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Periodico di Ateneo
Anno XV, n. 3 - 2013
EDUCARE
ALLA LIBERTÀ
Sommario
Editoriale
Primo Piano
La scuola che forma
Lo spazio architettonico come valore educativo
di Mario Panizza
Educare all’Europa
Il ruolo della scuola nell’immaginario sociale
di Francesca Cantù
La vocazione internazionale dell’università
Lo spazio europeo dell’istruzione superiore
di Vincenzo Mannino
Una crescita intelligente, sostenibile e solidale
Il rilievo strategico dell’orientamento
di Massimo Margottini
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L’autoeducazione del “potenziale umano”
L’attualità e l’internazionalità del modello Montessori
di Clara Tornar
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La cultura è uno strumento di liberazione
La pedagogia degli oppressi di Paulo Freire
di Massimiliano Fiorucci
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L’educazione internazionale dei bambini
Il pensiero di Jean Piaget
di Merete Amann Gainotti
Un medium del Novecento
Il ruolo della televisione pubblica nei processi educativi
di Enrico Menduni
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Incontri
Mario Botta. Solo la bellezza potrà salvare il mondo
di Alessandra Ciarletti
Adele Corradi. «A chiunque abbia fatto
la quinta elementare»
di Michela Monferrini
Silvia Calandrelli. Rai Educational
e la formazione continua
di Alessandra Ciarletti
Rubriche
Palladium
Ultim’ora da Laziodisu
Non tutti sanno che…
Documenti
Nell’educazione un tesoro
di Jacques Delors
Recensioni
The women’s table
Un monumento per le studentesse di Yale
di Francesca Gisotti
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Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre
Anno XV, numero 3/2013
Direttore responsabile
Anna Lisa Tota
(professore straordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi)
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Caporedattore
Alessandra Ciarletti
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Redazione
Ugo Attisani, Valentina Cavalletti, Gessica Cuscunà, Paolo Di Paolo, Francesca Gisotti, Elisabetta Garuccio Norrito, Michela Monferrini, Giulia Pietralunga
Cosentino, Francesca Simeoni
C’è bisogno di ricerca
Cambiare la valutazione in ingresso
di Benedetto Vertecchi
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La poetica dell’educare
La parola chiave è condivisione
di Gilberto Scaramuzzo
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Hanno collaborato a questo numero
Giuditta Alessandrini (professore ordinario di Pedagogia sociale e del lavoro),
Merete Amann Gainotti (professore ordinario di Psicologia dello sviluppo e di
Psicologia dell’educazione), Francesca Brezzi (professore senior di Filosofia
morale), Francesca Cantù (prorettore vicario Università degli Studi Roma Tre),
Carla Di Donato (dottore di ricerca in Teatro e arti dello spettacolo, Università
Roma Tre e Université La Sorbonne Nouvelle/Paris III), Massimiliano Fiorucci
(professore associato di Pedagogia interculturale), Sveva Magaraggia (ricercatore a tempo determinato Dipartimento di Filosofia, comunicazione e spettacolo), Vincenzo Mannino (prorettore con delega alle elazioni internazionali Università degli Studi Roma Tre), Roberto Maragliano (professore ordinario di
Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento), Massimo Margottini (delegato del rettore alle politiche di orientamento), Enrico Menduni (professore ordinario di Media digitali: televisione, video, internet), Chiara Meta (dottoressa di
ricerca in Scienze dell’educazione), Mario Panizza (rettore Università degli
Studi Roma Tre), Gilberto Scaramuzzo (ricercatore Teatro e educazione), Clara
Tornar (professore ordinario di Pedagogia sperimentale - coordinatrice del
Centro di studi montessoriani), Carmelo Ursino (commissario straordinario LazioAdisu), Benedetto Vertecchi (professore ordinario di Pedagogia sperimentale), Centro di ascolto psicologico - Divisione politiche per gli studenti
Collettività e connettività
Le leve dell’apprendimento digitale
di Roberto Maragliano
Prospettive di placement
Diritto all’apprendimento e all’occupabilità
di Giuditta Alessandrini
Una stanza tutta per noi
Venti anni di rigoroso lavoro
di Sveva Magaraggia
Idoli di bontà
Il genere come norma nella storia dell’educazione
di Chiara Meta
«To be a man, to be a real man»
La ricerca contemporanea di Gurdjieff
per il risveglio dell’uomo nella sua integralità
di Carla Di Donato
Francisco Varela: conoscere la conoscenza
di Francesca Gisotti
Alcuni fondatori dell’Università degli Studi Roma Tre
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Vicecaporedattore e segreteria di redazione
Federica Martellini
[email protected]
Immagini e foto
Archivio fotografico del Centro di studi montessoriani dell’Università Roma
Tre, Archivio FDLM Fondazione Don Lorenzo Milani - www.donlorenzomilani.it,
Enrico Cano©, Mimesis Lab - Università Roma Tre, Pino Musi©, Beat Pfändler©,
Bia Simonassi© (treebookgallery.blogspot.com)
Ringraziamo Bia Simonassi (treebookgallery.blogspot.com) che ha realizzato
per noi il mind map pubblicato alle pp. 34-35
Progetto grafico
Magda Paolillo, Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma - 06 64561102
- www.conmedia.it
Il progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico
Impaginazione e stampa
Stilgrafica s.r.l. Roma - tel. 0643588200
In copertina
Lezione di tecnologia, 1958, foto Frighi, Archivio FDLM Fondazione Don Lorenzo Milani
Finito di stampare
settembre 2014
ISSN: 2279-9192
Registrazione Tribunale di Roma
n. 51/98 del 17/02/1998
La scuola che “abbiamo a cuore”
di Anna Lisa Tota
«L’educazione si colloca al centro dello sviluppo sia della persona sia della comunità; il suo compito è quello di consentire a ciascuno di sviluppare pienamente i
propri talenti e di realizzare le proprie potenzialità creative, compresa la responsabilità per la propria vita e il conseguimento dei propri fini personali». (da Nell’educazione un tesoro, Rapporto della Commissione internazionale per l’educazione del XXI Secolo, Jacques Delors).
In un passo successivo
di questo famoso discorso presentato all’UNESCO, Jacques Delors afferma che l’eduAnna Lisa Tota
cazione è la via principale per raggiungere ideali di pace, libertà e giustizia sociale. I tipi di educazione che egli menziona
sono quattro: imparare a conoscere, imparare a fare,
imparare a vivere insieme e imparare a essere. Secondo Delors, un’educazione che si limiti a sviluppare uno solo di questi aspetti, è inadeguata per lo
sviluppo armonioso e completo di un essere umano.
In questo numero ci occupiamo di scuola, di educazione e, pertanto, ci occupiamo anche di libertà e di
pace. Educare alla libertà è il titolo scelto in omaggio alla grande tradizione italiana di Maria Montessori e di don Lorenzo Milani, ma anche alla tradizione antroposofica di Rudolf Steiner, ai lavori di
Paulo Freire e di Jean Piaget.
“Educare alla libertà” significa, ad esempio, riconoscere al singolo essere umano la libertà di essere
come è. In una bellissima frase Michaela Glöckler
dice ad un bambino: «Ich freue mich darüber, dass
du genau so bist, wie du bist» (sono felice che tu sia
proprio come sei). Senza giudizio, senza valutazione. Non c’è un ideale esterno, al quale normativamente il bambino si deve conformare, come una
sorta di righello dell’anima con cui “raddrizzare” la
piantina che si ostina a crescere “storta”.
Gli educatori, i “maestri” accompagnano maieuticamente i bambini e le bambine lungo un percorso di
acquisizione progressiva della consapevolezza, lungo un percorso di autoeducazione. Il concetto di autoapprendimento risulta centrale in molte delle prospettive qui menzionate, in quanto via possibile per
coniugare le competenze del sapere con quelle della
vita. Se apprendere infatti significa “fare esperienza”, come insegnare qualcosa all’altro, se non accompagnandolo in un percorso di cui egli stesso sia
fautore?
Le competenze della vita (imparare a vivere insieme, imparare a essere) acquisiscono un’importanza
pari alle competenze del conoscere e del fare. Ma
cosa significa imparare ad essere? A Cartesio che
scriveva «cogito ergo sum», Rudolf Steiner rispon-
deva: «se penso, non sono». Il pensiero nell’antroposofia riguarda la rappresentazione e, come tale,
non riguarda il mondo dell’essere. Imparare ad essere significa, in tale prospettiva, imparare a non
pensare la realtà, ma “a esserla”, cioè a fondersi con
essa. Una qualità che i bambini sembrano avere innata, ma che va perduta nel processo di transizione
all’età adulta e che pertanto un’educazione volta alla libertà potrebbe aiutare a recuperare con consapevolezza. Ma dove e in che modo nelle nostre
scuole e nelle nostre università insegniamo ai bambini e ai giovani ad essere e a vivere insieme? Quali
sono i curricula, dove queste qualità vengono coltivate? All’università la tentazione di dire che “spetta
ai percorsi scolastici precedenti” è forte e suona assai rassicurante, ma è legittima?
In questo numero ci occupiamo
di scuola, di educazione e, pertanto,
ci occupiamo anche di libertà e di pace
In che misura noi professori abbiamo imparato a essere e a vivere insieme? E come possiamo insegnarlo? I confini sicuri delle nostre discipline ci permettono di insegnare materie che, se non felicemente
fecondate dai saperi della vita, possono produrre conoscenze sterili. Imparare a conoscere è certamente
fondamentale, ma come insegnare il resto? E cosa
dire dei saperi pratici? Già in altre occasioni abbiamo sottolineato, sulle pagine di questo giornale, come il saper fare sia tutt’uno con il saper conoscere.
Tuttavia i saperi delle mani, i saperi del corpo sono
stati espulsi dalle fabbriche contemporanee della conoscenza. Sono divenuti saperi di serie b, relegati
ad altri percorsi formativi. Questo processo di per sé
non sarebbe negativo, se a questi percorsi formativi
pratici non fosse stato attribuito “minor valore”. Si
tratta di quel ben noto processo di classificazione
dei saperi che ha legittimato una distinzione netta
tra coloro che sanno e coloro che “sanno fare”. Il
contadino filosofo, l’idraulico ingegnere o il panettiere botanico ci sembrano felici utopie o, perlomeno, eccezioni poco praticabili. Invece, come auspica
Gilles Clément, il futuro sembra orientarsi verso i
monaci giardinieri, cioè verso coloro che di fronte
al miracolo della natura potranno applicare un “sapere fare” coniugato ad un sapere conoscere e ad un
saper essere. In tale futuro non ci sarà posto per diserbanti che aumentino la produttività delle piantine
di pomodori mettendo a rischio l’ecosistema e la salute delle altre specie vegetali, animali, perché chi
usa i diserbanti avrà studiato anche chimica, medicina e filosofia e saprà ben riconoscere le sostanze
che impiega e i loro effetti sull’ecosistema.
È dalla sintesi di tutti i saperi ricordati da Delors
che può scaturire un tipo di azione sociale in cui il
profitto e l’etica pubblica siano due facce della stessa medaglia, senza apparire come due aspetti impossibili da coniugare. Il problema non è più quello
della “quadratura del cerchio”, perché il cerchio è
già di per sé anche un quadrato.
Un altro tema ricorrente nel dibattito sulla scuola è
quello della reciprocità di ogni processo educativo.
“Chi educa chi?” è un Leitmotiv ricorrente: siamo
noi “maestri” ad educare i bambini e le bambine
che ci vengono affidate o l’autoeducazione è reciproca? Quanto siamo disposti a riconoscere e ad
ammettere che i nostri studenti ci accompagnano in
un processo di autoeducazione? Certo questa è una
posizione che mette in gioco, che toglie sicurezza e
che può suscitare timore. Essa mette in discussione
Ma cosa significa imparare ad essere?
A Cartesio che scriveva «cogito ergo sum»,
Rudolf Steiner rispondeva:
«se penso, non sono»
la barriera protettiva del ruolo, ma al contempo permette alla persona “studente” di incontrare la persona “professore”. Permette un dialogo di reciproco
rispetto, permette uno scambio, nel quale il saper
conoscere è intrecciato e intessuto con il saper fare,
con il saper essere e con il saper vivere insieme. È
una posizione di equilibrio faticosamente ricercato
e rinnovato in ogni momento, dove in un gioco sottile e complesso si ricompone la complessità delle
forze che governano la condizione umana, dove
l’autorità non ha più basi legittimate a priori dall’appartenenza ad un ruolo e lascia il posto ad una
ben più solida autorevolezza fondata sul carisma e
sullo spessore morale riconosciuto alla persona. Il
problema di un processo educativo affidato all’autorevolezza è che essa si rinnova di volta in volta in
un patto di stima reciproca, rispetto e libertà che
non può essere dato per scontato una volta per tutte.
L’autorità è una proprietà stabilmente inscritta nel
ruolo e come tale ascritta per colui o colei che lo
occupa. L’autorevolezza invece è una qualità che si
acquisisce “sul campo”, nel corso di successive interazioni sociali. L’autorevolezza in tal senso apre
ad un rapporto pedagogico sempre in divenire, l’autorità preclude la strada della libertà sia per chi la
pratica, sia per chi la subisce.
La questione del potere connesso ai processi di educazione è stata al centro della riflessione di don Lorenzo Milani. Nel 1967 con Lettera a una professoressa egli avvia una riflessione critica profonda sul
Rudolf Steiner
ruolo dei processi educativi, sulle funzioni della
scuola dell’obbligo, sull’importanza di parlare “correttamente” la lingua italiana:
«Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia la
lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi
seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro.
O per bocciarlo. (…) Quando Gianni era piccino,
chiamava la radio “lalla”. E il babbo serio: “non si
dice lalla, si dice aradio”. Ora, se è possibile, è bene
che Gianni impari a dire radio. La vostra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola. “Tutti i cittadini sono uguali
senza distinzione di lingua”. … L’ha detto la Costituzione pensando a lui». (Milani 1967, p. 19).
Don Lorenzo Milani svelò alle famiglie italiane alcune delle incongruenze più profonde dell’istituzione scuola, così com’era concepita dalla mentalità
borghese: perché mai gli alunni si sarebbero dovuti
rallegrare quando c’era vacanza? Di quali alunni si
stava parlando? In quegli anni, quando non si andava a scuola, bisognava mungere le mucche nella
stalla, aiutare nei campi. Ogni giorno di chiusura
della scuola, lungi dall’essere “vacanza”, era un
giorno di lavoro durissimo per giovani, poco più
che bambini. Era un giorno in meno d’istruzione.
Quando la scuola funziona, andarci è una gioia, non
una costrizione. Milani ha in mente una scuola che
riesca a trasmettere la passione per lo studio, l’interesse e l’amore per quello che si fa. Non una scuola
del “si deve”, ma una scuola del “si può” e del “si
vuole”. Come dimenticare la sua appassionata denuncia contro una scuola dell’obbligo che si permette di bocciare:
«Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso
a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate
scuola, ai ragazzi che “respingete”. Ci respingete nei
campi e nelle fabbriche e ci dimenticate».
I campi e le fabbriche di cui parla don Lorenzo Milani appartengono al passato e l’Italia di oggi è profondamente cambiata. Quelli che bocciamo noi dove finiscono?
La scuola che forma
Lo spazio architettonico come valore educativo
di Mario Panizza
Ogni progetto di scuola deriva da un preciso modello educativo e da una specifica realtà urbana. Per interpretarne il valore e la qualità architettonica si deve partire pertanto dalla combinazione tra il rapporto con la città e il riferimento al tipo edilizio, che inquadrano i due principali termini di lettura: chiariscono la ricchezza del progetto e orientano, in prima
approssimazione, i riferimenti culturali ispiratori.
A partire dall’impianto scolastico ottocentesco, rivolto soprattutto alla determinazione di un ordine
interno dove le aule erano allineate lungo un corridoio, lasciando al dialogo con la città facciate atten-
Ogni progetto di scuola deriva
da un preciso modello educativo
e da una specifica realtà urbana.
Per interpretarne il valore e la qualità
architettonica si deve partire
dalla combinazione tra il rapporto
con la città e il riferimento al tipo
edilizio, che inquadrano i due principali
termini di lettura: chiariscono
la ricchezza del progetto e orientano
i riferimenti culturali ispiratori
te a descrivere il valore dell’istituzione, la scuola
razionalista ha definito con precisione i due termini
– rapporto con la città e tipo edilizio – sia sotto l’aspetto culturale sia sotto quello metodologico, rappresentandone le effettive coordinate progettuali.
Chiare sono le premesse urbanistiche e altrettanto
chiari sono i principi che guidano l’impostazione
dell’impianto edilizio. Nella città razionalista, strutturata per quartieri autosufficienti, dove le funzioni
sono separate e riconoscibili, la scuola è distinta per
Walter Gropius, Edwin Maxwell Fry, Scuola secondaria-centro sociale, Impington (Inghilterra), 1939
primo piano
Negli edifici per servizi
e attrezzature pubbliche l’insieme delle dotazioni deve essere
concepito come il naturale complemento di
quanto serve anche alla
città. I musei, le biblioteche, i teatri offrono,
sempre più, ambienti di
uso promiscuo, rivolti
ai diretti fruitori, ma
anche agli utenti che
solo occasionalmente si
Mario Panizza
avvicinano. Nei musei
gli spazi destinati all’accoglienza prevedono punti
di ristoro aperti a tutti, collegati alla libreria e all’area per lo shopping; i teatri sono progettati con foyer a separazioni progressive dove, a seconda delle
necessità, chi assiste allo spettacolo è l’unico utente
oppure, fuori dell’orario di rappresentazione, i comuni passanti possono invadere quei luoghi, talvolta di margine, non destinati a funzioni specifiche.
Anche la scuola, seppure in misura minore, è soggetta a questo tipo di “occupazione” dall’esterno;
anche se con una certa riluttanza, non può non concedere ambienti, funzioni e servizi. La decisione di
aprirsi all’esterno non è però solo ideologica e politica da parte degli insegnanti; essa dipende dall’impostazione tipologica dell’edificio. Questa può essere infatti molto condizionante, limitando i margini di apertura e di collegamento con la città.
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tutto indipendente
dal sistema urbano
circostante. Essa,
per quanto è possibile, è circondata da
una fascia di verde
che le attribuisce
l’immagine di un
microcosmo destinato all’educazione,
isolata e separata fisicamente dal resto
della città.
Nella scuola razionalista la tipologia
trae origine da una
precisa priorità funzionale, dove l’aula,
che identifica l’uniDanys Lasdum, Lindsey Alexander Drake, Scuola primaria a Holfield (Inghilterra), 1955
tà compositiva, costruisce di fatto, atordine e grado, dimensionata in base alle aggregatraverso il sistema di aggregazione, più o meno
zioni urbane: minime, medie e massime – isolato,
complesso, la forma dell’edificio. L’insieme delle
quartiere e città –. Sono grandezze riconducibili a
aule e il sistema dei percorsi configurano l’impianto
planimetrico e rendono esplicite le parti funzionali,
dichiarate all’esterno da precisi riferimenti formali.
La volontà di inserire la scuola
Il riconoscimento della scuola non è affidato alla
sua immagine sintetica, ma all’insieme equilibrato
nel contesto urbano e di integrarla
delle parti, tutte ben connotate, riconducibili a eleformalmente con il resto della città
menti semplici che dichiarano il sistema compositisegna il superamento del modello e della
vo e funzionale dell’intero impianto.
normativa razionalista. La scuola
si trasforma da oasi e paradiso
del fanciullo in uno dei poli della città
in evoluzione: si apre all’esterno
e determina condizioni elastiche
di cambiamento
tempi di percorrenza e quindi idonee a determinare,
secondo l’età dell’allievo, il numero, il tipo di scuola necessario. La relazione con la città è però solo
dimensionale, poiché la forma della scuola è del
Mario Botta, Scuola secondaria, Morbio inferiore (Canton Ticino), 1977
La volontà di inserire la scuola nel contesto urbano
e di integrarla formalmente con il resto della città
segna il superamento del modello e della normativa
razionalista. La scuola si trasforma da oasi e paradiso del fanciullo in uno dei poli della città in evoluzione; si apre all’esterno e determina condizioni
elastiche di cambiamento. Ogni opera architettonica, e soprattutto quella per i servizi pubblici, diventa un potenziale polo aggregatore che integra e rende morfologicamente partecipi anche parti di città
profondamente diverse. Ogni intervento rappresenta
un’occasione per definire il disegno e la forma della
città sia nelle zone consolidate sia nelle aree dove
la crescita informale ha impedito la costituzione di
un sistema urbano. Prende corpo un nuovo modello
di scuola che tende al riordino delle aree urbanizzate. Soprattutto in quelle centrali essa diventa uno
dei poli principali, sistema guida rivolto alla razionalizzazione del tessuto cittadino, luogo non più
astratto, avulso dalla realtà sociale, ma legato alle
condizioni del posto.
Naturalmente per la scuola il problema non è solo
urbanistico, di equilibrio formale e funzionale tra le
parti della città, ma anche specifico, direttamente
rivolto al sistema educativo. I due motivi di carattere urbanistico e pedagogico si fondono pertanto in
un unico obiettivo: la scuola chiusa, estranea alla
città, è sostituita da un sistema didatticamente attivo e stimolante e soprattutto più economico nel
quadro generale dei servizi sociali, con la spinta,
che proviene dall’interno della struttura scolastica,
al rinnovamento del sistema educativo.
La pedagogia moderna vuole infatti, sempre più,
fondere in una unica operazione globale la funzione
didattica e la funzione educativa ed esclude che esse siano patrimonio esclusivo della scuola e soprattutto che si svolgano interamente nell’aula. La radicalizzazione di queste teorie ha portato, addirittura,
anche alla formulazione di ipotesi, ormai abbandonate, che prevedevano la distruzione della scuola e
dichiaravano l’inutilità degli edifici scolastici, in
quanto solo nella comunità era possibile trovare la
vera struttura educativa.
Naturalmente la condivisione dei servizi con la città
circostante è maggiore quanto più è elevato il grado
scolastico. Per tale ragione i licei, soprattutto quelli
Per l’edilizia universitaria la
condivisione dei servizi è ancora più
semplice e diretta in quanto la
destinazione dell’offerta non è esclusiva,
ma aperta a un pubblico esterno. Per
tale ragione gli ambienti di disimpegno
devono essere ampi per accogliere e
favorire quell’interscambio tra docenti,
studenti ed esterni, indispensabile per lo
sviluppo della cultura
di grandi dimensioni che si rifanno al modello della
scuola secondaria superiore tedesca, possono offrire
una serie di servizi aggiuntivi quali la piscina, l’auditorio, la palestra, la biblioteca. Queste strutture,
se opportunamente compartimentate, favoriscono
un uso differenziato e, soprattutto, rendono possibile un orario di apertura dilatato. Questa opportunità
cresce ulteriormente se gli ambienti non sono di tipo specialistico, permettendo una sufficiente flessibilità di utilizzazione. L’esempio più evidente è rappresentato dalla palestra che può essere concepita in
termini solo sportivi, costruita con gli spalti come
un palazzetto dello sport, oppure, in termini meno
agonistici e più sociali, offrirsi per assemblee o
spettacoli tipo recite o square dance.
Per l’edilizia universitaria la condivisione dei servizi è ancora più semplice e
diretta in quanto la
destinazione dell’offerta non è esclusiva, ma aperta a un
pubblico esterno,
che, in alcune occasioni, può anche essere prevalente. Per
tale ragione gli ambienti di disimpegno
devono essere ampi
per accogliere un
numero alto di frequentatori e favorire
quell’interscambio
tra docenti, studenti
ed esterni, indispensabile per lo sviluppo della cultura e dei
risultati scientifici.
Hubert Bennet, John Bancroft, Scuola secondaria superiore, Pimlico, Londra, 1970
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Educare all’Europa
Il ruolo della scuola nell’immaginario sociale
di Francesca Cantù
Il 2014 si presenta come un anno cruciale
per interrogarsi su quali siano o possano essere riconosciuti come
dati costitutivi della
cultura europea, base
imprescindibile di
quell’identità dell’Europa, che oggi rappresenta uno dei temi più
accesi nel dibattito sull’avvenire dell’Unione
Europea e sul valore
Francesca Cantù
della nuova cittadinanza generata dai processi d’integrazione. In quest’anno, infatti, ricorre il centenario della Prima Guerra
Mondiale: una guerra terribile, dalla mai prima immaginata forza distruttiva, che segnò una crisi profonda nella coscienza europea, chiamata a dover
fronteggiare dopo poco più di un trentennio anche
una seconda guerra fratricida, estesa al mondo intero. In quelle drammatiche vicende sembrarono naufragare quegli ideali di civiltà che, pure tra mille
contraddizioni, erano cresciuti insieme con la modernità del nostro continente.
In questo stesso anno ricorrono anche i venticinque
anni dalla caduta del muro di Berlino con l’epocale
riassorbimento dell’aspra frattura tra l’Europa Occidentale e l’Europa Orientale, che aveva caratterizzato l’epoca della guerra fredda e il confronto in
armi tra due sistemi ideologici irriconciliabili. Oggi, con l’allargamento a 28 Stati membri si è accentuata la fisionomia multiculturale e multilingue
dell’Unione europea, ma sono anche cresciute le
paure di dover integrare popoli in condizioni di
grande lontananza dal modello culturale europeo
fortemente occidentale e occidentalizzato (ad es. la
Turchia, che ripropone il problema della presenza
dell’Islam entro i confini europei: 53 milioni di
aderenti nell’Europa geografica, 17 milioni nell’Unione Europea).
Le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo,
appena avvenute nel mese di aprile, hanno rappresentato un segnale contraddittorio con l’affacciarsi
nella rappresentanza istituzionale di un folto gruppo
di euroscettici. L’attuale semestre di presidenza italiana del Consiglio d’Europa vuole autodefinirsi mediante il rilancio della visione intensa e partecipata
dei Padri fondatori (1958), ma anche con l’esercizio
di una difficile mediazione per rendere più flessibili
quei vincoli di bilancio, che nell’attuale crisi socioeconomica tendono a soffocare la visione dell’Europa come patria comune.
Dagli Anni Novanta del secolo scorso la Commissione europea si è resa conto con intensità crescente della necessità improrogabile di elaborare una
politica culturale comunitaria al servizio della costruzione di un’identità europea condivisa: quest’ultima, condizione imprescindibile per unire con
un vincolo virtuoso tre aspetti ineludibili per la vita dell’UE quali la coesione sociale, l’integrazione
politica ed economica, il sistema di governance (e
la sua legittimazione). Molti critici sottolineano
come deficit democratico del sistema l’assenza di
un vero popolo europeo, che però allo stato attuale
non può formarsi a prescindere da un forte progetto educativo, che conformi le giovani generazioni a
una visione dell’Europa pluralistica e cosmopolita
in grado di superare lo schema consolidato e univoco dello Stato-nazione e l’esasperazione del nazionalismo, che vede la nazione come luogo unico,
esclusivo ed escludente di formazione ed espressione di una coscienza identitaria collettiva. Per
queste ragioni, nell’ottica dei decisori politici di
Bruxelles le Università sono diventate un asse portante delle politiche culturali comunitarie e l’ambizioso programma di finanziamento della ricerca
scientifica europea, nei suoi aspetti di base e di trasferimento tecnologico, denominato Horizon 2020,
vede in quelle stesse Università un luogo strategico
per la salvaguardia e la promozione del patrimonio
culturale europeo secondo canoni formativi e d’intervento profondamente innovativi e partecipati. Il
Molti critici sottolineano come deficit
democratico del sistema l’assenza
di un vero popolo europeo, che però
allo stato attuale non può formarsi
a prescindere da un forte progetto
educativo, che conformi le giovani
generazioni a una visione dell’Europa
pluralistica e cosmopolita in grado
di superare lo schema consolidato
e univoco dello Stato-nazione
programma Erasmus, affermatosi ormai come lo
strumento classico per promuovere e sostenere la
mobilità degli studenti e dei docenti all’interno dei
sistemi universitari europei diventando, così, lo
strumento istituzionale più usato per lo scambio di
esperienze formative e linguistiche, ha subito diverse trasformazioni per adattarsi al progredire
dell’intensità e del peso della formazione interuniversitaria europea. Nella sua ultima versione, Erasmus Plus, è stato posto principalmente al servizio
Una carta d’Europa del 1700, nella quale si distingue fra “Moscovia Europa” e “Moscovia Asiatica” e fra “Turchia Europa” e “Turchia
Asiatica”. Guillaume Delisle, L’Europe dressée sur les observations de Mrs de l’Académie royale des Sciences et quelques autres: et
sur les mémoires les plus recens / par G. De L’Isle, A Paris, chéz l’auteur, 1700 (Bibliothèque nationale de France, Paris, Collection
d’Anville; 00154)
della realizzazione di titoli di studio doppi o congiunti erogati da due o più Università, superando
lo schema degli accordi bilaterali privilegiati per
sostituirlo con reti di Università europee costituitesi in consorzio. Appartenendo alle Università in rete, gli studenti possono ormai compiere il loro percorso formativo in più sedi sperimentando nella
realtà dei vari insegnamenti disciplinari e metodologici, delle diverse istituzioni universitarie e dei
differenti paesi che cosa possa significare vivere in
quella che, nello sviluppo del Processo di Bologna,
è stata definita come l’European Higher Education
Area (Dichiarazione di Budapest, 2010), il cui futuro sarà discusso nel prossimo mese di novembre
in un’importante Conferenza internazionale
(http://www.ehea.info).
Tra le discipline, che possono vantare una finalizzazione importante per la costruzione dell’Europa nel
presente e nel prossimo futuro, accanto al diritto, all’economia, alle scienze politiche e sociali, allo studio delle relazioni internazionali, alle lingue straniere e alle materie scientifiche e tecnologiche, ce
n’è sicuramente una, apparentemente priva di efficacia strumentale immediata, eppure centrale per la
formazione di un’identità europea e per l’educazione ad un’Europa dialogante, tollerante, democratica
e comunitaria. È la storia d’Europa: disciplina complessa, ricchissima, illuminante, ma anche drammatica, contraddittoria, talvolta tragica, spesso problematica, ma irrinunciabile per conoscere da dove
Le Università sono diventate un asse
portante delle politiche culturali
comunitarie e l’ambizioso programma
di finanziamento della ricerca
scientifica europea, nei suoi aspetti
di base e di trasferimento tecnologico,
denominato Horizon 2020,vede nelle
Università un luogo strategico
per la salvaguardia e la promozione
del patrimonio culturale europeo
viene, dove si trova, dove vorrà andare il nostro
continente e, più specificatamente, l’Unione europea nella configurazione plurale dei suoi popoli,
delle sue lingue, delle sue culture, della sua civiltà.
Sebbene dell’esistenza di un vasto territorio geografico, dai confini imprecisati e variabili, chiama-
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to Europa, contrapposto alle altre due parti del
mondo, Asia e Libia (Africa) e spesso identificato
con la Grecia (Erodoto), fossero già avvertiti gli
autori dell’Antichità, l’idea d’Europa a cui oggi noi
facciamo riferimento nasce e si afferma nell’età
Le storie d’Europa, che hanno variamente formulato queste problematiche e variamente vi hanno risposto, si sono susseguite molteplici nella storiografia del Novecento: da quella del belga Pirenne a
quella del francese Febvre, a quella dell’italiano
Chabod e dell’inglese Davies, per
citarne soltanto alcune, che costituiscono oggi altrettanti classici punti
di riferimento. Eppure sorprende il
fatto che la storia
dell’Europa
(e
dell’idea di Europa)
sia entrata solo recentemente, con la
sua denominazione
specifica, fra le discipline storiche insegnate all’Università. La storia costituisce, in realtà, un
fattore determinante dell’immaginario
sociale di un popolo, di una nazione,
di uno Stato; ma
anche di una comunità transnazionale
«Irgendwann fällt jede Mauer». Prima o poi ogni muro cade. Un graffito sul Muro di Berlino. L’immagine (o postnazionale) e
fa parte di una galleria di foto scattate nel 1989, alla vigilia della caduta del Muro - di cui quest’anno ricorsovrastatuale quale
re il 25° anniversario - dall’allora studente diciassettenne Frederick Ramm©
quella costituita dai
soggetti appartemoderna con la respublica litterarum degli umaninenti all’Unione europea, che proprio nel sentisti, la scienza politica di Machiavelli, la provocatomento di una storia e di una identità culturale conria scoperta dell’alterità radicale rappresentata dal
divisa possono superare il problema di appartenere
Nuovo Mondo (America). Nella concatenazione di
a un’Europa tuttora frammentata politicamente e
questi eventi e di queste realtà si articola la rispopriva di un vero demos (popolo). Problema cruciasta all’interrogativo così ben formulato dallo storile, quest’ultimo, perché senza demos non può esco italiano Federico Chabod: «Quando il nome Euserci democrazia.
ropa cominciò a designare non solo un complesso
geografico, sì anche un complesso storico; non soLa storia costituisce un fattore
lo un determinato fattore fisico, sì anche un determinante fattore morale, politico, religioso, artistico
determinante dell’immaginario sociale
della vita dell’umanità? E quali furono le caratteridi un popolo, ma anche di una comunità
stiche con cui l’Europa si discoprì, moralmente, ai
transnazionale e sovrastatuale quale
suoi figli; quali, cioè, i lineamenti morali che le furono attribuiti, come propri di essa e di essa sola?».
quella costituita dai soggetti appartenenti
Se l’italiano di Chabod può suonare, oggi un po’
all’Unione europea, che proprio
desueto, non è superato il significato concreto e
nel sentimento di una storia e di una
simbolico dell’interrogativo da lui formulato nelle
sue lezioni universitarie romane tra il 1946 e il
identità culturale condivisa possono
1952, di fronte alla tragica memoria di milioni di
superare il problema di appartenere
morti, alle macerie e alle lacerazioni profonde laa un’Europa tuttora frammentata
sciate dalla Seconda Guerra Mondiale. E non è né
trascurabile né accessorio il fatto che la generaziopoliticamente e priva di un vero demos
ne di coloro che oggi l’Europa Unita considera i
suoi padri fondatori sia stata coinvolta e abbia vissuto la tragedia dello scontro ideologico tra il totaTra le diverse risposte che le istituzioni universitalitarismo nazi-fascista (da cui nacque anche la
rie europee hanno dato al problema di educare
Shoah) e le democrazie liberali. Educare all’Euroall’Europa mediante uno specifico percorso formapa significa ancora conservare la memoria di quetivo basato sulla costruzione di una nuova consapegli interrogativi e di quelle origini.
volezza di appartenere a una storia e a una cultura
fondate su valori comuni e condivisi nonché di
nuove competenze professionali spendibili in contesto europeo, sostenute da una cultura storica approfondita e sicura, ne vorrei mettere qui in evidenza una, che mi sembra di particolare interesse
sia in generale sia per l’Università Roma Tre. Essa
consiste nell’attivazione di una Laurea Magistrale
congiunta in Storia europea (Joint Master in European Studies), regolata da un Consortium Agreement nato in seno a UNICA (l’Unione delle Università delle Capitali Europee), che riunisce in una
rete formativa sette Università appartenenti a cinque capitali: Vienna (Università di Vienna), Berlino (Freie Universität e Humboldt-Universität),
Londra (King’s College), Dublino (University College), Roma (Tor Vergata e Roma Tre), a cui si aggiungono in qualità di membri associati l’Università di Tallin e l’Università di Paris VII-Diderot. Il
programma degli studi si fonda sull’analisi comparata della storia europea e prevede una formazione
avanzata sia dal punto di vista della didattica come
della ricerca in grado di dare a studenti qualificati,
selezionati secondo le regole interne di ciascuna
Università, competenze analitiche e interpretative
rispetto alla storia economica, sociale, culturale,
intellettuale, religiosa dell’Europa. Sono privilegiate le tematiche della storia della violenza e dei
conflitti, della storia coloniale e post-coloniale,
della storia della costruzione dello Stato e della nazione, delle relazioni internazionali e transculturali,
delle migrazioni. Gli studenti vengono formati
all’uso critico, teorico e metodologico, del comparativismo storico, all’utilizzazione delle fonti primarie e alla pratica delle lingue straniere; devono
acquisire la capacità d’individuare i temi-chiave
del dibattito storiografico e saper presentare le proprie conclusioni e i propri approfondimenti con
originalità e rigore; devono, infine, acquisire le conoscenze necessarie, gli strumenti scientifici e i
metodi appropriati per sviluppare individualmente,
implementare e valutare i modi efficaci di accostare e risolvere le questioni scientifiche. Nel lavoro
di tesi devono dimostrare di aver raggiunto cono-
Roma Tre ha attivato una Laurea
Magistrale congiunta in Storia europea
(Joint Master in European Studies),
che riunisce sette Università
appartenenti a cinque capitali: Vienna
(Università di Vienna), Berlino
(Freie Universität e HumboldtUniversität), Londra (King’s College),
Dublino (University College),
Roma (Tor Vergata e Roma Tre),
a cui si aggiungono in qualità
di membri associati l’Università
di Tallin e l’Università di Paris
VII-Diderot
scenze approfondite, comprensione critica e autorevole capacità d’interpretare i differenti aspetti
della storia europea e di condurre in proprio ricerche originali e fondate analisi e riflessioni critiche.
Gli studenti devono conseguire nelle Università
partner da 30 a 60 crediti dei 120 necessari per ottenere il titolo di studio italiano e quello delle Università consorziate in cui hanno svolto parte della
loro formazione.
A Roma Tre la Laurea Magistrale in
Storia europea è incardinata nella Laurea Magistrale in
Storia e società,
presso il Dipartimento di Studi
Umanistici. L’anno
accademico 20132014 è stato quello
di prima attivazione
e ha visto venire a
frequentare i nostri
corsi due studenti
della HumboldtUniversität di Berlino, la più prestigiosa Università privata
della Germania, con
un ottimo risultato
personale. Posta nelle mani di giovani
motivati l’Europa
continua ad essere
un’affascinante avventura.
Horizon 2020 è un ambizioso programma di finanziamento della ricerca scientifica europea
11
12
La vocazione internazionale dell’università
Lo spazio europeo dell’istruzione superiore
di Vincenzo Mannino
La più antica università
del mondo, lo Studium
di Bologna, è nata come
organizzazione libera e
laica di studenti che
provenivano da tutta
Europa. Essi, dopo avere completato gli studi,
ritornavano nel Paese di
origine ed esprimevano
negli studi successivi,
nell’attività professionale, quelle comuni conoscenze e quelle uniVincenzo Mannino
versali esigenze che
avevano imparato a riconoscere, rispettare ed amare
attraverso il confronto con i loro colleghi e con i docenti.
Dominava l’aspirazione a un sapere senza confini e
la dimensione internazionale qualificava gli studi:
nella loro proiezione strettamente culturale e in
quella professionale. Ciò vale anche oggi, perché la
globalizzazione si fonda su una rete di interrelazioni sovranazionali e l’università ha il compito di dotare gli studenti delle conoscenze - di base e specialistiche - indispensabili per essere cittadini del
mondo. Deve produrre e trasmettere una conoscenza solida, ma, nello stesso tempo, flessibile e idonea
a essere spesa senza confini.
L’università ha avvertito in Europa queste esigenze
e nella parte conclusiva del secondo millennio ha
saputo rilanciare la propria originaria vocazione didattica a dimensione internazionale, dandole voce
con la Dichiarazione di Bologna del 1999, quando
29 ministri europei dell’istruzione hanno assunto
l’impegno solenne di realizzare lo “spazio europeo
dell’istruzione superiore”. Non è stata una scelta
estemporanea, ma la conclusione coerente di una
serie di precedenti decisioni: a cominciare dalla redazione della Magna Charta Universitatum del
1988, in occasione del 900° anniversario dalla fondazione dell’Università di Bologna. Con essa si era
enunciata la volontà di incoraggiare il rafforzamento dei legami tra le istituzioni universitarie europee
e contemporaneamente la loro apertura al mondo
extra-europeo. La Magna Charta aveva chiaramente indicato nell’istruzione superiore l’elemento di
più forte impatto per l’avvenire dell’umanità, evidenziando quali valori fondamentali dell’insegnamento universitario, l’autonomia, la stretta e imprescindibile connessione della didattica con la ricerca,
la libertà dei docenti e la trasmissione di una conoscenza priva di limiti geografici e/o politici.
La Dichiarazione di Bologna, però, si è posta in linea di continuità anche con quanto si era affermato
nel precedente di Lisbona (1997): con l’esigenza di
pervenire in Europa al riconoscimento mutuo dei titoli di studio, alla loro armonizzazione e spendibilità in un mercato del lavoro internazionale, secondo
un cliché sviluppato dalla successiva Dichiarazione
della Sorbona (1998), con la decisione di omogeneizzare gli studi universitari in due cicli: uno di
primo e uno di secondo livello, utilizzando i crediti
secondo il sistema ECTS (European Credit Transfer and Accumulation System), articolando gli studi
in semestri, creando programmi di studio diversificati e multidisciplinari rispetto a quelli più tradizionali, favorendo l’approfondimento delle conoscenze
linguistiche e delle nuove tecnologie informatiche.
Sono questi i presupposti che hanno prodotto in Europa lo spazio europeo dell’istruzione superiore, destinato ad assumere sempre maggiore evidenza già
all’inizio del terzo millennio: grazie alla consolidazione del Programma Erasmus e alla fissazione di
nuovi e ambiziosi obiettivi in una serie di incontri
susseguitisi a cadenza biennale. Ne è derivato il riconoscimento, a Praga (2001), dell’istruzione superiore come bene pubblico e del diritto all’apprendi-
La globalizzazione si fonda su una rete
di interrelazioni sovranazionali
e l’università ha il compito di dotare
gli studenti delle conoscenze - di base
e specialistiche - indispensabili
per essere cittadini del mondo.
Deve produrre e trasmettere
una conoscenza solida,
ma, nello stesso tempo, flessibile
e idonea a essere spesa senza confini
mento permanente (secondo una prospettiva fatta
propria dal Parlamento e dal Consiglio Europeo nel
2006 con la creazione del Life-Long Learning Programme); la riaffermazione, a Berlino (2003), di un
indissolubile collegamento fra didattica di alto livello e ricerca, la configurazione stabile del Dottorato come terzo ciclo dei curricula didattici universitari; l’invito a sviluppare programmi di sostegno
per i meno abbienti.
La vocazione internazionale dell’università viene
ormai percepita come un ineliminabile pilastro della sua funzione didattica e varie evidenze lo confermano in modo inequivocabile.
Innanzi tutto, la realizzazione di una convergenza
dei cicli di studio e dei titoli. Il primo ciclo è indicato con il nome bachelor e ha una durata triennale,
mentre il secondo è denominato master e ha una durata biennale. Il terzo ciclo coincide con il Dottora-
to. Il cosiddetto 3+2 consente l’inserimento nel
classifiche generali delle migliori università del
mondo del lavoro già alla fine del primo ciclo di stumondo. In queste classifiche la valutazione della didi. Il terzo ciclo ha lo scopo di accrescere la compedattica nella sua proiezione internazionale ha un
titività dei singoli e dei Paesi nel mercato globale.
ruolo tutt’altro che secondario. Perciò, anche se
In secondo luogo, l’introduzione generalizzata del
molto si potrebbe discutere sul ruolo e il modus
sistema dei crediti, basato sul sistema ECTS. Esso
operandi delle agenzie, non si può negare che esse
consente la descrizione dei programmi di
studio: nella sostanza, sulla valutazione
del carico di lavoro richiesto allo studente per raggiungere gli obiettivi di un corso di studi. Il sistema ECTS è facilmente
esportabile. Si rivela uno strumento assai
incisivo per l’abbattimento delle barriere
nazionali e il riconoscimento mutuo dei
titoli. Facilita non poco la mobilità degli
studenti, con il riconoscimento degli studi compiuti in università diverse da quelle di origine.
Accanto al Programma Erasmus, l’internazionalizzazione della didattica ha trovato una formidabile spinta nel Programma Leonardo da Vinci, allo scopo di rendere possibile un primo avviamento alla
professione in un contesto internazionale, e nel Programma Tempus, finalizzato
a sostenere lo scambio di studenti tra i
paesi UE e quelli confinanti.
La dimensione internazionale della didattica è stata inoltre favorita dalla diffusione degli accordi inter-universitari per
il rilascio di titoli congiunti, doppi e
multipli, ma anche dalla pratica della L’ingresso di alcuni studenti nella Natio Germanica Bononiae, il collegio di stucertificazione della qualità degli studi denti tedeschi a Bologna; miniatura del 1497
nei vari Paesi allo scopo di monitorare la
qualità della didattica a tutti i suoi livelli, come essenziale strumento in mano alle universiforniscono una fotografia di cui è utile tenere conto.
tà per conquistarsi una buona reputazione. QueCertamente nelle scelte in materia di didattica: tanto
st’ultima, infatti, rappresenta un elemento decisivo
più che l’apertura internazionale della didattica avrà
nella competitività globale. La reputazione è la vera
nei prossimi anni un peso crescente nella distribu“moneta” dell’istruzione superiore e, perciò, neceszione delle risorse pubbliche, come dimostra il dosita anche di certificazioni esterne ed oggettive.
cumento di programmazione triennale 2013-2015
Roma Tre ha aderito in modo convinto al processo
del MIUR, dove si prospetta l’attribuzione di un
storico fin qui sintetizzato. Ha accettato la sfida
30% del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO)
dell’internazionalizzazione della propria offerta didelle Università al grado di internazionalizzazione
dattica, proponendo diverse attività di counseling,
dei singoli atenei italiani.
di tutoring, di ri-orientamento, in una dimensione
non più solo domestica. Ha introdotto forme di diLa vocazione internazionale
dattica-tirocinio attivo inusuali per l’Italia, come
dell’università viene ormai percepita
quelle della clinic of law. Offre un’ampia rosa di
corsi in lingua inglese e in altre lingue, distribuiti
come un ineliminabile pilastro della
lungo l’asse europeo Laurea triennale-Laurea Magisua funzione didattica e varie evidenze
strale-Dottorato, ma anche interi corsi e curricula
lo confermano in modo inequivocabile
volti al rilascio di titoli congiunti, doppi e multipli.
Tutti i corsi si caratterizzano per l’adozione del sistema ECTS e gli studi si svolgono stabilmente in
Dobbiamo di conseguenza chiederci se e come l’insemestri, secondo l’organizzazione più diffusa dei
ternazionalizzazione della didattica incide sulle percalendari accademici delle università di altri paesi,
formances di Roma Tre muovendo da alcuni dati di
per favorire ulteriormente gli scambi degli studenti.
più immediata percezione.
Nonostante questo sforzo, confortato nella sua posiÈ innegabile che un elemento di criticità sia rappretività dal crescente appeal dell’Ateneo e dal recente
sentato dalla misura decrescente delle risorse pubingresso nella classifica Times Higher Education
bliche destinate in questi ultimi anni al sistema uniche valuta le 100 migliori università del mondo con
versitario italiano. Questo insufficiente impegno fimeno di 50 anni d’attività, Roma Tre - come del renanziario ha prodotto esiti nefasti, ma ha avuto efsto la netta maggioranza delle università italiane fetti indubbiamente negativi per un ateneo giovane
non compare o ha un posto solo residuale nelle
come Roma Tre, che avrebbe avuto bisogno di in-
13
14
vestimenti più adeguati a stimolarne la crescita: anche rispetto alle politiche per l’internazionalizzazione della didattica. Bisogna sperare in un’inversione di tendenza a livello nazionale. Tuttavia, non
si può restare fermi. Bisogna avere coraggio e compiere uno sforzo di fantasia, realizzando alcuni interventi lungo l’asse rappresentato dalla capacità di
coniugare il rafforzamento della mobilità docente e
studentesca internazionale: sia in entrata, che in
uscita. In questa prospettiva, alcuni interventi si
prefigurano particolarmente promettenti: la stipula
di convenzioni che consentano il superamento dei
diffusi punti critici nell’accoglienza (riconoscimento del titolo di studio conseguito fuori dell’Italia,
permessi di soggiorno, assicurazione-assistenza sanitaria, alloggio etc.); la creazione presso tutti i Dipartimenti, di una stabile e diffusa struttura di supporto ad hoc, affidandone la gestione a studenti con
le adeguate conoscenze linguistiche e delle problematiche studentesche, con compiti di accoglienza,
da ricompensare con l’attribuzione di crediti formativi; favorire l’iscrizione di studenti stranieri ai
‘corsi singoli’; l’aumento consistente degli insegnamenti in lingua inglese e l’attivazione di interi corsi
di studio in lingua inglese, aperti a studenti italiani
e di altri paesi; il potenziamento dell’offerta di corsi
da parte del Centro linguistico di Ateneo; l’offerta
(anche a seguito di accordi con le strutture di governo territoriali) alle comunità di immigrati a Roma,
spesso in possesso di titoli accademici non immediatamente riconoscibili, dell’opportunità di iscri-
versi a Roma Tre per ottenere un titolo accademico
italiano; il forte stimolo alla partecipazione di Roma Tre alle azioni previste dal programma Erasmus+, destinato ad avare un ruolo chiave nei programmi europei per l’istruzione; l’elaborazione di
un regolamento generale di mobilità-studenti Era-
La dimensione internazionale
della didattica è stata inoltre favorita
dalla diffusione degli accordi
inter-universitari per il rilascio di titoli
congiunti, doppi e multipli, ma anche
dalla pratica della certificazione della
qualità degli studi nei vari Paesi allo
scopo di monitorare la qualità della
didattica a tutti i livelli, come essenziale
strumento in mano alle università per
conquistarsi una ‘buona reputazione’
smus; il coinvolgimento delle università partner
con cui più intensi sono gli scambi in termini di
crediti riconosciuti agli studenti in mobilità, per la
definizione di ‘pacchetti di crediti’ collegati a curricula precostituiti e riconducibili a diversi semestri;
l’estensione del numero dei percorsi didattici volti
al rilascio di titoli congiunti, doppi e multipli, anche
sfruttando le opportunità aperte dal recente bando
Erasmus+, dai bandi dell’Università italofrancese, etc.; l’attrazione di docenti-ricercatori di alto e riconosciuto livello internazionale, che operino in strutture all’estero, anche
offrendo un certo numero di posizioni dedicate di visiting professor come volano per l’avvio di nuovi rapporti di collaborazione didattica e scientifica con istituzioni ai vertici del
ranking internazionale; l’ampliamento della
rete di collaborazioni internazionali con quei
paesi emergenti le cui politiche si caratterizzino per il sostegno ai propri studenti che vogliano iniziare o completare il loro percorso
di studi in paesi con più consolidate e qualificate tradizioni come l’Italia; l’organizzazione, in collaborazione con le Camere di Commercio, con il Ministero delle Attività produttive e con il Ministero degli Affari esteri, di
Master di primo e secondo livello per dotare
delle necessarie conoscenze gli studenti che
vogliano avviare iniziative imprenditoriali in
Italia e all’estero.
Molto altro, ovviamente, si potrà e dovrà progettare e realizzare. Una cosa, comunque, deve essere chiara. L’Europa ha fissato l’obiettivo che almeno il 20% dei laureati dovrà avere
avuto nel 2020 un’esperienza di mobilità all’estero per studio o per formazione (Lovanio, 2009). La strategia della mobilità per un
migliore apprendimento si consoliderà come
uno dei pilastri dell’internazionalizzazione di
tutta l’istruzione superiore (Bucarest 2012).
Roma Tre deve dotarsi di tutti gli strumenti
per rispondere a questa ‘sfida’ epocale.
Una crescita intelligente, sostenibile e solidale
Il rilievo strategico dell’orientamento
di Massimo Margottini
L’orientamento universitario, nella sua articolazione di orientamento
in ingresso, in itinere e
in uscita, ha assunto
negli ultimi decenni un
ruolo sempre più importante all’interno
delle politiche di sviluppo degli Atenei.
A fondamento del nuovo quadro d’impegni si
può collocare il disegno strategico dell’EuMassimo Margottini
ropa e dei suoi stati
membri di promuovere uno sviluppo economico e
sociale centrato sulla “società della conoscenza”
che si pone gli obiettivi di «promuovere una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, trovare il modo di creare nuovi posti di lavoro e offrire un orientamento alle nostre società» (Manuel Barroso,
2010, Europa2020). E questo implica, in primo luogo, adeguati livelli d’istruzione e formazione della
popolazione in una prospettiva di life long learning,
un mercato del lavoro in grado di valorizzare pienamente le risorse umane, una produzione in grado di
competere sui mercati internazionali nel rispetto
delle persone e dell’ambiente, un’equa distribuzione della ricchezza.
In tale direzione dapprima la cosiddetta Strategia di
Lisbona del 2000 e quindi, a distanza di un decennio,
la nuova strategia Europa2020 propone un articolato
quadro di obiettivi per promuovere una crescita intelligente, sostenibile e solidale. In primo piano, l’innalzamento dei livelli d’istruzione secondaria e terziaria dei giovani con un significativo incremento dei
tassi di occupazione e riduzione del pernicioso fenomeno del drop out e al tempo stesso una quota maggiore di adulti lavoratori in formazione.
Com’è noto, il nostro paese, proprio su questi indicatori, ce lo ricorda annualmente il rapporto Education at a glance, si colloca in fondo alle classifiche
dei paesi OCSE. Ciò che colpisce maggiormente è
il basso numero di laureati e il costante calo d’immatricolazioni universitarie degli ultimi anni non fa
che acuire il dato. E neppure sembrano convincere i
giovani, più di tanto, quei messaggi rassicuranti che
mostrano come, nel medio e lungo periodo, a un
maggior livello di qualificazione corrisponda maggiore probabilità di occupazione e miglior reddito
(Esiti occupazionali dei laureati, AlmaLaurea,
2014). Altri dati sembrano colpire di più: il numero
crescente di giovani laureati e dottori di ricerca che
lascia il nostro Paese per cercare migliori opportunità. Nel 2013 il 31% dei nostri laureati in ingegneria ha trovato lavoro all’estero. E, com’è noto, la
laurea in Ingegneria è quella che registra da tempo
tra i più alti livelli di occupabilità. Il fenomeno non
s’inquadra neppure, purtroppo, in un virtuoso esempio di mobilità professionale perché deve essere letto insieme al dato che mostra come, nel nostro Paese, solo il 3,3% degli occupati lavora nei settori più
innovativi, percentuale sotto la media europea e,
ancor più preoccupante, arretra annualmente di uno
0,3% a fronte di un incremento in Europa dello 0,9.
Il fenomeno si presenta naturalmente molto complesso perché da una parte richiama l’educational
mismatch e lo skill mismatch ossia un disallineamento tra domanda e offerta che riguarda sia i titoli
di studio sia le competenze professionali e dall’altro
la natura di un sistema produttivo che non sembra
in grado di crescere nella direzione richiesta per
competere sugli attuali mercati.
L’attuale mondo del lavoro sembra
caratterizzato da attività professionali
sempre meno definite e prevedibili
e le transizioni lavorative risultano
essere sempre più frequenti e difficili.
Nell’era dell’informazione è sempre più
richiesta l’iniziativa personale
e l’adattabilità professionale, ovvero
quell’insieme complesso
di atteggiamenti ed abilità
che riguardano l’ottimismo, la
propensione a pensare e a pianificare
il proprio futuro professionale
Quindi, se è vero che spesso il mondo del lavoro lamenta una congenita difficoltà del nostro sistema
formativo a generare livelli di qualificazione professionale direttamente spendibili sul mercato del
lavoro, è altrettanto vero che il nostro sistema produttivo sembra incapace di valorizzare, in una prospettiva di crescita e innovazione, il potenziale di
risorse umane di cui disporrebbe. Potenziale che,
come si diceva sopra, trova invece collocazione altrove, con un bilancio nettamente in negativo tra
“intelligenza” esportata e quella importata. Ne consegue che, nell’ultimo decennio, nelle nostre imprese, si è andata costantemente riducendo la percentuale di nuovi assunti con un elevato livello di specializzazione. «Ciò può essere dovuto alla scarsa
propensione all’innovazione di cui soffrono le
aziende italiane e al basso livello d’istruzione degli
imprenditori italiani. Infatti, la propensione ad assumere laureati cresce significativamente in relazione
15
16
alla dimensione delle imprese e al
loro grado di internazionalizzazione
e innovatività» (Giovanni Solimine,
Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia, Bari, Laterza, 2014).
Quindi quando parliamo di rilievo
strategico dell’orientamento dobbiamo intenderne un duplice ruolo:
quello di contribuire alla armonizzazione dei rapporti tra sistemi formativi e mondo del lavoro e quello
di promuovere azioni e servizi di
supporto al progetto professionale e
personale degli individui.
Non c’è dubbio infatti che di fronte
alle caratteristiche mutevoli del
mercato del lavoro, alla esigenza di
flessibilità che produce talvolta diffusi fenomeni di precarizzazione,
sia necessario rispondere sia attraverso adeguate forme di tutela sia rafforzando nelle
persone la capacità di interpretare il cambiamento
come opportunità piuttosto che subirne gli effetti.
Anche sul piano della ricerca diversi sono stati gli
studiosi che si sono occupati di elaborare ed analizzare nuovi modelli di orientamento che potessero rispondere meglio ai nuovi contesti professionali. Di
particolare interesse risulta il costrutto della career
adaptability di cui Marc Savickas è tra i principali
autori. Savickas definisce l’adattabilità professionale
come «la propensione ad affrontare in modo adeguato i compiti evolutivi per prepararsi e partecipare al
ruolo lavorativo e ad adattarsi alle richieste impreviste dovute ai cambiamenti del mondo del lavoro e
delle condizioni lavorative. Riguarda la gestione dei
compiti professionali e delle transizioni di ruolo che
Secondo Savickas l’adattabilità
professionale si realizza sviluppando
le seguenti dimensioni:
la preoccupazione verso il futuro,
con un atteggiamento orientato
ed ottimista, il controllo professionale,
la curiosità professionale, la fiducia
nelle proprie capacità, ovvero
mostrando atteggiamenti di apertura
nei confronti degli altri, condividendo
e agendo per il bene proprio e altrui
gli individui si trovano ad affrontare e quindi le strategie di coping che utilizzano per fronteggiare questi
cambiamenti, ovvero il processo attraverso il quale
gli individui costruiscono attivamente la loro vita
professionale affrontando i cambiamenti e tenendo
conto del contesto sociale in cui sono inseriti».
L’attuale mondo del lavoro sembra caratterizzato da
attività professionali sempre meno definite e prevedibili e le transizioni lavorative risultano essere
sempre più frequenti e difficili. Nell’era dell’informazione, seguendo Savickas, è sempre più richiesta
l’iniziativa personale e l’adattabilità professionale,
ovvero quell’insieme complesso di
atteggiamenti ed abilità che riguardano l’ottimismo, la propensione a
pensare e a pianificare il proprio futuro professionale, la tendenza ad
adattarsi alle situazioni e alle richieste impreviste, la curiosità e l’esplorazione professionale, unite ad un
senso di autoefficacia nei confronti
delle proprie capacità e possibilità.
Secondo Savickas l’adattabilità professionale si realizza sviluppando le
seguenti dimensioni: la preoccupazione verso il futuro, con un atteggiamento orientato ed ottimista verso il futuro cercando di pianificarlo
mettendo insieme passato, presente
e futuro; il controllo professionale,
ovvero la convinzione a pensare il
futuro come controllabile con impegno alla perseveranza; la curiosità professionale,
ossia assumendo un atteggiamento proattivo nei
confronti dell’ambiente e sviluppando comportamenti adattivi; la fiducia nelle proprie capacità, ovvero la propensione a nutrire fiducia in se stessi e
nelle proprie capacità per affrontare sfide e superare
gli ostacoli; la cooperazione, ovvero mostrando atteggiamenti di apertura nei confronti degli altri,
condividendo e agendo per il bene proprio e altrui.
Un individuo adattabile è un individuo in grado di
modificare una serie di elementi personali – conoscenze, abilità, disposizioni, comportamenti – per
venire incontro alle richieste della situazione in cui
è inserito. La capacità di adattarsi ad una situazione
in via di cambiamento, come lo sono la società ed il
mondo del lavoro odierni, è determinata principalmente da differenze individuali nella predisposizione ad assumere un comportamento attivo rispetto
alle situazioni che si vivono. Elevati livelli di adattabilità sono associati ad una personalità di tipo
proattivo, ad elevati livelli di locus of control interno, di ottimismo, di persistenza, di capacità di coping e problem solving e di capacità di iniziativa,
apertura mentale e ricerca di opportunità.
Le teorie e le pratiche dell’orientamento si muovono proprio nella direzione di fornire in un processo
continuo, che parte sin dalla scuola, occasioni per
conseguire quelle competenze orientative necessarie a progettare il proprio futuro dandosi obiettivi
realistici, monitorare e sostenere anche sul piano
motivazionale il processo che porta al conseguimento degli obiettivi fissati, compiere scelte consapevoli nei momenti di snodo della propria vita personale e professionale.
Sempre su questa strada, il Consiglio europeo, con
due importanti risoluzioni (2004, 2008), ha rafforzato la concezione dell’orientamento in prospettiva
life long learning. Con tale impostazione si rimarca
il rilievo strategico dell’orientamento sia in funzione individuale, per favorire lo sviluppo di atteggiamenti proattivi nella costruzione dei percorsi formativi e professionali personali, promuovere l’inclusione sociale, la parità di genere e la cittadinanza
attiva, sia a livello sociale con una molteplicità di
obiettivi da quello più generale di contribuire alla
realizzazione dei piani dell’Unione europea in materia di sviluppo economico a quello più specifico
di migliorare l’efficienza degli investimenti nella
istruzione e formazione professionale potenziando
lo sviluppo del capitale umano e della forza lavoro,
l’efficienza del mercato del lavoro e della mobilità
professionale e geografica.
Al tempo stesso però, si deve constatare che negli
stati membri la tradizione e lo stato attuale delle
concezioni, delle pratiche e dei servizi riferibili
all’orientamento è molto eterogenea e con diverso
grado di efficacia. Ed è proprio in ragione del rilievo strategico che all’orientamento è attribuito che si
rende necessario sviluppare politiche integrate e di
rete intorno a quattro principali linee di azione:
- favorire l’acquisizione della capacità di orientamento nell’arco della vita, azione che sottolinea il
rilievo dell’orientamento nei percorsi formativi da
quelli scolastici a quelli di inserimento professionale e che implica da un lato il tema della formazione
specifica di insegnanti e operatori dei servizi di
orientamento e dall’altro il rilievo di metodologie
didattiche in grado di promuovere lo sviluppo di
competenze chiave (in particolare: Imparare ad imparare; Competenze sociali e civiche; Spirito di iniziativa e imprenditorialità; Consapevolezza ed
espressione culturale) che risultano ancora piuttosto
trascurate all’interno della scuola, dell’università e
più in generale nei percorsi di istruzione formale;
- facilitare l’accesso di tutti i cittadini ai servizi di
orientamento, azione che si propone di migliorare,
da un lato, la visibilità e conoscenza dei servizi attraverso adeguate forme di informazione e comunicazione e, dall’altra, rendere accessibili gli stessi
servizi alle categorie svantaggiate e con bisogni
specifici;
- rafforzare la garanzia di qualità dei servizi di
orientamento, qualità da perseguire almeno su tre
piani: quello dell’obiettività dell’informazione e
della consulenza sui percorsi professionali in aderenza ai differenti bisogni degli utenti, quello della
qualificazione del personale impegnato nei servizi e
quello dell’individuazione di standard qualitativi
sui quali definire obiettivi, risultati da perseguire,
metodi e processi;
- incoraggiare il coordinamento e la cooperazione
dei vari soggetti a livello nazionale,
regionale e locale, azione che sottolinea la necessità di sviluppare politiche integrate e di rete sullo sviluppo dei servizi di orientamento ai diversi livelli: scolastico, universitario, professionale, rivolto a fasce
deboli o soggetti con bisogni particolari, ognuno dei quali ha dato origine, nel passato, ad un proprio sistema differenziato. Tale integrazione richiede lo sviluppo, a livello nazionale e locale, di efficaci forme di
coordinamento tra i diversi attori
coinvolti.
E proprio in questa direzione devono essere interpretate le Linee guida del sistema nazionale sull’orientamento permanente che la Confe-
renza unificata Stato e Regioni ha approvato nel dicembre 2013 cui sono seguite, a breve distanza di
tempo, quelle del MIUR che ne contestualizzano le
azioni all’interno del sistema scolastico e universitario.
Gli impegni per l’orientamento, in ambito nazionale, si concentrano su tre obiettivi fondamentali:
Un individuo adattabile è un individuo
in grado di modificare una serie
di elementi personali – conoscenze,
abilità, disposizioni, comportamenti –
per venire incontro alle richieste della
situazione in cui è inserito
contrastare il disagio formativo, favorire e sostenere
l’occupabilità, promuovere l’inclusione sociale.
Ma, l’aspetto più rilevante è dato dalla continua sottolineatura di un impegno integrato e condiviso dei
diversi attori per realizzare un modello sistemico ed
evitare sovrapposizioni se non proprio vere e proprie contraddizioni all’interno del sistema stesso.
Questo implica, naturalmente, una governance multilivello (territoriale e nazionale) in cui «ciascun
soggetto si riconosce partner corresponsabile di una
strategia che, coinvolgendo sia il livello politico
istituzionale sia quello tecnico operativo, valorizzi
la programmazione e la realizzazione di interventi
di orientamento integrati, continui e rispondenti ai
bisogni della persona».
Le Università sono chiamate a dare un rilevante
contributo proprio in quanto soggetti d’intermediazione tra domanda ed offerta di lavoro proprio a
quei livelli richiesti per consentire un salto di qualità da parte nostro sistema produttivo.
Nei prossimi mesi, a cominciare dall’attuazione del
Piano Garanzia Giovani, anche le Università con il
Mondo del lavoro, Regioni, autonomie locali e parti
sociali saranno chiamate a dare consistenza ed efficacia all’applicazione del Piano attuativo, che prevede l’impegno di ingenti risorse economiche (1,5
miliardi di euro) proprio per promuovere azioni efficaci a sostegno dell’occupazione favorendo una
corretta informazione, nuove opportunità di formazione professionale,
stage e tirocini, l’apprendistato e
supporto all’imprenditorialità, per i
giovani tra i 15 e 29 anni.
Per dare consistenza nel tempo alle
opportunità aperte dal Piano garanzia Giovani è necessario che le
azioni di orientamento, poste alla
base del programma attuativo, siano
improntate a promuovere proprio
quei comportamenti proattivi e di fiducia che sono alla base di una buona adattabilità professionale, senza
però dimenticare che alla flessibilità
si devono associare politiche capaci
di dare sicurezza, proprio nella direzione di quella flexicurity così cara
alle politiche europee per il lavoro.
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L’autoeducazione del “potenziale umano”
L’attualità e l’internazionalità del modello Montessori
di Clara Tornar
Maria Montessori rappresenta uno dei rari
casi di donne che, nel
panorama scientifico di
fine Ottocento e inizio
Novecento, raggiunsero una notorietà a livello internazionale. Prima donna in Italia a
svolgere la professione
di medico, prima a ottenere la libera docenza
in Antropologia pedagogica, combattente al
Clara Tornar
servizio di cause difficili e nobili, ha costruito una pedagogia che, fin dal
suo apparire all’inizio del nuovo secolo, si è straordinariamente diffusa in paesi e in culture anche lontane da quella europea.
Frequentando come assistente volontaria l’Istituto
di psichiatria della Regia Università di Roma, la
giovane dottoressa aveva condiviso fin dai primi
anni di attività professionale il clima di fiducia nel
potere sociale della scienza, che in quegli anni di fine secolo contraddistingueva l’approccio del Positivismo ancora vivo nelle Facoltà scientifiche nel nostro paese. Proprio attraverso il contatto con quell’ambiente particolarmente prestigioso e aperto alle
nuove frontiere della ricerca inizieranno a prendere
corpo le sue indagini per lo sviluppo di un “metodo
medico-pedagogico” volto al recupero dei bambini
frenastenici, oggetto dei suoi primi interessi in campo educativo.
Due anni di esperimenti, successivamente estesi ai
bambini “normodotati”, le consentiranno di delinea-
re le basi teoriche ed operative di un modello educativo che si propone di fornire risposte specifiche
ai bisogni psicologici dell’infanzia. Ma di una
“nuova” infanzia, all’interno della quale il bambino
è visto come soggetto protagonista del proprio sviluppo e dotato di grandi potenzialità creative.
Il Metodo della Pedagogia Scientifica, pubblicato
nel 1909, viene conosciuto nel giro di un decennio
Le principali premesse del modello
pedagogico di Maria Montessori sono
la fiducia riposta nelle potenzialità
d’apprendimento dell’infanzia
e l’individuazione di criteri scientifici
per l’organizzazione di un ambiente
d’apprendimento appropriato
a rispondere ai bisogni espressi
nelle diverse fasi dello sviluppo
pressoché in tutto il mondo: nel 1912 é tradotto in
inglese e pubblicato negli Stati Uniti (con introduzione del prof. H. W. Holmes, della Harvard University); dello stesso anno è la traduzione francese
(pubblicata sotto gli auspici dell’Istituto J. J. Rousseau e con la prefazione di P. Bovet); del 1913 le
edizioni tedesca, polacca e russa; e tra il 1914 e
1917 escono le edizioni irlandese (con presentazione curata da due studiosi del Trinity College di Dublino), spagnola (con presentazione di J. Palau Vera), giapponese, romena, olandese e danese.
È l’inizio di un vasto movimento d’interesse internazionale che, seppure con
alterne vicende (specie
per quel che riguarda il
nostro paese) non si è
spento nel corso degli anni: secondo una stima
complessiva, sono circa
22.000 le scuole Montessori esistenti nel mondo,
ed oltre 110 i paesi dei
cinque continenti nei quali esse hanno trovato diffusione.
Per comprendere l’attualità del modello pedagogico di Maria Montessori
dobbiamo innanzitutto
considerarne le principali
premesse: la fiducia riposta nelle potenzialità
d’apprendimento dell’infanzia e l’individuazione di
criteri scientifici per l’organizzazione di un ambiente d’apprendimento appropriato a rispondere ai bisogni espressi nelle diverse fasi dello sviluppo.
Il bambino che si manifesta all’osservazione della
pedagogista è un soggetto attivo, dotato di una potente spinta motivazionale che gli consente - se adeguatamente sostenuto dall’ambiente con cui interagisce - di apprendere con impegno ed entusiasmo
difficilmente uguagliabili dall’adulto. Sotto tale
aspetto, Montessori ha offerto un importante contributo alla definizione di un nuovo profilo psicologico del bambino, ricco di interessanti elementi precursori rispetto a consapevolezze soltanto successivamente acquisite dalla ricerca in campo psicologico. Ad esempio, che la mente del bambino sia completamente diversa da quella dell’adulto, che lo sviluppo si evolva secondo una serie di stadi corrispondenti a cambiamenti significativi, che esso sia
attraversato da particolari “periodi sensitivi” nel
corso dei quali la mente appare particolarmente disponibile a certi tipi di acquisizioni.
È sulla base di questa concezione dell’infanzia che
la studiosa costruisce la propria denuncia nei confronti di quegli interventi nei quali l’adulto si sostituisce al bambino sottraendo spazio alla sua attività.
Considerato non più un semplice recettore di stimoli o un passivo esecutore di attività preordinate, ma
un attivo costruttore della propria conoscenza, quest’ultimo diviene il vero protagonista del processo
educativo. Sul piano pedagogico, ciò corrisponde
alla offerta di strumenti adatti a favorire la costruzione delle conoscenze, piuttosto che nell’intervenire indicando direttamente la strada da percorrere o
le modalità con cui gli ostacoli incontrati possono
essere superati. Scopo dell’insegnamento, scriverà
in l’Autoeducazione, «non dovrà essere quello di
far imparare le cose al bambino», bensì quello di
«mantenere sempre viva quella luce in lui che si
chiama intelligenza».
Il bambino che si manifesta
all’osservazione della pedagogista
è un soggetto attivo, dotato di una
potente spinta motivazionale che gli
consente - se adeguatamente sostenuto
dall’ambiente con cui interagisce - di
apprendere con impegno ed entusiasmo
difficilmente uguagliabili dall’adulto
In tale ottica, gli obiettivi che contraddistinguono
l’ambiente d’apprendimento montessoriano sono:
promuovere le capacità di autonomia attraverso una
organizzazione razionale degli stimoli;
favorire l’autoapprendimento fornendo al soggetto
che apprende le chiavi per esercitare il controllo dei
propri processi;
promuovere lo sviluppo delle potenzia1ità individuali dando la possibilità di esercitare la propria attività sulla base di una libera scelta;
garantire una stretta corrispondenza tra capacità e
materiali d’apprendimento, in base alla quale il
bambino sia posto sempre di fronte a stimoli e compiti d’apprendimento adeguati ai suoi bisogni di
sviluppo.
Una scuola Montessori di Francoforte (1956)
Nella “Casa dei Bambini”, come è denominata la
scuola dell’infanzia ad approccio montessoriano,
l’organizzazione dell’ambiente è improntata alla
valorizzazione dei processi sensoriali e motori alla
base dello sviluppo cognitivo nell’infanzia, condotta attraverso materiali e mezzi “scientificamente determinati”, senza porre limite alle curiosità esplorative del bambino. Nel passaggio alla scuola elementare, il bisogno di esplorazione infantile si manifesta come vera e propria “fame di cultura”, sostenuta
dalla potenza dell’immaginazione e dalla capacità
di astrazione e ragionamento tipiche del passaggio
alla nuova fase evolutiva. Ne consegue l’affermazione dell’importanza di una “educazione dilatatrice”, in grado di prospettare gli orizzonti “sconfinati” della conoscenza, capace di colpire l’immaginazione del bambino e di suscitare il suo entusiasmo
più profondo: «Il segreto di un buon insegnamento
è di considerare l’intelligenza del bambino come un
campo fertile in cui si possono gettare delle sementi, perché germoglino al calore fiammeggiante della
fantasia», scriverà la studiosa in Come educare il
potenziale umano. L’educazione “cosmica” sarà la
sua risposta alle esigenze formative dei soggetti in
questa fascia d’età: non più discipline artificiosamente distinte, ma una progressiva scoperta del
mondo come occasione per esplorare i molteplici
campi del sapere.
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Le acquisizioni della ricerca psicopedagogica e didattica consentono oggi di analizzare con maggior
consapevolezza il carattere di attualità del modello
montessoriano e di coglierne gli elementi precursori
rispetto ad istanze che, per molti versi, soltanto in
tempi successivi a quelli in cui la pedagogista è vissuta si sono affacciate nel dibattito pedagogico. In
questa chiave è possibile esaminare i principali apporti che tale modello è in grado di recare alla qualità del processo educativo: lo stretto legame tra
scienza e pedagogia e il rispetto per l’infanzia, che
sono alla base del suo approccio pedagogico, insieme all’attenzione prestata alla qualità dell’ambiente
educativo e alla qualità dei processi che vi si svolgono, sono elementi che presentano spunti di riflessione di notevole interesse in relazione alle esigenze educative del nostro tempo.
Obiettivo prioritario della pedagogia montessoriana
è promuovere lo sviluppo dell’autonomia, facoltà
che il bambino viene messo in condizione di esercitare organizzando per lui un ambiente d’apprendimento nel quale possa essere libero di scegliere il
tipo di esperienza da condurre e nel quale possa
esercitare un autocontrollo della propria attività attraverso la manipolazione di materiali scientifici e
la possibilità di cimentarsi con compiti d’apprendimento adeguati ai suoi bisogni di sviluppo.
In relazione a tale aspetto, è opportuno richiamare
l’attenzione che il dibattito attuale rivolge alla necessità di promuovere nella scuola lo sviluppo di
quei processi cognitivi e socio-affettivi che mettono
l’individuo in grado di saper gestire il proprio apprendimento e di impossessarsi di quelle competenze chiave che lo metteranno in grado di affrontare,
in una prospettiva di lifelong learning, i compiti e
le situazioni che gli si presenteranno in ogni campo.
Il modello Montessori appare improntato all’esigenza prioritaria di favorire proprio il conseguimento di questo tipo di competenze trasversali:
l’autonomia, la capacità decisionale, la capacità di
Una scuola Montessori olandese, anni Venti del Novecento
autocontrollo, il rispetto per le regole sociali in un
clima di libertà. Si tratta, di obiettivi che rispondono a una esigenza imprescindibile della scuola attuale, in vista della promozione della capacità di
imparare a imparare, efficacemente espressa nel
motto del bambino montessoriano, «aiutami a fare
da solo», che è anche sintesi e allo stesso tempo nucleo centrale della pedagogia montessoriana.
Scopo dell’insegnamento, scriverà
in l’Autoeducazione, «non dovrà
essere quello di far imparare le cose
al bambino», bensì quello di
«mantenere sempre viva quella luce
in lui che si chiama intelligenza»
Non sempre la pedagogia di Maria Montessori è
stata compresa. Ciò è vero in particolare per l’Italia,
dove ha scontato la colpa di essere andata contro
corrente rispetto alla cultura pedagogica dominante,
e per certi versi anche quella di aver precorso i tempi affrontando questioni oggi cruciali, preannunciate con straordinaria sensibilità. Per esempio la necessità di promuovere le cosiddette “competenze
per la vita” come l’autonomia e la capacita di controllo dei propri processi, l’attenzione posta alla valorizzazione delle potenzialità d’apprendimento individuali, alla interculturalità, alla gestione non direttiva dell’insegnamento: problematiche alle quali
fornisce un contributo che si contraddistingue anche per la sua capacità di fornire le metodologie e
gli strumenti atti ad affrontarle operativamente.
Oggi che andiamo scoprendo la straordinaria attualità di questo modello educativo dobbiamo prendere
atto della suo scarso successo nel nostro paese. Il
dato di una sempre maggiore diffusione di scuole
Montessori all’estero non corrisponde alla realtà
italiana, come mostrano i dati di una rilevazione condotta
dal Centro di studi
montessoriani del Dipartimento di Scienze
della formazione (i
dati possono essere
consultati on line:
www.montessori.uniroma3.it). È un fatto
su cui riflettere, non
solo in vista del conseguimento di una auspicabile pluralità
dell’offerta formativa,
ma anche in vista di
un obiettivo di accrescimento della qualità
del processo educativo, a cui questo modello pedagogico potrebbe recare un contributo rilevante.
L’educazione internazionale dei bambini
Il pensiero di Jean Piaget
di Merete Amann Gainotti
In questo breve contributo si intende ricordare un lato meno conosciuto dell’attività
scientifica e sociale di
Jean Piaget (18961980), studioso e ricercatore in psicologia
dello sviluppo di fama
mondiale e fondatore
dell’epistemologia genetica, ossia l’impegno
da lui profuso nel periodo tra la prima e la
Merete Amann Gainotti
seconda guerra mondiale nel campo dell’educazione e più specificatamente dell’educazione internazionale, un argomento quanto mai attuale nei nostri giorni.
Nel 1929 venne offerto a Piaget, che insegnava ed
era direttore delle ricerche nell’Institut Jean-Jacques Rousseau di Ginevra, di ricoprire, oltre ai suoi
numerosi incarichi accademici, anche il posto di direttore del Bureau International de l’Education
(BIE), con sede anch’esso a Ginevra.
Ginevra è da sempre stata una città a vocazione internazionale e, in quegli stessi anni, era anche sede della
Société des Nations, un organismo creato nel 1925,
dopo la fine della prima guerra mondiale, con l’obiettivo fondamentale di promuovere il dialogo e la pace
attraverso l’educazione per cui dispiegò la sua azione
in molteplici direzioni, dalla politica alla diplomazia,
all’economia, dalla sanità all’educazione.
Negli anni Trenta, la Société des Nations fece esplicita richiesta a Jean Piage di organizzare e di promuovere dei corsi di formazione destinati agli insegnanti di ogni ordine e grado (dai maestri elementari ai docenti universitari), ai funzionari e agli ispettori dei Ministeri dell’istruzione pubblica, sul tema:
“Come fare conoscere La Société des Nations e sviluppare lo spirito di cooperazione internazionale”.
In risposta a tale richiesta Piaget, nella sua veste di
direttore del BIE, fece personalmente, e in seguito
pubblicò (Piaget, 1930a, 1930b, 1931a, 1931b,
1932, 1934) una serie di Conferenze, ben note agli
addetti ai lavori di lingua francese, ma purtroppo
non tradotte in italiano. In questi scritti Piaget elabora una visione teorica e generale dell’uomo internazionale capace di adeguarsi alle interconnessioni
molteplici del mondo contemporaneo.
In modo originale avanza una serie di riflessioni e
di considerazioni sui rapporti tra i meccanismi dello
sviluppo psicologico, al cui studio aveva cominciato a dedicarsi intensamente presso l’Institut JeanJacques Rousseau di Ginevra e che proprio negli
anni tra le due guerre avrebbe portato alla pubblicazione di testi fondamentali che lo resero in breve
tempo famoso nella comunità scientifica internazionale, e l’auspicabile traguardo educativo di un essere umano capace di autentico spirito di relazione e
di reciprocità su scala internazionale, indispensabile
garanzia di dialogo e di pace in un mondo e in un’epoca in cui le interconnessioni e le interdipendenze
tra gli uomini e tra le nazioni erano divenute sempre più rapide ed estese su dimensione planetaria. Il
ciclo di Conferenze si chiuderà tuttavia con un intervento di Piaget dal tono pessimista (siamo ormai
nel 1934) Une éducation à la paix est-elle possibile? (È possibile una educazione alla pace?).
A questo punto può essere interessante dare uno
sguardo in Italia e stabilire un parallelismo con alcuni eventi che si verificavano nello stesso periodo.
Il nostro Paese era in pieno periodo fascista e, nel
1923, la riforma del filosofo Giovanni Gentile, che ricopriva la carica di Ministro dell’istruzione pubblica,
soppresse l’insegnamento della psicologia in tutte le
scuole secondarie comprese le scuole di pedagogia (o
istituti magistrali) sostituendolo con un programma di
letture di testi filosofici e pedagogici e causando un
allontanamento della psicologia dalla cultura italiana
in senso lato (Luccio, 1978). Basti pensare che alla
caduta del fascismo vi erano solo due cattedre di psicologia rimaste in Italia, quella di Ponzo a Roma e
quella di Gemelli all’Università cattolica di Milano.
È in questo frangente che emerge la grande figura
di Maria Montessori, che non è una psicologa, ma
una eminente educatrice, la quale, proprio in quel
periodo e a più riprese, interviene sul tema del’educazione alla pace ed è di estremo interesse ricordare
che Maria Montessori e Jean Piaget si sono trovati
più volte, nel 1932 a Nizza, e nel 1934, a Roma, a
partecipare agli stessi convegni sul tema dell’educazione alla pace (Amann Gainotti, 2004).
Nel 1934 l’educazione secondo Maria Montessori
viene bandita in Italia da Mussolini e la studiosa lascia l’Italia per farvi ritorno soltanto alla fine della
seconda guerra mondiale. Mentre Jean Piaget se ne
torna a Ginevra dove prosegue la sua brillante carriera scientifica.
Tornando invece a Piaget e alle sue Conferenze per
gli insegnanti davanti alla Société des Nations.
Come si può dunque “formare” lo spirito internazionale? Quali sono i principi di base che dovrebbero guidare l’educazione internazionale?
La risposta di Piaget è collegata alla scoperta che deriva dai suoi studi osservativi ed empirici sull’infanzia, condotti a partire dal 1920, che i bambini tendono ad evolversi naturalmente da una posizione sociocognitiva che egli chiama “egocentrica” ad una capacità crescente di decentrarsi dal proprio punto di
vista per coordinarsi progressivamente con le pro-
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spettive degli altri. È possibile dimostrare ciò osservando, per esempio, come cambino le modalità del
gioco col crescere dell’età: i bambini un po’ più
grandi manifestano spontaneamente la capacità di
elaborare in comune delle regole e di rispettare le regole cui attenersi, senza alcuna imposizione esterna.
L’educazione allo spirito internazionale per risultare efficace, dovrà dunque assecondare e valorizzare
questa generale tendenza del processo evolutivo del
bambino. Sintetizzando il pensiero di Piaget, potremmo dire che l’educazione deve soprattutto agire
nelle seguenti direzioni:
- l’educazione internazionale deve dare concretezza
all’esperienza del bambino:
«Si è molto parlato di un insegnamento della solidarietà (…) Ma le migliori lezioni resteranno lettera
morta se non si basano sull’esperienza stessa, così
come capire le leggi della fisica è impossibile senza
manipolazione di un materiale concreto. Ora è necessario che il bambino rifaccia lui stesso l’esperienza
della solidarietà, poiché le esperienze degli altri nell’ambito spirituale ancora più che nell’ambito materiale - non hanno mai istruito nessuno (…)»
Non basta dunque parlare in classe delle istituzioni
internazionali, e neanche la pur pregevole iniziativa
di stimolare i contatti tra scuole di nazionalità differenti è sufficiente. I grandi ideali di solidarietà e di
giustizia, spiega Piaget, devono essere vissuti prima
di essere oggetto di riflessione «(... doivent etre vécus avant d’être objet de réflexion (…)»;
- l’educazione internazionale deve allargare il ventaglio degli interscambi e delle esperienze, ed insegnare a sormontare le barriere poste al contatto con
l’altro, dall’abitudine, dai pregiudizi, dalla mentalità e dalla diversità dell’altro;
Jean Piaget
«(…) Si capisce quale debba essere lo sforzo della
pedagogia per mettere gli individui nello stato d’animo necessario per capire gli altri, quando l’insieme dei fattori affettivi e delle tradizioni collettive
fanno pressione sul loro pensiero e impediscono loro di ragionare con obiettività».
Per concludere, nei suoi testi e nelle sue considerazioni sull’educazione internazionale, Piaget pone
esplicitamente l’esigenza di una forma mentale rinnovata, in grado di coordinare i differenti punti di
vista che interagiscono sulla scena mondiale e di
sottrarsi alla rigidità di schemi di pensiero propri
dell’egocentrismo delle collettività nazionali – poiché «nous sommes tous des individus déjà formés,
pour ne pas dire déformés, par nos différentes mentalités collectives» (siamo tutti degli individui già
formati, per non dire deformati dalla nostre diverse
mentalità collettive).
Dalla sua carica di direttore del BIE e di interprete,
nel campo dell’educazione, dello spirito e delle finalità della Società delle Nazioni, Piaget identifica
nei nazionalismi degli anni Trenta la forma politica
e mentale nello stesso tempo di questo egocentrismo pericoloso, ostacolo alla pace e al dialogo tra i
popoli su scala mondiale.
A tale proposito è utile segnalare un’ultima citazione di Piaget: «Il compito di un bambino svizzero
non è di farsi una mentalità planetaria o mondiale
che egli applicherebbe alla meno peggio sulla sua,
ma é di collocare il suo punto di vista tra gli altri
possibili e di comprendere il piccolo tedesco, il piccolo francese etc., tanto bene quanto se stesso. E
questa messa in relazione dei punti di vista, che noi
chiamiamo cooperazione, in opposizione alla loro
uniformizzazione o alla ricerca utopica di un punto
di vista assoluto. Ora, questa comprensione reciproca è affare di educazione intellettuale, quanto di
educazione morale. Vi è dunque un’educazione della
solidarietà intellettuale che è importante perseguire
e di cui bisogna studiare i requisiti psicologici».
È l’auspicio che formulava Piaget negli anni 19301934 poco prima dello scoppio della seconda guerra
mondiale. Non si può fare a meno di pensare quanto
siano attuali queste sue considerazioni sull’educazione internazionale adesso che i bambini europei
crescono in una Europa composta da 28 nazioni e
che la metà della popolazione scolastica di molte
scuole proviene da varie nazioni europee oltre che
da nazioni extra europee.
Come ultima annotazione vorrei aggiungere che nel
1951, Piaget pubblica, insieme ad A. M. Weil, un
articolo dal titolo Le développement chez l’enfant
de l’idée de patrie et des relations avec l’étranger
(lo sviluppo nel bambino dell’idea di patria e di relazioni con l’estero) in cui gli autori affrontano le
suddette problematiche con una ricerca empirica.
L’articolo è diventato famosissimo ed è il punto di
partenza di tutte le ricerche attuali in psicologia sulle nozioni e rappresentazioni infantili di altre nazioni e altri popoli, compreso quelle che vengono condotte dal mio gruppo di ricerca nell’ambito delle attività del laboratorio di “Educazione e formazione
all’Europa” nel Dipartimento di Scienze della formazione dell’Università Roma Tre.
La cultura è uno strumento di liberazione
La pedagogia degli oppressi di Paulo Freire
di Massimiliano Fiorucci
«Pensare la storia come possibilità significa riconoscere l’educazione come possibilità. Significa riconoscere che, anche se l’educazione non può fare tutto da sola,
può però certo raggiungere qualche risultato. La sua forza sta nella sua debolezza» Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi
Si può considerare ancora attuale la pedagogia di Freire? Il suo metodo educativo può contribuire alla chiarificazione dei problemi educativi nelle odierne soMassimiliano Fiorucci
cietà consumistiche e
globalizzate? Perché continuare a leggere Freire?
Era esattamente questo il titolo della prefazione di
Moacir Gadotti alla nuova edizione italiana de La pedagogia degli oppressi apparsa nel 2002 a distanza
di più di trent’anni dalla prima edizione del 1971 curata e introdotta da Laura Bimbi (Mondadori, 1971).
Oggi la domanda di Moacir Gadotti rimane ancora
valida: è necessario leggere e/o rileggere Freire perché sono ancora tante le forme di oppressione (più o
meno evidenti) presenti nelle nostre società e Freire
ci ricorda che l’educazione, la cultura, la scienza sono prima di tutto uno strumento di liberazione.
Non è possibile in questa sede individuare tutte le
forme di oppressione presenti nella nostra società
ma sicuramente possono essere individuate alcune
categorie di soggetti oppressi: coloro che sono in
possesso di deboli livelli di istruzione e che non sono in grado di effettuare scelte del tutto libere e
consapevoli, i migranti che si vedono costretti ad
accettare e a svolgere i cosiddetti lavori delle 5P
(precari, pesanti, poco pagati, penalizzati socialmente, pericolosi) in un quadro generale di integrazione “subalterna”, le donne che a parità di titoli di
studio guadagnano meno degli uomini e solo raramente riescono a raggiungere posizioni apicali, i
giovani e i precari e così via.
Qualche dato sull’istruzione può aiutare a meglio
definire la questione. Se si considera la popolazione
italiana di 15 anni e oltre, come evidenzia il CENSIS, sulla base di dati ISTAT, nel suo 46° Rapporto
2012, si ha che il 22,5% è senza titolo alcuno o con
la sola licenza elementare e il 31,9% con il solo diploma di scuola secondaria di primo grado. Complessivamente il 54,4% degli italiani in età superiore
ai 15 anni dispone al massimo della licenza media
inferiore: il possesso esclusivo di questo titolo di
studio attesta una condizione non altrimenti definibile se non in termini di analfabetismo moderno, nel
senso che i soggetti che ne sono afflitti non dispongono delle conoscenze e delle competenze necessarie per far fronte alla complessità della vita di oggi.
Una situazione così grave non caratterizza solamente la scuola. Se si considera il numero di quanti sono
in possesso di un titolo di studio universitario, l’Italia nel 2012 si colloca in fondo alle classifiche europee. Nella fascia d’età 25-34 anni la quota di laureati è del 21%: dato che vede l’Italia al penultimo posto tra i 34 Paesi Ocse, davanti solo alla Turchia
L’opera di Paulo Freire si caratterizza
come una visione pedagogica
complessiva: una sorta di pedagogia
dell’uomo e del dialogo densa di aspetti
e di riferimenti antropologici,
sociologici e filosofici
(17%). La media OCSE è del 38%. Se si prende in
considerazione la fascia d’età 25-64 anni, l’Italia è
al 15% di laureati, come il Portogallo e solo davanti
alla Turchia (13%). La media OCSE è del 32% e la
situazione per l’Italia si va addirittura aggravando.
Gli iscritti all’Università sono passati da 338.000 a
280.000: negli ultimi dieci anni l’Università italiana,
come ha sottolineato efficacemente il CUN, ha perso complessivamente 58.000 iscritti e cioè un terzo
di coloro che si iscrivevano nell’a.a. 2003/2004.
Vi è poi un dato ancora più preoccupante: nel 2009,
in Italia, risultavano fuori dal circuito formativo e
lavorativo poco più di 2 milioni di giovani: il
21,2% della popolazione tra i 15 e i 29 anni. I cosiddetti Neet (Not in Education, Employment or
Training) – né al lavoro, né a scuola, né in formazione professionale – nel 2008 erano il 19,2% a
fronte di un valore medio per i Paesi UE aderenti
all’OCSE del 12,2%. Nel 2013, secondo l’ISTAT, il
dato si è ulteriormente aggravato ed è ora del
23,9%. È un quadro talmente drammatico da non richiedere d’essere ulteriormente commentato, senza
voler neppure considerare il fondamentale settore
della formazione professionale che presenta una situazione che si caratterizza per un elevato grado di
complessità e problematicità.
Un ultimo dato riguarda la popolazione adulta e
quello che viene definito analfabetismo funzionale:
i cittadini italiani si collocano in fondo alla classifica sui saperi essenziali per orientarsi nella società
del terzo millennio. Nell’ultima classifica stilata
23
24
dall’Ocse (l’Organizzazione per la
cooperazione e lo sviluppo economico), e recentemente resa pubblica dall’Isfol, sulle competenze
principali degli adulti il nostro
Paese figura all’ultimo posto. Ci
collochiamo in fondo alla classica
- ultimi tra 24 paesi - per competenze in lettura e al penultimo posto sia per competenze in matematica sia per capacità di risolvere problemi in ambienti ricchi di
tecnologia, come quelli delle società moderne.
L’esistenza di un sistema sociale e
formativo come quello italiano –
che ancora opera una distribuzione
differenziata delle conoscenze sulla base di fattori di ordine sociale,
di genere, territoriale e di nazionalità – contraddice l’autorappresentazione che la nostra società ha di sé stessa come di una società moderna che a tutti fornirebbe le stesse opportunità di
vita e di lavoro. Si tratta in altri termini di una società ancora fortemente divisa in oppressori e oppressi.
Cosa può dirci allora oggi Paulo Freire?
L’opera di Paulo Freire si caratterizza come una visione pedagogica complessiva: una sorta di pedagogia dell’uomo e del dialogo densa di aspetti e di riferimenti antropologici, sociologici e filosofici.
Freire, infatti, fu un alfabetizzatore ed educatore
degli adulti non solo in Brasile, ma anche in Cile e
nell’Africa delle ex colonie portoghesi, mentre allo
stesso tempo teneva contatti con Università e altre
istituzioni educative nordamericane, svizzere e anche italiane. Anche in conseguenza di questi elementi vi è chi ne ha parlato come di un vero e proprio “educatore del mondo” (Tagliavia, 2011). Tra i
tanti riferimenti del pensiero freireano vi sono il
personalismo cristiano del filosofo francese Jacques
Freire individua due concezioni
dell’educazione tra loro contrapposte:
l’educazione “depositaria”
(termine con cui viene tradotto
il portoghese bancária) e l’educazione
“problematizzante”. L’una conserva
e conferma, l’altra produce
consapevolezza critica
ed è il presupposto della liberazione.
L’educazione, diventa un percorso
di liberazione
Maritain (1882-1973) – un’influenza che appartiene
soprattutto alla prima fase della sua elaborazione; le
teorie sul linguaggio dello psicologo culturale sovietico Lev Semenovic Vygotskij (1896-1934) –
con particolare riferimento alla parte del lavoro specificamente dedicata al Metodo Paulo Freire; la teoria dell’egemonia e della subalternità del filosofo e
politico italiano Antonio Gramsci (1891-1937), che
peraltro avvicina il pedagogista
brasiliano alla corrente degli studi
post-coloniali.
Paulo Freire, nel quadro delle pedagogie del Novecento, rappresenta senza dubbio uno degli autori
che possono essere definiti come
pensatori critici. L’importante pedagogista brasiliano, infatti, durante tutta la sua attività scientifica
e militante individua due concezioni dell’educazione tra loro contrapposte: l’educazione “depositaria” (termine con cui viene tradotto il portoghese bancária) e l’educazione “problematizzante”. L’una
conserva e conferma, l’altra produce consapevolezza critica ed è il
presupposto della liberazione. L’educazione, infatti, diventa per
Paulo Freire un percorso di liberazione.
Freire scrive la sua opera principale, La pedagogia
degli oppressi, nel 1968. Egli è un testimone significativo dell’America Latina degli anni ’60: un contesto oggetto di molti mutamenti politici e di svolte autoritarie che a volte portarono, come nel caso del
Brasile nel 1964, a violente dittature militari. Freire,
dopo aver partecipato come educatore all’ISEB (Istituto Superiore di Educazione Brasiliana) e a varie
iniziative di alfabetizzazione delle popolazioni rurali,
fu costretto all’esilio: visse dapprima in Cile, dove
pubblicò La pedagogia degli oppressi e altre opere
fondamentali della sua produzione – tra cui L’educazione come pratica della libertà – e poi in Svizzera.
L’educazione depositaria, secondo Freire, è un modello di educazione direttiva e ingiusta, in cui l’educatore educa e gli educandi sono educati, l’educatore sa e gli educandi non sanno, l’educatore parla e
gli educandi ascoltano docilmente. L’educazione
problematizzante, al contrario, «è intenzionalità,
perché risposta a ciò che la coscienza profondamente è, e quindi rifiuta i comunicati e rende essenzialmente vera la comunicazione… In questo senso, l’educazione liberatrice, problematizzante, non può essere l’atto di depositare, o di narrare, o di trasferire,
o di trasmettere conoscenze e valori agli educandi,
semplici, pazienti, come succede nell’educazione
depositaria, bensì un atto di conoscenza» (Freire,
2002, pp. 67-68). Questa concezione dialogica dell’educazione e dell’atto di insegnare, fondamentale
nel pensiero freiriano, verrà ripresa anche in uno degli ultimi scritti del pedagogista brasiliano, Pedagogia dell’autonomia, interamente dedicato al tema
della formazione docente, in cui egli afferma che
«chi insegna, nell’atto di insegnare apprende, e chi
apprende nell’atto di farlo, insegna» (Freire, 2004,
p.21). E ancora: «insegnare, apprendere e ricercare
hanno a che fare con questi due momenti del ciclo
gnoseologico: quello in cui si insegna e si apprende
la conoscenza già esistente, e quello in cui si lavora
all’elaborazione della conoscenza che ancora non
esiste. La «do-discenza» – la docenza-discenza – e
la ricerca finiscono così con l’essere pratiche essenziali – e inseparabili – di questi momenti del ciclo
gnoseologico» (Ivi, p.25).
Le tematiche principali affrontate
da Freire nel volume La pedagogia degli oppressi riguardano l’interpretazione della realtà come dinamica di oppressione/liberazione,
la concezione problematizzante
dell’educazione, il concetto di dialogo e di anti-dialogo, gli aspetti
metodologici del processo di alfabetizzazione. Quest’ultimo viene
ritenuto centrale non solo come
metodo “scientifico” per imparare
a leggere e a scrivere, ma anche
come condizione prioritaria per la
partecipazione politica, e la conseguente liberazione, dell’oppresso.
La dialettica oppresso/oppressore
richiama, come evidenzia esplicitamente Freire stesso, la dialettica Paulo Freire
hegeliana servo/signore: l’oppresso, per Freire come per Hegel, acquistando la propria umanità con il processo di liberazione, restituisce umanità anche al proprio oppressore, liberandolo. Le due fonti principali del
pensiero di Freire sono dunque il personalismo cri-
L’educazione depositaria, secondo
Freire, è un modello di educazione
direttiva e ingiusta, in cui l’educatore
educa e gli educandi sono educati,
l’educatore sa e gli educandi non sanno,
l’educatore parla e gli educandi
ascoltano docilmente
stiano di J. Maritain e il marxismo (la realtà come
dialettica oppressori/oppressi e l’educazione come
strumento di trasformazione della realtà).
Per quanto riguarda, in particolare, il metodo Paulo
Freire, esso si basa sulle “parole generatrici” e sui
“quadri-situazione”. Queste due strategie permettono di focalizzare l’attenzione su un tema che permette dapprima un processo di “coscientizzazione”,
da parte dell’analfabeta, della sua condizione di oppresso – tramite la discussione su temi suscitati da
un dibattito: la casa, la salute, il lavoro, la natura, i
processi culturali, ecc. – e in seguito il processo di
scrittura e di alfabetizzazione, che conduce a ciò
che Freire chiama “liberazione”. La liberazione non
avviene mai in solitudine: è tutta la comunità del
“circolo di cultura” che insieme si libera, prendendo coscienza dei meccanismi ingiusti della società.
Il contributo di Freire è connesso, inoltre, con le tematiche dell’educazione interculturale in quanto il
suo approccio pedagogico può definirsi “decostruttivo”: esso tende, appunto, a decostruire miti, pregiudizi, schemi mentali – sulla superiorità dei ricchi sui poveri, dei bianchi sui neri, dei leader politici sulle masse – che si sono diffusi in profondità in
molti Paesi del Sud del mondo colonizzati dall’Occidente. Inoltre, è molto importante il concetto di
“cultura” come sforzo creatore continuo dell’uomo,
che mai si staticizza in un blocco monolitico ed è in
costante mutamento e movimento. «L’invasione
culturale è la penetrazione degli invasori nel contesto culturale degli invasi, senza rispetto verso le
potenzialità dell’essere, che essa condiziona, quando essi impongono la loro visione del mondo e frenano la creatività, inibendo l’espansione degli invasi» (Freire, 2002, p.149). Per contro, “nella sintesi
culturale, che è l’opposto dell’invasione culturale,
gli “attori” non arrivano al popolo come invasori,
mentre nell’invasione culturale gli attori entrano
dal loro mondo in quello degli invasi, portandovi
un contenuto tematico per l’azione ricavato dai loro
criteri di valore e dalla loro ideologia. Nella sintesi
culturale gli attori, anche se arrivano da un “altro
mondo”, arrivano per conoscerlo col popolo e non
per “insegnare”, o trasmettere, o consegnare qualcosa al popolo (Ivi, p.180). Tutto ciò è affermato da
Nella Pedagogia dell’autonomia,
interamente dedicato al tema della
formazione docente, Freire afferma
che «chi insegna, nell’atto di insegnare
apprende, e chi apprende nell’atto
di farlo, insegna». E ancora: «insegnare,
apprendere e ricercare hanno a che fare
con questi due momenti del ciclo
gnoseologico: quello in cui si insegna e si
apprende la conoscenza già esistente, e
quello in cui si lavora all’elaborazione
della conoscenza che ancora non esiste»
Freire nella convinzione che «ogni azione culturale
è sempre una forma sistematica e deliberata di
azione che incide sulla struttura sociale, ora nel
senso di mantenerla com’è, ora nel senso di trasformarla… L’azione culturale, o è al servizio della dominazione (cosciente o incosciente da parte dei
suoi agenti) o è al servizio della liberazione degli
uomini» (Ivi, p.179).
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26
Un medium del Novecento
Il ruolo della televisione pubblica nei processi educativi
di Enrico Menduni
La tv è la sorella della
radio, e anche il servizio pubblico è nato con
la radio. Da essa dobbiamo partire se vogliamo capire la tv.
Quando nacque la radio (nel nostro senso
moderno di broadcasting, cioè di trasmissione circolare), nei
primi anni Venti, negli
Stati Uniti si affermò
un modello imprendiEnrico Menduni
toriale e commerciale:
la fruizione della radio è gratuita, l’attività radiofonica (produzione e diffusione di programmi) è finanziata prima dalla vendita degli apparecchi, poi
dalla pubblicità, e permette all’imprenditore di realizzare un profitto.
Questa esigenza di profitto richiede di convocare
masse crescenti di spettatori davanti all’apparecchio radio: più ampia sarà la platea, più elevate le
tariffe della pubblicità. La programmazione deve
essere quindi fortemente improntata all’intrattenimento leggero, mettendo in ombra tutto ciò che
può risultare “noioso”.
In Europa fu scelta un’altra strada. La radio sarà un
servizio pubblico, svolto in regime di monopolio
da aziende parastatali, con fini educativi, e finanziato dagli ascoltatori tramite il canone, oltre che
da aiuti dello Stato. L’inventore di questa formula
In realtà la funzione educativa
della televisione non stava nella sua
sostituzione all’istituzione scolastica,
quanto piuttosto nella sua capacità
di offrire stili di vita nuovi,
che indirettamente sollecitavano
alla mobilità sociale, proponendo
una socializzazione anticipatrice di
un benessere ancora non generalizzato
fu John Reith, un uomo politico conservatore britannico, scozzese, direttore di una vacillante compagnia radiofonica privata, la BBC, British Broadcasting Company. Fu Reith a coniare il trinomio
che costituisce la missione del servizio pubblico:
educare, informare, intrattenere. Educare, informare, intrattenere: in rigoroso ordine di apparizione. Il
servizio pubblico sarà affidato ad nuovo ente parastatale, che si chiamerà sempre BBC ma come Bri-
tish Broadcasting Corporation. Che Reith andrà a
dirigere.
La scelta del servizio pubblico fu ammantata di
motivazioni etiche, ma era l’unica possibile in Europa; infatti fu adottata da quasi tutti i paesi, compresi quelli retti da regimi autoritari, come era allora l’Italia. In nessun paese europeo - allora - vi sarebbero state le condizioni di mercato per far vivere la radiofonia. Una missione, ma anche una scelta
obbligata.
La tv è sempre stata più orientata
all’intrattenimento della radio.
L’avvento delle tv private non è stata
la calata dei barbari, e comunque
i “barbari” hanno trovato le porte
aperte da un modello di intrattenimento
già popolare. La vera domanda,
piuttosto, è se sia ancora presente
la funzione educativa, in forma
di socializzazione anticipatrice, svolta
dalla tv italiana nella sua storia
Il servizio pubblico, quando opera in regime di monopolio, non ha bisogno di sedurre l’ascoltatore
con l’intrattenimento, né di misurare quantitativamente l’ascolto, perché non ci sono tariffe pubblicitarie. Un programma colto e ritenuto utile alla
formazione del pubblico può convocare pochi
ascoltatori, che non hanno il diritto di scegliere, ma
ciò non è ritenuto determinante: è solo un parametro di cui tener conto insieme ad altri.
La televisione, che è figlia del secondo dopoguerra, è un servizio erogato dagli stessi enti parastatali
europei, o dalle stesse imprese private americane,
che trasmettevano la radio, e prosegue la dicotomia
tra Europa e America.
Una televisione andragogica. In cui un gruppo di
intellettuali, diretti da “uomini di fiducia” del governo, decidono quello che è bene per il popolo.
“L’uomo di fiducia” è il titolo dell’autobiografia
del dominus della tv italiana, Ettore Bernabei. Una
dieta equilibrata fra cultura e sano intrattenimento,
tra divulgazione culturale e spettacolo. La griglia
dei programmi è chiamata in Italia “palinsesto”.
Un termine che testimonia della buona cultura classica dei dirigenti, ma anche delle continue cancellature e riscritture dovute a pressioni, censure, autocensure di origine politica.
Il presupposto della tv pubblica è il monopolio. Gli
spettatori possono spegnere l’apparecchio, ma non
Alberto Manzi in Non èmai troppo tardi
scegliere un programma come potrebbero scegliere
un film al cinema, perché il fornitore è unico.
La televisione in Italia comincia le sue trasmissioni
nel 1954. L’Italia è ancora un paese di analfabeti. Il
censimento del 1951 ci mostra un tasso di analfabetismo che dall’1% del Trentino-Alto Adige arriva al 32% della Calabria. Un preoccupante 12,9%
di media. Il nuovo medium, la televisione, mostra
se stessa come un’agenzia di alfabetizzazione.
Tra il 1959 e il 1968 la Rai trasmette un programma che si chiama Non è mai troppo tardi, è dedicato agli analfabeti, ed è condotto da un maestro elementare, Alberto Manzi. Un’icona della tv italiana,
presentata anche da una fiction televisiva in due
puntate, dal sapore agiografico, trasmessa da Rai
Uno nel febbraio del 2014.
In realtà il ruolo di Manzi è stato diverso, più limitato. Diventò il monumento vivente alla funzione
educativa della tv soltanto molto
dopo la sua trasmissione, che allora incontrò un “successo moderato” (Aldo Grasso). Non esiste alcuna pubblicazione dell’epoca, ufficiale o non, ministeriale o RAI,
che permetta di ricostruire esattamente quanti allievi presero la licenza elementare grazie a Non è
mai troppo tardi e, più in generale,
il suo impatto sugli analfabeti: certo ebbe una funzione profondamente rassicurante per la classe dirigente italiana, che voleva essere
rassicurata sul carattere andragogico della tv.
In realtà la funzione educativa della televisione non stava nella sua
sostituzione all’istituzione scola-
stica, quanto piuttosto nella sua capacità di offrire
stili di vita nuovi, che indirettamente sollecitavano
alla mobilità sociale, proponendo una socializza-
La televisione non esprime più
lo spirito del tempo, anche se resistono
grandi cerimonie mediali e momenti
periodici nei quali il paese si ritrova
davanti alla tv per seguire eventi
e competizioni, come quelle elettorali
zione anticipatrice di un benessere ancora non generalizzato.
Le tesi più accreditate nella Rai degli anni Sessanta
sono quelle di Wilbur Schramm (Mass Media and
National Developement, Stanford,
Stanford University Press, 1964)
per il quale i media nel loro complesso e la televisione in particolare sono “grandi moltiplicatori”,
che permettono l’apertura di società chiuse e arcaiche essenzialmente
attraverso il confronto con altre
realtà più aperte e moderne, presentate come seducenti e attrattive.
Queste tesi, educative più che scolastiche, furono in Italia fatte proprie da Sabino Acquaviva, dalla
Fondazione Olivetti e da Francesco Alberoni.
Conviene anche riflettere sul fatto
che, dopo la guerra, la radio italiana era stata ricostruita dalle macerie del fascismo guardando all’e-
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sempio inglese della BBC. La televisione invece fu
creata con numerosi viaggi di studio di dirigenti
Rai negli Stati Uniti, in cui ebbero come guida un
giovane e disinvolto italo-americano che lavorava
nel programma italiano della Voice of America, la
radio del Dipartimento di Stato Usa, Mike Bongiorno. Mike è presente nella prima giornata dalla
televisione italiana (il 3 gennaio 1954) con una sua
rubrica, “Arrivi e partenze”, dedicata alle personalità internazionali che arrivano in Italia, magari per
lavorare alla “Hollywood sul Tevere” e agli italiani
che partono (registi, romanzieri etc.). Un classico
della mediazione interculturale. Bongiorno praticamente non lascerà mai lo schermo e la vera icona
della Tv italiana sarà lui, molto lontano dal modello Manzi che ci rimanda, semmai, al suo collega
del libro “Cuore”.
La tv è sempre stata più orientata all’intrattenimento della radio. L’avvento delle tv private non è
stata la calata dei barbari, e comunque i “barbari”
hanno trovato le porte aperte, o almeno socchiuse,
da un modello di intrattenimento già popolare. La
vera domanda, piuttosto, è se sia ancora presente
la funzione educativa, in forma di socializzazione
anticipatrice, svolta dalla tv italiana nella sua sto-
Mike Bongiorno ai suoi esordi nella tv italiana
ria. Certo questa funzione non si è arrestata con
l’avvento delle private e poi del cosiddetto “duopolio” Rai-Fininvest (poi Mediaset), con altrettanta sicurezza si può affermare che essa non è più
operante. Se essa continua a interessare una larga
fetta della popolazione e c’è ancora un’Italia pigra
Dov’è lo spirito del tempo?
Dobbiamo cercarlo dalle parti
di Internet, soprattutto nella sua
componente di social networking.
La tv rimane un medium del Novecento
che tende a seguire i consigli che le vengono dal
teleschermo, è altrettanto vero che i giovani l’hanno abbandonata o la ascoltano come un’abitudine,
piuttosto che come una maestra, buona o cattiva
che sia. La televisione non esprime più lo spirito
del tempo, anche se resistono grandi cerimonie
mediali e momenti periodici nei quali il paese si
ritrova davanti alla tv per seguire eventi e competizioni, come quelle elettorali. Tuttavia invano cercheremmo una funzione educativa e
socializzante diffusa, anche se esistono
programmi, momenti, episodi in cui essa continua ad avere
tale funzione, magari non proprio dai
programmi dell’emittente pubblica. È
un paradosso che
una trasmissione
che si chiama “Servizio pubblico” non
ne faccia, a rigore,
parte essendo diffusa da una rete nazionale privata. Come
La 7. Né la si trova
nella interessante
varietà di canali tematici, specialistici,
di nicchia, spesso
migliori dei loro
corrispondenti generalisti ma sicuramente senza l’ambizione di rappresentare tutta la società.
Dov’è lo spirito del
tempo? Dobbiamo
cercarlo dalle parti
di Internet, soprattutto nella sua componente di social
networking. La tv
rimane un medium
del Novecento.
Collettività e connettività
Le leve dell’apprendimento digitale
di Roberto Maragliano
Me lo ricordo bene, e
non sono certo l’unico
a farlo, anche se ormai
noi si appartiene ad una
specie in estinzione: le
prime volte che scrivevo al computer, io che
venivo da anni e anni
di composizione a
macchina, cercavo con
la mano e la testa, vedendo avvicinarsi la fine della riga, una qualche leva per andare a
Roberto Maragliano
capo. Insomma, il residuo di quel mondo e soprattutto di quel modo tutto
meccanico di concepire e praticare la scrittura m’era rimasto dentro. In seguito, nuovi automatismi
vennero ad inscriversi sui precedenti, al punto che
ora, se mi si chiedesse ora di battere un testo a macchina, farei una gran brutta figura.
Va riconosciuto, comunque, queste faccende mettono in gioco qualcosa di più e di diverso rispetto a
fatti puramente tecnici.
Piaccia o no il digitale e la rete stanno cambiando il
nostro rapporto con la scrittura: le procurano nuovi
spazi e figure, ma intervengono anche in profondità
contribuendo a ristrutturare l’ambiente stesso entro
il quale troviamo, riceviamo, produciamo comunicazione tramite segni.
Nessuno potrebbe negare che apertura, mobilità ed
elasticità siano tratti costitutivi dell’orizzonte sociale e mentale di chi ricorre, oggi, alla scrittura né occorre grande acume filosofico per riconoscere che
quelle non appartengono al bagaglio delle idee forti
della cultura industriale e meccanica.
Piaccia o no il digitale e la rete stanno
cambiando il nostro rapporto
con la scrittura: le procurano nuovi
spazi e figure, ma intervengono anche
in profondità contribuendo a
ristrutturare l’ambiente stesso entro
il quale troviamo, riceviamo,
produciamo comunicazione tramite segni
Altra questione è se le pedagogie di settore oggi più
diffuse, quelle spontanee della vita d’ogni giorno e
quelle “riservate” della scuola e dell’accademia,
siano all’altezza della metamorfosi tecnologiche e
culturali intervenute. Comunque, da quel che si dice, e soprattutto da come luttuosamente lo si fa, il
raggiungimento di un simile obiettivo sembra essere ancora molto lontano. Si accetta che possa essere
utile dare ai giovani consapevolezza di come funzionano determinati meccanismi della scrittura digitale ma si fa molta difficoltà a riconoscere e far loro
riconoscere il portato concettuale di quei meccanismi. Perché? Dove stanno le resistenze? Nelle menti o nelle istituzioni? Sia qui che là, non c’è dubbio.
Indubbiamente la rete è uno spazio
di esercizio dell’apprendimento.
Basti pensare ai social network.
Ci si sta per curiosità, ma anche
per condividere esperienza, ricevere
e dare conoscenza, il tutto in una logica
collettiva e connettiva
Del resto, sarebbe da ingenui pensare che il passaggio al nuovo modo ambiente educativo possa avvenire in armonia. Molte impalcature sono destinate a
cadere, se davvero si va nella direzione del cambiamento, e con esse non poche abitudini e maniere di
pensare svanirebbero, senza lasciare traccia alcuna
di sé e rischiando addirittura di diventare preistoria
una volta scomparsi gli ultimi testimoni delle storie
del mondo di prima, cioè noi. Normale che si registrino reazioni, e pure aggressive, da parte degli interessati.
Ad una economia della scrittura costruita sulla povertà dello spazio, sulla fatica realizzativa e, soprattutto, sulle dimensioni individuali della produzione
si va sostituendo una che sembra proiettare i suoi
adepti in direzioni opposte. Chi è nato dentro questa
nuova economia non coglie la qualità del cambiamento intervenuto e trova dunque naturale l’universo contemporaneo della scrittura, chi invece ha conosciuto e considerato naturale l’universo precedente non può non vedere nel nuovo elementi di artificialità e costrizione. Loro e noi, insomma. I preistorici titubanti sulla soglia del nuovo tempo, noi, e
loro che ci sono nati dentro. Di qui le resistenze,
nostre, che proponiamo pedagogie scadute e vorremmo che non lo fossero, e loro, che sentono quelle pedagogie del tutto aliene rispetto a quel che ormai è il loro mondo. Cosa ben più grave, siamo tutti
ugualmente vittime di un conflitto, che rischia di diventare insanabile, fra la pedagogia informale della
scrittura, quella che cresce autonomamente e massicciamente fuori delle istituzioni pedagogiche, e la
pedagogia formale di tali istituzioni, che stenta a fare i conti con le novità e che, anche per il peso che
subisce dall’impianto istituzionale, non riesce e talvolta nemmeno vuole darsi un diverso assetto.
29
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Del resto, si tratta di passare da un ordine mentale e
operativo costruito, ad esempio, attorno al divieto
della copiatura o all’economia della cancellatura ad
uno in cui questi vincoli sono caduti e ciò che ad
essi si collega passa dall’essere inteso come disvalore ad esserlo come valore.
modalità del tutto informali, quasi anarchiche. Lo si
fa, appunto, dentro la diversità, il movimento, il rumore, la confusione, tutti elementi che nella logica
di prima sarebbero barriere, ma che lì fungono da
cornici per l’attivazione dei filtri con cui selezionare e fissare attivamente dei contenuti. Come c’è il
social writing dei wiki, cioè una
dimensione partecipata della scrittura digitale che non ha pari negli
spazi della scrittura fisica, allo
stesso modo c’è un social learning, cioè un’esperienza tipica
dell’universo digitale che solo in
parte il mondo fisico è in grado di
ricalcare. Il tutto sotto l’insegna
dell’apertura, della mobilità, dell’elasticità.
Di qui, io credo, dovremmo muovere, chiedendoci in che misura
quest’altra dimensione e soprattutto quest’altra logica dell’apprendere, poco conosciute fin qui, ma oggi molto praticate negli spazi esterni delle istituzioni, e non solo per
il diletto o il consumo, possano rientrare ed essere positivamente accolte dentro strutture, come le scoQuesta è, al 2 di aprile alle ore 13, la home page del blog #PARLIAMONE del Laborato- lastiche e universitarie, abituate e
rio di tecnologie audiovisive (Dipartimento di Scienze della formazione): http://LTAonli- poggiare i loro principi di identità
ne.wordpress.com
e i loro impianti organizzativi sulla
dimensione e la logica dell’inseQuesto è il compito che ci attende. E le posizioni in
gnamento e su apprendimenti formali in tutto e per
campo, da parte dell’educatore che vorremmo imtutto dipendenti da quell’insegnamento.
pegnato ad affrontarlo, non sono che tre: quella di
Una volta data la risposta positiva, occorrerà che
chi rifiuta l’impegno perché lo giudica infondato (la
convinciamo noi stessi di quanto sia riduttivo pencultura è una cosa, il rumore è altro), quella di chi
sare di risolvere tutto con un semplice cambio di
lo accetta e lo piega all’esigenza di mantenere le
veicolo. Certo, all’inizio di un’esperienza di e-learconcettualizzazioni del modo precedendo aggiorning il problema che generalmente ci poniamo è conandone solo alcuni aspetti di superficie e quella di
me riprodurre lì i meccanismi cui siamo avvezzi:
chi fa suo questo programma, cercando di orientarne l’attuazione attraverso la messa a punto di nuove
Come c’è il social writing dei wiki, cioè
trame concettuali. Non è una novità. Uno afferma
“niente motorino”, uno vuole “prima la bicicletta” e
una dimensione partecipata
uno si dice “va be’, subito il motorino ma con un
della scrittura digitale che non ha pari
adeguato corredo di sicurezze e precauzioni”: il prinegli spazi della scrittura fisica, allo
mo non dà cittadinanza, il secondo fa finta di concederla, il terzo si impegna a farla maturare. Questesso modo c’è un social learning,
sto, almeno, è quanto io penso.
cioè un’esperienza tipica dell’universo
Vi chiederete a questo punto se non ho sbagliato ardigitale che solo in parte il mondo fisico
gomento. Dovevo trattare di e-learning e invece mi
sono dilungato sui temi dello scrivere, aggiungenè in grado di ricalcare.
doci pure la questione del motore. No, non ho deIl tutto sotto l’insegna dell’apertura,
viato. Lo capite subito se nei brani che avete letto
della mobilità, dell’elasticità
fin qui provate a sostituire al termine “scrittura” e i
suoi derivati il termine “apprendimento” con tutti i
suoi derivati. Il discorso regge ancora.
andremo dunque alla ricerca di cosa mettere al poPerché indubbiamente la rete è uno spazio di esercisto delle lezioni (ad esempio dei video), cosa al pozio dell’apprendimento. Basti pensare ai social netsto di una parte dei manuali cartacei (e avremo gli
work. Ci si sta per curiosità, ma anche per condivioggetti didattici multimediali), cosa al posto delle
dere esperienza, ricevere e dare conoscenza, il tutto
prove di esame (i test, no?), cosa al posto del dialoin una logica collettiva e connettiva. Anche lì si apgo docente/studente (dei forum potrebbero risultare
prende dalle cose, in ultima istanza, ma solo perché
utili). L’orizzonte mentale ed operativo che prevale,
gli altri le mediano: insomma si trae succo dagli
in questa fase, non andrebbe oltre le dimensioni
esiti ma anche e soprattutto dalle dinamiche deldell’e-teaching e non sarebbe infrequente che chi vi
l’apprendimento altrui. Comunque si apprende, in
si impegni, docente o studente, vada alla ricerca di
ciò che non c’è, né ci potrebbe essere, come facevo io con la leva
mancante del mio primo computer.
In altri termini, in simili contesti
prevale, dell’e-learning, quanto
esso avrebbe in meno rispetto all’insegnamento fisico (del resto,
ciò che effettivamente gli manca è
proprio la fisicità dell’insegnamento fisico) mentre resta nell’ombra proprio ciò che avrebbe in
più e di diverso rispetto alla situazione di prima, vale a dire la possibilità di accogliere e promuovere
apprendimenti attivi e partecipati,
e di modulare e modellare l’impegno didattico su tali dinamiche.
Appurato che quella leva non c’è,
ed elaborato il lutto, potremmo seriamente decidere se investire
energie, mentali e culturali e orga- Rappresentazione tridimensionale dello spazio entro il quale collocare un’esperienza di
nizzative, sull’impresa. Si tratta e-learning. Tre sono gli assi organizzativi, corrispondenti a scelte in termini di qualità
allora di accettare che vengano po- delle attrezzature soprattutto software, di articolazione dei contenuti, di modelli per l’ape l’insegnamento. Ancora tre sono i tipi di competenze richiesti a docenti e
sti in discussione molti dei presup- prendimento
studenti, precisamente di tecnica, enciclopedia, esperienza. Due risultano essere le matriposti del nostro insegnare e far ap- ci, a seconda che ci si orienti a ricalcare ordinamenti esistenti (Riproduzione) o a speriprendere. Come per la scrittura, mentarne di nuovi (Produzione). L’immagine è realizzata da Andrea Patassini, del Labopassando al contesto nuovo è ne- ratorio di tecnologie audiovisive
cessario aprirsi alle prospettive di
Scelte umane (e pedagogiche) e opzioni tecnologimutamento di spazi, modelli, stili, dinamiche, e alche sono un tutt’uno, da che esiste l’individuo che
l’idea che non solo gli oggetti ma anche i soggetti
scrive, e che scrive per l’altro.
in scena assumano tratti di flessibilità e reciproca
È questo uno dei principi cui fa riferimento l’impeintercambiabilità.
gno di ricerca, comunicazione e formazione del LaNel digitale si apprende dall’apprendimento dell’alboratorio di Tecnologie Audiovisive, attivo dal 1990
tro, e questo vale anche per il docente; lì il contenunell’area educativa dell’Università Roma Tre e imto dell’apprendimento assume forme aperte, dove i
pegnato dal 1999 in esperienze di didattica di rete
legami tra i nodi sono più significativi dei nodi
(la figura 1 riproduce l’home page attuale del blog
stessi, e questo tocca il problema della riarticolaziodel Laboratorio). Tra i prodotti più recenti del grupne dei saperi; lì, ancora, l’esito delle dinamiche di
po c’è la mappa riprodotta nella figura 2: una rapapprendimento/insegnamento è comunque un propresentazione tridimensionale dello spazio entro il
dotto collettivo e connettivo, e questo segna una
quale individuare la collocazione di ipotetiche pratigrosso elemento di sfida per la didattica.
che di e-learning di stampo diverso, da quelle che
Si può dunque decidere, in ambito universitario, di
anche sul piano istituzionale intendono ricalcare le
non aprire questa partita, perché la si considera perofferte e le strutture esistenti (le si troverà più vicine
dente per l’identità (o la dignità) dell’istituzione. Poall’angolo della Riproduzione) a quelle che più se ne
sizione legittima, ma, io credo, rischiosissima. Anche
se si è fermamente convinti che la rete sia il luogo
del massimo smarrimento e della massima distrazioNel digitale si apprende
ne, non si può sfuggire al dato di fatto che i giovani e
gli adulti che contattano le università già oggi sono
dall’apprendimento dell’altro, e questo
segnati e sempre più lo saranno domani da quel tipo
vale anche per il docente; lì il contenuto
di esperienza e da quel modo di concepire e praticare
dell’apprendimento assume forme
la conoscenza. Una difesa orgogliosa e rigida delle
attuali modalità dell’insegnare metterebbe a repentaaperte, dove i legami tra i nodi sono
glio la sopravvivenza stessa dell’istituzione.
più significativi dei nodi stessi,
Dunque, la via sembrerebbe segnata. Naturalmente
e questo tocca il problema
la si può percorrere in tempi e modi diversi, per
esempio sostenendo prima esperienze di e-teaching
della riarticolazione dei saperi
e poi facendo maturare al loro interno soluzioni più
avanzate in direzione reticolare, oppure sintonizallontanano (situandosi più vicine all’angolo oppozandosi subito e direttamente su questa seconda
sto della Produzione). Va da sé che le esperienze naprospettiva.
zionali delle Università telematiche figureranno
In ogni caso è importante che non se ne faccia un
molto vicine a R mentre quelle internazionali del
problema esclusivo di macchine, e che si eviti di
MOOCs se ne discosteranno, andando a trovare colrappresentare il passaggio come una subordinazione
locazione nella metà dell’asse più vicina a P.
di scelte umane a opzioni tecnologiche.
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32
C’è bisogno di ricerca
Cambiare la valutazione d’ingresso
di Benedetto Vertecchi
Se il dibattito sulle prove d’ammissione all’università non fosse viziato da un’eccessiva
attenzione ad alcuni
aspetti contingenti, e
tenesse in considerazione una più ampia
prospettiva temporale,
si potrebbe giungere a
conclusioni molto diverse da quelle che si
sentono, spesso ossessivamente, ripetere e,
Benedetto Vertecchi
soprattutto, si capirebbe meglio qual è il nesso che collega la valutazione
per passaggio dalla scuola secondaria all’università
allo sviluppo complessivo dei sistemi educativi. Sarebbe, infatti, possibile ricostruire il cambiamento
intervenuto da situazioni nelle quali, per lo scarso
numero di allievi coinvolti, ma anche, e soprattutto,
per la loro appartenenza sociale, la valutazione non
aveva una funzione di particolare rilievo, limitandosi per lo più a fungere da elemento regolatore della
didattica, alle condizioni attuali, nelle quali certe
pratiche valutative hanno un rilievo centrale nello
sviluppo di un percorso di studi e conseguenze sulle
condizioni successive di esistenza degli allievi.
I sistemi educativi contemporanei (mi riferisco ai
paesi europei e a quelli che altrove ne hanno ripreso
la cultura) sono riconducili a due principali tradizioni. La prima risale alla Riforma religiosa avviata
da Lutero con l’affissione, il 31 ottobre del 1517,
delle sue 95 tesi alla porta della Cattedrale di Wittenberg. Può sembrare strano, e per molti versi lo è,
che si indichi non solo l’anno, ma anche il mese e il
giorno in cui ha preso avvio un fenomeno così complesso, che per raggiungere le dimensioni che oggi
lo caratterizzano ha impiegato circa mezzo millennio. Il fatto è che, al di là degli aspetti religiosi, la
Riforma rompeva una concezione della cultura delle popolazioni alla quale era estranea l’idea del possesso diffuso di un repertorio di competenze simboliche. Richiamando il popolo cristiano a riflettere
senza intermediari sul messaggio delle Scritture,
Lutero apriva, per un verso, un contrasto con la
Chiesa di Roma, dall’altro poneva un’esigenza, per
così dire, tecnica, quella di saper leggere.
Improvvisamente, l’apprendimento formale diventava, nell’Europa riformata, un aspetto non rinunciabile nel profilo delle popolazioni. La valutazione assumeva rilevanza soprattutto perché funzionale allo
sviluppo di una proposta didattica rivolta a tutti, senza differenze di status o di censo. Ciò non comportava, tuttavia, che la valutazione assumesse il ruolo sociale che è venuta acquisendo successivamente e che,
per molti versi, possiede ancora. Se l’acquisizione di
competenze alfabetiche di base costituiva una condizione che doveva essere uniformemente posseduta, i
processi di differenziazione sociale potevano continuare a svilupparsi per altre vie, come, in effetti, è
avvenuto dove si è affermata la Riforma. La valutazione ha incominciato ad assumere la rilevanza che
oggi le si riconosce quando almeno parte della differenziazione sociale si è caratterizzata per il possesso
di un cultura formale di qualche consistenza, a cominciare, ovviamente, dalle competenze alfabetiche.
È un fenomeno che non si è verificato in modo sincrono, ma si è manifestato in concomitanza o all’interno di altri cambiamenti significativi nelle condizioni di vita delle popolazioni. Per esempio, sarebbe
Le università hanno la responsabilità di
non aver definito autonomamente in
che modo assolvere al loro compito
valutativo, ma di averlo affidato a
società di servizio che per lo più si sono
limitate a replicare le prove partendo da
alcuni modelli internazionali
difficile immaginare la razionalizzazione intervenuta
nell’organizzazione di alcuni stati europei nel Settecento senza supporre l’esistenza di una cultura distribuita in parti della popolazione di qualche consistenza, così come i progressi dell’industrializzazione
hanno richiesto che il profilo dei lavoratori non si limitasse soltanto alla forza fisica e alla capacità di
eseguire compiti su base esclusivamente sapienziale.
Da un punto di vista sociale e valutativo, il quadro si
è complicato quando si è incominciato a ragionare
di educazione formale non solo per l’esigenza che
occorreva soddisfare (immateriale nel caso della Riforma, materiale negli altri), ma nell’ambito di una
diversa visione dei diritti e dei doveri delle persone:
l’educazione ha assunto rilevanza politica, e la valutazione è diventata strumento perché le scelte effettuate non fossero solo enunciati privi di conseguenze. Così, per esempio, uno dei principi della Rivoluzione francese è consistito nell’affermare il diritto
all’istruzione. Ma, se l’istruzione era un diritto, e
non solo un modo per soddisfare questa o quell’esigenza, come stabilire fino a che punto tale diritto
dovesse estendersi? Per salvarsi l’anima bastava saper leggere le Scritture, ma per partecipare alla vita
sociale esprimendo al meglio le proprie capacità
quanto si sarebbe dovuto proseguire negli studi?
È significativo che a questi interrogativi sia stata
data per lo più una risposta indiretta. Per restare in
Francia, in piena età napoleonica incominciavano a
sollevarsi polemiche circa la certificazione degli
studi secondari. Alcune delle domande che l’opinione pubblica si poneva non erano apprezzabilmente
diverse da quelle che oggi si continuano a porre, e
cioè se il sistema degli esami non finisca per favorire una apprendimento ripetitivo e privo di spessore
critico, se gli allievi non finissero per impegnarsi
solo in ciò che sarebbe stato verificato agli esami e
in funzione del modo in cui tale verifica si sapeva
che sarebbe avvenuta e così via. Quel che sorprende
non è che si potessero porre simili domande, ma
che fossero poste in un contesto in cui solo una frazione minima della popolazione potenziale concludeva il percorso degli studi secondari.
L’asprezza del dibattito sugli esami che in molti paesi si è manifestata già nel corso dell’Ottocento, se apparentemente si collegava a enunciati educativi magniloquenti, era molto più realisticamente da collegare a una funzione di moderazione della mobilità sociale. Attraverso gli esami conclusivi della scuola secondaria si poteva disciplinare l’accesso alle università, e di conseguenza all’assunzione di ruoli sociali
di livello elevato. È nota la polemica che si trovò a
contrastare Horace Mann come segretario del Board
of Education nello Stato del Massachusetts attorno al
1840. La questione riguardava la qualità degli studi e
le posizioni che si opponevano erano le stesse che
hanno continuato a proporsi successivamente, e cioè
se la crescita del numero degli allievi delle scuole secondarie non fosse causa del decadimento degli studi. Quel che è interessante notare, perché rappresenta
il punto critico nel dibattito sugli esami, è che non ci
si chiedeva (e si continua a non chiedersi) perché determinati esiti non corrispondono alle attese, ma solo
se non corrispondono. La differenza è sostanziale. Se
ci si pone la prima domanda, si intende capire i processi e le trasformazioni che sono in atto al loro interno, ma se ci si limita a costatare se vi sia corrispondenza tra risultati attesi e risultati osservati il
criterio di giudizio è sottratto all’analisi delle condizioni nelle quali ha operato l’educazione.
Vale la pena di osservare che nel corso del Novecento il confronto sugli esami finali della scuola secondaria è stato il principale tema di contrapposizione
tra conservatorismo e innovazione nei sistemi scolastici. Non che la questione si sia presentata nei termini politici ora indicati. Si è, invece, per lo più ammantata di considerazioni metodologiche e tecniche.
Anzi, proprio da tali considerazioni ha avuto origine
il precisarsi della sistematica valutativa che ha dato
luogo al precisarsi, nell’ambito della conoscenza
educativa, di una disciplina autonoma (la docimologia). Dopo la Prima Guerra Mondiale in molti paesi
(non in Italia, dove si esprimevano gli intenti malthusiani della riforma Gentile) si verificò una rapidissima crescita della popolazione delle scuole secondarie. Un aspetto comune era che dappertutto gli esami
che concludevano quel livello degli studi (comunque
fossero denominati: Abitur, baccalauréat, General
Certificate of Education eccetera) avevano assunto
una grande rilevanza. Molti si chiedevano quale fiducia potesse aversi nei confronti dei risultati: la sistematica valutativa prima menzionata ebbe origine
proprio da una serie di ricerche promosse per dare risposta a tale interrogativo. Contemporaneamente si
incominciava a profilare quella necessità di comparare gli esiti dei sistema educativi (nei quali il passaggio tra il livello secondario e quello terziario costituisce uno snodo fondamentale) che si sarebbe nel seguito manifestata in modi sempre più pressanti.
L’ulteriore crescita delle quote di popolazione scolarizzata dopo la Seconda Guerra Mondiale ha spostato l’asse dell’attenzione dalla certificazione degli
studi secondari all’ammissione all’università. Nei
paesi industrializzati larga parte della popolazione in
uscita dalle scuole secondarie tendeva a proseguire
gli studi nelle università (o in strutture terziarie).
Ancora una volta, la questione degli esami diventava il punto di partenza per un nuovo sviluppo della
ricerca educativa. Alla fine degli anni quaranta un
importante congresso dell’American Educational
Research Association (Aera) decideva di introdurre
criteri comuni per l’ammissione alle università. Il
compito di predisporre la piattaforma teorica per tale operazione fu affidato a una commissione coordinata da Benjamin Bloom, uno studioso che ha avuto
un ruolo di primo piano nello sviluppo della ricerca
educativa della seconda metà del Novecento. Il rapporto prodotto da Bloom conteneva l’indicazione
degli obiettivi che si sarebbero dovuti accertare per
l’ammissione all’università. Quel rapporto ha avuto
un grande merito, quello di aver tentato di sottrarre
alla casualità e alle mode contingenti i criteri di giudizio, ma anche il limite di aver accreditato soluzioni strumentali che, specialmente in paesi come l’Italia, nei quali manca una tradizione autonoma di ricerca valutativa, hanno finito con l’essere considerate le uniche possibili. Le università italiane quando
si sono trovate di fronte a una richiesta di accesso
alla quale non erano in grado di rispondere hanno
fatto ricorso alla soluzione più banale, che era quella
di riprodurre le prove che nell’immaginario collettivo corrispondevano alle pratiche più diffuse al di là
dell’Atlantico. Le università hanno la responsabilità
di non aver definito autonomamente in che modo assolvere al loro compito valutativo, ma di averlo affidato a società di servizio che per lo più si sono limitate a replicare le prove partendo da alcuni modelli
internazionali. Sarebbe stato necessario impegnarsi
nella ricerca, ma si è preferito seguire la via più facile, senza considerare che i cambiamenti in atto
nella conoscenza e della metodologia stavano investendo anche la valutazione. Oggi abbiamo logiche e
strumentari arcaici: non sarebbe il caso di guardarsi
intorno e di tentare, anche in Italia, nuove vie?
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Prospettive di placement
Diritto all’apprendimento e all’occupabilità
di Giuditta Alessandrini
Il diritto all’apprendimento é correlato significativamente – secondo gli indirizzi europei – al diritto di cittadinanza e si “espande” nell’intero arco di
vita della persona come diritto a vedere riconosciute e valorizzate le competenze formali (i titoli conseguiti) e non formali (l’esperienza). È questo
Giuditta Alessandrini
nodo che acquista un
valore centrale come istanza di giustizia sociale e
contrasto alle disuguaglianze in quanto diritto all’occupabilità. Nelle Università accanto ai compiti
della ricerca e della docenza, si sta radicando oggi
la terza missione, cioè il trasferimento e la diffusione della conoscenza in stretto rapporto con il
territorio (il tessuto produttivo, la pubblica amministrazione, i corpi intermedi). L’investimento nel
raggiungimento delle competenze è – dunque –
uno strumento di sviluppo del capitale umano. Ma
come scorgere la situazione del paese rispetto allo
sviluppo di questo capitale? Dalle indagini di settore (OCSE) emerge che l’Italia è penalizzata per le
prospettive di investimento in capitale umano alla
luce del divario con altri paesi che presentano quote di occupati di formazione terziaria (laurea magistrale) in misura maggiore che il nostro. In altri termini siamo un paese a rischio competitivo e con un
basso livello di qualificazione del capitale umano
rispetto alla media dei paesi UE (37,5% contro il
19,5%). La debolezza della richiesta di persone
qualificate nel mondo del lavoro è legata da noi ad
una specializzazione produttiva in settori a tecnologia matura, e, soprattutto, alla piccola dimensione
delle imprese.
Secondo l’Employment Outlook dell’OCSE (luglio
2013) sono due le preoccupanti caratteristiche del
mercato del lavoro italiano (cfr. anche la tavola seguente):
• la disoccupazione è destinata a crescere anche
nel corso del 2014, quando toccherà il 12,6%, in
contrasto con le previsioni della media OCSE
che prospetta per la fine del 2014 un lieve miglioramento dall’attuale 8% al 7,8%. In cinque
anni il tasso di disoccupazione in Italia è raddoppiato, passando dal 6,2% del 2007 al 12,2% del
giugno 2013;
• mentre il tasso di occupazione più “anziana” continua a crescere, il tasso di disoccupazione giovanile sale in maniera preoccupante, per effetto del-
la mancata nuova occupazione e dei licenziamenti dei lavoratori precari. Il tasso di disoccupazione tra i 15 e i 24 anni è passato nello stesso periodo dal 35,4% al 37,5%. Il 52,9% dei giovani fra i
15 e i 24 anni è occupato a tempo determinato.
Per far fronte a questa situazione dal 1° gennaio
2014 verrà istituita in via sperimentale presso il
Ministero del Lavoro una “struttura di missione”
per dare attuazione agli obiettivi fissati a livello
europeo dal piano c.d. Garanzia per i giovani
(Youth Guarantee) di cui alla Raccomandazione
del Consiglio dell’Unione Europea del 22 aprile
2013 (l’obiettivo in estrema sintesi: garantire agli
under 25, entro quattro mesi dal termine degli studi
o dalla perdita di un impiego, una buona offerta di
lavoro, un corso di perfezionamento, un contratto
di apprendistato o un tirocinio di qualità).
3. Le politiche di Roma Tre
Il quadro normativo in riferimento al tema del placement universitario nasce dalla Legge 30 ed il
D.L. 276 (art. 1, comma 2, lettera l), secondo cui le
università sono tra i soggetti da includere nel regime autorizzatorio o di accreditamento per gli intermediari pubblici. Si ricorda anche che il D.lgs.
276/03, art. 6, comma 1, (Regimi particolari di autorizzazioni) autorizza «allo svolgimento delle attività di intermediazione le università pubbliche e
private, comprese le fondazioni universitarie che
Nelle Università accanto ai compiti
della ricerca e della docenza,
si sta radicando oggi la terza missione,
cioè il trasferimento e la diffusione
della conoscenza in stretto rapporto
con il territorio
hanno come oggetto l’alta formazione con specifico riferimento alle problematiche del mercato del
lavoro». L’occupabilità – insomma – é parte integrante della qualità dell’offerta curricolare di un
Ateneo: secondo la Legge 01/09, art. 4, il 7% del
FFO é descrivibile come “quota premiale”. L’Indicatore A5 è la percentuale di laureati occupati a
tre anni dal conseguimento del titolo. Ciò significa
che ogni Ateneo è valutato anche per il livello di
occupabilità che riesce a generare nei suoi laureati.
Negli ultimi anni, un notevole impulso è stato dato
dalla partecipazione dell’Ateneo ad alcuni progetti
(Fixo, Un ponte rosa, Soul, TIPO, Start-up) che
hanno permesso di acquisire risorse finanziarie e
Know how per un costante sviluppo dei servizi e di
attivare inoltre, attraverso tirocini retribuiti, occasioni di inserimento professionale per i giovani laureati. In particolare, la partecipazione ai bandi regionali, con l’avvio del Progetto SOUL in partnership con La Sapienza, ha reso possibile la realizzazione di alcuni ambienti informatici che oggi con-
Negli ultimi anni, un notevole impulso
è stato dato dalla partecipazione
dell’Ateneo ad alcuni progetti (Fixo,
Un ponte rosa, Soul, TIPO, Start-up)
che hanno permesso di acquisire risorse
finanziarie e Know how per un costante
sviluppo dei servizi e di attivare inoltre,
attraverso tirocini retribuiti, occasioni
di inserimento professionale
per i giovani laureati
sentono ai nostri studenti di partecipare al matching
diretto con le imprese. A tale scopo la piattaforma
Jobsoul favorisce l’incontro fra i laureati in cerca di
occupazione e le imprese registrate ed è inoltre in
grado, grazie agli ultimi aggiornamenti, di gestire
per intero il processo di attivazione, svolgimento e
rendicontazione dei tirocini (www.jobsoul.it). I più
recenti aggiornamenti della piattaforma hanno consentito inoltre di sviluppare una versione di Ateneo
del portale jobsoul attraverso la quale assolvere in
tempi rapidi agli obblighi di pubblicazione dei curricula dei laureati. Nel 2010 è stato dato avvio al
progetto biennale Start Up, progetto finanziato dalla
Regione Lazio Per lo svolgimento delle attività il
nostro Ateneo si è costituito in ATS con i partner
“La Sapienza Università di Roma” e “IRFI – Istituto di Formazione della Camera di Commercio”. Un
plauso in particolare come buona pratica del nostro
ateneo allo sviluppo e il rafforzamento di reti di
rapporti interni a cui si è dedicato l’ufficio job placement grazie ai nuovi servizi attivati.
Un altro punto di forza di Roma tre é l’attività di
collaborazione con AlmaLaurea, attiva già dal
2004. AlmaLaurea
ha ceduto complessivamente 450.000
curricula ad aziende italiane e straniere (54.000 nominativi in questi anni
provenienti dal nostro Ateneo). Inoltre, tutti i CV sono
resi disponibili in
lingua inglese consentendo così la
massima visibilità
all’estero dei curricula dei laureati.
Inoltre, il 47% dei
laureati dell’Ateneo
ha utilizzato i servizi disponibili sul si-
to di AlmaLaurea (aggiornamento del curriculum,
invio della propria candidatura ad annunci di lavoro presenti in bacheca. Vedasi: www.almalaurea.it).
Un altro punto di interesse negli ultimi due anni, il
programma “Formazione e Innovazione per l’Occupazione FIxO Scuola & Università” promosso
dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e
realizzato grazie all’’assistenza tecnica di Italia Lavoro. FIxO è un programma di durata triennale (dicembre 2011/dicembre 2013). Attraverso il rafforzamento e la qualificazione dei servizi di placement sono state sviluppate attività mirate all’occupabilità di giovani laureati e favorire la diminuzione dei tempi di transizione dal sistema della istruzione e formazione a quello del lavoro.
L’Ateneo Roma tre ha inoltre dato via all’apertura
del Centro per l’Impiego Provinciale in via Ostiense 169. La Provincia di Roma in collaborazione
con SOUL ha offerto in questo modo ai nostri laureati, laureandi e ai giovani presenti sul territorio
per motivi di studio, la possibilità di avere a disposizione un ulteriore punto di riferimento per confrontarsi con il mondo del lavoro e soprattutto per
stabilire un primo contatto con le imprese. Il sistema universitario italiano certamente può essere utile, ma da solo non porterà alla soluzione dei problemi relativi alla presenza di un sistema produttivo che non riesce adeguatamente ad innovarsi e ad
investire nei settori portanti dell’economia. La
scarsa diffusione dell’apprendistato di alta formazione – soprattutto nel centro Sud – tra le aziende,
nonostante gli incentivi, evidenzia il disinteresse
delle imprese a profili professionali di alto livello.
Molta strada occorre percorrere per generare forme
di collaborazione innovative tra università ed impresa che giungano anche a dar vita a spin off e
start up valorizzando profili ad alta qualificazione
come i dottori di ricerca ed i ricercatori. Ciò che é
essenziale é generare una nuova cultura della partnership tra mondo produttivo ed Atenei tesa a sviluppare concreti percorsi di integrazione su percorsi formativi che valorizzino forme di apprendimento immersivo e partecipativo del giovane laureato
nei contesti produttivi anche incentivando l’orientamento all’imprenditorialità.
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La poetica dell’educare
La parola chiave è condivisione
di Gilberto Scaramuzzo
Non c’è nulla di originale nel congiungere
l’arte poetica all’educazione: nella Grecia
antica queste due realtà
erano già saldamente
legate.
Eppure, forse, un riflettere nuovo, e non del
tutto scontato, si può
aprire se si guarda da
una segnata angolazione
ai due fattori che compongono il binomio.
Gilberto Scaramuzzo
Si può, infatti, guardare a chi svolge l’azione educativa (un insegnante,
un educatore, un formatore) come a qualcuno che
esercita una poetica, e provare a descrivere quel che
si riesce a vedere guardando da quella prospettiva.
Questo modo di ripensare il legame che unisce la
poesia e l’educazione può prendere avvio dalla rilettura di una pagina nota di Aristotele – Poetica 4.
1448 b4 ss. –, quella in cui l’autore rivela perché
l’essere umano è in grado di fare poesia, e presenta
una serie di cause tutte naturali che si possono sintetizzare come segue:
a) l’essere umano tra tutti gli animali eccelle per la
qualità del suo fare mimesis (è, cioè, il migliore
tra gli animali per il modo in cui sa rendersi simile a qualcuno o a qualcosa; come è anche il migliore nel trovare e nel costruire le somiglianze);
b) il cucciolo dell’uomo inizia l’attività mimesica
fin dall’infanzia (si pensi a quel giocare del
bambino in cui egli fa come se fosse la mamma,
la maestra…), e si procura attraverso di essa gli apprendimenti
e le comprensioni fondamentali;
c) tutti traggono piacere osservando o ascoltando le mimesis prodotte dagli altri (anche se queste
rivelano situazioni che nella vita
reale ci farebbero orrore) perché
attraverso il godimento di queste opere si può apprendere e
comprendere, e questo è ciò che
piace all’essere umano.
La riflessione che Aristotele propone intorno al fare poesia dell’uomo
si articola, dunque, attraverso tre
concetti chiave: mimesis, apprendere/comprendere, piacere.
Se proviamo a passare dal piano
teorico a quello dell’agire pratico,
ci accorgiamo immediatamente di
come questi tre concetti rivelino tre nodi fondamentali e problematici dell’agire educativo.
Guardiamo, dunque, all’operare di un insegnante:
possiamo pensare alla sua lezione come a una mimesis (una sorta di opera d’arte che rappresenta
qualcosa che si vuole venga compreso) creata magistralmente grazie alla sua capacità mimesica (quella
capacità che consente all’insegnante di trovare, per
A scuola si fatica a provare piacere
durante le lezioni (questo può valere
sia per gli insegnanti
sia per gli studenti); il processo
dell’apprendere/comprendere appare
alquanto problematico e spesso
non soddisfacente; sembra sussistere
una sottovalutazione
(una profonda ignoranza
della rilevanza?) del dinamismo che
esprime la terza parola chiave: mimesis
esempio, le parole adatte per spiegare un concetto);
possiamo pensare ai suoi studenti come eccellenti
ascoltatori mimesici in grado, attraverso questo
stesso dinamismo (mimesis), di apprendere e comprendere la lezione presentata dall’insegnante (di
assimilarla); e possiamo pensare alla lezione che li
vede coinvolti come la celebrazione di un atto piacevole (qualunque sia il tema trattato, anche il più
umanamente atroce) perché attraverso questa comunione si produce un processo di apprendimento e di
comprensione, che è quel che l’essere umano naturalmente ricerca.
Intorno ai tre concetti chiave proposti da Aristotele – piacere, apprendere/comprendere, mimesis –
sembra ruotare la crisi che segna
oggi il mondo dell’educativo. A
scuola si fatica a provare piacere
durante le lezioni (questo può valere sia per gli insegnanti sia per gli
studenti); il processo dell’apprendere/comprendere appare alquanto
problematico e spesso non soddisfacente; sembra, inoltre, sussistere
una sottovalutazione (una profonda
ignoranza della rilevanza?) del dinamismo che esprime la terza parola chiave: mimesis.
E se proprio in questa ultima sottovalutazione risiedessero le cause
della crisi educativa attuale? Se,
cioè, a causare l’inefficacia (così come l’efficacia) di tante azioni
educative, fosse proprio la dis-attenzione
(oppure l’attenzione)
al fatto che l’apprendere e il comprendere
hanno una natura mimesica, e che questa
costituisce il procedimento naturale in cui
essi si realizzano?
Proviamo dunque a rivalutare mimesis rileggendo le cause naturali indicate da Aristotele per giustificare il
fare poesia umano.
L’essere umano tra tutti gli animali eccelle
per la qualità del suo
fare mimesis
Aristotele qui – nella Poetica – propone una definizione di essere umano che non ha avuto, nella riflessione che in Occidente si è sviluppata intorno al problema dell’educare, la stessa fortuna di un’altra definizione di essere umano presentata dallo stesso autore nella Politica – l’uomo è un animale razionale –.
La definizione della Poetica – che riconosce l’essere umano come animale mimesico per eccellenza –
non pone l’essere umano in contrapposizione con
gli altri animali, come, invece, evidentemente fa
quella della Politica – affermando la razionalità come esclusivo possesso umano –, ma ne rivela soltanto una misteriosa perfezione.
Che succederebbe se nel processo che fa di un bambino un adulto educato ci si prendesse cura della sua
natura mimesica oltre che della sua natura razionale?
Su un’antropologia mimesica, una volta rivalutata e
sviluppata in sinergia con quella razionale, potrebbe
anche fondarsi un’altra qualità della convivenza tra
gli esseri umani? E quella dell’essere umano con gli
altri esseri?
Che succederebbe se nel processo
che fa di un bambino un adulto
educato ci si prendesse cura della sua
natura mimesica
oltre che della sua natura razionale?
Sarebbe questa una ri-fondazione che potrebbe donare all’agire educativo un respiro vasto, che vada ben
oltre quanto può essere contenuto dall’esempio relativo all’insegnante a cui abbiamo accennato poc’anzi?
Ri-fondare la riflessione educativa su un homo riconosciuto come mimesico, oltre che razionale, può creare
prospettive ricche di implicazioni positive per il processo dell’apprendere/comprendere che si realizza in
Poesia e mimesis, Libreria Arion, via Veneto, Roma. Mimesis Lab
ambito scolastico; ma può fare anche molto di più:
può aprire prospettive per una ri-qualificazione del relazionarsi umano con l’altro da sé (sia esso un altro
umano o altro dall’umano): una riqualificazione che
abbia come principio e come fine il com-prendere.
Il cucciolo dell’uomo inizia l’attività mimesica fin
dall’infanzia, e si procura attraverso di essa gli apprendimenti e le comprensioni fondamentali
Qui Aristotele ci consente di capire in maniera
semplice che cosa sia fare mimesis. L’attività mimesica è quel giocare che mettono in atto i bambini
di oggi, così come quelli di ieri, quando fanno come se fossero la mamma, un leopardo, un aereo,
un’onda del mare… Fare la mimesis di qualcuno, o
di qualcosa, può essere definito come il rendersi simile a quel qualcuno o a quel qualcosa (cf. Platone, Repubblica, 3. 313 c ss.); l’attività mimesica ci
appare come un processo di apertura dell’esserci
del bambino, cosicché l’altro da sé si voglia in lui
come lui per se stesso lo vuole. Un misterioso fare
e farsi fare dalla realtà che si rappresenta (basti
39
40
pensare al bambino che gioca a essere un cavallo:
in questo suo agire, quanto le caratteristiche che
appartengono al cavallo sono a fondamento del suo
modellarsi? Eppure egli, in qualche modo, guida
questa sua espressione…); un misterioso agire, di
cui parlano molti artisti e filosofi quando descrivono l’atto creativo, in cui mentre si agisce si è anche
agiti: un atto che sembra essere assieme volontario
e necessario. Potremmo riconoscere la mimesis come una certa intensità nel ri-vivere la realtà che si
Ri-fondare la riflessione educativa
su un homo riconosciuto come
mimesico, oltre che razionale,
può creare prospettive ricche
di implicazioni positive per il processo
dell’apprendere/comprendere
che si realizza in ambito scolastico;
può aprire prospettive per una
ri-qualificazione del relazionarsi
umano con l’altro da sé,
una riqualificazione che abbia
come principio e come fine
il com-prendere
va esprimendo, un vivere – questo – che comporta
il rendersi intimamente e originalmente simili all’altro che, attraverso l’atto mimesico, si viene a
manifestare.
Non sarà soltanto dovuto al caso che molti ex-studenti dichiarano, a distanza di anni dagli insegnamenti ricevuti, di aver dimenticato quasi tutto quel
che i loro insegnanti volevano che essi apprendessero durante il percorso scolastico (e per cui al tempo si erano ricevute anche buone valutazioni). Mentre affermano di ricordare quegli insegnamenti che
furono comunicati a loro vivi, da un’insegnate che
aveva la capacità di vivere con passione (potremmo
quasi dire: un insegnante che aveva la capacità di
farsi intenzionalmente e intimamente simile a) quel
che stava insegnando; oppure quelli in cui si era
stati guidati, da un insegnante che evidentemente
conosceva profondamente la poetica dell’apprendere/comprendere, a ricercare in proprio una qualità
vera e viva di incontro con l’oggetto di studio.
Tutti traggono piacere osservando o ascoltando le
mimesis prodotte dagli altri (anche se queste rivelano situazioni che nella vita reale ci farebbero orrore) perché attraverso il godimento di queste opere
si può apprendere e comprendere, e questo è ciò
che piace all’essere umano.
Questa ulteriore causa naturale che Aristotele utilizza per giustificare il perché del fare poesia umano,
ci conduce a riflettere su qualcosa di fondamentale
per ri-pensare l’azione educativa: l’essere umano ricerca l’apprendere e il comprendere perché in questa attività trae piacere. Non c’è, dunque, nulla da
forzare o da deviare affinché uno studente che fre-
quenta la scuola si direzioni naturalmente verso il
comprendere; ma c’è, piuttosto, un dinamismo (che
ogni insegnante, o educatore, deve pre-occuparsi di
conoscere a fondo) da servire appropriatamente, ed
è proprio quello stesso dinamismo che Aristotele ha
riconosciuto essere presente in maniera eccellente –
rispetto agli altri animali – nell’animale-umano.
Così come, da bambino, l’essere umano prova piacere quando ri-conosce facendone la mimesis questa
o quella persona (la madre, la maestra…), questo o
quel personaggio (un mostro dei cartoni, l’Uomo
ragno…), questa o quella realtà (un cavallo, un’onda…); così crescendo egli può intensificare questo
piacere, finalizzato al comprendere, estendendo la
mimesis (il proprio farsi simile) dalle cose che colpiscono i suoi sensi, o la sua fantasia, a qualunque
concetto, o a qualunque opera dell’ingegno umano,
che disvela una più complessa realtà, anche puramente teorica o astratta.
Ri-pensare al ruolo giocato dalla mimesis nella dinamica educativa potrebbe aprire la via a un’educazione che possa ri-conoscersi come poetica?
Un’educazione, cioè, in cui chi insegna (o chi, a
qualunque titolo, svolga un’azione educativa) si
faccia egli stesso, attualmente, a immagine e somiglianza di quel che attualmente comunica; e chi è
insegnato (o, più in generale, educato) venga supportato a crescere nella sua intenzionalità di ri-vivere in sé quel che viene scelto come materiale da apprendere/comprendere.
Quali giovamenti potrebbe portare alla convivenza
un’educazione che rivaluti appropriatamente la natura mimesica umana?
Da alcuni anni il MimesiLab – Laboratorio di Pedagogia dell’Espressione del Dipartimento di Scienze
della formazione ha attivato una serie di sperimentazioni.
Queste si sono realizzate in scuole (un progetto particolarmente ricco è stato realizzato presso l’Istituto
La riflessione che Aristotele propone
intorno al fare poesia dell’uomo
si articola, dunque, attraverso
tre concetti chiave: mimesis,
apprendere/comprendere, piacere
Comprensivo “Daniele Manin” di Roma, dove sono
stati coinvolti bambini e insegnanti di tutte le classi,
dalla scuola dell’infanzia alla scuola media, e gli
adulti stranieri che frequentano il CTP); in ospedali;
in centri per rifugiati e in altre realtà sociali del territorio; in musei e in istituti culturali.
I risultati sembrano evidenziare le prospettive edificanti che un’educazione poetica potrebbe aprire per
la convivenza tutta.
Il rendersi simile all’altro per comprenderlo – quel
dinamismo che è il proprio dell’atto mimesico –
sembra essere qualcosa che è bene allenare con cura in un momento complesso (e, forse, triste) come
quello attuale: questa attività potrebbe, infatti, fornire coordinate utili a ridonare bellezza e giustizia
al vivere dell’uomo con l’uomo.
Una stanza tutta per noi
Venti anni di rigoroso lavoro
di Sveva Magaraggia
Comunemente si dice
che il sapere delle donne sia un sapere legato
all’esperienza, un sapere quindi che matura
e si sviluppa a partire
dalle proprie esperienze di vita, mentre quello maschile sia un sapere teorico, che abbia
un diverso radicamento
nelle esperienze di vita
quotidiana.
Una tra le principali
Sveva Magaraggia
cause di questa differenza sta nel fatto che sino a poco tempo fa le donne non avevano accesso alle università, al sapere
teorico – soltanto nel 1874 venne permesso l’accesso delle donne alle università. Le donne hanno
colmato questa ingiustizia attraverso le esperienze
e l’autodisciplina. Virginia Woolf, nel suo magnifico saggio Una stanza tutta per sé, pubblicato nel
1929 mette in luce le motivazioni che hanno spinto
gli uomini a costruire un mondo che escludesse le
donne dalla sfera pubblica. I numerosi trattati sull’inferiorità delle donne scritti nel recente passato
hanno la funzione di sancire la superiorità maschile, di cementare quella fiducia
in se stessi necessaria per sentirsi adatti alla vita. Il modo più
rapido per aumentare questa fiducia, dice la Woolf, è quello di
pensare gli altri come inferiori.
«Perciò è così importante, per
un patriarca il quale deve conquistare, il quale deve governare, la possibilità di sentire che
moltissime persone, la metà della razza umana infatti, sono per
natura inferiori a lui. Anzi, deve
essere questa una delle fonti
principali del suo potere».
Oggi, in un orizzonte sociale in
cui si iscrivono all’università
più donne che uomini, dobbiamo chiederci come queste memorie di genere si rispecchino
nella produzione dei saperi.
Sempre più anche gli uomini
stanno imparando a tenere conto
della propria differenza sessuale, si sono ormai accorti della scomodità della posizione di neutro, di «prototipo unico della specie
umana», per usare le parole di Lea Melandri. Cercano nella controparte femminile, non solo una
funzione di «specchio magico e delizioso in cui si
rifletteva la figura dell’uomo, raddoppiata», bensì
un polo di dialogo capace di critica costruttiva.
Infatti, in questi ultimi anni alcuni gruppi di donne
e uomini si confrontano su cosa significhi essere
esseri sessuati e produrre sapere, fare politica e
costruire relazioni. Si interrogano a partire, ad
Il maschio bianco, eterosessuale
e normodotato ha scoperto
di essere parziale tanto quanto
lo sono le donne, o i maschi
non bianchi, non eterosessuali
e non normodotati
esempio, dal linguaggio, cercando di sottrarre
all’oblio dell’ovvietà e del senso comune parole
che hanno assunto nel tempo significati stereotipati e inflessibili. Ri-articolano parole non solo per
esprimersi in modi diversi, bensì anche per dare
forme diverse agli orizzonti simbolici, per provare
a nominare, spiegare, delimitare le relazioni sociali con enunciati diversi, per sovvertire le formazioni discorsive di Foucaultiana memoria. Per, in altre parole, rivoluzionare le strutture simboliche nel
loro insieme.
Un sapere deve essere in grado
di tenere conto delle differenze
che ci contraddistinguono, soprattutto oggi, in una società in
cui le istituzioni e i processi
economico-sociali che determinavano la tradizionale divisione
di genere si stanno sgretolando – penso ad esempio al mercato del lavoro che non è più
capace di produrre un male
breadwinner, unica e sufficiente
fonte di reddito per tutta la famiglia – e con esse anche le
forme del maschile e del femminile delle passate generazioni
- penso ad esempio alle identità
maschili che non si possono più
costruire prevalentemente attorno alla sfera pubblica, incapace
di fornire sufficiente spazio di
riconoscimento.
La crisi sociale che sta caratterizzando la nostra contemporaneità potrebbe esser
l’occasione per provare a ridefinire i nostri paradigmi e per iniziare a ricostruire delle relazioni sociali capaci di mettere in luce le somiglianze piuttosto che le differenze. Il maschio bianco, etero-
41
42
sessuale e normodotato ha scoperto di essere parziale tanto quanto lo sono le donne, o i maschi non
che giocano un ruolo cruciale per l’affermazione di
un particolare senso comune.
I fronti su cui agire sono quindi molteplici; partiamo da queste consapevolezze e con umiltà proviaLa sfida sta proprio nell’individuare
mo a costruire un sapere inclusivo e realmente capace sia di costruire una progressiva ridefinizione dei
similitudini nelle parzialità,
parametri che strutturano il nostro orizzonte sia di
punti in comune piuttosto che differenze
accogliere e dare voce ai policromi modi di conotra uomini e donne e partire da qui
scere legati ai vissuti e alle esperienze individuali.
Un esempio concreto di questo percorso è rappreper costruire un sapere che non abbia
sentato dai recenti dibattiti sulla violenza maschile
la fallace velleità di essere universale,
contro le donne. Il dialogo tra i generi su queste tema che aneli ad essere plurale
matiche sta trasformando radicalmente i paradigmi
di questo discorso, e sta permettendo di indagare la
e che comporti una ricerca di nuove
violenza maschile non come un’emergenza che riforme di universalità che siano
guarda alcuni gruppi devianti, bensì come una forconcrete, situate e corporee
ma strutturale esistente nelle relazioni tra uomini e
donne «che è incorporata nel linguaggio, nella divisione sessista del lavoro, nelle tradizioni religiose
bianchi, non eterosessuali e
patriarcali, nei sistemi politici
non normodotati. E se l’occule nelle strutture materiali e
tamento simbolico dietro cui si
simboliche più profonde», coè celato il sapere del maschile
me sostengono Barbara Mapelsi sta svelando, allora possiali e Marco Deriu.
mo supporre che le dinamiche
Questo dialogo tra saperi sesdi potere stiano mutando. Insuati sta permettendo, quindi,
fatti, il silenzio è l’espressione
di definire la violenza maschistessa del potere: che sia il
le non come violenza originabianco quando si parla di etria che abbisogna della cultura
nie, l’età adulta quando si disper essere sconfitta, bensì cocute di età o la maschilità in
me radicata nella cultura: coambito di genere, il polo più
me una conferma esacerbata di
forte in questi binomi è semun ordine culturale.
pre rimasto taciuto, neutro, inÈ grazie alla creazione di spazi
visibile. Non è un caso che aldi dialogo tra i generi, nonché
cuni dei progressi compiuti
al prezioso lavoro svolto dalle
nella democratizzazione dei
donne a partire dai primi movirapporti sociali siano stati otmenti femministi, che si è potenuti proprio quando queste
tuto interrogare la violenza cocategorie cruciali sono state Sonja Kovalewskaja, matematica e fisica russa, fu me una questione culturale
prima donna in Europa ad ottenere una cattedra
problematizzate, articolate e la
profonda. Partire dall’analisi
universitaria (1889, Svezia)
rese visibili.
dei nostri diversi posizionaLa sfida sta proprio nell’indimenti di fronte al mondo,
viduare similitudini nelle parzialità, punti in comudall’assunzione quindi di uno sguardo riflessivo e
ne piuttosto che differenze tra uomini e donne e
critico, è la condizione indispensabile per lo sviluppartire da qui per costruire un sapere che non abbia
po di una consapevolezza sociale che renda esplicila fallace velleità di essere universale, ma che aneli
te le diverse forme di complicità, di tolleranza e di
ad essere plurale e che comporti una ricerca di
nuove forme di universalità che siano concrete, siSarebbe una vittoria per la nostra
tuate e corporee.
civiltà poter festeggiare i 150 anni
Sappiamo che per trasformare il senso comune e le
sue rappresentazioni serve un confronto discorsivo
dell’ammissione delle donne
fra le rappresentazioni della realtà offerte da cernelle accademie italiane registrando
chie sociali diverse. La forma che assume il nucleo
una rifondazione profonda dei saperi
centrale del senso comune dipende dall’esito dei
conflitti e delle negoziazioni che si realizzano tra
queste visioni. Quando una rappresentazione ha la
giustificazione che tutti e tutte noi mettiamo in
meglio sulle altre si trasforma in assunto di fondo
campo nella nostra vita quotidiana.
della cultura, acquisisce un carattere prescrittivo e
Sarebbe una vittoria per la nostra civiltà poter fel’intero processo dialettico viene dimenticato. È in
steggiare i 150 anni dell’ammissione delle donne
questo campo di battaglia simbolico, in cui la posta
nelle accademie italiane non solo registrando la
in gioco è l’ovvietà, che stanno dialogando nuove
scomparsa della segregazione verticale, bensì anche
forme del sapere. Sappiamo anche che i media soregistrando una rifondazione profonda dei saperi.
no un luogo di articolazione di discorsi pubblici caAbbiamo dinanzi a noi venti anni di oneroso ma stipaci di trascendere i confini delle singole cerchie e
molante lavoro!
Idoli di bontà
Il genere come norma nella storia dell’educazione
di Chiara Meta
Idoli di bontà di Carmela Covato raccoglie,
in maniera rielaborata,
temi e problemi affrontati dall’autrice in un
lungo arco di tempo e
analizza, da diverse angolature, sia dal punto
di vista della storia del
costume educativo sia
per quanto riguarda la
tradizione storiografica, la questione relativa all’«imperativo delChiara Meta
la bontà», che insieme
a quello della «docilità, dell’obbedienza, dell’oblatività e del silenzio è stato inscritto nei dispositivi
pedagogici, religiosi e morali» destinati alle donne
anche «in contesti storici e sociali assai lontani e
differenti».
L’autrice si sofferma ad analizzare come quello
stereotipo inteso come dispositivo di regole finalizzate a normare il comportamento individuale e collettivo di uomini e donne sulla base di connotazioni attribuite in modo prescrittivo all’identità sessuale di appartenenza, non permetta minimamente
di sfiorare la varietà e complessità del mondo femminile. Piuttosto si tratta di una rappresentazione
astratta propria della cultura dominante (maschile),
sempre tesa a «arginare i pericoli derivanti da un
possibile protagonismo delle donne fuori dalla sfera della vita privata, percepito come possibile sovvertimento degli assetti simbolici e delle gerarchie
sociali ufficiali».
In particolare nella storia del pensiero occidentale,
nel passaggio tra Settecento e Ottocento, pur in
presenza di grandi mutamenti sociali e politici, come il declino dei valori della società dell’ancien
régime, lo svilupparsi, nelle sue molteplici manifestazioni, di un pensiero illuminista fondato sulla
critica del pregiudizio e della schiavitù, non si assiste, nell’immaginario collettivo a «un significativo
ribaltamento delle forme di disuguaglianza (politiche, etiche, ed educative), implicite in un dimorfismo sessuale ancora basato su forme di determinismo biologico, tese a giustificare l’inferiorità intellettuale delle donne e la fragilità intrinseca nella
natura femminile».
Al di là del perdurare di una prassi educativa, che
si manifesta a livello sociale, familiare e istituzionale, in forme fortemente differenziate in base al
genere di appartenenza sia nelle élites sia nei ceti
popolari, «questa tendenza si esprime in una serie
di elaborazioni teoriche di tipo filosofico, giuridico
e religioso che concorrono alla costruzione di una
idea e di una rappresentazione del “femminile”, al-
la quale vengono concessi, solo “lumi smorzati”».
L’educazione delle donne, e in particolare delle
fanciulle, come l’autrice ripercorre attentamente
nel secondo capitolo del libro, continuerà a lungo
ad essere improntata ad una rigida prescrittività.
Seppure a partire dal XVIII secolo nell’ambito della trattatistica pedagogica emerga una nuova visione di un universo infantile dotato di autonoma soggettività, in connessione anche con un nuovo processo di scolarizzazione infantile su scala di massa,
numerose permangono le rappresentazioni di una
bambina ideale destinata a svolgere un preciso ruolo normativo. Emblematiche da questo punto di vista, come il testo riporta efficacemente, sono sia la
trattatistica pedagogica minore rivolta alle fanciulle per educarle al loro ruolo materno sia la produzione editoriale destinata specificatamente alle
bambine, particolarmente ricca nell’Italia dell’Ottocento, in cui «gli ammaestramenti morali e religiosi si legano a consigli riguardanti la cura della
casa e l’igiene corporale».
Nella storia del pensiero occidentale,
nel passaggio fra Settecento
e Ottocento, pur in presenza di grandi
mutamenti sociali e politici,
non si assiste, nell’immaginario
collettivo, a «un significativo
ribaltamento delle forme
di disuguaglianza (politiche, etiche
ed educative), implicite
in un dimorfismo sessuale ancora
basato su forme di determinismo
biologico, tese a giustificare l’inferiorità
intellettuale delle donne»
Questa identificazione della donna con il suo ruolo
di moglie e madre viene ampiamente indagata nel
terzo capitolo del volume. Sono proprio il pensiero
illuminista prima e il Romanticismo dopo, sottolinea bene l’autrice, a contribuire a dare «nuova linfa all’equazione fra natura e destino femminile,
corpo e maternità».Ciò che affiora, a partire dall’ideale di Rousseau, è l’esaltazione della necessità
di una oblatività femminile dedotta dalla temuta
pericolosità di un potere femminile giocato sulla
seduzione.
Tale assetto educativo si ripercuote necessariamente sull’educazione sentimentale sia delle donne sia
degli uomini. In particolare nella vicenda amorosa
del primo amore, sottolinea l’autrice nel quarto ca-
43
44
pitolo, «che assume una valenza iniziatica», si misura tutta la forza dei codici normativi e valoriali
assimilati, in contrasto con la volontà autonoma di
progettazione esistenziale, soprattutto in quel tornante storico tra Sette e Ottocento che segna l’evoluzione della famiglia da patriarcale e ancora legata alla storia dei matrimoni combinati, a quella coniugale intima, dove trova spazio una nuova relazione affettiva tra coniugi anche grazie al diffondersi del cosiddetto matrimonio d’inclinazione.
Numerose sono, nella storia delle letteratura, nella
diaristica e nella saggistica del tempo, le testimonianze che documentano «il conflitto tra impulsi
del cuore e convenzioni sociali, sui quali non solo
la riflessione psicoanalitica ma anche l’indagine
storiografica e antropologica si sono soffermate negli ultimi decenni». Nella storia della modernità
europea poi «le modalità di costruzione del rapporto fra autorità e potere, così come esse si sono manifestate […] in una storia secolare delle relazioni
familiari sono state connesse all’istituto giuridico
della patria potestà che dall’antichità fino a tempi
recenti, ha rigidamente regolato non solo la scena
della vita pubblica, ma anche gli interni della vita
domestica». Nonostante infatti gli eventi rivoluzionari del 1789 abbiano messo in discussione principi e giurisdizioni secolari, «con il Codice Civile
napoleonico del 1804 (in gran parte recepito nel
primo Codice Civile emanato nell’Italia postunitaria) viene disciplinato il matrimonio con un ripristino parziale di vecchie norme».
La parte conclusiva del volume è dedicata all’analisi del nesso tra una «mistica della femminilità» - secondo la felice espressione che Betty Friedan ne
diede nel 1963 e intesa sia come funzione mitica da
attribuire alla donna slegata dalla sua storia reale
sia come valore regolativo cui adeguarsi nelle relazioni familiari e sociali - e le implicazioni che sul
piano storiografico la codificazione di un ruolo
astratto ma fortemente subalterno della donna ha
comportato in termini di mancanza di un punto di
vista soggettivo e autonomo di guardare alla storia
del mondo, al fine di rintracciare la propria presenza da parte delle donne. Anche se, va detto, grandi
sono stati i mutamenti metodologici verificatisi nel
corso del Novecento in termini di possibilità di modificare l’idea stessa di memoria storica e che hanno permesso l’individuazione di nuovi terreni d’indagine storiografica. In particolare «la storia delle
donne […] anche grazie agli impulsi provenienti
dal movimento femminista ha compiuto, nell’ultimo trentennio, un lungo cammino, caratterizzato
dalla presenza di indirizzi di ricerca non sempre
omogenei», come acutamente l’autrice sottolinea riportando le diverse posizioni di storiche: da G.
Duby e M. Perrot, autori dell’importante Storia delle donne, in cinque volumi editi da Laterza; a G.
Bock, attenta a riconoscere la presenza del “genere”
nella storia che permette una riconsiderazione della
“storia generale”; a J. Scott, tra le prime storiche ad
aver indagato la questione del “genere” in modo
non elusivo «nei confronti dei limiti o dei fraintendimenti possibili in quella che si delineava come
un’avventura conoscitiva di grande rilievo culturale», e a L. Tilly che rimprovera a Scott una concezione troppo totalizzante dello statuto della storia
delle donne, anche se riconosce la valenza euristica
Sono il pensiero illuminista
prima e il Romanticismo dopo
a contribuire a dare «nuova linfa
all’equazione fra natura e destino
femminile, corpo e maternità»
del concetto di gender teso a controbilanciare il determinismo biologico. Quello che comunque va sottolineato è che la storia delle donne resta «una
“questione di confine” […] sia perché pone l’esigenza di una interrelazione costante fra discipline
diverse sia perché solleva di fatto la necessità di
una critica radicale delle categorie dominanti in
quelle scienze sociali che si sono a lungo basate su
un’idea di neutralità ambigua e solo apparente e
sulla tendenza a relegare le donne in una dimensione lontana dai confini della storia».
Buona o perversa? A partire dal lungo Ottocento, nella storia della cultura occidentale, ogni nuova forma di protagonismo delle donne fuori dalla sfera della vita privata viene percepita come possibile sovvertimento
degli assetti simbolici e delle gerarchie sociali in essi implicite. Sia la
rappresentazione di una femminilità silenziosamente sottomessa sia
l’immagine della donna peccatrice non ci permettono, tuttavia, nemmeno di sfiorare le identità reali ma solo l’immaginario della cultura dominante su di esse. Il volume intende prendere in esame i paradigmi pedagogici e i modelli educativi nei quali il genere diviene norma ed è frequente il ricorso allo stereotipo della bontà e della ritiratezza come antidoto all’emancipazione culturale e sociale.
Carmela Covato, Idoli di bontà. Il genere come norma nella storia dell’educazione, Milano, Unicopli, 2014
«To be a man, to be a real man»
La ricerca contemporanea di Gurdjieff per il risveglio dell’uomo
nella sua integralità
di Carla Di Donato
Georgii
Ivanovich
Gurdjieff intendeva qualcosa di ben più che non la
Gurdjieff è un maestro
sola consapevolezza e/o il funzionamento della
spirituale greco-armeno
mente. Egli sostiene che la capacità di coscienza
che rimane ancora oggi
necessita di una fusione armonica delle distinte
una figura per molti
energie dei tre centri presenti nell’individuo – la
oscura. Egli ha formumente, il sentimento ed il corpo – ed è solo questo
lato in Oriente, poi apche può consentire l’azione all’interno dell’uomo di
plicato e trasmesso in
quelle influenze superiori associate a nozioni tradiOccidente, uno degli
zionali quali nous, buddhi o atman. Da questa proinsegnamenti spirituali
spettiva, l’uomo così com’è nella vita di tutti i giorcontemporanei più
ni è un essere non completo che non opera nella sua
complessi e penetranti.
integralità in quanto i tre centri sono divisi ed asinGurdjieff nacque ad
croni, egli vive guidato inconsciamente dal suo
Aleksandropol da macondizionamento automatico (automatismo) sotto il
Carla Di Donato
dre armena e padre gredominio di stimoli esterni, ovvero: in stato di sonco (il padre era un ašowł: cantastorie e poeta). Da
no. L’uomo, perciò, nella sua condizione quotidiana
ragazzo fu educato da insegnanti appartenenti alla
(che può durare tutta la vita, se non viene risvegliachiesa ortodossa e fu precocemente istruito alla vita
to) è in grado unicamente di re-agire, ma totalmenreligiosa ed alla medicina. Convinto che la radice
te incapace di agire.
della perenne conoscenza esoterica fosse ancora
preservato in qualche luogo, non proseguì sul senL’Istituto per lo sviluppo armonico dell’uomo di
tiero teorico per andare alla ricerca delle risposte
Gurdjieff aprì le sue porte nell’ottobre del 1922 in
definitive: per circa vent’anni (1894-1912) perseguì
Francia, a Fontainebleau - Avon, nei pressi di Parila sua ricerca, alla scoperta dell’essenza delle antigi, nella sede di un ex monastero dei priori riadattache tradizioni, con il gruppo dei cosiddetti “Cercato: lo Château du Prieuré des Basses-Loges.
tori di Verità”, soprattutto nel cuore dell’Asia CenLì si riunì, volontariamente, la comunità di uomini
trale ed in Medio Oriente. La sua formazione, così
e donne, perlopiù intellettuali, artisti, medici, sciencome alcuni eventi significativi di questo periodo
ziati, scrittori, archeologi, che riconosceva in Gurdella sua vita, sono riportati nel romanzo “autobiodijeff il proprio maestro, realizzando concretamengrafico” Incontri con uomini straordinari. Nel 1912
te, giorno dopo giorno, un lavoro per diventare caGurdjieff comparve a Mosca con un insegnamento
paci di vivere un’esistenza libera dagli automatismi,
completamente sviluppato, ed iniziò ad organizzare
in cui la coscienza agisce quindi come strumento e
intorno a sé gruppi di allievi, provenienti in gran
metodo per tale liberazione, oltreché come scopo.
parte dall’intellighenzia, uno fra tutti, lo scrittore
«Il programma dell’Istituto per lo sviluppo armonirusso Piotr Demianovich Ouspenskij, uno dei suoi
co dell’uomo comporta numerose branche. […] Il
primi discepoli, nonché autore di opere di riferimenprogramma generale dei lavori comprende lo studio
to che hanno anticipato alcune delle questioni chiadel ritmo armonico, delle arti, dei mestieri e delle
ve del XX secolo in filosofia, psicolingue; parallelamente viene condotlogia e religione.
to lo studio approfondito dell’uomo
Gurdjieff era considerato da coloro
e dell’universo in tutte le sue relache lo conobbero un maestro di vita,
zioni, seguendo le conoscenze delle
in grado di “risvegliare” gli uomini.
scienze europee e dell’antica scienza
Egli applicò in Occidente un modelorientale. […] Il programma si divilo integrale di conoscenza esoterica
de in […] sezioni: Teorica – Corsi e
– o “ricerca contemporanea” – e laConferenze –; Pratica […]. Poi si
sciò dietro di sé una scuola ed un insuddividono gli allievi – anche i posegnamento che contiene una metotenziali – dell’Istituto in tre categodologia specifica per il risveglio delrie; infine, si dà conto degli argola coscienza, appunto: la cosiddetta
menti delle conferenze previste nella
“Quarta Via” che, diversamente dagli
prima parte del 1924: esse hanno caaltri tre percorsi spirituali – monaco,
denza settimanale, e, ogni quindici
yogi, fachiro – per il risveglio delgiorni, sono tenute da M. Gurdjieff».
l’uomo, non richiede l’allontanamenIl lavoro quotidiano all’Istituto si
to o l’isolamento dell’individuo dalla
svolge lungo due assi, il primo costisocietà. Con il termine coscienza Georges Ivanovič Gurdjieff
tuito dal lavoro fisico, attività manua-
45
46
li, impegnative ed onerose, con compiti individuali
prestabiliti, assegnati di giorno in giorno da Gurdjieff stesso a ciascun membro, il secondo dalla pratica anch’essa quotidiana dei “Movimenti” (o Danze
Sacre) da parte di tutti gli allievi che aveva come via
e direzione, secondo la terminologia più tardi utilizzata da René Daumal, “l’azione cosciente”.
Quest’ultimo versante perciò, si presenta a tutti gli
effetti come una via del lavoro su se stessi dell’uomo, con le parole di Gurdjieff: dell’Uomo Reale
(«To be a Man = To be a Real Man»).
L’Istituto dunque, fu di fatto, potremmo dire, “una
comunità di uomini e donne che volontariamente
postisi sotto la guida di un maestro spirituale
(Gurdjieff) lavorarono per diventare capaci di vivere liberi dagli automatismi”. Essi lavorano sull’essere umano, che qui può svilupparsi nella sua integralità. Un laboratorio di ricerca pratico sull’uomo,
o meglio, dell’uomo su se stesso.
Occorre mettere subito a fuoco la corretta prospettiva storiografica che centri il territorio di pertinenza
di questa esperienza emblematica, oltre che storica,
anche al fine di evitare di confonderla con una corrente new age, oggi di facile consumo.
Nell’alveo dell’Istituto e della prima comunità
gurdjieffiana hanno un ruolo di spicco Alexandre e
Jeanne de Salzmann, entrambi con una biografia
teatrale di grande rilievo (quella di Alexandre soprattutto) precedente all’incontro con il maestro,
avvenuto a Tiflis, in Georgia, nel 1919.
Essi fecero parte del nucleo “storico” degli allievi di
Gurdijeff, furono tra i suoi collaboratori più stretti e
rappresentarono due figure fondamentali per la diffusione e per la trasmissione dell’insegnamento di
Gurdijeff: Alexandre Salzmann, attirando a sé il primo allievo in Francia, il poeta surrealista René Daumal, Jeanne de Salzmann, dopo la morte del marito
nel 1934, con l’attività svolta con il gruppo di Sèvres (i coniugi Daumal, Philippe Lavastine, Henri e
Henriette Tracol). Successivamente, alla morte di
Gurdjieff (1949), Jeanne assunse ufficialmente il
compito di mantenere in vita e trasmettere l’eredità
del pensiero spirituale e dell’insegnamento del maestro dedicandosi, tra l’altro, alla ricostituzione della
memoria dei 39 “Movimenti” creati da Gurdjieff.
Anima degli Istituti Gurdjieff nel mondo e fondatore
di quello di Parigi fino al 1990, anno della sua mor-
Gurdjieff sulla terrazza dell’Istituto per lo Sviluppo Armonico dell’Uomo allo Château du Prieuré di Fontainebleau-Avon, ottobre
1922
te, a 101 anni, fu grazie a Jeanne che il patrimonio
spirituale di Gurdjieff ebbe un punto di riferimento
autorevole e fedele ed una guida sicura.
Peter Brook, il regista inglese che, già famoso in
Gran Bretagna con regie shakespeariane di successo, si trasferì poi a Parigi, negli anni Settanta conobbe personalmente Jeanne e ne divenne allievo.
Verso la fine degli anni Settanta, Madame de Salzmann collaborò alla sceneggiatura ed alla realizzazione del film di Brook, tratto dalla biografia di
Gurdijeff, Incontri con uomini straordinari.
La vera domanda è: “Chi sono Io?” Non importa il
modo in cui lo chiedo, sono sempre ricondotto a
questo punto centrale: “Chi sono Io?”
All’Istituto per lo sviluppo armonico dell’uomo, uno
dei 39 aforismi di Gurdjieff recita: «Qui non ci sono
russi, né inglesi, ebrei o cristiani, ma solo coloro che
perseguono un obiettivo: essere capaci di essere».
Ma Gurdjieff è ancora più chiaro: «L’uomo è un essere multiplo. Solitamente, parlando di noi stessi,
diciamo “io”. Diciamo, “io” faccio questo, “io”
penso quello, “io” voglio fare quell’altro. Ma è un
errore. […]ci sono centinaia, migliaia di piccoli
“io”. […] In un certo momento agisce un “io”, il
momento dopo un altro “io”».
E dunque, a proposito dell’educazione al risveglio
dell’essere umano integrale, spiega, in questo noto
parallelo (vero) attore-(vero) uomo: «Per recitare
occorre innanzitutto essere un artista. Un uomo può
essere ritenuto un attore solo se è capace, per così
La vera domanda è: “Chi sono Io?”
Non importa il modo in cui lo chiedo,
sono sempre ricondotto a questo punto
centrale: “Chi sono Io?”
dire, di produrre la luce bianca. Un vero attore è colui che crea, che riesce a riprodurre integralmente i
sette colori dello spettro. […] Per essere un vero attore, bisogna essere un vero uomo. Un vero uomo,
può essere un attore, e un vero attore può essere un
uomo.
Tutti dovrebbero cercare di essere attori. È una meta molto elevata. La meta di ogni religione, di ogni
conoscenza, è di essere attori».
Il teatro dunque, nel progetto spirituale-educativo di
Gurdjieff, è campo d’interesse principale per l’osservazione, l’analisi e la messa a nudo dei processi
e dei fenomeni della vita “in stato di sonno” nonché
sede privilegiata per affacciarsi sul ‘Mondo Reale’.
Parallelamente, l’attore è il modello per l’educazione dell’uomo integrale che risponde alla domanda
fondamentale, l’unica reale: “Chi sono Io?”.
Questo discorso sull’attore, pronunciato in pubblico
da Gurdjieff a New York nel marzo 1924, nel periodo di massima diffusione del suo insegnamento
in/all’Occidente, quali riflessioni e considerazioni
può indurre oggi, quasi un secolo più tardi, sul valore, il ruolo e la funzione sia dell’educazione allo
sviluppo armonico dell’essere umano sia del teatro
e dell’attore?
Francisco Varela: conoscere la conoscenza
di Francesca Gisotti
È stato fra i più importanti biologi del Novecento; autore, insieme
al suo maestro e collega Humberto Maturana, di uno dei testi
fondamentali per lo
studio dei processi cognitivi: L’albero della
conoscenza. Parliamo
di Francisco Varela,
filosofo, oltre che
scienziato, cileno, prematuramente scomparFrancesca Gisotti
so all’età di 55 anni.
Nato a Santiago del Cile, nel 1946, Varela studia
medicina e biologia, conseguendo un PhD in biologia presso l’Università di Harvard. Diventato
buddista tibetano nel 1970, dopo il colpo di stato
di Pinochet, trascorre sette anni in esilio negli Stati Uniti, per poi tornare nel proprio Paese e dedicarsi all’insegnamento universitario. Nel 1984, insieme a Maturana, elabora il concetto di “autopoiesi” che diventerà poi il fulcro di gran parte del
suo pensiero successivo. Secondo i due studiosi,
ogni essere vivente è concepibile come un’unità
autonoma capace di conservare e preservare il proprio ciclo vitale e la propria organizzazione interna. Una posizione che va a scontrarsi con le tradizionali teorie della scienza di allora per le quali,
invece, è l’ambiente a determinare le reazioni degli esseri viventi, secondo il classico schema input/output. Per Varela e Maturana, invece, sono i
singoli sistemi a selezionare dalla realtà circostante gli stimoli e le informazioni necessarie ad innescare, di volta in volta, i propri cambiamenti strutturali, secondo un processo che ne garantisca l’au-
Francisco Varela
tonomia interna. Tale osservazione risulterà il punto di partenza fondamentale per tentare di spiegare
le dinamiche alla base del processo conoscitivo.
Un processo che, partendo sempre e comunque dal
soggetto, implica una indissolubile autoriflessività. Conoscere significa infatti indagare il mondo
esterno per poi interiorizzarlo e, attraverso l’alterità, scoprire costantemente nuove possibilità dell’essere in esso. «Ogni azione è conoscenza e ogni
conoscenza è azione», ogni esperienza determina
un movimento di uscita dal proprio nucleo strutturale verso lo spazio definito dal linguaggio e dalla
comunicazione. Una potenzialità che, se anche
non esclusiva dell’essere umano, in esso trova la
sua massima espressione e applicazione. Ecco allora che, se il sistema nervoso opera secondo un
determinismo strutturale indipendente dall’ambiente, funzionando «come una rete chiusa di cambiamenti di relazioni di attività fra i suoi componenti»; la mente e la coscienza, che esistono in
noi, ma che non sono localizzati in alcuna parte
specifica, «appartengono al dominio di accoppiamento sociale ed è lì che si realizza la loro dinamica». A dire cioè che solo attraverso il confronto, lo
scambio di informazione con altri esseri umani, la
condivisione di esperienze e l’acquisizione di determinati comportamenti sociali e conoscenze culturali, l’essere umano può trovare la sua completa
realizzazione. Vivere e non semplicemente esistere, utilizzare il linguaggio non semplicemente per
comprendere il mondo esterno ma per concepirsi
come parti integranti di esso. Una convinzione che
contiene in sé un imperativo categorico per ogni
uomo: quello di abbandonare credenze e idiomi
fissati per sempre, aprendosi ad un’indagine dinamica e alla ricerca di una prospettiva più ampia.
Così ha vissuto Francisco Varela, affrontando l’esistenza come un continuo percorso di scoperta, con quel coinvolgimento in “ prima persona” che ha adottato anche come metodologia
basilare per ogni indagine fenomenologica.
Un approccio che, rifiutando mappe stabilite
aprioristicamente e in
maniera astratta, trova
nell’esperienza diretta la
conferma della costante
comunicazione fra “cervello/corpo/mondo” e
della loro indissolubile,
reciproca implicazione.
47
Alcuni fondatori
dell’Università degli Studi Roma Tre
Bianca Maria Tedeschini Lalli
Prof. Tedeschini Lalli, lei è stata il primo Rettore
del nostro Ateneo e ha svolto pertanto un ruolo
fondamentale nella nascita e nella crescita di Roma Tre. Qual è stato il mandato intellettuale degli esordi?
Il mandato di Roma Tre degli esordi è stato fondamentalmente un mandato politico-culturale nato in
clima di riforma universitaria nazionale e alla luce
delle elaborazioni della Commissione d’Ateneo per
la sperimentazione scientifica e didattica della Sapienza degli anni Ottanta. A questo si aggiungeva,
indubbiamente, l’accordo universitario europeo
dall’89.
Quali sono state, a suo giudizio, le peculiarità del
contributo culturale e scientifico che Roma Tre
ha saputo sviluppare?
Il contributo ricevuto da molto di quanto si è ricordato e che si è tentato di trasmettere, è stato quello di
un buon rapporto con il territorio (sia nella zona in
cui l’università si collocava, sia nella città di Roma).
Buon rapporto che ha fortemente influito sulla fantasia e l’efficacia del nostro insediamento con, ovviamente, il contributo culturale e scientifico apportato dalle nuova università.
Come è cambiato l’approccio degli studenti all’università?
Non so dare una risposta a questa domanda, anche
se, riferendomi ai primi sei anni dell’università di
cui mi si chiede, so confermare in parte l’approccio
di accoglienza e collaborazione con i nostri studenti, di un’università a misura minore della nostra Alma Mater.
In questi anni il sistema universitario italiano è
cambiato molto; tra le tante novità, oggi l’università si interfaccia in maniera dinamica con il
mondo del lavoro; sono cambiate le aspettative
degli studenti nei confronti dell’università ed è
cambiato il modo di fare docenza. Quale ruolo
intravede per l’università di domani?
Non tocca al primo Rettore di Roma Tre intervenire
sul ruolo intravedibile per l’università di domani. È
un argomento di cui si potrebbe dibattere.
Carlo Melograni
Prof. Melograni, lei è stato il primo preside della nostra Facoltà di Architettura, quindi è indubbio che lei abbia dato un grande contributo
per la nascita e poi per la crescita del nostro
Ateneo. Quale è stato il mandato intellettuale
degli esordi?
Io sono stato molto fortunato perché allora la situazione generale era molto diversa. Intanto gli studenti al primo anno erano duecento, poi il secondo
quattrocento e così via, perché io ho fatto il preside
nei primi cinque anni dopo la fondazione della Facoltà e di anno in anno si attivava il corso successivo e quando sono andato via, erano ormai attivi tutti e cinque gli anni e c’erano mille studenti. Avevamo il numero chiuso di duecento, che era un numero facilmente governabile.
Eravamo un nucleo di persone che erano venute volontariamente e le cose erano più facili. Noi ci siamo proposti, in particolare io, ma mi sembra un po’
tutti, di costituire una Facoltà che formasse dei professionisti in grado di dare un contributo a migliorare le condizioni dell’abitare, nelle case, negli alloggi, nei servizi, in particolare nella scuole, nei
luoghi di lavoro e così via. Io credo che il compito
degli architetti sia quello appunto di - per quello
che possono naturalmente, nei limiti delle loro
competenze - però di impegnarsi, di non dimenticare l’impegno di contribuire a migliorare le condizioni di vita e, per quanto mi riguarda, le condizioni
dell’abitare appunto.
E invece più in generale, quali sono state le peculiarità del contributo culturale e scientifico che
Roma tre ha saputo sviluppare?
Si identifica un po’ con quello che dicevo, e in quel
periodo oltretutto, sempre tra i vantaggi che ho avuto in quel tempo, non c’erano le indicazioni che ci
sono adesso per rinnovare il corpo docente.
Quindi la situazione era un po’ più fluida sostanzialmente…
Era molto fluida. Poi siamo andati quasi sempre
d’accordo. Per quanto riguarda la sede sono andato
anche in minoranza, ma insomma questo fa parte
della democrazia e bisogna sapersi adeguare al volere della maggioranza. Per quanto riguarda le altre
decisioni da prendere, c’è stata una grande concordia, dovuta proprio a quelle condizioni che dicevo
prima. Persone di valore, romani, che insegnavano
nelle altre sedi ce n’erano molte, naturalmente il loro desiderio, di tutti, era quello di tornare a Roma
ad insegnare dopo essere stati fuori, c’era un po’
l’imbarazzo della scelta e noi abbiamo veramente,
nel complesso, potuto chiamare persone di notevole
qualità.
E invece per quanto riguarda gli studenti, perché
in questi anni anche gli studenti sono cambiati
molto, o quanto meno è cambiato l’approccio e
l’attenzione che l’università nello specifico rivolge agli studenti...
Io non conosco i cambiamenti. Ormai dal ’97 sono
fuori dalla Facoltà e le cose sono molto cambiate;
sono passati molti anni, più di 17 anni… Come sono
cambiati gli studenti? 17 anni è il tempo di una generazione e non posso saperlo. Devo dire che abbiamo sempre avuto, essendo una Facoltà così giovane,
come principale obiettivo il miglioramento della didattica e gli studenti questo l’hanno sentito. Io ricordo sempre, con grande gratitudine e una certa emozione anche, il giorno che sono andato via, gli studenti mi hanno, diciamo così, festeggiato, non solo
gli studenti, ma c’erano amici e c’era anche il corpo
docenti. Ricordo in particolare uno studente, che
parlava anche a nome dei suoi colleghi, il quale disse che era rimasto colpito dal discorso che pochi
giorni prima io avevo fatto per accogliere le matricole: forse le matricole non avevano capito tutto
quello che io dicevo, però avevano sentito che c’era
amore verso di loro. Ecco, io gli studenti li ho amati
e questa è una cosa che credo che i giovani avvertano subito quando sentono che c’è un professore, che
magari sta pure in cattedra, però che vuole loro bene
e cerca di dare quanto più aiuto sia possibile.
Assolutamente sì. Tornando di nuovo al generale,
sappiamo che l’università è cambiata tanto, si interfaccia molto di più, per esempio, con il mondo
del lavoro e di conseguenza appunto, come dicevamo prima, è cambiato anche il rapporto con gli
studenti. Ora, la sua è anche una prospettiva privilegiata perché ha avuto una grande esperienza
all’interno dell’accademia e, come diceva poco fa,
è da qualche anno uno spettatore privilegiato. Ecco, all’interno di questo sistema che è molto cambiato, quale ruolo intravede per l’università di domani?
Non saprei dire. Non ho abbastanza conoscenza
della nuova situazione universitaria ed è ormai
qualche anno che non progetto più. Non mi sento in
grado di dare indicazioni per il futuro e l’unica cosa
che posso dire è che secondo me c’è da accentuare
il più possibile il valore dell’impegno sociale del lavoro dell’architetto, perché quello è la chiave anche
per trovare consenso sufficiente nell’opinione pubblica. Ecco, io la cosa che vorrei per il futuro è che
l’università contribuisse molto a ristabilire un contatto, una concordia diciamo, tra le esigenze sociali
e il nostro lavoro, una corrispondenza diciamo tra le
esigenze sociali e le domande della società a cui noi
siamo in grado, responsabilmente, di rispondere.
Marco Fontana
Prof. Fontana, lei è stato uno dei protagonisti della nascita e della crescita del nostro Ateneo. Qual
è stato il mandato intellettuale degli esordi?
Posso rispondere ricordando le motivazioni, gli
ideali e le aspettative che mi hanno portato nel 1992
ad esercitare l’opzione per il trasferimento a Roma
Tre e ripercorrendo i primi passi della mia attività
nel nuovo Ateneo.
Ho seguito, sin dalla pubblicazione del decreto di
istituzione, le fasi preparatorie su mandato del Dipartimento di Matematica “Guido Castelnuovo”. In
tale ruolo ho avuto modo di sondare le intenzioni
dei colleghi matematici e poi di coordinare le loro
opzioni e di partecipare alle riunioni preparatorie
che si tenevano nella sala del Senato Accademico
della Sapienza.
In presenza di grandi incognite e poche certezze, le
opzioni dei matematici furono molto limitate in numero ma di notevole livello scientifico, con competenze variegate da coprire in modo minimale i principali settori della matematica e con motivazioni ed
idee convergenti su innovazione e qualità nella didattica e nella ricerca. Inoltre, il piccolo gruppo dei
fondatori matematici era molto coeso e ciò, nella
fase iniziale, ha reso possibili decisioni rapide, molto innovative e di notevole impatto per la creazione
del nuovo Dipartimento.
Essendo la componente matematica la più piccola
della Facoltà di Scienze, le nuove risorse furono
molto limitate e le chiamate, che furono possibili,
furono fatte con criteri di estremo rigore e portarono a Roma Tre colleghi di assoluto livello internazionale, principalmente giovani. Personalmente, al
di fuori dell’attività di ricerca, ho dedicato tutte le
mie energie agli “affari interni” ed in particolare all’organizzazione della didattica, ricoprendo per vari
mandati l’incarico di presidente dei Corsi di Studio
in Matematica. Per noi matematici è stato un periodo di grande impegno ideale.
A parte una profondissima riorganizzazione e razionalizzazione dell’offerta didattica furono introdotti
già nel primo biennio insegnamenti, e corsi di laboratorio, allora “innovativi” legati agli sviluppi ed
applicazioni più recenti della matematica come la
probabilità, l’informatica, la teoria dei numeri e la
crittografia. Furono sperimentati ed introdotti nuovi
e più moderni canali di comunicazione con gli studenti, come la pubblicazione del fascicolo “Benvenuto@Matematica” che conteneva, con una veste
grafica innovativa, informazioni tempestive e pratiche sull’offerta didattica, articoli divulgativi sul
ruolo e le applicazioni della matematica nella società, assieme ad una presentazione dei membri del
Dipartimento, della loro formazione e della loro attività scientifica. Furono subito introdotti a matematica, molti anni prima che ciò diventasse una
prassi a livello nazionale, i questionari di valutazione dell’offerta didattica da parte degli studenti, che
furono molto utili per una migliore programmazione dei corsi e furono di stimolo alla docenza. Fu
sperimentato con successo il servizio di tutorato
svolto dagli studenti seniores, cioè studenti scelti
principalmente tra i migliori studenti o laureandi i
quali animavano (ed animano tutt’ora) classi di studio assistito sotto la supervisione dei titolari dei
corsi, abituando rapidamente gli studenti dei primi
anni all’importanza della frequenza regolare alle lezioni e ad interagire con i docenti. Nei primi anni
Novanta, fu istallato a matematica (nell’edificio di
Via Segre) probabilmente il primo server all’interno
dell’Ateneo collegato alla rete internet, inizialmente
per la gestione autonoma della posta elettronica (allora in fase pionieristica) e poi come portale del Dipartimento e dei corsi in matematica. Le grandi potenzialità del canale web anche a supporto della didattica furono utilizzate già a partire da quegli anni.
Furono introdotte le gare di Matematica ed il concorso legato alla immatricolazione gratuita per gli
studenti particolarmente meritevoli, precedendo di
molti anni i provvedimenti ministeriali di promozione ed incentivazione delle lauree scientifiche.
Venne attuato il trasferimento a Roma Tre (dalla
Sapienza) della sede delle selezioni per le Olimpiadi internazionali della Matematica rendendo il nuovo Ateneo un polo di attrazione dei migliori studenti della provincia di Roma, interessati alle discipline
scientifiche. Come può vedere, furono anni di grande innovazione e di grandissimo impegno che hanno tracciato la strada seguita negli anni successivi
dall’area matematica nell’Ateneo Roma Tre.
Quali sono state, a suo giudizio, le peculiarità del
contributo culturale e scientifico che Roma Tre
ha saputo sviluppare?
Credo che la mia risposta alla domanda precedente
includa in parte anche una risposta a questa questione, almeno per quanto riguarda il settore della matematica.
Come ho detto sopra, per mia scelta e per le ragioni
sopra ricordate, ho incentrato la mia attività all’interno dell’area matematica. Quindi, non ho maturato esperienze significative a livello centrale che mi
permettano ora di esprimermi con adeguata cognizione di causa su aspetti più generali. Sicuramente
uno spirito pionieristico di grande partecipazione e
di ricerca di innovazione diffuso in gran parte di coloro che esercitarono l’opzione fu alla base della
nascita, dello sviluppo e dell’affermazione di questo Ateneo nell’area romana.
Come è cambiato l’approccio degli studenti all’università?
Non mi sembra facile rispondere a questa domanda
in termini generali, in quanto le motivazioni ed
aspettative di ciascuno studente sono sempre state
molto variegate e del tutto personali, legate principalmente alla propria formazione, cultura ed estrazione sociale. Probabilmente, negli ultimi anni si
nota tra gli studenti, anche tra i più giovani, una
maggiore consapevolezza delle enormi difficoltà
nell’inserimento nel mondo del lavoro e della difficilissima congiuntura economica. Da questa consapevolezza discendono reazioni molto differenti tra
loro come quella, probabilmente maggioritaria, di
una maggiore coscienza dell’importanza di una formazione di alta qualità e quella purtroppo negativa
ed opposta dell’abbandono degli studi universitari.
In questi anni il sistema universitario italiano è
cambiato molto; tra le tante novità, oggi l’università si interfaccia in maniera dinamica con il
mondo del lavoro; sono cambiate le aspettative
degli studenti nei confronti dell’università ed è
cambiato il modo di fare docenza. Quale ruolo
intravede per l’università di domani?
Innanzitutto, ritengo che l’università debba rinnovarsi mantenendo però il suo ruolo fondamentale
quale centro della formazione avanzata, della ricerca e dell’innovazione. Per questi scopi, che i paesi a
maggiore sviluppo reputano di interesse strategico,
mi auguro che lo Stato tornerà a scegliere di investire in modo adeguato e selettivo. Ovviamente, gli
strumenti per perseguire questo ruolo, le modalità
di esercizio della docenza e quelle della divulgazione e trasmissione del sapere dovranno rinnovarsi
continuamente per sfruttare pienamente i nuovi
strumenti di comunicazione, di raccolta e gestione
dati, e di insegnamento a distanza (e-learning). Sarà
necessario puntare ad una maggiore integrazione
principalmente nell’ambito dell’UE sia dal punto di
vista della ricerca che della didattica, sviluppando
accordi per diplomi congiunti tra più università di
vari paesi. Infine, un ruolo decisivo, che purtroppo
ancora oggi appare marginale, potrà essere svolto
dall’università nell’attività di apprendimento ed aggiornamento permanente (lifelong learning) che –
come facilmente prevedibile – verrà richiesto in
forma sempre più ampia e continuativa da una società in rapido sviluppo non solo tecnologico.
Raffaele Simone
Prof. Simone, lei è stato uno dei protagonisti della nascita e della crescita del nostro Ateneo. Qual
è stato il mandato intellettuale degli esordi?
Non so se sono stato uno dei protagonisti. Sicuramente fui tra i primissimi e, inoltre, contribuii a
spingere la collega Tedeschini Lalli a presentare la
sua candidatura a rettore, col risultato che Roma Tre
(che agli inizi si chiamava Terza Università, come
del resto ancora la chiamano alcuni) ebbe la prima
capostruttura donna. Il mandato era quello di sfollare La Sapienza, che del resto si comportò come nutrice nei nostri confronti, anche se non fu affatto una
nutrice affabile. Ci fissò un nome (che però nessuno
usò mai: Università Tiberina) e per diverso tempo
trascurò (a non dir peggio) di trasferire la documentazione amministrativa del personale migrato. Alla
fine si scoprì che La Sapienza non era stata sfollata,
ma che si era creata una formula di università imprevista, che alla Sapienza cominciò a fare una concorrenza molto seria, che dura tuttora. Agli inizi non
c’era assolutamente niente, salvo un palazzotto in
viale Marconi. La bravura della prima amministrazione consistette per l’appunto nel creare una sede
fisica (cosa che accadde in due o tre anni) e nell’impiantarvi servizi, didattica, laboratori e così via.
Quali sono state, a suo giudizio, le peculiarità del
contributo culturale e scientifico che Roma Tre
ha saputo sviluppare?
Roma Tre ha sviluppato il moderno concetto di una
city university, o se preferisce di un’università cittadina, risvegliando l’interesse del quadrante Roma
Sud (più di un milione di persone) che non avevano
mai pensato di frequentare una scuola universitaria.
Inoltre, senza neanche prevederlo, ha ridato vita a
un quartiere abbandonato, ancorché percorso da una
delle due linee di metropolitana, che ha ora ripreso
a esistere ed è diventato uno dei più vivaci della città. Dal punto di vista scientifico, si sono aggregati a
Roma Tre numerosi studiosi e ricercatori di valore,
vecchi e giovani, si sono create delle scuole, si sono
attratti stranieri (studenti e docenti), tutti attratti dal
fatto di frequentare un’università non così affollata
come altre romane né così lontana dal consorzio
umano. In vent’anni non è male per niente, anche se
– si sa – per creare una tradizione universitaria importante ci vuole ben di più…
Come è cambiato l’approccio degli studenti all’università?
Gli studenti sono aumentati di numero (anche se in
Italia sono sempre troppo pochi in rapporto alle coorti di età), ma purtroppo non di qualità. La cultura
giovanile non è amica dello studio e dell’applicazione a discipline difficili e un professore antico
come me verifica che ogni anno si scende un piccolo gradino nella qualità dell’apprendimento. C’è
poco da digitalizzare la didattica: le teste sono
spesso distratte e poco concentrate sulla qualità.
Agisce su questo anche la triste consapevolezza,
che questi giovani hanno, che il mondo del lavoro
offre poco per loro. La struttura 3+2, politicamente
utile perché omogeneizza i corsi di quasi tutt’Europa, è un disastro dal punto di vista dell’apprendimento. Un sapere complicato non si trasmette in
moduli distribuiti su tre anni. Le cose cambiano di
molto al livello magistrale, dove gli studenti sono
selezionati e già preparati, e naturalmente a quello
dottorale, dove spesso si incontrano veri talenti,
anche se sono convinto che al dottorato non si dedichi sufficiente attenzione, né in Italia né nel nostro Ateneo.
In questi anni il sistema universitario italiano è
cambiato molto; tra le tante novità, oggi l’università si interfaccia in maniera dinamica con il
mondo del lavoro; sono cambiate le aspettative
degli studenti nei confronti dell’università ed è
cambiato il modo di fare docenza. Quale ruolo
intravvede per l’università di domani?
So di dire una cosa impopolare, ma sono convinto
che le università italiane dovrebbero distinguersi in
primo livello (solo corsi triennali) e università comprensive (tutti i corsi, incluso il dottorato). Dovrebbero inoltre collegarsi col mondo del lavoro, ma in
senso lato, non pensando come sempre si fa solo a
ingegneri, giuristi e architetti. Esistono anche gli
storici dell’arte, gli archeologi, i filologi, i linguisti e
mille altre specialità avanzate. Il compito dell’università è non solo quello di identificare i luoghi in
cui queste specialità si possono impiegare, ma anche
di crearli o contribuire a crearli. Invece in Italia, come in molti altri posti, l’università è spesso vista come un’azienda che vive in quanto ha clienti. L’università è la casa dei saperi speciali, non una scuola
popolare; non ha l’obbligo di guadagnare, ma quello
di far quadrare i conti; ha l’obbligo di scoprire e formare le intelligenze. Come diceva Carlo Cattaneo,
gestisce un capitale invisibile che non va nel bilancio, ma che contribuisce a formare il bilancio economico e morale di un intero paese. Una parte della
depressione in cui l’Italia versa dipende dalla depressione in cui si trova la sua università.
Carlo Maria Travaglini
Qual è stato il mandato intellettuale e culturale
degli esordi di Roma Tre?
La nostra università è stata voluta soprattutto da
Antonio Ruberti che, quando era ministro, sulla base della sua esperienza come rettore de La Sapienza, ha sostenuto con molta decisione la costituzione
di una terza università a Roma. L’esperienza di Tor
Vergata era stata molto faticosa e la capacità attrattiva di quell’Ateneo si è verificata solo in anni più
recenti anche in relazione al consolidarsi della
struttura edilizia.
Nacque allora questo progetto di creare una nuova
università statale a Roma che doveva avere caratteri
generalisti con un orientamento particolare e il sistema che fu adottato fu un sistema innovativo: il
sistema della gemmazione. Fu uno dei primi casi di
gemmazione di università. Non più quindi, come
era avvenuto con Tor Vergata, la creazione di un comitato ordinatore eletto dalle varie università in
funzione delle Facoltà che dovevano essere istituite
ma era l’Ateneo madre che generava attraverso le
opzioni dei docenti, la nuova università. Questo per
garantire un decollo più agevole della nuova struttura grazie, almeno in una fase iniziale, al collegamento con una struttura ben consolidata che poteva
aiutare il nuovo nato a muovere i primi passi.
Fu anche deciso, da parte del governo, di trasformare l’ex Facoltà di Magistero della Sapienza in una
nuova Facoltà di Lettere della costituenda università di Roma Tre.
Nel giro di pochi mesi si avviò questo processo che
ebbe all’inizio esiti non molto equilibrati. Nella fase di attivazione dell’Ateneo, nel novembre 1993,
la situazione era molto variegata: erano previste solo le Facoltà di Lettere, Economia, Scienze politiche, Giurisprudenza, Scienze e Ingegneria, ma
mentre per Economia, Ingegneria e Scienze ci fu un
numero rilevante di opzioni, nelle altre Facoltà non
ci furono sostanzialmente adesioni per la nuova
struttura. Queste ultime partirono in una fase successiva quando le omologhe Facoltà de La Sapienza
chiamarono dei colleghi ad hoc.
Non fu un inizio facile perché si era in un periodo
difficile della vita economica del paese: il 1992 fu
l’anno di una grossa crisi economica, quindi un periodo di tagli severi. La dotazione iniziale di Roma
Tre è stata debole rispetto al fatto che non c’era un
programma concordato con l’amministrazione comunale. Il ‘92 è stato poi anche l’anno del passaggio dalla prima alla seconda repubblica: un anno
delicato, a Roma ci fu una giunta indagata, lo scio-
glimento del consiglio comunale, mancavano anche
interlocutori politici per avere chiarezza su dove localizzare l’Ateneo. L’ipotesi che era stata fatta da
La Sapienza era quella di un’articolazione su due
aree: Ostiense e Santa Maria della Pietà, aree diversificate e distanti tra loro (all’epoca Santa Maria
della Pietà non era neanche ancora raggiungibile
dalla linea ferroviaria). Invece gli organi di governo
dell’Ateneo si orientarono per concentrare l’insediamento dell’università sull’area dell’Ostiense. Si
cercò di non considerare affatto esclusiva l’indicazione venuta dal governo, e in parte anche dall’amministrazione comunale, di una concentrazione dell’Università nell’area di San Paolo, che com’è noto
presenta dei problemi perché in alcune parti è al di
sotto del livello del Tevere. Un progetto preliminare
prevedeva infatti edifici a forma di palafitte.
Il problema drammatico che il primo rettore dell’università si trovò ad affrontare, e lo fece con grande
determinazione, fu quello di trovare delle sedi dove
far svolgere l’attività didattica. Tuttavia l’università, riattivando il dialogo con il comune, riuscì, attraverso una serie di accordi di programma, ad attivare una politica di acquisti; ottenne gli edifici in
concessione dal comune con un canone modesto e
insomma riuscì a decollare.
Qual è stata la peculiarità del contributo di Roma Tre nella riqualificazione del territorio?
Il vantaggio è stato quello di essere vicino al centro
storico. L’idea fu quella di non farsi rinchiudere nel
Valco San Paolo, ma di scegliere l’Ostiense in generale.
L’università ha modificato l’area valorizzando una
serie di proprietà immobiliari, innescando una molteplicità di attività in questa zona, che invece conosceva processi anche di abbandono, in assenza di un
intervento pubblico capace di risanarla. L’operazione pubblica più importante da svolgersi in quest’area è ancora bloccata da tanti anni: quella dei mercati generali. Laddove ci sono state innovazioni
queste sono dovute alla nostra università. Innovazioni importanti si sono verificate anche nell’area
del Mattatoio, a Testaccio. Questa è un’area che dovrebbe essere tutta risanata, ci sono tanti problemi
aperti ma l’università ha impedito che diventasse
una grande speculazione.
Io credo che su questo tema del rapporto tra università e città il nostro Ateneo dovrebbe continuare a
impegnarsi. È uno degli elementi che caratterizzano
il nostro modello di università, che non è un recinto, neanche in senso figurato.
Si è investito su questa scelta assumendo un atteggiamento più dinamico, introducendo elementi di
innovazione rispetto ad una realtà consolidata e necessariamente più rigida come La Sapienza.
Questo anche dal punto di vista scientifico?
Anche dal punto di vista scientifico c’è stato più dinamismo, nella ricerca di rapporti con l’esterno ad
esempio. Certo c’è stato il fatto negativo del partire
con risorse inadeguate, ovviamente ci sono Facoltà
che per loro struttura sono più leggere: le scienze
umane e sociali hanno un impatto meno pesante
nell’investimento di strutture e laboratori rispetto a
Scienze o Ingegneria. La Sapienza su questo aveva
anche una tradizione, una storia completamente diversa, né abbiamo avuto una legge ad hoc di istituzione, di finanziamento pluriennale, come ha avuto
Tor Vergata. Siamo nati poveri e siamo purtroppo
cresciuti a tempi di vacche magre, è stata una lotta
sul piano delle risorse umane e tecnico-amministrative. Ora grazie al mutamento tecnologico tante cose si possono apprendere dalla rete ma le risorse sono indispensabili in ogni caso.
Il dinamismo dell’università, la sua posizione, i servizi, l’attenzione che ha rivolto agli studenti, la capacità di interagire con l’esterno ha consentito all’università di crescere rapidamente.
Tornando agli studenti, questi anni di vita di
Roma Tre sono stati anni in cui successive riforme universitarie hanno introdotto anche un
cambiamento nell’approccio degli studenti all’università. Nella sua attività di docente ha avuto
modo di riscontrarlo e come è cambiato secondo
lei l’approccio allo studio accademico degli studenti?
Non vedo profondi cambiamenti. La riforma del 3
più 2 non so quanto sia stata felice, soprattutto per
le modalità con cui è stata realizzata, non come progetto unitario ma come una realizzazione prima del
tre e poi, a distanza di tempo, del due. La realizzazione del tre è avvenuta secondo me in un modo
che è stato deleterio. Tutti coloro che insegnavano
nel quadriennio hanno teso a introdurre la presenza
delle proprie discipline in forme più ridotte nell’ambito del triennio. Se si fosse fatto triennio e
biennio insieme questa pressione a voler riempir il
triennio di tanti esami si sarebbe potuta evitare.
Questo ha avuto caratteristiche diverse da sede a sede, però è stato un elemento sicuramente presente.
Inoltre non c’è un continuum tra triennio e biennio,
talvolta si perde tempo.
Per la verità è vero che c’è stata una sperimentazione importante però c’è stata una tendenza a irrigidire tutto il sistema. Questa macchina della programmazione didattica è diventata una cosa estremamente complicata. L’attenzione che c’è stata, molto forte, nei confronti degli studenti si è attenuata in parte
anche a causa della mancanza di risorse sia finanziarie che personali.
In questi anni il sistema universitario è stato
chiamato a interagire in modo più attivo con il
mondo del lavoro. Quale prospettive intravede,
quale ruolo per l’università da qui al prossimo
futuro?
È importante che l’università dialoghi con il mondo
del lavoro. Attualmente l’università deve dare una
formazione di base. Ho molte riserve sul fatto che
l’università debba essere orientata a una formazione
professionale. Ci sono servizi che l’università svolge in questo senso, ad esempio a livello di master.
A livello di lauree triennali e magistrali ci sono dei
profili professionali che vengono costruiti con ap-
proccio critico, offrendo strumenti analitici che permettono agli studenti di svolgere un lavoro che
cambia in continuazione.
Il dialogo con il mondo del lavoro, con la società è
comunque molto importante. Ricordo con grande
nostalgia la mia esperienza di studente, in particolare la didattica di uno dei miei maestri che prevedeva nel suo corso, una volta alla settimana, incontri
con esperti di alto profilo impegnati nella gestione
della politica economica finanziaria. Era un modo
per dialogare con la realtà del paese, con i problemi
che si andavano affrontando.
In Facoltà, quando ero preside, abbiamo cercato di
organizzare job meeting per insegnare agli studenti
come scrivere il curriculum, come dialogare con le
imprese. E gli stage sono importanti in questo senso, forse non sempre sono valorizzati adeguatamente.
Luigi Moccia
Prof. Moccia, lei è stato uno dei protagonisti della nascita e della crescita del nostro Ateneo. Qual
è stato il mandato intellettuale degli esordi?
Della crescita, forse; mentre per la nascita di Roma
Tre sono personalmente grato alle colleghe e ai colleghi che mi hanno preceduto. Sono arrivato a Roma Tre a fine 1996, dopo aver insegnato dapprima
nell’Università di Perugia, poi nell’Università di
Macerata, dove vinsi (come usava dire nel secolo
scorso) la cattedra di Diritto privato comparato, nel
1985, mantenendo sempre un collegamento con la
Facoltà di Giurisprudenza di Roma “La Sapienza”,
dove mi sono laureato e dove ho continuato, in seguito, a svolgere per molti anni attività di ricerca. A
parte le tante altre esperienze di studio e di lavoro
che, subito dopo la laurea, ho avuto modo di svolgere: in Europa e fuori (dagli USA alla Cina). Dico
questo per sottolineare, insieme con le mie molteplici appartenenze accademiche (com’era normale a
quei tempi), il fatto che l’arrivo a Roma Tre ha rappresentato per me più che un approdo, un nuovo
inizio, avendo alle spalle esperienze umane e professionali che mi hanno segnato e insegnato davvero molto.
Ogni mandato che si rispetti, più che darselo, uno lo
riceve. A volte, per noi docenti, anche dai nostri
studenti. Nel mio caso, insegnando corsi opzionali
poco frequentati, e in materie un po’ eccentriche
(come Diritto comparato e Diritto europeo) che offrivano occasione di guardare a orizzonti nuovi o
diversi, è stato possibile avviare un dialogo con i
pochi frequentanti che sceglievano di seguire quei
corsi, motivati e curiosi di apprendere, con effetti
che ogni volta sono stati di vantaggio reciproco e di
aiuto a una migliore definizione di obiettivi sia di
ricerca che formativi.
L’arrivo a Roma Tre è avvenuto in un momento propizio. In un Ateneo nato ancora da poco e con dimensioni ancora contenute, che permetteva di condividere, tra colleghe e colleghi, come pure con il
personale e la direzione amministrativa, entusiasmo
e spirito d’iniziativa. La voglia di fare, di costruire
e… di pensare fuori dagli schemi era assai contagiosa. I tempi, d’altronde, lo richiedevano: già dal 1998
(con la dichiarazione della Sorbona del maggio di
quell’anno, all’origine del successivo Processo di
Bologna del 1999) era iniziata la grande stagione
della riforma degli ordinamenti didattici. In un clima che era di forte sollecitazione e di sfida, che ha
coinciso con la mia elezione alla presidenza della
Facoltà di Scienze politiche (e successivi incarichi
nazionali), dandomi così l’opportunità di contribuire
direttamente al processo di cambiamento.
Ciò detto, per quanto riguarda la mia personale
esperienza, il mandato che ho sempre pensato di
dover onorare, è stato quello di pensare all’università, più che come un contenitore, come un contenuto di innovazione, cercando di resistere a ogni forma di “accademismo pseudo-scientifico”, come pure di centralismo burocratico, per aggiungere, ove
possibile, di mio, qualche elemento di praticità e
creatività, sul piano sia organizzativo che di visione
dell’insieme.
Quali sono state, a suo giudizio, le peculiarità del
contributo culturale e scientifico che Roma Tre
ha saputo sviluppare?
Vorrei dire, innanzitutto, qualcosa della mia esperienza decennale come preside della Facoltà di
Scienze politiche (1988-1998). Parlando della mia
Facoltà (anche per un omaggio doveroso, sebbene
un po’ nostalgico, a quel nome “Facoltà”, e al
mondo da esso evocato, che non vorrei sparisse per
via dell’abolizione del nome stesso), ritengo che
un contributo rilevante sia stato quello di interpretare e valorizzare in modo significativo il mix disciplinare degli studi politico-sociali, storici, giuridici, economico-statistici e linguistici. Ad esempio,
con iniziative d’avanguardia, come quella del primo master, in Italia, di studi sulla pace e la sicurezza internazionale (“Peacekeeping and Security Studies”, sin dall’inizio diretto e coordinato dalla collega Maria Luisa Maniscalco), nato da una collaborazione con le istituzioni e le professionalità impegnate nelle operazioni sul campo, che ha aperto
la strada ad altre iniziative similari, nel nostro come in altri atenei italiani. Un altro aspetto qualificante è stato quello, appunto, del collegamento con
le realtà esterne. In particolare con il mondo istituzionale delle amministrazioni (centrali e periferiche) e delle autonomie territoriali; dando vita a
molteplici iniziative e attività finalizzate alla realizzazione di quella che oggi si chiamerebbe la
“terza missione”.
Parlando più in generale dell’Ateneo, ritengo che la
reputazione e la visibilità di Roma Tre si siano rafforzate proprio sul piano di un diffuso e importante
radicamento nel territorio, traendone occasioni e
strumenti di crescita, in termini sia di apporti scientifico-culturali che di acquisizione di risorse.
Vorrei aggiungere che il contributo culturale e
scientifico che il nostro Ateneo ha saputo dare nel
corso degli anni è stato anche il risultato di un mo-
dello organizzativo basato su un grado elevato di
autonomia interna (al livello delle singole strutture
e articolazioni). Un modello altresì calibrato su dimensioni medio-grandi, tali da rendre compatibili,
almeno tendenzialmente, i rapporti proporzionali
tra componenti e strutture, risorse e obiettivi.
Come è cambiato l’approccio degli studenti all’università?
Così com’è formulata, trovo arduo, per me, dare
una risposta alla domanda. Proporrei quindi di rovesciarla. In questi ultimi tempi, a partire dalle riforme prima evocate, è cambiato molto il quadro e
il tipo di offerta formativa dell’università verso gli
studenti; e, comunque, è cambiata l’università. Penso all’ampia scelta di corsi e percorsi, assieme alla
possibilità di esperienze di studio in altri paesi europei (i programmi di mobilità Erasmus). Penso a
una maggiore facilità, per uno studente oggi, di relazionarsi con il mondo intero. Penso, inoltre, alla
possibilità di altre esperienze formative (i tirocini),
e, soprattutto, all’offerta di corsi di specializzazione
post-laurea, di primo e secondo livello, fino ai corsi
di dottorato. Tutti questi sono fattori che, mentre
concorrono a fare della formazione universitaria un
asset strategico di crescita e sviluppo, pongono lo
studente medio, per così dire, di fronte a delle sfide
che richiedono una capacità di orientamento, una
spinta motivazionale, una propensione critica assai
superiori che in passato.
Dal mio osservatorio, mi pare di vedere che siamo
in una fase di transizione; dove occorre lavorare per
riallineare “domanda e offerta” di formazione. Nel
senso di contemperare le legittime aspettative di inserimento nel mondo del lavoro, con altrettanto legittime esigenze di eccellenza che portino i nostri
studenti a sfruttare al meglio i fattori e le opportunità di cui detto sopra. In questo senso auspico che
l’approccio degli studenti cambi, più di quanto non
sia in parte già avvenuto, nel senso di una maggiore
consapevolezza sul piano delle scelte e dell’impegno, per fare di questa loro esperienza di studi al livello universitario un vero modo di maturazione
personale, di crescita culturale e di formazione professionale.
In questi anni il sistema universitario italiano è
cambiato molto; tra le tante novità, oggi l’università si interfaccia in maniera dinamica con il
mondo del lavoro; sono cambiate le aspettative
degli studenti nei confronti dell’università ed è
cambiato il modo di fare docenza. Quale ruolo
intravede per l’università di domani?
Come ho cercato brevemente di dire prima, l’università è cambiata; ed è vero che le aspettative degli
studenti sono cambiate o sono in via di cambiamento. Gli studenti e l’università che li accoglie, in
quanto comunità di cui gli studenti pure sono parte,
devono interagire sulla base di altri registri che non
sia quello di un preteso efficientismo legato all’idea
pseudo-aziendalistica del rapporto tra chi eroga
“servizi” e chi ne fruisce come “utenza”. La formazione, nel senso anche di educazione come suo con-
tenuto sociale, civile e morale, in tanto ha valore di
bene comune, in quanto è espressione di un impegno collettivo, di cui ogni componente della comunità universitaria nel suo complesso è e deve sentirsi parte attiva e responsabile.
Se l’allusione ai nuovi modi d’insegnamento, contenuta nella domanda, riguarda in particolare l’uso
delle tecnologie informatiche e di comunicazione a
distanza, penso che l’impiego di questi strumenti
avviene, oramai, a ritmi e livelli di diffusione tali da
farne un fenomeno inarrestabile di cambiamento.
Per cui le università statali, pur continuando, anzi, a
mio avviso, dovendo continuare ad essere rette dal
principio dell’insegnamento in presenza, dovranno
tuttavia munirsi di dotazioni e strutture per un’offerta formativa telematica, indirizzata verso obiettivi e ambiti selezionati, come ad esempio il recupero
di studenti fuori corso, oppure corsi di aggiornamento (lifelong learning).
Il problema semmai è quello di non confondere il
mezzo con il fine; vale a dire, come ho già detto in
precedenza, di non fare dell’università (pubblica)
un mero contenitore di innovazione, a scapito della
sua natura e funzione di luogo di ricerca ed elaborazione di contenuti nuovi e innovativi.
Venendo al ruolo del nostro Ateneo in un futuro
molto prossimo, penso a due scenari, soprattutto.
Quello dell’Europa unita, e quello delle sfide della
globalizzazione, in un ottica, di nuovo, europea.
Entrambi strettamente coniugabili sul fronte delle
attività formative e di ricerca, con una rilevante
proiezione esterna (territorio, istituzioni, mondo
produttivo e società civile).
Le relazioni tra università, territorio, istituzioni nazionali ed europee, che fino a qualche tempo fa potevano presentarsi come una semplice opzione, sono divenute una scelta obbligata, un target specifico
di una azione da potenziare e valorizzare, autonomamente, rispetto alle relazioni internazionali. Ciò
allo scopo di garantirsi sbocchi, in termini di acquisizioni di risorse e realizzazioni di attività, sul piano formativo e scientifico, capaci di rappresentare,
a regime, un obiettivo di ulteriore qualificazione del
nostro Ateneo. Le sfide della globalizzazione si giocano su vari piani di incidenza. Come viene bene
chiarito sulle pagine di un precedente numero di
questa rivista (da un contributo di Giacomo Marramao), il fallimento sia del modello assimilazionista
che di quello multiculturale, denunciato anche da
alcuni leader politici europei, pone il problema di
una “terza via” che l’Europa, il Consiglio d’Europa
e la Commissione europea in particolare, hanno deciso di imboccare con il progetto sperimentale di
azione congiunta delle “città inter-culturali”. Penso
che, non solo Roma possa e debba partecipare a
questa importante iniziativa, ma che Roma Tre possa e debba farsi artefice di iniziative e darsi una
propria agenda di lavoro incentrate sull’idea di università a vocazione interculturale, che, con piena
consapevolezza delle implicazioni dei fenomeni migratori e del dramma di popolazioni in fuga dalla
miseria, dalla violenza e dalla guerra (Lampedusa
docet), prepari le presenti e future generazioni nella
prospettiva di una società aperta e inclusiva, capace
di fare delle diversità culturali, in particolare nell’area euro-mediterranea, un valore aggiunto di sviluppo e di progresso civile.
Alfonso Miola
Prof. Miola, lei è stato uno dei protagonisti della
nascita e della crescita del nostro Ateneo. Qual è
stato il mandato intellettuale degli esordi?
Ricordo perfettamente le riflessioni e le discussioni
avvenute intorno all’estate del 1992 all’interno e
tra i vari Dipartimenti della Sapienza per definire
le opzioni verso il nuovo Ateneo. Considerando
che il primo obiettivo posto dall’istituzione della
terza università di Roma era il decongestionamento
de La Sapienza, obiettivo previsto senza adeguate
risorse, posso dire che molti di noi che optarono la
ritenevano una “avventura”, una vera sfida per riuscire a costruire un Ateneo compiutamente generalista sia nella didattica sia nella ricerca.
Infatti il mandato culturale di quel momento risentì
certamente dei limiti istituzionali citati che ebbero
inevitabilmente molte ripercussioni negative specie
sul fronte della ricerca in tutti i settori scientifici
diversi da quelli della Facoltà di Lettere, che venne
istituita con il trasferimento da La Sapienza dell’intera Facoltà di Magistero. Tuttavia, pur in questa anomala situazione asimmetrica di avvio, per
un certo periodo di tempo noi docenti optanti abbiamo portato con noi il nostro bagaglio di interessi scientifici e un grande entusiasmo nella costruzione di una nuova realtà. In questo senso una
grande opportunità nell’avventura.
Gli anni di avvio, con il rettorato di Bianca Maria
Tedeschini Lalli (primo rettore donna in Italia), furono connotati da molti interventi, assolutamente
riusciti, per la necessità di affermare l’esistenza didattica e scientifica della nuova università, con la
valorizzazione delle nuove realtà scientifiche diverse da quella della Facoltà di Lettere e del peso
dei Dipartimenti nella ricerca ma anche nel governo dell’Ateneo.
Successivamente, dal 1998, con il rettorato di Guido Fabiani, si è avuto un grande sviluppo dell’intera struttura dell’Ateneo che ha registrato una evidente e significativa capacità di crescita e di affermazione nonostante un susseguirsi di interventi legislativi, non sempre sufficientemente meditati, e
un alternarsi di alti e bassi nelle risorse assegnate
al sistema universitario.
Quali sono state, a suo giudizio, le peculiarità
del contributo culturale e scientifico che Roma
Tre ha saputo sviluppare?
L’attenzione posta dalla politica della ricerca, anche attraverso le iniziative delle conferenze di Ateneo sulla ricerca, ha consentito opportunità di sviluppo di tutte le potenzialità scientifiche presenti
determinando l’emergere di vere eccellenze in al-
cuni settori anche con significativi incrementi dei
finanziamenti esterni ottenuti per la ricerca. Gli
aspetti dell’internazionalizzazione insieme con la
sensibilità per il rapporto con le realtà istituzionali,
locali e regionali, e le realtà produttive del territorio hanno certamente rappresentato una specificità
del nostro Ateneo.
In questo senso mi piace ricordare, come emblematica della nostra presenza identitaria a Roma, l’iniziativa del Teatro Palladium che oggi è una realtà
culturale e scientifica cittadina e non solo.
Come è cambiato l’approccio degli studenti all’università?
Devo premettere che la mia visuale sugli studenti
universitari è ovviamente quella di docente di una
realtà come quella di Ingegneria dove i cambiamenti di approccio sono stati meno evidenti essendo relativamente meno variabili le motivazioni della scelta degli studi di Ingegneria.
In generale mi pare evidente sottolineare come in
questi ultimi dieci anni di crisi economica, sociale
e del lavoro tutti i giovani siano alla “ricerca del
futuro”. Ciò richiede a noi docenti di garantire tutta
la presenza e la dedizione possibili nelle nostre attività didattiche e nel rapporto con gli studenti per
poter offrire loro le migliori capacità di crescita
delle competenze e delle professionalità.
In questa direzione voglio comunque rimarcare come Roma Tre continui a presentare un’offerta didattica e una struttura organizzativa in grado di facilitare e semplificare l’approccio dei nostri studenti all’università.
In questi anni il sistema universitario italiano è
cambiato molto; tra le tante novità, oggi l’università si interfaccia in maniera dinamica con il
mondo del lavoro; sono cambiate le aspettative
degli studenti nei confronti dell’università ed è
cambiato il modo di fare docenza. Quale ruolo
intravede per l’università di domani?
Come dicevo gli studenti hanno grandi aspettative.
In molti casi, anche da noi a Roma Tre, gli studenti
trovano risposte. Penso ai legami, ormai strutturali,
con molte realtà produttive dove i nostri studenti
possono trovare opportunità di esperienze lavorative nel periodo dei previsti tirocini a cui, molto
spesso, seguono contratti lavorativi. Ancora una
volta penso prevalentemente agli studenti di Ingegneria. Ma devo esprimere un mio preciso convincimento maturato in questi venti anni di Roma Tre.
I colleghi dei settori umanistici lamentano spesso
di sentirsi esclusi da opportunità di accesso a progetti di ricerca così come a rapporti di collaborazione con il mondo produttivo. Credo che si debba
cambiare questo atteggiamento verso le opportunità di accesso esistenti: in alcuni settori come quello
dei beni culturali ciò già avviene con successo. Le
opportunità ci sono per tutti i settori sia a livello
regionale, nazionale e internazionale come previsto
anche dai bandi della Unione Europea.
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Solo la bellezza potrà salvare il mondo
Intervista a Mario Botta
incontri
di Alessandra Ciarletti
Mario Botta. Foto di Beat Pfändler©
Mario Botta nasce a Mendrisio, nel Canton Ticino nel 1943. Dopo
un periodo d’apprendistato presso lo studio degli architetti Carloni
e Camenisch a Lugano, frequenta il liceo artistico di Milano e prosegue i suoi studi all’Istituto Universitario d’Architettura di Venezia, dove si laurea nel 1969 con i relatori Carlo Scarpa e Giuseppe
Mazzariol. Durante il periodo trascorso a Venezia, ha occasione di
incontrare e lavorare per Le Corbusier e Louis I. Kahn.
La sua attività professionale inizia nel 1970 a Lugano. Da sempre impegnato in un’intensa attività didattica, nel corso degli ultimi anni si è attivato come ideatore e fondatore dell’Accademia
di architettura di Mendrisio. Il suo lavoro è stato premiato con
importanti riconoscimenti internazionali tra i quali il Merit
Award for Excellence in Design by the AIA per il museo d’arte
moderna a San Francisco, l’IAA Annual Prix 2005, International
Academy of Architecture di Sofia per la torre Kyobo a Seul,
l’International Architecture Award del Chicago Athenaeum Museum of Architecture and Design e lo European Union Prize for
Cultural Heritage Europa Nostra per la ristrutturazione del Teatro La Scala di Milano.
Prof. Botta, lei è un architetto di fama internazionale: ha realizzato opere importanti come il
MoMa di San Francisco, il Mart di Rovereto, la
Biblioteca delle scienze dell’università Tsinghua,
la Chiesa di Seriate, solo per citarne alcune, ma
soprattutto ha fatto della memoria il mandato
essenziale della sua creatività, ci spiega perché?
L’architettura è una forma espressiva che parla del
presente. Il presente contempla la storia e la memoria del passato che hanno via via modellato lo spazio di vita dell’uomo.
Nella sua architettura la luce è un elemento essenziale, partecipa alla definizione dei volumi.
Eppure ho la sensazione che ci sia dell’altro: mi
piacerebbe che lei ci raccontasse quella notazione in più che riconosce alla luce.
La luce è la vera generatrice dello spazio. Senza luce non vi è percezione dello spazio. Partendo da
questa considerazione è evidente come il fatto architettonico si modella attraverso i materiali e le
geometrie che sottolineano il trascorrere della luce
lungo il quotidiano ciclo solare.
Mi ha molto colpita leggere che nella sua Accademia, si può essere ammessi anche senza essere
in possesso di titoli scolastici consueti, ma dando
prova di formazione ed esperienze significative
nei diversi ambiti applicativi dell’architettura.
Il che pur essendo una sintesi eccellente di una
visione unitaria dei saperi pratici con quelli intellettuali, al tempo stesso è purtroppo rara e
spesso disconosciuta. Cosa l’ha portata a farne
un carattere denotativo della sua scuola?
L’ammissione all’Accademia è subordinata al conseguimento della maturità liceale ma viene concessa l’iscrizione, su presentazione di un “dossier”, nei
casi in cui il candidato dimostri una particolare attitudine verso la disciplina. Nella mobilità che caratterizza la vita degli studenti di oggi mi sembra che
questa apertura sia ragionevole.
La figura dell’architetto è fin dalle sue origini
una figura poliedrica: è al tempo stesso un tecnico, un matematico e se vogliamo un poeta che
con maestria e competenza applica le leggi della
fisica per dar forma a nuove prospettive di relazione. È per questo che nella sua scuola si insegna anche filosofia? È la via per un nuovo umanesimo?
Siamo convinti che per rispondere alla complessità
e alla rapidità delle trasformazioni in atto, per gli
architetti sia importante una formazione umanistica
piuttosto che una unicamente tecnica.
Vorremmo offrire un curriculum in grado di evidenziare i problemi della disciplina piuttosto che le soluzioni. Una scuola dove gli aspetti umanistici risultano strutturali rispetto al processo progettuale.
Qual è la lezione più significativa che ha imparato nella vita?
Lavorare, lavorare, lavorare!
Viviamo in un’epoca sovrastata dalla tecnica,
che con i suoi mezzi ci dà l’illusione del dono dell’ubiquità e la presunzione di poter conoscere il
Area ex-Appiani, Treviso, Italia (1990-2012). otografia Enrico Cano©
Chiesa del Santo Volto, Torino, Italia (2001-2006). Fotografia
Enrico Cano©
Cappella Granato, Zillertal, Austria (2011-2013). Fotografia
Enrico Cano©
mondo senza mai affacciarci dalla finestra. Detto
in altre parole si fa molta architettura d’interni e
sempre meno interventi dedicati alla collettività.
Eppure la storia ci insegna che è proprio dal
rapporto fisico con lo spazio che l’uomo sviluppa
il proprio universo etico ed estetico di riferimento. Quali sono oggi le qualità fondamentali di un
architetto?
L’architetto è sempre chiamato ad interpretare la
storia, le aspirazioni, le speranze, talvolta perfino le
illusioni del proprio tempo.
Secondo lei nella nostra società c’è ancora spazio
per la bellezza?
Nutro la convinzione che, come diceva Dostoevskij,
«solo la bellezza potrà salvare il mondo».
MART museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto (1988/1992-2002). Fotografia Pino Musi©
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«A chiunque abbia fatto la quinta elementare»
Intervista ad Adele Corradi
di Michela Monferrini
La Scuola di Barbiana fu un’esperienza di insegnamento avviata negli anni Cinquanta, in provincia di
Firenze, da don Lorenzo Milani. La scuola era rivolta a giovani con difficoltà economiche o di altro ge-
era stata dedicata – memoir a tessere, a frammenti,
senza la pretesa della ritrattistica, ma anzi con la
delicatezza, il riserbo che contraddistinguono Corradi: «Si parla di lui» ha scritto riferendosi a don
Milani, «ma non se ne
racconta la storia. Chi
la volesse conoscere
dovrà rivolgersi altrove».
Abbiamo voluto incontrare di nuovo Adele Corradi, interrogarla
ancora sul passato e
non solo, tra Barbiana
e “dopo Barbiana”.
Cos’è l’educazione
per Adele Corradi?
Vorrei abolire questa
domanda come vorrei
abolire ogni forma di
educazione.
Cosa aveva di speciale l’esperienza di
Barbiana, cosa la catturò quando arrivò lì
la prima volta?
Mi riesce difficile seAdele Corradi è stata insegnante a fianco di don Milani negli anni più difficili e avvincenti della Scuola di Barbiana. Ha seguito i suoi ragazzi e l’intero lavoro di redazione collettiva della Lettera a una
parare i ricordi del priprofessoressa. Feltrinelli ha pubblicato Non so se don Lorenzo (2012).
mo giorno da quelli
dei giorni successivi.
Ricordo bene una carnere, e non mancò di suscitare, presto, critiche nate
tina dell’Africa dove i Paesi che avevano ottenuto
in seno all’ambiente cattolico e a quello laico. Don
l’indipendenza erano stati evidenziati in rosso, con
Milani rispose alle critiche scrivendo – assieme ai
tonalità più scure quelli che l’avevano ottenuta per
suoi ragazzi – la celebre Lettera a una professoressa.
primi, via via più chiare quanto più recenti erano
le date.
Il 26 giugno 2012 la Facoltà di Lettere e Filosofia
Nella mia scuola (era una scuola pubblica) si pendell’Università Roma Tre ha organizzato e co-prosava di insegnare facendo lezioni frontali e interromosso con il MIUR un convegno dal titolo «Salire
gazioni. Per dire ai miei scolari quel che diceva
a Barbiana: 45 anni dopo». Era stato pensato soquella cartina avrei dovuto costringerli ad ascoltaprattutto come incontro di alcune realtà scolastire più di una lezione frontale annoiandoli a morte
che, universitarie, territoriali (anche con disagio
senza ottenere nessun risultato. Per memorizzare
sociale), con Adele Corradi, quell’insegnante cui il
infatti (era questo lo scopo che si voleva raggiunprimo arrivo a Barbiana, il 29 settembre del 1963,
gere) quel che io avrei detto sull’indipendenza dei
aveva cambiato tanto la vita da convincerla istintipaesi africani i ragazzi avrebbero dovuto impevamente a restar lì per anni, diventando della
gnarsi a casa per un bel po’ di tempo con la consaScuola una colonna e restandovi anche oltre la
pevolezza sottintesa che, entro non più di un memorte di don Milani, avvenuta nel 1967.
setto, avrebbero dimenticato ogni cosa.
Nel febbraio precedente al convegno Adele Corradi
Con un’occhiata a quella cartina si capiva invece e
ha pubblicato il suo Non so se don Lorenzo (Feltrisi memorizzava tutto per sempre e il ragazzo o i
nelli), diario ondivago – degli anni a Barbiana, dei
ragazzi che avevano raccolto le informazioni ne“metodi” scolastici, della nascita della Lettera a
cessarie e l’avevano fatta non si erano certamente
una professoressa, che non si riferiva a lei, ma a lei
annoiati neanche un pochino.
Lezione sotto il pergolato, 1960, Ammannati, Archivio FDLM
Ci sono ancora degli errori di giudizio legati alla Scuola di Barbiana o crede che la filosofia
della Scuola e la figura di don Milani siano state
comprese?
Se si facesse un bilancio ho il dubbio che si scoprirebbe che la scuola e la figura di don Milani sono
state più spesso fraintese che intese.
Non parlo del fraintendimento di tutti quelli che
hanno giudicato e giudicano don Milani così rivoluzionario, così “magico” da esser responsabile della
trasformazione della scuola italiana da buona che
era prima di lui in una scuola senz’altro cattiva. Mi
sembra un fraintendimento così grossolano che non
merita che ci si perda tempo a contraddirlo.
Che le idee di un maestro notoriamente esigentissimo e severo, inventore di una scuola nella quale
ragazzi dagli undici ai quindici anni studiavano
astronomia e genetica, abbiano generato una scuola permissiva e cialtrona è ovviamente un’ipotesi
che non sta in piedi.
I fraintendimenti più gravi, secondo me, sono
quelli accompagnati dall’ammirazione.
Quasi mai vengono messi in luce perché gli elogi
non insospettiscono e così chi non conosce don
Milani li prende per buoni.
I primi a fraintendere furono gli studenti del ‘68.
La critica alla scuola partita da Barbiana fu sfruttata per reclamare il “6 politico”. Le critiche a Pierino mosse dai ragazzi di Barbiana passarono sulle
teste dei Pierini senza neppure sfiorarle. Caddero
nel vuoto e nessuno le raccolse.
Anche più gravi mi sembrano i fraintendimenti cari
alle gerarchie ecclesiastiche e ai cattolici di stretta
osservanza. In questi ambienti si ama esaltare don
Milani come prete obbedientissimo alla sua Chiesa
perché don Milani si vantava di esserlo per difen-
Che le idee di un maestro
notoriamente esigentissimo e severo,
inventore di una scuola nella quale
ragazzi dagli undici ai quindici anni
studiavano astronomia e genetica,
abbiano generato una scuola
permissiva e cialtrona è ovviamente
un’ipotesi che non sta in piedi.
I fraintendimenti più gravi,
secondo me, sono quelli accompagnati
dall’ammirazione
dersi dalle critiche. Da morto occorre, come ho detto, difenderlo soprattutto dagli elogi se si vuole capire il suo pensiero, il suo operato e la sua storia.
Ascoltando le gerarchie ecclesiastiche e i cattolici
di stretta osservanza non si riesce infatti a capire,
per fare un esempio dei più banali, come mai un
prete povero, che non guardava le donne perché
era addirittura misogino (lo dicono in tanti!), devoto e obbediente, sia stato cacciato a trent’anni in
una parrocchia senza acqua, senza luce, senza tele-
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fono e perfino senza strada. Per portare i suoi libri
lassù don Milani dovette infatti servirsi di un carro
trainato da buoi e senza ruote perché nessun veicolo con le ruote sarebbe potuto arrivare alla casa
parrocchiale. Ho sentito un giorno il segretario del
I primi a fraintendere furono
gli studenti del ‘68. La critica
alla scuola partita da Barbiana
fu sfruttata per reclamare
il “6 politico”. Le critiche
a Pierino mosse dai ragazzi
di Barbiana passarono sulle teste
dei Pierini senza neppure sfiorarle.
Caddero nel vuoto e nessuno le raccolse
cardinale Florit dire che in questo fatto non c’era
niente di straordinario perché a tutti i preti giovani
poteva capitare di essere destinati a una parrocchia
scomodissima se i parrocchiani avevano bisogno
di un prete. Non ricordava, il segretario del Cardinale, che a Barbiana i parrocchiani erano diventati
così pochi che era stato deciso che nessun prete
poteva essere sprecato per una parrocchia così.
Sembrò poi adatto un prete santo, colto e intelligente che aveva saputo raccogliere intorno a sé tutti i giovani del paese dove era stato viceparroco.
L’approccio educativo e formativo di Barbiana
sarebbe adatto a una scuola sempre più multiculturale come quella attuale?
Dicendo che l’approccio educativo e formativo di
Barbiana sarebbe adatto a una scuola multiculturale si direbbe ben poco. La scuola di Barbiana era
di fatto una scuola multiculturale.
Ho ascoltato a Barbiana due anarchici raccontare ai
ragazzi la loro vita. Per me, che conoscevo gli anarchici solo per sentito dire, ed era un dire a vanvera,
furono una scoperta. Erano interessantissimi. E se
facessi l’elenco delle persone interessanti che ho
ascoltato parlare ai ragazzi lassù ci si troverebbe, in
quell’elenco, credenti e non credenti, cattolici e
protestanti, uomini politici e contadini, un discepolo di Gandhi,
un testimone di
Geova e un prete
cattolico cinese.
Un giorno, mentre si faceva
scuola, arrivò un
giovane keniota.
Ci disse che lo
aveva indirizzato
a Barbiana un
amico che don
Lorenzo conosceva bene. Aveva la
valigia e si capì
che aveva intenzione di fermarsi.
Quando se ne andò scrisse che dormendo a Barbiana gli era sembrato di dormire nella capanna del
villaggio dove viveva la sua famiglia. Si chiamava
Daniele. Lo ricordo impegnato a insegnar qualcosa
a Marcello, il più piccino. I ragazzi più grandi stavano finendo di scrivere la Lettera a una professoressa. «Abbiamo fatto centro!» mi disse un giorno
don Lorenzo, «Abbiamo fatto centro! La nostra Lettera piace anche a Daniele!».
È uscito dunque da quella scuola anche un libro
multiculturale. Ho conosciuto un frate francescano
che lo leggeva ai Guarany.
La rete e i social network sarebbero uno strumento utile per riportare a scuola la metodologia della scrittura collettiva sperimentata a Barbiana?
Ho fatto più volte, con i miei scolari, scrittura collettiva. L’ho fatta anche in una scuola in Spagna
benché conoscessi pochissimo lo spagnolo. A me
toccava soprattutto il compito di dare la parola a
chi voleva parlare. E nessuno stava zitto. Prima o
Anche più gravi mi sembrano
i fraintendimenti cari alle gerarchie
ecclesiastiche e ai cattolici di stretta
osservanza. In questi ambienti si ama
esaltare don Milani come prete
obbedientissimo alla sua Chiesa
perché don Milani si vantava
di esserlo per difendersi dalle critiche.
Da morto occorre, come ho detto,
difenderlo soprattutto dagli elogi
se si vuole capire il suo pensiero,
il suo operato e la sua storia
poi parlano tutti. Bravi e ciuchi, timidi e sfrontati.
È come dirigere un’ orchestra. Non mi riesce immaginare un’ orchestra sparsa in rete.
Quando facevo scuola a tempo pieno i ragazzi sceglievano di fare scrittura collettiva nel pomeriggio
perché le ore del pomeriggio erano le più faticose
ma con la scrittura collettiva passavano velocissime.
In certi momenti, quando si cerca la parola più giusta per dire quello che si ha in testa, o la correzione migliore per una frase che non ci contenta, la
tensione si tocca con mano. «Mi fuma la testa» mi
disse una volta una bambina.
Mi è capitato di sentire il più bravo dire entusiasta:
«È vero! È così!» per un suggerimento del ragazzo
più sprovveduto. Sono momenti magici.
Non insegna solo a scrivere la scrittura collettiva.
Insegna a discutere, insegna ad ascoltare attentamente e a riflettere su ogni proposta, su ogni dubbio.
Non so dire se tutto questo può succedere in rete. Io
ho novant’anni.
* Si ringraziano Adele Corradi per la disponibilità e gentilezza estreme e Raimondo Michetti (Dipartimento di Studi
umanistici, Università Roma Tre) per la collaborazione.
Rai Educational e la formazione continua
Intervista a Silvia Calandrelli
di Alessandra Ciarletti
cazione non solo televisiva ma
fortemente crossmediale), sulla
capacità di affascinare e dunque
di conquistare e conservare l’attenzione del pubblico (quello che
oggi è di moda chiamare storytelling, e che in italiano potremmo
rendere con l’espressione “forza
narrativa”), nonché su un forte
coordinamento con le altre istituzioni formative e con le maggiori
istituzioni culturali del paese.
Credo di poter dire che questi
quattro aspetti – qualità, innovazione, storytelling, collaborazione – siano i più importanti nel valutare l’efficacia e l’importanza
del contributo che RAI Educational può dare alla crescita culturale e civile del paese.
Di recente Rai Scuola, il canale
dedicato al mondo dell’UniverSilvia Calandrelli, direttore di Rai Educational, Rai Storia e Rai Scuola
sità, della scuola e della ricerca
ha lanciato un nuovo programDirettore lei dal 2011 dirige Rai educational, il
ma RAI Edu Scienza; ce ne può parlare?
canale che negli anni ha incarnato più degli altri
Più che di un singolo programma, si tratta di un’al’impegno formativo che la buona televisione inzione coordinata per rafforzare l’attenzione rivolta a
dubbiamente svolge. Quando lei pensa alla teleun campo di centrale importanza: quello della culvisione e pensa alla formazione, quali sono gli
tura e della comunicazione scientifica. Si tratta di
aspetti fondamentali che non debbono venire
un settore nel quale il nostro Paese può vantare ecmeno?
cellenze internazionali di altissimo livello, ma nel
La RAI non è semplicemente un’azienda impegnaquale purtroppo investiamo ancora troppo poco, e
ta nel broadcasting televisivo, ma è anche – e direi
che è ancora troppo poco noto al grande pubblico.
in primo luogo – l’azienda concessionaria del serSi parla spesso di “analfabetismo” scientifico e tecvizio pubblico radiotelevisivo. Questo significa
nologico: il termine è forse troppo estremo, ma seche una componente importante del nostro lavoro è
gnala senz’altro un bisogno formativo specifico,
e deve essere dedicata a produrre contenuti “di serche è importante contribuire a colmare. RAI Educavizio”, che rispondano a bisogni effettivi del Paetional si è sempre occupata di scienza, ma abbiamo
se. E credo che il bisogno di cultura e di formaziodeciso di cambiare passo: l’attenzione verso il monne – e di una formazione di qualità – sia uno dei
do della ricerca scientifica e tecnologica deve essebisogni più importanti del paese. Un bisogno il cui
re sistematica, finalizzata, basata su un progetto corilievo è ancor maggiore in un passaggio delicato e
municativo di larga portata. Un progetto che, anche
difficile come quello che stiamo affrontando, in
in questo caso, non coinvolge solo la televisione ma
cui innovazioni radicali nel mondo del lavoro e
anche la rete e l’insieme dei media digitali. È quello
della comunicazione si associano a una crisi ecoche stiamo cercando di fare in questi mesi.
nomica di larga portata, dalla quale non è affatto
semplice uscire. In questa situazione, la formazioIn base alla sua esperienza, cosa chiedono magne (intesa anche come long life learning e formagiormente oggi i giovani, i cosiddetti nativi digizione informale) e la cultura rappresentano insietali, alla televisione?
me bisogni diffusi e risorse essenziali. RAI EducaNon c’è dubbio che per le giovani generazioni il
tional è lo strumento principale – anche se non l’uruolo della televisione sia molto diverso da quello
nico – attraverso il quale la RAI cerca di rispondedel passato. Possiamo dire, certo con il rischio di
re, e di rispondere al meglio, a questi bisogni. Ma
qualche semplificazione, che oggi la televisione
attenzione: lavorare nel campo della cultura e della
non è più il medium principale e privilegiato: queformazione non significa produrre contenuti noiosi
sto ruolo è sempre più spesso affidato alla rete. Ma
o di nicchia. Al contrario, significa lavorare sulla
la televisione non scompare: non solo perché – pur
qualità, sull’innovazione (e dunque su una comuniin un panorama mediatico più ricco – conserva co-
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Zettel, di Muarizio Ferraris
munque la sua importanza e la sua pervasività, ma
anche (e soprattutto) perché la televisione è ormai
essa stessa in rete, parte dell’universo comunicativo digitale. Dal broadcasting tradizionale si passa
così sempre più spesso ai contenuti on demand, e
dal programma televisivo considerato come unità
autonoma e autosufficiente si passa a una televisione fortemente contaminata dai nuovi media, presente sui social network: una televisione che diventa social TV e connected TV. Di questa vera e propria rivoluzione, RAI Educational è e vuole essere
non solo parte, ma protagonista. E credo che ci
stiamo riuscendo: per dare solo qualche dato, i nostri canali televisivi sono oggi di gran lunga quelli
con maggior percentuale di utenza via web di tutta
la programmazione RAI. La nostra presenza su social network è decuplicata in due anni. E in azienda
siamo stati i primi a sperimentare strumenti come i
magazine multimediali per tablet o gli e-book multimediali.
Numerosi sono i programmi culturali di Rai
Edu inseriti nei palinsesti dei tre canali Rai. Due
sono i canali digitali, Rai Scuola e Rai Storia,
entrambi gratuiti. Perché proprio la storia e la
scienza?
Il canale RAI Storia risponde a un interesse diffuso
– quello verso la storia del nostro paese – e in un
certo senso corrisponde a una funzione fondamentale del medium televisivo, perché la storia è prima
di tutto narrazione fondata su fatti, documenti, interpretazioni. Nella storia, la dimensione narrativa
è dunque essenziale. Ma il canale RAI Storia non è
e non vuole essere solo un canale che racconta il
passato: la storia rappresenta la più importante risorsa che abbiamo a disposizione nell’interpretare
il presente e progettare il futuro. E – pur utilizzando l’immensa ricchezza del materiale di repertorio
delle teche RAI – RAI Storia non è e non vuole es-
sere un canale “nostalgia”: è un canale impegnato
nella rivisitazione del passato sempre in una prospettiva di riflessione, proiettata sulla nostra società e sulla sua evoluzione nel tempo. Quanto a RAI
Scuola, non si limita naturalmente al campo della
Si parla spesso di “analfabetismo”
scientifico e tecnologico: il termine
è forse troppo estremo, ma segnala
senz’altro un bisogno formativo
specifico, che è importante contribuire
a colmare. RAI Educational si è sempre
occupata di scienza, ma abbiamo deciso
di cambiare passo: l’attenzione verso
il mondo della ricerca scientifica
e tecnologica deve essere sistematica,
finalizzata, basata su un progetto
comunicativo di larga portata
comunicazione scientifica ma cerca di individuare
ed esplorare l’insieme dei principali bisogni formativi e culturali del paese, offrendo strumenti e contenuti che aiutino sia il sistema della formazione
formale (scuola e università) sia quello della formazione informale. Non è solo un canale per le
scuole, anche se certo offre molti contenuti anche a
insegnanti, studenti e famiglie. Cerca ad esempio
di rispondere anche a bisogni formativi e culturali
nuovi legati all’idea di cittadinanza consapevole.
La stessa attenzione verso il mondo della ricerca
scientifica e tecnologica è una conseguenza di questa impostazione. Anche per questo stiamo riflettendo sulla possibilità di cambiare il nome e in parte la fisionomia del canale, collegandolo ancor di
più all’idea di un apprendimento attivo e coinvolgente, rivolto a tutti, e non solo a una formazione
“scolastica” nel senso tradizionale del termine. La
presenza sui canali generalisti si affianca a quella
su RAI Scuola e RAI Storia, e propone non solo i
contenuti di maggior impegno e rilievo, ma anche
contenuti che possano fornire un’occasione di incontro con il nostro lavoro, in televisione e in rete,
portando gli spettatori a scoprire l’insieme della
produzione di RAI Educational.
Qual è secondo lei il programma del passato che
ha meglio declinato il mandato culturale della
televisione pubblica? E quello di oggi?
Beh, per quanto riguarda il passato è difficile non
far riferimento a quello che è stato senz’altro il
programma simbolo dell’impegno della RAI nel
campo dell’educazione e della formazione: Non è
mai troppo tardi, il programma del maestro Manzi.
È un programma lontano nel tempo, ma la sua
ispirazione è ancora con noi: pensiamo ad esempio
alla necessità di alfabetizzazione nel campo dei
nuovi media. Il mondo anglosassone parla a questo proposito di “information litteracy”, alfabetizzazione informatica: un settore che richiede un
grande impegno sia per sfruttare al meglio le possibilità offerte dalle nuove tecnologie digitali, sia
per evitare svantaggi e gap formativi, e colmare
quelli che indubbiamente esistono. Quanto ai programmi di oggi, è un po’ come chiedermi di scegliere fra diversi figli: ovviamente sono molto legata a tutti, e i progetti nuovi sono sempre quelli
che in ogni momento impegnano
di più. Per questo, se dovessi rispondere oggi parlerei forse proprio del lavoro che stiamo facendo nel campo delle scienze e della divulgazione scientifica. Ma
sono molto legata anche al progetto Il tempo e la storia, uno dei
più impegnativi perché prevede
trasmissioni quotidiane e il lavoro – che va organizzato e gestito
– di un comitato di storici fra i
più noti e qualificati del nostro
paese (e non solo, dato che abbiamo anche alcuni membri non
italiani). Per formazione, venendo da studi filosofici, sono poi
molto legata al nostro programma filosofico, Zettel, di Maurizio
Ferraris, che credo abbia dimostrato – anche con il notevole
successo avuto in rete e sui social
network – che si può parlare di
filosofia in maniera affascinante
e comprensibile, senza rinunciare
alla qualità.
Quali sono le linee guida dei progetti per il futuro?
Intendiamo rafforzare ancor di
più l’attenzione verso la crossmedialità, proponendo progetti che
siano sempre a cavallo fra televisione, mondo della rete e social
Il tempo e la storia
media. Lo faremo ad esempio in uno fra i progetti
più impegnativi che ci aspettano nel prossimo futuro, quello relativo alle celebrazioni della Prima
Guerra Mondiale. Un anniversario che affronteremo, in stretto collegamento con le altre televisioni
europee, attraverso una serie di appuntamenti quotidiani che permetteranno, giorno per giorno, di ripercorrere i conflitto e le sue tappe, ma anche di riflettere a fondo sulle sue cause e sulle sue conseguenze. Sarà l’occasione per sperimentare nuovi
Non c’è dubbio che per le giovani
generazioni il ruolo della televisione
sia molto diverso da quello del passato.
Possiamo dire, certo con il rischio
di qualche semplificazione, che oggi
la televisione non è più il medium
principale e privilegiato: questo ruolo
è sempre più spesso affidato alla rete
format, allargare ad esempio la nostra produzione
nel campo degli e-book multimediali, affacciarci
spero in un campo completamente nuovo, quello
della cosiddetta augmented reality, la realtà aumentata. E naturalmente faremo lo stesso anche in altri
settori: abbiamo ad esempio altre novità in cantiere
proprio nel campo della divulgazione scientifica e
dei nuovi media.
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Palladium
Il Teatro Palladium e Roma Tre: intervista al Rettore Mario Panizza
rubriche
a cura di Federica Martellini
Roma Tre e il Teatro Palladium: una storia che ha
compiuto dieci anni. Si potrebbe dire che questa
esperienza rappresenta un po’ la cifra di un intervento fecondo dell’Ateneo nel contesto cittadino?
Sì certamente. L’intervento di Roma Tre nella gestione
e poi nella proprietà del Palladium ha segnato senza
dubbio una virtuosa controtendenza nel destino di questo luogo rispetto a quello di altri analoghi edifici realizzati, come il Palladium, negli anni Venti o nel dopoguerra, che sono stati successivamente alterati o irrimediabilmente compromessi da inappropriate trasformazioni, adeguamenti di diversa natura, disinvolte ristrutturazioni.
Roma Tre ha, al contrario, promosso una conservazione e valorizzazione della struttura originaria attraverso
un restauro accorto e un piano articolato di eventi culturali rivolti alla città, al quartiere e alla comunità degli studenti e dei docenti. Il Palladium è riuscito così,
tramite il contributo e il prestigio della Fondazione
RomaEuropa e la preziosa collaborazione con il Comune, la Provincia di Roma e la Regione Lazio, a inserirsi in questi anni in un circuito nazionale e internazionale di altissimo livello culturale.
Essere riusciti a riscattare il Palladium dal degrado e
da radicali trasformazioni funzionali dà il segno di come questa esperienza sia stata l’occasione per riqualificare una struttura pubblica attraverso l’adozione di
differenti soluzioni architettoniche e gestionali, capaci
di cogliere le potenzialità di questo spazio.
Così come in altre esperienze di recupero del patrimonio edilizio promosse dall’Ateneo (solo per citare le ultime, l’ex Vasca Navale e l’ex Mattatoio, attuali sedi
dei Dipartimenti di Ingegneria e di Architettura), anche
per il Palladium sono state elaborate proposte progettuali riconoscibili a livello architettonico e fruibili a livello pubblico, capaci di utilizzare le strutture esistenti
valorizzandone le specificità in rapporto alle nuove
funzioni. Nel caso del Palladium alla tutela e al recupero degli edifici si è accompagnato un programma di intervento ampio e articolato che ha portato questi spazi
a essere nuovamente protagonisti della vita della città.
Il Palladium è diventato, in qualche modo, una finestra dell’Ateneo verso la città (e viceversa), uno degli
spazi in cui l’università esercita, nel senso più ampio,
la propria funzione culturale e formativa, non solo
nell’ambito della comunità accademica ma verso una comunità più
ampia, che è quella cittadina…
Il rapporto con la città è da sempre tra
gli impegni più sentiti di Roma Tre
che ha investito sin dagli esordi, oltre
che sulla didattica e sulla ricerca, su
strutture in qualche modo strategiche
per lo sviluppo urbanistico e culturale
della città. Il Palladium è al centro di
questa politica e la sua programmazione è stata sempre rivolta alla sperimentazione con l’obiettivo di sostenere e rendere concrete le relazioni tra
studenti e cittadini su temi culturalmente qualificati e
innovativi. Il Teatro, con sempre maggiore continuità e
non solo nei tempi delle rappresentazioni serali, sarà
impegnato a proporre spettacoli di qualità, dibattiti
scientifici, incontri con personalità, scambi di esperienze e a sostenere la formazione e la produzione teatrale,
cinematografica e musicale, con particolare attenzione
alle iniziative dei più giovani. Questa prospettiva intende rafforzare l’impegno culturale e sociale della comunità accademica di Roma Tre, rivolgendosi alla promozione di quelle opportunità educative e didattiche che
sono la missione primaria dell’università.
La crisi finanziaria, che ha imposto a molte Amministrazioni Pubbliche di comprimere la loro offerta di
servizi, non riguarderà il Palladium, che rimane al centro del nostro impegno formativo. Nei programmi di
Roma Tre prevale infatti la convinzione che le “Stagioni del Palladium” debbano essere sempre più piene
e che non si debba smarrire il livello qualitativo garantito in questi dieci anni. Il nostro Ateneo è determinato
su questo obiettivo e, oltre a confermare risorse importanti, è impegnato a cercare contributi e sostegni esterni. È in corso una convenzione con la Regione Lazio
per la costituzione di una scuola per il teatro.
Qual è, dal punto di vista più specificamente didattico e formativo, la valenza di una risorsa come il
Palladium per Roma Tre?
La disponibilità, anche a fini didattici, di uno strumento come il Teatro Palladium garantisce senza dubbio
agli studenti di Roma Tre il conseguimento di specifiche competenze professionali, irraggiungibili in altri
contesti universitari, in particolare per quei settori formativi che si legano più direttamente alle discipline
delle arti, della musica e dello spettacolo, settori nei
quali l’Ateneo può vantare un’ampia e consolidata attività didattica e di ricerca e che rappresentano una
realtà di grande importanza nell’ambito di un territorio, come quello romano, che ospita così numerose
agenzie produttive nei settori dello spettacolo, del cinema e della comunicazione.
Il Palladium rappresenta una straordinaria opportunità
per gli studenti delle discipline dello spettacolo, che
possono entrare in contatto con il vivo svolgersi dell’attività di un teatro, assistere a prove aperte, vedere
attori e musicisti al lavoro, confrontarsi con la ricerca
teatrale e musicale, assistere agli spettacoli ottenendo così, in prospettiva, un
notevolissimo arricchimento del proprio percorso di apprendimento. In particolar modo per tutte quelle attività di
taglio non esclusivamente teorico, ma
più marcatamente pratico-produttivo,
che mirano a trasmettere anche le competenze “artigianali”, legate più direttamente al saper fare, il Palladium costituisce un valore aggiunto ai percorsi
formativi di Roma Tre.
www.uniroma3.it/page.php?page=palladium
Ultim’ora da Laziodisu
Torno subito. Un fatto positivo per le giovani generazioni del Lazio
di Carmelo Ursino
“Torno Subito”, programma promosso dall’Assessorato alla Formazione, ricerca, scuola, università
della Regione Lazio e finanziato con risorse residue
del Fondo sociale europeo del POR Lazio 20072013, si è rivelato un grande successo.
Il programma, alla prima edizione, gestito da Laziodisu, ha impegnato 5.400.000 euro per finanziare a
fondo perduto progetti di formazione formale e informale e/o di work experience, per studenti universitari o laureati, di età compresa tra i 18 e i 35 anni,
residenti e/o domiciliati nel Lazio da almeno 6 mesi, ai quali viene data l’opportunità di realizzare
un’esperienza di mobilità nazionale ed internazionale, della durata massima di 12 mesi, finalizzata al
reimpiego delle competenze acquisite fuori regione
all’interno del territorio regionale, presso aziende,
associazioni ed enti pubblici.
La risposta da parte dei giovani è stata importante.
Circa 800 progetti presentati, di cui circa 500 verranno finanziati e così, a partire dal prossimo settembre, i ragazzi potranno partire per le destinazioni prescelte.
“Torno Subito” ha l’obiettivo di sostenere la crescita
individuale dei giovani favorendo percorsi di autonomia e partecipazione, di incentivare l’acquisizione
di competenze e relazioni in ambito nazionale ed internazionale ed il loro impiego nel contesto regionale, di investire le nuove competenze e valorizzare le
risorse esistenti per lo sviluppo locale del Lazio.
Il programma finanzia una borsa di lavoro (o di studio) a copertura dei costi di vitto, alloggio e mobilità per il periodo di mobilità fuori regione (la cui entità varia a seconda della destinazione), l’eventuale
acquisto di corsi di formazione, master, etc. fino ad
un massimo di 7.000 Euro, nonché per il periodo di
reimpiego delle competenze nel Lazio un’indennità
di 400 euro mensili.
Dando un po’ di numeri, lo staff
di assistenza tecnica di “Torno
Subito”, operante presso gli uffici
di Laziodisu in Via De Lollis 22 a
Roma, ha fornito a 545 ragazzi un
servizio di assistenza tecnica personalizzato ed ha erogato un servizio informativo a circa 1300 ragazzi. Oltre 600 persone hanno
partecipato all’evento di presentazione del Programma del 13 marzo 2014 e ben 80 enti e 300 giovani hanno partecipato a “A/R – Il
Bar Camp di Torno Subito” del 1
aprile 2014. Lo staff del programma, al fine di promuovere l’iniziativa e coinvolgere le comunità locali del Lazio, ha percorso oltre
2000 kilometri nei 23 Eventi del
Torno Subito Tour: Roma (Centro
Sperimentale di Cinematografia,
Municipi V, VII, Campus X di Tor Vergata, Università Roma Tre, Centro Culturale Tunisino) Rieti, Viterbo, Frosinone, Formia, Ostia, Maenza, Priverno,
Cassino, Stimigliano, Guidonia Montecelio, Poggio
Mirteto, Civitavecchia, Frascati, Ladispoli, Paliano,
Aprilia. Durante questi eventi, inoltre, si è fornita
assistenza tecnica a 393 ragazzi.
Sono stati realizzati, infine, 72 incontri di presentazione del progetto con Comuni, Centri per l’impiego, aziende del profit e del no profit, coinvolgendo
circa 275 Enti, di cui 150 sono diventati partner
dell’iniziativa. Il sito www.tornosubito.laziodisu.it
e la pagina facebook sono diventati strumenti informativi importanti e luoghi di interazione continua
con i giovani interessati.
“Torno Subito”, quindi, è un programma fortemente
innovativo e rappresenta la prima sperimentazione
concreta avviata da una regione italiana di un “reddito minimo al cittadino in formazione”; i ragazzi,
infatti, non dovranno produrre nessuna rendicontazione delle spese sostenute (tranne che per l’acquisto eventuale di un corso di formazione) ma avranno un reddito a disposizione per praticare l’autonomia e la responsabilità.
“Torno Subito” è’ un progetto in sperimentazione e
in divenire. Questa prima edizione rappresenta un
numero zero su cui lavorare, aprirsi all’esterno, individuando criticità e cose da correggere, cose buone e meno buone, per progettare in modo sempre
più partecipato le prossime edizioni.
Questo numero zero, inoltre, è anche l’occasione per
raccontare le storie di andate e ritorno che si attiveranno nei prossimi mesi, per confrontarsi con i ragazzi e con gli enti ospitanti per comprendere fino in
fondo il valore e le difficoltà di questa avventura. Sicuramente sarà un cammino, speriamo fruttuoso e
utile per le giovani generazioni che abitano il Lazio.
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Non tutti sanno che...
È stato rinnovato il protocollo dell’Osservatorio di studi di genere
tra le università romane: intervista a Francesca Brezzi
a cura della redazione
Perché un Osservatorio di studi di genere tra le
quattro principali università romane?
Sarei tentata di rispondere: lo chiede l’Europa, e
non sarebbe solo una battuta o una risposta evasiva
perché con questa iniziativa recepiamo le indicazioni che provengono dall’Unione Europea, la quale
considera la promozione delle pari opportunità una
delle priorità della
propria politica, da
realizzare in ogni
contesto e ci collochiamo sulla scia
di molte altre Università europee,
per le quali si tratta
di una prassi già da
tempo consolidata.
Come è nata questa idea e quali gli
scopi?
L’Osservatorio di
Studi di genere, parità e pari opportunità (GIO) è nato
Francesca Brezzi
nel 2009 ad opera
delle delegate dei
Rettori alle pari opportunità delle Università Roma
Tre, La Sapienza, Tor Vergata e Roma Foro Italico,
ed è stato recentemente rinnovato, con l’adesione
convinta dei Rettori; l’obbiettivo principale consisteva nel creare sinergie e proseguire un confronto a
più voci all’interno degli Atenei romani in relazione
agli studi e alle ricerche sulle problematiche di genere; si voleva incentivare la riflessione e l’indagine
sul pensiero femminile, sulla storia delle donne, sulla presenza e rappresentanza femminile nella società
al fine di arricchire il dibattito in corso, organizzando incontri, seminari e convegni. Sottolineo con piacere che questo è stato il primo Osservatorio universitario in Italia, al quale molti altri simili si sono aggiunti, con nostra soddisfazione, perché si tratta
sempre di fecondare un ambito significativo della
nostra cultura universitaria.
Come vi ponete quindi nei confronti del sapere
accademico e delle “sue rigidità”?
Innanzi tutto vorrei rilevare come in questi anni di
continue trasformazioni dell’Università la presenza
dell’Osservatorio può rappresentare un punto di riferimento importante non solo sulle tematiche attinenti le pari opportunità tra uomo e donna, ma altresì
per focalizzare l’attenzione e la prassi all’effettiva
parità tra persone, per combattere le discriminazioni
sociali e politiche, dal momento che ha fatto irruzione il tema delle differenze di cultura, di etnia, di lingua e di religione. Quindi l’Osservatorio rappresenta
la risposta dell’Università alle sollecitazioni che
emergono nella realtà contemporanea. In secondo
luogo, con esplicito richiamo alla trasversalità degli
studi di genere (a me piace affermare che essi sono
indisciplinati) l’Osservatorio realizza una collaborazione interdisciplinare fra docenti ed esperti, di differenti discipline accademiche, articolando un confronto nelle diverse aree umanistiche e scientifiche,
incrementando la costituzione di reti con associazioni, istituzioni, servizi pubblici e privati, finalizzate
allo scambio e alla circolazione di informazioni e alla progettazione di interventi comuni. Ne deriva il
carattere di fecondo intreccio tra varie discipline
realizzatosi nell’Osservatorio, che- ribadendo l’autonomia dei saperi- ha attuato e continuerà a proporre una riflessione che eviti omologazioni, per giungere a una riformulazione del sapere dato. E l’Osservatorio si presenta quale laboratorio per rielaborare
gli scopi e la funzione dell’alta formazione, iniziando, quindi, una riflessione critica sul soggetto conoscente, in particolare la donna e sul suo posto nel
contesto istituzionale contemporaneo.
Quali le iniziative?
Sarebbe lungo rispondere, né del resto vorrei proporre un arido elenco, si trovano molte notizie sul
nostro sito recentemente rinnovato grazie al contributo di Monica L’Erario, - l’indirizzo è:
www.giobs.it -; vorrei tuttavia sottolineare come
nelle nostre iniziative si sia cercato di tessere una
sorta di tela di Penelope, volendo tuttavia osservarne
il rovescio: se questa rappresenta in certo senso la
tradizione culturale in cui l’apporto femminile è assente, nascosto, misconosciuto o non riconosciuto
nella sua autorevolezza, esaminare la parte non visibile della tela sta a significare cogliere tanti fili ingarbugliati, anche molti nodi, ma scorgere altresì
l’intreccio di fili diversi, segni e cifre di lavori in
corso. Considerare il rovescio consente di apprezzare un cantiere aperto, in cui si sono organizzati incontri che spaziavano dalle tematiche economiche,
lavoro, welfare femminili al sessismo e al potere
discriminatorio delle parole, per combattere gli stereotipi sulle donne nei media, dalla riflessione su
Donne e scienza, alla filosofia interculturale con
molti eventi (la realizzazione di vari progetti europei
“Tempus” in partenariato con Marocco Francia, relativi a Genere e cittadinanza fra le due rive del Mediterraneo), e altresì molta attenzione si è prestata
alla presenza delle donne nell’agorà politica, da noi
esaminata da varie prospettive, non ultimo è stato
affrontato il tema della violenza contro le donne.
Dopo questo percorso quale il risultato?
Possiamo con compiacimento affermare che questi
anni di vita dell’Osservatorio hanno rappresentato
un cammino di crescita di molte di noi ed anche
dell’Università. Guardando indietro siamo soddisfatte di aver dato vita a questa avventura, perché di
un’avventura si tratta, con tutte le incognite, difficoltà, ma anche realizzazioni che un viaggio – più o
meno avventuroso – comporta, avendo come bussola unicamente la volontà di aprire spazi e luoghi a
saperi, temi, contenuti e metodologie nuove, talvolta nate fuori dai circuiti consueti, ma necessariamente intrecciati con il pensiero nelle sue diverse
articolazioni (umanistico, scientifico, economico).
Ma si tratta di un pensiero da intendere quale sapienza incarnata, o meglio per ricordare Hannah
Arendt, un pensiero appassionato, in cui pensare e
vivere si mostrano quale un prisma che unisce ragione e cuore, filosofia e storia, filosofia e politica.
Tutte noi esercitiamo senz’altro il pensare e il comprendere, ma cerchiamo una modalità espressiva
che concili in sé il rigore e la passione. Riteniamo
che la riflessione teorica non sia mai puro esercizio
speculativo, ma adesione intensa del pensiero alla
vita, esigenza profonda dell’essere alla ricerca di risposte vitali del quotidiano.
E i nostri inquieti tempi richiedono forse un sovrappiù di attenzione e di risposte.
Il Comitato scientificodell’Osservatorio: Francesca
Brezzi (delegata alle pari opportunità di Roma Tre)
presidente; Marisa Ferrari Occhionero (delegata alle pari opportunità e alle politiche di genere della
Sapienza Università di Roma); Elisabetta Strickland
socia fondatrice, già delegata alle pari opportunità
di Tor Vergata, vicepresidente del CUG); Lucia De
Anna (delegata alle pari opportunità Università Roma Foro Italico); Laura Moschini, docente a Roma
Tre; Mariella Nocenzi, docente a La Sapienza.
Il Centro di ascolto psicologico di Roma Tre
Andrea, Lucia, Chiara e tanti altri studenti - ogni anno sempre più numerosi
- arrivano alla Palazzina Rosa (così è chiamata familiarmente dagli studenti
di Roma Tre la sede dove è collocato il Centro di Ascolto Psicologico) per
chiedere un appuntamento.
Nomi di finzione, ovviamente, perché la preoccupazione per la privacy è al
centro di tutto il lavoro degli psicoterapeuti che offrono colloqui di consultazione psicologica focalizzati alla risoluzione dei problemi che possono
nascere nell’incontro dei giovani con la vita universitaria. Più in generale
l’équipe del Centro è disponibile all’ascolto di tutte le esperienze che fanno
parte dell’arco di vita della generazione dei nostri studenti.
Andrea arriva dicendo che non riesce più a studiare, ormai sono già sei mesi. Nel corso del colloquio emerge un suo stato d’animo di profondo avvilimento rispetto al quale non riesce a reagire: una situazione che, prolungandosi, potrebbe configurare un rischio di inizio depressione.
Avere la possibilità di ricorrere ad un Centro di ascolto psicologico consente ad Andrea, nel corso di quattro colloqui, una messa a fuoco delle vicende e delle percezioni che lo hanno indotto a nutrire dei dubbi
sulla validità della scelta del corso di studio fatta al momento dell’iscrizione. In virtù di questa nuova chiarezza Andrea può ora riprendere in mano se stesso e le sue scelte.
Sono già quattro mesi che Lucia soffre di crisi di panico: non sapeva a chi rivolgersi perché il suo medico di
base le aveva proposto una consultazione con uno psichiatra e lei non se la sentiva, covava nel fondo di sé
l’idea di poter essere malata se la soluzione doveva passare per una visita psichiatrica. L’aver scoperto l’esistenza del Centro le dà una possibilità diversa: è un luogo dedicato a persone come lei che non sono e non si
sentono malate ma stanno attraversando un periodo difficile e hanno bisogno di un interlocutore che abbia
disponibilità e competenza nelle dinamiche di crisi della sua generazione. Qualcuno che sappia che alla sua
età Lucia non può più fare riferimento solo alla famiglia ma, nel contempo, non ha ancora acquisito l’esperienza necessaria a districarsi nell’offerta dei servizi sociali.
La chat line, invece, si rivela particolarmente preziosa per poter entrare in contatto e, successivamente,
aprire un dialogo e una consultazione psicologica soprattutto con gli studenti fuorisede i quali per motivi
di residenza o per mancanza di familiarità con l’ambiente hanno maggiori difficoltà a raggiungere il Centro.
Il sito web dedicato (http://host.uniroma3.it/ uffici/ascolto/) chiarisce tutte le modalità per entrare in contatto per prenotare un colloquio in modo che a ognuno venga assicurata puntualità e riservatezza dell’incontro e contiene altresì un elenco dettagliato e aggiornato dei servizi di consultazione presenti a Roma e
nel Lazio.
La sensibilità verso la dimensione della vita quotidiana degli studenti dentro l’università è stata d’altra parte presente tra i docenti e i ricercatori fin dagli inizi della costituzione di Roma Tre testimoniata dal fatto
che il Centro di ascolto psicologico (tra i primissimi in Italia) è nato pochi anni dopo la stessa nascita di
Roma Tre sulla scia delle esperienze maturate da decenni negli Stati Uniti e diventate parte integrante di
ogni struttura universitaria d’oltreoceano già negli anni Quaranta e Cinquanta.
Attualmente il Centro, oltre a collaborare con le attività dell’Ufficio orientamento, dell’Ufficio studenti
con disabilità e gli altri servizi della Divisione politiche studenti, sta direzionando la propria ricerca verso
la progettazione di attività specificamente rivolte alla prevenzione dell’abbandono del percorso universitario degli studenti che hanno messo in discussione la scelta del corso di Laurea effettuato all’inizio: un progetto di ri-orientamento.
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Nell’educazione un tesoro
Jacques Delors. Estratto dal Rapporto all’UNESCO
della Commissione internazionale sull’educazione per il XXI secolo
L’utopia dell’educazione
documenti
• L’educazione è un mezzo prezioso e indispensabile che può consentire di raggiungere gli ideali
di pace, libertà e giustizia sociale.
• L’educazione può svolgere un ruolo fondamentale nello sviluppo personale e sociale.
• L’educazione deve promuovere una forma più
profonda ed armoniosa di sviluppo umano (riducendo povertà, esclusione, ignoranza, oppressione e guerra).
• L’educazione è un mezzo straordinario per lo sviluppo personale e per la costruzione di rapporti
tra individui, gruppi e nazioni.
L’educazione e le giovani generazioni
• L’educazione è anche un’espressione d’amore
per i bambini e i giovani, che dobbiamo sapere
accogliere nella società offrendo loro, senza alcuna riserva, il posto che appartiene loro di diritto:
un posto nel sistema educativo, ovviamente, ma
anche nella famiglia, nella comunità locale, e
nella nazione.
Le tensioni del XXI secolo
•
•
•
•
La tensione tra il globale e il locale
La tensione tra l’universale e l’individuale
La tensione tra tradizione e modernità
La tensione tra considerazioni a lungo termine e
a breve termine
• La tensione tra il bisogno di competizione e la
preoccupazione dell’uguaglianza delle opportunità
• La tensione tra l’espressione straordinaria delle
conoscenze e la capacità degli esseri umani di assimilarle
• La tensione tra spirituale e materiale
L’educazione tra crescita personale
e sviluppo professionale
• L’educazione si colloca al centro dello sviluppo
sia della persona sia della comunità; il suo compito è quello di consentire a ciascuno di sviluppare pienamente i propri talenti e di realizzare le
proprie potenzialità creative, compresa la responsabilità per la propria vita e il conseguimento dei
propri fini personali.
Apprendere per tutta la vita
•
•
•
•
Imparare a vivere insieme
Imparare e conoscere
Imparare a fare
Imparare ad essere
Suggerimenti per il futuro
• L’interdipendenza planetaria e la globalizzazione
rappresentano dei fattori importanti nella vita
contemporanea. Essi richiedono una riflessione
d’insieme, proietta ben oltre i campi dell’educazione e della cultura, sui ruoli e sulle strutture
delle organizzazioni internazionale.
• Il pericolo maggiore è che si apra un abisso tra
una minoranza di individui capaci di trovare con
successo la loro strada in questo nuovo mondo
che si sta creando e la maggioranza cha ha la
sensazione di trovarsi in balia degli eventi e di
non avere voce in capitolo nel futuro della società, insieme ai rischi di un regresso della democrazia e del diffondersi della rivolta.
• Bisogna dirigere il mondo verso una maggiore
comprensione reciproca, una maggiore senso di
responsabilità e una maggiore solidarietà, attraverso l’accettazione delle nostre differenze spirituali e culturali. L’educazione, fornendo a tutti
l’accesso al sapere, ha precisamente questo compito universale: aiutare gli uomini a capire il
mondo e a capire gli altri.
Dalla coesione sociale
alla partecipazione democratica
• La politica educativa deve essere sufficientemente
diversificata e deve essere concepita in modo tale
da non diventare un ulteriore fattore di esclusione.
• La socializzazione degli individui non deve essere in conflitto con lo sviluppo personale. Coniugare i pregi dell’integrazione con il rispetto dei
diritti individuali.
• L’educazione da sola non basta, ma piò contribuire ad incoraggiare il desiderio di vivere insieme e favorire la coesione sociale.
• L’educazione all’esercizio consapevole e attivo
dei propri diritti e doveri di cittadino deve cominciare dalla scuola.
• Per incrementare la partecipazione democratica è
necessario fornire punti di riferimento e aiuti per
l’interpretazione, in modo da rinforzare le facoltà
di comprensione e di giudizio.
• È compito dell’educazione fornire a bambini ed
adulti le basi culturali che consentano loro, nei limiti del possibile, di comprendere i cambiamenti
che si verificano.
• I sistemi educativi devono rispondere alle molteplici sfide della società dell’informazione, nella
prospettiva di un arricchimento continuo dei saperi e di un esercizio dei diritti e dei doveri del
cittadino in maniera adeguata alle esigenze del
nostro tempo.
Dalla crescita economica allo sviluppo
umano
• Coniugare il nuovo modello di sviluppo con un
maggiore rispetto per la natura e la ristrutturazione dei tempi della persona.
• Una verifica più ampia dello sviluppo che prenda
in considerazione tutti gli aspetti coinvolti.
• Creazione di nuovi legami tra politica educativa
e politica dello sviluppo rafforzando le basi delle
conoscenze e delle abilità necessarie: incoraggiamento dell’iniziativa, del lavoro di gruppo, sviluppo delle risorse locali, del lavoro personale e
dello spirito imprenditoriale.
• Miglioramento dell’educazione di base.
I quattro pilastri dell’educazione
• L’educazione nel corso della vita è basata su quattro pilastri: imparare a conoscere, imparare a fare,
imparare a vivere insieme e imparare ad essere.
• Imparare a conoscere, combinando una conoscenza
generale sufficientemente ampia con la possibilità
di lavorare in profondità su un piccolo numero di
materie. Questo significa anche imparare ad imparare, in modo tale da trarre beneficio dalle opportunità offerte dall’educazione nel corso della vita.
• Imparare a fare, allo scopo d’acquistare non soltanto un’abilità professionale, ma anche, più ampiamente, la competenza di affrontare molte situazioni e di lavorare in gruppo. Ciò significa anche imparare a fare nel contesto delle varie esperienze sociali e di lavoro offerte ai giovani, che
possono essere informali, come risultato del contesto locale o nazionale, o formali, che implicano
corsi dove si alternano studio e lavoro.
• Imparare a vivere insieme, sviluppando una comprensione degli altri ed un apprezzamento dell’interdipendenza (realizzando progetti comuni e
imparando a gestire i conflitti) in uno spirito di
rispetto per i valori del pluralismo, della reciproca comprensione e della pace.
• Imparare ad essere, in modo tale da sviluppare
meglio la propria personalità e da essere in grado
di agire con una crescente capacità di autonomia,
di giudizio e di responsabilità personale. A tale
riguardo, l’educazione non deve trascurare alcun
aspetto del potenziale di una persona: memoria,
ragionamento, senso estetico, capacità fisiche e
abilità di comunicazione.
• I sistemi educativi formali tendono a sottolineare l’acquisizione delle conoscenze a detrimento
di altri tipi d’apprendimento; ma ora è di fondamentale importanza concepire l’educazione in
una maniera più globale. Una tale visione deve
informare e guidare le future riforme e politiche
scolastiche, in rapporto sia ai contenuti che hai
metodi.
L’educazione per tutta la vita
• Il concetto di educazione per tutta la vita è la
chiave d’accesso al XXI secolo. Esso supera la
distinzione tradizionale tra educazione iniziale ed
educazione permanente. Esso si collega con un
altro concetto spesso presentato, quello della società educativa.
• L’educazione permanente deve aprire possibilità
di apprendimento a tutti.
• L’educazione per tutta la vita deve valorizzare
tutte le opportunità che la società può offrire.
Jacques Delors, presidente della Commissione europea dal 1985 al 1995, ha presieduto la “Commissione per l'educazione per il XXI
secolo" dell’UNESCO dal 1995 al 1998
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The Women’s Table
Un monumento per le studentesse di Yale
recensioni
di Francesca Gisotti
Pietra e acqua. Sono
questi i due elementi
scelti dall’architetto
Maya Lin per la realizzazione del monumento che commemora
l’ammissione delle
donne all’Università di
Yale. The Women’s Table, questo il nome dell’opera, è stata commissionata all’artista
nel 1989, dal Preside
Benno Schmidt, in ocFrancesca Gisotti
casione del ventennale
della coeducazione. All’artista di origine cinese, nota per aver progettato il
Vietnam Veterans Memorial a Washington Dc, a soli
21 anni, è spettato l’arduo compito di lasciare una
traccia della presenza femminile all’interno di uno
dei più prestigiosi istituti d’America e, al tempo
stesso, di testimoniare un’assenza perpetuata troppo
a lungo. Da qui la scelta di creare una scultura non
solo da guardare, ma che richiedesse uno sforzo ulteriore ai suoi osservatori, quello dell’interpretazione. Nell’uso comune, un tavolo può assumere molteplici funzioni. La prima idea che viene in mente è
quella di uno spazio fisico intorno a cui riunirsi, sostegno ad una convivialità familiare nel momento
del pasto e della conversazione quotidiana.
Il tavolo è anche il luogo intorno al quale vengono prese le decisioni
istituzionali, tessute le
sorti dei Paesi e dei
rapporti internazionali.
Infine è, per eccellenza,
un piano d’appoggio
per attività culturali. Su
di esso si studia, si scrive, si alimenta una conoscenza che richiede
concentrazione, fatica,
passione, spesso isolamento. Quello della Lin
è un tavolo ellittico di
granito verde che poggia su una base nera dello
stesso materiale. Una presenza che, nella sua solidità, richiama l’attenzione di chi si trova a passare per
i viali dell’Università; migliaia di ragazzi che, anno
dopo anno, cercano di porre le basi per il proprio
futuro. Ecco allora che tale passaggio viene richiamato dall’acqua che incessantemente scorre lungo il
tavolo, un fluire ininterrotto che sembra scandire il
tempo di una delle istituzioni universitarie più antiche degli Stati Uniti. Ma il valore simbolico della
scultura impone un’osservazione che va ben oltre la
superficie dell’immediatamente visibile, che implica un coinvolgimento dello spettatore in profondità.
Sotto l’increspatura dell’acqua, incisa sulla pietra,
compare una spirale di numeri che attraversa l’intero tavolo. Sono i numeri delle donne iscritte a Yale,
anno per anno, dalla fondazione dell’Università, nel
1701, fino al 1993, anno della conclusione dell’opera. A partire dal centro corre una lunga serie di zero,
interrotta solo dal numero 13 in corrispondenza del
1873, data in cui si riteneva che le prime ragazze
avessero avuto accesso ai corsi post-lauream. Come
sottolineato dal sito ufficiale di Yale, nuovi studi
hanno rivelato, invece, che le prime studentesse
dell’Istituto furono le sorelle Silliman, inscritte al
corso post-lauream di Belle Arti nel 1869 ( bisognerà attendere altri cento anni perché le prime donne
possano accedere ai corsi di laurea). Nonostante
questa incongruenza, The Women’s Table soddisfa
comunque tutte le funzioni per cui era stato pensato. È sicuramente un punto di incontro, in quanto
ogni giorno cattura gli sguardi di giovani studenti
provenienti da tutto il mondo, quegli stessi che,
probabilmente, si siederanno sulla sua base per
scambiare due chiacchiere fra una lezione e l’altra.
Ha un valore istituzionale, essendo stato commissionato dall’Istituto stesso per ricordare l’arduo percorso intrapreso dalle donne per accedere al mondo
dell’istruzione. Ha soprattutto un valore culturale e
simbolico. È l’espressione artistica di una battaglia
che ancora continua ad
essere combattuta, quella per una parità di diritti che si realizzi in ogni
ambito della società, da
quello formativo a quello professionale. The
Women’s Table è un’opera monumentale che,
come sottolineato dalla
stessa Lin, ha in sé i caratteri dell’antimonumentalità. La spirale,
che la caratterizza, può
essere osservata in due
sensi fra loro opposti.
Dall’interno verso l’esterno, per prendere
consapevolezza del progressivo aumento delle donne iscritte a Yale e dell’enorme potenzialità che le
stesse rappresentano per la vita culturale non solo
degli Stati Uniti; dall’esterno verso l’interno per
soffermarsi su tutti quegli zeri che hanno marcato
un’assenza ingiustificata e indelebile. Sono numeri
che parlano, come non hanno potuto fare, per anni,
quelle giovani studentesse a cui era lecito partecipare alle lezioni solo come silent listeners. Uditrici
non parlanti a cui alla fine, dopo tanti anni, è stata
restituita una voce.
Università degli Studi Roma Tre - via Ostiense, 159 - www.uniroma3.it