il paziente oncologico in fase terminale

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “ FEDERICO II ”
SCUOLA DI MEDICINA E CHIRURGIA
CORSO DI LAUREA IN INFERMIERISTICA
SEDE DIDATTICA ASL Salerno
Polo Di Nocera Inferiore
Tesi di Laurea
IL PAZIENTE ONCOLOGICO IN FASE
TERMINALE: IL RUOLO DELL’INFERMIERE
DAL “TO CURE” AL “TO CARE”
(AREA FORMATIVA: INFERMIERISTICA)
RELATORE
CANDIDATA
Dott.ssa Michelina Baldi
Valentina Corrado
Matr.597003390
ANNO ACCADEMICO 2012/2013
1
“Io sono un viaggiatore in viaggio da questa vita
alla prossima e in questo viaggio ho bisogno
di un luogo in cui sia benvenuto, curato
e assistito e possa essere me stesso”
(N. Hedlock)
2
INDICE
3
INTRODUZIONE
Pag. 7
CAPITOLO PRIMO
1.1 Definizione e cenni legislativi
Pag. 11
1.2 Sintomi riscontrabili nel paziente oncologico
Pag. 13
1.2.1 Area fisica
Pag. 13
1.2.2 Area psicologica
Pag. 16
1.2.3 Area sociale
Pag. 19
1.2.4 Area spirituale
Pag. 20
1.3 La fatigue
Pag. 20
CAPITOLO SECONDO
2.1 Che cos’è il dolore
Pag. 24
2.2 Il dolore oncologico
Pag. 25
2.3 Sistemi di valutazione
Pag. 25
2.4 Terapia del dolore: Legge 38 del 2010
Pag. 33
CAPITOLO TERZO
3.1 Cure palliative
Pag. 38
3.2 Dipartimento oncologico
Pag. 39
3.3 Assistenza oncologica domiciliare
Pag. 40
3.4 Day hospital oncologico
Pag. 44
3.5 Gli Hospice: centri residenziali per le cure palliative
Pag. 46
4
CAPITOLO QUARTO
4.1 Assistenza alla famiglia in previsione del lutto
Pag. 51
4.2 Individuare ed educare il caregiver
Pag. 51
4.3 Comunicare e ricevere una diagnosi di cancro
Pag. 52
4.4 L’informazione al paziente oncologico
Pag. 53
4.5 Problemi psicologici del paziente oncologico
Pag. 54
4.6 Reazioni psicologiche del paziente oncologico
Pag. 56
4.6.1 Fase precedente alla diagnosi (o fase del dubbio)
Pag. 57
4.6.2 Fase diagnostica
Pag. 58
4.6.3 Fase terapeutica
Pag. 59
4.6.4 Fase della remissione e della guarigione
Pag. 62
4.6.5 Fase della progressione della malattia
Pag. 63
4.6.6 Fase terminale
Pag. 63
4.7 Relazione di aiuto fra l’infermiere, il paziente e la
famiglia
Pag. 64
4.8 L’équipe assistenziale di fronte al tema “morte”
Pag. 68
CONCLUSIONI
Pag. 73
BIBLIOGRAFIA
Pag. 75
5
INTRODUZIONE
6
Il CANCRO è uno dei principali problemi sanitari che affligge
ancora oggi la nostra società, malgrado i grandi e continui progressi
nel campo della ricerca e della terapia.
È da tener presente che il cancro oggi rappresenta la seconda
causa di morte dopo le malattie cardiovascolari.
Nell’assistenza del paziente oncologico giocano un ruolo molto
importante:
 la giusta preparazione e la continua formazione dell’infermiere
che gli consenta in primo luogo di riconoscere i principali
sintomi e segni della patologia, e in secondo momento di avere
le basi scientifiche, cultuali e professionali per un’assistenza
specifica;
 il saper valutare il dolore attraverso le giuste metodiche al fine
di agire con un’adeguata terapia;
 l’attivazione della rete delle
cure palliative attraverso
l’assistenza ospedaliera, domiciliare, il DH oncologico o gli
Hospice allo scopo di migliorare la qualità di vita del paziente
oncologico in fase terminale;
 il fornire al paziente un supporto psicologico in quanto la
diagnosi di tumore scatena sempre una serie di reazioni
negative.
La gestione di un paziente oncologico in fase terminale risulta
essere complessa, in quanto bisogna far fronte non solo ai bisogni del
paziente per quanto riguarda la sfera palliativa, ma bisogna prestare
un’assistenza ben più complessa che vede impegnato l’infermiere
anche e soprattutto in un’attivitàdi supporto psicologico per il paziente
in primis e per la famiglia.
7
Nel processo di nursing è di basilare importanza l’osservazione
dei segni e sintomi del paziente, al fine di rendere possibile un
intervento tempestivo ed efficace.
Di fondamentale importanza in tali circostanze, risulta essere la
rilevazione del dolore, che avviene mediante l’utilizzo di apposite
metodiche che prendono il nome di “scale del dolore”.
Dal momento che ci troviamo di fronte ad un paziente terminale
è bene chiarire il concetto di terminalità: il malato terminale è una
persona incurabile e cioè la sua malattia non è risolvibile dalla
medicina convenzionale, però come è già stato evidenziato in
precedenza, va comunque garantita l’assistenza di base ai bisogni
della persona per preservare livelli di qualità di vita accettabili anche
in questa fase.
I pazienti terminali vengono sottoposti a cure palliative, che
l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce come: La
cura o meglio l’assistenza (care) attiva, globale di quei pazienti la cui
malattia non risponde più ai trattamenti curativi.
Si può essere beneficiari di tali trattamenti presso il proprio
domicilio attraverso l’assistenza domiciliare, oppure presso reparti
oncologici ospedalieri, DH oncologici e Hospice, per garantire le cure
più appropriate.
Nell’effettuazione delle cure palliative, la nostra attenzione non
è focalizzata sulla quantità ma sulla qualità della vita del paziente, così
come garantisce la recente Legge 38/2010 in materia di cure palliative
e terapia del dolore.
8
Infine, altro momento importante dell’assistenza che si presta al
paziente in fase di terminalità è rappresentato dal fine vita e dalla
comunicazione di avvenuto decesso ai familiari, in quanti in questa
fase l’infermiere è deputato a fornire supporto psicologico ai familiari,
ma deve cercare di mantenere un certo distacco dalla situazione, nel
caso in cui rammenta loro qualche situazione personale.
9
CAPITOLO PRIMO
10
1.1Definizione e accenni legislativi
Un malato si definisce in fase terminale quando affetto da una
patologia cronica evolutiva in fase avanzata, per la quale non ci siano
più trattamenti volti alla guarigione, alla stabilizzazione della malattia
né ad un prolungamento significativo della vita.
Caratteristiche, dunque, comuni a questa tipologia di pazienti
sono l’inguaribilità, la gravità e la scarsa prospettiva di vita ma non
sono queste a mettere fine al nostro lavoro.
Occorre pertanto un cambio di prospettiva passando dal rigido
concetto del “curare la malattia” al “prendersi cura” del malato in
quanto persona e, assieme a lui, prendersi cura dei suoi cari.
La cura è un fenomeno fondamentale della vita umana e,
l’uomo, è per natura preposto alla cura di sé e degli altri.
Nell’ambito delle attività assistenziali distinguiamo due concetti
fondamentali della “ cura” : TO CURE e TO CARE.
Il “TO CURE”(=curare) riguarda la malattia in senso organico,
ossia, il principio è quello di curare la malattia e/o l’organo malato,
invece,
il
“TO
CARE”
(=prendersi
cura),
riguarda
l’aspettobibliografico della malattia come “vissuto” dell’uomo.
Il prendersi cura è una pratica relazionale di scambio
comunicativo, verbale e non, volta a :
 ripristinare una situazione precedente
 lenire le sofferenze
 sostenere e rispettare, nella relazione terapeutica, la capacità di
autodeterminazione degli assistiti
 agevolare una trasformazione evolutiva, una crescita
 evitare la dissoluzione dell’identità.
11
Tale concetto congiunge conoscenze scientifiche, competenze
tecniche e interesse umano per la persona malata.
Il concetto di “prendersi cura” mette in evidenza alcuni principi:
 CENTRALITÀ della persona assistita
 DISPONIBILITÀ e impegno verso gli altri
 EMPATIA, capacità di ascolto.
Questi principi sono alla base della professione infermieristica
e ben esplicitati nel Profilo Professionale che definisce l’assistenza
infermieristica come “preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa”.
Li vediamo inoltre riportati nel testo del “ Patto InfermiereCittadino” nel quale il professionista si impegna a stare vicino al
paziente quando soffre, quando ha paura, quando la medicina e la
tecnica non bastano.
Analizzando, infine, il Codice Deontologico1 dell’infermiere
possiamo notare che in diversi articoli, orienta il nostro operato al “to
care” (prendersi cura) piuttosto che al “to cure” (guarire), infatti:
 Art.6: L’infermiere riconosce la salute come bene fondamentale
della persona e interesse della collettività e si impegna a
tutelarla con attività di prevenzione, cura, riabilitazione e
palliazione.
 Art. 35: L’infermiere presta assistenza qualunque sia la
condizione clinica e fino al termine della vita dell’assistito,
riconoscendo l’importanza della palliazione e del conforto
ambientale, fisico, psicologico, relazionale e spirituale.
 Art. 36: L’infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei
limiti agli interventi che non siano proporzionati alla sua
1
Codice Deontologico degli Infermieri italiani, confederazione italiana Ipasvi, febbraio 2009
12
condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa
della qualità di vita.
 Art. 39: L’infermiere sostiene i familiari e le persone di
riferimento dell’assistito, in particolare nella evoluzione
terminale della malattia e nel momento della perdita e della
elaborazione del lutto.
Per cui, davanti una persona sofferente, affetta da una malattia
inguaribile, che porta con sé sintomi devastanti sia per quanto riguarda
la sfera fisica sia quella psicologica, sociale e spirituale, una persona
che merita di essere accolta, ascoltata, capita e aiutata nel proprio
doloroso percorso verso la fine della vita, è doveroso essere i più
professionali possibili, utilizzando tutte le conoscenze, le competenze
e le tecniche infermieristiche più adeguate riguardo alla valutazione
dei i sintomi e dei bisogni assistenziali, senza mai trascurare le paure,
le ansie e le angosce di questi pazienti e delle loro famiglie.
1.2 Sintomi riscontrabili nel paziente oncologico
1.2.1 Area fisica
L’identificazione dei sintomi presenti e il loro controllo
attraverso un'adeguata terapia farmacologica sintomatica è il primo
obiettivo delle cure palliative.
I sintomi fisici più frequenti che si riscontrano nel malato
oncologico terminale sono:
 DOLORE
Il dolore è il sintomo più disarmante che toglie ogni voglia di
essere impedendo anche le attività fisiche più semplici, tenuto conto
13
che l’esperienza del dolore da cancro è influenzata da fattori sia fisici
sia psicosociali.
Per molte persone il dolore è un segnale della continua
progressione della malattia e dell’imminenza della morte, e quando la
previsione e la paura della sofferenza aumentano, la percezione del
dolore si intensifica e causa ulteriore paura e ulteriore dolore.
Il dolore cronico da cancro può essere perciò descritto come una
progressione circolare che passa dalla sensazione di dolore all’ansia,
alla paura e di nuovo al dolore .
 PROBLEMI LEGATI ALL’ALIMENTAZIONE
Il malato oncologico grave ha spesso gravi problemi legati
all’alimentazione correlati alla presenza di questi disturbi:
 inappetenza;
 nausea e vomito i quali possono essere correlati a
trattamento chemioterapico, alla somministrazione della
morfina,
a
patologie
ostruttive
dell’apparato
gastrointestinale, al coinvolgimento del SNC o alla
disidratazione;
 problemi del cavo orale, spesso legati al trattamento con
chemioterapici,
a
trattamento
radioterapico
o
somministrazione di corticosteroidi;
 alterazioni del gusto quali disgeusie, ipogeusie e ageusie
(rispettivamentealterazione, riduzione e assenza della
sensibilità gustativa).
 PROBLEMI LEGATI ALLA RESPIRAZIONE
Con molta frequenza il paziente terminale presenta tosse,
sensazione di fame d’aria, difficoltà alla ventilazione e dispnea.
14
La dispnea, sintomo altamente invalidante nel paziente
terminale, è una sensazione soggettiva angosciante di mancanza di
respiro il cui grado può essere descritto solo dal paziente: essa non
sempre è correlata ad alterazioni del quadro diagnostico ma può essere
determinata da uno stato di disagio psicologico, ansia o crisi di panico.
In ogni caso per il paziente è molto difficile convivere con
questo sintomo dato che la sensazione di mancanza d’aria è
strettamente collegata all’idea di morte; molto spesso, infatti, il
paziente affetto da dispnea non dorme di notte quando l’angoscia del
morire si fa più pressante.
Il trattamento della dispnea prevederà allora non solo un
intervento farmacologico e ossigenoterapia ma anche interventi di
counselling: sarà compito dell’infermiere prestare attenzione a ciò che
scatena o aumenta la dispnea ed in questo è essenziale l’ascolto e
l’osservazione, nonché la conoscenza dei fattori scatenanti quali
cambiamenti posturali, movimenti, parlare, per poter prontamente
individuarli e rimuoverli.
 PROBLEMI LEGATI ALL’ALVO
Sintomo molto frequente nelle patologie neoplastiche è la stipsi
che può essere di natura ostruttiva dovuta alla presenza di massa
tumorale, di natura farmacologica per la somministrazione di alcuni
chemioterapici, tossici a livello del sistema nervoso autonomo, o di
oppioidi i quali riducono il tono e la motilità intestinale, pertanto è
necessario valutare che cosa determina la stipsi per poter intervenire.
L’infermiere educa il paziente ad una corretta alimentazione
ricca di fibre ed interviene con la somministrazione di farmaci
15
specifici secondo prescrizione, il tutto osservando ed educando il
paziente a corrette abitudini quotidiane.
 DISTURBI DELLA VIGILANZA
L’alterazione del ritmo sonno/veglia è piuttosto comune nei
malati oncologici.
Si può assistere ad insonnia notturna che è possibile sia
determinata dall’assunzione di alcuni farmaci quali i chemioterapici,
gli antidepressivi,
i farmaci steroidei o alcune terapie ormonali;
talvolta è presente una sonnolenza diurna correlata all’assunzione di
oppioidi.
L’infermiere valuta quanto i disturbi del sonno siano invalidanti
per il paziente e mette in atto accorgimenti volti a garantire un
adeguato riposo del paziente, si assicura che questi abbia un
microclima adeguato e, eventualmente, lo rassicura riguardo le paure
che determinano l’insonnia dandogli la certezza di non essere solo
anche se è notte.
1.2.2 Area psicologica
Dopo la scoperta di essere affetti da una grave malattia il malato
tende a percepire il proprio corpo come fonte di sofferenza e di
insicurezza.
La profonda preoccupazione, lo sconforto e la depressione sono
sentimenti che vengono amplificati quando c’è la consapevolezza
dell’inguaribilità.
Ogni paziente è un’entità unica che mette in atto determinati
meccanismi di difesa come reazione alla propria malattia e alla propria
morte.
16
Elisabeth Kubler-Ross, medico psichiatra e docente di Medicina
Comportamentale, descrisse una serie di stadi attraverso i quali si
svolge la reazione alla diagnosi di terminalità.
Tale modello prevede cinque fasi, che quasi tutti i pazienti
toccano, ma che, come precisato dalla stessa autrice, non devono
essere lette in rigida forma sequenziale:
 negazione: il malato non accetta la malattia e si dà risposte del
tipo “non è possibile”, “non posso essere io”, “si sono
sbagliati”.
 rabbia: fase in cui predominano i sentimenti di ribellione,
invidia, risentimento, e la ripetizione continua della stessa
domanda “perché proprio a me?”. Questa è considerata la fase
più difficile ed impegnativa, sia per il personale di assistenza
che per i familiari, poiché il morente scaglia sentimenti ed
emozioni su tutto e tutti. L’unico intervento adottabile,
suggerisce Kubler-Ross, è quello di non intervenire, ma lasciare
al paziente il tempo necessario all’elaborazione del lutto,
all’accettazione di ciò che sta accadendo.
 patteggiamento: viene considerato come una falsa speranza di
poter rimandare oltre il tragico evento pensando che la terapia
proposta potrebbe permettergli la guarigione o almeno
allungargli la vita.
 depressione: il paziente si rende completamente cosciente del
progredire della malattia e del progressivo deterioramento delle
sue condizioni cliniche per cui si abbandona alla depressione.
17
 accettazione: il paziente giunge alla completa consapevolezza
del suo divenire e di fronte alla realtà della morte accetta talora
in modo passivo, talora in modo più coraggioso il suo morire.
La conoscenza delle dinamiche psicologiche che i pazienti
attraversano negli ultimi mesi della loro vita è importante perché ci
permette di trovare lo spazio per ogni scopo terapeutico e cercare di
curare la morte.
Accanto alle dinamiche che il paziente vive è importante
conoscere anche i bisogni e le paure che il paziente prova per
garantirgli un’assistenza di qualità.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 1990 ha
identificato i bisogni del paziente in cure palliative:
 bisogno di sicurezza: spesso con la sospensione delle cure che
erano volte alla guarigione il paziente avverte il timore di essere
abbandonato a se stesso;
 bisogno di amore: è minato molte volte dal fatto che il paziente
e il familiare non hanno lo stesso livello di consapevolezza,
cosa che rende la relazione meno vera;
 bisogno di comprensione: poter essere capiti e di conseguenza
sapere di potere esprimere domande e dubbi con la certezza i
essere ascoltati realmente;
 bisogno di fiducia: sapere che potrà contare sulla reale
disponibilità del personale che lo circonda e che non lo
abbandonerà;
 bisogno di accettazione: di essere riconosciuti nella propria
dignità, anche quando incominciano a farsi evidenti i sintomi
del decadimento fisico;
18
 bisogno di autostima: può essere soddisfatto mantenendo il
ruolo decisionale del paziente attivo;
Sarà inoltre importante conoscere le paure riscontrabili nei
morenti generalizzabili inqueste categorie:
 paura del dolore (che possa diventare incontrollabile)
 paura di morire
 paura di perdere il controllo mentale o fisico
 paura di essere respinti o perdere il proprio ruolo in famiglia
 preoccupazione di sentirsi un peso eccessivo per la famiglia
Ogni persona è un’entità unica e queste nozioni servono solo da
guida per conoscere i pazienti ai quali prestiamo cura e per orientare le
attività di nursing.
Naturalmente non esistono situazioni preconfezionate ma
esistono solo delle persone uniche ed irripetibili con la loro storia, i
loro dolori, le loro sofferenze che ci mettono in mano la loro vita, o
quel che ne rimane, perché possiamo trasformarla al massimo delle
loro aspettative.
La nostra attenzione, pertanto, non è focalizzata sulla quantità
ma sulla qualità della loro vita.
1.2.3Area sociale
La terminalità di una malattia determina, prima o poi, la perdita
del proprio ruolo all’interno della società, la sensazione di inutilità
rispetto alla propria famiglia e la chiusura in se stessi.
19
Occuparsi di questi aspetti da parte dell’equipe curante non è
sempre facile, è necessario saper “tendere la mano” senza invadere
l’ambito personale.
Confrontarsi con la morte dei nostri assistiti porta però alla luce
le nostre paure più profonde e questo spesso ci fa arrendere prima
ancora di instaurare la relazione d’aiuto.
1.2.4Area spirituale
Il malato terminale è una persona che ha urgenza di dire addio
alla vita a modo suo. Ogni individuo nella sua unicità ha una propria
spiritualità e sta all’operatore avere la necessaria sensibilità per intuire
i bisogni spirituali del malato e per poter offrire risposte diverse ad
ognuno.
1.3 La fatigue
Da una decina di anni la fatigue è a tutti gli effetti riconosciuta
come una malattia correlata al cancro e non più considerata
semplicemente come un insieme di sintomi che affliggono l’esistenza
del paziente oncologico.
Il termine anglosassone “fatigue” significa affaticamento; la
fitigue è infatti genericamente classificabile nel quadro clinico delle
astenie, caratterizzato da mancanza o perdita della forza muscolare
con facile affaticabilità e insufficiente reazione agli stimoli.
La fatigue può essere considerata una patologia nella patologia,
che accompagna la vita del paziente oncologico sia nel corso della
terapia che dopo la sospensione del trattamento e nelle recidive.
20
Secondo alcuni studi la principale causa della fatigue è
l’anemia,
per
cui
correggendo
quest’ultima
o
trattandola
preventivamente migliora notevolmente lo stato di fatigue del paziente
oncologico.
Per alcuni pazienti curare la fatigue correlata al cancro è
importante quanto curare la malattia.
Al di là del disagio di sentirsi esausti, la fatigue può infatti
interferire talmente nella vita del paziente da condizionarlo anche
nelle cure, per esempio limitando il numero dei cicli di chemioterapia
e di conseguenza la loro efficace.
La fatigue si può presentare come:
 parte integrante della sintomatologia della neoplasia;
 effetto collaterale delle terapie, oncologiche e non oncologiche;
 espressione di una patologia concomitante, di solito di natura
psichiatrica, quale la depressione;
 sintomatologia a distanza di anni dopo la fine delle terapie.
Per poter rilevare correttamente i sintomi della fatigue, sono
stati delineati dei criteri internazionali che si basano sulla seguente
classificazione:
 sintomi presenti tutti i giorni o quasi per almeno due settimane
nell’ultimo mese:

spossatezza significativa;

diminuzione dell’energia;

accresciuto
bisogno
di
riposo,
in
maniera
non
proporzionale all’attività sostenuta.
21
 inoltre, devono essere presenti cinque o più dei seguenti
sintomi:

debolezza generalizzata e pesantezza degli arti

diminuzione della concentrazione o dell’attenzione

diminuzione della motivazione o dell’interesse nelle
normali attività

insonnia o ipersonnia;

sensazione di non aver riposato durante il sonno;

sensazione di dover compiere sforzi per superare
l’inattività;

marcata reazione emotiva alla sensazione di fatigue;

difficoltà a portare a termine le attività quotidiane.
22
CAPITOLO SECONDO
23
2.1 Che cos’è il dolore
Il dolore è un’esperienza soggettiva, che, non risulta essere
semplicemente il prodotto finale di un sistema di trasmissione
sensoriali lineare, ma è un processo dinamico che produce
continue interazioni con il sistema nervoso, che comprende al suo
interno un substrato di passate esperienza, cultura, ansia e depressione.
Quindi, considerare solamente la caratteristica sensoriale del
dolore e ignorare le sue proprietà motivazionali-affettive, porta ad
avere una visione del problema limitata ad una sola parte.
Alcuni autori hanno identificato tre componenti psicologiche
principali del dolore:
 discriminativa-sensoriale
 motivazionale-affettiva
 cognitiva-valutativa
In base a questi dati possiamo dire che il dolore è
MULTIDIMENSIONALE, cioè è formato da numerosi componenti
che includono:
 i comportamenti (le smorfie, l’atto di zoppicare ecc.),
 l’intensità,
 la componente affettiva,
 le credenze (senso di controllo, credenze sul significato),
 la qualità della vita.
Le diverse dimensioni vengono espresse in modo differente nel
dolore acuto o in quello cronico, infatti, nel dolore acuto la
dimensione sensoriale è la più importante, mentre nel dolore cronico i
fattori affettivi e valutativi assumono una rilevanza maggiore.
24
2.2 Il dolore oncologico
Il dolore oncologico è un dolore cronico nella maggior parte dei
casi ed è dovuto a diverse cause come l’azione diretta del tumore per
infiltrazione tissutale, interessamento viscerale, ulcerazione, infezione,
oppure
può
essere
conseguenza
dei
trattamenti
(chirurgia,
chemioterapia, radioterapia).
Ci possono essere anche cause non direttamente collegate al
tumore o alle terapie come disturbi cardiovascolari, neurologici o
altro.
Esiste anche un dolore acuto, definito dolore episodico intenso
che è un dolore transitorio che si manifesta in pazienti con un dolore
cronico di base controllato da una terapia analgesica somministrata ad
orari fissi.
Gli episodi dolorosi hanno frequenza variabile e durata
variabile: una frequenza superiore a 2 episodi al giorno potrebbe
indicare la necessità di modificare la terapia di fondo e pertanto è
importante rilevarli e comunicarli tempestivamente al Medico
Palliativista.
Nell’ambito del dolore episodico intenso va distinto il dolore
acuto incidente che è scatenato da eventi specifici (es. tosse, cambi di
postura, defecazione).
2.3Sistemi di valutazione
Misurazione
La misurazione dell’intensità del dolore è fondamentale perché
su di essa si basa la scelta della terapia farmacologica più appropriata
25
ed è possibile avere una valutazione più obiettiva dei risultati della
terapia analgesica instaurata.
Le scale di misurazione sono di due tipi:
 unidimensionali, che misurano esclusivamente l’intensità del
dolore (analogiche, visive, numeriche, verbali)
 multidimensionali
che
valutano
anche
altre
dimensioni
(sensoriale-discriminativa, motivazionale-affettiva, cognitivovalutativa)
Queste ultime sono molto complesse e perciò hanno un uso
limitato nella pratica clinica.
Non esistono prove sulla superiorità di una scala rispetto ad
un’altra; ma è importante utilizzarle, scegliendone una che
risulti comprensibile al paziente. Per la sua semplicità nella
pratica clinica è preferibile utilizzare la scala numerica nella
quale viene chiesto al paziente di indicare l’intensità del dolore
che va da 1 a 10.
Autovalutazione
Essendo un’esperienza
soggettiva,
l’autovalutazione
del
paziente è da considerarsi la regola per la misurazione del dolore.
Infatti, numerosi studi hanno evidenziato la sottostima derivante da
una valutazione esterna: infermieristica e medica.
La valutazione esterna rimane indispensabile per i pazienti
che non sono in grado di esprimersi, i neonati e i bambini,
handicappati mentali, anziani con demenza.
26
Valutazioni multiple
Sono necessarie valutazioni multiple per avere una visione reale
dell’esperienza dolorosa.
Caratteristiche di un test valido:
 facilità di utilizzo
 deve richiedere poco tempo sia per la registrazione che per
l’elaborazione dei dati.
 articolato in modo che sia comprensibile a tutti
 deve soddisfare i criteri di:
a)validità  il grado in cui un test valuta ciò che intende
misurare.
b)sensibilità evidenzia i cambiamenti relativi alla terapia.
c)affidabilità o grado di ripetibilitàil test deve essere
ripetibile quando amministrato più volte o da più
esaminatori.
Sistemi di valutazione nell’adulto
 VRS (Visual Rating Scale): scala di valutazione verbale
È costituita da una serie didescrittori dal più debole al più
intenso (assenza di dolore……il peggior dolore possibile).
Un punteggio di 0 è assegnato al descrittore di
minore
intensità, 1 a quello successivo ecc.
Il paziente sceglie il descrittore che più si avvicina alla sua
sensazione dolorosa.
27
L’ordinamentocasuale evita la scelta preferenziale, dovuta
alla posizione, facendo puntare l’attenzione sul valore semantico
del descrittore.
Tale scala, nel tempo, si è rilevata semplice da somministrare,
affidabile e valida.
Figura 1
VRS (Visual Rating Scale): scala di valutazione verbale
 NRS (Numerical Rating
Scale):
SCALA NUMERICA
VERBALE
Serie di numeri da 0 a 10 o da 0 a 100 il cui punto di inizio e di
fine rappresentano gli estremi del dolore provato.
Il paziente sceglie il numero che corrisponde meglio al suo
dolore.
E’ di semplice utilizzo e ha dimostrato affidabilità e validità.
Figura 2:
VERBALE
NRS (Numerical Rating Scale): SCALA NUMERICA
28
 VAS (Visual Analogue Scale) : scala valutazione visiva
Una linea di 10 cm orizzontale o verticale con due punti di
inizio e fine, contrassegnati con “assenza di dolore” e “il dolore
peggiore mai sentito”.
Il paziente deve mettere un punto al livello di intensità che
prova.
E’ semplice e breve da somministrare e da assegnare il
punteggio.
Presenta delle limitazioni nei pazienti con difficoltà motorie
e percettive, alcuni non riescono a comprendere le istruzioni.
Figura 3: VAS (Visual Analogue Scale) : scala valutazione visiva
 MC GILL PAIN QUESTIONNAIRE
Classificazione di 102 termini che descrivono differenti aspetti
del dolore.
I termini sono suddivisi in tre classi maggiori, sensoriale,
emotivo-affettiva, valutativa, e 16 sottoclassi che contengono un
gruppo di parole considerate qualitativamente simili.
Vi è aggiunta una VRS, per misurare l’intensità del dolore
presente, e un disegno di un corpo umano, visto davanti e dietro, per
indicare la localizzazione.
29
Ha dimostrato validità, affidabilità, coerenza, sensibilità e
utilità.Possiedeuna potenziale possibilità di aiutare nella diagnosi
differenziale,in quanto ogni tipo di dolore è caratterizzato da una
distinta costellazione di descrittori verbali.
Tale possibilità può essere invalidata da alti livelli di ansia
e altri disturbi psicologici che possono produrre un alto punteggio
della dimensione affettiva, in più anche certe parole chiave specifiche
di sindromi possono essere assenti.
Figura 4:MC GILL PAIN QUESTIONNAIRE
30
 SF-MPQ: short form del Mc Gill PainQuestionnaire
Consiste in 15 parole rappresentative della porzione riguardante
la qualità sensoriale (11) e la qualità affettiva (4), scelte perché usate
più frequentemente dai pazienti con vari tipi di dolore.
E’ correlata con il MPQ, è sensibile e sembra adatta anche alle
persone anziane.
Figura 5: SF-MPQ: short form del Mc Gill Pain Questionnaire
31
 Descriptor Differential Scale
Valuta separatamente l’intensità sensoriale e il fastidio.
Consiste in 12 descrittori, posti al centro di una scala a 21 punti
con un segno meno al livello più basso e più a quello più alto.
E’ assegnato un punteggio da 0 (-) a 20 (+) a ogni descrittore:
un punteggio di 10 indica un’intensità uguale a quella del descrittore.
(-) …………..I……………..VERY INTENSE (+)
(-)…………..I…………….. BARELY STRONG (+)
(-)…………..I……………..WEAK (+)
(-)…………..I……………..MODERATE (+)
(-)…………..I…………….. EXTREMELY INTENSE (+)
(-) …………..I…………….. VERY MILD (+)
(-) …………..I……………..INTENSE (+)
(-) …………..I…………….. FAINT (+)
(-) …………..I…………….. SLIGHTLY INTENSE (+)
(-) …………..I……………..
MILD (+)
(-) …………..I…………….. STRONG (+)
(-)…………..I…………….. VERY WEAK (+)
Figura 6: Descriptor Differential Scale
32
Gli strumenti più utilizzati sono il Mc Gill Pain Questionnaire e
la VAS anche se la NRS è il metodo che produce meno errori
soprattutto negli anziani.
 FACES PAIN SCALE: disegni di facce che esprimono diversi
gradi di dolore, poste in posizione casuale.
Figura 7:
FACES PAIN SCALE
2.4Terapia del dolore: Legge 38 del 2010
Con la legge 38 del 2010 l’Italia garantisce il diritto del
cittadino ad accedere alla terapia del dolore e alle cure palliative.
Le indicazioni fornite dalla legge 38 rappresentano un esempio
legislativo per rispondere ai bisogni di cura, assistenza continuativa
del malato e della sua famiglia rispetto ad una vita senza sofferenza
inutile.
La legge richiama i principi e valori di riferimento, la puntuale
definizione degli elementi costitutivi degli stessi principi, fino alla
33
indicazione dei riferimenti essenziali per lo sviluppo delle reti
nazionali di terapia del dolore e delle cure palliativi nel territorio
nazionale, individuando la cornice nazionale per la costruzione degli
strumenti necessari atti a rendere effettiva la terapia del dolore e a dare
una piena assistenza a chi è alla fine della vita.
L’offerta dei servizi di sostegno ai malati si snoda attraverso
una rete nazionale per le cure palliative e per una terapia del dolore
concepite al fine di ottimizzare la gestione e l’erogazione sul territorio
e per garantire la continuità assistenziale del malato dalla struttura
ospedaliera al suo domicilio.
Tali reti sono costituite dall’insieme delle strutture sanitarie,
ospedaliere e territoriali, e assistenziali, delle figure professionali e
degli interventi diagnostici e terapeutici disponibili nelle regioni e
nelle province autonome, dedicate all’erogazione delle cure palliative,
al controllo del dolore in tutte le fasi della malattia, con particolare
riferimento alle fasi avanzate e terminali della stessa, e al supporto dei
malati e dei loro familiari (art. 2, lett. C).
Informare e comunicare costituiscono una parte integrante per
la buona riuscita degli obiettivi indicati dalla legge 38.
La scelta del legislatore, anche in questo ambito, è innovativa in
quanto valorizza non soltanto la componente tecnica e professionale,
ma anche la componente di partecipazione della società civile, delle
famiglie e delle stesse persone in un percorso di salute e di riduzione
della sofferenza fisica e psicologica.
È fondamentale che i cittadini conoscano, partecipino e
comprendano il tentativo non burocratico di costruire una rete vicina
ai loro bisogni di salute, e tutti gli strumenti che la legge mette a
34
disposizione,rispondono a questa importante finalità.
In particolare nella descrizione della “terapia del dolore”
contenuta nella legge 38/2010, si fa riferimento ad un “insieme di
interventi diagnostici e terapeutici volti ad individuare e applicare alle
forme
morbose
croniche
idonee
ed
appropriate
terapie
farmacologiche, chirurgiche,strumentali psicologiche e riabilitative,
tra loro variamente integrate, allo scopo di elaborare idonei percorsi
diagnostico terapeutici per la soppressione ed il controllo del dolore.
L’accordo Stato Regioni del 16 dicembre 2010 definisce inoltre
le “linee guida per la promozione, lo sviluppo e il coordinamento degli
interventi regionali nell’ambito della rete di cure palliative e della
terapia del dolore”.
Per quanto riguarda la terapia del dolore viene chiarito come
necessario la riorganizzazione dei sistemi esistenti con l’obiettivo di
acquisire una maggiore semplicità di accesso alle risorse assistenziali
disponibili, attraverso il rafforzamento dell’offerta assistenziale sul
territorio per il paziente adulto e pediatrico.
E’ importantissimo prendere coscienza che il dolore rappresenta
uno dei principali problemi sanitari che interessa tutte le fasce di età
ed incide sulla qualità della vita. Inoltre il medesimo accordo Stato –
Regioni, sopra citato, definisce quale compito regionale il
coordinamento regionale della terapia del dolore con il compito di
assolvere alle seguenti funzioni:
 definizione di indirizzi per lo sviluppo omogeneo di percorsi di
presa in carico ed assistenza nell’ambito della rete;
 controllo
della
qualità
delle
prestazioni
e
valutazione
dell’appropriatezza da prevedersi nell’ambito del sistema di
35
accreditamento;
 promozione di programmi obbligatori di formazione continua in
terapia del dolore da prevedersi nell’ambito del sistema di
accreditamento;
 promozione di programmi obbligatori di formazione continua in
terapia del dolore coerentemente con quanto previsto dall’art. 8,
comma 2 della legge 38/2010;
 sensibilizzazione di tutti gli operatori sanitari all’uso dei
farmaci oppiacei attraverso specifiche campagne informative
circa l’appropriatezza prescrittiva in funzione della patologia
clinica dolorosa;
 monitoraggio dello stato di attuazione della rete.
La legge 38 del 2010 sancisce l’obbligo da parte del personale
medico ed infermieristico di riportare nella documentazione clinica la
rilevazione del dolore, la sua evoluzione nel corso del ricovero nonché
la tecnica antalgica ed introduce procedure di semplificazione per
l’accesso e la prescrizione, attraverso il ricettario del servizio sanitario
nazionale, dei farmaci utilizzati nella terapia del dolore.
36
CAPITOLO TERZO
37
3.1 Le cure palliative
Il termine “medicina palliativa” è un termine coniato in Gran
Bretagna nel 1987, ed indica lo studio e la gestione dei pazienti con
malattia attiva in progressione avanzatissima per i quali la prognosi è
limitata all’obiettivo della cura e della qualità di vita.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce le
cure palliative come: La cura o meglio l’assistenza (care) attiva,
globale di quei pazienti la cui malattia non risponde più ai trattamenti
curativi.
Le cure palliative hanno come scopo:
 affermare il valore della vita, considerando la morte come
evento naturale;
 non incidere temporalmente sull’esistenza del paziente;
 provvedere al sollievo dal dolore e dagli altri sintomi;
 integrare
gli
aspetti
psicologici,
sociali
e
spirituali
dell’assistenza;
 offrire un sistema di supporto per aiutare: il paziente a vivere il
più normalmente possibile fino alla morte, e la famiglia a
convivere con la malattia e poi con il lutto.
Le cure palliative, possono essere adottate anche nel corso della
malattia in concomitanza con i trattamenti antiblastici, perché mirano
a far vivere i malati terminali nel miglior modo possibile,
compatibilmente con la loro patologia e di farli morire con dignità,
facendoli rimanere a casa con i loro famigliari sfruttando l’assistenza
domiciliare, o di godere di ambienti idonei alle proprie esigenze,
quali: reparti oncologici ospedalieri, DH oncologici e Hospice, dove
possono ricevere le cure più appropriate.
38
3.2 Dipartimento oncologico
L’ospedale oltre che interessarsi del ricovero e dell’assistenza
pre, intra e post-operatoria del paziente oncologico, contribuisce anche
alla cura dei malati neoplastici gravi formalizzando procedure di
accesso facilitato alle prestazioni in regime di ricovero e DH, nonché
di consulenza specialistica, a carattere diagnostico o trattamentale a
scopo palliativo, per tutti gli assistiti in regime domiciliare o di
ricovero in hospice.
Le prestazioni di ricovero in regime ordinario o di DH possono
essere richieste dal medico esperto di cure palliative e, nel caso in cui
l’assistenza sia fornita in regime di Assistenza Domiciliare Integrata
(ADI), anche dal Medico di Medicina Generale, comunque previa
valutazione in Unità Operativa Dipartimentale (U.O.D.).
Da tener presente che il ricovero, comunque si configura,
rappresenta per il malato, la famiglia e l’istituzione sempre un
momento di crisi:
 per il malato la preoccupazione per la malattia, la dipendenza
dal personale ospedaliere, l’obbligo di adattarsi a ritmi che gli
sembrano assurdi, l’isolamento dal proprio ambiente familiare e
sociale.
 per la famiglia il senso di colpa e di sconfitta di fronte
all’incapacità di curare il proprio congiunto, e ai cambiamenti
dei ruoli e delle abitudini.
 per le istituzioni le procedure di ammissione, l’incertezza sulle
competenze, gli esami di routine, il posto letto che più volentieri
viene assegnato al paziente guaribile.
39
Comunque il ricovero in ospedale è:
 appropriato, se rappresenta la soluzione di un problema acuto o
serve almeno a migliorare la qualità di vita del paziente;
 inappropriato, se è richiesto per problemi che possono essere
risolti da una adeguata assistenza domiciliare, in regime di DH
o residenziale.
3.3 Assistenza oncologica domiciliare
I pazienti oncologici in fase terminale esprimono quasi sempre
il desiderio di trascorrere gli ultimi giorni della propria vita a casa fra
le comodità e la sicurezza domestica e in compagnia dei propri
familiari; per questo, negli ultimi tempi, si sta diffondendo la buona
pratica di assistere i pazienti oncologici al proprio domicilio anche
perché questo sembra provocare, in loro, un minor livello di ansia, di
dolore e di depressione.
Inoltre, esperienze di altri paesi hanno dimostrato che i malati
oncologici in fase terminale possono essere seguiti a domicilio fino al
decesso, con notevole miglioramento della qualità di vita purché
venga garantita loro una adeguata assistenza e alla famiglia un
adeguato supporto.
Il Ministro della Sanità con la Gazzetta Ufficiale del
01/06/1996, ha definito le linee guida per le cure domiciliari nel
paziente oncologico ponendo come obiettivo principale e come
valoreassoluto “la qualità della vita”.
40
Per poter realizzare l’assistenza domiciliare in modo concreto è
necessario:
 il consenso da parte del paziente;
 adeguate caratteristiche igienico, sanitarie e tecnologiche
dell’abitazione;
 un grado adeguato di accettazione da parte della famiglia;
 un’equipe multidisciplinare che lavora in sinergia;
 un’accurata istruzione del paziente e della famiglia per l’utilizzo
e la cura dei vari presidi;
 enfatizzare l’igiene e la disinfezione come misure di profilassi
per le infezioni;
 spiegare al paziente e ai famigliari i sintomi di eventuali
complicanze, in modo da poterle distinguere per trattarle;
 dare ai familiari dei recapiti per poter contattare il medico o
l’infermiere in caso di necessità.
Comunque il personale sanitario è tenuto ad eseguire controlli
periodici in base ad un programma di follow-up che prevede un
calendario di visite a seconda del tipo di assistenza domiciliare che il
paziente ha bisogno:
 Assistenza domiciliare programmata (ADP), deve essere
strutturata in modo tale da fornire il minimo livello assistenziale
da parte del medico di medicina generale con almeno una visita
programmata a settimana, inoltre viene garantito il servizio di
guardia medica nelle ore scoperte dal medico di base.
41
 Assistenza domiciliare integrata (ADI), prevede una necessaria
integrazione tra il medico di medicina generale, le strutture
sanitarie distrettuali e le Unità Operative per le cure Palliative
(UOCP) in modo da garantire un intervento continuativo.
Il medico di medicina generale dovrà fornire almeno due visite
domiciliari settimanali e un’assistenza diurna; inoltre, durante le
fasce orarie non coperte dal medico di medicina generale, il
servizio di guardia medica si prenderà carico dell’assistenza.
L’integrazione con le UOCP prevede visite domiciliari da parte
del medico e dell’infermiere una volta ogni quindici giorni.
 Assistenza continuativa palliativa domiciliare, è una modalità di
assistenza con la quale la gestione del paziente è affidata al
responsabile della UOCP che può collaborare con il medico di
medicina generale.
La continuità delle cure deve essere garantita 24 ore su 24
per 365 giorni l’anno; devono anche essere garantite almeno tre
visite specialistiche e quattro visite infermieristiche settimanali.
Nei tre casi l’attività deve essere necessariamente
integrata con quella infermieristica, perché, l’infermiere,
rappresenta l’anello di congiunzione tra il paziente, la famiglia e
il medico, e tra quest’ultimo e la struttura.
Tuttavia per poter realizzare una assistenza domiciliare
continuativa è necessario che la famiglia, che rappresenta il
mezzo attraverso cui essa si concretizza, sia sufficientemente
preparata a svolgere un compito che si presenta assai difficile;
per cui l’equipe prende in carico non solo il malato, ma tutto il
42
contesto familiare con i suoi bisogni e le sue ansie, rendendosi
conto che non è sempre il malato ad avere bisogno di un
maggior sostegno psicologico.
Le difficoltà di una famiglia di fronte a un malato
terminale nascono dall’impatto con una situazione straordinaria
che impone aspetti nuovi da capire e da gestire, che portano ad
uno sconvolgimento della routine quotidiana e all’alterazione
delle loro abitudini (saltano i riposi, le ferie, non si hanno più
orari); a tutto ciò va aggiunto il clima di sofferenza
psicoaffettiva in cui è costretta a muoversi.
Non dobbiamo dimenticare che la malattia oncologica è
un evento che apre una crisi nel sistema familiare alterando le
normali dinamiche e relazioni parentali.
In tali situazioni le risorse, le modalità di funzionamento,
la forza e la coesione del sistema familiare vengono messe a
dura prova, ed il modo con cui una famiglia reagisce e si
confronta con lo stress intrapersonale ed interpersonale dipende
dalle precedenti dinamiche familiari e dalla capacità dell’equipe
di offrire un reale sostegno e contenimento dei sentimenti
evocati e messi a nudo dalla malattia e dall’assistenza
domiciliare continuativa.
Nel corso dell’assistenza domiciliare, la famiglia e
l’equipe rappresentano due poli che nel momento in cui
vengono a contatto devono continuamente ridefinire il proprio
ruolo durante tutto l’iter assistenziale.
43
Il tutto ruota intorno al malato terminale che si trova ad
affrontare la crisi più grande e più importante della sua vita, quella di
sentire la vicinanza della morte e il precipitare delle proprie condizioni
fisiche.
3.4 Day Hospital oncologico
Negli ultimi anni, le Aziende Sanitarie hanno potenziato i
ricoveri in DH per i pazienti oncologici, specie quelli che debbano
essere sottoposti a trattamento chemioterapico e quelli che si trovano
nella fase terminale della malattia, in modo da ridurre i ricoveri nel
reparto di oncologia solo per quei pazienti particolarmente critici o in
caso di somministrazioni di farmaci altamente tossici che necessitano
di un monitoraggio continuo.
Per il ricovero in regime di DH, il paziente dopo la diagnosi di
neoplasia può:
 essere sottoposto ad intervento chirurgico e fare la "prima
visita" oncologica presso il DH, con il referto dell'esame
istologico e tutta la documentazione in suo possesso.
In questa fase l'oncologo decide se è necessaria la
chemioterapia; in caso affermativo stabilirà il protocollo
adeguato in base al tipo di tumore, allo stadio, al grado di
replicazione, all'età del paziente e alle sue condizioni fisiche;
 essere sottoposto subito a "prima visita" oncologica presso il
DH perché la neoplasia è:
a) inoperabile per stadio avanzato, metastasi, patologie
concomitanti e quindi il paziente ha solo bisogno di cure
palliative;
44
b) operabile, ma bisogna ridurre la massa trattandola prima
con la chemioterapia o con trattamenti combinati di chemio
e radioterapia;
c) si tratta di tumore che risponde bene alla chemioterapia
(linfomi, mielomi).
Ovviamente l'ultima scelta spetta comunque al paziente, che è
libero di curarsi o meno in base alle informazioni ricevute.
Dopo la "prima visita", se il paziente accetta di essere
sottoposto al trattamento chemioterapico o ha bisogno di cure
palliative, verrà indirizzato agli infermieri che si occuperanno della
programmazione della terapia, previo posizionamento del CVC o del
sistema port (questi vengono posizionati quando il protocollo
terapeutico preveda somministrazioni prolungate, nel caso di farmaci
necrotizzanti, in pazienti con vene periferiche compromesse).
Nella gestione di pazienti critici, di terapia intensiva, di
oncologia, di ematologia oppure in assistenza domiciliare, e in ogni
caso di tutti quei pazienti il cui approccio terapeutico è complesso, si
rivela estremamente utile disporre di un VALIDO ACCESSO
VENOSO, che deve essere gestito con cura ed attenzione per
prevenirne contaminazioni ed infezioni, che comporterebbero una
complicanza grave e spesso mortale.
Gli obiettivi della formazione e dell’aggiornamento del
personale impegnato in questo settore sono:
 Ottenere conoscenze e comportamenti uniformi, nella gestione
degli accessi venosi centrali
 Prevenire le complicanze maggiori, meccaniche e infettive
legate alla presenza del sistema
45
 Elaborare
un
protocollo
scritto,
basato
sulle
evidenze
scientifiche, ma personalizzato per ogni unità operativa, con il
fine di favorire l’autoapprendimento, l’aggiornamento e
l’inserimento dell’infermiere neo-assunto.
L'infermiere
dovrà
spiegare
al
paziente
e
ai
suoi
accompagnatori il funzionamento del DH, gli orari, le regole da
rispettare che non dovrebbero essere infrante, se si vuole mantenere un
buon funzionamento della struttura, come sarà la giornata del paziente
che viene sottoposto a chemioterapia o cure palliative, i tempi, e se è
necessario il digiuno e perché va osservato; accertarsi che abbia
firmato il consenso informato e verificare che le informazioni ricevute
dal medico siano state effettivamente recepite.
Alla fine spiegare al paziente che una volta completata la terapia
potrà tornare a casa.
3.5 Gli Hospice: centri residenziali per cure palliative
Il termine hospice deriva dal nome di una istituzione molto
diffusa in Europa nel periodo medievale e indicava luoghi di
accoglienza gestiti da ordini religiosi, nei quali il pellegrino riceveva
asilo, protezione e cure.
Dagli inizi degli anni sessanta si sono sviluppate, dapprima in
Gran Bretagna e poi in altre parti del mondo, iniziative che
comprendono servizi di assistenza continua per malati di cancro in
fase avanzata tramite ricoveri in hospice.
Attualmente, gli hospice sono strutture residenziali dedicate al
ricovero e alla degenza dei malati che necessitano di cure palliative.
46
Costituiscono l’ambiente di assistenza più adatto quando il
malato necessita di cure che non possono più essere erogate al
domicilio, quando l’impegno assistenziale diventa troppo difficile e
gravoso per la famiglia, quando la sintomatologia correlata alla
malattia risulta di difficile gestione a casa, oppure quando il malato
vive in condizione abitative inadeguate e con scarsi aiuti familiari.
La filosofia che caratterizza l’assistenza in hospice si basa sui
principi delle Cure Palliative e prevede:
 un approccio olistico al malato (che affronta tutti i problemi:
clinici, assistenziali, psicologici, emotivi, sociali, culturali e
spirituali) realizzato da un’equipe multidisciplinare che cerca di
garantire la maggiore qualità della vita del malato e del suo
nucleo familiare;
 l’offerta di un sostegno a parenti, familiari e amici durante il
periodo del ricovero e, in seguito, un supporto nelle fasi
dell’elaborazione del lutto.
L’Hospice garantisce assistenza specializzata, 24 ore su 24, in
ambiente il più possibile simile a quello domestico.
Le principali funzioni dell’hospice sono:
 ricovero per i pazienti per i quali non sussistano le condizioni
necessarie all’assistenza domiciliare
 supporto alle famiglie per alleviare lo stress conseguente al
prendersi in cura il proprio congiunto
 attività assistenziale di tipo diurno
 valutazione e monitoraggio delle cure palliative inefficaci in
regime domiciliare.
47
Queste possono essere garantite attraverso:
 hospice
extra-ospedaliero,
funzionalmente
autonomo
e
fisicamente separato dalla struttura ospedaliera.
E’ caratterizzato dalle piccole dimensioni, dal basso contenuto
tecnologico e sanitario e dall’elevato contenuto umano con
interventi di sostegno psicologico, relazionale e spirituale.
Tali strutture dovranno di norma essere allocate all’interno di
strutture residenziali più ampie e complesse.
 hospice
intra-ospedaliero
(hospital
hospice),
collocato
all’interno di una struttura ospedaliera e dotato di autonomia
funzionale; questo modello consente la coesistenza di
un’assistenza sanitaria avanzata e specializzata nel trattamento
dei sintomi che accompagnano la fase terminale della malattia,
con un approccio alla sofferenza globale del paziente ricco di
contenuti umani.
L’hospice intra-ospedaliero può essere suddiviso in:
 sezione a degenza breve, con un maggior contenuto
 sanitario destinato a brevi periodi di ricovero per
trattamenti non eseguibili a domicilio e come supporto
alle cure domiciliari o a quelle prestate attraverso gli
hospice extra-ospedalieri;
 sezioni a degenza media/lunga che è simile all’hospice
vero e proprio.
48
L’accoglienza nella struttura residenziale è vincolata alla
necessità di trattamenti che non richiedono un ricovero presso l’unita
oncologica ospedaliera e alla presenza di almeno una delle seguenti
condizioni:
 assenza o non idoneità della famiglia a prendersi cura del
paziente
 inadeguatezza della casa a trattamenti domiciliari
 impossibilità di controllare adeguatamente i sintomi a domicilio.
49
CAPITOLO QUARTO
50
4.1 Assistenza alla famiglia in previsione del lutto
Un ulteriore problema evocato dalla malattia terminale riguarda
l’elaborazione del lutto sia nel corso dell’assistenza quando i segni
della malattia sono tangibili al punto tale che la prospettiva della
morte e quindi della perdita della persona cara è presente (lutto
anticipatorio), che quando effettivamente il paziente viene a mancare e
la famiglia si trova a dover gestire la perdita.
E’ questo uno degli aspetti più sottovalutato e trascurato dalla
medicina e dagli interventi socio-assistenziali nonostante diverse
ricerche abbiano dimostrato la sostanziale vulnerabilità psichica e
fisica della persona di fronte al lutto.
In tal senso appare ragionevole prevedere che l’aiuto fornito
durante una malattia terminale non dovrà avere solo un momentaneo
beneficio per il paziente e i parenti stretti, ma creare le condizioni tali,
da permettere alla famiglia di poter successivamente affrontare il lutto
con una reazione meno gravosa
4.2 Individuare ed educare il caregiver
Assistere quotidianamente un malato di cancro è un impegno
che comporta grandi sacrifici, sia dal punto di vista fisico che
psicologico.
Colui che assiste un malato ha assolutamente bisogno di aiuto
nei compiti di assistenza pratica e di sostegno emotivo, per questo
motivo un’adeguata assistenza da parte del personale infermieristico e
medico costituisce una necessità per alleviare il carico del
CAREGIVER.
51
Il volontario dovrebbe essere inserito come appoggio al
familiare nell’assistenza domiciliare, e rappresenterebbe una risorsa da
sfruttare avendo un potenziale impatto positivo nell’alleviare non solo
il carico oggettivo ma anche quello soggettivo dei caregivers.
4.3 Comunicare e ricevere una diagnosi di cancro
Le reazioni dell’individuo alla malattia sono diverse a seconda
delle caratteristiche di quest’ultima, ovvero a seconda del tipo, della
gravità e della durata.
Il primo pensiero per chi riceve una diagnosi di cancro, anche in
caso di una prognosi buona, continua ancora oggi ad essere: “Non mi
rimane molto tempo da vivere".
Questa idea è spesso dettata più dalla paura che la malattia
evoca che dalla realtà, infatti in medicina esistono molte malattie che
mettono a rischio la vita, come ad esempio: l’infarto, l’ictus, le
malattie neurologiche degenerative; che tuttavia non spaventano così
tanto il paziente.
Anche l’atteggiamento psicologico dell’individuo influisce sul
decorso della malattia conducendo a comportamenti che possono
migliorare oppure peggiorare la condizione patologica.
Una reazione psicologica depressiva alla malattia, attenua le
difese immunitarie,il paziente ad altri attacchi morbosi: è di primaria
importanza dunque interrogarsi su quali siano le reazioni psicologiche
alla malattia e su che cosa si possa fare per renderle più positive.
Una condizione di attivazione emotiva che merita particolare
attenzione è l’ansia: essa infatti è una sorta di campanello d’allarme
52
che mette in allerta il nostro “IO”e ci aiuta ad affrontare al meglio la
realtà.
L’ansia, se limitata, svolge una funzione positiva.
La malattia si configura innanzitutto come una minaccia che
mette in pericolo sia l’identità psico-fisica dell’individuo che la sua
vita relazionale.
Di fronte ad una minaccia le reazioni sono sostanzialmente due:
 ATTACCO, nel tentativo di sconfiggere il pericolo;
 RINUNCIA ALLA LOTTA, in modo attivo.
Questi atteggiamenti di fondo danno luogo a comportamenti
complessi che, nel caso della rinuncia, possono andare fino al suicidio
ed alla grave depressione.
La minaccia più frequente che la malattia comporta è il
DOLORE.
La percezione del dolore varia notevolmente a seconda della
personalità, della cultura e anche del sesso.
4.4 L’informazione al paziente oncologico
L’informazione è uno strumento terapeutico che deve
contribuire a ridurre l’incertezza del paziente, aumentare le capacità le
capacità di controllo sulla malattia e a rafforzare la relazione medicopaziente.
Le notizie fornite devono essere adottate al livello culturale del
paziente, alla sua disponibilità a conoscere una realtà personale
emotivamente impegnativa e devono essere sintonizzate al suo stato
emozionale.
53
La LEGGE675/96 SULLA PRIVACY ha introdotto l’obbligo
dell’informazione dell’interessato e la necessità di un consenso scritto
per il trattamento dei dati che lo riguardano.
Solitamente quando si comunica la diagnosi al paziente si evita
di utilizzare il termine CANCRO, in quanto quest’ultima evoca l’idea
di morte.
La comunicazione della diagnosi può causare due diverse
reazioni: alcuni dopo aver appreso la diagnosi sono increduli e
chiedono subito un parere ad un altro medico; altri cercano di
documentarsi autonomamente consultando libri, riviste mediche o
internet.
Questa ricerca solitaria può aiutare ad affrontare in termini più
realistici la malattia, ma può accentuare la paura, il senso di
isolamento e di smarrimento di fronte ad informazioni difficili da
capire e spesso contraddittorie.
Se i parenti decidono di voler proteggere il proprio congiunto,
possono anche richiedere al medico di nascondere a verità, in questo
caso il medico può accettare di mentire, oppure può decidere di
spiegare ai familiari le ragioni che lo spiegano comunque a mettere al
corrente il malato circa la sua situazione clinica.
4.5 Problemi psicologici del paziente oncologico
La malattia oncologica è una minaccia esistenziale che avrà
conseguenze sul ruolo lavorativo, sociale, familiare; inoltre potrà
provocare trasformazioni fisiche tali da costituire una crisi per il
paziente.
54
Questa crisi può sfociare in una fase di shock o in una fase di
reazione.
La fase di shock è immediatamente successiva alla diagnosi, ed
è vissuta in genere come una catastrofe di fronte alla quale il paziente
mette in atto meccanismi di difesa (come la negazione) che lo portano
a dilazionare il confronto diretto con una realtà che non è pronto ad
affrontare, è importante in questa fase rispettare i suoi tempi e il suo
stato d'animo senza forzarlo ad affrontare la situazione; nella fase di
reazione la realtà s'impone attraverso le procedure mediche e i
trattamenti chemioterapici o radianti.
L'impatto con la realtà suscita angoscia, rabbia, disperazione,
amarezza e pertanto il paziente potrebbe mettere in atto meccanismi
difensivi quali la difesa maniacale (non sono mai stato così bene), la
regressione a comportamenti infantili, la proiezione (aggressività
verso i medici e i propri cari a cui attribuisce la causa della malattia),
l’isolamento delle emozioni dai fatti (parla della diagnosi con
indifferenza).
Sono questi meccanismi che, in altri contesti, farebbero pensare
ad una struttura nevrotica o psicotica di personalità i cui livelli di
ansia, rabbia e depressione sono indici della normale reazione del
paziente nei confronti della malattia.
55
4.6 Reazioni psicologiche del paziente oncologico
Esistono molti fattori che concorrono a determinare le reazioni
psicologiche di una persona di fronte alla diagnosi di cancro:
 Fattori generali
 età
 sesso
 Fattori psico-sociali
 personalità
 grado di informazione del paziente circa la sua malattia
 ‘status quo’ con cui inizia l’iter della malattia
 condizioni sociali e livello culturale
 ambiente familiare
 rapporti con persone “significative” per il paziente
 Fattori medici
 tipo, sede e grado di malignità del tumore
 prognosi (sopravvivenza a breve, medio, lungo termine)
 decorso (presenza o meno di complicanze, dolori, ecc.)
 trattamenti terapeutici (chirurgici, chemioterapici, ecc.)
 Fattori assistenziali
 rapporto medico-paziente
 network assistenziale (medici, infermieri, psicologi)
 strutture logistiche assistenziali (casa, ospedale, DH, ecc.)
A questo si aggiunge che una patologia così particolare mette a
dura prova le capacità adattative del portatore, per cui né scaturisce
56
che alcuni pazienti sembrano adattarsi meglio degli altri alla malattia.
Nonostante la specificità della reazione individuale, è possibile
identificare delle risposte adattative statisticamente più frequenti, in
relazione all’andamento clinico della malattia.
Risulta perciò opportuno esaminare le reazioni psicologiche del
paziente in rapporto alle diverse fasi della malattia:
 Fase precedente alla diagnosi (o fase del dubbio)
 Fase diagnostica
 Fase terapeutica
4.6.1 Fase precedente alla diagnosi (o fase del dubbio)
Comprende l’arco di tempo che intercorre tra la rilevazione
soggettiva dei sintomi premonitori da parte del paziente e quella della
comunicazione di una diagnosi da parte del medico.
A
causa
degli
approfondimenti
diagnostici
e
delle
comunicazioni infraverbali, il paziente intuisce di avere qualcosa di
grave e viene colto da una forte ansia.
Quando il sospetto si palesa in qualcosa di probabile, scattano
nel paziente, meccanismi di difesa connessi alla paura e all’angoscia
per la morte.
Un fenomeno abbastanza diffuso in questa fase è il cosiddetto
“ritardo diagnostico”, infatti molti pazienti al posto di recarsi subito
dal medico alla scoperta dei primi sintomi, ritardano la visita.
57
4.6.2 Fase diagnostica
La formulazione di una diagnosi e l’eventuale comunicazione è
uno dei momenti più difficile per l’equipe assistenziale, il paziente e la
famiglia perché genera ansia in quanto viene vissuta come una
sentenza liberatoria o di condanna.
Generalmente la diagnosi viene data al paziente il quale poi
decide e autorizza per un eventuale divulgazione dell’informazione ai
familiari, oppure, può decidere eventualmente di far comunicare il suo
stato di salute solo ed esclusivamente ai familiare, in quanto non
riuscirebbe a sopportare un eventuale stato di malattia.
Per molti pazienti essere informati della realtà diagnostica
direttamente può significare che il medico ha fiducia in loro, anche se
nella maggior parte dei casi la verità genera sempre un intenso stato di
angoscia.
Di fronte a una realtà così angosciante, spesso l’individuo pone
in atto, anche se inconsciamente, delle strategie che tendono a
proteggere il suo equilibrio e che gli consentono di attutire
gradualmente l’evento traumatico.
Uno dei meccanismi di difesa dei pazienti oncologici in questa
fase è una sorte di negazione della realtà che tende a scomparire nel
giro di qualche giorno per essere sostituita da altre strategie difensive
che consentono la progressiva accettazione della realtà che stanno
vivendo.
Al termine di questa fase di negazione si assiste frequentemente
a brusche e ingiustificate reazioni di collera che sottendono penosi
interrogativi (es. perché proprio a me) che poi sfociano in una marcata
depressione, sottesa dall’angosciosa paura di morire.
58
Accanto a questo tema cardine della depressione, si collocano
altre paure legate ad ulteriori perdite (reali o presunte) che l’individuo
dovrà subire (perdita della propria identità, degli affetti, del lavoro,
ecc.) durante l’iter terapeutico.
Insonnia, anoressia, perdita dei normali interessi, incapacità di
concentrazione sono parte integrante della reazione depressiva che
può trasformarsi in un quadro psicologico caratterizzato da
manifestazioni autolesive che possono portare, nella fase avanzata
della malattia, al suicidio.
Nelle persone che ben si adattano, il superamento dello shock
diagnostico avviene con lo sviluppo di una sorte di alleanza
terapeutica con l’equipe assistenziale e con la programmazione del
trattamento terapeutico stesso, poiché quest’ultimo implica una
speranza di guarigione, per cui il paziente è fortemente motivato ad
affrontare tutti i disagi ad esso correlati.
Accanto a questa reazione, definita “normale”, c’è tutta una
vasta gamma di reazioni disadattative che vanno dal rifiuto di ogni
forma di assistenza ad una affannosa ricerca di una diagnosi meno
angosciante e ad una irrazionale fiducia in ciarlatani e santoni.
Naturalmente è sottointeso che la reazione del malato è
determinata anche dal modo in cui viene data la comunicazione della
diagnosi e del programma terapeutico.
4.6.3 Fase terapeutica
Le tre forme di intervento terapeutiche più usate (chirurgica,
radioterapica e chemioterapica) comportano specifiche reazioni
psicologiche per il paziente, a cui bisogna aggiungere quelle
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conseguenti all’ospedalizzazione in se stessa (come la separazione
dalla famiglia, dal proprio ambiente, dal proprio ruolo) che vanno a
rafforzare l’ansia e la depressione.
E’ da tener presente che al paziente giova molto essere
informato circa la malattia, la terapia, i modi di somministrazione, la
sua finalità, ed eventuali effetti collaterali; infatti questo lo rendono
meno ansioso e più collaborante.
Per quanto riguarda la terapia chirurgica, bisogna tener presente
che il paziente, nei confronti dell’intervento, di solito ha un
atteggiamento ambivalente perché se da un lato lo considera come il
fulcro della speranza, dall’altro lo considera pericoloso e mutilante.
Infatti nella fase pre-operatoria per proteggere l’equilibrio
psicologico del paziente, entrano automaticamente in atto strategie
difensive, in particolare la razionalizzazione che giustifica l’utilità
dell’intervento e ne sottolinea la funzione positiva (es. devo vivere
perché ho ancora i figli da crescere).
Nella fase post-operatoria invece tende ad emergere l’aspetto
mutilante dell’intervento, infatti il paziente è costretto a prendere atto
dell’effettiva entità della menomazione subita e in che misura intacca
il suo aspetto esteriore.
La perdita di una parte del proprio corpo porta a un successivo
crollo dell’autostima che lo fanno precipitare in una profonda crisi che
intacca l’equilibrio preesistente alla malattia e all’intervento.
Per questo bisogna porre in atto tutte quelle strategie che
possono aiutare il paziente ad accettare la perdita subita e reinvestire
al massimo sulla normalità residua, in modo da poter collaborare
attivamente al rimanente programma terapeutico al fine di giungere al
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recupero di una vita il più normale possibile.
Purtroppo spesso avviene un blocco con il sopraggiungere di
una depressione reattiva sostenuta dal timore che le recidive e/o le
metastasi fanno si che la malattia diventi persistente e invasiva.
Di
conseguenza
l’individuo
tende
progressivamente
ad
autoisolarsi e a restringere l’ambito dei suoi interessi; questo si
ripercuote negativamente sulle aree più significative della sua
esistenza (famiglia, lavoro, sesso, ecc.).
I fattori che possono aiutare il paziente ad avvicinarsi
all’intervento con maggior serenità sono:
 una adeguata informazione pre-oparatoria,
 un rapporto di fiducia con il chirurgo,
 tempi di attesa non troppo lunghi,
 l’incontro con persone che hanno già subito e positivamente
superato, anche sul piano psicologico e sociale, un intervento
simile (a tale scopo in molte nazioni si sono costituiti
associazioni e comitati).
Nel caso di interventi che compromettono l’integrità sessuale,
sembra utile il coinvolgimento del partner già nella fase preoperatoria, visto che anche per lui è necessario un certo periodo per
elaborare la nuova situazione e per adattarsi ad essa.
Per quando riguarda la radioterapia, è da tener presente che il
trattamento scatena nel paziente reazioni ansiose e depressive prima e
dopo il ciclo.
Per attenuare questo stato ansioso è opportuno spiegare al
paziente il tipo di terapia, le modalità delle applicazioni e gli eventuali
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effetti collaterali che essa comporta, soffermandosi sul fatto che essi
sono temporanei e in buona parte controllabili.
Per quando riguarda la chemioterapia vale lo stesso discorso
rassicurativo della radioterapia, infatti una buona informazione e un
buon rapporto con l’oncologo sono la premessa indispensabile per
sgombrare il campo da interpretazioni errate o parziali e per affrontare
le difficoltà e i disagi che la terapia stessa comporta.
Un altro aspetto della chemioterapia da non sottovalutare per le
sue ripercussioni psicologiche è l’uso sperimentale dei farmaci; per
questo è importante la richiesta del consenso scritto da parte del
paziente e la convinzione che il medico deve trasmettergli che il
nuovo farmaco, anche se non completamente sperimentato, ha delle
buone probabilità di essere efficace (in modo da non farlo sentire una
cavia).
Non è infrequente che il malato accetti di sottoporsi ad un
trattamento sperimentale nella speranza che tutto ciò che si acquisisce,
anche se non gioverà a lui direttamente, potrà essere utile a qualcuno
altro.
4.6.4 Fase della remissione e della guarigione
Quando la terapia da risultati positivi, il paziente diventa più
ottimista e meno angosciato circa il suo futuro, anche se deve ancora
affrontare i disagi della terapia a cui è sottoposto; egli si sente
incoraggiato per essere riuscito a superare i momenti più critici della
malattia.
La fase della remissione rappresenta dopo lo shock iniziale la
fase nella quale si accendono speranze di guarigione e si allontana lo
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spettro della morte, ed è a questo punto che la riabilitazione fisica e
psicologica ha un’enorme importanza, anche se permane la necessità
per il paziente di verificare se è realmente guarito, infatti l’ansia
relativa a possibili recidive o a metastasi, che aumenta fortemente ad
ogni check up, tende a decrescere con il passare degli anni ma non a
scomparire totalmente.
4.6.5 Fase della progressione della malattia
La comparsa di recidive o di metastasi portano di nuovo il
paziente all’iniziale sconforto perché, percependo il fallimento della
terapia, si riapre in lui quel senso di ingiustizia, di impotenza e di
perdita di controllo della situazione.
La decadenza fisica, il dolore, l’incapacità a svolgere i propri
compiti familiari e lavorativi, l’impotenza a combattere la malattia
(che progredisce in modo incontrollabile) concorrono a rafforzare lo
stato depressivo che si era instaurato.
Le reazioni psicologiche scatenate da questi problemi se
affrontate con l’aiuto di personale comprensivo ed esperto possono
essere meno eclatanti così da ottenere un progressivo adattamento,
infatti alcuni soggetti portatori di neoplasie incurabili riescono ad
adattarsi alla nuova situazione e a riorganizzare la propria vita.
4.6.6Fase terminale
In questa fase il paziente diventa, solitamente, incapace di
autonomia ed appare sempre più debole, magro e sofferente, per cui
non ha più bisogno di essere incoraggiato o rassicurato, ma gli giova
essere aiutato ad esternare tutto il suo dolore e a distaccarsi
gradualmente dalle persone a lui care.
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E’ attraverso un rapporto empatico che l’infermiere istaura col
paziente, che questo, si sentirà meno abbandonato alla sua solitudine e
alla sua sofferenza.
4.7 Relazione di aiuto fra l’infermiere, il paziente e la famiglia
Di fronte ai problemi e alle reazioni psicologiche che affliggono
il paziente oncologico la psicologia può offrire il suo contributo
analizzando le possibili interazioni tra gli stati mentali dei soggetti
(equipe assistenziale, paziente e familiari) e le possibili patologie sul
loro nascere e sul loro divenire, seconda una prospettiva trattamentale
atta ad accompagnare il paziente e le persone che lo circondano in un
percorso doloroso e intriso di cambiamenti.
Il trattamento comprende diversi modelli di intervento psicoterapeutico:
 incoraggiare il paziente a verbalizzare i pensieri e i sentimenti
negativi relativi alla propria malattia
 chiarire l'influenza di eventuali esperienze precedenti sulla
reazione attuale del paziente di fronte alla diagnosi di cancro
 valutare il peso psichico aggiuntivo e la necessità di trattare le
situazioni stressanti concomitanti ed indipendenti dalla malattia
(ad esempio licenziamenti)
 aiutare il paziente ad affrontare l'incertezza del futuro e le
tematiche esistenziali generalmente associate alla diagnosi di
neoplasia maligna
 chiarire ed interpretare comportamenti ed emozioni disadattive
relative al cancro
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 favorire la comunicazione tra i membri della famiglia
 aiutare il paziente e i familiari a trovare soluzioni alternative ai
problemi pratici posti dalla malattia e dal trattamento.
Considerando la famiglia come un "organismo" dotato di una
propria omeostasi, bisogna guardare la neoplasia con un’ottica diversa
della "semplice" malattia fisica del paziente, perché questa è anche la
causa della rottura di quei legami e quei rapporti familiari che prima
erano stabili.
Anche la famiglia, come il paziente, sperimenta nel corso della
malattia tutta una serie di emozioni (paura, rabbia, ansia, impotenza,
depressione) che sono del tutto normali e comprensibili.
L’intensità di queste emozioni assume spesso un valore
negativo agli occhi dei familiari spingendoli a reprimere, negare,
anestetizzare le proprie e le altrui emozioni; questo controllo
emozionale si traduce, spesso, in un incremento del reciproco senso di
solitudine che porta all’aumento della distanza emotiva all’interno
della famiglia stessa.
La famiglia può andare incontro ad un ipercoinvolgimento, in
questo caso tende ad essere iperprotettiva e invadente nei confronti del
malato e dello staff assistenziale; o a mostrare scarsa partecipazione e
disinteresse dei problemi del congiunto malato.
Una struttura famigliare ottimale dovrebbe presentare delle
caratteristiche di coesione ed intimità, espressione aperta alle
emozioni, mancanza di conflitti importanti; ciò che crea, nel corso
della sua esperienza, una propria convinzione e modalità di risposta
agli eventi e quindi determina la storia della famiglia stessa.
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La situazione è più complicata se la storia familiare è costellata
da lutti per cancro, poiché risulterà più difficile la gestione delle
problematiche e dei cambiamenti legati alla malattia stessa.
Naturalmente, le variabili culturali (popolazione d'origine,
costumi, tradizioni e religione) influenzano lo stile comunicativo
all'interno della famiglia, l'adattamento alla malattia, la relazione con
lo staff e con le istituzioni.
Il supporto che il paziente e i familiari ricevono dalle strutture
oncologiche e dai servizi sanitari rappresenta una variabile importante
nel rapporto tra staff, paziente e famiglia al punto tale che va ad
influenzare il significato affettivo, informativo e pratico che assume la
relazione che intercorre tra essi.
Spesso, le strutture sanitarie pongono poca attenzione alla
famiglia del paziente che viene posta su un secondo piano perchè
considerata come ostacolo al trattamento; dal canto suo, questa non si
rassegna al fatto di doversi tenere in disparte mentre la struttura si
prende in pieno carico il congiunto per cui entrano in conflitto.
Altre volte, l'operatore tendeva comunicare con i familiari
spesso in maniera segreta quasi a definire un campo neutro.
In questo modo, il paziente può fraintendere i messaggi che
riceve al punto tale di sentirsi ingannato, incompreso dallo staff e dai
familiari con uno scarso grado di controllo degli eventi e di
collaborazione.
Successivamente, nella fase terminale della malattia, la famiglia
assume un ruolo marginale dal momento che deve limitarsi ad
attendere solo l'evento finale senza poter far nulla, per cui il
coinvolgimento della famiglia dovrebbe basarsi sul presupposto che
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essa rappresenta, in questa occasione, un potente strumento
"terapeutico" se opportunamente aiutata a superare le difficoltà che si
presentano senza essere abbandonata a sé stessa.
Infatti, il confronto con più figure sanitarie (oncologi,
infermieri, chirurghi) può aumentare, nei familiari, la sensazione di
essere avvolti in un sistema a rete che li protegge e li sostiene in
questa battaglia “già persa”.
Tenendo presente questi aspetti, l’intervento dell’infermiere può
concretizzarsi nella possibilità di offrire al paziente e alla famiglia:
 sostegno e valorizzazione alle risorse familiari
 contenimento delle sofferenze e dello stress intrapersonale e
interpersonale
 creazione di uno spazio di comunicazione tra familiari e
l’equipe, e tra i familiari e il paziente
 ascolto e informazioni rispetto alle decisioni da prendere in
ordine ai diversi problemi che si presentano durante tutto l’iter
della malattia
 Preparazione e aiuto nella fase dell’elaborazione del lutto.
Uno dei compiti più difficili per l'operatore è mantenere un
punto di vista esterno in modo da potersi rendere conto delle reazioni
della famiglia e dello staff stesso rispetto alla malattia e al malato.
A tale scopo è determinante che lo staff sia integrato e
multifunzionale: è importante definire in maniera chiara i modi di
comunicare col paziente e con l'intera famiglia, identificando
all'interno di questa ultima una figura chiave con cui si "intermedierà"
l'approccio terapeutico, le procedure d'intervento (suddividendole
secondo criteri e modalità tecniche) e tutto quanto interesserà il
67
paziente e la malattia.
Quindi l’equipe assistenziale deve:
 Informare chiaramente i pazienti e i familiari ( secondo le
indicazioni ricevute dal paziente all’atto del ricovero nel
rispetto della normativa vigente in materia di privacy)
 Identificare figure a cui ci si possa rivolgere per domande e
chiarimenti
 Coinvolgere la famiglia nella cura del paziente
 Essere realista differenziando desideri e speranze
 Preparare i familiari a realizzare la perdita in caso di diagnosi
maligna e, ad identificare i sentimenti ed esprimerli
 Abituare i familiari a vivere senza il congiunto in modo da
evitare che si chiudono in sé stessi
 Interpretare i comportamenti del familiare, di fronte alla
malattia, come reazione normale
 Far comprendere alla famiglia che ciascuno reagisce a modo
proprio di fronte alla malattia;
 Supportare tutti in maniera continuata
 Valutare i meccanismi difensivi dei familiari
 Identificare eventuali problemi e disturbi conseguenti al lutto.
4.8 L’ équipe assistenziale difronte al tema “morte”
Il confronto con il tema della morte è un'esperienza centrale per
chi lavora in oncologia, questo contribuisce a far sì che gli operatori
sanitari (compresi gli infermieri) siano soggetti a rischio di una
particolare forma di stress lavorativo, burnout, tipica delle cosiddette
68
professioni di aiuto.
Ciò deriva dal fatto che spesso risulta particolarmente penoso
per il personale sanitario:
 comunicare una diagnosi di cancro
 assistere i pazienti durante l’iter terapeutico o in fase terminale
 aiutare i familiari ad essere di supporto per il paziente
 confrontarsi con le trasformazioni e il deterioramento psicofisico di chi si è conosciuto prima che la malattia intaccasse la
sua totale integrità.
Comportamenti quali risposte evasive alla richiesta di dialogo
da parte del paziente, bugie palesi sulla diagnosi, freddezza e cinismo
nella relazione possono manifestare il desiderio di difendersi dal
rischio di una immedesimazione con i problemi del paziente stesso; va
poi sottolineato come i soggetti più giovani riferiscano di sentirsi
maggiormente colpiti dal problema della malattia terminale,
esprimendo nel complesso una maggiore difficoltà nel gestire il
contatto con un paziente destinato a morire.
Ciò sottolinea la necessità di riconsiderare seriamente il
problema della formazione dei medici e degli infermieri e la creazione
di strumenti di supporto per il personale più giovane, anche perché
indagini recenti hanno evidenziato che le domande più frequenti di
formazione attuate dal personale curante riguardano una richiesta di
aiuto personale per poter rapportarsi con il paziente nei momenti
critici quali la comunicazione della diagnosi di cancro, della fase
terminale; e ai familiari la prospettiva del lutto.
Per questi motivi, oggi, nei corsi di laurea e di specializzazione
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sanitarie vengono trattati anche gli aspetti psicologici nella cura delle
malattie terminali, per dare agli operatori sanitari una conoscenza
generale della dinamica psicologica ed una capacità di gestire le
relazioni con questi pazienti e con i loro familiari.
Da ricordare che grandi passi in merito sono stati fatti dal 1965
in poi, quando la psichiatra Kubler-Ross cercò di organizzare il primo
seminario sulla morte e sull’esperienza del morire rivolto ai medici,
allora parve una proposta "sconcertante".
Oggi invece è ampiamente riconosciuto il bisogno di training
specifici e di conoscenze psicologiche di base per chi lavora con
pazienti malati di cancro, e vari autori hanno sottolineato come la
mancanza di una formazione psicologica adeguata possa indurre il
personale sanitario a reazioni difensive nell'impatto con il malato e
con i familiari.
Va sottolineato che questi training, non hanno l’obiettivo di far
diventare psicologi gli oncologi o gli infermieri ma di fornire loro un
aiuto concreto, di cui anche il paziente trarrà benefici.
Quindi sullo staff che lavora in ambito oncologico si può
intervenire con:
 criteri di selezione del personale
 training formativi in psico-oncologia
 interventi formativi per medici ed infermieri (seminari,
workshop, gruppi di supporto).
I possibili criteri di selezione del personale in oncologia
riguardano procedure utilizzate in altri settori, anche se generalmente
non è prevista nel campo della sanità per molteplici cause:
 abilità cognitive interpersonali (saper percepire il punto di vista
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altrui, empatia, cordialità) e capacità tecniche
 una personalità che favorisca l'adattamento di fronte a situazioni
stressanti di lavoro (alta affidabilità con impegno e senso di
responsabilità il lavoro)
 buon sistema di supporto sociale (relazioni sociali valide,
interessi vari)
 buon adattamento nei confronti di esperienze precedenti in cui
si è già avuto a che fare con la morte.
71
CONCLUSIONI
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Il processo di formazione dell’infermiere modificatosi nel
tempo, ha dato luogo ad una figura professionale capace di offrire un
assistenza più qualificata.
L’infermiere al fine di offrire un’ assistenza individualizzata al
paziente
oncologico,
deve
riesaminare
il
proprio
approccio
assistenziale, trasformando il suo operato in un nursing autonomo
basato sui bisogni del malato, ma ciò conduce ad una maggiore
responsabilità, autonomia e controllo gestionale ed educativo.
Il progresso in campo tecnologico e scientifico ha agito in
maniera
positiva,
promuovendo
l’importanza
del
ruolo
che
l’infermiere riveste nella cura del paziente, ciò emerge in maniera
particolare anche perché, spesso i ruoli del medico e dell’infermiere
finiscono per integrarsi in maniera tale da influenzare la rapidità,
l’efficacia e l’efficienza dell’intervento.
L’infermiere in oncologia riveste un ruolo fondamentale, deve
saper essere vicino e comunicativo al paziente senza pretendere di
sfuggire alla realtà, ovvero deve INSTAURARE UN RAPPORTO DI
LEALTÀ.
L’atteggiamento dovrà essere empatico, cioè di comprensione e
di partecipazione ai problemi del malato, mantenendo undistacco
emotivo.
Vorrei concludere questo lavoro sottolineando che, raggiungere
gli obiettivi che una assistenza infermieristica a 360 ° richiede,
significa aver dedicato al paziente il massimo delle risorse personali e
di tutta l’équipe, nonché la consapevolezza di aver assistito la persona
in tutta la sua integrità psico-fisica.
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