
«Ehi, Kin, mi fa male qui, che cosa sarà?»
«È lo stomaco. Le malattie di stomaco possono portare alla tomba. Fatti vedere da un
medico, dai retta a me», è il consiglio spassionato di Kin.
«Ma è qui a sinistra…» obietta l’altro toccandosi il polmone sinistro.
«Appunto, lì c’è lo stomaco. A sinistra c’è lo stomaco e a destra i polmoni».
«Sul serio? Pensavo che lo stomaco fosse qui», dice il primo che ha parlato dandosi due
pacche su un fianco.
«Quella è la lombaggine», afferma Kin.
In quel momento un uomo di venticinque o ventisei anni con una barbetta rada entra di
colpo nella vasca. Subito il sapone e la sporcizia attaccati al suo corpo vengono a galla,
dando all’acqua un luccichio ferruginoso.
Accanto a lui un vecchio calvo ha attaccato bottone a un tale con i capelli tagliati a
spazzola. Soltanto le loro teste sono fuori dall’acqua.
«Eh, brutta cosa la vecchiaia! Si rimbambisce e non si sta più al passo con i tempi. Però
ancora adesso, alla mia veneranda età, l’acqua del bagno mi piace bella calda».
«Ma lei mi sembra molto in gamba, signore. Quando si è in forma come lei, non ci si può
lamentare».
«No, essere in forma è un’altra cosa, semplicemente non sono malato. Una persona può
campare fino a centovent’anni, se vive con morigeratezza».
«Sul serio?»
«Glielo assicuro io, fino a centovent’anni. Prima della Restaurazione a Ushigome c’era
una certa famiglia Magaribuchi, vassalli dello shogun… un loro servo è vissuto fino a
centotrenta anni».
«Però, una bella età!»
«Sì, fin troppo, non sapeva più nemmeno lui quanti anni avesse. Mi ha detto che fino a
cent’anni ricordava tutto benissimo, poi ha cominciato a dimenticare. Quando l’ho
conosciuto ne aveva già centotrenta, ma non è detto che sia morto. Cosa gli sia successo in
seguito, non lo so. Può anche darsi che sia ancora vivo e vegeto». Così dicendo il vecchio
esce dalla vasca.
L’uomo con la barbetta rada intanto si è messo a spruzzare intorno a sé schiuma
biancastra e ridacchia da solo. La persona che entra in acqua al posto del vecchio non è uno
dei soliti bruti ordinari, ha la schiena completamente coperta di tatuaggi. Il disegno sembra
raffigurare Iwami Jutaro8 che soggioga un grosso serpente brandendo un’enorme spada.
Purtroppo il lavoro non è ancora terminato e il serpente non si vede, con la conseguenza
che il prode Jutaro appare un po’ fuori fase.
«Non è abbastanza calda», dice l’uomo entrando in acqua. Al che un altro coglie
l’occasione per aggiungere:
«Già… dovrebbero scaldarla un po’ di più». Dalla smorfia che fa però sembra sopportare
a stento la temperatura. «Salve, capo», saluta poi quando si trova faccia a faccia con
Jutaro.
«Salve», risponde Jutaro. «E Tami, che fine ha fatto?»
«Be’, quello ci va forte con il gioco».
«E non solo con il gioco…»
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Eroe del sedicesimo secolo, leggendariamente abile nel maneggiare la sciabola. A lui si ispira un cartone animato del
famoso autore di manga Nagai Go.
«Davvero? È un uomo pieno di malanimo, nessuno lo sopporta… nessuno ha fiducia in
lui. Un bel guaio, per un artigiano».
«Infatti. Davanti agli altri si fa piccolo piccolo, non sa farsi rispettare. Per questo la
gente non si fida».
«Proprio così. Ciononostante pensa di essere il migliore. Chi ci rimette è solo lui».
«Qui nel quartiere di Shirokane i vecchi sono tutti morti, restano soltanto il bottaio
Moto, il padrone della fabbrica di mattoni, e lei. Tutta gente nata qui. Quel Tami, però,
nessuno sa da dove viene».
«Nessuno lo sa. Eppure ne ha fatta di strada».
«Sì. Ma per qualche ragione alla gente non piace. Perché è chiuso, non dà confidenza».
In quattro e quattr’otto hanno fatto a pezzi il povero Tami.
Per il momento mi basta, decido di lasciar perdere la vasca d’acqua piovana e passare
all’altra. È talmente affollata che sarebbe meglio dire che c’è dell’acqua tra le persone e non
il contrario. Inoltre tutti se la prendono comoda, da quando sono lì ogni tanto ho visto
entrare qualcuno, ma mai nessuno uscire. Con tutta questa gente, non c’è da stupirsi se
l’acqua che viene cambiata solo una volta alla settimana è sporca, penso impressionato, e
mentre studio le facce nella vasca, nell’angolo sinistro, tutto schiacciato e paonazzo in viso,
vedo il mio padrone, il professor Kushami. Nessuno gli apre un varco per lasciarlo uscire,
poverino, né lui accenna a volersi muovere. Sta semplicemente a mollo lì dentro, sempre
più rosso. Un vero supplizio! Probabilmente la determinazione a sfruttare appieno i due
sen e mezzo pagati per entrare lo aiuta a sopportare il calore, ma a me, che lo guardo
preoccupato dalla finestra, viene il timore che il vapore rovente lo tramortisca, sarebbe
meglio che uscisse subito dalla vasca. In quel momento un uomo che galleggia due posti
più in là si lamenta:
«Adesso è fin troppo calda. Qui, dietro la schiena, continua a entrare un getto bollente»,
e si guarda intorno cercando l’approvazione degli altri bruti.
«Cosa dice, va giusto bene. Se non ha almeno questa temperatura i sali medicinali non
fanno effetto. Al mio paese l’acqua è due volte più calda», protesta un tale, fiero della sua
capacità di resistenza.
«Ma a che cosa dovrebbe fare bene, quest’acqua?» chiede un terzo che si è posato
l’asciugamano piegato sulla testa bitorzoluta.
«A tante cose. Si può dire che faccia bene praticamente a tutto. È miracolosa», gli
risponde un uomo magro dalla faccia lunga e verdastra come un cetriolo. Strano che non
abbia un colorito un po’ più sano, se l’acqua è davvero benefica come dice.
«Ed è più efficace dopo tre o quattro giorni, non subito dopo che ci hanno messo le
medicine. Oggi è il giorno giusto per farci il bagno». Quello che ha parlato ora con l’aria di
sapere tutto è un ciccione. O forse l’acqua gli ha lasciato addosso strati di grasso.
«Fa bene anche berla?» chiede qualcuno con voce acuta.
«Quando fa freddo, una tazza prima di dormire evita di alzarsi per andare a orinare.
Dovrebbe provare», risponde qualcuno.
Oltre le vasche, di cui ho visto abbastanza, sul pavimento di assi di legno una fila di
uomini nudi come Adamo si sta lavando nelle pose più svariate diverse parti del corpo. Ma
i più sorprendenti sono un uomo supino che contempla il lucernario sul soffitto, e uno
disteso bocconi che scruta nel canale di scolo dell’acqua. Devono avere del tempo da
perdere. Da un’altra parte un monaco sta accovacciato e rivolto verso il muro di pietra,
mentre un monaco più giovane, probabilmente un discepolo, gli massaggia la schiena come
farebbe l’inserviente dei bagni. Comunque c’è anche un vero inserviente, dev’essere
raffreddato perché con questo caldo indossa un grembiule, e da una piccola tinozza ovale
versa fiotti d’acqua calda sulle spalle dei clienti. Guardandogli le dita dei piedi noto che fra
l’alluce destro e il secondo dito tiene uno straccio di pelle di cammello. Più in qua un uomo
ha accaparrato tre catini e insiste perché il vicino, sul quale sta riversando un fiume di
parole, usi il suo sapone. Incuriosito, cerco di sentire cosa dice.
«Il fucile è una cosa importata dall’estero. Un tempo da noi si incrociavano le spade. Ma
all’estero sono dei codardi, per questo hanno inventato una diavoleria del genere. Non in
Cina, in Occidente. È davvero una cosa degna di loro. All’epoca di Watonai 9 i fucili non
esistevano. Perché Watonai discendeva dall’imperatore Seiwa, della famiglia dei Genji.
Quando Yoshitsune è passato dall’Hokkaido alla Manciuria, si dice che un uomo
dell’Hokkaido, uno molto colto, sia andato con lui e gli abbia dato dei buoni consigli. Poi il
figlio di Yoshitsune ha attaccato l’imperatore Ming, allora l’imperatore Ming, che era nei
guai, ha mandato un messaggero al terzo shogun chiedendogli di mandargli tremila soldati.
Il terzo shogun non l’ha lasciato tornare, questo messaggero… come diavolo si chiamava?
Comunque è stato trattenuto dallo shogun per due anni, alla fine è andato a Nagasaki dove
si è messo con una prostituta. Il figlio che ha avuto da quella prostituta era Watonai. Poi ha
voluto tornare al suo paese, ma a quel punto l’imperatore Ming era stato destituito da certi
traditori…» L’uomo blatera cose incomprensibili.
Dietro di lui un giovane sui venticinque anni dall’aria triste si spinge distrattamente il
vapore bianco dell’acqua in mezzo alle gambe, forse sperando in un effetto curativo. Mi
pare che abbia un ascesso o qualcosa del genere. Accanto a lui un ragazzo di diciassette o
diciott’anni chiacchiera sfacciatamente con tutti, dev’essere uno studente a pensione presso
una famiglia del quartiere. Poi viene un tale dalla schiena veramente strana, ogni vertebra
della spina dorsale sporge in fuori come se gli avessero infilato su per il sedere una canna di
bambù. Ai lati della colonna vertebrale si vedono due serie di fori, irritati e purulenti. Ma a
enumerare le persone a una a una non finirei mai, le cose da raccontare sono tante che
anche descriverne una parte soltanto è al di sopra delle mie possibilità. Comincio a
pentirmi di essermi lanciato in un’impresa al di sopra delle mie forze, quando sulla porta
appare un vecchio calvo che indossa un kimono grigio chiaro tendente al verde. Si inchina
rispettosamente a tutti quei bruti nudi e inizia senza indugi a declamare:
«Egregi signori, vi ringrazio per la vostra assidua frequentazione. Oggi fa un po’ fresco,
quindi vi prego, restate pure tutto il tempo che volete. Entrate e uscite dall’acqua calda
quanto vi pare e riscaldatevi bene. Ehi, inserviente, bada a che la temperatura dell’acqua
sia quella giusta».
«Bene, capo!» fa l’inserviente.
«È veramente cortese», commenta Watonai tessendo le lodi del proprietario dei bagni.
«D’altronde, se non lo fosse, perderebbe i clienti».
Sorpreso da quell’apparizione improvvisa, decido di sospendere la descrizione del bagno
e di dedicarmi per qualche minuto al solo studio del vecchio. Il quale, vedendo un
ragazzino di circa quattro anni che esce dalla vasca, gli fa: «Ehi, bambino, vieni qui», e gli
tende una mano. Il bambino, spaventato alla vista di quel vegliardo dalla faccia come una
ciambella di riso schiacciata, scoppia in un pianto accorato. Il padrone dei bagni resta un
po’ sorpreso:
«No, perché piangi?» chiede confuso. «Hai paura di me? No, no, non devi…» Poi
rendendosi conto che non serve a niente rinuncia e si rivolge al padre del bambino:
«Oh, Gen-san! Oggi fa un po’ freddo, vero? Un bel cretino il ladro che ieri sera è entrato
nel negozio qui vicino. Ha tagliato un’apertura quadrata nella porta laterale. Poi sa cos’ha
fatto? Se n’è andato senza portare via niente. Forse avrà visto arrivare un poliziotto o un
9
Eroe dell’opera Le battaglie di Coxinga di Chikamatsu Monzaemon. Non ha nessun rapporto con l’imperatore Seiwa.
guardiano». Il vecchio si fa una bella risata alle spalle del ladro, poi prende di mira un altro
cliente: «Frescolino, eh? Ma lei è giovane e il freddo non lo sente!» A me pare che lo senta
solo lui.
Assorto nell’osservazione del padrone dei bagni, per un po’ ho dimenticato i bruti.
Persino il professor Kushami che soffre a mollo nell’acqua calda mi è del tutto passato di
mente, finché all’improvviso tra il tavolato e i lavandini si leva un grido. È il mio padrone,
senza ombra di dubbio. Non è certo la prima volta che lo sento alzare la voce - quella sua
voce roca e sgradevole - ma non mi sarei mai aspettato che lo facesse in questo posto. Così
salto immediatamente alla conclusione che è impazzito, l’ammollo troppo prolungato
nell’acqua bollente gli avrà fatto salire il sangue al cervello. Se il suo comportamento fosse
dovuto a un raptus improvviso, sarebbe giustificabile, invece è perfettamente padrone di
sé, ora capirete subito perché ha preso quel tono di voce aggressivo: nel suo infantilismo si
è messo a litigare con lo studente che chiacchiera sfacciatamente con tutti.
«Fatti più in là. Stai spruzzando l’acqua nel mio catino!» sta gridando.
Ogni cosa ha mille interpretazioni diverse a seconda di come la si guarda, quindi non
saltiamo subito alla conclusione che questo scoppio di collera sia dovuto a un riflusso di
sangue al cervello. Una persona su diecimila potrebbe anche paragonarlo alla famosa
sfuriata che il nobile Takayama Hikokuro fece a un brigante. È anche probabile che sia
nelle intenzioni del mio padrone recitare proprio quella scena. Purtroppo però le cose non
vanno secondo le sue aspettative, perché lo studente non si riconosce nel ruolo del
brigante.
«Io ero già qui prima di lei», protesta pacatamente.
Una risposta chiara che esprime soltanto il suo rifiuto a spostarsi. Riflusso di sangue o
meno, il padrone deve ammettere, anche se non gli fa piacere, che lo studente gli ha parlato
in tono educato, e non merita di essere trattato come un brigante. La sua collera però non è
stata provocata dal posto che lo studente occupa o da qualche suo sgarbo, ma
dall’impudenza con cui lui e il suo amico si stanno raccontando storielle spinte, malgrado
la loro giovane età. Tanto che alla fine il professor Kushami se ne è sentito offeso e ora,
nonostante la risposta educata, non riesce a ritirarsi in buon ordine.
«Pezzo di cretino! Si è mai visto qualcuno che getta acqua sporca nel catino degli altri?»
urla.
Segretamente esulto perché anche a me la condotta dei due ragazzi è parsa un po’
scostumata, ma al tempo stesso trovo questo linguaggio colorito indegno di un insegnante.
Il padrone ha un carattere rigido e intransigente, è duro e arido come un pezzo di carbone
bruciato. Nei tempi antichi, quando Annibale valicò le Alpi, a un certo punto trovò la strada
bloccata da un’enorme roccia che sbarrava il passaggio ai soldati. Allora ordinò di versarci
sopra dell’aceto e darle fuoco per renderla friabile, poi di affettarla con una sega come fosse
kamaboko, e fu così che riuscì ad aprire un varco. Con un uomo come il mio padrone, sul
quale ore di ammollo in quest’acqua medicinale non hanno avuto il minimo effetto, forse
l’unica cosa da fare è versargli addosso dell’aceto e dargli fuoco. Altrimenti la sua
testardaggine non potrà mai guarire, si presentassero cento di questi studenti e passassero
centinaia d’anni. Considerato che tutti coloro che galleggiano nella vasca e perdono tempo
lì vicino sono dei bruti, creature che hanno buttato via quei vestiti indispensabili alle
persone civilizzate, non si possono certo giudicare secondo criteri normali. Per loro lo
stomaco può prendere il posto dei polmoni, Watonai diventare parente di Seiwa dei Genji,
e il signor Tami passare per inaffidabile. Però una volta usciti dal bagno, cessano di essere
dei bruti. Tornano nel mondo degli esseri umani e devono indossare di nuovo gli abiti di
cui la società civile non può fare a meno. E tenere di conseguenza un comportamento
degno di un uomo. Adesso il mio padrone si trova sulla soglia, sulla soglia tra il bagno e
l’anticamera, sta dunque per tornare in quel mondo dove è necessario fare buon viso a
cattivo gioco. Ciononostante non cede, con una cocciutaggine che potremmo definire una
malattia cronica. E una malattia cronica non la si cura facilmente. Ritengo che ci sia
soltanto un modo per guarirlo: chiedere al direttore della sua scuola di licenziarlo. Se
perdesse il posto, con la sua totale mancanza di adattabilità finirebbe di sicuro in mezzo a
una strada. E in conseguenza di ciò necessariamente morirebbe. Insomma licenziarlo
equivarrebbe a provocarne a lungo termine il decesso. Lui è contento della sua malattia, cui
attribuisce un gran valore, ma detesta l’idea di morire. Nella misura in cui la sua vita non è
in pericolo, si può concedere il lusso di essere malato, ma se a causa della sua infermità
venisse minacciato di morte, pusillanime com’è, dallo spavento si scuoterebbe. E
scuotendosi si libererebbe della malattia. Se poi nemmeno questo servisse a guarirlo, cosa
volete che vi dica, getto la spugna.
Stupido o malato che sia, resta pur sempre il mio padrone. Dice un poeta che la nostra
gratitudine eterna deve andare a chi ci nutre, quindi anch’io, benché sia un gatto, ho a
cuore le sorti del professor Kushami. Mi fa talmente pena, mi sento così triste per lui che,
preso da questo sentimento, ho trascurato la sala da bagno, quand’ecco che dalla vasca
d’acqua bianca arrivano grida di protesta. Mi volto a guardare chiedendomi se qualcuno
stia di nuovo litigando e vedo una moltitudine di bruti che si affollano vicino alla stretta
apertura che dà accesso alla vasca nel tentativo di uscire, in una confusione di gambe
pelose e deretani glabri. Attraverso la cortina di vapore che sale verso il soffitto, nella luce
del tramonto autunnale osservo l’orda dei bruti darsi alla fuga. Voci che gridano: «È
bollente, è bollente!» mi attraversano le orecchie, vengono a confondersi nella mia testa.
Voci di ogni timbro e inflessione, che sovrapponendosi l’una all’altra riempiono la sala da
bagno di un baccano indescrivibile. Servono solo a generare disordine e confusione, a
null’altro. Resto imbambolato, stregato, a guardare la scena. Quando le urla arrivano a
creare un pandemonio mai udito, dalla massa che si spinge e si urta in tutti i sensi si alza
un tipo enorme. Più alto degli altri di tutta la testa, alza la faccia paonazza dalla barba
talmente folta che non si capisce bene se sia la barba a crescere sulla pelle o la pelle a
insinuarsi nella barba, e urla con una voce stentorea che incrinerebbe una campana:
«Aggiungete acqua fredda, presto, acqua fredda! È bollente!» La sua voce e la sua testa si
levano alte sulla massa intricata degli altri, e in quell’istante la sala da bagno al completo si
identifica in lui. Un gigante. Il Superuomo di Nietzsche. Il re dei demoni. Il comandante in
capo dei bruti. Mentre faccio queste riflessioni, da dietro la vasca qualcuno risponde:
«Eccovi serviti!» Sposto lo sguardo da quella parte, e nella semioscurità di colore
indefinibile vedo l’inserviente di prima, sempre con il suo grembiule, gettare una palata di
carbone nella bocca della caldaia come se volesse farla scoppiare. Il carbone prende a
scoppiettare, brucia illuminando la faccia dell’inserviente. Il muro di mattoni alle sue
spalle brilla attraverso l’oscurità come se ardesse. Vedendo che le cose si mettono male,
salto in fretta giù dal davanzale della finestra e torno a casa di corsa. E strada facendo
rifletto. Fra quegli uomini nudi come vermi, che nello sforzo di diventare tutti uguali si
sono tolti braghe, haori e hakama, è emerso un eroe altrettanto nudo che ha imposto agli
altri la propria autorità, Ne deduco che gli esseri umani si possono denudare quanto
vogliono, non raggiungeranno mai l’uguaglianza.
A casa, dove regna la pace, il padrone ha la faccia lucida e liscia che sempre esibisce
quando torna dai bagni pubblici, e sta cenando.
«Che perdigiorno, questo gatto, chissà dov’è stato finora..» dice guardandomi saltare
sulla veranda. Sul tavolo, nonostante la penuria cronica di soldi, ci sono due, anzi tre piatti
da portata. Di questi, uno contiene un pesce arrostito sulla griglia. Non so di che pesce si
tratti, ma dev’essere stato pescato ieri nella vicina baia di Odaiba. Ho già spiegato che i
pesci sono creature molto robuste, ma con tutta la loro salute, una volta che finiscono in
pentola o sulla griglia sono spacciati. Meglio essere cagionevoli, ma non rischiare la vita
che già dura tanto poco. Con questo pensiero in testa mi siedo accanto al tavolino,
cercando di non aver l’aria di elemosinare. Chi non è capace di fingere indifferenza deve
rinunciare alla possibilità di mangiare ogni tanto qualche buon pesce. Il padrone ne
assaggia un boccone o due, poi posa i bastoncini con espressione disgustata. La moglie,
seduta compostamente sui talloni di fronte a lui, finora ha seguito senza dire una parola il
movimento dei suoi bastoncini, studiando attentamente l’aprirsi e il chiudersi delle sue
mascelle.
«Ehi, dagli una botta in testa, a quel gatto», le dice di punto in bianco il marito.
«Perché dovrei?»
«Il perché lo so io, tu dagli una botta in testa».
«Così?» chiede la moglie dandomi con il palmo della mano un colpetto leggero che non
sento nemmeno.
«Non si è lamentato».
«No, certo».
«Dagli un’altra botta».
«Posso dargliene quante vuoi, non cambia niente», fa la moglie dandomi un altro
colpetto con il palmo della mano. Non provando dolore, resto fermo. Però non capisco,
nonostante il mio acume, a cosa serva tutto ciò. Se lo sapessi potrei reagire in qualche
modo, ma prendere botte così, senza un motivo, mette in difficoltà sia la padrona che me le
dà, sia me che le prendo. Non avendo ottenuto per due volte il risultato desiderato, il mio
padrone, un po’ irritato, insiste:
«Dagli una botta che lo faccia miagolare, ti dico!»
«E cosa ci guadagni, dopo averlo fatto miagolare?» chiede la moglie con aria annoiata,
dandomi un colpo un po’ più forte. Benché non sappia quale sia lo scopo del padrone, se
basta che pianga per farlo contento, posso anche piangere. La sua stupidità è davvero
perniciosa, se voleva farmi miagolare, bastava che lo dicesse, non aveva bisogno di
ricorrere a sistemi tanto brutali. Né io ho bisogno che mi ripetano le cose due o tre volte.
Perché dare l’ordine di colpirmi, se lo scopo era un altro? L’atto di picchiare dipende da lui,
ma la decisione di miagolare dipende da me. È stato molto scorretto da parte sua includere
nel suo ordine qualcosa che esula dai suoi poteri, dando per scontato che io obbedissi. Non
sa giudicare il carattere delle persone. Si fa beffe di noi gatti. È una cosa che ci si può
aspettare dal tanto detestato Kaneda, ma da parte del padrone, capace di fare la voce grossa
anche quando è tutto nudo, è una vigliaccata. Tanto più che non è una persona meschina,
ammettiamolo. Può darsi quindi che il suo ordine di picchiarmi non nasca da viltà, che sia
un capriccio generato dalla sua stoltezza. Quando si mangia, la pancia si riempie. Quando
ci si taglia, si sanguina. E se si ammazza qualcuno, l’ammazzato muore. Allo stesso modo il
padrone è saltato alla conclusione che picchiandomi mi avrebbe fatto miagolare. Purtroppo
per lui però questo ragionamento è privo di logica. Altrimenti si potrebbe affermare che chi
cade in un fiume necessariamente annegherà, chi mangia tempura avrà per forza la
diarrea, chi riceve uno stipendio andrà regolarmente a lavorare e chi legge libri di sicuro
diventerà saggio. Se le cose obbedissero a questa logica inderogabile, molte persone si
troverebbero in difficoltà. A me dà molto fastidio dover miagolare quando vengo picchiato.
Non vale la pena di essere nato gatto se devo essere considerato come la campana che batte
le ore a Meijro. Dopo essermi sfogato a coprire di rimproveri il mio padrone, soltanto allora
miagolo come lui vuole.
«Visto? Ha miagolato», dice allora alla moglie. «Secondo te un «miao» è un’interiezione
o un avverbio?»
Presa alla sprovvista, la moglie non risponde. A dir la verità penso che questa nuova
trovata del padrone sia ancora effetto del riflusso di sangue causato dal bagno caldo. Nel
vicinato è famoso per le sue stranezze, al punto che da molti viene considerato un
nevrotico. Lui però è convinto di non esserlo affatto, nella sua immensa presunzione crede
che i nevrotici siano tutti gli altri. Quando i vicini gli danno del cane, lui li chiama maiali,
dichiarando che lo fa per ristabilire il giusto equilibrio. Ed è vero che cerca di essere
imparziale in ogni cosa che fa, con il risultato che diventa un problema per tutti. Dal
momento che è fatto così, porre alla moglie domande tanto assurde gli sembrerà qualcosa
di banale, ma chi lo ascolta lo crederà sull’orlo della nevrosi. Ecco perché la padrona,
frastornata, non sa cosa dire. Quanto a me, ovviamente non ho modo di esprimere il mio
parere.
«Allora?» fa a quel punto il padrone alzando la voce.
«Sì?» risponde la moglie con un sussulto.
«Cosa significa «sì»? Un «miao» è un’interiezione o un avverbio?»
«Che ne so? Che importanza vuoi che abbia una sciocchezza del genere?»
«Ne ha eccome. È un problema che occupa la mente dei maggiori esperti di linguistica
del paese».
«Non mi dire! Il verso dei gatti? Che cosa assurda. Non miagolano mica in giapponese, i
gatti».
«Per l’appunto. È questo il nocciolo del problema. Siamo nel campo degli studi
comparati».
«Ah! E hanno capito se è un’interiezione o un avverbio?» La padrona, che è una persona
di buonsenso, non sembra molto interessata ad approfondire un argomento tanto futile.
«Non è una cosa che si possa capire così, ti ho detto che è un problema complesso», fa il
padrone mettendosi a mangiare in fretta il pesce. Poi butta giù anche il maiale e le patate
che sono negli altri piatti.
«È maiale, questo, vero?»
«Sì, è maiale».
«Mmh», fa lui per tutta risposta, con aria sprezzante, mentre inghiotte. «Gradirei altro
sake», aggiunge tendendo la tazza.
«Be’, questa sera stai bevendo parecchio. Sei già piuttosto rosso in faccia».
«Perché non dovrei bere? Ma senti, sai qual è la parola più lunga al mondo?»
«Sì, non era sakinokanpakudajodaijin?»
«Quello è un nome, ti sto chiedendo una parola».
«Intendi dire una di quelle parole straniere che si scrivono orizzontali?»
«Sì».
«Non lo so. Ora basta sake, però, mangia il riso piuttosto, che ti fa bene».
«Invece ho voglia di bere ancora. Vuoi che ti dica qual è la parola più lunga al mondo?»
«Sì, ma poi mangia il riso».
«Archaiomelesidonophrunicherata10.
«È una presa in giro».
«Niente affatto, è greco antico».
«E cosa significa in giapponese?»
10
Da una parola che si trova in Aristofane.
«Il significato lo ignoro, so soltanto come si scrive. Scrivendo un po’ grosso è lunga quasi
venti centimetri».
La cosa stupefacente è che il padrone afferma con la massima serietà cose che chiunque
altro direbbe solo nei fumi dell’alcol. In più sta anche bevendo più del solito. Normalmente
si limita a due tazze di sake, ma stasera è già alla quarta. Se due tazze sono sufficienti ad
arrossargli la faccia, dopo quattro l’ha in fiamme, e come se non bastasse ha un’espressione
sofferente. Eppure continua a bere.
«Ancora una», fa e tende la tazza.
«Adesso basta, stai esagerando», risponde la moglie contrariata. «Starai male».
«Non fa nulla, d’ora in poi ho intenzione di allenarmi. Omachi Keigetsu 11 ha detto che
dovrei bere».
«E chi sarebbe, questo Keigetsu?» Agli occhi della padrona persino le parole dell’esimio
Keigetsu non valgono nulla.
«È il critico più illustre che ci sia attualmente in campo letterario. Se lui ha detto che
dovrei bere, puoi stare sicura che ha ragione».
«Che sciocchezza, può essere illustre quanto vuole, se ti consiglia di bere sapendo che
poi stai male, farebbe meglio a stare zitto».
«Non mi consiglia solo di bere, anche di vedere gente, frequentare le case da tè,
viaggiare…»
«Che faccia tosta! E questo sarebbe un critico illustre? Sono sconcertata. Incitare a
frequentare le case da tè uno che ha moglie e figli…»
«Perché no? Se avessi i soldi lo avrei già fatto, anche senza i consigli di Keigetsu».
«Sono felice che tu non li abbia. Metterti a fare vita dissoluta alla tua età! Sarebbe un bel
guaio…»
«Un guaio, dici? Be’, allora rinuncio. In cambio però prenditi più cura di tuo marito, e
cucinagli pasti migliori».
«Faccio già del mio meglio».
«Non ne sono sicuro. Bene, allora a una vita dissoluta mi darò quando avrò soldi, per
stasera ho bevuto abbastanza», dice tendendo la ciotola perché la moglie gli serva il riso.
Ha mangiato tre ciotole di riso mescolato con il tè. Io ho ricevuto tre fette di maiale e la
testa del pesce.
11
Omachi Keigetsu (1869-1925), poeta, membro dell’associazione Asaka, che promuoveva il rinnovamento del tanka.
8
Quando ho spiegato l’esercizio del «giro del recinto», mi riferivo alla staccionata di
bambù che circonda il giardino. Non crediate che al di là ci siano case abitate da persone
qualsiasi, fareste un grosso errore. È vero che il mio padrone paga un affitto modesto, ma è
pur sempre un professore. Nella sua posizione sociale non può permettersi di avere per
vicini di casa, con tutta la familiarità che la sola separazione di una sottile staccionata di
bambù comporta, i primi venuti. Al di là della staccionata c’è un terreno abbandonato largo
una decina di metri, delimitato da una fila di cinque o sei folti cipressi. Guardandoli dalla
veranda si ha l’impressione di vedere un bosco lussureggiante al di qua del quale, in questa
casa isolata, viva un professore misantropo che trascorre le sue giornate lontano dalla
società e dal mondo, con l’unica compagnia di un gatto senza nome. I cipressi però non
sono tanto folti da nascondere del tutto la vista come si potrebbe pensare: attraverso i rami
si scorge benissimo il tetto modesto di una pensione che di bello ha solo il nome, Residenza
delle Gru. Difficile, ammetterete, immaginare un professore in un ambiente simile.
Comunque se questo è il nome che hanno dato a una modestissima pensione, la casa del
mio padrone merita almeno l’appellativo di Caverna del Drago in Letargo. I nomi non
pagano tasse, quindi nulla impedisce di fare a gara nell’attribuirsi le definizioni più
splendide. A ogni modo, il terreno largo una decina di metri si estende lungo la staccionata
di bambù da sud a nord per una ventina di metri, poi fa una svolta ad angolo retto
circondando la Caverna del Drago in Letargo. È questo lato a nord la fonte di tutti i nostri
guai. L’estensione del terreno permetterebbe di passeggiarvi e potrebbe essere un motivo
di vanto, ma poiché circonda su due lati la nostra casa, è causa di serie preoccupazioni sia
al mio padrone che a me, il sacro gatto che vive nella Caverna del Drago: non ne possiamo
più.
Mentre a ovest l’area è delimitata dai cipressi, a nord ci sono sei o sette paulonie in fila.
Ormai hanno un tronco spesso trenta centimetri, varrebbe la pena di farle tagliare e
portare via da un fabbricante di geta, ma il mio padrone, anche se gli venisse in mente, non
potrebbe prendere quest’iniziativa perché purtroppo è in affitto. È davvero un peccato per
lui. L’altro giorno il bidello della sua scuola è venuto a tagliarne un ramo e la volta dopo
portava ai piedi dei grossi geta di legno di paulonia. Andava annunciando a tutti, sebbene
nessuno glielo chiedesse, che li aveva ricavati dal ramo che si era portato via. È ingiusto. Le
paulonie ci sono ma per la famiglia del padrone, me incluso, è come se non esistessero.
Dice il proverbio che al poveraccio possedere un gioiello attira solo disgrazie; nel nostro
caso far crescere paulonie non frutta un soldo, quindi è come se avessimo un gioiello del
tutto inutile. Lo stupido non è il mio padrone, tanto meno io, ma il proprietario della casa,
Denbei. Le paulonie se ne stanno lì con l’aria di chiedere urgentemente l’intervento di un
fabbricante di geta, ma lui fa finta di niente, viene soltanto a riscuotere i soldi dell’affitto.
Ma non ho niente contro di lui e non ho intenzione di criticarlo ulteriormente. Tornando al
problema da cui sono partito, vorrei raccontarvi la storia incredibile che ha trasformato
questo terreno incolto in un vero e proprio pomo della discordia, a patto che mi
promettiate di non dirlo al padrone. Deve restare fra noi.
Tanto per cominciare, il problema riguardo a questo terreno è la mancanza di una
recinzione. È un luogo spazzato dal vento dove entra ed esce chi vuole, un onesto, legittimo
terreno incolto. Anzi, usare il presente non è giusto, potrebbe trarvi in inganno, in realtà
dovrei dire che «era» un onesto terreno incolto. Ma devo risalire indietro nel tempo per
spiegarvi l’origine di tutta questa storia. Se non si capiscono le cause dei malanni, inutile
andare dal medico. Cominciamo dunque da quando il mio padrone si è trasferito qui. Uno
spazio aperto e ventilato è fresco e piacevole d’estate e, anche se presenta qualche rischio,
chi non possiede ricchezze non ha nulla da temere. Di conseguenza la casa non aveva
bisogno di siepi, recinti, palizzate di legno e barriere difensive di sorta. Prima di darlo per
scontato però sarebbe stato più prudente considerare il genere di animali o persone che
vivevano dall’altra parte del terreno incolto. Si sarebbe dovuto investigare sulla natura dei
gentiluomini che si erano stabiliti nella postazione laggiù. Definirli gentiluomini prima di
sapere con chi si ha a che fare è forse precipitoso, ma non rischio di sbagliare. Non viviamo
forse in un mondo in cui anche i ladri vengono chiamati gentiluomini? In questo caso però
non si tratta sicuramente di gentiluomini che possano creare problemi alla polizia. In
compenso, sono tantissimi. Una moltitudine. Perché c’è una scuola, lì, un liceo privato
chiamato Le Nuvole Calanti, dove ogni mese viene chiesto a ottocento gentiluomini in erba
di pagare una retta di due yen al fine di educarli a diventare ancora più gentiluomini. Il
nome della scuola potrebbe indurvi a pensare che si tratti di giovani raffinati, ma sarebbe
un errore fatale. Non bisogna fidarsi dei nomi, come prova il fatto che nella Residenza delle
Gru non ci sono veramente delle gru, e che nella Caverna del Drago in Letargo in realtà c’è
soltanto un gatto. Se un balordo come il mio padrone può fregiarsi dei titoli di laureato e
insegnante, perché alle Nuvole Calanti dovrebbero esserci soltanto giovani ben educati? Se
vi ostinate a pensarlo, basta che veniate a passare tre giorni a casa mia.
Come ho appena detto, all’epoca in cui si è trasferito qui, il terreno incolto non era
recintato e i gentiluomini della scuola, come il Nero del vetturino, venivano a chiacchierare
sotto le paulonie, a mangiare il pranzo portato da casa, a sdraiarsi sulle foglie di bambù, a
fare tutto quello che saltava loro in testa. Poi hanno cominciato a gettare a terra resti di
cibo, involucri in scorza di bambù, vecchi giornali, anche sandali di paglia consumati e
vecchi geta, qualunque cosa non servisse più. Il mio padrone, nella sua sovrana
indifferenza, non ci badava, sopportava questo comportamento senza protestare, forse non
lo notava neppure o, se lo notava, aveva deciso di non lagnarsi. In conclusione gli studenti,
che più venivano istruiti più diventavano gentiluomini, come bachi da seta dal lato nord a
poco a poco sono passati a rosicchiare il lato sud. Parlando di gentiluomini forse
«rosicchiare» non è il termine adatto, ma non saprei quale altro usare. Al pari dei nomadi
che vivono nel deserto, a un certo punto hanno lasciato il territorio delle paulonie per
avanzare in quello dei cipressi. Ora questo si trova di fronte alla stanza dove riceviamo gli
ospiti. Solo dei gentiluomini estremamente arditi potevano osare tanto. Un giorno il loro
coraggio è diventato audacia. Nulla è più terribile dei risultati dell’istruzione. Non bastava
che si affollassero davanti alla stanza degli ospiti, si sono anche messi a cantare. Ora non
ricordo di che canzone si trattasse, ma sono sicuro che non faceva parte del repertorio
classico, era qualcosa di molto più facile e orecchiabile. A stupirsi non è stato solo il
padrone, persino io sono rimasto ad ascoltare sbalordito, in ammirazione davanti al loro
talento. Tuttavia, come il lettore sa bene, ci sono casi in cui ammirazione e fastidio possono
coesistere. A ripensarci ora, è davvero un peccato che in quell’occasione abbiano finito con
il fondersi in un sentimento solo. Anche al mio padrone sarà dispiaciuto, ma due o tre
volte, incapace di trattenersi, è uscito di corsa dallo studio e ha cacciato gli studenti
urlando: «Via, non potete stare qui, andatevene!» Ma potevano mai dei gentiluomini
istruiti mostrarsi docili e obbedienti? Ogni volta che venivano cacciati via, puntualmente
tornavano. E si mettevano a cantare allegre canzoni, inframmezzando di chiacchiere le
modulazioni delle loro voci assordanti. Chiacchiere di gentiluomini, s’intende, quindi nulla
di originale, solo stupidaggini. Con spreco di vocaboli che prima della Restaurazione
facevano parte del gergo professionale di facchini e uomini di fatica. Pare che da quando
siamo entrati nel ventesimo secolo siano invece i primi che si imparano a scuola. C’è chi
sostiene che questo fenomeno è uguale a quello che vede l’esercizio fisico, un tempo
disdegnato, oggi molto apprezzato. Una volta uno studente particolarmente esperto in
questo genere di linguaggio è stato acciuffato dal padrone uscito di corsa dallo studio, e
subito ha dimenticato i termini alla moda che usava di solito per scusarsi con parole
volgarmente banali: «Mi spiace, pensavo che anche questo fosse terreno di gioco della
scuola». Dopo avergli impartito una ramanzina, il padrone l’ha liberato. Visto che non sto
parlando di una piccola tartaruga, l’espressione «l’ha liberato» suonerà forse strana, ma è
vero che l’ha trattenuto per la manica per tutta la durata della ramanzina. Quel giorno il
mio padrone ha deciso che i giovani gentiluomini avevano superato il limite. Peccato che
fin dai tempi di Nuwa1 la realtà non corrisponda alle aspettative. Ancora una volta il
professor Kushami ha commesso uno sbaglio. Da allora gli studenti hanno cominciato a
passare attraverso la nostra proprietà: entravano da nord e uscivano dal nostro cancello
facendolo rumorosamente scorrere sulle rotaie. Ogni volta ci aspettavamo la visita di
qualche ospite, poi sentivamo soltanto delle risate vicino alle paulonie. La situazione è
rapidamente peggiorata. I risultati dell’istruzione erano sempre più evidenti. Il mio povero
padrone, esasperato, si è chiuso nello studio a scrivere una lettera rispettosa al direttore
delle Nuvole Calanti, chiedendogli di controllare con maggior rigore i suoi allievi. La
risposta è stata altrettanto rispettosa: nella sua lettera lui pregava il mio padrone di voler
pazientare un poco, perché avrebbe fatto costruire una recinzione quanto prima. Dopo
qualche giorno sono arrivati un paio di artigiani che in mezza giornata hanno eretto fra il
terreno incolto e quello della scuola un semplice steccato di canne di bambù. Il mio
padrone era tutto contento, convinto che non ci sarebbero più state incursioni. È un po’
svitato, lo sappiamo. Come poteva un recinto tanto rudimentale contenere l’esuberanza
degli studenti?
Insomma, burlarsi delle persone è divertente. Persino un gatto come me ogni tanto si
diverte a giocare qualche tiro alle bambine di casa. Quindi per i gentiluomini delle Nuvole
Calanti beffarsi di quel testone del professor Kushami doveva essere un divertimento
supremo: probabilmente a essere scontento era solo lui, lo sbeffeggiato. Se analizziamo la
psicologia della beffa, vediamo che due sono gli aspetti essenziali. Primo, non funziona se
la vittima se ne infischia e non reagisce. Secondo, l’autore della beffa dev’essere superiore
in numero o in forza al suo bersaglio. L’altro giorno il mio padrone, tornando dal giardino
zoologico, ci ha raccontato qualcosa che lo aveva molto impressionato. Aveva assistito al
litigio tra un cammello e un cagnolino: a un certo punto il cagnolino si era messo a correre
come un tornado intorno al recinto del cammello abbaiando, ma il cammello non l’aveva
degnato di uno sguardo, se n’era rimasto tranquillo in piedi con le sue gobbe sulla schiena.
Il cane aveva un bell’abbaiare e fare il diavolo a quattro, non riusciva nemmeno a farsi
notare, così alla fine, deluso, aveva smesso. Il mio padrone ha riso del cammello dicendo
che era un po’ tonto, ma nella questione che ci riguarda l’esempio viene a fagiolo: per
quanto abile sia l’autore di una beffa, non sortirà alcun effetto su qualcuno che si comporti
come il cammello. E anche se ci riuscisse, che disastro se per caso prendesse di mira un
bersaglio forte come un leone o una tigre! Finirebbe sbranato. Ma quando si è sicuri che la
vittima, per quanto mostri i denti e si adiri, non ci può danneggiare, allora farsi gioco di lei
diventa davvero un gran piacere. Un piacere che si spiega in molti modi. Prima di tutto è
un’attività che aiuta ad ammazzare il tempo. Quando ci si annoia si finisce persino con il
1
Figura femminile della mitologia cinese.
contarsi i peli della barba. Si racconta di un prigioniero che per la noia e la solitudine
passava le giornate a disegnare sui muri della cella un’infinità di triangoli, uno sull’altro.
Non c’è nulla di meno sopportabile al mondo della noia, se non succede qualcosa che
stimoli la nostra vitalità non vale la pena vivere. Ora, beffarsi di qualcuno crea questo
stimolo e quindi diverte. Ma se la controparte non dà segni di collera o di irritazione, anche
minimi, se non mostra debolezza alcuna, lo stimolo viene a mancare.
Da sempre le persone dedite al piacere della beffa sono quelle che si annoiano, come gli
stupidi signori feudali di un tempo, del tutto insensibili ai sentimenti altrui, oppure i
ragazzini dalla mentalità infantile che pensano solo a divertirsi e non sanno in quale altro
modo sfogare la loro energia. Poi ci sono coloro che cercano un modo facile per provare la
propria superiorità. Certo uccidere, ferire e imprigionare è un buon sistema, ma solo
quando tali azioni sono finalizzate al raggiungimento di un altro obiettivo. In questo caso la
propria superiorità è inconfutabilmente provata dall’uso stesso di questi mezzi. Quando
invece si vuole mostrare la propria forza senza causare danni o dolore, la beffa è il metodo
più adatto. Non si può dimostrare che si è superiori se in qualche misura non si ferisce
qualcuno. Perché se non c’è prova concreta, la convinzione interiore di esserlo non procura
un gran piacere. Gli uomini hanno bisogno di avere fiducia in se stessi. E quando non
possono averne, la vogliono ugualmente. Ne hanno una tale necessità che per rassicurarsi
sono pronti a ottenerla a spese altrui. Le persone volgari, irragionevoli o insicure colgono
ogni occasione per procurarsi una prova della propria forza. Allo stesso modo in cui coloro
che praticano il judo sentono a volte il desiderio di far capitombolare qualcuno: i judoka
poco esperti cercano allora di confrontarsi con persone più deboli di loro, anche solo per
una volta, anche con chi il judo non lo pratica, e vanno in giro per la città con intenzioni
estremamente pericolose. Ci sarebbero tante altre ragioni all’origine della beffa, ma
rischierei di andare per le lunghe e preferisco fermarmi qui. Chi vuole saperne di più può
venire da me quando vuole con un bel pezzo di tonno essiccato, sarò felice di illustrargli la
mia teoria.
In base alle considerazioni appena fatte, possiamo dedurre che le vittime designate delle
beffe altrui sono le scimmie dello zoo di Asakusa e i professori. Forse è irrispettoso
paragonare i professori alle scimmie di Asakusa - irrispettoso nei confronti dei professori,
voglio dire, non delle scimmie - ma poiché hanno una caratteristica in comune, non ci
posso fare nulla. Come sapete, le scimmie delle zoo sono legate a una catena e per quanto
mostrino i denti e si agitino, non c’è pericolo che si liberino. I professori non sono
incatenati, però sono vincolati dallo stipendio. Li si può dileggiare quanto si vuole, non
daranno mai le dimissioni per togliersi il gusto di suonarle di santa ragione a un allievo. Se
avessero tanto coraggio, non avrebbero scelto una professione che li obbliga a fare da balie
ai ragazzini. Il mio padrone è un professore. Non insegna alle Nuvole Calanti, ma resta pur
sempre un professore. Di conseguenza è l’uomo ideale da sbeffeggiare in tutta tranquillità e
sicurezza. Gli allievi delle Nuvole Calanti sono molto giovani, farsi gioco delle persone è per
loro un modo per rafforzare la propria identità, e forse sono convinti che l’istruzione
ricevuta ne dia loro il diritto incontestabile. Inoltre, se non lo facessero, non saprebbero
come impiegare le loro menti e i loro corpi carichi di energia nei dieci minuti di intervallo.
In queste condizioni, non meraviglierà nessuno che il mio padrone diventi il bersaglio delle
loro beffe, e che loro si divertano un mondo a prenderlo in giro. Solo uno sciocco ottuso
come il professor Kushami può infuriarsi per questo. Vi racconterò ora con quale
impudenza gli studenti si siano fatti gioco di lui, e con quale stupidità lui abbia reagito alle
loro provocazioni.
I lettori sapranno com’è fatto uno steccato di bambù. È una recinzione rudimentale che
non ripara dal vento. Per me è una bazzecola passarci attraverso nei miei andirivieni,
praticamente è come se non ci fosse. Ma non è per tenere lontani i gatti che il direttore
della scuola l’ha fatto costruire: se si è dato la pena di pagare a tal fine degli artigiani è
perché i giovani gentiluomini cui impartisce l’educazione venissero contenuti da un recinto
attraverso il quale non potessero passare. E uno steccato di bambù non proteggerà dal
vento, ma di sicuro sbarra l’accesso a una persona. Sgusciare attraverso i buchi quadrati di
dodici centimetri di lato che formano le canne di bambù sarebbe difficile anche per un
contorsionista come il famoso mago cinese Chang Shihzun, di conseguenza è una
recinzione più che efficace per tenere lontane le persone. Niente di strano che quando l’ha
visto il mio padrone si sia rallegrato e abbia detto che ormai era tutto a posto. Nel suo
ragionamento però c’erano dei buchi. Buchi più grossi di quelli del recinto. Tanto grossi
che ci sarebbe passato anche quel pesce che inghiottì una barca. Lui partiva dalla
convinzione che un recinto fosse qualcosa che non si deve oltrepassare. E che a maggior
ragione non c’era pericolo che l’oltrepassassero gli allievi di una scuola, se era loro chiaro
che di un recinto si trattava, per quanto rudimentale, e che serviva a segnare un confine. E
anche avesse temporaneamente rinunciato a questa convinzione, si sarebbe sentito lo
stesso al sicuro da ogni eventuale incursione perché attraverso dei buchi tanto esigui
nemmeno dei ragazzini avrebbero potuto sgusciare, ogni rischio secondo lui era
scongiurato. In un senso aveva ragione, non essendo dei gatti non avrebbero potuto farlo
neanche volendo, però arrampicarsi sul recinto o saltarlo per loro era uno scherzo, anzi, era
un esercizio dei più spassosi.
Il giorno dopo l’installazione dello steccato la situazione era tornata la stessa di prima:
gli studenti saltavano uno dopo l’altro nella parte a nord del terreno incolto. Però non
osavano più spingersi nella zona davanti alla stanza degli ospiti, perché non sarebbero
riusciti a scappare nel caso il professore li avesse inseguiti. Calcolando esattamente il
margine di sicurezza, venivano a far baccano fin dove erano sicuri di farla franca.
Dal suo studio, all’estremità orientale della casa, il padrone non poteva vedere quello
che facevano, per rendersi conto della confusione che creavano nella parte a nord del
terreno incolto doveva aprire il cancelletto che dal nostro giardino permette di passare
nella parte a sud e voltarsi nella direzione opposta al chiavistello, oppure guardare fuori
dalla finestra del gabinetto. Da lì bastava un’occhiata per farsi un quadro della situazione,
ma a cosa gli sarebbe servito scoprire orde di invasori se poi non li poteva catturare?
Qualche volta urlava loro qualcosa attraverso la grata di legno della finestra. Se faceva tutto
il giro dal cancelletto del giardino per piombare in territorio nemico, gli studenti, avvertiti
dal rumore dei suoi passi, saltavano in fretta lo steccato prima di venire acchiappati. Come
fanno le foche che prendono il sole sulla banchina quando i cacciatori cercano di catturarle.
Ovviamente il padrone non poteva restare di guardia nel gabinetto. Neppure stare in
agguato con il cancelletto aperto per scattare al primo rumore. Il giorno in cui si mettesse a
fare delle strampalerie del genere, dovrebbe dare le dimissioni per dedicarsi
esclusivamente a questa attività. Lo metteva in svantaggio il fatto che dallo studio poteva
sentire il nemico ma non vederlo, mentre dal gabinetto lo vedeva, ma non aveva modo di
agire. E i giovani nemici, rendendosi conto di questa sua difficoltà, avevano messo a punto
una strategia adeguata. Quando erano sicuri che il professore era chiuso nello studio, si
mettevano a parlare ad alta voce facendo un gran chiasso e tenendo discorsi che potessero
irritarlo. Come se non bastasse, non lasciavano capire se si trovassero al di qua o al di là
dello steccato. Nel primo caso, quando il padrone usciva dallo studio scappavano, nel
secondo facevano finta di niente. Quando invece si accorgevano che lui era nel gabinetto -
scusate se continuo a usare questa parola volgare, so che non c’è da andarne fieri, ma ai fini
del racconto non posso farne a meno quando si accorgevano dunque che lui era nel
gabinetto, si mettevano a gironzolare fra le paulonie cercando di attirare la sua attenzione.
Se a quel punto lui si metteva a urlare facendosi sentire in tutto il vicinato, i nemici si
ritiravano nel loro territorio senza fretta, con noncuranza. Questa strategia metteva il mio
padrone nella più grande agitazione. Si precipitava fuori brandendo il bastone da
passeggio, sicuro che fossero entrati, ma tutt’a un tratto non c’era più nessuno. Allora
correva a controllare dalla finestra se veramente se n’erano andati, ed ecco che uno o due
saltavano dentro Usciva facendo il giro dal giardino, poi andava a guardare dalla finestra…
guardava dalla finestra, poi usciva facendo il giro dal giardino… era un circolo vizioso.
Glielo si poteva dire e ridire, continuava a comportarsi allo stesso modo. Tutto ciò lo teneva
occupato e lo affaticava oltre misura. L’assurdità della sua condotta era tale che ormai non
si capiva più quale fosse la sua vera professione, insegnare o fare la guerra. Arrivati a
questo punto, è successo il fatto che sto per raccontarvi. Gli incidenti nascono quasi sempre
quando le cose si mettono ad andare all’incontrano.
Letteralmente all’incontrario, su questo punto sono tutti d’accordo, Galeno, Paracelso e
persino il vecchio Pian Que2. Il problema è capire dove vadano. E si potrebbe discutere a
lungo anche sulla natura delle cose che possono andare in senso inverso. Stando all’antica
medicina europea, nel corpo scorrono quattro umori. Prima di tutto la bile, che risalendo
provoca la collera. Poi c’è l’atrabile, che rischia di addormentare i nervi. Il terzo è la
flemma, che rattrista gli uomini. L’ultimo è il sangue, che infonde energia ai quattro arti. In
tempi più recenti, con il progresso della civilizzazione, la bile, l’atrabile e la flemma sono
state eliminate, attualmente resta soltanto il sangue. Che ormai è l’unico liquido che possa
andare all’incontrario. Ora la quantità di sangue contenuta in ogni corpo umano è ben
precisa. Possono esserci delle piccole variazioni, ma in genere è di 9, 9 litri. Se questi 9, 9
litri si mettono a risalire in senso inverso, il punto d’arrivo, la testa, sarà in subbuglio,
mentre le altre parti del corpo diventeranno torpide e fredde. Proprio come accadde
quando a Tokyo la folla incendiò i posti di polizia 3 e gli agenti corsero tutti quanti al
quartier generale, di modo che non se ne trovava più nemmeno uno in tutta la città.
Valutando l’episodio con criteri medici, si può dire che si è trattato di un riflusso di
poliziotti. L’unico modo per calmare un riflusso di sangue è ridistribuirlo equamente in
tutte le parti del corpo, spingere quindi in basso il sangue che è salito al cervello. Ci sono
molti modi per ottenere quest’effetto. Il defunto padre del mio padrone soleva mettersi un
asciugamano bagnato sulla testa e infilare le gambe sotto il kotatsu. Consiglio che si trova
anche in un antico manuale di medicina cinese sulle febbri tifoidee: «Mettere ogni giorno
senza eccezione un panno bagnato sul capo». Oppure si può provare il sistema usato dai
monaci itineranti che vanno di regione in regione senza una meta precisa, come le nuvole e
l’acqua, e scelgono sempre di fermarsi a dormire in un posto dove ci siano «un albero sopra
e una pietra sotto». Questo non per un motivo religioso né per fare penitenza, ma per
evitare i riflussi di sangue, un metodo inventato dal sesto maestro zen, Hui Neng, mentre
spulava il riso. Provate a sedervi sopra una pietra, è ovvio che vi si congelerà il sedere. E se
il sedere è freddo, impedirà che il sangue risalga fino al cervello. Fin qui tutto segue il corso
naturale delle cose e non c’è motivo di sollevare obiezioni. Ne consegue che diversi metodi
sono stati inventati per calmare un riflusso di sangue, ma purtroppo non è stato ancora
trovato un sistema per provocarlo. L’opinione generale è che sia nocivo o per lo meno non
2
3
Medico cinese del terzo secolo d.C., di fama leggendaria.
Il 5 settembre del 1905 la popolazione di Tokyo, scontenta dei termini del trattato di Portsmouth - che non concedeva al
Giappone indennità di guerra da parte della Russia - scatenò una rivolta durante la quale vari posti di polizia di quartiere vennero
incendiati.
porti alcun beneficio, ma in certi casi saltare a questa conclusione è uno sbaglio. Ci sono
professioni in cui un riflusso di sangue può essere utilissimo, addirittura indispensabile.
Prima fra tutte, quella di poeta. Ai poeti il riflusso di sangue è necessario come il carbone a
un battello a vapore, privati anche solo per un giorno di questo combustibile potrebbero
incrociare le braccia e diventare persone ordinarie che non sanno fare altro che rimpinzarsi
di cibo. In realtà un riflusso di sangue è un attacco di follia, ma fra loro i poeti non lo
chiamano con il suo nome, che figura farebbero agli occhi del mondo se dicessero che non
si può fare poesia a meno di essere pazzi? Lo chiamano enfaticamente «ispirazione» e si
riempiono la bocca di questa parola. È un termine che hanno inventato per gabbare la
gente, si tratta di un semplice afflusso di sangue al cervello. Per Platone, complice dei
poeti, questo genere di accessi era una follia sacra, ma per quanto sacra la follia resta follia
e nessuno vuole avere a che fare con i matti. A ogni buon conto i poeti hanno tutto
l’interesse a chiamarla con questo nome che assomiglia a quello di un farmaco
recentemente brevettato. Detto ciò, come la statua della dea della Misericordia Kannon è
un volgare pezzo di legno mezzo marcio alto sei centimetri, come il kamonanban di anatra
è fatto con la carne di corvo, come nella zuppa di manzo che servono nelle locande di
second’ordine in realtà c’è carne di cavallo, l’ispirazione resta un volgare afflusso di sangue
al cervello. Il quale è una specie di follia temporanea. Ed è questo il motivo per cui i poeti
non finiscono tutti al manicomio di Sugamo. Ora bisogna sapere che indurre questa
particolare follia non è facile. Mentre creare un pazzo cronico è una cosa da nulla, far uscire
di senno qualcuno nel momento esatto in cui ha un pennello in mano ed è seduto di fronte
a un foglio di carta, anche per la divinità più potente è una fatica improba, raramente
coronata da successo. E se gli dei non vogliono darsi questa pena per noi, dobbiamo
riuscirci con le nostre sole forze. Su entrambi gli aspetti del problema - provocare e far
cessare i riflussi di sangue - fin dai tempi antichi gli studiosi si sono spremuti le meningi
per trovare tecniche efficaci. Uno di loro per farsi venire l’ispirazione mangiava ogni giorno
una dozzina di cachi acerbi. Perché i cachi verdi provocano la diarrea, la quale a sua volta
favorisce gli afflussi di sangue al cervello. Un altro entrava in una tinozza piena d’acqua
calda munito di un thermos di sake bollente, sicuro di ottenere lo scopo. A sentire lui, se
questo sistema falliva, bastava sostituire l’acqua con succo d’uva, avrebbe funzionato
seduta stante, ne era fermamente convinto. Però le sue finanze non glielo permettevano,
purtroppo, così morì senza mettere in pratica la sua idea. Per finire, un tale si andò a
immaginare che imitando i grandi poeti gli sarebbe sicuramente venuta l’ispirazione. Era
un’applicazione della teoria secondo la quale basta copiare il comportamento di qualcuno
per trovarsi nelle medesime condizioni spirituali. Insomma sproloquiando come un
ubriaco, senza accorgersene si finirebbe con il provare le sensazioni di chi ha bevuto
qualche tazza di sake di troppo. Restando in ginocchio per il tempo che un bastoncino
d’incenso impiega a bruciare, si raggiungerebbe l’imperturbabilità di un monaco zen. Di
conseguenza, imitando la condotta dei grandi maestri dell’antichità che conobbero
l’ispirazione, il riflusso di sangue sarebbe garantito. Si dice che Victor Hugo ideasse la
trama dei suoi romanzi sdraiato sul ponte di un battello. Quindi non resta che salire su una
barca e mettersi a guardare il cielo azzurro, il miracolo si produrrà senza fallo. Stevenson
invece pare che scrivesse disteso sulla pancia. Mettetevi dunque bocconi armati di
pennello, e immediatamente il sangue vi salirà alla testa. Come vedete, tante persone
hanno avuto tante idee diverse, ma nessuno finora ha avuto successo. Insomma, al
momento è ancora impossibile causare artificialmente un riflusso di sangue. È desolante,
ma non c’è modo di riuscirci. Non dubito tuttavia che entro breve saremo in grado di
provocare l’ispirazione, e per il bene dell’umanità spero che quel giorno arrivi il più presto
possibile.
Credo di essermi dilungato a sufficienza su questo tema, è ora di tornare alla nostra
vicenda. Ogni avvenimento grave è preceduto da eventi di minore importanza. Molti sono
gli storici che hanno fatto lo sbaglio, raccontando gli eventi maggiori, di dimenticare i
minori. Anche i riflussi di sangue del mio padrone andavano aumentando di intensità a
ogni piccola provocazione, fino all’esplosione finale. Racconterò quindi con ordine lo
sviluppo graduale della situazione per evitare il rischio che la reale gravità di questi riflussi
non venga capita, che siano considerati episodi trascurabili, indegni di essere chiamati con
il loro nome. E non sarebbero sprecati, se non ne venisse riconosciuta la grandezza? Gli
eventi che sto per narrare, importanti o meno che siano, non faranno sicuramente onore al
mio padrone. I fatti in sé sono ingloriosi, d’accordo, ma lasciatemi per lo meno chiarire che
i riflussi di sangue sono autentici, e che non sono inferiori a quelli di nessuno. Il padrone
non ha alcuna caratteristica particolare da cui io possa trarre motivo di fierezza. Se non
dovessi nemmeno andare orgoglioso dei suoi riflussi di sangue, non troverei nulla da
scrivere su di lui neanche spremendomi il cervello.
Le truppe nemiche acquartierate presso le Nuvole Calanti hanno inventato una specie di
proiettili dum-dum4 che continuano a sparare verso il terreno incolto nella parte nord, sia
nei dieci minuti di intervallo che dopo le lezioni. Questi proiettili vengono comunemente
chiamati «palle», e per lanciarli in campo nemico si usa un attrezzo che assomiglia a un
grosso pestello. Sono pericolosissimi, ma poiché vengono lanciati dal campo sportivo della
scuola, non c’è rischio che colpiscano il padrone chiuso nello studio. Anche il nemico si è
reso conto che la loro traiettoria è troppo corta, ed è proprio questa la strategia. Si dice che
il nostro successo nella battaglia di Port Arthur sia dovuto all’intervento indiretto
dell’artiglieria navale, quindi le cosiddette «palle» che vengono a rotolare nel terreno
incolto non possono non ottenere qualche risultato. In più ogni lancio è accompagnato da
un minaccioso «uaaah!» urlato in coro a gola spiegata, una cosa molto seccante. Il padrone
ogni volta ne è talmente irritato che dapprima le vene delle braccia e delle gambe
cominciano a pulsargli e poi, all’apice dell’agitazione, il sangue, disorientato,
inevitabilmente gli sale alla testa. Il piano del nemico è riuscito in pieno. Nell’antica Grecia
c’era uno scrittore che si chiamava Eschilo. La sua testa, si dice, era come quella di tutti gli
scrittori e gli studiosi, cioè calva. La ragione della calvizie è una sola: la testa, se non riceve
nutrimento a sufficienza, non ha l’energia per far crescere i capelli. Ora gli studiosi e gli
scrittori, oltre a usarla molto, di solito sono poveri in canna. Ragion per cui non la nutrono
abbastanza e tutti, dal primo all’ultimo, perdono i capelli. Eschilo, che era uno scrittore,
doveva necessariamente essere calvo anche lui. Aveva il cranio lucido e liscio come un
mandarino. Un giorno stava andando a spasso con la sua solita testa - è ovvio, non è che se
ne abbia una per uscire e una da portare in casa, come i vestiti - e camminava per le strade
illuminate dal sole. Fu questa la causa del fatale errore. Un cranio calvo illuminato dal sole
manda bagliori che si vedono da lontano. Come i grandi alberi vengono sferzati dal vento, i
crani calvi attirano i colpi. Quel giorno sopra la testa di Eschilo volava un’aquila che teneva
fra gli artigli, pensate un po’, una tartaruga catturata chissà dove. Le tartarughe sono
indubbiamente squisite, però hanno sempre avuto un guscio durissimo, fin dai tempi
dell’antica Grecia. Di conseguenza, per quanto buone, non si possono mangiare così come
sono. Gli scampi si cucinano con tutto il guscio, ma le tartarughe no, finora non è stato
inventato un modo per farlo. E tanto meno lo si faceva ai tempi di Eschilo. Anche l’aquila si
4
Tipo di proiettili che esplodono all’impatto, fabbricati in India nella città di Dumdum, vietati dal Secondo Congresso
dell’Aja, nel 1907.
chiedeva perplessa come mangiare la sua preda, quando sotto di sé, sulla terra lontana,
vide baluginare qualcosa. Pensò di aver trovato la soluzione: lasciando cadere la tartaruga
su quell’oggetto luccicante, di sicuro il guscio si sarebbe spaccato. E una volta rotto il
guscio, le sarebbe bastato scendere e cibarsi del contenuto. Fidando nella sua fortuna,
lasciò cadere la tartaruga dall’alto, senza preavviso, sulla testa di Eschilo. Disgraziatamente
la testa degli scrittori è meno dura del guscio delle tartarughe, e a spaccarsi fu il cranio del
grande tragico, che trovò una morte crudele. A parte ogni considerazione in proposito, ciò
che non mi è chiaro è il ragionamento dell’aquila. Se lasciò cadere la tartaruga sapendo di
colpire una testa, quella di uno scrittore, si comportò esattamente come gli allievi delle
Nuvole Calanti, ma se pensava si trattasse di una roccia nuda, no. La testa del mio padrone
non luccica come quella di Eschilo o di altri illustri studiosi. Però ogni giorno si ritira in
una stanza di appena sei tatami che chiama il suo studio e mentre fa il sonnellino
pomeridiano tiene la testa posata su testi astrusi, ragione sufficiente per classificarlo nella
categoria degli studiosi! e degli scrittori. Stando così le cose, l’attuale presenza di capelli sul
suo cranio è dovuta soltanto al fatto che non è ancora sufficientemente qualificato per
essere calvo, ma in breve tempo lo sarà ed è suo destino che prima o poi qualcosa gli cada
in testa. Quindi non è escluso che gli allievi della scuola, prendendolo di mira e
concentrando sul suo cranio il tiro dei loro proiettili dum-dum, abbiano trovato un ottimo
espediente per accelerare il processo. Se il mio padrone continuerà a subire questo
bombardamento per altre due settimane, la paura e l’angoscia gli impediranno di inviare
nutrimento sufficiente alla testa, che si trasformerà in un mandarino, una teiera o un vaso
di ottone. L’unico a non prevedere quest’ovvio sviluppo della situazione, e a soffrire,
determinato a dare battaglia fino all’ultimo, è lui, il professor Kushami.
Un giorno ero nella veranda come di consueto a fare un pisolino, e stavo sognando che
ero diventato una tigre. Ordinavo al mio padrone di portarmi della carne di pollo, e lui, al
colmo dello stupore, me la andava a prendere tremando di paura. A quel punto arrivava
Meitei: a lui annunciavo che volevo mangiare dell’oca e lo mandavo al Gannabe di
Yamashita a ordinarla per me. Meitei come sempre rispondeva a sproposito, diceva che la
carne d’oca era molto più buona se mangiata insieme a biscotti salati, allora io per
minacciarlo aprivo le mie fauci enormi e facevo un ruggito spaventoso. Meitei impallidiva.
«Quel ristorante ha chiuso», diceva, «cos’altro posso ordinarle?» «In tal caso mi
accontenterò di carne di manzo», rispondevo io, «vai subito da Nishikawa, il macellaio, e
comprami una libbra di arrosto, se non ti sbrighi ti divoro per primo». Meitei si inchinava e
scappava via di corsa. Il mio corpo era ingigantito di colpo, sdraiato occupavo tutta la
veranda. Mentre aspettavo che Meitei tornasse, tutt’a un tratto si è sentita una voce
orrenda risuonare in tutta la casa, e prima di poter gustare la carne che avevo ordinato mi
sono svegliato nella mia pelle di gatto. In quel momento il padrone, che nel sogno era
prostrato davanti a me con timore reverenziale, è uscito di corsa dal gabinetto, mi ha
scostato con un formidabile calcio nel fianco, in un batter d’occhio si è infilato i geta che si
usano per uscire in giardino e, passando dal cancelletto, si è precipitato verso la scuola. Io,
che da tigre mi ero appena ritrovato gatto, ero così frastornato che stentavo a riprendermi,
sia a causa del comportamento del padrone che per il dolore al fianco colpito: il mio
momento di gloria era ormai lontano. Tuttavia, se il padrone si era finalmente deciso a
scendere in campo di persona contro il nemico, non volevo perdermi un tale divertimento.
L’ho seguito stringendo i denti e sono uscito dalla porta sul retro. In quell’istante l’ho
sentito gridare: «Al ladro!» e ho visto un ragazzone di diciotto o diciannove anni con il
berretto dell’uniforme in testa che scavalcava lo steccato di bambù. Mentre pensavo:
troppo tardi! ho avuto la fugace visione del berretto che spariva in lontananza mentre il suo
proprietario si metteva in salvo. Il mio padrone, visto il successo del grido «al ladro!», l’ha
ripetuto, e intanto correva dietro al ragazzo. Per raggiungerlo però doveva scavalcare a sua
volta il recinto. In questo caso si sarebbe introdotto nel terreno altrui e il malfattore
sarebbe diventato lui. Come vi ho spiegato, è soggetto a grandiosi afflussi di sangue al
cervello. Un uomo della sua cultura che trascinato dalla foga non solo rincorre un ladro,
ma pur di raggiungerlo è disposto a commettere un’infrazione! Era arrivato allo steccato
senza dar segno di voler desistere. Ora doveva entrare nel territorio del ladro, stava per
farlo, ma in quel momento dalle file nemiche il generale in persona, un tipo con una
barbetta rada, è arrivato con passo indolente. Si sono messi a discutere, il generale da una
parte dello steccato e il mio padrone dall’altra. Sono andato ad ascoltare, la conversazione
si è svolta così:
«È uno studente della scuola, sì».
«In questo caso, come si permette di entrare nella proprietà altrui?»
«Be’, è andato a raccogliere una palla caduta dall’altra parte…»
«Perché non ha chiesto il permesso, prima di farlo?»
«D’ora in poi starò attento a che non si ripeta».
«Va bene, per questa volta passi».
La fiera battaglia che avevo anticipato si è ridotta a questo banale scambio di battute,
senza danni per nessuno. La furia del padrone si era già sgonfiata, all’ultimo momento
succede sempre così. Mi ricorda il mio brusco rimpicciolire dalle dimensioni di tigre che
avevo nel sogno a quelle ben più modeste di gatto. Questo è l’evento minore cui accennavo
prima. Ora che l’ho raccontato, passerò a quello maggiore.
Il mio padrone aveva aperto gli shoji della stanza degli ospiti, si era disteso bocconi e
stava riflettendo. Con ogni probabilità stava mettendo a punto una strategia per difendersi
dagli assalti del nemico. Nella scuola le lezioni dovevano essere in corso, perché il campo
sportivo era stranamente silenzioso. Però si sentiva distintamente la voce di qualcuno che
teneva un sermone in una sala dell'edificio. Una voce ferma e chiara, di sicuro quella del
generale che poco prima era uscito dalle file nemiche per farsi carico della delicata
missione.
«…la morale pubblica è di fondamentale importanza, ovunque andiate, in Francia, in
Germania, in Inghilterra, è scrupolosamente osservata. Tutti in Europa, anche le persone
di più basso livello, la tengono in grande considerazioni; una disgrazia che in Giappone non
siamo ancora all’altezza dei paesi stranieri in questo campo. E se qualcuno di voi pensa che
la morale pubblica sia una novità importata di recente dall’estero, commette un grave
errore. Il pensiero di Confucio, assimilato dai nostri antenati secoli fa predicava la sincerità
e l’attenzione verso i nostri simili. È da questa attenzione che nasce la morale pubblica.
Anch’io, poiché sono un essere umano, a volte provo il desiderio di recitare qualcosa ad alta
voce. Però so bene che, quando sto studiando, non riesco a concentrarmi nella lettura se
nella stanza accanto qualcuno si mette a fare baccano. Quindi, anche se a volte mi
rinfrescherebbe lo spirito declamare qualche poesia dalla raccolta di poesie Tang 5, se fra i
miei vicini di casa c’è qualcuno a cui la mia voce potrebbe dare fastidio, me ne astengo,
perché senza volerlo finirei con il disturbarlo. Allo stesso modo voi ragazzi dovete sempre
avere a cuore la morale pubblica, e non commettere mai azioni che possano recare danno a
qualcuno…»
Il mio padrone, che ascoltava il discorso con molta attenzione, l’orecchio teso, quando
l’oratore è arrivato a questo punto ha sorriso. Credo sia necessario spiegare il significato di
5
Antologia che raccoglieva 465 poesie di 127 poeti cinesi dell’epoca Tang (618-907), introdotta in Giappone all’inizio del
periodo Edo.
questo sorriso. Le persone dotate di ironia penseranno che contenesse una nota sarcastica.
Lui però non è assolutamente capace di malizia. Anzi, direi che è piuttosto ingenuo. Se
sorrideva, era perché si rallegrava sinceramente. Si diceva che la severa ramanzina del
predicatore lo avrebbe messo al sicuro dai tiri dei proiettili dum-dum. Per il momento
sarebbe scampato alla calvizie, i riflussi di sangue non sarebbero cessati di colpo, ma a poco
a poco avrebbe ritrovato la salute, senza bisogno di infilare le gambe sotto il kotatsu con un
asciugamano bagnato sulla testa o di piazzarsi all’ombra di un albero con una pietra sotto il
sedere. Da questa speranza nasceva il suo sorriso. Nulla di strano che un uomo onesto
come il mio padrone, convinto, nonostante viva nel ventesimo secolo, che i debiti vadano
ripagati, prendesse sul serio quel discorso.
Di punto in bianco l’oratore ha smesso di parlare, doveva essere finita l’ora. Nello stesso
momento le lezioni sono terminate anche nelle altre classi. Gli ottocento ragazzi che fino ad
allora erano rimasti chiusi nelle aule sono usciti correndo e gridando tutti insieme dalla
scuola. Ricordavano uno sciame di api che scappassero da un alveare buttato giù a colpi di
bastone. Si riversavano fuori dalle porte, dalle finestre, da ogni apertura con urla e risate,
senza il minimo ritegno. E a questo punto che si è verificato l’evento maggiore.
Innanzitutto permettetemi di illustrare lo schieramento di queste api. Sbaglierebbe chi
pensasse che in questo tipo di battaglia non ci sia uno schieramento. La gente, quando
pensa a una battaglia, ha in mente quelle della guerra russo-giapponese, Shahe, Mukden o
Port Arthur. I barbari che hanno qualche gusto per la poesia vanno con il pensiero a fatti
leggendari, ad Achille che per tre volte trascina intorno alle mura di Troia il cadavere di
Ettore dietro al suo carro, o a Chang Fei 6 che sul ponte di Chang Ban, brandendo la lunga
alabarda a forma di serpente, osserva con occhi di fuoco la grandiosa armata di Cao Cao.
Ora uno è libero di pensare quel che vuole, ma sbaglierebbe a credere che non esistano
altre forme di combattimento; che guerre tanto folli avevano forse luogo nei tempi antichi,
ma sono inconcepibili, se non in virtù di qualche prodigio, nel cuore della capitale
imperiale di questo glorioso paese, in questi tempi di pace; che per quanto violenta sia una
rivolta, l’unico rischio che possa comportare è l’incendio di qualche posto di polizia. La
guerra tra il professor Kushami della Caverna del Drago in Letargo e gli ottocento
energumeni delle Nuvole Calanti è da considerarsi la più disastrosa che sia scoppiata a
Tokyo da quando la città ha questo nome7. Zuo Qiuming8 inizia il racconto della battaglia di
Yanling descrivendo lo spiegamento delle forze nemiche, schema narrativo unanimemente
adottato fin dai tempi antichi e ora diventato una convenzione. Dunque anch’io sono
obbligato a iniziare dallo schieramento delle api. Innanzitutto lungo lo steccato di bambù
c’è uno squadrone incolonnato. Sembra che la sua missione sia di attirare il mio padrone al
di qua della linea del fuoco. «Si arrende?» «No, figurati!…» «Ma cosa fa, cosa fa?» «Forza,
da questa parte, da questa parte!» «Ma viene giù o no?» «Perché non dovrebbe venire
giù?» «Proviamo ad abbaiare» «Bau, bau!» «Bau, bau!» «Bau, bau, bau!» e l’intero
squadrone leva all’unisono grida di battaglia. Sulla destra, un poco discosti da loro, nella
parte anteriore del campo sportivo, gli artiglieri occupano un piccolo dosso, postazione
favorevole. Rivolto verso la Caverna del Drago in Letargo, un ufficiale si tiene pronto con
un gigantesco pestello fra le mani. Dietro di lui ce n’è un altro, sempre rivolto nella stessa
direzione, e a una distanza di una decina di metri ce n’è un terzo. I tre cannonieri sono in
linea e si fronteggiano. C’è chi sostiene che questo non sia assolutamente uno schieramento
di battaglia, ma un’esercitazione di un gioco che si chiama «baseball». Io che sono un
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Eroe cinese dell’epoca dei Tre Regni (220-280).
Prima della Restaurazione Meiji, Tokyo si chiamava Edo. Con «epoca Edo» si intendono i trecento anni dell’era feudale, in
cui dominarono gli shogun Tokugawa.
Zuo Qiuming, storiografo cinese del quarto secolo a. C, discepolo di Confucio (551-479 a. C).
illetterato di questo gioco ignoro tutto, ma a sentire le voci che corrono viene dall’America
e pare che sia attualmente lo sport più in voga fra i ragazzi dalle scuole medie in su. Gli
Stati Uniti sono un paese dove si inventano solo cose stravaganti, quindi può darsi che sia
stato un atto di cortesia insegnare ai giapponesi un gioco che sembra una battaglia e reca
grave disturbo al vicinato. Probabilmente per gli americani si tratta solo di uno sport, ma
anche il passatempo più innocente, se ha il potere di svegliare di soprassalto un intero
quartiere, può venir preso per la fase preparatoria di un bombardamento. Stando a quanto
ho osservato con i miei occhi, il piano dei ragazzi è di praticare questo sport senza
rinunciare ai vantaggi di un bombardamento. Ma di ogni cosa si possono dare tante
interpretazioni diverse quanti sono i modi di raccontarla. Si perpetrano imbrogli cui si
attribuisce il nome di beneficenza e ci si rallegra di un riflusso di sangue chiamandolo
«ispirazione», quindi non è escluso che con il pretesto di giocare a baseball non si cerchi di
dare battaglia. Il baseball di cui parlo io è una variante molto particolare, limitata a questa
circostanza, una tecnica di artiglieria usata negli assedi. Ora voglio spiegarvi il modo in cui
si sparano i proiettili dum-dum. Uno degli artiglieri schierati in linea retta tiene una
pallottola nella mano destra e la lancia verso l’ufficiale in possesso del pestello. Nessuno
che non sia del mestiere sa di cosa sia fatta questa pallottola. Sembra una polpetta rotonda
e dura come pietra, rivestita accuratamente di pelle tenuta insieme da cuciture. Quando
uno degli artiglieri lancia una di queste pallottole facendole tagliare il vento, l’uomo che gli
sta di fronte brandisce alto il suo pestello e la colpisce deviandone la traiettoria. A volte
succede che la manchi e la palla continui il suo volo, ma di solito la rispedisce indietro con
un colpo secco. In quel colpo c’è una forza terrificante, sufficiente a spaccare il cranio di un
nevrotico debole di stomaco come il professore. I cannonieri basterebbero da soli a
condurre l’azione, ma sono sostenuti dalle grida d’incoraggiamento che si levano
tutt’intorno. Ogni volta che il pestello colpisce con uno schianto la polpetta rivestita di
pelle, sono applausi e schiamazzi: «Bel colpo!» «Vai, vai, vai!» «Non ce la fa, non ce la fa!»
«Grandioso!» «Battuto!» Se il danno fosse tutto qui, nulla di grave, il problema è che la
palla colpita una volta su tre finisce nel terreno della Caverna del Drago in Letargo. Perché,
se così non fosse, l’obiettivo dell’attacco non sarebbe raggiunto. I proiettili dum-dum ormai
vengono fabbricati in molti posti, ma costano cari e, anche in tempo di guerra, la loro
fornitura è limitata. Ogni unità di artiglieria, avendone in dotazione solo uno o due, non
può permettersi di perdere una munizione preziosa ogni volta che la lancia. Quindi è stata
istituita una pattuglia speciale - i cosiddetti «raccattapalle» - incaricata di recuperare i
proiettili caduti, missione più o meno difficoltosa a seconda del luogo dove atterrano.
Quando finiscono nell’erba alta o in territorio nemico, può essere un’ardua impresa. Per
risparmiarsi la fatica e vivere tranquilli, basterebbe lanciarli in un posto di facile accesso,
gli allievi della scuola fanno il contrario. Poiché il loro obiettivo non è giocare e divertirsi,
ma dare battaglia, mandano intenzionalmente i proiettili nel nostro terreno. E una volta
caduti lì, devono andare a riprenderli. Ora il metodo più semplice per entrare è scavalcare
lo steccato di bambù, ottenendo così di stanare il mio padrone che esce infuriato. Ma a quel
punto può solo abbassare le armi e dichiararsi sconfitto. La sofferenza per lui è tale che va
perdendo i capelli a vista d’occhio.
Questa volta il proiettile lanciato dalle forze nemiche con mira precisa ha sorvolato lo
steccato, ha attraversato la chioma di una paulonia facendo cadere le foglie più basse, e ha
colpito in pieno la seconda cinta di mura, in altre parole la staccionata che circonda il
giardino. Facendo un gran fracasso. Secondo la prima legge di Newton un corpo, una volta
messo in moto, procede lungo la stessa traiettoria a velocità uniforme a meno che non
intervenga una forza esterna. Se i corpi si muovessero soltanto in base a questa legge, la
testa del padrone avrebbe già incontrato lo stesso infausto destino di quella di Eschilo, ma
per fortuna Newton ci ha fatto il favore di scoprire insieme alla prima una seconda legge,
grazie alla quale la testa del professore è riuscita a scampare al pericolo e restare intera. La
seconda legge della dinamica dice che l’accelerazione di un oggetto è proporzionale alla
forza che agisce su di esso. Questa è una cosa un po’ difficile da capire. A ogni modo se il
proiettile dum-dum nella sua corsa non ha buttato giù la staccionata, lacerato la carta degli
shoji e fracassato la testa del mio padrone, è sicuramente grazie a Newton. Dopo qualche
minuto, come c’era da aspettarsi la pattuglia dei raccattapalle è venuta a cercare quella che
era passata sopra lo steccato, li si poteva sentire perlustrare il terreno e battere l’erba con
un bastone: «È caduta qui?» «No, più a destra…» Quando vengono a recuperare una palla,
parlano sempre a voce altissima. Entrando in silenzio e facendo piano piano non
otterrebbero lo scopo principale. I proiettili sono forse importanti, ma infastidire il mio
padrone lo è molto di più. In questa circostanza, il posto dove era atterrata la palla era
facilmente intuibile. Dal rumore avevano capito che aveva preso in pieno la staccionata, e
sapevano anche in quale punto preciso. Quindi potevano calcolare dov’era caduta. Se
volevano, potevano venirla a prendere in punta di piedi. Secondo Leibniz, la coesistenza
nello spazio di più cose dipende dal mantenimento dell’ordine intercorrente fra loro. Le
lettere dell’alfabeto si presentano sempre nella stessa sequenza. Un quadrifoglio porta
sempre fortuna e un pipistrello è sempre associato alla luna. Può darsi che uno steccato
non si associ bene a una palla. Tuttavia, l’occhio di qualcuno che quotidianamente tira
palle nel terreno altrui dovrebbe essere allenato a situarle nello spazio. Dovrebbe bastargli
un’occhiata per capire dove cadono. Ecco la prova che tutto quel baccano non era altro che
una tattica bellica contro il professor Kushami.
A una tale provocazione il mio padrone, malgrado la sua passività, non poteva non
reagire. Lui che poco prima sorrideva soddisfatto ascoltando il sermone sulla morale
pubblica è scattato in piedi. È corso fuori come un pazzo. Ha visto solo un ragazzino di
quattordici o quindici anni, che non era certo un avversario degno di un adulto con tanto di
barba. Però non ne poteva più. Ha acciuffato il ragazzo che si scusava e l’ha tirato a forza
davanti alla veranda. A questo punto è necessario dire due parole sulla tattica del nemico
che, constatato il comportamento del professor Kushami il giorno precedente, prevedeva
un suo nuovo intervento. Meglio allora evitare il rischio che venisse catturato uno dei
ragazzi più grandi, potevano sorgere problemi, meglio mandare a raccogliere le palle uno
degli allievi del primo o del secondo anno. Il mio padrone gli avrebbe fatto una lavata di
capo tremenda, l’avrebbe coperto di rimproveri, ma prendersela con un bambino avrebbe
significato comportarsi in maniera infantile passando dalla parte del torto, il buon nome
della scuola sarebbe stato salvo. Questo pensava il nemico. E questo avrebbe pensato
qualsiasi persona normale. Peccato che nell’architettare il suo piano il nemico avesse
scordato che l’avversario non era una persona normale. Se il mio padrone avesse un
minimo di buonsenso, il giorno prima non avrebbe fatto quella sortita. I riflussi di sangue
trasformano un pacifico cittadino in un esaltato e gli tolgono ogni capacità di ragionare.
Finché permettono di capire la differenza tra una donna, un bambino, un palafreniere e un
conduttore di risciò, non sono gravi e non c’è motivo di farne un dramma. Non si ha diritto
a venire classificati nella categoria degli individui soggetti a riflussi di sangue fino a quando
non si ha l’idea di catturare vivo un allievo di prima o di seconda liceo e tenerlo in ostaggio.
La vittima questa volta era il prigioniero. Stava semplicemente svolgendo il suo dovere di
raccattapalle in ottemperanza agli ordini degli allievi più anziani, quando la sfortuna aveva
voluto che quell’esaltato del generale nemico, in preda a un riflusso di sangue prodigioso,
lo trascinasse nel suo giardino prima che avesse il tempo di scavalcare lo steccato. In tali
circostanze i soldati nemici non potevano abbandonare un compagno alla sua sorte.
Facendo a gara a chi arrivava prima, in una dozzina hanno saltato lo steccato, fatto
irruzione in giardino dal cancelletto e si sono piazzati in fila davanti al mio padrone. Non
indossavano né giacca né soprabito. Uno di loro, le maniche rimboccate, teneva le braccia
incrociate. Un altro addirittura era a torso nudo, la camicia di flanella stinta dai lavaggi
buttata su una spalla. Un terzo invece, un tipetto elegante, indossava una camicia di tela
bianca profilata di nero, con le iniziali dello stesso colore ricamate sul petto. Muscolosi e
abbronzati, quei prodi soldati sembravano arrivati ieri dai campi della provincia di Tanba o
di Sasayama. Che peccato chiuderli in una scuola e dar loro un’istruzione! Avviarli al
mestiere di pescatori o marinai sarebbe stato certamente di maggiore utilità al paese. Come
per un passaparola, erano tutti a piedi nudi e avevano rimboccato i pantaloni fino ai
polpacci, quasi stessero per correre in aiuto alla squadra di pompieri del quartiere. Stavano
fermi davanti al professore, uno accanto all’altro, in silenzio. Anche il mio padrone taceva.
Si sono guardati a lungo, come se giocassero a chi distoglieva lo sguardo per primo, e
intanto il desiderio di spargere sangue cresceva.
«Cosa siete venuti a rubare?» è sbottato alla fine il mio padrone, furibondo. Fiotti di
collera triturata dai molari gli uscivano come fiamme dal naso, al punto che le narici gli
fremevano. La maschera leonina che i bambini mettono a Capodanno viene probabilmente
fabbricata copiando l’espressione di una persona in preda all’ira, altrimenti non sarebbe
tanto terrificante.
«No, non siamo ladri. Siamo allievi delle Nuvole Calanti».
«Bugiardi! Degli studenti non entrerebbero mai senza permesso nel terreno altrui!»
«Però portiamo il berretto con lo stemma della scuola, lo vede anche lei».
«Sarà finto. Se siete allievi della scuola, perché entrate senza permesso?»
«Perché una palla è finita qui».
«E perché è finita qui?»
«Così, per caso».
«Vergognatevi, maleducati!»
«D’ora in poi faremo attenzione, per questa volta ci scusi, per favore».
«Scusarvi? Non so nemmeno chi siete, entrate nel mio terreno scavalcando lo steccato, e
ora mi chiedete di scusarvi?»
«In ogni caso siamo allievi delle Nuvole Calanti, di questo può stare sicuro».
«Ah sì? E di che anno siete?»
«Del terzo anno».
«Mi dite la verità?»
Il padrone allora si è voltato indietro e ha chiamato O-san. Quella zotica ha aperto i
fusuma di quel poco che bastava per sporgere la testa.
«Eh?» ha chiesto.
«Vai alla scuola qui dietro, alle Nuvole Calanti, e fai venire qui qualcuno».
«Chi è che devo far venire?»
«Chiunque, basta che porti qui qualcuno».
«Va bene», ha risposto O-san, ma la scena in giardino era così strana, l’incarico così
vago, e tutta la situazione così assurda, che è rimasta impalata dove si trovava, un sorriso
idiota sulle labbra. Il padrone però era sempre intenzionato a dare battaglia, e fortemente
esaltato dalla convinzione di saper condurre le operazioni. Ed ecco che la domestica, che
naturalmente avrebbe dovuto stare dalla sua parte, invece di far fronte con serietà alla
situazione, ascoltava i suoi ordini ridacchiando. L’afflusso immediato di sangue al cervello
era inevitabile.
«Ti ho detto di portare qui chiunque, non hai sentito? Il direttore, un segretario, un
professore, chiunque!»
«Il direttore?» ha chiesto O-san che con le scuole non ha familiarità.
«Sì. Il direttore, un segretario, un professore… fa lo stesso, ti sto dicendo!»
«E se non trovo nessuno, va bene anche il bidello?»
«Non dire stupidaggini! Cosa vuoi che ne sappia il bidello?»
«Va bene», ha risposto a questo punto O-san non potendo fare altro, e si è avviata.
Chissà se alla fine era riuscita a cogliere il significato dell’ordine ricevuto… Stavo pensando
preoccupato che quella sciocca era capace di tornare con il bidello, quando ho visto arrivare
dal cancello, scortato da un valoroso di Sasayama, il professore che aveva tenuto il famoso
sermone. Ha fatto appena in tempo a entrare e a prendere posto su uno zabuton, che il mio
padrone ha attaccato:
«Or ora questo mascalzone si è introdotto nel mio terreno», ha detto nello stile desueto
che si può trovare in un dramma kabuki, poi con palese ironia: «Mi chiedo se faccia parte
della sua rispettabile scolaresca».
Il professore non sembrava molto impressionato e, senza scomporsi, ha passato in
rassegna con lo sguardo i prodi soldati schierati davanti alla veranda.
«Sì, sono tutti allievi della mia scuola», ha risposto tornando a guardare il padrone.
«Non facciamo che ripetere loro di non comportarsi così… non so come scusarmi…
Ragazzi, perché passate sempre da questa parte dello steccato?»
Gli studenti, si sa, sono studenti. Davanti al professore che faceva loro la morale non
trovavano niente da dire, e di conseguenza stavano zitti. Si erano ritirati in un angolo del
giardino e stavano tranquilli come un gregge di pecore nella neve.
«Capisco che ogni tanto non possano fare a meno di entrare…» ha continuato il
padrone, «che le palle qualche volta finiscano nel mio giardino, visto che vivo di fianco alla
scuola. Tuttavia… il fatto è che fanno un baccano infernale. Se scavalcassero lo steccato ed
entrassero in silenzio, senza farsi sentire, lo potrei ancora accettare…»
«Ha perfettamente ragione. Noi cerchiamo di sorvegliarli, ma gli allievi sono molti…
d’ora in poi staremo più attenti. Se una palla finisce nel suo terreno, devono passare dal
cancello principale e chiedere il permesso di andarla a prendere. Avete capito, ragazzi? Sa,
è una scuola molto grande e facciamo del nostro meglio per mantenere la disciplina, ma a
volte non c’è nulla da fare. Inoltre l’esercizio fisico è necessario, fa parte del programma
educativo, non lo possiamo assolutamente proibire. È vero che permettendo questo gioco a
volte si finisce con il recare disturbo ai vicini ma la prego di perdonarli. Le assicuro che
d’ora in poi passeranno dal cancello e prima di andare a raccogliere le palle chiederanno la
sua autorizzazione».
«Va bene, se sono veramente pentiti, sono disposto a chiudere un occhio. Se promettono
di passare dal cancello chiedere permesso, possono lanciare tutte le palle che vogliono, non
ha importanza», ha detto il mio padrone sgonfiandosi subito come al solito. «Allora le
consegno quest’allievo, la prego di riportarlo indietro lei. Le sono molto obbligato di essersi
dato la pena di venire di persona fin qui».
Il professore ha portato via le sue milizie campagnole e passando dal cancello è tornato a
scuola.
Per il momento l’evento maggiore si conclude qui. Il lettore che trova ridicolo chiamare
evento maggiore un episodio del genere, rida pure. Vuol dire che per lui non lo è. Se l’ho
raccontato è perché lo reputo importante per il mio padrone, e per lui solo. Chi critica il
professor Kushami per la facilità con cui si sgonfia e mette la coda fra le gambe, dovrebbe
farmi il piacere di ricordarsi che questo è il suo carattere. E che grazie a questo carattere è
diventato il protagonista di un’opera letteraria di natura umoristica. A ogni modo sono
d’accordo, è da stupidi prendere sul serio un ragazzino di quattordici o quindici anni.
Infatti anche Omachi Keigetsu, il critico, ha detto che il mio padrone non è ancora uscito
dall’infanzia.
Ora che ho raccontato gli eventi minori e quello maggiore, parlerò delle conseguenze che
hanno avuto, mettendo così in evidenza il filo che lega il libro intero. Fra i lettori ci sarà
forse chi pensa che io scriva solo sciocchezze, vaniloqui usciti a casaccio dalla mia bocca,
ma un gatto come me non merita un giudizio tanto offensivo. Ogni mia parola, ogni frase
contengono una considerazione sui massimi sistemi, e connettendo l’una all’altra dall’inizio
alla fine si troverà un nesso che farà luce sull’opera intera. Chi ha letto il libro
distrattamente, convinto che si trattasse di un’opera di poco valore, di colpo capirà di
trovarsi davanti a qualcosa di molto diverso - qualcosa che sembra facile ma è profondo
come la dottrina del Buddha - e non si permetterà più la scorrettezza di leggerlo sdraiato
sui tatami con le gambe scomposte, saltando le righe. Liu Zongyuan prima di leggere
l’opera del suo collega Han Tuizhi9, riteneva opportuno lavarsi le mani con acqua di rose;
allora per leggere la mia vorrei che faceste almeno lo sforzo di comprare la rivista su cui
viene pubblicata evitando il disonore di chiederla in prestito agli amici. D’ora in poi, come
vi ho appena detto, racconterò le conseguenze degli eventi precedenti, ma se pensate che
trattandosi di conseguenze si possano anche saltare, vi sbagliate di grosso. Dovete
assolutamente leggere tutto, dalla prima all’ultima riga, fino alla fine.
È il giorno seguente l’evento maggiore, e preso dal desiderio di fare una passeggiata esco
di casa. Arrivato all’altezza di una via laterale, sul lato opposto della strada, sto per svoltare
quando vedo il signor Kaneda e Suzuki fermi sull’angolo, impegnati in una conversazione.
Non avendo trovato Kaneda in casa, Suzuki stava andando via quando l’ha visto tornare in
risciò. È da un bel po’ che non passo da queste parti e non mi introduco nel territorio di
Kaneda, e ora, trovandomelo davanti, provo un vago senso di nostalgia. Anche di Suzuki
non avevo più notizie, mi fa piacere rivederlo. Decido di avvicinarmi con aria indifferente e
passando accanto ai due non posso evitare di ascoltare la loro conversazione. Non è colpa
mia, sono loro che dovevano essere più discreti. Vorrei ben vedere che Kaneda, un uomo
che non si fa scrupolo di piazzare delle spie a controllare i movimenti del mio padrone, se
la prenda perché per puro caso sento i suoi discorsi! Se si arrabbia, vuol dire che non
conosce il significato della parola equità. Comunque sia, ascolto. Non perché sia curioso. Al
contrario, le parole dei due uomini mi entrano nelle orecchie mio malgrado.
«Sono appena passato da casa sua, stavo per andarmene, fortuna incontrarla», dice
Suzuki inchinandosi. Uhm, sì.. - fa piacere anche a me, è dalla volta scorsa che volevo
parlarti».
«Ah, bene. E a che proposito?»
«Oh, niente di importante… però è qualcosa di cui posso incaricare solo te».
«Sono a sua disposizione, tutto quello che posso. E… di cosa si tratta?»
«Be’, ecco…» Kaneda sembra riflettere.
«Se preferisce, possiamo rimandare a un momento più opportuno. Mi dica quando le va
bene».
«No, no, non è una cosa tanto grave! Visto che siamo qui, tanto vale che te lo chieda».
«Prego, non faccia complimenti…»
«Quello lì, quello svitato. Quel tuo vecchio amico. Kushami o come diavolo si chiama».
«Sì, Kushami. Che cos’ha fatto?»
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Liu Zongyuan (773-819) e Han Tuizhi (768-824), poeti cinesi dell’epoca Tang.
«No, non ha fatto niente. Ma da quella volta lì, ho un peso sullo stomaco. Non l’ho
ancora digerita».
«Lo credo. È un presuntuoso. Farebbe bene a considerare un poco la propria posizione
sociale, invece crede di poter fare a meno degli altri».
«È questo il punto. È un arrogante, dice che non piega la testa davanti al denaro,
disprezza gli uomini d’affari… Vorrei fargli capire quanto potere può avere un uomo
d’affari. Da quella volta si è un po’ calmato, ma resiste. È una testa di legno. Non me
l’aspettavo».
«Non ha alcuna percezione di quello che può essergli di vantaggio o di danno, tiene duro
a denti stretti, ciecamente. È sempre stato così, non ha mai capito che è lui il primo a
perderci. Con lui è tutta fatica sprecata».
Kaneda scoppia in una risata.
«Dici bene, è tutta fatica sprecata. Ho provato a fargli intendere ragione in tutti i modi.
Alla fine ho anche fatto ricorso ai ragazzini della scuola qui vicino».
«Buona idea! E ha funzionato?»
«Be’, sta cominciando a funzionare, lui è al limite. Sta per crollare».
«Bene. Il più debole, per quante arie si dia, deve cedere al più forte».
«Infatti. Da soli non si combina niente. Vorrei che tu andassi a dare un’occhiata, a
controllare la situazione».
«Sì? Benissimo, nulla me lo impedisce. Ci vado subito. Poi vengo a riferirle. Sarà
divertente vedere quel testone in preda allo scoraggiamento. Non me lo voglio perdere».
«Allora prima di tornare a casa passa da me, ti aspetto».
«Sarà un piacere».
Ecco un nuovo complotto, l’energia di un uomo d’affari è davvero inesauribile. I riflussi
di sangue di quella brace spenta del mio padrone, il fatto che il suo cranio, in seguito a
tante sofferenze, stia diventando uno scivolo per le mosche, con il pericolo che ne
consegue, tutto ciò è frutto della volontà di un uomo d’affari. Non sappiamo quale forza fa
girare la Terra intorno all’asse terrestre, ma di sicuro ciò che fa muovere il mondo è il
denaro. Soltanto un uomo d’affari conosce il potere di seduzione del denaro e lo esibisce
liberamente. Se il sole ogni giorno si leva sano e salvo a oriente e cala sano e salvo a
occidente, è di certo grazie agli uomini d’affari. Io, che finora ho vissuto nella casa di un
insegnante povero e ingenuo, non conoscevo l’importanza del loro divino favore, è stato un
errore da parte mia. A ogni modo questa volta quel testone del mio padrone dovrà
finalmente aprire gli occhi. Se malgrado tutto persiste nella sua testardaggine e nella sua
ignoranza, allora è in pericolo. La sua vita stessa è in pericolo, quella vita cui attribuisce
tanta importanza. Quando vedrà Suzuki, come si comporterà? Dall’accoglienza che gli
riserverà, riuscirò a capire se sta aprendo gli occhi o meno. Non posso restare qui a perdere
tempo, anche un gatto ha a cuore le sorti del suo padrone. Sorpasso in fretta Suzuki e torno
a casa di corsa.
Suzuki, al suo solito, si mostra socievole e allegro. Parla del più e del meno con aria
divertita, senza fare il minimo cenno a Kaneda.
«Mi sembri un po' pallido, ti è successo qualcosa?»
«No, niente di speciale».
«Eppure sei livido, devi fare attenzione alla salute. In questa stagione bisogna
riguardarsi, riesci a dormire bene?»
«Sì».
«Sicuro che non c’è qualcosa che ti preoccupa? Sai che se c’è bisogno sono disposto a
fare tutto quello che posso… non avere paura di parlare».
«Preoccupazioni? Di cosa dovrei preoccuparmi?»
«No, no, se non ne hai, tanto meglio. Dicevo così, nel caso… Perché possono avvelenare
la vita, i crucci. Bisogna stare allegri e divertirsi, nella vita. Invece tu mi sembri un po’
triste…»
«Anche il riso può essere un veleno. A ridere sconsideratamente si rischia di morire».
«Non scherzare. «La fortuna benedice le case dove si ride», dice il proverbio».
«Nell’antica Grecia c’era un filosofo che si chiamava Crisippo, ne hai sentito parlare?»
«No, mai. Che cosa gli è successo?»
«È morto per aver riso troppo».
«Davvero? Incredibile. Ma è successo tanto tempo fa…»
«Se è successo tanto tempo fa, può succedere anche oggi. Ha visto un asino che
mangiava dei fichi in un piatto d’argento, e l’ha trovato così comico che è scoppiato a ridere
e non è più riuscito a fermarsi. In pratica è morto ridendo».
«Ha, ha, ha! Ma non è necessario ridere fino a questo punto. È sufficiente ridere un
poco. Quanto basta. Così anche l’umore migliora».
Mentre Suzuki studia con attenzione l’espressione del mio padrone, si sente la porta
d’ingresso scorrere sulle rotaie. Toh, una visita, penso, ma mi sbaglio.
«Scusi, una palla è caduta nel suo terreno, posso andare a prenderla per favore?»
«Sì, vai pure», risponde O-san dalla cucina. Lo studente fa il giro intorno allo studio.
Suzuki guarda Kushami con aria perplessa e gli chiede cosa stia succedendo.
«Gli studenti qui dietro hanno fatto cadere una palla nel mio giardino».
«Gli studenti qui dietro? Come mai ci sono degli studenti, qui dietro?»
«C’è una scuola, si chiama Le Nuvole Calanti».
«Ah, non sapevo. Ma guarda, una scuola. Immagino che i ragazzi siano molto
rumorosi».
«Altro che rumorosi! Con il chiasso che fanno non riesco nemmeno a studiare. Se fossi
ministro dell’istruzione ordinerei la chiusura, di quella scuola».
«Ha, ha, ha, vedo che sei proprio furibondo! Attento, non vorrei che ti venissero le
convulsioni».
«Venirmi le convulsioni? Me se le ho in continuazione, dal mattino alla sera!»
«In questo caso, se ti fanno tanto arrabbiare, meglio cambiar casa, non credi?»
«Chi è che dovrebbe cambiare casa? Hai una bella faccia tosta!»
«Non te la prendere con me! In fin dei conti sono solo dei bambini. Lasciali perdere».
«Tu lo faresti, ma io no. L’altro giorno ho chiamato uno dei professori e mi sono
spiegato».
«Molto interessante. Sarà rimasto mortificato».
«Infatti».
In quel momento si sente di nuovo qualcuno aprire la porta.
«Scusi, una palla è caduta in giardino, posso andare a prenderla?» chiede una voce.
«Ma vengono di continuo! È caduta un’altra palla?»
«Sì, hanno promesso di passare dal cancello».
«Ah. Certo che se vengono tutti i momenti… Ora capisco…»
«Cos’è che hai capito?»
«Uh... il motivo per cui vengono a prendere le palle».
«Oggi è già la sedicesima volta».
«E non ti danno fastidio? Perché non gli impedisci di venire?»
«E come faccio a impedirglielo? Vengono e basta, non ci posso fare nulla».
«Se dici che non ci puoi fare nulla, penso che tu abbia ragione. Ma in questo caso è
inutile che tu te la prenda tanto Le persone che hanno troppi spigoli, rotolando si rompono
le ossa. Quelle rotonde rotolano con facilità e arrivano dove vogliono, senza problemi,
invece quelle quadrate si rompono le ossa, ogni volta urtano gli angoli e si fanno male.
Visto che non vivi in un mondo tutto tuo, le cose non vanno sempre e solo come vuoi tu.
Mah, cosa ti posso dire? A metterti contro le persone che hanno soldi hai solo da perderci.
Ti logori i nervi, ti rovini la salute, e ti fai una cattiva reputazione. Mentre la controparte se
ne infischia. Se ne sta seduta a dare ordini a destra e a manca. Si sa, il più debole non ce la
può fare contro il più forte. La tenacia è una bella cosa, ma se finisce con l’impedirti di
studiare ed è d’intralcio al tuo lavoro, tutto quello che ci guadagni è una fatica tremenda».
«Mi scusi, è caduta una palla nel suo giardino, posso passare da dietro e andarla a
prendere?»
«Sono di nuovo qui!» fa Suzuki con una risata.
«Maleducati!» esclama il padrone, che è diventato paonazzo.
Suzuki, che ha più o meno raggiunto lo scopo della sua visita, si scusa del disturbo e se
ne va. È appena uscito che arriva il dottor Amaki. È molto raro che le persone affette da
riflussi di sangue riconoscano di soffrire di questo disturbo, lo si sa fin dai tempi antichi, e
quando sono in grado di farlo significa che il momento critico è ormai passato. L’ultima
crisi del padrone, nel corso dell’incidente di ieri e stata la più grave, poi è andata piano
piano attenuandosi e bene o male è riuscito a riprendersi, tuttavia la sera stessa, a forza di
pensarci su nello studio, si è reso conto che in questa storia c’era qualcosa che non andava.
Se la colpa fosse della scuola o sua, non riusciva a stabilirlo, ma un problema c’era.
Arrabbiarsi sempre dall’inizio alla fine dell’anno non era normale, pur abitando vicino a un
liceo. E in questo caso doveva fare qualcosa. Ma cosa? Non ne aveva la più pallida idea. La
cosa migliore era chiamare il medico perché gli prescrivesse qualche rimedio che placasse
le crisi di collera all’origine, gli suggerisse qualche modo per blandirle. Presa questa
decisione, il padrone ha deciso di chiamare il dottor Amala, il suo medico curante, perché
lo visitasse. Follia o saggezza che fosse - non è questo il momento di disquisire in proposito
- bisogna riconoscere che già per il fatto di ammettere il suo stato patologico, si è
comportato in maniera coraggiosa e ammirevole.
«Allora, come andiamo?» chiede il dottor Amaki con il solito atteggiamento sorridente e
tranquillo. La maggior parte dei medici inizia i consulti con queste parole. Un medico che
facesse eccezione non mi ispirerebbe fiducia.
«Male, dottore, male».
«No, no, vedrà che non è niente».
«Mi dica sinceramente, le medicine sono davvero efficaci?»
Il dottor Amaki ha troppa esperienza ed è troppo affabile per mostrare il suo stupore.
«Certo, perché non dovrebbero essere efficaci?»
«I miei disturbi di stomaco non passeranno mai, posso. ’ prendere tutte le medicine che
voglio».
«Non dica così, non è assolutamente vero».
«Mah, me lo domando… Crede che vada un pochino meglio?» fa il mio padrone nella
speranza che qualcun altro gli illustri le condizioni del suo stomaco.
«Non è che si possa guarire così, di punto in bianco. Le medicine fanno effetto poco per
volta. Adesso sta comunque molto meglio che all’inizio, no?»
«Uhm, non saprei».
«Ha per caso degli accessi di collera?»
«Sì che li ho. Li ho persino in sogno».
«È perché non fa movimento. Dovrebbe fare un po’ di esercizio fisico».
«Quando faccio esercizio mi arrabbio ancora di più».
A queste parole persino il dottor Amaki sembra sconcertato… ….
«Be’, cominciamo la visita», dice.
Incapace di aspettare che il dottore finisca di visitarlo, tutt’a un tratto il mio padrone
esclama:
«Dottore, l’altro giorno stavo leggendo un libro sull’ipnotismo. Diceva che con l’ipnosi si
può curare la cleptomania, e anche altre malattie. È vero?»
«Sì, è una terapia».
«Si fa ancora?»
«Sì».
«Ed è una cosa difficile, ipnotizzare una persona?»
«No, niente affatto. È un metodo che pratico anch’io».
«Anche lei?»
«Sì. Vuole che proviamo? In teoria chiunque può essere ipnotizzato. Se lo desidera, lo
possiamo fare anche subito».
«Sì, mi interessa. Allora mi ipnotizzi per favore. È da tanto che volevo provare. Non
vorrei restare addormentato per sempre, però».
«Non si preoccupi, non corre questo rischio».
Presa in quattro e quattr’otto la decisione, il padrone si prepara a farsi ipnotizzare. Non
avendo mai visto in vita mia un simile esperimento, osservo tutto contento da un angolo
della stanza. Il dottore inizia partendo dagli occhi. Lo guardo accarezzare le palpebre del
padrone dall’alto verso il basso, e continuare a farlo anche quando lui chiude gli occhi.
«Se le accarezzo in questo modo le palpebre, non sente che gli occhi le diventano
pesanti?» gli chiede dopo qualche minuto.
«Sì, è vero, diventano pesanti», risponde il padrone.
«Pesanti, pesanti, sempre più pesanti…» ripete il dottore facendo sempre lo stesso
movimento, sempre lo stesso movimento… Il paziente tace, forse in balia della sensazione
che gli viene suggerita. Il dottore ripete la formula magica, per tre o quattro minuti, poi alla
fine dice:
«Bene, ora non può più aprirli».
Poverino, i suoi occhi sono ormai sigillati!
«Non posso più aprirli?»
«No, non può».
Il padrone resta in silenzio, gli occhi chiusi. È diventato cieco, penso costernato.
Passano alcuni minuti.
«Provi ad aprire gli occhi, se vuole, ma non ci riuscirà», fa il dottore.
«Davvero?» Nel momento stesso in cui lo domanda, forse perché è troppo presto, il
padrone spalanca gli occhi come se niente fosse. «Non ha funzionato, vero?» chiede
sorridendo.
«No, non ha funzionato», ammette il dottor Amaki ridendo anche lui, «non ha
funzionato per niente».
La seduta di ipnosi è stata un fiasco totale. Il dottor Amaki se ne va.
La persona che arriva dopo di lui - a casa del padrone negli ultimi tempi non ci sono
state visite, quindi non vorrei pensaste che mento quando dico che in una casa tanto poco
frequentata tutt’a un tratto si presenta tutta questa gente, è la pura verità -… la persona che
arriva dopo il dottore non è un visitatore abituale. Se ora desidero parlarne però non è
semplicemente perché viene di rado. Come ho detto prima, sto per raccontare le
conseguenze dell’evento maggiore, e questo visitatore è un elemento essenziale alla
narrazione. Come si chiami non lo so, sarà sufficiente dire che è un uomo di una
quarantina d’anni con la faccia lunga e una barba che lo fa assomigliare a un caprone. Così
come ho definito Meitei «l’esteta», quest’uomo lo chiamerò «il filosofo». Se gli ho messo
questo soprannome non è perché si vanti e si dia arie come Meitei, ma semplicemente
quando discorre con il mio padrone mi dà l’impressione di essere molto saggio. Dal modo
confidenziale in cui si parlano deduco che dev’essere anche lui un vecchio compagno di
scuola.
«Meitei? Quello lì è superficiale e vanesio come i pesci rossi che nuotano in una vasca.
Solo l’altro giorno, passando con un amico davanti alla casa di un alto funzionario che non
conosceva nemmeno, pare che sia entrato tirandosi i dietro il compagno e dicendogli: «Dai,
vieni, facciamoci offrire una tazza di tè». Una faccia tosta incredibile».
«E com’è andata?»
«Questo non lo so, non l’ho chiesto. Mah, è strambo di natura, e in più non ha un
pensiero in testa. Un pesce rosso in una vasca, credimi… Suzuki, dicevi? Viene a trovarti
anche lui? Mi sorprendi. Suzuki non è uno stupido, e sa fare i propri interessi. Porta un
orologio d’oro con tanto di catena. Ma non vale niente, non ha il minimo spessore. Parla
sempre di elasticità, ha solo quella in bocca. Quando non sa nemmeno cosa sia, non capisce
niente. Se Meitei è un pesce rosso, lui è una gelatina, qualcosa di tremolante e
disgustosamente molle».
Impressionato dall’originalità di quei paragoni, il mio padrone per una volta tanto
scoppia a ridere.
«E tu, allora, cosa sei?»
«Io? Be’… una patata dolce, probabilmente. Che se ne sta lunga lunga dentro la terra».
«Sei sempre distaccato, tranquillo, tu, come ti invidio…»
«No, non c’è nulla da invidiare. Ma dato che per mia fortuna nemmeno io invidio
nessuno, mi reputo soddisfatto».
«Le tue finanze sono buone in questo momento?»
«Come al solito. A volte i soldi bastano, a volte no. Ma non muoio di fame, e non mi
lamento.
Perché me lo chiedi?»
«Perché io sono molto scontento, ho degli accessi di colera tremendi. Dovunque guardi,
vedo solo motivi di irritazione».
«E allora sfogati. Una volta passata la crisi, ritroverai il buonumore. Le persone sono
tutte diverse, è inutile cercare di far diventare gli altri come noi. Se non teniamo i
bastoncini come tutti non riusciamo a mangiare, ma il pan ha più gusto se ognuno se lo
taglia come vuole. Se ordini un vestito a un bravo sarto, te ne porterà uno che cade a
pennello fin dalla prima prova, ma se il sarto non vale niente, di prove dovrai subirne a
decine. Tuttavia a forza di portarlo il vestito si adatterà alla nostra struttura ossea, perché il
mondo è ben fatto. Se i genitori fossero intelligenti e mettessero al mondo solo figli idonei a
viverci, sarebbe davvero una gran bella cosa. Se però qualcuno riesce male e non è adatto
alla società, o ne resta fuori e porta pazienza, oppure tiene duro finché la società in qualche
modo si adegua a lui, non ci sono alternative».
«Mah, per quel che mi riguarda, dovessi aspettare anni, non ci sarà adeguamento
alcuno. È deprimente».
«Se cerchiamo di indossare a tutti i costi un vestito che non è stato tagliato per noi, il
vestito si strappa. Liti, suicidi, rivolte, può succedere di tutto. Nel tuo caso però, visto che ti
lamenti soltanto di non trovare interesse in nulla, il suicidio è poco probabile, e non mi
sembra che tu abbia mai litigato con nessuno. Puoi già ritenerti fortunato».
«Ti sbagli, litigo tutti i giorni. Quando una persona si fa prendere dalla collera, anche se
la controparte non si fa vedere, è come se litigasse, no?»
«Allora vuol dire che litighi da solo. È una cosa divertente che si può fare quanto si
vuole».
«Mi è venuto a noia anche questo».
«Perché non smetti allora?»
«Non è che uno possa imporsi i sentimenti come meglio gli pare».
«E cos’è, in due parole, che ti fa tanto arrabbiare?»
Allora il mio padrone si mette a raccontare al filosofo, uno per uno, tutti i motivi di
scontento, a cominciare dall’incidente con gli allievi delle Nuvole Calanti su su fino alla
volta in cui l'hanno chiamato "faccia di tasso" e al diverbio con i colleghi Pinsuke e Kishago.
Il filosofo ascolta in silenzio, poi si lancia in un'arringa interminabile:
«Non dovresti badare a quello che dicono Pinsuke e Kishago, sono persone da nulla.
Quanto agli allievi della scuola vale la pena di arrabbiarsi con loro? Ti disturbano, dici? Ma
per quanto discuti e litighi, del disturbo non te ne liberi A questo proposito, penso che i
giapponesi di un tempo fossero molto più saggi degli occidentali. Di recente il pensiero
occidentale - bisogna affrontare le cose con spirito positivista - va di gran moda, ma ha un
grosso svantaggio. Non conosce limiti. Per quanto si insista ad andare avanti, non si è mai
soddisfatti e non si raggiunge mai la perfezione. Lo vedi quel cipresso laggiù? Toglie la
visuale, meglio farlo abbattere. Ma dietro c’è una pensione che dà ugualmente fastidio. E se
si fa radere al suolo la pensione, questa volta è una casa a darci sui nervi. Non c’è limite,
per quanto si avanzi. Questo è il metodo degli occidentali. Neppure Napoleone o
Alessandro, dopo le loro conquiste, si sono sentiti del tutto soddisfatti. Metti che un tale ti
stia antipatico, lo insulti, l’altro risponde per le rime, allora lo trascini in tribunale e vinci il
processo. Se pensi che a quel punto ti sentirai soddisfatto, ti sbagli. In fondo al cuore non
sarai tranquillo, quel pensiero ti tormenterà finché campi. Il sistema politico oligarchico
non ti piace, vuoi passare alla democrazia; ma una volta passato alla democrazia sei deluso,
e auspichi un’altra forma di governo. Il fiume ti dà fastidio e ci metti un ponte. Non
sopporti la montagna e scavi un tunnel. Il traffico ti annoia, costruisci una ferrovia. Ma non
è in questo modo che potrai essere definitivamente soddisfatto. E anche se lo fossi, fin dove
l’essere umano può appagare la propria volontà in maniera positiva. La civiltà occidentale è
forse positivista e progressista, ma tutto sommato è stata creata da uomini che hanno
vissuto tutta la vita scontenti. La civiltà orientale non cerca la propria soddisfazione
attraverso il cambiamento di fattori esterni a sé. Si è sviluppata secondo il principio
fondamentale che non bisogna spostare i confini del proprio territorio, in questo è agli
antipodi di quella occidentale. Se la relazione tra genitori e figli non è buona, non
cerchiamo di migliorarla per sentirci tranquilli, come farebbero gli occidentali.
L’accettiamo com’è e proviamo a trovare un modo per convivere ugualmente in pace. La
stessa cosa vale per la relazione tra marito e moglie, tra persone di classi sociali diverse, e
per il nostro modo di considerare la natura stessa. Se una montagna ci impedisce di andare
nella regione vicina, non ci viene l’idea di spianarla, ma ci inventiamo una scusa che non
renda più necessario recarci in quella regione. Ci alleniamo a essere soddisfatti anche senza
spianare la montagna. Guarda i seguaci dello zen e i confuciani, loro sì che hanno una
comprensione profonda di questo problema. Nessuno a questo mondo, per quanto in alto
salga, può fare tutto quello che vuole. Nessuno potrà impedire che il sole tramonti a ovest,
o invertire il corso del fiume Kamo. L’unica cosa su cui possiamo agire è il nostro spirito. Se
tu cercassi di liberare il tuo spirito, i ragazzi della scuola qui accanto potrebbero fare tutto
il baccano che vogliono, non li sentiresti nemmeno. Te ne infischieresti di venire chiamato
«faccia di tasso», quanto agli insulti di Pinsuke o chi altri, li giudicheresti per quello che
sono, delle idiozie, e lasceresti perdere. Si racconta che un monaco buddhista 10, tanto
tempo fa, nel momento in cui stavano per tagliargli la testa, abbia detto questa frase
bellissima: «Il guizzo della folgore, e la tua spada taglierà solo la brezza di primavera».
Sforzandosi di raggiungere la libertà di spirito e arrivando al limite estremo della passività,
si diventa forse capaci di questa straordinaria forza spirituale. Sono concetti di difficile
comprensione, anche per me, ma a poco a poco ho finito con il pensare che il positivismo
occidentale non sia giusto. Lo vedi bene, per quanto ti agiti, non riesci a impedire che quei
ragazzi vengano a provocarti. Se avessi il potere di far chiudere la scuola, o loro fossero
tanto scorretti da giustificare il ricorso alla polizia, sarebbe differente, ma a queste
condizioni puoi prendere tutte le iniziative che vuoi, non otterrai nulla. Anzi, per te
potrebbe diventare un problema dal punto di vista economico. E il più forte vincerebbe sul
più debole. In altre parole, dovresti chinare la testa davanti a chi ha più soldi di te. Una
bella mortificazione di fronte a tutti quei ragazzini! Insomma, sei un uomo povero che
cerca di battersi da solo, è questa la causa del tuo scontento. Allora? Hai capito o no?»
Il mio padrone, che ha ascoltato in silenzio senza fare commenti, quando il filosofo se ne
va torna a chiudersi nello studio e invece di riprendere a leggere si mette a pensare.
Suzuki gli ha detto che conviene sottomettersi ai ricchi e seguire la corrente. Il dottor
Amaki ha cercato di calmargli i nervi con l’ipnosi. Alla fine il filosofo gli ha fatto un
sermone nel quale gli ha spiegato che solo perseguendo la passività dello spirito troverà la
serenità. Tocca a lui ora decidere quale via scegliere. Qualcosa deve fare, non può restare
nella situazione in cui si trova.
10
Mugaku Sogen, nome giapponese del monaco cinese Wuxue (1226-1286), che nel 1282 fondò nella città di Kamakura il
tempio Engaku, centro della setta zen Rinzai in Giappone. La frase citata indusse il soldato incaricato di tagliargli la testa a
risparmiargli la vita.
9
Il mio padrone ha la faccia butterata. Pare che prima della Restaurazione le facce
butterate fossero di moda, ma oggi che il Giappone è alleato dell’Inghilterra sembrano in
ritardo sui tempi. Poiché stanno diminuendo in rapporto inversamente proporzionale
all’aumento della popolazione, in base a precise statistiche mediche si può presumere che
in un prossimo futuro spariranno del tutto: è una teoria ben fondata e nemmeno un gatto
come me ha motivo di dubitarne. Non so quante siano a questo mondo le creature che
hanno la faccia butterata, ma se provo a contarle tra quelle che frequentano il mio
territorio, di gatti non ce ne sono, di esseri umani soltanto uno. E si dà il caso che
quest’uno sia il mio padrone. Una vera sfortuna.
Ogni volta che lo guardo mi chiedo con quale spudoratezza respiri l’aria del ventesimo
secolo uno che per qualche misteriosa ragione ha una faccia tanto strana. Un tempo ne
avrebbe forse tratto qualche prestigio, ma in questi giorni in cui la vaccinazione
obbligatoria contro il vaiolo1 ha relegato tutti i segni sul braccio, non è motivo di gloria
ostinarsi ad averli sulla punta del naso o su una guancia. Se li facesse sparire, farebbe cosa
meritoria. Sono sicuro che i segni stessi si sentono molto mortificati. O forse hanno invaso
tanto spavaldamente la sua faccia con l’intenzione di riportare il tempo indietro ai giorni
del loro splendore? In questo caso non li si potrebbe assolutamente guardare con
disprezzo. Sarebbero un drappello di piccoli fori che oppone resistenza a una società che
avanza a velocità spaventosa, dei crateri meritevoli di tutto il nostro rispetto. Peccato che
siano tanto brutti da vedere.
Quando il padrone era bambino, a Ushigome 2, nel quartiere di Yamabushi, viveva un
medico di scuola cinese, un certo Asada Sohaku. Quando andava a visitare i malati, il
vecchio uomo di scienza si serviva sempre di una portantina e faceva il suo giro senza
fretta. Quando Sohaku morì, il figlio adottivo ne prese il posto e sostituì immediatamente
la portantina con un risciò. Probabilmente quando questi morirà, se di nuovo un figlio
adottivo ne prenderà il posto prescriverà dell’aspirina al posto dei farmaci naturali cinesi.
Ad andare in giro in portantina per le strade di Tokyo non si faceva bella figura neanche ai
tempi di Sohaku, solo le persone spasmodicamente attaccate alle antiche usanze, i maiali
che venivano stipati sui treni e il vecchio medico apprezzavano questo mezzo di trasporto.
Il mio padrone con la sua faccia butterata è antiquate come la portantina di Sohaku, e
malgrado susciti qualche compassione in chi lo guarda non è da meno del vecchio
sostenitore dei farmaci cinesi quando si reca a scuola a in segnare inglese esponendo alla
luce del sole il viso deturpato.
Quando è in piedi sulla predella, lui che ha scolpita in faccia una testimonianza del
secolo passato, dà ai suoi allievi un insegnamento ben più prezioso di quello contenuto
nelle sue lezioni. Senza averlo programmato, pone loro la questione dell’influenza
esercitata da un volto butterato cosa ben più importante che ripetere banalità come "Le
scimmie hanno le mani" - e dà loro una risposta che non ha bisogno di parole. Se le persone
come il mio padrone smettessero di insegnare nelle scuole, per studiare il problema delle
conseguenze del vaiolo gli allievi dovrebbero recarsi nelle biblioteche o in qualche istituto
1
2
La vaccinazione contro il vaiolo divenne obbligatoria nel 1870.
Soseki, ultimo di otto figli, nei primi anni dell’infanzia venne dato in adozione a una famiglia che viveva nel quartiere di
Asakusa, a Tokyo. All’età di nove anni tornò nella famiglia d’origine, nel quartiere di Ushigome, che oggi si chiama Shin-juku.
specializzato, e fare tanta fatica quanta ne facciamo noi per figurarci come erano gli antichi
Egizi guardando una mummia. Da questo punto di vista, la faccia butterata del padrone
senza saperlo compie un atto altamente meritorio nei confronti della società.
Non deducetene però che abbia cosparso di buchi la sua faccia per coprirsi di gloria. La
verità è che è stato vaccinato. Ma la sfortuna ha voluto che il vaccino iniettato nel braccio si
sia propagato alla faccia. A quel tempo, come tutti i bambini, non dava la minima
importanza al rischio di non avere in futuro un bell’incarnato e si grattava in continuazione
lamentandosi del prurito. I foruncoli scoppiavano come eruzioni vulcaniche e la lava gli
colava sul viso, che ormai non era più quello ricevuto dai genitori. Ogni tanto il padrone
dice alla moglie che prima di quel vaccino era un bambino bellissimo. Gli occidentali che
andavano ad ammirare la dea Kannon ad Asakusa - racconta tutto fiero - si voltavano a
guardarlo. Può darsi che sia vero. Peccato che non ci sia nessuno a testimoniarlo.
Se una cosa è brutta, brutta resta, per quanto meritoria sia e per quanto prezioso sia
l’insegnamento che dà, di conseguenza il padrone, da quando è in grado di ragionare, si è
sempre avvelenato il sangue a causa della faccia butterata e ha cercato con ogni mezzo di
renderla meno sgradevole. Purtroppo però, diversamente dalla portantina del vecchio
Sohaku, non può disfarsi dei segni del vaiolo da un giorno all’altro. Sono ancora ben visibili
sulla sua faccia. Cosa che sembra affliggerlo oltre misura, perché quando cammina per la
strada tiene sempre il conto delle persone butterate che vede. Osserva se sono maschi o
femmine, se le ha incontrate nel centro commerciale di Ogawa o nel parco di Ueno, e lo
annota nel diario. In materia di segni lasciati dal vaiolo è sicuro di saperne più di chiunque.
Ne è talmente ossessionato che l’altro giorno, quando un amico è venuto a trovarlo di
ritorno da un viaggio in Europa, ha esordito dicendo:
«Senti un po’, in Europa hai visto persone con la faccia butterata?»
«Mah…» ha risposto l’amico con aria perplessa, poi dopo aver riflettuto a lungo ha
risposto di non averne quasi viste.
«Se dici «quasi», significa che qualcuna c’è, no?» ha incalzato il padrone.
«Sì, ma si tratta sempre di mendicanti o di barboni. Tra le persone per bene non ce ne
sono», ha detto l'amico con indifferenza.
«Ah, veramente? Qui in Giappone invece è diverso».
Conformandosi all’opinione del suo amico filosofo, il mio padrone ha smesso di litigare
con gli allievi della scuola e passa il tempo chiuso nello studio, dove riflette assiduamente
su chissà cosa. Può darsi che abbia deciso di seguire il suo consiglio e restare seduto
immobile sui talloni cercando il distacco spirituale, ma visto che già per natura non è molto
intraprendente, non è verosimile che da un atteggiamento così passivo possa uscire
qualche buon risultato. Farebbe molto meglio a dare in pegno i suoi libri di inglese e
chiedere a una geisha di insegnargli qualche canzone spiritosa, ma non c’è pericolo che
quella testa di legno ascolti i consigli di un gatto. Faccia come vuole, per qualche giorno mi
terrò lontano da lui.
Sono passati sette giorni. I seguaci dello zen dopo sette giorni di meditazione
raggiungono l’illuminazione, alcuni di loro hanno la straordinaria energia di mantenere per
tutto il tempo la posizione del loto, quindi anche il mio padrone sarà arrivato a un risultato,
e vivo o morto avrà trovato una soluzione. Dalla veranda mi sposto pigramente fino alla
porta dello studio e sbircio all’interno per vedere se ci sono movimenti.
Lo studio è una stanza di sei tatami esposta a sud, e nel punto più luminoso c’è una
grande scrivania. Dire «grande» non basta. Misura quasi due metri in lunghezza, uno e
venti in larghezza ed è alta in proporzione3. Ovviamente il padrone non l’ha comprata già
3
All’epoca di Soseki non esistevano sedie, ci si sedeva o inginocchiava direttamente sui tatami, e tavoli e scrivanie erano
bell’e pronta, è un oggetto molto inusuale che si è fatto costruire dal falegname del
quartiere in modo che fungesse da scrivania e da letto. Non so a quale scopo abbia ordinato
un tale mastodonte, né perché avesse intenzione di dormirvi sopra, bisognerebbe chiederlo
a lui. Forse è stato un capriccio passeggero, oppure 1 idea balzana di abbinare un tavolo a
un letto gli è venuta per una di quelle assurde associazioni di idee che i malati di mente
spesso fanno. In ogni caso è stata un’idea originale. Peccato che l’originalità, quando è
inutile, sia dannosa. Mi è successo in passato di vedere il padrone dormire il pomeriggio su
questa scrivania, poi girarsi nel sonno e rotolare fino alla veranda. Da quella volta non se
n’è più servito come letto.
Davanti alla scrivania c’è un sottile zabuton di lana, con tre buchi uno vicino all’altro,
lasciati dalla brace di una sigaretta. Il cotone che si vede sotto è grigio scuro. Seduto sui
talloni su questo zabuton, la schiena eretta, il padrone mi dà le spalle. Intorno ai fianchi ha
legato un obi color topo le cui estremità pendono intorno ai suoi piedi. Poco tempo fa mi ha
dato una sberla sulla testa perché ci volevo giocare. È severamente vietato avvicinarsi a
quell'obi.
Sporgendomi per vedere se sta ancora pensando, invece di ricordare il detto: «Se non
vengono buone idee, meglio riposare», noto sulla scrivania un oggetto che luccica in
maniera accecante. Sbatto di riflesso due o tre volte le palpebre, ma continuo a osservare
quello strano oggetto nonostante mi abbagli. Finché capisco che la luce emana da uno
specchio che viene spostato sul ripiano del tavolo. Quale ragione ha spinto il padrone a
chiudersi nello studio per giocare con uno specchio? Gli specchi di solito stanno nel bagno.
Infatti è lì che ho visto stamane quello che si trova ora sulla scrivania. Se posso affermare
che si tratta del medesimo, è perché in casa non ce ne sono altri. Ogni mattina, dopo essersi
lavato, il padrone lo usa per farsi la scriminatura nei capelli. Capisco che qualcuno può
trovare strano che un uomo come lui esibisca una scriminatura, ma a dire la verità la
pettinatura è la sola cosa cui dedichi qualche attenzione, in tutto il resto è piuttosto
trasandato. Da quando sono venuto a stare in questa casa non l’ho mai visto con i capelli
corti. Li porta sempre lunghi cinque o sei centimetri, la scriminatura a sinistra, mentre a
destra l’estremità forma un’onda che torna indietro. Anche questo dev’essere un sintomo di
nevrosi. Tuttavia questa pettinatura originale non fa danno a nessuno, e benché contrasti
con la maestosità della scrivania, nessuno ci trova nulla da obiettare. Il padrone ne va
molto orgoglioso. Viene naturale chiedersi perché si ostini a portare i capelli così lunghi,
facendosi beffa della moda. Il motivo è semplice, i segni lasciati dal vaiolo non si limitano a
sfigurargli la faccia, ma gli arrivano fino in cima alla testa. Quindi sarebbero chiaramente
visibili se portasse i capelli corti un centimetro o poco più, come tutti quanti. Non
riuscirebbe a nasconderli nemmeno lisciando i capelli e tirandoli in continuazione. Forse
farebbero la loro figura, come lucciole fra l’erba secca di un campo, ma sicuramente alla
moglie non piacerebbero. Perché dovrebbe esporre di propria volontà un difetto che può
tenere nascosto ricorrendo a un espediente tanto semplice? Anzi, potendo si farebbe
crescere i capelli anche sulla faccia, quindi non c’è alcun bisogno che spenda soldi dal
barbiere per mostrare a tutti che è butterato fin sul cranio. Questa è la ragione per cui porta
i capelli così lunghi, cosa che lo obbliga a dividerli con una scriminatura, operazione per cui
ha bisogno di guardarsi allo specchio, specchio che si trova, unico esemplare in tutta la
casa, nel bagno.
Se lo specchio che dovrebbe trovarsi in bagno, tanto più che in casa non ce ne sono altri,
è arrivato nello studio, le ragioni possono essere due: o è affetto da sonnambulismo, o è
stato portato qui dal mio padrone. E in quest’ultimo caso, perché? Che sia uno strumento
alti in genere 35-36 centimetri. Queste abitudini coesistono oggi con quelle importate dall’Occidente.
indispensabile alla ricerca del distacco spirituale? Tanto tempo fa uno studioso andò a
trovare un monaco buddhista di grande fama, e lo trovò a torso nudo che strofinava una
tegola. Quando gli chiese perché lo facesse, l’altro gli rispose che aveva intenzione di
strofinarla fino a farla diventare uno specchio. Lo studioso, molto sorpreso, disse al
monaco che con tutta la sua superiore saggezza, non poteva trasformare una tegola in uno
specchio. «Davvero?» rispose il monaco ridendo di cuore. «Allora smetto. Ma allo stesso
modo, per quanto tu studi, non potrai trovare la via solo studiando». Che il padrone abbia
preso lo specchio del bagno e lo brandisca con aria trionfante perché ha sentito raccontare
questa storia? Sta diventando pericoloso, mi dico osservandolo di nascosto.
Sì, dev’essere così, perché sta guardando il suo unico specchio con aria infervorata. Gli
specchi sono oggetti che mettono a disagio. Ci vuole coraggio per entrare a notte fonda in
una grande stanza con una candela in mano e guardarsi allo specchio. Quando le bambine
me ne hanno piazzato davanti uno per la prima volta, per lo spavento ho fatto tre volte il
giro della casa di corsa. Anche in pieno giorno, se uno si guarda fisso allo specchio come sta
facendo il padrone, è inevitabile che la sua faccia finisca per fargli paura. Tanto più se già di
per sé non è tanto bella.
«Uhm, sono proprio brutto», sospira infatti dopo un po’. Ammirevole la capacità di
riconoscere i propri difetti! A vedere come si comporta c’è da crederlo pazzo, eppure quello
che dice è vero. Ancora un passo e la sua bruttezza gli farà paura. Se un uomo non ha
sentito fin nel midollo tutta la terrificante bassezza della propria natura, non potrà dire di
essere un saggio e di conoscere il mondo. E se non conosce il mondo, non potrà uscire
dall’ignoranza e raggiungere l’illuminazione. Anche il mio padrone, arrivato a questo
punto, dovrebbe confessare il suo orrore, ma non lo fa. Dopo aver ammesso di essere
brutto, gonfia le guance, spinto da chissà quale idea balzana. E tenendole gonfie le
picchietta due o tre volte con il palmo della mano. Che si tratti di un rito magico? In questo
momento la sua faccia me ne ricorda un’altra. Con un piccolo sforzo di riflessione mi rendo
conto che si tratta di quella di O-san. Già che ci sono vorrei descrivervela, la faccia di Osan. Non potrebbe essere più paffuta di così. L’altro giorno qualcuno ci ha portato in regalo
dal tempio di Anamori una lanterna a forma di pesce-palla. Era identica a O-san. È così
crudelmente paffuta che non le si vedono più gli occhi. Inoltre il pesce-palla è bello
rotondo, mentre la faccia di O-san, adattandosi nella sua paffutezza al suo cranio
fondamentalmente spigoloso, sembra una sveglia esagonale afflitta da idropisia, se O-san
mi sentisse andrebbe su tutte le furie, ma abbiamo parlato abbastanza di lei, torniamo al
padrone. Dopo aver gonfiato le guance al limite della loro capienza e averci dato qualche
colpetto con il palmo della mano, di nuovo si mette a parlare da solo:
«Tirando la pelle in questo modo, i segni non si vedono», dice. Poi, voltandosi di profilo
e guardandosi allo specchio dal lato illuminato dal sole: «Così invece si notano moltissimo.
Mentre la luce frontale li appiattisce. Che strano». Sembra molto impressionato. Ora
protende la mano destra portando lo specchio alla maggiore distanza possibile e resta
immobile a osservarsi.
«Da questa distanza però non si vedono tanto. È ovvio. Le cose non bisogna guardarle
troppo da vicino. E questo vale per tutto, non solo per le facce», aggiunge, colpito da
un’improvvisa rivelazione. Poi tutt’a un tratto posa lo specchio e contrae la faccia, facendo
convergere occhi, sopracciglia e fronte verso il naso. Si osserva in quest’atteggiamento ma
sembra ancora più scontento del suo aspetto, perché dice: «No, così non va», e smette
subito, rendendosi conto da solo dell’inutilità dei suoi sforzi.
«Perché devo avere una faccia così sgradevole?» si chiede avvicinando lo specchio a una
decina di centimetri dagli occhi.
Si strofina le narici con l’indice della mano destra, poi schiaccia forte il polpastrello
contro la carta assorbente posata sulla scrivania. Il grasso delle narici lascia sulla carta un
segno rotondo. Non sa più cosa inventarsi. Ora porta il dito macchiato di grasso sotto
l’occhio destro e tira in giù la palpebra inferiore, facendo quella che viene chiamata una
‘faccia da spettro». Non capisco bene se stia ancora studiando i segni lasciati dal vaiolo o
facendo la gara con lo specchio a chi distoglie gli occhi per ultimo. Poiché ha sempre mille
fantasie in testa, si potrebbe pensare che guardarsi lo induca a darvi libero sfogo. Niente
affatto. Se vogliamo interpretare il frivolo comportamento del mio padrone nello spirito
zen, spiegarlo in un’ottica filosofica, potremmo dire che fa tante smorfie davanti a uno
specchio solo per riuscire a conoscersi veramente. Ogni studio che gli esseri umani
conducono è una ricerca di se stessi. Il cielo e la terra, i monti e i fiumi, la luna e il sole e le
costellazioni tutte non sono che modi diversi per designare se stessi. Se si rinuncia all’Io,
non si troveranno altre materie di studio. E se l’uomo potesse uscire dalla propria
individualità, nello stesso momento il suo Io sparirebbe. L’unico studio possibile è quello di
se stessi, non si può studiare un’altra persona. Non è concepibile, anche se c’è chi vorrebbe
farlo, e chi vorrebbe essere oggetto di studio da parte di altri. Ecco perché da sempre gli
eroi sono diventati tali con le loro sole forze. Se potessimo capire il nostro animo tramite
qualcun altro, gli potremmo far mangiare della carne al posto nostro per sapere se è tenera
o dura. Tutte le attività cui ci dedichiamo quotidianamente - ascoltare testi giuridici il
mattino, sermoni buddhisti la sera, passare la notte nello studio a leggere fasci di testi alla
luce di una lampada - sono soltanto mezzi per aprire il nostro spirito all’illuminazione
senza far ricorso ad altri. Tuttavia il nostro Io non è presente nella legge che ci spiegano,
nella via che ci illustrano, nei cumuli di libri mangiati dai topi. Se vi è presente, è solo uno
spettro. È vero però che in certi casi uno spettro è superiore a un essere senz’anima, e non è
detto che inseguendo un’ombra non si possa incontrare la sostanza. Perché la maggior
parte delle ombre non se ne distacca. Se il gingillarsi con lo specchio del mio padrone ha
questo senso, allora penso che lui sia degno di stima. Che valga molto più di quegli studiosi
che si vantano di aver letto tutto Epitteto.
Lo specchio è uno strumento che esalta la vanità, è vero, ma al tempo stesso sterilizza
l’orgoglio. Non c’è oggetto che istighi maggiormente gli stupidi ad abbellire il loro aspetto
esteriore. In due casi su tre, è la causa dei danni che un orgoglioso privo di mezzi arreca a
se stesso o ad altri fin dai tempi antichi. L’inventore dello specchio avrà la coscienza sporca,
così come si macchiò di una grave colpa quel medico che al tempo della rivoluzione
francese ebbe la fantasia di inventare una macchina per decapitare la gente. Tuttavia,
quando si è scontenti di sé, quando si è in preda allo scoraggiamento, non c’è rimedio più
efficace che guardarsi allo specchio. Si ha un’immediata e chiara percezione del bello e del
brutto. Ci si meraviglia di aver vissuto fino a quel momento mostrando al mondo una tale
faccia. E quest’improvvisa consapevolezza è un momento prezioso nella vita di una
persona. Nulla è più utile all’essere umano che la percezione della propria stupidità.
Davanti a uno stupido che sa di esserlo, tutti coloro che hanno un’alta opinione di sé
dovrebbero scusarsi e abbassare la testa per la vergogna. Anche se lo stupido in questione
si compiace di disprezzarsi e di ridere di sé. Il padrone forse non ha la saggezza di
riconoscere la propria follia, però è capace di considerare obiettivamente i segni lasciati sul
suo viso dal vaiolo. Ammettendo di essere brutto ha già fatto il primo passo verso la
comprensione della propria grettezza spirituale. È un uomo in cui si può sperare. Può darsi
che la lezione che gli ha impartito il filosofo stia dando i suoi frutti.
Mentre faccio queste considerazioni l’osservo: ignaro della mia presenza, continua a
esaminarsi gli occhi.
«Sono iniettati di sangue, devo avere una congiuntivite cronica», dice poi, e con la punta
degli indici prende a strofinarsi le palpebre arrossate.
È probabile che gli prudano, ma se ha le palpebre già irritate non deve certo sfregarle
con tanta furia. In poco tempo saranno infiammate come quelle di un dentice sotto sale.
Risultato: quando alla fine apre gli occhi e si guarda allo specchio, il suo sguardo è velato
come il cielo d’inverno nel Nord. Bisogna dire che di solito i suoi occhi non sono certo
limpidi. Forse esagero, ma quasi non c’è distinzione, se non molto vaga, tra l’iride e il
bianco del globo oculare. Come il suo spirito è confuso e incoerente, così gli occhi sono
offuscati e vagano in fondo alle orbite, persi per l’eternità. C’è chi dice che sia un difetto
dovuto a un avvelenamento quando era ancora nel ventre della madre, chi sostiene che sia
una conseguenza del vaiolo, in ogni caso da piccolo è stato tormentato con infusioni di rane
e di vermi del salice, ma tutto l’amore della madre non ha potuto impedire che ancor oggi i
suoi occhi siano velati come al momento della nascita. Io però non penso che questa sua
condizione sia dovuta a un avvelenamento o al vaiolo. Se gli occhi sono così bui, torbidi e
malinconici è perché riflettono le condizioni instabili e annebbiate del suo cervello. Sono i
sintomi fisici in cui si manifestano naturalmente l’estrema confusione e l’ambiguità del suo
comportamento, quindi tutte le preoccupazioni della sua povera madre erano inutili. Un
filo di fumo indica che c’è fuoco, uno sguardo torbido è prova di follia. È possibile che i suoi
occhi siano la rappresentazione del suo animo, e poiché il suo animo ha il valore di una
moneta bucata dell’era Tenpo4, anche i suoi occhi, come una moneta bucata, non valgono
granché.
Ora è passato ai baffi, li sta tirando. Sono baffi poco folti, con i peli che vanno ognuno
per conto proprio. Si ha un bel dire che adesso è di moda l’individualismo, se tutti i baffi in
città fossero altrettanto indisciplinati creerebbero grande imbarazzo ai loro proprietari;
anche il mio padrone negli ultimi tempi ha cominciato a deplorarne la sregolatezza e ha
cercato, per quanto possibile, di addomesticarli e distribuirli in maniera più uniforme. I
suoi sforzi appassionati non sono stati del tutto inutili perché in questi giorni è riuscito a
imporre loro un minimo di ordine. Mentre prima poteva solo dire che gli crescevano i baffi,
ora può affermare con fierezza che si fa crescere i baffi. E dal momento che il fervore è
qualcosa che aumenta di pari passo con il successo, ormai li considera destinati a un
brillante avvenire e in ogni momento libero, mattino e sera, rivolge loro incoraggiamenti
accorati. La sua ambizione è di avere dei magnifici baffi folti e girati all’insù come quelli
dell’imperatore d’Austria, quindi cerca disperatamente di tirarli verso l’alto, senza alcun
riguardo per l’inclinazione naturale e sregolata delle sue ghiandole pilifere, che valuta
meno di zero. Per i baffi dev’essere un vero supplizio, al punto che a volte causano dolore
persino al loro proprietario. Questo però significa addestrare. Dolore o meno, verso l’alto
devono andare. Agli occhi di un osservatore ignaro può sembrare un passatempo sciocco,
ma per il mio padrone è una cosa del tutto naturale. E considerato che gli educatori si
vantano di poter correggere il carattere degli allievi come se fosse un’azione meritoria, non
c’è ragione di criticarlo.
È completamente assorto nell’addestramento dei suoi baffi, quando O-san fa capolino
nello studio con la sua faccia esagonale e protende una mano arrossata.
«La posta», dice nel suo solito tono brusco. Il padrone si volta verso la porta, con la
mano destra si sta tirando i baffi e con la sinistra tiene lo specchio. Vedendo che i baffi del
padrone sono stati costretti a prendere la forma di due pesci con la coda rivolta all’insù, Osan torna di corsa in cucina, si appoggia sul coperchio della stufa e scoppia in una fragorosa
4
L’era Tenpo va dal 1830 al 1844. Moneta di rame, di forma rettangolare con gli angoli molto arrotondati, emessa dal
governo degli shogun nel 1835.
risata. Il padrone non vi fa caso. Posa con calma lo specchio e prende la posta. La prima
lettera, stampata, è scritta in caratteri che hanno qualcosa di solenne. Dice così:
Egregio Signore, mi permetta di farLe tutte le mie più sincere congratulazioni. La guerra russogiapponese si è conclusa con una serie di battaglie che sono state altrettante vittorie, grazie alle quali
abbiamo ritrovato la pace. I nostri valorosi soldati e ufficiali che si sono battuti con lealtà e coraggio
per il bene della giustizia trionfano fra le grida di vittoria della popolazione, che è al colmo del giubilo.
Rispondendo al Decreto Imperiale, i soldati e gli ufficiali, dando prova di estremo coraggio, si sono
recati in paesi lontani dove hanno sopportato freddo glaciale e caldo torrido e hanno combattuto
strenuamente offrendo la vita alla patria. Che il loro sacrificio sia per sempre nei nostri cuori! Poiché
è stato annunciato che il ritorno delle truppe vittoriose sarà completato entro il mese, la nostra
associazione intende organizzare il venticinque prossimo venturo una riunione in cui una
rappresentanza degli abitanti del quartiere festeggerà con grande pompa ufficiali e sottufficiali, ed
esprimerà con umiltà la nostra ardente riconoscenza ai caduti, a consolazione delle famiglie.
Saremmo dunque felici se i gentiluomini come Lei ci onorassero della loro partecipazione a questa
grande cerimonia e speriamo vivamente che Lei voglia esprimere la Sua approvazione con un’offerta
in denaro.
Con i miei più rispettosi saluti…
Segue il nome di un membro della nobiltà.
Il padrone legge la lettera in silenzio, poi la ripiega e l’infila nuovamente nella busta
senza degnarla di un’ulteriore occhiata. Non sembra avere intenzione di dare contributi. La
sua avarizia è tale che da quando l’altro giorno ha sborsato due o tre yen per le vittime della
carestia nella regione di Tohoku, a tutti quelli che incontra va dicendo che gli hanno estorto
una donazione. Il che è una contraddizione in termini, visto che una donazione è un atto
spontaneo. «Estorcere» non è il verbo giusto, dal momento che non ha subito un furto.
Eppure lui è persuaso di essere stato vittima di un ladrocinio e adesso, benché si tratti di
rendere onore ai soldati su invito di un membro della nobiltà, non si lascerà convincere a
sborsare altri quattrini da quattro righe stampate, a meno di esservi obbligato con le
minacce. Prima di rendere onore ai soldati vorrebbe che si rendesse onore a lui. Poi si potrà
onorare chi si vorrà, ma che se ne assumano la responsabilità i nobili, senza interferire con
i suoi due pasti quotidiani, pensa risoluto, e prende la seconda lettera:
«Oh, un’altra lettera stampata…»
Egregio Signore, desidero esprimere a Lei e alla Sua famiglia ogni augurio di prosperità in questo
freddo autunno. Come certamente saprà, da due anni a questa parte il buon funzionamento della
nostra scuola è stato disturbato da due o tre ambiziosi che a un certo momento hanno superato il
limite: me ne attribuisco la colpa e me ne rammarico sinceramente. Dopo lunghi sforzi e grandi
fatiche sono finalmente riuscito, con le mie sole forze, a ottenere i fondi necessari alla costruzione di
nuovi edifici scolastici che corrispondono al mio ideale. Colgo l’occasione per annunciare la
pubblicazione del mio libro intitolato Elementi di tecnica del cucito, il mio ultimo modesto lavoro
redatto in base a faticose ricerche condotte per lunghi anni sui principi e sulle leggi delle arti
industriali, libro la cui stesura mi è costata lacrime di sangue. Di conseguenza chiedo al maggior
numero possibile di famiglie di volerselo gentilmente procurare per un prezzo che copre le spese di
pubblicazione, con un margine di guadagno minimo per l’autore. Sarà per voi un aiuto sicuro e al
tempo stesso permetterà a me di far fronte a parte delle spese di costruzione dei nuovi edifici. È per
questo motivo che mi permetto di chiedervi di voler contribuire ai lavori con un’offerta e con
l’acquisto di un volume di Elementi di tecnica del cucito, acquisto del quale potete incaricare la vostra
serva.
Con la speranza di ottenere il Suo sostegno in questa iniziativa, La prego di voler accettare i miei
più rispettosi ossequi.
Mi inchino nove volte davanti a Lei,
Nuida Shinsaku
Preside dell’Istituto Superiore Femminile
di Cucito del Grande Giappone
Il mio padrone accartoccia con indifferenza anche quest’ossequiosa lettera e la lancia nel
cestino della carta straccia. I nove inchini e tutte le prove sostenute dal povero Shinsaku
non sono serviti a nulla. Resta una lettera. La busta, bianca e rossa come l’insegna di un
barbiere, si distingue per la sua brillantezza ed eccentricità. Nel mezzo, in una calligrafia
larga e spessa, campeggia la scritta: All’eccellentissimo professor Kushami, molto
rispettosamente. Riguardo al contenuto, nulla garantisce che porti buone notizie, ma la
busta è magnifica.
Se io dominassi l’universo, inghiottirei in un sorso il fiume più grande, ma se è l’universo a
dominare me, io sono polvere sul bordo della strada. Ditemi, quale relazione ci può essere tra me e
l’universo? La persona che per prima ha assaggiato i cetrioli di mare va rispettata per la sua audacia,
l’uomo che per primo ha mangiato il pesce-palla va onorato per il suo coraggio. Il primo è una
reincarnazione di Shinran5, il secondo una personificazione di Nichiren6. Quanto a Lei, professor
Kushami, cosa conosce oltre alla zucca secca condita con miso e aceto? Che io sappia, nessuno mai si
è distinto al mondo mangiando solo zucca secca condita con miso e aceto.
Gli amici possono tradirla. I Suoi genitori mostrarsi egoisti verso di Lei. La Sua amata può
abbandonarla. La ricchezza e gli onori fin dall’inizio sono irraggiungibili. Posizione sociale e fortuna
spariscono in un batter di ciglio. Gli studi cui Lei dà tanto valore possono ammuffire nella sua testa.
Su cosa si basa allora la Sua tranquillità? C’è qualcosa nell’universo su cui Lei possa fare affidamento?
Dio?
Dio non è che un pupazzo d’argilla inventato per lenire le sofferenze umane. Nient’altro che il
cadavere puzzolente degli escrementi che gli uomini producono nella loro angoscia. Ci si può sentire
tranquilli affidandosi a ciò che è inaffidabile? Assurdità! Un ubriaco avanza verso la tomba parlando a
vanvera e barcollando. Con il passare degli anni l'olio della lampada si consuma. Delle Sue azioni non
resterà nulla. Beva una tazza di tè, professor Kushami…
Se non si considerano gli esseri umani come tali, non c’è nulla da temere. Non bisogna provare
collera verso un mondo che non ci tocca. Coloro che hanno autorità e posizione sociale si vantano di
disdegnare le altre persone. Ma quando si sentono disdegnati diventano paonazzi per la collera.
Lasciamoli fare come credono! Sono degli imbecilli…
Quando si ha considerazione per gli altri, ma gli altri non fanno altrettanto, gli scontenti si
rivoltano in preda alla collera. Ma le rivolte non sono l’opera degli scontenti, sono generate dalla
volontà di coloro che hanno autorità e posizione sociale. In Corea c’è abbondanza di ginseng. Perché
non lo prova, professore? Con due rispettosi inchini, da Sugamo, Tendo Kohei.
Nuida Shinsaku si è inchinato nove volte, ma costui si limita a due. Visto che non chiede
donazioni, ha risparmiato sette inchini. In compenso la sua lettera è del tutto
incomprensibile. Nessuna rivista accetterebbe mai di pubblicarla, e anche il mio padrone, il
cui cervello è già notevolmente offuscato, la strapperà subito in mille pezzi, ne sono
5
6
Shinran (1173-1262), nato in una famiglia della corte Heian, divenne monaco a nove anni nella setta buddhista Tendai.
Fondò in seguito la setta della Terra Pura.
Nichiren (1222-1282), monaco e studioso, fondatore della setta buddhista omonima, che in precedenza aveva preso il
nome di Rencho.
sicuro… Invece la legge e la rilegge più volte. Forse pensa che abbia un senso ed è
determinato a scoprire quale sia. Il mondo è pieno di cose incomprensibili, ma a tutte
volendo si può trovare un significato. Per quanto oscura sia una frase, se ci si sforza di
capirla alla fine si riesce. Si può affermare che gli esseri umani sono stupidi o che sono
intelligenti, entrambe le cose sono facilmente dimostrabili. E non è tutto, potrei anche
sostenere che sono dei cani, o dei maiali, non c’è affermazione difficile da far accettare.
Posso dire senza timori che le montagne sono basse, che l’universo è piccolo. Che i corvi
sono bianchi, che Komachi7 era brutta e che il professor Kushami è un uomo di mondo,
tutto viene digerito senza problemi. Di conseguenza anche da una lettera assurda, a forza di
spremersi le meningi, si riesce a ricavare un significato. Come potrebbe dunque il mio
padrone, che ha passato la vita a stiracchiare frasi inglesi a lui oscure fino a renderle
intelligibili ai suoi allievi, non cercare di attribuirle un senso? Quando un allievo gli ha
chiesto perché in inglese si dice sempre good morning anche se fa brutto tempo, ha
riflettuto sulla questione per una settimana, e quando un altro gli ha domandato come si
dice Cristoforo Colombo» in giapponese, ha impiegato tre giorni e tre notti a inventarsi una
risposta. È quindi in grado di interpretare la lettera di Tendo Kohei come gli conviene, di
dedurne che chi mangia zucca secca condita con miso e aceto è un grand’uomo, e chi beve
ginseng fa scoppiare rivoluzioni.
«Già, è davvero una lettera profonda e densa di significato», dichiara dopo un po’,
mostrando di aver interpretato quella prosa sibillina con la tortuosità con cui ha risolto il
problema del good morning. «L’autore è di sicuro qualcuno che ha fatto studi di filosofia.
Che levatura spirituale!» è veramente impressionato. Queste poche parole bastano a
rivelare la sua stupidità, ma da un certo punto di vista hanno un lato positivo. Il padrone
apprezza incondizionatamente tutto ciò che non capisce. Non è certo il solo a comportarsi
così. Ciò che non comprendiamo contiene un elemento che sfugge alla nostra valutazione, e
sottraendosi al nostro disprezzo acquisisce un’aura di nobiltà. Per questo motivo gli uomini
di mondo fingono di aver capito ciò che è loro oscuro, e gli studiosi espongono argomenti
semplici in maniera astrusa. Sappiamo bene che nelle università i docenti che tengono
conferenze incomprensibili sono altamente stimati, mentre chi usa un linguaggio chiaro
passa per un sempliciotto. Se il padrone apprezza questa lettera che di punto in bianco
parla di cetrioli di mare e di escrementi prodotti dall’angoscia umana, non è perché l’abbia
capita, al contrario… la considera l’opera di uno spirito elevato per la stessa ragione per cui
i taoisti rispettano Il libro della via e della virtù, i confuciani venerano l'I Ching o Libro
dei mutamenti e i seguaci dello zen ascoltano come oro colato le citazioni di Rinzai 8: non ci
capisce nulla. Gli dispiace però ammetterlo, quindi finge di averne colto il significato
inventandosi una spiegazione. Da sempre ammirare qualcosa di enigmatico facendo
mostra di capire è cosa piacevolissima. Il mio padrone ripiega rispettosamente la lettera
scritta in calligrafia larga e spessa e la posa sulla scrivania, poi infila le mani nelle maniche
del kimono e sprofonda nelle sue meditazioni.
«È permesso? Si può?» chiede in quel momento una voce robusta nell’ingresso. Sembra
quella di Meitei, ma non è sua abitudine chiedere permesso. Il mio padrone non può non
averla sentita, ma rimane immobile a braccia conserte. Deve essere convinto che non sia
suo compito rispondere alla porta, perché non l’ho mai visto alzarsi per andare ad
7
8
Poetessa vissuta nel nono secolo alla corte di Kyoto, famosa per la sua bellezza.
Il libro della via e della virtù o Tao Te King, uno dei principali testi del taoismo, risalente con tutta probabilità al quarto
secolo a. C, opera di Lao Tzu. Il Libro dei Mutamenti (I Ching), risalente a più di cinquemila anni fa, è una raccolta di detti, sentenze
e commenti di diversi saggi e imperatori cinesi. Confucio l’apprezzava molto e vi apportò il suo contributo di commenti. In
Giappone l'I Ching viene tuttora consultato. Rinzai (nome cinese Linji) fondò nell'XI secolo la scuola omonima, una delle cinque in
cui fiorì la filosofia zen in Cina a partire dal XII secolo. Nel XIII secolo venne importata dal monaco Dogen in Giappone, dove
divenne una delle principali scuole buddhiste.
accogliere qualcuno. La serva è uscita a comprare del sapone da bucato. La padrona è al
gabinetto. Di conseguenza l’unico che possa rispondere sono io. Però detesto farlo. Alla fine
l’ospite si toglie le scarpe, sale in fretta nella parte alta dell’ingresso 9, apre gli shoji e entra
senza cerimonie. Se il mio padrone è fatto a modo suo, l’ospite non è da meno. Prima fa il
giro delle altre stanze, apre e richiude due o tre fusuma, poi finalmente entra nello studio.
«Ehi, sei diventato pazzo? Che cosa fai lì seduto, non hai sentito che c’era qualcuno?»
«Ah, sei tu?»
«Come sarebbe a dire: «Ah, sei tu?» Visto che eri lì, perché non ti sei fatto sentire?
Sembra di entrare in una casa abbandonata».
«Stavo riflettendo su una cosa».
«Questo non ti impediva di dire almeno «accomodati»!»
«Già, forse no».
«La solita faccia tosta».
«Da qualche giorno mi sto allenando a rafforzare il mio spirito».
«Divertente. E il giorno in cui l’avrai tanto rafforzato da non poter più rispondere, sarà
un bel guaio per i tuoi ospiti. Non restartene lì impassibile, non sono venuto solo. Ti ho
portato un ospite di riguardo. Vieni a dargli il benvenuto».
«Chi è che hai portato?»
«Chiunque sia, alzati e vieni a salutarlo. Dice che ti vuole assolutamente conoscere».
«Ma chi è?»
«Non importa chi sia, tirati su!»
«Sarà un altro dei tuoi scherzi», fa il mio padrone e si alza senza togliere le mani dalle
maniche, poi passando dalla veranda entra con aria indifferente nella stanza degli ospiti. Vi
trova un signore anziano, seduto molto formalmente sui talloni di fronte al tokonoma. Il
padrone di riflesso toglie le mani dalle maniche e si inginocchia subito anche lui sui tatami,
la schiena contro i fusuma. Ma in questo modo sia lui che il vecchio si trovano rivolti nella
stessa direzione, cosa che impedisce loro di salutarsi come vuole l’etichetta, inchinandosi
l’uno all’altro. Le persone all’antica sono molto pignole in fatto di buona creanza.
«Prego, si metta da quella parte», dice il signore anziano invitando il mio padrone a
spostarsi verso il tokonoma. Fino a due o tre anni fa questi era convinto che nella stanza
degli ospiti ognuno si potesse mettere dove meglio gli pareva, poi qualcuno gli ha spiegato
che il tokonoma è ciò che rimane della pedana dove un tempo sedeva il signore quando
riceveva i vassalli o gli inviati dello shogun., e da allora non ha più voluto avvicinarsi a
quello che viene considerato il posto d’onore. Tanto meno adesso vuole cedere alle
insistenze di un anziano che non ha mai visto in vita sua. È riuscito a malapena a salutarlo,
a dire anche lui con un breve inchino della testa:
«Prego, si metta lei da quella parte».
«No, se lei non prende posto davanti al tokonoma, non posso presentarmi. Prego, si
metta da quella parte».
«No, no, se lei non… prego, da quella parte…» Pare che non sappia fare altro che
ripetere le parole del vecchio.
«No, la sua modestia mi mortifica. Non ne sono degno. La prego, si metta da quella
parte senza fare complimenti».
«La sua modestia… sono mortificato… prego…» ripete il padrone mangiandosi le parole,
il volto scarlatto. L’allenamento per rafforzare lo spirito non sembra essere servito a molto.
9
Nelle case tradizionali giapponesi l’ingresso si divide in una parte bassa, dove lascia le scarpe chi vuole entrare in casa, e
una parte più alta, da cui si accede alle stanze, e dove si va ad accogliere e riaccompagnare gli ospiti.
Meitei, che è rimasto in piedi vicino ai fusuma a osservarli divertito, giudicando che la
cerimonia è durata abbastanza comincia a spingere da dietro il sedere di Kushami.
«Spostati. Se stai così attaccato ai fusuma non c’è posto per me. Piantala di fare tante
storie e fatti più in là», lo esorta infilandosi a forza dietro di lui. Il mio padrone deve
rassegnarsi a spostarsi in avanti.
«Kushami, questo è lo zio di Shizuoka di cui ti ho parlato tante volte. Zio, questo è
Kushami».
«Sono molto lieto di fare la sua conoscenza. Sento che Meitei viene spesso a
disturbarla… È da molto che mi ripropongo di farle visita e avere l’onore di scambiare due
parole con lei, e poiché un caso fortunato mi ha portato oggi nel quartiere, ho pensato di
venire a porgerle i miei ringraziamenti. Mi permetta quindi di fare la sua conoscenza, e
anche in futuro…» Il vecchio si è messo a sciorinare una serie di convenevoli nello stile
pomposo d’altri tempi. È la prima volta che il padrone, poco socievole e piuttosto taciturno,
incontra un uomo tanto antiquato e cerimonioso, e fin dall’inizio si sente a disagio. Man
mano che il vecchio riversa su di lui un fiume di parole finisce con il dimenticare sia il
ginseng coreano che la lettera dalla busta colorata, e per disperazione si mette a dare
risposte inconsulte, la testa abbassata fino a toccare i tatami.
«Anch’io… anch’io… sì, avrei dovuto venire a trovarla… in ogni caso sono molto
onorato», conclude poi alzando un pochino la testa, ma vedendo che l’anziano signore è
ancora prosternato, sussulta per l’imbarazzo e l’abbassa di nuovo.
Lo zio di Meitei si risolleva e prende fiato.
«Un tempo anch’io avevo una casa da queste parti», attacca poi, «per molto tempo ho
abitato vicino allo shogun e ad alti dignitari, ma da quando il vecchio governo è stato
abbattuto mi sono ritirato in provincia e non vengo quasi mai a Tokyo. La città è talmente
cambiata che non mi ci raccapezzo più… Se non mi accompagnasse Meitei, non potrei
nemmeno occuparmi dei miei affari. È tutto irriconoscibile. A proposito di cambiamenti, se
penso che da trecento anni, da quando Tokugawa Ieyasu 10 entrò nel castello di Edo, gli
shogun avevano stabilito la loro dimora in questa città…»
«Zio», lo interrompe Meitei con aria annoiata, «siamo tutti molto grati agli shogun, ma
anche quest’era Meiji ha del buono. Pensa che un tempo non c’era nemmeno la Croce
Rossa!»
«È vero, non c’era la Croce Rossa né nulla del genere. Né si poteva vedere in faccia un
membro della famiglia imperiale, nell’era Edo. Sono vissuto abbastanza a lungo da poter
ascoltare oggi, all’assemblea generale cui ho assistito, la voce del principe ereditario, e
ormai posso morire contento».
«Be’, è stato anche bello fare un giro per Tokyo dopo tanto tempo, no? Sai, Kushami, lo
zio è venuto apposta da Shizuoka per partecipare all’assemblea generale della Croce Rossa.
Siamo stati insieme a Ueno, veniamo giust’appunto da lì. È per questo che lo zio indossa la
marsina che ho ordinato per lui da Shiroki-ya», fa notare Meitei.
In effetti lo zio indossa una marsina che su di lui fa triste figura. Le maniche sono troppo
lunghe, le falde troppo larghe, sulla schiena forma un avvallamento e sotto le ascelle tira
pietosamente. Anche facendolo apposta, non si potrebbe ottenere un risultato tanto brutto.
Il colletto bianco non è attaccato bene alla camicia, così che ogni volta che il vecchio alza la
testa si solleva lasciando vedere il pomo d’Adamo; quanto alla cravatta a farfalla, non si
capisce bene se sia legata intorno al colletto o intorno alla camicia. Ma passi per la marsina,
quello che è veramente spettacolare sono i capelli bianchi legati in cima alla testa nella
10
Tokugawa Ieyasu (1543-1616), il primo shogun della famiglia Tokugawa, che tenne il potere per trecento anni. Ieyasu, che
completò l’unificazione del Giappone, nel 1590 si impossessò del castello di Edo per sottomettere otto provincie del Kanto (regione
di Tokyo).
foggia dei samurai. Guardo intorno per vedere se c’è il famoso ventaglio di ferro e lo vedo
accuratamente posato accanto alle sue ginocchia. A questo punto il mio padrone ha
finalmente ritrovato la calma e mette in pratica i risultati dell’allenamento spirituale
nell’osservazione del vecchio, restandone meravigliato. Non aveva creduto molto al
racconto di Meitei, ma ora che incontra lo zio in carne e ossa, si rende conto che supera di
gran lunga la descrizione. Se i segni del vaiolo che lui ha sul volto meritano di diventare
materiale di studi storici, tanto maggior valore hanno la pettinatura e il ventaglio di quel
vegliardo.
Ventaglio sulle cui vicissitudini il mio padrone amerebbe informarsi; ma porre domande
personali sarebbe maleducato, allora, tanto per avviare la conversazione, dice qualcosa di
molto banale:
«Dovevano esserci molte persone…»
«Moltissime. E tutti si voltavano a guardarmi, oggigiorno sembra che la gente sia
diventata molto curiosa. Una volta non era così».
«È vero, una volta la gente non era così», ripete il padrone, come se appartenesse alla
stessa generazione dello zio di Meitei. Non l’ha detto per snobismo, le parole gli sono
venute spontanee, non ha potuto impedire che si formassero nel suo cervello annebbiato.
«Inoltre tutti non facevano che osservare questo spacca-elmi».
«In effetti il suo ventaglio sembra molto pesante».
«Prendilo in mano, Kushami. Senti che macigno. Lasciaglielo prendere un momento,
zio».
Il vecchio solleva un po’ a fatica il ventaglio e lo porge a Kushami scusandosi di
obbligarlo a sorreggere un oggetto tanto pesante. Il mio padrone lo tiene in mano per
qualche secondo con la riverenza con cui i pellegrini al tempio di Kurodani a Kyoto tengono
la spada di Rensho11, poi lo restituisce.
«Tutti pensano che sia un ventaglio di ferro, invece si chiama spacca-elmi. Altro che
ventaglio!»
«Oh! E a che cosa serve?»
«A spaccare l’elmo dei nemici. E mentre il nemico è ancora frastornato, gli dai il colpo di
grazia. Pare che l’abbia usato Kusunoki Masashige12».
«Vuoi dire che era lo spacca-elmi di Masashige, zio?»
«No, non si sa a chi sia appartenuto. Però è molto antico. Può darsi che sia stato forgiato
nell’era Kenmu13.
«Può darsi che risalga all’era Kenmu, ma Kangetsu ne è rimasto sconcertato. Sai,
Kushami, oggi tornando da Ueno abbiamo colto l’occasione per passare dall’università, e
abbiamo fatto un salto alla Facoltà di Scienze. Kangetsu è stato tanto gentile da mostrarci il
laboratorio. Peccato che questo spacca-elmi, essendo di ferro, abbia fatto impazzire tutti gli
apparecchi magnetici».
«No, non è possibile. Questo è ferro di buona qualità, ferro dell’era Kenmu, non
combina guai».
«Zio, sarà anche della qualità migliore, sempre ferro è. E poi l’ha detto Kangetsu, che era
colpa del ventaglio, quindi è sicuramente così».
«Kangetsu è quel tipo che stava limando una biglia di vetro? Mi ha fatto un po’ pena,
così giovane… Possibile che non abbia nulla di meglio da fare?»
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Nome assunto da Kumagai Naozane (1141-1208), eroe del clan dei Taira, quando prese i voti.
Kusunoki Masashige (1294-1336) fece parte del bakufu (governo degli shogun) durante il periodo in cui questo ebbe sede
a Kamakura (1185-1336). La lealtà di Kusunoki verso l’imperatore Godaigo divenne proverbiale.
L’era Kenmu va dal 1334 al 1336.
«Poveraccio, quello è l’argomento della sua ricerca. Quando avrà finito di limare la sua
biglia, sarà un illustre studioso».
«Se basta limare una biglia di vetro per diventare un illustre studioso, chiunque ci può
riuscire. Anche io. Anche il vetraio. In Cina quelli che limavano il vetro venivano chiamati
scalpellini, e avevano una posizione sociale piuttosto bassa», dichiara lo zio voltandosi
verso il mio padrone per cercarne l’approvazione.
«Sì, certo», risponde umilmente lui.
«Adesso tutto viene studiato in maniera obiettiva, scientifica. Non c’è niente di male, ma
a che cosa serve? Una volta era diverso, il lavoro dei samurai consisteva nel rischiare la
vita, dovevano acquisire una conoscenza e una padronanza del proprio spirito che nei
momenti critici impedisse loro di fare sciocchezze, non potevano certo permettersi di
passare il tempo a limare biglie di vetro o arrotolare filo di ferro».
«Sì, certo», ripete sempre umilmente il padrone.
«Dimmi, zio, acquisire la conoscenza del proprio spirito significava starsene seduti tutto
il giorno con le mani infilate nelle maniche, invece che limare biglie?»
«Ecco qual è il problema. Non si trattava affatto di starsene seduti a girarsi i pollici! Si
dice che per Mencius lo studio fosse la ricerca dell’astrazione mentale. E per il confuciano
Shao Kangjie14 lo spirito doveva liberarsi dal dominio delle cose. E fra i buddhisti il monaco
Zhong Feng15 insegnava che bisogna mantenere intatta la propria volontà, senza lasciarsi
sviare. È chiaro che non sono concetti di facile comprensione».
«No, per niente. In conclusione, cosa bisogna fare?»
«Hai mai letto La saggezza incrollabile, del monaco zen Takuan16?»
«Non ne ho mai nemmeno sentito parlare».
«Su cosa dobbiamo concentrare lo spirito? Se lo concentriamo sui movimenti del
nemico, i movimenti del nemico lo trascineranno con sé. Se lo concentriamo sulla spada
del nemico, la spada del nemico ce lo porterà via. Se lo concentriamo sulla volontà di
uccidere il nemico, il nostro spirito verrà catturato da questa volontà. Se lo riponiamo nella
nostra spada, la nostra spada ce lo porterà via. Se lo concentriamo sul desiderio di non
essere uccisi, questo desiderio lo catturerà. Se lo concentriamo sul comportamento
dell’altro, il comportamento dell’altro lo catturerà. In conclusione, non esiste un punto su
cui concentrare lo spirito».
«Hai recitato benissimo, zio, senza dimenticare una sola parola. Devi avere una
memoria formidabile. Una filastrocca così lunga! Hai capito, Kushami?»
«Sì, certo», si limita a dire anche questa volta il mio padrone.
«Ebbene, Meitei, non è così? Su cosa dobbiamo concentrare il nostro spirito? Se lo
concentriamo sui movimenti del nemico, i movimenti del nemico lo trascineranno con sé,
se lo concentriamo sulla spada del nemico…»
«Zio, Kushami queste cose le sa benissimo. Ultimamente passa le giornate chiuso nello
studio e si allena a rafforzare lo spirito. Non ti preoccupare per lui, se ne distacca a un
punto tale, dal suo spirito, che non risponde nemmeno alla porta quando ha visite».
«Oh, questa sì che è una cosa ammirevole. Perché non prendi esempio da lui?»
«Figurati, non ho tutto questo tempo da perdere, io!» risponde Meitei con una risata.
«Tu te la puoi prendere comoda, zio, e pensi che tutti passino il loro tempo a divertirsi…»
«Be’, non è quello che fai?»
«Diciamo che mentre mi diverto, mi capita anche di lavorare».
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Shao Kangjie (1011-1077), studioso del pensiero di Confucio.
Zhong Feng (1280-1368), monaco cinese appartenente al buddhismo zen.
Takuan (1573-1645), monaco della setta zen Rinzai, consigliere spirituale dello shogun Tokugawa Iemitsu, fondò nel 1638
il tempio Tokai. La saggezza incrollabile è la sua opera principale.
«Lo vedi? È per rimediare alla tua leggerezza che devi perseguire la conoscenza. Dire che
mentre si lavora capita di divertirsi è una cosa sensata, ma chi ha mai sentito il contrario?
Vero, signor Kushami?»
«Sì, ha ragione, non l’ho mai sentito dire».
«Ha, ha, ha, in due contro uno! A proposito, zio, cosa ne diresti di mangiare un po’
d’anguilla, dopo tanto tempo? Ti porto al Foglie di Bambù, è il miglior ristorante di Tokyo
per l’anguilla. Possiamo andarci con il tram, saremo lì in un minuto».
«Mi piacerebbe, ma ho promesso a Suihara di andarlo a trovare, quindi ora devo togliere
il disturbo».
«Vai da Sugihara? È arrivato anche lui a una bella età!»
«Suihara, non Sugihara. Non è ammissibile che tu faccia di continuo di questi errori. È
molto maleducato sbagliare il nome delle persone. Dovresti fare più attenzione».
«Ma se si scrive Sugihara, cosa posso farci?»
«Si scrive Sugihara, ma si legge Suihara».
«Che strano…»
«Non c’è niente di strano. Si chiama lettura d’uso corrente, esiste fin dai tempi antichi».
A questo punto lo zio si lancia nell’illustrazione di una serie di esempi di lettura d’uso
corrente.
«Quindi se leggi Sugihara invece di Suihara», conclude, «farai la figura del provinciale e
ti coprirai di ridicolo, devi stare attento».
«Sì, ma allora adesso dobbiamo andare da Suihara? Che seccatura!»
«Perché? Non è necessario che venga anche tu. Basta che ci vada io».
«Ma ce la farai, da solo?»
«Confesso che a piedi avrei dei problemi, preferisco chiamare un risciò».
Il padrone accoglie immediatamente la richiesta e manda di corsa O-san a cercare una
vettura. L’anziano signore, dopo lunghi e cerimoniosi saluti, si sistema la bombetta sulla
pettinatura d’altri tempi e si accomiata. Meitei rimane.
«Così, quello è tuo zio».
«Sì, quello è mio zio».
«Capisco», dice il padrone, poi si siede a gambe incrociate sul cuscino, infila le mani
nelle maniche e riprende le sue meditazioni.
Meitei scoppia in una risata.
«È straordinario, non credi? Sono fortunato ad avere uno zio così. Dovunque lo porti, si
comporta sempre in quel modo. Sei rimasto di stucco, eh?» L’idea di aver stupito l’amico
sembra rallegrarlo molto.
«No, perché?»
«Se nemmeno mio zio è riuscito a impressionarti, devi avere i nervi ben saldi».
«In realtà trovo che abbia un lato molto positivo. Esaltare l’allenamento spirituale è
molto lodevole».
«Non ne sono tanto sicuro. Probabilmente quando avrai sessant’anni sarai anche tu in
ritardo sui tempi, come mio zio. Ora però cerca di metterti al passo, non è una cosa
intelligente restare sempre mezza lunghezza indietro».
«A quanto vedo, il rischio di non essere al passo con i tempi ti preoccupa molto, ma io
penso che in certi momenti e in certi luoghi sia forse la cosa migliore. Tanto per
cominciare, attualmente gli studiosi vogliono andare sempre più avanti con le loro
ricerche, sempre più avanti, ma per quanto avanzino, non raggiungono mai la meta. Non
c’è soddisfazione possibile. È molto più gratificante studiare alla maniera orientale, che è
più passiva. Perché cerca la conoscenza dello spirito stesso». Il padrone espone le idee
inculcategli qualche giorno fa dal filosofo come se fossero farina del suo sacco.
«Però, lo sai che sei diventato bravissimo? Parli esattamente come Yagi Dokusen».
Sentendo quel nome, Kushami sussulta. Perché il filosofo che pochi giorni fa è venuto in
visita alla Caverna del Drago in Letargo, gli ha impartito una lezione e poi molto
contegnosamente se n’è andato, era questo Yagi Dokusen in persona, e il principio che il
mio padrone ha appena enunciato con tanta solennità è in tutto e per tutto ispirato alla sua
filosofia. Ora, il fatto che Meitei abbia subito fatto il nome di Yagi - rivelando
un’insospettata familiarità con lui - è una prova implicita che il padrone ne ha adottato in
fretta e furia il pensiero.
«Conosci le idee di Dokusen?» chiede infatti preoccupato.
«Il punto non è questo, il problema è che da dieci anni, da quando andava all’università,
dice sempre le stesse cose».
«Considerato che la verità non varia, dire sempre le stesse cose forse è una prova di
credibilità».
«È proprio perché c’è gente che lo sostiene che Dokusen continua imperterrito a
sproloquiare. Tanto per cominciare, il suo nome, Yagi, gli va a pennello se pensiamo che
significa anche caprone. La sua barba non è identica a quella di una capra? La portava già
così da studente, ai tempi della pensione. Anche il suo nome proprio, Dokusen, è molto
inusuale, visto che significa l«‘eremita». Una volta, anni fa, è venuto a dormire da me e per
tutto il tempo non ha fatto altro che parlarmi della conoscenza e della passività. Ripeteva
sempre le stesse cose, incurante dell’ora, finché gli ho detto che era tempo di andare a
dormire. Ma lui senza scomporsi ha ribattuto: «No, non ho sonno», ed è andato avanti
come se niente fosse. Molto seccante, la sua passività. Sono stato obbligato a dirgli che se
lui non aveva sonno, io invece ero stanco morto e volevo dormire. Finalmente sono riuscito
a mandarlo a letto e fin qui tutto bene, ma a un certo punto della notte è successo che un
topo gli ha morso la punta del naso. Dokusen ha fatto un pandemonio. Con tutta la sua
saggezza e la sua filosofia, era terrorizzato, prova che tiene molto alla vita. Diceva che se
l’infezione trasmessa dal topo entrava in circolazione nel sangue rischiava la vita, mi
pregava di fare qualcosa, era davvero imbarazzante. Alla fine mi sono rassegnato ad andare
in cucina, schiacciare un po’ di riso bollito, metterlo in una bustina e darglielo facendogli
credere che fosse un antidoto».
«Come ci sei riuscito?»
«Gli ho detto che era un unguento importato dall’estero un’invenzione recente di un
medico tedesco, un antidoto molto efficace usato in India quando qualcuno viene morso da
un serpente velenoso. Se l’avesse messo sulla ferita poteva stare tranquillo…»
«Già allora ti distinguevi nell’arte dell’imbroglio».
«…Dokusen, che è una brava persona, ci ha creduto e si è calmato, e si è rimesso a
dormire. Il mattino dopo, quando mi sono svegliato, ho riso vedendo che l’unguento gli era
colato nella barbetta da capra e si era rappreso».
«Sì, ma da allora ha fatto molti progressi».
«L’hai visto di recente?»
«È venuto a trovarmi una settimana fa, abbiamo parlato a lungo».
«Infatti ho subito pensato che l’impassibilità che sventolavi ricordava quella di Dokusen,
tale e quale».
«Se devo dirti la verità, sono rimasto molto impressionato dalle sue idee, e ho deciso di
impegnarmi seriamente negli esercizi spirituali».
«Bella cosa impegnarsi seriamente. Però prendere per oro colato quello che dice la gente
mi sembra una sciocchezza. Il problema con te è che credi a occhi chiusi a tutto e a tutti.
Dokusen si riempie sempre la bocca di belle parole, ma nei momenti critici è tale e quale
agli altri. Ti ricordi il terremoto di nove anni fa? Quella volta l’unico a saltare dal primo
piano della pensione e a farsi male è stato lui».
«Dava una spiegazione diversa di quell’episodio».
«È ovvio, a sentire lui aveva fatto benissimo. Diceva che era grazie alla sua padronanza
di sé che aveva avuto l’idea di saltare giù dalla finestra, mentre tutti gli altri erano in preda
al panico e gridavano: «Il terremoto, il terremoto!» E se ne rallegrava. Zoppicava, ma era
tutto contento. Non è uno che ammetta facilmente di aver perso. In ogni caso le persone
che vanno blaterando di zen e di buddhismo sono poco affidabili, dalla prima all’ultima».
«Sì, ma…» fa il padrone, già meno convinto di prima.
«Quando è venuto qui l’altro giorno, sono sicuro che ha vaneggiato come un monaco zen
che parla nel sonno».
«Mmh. Mi ha spiegato il significato della frase «il guizzo della folgore, e la tua spada
taglierà solo la brezza di primavera»».
«Come prevedevo. È il suo ritornello da dieci anni. Divertente, non trovi? Nella pensione
non c’era nessuno che non conoscesse la famosa frase. In più ogni tanto per l’agitazione si
sbaglia e la dice all’incontrario: «La brezza di primavera, e la tua spada taglierà solo il
guizzo della folgore». Esilarante. La prossima volta fai l’esperimento. Prima lascialo
parlare tranquillamente, poi prova a contraddirlo. Subito si confonde e comincia a
sproloquiare».
«È pericoloso incappare in un vecchio gabbamondo come te».
«Chi dei due cerca di gabbare gli altri? Non li posso sopportare, i bonzi che hanno
raggiunto l’illuminazione. Vicino a casa mia c’è un tempio, il Nanzoin, ci vive un monaco
che avrà un’ottantina d’anni. L’altra sera, quando c’è stato quel temporale, la folgore ha
spaccato in due un pino del giardino, è caduta proprio vicino al vecchio monaco. Ma lui ha
conservato una calma imperturbabile, mi hanno raccontato, allora sono andato a trovarlo e
mi sono reso conto che è sordo come una campana. Ecco spiegata la sua impassibilità. Più
o meno sono tutti così. Anche su Dokusen, se raggiungesse l’illuminazione per conto suo
senza importunare gli altri, non avrei nulla da obiettare, ma cerca di fare proseliti. Il guaio
è che a causa sua già due persone sono uscite di senno».
«Chi sono?»
«Come, non lo sai? Uno è Rino Tozen. Influenzato da Dokusen, è diventato un fanatico
dello zen, è andato a chiudersi nel tempio Engaku a Kamakura e in brevissimo tempo è
diventato matto. Sai che davanti al tempio c’è un passaggio a livello, no? Un giorno Tòzen è
corso lì e si è messo nella posizione del loto in mezzo alle rotaie, affermando tutto esaltato
di essere in grado di fermare il treno che stava arrivando. Si è salvato solo perché il treno è
stato tanto gentile da fermarsi. In compenso la volta dopo si è buttato nello stagno del
tempio dichiarando che il suo corpo era invulnerabile e non poteva né bruciare né
annegare, e si è messo a camminare sott’acqua facendo bolle».
«Ed è morto?»
«No, si è salvato anche quella volta, per sua fortuna il priore del tempio stava passando
di lì e lo ha tirato fuori. Poi è tornato a Tokyo e alla fine è morto di peritonite. Ma se gli è
venuta una peritonite, è perché mangiava soltanto granaglie e verdura sotto sale. Gira e
rigira, è stato indirettamente ucciso da Dokusen».
«Il fervore non è sempre foriero di felicità, a quanto pare», osserva il mio padrone con
un’espressione un po’ allarmata.
«Proprio così. Ma c’è un altro ex compagno di scuola che è stato rovinato da Dokusen».
«Pericoloso, quell’uomo. E chi sarebbe?»
«Tachimachi Robai. Anche lui è stato irretito da Dokusen, andava dicendo in
continuazione che le anguille salgono al cielo, e alla fine è successo per davvero».
«Cosa significa, che è successo per davvero?»
«Alla fine le anguille sono salite al cielo, e i porci sono diventati eremiti».
«Cosa diavolo significa?»
«Il fatto è che se Dokusen è testardo come un caprone, questo Tachimachi mangia come
un porco. Non ho mai visto nessuno ingozzarsi come lui, e dato che associa la sua passione
per il cibo alla determinazione di un monaco zen, è senza speranza. All’inizio nessuno di
noi se n’era accorto, ma a pensarci adesso, già allora diceva assurdità. Veniva a casa mia e
diceva: «Mi sembra che delle cotolette impanate siano arrivate in volo su quel pino»,
oppure: «Al mio paese il kamaboko galleggia su assi di legno», e altre strampalerie del
genere. Io non ci facevo caso, ma quando è arrivato al punto di chiedermi di andare a
cercare nel fossato davanti a casa dei dolci di castagne, mi sono arreso all’evidenza. Dopo
due o tre giorni è diventato un porco e l’hanno chiuso a Sugamo. È vero che non è nella
natura dei porci diventare pazzi, ma in ogni caso è stato Dokusen a portarlo alla rovina. È
impressionante, il potere di quell’uomo».
«Già. Ed è ancora a Sugamo, Robai?»
«Non solo c’è ancora, ma è diventato arrogante, va in giro vantandosi e straparlando. Di
recente dice che il suo nome è troppo umile per lui, vuole essere chiamato Tendo Kohei - la
Divina Equità. Insomma professa di essere un’incarnazione divina. Dovresti andare a
trovarlo, uno di questi giorni».
«Tendo Kohei?»
«Esattamente. Si è trovato un bel nome, per essere pazzo, no? Ogni tanto sbaglia
ideogramma e la Divina Equità diventa Divina Pace. Inoltre sostiene che la gente vive
nell’errore, e che lui la vuole a tutti i costi salvare, così manda lettere ad amici e conoscenti.
Anch’io ne ho ricevute quattro o cinque, alcune sono talmente lunghe che due volte ho
dovuto pagare un supplemento d’affrancatura».
«Allora anche la lettera che mi è arrivata oggi è di Robai».
«Ne hai ricevuta una pure tu? È proprio pazzo, quello lì. È una busta rossa, vero?»
«Sì, rossa al centro e bianca ai lati. Molto originale, devo dire».
«Pare che se le faccia venire apposta dalla Cina, quelle buste. Per illustrare la sua
massima che la via del Cielo è bianca, la via della Terra è bianca, ma la comunità umana è
rossa…»
«Una busta con un suo simbolismo, insomma».
«Un simbolismo che è frutto delle elucubrazioni di un pazzo. Ma anche se gli ha dato di
volta il cervello, la sua voracità e quella di sempre. Infatti la cosa strana è che in ogni lettera
parla di cibo. A te cosa ha scritto?»
«Qualcosa a proposito dei cetrioli di mare».
«Perché Robai ne va pazzo, è il caso di dirlo. E poi?»
«E poi parla del pesce-palla e del ginseng coreano».
«Un accostamento astuto, pesce-palla e ginseng. Forse voleva dirti che se resti
avvelenato da un pesce-palla, devi bere un infuso di ginseng».
«No, non credo che intendesse questo».
«Fa lo stesso. Tanto è matto da legare. Non diceva altro?»
«Sì, mi ha scritto: «Beva una tazza di tè, professor Kushami…»»
«Ha, ha, ha, questo è troppo! Di sicuro ha voluto darti un rompicapo su cui arrovellarti.
È bravo il signor Divina Equità!»
Il professor Meitei si diverte un mondo e ride di cuore. Il mio padrone invece, dopo aver
appreso che la lettera che ha letto con tanto rispetto gli è stata mandata da un autentico
pazzo, è di pessimo umore. Sta pensando furioso che l’ardore con cui si è tormentato nelle
ultime ore è fatica sprecata, e si vergogna di aver apprezzato per la sua espressività lo stile
di un malato di mente. Comincia a chiedersi se non soffra lui stesso di qualche disturbo
nervoso per lasciarsi impressionare a tal punto da uno squilibrato e, turbato dalla rabbia, la
vergogna e la preoccupazione abbassa la testa.
In quel momento sentiamo aprirsi la porta d’ingresso e il rumore di due scarpe pesanti
che entrano.
«C’è nessuno? C’è nessuno?» fa una voce forte. «Avanti!» dice Meitei, che
contrariamente al padrone è un uomo socievole e veloce. Senza aspettare che O-san vada
ad aprire, attraversa la stanza di mezzo e in due salti è nell’ingresso. Se è abituato a entrare
sfacciatamente in casa d’altri senza venire introdotto, una volta entrato si rende utile
svolgendo le mansioni di uno studente a pensione, ad esempio rispondere alla porta.
Comunque è pur sempre un ospite, e non è corretto che, mentre lui corre a vedere chi è
arrivato, il professor Kushami, che è il padrone di casa, non si muova dalla stanza degli
ospiti. Un uomo normale l’avrebbe raggiunto e sarebbe passato in testa, ma lui è fatto così.
L’idea di alzare il sedere dal cuscino non lo sfiora neanche. Tuttavia non è tranquillo,
nonostante l’apparenza.
Nell’ingresso Meitei parla animatamente con qualcuno, poi si volta e grida:
«Ehi, capo, vogliono te, datti la pena di venire! Io non basto».
Il padrone non può fare altro che alzarsi: senza togliere le mani dalle maniche si avvia
con riluttanza verso l’ingresso, dove trova Meitei inchinato per salutare formalmente, un
biglietto da visita in mano. Vista da dietro, la posa non è molto dignitosa. Sul biglietto legge
Yoshida Torazo, ispettore di polizia, commissariato metropolitano. In piedi accanto a
Yoshida Torazo c’è un uomo di venticinque o ventisei anni, alto e attraente, che indossa un
kimono e un haori di un bel cotone rigato. La cosa strana è che anche quest’uomo tiene le
mani nelle maniche come il padrone e non dice una parola. Mi sembra di averlo già visto, e
osservandolo bene, altroché!, penso. È il signor ladro che l’altra volta, in piena notte, è
venuto a trovarci e ha portato via una scatola di patate dolci. Chissà come mai questa volta
si è presentato alla porta d’ingresso, e alla luce del sole…
«Kushami, questo signore è un ispettore di polizia, ha catturato il ladro e vorrebbe che
tu andassi al commissariato, è venuto apposta».
Il padrone sembra finalmente rendersi conto della ragione per cui un poliziotto è venuto
a casa sua, e voltandosi verso il ladro si inchina educatamente. Trovandolo il più virile dei
due uomini, l’ha scambiato per l’ispettore. Il ladro pare molto sorpreso ma, non potendo
chiarire l’equivoco, si limita a restare in piedi dov’è. Sempre con le mani nelle maniche.
D’altronde ha le manette ai polsi e anche volendo non potrebbe tirarle fuori. Una persona
normale avrebbe afferrato subito la situazione, ma il padrone, che della società capisce
poco, è obnubilato dal rispetto eccessivo verso funzionari e poliziotti, cui attribuisce un
potere terrificante. In teoria sa che sono pagati dai contribuenti perché assicurino la
sorveglianza, ma in pratica appena li vede gli viene la tremarella. Suo padre, che era un
piccolo funzionario nell’ufficio di un magistrato, ha passato la vita ad abbassare la testa
davanti ai superiori, e la poco dignitosa abitudine si è fatalmente trasmessa al figlio. È una
cosa mortificante.
L’ispettore, perplesso, sorride.
«Domani mattina alle nove voglia presentarsi all’Ufficio di Polizia di Nihonzutsumi.
Ricorda quali sono gli oggetti di cui è stato derubato?»
«Gli oggetti di cui sono stato derubato…» inizia a dire il mio padrone, ma
sfortunatamente se li è dimenticati. L’unica cosa che ricorda è la scatola di patate dolci che
gli aveva mandato Tatara Sanpei. Non gliene importa nulla, di quella scatola, ma se inizia
una frase senza finirla rischia di fare la figura del cretino. In fin dei conti è lui il derubato,
nessun altro, e se non risponde in maniera chiara rischia di passare per una persona poco
seria. «Sono stato derubato di… una scatola di patate dolci», dice d’un fiato. Il ladro deve
trovare la risposta comica perché abbassa la testa e ridacchia nel colletto del kimono.
Meitei invece scoppia in una franca risata:
«Ha, ha, ha, dovevi tenerci molto, a quelle patate!»
Solo l’ispettore resta serio:
«Per le patate dolci temo non ci sia nulla da fare, ma gli altri oggetti le saranno restituiti.
Comunque quando verrà all’Ufficio di Polizia vedrà lei. Dovrà firmare la deposizione,
quindi non dimentichi il suo sigillo, per favore. Alle nove precise, mi raccomando.
All’ufficio di Nihonzutsumi, appartenente alla giurisdizione del Commissariato di Asakusa.
Allora la saluto, arrivederci», conclude, e se ne va senza aspettare la risposta. Il ladro,
senza togliere le mani dalle maniche, lo segue e varca la porta dietro di lui, lasciandola
aperta. Il mio padrone, che per tutto il tempo è parso confuso e a disagio, la chiude con un
colpo secco, sbuffando.
«Mi sembra che tu abbia un sacro rispetto per la polizia», commenta Meitei con una
risata. «Se avessi sempre quest’atteggiamento umile e modesto, saresti un uomo come si
deve, ma solo con gli ispettori ti mostri gentile».
«Be’, è venuto apposta fin qui per mettermi al corrente».
«Non l’ha fatto per cortesia, è il suo mestiere. È la procedura normale».
«Sì, ma non è un mestiere come gli altri».
«Questo è ovvio. Praticamente si tratta di spiare la gente. È un mestiere molto meno
dignitoso degli altri».
«Guarda che se continui a dire cose del genere, finisci nei guai».
«Ha, ha, ha, allora smetto di sparlare dei poliziotti! Comunque, passi mostrare rispetto
verso la polizia, quello che è sconcertante è che fai la stessa cosa con i ladri».
«Chi è che ha mostrato rispetto verso i ladri?»
«Tu».
«Cosa dici? Quando mai mi sono avvicinato a un ladro?»
«Ma se ti sei persino inchinato!»
«Quando?»
«Poco fa. Ti sei inchinato fino a terra».
«Non dire sciocchezze, quello era un poliziotto».
«I poliziotti non vanno in giro vestiti così».
«Vanno in giro vestiti così proprio perché sono poliziotti».
«Che testa di legno che sei».
«No, la testa di legno sei tu».
«Tanto per cominciare, un poliziotto non tiene le mani nelle maniche, quando va a casa
di qualcuno, e non resta in piedi impalato».
«Non sta scritto da nessuna parte che non possa tenere le mani nelle maniche».
«La tua testardaggine è patetica. Mentre ti inchinavi, quello non si è mosso per tutto il
tempo».
«Ovvio, poteva permetterselo perché è un poliziotto».
«Ah, ma allora non c’è verso, non vuoi sentire ragioni».
«No, infatti. Continui a dire: «Era il ladro, era il ladro», ma mica l’hai visto entrare in
casa mia! È solo una tua supposizione, come fai ad affermarlo?»
A questo punto anche Meitei deve aver abbandonato ogni speranza, perché
contrariamente al suo solito non risponde. Il padrone, convinto di averlo messo per una
volta tanto con le spalle al muro, è molto fiero di sé. Crede che la sua ostinazione lo renda
superiore all’amico, ai cui occhi invece è proprio la caparbietà a svalutarlo. Situazioni di
questo tipo si verificano spesso, un uomo crede di aver vinto perché ha ottenuto ciò che
voleva, senza cedere, ma intanto il suo valore in quanto persona è calato. La cosa strana è
che gli ostinati per tutta la vita considerano la loro testardaggine una qualità, e il dubbio
che la gente possa disprezzarli, possa non considerarli degli interlocutori validi non li sfiora
nemmeno. Sono creature felici. Di quella che pare venga chiamata «la felicità dei maiali».
«A ogni modo domani hai intenzione di andare?»
«Certo che ci vado. Devo essere lì alle nove, quindi mi conviene uscire alle otto».
«E per la scuola come fai?»
«Prendo la mattinata di congedo. Cosa vuoi che me ne importi della scuola?» La risposta
è immediata e impulsiva.
«Che foga! Questo non ti creerà problemi?»
«Non credo. Veniamo pagati al mese, non c’è pericolo che mi sottraggano la differenza,
non ti preoccupare», dichiara il padrone senza giri di parole. È vero che è sleale, ma è
anche molto ingenuo.
«Allora fai bene ad andare, ma sai che strada fare?»
«Come faccio a saperlo? Prenderò un risciò, non ci saranno problemi».
«In quanto a conoscenza di Tokyo, sei come mio zio di Shizuoka. È mortificante».
«Mortificati pure quanto vuoi».
«Ha, ha, ha! Ma lo sai almeno che Nihonzutsumi non è un quartiere come un altro? Si
trova a Yoshiwara».
«Come?»
«A Yoshiwara».
«Quale Yoshiwara? Il quartiere dei piaceri?»
«Certo, a Tokyo c’è un solo Yoshiwara. Allora? Vai a dare un’occhiata?» Ancora una
volta Meitei si sta facendo gioco di lui.
Il padrone, sentendo che si tratta di «quel» Yoshiwara, sembra esitare un po’, poi si
ravvede:
«Quartiere dei piaceri o meno, se ho detto che ci vado, ci vado», afferma con una
veemenza fuori luogo. Solo uno stolto può fare di una cosa del genere una questione di
puntiglio.
«Be’, vai a farci un giro, sarà divertente», conclude Meitei.
L’interesse per questa vicenda poliziesca, passata la prima ondata di agitazione, si placa.
Meitei continua a parlare a vanvera secondo il suo solito, poi verso sera, spiegando che se
torna troppo tardi incorrerà nelle ire dello zio, se ne va.
Partito lui, il padrone cena in fretta e va di nuovo a chiudersi nello studio, infila le mani
nelle maniche e riprende a rimuginare.
A sentire Meitei, pensa, Yagi Dokusen, che ammiravo e giudicavo degno di essere
imitato, non è un uomo il cui esempio valga la pena di seguire. Non solo, la sua teoria è
totalmente priva di senso e appartiene alla sfera della malattia mentale, come dice
giustamente Meitei. La prova, due dei suoi discepoli sono usciti di senno. È un uomo
pericoloso. Se mi avvicino troppo a lui, rischio di venire trascinato nella sua stessa
dimensione mentale. In più quel Tendo Kohei, la cui lettera mi ha impressionato tanto che
ero convinto fosse un grand’uomo dotato di immensa saggezza, in realtà si chiama
Tachimachi Robai ed è un pazzo internato al manicomio di Sugamo. Anche supponendo
che Meitei abbia esagerato, resta il fatto che è un megalomane convinto di essere l’arbitro
della volontà divina. Può darsi che anch’io, riguardo a certi argomenti, sia un po’ fissato.
«Chi si assomiglia, si piglia», dice il proverbio, quindi il fatto di essere affascinato dal
pensiero di uno squilibrato - o per lo meno di apprezzare la sua scrittura - significa forse
che sono prossimo alla follia? Se decido di vivere nella casa accanto a quella di un pazzo,
tetto contro tetto, pur non essendo matto come il mio vicino, non è escluso che un giorno o
l’altro non finisca con il demolire il muro di confine, sedermi di fronte a lui e mettermi a
discorrere come se niente fosse. Ci mancherebbe altro! A pensarci bene, il mio cervello di
recente ha reazioni bizzarre, diverse dal solito, al punto che me ne meraviglio io stesso.
Forse una piccola parte del mio cervello ha subito una mutazione chimica, o per lo meno,
quando cerco di trasformare la mia volontà in azione, o di esprimerla a parole, lo faccio in
maniera per molti aspetti strana, distorta. Non sento nulla di anomalo sotto la lingua o
sotto le ascelle, ma alla radice dei denti avverto un odore sgradevole, e un’eccessiva
tensione nei muscoli, dovrei fare qualcosa. Sono veramente nei guai. Chissà, può darsi che
sia già gravemente malato. Per fortuna non ho ancora ferito nessuno, né recato disturbo
alla quiete pubblica, motivo per cui non mi hanno ancora cacciato dal quartiere e mi
lasciano vivere tranquillamente qui come un normale cittadino. Altro che preoccuparmi se
avere un atteggiamento attivo o passivo, non è questo il momento! Devo farmi fare subito
un controllo completo, cominciando dalla frequenza del polso. No, il polso mi pare sia
normale. Che abbia la febbre? No, non avverto sintomi di riflussi di sangue. Eppure sono
preoccupato.
Se continuo a paragonarmi soltanto a dei pazzi e a elencare le cose che ci accomunano,
non riuscirò mai a tenermi lontano dalla sfera della follia. Ho scelto il metodo sbagliato. È
perché ho assunto la follia a criterio di normalità, che sono giunto a questa conclusione. Se
prendessi a modello un individuo sano e mi valutassi in rapporto a lui, magari arriverei alla
conclusione opposta. Inoltre dovrei cominciare da persone vicine a me. Quel vecchio con la
marsina che è venuto oggi, ad esempio: «Su cosa dobbiamo concentrare lo spirito…» No,
non è mica a posto, neanche quello lì. E Kangetsu? Dal mattino alla sera lima biglie di
vetro, il pranzo se lo porta da casa… fa parte anche lui del drappello degli squilibrati.
Terzo… Meitei? Sembra convinto che andare in giro a fare il buffone sia la sua missione. Un
pazzo patentato. Quarto… la moglie di Kaneda. Una natura così velenosa è un insulto al
buon senso. Una folle, semplicemente una folle. Poi viene Kaneda. Non l’ho mai
incontrato, ma il solo fatto che tenga in grande considerazione quell’arpia della moglie, che
ci vada d’amore e d’accordo, dimostra che non è normale. E dato che «anormale» è un
eufemismo per «matto», anche lui entra a buon diritto nel novero dei dissennati. Inoltre…
ce ne sono altri, ce ne sono altri. Gli allievi delle Nuvole Calanti, considerata l’età, sono
ancora in boccio ma in quanto a sfrenatezza non temono confronti con nessuno. Tutte
queste persone, nessuna esclusa, appartengono alla stessa razza. Mi sento riconfortato,
contrariamente a quanto mi aspettavo. Forse la nostra società è soltanto un’aggregazione
di pazzi. Di pazzi che si assembrano, competono ferocemente fra loro strattonandosi e
mostrandosi i denti l’un l’altro, insultandosi e defraudandosi. E tutti insieme formano una
massa all’interno della quale si separano, si aggregano, si allontanano di nuovo, come
cellule, questa è forse la nostra società. Lì dentro, chi è dotato di discernimento, chi è
capace grosso modo di ragionare, dà fastidio. Viene rinchiuso in un ospedale psichiatrico
appositamente costruito, dal quale gli si impedirà di uscire. Quindi può darsi che le
persone chiuse in manicomio siano perfettamente sane, e invece quelle che si agitano
all’esterno del tutto matte. Isolato, un pazzo sarà sempre e solo un pazzo, ma quando fa
gruppo con altri e acquisisce forza, a quel punto diventa una persona normale. Non
mancano certo gli esempi di un pazzo grosso che usando la forza del denaro e dell’autorità
si serva di molti pazzi piccoli per compiere dei soprusi, ma da tutti verrà giudicato
ugualmente una persona per bene. Non ci capisco più niente.
Ho riportato alla lettera il ragionamento del mio padrone, profondamente assorto
stasera nelle sue riflessioni sotto la luce malinconica della lampada. La confusione che
regna nella sua testa è ampiamente dimostrata. Benché sfoggi dei baffi alla Guglielmo II, è
tanto stupido da non capire la differenza tra un pazzo e una persona normale. In più, dopo
essersi spremuto le meningi su un problema che si è posto da solo, rinuncia
tranquillamente a trovare una soluzione. Non è in grado di riflettere in maniera esaustiva
su un argomento, qualunque esso sia. Le sue conclusioni sono nebulose e inafferrabili
come il fumo delle sigarette Asahi che gli esce dalle narici, e questa è la sola caratteristica
degna di essere ricordata riguardo al suo modo di ragionare.
Io sono un gatto. Può darsi che fra i lettori vi sia chi dubita che un gatto abbia la capacità
di riportare dettagliatamente i moti dell’animo del proprio padrone, ma per me non è
affatto un’impresa. Perché riesco a leggere nel pensiero. E non chiedetemi dove abbia
imparato, è una domanda inutile. So farlo e basta. Quando dormo sulle ginocchia di un
essere umano, strofino piano piano il mio morbido pelo contro il suo ventre e in questo
modo genero una leggera corrente elettrica che trasmette agli occhi della mia mente quel
che si agita nel suo cuore. L’altro giorno, mentre il padrone mi carezzava gentilmente la
testa, di punto in bianco ho percepito che veniva colto da un desiderio assurdo. Se
scorticassi questo gatto e con la pelliccia mi facessi un colletto, stava pensando, mi terrebbe
davvero caldo. Mi sono venuti i sudori freddi. È spaventoso. A ogni modo è questa facoltà
che mi ha permesso di raccontare ai lettori i pensieri concepiti dal mio padrone questa
sera, del che vado molto orgoglioso. Dopo aver detto fra sé e sé: «Non ci capisco niente», si
è addormentato. Non c’è dubbio che domani avrà dimenticato tutto ciò che ha pensato e
fino a che punto è arrivato nel suo ragionamento. Se per caso gli succederà di nuovo di
riflettere sulla pazzia, dovrà ricominciare da capo. Non posso garantire però che il suo
pensiero seguirà lo stesso filo logico e arriverà alla stessa conclusione. Ma qualunque filo
segua, una cosa è sicura, non avrà comunque capito niente.
10
«Svegliati, sono già le sette!»
Al di là dei fusuma si sente la voce della padrona. Il marito resta voltato dall’altra parte,
impossibile dire se sia sveglio o dorma ancora. Non rispondere è una sua abitudine.
Quando deve assolutamente dire qualcosa, si limita a fare «mmh». Anche questo «mmh»,
non lo pronuncia facilmente. Un uomo che arrivi a un livello di pigrizia tale da trovare
fastidioso rispondere può avere un certo fascino, ma non agli occhi delle donne. Il mio
padrone non è tenuto in gran conto nemmeno da quella che l’ha sposato e vive con lui,
figurarsi come viene considerato dalle altre! Dice una vecchia canzone: «Abbandonato dai
genitori e dai fratelli, non sarà certo amato da una cortigiana a lui estranea». Come può
dunque un uomo già poco apprezzato dalla propria consorte aver successo con le signore?
Non dovrei qui ricordare lo scarso favore di cui il padrone gode presso il gentil sesso, ma se
continua a nutrire illusioni assurde, a convincersi a forza di ragionamenti di deludere la
moglie soltanto a causa degli anni che passano, finirà con il perdere ogni obiettività. Quindi
è per gentilezza che faccio questa precisazione, per aiutarlo in qualche modo a prendere
atto della realtà.
La moglie lo sveglia sempre all’ora richiesta, ma se non ottiene risposta, neanche un
vago «mmh», lo abbandona al suo destino senza preoccuparsi minimamente del rischio
che faccia tardi a scuola. Anche stamane, dopo averlo chiamato, si dirige verso lo studio
armata di scopa e piumino per la polvere. Dopo un po’ sento il fruscio del piumino passato
qua e là, segno che le pulizie sono iniziate secondo la routine abituale. Non capisco se fare
le pulizie sia una sorta di sport o un divertimento, la cosa non mi riguarda quindi il mio
disinteresse è giustificato. Tuttavia non posso fare a meno di notare che il metodo della
padrona è del tutto irrazionale. Sembra che pulisca per il puro gusto di farlo. Passa una
volta il piumino sugli shoji e la scopa sui tatami, e con questo ritiene le pulizie completate.
Non cerca di ottenere il modesto risultato che esse originariamente si prefiggono. Di
conseguenza i posti puliti sono sempre puliti, e quelli sporchi e impolverati restano sporchi
e impolverati. «Fingere di sacrificare un montone è preferibile a non celebrare cerimonia
alcuna», diceva Confucio, quindi la sommaria spolverata della padrona è sempre meglio di
niente. Peccato che non sia di utilità alcuna al marito. Ma va ammirata la sua perseveranza
a ripetere ogni giorno un lavoro inutile. La padrona e le pulizie sono indissolubilmente
legate da una consuetudine di anni, da un rito direi, ma il risultato finale non varia, è
sempre lo stesso da quando la padrona non era ancora nata, da quando la scopa e il
piumino non erano ancora stati inventati. A pensarci bene, la relazione fra queste due
entità - la padrona e le pulizie - è simile a quella che intercorre fra certi predicati di logica
formale, che si combinano senza considerazione per il contenuto.
Contrariamente al mio padrone, io ho l’abitudine di alzarmi presto, e a quest’ora ho già
fame. Lo so, non è concepibile che un gatto riceva la colazione prima che le persone di casa
si mettano a tavola, ma come tutti i gatti ho un punto debole, non riesco a contenere
l’impazienza e mi chiedo se nella mia conchiglia non mi attenda già una buona zuppa
fumante e profumata. Quando vogliamo una cosa irraggiungibile, faremmo bene a
rassegnarci alla realtà e restarcene tranquilli, limitandoci a sognare l’oggetto del desiderio.
Ma non è facile, la tentazione di verificare se desiderio e realtà coincidano è molto forte. La
delusione è garantita, eppure non siamo contenti finché non siamo definitivamente delusi.
Incapace di resistere oltre, vado in cucina a controllare la conchiglia dietro la stufa:
come mi aspettavo è pulita come l’ho lasciata ieri sera dopo averla leccata ben bene, luccica
quietamente nella penombra creata dall’incerta luce autunnale che entra dal lucernario.
Intanto O-san ha già versato il riso appena cotto nel recipiente in legno, e sta rimestando
qualcosa nella marmitta posata sul braciere più piccolo. Tutt’intorno alla pentola del riso
colate d’acqua di cottura seccate sembrano strisce di carta di Yoshino. Ora che ha preparato
sia il riso che la minestra, forse O-san mi darà da mangiare. In tal caso mostrare
riservatezza sarebbe da stupidi, non è detto che otterrei quel che desidero, ma non avendo
nulla da perdere tanto vale che chieda insistentemente la mia colazione. Sarò anche un
parassita, ma la fame è fame. Mi decido dunque a miagolare, a emettere un verso che è una
richiesta di affetto, un lamento, un rimprovero. O-san non mi degna di uno sguardo.
Essendo di natura esagonale, non ha sentimenti umani, lo so perfettamente, ma mi vanto
di saper suscitare la sua compassione. Riprovo. Il mio pianto ha un’inflessione di tale
tragica bellezza da generare profonda nostalgia nel cuore del viaggiatore lontano da casa.
Da parte di O-san, invece, nessuna reazione. Che sia sorda? Se è sorda non può lavorare
come domestica. Può darsi che lo sia solo alla voce dei gatti. Pare che al mondo ci siano
esseri umani che non vedono certi colori. Costoro sono convinti di avere una vista perfetta,
ma dal punto di vista medico sono malati. Che anche O-san senta soltanto certi suoni?
Allora è malata pure lei. Ciononostante è di un’arroganza incredibile. La notte, per
esempio, ho un bel pregarla di aprirmi perché devo fare un bisognino, mai che mi dia
ascolto. E se per caso mi fa uscire, non mi lascia più rientrare. D’estate la rugiada notturna
è estremamente nociva per me. E in inverno la brina è ancora peggio, aspettare svegli che
faccia giorno sotto la tettoia è un vero supplizio. L’altra notte, quando sono rimasto chiuso
fuori, sono stato aggredito da un cane randagio, mi sono salvato per un pelo saltando sul
tetto del ripostiglio e lì ho atteso l’alba tremando di freddo. Tutte disgrazie dovute
all’insensibilità di O-san. Quindi non c’è ragione che mettendomi ora a miagolare possa
smuovere un cuore di pietra come il suo - pregare soltanto nel momento del bisogno non
serve - ma tanto vale provare. Al terzo tentativo emetto un suono complicato che non può
non attirare la sua attenzione. A mio avviso è bellissimo, paragonabile a una sinfonia di
Beethoven, ma su O-san non produce il minimo effetto. Tutt’a un tratto si mette in
ginocchio, solleva il coperchio della botola e prende un pezzo di carbone lungo una
quindicina di centimetri. Poi lo sbatte due o tre volte contro l’angolo del braciere per
spezzarlo in tre, spargendo tutt’intorno polvere nera di carbone. Ne entra un po’ anche
nella minestra, ma O-san non è donna da preoccuparsi di tali inezie, prende i tre pezzi di
carbone e li infila nel braciere. La mia sinfonia non sembra esserle arrivata alle orecchie.
Poiché ogni mio sforzo è inutile, mi rassegno a tornare nel soggiorno, ma passando accanto
al bagno vedo le tre bambine che si stanno lavando la faccia con grande energia.
In realtà dovrei parlare solo delle due più grandi, che frequentano già la scuola materna,
perché la minore, che non è nemmeno in grado di camminare dietro le sorelle, è ancora
troppo piccola per lavarsi e pettinarsi come si deve. Ha preso uno straccio bagnato da un
secchio e se lo sta strofinando su tutto il viso. Pulirsi la faccia con uno straccio non
dev’essere molto piacevole, ma non può sorprendere da parte di una bambina che ogni
volta che c’è una scossa di terremoto dice «che bello!» Può darsi che sia più saggia di Yagi
Dokusen.
«No, quello è uno straccio per i pavimenti», la rimprovera la maggiore quando finisce i
gargarismi e posa la tazza, sentendosi responsabile della sorellina più piccola. La minore
però, caparbia com’è, non ubbidisce facilmente.
«Lascialo, babu!» grida tirando a sé lo straccio. Questa parola, «babu», avrà di sicuro un
significato e un’etimologia, ma nessuno li conosce. Tutto quel che sappiamo è che la
bambina la usa ogni volta che si arrabbia. Lo straccio viene tirato a destra e a sinistra dalle
mani delle due sorelle, e la parte di mezzo imbevuta d’acqua comincia a gocciolare senza
pietà sui piedi della minore. Pazienza per i piedi, ma le schizza le gambe fino alle ginocchia.
La piccola indossa un kimono genroku. Qualcuno mi ha detto, non so più chi, che questa
parola sta a indicare un kimono con disegni stampati di fiori, uccelli, utensili d’uso
quotidiano e altre cose.
«Smettila, il tuo genroku si bagna tutto», dice la bambina più grande con insolita
proprietà di termini. E pensare che fino a poco tempo fa confondeva genroku con il gioco
del sugoroku, tanta è la vastità del suo sapere.
A proposito, la parola genroku mi ha fatto venire in mente qualcosa che vorrei
segnalare. Le bambine parlando commettono un gran numero di errori, errori che a volte
sembrano burlarsi degli adulti. Dicono che in un incendio volano funghi (kinoko) invece di
faville (hinoko), che frequentano la scuola «del tè e del miso» invece di Ochanomizu1, e il
dio Daikoku lo fanno diventare daidoko (cucina). Una volta una di loro ha detto che non
abitava a Waradana, che è un quartiere della città, poi si è scoperto che si era confusa con
uradana, i vicoli dei rioni popolari. Il mio padrone ride di questi errori, ma scommetto che
quando insegna inglese ai suoi allievi, ne commette di ben più comici con la massima
serietà.
La piccola, che chiama se stessa Boba, vedendo il suo genroku tutto bagnato si mette a
piangere.
«È freddo, è freddo!» strilla. Un genroku freddo, ne converrete, è un grosso guaio, di
conseguenza O-san accorre dalla cucina, le toglie di mano lo straccio e la pulisce. Durante
questo tafferuglio Sunko, la seconda, è rimasta relativamente tranquilla. Girata di spalle,
ha aperto una scatolina di cipria bianca caduta dalla mensola e si diverte a truccarsi. Prima
vi ha immerso il dito, poi si è tracciata un segno tondo sulla punta del naso, e una riga
bianca verticale, cosa che permette per lo meno di localizzare facilmente il suo naso.
Quindi, dopo aver di nuovo inzuppato il dito nella cipria, se lo strofina sulle guance fino a
formare due cerchi bianchi. Ha appena finito di decorarsi in tal modo, quando O-san arriva
di corsa dalla cucina e si mette a pulire prima il kimono della sorella minore, poi la sua
faccia. Sunko sembra un po’ mortificata.
Continuando a osservare la scena con la coda dell’occhio, dal soggiorno passo nella
stanza dove dorme il padrone per capire se è sveglio, ma non vedo la sua testa da nessuna
parte. Dalla trapunta spunta solo uno dei suoi piedi dal collo molto alto. Probabilmente si è
rannicchiato sotto le coperte con tutta la testa per non essere disturbato. Un uomo che fa la
tartaruga. In quel momento la padrona, finite le pulizie nello studio, arriva con scopa e
piumino. Come al solito si ferma sulla soglia.
«Non ti sei ancora alzato?» chiede, e resta lì a guardare il futon da cui non spunta testa
alcuna. Di nuovo non ottiene risposta. Allora fa due passi all’interno della stanza e
pungolando il marito con il manico della scopa insiste:
«Allora? Ti alzi o no?»
Il padrone è sicuramente sveglio. Proprio perché è sveglio si rannicchia ancora di più
dentro i futon, nel tentativo di parare l’attacco della moglie. Nutre la speranza che restando
sdraiato senza mettere fuori la testa verrà lasciato in pace, ma si illude. Se la prende
comoda perché la prima volta che è stato chiamato la voce veniva da una certa distanza, ma
1
Il nome significa «acqua per il tè». Cosi si chiamava una prestigiosa scuola femminile tuttora esistente, che comprendeva
tutti i gradi dell’insegnamento.
sentendosi pungolare dalla scopa sussulta, capendo che la moglie è vicinissima. Infatti la
domanda: «Allora, ti alzi o no?» è risuonata due volte più forte di prima anche dentro ì
futon. Cedendo alla caparbietà della moglie, emette un mugolio appena udibile:
«Mmh».
«Entro le nove devi trovarti al posto di polizia. Se non ti sbrighi non arriverai in tempo».
«Mi alzo, non c’è bisogno che me lo dica tu», risponde miracolosamente da sotto la
trapunta. Ma la padrona è abituata a questo trucco: lui la tranquillizza facendole credere
che si sta alzando, poi si mette di nuovo a dormire, non c’è da fidarsi.
«Forza, esci di lì per favore», torna a insistere.
Sgradevole venire spronati ad alzarsi quando si è appena detto che lo si farà. Tanto più
sgradevole per un uomo viziato come il mio padrone. Con un gesto solo spinge via la
trapunta che fino ad allora si era tenuto sulla testa: i suoi occhi rotondi sono aperti.
«Quanto sei noiosa. Se ho detto che mi alzo, mi alzo».
«Dici sempre che ti alzi, e invece resti a dormire».
«Quando mai ho fatto una cosa del genere?»
«Lo fai sempre».
«Non dire sciocchezze».
«Non sono io quella che dice sciocchezze», fa la moglie con aria di sfida, la scopa
piantata saldamente nel cuscino. In quel momento, nella strada dietro casa, il bambino del
vetturino, Yacchan, scoppia in un pianto disperato. Se si mette a piangere ogni volta che il
padrone alza la voce irritato, è perché sua madre lo obbliga a farlo. Può darsi che la donna
riceva una mancia per provocare i singhiozzi del figlio, ma per Yacchan è un guaio serio.
Con una madre del genere, ha motivo di piangere dal mattino alla sera. Se il padrone
prestasse maggiore attenzione a quel che succede intorno a sé e cercasse di dominare
almeno un po’ le sue collere, Yacchan vivrebbe sicuramente un po’ più a lungo e gli ordini
di Kaneda cadrebbero nel nulla. Quell’uomo dev’essere ben più squilibrato di Tendo Kohei,
alias la Divina Equità, per ordire una macchinazione tanto assurda. Se Yacchan dovesse
scoppiare in lacrime solo quando il padrone alza la voce, non sarebbe tanto grave, il
problema è che Kaneda paga dei monelli del quartiere perché vengano a gridare davanti a
casa nostra «faccia di tasso», e ogni volta il bambino è costretto a strillare. La madre lo fa
piangere in anticipo, prevedendo che il mio padrone andrà su tutte le furie. A questo punto
non si capisce se si arrabbi perché il bambino piange o viceversa. Non è difficile provocarlo,
basta dare una sberla a Yacchan perché si senta colpito lui. Anticamente in Europa, quando
un condannato a morte scappava e sfuggiva alla cattura rifugiandosi oltre frontiera, si
fabbricava un pupazzo e lo si bruciava sul rogo al posto dell’uomo in carne e ossa. Ora
sembra che nei ranghi dei nostri nemici un generale esperto delle usanze europee si serva
di quest’efficace espediente. Gli allievi delle Nuvole Calanti e la madre di Yacchan
diventano così avversari temibili per quell’inetto del padrone. E ce ne sono molti altri.
Forse l’intero quartiere, ma ve ne parlerò quando se ne presenterà l’occasione.
Il pianto di Yacchan provoca la collera del padrone già di primo mattino, in questi casi
non c’è allenamento spirituale o Yagi Dokusen che tengano. Si alza subito a sedere sul
futon e prende a grattarsi furiosamente la testa con entrambe le mani, fino a spellarsi il
cuoio capelluto. La forfora di un mese gli piove senza ritegno sul collo e sul colletto del
kimono che indossa per dormire. Uno spettacolo grandioso. Quanto ai baffi, è stupefacente
come si rizzano. Forse non ritengono opportuno restare quieti quando il loro proprietario è
in preda all’ira, e si tendono furibondi con un vigore che li spinge in tutte le direzioni.
Anche questo vale la pena di essere visto. Ieri, davanti allo specchio, se ne stavano allineati
in ordine imitando docilmente i baffi dell’imperatore Guglielmo II, ma è bastata una notte
di sonno per dimenticare tutto l’addestramento e tornare alla posizione originaria, dritti
sparati in tutte le direzioni. Probabilmente è normale che in una notte la loro naturale
temerarietà torni alla ribalta, come svanisce l’allenamento spirituale del mio padrone,
divelto alla radice. Al pensiero che un uomo tanto goffo, proprietario di baffi tanto selvaggi,
possa esercitare il mestiere di professore, che non sia ancora stato buttato fuori, per la
prima volta comprendo la grandezza del Giappone. E se il Giappone è grande, c’è posto
anche per Kaneda e i suoi segugi. Se servono anche loro, non c’è ragione perché il padrone
venga licenziato, me ne sono convinto. In caso di necessità, gli basta mandare una cartolina
a Tendo Kohei al manicomio di Sugamo perché gli dia qualche buon consiglio.
Questa volta il padrone spalanca gli occhi della cui nebulosità vi ho parlato ieri e guarda
a lungo il mobile dall’altra parte della stanza. Si tratta di una scaffalatura alta quasi due
metri, divisa in due e chiusa da due pannelli scorrevoli. Il bordo inferiore del futon non è
molto lontano dai ripiani bassi, quindi appena il mio padrone si alza a sedere e apre gli
occhi, non può fare a meno di posare lo sguardo sui pannelli scorrevoli e di notare che la
carta che li ricopre è strappata qua e là e lascia intravedere cosa c’è sotto. C’è di tutto:
ritagli di carta stampata, fogli disegnati a mano… Alcuni sono messi all’incontrario, altri
sottosopra. Vedendoli, al padrone viene voglia di leggere cosa c’è scritto. Fino a un
momento fa era adirato al punto da voler afferrare la moglie del vetturino e strofinarle il
naso contro la corteccia di un pino, ma ora di punto in bianco desidera leggere quanto c’è
scritto su dei vecchi pezzi di carta, molto strano. Ma questi cambiamenti improvvisi
d’umore non sono rari nei collerici. Quando un bambino piange, basta mostrargli un dolce
perché sorrida. Tanto tempo fa il padrone abitava presso un tempio, e nella stanza accanto,
separate solo dai fusuma, alloggiavano quattro o cinque monache. Le monache già di per sé
sono antipatiche, in particolare al mio padrone, ma queste, forse perché avevano
indovinato il suo carattere, quando cucinavano qualcosa sul fornello avevano l’abitudine di
cantare in coro: «Il corvo che piange presto riderà, il corvo che piange presto riderà»,
battendo il ritmo con le mani. E da allora che il padrone detesta le monache. Eppure,
detestabili o meno che fossero, dicevano la verità. Perché lui passa dal pianto al riso, dalla
gioia alla tristezza con una volubilità sbalorditiva. Un uomo incostante che non si fa
scrupolo di cambiare umore tutti i momenti, in altri termini lo si può chiamare un testone
viziato e superficiale. Nulla di strano quindi che un testone viziato, fino a pochi secondi fa
fieramente seduto sul futon e animato da spirito battagliero, di punto in bianco cambi idea
e si metta a leggere i ritagli di carta dei pannelli. La prima cosa su cui si posano i suoi occhi
è una fotografia all’incontrario di Ito Hakubun 2. L’intestazione sul foglio porta la data del
ventotto settembre, anno undici dell’era Meiji. Il futuro rappresentante generale in Corea
già a quell’epoca aveva dunque un ruolo ufficiale. Quale? Riuscendo a leggere quelle righe
quasi indecifrabili, il padrone viene a sapere che Sua Eccellenza era ministro delle finanze.
Che era già un personaggio importante. Ora è a testa in giù, ma ministro delle finanze.
Spostando lo sguardo un po’ sulla sinistra, questa volta vede Ito Hakubun sdraiato, come
se stesse facendo un sonnellino. È comprensibile. Non si può restare perennemente a testa
in giù. Sotto si leggono solo due grossi ideogrammi, «tu sei», il resto non si vede. Nella
linea seguente c’è scritto «presto». Di nuovo vorrebbe saperne di più, ma non riesce a
leggere nient’altro. Se fosse un ispettore di polizia strapperebbe tutto, anche in un mobile
altrui. I poliziotti non ricevono un’educazione di alto livello, e per arrivare alla verità usano
qualunque mezzo. Cosa altamente deplorevole. Sarebbe meglio che si comportassero con
un po’ più di discrezione. Perché non è detto che agendo con discrezione sia impossibile
2
Ito Hakubun (1841-1909), uno degli uomini politici che si batterono per la caduta dello shogunate; contribuì
all’elaborazione della prima Costituzione del governo Meiji, di cui divenne in seguito primo ministro.
arrivare alla verità. Ho sentito dire che arrestano dei cittadini innocenti ricorrendo a false
accuse. Sono pagati dalla popolazione, eppure montano calunnie contro i datori di lavoro,
non si è mai sentita una simile follia.
Spostando lo sguardo sulla parte centrale del pannello, il padrone vede una pianta della
prefettura di Oita girata all’incontrario. Se Ito Hakubun è a testa in giù, è ovvio che la
prefettura di Oita non può stare per il verso giusto. Stufo di osservare il pannello, stringe i
pugni e li protende verso il soffitto. Si prepara a sbadigliare.
Anche il suo modo di sbadigliare non è normale, si direbbe il verso di una balena.
Terminata l’operazione, fa una pausa, poi si veste svogliatamente e va in bagno per lavarsi
la faccia. La moglie, che non attendeva altro, subito ripiega futon e coperte e inizia a fare
pulizia nel suo solito modo. Come lei rispetta il suo schema nel pulire, così lui segue ogni
giorno lo stesso rituale quando si lava. Non ha perso l’abitudine di fare gli strani rumori
gutturali di cui vi ho già parlato. Quando finalmente finisce la sua toilette pettinandosi con
cura, la scriminatura da una parte, si mette l’asciugamano sulla spalla, passa nel soggiorno
e si siede con aria distaccata davanti al braciere che viene chiamato nagahibachi. Sentendo
questa parola, il lettore potrebbe immaginare un mobiletto in legno di olmo con i nodi a
vista, su cui sia posata una teiera di rame e accanto al quale una donna dai capelli sciolti e
appena lavati, seduta con un ginocchio sollevato, batta contro il bordo in legno nero il
cannello della sua lunga pipa. Ebbene, il braciere del mio padrone è lungi dal possedere
tanta eleganza. Ha sì una grazia antica, ma è impossibile dire di che legno sia fatto. Un
braciere acquista valore man mano che frequenti lucidature gli conferiscono una patina
brillante, ma questo qui, oltre al disonore di essere di un legno non meglio identificato nessuno sa se sia olmo, ciliegio o paulonia - non ha quasi mai visto uno straccio per
lucidare e ha un’aria trascurata che mette tristezza. Impossibile che il padrone l’abbia
comprato da qualche parte. Che l’abbia ricevuto in dono? Nemmeno, pare che nessuno
gliel’abbia regalato. Resta l’ipotesi che l’abbia rubato, ma a questo punto la storia si fa
confusa. Tanto tempo fa c’era fra i suoi parenti un uomo molto vecchio, quando è morto al
mio padrone è stato chiesto di trasferirsi per qualche tempo nella sua abitazione per
tenerla d’occhio. In seguito, quando ha messo su casa per conto proprio e ha lasciato quella
del vecchio, probabilmente ha portato con sé, senza riflettere, quel braciere cui era tanto
abituato da considerarlo proprio. Non è stata un’azione del tutto corretta. Tuttavia questo
genere di cose al limite della correttezza avviene di frequente nella nostra società. Le
banche ad esempio, a forza di prendere ogni giorno in consegna il denaro dei clienti, a poco
a poco finiscono per considerarlo proprio. I funzionari pubblici sono al servizio della
popolazione e possono venire considerati dei rappresentanti che hanno ricevuto un certo
potere per risolvere una serie di problemi. Peccato che a forza di esercitare le loro funzioni
al riparo della loro autorità, alla fine si montino la testa e credano di possederla
definitivamente, quest’autorità, senza che i cittadini abbiano diritto alcuno di interferire.
Dal momento che la società è piena di persone di tal fatta, non c’è ragione di giudicare il
mio padrone un ladro solo perché si è tenuto il braciere. Se lui ha disposizione al furto,
ogni uomo al mondo ce l’ha.
Su tre lati del nagahibachi, intorno al mio padrone che si appresta a fare colazione,
Boba, che poco fa si stava lavando la faccia con uno straccio, Tonko, che frequenta la
«scuola del tè e del miso», e Sunko, che ha infilato un dito nel barattolo della cipria, stanno
già mangiando di buon appetito. Il padre le guarda a turno con imparziale disinteresse. La
faccia di Tonko è tonda e piatta come l’impugnatura di una vecchia spada di ferro. Sunko
ha gli stessi lineamenti della sorella maggiore, ma il colore della sua pelle ricorda i vassoi
laccati di rosso che si fabbricano a Okinawa. Solo il viso di Boba si distingue da quello delle
altre due, per la larghezza. Al mondo ci sono infiniti esempi di visi più lunghi che larghi, ma
quello di Boba è più largo che lungo. Per quanto le mode cambino, è difficile che un viso
più largo che lungo riscuota un giorno grande successo. Capita al mio padrone di pensare
preoccupato alle tre bambine, visto che sono sue figlie. Che gli piaccia o meno,
inevitabilmente crescono. Crescono con lo stesso vigore con cui i germogli di bambù
diventano giovani alberi nel giardino di un tempio zen. Ogni volta che nota che sono
diventate più alte, il padre ha la sensazione di essere inseguito da qualcosa. Per quanto
svagato sia, è conscio del fatto che sono tre femmine. E poiché sono femmine, sa che dovrà
trovar loro un marito. Lo sa, ma riconosce di non averne la capacità. Di conseguenza,
nonostante siano figlie sue, le ritiene troppo numerose. Allora poteva evitare di metterle al
mondo, direte, ma così sono fatti gli esseri umani. C’è solo un modo per definirli: sono
creature che si creano inutili ragioni di sofferenza.
I bambini sono straordinari. Queste tre, ignare delle ansie del padre sulla loro futura
sistemazione, mangiano tutte contente. Solo Boba è incapace di farlo nel modo corretto.
Quest’anno compirà tre anni, e la madre con molto buon senso le ha dato dei piccoli
bastoncini e una piccola ciotola adatti alla sua età, ma Boba non ne vuole sapere. Prende
sempre i bastoncini e le ciotole delle sorelle, ha la pretesa di servirsi a tutti i costi di
strumenti che non riesce a maneggiare. Osservando quel che succede nella società, tante
sono le persone mediocri, senza competenza né talento, che si spingono avanti e cercano di
arrampicarsi fino a ricoprire ruoli al di sopra delle loro capacità. È un temperamento che
comincia a mettere germogli all’età di Boba, e considerato che ha radici tanto profonde, è
meglio rassegnarsi subito all’idea che non si corregge né con l’educazione né con la
disciplina.
Preso possesso dell’enorme ciotola e dei lunghi bastoncini sottratti alla sua vicina, Boba
si comporta come un tiranno capriccioso. Può darsi che la sua prepotenza sia dovuta solo
alla determinazione a usare cose troppo grandi per lei. Afferra i due bastoncini insieme,
troppo vicino alla punta, e si mette a colpire il fondo della ciotola. La ciotola, piena quasi
fino all’orlo di riso e zuppa di miso, finora bene o male era riuscita a mantenere l’equilibrio,
ma sotto l’urto improvviso dei bastoncini si inclina di trenta gradi. La zuppa di riso si versa
e cola inesorabilmente sul petto della bambina, che non è il tipo da spaventarsi per così
poco. È un tiranno, Boba. Ora estrae vigorosamente i bastoncini dalla ciotola e porta la
piccola bocca fino al bordo e se la riempie più che può dei chicchi di riso che sono saliti a
galla. Quelli che le sfuggono si alleano con la zuppa dorata per atterrarle con un grido di
battaglia sulla punta del naso, sulle guance, sul mento. Innumerevoli sono quelli che
sbagliano mira e finiscono sui tatami. È una maniera davvero selvaggia di mangiare. Vorrei
dare rispettosamente un consiglio all’illustre Kaneda e a tutti i potenti di questo mondo. Se
trattate la gente come Boba tratta la ciotola e i bastoncini, i chicchi di riso che riuscirete a
mettervi in bocca saranno ben pochi. Il riso non salta nella bocca per un suo insopprimibile
impulso, al contrario tende ad andare altrove. Vi chiedo di darvi la pena di ripensare al
vostro comportamento. È indegno di chi conosce tanto bene le cose del mondo.
Tonko, che si è vista portare via ciotola e bastoncini, si è rassegnata a usare quelli della
sorellina, ma la ciotola è così piccola che in tre bocconi la svuota. Deve quindi servirsi
spesso dalla pentola: è già la quinta volta. Alza il coperchio, prende il mestolo e resta un
momento a guardarlo. Forse è incerta se continuare a mangiare o meno, poi sembra
decidersi e solleva un mestolo pieno di riso evitando quello attaccato sul fondo. Fin qui non
incontra ostacoli. Poi gira bruscamente il mestolo per versare il riso nella ciotola, ma
sbaglia e tutto finisce sui tatami. Stupefatta, Tonico inizia a raccogliere a uno a uno i
chicchi di riso caduti. E cosa credete che ne faccia? Li rimette nella pentola. Tanto peggio
per l’igiene!
Tonko finisce di raccogliere il riso proprio quando Boba solleva i bastoncini con tutto il
suo vigore. Una sorella maggiore resta pur sempre una sorella maggiore, vedendo in che
stato si è ridotta la più piccola le dice:
«Guarda come ti sei conciata, Boba, hai riso su tutta la faccia!» E si mette in fretta a
pulirla. Per cominciare le toglie i chicchi che le sono rimasti appiccicati sulla punta del
naso. Invece di buttarli via, come mi aspettavo che facesse, con mia grande sorpresa se li
infila in bocca. Poi passa alle guance. Qui i chicchi, una ventina in tutto, sono riuniti in
grumi. A uno a uno Tonko li prende e li mangia, li prende e li mangia, finché sulla faccia
della sorellina non ne restano più. Intanto Sunko, che per tutto il tempo è rimasta
tranquilla a masticare takuan, tutt’a un tratto tira fuori un pezzo di patata dolce dalla
ciotola piena fino all’orlo di zuppa e se lo infila allegramente in bocca. Come i lettori
sapranno, niente brucia di più in bocca di un pezzo di patata dolce bollito nella zuppa.
Anche un adulto, se non fa attenzione, rimarrà scottato. Come meravigliarsi che Sunko,
con la sua scarsa esperienza di patate dolci, si perda d’animo? Con un «wuah!» sputa
subito la patata sul bordo del nagahibachi. Due o tre pezzi per non so quale combinazione
scivolano fino ad arrivare davanti a Boba e si fermano alla distanza giusta. Boba va pazza
per le patate dolci. E vedendosele piovere davanti al naso, protende in fretta i bastoncini, le
afferra e le mangia di gusto.
Il padrone, che per tutto il tempo è stato testimone di questo comportamento
inqualificabile senza dire una parola, e ha continuato a mangiare, concentrato sul proprio
riso e sulla propria zuppa, ora ha finito e si sta pulendo i denti con uno stecchino. Riguardo
all’educazione delle figlie sembra essere di un liberalismo assoluto. Quando saranno
cresciute, dovessero scappare con i loro innamorati tutte e tre insieme, resterebbe
tranquillo a mangiare il suo riso e la sua zuppa. È inamovibile. C’è da dire però che gli
uomini che si muovono, in questa società, non fanno altro che imbrogliare la gente,
raccontare frottole, scavalcare i colleghi per ottenere vantaggi, minacciare con arroganza e
fare pressione con furbizia. Perfino i liceali tentano di seguire tali esempi, convinti che
soltanto con questi mezzi potranno ottenere rispetto, che soltanto in questo modo
diventeranno dei gentiluomini, e vanno fieri di azioni di cui in realtà dovrebbero
vergognarsi. Tutti questi individui, più che persone attive, sarebbe meglio definirli dei poco
di buono. Io sono un gatto giapponese e ho un certo patriottismo. Ogni volta che vedo
qualcuno comportarsi così mi viene voglia di riempirlo di botte. Per ogni individuo di
questo tipo in più, il paese si indebolisce. Gli allievi cosiffatti disonorano una scuola, i
cittadini di tal genere disonorano un paese. La cosa incomprensibile è che costoro
nonostante tutto continuano a prosperare. Mi pare che il popolo giapponese non abbia la
nobiltà di spirito di noi gatti. È una vergogna. Il padrone vale molto più di questa gentaglia.
È un debole, è un inetto, è un presuntuoso, ma vale ben di più.
Dopo aver finito senza inconvenienti la colazione, che ha buttato giù nel suo modo
indifferente e passivo, mette un vestito all’occidentale e chiama un risciò che lo porti
all’Ufficio di Polizia di Nihon-zutsumi. Quando apre la porta di casa e chiede al vetturino se
sappia dov’è Nihon-zutsumi, l’uomo gli risponde con un sorriso di connivenza. Ridicolo da
parte del mio padrone ricordargli che si trova vicino a Yoshiwara, il quartiere dei piaceri.
Uscito il marito, la cui partenza in risciò è un fatto rarissimo, la moglie finisce di fare
colazione, poi sprona le bambine:
«Forza, dovete andare a scuola. Rischiate di fare tardi».
«No, oggi è vacanza», rispondono loro senza scomporsi e senza accennare a prepararsi.
«Perché dovrebbe essere vacanza? Sbrigatevi!» le sgrida la mamma.
«Però ieri la maestra ci ha detto che oggi era vacanza», insiste la maggiore senza
muoversi. A questo punto la padrona, dicendosi che c’è qualcosa di strano, va a prendere il
calendario nella credenza e controlla. La data di oggi è segnata in rosso, segno che è festa
nazionale. Allora il padrone ha mandato a scuola un avviso di assenza senza nemmeno
sapere che oggi era un giorno festivo! È lei che l’ha messo nella buca delle lettere,
altrettanto ignara! Forse neanche Meitei lo sapeva, ma dalla sua faccia non si riesce mai a
capire nulla. Sorpresa di scoprire che è vacanza, la padrona dice alle figlie di andare a
giocare senza fare chiasso, poi come di consueto prende la scatola da cucito e si mette al
lavoro.
Nella mezz’ora seguente nella casa silenziosa non succede nulla che possa fornire
materiale al mio racconto. Tutt’a un tratto però arriva una visitatrice inattesa. Una liceale
di diciassette o diciott’anni. Porta scarpe dal tacco consumato e un hakama violetto troppo
lungo; quanto alla pettinatura, ha i capelli gonfi come un pallone. Entra dalla porta di
servizio senza nemmeno farsi annunciare. È la nipote dei miei padroni. A volte nei giorni
festivi viene a trovarci, litiga regolarmente con lo zio, poi torna casa. La ragazza risponde al
bel nome di Yukie3. Il viso però non ne è all’altezza, di facce come la sua se ne possono
incontrare ovunque, basta uscire di casa e percorrere cento o duecento metri.
«Buongiorno, zia», dice entrando disinvolta in soggiorno e sedendosi sui talloni accanto
alla scatola da cucito.
«Oh, ciao, come mai così presto?»
«Oggi è una festa importante, ho pensato che era meglio venire di mattina, così sono
uscita di casa verso le otto e mezzo ed eccomi qui».
«Come mai, c’è qualche motivo particolare?»
«No, semplicemente è da molto che non vi vedo e sono passata un momento…»
«Non è necessario che resti solo un momento, stai tutto il tempo che vuoi, lo zio torna
subito».
«Lo zio è già uscito? Che strano…»
«Sì, oggi è andato in un posto molto insolito, all’Ufficio di Polizia. Originale, no?»
«Oh! Ma per quale motivo?»
«Pare che abbiano acchiappato il ladro che ci ha derubato questa primavera».
«Allora è andato a testimoniare? Che seccatura!»
«No, perché? Ci restituiscono la refurtiva. Ieri un ispettore è venuto apposta a dirgli di
andarla a prendere, l’hanno ritrovata».
«Ah, ecco perché lo zio è uscito così presto, altrimenti chi l’avrebbe stanato? Di solito a
quest’ora dorme ancora…»
«Nessuno è più dormiglione di lui. E appena si alza comincia ad arrabbiarsi. Stamattina
mi aveva detto di svegliarlo assolutamente alle sette, e così ho fatto. Ma è rimasto
rannicchiato nel futon senza nemmeno rispondere. Allora l’ho chiamato di nuovo,
preoccupata che si fosse riaddormentato, e lui da sotto la trapunta ha protestato qualcosa.
È davvero sconcertante».
«Chissà perché ha sempre sonno. Che sia una forma di debolezza nervosa?»
«Cioè?»
«In più va in collera per la minima sciocchezza. Mi domando come faccia a lavorare in
una scuola».
«Figurati, a scuola pare che sia un agnellino».
«Il che è ancora peggio. Un demone di gelatina».
3
Il nome è composto dagli ideogrammi yuki (neve) e e (baia).
«Cosa significa?»
«Che a casa è un demone, ma fuori, davanti agli altri, trema come una gelatina. Non è
così?»
«E non solo si arrabbia per nulla. Se qualcuno dice sinistra, lui dice destra, se l’altro dice
destra, lui dice sinistra. Mai che faccia quello che la gente gli chiede di fare. È di
un’ostinazione incredibile».
«È lo spirito di contraddizione personificato. Per lui è un divertimento. Quindi quando
voglio ottenere una cosa, gli dico il contrario, e lui fa esattamente quello che desidero io.
L’altro giorno speravo che mi comprasse un ombrello, allora gli ho detto apposta che non
ne avevo bisogno, che non lo volevo, e lui fa: «Figuriamoci se non ne hai bisogno», e me
l’ha comprato subito».
«Sei proprio furba, tu!» risponde la padrona con una risatina. «D’ora in poi farò come
te».
«Ti conviene, zia. Altrimenti non otterrai niente da lui».
«Pensa che l’altro giorno è venuto un tale di un’agenzia di assicurazioni, e gli ha
consigliato di sottoscrivere una polizza sulla vita. Gli ha parlato per un’ora, mostrandogli
tutti i benefici, spiegandogli tutti i vantaggi… niente da fare, non c’è stato verso. Abbiamo
tre figlie, e non un soldo da parte, se almeno sottoscrivesse un’assicurazione mi sentirei più
tranquilla, ma a lui non potrebbe importare di meno».
«È vero, succedesse mai qualcosa, sarebbe davvero un guaio», osserva la ragazza con un
buon senso da madre di famiglia, sorprendente in una persona così giovane.
«Senza farmi vedere ho ascoltato la discussione, è stato interessante. Tuo zio teneva
testa fieramente all’impiegato dell’agenzia: «D’accordo, potrei riconoscere la necessità di
un’assicurazione. È per questo che le ditte come la sua esistono. Però se uno non muore,
non ha alcun bisogno di sottoscrivere una polizza»».
«Ha detto così?»
«Sì. Allora l’altro fa: «È ovvio che se nessuno muore, le agenzie di assicurazioni
diventano inutili. Tuttavia la vita umana non è solida come sembra, il pericolo è in agguato
senza che uno se ne renda conto e non si sa quando la disgrazia colpirà». E tuo zio: «Non si
preoccupi, ho deciso che non morirò». Insomma ha detto un sacco di sciocchezze».
«Si può decidere quello che si vuole, alla fine si muore lo stesso. Anch’io ero determinata
a passare assolutamente gli esami, e invece sono stata bocciata».
«È quello che ha detto anche l’impiegato dell’agenzia, non si può stabilire la durata della
propria vita. Se fosse possibile, non morirebbe mai nessuno».
«Infatti, proprio così».
«Appunto. Ma tuo zio non era d’accordo. «No, io non muoio di sicuro, scommettiamo
che non muoio», ha continuato imperterrito».
«Che strano».
«Già, strano. Molto strano. Ha detto che se avevamo i soldi per una polizza
d’assicurazione, era meglio metterli in banca, e ha dichiarato chiuso l’argomento».
«Ma avete dei risparmi, almeno?»
«Come potremmo averne? Morto lui, di quello che succede agli altri se ne infischia, è
l’ultimo dei suoi pensieri».
«Be’, è davvero preoccupante. Ma perché è così? Gli amici che vengono a trovarlo mi
sembrano diversi».
«È ovvio. Non esistono altre persone come lui».
«Dovresti chiedere consiglio al signor Suzuki, zia. Ha molto tatto, vedrai che saprà
sistemare le cose».
«Mah, il signor Suzuki non è che sia proprio ben visto da tuo zio».
«Il suo solito spirito di contraddizione! Allora potresti rivolgerti a… come si chiama, già?
Quell’uomo sempre calmo, posato…»
«Il signor Yagi?»
«Sì, lui».
«Del signor Yagi non parla più. Ieri Meitei ne ha dette di tutti i colori su di lui, quindi
non credo che potrebbe aiutarmi».
«E pensare che è così calmo e generoso. Poco tempo fa è venuto alla nostra scuola a fare
una conferenza».
«Il signor Yagi?»
«Sì».
«È un tuo professore?»
«No, non è un mio professore. È stato invitato a fare una conferenza a una riunione delle
«dame virtuose»».
«È stato interessante?»
«Insomma, non molto. Però ha una faccia così lunga, e una barba così bella, che tutte
l’hanno ascoltato rapite».
«E di che cosa ha parlato?» chiede la padrona, ma in quel momento le tre bambine, che
stavano probabilmente giocando nel terreno vuoto al di là della staccionata di bambù,
sentendo la voce di Yukie fanno irruzione in soggiorno dalla veranda.
«Che bello, è venuta Yukie!» esclamano contente le due maggiori.
«Mettetevi a sedere tranquille, senza fare tutto questo baccano», le ammonisce la madre
riponendo il lavoro in un angolo, «Yukie ora ci racconta una storia interessante».
«Che storia ci racconti? Mi piacciono moltissimo le storie», dice Tonko.
«Quella di kachi-kachi-yama4» chiede Sunko.
«Anch’io, le storie», fa Boba spingendo le ginocchia fra le sorelle e facendosi avanti. Ciò
che vuole dire è che le piace raccontarle, le storie, non ascoltarle.
«Di nuovo? Vuoi di nuovo raccontare una storia?» ridono le sorelle.
«Dopo. Parlerai dopo, Boba. Ora è il turno di Yukie», cerca di persuaderla la madre. Ma
Boba non le dà retta.
«No, voglio ora! Babu!»
«Va bene, va bene, comincia pure tu. Cosa ci racconti?» le concede Yukie conciliante.
«Allora… Botan, Botan, dove vai?»
«Che brava. E poi?»
«Vado nel campo. A tagliare il riso…»
«Certo che ne sai di cose!»
«Se lo mangi fai un pasticcio…»
«No, se vieni fai un pasticcio», la corregge Sunko.
«Babu!» le grida subito la sorellina lasciandola senza parole. Ma una volta interrotta,
Boba non riesce più a ricordare il seguito e non sa come proseguire.
«Tutto qui, Boba?» le chiede Yukie.
«Uh… dopo dice… dopo dice… faccio un peto, scusate, puu, puu, puu!»
«Ma! Che educazione è questa? Chi ti insegna certe cose?» fa la madre senza riuscire a
trattenere un risolino.
«O-san».
4
Fiaba molto conosciuta che narra di un coniglio che dà la caccia a un tasso malvagio e traditore e lo fa annegare
portandolo su una barca fatta di fango, che si scioglie al contatto con l’acqua.
«Cattiva O-san, ti insegna delle brutte cose! Be’, adesso è il turno di Yukie. Tu fai la
brava e ascolta in silenzio». Il tiranno alla fine pare convincersi, perché si rassegna a tacere.
«Ecco cos’ha raccontato il professor Yagi», inizia finalmente Yukie. «Tanto tempo fa nel
bel mezzo di un incrocio c’era un grande Jizo 5 di pietra. Purtroppo erano strade molto
animate, dove passavano di continuo cavalli e carri, e il Jizo era d’intralcio, così la gente
della città si riunì in gran numero e nel corso della discussione decise che era meglio
spostarlo in un angolo».
«È una cosa successa davvero?»
«Mah, chissà… su questo punto il professore non ha detto nulla. Allora tutti
cominciarono a consultarsi e dare consigli, ma l’uomo più forte della città disse di stare
tranquilli, ci avrebbe pensato lui. Andò da solo sul posto, si rimboccò le maniche e sudando
come un cavallo cominciò a tirare, a tirare, ma la statua non si voleva muovere».
«Doveva essere un Jizo pesantissimo!»
«Infatti. Comunque l’uomo si stancò, tornò a casa e si mise a dormire, e la gente della
città tornò a consultarsi. Questa volta si fece avanti l’uomo più intelligente di tutti.
«Lasciate fare a me», disse, «voglio fare una prova, vedrete». Riempì di dolci di fagioli una
grossa scatola, la portò davanti al Jizo e mostrandogliela lo esortò a venire a mangiare i
dolci. Credeva di prenderlo per la gola, ma il Jizo non si mosse di un passo. Così non
funziona, pensò l’uomo intelligente. Allora riempì di sake un otre, se lo mise su una spalla,
con l’altra mano prese una tazzina e di nuovo andò a mettersi davanti al Jizo. «Allora, non
hai sete?» gli chiese. «Se hai sete vieni fin qui». Aspettò tre ore, ma l’altro non si mosse».
«Yukie, ma al Jizo non veniva fame?» chiede a quel punto Tonko.
«Anch’io voglio dei dolci di fagioli», aggiunge Sunko.
«Avendo fallito due volte, al terzo tentativo l’uomo intelligente preparò una gran
quantità di banconote false e disse al Jizo: «Ti piacerebbero, vero?» Poi si mise a lanciarle
in aria e a rimetterle nella borsa, ma nemmeno questo servì. Era un Jizò veramente
cocciuto».
«In effetti. Assomiglia un po’ a tuo zio».
«Sì, tale e quale lo zio. Alla fine anche l’uomo intelligente, esasperato, rinunciò. Dopo di
lui si fece avanti uno spaccone che si dava un sacco di arie, disse a tutti di stare tranquilli
perché il problema l’avrebbe risolto lui, non c’era niente di più facile».
«E cos’ha fatto lo spaccone?»
«Questa parte è divertente. Indossò l’uniforme da poliziotto, si attaccò dei baffi finti, si
piantò davanti al Jizo e gli ingiunse di andarsene. «Altrimenti passerai dei guai», gli disse
con tracotanza, «la polizia ti farà sloggiare». Altri tempi, adesso chi ha più paura della
polizia…»
«È vero. Allora il Jizo si è spostato?»
«Nemmeno per sogno. Se abbiamo detto che assomiglia allo zio!»
«Ma tuo zio ha un sacro terrore dei poliziotti».
«Veramente? Lui che si crede chissà chi? D’ora in poi non mi farà più la minima paura.
A ogni modo il Jizo non si mosse, indifferente a ogni minaccia. Lo spaccone andò su tutte le
furie, si tolse l’uniforme da poliziotto, si strappò i baffi finti, e questa volta si travestì da
uomo molto ricco. Ai giorni nostri, ha detto il professore, avrebbe preso la faccia del barone
Iwasaki6. Buffo, no?»
«Perché? Che faccia ha il barone Iwasaki?»
5
6
Divinità protettrice dei bambini. Statuette raffiguranti questo dio si trovano spesso lungo strade e sentieri.
Iwasaki Yanosuke (1851-1908), direttore generale della ditta Mitsubishi.
«La faccia di uno che si dà un sacco di arie. Insomma, lo spaccone si mise a girare
intorno al Jizo senza dire niente, senza fare niente, limitandosi a fumare ostentatamente
un grosso sigaro».
«Con che scopo?»
«Impressionarlo».
«Sembra il racconto di un cantastorie. Ed è riuscito a confonderlo con il fumo del
sigaro?»
«Per niente! Come avrebbe potuto con un Jizo di pietra? Lo spaccone avrebbe potuto
smetterla con i suoi trucchi, ma volle ancora travestirsi da principe imperiale. Che
stupido».
«Davvero? Ma a quell’epoca esistevano i principi imperiali?»
«Certo. Se lo ha detto il professor Yagi… Dunque si presento travestito da principe
imperiale, anche se era una cosa molto poco rispettosa nei confronti della famiglia
imperiale. Un segno di irriverenza, da parte di uno spaccone qualunque».
«Si è travestito da quale principe?»
«Questo non lo so. In ogni caso mancò di rispetto».
«È vero».
«Comunque, neppure il travestimento da principe ottenne il risultato voluto. Anche lo
spaccone dovette ammettere che era un’impresa al di sopra delle sue forze, rinunciò e si
arrese, con quel Jizo non c’era nulla da fare».
«Una bella lezione per lo spaccone!»
«Infatti. Anzi, avrebbero dovuto metterlo in galera. La popolazione della città, molto
preoccupata, tenne di nuovo consiglio, ormai si trovava in difficoltà perché nessuno si
faceva più avanti».
«E com’è finita?»
«Per farla breve, alla fine ingaggiarono una gran quantità di vetturini e di vagabondi
perché creassero confusione e baccano attorno al Jizo. Ordinarono loro di dargli fastidio
notte e giorno, a turno, fino a farlo fuggire esasperato».
«Si sono dati tutta questa pena?»
«Sì, ma il Jizo non li degnò di uno sguardo. Aveva la testa dura anche lui».
«E poi cos’è successo?» chiede Tonko che sta con il fiato sospeso.
«E poi… il baccano continuò, giorno dopo giorno, ma era tutta fatica sprecata, la gente
ne ebbe abbastanza. Solo i vetturini e i vagabondi erano contenti, perché ogni giorno
ricevevano la loro paga».
«Che cos’è la paga, Yukie?» domanda Sunko.
«Significa che si viene pagati, che si ricevono dei soldi».
«E con i soldi che cosa si fa?»
«Be’, con i soldi… Oh, senti, non fare la stupidina! Insomma, zia, era una baraonda
continua. In quel tempo nella città viveva un tale chiamato «Take lo sciocco», un
sempliciotto ignorante, cui nessuno dava retta. «Perché fate tutto questo baccano?» chiese
vedendo quella confusione: «In tanti anni non siete riusciti a far muovere il Jizò di un
passo, fate pena…»»
«Osservazione intelligente per uno sciocco».
«Era uno sciocco molto intelligente. Sentendo le sue parole, i cittadini decisero di
affidare la cosa a Take e lo pregarono di intervenire: tanto valeva provare, visto che nulla
era servito. Take accettò senza dire una parola: ordinò ai vetturini e ai vagabondi di
smetterla con quel putiferio e di ritirarsi in buon ordine, e poi si presentò con noncuranza
davanti al Jizo».
«Noncuranza era un’amica di Take?» chiede con candore Tonko sul più bello, facendo
scoppiare in una risata la madre e la cugina.
«No, non era una sua amica».
«Allora cos’era?»
«La noncuranza è… è difficile da spiegare».
«Noncuranza vuol dire «difficile da spiegare»?»
«No, non voglio dire questo. La noncuranza…»
«Sì?»
«Ci sono! Avete presente Tatara Sanpei?
«Sì, ci ha mandato le patate dolci».
«Ecco, si dice così di qualcuno che assomiglia a Tatara Sanpei».
«Tatara Sanpei è una noncuranza?»
«Sì. Be’, più o meno. A ogni modo Take lo sciocco si mise davanti al Jizò, le mani nelle
maniche, e gli disse: «Signor Jizo, la gente della città vorrebbe che lei si spostasse, quindi si
sposti, per favore». «Veramente?» rispose il Jizo. «Perché non l’hanno detto subito?» E si
spostò senza fare storie».
«Che strano Jizo».
«A questo punto è cominciata la conferenza vera e propria».
«Non è ancora finita?»
«No. Il professor Yagi ha continuato così: «Se oggi, a quest’onorevole riunione di
signore, ho iniziato il mio discorso con questo racconto, c’è un motivo. Può darsi che le mie
parole suonino irrispettose, ma le donne, quando fanno qualcosa, invece di prendere la via
più breve che si presenta loro, hanno il difetto di prendere quella più difficile facendo
lunghi giri. Ovviamente questo non è un difetto solo femminile. In quest’era Meiji anche i
ragazzi, intossicati dalla civiltà occidentale, diventano in una certa misura effeminati, e
molti sono quelli che fraintendono e sprecano energia convinti di essere nel giusto, di
comportarsi da gentiluomini. Sono creature anormali, limitate dal desiderio di imitare in
tutto e per tutto la cultura occidentale. Non vale neppure la pena di parlarne. Comunque
sia, vorrei che voi signore teneste a mente la parabola che oggi ho avuto il piacere di
raccontarvi, e all’occorrenza sapeste risolvere i problemi con lo stesso onesto
discernimento di Take lo sciocco. Se voi riusciste a diventare come Take lo sciocco, gli
odiosi conflitti che nascono tra marito e moglie, o tra suocera e nuora, si ridurrebbero
certamente di un terzo. Più gli esseri umani hanno segreti gli uni per gli altri, più il male
che questi segreti portano con sé diventa fonte d’infelicità. Se molte signore sono più
infelici di un uomo medio, è proprio perché sono troppo dedite a trame segrete. Vi prego
dunque di diventare tutte altrettante Take lo sciocco», ha concluso il professore».
«Oh! E tu hai intenzione di seguire il suo consiglio?»
«Nemmeno per sogno! Chi è che vorrebbe mai diventare una sciocca? Kaneda Tomiko
era furibonda, ha detto che il professor Yagi è stato molto maleducato».
«Kaneda Tomiko sarebbe quella signorina che abita qui vicino?»
«Sì, quella ragazza sempre all’ultima moda».
«Frequenta la tua stessa scuola?»
«No, è solo venuta ad ascoltare perché era una riunione di signore. È davvero elegante,
non trovi? Non si può fare a meno di restare a bocca aperta».
«Be’, dicono che sia anche molto bella, no?»
«Mmh, niente di speciale… niente che l’autorizzi a darsi tante arie. Con tutto quel trucco
sulla faccia, qualunque ragazza sembrerebbe bella».
«Allora se tu ti truccassi come questa signorina Kaneda, saresti due volte più bella di
lei».
«Oh, smettila di prendermi in giro, zia! Non lo so. Comunque quella ragazza è troppo
artefatta. Una può avere tutti i soldi che vuole…»
«Artefatta o meno, meglio avere soldi che non averne, no?»
«Sì, certo, però… lei sì che farebbe bene a imparare da Take lo sciocco. È una
presuntuosa. L’altro giorno andava raccontando che non so che poeta le ha dedicato una
raccolta di poesie in stile moderno».
«Credo che parlasse del signor Tofu».
«Il signor Tofu le ha dedicato delle poesie? Che idea insulsa!»
«Ma l’ha fatto molto seriamente. Lo ritiene del tutto naturale da parte sua».
«Sono le persone come lui che le montano la testa… Comunque c’è qualcosa di ancora
più divertente: qualche tempo fa qualcuno le ha mandato una lettera d’amore».
«Oh, che impertinenza! Chi è lo sfrontato?»
«Ha detto che non lo sa».
«La lettera non era firmata?»
«Era firmata, ma con un nome che lei non ha mai sentito. Inoltre era lunghissima,
srotolata misurava quasi due metri. C’erano scritte cose assurde: «Il mio amore per te è
come la devozione del credente per Dio… Se per te venissi ucciso come un agnello
sacrificale sull’altare, sarebbe per me un grande onore… Il mio cuore è un triangolo, nel cui
centro è infissa la freccia di Cupido, e se Tomiko lanciasse la sua, colpirebbe in pieno il
bersaglio…»»
«Sul serio la lettera diceva così?»
«Assolutamente. Tre delle mie amiche l’hanno vista, a casa di una di loro».
«Ha fatto molto male questa Tomiko a mostrarla in giro, è una sfacciata. Se ha
veramente intenzione di sposare Kangetsu, non dovrebbe diffondere certe notizie».
«Al contrario, è ben contenta di farla sapere a tutti, questa storia. La prossima volta che
il signor Kangetsu viene qui, faresti bene a raccontargliela, zia. Sono sicura che lui è
all’oscuro di tutto».
«Mah, probabilmente… quell’uomo passa il tempo all’università a limare biglie di vetro,
cosa vuoi che sappia?»
«Ma lui ha veramente intenzione di sposarla? Mi spiace per lui, poveretto».
«Perché? Lei è ricca, al momento opportuno lo potrà aiutare, mi sembrano fatti l’uno
per l’altra».
«Zia, tu parli solo di soldi, di soldi, sei troppo terra terra. L’amore è molto più
importante del denaro. Se manca l’amore, non ci può essere un bel rapporto tra marito e
moglie».
«Capisco. Allora tu a chi vorresti andare sposa?»
«Non ne ho la minima idea! Non ho ancora in mente nessuno…»
Zia e nipote sono infervorate in questo discorso sul matrimonio, quando Tonko, che sta
ad ascoltare attenta anche se non capisce granché, di punto in bianco interviene:
«Anch’io voglio andare sposa», dichiara.
Yukie, nella sua giovinezza, dovrebbe essere partecipe di questo vibrante desiderio della
cuginetta, ma al contrario sembra un po’ irritata dal suo intervento estemporaneo. La
padrona invece chiede sorridendo, senza scomporsi:
«Ah, sì? E a chi?»
«Ecco io… cioè… io vorrei andare sposa al tempio ai caduti per la patria 7, però
attraversare il ponte Suido non mi piace, allora non so come fare».
A questa risposta edificante della bambina, la madre e la cugina non hanno coraggio di
obiettare nulla, scoppiano soltanto a ridere. Ed ecco che Sunko si volta verso la sorella
maggiore e fa:
«Anche a te piace quel tempio? Io lo adoro. Perché non andiamo tutte e due spose al
tempio Yasukuni? No? Non vuoi? Be’, fa lo stesso. Vuol dire che prendo un risciò e ci arrivo
prima».
«Pure Boba va», aggiunge la più piccola, anche lei ormai fidanzata al tempio Yasukuni.
Se tutte e tre potessero veramente maritarsi in questo modo, il padre si toglierebbe un peso
dallo stomaco.
In quel momento si sente il rumore di un risciò che si ferma davanti alla porta, e una
voce autoritaria che annuncia: «Sono qui!» Il mio padrone è tornato da Nihonzutsumi.
Lasciando che il vetturino consegni a O-san un grosso involto, entra con aria indifferente
nel soggiorno.
«Oh, chi si vede!» dice a Yukie per tutto saluto, poi posa pesantemente sui tatami,
accanto al nagahibachi, una specie di bottiglia che tiene in mano. Permettetemi
provvisoriamente di chiamarla così, perché non è una bottiglia vera e propria, né la si può
prendere per un vaso, è semplicemente una sorta di recipiente in terracotta.
«Che strana bottiglia, zio! Te l’hanno data al posto di polizia?» chiede Yukie
prendendola in mano.
«Che te ne pare?» le risponde lui tutto fiero. «Bella, vero?»
«La trovi bella? Veramente non direi. Sembra piuttosto un orcio per metterci l’olio per i
capelli. Perché l’hai portato a casa?»
«Non è un orcio. È la tua mancanza di gusto che ti fa dire certe cose, ecco qual è il
problema».
«Allora cos’è?»., «Un vaso da fiori».
«Per essere un vaso da fiori, ha l’imboccatura troppo piccola, e la pancia troppo grossa».
«È proprio lì il bello. Non hai alcun senso artistico, anche tu. Tale e quale tua zia. Che
disastro!» Così dicendo solleva il vaso verso la luce e lo contempla a lungo.
«Tanto meglio se non ho senso artistico, non rischio di tornare da un ufficio di polizia
con un orcio. Vero, zia?» Ma la zia ha altro per la testa, prende l’involto datole da O-san e
controlla la refurtiva recuperata con aria sorpresa.
«Oh, questa sì che è bella! I ladri hanno fatto progressi di questi tempi. Ogni cosa è stata
lavata e stirata. Guardate».
«Non me l’hanno dato al posto di polizia. Mi annoiavo ad aspettare e ho fatto una
passeggiata, e ho scovato questo vaso. Tu non lo puoi capire, ma è una vera rarità».
«Oh, sì, sì. Fin troppo originale. Ma dov’è che sei andato a passeggiare?»
«Dove vuoi che sia andato? Nei dintorni di Nihonzutsumi. Sono anche entrato nel
quartiere di Yoshiwara. È un posto magnifico. Hai mai visto il cancello in ferro? No, vero?»
«Come potrei averlo visto? Figurati se vado a Yoshiwara, dove ci sono le donne di
malaffare, non è certo un posto per me! Anche tu zio, che sei un insegnante, non dovresti
farti vedere da quelle parti. Sono allibita. Vero, zia? Zia!»
«Eh? Ah, sì, certo. Qui mancano delle cose però. Sei sicuro che ti abbiano restituito
tutto?»
7
Questo tipo di templi esiste in tutto il Giappone. In quello di Yasukuni, a Tokyo, sono attualmente sepolti gli alti ufficiali
caduti durante la seconda guerra mondiale; il fatto che si sia conservata la tradizione che il primo ministro una volta all’anno si
rechi a rendervi omaggio ha provocato le periodiche rimostranze della Cina, della Corea del Sud e di altri paesi del Sudest asiatico.
«Sì, tranne le patate dolci. Mi avevano detto che avrei dovuto fare la mia deposizione
alle nove, e mi hanno fatto aspettare fino alle undici. La polizia giapponese non vale più
niente».
«La polizia non varrà più niente, ma anche passeggiare a Yoshiwara non è una bella
cosa. Se si viene a sapere puoi perdere il posto. Vero, zia?»
«Sì, probabilmente. Il mio obi non ha più la fodera. Ecco perché mi sembrava che
mancasse qualcosa».
«Be’, non mi sembra una grave perdita. Cosa dovrei dire io, mi hanno fatto aspettare tre
ore, perdere metà giornata, come se avessi tempo da buttare via», si lamenta il padrone
mentre si cambia e indossa il kimono. Poi si appoggia con noncuranza al nagahibachi per
guardare l’orcio. Non riuscendo a ricavarne altro, la moglie prende la roba recuperata, la
ripone nell’armadio e torna a sedersi.
«Zia, lo zio dice che quest’orcio è un oggetto raro. Non lo trovi orrendo?»
«L’hai comprato a Yoshiwara? Che idea…»
«Cosa, «che idea»? Se non ne capisci niente…»
«Sarà, ma per comprare un vaso come questo non avevi bisogno di andare fino a
Yoshiwara, se ne vendono ovunque».
«No che non se ne vendono ovunque. È un oggetto estremamente raro».
«Certo che sei proprio un Jizo di pietra, zio».
«E tu sei un’impertinente, per essere ancora una bambina. Le liceali al giorno d’oggi
sono davvero maleducate. Faresti meglio a leggere Il manuale di comportamento delle
donne, come facevano un tempo le ragazze».
«Zio, tu non vedi di buon occhio le assicurazioni, vero? Cosa trovi più irritante, le
assicurazioni o le liceali?»
«Non ho niente contro le assicurazioni. Sono necessarie. Chiunque pensi al futuro ne
stipula una. Le liceali sono inutili parassiti».
«Fa lo stesso se sono un’inutile parassita. E tu allora, che non hai nemmeno sottoscritto
una polizza?»
«In futuro lo farò».
«Sul serio?»
«Sul serio».
«A che scopo? Meglio spendere i soldi per comprare qualcosa. Vero, zia?» La padrona fa
un sorriso forzato.
«È perché pensi di poter vivere per sempre che parli con tanta leggerezza», risponde il
padrone assumendo un tono grave. «Quando sarai diventata un po’ più ragionevole, capirai
anche tu la necessità di avere un’assicurazione. Il mese prossimo sottoscriverò senza fallo
una polizza».
«Veramente? Be’, tanto peggio per te… Comunque, visto che hai i soldi per comprarmi
un ombrello, come l’altro giorno, forse faresti bene a investirli in un’assicurazione. Ti ho
detto che non ne avevo bisogno, e me l’hai voluto comprare per forza».
«Non ne avevi davvero bisogno?»
«No, non volevo un ombrello».
«Allora ridammelo. Tonko ne vorrebbe per l’appunto uno. Lo prendiamo noi. Oggi l’hai
portato?»
«Questo è troppo! Sei tremendo! Mi regali un ombrello, e poi mi chiedi di ridartelo!»
«Te l’ho chiesto perché mi hai detto che non ne hai bisogno. Cosa c’è di tremendo?»
«Non ne ho bisogno, ma tu sei tremendo lo stesso».
«Quello che dici non ha senso. Cosa c’è di tremendo nel chiederti di restituire un oggetto
che dichiari di non volere?»
«C’è».
«Che cosa, c’è?»
«Che sei tremendo».
«È assurdo, ripeti sempre la stessa cosa».
«Sei tu, zio, che ripeti sempre la stessa cosa».
«Per forza, perché lo fai tu per prima. Sei tu che hai cominciato a dire che non ne avevi
bisogno».
«Certo che l’ho detto, se non ne ho bisogno non ne ho bisogno. Ma non mi va di
restituirtelo».
«Sono senza parole. Sei una sciocca e in più una testona, non c’è speranza con te. Nella
tua scuola non ti insegnano la logica?»
«Oh, smettila, lo so che sono un’ignorante! Di’ pure quello che vuoi! Chiedermi di
restituire una cosa che mi appartiene, un estraneo non sarebbe tanto insensibile. Dovresti
imparare da Take lo sciocco».
«Imparare da chi?»
«Ti sto dicendo che dovresti diventare un po’ più onesto e più franco».
«La tua stupidità non ti impedisce di essere una testona. Per questo poi vieni bocciata
agli esami».
«E allora? Non ti chiedo mica di pagarmi la scuola, no?»
A questo punto Yukie, sopraffatta dall’emozione, scoppia a piangere. Le lacrime le
cadono sull'hakama viola. Il padrone resta attonito a guardare ora il grembo, ora la faccia
china di Yukie, cercando di capire cosa abbia provocato quelle lacrime. In quel momento
O-san compare sulla soglia della cucina e si inchina posando sui tatami le mani paonazze.
«Ha una visita, professore», dice.
«Chi è?»
«Un allievo della sua scuola», risponde O-san guardando con la coda dell’occhio il viso
in lacrime di Yukie.
Il padrone si alza e passa nella stanza degli ospiti. Io lo seguo facendo il giro dalla
veranda, è una buona occasione per raccogliere materiale di studio sugli esseri umani.
In questo genere di studi, se non si sfruttano i momenti di turbamento emotivo, non si
ottengono risultati. In tempi normali la maggior parte della gente è del tutto banale, non
vale la pena né di osservarla né di ascoltarla. Nei momenti cruciali però queste stesse
persone, per azione di qualche misterioso e miracoloso fattore, all’improvviso si esaltano e
danno vita a fenomeni strani, si abbandonano a stravaganze, a follie; in una parola,
forniscono materia di studio a un gatto come me. Le lacrime tipicamente femminili di
Yukie ne sono un esempio. La ragazza ha dunque un lato insondabile, imprevedibile, che
durante la conversazione con la zia non lasciava intuire, solo quando il padrone è tornato e
ha mostrato l’orcio, di colpo ha rivelato tutta la sua abilità, la sua originalità, la profondità
insondabile del suo spirito delicato, come un drago inanimato che venga gonfiato da una
pompa a vapore. Queste qualità sono comuni a tutto il suo sesso, peccato che non vengano
facilmente alla luce. O piuttosto si manifestano di continuo nel corso della giornata, ma
non in maniera altrettanto forte e spontanea. Per fortuna esiste al mondo un brav’uomo
contorto come il mio padrone, sempre propenso ad accarezzarmi contro pelo, che mi ha
fornito l’occasione di assistere al dramma appena avvenuto. Ovunque vada riesce ad
animare gli attori sulla scena senza nemmeno rendersene conto. Se nella mia breve vita di
gatto ho il modo di fare mille esperienze, lo devo a questo padrone tanto interessante che
ho avuto in sorte. Gliene sono immensamente grato. Ma andiamo a vedere chi è il
visitatore appena arrivato.
Nello studio c’è un giovane di sedici o diciassette anni, un liceale più o meno dell’età di
Yukie. Ha una testa molto grossa, i capelli tanto corti che si intravede il cuoio capelluto, in
mezzo alla faccia un naso a patata, e se ne sta seduto sui talloni in un angolo della stanza.
Non ha caratteristiche degne di nota, a parte il cranio incredibilmente voluminoso. E se
attira l’attenzione rapato com’è, possiamo immaginare cosa sarebbe con i capelli lunghi
come quelli del mio padrone! Il quale sostiene che le teste di queste dimensioni non sono
in grado di apprendere granché. Può darsi che abbia ragione, ma è anche vero che sono uno
spettacolo imponente, come lo era quella di Napoleone. Il ragazzo indossa il solito kimono
dei liceali, in cotone stampato di Satsuma, o di Kurume, o forse di Iyo, in ogni caso un
kimono blu foderato a maniche corte, sotto al quale non sembra portare nessun tipo di
biancheria. Pare che indossare un kimono foderato sulla pelle nuda e andare scalzi sia
considerato molto chic, ma questo ragazzo dà piuttosto un’impressione di sciatteria.
Entrando a piedi nudi ha lasciato tre impronte del pollice sporco sui tatami, come un
ladro, e adesso sta seduto compostamente sulla quarta impronta, in atteggiamento rigido e
rispettoso. Ora, se il riserbo non può sorprendere in una persona rispettabile, in una sorta
di teppista con la testa rapata come una castagna crea un senso di disarmonia. Per un
ragazzo che si vanta di non salutare i professori quando li incontra per strada, restare
seduto sui talloni come tutti anche solo per mezz’ora dev’essere un tormento. Invece costui,
con il suo atteggiamento composto, cerca di far credere di essere per natura modesto e
virtuoso, cosa che rende ancora più divertente assistere alle sue tribolazioni. Mi chiedo
dove trovi la forza di darsi un contegno questo mascalzone che in classe o sul terreno
sportivo fa il diavolo a quattro, quasi quasi fa pena nella sua comicità. Confrontato a questi
ragazzi, il mio padrone, per quanto squilibrato, ha senza dubbio più spessore morale, e può
andarne fiero. Tuttavia, come dice il proverbio, accumulando polvere si può creare una
montagna, di conseguenza anche degli studenti tanto vuoti, quando sono in tanti, possono
formare una banda temibile, organizzare ostracismi e scioperi. È un fenomeno simile a
quello che fa diventare arrogante un pusillanime per effetto dell’alcol. O che fa perdere il
senno alla folla che crea agitazione contando sul proprio numero, inebriata della propria
forza. Se così non fosse, questo cotone stampato di Satsuma, che si fa piccolo piccolo
contro fusuma, più sconfortato che imbarazzato, non potrebbe mai, nemmeno per un
momento, mancare di rispetto a qualcuno che si fregia del titolo di professore, per quanto
decrepito e malandato sia. Non potrebbe mai farsi beffe di lui.
«Tieni, prendi questo», gli dice il padrone spingendo uno zabuton verso di lui. L’illustre
personaggio con la testa rapata, sempre rigido come un bastone, accenna un
ringraziamento ma non si muove. È buffo vedere quel testone seduto al di là di un cuscino
liso di calicò, un cuscino che se ne sta buttato lì senza invitare l’ospite a prendere posto.
Uno zabuton è fatto per sedercisi sopra, se la padrona è andata a comprarlo all’emporio
non è perché ci si limitasse a guardarlo. Ora se costui rifiuta di usarlo, ne va dell’onore
dello zabuton stesso, ed è un po’ insultante anche per il mio padrone che ha detto al
ragazzo di prenderlo. Di sicuro però questa testa rapata che fa perdere la faccia al padrone
e sta giocando con il cuscino a chi resiste più a lungo non ce l’ha con il cuscino in quanto
tale. La verità è che la sola volta in vita sua in cui è rimasto seduto sui talloni in posizione
formale è stata al funerale di suo nonno: adesso sente un formicolio dolorosissimo nelle
gambe e la punta dei piedi gli fa vedere le stelle. Eppure non si sposta sullo zabuton, che
resta imbarazzato in attesa. Niente da fare, non si siede. Il padrone l’ha invitato a farlo, ma
lui non osa. Che calamità d’un bonzo pelato! Se prova tanto disagio, perché non cerca di
avere un po’ di ritegno anche quando sta insieme ai suoi compagni, quando è a scuola, o
nella pensione dove alloggia? Si mostra pavido ora che non è il momento, e quando invece
dovrebbe controllarsi si comporta come un selvaggio senza decoro.
In quel momento il fusuma dietro al bonzo si apre, Yukie entra e con modi cerimoniosi
gli serve una tazza di tè. Normalmente questo provocherebbe il noto grido savage tea!, ma
ora, oltre alla sofferenza di trovarsi solo faccia a faccia con il mio padrone, davanti a una
giovane della sua età che gli porge una tazza di tè con i gesti affettati ed eleganti del metodo
Ogasawara8 imparato a scuola, il bonzo sembra davvero sulle spine. Prima di chiudere di
nuovo il fusuma Yukie si volta e fa un sorriso divertito. Pur avendo la stessa età, la ragazza
è molto più in gamba. In confronto a lui ha cento volte più padronanza di sé. Stupisce però
questo sorriso così spontaneo, pensando che un momento fa piangeva a calde lacrime.
Dopo l’apparizione di Yukie segue un lungo silenzio. Quando diventa insopportabile, il
padrone si rende finalmente conto che deve dire qualcosa.
«Com’è che ti chiami?»
«Furui…»
«Furui? Furui come? Il tuo nome proprio».
«Furui Buemon».
«Furui Buemon. Mmh. Un nome piuttosto lungo, un po’ desueto. Non ce ne sono molti,
al giorno d’oggi. Sei al quarto anno, no?»
«No».
«Al terzo?»
«No, al secondo».
«Nella classe A?»
«No, nella classe O».
«Allora sei un mio studente. Ma guarda…» dice il mio padrone meravigliato. In realtà
questo tipo dalla testa grossa lo vede da quando si è iscritto nella scuola, quindi non è
possibile che se lo sia dimenticato. Non solo, la sua testa lo impressiona talmente che ogni
tanto la vede in sogno. Ma stordito com’è non è mai riuscito a collegare la testa a quel
nome desueto, e tanto meno queste due entità unificate con gli studenti della classe O,
della quale è responsabile. Per questo, quando ha sentito che la testa che lo impressiona al
punto da apparirgli in sogno appartiene a un suo allievo, gli è sfuggito dal profondo del
cuore quel «ma guarda…» Tuttavia non riesce assolutamente a indovinare il motivo che ha
portato questo ragazzo dalla testa grossa e dal nome desueto, e in più suo allievo, davanti a
lui. Poco simpatico com’è, non succede quasi mai che un alunno passi a salutarlo o a fargli
gli auguri di Capodanno, Furui Buemon è praticamente il primo. Non capendo il significato
della sua venuta, il padrone resta a lungo in silenzio. Sicuramente il ragazzo non si è
presentato a casa di un uomo tanto noioso per divertimento e, se fosse venuto a suggerirgli
di dare le dimissioni, sarebbe un pochino più vivace. Improbabile anche che voglia chiedere
consiglio riguardo a un suo problema. Il padrone esamina tutte queste possibili
spiegazioni, ma senza capire. Dall’atteggiamento di Buemon si direbbe che lui stesso si stia
chiedendo cosa sia venuto a fare. Alla fine il mio padrone si rassegna ad affrontare la
questione di petto.
«Sei qui in visita?»
«No, non è così».
«Allora hai qualcosa da dirmi».
«Sì».
8
Ogasawara Nagahide fondò, all’inizio del periodo Muromachi (1392-1573), una scuola di cerimonia del tè molto
apprezzata nelle famiglie di samurai. Il metodo Ogasawara continuò a essere seguito nei periodi successivi e ancora nell’era Meiji
faceva parte del programma d’insegnamento nei licei femminili.
«Riguarda la scuola?»
«Sì, volevo parlarle di una cosa…»
«Forza, di cosa si tratta? Su, coraggio!»
Buemon resta in silenzio, a testa china. A scuola, anche se è fra i più giovani, parla in
continuazione, è nella sua natura, la sua intelligenza non si è sviluppata in proporzione alla
sua testa, ma quanto a capacità di chiacchierare in classe non ha rivali. È stato lui a mettere
il padrone in difficoltà chiedendogli come si traduceva Cristoforo Colombo in giapponese.
Se uno con la sua facondia se ne sta fin dall’inizio tutto vergognoso come una tremebonda
damigella, ci dev’essere una ragione ben precisa. Non è un comportamento attribuibile
semplicemente all’imbarazzo. Il padrone comincia a inquietarsi.
«Se devi dirmi qualcosa, fallo, cosa aspetti?»
«È che non è facile…»
«Non è facile?» ripete il padrone guardando Buemon in faccia, ma poiché l’altro
continua a tenere la testa china senza lasciar intuire nulla, non gli resta che insistere in
tono rassicurante: «Coraggio, parla. Qui nessuno ci sente, e io non ne farò parola ad anima
viva».
«Davvero posso parlare?» esita ancora Buemon.
«Certo», decide il mio padrone.
«Allora le dico tutto», annuncia Buemon alzando di colpo la testa e guardando il
professore con un certo sospetto. I suoi occhi sono triangolari. Il padrone volta il viso un
po’ di lato, mentre gonfia le guance emettendo il fumo della sigaretta. «Ecco, il fatto è che…
è successa una cosa piuttosto grave…»
«Che cosa?»
«È davvero una cosa molto grave, per questo sono venuto».
«Appunto, spiegati, cos’è questa cosa grave?»
«Io non volevo farlo, ma Hamada continuava a dirmi: «Prestami il tuo, prestami il
tuo»…»
«Hamada, sarebbe Hamada Heisuke?»
«Sì, lui».
«Gli hai prestato del denaro per pagare il dormitorio?»
«No, no, nulla del genere».
«Allora cosa gli hai prestato?» «Il mio nome»..
«E perché lo hai fatto? E perché ne aveva bisogno, Hamada?»
«Ha mandato una lettera d’amore».
«Cos’ha mandato?»
«Gli ho detto che preferivo incaricarmi di mettere la lettera nella buca, piuttosto che
prestargli il mio nome».
«Questa storia non ha né capo né coda. Insomma, chi ha fatto cosa?»
«Ha scritto una lettera d’amore».
«Chi l’ha scritta?»
«Ecco perché esitavo a parlargliene».
«Riassumiamo: hai mandato una lettera d’amore a una ragazza».
«No, non sono stato io».
«È stato Hamada?»
«Nemmeno lui».
«Chi è che l’ha mandata, allora?»
«Questo non lo so».
«È una storia senza senso. Insomma nessuno ha mandato nulla?»
«Soltanto il nome è mio».
«"Soltanto il nome è mio", credi che questo basti? Non ci si capisce niente. Cerca di
seguire un filo logico. Chi era la destinataria della lettera?»
«La signorina Kaneda, che abita nell’isolato di fronte».
«Kaneda l’uomo d’affari?»
«Sì».
«Allora tu hai prestato il tuo nome, e poi?»
«La figlia di Kaneda si dà un sacco di arie, ha la puzza al naso, così le abbiamo mandato
una lettera d’amore. Hamada ha detto che doveva essere firmata. «Allora metti il tuo
nome», gli ho detto, ma lui sosteneva che era troppo comune. Che Furui Buemon suonava
meglio… Così ho finito con il prestargli il mio nome».
«Ma tu la conosci, questa ragazza? Vi frequentate?»
«No, per niente. Non l’ho mai vista in faccia».
«Che insolenza, mandare una lettera d’amore a una ragazza che non hai mai visto! Che
idea, cosa t’è venuto in mente?»
«Tutti dicono che è una presuntuosa arrogante, quella lì, così volevamo farle uno
scherzo».
«Una villania imperdonabile! Allora l’hai firmata con il tuo nome e l’hai spedita…»
«No, la lettera l’ha scritta Hamada, il nome l’ho messo io, ma a portarla di notte a casa
Kaneda e a metterla nella cassetta delle lettere è stato Endo».
«Allora l’avete fatto in tre?»
«Sì. Poi però ripensandoci mi è venuto il timore che, se mi scoprono, mi espellano da
scuola. Sarebbe terribile, sono due o tre notti che non chiudo occhio per la preoccupazione.
Non riesco più a concentrarmi su nulla».
«Lo credo, hai fatto una bella idiozia! E come hai firmato? Furui Buemon, allievo di
secondo anno del liceo Bunmei?»
«No, il nome della scuola non l’ho messo».
«Be’, almeno questa sciocchezza l’hai evitata. Ne andrebbe dell’onore dell’istituto,
altrimenti».
«Cosa mi succederà? Mi espelleranno?»
«Può darsi».
«Professore, mio padre è molto severo, inoltre mia madre non è la mia vera madre, se
mi espellono per me è un disastro. È proprio sicuro che mi espelleranno?»
«Ecco perché bisogna cercare di non fare sciocchezze».
«Io non volevo, mi sono lasciato trascinare. Lei non può mettere una buona parola
perché non mi espellano, professore?» implora Buemon con il pianto nella voce.
Dietro i fusuma, Yukie e la zia hanno ascoltato tutto e ridacchiano in silenzio. Il mio
padrone continua a ripetere con aria sussiegosa: «Può darsi, può darsi…» Una scena
esilarante.
Qualcuno potrebbe chiedermi cosa ci trovi di divertente. È comprensibile. Sia per gli
esseri umani che per gli animali, è fondamentale nella vita conoscere se stessi. Se una
persona riuscisse veramente a conoscersi, meriterebbe più rispetto di un gatto. Il giorno in
cui questo avvenisse, smetterei subito di scrivere questo irrispettoso resoconto che
sicuramente irriterà qualcuno. Tuttavia gli uomini, che non sanno bene dove si trova il loro
naso e non hanno la minima idea di ciò che realmente sono, non verrebbero a domandare
una cosa del genere a un gatto, creatura che di solito tengono in gran disprezzo. Con tutta
la loro presunzione, agli umani manca qualcosa. Vanno in giro vantandosi di essere i
signori di tutti gli animali, sempre e ovunque, ma non riescono a capire una questione
tanto semplice. E la cosa più comica è che questo li lascia del tutto indifferenti.
Drappeggiati nella loro superiorità, vanno in giro chiedendo a gran voce: «Dov’è il mio
naso, dov’è il mio naso?» Poiché questa è la situazione, potrebbero anche smettere di
proclamarsi i signori dell’universo, invece non rinunciano alla loro supremazia, anche a
costo della vita. Il fatto che accettino con tanta facilità una contraddizione così palese
conferisce loro un certo fascino. In compenso però devono ammettere di essere degli
stupidi.
Oggi, una serie di avvenimenti senza relazione fra loro si sono scontrati propagando
onde fino a luoghi inaspettati, ma non è questo che trovo esilarante, ciò che mi diverte è il
fatto che abbiano suscitato in ogni persona delle reazioni emotive diverse, penso
osservando il comportamento di Buemon, del mio padrone, della moglie e di Yukie. Il
padrone non sembra molto scosso da quanto è accaduto. Gli è del tutto indifferente che
Buemon venga punito dal padre, maltrattato dalla matrigna. Perché dovrebbe
preoccuparsene? L’espulsione da scuola di Buemon è infinitamente meno grave di un suo
eventuale licenziamento. Se tutti i mille o quasi allievi della scuola venissero espulsi, per gli
insegnanti diventerebbe problematico guadagnarsi da vivere, ma il fato del singolo alunno
Furui Buemon non può avere la minima ripercussione sulle giornate del padrone. E dove
non c’è rapporto, è ovvio che non c’è partecipazione. Preoccuparsi e farsi cruccio per la
sorte di un perfetto estraneo non è nella natura umana. È difficile pensare che gli uomini
siano dotati di tanta comprensione e sollecitudine. Di quando in quando versano qualche
lacrima e si mostrano addolorati per rispetto delle relazioni sociali, un tributo da pagare
per essere nati nel consesso umano. In realtà è tutta una finzione, una manifestazione di
ipocrisia, arte che richiede un notevole impegno. Ai simulatori più abili viene attribuita una
forte coscienza artistica, e tutti li tengono in grande considerazione. Ne consegue che
coloro che godono di alta stima sono umanamente i più sospetti. Provate a controllare, ve
ne renderete conto subito. A questo proposito, è evidente che il mio padrone manca di
abilità. Di conseguenza non è stimato. Non essendo stimato, può permettersi di esprimere
apertamente l’indifferenza che prova dentro di sé. In quest’occasione la manifesta nel
ripetere al povero Buemon: «Può darsi, può darsi…» Il lettore non prenda quindi in
antipatia le persone oneste come lui con il pretesto che sono insensibili. L’insensibilità è la
vera natura dell’uomo, e coloro che non si sforzano di nasconderla sono onesti. Se in questa
circostanza il lettore sperava in qualcosa di più dell’indifferenza, vuol dire che sopravvaluta
gli esseri umani. Attendersi di meglio in un mondo dal quale è scomparsa anche l’onestà è
una pretesa assurda, è come chiedere che Shino e Kobungo escano dal romanzo di Bakin 9 e
tutti gli otto cani vengano a stabilirsi tre case più in là. Ma abbiamo parlato a sufficienza
del padrone, passiamo alle signore che stanno ridendo in soggiorno. Superando di un passo
l’indifferenza del professor Kushami, si abbandonano all’ilarità divertendosi un mondo.
Considerano questa storia della lettera d’amore, che tanto affligge Buemon, un dono di
Buddha, al pari dei suoi insegnamenti. Così, senza una particolare ragione. Se vogliamo a
tutti i costi trovare una spiegazione al loro comportamento, si rallegrano che Buemon sia
nei guai. Provate a chiedere alle lettrici se anche loro ridono alle spalle di chi ha problemi.
Tutte vi daranno dello stupido, oppure vi accuseranno di voler denigrare le donne. Forse
hanno ragione a sentirsi insultate, ma è anche vero che si divertono quando vedono
qualcuno in difficoltà. Insomma, fanno alla luce del sole qualcosa che svilisce il loro sesso,
ma non vogliono essere criticate per questo. È come ostinarsi a dire: «Io sono un ladro.
Però non devi assolutamente darmi del disonesto. Se mi dai del disonesto, mi getti fango in
faccia. Mi insulti». Il fatto è che le donne sono intelligenti e il loro pensiero segue un filo
9
Hakkenden (Storia degli otto cani) è l’opera più nota di Takizawa Bakin. Shino e Kobungo sono i nomi di due dei cani.
logico. Se qualcuno ha avuto la sfortuna di nascere uomo, non solo deve essere pronto
all’indifferenza altrui nel caso venga calpestato, preso a calci e maltrattato, deve anche
aspettarsi che la gente lo copra di sputi, di sterco e di risate. Altrimenti non può
frequentare donne intelligenti e uomini illustri. Il nostro Buemon per puro caso ha fatto un
grave errore e adesso è al colmo della costernazione. È probabile che reputi scorretto che si
rida alle sue spalle in un momento del genere, ma adirarsi per una maleducazione è un
infantilismo, un segno di ristrettezza mentale, quindi gli converrebbe fare buon viso a
cattivo gioco. A proposito di Buemon, per finire vorrei parlare un poco dei suoi sentimenti.
È la personificazione dell’inquietudine. L’inquietudine riempie la sua grossa testa come
l’ambizione riempiva quella di Napoleone. Il fremito che ogni tanto percorre il suo naso a
patata è segno che l’ansia si è trasmessa ai nervi della faccia, facendola muovere senza che
lui se ne renda conto. Negli ultimi tre giorni è in condizioni pietose, si sente il peso di una
palla di cannone sullo stomaco. Incapace di trovare una via d’uscita alla sua terribile
angoscia, si è detto che rivolgendosi al professore ufficialmente responsabile della sua
classe avrebbe forse ottenuto qualche aiuto, e si è deciso a venire a testa bassa a casa di una
persona tanto detestata. Dimenticando che a scuola è solito farsi beffe di questo stesso
professore e incitare i compagni a metterlo in difficoltà. È convinto che beffe e brutti tiri
non contino, che in quanto responsabile della classe il professore prenderà a cuore il suo
caso. È un semplice di spirito. Non è per il proprio piacere che il padrone ha assunto
l’incarico, non ha potuto fare a meno di accettare le disposizioni del preside. In altre parole
è come il cappello a bombetta dello zio di Meitei, che di bombetta ha solo il nome. Di
responsabile lui ha solo l’appellativo, in realtà non può fare nulla. Se all’occorrenza il nome
potesse tornare utile, sarebbe facile trovare un marito anche a Yukie, che ha un nome tanto
bello. Buemon, oltre ad agire unicamente secondo i propri desideri, sopravvaluta i suoi
simili e ritiene che gli estranei abbiano il dovere di mostrarsi gentili con lui. L’idea che si
possa ridere di Furui Buemon non l’ha mai nemmeno sfiorato. Ma venendo a casa
dell’insegnante responsabile della sua classe, ha sicuramente scoperto una verità. Una
verità che in futuro l’aiuterà forse a diventare una persona seria. A trattare con indifferenza
l’angoscia altrui, a fare oggetto di sonore risate i problemi altrui. Il mondo è pieno di
Buemon. E pieno di signori Kaneda e signore Kaneda. Spero sinceramente per il ragazzo
che si sbrighi a prendere atto della realtà e maturare, altrimenti per quanto si angosci, per
quanto si penta, per quanto si riprometta di comportarsi bene d’ora in poi, non potrà mai
avere il successo di un Kaneda. Al contrario verrà cacciato dalla società umana. Altro che
venire espulso dal liceo Bunmei!
Sono assorto in queste interessanti riflessioni, quando la porta d’ingresso si apre
rumorosamente e qualcuno si affaccia agli shoji.
«Professore?»
Il padrone, che sta ripetendo a Buemon l’ennesimo «può darsi», sentendosi chiamare si
volta a guardare e fra gli shoji scostati vede sporgere a metà la faccia di Kangetsu.
«Oh, entra», dice senza alzarsi.
«Ha una visita?» chiede Kangetsu, sempre con mezza faccia nascosta.
«No, non fa niente. Vieni, entra».
«In realtà ero venuto a invitarla a fare una passeggiata».
«Dov’è che vuoi andare? Di nuovo ad Asakusa? No, grazie. L’altro giorno mi hai fatto
camminare troppo, avevo le gambe come dei bastoni».
«Oggi andrà tutto bene. Venga, esca, una volta tanto».
«Per andare dove? Su, entra».
«Pensavo di andare allo zoo di Ueno, per sentire il ruggito della tigre».
«Che idea! Lascia perdere, entra un momento piuttosto».
Kangetsu si toglie le scarpe e sale in casa, dicendosi che si intenderanno meglio uno di
fronte all’altro. Come sempre indossa dei pantaloni grigi con due toppe sul sedere, ma se i
pantaloni sono lisi non è perché siano troppo vecchi o il suo sedere troppo pesante: a
sentire lui è perché sta imparando ad andare in bicicletta e la frizione sul posteriore è
eccessiva. Del tutto ignaro di trovarsi di fronte a un rivale che ha mandato una lettera
d’amore alla sua futura sposa, saluta brevemente Buemon con un «salve» e si siede a poca
distanza nella veranda.
«Cosa può esserci d’interessante ad andare a sentire il ruggito della tigre?»
«Be’, non intendevo adesso. Pensavo di fare una passeggiata, e di andare a Ueno più
tardi, verso le undici».
«Che idea!»
«A quell’ora di sera, fra gli alberi secolari del parco, sembra di essere in una foresta».
«Già, probabilmente c’è meno gente che di giorno».
«Spingendosi dove la vegetazione è molto folta, dove non passa nessuno nemmeno di
giorno, ci si dimentica di abitare in questa rumorosa metropoli, si ha l’impressione di
essersi persi fra i monti, glielo garantisco».
«E a cosa ci serve?»
«Immagini di restare per qualche tempo fermo, con questo senso di solitudine addosso,
e tutt’a un tratto nello zoo riecheggia il ruggito della tigre…»
«Perché dovrebbe ruggire proprio in quel momento?»
«Stia tranquillo, lo farà. Si sente anche di giorno, fino alla Facoltà di Scienze. Nel
silenzio della notte, senza anima viva intorno, quando si sente sulla pelle la presenza dei
fantasmi, quando gli spiriti maligni dei monti ti toccano il naso…»
«Gli spiriti maligni dei monti ti toccano il naso? Cosa diavolo vuol dire?»
«Be’, sono cose che si dicono quando si ha paura».
«Davvero? Un’espressione del genere non l’ho mai sentita. E poi?»
«Poi la tigre ruggisce con una forza tale da far cadere le foglie dei vecchi cedri. È
terrificante».
«Non lo metto in dubbio».
«Allora? Non le andrebbe un po’ d’avventura? Sono sicuro che si divertirà. Il ruggito
della tigre, se non lo si ascolta di notte, non si può dire di averlo veramente sentito».
«Può darsi». Il padrone accoglie la proposta di Kangetsu con la stessa indifferenza con
cui ha risposto alle suppliche di Buemon.
Il quale finora è rimasto in silenzio ad ascoltare la storia della tigre con l’aria di volerci
andare lui, ma al «può darsi» del professor Kushami il pensiero tormentoso della propria
situazione lo riassale.
«Professore, sono molto preoccupato, cosa devo fare?» chiede di nuovo. A quelle parole
Kangetsu osserva sorpreso la sua grossa faccia. Io invece passo un momento nel soggiorno
con un pensiero in testa.
La padrona, senza smettere di ridacchiare, sta riempiendo di tè una tazza di terracotta di
Kyoto, poi la posa su un piattino di metallo.
«Fammi il piacere, Yukie, vai a portare questa», dice.
«Io… no, non voglio».
«Perché?» chiede la zia sorpresa, smettendo immediatamente di ridere.
«Così», risponde Yukie senza muoversi dal suo posto, sul viso un’espressione crucciata,
e si mette a scorrere con gli occhi le righe del giornale Yomiuri posato accanto a lei. La zia
non si dà per vinta.
«Cosa ti prende? è solo Kangetsu. Non è il caso di fare tante storie».
«Sì, però non mi va», ripete Yukie senza staccare gli occhi dal giornale. In questo
momento non credo sia in grado di leggere una sola parola, ma se qualcuno glielo facesse
notare si metterebbe di nuovo a piangere.
«Non hai alcun motivo di sentirti imbarazzata», insiste la zia, questa volta sorridendo e
posando apposta la tazza sopra il giornale.
«Non sei gentile», protesta allora Yukie cercando di sfilare il giornale da sotto la tazza,
ma così facendo urta il piattino rovesciando il tè, che cola fino ai tatami.
«Guarda cos’hai fatto», dice la zia.
«Oh!» esclama Yukie correndo in cucina a prendere uno straccio. Quanto a me, trovo
questo piccolo dramma molto divertente.
Ignaro di tutto ciò, nella stanza degli ospiti Kangetsu sta tenendo discorsi strani.
«Professore, vedo che ha cambiato la carta degli shoji. Chi è che l’ha incollata?»
«L’hanno fatto le donne di casa. Un bel lavoro, non ti sembra?»
«Sì, ottimo. Ha partecipato anche quella signorina che viene qui ogni tanto?»
«Sì, ha dato una mano anche lei. Ne era molto fiera, dice che se riesce a incollare così
bene la carta degli shoji, ha tutti i requisiti per sposarsi».
«Già, in effetti», commenta Kangetsu osservando attentamente gli shoji. «Qui la carta è
tirata bene, ma dalla parte destra no, fa delle onde».
«Hanno cominciato a incollarla partendo da lì, dovevano ancora farsi la mano».
«Si vede, non c’è la stessa tecnica. Qui la superficie forma una curva esponenziale che
non corrisponde alla funzione normale». Da bravo scienziato Kangetsu parla in modo
astruso.
«Può darsi», concede il padrone senza mostrare il minimo interesse.
A questo punto Buemon, rendendosi conto che può restare qui a pregare fino a domani
senza ottenere alcun risultato, si inchina fino a toccare con il cranio enorme i tatami e
senza dire una parola si prepara a congedarsi.
«Vai via?» gli chiede il padrone.
Buemon se ne va con aria scoraggiata, esce dal cancello trascinando i suoi grossi geta di
legno di cedro. Fa pena, poveretto.
Chissà che non si butti giù dalla cascata di Kegon dopo aver scritto una poesia d’addio. E
pensare che all’origine di tutto c’è quella presuntuosa piena di arie della signorina Kaneda.
Se Buemon si suicida, spero che si trasformi in fantasma e vada a spaventarla a morte. Se
una o due ragazze come lei sparissero da questo mondo, sarebbe tanto di guadagnato per
gli uomini.
«Professore, era un suo allievo quello?»
«Mmh».
«Che testa enorme! E a scuola va bene?»
«Non in proporzione alla sua testa. Ogni tanto fa delle domande assurde. Una volta mi
ha messo in difficoltà, mi ha chiesto come si traduceva Cristoforo Colombo in giapponese».
«È perché ha una testa troppo grossa che fa domande inutili, di sicuro. E lei cos’ha
risposto, professore?»
«Cos’ho risposto? Non lo so, una cosa qualunque, l’ho tradotto come mi veniva in quel
momento».
«Comunque è riuscito a tradurlo? Complimenti».
«Sono ancora bambini, se non si traduce loro ogni parola non hanno fiducia
nell’insegnante».
«Professore, anche lei avrebbe potuto diventare un politico. Però non mi sembrava tanto
in forma, quel ragazzo, al contrario. Non pareva certo in grado di mettere lei in difficoltà».
«Oggi si faceva piccolo piccolo. È uno stupido».
«Che cosa gli è successo? Mi è bastato dargli un’occhiata per capire che è nei guai.
Cos’ha fatto?»
«Una cosa molto sciocca. Ha mandato una lettera d’amore alla figlia di Kaneda».
«Cosa? Quello lì con quel testone? Ormai gli studenti hanno una faccia tosta
fenomenale. Sono sconcertato».
«Sì, capisco che dia fastidio anche a te…»
«A me? No, affatto. Anzi, lo trovo molto divertente. Può mandarle tutte le lettere
d’amore che vuole, non potrebbe importarmene di meno».
«Be’, se a te non importa, allora non c’è problema, ma…»
«Che problema dovrebbe esserci? La cosa mi è del tutto indifferente. Sono
semplicemente stupito che uno con una testa così possa scrivere delle lettere d’amore».
«Be’, in realtà era uno scherzo. Si sono messi in tre, dicevano che la ragazza si dà un
sacco di arie, che è una presuntuosa…»
«In tre hanno mandato una lettera alla signorina Kaneda? Che storia assurda. Come se
ci si mettesse in tre a mangiare una sola fetta di torta».
«Sì, ma ognuno ha svolto un ruolo diverso. Uno l’ha scritta, uno l’ha firmata con il suo
nome e il terzo l’ha messa nella cassetta delle lettere dei Kaneda. Il ragazzo che era qui poco
fa è quello che l’ha firmata. Cioè quello che ha fatto la cosa più stupida. Tanto più che non
l’ha mai vista in faccia, la figlia di Kaneda, me l’ha detto lui. Cosa diavolo gli è preso di fare
un’idiozia del genere?»
«Oh, è uno degli eventi grandiosi che succedono al giorno d’oggi! Un vero capolavoro!
Ma non trova esilarante che uno con una testa così mandi lettere d’amore a una donna?»
«Le conseguenze possono essere molto serie».
«Si figuri, non succederà proprio niente. Trattandosi di Kaneda…»
«Però sei tu che probabilmente la sposerai…»
«Appunto. Non me ne importa nulla proprio perché forse la sposerò. Visto che di sicuro
Kaneda se ne infischia…»
«Sì, però, anche se per te non è grave…»
«Ma se Kaneda se ne infischia, le dico! Stia tranquillo, andrà tutto bene».
«In tal caso è tutto a posto. Il ragazzo, con il senno di poi, ha avuto dei rimorsi, gli è
venuta una paura tremenda ed è venuto con la coda tra le gambe a chiedermi consiglio».
«Ah, ecco perché se ne stava mogio mogio, dev’essere un pavido. Lei cosa gli ha
consigliato di fare, professore?»
«La cosa che più lo spaventava era di venire espulso da scuola».
«Perché dovrebbero espellerlo?»
«Perché ha fatto una cosa scorretta e immorale».
«Oh, mi sembra esagerato parlare di immoralità. Cosa vuole che sia! Di sicuro i Kaneda
se ne vantano e vanno in giro a dirlo a tutti».
«Addirittura!»
«A ogni modo il poveretto faceva pena. Anche ammettendo che abbia fatto una cosa
scorretta, se si angoscia a tal punto, a quell’età è capace di suicidarsi. Avrà pure una testa
enorme, ma non ha l’aria di un cattivo ragazzo. Gli tremava il naso, faceva tenerezza».
«Parli con la stessa superficialità di Meitei, anche tu».
«Ma no, ho semplicemente idee più moderne. Lei è troppo all’antica, professore,
qualsiasi cosa la interpreta nel modo più rigido».
«Perché, mandare una lettera d’amore a qualcuno che non si conosce nemmeno, sia
pure per scherzo, secondo te non è una cosa stupida? È contrario a ogni buon senso».
«Ma gli scherzi di solito sono contrari al buon senso. Sia gentile, gli dia una mano. Sarà
un atto di carità. Quello lì è capace di buttarsi giù dalla cascata di Kegon».
«Sì, forse hai ragione».
«Dia retta a me. Ci sono uomini più vecchi e più illustri di quel ragazzo che fanno scherzi
ben più cattivi e vanno in giro indisturbati. Se si espelle quel ragazzino per così poco, allora
quei mascalzoni bisognerebbe prenderli per un bracciò e buttarli fuori dal Giappone,
altrimenti non ci sarebbe giustizia».
«Sì, forse è così».
«Allora cosa facciamo? Andiamo a Ueno a sentire il ruggito della tigre?»
«La tigre?»
«Sì, forza, andiamo! Tra parentesi, devo tornare al mio paese per qualche giorno, per un
po’ non potrò tenerle compagnia, quindi oggi sono venuto qui con la ferma determinazione
di andare a fare una passeggiata con lei da qualche parte».
«Oh, vai al tuo paese? Hai degli impegni?»
«Sì, ho delle cose da fare… A ogni modo adesso usciamo».
«D’accordo, usciamo pure».
«Bene, andiamo. Oggi la cena la offro io. Poi facciamo due passi fino al parco di Ueno
così arriviamo al momento giusto».
Davanti a tanta insistenza, il padrone si lascia trascinare dall’entusiasmo di Kangetsu ed
esce con lui. La padrona e Yukie, rimaste sole, ne approfittano per ridere a crepapelle senza
alcun ritegno.
11
Meitei e Dokusen sono seduti sui tatami uno di fronte all’altro, davanti al tokonoma.
Fra loro è posata la scacchiera del gioco del go.
«Intendiamoci, non gioco senza una posta! Chi perde offre qualcosa. D’accordo?»
dichiara con fermezza Meitei.
«In questo modo», ribatte Dokusen tirandosi la barbetta da capra, «si inquina la
purezza del gioco. Scommettendo denaro o altro, ci si concentra sulla posta e il
divertimento viene meno. Non badiamo a chi vince o chi perde: giochiamo questa partita
nella serenità mentale di chi esce da una caverna per ritrovarsi nella natura sotto bianche
nuvole e così gusteremo appieno l’essenza del gioco».
«Ci risiamo. Giocare contro un avversario dalla mente elevata come la tua per me è
troppo faticoso. Sembri uno dei famosi Settantuno Eremiti1».
«"Bisogna saper suonare un’arpa senza corde", come diceva un antico poeta cinese».
«O usare un telegrafo senza fili».
«A ogni modo, iniziamo».
«Quale colore scegli? Le bianche?»
«Mi è indifferente».
«Hai proprio il distacco di un eremita. Se prendi le bianche, ne consegue
necessariamente che a me toccano le nere. Forza, fai una mossa. Comincia da dove vuoi,
ma muoviti».
«Stando alle regole, dovrebbero cominciare le nere».
«Veramente? Allora comincerò umilmente con il piazzare una pietra qui».
«Non puoi, è contro le regole».
«Fa lo stesso, vuol dire che ho inventato una regola nuova».
Nel mio mondo di limitate relazioni sociali, solo poco tempo fa ho visto per la prima
volta un goban, e trovo il gioco del go sempre più assurdo ogni volta che ci penso. C’è una
piccola tavola quadrata di legno, divisa in quadratini minuscoli, sulla quale pietre bianche e
pietre nere vengono spostate di qua e di là in un disordine da far venire le vertigini. E i due
giocatori sudano e si dimenano, esclamando: «Ho vinto!» «Hai perso!» «Sei morto!»
«Sono libero!» Per una semplice tavola quadrata di una ventina di centimetri di lato. Basta
che un gatto vi metta sopra una zampa perché tutto si confonda. «L’erba riunita in fasci e
legata diventa una capanna, una volta dispersa torna a essere un campo selvaggio», dice la
massima zen. Il che significa che il go è un passatempo del tutto inutile. Meglio restare a
guardare con le mani nelle maniche, si fa meno fatica. Per le prime trenta o quaranta
mosse la disposizione delle pietre non è un’offesa per gli occhi, ma quando si arriva a quelle
finali, che decidono del risultato della partita, la confusione è spaventosa. Le pietre bianche
e quelle nere si spingono le une con le altre fino a rischiare di cadere dalla tavola, si
strofinano con un suono stridente. Non possono chiedere alle vicine di farsi da parte
perché lo spazio è poco, né hanno il diritto di ordinare a quelle di fronte di indietreggiare
per far loro posto. Rassegnate al proprio fato, non possono far altro che starsene ferme
immobili, rannicchiate nel loro angolino. Poiché il gioco del go è stato inventato dall’uomo,
è una manifestazione dei suoi gusti, quindi si può affermare serenamente che la piccolezza
1
Riferimento alla biografia e all’elogio di settantuno eremiti cinesi compilato in epoca Han.
delle pedine esprime la meschinità della sua natura. Assumendo che si possa capire la
natura umana dal comportamento delle pietre del go, ne consegue che l’uomo riduce
l’immensità dell’universo alla propria dimensione, che ama limitare artificiosamente il
proprio territorio in modo da non potersi muovere dal posto in cui si trova. E questo ci
permette di definirlo con una sola parola: masochista.
Meitei lo spensierato e Dokusen l’adepto zen oggi, per chissà quale ragione, hanno preso
dall’armadio il vecchio goban e hanno iniziato quest’opprimente partita. Nella sfida tra
queste due personalità così diverse, all’inizio, ognuno ha posizionato le proprie pedine
come gli è saltato in mente, pietre bianche e nere disperse qua e là, ma le dimensioni del
goban sono quelle che sono e a mano a mano che le intersezioni venivano occupate a ogni
mossa, la situazione si è fatta complicata persino per uno spensierato e per un adepto zen.
«Meitei, sei un pirata del go. Non ti è permesso mettere la tua pietra lì».
«Può darsi che i bonzi zen non riconoscano questa regola, ma la scuola di Honinbo la
ammette, quindi ti devi rassegnare».
«Però così il tuo gruppo è morto».
«"Il guerriero non teme la morte!" diceva quel tale. Proviamo questa mossa».
«Prego, accomodati. «Da sud soffia una brezza di prima estate, che rinfresca la sala del
palazzo…»2 Ecco, se mi sposto qui sono al sicuro».
«Oh, mi hai tenuto dietro, bravissimo. Non pensavo che ne avresti avuto il coraggio. E se
invece metto questa pietra qui, tu cosa fai?»
«Cosa faccio? Semplice. «Dopo aver inferto il colpo, fredda si leva la spada verso il
cielo3». No, troppo complicato, preferisco chiuderti così».
«Oh, oh… le mie pietre sono morte se mi chiudi così. C’è poco da scherzare. Aspetta un
momento».
«Te l’avevo detto di non metterti lì».
«Ti chiedo umilmente perdono. Potresti togliere questa tua bianca, per favore?»
«Allora cosa fai, passi?»
«E già che ci sei, perché non togli anche quella di fianco?»
«Hai una faccia tosta incredibile».
«Inutile fare tante cerimonie fra noi due. Fammi il favore di togliere quella pietra, invece
di dire banalità. È una questione di vita o di morte. «Un momento!» dice l’eroe entrando in
scena4».
«La cosa non mi riguarda».
«Non ti riguarda, ma togli lo stesso la pietra».
«Ti rendi conto che è già la sesta volta che passi?»
«Però, che memoria! E ho intenzione di farlo ancora altrettante volte. Per questo ti dico
di toglierti. Sei un bel testone, anche tu. Uno che fa meditazione dovrebbe essere un po’ più
malleabile».
«Sì, ma se non ti uccido con questa pietra, rischio di perdere…»
«Non dicevi che vincere o perdere per te è indifferente?»
«A me perdere non importa, ma non voglio fare vincere te».
«Un illuminato, insomma! Vedo che tagli sempre il guizzo della folgore alla brezza di
primavera».
2
3
4
Citazione di una poesia di Liu Gongquan, funzionario poeta dell’epoca Tang (618-907 d.C.).
Con questa frase, citata nel Zenrinkusho (antologia poetica compilata da Eicho nel XV secolo), il monaco Mugaku
intendeva incitare il suo signore al combattimento senza timore della morte.
Riferimento al dramma kabuki Shibaraku (Un momento), in cui l’eroe entra in scena proprio quando un condannato a
morte sta per essere giustiziato e lo salva dicendo queste parole.
«È il contrario: «Il guizzo della folgore, e la tua spada taglierà solo la brezza di
primavera»».
«Ha, ha, ha! Pensavo che non te la ricordassi più, invece sei ancora in grado di dirla
giusta. In tal caso, forse farei meglio ad arrendermi».
«Ecco, arrenditi. «Sottomettiamoci al ciclo della vita e della morte, tutto muta e nulla
dura»».
«Amen». Così dicendo Meitei di punto in bianco posa una pietra in una posizione che
non c’entra niente.
Mentre Dokusen e Meitei sono impegnati in quest’accanitissima partita davanti al
tokonoma, sulla soglia della stanza degli ospiti Kangetsu e Tofu, seduti uno accanto
all’altro, parlano con il mio padrone, che ha un colorito livido. Davanti a Kangetsu tre
palamiti essiccati, ben allineati e posati direttamente sui tatami, offrono uno spettacolo
insolito. Poiché Kangetsu li ha portati tenendoli sotto il kimono, sono ancora tiepidi. Il
padrone e Tofu li osservano perplessi, lo sguardo diffidente.
«In realtà sono già quattro giorni che sono tornato dal paese», dice alla fine Kangetsu,
«ma ho avuto molte cose da fare, dovevo correre di qua e di là, e non ho potuto venire
prima».
«Non c’era nessuna fretta», risponde il padrone con la consueta malagrazia.
«Non c’era fretta, ma volevo portarle questi in regalo al più presto, era quel che mi
premeva».
«Sono palamiti essiccati, vero?»
«Sì, una specialità della mia regione».
«Saranno una specialità, ma credo che si trovino anche a Tokyo», fa il padrone
prendendo in mano il più grosso, poi lo avvicina al naso e lo annusa.
«Dall’odore non può capire se è buono o cattivo», osserva Kangetsu.
«Sono speciali perché sono più grossi dell’ordinario?»
«Be’, lei li mangi e vedrà».
«Certo che li mangerò. Ma perché questo qui è un po’ rosicchiato?»
«Ecco perché avevo fretta di portarglieli».
«Cioè?»
«Perché è stato rosicchiato dai topi».
«Ma allora è pericoloso! Si può prendere la peste!»
«No, non si preoccupi. Hanno rosicchiato solo un angolino, non può farle male».
«E come ci sono arrivati, i topi? Dov’è successo?»
«Sulla nave».
«Sulla nave? Ma come?»
«Non sapevo dove metterli, allora quando sono salito a bordo li ho infilati nel fodero del
violino. È successo durante la notte. Avessero mangiato solo i pesci non sarebbe grave,
hanno rosicchiato anche il legno del mio prezioso violino, scambiandolo per un merluzzo».
«Che sbadati quei topi! Forse vivendo su una nave perdono il discernimento»,
commenta il mio padrone continuando a guardare i palamiti. Nessuno capisce cosa voglia
dire.
«Oh, i topi, ovunque vivano, sono sempre sbadati. Per questo temevo che tornassero alla
carica anche alla pensione. Per evitare rischi la notte li ho infilati con me nel futon».
«Be’, non è una cosa molto igienica».
«Infatti prima di mangiarli sarebbe meglio lavarli un po’».
«Un po’? Non credo sarà sufficiente».
«Allora si potrebbe strofinarli con cenere e acqua».
«Hai dormito abbracciato anche al violino?»
«No, non avrei potuto, è troppo grosso…»
«Cosa? Hai dormito abbracciato a un violino?» A interrompere Kangetsu è la voce
robusta di Meitei, che da dove si trova interviene nella conversazione. «Che raffinatezza!
Mi ricorda i versi di Buson: La primavera passa, pesante è il biwa che stringo al cuore,
ma si tratta di un vecchio haiku. Gli uomini di talento, in quest’era Meiji, se non dormono
almeno una volta abbracciati a un violino, non potranno mai superare gli antichi. Cosa ne
dici di: La lunga notte, e sotto la trapunta, il mio violino? Eh, Tofu, in una poesia moderna
questi versi come starebbero?»
«La poesia in stile moderno non è come un haiku, non si può improvvisare così, su due
piedi», risponde con la massima serietà Tofu. «Ma quando si riesce a comporne una, ne
nasce un’armonia che fa vibrare più profondamente lo spirito».
«Ah, sì? Pensavo che uno spirito lo si invocasse bruciando un gambo di canapa
sbucciato. Ma evidentemente anche la poesia moderna ha questo potere», fa Meitei
canzonando il giovane e distogliendo l’attenzione dal goban.
«Perderai di nuovo la partita, se continui a dire sciocchezze», lo avverte il padrone, ma
Meitei non se ne cura.
«In ogni caso il mio avversario ormai è un polipo in pentola. È immobilizzato. La noia
che ne consegue mi induce a preferire la conversazione con il nostro violinista».
«Tocca a te», fa in quel momento Dokusen in tono un po’ irritato. «Sto aspettando».
«Cosa? Hai già giocato?»
«Sì, mi sono messo qui».
«Dove?»
«Ho allungato la linea di queste pietre bianche».
«Capito. Hai allungato la tua linea, e quindi… e quindi… No, non posso fare granché. Va
be’, ti concedo un’altra mossa. Rimetti pure la tua pietra dove ti pare».
«Come si fa a giocare in questo modo?»
«Come si fa? Rifiuti? Allora ti sistemo io. Proviamo a piazzarne una qui, a infilarla in
questo territorio. Kangetsu, il tuo violino è di pessima qualità, per questo i topi si divertono
a rosicchiarlo. Fai uno sforzo e compratene uno migliore, se vuoi te ne procuro uno di
trecento anni dall’Italia».
«Gliene sarei molto grato. E già che c’è, la pregherei anche di pagarlo».
«Di che utilità può essere uno strumento così vecchio?» chiede sgarbatamente a Meitei il
mio padrone, che non sa nemmeno di cosa stiano parlando.
«Il problema è che tu metti sullo stesso piano le persone e i violini. Comunque al giorno
d’oggi anche i vecchi bacucchi come Kaneda sono apprezzati, a maggior ragione i violini,
che più invecchiano più valgono. Allora, Dokusen, ti muovi o no? Non è per citare
Keimasa5, ma «il buio arriva presto nei giorni d’autunno»».
«Giocare a go con un esagitato come te è una sofferenza. Non mi lasci nemmeno il
tempo di riflettere. Non posso fare altro che piazzare una pietra qui».
«Incredibile, sei riuscito a cavartela! Che peccato, non mi aspettavo questa mossa da
parte tua. Be’, ho voluto rischiare e m’è andata male…»
«Per forza. Tu non giochi, cerchi solo di barare».
«Nemmeno per idea, questa è la scuola di Honinbo, la scuola di Kaneda, la scuola dei
gentiluomini di oggi… Ehi, professor Kushami! Non c’è più nulla che emozioni il nostro
5
Dal dramma kabuki Koinyobosomedazuna (La briglia tinta di due colori), in cui compare un massaggiatore cieco di
nome Keimasa.
Dokusen, da quando ha mangiato le verdure in salamoia di Kamakura. Ha raggiunto
l’imperturbabilità. A go non vale granché, ma il coraggio non gli manca».
«In tal caso faresti bene a prendere esempio da lui, tu che non ne hai», risponde il
padrone senza nemmeno voltarsi. Alle sue spalle Meitei gli mostra la sua grossa lingua
rossa.
«Forza, tocca a te», lo sollecita Dokusen, come se quelle battute non lo riguardassero.
«Quand’è che hai cominciato a suonare il violino?» chiede intanto Tofu a Kangetsu. «Mi
piacerebbe imparare, ma dev’essere molto difficile».
«Non direi, se non si hanno pretese di virtuosismo, chiunque riesce a suonarlo
passabilmente».
«Forse chi ama la poesia può sperare di fare rapidi progressi anche nella musica, si
tratta sempre di arte. Non credi?»
«Sì, certo. Sono sicuro che tu diventeresti bravissimo».
«Quand’è che hai cominciato?»
«Quand’ero al liceo. Professore, le ho mai raccontato come ho iniziato a studiare il
violino?»
«No, mai».
«Magari è stato uno dei tuoi insegnanti a darti i primi rudimenti?» chiede Tofu.
«No, quale insegnante… Ho imparato da solo».
«Sei proprio un genio».
«Imparare da soli non significa essere dei geni», ribatte seccamente Kangetsu. Solo lui
può irritarsi perché qualcuno gli dà del genio.
«Comunque sia, raccontaci com’è nata questa passione. Mi interessa».
«Se vuoi. Posso, professore?»
«Certo, racconta».
«Adesso si vedono spesso dei giovani andare in giro con un violino sotto il braccio, ma
all’epoca era rarissimo che un liceale studiasse la musica occidentale. In più il mio liceo era
in piena campagna, in una zona arretrata, dove non si usavano nemmeno i sandali foderati
di canapa, e ovviamente nessuno degli allievi sapeva suonare il violino…»
«Ehi, ho l’impressione che quei tre stiano parlando di qualcosa di interessante! Che ne
dici, Dokusen, chiudiamo qui?»
«No, ci sono ancora due o tre posizioni da sistemare».
«Non fa niente, ti concedo tutto quello che vuoi».
«Tu mi concedi tutto, ma io non posso accettare».
«Che pignolo! Altro che adepto zen! Allora finiamo la partita in fretta. Kangetsu, sembra
interessante la tua storia. Il tuo liceo è quello dove gli allievi vanno in giro a piedi nudi?»
«No, non è assolutamente vero».
«Però ho sentito dire che a forza di fare «fianco destr, destr!» scalzi, durante
l’allenamento militare, hanno tutti la pianta dei piedi spessa come una suola».
«Si figuri! Chi le ha raccontato queste fandonie?»
«Non ricordo. E poi per pranzo si portano un nigiri grosso come un melone appeso al
fianco, e mangiano solo quello. Anzi, lo divorano, per arrivare all’unico umeboshi infilato
nel centro. Per la fretta di trovare l'umeboshi ingoiano di corsa come selvaggi tutto il riso
intorno, salato o meno che sia… scoppiano di salute, insomma. Dokusen, è una storia che
dovrebbe essere di tuo gradimento, questa».
«Una natura forte, robusta, è promettente».
«C’è qualcos’altro di promettente. Pare che in quel liceo non esistano i portafiammiferi
di bambù. Un mio amico che faceva parte del corpo insegnante una volta voleva comprarne
uno con il marchio di fabbrica Togetsuho, ma il negoziante non ne aveva di nessun tipo,
altro che marchio! Molto stupito, il mio amico gli ha chiesto perché, e quello ha risposto
senza scomporsi che chiunque poteva andare nel bosco dietro casa e tagliarsi una sezione
di bambù, non c’era alcun bisogno di vendere tali oggetti. Anche questo è un aneddoto che
rivela una natura forte e robusta, non credi, Dokusen?»
«Già… Qui però devo catturarti un gruppo di pietre».
«Perfetto. Cattura, cattura, cattura! E con questo la partita è finita. Quando mi hanno
raccontato questa storia, confesso che sono rimasto allibito. Sei stato davvero bravo
Kangetsu a imparare da solo a suonare il violino in un posto del genere. Il poeta cinese Qu
Yuan6 ha scritto dei versi sulla bellezza della solitudine, può darsi che tu sia il Qu Yuan
dell’era Meiji».
«Ne faccio volentieri a meno, grazie».
«Allora preferisci essere il Werther di questo secolo? Ehi, Dokusen, cosa stai facendo,
conti le pietre? Sei di una rigidità sconcertante. Se ti ho detto che mi do perdente!»
«Sì, ma non è un risultato preciso…»
«Allora contale da solo, io ho di meglio da fare. Scusami, ma devo ascoltare in che modo
il nostro moderno Werther ha iniziato a suonare il violino, altrimenti farei un torto ai miei
antenati». Detto ciò, Meitei si alza e si sposta vicino a Kangetsu. Dokusen raccoglie
scrupolosamente le pietre bianche e quelle nere e le posa nelle rispettive ciotole,
contandole fra sé e sé una per una. Intanto Kangetsu continua a raccontare la sua storia:
«La regione era quello che era, e la gente della zona dove abitavo particolarmente ottusa,
punivano severamente ogni segno di effeminatezza dicendo che era motivo di vergogna di
fronte agli allievi dei distretti vicini, insomma per me era veramente dura».
«Gli studenti che vengono dalla tua regione sono davvero incredibili. Perché portano
sempre quei tristissimi hakama blu in tinta unita? Già questo è strano. In più, forse per la
carenza di sale, hanno un colorito scurissimo. Pazienza gli uomini, ma per le donne è una
vera disgrazia!» Come sempre Meitei, quando si intromette in una conversazione, si
allontana subito dall’argomento in questione.
«Anche le donne hanno la pelle scura?»
«Strano che riescano a trovare marito».
«Perché? Se nella regione tutti sono scuri…»
«È un problema di causa ed effetto. Vero, Kushami?»
«Tanto meglio, se sono di pelle scura. Quelle che hanno un bell’incarnato chiaro
diventano un po’ più presuntuose ogni volta che si guardano allo specchio. Le donne sono
creature incorreggibili…»
«Ma se in un paese tutti hanno la carnagione scura, ne conseguirà che più scuri si è, più
si va fieri del proprio colore, non crede?» chiede con molto buon senso Tofu.
«A ogni modo le donne sono del tutto inutili».
«Attento a dire certe cose, tua moglie ti farà una lavata di capo», l’avverte ridendo
Meitei.
«Nessun pericolo».
«Adesso non c’è?»
«È uscita poco fa con le bambine».
«Ecco perché la casa era così silenziosa… E dov’è andata?»
«Non lo so. Dove le garbava, a fare una passeggiata».
«Allora tornerà a casa quando le garberà?»
6
Qu Yuan (340-278 a. C), poeta e uomo politico cinese. Esiliato, finì suicida.
«Be’, sì… beato te che sei scapolo!» A queste parole del mio padrone Tofu prende
un’espressione contrariata. Kangetsu come sempre sorride.
«Tutti gli uomini sposati finiscono con il dire così», risponde Meitei. «Vero, Dokusen,
anche per te il matrimonio è fonte di guai…»
«Eh? Aspetta. Sei per quattro ventiquattro, venticinque, ventisei, ventisette… Pensavo
che fossero di meno, invece sono quarantasei. Avrei voluto vincertene un po’ di più, ma a
conti fatti c’è solo una differenza di diciotto pietre. Cos’è che mi stavi chiedendo?»
«Anche tu hai dei problemi con tua moglie?»
«Ha, ha, ha! Ma no, figurati, nessun problema! Fondamentalmente mia moglie mi
ama».
«Ti domando scusa. Sempre originale, tu».
«Ma non è il solo ad avere un matrimonio felice. Ci sono moltissimi esempi come il
suo». Kangetsu prende strenuamente le parti di tutte le mogli.
«Sono d’accordo con Kangetsu. A mio parere la gente ha due modi di raggiungere la
felicità: l’arte e l’amore. E poiché l’amore coniugale rappresenta uno dei due modi, chi non
si sposa e butta via quest’occasione di felicità, va contro la volontà del Cielo. Lei cosa ne
pensa, professore?» conclude Tofu rivolgendosi con la sua abituale serietà a Meitei.
«Ottima osservazione. Ma gli uomini come me non sono destinati a entrare nella cerchia
delle persone felici».
«Di sicuro non ci entrerai se ti sposi», fa il mio padrone corrucciato.
«Comunque sia, noi giovani ancora celibi, se non ci apriamo la strada verso una
condizione spirituale più elevata dedicandoci all’arte, non potremo capire il senso della
vita, quindi vorrei ascoltare quello che Kangetsu si accingeva a raccontare, come è nato in
lui il desiderio di imparare a suonare il violino».
«Giusto giusto, il nostro Werther stava per farci sentire la storia del violino. Forza,
racconta. Non ti interromperò più». Meitei rinfodera finalmente la spada.
«Con un violino non si apre la via verso l’elevazione spirituale. Non è dedicandosi a un
piacere che si può conoscere la verità dell’universo. Chi vuole arrivare alla conoscenza
profonda, deve lasciarsi cadere in un precipizio e, dopo aver cessato di respirare, trovare la
forza spirituale per tornare a vivere», pontifica Dokusen. Ha fatto il suo sermone con le
migliori intenzioni, peccato che Tofu, del tutto digiuno di zen, non sia affatto
impressionato.
«Mmh. Sì, forse ha ragione, però penso che l’arte esprima il punto più alto cui possa
anelare l’uomo, e che non bisogna assolutamente rinunciarvi».
«Benissimo, se non hai intenzione di rinunciarvi, racconterò la storia del mio violino,
visto che hai espresso il desiderio di conoscerla. Vi stavo dunque dicendo che per imparare
a suonarlo ho avuto mille difficoltà. A cominciare dall’acquisto del violino stesso».
«Ci credo. In un posto dove non ci sono nemmeno sandali foderati di canapa,
figuriamoci se si trova un violino!»
«Non è questo, non è che non ci fossero violini in vendita. Avevo anche messo da parte
la somma necessaria, non era una questione di soldi. Però non potevo comprarne uno».
«Perché?»
«In quel territorio circoscritto mi avrebbero subito scoperto. E se mi avessero scoperto,
mi avrebbero subito giudicato uno snob e mi avrebbero severamente punito».
«Da che mondo è mondo i geni hanno sempre dovuto ingoiare insulti», commenta Tofu
con sincera partecipazione.
«Di nuovo mi dai del genio? Fammi il favore di smetterla! Ogni giorno andavo a fare una
passeggiata e quando passavo davanti al negozio dov’erano esposti i violini, non c’era volta
in cui non mi dicessi: Ah, come mi piacerebbe comprare quello… Chissà che sensazione si
prova a tenere in mano quell’altro… Come ne vorrei uno, come ne vorrei uno!»
«È comprensibile», approva Meitei.
«Ti eri proprio fissato», commenta perplesso il mio padrone.
«Lo sapevo, sei un genio!» sospira Tofu, perso d’ammirazione.
Solo Dokusen continua a tirarsi la barba con aria distaccata.
«Ci si potrebbe chiedere perché mai ci fossero dei violini in vendita in un posto del
genere, ma la spiegazione è semplicissima. Basta pensare che nella regione c’era un liceo
femminile, le cui allieve dovevano esercitarsi ogni giorno a suonare il violino, faceva parte
del programma d’insegnamento. È ovvio che non erano strumenti di valore, non
meritavano quasi il nome di violino. Il negoziante stesso non li teneva in gran conto e ne
aveva appeso tre o quattro all’ingresso del negozio. Così quando passavo lì davanti, se c’era
un po’ di vento li sentivo vibrare, oppure risuonare quando un garzone per caso li toccava.
E ogni volta sentivo il cuore battermi all’impazzata e mi mettevo a tremare».
«Hai corso un bel rischio. Ci sono diversi tipi di convulsioni, per reazione all’acqua, alla
gente… ma tu, da buon Werther, sei stato colto da convulsioni da violino», fa Meitei con il
suo solito scetticismo.
«No, no, senza una sensibilità così acuta non si può diventare un vero artista», dice Tófù
sempre più esaltato. «Non c’è nulla da fare, Kangetsu è un genio».
«Mah, forse si trattava davvero di convulsioni. Tuttavia il suono emesso per caso da quei
violini era straordinario. Da allora ne ho provati molti, ma non ho mai sentito un suono
tanto bello. Non saprei nemmeno come descriverlo. Era di una bellezza ineffabile».
«Quando due gemme si toccano ne nasce un’armonia sublime», fa Dokusen citando Qu
Yuan, ma nessuno gli bada, poveretto.
«A forza di passare e ripassare davanti al negozio, per ben tre volte ho sentito quel suono
di ineffabile bellezza. La terza volta ho deciso che dovevo a tutti i costi comprare un violino,
al diavolo le conseguenze! La gente del luogo poteva criticarmi, quella dei distretti vicini
guardarmi con disprezzo… potevano anche ammazzarmi di botte, espellermi da scuola, ero
fermamente deciso ad averne uno».
«Lo vedi che sei un genio? Solo un genio può avere una tale determinazione. Come ti
invidio! Ho sempre desiderato provare un sentimento di tale intensità, sono anni che mi
sforzo, ma senza risultati. Vado ai concerti e ascolto con tutto l’ardore di cui sono capace,
ma non riesco a trovare l’ispirazione…» Il povero Tofu è l’immagine stessa dell’invidia.
«Tanto meglio per te. Adesso ne posso parlare serenamente con voi, ma a quel tempo ho
patito le pene dell’inferno, non ve lo potete nemmeno immaginare. A ogni modo con uno
sforzo estremo sono riuscito ad acquistare un violino».
«Ah, e come hai fatto?»
«Era la sera del due novembre, la vigilia della festa del compleanno dell'imperatore. La
gente si era recata in gruppi alle terme, dove avrebbe passato la notte, e in paese non era
rimasto nessuno. Quel giorno non ero andato a scuola, mi ero dato malato e non mi ero
nemmeno alzato. Rannicchiato nel futon, mi dicevo che quella sera sarei uscito e mi sarei
finalmente procurato il tanto desiderato violino, non pensavo ad altro».
«Sei arrivato al punto di saltare la scuola fingendoti malato?»
«Precisamente».
«Be’, allora è vero che sei un genio», fa Meitei in tono rispettoso.
«Me ne stavo sotto le coperte con solo la testa fuori, e non vedevo l’ora che il sole
tramontasse. Ho provato a coprirmi la faccia e dormire, ma non ci sono riuscito. Allora ho
di nuovo tirato fuori la testa e quando ho visto gli shoji ancora illuminati dai raggi
accecanti del sole autunnale, per il nervoso mi è venuta una crisi. Raggruppate nella parte
superiore degli shoji vedevo ombre lunghe e strette agitarsi ogni tanto al vento».
«Cos’erano quelle ombre lunghe e strette?»
«Erano cachi sbucciati e appesi alla gronda a essiccare».
«Ah. E poi?»
«Poi, non sapendo cosa fare, mi sono alzato, sono andato nella veranda, ho preso un
caco e l’ho mangiato».
«Era buono?» chiede puerilmente il mio padrone.
«Sì, i cachi sono ottimi in quella regione. A Tokyo non si trovano cachi così buoni».
«Lascia perdere i cachi, cos’è successo dopo?» interviene Tofu.
«Mi sono di nuovo infilato nel futon e ho chiuso gli occhi sperando che facesse buio
presto, in segreto mi sono persino raccomandato agli dei e a Buddha. Ho lasciato passare
forse tre o quattro ore, poi mi sono detto: bene, è il momento, e ho tirato fuori la testa; ma
avevo calcolato male, i raggi del sole continuavano a illuminare in pieno gli shoji, nella cui
parte alta si vedevano le ombre lunghe e strette dondolare al vento».
«Questo ce l’hai già detto», fa il mio padrone.
«Perché la cosa si è ripetuta un sacco di volte. Mi alzavo, aprivo gli shoji, mangiavo un
caco, tornavo a infilarmi nel futon e pregavo gli dei e Buddha perché la sera arrivasse
presto».
«Insomma siamo sempre al punto di partenza».
«Per favore, ascolti senza arrabbiarsi, professore. Ho pazientato ancora per tre o quattro
ore dentro il futon, poi, sicuro che fosse la volta buona, ho tirato fuori la testa e ho visto che
i raggi accecanti del sole autunnale illuminavano sempre in pieno gli shoji, nella cui parte
alta ombre lunghe e strette dondolavano al vento».
«Ci risiamo!»
«Allora mi sono alzato, ho aperto gli shoji, sono andato nella veranda, ho mangiato un
caco…»
«Un altro caco? Non fai altro che mangiare cachi, quando la finirai?»
«Guardi che anch’io sono ansioso di arrivare al dunque».
«Noi siamo più ansiosi di te».
«Lei è troppo precipitoso, professor Kushami, raccontarle qualcosa diventa
problematico».
«Anche starti ad ascoltare è problematico», si lascia sfuggire persino Tofu con aria
afflitta.
«D’accordo, visto che avete tanta fretta, vorrà dire che riassumerò brevemente la storia.
Insomma, mangiavo un caco e mi andavo a infilare nel futon, ci restavo un po’ e poi andavo
a mangiare un altro caco, ho finito con il far fuori tutti quelli che erano appesi alla gronda».
«A quel punto si era fatta sera, no?»
«In realtà no, dopo l’ultimo caco ho sporto la testa, dicendomi che ormai doveva essere
buio, ma i raggi accecanti del sole autunnale illuminavano in pieno gli shoji…»
«Be’, io ne ho abbastanza. Non fai che ripetere all’infinito le stesse cose».
«È faticoso anche per me che racconto, cosa crede?»
«Sì, ma con la tua perseveranza avrai sicuramente successo in tutto quello che
intraprenderai», commenta Meitei. «Se stiamo ad ascoltarti in silenzio, domani mattina i
raggi dell’autunno splenderanno ancora. Insomma, quand’è che sei riuscito a comprarti
questo benedetto violino?» Anche Meitei, con tutta la sua indolenza, sembra incapace di
sopportare oltre. Solo Dokusen conserva la sua imperturbabilità, i raggi del sole possono
splendere fino a domani o dopodomani mattina, non riusciranno a smuoverlo. Quanto a
Kangetsu, non si scompone e prosegue senza fretta il suo racconto.
«Avevo intenzione di acquistare il violino appena fosse calata la sera, sarei
immediatamente andato al negozio. Peccato che ogni volta che sporgevo la testa fuori dal
futon splendesse sempre il sole… Se sapeste quel che soffrivo in quei momenti, adesso non
fareste tante storie. Quando ho mangiato l’ultimo caco non faceva ancora buio, mi è venuto
un tale magone che sono scoppiato a piangere. Proprio così, Tofu, mi vergogno a dirlo, ma
ho pianto».
«Non stento a crederlo. So che gli artisti sono persone emotive e le tue lacrime mi
commuovono. Però ti pregherei di procedere con il racconto». Tófù, da persona gentile
qual è, resta serio anche quando dice facezie.
«Sarei molto felice di procedere, ma non posso, se il sole non tramonta!»
«Se non tramonta, siamo noi che non ne possiamo più di ascoltarti!» sbotta il padrone,
che ha definitivamente perso la pazienza.
«Sì, ma non vorrà mica che smetta adesso, stiamo arrivando al punto cruciale».
«Allora sbrigati a far tramontare questo sole».
«Questa è una pretesa irragionevole, ma poiché viene da lei, professore, a questo punto
dichiariamo calata la sera».
«Oh, bene», commenta con distacco Dokusen, facendo scoppiare a ridere tutti gli altri.
«Visto che finalmente era calata la sera, ho tirato un sospiro di sollievo e sono uscito
dalla pensione dove abitavo, nel villaggio di Kurakake. Per carattere non amo i luoghi
rumorosi, quindi mi ero rifugiato in un posto piccolo come un guscio di lumaca, presso dei
contadini in un villaggio dove non c’era quasi anima viva…»
«Dove non c’era anima viva! Non ti pare di esagerare?» protesta il mio padrone.
«Quanto al guscio della lumaca, ce lo potevi risparmiare… perché non dici: una stanza di
quattro tatami e mezzo senza tokonoma, sarebbe una descrizione più realistica». Anche
Meitei esprime il suo scontento. Solo Tofu approva lo stile di Kangetsu: «I fatti raccontati
in maniera poetica sono più vividi».
«Abitando in un posto del genere, per te andare a scuola doveva essere un bel problema.
Quanto distava?» chiede molto seriamente Dokusen.
«Quattro o cinquecento metri. Perché anche il liceo era nel villaggio».
«In tal caso, molti studenti dovevano alloggiare da quelle parti», ribatte Dokusen poco
convinto.
«Sì, in ogni fattoria ce n’erano uno o due a pensione».
«E lo chiami un villaggio dove non c’era quasi anima viva?» Questa volta il povero
Kangetsu subisce un attacco frontale.
«Be’, se non ci fosse stato il liceo, non si sarebbe visto in giro nessuno… Dunque, quella
sera indossavo un kimono di cotone imbottito tessuto a mano, con sopra la giacca con i
bottoni dorati dell’uniforme del liceo e in più, perché non mi riconoscessero, un soprabito
con il cappuccio tirato accuratamente sugli occhi. In quella stagione la strada di casa fino
all’incrocio con la provinciale era coperta di foglie secche che facevo scricchiolare a ogni
passo. Per paura che qualcuno mi seguisse avevo i nervi a fior di pelle. Voltandomi indietro
a controllare ho visto il bosco intorno al tempio Torei, che distava meno di cento metri
dalla mia abitazione, stagliarsi ancora più nero contro l’oscurità intorno. Il tempio si trova
ai piedi del Monte Koshin e ospita le tombe di generazioni della famiglia Matsudaira, è un
posto estremamente silenzioso, lontano da tutto. Sopra il bosco il cielo era una distesa di
stelle, e la Via Lattea sembrava tagliare in diagonale il fiume Nagase fino… fino… Be’,
arrivava fino alle Hawaii…»
«Cosa c’entrano adesso le Hawaii?» chiede Meitei.
«Ho percorso la provinciale per circa duecento metri, sono entrato in città da
Takanodai-cho, ho attraversato il quartiere del vecchio castello, ho girato intorno a
Sengoku-cho, superato Kuishiro-cho, ho percorso la via principale per uno, due, tre isolati,
poi oltrepassato Owari-cho, Nagoya-cho e Shachihoko-cho…»
«Risparmiaci la topografia della città», interviene il padrone sempre più irritato. «Dicci
solo se hai comprato il violino o no».
«Il negozio dove avevo visto i violini, il Kanezen, cioè il negozio di Kaneko Zenbei, è
ancora lontano».
«Lontano o meno, fammi il favore di sbrigarti a comprarlo, questo violino!»
«Come vuole. Dunque, quando sono arrivato al Kanezen, sul negozio c’era una lampada
che accecava…»
«Di nuovo una luce accecante! Il problema è che tu le cose non ti accontenti di dirle una
o due volte, ecco perché il racconto non avanza», osserva Meitei per misura precauzionale.
«No, questa volta la luce acceca solo una volta, non si preoccupi. Tenendomi nell’ombra
creata dalla lampada, ho visto che uno dei violini rifletteva debolmente il chiarore della
sera autunnale, una luce fredda fasciava le rotondità del legno. Solo una delle corde tese
colpiva gli occhi con il suo bianco luccicore…»
«Però, sei proprio bravo a raccontare», osserva Tofu.
«Eccolo, è lui! ho pensato, e subito il cuore ha preso a palpitarmi, le gambe a
tremarmi…»
Dokusen ridacchia.
«D’impulso sono entrato, ho tirato fuori di tasca la borsa, preso due biglietti da cinque
yen…»
«E finalmente l’hai comprato!»
«No, volevo comprarlo, poi mi sono detto: aspetta, questo è un momento importante.
Agendo senza riflettere rischi di commettere uno sbaglio. Insomma, a un passo
dall’acquisto ci ho ripensato».
«Cosa? Hai rinunciato? Ci stai prendendo tutti in giro, con questo violino!»
«Non vi sto affatto prendendo in giro, ma cosa ci posso fare se non è adesso che lo
compero?»
«E perché?»
«Perché… perché era ancora presto e per la strada passava un sacco di gente».
«Che importanza poteva avere? Ci fossero state anche duecento o trecento persone… sei
proprio un tipo strano, tu», conclude il mio padrone, molto seccato.
«Si fosse trattato di persone qualunque, anche mille o duemila mi avrebbero lasciato
indifferente. Ma erano allievi del mio liceo, che se ne andavano a spasso con le maniche
rimboccate e grossi bastoni da passeggio in mano, così non ho osato. Fra loro c’era un
gruppo che si faceva chiamare «i sedimenti», perché si vantavano di essere sempre gli
ultimi della classe. Di solito questi tipi sono fortissimi nel judo. Non osavo farmi vedere a
comprare un violino. Chissà come mi avrebbero conciato. Morivo dalla voglia di averne
uno, ma tenevo anche alla pelle. Meglio un musicista mancato vivo e vegeto, che un
violinista morto».
«Allora alla fine hai rinunciato?» insiste il padrone.
«No, affatto».
«Che uomo irritante! Senti, se devi comprarlo, fallo subito. Se invece non vuoi, non
abbiamo obiezioni. Basta che ti sbrighi a prendere una decisione».
«Così vanno le cose a questo mondo», risponde Kangetsu sorridendo e accendendosi
con aria distaccata una sigaretta. «Il finale è sempre diverso da quello che avevamo
immaginato».
A questo punto il padrone, che non ne può più, si alza e se ne va nello studio, ma torna
subito con un vecchio libro mal ridotto, si sdraia bocconi e si mette a leggere. Dokusen,
chissà quando, si è spostato davanti al tokonoma, ha di nuovo disposto sul goban le pietre
bianche e quelle nere e ora sta giocando da solo. È un peccato che il racconto si sia
protratto tanto a lungo, gli ascoltatori a uno a uno se ne sono andati e ne sono rimasti
soltanto due: Tofu per devozione all’arte, e il professor Meitei cui la lunghezza non fa
paura.
Soffiando tranquillamente una lunga boccata di fumo in aria, Kangetsu riprende a
raccontare alla stessa velocità di prima.
«Allora sai cosa mi sono detto, Tofu? Adesso non mi conviene perché è ancora troppo
presto, ma nemmeno posso tornare nel cuore della notte, perché il negozio sarà chiuso.
Devo venire nel breve lasso di tempo in cui i miei compagni di scuola saranno già andati
via, ma il negozio sarà ancora aperto, altrimenti tutti i miei piani andranno a farsi friggere.
Però non era facile calcolare quando si sarebbe presentato quel momento».
«Già, immagino».
«Ho previsto che sarebbe stato verso le dieci. Quindi dovevo trovare il modo di far
passare alcune ore. Tornare a casa e uscire di nuovo era escluso. Andare a fare quattro
chiacchiere a casa di un amico in quel momento non mi andava, non avrei avuto la testa
alla conversazione. Non mi restava altro da fare che gironzolare per la città fino alle dieci.
Di solito, quando andavo a spasso senza meta, due o tre ore passavano in un baleno, ma
quella sera il tempo trascorreva con una lentezza esasperante. Ho capito fino in fondo il
significato del detto: «Un giorno sembra lungo come mille autunni»». Nel dire le ultime
parole Kangetsu si volta verso il professor Meitei, cercando di mostrare sul viso l’ansia
provata quella sera.
«Gli antichi dicevano: «Anche un piccolo braciere pesa sulle braccia di chi attende», ed è
vero che è peggio aspettare che essere aspettati… Il violino appeso davanti alla porta del
negozio era certamente in pena, ma forse lo eri di più tu, che te ne andavi a zonzo come un
investigatore disoccupato. Come un cane randagio e macilento. Non c’è nulla che muova a
compassione più di un cane senza un rifugio».
«Be’, non è gentile da parte sua paragonarmi a un cane. È la prima volta in vita mia che
vengo paragonato a un cane».
«A me, mentre ti ascolto», interviene Tofu per consolare l’amico, «sembra di leggere la
storia di un artista d’altri tempi e non riesco a fare a meno di partecipare alla tua emozione.
Il professore voleva solo scherzare paragonandoti a un cane, su, non prendertela e vai
avanti».
«Allora sono andato da Ryogae a Takajo», riattacca Kangetsu, che era intenzionato a
proseguire anche senza bisogno di incoraggiamenti, «dal quartiere di Okachi a quello di
Hyakki, ho contato i salici spogli davanti alla Prefettura e le finestre illuminate
dell’ospedale, ho fumato due sigari sul ponte di Konya, poi ho guardato l’orologio…»
«Erano già le dieci?»
«Purtroppo no. Dopo aver attraversato il ponte sono andato verso est lungo la sponda
del fiume. C’erano tre botteghe di massaggiatori, professore, e un cane si è messo ad
abbaiare…»
«La sponda del fiume e l’abbaiare lontano dei cani nella notte d’autunno… sembra la
scena di un dramma. E tu sei il fuggitivo».
«Perché, ho fatto qualcosa di male?»
«No, ma stai per farlo».
«Oh, povero me, se comprare un violino è un crimine, gli allievi delle accademie
musicali sono tutti dei criminali».
«Quando si fa qualcosa che non è ammesso dalla società, fosse pure una buona azione, si
diventa colpevoli. Per questo nulla al mondo è più difficile da definire della colpevolezza.
Persino Gesù Cristo, essendo nato nel contesto storico che conosciamo, venne giudicato
colpevole. Quindi anche tu, mio bel Kangetsu, comprando un violino in quell’ambiente
retrogrado, ti macchiavi di una colpa».
«Va bene, mi arrendo, ero colpevole. Il che non mi impediva di soffrire, perché le dieci
tardavano ad arrivare».
«Perché non fai di nuovo l’elenco dei distretti della città? Se non ti bastano, puoi sempre
ripescare la luce accecante dell’autunno. E nel caso non fosse sufficiente nemmeno quella,
potresti mangiare una dozzina di cachi secchi. Noi siamo disposti ad ascoltarti
indefinitamente, quindi sbizzarrisciti pure finché non giungono le dieci».
Kangetsu sorride.
«Se lei mi prende in contropiede, professore, sono obbligato a darle partita vinta e
saltare direttamente all’ora fatale. Dunque alle dieci in punto ero di nuovo davanti al
negozio, cominciava a fare freddo e nel quartiere di Ryogae, benché sia in pieno centro,
ormai non passava quasi nessuno, il rumore isolato dei miei geta dava un senso di
tristezza. Al Kanezen avevano già chiuso le imposte, ma l’ingresso laterale era ancora
aperto. Mentre spingevo uno shoji ed entravo, mi sentivo un po’ a disagio, come se fossi
seguito da un cane…»
A questo punto il padrone solleva la testa dal suo vecchio libro sgualcito.
«Allora, sto violino, è in tuo possesso o no?» chiede.
«Sta per comprarlo», risponde Tofu.
«Ancora? Ma ci vuole un’eternità!» borbotta fra sé rimettendosi a leggere. Nel frattempo
Dokusen, sempre in silenzio, ha riempito metà del goban di pietre bianche e nere.
«Prendendo il coraggio a due mani mi sono fatto avanti e senza togliermi il cappuccio ho
chiesto un violino. Riuniti intorno al braciere c’erano quattro o cinque commessi o garzoni
che fossero: si sono voltati a guardarmi meravigliati tutti insieme, come a un segnale. Di
riflesso ho alzato una mano e mi sono tirato il cappuccio sugli occhi. Quando ho chiesto di
prendermi un violino - per la seconda volta - il commesso seduto più avanti, che cercava di
vedermi in faccia, ha dato una vaga risposta affermativa, si è alzato ed è andato a prendere
un paio dei violini appesi davanti al negozio. «Quanto costano?» ho chiesto. "Cinque yen e
venti sen", mi ha detto lui…»
«Esistono violini che costano così poco? Non erano violini-giocattolo, per caso?»
«"Costano tutti uguale?" ho chiesto di nuovo. «Sì, l’uno o l’altro fa lo stesso… sono tutti
solidi e fabbricati con cura», ha risposto il commesso. Allora ho preso dalla borsa un
biglietto da cinque yen e venti sen in moneta, ho tirato fuori la stoffa che mi ero portato e vi
ho avvolto uno dei violini. Per tutto il tempo gli inservienti del negozio non hanno parlato e
sono rimasti a guardarmi. Con il cappuccio tirato sulla faccia non correvo il rischio di
essere riconosciuto, però mi sentivo a disagio e volevo andarmene al più presto.
Finalmente mi sono messo il fagotto con il violino sotto il soprabito e sono uscito. I ragazzi
mi hanno gridato in coro un «grazie» che stranamente mi ha fatto venire i sudori freddi.
Una volta per la strada mi sono guardato intorno: per fortuna non c’era nessuno, ma da
lontano ho visto arrivare tre persone che recitavano poesie cinesi a voce tanto alta da
svegliare tutta la città. Non volendo incontrarle ho svoltato verso ovest all’angolo del
negozio, ho preso la strada Horibata fino a Yakuoji, poi passando dal villaggio di Hannoki
sono arrivato alle falde del Monte Koshin e finalmente sono tornato a casa. Erano le due e
dieci».
«Hai camminato tutta la notte!» commenta Tofu con aria compassionevole.
«Alla fine ce l’hai fatta! Peggio delle cinquantatré stazioni della Tokaido 7», fa Meitei con
un sospiro.
«È adesso che la storia comincia. Questa era solo l’introduzione».
«Ce n’è ancora? Ma è insopportabile, questo ragazzo! Nessuno regge il confronto con te,
quanto a testardaggine».
«Sarò pure testardo, ma se mi fermo adesso, sarebbe come fare una statua di Buddha
senza metterci l’anima. La storia non è finita».
«Sei libero di parlare quanto vuoi. Ti ascolto».
«E lei, professor Kushami? Mi ascolti anche lei, per favore. Ormai il violino l’ho
comprato. Professore?»
«E adesso magari lo vuoi vendere? Perché in tal caso non ho alcuna intenzione di
ascoltare».
«No, ancora non lo vendo».
«Fa lo stesso, non voglio sapere altro».
«Questo mi dispiace. Solo tu, Tofu, ti appassioni alla mia storia. L’uditorio non è certo
stimolante, ma pazienza. Andrò avanti d’un fiato fino alla fine».
«No, no, non c’è fretta. Racconta con calma. È interessantissimo».
«Il tanto sospirato violino me l’ero procurato, ma ora il problema era dove metterlo.
Tanti amici venivano a trovarmi, se l’avessi imprudentemente appeso o appoggiato in un
posto qualunque, l’avrebbero subito scoperto. Avrei potuto, scavare una buca e seppellirlo,
ma poi dissotterrarlo sarebbe stato una seccatura».
«L’hai nascosto tra il tetto e il soffitto?» chiede Tofu dicendo la prima cosa che gli passa
per la testa.
«Il soffitto non c’era, era una casa di contadini con le travi a vista».
«Che guaio. Allora dove l’hai messo?»
«Prova a indovinare».
«Non lo so. Tra le imposte e il muro?»
«No».
«Nell’armadio, dentro il futon arrotolato?»
«No».
Mentre Tofu e Kangetsu giocano agli indovinelli, il mio padrone e Meitei si mettono a
parlare d’altro.
«Cosa significa questa frase?» chiede il padrone.
«Quale?»
«Queste due righe».
«Fai vedere… Quid aliud est mulier nisi amicitiae inimica… è latino, questo».
«Che è latino lo capisco da solo, ma cosa significa?»
Fiutando il pericolo, Meitei batte in ritirata.
«Scusa, ma non dici sempre che sai leggere il latino benissimo:»
«Certo che lo so leggere. Per leggerlo lo so leggere, ma questo cosa significa?»
«Hai un bel coraggio, dici che sai leggere il latino e poi domandi cosa significa».
«Pensa quello che vuoi, basta che mi traduci questa frase in inglese».
7
La Tokaido era una delle due strade che nel periodo Edo univa Kyoto a Edo (Tokyo). Seguiva la costa est e i viaggiatori che
la percorrevano potevano rifocillarsi e cambiare i cavalli in ben cinquantatré stazioni.
«Ma sei insopportabile, ti metti a dare ordini, adesso?»
«Sì, mi metto a dare ordini. Che cosa significa?»
«Senti, ne parliamo dopo. Adesso prestiamo attenzione all’edificante storia di Kangetsu.
È arrivato a un punto cruciale. Rischia di essere scoperto, praticamente è alla barriera di
Ataka8. Vero, Kangetsu? Poi cos’è successo?» Improvvisamente Meitei sembra molto
interessato alle vicende del violino e torna a unirsi agli altri due. Il mio padrone viene
lasciato solo come un cane. Ringalluzzito, Kangetsu decide di svelare il nascondiglio.
«Alla fine ho deciso di metterlo in un vecchio baule di vimini. Quel baule me l’aveva
regalato mia nonna quando avevo lasciato la mia casa per frequentare il liceo, faceva parte
del suo corredo quando era venuta sposa nella famiglia del nonno».
«Be’, allora era un pezzo d’antiquariato. Ben poco adatto a quel violino, direi. Vero,
Tofu?»
«Già, in effetti».
«Tra il soffitto e il tetto sarebbe stato ancora peggio, no?» protesta Kangetsu rivolto a
Tofu.
«Non sarà adatto, ma forse se ne può ricavare un haiku», continua intanto Meitei:
Triste autunno, nascosto nel baule, il mio violino. Che ve ne pare, ragazzi?»
«Professore, oggi le vengono proprio bene gli haiku».
«Mica solo oggi. Mi nascono dal cuore tutti i momenti. Il grande Shiki restava sempre
senza parole davanti alla mia maestria nel comporre un haiku».
«Lei conosceva Shiki, professore?» domanda l’ingenuo e onesto Tofu.
«Non è che ci vedessimo spesso, ma eravamo tanto intimi che potevano comunicarci i
nostri sentimenti più profondi così, come in una sorta di telegrafo senza fili», blatera
Meitei. Tofu tace allibito, mentre Kangetsu prosegue ridendo il suo racconto.
«Insomma il posto dove nasconderlo l’avevo trovato, ma ora il problema era un altro:
tirarlo fuori. Cioè, finché si trattava di prenderlo e guardarlo, lo potevo anche fare, ma a
cosa mi serviva? Se non lo suonavo era inutile. Ma suonandolo avrei fatto rumore. E
facendo rumore, mi sarei fatto scoprire. Era rischioso, tanto più che nella casa di fianco,
separati dalla mia soltanto da una siepe di rose di Sharon, abitavano alcuni «sedimenti»».
«Un bel problema», commenta Tofu, partecipe delle difficoltà di Kangetsu.
«Già, proprio un bel problema», interviene Meitei. «La musica è una prova più evidente
delle parole, la dama Kogo 9 fu tradita dal suono del koto. Per te sarebbe stato più facile
mangiare di nascosto, o fabbricare denaro falso. Come celare il suono di uno strumento?»
«Se avessi potuto suonare in silenzio, non c’erano problemi, ma…»
«Aspetta, aspetta… Suonare in silenzio, dici. Però ci sono cose che non si possono
nascondere anche se non fanno alcun rumore. Quando eravamo studenti e stavamo a
pensione presso il tempio di Koishikawa, c’era un certo Suzuki Tojuro che andava pazzo
per il mirin. Lo comperava nelle bottiglie per la birra e se lo beveva da solo, tutto contento.
Una volta che era uscito a fare una passeggiata, Kushami ha avuto la spudoratezza di
rubargliene un po’ e berlo…»
«Figurati se bevevo il mirin di Suzuki, sei tu l’autore del misfatto!» ribatte subito il
padrone alzando la voce.
«Ehi, non stavi leggendo, tu? Mi credevo al sicuro, e invece ascoltavi. Non c’è mai da
fidarsi, con te. Senti e vedi tutto… Sì, ora che mi ci fai pensare ne ho bevuto un po’ anch’io.
L’ho bevuto, non lo nego, ma sei tu che l’hai trovato. Sentite questa, voi due. Il professor
8
9
Confine che Yoshitsune attraversò nella sua fuga verso il nord dal Giappone, inseguito dal fratello Yoritomo. A questa
barriera sfuggì per pochissimo alla cattura.
Dama di corte del tardo periodo Heian. Rifugiatasi in un tempio per sfuggire alla collera dell’imperatrice, venne tradita dal
suono dell’arpa.
Kushami non sopporta l’alcol, ma trattandosi del mirin di qualcun altro si è sforzato di
berne più che poteva, con il risultato che la faccia gli è diventata paonazza. Non ho mai più
visto qualcuno in quelle condizioni…»
«Ma stai zitto, che non capisci nemmeno il latino…»
«Ha, ha, ha! Quando Tojuro è tornato e ha scosso la bottiglia, si è accorto che ne
mancava la metà. Si è guardato intorno, sicuro che fosse stato uno di noi, e ha visto il capo,
qui, riverso in un angolo, rigido come un pupazzo d’argilla…»
Meitei, Kangetsu e Tofu scoppiano in una sonora risata, e anche il padrone, senza alzare
gli occhi dal libro, ridacchia. Solo Dokusen, forse perché si è troppo concentrato nel gioco,
dorme profondamente piegato sul goban.
«Potrei raccontarvi di un’altra cosa che è stata scoperta anche se non faceva rumore.
Una volta, tanto tempo fa, sono andato alle terme di Ubako 10 e ho diviso la stanza con un
vecchio. Doveva essere un mercante di stoffe. Ma per dividere la stanza, mercante o
rigattiere non aveva importanza. Solo una cosa mi dava fastidio. Dunque, il terzo giorno dal
mio arrivo sono rimasto senza sigarette. Lo sapete anche voi, Ubako si trova fra i monti, c’è
solo lo stabilimento termale, tutto quello che si può fare è mangiare e andare ai bagni.
Restare senza sigarette in quel posto fuori dal mondo è una vera disgrazia. Ora si sa che
quando non possiamo avere una cosa, immediatamente la desideriamo, quindi appena mi
sono reso conto che non avevo più sigarette, anche se non sono un fumatore accanito, di
colpo morivo dalla voglia di fumarne una. La cosa più seccante era che il vecchio si era
portato dietro una montagna di sigarette legate in un fagotto. Ogni tanto ne prendeva una,
si sedeva a gambe incrociate davanti a me e si metteva a fumare a tutto spiano, con l’aria di
dire: ti piacerebbe, eh? Si fosse limitato a fumare, l’avrei ancora perdonato, ma alla fine
faceva cerchi di fumo, mandava il fumo su in verticale, di lato, se ne faceva aureola, lo
buttava fuori dalle narici, insomma era tutto uno sfumacchiamento…»
«Un cosa?»
«Be’, quando si sfoggiano vestiti si parla di ostentamento, per le sigarette si dice
sfumacchiamento…»
«Perché non gliene ha chiesta una, invece di soffrire tanto?»
«No, non volevo chiedere nulla. Ho la mia dignità, io».
«La sua dignità le impediva di domandare una sigaretta?»
«Forse no, ma non volevo».
«Allora come ha fatto?»
«Invece di domandarle, le ho rubate».
«Complimenti!»
«Quando il fellone si è messo un asciugamano sulla spalla e si è avviato alle terme, mi
sono detto che se dovevo fare il colpo, quello era il momento. Ho attaccato a fumare come
un pazzo, una sigaretta dopo l’altra, ma proprio sul più bello sento che qualcuno apre gli
shoji… Mi volto e chi vedo? Il vecchio mercante».
«Non era andato a farsi il bagno?»
«Sì, ma all’ultimo momento si era accorto che aveva dimenticato la borsa in camera ed
era tornato indietro. Tanto per cominciare, era offensivo da parte sua pensare che io
potessi rubargli la borsa».
«Be’, non lo si può biasimare. Con le sigarette non si è fatto molti scrupoli».
«Ha, ha, ha! Era perspicace, il vecchio. Comunque sia, quando ha aperto gli shoji è
rimasto soffocato, il fumo di tutte le sigarette che avevo fumato per rifarmi dei due giorni
10
Una delle sette fonti della stazione termale di Hakone, nella prefettura di Kanagawa.
di astinenza riempiva compatto la stanza. È proprio vero che una cattiva azione la si
percepisce a un miglio di distanza. La mia è stata scoperta subito».
«E che cosa ha detto?»
«Si è comportato con la saggezza dei suoi anni. Ha avvolto in silenzio cinquanta o
sessanta sigarette in un foglio di carta, poi me le ha porte dicendo: «Non vorrei sembrarle
invadente, ma se si accontenta di queste sigarette di cattiva qualità, mi faccia il favore di
accettarle». Dopodiché è tornato ai bagni».
«Forse, quando si parla di «stile Edo», si intende proprio questo».
«Non so se fosse lo «stile Edo» o lo stile di un mercante di stoffe, fatto sta che dopo
quell’episodio io e il vecchio siamo diventati grandi amici e abbiamo passato le due
settimane seguenti insieme divertendoci un mondo».
«E per due settimane le sigarette le ha offerte sempre lui?»
«Be’, sì… certo».
«Allora questo violino? La storia è finita?» chiede in quel momento il padrone cedendo
alla curiosità. Nel frattempo posa il libro e si alza a sedere.
«Non ancora. Il bello viene adesso. Si è alzato al momento giusto, professore, ascolti per
favore. E già che ci siamo anche il signore che sta facendo un pisolino sul goban… come si
chiama? Ah, il professor Dokusen. Professor Dokusen, vuole avere la gentilezza di
ascoltare? Non le fa bene dormire in quel modo. Si tiri su, è ora».
«Ehi, Dokusen, sveglia, sveglia! Qui la storia si fa interessante. Svegliati. Ti fa male
dormire tanto. Tua moglie si preoccupa!»
«Eh?» fa Dokusen sollevando la testa.
Un filo di saliva gli è colato sulla barbetta e brilla come una bava di lumaca.
«Toh, mi sono addormentato. Come una pigra nuvola bianca adagiata sulla cima di un
monte… Ah, è stata proprio una bella dormita!»
«Il fatto che tu abbia dormito te lo riconosciamo tutti, ma adesso svegliati».
«Sì, forse è meglio. Qualcuno sta per raccontare qualcosa di interessante?»
«Sì, adesso finalmente il violino… cosa succede al violino, Kushami?»
«Cosa vuoi che ne sappia? Non ne ho la più pallida idea».
«Sto per mettermi a suonare», spiega Kangetsu.
«Adesso finalmente il violino sta per essere suonato. Avvicinati e apri le orecchie».
«Ancora con questo violino? Che seccatura!»
«Tu puoi stare tranquillo perché suoni un’arpa senza corde. Kangetsu invece ha motivo
di preoccuparsi, i suoi stridenti tentativi si sentiranno in tutto il vicinato».
«Veramente? Lei non conosce il modo di suonare un violino senza farsi sentire,
Kangetsu?»
«No, non lo conosco. Se c’è, la prego di insegnarmelo».
«Non è necessario, basta che liberi lo spirito da ogni passione e capirà tutto», è la
risposta sibillina di Dokusen. Convinto che sia ancora mezzo addormentato e stia
vaneggiando, Kangetsu non gli bada e continua a raccontare.
«Alla fine sono riuscito a mettere a punto un piano. Il giorno seguente era il compleanno
dell’imperatore, io sono rimasto a casa e fin dal mattino non ho fatto altro che aprire e
chiudere il baule dove avevo nascosto il mio tesoro in attesa che calasse la sera. Quando
finalmente ha fatto buio e un grillo ha cominciato a cantare in fondo al baule, mi sono fatto
coraggio e ho preso violino e archetto».
«Oh, eccolo finalmente fuori!» esclama Tofu.
«Attento a suonare, è rischioso!» consiglia invece Meitei.
«Prima di tutto ho sollevato l’archetto e l’ho osservato dalla punta all’elsa…»
«Certo che ci sono dei fabbri che le spade non le sanno proprio fare», ironizza Meitei.
«Al pensiero che in quel violino c’era la mia anima, provavo un sentimento uguale a
quello di un samurai che sguaina la sua sciabola affilata alla luce di una lampada a olio in
una lunga notte autunnale. Con l’archetto in mano, tremavo come una foglia».
«Un genio, un genio», sospira Tofu.
«Convulsioni, convulsioni», rettifica Meitei.
«Faresti bene a sbrigarti a suonare», dice invece il padrone. Quanto a Dokusen, ha
assunto un’espressione preoccupata.
«Per fortuna, l’archetto non aveva difetti. Allora ho portato anche il violino vicino alla
lampada e l’ho controllato bene da tutte le parti. Vi prego di non dimenticare che per tutto
questo tempo, circa cinque minuti, il grillo continuava a cantare in fondo al baule…»
«Non dimentichiamo niente, stai tranquillo e suona».
«No, non ancora. Per fortuna anche il violino era in perfette condizioni. Allora mi sono
detto che tutto andava bene e mi sono alzato».
«Per andare dove?»
«Ascolti in silenzio, per favore. Se mi interrompe tutti i momenti, come faccio a
raccontare?»
«Zitti, voi tre! Capito? Sshh, sshh…»
«Ma se sei il solo a parlare…»
«Ah, davvero? Allora chiedo scusa. Sono tutt’orecchi».
«Mi sono messo il violino sotto il braccio, ho infilato i sandali di paglia e sono uscito da
quell’umile dimora, ma dopo pochi metri mi sono fermato…»
«Di nuovo? Qualsiasi cosa tu faccia, a un certo punto viene sempre a mancare la
corrente».
«Perché volevi tornare indietro? Di cachi secchi non ce n’erano più!»
«Bene, visto che purtroppo nessuno di voi professori mi prende sul serio, d’ora in poi mi
rivolgerò esclusivamente a Tofu. D’accordo, Tofu? Allora, fatti pochi passi, sono tornato
indietro per mettermi sulla testa una coperta rossa che avevo comprato prima di lasciare il
paese per tre yen e venti sen, ma quando ho soffiato sulla lampada sono rimasto al buio e
questa volta non trovavo più i sandali».
«Ma dov’è che volevi andare?»
«Taci e ascolta. Finalmente ho ritrovato i sandali e sono uscito. Ah, la notte illuminata
dalla luna e dalle stelle, le foglie secche del caco sparse al suolo, la coperta rossa in testa e il
violino sotto il braccio… Mi sono incamminato verso destra, sempre verso destra, verso il
Monte Koshin, e a un certo punto la campana del tempio Torei ha battuto le ore, il suono
mi rimbombava dentro la testa attraverso la coperta e le orecchie. Che ore pensi che
fossero?»
«Non ne ho la minima idea».
«Le nove. Solo nella lunga notte autunnale, sono salito per un sentiero di montagna fino
a un posto chiamato l’Altopiano. Di solito non sono un cuor di leone, eppure in quel luogo
inquietante ero talmente ispirato che stranamente, sotto la mia coperta, alla paura non ci
pensavo nemmeno. Morivo dal desiderio di suonare il violino, era questo l’unico
sentimento che avevo in cuore. Questo posto detto l’Altopiano si trova sul versante sud del
Monte Koshin, nelle belle giornate di sole la vista è magnifica, attraverso i pini si vedono il
castello e il borgo intorno. Ha una superficie di un centinaio di tsubo, e nel bel mezzo c’è
una roccia piatta grande quanto otto tatami. A nord c’è uno stagno chiamato «la palude del
cormorano», intorno al quale ci sono alberi di canfora tanto grossi che tre uomini insieme
non riuscirebbero a circondarne il tronco con le braccia. Abitazioni lassù non ce ne sono, a
eccezione di una capanna per i braccianti che vengono a raccogliere la canfora, e anche in
pieno giorno è un luogo deserto dove non ci si sente molto tranquilli. Salire fin lì non è
stato troppo faticoso, per fortuna c’era una strada sterrata aperta dai soldati del genio per
le manovre. Quando sono finalmente arrivato sulla roccia piatta, mi sono tolto di testa la
coperta e mi sono seduto. Era la prima volta che venivo in quel posto nel freddo della notte,
e quando ho ripreso un po’ fiato, a poco a poco ho sentito la malinconia pervadermi fino
alle viscere. In situazioni del genere di solito è la paura ad agitare l’animo umano, ma
quando passa, resta soltanto una sensazione misteriosa di purezza e di gelo. Sono rimasto
così, perso nelle mie fantasticherie, una ventina di minuti, e intanto cresceva in me
l’impressione di vivere solo in un palazzo di cristallo. In più il mio corpo… no, non soltanto
il mio corpo, anche il mio cuore e la mia anima erano diventati trasparenti, come se fossero
fatti di gelatina, e non capivo più se ero io a trovarmi dentro un palazzo di cristallo o il
palazzo di cristallo dentro me…»
«Che cosa straordinaria!» osserva Meitei con gravità, per burlarsi di Kangetsu, mentre
Dokusen, che sembra un po’ impressionato, commenta:
«Comincia a essere interessante».
«Se la cosa si fosse prolungata, probabilmente sarei rimasto immemore seduto sulla
roccia fino al mattino dopo, senza suonare il violino…»
«C’erano delle volpi11?» s’informa Tofu.
«Mi trovavo in uno di quegli stati d’animo in cui si perde il senso di sé e non si capisce
nemmeno se si è vivi o morti, quando tutt’a un tratto alle mie spalle, dal fondo della
palude, si è levato un grido…»
«Oh, finalmente succede qualcosa!»
«A quel grido che si propagava lontano, scuotendo come un vento di tempesta autunnale
le cime degli alberi sulla montagna, sono tornato in me di soprassalto…»
«Be’, ora sono più tranquillo», fa Meitei dandosi qualche pacca sul petto.
«Rinuncia alle passioni e avrai una nuova visione della vita», sentenzia Dokusen
strizzando l’occhio a Kangetsu, ma il giovane non ha la più pallida idea di cosa voglia dirgli.
«Allora mi sono guardato intorno, la montagna era immersa nel silenzio, non si sentiva
il rumore di una goccia di pioggia. Cos’era stato dunque quel grido? Era troppo acuto per
essere una voce umana, e troppo forte per essere il verso di un uccello. Quanto a una
scimmia… da quelle parti scimmie non ce ne sono. Allora cos’era? Mentre cercavo una
risposta, la mia mente, che fino a quel momento aveva conservato una calma perfetta, è
stata subdolamente invasa da un senso di confusione, da caos simile a quello che ha
accompagnato l’arrivo del principe di Connaught a Tokyo 12. Tutti i pori della mia pelle si
sono aperti e il coraggio, la determinazione e la saggezza sono evaporati all’istante, come
alcol strofinato su una gamba pelosa. Il mio cuore sotto le costole ha preso a ballare
all’impazzata, le gambe mi tremavano come l’archetto di un aquilone. Era insopportabile.
Mi sono messo la coperta sulla testa, il violino sotto il braccio, sono saltato giù dalla roccia
barcollando, ho fatto la discesa di corsa fino a casa, e mi sono immediatamente
rannicchiato dentro il futon. Credimi, Tofu, non ho mai avuto tanta paura in vita mia».
«E poi?»
«Poi niente. È tutto».
«E il violino? Non l’hai suonato?»
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12
In Giappone la volpe è considerata un animale maligno, capace di assumere un aspetto diverso per trarre in inganno gli
uomini e portarli a perdizione.
Quando il principe Arthur di Connaught nel 1906 si recò in Giappone per decorare l’imperatore Meiji dell’Ordine della
Giarrettiera, la popolazione di Tokyo scese in massa nelle strade per fargli un’accoglienza entusiasta.
«Avrei tanto voluto, ma come potevo? C’è stato quel grido… Nemmeno tu ci saresti
riuscito».
«Ho l’impressione che alla tua storia manchi qualcosa».
«Eppure le cose sono andate così. Cosa ne dite, signori professori?» chiede Kangetsu
guardando l’uditorio con aria trionfante.
«Ha, ha, ha! È bravo Kangetsu! Tutta questa fatica per portarci fin qui! E io che
ascoltavo con attenzione, aspettandomi che da un momento all’altro una Sandra Belloni 13
in versione maschile facesse la sua apparizione in Estremo Oriente!» dice Meitei nella
speranza che gli chiedano chi sia Sandra Belloni, ma poiché nessuno lo fa, continua il suo
soliloquio: «Al posto di Sandra Belloni che suona l’arpa in un bosco sotto la luna cantando
canzoni italiane, ci sei tu che sali sul Monte Koshin con il violino sotto il braccio. In
apparenza sembra la stessa cosa, peccato che Sandra Belloni risvegli la dea della luna,
mentre tu vieni spaventato da un volgare tasso. Il rischio è che dalla tragedia si cada nella
commedia. Davvero un peccato».
«No, perché? Non mi sembra affatto», risponde Kangetsu con noncuranza.
«Tutto sommato, se ti sei preso uno spavento è perché hai voluto andare a suonare il
violino in cima a una montagna, che esibizionismo!» Questa severa critica viene dal mio
padrone.
«È triste che un uomo per bene voglia vivere come i demoni», sospira Dokusen. Un’altra
delle sue massime zen sprecate, inintelligibili a Kangetsu come probabilmente a tutti gli
altri.
«Comunque sia, Kangetsu», riprende Meitei dopo un po’ cambiando argomento, «in
questi giorni vai sempre all’università a limare biglie di vetro?»
«No, da quando sono andato al paese il mese scorso, ho smesso. Mi sono stufato, penso
di lasciar perdere definitivamente».
«Ma se non limi le biglie, non puoi terminare la tesi di dottorato!» fa il padrone
aggrottando le sopracciglia.
«Il dottorato? He, he, he, non ho più bisogno di ottenere dottorati», risponde Kangetsu
con l’aria di aver perso ogni interesse ai suoi studi.
«Ma bisognerà rimandare il matrimonio, sarà un problema per tutti!»
«Il matrimonio? Chi è che si sposa?»
«Tu, no?»
«Io? E con chi dovrei sposarmi?»
«Con la figlia dei Kaneda».
«Eh?»
«Cosa, eh? Non vi siete scambiati una promessa?»
«No, nessuna promessa. È lei che lo va dicendo in giro, ma se l’è inventato di sana
pianta».
«Questa sì che farà scalpore! Vero, Meitei? Eri al corrente anche tu di questo progetto».
«Quale progetto, quello della Nasona? Perché se è di quella storia che parli, non siamo
soltanto tu e io a conoscerla, è sulla bocca di tutti. Al punto che dei giornalisti del Mancho
non fanno che venire da me a chiedermi quando potranno avere una foto dei due giovani
per pubblicarla con il titolo Oggi sposi. Il nostro Tofu, qui, ha persino composto un lungo
epitalamio intitolato Le due anatre mandarine14, sono tre mesi che aspetta, ma visto che tu
non hai intenzione di conseguire un dottorato, ora teme che il suo capolavoro marcisca
inutilizzato. Vero, Tofu?»
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Cantante e musicista famosa, eroina del romanzo omonimo di George Meredith, pubblicato nel 1902.
In Giappone sono il simbolo dell’amore coniugale.
«Non è che sia veramente inquieto, ma in ogni caso nella poesia avevo messo tutta la
mia più sincera partecipazione, e avevo intenzione di pubblicarla».
«Lo vedi? Il fatto che tu ottenga o meno un dottorato avrà un’influenza enorme su un
gran numero di persone. Quindi rimettiti in carreggiata e torna a limare biglie».
«He, he, he, mi spiace di avervi causato tante preoccupazioni, ma ormai non ho più
bisogno di un dottorato».
«Perché?»
«Perché ho già una rispettabilissima moglie».
«Oh, questa sì che è buona! E quand’è che hai fatto questo matrimonio segreto? Non ci
si può fidare di nessuno, a questo mondo! Kushami, hai sentito? Kangetsu ha già moglie e
figli!»
«No, figli per il momento non ne ho. Mi sono sposato meno di un mese fa, come potrei
averne?»
«E dov’è che ti sei sposato, quando?» domanda il padrone come se conducesse
un’inchiesta.
«Quando sono tornato al mio paese, la mia fidanzata mi aspettava lì. I pesci che le ho
portato oggi li ho ricevuti in regalo da alcuni parenti».
«Tre palamiti secchi? Si sono sprecati!»
«Si figuri, me ne hanno dati tantissimi, ma qui ne ho portati solo tre».
«Se è una ragazza della tua regione, avrà una carnagione molto scura».
«Sì, scurissima. È perfetta per me».
«E con la signorina Kaneda, cos’hai intenzione di fare?»
«Niente, cosa dovrei fare?»
«Be’, non mi sembra molto corretto. Vero, Meitei?»
«No, perché? La daranno in sposa a qualcun altro, tanto non cambia nulla. Marito e
moglie sono come due persone che si incontrano per caso nelle tenebre. Potrebbero fare a
meno di quest’incontro, eppure lo cercano, compiono un atto inutile. E dal momento che è
inutile, chi incontra chi è del tutto indifferente. Da compiangere è solo il povero Tofu, con
la sua poesia sulle anatre mandarine».
«Perché? Posso dedicarla comunque al matrimonio di Kangetsu. Per le nozze della
signorina Kaneda ne comporrò un’altra».
«È proprio vero che i poeti sono liberi di fare quello che vogliono…»
«Hai informato i Kaneda?» domanda a Kangetsu il mio padrone, preoccupato per loro.
«No, non c’è ragione di informarli. Non ho mai chiesto loro di darmi la figlia in moglie,
né lasciato intendere di volerla sposare. Non ho dichiarazioni da fare. E poi, figuriamoci, ho
sempre dieci o venti spioni alle calcagna, ormai tutta la città sa del mio matrimonio!»
Alla parola «spioni», il padrone fa una faccia corrucciata.
«In tal caso fai bene a non dir loro nulla», risponde.
Ma non sembra ancora soddisfatto, perché si lancia in una filippica:
«Uno scippatore ruba la borsa a una persona distratta, ma una spia ruba un segreto dal
cuore a chi non sta attento. Un ladro apre di soppiatto le imposte e si introduce in casa
d’altri per rubare, invece un detective carpisce il pensiero di una persona che si è lasciata
scappare una parola di troppo. Chi pianta una spada nei tatami e si appropria con la forza
del denaro altrui è un brigante, mentre un investigatore fa violenza alla volontà delle
persone minacciandole con le parole. Quindi spie e investigatori appartengono alla stessa
categoria di scippatori, ladri e briganti, tutti individui di natura abietta. Ascoltandoli si
finisce per lasciarsi influenzare. Inutile sperare di resistere».
«Stia tranquillo, venissi anche attaccato da mille o duemila spioni in ranghi serrati, non
li temo. Sono Mizushima Kangetsu, laureato in scienze e famoso limatore di biglie».
«Magnifico, complimenti! Non solo laureato e novello sposo, anche in gran forma.
Tuttavia, Kushami, se un investigatore è della stessa razza di scippatori, ladri e briganti,
allora Kaneda, che di tali individui si serve, a che razza appartiene?»
«Alla razza dei furfanti come Kumasaka Chohan, direi».
«Kumasaka sì che era in gamba. In un dramma no si dice che sembrava uno, ma si è
diviso in due e le due parti sono scomparse. Ma il Kumasaka che abita dall’altra parte della
strada ha fatto fortuna prestando denaro a usura, ed è un testardo disgustosamente tirchio,
lo puoi tagliare in mille pezzi, stai tranquillo che tornerà sempre intero. Se ti lasci
turlupinare da un tipo del genere, Kangetsu, sei finito. La tua vita è rovinata. Stai attento».
«Oh, non si preoccupi! "Presuntuoso d’un ladro… Pur conoscendo la mia bravura, osa
attaccarmi, avrà quel che merita"15», declama serafico Kangetsu, nello stile pomposo della
scuola no Hosho.
«Pare che gli uomini del ventesimo secolo abbiano una forte tendenza a diventare spie,
chissà perché…» chiede a sproposito Dokusen, che ha il talento di fare sempre domande
senza rapporto con l’argomento.
«Forse perché il costo della vita è salito», risponde Kangetsu.
«O perché la gente ha perso il senso artistico», aggiunge Tofu.
«Alla gente è venuta la mania della civilizzazione occidentale, che prude come coriandoli
sotto i vestiti», fa Meitei.
Ora tocca al mio padrone. Ecco cosa risponde in tono pomposo:
«È un problema sul quale ho riflettuto molto. A mio avviso, se la società attuale ha una
tendenza allo spionaggio, la ragione è da cercarsi nell’eccessiva coscienza individualista.
Con quest’espressione intendo qualcosa di molto diverso da ciò di cui parla Dokusen, il
raggiungimento dell’illuminazione tramite la comprensione puramente intuitiva della
propria identità…»
«Oh, oh, il discorso si fa difficile. Kushami, dopo le tue argomentazioni, anche il qui
presente Meitei si permetterà di dire la sua sulla civiltà moderna».
«Di’ quello che vuoi, anche se non hai argomenti».
«Invece ne ho, eccome se ne ho. Solo l’altro giorno tu ti inchinavi davanti a un ispettore
di polizia, e oggi paragoni un investigatore a un ladro o a un brigante… è una
contraddizione lampante, mentre io, da quando non ero ancora nato fino a oggi, non ho
mai cambiato opinione».
«Un ispettore è un ispettore, uno spione è uno spione. L’altro giorno era l’altro giorno,
oggi è oggi. Il fatto di non cambiare opinione è la prova che non c’è evoluzione. Il detto «gli
sciocchi non evolvono» sembra fatto apposta per te…»
«Sei severo. Gli investigatori quando dicono la verità sanno farlo con più tatto».
«E io sarei un investigatore?»
«Ti sto dicendo che se dici la verità, è proprio perché non lo sei. Comunque non
litighiamo. Vorrei sentire il seguito della tua teoria».
«La coscienza individualista moderna consiste nell’essere troppo consapevoli della
differenza esistente tra i nostri interessi e quelli altrui. E con il progredire della
civilizzazione questa coscienza diventa più acuta ogni giorno che passa, al punto che non
siamo più capaci di fare spontaneamente i gesti più semplici. Un certo Henley ha criticato
Stevenson perché quando entrava in una stanza dove c’era uno specchio, ogni volta che ci
15
Passaggio del dramma no Eboshiori (Il fabbricante di eboshi). Allo stesso dramma si era riferito Meitei poche righe
prima.
passava davanti si sentiva obbligato a guardarsi, non era capace di dimenticarsi di sé
nemmeno per un istante. Questa storia illustra benissimo la situazione attuale. «Io», «io»,
sempre «io», che siamo svegli o che dormiamo, ci scontriamo in ogni momento e luogo con
quest’io, di conseguenza le nostre parole e le nostre azioni sono diventate artificiali,
meschine, limitate. La società è molto più dura di un tempo, passiamo tutte le nostre
giornate nello stato d’animo ansioso di due giovani che stiano per fare un o-miai 16. Ormai
tranquillità e pace sono parole prive di significato. Perché gli uomini della nostra epoca
hanno tutti lo spirito di un investigatore. Di un ladro. Scrutare lo sguardo di un uomo
credendosi più furbo di lui fa parte del mestiere di un investigatore, ma senza una forte
coscienza di sé non ci si riesce. Coscienza di sé che è rafforzata dalla preoccupazione
assillante di scoprire chi è il ladro, di catturarlo. Oggigiorno, poiché la gente passa il suo
tempo a cercare di ottenere vantaggi ed evitare perdite, diventa necessariamente conscia di
sé al pari di un investigatore o di un ladro. Siamo oppressi da quest’ansia incessante,
ventiquattr’ore su ventiquattro, senza conoscere un solo istante di serenità fino al
momento di andare nella tomba, questo è lo spirito del nostro tempo. Questa è la
maledizione della civiltà moderna. Siamo degli stupidi…»
«Capisco. Molto interessante», interviene Dokusen. Quando si parla di filosofia,
Dokusen non è uomo da tirarsi indietro. «La tua teoria, Kushami, mi trova d’accordo. Una
volta si insegnava agli uomini a dimenticare se stessi. Adesso è il contrario, si insegna loro
a non farlo. A essere consapevoli giorno e notte. Con il risultato che non hanno un solo
momento di pace. È un inferno costante. Non c’è medicina migliore al mondo che l’oblio di
sé. I versi cinesi Entrare nella negazione di sé in una notte di luna 17 esprimono il
raggiungimento di questo stato. Oggi la gente ha perso la spontaneità, anche quando è
gentile. Gli anglosassoni, quando si vantano di aver fatto qualcosa di nice, sono
estremamente consci di sé. Il principe ereditario inglese una volta, durante un viaggio in
India, stava mangiando con la famiglia reale indiana. I membri della famiglia reale,
dimenticandosi di essere davanti a un principe inglese, seguendo l’usanza del loro paese
hanno preso le patate con le mani per mettersele nel piatto. Poi sono diventati rossi per la
vergogna, ma il principe ha fatto finta di niente, ha preso una patata con due dita e se l’è
messa anche lui nel piatto…»
«Gli inglesi di solito fanno così?» chiede Kangetsu.
«Mi viene in mente un’altra storia», interviene il mio padrone. «In Inghilterra una volta
gli ufficiali di una caserma avevano invitato a cena alcuni sottufficiali. Finito di mangiare è
stata portata a ciascuno una coppetta di vetro piena d’acqua per lavarsi le mani, ma i
sottufficiali, che evidentemente non erano abituati ai banchetti, hanno portato le coppette
alla bocca e hanno bevuto l’acqua. Allora il comandante del reggimento, dicendo che
beveva alla salute dei sottufficiali, ha vuotato la sua coppetta in un sorso solo. Così tutti gli
ufficiali presenti, per non essere da meno, hanno fatto altrettanto».
«Ora sentite questa», dice Meitei, che non ama stare zitto. «Carlyle, la prima volta che
incontrò la regina, non conoscendo l’etichetta di corte ed essendo un po’ svitato, tutt’a un
tratto si sedette su una sedia dicendo alla regina: «Prego, si accomodi». A quel punto tutti i
dignitari e le dame di corte che stavano in piedi alle spalle della sovrana cominciarono a
ridacchiare… anzi no, stavano per mettersi a ridacchiare, ma la regina si voltò e fece loro un
segno, e dignitari e dame di corte, tutti quanti, si sedettero perché Carlyle non perdesse la
faccia, un atto di gentilezza molto sottile».
16
17
Incontro organizzato fra due giovani ai fini di un eventuale matrimonio.
Passaggio tratto dal Kokofogetsusho (raccolta di poesie di monaci zen).
«Trattandosi di Carlyle, probabilmente non gli sarebbe importato che tutti restassero in
piedi», commenta brevemente Kangetsu.
«La coscienza di sé non è una cattiva cosa, se porta a essere gentili», prosegue Dokusen,
«ma quando si è troppo consci di sé, essere gentili non è facile. È un fatto costernante.
Spesso si dice che più la civiltà progredisce, più diminuisce la bellicosità, più le relazioni fra
le persone diventano cortesi, ma non è vero. Come si fa a essere cortesi quando si è
talmente pieni di sé? Certo, all’esterno tutto appare calmo, tutto sembra filare, ma spesso
le tensioni reciproche sono terribili. Come fra due lottatori di sumo che stanno fermi al
centro dell’arena, aggrappati uno all’altro nello sforzo di sopraffarsi a vicenda. A chi li
guarda sembrano calmi, ma ognuno dei due dentro di sé sente la furia di una tempesta».
È il turno di Meitei:
«Un tempo le liti venivano risolte con la violenza, che era considerata normale, mentre
adesso si fa ricorso all’astuzia, e questo fa crescere la coscienza di sé. Francis Bacon diceva
che per vincere la natura è necessario obbedire alle sue stesse leggi, e le liti attuali provano
che aveva perfettamente ragione. Come nel jujutsu. Si manda al tappeto l’avversario
sfruttandone la forza…»
«O come nell’energia elettrica prodotta dall’acqua. Invece di andare contro la forza
dell’acqua la si converte in energia utile a tutti». A queste parole di Kangetsu, Dokusen
coglie la palla al balzo.
«Ne risulta che quando si è poveri si è oppressi dalla povertà, quando si è ricchi si è
vincolati dalla ricchezza, quando si è addolorati si è sopraffatti dal dolore, e quando si è
felici, dalla felicità. Un uomo di talento è battuto dal talento, un saggio è schiacciato dalla
saggezza, e un uomo irascibile come Kushami cade subito nella trappola di un avversario
che abbia l’astuzia di sfruttare i suoi accessi di rabbia…»
«Ecco, ecco», fa Meitei battendo le mani.
«Non crediate che sia poi tanto facile», risponde il padrone sorridendo, al che tutti
scoppiano a ridere.
«E la gente come i Kaneda, da chi viene sopraffatta?»
«La moglie dal suo naso, il marito dalle conseguenze della sua malvagità. I suoi tirapiedi
saranno sbaragliati dagli investigatori».
«E la figlia?»
«La figlia… non avendola mai vista, non saprei dire, ma probabilmente è il tipo che non
resiste ai vestiti, al cibo, forse anche all’alcol. All’amore sì, all’amore resiste. Può anche
darsi che finisca come Ono-no-Komachi, a mendicare per la strada18».
«Questo mi sembra un po’ troppo», protesta Tofu, che ha scritto per la giovane una
poesia in stile moderno.
«Ecco perché è importante liberarsi dalle passioni, entrare nel mondo del nulla e avere il
cuore puro. Gli esseri umani soffriranno sempre, se non raggiungono questa condizione»,
declama Dokusen, convinto di essere l’unico a possedere la verità.
«Non darti tante arie. Anche tu, non è detto che non venga steso dalla folgore che taglia
la brezza…»
«Comunque sia», interviene il padrone, «se la civilizzazione continua ad avanzare a
questo ritmo, io non sono affatto contento di vivere».
«Non fare complimenti, muori quando vuoi», ribatte all’istante Meitei.
«Non sarei contento nemmeno di morire», è la risposta senza senso del padrone.
18
Nel dramma no Sotoba no Komachi, la poetessa Ono-no-Komachi da vecchia diventa una mendicante pazza che alla fine
ottiene l’illuminazione.
«Nessuno si preoccupa di quando è nato, ma tutti soffrono al pensiero della morte»,
pontifica in tono distaccato Kangetsu.
«La stessa cosa succede quando si chiedono dei soldi in prestito. Al momento di
prenderli non ci si pensa troppo, ma quando bisogna restituirli ci si angoscia». Meitei ha
sempre la risposta pronta. Ma Dokusen è al di là delle preoccupazioni di questo basso
mondo.
«Come l’uomo che non si preoccupa di restituire il denaro preso in prestito è felice, così
lo è l’uomo che non soffre al pensiero della morte».
«A sentire te, gli sfrontati sono i più illuminati».
«Proprio così. Una massima zen, per indicare il distacco totale dello spirito forte dai
fenomeni esterni, dice: «Un cuore di ferro in un toro di ferro»».
«E tu saresti la personificazione di questa massima?»
«No, non lo sono. Ma la gente ha iniziato a temere la morte dopo che è stata scoperta
quella malattia chiamata depressione nervosa».
«Capito. E tu appartieni a una razza preesistente, s’intende?»
Mentre Meitei e Dokusen vanno avanti nella loro assurda conversazione, il mio padrone
continua a criticare la civiltà moderna rivolto ai due giovani.
«Il problema è: come evitare di rendere il denaro preso in prestito?»
«Un tale problema non esiste. Quando si domanda del denaro in prestito, bisogna
restituirlo».
«Lo so, ma stiamo solo facendo una discussione teorica, quindi limitati ad ascoltare.
Come esiste il problema di non restituire i soldi presi in prestito, così esiste quello di non
morire. Anzi, esisteva. Proprio di questo si occupava l’alchimia. Ma l’alchimia ha fatto
fiasco su tutta la linea. È ormai chiaro che l’essere umano deve necessariamente morire».
«Era già chiaro prima che inventassero l’alchimia».
«Va bene, ma stiamo solo discutendo, quindi taci e ascolta, d’accordo? Quando si è
capito che l’essere umano non poteva evitare la morte, è sorto un secondo problema».
«Ah sì?»
«Visto che bisogna morire, in che modo conviene farlo? Questo è il problema numero
due. Problema che portò inevitabilmente alla creazione del Club dei Suicidi19…»
«In effetti».
«Morire è terribile, ma anche l’impossibilità di morire lo è. Per i depressi vivere è molto
più angosciante che morire. Eppure anche loro temono la morte. Non la morte in sé, ciò
che li angoscia è sapere quale sia il modo migliore di morire. La maggior parte delle
persone ha scarsa saggezza, si lascia andare al corso naturale delle cose, finché la società le
uccide. Però ci sono degli originali che non sopportano di venir uccisi lentamente dalla
malvagità del mondo. Si spremono le meningi sul modo in cui desiderano porre fine ai loro
giorni, finché non hanno un’idea brillante, del tutto nuova. Quindi in avvenire il tasso di
suicidi tenderà ad aumentare, e coloro che si suicidano lasceranno questo mondo in
maniera assolutamente originale».
«Una tendenza pericolosa».
«Infatti. Molto pericolosa. Arthur Jones in un dramma mette in scena un filosofo che
preconizza il suicidio…»
«E poi si suicida?»
«Purtroppo no. Ma fra un migliaio d’anni non v’è dubbio che tutti si suicideranno. Fra
alcune migliaia d’anni togliersi spontaneamente la vita verrà considerato l’unico modo di
morire, non se ne conosceranno altri».
19
Riferimento a un racconto di Robert Stevenson.
«Ma è spaventoso!»
«Sì, spaventoso. In tali circostanze il suicidio sarà oggetto di studio e diventerà
un’edificante materia d’insegnamento, nelle scuole come Le Nuvole Calanti invece
dell’etica si insegnerà la suicidologia».
«Però, è strano, mi è venuta voglia di ascoltare una lezione di questo tipo. Ha sentito,
professor Meitei, la teoria del professor Kushami?»
«Sì, l’ho sentita. Quando venisse quel giorno, l’insegnante di etica delle Nuvole Calanti
direbbe così: «Ragazzi, non dovete ostinarvi a seguire usanze barbare come la morale e
tutta quella roba lì. Il vostro primo dovere, in quanto giovani di questo mondo, è il suicidio.
Considerato però che è nobile cosa fare agli altri ciò che auspicate per voi stessi, dovreste
fare un passo oltre il suicidio e arrivare all’omicidio. In particolare, poiché qui di fronte
vive uno studioso povero in canna, il professor Kushami, che conduce un’esistenza
miserabile, è vostro preciso dovere ammazzarlo al più presto. E visto che viviamo in
un’epoca illuminata molto diversa da quelle passate, non dovete usare metodi vili quali
potrebbero essere la lancia, l’alabarda o l’archibugio. Uccidetelo con lo scherno e la
derisione, servendovi della nobile arte della calunnia, sarà un atto di carità nei suoi
confronti, e un motivo d’onore per voi…»»
«Sarebbe davvero una lezione interessante».
«C’è qualcosa di più interessante ancora. Attualmente il compito della polizia è di
proteggere la vita e la proprietà dei cittadini. Ma si arriverà a una situazione in cui i
poliziotti andranno in giro armati di bastoni come gli accalappiacani e ammazzeranno a
bastonate ogni singola persona…»
«Perché?»
«Come, perché? Adesso la gente tiene moltissimo alla vita e per questo alla polizia
chiede protezione, ma quando la vita per i cittadini diventerà una sofferenza, i pusillanimi,
gli idioti incapaci di suicidarsi o gli invalidi avranno bisogno di venire uccisi a bastonate dai
poliziotti. Tutti quelli che lo vorranno potranno mettere un cartello sulla porta di casa:
«Uomo da uccidere», oppure: «Donna da uccidere». Sarà sufficiente, i poliziotti verranno
appena ne avranno il tempo e faranno quanto richiesto in quattro e quattr’otto. Quanto ai
cadaveri… se ne incaricherà sempre la polizia, degli agenti andranno in giro a raccoglierli e
caricarli su una vettura…»
«I suoi scherzi non conoscono limiti, professore», osserva Tofu molto impressionato.
Allora Dokusen, tirandosi la barbetta com’è sua abitudine, si mette lentamente a
parlare:
«Per essere uno scherzo lo è, ma può anche darsi che sia una profezia. Chi non ha
raggiunto una profonda comprensione della verità ha una visione del mondo limitata ai
fenomeni che può osservare con i propri occhi e prende per verità eterna illusioni e sogni
effimeri come schiuma. Appena qualcuno dice qualcosa di leggermente originale, subito lo
considera uno scherzo».
«Il passero e la rondine, piccoli come sono, non possono capire lo spirito della grande
fenice», commenta Kangetsu con rispetto. Dokusen approva e continua:
«Un tempo in Spagna c’era un posto chiamato Cordova…»
«C’è ancora, mi pare».
«Sì, forse. Ma il problema non è questo. In quella città l’usanza voleva che quando le
campane della chiesa suonavano i vespri, le donne uscissero dalle case e andassero a fare il
bagno nel fiume…20»
«Anche d’inverno?»
20
Tutto il passo seguente è tratto da una scena della Carmen di Mérimée.
«I dettagli non li conosco, fatto sta che si buttavano tutte nel fiume, nobili e popolane,
vecchie e giovani. Di uomini non ce n’era nemmeno uno, restavano a guardare da lontano.
Vedevano vagamente la pelle bianca delle donne muoversi fra le onde nella semioscurità
della sera…»
«È molto poetico. Se ne potrebbe fare una poesia in stile moderno. Come si chiamava
questo posto?» chiede Tofu, sempre pronto a farsi avanti appena si parla di donne nude.
«Cordova. Un giorno i giovani della città, frustrati di non poter fare il bagno con le
donne ed essere autorizzati solo a vederle confusamente da lontano, pensarono di far loro
uno scherzo…»
«Uno scherzo? Quale?» Sentendo parlare di scherzi, Meitei drizza le orecchie contento.
«Corruppero il campanaro, gli diedero una mancia perché suonasse i vespri con un’ora
d’anticipo sul calar della sera. Le donne, sventate come sono, quando sentirono il suono
della campana si accalcarono tutte sulla riva del fiume in mutandoni e camiciola e si
buttarono in acqua. Peccato che non facesse ancora buio».
«Erano forse illuminate dai raggi accecanti del sole autunnale?»
«E chi c’era sul ponte? Una gran folla di uomini che le guardava. Le donne provarono
vergogna, ma ormai tutto quello che potevano fare era arrossire».
«E quindi?»
«E quindi questa storia mostra come la gente sia obnubilata dalle abitudini quotidiane
al punto da dimenticare le verità fondamentali, bisogna stare molto attenti».
«Grazie del sermone. Anch’io ho da raccontare qualcosa a proposito delle abitudini
quotidiane che obnubilano. L’altro giorno, su una rivista, ho letto un racconto che parlava
di una truffa. Supponiamo che io abbia un negozio di antiquariato specializzato in quadri e
dipinti su rotolo. E che in vetrina tenga rotoli di qualche maestro famoso o gli attrezzi
utilizzati da qualche pittore illustre. Ovviamente falsi non ce ne sono, sono tutti pezzi
autentici. Di conseguenza molto cari. Un giorno si presenta un cliente eccentrico che chiede
quanto costa un rotolo dipinto da Motonobu 21. «Seicento yen», rispondo, visto che quello è
il prezzo. Il cliente è interessato, ma purtroppo al momento non possiede tutto questo
denaro. «Sarà per un’altra volta», dice».
«Dice proprio queste parole?» chiede il padrone che non capisce niente di recitazione.
«Be’, è un racconto», risponde Meitei con aria di sufficienza. «Mettiamo che abbia
risposto così. A quel punto gli dico che non si deve preoccupare per il pagamento, se il
dipinto gli piace, può portarlo via. Il cliente esita, protesta che non può accettare. Allora,
insisto, può pagare poco per volta ogni mese. Piccole rate su un lungo periodo, tanto ormai
diventerà un cliente… No, non deve assolutamente fare complimenti… Cosa ne pensa di
dieci yen al mese? Allora cinque? gli propongo con l’aria più ingenua del mondo. Segue uno
scambio di domande e risposte, in seguito al quale vendo al cliente un dipinto di Kano
Motonobu che vale seicento yen, e che lui pagherà in rate mensili di dieci yen».
«Come per l’Enciclopedia Britannica che si può acquistare tramite il Times».
«Sì, ma il Times è affidabile, mentre io non lo sono affatto. Qui si mette in moto la mia
abile truffa. Kangetsu, quanto tempo ci vuole per pagare seicento yen al ritmo di dieci al
mese?»
«Cinque anni».
«Esatto, cinque anni. E cinque anni ti paiono un periodo di tempo lungo o corto,
Dokusen?»
«Può essere sia lungo che corto. «Un pensiero può durare migliaia di anni, migliaia di
anni possono durare il tempo di un pensiero»».
21
Kano Motonobu (1476-1559), pittore del periodo Muromachi.
«Che cos’è, una massima zen? Mica tanto sensata. In questo caso si tratta di pagare per
cinque anni dieci yen ogni mese, quindi sessanta pagamenti basteranno. Il pericolo
dell’abitudine però è che se uno paga per sessanta volte dieci yen al mese, la
sessantunesima non si sentirà tranquillo finché non avrà pagato. La sessantaduesima pure,
la sessantatreesima anche… e via di seguito, ogni mese, il giorno stabilito, non si sentirà a
posto se non avrà pagato i suoi dieci yen. Gli uomini sembrano intelligenti, ma si lasciano
sviare dall’abitudine e dimenticano le cose fondamentali, è questo il loro punto debole.
Sfruttando il quale io farò un profitto mensile di dieci yen ancora per anni».
«Ha, ha, ha, non credo che la gente sia tanto smemorata», ride Kangetsu, ma il mio
padrone non condivide la sua ilarità.
«Invece sono cose che succedono», dice, generalizzando la propria sbadataggine. «Io ho
continuato a restituire ogni mese alla mia università l’ammontare della borsa di studio,
senza fare i conti, finché sono stati loro a dirmi che non era più necessario».
«Cosa vi dicevo? Abbiamo qui presente qualcuno che ha fatto esattamente quello che
sostengo. Coloro che hanno riso delle mie previsioni riguardo allo sviluppo della civiltà, che
le considerano uno scherzo, sono gli stessi che continueranno a pagare tutta la vita, quando
sessanta volte sono sufficienti. Soprattutto voi due, Kangetsu e Tofu, che siete giovani e
inesperti, fate tesoro di quello che vi ho detto e state ben attenti a non farvi truffare».
«Stia tranquillo. Avremo cura di pagare soltanto sessanta rate».
«No, no, questa storia vi parrà comica, ma è molto educativa, Kangetsu», dice Dokusen
rivolto al giovane. «Facciamo quest’esempio. Se adesso il professor Kushami o il professor
Meitei ti dicessero che non è stato corretto sposarti senza avvisare e ti consigliassero di
scusarti con il signor Kaneda, tu cosa faresti? Ti scuseresti?»
«Vorrei essere esonerato dalle scuse a Kaneda. Potrei accettare delle scuse da parte sua,
ma non ho intenzione di farne».
«E se te l’ordinasse la polizia?»
«Tanto meno».
«Se te l’ordinasse un ministro o un membro della nobiltà?»
«Rifiuterei ancora più fermamente».
«Lo vedi? Quanto è diversa la gente d’oggi da quella di un tempo! Una volta si obbediva
ciecamente a qualsiasi ordine venuto dall’alto. Poi si è arrivati a un’epoca in cui neanche le
massime autorità hanno più potuto imporre la propria volontà. Nella società attuale, oltre
un certo limite non è permesso farlo nemmeno a un ministro, nemmeno all’imperatore.
Potremmo spingerci fino a dire che più alta è l’autorità, peggio reagiscono coloro ai quali si
vuol far subire l’imposizione. Si verifica cioè un fenomeno contrario a quel che succedeva
in altri tempi: qualcuno non può permettersi di fare qualcosa proprio perché è un’autorità.
Per la mentalità dei nostri antenati questo era del tutto impensabile, ma oggi viene
considerato giusto, questa è la nostra società. Il modo in cui l’ordine del mondo può essere
sovvertito è davvero straordinario. La profezia di Meitei, se vogliamo, è solo uno scherzo,
ma per la lucidità con cui illustra la situazione non manca di sale».
«Con il sostegno di un tale amico, mi viene voglia di raccontarvi il seguito della mia
previsione. Come ha spiegato Dokusen, nella società attuale chi si mette sotto la protezione
di un’alta autorità, chi si arma di due o trecento lance di bambù per fare a tutti i costi
quello che vuole, è un testone in ritardo sul suo tempo, uno che cerca di gareggiare con un
treno prendendo una portantina… Ma si tratta soltanto di qualche incorreggibile
prepotente, di qualche piccolo Chohan che presta soldi a usura, non vale nemmeno la pena
di parlarne… La mia previsione non riguarda un manipolo di furfanti, va ben oltre. Io mi
riferisco a un fenomeno sociale che influenzerà il futuro dell’umanità. Valutando la
tendenza della società attuale in una prospettiva a lungo termine, si intuisce che in un
futuro lontano il matrimonio non sarà più possibile. La cosa vi sorprende? Ve ne spiego
subito la ragione. Come vi ho detto prima, viviamo in una società basata sulla personalità
individuale. Quando un clan familiare era rappresentato dal capofamiglia, un distretto dal
suo delegato, un paese dai governanti, solo questi rappresentanti avevano una personalità,
gli altri individui no. E se l’avevano non veniva riconosciuta. Ora che la situazione è
drasticamente mutata, ognuno vuole esternare a tutti i costi il proprio carattere ed
evidenziare la differenza tra se stesso e gli altri, io sono io, tu sei tu. Se due persone si
incontrano, proseguono ognuna per la propria strada, sfidandosi in cuor loro: se tu sei una
persona, lo sono anch’io. Tale è la forza che ha acquisito l’individuo. Ma se gli individui
sono diventati equamente forti, sono anche diventati equamente deboli. Forti, perché
ormai nessuno può ledere i loro diritti a proprio arbitrio e capriccio, ma palesemente più
deboli di un tempo non potendo più imporre la propria volontà agli altri. Ora se tutti sono
contenti di acquisire forza, nessuno è felice di essersi indebolito; il risultato è che ognuno,
per non venire sopraffatto neppure in minima misura e prevaricare almeno un poco sui
suoi simili, difende con le unghie e con i denti i suoi lati forti mentre cerca di sbarazzarsi di
quelli vulnerabili. Arrivati a questo punto lo spazio tra una persona e l’altra viene a
mancare e la vita diventa difficile. Diventa sofferenza, una condizione di tensione estrema
al limite delle possibilità umane. E poiché si soffre, si cerca con ogni mezzo di creare tra un
individuo e l’altro uno spazio dove muoversi più liberamente. L’uomo è causa del proprio
male, e la fonte prima del suo dolore è il distacco della generazione dei genitori da quella
dei figli. Provate ad andare nei villaggi di montagna, vedrete che tutti i membri di una
stessa famiglia vivono sotto lo stesso tetto. Non ci sono personalità da affermare, e anche se
ci fossero, nessuno ci bada e la cosa finisce lì; invece fra le persone civilizzate, se non si fa
valere la propria volontà su quella altrui, si viene sopraffatti, anche fra genitori e figli,
quindi per proteggere entrambe le parti è necessario vivere separati. In Europa, dove la
civiltà è più avanzata, questo sistema si è diffuso più in fretta. E se a volte generazioni
diverse vivono nella stessa casa, succede che il figlio chieda in prestito al padre del denaro
che restituirà con gli interessi, o che gli paghi un affitto al pari di un estraneo. Queste
usanze edificanti sono possibili perché il padre riconosce la personalità del figlio e la
rispetta. Dobbiamo a tutti i costi importarle anche in Giappone. I parenti - zii, nipoti,
cugini - ormai anche da noi vivono lontani gli uni dagli altri, fra poco genitori e figli
faranno la stessa cosa e tutti coloro che finora hanno tenuto a freno la propria personalità
potranno lasciare che si sviluppi liberamente; evoluzione che comporta l’assillo costante di
ricevere il dovuto rispetto, quindi sarà necessaria un’ulteriore separazione per ritenersi
soddisfatti. Il problema è che ormai genitori e figli, fratelli e sorelle vivono già lontani gli
uni dagli altri, non c’è più nessuno da separare se non, in ultima ratio, marito e moglie. La
gente pensa che basti vivere insieme per essere una coppia. Errore grossolano. La
convivenza richiede che due personalità distinte si accordino in misura sufficiente. Un
tempo non c’erano problemi, il detto «due corpi e un’anima sola» significava che marito e
moglie apparivano come due persone a occhi estranei, ma formavano un essere solo. Infatti
venivano considerati uniti per la vita nel bene e nel male e quando morivano le loro ceneri
andavano nella stessa tomba. Che barbarie! Adesso le cose sono molto cambiate. Il marito
è il marito e la moglie, qualunque cosa accada, resta la moglie. Una donna che si è formata
una personalità di ferro frequentando il liceo in hakama, che si acconcia i capelli alla moda
occidentale, non può più conformarsi ai desideri del suo sposo. E d’altronde una moglie
che obbedisse in tutto e per tutto al marito non sarebbe più una moglie ma una bambola.
Più una donna diventa sapiente più la sua personalità si sviluppa. Più la sua personalità si
sviluppa, meno riuscirà ad andare d’accordo con il marito. E il disaccordo porterà
naturalmente allo scontro. Affermare che una signora è colta, in pratica significa dire che
litiga con il marito dal mattino alla sera. In sé la cultura è un’ottima cosa, ma prendere in
moglie una donna colta farà salire il livello di sofferenza di entrambi i coniugi. I danni sono
limitati se tra i due c’è una linea di demarcazione netta come tra l’olio e l’acqua e la
superficie si mantiene calma, ma se l’olio e l’acqua cominciano ad agitarsi, in casa si
scateneranno terremoti continui. La gente a poco a poco capirà che la convivenza è
svantaggiosa sia per il marito che per la moglie…»
«Allora due sposi devono vivere separati? Questo mi preoccupa», commenta Kangetsu.
«Sì, devono vivere separati. Assolutamente. Tutti i coniugi che esistono al mondo.
Finora erano considerati marito e moglie perché vivevano sotto lo stesso tetto, ma d’ora in
poi la convivenza non qualificherà più una coppia agli occhi della società».
«Allora nemmeno io e mia moglie potremo essere considerati una coppia», fa Kangetsu,
spinto dall’inquietante prospettiva a rivelare i propri sentimenti.
«Tu sei fortunato perché sei nato nell’era Meiji. Io, che quando si tratta di prevedere il
futuro sono sempre un passo o due in anticipo sul mio tempo, continuerò a restare scapolo.
Tanti vanno dicendo che non mi sposo a causa di una delusione d’amore e roba del genere,
ma sono dei poveretti che nella loro miopia non vedono più in là del loro naso. Ma non
occupiamoci di loro, continuiamo piuttosto a parlare del futuro. Un bel giorno un filosofo
discenderà dal cielo per predicare una nuova verità. Ecco quello che dirà: l’uomo è un
animale dotato di personalità. Annullare questa personalità equivale ad annullare l’uomo.
Per dare un senso, anche minimo, alla sua esistenza, è necessario preservare e sviluppare la
sua personalità, qualunque sia il prezzo da pagare. Continuare a sposarsi, costretti da
un’abitudine perversa, è una barbarie contraria alla natura umana, una barbarie
perdonabile in un’epoca ignorante in cui la personalità non si era ancora sviluppata, ma
nella nostra epoca civilizzata non fermarsi a considerare la scelleratezza di quest’usanza
perniciosa sarebbe un grave errore. Oggi che siamo arrivati a un alto livello di civiltà, non
c’è motivo che due personalità distinte si associno con un grado di intimità superiore al
normale. Il fatto che dei giovani senza educazione, malgrado queste ovvie ragioni, in preda
alla passione di un momento tengano inutili cerimonie nuziali, è qualcosa che va contro
ogni criterio morale. Dobbiamo opporci con tutte le nostre forze a quest’usanza perversa,
per il bene del genere umano, per il bene della civiltà, per preservare la personalità dei
giovani stessi…»
«Professore, contesto in tutto e per tutto questa sua teoria», obietta decisamente Tofu,
battendosi una mano sul ginocchio. «A mio avviso, non c’è nulla al mondo che meriti più
rispetto dell’amore e della bellezza. Sono loro che ci consolano, ci completano, ci danno la
felicità. Sono sempre loro che elevano i nostri sentimenti, migliorano il nostro carattere,
acuiscono la nostra sensibilità, la capacità di partecipare alla sofferenza altrui. Ragion per
cui non dobbiamo mai dimenticare amore e bellezza, in qualsiasi epoca ci capiti di nascere.
Nel mondo reale l’amore si manifesta nella relazione tra sposi, mentre la bellezza prende la
forma della poesia, della musica. Di conseguenza ritengo che finché l’essere umano, volente
o nolente, esisterà sulla faccia della Terra, non deve assolutamente rinunciare né al
matrimonio né all’arte».
«Se si potesse, sarebbe magnifico, ma come ha appena detto il nostro filosofo, queste
cose verranno annullate, non ci possiamo fare nulla. Che cos’è l’arte? L’arte conoscerà lo
stesso destino della coppia. Sviluppare la personalità significa renderla libera. E avere una
personalità libera, per un individuo, significa essere soltanto se stesso. Come può allora
esistere l’arte? Perché l’arte si realizzi, infatti, è necessario che ci sia accordo fra la
personalità dell’artista e quella di chi l’ammira. Tu potrai sforzarti a comporre poesie in
stile nuovo finché vorrai, non ci sarà più nessuno che leggendole le troverà belle, anzi, mi
dispiace per te, ma non ci sarà nessuno per leggerle. Potrai scrivere un volume intero di
epitalamii, non avrà alcun senso. Per tua fortuna sei nato nell’era Meiji e l’umanità intera ti
legge con passione, ma…»
«No, non sono ancora arrivato a tanto».
«Se oggi non sei ancora arrivato a tanto, in futuro, quando la civiltà umana avrà
raggiunto il pieno sviluppo e il nostro filosofo sarà apparso a sostenere la sua teoria contro
il matrimonio, non avrai più un solo lettore. Non perché sei tu. Perché ogni individuo avrà
una personalità distinta e originale, e dei versi composti da qualcun altro non
presenteranno più alcun interesse. Questa tendenza è già presente in Inghilterra. Prendete
Meredith, prendete James, che fra tutti i romanzieri contemporanei sono quelli che hanno
scritto le opere più notevoli dal punto di vista della personalità. Hanno pochissimi lettori.
Quattro gatti. Perché per trovarle interessanti bisogna avere una personalità della stessa
forza. Questa tendenza andrà accentuandosi sempre più, finché si arriverà a un momento
in cui il matrimonio verrà considerato immorale, e l’arte sarà abolita. Non credi? Il giorno
in cui le parole scritte da te mi saranno incomprensibili, e tu non capirai quelle che scrivo
io, fra me e te non ci sarà più né arte né un accidenti di niente».
«Può darsi, ma l’intuizione mi dice che le cose non andranno così».
«A te l’intuizione dice questo, a me la deduzione dice il contrario».
«Il nostro Tofu ci arriverà anche per deduzione», interviene a questo punto Dokusen.
«In ogni caso più si permette all’essere umano di affermare liberamente la propria
personalità, più si irrigidiscono i rapporti fra le persone. Se Nietzsche ha creato il suo
superuomo, è perché vi è stato costretto da questa rigidità. Il superuomo sembra essere il
suo ideale, ma a guardar bene non lo è, è una protesta. Assillato dal diciannovesimo secolo
con il suo sviluppo della personalità, impossibilitato persino a girarsi nel letto per paura di
disturbare i vicini, Nietzsche ha cominciato a disperare e si è messo a riempire pagine su
pagine di provocazioni. Leggendole, più che impressionati si resta mortificati. La sua non è
la voce del coraggio e della devozione intrepida, ma quella del rancore e dello sdegno. Non
c’è da stupirsi, perché un tempo un uomo di valore aveva la soddisfazione di radunare il
mondo intero sotto la propria bandiera. Una soddisfazione che provava nella realtà, quindi
non aveva bisogno, come Nietzsche, di prendere carta e penna e cercare di ottenerla con la
forza della sua scrittura. Per questo le personalità eroiche che si trovano descritte in Omero
o nell’antica ballata Chevy Chase fanno un’impressione del tutto diversa. Hanno qualcosa
di solare. Trasmettono un senso di gioia. Come potrebbe esserci amarezza in una realtà
radiosa ricreata sulla carta? All’epoca di Nietzsche le cose non vanno allo stesso modo. Di
eroi non ce ne sono più, nemmeno uno. O se ci sono, nessuno li considera tali.
Nell’antichità c’era soltanto un Confucio, e aveva per questo un’immensa influenza, ma
oggi di Confucio se ne trovano a palate. Si potrebbe quasi dire che ogni persona al mondo è
un Confucio. Quindi posso darmi tutte le arie che voglio dichiarandomi un grande filosofo,
non avrò il minimo seguito. Questo genera scontento. E lo scontento mi porta a mettere in
scena superuomini sulla carta. Volevamo la libertà e l’abbiamo avuta. Il risultato è che ci
sentiamo oppressi da un senso di costrizione. E questo prova che la civiltà occidentale
sembra buona ma non funziona. La civiltà orientale invece fin dai tempi antichi dà valore
all’esercizio dello spirito. È più giusta. Lo potete constatare anche voi, lo sviluppo della
personalità ha generato la depressione nervosa, e quando non si trovano soluzioni, per la
prima volta si scopre il valore della massima di Confucio: «I sudditi del re possono vivere
tranquilli». E si comprende che non si può irridere il motto taoista: «Il popolo godrà della
prosperità del saggio senza bisogno di fare nulla». Ma quando lo si capisce, è troppo tardi.
Come è tardi per l’alcolizzato rimpiangere di aver bevuto troppo».
«Voi tenete discorsi molto pessimisti, signori professori. Li ho ascoltati con la massima
attenzione, eppure mi lasciano indifferente. Chissà come mai…» osserva Kangetsu. Meitei
ha subito la spiegazione pronta:
«Perché ti sei appena sposato».
A queste parole, di punto in bianco il mio padrone interviene:
«Ora che hai una moglie, non credere che le donne valgano qualcosa, faresti uno sbaglio.
Voglio leggerti un libro interessante, perché ti serva da guida. Apri bene le orecchie», dice
prendendo il volume sgualcito che poco fa ha portato dallo studio. «Questo libro è molto
vecchio, ma già a quei tempi gli uomini avevano capito la perversità delle donne».
«Ma guarda… E di che epoca è?» chiede Kangetsu.
«L’ha scritto un certo Thomas Nashe nel sedicesimo secolo».
«Sono sempre più sorpreso. A quel tempo esisteva già qualcuno che parlava male di mia
moglie?»
«Le critiche sono un’infinità, ne troverai certamente qualcuna riferibile a tua moglie,
quindi ascolta bene».
«Pendo dalle sue labbra, con immensa gratitudine».
«Prima di tutto presenta l’opinione dei saggi e dei filosofi dell’antichità sulle donne.
Comincio? Mi ascoltate?»
«Ti ascoltiamo tutti, anch’io che sono scapolo».
«Secondo Aristotele, considerato che le donne sono comunque un guaio, meglio
prenderne in moglie una bassa piuttosto che una alta. Un guaio piccolo crea meno
problemi di un guaio grosso…»
«Tua moglie è alta o bassa, Kangetsu?»
«Fa parte della categoria dei guai grossi».
«Ha, ha, ha, divertente questo libro! Forza, continua a leggere».
«Una volta qualcuno chiese a un saggio cosa considerasse un grande miracolo. «Una
donna casta», rispose lui».
«Chi era questo saggio?»
«Il nome non lo dice».
«Di sicuro uno che era stato rifiutato da una donna».
«Poi parla di Diogene. Qualcuno gli chiese a quale età fosse meglio prendere moglie.
«Da giovani è troppo presto, da vecchi è troppo tardi», rispose lui».
«L’avrà pensato nella sua botte».
«Secondo Pitagora tre sono le cose da temere a questo mondo: il fuoco, l’acqua e la
donna».
«Certo che dicono un sacco di stupidaggini, questi filosofi greci. A mio parere al mondo
non c’è da temere proprio nulla. Si può attraversare il fuoco senza bruciarsi, entrare
nell’acqua senza annegare, e…» A questo punto Dokusen non sa come proseguire.
«E incontrare una donna senza esserne stregati», gli viene in aiuto Meitei.
«Per Socrate», continua imperterrito il mio padrone, «la cosa più difficile per un uomo è
controllare una donna, per Demostene, se uno vuole far soffrire il proprio nemico, la cosa
migliore che possa fare è offrirgli la propria moglie: lo sposserà talmente con litigi continui,
giorno e notte, da non lasciargli scampo. Secondo Seneca, le donne e l’ignoranza sono le
due maggiori calamità al mondo, quanto a Marco Aurelio, dice che una donna è difficile da
governare quanto una barca. Per Plauto la tendenza delle donne a indossare belle vesti è un
vile stratagemma per nascondere la propria naturale bruttezza. Valerio Massimo, in una
lettera a un amico, scrive che da una donna ci si può aspettare qualunque oltraggio, e prega
il cielo che il suo amico non cada vittima delle loro arti. Cos’è la donna? scrive ancora. La
nemica dell’amicizia, una sofferenza inevitabile, un male necessario, una tentazione della
natura, un veleno che sembra miele. Se è immorale abbandonare una donna, sopportarla è
una forma di tortura…»
«Basta così, professore, mi arrendo. Ho sentito parlar male a sufficienza di mia moglie».
«Va avanti per altre quattro o cinque pagine, ascolta fino in fondo».
«No, fermati qui, Kushami. La tua può tornare da un momento all’altro», fa Meitei in
tono canzonatorio, quando nel soggiorno si sente la voce della padrona che chiama la
serva.
«Siamo nei guai, tua moglie era già rientrata!»
Il mio padrone sbotta in una risatina.
«Non ha la minima importanza».
«Signora? Signora? È da molto che è tornata?»
Dal soggiorno non arriva alcuna risposta.
«Signora, ha sentito quello che stavamo dicendo adesso?»
Silenzio.
«Non sono mica idee di suo marito, sa? Può stare tranquilla, sono le teorie di un certo
Nashe vissuto nel sedicesimo secolo».
«Non so di cosa stia parlando», è la risposta laconica che arriva da lontano. Kangetsu si
mette a ridacchiare, ma in quel momento la porta d’ingresso scorre rumorosamente sulle
rotaie, si sentono i passi pesanti di qualcuno che entra senza chiedere né permesso né
nulla, gli shoji vengono scostati bruscamente e nell’apertura appare la faccia di Tatara
Sanpei.
Contrariamente al suo solito, Sanpei indossa oggi una camicia bianca immacolata e una
redingote nuova fiammante, e per essere ancora più originale con la mano destra regge
quattro bottiglie di birra legate insieme. Le posa di colpo accanto ai pesci essiccati e al
tempo stesso, senza nemmeno salutare, si siede sbracatamente sui tatami con una
maleducazione notevole.
«Professore, come va il suo stomaco di questi tempi? Il problema è che lei non si muove
mai da casa».
«Non ti ho mica detto che va male».
«Non ha bisogno di dire niente, il suo colorito parla per lei. È giallo, professore.
Dovrebbe andare a pesca, uno di questi giorni. Io ci sono andato domenica scorsa, ho
noleggiato una barca a Shinagawa…»
«E hai pescato qualcosa?»
«No, niente».
«Allora cosa ci trovi di interessante, se non prendi un pesce?»
«Mi rilassa, mi fa sentire bene. E voi, signori? Siete mai andati a pesca? È divertente,
sapete, la pesca? Gironzolare per il grande mare su una piccola barca», blatera Sanpei
senza risparmiare nessuno.
«Preferirei gironzolare per un mare piccolo piccolo su una barca enorme», si degna di
rispondergli Meitei.
«Se proprio bisogna pescare qualcosa, meglio una balena o una sirena», aggiunge
Kangetsu.
«Come se fosse possibile! Certo che voi letterati mancate proprio di buon senso…»
«Non sono un letterato».
«Ah no? Allora che cos’è? Per diventare un uomo d’affari come me, il buon senso è la
cosa principale. Professore, di recente di buon senso ne ho accumulato parecchio. Quando
si frequentano certi ambienti, volenti o nolenti si finisce con il diventare così».
«Così, come?»
«Ogni gesto conta, anche le sigarette che si fumano. Le Asahi o le Shikishima danno
prestigio», fa Sanpei prendendo una sigaretta egiziana dal filtro cerchiato d’oro e
mettendosi a tirare grandi boccate di fumo.
«E i soldi per permetterti certi lussi li hai?»
«Non li ho, ma presto non sarà più un problema. Quando fumo queste sigarette sono
molto più credibile, non c’è confronto».
«Certo che per acquisire credibilità, è un metodo ben più facile che non limare biglie di
vetro come fa il nostro Kangetsu. Una credibilità a basso costo». Prima che Kangetsu abbia
il tempo di dire qualcosa, al suo posto risponde Sanpei:
«Ah, lei è Kangetsu? Così ha rinunciato al dottorato… Visto che lei ha gettato la spugna,
ho deciso che l’avrò io».
«Un dottorato?»
«No, la figlia dei Kaneda in moglie. Sono sinceramente desolato per lei, mi creda. Ma i
genitori hanno tanto insistito che alla fine ho preso la decisione di sposarla. Tuttavia ero
preoccupato, professor Kushami, mi pareva di fare una scorrettezza nei confronti di
Kangetsu».
«Prego, non si faccia di questi scrupoli», lo rassicura quest’ultimo.
«Se ci tieni, sposala pure», è la risposta ambigua del mio padrone.
«Che splendida notizia!» esclama Meitei con il suo solito entusiasmo. «Cosa vi dicevo?
Qualunque ragazza prima o poi trova marito, inutile preoccuparsi per le figlie. La nostra
damigella, come avevo previsto, ha trovato quest’eccellente gentiluomo. Tofu, ecco del
materiale per una poesia in stile moderno. Mettiti subito al lavoro».
«E lei, Tofu?» chiede a questo punto Sanpei. «Non mi comporrebbe qualcosa per il mio
matrimonio? Lo farei subito stampare e distribuire a molte persone. E la rivista Taiyo me
lo pubblicherebbe di sicuro».
«Sì, le compongo volentieri una poesia. Per quando ne ha bisogno?»
«Per quando le fa comodo. Mi va bene anche qualcosa che ha già pronto. In compenso,
la inviterò al banchetto nuziale. Potrà bere champagne. Ha mai bevuto champagne? È
squisito! Professore, al banchetto ho intenzione di far venire un’orchestra, cosa ne pensa se
faccio mettere in musica la poesia composta da Tofu?»
«Fai come ti pare».
«Lei non me la metterebbe in musica?»
«Non dire idiozie!»
«C’è qualcuno fra voi che ha qualche talento musicale?»
«Il pretendente sfortunato, qui, Kangetsu, è un virtuoso del violino. Provi a chiedere a
lui. Però non mi sembra uomo da accettare per una vile coppa di champagne».
«A proposito di champagne, quello a quattro o cinque yen la bottiglia non vale niente. Al
mio matrimonio offrirò roba di buona qualità. Allora, Kangetsu, me la mette in musica
questa poesia?»
«Certo che gliela metto in musica. Anche per dello champagne da venti sen la bottiglia.
Anche gratis».
«No, non potrei accettare. Ci tengo a ricompensarla. Se lo champagne non le piace, ho
qualcos’altro da proporle». Così dicendo Sanpei estrae dalla tasca della giacca sette o otto
fotografie e le posa in ordine sparso sui tatami. A figura intera o a mezzo busto, ritraggono
tutte ragazze in età da marito. Alcune sono in piedi, altre sedute. Alcune indossano un
hakama, altre un kimono da cerimonia, altre ancora sfoggiano una pettinatura alla
Shimada.
«Professore, queste giovani cercano tutte marito. Se Kangetsu o Tofu lo desiderano,
posso presentarne loro una, quella che preferiscono, in cambio della loro gentilezza. Cosa
ne dice di questa, Kangetsu?» chiede Sanpei mettendogli sotto il naso una delle fotografie.
«Molto carina. La prego di farmela conoscere».
«E questa? Le andrebbe bene anche questa?» Sanpei spinge avanti un’altra fotografia.
«Deliziosa. Me la deve assolutamente presentare».
«Quale preferisce?»
«Mi è del tutto indifferente».
«Vedo che è facile a infiammarsi. Professore, questa è la nipote di un cattedratico».
«Ah sì?»
«Quest’altra ha un ottimo carattere. Ed è giovane, ha diciassette anni. In più porta in
dote mille yen… Questa qui invece è la figlia di un governatore». Sanpei procede
imperterrito nell’elogio delle ragazze.
«Non sarebbe possibile sposarle tutte?»
«Tutte insieme? Be’, mi sembra un po’ troppo ingordo, lei. Vorrebbe forse essere
poligamo?»
«Poligamo? No, no, direi piuttosto che sono carnivoro».
«Be’, ora piantatela e mettete via quelle foto», interviene il padrone in tono di
rimprovero.
«Ho capito, non gliene interessa nessuna», esclama Sanpei raccogliendo una a una le
fotografie e rimettendosele in tasca.
«Cosa sono quelle bottiglie di birra?»
«Gliele ho portate in regalo, professore. Le ho comprate al negozio qui all’angolo, per
festeggiare il mio matrimonio. Mi faccia il favore di bere con me».
Il padrone batte le mani perché la serva venga a stappare le bottiglie. Poi insieme a
Meitei, Dokusen, Kangetsu e Tofu alza solennemente il bicchiere e brinda alla felicità
coniugale di Sanpei.
«Invito tutte le persone qui presenti al mio banchetto di nozze», dichiara Sanpei che
sembra al colmo della gioia. «Venite tutti, per favore. Vero che verrete?»
«No, io ne faccio a meno», risponde subito il padrone.
«Perché? È la cerimonia più importante della mia vita. Veramente non vuole
partecipare? Non gliene importa nulla?»
«Non è che non me ne importi nulla, ma non verrò».
«Forse non ha i vestiti adatti? Un haori e un hakama glieli posso procurare. Dovrebbe
uscire di più e incontrare gente, professore. Le presenterò delle persone illustri».
«No, grazie, non ci tengo».
«Farebbe bene anche al suo stomaco».
«Fa lo stesso, non ne ho bisogno».
«Visto che è così ostinato, rinuncio, cos’altro posso fare? E lei, signore? Lei verrà?»
«Conti su di me. Possibilmente vorrei fare da nakodo22. Tre coppe di champagne per tre
volte in una sera d’autunno...23 Cosa? Il nakodo è già Suzuki Tojuro? Lo sapevo, è quello
22
23
Sorta di mediatore. Quando due giovani si uniscono in matrimonio, fra i conoscenti viene scelta una coppia di coniugi
dotata di un certo prestigio che si incarichi di fare da intermediaria tra le famiglie in caso di contrasti e presieda alla cerimonia
nuziale.
Riferimento al rito nuziale shintoista, durante il quale gli sposi bevono a turno tre volte del sake.
che temevo. È un peccato, ma mi devo rassegnare. Due mediatori sarebbero di troppo, vuol
dire che sarò presente in veste di semplice invitato».
«E lei, signore?»
«Io? Io ho una canna da pesca per amico e fuggo la vita mondana. Lascio penzolare il
filo tra i fiori rossi sulla riva e le bianche alghe galleggianti 24».
«Cosa sarebbe? Una poesia da una raccolta di classici cinesi?»
«Non lo so».
«Non lo sa? Siamo messi bene! Lei, Kangetsu, verrà, vero? Visto che finora aveva un
interesse personale…»
«Conti su di me. Un’orchestra suonerà una mia composizione, come potrei perdere
un’occasione del genere?»
«Infatti. E lei, Tofu?»
«Oh, sì… e vorrei recitare una poesia in stile nuovo davanti agli sposi».
«Ne sarei incantato. Professore, non sono mai stato tanto felice in vita mia. Forza,
beviamo ancora!» Sanpei vuota da solo un altro bicchiere della birra che ha portato,
diventando subito paonazzo. La giornata autunnale volge alla sera, nel braciere stracolmo
di mozziconi di sigarette il fuoco è spento da molto tempo. Anche la nostra spensierata
combriccola sembra perdere interesse alla conversazione, e Dokusen per primo si alza
dicendo:
«Si è fatto tardi, io vi saluto».
«Me ne vado anch’io», dicono gli altri a turno raggiungendo l’ingresso. La stanza
abbandonata dagli ospiti di colpo diventa triste e silenziosa.
Il padrone, finita la cena, si ritira nello studio. La moglie, che sente un po’ freddo, si
stringe addosso il colletto mentre rammenda un kimono da tutti i giorni liso dai lavaggi. Le
bambine dormono una accanto all’altra. La serva è andata ai bagni pubblici.
Quando si batte in fondo al cuore delle persone, anche di quelle che appaiono più
spensierate, si sente da qualche parte il suono della sofferenza. Dokusen, che sembra aver
raggiunto l’illuminazione, cammina sulla terra come tutti quanti. Il mondo di Meitei sarà
forse ameno, ma non è roseo come quello dipinto nei quadri. Kangetsu ha smesso di limare
biglie e alla fine si è portato una moglie dal suo paese. È una cosa normale. Ma la
normalità, alla lunga, si trasforma sempre in noia. Tofu fra una decina d’anni capirà che
non è bene dedicare a chiunque poesie in stile nuovo. Quanto a Sanpei, è difficile giudicare
che tipo d’uomo sia. Gli auguro di potersi vantare tutta la vita di offrire champagne ai suoi
ospiti. Suzuki Tojuro rotolerà su qualunque pendio lo spingerà il suo interesse. A forza di
rotolare si imbratterà di fango. Ma anche sporco di fango avrà più influenza di chi non
rotola. Sono già due anni che sono nato gatto e vivo nella società umana. Credevo di essere
l’unico della mia specie dotato di tanta intelligenza, ma l’altro giorno sono rimasto di
stucco sentendo che un certo Katers Murr25, a me sconosciuto, tutt’a un tratto si è messo a
parlare a gran voce. Dopo un’indagine più accurata sono venuto a sapere che è morto già da
cent’anni, ma si è fatto fantasma spinto dalla curiosità e dal lontano oltretomba è venuto a
terrorizzarmi. Si racconta che una volta, mentre andava a trovare sua madre tenendo nella
bocca un pesce da portarle in regalo, a metà strada non resistette alla tentazione e se lo
mangiò. A tal punto questo gatto mancava di devozione filiale, e anche quanto a talento
non era da meno degli uomini, pare che abbia persino composto una poesia suscitando lo
stupore del suo padrone. Se un tale genio si è manifestato già un secolo fa, un buono a
24
25
Poesia composta da Soseki.
Protagonista del romanzo Lebensansichten des Katers Murr, di Ernst Theodor Hoffmann.
nulla come me dovrebbe forse chiedere il permesso di ritirarsi e tornare nel mondo del
Nulla.
Il mio padrone prima o poi morirà della sua dispepsia. Il vecchio Kaneda lo si può già
considerare defunto a causa della sua avidità. Le foglie degli alberi sono quasi tutte cadute.
Se la morte è il destino di ogni cosa, continuare a vivere non serve a granché e sarebbe
forse più intelligente sbrigarsi a morire. Secondo la teoria sostenuta da tanti professori il
destino umano si riduce al suicidio. Se non stiamo attenti, anche noi gatti finiremo con il
nascere in un mondo altrettanto squallido. Che prospettiva terrificante. Mi sento depresso.
Per tirarmi su il morale andrò a bere un po’ della birra di Sanpei.
Vado in cucina. Il vento autunnale che scuote la porta infiltrandosi da una fessura deve
aver spento la lampada, ma forse si è alzata la luna perché un po’ di luce entra dal
lucernario proiettando lunghe ombre. Sul vassoio ci sono tre bicchieri, due dei quali pieni a
metà di un liquido color tè. Anche l’acqua calda sembra fredda in un recipiente di vetro.
Tanto più mi dà un’impressione di gelo questo liquido illuminato dai raggi della luna che se
ne sta tranquillo accanto al secchio per spegnere le braci. Mi fa passare la voglia di bere
prima ancora di accostarvi le labbra. Però le cose se non si provano non si capiscono.
Sanpei e gli altri dopo aver bevuto sono diventati paonazzi, il loro respiro si è fatto
affannoso. Su un gatto l’effetto sarà ancora più inebriante. Visto che non sappiamo quando
dobbiamo morire, finché siamo in vita è meglio cogliere le occasioni quando si presentano,
senza attendere. Una volta morti, per quanti rimpianti ci portiamo nella tomba, non
possiamo tornare indietro. Mi faccio coraggio, infilo la lingua nel bicchiere e inizio a bere
Stupore! Sulla punta della lingua sento un pizzicore, come se venissi punto da tanti aghi.
Cosa ci troveranno di buono gli uomini in questa bevanda nauseabonda? Di sicuro non può
piacere a un gatto. I gatti e la birra non possono assolutamente andare d’accordo. Che
schifo, penso tirando indietro la lingua, poi ci ripenso. Gli uomini hanno l’abitudine di
ripetere che una medicina è buona se è amara, e quando prendono l’influenza o qualche
altra malattia bevono liquidi strani con faccia disgustata. Mi sono sempre chiesto se
guariscano grazie alla medicina, o se guarirebbero in ogni caso. Adesso ho l’occasione di
saPere, la birra mi aiuterà a risolvere questo dilemma. Se dopo aver bevuto il sapore amaro
si propagherà fino alle budella, mi fermerò, ma se come Sanpei verrò pervaso da una gioia
che mi farà dimenticare ogni cosa, dirò a tutti i gatti del vicinato quale dono senza
precedenti sia la birra. Succederà quel che succederà: affidando il mio destino al Cielo mi
decido a infilare di nuovo la lingua nel bicchiere. Bere con gli occhi aperti è difficile, quindi
li chiudo e butto giù energiche sorsate.
Tengo duro finché vuoto tutto il bicchiere. Si verifica un fenomeno strano: all’inizio
sentivo un pizzicore alla lingua e una sensazione dolorosa dentro la bocca, poi man mano
che bevevo, il malessere passava e non ho avuto alcuna difficoltà a finire il primo bicchiere.
Ormai va tutto bene, mi dico attaccando il secondo. E, visto che ci sono, lecco anche la birra
che si è versata sul vassoio pulendolo ben bene.
Poi resto fermo e tranquillo per un po’ a osservare le mie reazioni. A poco a poco il
calore mi pervade tutto. Sento il bordo degli occhi diventare caldo. Le orecchie
arroventarsi. Mi viene voglia di cantare. Di mettermi a ballare e saltare. Di dire al mio
padrone, a Meitei e a Dokusen che possono andare a mangiare sterco. Vorrei graffiare il
vecchio Kaneda. Mordere il naso di sua moglie. Fare mille altre cose. Alla fine mi alzo sulle
zampe malferme, e una volta in piedi cerco di incamminarmi barcollando. Che
divertimento, ho voglia di uscire… Di uscire a salutare la luna. Che sensazione fantastica!
Ecco cosa significa ubriacarsi, mi dico, e vago a caso qua e là, senza meta, senza capire se
sto facendo una passeggiata o no, finché mi prende un sonno terribile. Sto dormendo? Sto
camminando? Chi lo sa… Vorrei tenere gli occhi aperti, ma li sento pesanti come una
montagna. Pazienza, inutile cercare di resistere. Nulla mi può più stupire, mare o
montagna che sia, con questo pensiero protendo deciso una zampa anteriore, ma in
quell’istante sento un pluf e di colpo mi rendo conto che… che sono spacciato. Non ho il
tempo di capire come. So solo che sono spacciato, poi tutto si confonde.
Quando torno in me, sto galleggiando sull’acqua. Non respiro e cerco di aggrapparmi
con le unghie a qualcosa, ma trovo soltanto l’acqua e ogni volta affondo. Rinuncio e mi
metto a scalciare con le zampe posteriori, mentre con quelle anteriori raschio infine contro
qualcosa che oppone una leggera resistenza. Quando riesco finalmente a tirar fuori la testa,
mi guardo intorno e capisco che sono caduto in una grande vasca. Fino all’estate era
coperta di alghe e malva acquatica, poi sono venuti i corvi che l’hanno usata per farci il
bagno, oltre a mangiare tutta la malva. A forza di farci il bagno hanno fatto scendere il
livello dell’acqua, così non sono più venuti. Non avrei mai immaginato che avrei finito con
il trovarmi al loro posto a fare il bagno qui dentro.
Dalla superficie dell’acqua al bordo della vasca ci sono una quindicina di centimetri.
Anche allungando le zampe non ci arrivo. Né riuscirei a uscire saltando. E se resto senza
muovermi annego. Quando mi dimeno e raschio contro le pareti ho l’impressione di stare a
galla, ma poi scivolo e vado subito a fondo. Se vado a fondo soffoco, allora di nuovo lotto
per tornare su. E intanto mi stanco sempre più. Mi sforzo disperatamente di riemergere,
ma le zampe ormai non rispondono. Non capisco più se graffio la vasca perché vado a
fondo o se vado a fondo perché graffio la vasca.
In preda alla sofferenza, penso che se patisco quest’agonia è perché voglio a tutti i costi
uscire dalla vasca. Lo voglio disperatamente, pur sapendo benissimo che non ci riuscirò
mai. Le mie zampe sono lunghe meno di nove centimetri. Se anche potessi galleggiare e mi
allungassi al massimo, non avrei modo di aggrapparmi con le unghie al bordo della vasca,
al quale mancano quindici centimetri. E se non c’è modo di aggrapparmi al bordo della
vasca, per quanto mi sforzi, mi dibatta e mi disperi, non ce la farò a uscire nemmeno fra
cent’anni. Cercare di lasciare un posto nel quale si è rinchiusi è impossibile. E sforzarsi di
fare una cosa impossibile è una sofferenza. È un’idiozia. È da stupidi perseguire il dolore e
infliggersi da soli una tortura.
Ora basta, vada come vuole. Sono stufo di lottare… Lascio andare zampe anteriori e
posteriori, testa e coda dove gli impulsi naturali li portano, senza più fare resistenza.
A poco a poco mi sento meglio. Non distinguo più la sofferenza dal piacere. Non capisco
se mi trovo nell’acqua o sui tatami. Dove sia, cosa stia facendo, mi è del tutto indifferente.
So solo che mi sento bene. Anzi, non provo nemmeno più una sensazione di benessere.
Spazzo via sole e luna, polverizzo cielo e terra ed entro nel mistero della pace eterna. Sto
morendo. E morendo raggiungo la pace. La pace si ottiene soltanto con la morte. Namu
Amida Butsu, Namu Amida Butsu. Rendo grazie. Rendo grazie.
Ringraziamenti
Si ringrazia il dottor Federico Madaro per la consulenza riguardante autori e opere
cinesi.
Glossario
Secondo l’uso giapponese, nel testo il cognome precede sempre il nome.
Il trattino posto sopra le vocali ne indica l’allungamento.
Ch si pronuncia come la c di ciambella; y come in New York; j come la g di gelo,
giorno.
Biwa: strumento a corde, a forma di grossa spatola sulla quale sono tese quattro, a volte
cinque corde, che si possono pizzicare sia con le dita che con un plettro.
Butsudan: piccolo altare, sito in una nicchia o in un mobile appositamente costruito, che
si tiene in casa. Vi si venerano i familiari defunti e un’immagine di Buddha. I familiari sono
rappresentati da tavolette recanti il nome postumo che vengono messe nel butsudan
quarantanove giorni dopo la morte. Davanti all’altare si offre incenso e si leggono testi
buddhisti.
Dango: palline di riso cotte al vapore che si mangiano infilate su uno spiedino e condite
con una salsa dolce.
Fundoshi: lunga pezza che gli uomini avvolgevano intorno ai fianchi facendola passare
prima in mezzo alle gambe; fungeva da biancheria intima e si portava sotto il kimono.
Fusuma: pareti scorrevoli, di carta tesa su un’intelaiatura in legno, che dividono le
stanze nelle case tradizionali.
Futon: insieme di materasso, lenzuola e trapunta che si stende la notte sui tatami e si
ripone il mattino in grandi armadi a muro. Con futon si può intendere anche solo il
materasso.
Geta: sandali tradizionali in legno, montati su due sezioni orizzontali di altezza, variabile
e muniti di stringhe infradito.
Go: gioco per due persone che si gioca sul goban (vedi). I giocatori posano alternandosi
le loro pedine (pietre, solitamente bianche e nere) sulle 361 intersezioni della scacchiera.
Tali pedine non verranno più spostate, ma a determinate condizioni vengono tolte dal
goban (vengono cioè catturate/uccise), cioè quando non vi sono più intersezioni libere
attorno a un gruppo di pietre di un determinato colore. Obiettivo del gioco è il controllo del
maggior numero di intersezioni libere.
Goban: scacchiera per il gioco del go. Si tratta di una piccola tavola quadrata, alta una
ventina di centimetri e con il lato di 19 cm, su cui sono tracciate 19 linee verticali e
altrettante orizzontali che formano 361 intersezioni.
Hakama: sorta di ampia gonna pantalone, lunga fino alla caviglia, che permetteva
maggior libertà di movimento del kimono. Era l’abbigliamento tipico dei samurai, ma
anche di funzionari, insegnanti e allievi di liceo, maschi e femmine.
Haori: casacca chiusa da due stringhe che si indossa sopra il kimono.
Kamaboko: pasta di pesce bollito compressa in tavolette.
Kamonanban: soba o udon con cipolloni, il tutto bollito in un brodo d’anatra.
Kotatsu: tavolo basso sotto al quale si pone un braciere; il tutto viene ricoperto da una
trapunta quadrata sopra cui si pone un secondo piano d’appoggio. Nei kotatsu moderni il
braciere è sostituito da una resistenza elettrica. Sedersi al kotatsu permette di tenere al
caldo le gambe e la parte inferiore del corpo.
Koto: arpa a dodici corde che si suona tenendola orizzontalmente davanti a sé. Ne esiste
una versione a due corde.
Mirin: alcol di riso a debole gradazione, dolce, che si usa come condimento.
Miso: pasta di fagioli di soia bolliti e fermentati. Si usa anche per preparare una
minestra molto comune.
Mochi: pasta ottenuta pestando nel mortaio riso glutinoso caldo molto cotto. Si
consuma sia come dolce, sia come aggiunta allo zoni (zuppa di Capodanno). Ha una
consistenza gommosa che rende piuttosto difficile masticarla.
Nagahibachi (hibachi lungo) : mobiletto della grandezza di un piccolo tavolo, munito di
cassetti, fornito al centro di una cavità nella quale si pone un braciere.
Nigiri: grosse polpette di riso bollito, ricoperte di alghe secche, all’interno delle quali si
possono mettere vari ingredienti (pesce, umeboshi, verdure varie); è un cibo che si usa
portare in viaggio.
Obi: alta cintura che chiude il kimono, formata da una lunga fascia di seta rigida che si
avvolge più volte intorno al corpo e si annoda sulla schiena in varie fogge.
Sake: alcol di riso che raggiunge la gradazione di 14 o 15 gradi. Si beve caldo o freddo,
anche per accompagnare i pasti.
Sashimi: fettine di pesce crudo.
Sen: un centesimo di yen.
Shamisen: strumento musicale a tre corde, simile a un mandolino, per la cui
fabbricazione veniva usata anche pelle di gatto.
Shiruko: brodo di fagioli rossi dolci con mochi.
Shoji: tramezzo scorrevole con riquadri di carta bianca che lasciano passare la luce ma
non lo sguardo.
Soba: pasta di grano saraceno dalla forma simile ai nostri tagliolini, ma di colore più
scuro. Di solito i soba si mangiano nel brodo caldo.
Sugoroku: semplice gioco che consiste nel posizionare il maggior numero possibile di
pedine sulla scacchiera, seguendo il lancio di un dado.
Tabi: calze infradito che si portano quando si indossa il kimono.
Takuan: sorta di rapa sott’aceto.
Tatami: stuoie rigide di paglia intrecciata, bordate di stoffa, che formano il pavimento
delle stanze in stile tradizionale. Di dimensioni fisse (180 x 90 cm), servono anche da unità
di misura di superficie nelle case.
Tempura: misto di verdure e pesce fritto in una pastella di acqua, farina e uova.
Tengu: creatura fantastica cui si attribuiscono poteri sovrannaturali, sorta di ominide
dal lungo naso, temuto dai bambini.
Tofu: cagliata di fagioli di soia, di colore bianco. Si può mangiare sia cruda che in brodo.
Tokonoma: grande nicchia che occupa parte della parete interna di una stanza in stile
tradizionale; vi si espongono rotoli dipinti e composizioni floreali.
Tsubo: unità di misura di superficie usata per i terreni. Uno tsubo misura 3, 31 m2.
Udon: grosse tagliatelle di farina di grano, in tutto simili ai nostri strozzapreti, che si
mangiano in brodo con vari altri ingredienti.
Umeboshi: prugne in salamoia.
Wasabi: sorta di mostarda di colore verde, molto forte.
Yokan: gelatina molto compatta, per forma e sostanza simile alla cotognata; può essere
ai fagioli dolci, al tè verde, alle castagne e ad altri gusti ancora.
Zabuton: grande cuscino sottile, che misura circa 50 x 55 cm, sul quale ci si siede nelle
stanze fornite di tatami.
Zarusoba: soba che si mangiano freddi; vengono serviti su un vassoietto di legno e
bambù e accompagnati da una salsa nella quale si intingono.
Zani: zuppa in brodo i cui ingredienti variano a seconda dei gusti e di ciò che si ha in
casa: pezzetti di porro, di funghi, di pollo, e mochi. È un piatto tipico del Capodanno.