Sezione antologica - Prof.ssa Monica Guido

C
OBIETTIVI
● Apprendere le strutture
essenziali
dell’organizzazione
della famiglia
e della scuola in Roma.
● Conoscere attraverso passi
di Plutarco, Orazio
e Terenzio i valori morali
che si ritenevano
indispensabili
per la formazione
del giovane
e chiarire la coesistenza
di elementi innovativi
e tradizionali
nell’educazione dei fanciulli
romani.
● Conoscere i criteri
pedagogici più diffusi
a Roma nell’educazione
familiare e in quella
scolastica attraverso
passi di Plauto, Marziale
e Quintiliano.
Col Saglia Imagines Seconda edizione
Copyright © Zanichelli editore S.p.A. 2005
L’educazione
Unità 1
In famiglia: genitori e figli
102
Unità 2
La scuola
110
Il diritto di famiglia a Roma
Romani indicavano con il termine familia un complesso di persone, libere o schiave, sottoposte a un capo, denominato paterfamilias. Costui era un uomo libero, senza alcun ascendente maschio vivente
in linea maschile (non contava, per esempio, il nonno per parte di
madre). Il paterfamilias era l’unico ed esclusivo proprietario del patrimonio familiare (res familiaris) e di quei beni che per qualsiasi motivo
i suoi sottoposti acquistassero. Egli aveva poi su tutti costoro un potere
(potestas) che giungeva fino al diritto di metterli a morte. Per questo Cicerone definì la familia un piccolo Stato.
Erano subordinati al capofamiglia, per tutta la durata della sua vita, tutti i suoi discendenti legittimi in linea maschile (cioè figli e figlie
e prole dei figli, ma non quella delle figlie) e tutti quelli che entravano nella familia attraverso l’atto giuridico dell’adozione. Di norma anticamente
erano introdotte nella famiglia la moglie e le mogli dei figli e dei nipoti con l’atto
denominato conventio in manum, così come, quando si sposavano, ne uscivano
le figlie e le nipoti. Ovviamente non era necessario che tutti i discendenti convivessero con il capofamiglia in un’unica domus; pur restando in potestà del padre,
i figli, anche non sposati, potevano vivere separatamente, utilizzando un patrimonio più o meno grande (peculium) da lui concesso. A Roma però il matrimonio non era di per sé sufficiente a formare una nuova familia dal punto di vista
giuridico. Solo alla morte del paterfamilias ciascuno dei suoi discendenti maschi
diventava a sua volta capofamiglia; anche la moglie si liberava dalla potestas e diveniva proprietaria di beni e di schiavi, ma non aveva l’autorità sui figli o sugli altri discendenti; gli schiavi passavano agli eredi insieme con il patrimonio.
I
Ritratto di fanciulla proveniente da Menfi. Pittura su legno. Parigi, Musée du Louvre.
L’ammissione del figlio nella famiglia
Nel mondo romano, la nascita non implicava necessariamente e automaticamente che il bambino entrasse subito a far parte della famiglia. I genitori, infatti, non
avevano l’obbligo né morale né giuridico di accogliere tutti i figli nati dal matrimonio. Anche se l’eventuale rifiuto era deplorato e condannato nell’opinione comune, esso venne sentito come ammissibile fino al I secolo d.C., quando si diffuse nei confronti della procreazione e dei doveri dei genitori un atteggiamento più
responsabile, rafforzato poi dall’affermazione del Cristianesimo.
La tradizione romana voleva che il neonato fosse deposto ai piedi del padre;
se questi decideva di riconoscerlo e allevarlo, doveva raccogliere il figlio (filium
Fondazione mitica
???
??? di Roma
??? 754 a.C.
Inizio della
???repubblica
romana
???
509???a.C.
Plauto 250-184 a.C.
?
98
INTRODUZIONE
Scena di scuola in cui gli allievi seguono la lezione sul
volumen, un rotolo di papiro o pergamena su cui
si trascrivevano le opere
letterarie. Rilievo marmoreo tombale del II sec. a.C.
trovato a Neumagen.Treviri, Landesmuseum.
Guerre puniche
???
264-146 a.C.
???
Terenzio 185-159 a.C.
Affresco raffigurante una
giovane ragazza di Ercolano.
Napoli, Museo
Archeologico
Nazionale.
Col Saglia Imagines Seconda edizione
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Mosaico del I
stile dalla Villa
di Cicerone
a Pompei raffigurante una famiglia di musicanti. Napoli,
Museo Archeologico Nazionale.
tollere); altrimenti il piccolo veniva esposto, cioè abbandonato, generalmente in
un luogo pubblico (a Roma, per esempio, davanti alla colonna detta «del latte»
presso il tempio della Pietà), dove chiunque poteva prenderlo con sé. Talvolta
l’abbandono dei figli indesiderati era reso ufficiale, in modo che potessero essere
adottati da altre famiglie. Quest’uso era praticato sia dai poveri sia dai ricchi: dai
primi per difficoltà economiche, dai secondi per una scelta tesa a evitare un’eccessiva frammentazione dell’eredità. Ne facevano le spese soprattutto le bambine, sentite più spesso dei maschi come un peso per il bilancio familiare. I bambini malati, deformi o anche solo troppo gracili venivano uccisi, come prescriveva
addirittura una legge delle XII Tavole. Va però detto che i bambini riconosciuti e
accolti nella famiglia di provenienza rappresentavano la stragrande maggioranza.
Già Catone, alla fine del III secolo a.C., testimonia che il buon paterfamilias tiene nella più alta considerazione sia la moglie sia i figli. In seguito l’istituzione del
matrimonio entrò in crisi, soprattutto a causa di una certa rilassatezza dei costumi, ma ciò riguardò essenzialmente i rapporti tra uomo e donna nei gruppi sociali medio-alti e aristocratici: gli uomini ricchi si sposavano più tardi o restavano
scapoli. Questo comportò una minore natalità e a tale problema demografico
cercò di porre rimedio la politica famigliare di Augusto, il quale concesse per
legge notevoli privilegi ai nobili sposati che avessero almeno tre figli (ius trium liberorum).
La prima infanzia dei bambini romani
Fin dal primo giorno si appendevano al collo del neonato degli amuleti che tenessero lontano il malocchio; i maschi più ricchi usavano anche un pendente d’oro (bulla) che era deposto solo a diciassette
anni, quando il giovane diventava maggiorenne. Il nome veniva
attribuito nei primi giorni di vita: ai maschi nell’ottavo, alle femmine nel nono.
Negli ultimi secoli della Repubblica, seguendo un costume greco, le
famiglie che se lo potevano permettere affidavano il bimbo per l’allattamento a una nutrice (nutrix), poi per la prima educazione a un pedagogo (paedagogus o nutritor). Dato che queste persone erano quasi sempre schiavi greci, il bambino imparava la loro lingua insieme
con quella latina dei genitori; si spiega anche così l’ampia diffusione
del bilinguismo dei ceti abbienti. I bambini si rivolgevano al padre
chiamandolo dominus («signore», «padrone»), in ossequio alla sua
patria potestas («potere del padre») e probabilmente dovevano
averne una certa soggezione.
Ascesa politica di Mario
???
e Silla e guerra sociale
???
??? 91-88 a.C.
Primo triunvirato:
??? Pompeo,
Crasso???
e Cesare
60???
a.C.
Orazio 65-8 a.C.
Cesare dittatore
???
45 a.C. ???
Plutarco 45-125 d.C.
Monumento funerario a Kline,
su cui è adagiato un uomo
che abbraccia
il busto di una
donna datato
tra il I e il II
sec. d.C.
Maschera teatrale. Particolare
di un affresco
del II stile proveniente
da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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INTRODUZIONE
99
La scuola a Roma
antico costume romano affidava al padre l’istruzione del figlio. Nei primi secoli della Repubblica gli insegnamenti erano impartiti solo ai maschi ed erano molto rudimentali. Il bambino imparava a leggere, scrivere, far di conto, ma anche a nuotare e a praticare attività sportiva.
Non tutti, però, seguivano la buona norma antica. Già Catone possedeva uno
schiavo, Chilone, che insegnava a pagamento a molti ragazzi; pare che la prima
scuola pubblica a Roma sia stata aperta verso la fine del III secolo a.C. da un liberto, Spurio Carvilio. A partire da questo periodo, a mano a mano che i contatti con la cultura greca divenivano sempre più stretti, la maggior parte dei padri,
troppo impegnati nel lavoro, negli affari o nella carriera politica, affidava il figlio
a un pedagogo (cioè un precettore che restava sempre al fianco del ragazzo), di
solito un Greco, o lo mandava a scuola (ludus, ludus litterarius), frequentata anche da alcune fanciulle.
Una differenza sostanziale rispetto a quanto accade oggi è che a Roma la
scuola era sì pubblica, nel senso che tutti vi potevano accedere, ma privata, cioè
pagata direttamente dal padre dello studente; lo Stato non si intrometteva nell’educazione dei giovani, considerata una funzione essenzialmente della famiglia.
L’ordinamento scolastico romano era suddiviso in tre gradi, paragonabili rispettivamente ai nostri cicli elementare, medio e superiore:
1° insegnamento del maestro (litterator o ludi magister); 2° insegnamento del
«professore di lettere» (grammaticus); 3° corso di perfezionamento, non così
frequentato come i primi due, ossia la scuola del maestro di retorica (rhetor), che
addestrava i giovani nell’eloquenza prima che entrassero nella vita pubblica. Le
lezioni elementari si svolgevano nella scuola del ludi magister, un privato che per
un modesto compenso insegnava a leggere e a scrivere.
I modi dei maestri dovevano essere piuttosto bruschi. Lo stesso Quintiliano,
celebre autore di testi sull’educazione, deve prendere posizione contro le pene
corporali inflitte ai piccoli scolari, il che significa che questo metodo violento era
considerato normale. L’orario scolastico era di sei ore: le lezioni cominciavano di
buon mattino, venivano interrotte verso mezzogiorno, quando gli scolari tornavano a casa per il prandium, e riprese nel pomeriggio.
L’anno scolastico cominciava a marzo, dopo le Quinquatrus, festa in onore di
Minerva e sacra soprattutto agli scolari; vi erano delle vacanze nei giorni festivi e
ogni nove giorni (nundinae). Non è chiaro se fosse ufficialmente stabilito un pe-
L’
???
Ottaviano Augusto
???
primo imperatore
??? 27 a.C.
Nerone ???
perseguita
???
i cristiani
64???
d.C.
Quintiliano 35-96 d.C.
? Ritratto scultoreo
di una fanciulla
di età antoniniana.
New York, Metropolitan Museum of
Art.
100
INTRODUZIONE
Riforme dell’impero:???
tetrarchia di Diocleziano
???
293 d.C.
Marziale 40-104 d.C.
Mosaico cosiddetto
«di Virgilio», raffigurato
seduto con un rotolo
di papiro in mano: alla
sua destra la musa della
storia Clio e alla sua sinistra Melpomene,
la musa della tragedia.
III sec. d.C.
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Il Corridore, copia romana di
un originale
greco databile
tra il I sec. a.C.
e il I sec. d.C.,
proveniente
dalla Villa dei
Papiri di Ercolano. Napoli,
Museo Archeologico Nazionale.
riodo estivo di vacanze, ma vi era l’uso di far riposare i ragazzi due o tre mesi
d’estate. Questo corso di studi, come gli altri del resto, non prevedeva un esame
finale: gli alunni potevano accedere al grado successivo quando dimostravano di
avere completamente assimilato gli insegnamenti ricevuti e quindi non c’era un
termine prestabilito. Compiuti gli studi elementari, cominciava sotto la guida del
grammaticus l’insegnamento medio. Anche questo, secondo gli usi e le possibilità delle famiglie, veniva impartito o in casa o in una scuola pubblica, ma sempre gestita da un privato. Nella scuola del grammaticus si imparavano la lingua e
la letteratura greca e latina, studiandole soprattutto sui testi poetici, e un corredo
di nozioni fondamentali di linguistica, storia, geografia, fisica, astronomia, mitologia necessarie a comprendere ciò che si leggeva. Come si vede, lo studio delle
discipline scientifiche era piuttosto marginale e comunque subordinato rispetto
all’insegnamento umanistico.
Questo accadeva perché l’educazione era finalizzata alla formazione del buon
cittadino, non del tecnico, e il buon cittadino doveva comprendere e saper usare la parola per partecipare consapevolmente alla vita politica. I brani così
imparati si esponevano oralmente e per iscritto: queste ultime esercitazioni avevano una funzione simile a ciò che è per noi il componimento e contenevano un giudizio finale basato su criteri non solo estetici, ma anche morali. Dalla scuola del grammaticus si usciva conoscendo alla perfezione il latino e il greco; cioè le due lingue che una
persona colta doveva necessariamente parlare.
Il corso superiore era compiuto presso il rhetor, «professore di eloquenza»; alla sua scuola i giovani si preparavano alla vita pubblica allargando la propria cultura allo studio dei testi classici e perfezionandosi nella difficile arte del dire.
L’insegnamento richiedeva agli alunni esercizi sia scritti sia orali. I primi consistevano in composizioni graduate secondo la difficoltà: narrazioni,
lodi o biasimi di uomini celebri della storia, brevi discussioni, confronti
ecc. Oralmente si facevano degli esercizi pratici di eloquenza che avevano
la forma o di suasoriae o di controversiae. Le suasoriae erano monologhi nei
quali noti personaggi della mitologia o della storia, prima di prendere una
grave decisione, ne pesavano gli argomenti favorevoli e contrari; nelle controversiae si svolgeva un dibattito fra due scolari che sostenevano due tesi
opposte.
Gli studi di matematica, geometria e scienze naturali si svolgevano nelle
scuole di filosofia, riservate ai pochi specialisti che se le potevano permettere.
???
Editto di Costantino
???
per la libertà di culto
??? 313 d.C.
Fondazione di???
Costantinopoli
??? d’Oriente
e impero romano
330???
d.C.
???
Caduta dell’impero
romano d’Occidente
476 d.C. ???
Bassorilievo tratto da un
sarcofago romano del II
sec. d.C. raffigurante le fasi
di crescita del giovane romano: l’allattamento tra
le braccia della madre,
i giochi e infine l’inizio
della scuola. Parigi, Musée
du Louvre.
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INTRODUZIONE
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Unità
1 In famiglia: genitori e figli
TERENZIO
LA VITA E LE OPERE Terenzio (185 - 159 a. C. circa) fu autore di commedie che,
cosa normale per i commediografi latini, avevano come modelli testi teatrali greci.
La comicità del teatro latino precedente, soprattutto di Plauto, puntava molto sulla
presentazione di situazioni farsesche (per esempio insulti più o meno grossolani, botte,
scambi di persona) e su un uso pittoresco e fantasmagorico del linguaggio (doppi sensi,
metafore ardite, creazioni lessicali). Le commedie di Terenzio sono invece assai meno efficaci nel suscitare il riso, ma mettono in primo piano i problemi psicologici: la società romana è infatti profondamente mutata dopo l’incontro con la cultura greca e Terenzio fa
parte del Circolo degli Scipioni, portavoce dell’ideale di humanitas. Con humanitas si intende una nuova fiducia nelle capacità degli uomini di progredire e di vivere nella società
e nella famiglia con rispetto reciproco. Nel famoso verso di Terenzio Homo sum, humani
nihil a me alienum puto si esprime appunto tale ideale di comprensione tra gli uomini.
L’incontro con la cultura greca determina un nuovo approccio ai problemi etici: non
più la morale rigida, rappresentata da Catone e fondata sul mos maiorum, di una società
prevalentemente agricola, ma una morale aperta alla comprensione e alla tolleranza. La
sua opera, che ci è giunta per intero, è costituita dalle seguenti commedie: La fanciulla di
Andro, La suocera, Il punitore di sé stesso, L’eunuco, Formione, I due fratelli.
UN PADRE MODERNO
1
(Terenzio, Adelphoe, atto I scena I)
Il tema degli Adelphoe (I due fratelli) è il problema dell’educazione: meglio essere severi e alieni da ogni forma di confidenza con i figli come i padri all’antica, o comprensivi e indulgenti come i genitori moderni? Il vecchio Demea è sposato e ha due figli,
Eschino e Ctesifone; suo fratello Micione non si è sposato e non ha figli, ma ha allevato
il nipote Eschino come se fosse suo figlio, educandolo in modo moderno e liberale. Ctesifone è stato invece allevato dal padre secondo rigidi metodi educativi all’antica.
Dopo un prologo destinato a polemiche letterarie, inizia la rappresentazione vera e
propria: Micione in un monologo spiega gli antefatti della vicenda e insieme i suoi criteri educativi. Ha educato Eschino come un figlio, ma senza ricorrere a punizioni severe e
chiudendo spesso un occhio sulle sue ragazzate. Ora però Micione è preoccupato perché
il nipote tarda a rientrare a casa da un banchetto e chiama il servo Storace.
MICIO
30
Storax! – Non rediit hac nocte a cena Aeschinus
neque servolorum quisquam qui advorsum ierant.
profecto hoc vere dicunt: si absis uspiam
aut ibi si cesses, evenire ea satius est
quae in te uxor dicit et quae in animo cogitat
irata quam illa quae parentes propitii.
26. Storax!: Micione chiama Storace, forse
uno dei servi che avevano accompagnato
Eschino al banchetto la sera prima, oppure un
servo che si trova in casa e non compare sulla
scena, al quale Micione si rivolge.
27. advorsum: sta per adversum.
28. si absis: «se ti assenti».
102
L’EDUCAZIONE
29. si cesses: «se ti attardi». Nelle due protasi
c’è il congiuntivo perché sono considerate
eventuali, ma è sicuro che accada ciò che è
espresso nell’apodosi evenire ea satius est.
– satius est: «è meglio».
31. Irata: è riferito a uxor.
– parentes propitii: «genitori affettuosi».
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45
50
uxor, si cesses, aut te amare cogitat
aut tete amari aut potare atque animo obsequi
et tibi bene esse soli, cum sibi sit male.
Ego quia non rediit filius quae cogito, et
quibus nunc sollicitor rebus! ne aut ille alserit
aut uspiam ceciderit aut praefregerit
aliquid.Vah!Quemquamne hominem in animo instituere aut
parare quod sit carius quam ipse est sibi!
atque ex me hic natus non est, sed ex fratre; is adeo
dissimili studio est iam inde ab adulescentia:
ego hanc clementem vitam urbanam atque otium
secutus sum, et, quod fortunatum isti putant,
uxorem numquam habui; ille contra haec omnia:
ruri agere vitam, semper parce ac duriter
se habere; uxorem duxit: nati filii
duo; inde ego hunc maiorem adoptavi mihi;
eduxi a parvolo, habui, amavi pro meo,
in eo me oblecto, solum id est carum mihi.
Ille ut item contra me habeat facio sedulo:
do, praetermitto, non necesse habeo omnia
pro meo iure agere; postremo alii clanculum
patres quae faciunt, quae fert adulescentia,
Sottinteso dicunt et cogitant. Ai vv. 28-31 c’è
una sententia, una considerazione morale.
32-33. te amare, aut tete amari: «che hai un’amante» (lett. «che ami o che sei amato»; tete è
te rafforzato). Sono proposizioni oggettive come le successive.
– animo obsequi: «che te la spassi».
34. et tibi bene esse soli, cum sibi sit male: «e
che tu solo te la passi bene, mentre lei se la passa male» (il cum con il congiuntivo ha qui valore avversativo).
36. quibus nunc sollicitor rebus!: «da quali
pensieri ora sono angosciato!» (quibus è esclamativo come il precedente quae).
– ne aut ille alserit: «che o abbia preso freddo ...»; la negazione ne è richiesta da un verbo
timendi reggente sottinteso e che in italiano
non si traduce.
37. aut praefregerit aliquid: «...o che si sia rotto qualcosa».
38-39. Quemquamne hominem ... est sibi!:
«Che un uomo si metta in testa o si procuri ciò
che gli è più caro di se stesso!» (si tratta di una
frase esclamativa con i verbi all’infinito e con il
soggetto in accusativo, introdotta dalla particella enclitica -ne; quam ipse est sibi è una subordinata comparativa).
40. Atque: «Eppure».
– is: Micione si riferisce a suo fratello Demea e ne confronta il carattere con il proprio.
40-41. adeo dissimili studio: «di carattere così
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diverso» (sott. «dal mio»). È un ablativo di
qualità.
– inde ab adulescentia: traduci «fin dalla
giovinezza».
42. clementem: «comoda».
43. isti: potrebbero essere i Greci, in quanto la commedia è convenzionalmente ambientata in Grecia, oppure il pubblico che Micione
ha davanti, oppure la gente, in generale. Terenzio introduce così un luogo comune della mentalità misogina del mondo antico: prendere
moglie è considerato un male.
44. Ille: indica il fratello Demea ed è fortemente contrapposto all’ego del v. 42. Sottinteso fecit.
49. Tutte le proposizioni dei vv. 47-49 sono
coordinate per asindeto (vedi il glossario a
pag. 337) producendo una sorta di climax (vedi il glossario a pag. 337) che rende l’idea delle
successive tappe di crescita circondata da affetto.
50. Costruisci: facio sedulo ut ille contra habeat
me item (sott. carum). Sedulo è un avverbio.
Anche contra è un avverbio: «a sua volta».
52. do, praetermitto: «gli faccio regali, lascio
correre».
51-52. non... agere: «non ritengo necessario
fare tutto secondo il mio diritto (sott. «di padre»).
53. quae: è prolessi del relativo che anticipa ea
del v. 54 («le cose che ... quelle cose ... »).
IN FAMIGLIA: GENITORI E FIGLI
103
55
60
65
70
75
ea ne me celet consuefeci filium.
Nam qui mentiri aut fallere insuerit patrem aut
audebit, tanto magis audebit ceteros.
Pudore et liberalitate liberos
retinere satius esse credo quam metu.
Haec fratri mecum non conveniunt neque placent;
venit ad me saepe clamitans: «Quid agis, Micio?
cur perdis adulescentem nobis? Cur amat?
cur potat? Cur tu his rebus sumptum suggeris?
vestitu nimio indulges; nimium ineptus es».
Nimium ipse est durus praeter aequomque et bonum,
et errat longe mea quidem sententia
qui imperium credat gravius esse aut stabilius
vi quod fit quam illud quod amicitia adiungitur.
Mea sic est ratio et sic animum induco meum:
malo coactus qui suom officium facit,
dum is rescitum iri credit, tantisper cavet;
si sperat fore clam, rursum ad ingenium redit;
ille quem beneficio adiungas ex animo facit,
studet par referre, praesens absensque idem erit.
Hoc patrium est, potius consuefacere filium
sua sponte recte facere quam alieno metu;
hoc pater ac dominus interest; hoc qui nequit,
fateatur nescire imperare liberis.
54. celet: il verbo celo è costruito con il doppio
accusativo della cosa che si nasconde (ea) e
della persona a cui si nasconde (me).
56. audebit: sottinteso fallere.
57. Pudore et liberalitate: «Con il senso morale e con l’indulgenza».
– liberalitate liberos: è una figura etimologica (vedi il glossario a pag. 337) di grande effetto che evidenzia il significato profondo della
parola liberi. Vedi la scheda lessicale a pag. 105.
58. satius: «meglio». I vv. 57-58 contengono
un’altra sententia, una considerazione morale.
59. Haec fratri ... neque placent: «In ciò mio
fratello non è d’accordo con me e il mio metodo non gli piace».
61. nobis: è un dativo etico.
– amat: «ha un’amante».
62. sumptum suggeris: «fornisci denaro».
63. vestitu: sta per vestitui, dativo.
64. Nimium: in posizione forte all’inizio del
verso si contrappone a nimio e nimium del verso precedente. Micione ripete nimium per sottolineare la propria obiezione alle critiche.
– aequom: sta per aequum, neutro sostantivato.
65. mea … sententia: «almeno a mio parere».
66. imperium: «autorità». Traduci credat con
104
L’EDUCAZIONE
l’indicativo (il congiuntivo esprime qui una
sfumatura di eventualità).
– gravius: «più solida».
67. vi quod fit: «che viene presa con la forza».
– amicitia: «affetto».
69. malo: «da un castigo».
– suom: sta per suum.
70. rescitum iri: «che sarà risaputo».
71. fore clam: «che potrà agire di nascosto».
– rursum ad ingenium: «alle proprie inclinazioni naturali».
72. adiungas: traduci con l’indicativo (il congiuntivo esprime qui una sfumatura di eventualità).
– ex animo facit: «si comporta spontaneamente».
73. par referre: «dimostrare gratitudine».
– praesens absensque: «in presenza e in assenza del padre». L’antitesi (vedi il glossario a
pag. 337) sottolinea il concetto.
74. patrium est: «è dovere di un padre».
75. alieno metu: «per paura di un altro».
76. hoc: «in ciò» (è ablativo).
– interest: «c’è differenza». Per il significato di interest vedi la scheda lessicale a pag. 105.
77. fateatur è un congiuntivo esortativo.
– imperare: «governare».
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Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole del brano.
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
a. Sono presenti, nelle parole di Micione, dei luoghi comuni sulle mogli noiose? Individuali nel testo.
b. Che cosa teme Micione che possa essere accaduto a Eschino, il quale non è rientrato a casa?
c. Che cosa il vecchio Demea rimprovera a suo fratello Micione nel metodo educativo utilizzato con il figlio?
d. Qual è secondo Micione la differenza tra un padre e un padrone?
e. Individua nelle parole di Micione l’espressione che secondo te esprime meglio la
sua pedagogia.
Uxorem ducere. Uxorem ducere significa «prender moglie, sposarsi». Può avere come oggetto espresso il nome della donna e in tal caso uxorem è predicativo
dell’oggetto (per esempio: Marcus Tullius Terentiam uxorem duxit, «Marco Tullio prese in moglie Terenzia, sposò Terenzia»).
Per le donne si usa invece nubo, che significa «velarsi, prendere il velo da sposa», costruito con il dativo del nome dell’uomo con il quale ci si sposa (per
esempio: Terentia Marco Tullio nupsit, alla lettera «Terenzia prese il velo per...»,
quindi «Terenzia sposò Marco Tullio).
SCHEDE
LESSICALI
Liberi, -orum. È un nome collettivo che indica indistintamente la prole, sia i
maschi sia le femmine. Ha la stessa radice dell’aggettivo liber, «libero». Indica i
figli legittimi del padrone di casa, che si distinguono così dai servi, che fanno anch’essi parte della familia romana.
Intersum. È un composto del verbo sum con la preposizione inter e oltre al
senso generale di «essere in mezzo» può assumere diversi significati.
Se costruito personalmente: «partecipare», con il dativo.
Se costruito impersonalmente (interest):
«c’è differenza», con inter e l’accusativo;
«importa», con una costruzione molto particolare: la persona a cui importa in
genitivo (patris interest, «importa al padre») oppure, se è un pronome personale, con l’ablativo femminile singolare dell’aggettivo possessivo corrispondente
(mea interest, «importa a me»); la cosa che importa con l’accusativo se è un pronome neutro (hoc interest, «ciò importa») o con una subordinata infinitiva, finale, interrogativa indiretta (mea interest ut tu valeas, «mi importa che tu stia bene» o «mi importa la tua salute»); il grado dell’interesse con un normale avverbio di quantità (multum, maxime, nihil ecc.) o con un genitivo avverbiale.
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IN FAMIGLIA: GENITORI E FIGLI
105
LETTURE
Catone educatore
PLUTARCO
L’autore
e le opere
(Vita di
Catone, cap.
XX)
Plutarco (45 d.C. - 125 d.C. circa) fu scrittore greco dai molti interessi e dalla sterminata
produzione: un antico catalogo, peraltro incompleto, ci riporta 227 titoli delle sue opere.
Esse si suddividono in due ampie categorie: da un lato i Moralia (Opere morali), cioè trattati di retorica, filosofia, religione, dall’altro le Vite parallele. Queste non sono propriamente un’opera di storia, ma biografie romanzate di uomini illustri greci e romani messe a
confronto e quindi quasi tutte disposte a coppie, cioè, appunto, in parallelo (per esempio
Teseo e Romolo, Alessandro e Cesare ecc.). Si tratta di una galleria di figure esemplari
dell’antichità, le quali devono fornire insegnamenti morali al lettore con le loro azioni e i
loro discorsi. I personaggi sono fortemente idealizzati, proprio per rispondere a questo
fine educativo. La concatenazione, la spiegazione e l’interpretazione dei fatti risultano
molto spesso ingenue e semplicistiche, ma Plutarco sa rendere con immediatezza la vivacità d’ingegno e la nobiltà morale dei grandi uomini del passato.Tale risultato viene ottenuto con l’esposizione di molte curiosità, aneddoti, frasi famose.
Una delle biografie più interessanti è proprio quella di Catone (234-149 a.C.), accostato all’ateniese Aristide perché in entrambi i casi si trattava di integerrimi difensori della
morale tradizionale. L’autore ci presenta qui un quadro originale della vicenda di questo
illustre Romano, trattando argomenti come la vita familiare e il rapporto educativo tra
padre e figlio, che restava quasi sempre marginale nella storiografia classica, tutta impegnata a narrare gli atti pubblici, politici e militari dei grandi uomini di Stato.
Catone dedicò a suo figlio i Libri ad Marcum filium, un’enciclopedia che trattava numerosi argomenti, perché voleva occuparsi personalmente della sua educazione, dal momento che non l’avrebbe mai affidato a maestri greci. Il giovane corrispose in pieno alle
speranze del padre: infatti si distinse in guerra agli ordini di Lucio Emilio Paolo (figlio del
console omonimo caduto eroicamente nella battaglia di Canne), che condusse i Romani
contro Perseo, re di Macedonia, e lo sconfisse nella battaglia di Pidna (168 a.C.).
1. Fu sia un buon padre sia un marito modello sia accrescitore della propria ricchezza tutt’altro che disprezzabile, che seguì tale occupazione non
occasionalmente come qualcosa di mediocre o di futile: ragione per cui
penso che si debba parlare anche di questi argomenti quanto si conviene.
2. Dunque sposò una donna più nobile che ricca, pensando che ugualmente le donne nobili e le donne ricche avessero gravità e animo elevato,
ma che le nobili rifuggendo dalle bassezze sono sottomesse ai mariti nel
seguire gli ideali di virtù. 3. Diceva che chi batte moglie o figlio alza le
mani sulle cose più sacre. 4. Considerava una lode maggiore essere un
buon marito piuttosto che essere un grande senatore: e infatti non ammirava dell’antico Socrate nient’altro se non che, pur avendo una moglie bisbetica e figli stupidi, passò la vita serenamente e con mitezza. 5. Natogli
un figlio, non c’era nessuna attività così necessaria, se non un’incombenza pubblica, che gli impedisse di assistere la moglie mentre lavava il bambino e lo fasciava; ella stessa lo nutriva col proprio latte; anzi spesso accostandosi al seno i figli piccoli degli schiavi cercò di suscitare in essi benevolenza verso suo figlio col nutrirli dello stesso latte. 6. Quando poi il
bambino cominciò a capire, avendolo preso in cura egli stesso, gli insegnava a leggere e a scrivere, sebbene avesse uno schiavo abile che faceva
il maestro, di nome Chilone, che istruiva molti fanciulli. 7. Non stimava
conveniente che il figlio, come egli stesso dice, ricevesse rimproveri o fos-
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L’EDUCAZIONE
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LETTURE
se tirato per l’orecchia da uno schiavo se imparava lentamente, né che
fosse debitore a uno schiavo di un così importante insegnamento, ma egli
stesso gli insegnava a leggere e a scrivere, egli stesso gli insegnava le leggi,
egli stesso gli insegnava la ginnastica, addestrando il figlio non solo a lanciare il giavellotto, a usare le armi e a cavalcare, ma anche a colpire con la
mano nel pugilato, a sopportare il caldo e il freddo e a superare nuotando i vortici e le rapide del fiume. 8. E dice di aver scritto egli stesso di sua
propria mano le opere di storia a caratteri grandi, affinché fosse possibile
al ragazzo trarre vantaggio dalla conoscenza dell’antica storia patria. Stava attento ad evitare le espressioni volgari alla presenza del figlio non meno che se fossero state presenti le sacre vergini che chiamano Vestali.
Non fece mai il bagno insieme a lui. 9. E così, poiché agli occhi di Catone
che attendeva al nobile compito di formare ed esercitare il figlio alla
virtù, le prove di buona volontà erano inappuntabili e lo spirito era docile per naturale nobiltà, mentre il corpo appariva piuttosto delicato per le
fatiche, gli allentò l’eccessiva rigidezza e costrizione della regola di vita.
10. Ed egli, pur avendo tale costituzione, era un uomo valoroso nelle imprese militari e combatté gloriosamente nella battaglia contro Perseo sotto il comando di Paolo. 11. A un certo momento però, essendogli stata
fatta cadere da un colpo e scivolatagli per il sudore della mano la spada,
crucciato si rivolse verso alcuni compagni e, presi quelli, si lanciò di nuovo contro i nemici: fattosi largo nel luogo con molto combattimento e
grande sforzo, la trovò a stento tra molti mucchi di armi e cadaveri insieme di compagni e di nemici accatastati. 12. E perciò anche il comandante
Paolo ammirò il giovane e si cita una lettera di Catone al figlio che loda
mirabilmente il suo senso dell’onore e lo zelo dimostrato riguardo alla
spada. 13. Più tardi il giovane sposò anche la figlia di Paolo, Terzia, sorella di Scipione, accolto in una famiglia tanto importante non meno già per
i suoi meriti che per quelli di suo padre.
I SIGNIFICATI DEL TESTO
Rileggi il passo di Plutarco su Catone e rispondi alle seguenti domande.
a. Secondo Catone è meglio sposare una donna nobile o una donna ricca?
b. Le percosse fanno parte del metodo educativo di Catone?
c. Secondo Plutarco Catone prova ammirazione per un Greco, ma solo perché riconosce in lui una virtù tipicamente romana. Rintraccia nel testo il nome del filosofo greco e individua tale virtù.
d. Raccogli in un elenco le «materie scolastiche» che Catone ha incluso nel programma educativo del figlio.
e. In che cosa consiste l’atto eroico compiuto da Marco, il figlio di Catone, nella battaglia contro Perseo?
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IN FAMIGLIA: GENITORI E FIGLI
107
LETTURE
Riconoscenza di un figlio
ORAZIO
Orazio (65-8 a.C.) nacque a Venosa, colonia militare romana tra Apulia e Lucania. Il padre era un liberto di medie condizioni economiche, ma volle che il figlio ricevesse a Roma un’educazione di prim’ordine.
Trascorso un periodo ad Atene per studiare, dopo l’uccisione di Cesare (44 a.C.)
Orazio si schierò dalla parte di Bruto e Cassio; in seguito alla sconfitta dei cesaricidi a Filippi (42 a.C.), egli, salvatosi con la fuga, poté tornare in Italia grazie a un’amnistia e si guadagnò da vivere come segretario di un questore (scriba quaestorius). Proprio in quegli
anni il poeta cominciò a comporre i suoi primi versi, che lo segnalarono all’attenzione dei
suoi amici, tra cui Virgilio. Questi nel 38 a.C. lo presentò a Mecenate, che stava cercando
di raccogliere intorno a sé letterati di valore, in grado di propagandare gli ideali politici e
morali di cui si faceva portavoce Ottaviano, al quale Mecenate era legato. Iniziò nel 41
a.C. a comporre gli Epòdi, terminati e pubblicati nel 30: sono diciassette componimenti
poetici, di argomento vario, in cui compaiono i toni aspri delle invettive, ma anche meditazioni esistenziali e poesie di argomento amoroso.
Nel 35 a.C. Orazio pubblicò il primo libro delle Satire (Orazio però le chiama Sermones, cioè Discorsi), seguito da un secondo, edito nel 30.Tutti i componimenti sono in esametri e accomunati dall’elemento autobiografico, ma gli argomenti sono anche qui molto
vari e spesso intrecciati tra di loro: per esempio, discussione di problemi di poetica, riflessione sulla condizione sociale o esistenziale, descrizione di un viaggio da Roma a Brindisi,
scenette di vita quotidiana.
Le Odi (Carmina) furono raccolte in quattro libri: i primi tre furono pubblicati nel 23
a.C., l’ultimo nel 13. Queste sono le poesie più elaborate per lingua, stile e metrica. Rispetto alle precedenti opere oraziane, le tematiche sono affrontate con tono più elevato, talora riflessivo (nelle meditazioni esistenziali), talora raffinato (nella descrizione della
propria poesia e nelle odi celebrative di Roma).
Le Epistole (Epistulae), infine, sono lettere composte in esametri, indirizzate a vari
personaggi contemporanei; il primo libro fu pubblicato nel 20 a.C., il secondo, composto
tra il 19 e il 13, probabilmente dopo la morte del poeta.
La sesta satira del primo libro ha come tema centrale la valutazione del valore dell’individuo, che secondo Orazio dev’essere giudicato in base alle proprie capacità e ai
propri meriti e non per la nobiltà di stirpe. Rivolgendosi a Mecenate, il poeta lo ringrazia
per avere rifiutato i pregiudizi sociali, di cui sono preda gli stolti, e per aver accettato come amico lui, figlio di un liberto. A questo punto s’inserisce il brano qui sotto riportato:
Orazio, invece di vergognarsi delle proprie modeste origini, tesse un elogio del padre.
L’autore
e le opere
(Sermones, I,
6, 65-88)
65
70
75
Eppure se di pochi e moderati difetti il mio
carattere è viziato, ma per il resto è onesto (come se
biasimassi pochi nei che punteggiano un corpo bellissimo),
se né l’avidità né il disordine né i locali malfamati
nessuno mi rinfaccerà con fondamento, se vivo puro e senza far male a nessuno
(per lodarmi da solo ) e caro agli amici,
di queste qualità ebbe merito mio padre, che, sebbene
modesto proprietario di un magro campicello,
non volle mandarmi alla scuola di Flavio, dove i superbi
figli nati da superbi centurioni,
con gli astucci e la tavoletta ciondolanti dalla spalla sinistra,
andavano a portare ogni metà del mese otto assi;
invece ebbe il coraggio di portarmi ancora fanciullo a Roma,
perché fossi educato
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L’EDUCAZIONE
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LETTURE
80
85
nelle arti che fa imparare ogni cavaliere e senatore
ai propri pupilli. Se uno avesse visto il mio vestito e i servi al seguito,
poiché eravamo in una grande città, avrebbe creduto
che quei lussi mi derivassero da un patrimonio antico.
Egli stesso, custode lui per primo irreprensibile, mi accompagnava in giro
da tutti i docenti. Che altro aggiungere? Mi conservò non corrotto,
quello che è il primo ornamento della virtù, non solo da ogni azione,
ma anche da ogni sospetto infamante
e non ebbe paura che qualcuno gli addebitasse come colpa che un giorno
da banditore o, come egli stesso, da esattore
campassi con una paga modesta; né io mi sarei lamentato. Ma ora per questo
siano tributati a lui lode e da parte mia un ‘grazie’ ancora
più di cuore.
I SIGNIFICATI DEL TESTO
Rileggi il passo di Orazio sul proprio padre e rispondi alle seguenti domande.
a. Come giudica Orazio la propria natura? Da quali vizi si sente immune?
b. Quali sono le qualità che si attribuisce?
c. Quale tipo di ambiente frequenta il piccolo Orazio a Roma? Che cosa comporta questo cambiamento?
d. In base a quanto dice il poeta, quali sono i pericoli che il padre teme nella grande città per l’educazione morale del ragazzo?
e. Quali sono i sentimenti che Orazio esplicita nel ricordo del padre e quali, secondo te, quelli che emergono
sebbene impliciti?
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IN FAMIGLIA: GENITORI E FIGLI
109
Unità
2 La scuola
PLAUTO
LA VITA E LE OPERE Plauto (250 -184 a.C. circa) proveniva da Sarsina, nel territorio dell’attuale Romagna. I biografi antichi narrano che, divenuto schiavo di un mugnaio in
seguito a debiti contratti per speculazioni sbagliate, scrisse nel tempo libero alcune commedie, grazie alle quali recuperò la libertà, dedicando poi il resto della sua vita al teatro
comico; queste, però, sono tutte deduzioni ricavate dai versi delle sue commedie. In tutte le sue opere, infatti, gli schiavi hanno un ruolo fondamentale, anzi spesso sono i protagonisti e gli autentici motori di tutti gli intrecci. Questo non significa che Plauto considerasse la sua opera un mezzo di denuncia sociale: vuole semplicemente dire che nello spazio teatrale (ma solo in quello) i servi e i parassiti hanno più libertà e capacità di iniziativa
nel mettere in atto i loro piani. Del resto, in ossequio ai modelli letterari della commedia
ellenistica, ma forse soprattutto per evitare ogni equivoco interpretativo, le commedie
sono ambientate in città della Grecia, come a dire che la società che si sta delineando
non deve assolutamente essere confusa con quella romana. In realtà in tutte le commedie fanno capolino qua e là allusioni indiscutibili al mondo romano, soprattutto per consentire al poeta di prendere posizione contro certe «mode» grecizzanti e contro eccessi
di «modernità». Da questi cenni si può intuire che Plauto aveva probabilmente una posizione piuttosto conservatrice rispetto al dibattito allora in corso tra filoellenisti e tradizionalisti, ma occorre esser cauti nel valutare il suo appoggio ai fautori del mos maiorum.
Bisogna innanzi tutto tener conto del fatto che ogni opera letteraria non è lo specchio
fedele della realtà, bensì – caso mai – una sua interpretazione; ebbene, la commedia di
Plauto ha il suo punto di forza proprio nel continuo alternarsi tra realismo e fantasia, per
cui noi non sappiamo mai con certezza se quello che un personaggio sta dicendo è una
sua opinione o un pensiero dell’autore o un’esasperazione deformante, di cui soprattutto il teatro comico ha bisogno per raggiungere il suo primo scopo, cioè quello di divertire. Del numerosissimo elenco di opere attribuite a Plauto, a noi sono giunte solo ventuno commedie che il grammatico Varrone considera autentiche.Tra queste ricordiamo
Anfitrione, La commedia della pentola, I prigionieri, Il soldato spaccone, La commedia degli
asini, Casina e Le sorelle Bacchidi, di cui riportiamo un passo.
DISCIPLINA D’ALTRI TEMPI
1
(Plauto, Bacchides, 420 - 448)
Due sorelle, che vivono facendosi mantenere dagli uomini, fanno cadere nelle loro reti
due giovani, amici tra loro. Il servo astuto, schieratosi dalla parte dei giovani, riesce con
i suoi intrighi a procurare loro i soldi, truffando i padri. Questi, furibondi, vogliono rivalersi sui figli e sulle Bacchidi, ma vengono a loro volta sedotti dalle due ragazze.
Nella scena qui riportata, tratta dal terzo atto, il pedagogo Lido, vecchio moralista
intollerante vuole avvertire il padre Filosseno delle marachelle del figlio Pistoclero.
LYDUS (servus), PHILOXENUS (senex),
MNESILOCHUS (adulescens)
420
LY.
Sed tu, qui pro tam corrupto dicis causam filio,
eademne erat haec disciplina tibi, quom tu adulescens eras?
420. tam corrupto: va unito a filio, formando
un iperbato (vedi il glossario a pag. 337).
– dicis causam: «pronunci l’arringa difensiva».
421. Eademne: la particella enclitica -ne intro110
L’EDUCAZIONE
duce un’interrogativa diretta, «forse la stessa...».
– quom: è la forma arcaica di cum; qui ha
valore temporale.
– adulescens: indica il giovane di età compresa tra i 17 e i 25/30 anni circa.
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425
430
Nego tibi hoc annis viginti fuisse primis copiae,
digitum longe a paedagogo pedem ut efferres aedibus.
Ante solem exorientem nisi in palaestram veneras,
gymnasi praefecto haud mediocris poenas penderes.
Id quoi optigerat, hoc etiam ad malum accersebatur malum:
et discipulus et magister perhibebantur improbi.
Ibi cursu luctando, hasta disco, pugilatu pila,
saliendo sese exercebant magis quam scorto aut saviis;
ibi suam aetatem extendebant, non in latebrosis locis.
Inde de hippodromo et palaestra ubi revenisses domum,
cincticulo praecinctus in sella apud magistrum adsideres:
cum librum legeres, si unam peccavisses syllabam,
fieret corium tam maculosum quam est nutricis pallium.
422. Nego: regge l’oggettiva che ha come predicato verbale fuisse e come soggetto hoc, da
cui dipende il partitivo copiae (praticamente
come se fosse hanc copiam, «questo permesso»); tibi è dativo di possesso (e, insieme, di
vantaggio); nota il forte iperbato (vedi il glossario a pag. 337).
423. longe ... aedibus: ancora un iperbato (vedi il glossario a pag. 337). L’intero verso è costituito da una proposizione dichiarativa (o esplicativa), introdotta da ut e anticipata da hoc in
posizione prolettica (vedi il glossario a pag.
337) al v. 422; efferres regge l’accusativo pedem
e l’ablativo di allontanamento aedibus (la preposizione ex è omessa perché già compare – assimilata – nel prefisso del verbo); traduci «di
mettere il piede fuori di casa...». Per il significato di aedes vedi la scheda lessicale a pag. 113.
– longe: regge digitum (accusativo perché
complemento di distanza) e a paedagogo (che
indica la persona da cui si è distante); traduci
quindi «un dito lontano dal pedagogo».
424. Ante ... exorientem: «Prima del sorgere
del sole» (fa parte della protasi).
– nisi ... veneras: protasi della realtà, la cui
apodosi ha il congiuntivo penderes dell’irrealtà. Il periodo ipotetico è dunque misto e ricalca i modi e i tempi del parlato. In altre parole, Plauto vuole per un attimo immaginare che
il fatto della protasi stesse per accadere, ma poi
dice che quest’ipotesi era in realtà assurda,
perché i ragazzi si guardavano bene dall’arrivare dopo il sorgere del sole.
425. gymnasi: il ginnasio era l’edificio pubblico dedicato alla ginnastica. Solo in qualche
caso, soprattutto in Grecia (da cui arriva la parola stessa), vi si riunivano anche filosofi e sapienti; talvolta vi si seppellivano anche uomini
illustri.
– haud mediocris: litote (vedi il glossario a
pag. 337). Mediocris è forma parallela a mediocres.
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426. quoi: forma arcaica di cui; si sottintende il
determinativo ei.
– hoc: concorda con malum alla fine del
verso; nota anche il poliptoto (vedi il glossario
a pag. 337) ad malum / malum.
427. perhibebantur improbi: letteralmente «si
presentavano cattivi», cioè «si procuravano
una cattiva fama».
428. cursu luctando: variatio (vedi il glossario a
pag. 337).
– hasta disco, pugilatu pila: le allitterazioni
(vedi il glossario a pag. 337) sottolineano le
due coppie di sostantivi (il suono s nella prima
coppia, il suono p nella seconda).
429. saliendo ... saviis: Tutto il verso è dominato dall’allitterazione del suono s.
430. suam aetatem extendebant: lett. «protraevano la loro età», cioè «trascorrevano tutta
la loro giovinezza»; dal punto di vista stilistico,
nota il parallelismo della costruzione con quella del verso precedente.
– in latebrosis locis: «in luoghi malfamati».
Torna qui il topos (vedi il glossario a pag.
337) dei giovinastri moderni che scialacquano
in luoghi di perdizione il patrimonio dei vecchi
padri parsimoniosi.
431. ubi revenisses: proposizione temporale,
ma con una sfumatura ipotetica, «quando fossi
ritornato».
432. cincticulo: ablativo strumentale; forma
una figura etimologica (vedi il glossario a pag.
337) con praecinctus.
– adsideres: congiuntivo potenziale del passato, «ti saresti messo a sedere».
433. si ... syllabam: «se avessi sbagliato una sola sillaba».
434. fieret corium: «la cotenna ti sarebbe diventata». Apodosi dell’irrealtà con il congiuntivo imperfetto, non raro nel linguaggio familiare; corium (propriamente «cuoio, pelle animale») è usato scherzosamente a indicare che i
bambini erano picchiati come delle bestie.
LA SCUOLA
111
435
440
445
MN. Propter me haec nunc meo sodali dici discrucior miser:
innocens suspicionem hanc sustinet causa mea.
PH. Alii, Lyde, nunc sunt mores.
LY. Id equidem ego certo scio.
Nam olim populi prius honorem capiebat suffragio
quam magistro desinebat esse dicto oboediens.
At nunc prius quam septuennis est, si attingas eum manu,
extemplo puer paedagogo tabula disrumpit caput.
Cum patrem adeas postulatum, puero sic dicit pater:
«Noster esto, dum te poteris defensare iniuria».
Provocatur paedagogus: «eho senex minimi preti,
ne attigas puerum istac causa, quando fecit strenue».
It magister quasi lucerna uncto expretus linteo.
Itur illinc iure dicto. Hoccine hic pacto potest
inhibere imperium magister, si ipsus primus vapulet?
438. populi ... suffragio: «otteneva una carica
grazie al voto del popolo». Il soggetto sottinteso può essere un generico aliquis o iuvenis.
439. quam: è da legare a prius del verso precedente; introduce una temporale, «prima di
smettere di obbedire (essere obbediente) all’ordine del maestro».
440. prius ... est: «prima che abbia compiuto
sette anni». Soggetto sottinteso è puer.
– si attingas: protasi della possibilità con il
«tu generico».
441. tabula: era la tavoletta cerata su cui scrivevano i ragazzi.
442. postulatum: «a reclamare». Supino attivo,
con valore finale.
443. Noster esto: «Sii sempre della nostra famiglia».
– defensare: «difendere a denti stretti». È
un verbo frequentativo di defendo.
444. minimi preti: genitivo di stima, letteralmente «di infimo valore», cioè «miserabile».
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
445. ne attigas: imperativo negativo. Attigas è
forma usata da Plauto al posto di attingas.
– istac causa: complemento di causa (istac è
la forma rafforzata di ista), prolettico (vedi il
glossario a pag. 337) della proposizione causale oggettiva quando... strenue: «poiché si è fatto
valere».
446. expretus: forma arcaica per expressus. Il
testo qui è corrotto, ma il senso approssimativamente è «con la testa fasciata da un panno
unto, manco fosse una lucerna» (Paratore).
447. Itur ... dicto: «Pronunciata la sentenza, la
seduta è tolta». L’espressione, presa dal linguaggio giuridico, ha naturalmente un’intonazione ironica.
– Hoccine: aggettivo dimostrativo rafforzato da i + ne; concorda con pacto.
448. inhibere imperium: «far valere la sua autorità».
– ipsus: forma arcaica per ipse.
– si ... vapulet: protasi della possibilità.
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole del brano.
a. Quali sono le «discipline» con cui si formava il bambino?
b. La pratica dello sport aveva anche dei risvolti morali: quali?
c. Quali erano le doti che il bambino doveva sviluppare con questa educazione?
d. Quale ruolo dovevano svolgere i maestri seguendo i fanciulli?
e. Le percosse venivano considerate sempre educative?
f. Quali sono le motivazioni della risposta del padre al maestro?
g. Ti sembra che tutte le scenette riportate ricalchino la quotidianità dell’epoca di
Plauto o che ci siano delle esagerazioni? Per rispondere, individua e spiega l’eventuale presenza di figure retoriche come l’iperbole, la metafora, la similitudine.
112
L’EDUCAZIONE
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Aedes. Collegato alla radice del verbo greco àitho («brucio») e a quella di aestus, aestas, indicava propriamente il focolare.
Il singolare indica:
– una sola «camera», che originariamente formava l’intera abitazione, costituita dalla capanna a pianta circolare con il focolare al centro;
– la casa del dio, il «tempio», quando compare l’indicazione della divinità al
genitivo o l’attributo sacra (per esempio il tempio di Vesta conserva ancora
la pianta della capanna primitiva).
Il plurale indica un insieme di «camere» e quindi una «casa» o un «palazzo».
Tra i derivati e i composti sono da ricordare almeno aedicula, aedilis, aedifico,
aedificium, che hanno avuto in italiano esiti facilmente riconoscibili.
SCHEDA
LESSICALE
MARZIALE
Per la vita e le opere di Marco Valerio Marziale si rimanda a pag. 83.
GLI EPIGRAMMI Gli epigrammi di Marziale si contrappongono, con la vivacità del
loro linguaggio colloquiale, con la varietà delle situazioni della realtà quotidiana e con la
loro brevità caratteristica, ai generi illustri come l’epica e la tragedia e ai temi mitologici
che esse trattano, qualificandosi esplicitamente come un genere «basso», che ebbe successo di pubblico fra i suoi contemporanei e anche nei secoli successivi, soprattutto in
epoca rinascimentale.Trattano di argomenti molto vari e sono per noi qui particolarmente interessanti quelli che presentano in modo grottesco personaggi tratti dall’osservazione della realtà quotidiana: ci sono avari, imbroglioni, parassiti, vanitosi e altri tipi
umani rappresentati con vivacità e senso dell’umorismo.
I due epigrammi che riportiamo qui di seguito hanno per protagonisti due maestri di
scuola, bersaglio dell’ironia del poeta.
STUDIARE NON È REDDITIZIO
(Marziale, V.56)
2
La preoccupazione di un padre che non sa a quale maestro affidare l’educazione del proprio figlio e che chiede consiglio a un amico viene schernita in questo epigramma con
una risposta paradossale: più che intraprendere seri studi di grammatica e retorica conviene imparare uno di quei mestieri che permettono di far soldi.
5
Cui tradas, Lupe, filium magistro,
quaeris sollicitus diu rogasque.
Omnes grammaticosque rhetorasque
devites, moneo: nihil sit illi
cum libris Ciceronis aut Maronis,
1. Cui: aggettivo interrogativo (introduce l’interrogativa indiretta che dipende da quaeris)
riferito a magistro.
– Lupe: «o Lupo». È evidentemente un
amico di Marziale.
2. quaeris: vedi la scheda lessicale Chiedere e
domandare a pag. 114.
3. rhetoras: «i maestri di retorica». La parola è
usata qui, invece che con la normale desinenza latina di accusativo plurale -es, con quella greca -as.
Ciò in poesia è abbastanza comune per parole di
origine greca. Vedi la scheda lessicale I nomi greCol Saglia Imagines Seconda edizione
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ci a pag. 34. Il rhetor, che insegnava l’eloquenza, era praticamente un insegnante di scuola
superiore, mentre presso il grammaticus già citato
i ragazzi ricevevano l’insegnamento medio, successivo a quello elementare, che veniva loro impartito nella scuola del litterator o ludi magister.
4. devites: congiuntivo esortativo.
– nihil sit illi: «non abbia nulla a che fare».
Congiuntivo esortativo. Illi è un dativo di possesso.
5. Maronis: è il poeta Virgilio, il cui nome
completo è Publius Vergilius Maro.
LA SCUOLA
113
famae Tutilium suae relinquat;
si versus facit, abdices poetam.
Artes discere vult pecuniosas?
Fac discat citharoedus aut choraules;
si duri puer ingeni videtur,
praeconem facias vel architectum.
10
6. Tutilium: era un avvocato famoso.
– relinquat: congiuntivo esortativo.
7. abdices: «rinnega». È ancora un congiuntivo esortativo che fa da apodosi al periodo ipotetico del primo tipo.
8. Artes: vedi la scheda lessicale Ars a pag. 295.
9. Fac ... choraules: «Fagli imparare il mestiere
di citaredo o di flautista». Fac è un imperativo
tronco (gli altri imperativi tronchi sono duc e
dic). Da fac dipende direttamente il congiuntivo discat. Vedi la scheda lessicale Disco e i suoi
composti e derivati a pag. 123. Citharoedus e
choraules sono predicativi del soggetto sottinteso di discat (il figlio di Lupo). Il citaredo
accompagnava il proprio canto con il suono
della cetra, il choraules accompagnava il coro
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
con il flauto doppio.
10. duri ... ingeni: «dalla testa dura». È un genitivo di qualità.
11. praeconem ... architectum: «fallo (diventare) banditore o architetto». Facias è ancora una
volta un congiuntivo esortativo, che fa da apodosi al periodo ipotetico della realtà. Il
praeco era un banditore che poteva avere funzioni diverse: chiamare le parti in tribunale,
convocare il popolo nei comizi, proclamare le
merci messe in vendita nelle aste, invitare il
pubblico a uno spettacolo o altre simili. L’architectus era un costruttore, mestiere che evidentemente non richiedeva studi di grammatica e retorica.
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole del brano.
a. Quale aggettivo esprime la preoccupazione del padre per il futuro del figlio?
b. Quali attività bisogna evitare che un figlio intraprenda, secondo Marziale?
c. Quali mestieri sono invece, secondo lui, adatti a far soldi?
SCHEDA
LESSICALE
114
Chiedere e domandare. I verbi più usati in latino per esprimere il significato
di «chiedere» sono peto, che vuol dire «chiedere per avere», e quaero, che vuol
dire «chiedere per sapere», cioè «domandare».
Normalmente questi due verbi si trovano costruiti con l’accusativo della cosa
che si chiede e la persona cui si domanda espressa con a o ab (per quaero anche
con e o ex) e l’ablativo. Oppure l’oggetto della richiesta può essere espresso con
peto da una completiva volitiva al congiuntivo introdotta da ut o ne, mentre con
quaero da un’interrogativa indiretta.
L’EDUCAZIONE
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UN MAESTRO CHE INFASTIDISCE I VICINI
(Marziale, IX.68)
3
Anche in questo epigramma è rappresentata una situazione paradossale: non solo il
maestro è odioso agli scolari per i suoi metodi brutali – grida infatti e usa la frusta –, ma
è addirittura insopportabile per i vicini di casa, perché li disturba con le sue urla che cominciano già prima dell’alba.
5
10
Quid tibi nobiscum est, ludi scelerate magister,
invisum pueris virginibusque caput?
Nondum cristati rup¯ere silentia galli:
murmure iam saevo verberibusque tonas.
Tam grave percussis incudinibus aera resultant,
causidicum medio cum faber aptat equo;
mitior in magno clamor furit amphitheatro,
vincenti parmae cum sua turba favet.
Vicini somnum – non tota nocte – rogamus:
nam vigilare leve est, pervigilare grave est.
Discipulos dimitte tuos. Vis, garrule, quantum
accipis ut clames, accipere ut taceas?
Metro: distici elegiaci.
1. Quid tibi nobiscum est: «Che cos’hai contro
di me». Tibi è un dativo di possesso. Per nobiscum vedi la scheda lessicale La preposizione
cum con pronomi personali e relativi a pag. 116.
– ludi ... magister: «maestro di scuola». Il
ludi magister è il nostro maestro elementare.
2. virginibus: evidentemente al tempo di Marziale, nella seconda metà del I secolo d.C., anche le bambine frequentavano la scuola del ludi magister.
– caput: in questo caso si può tradurre «volto».
3. rup¯ere: equivale a ruperunt.
4. murmure ... tonas: «già tuoni con feroce
strepito e con frustate». Indubbiamente questo maestro aveva metodi di insegnamento
piuttosto violenti.
5. Tam grave: «Altrettanto pesantemente».
Qui il neutro dell’aggettivo gravis ha funzione
avverbiale, come a volte accade in poesia.
– percussis incudinibus: «battute le incudini». Ablativo assoluto.
– aera resultant: «i bronzi risuonano».
6. causidicum medio cum faber aptat equo:
«quando il fabbro adatta alla parte centrale del
cavallo la statua dell’avvocato». Cum introduce la subordinata temporale. Si fa riferimento
evidentemente a una statua equestre.
8. vincenti parmae: «il gladiatore vincente». È
in caso dativo, retto da favet. Parma significa
propriamente «scudo», ma qui è usato a indicare per metonimia il gladiatore armato di scudo.
– cum: «quando». Introduce una subordinata temporale con il verbo all’indicativo.
9. Vicini: «Noi vicini».
10. vigilare: si può rendere con «stare un po’
svegli», per esprimere l’antitesi con il successivo pervigilare, «vegliare tutta la notte». Vedi la
scheda lessicale Il prefisso per- a pag. 154.
11. garrule: «o linguacciuto».
11-12. Vis ... ut taceas?: come spesso avviene
negli epigrammi di Marziale, nel finale c’è, a
sorpresa, una battuta a effetto, un fulmen in
clausula. Qui il poeta si chiede se il rumoroso
maestro accetterebbe di essere pagato per stare zitto quanto viene pagato per gridare contro
i poveri allievi: chi abita nei dintorni sarebbe
forse contento di pagarlo, purché tacesse!
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole del brano.
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
a. Quale espressione indica che il maestro è odiato dai suoi allievi?
b. Qual è il metodo di insegnamento di questo maestro?
c. A quali situazioni di grande rumore viene paragonato il chiasso del maestro?
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LA SCUOLA
115
SCHEDA
LESSICALE
La preposizione cum con pronomi personali e relativi. Quando la preposizione cum accompagna l’ablativo di un pronome personale o di un pronome
relativo viene sempre unita in una sola parola con il pronome, per cui si ha:
mecum, «con me»;
tecum, «con te»;
secum, «con sé»;
nobiscum, «con noi»;
vobiscum, «con voi»;
quocum, «con il quale»;
quacum, «con la quale»;
quibuscum, «con i quali, con le quali».
Tali forme latine hanno continuazione nell’italiano arcaico o poetico meco, teco,
seco.
LETTURE
QUINTILIANO
Quintiliano (35-96 d.C. circa) fu il primo insegnante stipendiato da un imperatore,Vespasiano, che gli concesse una rendita annua di centomila sesterzi, cifra davvero considerevole per i tempi e indicativa del prestigio della sua scuola.
Uomo di fiducia dei Flavi, curò l’educazione dei più ricchi rampolli dell’alta società di
Roma, tra i quali Plinio il Giovane e probabilmente Tacito. Dalla sua esperienza di maestro, sensibile agli aspetti morali dell’insegnamento e sicuramente capace di intuire e coltivare il talento naturale dei giovani, Quintiliano trasse spunto per comporre nei suoi ultimi
anni (tra il 93 e il 96 d.C.) l’Institutio oratoria, l’unica sua opera rimastaci. I dodici libri che
compongono questo trattato vennero dedicati all’amico Vittorio Marcello e pubblicati nel
96, solo dopo le quotidiane e noiose pressioni dell’editore Trifone: lo studioso avrebbe in
verità voluto rivedere e ritoccare con calma quello che doveva essere il suo capolavoro
e testamento spirituale.
L’Institutio oratoria (Educazione oratoria) contiene nei primi due libri tutti i precetti e i
consigli che servono a formare l’oratore, dalla nascita (anzi, dall’ambiente familiare in cui
viene al mondo) fino al completamento degli studi; segue una sintetica – ma criticamente
acuta – storia della retorica greca e di quella latina nel libro III; l’autore passa poi a trattare le cinque parti della retorica, inventio, dispositio, elocutio, memoria e actio (libri III - XI);
conclude con il ritratto del perfetto oratore (XII).
I problemi dell’educazione e della scuola dunque riguardano solo la parte iniziale del
trattato, ma i primi due libri rivestono per noi un’importanza eccezionale: sono infatti l’unica testimonianza sistematica della teoria dell’educazione antica, facendo di Quintiliano il
primo pedagogista della storia.
L’autore
e l’opera
(Institutio
oratoria
I-1 e I-3)
Una pedagogia moderna
Anche se la critica ha dimostrato che la metodologia didattica della scuola
romana non segnò progressi fondamentali rispetto all’educazione ellenistica,
116
L’EDUCAZIONE
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LETTURE
alcuni punti dell’esposizione di Quintiliano sono trattati con una partecipazione e una passione tali da rendere estremamente attuali queste pagine. La
centralità del fanciullo nel processo educativo, la concezione cioè per cui egli
è non l’oggetto ma il soggetto attivo dell’educazione con l’aiuto del maestro,
l’invito a rendere la scuola un luogo di dialogo e non di repressione anche
violenta, la convinzione che i maestri debbano mirare non solo a trasmettere
dei contenuti, ma anche a far sviluppare una corretta socialità (pur con tutti
i limiti della civiltà romana): ecco alcuni degli spunti che verranno colti, dopo parecchi secoli, dalla pedagogia moderna.
12. Preferisco che il fanciullo incominci dalla lingua greca, perché quella
latina, che è in uso ai più, la assorbe anche se noi non vogliamo, e insieme
perché deve essere istruito prima anche nelle lettere greche, dalle quali
anche le nostre sono derivate. 13. Tuttavia non vorrei che ciò fosse fatto
con tanta pedanteria che a lungo parlino o impari soltanto in greco, come
è costume dei più. Infatti da ciò derivano moltissimi difetti sia della bocca, abituata a una pronuncia straniera, sia del linguaggio; e quando le
espressioni del greco sono rimaste impresse per assidua consuetudine,
perdurano tenacemente anche in un diverso modo di parlare. 14. Non
molto dopo quindi devono seguire gli studi di lingua latina e ben presto
devono andare di pari passo. Così accadrà che, avendo noi incominciato a
coltivare entrambe le lingue, nessuna delle due possa nuocere all’altra.
I piccoli alunni
Nei paragrafi 15-19, non riportati, Quintiliano non si dichiara d’accordo con
coloro che non ritengono giusto avviare il fanciullo all’istruzione prima che
questi abbia compiuto sette anni. Lo scrittore latino pensa invece che i bambini possano apprendere fin dalla più tenera età qualcosa di utile, per quanto
ciò comporti fatica sia per i piccoli alunni sia per i maestri: tutte le nozioni
che si anticipano, per quanto poche possano essere, costituiscono comunque
un guadagno. Bisogna poi tenere conto, per Quintiliano, che gli studi letterari si basano all’inizio soprattutto sulla memoria e che questa è saldissima
proprio nella fanciullezza.
Nei paragrafi 21-26, non riportati, Quintiliano sostiene che è importantissimo che il fanciullo riceva fin dall’inizio un’ottima educazione anche
grammaticale. L’autore non esita quindi a dare qualche precetto didattico relativamente ai primi elementi d’insegnamento. Il nome e le posizioni delle
lettere vanno per esempio imparate insieme alle loro figure, anche presentando ai bambini formine in avorio, in modo da far considerare questo insegnamento come un gioco.
20. E io non sono tanto inesperto delle età da pensare che si debba stare
addosso continuamente con durezza ai fanciulli in tenera età e che si debCol Saglia Imagines Seconda edizione
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LA SCUOLA
117
LETTURE
ba esigere impegno da loro completamente. Infatti bisognerà anzitutto
evitare che l’allievo prenda in odio gli studi, che non può ancora amare, e
che ne tema il sapore amaro una volta percepito anche oltre gli anni dell’infanzia. Sia a questo punto un gioco; e sia interrogato e sia lodato e non
sia mai contento di non aver fatto e talvolta se lui stesso non ne ha voglia si
insegni a un altro, per il quale lui provi invidia; talvolta gareggi e pensi di
vincere piuttosto spesso; sia allettato anche da premi adatti all’età. [...] 27.
Ma avendo già cominciato a seguire i tratti delle lettere, non sarà inutile
che esse vengano scolpite su una tavoletta nel modo migliore possibile, affinché lo stilo sia condotto attraverso quei per così dire solchi. E infatti
non sbaglierà, come per esempio sulle tavolette cerate (infatti sarà contenuto da entrambe le parti dai margini e non potrà uscire fuori dallo spazio
predelimitato) seguendo tracce sicure più rapidamente e più spesso rafforzerà le dita e non avrà bisogno dell’aiuto di uno che guida la sua mano con
la mano sovrapposta. 28. Non è una cosa disdicevole, che suole per lo più
essere trascurata dai buoni maestri, prendersi cura che i ragazzi scrivano
bene e velocemente. Infatti, poiché è fondamentale negli studi proprio lo
scrivere, con il quale soltanto ci si può procurare un progresso vero e fondato su radici profonde, un modo di scrivere piuttosto lento rallenta il
pensiero, mentre un modo di scrivere rozzo e confuso risulta incomprensibile; e di qui deriva l’altra fatica di dettare ciò che bisogna ricopiare. 29.
Perciò sia sempre e dovunque sia soprattutto nelle lettere personali e familiari farà piacere non aver trascurato nemmeno questo.
Come ottenere il massimo dai ragazzi
Nei primi cinque paragrafi del terzo capitolo, Quintiliano espone alcuni dei
compiti preliminari del maestro. Questi deve prima di tutto osservare l’intelligenza e l’indole del ragazzo. In ordine di importanza, segni di intelligenza
sono la memoria (che consiste nel recepire con facilità e nel ricordare fedelmente) e la capacità di imitazione delle azioni lodevoli. Il fanciullo intelligente, infatti, sarà soprattutto serio e onesto, farà domande e seguirà il maestro piuttosto che precederlo. Bisogna però diffidare degli ingegni molto precoci ma superficiali.
6. Dopo aver osservato queste cose, badi dunque al modo in cui debba essere guidato l’animo di chi impara. Alcuni sono pigri, se non starai loro
addosso, alcuni disdegnano i comandi, la paura frena alcuni, altri li indebolisce, l’esercizio continuo forma alcuni, in altri genera più entusiasmo.
7. Mi venga affidato quel ragazzo che è incoraggiato da una lode, a cui
piace la gloria, che piange per essere stato superato. Egli dovrà essere nutrito di desiderio di affermazione, lo offenderà un rimprovero, lo ecciterà
un onore, in lui non temerò mai la pigrizia. 8. A tutti bisogna tuttavia con-
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LETTURE
cedere un certo riposo; non solo perché non c’è niente che possa sopportare una fatica continua e perché anche quelle cose che sono prive di un’anima sensibile, per poter conservare la loro energia, si rilassano per così
dire in un riposo alternato, ma perché il desiderio di imparare dipende
dalla volontà, che non può essere costretta. 9. Perciò i ragazzi freschi e riposati dedicano più energie all’imparare e una mente più acuta, che generalmente si oppone alle costrizioni. 10. Né potrebbe dispiacermi il gioco
nei ragazzi; è anche questo una prova di vivacità; né potrei sperare che un
allievo triste e sempre avvilito sia poi di mente sveglia negli studi, dal momento che rimane depresso anche in questo istinto particolarmente naturale a quelle età. 11. Ci sia tuttavia una misura nel riposo, perché non crei,
se negato, un odio per gli studi o, se eccessivo, un’abitudine all’ozio. Vi
sono anche alcuni giochi non inutili ad acuire le menti dei ragazzi, quando, postisi a vicenda brevi domande di ogni genere, fanno a gara a rispondere. 12. Anche i tratti del carattere si rivelano più semplicemente nel gioco; posto che nessuna età sembri tanto debole da non imparare subito che
cosa sia il bene e che cosa il male, proprio questo è più di tutti il momento
in cui l’età deve essere formata, quando non sa fingere e obbedisce con la
massima disponibilità ai maestri. Si potrebbe spezzare più rapidamente
che correggere ciò che ha preso definitivamente una brutta piega. 13. Subito dunque il ragazzo deve essere ammonito, perché non agisca con precipitazione, in modo disonesto o senza misura; e si deve avere sempre in
mente quel famoso verso di Virgilio:
È tanto importante contrarre abitudini in tenera età.
Io però vorrei che gli allievi non fossero affatto picchiati, per quanto ciò
sia stato accettato e Crisippo non lo disapprovi. Anzitutto, perché è brutto e da schiavi e certamente 14. (provvedimento che invece è conveniente,
cambiando l’età) è offensivo; secondariamente, perché colui che ha un’indole tanto malvagia da non essere corretta con un rimprovero, diventerà
insensibile anche alle percosse come tutti gli schiavi peggiori; infine, perché non ci sarà nemmeno bisogno di questo castigo, se il precettore gli
starà vicino costantemente.
I SIGNIFICATI DEL TESTO
Rileggi i passi di Quintiliano e rispondi alle domande.
a. Quale parere esprime Quintiliano sull’insegnamento della lingua greca e di quella latina?
b. In quali modi i ragazzi possono essere stimolati allo studio?
c. Che cosa pensa Quintiliano delle pause di riposo per chi studia?
d. Per quali motivi le percosse non vengono considerate educative?
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LA SCUOLA
119
I DOVERI DEL MAESTRO
4
(Quintiliano, Institutio oratoria, II-2)
All’inizio del secondo libro Quintiliano sostiene che non vi sia un’età prestabilita per il
passaggio dagli studi di grammatica, che costituivano il ciclo intermedio, a quelli di eloquenza, che rappresentavano il livello superiore: ogni ragazzo vi deve accedere quando
ha maturato le conoscenze e le capacità adeguate. Le esercitazioni devono essere di difficoltà graduata: si deve partire da narrazioni e da brevi componimenti di lode o di biasimo, per passare a trattare tesi e luoghi comuni, prendendo spunto da contese fittizie.
Nel brano qui riportato, l’autore insiste sull’atteggiamento che il maestro deve tenere
nei confronti degli allievi: occorre che egli sappia comportarsi come un padre, mantenendo un giusto equilibrio tra severità e tolleranza e soprattutto offrendosi come esempio vivente di onestà e correttezza. Certamente la scuola di Quintiliano, basata sull’imitazione, non mira a sviluppare la creatività e le capacità di autonomia critica dell’alunno. Bisogna tuttavia riconoscere che rispetto al plagosus Orbilius («il manesco Orbilio»), maestro di Orazio, qualche progresso è stato fatto nel rispetto della dignità del fanciullo.
4. Neque vero sat est summam praestare abstinentiam, nisi disciplinae severitate convenientium quoque ad se mores astrinxerit. 5. Sumat igitur
ante omnia parentis erga discipulos suos animum ac succedere se in eorum locum, a quibus sibi liberi tradantur, existimet. Ipse nec habeat vitia
nec ferat. Non austeritas eius tristis, non dissoluta sit comitas, ne inde
odium, hinc contemptus oriatur. Plurimus ei de honesto ac bono sermo
4. Neque: nel paragrafo precedente Quintiliano ha detto che occorre che i docenti siano
moralmente ineccepibili, dato che i fanciulli
sono facilmente influenzabili.
– sat: forma abbreviata dell’avverbio satis
(«abbastanza»).
– summam ... abstinentiam: infinitiva retta
da sat est; il soggetto sottinteso eum, ovvero
praeceptorem, si ricava dal contesto.
– nisi ... astrinxerit: protasi del secondo
tipo o della possibilità, mentre l’apodosi Neque ... est è del primo tipo o della realtà; si tratta quindi di un periodo ipotetico misto.
– disciplinae: vedi la scheda lessicale Disco
e i suoi composti e derivati a pag. 123.
– convenientium: participio sostantivato, di
specificazione rispetto a mores («i comportamenti di coloro che si radunano»).
– quoque: ricorda che quest’avverbio (da
non confondere con l’omografo ablativo singolare maschile o neutro di quisque!) è sempre
posto dopo la parola a cui si riferisce.
– ad se: «presso di lui», cioè presso il maestro, a scuola.
5. Sumat: congiuntivo esortativo, come il successivo existimet e, nei periodi seguenti, habeat, ferat, sit; tutti questi predicati verbali
hanno come soggetto sottinteso magister.
– parentis: genitivo di specificazione, da riferire al seguente animum («la disposizione
d’animo di un genitore»).
– succedere ... locum: proposizione infini120
L’EDUCAZIONE
tiva retta da existimet, «pensi di subentrare al
posto di coloro».
– sibi: «a lui», cioè al maestro; l’uso del riflessivo (cosiddetto «indiretto») si spiega con il
fatto che il dativo, il quale si trova in una proposizione relativa con il verbo al congiuntivo, è
riferito al soggetto della proposizione reggente
(succedere se...).
– liberi: vedi la scheda lessicale a pag. 105.
– ferat: «sopporti».
– Non ... comitas: le due proposizioni principali, coordinate per asindeto, sono collegate
dall’anafora (vedi il glossario a pag. 337) Non...
non e disposte in modo da formare un chiasmo
(vedi il glossario a pag. 337) per sottolineare la
negazione di questi eccessi, opposti tra loro.
– ne ... oriatur: anche qui due proposizioni
disposte in parallelo; odium e contemptus
(«odio» e «disprezzo»), entrambi soggetti di
oriatur, sono conseguenze rispettivamente (inde..., hinc sono avverbi di moto da luogo: il primo si riferisce al termine più lontano, il secondo al più vicino) dell’austeritas tristis («rigida
severità») e della dissoluta comitas («permissiva compiacenza»).
– Plurimus ei ... sermo sit: costruzione del
dativo di possesso; qui conviene rendere «la
maggior parte dei suoi discorsi parli...»
– de honesto ac bono: neutri sostantivati,
«dell’onestà e della bontà».
– quo saepius monuerit: proposizione
comparativa di uguaglianza, introdotta dall’avCol Saglia Imagines Seconda edizione
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sit; nam quo saepius monuerit, hoc rarius castigabit. Minime iracundus,
nec tamen eorum, quae emendanda erunt, dissimulator; simplex in docendo, patiens laboris, assiduus potius quam immodicus. 6. Interrogantibus libenter respondeat, non interrogantes percontetur ultro. In laudandis discipulorum dictionibus nec malignus nec diffusus, quia res altera
taedium laboris, altera securitatem parit. 7. In emendando, quae corrigenda erunt, non acerbus minimeque contumeliosus; nam id quidem multos a proposito studendi fugat, quod quidam sic obiurgant quasi oderint.
8. Ipse aliquid, immo multa, cotidie dicat, quae secum auditores referant.
verbio quo («quanto»), usato davanti al comparativo (saepius, avverbio); nota anche il futuro anteriore monuerit, per sottolineare che la
prevenzione deve avvenire prima dell’azione
della principale, espressa infatti con il futuro
semplice castigabit.
– hoc: avverbio («tanto») in correlazione
con il precedente quo; con questo valore hoc è
poco usato nel latino classico, che in genere
preferisce impiegare eo.
– Minime iracundus: in tutto il periodo sono sottintesi sia il soggetto magister sia la copula sit (congiuntivo esortativo, come si ricava
dai periodi precedenti); «Non sia assolutamente collerico».
– eorum: neutro sostantivato, genitivo di
specificazione riferito a dissimulator; puoi tradurre «pronto a chiudere un occhio su quegli
errori».
– patiens laboris: «capace di sopportare la
fatica».
– assiduus potius quam immodicus: «costantemente attento piuttosto che senza misura nelle pretese».
6. Interrogantibus ... non interrogantes: «a
coloro che lo interrogano ... coloro che non
pongono domande»; participi presenti sostantivati. La figura è un poliptoto (vedi il glossario
a pag. 337).
– respondeat ... percontetur: congiuntivi
esortativi, che hanno sempre come soggetto
sottinteso magister.
– In laudandis ... dictionibus: «nel lodare le
declamazioni». Le dictiones erano delle
brevi esposizioni orali di componimenti svolti
dai ragazzi su temi assegnati dal maestro.
– nec malignus nec diffusus: «non sia né
avaro né prodigo»; sono sottintesi sia il soggetto magister sia la copula sit (al congiuntivo
esortativo, come si ricava dai periodi precedenti).
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– quia ... parit: «poiché il primo comportamento genera la demotivazione alla fatica, il secondo l’eccessiva sicurezza»; sono proposizioni causali obiettive, che, pur dipendendo da
una principale con il congiuntivo sottinteso
(sit), hanno il verbo all’indicativo perché esprimono un dato di fatto.
7. In emendando: «Nell’emendare/correggere»; emendo indica propriamente «far uscire,
liberare da (ex-) un difetto, un’imperfezione
(mendum).
– quae corrigenda erunt: «gli errori che saranno da rettificare» o «gli errori che meriteranno la rettifica»; per l’uso dell’indicativo, vedi nota precedente.
– non ... contumeliosus: ancora sottintesi
magister e sit.
– quidem: avverbio («certamente»), da non
confondere con quidam («un certo, un tale»).
– fugat: da fugo, -as, -avi, -atum, -are, «respinge».
– quod ... obiurgant: la proposizione si può
considerare una causale obiettiva («perché ...
rimproverano») o, più probabilmente, una dichiarativa, anticipata da id, che si potrebbe anche non tradurre («ciò ..., il fatto che ... rimproverino»).
– quidam: Quintiliano accusa qui «certi
maestri» della sua epoca di allontanare molti ragazzi dallo studio a causa della loro eccessiva severità.
– quasi oderint: proposizione comparativa
ipotetica, «come se odiassero»; quasi ha spesso
valore ironico, come in questo caso. Ricorda
inoltre che odi, odisse è un verbo difettivo e
che il suo perfetto ha valore di presente (odi significa «ho preso in odio», quindi «odio»; per
questo è definito «perfetto logico»).
8. quae ... referant: proposizione relativa con
valore finale.
– auditores: «gli uditori», cioè «gli allievi».
LA SCUOLA
121
Licet enim satis exemplorum ad imitandum ex lectione suppeditet, tamen
viva illa, ut dicitur, vox alit plenius praecipueque eius praeceptoris, quem
discipuli, si modo recte sunt instituti, et amant et verentur. Vix autem dici
potest, quanto libentius imitemur eos quibus favemus.
11. Vultum autem praeceptoris intueri tam qui audiunt debent, quam ipse
qui dicit; ita enim probanda atque improbanda discernet, si stilo facultas
continget, auditione iudicium.
– Licet: morfologicamente è forma verbale
(dall’impersonale licet, -cuit, ere), a cui si può
unire un congiuntivo senza congiunzione e
quindi con un legame più paratattico che ipotattico; dal significato di «è possibile» è poi derivato il valore di congiunzione subordinante,
che introduce una proposizione concessiva.
Qui va unito a suppeditet.
– satis exemplorum: è soggetto di suppeditet; satis è avverbio («abbastanza») che regge il
genitivo partitivo exemplorum; si può tradurre
l’intera proposizione «sebbene si trovino sufficienti esempi».
– viva illa: attributi di vox; illa serve qui soprattutto a rafforzare l’espressione («proprio
la viva voce»).
– si ... instituti: periodo ipotetico, a cui modo dà valore restrittivo; «se soltanto ...», quindi
«purché siano stati istruiti correttamente».
– quanto ... imitemur: proposizione interrogativa indiretta; quanto è ablativo di misura,
usato davanti a comparativo (libentius, «più
volentieri»).
11. intueri: è retto da debent; il verbo intueor,
-eris, -tuitus sum, -eri significa propriamente
(come indica il prefisso in-) «guardare dentro», cioè «con attenzione», sia con gli occhi
sia con la mente; proprio con quest’ultima ac-
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
cezione è passato all’italiano «intuire».
– qui audiunt: sono i ragazzi che assistono
alla lezione, ascoltando un’esercitazione orale
di un loro compagno, ipse qui dicit, cioè «colui
che parla».
– probanda atque improbanda: gerundivi
neutri plurali; qui puoi rendere «le parole che
si devono approvare e quelle che sono da disapprovare». C’è una figura etimologica (vedi
il glossario a pag. 337).
– discernet: «distinguerà»; il soggetto sottinteso è ipse qui dicit, ma logicamente si può
intendere il verbo riferito a ogni alunno.
– si ... iudicium: proposizioni coordinate
che costituiscono due protasi di un periodo
ipotetico del primo tipo o della realtà.
– facultas ... iudicium: «la capacità oratoria... la competenza critica» (o «di giudizio»).
Nel paragrafo 13, Quintiliano ribadisce
che l’apprendimento dei ragazzi deve basarsi
sull’imitazione del maestro e sostiene che «non
è il maestro che deve esprimersi secondo l’approvazione degli alunni, ma gli alunni secondo
quella del maestro».
– stilo: vedi Immagini di civiltà La scrittura
a pag. 134.
– continget: letteralmente «si verificherà»,
quindi «si otterrà».
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole del brano.
a. Quale atteggiamento deve assumere l’insegnante nei confronti degli alunni?
b. Quali devono essere le sue caratteristiche morali?
c. Che cosa deve comunque innanzi tutto imporre il maestro ai ragazzi che frequentano la sua scuola?
d. Quintiliano raccomanda all’insegnante di comportarsi in un certo modo o di non
seguire certi altri comportamenti, per evitare i pericoli dell’eccessivo rigore da
una parte e quelli del permissivismo dall’altra; individua nel testo i riferimenti a
questi consigli e alle rispettive motivazioni e completa poi la tabella seguente:
122
L’EDUCAZIONE
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Eccessivo rigore da evitare
Conseguenze negative
austeritas tristis
taedium laboris
non acerbus minimeque
contumeliosus
Permissivismo da evitare
Conseguenze negative
dissoluta comitas
securitatem
e. Quale conseguenza positiva ha, nella scuola e nella vita, la simpatia verso un modello?
Disco e i suoi composti e derivati. Disco, -is, -didici, -ere («imparo») deriva
dalla radice dek-, con lo stesso raddoppiamento iniziale (di-dc-sco era forma originaria, ricostruita dai linguisti) del verbo greco didàsko («insegno»; dall’aggettivo didaktikòs deriva l’italiano «didattico»). Unico esito in italiano del verbo latino è il sostantivo «discente», derivato dal participio presente e appartenente al
registro letterario. Composti principali di questo verbo latino sono condisco
(«imparo completamente» o «sono condiscepolo»), dedisco («disimparo»), edisco («imparo a memoria»), praedisco («imparo prima»); nessuno di questi ha lasciato traccia in italiano.
Dalla radice di disco derivano anche termini che hanno avuto esito evidente in
italiano:
– disciplino, as, avi, atum, are («disciplinare»), formatosi in epoca tarda e usato soprattutto nella lingua ecclesiastica; da qui vengono anche «disciplinato», «indisciplinato», «disciplinatore»;
– disciplinabilis, e («che si può insegnare, disciplinabile»), aggettivo formato
dal tema del presente del verbo precedente;
– discipulus, i, cioè «allievo»; «discepolo» è rimasto nel lessico della religione, della cultura e dell’arte;
– disciplina, ae, che può avere i seguenti significati:
«insegnamento», istruzione, educazione»;
«disciplina, materia, scienza»;
«scuola filosofica, sistema di pensiero, setta»;
«regola di comportamento, usanza, costume, consuetudine»;
«disciplina, obbedienza» (soprattutto in ambito militare).
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SCHEDA
LESSICALE
123
I DOVERI DEGLI ALUNNI
6
(Quintiliano, Institutio oratoria, II-9)
Dopo aver esaminato le esercitazioni, le materie e le letture nella scuola d’eloquenza,
nell’ottavo capitolo Quintiliano si concentra sulle esigenze didattiche degli alunni, ciascuno dei quali ha particolari caratteristiche psicologiche. Il buon docente deve quindi
saper sviluppare le doti di ognuno.
Non basta però seguire le attitudini individuali degli alunni: contemporaneamente,
infatti, occorre anche fornire una preparazione generale, in modo che l’istruzione aggiunga qualcosa ai doni di natura.
Nel nono capitolo l’autore apre una breve ma importante parentesi nella trattazione
per parlare dei doveri degli alunni: questi, da parte loro, devono mostrare rispetto per
l’insegnante e considerarlo un padre spirituale. Quintiliano insiste ancora, quindi, su
due elementi fondamentali della sua pedagogia: l’accordo indispensabile tra chi insegna
e chi impara e il valore fondamentale dell’imitazione nell’apprendimento.
1. Plura de officio docentium locutus, discipulos id unum interim moneo,
ut praeceptores suos non minus quam ipsa studia ament et parentes esse,
non quidem corporum sed mentium, credant. 2. Multum haec pietas
conferet studio; nam ita et libenter audient et dictis credent et esse similes
concupiscent, in ipsos denique coetus scholarum laeti alacresque convenient, emendati non irascentur, laudati gaudebunt, ut sint carissimi, studio merebuntur. 3. Nam ut illorum officium est docere, sic horum praebere se dociles; alioqui neutrum sine altero sufficit. Et sicut hominis ortus
1. Plura: comparativo assoluto; letteralmente
«molte cose», ma conviene qui rendere, con
una locuzione avverbiale, «a lungo». L’autore
si riferisce ai capitoli precedenti.
– locutus: participio perfetto da loquor, è
congiunto al soggetto sottinteso (ego) della
proposizione principale e ha valore temporale.
– discipulos: vedi la scheda lessicale Disco e
i suoi composti e derivati a pag. 123.
– id ... moneo: «questo solo intanto raccomando»; id è prolettico, cioè anticipa le proposizioni seguenti, rette da moneo. Qui il verbo
moneo è costruito con un doppio accusativo:
l’accusativo della persona, che è discipulos, e
un accusativo di relazione, che è il pronome
neutro id unum.
– ut ... ament et... credant: «di amare... e
credere»; sono proposizioni completive (dette
anche completive di natura finale per la loro
affinità con tali subordinate).
– parentes ... mentium: nell’oggettiva è sottinteso il soggetto illos o praeceptores.
2. haec pietas conferet: l’espressione si traduce «questo rispetto contribuirà». Il termine
pietas può indicare, oltre al sentimento religioso, il rispetto verso la famiglia (genitori, figli,
fratelli e sorelle), verso la patria, le autorità, i
benefattori. Qui è un sentimento di rispetto
verso il maestro.
124
L’EDUCAZIONE
– studio: vedi la scheda lessicale Studium a
pag. 312.
– similes: sottinteso illis cioè praceptoribus.
– in ... scholarum: letteralmente «nelle adunanze delle scuole», ma conviene rendere più
semplicemente «a scuola».
– laeti alacresque: predicativi del soggetto
(discipuli, sottinteso), «allegri ed entusiasti».
– convenient: «si recheranno».
– emendati ... laudati: predicativi del soggetto, a cui conviene dare un valore ipotetico o
temporale «se / quando corretti..., se / quando
lodati».
– ut sint carissimi, studio merebuntur: «si
renderanno meritevoli con lo studio per essere
molto amati». Studio è un ablativo strumentale.
3. ut ... officium est: proposizione comparativa d’uguaglianza, «come è dovere...».
– illorum ... horum: il primo pronome si riferisce al termine più lontano (cioè a praeceptores), il secondo a quello più vicino (discipuli,
soggetto sottinteso nelle proposizioni del periodo precedente).
– sic: è in correlazione con ut precedente; si
sottintende officium est.
– sicut ... confertur: proposizione comparativa d’uguaglianza, «come la nascita dell’uomo deriva dall’unione di entrambi i genitori».
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ex utroque gignentium confertur et frustra sparseris semina, nisi illa praemollitus foverit sulcus: ita eloquentia coalescere nequit nisi sociata tradentis accipientisque concordia.
– gignentium: participio presente sostantivato da gigno, is, genui, genitum, ere.
– et frustra ... semina: proposizione coordinata alla comparativa d’uguaglianza e apodosi del periodo ipotetico della realtà.
– sparseris: seconda persona generica; l’uso
del futuro anteriore in correlazione con lo stesso tempo nella subordinata (nisi ... foverit) è
normale in latino quando si vuole esprimere in
maniera energica un fatto che si immagina già
compiuto; traduci quindi questa espressione
con «si spargeranno».
– nisi ... foverit sulcus: protasi del periodo
ipotetico della realtà.
– illa: riferito a semina.
– praemollitus: participio congiunto riferito a sulcus («il solco, dopo che è stato dissodato»).
– nisi sociata ... concordia: «se non con il
comune accordo».
– tradentis accipientisque: participi sostantivati, «di chi impartisce e di chi riceve l’insegnamento».
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole del brano.
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
a. Che cosa raccomanda Quintiliano agli alunni?
b. Quale clima crea nella scuola il rispetto verso l’insegnante?
c. Quali sono i vantaggi didattici di questo clima?
d. Quali sono i rispettivi doveri di insegnante e alunno?
e. Nell’ultimo periodo si paragonano la nascita dell’uomo e delle piante allo sviluppo dell’eloquenza; trova le corrispondenze logiche tra i termini delle comparative
(1a colonna) e quelli della principale (2a colonna):
hominis ortus
eloquentia
ex utroque gignentium
coalesce˘re
confertur
sociata¯ concordia¯
semina sparseris
tradentis
praemollı¯tus sulcus
accipientisque
f. Indica tra i termini citati sopra quali si riferiscono esplicitamente o metaforicamente al maestro e quali all’alunno.
g. Quale idea si ricava del rapporto tra docente e alunno e dell’insegnamento in
generale secondo Quintiliano?
Derivati dalla radice doceo. Doceo, es, docui, doctum, ere deriva dalla radice
dek che indica «ricevere mentalmente», «apprendere»; ha però valore causativo
e quindi significa «faccio apprendere, insegno». Da ricordare la sua costruzione,
con l’accusativo sia della persona che riceve l’insegnamento sia della cosa insegnata (questa può anche essere espressa con de + ablativo o con l’ablativo semplice). Soli esiti in italiano del verbo latino sono il sostantivo «docente», derivato dal participio presente, e l’aggettivo e sostantivo «dotto», dal participio perfetto.
Di uso limitato sono i composti principali di doceo: dedoceo («faccio disimparare»), edoceo («faccio imparare a memoria»), prodoceo («insegno pubblicamente»); nessuno di questi ha lasciato traccia in italiano.
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SCHEDA
LESSICALE
125
Dalla radice di doceo derivano anche termini che hanno avuto esito evidente in
italiano, alcuni dei quali però con mutamento o ampliamento di significato:
– docilis, e (da docibilis, e, che è attestato però solo nel latino tardo ed ecclesiastico), che oltre all’originario significato di «educabile, che si può istruire facilmente, addomesticabile» assunse anche quello di «docile, arrendevole»; da
questo aggettivo deriva docilitas (in senso proprio «attitudine ad apprendere»,
quindi anche «docilità»);
– doctor, ris, formato con il suffisso -tor che indica colui che compie l’azione; designava anticamente il «maestro, insegnante, istruttore», mentre oggi «dottore» è colui che è in possesso di una laurea o, nella lingua quotidiana, il medico;
– doctrina, ae, che indicava sia «insegnamento (teorico)» sia «teoria, scienza,
cultura scientifica o filosofica»; in ambito cristiano designò la somma dei
princìpi religiosi, da insegnare ai giovani, e nell’italiano moderno «dottrina»
significa anche «elaborazione scientifica del diritto» e «l’insieme degli studiosi
che si sono occupati di un certo argomento giuridico»;
– documentum, i, è tutto ciò che serve a far vedere, apprendere, capire (con lo
stesso suffisso strumentale da moneo deriva monumentum); originariamente
quindi valeva «insegnamento, lezione, esempio», poi «prova, monito» e anche
«testimonianza»; da qui l’odierno significato italiano; il sostantivo d’età classica ha originato in epoca tarda il verbo documento, as, are (vedi in italiano il
verbo «documentare» e l’aggettivo «documentato»).
Tra gli altri termini italiani sorti da derivati dalla radice di doceo si possono ricordare «docenza», «documentario», «documentazione».
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VERIFICHE FINALI
1. Qual era il ruolo del pater familias e quale quello dei figli nella famiglia romana?
2. Era possibile che i padri scegliessero metodi educativi sostanzialmente differenti? Rispondi con riferimenti ai
testi che hai letto.
3. Hai riscontrato nei testi letti sentimenti di gratitudine da parte dei figli per le scelte educative dei genitori?
In quali testi in particolare?
4. Come si configurava il sistema scolastico romano?
5. Era possibile anche per i maestri scegliere fra metodi educativi differenti? Fai qualche esempio tratto dai testi latini.
6. Fra i metodi educativi usati in famiglia e a scuola nel mondo romano hai notato criteri pedagogici che ancora oggi potremmo definire «all’antica» o «moderni»?
7. Rileggi il testo di Plutarco relativo alla vita di Catone e i versi della commedia di Terenzio.
a. Nei due brani sono citati degli schiavi della famiglia? Come si chiamano e che funzione hanno? Chi esprime un evidente disprezzo nei confronti degli schiavi?
b. In quali comportamenti, in particolare, Catone dimostra di essere un padre affettuoso? E in quali comportamenti rivela il suo affetto paterno il personaggio di Micione?
c. Sia Catone sia Micione rivelano sollecitudine per la salute del figlio e del nipote. Individua i passi in cui ciò
risulta.
d. Confronta Catone con i personaggi di Micione e di suo fratello Demea: chi ha preso moglie? chi ama la
vita in campagna? Ti sembra che esista un rapporto tra queste due scelte di vita?
e. Individua nel passo della Vita di Catone e nel monologo di Micione i riferimenti alla prassi dell’adozione,
molto diffusa nell’antica Roma, e confronta quest’usanza antica con l’adozione moderna notando le differenze.
f. Come appare, nei due brani, il carattere di Marco, figlio di Catone, e quello di Eschino, figlio di Micione,
dal punto di vista morale?
g. Inserisci negli schemi i «valori» elencati qui di seguito, individuando in corrispondenza di ognuno quale
comportamento di Catone e di Micione dimostra la volontà di trasmetterli al figlio.
superiorità di un libero uomo rispetto a uno schiavo - istruzione letteraria - affetto verso il padre - rispetto
delle leggi - pratica dello sport - sincerità - resistenza fisica - conoscenza della storia patria - spontaneità senso del pudore.
COMPORTAMENTO DI CATONE
QUALI VALORI VUOLE TRASMETTERE?
COMPORTAMENTO DI MICIONE
QUALI VALORI VUOLE TRASMETTERE?
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LA SCUOLA
127
8. Svolgi i seguenti esercizi relativi ai passi di Plauto, di Marziale e di Quintiliano sui temi della scuola e dell’educazione dei fanciulli.
a. A quanti anni i bambini cominciavano la scuola?
b. Tra la scuola di Lido e del maestro dell’epigramma IX.68 di Marziale e quella di Quintiliano, quale, a tuo
parere, mostra più rispetto per l’individualità dell’alunno e perché?
c. Quali sono i rapporti tra alunno e maestro nei due tipi di scuola?
d. Quali sono le motivazioni pro e contro l’uso delle percosse nelle due scuole?
e. Quale valore è dato allo stimolo positivo allo studio in ciascuna delle due scuole?
f. Attribuisci a ogni autore le caratteristiche elencate qui di seguito, individuando il metodo seguito da Lido
e quello seguito da Quintiliano (una caratteristica, per la verità, è comune ad entrambi):
pratica assidua di molti sport - indagine sulle caratteristiche psicologiche dell’alunno - preparazione alla
cultura letteraria - apprendimento meccanico - paura della punizione - rispetto della dignità dell’allievo fortificazione fisica e allontanamento dal vizio - metodologia di insegnamento individualizzata - percosse conoscenze solo essenziali - obbedienza assoluta - tempo adeguato di svago - miglior rendimento
intellettuale come obiettivo.
LIDO
QUINTILIANO
128
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F
OBIETTIVI
● Individuare i tratti salienti
del rapporto tra la cultura
romana «ufficiale»
(o «alta») e il lavoro
e riconoscere gli elementi
di evoluzione nella
riflessione su questo tema
nel corso dei secoli.
● Definire la scala gerarchica
delle attività lavorative
ed economiche a Roma,
individuando i loro legami
con l’insieme dei valori
morali tradizionali.
● Distinguere quale posto
i Romani assegnavano
al lavoro, secondo
il periodo e la collocazione
sociale, attraverso
il confronto fra testi
di autori come Cicerone,
Virgilio, S. Paolo, Catone,
Varrone, Marziale e Lucrezio.
● Riconoscere quali elementi
dei testi sono propri
di un’analisi oggettiva
della realtà storica e sociale
e quali invece sono frutto
di una posizione ideale
o ideologica.
● Sintetizzare i dati raccolti
per confrontarli con il
quadro storico ricostruito
attraverso lo studio
del manuale di Storia
e riflettere su eventuali
elementi di continuità
e discontinuità tra il mondo
romano e quello attuale
occidentale riguardo a
questo tema.
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Il lavoro
Unità 1
La considerazione del lavoro
238
Unità 2
I Romani al lavoro
250
Unità 3
Le associazioni professionali
265
Il mondo greco
l lavoro, soprattutto quello manuale, non ha costituito un tema
di fondamentale importanza nella letteratura colta antica fino all’affermazione del Cristianesimo. Le rare ma nobilissime eccezioni, tra cui il poeta greco Esiodo e il romano Virgilio, ci parlano soprattutto dell’agricoltura, ma anche qui con una certa tendenza all’idealizzante rappresentazione di un mondo felice, lontano dalle preoccupazioni, ultima dimora dei valori tradizionali. Per le altre attività
produttive, in effetti, poche – in rapporto al totale – sono le pagine di
prosa o di poesia esplicitamente dedicate non diciamo all’esaltazione,
ma anche solo alla trattazione diretta.
Zeus di
Ca-
I
Il mondo romano
a cultura romana «alta» insiste sul fatto che la valutazione dell’uomo e delle sue attività dipenda dalla considerazione del singolo all’interno della comunità. Condizioni necessarie per una possibile
valutazione positiva dal punto di vista socio-politico sono il sesso maschile, la libertà e la cittadinanza. Non godere di questa posizione di partenza
privilegiata significa essere emarginati o marginali, seppure a vario titolo e
con diverse gradazioni.
L’uomo libero cittadino romano, per poter intraprendere la carriera politica,
deve godere della considerazione sociale, che si ricava dalla dignitas (dignità),
cioè dalla fama di condotta irreprensibile, e dal decorum (decoro), ovvero da uno
stile di vita confacente a una posizione di prestigio. Il mezzo più nobile per ottenere il riconoscimento da parte dell’opinione pubblica è l’impegno nell’attività
oratoria, giudiziaria ma soprattutto politica, con la quale si difende da un lato
l’interesse dello Stato, dall’altro quello individuale (e del gruppo economico che
sostiene il singolo uomo politico).
Partendo da quest’ottica – e paradossalmente per noi – il lavoro è condannato proprio perché procura un guadagno, che però limita la libertà di chi offre la
propria manodopera, in quanto lo rende dipendente da chi lo retribuisce. Certo
vi è una gerarchia dei mestieri: i più riprovevoli sono quelli considerati più ab-
L
Fondazione mitica
di Roma
754 a.C.
Inizio della repubblica
romana
509 a.C.
Statua greca
del
Moschophoros,
prima metà del
VI sec. a.C.
Atene, Museo
dell’Acropoli.
Guerre puniche
264-146 a.C.
Catone
234-149 a.C.
Carrello bronzeo da Bisenzio. La decorazione
delle barre rappresenta
alcuni momenti della vita
dell’uomo, dalla caccia,
alla guerra, a scene di vita agreste. Seconda metà
dell’VIII sec. a.C. Roma,
Museo di Villa Giulia.
234
INTRODUZIONE
Terracotta raffigurante
delle fornaie intente a
impastare il pane.Tebe,VI
sec. a.C. Parigi, Museo
del Louvre.
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Mosaico a tessere policrome
raffigurante un
cantiere edile.
Nel particolare
è rappresentato l’architetto
con gli attrezzi
del mestiere,
mentre, in secondo piano,
uno scalpellino
è intento a lavorare una piccola colonna.
Tunisia,V sec.
d.C.Tunisi, Museo del Bardo.
bietti dalla morale comune, come il lavoro dell’usuraio e dell’esattore delle tasse,
ma indecorosi sono anche quelli che presuppongono un’attività manuale, come
l’artigianato, il commercio al minuto, lo spettacolo; decorose, ma solo per un ceto medio che non ha ambizioni politiche, sono invece le professioni che implicano conoscenze culturali, tecniche e scientifiche, come quelle degli insegnanti delle arti liberali, degli architetti, dei medici.
Considerando così importante l’opinione degli altri cittadini, l’uomo romano non deve dunque dare a intendere di avere interessi particolari per la sfera delle occupazioni economiche, che invece è necessario siano trattate
con indifferenza e distacco o addirittura con disprezzo.
Con l’avvento dell’impero, poi, la situazione non muta
sostanzialmente. Cambia solo il punto di vista da cui viene pronunciata la condanna dei mestieri e delle tecniche
da parte della cultura ufficiale: mentre prima contavano
la dignitas e il decorum, ora, riservata la politica al sovrano e a pochi eletti, la meta è la conquista della serenità interiore e della virtus.
Nei testi letterari le attività economiche sono tutte considerate prive di valore
o disprezzate, salvo una, l’agricoltura, che gode di un prestigio particolare per
tutto l’arco dell’antichità. Innanzi tutto i Romani ritengono che l’agricoltura non
crei nessun rapporto di dipendenza tra il proprietario (che non è necessariamente il coltivatore) e l’acquirente dei suoi prodotti. Inoltre essa non impedisce l’attività politica, soprattutto se il proprietario è un possidente il quale, anziché lavorare direttamente la terra, si occupa solo dell’amministrazione dei suoi poderi. In
terzo luogo, gli scrittori concordano sul fatto che il legame con la terra posseduta in proprietà esclusiva favorisca l’acquisizione e lo sviluppo delle virtù del perfetto cittadino.
È negli autori di trattati e manuali pratici (non a caso marginali rispetto alla
letteratura considerata veramente alta e colta) che si possono cercare spunti per
una valutazione totalmente positiva almeno delle professioni legate alla tecnica.
Vitruvio dedica ad Augusto il trattato De architectura e si rivolge a un pubblico di
non specialisti, cercando di dimostrare l’alto valore di tale disciplina. Per ottenere
questo scopo anch’egli, comunque, cerca di trovare un legame tra filosofia e architettura, sostenendo che questa è imitazione dell’ordine provvidenziale della
natura. Viene così implicitamente ribadita, proprio nel momento in cui si cerca di
attribuire un nuovo prestigio alle discipline tecniche, la loro subordinazione alla
cultura filosofica e umanistica, viste come imprescindibili punti di riferimento.
Ascesa politica di Mario
e Silla e guerra sociale
91-88 a.C.
Lucrezio
98-55 a.C.
Primo triunvirato: Pompeo,
Crasso e Cesare
60 a.C.
45 a.C.
Cicerone
106-43 a.C.
Plastico del tempio dedicato nel 509 a.C. alla triade Capitolina a Roma. Il
plastico riproduce la struttura templare sulla base
delle informazioni tratte
dal De architectura di Vitruvio.
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Cesare dittatore
Bassorilievo in terracotta
del dio gallo-romano
Succellus. Considerato il
protettore della vendemmia, è rappresentato con
le botti e l’uva. Età imperiale.
INTRODUZIONE
235
Il lavoro secondo i lavoratori
a considerazione negativa di ogni mestiere remunerato è propria di letterati e pensatori romani, ma non è condivisa da tutti. Nelle testimonianze lasciateci dai testi letterariamente più umili, ma storicamente talvolta anche
più rilevanti, l’attività quotidiana degli uomini e delle donne comuni è spesso citata come parte essenziale della vita. Molte epigrafi funerarie citano il mestiere
esercitato dal defunto, spesso riportando anche scene in cui lo si vede rappresentato alle prese con attrezzi, strumenti, mercanzie e clienti. Per esempio, sappiamo da un «manifesto elettorale», scritta tracciata con un pennello su un muro a
Pompei (Corpus Inscriptionum Latinarum, X, 875), che un panettiere può aspirare a una magistratura cittadina perché panem bonum fert
(«fa il pane buono»). Anche un mietitore di Mactar (attuale
Tunisia) ricorda nella sua epigrafe funeraria la propria ascesa sociale dalle più umili origini fino al seggio del piccolo
senato locale (C.I.L., VIII, suppl. 11824).
Ma quando si torna a misurare il prestigio di chi esercita
una professione a Roma, nel centro del vero potere, il discorso cambia: la stima di cui gode presso la gente comune
un lavoratore, un artigiano, un commerciante al minuto o
un piccolo imprenditore non è mai ritenuta un fondamento
per la dignitas che serve a chi vuole intraprendere la carriera
politica. Questo limite è accettato dagli stessi esclusi, che
non sviluppano né un rifiuto del potere che li marginalizza né una «coscienza di
classe», cioè una piena consapevolezza dei loro specifici interessi e diritti e della
strategia politica per imporli. Emblematico di questo atteggiamento è ciò che viene riportato dallo storico Livio a proposito della secessione della plebe del 494
a.C.: Menenio Agrippa riesce a convincere i contestatori a lasciare l’Aventino e a
tornare in città con il famoso apologo della lotta tra lo stomaco e le altre parti del
corpo. Al di là delle concessioni effettivamente ottenute, il fatto che la protesta si
esaurisca lascia intendere che anche i più rivoluzionari prendono atto che la gerarchia politica e sociale non può essere messa in discussione nei suoi fondamenti
tradizionali. Né abbiamo testimonianze che questo atteggiamento degli umili nei
confronti dell’ordine costituito sia cambiato nel corso dei secoli successivi.
Mentre il singolo lavoratore conta poco o nulla, importante risulta invece il
ruolo dei gruppi di professionisti, che si riuniscono in associazioni chiamate
L
Ottaviano Augusto
primo imperatore
27 a.C.
Virgilio
70-19 a.C.
Nerone perseguita
i cristiani
64 d.C.
S. Paolo
6-64 d.C.
Bassorilievo in cui sono raffigurati contadini intenti al
lavoro nei campi. Età repubblicana. Roma, Museo della Civilità Romana.
236
INTRODUZIONE
Strumenti utilizzati dagli artigiani romani:
la squadra per
i muratori, i
chiodi, le catene, i martelli
per i fabbri, le
asce e le seghe
per i falegnami. I sec. d.C.
Museo Archeologico di
Chatillon-surSeine.
Riforme dell’impero:
tetrarchia di Diocleziano
293 d.C.
Marziale
40-104 d.C.
Bassorilievo con scena di
vita agreste: un pastore intento a mungere le sue pecore. Il paesaggio agricolo
viene rappresentato sullo
sfondo con alberi e fasci di
spighe di grano. Età repubblicana. Roma, Museo della
Civiltà Romana.
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«collegi» e «sodalizi», formati da persone accomunate da funzioni, arti o mestieri. Ogni associazione, che può essere di tipo civile o religioso, riconosciuta dallo
Stato e quindi regolata da apposite leggi e sottoposta alla sorveglianza dei censori, si trova sotto la protezione d’una divinità tutelare, nomina i propri amministratori, dispone di una cassa comune alimentata dalle quote dei soci e di una
propria sede dove riunirsi a consiglio, specialmente in periodo elettorale. Le finalità sono il mutuo soccorso e soprattutto la difesa degli interessi comuni: i collegi sono quindi una sorta di corporazione o di sindacato, ma privo di un programma ben definito. Queste associazioni cominciano ad avere vita difficile
quando le contraddizioni sociali della repubblica diventano acute: nonostante le
leggi delle XII Tavole consentano ai «collegi» di darsi dei regolamenti che non
contengano norme in contrasto con il diritto dello Stato, la classe al potere attua
spesso arbitrarie e sanguinose repressioni delle proteste. Molto frequente però è
anche il caso in cui l’appoggio dei collegi e dei sodalizi risulta determinante per
spostare da una parte o dall’altra l’esito di una contesa elettorale o politica.
S.Agostino intento a insegnare diritto a
studenti romani. Dipinto di
Benozzo Gozzoli, XV sec.
Il Cristianesimo e il lavoro
roprio la concezione positiva del lavoro costituisce un punto d’incontro
tra la mentalità diffusa negli strati medi e bassi della popolazione romana
e il Cristianesimo e questo può essere uno dei motivi del rapido diffondersi di questa nuova religione. Nella visione cristiana, l’uomo attraverso il lavoro compie la volontà di Dio, che gli ha ordinato di «soggiogare la terra» (Genesi,
I, 28), e insieme realizza se stesso. È vero che anche nella Bibbia il lavoro
è causato dal peccato originario (Genesi, 3, 17-19), ma esso assume poi
una valenza morale positiva. L’indipendenza economica, infatti, serve sia a
soddisfare i bisogni essenziali sia a esercitare la carità verso i bisognosi
(Atti degli apostoli, 20, 33-35). Tutti gli uomini senza eccezione – perfino
gli apostoli – sono tenuti a rispettare l’obbligo di lavorare e quello di pagare adeguatamente chi lavora per loro.
Non c’è più differenza qualitativa tra l’attività manuale e la professione
intellettuale, così come tra il lavoro maschile e quello femminile. Anche la
fatica considerata tradizionalmente umile ha la sua dignità: l’importante –
dice il filosofo cristiano Agostino all’inizio del V secolo d.C. – è mantenere libero e nobile lo spirito, senza legarlo all’ansia del guadagno.
P
Editto di Costantino
per la libertà di culto
313 d.C.
Fondazione di Costantinopoli
e impero romano d’Oriente
330 d.C.
Rilievo in marmo che rappresenta delle navi da trasporto in balia delle onde. Età imperiale.
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Caduta dell’impero
romano d’Occidente
476 d.C.
Rilievo in marmo raffigurante la bottega di una venditrice di polli. II sec. d.C. Ostia Antica, Museo.
INTRODUZIONE
237
Unità
1 La considerazione del lavoro
CICERONE
LA VITA E LE OPERE Per la vita e le opere dell’autore vedi pagg. 155 e 293. Aggiungiamo qui qualche informazione sulle opere filosofiche di Cicerone.
FILOSOFIA E MORALE La filosofia, cioè lo studio delle verità più profonde, delle
cause ultime e dei princìpi supremi, era nata nel mondo greco nel VI secolo a.C., ma a
Roma essa fu inizialmente vista con diffidenza, perché tendeva a mettere in discussione
tutte le verità che invece – secondo il gruppo dirigente – dovevano essere accettate
senza discussione per il bene della società. A lungo la filosofia fu tollerata solo come disciplina preparatoria all’eloquenza e come tale riservata al ceto più alto, considerato l’unico in grado di affrontare un sapere potenzialmente così pericoloso.
Cicerone ricevette una buona preparazione in questa disciplina, ma non se ne occupò mai a tempo pieno finché fu impegnato nella vita politica.Tutte le opere filosofiche,
infatti, si collocano cronologicamente nel periodo di emarginazione di Cicerone dalla lotta per il potere: citando solo le più importanti, al 46 a.C. risalgono i Paradoxa Stoicorum (I
paradossi degli Stoici); al 45 il De finibus bonorum et malorum (I termini estremi dei beni e
dei mali), le Tusculanae disputationes (Le discussioni di Tuscolo), il De natura deorum (La natura degli dei); al 44 il Cato maior de senectute (Catone Maggiore, sulla vecchiaia), il Laelius
de amicitia (Lelio, sull’amicizia), il De officiis (I doveri).
Più che passare in rassegna i contenuti delle singole opere, è importante qui sintetizzare le finalità che spinsero Cicerone a occuparsi di filosofia:
– fornire soprattutto ai giovani insegnamenti utili sia per la vita politica sia per la
condotta onesta nei rapporti sociali e familiari;
– integrare la formazione del perfetto oratore, che secondo Cicerone doveva possedere una preparazione culturale non specializzata, ma diffusa in tutti i campi del
sapere;
– divulgare, non presso gli specialisti ma presso un pubblico di buona cultura, il patrimonio filosofico greco, in termini sia di contenuti sia di lessico specifico;
– dimostrare la possibilità di conciliare filosofia greca e mos maiorum, rinvenendo tra
i due gli elementi comuni;
– trovare nella filosofia un elemento di consolazione dal dolore suo (l’emarginazione, la morte della figlia amatissima Tulliola, i dissapori famliari) e di ogni uomo.
Risulta quindi chiaro perché Cicerone si occupò soprattutto di morale, cioè della definizione del giusto e del bene e dei comportamenti da tenere di conseguenza, mentre
trattò solo incidentalmente delle altre due parti della filosofia antica, la fisica e la logica.
Cicerone fu essenzialmente un eclettico, cioè prese quello che riteneva il meglio delle
varie scuole filosofiche del passato e del presente, per formare un sistema di pensiero
magari non profondo, ma utile a un nuovo sviluppo – più consapevole – della politica e
della società romana.
DE OFFICIIS In tre libri, il trattato Sui doveri dedicato al figlio Marco rappresenta una
sorta di testamento spirituale di Cicerone, ucciso l’anno dopo (il 43 a.C.) dai sicari di
Antonio. Nel primo libro si tratta dell’honestum (ciò che è onorevole), il secondo dell’utile, il terzo del contrasto tra i due princìpi. Filo conduttore di tutta l’opera è l’idea per cui
l’istinto naturale dev’essere guidato dalla ragione, perché esso possa trasformarsi in una
virtù al servizio della collettività e dello Stato.
238
IL LAVORO
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LA GERARCHIA DELLE ATTIVITÀ
ECONOMICHE
(Cicerone, De officiis,
I, 42, 150-151)
1
Nel primo libro del trattato Sui doveri Cicerone suddivide la dottrina del dovere in due
parti: teoria del sommo bene e precettistica pratica (capp. 1-3). La prima parte consiste
nella definizione di honestum (ciò che è moralmente onorevole) e delle quattro qualità
da cui questo scaturisce: sapienza, giustizia, moderazione e grandezza d’animo (4-18).
Collegàti all’honestum sono i doveri, che l’autore passa in rassegna nella parte precettistica (18-34). Passando poi al decorum (decoro), dopo alcuni precetti relativi al comportamento, all’abbigliamento e al linguaggio, Cicerone parla delle professioni nel brano
qui riportato.
Benché non sia il primo in ordine cronologico, esso è certo il più importante per capire l’atteggiamento del gruppo dirigente, degli intellettuali e dei letterati romani nei
confronti del lavoro. Il contenuto appena esposto dei primi capitoli del De officiis serve
proprio a inquadrare questa classificazione ciceroniana delle attività lavorative: il decorum è ciò che è confacente alla condizione specifica del cittadino romano; dato che questi ha come massimo obiettivo la partecipazione alla vita politica, il decorum è per lui
ciò che favorisce la sua carriera in tale campo. Per Cicerone quindi, all’interno di questo
discorso, la valutazione dei diversi lavori deriva da considerazioni non economiche, ma
sociali. Il punto di vista è quello di un conservatore, legato a una Roma come piccola comunità contadina. In effetti la situazione politica era notevolmente cambiata e l’Urbe
era il centro di una potenza non solo militare ma anche economica, che dai commerci e
dai traffici ricavava molta della sua ricchezza; eppure la mentalità comune non era cambiata rispetto ai secoli passati. Per l’autore e i suoi lettori, evidentemente, le questioni
economiche non erano tanto importanti quanto l’immagine che ciascuno doveva esibire.
1. Iam de artificiis et quaestibus, qui liberales habendi, qui sordidi sint,
haec fere accepimus. 2. Primum improbantur ii quaestus, qui in odia hominum incurrunt, ut portitorum, ut feneratorum. 3. Illiberales autem et
1. Iam: l’avverbio non ha qui valore temporale,
ma connettivo: serve infatti a segnalare il passaggio a un altro argomento, in questo caso
l’ultimo di una serie. Qui si può dunque rendere con «Infine».
– artificiis: il sostantivo indica in senso
stretto l’attività dell’artifex («artigiano»), in
senso più ampio – come qui – «la professione»; in senso lato può indicare positivamente
«la destrezza» o negativamente «l’artificio» e
con questo significato è passato all’italiano.
– quaestibus: «guadagni».
– qui … qui: questi pronomi interrogativi
introducono altrettante proposizioni interrogative indirette; concordano per genere con il
maschile quaestibus, ma sono riferiti anche al
neutro artificiis. L’anafora (vedi il glossario a
pag. 337) crea un parallelismo di senso e di costruzione: nella prima proposizione è sottinteso sint (che si ricava dalla seconda proposizione), nella seconda viene omesso habendi (che
si ricava dalla prima): le due proposizioni vanno cioè interpretate come se fossero qui liberales habendi sint, qui sordidi habendi sint.
– liberales: predicativo retto da habendi,
che ha qui significato estimativo, «siano da riCol Saglia Imagines Seconda edizione
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tenere degni di un uomo libero».
– fere: «più o meno».
2. in odia: al plurale perché riferito a hominum, ma soprattutto perché esistono – secondo Cicerone – «vari gradi di odio».
– hominum: genitivo soggettivo, «da parte
degli uomini».
– ut …, ut: l’anafora degli avverbi modali
sottolinea il parallelismo.
– portitorum: come feneratorum seguente,
sottintende quaestus o ii, «(quelli) degli esattori». Il portitor era, in particolare, il «doganiere», che nei porti (da cui il nome latino)
ispezionava il carico delle navi in entrata e in
uscita.
– feneratorum: il fenerator (dal tema del
verbo fenero, a sua volta tratto dalla stessa radice di fenus, originariamente «frutto» in senso proprio e poi per traslato «interesse», e dal
suffisso -tor che indica la persona che agisce)
fu sempre considerato a Roma un individuo
particolarmente odioso. Era oggetto d’attenzione già nelle prime leggi, quelle delle XII Tavole, e bersagliato dal disprezzo e dalle beffe
più atroci nelle commedie latine, soprattutto
di Plauto, nel II secolo a.C.
LA CONSIDERAZIONE DEL LAVORO
239
sordidi quaestus mercennariorum omnium, quorum operae, non quorum
artes emuntur; est enim in illis ipsa merces auctoramentum servitutis. 4.
Sordidi etiam putandi, qui mercantur a mercatoribus, quod statim vendant; nihil enim proficiant, nisi admodum mentiantur; nec vero est quicquam turpius vanitate. 5. Opificesque omnes in sordida arte versantur;
nec enim quicquam ingenuum habere potest officina. 6. Minimeque artes
eae probandae, quae ministrae sunt voluptatum:
Cetarii, lanii, coqui, fartores, piscatores,
3. mercennariorum: dalla radice di merces, edis («prezzo, ricompensa»; cfr. l’italiano arcaico «mercede») e di merx,-rcis, l’aggettivo indica
tutto ciò che si paga; se sostantivato, il maschile
designa «il soldato mercenario» o – come in
questo contesto – «il lavoratore stipendiato».
– quorum …, non quorum: l’anafora sottolinea l’antitesi (vedi il glossario a pag. 337).
– operae: «le prestazioni d’opera».
– artes: vedi la scheda lessicale Ars a pag.
301.
– est … servitutis: l’ultima proposizione
del periodo è piuttosto elaborata dal punto di
vista retorico: si apre con il verbo est in posizione enfatica, prosegue con una serie di allitterazioni (vedi il glossario a pag. 337) – prima
e, poi i, infine s – e passa dalle parole iniziali di
una o due sillabe a quelle finali di cinque e
quattro, dando un’idea di progressiva gravità e
severità dell’espressione.
4. putandi: è sottinteso sunt.
– mercantur: è forma deponente da mercor,
-aris, -atus sum, ari (dalla già citata radice di
merx), «comprano».
– a mercatoribus: mercator è il grossista,
mentre per il commerciante al minuto si usa il
termine caupo, -onis, che però indica anche l’oste.
– quod: il pronome relativo sottintende il
dimostrativo antecedente id.
– vendant: il congiuntivo dà un valore di
eventualità alla proposizione relativa, ma in
italiano è meglio rendere con l’indicativo.
– proficiant, nisi … mentiantur: periodo
ipotetico del secondo tipo, che con il congiuntivo presente esprime la possibilità sia nell’apodosi sia nella protasi.
– quicquam: pronome indefinito, usato regolarmente dopo la congiunzione negativa nec;
ricorda che in latino due negazioni affermano.
– vanitate: secondo termine di paragone,
«della menzogna».
5. Opificesque: dalle radici di opus e facio, opifex indica «l’artefice, il costruttore»; qui in
particolare designa l’artigiano.
– in sordida arte versantur: il verbo verso,
frequentativo di verto, è qui coniugato nella
240
IL LAVORO
diatesi passiva, ma con valore riflessivo o meglio mediale (che implica cioè una partecipazione intensa del soggetto); il significato letterale è quindi «si girano e rigirano», con una sfumatura per lo più negativa, come in questo
contesto. Si può quindi rendere, per esempio,
«sono compromessi in un’arte spregevole». Per
il termine ars vedi la scheda lessicale a pag. 301.
– enim: la congiunzione dovrebbe, nelle intenzioni di Cicerone, introdurre una dimostrazione, ma quest’ultima in realtà è solo l’espressione di un pregiudizio dell’autore. In altri termini, l’intero periodo finisce con il dire che l’attività degli artigiani è miserabile perché… non
c’è niente di decoroso nell’ambiente del lavoro
manuale; si scambia cioè il giudizio per la prova. Ma forse per Cicerone e i suoi lettori antichi
non c’era niente da dimostrare: lo squallore
dell’attività produttiva era un dato di fatto, che
trovava in sé le ragioni della sua condanna.
– ingenuum: l’aggettivo è formato dal prefisso in- e dalla radice di geno, forma arcaica di
gigno («generare»); indica ciò «che è nato dentro», in particolare dentro la familia o la patria
da genitori liberi, e ha perciò dignità e nobiltà.
Qui può essere reso con «nobile» o «degno di
un uomo libero».
6. probandae: ancora una volta è sottinteso
sunt.
– ministrae: femminile di minister, che rivela meglio la formazione della parola da minus e
dal suffisso comparativo -ter (presente anche in
greco). Dal significato di «inferiore» passò quindi a quello di «servitore, aiutante», anche nell’ambito del culto, per cui indicò «il sacerdote».
– Cetarii: da cetus, -i che indica «grosso pesce» in generale (balena, tonno, delfino ecc.),
da cui l’italiano «cetaceo»; sono quindi «pescivendoli» che smerciano pesci marini di grossa
taglia. Chi vendeva pesci piccoli erano i piscatores nominati di seguito.
– lanii: dalla radice del verbo lanio, -as («dilaniare, fare a pezzi»), designa i «macellai».
– coqui: i cuochi, solitamente assoldati
nel foro, lavoravano alla giornata nelle case dei
benestanti, in occasione di banchetti e feste
particolari. Essi sono raffigurati nelle commeCol Saglia Imagines Seconda edizione
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ut ait Terentius; adde huc, si placet, unguentarios, saltatores, totumque ludum talarium. 7. Quibus autem artibus aut prudentia maior inest aut non
mediocris utilitas quaeritur ut medicina, ut architectura, ut doctrina rerum honestarum, eae sunt iis, quorum ordini conveniunt, honestae. 8.
Mercatura autem, si tenuis est, sordida putanda est; sin magna et copiosa,
multa undique apportans multisque sine vanitate inpertiens, non est ad-
die di Plauto (fine III – inizio II secolo a.C.) e
di Terenzio (le cui opere sono datate dal 166 al
160 a.C.) come macchiette caratterizzate da
boria, arroganza e incontentabilità, difetti ancora più ridicoli se confrontati con la bassezza
della loro considerazione sociale.
– fartores: fartor, dalla radice del verbo farcio seguita dal suffisso -tor che indica colui che
compie l’azione, ha come primo significato
«colui che ingrassa» soprattutto volatili, poi
quello di «venditore di volatili ingrassati» o
«salcicciaio».
– ut ait Terentius: nella commedia Eunuchus, al verso 257. Per le notizie su Terenzio
vedi pag. 102.
– huc: avverbio usato con verbi di moto;
con l’imperativo adde assume il valore idiomatico «a ciò si aggiunga(no)».
– si placet: protasi del primo tipo; si può
rendere «se si vuole».
– unguentarios: «profumieri». Le essenze profumate avevano nell’antichità una consistenza oleosa; il nome stesso unguentum deriva
dalla radice del verbo ungo; venivano spalmate
non solo su tutto il corpo, ma anche sui capelli e
persino sui vestiti, nei bagni e sulle tavole; molto
importante era poi il loro uso nei riti funerari.
– saltatores: dal tema del verbo salto – intensivo di salio («saltare») – seguito dal suffisso -tor, indica «i ballerini», che, come si può
capire anche da questo brano, non godevano a
Roma di una buona fama.
– ludum talarium: più che al «gioco dei dadi»
(il quale si praticava con i tali cioè «malleoli»,
che erano degli ossicini con forma di parallelepipedi leggermente allungati), l’autore si riferirà
qui allo «spettacolo di volgari buffoni», i quali,
indossando tuniche lunghe fino ai malleoli, cantavano e danzavano in modo spesso osceno.
7. Quibus … eae: il periodo inizia con una
proposizione relativa la quale, per la sua posizione, si dice prolettica, cioè posta prima del
termine cui si riferisce, in questo caso eae; inoltre il sostantivo cui si dovrebbe riferire, cioè
artes, è stato attirato all’interno della relativa,
assumendo il caso del pronome, cioè il dativo
di quibus, diventando artibus. Traduci come se
l’ordine fosse eae artes, quibus autem aut… hoCol Saglia Imagines Seconda edizione
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nestarum, sunt…
– aut … aut: anafora che sottolinea il parallelismo di costruzione delle due proposizioni
(congiunzione - soggetto - verbo), variato però
dal chiasmo (vedi il glossario a pag. 337) (sostantivo + attributo nella prima, attributo + sostantivo nella seconda); la ricercatezza dell’espressione è adeguata all’elevatezza delle arti e
del gruppo sociale di cui sta parlando Cicerone.
– prudentia: «intelligenza», «capacità di discernimento».
– non mediocris: la litote (vedi il glossario a
pag. 337) rafforza il concetto; bisogna poi ricordare che mediocris non ha il significato limitativo assunto dal termine italiano, per cui si
può rendere quest’espressione con «non indifferente».
– ut … ut … ut: altra anafora.
– doctrina rerum honestarum: «l’insegnamento delle arti liberali», per esempio della retorica.
– iis, quorum ordini conveniunt: «per coloro, alla posizione sociale dei quali si addicono». Cicerone intende designare qui non l’aristocrazia, ma il ceto sociale medio, cui sono
adatte tali professioni, che non sono le più nobili in assoluto, ma comunque relativamente
decorose.
– honestae: cioè tali da apportare honos ( o
honor) e quindi «onorevoli», «decorose».
8. si … est: protasi del primo tipo o dell’obiettività.
– tenuis: letteralmente «angusto», ma qui è
da rendere «al minuto / dettaglio».
– sordida putanda est: apodosi del primo
tipo o dell’obiettività.
– sin: altra protasi del primo tipo o dell’obiettività; è sottinteso est.
– magna et copiosa: «all’ingrosso e con notevole movimento di merci».
– multa … multisque: il primo aggettivo è
accusativo neutro plurale, il secondo dativo
maschile plurale; si crea così un poliptoto (vedi il glossario a pag. 337), che sottolinea il concetto, cioè la vastità di questo commercio.
– sine vanitate: «senza truffa».
– non est … vituperanda: altra apodosi del
primo tipo o dell’obiettività.
LA CONSIDERAZIONE DEL LAVORO
241
modum vituperanda; atque etiam, si satiata quaestu vel contenta potius,
ut saepe ex alto in portum, ex ipso se portu in agros possessionesque contulit, videtur iure optimo posse laudari. 9. Omnium autem rerum, ex quibus aliquid adquiritur, nihil est agri cultura melius, nihil uberius, nihil
dulcius, nihil homine libero dignius. 10. De qua, quoniam in Catone
Maiore satis multa diximus, illim assumes quae ad hunc locum pertinebunt.
– admodum: Cicerone non dice che questo
commercio non sia del tutto da biasimare, ma
solo che non lo è molto: rimane quindi un’attività formalmente indegna di un uomo della
classe senatoria. Sappiamo però che, al di là
delle dichiarazioni di principio, molti appartenenti alla classe più elevata si dedicavano più o
meno occultamente ai traffici sia commerciali
sia finanziari (compresi il prestito e persino
l’usura) facendosi rappresentare da uomini di
loro fiducia, scelti tra i propri liberti o clienti.
– etiam: da unire a videtur: «addirittura, …,
sembra».
– si … contulit: ancora una protasi del primo tipo o dell’obiettività; qui il perfetto indica
l’anteriorità rispetto al tempo dell’apodosi (videtur), ma in italiano si può rendere con il presente, perché la nostra lingua avverte molto
meno questo rapporto di consequenzialità. Il
soggetto è ancora mercatura.
– vel … potius: la congiunzione unita all’avverbio serve a correggere con l’aggettivo contenta l’espressione metaforica precedente, come se questa, ripensandoci, fosse considerata
troppo forte: «saziata o, meglio, soddisfatta».
– ut: introduce una proposizione comparativa, di cui il predicato verbale e il complemen-
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
to oggetto sottintesi si ricavano dai seguenti se
contulit.
– ex alto: come spesso accade in queste
espressioni, è sottinteso mari.
– ex ipso se portu: iperbato (vedi il glossario a pag. 337) per ex ipso portu se.
– in agros possessionesque: endiadi (vedi il
glossario a pag. 337) che si può rendere «nei
(suoi) possedimenti terrieri».
9. Omnium … rerum: partitivo: «Tra tutte le attività».
– ex quibus aliquid adquiritur: allitterazione della sillaba qui e della consonante d, per richiamare l’attenzione sul concetto che si sta
per esprimere.
– nihil …, nihil …, nihil …, nihil: quadrupla anafora, unita al parallelismo delle quattro
proposizioni che presentano tutte il comparativo al fondo (melius, uberius, dulcius, dignius),
con relativo omoteleuto (vedi il glossario a
pag. 337); le due proposizioni agli estremi hanno un’espansione ciascuna in ablativo (agri cultura, homine libero), mentre quelle centrali sono più brevi; tutto ciò è un esempio di concinnitas («ricercata simmetria»), tipica dello stile
di Cicerone e divenuta poi un modello per i
classicisti di tutti i tempi.
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole del brano.
a. Individua le parole che contengono il prefisso in- e distingui quelle in cui questo
ha significato negativo e locativo («dentro»).
b. Quali possono essere i contrari delle seguenti parole tratte dal testo?
sordidus
improbo, -as, -avi, -atum, -are
emo, -is, emi, emptum, -ˇere
illiberalis
copiosus
vitupero, -as, -avi, -atum, -are
tenuis
turpis
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IL LAVORO
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c. Completa la seguente tabella.
Attività
Portitor, fenerator
Giudizio di Cicerone
Negativo
Opifices
Parzialmente positivo
Motivazione
Paragrafo
in odia hominum incurrunt
est in illis ipsa merces
auctoramentum servitutis
4
5
eae artes sunt
ministrae voluptatum
7
Mercatura magna
nihil homine libero dignius
Ordo. Il sostantivo ordo, -dinis è etimologicamente imparentato con il verbo ordior («ordire, tessere una trama»); il significato originario doveva quindi essere
quello di «ordine dei fili in una trama», quindi si estese alle seguenti accezioni:
– «ordine», nel senso di «fila, serie»; da ricordare le espressioni (ex)ordine
(«per ordine, per bene» oppure «di seguito») e in ordine(m) («in ordine»);
– «fila», sottintendendo «di banchi» o «di sedili»;
– «fila» nel linguaggio militare, quindi, per estensione «centuria», «compagnia»; dal significato precedente, per metonimia (vedi il glossario a pag.
337), quello di «centurione» o «ufficiale»;
– «classe, rango, grado, ceto» in quanto indicava il posto che ciascuno doveva mantenere nella «trama» della società; esistevano, per esempio, l’ordo
senatorius, l’equester, il plebeius, in scala decrescente di prestigio.
SCHEDA
LESSICALE
VIRGILIO
LA VITA E LE OPERE Per la vita e le opere di Virgilio e, in particolare, per le Georgiche vedi pag. 76.
LA FATICA E IL PROGRESSO
(Virgilio, Georgiche, I.121-146)
2
Quando l’età dell’oro finì, l’uomo fu costretto a lavorare per procurarsi ciò che prima la
natura gli forniva spontaneamente, ma questa legge che lo condanna a faticare per vivere ebbe anche l’effetto di far nascere le varie tecniche dei mestieri e delle arti, che determinarono il progresso.
[…] Pater ipse colendi
haud facilem esse viam voluit, primusque per artem
movit agros, curis acuens mortalia corda
nec torpere gravi passus sua regna veterno.
121. Pater ipse: è Giove. Chi prese la decisione
che fosse difficile l’arte della coltivazione fu
quindi la massima autorità tra gli dei.
121-122. colendi... viam: «la via della coltivazione».
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122. per artem: «artificialmente».
123. acuens: «spronando». Giove, rendendo
difficile la coltivazione dei campi, spronò gli
uomini al progresso.
124. nec torpere gravi passus sua regna veterLA CONSIDERAZIONE DEL LAVORO
243
125
130
135
Ante Iovem nulli subigebant arva coloni:
ne signare quidem aut partiri limite campum
fas erat; in medium quaerebant, ipsaque tellus
omnia liberius nullo poscente ferebat.
Ille malum virus serpentibus addidit atris
praedarique lupos iussit pontumque moveri,
mellaque decussit foliis ignemque removit
et passim rivis currentia vina repressit,
ut varias usus meditando extunderet artis
paulatim, et sulcis frumenti quaereret herbam,
ut silicis venis abstrusum excuderet ignem.
Tunc alnos primum fluvii sens¯ere cavatas;
navi˘ta tum stellis numeros et nomina fecit
Pleiadas, Hyadas, claramque Lycaonis Arcton.
Tum laqueis captare feras et fallere visco
no: «e non tollerò che i suoi regni si intorpidissero in un pesante letargo». Passus (perfetto di
patior) sottintende est.
125. Ante Iovem: prima del regno di Giove ci
fu l’età di Saturno, cioè l’età dell’oro, in cui,
senza che fosse necessario lavorare, la natura
produceva per l’uomo i suoi frutti in abbondanza. Per Iuppiter vedi la scheda lessicale Il
nome di Giove a pag. 245.
– nulli subigebant arva coloni: «nessun colono lavorava i campi».
126. ne signare quidem aut partiri: «neppure
segnare o dividere». Ricorda l’uso della congiunzione ne...quidem che nega la parola che si
trova in mezzo.
127. in medium quaerebant: «mettevano in
comune ciò che si procuravano».
128. liberius nullo poscente: «più generosamente, senza che nessuno glielo chiedesse».
Nullo poscente è ablativo assoluto.
129. Ille: è ancora Giove.
– malum virus: «il malefico veleno». È complemento oggetto di addidit. Virus è un neutro
in -us della seconda declinazione, come pelagus e vulgus.
130. pontumque moveri: «e al mare di muoversi». Questa infinitiva, come la precedente,
dipende da iussit. Moveri ha valore mediale.
131. mellaque decussit foliis: «scosse giù il
miele dalle foglie». Cioè lo tolse alle piante che
nell’età dell’oro lo producevano spontaneamente. Folia è usato in luogo di «piante» e si
tratta perciò di una sineddoche (vedi il glossario a pag. 337).
– removit: «nascose». Prometeo quindi
rubò il fuoco agli dei per darlo agli uomini che
già lo avevano conosciuto nell’età dell’oro.
132. rivis currentia vina: «i vini che scorrevano
a ruscelli». Rivis è un ablativo di modo.
133. ut varias usus meditando extunderet ar244
IL LAVORO
tis: «affinché il bisogno forgiasse le varie arti
con la riflessione». Artis sta per artes. Vengono qui esplicitati i due elementi da cui
deriva il progresso secondo la filosofia epicurea: l’esperienza, che nasce dal bisogno, e la riflessione.
134. sulcis: «nei solchi». In poesia lo stato in
luogo viene espresso frequentemente senza la
preposizione.
– frumenti: genitivo riferito a herbam. Si
può tradurre tutto insieme «il frumento».
135. ut silicis venis abstrusum excuderet
ignem: «per tirar fuori dalle vene della selce il
fuoco nascosto». Silicis venis sarebbe un ablativo retto dalla preposizione ex contenuta nel
verbo excuderet, ma potrebbe anche essere interpretato come un ablativo di stato in luogo
(che spesso in poesia è espresso senza la preposizione in) da legare ad abstrusum, «nascosto
nelle vene della selce». Da notare la consonanza (i suoni consonantici, cioè, si ripetono uguali nelle due parole) tra questo silicis e il sulcis
del verso precedente.
136. alnos ... cavatas: «i tronchi d’ontano scavati». Si tratta delle prime rudimentali imbarcazioni. Ricorda che i nomi di pianta in latino
sono femminili.
– sens¯ere: sta per senserunt.
˘ termine di uso poetico, corrispon137. navita:
de a nauta.
– stellis numeros et nomina fecit: «numerò
le stelle e le chiamò» (seguono i nomi delle costellazioni). Da notare l’allitterazione (vedi il
glossario a pag. 337) numeros / nomina.
138. claramque Lycaonis Arcton: «e la splendente Orsa di Licaone». Si tratta dell’Orsa
Maggiore, di cui fa parte la stella Polare, che è
appunto la più luminosa. Arcton in greco significa appunto «orsa». Secondo il mito, nell’Orsa era stata trasformata Callisto, figlia del re
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145
inventum et magnos canibus circumd¯are saltus;
atque alius latum funda iam verberat amnem
alta petens, pelagoque alius trahit umida lina.
Tum ferri rigor atque argutae lammina serrae
(nam primi cuneis scindebant fissile lignum),
tum variae ven¯ere artes. Labor omnia vicit
improbus et duris urgens in rebus egestas.
degli Arcadi Licaone, per aver suscitato la gelosia di Era. Callisto infatti, cacciatrice compagna di Artemide, aveva avuto un figlio da Zeus
ed Era aveva quindi trasformato lei nella costellazione dell’Orsa, e suo figlio Arcas nella
costellazione di Arturo.
140. inventum (sott. est): «si trovò il modo di».
Regge gli infiniti captare, fallere e circumd¯are.
– magnos ... saltus: «grandi boschi di montagna». È l’accusativo retto da circumdo, che
qui è costruito appunto con l’accusativo e con
l’ablativo (canibus), ma potrebbe anche essere
costruito, come il verbo dono, con il dativo e
l’accusativo (circumd¯are alicui aliquid).
141. alius: correlato all’alius del verso successivo. Si possono tradurre «uno... l’altro».
– latum: riferito ad amnem.
– funda: «con il giacchio». Era una rete
da pesca a forma di imbuto con del piombo in
fondo, che si allargava quando veniva gettata e
si chiudeva poi imprigionando la preda.
– verberat: nota come questo verbo rappresenti bene il gesto ripetuto di gettare la rete
sferzando l’acqua.
142. alta petens: «cercando di lanciare in
profondità».
– pelagoque: ablativo di moto da luogo senza preposizione.
– umida lina: «le reti bagnate».
143. ferri rigor: «la rigidezza del ferro», ma è
meglio tradurre «il rigido ferro». Il verbo di
questo nominativo rigor come degli altri due
nominativi lammina e artes è ven¯ere del v. 145,
che sta per venerunt.
– argutae: «stridula», riferito a serrae.
144. primi: «i primi uomini», ossia quelli che vivevano nella precedente età dell’oro, quando
tutto avveniva con semplicità e naturalezza e anche il legno era fissile, cioè «facile a fendersi».
– omnia vicit: «vincono su tutto». I soggetti
di vicit sono due: labor ed egestas. Vicit è un
perfetto di consuetudine. È evidente l’assonanza tra questo Labor omnia vicit e il famosissimo omnia vincit Amor delle Bucoliche (X.69).
Labor omnia vicit sembra da interpretare in
modo pessimistico: non significa che l’uomo
con il lavoro supera tutte le difficoltà, ma che il
labor, cioè la fatica, che è improbus, ossia «smisurato», domina su tutto e l’uomo è condannato a sopportarne il peso.
145. duris ... in rebus: «nelle difficoltà».
– urgens: riferito a egestas.
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole del brano.
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
a. Quale divinità è responsabile della fine dell’età dell’oro e della legge che impone
all’uomo il duro lavoro?
b. Individua i versi in cui Virgilio afferma che nell’età dell’oro non esisteva la proprietà privata.
c. Fai un elenco di tutte le attività umane che vengono citate esplicitamente.
d. Che cosa, secondo Virgilio, spinge l’uomo al progresso?
Il nome di Giove. Iuppiter, Iovis (Giove) è un sostantivo della III declinazione
che forma il nominativo e il vocativo (Iuppiter) da un tema diverso rispetto a
quello utilizzato in tutti gli altri casi (Iovis, Iovi, Iovem, Iove).
Iuppiter era in origine il solo vocativo e corrisponde infatti al greco Zèu pàter, «o
padre Zeus».
La radice, sia di Zeus greco sia di Iovis latino, è l’indoeuropeo *dyeu (stessa radice di dies, «giorno»), che indicava il dio più potente, signore del cielo come lo
Zeus della religione olimpica.
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LA CONSIDERAZIONE DEL LAVORO
SCHEDA
LESSICALE
245
SAN PAOLO
LA VITA E LE OPERE Paolo, che inizialmente ebbe il nome di Saul, nacque intorno al
6 d.C. a Tarso (Turchia), città di cultura ellenistica e capitale della provincia di Cilicia, ed era
cittadino romano. Proveniente da una famiglia di ebrei emigrati benestanti, apparteneva alla
setta religiosa dei farisei, la più rigorosa nell’osservanza dei precetti. Si recò, intorno ai quindici anni, a Gerusalemme, dove studiò a fondo la Torah, l’insieme dei primi cinque libri dell’Antico Testamento, quelli della Legge per gli Ebrei. Non conobbe mai di persona Gesù, perché
Paolo visse a Gerusalemme mentre Gesù si trovava in Galilea, a Nazareth. Divenuto un ardente fariseo, decise di lottare contro la nascente eresia all’interno dell’Ebraismo: il Cristianesimo. Partito intorno al 36 d.C. per la Siria con la precisa intenzione di perseguitare i Cristiani, sulla strada di Damasco ebbe una visione folgorante e si convertì alla nuova religione.
Cambiò anche nome, chiamandosi Paolo per ricordare la conversione, da lui operata intorno al 43 d.C., di un proconsole romano con tale nome. Fu accolto dagli apostoli come
loro pari e sostenne con energia il distacco dei Cristiani dalle prescrizioni della legge mosaica. In questo modo il messaggio evangelico trovò maggiore ascolto anche presso i non
Ebrei. Poiché la sua visione del Cristianesimo era universale (cioè cattolica, dal corrispondente aggettivo greco), egli superò l’antiproselitismo ebraico, ammettendo nella comunità cristiana anche i pagani. Paolo dunque viaggiò per l’intero mondo antico, predicando a Damasco, Gerusalemme, ad Antiochia di Siria, nell’isola di Cipro, in tutta l’Asia Minore, in Grecia ad
Atene e Corinto.
Più volte imprigionato dai Romani, alla fine fu inviato, in quanto cittadino romano, al tribunale dell’imperatore a Roma e lì venne martirizzato in un anno compreso tra il 64 e il 67
d.C., nell’ambito delle persecuzioni dell’imperatore Nerone.
LE EPISTOLE Paolo compose in greco molte lettere «aperte», cioè destinate a essere
lette a un pubblico vasto: in questo caso le comunità di Cristiani delle città toccate dalla predicazione. Queste epistole, incentrate su temi e problemi religiosi, sono caratterizzate da un
tono che fonde una forte emotività con un’analisi lucida e razionale di questioni a volte anche molto complesse. Le lettere rispondono alle domande e alle incertezze delle prime comunità, che però danno per acquisita la conoscenza dei fatti della vita di Gesù, poiché Paolo
non riferisce parabole, detti o miracoli.
Le epistole si possono datare tra il 50 e il 67 (l’anno della morte): prima e seconda lettera ai Tessalonicesi (50-52, durante il secondo viaggio missionario); ai Galati (53-56, nel terzo viaggio missionario); prima e seconda epistola ai Corinzi (rispettivamente 56 e 57); ai Romani (57-58); lettere ai Colossesi, agli Efesini, ai Filippesi e a Filemone (61-63, durante la prima prigionia romana); agli Ebrei (64); lettera prima a Timoteo e a Tito (circa 65 d.C.); seconda epistola a Timoteo (verso il 66-67, poco prima della morte).
Sono testi d’incerta attribuzione le lettere ai Colossesi, agli Efesini e le tre pastorali, cioè
le due a Timoteo e quella a Tito.
LA TRADUZIONE LATINA DEL NUOVO TESTAMENTO L’Antico Testamento venne scritto in ebraico e aramaico, in greco il Nuovo Testamento. Questo, di cui fanno parte le
lettere di Paolo, fu tradotto in latino già a partire dal II secolo nell’Africa del Nord e poi in
Italia, Gallia e in altre parti dell’impero. Le versioni latine presentano molte differenze tra loro: sotto la denominazione di Vetus Latina si indica, pertanto, non una singola traduzione, ma
il complesso delle traduzioni anteriori alla fine del IV secolo. I manoscritti della Vetus Latina
erano spesso caratterizzati da limiti, imperfezioni, mutilazioni ed errori. Il papa Damaso, intorno al 384, commissionò una nuova traduzione della Bibbia a San Gerolamo proprio per i
dubbi legati all’attendibilità dei vari manoscritti della Vetus Latina. Con il termine latino Vulgata (corrispondente al greco koiné, ossia «diffusa») si indica la traduzione latina del Nuovo Testamento, attribuita a Gerolamo. La sua versione non è immune da pecche, né è di pari valore nelle varie parti. Il redattore, che ammise i propri limiti, dovette spesso fare uso di vocaboli presi dal latino volgare. Critiche giunsero da Sant’ Agostino stesso, soprattutto per quanto riguardava le parti tradotte dall’ebraico. Comunque questa traduzione divenne la più diffusa nella Chiesa romana a partire dal VII secolo e fu riconosciuta come quella ufficiale con
le edizioni promosse da Sisto V (1590) e Clemente VIII (1592).
246
IL LAVORO
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I CRISTIANI DEVONO LAVORARE
PER MANGIARE
(S. Paolo, Seconda lettera
ai Tessalonicesi, III)
3
Nel 52, poco dopo aver inviato la prima lettera ai Cristiani di Tessalonica (attuale Salonicco), Paolo scrive nuovamente a loro, per confortarli nei dolori provocati dalla persecuzione e rafforzare la loro fede, turbata da voci su un imminente ritorno di Cristo. Egli
dimostra infondata quest’attesa, poiché i veri segni premonitori non si sono ancora verificati. Invece di aspettare nell’ozio la fine di tutto, i fedeli devono continuare con serenità a mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti, tra cui anche la necessità del lavoro.
1. De cetero, fratres, orate pro nobis ut sermo Domini currat et clarificetur sicut et apud vos 2. et ut liberemur ab importunis et malis hominibus:
non enim omnium est fides. 3. Fidelis autem Dominus est, qui confirmabit vos et custodiet a malo. 4. Confidimus autem de vobis in Domino quoniam quae praecipimus et facitis et facietis. 5. Dominus autem dirigat corda vestra in caritate Dei et patientia Christi. 6. Denuntiamus autem vobis,
fratres, in nomine Domini nostri Iesu Christi ut subtrahatis vos ab omni
fratre ambulante inordinate et non secundum traditionem quam acceperunt a nobis. 7. Ipsi enim scitis quemadmodum oporteat imitari nos quoniam non inquieti fuimus inter vos 8. neque gratis panem manducavimus
1. De cetero: formula di passaggio, «Per
quanto riguarda il resto». Nel capitolo precedente Paolo ha esortato i Cristiani di Tessalonica a restare saldi nella fede e a mantenere
le tradizioni che hanno appreso, confidando
nella consolazione eterna del Signore.
– ut … currat et clarificetur: proposizioni
finali rette dall’imperativo orate.
– et apud vos: qui et equivale a etiam, come
accade abbastanza spesso.
2. ut liberemur: ancora una proposizione finale retta da orate.
– ab … hominibus: complemento di allontanamento.
3. Fidelis: forma con fides quasi un’anadiplosi, cioè una figura retorica per cui l’ultima parola di un periodo è ripetuta all’inizio del periodo successivo; si ottiene così un effetto di
riecheggiamento, che serve a sottolineare l’importanza della parola stessa.
4. quoniam … et facitis et facietis: la congiunzione quoniam nel latino post-classico può introdurre, come in questo caso, proposizioni
dichiarative, per analogia con l’uso di quod.
– quae: è sottinteso l’antecedente ea.
5. dirigat: congiuntivo esortativo, « diriga ».
– in caritate Dei et patientia Christi: a seconda che Dei e Christi siano interpretati come
genitivi soggettivi o oggetttivi si può rendere
«nell’amore (proprio) di Dio e nella sopportazione (propria) di Cristo» oppure «nell’amore
verso Dio e nella paziente attesa di Cristo».
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6. ut subtrahatis: proposizione completiva retta da denuntiamus.
– ambulante: letteralmente «che cammina»
cioè «che si comporta», ma il testo latino contiene la metafora della vita come marcia verso
la salvezza.
– et non: il latino classico preferirebbe neque; uso analogo anche nel versetto 14.
– acceperunt: esempio di constructio ad sententiam cioè concordanza a senso; ci saremmo
infatti aspettati accepit, visto che il soggetto
grammaticale avrebbe dovuto essere un pronome sottinteso, per esempio is, riferito a fratre; invece – siccome coloro che si comportano
disordinatamente sono più d’uno – il predicato verbale concorda con il soggetto logico, cioè
ii fratres ambulantes.
7. ipsi: rafforzativo del soggetto sottinteso vos.
– quemadmodum oporteat: proposizione
interrogativa indiretta, subordinata a scitis e a
sua volta reggente l’infinito deponente imitari.
– nos: complemento oggetto.
– quoniam … fuimus… neque manducavimus: proposizioni causali, rese con l’indicativo
perché vogliono esprimere un dato oggettivo.
– inquieti: «indisciplinati».
8. gratis: vedi la scheda lessicale Gratia, grazie
e gratis a pag. 249.
– manducavimus: nel latino classico significa «masticare», ma qui vale «mangiare»; il verbo italiano deriva proprio da questo corrispondente del latino popolare.
LA CONSIDERAZIONE DEL LAVORO
247
ab aliquo, sed in labore et fatigatione nocte et die operantes, ne quem vestrum gravaremus, 9. non quasi non habuerimus potestatem, sed ut nosmet ipsos formam daremus vobis ad imitandum nos. 10. Nam et cum essemus apud vos hoc denuntiabamus vobis, quoniam si quis non vult operari nec manducet. 11. Audimus enim inter vos quosdam ambulare inquiete nihil operantes, sed curiose agentes. 12. His autem qui eiusmodi
sunt denuntiamus et obsecramus in Domino Iesu Christo, ut cum silentio
operantes suum panem manducent. 13. Vos autem fratres nolite deficere
– ab aliquo: può essere inteso come complemento d’origine o d’agente, «(datoci) da altri».
– in labore et fatigatione: letteralmente è
uno stato in luogo figurato, ma si può rendere
come complemento di modo, «con fatica e con
pena».
– operantes: sottintende fuimus e quindi si
può tradurre «abbiamo lavorato».
– quem: accusativo del pronome indefinito
usato al posto di aliquem nella proposizione finale negativa ne… gravaremus; regge il genitivo partitivo vestrum: «per non essere di peso a
nessuno di voi».
9. non quasi non habuerimus: proposizione
comparativa ipotetica, in cui il confronto avviene tra un fatto reale – qui fuimus… neque
manducavimus, sed… operantes (fuimus) – e
uno ipotetico; infatti la congiunzione quasi è
fomata da quam e si e introduce un congiuntivo, il cui tempo è regolato dal tipo e dalla collocazione cronologica dell’ipotesi. In questo
caso il perfetto esprime l’idea che il fatto
espresso ipoteticamente si ritenga possibile nel
passato. Si può rendere con «non che (letteralmente: non come se) non avessimo».
– potestatem: nella prima lettera ai Corinzi (9, 13), Paolo scrive: «Non sapete che coloro che celebrano il culto traggono il vitto dal
culto e coloro che attendono all’altare hanno
parte dell’altare? Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunciano il Vangelo vivano del Vangelo».
– nosmet: forma di accusativo rafforzata
dalla particella enclitica -met e ulteriormente
sottolineata dall’attributo ipsos: «noi stessi per
primi».
– formam: predicativo: «come esempio».
– ad imitandum nos: il latino classico
248
IL LAVORO
avrebbe ad imitandos nos; evidentemente il rigore nell’uso del gerundivo si stava allentando.
10. et: equivale a etiam.
– hoc: pronome dimostrativo, qui prolettico – cioè «anticipatore» – della proposizione
complementare diretta quoniam nec manducet,
che costituisce l’apodosi del periodo ipotetico.
– quoniam… manducet: da notare ancora
una volta l’uso post-classico della congiunzione quoniam.
– nec: «nemmeno».
– si … non vult: protasi del periodo ipotetico del primo tipo; la presenza dell’indicativo,
pur in dipendenza da un’apodosi il cui verbo è
al congiuntivo, si spiega con la volontà di sottolineare l’oggettività del fatto.
– quis: forma del pronome indefinito, usata
dopo si, nisi, ne, neve, neu.
11. ambulare inquiete: cfr. note ad ambulante
del versetto 6 e a inquieti del 7.
– curiose agentes: allude forse alle discussioni teologiche e ai turbamenti provocati da
voci sul ritorno prossimo di Cristo; si può tradurre «affaccendandosi per questioni futili».
12. qui eiusmodi sunt: conviene semplificare
la relativa (che letteralmente vale «che sono di
tale genere»), rendendola semplicemente con
«tali».
– ut … manducent: proposizione complementiva o sostantiva, retta da denuntiamus et
obsecramus.
– cum silentio operantes: si oppone a curiose agentes.
13. nolite deficere benefacientes: l’imperativo
nolite con l’infinito esprime il comando negativo; deficere regge a sua volta il participio predicativo benefacientes: «non scoraggiatevi nel fare del bene».
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benefacientes. 14. Quod si quis non oboedit verbo nostro, per epistulam
hunc notate et non commisceamini cum illo, ut confundatur 15. et nolite
quasi inimicum existimare sed corripite ut fratrem.
14. quod si: equivale a et si ed è usato più frequentemente, anche nel latino classico, per
evitare la confusione con la congiunzione concessiva.
– per epistulam hunc notate: «prendete nota di lui».
– commisceamini: congiuntivo esortativo,
negativo in quanto introdotto da et non (men-
tre il latino classico userebbe nec): «e non abbiate relazione».
– confundatur: letteralmente «sia turbato»,
ma si può rendere qui con «provi vergogna».
15. quasi: «come».
– inimicum: predicativo dell’oggetto illum,
sottinteso sia per existimare sia per corripite.
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole del brano.
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
a. Individua le antitesi (vedi il glossario a pag. 337) in questo brano. Esiste una certa
regolarità per quanto riguarda la struttura (presenza, posizione e valore di congiunzioni ecc.)? In quale parte è contenuto il messaggio negativo e in quale quello positivo?
b. Individua ed elenca le parole che definiscono l’atteggiamento di Paolo verso la
comunità cristiana.
c. Chi sono gli importuni et mali homines citati nel primo periodo?
d. Come ha vissuto Paolo durante la sua missione a Tessalonica? Quali comportamenti ha evitato?
e. Quali sono le virtù e i valori positivi che i Cristiani devono osservare?
f. Quali sanzioni deve subire il Cristiano che non lavora?
Gratia, grazie e gratis. Il sostantivo gratia, ae è collegato a una radice indoeuropea con valore religioso, dalla quale sono derivati, per esempio, i termini del
sanscrito (lingua attestata nell’India a partire dal X sec. a.C.) gír (genitivo giráh),
«canto di elogio», e gurtáh, «celebrato».
I significati fondamentali del termine sono i seguenti:
– «riconoscenza»; da ricordare le espressioni gratias agere o referre alicui,
«rendere grazie a / ringraziare qualcuno»;
– «favore, grazia», nel senso di «servizio, atto con cui si acquisisce la riconoscenza»;
– «grazia», nell’accezione di «perdono, indulgenza»;
– «favore, credito, influenza»;
– «consenso, gradimento»;
– «piacevolezza, grazia, attrattiva» di persone e cose;
– il plurale personificato Gratiae indica le tre figlie di Giove ed Eurinome,
che simboleggiavano letizia, splendore e prosperità derivanti dalla vita regolata dalla socievolezza e dal sentimento del bello;
– l’ablativo singolare gratia posposto al genitivo di un sostantivo, di un gerundio o di un gerundivo esprime il complemento di fine: così exempli gratia significa «per esempio»;
– l’ablativo plurale gratis (< gratiis), partendo dal significato di «con favori»,
è impiegato con valore avverbiale; è passato quindi tale e quale all’italiano.
Dal latino, il sostantivo e i suoi derivati sono passati all’italiano con esiti evidenti
e mantenendo gli stessi significati.
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LA CONSIDERAZIONE DEL LAVORO
SCHEDA
LESSICALE
249
Unità
2 I Romani al lavoro
CATONE
LA VITA E LE OPERE Per le notizie sulla vita e le opere dell’autore vedi pag. 151.
Aggiungiamo qui qualche informazione sul trattato De agri cultura.
IL DE AGRI CULTURA Unica opera di Catone conservata per intero, è il più antico
testo in prosa della letteratura latina in nostro possesso. Dopo la prefazione, l’autore fornisce in 170 capitoli una serie di precetti su vari aspetti della vita agricola: l’acquisto del
podere, l’ubicazione e la costruzione della fattoria, la conduzione dei lavori agricoli, la cura delle malattie degli animali e delle piante ecc. L’intera opera è dominata dalla preoccupazione per il guadagno, ottenuto risparmiando su tutto ciò che si può, vendendo il più
possibile e sfruttando senza pietà gli schiavi, fino al punto di cederli ad altri quando essi
sono vecchi e malati.
VANTAGGI DELL’AGRICOLTURA
PER IL SINGOLO E LA COLLETTIVITÀ
1
(Marco Porcio Catone,
De agri cultura, Praefatio)
Nella prefazione del De agri cultura Catone confronta i mestieri redditizi, cioè il commercio e l’usura, con l’agricoltura; questa, rispetto ai primi, offre vantaggi non solo più
sicuri, ma anche più onorevoli. Interprete di una visione della vita tipicamente romana,
l’autore istituisce un collegamento molto stretto fra l’attività privata e quella pubblica;
per questo viene sottolineata anche la valenza educativa della vita dei campi, la quale
forma i cittadini più onesti e i combattenti più valorosi.
1. Est interdum praestare mercaturis rem quaerere, nisi tam periculosum
sit, et item foenerari, si tam honestum sit. 2. Maiores nostri sic habuerunt
et ita in legibus posiverunt: furem dupli condemnari, foeneratorem qua1. Est … praestare: Est è il verbo dell’apodosi
di un periodo ipotetico, che per il senso del discorso di Catone non può che essere dell’irrealtà; il latino, però, per sottolineare l’oggettività usa spesso l’indicativo anche là dove noi ci
aspetteremmo un congiuntivo, da tradurre in
italiano con un condizionale: è la cosiddetta
«regola del falso condizionale». Il resto della
costruzione può essere spiegata in due modi:
est in posizione forte equivale a potest e praestare ha come soggetti quaerere e foenerari
(«Sarebbe talvolta possibile che sia preferibile
guadagnare… e praticare l’usura»); est è copula, praestare predicativo dei soggetti quaerere e
foenerari («Sarebbe talvolta preferibile [lett.:
un essere avvantaggiati] guadagnare… e praticare l’usura»).
– rem quaerere: letteralmente «cercare (di
procurarsi) un patrimonio», quindi «guadagnare» o «speculare».
– nisi … sit: come per la proposizione seguente si… sit, si deve pensare a una protasi
dell’irrealtà, ma i tempi del congiuntivo non
250
IL LAVORO
sono quelli del latino classico, per il quale dovremmo aspettarci esset. Nel periodo arcaico,
infatti la distinzione era tra supposizione oggettiva (con l’indicativo) e soggettiva (con il
congiuntivo); quest’ultima non era definibile
come possibile o irreale, ma come presente/futura (con il tempo presente) o passata (con
l’imperfetto).
2. habuerunt: in senso traslato, sottintendendo in mentem, «considerarono (giusto)».
– in legibus: nelle leggi delle XII Tavole.
– posiverunt: forma arcaica di posuerunt;
ponere infatti deriva dal prefisso po (corrispondente alla preposizione greca apò, «da») e sino,
-is, sivi, situm, sinere, che inizialmente significava «mettere via, a parte», quindi «deporre»
e infine «porre».
– furem … condemnari: questa proposizione oggettiva, come la successiva che ha per
soggetto foeneratorem (sottinteso condemnari),
spiega gli avverbi sic e ita prolettici, cioè anticipati: «così, cioè che il ladro fosse condannato,
mentre l’usuraio…».
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drupli. Quanto peiorem civem existimarint foeneratorem quam furem,
hinc licet existimare. 3. Et virum bonum quom laudabant, ita laudabant:
bonum agricolam bonumque colonum; amplissime laudari existimabatur
qui ita laudabatur. Mercatorem autem strenuum studiosumque rei quaerendae existimo, verum, ut supra dixi, periculosum et calamitosum. 4. At
ex agricolis et viri fortissimi et milites strenuissimi gignuntur, maximeque
pius quaestus stabilissimusque consequitur minimeque invidiosus, minimeque male cogitantes sunt qui in eo studio occupati sunt.
– dupli: genitivo di pena, come il seguente
quadrupli: «al doppio… al quadruplo» di
quanto, rispettivamente, rubato e prestato.
– Quanto: ablativo di misura con il comparativo peiorem; introduce la proposizione interrogativa indiretta che, con soggetto sottinteso maiores nostri e predicato verbale existimarint, è retta da existimare.
– existimarint: forma sincopata di congiuntivo perfetto per existimaverint.
– quam furem: secondo termine di paragone.
– existimare: dopo existimarint, la ripetizione del verbo con una diversa desinenza crea
la figura retorica del poliptoto (vedi il glossario
a pag. 337).
3. virum bonum quom: iperbato (vedi il glossario a pag. 337) per quom (forma arcaica di
cum) virum bonum.
– colonum: è sostanzialmente un sinonimo
di agricolam, in quanto all’epoca di Catone designa il piccolo proprietario di condizione libera che abita in campagna; più tardi, con la diffusione del latifondo, indicherà invece il «fittavolo» o «mezzadro», cioè colui che coltiva i
campi di altri.
– rei quaerendae: sostantivo e gerundivo in
genitivo, retti da studiosus: «desideroso di procurarsi guadagno» o «tutto teso a guadagnare».
– ut … dixi: proposizione incidentale modale.
– periculosum et calamitosum: hanno senso
passivo, come il successivo invidiosus, e sono
quindi da rendere con espressioni come «esposto al pericolo… alla rovina… all’ostilità».
4. At: è la congiunzione avversativa più forte,
con cui si contrappone una certa affermazione
a un’altra precedente; è quindi da rendere con
«invece».
– ex agricolis: complemento di origine.
– et … et: l’iterazione o ripetizione della
congiunzione sottolinea il parallelismo della
costruzione (sostantivo + superlativo) e l’omeoteleuto (vedi il glossario a pag. 337) viri
fortissimi - milites strenuissimi.
– maximeque pius: forma perifrastica di superlativo; piissimus verrà usato da Cicerone in
poi. L’aggettivo pius è uno dei più difficili da
tradurre, poiché implica un’estensione molto
vasta di valori: la devozione e il rispetto verso
gli dei, la patria e i genitori. Si può rendere approssimativamente con la perifrasi «il più rispettoso delle leggi divine e umane».
– male cogitantes: anche l’uso del participio presente in funzione predicativa è proprio
del latino non classico. Quanto al significato, è
ragionevole pensare che Catone non intendesse solo definire i contadini «assolutamente non
malevoli» in senso morale, ma anche «senza
grilli per la testa» in senso politico: agli occhi
di Catone, infatti, il loro conservatorismo era
una virtù.
– in eo studio occupati: «affaccendati in
questa occupazione».
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole del brano.
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
a. Individua ed elenca, oltre a quelli citati, esempi di iterazione (cioè ripetizione) di
parole.
b. Oltre all’iterazione, individua altre caratteristiche dello stile di Catone, scegliendo
i termini opportuni all’interno del seguente elenco (per le definizioni dei termini
tecnici, consulta il glossario a pag. 337):
prevalenza di periodi con una complessa articolazione di subordinate, prevalenza
di frasi brevi e della paratassi, prevalenza dell’asindeto, prevalenza del polisindeto,
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I ROMANI AL LAVORO
251
alternanza di asindeto e polisindeto, abbondanza di metafore, notevole frequenza
delle figure di suono, parallelismi, chiasmi, variatio, tendenza al patetico, secchezza.
c. Tipica della poesia e della retorica antica è la «composizione ad anello», per cui
un termine o un’affermazione iniziale è ripresa con termini analoghi o antitetici
alla fine di una sequenza. Individua nei paragrafi 1 e 4 i termini che possono costituire gli elementi di una composizione del genere.
d. Quale mestiere è condannato da Catone senza riserve? Perché?
e. Del mercator quali sono le caratteristiche positive e quali quelle negative? Catone
esprime un giudizio morale?
f. Secondo quanto espresso dall’autore nel paragrafo 4, quali vantaggi offre alla collettività l’agricoltura?
SCHEDA
LESSICALE
Il «campo» dei Latini. Il latino possedeva vari termini per indicare il «campo» e precisamente:
– ager, agri: termine generico, indicante il «campo» o «terreno» in quanto
terra da lavorare, distinta da quella occupata da case o boschi, non necessariamente in piano, perché può estendersi anche per un tratto collinare o
montano. Può indicare anche il «territorio» di una città o di una nazione.
Da ricordare l’ager publicus, di proprietà dello Stato, terreno demaniale a
disposizione della collettività e quindi non utilizzabile da privati e tanto
meno vendibile;
– arvum, -i: aggettivo neutro sostantivato, dalla stessa radice del verbo aro,
indicante appunto il «terreno arabile», diverso da quello lasciato al pascolo, anche se non sempre questa distinzione è osservata dagli autori, soprattutto in poesia;
– campus, -i: altro termine generico, che designa una vasta superficie aperta e
pianeggiante e quindi sia la «campagna», contrapposta al mons e alla silva,
sia una «spianata» per adunanze politiche, attività sportive ed esercitazioni
militari (il più famoso e importante a Roma era il Campus Martius, chiamato spesso per antonomasia Campus);
– fundus, -i: è la proprietà terriera, «podere» o «fondo»;
– iugerum, -i: dalla radice iugum, -i («giogo»), indica la superficie di terra che
si poteva arare in un giorno utilizzando una coppia di buoi; corrisponde
quindi alla definizione di «giornata» che è ancora impiegata nelle nostre
campagne. Per la precisione, indicava un rettangolo che aveva un’estensione di circa 2500 metri quadrati attuali. Due iugera costituivano un heredium, cioè il «podere ereditato», considerato il minimo indispensabile per
mantenere una famiglia. Cento heredia (duecento iugera) costituivano una
centuria;
– seges, -getis: designa propriamente «ciò che è seminato» e dunque, per traslato, soprattutto il «campo seminato»; spesso tuttavia assume un valore
più generico, cioè di «campo» in attesa della semina;
– terrenum, -i: aggettivo neutro sostantivato, impiegato piuttosto raramente
nel latino classico; indica anch’esso il «terreno coltivato».
Per la trattazione dello stesso argomento (agricoltura) si rimanda all’unità 2 del capitolo Il mondo degli umili.
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IL LAVORO
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MARZIALE
LA VITA E LE OPERE Per la vita e le opere di Marziale vedi pag. 180 e, in particolare,
per le caratteristiche dei suoi epigrammi vedi pag. 113.
MESTIERI DA POCO
(Marziale, I.41)
2
In questo epigramma, in cui Marziale ridicolizza lo scarso senso dell’umorismo di un
certo Cecilio, viene fatto un elenco di mestieri che godevano evidentemente di scarsa
considerazione. Anche Cecilio, come tutta la gente che svolge questi lavori, vale poco.
5
10
15
Urbanus tibi, Caecili, videris.
Non es, crede mihi. Quid ergo? Verna,
hoc quod transtiberinus ambulator,
qui pallentia sulphurata fractis
permutat vitreis, quod otiosae
vendit qui madidum cicer coronae,
quod custos dominusque viperarum,
quod viles pueri salariorum,
quod fumantia qui tomacla raucus
circumfert tepidis cocus popinis,
quod non optimus urbicus poeta,
quod de Gadibus improbus magister,
quod bucca est vetuli dicax cinaedi.
Quare desine iam tibi videri,
quod soli tibi, Caecili, videris,
Metro : endecasillabi faleci.
1. Urbanus : «Spiritoso». Qui videor è costruito personalmente con il nominativo e il verbo
esse sottinteso. Vedi la scheda lessicale Urbanus e rusticus di pag. 254.
2. Quid ergo?: «Che cosa sei dunque?».
3. hoc quod: «come».
– transtiberinus ambulator: «un venditore
ambulante di Trastevere». Nei quartieri
poveri al di là del Tevere si esercitavano i mestieri più miserabili.
4. qui: il verbo è permutat posto all’inizio del
verso successivo.
– pallentia sulphurata: «smorti zolfanelli».
4-5. fractis... vitreis: «con oggetti di vetro rotti», posto all’inizio.
5. quod: «come». Lo stesso quod si ripete poi
con un’anafora (vedi il glossario a pag. 337) all’inizio dei vv. 7, 8, 9, 11, 12, 13, 14 e 15.
5-6. otiosae / vendit qui madidum cicer coronae: «uno che vende ceci in minestra a una
moltitudine oziosa».
7. custos: «una guardia».
– dominus(que) viperarum: «un incantatore di serpenti».
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8. viles pueri salariorum: «quelli che fanno per
pochi soldi i garzoni dei droghieri».
9-10. fumantia qui tomacla raucus / circumfert
tepidis cocus popinis: «un cuoco che porta in
giro rauco salsicce fumanti con tiepide piastre».
Evidentemente il cuoco è rauco perché pubblicizza a gran voce i cibi che ha da vendere.
11. non optimus: questa figura retorica, che
nega il contrario, è la litote (vedi il glossario a
pag. 337), che è un modo eufemistico per dire
qualcosa. Così invece di dire che uno è un cattivo poeta, Marziale dice che è un poeta «non
ottimo».
12. de Gadibus: «proveniente da Cadice». La città spagnola di Cadice era famosa per le
danze sensuali dei suoi ballerini.
13. quod bucca est vetuli dicax cinaedi:
«com’è la bocca impudente di un vecchio travestito». Qui invece di os è usato bucca, che indica precisamente le guance che si gonfiano
nel parlare. Da notare anche l’uso, non tradotto in italiano nell’aggettivo «vecchio», di vetulus, diminutivo di vetus.
14. desine iam tibi videri: «smetti ormai di credere di essere».
I ROMANI AL LAVORO
253
qui Gabbam salibus tuis et ipsum
posses vincere Tettium Caballum.
Non cuicumque datum est habere nasum:
ludit qui stolida procacitate,
non est Tettius ille, sed caballus.
20
16-17. qui Gabbam salibus tuis et ipsum /
posses vincere Tettium Caballum: « tu che potresti (a tuo dire) superare con le tue battute
Gabba e lo stesso Tettio Caballo». Gabba e
Tettio Caballo erano comici di successo.
18. habere nasum: si tratta di una metafora (vedi il glossario a pag. 337) che significava «essere
spiritoso», mentre in italiano la metafora «avere
naso» significa «avere fiuto, intuizione».
19. ludit qui: anastrofe (vedi il glossario a pag.
337), «chi scherza».
20. non est Tettius ille, sed caballus: «non è
quel famoso Tettio, ma è un cavallo». Marziale
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
scherza qui con il nome del comico Tettio Caballo e con il termine caballus, che indicava il
cavallo da tiro e si è poi affermato in italiano
(«cavallo») in luogo di equus, che nel latino
classico era usato per indicare un cavallo da
corsa o da guerra. Il povero Cecilio, protagonista di questo epigramma, quindi, più che assomigliare al famoso comico Caballus, ha, secondo Marziale, lo spirito di un cavallo da tiro,
cioè è assai poco spiritoso. Come spesso avviene negli epigrammi di Marziale, nel finale c’è, a
sorpresa, una battuta a effetto, un fulmen in
clausula.
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole dell’epigramma.
a. Elenca i mestieri che vengono citati nell’epigramma.
b. Marziale nomina due cibi che si potevano acquistare per le vie di Roma da venditori ambulanti: quali sono? Ti sembrano diversi o simili rispetto a quelli che si vendono oggi per le strade di una città?
c. Individua tutti i termini (aggettivi, sostantivi, verbi, locuzioni varie) che Marziale
usa per indicare il senso dell’umorismo.
SCHEDA
LESSICALE
Urbanus e rusticus. L’aggettivo urbanus, derivato ovviamente da urbs, «città»,
significa appunto «urbano, cittadino», ma anche, in senso buono, considerando
le caratteristiche positive di chi vive in città, «civile, cortese, fine, arguto» e in
senso cattivo, penalizzando forse le caratteristiche negative, come un’eccessiva
disinvoltura, «sfacciato».
Il contrario di urbanus è rusticus, derivato da rus, «campagna», che significa appunto «di campagna, rurale, da contadino», ma anche, in senso buono, considerando gli aspetti positivi della vita in campagna, «semplice, schietto» e poi, in
senso cattivo, valutando gli aspetti negativi della vita in campagna, «villano, incivile, rozzo».
VIVERE A ROMA CON UN MESTIERE ONESTO?
3
(III.38)
Ai tempi di Marziale molti, dalle campagne italiche o dalle province, si trasferivano a
Roma sperando di fare fortuna, ma in genere andavano a ingrossare le fila dei disoccupati nullatenenti che vivevano alla giornata nei bassifondi della capitale e spesso riuscivano a mangiare solo procurandosi del denaro in modo disonesto.
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5
10
Quae te causa trahit vel quae fiducia Romam,
Sexte? Quid aut speras aut petis inde? Refer.
«Causas» inquis «agam Cicerone disertior ipso
atque erit in triplici par mihi nemo foro.»
Egit Atestinus causas et Civis – utrumque
Noras – ; sed neutri pensio tota fuit.
«Si nihil hinc veniet, pangentur carmina nobis:
audieris, dices esse Maronis opus.»
Insanis: omnes gelidis quicumque lacernis
sunt ibi Nasones Vergiliosque vides.
«Atria magna colam.» Vix tres aut quattuor ista
res aluit, pallet cetera turba fame.
«Quid faciam? Suade: nam certum est vivere Romae.»
Si bonus es, casu vivere, Sexte, potes.
Metro: distici elegiaci.
1. Quae: riferito a causa.
2. Sexte: «Sesto», un conoscente di Marziale
che manifesta l’intenzione di andare a vivere a
Roma.
– inde: «(di ricavare) di lì».
– Refer: «parla». È imperativo di refero.
3. «Causas» inquis «agam: agere causam significa «difendere una causa», cioè «fare l’avvocato, essere avvocato». Per inquis vedi la scheda
lessicale Aio, inquam e fari a pag. 65.
– disertior: predicativo del soggetto.
4. in triplici ... foro: «nei tre fori». A Roma
i processi si svolgevano nel Foro Romano, nel
Foro di Cesare e nel Foro di Augusto.
5. Egit: il verbo è singolare, ma i soggetti sono
due, Atestinus e Civis, quindi in italiano va
concordato regolarmente al plurale.
6. noras: forma sincopata per noveras, «conoscevi». Novi è un perfetto logico, quindi il
piuccheperfetto si traduce con l’imperfetto.
– neutri pensio tota fuit: «nessuno dei due
ebbe tutto il denaro per l’affitto». Neutri è dativo di possesso. Ricorda che neuter ha declinazione pronominale.
7. pangentur carmina nobis: «comporrò poesie». Nobis è un dativo d’agente. Qui Sesto
parla dicendo «noi» invece di «io», ma il soggetto è evidentemente solo lui.
8. audieris: forma sincopata per audiveris, «sentirai». Sarebbe un futuro anteriore, ma in italiano è meglio non esprimere l’anteriorità fra due
futuri (l’altro è dices) come invece si fa in latino.
– esse: il soggetto di questo infinito è ovviamente carmina sottinteso.
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– Maronis: si tratta evidentemente del grande poeta Virgilio, il cui nome completo è Publius Vergilius Maro.
9-10. omnes gelidis quicumque lacernis / sunt
ibi: «tutti quelli che ci sono lì con i loro freddi
mantelli». Scrivere poesie non rende: ecco perché i poeti hanno addosso mantelli freddi, da
poco prezzo. Da notare il chiasmo (vedi il glossario a pag. 337): omnes concorda con quicumque e gelidis con lacernis. La lacerna era un
mantello con cappuccio che si indossava sopra
la toga.
10. Nasones Vergiliosque vides: «vedrai che sono degli Ovidi e dei Virgili». Il nome completo
del poeta Ovidio era Publius Ovidius Naso.
11. Atria magna colam: «Onorerò gli atri dei
potenti», che significa «farò il cliente». Atria
può essere considerato una sineddoche (vedi il
glossario a pag. 337) per indicare le intere case,
ma forse si tratta invece di un riferimento alla
vita del cliente, il quale per la salutatio matutina che era tenuto a fare al suo dominus stava
ad aspettare appunto nell’atrium della domus
(vedi la scheda lessicale La domus romana a
pag. 256).
11-12. ista / res: «codeste attività».
13. Quid faciam?: «Che cosa dovrei fare?». Faciam è un congiuntivo indipendente dubitativo.
– Suade: «Consigliami».
– certum est vivere Romae: «ho deciso di
vivere a Roma».
11. bonus: «onesto».
– casu vivere, Sexte, potes: «ci puoi vivere,
Sesto, (solo) per caso». Apodosi di un periodo
ipotetico della realtà.
I ROMANI AL LAVORO
255
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole dell’epigramma.
a. Quali mestieri poco redditizi sono presi in considerazione nel dialogo?
b. Con quale argomento Marziale dimostra a Sesto che sono mestieri che non rendono?
c. Nell’epigramma vengono citati tre problemi pratici che il proletariato urbano doveva affrontare quotidianamente: quali sono?
SCHEDA
LESSICALE
La domus romana. Ecco i nomi dei principali ambienti che componevano la
domus romana:
vestibulum, ingresso
atrium, atrio
cubicula, stanze da letto
alae, due stanze laterali alle estremità dell’atrio
triclinia, sale da pranzo
tablinum, stanza per riunioni fra l’atrio e il peristilio
andron, corridoio attraverso il quale si passava dall’atrio al peristilio
peristylium, cortile interno circondato da portici a colonne
exedra, sala per la conversazione con sedili disposti intorno, collocata di solito nel peristilio di fronte al tablino
culina, cucina
balneum o balineum, stanza da bagno.
VIA GLI AMBULANTI DALLE STRADE
4
(VII.61)
Questo epigramma tratta il problema del suolo pubblico, quello delle vie del centro di
Roma occupato da venditori ambulanti, che un provvedimento dell’imperatore Domiziano aveva cacciato: leggendolo oggi non si può non riconoscere che la sua attualità è
sorprendente!
Abstulerat totam temerarius institor urbem,
inque suo nullum limine limen erat.
Iussisti tenuis, Germanice, crescere vicos,
Metro: distici elegiaci.
1. Abstulerat: vedi la scheda lessicale I composti di fero a pag. 178.
– temerarius institor: «il temerario venditore ambulante». Qui Marziale si riferisce evidentemente ai venditori ambulanti in generale: l’uso del singolare in luogo del plurale è
una sineddoche (vedi il glossario a pag. 337).
2. inque suo nullum limine limen erat: «e
sulla soglia la soglia stessa era inesistente»,
cioè per le strade della città la soglia delle
botteghe e delle case non si vedeva più perché occupata dalle merci. Da notare l’allitte256
IL LAVORO
razione delle l e delle nasali in nullum limine
limen e anche il poliptoto in limine - limen
(vedi il glossario a pag. 337).
3. Iussisti tenuis, Germanice, crescere vicos:
«Hai ordinato, Germanico, che vicoli stretti
diventassero più grandi». Tenuis sta per tenues, concordato con vicos. Per vicos vedi anche la scheda lessicale Per la strada a pag.
179. «Germanico» era l’appellativo dell’imperatore Domiziano, che all’epoca in cui
fu composto questo epigramma (92 d.C.) era
reduce da una campagna militare contro i
Sarmati, popolo che abitava le pianure a
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5
10
et modo quae fuerat semita, facta via est.
Nulla catenatis pila est praecincta lagonis,
nec praetor medio cogitur ire luto,
stringitur in densa nec caeca novacula turba,
occupat aut totas nigra popina vias.
Tonsor, copo, cocus, lanius sua limina servant.
Nunc Roma est, nuper magna taberna fuit.
Nord del Mar Nero. In seguito alle conquiste
di Domiziano furono istituite le due nuove
province Germania Superiore e Germania Inferiore. In questo epigramma Marziale elogia
l’operato di Domiziano perché, di fronte al
dispotismo dell’imperatore, preferisce, per
opportunismo, adularlo piuttosto che contestarlo, posizione che sarebbe stata molto pericolosa.
4. modo: «poco fa».
5. Nulla ... pila: «Nessuna colonna».
catenatis ... lagonis: «da brocche incatenate». Ablativo di causa efficiente del verbo
praecincta est. Evidentemente, prima del
provvedimento di Domiziano che determinò
lo sgombero delle strade da parte degli ambulanti, questi erano soliti legare alle colonne le
brocche contenenti le bibite che vendevano ai
passanti, perché non venissero rubate.
6. medio ... luto: «in mezzo al fango».
7. stringitur in densa nec caeca novacula turba: «né il rasoio viene impugnato alla cieca
nella fitta folla». Per tradurre questo verso è
necessario fare la costruzione, che è alterata
dall’iperbato (vedi il glossario a pag. 337):
densa è ablativo riferito a turba, caeca è nominativo riferito a novacula. Tra gli altri mestieri «da strada» c’era anche quello del barbiere, che talvolta prima del provvedimento di
Domiziano prestava i suoi servizi pericolosamente in mezzo alla folla (vedi anche la scheda
lessicale Dal barbiere in questa pagina).
8. occupat aut: anastrofe (vedi il glossario a
pag. 337).
9. sua limina servant: «custodiscono le loro
soglie», cioè «rimangono in bottega».
10. Nunc ... nuper: «Adesso... prima». Da
notare l’allitterazione del suono n che lega i
due avverbi di tempo in antitesi tra loro (vedi
il glossario a pag. 337).
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole dell’epigramma.
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
a. Quali mestieri vengono citati nell’epigramma?
b. Quale provvedimento è stato preso dall’imperatore?
c. Marziale appare soddisfatto o no del nuovo stato di cose? Da quali espressioni lo
si capisce?
Dal barbiere. Dal verbo tondeo, «radere», deriva il nome tonsor, «barbiere», e
quello della relativa bottega, la tonstrina. Il cliente si serviva di una salvietta per
proteggere gli abiti (sudarium) e sedeva su uno sgabello. Il tonsor tagliava i capelli
con forbici di ferro (forfex) e radeva con rasoi (novaculae) e con coltelli (cultri o
cultelli). I più vanitosi si facevano arricciare i capelli con il calamistrum, un ferro
che i cinerarii facevano scaldare sotto la cenere ardente. Alla prima volta che un
giovane si faceva radere si dedicava una cerimonia religiosa: la depositio barbae.
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I ROMANI AL LAVORO
SCHEDA
LESSICALE
257
MEDICI E PARAMEDICI
5
(X.56)
Marziale, lamentandosi di Gallo che lo schiavizza facendolo andare su e giù per l’Aventino, coglie l’occasione per fare un elenco di interventi che vari tipi di chirughi offrivano
ai loro pazienti in città.
Totis, Galle, iubes tibi me servire diebus
et per Aventinum ter quater ire tuum.
Eximit aut reficit dentem Cascellius aegrum,
infestos oculis uris, Hygine, pilos;
non secat et tollit stillantem Fannius uvam,
tristia saxorum stigmata delet Eros;
enterocelarum fertur Podalirius Hermes:
qui sanet ruptos dic mihi, Galle, quis est?
5
Metro: distici elegiaci.
1. Totis... diebus: « per intere giornate».
2. per Aventinum ... tuum: l’Aventino è uno
dei colli di Roma, sul quale abitava Gallo.
3. Eximit aut reficit: «Estrae o ottura».
4. infestos oculis: «sgradevoli per gli occhi».
Infestos è riferito a pilos. La depilazione era
praticata comunemente, non solo dalle donne,
ma anche dagli uomini.
5. non secat: «non incide».
– stillantem ... uvam: «una cisti purulenta».
6. tristia saxorum stigmata: «i tristi marchi delle
fronti». Si tratta di cicatrici sulla fronte di schiavi
fuggitivi che venivano marchiati come segno di
ignominia: questo Eros riusciva a farle sparire
con le sue cure. Saxorum è un’espressione metaforica che significa appunto «delle fronti».
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
7. enterocelarum fertur Podalirius Hermes:
«si dice che Ermes sia il Podalirio delle ernie
intestinali». Il verbo fero è qui costruito personalmente al passivo con il nominativo (Podalirius) e l’infinito esse sottinteso. Podalirio è
un personaggio mitologico, figlio del dio della
medicina Esculapio, che grazie agli insegnamenti del centauro Chirone era diventato un
abile chirurgo e aveva quindi curato i feriti nel
campo greco durante la guerra di Troia.
8. qui sanet ruptos: «che guarisce quelli stanchi morti». Proposizione relativa dipendente
da quis est. Il congiuntivo sanet è caratterizzante. Marziale si chiede, dato che c’è uno specialista per ogni problema fisico, se c’è chi lo può
guarire dalla stanchezza che gli provoca Gallo
facendolo andare su e giù per l’Aventino.
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole delll’epigramma.
a. A quali tipi di interventi, magari non tutti propriamente «chirurgici», ci si poteva
sottoporre a Roma?
b. Da quali vocaboli si capisce che Marziale è scontento di dover fare l’umiliante vita
del cliente?
c. Ricerca sul vocabolario i nomi propri dei chirurghi citati da Marziale: sono tutti
nomi da plebei di bassa condizione sociale?
SCHEDA
LESSICALE
258
Salute e malattia. Per esprimere l’idea di «malattia» in latino vengono usati i
sostantivi morbus, aegrotatio, infirmitas. Chi è ammalato è aeger, aegrotus, infirmus. C’è poi il verbo aegroto, «essere ammalato».
Chi è invece in buona salute si può definire sanus, valens, integer. La buona salute
è in latino sanitas, valetudo. Ma valetudo, se accompagnato da un aggettivo come
infirma o aegra, può significare «cattiva salute», proprio come l’italiano «salute».
Il verbo valeo invece significa, sempre in senso positivo, «essere in buona salute,
star bene». Il saluto di commiato vale! significa quindi «stammi bene!».
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LUCREZIO
LA VITA E LE OPERE L’unico dato certo della vita di Tito Lucrezio Caro è che
scrisse nell’epoca di Cesare: per quanto riguarda la nascita, ignoti sono il luogo (forse
Napoli, ma non esiste prova a sostegno di quest’ipotesi) e l’ambiente sociale, mentre la
data può essere compresa tra il 98 e il 94 a.C.; la morte va collocata probabilmente nel
55 a.C. Fu seguace della filosofia di Epicuro di Samo (341-270 a.C.), di cui si propose di
diffondere la dottrina con il proprio poema, il De rerum natura (La natura).
LA FILOSOFIA EPICUREA Diamo qui un breve cenno della filosofia di Epicuro,
che si propone di insegnare a raggiungere la felicità spirituale attraverso l’osservanza delle quattro massime fondamentali:
1) gli dei non incutono timore, in quanto vivono in spazi appartati, gli intermundia, e non
si occupano assolutamente delle vicende della terra e tanto meno dell’uomo;
2) la morte non deve recare turbamento, in quanto essa consiste nella fine delle
sensazioni fisiche, in cui risiedono tutte le percezioni della realtà; inoltre, l’anima è
mortale e quindi – come dice il filosofo – «quando noi esistiamo la morte
non c’è, mentre quando c’è la morte noi non esistiamo più»;
3) la morte è facilmente sostenibile;
4) il male è facilmente sopportabile.
Epicuro ha una concezione materialistica del mondo, cioè sostiene che l’intero universo sia formato da atomi, parti minime non ulteriormente divisibili, indistruttibili, immutabili, infinite. Persino l’anima è un aggregato di atomi, solo più piccoli di tutti gli altri.
La verità risiede quindi nei sensi e la conoscenza deriva da una corretta interpretazione dei dati che da essi provengono; se l’uomo possiede il criterio della verità, dato
dalla filosofia, può liberarsi dai pregiudizi e dalle superstizioni e mirare al raggiungimento
del bene supremo. Questo consiste nel piacere che può essere rappresentato, al livello
più basso, da felicità momentanee e, a un livello superiore, dalla totale assenza di bisogni
o desideri. Solo in questa risiede la vera felicità.
IL DE RERUM NATURA (LA NATURA) L’opera in esametri e suddivisa in sei libri è
dedicata a Memmio, generalmente identificato con Gaio Memmio, pretore nel 58 a.C.
A lui Lucrezio intende indicare la vera via per la ricerca della felicità, attraverso l’insegnamento della filosofia epicurea: la finalità è quindi didascalica, cioè educativa. Il titolo
traduce fedelmente quello dell’opera di Epicuro Perì ph`yseo¯ s (appunto Sulla natura) in
trentasette libri, mentre il contenuto riprende in particolare, probabilmente, un testo anch’esso perduto, la Grande Epitome, cioè un ampio riassunto della dottrina del maestro.
Per quanto riguarda il contenuto, il De rerum natura è articolato in tre parti di due libri
ciascuna o diadi:
– I e II trattano la teoria degli atomi (argomenti fisici);
– III e IV l’anima e le modalità con cui avviene la conoscenza (argomenti antropologici);
– V e VI sviluppano la dottrina del mondo (argomenti cosmologici).
BREVE LA VITA INFELICE
DEI MINATORI
(Lucrezio, De rerum natura,
VI, 806-817)
6
Il sesto e ultimo libro si apre con l’elogio di Atene e di Epicuro, che ha liberato le menti
umane dalla superstizione e dalla paura. Posto che gli dei non devono essere temuti perché vivono beati negli intermundia, Lucrezio mostra come tutti gli eventi naturali, anche
i più catastrofici, abbiano una spiegazione razionale. Egli descrive quindi i fenomeni meteorologici e le calamità come i terremoti, le eruzioni vulcaniche, le piene del Nilo. Passando a parlare delle esalazioni che provengono dal sottosuolo, il poeta descrive brevemente i pericoli cui si espongono i minatori lavorando nelle viscere della terra. Per un atCol Saglia Imagines Seconda edizione
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I ROMANI AL LAVORO
259
timo egli si lascia prendere dalla commozione: la filosofia epicurea vorrebbe che il saggio
non si preoccupasse del dolore altrui, perché unica sua preoccupazione dovrebbe essere il
perfezionamento di sé stesso e il raggiungimento dell’equilibrio interiore, ma la pena che
suscita quest’umanità sfortunata è troppa. Mentre per gli stolti, che per loro scelta sprecano la vita tra piaceri volgari e insulsi o ambizioni alienanti, Lucrezio non ha la benché minima pietà, egli non può fare a meno di contemplare con stupore doloroso gli effetti della
violazione della natura su questi uomini costretti dalla necessità.
Date le sue particolarità linguistiche e stilistiche, si accompagnano i versi latini con
una traduzione che consenta una comprensione puntuale del testo.
Nonne vides etiam terra quoque sulpur in ipsa
gignier et taetro concrescere odore bitumen;
denique ubi argenti venas aurique sequuntur,
terrai penitus scrutantes abdita ferro,
5 qualis expiret Scaptensula subter odores?
Quidve mali fit ut exhalent aurata metalla!
Metro: esametro dattilico (vedi appendice metrica a pag. 338).
1. vides: si tratta di un «tu» generico, in quanto Lucrezio – perseguendo le sue finalità educative – si rivolge al lettore che deve apprendere la verità come da un maestro; «vedi» ha
quindi il senso di «ti rendi conto». Il verbo
regge prima le infinitive che hanno per predicati verbali gignier e concrescere del verso 2,
poi l’interrogativa indiretta qualis expiret del
verso 5; si tratta quindi di una variatio, cioè di
un cambiamento di costruzione.
– terra … in ipsa: iperbato (vedi il glossario
a pag. 337) che mette in evidenza il termine
racchiuso sulpur. Ordina quindi in ipsa terra.
– quoque: congiunzione copulativa normalmente postposta al termine cui si riferisce
(qui terra); in questo caso, unita a etiam che ha
valore analogo, risulta pleonastico (cioè sovrabbondante) e può quindi essere omesso
nella traduzione.
2. gignier: infinito presente passivo da gigno,
con desinenza arcaica -ier invece di -i, dipendente da vides, così come concrescere.
– taetro … odore: altro iperbato; può essere interpretato come complemento di qualità o
di modo.
3. denique: congiunzione coordinante, che indica qui il passaggio al punto essenziale di una
sequenza, più o meno lungamente preparato
da quanto precede.
– ubi: avverbio relativo di luogo, poi usato
come congiunzione; qui probabilmente introduce una relativa («dove»), piuttosto che una temporale («quando»), considerato che si sta descrivendo un luogo, cioè le profondità della terra.
– argenti … aurique: genitivi partitivi, retti
260
IL LAVORO
Non vedi anche proprio nella terra stessa lo zolfo
generarsi e rapprendersi il bitume dall’odore disgustoso
e appunto dove seguono le vene d’argento e d’oro,
scrutando le viscere della terra con il ferro,
quali esalazioni velenose soffi fuori
[Scaptensula dal profondo?
O quale gas pericoloso accade che
[esalino le miniere d’oro!
da venas, che è messo in risalto sia dall’iperbato sia dal fatto di trovarsi tra due cesure (vedi l’
appendice metrica a pag. 338).
4. terrai: genitivo arcaico per terrae.
– abdita: aggettivo neutro sostantivato, «(i
luoghi) profondi»; insieme all’avverbio penitus
(«profondamente») costituisce una sorta di endiadi (vedi il glossario a pag. 337).
– scrutantes: da scrutor, è un participio congiunto al soggetto sottinteso illi (cioè i minatori, non nominati).
– ferro: ablativo di mezzo; è metonimia (vedi il glossario a pag. 337) per dire «con (attrezzi di) ferro».
5. qualis: accusativo plurale maschile; la desinenza -is convisse fino a tutto il I secolo a.C.
con quella -es, in prosa ma soprattutto in poesia. L’aggettivo interrogativo è riferito a odores,
creando un iperbato che lascia in evidenza i
due termini, collocati alle estremità del verso e
quindi in posizioni forti.
– Scaptensula: in Tracia, regione nordorientale della Grecia, è l’attuale Scapte Hyle.
Rickard e altri studiosi moderni hanno sostenuto che questi minatori fossero affetti da anchilostoma, malattia che provoca anemia, debolezza, insufficienza cardiaca, portando in alcuni casi anche alla morte.
– subter: avverbio composto da sub e dal
suffisso di senso comparativo -ter (lo stesso di
uter, neuter, alter).
6. Quidve: pronome interrogativo, cui è unita
la particella enclitica -ve; è complemento oggetto di exhalent e a sua volta regge il genitivo
partitivo mali.
– fit: regge la completiva ut exhalent… metalla.
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Quas hominum reddunt facies qualisque colores! Quali rendono le fattezze umane e quali i coloriti!
Nonne vides audisve perire in tempore parvo
Non vedi o non senti in quanto poco tempo siano soliti
quam soleant et quam vitai copia desit,
morire e quanto in breve la forza della vita
[abbandoni coloro
10 quos opere in tali cohibet vis magna necessis?
che la potente violenza della necessità
[costringe a tale lavoro?
Hos igitur tellus omnis exaestuat aestus
La terra dunque tutte queste vampate fa divampare
expiratque foras in apertum promptaque caeli. ed esala fuori all’aperto nelle zone visibili del cielo.
7. Quas … qualisque: aggettivi, usati qui con valore esclamativo, predicativi rispettivamente di
facies e colores; per qualis vedi la nota al verso 5.
– reddunt: ha come soggetto sottinteso metalla.
8. Nonne vides audisve: proposizioni interrogative, retoriche perché la presenza della particella nonne (formata da non e dall’enclitica ne) presuppone una risposta affermativa; audisve termina con la particella enclitica -ve. Entrambi i verbi reggono le interrogative indirette quam soleant et quam… desit del verso 9.
– perire: infinito retto da soleant.
9. quam … quam: entrambi gli avverbi interrogativi sono riferiti a in tempore parvo.
– soleant: è sottinteso il soggetto illi (cioè i
minatori).
– vitai: altro genitivo arcaico, come terrai al
verso 4.
– copia: vedi la scheda lessicale a pag. 317.
10. quos: sono sottintesi gli antecedenti illi,
soggetto sottinteso di soleant, e illis, dativo retto da desit.
– opere in tali: anastrofe (vedi il glossario a
pag. 337) per in tali opere.
– necessis: rarissimo genitivo da necesse,
aggettivo neutro di solito indeclinabile.
11. Hos: così come omnis (altro accusativo
plurale maschile con desinenza -is) è riferito a
aestus, dando vita a un iperbato che sembra dilatare la diffusione del pericolo.
– aestus exaestuat: figura etimologica (vedi
il glossario a pag. 337).
12. foras: avverbio («fuori»), il cui significato
è ribadito dalle locuzioni successive, creando
una certa sovrabbondanza espressiva – tipica
di Lucrezio – che però evidenzia la potenza
dell’immagine.
– promptaque: accusativo neutro sostantivato dell’aggettivo primptus, -a, -um, ancora
retto dalla preposizione in e a sua volta reggente il genitivo partitivo caeli.
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole del brano.
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
a. Nel brano compaiono diversi verbi composti con prefissi: qual è la preposizione
più presente? Perché?
b. Quali metalli stanno cercando i minatori? Sono materiali indispensabili alla vita
umana? Quale giudizio implicito è sottinteso in questa descrizione dello sfruttamento delle risorse minerarie?
c. Chi o che cosa costringe i minatori a lavorare in condizioni così pericolose?
d. Nel brano compare un’anafora (vedi il glossario a pag. 337), anche se tra versi
non immediatamente consecutivi; individuala e, osservato in quale tipo di proposizione si trova, prova a spiegarne la funzione espressiva (antitesi? parallelismo?
sottolineatura di un concetto? altro?).
e. Quale tono danno alla descrizione le interrogative retoriche e le esclamative?
Scegli alcuni di questi aggettivi:
patetico
❐
oggettivo
❐
commosso ❐
scandalizzato ❐
meravigliato ❐
distaccato ❐
f. Individua aggettivi, avverbi e verbi riferiti rispettivamente alla terra e al cielo; cerca
quindi di definire quale tipo di sensazioni trasmettono. Si può parlare – almeno per
questo brano – di un’antitesi (vedi il glossario a pag. 337) tra le due parti del mondo?
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I ROMANI AL LAVORO
261
SCHEDA
LESSICALE
Terra e tellus. Il termine terra termine ha in latino le varie accezioni di significato che può esprimere «terra» anche in italiano: elemento naturale contrapposto ad acqua, aria e fuoco; pianeta; regione, paese; inoltre, anche se raramente, Terra può essere personificata e divinizzata. Tra le locuzioni, si segnala terra
marique, «per terra e per mare»; da ricordare l’uso del genitivo plurale con valore partitivo in dipendenza da pronomi o avverbi: ubi terrarum, ubicumque t.,
quo t., quoquo t., usquam t. si rendono, rispettivamente, «in quale parte del
mondo / dove» (interrogativo), «dovunque», «dove» (moto a luogo), «in qualunque parte», «in nessun luogo». Numerosi i composti di cui sono facilmente
riconoscibili gli esiti in italiano: terrenus, subterrenus, terrester, mediterraneus,
territorium (che in origine indica «i terreni in comune tra i coloni intorno alla
città»); altri sono invece scomparsi, come per esempio extorris («esule»).
Un termine più dotto, con significati analoghi ma usato soprattutto in poesia, è
–
invece tellus,-luris,
spesso personificato come «dea Terra». In quanto termine
dotto, ha originato in italiano termini del linguaggio scientifico: l’aggettivo «tellurico» e il sostantivo «tellurio», che indica sia un elemento chimico sia un apparecchio didattico che riproduce la posizione della Terra nello spazio.
ANONIMO
L’ALLEGRO OSTE DI ISERNIA
7
( C.I.L. IX, 2689)
Anche nel mondo romano esistevano uomini che sapevano prendere la vita con una filosofia spicciola e con buonumore. Ne è un esempio l’epigrafe funeraria che l’oste Erotico fece iscrivere per sé e per la moglie Voluttà (del resto, già i nomi sono tutto un programma…). La lapide, proveniente dalle vicinanze di Aesernia (attuale Isernia) nel
Samnium, conservata ora al Louvre di Parigi, è collocabile cronologicamente fra la seconda metà del I secolo d.C. e la prima metà del II. L’iscrizione, dopo la dedica ai due
defunti, riporta un dialogo raffigurato nel bassorilievo sottostante: l’oste conta sulle dita di una mano i soldi che gli deve il cliente posto di fronte a lui; completa la scenetta il
mulo del viaggiatore. Oltre a fornirci dati interessanti su aspetti della vita materiale, il
documento ci testimonia non solo la relativa agiatezza economica del taverniere, che poteva permettersi una lapide dal costo non indifferente, ma anche la considerazione del
lavoro dal punto di vista di chi lo esercita.
Per alcune notizie sull’epigrafia vedi l’approfondimento di pag. 268.
Legenda
Nella trascrizione di questa epigrafe e
dei manifesti successivi si sono usati i
seguenti segni convenzionali:
( ) = scioglimento di parola
abbreviata o di sigla epigrafica;
[ ] = integrazione di lacuna;
[…] = lacuna non integrabile;
< > = lettera omessa.
Si è inoltre aggiunta la punteggiatura
e si è fatta coincidere ogni divisione
delle righe dell’iscrizione con un «a
capo» del testo.
262
IL LAVORO
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5
L(ucius) Calidius Eroticus
sibi et Fanniae Voluptati v(ivus) f(ecit).
Copo: «Computemus: habes vini ⊃ (sextarium) I, pane(m)
a(sse) I, pulmentar(ium) a(ssibus) II». «Convenit». «Puella(m)
a(ssibus) VIII». «Et hoc convenit». «Faenum
mulo a(ssibus) II». «Iste mulus me ad factum
dabit».
1. L(ucius) Calidius Eroticus: benché il dedicante abbia i tria nomina (vedi, scheda lessicale
I nomi dei Romani a pag. 79), si tratta di un liberto, poiché non indica il nome del padre.
Inoltre egli era probabilmente di origine greca,
visto che il suo cognomen o soprannome è una
traslitterazione di un aggettivo greco che significa «amoroso», forse con un riferimento all’attività di mezzano, come farebbe ritenere
quanto scritto di seguito.
2. Fanniae Voluptati: «per (la memoria di)
Fannia Voluptas»; anche la moglie è una liberta, probabilmente con le stesse attitudini del
marito, visto che il cognomen significa «Voluttà».
– v(ivus) f(ecit): «fece (fare) da vivo»; la sigla indica che, secondo un uso allora molto comune, il proprietario della tomba si era preoccupato in anticipo delle proprie onoranze funebri, forse perché privo di figli o parenti che
potessero provvedervi.
3. Copo: grafia del latino popolare per il classico caupo, -is («taverniere»). Nel latino parlato era normale la pronuncia /o/ per il dittongo
au: basti pensare all’esito di causa o di aurum
nel latino volgare e poi in italiano.
– Computemus: congiuntivo esortativo,
«Facciamo il conto».
– vini: genitivo partitivo.
– ⊃…I: i simboli ⊃ e I indicano rispettivamente il sextarius e il numerale «uno». Il
sextarius era una misura di capacità corrispondente alla sesta parte del congius, a sua volta
quarta parte dell’urna e ottava dell’amphora,
che equivaleva a 0,545 l. La spesa per il vino è
stata di quattro assi.
3-4. pane(m) a(sse) I: nell’iscrizione manca
l’ultima consonante del primo sostantivo, per
cui sono possibili due integrazioni, anche se il
senso non cambia. Quella più probabile completa pane con m, costituendo così un accusativo dipendente da habes e seguito dall’ablativo
di prezzo a(sse), per cui la traduzione sarebbe
«pane per un asse». Nella seconda ipotesi si può
pensare a un errore di scrittura – peraltro non
rarissimo, soprattutto nelle epigrafi di livello
non eccelso – per pani(s), genitivo partitivo dipendente da a(ssem), e cioè «un asse di pane».
4. pulmentar(ium): derivato da pul(pa)mentum, cioè preparato con pulpa, carne magra,
senza grasso o ossa; qui equivale genericamente a «companatico».
– Convenit: «Va bene».
5. Et hoc: «Pure questo».
– me ad factum / dabit: frase idiomatica,
che letteralmente varrebbe «mi darà alla rovina / morte», ma si può rendere con «mi manderà in rovina».
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole dell’epigrafe.
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
a. Quanto spende in tutto il viaggiatore?
b. Per che cosa spende di meno? Per che cosa di più?
c. In che cosa consiste la comicità della situazione?
d. Di quale livello era la taberna di Lucio Calidio Erotico?
e. Quale considerazione del lavoro e della vita aveva Erotico, tenuto conto che il
testo compare su un’epigrafe funeraria?
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I ROMANI AL LAVORO
263
SCHEDA
LESSICALE
264
Le principali monete romane. Emesse a partire dalla metà del IV secolo
a.C., le monete romane vennero battute in bronzo, argento e oro con simboli diversi a seconda dell’epoca, del valore e del peso, costituiti perlopiù da ritratti di
magistrati e imperatori. Ecco un elenco delle principali monete:
– aes, aeris: dal significato originario di «bronzo» passò a indicare un pezzo di
questo metallo utilizzato per lo scambio commerciale, dapprima pesato (infatti
pendo, -is, pependi, pensum, ere significa sia «pesare» sia «pagare») con il nome
di aes rude o aes grave, poi fatto circolare con un marchio (aes signatum), che testimoniava la garanzia di regolare emissione da parte dello Stato;
– as, assis: propriamente era l'unità fondamentale del sistema monetario duodecimale (basato cioè su una divisione in dodici parti, chiamate once, unciae). Probabilmente di origine etrusca; secondo alcuni studiosi la parola deriva dalla forma di tavoletta (axis) delle prime monete, ma questa teoria non è accettata da
tutti. L’asse originario pesava una libbra (circa 327 g), per cui as e libra erano
usati spesso come sinonimi. L’asse non fu più coniato dall’inizio del IV secolo
d.C., quando fu sostituito dall’antoniniano;
– quadrans, quadrantis, «quadrante», cioè del peso e del valore di 1/4 di asse.
Anche questa moneta era di bronzo; celebre è una delle prime emissioni, con la
testa d’Ercole sul retto e la prora d’una nave sul rovescio. Era la più piccola moneta di bronzo in uso; l’espressione latina quadrante lavari, «lavarsi con un quadrante», era usata a proposito di bagni pubblici di infimo ordine;
– denarius, -ii, «denario»: come indica la parola, derivata dal distributivo deni,
valeva inizialmente dieci assi; emesso per la prima volta in argento nel 269 a.C.,
corrispondeva alla dracma attica, per agevolare i rapporti commerciali con il
mondo greco; dal 217 a.C. ebbe il valore di 16 assi ovvero 4 sesterzi, ma il suo
peso decrebbe sempre più;
– (nummus) sesterzius, «sesterzio»: valeva inizialmente due assi e mezzo, come
indica il termine originario semitertius (cioè due assi + metà – semis – del terzo,
da cui l’abbreviazione IIS o HS) ovvero 1/4 di denario, ma, a partire dalla fine
del III secolo a.C., equivaleva a quattro assi. Con la parola sestertium (omettendo mille) si indicò la somma di mille sesterzi;
– (nummus) aureo, «aureo»: equivaleva a 100 sesterzi o 25 denari d’argento, pesando 1/4 di oncia; il rapporto con le monete di bronzo, il cui valore dipendeva
molto dalla svalutazione, fu molto variabile. Dopo alcune emissioni in epoca repubblicana, l’aureo fu coniato dal 49 a.C. con regolarità; a partire dal tempo di
Nerone, il suo peso calò fino a 4 grammi.
La zecca di Roma si trovava presso il tempio di Giunone Moneta (dal verbo monere, «ammonire», perché secondo un’antica tradizione Giunone aveva avvertito in anticipo i Romani di un terremoto) in Campidoglio. Da qui il nome «moneta» è passato a indicare prima la zecca, poi il denaro ivi coniato.
Per dare un’idea approssimativa del valore delle monete, si può dire che l'ingresso al bagno costava 1 quadrans, un paio di calzari 3/4 denarii, uno schiavo di
campagna 2000 sesterzi, una casa elegante 60 000 sesterzi.
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Le associazioni professionali
Unità
3
MANIFESTI ELETTORALI I cosiddetti «manifesti» (in latino programmata) erano in
realtà scritte tracciate con vernice rossa o nera sui muri esterni di case, botteghe e osterie nelle zone più frequentate, in spazi precedentemente intonacati alla meglio. Come i
loro «discendenti» moderni, anche i manifesti antichi miravano a risultare persuasivi, puntando su chiarezza, semplicità, forte impatto visivo: per questo le lettere erano capitali,
quasi sempre allungate e sfinate, e il testo conteneva di solito poche formule tipiche.
Molte erano quindi le abbreviazioni usate:
– la raccomandazione era espressa con la formula O V F, cioè oro vos (o ut, visto che lo
stesso segno indicava sia la v sia la u) faciatis, «vi prego di votare (letteralmente “fare”)», o con la sigla R o ROG, cioè roga(n)t;
– talvolta venivano accorciati anche i nomi dei candidati (comunque noti a tutti), da intendersi espressi in caso accusativo, retto da O V F o da R / ROG;
– il nome della carica era indicato con sigle, come IIVIR (cioè duovirum), AED (cioè aedilem) ecc.
La stesura di un «manifesto» era quindi un lavoro piuttosto semplice e poteva essere svolto anche da scriptores di modesta cultura: non è un caso che compaiano in questi testi errori ortografici piuttosto grossolani. Chiunque, senza alcuna autorizzazione particolare, poteva partecipare a questa propaganda, a titolo gratuito o dietro ricompensa del candidato
o del suo «comitato elettorale», ma non mancavano scriptores professionisti, che potevano
essere aiutati da una squadra composta da un dealbator («intonacatore»), uno scalarius
(«addetto alla scala», sulla quale saliva lo scriptor per scrivere fuori della portata dei sabotatori), un lanternarius («addetto alla lanterna», che illuminava il lavoro, perché questo era
svolto solitamente di notte, quando la città era più tranquilla) e un adstans («assistente»,
incaricato di portare gli attrezzi e di fare la guardia contro eventuali disturbatori).
MANIFESTI ELETTORALI
DI POMPEI
(CIL, IV, 7164, CIL, IV, 7273,
CIL, IV, 7473)
1
Presentiamo qui tre manifesti elettorali relativi alle elezioni di magistrati locali di Pompei nell’anno 79 a.C. La cronologia è certa, data l’eruzione che ha sepolto e sigillato l’intera città. Sono testi molto brevi proprio perché devono restare impressi nella mente dei
cittadini che passeggiano per le vie del centro.
Per alcune notizie sull’epigrafia vedi l’approfondimento di pag. 268.
(Holcon)ium Priscum (duo)vir(um)
fullones universi rog(ant).
(Holcon)ium Priscum: candidato piuttosto
intraprendente, fece dipingere parecchi manifesti elettorali sui muri di Pompei.
(duo)vir(um): vedi introduzione.
fullones universi: «tutti i lavandai», «i lavandai
compatti». Il loro mestiere era uno dei più
umili ed essi erano posti molto in basso nella
scala sociale. Altri manifesti testimoniano che,
a un livello di poco superiore, appoggiavano il
candidato anche venditori di frutta e falegnami, oltre agli spettatori dell’anfiteatro.
rog(ant): «chiedono il voto».
Cn(eum) Helvium Sabinum aed(ilem)
pistores rog(ant) et cupiunt cum vicinis.
aed(ilem): vedi introduzione.
pistores: «i panettieri»; Gneo Elvio Sabino era
appoggiato anche dai gallinari («pollivendoli»)
e dagli Isiaci («i seguaci di Iside»).
cum vicinis: «con gli abitanti del quartiere»; i
loro voti avevano una grande importanza, come testimonia anche Marco Cicerone nel suo
Manuale.
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LE ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI
265
C(aium) Lollium
Fuscum (duo)vir(um) v(iis) a(edibus) s(acris) p(ublicis) p(rocurandis)
Asellinas rogant
nec sine Zmyrina.
(duo)vir(um): vedi introduzione.
v(iis) … p(rocurandis): complemento di fine,
espresso con i sostantivi e i gerundivi in caso
dativo; letteralmente «per curare le vie, gli edifici sacri e pubblici», cioè «addetto alle vie
ecc.».
Asellinas: equivalente ad Asellinae, è un genitivo singolare alla greca, uso legato probabilmente alla provenienza della donna proprieta-
ria della caupona («bar»).
rogant: il soggetto sottinteso è puellae. Queste
ragazze erano cameriere, ma probabilmente si
dimostravano tutt’altro che inespugnabili nei
rapporti con i clienti.
Zmyrina: «Smirina» doveva essere una delle
ragazze più ricercate e proveniva, come dice il
nome stesso, da Smirne (in Asia Minore, sulle
coste occidentali dell’attuale Turchia).
SOLIDARIETÀ FINO ALLA MORTE
E OLTRE
2
(C.I.L. XI, 1031
e A.E. 1931, 96))
Presentiamo qui due brevi esempi di iscrizioni sepolcrali, la prima proveniente da Parma, la seconda da Aquileia. Si tratta, per la precisione, di cippi, cioè pilastrini (in questi
due casi a forma di parallelepipedo, in altri di cilindro) che segnalavano la presenza e
l’estensione di un’area sepolcrale riservata a un gruppo di persone. Data questa semplice
funzione e le ridotte dimensioni, il testo è limitato all’essenziale e non esistono decorazioni o ornamenti che aggiungano notizie accessorie. Non è necessario dunque pensare
a un sepolcreto destinato a persone povere; gli addetti all’attività manifatturiera cui si
riferiscono le iscrizioni sepolcrali erano in grado di assicurarsi una degna sepoltura, anche se non si potevano permettere i sepolcri di famiglia riservati ai più ricchi.
L’interesse di questi cippi consiste nella citazione delle associazioni di artigiani le quali, in seguito ad acquisto o a concessione da parte delle autorità locali, si erano riservate il
diritto di seppellire in quei luoghi i membri defunti. La solidarietà tra lavoratori non si limitava quindi agli aspetti economici e politici, ma riguardava anche quelli sociali.
Per alcune notizie sul’epigrafia vedi l’approfondimento di pag. 268.
D(is) M(anibus)
Haec loca sunt
lanariorum
carminator(umque)
sodalici,
quae faciunt
D(is) M(anibus): formula consueta all’inizio delle iscrizioni sepolcrali, destinata a ricordare che proprietari della tomba, divenuta res
religiosa, erano gli «Dei Mani» e come tale essa doveva essere protetta da possibili manomissioni. Per questa ragione la sigla divenne
tanto comune da comparire anche su epigrafi
cristiane. I Mani erano, propriamente, le anime dei morti, che dovevano essere rispettate e
venerate onde evitare che tornassero per invadere le città dei vivi. Si raccontava infatti che
ciò fosse accaduto un giorno a Roma, perché si
266
IL LAVORO
erano trascurate le loro feste.
Haec loca: è lo spazio riservato ai sepolcri antistante la lapide, delimitato nelle righe seguenti.
lanariorum / carminator(umque): «dei lanaioli
/ e dei cardatori». Evidentemente questi lavoratori della lana avevano molti interessi in comune, tanto da unire le loro risorse per acquistare un luogo da destinare alla loro sepoltura.
sodalici: genitivo da sodalicium, equivalente a
sodalicii; le due forme di genitivo ricorrono anche nella prosa classica per i temi uscenti in -i,
dato che la pronuncia era uguale.
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in agro p(edes) C
ad viam p(edes) LV
quae: riferito a loca.
faciunt: nel senso di «misurano».
in agro: lo stato in luogo (letteralmente «in
campagna») indica l’estensione «in profondità».
p(edes) C: accusativo di estensione; per pedes
vedi la scheda lessicale in questa pagina.
ad viam: equivale ad apud viam, cioè a uno stato in luogo che indica l’estensione «in larghezza». Le dimensioni sono di piedi 100x55, cioè
m 29,5x16,2; questo porterebbe a ipotizzare
che nell’area potrebbero aver trovato sepoltura almeno 100/150 individui contemporaneamente.
Loc[a]
vestiari
orum
in fr(onte) p(edes) L
in agr(o) p(edes) LXIV
vestiari / orum: poiché la lapide è molto stretta, la parola è stata disposta su due righe. I
vestiarii erano «addetti al vestiario», cioè sia
sarti sia commercianti. Costituivano un’associazione molto numerosa in tutte le città principali.
in fr(onte): indica la larghezza «sul fronte»,
cioè dalla parte della strada.
in agr(o): vedi la nota analoga per l’epigrafe
precedente.
p(edes) … LXIV: le dimensioni sono di piedi
5x64, cioè m 14,75x18,85; in quest’area potrebbero aver quindi trovato sepoltura 70/90
individui contemporaneamente.
Rispondi alle seguenti domande di comprensione dei testi letti, facendo
riferimento alle parole delle epigrafi.
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
a. Quali sono gli elementi testuali essenziali, che le due epigrafi hanno in comune?
b. Quali sono invece quelli accessorî, che compaiono nella prima epigrafe?
Le misure lineari romane. Nel mondo antico le unità di lunghezza erano riferite a parti del corpo umano e ad attività a esse collegate (per esempio il passo). Il vantaggio consisteva nel fatto che queste misure erano facilmente comprensibili a tutti e adattabili ai bisogni quotidiani. Il problema era però che esse
non potevano formare un sistema di multipli e sottomultipli. Il valore delle
unità più piccole venne dunque mutato, perché quelle più grandi risultassero un
multiplo esatto di quelle più piccole. In ordine crescente abbiamo dunque le seguenti unità:
– digitus, -i,
«dito»
= m 0,0185;
– palmus, -i,
«palmo»
(4 dita),
= m 0,074;
– pes, pedis,
«piede»
(4 palmi),
= m 0,296;
– cubitum, -i,
«cubito»
(6 palmi),
= m 0,444;
– gradus, -i,
«passo»
(2,5 piedi o 10 palmi)
= m 0,74;
– passus, -us,
«passo doppio»
(2 passi)
= m 1,48;
– pertica, -ae,
«pertica»
(2 passi doppi)
= m 2,96;
– mille passuum (al plurale milia,
(1000 passi doppi,
= m 1480.
spesso omettendo passuum)
miglio)
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LE ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI
SCHEDA
LESSICALE
267
APPROFONDIMENTI
?????
L’epigrafia
Il termine «epigrafia» deriva dal greco epì («sopra») e gràfo («scrivo»). A
causa dell’estensione del campo di studi è difficile dare una definizione
precisa, ma con buona approssimazione si può dire che l’epigrafia è la
scienza delle scritture su materiale duro, contrapposto a flessibile. I supporti più usati per le iscrizioni sono lastre, tavolette, oggetti vari (collari di
schiavi o di cani, pesi, proiettili), di marmo e di metallo (soprattutto di
bronzo, raramente d’argento o d’oro), legno, ceramica, osso, gemme; sono però flessibili, per esempio, le lastrine di piombo delle defixiones (maledizioni, lanciate contro avversari e infilate abusivamente in sepolcri di
persone estranee) e sono di consistenza plastica le tavolette cerate e gli
strati di intonaco, pure oggetto di studio per gli epigrafisti.
In latino l’epigrafe, intesa come tavola o lastra o altro supporto recante
un testo, veniva chiamata titulus; il termine inscriptio definiva sia l’azione
dello scrivere sia le parole iscritte. I verbi usati per indicare l’incidere erano scùlpere, ma più spesso scrìbere, impiegato anche in senso causativo
per indicare il committente: per esempio, scripsit equivale a «ha fatto scrivere» (Calabi Limentani, Epigrafia latina3, Cisalpino-Goliardica, Milano).
Limiti cronologici e geografici dell’epigrafia latina
Le prime iscrizioni sono anche le prime testimonianze della lingua latina:
dimostratosi un falso ottocentesco la fibula (o fibbia) aurea di Preneste,
restano datati al VII-VI secolo a.C. il regolamento sacrale del Cippo del
Foro o Lapis Niger (Pietra Nera) e il testo, indicante la proprietà di un certo Dueno, graffito su un triplice vasetto di terracotta. Da Roma e dal Lazio la lingua latina e quindi le epigrafi si diffusero prima in tutta l’Italia e
poi nei territori a mano a mano conquistati, dalla Lusitania al Mar Caspio,
dalla Numidia alla Germania.
Il problema della fine dell’epigrafia classica è più complesso e si intreccia con quelli relativi alla storia della lingua e della letteratura: il latino
venne ancora usato dalla Chiesa, dai re barbarici, nella produzione filosofica, giuridica, scientifica e come lingua della cultura in generale (e in particolare per comporre iscrizioni). Convenzionalmente si è soliti assumere
come termine finale per l’epigrafia pubblica il 476 d.C., anno della caduta
dell’impero romano d’Occidente, mentre per quella privata si deve considerare il periodo di decadenza del latino classico, più o meno rapida nelle
varie ex-pronvince dell’impero.
Contenuti delle epigrafi
Le decine di migliaia di iscrizioni latine classiche possono – in base al contenuto – essere suddivise in:
– religiose (su altari, cippi, stele, rilievi, basi, targhette, pareti e rupi);
– sepolcrali (su tombe, cippi, sarcofagi);
– onorarie, per defunti o per viventi (su statue, ritratti, colonne, archi,
monumenti);
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IL LAVORO
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APPROFONDIMENTI
– commemorative di opere pubbliche, di politici, di imperatori, di privati (per la costruzione di strade, piazze, acquedotti, fognature, edifici in
genere, giardini, canali ecc.);
– firme, sigle, contrassegni, legende, motti (su pesi, misure, sigilli, timbri,
anfore, vasi, collari, lampade, mattoni, tegole, utensili);
– giuridiche, come leggi, decreti dei magistrati o del senato o dell’imperatore, costituzioni, trattati (su lastre di bronzo, più raramente d’oro,
argento, avorio, su pietra, legno, intonaco);
– atti di collegi o associazioni (su pareti o su stele);
– calendari (cioè elenchi di giorni leciti o illeciti per compiere determinate attività) e Fasti ( se compariva anche l’elenco dei «magistrati» e
dei fatti più importanti dell’anno);
– avvisi vari (di giochi, di affitti, di oggetti smarriti);
– manifesti elettorali (famosi quelli di Pompei);
– motti, componimenti scherzosi, insulti, dichiarazioni d’amore (sono
spesso tracciate con carbone, mattone o altro materiale di fortuna sui
muri).
Diffusione delle iscrizioni nel mondo romano
Louis Robert (Hellenica, 1965) ha definito il mondo classico «la civiltà
dell’epigrafia». Nell’antichità, infatti, le epigrafi sono state strumento
usuale per individuare un sepolcro o un monumento onorario, per comunicare con le divinità, per commemorare azioni utili o gloriose, per diffondere la conoscenza di leggi, regolamenti, calendari, per esprimere la voce
dei potenti o anche solo la loro presenza. La parola scritta doveva avere
già di per sé, indipendentemente dal messaggio che portava, una notevole
autorità, anche perché certamente non tutti sapevano leggere e ancora
meno scrivevano frequentemente e con buona padronanza della lingua.
Per ottenere un certo effetto, era quindi importante anche la qualità del
materiale scrittorio: per esempio, tavolette d’argento con lettere d’oro furono poste nel tempio di Giove Capitolino per ricordare i privilegi concessi dal senato a Cesare; usi analoghi sono testimoniati per Tiberio e Nerone. Per testimoniare «in negativo» l’importanza delle epigrafi si può ricordare l’uso della damnatio memoriae, cioè il divieto di onoranze funebri
e di lutto, l’abbattimento di statue o altri monumenti e la cancellazione
del potente defunto. Il danneggiamento di un’iscrizione era circondata da
credenze superstiziose: la fine della repubblica fu quasi «annunciata» nel
43 a.C. da corvi che, nel tempio dei Dioscuri, deturparono i nomi dei consoli su un’epigrafe; la morte di Augusto dalla caduta, a opera di un fulmine, della lettera «C» di CAESAR nell’iscrizione di una statua di Augusto
(C fu interpretato come «cento giorni ancora da vivere»); quella di Domiziano, pure durante un temporale, dalla caduta dell’iscrizione di una statua trionfale di Domiziano.
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LE ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI
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APPROFONDIMENTI
Sebbene moltissime epigrafi ci siano pervenute, bisogna considerare che altre, in quantità imprecisabile ma senz’altro elevatissima, non sono state
conservate per vari motivi. Molto materiale è stato fin dall’antichità distrutto: durante l’invasione dei Galli (390 a.C.) andarono perdute gran parte
delle iscrizioni pubbliche esistenti, tra cui la redazione originale delle leggi
delle XII Tavole; nell’incendio del Campidoglio al tempo di Vespasiano si
fusero 3000 Tavole di bronzo. Nei secoli successivi, un’enorme quantità di
lapidi di marmo, tegole e mattoni vennero reimpiegate nelle costruzioni di
edifici e successive numerosissime tavole di bronzo vennero fuse intenzionalmente per recuperare il metallo, che scarseggiava nell’antichità.
Importanza delle epigrafi come fonti storiografiche
L’epigrafia è una fonte importante per ricostruire la storia di tutti i popoli
antichi che hanno conosciuto la scrittura: sovente, infatti, le iscrizioni costituiscono l’unico documento a disposizione degli studiosi per ricostruire
alcuni fatti, perché mancano altre testimonianze archeologiche o letterarie. Talvolta invece, nel caso in cui uno storico antico ci abbia lasciato un
resoconto su un argomento analogo, è interessante confrontare tra loro le
diverse testimonianze (tenendo conto che molto spesso – ma non sempre
– l’iscrizione è più vicina nel tempo all’evento che vuole ricordare ed è
meno esposta ai rischi di interpretazione tendenziosa da parte di un autore) e avere un’idea del grado di attendibilità dello scrittore; per esempio,
la figura di Claudio è stata rivalutata grazie a scoperte recenti di iscrizioni
che testimoniano lo scrupolo e l’equilibrio di quest’imperatore, tanto denigrato da Seneca e da altri.
Le iscrizioni vennero studiate a partire dal Quattrocento, soprattutto
in Italia, per ricostruire aspetti importanti della religione, dei valori, degli
usi e della lingua di una civiltà antica. Le epigrafi vennero considerate i
documenti più fedeli della lingua e ancora oggi sono strumenti indispensabili per esaminare l’ortografia, il lessico e l’onomastica, specialmente
quando parole e nomi non sono attestati nelle opere letterarie o sono corrotti (cioè trascritti in modo errato) nei manoscritti. Le lapidi, ma anche
gli oggetti iscritti più umili, ci attestano la diffusione e i gradi di assimilazione del latino sia a livello geografico (come questa lingua interagì con
quella indigena) sia nella scala diacronica (come il latino si evolse gradualmente nei diversi volgari) sia a livello sociale (quale «lingua» effettivamente parlavano i vari strati di popolazione).
In archeologia le iscrizioni sono molto utili: servono frequentemente a
spiegare la destinazione, a datare l’esecuzione o il restauro, a indicare il
committente dell’edificio o della statua cui erano applicate, anche quando
i resti sono insufficienti; le didascalie su vasi, mosaici, busti, bassorilievi,
poi, ci forniscono informazioni utili sui personaggi e sulle azioni rappresentate.
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IL LAVORO
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Le epigrafi ci danno poi modo di conoscere aspetti molto importanti sia
della storia della religione, attestando l’esistenza di certi culti, il numero e
la distribuzione dei fedeli in determinati luoghi e tempi, sia del diritto, dell’organizzazione economica, politica, sociale, attestandoci costituzioni e
atti di imperatori, di municipi e di colonie, trattati, contratti di privati e di
collegi, dediche votive e onorarie di cittadini e di politici in carica.
Criteri di datazione
La citazione dei consoli che compare talvolta negli atti pubblici permette
una datazione precisa, dato che conosciamo la lista dei nomi di queste due
supreme autorità a partire dalla fondazione di Roma. Purtroppo i riferimenti a persone e fatti noti sono rari e quindi bisogna procedere a datazioni indicative.
I criteri di definizione cronologica si distinguono in:
– esterni, che si avvalgono dell’osservazione della forma dell’epigrafe,
cioè lo studio della forma delle lettere e della loro evoluzione, anche se
bisogna considerare la capacità dell’artigiano, il carattere del monumento, gli usi locali e la qualità del materiale di supporto; lo studio del
materiale usato e, quando disponibili, i dati di scavo relativi al luogo e
al livello stratigrafico di ritrovamento;
– interni, forniti dal testo: ortografia, formule fisse, stile (i testi più lunghi sono di solito anche i più tardi).
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LE ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI
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VERIFICHE FINALI
1. Indica l’affermazione corretta fra le tre proposte.
a. Cicerone
approva incondizionatamente chi commercia su larga scala.
dice che chi si arricchisce con il commercio deve investire i suoi guadagni nell’agricoltura.
disprezza qualsiasi forma di commercio.
b. Virgilio dice che l’agricoltura
pone fine alla comunione dei beni propria dell’età dell’oro.
nasce per volere di Giove, perché l’uomo domini la natura.
nasce per volere di Giove, per punire l’uomo per la sua oziosità.
c. Quale autore ti sembra più attento a cogliere particolari della vita quotidiana?
Virgilio.
Catone.
Marziale.
d. Quale personaggio mostra di trovare più divertente il proprio lavoro?
Il buffone Cecilio in Marziale.
L’oste di Isernia nell’epigrafe del Louvre.
Il contadino nelle Georgiche di Virgilio.
e. L’autore che mostra più compassione per il lavoro massacrante è
S. Paolo.
Lucrezio.
Virgilio.
f. I collegi e i sodalizi di lavoratori
impongono i loro candidati, soprattutto nei piccoli centri urbani.
non si occupano di politica.
appoggiano i candidati più legati ai loro interessi particolari.
g. San Paolo sostiene che il Cristiano che non lavora dev’essere
isolato.
compatito.
espulso dalla comunità.
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2. Indica se queste affermazioni sono vere o false; per queste ultime motiva la tua risposta
in non più di tre righe.
a.
b.
c.
d.
e.
f.
g.
h.
i.
l.
Per Cicerone ogni forma di commercio è spregevole.
Nel De officiis si sostiene che le arti liberali sono decorose per gli appartenenti ai ceti medi.
Virgilio sostiene che il lavoro è una necessità.
Nelle Georgiche le attività artigianali sono svalutate rispetto all’agricoltura.
S. Paolo condanna irrimediabilmente i cristiani oziosi.
Già in Catone il commercio è condannato come indecoroso.
La condanna dell’usura accomuna Cicerone e Catone.
Il lavoro in miniera era il più massacrante nel mondo antico.
Marziale denuncia i problemi del sottoproletariato urbano di Roma.
Lucrezio, coerentemente con la sua appartenenza alla scuola epicurea, guarda
con distacco alla sorte dei minatori.
m. Le fonti epigrafiche concordano nella condanna del lavoro manuale.
V
F
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3. Rispondi alle seguenti domande in dieci righe al massimo.
a. Partendo dalle testimonianze di Marziale, sapresti descrivere scenette, colori, rumori e odori di una via del
centro di Roma antica nell’«ora di punta»?
b. Quali autori si richiamano all’autorità del mos maiorum per esaltare i vantaggi dell’agricoltura? Con quali motivazioni sostengono questa opinione?
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Unità
2 Roma e la cultura germanica
CESARE
LA VITA E LE OPERE Caio Giulio Cesare (100 - 44 a.C.), oltre che uno dei più rappresentativi personaggi della storia romana, fu anche uomo di vastissimi e raffinati interessi letterari.Testimonianza della sua versatilità letteraria erano opere che non ci sono
giunte, ma che comunque dovevano verosimilmente avere la funzione di esercitazione o
passatempo dilettantesco: un poema, Laudes Herculis; una tragedia, Oedipus; una raccolta
di frasi memorabili, Dicta collectanea; un poema sulla spedizione in Spagna del 45 a.C.,
Iter; due libri di stampo polemico contro la memoria di Catone Uticense, Anticato, e un
trattato De Analogia (di cui ci rimangono solo pochi frammenti), nel quale si atteneva alla
teoria della scuola filologica di Alessandria: la lingua era fondata sulla ratio («norma») e
appunto sull’analogia («rispetto dei modelli») e non sulla libera creazione e sull’evoluzione spontanea.
Anche se delle orazioni di Cesare noi oggi sappiamo troppo poco per darne un giudizio preciso (ma Cicerone, Quintiliano e Tacito ne furono entusiasti), i princìpi analogisti
e atticisti vennero da lui largamente applicati nelle due opere giunte fino a noi: i Commentarii de bello Gallico, in sette libri seguiti da un ottavo probabilmente scritto dal luogotenente Irzio, e i Commentarii de Bello Civili, in tre libri a cui si aggiunsero altri tre (Bellum Alexandrinum, Bellum Africum, Bellum Hispaniense) composti da anonimi ufficiali.
Cesare concepì l’attività di poeta come lusus (cioè come svago), quella di saggista e
soprattutto di storico come strumento di lotta politica. Queste opere letterarie furono
infatti da lui composte non in periodi di ozio forzato (come accadeva a Sallustio e Cicerone), ma nel bel mezzo delle sue imprese belliche e della lotta per il potere.
CESARE E L’INTERESSE ETNOGRAFICO Anche se i Commentarii de bello Gallico, almeno nella concezione dell’autore e del lettore antico, non si presentano formalmente come opera di storiografia in senso stretto, Cesare tiene presente i modelli più
autorevoli di questo genere anche nella scelta e nella disposizione degli argomenti. Poco
dopo la metà del V secolo a.C. era stato proprio il greco Erodoto, considerato il padre
della storiografia, a inserire nelle sue Storie amplissime digressioni etnografiche, che prendevano spunto dalla narrazione dell’espansione persiana in Asia e in Egitto. Anche nel
mondo romano, comunque, era presente l’interesse per lo straniero. Forse già Fabio Pittore, il primo storico romano, aveva scritto qualcosa sulle popolazioni celtiche, contro cui
aveva combattuto nel 255 a.C. Di certo Catone il Censore, nella prima metà del II secolo a.C., aveva considerato queste popolazioni con rispetto e simpatia, da quanto possiamo intuire dai pochi frammenti rimastici della sua opera storiografica, le Origines.
Cesare si inserisce dunque in una tradizione antica e prestigiosa, quando interrompe
la narrazione delle proprie campagne militari per descrivere usi e costumi delle popolazioni con cui entra in conflitto; vi sono però differenze fondamentali tra Cesare e la tradizione erodotea. Dal punto di vista quantitativo gli excursus dei Commentarii sono di dimensioni più ridotte: quello più ampio, nel libro VI, dedicato ai Galli e ai Germani, è di 18
capitoli (su 64 dell’intero libro), mentre in Erodoto i primi quattro libri dei nove complessivi sono in buona parte dedicati all’illustrazione di usi e costumi di popoli stranieri. Per
quanto riguarda il tono della descrizione, Cesare non indulge quasi mai al pittoresco o al
meraviglioso (con l’eccezione nel libro VI della descrizione della Selva Ercinia, popolata da
animali fantastici), al contrario di Erodoto, che accanto a notizie sostanzialmente fondate
(e confermate da altre fonti storiche e archeologiche) riporta voci assolutamente fantastiche, anche se spesso da queste prende le distanze con un certo scetticismo, come
quando cita gli Schiapodi, un popolo di uomini con un piede solo, che vivrebbero nell’emisfero opposto al nostro.
Mentre Erodoto è mosso dalla curiosità per un mondo diverso dal suo e dal desiderio di colpire l’attenzione del pubblico, gli intenti di Cesare sono principalmente quelli di
spiegare le motivazioni alla guerra dei nemici, di chiarire in quali condizioni si trovò a
combattere l’esercito romano e quindi di mettere in risalto i meriti del generale e dei
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I ROMANI E GLI ALTRI POPOLI: GRECI E GERMANI
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soldati. Le digressioni perciò non sono disposte a caso né si allontanano troppo dal tema
centrale sottinteso a tutta l’opera: la missione civilizzatrice di Roma nei confronti di popoli selvaggi e pericolosi.
Cesare, per attuare il modello erodoteo di inserimento di digressioni etnografiche in
un testo d’argomento storico, utilizza come fonte letteraria principale le Storie di Posidonio (135 - 50 a.C.), in cui ampie sezioni erano dedicate alla raccolta sistematica di notizie
su territori, usi, costumi e istituzioni dei popoli dell’Europa occidentale e centrale. Quest’opera è andata perduta, ma lunghe citazioni ci sono riportate da altri autori greci, lo
storico Diodoro Siculo (I secolo a.C.) e il geografo Strabone (63 a.C. - circa 30 d.C.). Cesare aggiunse però alle notizie letterarie anche molto di suo, frutto dell’osservazione personale e dei resoconti sia di mercanti romani sia di informatori locali. Le digressioni etnografiche non hanno la pretesa di costituire una trattazione completa ed esauriente, ma
solo di inquadrare i paesi, gli usi, i costumi, gli aspetti della mentalità che più avevano interessato o colpito il generale nelle sue azioni di guerra. In queste pagine è comunque vivo
il desiderio di dimostrare le proprie conoscenze e insieme di soddisfare la curiosità del
lettore romano. Soprattutto per questo Cesare cerca – ovunque gli sia possibile e dove
sussista una qualche somiglianza con il mondo romano – di rendere più comprensibile la
sua descrizione con l’interpretatio, ovvero la «traduzione», non riportando i termini originali del popolo che sta descrivendo, ma adottando parole che siano familiari all’uomo romano (vedi, per esempio VI, 21, 2 a pag. 307).Tale procedimento non è certamente
scientifico, ma ha il vantaggio di esprimere definizioni chiare e immediate. Del resto, né
Cesare né i suoi lettori romani avevano presente un concetto che invece lo storico greco Erodoto aveva già sviluppato: quello cioè del relativismo culturale, per cui ogni popolo
elabora una propria cultura, rispondente ai suoi bisogni e quindi degna di essere rispettata per quello che è, al di fuori di ogni assurda pretesa di confronto qualitativo.
I SUEBI, I PIÙ BELLICOSI
TRA I GERMANI
(Cesare,
De bello Gallico, IV, 1)
1
Nel quarto anno di guerra, il 55 a.C., Cesare tornò a scontrarsi con i Germani, da lui già
sconfitti nel 58, quando erano comandati da Ariovisto. I Germani non costituivano una
popolazione compatta etnicamente né tantomeno si sentivano una nazione nel senso
moderno del termine, ma erano ugualmente pericolosi per i loro vicini, perché abituati a
compiere razzie nelle terre confinanti. Oltre ai Galli (come narrato nel libro I), vittime
dei loro soprusi erano anche popolazioni dello stesso ceppo germanico, gli Usìpeti e i
Téncteri, che ogni anno vedevano i loro campi e loro villaggi assaliti in massa dai Suebi.
La situazione fornì a Cesare il destro per intervenire militarmente, con lo scopo di troncare una volta per tutte le velleità di egemonia germanica al di qua del Reno, sorta di
confine naturale tra il mondo celtico e poi romano da un lato e quello germanico dall’altro. Prima di addentrarsi nella narrazione di questa nuova campagna di guerra, l’autore
latino fornisce alcune importanti notizie sui Suebi, sia per rispettare il modello storiografico greco – in particolare di Erodoto, che nel V secolo a.C. aveva inserito molte digressioni etnografiche nelle sue Storie – sia per chiarire ai lettori romani quali erano le
particolarità e le difficoltà di questo nuovo conflitto.
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ROMA E LA CULTURA GERMANICA
303
1. Ea quae secuta est hieme, qui fuit annus Cn. Pompeio, M. Crasso consulibus, Usip˘etes Germani et item Tenct˘eri magna [cum] multitudine hominum flumen Rhenum transierunt, non longe a mari, quo Rhenus influit.
2. Causa transeundi fuit quod ab Suebis complures annos exagitati bello
premebantur et agri cultura prohibebantur. 3. Sueborum gens est longe
maxima et bellicosissima Germanorum omnium. 4. Hi centum pagos habere dicuntur, ex quibus quotannis singula milia armatorum bellandi causa ex finibus educunt. Reliqui, qui domi manserunt, se atque illos alunt; 5.
hi rursus in vicem anno post in armis sunt, illi domi remanent. 6. Sic neque agri cultura nec ratio atque usus belli intermittitur.
1. Ea… hieme: iperbato (vedi il glossario a
pag. 337); nella traduzione questo sostantivo
va collocato dopo l’attributo Ea e prima della
relativa oggettiva.
– qui fuit annus: altro iperbato.
– Cn. … consulibus: cioè nel 55 a.C. Nei
testi in prosa l’anno era solitamente indicato
con la citazione dei due consoli in carica in
quel lasso di tempo (i due nomi venivano accostati senza congiunzione coordinante); dato
che noi siamo in grado di ricostruire con buona precisione, grazie alle fonti storiche, l’elenco di tali magistrati, possiamo quindi anche risalire alla cronologia assoluta. Un sistema alternativo era quello di posporre all’ablativo anno il numerale ordinale come attributo, seguito dalla formula ab Urbe cond˘ita («dalla fondazione di Roma»).
– Cn. Pompeio, M. Crasso: Gneo Pompeo e Marco Crasso si erano accordati con Cesare nel cosiddetto convegno di Lucca, nel 56
a.C., dando origine al primo triumvirato: a Cesare il proconsolato in Gallia venne prolungato per altri cinque anni, mentre gli altri due ottennero il consolato e un imperium di cinque
anni rispettivamente in Spagna e Siria.
– Usip˘etes et… Tenct˘eri: erano stanziati
sulla riva destra del basso Reno, rispettivamente a nord e a sud del Lippa flumen (attuale fiume Lippe, affluente del Reno).
– quo: «in cui, dove» avverbio relativo di
moto a luogo.
2. transeundi: ricorda che il latino preferisce
utilizzare il verbo al posto del sostantivo per
indicare l’azione; in italiano, però, è meglio
rendere «della [loro] migrazione».
– quod… premebantur et… prohibebantur: proposizioni dichiarative («il fatto che… e
che…»).
– a Suebis: con la denominazione di
Suebi Cesare intendeva indicare non una sola
popolazione, ma un gruppo di genti germaniche, i cui territori si estendevano largamente
lungo la riva destra del medio Reno. Nel libro I
304
del De bello Gallico era già stata narrata la vittoria del generale romano sul loro re Ariovisto.
– complures annos: accusativo di tempo
continuato.
– cultura: ablativo di allontanamento.
3. gens: vedi la scheda lessicale I termini indicanti il «popolo» a pag. 306.
– longe: rafforza i superlativi relativi maxima e bellicosissima.
4. Hi: si riferisce ai Suebi.
– pagos: all’incirca «distretti» o «cantoni».
I pagi sono le suddivisioni del territorio
delle popolazioni germaniche, le quali non
avevano vere e proprie città, ma piccoli insediamenti, come afferma anche Tacito in Germania 16, 1.
– singula: il numerale distributivo si giustifica sia con la presenza dell’avverbio quotannis
sia con il fatto che ogni distretto forniva mille
combattenti.
– bellandi causa: complemento di fine.
– ex finibus educunt: il complemento di
moto da luogo e il prefisso e- del verbo indicano l’uscita e chiariscono che la ragione era rappresentata soprattutto da spedizioni offensive,
motivate più da semplici razzie che dall’espansione territoriale. Il bottino di guerra era destinato a essere venduto almeno in parte, come
dice Cesare nel primo paragrafo del capitolo
successivo.
– Reliqui: aggettivo tratto dal tema del verbo relinquo («lascio»), indica «i rimanenti»,
«tutti gli altri». Gli uomini sono ogni anno divisi in due gruppi: quelli che vanno a combattere e gli altri che provvedono al sostentamento alimentare della comunità.
– domi: locativo; «a casa», nel senso di «in
patria».
5. rursus in vicem: «a loro volta».
– illi: cioè quelli che avevano combattuto
nell’anno precedente.
6. ratio atque usus: sono rispettivamente «teoria e pratica», ma, intendendo l’espressione come un’endiadi (vedi il glossario a pag. 337), si
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7. Sed privati ac separati agri apud eos nihil est, neque longius anno remanere uno in loco colendi causa licet. 8. Neque multum frumento, sed
maximam partem lacte atque pecore vivunt multumque sunt in venationibus; 9. quae res et cibi genere et cotidiana exercitatione et libertate vitae,
quod a pueris nullo officio aut disciplina adsuefacti nihil omnino contra
voluntatem faciunt, et vires alit et immani corporum magnitudine homines efficit. 10. Atque in eam se consuetudinem adduxerunt ut locis frigidissimis neque vestitus praeter pelles habeant quicquam, quarum propter
exiguitatem magna est corporis pars aperta, et laventur in fluminibus.
può rendere «l’attività regolata dalla tattica».
7. privati ac separati agri: il genitivo si spiega
come partitivo in dipendenza da nihil; l’intera
espressione si può tradurre «nessuna proprietà
terriera privata e riservata». Cesare allude quindi a una sorta di comunismo primitivo, in cui i
campi erano posseduti dalla collettività.
– anno: ablativo perché secondo termine di
paragone, in dipendenza da longius.
– uno in loco: anastrofe (vedi il glossario a
pag. 337) per la normale sequenza in uno loco;
noi diciamo però «nello stesso luogo».
– licet: sottintende iis, cioè Suebis. L’argomento è per Cesare tanto importante che vi ritornerà in D.b.G. VI, 22, 3 (vedi pag. 309).
8. maximam partem: accusativo avverbiale.
– pecore: da pecus, -c˘oris, indica il bestiame in
genere, non solo il gregge di ovini; qui per metonimia (vedi il glossario a pag. 337) la «carne».
– sunt in venationibus: più liberamente «si
dedicano alle battute di caccia».
9. quae: in italiano si può lasciare il relativo o
interpretarlo come nesso: «e questa».
– res: soggetto di alit e di efficit.
– et… vitae: esempio dell’abilità retorica di
Cesare, che – come tutti i Romani di un certo livello culturale e sociale – si era formato alla
scuola degli oratori; compaiono qui il polisindeto (et… et… et) e la variatio (vedi il glossario a
pag. 337) con la sequenza genitivo + ablativo /
attributo + ablativo / ablativo + genitivo (cibi
genere / cotidiana exercitatione / libertate vitae).
– a pueris: «fin da bambini».
– immani corporum magnitudine: più libe-
ramente «di straordinaria prestanza fisica».
– homines: predicativo retto da efficit, mentre il complemento oggetto eos è sottinteso.
10. in eam se consuetudinem: iperbato (vedi il
glossario a pag. 337). L’aggettivo dimostrativo
eam posto prima di una consecutiva o di una
relativa caratterizzante assume spesso il valore
di «tale» («un’abitudine tale che...») o «capace
di, in grado di»; in questo caso potrebbe però
anche interpretarsi come anticipatore o prolettico della dichiarativa o complementare diretta
ut… habeant… et laventur e quindi essere
omesso nella traduzione («l’abitudine di…»).
– se…adduxerunt: «si sono portati», quindi
«sono giunti».
– ut: introduce una proposizione che ha come predicati verbali habeant e laventur e che
può essere intesa o come consecutiva o come
dichiarativa (vedi nota ad eam…consuetudinem).
– locis: stato in luogo senza preposizione in,
costruzione normale per il sostantivo locus accompagnato da attributo.
– frigidissimis: è opportuno dare una sfumatura concessiva a questo attributo, cioè «benché
freddissimi».
– vestitus: genitivo partitivo dipendente dal
pronome quicquam.
– quarum… est: pur dipendendo da una
subordinata con il congiuntivo, questa proposizione relativa mantiene l’indicativo perché
indica un dato obiettivo in sé e per sé; quarum
si riferisce a pelles.
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole del brano.
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
a. Elencando e interpretando le espressioni dell’autore (avverbi e complementi di
tempo, tempi verbali), indica se il conflitto tra Usipeti e Tencteri da una parte e
Suebi dall’altra era limitato nel tempo o continuato.
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ROMA E LA CULTURA GERMANICA
305
b. Dopo aver individuato e riconosciuto la costruzione del primo periodo del paragrafo 4, rispondi a questa domanda: le informazioni di Cesare derivano da un’osservazione diretta dell’autore e sono state tratte da racconti di altri?
c. Utilizzando i dati forniti da Cesare nei par. 4 e 5 (posto che le cifre siano attendibili), stabilisci quanti erano gli uomini atti alle armi fra i Suebi; considerando poi la
presenza delle mogli, di uno o due figli per famiglia e degli anziani, ipotizza un numero minimo e uno massimo di componenti di questa popolazione nel 55 a.C.
d. Quali sono le principali attività economiche o di sostentamento dei Suebi?
e. Quali sono i motivi della straordinaria prestanza fisica di queste popolazioni?
f. Considerando i valori culturali e morali da cui partiva Cesare, ti sembra che egli
valuti la libertas dei Suebi (positivamente o negativamente) o che non prenda esplicita posizione? Rispondi in tre righe, citando almeno due parole-chiave del testo latino.
SCHEDA
LESSICALE
I termini indicanti il «popolo». Elenchiamo i diversi termini latini che identificano il concetto di popolo.
Natio, -onis: dalla radice (g)na- (da cui anche il verbo nascor) + suffisso -tio indicante l’astratto significa:
– «nascita, origine»;
– «stirpe, razza», cioè l’insieme degli uomini nati nel luogo in cui abitano;
Gens, entis: dalla radice gen-, può assumere i seguenti significati:
– «gente» del medesimo ceppo, casato, clan, insieme di uomini composto di
molte famiglie discendenti da uno stesso antenato; corrisponde al greco
ghénos. All’inizio solo i patrizi erano inseriti in una gens, poi anche i plebei;
– in senso lato indicava tutto un «popolo», cioè tutti gli abitanti di una stessa
città: per esempio gens Faliscorum, «il popolo dei Falisci»;
– in senso ancora più ampio, una «nazione», cioè tutti i popoli di una vasta
regione accomunati da legami di sangue: per esempio gens Gallorum;
– può quindi indicare anche un insieme di nationes; il rapporto tra i termini
può tuttavia essere invertito;
– in epoca imperiale gentes indica i «barbari», mentre populus designa i Romani.
Civitas, atis: termine astratto derivato da civis, indica:
– la «città» nel senso di «insieme dei cittadini» che vivono nello stesso luogo
e secondo un unico sistema giuridico (corrisponde quindi per questo valore
al greco pólis);
– per i popoli «barbari», una popolazione della stessa natio che abita in città
o è dispersa in villaggi, ma usa comunque le medesime leggi;
– il «diritto di cittadinanza»;
– solo nel latino tardo civitas ha sostituito urbs («città» nel senso di insieme di
edifici) e oppidum.
Populus, i: parola di origine italica o forse etrusca, corrispondente al greco démos. Cicerone (Rep. I. 25,39) così definisce il concetto: «Popolo non è un insieme di uomini in qualsiasi modo aggregato, ma l’unione di uomini stretta dalla
condivisione di un unico sistema di diritto e dalla comunanza di interessi». In epoca repubblicana il termine si riferisce unicamente a Romani e alleati italici; solo in epoca imperiale il suo significato si avvicina ormai a quello di «plebe».
Plebs, plebis: indica la «plebe», parte del popolo romano che non rientra nel patriziato; differisce da populus perché con quest’ultimo termine si definisce tutta
la cittadinanza nel suo complesso. Corrisponde al greco pléthos.
306
I ROMANI E GLI ALTRI POPOLI: GRECI E GERMANI
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RELIGIONE ED EDUCAZIONE
DEI GERMANI
(Cesare,
De bello Gallico, VI, 21)
2
Dopo aver narrato all’inizio del libro VI le spedizioni contro Nervi, Sénoni e Menàpi,
Cesare apre una nuova lunga digressione, che occupa tutta la parte centrale del libro
stesso, per descrivere usi e costumi dei popoli contro cui si trova a combattere. L’excursus è diviso in due sezioni, di lunghezza analoga, secondo una certa simmetria: la prima
dedicata al mondo gallico (capp. 13-20), la seconda a quello germanico (21-28). All’interno di quest’ultima si possono ulteriormente distinguere una prima parte propriamente etnografica (21-24) e una seconda d’argomento naturalistico, sulla Selva Ercinia e sulla sua fauna (25-28), con la consueta simmetria di dimensioni.
I capitoli 21-24 del libro VI riprendono i primi tre del libro IV, ma aggiungono alcune
notizie e ne approfondiscono altre, già accennate per sommi capi in precedenza, perché diverse sono le finalità delle due descrizioni. Nel libro IV si trattava infatti di presentare per la prima volta al lettore romano i Germani – mai conosciuti neppure per nome prima d’allora – e
di indicare la loro pericolosità. Nel libro VI, invece, Cesare si propone di spiegare le differenze tra Galli e Germani («quo differant hae nationes inter sese proponere», D.b.G. VI, 11).
1. Germani multum ab hac consuetudine diff˘erunt. Nam neque druides
habent, qui rebus divinis praesint, neque sacrificiis student. 2. Deorum
numero eos solos ducunt, quos cernunt et quorum aperte opibus iuvantur, Solem et Vulcanum et Lunam, reliquos ne fam¯a quidem acceperunt.
3. Vita omnis in venationibus atque in studiis rei militaris consistit: ab parvulis labori ac duritiae student. 4. Qui diutissime impub˘eres permanse1. ab hac consuetudine: si riferisce a tutto il
complesso di usi e costumi gallici descritti dall’autore negli otto capitoli precedenti.
– diff˘erunt: vedi la scheda lessicale Diff˘ero a
pag. 308.
– qui… praesint: proposizione relativa con
il congiuntivo caratterizzante («che presiedano a») o finale («con la funzione di presiedere
a»). I Germani non hanno dunque una casta
sacerdotale, come quella dei Druidi in Gallia.
– student: «si curano troppo di»; Cesare
non vuole dire che i Germani non celebrino
sacrifici, ma che questi non hanno presso di loro una importanza particolare o paragonabile
a quella che rivestono presso i Galli.
2. Deorum numero… ducunt: espressione
idiomatica che letteralmente vale «conducono
nel numero degli dei», ma conviene rendere
«annoverano tra gli dei», «considerano dei».
– quos… iuvantur: secondo Cesare, la religione germanica è costituita da una sorte di
animismo, che venera le forze della natura.
– quos… quorum: poliptoto (vedi il glossario a pag. 337).
– opibus: ablativo di causa efficiente, che qui
si può rendere con il singolare «dalla potenza».
– Solem: come per i due nomi seguenti, è
un esempio di interpretatio («traduzione») da
parte dell’autore, il quale, invece di riportare il
termine germanico o di traslitterarlo in forma
latineggiante, ha impiegato un nome che fosse
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immediatamente comprensibile per il lettore
della sua lingua. Il cielo illuminato dal sole
era dagli Indoeuropei venerato come padre
degli dei; questa antichissima credenza ha poi
verosimilmente originato il culto di WotanOdino, il più importante dio germanico.
– Vulcanum: latinizzazione per la personificazione del fuoco.
– Lunam: la presenza di questa divinità – legata alla notte, al buio, ma anche al mondo femminile – fa pensare che le donne svolgessero un
ruolo importante, almeno all’interno della vita
familiare.
– ne…quidem: questa congiunzione copulativa nega il termine interposto fama: «neppure per sentito dire».
3. in studiis rei militaris: «nell’addestramento
(alla vita) militare».
– labori ac duritiae: le due parole, avendo significato affine, si possono considerare un’endiadi (vedi il glossario a pag. 337); conviene
dunque rendere uno dei due sostantivi con un
aggettivo, per esempio «alla dura fatica».
4. Qui: è sottinteso il termine di riferimento ii,
soggetto di ferunt.
– diutissime: superlativo dall’avverbio diu:
«(il) più a lungo».
– impub˘eres permanserunt: il perfetto si
giustifica con l’idea di anteriorità, che il latino
sente più dell’italiano, rispetto alla reggente:
«si sono mantenuti casti».
ROMA E LA CULTURA GERMANICA
307
runt, maximam inter suos ferunt laudem: hoc ali staturam, ali vires nervosque confirmari putant. 5. Intra annum vero vicesimum feminae notitiam
habuisse in turpissimis habent rebus; cuius rei nulla est occultatio, quod
et promiscue in fluminibus perluuntur et pellibus aut parvis renonum tegimentis utuntur magna corporis parte nuda.
– maximam… laudem: iperbato (vedi il glossario a pag. 337).
– ali… ali: l’iterazione, ossia ripetizione degli infiniti passivi dipendenti da putant, rafforza il loro significato.
5. Intra: nel senso di «prima di».
– vero: avverbio.
– feminae notitiam: «rapporto sessuale con
una donna».
habuisse: oggetto di habent: «considerano
l’aver avuto».
– cuius rei: non si riferisce a notitiam, ma
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
più in generale alla sfera della fisicità.
– nulla est occultatio: «non si fa mistero».
– quod: introduce le due proposizioni causali coordinate per polisindeto et… et.
– parvis renonum tegimentis: l’ablativo
strumentale è retto da utuntur, mentre il genitivo da r(h)eno, -onis è una parola rara d’origine celtica; letteralmente «corte coperture di
pellicce» ossia «corti indumenti di pelliccia»,
che coprivano spalle e petto.
– magna … parte nuda: ablativo assoluto
con valore avversativo.
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole del brano.
a. Quale importanza attribuiscono i Germani alla religione?
b. Con quale criterio sono identificati gli dei da venerare?
c. A quali attività dedicano tutto il loro tempo i Germani?
d. Quale parola compare sia nel secondo sia nel quarto periodo? Quale concezione
della vita vuole sottolineare questa ripetizione?
e. Quale comportamento i Germani ritengono più lodevole e perché?
f. Quale abitudine particolare è messa in evidenza da Cesare nell’ultimo periodo?
SCHEDA
LESSICALE
308
Diffe˘ro. Differo è composto dal prefisso dis- (che indica separazione) + fero; oltre al significato originario di «portare qua e là, spargere» ha assunto altri significati traslati: «spargere la voce (spesso infamante)»; con questo senso regge un
termine all’accusativo come, per esempio, rumorem o famam (complemento oggetto) o un ablativo strumentale come sermonibus, mentre la notizia o diceria
viene espressa da una proposizione oggettiva; «differire (transitivo), rinviare,
procrastinare», per esempio differre aliquid in aliud tempus / donec, «rimandare
qualcosa a un altro momento / finché».
Da ricordare la costruzione nihil differre quin + congiuntivo, «non tardare a». Infine,
«differire (intransitivo), distinguersi» è usato solo nei tempi semplici; la persona o la
cosa da cui si differisce si può esprimere con a/ab o cum + ablativo, con il dativo o con
inter + accusativo; l’elemento di distinzione è posto all’ablativo (di limitazione).
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PERCHÉ I GERMANI NON HANNO
PROPRIETÀ PRIVATA
(Cesare,
De bello Gallico, VI, 22)
3
Dopo aver parlato dell’educazione dei giovani presso i Germani, Cesare dedica un intero capitolo alla loro economia, soffermandosi però in particolare sui criteri e sulle motivazioni della distribuzione annuale dei terreni, benché affermi proprio all’inizio che l’agricoltura non è certo l’attività principale di questo popolo. L’assegnazione dei campi da
parte dei capi, in base alle esigenze di ogni gruppo di famiglie e l’obbligo di cambiare sede ogni anno, certamente hanno attirato l’attenzione dell’autore e sono destinate a destare meraviglia nel lettore romano, abituato a considerare non solo normale, ma addirittura sacro il legame con la terra e la proprietà. Cesare riporta una serie di motivazioni, senza dirci se queste sono addotte dai Germani o da informatori o da fonti letterarie.
Forse non ha torto chi vede nelle giustificazioni riportate un riferimento a certe degenerazioni del mondo romano nel I secolo a.C.: le prepotenze dei latifondisti sui piccoli
contadini, l’abnorme sviluppo edilizio delle città, il divario economico tra ricchi e poveri, le lotte politiche. Certo, malgrado l’autore eviti di esprimere giudizi espliciti, il mondo germanico non viene visto come un modello da imitare, né tanto meno Cesare pare
suggestionato da una visione romantica ante litteram del «buon selvaggio». I Germani
vengono osservati con meraviglia, ma rimangono un popolo bellicoso e quindi pericoloso, da combattere senza pietà, come avverrà appunto di lì a poco.
1. Agriculturae non student, maiorque pars eorum victus in lacte, caseo,
carne consistit. 2. Neque quisquam agri modum certum aut fines habet
proprios; sed magistratus ac principes in annos singulos gentibus cognationibusque hominum, qui un¯a coierunt, quantum et quo loco visum est
agri attribuunt atque anno post alio transire cogunt. 3. Eius rei multas ad1. student: con significato analogo a quello del
primo periodo del precedente capitolo, vuol
dire che i Germani non trascurano del tutto l’agricoltura, ma «non dedicano molte energie».
2. quisquam: pronome indefinito usato dopo
le congiunzioni negative; è soggetto di habet.
La prima parte del periodo è caratterizzata
dell’iperbato (vedi il glossario a pag. 337).
– agri… proprios: la mancanza di proprietà
privata, già evidenziata in D.b.G. IV, 1, 6 (vedi
pag. 304), doveva risultare particolarmente
strana per i Romani, abituati a considerare la
proprietà terriera come fonte di ogni ricchezza
vera e onorevole.
– magistratus: poiché nel capitolo seguente
Cesare dirà che in periodo di pace non esistono magistrati comuni a tutte le tribù dei Germani, con questa traduzione (interpretatio) del
termine germanico l’autore intende riferirsi o
ai periodi di guerra o, più probabilmente, a capi di distretti.
– principes: sono gli uomini più autorevoli
per ricchezza e nobiltà, «i maggiorenti».
– in annos singulos: l’uso del distributivo si
giustifica con il senso stesso dell’espressione:
«di anno in anno», «da un anno all’altro».
– gentibus cognationibusque: con gens
(dalla radice gen- collegata all’idea di «generaCol Saglia Imagines Seconda edizione
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re») si intende qui la famiglia estesa o clan, che
ha in comune un antenato capostipite; con cognatio (da cum + radice na- seguito dal suffisso
dell’astratto -ti) viene invece indicata una parentela per nascita, ma di origine più recente.
– un¯a: avverbio («insieme»).
– coierunt: il perfetto (da co˘eo, composto
da co<cum + eo), come il seguente visum est,
esprimono anteriorità rispetto al presente della
principale, ma anche iterazione, ossia ripetizione; in italiano si possono tradurre anch’essi
con il presente.
– agri: genitivo partitivo dipendente da
quantum («quanto terreno»); nota il forte iperbato (vedi il glossario a pag. 337).
– visum est: si può sottintendere attribuere;
ha qui il significato di «pare opportuno».
– post: avverbio riferito ad anno.
– alio: avverbio di moto a luogo: «altrove».
3. adferunt: non è facile capire quale sia il soggetto sottinteso. All’ipotesi che siano i Germani stessi si oppone la considerazione che essi
ben difficilmente avrebbero parlato di questi
argomenti con Cesare nei pochi momenti in
cui fu possibile un dialogo diretto; più probabilmente si tratta delle fonti letterarie (il geografo greco Posidonio, vissuto a cavallo tra i
secoli II e I a.C., e altri a noi non noti) e degli
ROMA E LA CULTURA GERMANICA
309
ferunt causas: ne adsidua consuetudine capti studium belli gerendi agricultura comm¯utent; ne latos fines parare studeant, potentioresque humiliores possessionibus expellant; ne accuratius ad frigora atque aestus vitandos aedificent; ne qua oriatur pecuniae cupiditas, qua ex re factiones
dissensionesque nascuntur; 4. ut animi aequitate plebem contineant, cum
suas quisque opes cum potentissimis aequari videat.
informatori che poteva consultare in quei luoghi, mercanti o Galli dei territori confinanti.
– causas: «spiegazioni». Queste popolazioni erano dedite all’allevamento (vedi paragrafo 1 e D.b.G. IV, 1, 8 a pag. 305) e all’agricoltura di puro sostentamento, ottenendo terreni
utilizzabili per le loro attività soprattutto dall’abbattimento e dall’incendio di foreste. Quando il
sottile strato coltivabile, non concimato, esauriva la sua fertilità, i Germani erano di fatto costretti a migrare. Certamente è possibile che
questa necessità sia stata poi tradotta e sentita da
questi popoli come tratto culturale e morale, che
li distingueva dalle altre genti. Cesare riporta le
varie spiegazioni forse perché superficialmente
informato, forse in quanto suggestionato da un
luogo comune dell’etnografia antica, secondo
cui i barbari temevano che l’attaccamento alla
terra infiacchisse gli animi e distogliesse dall’amore per la guerra; comunque egli pare interessato a connotare questi popoli come potenzialmente pericolosi e quindi bisognosi, per così dire, di un freno da parte della civiltà romana, dei
cui interessi si presenta difensore.
– ne: introduce una finale negativa, come gli
altri tre ne seguenti, con cui forma una quadrupla anafora (vedi il glossario a pag. 337).
– adsidua consuetudine: ablativo di causa
efficiente; l’aggettivo adsiduus, formato dal
prefisso ad («presso») e dalla radice del verbo
sideo («stare seduto»), ha in sé sia il significato
originario di «chi sta in un luogo fisso» sia
quello traslato di «assiduo, perseverante, persistente»; conviene lasciare questa ambivalenza di significato, rendendo «da un’abitudine
sedentaria».
– studium: vedi la scheda lessicale Studium
a pag. 311.
– comm¯utent: il soggetto sottinteso è Germani, come per le quattro proposizioni finali
seguenti.
– latos fines: è oggetto dell’infinito parare, il
quale sottintende sibi («procurarsi vasti territori»).
– potentioresque: soggetto di expellant, mentre humiliores è complemento oggetto.
– accuratius: comparativo assoluto dell’avverbio: «troppo accuratamente».
310
– ad… vitandos: complemento di fine o
proposizione finale implicita; il gerundivo è
maschile perché concordato con il più vicino
aestus, ma si riferisce anche a frigora; il plurale
dei due sostantivi indica l’alternarsi delle varie
stagioni nei diversi anni.
– qua: aggettivo riferito a cupiditas; dopo le
congiunzioni negative (qui ne) è normale l’uso
della forma semplice e più antica al posto di
quella composta con il prefisso ali-.
– qua ex re: iperbato (vedi il glossario a pag.
329) piuttosto comune in presenza del pronome relativo; re si riferisce a cupiditas. Senza che
il significato cambi, l’espressione può essere
resa «dalla quale condizione» o «e da questa
condizione», interpretando il pronome come
nesso relativo, o ancora «condizione della quale», se si considera il sostantivo apposizione di
cupiditas e poi attratto nel caso del relativo.
– factiones dissensionesque: si può anche
ritenere che i due sostantivi costituiscano
un’endiadi (vedi il glossario a pag. 337) («discordie politiche»), ma anche che il secondo
rappresenti uno sviluppo logico del primo
(«divisioni e quindi discordie»).
– nascuntur: era opinione ampiamente diffusa nella letteratura antica che l’avidità di ricchezza generasse discordia.
4. animi aequitate: più che la «equanimità,
moderazione» dei capi, sembra qui indicare la
«tranquillità» degli umili, che accettano senza
proteste il loro stato; aequitas designa la condizione di chi o che cosa sta allo stesso livello di
se stesso o degli altri. L’intera proposizione potrebbe quindi essere tradotta con «per mantenere tranquilla la plebe».
– plebem: con la consueta interpretatio Cesare introduce un termine familiare al lettore
romano, anche per stabilire un confronto con
il suo mondo, gravemente sconvolto dalle lotte
per le riforme agrarie nel II e nel I secolo a.C.
– opes: ha come attributo suas ed è soggetto
dell’infinito aequari, retto da cum quisque videat.
– cum potentissimis: equivale a cum opibus
(o illis) potentissimorum; si tratta quindi di una
comparatio compendiaria («paragone abbreviato»).
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Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole del brano.
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
a. Quale attività economica è meno importante e quali lo sono di più presso i Germani (pensa a quali sono i modi in cui si poteva ottenere la carne)?
b. Pensando all’impressione che questo capitolo intende suscitare nel lettore romano, quale significato profondo devono avere le negazioni che compaiono nei primi due periodi ?
c. Quali sono i legami sociali più importanti presso i Germani?
d. Completa la seguente tabella relativa al paragrafo 3, tenendo presente che l’ordine delle proposizioni non è quello del testo di Cesare.
Finalità
Circostanza da evitare
o da attuare
Proposizione
nel testo di Cesare
Mantenere la pace sociale
Sorgere del latifondismo
Uguaglianza economica
ne adsidua consuetudine
capti
studium belli gerendi
agricultura comm¯utent
Evitare l’infiacchimento
psicofisico
e. Alla fine del paragrafo 3, quale differenza di significato implica l’uso dell’indicativo
nascuntur al posto del pur possibile sintatticamente nascantur?
Studium. Significa «zelo, impegno, passione» oppure «inclinazione, occupazione prediletta» o solo più raramente «applicazione allo studio» (quest’ultima accezione è la più vicina al significato italiano della parola «studio»).
Analogamente, anche il verbo studeo significa «dedicarsi a, occuparsi di» oppure «aspirare a, sforzarsi di, parteggiare per» o solo più raramente «applicarsi allo
studio, studiare».
LA GUERRA, LA POLITICA E I RAPPORTI
CON GLI STRANIERI
SCHEDA
LESSICALE
(Cesare,
De bello Gallico, VI, 23)
4
Cesare aveva già parlato nel terzo capitolo del libro IV dei rapporti conflittuali tra i Suebi e i confinanti; ora riprende lo stesso argomento, estendendolo però a tutti i Germani
e traendone spunto per trattare della loro organizzazione politica. In effetti le varie tribù
trovano unità di intenti e d’azione solo nei periodi di guerra contro nemici comuni,
mentre in tempo di pace esse non sentono il bisogno di un’organizzazione statale. L’autore non accenna qui ad alcun organo legislativo o esecutivo, ma si limita a dire che la
giustizia è affidata normalmente a una piccola aristocrazia locale. A questo gruppo sociale fanno comunque capo le decisioni più importanti: oltre al potere giudiziario, i personaggi più ricchi e influenti gestiscono anche la distribuzione delle terre (vedi il capitolo
precedente) e il comando delle operazioni militari.
Dalla descrizione emerge il quadro di una società piuttosto primitiva, non priva di valori ma difficile da comprendere da parte di un Romano. La stessa considerazione delle
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ROMA E LA CULTURA GERMANICA
311
razzie presso i popoli confinanti appare degna di nota a Cesare, ma non compresa appieno
dall’osservatore: si tratta in effetti di un uso non raro tra i popoli antichi (basti pensare agli Spartani) e finalizzato alla iniziazione dei maschi giovani, che devono dimostrare con
queste incursioni in terra nemica di aver acquisito coraggio e abilità nell’uso delle armi.
Uno dei pochi punti di contatto tra il mondo classico e quello dei Germani è l’alta considerazione dell’ospitalità, che dimostra come queste popolazioni tengano molto a mantenere le loro tradizioni, ma non siano d’altra parte totalmente chiuse a rapporti con gli
stranieri.
1. Civitatibus maxima laus est quam latissime circum se vastatis finibus
solitudines habere. 2. Hoc proprium virtutis existimant, expulsos agris finitimos cedere, neque quemquam prope aud¯ere consistere: 3. simul hoc
se fore tutiores arbitrantur repentinae incursionis timore sublato. 4. Cum
bellum civitas aut inlatum defendit aut infert, magistratus, qui ei bello
praesint, ut vitae necisque habeant potestatem, deliguntur. 5. In pace nullus est communis magistratus, sed principes regionum atque pagorum inter suos ius dicunt controversiasque minuunt. 6. Latrocinia nullam habent
infamiam quae extra fines cuiusque civitatis fiunt, atque ea iuventutis
1. Civitatibus: «Per le (varie) comunità»; vedi
la scheda lessicale Civis a pag. 297.
– quam latissime: l’avverbio rafforza il superlativo latissime: «per uno spazio il più ampio possibile».
– vastatis finibus: ablativo assoluto con valore temporale-causale: «in seguito a devastazioni di territori».
– solitudines: «zone spopolate».
2. Hoc: prolessi (vedi il glossario a pag. 337)
del dimostrativo in accusativo, che anticipa e
quindi enfatizza le due proposizioni infinitive
expulsos… cedere, neque quemquam… aud¯ere;
nella traduzione si può omettere o, al contrario, sottolineare: «appunto questo».
– existimant: soggetto sottinteso sono i Germani, così come per arbitrantur.
– finitimos…quemquam: soggetti rispettivamente di cedere e di aud¯ere.
– prope: avverbio di luogo riferito a consistere, retto da aud¯ere: «stanziarsi nelle (loro)
vicinanze».
3. hoc: costituisce con hoc del paragrafo precedente un’anafora e un poliptoto (vedi il glossario a pag. 337, anche per «prolettico»), stabilendo un parallelismo nella costruzione; anche qui
il dimostrativo è prolettico dell’infinitiva se fore.
– timore sublato: ablativo assoluto; timore
regge repentinae incursionis, creando allitterazioni della t e della r.
4. bellum: è oggetto sia di defendit («fronteggia
/ si difende da») sia di infert; nel primo caso ha
come predicativo inlatum («quando è portato/a (contro di essa)».
312
– Inlatum… infert: derivano entrambi da
inf˘ero e dunque costituiscono un poliptoto
(vedi il glossario a pag. 337).
– magistratus: soggetto di deliguntur. Con
la consueta interpretatio, Cesare designa con
un termine latino dei capi, le cui funzioni militari e il cui potere di vita o di morte sono paragonabili a quelli del dittatore a Roma.
– qui… praesint: relativa con valore finale,
che a sua volta regge la proposizione finale
ut… habeant potestatem.
5. In pace: stato in luogo figurato.
– principes regionum atque pagorum: «gli
uomini più autorevoli delle regioni o dei distretti». Ogni civitas era dunque suddivisa in
regiones e pagi, ma Cesare non chiarisce quale
differenza vi sia tra queste circoscrizioni.
– ius… minuunt: espressioni del linguaggio
giuridico: «amministrano la giustizia e appianano le controversie».
6. Latrocinia: in italiano bisogna farlo immediatamente seguire dalla traduzione della relativa quae… fiunt.
– nullam habent infamiam: «non hanno in
sé alcun marchio d’infamia».
– cuiusque: come si può vedere da quest’esempio, Cesare usa l’aggettivo quisque più liberamente di quanto vorrebbero alcune grammatiche scolastiche moderne, che qui avrebbero voluto uniuscuiusque.
– ea… fieri: proposizione oggettiva retta da
praedicant, che ha come soggetto Germani.
– iuventutis… causa: complemento di fine o
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exercendae ac desidiae minuendae causa fieri praedicant. 7. Atque ubi
quis ex principibus in concilio dixit se ducem fore, qui sequi velint, profiteantur, consurgunt ii qui et causam et hominem probant suumque auxilium pollicentur atque a multitudine collaudantur: 8. qui ex his secuti non
sunt, in desertorum ac proditorum numero ducuntur, omniumque his rerum postea fides derogatur. 9. Hospitem violare fas non putant; qui quacumque de causa ad eos venerunt, ab iniuria proh˘ibent, sanctos habent,
hisque omnium domus patent victusque communicatur.
proposizioni finali implicite, espresse con il gerundivo. L’uso dell’astratto iuventutis al posto
del concreto iuvenum si spiega forse con la volontà di mantenere il parallelismo tra due singolari femminili, il quale genera così un omeoteleuto (vedi il glossario a pag. 337) tra exercendae e minuendae, rafforzando il concetto.
7. ubi… dixit: proposizione temporale, con l’indicativo perfetto per esprimere l’anteriorità rispetto alla proposizione principale consurgunt
ii. Da segnalare, poi, la variatio (vedi il glossario
a pag. 337) ossia il brusco cambiamento di costruzione di dixit: esso regge infatti prima la proposizione oggettiva se ducem fore, poi la volitiva
(ut ii sottintesi) profiteantur (id). In italiano conviene rendere dixit con due verbi al presente:
«dice che… e invita coloro… a dichiararlo».
– quis: equivale ad aliquis.
– ducem: si tratta con tutta probabilità del
magistratus citato nel paragrafo 5, ma qui si insiste sulla funzione di «comandante» dell’esercito.
– qui… velint: in questa proposizione relativa il congiuntivo esprime eventualità.
– et… et: polisindeto (vedi il glossario a
pag. 337).
– suumque… pollicentur atque… collaudantur: coordinate alla principale.
8. qui… secuti non sunt: proposizione relativa
prolettica (vedi il glossario a pag. 337), con il
perfetto per indicare l’anteriorità rispetto alla
principale (ii) ducuntur.
– ex his: partitivo; si riferisce a coloro che in
assemblea hanno assicurato il proprio aiuto.
– in…numero ducuntur: «sono annoverati
tra» ossia «sono considerati come».
– omniumque… rerum: genitivo oggettivo:
«in ogni atto»; nota l’iperbato (vedi il glossario
a pag. 337), che circonda e quindi evidenzia
l’interposto his, cioè i traditori.
– fides derogatur: non esiste quindi un codice scritto o una magistratura coercitiva che
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stabilisca una vera e propria pena, ma per tradizione tribale «è tolta la credibilità / fiducia»
e ciò, in una comunità di questo tipo, doveva
rappresentare una punizione infamante e insopportabile.
9. Hospitem: vedi la scheda lessicale L’ospite e
la hostess a pag. 314.
– violare: oggetto di putant, ha come predicativo fas.
– fas: sostantivo indeclinabile, dalla radice
fa- da cui si forma anche il verbo difettivo fari
(«parlare»), indica la parola per eccellenza,
cioè il «comando divino»; da qui il significato
di «diritto divino» e quindi, come predicativo
o nome del predicato, l’accezione di «conforme al volere divino, concesso [dagli dei]».
– qui… venerunt: proposizione relativa
prolettica (vedi il glossario a pag. 337), con il
perfetto per indicare l’anteriorità rispetto al
tempo del predicato verbale della principale,
proh˘ibent.
– quacumque de causa: anastrofe (vedi il
glossario a pag. 337), piuttosto consueta in Cesare per il complemento di causa con attributo.
– ab iniuria: complemento di allontanamento: «dall’offesa». L’esito italiano del sostantivo – ingiuria – ha molto indebolito il significato etimologico del termine, che indicava
un atto compiuto contro (vedi il prefisso in-) il
diritto umano naturale (ius, diverso dal fas citato prima, che è invece il diritto divino).
– sanctos: predicativo retto da habent, che
ha come oggetto sottinteso hos o eos, «li considerano inviolabili»; sanctus, con valore qui di
aggettivo, è participio perfetto da sancio, che
ha come significato originario proprio quello
di «rendere sacro / inviolabile», poi più genericamente «stabilire, sancire», sempre comunque con un valore di irrevocabilità.
– hisque: zeugma (vedi il glossario a pag.
337), in quanto retto sia da patent sia da communicatur.
ROMA E LA CULTURA GERMANICA
313
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole del brano.
a. Individua ed elenca tutti i termini e le espressioni che in questo capitolo si riferiscono alle sfere lessicali di
guerra / pace
giustizia / ingiustizia
onore / disonore.
b. Quali sono i rapporti tra le varie comunità di Germani?
c. Per quali motivi essi vogliono avere vasti territori spopolati intorno a sé?
d. I Germani hanno un’organizzazione statale paragonabile a quella romana?
e. In quale occasione i Germani eleggono un capo comune? Con poteri analoghi a
quelli di quale magistrato romano?
f. Da chi viene amministrata la giustizia?
g. Quale potere ha la massa nelle assemblee dei Germani?
h. Perché presso i Germani l’ospite è protetto da tutte le offese?
SCHEDA
LESSICALE
L’ospite e la hostess. Hospes, -p˘itis deriva da un ricostruibile hosti-potis ed etimologicamente è quindi lo «straniero che può» vivere in una comunità o in una dimora non sua, a differenza dell’hostis che è lo «straniero» estraneo alla comunità e
quindi «nemico». L’ospite era considerato sotto la protezione della divinità e, in
quanto tale, non solo accettato, ma addirittura tutelato da una condizione giuridica
privilegiata.
Il termine latino indica sia colui che è ricevuto sia colui che dà accoglienza e ciò esprime appunto la reciprocità di diritti e doveri che legava chi entrava in questo
rapporto: l’ospitato era obbligato, se si presentava l’occasione, a ricambiare l’accoglienza nella propria dimora. Questo uso, comune a molti popoli antichi, si giustifica sia con l’assenza di strutture ricettive pubbliche, che potessero offrire ricovero,
sia con l’opportunità di stringere tra individui di comunità lontane rapporti di amicizia e collaborazione, utili a chi si trovava allora a viaggiare. Nell’italiano moderno,
invece, l’accezione più comune designa colui che gode dell’ospitalità.
Oltre a «ospite» e ai suo composti, da hospes e dai suoi derivati latini vengono i
termini italiani «ospedale» e derivati (da hospitale, aggettivo neutro attributo di
cubiculum, «stanza per gli ospiti»), «ospizio» (da hospitium, «albergo, appartamento per gli ospiti»), «ostello»; tramite il francese antico sono giunti in italiano
sia «oste» e poi il composto «osteria» (da hoste) sia il globalizzato «hotel». Curioso infine il percorso di «hostess»: dal latino è passato all’antico francese hostess («ostessa»), quindi all’inglese e di qui anche all’italiano.
VALORE GUERRIERO E TENORE DI VITA:
GALLI E GERMANI A CONFRONTO
5
(Cesare,
De bello Gallico, VI,24)
Prima di passare alla descrizione della Selva Ercinia, Cesare, nell’ultimo capitolo propriamente etnografico, mette a confronto Galli e Germani per quanto riguarda due aspetti che,
agli occhi dei Romani, sono molto importanti: il valore in guerra e le disponibilità economiche. Egli nota come nel tempo la situazione si sia ribaltata: mentre nell’antichità i Galli
erano più poveri ma più bellicosi rispetto ai Germani, ora i rapporti si sono capovolti. La
vicinanza con la civiltà romana ha causato un arricchimento dei primi, mentre i secondi sono rimasti nelle medesime ristrettezze di un tempo, ma hanno saputo mantenere la loro
combattività e hanno potuto imporsi sui Galli, ormai infiacchiti dalla relativa civilizzazione. Si tratta di una conclusione molto importante: lo storico, generale e uomo politico met314
I ROMANI E GLI ALTRI POPOLI: GRECI E GERMANI
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te implicitamente in evidenza i motivi per cui la campagna doveva essere portata a termine
con l’assoggettamento dei Galli, mentre i Germani dovevano essere solo riportati all’ordine entro i loro confini. Mentre le popolazioni celtiche appaiono – e in effetti sono – assimilabili con relativa facilità alla civiltà romana, perché più vicine per organizzazione sociale
ed economica, le genti al di là del Reno sono irriducibili. I Germani, infatti, si dimostrano
chiusi nel loro mondo, assolutamente non interessati a un rapporto costruttivo con Roma e
tanto meno affascinati da una civiltà da loro percepita come ostile e pericolosa.
1. Ac fuit antea tempus, cum Germanos Galli virtute superarent, ultro
bella inferrent, propter hominum multitudinem agrique inopiam trans
Rhenum colonias mitterent. 2. Itaque ea quae fertilissima Germaniae sunt
loca circum Hercyniam silvam, quam Eratosth˘eni et quibusdam Graecis
fam¯a notam esse video, quam illi Orcyniam appellant, Volcae Tectos˘ages
occupaverunt atque ibi consederunt; 3. quae gens ad hoc tempus his sedibus sese conti˘net summamque habet iustitiae et bellicae laudis opinio1. Ac: «Eppure».
– cum… superarent, … inferrent, … mitterent: proposizioni temporali, coordinate per
asindeto (vedi il glossario a pag. 337), con il
predicato al congiuntivo, meno comune dell’indicativo – ma non raro – con la reggente
fuit tempus; in italiano si può rendere con «in
cui erano in grado di battere, … portare, … inviare…».
– Germanos Galli: l’accostamento di oggetto e soggetto rafforza il concetto.
– ultro: ablativo di ulter che, sottintendendo loco, ha assunto valore di avverbio. Dal significato originario di «dall’altra parte» è passato a indicare un’azione che avviene senza influssi o stimoli e quindi «spontaneamente, di
propria iniziativa»; qui tuttavia conviene rendere con «per primi».
– propter… inopiam: si potrebbero rendere
i due complementi di causa con l’espressione
«per l’eccessiva pressione demografica». Questa motivazione era effettivamente alla base di tutti i movimenti dei popoli celtici e germanici nell’antichità e come tale era già stata
individuata da Cesare in D.b.G. I, 2, 5, a proposito della migrazione compiuta dagli Elvezi
nel 58 a.C.
– colonias: in realtà i Germani non avevano
una vera e propria madrepatria, come i Greci e
i Latini; si tratta dunque dell’abituale interpretatio da parte dello scrittore, a uso dei lettori
romani.
2. ea: attributo di loca, a sua volta oggetto di
occupaverunt; nota l’iperbato (vedi il glossario
a pag. 337).
– Germaniae: genitivo partitivo, retto da
fertilissima.
– Hercyniam silvam: di essa rimane solo
una parte, l’attuale Foresta Nera. Cesare la deCol Saglia Imagines Seconda edizione
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scrive nei quattro capitoli successivi, non riportati qui.
– Eratosth˘eni: Eratostene di Cirene, vissuto tra il 275 e il 194 a.C., erudito, matematico, storico, filosofo, diresse anche la famosa
Biblioteca di Alessandria; fu il primo a calcolare con buona approssimazione la circonferenza terrestre; era ed è considerato il massimo
geografo dell’antichità.
– fam¯a: si coglie qui una punta d’ironia nei
confronti degli studiosi greci, che hanno parlato di questi luoghi «solo per sentito dire» e
non per conoscenza autoptica – ossia per visione diretta, con i propri occhi – come nel caso
di Cesare. Di qui anche la sottolineatura un
po’ pedante dell’errore commesso dai suoi
predecessori, che hanno storpiato il nome della selva in Orcynia.
– illi: riferito a Eratostene e agli altri geografi greci.
– Volcae Tectos˘ages: popolazione il cui
nucleo originario era stanziato ai piedi dei Pirenei, nella zona compresa tra le attuali Tolosa
e Narbona. Nel III secolo a.C. una parte di essa emigrò verso nord, fermandosi appunto nei
pressi della Selva Ercinia.
3. quae: nesso relativo.
– ad hoc tempus: complemento di tempo:
«fino a oggi».
– his sedibus: complemento di stato in luogo senza preposizione in.
– sese: raddoppiamento di se.
– summamque: attributo di opinionem («fama»); l’iperbato (vedi il glossario a pag. 337)
rafforza il significato.
– iustitiae et bellicae laudis: leggera variatio
(vedi il glossario a pag. 337), con l’aggettivo
che rompe il parallelismo della costruzione:
«di giustizia e valore in guerra».
ROMA E LA CULTURA GERMANICA
315
nem. 4. Nunc quod in eadem inopia, egestate, patientia Germani perm˘anent, eodem victu et cultu corporis utuntur; Gallis autem provinciarum
propinquitas et transmarinarum rerum notitia multa ad copiam atque usus larg˘itur, 5. paulatim adsuefacti superari multisque victi proeliis ne se
quidem ipsi cum illis virtute comp˘arant.
4. Nunc: in antitesi (vedi il glossario a pag.
337) con fuit antea tempus del primo paragrafo.
– inopia, egestate, patientia: i tre sostantivi
sono uniti per asindeto (vedi il glossario a
pag. 337), per dare un ritmo incalzante, e la
loro collocazione in serie forma la figura retorica di disposizione chiamata trìcolon (la quale può essere data anche da tre aggettivi o tre
verbi ecc.), finalizzata a evidenziare il loro legame di significato. Dal punto di vista del significato, infatti, inopia (formato dal prefisso
privativo in- e dalla radice di ops, opis, «ricchezza») indica la «mancanza di mezzi», egestate «la povertà» derivata, patientia «(l’abitudine al)la sopportazione» richiesta da queste
condizioni.
– utuntur: ha ancora come soggetto Germani.
– victu et cultu corporis: endiadi (vedi il
glossario a pag. 337); il primo sostantivo non
indica il solo «vitto», ma più in generale «il
modo di vita», mentre il secondo designa, con
significato analogo, «il trattamento», cioè il ve-
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
stiario, l’igiene, la cura ecc. L’intera espressione si può perciò rendere con «tenore di vita».
– provinciarum: si riferisce alla Gallia Narbonese e alla Spagna.
– transmarinarum rerum: «delle merci d’oltremare», che arrivavano principalmente attraverso il porto di Marsiglia, nella Gallia Narbonese.
– multa: oggetto di larg˘itur, che è alla terza
persona singolare in quanto concordato con il
soggetto più vicino notizia, ma è predicato verbale anche di propinquitas; in italiano occorre naturalmente il plurale: «offrono molti vantaggi».
– ad copiam atque usus: complemento di fine: «per il benessere e i bisogni».
5. paulatim: occorre premettere nella resa una
congiunzione avversativa «ma», per rendere
l’antitesi (vedi il glossario a pag. 337) di significato rispetto alla proposizione precedente.
– adsuefacti… victi: participi perfetti, congiunti al soggetto sottinteso Germani.
– ne…quidem: «neppure».
– virtute: ablativo di limitazione.
Rispondi alle seguenti domande di comprensione del testo letto, facendo
riferimento alle parole del brano.
a. Quale parola compare con la stessa funzione nel primo e nell’ultimo periodo? Ti
sembra un fatto casuale o finalizzato alla sottolineatura di un concetto?
b. Per quali motivi alcuni Volci Tectosagi sono migrati al di là del Reno nell’antichità?
c. Quale errore e quale carenza metodologica conseguente Cesare imputa a Eratostene e agli altri geografi greci?
d. Quale vantaggi, secondo Cesare, hanno i Galli rispetto ai Germani dal punto di vista economico?
316
I ROMANI E GLI ALTRI POPOLI: GRECI E GERMANI
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Copia. Copia, ae è derivato da copis o cops, copis («ricco, abbondante», aggettivo ormai disusato in età classica), a sua volta formato da cum- (> co-, con l’idea
di «accumulo») e ops («ricchezza», a sua volta da una radice op- con l’idea di
«lavoro, produzione»; vedi anche opus, eris). Il significato originario è quindi:
– «abbondanza, ricchezza», contrapposta a inopia (con prefisso privativo in-);
– per traslato «disponibilità, facoltà, occasione, opportunità», eventualmente
con il genitivo del sostantivo o del gerundio o gerundivo, più raramente
con l’infinito o con ut e il congiuntivo;
– personificato, Copia, dea dell’abbondanza; così da Cornu Copiae si è avuto
«cornucopia»;
– al plurale «mezzi, ricchezza» e quindi in ambito militare «forze, risorse in
uomini», «truppe».
In italiano «copia» ha mantenuto il significato latino originario solo nel linguaggio letterario; molto più spesso indica una «riproduzione» più o meno fedele di
un’opera originale o la «stesura» di uno scritto (per esempio « brutta e bella copia») o l’esemplare di una stampa (di libro o fotografia), partendo dal significato
«facoltà» inteso come «facoltà di riprodurre».
SCHEDA
LESSICALE
60 a.C.
CIMBRI
BALTICI
BRITANNI
GE
Danebury
RM
SLAVI
AN
I
BELGI
Stradonice
I
L T
C E Bibracte
BOI
Manching
Alesia
ELVEZI
EDUI
VINDELICI
DACI
La Tene
Gergovia
ARVERNI
IBERI
EDUI
L
GA
LIA
NA
O
RB
NE
SE
Entremont
Nome di popolo
OPPIDA
Limite settentrionale della circolazione monetaria
Limite settentrionale della diffusione
delle anfore romane
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Incursioni celtiche in Italia
(390 a.C. sacco di Roma)
ROMA
ROMA E LA CULTURA GERMANICA
317
LETTURE
TACITO
La Germania
L’autore
e l’opera
(Germania,
1-28)
Dello storico Cornelio Tacito non conosciamo con precisione né il praenomen (Publio o
forse Gaio) né il luogo di nascita (forse Terni, forse la Gallia Narbonese) né l’anno esatto
di nascita, comunque compreso tra il 55 e il 58 d.C. Senza dubbio era di condizione sociale elevata, dato che frequentò la scuola dei più famosi maestri di retorica, tra cui probabilmente Quintiliano. Seguì il cursus honorum: iniziata la propria carriera politica sotto i Flavi (dal 69 al 96), fu pretore nell’88 d.C., sotto Domiziano, e nel 97 ricoprì la carica di consul suffectus («supplente», cioè sostituto di un console morto); fu infine proconsole nella
provincia d’Asia nel 112 d.C. Morì attorno al 120, nei primi anni del principato di Adriano.
Già da tempo famoso come oratore,Tacito cominciò a scrivere dopo la morte di Domiziano (96 d.C.). A parte il Dialogus de oratoribus, di attribuzione incerta, la prima opera
sicuramente sua è Agricola (dopo il 96 d.C.), una biografia encomiastica, in cui esalta il
suocero – di nome Agricola, appunto – che si era distinto nel governo della Britannia e
nelle guerre di espansione sull’isola. Dopo la Germania, di cui si tratta più estesamente
sotto, Tacito compose le sue due principali opere storiografiche: le Historiae scritte tra il
100 e il 110 d.C. in 14 (o 12) libri (ci rimangono però solo i libri I – IV e parte del V, relativi agli anni 69 e 70 d.C.), che dovevano narrare il periodo della dinastia dei Flavi; gli Annales, iniziati dopo il 110 e rimasti incompiuti per la morte dell’autore, in 16 (o 18) libri (ci
sono pervenuti solo i libri I –VI, la seconda metà del XI, XII, XVI), che si proponevano di illustrare la storia della dinastia giulio-claudia, dal 14 al 68 d.C.
La Germania, composta nel 98 d.C., è l’unica opera intera specificamente etnografica
della letteratura latina a noi pervenuta. Si divide in due parti:
– la prima (dal capitolo 1 al 27,1) consiste in una descrizione generale della Germania
(confini, clima, paesaggio) e dei tratti comuni delle sue popolazioni, con particolare
riferimento alla struttura della società, alla religione e alla politica;
– la seconda (dal capitolo 27,2 all’ultimo, il 45) tratta delle singole popolazioni con varie curiosità, per concludere con notizie favolose, come quelle relative a genti con
volto umano e membra animali.
Tacito usò principalmente fonti letterarie, come i Bella Germaniae di Plinio il Vecchio (23 79 d.C.), ma probabilmente si avvalse anche di testimonianze di soldati, mercanti e prigionieri.
I Germani al tempo di Cesare vivevano in condizioni di seminomadismo,
dediti essenzialmente alla caccia e alla pastorizia; l’agricoltura rivestiva scarsa importanza a causa dei continui cambiamenti di sede delle tribù. La proprietà terriera stabile non esisteva, poiché i terreni erano distribuiti fra i
componenti della tribù per il periodo di permanenza sul suolo momentaneamente occupato.
La Germania di Tacito riflette invece un’epoca in cui il nomadismo è al
tramonto, almeno tra i Germani occidentali: le migrazioni non costituiscono
più la regola, anche se rimangono relativamente frequenti, nella speranza
di trovare zone più fertili al posto dei territori boscosi e non di rado paludosi
del suolo germanico. L’agricoltura è ormai diffusa, la proprietà privata ha assunto fisionomia stabile e comincia a circolare anche la moneta.
L’argomento dell’opera è costituito dagli usi e dalle abitudini dei Germani, ma per Tacito Roma, pur con la corruzione dei suoi costumi, rappresenta
il punto di riferimento continuo. Lo storico latino è sospeso tra due atteggiamenti contrastanti: da una parte egli ammira la morale semplice dei barbari,
i quali rispettano le virtù che erano proprie della Roma del buon tempo antico e vivono in un sistema politico che conserva la libertas ormai scomparsa
318
I ROMANI E GLI ALTRI POPOLI: GRECI E GERMANI
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LETTURE
dalla capitale dell’impero; dall’altra mostra un atteggiamento di superiorità
verso una vita ancora tanto rozza, sottolineandone i vizi come l’oziosità, le
passioni per il gioco e il vino, la rissosità.
Riportiamo qui alcuni passi tratti dalla prima sezione. Il primo brano è
interessante dal punto di vista formale per cogliere l’importanza dei modelli
per l’antico storico: l’analogia con l’inizio dell’opera di Cesare (citato espressamente nel cap. 28) è tanto evidente quanto ricercata da Tacito, il quale segnala in questo modo non tanto una dipendenza, quanto la volontà di inserirsi in una tradizione prestigiosa. Gli altri passi stimolano il confronto dal
punto di vista del contenuto: mirano ora alla correzione, ora all’approfondimento, ora all’aggiornamento del lavoro dell’illustre predecessore.
Cesare, De bello Gallico I. 1
1. Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae,
aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. 2. Hi omnes lingua institutis legibus inter se differunt.
3. Gallos ab Aquitanis Garunna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit.
1
Germania omnis a Gallis Raetisque et Pannoniis Rheno et Danuvio fluminibus, a Sarmatis Dacisque mutuo metu aut montibus
separatur: cetera Oceanus ambit, latos sinus
et insularum inmensa spatia complectens,
nuper cognitis quibusdam gentibus ac regibus, quos bellum aperuit.
1
Due fiumi, il Reno e il Danubio, separano tutto l’insieme della Germania dalla Gallia, dalla
Rezia e dalla Pannonia; la paura reciproca o i
monti la dividono dalla Sarmazia e dalla Dacia. Tutto il resto è circondato dall’Oceano,
che cinge ampie penisole e isole vastissime, i
cui popoli e i cui sovrani ci ha fatti conoscere
la guerra recente.
4
Ipse eorum opinionibus accedo, qui Germaniae populos nullis aliis aliarum nationum conubiis infectos propriam et sinceram et tantum sui similem gentem exstitisse arbitrantur. Unde habitus quoque corporum, tamquam in tanto hominum numero, idem omnibus: truces et caerulei oculi,
rutilae comae, magna corpora et tantum ad
impetum valida: laboris atque operum non
eadem patientia, minimeque sitim aestumque tolerare, frigora atque inediam caelo
solove adsueverunt.
4
Per parte mia, accetto il parere di coloro i
quali ritengono che gli abitanti della Germania, non contaminati da nozze con altre popolazioni, siano una gente a parte, di sangue
somigliante solo a se stessa. Onde l’aspetto
fisico è lo stesso, per quanto è possibile in così grande numero di uomini: occhi fieri e cerulei, chiome rossastre, corporature gigantesche e valide soltanto nel primo impeto. Non
altrettanta resistenza hanno al lavoro e alla
fatica; e a tollerare la sete non sono affatto abituati, mentre il clima e la povertà li avvezza
a sopportare il freddo e la fame.
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ROMA E LA CULTURA GERMANICA
319
LETTURE
5
1. Terra etsi aliquanto specie differt, in universum tamen aut silvis horrida aut paludibus foeda, umidior qua Gallias, ventosior
qua Noricum ac Pannoniam adspicit; satis
ferax, frugiferarum arborum impatiens, pecorum fecunda, sed plerumque improcera.
Ne armentis quidem suus honor aut gloria
frontis: numero gaudent, eaeque solae et gratissimae opes sunt. 2. Argentum et aurum
propitiine an irati di negaverint dubito.
5
1. L’aspetto del territorio non manca di qualche varietà: in generale, però, è irto di selve o
squallido di paludi, più umido verso le Gallie, più ventoso verso il Norico e la Pannonia;
fertile di biade, inadatto invece agli alberi da
frutto; abbondante il bestiame, ma per lo più
di piccola statura. Nemmeno i buoi hanno la
maestà che è loro propria, o l’ornamento della fronte: [i Germani] danno importanza al
numero e quella degli armenti è la sola e molto apprezzata ricchezza. 2. Gli dei hanno negato a essi l’argento e l’oro: se in ciò benigni
od ostili, è per me dubbio.
6
2. Equi non forma, non velocitate conspicui.
Sed nec variare gyros in morem nostrum docentur: in rectum aut uno flexu dextros agunt, ita coniuncto orbe, ut nemo posterior
sit.
6
2. I cavalli non sono notevoli per bellezza né
per velocità. Non vengono neppure addestrati a volteggiare, come da noi: li spingono
in avanti o li fanno piegare verso destra, con
una manovra circolare così serrata che nemmeno uno resta indietro.
7
1. Reges ex nobilitate, duces ex virtute sumunt. Nec regibus infinita aut libera potestas, et duces exemplo potius quam imperio,
si prompti, si conspicui, si ante aciem agant,
admiratione praesunt. Ceterum neque animadvertere neque vincire, ne verberare quidem nisi sacerdotibus permissum, non quasi
in poenam nec ducis iussu, sed velut deo imperante, quem adesse bellantibus credunt.
7
1. Nella scelta dei re guardano alla nobiltà
del sangue, in quella dei comandanti al valore. I re non hanno potere illimitato o arbitrario, quanto ai comandanti si fanno ubbidire
con l’esempio e con l’ammirazione se sono
audaci, se attirano gli sguardi, se negli scontri si battono in prima fila. D’altronde punire, imprigionare, frustare è lecito soltanto ai
sacerdoti, non per castigo né su ordine del
comandante, ma quasi per imposizione di
un dio, che essi credono assista ai combattimenti.
320
I ROMANI E GLI ALTRI POPOLI: GRECI E GERMANI
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LETTURE
8
1. Memoriae proditur quasdam acies inclinatas iam et labantes a feminis restitutas constantia precum et obiectu pectorum et monstrata comminus captivitate, quam longe impatientius feminarum suarum nomine timent, adeo ut efficacius obligentur animi civitatum, quibus inter obsides puellae quoque
nobiles imperantur. 2. Inesse quin etiam
sanctum aliquid et providum putant, nec aut
consilia earum aspernantur aut responsa neglegunt.
8
1. È tradizione che degli eserciti già vacillanti
e quasi in rotta siano stati ricondotti all’assalto dalle donne, con l’insistenza delle suppliche, con l’opporre il petto ai fuggiaschi e con
il mostrare la minaccia incombente della prigionia, che essi temono per le loro donne più
che per sé; a tal punto che si tengono legate
con più sicuro vincolo quelle popolazioni
dalle quali si esigono, tra gli ostaggi, anche
delle nobili fanciulle. 2. Credono persino che
in queste vi sia qualcosa di profetico, e non
ne disdegnano i consigli e ne considerano altamente i responsi.
9
1. Deorum maxime Mercurium colunt, cui
certis diebus humanis quoque hostiis litare
fas habent. Herculem et Martem concessis animalibus placant. Pars Sueborum et Isidi sacrificat: unde causa et origo peregrino sacro,
parum comperi, nisi quod signum ipsum in
modum liburnae figuratum docet advectam
religionem. 2. Ceterum nec cohibere parietibus deos neque in ullam humani oris speciem adsimulare ex magnitudine caelestium
arbitrantur: lucos ac nemora consecrant deorumque nominibus appellant secretum illud,
quod sola reverentia vident.
9
1. Tra gli dei venerano soprattutto Mercurio,
a cui credono lecito compiere sacrifici propiziatori anche con vittime umane in giorni stabiliti. Placano invece Ercole e Marte con gli animali consentiti. Una parte dei Suebi sacrifica anche a Iside; da dove derivino la ragione e
l’origine di questo culto straniero non sono
riuscito ad accertare, ma il fatto che il suo stesso simbolo sia configurato in forma di liburna
dimostra che si tratta di una religione importata. 2. Non giudicano però commisurato alla
grandezza delle divinità celesti costringere gli
dei tra le pareti di un tempio, né il rappresentarli in nessuna specie di fattezza umana; consacrano boschi e selve e chiamano con nomi
divini quel mistero che vedono con i soli occhi
della devozione religiosa.
10
1. Auspicia sortesque ut qui maxime observant: sortium consuetudo simplex. Virgam
frugiferae arbori decisam in surculos amputant eosque notis quibusdam discretos super
candidam vestem temere ac fortuito spargunt. Mox, si publice consultetur, sacerdos
civitatis, sin privatim, ipse pater familiae,
precatus deos caelumque suspiciens ter singulos tollit, sublatos secundum impressam
ante notam interpretatur. Si prohibuerunt,
nulla de eadem re in eundem diem consultatio; sin permissum, auspiciorum adhuc fides
exigitur. 2. Et illud quidem etiam hic notum,
10
1. Più di tutti gli altri popoli osservano scrupolosamente auspici e sortilegi. Hanno un
modo semplice per interrogare la sorte. Tagliato un ramoscello di un albero che dà frutto, lo spezzettano in bastoncini e, dopo averli
contraddistinti con certi segni, li spargono
assolutamente a caso su un drappo candido.
Poi il sacerdote della tribù, se il consulto è
pubblico, o lo stesso padre di famiglia, se è
privato, dopo aver invocato gli dei e guardando al cielo, li solleva ciascuno tre volte e a
uno a uno li interpreta, secondo il segno che
vi è impresso. Se il responso è stato negativo,
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ROMA E LA CULTURA GERMANICA
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LETTURE
avium voces volatusque interrogare; proprium gentis equorum quoque praesagia ac
monitus experiri. Publice aluntur isdem nemoribus ac lucis, candidi et nullo mortali opere contacti; quos pressos sacro curru sacerdos ac rex vel princeps civitatis comitantur hinnitusque ac fremitus observant. 3.
Nec ulli auspicio maior fides, non solum apud plebem, sed apud proceres, apud sacerdotes; se enim ministros deorum, illos conscios putant.
non s’interroga più la sorte su quel medesimo argomento; se invece è stato favorevole,
si richiede ancora la conferma dei presagi.
2. Anche qui è noto l’uso d’interrogare i canti e i voli degli uccelli; è però specifico di
questo popolo vagliare presagi e moniti dei
cavalli. Questi, che vengono allevati a spese
pubbliche nelle selve e nei boschi prima citati, sono bianchissimi e non contaminati da alcun lavoro al servizio degli uomini; aggiogati
al carro sacro, il sacerdote e il re o il capo
della popolazione li accompagnano e ne studiano i nitriti e i fremiti. 3. Né vi è auspicio al
quale si dia più credito, non solo presso la
plebe, ma anche presso i capi e i sacerdoti; ritengono infatti se stessi gli esecutori, i cavalli
i veri conoscitori della volontà divina.
11
1. De minoribus rebus principes consultant;
de maioribus omnes, ita tamen, ut ea quoque, quorum penes plebem arbitrium est, apud principes pertractentur. Coeunt, nisi
quid fortuitum et subitum incidit, certis diebus, cum aut incohatur luna aut impletur;
nam agendis rebus hoc auspicatissimum initium credunt. […]
2. Ut turbae placuit, considunt armati. Silentium per sacerdotes, quibus tum et coercendi
ius est, imperatur. Mox rex vel princeps,
prout aetas cuique, prout nobilitas, prout decus bellorum, prout facundia est, audiuntur,
auctoritate suadendi magis quam iubendi
potestate. Si displicuit sententia, fremitu aspernantur; sin placuit, frameas concutiunt.
Honoratissimum adsensus genus est armis
laudare.
11
1. Sugli affari di minor conto deliberano i capi, sui più seri tutti quanti: però anche quelli
di cui è arbitra la plebe vengono trattati preventivamente dai capi. Si radunano, se non
accade un evento imprevisto e improvviso, in
giorni stabiliti, in occasione della luna nuova
o del plenilunio, perché credono che sia il
momento più favorevole per dare inizio alle
attività da compiere. […]
2. Quando pare opportuno alla folla, siedono
armati. Il silenzio è imposto dai sacerdoti,
che allora hanno il diritto anche di costrizione. Subito dopo il re o uno dei capi, secondo
l’età, il prestigio, il valore militare di ciascuno, viene ascoltato, per autorevolezza d’opinione più che per potere di comando. Se la
proposta non incontra l’approvazione, esprimono il disaccordo con un mormorio; se invece piace, scuotono le lance contro gli scudi:
approvare con le lance è il genere di assenso
più onorevole.
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LETTURE
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1. Cum ventum in aciem, turpe principi virtute vinci, turpe comitatui virtutem principis
non adaequare. Iam vero infame in omnem
vitam ac probrosum superstitem principi suo
ex acie recessisse. Illum defendere, tueri, sua
quoque fortia facta gloriae eius adsignare
praecipuum sacramentum est. Principes pro
victoria pugnant, comites pro principe. 2. Si
civitas, in qua orti sunt, longa pace et otio
torpeat, plerique nobilium adulescentium
petunt ultro eas nationes, quae tum bellum aliquod gerunt, quia et ingrata genti quies et
facilius inter ancipitia clarescunt magnumque comitatum non nisi vi belloque tueare;
exigunt enim principis sui liberalitate illum
bellatorem equum, illam cruentam victricemque frameam. Nam epulae et quamquam
incompti, largi tamen apparatus pro stipendio cedunt. 3. Materia munificentiae per bella et raptus. Nec arare terram aut exspectare
annum tam facile persuaseris quam vocare
hostem et vulnera mereri. Pigrum quin immo
et iners videtur sudore adquirere quod possis
sanguine parare.
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1. Ogni volta che si giunge al combattimento,
è disonorante per il capo essere superato in
valore, per il séguito non uguagliare il valore
del capo. È poi infamia e vituperio per la vita
intera ritornare dalla battaglia superstiti al
proprio capo. Difenderlo, guardargli le spalle, ascrivere a gloria sua anche i propri atti di
eroismo è il più sacro degli impegni: i capi
lottano per la vittoria, il seguito per il suo capo. 2. Se la tribù in cui sono nati s’impigrisce
in una pace lunga e nell’inerzia, molti dei giovani nobili si recano volontariamente verso
quelle popolazioni che in quel periodo combattano una qualche guerra, poiché non solo
è sgradita a quel popolo la tranquillità, ma
tra i rischi è anche più facile mettersi in evidenza e inoltre non si potrebbe mantenere
un séguito numeroso se non con la violenza e
la guerra. Si attendono infatti dalla generosità del loro capo proprio quel cavallo da
guerra, proprio quella lancia insanguinata e
vittoriosa; infatti banchetti e imbandigioni
abbondanti, anche se non raffinate, prendono il posto dello stipendio. 3. Le risorse per
la munificenza provengono da guerre e saccheggi, né si potrebbe tanto facilmente persuadere ad arare la terra o ad aspettare il raccolto annuale quanto a provocare il nemico e
a guadagnarsi delle ferite. Sembra a loro pigrizia e anzi inettitudine acquisire con il sudore ciò che potrebbero procurarsi con il
sangue.
ROMA E LA CULTURA GERMANICA
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LETTURE
15
1. Quotiens bella non ineunt, non multum
venatibus, plus per otium transigunt, dediti
somno ciboque, fortissimus quisque ac bellicosissimus nihil agens, delegata domus et penatium et agrorum cura feminis senibusque
et infirmissimo cuique ex familia; ipsi hebent, mira diversitate naturae, cum idem homines sic ament inertiam et oderint quietem.
2. Mos est civitatibus ultro ac viritim conferre principibus vel armentorum vel frugum,
quod pro honore acceptum etiam necessitatibus subvenit. Gaudent praecipue finitimarum gentium donis, quae non modo a singulis, sed et publice mittuntur, electi equi, magna arma, phalerae torquesque; iam et pecuniam accipere docuimus.
15
1. Quando non entrano in guerra, trascorrono non molto tempo nelle battute di caccia,
di più nell’ozio, dediti al sonno e al cibo, poiché tutti i più forti e bellicosi non esercitano
alcuna attività, lasciata la cura della casa, dei
Penati e dei campi alle donne e ai vecchi e ai
più deboli della famiglia; essi intanto poltriscono ed è strana l'incoerenza della loro natura, per cui i medesimi uomini a tal punto amano l’indolenza e odiano la tranquillità. 2.
È tradizione per le tribù portare tutti insieme
ai capi, spontaneamente e da parte di ciascuno, una certa quantità di bestiame o di raccolto, che, ricevuta come segno di rispetto,
serve anche a far fronte alle necessità. Si
compiacciono soprattutto dei doni delle popolazioni confinanti, i quali sono inviati non
solo da singoli individui, ma anche a nome di
collettività: cavalli di prima scelta, armi magnifiche, fàlere e collane; ormai noi Romani
abbiamo insegnato loro ad accettare anche
soldi.
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1. Tegumen omnibus sagum fibula aut, si desit, spina consertum: cetera intecti totos dies
iuxta focum atque ignem agunt. Locupletissimi veste distinguuntur, non fluitante, sicut
Sarmatae ac Parthi, sed stricta et singulos artus exprimente. Gerunt et ferarum pelles,
proximi ripae neglegenter, ulteriores exquisitius, ut quibus nullus per commercia cultus.
Eligunt feras et detracta velamina spargunt
maculis pellibusque beluarum, quas exterior
Oceanus atque ignotum mare gignit. 2. Nec
alius feminis quam viris habitus, nisi quod feminae saepius lineis amictibus velantur eosque purpura variant, partemque vestitus superioris in manicas non extendunt, nudae
brachia ac lacertos; sed et proxima pars pectoris patet.
17
1. Abito comune a tutti è un saio trattenuto
da una fibbia o, se manca questa, allacciato
con una spina; scoperti nelle altre parti del
corpo, passano intere giornate presso il focolare acceso. I più ricchi si distinguono per una
veste, non fluttuante come quella dei Sarmati
e dei Parti, ma attillata e tale da mettere in evidenza le membra. Portano anche pelli di animali selvatici, senza raffinatezze i Germani
vicini alla riva romana, con più eleganza quelli dell’interno, proprio perché presso di loro
non esiste alcun altro lusso introdotto con i
commerci. Scelgono gli animali e screziano i
velli scuoiati con inserti di pelli di animali generati dall’Oceano esterno e dal mare ignoto.
2. Le donne non hanno un abbigliamento diverso da quello degli uomini, se si eccettua il
fatto che si coprono per lo più con tessuti di
lino e li guarniscono di porpora e non prolungano la parte superiore del vestito fino a formare delle maniche, rimanendo nude sulle
braccia e sulle spalle; ma anche la parte superiore del petto rimane scoperta.
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LETTURE
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1. In omni domo nudi ac sordidi in hos artus,
in haec corpora, quae miramur, excrescunt.
Sua quemque mater uberibus alit, nec ancillis ac nutricibus delegantur. Dominum ac
servum nullis educationis deliciis dignoscas:
inter eadem pecora, in eadem humo degunt,
donec aetas separet ingenuos, virtus adgnoscat. 2. Sera iuvenum venus, eoque inexhausta pubertas. Nec virgines festinantur; eadem
iuventa, similis proceritas: pares validaeque
miscentur, ac robora parentum liberi referunt.
20
1. I bambini crescono in ogni casa nudi e
sporchi, fino a quelle membra, quelle corporature che noi guardiamo con meraviglia.
Tutti vengono allattati dalla propria madre e
non sono affidati ad ancelle o a nutrici. Non
si potrebbe distinguere il padrone dal servo
per nessuna raffinatezza di educazione: trascorrono la vita tra gli stessi animali domestici e sulla stessa terra, finché l’età non distingua dagli altri i [nati] liberi e il coraggio non
li faccia riconoscere. 2. I giovani conoscono
tardi l’amore e perciò la loro virilità è inesauribile. Né si fa fretta alle fanciulle; uguale è
l’età giovanile, uguale la statura: vengono unite in matrimonio quando sono forti al pari
dei maschi e i figli hanno anche loro la forza
dei genitori.
21
2. Convictibus et hospitiis non alia gens effusius indulget. Quemcumque mortalium arcere tecto nefas habetur; pro fortuna quisque
apparatis epulis excipit. Cum defecere, qui
modo hospes fuerat, monstrator hospitii et
comes; proximam domum non invitati adeunt. Nec interest: pari humanitate accipiuntur. Notum ignotumque quantum ad ius
hospitis nemo discernit. Abeunti, si quid poposcerit, concedere moris; et poscendi in vicem eadem facilitas. Gaudent muneribus,
sed nec data imputant nec acceptis obligantur.
21
2. Nessun altro popolo indulge con maggior
larghezza ai conviti e all’ospitalità. Non è ritenuto lecito tenere fuori alcuno, chiunque egli sia; ognuno accoglie l’ospite con la tavola
imbandita, secondo i propri mezzi. Quando i
banchetti vengono a mancare, colui che fino
a quel momento aveva fatto da ospite diventa
guida a un altro luogo di ospitalità e compagno: senza bisogno d’invito si presentano alla
casa vicina. E non c’è differenza: vengono accolti con lo stesso riguardo. Tra conosciuto e
sconosciuto, per quanto riguarda il diritto di
ospitalità, nessuno distingue. A colui che se
ne va è usanza accordare ciò che eventualmente egli abbia chiesto: e la facilità del chiedere è reciproca. I doni piacciono loro molto; ma né mettono in conto quelli che hanno
dato né si ritengono obbligati da quelli che
hanno ricevuto.
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ROMA E LA CULTURA GERMANICA
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LETTURE
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1. Potui humor ex hordeo aut frumento, in
quandam similitudinem vini corruptus;
proximi ripae et vinum mercantur. Cibi simplices, agrestia poma, recens fera aut lac concretum: sine apparatu, sine blandimentis expellunt famem. Adversus sitim non eadem
temperantia. Si indulseris ebrietati suggerendo quantum concupiscunt, haud minus facile
vitiis quam armis vincerentur.
23
1. Come bevanda usano un liquido ricavato
dall’orzo o dal grano, fermentato fino ad avere qualche somiglianza con il vino; i più vicini alla riva [del Reno] comprano anche vino
dai mercanti. I cibi sono semplici: frutta selvatica, cacciagione fresca e latte rappreso:
scacciano la fame senza sontuosità e senza
raffinatezze culinarie. Contro la sete non
hanno la stessa temperanza; e se si asseconderà la loro tendenza all’inebriarsi, fornendo
loro quanto desiderano, saranno vinti dai vizi
non meno facilmente che dalle armi.
26
2. Agri pro numero cultorum ab universis in
vices occupantur, quos mox inter se secundum dignationem partiuntur; facilitatem
partiendi camporum spatia praestant. 3. Arva per annos mutant, et superest ager. Nec enim cum ubertate et amplitudine soli labore
contendunt, ut pomaria conserant et prata
separent et hortos rigent: sola terrae seges
imperatur.
26
2. I terreni sono occupati da tutti di volta in
volta in base al numero di coltivatori e poi li
ripartiscono all’interno della loro tribù secondo la dignità; la vasta estensione delle pianure
facilita la spartizione.
3. Ogni anno cambiano aree coltivate e tuttavia resta ancora della terra. E infatti non si
mettono a combattere, con fatica, con la fertilità e con la vastità del suolo, per piantare
frutteti, limitare prati e irrigare giardini: alla
terra si chiede solo il grano.
28
1. Validiores olim Gallorum res fuisse summus auctorum divus Iulius tradit; eoque credibile est etiam Gallos in Germaniam transgressos: quantulum enim amnis obstabat
quo minus, ut quaeque gens evaluerat, occuparet permutaretque sedes promiscuas
adhuc et nulla regnorum potentia divisas?
28
1. Il divo Giulio, storico di somma autorità,
tramanda che in passato la potenza dei Galli
fu maggiore; è perciò credibile che anche dei
Galli siano passati in Germania. Quale piccolo ostacolo, infatti, costituiva un fiume a
che, ogni volta che una popolazione prevaleva, occupasse o cambiasse insediamenti ancora in comune e non separati da alcuna potenza di regni.
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I ROMANI E GLI ALTRI POPOLI: GRECI E GERMANI
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Rileggi i passi di Tacito e rispondi alle seguenti domande, individuando e
citando i brani che trattano dell’argomento in questione.
I SIGNIFICATI
DEL TESTO
a. Quali sono le caratteristiche fisiche dei Germani?
b. Quali sono – a parte la guerra – le loro principali occupazioni?
c. Quale ruolo ha la donna nella società germanica?
d. In quanti e quali gruppi sociali si può dividere la società germanica?
e. Quale importanza ha il culto religioso tra i Germani?
f. Quali analogie esistono tra la civiltà germanica e quella romana?
Ora completa la seguente tabella, mettendo a confronto i brani di Tacito con quelli del
De bello Gallico presenti in questa unità.
Argomento trattato
Abbigliamento
Agricoltura
Alimentazione
Bestiame
Caccia
Capi, magistrati e re
Costituzione fisica
Distribuzione della terra
Divinazione e presagi
Educazione
Ospitalità
Povertà
Rapporti con i capi
Rapporti con i confinanti
Rapporto uomo-donna
Valore in guerra
Tacito (cap., par.)
23,1
11,1
Cesare, D.b.G. (libro,
cap., par.)
IV, 1, 10
IV, 1, 6-7
VI, 23, 7-8
15
7,1
VI, 21,4
10, 1-2
VI, 21,3
VI, 23,9
14
VI, 23,1
VI, 21,5
VERIFICHE FINALI
1. Disponi in ordine cronologico i fatti storici scegliendo per ciascuno una data tra quelle proposte nella colonna di destra (fai attenzione: certe date non corrispondono ad alcun fatto fra quelli citati).
...................... i Romani s’impadroniscono di tutta l’Italia meridionale.
...................... i Romani adottano l’alfabeto greco della città di Cuma.
...................... culti di divinità greche sono assorbiti dalla religione romana.
...................... popolazioni germaniche raggiungono il Reno.
...................... a Pidna, Lucio Emilio Paolo sconfigge Pérseo, re di Macedonia.
...................... campagna di Cesare contro Ariovisto.
...................... Roma espugna e distrugge Corinto; la Grecia è annessa alla Macedonia.
...................... Caracalla concede la cittadinanza agli abitanti dell’impero romano.
...................... organizzazione augustea delle province di Rezia e Norico.
...................... Mario batte i Teutoni ad Aquae Sextiae.
...................... campagne di Cesare in Gallia.
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500 a.C
102 a.C.
58-51 a.C.
295 a.C.
VII-VI sec. a.C.
168 a.C..
58 a.C.
70-69 a.C.
212 d.C.
16-15 a.C.
VI-V sec. a. C.
272 a.C.
ROMA E LA CULTURA GERMANICA
327
2. Indica, segnando con una crocetta, se l’affermazione è vera o falsa..
Catone teme che i Greci con la loro cultura distruggano tutti i valori morali dei Romani.
Catone ammette che i Romani sono dei barbari rispetto ai Greci.
Plauto trova i Greci divertenti più che pericolosi.
Plauto disprezza ogni aspetto della cultura greca.
Cicerone ammette la superiorità dei Greci in campo culturale.
Secondo Cicerone le leggi greche sono rozze e ridicole in confronto a quelle romane.
Virgilio considera i Romani vendicatori dei Troiani sui Greci.
Virgilio sostiene che i Greci possono collaborare con i Romani nella gestione del potere.
Cesare presenta i Germani come un insieme di tribù selvagge e pericolose.
I Germani sono diversi dai Galli per lingua, ma simili per credenze religiose.
Cesare non nutre alcuna ammirazione per i Germani.
Cesare nella descrizione dei Germani utilizza solo informazioni che egli stesso ha raccolto.
Cesare cerca di far comprendere appieno ai Romani gli usi e i costumi dei Germani.
V
F
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3. Indica, segnando con una crocetta, quale delle tre affermazioni è vera.
uno xenofobo.
Catone si potrebbe
un razzista.
definire
culturalmente arretrato.
è sostanzialmente d’accordo con Catone.
Plauto
propone di eliminare o limitare l’immigrazione di Greci a Roma.
propone scenette che incontrino il gusto del pubblico medio.
mostra disprezzo per tutti i Greci.
Nella Pro Flacco
distingue tra molti onesti e colti e molti malvagi e ignoranti.
Cicerone
pensa soprattutto a screditare i testimoni dell’accusa.
giustifica il dominio universale dei Romani.
Virgilio
ritiene che i Greci siano troppo compiaciuti del loro passato mitico.
pensa che le loro capacità non garantiscano la pace e la legge.
descrive usi e costumi dei Germani in modo assolutamente obiettivo.
lascia talvolta trasparire il suo giudizio tramite scelte lessicali e stilistiche.
Cesare nel
De bello Gallico
si sofferma sugli aspetti etnografici, ma non tralascia curiosità legate
al piacere della descrizione.
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4. Individua ed elenca gli elementi lessicali (sostantivi, aggettivi, verbi ecc.) e i procedimenti stilistici (iperbole,
metafora ecc.) a tuo parere più significativi per definire il giudizio dei vari autori sui Greci e sui Germani.
5. Esponi in una serie di brevi testi (massimo dieci righe ciascuno) la tua risposta motivata ai seguenti quesiti.
a. I Romani ebbero tutti lo stesso atteggiamento verso i Greci nelle varie epoche?
b. Quali aspetti del mondo greco furono guardati con sospetto e quali altri considerati con ammirazione dai
Romani?
c. Come i Romani del I secolo a.C. pensano si debbano impostare i rapporti con i Germani?
d. In quale misura si può dire che i Romani siano stati razzisti o xenofobi?
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