Taschenworterbuch (Compact): Schwedisch

Anno X
PERIODICO DELL’ORDINE
DEGLI AVVOCATI
DI
n. 2 - 2014
RIVISTA DELL’ AVVOCATURA
CALTANISSETTA
In questo numero:
Geografia giudiziaria
L’importanza di una
scuola forense
Fecondazione eterologa
e falsità di Stato
Marketing nel pianeta
sanità
La tutela del danno da
emotrasfusione
Tolleranza zero
Il rapporto familiare ...
tra una chat e una
videochiamata
Dalla sentenza
Torregiani ai giorni
nostri
Fondazione
Scuola Forense Nissena
“G. Alessi”
Gli autunni, gli inverni, le primavere e le estati
sono passati e tu hai un decennio di più.
Questa è la torta con le candeline ...
auguri senza fine
RDELL’IVISTA
AVVOCATURA
ISSN 2038-5595
Rivista dell’Avvocatura
Direttore Responsabile
AVV. EMANUELE LIMUTI
Coordinatore di Redazione
Avv. Renata Accardi
Redazione
Avv. Giuseppe Iacona
Avv. Michele Ambra
Avv. Giuseppe Daquì
Avv. Giuseppe Ferraro
Avv. Marcello Mancuso
Dott. Vito Milisenna
Avv. Ones Benintende
Avv Antonella Pecoraro
Avv. Salvatore Timpanaro
Hanno collaborato:
Renato Antonio Arnao Giulia Benintende Rosario Carrara Pasquale Cipolla Serena Dibenedetto
Dalila Di Dio Gabriella Garozzo Ilaria Golia Alfonso Gucci ardo Maria Luisa La Porta
Lorenzo La Rocca Carla Maria Milisenna Antonella Pecoraro Michele Riggi Franco Sclafani
Danilo Tipo Giovan Battista Tona
Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Caltanissetta
Via Libertà n. 3 - Tel. 0934.591264 - 93100 Caltanissetta
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Impaginazione e stampa:
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Autorizzazione del Tribunale di Caltanissetta n. 187 del 6 Aprile 2005
L’editoriale
Geografia o schizofrenia giudiziaria?
di Emanuele Limuti
Nel momento in cui mi accingo a
scrivere questa nota nella splendida cornice veneziana, ha appena concluso il suo
applaudito intervento il Ministro della
Giustizia On. Orlando.
Com’era prevedibile, gli avvocati
gli anno posto anche lo spinoso problema
della geografica giudiziaria.
La risposta, prudente e articolata, ha
profilato due prospettive diverse.
Per quel che attiene ai Tribunali, nel
ribadire che non avrebbe senso pensare di
tornare indietro, il Ministro ha lasciato
intravedere la possibilità di correttivi che
eliminino le talora aberranti conseguenze
di un ottuso automatismo .
Quanto alle Corti di Appello ha ribadito sia pure con toni cauti ma con convinzione, la necessità di intervenire con
alcune soppressioni.
È chiaro che in tale contesto la posizione della nostra Corte per il Ministro è
tra le più critiche. Essa com’è noto è
infatti la più piccola delle 4 Corti
Siciliane , caso unico a livello nazionale.
So bene che qualunque tentativo di
motivarne l’essenzialità confligge col
pregiudizio di una spinta campanilistica,
conservatrice che sacrifica e subordina gli
interessi più generali della Giustizia.
E malgrado lo scontato pregiudizio,
affidando le conclusioni alla forza delle
cose, dico che la eventuale soppressione
della Corte di Appello di Caltanissetta
sarebbe un classico esempio di
Schizofrenia Giudiziaria e, in quanto tale,
ancora più dannosa di quanto lo sia stata
quella di alcuni Tribunali, oggi criticata
dallo stesso Ministro perchè presa sulla
base di pericolosi ed astratti parametri
numerici.
E che non valga tale criterio ce lo ha
concretamente dimostrato lo stesso
governo allorchè ha istituito il Tribunale
di Gela, nato, e letteralmente intentato per
2
volontà del Presidente Cossiga esclusivamente sull’onda della sanguinosa guerra
di mafia che imponeva un’adeguata
risposta dello Stato sul territorio e non
certo per ragioni di economia o di collegamenti particolarmente difficili.
Prevalse allora la politica dell’emergenza giudiziaria “creativa” laddove oggi
dovrebbe prevalere “l’emergenza economica distruttiva”.
Perché schizofrenia giudiziaria?
La nostra Corte pur essendo la più
piccola delle 4 siciliane ha quasi settant’anni di vita .Si è radicata profondamente nel territorio , nella cultura e nell’economia della città e del Distretto. Com’è
stato detto insistentemente, la sua soppressione, per le gravissime ricadute economiche e culturali determinerebbe un
sicuro ulteriore arretramento del centro
dell’Isola , che costituisce la parte più fragile e povera
del territorio siciliano.
Da un lato quindi il Governo pone il
problema della incentivazione dello sviluppo del mezzogiorno e dall’altro assesterebbe un colpo mortale alla parte più
debole di esso.
E ancora.
La nostra Corte ha rappresentato
uno snodo giudiziario fondamentale nella
lotta
contro la mafia ,
non solo perché al suo interno hanno operato i presidi distrettuali che verrebbero
soppressi con essa, ma perché, col meccanismo dello spostamento della competenza per i reati che vedono interessati e
coinvolti magistrati palermitani, ha consentito non solo la celebrazione di vari
maxi processi conseguenti alle stragi in
un clima più sereno ed affidabile, in certa
misura più distaccato rispetto alle grosse
centrali mafiose di Palermo e di Catania,
ma ha evitato l’intasamento certo di queste ultime sedi giudiziarie specie di
Catania, e quei gravi rallentamenti ed
elevati maggiori costi organizzativi e
logistici e la paventata soppressione comporterebbe sicuramente.
E ancora
In conseguenza della posizione
“strategica” della nostra Corte, sono stati
effettuati ingentissimi investimenti in
strutture, servizi e personale.
Basti pensare all’enorme edificio
dell’Aula Bunker e di tutte le sue pertinenze, che ha interessato circa 3.000 mq.
di superficie!
Con centinaia di postazioni per
magistrati, detenuti, avvocati, personale ,
forze dell’ordine e quant’altro.
Si tratta di investimenti realizzati
non il secolo scorso, ma a partire dalla
metà degli anni 90 e quindi di strutture
nuove.
Con la soppressione avremmo da un
lato un grosso spreco (un’altra cattedrale
nel dissesto!) e dall’altro lo Stato dovrebbe necessariamente effettuare investimenti altrove per il potenziamento delle
relative strutture giudiziarie.
Ma la “schizofrenia giudiziaria”
raggiunge l’apice se pensiamo che ancora oggi è in corso di realizzazione il progetto di un consistente ampliamento del
Palazzo di Giustizia!
Da un lato si amplia e dall’altro si
svuota !
È così con questi sprechi assurdi
che il nostro sistema fiscale ha superato
negli anni la soglia della intollerabilità .
La tendenza ad una razionalizzazione della c.d. “geografica giudiziaria”
deve invece spingere innanzi tutto a valorizzare al meglio, attraverso una diversa
ripartizione del territorio , e senza ulteriori oneri finanziari, quegli spazi liberi di
strutture e di funzionalità spesso esistenti.
Questa volta sì, superando resistenze e inutili campanilismi conservatori.
IL CONSIGLIO DELL’ORDINE
Si è appena concluso il Congresso
Forense di Venezia, il
trentaduesimo
Congresso Nazionale
della storia e, certamente, è prevalente
l’impressione negativa e scoraggiante del nulla di fatto, di
un’Avvocatura divisa ed incapace di darsi
una rappresentanza unitaria ed autorevole e
che continuerà, quindi, a parlare a più voci,
a scapito della sua credibilità.
Il Congresso non ha saputo esprimere
quell’organismo nuovo chiamato a dare
attuazione ai suoi deliberati e ad assumere
quindi l’iniziativa politica a tutela
dell’Avvocatura e delle sue funzioni di difesa dei diritti delle persone “dentro e fuori il
processo”.
Eppure anche il Guardasigilli, nel suo
apprezzato intervento, ha sottolineato la
necessità della rappresentanza unitaria degli
Avvocati, sottolineando, e voglio credere
non solo per piacere alla platea, il loro ruolo
fondamentale anche nella composizione del
conflitto sociale, frutto della perdurante
crisi economica.
Ma il Congresso si è perso tra le litigiose pretese delle molte, troppe, anime
dell’Avvocatura, ognuno delle quali ha le
sue colpe, senza che possa attribuirsi la
responsabilità dell’impasse ad una sola di
esse.
Il risultato del Congresso potrebbe sintetizzarsi nell’espressione “né con l’OUA,
né senza l’OUA”.
Ed è grave constatare, soprattutto per
noi Presidenti degli Ordini, grandi o piccoli
che siano, che crediamo di rappresentare più
di ogni altro l’Avvocatura, quanto il tema
della rappresentanza, pur fondamentale,
perché ormai l’Avvocatura non può che
concepirsi in rapporto dialogico con tutte le
altri istituzioni, sia poi lontano da quella che
è l’oggetto della fatica diuturna dell’avvocato, il perno della sua funzione sociale, e cioè
la difesa dei diritti fondamentali.
Io voglio essere ottimista e credo che,
con maggior buon senso, superata la tappa
veneziana, l’Avvocatura proverà a conciliare le sue anime, compresa quella associativa, il cui contributo è essenziale, ma pur
sempre nell’ambito di una azione unitaria
(penso alla fuga delle Unioni delle Camere
Penali e all’improvvide parole del loro
nuovo Presidente).
** ** **
Al di là del risultato del Congresso,
non sarebbe neppure giusto pensare però
che l’Avvocatura non sia protagonista dell’attuale contesto e che non abbia meriti,
anzi, mi pare che ne abbia almeno uno fondamentale, espresso nel titolo di quest’ultimo Congresso e di quello che lo ha preceduto: l’Avvocatura, che pur cambia e si
evolve come ogni altra istituzione ed opera
in una società senza punti costanti di riferimento, mobile, “liquida”, ha colto un punto
fondamentale nel tener fermo il ruolo
dell’Avvocato di custode dei diritti, consapevole che non tutto è economia, non ogni
problema della società può risolversi solo in
termini economici.
Il momento migliore del Congresso è
stata la parte della Relazione del Presidente
Alpa, che ci ha ricordato come i diritti prettamente economici delle imprese, oggi tutelati nei Tribunali delle Imprese (quasi una
riedizione vichiana degli antichi Tribunali di
Commercio), non possono esser privilegiati
e ritenuti quasi speciali, rispetto a quelli
delle persone e delle famiglie.
Il rilancio economico non può implicare la rinunzia alla tutela dei diritti fondamentali, in quanto essi non sono negoziabili.
È allora fondamentale riconoscere,
senza tema di esser accusati di conservatorismo retrogrado misto a corporativismo,
come ogni Avvocato, ognuno di noi, sia non
un imprenditore che fornisce beni o servizi
assimilabili a qualunque altro, ma sia un
intellettuale, “un baluardo, una forma di
difesa del singolo” che non può non insorgere quando, per malintese esigenze di
risparmio, concentrate su servizi essenziali
e disattese su altri, si chiudono Tribunali,
cioè i presidi della Giustizia (e, speriamo
bene, non si passi alle Corti d’Appello), o si
esigono costi non più sopportabili (penso al
contributo unificato, ormai insostenibile per
tanti cittadini) per accedere alla giustizia.
Significativo è stato il richiamo alla
funzione creativa dell’Avvocato, creativa
cioè di iniziative, comprese le difese processuali per la costruzione di una nuova giurisprudenza che dia significato coerente con i
diritti e i valori della persona alle norme dell’ordinamento giuridico.
È questo quello che mi piace ricordare
del Congresso.
** ** **
P.s. Mi accingo a concludere il mio
quinto mandato di Presidente.
E’ già un record (secondo alcuni un eccesso, o peggio).
Molti mi chiedono anche il sesto.
Non è di questo che voglio parlare per
concludere questo mio intervento: nessuno
è indispensabile, men che mai io.
Ho vissuto però intensamente, veramente dal di dentro, l’ultimo decennio
dell’Avvocatura.
Voglio solo osservare come anche nel
nostro contesto locale non possa non
cogliersi il passaggio da una Avvocatura
istituzionale, chiusa in sé, nei suoi studi, ad
una Avvocatura nuova, dinamica, più collegata alla Società ed alle altre istituzioni.
L’Avvocatura è infatti sempre più parte
anche propulsiva della Società e non può
certo tornarsi indietro.
Ha, e deve conservare, anche nei circondari e nei distretti, rapporti con i massmedia, istituzioni, Scuola, Enti Locali e
soprattutto Magistratura.
In tale attività ho profuso, senza
risparmio, ogni energia.
Un abbraccio.
Avv. Giuseppe Iacona
Presidente dell’Ordine degli Avvocati
di Caltanissetta
3
Fondazione
Scuola Forense Nissena
“G. Alessi”
L’importanza di una Scuola Forense
Considerato il momento in cui
questo numero della Rivista viene
pubblicato, ho ritenuto che il solito
articolo informativo sulle attività
della Scuola Forense Nissena potesse, per questa occasione, assumere
un contenuto diverso, consentendomi una riflessione sul ruolo di una
Scuola Forense e sulla rilevanza
della sua presenza sul territorio.
Le Scuole Forensi, “finalmente!” direbbe il nostro Super
Presidente, Avv. Alarico Mariani
Marini, hanno ricevuto una ulteriore
legittimazione normativa, assumendo il carattere di obbligatorietà che
tanto si è auspicato negli anni di loro
ideazione, realizzazione ed affermazione sull’intero territorio nazionale.
E ciò non per acquisire uno strumento autoreferenziale o, addirittura, autocelebrativo da parte della
classe forense, ma perché l’esistenza
delle Scuole e, direi, l’insistenza
sulla loro istituzionalizzazione, è
elemento di rafforzamento della
nostra classe professionale, nonché
l’espressione della volontà di offrire
garanzia di qualità e professionalità
dell’Avvocatura.
In un periodo storico nel quale
gli Avvocati sembrano essere i principi, più che del foro, di tutti i mali,
al punto da essere additati come
causa delle disfunzioni della giustizia ed essere guardati con sospetto
dall’intera società civile; in un
momento di particolare disagio
dell’Avvocatura, che, guardando alle
novità legislative, si ritrova tartassata e, ciò nonostante, vituperata, il
recupero dell’orgoglio e dell’entusiasmo della più liberale delle professioni può passare attraverso le
Scuole Forensi che ne diventano
garanzia di qualità.
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Mettersi in discussione ed analizzare criticamente innanzitutto le
nostre insufficienze o mediocrità,talvolta determinate da una indolenza
indotta dal contesto in cui ci troviamo ad operare, non può e non deve
essere considerato come una esposizione che indebolisce, bensì espressione di responsabilizzazione e di
una rinnovata presa di consapevolezza del nostro ruolo per e nella
società.
Alla luce di questa considerazione, il fatto che tanto si sia insistito sulla formazione e sull’aggiornamento degli Avvocati dovrebbe
essere valutato non come l’ennesimo
orpello che viene apposto al libero
esercizio della professione, quanto
come l’occasione per ognuno di noi
per un confronto che non può che
giovare alla nostra crescita e maturità professionale.
Le Scuole Forensi diventano
così, nell’immaginario di chi le ha
fortemente volute e di si è speso per
la loro realizzazione ed affermazione e continua a spendersi per il loro
buon funzionamento, il baluardo
della nostra professione e la garanzia
di un livello di qualità che sia concorrenziale con il contesto mondiale
nel quale oggi l’abbattimento telematico delle frontiere ci ha catapultato.
La presenza di una Scuola
Forense nel nostro territorio, poi,
assume una valenza ancor più significativa in quanto espressione pratica e fattiva del principio di legalità
da più parti pronunciato e declamato .
Le numerose iniziative che la
nostra Scuola Forense ha infatti
posto in essere nel senso non soltanto della diffusione della formazione
giuridica, ma anche della integrazione sociale, della informazione normativa e della promozione culturale,
l’hanno resa,infatti,una della più
efficienti agenzie territoriali per l’affermazione della legalità,intesa
come regola fondamentale di democratica e pacifica convivenza civile e
presupposto di crescita di una società.
Per queste ragioni, il riconoscimento normativo della obbligatorietà delle Scuole Forensi non può che
essere pertanto e conclusivamente
salutato da quanti finora e negli anni
hanno impiegato le loro energie in
essa, come non soltanto un ulteriore
efficace strumento per la realizzazione degli obiettivi statutari, ma
anche come un monito all’assunzione della piena responsabilità del loro
ruolo per la classe forense e per l’intero ambito sociale in cui operano ed
uno sprone a continuare a far meglio
di quanto non si sia riusciti a fare
sinora.
Il Direttore
Avv. Renata Accardi
Resoconto
di un quadriennio
Cara / caro Collega,
L’ esordio non può che essere
questo.
Fare il “resoconto” di un periodo della propria vita determina stati
d’animo contrastanti tra loro : da un
canto la consapevolezza dell’impegno profuso, dall’altro il dubbio di
non aver fatto e dato tutto quanto
possibile, dall’altro ancora il timore
di un giudizio negativo sull’attività
svolta.
Il perché questo incipit è dovuto al fatto che la mia esperienza all’
OUA che ha avuto inizio con il
Congresso di Genova (2010), che è
stata confermata per il secondo ed
ultimo mandato a Bari (2012), cessa
con il Congresso di Venezia (9-11
ottobre 2014).
Sento, pertanto, di rendere il
conto finale della mia attività al mio
COA ed al suo Presidente, ai
Presidenti di Enna, Gela e Nicosia
–per la fiducia accordatami- ed a Te,
Collega del mio Foro e dell’intero
Distretto, che in questi anni ho avuto
l’onore e l’orgoglio di rappresentare.
Non è facile rappresentare uno stato d’animo, ma
Ti assicuro che l’esperienza nell’ Organismo, i
rapporti umani che
si
sono creati, le battaglie
che si sono combattute
(chi potrà mai dimenticare l’impegno dell’ OUA
contro il taglio delle sedi
giudiziarie o contro la
mediaconciliazione), il
confronto continuo con
Colleghi di tutta Italia, la
consapevolezza che la
compattezza degli 8 delegati siciliani ci rendeva forti e punto di riferimento, il contraddittorio a volte
aspro ma sempre dettato dall’interesse comune del bene dell’
Avvocatura, sono tutte cose che mi
porterò dentro per sempre.
Essere, poi, in Giunta OUA con
Maurizio de Tilla quale presidente è
qualcosa di irripetibile, così come
importante è stata pure l’esperienza
del secondo biennio con la presidenza di Nicola Marino.
Mi sono imposto, fin dal primo
giorno del mio mandato, di non
essere il delegato che della propria
attività e di quella dell’ Organismo
informa -forse- pochi intimi (il proprio COA o qualche amico), bensì di
essere il delegato che rende partecipe ed informato il maggior numero
possibile di Colleghi.
In questo modo interpreto la
rappresentanza politica ed il delegato OUA è rappresentante
dell’
Avvocatura per la politica forense.
Ho, di conseguenza, fatto ricorso
all’invio di email quasi quotidiane
(spesso tartassandoTi !!), dando le
notizie e le informazioni che ritenevo potessero esserTi utili ed il
“Cara/caro Collega” con cui anche
oggi ho voluto iniziare è diventato,
negli anni, un tormentone !!
Forse avrei potuto fare di più,
mettere ancora più impegno, dedicare sempre maggior tempo, sicuramente avrei potuto/dovuto raggiungere più Colleghi … non ci sono riuscito e di ciò mi rammarico e mi
scuso.
Non voglio tediarTi, ma ogni
consuntivo degno di questo nome
elenca dei numeri ed anch’io -seppur
sommariamente- non mi esimo da
questo rito : oltre 300 (avevi ragione
a dire che intasavo la Tua casella di
posta elettronica !!) le email inviate,
58 le mie presenze tra Giunta ed
Assemblea OUA, numerosissime le
mie presenze, n.q., a manifestazioni,
assemblee, riunioni locali, regionali
e nazionali …… su ciò non ho
dubbi, ho fatto tutto quanto nelle
mie possibilità.
Detto dell’impegno, fatta
ammenda per ciò che avrei
potuto/dovuto fare non riuscendovi,
rimane l’aspetto che mi procura
maggiore trepidazione : il Tuo giudizio.
Qualunque esso sia saprò accettarlo serenamente, consapevole del
fatto che Tu, come me, esprimi il
Tuo pensiero nell’unico interesse del
bene della nostra Professione e scevro da pregiudizi ed in ogni caso negativo o positivo che sia- sarà per
me stimolo ed insegnamento.
Avv. Michele Riggi
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E’ l’avvocato
Beniamino Migliucci
il nuovo Presidente
dell’Unione Camere
penali italiane
Si è concluso Domenica 21
Settembre - al Lido di Venezia ,
presso il Palazzo del Cinema - il XV
Congresso ordinario dell'Unione
Camere Penali Italiane dal titolo
"Riformare la giustizia per cambiare
il Paese. Il primato della politica tra
necessità democratica e funzionalità
del sistema". con l’elezione del
nuovo Presidente e della sua
Giunta che guideranno i penalisti italiani per il prossimo biennio.
I delegati delle varie
Camere Penali, tra cui la nostra
che ha visto tra i partecipanti me
, in qualità di Tesoriere, e del
Presidente l’ avvocato Danilo
Tipo, si sono riuniti per scegliere il loro presidente tra i due
candidati proposti : il presidente
della Camera penale di Bolzano,
l’avvocato
Beniamino
Migliucci, e quello della
Camera penale di Milano, l’avvocato Salvatore Scuto.
Dopo due giorni di dibattito,
all’interno del quale sono state
affrontate numerose tematiche
in materia di giustizia tra cui , la
recente riforma , è passata la linea
più critica sul confronto con il
governo sulla riforma della giustizia,
con la scelta di Beniamino Migliucci
come leader rispetto alla posizione
di continuità espressa dall’altro concorrente, Salvatore Scuto ,con il leader uscente Valerio Spigarelli.
Il neo Presidente, nella sua
dichiarazione programmatica ha parlato dell’amministrazione della giu-
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stizia nelle sue declinazioni più problematiche. Non ha esitato a definire
“vergognose” scelte come quella sul
gratuito patrocinio che, al di là della
esiguità del compenso, viene considerato dalla Stato come un mero
‘’orpello’’, senza credere nella civiltà che invece rappresenta perche è
proprio attraverso questo strumento
che l’avvocatura dà una dimostrazione enorme di grande generosità
verso la società mentre lo Stato,continua ad umiliare la funzione difensiva.
Ha inoltre evidenziato come
,senza la riforma strutturale dell’ordinamento giudiziario e senza la
separazione delle carriere, ogni tentativo di riforma processuale e
sostanziale è destinato a perdere di
significato; una reale ed effettiva
riforma della giustizia non può prescindere da interventi che garantiscano l’uguaglianza delle parti nel
processo e la terzietà del giudice ,
quale principale elemento strumentale all’imparzialità della decisione.
Secondo Migliucci, lo straripamento
della Magistratura è sempre più evidente e l’ANM, si porrebbe come
ostacolo a una vera riforma della
Giustizia poiché tenterebbe in
ogni modo di dettare l’agenda
politica in materia penale.
Il nuovo Presidente ha subito
manifestato un atteggiamento critico e poco accondiscendente nei
confronti della classe politica ,che
ritiene comunque un interlocutore
fondamentale per cercare di
influire sulle scelte legislative che
però, negli ultimi anni, ha manifestato segni di debolezza affidando proprio alla Magistratura compiti di controllo sulle leggi, un
controllo indebito che ha portato
ai risultati odierni.
Migliucci ha avuto la meglio
sull’altro candidato,proprio perchè ha incarnato la linea più
intransigente dell’avvocatura italiana: quella che non vuole mollare di
un millimetro sui principi del giusto
processo e sul tema di una riforma
equilibratrice della giustizia.
Al Presidente Migliucci vanno
gli auguri di buon lavoro da parte
della
Camera
Penale
di
Caltanissetta.
Avv. Maria Salvo
Fecondazione eterologa e falsità di stato:
Quando la madre è certa?
di Giovanbattista Tona
Fu grande lo scalpore che
destò la sentenza del GUP milanese
dell’8 aprile 2014, uscita quasi in
contemporanea alla sentenza della
Corte Costituzionale che faceva
cadere il divieto di fare ricorso a tecniche di procreazione medicalmente
assistita di tipo eterologo.
Ma la vicenda di cui si occupava il GUP aveva a che fare proprio
con il divieto che era caduto e
riguardava la storia di una coppia
che aveva richiesto e ottenuto una
fecondazione eterologa in territorio
indiano e che poi aveva fatto “carte
false” (è proprio il caso di dirlo) per
fare inserire in Italia il bambino conseguentemente nato, nel loro stato di
famiglia.
La storia di questa vicenda
giudiziaria è molto tecnica e intricata ma come spesso accade con le storie degli uomini e delle donne
rimanda a concetti profondi, concreti e inafferrabili al contempo, come
quelli di verità e di natura. Concetti
che peraltro in questo caso investono
uno dei più grandi misteri e travagli
dell'umanità: il venire alla luce di
una vita e il rapporto tra genitori e
figli.
Una donna di 52 anni, la cui
capacità riproduttiva era compromessa da una malattia, e il suo compagno di 48 anni si erano recati
verso la fine del 2011 a Mumbai, per
sottoporsi a pratiche di fecondazione
eterologa.
I medici indiani avevano utilizzato materiale genetico donato dal
padre e l’ovocita donato da una
donna rimasta ignota; tutto questo
con il consenso espresso della coppia.
La fecondazione era stata
extrauterina e l’impianto dell’em-
brione dove l’ovulo si era sviluppato
aveva coinvolto un’altra donna,
rimasta anonima ma diversa dalla
donatrice dell’ovocita, che aveva
portato avanti la gravidanza.
Si tratta di una maternità surrogata
totale, all'epoca certamente vietata
in Italia.
Avvenuto il parto il neonato
era stato dichiarato alle competenti
autorità indiane come figlio della
coppia dei due italiani, che si dicevano residenti in un paese lombardo.
Ottenuto il certificato di nascita, la
coppia italiana si era recata presso il
proprio consolato e aveva richiesto
la trascrizione del certificato nei
competenti registri della stato civile
nel comune italiano di residenza.
Poi il padre si era recato presso il suo Comune e aveva compilato
un modulo che, obbligandolo a dirsi
consapevole delle conseguenze
penali delle sue false dichiarazioni ai
sensi dell'art. 76 Dpr n. 445/2000,
sostanzialmente gli imponeva di dire
la verità.
E il padre vi scrisse che il
bambino nato in India era figlio suo
e della compagno. Era la verità?
Frattanto
il
Consolato
Generale d’Italia a Mumbai aveva
trasmesso la richiesta di trascrizione
oltre che all’ufficio dell’Anagrafe di
residenza dei dichiarati genitori,
anche alla Procura della Repubblica,
e con una nota aveva fatto rilevare
che l’asserita madre del neonato era
arrivata dall’Italia in India appena
tre giorni della data di nascita del
bambino; circostanza che rendeva
verosimile che il rapporto di filiazione fosse stato creato in via surrogata.
Aggiungeva che in India l’assoluta incertezza della normativa
vigente in materia rendeva di fatto
consentita ogni forma di procreazione medicalmente assistita.
Il pubblico ministero milanese
aveva allora contestato ai due conviventi il reato di cui all'art. 567
comma 2 Cp; l'illecito sarebbe stato
commesso già a Mumbai e i due
imputati avrebbero alterato lo stato
civile del neonato nella formazione
dell'atto di nascita, mediante false
attestazioni. Mai costoro avevano
fatto alcuna menzione della circo-
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stanza (determinante ai fini della
ricostruzione dell'identità del bambino) che egli era stato procreato
mediante fecondazione eterologa e
surrogazione.
Il GUP invece ha sostenuto
che la dichiarazione resa dalla coppia dinanzi all’ufficiale dello Stato
civile di Mumbai il giorno in cui il
neonato ha visto la luce poteva sì
presentare l’elemento materiale
della fattispecie di alterazione di
stato ai sensi dell’art. 567 comma 2
Cp.; tale reato ricorre quando la
dichiarazione vale ad attribuire al
figlio una discendenza che non gli è
propria, essendo l’interesse giuridico tutelato quello del neonato a non
vedersi attribuire uno stato civile
difforme da quello che deriva dai
dati costituitivi reali.
Tuttavia il concetto di genitorialità è oramai posto in discussione
sia sul piano scientifico sia sul piano
culturale; e il significato stesso delle
parole utilizzate per descrivere una
situazione naturalisticamente incontrovertibile finisce per essere condizionato dal maggiore o minore rigore della loro definizione normativa.
E siccome alcuni precedenti
giurisprudenziali indiani all'epoca
già consentivano ai genitori surrogati di riconoscere il figlio come proprio dinanzi allo stato civile di quel
Paese, il Giudice ha escluso la possibilità di ravvisare il reato di cui
all'art. 567 Cp.
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Insomma visto che la normativa era confusa in India, dire in quel
paese che il bambino era figlio della
coppia poteva essere la verità. In
Italia invece no.
Nel momento in cui la coppia
si presenta al Console d’Italia per
richiedere la trascrizione dell’atto di
nascita nei registri dell’ufficio di
Stato Civile del loro Comune di residenza, ritornava difatti in gioco la
natura.
Non per se stessa, ma grazie
ad una norma vigente in Italia.
Dall'art. 269 comma 3 Cc e
dalla giurisprudenza che lo ha in
passato interpretato si ricava la prevalenza del dato naturale su ogni
altro; sicchè madre deve intendersi
colei che ha partorito il figlio.
Il GUP ricorda che la richiesta
di trasmissione dell'atto di nascita
per la sua successiva trascrizione è
prevista obbligatoriamente dalla
legge e non ha alcun immediato
effetto sulle posizioni giuridiche
coinvolte.
Essa non contiene quindi una
dichiarazione che coinvolge la formazione dell'atto di nascita, la quale
è già avvenuta. Per altro verso essa
non può che contenere le stesse
informazioni riportate nell'atto di
nascita (che per le ragioni dette non
sarebbe alterato sulla base della
legislazione indiana).
Vero è, ammette il Giudice,
che la dichiarazione contiene infor-
mazioni non corrispondenti al vero
rispetto all'ordinamento al quale
dovrà poi giungere, cioè quello italiano, dove dicendosi “madre” di un
figlio che non si è partorito non si
afferma il vero.
Ma anche a volere ragionare
così, secondo il giudice, verrebbe
integrato altro reato diverso dall'art.
567 Cp; si verserebbe in un'ipotesi di
false dichiarazioni riconducibili
all'art. 495 comma 2 che prevede
una pena edittale inferiore nel minimo a tre anni di reclusione.
Poiché il reato è stato commesso all'estero, per un reato punito
con una pena di tale entità, ai sensi
dell'art. 9 Cp, è prevista quale condizione di procedibilità la richiesta del
Ministro della Giustizia. Essa manca
nel caso di specie; quindi il reato
non sarebbe comunque procedibile.
Questa affermazione preconizza che nei locali di un consolato italiano in paese estero non trovi
immediata applicazione la legge
penale italiana.
A diverse conclusioni giunge
infine il GUP con riguardo al terzo
segmento della condotta descritta
nell'imputazione: quella eseguita
dinanzi all'Ufficiale dello stato civile italiano con la compilazione del
modulo per la richiesta di trascrizione dell'atto di nascita indiano.
La dichiarazione è preceduta
dall'ammonizione di cui all'art. 76
DPR 445/00.
Gli imputati nella prima parte
del modulo avevano riportato i contenuti dell'atto di nascita legittimamente formato in India ma nella
seconda parte erano stati chiamati a
fornire autonomamente i dati anagrafici in base alle loro dirette conoscenze.
Gli stessi imputati, prima al
Tribunale dei minori e poi al giudice
dell'abbreviato, avevano riferito di
avere studiato la legislazione nazionale italiana e di avere pertanto consapevolezza che il rapporto di filiazione, normativamente richiesto per
una veritiera dichiarazione dinanzi
Viene ricordato che questa
all'ufficio dell'anagrafe, era incompatibile con la procedura procreativa attenuante è stata ravvisata in conda loro seguita in un altro Paese creto quando l'azione delittuosa era
preordinata ad eliminare una situanella quale era lecita.
zione effettivamente esistente, ritenuta immorale o antisociale. La condotta degli imputati viene invece
ritenuta tutta finalizzata a realizzare
un proprio desiderio senza alcuna
considerazione della “socialità” dell'azione intrapresa e senza farsi carico di un progetto genitoriale meditato in relazione alle loro soggettive
esperienze di vita, alla loro età, alle
loro condizioni personali e di salute.
La soddisfazione del desiderio di
L'affermazione che la donna genitorialità nel sistema vigente,
era madre del bambino nato in India secondo la sentenza in commento,
con l'ausilio di altre due donne dove- viene garantito purchè si ponga una
va incontrovertibilmente considerar- rilevante attenzione ai diritti dei
si una dichiarazione falsa sull'identi- minori e non è trattato alla stregua di
tà e sullo stato dell'infante, alla luce un diritto da conseguire ad ogni
della nozione normativa di maternità costo. Tant'è vero che le condotte dei
genitori surrogati, che hanno violato
vigente nell'ordinamento italiano.
In questa configurazione la le norme vigenti per giungere
condotta illecita offenderebbe solo comunque alla procreazione, hanno
l'interesse della pubblica ammini- indotto in diversi casi la giurisprustrazione al corretto accertamento
dell'identità personale, e rientrerebbe nella fattispecie aggravata di cui
all'art. 495 comma 2 n. 1 Cp, proprio
perchè la dichiarazione viene trasfusa in un atto dello stato civile.
Né potrebbe essere invocato in
questa ipotesi da parte degli imputati l'errore sulla legge extrapenale ex
art. 47 Cp, visto che il loro comportamento complessivo dimostrava
come essi fossero a conoscenza di
ciò che era consentito e di ciò che
era vietato in Italia.
Dopo avere accertato la
responsabilità degli imputati sebbene per un reato molto meno grave di
quello originariamente loro contestato il Giudice non li ritiene meritevoli della circostanza attenuante di
cui all'art. 62 comma 1 n. Cp, invocata dalla difesa che attribuiva al
proposito di procreare e di mantene- denza (anche quando ha consentito
re con sé un figlio pure frutto di al mantenimento dei rapporti tra la
maternità surrogata il carattere del coppia e il bambino) a dovere operamotivo di particolare valore morale re a tutela dei minori procreati,
e sociale.
inconsapevoli soggetti di determina-
zioni cui erano del tutto estranei,
spesso coinvolti in situazioni incerte
cui porre riparo.
La decisione della Corte
Costituzionale del 9 aprile 2014 che
ha rimosso il divieto di fecondazione
eterologa sembrava rendere questa
sentenza una giurisprudenza superata, già a pochi giorni dal suo deposito in cancelleria.
Se oggi si aprono spazi per le
pratiche procreative che rendono
anche in Italia non più incontrovertibile la definizione del rapporto di
filiazione, le regole dell'anagrafe
non sembrano allo stato tuttavia
mutate. Il genitore che non sia biologico non potrà considerarsi autore di
una dichiarazione veriteria se non
fornisce dettagliate indicazioni su
come si è giunti alla nascita del
figlio che intende riconoscere.
Non mancheranno di certo
spazi per il dibattito. Ma la sentenza
del GUP milanese ne sarà un irrinunciabile riferimento.
Quantomeno per ricordarsi
che l'incertezza normativa non potrà
aiutare né i desideri dei genitori, né
il lavoro dei giuristi, né soprattutto
l'interesse dei bambini che potranno
nascere.
9
Responsabilità e risarcimento
danni da randagismo.
di Antonella Pecoraro
Il fenomeno del randagismo è
un fenomeno molto diffuso e che
desta non poche preoccupazioni,
anche nella nostra comunità locale,
ove sempre più spesso si diffondono
notizie sulle aggressioni dei cani
randagi alla collettività.
Dando un’occhiata alla giurisprudenza degli ultimi mesi, la mia
attenzione è stata attirata da una
recentissima sentenza di merito che
mi ha dato lo spunto per queste brevi
considerazioni in ordine al tema
della responsabilità dei danni cagionati dal randagismo.
La sentenza del 18 luglio 2014
del Tribunale di Torre Annunziata
(Est. Lara Vernaglia Lombardi), che
nel trattare del “cane vagante”
distingue il cane sfuggito al controllo del proprio padrone (non randagio) dal cane che non ha alcun
padrone e che si identifica proprio
col cane randagio, si occupa dei due
profili imprescindibili che l’avvocato è tenuto ad analizzare prima di
iniziare un giudizio in tema di
responsabilità e cioè quello dei soggetti da convenire in giudizio e quello dell’individuazione del titolo dal
quale sorge tale responsabilità.
La predetta sentenza affronta il
tema del randagismo e tali rilevanti
profili con una certa organicità e
logicità meritevoli, a mio avviso, di
essere esaminati.
Nella fattispecie esaminata dal
Giudice campano, una signora conveniva in giudizio il Comune di
Torre del Greco e la locale Azienda
Sanitaria Locale per ottenere il risarcimento dei danni dalle lesioni ripor-
10
tate a seguito di un’aggressione subita da un cane randagio di grossa
taglia e privo di collare che l’aveva
aggredita mentre percorreva una
strada del predetto comune.
Il primo punctum dolens esaminato nella decisione riguarda proprio la legittimazione passiva dei
due enti convenuti dall’attrice. Il
Comune, infatti, eccepiva la propria
carenza di legittimazione passiva in
giudizio, asserendo che la competenza di prevenzione al randagismo
spettasse alla A.S.L.; quest’ultima,
di contro, attribuiva al Comune la
totale responsabilità in ordine alla
segnalazione dei cani randagi.
Il Tribunale campano, allineandosi peraltro sia alla giurisprudenza di merito “locale” (Trib. Torre
Annunziata 1869/1997 e 2143/2003,
250/2005, 158/2008; Corte d’appello di Napoli 426/2007) che alla giurisprudenza di legittimità (Cass.
civile, sez. III, n. 8137/2009), supera
il problema affermando che qualora
la normativa regionale sia silente in
ordine all’ obbligo di segnalazione
dei cani randagi da parte dei Comuni
all’ASL di competenza, la responsabilità in ordine ai danni cagionati dai
predetti animali sarà tutta in capo
all’Azienda Sanitaria Locale (alle
dipendenze della Regione), la quale
dunque, sarà l’unica legittimata passiva nei giudizi di responsabilità
incoati dai danneggiati.
La legge quadro della materia,
la legge n. 281/1991, che disciplina
le misure di controllo dei cani randagi sul territorio, infatti, quale principio generale, ripartisce le competen-
ze sulla vigilanza e la prevenzione
degli animali tra Regioni e Comuni,
attribuendo, in ogni caso, alle ASL il
compito di individuazione e accalappiamento dei cani randagi. Tale normativa nazionale, ovviamente si
coordina con le singole normative
regionali le quali possono aumentare
o meno le competenze dei Comuni
in merito.
Nella decisione de qua, il
Tribunale di Torre Annunziata applicando la legge della Regione
Campania, molto precisa sul punto,
poiché prevede espressamente che la
competenza dell’accalappiamento
dei cani spetti all’A.S.L., e che nessun obbligo di segnalazione è sancito a carico del Comune, il quale ha
solamente l’onere di costruire e
gestire i canili, manleva il Comune
convenuto in giudizio.
Acclarata la legittimazione
passiva dell’ASL, la disamina del
Tribunale si sofferma sul titolo della
responsabilità e nella specie, sull’obbligo di prevenzione nel fenomeno del randagismo da parte della
stessa.
Il Giudice esclude l’applicazione della responsabilità presunta
ex art.2051 e 2052, e ritiene applicabile al caso de quo l’art. 2043 c.c.,
ritenendo
sussistente in capo
all’Azienda Sanitaria l’obbligo giuridico di impedire l’evento verificato per omesso accalappiamento del
cane che ha cagionato le lesioni
all’attrice.
Continia a pagina 39
MARKETING
NEL PIANETA SANITÀ
ULTERIORE STRUMENTO DI CURA
O LA PEGGIORE DELLE MALATTIE?
di Vito Milisenna
Dall'ENCICLOPEDIA ITALIANA
TRECCANI:
MARKETING: Con riferimento alle
imprese produttrici di beni di largo
consumo, il complesso dei metodi
atti a collocare con il massimo profitto i prodotti in un dato mercato
attraverso la scelta e la pianificazione delle politiche più opportune di
prodotto, di prezzo, di distribuzione,
di comunicazione, dopo aver individuato, attraverso analisi di mercato,
i bisogni dei consumatori attuali e
potenziali.
All'interno
del
"PIANETA
SANITÀ", una corretta e condivisibile strategia di "Marketing",
dovrebbe essere preceduta da una
analitica critica delle risposte a qualche semplice domanda:
1. Il prodotto offerto soddisfa una
domanda esistente o questa
domanda è stata sapientemente
"creata" o artatamente "immessa"
sul mercato, se non è addirittura
la conseguenza di risultati "millantati"?
2. Il prodotto offerto soddisfa la
regola base della scienza medica
da tutti conosciuta: "primum non
nocere"?
3. Il prodotto offerto è migliore di
quello della concorrenza o insegue solo il "winner" delle vendite?
4. Il fine dell'azione di marketing è
vendere (il prodotto) o soddisfare
un'esigenza primaria, quale il
bisogno di salute (attraverso la
vendita di un prodotto mirato alla
specifica esigenza)?
5. Stante che in un mercato del
"bisogno di salute" il cliente è
rappresentato dal CittadinoUtente, si può ancora parlare di
marketing o sarebbe "politicamente corretto" se non addirittura
"eticamente dovuto", parlare di
corretta informazione invece di
continuare ad etichettarla come
"strategia di vendita"?
Questo il panorama in cui l'immaginario collettivo colloca come
"prime donne" soggetti quali
Direttori
Generali,
Primari,
Responsabili di U.O.S., etc, probabilmente ignorando che più spesso
di quanto si creda, questi
[pseudo]protagonisti finiscono con
l'essere manovrati (più o meno
inconsapevolemte), divenendo meri
esecutori di esigenze "finanziarie",
ben lontane e spesso anititetiche
alla missione del migliorare la
"salute pubblica".
Colpe (tante?) o meriti
(pochi?), vanno comunque divisi,
infatti
con
l'avvento
11
dell'Aziendalizzazione, il timone del
pianeta sanità, non è più governato
dall'Autorità Scientifica della materia ma dalla politica; il "TARGET" è
rimasto invariato (il Cittadino
Utente), ma è cambiato il ruolo allo
stesso assegnato dai livelli di
comando, oggi infatti sembra che il
Cittadino-Utente sia più visto come
"portatore di consensi" piuttosto che
come soggetto portatore di bisogni
da soddisfare.
Questa constatazione, amara,
ma (si ritiene) rispondente a verità,
suggerisce la domanda delle
domande:
La macchina sanità a quali bisogni viene, di fatto, orientata?
Sarebbe facile rispondere
dicendo che deve essere orientata al
soddisfacimento dei "bisogni di
Salute", ma questa risposta, che
potrebbe apparire scontata, va a collidere con una peculiare caratteristica che connota la domanda di "salute".
L'offerta di qualsiasi bene di
consumo, anche di primaria necessità, dovrebbe essere quali-quantitativamente orientata a soddisfare la
domanda, nel senso che soddisfatta
appieno la domanda "X", l'aumento
dell'offerta si tradurrebbe in sprechi
o inutile e quantomai costoso STORAGE.
In ambito di salute, il discorso
è completamente diverso, non esiste
infatti un limite al desiderio di
benessere psico-fisico ed all'uopo si
immagini una società evoluta in cui
le cure preventive e l'educazione alimentare abbiano portato la durata
della vita media a 120 anni: domanda soddisfatta?
Forse, infatti chi rifiuterebbe
l'offerta di nuove ma costosissime
terapie in grado di allungare la durata della vita media sino a 150 anni?
La prima considerazione che scaturisce è così sintetizzabile:
In ambito di "salute", all'aumentare dell'offerta aumenta la
domanda,
de quo: mercato potenzialmente
12
infinito ? costi potenzialmente infiniti.
Va infatti tenuto presente che
bisogni "infiniti" generano spese
"potenzialmente infinite" e di fatto
non governabili, per cui, facendo di
necessità virtù, in ambito sanità, l'offerta va correlata alla risorse disponibili, di per se stesse abbastanza
limitate.
Questi due antitetici concetti
(bisogni infiniti versus risorse limitate), portano la Politica a mettere in
essere delle scelte che, almeno in
prima battuta, riverberano i loro
effetti su chi, deve effettivamente
governare l'opificio (Direzioni
Generali).
Non può negarsi che in questo modello organizzativo, direzione, verso e velocità soddisfano il
criterio TOP-DOWN e non il BOTTOM-UP (costruito sulla domanda).
MA non si deve solo combattere con l'esiguità delle risorse, infatti il ruolo giocato dai MEDIA, appare ben più che significativo.
Per meglio chiarire il concetto, mettiamo in essere un semplice
calcolo aritmetico sulla quantità di
immagine positiva faticosamente
costruita rispetto a quella
fagocitata dai media; dire
1 a dieci, forse è già troppo ottimistico.
Chiediamoci il perché?
1. In ambito sanitario, un
messaggio basa la sua
positività su un evidente negativismo (da
evitare):
Vuoi vivere cento anni? (messaggio
subliminale: se non fai quanto consigliato, la morte ti attende presto).
2. La buona sanità è atto dovuto, se
non altro a fronte delle tante tasse
che si pagano:
Perché un messaggio di buona sanità dovrebbe interessare considerato
che fa parte dei diritti sanciti dalla
Costituzione?
3. La malasanità fa notizia, mette in
piazza le sventure di qualcuno e
mette in guardia se mai si dovesse aver bisogno di quella procedura o di quel posto:
Il messaggio interessa perché
interessa il noir e ci solletica
l'attenzione.
Già queste piccole riflessioni
(da bar), permettono di capire perché lo spazio dato alla malasanità
(intesa come atto non dovuto) sia
maggiore e venga ottenuto senza
alcun esborso; contrariamente, quello della buona sanità (comportamento giustamente atteso/preteso da
tutti), non interessa, sembra autoreferenziale e decisamente poco credibile, suscitando semmai il classico
detto: l'eccezione conferma la regola. ----Già queste semplici considerazioni rendono evidenti le (grandi)
potenzialità del MARKETING ed i
limiti (spesso istituzionali), sofferti
dagli attori deputati alla messa in
opera di questo potentissimo strumento di ricerca analisi e comunicazione.
La dura realtà, ci mette in condizione di constatare come non sempre il fine dello strumento sia quello
cui istituzionalmente (ambito sanità
pubblica) dovrebbe essere deputato,
poiché acquisiti i bisogni di salute, il
sistema non si piega (ma neanche si
orienta) agli stessi, cerca piuttosto di
conciliare le risorse disponibili
adattando quindi la risposta alle
esigenze del sistema non del portatore di bisogni.
In buona sostanza piuttosto
che inseguire l'economicità di "processi dovuti" e deputati solo ed
esclusivamente al soddisfacimento
di ciò che rappresenta un bisogno
primario, si è dato ampio (forse troppo) spazio all'aspetto finanziario.
Diversamente dall'aspetto economico, una visione meramente
finanziaria, per suo stesso essere,
impone scelte tecniche (chi tenere
sulla barca e chi buttare a mare),
poco attente all'aspetto sociale, assistenziale e se mi si consente, anche e
forse soprattutto alla componente
umana senza la quale una socìetas
diviene più simile ad un esercito di
robot.
Il sistema, dai suoi massimi
vertici sino al più piccolo contratto
dirigenziale, è diventato prigioniero
di obiettivi di un "facere" che sempre meno appare incarnare la dovuta
risposta ai bisogni del CittadinoUtente, dribblando (dolosamente?) i
motivi del suo stesso essere.
Sembra quasi di essere ritorna-
ti alla ormai obsoleta:
Obbligatorietà di mezzi e non
di risultati.
Forse eccessivamente innamorati del detto che non appare da emulare chiunque porti avanti una critica
senza ipotizzarne una soluzione, si
ritiene che il MARKETING, strumento importante, potente e pertanto anche pericolosissimo, in ambito
sanitario dovrebbe essere più usato
ma anche ben più controllato.
quanto appaia inutile, costoso, dispendioso e privo di soddisfazione
alcuna, il voler intraprendere un percorso la cui meta non sia condivisa
se non addirittura antiteticamente
orientata.
O comanda la finanza o
comanda l'economicità dei processi basata sui bisogni,
non è un dilemma ma semplicemente una scelta di vita.
Questo non vuol dire "tenere
aperti i cordoni della borsa" ma semplicemente sforzarsi di realizzare
con la massima efficacia ciò che è
necessario, rifuggendo dal realizzare
"male" per quanti più possibile qualcosa che metta ognuno nella condizione di "tacere" per evitare di perdere quel poco che possiede (anche
se trattasi di servizi insufficienti).
Lo stato di bisogno non può rappresentare un momento di forza per chi
governa il timone, dovendo al contrario incarnare la voglia (irrefrenabile) di affrancare, quanto più possibile per quanti più possibile, dallo
stato di bisogno.
Forse in ultima analisi, dando
il giusto peso a grafici, primi margiDue i concetti alla base del ni, incidenze e tassi, basterebbe
dovere di controllare l'uso o l'abuso votarsi a ciò che nelle aule giudiziadi uno strumento così potente:
rie viene spesso portato in prima
linea:
si usa danaro pubblico;
il fine non può
essere rappresentato dal
"pareggio di
bilancio" ma
dal benessere
di una intera
socìetas fatta di
uomini e non
di numeri.
Per se convinti che l'eleganza
di una dimostrazione
matematica,
solitamente è contraddistinta da una
ADOTTARE SEMPRE
sua interiore semplicità, si è ben
E COMUNQUE
consci che non basta lo schiocco di
COMPORTAMENTI DA BUON
due dita per aggiustare il tutto; si è
PADRE DI FAMIGLIA.
comunque altrettanto consci di
13
pensieri
in libertà
TEMPO DI ELEZIONI
Sono scomparse dai grandi manifesti
le belle ragazze seducenti
che mostrano corpi perfetti
e dorate abbronzature.
Dai muri imbrattati
insignificanti figure
lanciano insulsi messaggi
pubblicizzano la loro misera merce
con gli occhi rivolti alle stanze del potere.
E' tempo di elezioni
è tempo di idiozie.
La città trasformata
in museo degli orrori
affoga in un mare di carte
formato santino,
stordita dallo schiamazzo degli altoparlanti
i cittadini trattengono il respiro
infastiditi dalla folla di questuanti
che chiede con falsa umiltà:
"Un voto, un voto soltanto
non per vana ambizione
ma per risollevare questa città".
La gente passa, guarda, ascolta,
spera che l'incubo presto svanisca
e ritornino le belle ragazze
sdraiate su esotiche spiagge
a esporre lo splendido corpo.
La tregua sarà breve
presto riaprirà la galleria degli orrori,
la sarabanda invaderà le strade
in un gioco insulso
ormai troppo ripetuto
Alfonso Gucciardo
TOLLERANZA ZERO:
Caltanissetta ha bisogno di un Wiliam Bratton?
cio diventerà scenario di azioni conImmaginiamo che qualcuno quel vetro rotto.
È plausibile che nel giro di poco tra legem e l’intero stabile oggetto di
rompa una finestra di un edificio ben
tenuto e immaginiamo che nessuno tempo le finestre danneggiate azioni di vandalismo.
Quella appena descritta, per
provveda, subito dopo, a sistemare aumenteranno, l’interno dell’edifi-
14
sommi capi, è la TEORIA DELLE
FINESTRE ROTTE.
Sono i due criminologi Kelling
e Wilson che nel 1982, per la prima
volta la espongono in un articolo pubblicato su una rivista
scientifica americana. (1)
Da questa teoria si sviluppò, all’inizio degli anni ’90 a
New York, la politica “TOLLERANZA ZERO” del sindaco
Giuliani.
La NY di quegli anni era
una città in cui la criminalità era
molto presente e diffusa e Giuliani,
non appena eletto sindaco nel ’94,
volle William Bratton come capo
della Polizia per far fronte a questa
emergenza.
Bratton era stato, fino ad allora,
capo della TPD (TRANSIT POLICE
DEPARTMENT), e negli anni appena precedenti aveva condotto una
campagna di TOLLERANZA
ZERO sulla microcriminalità che si
verificava all’interno della rete
metropolitana newyorchese.
Aveva messo in piedi una lotta
spietata contro i trasgressori sforniti
di biglietti, quando gli stupri e gli
omicidi
all’interno
della
Metropolitana, rappresentavano dati
seriamente preoccupanti.
Bratton fu oggetto di molte critiche ma nel giro di poco tempo i
micro reati, come gli scippi, si ridussero drasticamente, ma cosa incredibile fu che subito dopo diminuirono
soprattutto reati più gravi come omicidi e stupri.
Diventa naturale chiedersi, a
questo punto, cosa c’entri la teoria
delle finestre rotte con Caltanissetta
e il nostro territorio.
Quella che apparentemente
sembra una teoria di politica criminologica lontana dalla nostra quotidianità, oggi è a mio modo di vedere
un punto di partenza dal quale chi
amministra questa città, ma anche
chi è amministrato, non può prescindere.
È chiaro che la situazione generale di Caltanissetta non può essere
paragonata alla microcriminalità
della NY degli anni ’90 ma è altrettanto vero che gli anni che viviamo
sono caratterizzati da un tasso di
essere virtualmente sovrapposta a
quell’edificio con le finestre rotte; è
un edificio\città che ormai è continuamente oggetto di azioni di vandalismo.
Il fulcro della teoria si basa
sulla tesi che la crescente tendenza a delinquere è l'inevitabile
risultato del disordine:
Se una finestra è rotta e non
viene riparata, chi osserva concluderà che nessuno se ne cura e
perciò nessuno ha la responsabilità di provvedere; verranno così
rotte molte altre finestre, e la sensazione di anarchia si diffonderà dall'edificio\città alla via su cui si
affaccia, dando il segnale che tutto
è possibile.
Quindi teniamo a mente questa
teoria ogni qualvolta dobbiamo buttare una carta e magari per pigrizia
ci lamentiamo che non ci sono cestini a disposizione perché non siamo
disposti a fare 20 metri a piedi.
Non dimentichiamo mai, che
nulla di buono si farà in città fino a
quando tutti noi non saremo disposti
a metterci qualcosa di nostro.
Posteggiare all’interno degli
spazi o nelle aree consentite, facendo due passi a piedi per raggiungere
casa, scuola, uffici, negozi; gettare le
carte nei cestini e depositare i rifiuti
negli appositi raccoglitori; raccogliere gli escrementi del proprio
cane, sono gesti semplici e poco
“dispendiosi” eppure fondamentali
per rendere Caltanissetta un po’ più
simile a quelle realtà cittadine che
tanto ammiriamo e che ci rendono
“magicamente” civili, quando le
visitiamo.
Per cui, oltre a chiedere che le
amministrazioni riparino “le finestre
rotte” - intervento che ovviamente
va preteso - impariamo ad amare
Caltanissetta, che nulla ha da invi.diare alle altre città del nostro Paese
inciviltà e vandalismo elevatissimo.
Il vandalismo che si registra in
questa città, si manifesta in due
aspetti speculari ed entrambi preoccupanti.
Il primo è un vandalismo di tipo
“materiale”, si verifica in episodi
banali come il parcheggiare in doppia fila o in piazze non adibite al parcheggio, nel gettare le carte a terra e
cosi via; questo tipo di vandalismo
provoca due conseguenze:
La prima è una conseguenza
che ha un costo di tipo sociale,
si insegnerà agli altri che buttare le carte a terra rientra nella
normalità.
La seconda conseguenza è di
carattere economico. Quella
carta finita a terra rappresenta
una spesa, perché prima o poi
dovrà essere raccolta da qualcuno pagato per farlo. La pulizia delle strade ha infatti un
costo, che ricade sulla collettività dei cittadini che pagano le
tasse.
La seconda tipologia di vandalismo, la più grave, la definirei invece
di tipo morale.
Viviamo in una città in cui non
importa a nessuno tenerla pulita, una
città che sembra essere di nessuno
per come la non-sentiamo “nostra”;
Caltanissetta è offesa ogni giorno
dalla maggior parte dei suoi cittadiLorenzo La Rocca
ni, bravi a lamentarsi quasi quanto ______
bravi a parcheggiare davanti la (1) [J. Q. Wilson e G. Kelling, Broken windows.
Chiesa Cattedrale.
The Police of Neighborhood Safety, in "Atlantic
Viviamo in una città che può Monthly", Marzo 1982, pagg. 29-38]
15
IL BANCHETTO DEL
SAPERE
di Giulia Benintende
La tavola era già imbandita,
tovaglie bianche e pregiate toccavano il pavimento di un marmo così
sfavillante da abbagliarmi, la sala
era enorme e l’aria pervasa da un’essenza antica e profonda.
Mi trovavo presso un banchetto
del sapere, il Convivio.
Sui tavoli erano poste vivande
di ogni genere, ordinatamente sistemate intorno a calici di vino, caraffe
d’acqua e bottiglie di
CocaCola.
Minestre, selvaggina,
verdure e polente affiancavano lasagne, hamburger e patatine fritte. Tempi diversi si
incontravano sulla tavola,
secoli e secoli serviti in un’unica portata.
Lentamente sfilarono dinnanzi a me gli altri commensali:
Virgilio, l’uomo della ragione, eccelso poeta latino e
guida sapiente; due donne
così identiche per bellezza e
grazia che indubbiamente
dovevano essere Beatrice e la donna
gentile, la Filosofia; San Bernardo,
conoscitore e cultore del misticismo,
dello slancio verso Dio; Ulisse, inteso come colui che con tracotanza
sfidò i limiti divini per sete di sapere; e infine San Tommaso, rappresentante illustre della scolastica e del
pensiero aristotelico-tomistico.
Quando costoro presero posto
accadde qualcosa di straordinario: le
due donne di cui sopra, Beatrice e la
donna gentile, si fusero in un solo
corpo diventando una sola bellezza
angelica.
In ultimo entrò lui. La tunica
rossa, la corona d’alloro, il naso
16
aquilino a creare quel profilo che
tante volte avevo visto nei libri:
Dante Alighieri. Anche io e lui
sedemmo alla mensa.
Nel silenzio pensai al Simposio di
Platone. Poi la mia mente si spostò
allo studio, riguardante il Convivio,
fatto a scuola: la mensa del sapere.
Dante offre agli uomini delle liriche,
le vivande, accompagnate da un
commento, il pane, al fine di riporta-
re, nei suoi trattati in volgare, e di
diffondere tutto il sapere del tempo.
"Miei commensali" iniziò il poeta
"siamo seduti a questa tavola per
discutere circa il sapere.
Cos’è il sapere?
Quant’è grande?
Quanto dobbiamo essere forti
per sostenerne il peso?
E può, questo sapere, diffondersi tra gli uomini di ogni rango e
nazione?".
Prese parola Virgilio, "Oh certo
che no, illustre poeta, gli uomini di
ceto a noi inferiore non possono che
rimanere ignoranti. D’altronde il
sapere è lo studio razionale di arte e
letteratura, la pura conoscenza che ci
eleva e ci rende maestri".
"Dante caro" continuò Beatrice,
ormai diventata al tempo stesso la
donna gentile, "costui parla di ragione perché non conosce la dottrina
cattolica. Il sapere è, in verità, lo studio della filosofia, ma solo la fede
può condurre ad una conoscenza
completa del mondo".
"Non parlate di conoscenza del
mondo, voi medievali" s’intromise Ulisse "che mi condannaste, per l’ardente desiderio di sapere che sempre
mi ha pervaso, a un’infernale eternità. Dissi, rivolgendomi ai miei uomini, “fatti
non foste per viver come
bruti ma per seguir virtute e
canoscenza”, perché è questo il sapere: cercare al di là
di ciò che è già stato scoperto una verità più profonda e
universale. Anche al di là
delle colonne d’Ercole, miei
commensali".
"E il timor di Dio?" irruppe
Bernardo "uomo tracotante, la
sapienza sta nell’abbandono ai
misteri del Signore che con la sua
parola può diffonderla!".
Allora si inserì Tommaso
"Calma signori, non agitatevi. Il
sapere è ciò che ci rende uomini
colti, la consapevolezza di conoscere l’intero, di sapere com’è fatto l’universo, come sono disposti i cieli. Il
sapere è un entità astratta, limitata e
ben delineata che può essere diffusa
solamente tra animi nobili".
"E per te cos’è il sapere?" mi
chiese Dante.
"Bé" cominciai "nel ventunesi-
La tutela del danno da
emotrasfusione
di Renato Arnao
Apparecchio per la trasfusione diretta
del sangue ideato da Franz Oehlecker
,sec XVIII
da Giovanni Colle (1558 - 1631) alla
Legge n.210 del 25 febbraio 1992.
Leonardo da Vinci scriveva sul
sangue:
“dà vita e spirito a tutti li membri
dove si diffonde” .
Nei secoli la trasfusione di sangue tra individui, prima di trovare
affermazione nel mondo scientifico,
è stata esaltata, disapprovata o addirittura considerata immorale.
Nel 1613 William Harvey
mise in evidenza il percorso del
sangue all’interno del corpo umano,
cominciando a diffondere l’idea che
la trasfusione del sangue potesse
avere effetti benefici sull’organismo
ma solo nel 1628 ad opera del medico Giovanni Colle da Belluno,
viene pubblicata una meticolosa
descrizione della tecnica trasfusionale.
18
Bisogna attendere quasi tre
secoli perché l’emotrasfusione
venga regolamentata (D.M. del
13.12.1937: “Norme concernenti la
trasfusione, il prelevamento e l’utilizzazione del sangue umano”.)
Passa ancora più di mezzo secolo perché al riconoscimento dei
“rischi” trasfusionali nei confronti
dei soggetti emotrasfusi colpiti da
infezioni (epatite B, C e HIV),
venga garantito un ristoro economico regolamentato dalla Legge
n.210/92 poi modificata dalla Legge
n. 238/97; lo Stato prevede ed indennizza i soggetti
danneggiati da
complicazioni di
tipo irreversibile
a seguito di trasfusioni del sangue e/o somministrazione di
emoderivati.
La richiesta di indennizzo ex
L.210/92, riconosce un'unica procedura istruttoria ma due diverse
modalità di liquidazione, infatti ex
D.P.C.M. del 26 maggio 2000, le
competenze in materia di salute
umana e sanità veterinaria, sono passate alle regioni con indennizzi erogati dal Ministero della Salute (casi
avvenuti nelle regioni a statuto speciale) o direttamente dalle casse
regionali (tutte le altre Regioni).
Caratteristica peculiare è la
natura del ristoro (indennitaria e
non risarcitoria), riconducibile agli
art. 2 e 32 della Costituzione, con
prestazioni a carico dello Stato in
ragione del dovere di solidarietà
sociale; non quindi emolumento
erogato per riparare ad un comportamento colposo, ma misura economica di sostegno collegata ad una
situazione di menomazione obiettiva
della salute, derivante da una prestazione sanitaria per cui va sottolineato che l’indennizzo ex legge 210/92
prescinde da qualsiasi giudizio di
responsabilità e non ricomprende il
risarcimento del danno biologico,
patrimoniale, morale ed esistenziale.
Concorde la giurisprudenza di
merito nel ritenere che l’indennizzo
ex legge 210/92 e la possibilità di
promuovere l’azione civile per il
risarcimento dei danni subiti non
sono strumenti alternativi, in quanto la proposizione e l’accoglimento
dell’istanza di indennizzo non precludono al soggetto danneggiato la
possibilità di agire giudizialmente
per ottenere l’integrale risarcimento
dei danni subiti.
Di parere concorde la Corte
Costituzionale dove, con le sentenze
n.307/90,118/96 e 423/2000, è stata
sancita l’ammissibilità del concorso
di entrambe le forme di tutela, quella indennitaria e quella risarcitoria.
La regione Siciliana, ex art.4 di cui
alla L.210/92, ha costituito dei
Collegi Tecnici Provinciali assegnando loro due compiti distinti:
l’istruttoria delle richieste di
indennizzo indirizzate al
Ministero della Salute;
l’aspetto consulenziale per contenziosi che vedono l’A.S.P. di
appartenenza chiamata a rispondere presso il Giudice del
Lavoro in contenziosi atti ad
ottenere il risarcimento del
danno subito.
Per macroaggregati, due le tipologie attinenti alle azioni di risarcimento/indennizzo per danni da emotrasfusioni o da emoderivati.
1. Soggetti che per la natura congenita della propria malattia sono stati
sottoposti a periodiche e sistematiche emotrasfusioni. Difficilissimo se
non impossibile individuare quale
sia stata la singola trasfusione o la
somministrazione di emoderivati
responsabile della malattia, del
medico e della la struttura sanitaria
in cui sia avvenuto il contagio. Nella
maggior parte dei casi i soggetti danneggiati promuovono l’azione di
risarcimento danni esclusivamente
nei confronti del Ministero della
Salute sostenendone la sua responsabilità ex artt. 2043, 2049 e 2050 c.c.,
sulla scia della prima sentenza pronunziata il 27.11.1998 (n.21060 –
Tribunale di Roma - Sez. I. pen.).
2. Soggetti che hanno contratto il
virus in quanto sottoposti ad emotrasfusioni rese necessarie ed indispensabili in conseguenza di un singolo
evento (intervento chirurgica, parto,
infortunio, etc). In questo caso l’azione di risarcimento danni è rivolta
nella totalità dei casi oltre che verso
il Ministero della Salute, la cui
responsabilità è sempre extracontrattuale, anche nei confronti della struttura sanitaria pubblica o privata ove
è avvenuto il contagio (vecchie
UU.SS.LL., AA.SS.PP., Regione
nonché verso i Sanitari che hanno
effettuato il trattamento, sostenendo
la responsabilità di natura contrattuale di ogni soggetto).
Non risultano procedimenti
passati in giudicato in cui il medico
che ha effettuato il trattamento terapeutico sia stato chiamato a risponderne personalmente, mentre si è a
conoscenza di un caso in cui è stato
chiamato in giudizio il conducente
di un veicolo ritenuto responsabile
di un sinistro stradale, a seguito del
quale l’infortunato aveva subito una
trasfusione di sangue dalla quale era
derivata la malattia da contagio.
Giurisprudenza
concorde,
improntata sul neminem laedere, ha
stabilito i limiti di responsabilità del
Ministero della Salute per i danni
conseguenti alle infezioni da HIV e
da epatite, contratte da soggetti emofilici ed emotrasfusi per l’omessa
vigilanza esercitata dall’amministrazione pubblica sulla sostanza ematica e sugli emoderivati impiegati
negli interventi trasfusionali, precipuamente centrata su momento storico (ove possibile stabilirlo), cui si
fa risalire il contagio in quanto, i test
diagnostici per l’infezione da HBV,
HIV e HCV sono stati approntati
rispettivamente in epoca successiva
agli anni 1978, 1985 e 1988.
Per i periodi precedenti, l’imprevedibilità dell’evento dannoso,
per la mancanza di conoscenza
della scienza medica dei virus HBV,
HIV e HCV, ha portato la III sez.
Civile della corte di Cassazione
all’emissione della n.11609 del
31.05.2005 ad escludere la responsabilità del Ministero.
P e r
completezza non
può infine
trascurasi,
il difficile
inquadram e n t o
tabellare che ex art.4 di cui alla
L.210/92, deve essere condotto sull’anacronistica tabella “A” (ex DPR
n.915/78 ed s.m.i.), caratterizzata da
parametri valutativi ancorati, prevalentemente, al vecchio e ormai superato concetto della incapacità lavorativa generica, come previsto dall’art.2 del DPR n.915/78 che prevede, infatti, il conferimento, a titolo di
atto risarcitorio, di pensioni, assegni
ed indennità di guerra, a coloro che
abbiano in guerra riportato ferite o
lesioni o contratto una infermità da
cui deriva perdita o menomazione
della capacità lavorativa generica.
In conclusione può affermarsi che le
numerose problematiche in corso di
applicazione dei dettami della Legge
210/92, con tutto il corollario di
modifiche, estensioni e interpretazioni giurisprudenziali plurime, suggeriscono la necessità di interventi
semplici ed efficaci, ancora ben lontani dai più congrui modelli europei, quello francese in particolare
che stabiliscono prassi di giudizio e
di riparazione di tipo amministrativo, non giudiziale, quasi a sottolineare il pubblico interesse per la
riparazione pronta e puntuale dei
danni causati da un servizio che la
nostra Costituzione attribuisce
comunque allo Stato.
19
COMMISSIONE PARI OPPORTUNITÀ
di Ilaria Golia
Quale avvocato non rammenta il primo giorno di pratica o i
primi saggi consigli dispensati dal
proprio dominus?
Oggi, chi intende intraprendere l’arduo cammino verso l’esercizio della professione forense rischia,
sempre più spesso, di incontrare difficoltà ancor prima di iniziare e di
ricordare dell’inizio del proprio percorso il ricorrere della frase “mi dispiace, ma non accetto praticanti”.
Talvolta può, infatti,
risultare complicato trovare un
avvocato disponibile ad accogliere un praticante nel proprio
studio. Le ragioni possono essere le più varie e, con onestà
intellettuale, nulla hanno a che
vedere con la difesa di una classe, che, da tempo,ormai, non ha
più i caratteri di una casta: la
mancanza di tempo da dedicare
ad una coscienziosa formazione
di un possibile futuro collega, la
valutazione circa l’utilità di un
collaboratore e, non per ultima,
la valutazione dei costi connessi.
Sebbene il dominus, alla
luce dell’art. 41, comma 11,
della riforma forense, abbia non
un obbligo, ma una facoltà di riconoscere al praticante avvocato un’indennità o un compenso per l’attività
svolta per conto dello studio, sull’avvocato gravano diversi obblighi
ed oneri.
In particolare, l’avvocato che
ospita un praticante ricade nel
campo di applicazione del D.Lgs.
81/2008 ed è destinatario, in quanto
“datore di lavoro”, degli obblighi
previsti dal nuovo Testo Unico in
materia di tutela della salute e della
sicurezza nei luoghi di lavoro. Il pra-
20
ticante avvocato, infatti, rientra nella
definizione di “lavoratore” dettata
dall’art. 2 del citato decreto che considera tale la "persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un'attività lavorativa
nell'ambito dell'organizzazione di un
datore di lavoro pubblico o privato,
con o senza retribuzione, anche al
solo fine di apprendere un mestiere,
un'arte o una professione".
L’avvocato che ha in organico anche solo un praticante, quindi,
deve provvedere, ai sensi degli artt.
17, 28 e 29 D.Lgs. 81/2008, alla
valutazione dei rischi ed alla conseguente elaborazione del relativo
documento, che deve essere munito
di data certa e custodito presso lo
studio.
È, altresì, necessaria la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai
rischi (art. 2 lett. f; art. 17 artt. 31-35
d.lgs 81/08). L’avvocato può decide-
re di svolgere direttamente i compiti
propri del servizio di prevenzione e
protezione dai rischi, previa frequentazione di corsi di formazione
di durata minima di 16 ore, oppure
può scegliere di avvalersi di persone
o servizi esterni, senza esclusione
della sua responsabilità in materia.
L’avvocato-datore di lavoro,
ai sensi dell’art. 45 del citato decreto, deve prendere i provvedimenti
necessari in materia di primo
soccorso e di assistenza medica
di emergenza di cui al decreto
ministeriale 15 luglio 2003, n.
388, garantendo le attrezzature
di primo soccorso e designando
un addetto al pronto soccorso,
formato con istruzione teorica e
pratica per l'attuazione delle
misure di primo intervento interno e per l'attivazione degli interventi di pronto soccorso (corso
di durata minima di 12 ore).
All’interno dello studio legale ospitante, inoltre, devono
essere adottate idonee misure
per prevenire gli incendi e per
tutelare l'incolumità dei lavoratori che consistono, in sintesi,
nella valutazione del rischio
incendio, nell’installazione di
adeguato estintore e nella designazione dell’incaricato dell'attuazione delle misure di prevenzione
incendi, lotta antincendio e gestione
delle emergenze, che deve frequentare specifico corso di formazione.
Anche i compiti propri dell’addetto al primo soccorso, nonché
alla prevenzione incendi e evacuazione, possono essere svolti direttamente dall’avvocato, sempre previa
formazione.
Continia a pagina 23
In tema di sospensione feriale
di Giuseppe Dacquì
Nella mia lunga vita professionale forense mai mi sono trovato
d’accordo con l’Associazione nazionale magistrati ma questa volta in
tema di durata della sospensione
feriale non posso che sottoscrivere
quanto dalla stessa lamentato. La
sospensione feriale dei termini (così
tecnicamente definita) è
regolata dalla legge
n.742 del 1969. Tale
legge sospendeva prima
dell’attuale
decreto
legge, il decorso dei termini processuali relativi
alle giurisdizioni ordinarie dal 1 agosto al 15
settembre di ciascun
anno.
La
sospensione
feriale non vuol dire la
completa paralisi dell’attività giudiziaria poiché la sospensione nella
fase delle indagini preliminari non opera per gli
imputati in stato di
custodia cautelare, qualora gli imputati o i loro
difensori rinunzino alla
sospensione dei termini;
nei procedimenti prossimi alla prescrizione e in
quelli in cui sia prossima la scadenza dei termini di custodia cautelare; così
come non opera, per i soli termini
delle indagini preliminari concernenti i procedimenti per reati di criminalità organizzata ed in altri casi
di particolare urgenza disciplinati
dalla legge. Forse non è a tutti noto
che nel periodo della sospensione
operano regolarmente il Tribunale
del Riesame, il Tribunale di
Sorveglianza, il Tribunale dei
Minori, le Procure, nonché tutti i
giudicanti che si occupano dei procedimenti urgenti.
Spiace dirlo ma la questione è
stata presa di petto dall’illustre
Pierluigi Battista e dalle forze politi-
che senza conoscere il reale funzionamento della macchina della giustizia. Con la riduzione del periodo di
sospensione si vorrebbe dare un’accelerazione ai tempi della giustizia
ma non ci si rende conto che il rimedio è peggiore del male.
Si vuole dunque la celebrazione
del processo ordinario nel periodo
“ferragostano” senza tener conto che
gran parte del personale è in ferie,
così come sono in ferie le forze dell’ordine, gli agenti penitenziari, il
cittadino testimone, il cittadino persona offesa, i consulenti, i periti, i
trascrittori, ecc…. Sicchè, i processi
fissati per tale periodo inevitabilmente saranno rinviati
per l’assenza legittima
dei testimoni e senza
tener conto, anche, dell’insufficienza del personale amministrativo
con un evidente e notevole aggravio di tempi e
di spese.
Per rendere rapido
l’iter processuale occorre che intanto il
Ministro di giustizia
faccia una cernita di
tutti i magistrati dislocati nei vari ministeri ed
istituzioni al fine di
verificare la loro indispensabilità, fornisca gli
strumenti tecnologici
moderni ed adeguati
agli uffici giudiziari, e
dia man forte all’edilizia
giudiziaria e carceraria.
Le ferie non sono un
privilegio ma un diritto
costituzionalmente protetto. Spiace che su tale argomento
la voce dell’Avvocatura non si stia
levando in maniera forte. Non credo
che la tutela di un diritto rappresenti
“un interesse di categoria”.
L’avvocato penalista non è mai in
“ferie” ma obbligarlo ad andare in
aula ad agosto anche per i processi
ordinari è puro sadismo!
21
QUANDO IL SUBAGENTE
PERDE L’INDENNITA’
DI CESSAZIONE DEL RAPPORTO
di Rosario Carrara
Ancora oggi la dottrina e la
giurisprudenza dibattono sulla possibilità di estendere gli Accordi
Economici Collettivi dettati per gli
agenti anche ai subagenti che, come
è noto, sono i collaboratori diretti
dell’agente, ossia coloro che per
conto dell’agente promuovono le
vendite dei prodotti dell’azienda che
a tal fine ha conferito incarico all’agente.
La prevalente giurisprudenza del
Supremo
Collegio, muovendo da un’interpretazione letterale degli
Accordi, è di parere negativo
ed affida la tutela dei subagenti - in punto di indennità spettanti - alla sola disciplina dettata dagli artt. 1750 e 1751 c.c. .
Invero, “i subagenti
non possono invece avvalersi
delle indennità previste esclusivamente dal contratto collettivo concernente gli agenti”
(Cfr. Cass. civ. Sez. Lavoro,
07.06.1999, n. 5577).
Ed ancora, “ è condivisibile e corretto il principio
secondo cui al subagente non
può essere estesa la contrattazione
collettiva di diritto comune propria
degli agenti” (cfr. Cass. civ. Sez.
Lavoro, 22.04.2002. n. 5827).
Ma ciò come principio di
carattere generale senza escludere
l’operatività di detti accordi anche
per i subagenti ove le parti del contratto di subagenzia abbiano espres-
22
samente o per relationem convenuto
la operatività degli A.E.C. .
In mancanza, quindi, di detta
convenzione opererà la sola disciplina prevista dagli articoli 1750 e
1751 c.c. .
Ora, con riferimento alla
indennità di scioglimento del rapporto il citato art. 1751 c.c. collega il
relativo diritto ad una serie di presupposti che si possono sintetizzare
come di seguito.
Se il rapporto si scioglie ad
iniziativa dell’agente o subagente
(dimissioni), occorre anzitutto che
ciò sia determinato da ragioni di età,
infermità o malattia dello stesso
dimissionario o da un grave inadempimento dell’altra parte contrattuale,
poiché, diversamente, l’indennità
non spetta.
Se, invece è la preponente a
sciogliere il rapporto, ovvero l’agente verso il subagente (disdetta), l’indennità non spetta se la stessa è stata
determinata da una giusta causa di
recesso.
Stabiliti tali presupposti
indefettibili, per poter beneficiare
della indennità occorre, in seconda
battuta, che sussistano - in via concorrente e non alternativa una
serie di altri presupposti
segnatamente indicati al
comma 1° del citato art. 1751
c.c.
Più precisamente occorre
che:
- l’agente abbia procurato
nuovi clienti al preponente o
abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva
ancora sostanziali vantaggi
derivanti dagli affari con tali
clienti;
- il pagamento della indennità
sia equo, tenuto conto di tutte
le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che
l’agente perde e che risultano
dagli affari con tali clienti.
Non mi soffermerò sull’esame di tali presupposti ma passerò in
rassegna un caso pratico che ha visto
un subagente recedere dal rapporto
con l’agente in seguito alla disdetta
da questo ricevuta dalla preponente
principale.
Ebbene, tra le altre rivendicazioni, il subagente invocava il
diritto alla indennità di scioglimento
del rapporto posto che il proprio
recesso era stato determinato da giusta causa, segnatamente, dalla violazione degli obblighi informativi a
carico dell’agente che non gli aveva
comunicato la disdetta ricevuta dalla
proponente principale.
Dall’altra parte, l’agente riteneva che nessuna indennità di scioglimento potesse spettare al subagente per non avere integrato alcuna
violazione agli obblighi informativi
a proprio carico e, comunque, perché non sussistevano o non era provata la concorrente esistenza di tutti
gli altri presupposti richiesti dall’art.
1751, comma 1°, c.c..
Il Tribunale Lavoro di
Catania, chiamato a decidere in
prima istanza la controversia, rigettava la domanda del subagente ritenendo che la disdetta comunicata
dalla preponente principale all’agente aveva determinato - nei rapporti
tra agente e subagente - <<una classica ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione contrattuale>> che, in quanto non imputabile
all’agente, precludeva ai sensi dell’art. 1751 c.c. il dritto del subagente alla indennità di scioglimento del
rapporto.
Avverso tale decisione il
subagente proponeva appello avanti
la Corte Territoriale Lavoro di
Catania cui resisteva l’agente.
All’esito del giudizio durato
circa cinque anni, la Corte
d’Appello ha rigettato l’appello del
subagente sulla base della seguente
motivazione: “Ritiene il Collegio
che nel caso in esame non ricorre l’ipotesi della esclusione conseguente
alle dimissioni dell’agente atteso
che il recesso era giustificato da
ragioni rientranti nelle sfera del preponente sebbene non imputabili a
responsabilità dello stesso. Tuttavia,
non può trovare applicazione la disposizione in esame che prevede la
duplice condizione che l’agente
abbia procurato nuovi clienti o abbia
sensibilmente aumentato gli affari
con i clienti già esistenti e che il preponente continui a trarre vantaggio
dagli affari con tali clienti. Nel caso
in esame il secondo presupposto non
è stato provato e sicuramente tardive
sono le allegazioni in tal senso con-
tenute nell’atto di appello. Peraltro,
poiché è provato che il subagente ha
continuato a svolgere la stessa attività di subagente per il nuovo agente
della preponente e nelle stesse zone
è presumibile che lo stesso non
abbia subito alcun pregiudizio dalla
cessazione del rapporto di agenzia
per cui è causa che è sostanzialmente proseguito con altro agente e che
il subagente non abbia perso provvigioni”
La Corte Territoriale, quindi,
pur nella identità delle conclusioni,
sviluppa una posizione differente da
quelle adottata dal Giudice di prime
cure, che si può così sintetizzare: le
dimissioni del subagente determinate dalla disdetta comunicata al proprio preponente dalla preponente
principale non precludono il diritto
alla indennità ex art 1751 c.c purchè
sussistano le ulteriori condizioni
richieste dalla norma.
La vicenda non è ancora conclusa posto che il subagente ha proposto ricorso per Cassazione cosicchè siamo in attesa di conoscere la
posizione del Giudice nomofilattico
sul punto.
Continua da pagina 20 “Commissione Pari Opportunità”
In ordine alla sorveglianza
sanitaria, la nomina del Medico
Competente è prevista solo in caso
di utilizzo, da parte del praticante, di
attrezzatura munita di videoterminali, in modo sistematico o abituale,
per venti ore settimanali.
Infine, come chiarito dalla
Circolare Inail n. 16 del 4 marzo
2014, è escluso "dall’obbligo assicurativo colui il quale, ai fini dell'ammissione all'esame di stato per l'abilitazione all'esercizio della professione, è tenuto a svolgere un periodo
obbligatorio di “praticantato”, tenuto conto della gratuità del rapporto e
dunque dell’assenza del requisito
soggettivo ai fini assicurativi ai sensi
dell’art. 4, n.1) del d.p.r. 1124/65,
dato che il rimborso spese comunque non ha natura corrispettiva".
Tuttavia, l’esclusione del
praticante dall’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro non esonera dall’obbligo di tenuta del registro infortuni (art. 403,
DPR n. 547/1955), che grava sul
datore di lavoro che impiega lavoratori subordinati o soggetti ad essi
equiparati. Il registro degli infortuni,
infatti, è obbligatorio per legge, e
deve essere istituito e tenuto anche
da parte dei datori di lavoro che non
hanno dipendenti assicurati presso
l’Inail. Il registro deve essere redatto
conformemente al modello approvato con decreto ministeriale del 12
settembre 1958, vidimato presso
ASL competente per territorio e conservato a disposizione dell’organo di
vigilanza sul luogo di lavoro.
Questa breve disamina degli
oneri gravanti sull’avvocato che
intende ospitare un praticante, senza
presunzione di esaustività, vuole
essere, soprattutto, un’occasione di
riflessione sull’incidenza di tali
incombenze sul desiderio di comunicare competenze e di offrire un’opportunità a chi, oggi, aspira ad esercitare la professione forense.
23
E U R O PA
di Pasquale Cipolla
In ricordo di Michelangelo Salerno,
avvocato, di raffinata cultura umanistica, dette prestigio al Foro nisseno che
fece conoscere oltre i suoi confini
Era il primo Pontefice che, dai
tempi di Pietro, lasciata Roma, valicava le Alpi per l’impervio e pericoloso passo del Gran San Bennardo,
con l’intento di giungere a Ponthion
che era la sede di Pipino, re dei
Franchi, con il quale doveva stringe-
24
re una alleanza memorabile.
Il nome del Papa, in viaggio nel
pieno dell’inverno dell’anno di grazia 753, fatto tra mille pericoli ed
insidie, era Stefano II, un uomo alto
e magro di salute malferma che i
romani avevano scelto per le sue
doti di coraggio.
I motivi che lo avevano spinto
così lontano erano tutti nella grandiosa missione il cui compimento
doveva affidare al re dei Franchi, e
cioè la liberazione dell’Italia dai
Longobardi che l’occupavano da
due secoli e minacciavano ora
Roma e la stessa sede apostolica,
nonché la propagazione della fede
cristiana nei paesi dell’Europa, in
parte ancora barbara, il contenimento dell’avanzata musulmana, ed
infine la difesa di Roma e della
Chiesa.
La sorte volle che un progetto
di tale portata fosse attuato e compiuto da Carlo Magno, figlio di
Pipino a cui era succeduto.
Tutti i popoli europei, dal Mar
del Nord e sino al Mediterraneo,
furono difatti da lui uniti nel nuovo
ordine carolingio col vincolo religioso verso la Chiesa di Roma, ove
nel giorno di natale dell’anno 800,
nella Basilica di San Pietro gremita
da una folla festante ed alla presenza del clero, dei cavalieri franchi e
dei patrizi romani, fu incoronato
imperatore e riconosciuto come il
solo e vero capo della cristianità in
Europa.
La consacrazione non ebbe il
significato della resurrezione dell’impero dei Cesari, né della restaurazione dell’Impero Romano d’occidente che era una formula priva di
contenuto, ma segnò la nascita
dell’Impero Romano Cristiano il cui
unico fondamento privo di radici
storiche, di rivendicazioni territoriali e di supremazie, fu l’ideale politico religioso dal quale Carlo Magno
trasse tutta la dignità, il prestigio e
la forza di difensore della Chiesa
universale e di propugnatore della
fede.
Compito non facile in una Europa
che dopo la fine ed il dissolvimento
del primato romano era caduta nel
buio culturale, spirituale e morale
più profondo e nel disordine totale.
Delle condizioni disastrose in
cui versavano i popoli europei tenne
debito conto Carlo Magno il quale
per infondere uno spirito nuovo ed
una luce nuova che squarciasse le
tenebre di quel tempo accompagnò
la diffusione del cristianesimo con
una forte spinta culturale e morale.
A questo scopo radunò attorno
a sé le più belle intelligenze europee
tra inglesi, tedeschi, italiani, spagnoli, franchi, longobardi che svilupparono i prodromi di una comune cultura europea.
Con il passare dei secoli e con
il succedersi di eventi di portata storica come quello riferibile a
Federico II che delle scomuniche
del Papa non se ne curò proprio per
niente, il legame religioso verso la
Chiesa, inteso come caposaldo dell’unità dell’impero carolingio, si era
sempre più sfilacciato in una Europa
completamente diversa sul piano
politico ed economico e sociale da
quella lasciata dall’Imperatore franco.
La graduale caduta dei valori
che avevano tenuto unita l’Europa
ebbe alla fine una conclusiva accelerazione dalla spinta impressa dai
movimenti
cristiani,
quali
l’Umanesimo prima ed il Luterano
dopo, alla radicale trasformazione
dell’assetto europeo cristiano-romano.
A differenza degli “Umanisti”
che avevano posto al centro la spiritualità dell’uomo, i Luterani puntarono a mettere in crisi i principi
della dottrina e della fede della
Chiesa di Roma, con l’obiettivo
della nascita di una chiesa evangelica tedesca.
Lutero, che del movimento ne è
stato il capo, abbandonata la originaria rivendicazione di uguaglianza
dei diritti sociali e politici del ceti
popolari germanici, ebbe gioco facile per due fondamentali ragioni la
prima delle quali fu la dissoluzione
dei valori morali delle gerarchie
ecclesiastiche romane e la seconda
per la coincidenza della sua azione
con gli interessi politici dei grandi
principi tedeschi portati, per aspirazione nazionalistiche, ad escludere
nei loro territori ogni ingerenza
della Chiesa di Roma.
Otto secoli dopo la morte di
Carlo Magno, l’Europa che nel
segno della fede cristiana si era
unita, nel segno della stessa fede si
divise in due grandi blocchi ciascuno dei quali si dette nel solco dei
propri costumi e delle proprie tradizioni e culture, gli assetti politici ed
economici diversi uno dall’altro.
Il contrasto tra le due europe,
l’Europa del nord e del sud, l’atlantica e la mediterranea, la cattolica e
di cultura latina e la protestante di
cultura anglosassone divenne inevi-
tabile e fu causa di incomprensioni e
di guerre, l’ultima delle quali consegnò alla storia il grado di follia e di
ferocia mai prima raggiunto dall’uomo.
Subito dopo la fine del conflitto, la paura di altre devastazioni e
guerre, rese necessaria ed urgente
l’adozione di strumenti capaci di
assicurare all’Europa un destino
finalmente di pace.
Con la speranza di un avvenire
migliore nacque così l’Unione
Europea, alla cui architettura furono
chiamati uomini non certamente
illuminati nel campo politico, storico e culturale, ma tecnocrati e banchieri che in un complesso ordine di
regole economiche e finanziarie
pensarono di legare insieme le sorti
dei vari paesi europei.
A completare un siffatto processo di unificazione fu l’introduzione della moneta unica con l’obiettivo di rendere uniformi le
diverse condizioni socio economiche degli stati membri ed in tal
modo eliminare situazioni di contrasto.
Non pare, però, che il progetto
abbia avuto esiti positivi considerato che i paesi prima poveri ora sono
più poveri al contrario di altri che
sono più ricchi e ciò trova riscontro
nei movimenti, sempre meno carsici, di opposizione, di rigetto e di
intolleranza verso i criteri imposti
dall’Unione.
Forse perché la paura che
prima la fece nascere è ormai lontana nel tempo e delle sue cause se ne
è persa la memoria o forse perché al
gigante europeo che si è costruito,
non si è data un’anima, un ideale
capace, cioè, di far credere a ciascuno di essere un autentico cittadino
d’Europa, come invece fece l’imperatore carolingio che proprio per
questo resta sino ad oggi l’unico
unificatore vero dei popoli europei.
Aprile 2014
25
Fondazione
Scuola Forense Nissena
“G. Alessi”
IL VIVAIO
"Il
rapporto
familiare… tra
una chat e una
videochiamata!"
di Carla Maria Milisenna
"La famiglia è la prima sede dove
si comprende il significato dell'esistenza.
In un mondo in cui prevalgono i
valori del profitto, della ricchezza,
del piacere, la cultura
dell'accoglienza mira a coltivare i
valori del servizio e del dono".
(N. Galli).
Mazzini diceva che la famiglia
è la Patria del cuore. Ma "cosa è la
famiglia?"
Da un punto di vista antropologico, la si intende come
"Istituzione fondamentale in ogni
società umana, attraverso la quale la
società stessa si riproduce e perpetua, sia sul piano biologico, sia su
quello culturale".
26
Facendo quindi seguito agli
input di cui sopra, è evidente che il
concetto di famiglia sottintende la
presenza di diverse persone che
assumono diversi ruoli in base
all'ambito di riferimento, ma in tutti
i casi essa è celebrata come
Istituzione.
Negli ultimi anni però, con
l'avvento della tecnologia e l'inquadramento della stessa come struDa un punto di vista giuridico,
mento principale del quotidiano
il Codice civile vigente pur conteagire umano, anche la famiglia, antinendo il primo libro "DELLE PERca istituzione sociale, giuridica e
SONE E DELLA FAMIGLIA", non
contiene alcuna definizione della
stessa. Ciò non ha impedito il proliferare di diverse definizioni di famiglia offerte dalla dottrina, che si è
sforzata di rinvenire una nozione
unitaria. La famiglia è stata così, in
un primo tempo, intesa come gruppo
religiosa ne ha risentito.
di persone appartenenti ad una
Difatti il concetto di famiglia e
comune discendenza, ossia come
di rapporto familiare è stato così
famiglia parentale.
tanto bistrattato da essere stato ridotL'art. 29 della Costituzione
to all'osso.
italiana
la
definisce
come
Si è persa infatti la concezione
"SOCIETÀ NATURALE FONDAlegata all'apprendimento dentro le
TA SUL MATRIMONIO" e afferma
l'obbligo della Repubblica di riconoscere alla stessa, così intesa, i diritti
che le competono
Questa definizione si collega
all'art. 2 Cost., ove si afferma che la
Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo,
sia nelle formazioni sociali ove si
svolge la sua personalità.
mura domestiche, legata all'espeDa un punto di vista cattolico
rienza fisica, all'uso dei cinque
infine, la famiglia fu istituita da Dio
sensi. Basti pensare che al giorno
sin da principio. Egli dopo aver
d'oggi, anche un bacio sulla guancia
creato ogni cosa creò l'uomo e la
è stato sostituito da un emoticon!
donna, generando così la prima
Nello specifico il caso che si
famiglia (Gen. 1:26-28).
prende in esempio, fa riferimento ad
una famiglia che ha vissuto una
separazione e un conseguente affidamento della prole ad uno dei genitori, consentendo il diritto di visita al
genitore non collocatario.
Il rischio maggiore per il genitore non collocatario è quindi non
poter assistere al percorso di crescita
dei propri figli.
Nello specifico, una madre che
aveva grandi problemi relazionali
con le figlie, aveva deciso, dopo la
separazione, di partire per la Francia
e le figlie erano rimaste con il padre.
Le bambine avevano rifiutato di
vedere la madre durante gli "incontri
protetti" effettuati in presenza degli
operatori sociali.
Da ciò il Tribunale di Milano
con l' ordinanza del 16.04.2013, ha
previsto che il coniuge non affidatario possa vedere i propri figli,
almeno temporaneamente, via
Skype alla presenza del padre con
l'intento di agevolare gli incontri
tra genitore non collocatario e
figli.
Riprendendo il principio
espresso dalla Corte Europea per i
diritti dell'uomo secondo cui lo stato
deve mettere a disposizione del cittadino tutti i mezzi che consentano
l'attuazione dei propri diritti e il
rispetto dei provvedimenti giudiziari
che riguardano tali diritti, anche prevedendo misure specifiche che si
rendano opportune nel caso concreto, nel caso in cui si registri una difficile ripresa dei rapporti tra l'un
genitore e i propri figli minori, una
interazione audiovisiva in diretta
tra genitore non collocatario e figli
minori realizzata attraverso un col-
legamento Skype può consentire
una graduale ripresa di un dialogo
tra gli stessi, attraverso una percezione visiva ed in voce fatta, sì, di
comunicazione (essenzialmente)
verbale, ma che al contempo può
favorire una ri-abitudine alla
gestualità e allo scambio emotivo.
Questa statuizione però non
tiene conto del rapporto umano genitore - figlio, piuttosto lo assottiglia,
equiparando dei gesti o delle azioni
concrete potenzialmente assumibili
dal genitore, ad una videochiamata
su skype, supponendo in tal modo di
poter favorire una ri-abitudine allo
scambio emotivo tramite un mezzo
sì moderno, ma di certo freddo e distaccato!
Solo un anno dopo questa statuizione, un caso poco dissimile si
presenta agli occhi della Corte di
Cassazione, diventando protagonista
della sentenza n. 19694 del
19.09.2014.
La Corte ha infatti respinto il
ricorso di una donna inglese intenzionata a portare a Londra, suo
Paese di residenza, il figlio minore
nato da una relazione con un italiano.
Dopo la separazione della coppia, il figlio era stato dato in affidamento condiviso ad entrambi i genitori, pur tuttavia la donna aveva
deciso di tornare nel proprio Stato di
origine per via delle migliori condizioni economiche che lì avrebbe trovato. I giudici però, si trovavano in
disaccordo anche nel momento in
cui la donna aveva proposto, quale
alternativa per supplire agli incontri
con il padre resi impossibili dalla
distanza, il ricorso alle videochiamate su internet, nello specifico tramite
Skype e altri mezzi telematici di
comunicazione.
La donna inoltre ha addotto in
favore della sua tesi, il diritto a non
vedere compressa la sua libertà di
tornare in patria, lavorare e ritrovare
l'affetto della famiglia. La Corte
però ha ritenuto di dover sacrificare
tali diritti in nome dell'interesse
superiore del minore.
È stato quindi statuito che il
rapporto esclusivo del minore con
la madre non avrebbe garantito
una crescita equilibrata del bambino. Infatti per un corretto sviluppo psicofisico del minore è
necessaria la presenza di entrambi
i genitori, nello specifico la vicinanza fisica del padre giacché il
suo ruolo non può essere sostituito
attraverso comunicazioni via
Skype o altri mezzi di comunicazione telematica come le chat.
Si evince un cambio di rotta
rispetto all'ordinanza del 2013 sopra
riportata.
Infatti il riferimento specifico
a cui rimanda la Corte è al corretto
sviluppo psicofisico del minore, fortemente collegato alla presenza e
vicinanza fisica dei genitori.
Non si può infatti cercare un
mezzo ulteriore o diverso che
sostituisca il concreto e vissuto
rapporto familiare: si incorrerebbe altrimenti nell'errore di poter
pensare di ricreare qualcosa di
irripetibile come l'esito del rapporto genitore-figlio.
"Non c'è dubbio che è intorno alla famiglia e alla casa che le
più grandi virtù della società
umana si creano e si rafforzano"
(Winston Churchill).
27
In conclusione, per quanto il
mondo corra più veloce della luce,
per quanto la tecnologia stia facendo
progressi incredibili, ci sono ambiti
tandone così una facile strumentalizzazione che si rende possibile solo
ed esclusivamente perché ci si
dimentica dell'irripetibilità dei rapporti umani interni alla famiglia.
"Di certo ci sono ancora quelle famiglie all'antica dove il Codice
Civile non riesce a prevalere contro
la volontà dell'onnipotente padre".
(F. Mauriac).
"[…] tendiamo a sottovalutare il
fatto che la libertà non si dà per se
stessa, ma solo in relazione all'organizzazione della società. Abbagliati
dall'emergere vittorioso dell'Io, ci
dimentichiamo che la libertà è, per
sua natura, relazionale: esiste e si
esprime solo in rapporto ad altro
e ad altri; e alle forme sociali e
istituzionali che la contengono e,
in qualche misura, la plasmano".
(M. Magatti).
"Chiamatelo clan, chiamatela rete
sociale, chiamatela tribù, chiamatela famiglia. Comunque la chiamiate,
chiunque siate, ne avete bisogno" (J.
Howard).
in cui - grazie a Dio? - il tempo e lo
spazio si sono fermati, permettendo
che valori come quello della famiglia siano tutelati dalle istituzioni
giuridiche, politiche, religiose, evi-
CONDOTTE ALLETTATRICI TRA
INTRALCIO ALLA GIUSTIZIA E
CORRUZIONE
Le problematiche di consulenti tecnici "di parte"
di Serena Dibenedetto
Il sistema giudiziario attraversa sempre più un periodo di crisi
della correttezza professionale. Le
pulsioni personali e materiali sono
all'ordine del giorno e intralciano la
genuinità processuale fino a farla
diventare utopia. Onde evitare di
lacerarci anzitempo, dato l'ingresso
più che recente nelle maglie
dell'Avvocatura, è bene, almeno personalmente, accentuare gli interventi delle "Corti" volto al contrasto del
fenomeno corruttivo nel suo
momento di maggiore pericolosità,
quello dell'incontro col sistema
Giustizia.
La recentissima sentenza della
Corte Costituzionale n. 163/2014 si
sofferma su un tema a lungo dibattuto, ovvero quello della relazione tra
28
il delitto di istigazione alla corruzione (art. 322 c.p.) ed intralcio alla
giustizia (art. 377 c.p.).
La vicenda da cui trae spunto
il pronunciamento della Consulta
vedeva coinvolto un consulente tecnico del Pubblico Ministero, beneficiario di una somma di denaro, consegnatagli da privati al fine di redigere una falsa perizia. Questi aveva,
dunque, accettato l'offerta informando, tuttavia, immediatamente il
Pubblico Ministero.
Durante le indagini preliminari il GIP aveva applicato all'indagato
un rimedio cautelare sul convincimento che fosse stato commesso il
delitto di corruzione in atti giudiziari ex art. 319-ter c.p.
Sul presupposto che la tratta-
tiva non si fosse conclusa, il
Tribunale del Riesame qualificava
invece il fatto come sussumibile nell'art. 322 c.p., ovvero il delitto di
"istigazione alla corruzione".
In realtà i confini tra tutte le figure
criminose citate apparivano piuttosto confusi.
Il primo e il secondo grado di
giudizio si sono resi protagonisti di
ragionamenti ermeneutici ondivaghi
e tutti egualmente razionali, oltrepassando i limiti che il sempre saggio principio di "certezza del
Diritto" ha posto nel panorama della
scienza giuridica
A parere del giudice di secondo grado, non sarebbe possibile classificare la fattispecie come intralcio
alla giustizia; esso potrà delinearsi
solo nel caso in cui il soggetto destinatario dell'offerta rivesta formalmente già la qualifica di teste, regolarmente citato ad intervenire nel
corso dell'udienza dibattimentale.
Per questo la Corte d'Appello riformava la sentenza di primo grado
(condannatoria ex art. 377 c.p.),
interpretando la condotta come concorso in istigazione alla corruzione.
Le Sezioni Unite della Corte
di Cassazione si sono occupate della
questione in modo più che puntuale
evidenziando che:
l'art. 377 c.p. con riferimento
all'art. 372 c.p. potrebbe applicarsi anche al caso di un consulente
tecnico che, pur essendo un vero
e proprio "braccio tecnico", se già
citato, è sottoposto alle medesime
regole dell'esame che interessano
la testimonianza (artt. 501, 503
c.p.p.); in secundis, non gli è precluso che possa "affermare il
falso o negare il vero";
sempre l'art. 377 c.p. limiterebbe
la sua applicabilità al solo perito
del giudice, mentre tutte le altre
figure affini contemplate dal
codice di rito penale, in quanto
non rientranti nell'art. 373 c.p.
(falsa perizia), rimarrebbero
escluse da qualsiasi riferimento
normativo;
altra questione riguarda la citazione del consulente ai sensi dell'art. 468, comma 2 c.p.p. potrà
contestarsi l'art. 377 c.p. solo nel
caso in cui il destinatario della
condotta abbia già assunto formalmente la qualifica processuale. Se però il soggetto passivo
dell'offerta deve essere considerato un pubblico ufficiale o un
incaricato di pubblico servizio
(artt. 357 e 358 c.p.), egli ha già
una precisa qualifica a prescindere dalla sua citazione;
in quarto luogo, posto il consulente tecnico è abilitato ad esplicitare un proprio giudizio personale, una consulenza di tipo
meramente valutativo non si presenterebbe come un'alterazione
dell'attività di perizia.
Tanto premesso, sebbene il
reato di cui all'art. 377 presenti
caratteri di specialità rispetto al più
generico art. 322 c.p. (istigazione
alla corruzione), tale ultimo disposto
poneva, a parere degli Ermellini, una
questione di legittimità costituzionale, dal momento che il tentativo di
corruzione di un consulente tecnico
di parte verrebbe punito in modo più
severo rispetto ad un altro già
ammesso a deporre in dibattimento.
La Consulta, investita con
apposita ordinanza, ha deciso con
sentenza n. 163 del 2014 per l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 322
c.p. sollevata, in riferimento all'art. 3
Cost., riconoscendo nel difetto di
coordinamento tra le norme incriminatrici menzionate il punto focale
dei dubbi interpretativi.
Dirimente è stato proprio il
discrimen tra offerta destinata ad
indurre false rappresentazioni di
fatto e proposta funzionale alle false
dichiarazioni di scienza ad opera del
consulente.
Posta la discrasia sanzionatoria tra i reati già oggetto di disputa,
nel caso in cui il consulente tecnico
ponga in essere un'attività di accer-
tamento che postula sia il riscontro
di dati oggettivi che profili valutativi, il soggetto che offre o promette
denaro al consulente potrebbe mai
rispondere di due reati in concorso
formale?
Stando alle Considerazioni
delle Sezioni Unite, i delitti in concorso saranno quelli di cui all'art.
377 c.p. per la parte che ha ad oggetto elementi oggettivi e all'art. 322
c.p. per la parte che ha ad oggetto
elementi valutativi; conclusione,
questa, a dir poco bizzarra e che porterebbe alla sola duplicazione della
reazione dell'ordinamento penale
per lo stesso fatto. Si cadrebbe nell'ipotesi di conflitto tra norme, che è
proprio ciò che si tende ad evitare e
le incongruenze si vedrebbero addirittura moltiplicate!
La Suprema Corte ha preso
atto dell'interlocuzione intervenuta e
definito il giudizio a quo (ud. 25
Settembre 2014), dando esito affermativo alla configurabilità del delitto previsto e punito dall'art. 377 c.p.
Ciò è, tra l'altro, stato funzionale a
superare i dubbi circa l'illegittimità
del più severo trattamento sanzionatorio che si sarebbe connesso all'applicazione dell'art. 322 c.p.
Le conclusioni, in sintesi, sono
le seguenti:
Al consulente tecnico del P.M.
non è sicuramente applicabile il
reato di falsa perizia, poiché questi non è perito, bensì svolge
un'attività d'ausilio di una parte.
Infatti, l'unico soggetto che può
nominare un perito, a norma del
codice vigente, è il Giudice;
La circostanza che quest'ultimo
non possa rendersi responsabile
dell'art. 373 c.p. rende inapplicabile la stessa fattispecie di cui
all'art. 377 c.p.? Potrebbe, tuttavia, esserlo in relazione al delitto
di falsa testimonianza di cui
all'art. 372 c.p., stante le numerose analogie di cui si è già detto e
vista anche la natura pubblica
delle funzioni svolte dal consulente.
29
La disparità di trattamento oggetto dell'ordinanza di rimessione è
ineliminabile, dal momento che
non sarebbe sufficiente la mera
declaratoria di incostituzionalità
dell'art. 322 c.p. per evitare la
lesione dell'art. 3 Cost. Sarebbe
più ragionevole guardare all'art.
380 c.p., equiparando il consulente tecnico del P.M. a quello della
difesa, sempre sul presupposto
che il P.M. è "parte" processuale,
punendo in tal modo soltanto la
consulenza infedele.
Non rimane, dunque, che affi- chiara violazione del principio di
darsi all'intervento del Legislatore, uguaglianza prevedendo, a titolo
auspicando che ponga rimedio a una meramente esemplificativo, un capo
dedicato ai "reati contro l'integrità e
la veridicità delle prove", al cui
interno viene inserito il delitto di
"falsa consulenza", che include tra i
soggetti attivi anche il consulente
tecnico del P.M. (come era già stato
proposto nel progetto di Riforme al
Codice di procedura penale del
1990).
DALLA SENTENZA
TORREGIANI
AI GIORNI NOSTRI:
cosa è cambiato?
di Dalila Di Dio
Con la legge 117/14, lo scorso
11 agosto il Parlamento ha provveduto alla conversione del decreto -legge
26 giugno 2014 n.92 recante "disposizioni urgenti in materia di rimedi
risarcitori in favore dei detenuti e
degli internati che hanno subito un
trattamento in violazione dell'art. 3
della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali, nonché
modifiche al codice di procedura
penale e alle disposizioni di attuazione, all'ordinamento del Corpo di
polizia penitenziaria e all'ordinamento penitenziario, anche minorile".
Con il decreto in parola il
Governo ha inteso dare attuazione
alle indicazioni contenute nella sentenza dalla Corte Europea dei Diritti
dell'Uomo dello scorso 8 gennaio
2013 - Torreggiani e altri c/
Repubblica Italiana - pronunciata a
seguito dei ricorsi di sette detenuti
ristretti negli istituti penitenziari di
Busto Arsizio e Piacenza, i quali
denunciavano la violazione dell'art. 3
30
CEDU, sostenendo che le loro condizioni di detenzione costituissero trattamenti inumani e degradanti.
I detenuti lamentavano, in particolare, la mancanza di spazio vitale
nelle celle, nonché gravi carenze igieniche derivanti dalla problemi di distribuzione di acqua calda ed accesso
ai servizi igienici.
L'art. 3 della Convenzione sancisce che "nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti".
La Corte adita nel ribadire, preliminarmente, come la carcerazione
non faccia perdere al detenuto il
beneficio dei diritti sanciti dalla
Convenzione, sottolineava come "in
alcuni casi, la persona incarcerata
possa avere bisogno di una maggiore
tutela proprio per la vulnerabilità
della sua situazione e per il fatto di
trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato" riaffermando l'onere di ciascuno Stato di assicurare "ad
ogni prigioniero condizioni compatibili con il rispetto della dignità
umana, che non comportino per il
ristretto uno stato di sconforto né una
prova di intensità che ecceda l'inevitabile livello di sofferenza inerente
alla detenzione".
Con
la
sentenza-pilota
Torreggiani la Corte di Strasburgo, di
fatto, certificava che il problema del
sovraffollamento carcerario in Italia è
divenuto ormai "strutturale e sistemico" e di gravità tale da far ritenere
violati i principi sanciti dal predetto
art. 3 CEDU.
Nel condannare l'Italia al risarcimento del danno morale patito dai
ricorrenti, la Corte intimava, altresì,
al Governo di attuare misure organiche al fine di "ridurre il numero di
persone incarcerate, in particolare
attraverso una maggiore applicazione di misure punitive non privative
della libertà".
Invitava, inoltre, il Governo
nazionale a provvedere "senza indugio" alla predisposizione "di un ricorso o di una combinazione di ricorsi"
con effetti preventivi e compensativi
al fine di garantire una riparazione
effettiva delle violazioni della
Convenzione risultanti dal sovraffollamento carcerario.
Dalla citata pronuncia emerge
con chiarezza la insufficienza dei
rimedi emergenziali attuati negli ultimi anni a livello governativo (svuotacarceri, liberazione anticipata cd. speciale ecc.) per far fronte ad un malfunzionamento cronico del sistema
penitenziario nazionale: secondo dati
forniti dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, infatti, al 30
settembre 2014, su una capienza
regolamentare di 49.347 posti nei 203
istituti penitenziari italiani sono
ristretti 56.530 detenuti. Tra questi
9.607 sono in attesa di primo giudizio
ed 8.211 risultano condannati ad una
pena non ancora definitiva. Di qui
l'appello della Corte di Strasburgo
affinché l'Italia adotti misure idonee
a limitare al minimo il ricorso alla
custodia cautelare in carcere.
Con il decreto-legge 92/14 il
Governo ha tentato, con opinabile
efficacia, di ottemperare agli obblighi
imposti dalla sentenza-pilota, con una
serie di previsioni, riviste peraltro in
sede di conversione, che lungi dall'apparire radicalmente risolutive, si
palesano, ancora una volta, come palliativi destinati a rivelarsi insufficienti sul lungo periodo.
Nella sua versione definitiva, la
legge di conversione introduce una
serie di misure tra le quali rimedi di
natura risarcitoria in favore di detenuti ed internati reclusi in condizioni
degradanti ed inumane in violazione
dell'art. 3 CEDU (art. 35 ter legge n.
354/75), previsioni ostative alla
applicazione delle misure custodiali
(art. 275 co. 2 bis c.p.p.), direttive
sulla gestione del personale del
Corpo di polizia penitenziaria ed in
materia di edilizia penitenziaria.
In particolare, l'art. 1 del decreto 92/2014 inserisce nell'ordinamento
penitenziario l'art. 35 ter, che prevede
l'attribuzione al magistrato di sorveglianza della competenza ad adottare
provvedimenti di natura risarcitoria
nei casi di violazione del disposto
dell'art. 3 CEDU, consistenti nella
riduzione di un giorno di pena residua
ogni 10 giorni in "condizioni inumane e degradanti" o, qualora il residuo
di pena da scontare non consenta l'attuazione integrale di tale rimedio
compensativo o il periodo detentivo
risulti inferiore a 15 giorni, il riconoscimento di un risarcimento nella
misura di 8 euro per ciascun giorno di
restrizione della libertà.
Analogo risarcimento è previsto in favore di chi abbia sofferto un
periodo di custodia cautelare non
computabile nella determinazione
della pena ( ad esempio perché successivamente prosciolto) o per coloro
che abbiano espiato per intero la pena
detentiva. In questi casi, tuttavia, l'azione andrà proposta innanzi al
Tribunale in composizione monocratica del capoluogo del distretto nel
cui territorio abbiano la residenza,
entro sei mesi dalla cessazione della
detenzione.
Novità hanno interessato anche
i limiti di applicabilità delle misure
cautelari: l'originaria formulazione
dell'art. 8 del d.l. 92/2014 prevedeva
il divieto di applicazione della misura
custodiale nei casi in cui il Giudice
avesse ritenuto che "all'esito del giudizio, la pena detentiva da eseguire
non fosse superiore ai tre anni" senza
contemplare eccezione alcuna e con
chiaro riferimento al limite previsto
dall'art. 656 co. 5 c.p.p. per la sospensione della esecuzione delle pene
definitive.
Aderendo a rilievi e osservazioni provenienti in particolare dalla
Associazione Nazionale Magistrati
(che aveva persino invocato una totale abrogazione dell'art. 8), il
Parlamento ha ritenuto di emendare
la norma in esame in sede di conversione, facendo salve le presunzioni di
cui al comma 3 dell'art. 275 c.p. nonché l'applicabilità degli articoli 276,
comma 1-ter, e 280, comma 3 ed
inserendo una elencazione di reati
ostativi al beneficio (423bis, 572,
612bis e 624 bis c.p. nonché art. 4bis
l. 354/1975); il nuovo dettame consente, altresì, la applicazione della
misura inframuraria "quando, rilevata l'inadeguatezza di ogni altra misu-
ra, gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di
uno dei luoghi di esecuzione indicati
nell'articolo 284 co. 1 c.p.".
Nel complesso l'intero provvedimento pare ancora una volta permeato più che dalla effettiva volontà
di arginare e porre definitivamente
rimedio ad un problema ormai divenuto endemico, dalla necessità di
ottemperare, in prossimità dello spirare del termine, alle indicazioni della
sentenza-pilota adeguandosi alle indicazioni offerte dai Giudici di
Strasburgo.
Non sfuggirà, infatti, la scarsa
adeguatezza del rimedio risarcitorio,
siccome regolamentato dal nuovo
art. 35 ter l. ord. pen, a porre rimedio
all'atavico problema del sovraffollamento carcerario: la primaria conseguenza del nuovo istituto, pare evidente, sarà la proliferazione di ricorsi
che andranno a intasare gli uffici dei
magistrati di sorveglianza già inadeguati a far fronte alle competenze
ordinarie e che si vedranno investiti
da un carico di lavoro difficilmente
gestibile in tempi brevi. Scarsa rilevanza sembra avere, a tal proposito,
la previsione di affiancamento al
magistrato di sorveglianza di personale volontario, destinata a rivelarsi
inadeguata, tenuto conto anche della
delicatezza e della gravosità del compito.
Né tampoco particolarmente
pregevole appare la nuova formulazione dell'art. 275 co. 2 bis che rinviando ad un giudizio prognostico
relativamente alla pena da irrogare caratterizzato, evidentemente, da
un'ampia discrezionalità - lascia al
giudice, in sede di valutazione in
ordine alla gravità del fatto ed alla
situazione di vita dell'indagato, ampi
spazi di manovra nel determinare se
contenere entro i 3 anni la detta pena
e, conseguentemente, ritenere applicabile il nuovo divieto di custodia
cautelare.
La disciplina delle misure cautelari presuppone un contemperamento tra diversi interessi, l'uno teso alla
tutela della libertà personale l'altro a
baluardo delle esigenze di difesa
31
della sicurezza pubblica che esigono
interventi di riforma ponderati e
razionali.
Al problema del sovraffollamento carcerario non può darsi rispo-
sta con provvedimenti occasionali o
transeunti ma è necessaria una radicale revisione del sistema sanzionatorio
- di accesso alle misure alternative,
con la previsione di soluzioni premia-
li e compensative e adeguamento
delle strutture penitenziarie - che sia
organica e strutturale, proprio come il
problema che si propone di risolvere.
IL PREUTENTE:
un limite o una risorsa?
di Gabriella Garozzo
La posizione giuridica riservata al titolare di una privativa brevettuale viene spesso percepita dalla
collettività in termini estremi, quasi
come se il brevetto fosse uno strumento sempre in grado di garantire
al suo titolare una posizione di dominio assoluto, incontrastato e incontrastabile.
L'idea tradizionale, e ancora
assai diffusa, della esclusiva ed
incondizionata spettanza del diritto
di sfruttamento dell'invenzione in
capo al titolare del brevetto non è,
invero, così rigida come potrebbe
apparire.
Mi riferisco, precipuamente, al
c.d. "diritto di preuso", introdotto nel
nostro ordinamento giuridico con
l'art. 6 della Legge Invenzioni, il cui
contenuto è stato poi trasfuso nell'art. 68, comma III, del Codice di
Proprietà Industriale (D. Lgs. 10 febbraio 2005 n. 30), che testualmente
dispone: "Chiunque, nel corso dei
dodici mesi anteriori alla data di
deposito della domanda di brevetto o
alla data di priorità, abbia fatto uso
nella propria azienda dell'invenzione può continuare ad usarne nei
limiti del preuso. Tale facoltà è trasferibile soltanto insieme all'azienda
in cui l'invenzione viene utilizzata.
La prova del preuso e della sua
estensione è a carico del preutente".
Il nostro legislatore riserva,
32
dunque, una particolare attenzione
anche per l'interesse di cui è portatore il c.d. preutente, ossia il soggetto
che abbia legittimamente iniziato ad
utilizzare, nella propria azienda, un
nuovo ritrovato, prima che questo
divenisse oggetto di privativa altrui.
In questi casi, il titolare del brevetto
dovrà rispettare l'utilizzo dell'invenzione che potrà legittimamente venir
fatto anche dal preutente.
Il comma III dell'art. 68 c.p.i.
riconosce e garantisce la facoltà di
proseguire nell'utilizzazione dell'invenzione "nei limiti del preuso",
ossia entro i limiti così come derivanti dall'utilizzazione dell'invenzione che il preutente stesso abbia fatto
nell'anno precedente il deposito della
domanda di privativa brevettuale
(momento a partire dal quale l'uso
assolutamente legittimo della nuova
invenzione si trasforma, insomma, in
uso legittimo a certe condizioni).
La disposizione, dal contenuto
laconico ed essenziale, limitandosi
ad elevare il "preuso" a fatto sia
costitutivo sia limitativo del diritto
de quo, non aiuta nell'individuazione
dei riferiti limiti, la cui precisa determinazione risulta, invero, fondamentale al fine di verificare la legittimità
dell'utilizzazione dell'invenzione da
parte del preutente.
La giurisprudenza italiana si è
confrontata con tale interessante pro-
filo del diritto di preuso in una sola
occasione, per dirimere una controversia che, nel corso tre dei gradi di
giudizio, ha ricevuto risposte parzialmente differenti.
Il Tribunale di Milano, pronunziatosi in primo grado con sent.
n. 3003/2007, aggancia il diritto di
preuso, accertato in capo alla parte
attrice, al "quantitativo medio commercializzato dall'attrice nei dodici
mesi anteriori alla data di deposito
delle domande di brevetto", diluendo, nella sostanza, l'ampia nozione
legislativa di "utilizzazione dell'invenzione" nel concetto, certamente
più rigido e limitato, della sola "vendita del prodotto".
La riferita applicazione rigorosa della norma de qua è resa necessaria, ad avviso del giudice milanese,
dal carattere assolutamente eccezionale del diritto di cui all'art. 68,
comma III, c.p.i..
Diversa è la soluzione adottata, in secondo grado, dai giudici
della Corte di Appello di Milano,
pronunziatosi con sentenza del 6
dicembre 2010, n. 3299.
Dopo aver rilevato che le vendite dell'ultimo anno riguardano,
quasi certamente, anche una produzione dell'invenzione anteriore
all'anno stesso e, pertanto, esorbitante il periodo a cui fa riferimento il
legislatore, i giudici della corte terri-
toriale ricercano la misura del diritto
di preuso in un dato quantitativo
interno all'azienda, quale quello
della produzione dell'invenzione
avvenuta nel lasso temporale indicato dal legislatore, così tralasciando il
dato esterno della sua successiva
commercializzazione.
Con una motivazione invero
assai stringata, anche i giudici della
Suprema Corte, con sentenza del 5
aprile 2012, n. 5497, mostrano di
condividere tale impostazione, attribuendo all'uso aziendale dell'invenzione valore giuridico sia qualitativo
sia quantitativo.
Gli Ermellini, condividendo
una concezione interamente endoaziendale del diritto di preuso, focalizzano l'attenzione sulla nozione di
azienda, considerata l'elemento centrale della disposizione normativa:
l'uso aziendale dell'invenzione non è
solo l'elemento costitutivo del diritto
del preuso (valore qualitativo), ma
diventa anche il parametro di riferimento per determinare i limiti nel
rispetto dei quali l'utilizzazione dell'invenzione brevettata rimane legittima (valore quantitativo).
L'oscillazione giurisprudenziale brevemente riferita è un indice
della evidente difficoltà che si
riscontra nell'individuare il dato
empirico a cui agganciare la facoltà
eccezionalmente riconosciuta al
preutente da una disposizione estremamente asettica e, dunque, foriera
di molteplici interpretazioni, invero
ugualmente opinabili.
Da un canto, la soluzione adottata dal Tribunale milanese di riferire l'espressione "nei limiti del preuso" ai dati così come risultanti dalle
scritture contabili e, dunque, al parametro mutevole della commercializzazione del prodotto, trova il suo tallone d'Achille nella possibilità, se
non certezza, di dare rilievo, in tal
modo, anche a momenti ulteriori
rispetto al lasso temporale espressamente individuato dal legislatore.
Dall'altro, neanche la soluzione prospettata dalla Corte territoriale, e poi condivisa dalla Cassazione,
sembrerebbe esente da critiche.
Agganciare l'estensione del
diritto di preuso al parametro della
produzione è una soluzione che sembra stridere con il dato testuale dell'art. 68, comma III, cit. che, invece,
contiene un espresso riferimento
all'uso dell'invenzione, concetto in
cui sembra certamente rientrarvi
anche la commercializzazione, e non
solamente la produzione (che rappresenta, senza dubbio, il primo, ma di
certo non l'unico, degli usi possibili).
Inoltre, tale tesi, disconoscendo totalmente gli esiti commerciali
dell'invenzione oggetto del preuso,
rischia di penalizzare eccessivamente l'inventore che, scegliendo di non
depositare la domanda di brevetto,
opti per il diverso regime del segreto, per poi vedersi sorpreso dal deposito di una domanda di brevetto da
parte di un soggetto terzo.
Qualche dubbio suscita, infine,
anche dal punto di vista della ratio
dell'istituto del diritto di preuso che,
in tutti i sistemi brevettuali in cui è
riconosciuto, risponde ad indubbie
esigenze di intrinseca equità e buon
senso, oltre che di realismo economico.
Nel ricercare un punto d'incontro tra l'esigenza di certezza a cui
ineluttabilmente anela ogni sistema
giuridico e l'opposta inafferrabilità
della attività imprenditoriale, sempre
dinamica e difficile da cristallizzare,
mi sembrerebbero, invece, del tutto
ragionevoli e condivisibili le riflessioni maturate da qualche esponente
della dottrina che, osservando che sia
la produzione che la commercializzazione del prodotto costituiscono
uso dell'invenzione, suggerisce di
tenere conto di entrambi i dati, per
poi fare riferimento a quello che
risulti maggiore tra i volumi della
produzione e della vendita, in modo
da non mortificare il contenuto del
diritto di utilizzazione legislativamente riconosciuto in capo al preutente.
Senza voler affermare che la
produzione e la commercializzazione siano gli unici due modi attraverso cui è possibile realizzare l'uso dell'invenzione, tale tesi, agganciandosi
a entrambi i parametri, mostra il pregio di individuare una soluzione
apparentemente più equa, ampliando
l'elasticità della valutazione ma evitando, nel contempo, di introdurre
elementi che possano pericolosamente abbandonare i contenuti del
preuso alla discrezionalità dell'interprete.
Aggiungasi che il diritto di
preuso, diversamente da come
potrebbe apparire a primo acchito, è
un istituto che presenta grandi potenzialità, dal momento che costituisce
un fenomeno di dimensioni rilevanti
quello per cui attualmente molte
invenzioni rimangono volutamente
confinate nell'ambito dei segreti
industriali, il che rende primaria l'esigenza di regolarne il rapporto con i
diritti di brevetto legittimamente
conseguiti da altri.
In riferimento a quanti possano
intravedere in tale istituto una
minaccia alla tradizionale supremazia del sistema del deposito delle privative industriali, è opportuno rilevare che costituisce un dato di comune esperienza che di fronte ad un'ipotesi di preuso, laddove sia esclusa
la tutela del preutente, si è indotti ad
estendere il concetto di divulgazione, negando perciò la validità del
brevetto successivo; al contrario,
laddove il preuso sia salvaguardato,
il giudizio sulla divulgazione dell'invenzione è tendenzialmente più
favorevole alla validità del brevetto.
Riprendendo le parole del
SENA, l'affermazione del diritto del
preutente "se interpretata con il
necessario rigore, soprattutto per
ciò che riguarda la prova della precedente invenzione, rinforza, nonostante la contraria apparenza, il
diritto di esclusiva attribuito dal brevetto". (1)
Insomma, se è vero che
"barba non facit philosophum"
proteggere adeguatamente il diritto
di preuso vuol dire rafforzare, e non
mortificare, il diritto di esclusiva
attribuito al titolare del brevetto .
________
(1) SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli
di utilità, Milano, 2011
33
COMUNITÀ VIRTUALE:
“luogo di conflitti”!
di M.L. La Porta
In occasione di un recente
intervento giurisprudenziale, mi
sono ritrovata a consultare il vocabolario della lingua italiana alla
ricerca del significato, apparentemente elementare, della parola
“luògo” : [luò-go] (pop. lògo; dial. o
poet. lòco; pl. luòghi),s.m.
È eccezionale constatare
come la nostra meravigliosa lingua
riesca, in un solo termine, a contenere un così ampio numero di significati e risulta, a parere di chi scrive,
piuttosto interessante l'evoluzione
che lo stesso ha avuto all'interno dell'ordinamento giuridico.
I
n tale ambito è possibile
distinguere tra:
- luogo pubblico, ossia quello al
quale chiunque può accedere
senza alcuna limitazione (per es.,
una via o una piazza pubbliche);
- luogo aperto al pubblico, cioè
quello nel quale l'accesso è possibile solo dopo l'espletamento di
particolari formalità (per es., il
pagamento del biglietto o l'esibizione dell'invito);
- uogo esposto al pubblico, infine,
è quello che ha un'esposizione
tale che dall'esterno è possibile
scorgere quanto in esso avviene
(per es., una finestra aperta sulla
piazza).
Come anticipato sopra, la
materia de qua è stata oggetto di
attenzione da parte della Prima
Sezione Penale della Corte di
Cassazione, la quale, con sentenza
n.37596 del 12.09.2014, ha affermato che, ai fini della configurabilità
34
del reato di molestie o disturbo delle
persone, di cui all'art.660 c.p., la
piattaforma sociale Facebook vada
considerata alla stregua di un luogo
aperto al pubblico o, per utilizzare le
stesse parole della Corte, una sorta
di comunità virtuale il cui accesso è
consentito a chiunque utilizzi la rete.
Ed ecco come l'espressione
“luogo” perda la sua tradizionale
connotazione materiale per assumere un'accezione più ampia, resa possibile da un'evoluzione scientifica
che il legislatore non era in grado di
immaginare.
Nel caso di specie, vittima
del reato in parola era una donna
che, all'epoca dei fatti esercitava la
professione di caporedattrice di una
testata locale toscana.
L'imputato veniva accusato
di “molestare” la stessa sia rivolgendole pressanti ed insistenti apprezzamenti volgari e a sfondo sessuale
presso gli uffici del quotidiano per
cui lavorava, sia inviandole messaggi del medesimo tenore sulla chat di
Facebook (nascondendo, tra l'altro,
la propria identità sotto un falso
nickname).
In un primo momento il
Tribunale di Livorno assolveva l'imputato con la formula “il fatto non
sussiste” quanto ai fatti commessi
presso gli uffici del giornale, escludendo che si trattasse di luogo pubblico o aperto al pubblico, e con formula “il fatto non è previsto dalla
legge come reato” quanto ai fatti
commessi utilizzando l'indirizzo di
posta elettronica.
In questo ultimo senso, l'organo giudicante aveva fatto propri i
principi affermati dagli Ermellini
(sez. I 10/24510, sez. I 11/36779,
sez. I 12/24670) orientati ad escludere, ai fini dell'integrazione della fattispecie contravvenzionale di cui
all'art. 660 c.p., il carattere invasivo
della messaggistica elettronica (e
proprio invece del mezzo telefonico), in quanto i destinatari possono
evitare agevolmente la ricezione di
messaggi o immagini senza compromettere la propria libertà di comunicazione.
In riforma della suddetta sentenza di primo grado, la Corte di
Appello di Firenze condannava l'imputato rilevando come la redazione
di un quotidiano fosse di fatto paragonabile a un luogo aperto al pubblico, in quanto frequentato sia dai
dipendenti del giornale stesso sia da
eventuali soggetti estranei che ivi
portano notizie o chiedono la pubblicazione di annunci.
Relativamente alla condotta
realizzata mediante l'utilizzo della
chat, la Corte aveva ritenuto integrato il reato de quo, evidenziando
come il profilo Facebook costituisse
una “community aperta evidentemente accessibile a chiunque”.
A questo punto l'imputato
ricorreva in Cassazione chiedendo
l'annullamento della sentenza di
secondo grado per violazione dell'art. 660 c.p. riguardo alla nozione
accolta di luogo aperto al pubblico:
in particolare circa la condotta posta
in essere su Facebook, rilevava che
l'invio dei messaggi era avvenuto flitto tra due diritti egualmente ricotramite la chat privata e non sulla nosciuti dall'ordinamento giuridico:
bacheca pubblica e che ciò escludes- trattasi infatti:
- da una parte, del diritto del singolo a non subire interferenze nella
propria vita privata e di relazione
(incidenti, nell'ipotesi di cui
all'art. 660 c.p., sull'ordine pubblico e sulla tranquillità pubblica)
- dall'altra, della libertà del soggetto di manifestare il proprio pensiero “con la parola, lo scritto e
ogni altro mezzo di diffusione”
(art. 21 Cost.).
Contrasti come quello appena descritto, non sono di certo inediti per l'ordinamento giuridico che,
già dall'avvento della Costituzione,
se l'analogia con altri luoghi aperti al si era trovato a dover contemperare
interessi parimenti rilevanti.
pubblico.
Esempi per eccellenza sono
Proprio in considerazione
della fattispecie concreta
dell'invio tramite chat privata, la Corte ha dichiarato il ricorso non manifestatamente
infondato
accogliendo, tuttavia, l'orientamento della corte di
Appello circa l'assimilazione della bacheca di
Facebook ad una “piazza
immateriale” accessibile a
chiunque.
Ma
ATTENZIONE!!!!
Tale “interpretatio iuris” potrebbe il diritto all'informazione, nonché il
non essere priva di inconvenienti su diritto di cronaca, il diritto di critica
e la libertà di stampa quali espresun piano prettamente pratico!
Fermo restando che nei casi sioni dell'art. 21 Cost., da bilanciare
più gravi di turpiloquio, di offese più con valori altrettanto rilevanti quali
o meno esplicite, possano configu- l'onore e la dignità della persona.
Orbene l'art. 51 c.p. fissa un
rarsi altre ipotesi di reato quali l'ingiuria o la diffamazione, anche principio generale del nostro ordinaesprimere un parere negativo sulla mento:
bacheca altrui di Facebook quale ad “l'esercizio di un diritto... esclude
la punibilità”.
esempio: “Ma vai in giro vestita
Si tratta di una causa di giucosì?” , “Ma come giochi male a pallone?!?” o ancora “Ci sei o ci stificazione, o scriminante, in prefai?!?”, potrebbero costare una con- senza della quale viene meno la riledanna per il reato di cui all'art. 660 vanza penale del fatto riconducibile
ad una figura delittuosa.
c.p..
Affinché possa essere escluEd ecco come un'applicazione eccessivamente rigida di siffatta sa la punibilità del fatto commesso,
interpretazione, condurrebbe ad un dunque, la stessa norma che riconoinevitabile ed imprescindibile con- sce il diritto, deve consentire, anche
implicitamente, di poterlo esercitare
mediante quella determinata azione
che di regola costituisce reato.
Tali limiti possono essere
intrinseci, se desumibili dalla ratio
della norma stessa, o estrinseci, qualora possano ricavarsi dal complesso
dell'ordinamento giuridico.
Solo nel rispetto di tali confini, la condotta dell'agente potrà non
costituire reato.
In una “comunità virtuale”
come quella in cui viviamo, caratterizzata dall'esplosione dei cosiddetti
SOCIAL NETWORK, il ruolo degli
utenti è profondamente cambiato: da
semplici fruitori di prodotti professionalmente realizzati da altri (giornalisti, autori, registi....), ad autori
essi stessi di contenuti di vario genere, soggetti, tra l'altro, al giudizio
altrui, anche tramite un
semplicissimo “I LIKE”.
Oggi più del passato è, pertanto, necessario stabilire
dei confini certi tra “ciò che
è lecito” e ciò che, per esigenze di rispetto dell'altrui
libertà, è più corretto omettere.
La sfida che gli operatori
del diritto si trovano ad
affrontare va, dunque, ben
al di là di ciò che debba
intendersi per “luògo”!
Si rende, pertanto, necessario un
ripensamento dell'intero sistema
giuridico alla luce di quelle evoluzioni tecnologiche che, di certo, il
legislatore del 1933 non era in grado
di immaginare.
35
Scuola Superiore della Magistratura
Struttura Territoriale di Formazione di Caltanissetta
Distretto della Corte di Appello di Caltanissetta
Finestra
sull’attività formativa
di Franco Sclafani
Ormai è quasi completa la squadra dei formatori per il Distretto della
Corte di Appello di Caltanissetta.
Accanto al Cons. Giovanbattista
Tona, che è anche il responsabile
della spesa di tutta la Struttura, alla
dott.ssa Cristina Lucchini e il dott.
Calogero Commandatore sono stati
nominati dal CSM, sulla base delle
indicazioni fornite dalla Scuola
Superiore della Magistratura, la
dott.ssa Daniela Sedia e la dott.ssa
Rosaria Fiorello, entrambe per la formazione della magistratura Onoraria,
in rappresentanza rispettivamente dei
GOT e dei VPO.
“L’amministrazione e la destinazione delle imprese sottratte al
circuito mafioso: un approccio
interdisciplinare” è questo l’incontro di studio-evento con cui la
Struttura Territoriale Didattica di
Caltanissetta congiuntamente alla
Scuola Forense Nissena, all’Ordine
degli avvocati di Caltanissetta, hanno
ricordato
Giovanni
Falcone,
Francesca Morvillo, Rocco Dicillo,
Antonio Montinaro e Vito Schifani
nel 22° anniversario del loro barbaro
assassinio. Un ricordo all’insegna di
un momento di riflessione sulla
tematica sopra ricordata dove 40
esperti del settore, divisi in 5 sessioni
di lavoro, ciascuna intestata ad una
delle 5 vittime dell’attentato di capa-
36
ci del 23 maggio 1992, si sono confrontati discutendo della varie tematiche. Magistrati, avvocati, commercialisti, docenti universitari e studenti che si confrontano sul contrasto ai
patrimoni delle mafie ed in particolare su come rompere il circuito mafio-
so nel quale restano avvolte alcune
imprese del nostro tessuto produttivo
e su come amministrare le aziende
sequestrate.
Nella prima sessione svoltasi in
memoria di Giovanni Falcone, dal
titolo “Il mercato e i condizionamenti criminali: regole, sanzioni,
investigazioni” hanno fornito il loro
prezioso ed autorevole contributo il
prof. Federico Varese, docente della
University of Oxford, Stefano
Musolino e Marco Mescolini, magistrati rispettivamente della DDA di
Reggio Calabria e di Bologna e Luigi
Donato, Condirettore della Banca
d’Italia. La sessione è stata coordinata dal prof. Di Chiara, preside della
facoltà di scienze economiche e giuridiche dell’Università Kore di Enna,
nostra partner nell’organizzazione
dell’evento.
La seconda sessione, in memoria
di Vito Schifani, dal titolo “La
gestione delle aziende in sequestro
nei circuiti infiltrati dalle mafie” ha
visto protagonisti il prof. Stefano
Becucci dell’università di Firenze,
Carmelo Provenzano, docente di economia aziendale della Kore di Enna,
Silvana Saguto, magistrato della
sezione misure di prevenzione del
Tribunale di Palermo e Marco
Cicogna,
Responsabile
Loan
Administration di Unicredit Spa. La
sessione è stata coordinata da
Roberto Di Maria, direttore della
scuola di specializzazione delle professioni legali della Sicilia Centrale.
La terza sessione, intestata a
Rocco Dicillo ha discusso de “Il contributo dei professionisti, degli
imprenditori, dei lavoratori e delle
associazioni”. E’ stata coordinata da
Emanuele Limuti, presidente della
Fondazione Scuola Forense Nissena
“G. Alessi” ed ha visto gli interventi
di Elisa Ingala per i dottori commercialisti, di Ugo Riccardo Tutone, giovane imprenditore di confindustria,
di Giuseppe Sanfilippo dell’Istituto
Nazionale Amministratori Giudiziari,
dei rappresentanti delle organizzazioni sindacali, del rappresentante di
Libera e di Giorgio Mercadante, giovanissimo ma esperto studioso di
economia e diritto, co-fondatore del
Club delle 10 mine sul quale vale la
pena di spendere due parole. Il Club
punta ad instaurare relazioni trasversali tra università ed operatori di settore, tra esperienze significativamente differenti perché riferibili a contesti diversi entro il confine nazionale e
non. La felice consonanza dei fattori
lavoro, competenze e metodo porta
spontaneamente in dote l’innovazione, anche grazie a questo enorme
“flusso di coscienza” interdisciplinare in cui sono immersi i giovani del
Club. Infatti, la particolare composizione mista del club, consente lo studio di discipline affini ma distinte
dalla propria quali il diritto e la sociologia, studio che consente un cambio
di prospettiva, una sorta di ibridazione tra specie diverse. E’ di nuove
chiavi di lettura c’è bisogno. Per
sconfiggere un fenomeno tanto atroce quali le mafie, che da oltre un
secolo e mezzo affliggono il nostro
Paese, è necessario e lodevole che i
giovani continuano sulla strada maestra già tracciata dalle generazioni
precedenti, allo stesso tempo implementandola e innovandola fino a
giungere ad un approccio effettivamente integrato su più fronti: econo-
mico-giuridico-sociale. Il capovolgimento di prospettiva che i giovani del
Club intendono perseguire deve essere visto non come un “costo” ma
piuttosto come un vantaggio competitivo delle aziende sottratte al circuito mafioso. Il Club, durante in convegno, ha esposto degli interessanti
schemi che sintetizzavano l’infiltrazione delle mafie nel circuito economico legale ed inoltre analizzano le
misure cautelari reali e le misure di
prevenzione patrimoniali che gravano sui beni frutto dell’attività illecita
e del ruolo dell’amministratore giudiziario nella gestione degli stessi, proponendone delle soluzioni. Notevole
successo ha riscosso l’iniziativa, con
tutti i componenti del Club disponibili ad illustrare i pannelli esposti.
La quarta sessione, in memoria
di Antonio Montinaro ha affrontato la
tematica “Dal procedimento giurisdizionale alla destinazione: le criticità”. E’ stata Coordinata da Santi
Consolo, Procuratore Generale di
Caltanissetta e sono intervenuti i
magistrati Aldo De Negri, Mirella
Agliastro e Piero Grillo, che con la
loro professionalità ed esperienza sul
campo hanno dato un notevole contributo, anche pratico, che ha consentito la piena riuscita della sessione.
Ha anche relazionato la prof.ssa
Alice Anselmo della Kore di Enna.
La quinta ed ultima sessione,
dedicata a Francesca Morvillo, è stata
coordinata dal Presidente della Corte
di Appello di Caltanissetta, Salvatore
Cardinale, ed ha avuto come titolo:
“Oltre il codice antimafia: il diritto
europeo e le prospettive di rifor-
me”. Sono intervenuti i magistrati
Antonio Balsamo, Fabio Licata e
Giuliana Merola, quest’ultima componente
della
Commissione
Parlamentare Antimafia. E’ intervenuto anche Claudio La Camera, project coordinator Confiscated Asset
Management – United Nation Office
on drugs and crime ed ha concluso
l’on. Nello Musumeci, presidente
della Commissione Regionale
Antimafia.
Appassionante il ricordo fatto da
Sergio Lari, Procuratore di
Caltanissetta, di Giovanni Falcone,
suo collega ed amico, che ne ha tracciato, in maniera molto sentita, le
qualità professionali ed umane del
magistrato barbaramente ucciso dalla
mafia. La figura di Francesca
Morvillo è stata ricordata dal fratello
Alfredo, che ha preso parte ai lavori
introducendo la giornata di sabato 24
maggio.
L’evento è stato integralmente
registrato da radio Radicale ed è scaricabile dal sito.
Una svolta nell’attività formativa
nel nostro Distretto che ha ricevuto
nuova linfa e vitalità dal cons.
Giovanbattista Tona e che ha riscosso
un grande apprezzamento tra il
numeroso e qualificato pubblico presente di addetti ai lavori e tra le
numerose autorità civili e militari. La
folta partecipazione testimonia lo
sforzo organizzativo della Struttura
Territoriale di Formazione che ha
potuto contare, anche, sulla preziosa
collaborazione dell’Anm - sezione di
Caltanissetta, della Fondazione
Onlus “Progetto legalità” dell’Ordine
dei Dottori Commercialisti, degli
esperti contabili di Caltanissetta, del
Workshop Ag, del Club delle dieci
Mine. L’occasione ci consente di ringraziare tutti gli organizzatori ed in
particolare il prof. Carmelo
Provenzano e il dott. Giorgio
Mercadante e la dott.ssa Costanza
Vergara. ( foto 1, un momento del
convegno; foto 2, il raccoglimento
all’ora dell’esplosione di 22 anni fa;
foto 3, l’esposizione dei pannelli preparati dal Club delle 10 Mine).
Scorrendo tra le altre attività formative segnalo il laboratorio di autoformazione, riservato ai soli magistrati, ordinari ed onorari, sull’
37
“Assenza dell’imputato, messa alla
prova e nuovi casi di sospensione
del processo penale, così come previsto dalla legge 28 aprile 2014, n.
67”. L’incontro, che ha riscosso grande interesse tra i partecipanti, è stato
coordinato dalla dott.ssa Lucia
Parlato dell’Università di Palermo.
Altro stimolante incontro, questa
volta aperto alla partecipazione di
magistrati, avvocati e dottori commercialisti si è tenuto presso la sala
conferenze della Banca di Credito del
Nisseno, dal titolo “Le procedure
fallimentari: la verifica dello stato
passivo e profili gestionali”. Il convegno, organizzato insieme alla
Scuola Forense nissena e all’Ordine
dei Dottori Commercialisti, degli
esperti contabili di Caltanissetta e da
Giuffrè/Fiscopiù, ha fatto il punto
sulle procedure fallimentari ed ha
visto l’intervento del prof. Stefano
Lapponi, docente di gestione crisi
d’impresa dell’Università di Sassari,
della dott.ssa Clelia Maltese, giudice
delegato del Tribunale di Palermo e
dell’avv. Armando Finocchiaro del
Foro di Catania. L’incontro è stato
coordinato dal dott. Calogero
Commandatore, formatore del nostro
Distretto e dal dott. Calogero
Cammarata, magistrato del Tribunale
di Caltanissetta. (foto 4, un momento
dell’incontro)
Calorosa l’accoglienza dei vertici della Banca di Credito del Nisseno
e splendida la cornice dove si è svolto l’incontro, il vecchio palazzo delle
Poste di Caltanissetta, oggetto di un
pregevole restaurato conservativo.
38
Come ogni anno, anche quest’anno le Formazioni decentrate di
Palermo e Caltanissetta hanno organizzato, congiuntamente, l’incontro
di studio dedicato a Rosario Livatino
che, come da consuetudine, si è svolto ad Agrigento, il 26 e il 27 settembre. La tematica trattata è stata quella
de “Le misure di prevenzione e gli
strumenti di aggressione ai patrimoni criminali nel diritto interno
ed europeo”.
Numerosi i relatori che sono
intervenuti. Nella prima giornata,
dopo i saluti di rito, ha relazionato il
dott. Antonio Balsamo, presidente
della sezione misure di prevenzione
del Tribunale di Caltanissetta che ha
trattato “Criminalità organizzata ed
economica: i patrimoni criminali. Gli
strumenti di contrasto tra Italia ed
Europa”
La prima area tematica, coordi-
nata dal cons. Giovanbattista Tona,
ha affrontato le problematiche della
prosecuzione dell’attività di impresa
sottoposta a sequestro: rapporti con i
creditori e verifica dei crediti. La
seconda giornata si è aperta con la
relazione del dott. Francesco
Menditto, Procuratore di Lanciano,
che ha trattato de “Gli effetti dei
provvedimenti di prevenzione sui
rapporti con i terzi”, introducendo, di
fatto, la seconda area tematica quella
dei rapporti di lavoro nelle imprese in
amministrazione giudiziaria, coordinata dal dott. Claudio Antonelli. La
terza area tematica ha trattato i
“Diritti reali e le problematiche connesse al sequestro e alla confisca dei
patrimoni” ed è stata moderata dalla
dott.ssa Giovanna Nozzetti. A concludere i lavori la relazione del dott.
Giuseppe Pignatone, Procuratore di
Roma, che ha ipotizzato “Le prospettive di riforma”. L’incontro ha suscitato molto interesse tra i numerosi
partecipanti ed ha avuto grande
apprezzamento anche tra gli avvocati
che sono stati ammessi a partecipare.
L’organizzazione del corso che è
stata molto faticosa poiché si è trattato del primo corso ibrido, centrale e
decentrato allo stesso tempo, organizzato dalle strutture Territoriali
didattiche di Palermo e Caltanissetta.
Per i magistrati provenienti dai
distretti organizzatori dell’incontro,
l’iniziativa è valsa come un corso di
formazione decentrata, mentre per i
magistrati provenienti da altri distretti, ammessi in un numero massimo di
20, ha avuto la valenza di corso cen-
trale, a cui i richiedenti dovevano
iscriversi in attesa dell’ammissione.
Un ringraziamento alla collega
Monia Cavallaro che si occupa della
Formazione a Palermo e che si è
spesa tantissimo per la buona riuscita
dell’incontro, ovviamente dal
punto di vista logistico/organizzativo, una sinergia, quella con la formazione decentrata di Palermo,
ormai collaudata da anni. (foto 5,
un momento dell’incontro dedicato
a Rosario Livatino)
Un cenno anche alle manifestazioni organizzate dall’A.N.M. di
Caltanissetta in questo periodo per
ricordare l’anniversario della strage
di Via d’Amelio dove perse la vita
Paolo Borsellino e gli agenti della
scorta. In quella occasione il Palazzo
di Giustizia di Caltanissetta ha ospitato la mostra di fotografia di Lavinia
Caminiti dall’eloquente titolo “Gli
Invisibili”, ammazzati dalla mafia
e dall’indifferenza, un progetto artistico che ha come obiettivo quello di
scuotere le coscienze, soprattutto dei
giovani, affinché non si ripetano mai
più le stragi mafiose. ( foto n. 6, la
mostra di Lavinia Caminiti).
L’A.N.M. si è fatta anche promotrice del ricordo di Rocco Chinnici e
degli uomini della scorta a 33 anni
del suo assassinio, con la partecipazione dei figli Caterina e Giovanni.
Commovente il ricordo di Caterina
nel ricordare il padre, nella vita professionale ma soprattutto in quella
familiare parole che hanno saputo
trasmettere le emozioni che lei ha
provato e che hanno trovato luogo in
un libro dal titolo “ E’ così lieve il tuo
bacio sulla fronte”. Nel corso della
cerimonia la sezione di Caltanissetta
dell’Associazione Italiana Dottori
Commercialisti ha donato un’opera
d’arte alla magistratura Nissena,
un’opera che rappresenta simbolica-
mente la sconfitta della mafia,
immortalando la Piovra all’interno
dell’Agenda Rossa di Paolo
Borsellino. L’opera è stata commissionata dall’arch. Loris Viviano, su
richiesta dell’A.I.D.C. ( foto n. 7, il
momento della consegna dell’opera).
Ancora
su
iniziativa
dell’A.N.M. gli uffici giudiziari
di Caltanissetta ricordano l’assassinio di Gaetano Costa e i
Giudici Livatino e Saetta, con
momenti di riflessione tra magistrati, avvocati e personale delle
cancellerie.
Per concludere ricordiamo i
prossimi eventi formativi che la
Struttura Territoriale di Formazione
di Caltanissetta sta preparando. In
particolare quello sulla mediazione
civile, organizzato con Trencom srl,
presso il Consorzio Universitario di
Caltanissetta, in calendario per il 6
novembre p.v. e quello sulla tutela
risarcitoria dei condannati che si
svolgerà il prossimo 18 novembre,
sempre con la partecipazione della
scuola Forense Nissena.
Continua da pagina 10 “Responsabilità e risarcimento danni da randagismo”
Molto sottile la precisazione
del Giudice relativa all’obbligo di
accalappiamento la cui esistenza in
capo all’Asl non esaurisce gli elementi peculiari di siffatto tipo di
illecito, dovendo, l’attore provare
oltre al fatto, al danno ed al nesso
causale tra i due, anche che la colpa
del soggetto danneggiante. In caso
contrario, verrebbe a configurarsi
una generalizzata posizione di
garanzia nei confronti di tutti i cittadini e per tutti gli animali randagi
esistenti e dunque una ipotesi di
responsabilità oggettiva.
Applicando tali principi, il decidente
ritiene sussistere la responsabilità
della Azienda Sanitaria Locale e,
pertanto, la condanna al risarcimento dei danni subiti dall’attrice, essendo emerso dall’istruzione probatoria
un
atteggiamento
colposo
dell’Azienda Sanitaria, corroborato
dalle dichiarazioni di un testimone
dalle quali emergeva che erano più
volte stati informati i Vigili circa la
presenza di quel cane in quella strada, nonché il nesso di causalità tra il
fatto ed il danno e la non rimproverabilità di un concorso di colpa in
capo all’attrice.
Dopo aver letto questa ben
scritta sentenza, sono andata a dare
un’occhiata alla normativa regionale Siciliana e mi sono convinta che
molto probabilmente il ragionamento del Tribunale Campano risulterebbe inapplicabile nelle aule di giustizia Siciliane. La Regione
Siciliana, infatti, ha recepito la legge
quadro n. 281/91 con la legge regionale 3 luglio 2000, n. 15, emanando
apposito Regolamento di attuazione.
A tale legge sono seguite una serie di
normative, tra cui, a mio avviso,
spicca il decreto dell’Assessorato
alla Sanità del 13
dicembre
2007 intitolato “Linee guida per il
controllo del randagismo e bandi per
la concessione di contributi da destinare al risanamento dei rifugi esistenti e alla costruzione di rifugi
sanitari, all'attuazione di piani di
controllo delle nascite e al mantenimento di animali” il quale in modo
molto dovizioso ripartisce le competenze tra Comuni e Regioni in ordine al fenomeno de quo, e dalla cui
lettura sembrerebbero maggiormente caricati del problema i Comuni
(ai quali spetta per espressa previsione di legge la cattura degli animali
vaganti) oltre che le Associazioni
per la protezione degli animali.
La “patata bollente”, però,
davanti ai casi concreti portati in
giudizio toccherà, anche stavolta,
alla giurisprudenza.
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L’occhio di
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Ta le iu m Ne le iu m