Anno X PERIODICO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI n. 2 - 2014 RIVISTA DELL’ AVVOCATURA CALTANISSETTA In questo numero: Geografia giudiziaria L’importanza di una scuola forense Fecondazione eterologa e falsità di Stato Marketing nel pianeta sanità La tutela del danno da emotrasfusione Tolleranza zero Il rapporto familiare ... tra una chat e una videochiamata Dalla sentenza Torregiani ai giorni nostri Fondazione Scuola Forense Nissena “G. Alessi” Gli autunni, gli inverni, le primavere e le estati sono passati e tu hai un decennio di più. Questa è la torta con le candeline ... auguri senza fine RDELL’IVISTA AVVOCATURA ISSN 2038-5595 Rivista dell’Avvocatura Direttore Responsabile AVV. EMANUELE LIMUTI Coordinatore di Redazione Avv. Renata Accardi Redazione Avv. Giuseppe Iacona Avv. Michele Ambra Avv. Giuseppe Daquì Avv. Giuseppe Ferraro Avv. Marcello Mancuso Dott. Vito Milisenna Avv. Ones Benintende Avv Antonella Pecoraro Avv. Salvatore Timpanaro Hanno collaborato: Renato Antonio Arnao Giulia Benintende Rosario Carrara Pasquale Cipolla Serena Dibenedetto Dalila Di Dio Gabriella Garozzo Ilaria Golia Alfonso Gucci ardo Maria Luisa La Porta Lorenzo La Rocca Carla Maria Milisenna Antonella Pecoraro Michele Riggi Franco Sclafani Danilo Tipo Giovan Battista Tona Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Caltanissetta Via Libertà n. 3 - Tel. 0934.591264 - 93100 Caltanissetta e-mail: [email protected] - [email protected] Impaginazione e stampa: Lito Art S.r.l. - Via Vespri Siciliani, 85 - Caltanissetta - Tel. 0934.583074 - Fax 0934.542705 - e-mail: [email protected] Autorizzazione del Tribunale di Caltanissetta n. 187 del 6 Aprile 2005 L’editoriale Geografia o schizofrenia giudiziaria? di Emanuele Limuti Nel momento in cui mi accingo a scrivere questa nota nella splendida cornice veneziana, ha appena concluso il suo applaudito intervento il Ministro della Giustizia On. Orlando. Com’era prevedibile, gli avvocati gli anno posto anche lo spinoso problema della geografica giudiziaria. La risposta, prudente e articolata, ha profilato due prospettive diverse. Per quel che attiene ai Tribunali, nel ribadire che non avrebbe senso pensare di tornare indietro, il Ministro ha lasciato intravedere la possibilità di correttivi che eliminino le talora aberranti conseguenze di un ottuso automatismo . Quanto alle Corti di Appello ha ribadito sia pure con toni cauti ma con convinzione, la necessità di intervenire con alcune soppressioni. È chiaro che in tale contesto la posizione della nostra Corte per il Ministro è tra le più critiche. Essa com’è noto è infatti la più piccola delle 4 Corti Siciliane , caso unico a livello nazionale. So bene che qualunque tentativo di motivarne l’essenzialità confligge col pregiudizio di una spinta campanilistica, conservatrice che sacrifica e subordina gli interessi più generali della Giustizia. E malgrado lo scontato pregiudizio, affidando le conclusioni alla forza delle cose, dico che la eventuale soppressione della Corte di Appello di Caltanissetta sarebbe un classico esempio di Schizofrenia Giudiziaria e, in quanto tale, ancora più dannosa di quanto lo sia stata quella di alcuni Tribunali, oggi criticata dallo stesso Ministro perchè presa sulla base di pericolosi ed astratti parametri numerici. E che non valga tale criterio ce lo ha concretamente dimostrato lo stesso governo allorchè ha istituito il Tribunale di Gela, nato, e letteralmente intentato per 2 volontà del Presidente Cossiga esclusivamente sull’onda della sanguinosa guerra di mafia che imponeva un’adeguata risposta dello Stato sul territorio e non certo per ragioni di economia o di collegamenti particolarmente difficili. Prevalse allora la politica dell’emergenza giudiziaria “creativa” laddove oggi dovrebbe prevalere “l’emergenza economica distruttiva”. Perché schizofrenia giudiziaria? La nostra Corte pur essendo la più piccola delle 4 siciliane ha quasi settant’anni di vita .Si è radicata profondamente nel territorio , nella cultura e nell’economia della città e del Distretto. Com’è stato detto insistentemente, la sua soppressione, per le gravissime ricadute economiche e culturali determinerebbe un sicuro ulteriore arretramento del centro dell’Isola , che costituisce la parte più fragile e povera del territorio siciliano. Da un lato quindi il Governo pone il problema della incentivazione dello sviluppo del mezzogiorno e dall’altro assesterebbe un colpo mortale alla parte più debole di esso. E ancora. La nostra Corte ha rappresentato uno snodo giudiziario fondamentale nella lotta contro la mafia , non solo perché al suo interno hanno operato i presidi distrettuali che verrebbero soppressi con essa, ma perché, col meccanismo dello spostamento della competenza per i reati che vedono interessati e coinvolti magistrati palermitani, ha consentito non solo la celebrazione di vari maxi processi conseguenti alle stragi in un clima più sereno ed affidabile, in certa misura più distaccato rispetto alle grosse centrali mafiose di Palermo e di Catania, ma ha evitato l’intasamento certo di queste ultime sedi giudiziarie specie di Catania, e quei gravi rallentamenti ed elevati maggiori costi organizzativi e logistici e la paventata soppressione comporterebbe sicuramente. E ancora In conseguenza della posizione “strategica” della nostra Corte, sono stati effettuati ingentissimi investimenti in strutture, servizi e personale. Basti pensare all’enorme edificio dell’Aula Bunker e di tutte le sue pertinenze, che ha interessato circa 3.000 mq. di superficie! Con centinaia di postazioni per magistrati, detenuti, avvocati, personale , forze dell’ordine e quant’altro. Si tratta di investimenti realizzati non il secolo scorso, ma a partire dalla metà degli anni 90 e quindi di strutture nuove. Con la soppressione avremmo da un lato un grosso spreco (un’altra cattedrale nel dissesto!) e dall’altro lo Stato dovrebbe necessariamente effettuare investimenti altrove per il potenziamento delle relative strutture giudiziarie. Ma la “schizofrenia giudiziaria” raggiunge l’apice se pensiamo che ancora oggi è in corso di realizzazione il progetto di un consistente ampliamento del Palazzo di Giustizia! Da un lato si amplia e dall’altro si svuota ! È così con questi sprechi assurdi che il nostro sistema fiscale ha superato negli anni la soglia della intollerabilità . La tendenza ad una razionalizzazione della c.d. “geografica giudiziaria” deve invece spingere innanzi tutto a valorizzare al meglio, attraverso una diversa ripartizione del territorio , e senza ulteriori oneri finanziari, quegli spazi liberi di strutture e di funzionalità spesso esistenti. Questa volta sì, superando resistenze e inutili campanilismi conservatori. IL CONSIGLIO DELL’ORDINE Si è appena concluso il Congresso Forense di Venezia, il trentaduesimo Congresso Nazionale della storia e, certamente, è prevalente l’impressione negativa e scoraggiante del nulla di fatto, di un’Avvocatura divisa ed incapace di darsi una rappresentanza unitaria ed autorevole e che continuerà, quindi, a parlare a più voci, a scapito della sua credibilità. Il Congresso non ha saputo esprimere quell’organismo nuovo chiamato a dare attuazione ai suoi deliberati e ad assumere quindi l’iniziativa politica a tutela dell’Avvocatura e delle sue funzioni di difesa dei diritti delle persone “dentro e fuori il processo”. Eppure anche il Guardasigilli, nel suo apprezzato intervento, ha sottolineato la necessità della rappresentanza unitaria degli Avvocati, sottolineando, e voglio credere non solo per piacere alla platea, il loro ruolo fondamentale anche nella composizione del conflitto sociale, frutto della perdurante crisi economica. Ma il Congresso si è perso tra le litigiose pretese delle molte, troppe, anime dell’Avvocatura, ognuno delle quali ha le sue colpe, senza che possa attribuirsi la responsabilità dell’impasse ad una sola di esse. Il risultato del Congresso potrebbe sintetizzarsi nell’espressione “né con l’OUA, né senza l’OUA”. Ed è grave constatare, soprattutto per noi Presidenti degli Ordini, grandi o piccoli che siano, che crediamo di rappresentare più di ogni altro l’Avvocatura, quanto il tema della rappresentanza, pur fondamentale, perché ormai l’Avvocatura non può che concepirsi in rapporto dialogico con tutte le altri istituzioni, sia poi lontano da quella che è l’oggetto della fatica diuturna dell’avvocato, il perno della sua funzione sociale, e cioè la difesa dei diritti fondamentali. Io voglio essere ottimista e credo che, con maggior buon senso, superata la tappa veneziana, l’Avvocatura proverà a conciliare le sue anime, compresa quella associativa, il cui contributo è essenziale, ma pur sempre nell’ambito di una azione unitaria (penso alla fuga delle Unioni delle Camere Penali e all’improvvide parole del loro nuovo Presidente). ** ** ** Al di là del risultato del Congresso, non sarebbe neppure giusto pensare però che l’Avvocatura non sia protagonista dell’attuale contesto e che non abbia meriti, anzi, mi pare che ne abbia almeno uno fondamentale, espresso nel titolo di quest’ultimo Congresso e di quello che lo ha preceduto: l’Avvocatura, che pur cambia e si evolve come ogni altra istituzione ed opera in una società senza punti costanti di riferimento, mobile, “liquida”, ha colto un punto fondamentale nel tener fermo il ruolo dell’Avvocato di custode dei diritti, consapevole che non tutto è economia, non ogni problema della società può risolversi solo in termini economici. Il momento migliore del Congresso è stata la parte della Relazione del Presidente Alpa, che ci ha ricordato come i diritti prettamente economici delle imprese, oggi tutelati nei Tribunali delle Imprese (quasi una riedizione vichiana degli antichi Tribunali di Commercio), non possono esser privilegiati e ritenuti quasi speciali, rispetto a quelli delle persone e delle famiglie. Il rilancio economico non può implicare la rinunzia alla tutela dei diritti fondamentali, in quanto essi non sono negoziabili. È allora fondamentale riconoscere, senza tema di esser accusati di conservatorismo retrogrado misto a corporativismo, come ogni Avvocato, ognuno di noi, sia non un imprenditore che fornisce beni o servizi assimilabili a qualunque altro, ma sia un intellettuale, “un baluardo, una forma di difesa del singolo” che non può non insorgere quando, per malintese esigenze di risparmio, concentrate su servizi essenziali e disattese su altri, si chiudono Tribunali, cioè i presidi della Giustizia (e, speriamo bene, non si passi alle Corti d’Appello), o si esigono costi non più sopportabili (penso al contributo unificato, ormai insostenibile per tanti cittadini) per accedere alla giustizia. Significativo è stato il richiamo alla funzione creativa dell’Avvocato, creativa cioè di iniziative, comprese le difese processuali per la costruzione di una nuova giurisprudenza che dia significato coerente con i diritti e i valori della persona alle norme dell’ordinamento giuridico. È questo quello che mi piace ricordare del Congresso. ** ** ** P.s. Mi accingo a concludere il mio quinto mandato di Presidente. E’ già un record (secondo alcuni un eccesso, o peggio). Molti mi chiedono anche il sesto. Non è di questo che voglio parlare per concludere questo mio intervento: nessuno è indispensabile, men che mai io. Ho vissuto però intensamente, veramente dal di dentro, l’ultimo decennio dell’Avvocatura. Voglio solo osservare come anche nel nostro contesto locale non possa non cogliersi il passaggio da una Avvocatura istituzionale, chiusa in sé, nei suoi studi, ad una Avvocatura nuova, dinamica, più collegata alla Società ed alle altre istituzioni. L’Avvocatura è infatti sempre più parte anche propulsiva della Società e non può certo tornarsi indietro. Ha, e deve conservare, anche nei circondari e nei distretti, rapporti con i massmedia, istituzioni, Scuola, Enti Locali e soprattutto Magistratura. In tale attività ho profuso, senza risparmio, ogni energia. Un abbraccio. Avv. Giuseppe Iacona Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Caltanissetta 3 Fondazione Scuola Forense Nissena “G. Alessi” L’importanza di una Scuola Forense Considerato il momento in cui questo numero della Rivista viene pubblicato, ho ritenuto che il solito articolo informativo sulle attività della Scuola Forense Nissena potesse, per questa occasione, assumere un contenuto diverso, consentendomi una riflessione sul ruolo di una Scuola Forense e sulla rilevanza della sua presenza sul territorio. Le Scuole Forensi, “finalmente!” direbbe il nostro Super Presidente, Avv. Alarico Mariani Marini, hanno ricevuto una ulteriore legittimazione normativa, assumendo il carattere di obbligatorietà che tanto si è auspicato negli anni di loro ideazione, realizzazione ed affermazione sull’intero territorio nazionale. E ciò non per acquisire uno strumento autoreferenziale o, addirittura, autocelebrativo da parte della classe forense, ma perché l’esistenza delle Scuole e, direi, l’insistenza sulla loro istituzionalizzazione, è elemento di rafforzamento della nostra classe professionale, nonché l’espressione della volontà di offrire garanzia di qualità e professionalità dell’Avvocatura. In un periodo storico nel quale gli Avvocati sembrano essere i principi, più che del foro, di tutti i mali, al punto da essere additati come causa delle disfunzioni della giustizia ed essere guardati con sospetto dall’intera società civile; in un momento di particolare disagio dell’Avvocatura, che, guardando alle novità legislative, si ritrova tartassata e, ciò nonostante, vituperata, il recupero dell’orgoglio e dell’entusiasmo della più liberale delle professioni può passare attraverso le Scuole Forensi che ne diventano garanzia di qualità. 4 Mettersi in discussione ed analizzare criticamente innanzitutto le nostre insufficienze o mediocrità,talvolta determinate da una indolenza indotta dal contesto in cui ci troviamo ad operare, non può e non deve essere considerato come una esposizione che indebolisce, bensì espressione di responsabilizzazione e di una rinnovata presa di consapevolezza del nostro ruolo per e nella società. Alla luce di questa considerazione, il fatto che tanto si sia insistito sulla formazione e sull’aggiornamento degli Avvocati dovrebbe essere valutato non come l’ennesimo orpello che viene apposto al libero esercizio della professione, quanto come l’occasione per ognuno di noi per un confronto che non può che giovare alla nostra crescita e maturità professionale. Le Scuole Forensi diventano così, nell’immaginario di chi le ha fortemente volute e di si è speso per la loro realizzazione ed affermazione e continua a spendersi per il loro buon funzionamento, il baluardo della nostra professione e la garanzia di un livello di qualità che sia concorrenziale con il contesto mondiale nel quale oggi l’abbattimento telematico delle frontiere ci ha catapultato. La presenza di una Scuola Forense nel nostro territorio, poi, assume una valenza ancor più significativa in quanto espressione pratica e fattiva del principio di legalità da più parti pronunciato e declamato . Le numerose iniziative che la nostra Scuola Forense ha infatti posto in essere nel senso non soltanto della diffusione della formazione giuridica, ma anche della integrazione sociale, della informazione normativa e della promozione culturale, l’hanno resa,infatti,una della più efficienti agenzie territoriali per l’affermazione della legalità,intesa come regola fondamentale di democratica e pacifica convivenza civile e presupposto di crescita di una società. Per queste ragioni, il riconoscimento normativo della obbligatorietà delle Scuole Forensi non può che essere pertanto e conclusivamente salutato da quanti finora e negli anni hanno impiegato le loro energie in essa, come non soltanto un ulteriore efficace strumento per la realizzazione degli obiettivi statutari, ma anche come un monito all’assunzione della piena responsabilità del loro ruolo per la classe forense e per l’intero ambito sociale in cui operano ed uno sprone a continuare a far meglio di quanto non si sia riusciti a fare sinora. Il Direttore Avv. Renata Accardi Resoconto di un quadriennio Cara / caro Collega, L’ esordio non può che essere questo. Fare il “resoconto” di un periodo della propria vita determina stati d’animo contrastanti tra loro : da un canto la consapevolezza dell’impegno profuso, dall’altro il dubbio di non aver fatto e dato tutto quanto possibile, dall’altro ancora il timore di un giudizio negativo sull’attività svolta. Il perché questo incipit è dovuto al fatto che la mia esperienza all’ OUA che ha avuto inizio con il Congresso di Genova (2010), che è stata confermata per il secondo ed ultimo mandato a Bari (2012), cessa con il Congresso di Venezia (9-11 ottobre 2014). Sento, pertanto, di rendere il conto finale della mia attività al mio COA ed al suo Presidente, ai Presidenti di Enna, Gela e Nicosia –per la fiducia accordatami- ed a Te, Collega del mio Foro e dell’intero Distretto, che in questi anni ho avuto l’onore e l’orgoglio di rappresentare. Non è facile rappresentare uno stato d’animo, ma Ti assicuro che l’esperienza nell’ Organismo, i rapporti umani che si sono creati, le battaglie che si sono combattute (chi potrà mai dimenticare l’impegno dell’ OUA contro il taglio delle sedi giudiziarie o contro la mediaconciliazione), il confronto continuo con Colleghi di tutta Italia, la consapevolezza che la compattezza degli 8 delegati siciliani ci rendeva forti e punto di riferimento, il contraddittorio a volte aspro ma sempre dettato dall’interesse comune del bene dell’ Avvocatura, sono tutte cose che mi porterò dentro per sempre. Essere, poi, in Giunta OUA con Maurizio de Tilla quale presidente è qualcosa di irripetibile, così come importante è stata pure l’esperienza del secondo biennio con la presidenza di Nicola Marino. Mi sono imposto, fin dal primo giorno del mio mandato, di non essere il delegato che della propria attività e di quella dell’ Organismo informa -forse- pochi intimi (il proprio COA o qualche amico), bensì di essere il delegato che rende partecipe ed informato il maggior numero possibile di Colleghi. In questo modo interpreto la rappresentanza politica ed il delegato OUA è rappresentante dell’ Avvocatura per la politica forense. Ho, di conseguenza, fatto ricorso all’invio di email quasi quotidiane (spesso tartassandoTi !!), dando le notizie e le informazioni che ritenevo potessero esserTi utili ed il “Cara/caro Collega” con cui anche oggi ho voluto iniziare è diventato, negli anni, un tormentone !! Forse avrei potuto fare di più, mettere ancora più impegno, dedicare sempre maggior tempo, sicuramente avrei potuto/dovuto raggiungere più Colleghi … non ci sono riuscito e di ciò mi rammarico e mi scuso. Non voglio tediarTi, ma ogni consuntivo degno di questo nome elenca dei numeri ed anch’io -seppur sommariamente- non mi esimo da questo rito : oltre 300 (avevi ragione a dire che intasavo la Tua casella di posta elettronica !!) le email inviate, 58 le mie presenze tra Giunta ed Assemblea OUA, numerosissime le mie presenze, n.q., a manifestazioni, assemblee, riunioni locali, regionali e nazionali …… su ciò non ho dubbi, ho fatto tutto quanto nelle mie possibilità. Detto dell’impegno, fatta ammenda per ciò che avrei potuto/dovuto fare non riuscendovi, rimane l’aspetto che mi procura maggiore trepidazione : il Tuo giudizio. Qualunque esso sia saprò accettarlo serenamente, consapevole del fatto che Tu, come me, esprimi il Tuo pensiero nell’unico interesse del bene della nostra Professione e scevro da pregiudizi ed in ogni caso negativo o positivo che sia- sarà per me stimolo ed insegnamento. Avv. Michele Riggi 5 E’ l’avvocato Beniamino Migliucci il nuovo Presidente dell’Unione Camere penali italiane Si è concluso Domenica 21 Settembre - al Lido di Venezia , presso il Palazzo del Cinema - il XV Congresso ordinario dell'Unione Camere Penali Italiane dal titolo "Riformare la giustizia per cambiare il Paese. Il primato della politica tra necessità democratica e funzionalità del sistema". con l’elezione del nuovo Presidente e della sua Giunta che guideranno i penalisti italiani per il prossimo biennio. I delegati delle varie Camere Penali, tra cui la nostra che ha visto tra i partecipanti me , in qualità di Tesoriere, e del Presidente l’ avvocato Danilo Tipo, si sono riuniti per scegliere il loro presidente tra i due candidati proposti : il presidente della Camera penale di Bolzano, l’avvocato Beniamino Migliucci, e quello della Camera penale di Milano, l’avvocato Salvatore Scuto. Dopo due giorni di dibattito, all’interno del quale sono state affrontate numerose tematiche in materia di giustizia tra cui , la recente riforma , è passata la linea più critica sul confronto con il governo sulla riforma della giustizia, con la scelta di Beniamino Migliucci come leader rispetto alla posizione di continuità espressa dall’altro concorrente, Salvatore Scuto ,con il leader uscente Valerio Spigarelli. Il neo Presidente, nella sua dichiarazione programmatica ha parlato dell’amministrazione della giu- 6 stizia nelle sue declinazioni più problematiche. Non ha esitato a definire “vergognose” scelte come quella sul gratuito patrocinio che, al di là della esiguità del compenso, viene considerato dalla Stato come un mero ‘’orpello’’, senza credere nella civiltà che invece rappresenta perche è proprio attraverso questo strumento che l’avvocatura dà una dimostrazione enorme di grande generosità verso la società mentre lo Stato,continua ad umiliare la funzione difensiva. Ha inoltre evidenziato come ,senza la riforma strutturale dell’ordinamento giudiziario e senza la separazione delle carriere, ogni tentativo di riforma processuale e sostanziale è destinato a perdere di significato; una reale ed effettiva riforma della giustizia non può prescindere da interventi che garantiscano l’uguaglianza delle parti nel processo e la terzietà del giudice , quale principale elemento strumentale all’imparzialità della decisione. Secondo Migliucci, lo straripamento della Magistratura è sempre più evidente e l’ANM, si porrebbe come ostacolo a una vera riforma della Giustizia poiché tenterebbe in ogni modo di dettare l’agenda politica in materia penale. Il nuovo Presidente ha subito manifestato un atteggiamento critico e poco accondiscendente nei confronti della classe politica ,che ritiene comunque un interlocutore fondamentale per cercare di influire sulle scelte legislative che però, negli ultimi anni, ha manifestato segni di debolezza affidando proprio alla Magistratura compiti di controllo sulle leggi, un controllo indebito che ha portato ai risultati odierni. Migliucci ha avuto la meglio sull’altro candidato,proprio perchè ha incarnato la linea più intransigente dell’avvocatura italiana: quella che non vuole mollare di un millimetro sui principi del giusto processo e sul tema di una riforma equilibratrice della giustizia. Al Presidente Migliucci vanno gli auguri di buon lavoro da parte della Camera Penale di Caltanissetta. Avv. Maria Salvo Fecondazione eterologa e falsità di stato: Quando la madre è certa? di Giovanbattista Tona Fu grande lo scalpore che destò la sentenza del GUP milanese dell’8 aprile 2014, uscita quasi in contemporanea alla sentenza della Corte Costituzionale che faceva cadere il divieto di fare ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo. Ma la vicenda di cui si occupava il GUP aveva a che fare proprio con il divieto che era caduto e riguardava la storia di una coppia che aveva richiesto e ottenuto una fecondazione eterologa in territorio indiano e che poi aveva fatto “carte false” (è proprio il caso di dirlo) per fare inserire in Italia il bambino conseguentemente nato, nel loro stato di famiglia. La storia di questa vicenda giudiziaria è molto tecnica e intricata ma come spesso accade con le storie degli uomini e delle donne rimanda a concetti profondi, concreti e inafferrabili al contempo, come quelli di verità e di natura. Concetti che peraltro in questo caso investono uno dei più grandi misteri e travagli dell'umanità: il venire alla luce di una vita e il rapporto tra genitori e figli. Una donna di 52 anni, la cui capacità riproduttiva era compromessa da una malattia, e il suo compagno di 48 anni si erano recati verso la fine del 2011 a Mumbai, per sottoporsi a pratiche di fecondazione eterologa. I medici indiani avevano utilizzato materiale genetico donato dal padre e l’ovocita donato da una donna rimasta ignota; tutto questo con il consenso espresso della coppia. La fecondazione era stata extrauterina e l’impianto dell’em- brione dove l’ovulo si era sviluppato aveva coinvolto un’altra donna, rimasta anonima ma diversa dalla donatrice dell’ovocita, che aveva portato avanti la gravidanza. Si tratta di una maternità surrogata totale, all'epoca certamente vietata in Italia. Avvenuto il parto il neonato era stato dichiarato alle competenti autorità indiane come figlio della coppia dei due italiani, che si dicevano residenti in un paese lombardo. Ottenuto il certificato di nascita, la coppia italiana si era recata presso il proprio consolato e aveva richiesto la trascrizione del certificato nei competenti registri della stato civile nel comune italiano di residenza. Poi il padre si era recato presso il suo Comune e aveva compilato un modulo che, obbligandolo a dirsi consapevole delle conseguenze penali delle sue false dichiarazioni ai sensi dell'art. 76 Dpr n. 445/2000, sostanzialmente gli imponeva di dire la verità. E il padre vi scrisse che il bambino nato in India era figlio suo e della compagno. Era la verità? Frattanto il Consolato Generale d’Italia a Mumbai aveva trasmesso la richiesta di trascrizione oltre che all’ufficio dell’Anagrafe di residenza dei dichiarati genitori, anche alla Procura della Repubblica, e con una nota aveva fatto rilevare che l’asserita madre del neonato era arrivata dall’Italia in India appena tre giorni della data di nascita del bambino; circostanza che rendeva verosimile che il rapporto di filiazione fosse stato creato in via surrogata. Aggiungeva che in India l’assoluta incertezza della normativa vigente in materia rendeva di fatto consentita ogni forma di procreazione medicalmente assistita. Il pubblico ministero milanese aveva allora contestato ai due conviventi il reato di cui all'art. 567 comma 2 Cp; l'illecito sarebbe stato commesso già a Mumbai e i due imputati avrebbero alterato lo stato civile del neonato nella formazione dell'atto di nascita, mediante false attestazioni. Mai costoro avevano fatto alcuna menzione della circo- 7 stanza (determinante ai fini della ricostruzione dell'identità del bambino) che egli era stato procreato mediante fecondazione eterologa e surrogazione. Il GUP invece ha sostenuto che la dichiarazione resa dalla coppia dinanzi all’ufficiale dello Stato civile di Mumbai il giorno in cui il neonato ha visto la luce poteva sì presentare l’elemento materiale della fattispecie di alterazione di stato ai sensi dell’art. 567 comma 2 Cp.; tale reato ricorre quando la dichiarazione vale ad attribuire al figlio una discendenza che non gli è propria, essendo l’interesse giuridico tutelato quello del neonato a non vedersi attribuire uno stato civile difforme da quello che deriva dai dati costituitivi reali. Tuttavia il concetto di genitorialità è oramai posto in discussione sia sul piano scientifico sia sul piano culturale; e il significato stesso delle parole utilizzate per descrivere una situazione naturalisticamente incontrovertibile finisce per essere condizionato dal maggiore o minore rigore della loro definizione normativa. E siccome alcuni precedenti giurisprudenziali indiani all'epoca già consentivano ai genitori surrogati di riconoscere il figlio come proprio dinanzi allo stato civile di quel Paese, il Giudice ha escluso la possibilità di ravvisare il reato di cui all'art. 567 Cp. 8 Insomma visto che la normativa era confusa in India, dire in quel paese che il bambino era figlio della coppia poteva essere la verità. In Italia invece no. Nel momento in cui la coppia si presenta al Console d’Italia per richiedere la trascrizione dell’atto di nascita nei registri dell’ufficio di Stato Civile del loro Comune di residenza, ritornava difatti in gioco la natura. Non per se stessa, ma grazie ad una norma vigente in Italia. Dall'art. 269 comma 3 Cc e dalla giurisprudenza che lo ha in passato interpretato si ricava la prevalenza del dato naturale su ogni altro; sicchè madre deve intendersi colei che ha partorito il figlio. Il GUP ricorda che la richiesta di trasmissione dell'atto di nascita per la sua successiva trascrizione è prevista obbligatoriamente dalla legge e non ha alcun immediato effetto sulle posizioni giuridiche coinvolte. Essa non contiene quindi una dichiarazione che coinvolge la formazione dell'atto di nascita, la quale è già avvenuta. Per altro verso essa non può che contenere le stesse informazioni riportate nell'atto di nascita (che per le ragioni dette non sarebbe alterato sulla base della legislazione indiana). Vero è, ammette il Giudice, che la dichiarazione contiene infor- mazioni non corrispondenti al vero rispetto all'ordinamento al quale dovrà poi giungere, cioè quello italiano, dove dicendosi “madre” di un figlio che non si è partorito non si afferma il vero. Ma anche a volere ragionare così, secondo il giudice, verrebbe integrato altro reato diverso dall'art. 567 Cp; si verserebbe in un'ipotesi di false dichiarazioni riconducibili all'art. 495 comma 2 che prevede una pena edittale inferiore nel minimo a tre anni di reclusione. Poiché il reato è stato commesso all'estero, per un reato punito con una pena di tale entità, ai sensi dell'art. 9 Cp, è prevista quale condizione di procedibilità la richiesta del Ministro della Giustizia. Essa manca nel caso di specie; quindi il reato non sarebbe comunque procedibile. Questa affermazione preconizza che nei locali di un consolato italiano in paese estero non trovi immediata applicazione la legge penale italiana. A diverse conclusioni giunge infine il GUP con riguardo al terzo segmento della condotta descritta nell'imputazione: quella eseguita dinanzi all'Ufficiale dello stato civile italiano con la compilazione del modulo per la richiesta di trascrizione dell'atto di nascita indiano. La dichiarazione è preceduta dall'ammonizione di cui all'art. 76 DPR 445/00. Gli imputati nella prima parte del modulo avevano riportato i contenuti dell'atto di nascita legittimamente formato in India ma nella seconda parte erano stati chiamati a fornire autonomamente i dati anagrafici in base alle loro dirette conoscenze. Gli stessi imputati, prima al Tribunale dei minori e poi al giudice dell'abbreviato, avevano riferito di avere studiato la legislazione nazionale italiana e di avere pertanto consapevolezza che il rapporto di filiazione, normativamente richiesto per una veritiera dichiarazione dinanzi Viene ricordato che questa all'ufficio dell'anagrafe, era incompatibile con la procedura procreativa attenuante è stata ravvisata in conda loro seguita in un altro Paese creto quando l'azione delittuosa era preordinata ad eliminare una situanella quale era lecita. zione effettivamente esistente, ritenuta immorale o antisociale. La condotta degli imputati viene invece ritenuta tutta finalizzata a realizzare un proprio desiderio senza alcuna considerazione della “socialità” dell'azione intrapresa e senza farsi carico di un progetto genitoriale meditato in relazione alle loro soggettive esperienze di vita, alla loro età, alle loro condizioni personali e di salute. La soddisfazione del desiderio di L'affermazione che la donna genitorialità nel sistema vigente, era madre del bambino nato in India secondo la sentenza in commento, con l'ausilio di altre due donne dove- viene garantito purchè si ponga una va incontrovertibilmente considerar- rilevante attenzione ai diritti dei si una dichiarazione falsa sull'identi- minori e non è trattato alla stregua di tà e sullo stato dell'infante, alla luce un diritto da conseguire ad ogni della nozione normativa di maternità costo. Tant'è vero che le condotte dei genitori surrogati, che hanno violato vigente nell'ordinamento italiano. In questa configurazione la le norme vigenti per giungere condotta illecita offenderebbe solo comunque alla procreazione, hanno l'interesse della pubblica ammini- indotto in diversi casi la giurisprustrazione al corretto accertamento dell'identità personale, e rientrerebbe nella fattispecie aggravata di cui all'art. 495 comma 2 n. 1 Cp, proprio perchè la dichiarazione viene trasfusa in un atto dello stato civile. Né potrebbe essere invocato in questa ipotesi da parte degli imputati l'errore sulla legge extrapenale ex art. 47 Cp, visto che il loro comportamento complessivo dimostrava come essi fossero a conoscenza di ciò che era consentito e di ciò che era vietato in Italia. Dopo avere accertato la responsabilità degli imputati sebbene per un reato molto meno grave di quello originariamente loro contestato il Giudice non li ritiene meritevoli della circostanza attenuante di cui all'art. 62 comma 1 n. Cp, invocata dalla difesa che attribuiva al proposito di procreare e di mantene- denza (anche quando ha consentito re con sé un figlio pure frutto di al mantenimento dei rapporti tra la maternità surrogata il carattere del coppia e il bambino) a dovere operamotivo di particolare valore morale re a tutela dei minori procreati, e sociale. inconsapevoli soggetti di determina- zioni cui erano del tutto estranei, spesso coinvolti in situazioni incerte cui porre riparo. La decisione della Corte Costituzionale del 9 aprile 2014 che ha rimosso il divieto di fecondazione eterologa sembrava rendere questa sentenza una giurisprudenza superata, già a pochi giorni dal suo deposito in cancelleria. Se oggi si aprono spazi per le pratiche procreative che rendono anche in Italia non più incontrovertibile la definizione del rapporto di filiazione, le regole dell'anagrafe non sembrano allo stato tuttavia mutate. Il genitore che non sia biologico non potrà considerarsi autore di una dichiarazione veriteria se non fornisce dettagliate indicazioni su come si è giunti alla nascita del figlio che intende riconoscere. Non mancheranno di certo spazi per il dibattito. Ma la sentenza del GUP milanese ne sarà un irrinunciabile riferimento. Quantomeno per ricordarsi che l'incertezza normativa non potrà aiutare né i desideri dei genitori, né il lavoro dei giuristi, né soprattutto l'interesse dei bambini che potranno nascere. 9 Responsabilità e risarcimento danni da randagismo. di Antonella Pecoraro Il fenomeno del randagismo è un fenomeno molto diffuso e che desta non poche preoccupazioni, anche nella nostra comunità locale, ove sempre più spesso si diffondono notizie sulle aggressioni dei cani randagi alla collettività. Dando un’occhiata alla giurisprudenza degli ultimi mesi, la mia attenzione è stata attirata da una recentissima sentenza di merito che mi ha dato lo spunto per queste brevi considerazioni in ordine al tema della responsabilità dei danni cagionati dal randagismo. La sentenza del 18 luglio 2014 del Tribunale di Torre Annunziata (Est. Lara Vernaglia Lombardi), che nel trattare del “cane vagante” distingue il cane sfuggito al controllo del proprio padrone (non randagio) dal cane che non ha alcun padrone e che si identifica proprio col cane randagio, si occupa dei due profili imprescindibili che l’avvocato è tenuto ad analizzare prima di iniziare un giudizio in tema di responsabilità e cioè quello dei soggetti da convenire in giudizio e quello dell’individuazione del titolo dal quale sorge tale responsabilità. La predetta sentenza affronta il tema del randagismo e tali rilevanti profili con una certa organicità e logicità meritevoli, a mio avviso, di essere esaminati. Nella fattispecie esaminata dal Giudice campano, una signora conveniva in giudizio il Comune di Torre del Greco e la locale Azienda Sanitaria Locale per ottenere il risarcimento dei danni dalle lesioni ripor- 10 tate a seguito di un’aggressione subita da un cane randagio di grossa taglia e privo di collare che l’aveva aggredita mentre percorreva una strada del predetto comune. Il primo punctum dolens esaminato nella decisione riguarda proprio la legittimazione passiva dei due enti convenuti dall’attrice. Il Comune, infatti, eccepiva la propria carenza di legittimazione passiva in giudizio, asserendo che la competenza di prevenzione al randagismo spettasse alla A.S.L.; quest’ultima, di contro, attribuiva al Comune la totale responsabilità in ordine alla segnalazione dei cani randagi. Il Tribunale campano, allineandosi peraltro sia alla giurisprudenza di merito “locale” (Trib. Torre Annunziata 1869/1997 e 2143/2003, 250/2005, 158/2008; Corte d’appello di Napoli 426/2007) che alla giurisprudenza di legittimità (Cass. civile, sez. III, n. 8137/2009), supera il problema affermando che qualora la normativa regionale sia silente in ordine all’ obbligo di segnalazione dei cani randagi da parte dei Comuni all’ASL di competenza, la responsabilità in ordine ai danni cagionati dai predetti animali sarà tutta in capo all’Azienda Sanitaria Locale (alle dipendenze della Regione), la quale dunque, sarà l’unica legittimata passiva nei giudizi di responsabilità incoati dai danneggiati. La legge quadro della materia, la legge n. 281/1991, che disciplina le misure di controllo dei cani randagi sul territorio, infatti, quale principio generale, ripartisce le competen- ze sulla vigilanza e la prevenzione degli animali tra Regioni e Comuni, attribuendo, in ogni caso, alle ASL il compito di individuazione e accalappiamento dei cani randagi. Tale normativa nazionale, ovviamente si coordina con le singole normative regionali le quali possono aumentare o meno le competenze dei Comuni in merito. Nella decisione de qua, il Tribunale di Torre Annunziata applicando la legge della Regione Campania, molto precisa sul punto, poiché prevede espressamente che la competenza dell’accalappiamento dei cani spetti all’A.S.L., e che nessun obbligo di segnalazione è sancito a carico del Comune, il quale ha solamente l’onere di costruire e gestire i canili, manleva il Comune convenuto in giudizio. Acclarata la legittimazione passiva dell’ASL, la disamina del Tribunale si sofferma sul titolo della responsabilità e nella specie, sull’obbligo di prevenzione nel fenomeno del randagismo da parte della stessa. Il Giudice esclude l’applicazione della responsabilità presunta ex art.2051 e 2052, e ritiene applicabile al caso de quo l’art. 2043 c.c., ritenendo sussistente in capo all’Azienda Sanitaria l’obbligo giuridico di impedire l’evento verificato per omesso accalappiamento del cane che ha cagionato le lesioni all’attrice. Continia a pagina 39 MARKETING NEL PIANETA SANITÀ ULTERIORE STRUMENTO DI CURA O LA PEGGIORE DELLE MALATTIE? di Vito Milisenna Dall'ENCICLOPEDIA ITALIANA TRECCANI: MARKETING: Con riferimento alle imprese produttrici di beni di largo consumo, il complesso dei metodi atti a collocare con il massimo profitto i prodotti in un dato mercato attraverso la scelta e la pianificazione delle politiche più opportune di prodotto, di prezzo, di distribuzione, di comunicazione, dopo aver individuato, attraverso analisi di mercato, i bisogni dei consumatori attuali e potenziali. All'interno del "PIANETA SANITÀ", una corretta e condivisibile strategia di "Marketing", dovrebbe essere preceduta da una analitica critica delle risposte a qualche semplice domanda: 1. Il prodotto offerto soddisfa una domanda esistente o questa domanda è stata sapientemente "creata" o artatamente "immessa" sul mercato, se non è addirittura la conseguenza di risultati "millantati"? 2. Il prodotto offerto soddisfa la regola base della scienza medica da tutti conosciuta: "primum non nocere"? 3. Il prodotto offerto è migliore di quello della concorrenza o insegue solo il "winner" delle vendite? 4. Il fine dell'azione di marketing è vendere (il prodotto) o soddisfare un'esigenza primaria, quale il bisogno di salute (attraverso la vendita di un prodotto mirato alla specifica esigenza)? 5. Stante che in un mercato del "bisogno di salute" il cliente è rappresentato dal CittadinoUtente, si può ancora parlare di marketing o sarebbe "politicamente corretto" se non addirittura "eticamente dovuto", parlare di corretta informazione invece di continuare ad etichettarla come "strategia di vendita"? Questo il panorama in cui l'immaginario collettivo colloca come "prime donne" soggetti quali Direttori Generali, Primari, Responsabili di U.O.S., etc, probabilmente ignorando che più spesso di quanto si creda, questi [pseudo]protagonisti finiscono con l'essere manovrati (più o meno inconsapevolemte), divenendo meri esecutori di esigenze "finanziarie", ben lontane e spesso anititetiche alla missione del migliorare la "salute pubblica". Colpe (tante?) o meriti (pochi?), vanno comunque divisi, infatti con l'avvento 11 dell'Aziendalizzazione, il timone del pianeta sanità, non è più governato dall'Autorità Scientifica della materia ma dalla politica; il "TARGET" è rimasto invariato (il Cittadino Utente), ma è cambiato il ruolo allo stesso assegnato dai livelli di comando, oggi infatti sembra che il Cittadino-Utente sia più visto come "portatore di consensi" piuttosto che come soggetto portatore di bisogni da soddisfare. Questa constatazione, amara, ma (si ritiene) rispondente a verità, suggerisce la domanda delle domande: La macchina sanità a quali bisogni viene, di fatto, orientata? Sarebbe facile rispondere dicendo che deve essere orientata al soddisfacimento dei "bisogni di Salute", ma questa risposta, che potrebbe apparire scontata, va a collidere con una peculiare caratteristica che connota la domanda di "salute". L'offerta di qualsiasi bene di consumo, anche di primaria necessità, dovrebbe essere quali-quantitativamente orientata a soddisfare la domanda, nel senso che soddisfatta appieno la domanda "X", l'aumento dell'offerta si tradurrebbe in sprechi o inutile e quantomai costoso STORAGE. In ambito di salute, il discorso è completamente diverso, non esiste infatti un limite al desiderio di benessere psico-fisico ed all'uopo si immagini una società evoluta in cui le cure preventive e l'educazione alimentare abbiano portato la durata della vita media a 120 anni: domanda soddisfatta? Forse, infatti chi rifiuterebbe l'offerta di nuove ma costosissime terapie in grado di allungare la durata della vita media sino a 150 anni? La prima considerazione che scaturisce è così sintetizzabile: In ambito di "salute", all'aumentare dell'offerta aumenta la domanda, de quo: mercato potenzialmente 12 infinito ? costi potenzialmente infiniti. Va infatti tenuto presente che bisogni "infiniti" generano spese "potenzialmente infinite" e di fatto non governabili, per cui, facendo di necessità virtù, in ambito sanità, l'offerta va correlata alla risorse disponibili, di per se stesse abbastanza limitate. Questi due antitetici concetti (bisogni infiniti versus risorse limitate), portano la Politica a mettere in essere delle scelte che, almeno in prima battuta, riverberano i loro effetti su chi, deve effettivamente governare l'opificio (Direzioni Generali). Non può negarsi che in questo modello organizzativo, direzione, verso e velocità soddisfano il criterio TOP-DOWN e non il BOTTOM-UP (costruito sulla domanda). MA non si deve solo combattere con l'esiguità delle risorse, infatti il ruolo giocato dai MEDIA, appare ben più che significativo. Per meglio chiarire il concetto, mettiamo in essere un semplice calcolo aritmetico sulla quantità di immagine positiva faticosamente costruita rispetto a quella fagocitata dai media; dire 1 a dieci, forse è già troppo ottimistico. Chiediamoci il perché? 1. In ambito sanitario, un messaggio basa la sua positività su un evidente negativismo (da evitare): Vuoi vivere cento anni? (messaggio subliminale: se non fai quanto consigliato, la morte ti attende presto). 2. La buona sanità è atto dovuto, se non altro a fronte delle tante tasse che si pagano: Perché un messaggio di buona sanità dovrebbe interessare considerato che fa parte dei diritti sanciti dalla Costituzione? 3. La malasanità fa notizia, mette in piazza le sventure di qualcuno e mette in guardia se mai si dovesse aver bisogno di quella procedura o di quel posto: Il messaggio interessa perché interessa il noir e ci solletica l'attenzione. Già queste piccole riflessioni (da bar), permettono di capire perché lo spazio dato alla malasanità (intesa come atto non dovuto) sia maggiore e venga ottenuto senza alcun esborso; contrariamente, quello della buona sanità (comportamento giustamente atteso/preteso da tutti), non interessa, sembra autoreferenziale e decisamente poco credibile, suscitando semmai il classico detto: l'eccezione conferma la regola. ----Già queste semplici considerazioni rendono evidenti le (grandi) potenzialità del MARKETING ed i limiti (spesso istituzionali), sofferti dagli attori deputati alla messa in opera di questo potentissimo strumento di ricerca analisi e comunicazione. La dura realtà, ci mette in condizione di constatare come non sempre il fine dello strumento sia quello cui istituzionalmente (ambito sanità pubblica) dovrebbe essere deputato, poiché acquisiti i bisogni di salute, il sistema non si piega (ma neanche si orienta) agli stessi, cerca piuttosto di conciliare le risorse disponibili adattando quindi la risposta alle esigenze del sistema non del portatore di bisogni. In buona sostanza piuttosto che inseguire l'economicità di "processi dovuti" e deputati solo ed esclusivamente al soddisfacimento di ciò che rappresenta un bisogno primario, si è dato ampio (forse troppo) spazio all'aspetto finanziario. Diversamente dall'aspetto economico, una visione meramente finanziaria, per suo stesso essere, impone scelte tecniche (chi tenere sulla barca e chi buttare a mare), poco attente all'aspetto sociale, assistenziale e se mi si consente, anche e forse soprattutto alla componente umana senza la quale una socìetas diviene più simile ad un esercito di robot. Il sistema, dai suoi massimi vertici sino al più piccolo contratto dirigenziale, è diventato prigioniero di obiettivi di un "facere" che sempre meno appare incarnare la dovuta risposta ai bisogni del CittadinoUtente, dribblando (dolosamente?) i motivi del suo stesso essere. Sembra quasi di essere ritorna- ti alla ormai obsoleta: Obbligatorietà di mezzi e non di risultati. Forse eccessivamente innamorati del detto che non appare da emulare chiunque porti avanti una critica senza ipotizzarne una soluzione, si ritiene che il MARKETING, strumento importante, potente e pertanto anche pericolosissimo, in ambito sanitario dovrebbe essere più usato ma anche ben più controllato. quanto appaia inutile, costoso, dispendioso e privo di soddisfazione alcuna, il voler intraprendere un percorso la cui meta non sia condivisa se non addirittura antiteticamente orientata. O comanda la finanza o comanda l'economicità dei processi basata sui bisogni, non è un dilemma ma semplicemente una scelta di vita. Questo non vuol dire "tenere aperti i cordoni della borsa" ma semplicemente sforzarsi di realizzare con la massima efficacia ciò che è necessario, rifuggendo dal realizzare "male" per quanti più possibile qualcosa che metta ognuno nella condizione di "tacere" per evitare di perdere quel poco che possiede (anche se trattasi di servizi insufficienti). Lo stato di bisogno non può rappresentare un momento di forza per chi governa il timone, dovendo al contrario incarnare la voglia (irrefrenabile) di affrancare, quanto più possibile per quanti più possibile, dallo stato di bisogno. Forse in ultima analisi, dando il giusto peso a grafici, primi margiDue i concetti alla base del ni, incidenze e tassi, basterebbe dovere di controllare l'uso o l'abuso votarsi a ciò che nelle aule giudiziadi uno strumento così potente: rie viene spesso portato in prima linea: si usa danaro pubblico; il fine non può essere rappresentato dal "pareggio di bilancio" ma dal benessere di una intera socìetas fatta di uomini e non di numeri. Per se convinti che l'eleganza di una dimostrazione matematica, solitamente è contraddistinta da una ADOTTARE SEMPRE sua interiore semplicità, si è ben E COMUNQUE consci che non basta lo schiocco di COMPORTAMENTI DA BUON due dita per aggiustare il tutto; si è PADRE DI FAMIGLIA. comunque altrettanto consci di 13 pensieri in libertà TEMPO DI ELEZIONI Sono scomparse dai grandi manifesti le belle ragazze seducenti che mostrano corpi perfetti e dorate abbronzature. Dai muri imbrattati insignificanti figure lanciano insulsi messaggi pubblicizzano la loro misera merce con gli occhi rivolti alle stanze del potere. E' tempo di elezioni è tempo di idiozie. La città trasformata in museo degli orrori affoga in un mare di carte formato santino, stordita dallo schiamazzo degli altoparlanti i cittadini trattengono il respiro infastiditi dalla folla di questuanti che chiede con falsa umiltà: "Un voto, un voto soltanto non per vana ambizione ma per risollevare questa città". La gente passa, guarda, ascolta, spera che l'incubo presto svanisca e ritornino le belle ragazze sdraiate su esotiche spiagge a esporre lo splendido corpo. La tregua sarà breve presto riaprirà la galleria degli orrori, la sarabanda invaderà le strade in un gioco insulso ormai troppo ripetuto Alfonso Gucciardo TOLLERANZA ZERO: Caltanissetta ha bisogno di un Wiliam Bratton? cio diventerà scenario di azioni conImmaginiamo che qualcuno quel vetro rotto. È plausibile che nel giro di poco tra legem e l’intero stabile oggetto di rompa una finestra di un edificio ben tenuto e immaginiamo che nessuno tempo le finestre danneggiate azioni di vandalismo. Quella appena descritta, per provveda, subito dopo, a sistemare aumenteranno, l’interno dell’edifi- 14 sommi capi, è la TEORIA DELLE FINESTRE ROTTE. Sono i due criminologi Kelling e Wilson che nel 1982, per la prima volta la espongono in un articolo pubblicato su una rivista scientifica americana. (1) Da questa teoria si sviluppò, all’inizio degli anni ’90 a New York, la politica “TOLLERANZA ZERO” del sindaco Giuliani. La NY di quegli anni era una città in cui la criminalità era molto presente e diffusa e Giuliani, non appena eletto sindaco nel ’94, volle William Bratton come capo della Polizia per far fronte a questa emergenza. Bratton era stato, fino ad allora, capo della TPD (TRANSIT POLICE DEPARTMENT), e negli anni appena precedenti aveva condotto una campagna di TOLLERANZA ZERO sulla microcriminalità che si verificava all’interno della rete metropolitana newyorchese. Aveva messo in piedi una lotta spietata contro i trasgressori sforniti di biglietti, quando gli stupri e gli omicidi all’interno della Metropolitana, rappresentavano dati seriamente preoccupanti. Bratton fu oggetto di molte critiche ma nel giro di poco tempo i micro reati, come gli scippi, si ridussero drasticamente, ma cosa incredibile fu che subito dopo diminuirono soprattutto reati più gravi come omicidi e stupri. Diventa naturale chiedersi, a questo punto, cosa c’entri la teoria delle finestre rotte con Caltanissetta e il nostro territorio. Quella che apparentemente sembra una teoria di politica criminologica lontana dalla nostra quotidianità, oggi è a mio modo di vedere un punto di partenza dal quale chi amministra questa città, ma anche chi è amministrato, non può prescindere. È chiaro che la situazione generale di Caltanissetta non può essere paragonata alla microcriminalità della NY degli anni ’90 ma è altrettanto vero che gli anni che viviamo sono caratterizzati da un tasso di essere virtualmente sovrapposta a quell’edificio con le finestre rotte; è un edificio\città che ormai è continuamente oggetto di azioni di vandalismo. Il fulcro della teoria si basa sulla tesi che la crescente tendenza a delinquere è l'inevitabile risultato del disordine: Se una finestra è rotta e non viene riparata, chi osserva concluderà che nessuno se ne cura e perciò nessuno ha la responsabilità di provvedere; verranno così rotte molte altre finestre, e la sensazione di anarchia si diffonderà dall'edificio\città alla via su cui si affaccia, dando il segnale che tutto è possibile. Quindi teniamo a mente questa teoria ogni qualvolta dobbiamo buttare una carta e magari per pigrizia ci lamentiamo che non ci sono cestini a disposizione perché non siamo disposti a fare 20 metri a piedi. Non dimentichiamo mai, che nulla di buono si farà in città fino a quando tutti noi non saremo disposti a metterci qualcosa di nostro. Posteggiare all’interno degli spazi o nelle aree consentite, facendo due passi a piedi per raggiungere casa, scuola, uffici, negozi; gettare le carte nei cestini e depositare i rifiuti negli appositi raccoglitori; raccogliere gli escrementi del proprio cane, sono gesti semplici e poco “dispendiosi” eppure fondamentali per rendere Caltanissetta un po’ più simile a quelle realtà cittadine che tanto ammiriamo e che ci rendono “magicamente” civili, quando le visitiamo. Per cui, oltre a chiedere che le amministrazioni riparino “le finestre rotte” - intervento che ovviamente va preteso - impariamo ad amare Caltanissetta, che nulla ha da invi.diare alle altre città del nostro Paese inciviltà e vandalismo elevatissimo. Il vandalismo che si registra in questa città, si manifesta in due aspetti speculari ed entrambi preoccupanti. Il primo è un vandalismo di tipo “materiale”, si verifica in episodi banali come il parcheggiare in doppia fila o in piazze non adibite al parcheggio, nel gettare le carte a terra e cosi via; questo tipo di vandalismo provoca due conseguenze: La prima è una conseguenza che ha un costo di tipo sociale, si insegnerà agli altri che buttare le carte a terra rientra nella normalità. La seconda conseguenza è di carattere economico. Quella carta finita a terra rappresenta una spesa, perché prima o poi dovrà essere raccolta da qualcuno pagato per farlo. La pulizia delle strade ha infatti un costo, che ricade sulla collettività dei cittadini che pagano le tasse. La seconda tipologia di vandalismo, la più grave, la definirei invece di tipo morale. Viviamo in una città in cui non importa a nessuno tenerla pulita, una città che sembra essere di nessuno per come la non-sentiamo “nostra”; Caltanissetta è offesa ogni giorno dalla maggior parte dei suoi cittadiLorenzo La Rocca ni, bravi a lamentarsi quasi quanto ______ bravi a parcheggiare davanti la (1) [J. Q. Wilson e G. Kelling, Broken windows. Chiesa Cattedrale. The Police of Neighborhood Safety, in "Atlantic Viviamo in una città che può Monthly", Marzo 1982, pagg. 29-38] 15 IL BANCHETTO DEL SAPERE di Giulia Benintende La tavola era già imbandita, tovaglie bianche e pregiate toccavano il pavimento di un marmo così sfavillante da abbagliarmi, la sala era enorme e l’aria pervasa da un’essenza antica e profonda. Mi trovavo presso un banchetto del sapere, il Convivio. Sui tavoli erano poste vivande di ogni genere, ordinatamente sistemate intorno a calici di vino, caraffe d’acqua e bottiglie di CocaCola. Minestre, selvaggina, verdure e polente affiancavano lasagne, hamburger e patatine fritte. Tempi diversi si incontravano sulla tavola, secoli e secoli serviti in un’unica portata. Lentamente sfilarono dinnanzi a me gli altri commensali: Virgilio, l’uomo della ragione, eccelso poeta latino e guida sapiente; due donne così identiche per bellezza e grazia che indubbiamente dovevano essere Beatrice e la donna gentile, la Filosofia; San Bernardo, conoscitore e cultore del misticismo, dello slancio verso Dio; Ulisse, inteso come colui che con tracotanza sfidò i limiti divini per sete di sapere; e infine San Tommaso, rappresentante illustre della scolastica e del pensiero aristotelico-tomistico. Quando costoro presero posto accadde qualcosa di straordinario: le due donne di cui sopra, Beatrice e la donna gentile, si fusero in un solo corpo diventando una sola bellezza angelica. In ultimo entrò lui. La tunica rossa, la corona d’alloro, il naso 16 aquilino a creare quel profilo che tante volte avevo visto nei libri: Dante Alighieri. Anche io e lui sedemmo alla mensa. Nel silenzio pensai al Simposio di Platone. Poi la mia mente si spostò allo studio, riguardante il Convivio, fatto a scuola: la mensa del sapere. Dante offre agli uomini delle liriche, le vivande, accompagnate da un commento, il pane, al fine di riporta- re, nei suoi trattati in volgare, e di diffondere tutto il sapere del tempo. "Miei commensali" iniziò il poeta "siamo seduti a questa tavola per discutere circa il sapere. Cos’è il sapere? Quant’è grande? Quanto dobbiamo essere forti per sostenerne il peso? E può, questo sapere, diffondersi tra gli uomini di ogni rango e nazione?". Prese parola Virgilio, "Oh certo che no, illustre poeta, gli uomini di ceto a noi inferiore non possono che rimanere ignoranti. D’altronde il sapere è lo studio razionale di arte e letteratura, la pura conoscenza che ci eleva e ci rende maestri". "Dante caro" continuò Beatrice, ormai diventata al tempo stesso la donna gentile, "costui parla di ragione perché non conosce la dottrina cattolica. Il sapere è, in verità, lo studio della filosofia, ma solo la fede può condurre ad una conoscenza completa del mondo". "Non parlate di conoscenza del mondo, voi medievali" s’intromise Ulisse "che mi condannaste, per l’ardente desiderio di sapere che sempre mi ha pervaso, a un’infernale eternità. Dissi, rivolgendomi ai miei uomini, “fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”, perché è questo il sapere: cercare al di là di ciò che è già stato scoperto una verità più profonda e universale. Anche al di là delle colonne d’Ercole, miei commensali". "E il timor di Dio?" irruppe Bernardo "uomo tracotante, la sapienza sta nell’abbandono ai misteri del Signore che con la sua parola può diffonderla!". Allora si inserì Tommaso "Calma signori, non agitatevi. Il sapere è ciò che ci rende uomini colti, la consapevolezza di conoscere l’intero, di sapere com’è fatto l’universo, come sono disposti i cieli. Il sapere è un entità astratta, limitata e ben delineata che può essere diffusa solamente tra animi nobili". "E per te cos’è il sapere?" mi chiese Dante. "Bé" cominciai "nel ventunesi- La tutela del danno da emotrasfusione di Renato Arnao Apparecchio per la trasfusione diretta del sangue ideato da Franz Oehlecker ,sec XVIII da Giovanni Colle (1558 - 1631) alla Legge n.210 del 25 febbraio 1992. Leonardo da Vinci scriveva sul sangue: “dà vita e spirito a tutti li membri dove si diffonde” . Nei secoli la trasfusione di sangue tra individui, prima di trovare affermazione nel mondo scientifico, è stata esaltata, disapprovata o addirittura considerata immorale. Nel 1613 William Harvey mise in evidenza il percorso del sangue all’interno del corpo umano, cominciando a diffondere l’idea che la trasfusione del sangue potesse avere effetti benefici sull’organismo ma solo nel 1628 ad opera del medico Giovanni Colle da Belluno, viene pubblicata una meticolosa descrizione della tecnica trasfusionale. 18 Bisogna attendere quasi tre secoli perché l’emotrasfusione venga regolamentata (D.M. del 13.12.1937: “Norme concernenti la trasfusione, il prelevamento e l’utilizzazione del sangue umano”.) Passa ancora più di mezzo secolo perché al riconoscimento dei “rischi” trasfusionali nei confronti dei soggetti emotrasfusi colpiti da infezioni (epatite B, C e HIV), venga garantito un ristoro economico regolamentato dalla Legge n.210/92 poi modificata dalla Legge n. 238/97; lo Stato prevede ed indennizza i soggetti danneggiati da complicazioni di tipo irreversibile a seguito di trasfusioni del sangue e/o somministrazione di emoderivati. La richiesta di indennizzo ex L.210/92, riconosce un'unica procedura istruttoria ma due diverse modalità di liquidazione, infatti ex D.P.C.M. del 26 maggio 2000, le competenze in materia di salute umana e sanità veterinaria, sono passate alle regioni con indennizzi erogati dal Ministero della Salute (casi avvenuti nelle regioni a statuto speciale) o direttamente dalle casse regionali (tutte le altre Regioni). Caratteristica peculiare è la natura del ristoro (indennitaria e non risarcitoria), riconducibile agli art. 2 e 32 della Costituzione, con prestazioni a carico dello Stato in ragione del dovere di solidarietà sociale; non quindi emolumento erogato per riparare ad un comportamento colposo, ma misura economica di sostegno collegata ad una situazione di menomazione obiettiva della salute, derivante da una prestazione sanitaria per cui va sottolineato che l’indennizzo ex legge 210/92 prescinde da qualsiasi giudizio di responsabilità e non ricomprende il risarcimento del danno biologico, patrimoniale, morale ed esistenziale. Concorde la giurisprudenza di merito nel ritenere che l’indennizzo ex legge 210/92 e la possibilità di promuovere l’azione civile per il risarcimento dei danni subiti non sono strumenti alternativi, in quanto la proposizione e l’accoglimento dell’istanza di indennizzo non precludono al soggetto danneggiato la possibilità di agire giudizialmente per ottenere l’integrale risarcimento dei danni subiti. Di parere concorde la Corte Costituzionale dove, con le sentenze n.307/90,118/96 e 423/2000, è stata sancita l’ammissibilità del concorso di entrambe le forme di tutela, quella indennitaria e quella risarcitoria. La regione Siciliana, ex art.4 di cui alla L.210/92, ha costituito dei Collegi Tecnici Provinciali assegnando loro due compiti distinti: l’istruttoria delle richieste di indennizzo indirizzate al Ministero della Salute; l’aspetto consulenziale per contenziosi che vedono l’A.S.P. di appartenenza chiamata a rispondere presso il Giudice del Lavoro in contenziosi atti ad ottenere il risarcimento del danno subito. Per macroaggregati, due le tipologie attinenti alle azioni di risarcimento/indennizzo per danni da emotrasfusioni o da emoderivati. 1. Soggetti che per la natura congenita della propria malattia sono stati sottoposti a periodiche e sistematiche emotrasfusioni. Difficilissimo se non impossibile individuare quale sia stata la singola trasfusione o la somministrazione di emoderivati responsabile della malattia, del medico e della la struttura sanitaria in cui sia avvenuto il contagio. Nella maggior parte dei casi i soggetti danneggiati promuovono l’azione di risarcimento danni esclusivamente nei confronti del Ministero della Salute sostenendone la sua responsabilità ex artt. 2043, 2049 e 2050 c.c., sulla scia della prima sentenza pronunziata il 27.11.1998 (n.21060 – Tribunale di Roma - Sez. I. pen.). 2. Soggetti che hanno contratto il virus in quanto sottoposti ad emotrasfusioni rese necessarie ed indispensabili in conseguenza di un singolo evento (intervento chirurgica, parto, infortunio, etc). In questo caso l’azione di risarcimento danni è rivolta nella totalità dei casi oltre che verso il Ministero della Salute, la cui responsabilità è sempre extracontrattuale, anche nei confronti della struttura sanitaria pubblica o privata ove è avvenuto il contagio (vecchie UU.SS.LL., AA.SS.PP., Regione nonché verso i Sanitari che hanno effettuato il trattamento, sostenendo la responsabilità di natura contrattuale di ogni soggetto). Non risultano procedimenti passati in giudicato in cui il medico che ha effettuato il trattamento terapeutico sia stato chiamato a risponderne personalmente, mentre si è a conoscenza di un caso in cui è stato chiamato in giudizio il conducente di un veicolo ritenuto responsabile di un sinistro stradale, a seguito del quale l’infortunato aveva subito una trasfusione di sangue dalla quale era derivata la malattia da contagio. Giurisprudenza concorde, improntata sul neminem laedere, ha stabilito i limiti di responsabilità del Ministero della Salute per i danni conseguenti alle infezioni da HIV e da epatite, contratte da soggetti emofilici ed emotrasfusi per l’omessa vigilanza esercitata dall’amministrazione pubblica sulla sostanza ematica e sugli emoderivati impiegati negli interventi trasfusionali, precipuamente centrata su momento storico (ove possibile stabilirlo), cui si fa risalire il contagio in quanto, i test diagnostici per l’infezione da HBV, HIV e HCV sono stati approntati rispettivamente in epoca successiva agli anni 1978, 1985 e 1988. Per i periodi precedenti, l’imprevedibilità dell’evento dannoso, per la mancanza di conoscenza della scienza medica dei virus HBV, HIV e HCV, ha portato la III sez. Civile della corte di Cassazione all’emissione della n.11609 del 31.05.2005 ad escludere la responsabilità del Ministero. P e r completezza non può infine trascurasi, il difficile inquadram e n t o tabellare che ex art.4 di cui alla L.210/92, deve essere condotto sull’anacronistica tabella “A” (ex DPR n.915/78 ed s.m.i.), caratterizzata da parametri valutativi ancorati, prevalentemente, al vecchio e ormai superato concetto della incapacità lavorativa generica, come previsto dall’art.2 del DPR n.915/78 che prevede, infatti, il conferimento, a titolo di atto risarcitorio, di pensioni, assegni ed indennità di guerra, a coloro che abbiano in guerra riportato ferite o lesioni o contratto una infermità da cui deriva perdita o menomazione della capacità lavorativa generica. In conclusione può affermarsi che le numerose problematiche in corso di applicazione dei dettami della Legge 210/92, con tutto il corollario di modifiche, estensioni e interpretazioni giurisprudenziali plurime, suggeriscono la necessità di interventi semplici ed efficaci, ancora ben lontani dai più congrui modelli europei, quello francese in particolare che stabiliscono prassi di giudizio e di riparazione di tipo amministrativo, non giudiziale, quasi a sottolineare il pubblico interesse per la riparazione pronta e puntuale dei danni causati da un servizio che la nostra Costituzione attribuisce comunque allo Stato. 19 COMMISSIONE PARI OPPORTUNITÀ di Ilaria Golia Quale avvocato non rammenta il primo giorno di pratica o i primi saggi consigli dispensati dal proprio dominus? Oggi, chi intende intraprendere l’arduo cammino verso l’esercizio della professione forense rischia, sempre più spesso, di incontrare difficoltà ancor prima di iniziare e di ricordare dell’inizio del proprio percorso il ricorrere della frase “mi dispiace, ma non accetto praticanti”. Talvolta può, infatti, risultare complicato trovare un avvocato disponibile ad accogliere un praticante nel proprio studio. Le ragioni possono essere le più varie e, con onestà intellettuale, nulla hanno a che vedere con la difesa di una classe, che, da tempo,ormai, non ha più i caratteri di una casta: la mancanza di tempo da dedicare ad una coscienziosa formazione di un possibile futuro collega, la valutazione circa l’utilità di un collaboratore e, non per ultima, la valutazione dei costi connessi. Sebbene il dominus, alla luce dell’art. 41, comma 11, della riforma forense, abbia non un obbligo, ma una facoltà di riconoscere al praticante avvocato un’indennità o un compenso per l’attività svolta per conto dello studio, sull’avvocato gravano diversi obblighi ed oneri. In particolare, l’avvocato che ospita un praticante ricade nel campo di applicazione del D.Lgs. 81/2008 ed è destinatario, in quanto “datore di lavoro”, degli obblighi previsti dal nuovo Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Il pra- 20 ticante avvocato, infatti, rientra nella definizione di “lavoratore” dettata dall’art. 2 del citato decreto che considera tale la "persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un'attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un'arte o una professione". L’avvocato che ha in organico anche solo un praticante, quindi, deve provvedere, ai sensi degli artt. 17, 28 e 29 D.Lgs. 81/2008, alla valutazione dei rischi ed alla conseguente elaborazione del relativo documento, che deve essere munito di data certa e custodito presso lo studio. È, altresì, necessaria la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi (art. 2 lett. f; art. 17 artt. 31-35 d.lgs 81/08). L’avvocato può decide- re di svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, previa frequentazione di corsi di formazione di durata minima di 16 ore, oppure può scegliere di avvalersi di persone o servizi esterni, senza esclusione della sua responsabilità in materia. L’avvocato-datore di lavoro, ai sensi dell’art. 45 del citato decreto, deve prendere i provvedimenti necessari in materia di primo soccorso e di assistenza medica di emergenza di cui al decreto ministeriale 15 luglio 2003, n. 388, garantendo le attrezzature di primo soccorso e designando un addetto al pronto soccorso, formato con istruzione teorica e pratica per l'attuazione delle misure di primo intervento interno e per l'attivazione degli interventi di pronto soccorso (corso di durata minima di 12 ore). All’interno dello studio legale ospitante, inoltre, devono essere adottate idonee misure per prevenire gli incendi e per tutelare l'incolumità dei lavoratori che consistono, in sintesi, nella valutazione del rischio incendio, nell’installazione di adeguato estintore e nella designazione dell’incaricato dell'attuazione delle misure di prevenzione incendi, lotta antincendio e gestione delle emergenze, che deve frequentare specifico corso di formazione. Anche i compiti propri dell’addetto al primo soccorso, nonché alla prevenzione incendi e evacuazione, possono essere svolti direttamente dall’avvocato, sempre previa formazione. Continia a pagina 23 In tema di sospensione feriale di Giuseppe Dacquì Nella mia lunga vita professionale forense mai mi sono trovato d’accordo con l’Associazione nazionale magistrati ma questa volta in tema di durata della sospensione feriale non posso che sottoscrivere quanto dalla stessa lamentato. La sospensione feriale dei termini (così tecnicamente definita) è regolata dalla legge n.742 del 1969. Tale legge sospendeva prima dell’attuale decreto legge, il decorso dei termini processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie dal 1 agosto al 15 settembre di ciascun anno. La sospensione feriale non vuol dire la completa paralisi dell’attività giudiziaria poiché la sospensione nella fase delle indagini preliminari non opera per gli imputati in stato di custodia cautelare, qualora gli imputati o i loro difensori rinunzino alla sospensione dei termini; nei procedimenti prossimi alla prescrizione e in quelli in cui sia prossima la scadenza dei termini di custodia cautelare; così come non opera, per i soli termini delle indagini preliminari concernenti i procedimenti per reati di criminalità organizzata ed in altri casi di particolare urgenza disciplinati dalla legge. Forse non è a tutti noto che nel periodo della sospensione operano regolarmente il Tribunale del Riesame, il Tribunale di Sorveglianza, il Tribunale dei Minori, le Procure, nonché tutti i giudicanti che si occupano dei procedimenti urgenti. Spiace dirlo ma la questione è stata presa di petto dall’illustre Pierluigi Battista e dalle forze politi- che senza conoscere il reale funzionamento della macchina della giustizia. Con la riduzione del periodo di sospensione si vorrebbe dare un’accelerazione ai tempi della giustizia ma non ci si rende conto che il rimedio è peggiore del male. Si vuole dunque la celebrazione del processo ordinario nel periodo “ferragostano” senza tener conto che gran parte del personale è in ferie, così come sono in ferie le forze dell’ordine, gli agenti penitenziari, il cittadino testimone, il cittadino persona offesa, i consulenti, i periti, i trascrittori, ecc…. Sicchè, i processi fissati per tale periodo inevitabilmente saranno rinviati per l’assenza legittima dei testimoni e senza tener conto, anche, dell’insufficienza del personale amministrativo con un evidente e notevole aggravio di tempi e di spese. Per rendere rapido l’iter processuale occorre che intanto il Ministro di giustizia faccia una cernita di tutti i magistrati dislocati nei vari ministeri ed istituzioni al fine di verificare la loro indispensabilità, fornisca gli strumenti tecnologici moderni ed adeguati agli uffici giudiziari, e dia man forte all’edilizia giudiziaria e carceraria. Le ferie non sono un privilegio ma un diritto costituzionalmente protetto. Spiace che su tale argomento la voce dell’Avvocatura non si stia levando in maniera forte. Non credo che la tutela di un diritto rappresenti “un interesse di categoria”. L’avvocato penalista non è mai in “ferie” ma obbligarlo ad andare in aula ad agosto anche per i processi ordinari è puro sadismo! 21 QUANDO IL SUBAGENTE PERDE L’INDENNITA’ DI CESSAZIONE DEL RAPPORTO di Rosario Carrara Ancora oggi la dottrina e la giurisprudenza dibattono sulla possibilità di estendere gli Accordi Economici Collettivi dettati per gli agenti anche ai subagenti che, come è noto, sono i collaboratori diretti dell’agente, ossia coloro che per conto dell’agente promuovono le vendite dei prodotti dell’azienda che a tal fine ha conferito incarico all’agente. La prevalente giurisprudenza del Supremo Collegio, muovendo da un’interpretazione letterale degli Accordi, è di parere negativo ed affida la tutela dei subagenti - in punto di indennità spettanti - alla sola disciplina dettata dagli artt. 1750 e 1751 c.c. . Invero, “i subagenti non possono invece avvalersi delle indennità previste esclusivamente dal contratto collettivo concernente gli agenti” (Cfr. Cass. civ. Sez. Lavoro, 07.06.1999, n. 5577). Ed ancora, “ è condivisibile e corretto il principio secondo cui al subagente non può essere estesa la contrattazione collettiva di diritto comune propria degli agenti” (cfr. Cass. civ. Sez. Lavoro, 22.04.2002. n. 5827). Ma ciò come principio di carattere generale senza escludere l’operatività di detti accordi anche per i subagenti ove le parti del contratto di subagenzia abbiano espres- 22 samente o per relationem convenuto la operatività degli A.E.C. . In mancanza, quindi, di detta convenzione opererà la sola disciplina prevista dagli articoli 1750 e 1751 c.c. . Ora, con riferimento alla indennità di scioglimento del rapporto il citato art. 1751 c.c. collega il relativo diritto ad una serie di presupposti che si possono sintetizzare come di seguito. Se il rapporto si scioglie ad iniziativa dell’agente o subagente (dimissioni), occorre anzitutto che ciò sia determinato da ragioni di età, infermità o malattia dello stesso dimissionario o da un grave inadempimento dell’altra parte contrattuale, poiché, diversamente, l’indennità non spetta. Se, invece è la preponente a sciogliere il rapporto, ovvero l’agente verso il subagente (disdetta), l’indennità non spetta se la stessa è stata determinata da una giusta causa di recesso. Stabiliti tali presupposti indefettibili, per poter beneficiare della indennità occorre, in seconda battuta, che sussistano - in via concorrente e non alternativa una serie di altri presupposti segnatamente indicati al comma 1° del citato art. 1751 c.c. Più precisamente occorre che: - l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti; - il pagamento della indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti. Non mi soffermerò sull’esame di tali presupposti ma passerò in rassegna un caso pratico che ha visto un subagente recedere dal rapporto con l’agente in seguito alla disdetta da questo ricevuta dalla preponente principale. Ebbene, tra le altre rivendicazioni, il subagente invocava il diritto alla indennità di scioglimento del rapporto posto che il proprio recesso era stato determinato da giusta causa, segnatamente, dalla violazione degli obblighi informativi a carico dell’agente che non gli aveva comunicato la disdetta ricevuta dalla proponente principale. Dall’altra parte, l’agente riteneva che nessuna indennità di scioglimento potesse spettare al subagente per non avere integrato alcuna violazione agli obblighi informativi a proprio carico e, comunque, perché non sussistevano o non era provata la concorrente esistenza di tutti gli altri presupposti richiesti dall’art. 1751, comma 1°, c.c.. Il Tribunale Lavoro di Catania, chiamato a decidere in prima istanza la controversia, rigettava la domanda del subagente ritenendo che la disdetta comunicata dalla preponente principale all’agente aveva determinato - nei rapporti tra agente e subagente - <<una classica ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione contrattuale>> che, in quanto non imputabile all’agente, precludeva ai sensi dell’art. 1751 c.c. il dritto del subagente alla indennità di scioglimento del rapporto. Avverso tale decisione il subagente proponeva appello avanti la Corte Territoriale Lavoro di Catania cui resisteva l’agente. All’esito del giudizio durato circa cinque anni, la Corte d’Appello ha rigettato l’appello del subagente sulla base della seguente motivazione: “Ritiene il Collegio che nel caso in esame non ricorre l’ipotesi della esclusione conseguente alle dimissioni dell’agente atteso che il recesso era giustificato da ragioni rientranti nelle sfera del preponente sebbene non imputabili a responsabilità dello stesso. Tuttavia, non può trovare applicazione la disposizione in esame che prevede la duplice condizione che l’agente abbia procurato nuovi clienti o abbia sensibilmente aumentato gli affari con i clienti già esistenti e che il preponente continui a trarre vantaggio dagli affari con tali clienti. Nel caso in esame il secondo presupposto non è stato provato e sicuramente tardive sono le allegazioni in tal senso con- tenute nell’atto di appello. Peraltro, poiché è provato che il subagente ha continuato a svolgere la stessa attività di subagente per il nuovo agente della preponente e nelle stesse zone è presumibile che lo stesso non abbia subito alcun pregiudizio dalla cessazione del rapporto di agenzia per cui è causa che è sostanzialmente proseguito con altro agente e che il subagente non abbia perso provvigioni” La Corte Territoriale, quindi, pur nella identità delle conclusioni, sviluppa una posizione differente da quelle adottata dal Giudice di prime cure, che si può così sintetizzare: le dimissioni del subagente determinate dalla disdetta comunicata al proprio preponente dalla preponente principale non precludono il diritto alla indennità ex art 1751 c.c purchè sussistano le ulteriori condizioni richieste dalla norma. La vicenda non è ancora conclusa posto che il subagente ha proposto ricorso per Cassazione cosicchè siamo in attesa di conoscere la posizione del Giudice nomofilattico sul punto. Continua da pagina 20 “Commissione Pari Opportunità” In ordine alla sorveglianza sanitaria, la nomina del Medico Competente è prevista solo in caso di utilizzo, da parte del praticante, di attrezzatura munita di videoterminali, in modo sistematico o abituale, per venti ore settimanali. Infine, come chiarito dalla Circolare Inail n. 16 del 4 marzo 2014, è escluso "dall’obbligo assicurativo colui il quale, ai fini dell'ammissione all'esame di stato per l'abilitazione all'esercizio della professione, è tenuto a svolgere un periodo obbligatorio di “praticantato”, tenuto conto della gratuità del rapporto e dunque dell’assenza del requisito soggettivo ai fini assicurativi ai sensi dell’art. 4, n.1) del d.p.r. 1124/65, dato che il rimborso spese comunque non ha natura corrispettiva". Tuttavia, l’esclusione del praticante dall’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro non esonera dall’obbligo di tenuta del registro infortuni (art. 403, DPR n. 547/1955), che grava sul datore di lavoro che impiega lavoratori subordinati o soggetti ad essi equiparati. Il registro degli infortuni, infatti, è obbligatorio per legge, e deve essere istituito e tenuto anche da parte dei datori di lavoro che non hanno dipendenti assicurati presso l’Inail. Il registro deve essere redatto conformemente al modello approvato con decreto ministeriale del 12 settembre 1958, vidimato presso ASL competente per territorio e conservato a disposizione dell’organo di vigilanza sul luogo di lavoro. Questa breve disamina degli oneri gravanti sull’avvocato che intende ospitare un praticante, senza presunzione di esaustività, vuole essere, soprattutto, un’occasione di riflessione sull’incidenza di tali incombenze sul desiderio di comunicare competenze e di offrire un’opportunità a chi, oggi, aspira ad esercitare la professione forense. 23 E U R O PA di Pasquale Cipolla In ricordo di Michelangelo Salerno, avvocato, di raffinata cultura umanistica, dette prestigio al Foro nisseno che fece conoscere oltre i suoi confini Era il primo Pontefice che, dai tempi di Pietro, lasciata Roma, valicava le Alpi per l’impervio e pericoloso passo del Gran San Bennardo, con l’intento di giungere a Ponthion che era la sede di Pipino, re dei Franchi, con il quale doveva stringe- 24 re una alleanza memorabile. Il nome del Papa, in viaggio nel pieno dell’inverno dell’anno di grazia 753, fatto tra mille pericoli ed insidie, era Stefano II, un uomo alto e magro di salute malferma che i romani avevano scelto per le sue doti di coraggio. I motivi che lo avevano spinto così lontano erano tutti nella grandiosa missione il cui compimento doveva affidare al re dei Franchi, e cioè la liberazione dell’Italia dai Longobardi che l’occupavano da due secoli e minacciavano ora Roma e la stessa sede apostolica, nonché la propagazione della fede cristiana nei paesi dell’Europa, in parte ancora barbara, il contenimento dell’avanzata musulmana, ed infine la difesa di Roma e della Chiesa. La sorte volle che un progetto di tale portata fosse attuato e compiuto da Carlo Magno, figlio di Pipino a cui era succeduto. Tutti i popoli europei, dal Mar del Nord e sino al Mediterraneo, furono difatti da lui uniti nel nuovo ordine carolingio col vincolo religioso verso la Chiesa di Roma, ove nel giorno di natale dell’anno 800, nella Basilica di San Pietro gremita da una folla festante ed alla presenza del clero, dei cavalieri franchi e dei patrizi romani, fu incoronato imperatore e riconosciuto come il solo e vero capo della cristianità in Europa. La consacrazione non ebbe il significato della resurrezione dell’impero dei Cesari, né della restaurazione dell’Impero Romano d’occidente che era una formula priva di contenuto, ma segnò la nascita dell’Impero Romano Cristiano il cui unico fondamento privo di radici storiche, di rivendicazioni territoriali e di supremazie, fu l’ideale politico religioso dal quale Carlo Magno trasse tutta la dignità, il prestigio e la forza di difensore della Chiesa universale e di propugnatore della fede. Compito non facile in una Europa che dopo la fine ed il dissolvimento del primato romano era caduta nel buio culturale, spirituale e morale più profondo e nel disordine totale. Delle condizioni disastrose in cui versavano i popoli europei tenne debito conto Carlo Magno il quale per infondere uno spirito nuovo ed una luce nuova che squarciasse le tenebre di quel tempo accompagnò la diffusione del cristianesimo con una forte spinta culturale e morale. A questo scopo radunò attorno a sé le più belle intelligenze europee tra inglesi, tedeschi, italiani, spagnoli, franchi, longobardi che svilupparono i prodromi di una comune cultura europea. Con il passare dei secoli e con il succedersi di eventi di portata storica come quello riferibile a Federico II che delle scomuniche del Papa non se ne curò proprio per niente, il legame religioso verso la Chiesa, inteso come caposaldo dell’unità dell’impero carolingio, si era sempre più sfilacciato in una Europa completamente diversa sul piano politico ed economico e sociale da quella lasciata dall’Imperatore franco. La graduale caduta dei valori che avevano tenuto unita l’Europa ebbe alla fine una conclusiva accelerazione dalla spinta impressa dai movimenti cristiani, quali l’Umanesimo prima ed il Luterano dopo, alla radicale trasformazione dell’assetto europeo cristiano-romano. A differenza degli “Umanisti” che avevano posto al centro la spiritualità dell’uomo, i Luterani puntarono a mettere in crisi i principi della dottrina e della fede della Chiesa di Roma, con l’obiettivo della nascita di una chiesa evangelica tedesca. Lutero, che del movimento ne è stato il capo, abbandonata la originaria rivendicazione di uguaglianza dei diritti sociali e politici del ceti popolari germanici, ebbe gioco facile per due fondamentali ragioni la prima delle quali fu la dissoluzione dei valori morali delle gerarchie ecclesiastiche romane e la seconda per la coincidenza della sua azione con gli interessi politici dei grandi principi tedeschi portati, per aspirazione nazionalistiche, ad escludere nei loro territori ogni ingerenza della Chiesa di Roma. Otto secoli dopo la morte di Carlo Magno, l’Europa che nel segno della fede cristiana si era unita, nel segno della stessa fede si divise in due grandi blocchi ciascuno dei quali si dette nel solco dei propri costumi e delle proprie tradizioni e culture, gli assetti politici ed economici diversi uno dall’altro. Il contrasto tra le due europe, l’Europa del nord e del sud, l’atlantica e la mediterranea, la cattolica e di cultura latina e la protestante di cultura anglosassone divenne inevi- tabile e fu causa di incomprensioni e di guerre, l’ultima delle quali consegnò alla storia il grado di follia e di ferocia mai prima raggiunto dall’uomo. Subito dopo la fine del conflitto, la paura di altre devastazioni e guerre, rese necessaria ed urgente l’adozione di strumenti capaci di assicurare all’Europa un destino finalmente di pace. Con la speranza di un avvenire migliore nacque così l’Unione Europea, alla cui architettura furono chiamati uomini non certamente illuminati nel campo politico, storico e culturale, ma tecnocrati e banchieri che in un complesso ordine di regole economiche e finanziarie pensarono di legare insieme le sorti dei vari paesi europei. A completare un siffatto processo di unificazione fu l’introduzione della moneta unica con l’obiettivo di rendere uniformi le diverse condizioni socio economiche degli stati membri ed in tal modo eliminare situazioni di contrasto. Non pare, però, che il progetto abbia avuto esiti positivi considerato che i paesi prima poveri ora sono più poveri al contrario di altri che sono più ricchi e ciò trova riscontro nei movimenti, sempre meno carsici, di opposizione, di rigetto e di intolleranza verso i criteri imposti dall’Unione. Forse perché la paura che prima la fece nascere è ormai lontana nel tempo e delle sue cause se ne è persa la memoria o forse perché al gigante europeo che si è costruito, non si è data un’anima, un ideale capace, cioè, di far credere a ciascuno di essere un autentico cittadino d’Europa, come invece fece l’imperatore carolingio che proprio per questo resta sino ad oggi l’unico unificatore vero dei popoli europei. Aprile 2014 25 Fondazione Scuola Forense Nissena “G. Alessi” IL VIVAIO "Il rapporto familiare… tra una chat e una videochiamata!" di Carla Maria Milisenna "La famiglia è la prima sede dove si comprende il significato dell'esistenza. In un mondo in cui prevalgono i valori del profitto, della ricchezza, del piacere, la cultura dell'accoglienza mira a coltivare i valori del servizio e del dono". (N. Galli). Mazzini diceva che la famiglia è la Patria del cuore. Ma "cosa è la famiglia?" Da un punto di vista antropologico, la si intende come "Istituzione fondamentale in ogni società umana, attraverso la quale la società stessa si riproduce e perpetua, sia sul piano biologico, sia su quello culturale". 26 Facendo quindi seguito agli input di cui sopra, è evidente che il concetto di famiglia sottintende la presenza di diverse persone che assumono diversi ruoli in base all'ambito di riferimento, ma in tutti i casi essa è celebrata come Istituzione. Negli ultimi anni però, con l'avvento della tecnologia e l'inquadramento della stessa come struDa un punto di vista giuridico, mento principale del quotidiano il Codice civile vigente pur conteagire umano, anche la famiglia, antinendo il primo libro "DELLE PERca istituzione sociale, giuridica e SONE E DELLA FAMIGLIA", non contiene alcuna definizione della stessa. Ciò non ha impedito il proliferare di diverse definizioni di famiglia offerte dalla dottrina, che si è sforzata di rinvenire una nozione unitaria. La famiglia è stata così, in un primo tempo, intesa come gruppo religiosa ne ha risentito. di persone appartenenti ad una Difatti il concetto di famiglia e comune discendenza, ossia come di rapporto familiare è stato così famiglia parentale. tanto bistrattato da essere stato ridotL'art. 29 della Costituzione to all'osso. italiana la definisce come Si è persa infatti la concezione "SOCIETÀ NATURALE FONDAlegata all'apprendimento dentro le TA SUL MATRIMONIO" e afferma l'obbligo della Repubblica di riconoscere alla stessa, così intesa, i diritti che le competono Questa definizione si collega all'art. 2 Cost., ove si afferma che la Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. mura domestiche, legata all'espeDa un punto di vista cattolico rienza fisica, all'uso dei cinque infine, la famiglia fu istituita da Dio sensi. Basti pensare che al giorno sin da principio. Egli dopo aver d'oggi, anche un bacio sulla guancia creato ogni cosa creò l'uomo e la è stato sostituito da un emoticon! donna, generando così la prima Nello specifico il caso che si famiglia (Gen. 1:26-28). prende in esempio, fa riferimento ad una famiglia che ha vissuto una separazione e un conseguente affidamento della prole ad uno dei genitori, consentendo il diritto di visita al genitore non collocatario. Il rischio maggiore per il genitore non collocatario è quindi non poter assistere al percorso di crescita dei propri figli. Nello specifico, una madre che aveva grandi problemi relazionali con le figlie, aveva deciso, dopo la separazione, di partire per la Francia e le figlie erano rimaste con il padre. Le bambine avevano rifiutato di vedere la madre durante gli "incontri protetti" effettuati in presenza degli operatori sociali. Da ciò il Tribunale di Milano con l' ordinanza del 16.04.2013, ha previsto che il coniuge non affidatario possa vedere i propri figli, almeno temporaneamente, via Skype alla presenza del padre con l'intento di agevolare gli incontri tra genitore non collocatario e figli. Riprendendo il principio espresso dalla Corte Europea per i diritti dell'uomo secondo cui lo stato deve mettere a disposizione del cittadino tutti i mezzi che consentano l'attuazione dei propri diritti e il rispetto dei provvedimenti giudiziari che riguardano tali diritti, anche prevedendo misure specifiche che si rendano opportune nel caso concreto, nel caso in cui si registri una difficile ripresa dei rapporti tra l'un genitore e i propri figli minori, una interazione audiovisiva in diretta tra genitore non collocatario e figli minori realizzata attraverso un col- legamento Skype può consentire una graduale ripresa di un dialogo tra gli stessi, attraverso una percezione visiva ed in voce fatta, sì, di comunicazione (essenzialmente) verbale, ma che al contempo può favorire una ri-abitudine alla gestualità e allo scambio emotivo. Questa statuizione però non tiene conto del rapporto umano genitore - figlio, piuttosto lo assottiglia, equiparando dei gesti o delle azioni concrete potenzialmente assumibili dal genitore, ad una videochiamata su skype, supponendo in tal modo di poter favorire una ri-abitudine allo scambio emotivo tramite un mezzo sì moderno, ma di certo freddo e distaccato! Solo un anno dopo questa statuizione, un caso poco dissimile si presenta agli occhi della Corte di Cassazione, diventando protagonista della sentenza n. 19694 del 19.09.2014. La Corte ha infatti respinto il ricorso di una donna inglese intenzionata a portare a Londra, suo Paese di residenza, il figlio minore nato da una relazione con un italiano. Dopo la separazione della coppia, il figlio era stato dato in affidamento condiviso ad entrambi i genitori, pur tuttavia la donna aveva deciso di tornare nel proprio Stato di origine per via delle migliori condizioni economiche che lì avrebbe trovato. I giudici però, si trovavano in disaccordo anche nel momento in cui la donna aveva proposto, quale alternativa per supplire agli incontri con il padre resi impossibili dalla distanza, il ricorso alle videochiamate su internet, nello specifico tramite Skype e altri mezzi telematici di comunicazione. La donna inoltre ha addotto in favore della sua tesi, il diritto a non vedere compressa la sua libertà di tornare in patria, lavorare e ritrovare l'affetto della famiglia. La Corte però ha ritenuto di dover sacrificare tali diritti in nome dell'interesse superiore del minore. È stato quindi statuito che il rapporto esclusivo del minore con la madre non avrebbe garantito una crescita equilibrata del bambino. Infatti per un corretto sviluppo psicofisico del minore è necessaria la presenza di entrambi i genitori, nello specifico la vicinanza fisica del padre giacché il suo ruolo non può essere sostituito attraverso comunicazioni via Skype o altri mezzi di comunicazione telematica come le chat. Si evince un cambio di rotta rispetto all'ordinanza del 2013 sopra riportata. Infatti il riferimento specifico a cui rimanda la Corte è al corretto sviluppo psicofisico del minore, fortemente collegato alla presenza e vicinanza fisica dei genitori. Non si può infatti cercare un mezzo ulteriore o diverso che sostituisca il concreto e vissuto rapporto familiare: si incorrerebbe altrimenti nell'errore di poter pensare di ricreare qualcosa di irripetibile come l'esito del rapporto genitore-figlio. "Non c'è dubbio che è intorno alla famiglia e alla casa che le più grandi virtù della società umana si creano e si rafforzano" (Winston Churchill). 27 In conclusione, per quanto il mondo corra più veloce della luce, per quanto la tecnologia stia facendo progressi incredibili, ci sono ambiti tandone così una facile strumentalizzazione che si rende possibile solo ed esclusivamente perché ci si dimentica dell'irripetibilità dei rapporti umani interni alla famiglia. "Di certo ci sono ancora quelle famiglie all'antica dove il Codice Civile non riesce a prevalere contro la volontà dell'onnipotente padre". (F. Mauriac). "[…] tendiamo a sottovalutare il fatto che la libertà non si dà per se stessa, ma solo in relazione all'organizzazione della società. Abbagliati dall'emergere vittorioso dell'Io, ci dimentichiamo che la libertà è, per sua natura, relazionale: esiste e si esprime solo in rapporto ad altro e ad altri; e alle forme sociali e istituzionali che la contengono e, in qualche misura, la plasmano". (M. Magatti). "Chiamatelo clan, chiamatela rete sociale, chiamatela tribù, chiamatela famiglia. Comunque la chiamiate, chiunque siate, ne avete bisogno" (J. Howard). in cui - grazie a Dio? - il tempo e lo spazio si sono fermati, permettendo che valori come quello della famiglia siano tutelati dalle istituzioni giuridiche, politiche, religiose, evi- CONDOTTE ALLETTATRICI TRA INTRALCIO ALLA GIUSTIZIA E CORRUZIONE Le problematiche di consulenti tecnici "di parte" di Serena Dibenedetto Il sistema giudiziario attraversa sempre più un periodo di crisi della correttezza professionale. Le pulsioni personali e materiali sono all'ordine del giorno e intralciano la genuinità processuale fino a farla diventare utopia. Onde evitare di lacerarci anzitempo, dato l'ingresso più che recente nelle maglie dell'Avvocatura, è bene, almeno personalmente, accentuare gli interventi delle "Corti" volto al contrasto del fenomeno corruttivo nel suo momento di maggiore pericolosità, quello dell'incontro col sistema Giustizia. La recentissima sentenza della Corte Costituzionale n. 163/2014 si sofferma su un tema a lungo dibattuto, ovvero quello della relazione tra 28 il delitto di istigazione alla corruzione (art. 322 c.p.) ed intralcio alla giustizia (art. 377 c.p.). La vicenda da cui trae spunto il pronunciamento della Consulta vedeva coinvolto un consulente tecnico del Pubblico Ministero, beneficiario di una somma di denaro, consegnatagli da privati al fine di redigere una falsa perizia. Questi aveva, dunque, accettato l'offerta informando, tuttavia, immediatamente il Pubblico Ministero. Durante le indagini preliminari il GIP aveva applicato all'indagato un rimedio cautelare sul convincimento che fosse stato commesso il delitto di corruzione in atti giudiziari ex art. 319-ter c.p. Sul presupposto che la tratta- tiva non si fosse conclusa, il Tribunale del Riesame qualificava invece il fatto come sussumibile nell'art. 322 c.p., ovvero il delitto di "istigazione alla corruzione". In realtà i confini tra tutte le figure criminose citate apparivano piuttosto confusi. Il primo e il secondo grado di giudizio si sono resi protagonisti di ragionamenti ermeneutici ondivaghi e tutti egualmente razionali, oltrepassando i limiti che il sempre saggio principio di "certezza del Diritto" ha posto nel panorama della scienza giuridica A parere del giudice di secondo grado, non sarebbe possibile classificare la fattispecie come intralcio alla giustizia; esso potrà delinearsi solo nel caso in cui il soggetto destinatario dell'offerta rivesta formalmente già la qualifica di teste, regolarmente citato ad intervenire nel corso dell'udienza dibattimentale. Per questo la Corte d'Appello riformava la sentenza di primo grado (condannatoria ex art. 377 c.p.), interpretando la condotta come concorso in istigazione alla corruzione. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono occupate della questione in modo più che puntuale evidenziando che: l'art. 377 c.p. con riferimento all'art. 372 c.p. potrebbe applicarsi anche al caso di un consulente tecnico che, pur essendo un vero e proprio "braccio tecnico", se già citato, è sottoposto alle medesime regole dell'esame che interessano la testimonianza (artt. 501, 503 c.p.p.); in secundis, non gli è precluso che possa "affermare il falso o negare il vero"; sempre l'art. 377 c.p. limiterebbe la sua applicabilità al solo perito del giudice, mentre tutte le altre figure affini contemplate dal codice di rito penale, in quanto non rientranti nell'art. 373 c.p. (falsa perizia), rimarrebbero escluse da qualsiasi riferimento normativo; altra questione riguarda la citazione del consulente ai sensi dell'art. 468, comma 2 c.p.p. potrà contestarsi l'art. 377 c.p. solo nel caso in cui il destinatario della condotta abbia già assunto formalmente la qualifica processuale. Se però il soggetto passivo dell'offerta deve essere considerato un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio (artt. 357 e 358 c.p.), egli ha già una precisa qualifica a prescindere dalla sua citazione; in quarto luogo, posto il consulente tecnico è abilitato ad esplicitare un proprio giudizio personale, una consulenza di tipo meramente valutativo non si presenterebbe come un'alterazione dell'attività di perizia. Tanto premesso, sebbene il reato di cui all'art. 377 presenti caratteri di specialità rispetto al più generico art. 322 c.p. (istigazione alla corruzione), tale ultimo disposto poneva, a parere degli Ermellini, una questione di legittimità costituzionale, dal momento che il tentativo di corruzione di un consulente tecnico di parte verrebbe punito in modo più severo rispetto ad un altro già ammesso a deporre in dibattimento. La Consulta, investita con apposita ordinanza, ha deciso con sentenza n. 163 del 2014 per l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 322 c.p. sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., riconoscendo nel difetto di coordinamento tra le norme incriminatrici menzionate il punto focale dei dubbi interpretativi. Dirimente è stato proprio il discrimen tra offerta destinata ad indurre false rappresentazioni di fatto e proposta funzionale alle false dichiarazioni di scienza ad opera del consulente. Posta la discrasia sanzionatoria tra i reati già oggetto di disputa, nel caso in cui il consulente tecnico ponga in essere un'attività di accer- tamento che postula sia il riscontro di dati oggettivi che profili valutativi, il soggetto che offre o promette denaro al consulente potrebbe mai rispondere di due reati in concorso formale? Stando alle Considerazioni delle Sezioni Unite, i delitti in concorso saranno quelli di cui all'art. 377 c.p. per la parte che ha ad oggetto elementi oggettivi e all'art. 322 c.p. per la parte che ha ad oggetto elementi valutativi; conclusione, questa, a dir poco bizzarra e che porterebbe alla sola duplicazione della reazione dell'ordinamento penale per lo stesso fatto. Si cadrebbe nell'ipotesi di conflitto tra norme, che è proprio ciò che si tende ad evitare e le incongruenze si vedrebbero addirittura moltiplicate! La Suprema Corte ha preso atto dell'interlocuzione intervenuta e definito il giudizio a quo (ud. 25 Settembre 2014), dando esito affermativo alla configurabilità del delitto previsto e punito dall'art. 377 c.p. Ciò è, tra l'altro, stato funzionale a superare i dubbi circa l'illegittimità del più severo trattamento sanzionatorio che si sarebbe connesso all'applicazione dell'art. 322 c.p. Le conclusioni, in sintesi, sono le seguenti: Al consulente tecnico del P.M. non è sicuramente applicabile il reato di falsa perizia, poiché questi non è perito, bensì svolge un'attività d'ausilio di una parte. Infatti, l'unico soggetto che può nominare un perito, a norma del codice vigente, è il Giudice; La circostanza che quest'ultimo non possa rendersi responsabile dell'art. 373 c.p. rende inapplicabile la stessa fattispecie di cui all'art. 377 c.p.? Potrebbe, tuttavia, esserlo in relazione al delitto di falsa testimonianza di cui all'art. 372 c.p., stante le numerose analogie di cui si è già detto e vista anche la natura pubblica delle funzioni svolte dal consulente. 29 La disparità di trattamento oggetto dell'ordinanza di rimessione è ineliminabile, dal momento che non sarebbe sufficiente la mera declaratoria di incostituzionalità dell'art. 322 c.p. per evitare la lesione dell'art. 3 Cost. Sarebbe più ragionevole guardare all'art. 380 c.p., equiparando il consulente tecnico del P.M. a quello della difesa, sempre sul presupposto che il P.M. è "parte" processuale, punendo in tal modo soltanto la consulenza infedele. Non rimane, dunque, che affi- chiara violazione del principio di darsi all'intervento del Legislatore, uguaglianza prevedendo, a titolo auspicando che ponga rimedio a una meramente esemplificativo, un capo dedicato ai "reati contro l'integrità e la veridicità delle prove", al cui interno viene inserito il delitto di "falsa consulenza", che include tra i soggetti attivi anche il consulente tecnico del P.M. (come era già stato proposto nel progetto di Riforme al Codice di procedura penale del 1990). DALLA SENTENZA TORREGIANI AI GIORNI NOSTRI: cosa è cambiato? di Dalila Di Dio Con la legge 117/14, lo scorso 11 agosto il Parlamento ha provveduto alla conversione del decreto -legge 26 giugno 2014 n.92 recante "disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell'art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, nonché modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all'ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all'ordinamento penitenziario, anche minorile". Con il decreto in parola il Governo ha inteso dare attuazione alle indicazioni contenute nella sentenza dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo dello scorso 8 gennaio 2013 - Torreggiani e altri c/ Repubblica Italiana - pronunciata a seguito dei ricorsi di sette detenuti ristretti negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e Piacenza, i quali denunciavano la violazione dell'art. 3 30 CEDU, sostenendo che le loro condizioni di detenzione costituissero trattamenti inumani e degradanti. I detenuti lamentavano, in particolare, la mancanza di spazio vitale nelle celle, nonché gravi carenze igieniche derivanti dalla problemi di distribuzione di acqua calda ed accesso ai servizi igienici. L'art. 3 della Convenzione sancisce che "nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". La Corte adita nel ribadire, preliminarmente, come la carcerazione non faccia perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione, sottolineava come "in alcuni casi, la persona incarcerata possa avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato" riaffermando l'onere di ciascuno Stato di assicurare "ad ogni prigioniero condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che non comportino per il ristretto uno stato di sconforto né una prova di intensità che ecceda l'inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione". Con la sentenza-pilota Torreggiani la Corte di Strasburgo, di fatto, certificava che il problema del sovraffollamento carcerario in Italia è divenuto ormai "strutturale e sistemico" e di gravità tale da far ritenere violati i principi sanciti dal predetto art. 3 CEDU. Nel condannare l'Italia al risarcimento del danno morale patito dai ricorrenti, la Corte intimava, altresì, al Governo di attuare misure organiche al fine di "ridurre il numero di persone incarcerate, in particolare attraverso una maggiore applicazione di misure punitive non privative della libertà". Invitava, inoltre, il Governo nazionale a provvedere "senza indugio" alla predisposizione "di un ricorso o di una combinazione di ricorsi" con effetti preventivi e compensativi al fine di garantire una riparazione effettiva delle violazioni della Convenzione risultanti dal sovraffollamento carcerario. Dalla citata pronuncia emerge con chiarezza la insufficienza dei rimedi emergenziali attuati negli ultimi anni a livello governativo (svuotacarceri, liberazione anticipata cd. speciale ecc.) per far fronte ad un malfunzionamento cronico del sistema penitenziario nazionale: secondo dati forniti dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, infatti, al 30 settembre 2014, su una capienza regolamentare di 49.347 posti nei 203 istituti penitenziari italiani sono ristretti 56.530 detenuti. Tra questi 9.607 sono in attesa di primo giudizio ed 8.211 risultano condannati ad una pena non ancora definitiva. Di qui l'appello della Corte di Strasburgo affinché l'Italia adotti misure idonee a limitare al minimo il ricorso alla custodia cautelare in carcere. Con il decreto-legge 92/14 il Governo ha tentato, con opinabile efficacia, di ottemperare agli obblighi imposti dalla sentenza-pilota, con una serie di previsioni, riviste peraltro in sede di conversione, che lungi dall'apparire radicalmente risolutive, si palesano, ancora una volta, come palliativi destinati a rivelarsi insufficienti sul lungo periodo. Nella sua versione definitiva, la legge di conversione introduce una serie di misure tra le quali rimedi di natura risarcitoria in favore di detenuti ed internati reclusi in condizioni degradanti ed inumane in violazione dell'art. 3 CEDU (art. 35 ter legge n. 354/75), previsioni ostative alla applicazione delle misure custodiali (art. 275 co. 2 bis c.p.p.), direttive sulla gestione del personale del Corpo di polizia penitenziaria ed in materia di edilizia penitenziaria. In particolare, l'art. 1 del decreto 92/2014 inserisce nell'ordinamento penitenziario l'art. 35 ter, che prevede l'attribuzione al magistrato di sorveglianza della competenza ad adottare provvedimenti di natura risarcitoria nei casi di violazione del disposto dell'art. 3 CEDU, consistenti nella riduzione di un giorno di pena residua ogni 10 giorni in "condizioni inumane e degradanti" o, qualora il residuo di pena da scontare non consenta l'attuazione integrale di tale rimedio compensativo o il periodo detentivo risulti inferiore a 15 giorni, il riconoscimento di un risarcimento nella misura di 8 euro per ciascun giorno di restrizione della libertà. Analogo risarcimento è previsto in favore di chi abbia sofferto un periodo di custodia cautelare non computabile nella determinazione della pena ( ad esempio perché successivamente prosciolto) o per coloro che abbiano espiato per intero la pena detentiva. In questi casi, tuttavia, l'azione andrà proposta innanzi al Tribunale in composizione monocratica del capoluogo del distretto nel cui territorio abbiano la residenza, entro sei mesi dalla cessazione della detenzione. Novità hanno interessato anche i limiti di applicabilità delle misure cautelari: l'originaria formulazione dell'art. 8 del d.l. 92/2014 prevedeva il divieto di applicazione della misura custodiale nei casi in cui il Giudice avesse ritenuto che "all'esito del giudizio, la pena detentiva da eseguire non fosse superiore ai tre anni" senza contemplare eccezione alcuna e con chiaro riferimento al limite previsto dall'art. 656 co. 5 c.p.p. per la sospensione della esecuzione delle pene definitive. Aderendo a rilievi e osservazioni provenienti in particolare dalla Associazione Nazionale Magistrati (che aveva persino invocato una totale abrogazione dell'art. 8), il Parlamento ha ritenuto di emendare la norma in esame in sede di conversione, facendo salve le presunzioni di cui al comma 3 dell'art. 275 c.p. nonché l'applicabilità degli articoli 276, comma 1-ter, e 280, comma 3 ed inserendo una elencazione di reati ostativi al beneficio (423bis, 572, 612bis e 624 bis c.p. nonché art. 4bis l. 354/1975); il nuovo dettame consente, altresì, la applicazione della misura inframuraria "quando, rilevata l'inadeguatezza di ogni altra misu- ra, gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell'articolo 284 co. 1 c.p.". Nel complesso l'intero provvedimento pare ancora una volta permeato più che dalla effettiva volontà di arginare e porre definitivamente rimedio ad un problema ormai divenuto endemico, dalla necessità di ottemperare, in prossimità dello spirare del termine, alle indicazioni della sentenza-pilota adeguandosi alle indicazioni offerte dai Giudici di Strasburgo. Non sfuggirà, infatti, la scarsa adeguatezza del rimedio risarcitorio, siccome regolamentato dal nuovo art. 35 ter l. ord. pen, a porre rimedio all'atavico problema del sovraffollamento carcerario: la primaria conseguenza del nuovo istituto, pare evidente, sarà la proliferazione di ricorsi che andranno a intasare gli uffici dei magistrati di sorveglianza già inadeguati a far fronte alle competenze ordinarie e che si vedranno investiti da un carico di lavoro difficilmente gestibile in tempi brevi. Scarsa rilevanza sembra avere, a tal proposito, la previsione di affiancamento al magistrato di sorveglianza di personale volontario, destinata a rivelarsi inadeguata, tenuto conto anche della delicatezza e della gravosità del compito. Né tampoco particolarmente pregevole appare la nuova formulazione dell'art. 275 co. 2 bis che rinviando ad un giudizio prognostico relativamente alla pena da irrogare caratterizzato, evidentemente, da un'ampia discrezionalità - lascia al giudice, in sede di valutazione in ordine alla gravità del fatto ed alla situazione di vita dell'indagato, ampi spazi di manovra nel determinare se contenere entro i 3 anni la detta pena e, conseguentemente, ritenere applicabile il nuovo divieto di custodia cautelare. La disciplina delle misure cautelari presuppone un contemperamento tra diversi interessi, l'uno teso alla tutela della libertà personale l'altro a baluardo delle esigenze di difesa 31 della sicurezza pubblica che esigono interventi di riforma ponderati e razionali. Al problema del sovraffollamento carcerario non può darsi rispo- sta con provvedimenti occasionali o transeunti ma è necessaria una radicale revisione del sistema sanzionatorio - di accesso alle misure alternative, con la previsione di soluzioni premia- li e compensative e adeguamento delle strutture penitenziarie - che sia organica e strutturale, proprio come il problema che si propone di risolvere. IL PREUTENTE: un limite o una risorsa? di Gabriella Garozzo La posizione giuridica riservata al titolare di una privativa brevettuale viene spesso percepita dalla collettività in termini estremi, quasi come se il brevetto fosse uno strumento sempre in grado di garantire al suo titolare una posizione di dominio assoluto, incontrastato e incontrastabile. L'idea tradizionale, e ancora assai diffusa, della esclusiva ed incondizionata spettanza del diritto di sfruttamento dell'invenzione in capo al titolare del brevetto non è, invero, così rigida come potrebbe apparire. Mi riferisco, precipuamente, al c.d. "diritto di preuso", introdotto nel nostro ordinamento giuridico con l'art. 6 della Legge Invenzioni, il cui contenuto è stato poi trasfuso nell'art. 68, comma III, del Codice di Proprietà Industriale (D. Lgs. 10 febbraio 2005 n. 30), che testualmente dispone: "Chiunque, nel corso dei dodici mesi anteriori alla data di deposito della domanda di brevetto o alla data di priorità, abbia fatto uso nella propria azienda dell'invenzione può continuare ad usarne nei limiti del preuso. Tale facoltà è trasferibile soltanto insieme all'azienda in cui l'invenzione viene utilizzata. La prova del preuso e della sua estensione è a carico del preutente". Il nostro legislatore riserva, 32 dunque, una particolare attenzione anche per l'interesse di cui è portatore il c.d. preutente, ossia il soggetto che abbia legittimamente iniziato ad utilizzare, nella propria azienda, un nuovo ritrovato, prima che questo divenisse oggetto di privativa altrui. In questi casi, il titolare del brevetto dovrà rispettare l'utilizzo dell'invenzione che potrà legittimamente venir fatto anche dal preutente. Il comma III dell'art. 68 c.p.i. riconosce e garantisce la facoltà di proseguire nell'utilizzazione dell'invenzione "nei limiti del preuso", ossia entro i limiti così come derivanti dall'utilizzazione dell'invenzione che il preutente stesso abbia fatto nell'anno precedente il deposito della domanda di privativa brevettuale (momento a partire dal quale l'uso assolutamente legittimo della nuova invenzione si trasforma, insomma, in uso legittimo a certe condizioni). La disposizione, dal contenuto laconico ed essenziale, limitandosi ad elevare il "preuso" a fatto sia costitutivo sia limitativo del diritto de quo, non aiuta nell'individuazione dei riferiti limiti, la cui precisa determinazione risulta, invero, fondamentale al fine di verificare la legittimità dell'utilizzazione dell'invenzione da parte del preutente. La giurisprudenza italiana si è confrontata con tale interessante pro- filo del diritto di preuso in una sola occasione, per dirimere una controversia che, nel corso tre dei gradi di giudizio, ha ricevuto risposte parzialmente differenti. Il Tribunale di Milano, pronunziatosi in primo grado con sent. n. 3003/2007, aggancia il diritto di preuso, accertato in capo alla parte attrice, al "quantitativo medio commercializzato dall'attrice nei dodici mesi anteriori alla data di deposito delle domande di brevetto", diluendo, nella sostanza, l'ampia nozione legislativa di "utilizzazione dell'invenzione" nel concetto, certamente più rigido e limitato, della sola "vendita del prodotto". La riferita applicazione rigorosa della norma de qua è resa necessaria, ad avviso del giudice milanese, dal carattere assolutamente eccezionale del diritto di cui all'art. 68, comma III, c.p.i.. Diversa è la soluzione adottata, in secondo grado, dai giudici della Corte di Appello di Milano, pronunziatosi con sentenza del 6 dicembre 2010, n. 3299. Dopo aver rilevato che le vendite dell'ultimo anno riguardano, quasi certamente, anche una produzione dell'invenzione anteriore all'anno stesso e, pertanto, esorbitante il periodo a cui fa riferimento il legislatore, i giudici della corte terri- toriale ricercano la misura del diritto di preuso in un dato quantitativo interno all'azienda, quale quello della produzione dell'invenzione avvenuta nel lasso temporale indicato dal legislatore, così tralasciando il dato esterno della sua successiva commercializzazione. Con una motivazione invero assai stringata, anche i giudici della Suprema Corte, con sentenza del 5 aprile 2012, n. 5497, mostrano di condividere tale impostazione, attribuendo all'uso aziendale dell'invenzione valore giuridico sia qualitativo sia quantitativo. Gli Ermellini, condividendo una concezione interamente endoaziendale del diritto di preuso, focalizzano l'attenzione sulla nozione di azienda, considerata l'elemento centrale della disposizione normativa: l'uso aziendale dell'invenzione non è solo l'elemento costitutivo del diritto del preuso (valore qualitativo), ma diventa anche il parametro di riferimento per determinare i limiti nel rispetto dei quali l'utilizzazione dell'invenzione brevettata rimane legittima (valore quantitativo). L'oscillazione giurisprudenziale brevemente riferita è un indice della evidente difficoltà che si riscontra nell'individuare il dato empirico a cui agganciare la facoltà eccezionalmente riconosciuta al preutente da una disposizione estremamente asettica e, dunque, foriera di molteplici interpretazioni, invero ugualmente opinabili. Da un canto, la soluzione adottata dal Tribunale milanese di riferire l'espressione "nei limiti del preuso" ai dati così come risultanti dalle scritture contabili e, dunque, al parametro mutevole della commercializzazione del prodotto, trova il suo tallone d'Achille nella possibilità, se non certezza, di dare rilievo, in tal modo, anche a momenti ulteriori rispetto al lasso temporale espressamente individuato dal legislatore. Dall'altro, neanche la soluzione prospettata dalla Corte territoriale, e poi condivisa dalla Cassazione, sembrerebbe esente da critiche. Agganciare l'estensione del diritto di preuso al parametro della produzione è una soluzione che sembra stridere con il dato testuale dell'art. 68, comma III, cit. che, invece, contiene un espresso riferimento all'uso dell'invenzione, concetto in cui sembra certamente rientrarvi anche la commercializzazione, e non solamente la produzione (che rappresenta, senza dubbio, il primo, ma di certo non l'unico, degli usi possibili). Inoltre, tale tesi, disconoscendo totalmente gli esiti commerciali dell'invenzione oggetto del preuso, rischia di penalizzare eccessivamente l'inventore che, scegliendo di non depositare la domanda di brevetto, opti per il diverso regime del segreto, per poi vedersi sorpreso dal deposito di una domanda di brevetto da parte di un soggetto terzo. Qualche dubbio suscita, infine, anche dal punto di vista della ratio dell'istituto del diritto di preuso che, in tutti i sistemi brevettuali in cui è riconosciuto, risponde ad indubbie esigenze di intrinseca equità e buon senso, oltre che di realismo economico. Nel ricercare un punto d'incontro tra l'esigenza di certezza a cui ineluttabilmente anela ogni sistema giuridico e l'opposta inafferrabilità della attività imprenditoriale, sempre dinamica e difficile da cristallizzare, mi sembrerebbero, invece, del tutto ragionevoli e condivisibili le riflessioni maturate da qualche esponente della dottrina che, osservando che sia la produzione che la commercializzazione del prodotto costituiscono uso dell'invenzione, suggerisce di tenere conto di entrambi i dati, per poi fare riferimento a quello che risulti maggiore tra i volumi della produzione e della vendita, in modo da non mortificare il contenuto del diritto di utilizzazione legislativamente riconosciuto in capo al preutente. Senza voler affermare che la produzione e la commercializzazione siano gli unici due modi attraverso cui è possibile realizzare l'uso dell'invenzione, tale tesi, agganciandosi a entrambi i parametri, mostra il pregio di individuare una soluzione apparentemente più equa, ampliando l'elasticità della valutazione ma evitando, nel contempo, di introdurre elementi che possano pericolosamente abbandonare i contenuti del preuso alla discrezionalità dell'interprete. Aggiungasi che il diritto di preuso, diversamente da come potrebbe apparire a primo acchito, è un istituto che presenta grandi potenzialità, dal momento che costituisce un fenomeno di dimensioni rilevanti quello per cui attualmente molte invenzioni rimangono volutamente confinate nell'ambito dei segreti industriali, il che rende primaria l'esigenza di regolarne il rapporto con i diritti di brevetto legittimamente conseguiti da altri. In riferimento a quanti possano intravedere in tale istituto una minaccia alla tradizionale supremazia del sistema del deposito delle privative industriali, è opportuno rilevare che costituisce un dato di comune esperienza che di fronte ad un'ipotesi di preuso, laddove sia esclusa la tutela del preutente, si è indotti ad estendere il concetto di divulgazione, negando perciò la validità del brevetto successivo; al contrario, laddove il preuso sia salvaguardato, il giudizio sulla divulgazione dell'invenzione è tendenzialmente più favorevole alla validità del brevetto. Riprendendo le parole del SENA, l'affermazione del diritto del preutente "se interpretata con il necessario rigore, soprattutto per ciò che riguarda la prova della precedente invenzione, rinforza, nonostante la contraria apparenza, il diritto di esclusiva attribuito dal brevetto". (1) Insomma, se è vero che "barba non facit philosophum" proteggere adeguatamente il diritto di preuso vuol dire rafforzare, e non mortificare, il diritto di esclusiva attribuito al titolare del brevetto . ________ (1) SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli di utilità, Milano, 2011 33 COMUNITÀ VIRTUALE: “luogo di conflitti”! di M.L. La Porta In occasione di un recente intervento giurisprudenziale, mi sono ritrovata a consultare il vocabolario della lingua italiana alla ricerca del significato, apparentemente elementare, della parola “luògo” : [luò-go] (pop. lògo; dial. o poet. lòco; pl. luòghi),s.m. È eccezionale constatare come la nostra meravigliosa lingua riesca, in un solo termine, a contenere un così ampio numero di significati e risulta, a parere di chi scrive, piuttosto interessante l'evoluzione che lo stesso ha avuto all'interno dell'ordinamento giuridico. I n tale ambito è possibile distinguere tra: - luogo pubblico, ossia quello al quale chiunque può accedere senza alcuna limitazione (per es., una via o una piazza pubbliche); - luogo aperto al pubblico, cioè quello nel quale l'accesso è possibile solo dopo l'espletamento di particolari formalità (per es., il pagamento del biglietto o l'esibizione dell'invito); - uogo esposto al pubblico, infine, è quello che ha un'esposizione tale che dall'esterno è possibile scorgere quanto in esso avviene (per es., una finestra aperta sulla piazza). Come anticipato sopra, la materia de qua è stata oggetto di attenzione da parte della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, la quale, con sentenza n.37596 del 12.09.2014, ha affermato che, ai fini della configurabilità 34 del reato di molestie o disturbo delle persone, di cui all'art.660 c.p., la piattaforma sociale Facebook vada considerata alla stregua di un luogo aperto al pubblico o, per utilizzare le stesse parole della Corte, una sorta di comunità virtuale il cui accesso è consentito a chiunque utilizzi la rete. Ed ecco come l'espressione “luogo” perda la sua tradizionale connotazione materiale per assumere un'accezione più ampia, resa possibile da un'evoluzione scientifica che il legislatore non era in grado di immaginare. Nel caso di specie, vittima del reato in parola era una donna che, all'epoca dei fatti esercitava la professione di caporedattrice di una testata locale toscana. L'imputato veniva accusato di “molestare” la stessa sia rivolgendole pressanti ed insistenti apprezzamenti volgari e a sfondo sessuale presso gli uffici del quotidiano per cui lavorava, sia inviandole messaggi del medesimo tenore sulla chat di Facebook (nascondendo, tra l'altro, la propria identità sotto un falso nickname). In un primo momento il Tribunale di Livorno assolveva l'imputato con la formula “il fatto non sussiste” quanto ai fatti commessi presso gli uffici del giornale, escludendo che si trattasse di luogo pubblico o aperto al pubblico, e con formula “il fatto non è previsto dalla legge come reato” quanto ai fatti commessi utilizzando l'indirizzo di posta elettronica. In questo ultimo senso, l'organo giudicante aveva fatto propri i principi affermati dagli Ermellini (sez. I 10/24510, sez. I 11/36779, sez. I 12/24670) orientati ad escludere, ai fini dell'integrazione della fattispecie contravvenzionale di cui all'art. 660 c.p., il carattere invasivo della messaggistica elettronica (e proprio invece del mezzo telefonico), in quanto i destinatari possono evitare agevolmente la ricezione di messaggi o immagini senza compromettere la propria libertà di comunicazione. In riforma della suddetta sentenza di primo grado, la Corte di Appello di Firenze condannava l'imputato rilevando come la redazione di un quotidiano fosse di fatto paragonabile a un luogo aperto al pubblico, in quanto frequentato sia dai dipendenti del giornale stesso sia da eventuali soggetti estranei che ivi portano notizie o chiedono la pubblicazione di annunci. Relativamente alla condotta realizzata mediante l'utilizzo della chat, la Corte aveva ritenuto integrato il reato de quo, evidenziando come il profilo Facebook costituisse una “community aperta evidentemente accessibile a chiunque”. A questo punto l'imputato ricorreva in Cassazione chiedendo l'annullamento della sentenza di secondo grado per violazione dell'art. 660 c.p. riguardo alla nozione accolta di luogo aperto al pubblico: in particolare circa la condotta posta in essere su Facebook, rilevava che l'invio dei messaggi era avvenuto flitto tra due diritti egualmente ricotramite la chat privata e non sulla nosciuti dall'ordinamento giuridico: bacheca pubblica e che ciò escludes- trattasi infatti: - da una parte, del diritto del singolo a non subire interferenze nella propria vita privata e di relazione (incidenti, nell'ipotesi di cui all'art. 660 c.p., sull'ordine pubblico e sulla tranquillità pubblica) - dall'altra, della libertà del soggetto di manifestare il proprio pensiero “con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (art. 21 Cost.). Contrasti come quello appena descritto, non sono di certo inediti per l'ordinamento giuridico che, già dall'avvento della Costituzione, se l'analogia con altri luoghi aperti al si era trovato a dover contemperare interessi parimenti rilevanti. pubblico. Esempi per eccellenza sono Proprio in considerazione della fattispecie concreta dell'invio tramite chat privata, la Corte ha dichiarato il ricorso non manifestatamente infondato accogliendo, tuttavia, l'orientamento della corte di Appello circa l'assimilazione della bacheca di Facebook ad una “piazza immateriale” accessibile a chiunque. Ma ATTENZIONE!!!! Tale “interpretatio iuris” potrebbe il diritto all'informazione, nonché il non essere priva di inconvenienti su diritto di cronaca, il diritto di critica e la libertà di stampa quali espresun piano prettamente pratico! Fermo restando che nei casi sioni dell'art. 21 Cost., da bilanciare più gravi di turpiloquio, di offese più con valori altrettanto rilevanti quali o meno esplicite, possano configu- l'onore e la dignità della persona. Orbene l'art. 51 c.p. fissa un rarsi altre ipotesi di reato quali l'ingiuria o la diffamazione, anche principio generale del nostro ordinaesprimere un parere negativo sulla mento: bacheca altrui di Facebook quale ad “l'esercizio di un diritto... esclude la punibilità”. esempio: “Ma vai in giro vestita Si tratta di una causa di giucosì?” , “Ma come giochi male a pallone?!?” o ancora “Ci sei o ci stificazione, o scriminante, in prefai?!?”, potrebbero costare una con- senza della quale viene meno la riledanna per il reato di cui all'art. 660 vanza penale del fatto riconducibile ad una figura delittuosa. c.p.. Affinché possa essere escluEd ecco come un'applicazione eccessivamente rigida di siffatta sa la punibilità del fatto commesso, interpretazione, condurrebbe ad un dunque, la stessa norma che riconoinevitabile ed imprescindibile con- sce il diritto, deve consentire, anche implicitamente, di poterlo esercitare mediante quella determinata azione che di regola costituisce reato. Tali limiti possono essere intrinseci, se desumibili dalla ratio della norma stessa, o estrinseci, qualora possano ricavarsi dal complesso dell'ordinamento giuridico. Solo nel rispetto di tali confini, la condotta dell'agente potrà non costituire reato. In una “comunità virtuale” come quella in cui viviamo, caratterizzata dall'esplosione dei cosiddetti SOCIAL NETWORK, il ruolo degli utenti è profondamente cambiato: da semplici fruitori di prodotti professionalmente realizzati da altri (giornalisti, autori, registi....), ad autori essi stessi di contenuti di vario genere, soggetti, tra l'altro, al giudizio altrui, anche tramite un semplicissimo “I LIKE”. Oggi più del passato è, pertanto, necessario stabilire dei confini certi tra “ciò che è lecito” e ciò che, per esigenze di rispetto dell'altrui libertà, è più corretto omettere. La sfida che gli operatori del diritto si trovano ad affrontare va, dunque, ben al di là di ciò che debba intendersi per “luògo”! Si rende, pertanto, necessario un ripensamento dell'intero sistema giuridico alla luce di quelle evoluzioni tecnologiche che, di certo, il legislatore del 1933 non era in grado di immaginare. 35 Scuola Superiore della Magistratura Struttura Territoriale di Formazione di Caltanissetta Distretto della Corte di Appello di Caltanissetta Finestra sull’attività formativa di Franco Sclafani Ormai è quasi completa la squadra dei formatori per il Distretto della Corte di Appello di Caltanissetta. Accanto al Cons. Giovanbattista Tona, che è anche il responsabile della spesa di tutta la Struttura, alla dott.ssa Cristina Lucchini e il dott. Calogero Commandatore sono stati nominati dal CSM, sulla base delle indicazioni fornite dalla Scuola Superiore della Magistratura, la dott.ssa Daniela Sedia e la dott.ssa Rosaria Fiorello, entrambe per la formazione della magistratura Onoraria, in rappresentanza rispettivamente dei GOT e dei VPO. “L’amministrazione e la destinazione delle imprese sottratte al circuito mafioso: un approccio interdisciplinare” è questo l’incontro di studio-evento con cui la Struttura Territoriale Didattica di Caltanissetta congiuntamente alla Scuola Forense Nissena, all’Ordine degli avvocati di Caltanissetta, hanno ricordato Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani nel 22° anniversario del loro barbaro assassinio. Un ricordo all’insegna di un momento di riflessione sulla tematica sopra ricordata dove 40 esperti del settore, divisi in 5 sessioni di lavoro, ciascuna intestata ad una delle 5 vittime dell’attentato di capa- 36 ci del 23 maggio 1992, si sono confrontati discutendo della varie tematiche. Magistrati, avvocati, commercialisti, docenti universitari e studenti che si confrontano sul contrasto ai patrimoni delle mafie ed in particolare su come rompere il circuito mafio- so nel quale restano avvolte alcune imprese del nostro tessuto produttivo e su come amministrare le aziende sequestrate. Nella prima sessione svoltasi in memoria di Giovanni Falcone, dal titolo “Il mercato e i condizionamenti criminali: regole, sanzioni, investigazioni” hanno fornito il loro prezioso ed autorevole contributo il prof. Federico Varese, docente della University of Oxford, Stefano Musolino e Marco Mescolini, magistrati rispettivamente della DDA di Reggio Calabria e di Bologna e Luigi Donato, Condirettore della Banca d’Italia. La sessione è stata coordinata dal prof. Di Chiara, preside della facoltà di scienze economiche e giuridiche dell’Università Kore di Enna, nostra partner nell’organizzazione dell’evento. La seconda sessione, in memoria di Vito Schifani, dal titolo “La gestione delle aziende in sequestro nei circuiti infiltrati dalle mafie” ha visto protagonisti il prof. Stefano Becucci dell’università di Firenze, Carmelo Provenzano, docente di economia aziendale della Kore di Enna, Silvana Saguto, magistrato della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo e Marco Cicogna, Responsabile Loan Administration di Unicredit Spa. La sessione è stata coordinata da Roberto Di Maria, direttore della scuola di specializzazione delle professioni legali della Sicilia Centrale. La terza sessione, intestata a Rocco Dicillo ha discusso de “Il contributo dei professionisti, degli imprenditori, dei lavoratori e delle associazioni”. E’ stata coordinata da Emanuele Limuti, presidente della Fondazione Scuola Forense Nissena “G. Alessi” ed ha visto gli interventi di Elisa Ingala per i dottori commercialisti, di Ugo Riccardo Tutone, giovane imprenditore di confindustria, di Giuseppe Sanfilippo dell’Istituto Nazionale Amministratori Giudiziari, dei rappresentanti delle organizzazioni sindacali, del rappresentante di Libera e di Giorgio Mercadante, giovanissimo ma esperto studioso di economia e diritto, co-fondatore del Club delle 10 mine sul quale vale la pena di spendere due parole. Il Club punta ad instaurare relazioni trasversali tra università ed operatori di settore, tra esperienze significativamente differenti perché riferibili a contesti diversi entro il confine nazionale e non. La felice consonanza dei fattori lavoro, competenze e metodo porta spontaneamente in dote l’innovazione, anche grazie a questo enorme “flusso di coscienza” interdisciplinare in cui sono immersi i giovani del Club. Infatti, la particolare composizione mista del club, consente lo studio di discipline affini ma distinte dalla propria quali il diritto e la sociologia, studio che consente un cambio di prospettiva, una sorta di ibridazione tra specie diverse. E’ di nuove chiavi di lettura c’è bisogno. Per sconfiggere un fenomeno tanto atroce quali le mafie, che da oltre un secolo e mezzo affliggono il nostro Paese, è necessario e lodevole che i giovani continuano sulla strada maestra già tracciata dalle generazioni precedenti, allo stesso tempo implementandola e innovandola fino a giungere ad un approccio effettivamente integrato su più fronti: econo- mico-giuridico-sociale. Il capovolgimento di prospettiva che i giovani del Club intendono perseguire deve essere visto non come un “costo” ma piuttosto come un vantaggio competitivo delle aziende sottratte al circuito mafioso. Il Club, durante in convegno, ha esposto degli interessanti schemi che sintetizzavano l’infiltrazione delle mafie nel circuito economico legale ed inoltre analizzano le misure cautelari reali e le misure di prevenzione patrimoniali che gravano sui beni frutto dell’attività illecita e del ruolo dell’amministratore giudiziario nella gestione degli stessi, proponendone delle soluzioni. Notevole successo ha riscosso l’iniziativa, con tutti i componenti del Club disponibili ad illustrare i pannelli esposti. La quarta sessione, in memoria di Antonio Montinaro ha affrontato la tematica “Dal procedimento giurisdizionale alla destinazione: le criticità”. E’ stata Coordinata da Santi Consolo, Procuratore Generale di Caltanissetta e sono intervenuti i magistrati Aldo De Negri, Mirella Agliastro e Piero Grillo, che con la loro professionalità ed esperienza sul campo hanno dato un notevole contributo, anche pratico, che ha consentito la piena riuscita della sessione. Ha anche relazionato la prof.ssa Alice Anselmo della Kore di Enna. La quinta ed ultima sessione, dedicata a Francesca Morvillo, è stata coordinata dal Presidente della Corte di Appello di Caltanissetta, Salvatore Cardinale, ed ha avuto come titolo: “Oltre il codice antimafia: il diritto europeo e le prospettive di rifor- me”. Sono intervenuti i magistrati Antonio Balsamo, Fabio Licata e Giuliana Merola, quest’ultima componente della Commissione Parlamentare Antimafia. E’ intervenuto anche Claudio La Camera, project coordinator Confiscated Asset Management – United Nation Office on drugs and crime ed ha concluso l’on. Nello Musumeci, presidente della Commissione Regionale Antimafia. Appassionante il ricordo fatto da Sergio Lari, Procuratore di Caltanissetta, di Giovanni Falcone, suo collega ed amico, che ne ha tracciato, in maniera molto sentita, le qualità professionali ed umane del magistrato barbaramente ucciso dalla mafia. La figura di Francesca Morvillo è stata ricordata dal fratello Alfredo, che ha preso parte ai lavori introducendo la giornata di sabato 24 maggio. L’evento è stato integralmente registrato da radio Radicale ed è scaricabile dal sito. Una svolta nell’attività formativa nel nostro Distretto che ha ricevuto nuova linfa e vitalità dal cons. Giovanbattista Tona e che ha riscosso un grande apprezzamento tra il numeroso e qualificato pubblico presente di addetti ai lavori e tra le numerose autorità civili e militari. La folta partecipazione testimonia lo sforzo organizzativo della Struttura Territoriale di Formazione che ha potuto contare, anche, sulla preziosa collaborazione dell’Anm - sezione di Caltanissetta, della Fondazione Onlus “Progetto legalità” dell’Ordine dei Dottori Commercialisti, degli esperti contabili di Caltanissetta, del Workshop Ag, del Club delle dieci Mine. L’occasione ci consente di ringraziare tutti gli organizzatori ed in particolare il prof. Carmelo Provenzano e il dott. Giorgio Mercadante e la dott.ssa Costanza Vergara. ( foto 1, un momento del convegno; foto 2, il raccoglimento all’ora dell’esplosione di 22 anni fa; foto 3, l’esposizione dei pannelli preparati dal Club delle 10 Mine). Scorrendo tra le altre attività formative segnalo il laboratorio di autoformazione, riservato ai soli magistrati, ordinari ed onorari, sull’ 37 “Assenza dell’imputato, messa alla prova e nuovi casi di sospensione del processo penale, così come previsto dalla legge 28 aprile 2014, n. 67”. L’incontro, che ha riscosso grande interesse tra i partecipanti, è stato coordinato dalla dott.ssa Lucia Parlato dell’Università di Palermo. Altro stimolante incontro, questa volta aperto alla partecipazione di magistrati, avvocati e dottori commercialisti si è tenuto presso la sala conferenze della Banca di Credito del Nisseno, dal titolo “Le procedure fallimentari: la verifica dello stato passivo e profili gestionali”. Il convegno, organizzato insieme alla Scuola Forense nissena e all’Ordine dei Dottori Commercialisti, degli esperti contabili di Caltanissetta e da Giuffrè/Fiscopiù, ha fatto il punto sulle procedure fallimentari ed ha visto l’intervento del prof. Stefano Lapponi, docente di gestione crisi d’impresa dell’Università di Sassari, della dott.ssa Clelia Maltese, giudice delegato del Tribunale di Palermo e dell’avv. Armando Finocchiaro del Foro di Catania. L’incontro è stato coordinato dal dott. Calogero Commandatore, formatore del nostro Distretto e dal dott. Calogero Cammarata, magistrato del Tribunale di Caltanissetta. (foto 4, un momento dell’incontro) Calorosa l’accoglienza dei vertici della Banca di Credito del Nisseno e splendida la cornice dove si è svolto l’incontro, il vecchio palazzo delle Poste di Caltanissetta, oggetto di un pregevole restaurato conservativo. 38 Come ogni anno, anche quest’anno le Formazioni decentrate di Palermo e Caltanissetta hanno organizzato, congiuntamente, l’incontro di studio dedicato a Rosario Livatino che, come da consuetudine, si è svolto ad Agrigento, il 26 e il 27 settembre. La tematica trattata è stata quella de “Le misure di prevenzione e gli strumenti di aggressione ai patrimoni criminali nel diritto interno ed europeo”. Numerosi i relatori che sono intervenuti. Nella prima giornata, dopo i saluti di rito, ha relazionato il dott. Antonio Balsamo, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Caltanissetta che ha trattato “Criminalità organizzata ed economica: i patrimoni criminali. Gli strumenti di contrasto tra Italia ed Europa” La prima area tematica, coordi- nata dal cons. Giovanbattista Tona, ha affrontato le problematiche della prosecuzione dell’attività di impresa sottoposta a sequestro: rapporti con i creditori e verifica dei crediti. La seconda giornata si è aperta con la relazione del dott. Francesco Menditto, Procuratore di Lanciano, che ha trattato de “Gli effetti dei provvedimenti di prevenzione sui rapporti con i terzi”, introducendo, di fatto, la seconda area tematica quella dei rapporti di lavoro nelle imprese in amministrazione giudiziaria, coordinata dal dott. Claudio Antonelli. La terza area tematica ha trattato i “Diritti reali e le problematiche connesse al sequestro e alla confisca dei patrimoni” ed è stata moderata dalla dott.ssa Giovanna Nozzetti. A concludere i lavori la relazione del dott. Giuseppe Pignatone, Procuratore di Roma, che ha ipotizzato “Le prospettive di riforma”. L’incontro ha suscitato molto interesse tra i numerosi partecipanti ed ha avuto grande apprezzamento anche tra gli avvocati che sono stati ammessi a partecipare. L’organizzazione del corso che è stata molto faticosa poiché si è trattato del primo corso ibrido, centrale e decentrato allo stesso tempo, organizzato dalle strutture Territoriali didattiche di Palermo e Caltanissetta. Per i magistrati provenienti dai distretti organizzatori dell’incontro, l’iniziativa è valsa come un corso di formazione decentrata, mentre per i magistrati provenienti da altri distretti, ammessi in un numero massimo di 20, ha avuto la valenza di corso cen- trale, a cui i richiedenti dovevano iscriversi in attesa dell’ammissione. Un ringraziamento alla collega Monia Cavallaro che si occupa della Formazione a Palermo e che si è spesa tantissimo per la buona riuscita dell’incontro, ovviamente dal punto di vista logistico/organizzativo, una sinergia, quella con la formazione decentrata di Palermo, ormai collaudata da anni. (foto 5, un momento dell’incontro dedicato a Rosario Livatino) Un cenno anche alle manifestazioni organizzate dall’A.N.M. di Caltanissetta in questo periodo per ricordare l’anniversario della strage di Via d’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. In quella occasione il Palazzo di Giustizia di Caltanissetta ha ospitato la mostra di fotografia di Lavinia Caminiti dall’eloquente titolo “Gli Invisibili”, ammazzati dalla mafia e dall’indifferenza, un progetto artistico che ha come obiettivo quello di scuotere le coscienze, soprattutto dei giovani, affinché non si ripetano mai più le stragi mafiose. ( foto n. 6, la mostra di Lavinia Caminiti). L’A.N.M. si è fatta anche promotrice del ricordo di Rocco Chinnici e degli uomini della scorta a 33 anni del suo assassinio, con la partecipazione dei figli Caterina e Giovanni. Commovente il ricordo di Caterina nel ricordare il padre, nella vita professionale ma soprattutto in quella familiare parole che hanno saputo trasmettere le emozioni che lei ha provato e che hanno trovato luogo in un libro dal titolo “ E’ così lieve il tuo bacio sulla fronte”. Nel corso della cerimonia la sezione di Caltanissetta dell’Associazione Italiana Dottori Commercialisti ha donato un’opera d’arte alla magistratura Nissena, un’opera che rappresenta simbolica- mente la sconfitta della mafia, immortalando la Piovra all’interno dell’Agenda Rossa di Paolo Borsellino. L’opera è stata commissionata dall’arch. Loris Viviano, su richiesta dell’A.I.D.C. ( foto n. 7, il momento della consegna dell’opera). Ancora su iniziativa dell’A.N.M. gli uffici giudiziari di Caltanissetta ricordano l’assassinio di Gaetano Costa e i Giudici Livatino e Saetta, con momenti di riflessione tra magistrati, avvocati e personale delle cancellerie. Per concludere ricordiamo i prossimi eventi formativi che la Struttura Territoriale di Formazione di Caltanissetta sta preparando. In particolare quello sulla mediazione civile, organizzato con Trencom srl, presso il Consorzio Universitario di Caltanissetta, in calendario per il 6 novembre p.v. e quello sulla tutela risarcitoria dei condannati che si svolgerà il prossimo 18 novembre, sempre con la partecipazione della scuola Forense Nissena. Continua da pagina 10 “Responsabilità e risarcimento danni da randagismo” Molto sottile la precisazione del Giudice relativa all’obbligo di accalappiamento la cui esistenza in capo all’Asl non esaurisce gli elementi peculiari di siffatto tipo di illecito, dovendo, l’attore provare oltre al fatto, al danno ed al nesso causale tra i due, anche che la colpa del soggetto danneggiante. In caso contrario, verrebbe a configurarsi una generalizzata posizione di garanzia nei confronti di tutti i cittadini e per tutti gli animali randagi esistenti e dunque una ipotesi di responsabilità oggettiva. Applicando tali principi, il decidente ritiene sussistere la responsabilità della Azienda Sanitaria Locale e, pertanto, la condanna al risarcimento dei danni subiti dall’attrice, essendo emerso dall’istruzione probatoria un atteggiamento colposo dell’Azienda Sanitaria, corroborato dalle dichiarazioni di un testimone dalle quali emergeva che erano più volte stati informati i Vigili circa la presenza di quel cane in quella strada, nonché il nesso di causalità tra il fatto ed il danno e la non rimproverabilità di un concorso di colpa in capo all’attrice. Dopo aver letto questa ben scritta sentenza, sono andata a dare un’occhiata alla normativa regionale Siciliana e mi sono convinta che molto probabilmente il ragionamento del Tribunale Campano risulterebbe inapplicabile nelle aule di giustizia Siciliane. La Regione Siciliana, infatti, ha recepito la legge quadro n. 281/91 con la legge regionale 3 luglio 2000, n. 15, emanando apposito Regolamento di attuazione. A tale legge sono seguite una serie di normative, tra cui, a mio avviso, spicca il decreto dell’Assessorato alla Sanità del 13 dicembre 2007 intitolato “Linee guida per il controllo del randagismo e bandi per la concessione di contributi da destinare al risanamento dei rifugi esistenti e alla costruzione di rifugi sanitari, all'attuazione di piani di controllo delle nascite e al mantenimento di animali” il quale in modo molto dovizioso ripartisce le competenze tra Comuni e Regioni in ordine al fenomeno de quo, e dalla cui lettura sembrerebbero maggiormente caricati del problema i Comuni (ai quali spetta per espressa previsione di legge la cattura degli animali vaganti) oltre che le Associazioni per la protezione degli animali. La “patata bollente”, però, davanti ai casi concreti portati in giudizio toccherà, anche stavolta, alla giurisprudenza. 39 L’occhio di 40 Ta le iu m Ne le iu m
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