UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “ FEDERICO II ” SCUOLA DI MEDICINA E CHIRURGIA CORSO DI LAUREA IN INFERMIERISTICA SEDE DIDATTICA ASL Salerno Polo Di Nocera Inferiore Tesi di Laurea IL PAZIENTE ONCOLOGICO IN FASE TERMINALE: IL RUOLO DELL’INFERMIERE DAL “TO CURE” AL “TO CARE” (AREA FORMATIVA: INFERMIERISTICA) RELATORE CANDIDATA Dott.ssa Michelina Baldi Valentina Corrado Matr.597003390 ANNO ACCADEMICO 2012/2013 1 “Io sono un viaggiatore in viaggio da questa vita alla prossima e in questo viaggio ho bisogno di un luogo in cui sia benvenuto, curato e assistito e possa essere me stesso” (N. Hedlock) 2 INDICE 3 INTRODUZIONE Pag. 7 CAPITOLO PRIMO 1.1 Definizione e cenni legislativi Pag. 11 1.2 Sintomi riscontrabili nel paziente oncologico Pag. 13 1.2.1 Area fisica Pag. 13 1.2.2 Area psicologica Pag. 16 1.2.3 Area sociale Pag. 19 1.2.4 Area spirituale Pag. 20 1.3 La fatigue Pag. 20 CAPITOLO SECONDO 2.1 Che cos’è il dolore Pag. 24 2.2 Il dolore oncologico Pag. 25 2.3 Sistemi di valutazione Pag. 25 2.4 Terapia del dolore: Legge 38 del 2010 Pag. 33 CAPITOLO TERZO 3.1 Cure palliative Pag. 38 3.2 Dipartimento oncologico Pag. 39 3.3 Assistenza oncologica domiciliare Pag. 40 3.4 Day hospital oncologico Pag. 44 3.5 Gli Hospice: centri residenziali per le cure palliative Pag. 46 4 CAPITOLO QUARTO 4.1 Assistenza alla famiglia in previsione del lutto Pag. 51 4.2 Individuare ed educare il caregiver Pag. 51 4.3 Comunicare e ricevere una diagnosi di cancro Pag. 52 4.4 L’informazione al paziente oncologico Pag. 53 4.5 Problemi psicologici del paziente oncologico Pag. 54 4.6 Reazioni psicologiche del paziente oncologico Pag. 56 4.6.1 Fase precedente alla diagnosi (o fase del dubbio) Pag. 57 4.6.2 Fase diagnostica Pag. 58 4.6.3 Fase terapeutica Pag. 59 4.6.4 Fase della remissione e della guarigione Pag. 62 4.6.5 Fase della progressione della malattia Pag. 63 4.6.6 Fase terminale Pag. 63 4.7 Relazione di aiuto fra l’infermiere, il paziente e la famiglia Pag. 64 4.8 L’équipe assistenziale di fronte al tema “morte” Pag. 68 CONCLUSIONI Pag. 73 BIBLIOGRAFIA Pag. 75 5 INTRODUZIONE 6 Il CANCRO è uno dei principali problemi sanitari che affligge ancora oggi la nostra società, malgrado i grandi e continui progressi nel campo della ricerca e della terapia. È da tener presente che il cancro oggi rappresenta la seconda causa di morte dopo le malattie cardiovascolari. Nell’assistenza del paziente oncologico giocano un ruolo molto importante: la giusta preparazione e la continua formazione dell’infermiere che gli consenta in primo luogo di riconoscere i principali sintomi e segni della patologia, e in secondo momento di avere le basi scientifiche, cultuali e professionali per un’assistenza specifica; il saper valutare il dolore attraverso le giuste metodiche al fine di agire con un’adeguata terapia; l’attivazione della rete delle cure palliative attraverso l’assistenza ospedaliera, domiciliare, il DH oncologico o gli Hospice allo scopo di migliorare la qualità di vita del paziente oncologico in fase terminale; il fornire al paziente un supporto psicologico in quanto la diagnosi di tumore scatena sempre una serie di reazioni negative. La gestione di un paziente oncologico in fase terminale risulta essere complessa, in quanto bisogna far fronte non solo ai bisogni del paziente per quanto riguarda la sfera palliativa, ma bisogna prestare un’assistenza ben più complessa che vede impegnato l’infermiere anche e soprattutto in un’attivitàdi supporto psicologico per il paziente in primis e per la famiglia. 7 Nel processo di nursing è di basilare importanza l’osservazione dei segni e sintomi del paziente, al fine di rendere possibile un intervento tempestivo ed efficace. Di fondamentale importanza in tali circostanze, risulta essere la rilevazione del dolore, che avviene mediante l’utilizzo di apposite metodiche che prendono il nome di “scale del dolore”. Dal momento che ci troviamo di fronte ad un paziente terminale è bene chiarire il concetto di terminalità: il malato terminale è una persona incurabile e cioè la sua malattia non è risolvibile dalla medicina convenzionale, però come è già stato evidenziato in precedenza, va comunque garantita l’assistenza di base ai bisogni della persona per preservare livelli di qualità di vita accettabili anche in questa fase. I pazienti terminali vengono sottoposti a cure palliative, che l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce come: La cura o meglio l’assistenza (care) attiva, globale di quei pazienti la cui malattia non risponde più ai trattamenti curativi. Si può essere beneficiari di tali trattamenti presso il proprio domicilio attraverso l’assistenza domiciliare, oppure presso reparti oncologici ospedalieri, DH oncologici e Hospice, per garantire le cure più appropriate. Nell’effettuazione delle cure palliative, la nostra attenzione non è focalizzata sulla quantità ma sulla qualità della vita del paziente, così come garantisce la recente Legge 38/2010 in materia di cure palliative e terapia del dolore. 8 Infine, altro momento importante dell’assistenza che si presta al paziente in fase di terminalità è rappresentato dal fine vita e dalla comunicazione di avvenuto decesso ai familiari, in quanti in questa fase l’infermiere è deputato a fornire supporto psicologico ai familiari, ma deve cercare di mantenere un certo distacco dalla situazione, nel caso in cui rammenta loro qualche situazione personale. 9 CAPITOLO PRIMO 10 1.1Definizione e accenni legislativi Un malato si definisce in fase terminale quando affetto da una patologia cronica evolutiva in fase avanzata, per la quale non ci siano più trattamenti volti alla guarigione, alla stabilizzazione della malattia né ad un prolungamento significativo della vita. Caratteristiche, dunque, comuni a questa tipologia di pazienti sono l’inguaribilità, la gravità e la scarsa prospettiva di vita ma non sono queste a mettere fine al nostro lavoro. Occorre pertanto un cambio di prospettiva passando dal rigido concetto del “curare la malattia” al “prendersi cura” del malato in quanto persona e, assieme a lui, prendersi cura dei suoi cari. La cura è un fenomeno fondamentale della vita umana e, l’uomo, è per natura preposto alla cura di sé e degli altri. Nell’ambito delle attività assistenziali distinguiamo due concetti fondamentali della “ cura” : TO CURE e TO CARE. Il “TO CURE”(=curare) riguarda la malattia in senso organico, ossia, il principio è quello di curare la malattia e/o l’organo malato, invece, il “TO CARE” (=prendersi cura), riguarda l’aspettobibliografico della malattia come “vissuto” dell’uomo. Il prendersi cura è una pratica relazionale di scambio comunicativo, verbale e non, volta a : ripristinare una situazione precedente lenire le sofferenze sostenere e rispettare, nella relazione terapeutica, la capacità di autodeterminazione degli assistiti agevolare una trasformazione evolutiva, una crescita evitare la dissoluzione dell’identità. 11 Tale concetto congiunge conoscenze scientifiche, competenze tecniche e interesse umano per la persona malata. Il concetto di “prendersi cura” mette in evidenza alcuni principi: CENTRALITÀ della persona assistita DISPONIBILITÀ e impegno verso gli altri EMPATIA, capacità di ascolto. Questi principi sono alla base della professione infermieristica e ben esplicitati nel Profilo Professionale che definisce l’assistenza infermieristica come “preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa”. Li vediamo inoltre riportati nel testo del “ Patto InfermiereCittadino” nel quale il professionista si impegna a stare vicino al paziente quando soffre, quando ha paura, quando la medicina e la tecnica non bastano. Analizzando, infine, il Codice Deontologico1 dell’infermiere possiamo notare che in diversi articoli, orienta il nostro operato al “to care” (prendersi cura) piuttosto che al “to cure” (guarire), infatti: Art.6: L’infermiere riconosce la salute come bene fondamentale della persona e interesse della collettività e si impegna a tutelarla con attività di prevenzione, cura, riabilitazione e palliazione. Art. 35: L’infermiere presta assistenza qualunque sia la condizione clinica e fino al termine della vita dell’assistito, riconoscendo l’importanza della palliazione e del conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale e spirituale. Art. 36: L’infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi che non siano proporzionati alla sua 1 Codice Deontologico degli Infermieri italiani, confederazione italiana Ipasvi, febbraio 2009 12 condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa della qualità di vita. Art. 39: L’infermiere sostiene i familiari e le persone di riferimento dell’assistito, in particolare nella evoluzione terminale della malattia e nel momento della perdita e della elaborazione del lutto. Per cui, davanti una persona sofferente, affetta da una malattia inguaribile, che porta con sé sintomi devastanti sia per quanto riguarda la sfera fisica sia quella psicologica, sociale e spirituale, una persona che merita di essere accolta, ascoltata, capita e aiutata nel proprio doloroso percorso verso la fine della vita, è doveroso essere i più professionali possibili, utilizzando tutte le conoscenze, le competenze e le tecniche infermieristiche più adeguate riguardo alla valutazione dei i sintomi e dei bisogni assistenziali, senza mai trascurare le paure, le ansie e le angosce di questi pazienti e delle loro famiglie. 1.2 Sintomi riscontrabili nel paziente oncologico 1.2.1 Area fisica L’identificazione dei sintomi presenti e il loro controllo attraverso un'adeguata terapia farmacologica sintomatica è il primo obiettivo delle cure palliative. I sintomi fisici più frequenti che si riscontrano nel malato oncologico terminale sono: DOLORE Il dolore è il sintomo più disarmante che toglie ogni voglia di essere impedendo anche le attività fisiche più semplici, tenuto conto 13 che l’esperienza del dolore da cancro è influenzata da fattori sia fisici sia psicosociali. Per molte persone il dolore è un segnale della continua progressione della malattia e dell’imminenza della morte, e quando la previsione e la paura della sofferenza aumentano, la percezione del dolore si intensifica e causa ulteriore paura e ulteriore dolore. Il dolore cronico da cancro può essere perciò descritto come una progressione circolare che passa dalla sensazione di dolore all’ansia, alla paura e di nuovo al dolore . PROBLEMI LEGATI ALL’ALIMENTAZIONE Il malato oncologico grave ha spesso gravi problemi legati all’alimentazione correlati alla presenza di questi disturbi: inappetenza; nausea e vomito i quali possono essere correlati a trattamento chemioterapico, alla somministrazione della morfina, a patologie ostruttive dell’apparato gastrointestinale, al coinvolgimento del SNC o alla disidratazione; problemi del cavo orale, spesso legati al trattamento con chemioterapici, a trattamento radioterapico o somministrazione di corticosteroidi; alterazioni del gusto quali disgeusie, ipogeusie e ageusie (rispettivamentealterazione, riduzione e assenza della sensibilità gustativa). PROBLEMI LEGATI ALLA RESPIRAZIONE Con molta frequenza il paziente terminale presenta tosse, sensazione di fame d’aria, difficoltà alla ventilazione e dispnea. 14 La dispnea, sintomo altamente invalidante nel paziente terminale, è una sensazione soggettiva angosciante di mancanza di respiro il cui grado può essere descritto solo dal paziente: essa non sempre è correlata ad alterazioni del quadro diagnostico ma può essere determinata da uno stato di disagio psicologico, ansia o crisi di panico. In ogni caso per il paziente è molto difficile convivere con questo sintomo dato che la sensazione di mancanza d’aria è strettamente collegata all’idea di morte; molto spesso, infatti, il paziente affetto da dispnea non dorme di notte quando l’angoscia del morire si fa più pressante. Il trattamento della dispnea prevederà allora non solo un intervento farmacologico e ossigenoterapia ma anche interventi di counselling: sarà compito dell’infermiere prestare attenzione a ciò che scatena o aumenta la dispnea ed in questo è essenziale l’ascolto e l’osservazione, nonché la conoscenza dei fattori scatenanti quali cambiamenti posturali, movimenti, parlare, per poter prontamente individuarli e rimuoverli. PROBLEMI LEGATI ALL’ALVO Sintomo molto frequente nelle patologie neoplastiche è la stipsi che può essere di natura ostruttiva dovuta alla presenza di massa tumorale, di natura farmacologica per la somministrazione di alcuni chemioterapici, tossici a livello del sistema nervoso autonomo, o di oppioidi i quali riducono il tono e la motilità intestinale, pertanto è necessario valutare che cosa determina la stipsi per poter intervenire. L’infermiere educa il paziente ad una corretta alimentazione ricca di fibre ed interviene con la somministrazione di farmaci 15 specifici secondo prescrizione, il tutto osservando ed educando il paziente a corrette abitudini quotidiane. DISTURBI DELLA VIGILANZA L’alterazione del ritmo sonno/veglia è piuttosto comune nei malati oncologici. Si può assistere ad insonnia notturna che è possibile sia determinata dall’assunzione di alcuni farmaci quali i chemioterapici, gli antidepressivi, i farmaci steroidei o alcune terapie ormonali; talvolta è presente una sonnolenza diurna correlata all’assunzione di oppioidi. L’infermiere valuta quanto i disturbi del sonno siano invalidanti per il paziente e mette in atto accorgimenti volti a garantire un adeguato riposo del paziente, si assicura che questi abbia un microclima adeguato e, eventualmente, lo rassicura riguardo le paure che determinano l’insonnia dandogli la certezza di non essere solo anche se è notte. 1.2.2 Area psicologica Dopo la scoperta di essere affetti da una grave malattia il malato tende a percepire il proprio corpo come fonte di sofferenza e di insicurezza. La profonda preoccupazione, lo sconforto e la depressione sono sentimenti che vengono amplificati quando c’è la consapevolezza dell’inguaribilità. Ogni paziente è un’entità unica che mette in atto determinati meccanismi di difesa come reazione alla propria malattia e alla propria morte. 16 Elisabeth Kubler-Ross, medico psichiatra e docente di Medicina Comportamentale, descrisse una serie di stadi attraverso i quali si svolge la reazione alla diagnosi di terminalità. Tale modello prevede cinque fasi, che quasi tutti i pazienti toccano, ma che, come precisato dalla stessa autrice, non devono essere lette in rigida forma sequenziale: negazione: il malato non accetta la malattia e si dà risposte del tipo “non è possibile”, “non posso essere io”, “si sono sbagliati”. rabbia: fase in cui predominano i sentimenti di ribellione, invidia, risentimento, e la ripetizione continua della stessa domanda “perché proprio a me?”. Questa è considerata la fase più difficile ed impegnativa, sia per il personale di assistenza che per i familiari, poiché il morente scaglia sentimenti ed emozioni su tutto e tutti. L’unico intervento adottabile, suggerisce Kubler-Ross, è quello di non intervenire, ma lasciare al paziente il tempo necessario all’elaborazione del lutto, all’accettazione di ciò che sta accadendo. patteggiamento: viene considerato come una falsa speranza di poter rimandare oltre il tragico evento pensando che la terapia proposta potrebbe permettergli la guarigione o almeno allungargli la vita. depressione: il paziente si rende completamente cosciente del progredire della malattia e del progressivo deterioramento delle sue condizioni cliniche per cui si abbandona alla depressione. 17 accettazione: il paziente giunge alla completa consapevolezza del suo divenire e di fronte alla realtà della morte accetta talora in modo passivo, talora in modo più coraggioso il suo morire. La conoscenza delle dinamiche psicologiche che i pazienti attraversano negli ultimi mesi della loro vita è importante perché ci permette di trovare lo spazio per ogni scopo terapeutico e cercare di curare la morte. Accanto alle dinamiche che il paziente vive è importante conoscere anche i bisogni e le paure che il paziente prova per garantirgli un’assistenza di qualità. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 1990 ha identificato i bisogni del paziente in cure palliative: bisogno di sicurezza: spesso con la sospensione delle cure che erano volte alla guarigione il paziente avverte il timore di essere abbandonato a se stesso; bisogno di amore: è minato molte volte dal fatto che il paziente e il familiare non hanno lo stesso livello di consapevolezza, cosa che rende la relazione meno vera; bisogno di comprensione: poter essere capiti e di conseguenza sapere di potere esprimere domande e dubbi con la certezza i essere ascoltati realmente; bisogno di fiducia: sapere che potrà contare sulla reale disponibilità del personale che lo circonda e che non lo abbandonerà; bisogno di accettazione: di essere riconosciuti nella propria dignità, anche quando incominciano a farsi evidenti i sintomi del decadimento fisico; 18 bisogno di autostima: può essere soddisfatto mantenendo il ruolo decisionale del paziente attivo; Sarà inoltre importante conoscere le paure riscontrabili nei morenti generalizzabili inqueste categorie: paura del dolore (che possa diventare incontrollabile) paura di morire paura di perdere il controllo mentale o fisico paura di essere respinti o perdere il proprio ruolo in famiglia preoccupazione di sentirsi un peso eccessivo per la famiglia Ogni persona è un’entità unica e queste nozioni servono solo da guida per conoscere i pazienti ai quali prestiamo cura e per orientare le attività di nursing. Naturalmente non esistono situazioni preconfezionate ma esistono solo delle persone uniche ed irripetibili con la loro storia, i loro dolori, le loro sofferenze che ci mettono in mano la loro vita, o quel che ne rimane, perché possiamo trasformarla al massimo delle loro aspettative. La nostra attenzione, pertanto, non è focalizzata sulla quantità ma sulla qualità della loro vita. 1.2.3Area sociale La terminalità di una malattia determina, prima o poi, la perdita del proprio ruolo all’interno della società, la sensazione di inutilità rispetto alla propria famiglia e la chiusura in se stessi. 19 Occuparsi di questi aspetti da parte dell’equipe curante non è sempre facile, è necessario saper “tendere la mano” senza invadere l’ambito personale. Confrontarsi con la morte dei nostri assistiti porta però alla luce le nostre paure più profonde e questo spesso ci fa arrendere prima ancora di instaurare la relazione d’aiuto. 1.2.4Area spirituale Il malato terminale è una persona che ha urgenza di dire addio alla vita a modo suo. Ogni individuo nella sua unicità ha una propria spiritualità e sta all’operatore avere la necessaria sensibilità per intuire i bisogni spirituali del malato e per poter offrire risposte diverse ad ognuno. 1.3 La fatigue Da una decina di anni la fatigue è a tutti gli effetti riconosciuta come una malattia correlata al cancro e non più considerata semplicemente come un insieme di sintomi che affliggono l’esistenza del paziente oncologico. Il termine anglosassone “fatigue” significa affaticamento; la fitigue è infatti genericamente classificabile nel quadro clinico delle astenie, caratterizzato da mancanza o perdita della forza muscolare con facile affaticabilità e insufficiente reazione agli stimoli. La fatigue può essere considerata una patologia nella patologia, che accompagna la vita del paziente oncologico sia nel corso della terapia che dopo la sospensione del trattamento e nelle recidive. 20 Secondo alcuni studi la principale causa della fatigue è l’anemia, per cui correggendo quest’ultima o trattandola preventivamente migliora notevolmente lo stato di fatigue del paziente oncologico. Per alcuni pazienti curare la fatigue correlata al cancro è importante quanto curare la malattia. Al di là del disagio di sentirsi esausti, la fatigue può infatti interferire talmente nella vita del paziente da condizionarlo anche nelle cure, per esempio limitando il numero dei cicli di chemioterapia e di conseguenza la loro efficace. La fatigue si può presentare come: parte integrante della sintomatologia della neoplasia; effetto collaterale delle terapie, oncologiche e non oncologiche; espressione di una patologia concomitante, di solito di natura psichiatrica, quale la depressione; sintomatologia a distanza di anni dopo la fine delle terapie. Per poter rilevare correttamente i sintomi della fatigue, sono stati delineati dei criteri internazionali che si basano sulla seguente classificazione: sintomi presenti tutti i giorni o quasi per almeno due settimane nell’ultimo mese: spossatezza significativa; diminuzione dell’energia; accresciuto bisogno di riposo, in maniera non proporzionale all’attività sostenuta. 21 inoltre, devono essere presenti cinque o più dei seguenti sintomi: debolezza generalizzata e pesantezza degli arti diminuzione della concentrazione o dell’attenzione diminuzione della motivazione o dell’interesse nelle normali attività insonnia o ipersonnia; sensazione di non aver riposato durante il sonno; sensazione di dover compiere sforzi per superare l’inattività; marcata reazione emotiva alla sensazione di fatigue; difficoltà a portare a termine le attività quotidiane. 22 CAPITOLO SECONDO 23 2.1 Che cos’è il dolore Il dolore è un’esperienza soggettiva, che, non risulta essere semplicemente il prodotto finale di un sistema di trasmissione sensoriali lineare, ma è un processo dinamico che produce continue interazioni con il sistema nervoso, che comprende al suo interno un substrato di passate esperienza, cultura, ansia e depressione. Quindi, considerare solamente la caratteristica sensoriale del dolore e ignorare le sue proprietà motivazionali-affettive, porta ad avere una visione del problema limitata ad una sola parte. Alcuni autori hanno identificato tre componenti psicologiche principali del dolore: discriminativa-sensoriale motivazionale-affettiva cognitiva-valutativa In base a questi dati possiamo dire che il dolore è MULTIDIMENSIONALE, cioè è formato da numerosi componenti che includono: i comportamenti (le smorfie, l’atto di zoppicare ecc.), l’intensità, la componente affettiva, le credenze (senso di controllo, credenze sul significato), la qualità della vita. Le diverse dimensioni vengono espresse in modo differente nel dolore acuto o in quello cronico, infatti, nel dolore acuto la dimensione sensoriale è la più importante, mentre nel dolore cronico i fattori affettivi e valutativi assumono una rilevanza maggiore. 24 2.2 Il dolore oncologico Il dolore oncologico è un dolore cronico nella maggior parte dei casi ed è dovuto a diverse cause come l’azione diretta del tumore per infiltrazione tissutale, interessamento viscerale, ulcerazione, infezione, oppure può essere conseguenza dei trattamenti (chirurgia, chemioterapia, radioterapia). Ci possono essere anche cause non direttamente collegate al tumore o alle terapie come disturbi cardiovascolari, neurologici o altro. Esiste anche un dolore acuto, definito dolore episodico intenso che è un dolore transitorio che si manifesta in pazienti con un dolore cronico di base controllato da una terapia analgesica somministrata ad orari fissi. Gli episodi dolorosi hanno frequenza variabile e durata variabile: una frequenza superiore a 2 episodi al giorno potrebbe indicare la necessità di modificare la terapia di fondo e pertanto è importante rilevarli e comunicarli tempestivamente al Medico Palliativista. Nell’ambito del dolore episodico intenso va distinto il dolore acuto incidente che è scatenato da eventi specifici (es. tosse, cambi di postura, defecazione). 2.3Sistemi di valutazione Misurazione La misurazione dell’intensità del dolore è fondamentale perché su di essa si basa la scelta della terapia farmacologica più appropriata 25 ed è possibile avere una valutazione più obiettiva dei risultati della terapia analgesica instaurata. Le scale di misurazione sono di due tipi: unidimensionali, che misurano esclusivamente l’intensità del dolore (analogiche, visive, numeriche, verbali) multidimensionali che valutano anche altre dimensioni (sensoriale-discriminativa, motivazionale-affettiva, cognitivovalutativa) Queste ultime sono molto complesse e perciò hanno un uso limitato nella pratica clinica. Non esistono prove sulla superiorità di una scala rispetto ad un’altra; ma è importante utilizzarle, scegliendone una che risulti comprensibile al paziente. Per la sua semplicità nella pratica clinica è preferibile utilizzare la scala numerica nella quale viene chiesto al paziente di indicare l’intensità del dolore che va da 1 a 10. Autovalutazione Essendo un’esperienza soggettiva, l’autovalutazione del paziente è da considerarsi la regola per la misurazione del dolore. Infatti, numerosi studi hanno evidenziato la sottostima derivante da una valutazione esterna: infermieristica e medica. La valutazione esterna rimane indispensabile per i pazienti che non sono in grado di esprimersi, i neonati e i bambini, handicappati mentali, anziani con demenza. 26 Valutazioni multiple Sono necessarie valutazioni multiple per avere una visione reale dell’esperienza dolorosa. Caratteristiche di un test valido: facilità di utilizzo deve richiedere poco tempo sia per la registrazione che per l’elaborazione dei dati. articolato in modo che sia comprensibile a tutti deve soddisfare i criteri di: a)validità il grado in cui un test valuta ciò che intende misurare. b)sensibilità evidenzia i cambiamenti relativi alla terapia. c)affidabilità o grado di ripetibilitàil test deve essere ripetibile quando amministrato più volte o da più esaminatori. Sistemi di valutazione nell’adulto VRS (Visual Rating Scale): scala di valutazione verbale È costituita da una serie didescrittori dal più debole al più intenso (assenza di dolore……il peggior dolore possibile). Un punteggio di 0 è assegnato al descrittore di minore intensità, 1 a quello successivo ecc. Il paziente sceglie il descrittore che più si avvicina alla sua sensazione dolorosa. 27 L’ordinamentocasuale evita la scelta preferenziale, dovuta alla posizione, facendo puntare l’attenzione sul valore semantico del descrittore. Tale scala, nel tempo, si è rilevata semplice da somministrare, affidabile e valida. Figura 1 VRS (Visual Rating Scale): scala di valutazione verbale NRS (Numerical Rating Scale): SCALA NUMERICA VERBALE Serie di numeri da 0 a 10 o da 0 a 100 il cui punto di inizio e di fine rappresentano gli estremi del dolore provato. Il paziente sceglie il numero che corrisponde meglio al suo dolore. E’ di semplice utilizzo e ha dimostrato affidabilità e validità. Figura 2: VERBALE NRS (Numerical Rating Scale): SCALA NUMERICA 28 VAS (Visual Analogue Scale) : scala valutazione visiva Una linea di 10 cm orizzontale o verticale con due punti di inizio e fine, contrassegnati con “assenza di dolore” e “il dolore peggiore mai sentito”. Il paziente deve mettere un punto al livello di intensità che prova. E’ semplice e breve da somministrare e da assegnare il punteggio. Presenta delle limitazioni nei pazienti con difficoltà motorie e percettive, alcuni non riescono a comprendere le istruzioni. Figura 3: VAS (Visual Analogue Scale) : scala valutazione visiva MC GILL PAIN QUESTIONNAIRE Classificazione di 102 termini che descrivono differenti aspetti del dolore. I termini sono suddivisi in tre classi maggiori, sensoriale, emotivo-affettiva, valutativa, e 16 sottoclassi che contengono un gruppo di parole considerate qualitativamente simili. Vi è aggiunta una VRS, per misurare l’intensità del dolore presente, e un disegno di un corpo umano, visto davanti e dietro, per indicare la localizzazione. 29 Ha dimostrato validità, affidabilità, coerenza, sensibilità e utilità.Possiedeuna potenziale possibilità di aiutare nella diagnosi differenziale,in quanto ogni tipo di dolore è caratterizzato da una distinta costellazione di descrittori verbali. Tale possibilità può essere invalidata da alti livelli di ansia e altri disturbi psicologici che possono produrre un alto punteggio della dimensione affettiva, in più anche certe parole chiave specifiche di sindromi possono essere assenti. Figura 4:MC GILL PAIN QUESTIONNAIRE 30 SF-MPQ: short form del Mc Gill PainQuestionnaire Consiste in 15 parole rappresentative della porzione riguardante la qualità sensoriale (11) e la qualità affettiva (4), scelte perché usate più frequentemente dai pazienti con vari tipi di dolore. E’ correlata con il MPQ, è sensibile e sembra adatta anche alle persone anziane. Figura 5: SF-MPQ: short form del Mc Gill Pain Questionnaire 31 Descriptor Differential Scale Valuta separatamente l’intensità sensoriale e il fastidio. Consiste in 12 descrittori, posti al centro di una scala a 21 punti con un segno meno al livello più basso e più a quello più alto. E’ assegnato un punteggio da 0 (-) a 20 (+) a ogni descrittore: un punteggio di 10 indica un’intensità uguale a quella del descrittore. (-) …………..I……………..VERY INTENSE (+) (-)…………..I…………….. BARELY STRONG (+) (-)…………..I……………..WEAK (+) (-)…………..I……………..MODERATE (+) (-)…………..I…………….. EXTREMELY INTENSE (+) (-) …………..I…………….. VERY MILD (+) (-) …………..I……………..INTENSE (+) (-) …………..I…………….. FAINT (+) (-) …………..I…………….. SLIGHTLY INTENSE (+) (-) …………..I…………….. MILD (+) (-) …………..I…………….. STRONG (+) (-)…………..I…………….. VERY WEAK (+) Figura 6: Descriptor Differential Scale 32 Gli strumenti più utilizzati sono il Mc Gill Pain Questionnaire e la VAS anche se la NRS è il metodo che produce meno errori soprattutto negli anziani. FACES PAIN SCALE: disegni di facce che esprimono diversi gradi di dolore, poste in posizione casuale. Figura 7: FACES PAIN SCALE 2.4Terapia del dolore: Legge 38 del 2010 Con la legge 38 del 2010 l’Italia garantisce il diritto del cittadino ad accedere alla terapia del dolore e alle cure palliative. Le indicazioni fornite dalla legge 38 rappresentano un esempio legislativo per rispondere ai bisogni di cura, assistenza continuativa del malato e della sua famiglia rispetto ad una vita senza sofferenza inutile. La legge richiama i principi e valori di riferimento, la puntuale definizione degli elementi costitutivi degli stessi principi, fino alla 33 indicazione dei riferimenti essenziali per lo sviluppo delle reti nazionali di terapia del dolore e delle cure palliativi nel territorio nazionale, individuando la cornice nazionale per la costruzione degli strumenti necessari atti a rendere effettiva la terapia del dolore e a dare una piena assistenza a chi è alla fine della vita. L’offerta dei servizi di sostegno ai malati si snoda attraverso una rete nazionale per le cure palliative e per una terapia del dolore concepite al fine di ottimizzare la gestione e l’erogazione sul territorio e per garantire la continuità assistenziale del malato dalla struttura ospedaliera al suo domicilio. Tali reti sono costituite dall’insieme delle strutture sanitarie, ospedaliere e territoriali, e assistenziali, delle figure professionali e degli interventi diagnostici e terapeutici disponibili nelle regioni e nelle province autonome, dedicate all’erogazione delle cure palliative, al controllo del dolore in tutte le fasi della malattia, con particolare riferimento alle fasi avanzate e terminali della stessa, e al supporto dei malati e dei loro familiari (art. 2, lett. C). Informare e comunicare costituiscono una parte integrante per la buona riuscita degli obiettivi indicati dalla legge 38. La scelta del legislatore, anche in questo ambito, è innovativa in quanto valorizza non soltanto la componente tecnica e professionale, ma anche la componente di partecipazione della società civile, delle famiglie e delle stesse persone in un percorso di salute e di riduzione della sofferenza fisica e psicologica. È fondamentale che i cittadini conoscano, partecipino e comprendano il tentativo non burocratico di costruire una rete vicina ai loro bisogni di salute, e tutti gli strumenti che la legge mette a 34 disposizione,rispondono a questa importante finalità. In particolare nella descrizione della “terapia del dolore” contenuta nella legge 38/2010, si fa riferimento ad un “insieme di interventi diagnostici e terapeutici volti ad individuare e applicare alle forme morbose croniche idonee ed appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche,strumentali psicologiche e riabilitative, tra loro variamente integrate, allo scopo di elaborare idonei percorsi diagnostico terapeutici per la soppressione ed il controllo del dolore. L’accordo Stato Regioni del 16 dicembre 2010 definisce inoltre le “linee guida per la promozione, lo sviluppo e il coordinamento degli interventi regionali nell’ambito della rete di cure palliative e della terapia del dolore”. Per quanto riguarda la terapia del dolore viene chiarito come necessario la riorganizzazione dei sistemi esistenti con l’obiettivo di acquisire una maggiore semplicità di accesso alle risorse assistenziali disponibili, attraverso il rafforzamento dell’offerta assistenziale sul territorio per il paziente adulto e pediatrico. E’ importantissimo prendere coscienza che il dolore rappresenta uno dei principali problemi sanitari che interessa tutte le fasce di età ed incide sulla qualità della vita. Inoltre il medesimo accordo Stato – Regioni, sopra citato, definisce quale compito regionale il coordinamento regionale della terapia del dolore con il compito di assolvere alle seguenti funzioni: definizione di indirizzi per lo sviluppo omogeneo di percorsi di presa in carico ed assistenza nell’ambito della rete; controllo della qualità delle prestazioni e valutazione dell’appropriatezza da prevedersi nell’ambito del sistema di 35 accreditamento; promozione di programmi obbligatori di formazione continua in terapia del dolore da prevedersi nell’ambito del sistema di accreditamento; promozione di programmi obbligatori di formazione continua in terapia del dolore coerentemente con quanto previsto dall’art. 8, comma 2 della legge 38/2010; sensibilizzazione di tutti gli operatori sanitari all’uso dei farmaci oppiacei attraverso specifiche campagne informative circa l’appropriatezza prescrittiva in funzione della patologia clinica dolorosa; monitoraggio dello stato di attuazione della rete. La legge 38 del 2010 sancisce l’obbligo da parte del personale medico ed infermieristico di riportare nella documentazione clinica la rilevazione del dolore, la sua evoluzione nel corso del ricovero nonché la tecnica antalgica ed introduce procedure di semplificazione per l’accesso e la prescrizione, attraverso il ricettario del servizio sanitario nazionale, dei farmaci utilizzati nella terapia del dolore. 36 CAPITOLO TERZO 37 3.1 Le cure palliative Il termine “medicina palliativa” è un termine coniato in Gran Bretagna nel 1987, ed indica lo studio e la gestione dei pazienti con malattia attiva in progressione avanzatissima per i quali la prognosi è limitata all’obiettivo della cura e della qualità di vita. L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce le cure palliative come: La cura o meglio l’assistenza (care) attiva, globale di quei pazienti la cui malattia non risponde più ai trattamenti curativi. Le cure palliative hanno come scopo: affermare il valore della vita, considerando la morte come evento naturale; non incidere temporalmente sull’esistenza del paziente; provvedere al sollievo dal dolore e dagli altri sintomi; integrare gli aspetti psicologici, sociali e spirituali dell’assistenza; offrire un sistema di supporto per aiutare: il paziente a vivere il più normalmente possibile fino alla morte, e la famiglia a convivere con la malattia e poi con il lutto. Le cure palliative, possono essere adottate anche nel corso della malattia in concomitanza con i trattamenti antiblastici, perché mirano a far vivere i malati terminali nel miglior modo possibile, compatibilmente con la loro patologia e di farli morire con dignità, facendoli rimanere a casa con i loro famigliari sfruttando l’assistenza domiciliare, o di godere di ambienti idonei alle proprie esigenze, quali: reparti oncologici ospedalieri, DH oncologici e Hospice, dove possono ricevere le cure più appropriate. 38 3.2 Dipartimento oncologico L’ospedale oltre che interessarsi del ricovero e dell’assistenza pre, intra e post-operatoria del paziente oncologico, contribuisce anche alla cura dei malati neoplastici gravi formalizzando procedure di accesso facilitato alle prestazioni in regime di ricovero e DH, nonché di consulenza specialistica, a carattere diagnostico o trattamentale a scopo palliativo, per tutti gli assistiti in regime domiciliare o di ricovero in hospice. Le prestazioni di ricovero in regime ordinario o di DH possono essere richieste dal medico esperto di cure palliative e, nel caso in cui l’assistenza sia fornita in regime di Assistenza Domiciliare Integrata (ADI), anche dal Medico di Medicina Generale, comunque previa valutazione in Unità Operativa Dipartimentale (U.O.D.). Da tener presente che il ricovero, comunque si configura, rappresenta per il malato, la famiglia e l’istituzione sempre un momento di crisi: per il malato la preoccupazione per la malattia, la dipendenza dal personale ospedaliere, l’obbligo di adattarsi a ritmi che gli sembrano assurdi, l’isolamento dal proprio ambiente familiare e sociale. per la famiglia il senso di colpa e di sconfitta di fronte all’incapacità di curare il proprio congiunto, e ai cambiamenti dei ruoli e delle abitudini. per le istituzioni le procedure di ammissione, l’incertezza sulle competenze, gli esami di routine, il posto letto che più volentieri viene assegnato al paziente guaribile. 39 Comunque il ricovero in ospedale è: appropriato, se rappresenta la soluzione di un problema acuto o serve almeno a migliorare la qualità di vita del paziente; inappropriato, se è richiesto per problemi che possono essere risolti da una adeguata assistenza domiciliare, in regime di DH o residenziale. 3.3 Assistenza oncologica domiciliare I pazienti oncologici in fase terminale esprimono quasi sempre il desiderio di trascorrere gli ultimi giorni della propria vita a casa fra le comodità e la sicurezza domestica e in compagnia dei propri familiari; per questo, negli ultimi tempi, si sta diffondendo la buona pratica di assistere i pazienti oncologici al proprio domicilio anche perché questo sembra provocare, in loro, un minor livello di ansia, di dolore e di depressione. Inoltre, esperienze di altri paesi hanno dimostrato che i malati oncologici in fase terminale possono essere seguiti a domicilio fino al decesso, con notevole miglioramento della qualità di vita purché venga garantita loro una adeguata assistenza e alla famiglia un adeguato supporto. Il Ministro della Sanità con la Gazzetta Ufficiale del 01/06/1996, ha definito le linee guida per le cure domiciliari nel paziente oncologico ponendo come obiettivo principale e come valoreassoluto “la qualità della vita”. 40 Per poter realizzare l’assistenza domiciliare in modo concreto è necessario: il consenso da parte del paziente; adeguate caratteristiche igienico, sanitarie e tecnologiche dell’abitazione; un grado adeguato di accettazione da parte della famiglia; un’equipe multidisciplinare che lavora in sinergia; un’accurata istruzione del paziente e della famiglia per l’utilizzo e la cura dei vari presidi; enfatizzare l’igiene e la disinfezione come misure di profilassi per le infezioni; spiegare al paziente e ai famigliari i sintomi di eventuali complicanze, in modo da poterle distinguere per trattarle; dare ai familiari dei recapiti per poter contattare il medico o l’infermiere in caso di necessità. Comunque il personale sanitario è tenuto ad eseguire controlli periodici in base ad un programma di follow-up che prevede un calendario di visite a seconda del tipo di assistenza domiciliare che il paziente ha bisogno: Assistenza domiciliare programmata (ADP), deve essere strutturata in modo tale da fornire il minimo livello assistenziale da parte del medico di medicina generale con almeno una visita programmata a settimana, inoltre viene garantito il servizio di guardia medica nelle ore scoperte dal medico di base. 41 Assistenza domiciliare integrata (ADI), prevede una necessaria integrazione tra il medico di medicina generale, le strutture sanitarie distrettuali e le Unità Operative per le cure Palliative (UOCP) in modo da garantire un intervento continuativo. Il medico di medicina generale dovrà fornire almeno due visite domiciliari settimanali e un’assistenza diurna; inoltre, durante le fasce orarie non coperte dal medico di medicina generale, il servizio di guardia medica si prenderà carico dell’assistenza. L’integrazione con le UOCP prevede visite domiciliari da parte del medico e dell’infermiere una volta ogni quindici giorni. Assistenza continuativa palliativa domiciliare, è una modalità di assistenza con la quale la gestione del paziente è affidata al responsabile della UOCP che può collaborare con il medico di medicina generale. La continuità delle cure deve essere garantita 24 ore su 24 per 365 giorni l’anno; devono anche essere garantite almeno tre visite specialistiche e quattro visite infermieristiche settimanali. Nei tre casi l’attività deve essere necessariamente integrata con quella infermieristica, perché, l’infermiere, rappresenta l’anello di congiunzione tra il paziente, la famiglia e il medico, e tra quest’ultimo e la struttura. Tuttavia per poter realizzare una assistenza domiciliare continuativa è necessario che la famiglia, che rappresenta il mezzo attraverso cui essa si concretizza, sia sufficientemente preparata a svolgere un compito che si presenta assai difficile; per cui l’equipe prende in carico non solo il malato, ma tutto il 42 contesto familiare con i suoi bisogni e le sue ansie, rendendosi conto che non è sempre il malato ad avere bisogno di un maggior sostegno psicologico. Le difficoltà di una famiglia di fronte a un malato terminale nascono dall’impatto con una situazione straordinaria che impone aspetti nuovi da capire e da gestire, che portano ad uno sconvolgimento della routine quotidiana e all’alterazione delle loro abitudini (saltano i riposi, le ferie, non si hanno più orari); a tutto ciò va aggiunto il clima di sofferenza psicoaffettiva in cui è costretta a muoversi. Non dobbiamo dimenticare che la malattia oncologica è un evento che apre una crisi nel sistema familiare alterando le normali dinamiche e relazioni parentali. In tali situazioni le risorse, le modalità di funzionamento, la forza e la coesione del sistema familiare vengono messe a dura prova, ed il modo con cui una famiglia reagisce e si confronta con lo stress intrapersonale ed interpersonale dipende dalle precedenti dinamiche familiari e dalla capacità dell’equipe di offrire un reale sostegno e contenimento dei sentimenti evocati e messi a nudo dalla malattia e dall’assistenza domiciliare continuativa. Nel corso dell’assistenza domiciliare, la famiglia e l’equipe rappresentano due poli che nel momento in cui vengono a contatto devono continuamente ridefinire il proprio ruolo durante tutto l’iter assistenziale. 43 Il tutto ruota intorno al malato terminale che si trova ad affrontare la crisi più grande e più importante della sua vita, quella di sentire la vicinanza della morte e il precipitare delle proprie condizioni fisiche. 3.4 Day Hospital oncologico Negli ultimi anni, le Aziende Sanitarie hanno potenziato i ricoveri in DH per i pazienti oncologici, specie quelli che debbano essere sottoposti a trattamento chemioterapico e quelli che si trovano nella fase terminale della malattia, in modo da ridurre i ricoveri nel reparto di oncologia solo per quei pazienti particolarmente critici o in caso di somministrazioni di farmaci altamente tossici che necessitano di un monitoraggio continuo. Per il ricovero in regime di DH, il paziente dopo la diagnosi di neoplasia può: essere sottoposto ad intervento chirurgico e fare la "prima visita" oncologica presso il DH, con il referto dell'esame istologico e tutta la documentazione in suo possesso. In questa fase l'oncologo decide se è necessaria la chemioterapia; in caso affermativo stabilirà il protocollo adeguato in base al tipo di tumore, allo stadio, al grado di replicazione, all'età del paziente e alle sue condizioni fisiche; essere sottoposto subito a "prima visita" oncologica presso il DH perché la neoplasia è: a) inoperabile per stadio avanzato, metastasi, patologie concomitanti e quindi il paziente ha solo bisogno di cure palliative; 44 b) operabile, ma bisogna ridurre la massa trattandola prima con la chemioterapia o con trattamenti combinati di chemio e radioterapia; c) si tratta di tumore che risponde bene alla chemioterapia (linfomi, mielomi). Ovviamente l'ultima scelta spetta comunque al paziente, che è libero di curarsi o meno in base alle informazioni ricevute. Dopo la "prima visita", se il paziente accetta di essere sottoposto al trattamento chemioterapico o ha bisogno di cure palliative, verrà indirizzato agli infermieri che si occuperanno della programmazione della terapia, previo posizionamento del CVC o del sistema port (questi vengono posizionati quando il protocollo terapeutico preveda somministrazioni prolungate, nel caso di farmaci necrotizzanti, in pazienti con vene periferiche compromesse). Nella gestione di pazienti critici, di terapia intensiva, di oncologia, di ematologia oppure in assistenza domiciliare, e in ogni caso di tutti quei pazienti il cui approccio terapeutico è complesso, si rivela estremamente utile disporre di un VALIDO ACCESSO VENOSO, che deve essere gestito con cura ed attenzione per prevenirne contaminazioni ed infezioni, che comporterebbero una complicanza grave e spesso mortale. Gli obiettivi della formazione e dell’aggiornamento del personale impegnato in questo settore sono: Ottenere conoscenze e comportamenti uniformi, nella gestione degli accessi venosi centrali Prevenire le complicanze maggiori, meccaniche e infettive legate alla presenza del sistema 45 Elaborare un protocollo scritto, basato sulle evidenze scientifiche, ma personalizzato per ogni unità operativa, con il fine di favorire l’autoapprendimento, l’aggiornamento e l’inserimento dell’infermiere neo-assunto. L'infermiere dovrà spiegare al paziente e ai suoi accompagnatori il funzionamento del DH, gli orari, le regole da rispettare che non dovrebbero essere infrante, se si vuole mantenere un buon funzionamento della struttura, come sarà la giornata del paziente che viene sottoposto a chemioterapia o cure palliative, i tempi, e se è necessario il digiuno e perché va osservato; accertarsi che abbia firmato il consenso informato e verificare che le informazioni ricevute dal medico siano state effettivamente recepite. Alla fine spiegare al paziente che una volta completata la terapia potrà tornare a casa. 3.5 Gli Hospice: centri residenziali per cure palliative Il termine hospice deriva dal nome di una istituzione molto diffusa in Europa nel periodo medievale e indicava luoghi di accoglienza gestiti da ordini religiosi, nei quali il pellegrino riceveva asilo, protezione e cure. Dagli inizi degli anni sessanta si sono sviluppate, dapprima in Gran Bretagna e poi in altre parti del mondo, iniziative che comprendono servizi di assistenza continua per malati di cancro in fase avanzata tramite ricoveri in hospice. Attualmente, gli hospice sono strutture residenziali dedicate al ricovero e alla degenza dei malati che necessitano di cure palliative. 46 Costituiscono l’ambiente di assistenza più adatto quando il malato necessita di cure che non possono più essere erogate al domicilio, quando l’impegno assistenziale diventa troppo difficile e gravoso per la famiglia, quando la sintomatologia correlata alla malattia risulta di difficile gestione a casa, oppure quando il malato vive in condizione abitative inadeguate e con scarsi aiuti familiari. La filosofia che caratterizza l’assistenza in hospice si basa sui principi delle Cure Palliative e prevede: un approccio olistico al malato (che affronta tutti i problemi: clinici, assistenziali, psicologici, emotivi, sociali, culturali e spirituali) realizzato da un’equipe multidisciplinare che cerca di garantire la maggiore qualità della vita del malato e del suo nucleo familiare; l’offerta di un sostegno a parenti, familiari e amici durante il periodo del ricovero e, in seguito, un supporto nelle fasi dell’elaborazione del lutto. L’Hospice garantisce assistenza specializzata, 24 ore su 24, in ambiente il più possibile simile a quello domestico. Le principali funzioni dell’hospice sono: ricovero per i pazienti per i quali non sussistano le condizioni necessarie all’assistenza domiciliare supporto alle famiglie per alleviare lo stress conseguente al prendersi in cura il proprio congiunto attività assistenziale di tipo diurno valutazione e monitoraggio delle cure palliative inefficaci in regime domiciliare. 47 Queste possono essere garantite attraverso: hospice extra-ospedaliero, funzionalmente autonomo e fisicamente separato dalla struttura ospedaliera. E’ caratterizzato dalle piccole dimensioni, dal basso contenuto tecnologico e sanitario e dall’elevato contenuto umano con interventi di sostegno psicologico, relazionale e spirituale. Tali strutture dovranno di norma essere allocate all’interno di strutture residenziali più ampie e complesse. hospice intra-ospedaliero (hospital hospice), collocato all’interno di una struttura ospedaliera e dotato di autonomia funzionale; questo modello consente la coesistenza di un’assistenza sanitaria avanzata e specializzata nel trattamento dei sintomi che accompagnano la fase terminale della malattia, con un approccio alla sofferenza globale del paziente ricco di contenuti umani. L’hospice intra-ospedaliero può essere suddiviso in: sezione a degenza breve, con un maggior contenuto sanitario destinato a brevi periodi di ricovero per trattamenti non eseguibili a domicilio e come supporto alle cure domiciliari o a quelle prestate attraverso gli hospice extra-ospedalieri; sezioni a degenza media/lunga che è simile all’hospice vero e proprio. 48 L’accoglienza nella struttura residenziale è vincolata alla necessità di trattamenti che non richiedono un ricovero presso l’unita oncologica ospedaliera e alla presenza di almeno una delle seguenti condizioni: assenza o non idoneità della famiglia a prendersi cura del paziente inadeguatezza della casa a trattamenti domiciliari impossibilità di controllare adeguatamente i sintomi a domicilio. 49 CAPITOLO QUARTO 50 4.1 Assistenza alla famiglia in previsione del lutto Un ulteriore problema evocato dalla malattia terminale riguarda l’elaborazione del lutto sia nel corso dell’assistenza quando i segni della malattia sono tangibili al punto tale che la prospettiva della morte e quindi della perdita della persona cara è presente (lutto anticipatorio), che quando effettivamente il paziente viene a mancare e la famiglia si trova a dover gestire la perdita. E’ questo uno degli aspetti più sottovalutato e trascurato dalla medicina e dagli interventi socio-assistenziali nonostante diverse ricerche abbiano dimostrato la sostanziale vulnerabilità psichica e fisica della persona di fronte al lutto. In tal senso appare ragionevole prevedere che l’aiuto fornito durante una malattia terminale non dovrà avere solo un momentaneo beneficio per il paziente e i parenti stretti, ma creare le condizioni tali, da permettere alla famiglia di poter successivamente affrontare il lutto con una reazione meno gravosa 4.2 Individuare ed educare il caregiver Assistere quotidianamente un malato di cancro è un impegno che comporta grandi sacrifici, sia dal punto di vista fisico che psicologico. Colui che assiste un malato ha assolutamente bisogno di aiuto nei compiti di assistenza pratica e di sostegno emotivo, per questo motivo un’adeguata assistenza da parte del personale infermieristico e medico costituisce una necessità per alleviare il carico del CAREGIVER. 51 Il volontario dovrebbe essere inserito come appoggio al familiare nell’assistenza domiciliare, e rappresenterebbe una risorsa da sfruttare avendo un potenziale impatto positivo nell’alleviare non solo il carico oggettivo ma anche quello soggettivo dei caregivers. 4.3 Comunicare e ricevere una diagnosi di cancro Le reazioni dell’individuo alla malattia sono diverse a seconda delle caratteristiche di quest’ultima, ovvero a seconda del tipo, della gravità e della durata. Il primo pensiero per chi riceve una diagnosi di cancro, anche in caso di una prognosi buona, continua ancora oggi ad essere: “Non mi rimane molto tempo da vivere". Questa idea è spesso dettata più dalla paura che la malattia evoca che dalla realtà, infatti in medicina esistono molte malattie che mettono a rischio la vita, come ad esempio: l’infarto, l’ictus, le malattie neurologiche degenerative; che tuttavia non spaventano così tanto il paziente. Anche l’atteggiamento psicologico dell’individuo influisce sul decorso della malattia conducendo a comportamenti che possono migliorare oppure peggiorare la condizione patologica. Una reazione psicologica depressiva alla malattia, attenua le difese immunitarie,il paziente ad altri attacchi morbosi: è di primaria importanza dunque interrogarsi su quali siano le reazioni psicologiche alla malattia e su che cosa si possa fare per renderle più positive. Una condizione di attivazione emotiva che merita particolare attenzione è l’ansia: essa infatti è una sorta di campanello d’allarme 52 che mette in allerta il nostro “IO”e ci aiuta ad affrontare al meglio la realtà. L’ansia, se limitata, svolge una funzione positiva. La malattia si configura innanzitutto come una minaccia che mette in pericolo sia l’identità psico-fisica dell’individuo che la sua vita relazionale. Di fronte ad una minaccia le reazioni sono sostanzialmente due: ATTACCO, nel tentativo di sconfiggere il pericolo; RINUNCIA ALLA LOTTA, in modo attivo. Questi atteggiamenti di fondo danno luogo a comportamenti complessi che, nel caso della rinuncia, possono andare fino al suicidio ed alla grave depressione. La minaccia più frequente che la malattia comporta è il DOLORE. La percezione del dolore varia notevolmente a seconda della personalità, della cultura e anche del sesso. 4.4 L’informazione al paziente oncologico L’informazione è uno strumento terapeutico che deve contribuire a ridurre l’incertezza del paziente, aumentare le capacità le capacità di controllo sulla malattia e a rafforzare la relazione medicopaziente. Le notizie fornite devono essere adottate al livello culturale del paziente, alla sua disponibilità a conoscere una realtà personale emotivamente impegnativa e devono essere sintonizzate al suo stato emozionale. 53 La LEGGE675/96 SULLA PRIVACY ha introdotto l’obbligo dell’informazione dell’interessato e la necessità di un consenso scritto per il trattamento dei dati che lo riguardano. Solitamente quando si comunica la diagnosi al paziente si evita di utilizzare il termine CANCRO, in quanto quest’ultima evoca l’idea di morte. La comunicazione della diagnosi può causare due diverse reazioni: alcuni dopo aver appreso la diagnosi sono increduli e chiedono subito un parere ad un altro medico; altri cercano di documentarsi autonomamente consultando libri, riviste mediche o internet. Questa ricerca solitaria può aiutare ad affrontare in termini più realistici la malattia, ma può accentuare la paura, il senso di isolamento e di smarrimento di fronte ad informazioni difficili da capire e spesso contraddittorie. Se i parenti decidono di voler proteggere il proprio congiunto, possono anche richiedere al medico di nascondere a verità, in questo caso il medico può accettare di mentire, oppure può decidere di spiegare ai familiari le ragioni che lo spiegano comunque a mettere al corrente il malato circa la sua situazione clinica. 4.5 Problemi psicologici del paziente oncologico La malattia oncologica è una minaccia esistenziale che avrà conseguenze sul ruolo lavorativo, sociale, familiare; inoltre potrà provocare trasformazioni fisiche tali da costituire una crisi per il paziente. 54 Questa crisi può sfociare in una fase di shock o in una fase di reazione. La fase di shock è immediatamente successiva alla diagnosi, ed è vissuta in genere come una catastrofe di fronte alla quale il paziente mette in atto meccanismi di difesa (come la negazione) che lo portano a dilazionare il confronto diretto con una realtà che non è pronto ad affrontare, è importante in questa fase rispettare i suoi tempi e il suo stato d'animo senza forzarlo ad affrontare la situazione; nella fase di reazione la realtà s'impone attraverso le procedure mediche e i trattamenti chemioterapici o radianti. L'impatto con la realtà suscita angoscia, rabbia, disperazione, amarezza e pertanto il paziente potrebbe mettere in atto meccanismi difensivi quali la difesa maniacale (non sono mai stato così bene), la regressione a comportamenti infantili, la proiezione (aggressività verso i medici e i propri cari a cui attribuisce la causa della malattia), l’isolamento delle emozioni dai fatti (parla della diagnosi con indifferenza). Sono questi meccanismi che, in altri contesti, farebbero pensare ad una struttura nevrotica o psicotica di personalità i cui livelli di ansia, rabbia e depressione sono indici della normale reazione del paziente nei confronti della malattia. 55 4.6 Reazioni psicologiche del paziente oncologico Esistono molti fattori che concorrono a determinare le reazioni psicologiche di una persona di fronte alla diagnosi di cancro: Fattori generali età sesso Fattori psico-sociali personalità grado di informazione del paziente circa la sua malattia ‘status quo’ con cui inizia l’iter della malattia condizioni sociali e livello culturale ambiente familiare rapporti con persone “significative” per il paziente Fattori medici tipo, sede e grado di malignità del tumore prognosi (sopravvivenza a breve, medio, lungo termine) decorso (presenza o meno di complicanze, dolori, ecc.) trattamenti terapeutici (chirurgici, chemioterapici, ecc.) Fattori assistenziali rapporto medico-paziente network assistenziale (medici, infermieri, psicologi) strutture logistiche assistenziali (casa, ospedale, DH, ecc.) A questo si aggiunge che una patologia così particolare mette a dura prova le capacità adattative del portatore, per cui né scaturisce 56 che alcuni pazienti sembrano adattarsi meglio degli altri alla malattia. Nonostante la specificità della reazione individuale, è possibile identificare delle risposte adattative statisticamente più frequenti, in relazione all’andamento clinico della malattia. Risulta perciò opportuno esaminare le reazioni psicologiche del paziente in rapporto alle diverse fasi della malattia: Fase precedente alla diagnosi (o fase del dubbio) Fase diagnostica Fase terapeutica 4.6.1 Fase precedente alla diagnosi (o fase del dubbio) Comprende l’arco di tempo che intercorre tra la rilevazione soggettiva dei sintomi premonitori da parte del paziente e quella della comunicazione di una diagnosi da parte del medico. A causa degli approfondimenti diagnostici e delle comunicazioni infraverbali, il paziente intuisce di avere qualcosa di grave e viene colto da una forte ansia. Quando il sospetto si palesa in qualcosa di probabile, scattano nel paziente, meccanismi di difesa connessi alla paura e all’angoscia per la morte. Un fenomeno abbastanza diffuso in questa fase è il cosiddetto “ritardo diagnostico”, infatti molti pazienti al posto di recarsi subito dal medico alla scoperta dei primi sintomi, ritardano la visita. 57 4.6.2 Fase diagnostica La formulazione di una diagnosi e l’eventuale comunicazione è uno dei momenti più difficile per l’equipe assistenziale, il paziente e la famiglia perché genera ansia in quanto viene vissuta come una sentenza liberatoria o di condanna. Generalmente la diagnosi viene data al paziente il quale poi decide e autorizza per un eventuale divulgazione dell’informazione ai familiari, oppure, può decidere eventualmente di far comunicare il suo stato di salute solo ed esclusivamente ai familiare, in quanto non riuscirebbe a sopportare un eventuale stato di malattia. Per molti pazienti essere informati della realtà diagnostica direttamente può significare che il medico ha fiducia in loro, anche se nella maggior parte dei casi la verità genera sempre un intenso stato di angoscia. Di fronte a una realtà così angosciante, spesso l’individuo pone in atto, anche se inconsciamente, delle strategie che tendono a proteggere il suo equilibrio e che gli consentono di attutire gradualmente l’evento traumatico. Uno dei meccanismi di difesa dei pazienti oncologici in questa fase è una sorte di negazione della realtà che tende a scomparire nel giro di qualche giorno per essere sostituita da altre strategie difensive che consentono la progressiva accettazione della realtà che stanno vivendo. Al termine di questa fase di negazione si assiste frequentemente a brusche e ingiustificate reazioni di collera che sottendono penosi interrogativi (es. perché proprio a me) che poi sfociano in una marcata depressione, sottesa dall’angosciosa paura di morire. 58 Accanto a questo tema cardine della depressione, si collocano altre paure legate ad ulteriori perdite (reali o presunte) che l’individuo dovrà subire (perdita della propria identità, degli affetti, del lavoro, ecc.) durante l’iter terapeutico. Insonnia, anoressia, perdita dei normali interessi, incapacità di concentrazione sono parte integrante della reazione depressiva che può trasformarsi in un quadro psicologico caratterizzato da manifestazioni autolesive che possono portare, nella fase avanzata della malattia, al suicidio. Nelle persone che ben si adattano, il superamento dello shock diagnostico avviene con lo sviluppo di una sorte di alleanza terapeutica con l’equipe assistenziale e con la programmazione del trattamento terapeutico stesso, poiché quest’ultimo implica una speranza di guarigione, per cui il paziente è fortemente motivato ad affrontare tutti i disagi ad esso correlati. Accanto a questa reazione, definita “normale”, c’è tutta una vasta gamma di reazioni disadattative che vanno dal rifiuto di ogni forma di assistenza ad una affannosa ricerca di una diagnosi meno angosciante e ad una irrazionale fiducia in ciarlatani e santoni. Naturalmente è sottointeso che la reazione del malato è determinata anche dal modo in cui viene data la comunicazione della diagnosi e del programma terapeutico. 4.6.3 Fase terapeutica Le tre forme di intervento terapeutiche più usate (chirurgica, radioterapica e chemioterapica) comportano specifiche reazioni psicologiche per il paziente, a cui bisogna aggiungere quelle 59 conseguenti all’ospedalizzazione in se stessa (come la separazione dalla famiglia, dal proprio ambiente, dal proprio ruolo) che vanno a rafforzare l’ansia e la depressione. E’ da tener presente che al paziente giova molto essere informato circa la malattia, la terapia, i modi di somministrazione, la sua finalità, ed eventuali effetti collaterali; infatti questo lo rendono meno ansioso e più collaborante. Per quanto riguarda la terapia chirurgica, bisogna tener presente che il paziente, nei confronti dell’intervento, di solito ha un atteggiamento ambivalente perché se da un lato lo considera come il fulcro della speranza, dall’altro lo considera pericoloso e mutilante. Infatti nella fase pre-operatoria per proteggere l’equilibrio psicologico del paziente, entrano automaticamente in atto strategie difensive, in particolare la razionalizzazione che giustifica l’utilità dell’intervento e ne sottolinea la funzione positiva (es. devo vivere perché ho ancora i figli da crescere). Nella fase post-operatoria invece tende ad emergere l’aspetto mutilante dell’intervento, infatti il paziente è costretto a prendere atto dell’effettiva entità della menomazione subita e in che misura intacca il suo aspetto esteriore. La perdita di una parte del proprio corpo porta a un successivo crollo dell’autostima che lo fanno precipitare in una profonda crisi che intacca l’equilibrio preesistente alla malattia e all’intervento. Per questo bisogna porre in atto tutte quelle strategie che possono aiutare il paziente ad accettare la perdita subita e reinvestire al massimo sulla normalità residua, in modo da poter collaborare attivamente al rimanente programma terapeutico al fine di giungere al 60 recupero di una vita il più normale possibile. Purtroppo spesso avviene un blocco con il sopraggiungere di una depressione reattiva sostenuta dal timore che le recidive e/o le metastasi fanno si che la malattia diventi persistente e invasiva. Di conseguenza l’individuo tende progressivamente ad autoisolarsi e a restringere l’ambito dei suoi interessi; questo si ripercuote negativamente sulle aree più significative della sua esistenza (famiglia, lavoro, sesso, ecc.). I fattori che possono aiutare il paziente ad avvicinarsi all’intervento con maggior serenità sono: una adeguata informazione pre-oparatoria, un rapporto di fiducia con il chirurgo, tempi di attesa non troppo lunghi, l’incontro con persone che hanno già subito e positivamente superato, anche sul piano psicologico e sociale, un intervento simile (a tale scopo in molte nazioni si sono costituiti associazioni e comitati). Nel caso di interventi che compromettono l’integrità sessuale, sembra utile il coinvolgimento del partner già nella fase preoperatoria, visto che anche per lui è necessario un certo periodo per elaborare la nuova situazione e per adattarsi ad essa. Per quando riguarda la radioterapia, è da tener presente che il trattamento scatena nel paziente reazioni ansiose e depressive prima e dopo il ciclo. Per attenuare questo stato ansioso è opportuno spiegare al paziente il tipo di terapia, le modalità delle applicazioni e gli eventuali 61 effetti collaterali che essa comporta, soffermandosi sul fatto che essi sono temporanei e in buona parte controllabili. Per quando riguarda la chemioterapia vale lo stesso discorso rassicurativo della radioterapia, infatti una buona informazione e un buon rapporto con l’oncologo sono la premessa indispensabile per sgombrare il campo da interpretazioni errate o parziali e per affrontare le difficoltà e i disagi che la terapia stessa comporta. Un altro aspetto della chemioterapia da non sottovalutare per le sue ripercussioni psicologiche è l’uso sperimentale dei farmaci; per questo è importante la richiesta del consenso scritto da parte del paziente e la convinzione che il medico deve trasmettergli che il nuovo farmaco, anche se non completamente sperimentato, ha delle buone probabilità di essere efficace (in modo da non farlo sentire una cavia). Non è infrequente che il malato accetti di sottoporsi ad un trattamento sperimentale nella speranza che tutto ciò che si acquisisce, anche se non gioverà a lui direttamente, potrà essere utile a qualcuno altro. 4.6.4 Fase della remissione e della guarigione Quando la terapia da risultati positivi, il paziente diventa più ottimista e meno angosciato circa il suo futuro, anche se deve ancora affrontare i disagi della terapia a cui è sottoposto; egli si sente incoraggiato per essere riuscito a superare i momenti più critici della malattia. La fase della remissione rappresenta dopo lo shock iniziale la fase nella quale si accendono speranze di guarigione e si allontana lo 62 spettro della morte, ed è a questo punto che la riabilitazione fisica e psicologica ha un’enorme importanza, anche se permane la necessità per il paziente di verificare se è realmente guarito, infatti l’ansia relativa a possibili recidive o a metastasi, che aumenta fortemente ad ogni check up, tende a decrescere con il passare degli anni ma non a scomparire totalmente. 4.6.5 Fase della progressione della malattia La comparsa di recidive o di metastasi portano di nuovo il paziente all’iniziale sconforto perché, percependo il fallimento della terapia, si riapre in lui quel senso di ingiustizia, di impotenza e di perdita di controllo della situazione. La decadenza fisica, il dolore, l’incapacità a svolgere i propri compiti familiari e lavorativi, l’impotenza a combattere la malattia (che progredisce in modo incontrollabile) concorrono a rafforzare lo stato depressivo che si era instaurato. Le reazioni psicologiche scatenate da questi problemi se affrontate con l’aiuto di personale comprensivo ed esperto possono essere meno eclatanti così da ottenere un progressivo adattamento, infatti alcuni soggetti portatori di neoplasie incurabili riescono ad adattarsi alla nuova situazione e a riorganizzare la propria vita. 4.6.6Fase terminale In questa fase il paziente diventa, solitamente, incapace di autonomia ed appare sempre più debole, magro e sofferente, per cui non ha più bisogno di essere incoraggiato o rassicurato, ma gli giova essere aiutato ad esternare tutto il suo dolore e a distaccarsi gradualmente dalle persone a lui care. 63 E’ attraverso un rapporto empatico che l’infermiere istaura col paziente, che questo, si sentirà meno abbandonato alla sua solitudine e alla sua sofferenza. 4.7 Relazione di aiuto fra l’infermiere, il paziente e la famiglia Di fronte ai problemi e alle reazioni psicologiche che affliggono il paziente oncologico la psicologia può offrire il suo contributo analizzando le possibili interazioni tra gli stati mentali dei soggetti (equipe assistenziale, paziente e familiari) e le possibili patologie sul loro nascere e sul loro divenire, seconda una prospettiva trattamentale atta ad accompagnare il paziente e le persone che lo circondano in un percorso doloroso e intriso di cambiamenti. Il trattamento comprende diversi modelli di intervento psicoterapeutico: incoraggiare il paziente a verbalizzare i pensieri e i sentimenti negativi relativi alla propria malattia chiarire l'influenza di eventuali esperienze precedenti sulla reazione attuale del paziente di fronte alla diagnosi di cancro valutare il peso psichico aggiuntivo e la necessità di trattare le situazioni stressanti concomitanti ed indipendenti dalla malattia (ad esempio licenziamenti) aiutare il paziente ad affrontare l'incertezza del futuro e le tematiche esistenziali generalmente associate alla diagnosi di neoplasia maligna chiarire ed interpretare comportamenti ed emozioni disadattive relative al cancro 64 favorire la comunicazione tra i membri della famiglia aiutare il paziente e i familiari a trovare soluzioni alternative ai problemi pratici posti dalla malattia e dal trattamento. Considerando la famiglia come un "organismo" dotato di una propria omeostasi, bisogna guardare la neoplasia con un’ottica diversa della "semplice" malattia fisica del paziente, perché questa è anche la causa della rottura di quei legami e quei rapporti familiari che prima erano stabili. Anche la famiglia, come il paziente, sperimenta nel corso della malattia tutta una serie di emozioni (paura, rabbia, ansia, impotenza, depressione) che sono del tutto normali e comprensibili. L’intensità di queste emozioni assume spesso un valore negativo agli occhi dei familiari spingendoli a reprimere, negare, anestetizzare le proprie e le altrui emozioni; questo controllo emozionale si traduce, spesso, in un incremento del reciproco senso di solitudine che porta all’aumento della distanza emotiva all’interno della famiglia stessa. La famiglia può andare incontro ad un ipercoinvolgimento, in questo caso tende ad essere iperprotettiva e invadente nei confronti del malato e dello staff assistenziale; o a mostrare scarsa partecipazione e disinteresse dei problemi del congiunto malato. Una struttura famigliare ottimale dovrebbe presentare delle caratteristiche di coesione ed intimità, espressione aperta alle emozioni, mancanza di conflitti importanti; ciò che crea, nel corso della sua esperienza, una propria convinzione e modalità di risposta agli eventi e quindi determina la storia della famiglia stessa. 65 La situazione è più complicata se la storia familiare è costellata da lutti per cancro, poiché risulterà più difficile la gestione delle problematiche e dei cambiamenti legati alla malattia stessa. Naturalmente, le variabili culturali (popolazione d'origine, costumi, tradizioni e religione) influenzano lo stile comunicativo all'interno della famiglia, l'adattamento alla malattia, la relazione con lo staff e con le istituzioni. Il supporto che il paziente e i familiari ricevono dalle strutture oncologiche e dai servizi sanitari rappresenta una variabile importante nel rapporto tra staff, paziente e famiglia al punto tale che va ad influenzare il significato affettivo, informativo e pratico che assume la relazione che intercorre tra essi. Spesso, le strutture sanitarie pongono poca attenzione alla famiglia del paziente che viene posta su un secondo piano perchè considerata come ostacolo al trattamento; dal canto suo, questa non si rassegna al fatto di doversi tenere in disparte mentre la struttura si prende in pieno carico il congiunto per cui entrano in conflitto. Altre volte, l'operatore tendeva comunicare con i familiari spesso in maniera segreta quasi a definire un campo neutro. In questo modo, il paziente può fraintendere i messaggi che riceve al punto tale di sentirsi ingannato, incompreso dallo staff e dai familiari con uno scarso grado di controllo degli eventi e di collaborazione. Successivamente, nella fase terminale della malattia, la famiglia assume un ruolo marginale dal momento che deve limitarsi ad attendere solo l'evento finale senza poter far nulla, per cui il coinvolgimento della famiglia dovrebbe basarsi sul presupposto che 66 essa rappresenta, in questa occasione, un potente strumento "terapeutico" se opportunamente aiutata a superare le difficoltà che si presentano senza essere abbandonata a sé stessa. Infatti, il confronto con più figure sanitarie (oncologi, infermieri, chirurghi) può aumentare, nei familiari, la sensazione di essere avvolti in un sistema a rete che li protegge e li sostiene in questa battaglia “già persa”. Tenendo presente questi aspetti, l’intervento dell’infermiere può concretizzarsi nella possibilità di offrire al paziente e alla famiglia: sostegno e valorizzazione alle risorse familiari contenimento delle sofferenze e dello stress intrapersonale e interpersonale creazione di uno spazio di comunicazione tra familiari e l’equipe, e tra i familiari e il paziente ascolto e informazioni rispetto alle decisioni da prendere in ordine ai diversi problemi che si presentano durante tutto l’iter della malattia Preparazione e aiuto nella fase dell’elaborazione del lutto. Uno dei compiti più difficili per l'operatore è mantenere un punto di vista esterno in modo da potersi rendere conto delle reazioni della famiglia e dello staff stesso rispetto alla malattia e al malato. A tale scopo è determinante che lo staff sia integrato e multifunzionale: è importante definire in maniera chiara i modi di comunicare col paziente e con l'intera famiglia, identificando all'interno di questa ultima una figura chiave con cui si "intermedierà" l'approccio terapeutico, le procedure d'intervento (suddividendole secondo criteri e modalità tecniche) e tutto quanto interesserà il 67 paziente e la malattia. Quindi l’equipe assistenziale deve: Informare chiaramente i pazienti e i familiari ( secondo le indicazioni ricevute dal paziente all’atto del ricovero nel rispetto della normativa vigente in materia di privacy) Identificare figure a cui ci si possa rivolgere per domande e chiarimenti Coinvolgere la famiglia nella cura del paziente Essere realista differenziando desideri e speranze Preparare i familiari a realizzare la perdita in caso di diagnosi maligna e, ad identificare i sentimenti ed esprimerli Abituare i familiari a vivere senza il congiunto in modo da evitare che si chiudono in sé stessi Interpretare i comportamenti del familiare, di fronte alla malattia, come reazione normale Far comprendere alla famiglia che ciascuno reagisce a modo proprio di fronte alla malattia; Supportare tutti in maniera continuata Valutare i meccanismi difensivi dei familiari Identificare eventuali problemi e disturbi conseguenti al lutto. 4.8 L’ équipe assistenziale difronte al tema “morte” Il confronto con il tema della morte è un'esperienza centrale per chi lavora in oncologia, questo contribuisce a far sì che gli operatori sanitari (compresi gli infermieri) siano soggetti a rischio di una particolare forma di stress lavorativo, burnout, tipica delle cosiddette 68 professioni di aiuto. Ciò deriva dal fatto che spesso risulta particolarmente penoso per il personale sanitario: comunicare una diagnosi di cancro assistere i pazienti durante l’iter terapeutico o in fase terminale aiutare i familiari ad essere di supporto per il paziente confrontarsi con le trasformazioni e il deterioramento psicofisico di chi si è conosciuto prima che la malattia intaccasse la sua totale integrità. Comportamenti quali risposte evasive alla richiesta di dialogo da parte del paziente, bugie palesi sulla diagnosi, freddezza e cinismo nella relazione possono manifestare il desiderio di difendersi dal rischio di una immedesimazione con i problemi del paziente stesso; va poi sottolineato come i soggetti più giovani riferiscano di sentirsi maggiormente colpiti dal problema della malattia terminale, esprimendo nel complesso una maggiore difficoltà nel gestire il contatto con un paziente destinato a morire. Ciò sottolinea la necessità di riconsiderare seriamente il problema della formazione dei medici e degli infermieri e la creazione di strumenti di supporto per il personale più giovane, anche perché indagini recenti hanno evidenziato che le domande più frequenti di formazione attuate dal personale curante riguardano una richiesta di aiuto personale per poter rapportarsi con il paziente nei momenti critici quali la comunicazione della diagnosi di cancro, della fase terminale; e ai familiari la prospettiva del lutto. Per questi motivi, oggi, nei corsi di laurea e di specializzazione 69 sanitarie vengono trattati anche gli aspetti psicologici nella cura delle malattie terminali, per dare agli operatori sanitari una conoscenza generale della dinamica psicologica ed una capacità di gestire le relazioni con questi pazienti e con i loro familiari. Da ricordare che grandi passi in merito sono stati fatti dal 1965 in poi, quando la psichiatra Kubler-Ross cercò di organizzare il primo seminario sulla morte e sull’esperienza del morire rivolto ai medici, allora parve una proposta "sconcertante". Oggi invece è ampiamente riconosciuto il bisogno di training specifici e di conoscenze psicologiche di base per chi lavora con pazienti malati di cancro, e vari autori hanno sottolineato come la mancanza di una formazione psicologica adeguata possa indurre il personale sanitario a reazioni difensive nell'impatto con il malato e con i familiari. Va sottolineato che questi training, non hanno l’obiettivo di far diventare psicologi gli oncologi o gli infermieri ma di fornire loro un aiuto concreto, di cui anche il paziente trarrà benefici. Quindi sullo staff che lavora in ambito oncologico si può intervenire con: criteri di selezione del personale training formativi in psico-oncologia interventi formativi per medici ed infermieri (seminari, workshop, gruppi di supporto). I possibili criteri di selezione del personale in oncologia riguardano procedure utilizzate in altri settori, anche se generalmente non è prevista nel campo della sanità per molteplici cause: abilità cognitive interpersonali (saper percepire il punto di vista 70 altrui, empatia, cordialità) e capacità tecniche una personalità che favorisca l'adattamento di fronte a situazioni stressanti di lavoro (alta affidabilità con impegno e senso di responsabilità il lavoro) buon sistema di supporto sociale (relazioni sociali valide, interessi vari) buon adattamento nei confronti di esperienze precedenti in cui si è già avuto a che fare con la morte. 71 CONCLUSIONI 72 Il processo di formazione dell’infermiere modificatosi nel tempo, ha dato luogo ad una figura professionale capace di offrire un assistenza più qualificata. L’infermiere al fine di offrire un’ assistenza individualizzata al paziente oncologico, deve riesaminare il proprio approccio assistenziale, trasformando il suo operato in un nursing autonomo basato sui bisogni del malato, ma ciò conduce ad una maggiore responsabilità, autonomia e controllo gestionale ed educativo. Il progresso in campo tecnologico e scientifico ha agito in maniera positiva, promuovendo l’importanza del ruolo che l’infermiere riveste nella cura del paziente, ciò emerge in maniera particolare anche perché, spesso i ruoli del medico e dell’infermiere finiscono per integrarsi in maniera tale da influenzare la rapidità, l’efficacia e l’efficienza dell’intervento. L’infermiere in oncologia riveste un ruolo fondamentale, deve saper essere vicino e comunicativo al paziente senza pretendere di sfuggire alla realtà, ovvero deve INSTAURARE UN RAPPORTO DI LEALTÀ. L’atteggiamento dovrà essere empatico, cioè di comprensione e di partecipazione ai problemi del malato, mantenendo undistacco emotivo. Vorrei concludere questo lavoro sottolineando che, raggiungere gli obiettivi che una assistenza infermieristica a 360 ° richiede, significa aver dedicato al paziente il massimo delle risorse personali e di tutta l’équipe, nonché la consapevolezza di aver assistito la persona in tutta la sua integrità psico-fisica. 73 BIBLIOGRAFIA 74 Andreoni Bruno.(Maggio 2002). Assistenza domiciliare integrata. Ed. Masson. Apolone G. e Corli O. (2009). Il dolore nel paziente con cancro. Selecta Medica, Pavia. Carpinelli Ivana, Canepa Maurizio, Bettini Paola, Viale Maurizio (2002). Oncologia e cure palliative. Ed. Mc Graw-Hill. Carpineta S.(1992). La comunicazione infermiere-paziente.NIS, Roma. Castello Amanda, La cultura dell’accompagnamento del malato in fase terminale, in Nursing oggi, periodico trimestrale di cultura infermieristica, Lauri Edizione. 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