VERBALE DI ASSEMBLEA del 22-23-24 marzo 2002

ORGANISMO UNITARIO DELL’AVVOCATURA ITALIANA
Ufficio stampa
Rassegna
Stampa
12 gennaio 2015
Responsabile: Claudio Rao (tel. 06/32.21.805 – email: [email protected])
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SOMMARIO
PAG. 3 AVVOCATI: Avvocati. Continua la rivolta fiscale ma c'è la tregua dopo i selfie
(Corriere Economia)
PAG. 5 AVVOCATI: La Cassa forense potenzia il welfare con 60 milioni (Il Sole 24 Ore)
PAG. 6 AVVOCATI: Avvocati, autentica fai-da-te (Italia Oggi Sette)
PAG. 8 L’INTERVISTA: Il ministro Orlando: “Italia pronta per una super-procura
antiterrorismo” (La Stampa)
PAG. 10 RIFORMA GIUSTIZIA: Toghe e responsabilità civile, debutto in Aula vuota
(Il Giornale)
PAG. 11 RIFORMA GIUSTIZIA: Riforma della giustizia, stop ai ddl: Orlando gioca a “zona”
(Cronache del Garantista)
PAG. 13 RIFORMA GIUSTIZIA: Responsabilità dei giudici. L'ok definitivo si avvicina
(Italia Oggi)
PAG. 14 ANTITERRORISMO: Accelerazione sulla superprocura (Il Sole 24 Ore)
PAG. 15 GIUDICI DI PACE: Allarme Giudici di pace, a rischio 3 sedi su 7: vicini alla
chiusura gli uffici di Casarano, Nardò e Gallipoli (Quotidiano di Puglia)
PAG. 17 GIUDICI DI PACE: Giudici di pace: sono 6 su 27 previsti. Ma il lavoro cresce ed è più
difficile (L’Eco di Bergamo)
PAG. 18 GIUDICI DI PACE: I giudici di pace alzano bandiera bianca
(Il Messaggero Veneto - Pordenone)
PAG. 20 CARCERI: Mense gestite dai detenuti. Niente proroga alla cooperative
(La Stampa)
PAG. 22 FISCO: Nuovi minimi, ci perdono tutti (Italia Oggi Sette)
PAG. 25 FISCO: Voluntary disclosure, pioggia di milioni sugli studi legali e tributari
(La Repubblica – Affari e Finanza)
PAG. 28 CONCILIAZIONE: La conciliazione fa tappa davanti al Ctu (Il Sole 24 Ore)
PAG. 30 CONCILIAZIONE: Una procedura «flessibile» per risolvere il conflitto
(Il Sole 24 Ore)
PAG. 32 LAVORO: Il governo accelera sul Jobs Act "I nuovi contratti a metà febbraio"
(La Stampa)
PAG. 34 LAVORO: Tre indici contro le finte partite Iva (Il Sole 24 Ore)
PAG. 36 LAVORO: Dall’iscrizione all’Albo uno «scudo» parziale (Il Sole 24 Ore)
PAG. 38 UNIVERSITA’: Asili e università, stretta sugli sconti (Il Messaggero)
PAG. 40 UNIONE EUROPEA: Stalking, in Europa protezione trasferibile (Italia Oggi)
PAG. 41 UNIONE EUROPEA: Nella Ue sentenze senza barriere (Il Sole 24 Ore)
PAG. 43 FAMIGLIA: Nozze gay all'estero cancellate (Italia Oggi)
PAG. 44 SENTENZE: Non è esterovestita l’attività strutturata (Il Sole 24 Ore)
PAG. 46 CASSAZIONE: Onorari, opposizione segnata (Italia Oggi Sette)
PAG. 47 CASSAZIONE: Casse autonome dal 2007 (Italia Oggi)
PAG. 49 CASSAZIONE: Appalto senza concessione ko (Italia Oggi Sette)
PAG. 51 CASSAZIONE: Risale in cattedra il prof condannato per sesso con minore
(Il Sole 24 Ore
PAG. 53 CASSAZIONE: Fornitori «vigili» sulle lettere d’intento (Il Sole 24 Ore)
PAG. 55 CASSAZIONE: Rumore, dai tribunali tutela rafforzata (Il Sole 24 Ore)
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CORRIERE ECONOMIA
Riforme. Chi non si iscrive alla previdenza di categoria rischia la cancellazione
dall'Albo
Avvocati. Continua la rivolta fiscale ma c'è la tregua dopo i selfie
Luciano (Cassa Forense): «Comprendiamo le difficoltà e siamo pronti ad
aiutare i più deboli. Ma tutti rispettino le regole»
Lun. 12 - L’ appello è subito diventato virale: #io non mi cancello. E poi video,
foto e messaggi su tutti i social network. I giovani avvocati da un paio di mesi
si sono mobilitati contro la norma che prevede l'obbligatorietà dell'iscrizione
alla Cassa forense, pena la cancellazione dall'Albo. In realtà la vicenda è
vecchia perché la norma è entrata in vigore insieme alla riforma forense, la
legge che disciplina la categoria e che tocca anche l'aspetto previdenziale. Il
motivo di un simile (forte) giro di vite è ben chiaro: la Cassa forense da
sempre conta un numero di contribuenti notevolmente inferiore agli iscritti
all'Albo. Le ragioni In parole povere, decine di migliaia di avvocati iscritti agli
Ordini professionali (e quindi potenzialmente in attività) non risultavano
iscritte alla Cassa di previdenza della categoria. Negli anni la Cassa ha
progressivamente elevato la quota dei versamenti minimi anche per far fronte
alle richieste di equilibrio di bilancio del ministero. Questo ha portato a una
sofferenza altissima da parte soprattutto dei giovani avvocati: la crisi e i
ritardi dei pagamenti hanno creato una tenaglia micidiale che ha scatenato la
protesta e il dilagare dei selfie con scritto «io non mi cancello». Alla Cassa
forense, però, obiettano con decisione: «In tutta questa vicenda è
indispensabile una premessa — esordisce Nunzio Luciano, presidente della
Cassa —: noi non cancelleremo nessuno. Toccherà agli Ordini attuare i
provvedimenti che riterranno più idonei valutando caso per caso». Però il
rischio concreto di cancellazione esiste ed è legato anche al mancato
pagamento della previdenza forense. «È vero — ammette Luciano —, ma la
Cassa forense non indossa i panni del giustiziere: siamo pronti a dilazionare
pagamenti e arretrati. Cercheremo una soluzione per chi è realmente in
difficoltà. Non possiamo accettare, però, la posizione di chi è contrario al
pagamento di un regime previdenziale». Proposte e soluzioni Proprio
l'appello alla rivolta fiscale contro il sistema previdenziale è uno dei temi che
ha fatto divampare la polemica. E in tal senso è stata spesso chiamata in causa
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Mobilitazione generale degli avvocati, un'associazione composta soprattutto
da giovani, che ha lanciato l'idea della protesta con i selfie. «Innanzitutto ci
teniamo a precisare che Mga non ha mai proposto di non versare i contributi
previdenziali, di non pagare i bollettini, né, quella di alcuni di noi, è una
morosità volontaria — avverte Cosimo Matteucci, presidente di Mga —. Noi,
infatti, quei bollettini non li abbiamo potuti pagare perché quei soldi
semplicemente non li avevamo, li pagheremo, non sappiamo ancora come
fare ma pagheremo tutto, come è giusto che sia, soprattutto nei confronti di
tutti quei colleghi che hanno sempre regolarmente versato. Di vie alternative
però se ne vedono poche e la Cassa forense dichiara buona volontà anche in
questo senso. «Stiamo varando il nuovo regolamento — spiega il presidente
Luciano —. Abbiamo previsto il pagamento di 700 euro per il contributo
soggettivo minimo per i 50 mila avvocati che si iscriveranno alla cassa e per
quelli che sono iscritti da tre anni. Chi invece è iscritto all'Albo da più di otto
anni e dichiara un reddito di meno di 10 mila euro l'anno, dovrà chiedersi se
davvero vale la pena continuare a svolgere questa professione. In quel caso
dire che la previdenza è il vero problema, mi sembra non coerente alla
realtà». In compenso, però, il «fronte della protesta» chiede nuove misure
quantomeno per rendere più equo il sistema. «Si chiede equità, si chiede
l'abbattimento dei privilegi previdenziali — afferma Matteucci —, la censura
delle pensioni degli anziani maturate con l'evasione fiscale combinata con il
sistema di calcolo retributive. Si chiede che il pagamento di contributi
previdenziali sia proporzionato al reddito e alla capacità contributiva di
ciascuno, trovando la soluzione migliore che consenta di salvaguardare il
principio solidaristico e le sue applicazioni. Per questo chiediamo l'aumento
del contributo di solidarietà a carico degli avvocati portatori di redditi medioalti e chiediamo in generale un sistema previdenziale che sia attento alle
esigenze dei giovani avvocati e dei professionisti con redditi bassi e mediobassi. Per questi obiettivi continueremo a protestare portando in piazza i
sostenitori del dissenso». In uno scontro di classe oltre che generazionale.
Isidoro Trovato
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IL SOLE 24 ORE
La Cassa forense potenzia il welfare con 60 milioni
Sab. 10 - Via libera dal comitato dei delegati al nuovo regolamento per
l’assistenza della Cassa forense. La riforma, che dovrà essere approvata
dai ministeri vigilanti, prevede misure per gli avvocati in difficoltà economica,
per le famiglie e a sostegno della salute e della professione.
Una serie di misure per il welfare attivo che comportano uno potenziamento
delle risorse dedicate all’assistenza, che passano da 20 a 60 milioni all’anno.
«Con il nuovo regolamento - ha commentato il presidente Nunzio Luciano - la
Cassa forense si munisce di un importante strumento operativo per venire
incontro alle esigenze di tutti gli avvocati italiani in un momento di
particolare difficoltà economica e sociale.
Categorie particolarmente garantite dalle nuove norme sono le donne e i
giovani, soggetti certamente più deboli in questa fase storica di recessione che
non accenna a diminuire».
I giovani, per esempio, che vogliono avviare uno studio professionale o una
società tra professionisti potranno beneficiare di agevolazioni per l’accesso al
credito, nonchè di corsi di formazione e borse di studio per acquisire il titolo
di specialista, cassazionista o specifiche competenze.
Altre prestazioni, sempre a sostegno della professione, saranno invece
accessibili a tutti. Tra queste ci sono agevolazioni per la concessione di mutui,
contributi o convenzioni per la fruizione di asili nido e scuole materne e altre
iniziative utili a conciliare il lavoro con le esigenze della famiglia, ma anche
iniziative specifiche per gli avvocati iscritti alla Cassa e titolari di pensione di
invalidità al fine di ridurre le difficoltà connesse all’esercizio della
professione. Nell’ambito del sostegno alla famiglia, invece, ci saranno, tra
l’altro, erogazioni in caso di familiari non autosufficienti o portatori di
handicap, borse di studio per i figli degli avvocati, interventi a sostegno della
genitorialità. Non mancano prestazioni specifiche per far fronte a problemi di
salute, quali la copertura per gravi eventi di malattia o interventi chirurgici,
contributi per l’assistenza infermieristica a domicilio, polizze di assistenza per
lunga degenza, premorienza e infortuni.
Infine, tutti gli avvocati iscritti all’Albo, se si dovessero trovare in grave
difficoltà economica a causa di eventi straordinari involontari e non
prevedibili potranno beneficiare, per un massimo di due volte, di una somma
di denaro.
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ITALIA OGGI SETTE
La novità introdotta dal decreto 90/2014 al centro di un dibattito
interpretativo
Avvocati, autentica fai-da-te
Copie di atti ufficializzate direttamente dal legale
Lun. 12 - Autentica fai-da-te per gli avvocati. Le copie di atti possono essere
ufficializzate direttamente dal legale, senza passare in cancelleria. La novità,
introdotta dal decreto legge 90/2014 (articolo 52), è fonte di alcune incertezze
interpretative. Ma le disposizioni consentono un risparmio di tempo sia agli
uffici giudiziari sia agli avvocati e vanno sfruttate.
Vediamo alcune linee guida per i legali, con l'indicazione degli accorgimenti
pratici da osservare.
LA NORMA
La disposizione di riferimento prevede che le copie informatiche, anche per
immagine, di atti processuali di parte e degli ausiliari del giudice nonché dei
provvedimenti di quest'ultimo, presenti nei fascicoli informatici dei
procedimenti, equivalgono all'originale anche se prive della firma digitale del
cancelliere. Il difensore (ma anche il consulente tecnico, il professionista
delegato, il curatore e il commissario giudiziale) può estrarre, con modalità
telematiche duplicali, copie analogiche o informatiche degli atti e dei
provvedimenti e attestare la conformità delle copie estratte ai corrispondenti
atti contenuti nel fascicolo informatico. Le copie analogiche e informatiche,
anche per immagine, estratte dal fascicolo informatico e munite
dell'attestazione di conformità, equivalgono all'originale.
COPIE CARTACEE
Un problema è rappresentato dalle formule da usare per l'autentica delle
copie degli atti. In ogni caso la formula (vedasi per esempio il protocollo
congiunto del 15 dicembre 2014 del tribunale di Torino e del Consiglio
dell'ordine degli avvocati del capoluogo piemontese) deve contenere
l'attestazione della qualità di difensore, l'indicazione della parte, il richiamo
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della norma di riferimento (articolo 16-bis, comma 9-bis, decreto legge n.
179/12, come introdotto dall'art. 52 del decreto legge n. 90/14, convertito con
modifiche dalla legge n. 114/14), la dichiarazione che la copia cartacea è
conforme al corrispondente esemplare informatico nel fascicolo informatico,
l'indicazione del numero di ruolo generale del fascicolo, l'indicazione degli
estremi identificativi dell'atto, la precisazione che la copia è stata estratta
tramite consultazione remota dal fascicolo informatico. Se si procede
all'attestazione di conformità su copia analogica di atti di parte e
provvedimenti giudiziali destinati a notificazione unitaria (come il ricorso e il
successivo decreto ingiuntivo) la formula deve essere arricchita con
l'indicazione degli estremi identificativa di ciascun atto con la precisazione
della loro unione a formare un unico documento.
COPIE DIGITALI
L'attestazione di conformità potrà essere apposta non solo su copia cartacea,
ma anche su copia digitale. In tale caso i protocolli consigliano di
sovrascrivere il file estratto dal fascicolo informatico (utilizzando le funzioni
«pdf creator» o «salva come pdf)», così da creare su supporto di
memorizzazione una copia suscettibile di essere integrata da aggiunte di testo
e firme digitali. L'attestazione di conformità conterrà la dichiarazione che la
copia informatica dell'atto o del provvedimento giudiziale è stata estratta
tramite consultazione remota dal fascicolo informatico e che è conforme al
corrispondente esemplare contenuto nel fascicolo informatico stesso. Il
documento informatico così sottoscritto potrà essere notificato a mezzo Pec o
diversamente utilizzato. In questo caso i protocolli avvisano che se si formano
copie autentiche di atti di parte e di provvedimenti giudiziali destinati a
notificazione unitaria (come il ricorso e decreto ingiuntivo), il difensore dovrà
provvedere ad autenticazione separata dei singoli atti e provvedimenti.
Antonio Ciccia
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LA STAMPA
Il ministro Orlando: “Italia pronta per una super-procura
antiterrorismo”
"Spesso il carcere diventa un luogo di reclutamento e proselitismo
Bisogna armonizzare le legislazioni Ue per un`azione più efficace"
Lun. 12 – ROMA. Ministro Andrea Orlando, dopo fin troppi anni di
discussione, è arrivato il momento dí una superprocura
antiterrorismo? «E` vero, se ne parla da molto tempo. Ma ora un
coordinamento unico nazionale è divenuta un`esigenza riconosciuta da
tutti. Non è più questione di discutere del se, del quanto, del come. Il punto di
partenza
è un
ddl
presentato alla
Camera dall`onorevole
Stefano Dambruoso, che allarga alla procura nazionale antimafia le
competenze antiterrorismo. Procederemo, come annunciato da Angelino
Alfano, a un tavolo di confronto tra governo e le grandi procure italiane,
comunque è chiaro che occorre un salto di qualità, essendo il terrorismo
islamista un fenomeno sovranazionale e la dimensione locale delle singole
procure è sempre più in difficoltà».
Lei è più favorevole a raddoppiare le competenze dell`Antimafia
oppure a creare un`analoga struttura antiterrorismo? «Prima di
prendere decisioni, è necessario un confronto, quindi ci incontreremo con i
magistrati che si occupano di terrorismo per poi procedere in tempi rapidi».
Perché ha segnalato l`opportunità di coordinare tra i Paesi Ue le
norme di contrasto al terrorismo, in particolare contro i "foreign
fìghters". Ci sono problemi? «Abbiamo toccato con mano, nel corso del
Semestre a guida italiana, le resistenze ai processi di integrazione europea.
Siamo riusciti a portare il tema del terrorismo internazionale al tavolo dei
ministro della Giustizia, essendo stato finora un tema trattato esclusivamente
dai ministri dell`Interno nella consapevolezza che non può essere sufficiente
la dimensione di polizia, ma è necessario uniformare le legislazioni. E’
troppo pericoloso ricadere negli errori che si sono fatti in passato; a
lasciare discrasie tra le legislazioni europee, si rischia di creare delle maglie
nelle quali il terrorismo può agire. Queste organizzazioni sono fin troppo abili
ad inserirsi tra le pieghe. Abbiamo operato quindi per una parziale cessione di
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sovranità per investire del tema antiterrorismo le istituzioni comunitarie. Di
pari passo nel confronto è emersa anche la questione dell`esecuzione della
pena. Il carcere, come s`è visto, rischia di essere un veicolo di proselitismo,
motivo per il quale si è posto il problema di come una misura repressiva rischi
di trasformarsi in un aiuto per queste organizzazioni».
Risultato? «Diversi Stati europei sono gelosi dei propri ordinamenti,
temono fortemente ogni cessione anche minima di sovranità alle istituzioni
europee. Riconoscono che il problema di una risposta comune al terrorismo
internazionale esiste, ma diventano molto timidi, per non dire di più, quando
si tratta di accedere a una dimensione comunitaria. Al termine della
discussione, siamo giunti a un approdo realistico che costituirà il punto di
partenza per la nuova presidenza lettone: l`impegno a un confronto
costante tra
ministri
della
Giustizia
affinché ci
sia
una
progressiva armonizzazione dei singoli ordinamenti».
Torniamo all`Italia. Delle tante riforme annunciate sulla
giustizia, quali vedremo convertite in legge per prime? «A febbraio,
subito dopo l`elezione del nuovo Capo dello Stato, potrebbe diventare legge
la responsabilità civile dei magistrati. Poi verranno tante altre riforme.
Segnalo infine che è ripresa la discussione al Senato sui reati ambientali, che
prevede la riconfigurazione del disastro ambientale: approvarlo rapidamente
sarebbe la nostra migliore risposta alla vicenda dolorosa del processo
Eternit». Francesco Grignetti
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IL GIORNALE
Toghe e responsabilità civile, debutto in Aula vuota
Sab. 10 - Quella che approda nell'aula della Camera, dopo il sì del Senato, è
una responsabilità civile delle toghe «indiretta», che «amplia la responsabilità
dello Stato e circoscrive quella del magistrato ai soli casi di negligenza
inescusabile», precisa il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Le toghe che
sbagliano pagheranno, insomma, ma solo in seconda battuta e per errori
molto gravi.
La riforma è «storica», sottolinea il Guardasigilli, anche se parla in un'aula
«vuota». Sul problema ci sono state lotte furibonde tra partiti, governo e
Anm, ma adesso che si è vicini alla svolta spiccano le assenze nei banchi di
Montecitorio.
Il disegno di legge incardinato ieri, per il ministro, è un testo «meno chiaro
rispetto alla stesura originaria» per le modifiche subite, ma centra l'obiettivo,
che è quello di «allargare il sistema di tutele per i cittadini e salvaguardare
l'indipendenza della magistratura». Per il centrodestra e soprattutto per la
Lega, che spingevano per una responsabilità «diretta» e più ampia non è
proprio così, ma la tempistica è stata dettata dall'Europa.
La riforma corregge infatti la legge precedente, che ha provocato le ire della
Ue e la procedura di infrazione che l'Italia sta subendo. Ora la scadenza è
dietro l'angolo, ma il governo ha evitato il decreto legge e si dice pronto a
«verificare se alcuni passaggi possono essere migliorati». Orlando, però,
lancia un appello: «Al Senato abbiamo registrato un'ampia maggioranza, più
larga di quella di governo: mi auguro che questo atteggiamento si riproponga
alla Camera».
Una misura da leggere insieme a quelle su anticorruzione, autoriciclaggio,
falso in bilancio, confische, «con cui estendiamo il potere d'indagine dei
magistrati», dice Orlando. Che conclude: «È importante avere una
magistratura al di sopra di ogni sospetto. È nell'interesse di tutti».
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CRONACHE DEL GARANTISTA
Riforma della giustizia, stop ai ddl: Orlando gioca a “zona”
Sab. 10 - Il ministro Andrea Orlando si mette a giocare a zona. Addio
definitivo al percorso di guerra dei 12 punti: la riforma della giustizia non
assomiglierà più a un piano quinquennale. Molto più realisticamente il
Guardasigilli si acconcia a integrare con proposte governative i testi
parlamentari già avviati. Lo ha fatto giovedì al Senato con gli emendamenti al
ddl Grasso sul contrasto alla corruzione, lo farà a breve con delle variazioni da
proporre sulla prescrizione, in corso d`esame alla Camera. E` la stessa
strategia che non a caso ha consentito di mandare avanti la legge sulla
responsabilità civile dei magistrati. Proprio ieri nell`aula di Montecitorio
Orlando è intervenuto per presentare il testo, che sarà approvato
nei prossimi giorni: «Siamo aperti a verificare se alcuni passaggi possono
essere migliorati», dice il ministro, «ma questo è un passaggio storico, è lo
dico anche se l`aula è vuota». Certo, il testo del ddl originario «era più nitido
rispetto a quello uscito dal passaggio parlamentare». Ma la verità è che il
Guardasigilli non intende tornare indietro su due punti che non piacciono
per nulla all`Associazione magistrati. La prima è l`eliminazione del filtro di
ammissibilità, che poi è il punto più qualificante di tutto il provvedimento. Si
tratta della vera novità rispetto alla legge Vassalli dell`88, rimasta quasi del
tutto inapplicata in questi 25 anni. Nel suo intervento di ieri in Aula, infatti, il
ministro della Giustizia ricorda che la legge in procinto di essere licenziata
dalla Camera assicura la tutela dei cittadini danneggiati da errori giudiziari
attraverso «un rimedio funzionale accessibile». E quest`ultimo aggettivo si
riferisce proprio alla decisiva abolizione del filtro.
Il secondo punto riguarda la definizione di colpa grave. Orlando dice che
«abbiamo fatto una scelta di equilibrio che parte da un ulteriore scrupolo: la
responsabilità colpisce il magistrato solo quando ci si trova davanti a errore
per negligenza inescusabile».
Vuol dire per esempio che il giudice non potrà più giustificarsi con la
sottovalutazione di una precedente sentenza se quello stesso precedente
giurisprudenziale era stato segnalato dalla parte danneggiata. Anche
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qui l`Anm e il Csm se ne dorranno, ma il ministro fa capire chiaramente che i
cardini del provvedimento sono immodificabili.
Sul versante delle norme anticorruzione, viene dunque accantonata l`idea di
un ddl di riforma penale onnicomprensivo. Gli inasprimenti contro corrotti e
mafiosi entrano nel ddl Grasso. Compresa una concessione alla
commissione Gratteri, con l`estensione delle udienze in videoconferenza a
tutti i detenuti per reati gravi, mentre oggi la modalità è prevista solo per
quelli al 41 bis.
Un evidente limite al diritto di difesa e un lieve cedimento alle posizioni
ultragiustizialiste dell`organismo consultivo guidato dal pm di Reggio
Calabria.
Ma fa parte del gioco a zona adottato da Orlando: un po` di bastone alle toghe
con la responsabilità civile, un po` di carota sui processi ma soprattutto
niente più ddl monstre che condannano la riforma della giustizia al binario
morto dell`utopia. Errico Novi
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ITALIA OGGI
Responsabilità dei giudici
L'ok definitivo si avvicina
Sab. 10 - Vicine al varo definitivo le norme sulla responsabilità civile
(indiretta) dei magistrati, che riformeranno la legge Vassalli (117/1988) sul
risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie. «Un
passaggio storico», secondo il Guardasigilli Andrea Orlando, che partecipa
insieme alla presidente della II commissione Donatella Ferranti (Pd), alla
discussione generale, ieri mattina, del testo (C 2738 e abb.), pur
rammaricandosi di farlo in un'Aula di Montecitorio «così scarna di presenze»,
alla ripresa dei lavori dopo le feste. L'obiettivo da raggiungere, va avanti, è
«tutelare i cittadini, offrire un rimedio accessibile, senza mettere in
discussione l'indipendenza della magistratura», giacché sarà lo stato, non il
singolo cittadino, a rivalersi contro la toga, per «colpa grave, dolo, o
negligenza inescusabile», fattispecie comprendente tanto la violazione della
normativa europea, quanto il «travisamento della prova»; l'iniziativa,
puntualizza l'esponente governativo, avviene in «conseguenza della procedura
di infrazione che il nostro paese sta subendo in Europa per le violazioni sulla
cattiva applicazione dell'ordinamento giudiziario». Il provvedimento, giunto
alla quarta lettura e licenziato in commissione circa tre settimane fa senza
modifiche rispetto alla versione approvata dai senatori (si veda ItaliaOggi del
18/12/2014), secondo quanto riferiscono fonti parlamentari non sbarcherà in
Assemblea per la votazione prima del mese di febbraio. Simona D'Alessio
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Lo strumento. Nei prossimi giorni verranno ascoltati i vertici degli uffici
giudiziari
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Sab. 10 - Saranno i ministeri dell’Interno e della Giustizia, dopo una serie di
incontri con i vertici degli uffici giudiziari, a decidere le modalità per istituire
la Procura nazionale antiterrorismo. Le possibilità sul tappeto sono due:
creare una struttura autonoma oppure unificare in una stessa Direzione
antimafia e antiterrorismo, come vorrebbe tra l’altro il procuratore nazionale
antimafia Franco Roberti.
«Stiamo riflettendo sull’argomento», ha rivelato ieri il titolare del Viminale
Angelino Alfano, a margine dell’informativa alla Camera sui fatti di Parigi.
«Lo affronteremo con il ministro Orlando, anche attraverso una serie di
vertici con gli uffici giudiziari».
Il Guardasigilli Andrea Orlando ha confermato: «Nei prossimi giorni vedremo
i capi delle Procure per fare il punto della situazione e fare tutte le valutazioni
necessarie. Vogliamo sentire chi è in prima linea, per noi il loro parere è
fondamentale».
A premere per una direzione unica, come sottolineato ieri su queste pagine, è
anche la politica: il Ddl ad hoc presentato da Stefano Dambruoso (magistrato
eletto con Scelta Civica) è in dirittura d’arrivo a Montecitorio per poi passare
al vaglio del Senato. Oltre alla direzione unica, che avrebbe il coordinamento
di tutte le indagini penali (come avviene in Francia e in altri Paesi), prevede la
creazione di direzioni distrettuali antiterrorismo, sul modello di quelle
antimafia.
Roberti non ha dubbi: «Il Ddl Dambruoso, sul quale sono stato anche audito
dalla commissione Giustizia della Camera, deve andare avanti. Sarebbe
assurdo creare una struttura a parte, con duplicazione di costi perché la Dna è
una struttura già predisposta per far fronte alle esigenze del coordinamento e
della circolazione delle informazioni».
Ma è stato Orlando a parlare di «perplessità» su questa soluzione, che poi era
«l’orientamento di partenza». Per questo - ha sottolineato il ministro della
Giustizia - «riteniamo importante ascoltare quanto hanno da dire in merito i
capi delle principali procure italiane per definire la soluzione migliore, anche
alla luce degli ultimi eventi in Francia».
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ORGANISMO UNITARIO DELL’AVVOCATURA ITALIANA
QUOTIDIANO DI PUGLIA
Allarme Giudici di pace, a rischio 3 sedi su 7: vicini alla chiusura
gli uffici di Casarano, Nardò e Gallipoli
Dom. 11 - È una bomba a orologeria pronta ad esplodere, quella che riguarda
gli uffici del Giudice di Pace che sono rimasti attivi in sette paesi della
provincia di Lecce. Dopo le battaglie per mantenere in vita le sedi, si assiste
adesso a un progressivo impoverimento - dal punto di vista del personale - di
quelle stesse sedi, che a questo punto sono a rischio chiusura. Per tre di loro il
destino sarebbe già segnato: Casarano e Nardò, la cui permanenza è messa in
dubbio dallo stesso coordinatore degli uffici; e Gallipoli, oggetto di un decreto
del presidente della Corte d’Appello di Lecce.
Il problema alla base del caos scoppiato tra la fine del 2014 e l’inizio del nuovo
anno è uno solo, ed è legato al personale. Personale che manca, in alcuni casi,
e personale che non è formato, in altri. Con la conseguenza che gli uffici sono
nell’impossibilità materiale di portare avanti la propria attività. E l’unica
strada percorribile, dunque, è la chiusura. Peccato che questo vorrebbe dire
andare incontro a quel caos paventato oltre due anni fa, quando le intenzioni
del Governo erano proprio queste.
Inizialmente, infatti, la riforma della giustizia prevedeva un riordino delle sedi
piuttosto drastico: per quanto riguarda i Giudici di Pace, sarebbero rimasti
operativi solo quegli uffici che si trovavano nelle città sedi di Tribunale. In
seguito, il ministero ha apportato un correttivo, prendendo atto della volontà
dei Comuni di mantenere a proprie spese le sedi. E così, con il decreto del
ministero della Giustizia del 7 marzo dello scorso anno, si è stabilito che nella
provincia di Lecce, ad esempio, dovessero rimanere attivi gli uffici di
Alessano, Casarano, Gallipoli, Maglie, Nardò, Tricase e Ugento. La notizia,
com’è ovvio, fu salutata con soddisfazione da parte nei territori interessati. Ed
era in effetti un’ottimo traguardo. I Comuni, però, hanno dovuto far fronte a
una situazione che, evidentemente, nemmeno si aspettavano: assegnazione e
formazione del personale, innanzi tutto. Perché a fine anno, i dipendenti
ministeriali sono passati ad altre funzioni presso il Tribunale di Lecce. E
molte sedi si sono ritrovate “scoperte”.
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La situazione era ben nota, sia a livello locale che a livello nazionale, già alla
fine del 2014. Con una circolare inviata ai presidenti delle Corti d’Appello, il
ministero della Giustizia cercava di correre ai ripari, «con particolare
riferimento alle ipotesi di totale mancanza o inadeguata consistenza numerica
(almeno due unità di cui uno abilitato a svolgere le funzioni di cancelliere) del
personale degli enti locali. È quindi necessario - si legge ancora nella circolare
- ai fini della verifica della sussistenza delle condizioni che hanno consentito
la positiva valutazione dell’istanza, che il personale degli enti locali, fermo
restando il possesso dei requisiti morali di cui al punto precedente, risulti
effettivamente presente e potenzialmente operativo presso l’ufficio mantenuto
in numero tale da porter assicurare in assoluta autonomia la funzionalità
dell’ufficio».
Evidentemente la sollecitazione non è servita a molto. Qualche giorno dopo,
proprio nell’ultimo giorno dell’anno, il presidente dell’Ordine degli avvocati
Raffaele Fatano scrive una lettera aperta al presidente della Corte d’Appello di
Lecce e al procuratore generale presso la Corte d’Appello. E tra i vari problemi
che affliggono la giustizia salentina, cita anche quello dei Giudici di Pace. «Il
mancato funzionamento dell’ufficio di Casarano e il grido d’allarme
proveniente dagli altri uffici e, in particolare, da Gallipoli, rappresentano la
più evidente conferma di tutte le preoccupazioni che l’avvocatura salentina, in
questi mesi e in più sedi, ha manifestato e continua a manifestare. Gli uffici
del Giudice di Pace, che non potevano e non possono considerarsi “giustizia
minore” - prosegue Fatano nella missiva - rappresentano un presidio di
legalità per territori che, in questi ultimi anni, sono stati ampiamente
penalizzati, così come lo sono stati i colleghi che operano prevalentemente in
quegli uffici. Non possiamo permettere che tali uffici giudiziari vengano
smantellati». Alessandro Cellini
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L’ECO DI BERGAMO
Giudici di pace: sono 6 su 27 previsti
Ma il lavoro cresce ed è più difficile
Calano le opposizioni alle multe, ma crescono le cause ordinarie civili e
penali. Per i giudici di pace il lavoro aumenta e si fa più difficile
Lun. 12 - I quali, dopo l’accorpamento delle sedi staccate (fatta eccezione per
Treviglio e Grumello del Monte), sono meno di un quarto di quanto
previsto: 6 contro i 27 previsti, chiamati a far fronte a tutte le esigenze
della provincia di Bergamo.
Sono i giudici di pace: 6 magistrati a Bergamo. In tutto il 2014 le cause
civili sono state 2.237 (qualcosa come oltre 370 fascicoli in media
per ogni giudice), di cui oltre mille (1.016) relativi alla contestazione di
sanzioni amministrative; i decreti ingiuntivi (quelli fino a 5.000 euro sono di
competenza dei giudici di pace, ndr) sono stati 3.722, e i procedimenti penali
1.301.
Tradotto in altri termini nel penale aumenta il carico di lavoro e nel
civile, se pure i numeri restano gli stessi, aumenta la complessità e
quindi il tempo necessario per chiudere un fascicolo.
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IL MESSAGGERO VENETO – Pordenone
I giudici di pace alzano bandiera bianca
Ancora senza sede e con pochi effettivi, annunciano rinvii delle cause e
slittamento dei processi
Lun. 12 - PORDENONE. Una circolare per avvisare che la limitazione di
personale giudicante comporterà rinvii e slittamenti di lunga data.
Il giudice di pace coordinatore, Raffaella Garofalo, si è vista costretta in
queste ore a scrivere una lettera al presidente degli avvocati, Giancarlo
Zannier.
Quest’ultimo l’ha poi smistata ai vari iscritti, annunciando un rallentamento
nelle attività della sede cittadina del giudice di pace. Dallo scorso 31 dicembre
è infatti andato in pensione uno dei quattro magistrati ancora attivi,
Francesco Iervolino.
I suoi fascicoli penali e civili non ancora conclusi saranno smistati tra i tre
colleghi rimasti, cioè la Garofalo, la Flora Bianchi e Alessio D’Andrea.
Ma i tempi di discussione delle udienze potrebbero allungarsi notevolmente,
ha fatto presente la coordinatrice dei magistrati locali. D’Andrea è infatti
competente su tutti i casi provenienti dalle ex giurisdizioni di Maniago e
Spilimbergo e attivo anche nel Portogruarese.
I problemi iniziano quindi a farsi sentire, se si pensa che sino ad un anno e
mezzo fa Pordenone contava su 7 giudici per una giurisdizione ben più ridotta
(da settembre 2013 si estende fino al litorale veneto e Portogruaro).
Tanto che nei giorni scorsi il Comune di Pordenone e l’Ordine degli avvocati
hanno persino lanciato una colletta per trovare i fondi necessari alla
ristrutturazione dell’ex biblioteca del capoluogo. Mancano infatti 500 mila
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euro per adeguare l’edificio e trasferire lì le attività dei giudici di pace. Peccato
che nessuno parli più della raccolta fondi né si registrino iniziative concrete
per il suo decollo.
Intanto continuano i guai legati alla vecchia sede. Trattandosi di un’ex scuola,
il sito non è adatto ad ospitare cancellerie e aule di udienze. L’accorpamento
degli sportelli di Maniago, Spilimbergo e San Vito al Tagliamento è avvenuto
ad aprile in modo repentino e ancor oggi ci sono disagi nella gestione dei
fascicoli.
Da quando Pordenone e Portogruaro sono state unificate dal Ministero, il
giudice civile pordenonese Enrico Manzon si reca nelle abitazioni, case di
riposo e strutture di ricovero del Veneto orientale per eseguire le visite a chi
ha fatto domanda di un amministratore di sostegno e per le tutele.
Il giudice di pace Alessio D’Andrea scende invece nella Bassa due volte al
mese per occuparsi delle udienze penali. Da Portogruaro dipende anche parte
del litorale veneziano di Caorle e Bibione dove d’estate si consumano decine
di reati medio – piccoli. Insomma, una marea di nuovi casi da trattare e da
inoltrare alla Procura.
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LA STAMPA
L`AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA: MA L`ESPERIENZA POTREBBE
CONTINUARE
Mense gestite dai detenuti
Niente proroga alle cooperative
dom. 11 - MILANO. Niente da fare: la proroga di altri quindici giorni alle
cooperative di detenuti che gestiscono le mense in dieci carceri italiane, non è
stata concessa. Fine dell`esperimento? «Non proprio. Entro la fine del mese
comincerò ad incontrare singolarmente i responsabili delle cooperative
e vedremo come continuare», risponde Santi Consolo, magistrato, nuovo
capo del Dap, il dipartimento dell`amministrazione penitenziaria del
ministero dì Giustizia da cui dipendono tutti gli istituti di pena italiani.
Possibile che non vi fosse un`altra via d`uscita per impedire che
un`esperienza del genere terminasse così bruscamente? «E` una questione
di legge e regolamento.
L`iniziativa era nata nel 2003 con l`obiettivo di crescere e camminare con le
proprie gambe, ma così non è stato.
Dal 2009 era finanziata dalla Cassa delle Ammende che però per legge può
finanziare solo delle start up e non in maniera permanente delle iniziative
imprenditoriali. Ci sono state diverse proroghe ma ormai non era più
possibile continuare. L`attività delle cooperative non era più in linea con la
finalità delle Cassa, la cui attività è ora monitorata dal Ministero delle
Finanze».
La Corte dei Conti
Inoltre, risponde anche alla Corte dei Conti e da qui nasce la maggiore
prudenza nei finanziamenti. «L`esperimento è ottimo intendiamoci,e auspico
che con i responsabili di queste coop si trovino progetti in grado di
sostenersi da soli. L`impegno originario era di ridurre il gettone giornaliero
per il confezionamento dei pasti nelle carceri incentivando attività collaterali
e aumentando le assunzioni dei detenuti. Purtroppo, colpa della crisi e di
varie difficoltà, così non è stato tranne forse per il solo carcere di Bollate. Non
ci sono altri fondi, questa è l`amara verità.
D`altronde non si può sperare in un finanziamento permanente da parte di
un dipartimento che ha già scarse risorse e solo in 10 realtà rispetto alle oltre
200 carceri in Italia con una popolazione di 54 mila detenuti.
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Avremmo creato delle evidenti disparità. Se poi ci saranno progetti
di fattibilità, ben vengano».
Costi e risparmi
I responsabili delle coop (che non sono detenuti, ma imprenditori
civili) riuniti nel Gruppo Emergenza Carceri, non sembrano essere dello
stesso avviso: «Dal punto di vista economico = spiegano - così facendo
l`amministrazione non realizzerà alcun risparmio.
Anzi il rischio è quello di maggiori costi sul lungo periodo. Dal punto di vista
della legalità c`è un incremento dei rischi e dal punto di vista del trattamento
rieducativo si tratta di un enorme passo indietro». «Sono dispiaciuto e
amareggiato - rimarca il garante dei detenuti della Regione Piemonte, Bruno
Mellano
Il 30 dicembre il ministro orlando e il capo del Dap avevano preso impegni e
dato rassicurazioni. Ora invece si disperde una preziosa esperienza.
Una brutta pagina, fra le tante, dell`amministrazione penitenziaria». Paolo
Colonnello
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ITALIA OGGI SETTE
Le conclusioni di due studi della Cna sul regime forfettario previsto dalla
legge di Stabilità
Nuovi minimi, ci perdono tutti
Professionisti penalizzati, ma lo stato non incassa di più
Lun. 12 - Fisco punitivo per i giovani professionisti. Il nuovo regime
forfettario previsto dalla legge di Stabilità 2015 non solo costa di più dei
vecchi minimi, ma anche della tassazione ordinaria. Ma tra le partite Iva, le
libere professioni e i freelance risultano discriminati anche rispetto ad altre
categorie (come per esempio artigiani e commercianti), che potranno
quantomeno neutralizzare il maggior carico fiscale con sgravi contributivi,
pur sacrificando la futura pensione. In tutto ciò, lo stato non incamera
neanche un maggiore gettito, ma anzi le casse pubbliche saranno incise
negativamente per quasi 5 miliardi di euro in sei anni. Per tutti questi motivi
il regime forfettario previsto dalla legge n. 190/2014 deve essere ripensato. È
quanto ha affermato nei giorni scorsi la Cna, che ha realizzato due studi
intitolati «Il fisco non è uguale per tutti» e «Nuovi forfettari alla ricerca delle
opportunità perdute».
Le differenze tra forfetari e ordinari. L'applicazione dell'imposta sostitutiva
del 15% sul reddito determinato con metodi forfetari potrebbe apparire, a
prima vista, una forma di riduzione della pressione fiscale. In realtà ciò si
verifica solo al di sopra dei 35 mila euro di ricavi. Tetto però al quale solo
poche categorie possono arrivare (commercianti, albergatori, ristoratori). Per
i professionisti il limite di fatturato per poter restare nel regime a forfait è
fissato a 15 mila euro annui, con un coefficiente di redditività del 78% per
determinare l'imponibile. Pertanto, osserva la Cna, sebbene l'aliquota Irpef
del primo scaglione sia pari al 23%, a cui devono aggiungersi le addizionali
regionali e comunali (in media il 2,06%), per livelli bassi di reddito l'imposta
dovuta nel regime ordinario risulta comunque più bassa. A ridurre il prelievo
ordinario giocano un ruolo fondamentale sia la detrazione Irpef prevista
dall'articolo 13 del Tuir per i lavoratori autonomi, pari a 1.104 euro, sia la
franchigia Irap di 10.500 euro (laddove l'imposta regionale risultasse
applicabile).
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Le differenze tra autonomi e dipendenti. Ma dai calcoli della Cna emerge una
ulteriore sperequazione anche nel trattamento fiscale di partite Iva e
lavoratori dipendenti, a parità di reddito. Come evidenziato nel grafico in
pagina, in corrispondenza di un reddito di 10 mila euro gli imprenditori in
contabilità semplificata e i professionisti subiscono una tassazione effettiva
che supera di poco il 15%. Nella stessa fascia di reddito, i dipendenti scontano
un'imposizione effettiva pari a zero, a seguito dell'applicazione delle
detrazioni da lavoro dipendente (circa 1.700 euro) e del bonus degli 80 euro
mensili introdotto dal dl n. 66/2014.
Gli effetti sul gettito. Il giro di vite sulle piccole partite Iva non consentirà
comunque all'erario di incassare di più. Anzi, le conseguenze finanziarie sul
bilancio dello stato saranno negative per una cifra variabile tra gli 800 e i 900
milioni di euro all'anno (si veda altra tabella in pagina). A generare l'onere è
prevalentemente la norma che permette ad artigiani e commercianti aderenti
al regime forfettario di usufruire di un sistema di favore nel calcolo dei
contributi previdenziali: invece di determinarli su un reddito figurativo detto
«minimale» (che prescinde da quello effettivamente realizzato), potranno
quantificarli «a percentuale». Si ricorda che tra il 2012 e il 2014 il minimale è
stato pari rispettivamente a 14.930, 15.357 e 15.516 euro. Ciò che i
contribuenti risparmieranno nell'immediato si rifletterà però inevitabilmente
sulle aspettative della futura pensione. La possibilità di scegliere sarà tuttavia
limitata solamente ai soggetti iscritti alle predette gestioni speciali. I
professionisti che si trovano in una delle casse previdenziali di categoria, così
come gli autonomi senza cassa iscritti alla gestione separata Inps non avranno
alcun beneficio.
Le differenze tra vecchi e nuovi minimi. La disparità di trattamento maggiore
rimane quella tra chi applicava i vecchi regimi agevolati alla data del 31
dicembre 2014 e chi ha avviato la propria attività dal 1° gennaio 2015 in poi.
Con l'inizio del nuovo anno, infatti, la legge di stabilità ha mandato in soffitta
sia il regime dei minimi previsto dal dl n. 98/2011 (con tetto di ricavi a 30
mila euro e aliquota al 5% per tutti), sia il regime delle nuove iniziative
produttive (fatturato ammesso di 30.987 euro e imposta sostitutiva al 10%).
In via transitoria, tuttavia, la legge n. 190/2014 ha previsto che chi al 31
dicembre già applicava tali meccanismi agevolati avrebbe potuto continuare a
utilizzarli fino a naturale scadenza. Disposizione, questa, che ha innescato una
vera e propria corsa ad aprire la partita Iva entro la fine del 2014 (si veda
ItaliaOggi dell'11 dicembre 2014). Soprattutto da parte dei soggetti under-35,
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che avrebbero potuto continuare ad avvalersi della tassazione agevolata fino
al compimento di tale età. Un giovane professionista che avvia la sua attività
nel 2015, quindi, a parità di reddito si troverà a pagare in media più del
doppio delle tasse del coetaneo che ha iniziato prima del 31 dicembre 2014.
Le prospettive di modifica. La riforma dei minimi prevista dalla legge di
Stabilità ha subito innescato un focolaio di polemiche. Tutti gli ordini
professionali si sono schierati compatti per chiedere al governo di rivedere le
misure, innalzando le soglie dei ricavi ammessi e/o riducendo l'imposta
sostitutiva (si veda ItaliaOggi dell'8 dicembre 2014). Anche dal mondo
dell'artigianato e delle piccole imprese, che pure sono i soggetti per i quali il
sistema forfettario può risultare più conveniente, non mancano le richieste di
intervento. «Dalle analisi effettuate emerge con chiarezza che il nuovo regime
forfettario prevede delle concrete semplificazioni fiscali, eliminando qualsiasi
onere contabile e di comunicazione di dati all'Agenzia delle entrate», osserva
la Cna, «i vantaggi economici derivanti dai risparmi di oneri amministrativi
sono però completamente mangiati dai maggiori tributi dovuti». Anche per le
piccole partite Iva che riterranno più conveniente optare per il regime
ordinario, comunque, i benefici fiscali sono inferiori rispetto ai vantaggi
riservati ai dipendenti (su tutti il bonus 80 euro). «È vero che per le imprese
individuali in contabilità semplificata e per i professionisti le riduzioni delle
imposte e le eccezioni previste nella tassazione ordinaria riducono l'aliquota
effettiva di imposizione al di sotto del 15%», prosegue la Cna, «è importante
sottolineare, tuttavia, che si tratta di riduzioni non parificabili a quelle
previste per gli altri redditi da lavoro». Al punto che anche il presidente del
consiglio, Matteo Renzi, in un'intervista del 23 dicembre ha riconosciuto che
«le giovani partite Iva hanno avuto meno vantaggi di tutti» e si è assunto «la
responsabilità di fare un provvedimento ad hoc nei prossimi mesi». Valerio
Stroppa
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LA REPUBBLICA – Affari e Finanza
Voluntary disclosure, pioggia di milioni sugli studi legali e
tributari
LO SCAMBIO DI INFORMAZIONI TRA AMMINISTRAZIONI FISCALI DIVENTERÀ
PRESTO AUTOMATICO E RICHIEDE AL CONTRIBUENTE CHE ABBIA INVESTIMENTI
ALL’ESTERO NON DICHIARATI DI REGOLARIZZARLI. I RISVOLTI ECONOMICI E
GIURIDICI
Lun. 12 - Un'opportunità vantaggiosa sotto il profilo della depenalizzazione,
ma anche una procedura che presenta diverse criticità, la cui convenienza dal punto di vista economico dev’essere valutata caso per caso. Questa
l'opinione condivisa dai professionisti dei principali studi legali e tributari in
merito alla voluntary disclosure, la nuova procedura di collaborazione
volontaria che ha per oggetto l'emersione e il rientro di capitali detenuti
all’estero in violazione della normativa sul monitoraggio fiscale. Quelle
relative alla voluntary disclosure sono pratiche articolate, che richiedono una
pluralità di competenze specifiche. Per supportare i propri clienti, i principali
studi legali e tributari hanno quindi costituito appositi gruppi di lavoro. Tra i
pionieri c'è Bonelli Erede Pappalardo. “Lo studio è stato il primo in Italia”,
spiega il managing partner Stefano Simontacchi, che aggiunge che “già dal
2010 è stato creato un focus team dedicato ai cosiddetti private client” che
comprende professionisti con tutte le specializzazioni interessate (tributario,
privato, giudiziale, internazionale, opere d'arte e penale). Secondo
Simontacchi, la voluntary disclosure rappresenta “un'opportunità obbligata”
per il contribuente. “Il contesto internazionale in cui lo scambio di
informazioni tra Amministrazioni fiscali diventerà automatico richiede al
contribuente che abbia investimenti all’estero non dichiarati di procedere con
la loro regolarizzazione, pena sanzioni molto rilevanti in caso di
accertamento”, spiega il socio di Bep, che stima che ci sarà un buon flusso di
lavoro. Dello stesso avviso anche Raul-Angelo Papotti, avvocato e dottore
commercialista, socio dello studio legale Chiomenti. “Prevedo un flusso di
lavoro consistente, anche sulla base del flusso che ci ha tenuto estremamente
impegnati negli anni precedenti”, commenta Papotti, che poi aggiunge che
anche lo studio Chiomenti, da anni, ha un team di professionisti che si occupa
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di queste tematiche che richiedono una pluralità di competenze specifiche.
“Diversamente da altri Paesi, la procedura adottata in Italia è estremamente
complessa dal punto di vista burocratico”, dichiara Cesare Vento, partner di
Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners, che poi spiega che lo studio ha
dato vita a una task force di una dozzina di avvocati e commercialisti in 5 sedi,
coordinata da tre partner, tra cui lui. “Per il momento vi è un grande
fermento, diversi italiani stanno facendo visite agli uffici delle banche estere e
successivamente prendono contatto con noi”, prosegue Vento. “È una
procedura vantaggiosa sotto il profilo della depenalizzazione, che presenta
però talune criticità, come l'eccessivo costo, che può variare dal 4 al 90%, a
seconda dello stato di provenienza e dell’anzianità delle somme detenute
illecitamente fuori dall'Italia, oppure il mancato anonimato nella fase di
contraddittorio preventivo con l’Amministrazione finanziaria, che non
consente al contribuente di valutare a conti fatti la convenienza della
procedura”, commenta Francesco Giuliani, partner del dipartimento
Litigation dello studio Fantozzi Associati, nel cui interno è stato creato un
dipartimento ad hoc composto da 6 professionisti di diversa seniority
coordinato da due soci a Roma e uno a Milano. “Le fee sono proporzionali alle
somme oggetto della procedura, in caso di importi superiori ai 2 milioni; per
le somme inferiori, in caso di calcolo della redditività e della tassazione con il
metodo forfetario, abbiamo una tariffa fissa”, spiega Giuliani. “Applichiamo
un compenso fisso e uno variabile in funzione della dimensione
dell’operazione”, dichiara anche Tommaso Di Tanno, fondatore dello studio
legale tributario Di Tanno e Associati, che al pari degli altri studi ha costituito
un apposito team a Roma e a Milano. Quanto al successo di questa proceduta,
è difficile avanzare delle stime. La ricchezza detenuta all'estero è prevista in
200 miliardi, quindi il gettito per l'erario dai rimpatri potrebbe aggirarsi dai
3-5 miliardi, fino ai 10. Solo per avere un'idea, l'ultimo scudo fiscale del 20092010 aveva fatto emergere circa 104 miliardi. “Le aspettative di lavoro sono
elevate anche se credo gli importi delle singole operazioni non saranno così
consistenti come ai tempi dello scudo, che rappresentò negli anni coinvolti un
20% del fatturato dello studio”, commenta Di Tanno. Secondo Giuliani,
invece, “sarebbe un errore confrontare la voluntary con gli scudi, dato che in
quei casi i calcoli erano forfetari e la convenienza era più evidente”. In
generale, “occorre capire se le ricchezze nascoste sono statiche, cioè
riconducibili a operazioni condotte in passato e ormai esaurite, o a operazioni
tuttora in corso e fatte per distrarre utili da società italiane in piena attività. I
fatti vanno, poi, collocati in epoche storiche e nel Paese dove le ricchezze sono
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detenute, considerato che questo incide sul numero di anni da sanare”, spiega
Di Tanno. Simontacchi ricorda poi che il panorama di clienti-contribuenti è
alquanto variegato. “Principalmente si tratta di disponibilità mantenute da
diversi anni nei consueti cosiddetti paradisi fiscali, con prevalenza della
Svizzera”, commenta Vento, mentre Papotti aggiunge che “la tipologia più
ricorrente potrebbe essere rappresentata da chi ha ereditato o accumulato
patrimoni esteri costituiti in periodi di imposta non più accertabili”. Giuliani
distingue infine tra i clienti che hanno il “salvadanaio” all’estero, frutto di
eredità o risparmi riconducibili a oltre 10 anni, “per i quali la voluntary
disclosure è più attraente”, e chi ha un patrimonio formato da redditi sottratti
a tassazione in epoche più recenti, per i quali “l’operazione è più onerosa”.
Stefania Pescarmona
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IL SOLE 24 ORE
Strumenti deflattivi. Si diffonde il tentativo di accordo affidato al consulente
tecnico d’ufficio come alternativa per comporre le liti tra le parti
La conciliazione fa tappa davanti al Ctu
I giudici inseriscono nel quesito il compito di cercare un’intesa, anche
superando i limiti di legge
Lun. 12 – Il consulente tecnico è sempre più conciliatore. Si tratta di un ruolo
che si è affermato nel tempo, superando in alcuni ambiti le limitazioni
normative. E questo prima che nel nostro ordinamento, in un processo di
degiurisdizionalizzazione dei sistemi di regolamentazione delle liti, trovassero
spazio strumenti alternativi per risolvere le controversie: dall’arbitrato alla
mediazione alla negoziazione assistita.
A differenza di altri strumenti, la conciliazione affidata ai Ctu si svolge sempre
a processo già iniziato o a seguito di un ricorso. E ad affidare ai consulenti
l’incarico di tentare di comporre i conflitti sono i giudici: in alcuni casi
applicando le disposizioni, in altri, non regolati dalla legge, indicando la
conciliazione nel quesito.
Il riconoscimento di legge
Le norme hanno riconosciuto il potere conciliativo del Ctu piuttosto
tardivamente e in ambito limitato. In particolare, l’articolo 696-bis del Codice
di procedura civile (in vigore dal 1° marzo 2006), intitolato «Consulenza
tecnica preventiva ai fini della composizione della lite», ha attribuito al Ctu,
per la prima volta in modo così definito, il ruolo di conciliatore: una funzione
che fino ad allora i consulenti svolgevano solo di fatto. La norma, introdotta
con l’obiettivo di deflazionare il contenzioso, prevede che «il consulente,
prima di provvedere al deposito della relazione, tenta, ove possibile, la
conciliazione delle parti». Si tratta di una conciliazione di natura più
aggiudicativa che facilitativa, che pare cioè attribuire al consulente un ruolo
dirimente nella ricerca dell’intesa. L’intervento del Ctu è richiesto per
accertare e determinare i crediti «derivanti dalla mancata o inesatta
esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito». Lo strumento ha
quindi un ampio spettro applicativo, che va, ad esempio, dai contratti di
natura immobiliare al risarcimento del danno in materia di responsabilità
professionale.
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All’interno del processo di cognizione, invece, il ruolo di conciliatore del Ctu è
previsto solo limitatamente agli incarichi in materia di esame di documenti
contabili e registri. A disciplinare questa funzione è l’articolo 198 del Codice
di procedura civile, che dispone che «quando è necessario esaminare
documenti contabili e registri, il giudice istruttore può darne incarico a un
consulente tecnico, affidandogli il compito di tentare la conciliazione delle
parti».
Ma i magistrati, essenzialmente per ragioni funzionali, affidano ormai
regolarmente al consulente il compito di tentare di conciliare la lite, inserendo
la richiesta nel quesito tecnico e dunque, in un certo senso, “ritualizzando” la
funzione. Viene così sollecitato l’esperimento del tentativo di conciliazione,
affinché le parti in giudizio possano considerare una strada diversa per
arrivare a un’intesa e, quindi, chiudere la lite. In questa ipotesi non si possono
comunque superare le limitazioni fissate dalle norme: l’eventuale intesa ha
solo valore di contratto negoziato tra le parti. Invece, nei casi disciplinati dagli
articoli 696-bis e 198 del Codice di procedura civile, l’accordo deve essere
verbalizzato e sottoscritto dal Ctu e il giudice gli attribuisce con decreto
efficacia di titolo esecutivo.
I compiti del consulente
Il Ctu deve considerare la funzione conciliativa come parte sostanziale del
proprio incarico dedicandovi tempo e attenzioni, in considerazione della
complessità della funzione. Infatti, tentare la conciliazione tra le parti già
impegnate in una causa è diverso dal farlo tra coloro che sono ancora liberi da
questo vincolo.
Particolarmente impegnativa è la fase della comunicazione, che risente
fortemente delle dinamiche conflittuali tipiche delle procedure giudiziarie. Il
Ctu deve tenere presente che questa fase ha come obiettivo primario
(tutt’altro che scontato) quello di far passare le parti dall’“ordine imposto” a
quello “negoziato”. Infatti, nei sistemi di ordine imposto, le parti si
confrontano con atteggiamento competitivo e affidano la decisione a un terzo,
che sostituisce la volontà delle parti e che basa le sue scelte sulle norme. Nei
sistemi di ordine negoziato, invece, le parti lavorano insieme con
atteggiamento cooperativo, cercando in piena autonomia, grazie al potere
dispositivo che conservano, una soluzione basata sugli interessi reciproci
piuttosto che sui diritti. Gli approcci sono totalmente diversi: si tratta di
delineare per le parti regole comportamentali per il futuro, piuttosto che
stabilire e decidere su condotte del passato. Paolo Frediani
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Lo svolgimento. Dall’incontro preparatorio alle sessioni congiunte
Una procedura «flessibile» per risolvere il conflitto
Lun. 12 - L’esperimento del tentativo di conciliazione del consulente tecnico
non ha una struttura rigida e rituale ma deve rispondere essenzialmente a
requisiti di funzionalità ed efficacia.
Le fasi dell’iter
Proprio per il particolare livello di conflittualità che caratterizza le liti
giudiziarie, il consulente deve attuare le fasi in modo graduale. Infatti le parti
spesso non vedono il Ctu come conciliatore ma solo come esperto del giudice
dal quale si aspettano una determinazione a loro favorevole. Non è quindi
consigliabile tentare la conciliazione nelle prime fasi dell’incarico, perché tutti
i soggetti coinvolti sarebbero colti impreparati.
Per questo, dopo le operazioni di consulenza e dopo avere raggiunto la base di
condivisione indispensabile con i difensori e i consulenti di parte, il Ctu
dovrebbe organizzare un incontro preparatorio per comunicare le attività, le
caratteristiche e le finalità della procedura ma anche per consentire una
modulazione del dialogo. Inoltre, il Ctu dovrebbe cercare di fare emergere il
potere dispositivo delle parti, per consentire loro di confrontarsi anche al di là
dei temi oggetto del giudizio.
Ottenuto il consenso alle successive attività, compreso quello per le eventuali
sessioni individuali, potranno iniziare gli incontri conciliativi, sempre alla
presenza di tutti i protagonisti. Il Ctu aprirà la “sessione congiunta iniziale”
con il discorso introduttivo e poi le parti - stimolate, se occorre, dal
consulente - prenderanno la parola, esponendo i loro pensieri, poi sintetizzati
in chiusura dal Ctu.
A questo punto potranno avere luogo le sessioni separate del consulente
tecnico con ciascuna parte, assistita dai rispettivi professionisti. Queste
sessioni, fondamentali in ogni attività conciliativa, consentiranno ai
protagonisti un dialogo più libero e permetteranno al Ctu di indagare gli
interessi in conflitto, le necessità che vincolano le scelte, le possibili soluzioni,
facendo emergere le alternative possibili.
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Al termine di queste fasi, il Ctu disporrà di un quadro chiaro in termini di
interessi, necessità, alternative e potrà procedere alla “sessione congiunta
finale”, riformulando il conflitto e, mediante l’applicazione di criteri obiettivi,
potrà offrire alle parti la scelta del miglior accordo possibile in base ai loro
veri interessi.
L’approccio
Per un tentativo di conciliazione corretto ed efficace è essenziale l’approccio
metodologico del consulente, sotto il profilo sia comunicativo che di gestione
della procedura e del conflitto. L’esperimento conciliativo, infatti, non può
essere improvvisato; anzi, richiede una preparazione specifica da parte del
consulente.
Occorre ricordare, in primo luogo, che l’obiettivo non è arrivare a una
transazione qualsiasi ma raggiungere un vero accordo conciliativo: la prima
risolve la lite, mentre il secondo estingue il conflitto. Il Ctu non deve però
cadere nella tentazione di sollecitare soluzioni di accordo o di esercitare
pressioni sulle parti. Infatti, l’accordo sarà tanto più forte quanto le parti
saranno realmente convinte della sua convenienza e utilità.
Il Ctu dovrà inoltre guidare le parti da un sistema di ordine imposto a uno di
ordine negoziato; le parti devono infatti comprendere che, durante il tentativo
di conciliazione del Ctu, non hanno di fronte un giudice da convincere.
Piuttosto, sono gli stessi contendenti a decidere in ragione dei reciproci
interessi.
Il principale compito del conciliatore è quindi quello di individuare non una
soluzione “giusta” – come sarebbe compito del giudice o dell’arbitro – quanto
una soluzione “conveniente” per le parti. E per far ciò è necessario passare dal
piano dei diritti al piano degli interessi a questi sottostanti. P.Fr.
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LA STAMPA
Alle Camere tutele crescenti e assegni di disoccupazione
Il governo accelera sul Jobs Act "I nuovi contratti a metà febbraio"
Gennaio è un mese fondamentale. Abbiamo l'occasione di dimostrare di
essere capaci di dare risposte
dom. 11 - TORINO «Gennaio è un mese fondamentale. Alla fine del percorso
gli italiani sapranno se avevamo ragione o no», n ministro del Lavoro
Giuliano Poletti è convinto che la scommessa si possa vincere, ma tocca
muoversi in fretta: se i dati sulla disoccupazione continuano a volare, infatti,
la colpa è anche dell'incertezza sul Jobs Act. n balletto sulle date ha congelato
i nuovi contratti: chi assumerebbe, infatti, sapendo che più avanti le
condizioni saranno migliori
La stretta sui tempi Il primo passo è portare il decreto sulle tutele crescenti
alle Camere. Ci arriverà lunedì, annuncia il responsabile economico del Pd
Filippo Taddei, in coppia con il rinnovato sussidio di disoccupazione che
attendeva la bollinatura della Ragioneria generale dello Stato. «Si tratta di un
primo passo importante - spiega -. L'obiettivo è partire a metà febbraio». I
primi effetti sul tasso dei senza lavoro, dice, «si potrebbero iniziare a vedere
dal secondo trimestre dell'anno».
Cosa cambia Grazie alla Naspi, approvata «salvo intese» nel Cdm di Natale,
la platea di chi può beneficiare dell'assegno di disoccupazione si allarga di 700
mila potenziali beneficiari: 300 mila occupati con « carriere discontinue» e
400 mila co-co-pro, visto che il sussidio verrà applicato anche ai
collaboratori. Ma a cambiare, da maggio, sarà anche la durata: fino a 24 mesi.
Le coperture Per la Naspi, in fase di legge di Stabilità, sono stati stanziati
2,2 miliardi di euro per il 2015, altrettanti per il 2016 e 2 miliardi di euro per
il 2017. Soldi che Poletti giudica sufficienti. L'ultimo passaggio, prima del
Cdm chiamato a dare luce verde, è dunque quello nelle commissioni
parlamentari: che hanno trenta giorni di tempo per un parere non vincolante.
«L'unica cosa che chiedevamo è che ci inviassero insieme il decreto sugli
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ammortizzatori e quello sul contratto a tutele crescenti. Se arrivano la
prossima settimana li incardineremo» ma «per i pareri non c'è fretta», dice il
presidente della Commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano, secondo
cui la riforma andrebbe corretta «su tre punti: i licenziamenti collettivi, la
tipizzazione dei licenziamenti disciplinari e l'indennità». La stessa linea di
Pierluigi Bersani: «Credo che già nelle prossime settimane qualche correzione
possa essere fatta».
Il rebus autonomi Resta aperto, invece, il nodo delle partite Iva. Secondo
uno studio della Cna un milione di autonomi si troveranno ad affrontare un
aumento che, in alcuni casi, sfiorerà i 900 euro l'anno. «Bisogna mettere una
toppa, è stato un errore grave», dice la deputata di Ned Barbara Saltamartini.
«Il decreto sul lavoro non avrà effetto - attacca il presidente di
Confassociazioni, Angelo Deiana - finché non vi saranno interventi ad hoc nei
confronti dei professionisti, tartassati dalla Legge di Stabilità». GIUSEPPE
BOTTERO
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IL SOLE 24 ORE
Riforma Fornero. Conclusa al 31 dicembre la fase transitoria dei controlli
sulla monocommittenza, scattano le verifiche con presunzioni automatiche
Tre indici contro le finte partite Iva
Gli ispettori possono fare riferimento a soglie di reddito e di durata per
inquadrare la prestazione
Pagina a cura di Stefano Rossi e Alessandro Rota Porta
Lun. 12 - Sono pienamente applicabili, da quest’anno, le regole introdotte
dalla legge «Fornero» per il contrasto alle false partite Iva. È infatti operativo
il regime che regola la presunzione di subordinazione introdotto dalla legge
92/2012: il 31 dicembre 2014 è scaduto il primo termine biennale (20132014) per il controllo della «monocommittenza», ossia per valutare la
genuinità o meno dei rapporti di lavoro autonomo, in relazione ai parametri
individuati dalla legge. Peraltro, nessuna delle riforme del lavoro varate
successivamente (Dl 76/2013, Dl 34/2014 e legge delega 183/2014 o «Jobs
act») ha modificato l’impianto di queste disposizioni, che entrano ora nel
vivo. L’efficacia delle presunzioni introdotte dalla legge 92/2012 è limitata
alle persone titolari di partita Iva e quindi a coloro che svolgono attività di
impresa individuale di servizi, ovvero ai lavoratori autonomi privi di un
ordinamento o di un iscrizione a un elenco.
Gli elementi sotto la lente
A partire da quest’anno, dunque, gli accertatori hanno a disposizione tutti gli
elementi normativi per vagliare la regolarità delle partite Iva in base ai
“nuovi” parametri: è possibile cioè verificare se si realizzano o meno i
presupposti fissati dalla legge 92/2012 sulla durata del rapporto e sull’entità
dei compensi. Secondo quanto disposto dalla legge «Fornero», scatta la
presunzione di subordinazione delle collaborazioni a partita Iva se si
realizzino almeno due delle seguenti tre condizioni (introdotte nell’articolo
69-bis del Dlgs 276/2003):
- la collaborazione con lo stesso committente ha una durata complessiva
superiore a otto mesi annui per due anni consecutivi;
- il corrispettivo derivante dalla collaborazione, anche se fatturato a più
soggetti riconducibili allo stesso centro d’imputazione di interessi, costituisce
più dell’80% dei corrispettivi annui complessivamente percepiti dal
collaboratore nell’arco di due anni solari consecutivi;
- il collaboratore dispone di una postazione fissa di lavoro presso una delle
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sedi del committente.
Soffermandosi alle prime due ipotesi, bisognerà verificare - ai fini della
genuinità della prestazione autonoma - che nel biennio 2013-2014, la durata
del rapporto non abbia sforato gli otto mesi per ciascun anno e/o che il
corrispettivo percepito non sia stato superiore all’80% dei compensi annui del
lavoratore. Infatti – come ha chiarito la circolare del ministero del Lavoro
32/2012 – con riferimento alla durata, l’arco temporale degli otto mesi va
rapportato a ciascun anno civile. Per quanto riguarda invece il parametro
economico, la disposizione prende come base un arco temporale di due anni
solari consecutivi, ossia due periodi di 365 giorni (vanno computati i
corrispettivi comunque fatturati, indipendentemente dall’effettivo incasso
delle somme). Peraltro, su questo punto, il ministero ha specificato che, se si
fa valere il criterio dell’anno civile, adoperato in relazione alla durata
superiore a otto mesi annui per due anni consecutivi, lo stesso attrae anche il
criterio reddituale. In caso di mancato rispetto degli indici (2 su 3) gli
ispettori, senza compiere ulteriori accertamenti, potranno ascrivere la
collaborazione a partita Iva nell’alveo delle collaborazioni coordinate e
continuative (salvo prova contraria da parte del committente).
Si tratta di una presunzione «semplice», che comporta l’inversione dell’onere
della prova a carico del committente. Se questi, però, non è in grado di
dimostrare l’esistenza di una collaborazione a progetto così come definita
dall’articolo 67 della legge Biagi (Dlgs 276/2003), si presume la natura
subordinata del rapporto, a tempo indeterminato e fin dalla sua costituzione.
Le eccezioni
Se il perimetro che delimita la monocommittenza è stato tracciato con questi
indici, la legge 92/2012 ha lasciato aperta qualche via d’uscita.
Ci sono infatti due esimenti – che si devono realizzare congiuntamente – in
virtù delle quali non scatta la presunzione di co.co.pro:
- quando il lavoratore possiede competenze teoriche elevate o particolari
capacità tecnico-pratiche (la circolare 32 fornisce alcuni esempi);
- quando il lavoratore è titolare di un reddito annuo da lavoro autonomo non
inferiore a 1,25 volte il livello minimo imponibile ai fini del versamento dei
contributi alla gestione Inps commercianti (19.395 euro per il 2014, per il
2015 il limite è da definire).
Restano al riparo dalle modifiche della legge 92/2012 le prestazioni lavorative
svolte nell’esercizio di attività professionali per le quali l’ordinamento
richiede l’iscrizione a un Ordine professionale o a registri, sulle quali è
intervenuto il Dm del 20 dicembre 2012.
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Professionisti. L’appartenenza a un Ordine non esclude la possibilità di usare
altri strumenti di contestazione in caso di ispezione
Dall’iscrizione all’Albo uno «scudo» parziale
Lun. 12 - Anche i professionisti sono coinvolti dal sistema dei controlli
previsti dalla legge 92/2012 sull’impiego delle partite Iva.
Bisogna distinguere due situazioni, a seconda che il lavoratore autonomo sia
iscritto o meno a un Ordine professionale. Se è iscritto, la presunzione relativa
di subordinazione non potrà trovare applicazione, dal momento che il decreto
ministeriale del Lavoro, del 20 dicembre 2012, ha espressamente escluso
queste figure dal regime di verifica. Viceversa, in sede di controllo, gli
ispettori potranno far leva sui parametri disciplinati dalla riforma Fornero.
È bene però ricordare che le disposizioni sulle false partite Iva si riferiscono
esclusivamente al meccanismo della presunzione di subordinazione, ma –
qualora questa non sia utilizzabile – rimangono intatte le altre presunzioni
che gli accertatori potranno eventualmente far valere per ascrivere quel
determinato rapporto di lavoro autonomo nel perimetro di quello
subordinato.
È il caso, ad esempio, dell’impiego di un lavoratore autonomo in possesso di
titolo universitario che percepisca un compenso superiore al limite reddituale
fissato dalla riforma ma esplichi la propria attività senza possibilità di gestire
autonomamente la propria prestazione lavorativa: in questa ipotesi, sebbene
sia derogato il regime di presunzione, potrà comunque essere contestata la
qualificazione del rapporto.
Allo stesso modo, il disconoscimento della natura autonoma simulata potrà
realizzarsi anche in presenza dell’esclusione derogatoria derivante
dall’iscrizione all’Ordine professionale: si pensi a un contratto di
collaborazione autonoma con un ingegnere, a partita Iva appunto, che però,
nella sua esplicazione fattuale, si svolga con tutte le caratteristiche tipiche del
rapporto di lavoro subordinato.
Nonostante, in questo caso, non scatti la presunzione di subordinazione,
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l’accertamento potrà vertere su altre connotazioni, con la conseguenza
sanzionatoria della conversione, salvo prova contraria da parte del
committente.
Non è solo l’ambito ispettivo che può dar luogo a criticità in capo a
quest’ultimo, in caso di prestazioni autonome non genuine: infatti, lo stesso
collaboratore potrebbe ricorrere al sindacato giudiziale per far accertare il
rapporto di lavoro subordinato.
Nel quadro tracciato, in sostanza, si possono individuare due livelli di verifica,
con altrettanti regimi regolatori dell’onere della prova: il primo, in base al
quale - venendo violate le condizioni citate - scatta la presunzione relativa di
subordinazione (preceduta da quella di co.co.pro, qualora sia presente un
progetto individuato secondo i dettami del Dlgs 276/2003); il secondo – di
livello superiore – che trova fondamento nelle regole civilistiche (articolo
2094).
Per concludere, si potrebbe ricorrere all’istituto della certificazione dei
contratti di lavoro, in base al Dlgs 276/2003: di fronte al contratto “vistato”
gli organi di vigilanza non potranno infatti adottare provvedimenti
amministrativi che contrastino con la qualificazione del rapporto certificata e
- in caso di giudizio – il giudice, per qualificare il contratto di lavoro, non
potrà discostarsi dalle valutazioni delle parti espresse in sede di certificazione.
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IL MESSAGGERO
Asili e università, stretta sugli sconti
Nuovo Isee, i beneficiari delle agevolazioni saranno il 20% in meno
dom. 11 - ROMA La riforma dell'Isee era stata avviata a fine 2011 (nel famoso
decreto salva-Italia) con l'obiettivo di rendere più selettivo l'accesso alle
prestazioni sociali, ovvero stanare i "furbi" che accedono gratis ad un asilo o
pagano una retta universitaria ridotta pur essendo tutt'altro che poveri. Tre
anni dopo il nuovo indicatore di situazione economica equivalente è
finalmente entrato in vigore ma nonostante la lunga fase preparatoria non
mancano le difficoltà di applicazione, stando a quando segnalano i Caf.
Proprio dai centri di assistenza fiscale, che sono il principale interfaccia tra il
cittadino e l'Inps (gestore tecnico dell'Isee) arriva la prima stima sulla
riduzione della platea: il numero di persone che usufruisce di prestazioni per
cui è richiesto l'accertamento della situazione economica si ridurrebbe del 20
per cento rispetto al 2014.
PARTENZA LENTA La preoccupazione dei Caf deriva sostanzialmente dal
mancata sottoscrizione della convenzione con l'Inps, in assenza della quale (e
delle relative risorse finanziarie) i centri di assistenza fiscale sostengono di
non poter assicurare il servizio a chi si rivolge a loro per ottenerlo
gratuitamente. Dunque chi ha bisogno subito della certificazione Isee
potrebbe avere qualche problema. Ma secondo Valeriano Canepari,
presidente della consulta dei Caf, c'è dell'altro: già in questi primi giorni
dell'anno ci sarebbero stati casi di cittadini che, venuti a conoscenza dei nuovi
e più stringenti requisiti, rinunciano alle prestazioni agevolate. Le principali
novità riguardano l'inclusione nell'indicatore (a volte chiamato anche
"riccometro") di redditi che in precedenza erano esenti e il maggior peso
attribuito alla componente patrimoniale (a partire dall'abitazione che viene
conteggiata al valore catastale più alto ottenuto con il moltiplicatore usato ai
fini dell'Imu, 160 invece di 100). Inoltre c'è meno spazio per mascherare la
propria effettiva situazione con autodichiarazioni poco veritiere: infatti i dati
inclusi dal cittadinonella nuova dichiarazione sostitutiva unica (Dsu) vengono
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automaticamente confrontati con quelli presenti nell'anagrafe tributaria
gestita dall'Agenzia delle Entrate.
IL COSTO DELLA PRATICA. I Caf calcolano che rispetto ai 6 milioni di persone
che hanno richiesto l'Isee lo scorso anno, la riduzione della platea potrebbe
essere di circa 1,2 milioni. E puntano ad ottenere dallo Stato un corrispettivo
più elevato, 15 euro a pratica invece dei 10-11 del 2014. Quanto alle
convenzioni, nella propria circolare dello scorso 18 dicembre l'Inps spiegava
di stare predisponendo l'apposito schma, a cui poi seguiranno le intese
con i singoli centri di assistenza. Si può quindi immaginare che i tempi, pur se
rapidi, non saranno immediati.
Il nuovo Isee, come già ricordato, ha avuto una gestazione complessa. Dopo la
legge del 2011 sono serviti, circa due anni per la preparazione dello strumento
aggiornato, che è stato poi definito ufficialmente con un decreto del
presidente del Consiglio dei ministri del dicembre 2013 (c'era ancora il
governo Letta). Nel novembre dello scorso anno è infine andato in Gazzetta
ufficiale il provvedimento del ministero del Lavoro che con cui veniva
approvato il modello di dichiarazione sostitutiva unica e di conseguenza
si stabiliva l'operatività dal primo gennaio 2015. Luca Cifoni
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ITALIA OGGI
Da domani sono in vigore una direttiva e un regolamento
Stalking, in Europa protezione trasferibile
Sab. 10 - A partire da domani i cittadini dell'Ue che hanno subito abusi
domestici o stalking potranno viaggiare in sicurezza al di fuori del proprio
paese di origine semplicemente trasferendo l'ordine di protezione che li tutela
dal loro aggressore. In passato le vittime dovevano invece passare attraverso
procedure complesse per estendere gli effetti di una misura di protezione
nazionale agli altri Stati membri dell'Unione europea ed erano costrette ad
avviare una procedura diversa per la certificazione in ciascun paese.
Gli ordini di protezione potranno ora essere riconosciuti facilmente in
qualsiasi Stato membro dell'Ue, il che consentirà alle vittime di violenza di
spostarsi senza dover ricorrere a procedure gravose. Lo ha ricordato ieri con
una nota la Commissione europea spiegando che il nuovo meccanismo consta
di due strumenti distinti: il regolamento relativo al riconoscimento reciproco
delle misure di protezione in materia civile e la direttiva sull'ordine di
protezione europeo, i quali mettono in campo meccanismi che rispecchiano le
differenze che caratterizzano le misure di protezione nazionali degli Stati
membri, che possono essere di natura civile, penale o amministrativa. Grazie
alle nuove norme, quindi, gli ordini di restrizione, protezione e
allontanamento emessi in uno Stato membro saranno riconosciuti in tutta
l'Ue in modo rapido e semplice mediante una semplice certificazione. Entro il
16 novembre 2015, inoltre, diventerà vincolante per gli Stati membri una
direttiva Ue, entrata in vigore nel 2012, che istituisce norme minime in
materia di diritti, sostegno e protezione per le vittime ovunque si trovino
nell'Unione (IP/12/1066). La necessità di assicurare assistenza e protezione
alle vittime è ribadita da una relazione pubblicata ieri dall'Agenzia
dell'Unione europea per i diritti fondamentali (Fra), le cui conclusioni, spiega
la Commissione, «sottolineano il bisogno di servizi di sostegno più mirati.
Nonostante i passi avanti, in molti Stati membri tali servizi devono essere
ulteriormente migliorati. Assicurare alle vittime l'accesso a servizi di sostegno
mirati (compresi il sostegno e la consulenza per i traumi subiti), rimuovere gli
ostacoli burocratici per l'accesso al patrocinio gratuito e fare in modo che le
persone siano informate circa i loro diritti e i servizi disponibili sono alcune
delle proposte concrete di miglioramento».
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IL SOLE 24 ORE
Diritto civile. In vigore il regolamento comunitario per favorire esecuzione e
circolazione delle pronunce
Nella Ue sentenze senza barriere
Cancellati i vincoli procedurali che appesantivano l’applicazione
Sab. 10 - Circolazione rapida delle sentenze. Esecuzione dei provvedimenti
stranieri senza exequatur nello spazio Ue. Certezza giuridica
nell’individuazione del giudice competente. Sono gli obiettivi fissati nel
regolamento n. 1215/2012 sulla competenza giurisdizionale, l’esecuzione e il
riconoscimento delle decisioni in materia civile e commerciale, applicabile da
oggi. Il testo, che modifica il regolamento n. 44/2001, porterà – secondo la
Commissione Ue - a un risparmio annuo fino a 48 milioni di euro.
Un contributo decisivo in questa direzione, a tutto vantaggio delle imprese e
dei consumatori, l’eliminazione dell’exequatur, presente, invece, nel
precedente regolamento almeno per la fase di esecuzione delle pronunce.
Con le nuove regole - che porteranno a un taglio degli oneri, tenendo conto
che il costo stimato per l’exequatur può arrivare fino a 13mila euro - ogni
decisione emessa dalle autorità giurisdizionali di uno Stato membro potrà
circolare liberamente sia con riguardo al riconoscimento delle pronunce sia
per gli effetti esecutivi. Una modifica di grande rilievo rispetto al precedente
regime: in pratica, una decisione emessa dal giudice di uno Stato membro
potrà essere eseguita in un altro Paese Ue come se si trattasse di una
decisione resa dai giudici interni. Senza dimenticare che un creditore potrà
anche chiedere provvedimenti cautelari previsti dalla legge dello Stato
richiesto. Resta ferma la possibilità, per la parte interessata, di opporsi al
riconoscimento e all’esecuzione sulla base dei motivi indicati all’articolo 45.
Spetta a ogni Stato indicare le autorità giurisdizionali competenti a cui deve
essere presentata l’istanza. L’Italia ha affidato il compito per le domande di
diniego dell’esecuzione ai tribunali ordinari. Libera circolazione assicurata
anche per gli atti pubblici che hanno efficacia senza necessità di una
dichiarazione di esecutività.
Nell’ottica di rafforzare la creazione di uno spazio comune, il regolamento
Bruxelles Ibis ha introdotto alcune novità in materia di litispendenza con la
possibilità per il giudice di uno Stato membro di tenere conto dell’esistenza di
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procedimenti tra le stesse persone e gli stessi fatti dinanzi a giudici di Stati
terzi. Con l’obiettivo di evitare la pendenza di procedimenti paralleli e la
successiva adozione di due decisioni incompatibili.
Sul fronte della giurisdizione, novità, ma di minore portata. Resta fermo il
titolo generale di giurisdizione costituito dal domicilio del convenuto, a cui si
affiancano fori alternativi in alcuni settori come, ad esempio, in materia
contrattuale. Mantenuto l’impianto, ma rafforzato il sistema funzionale ad
assicurare la tutela delle parti deboli nei contratti di assicurazione, di
consumo e di lavoro, con norme in materia di competenza più favorevoli
anche nei casi di contenzioso in cui sono coinvolti Paesi terzi. Tra le
competenze speciali, è stata inserita una norma specifica per il recupero di
beni culturali.
Restano ferme le ipotesi di giurisdizione esclusiva nel caso, tra gli altri, di
diritti reali immobiliari e di contratti di locazione di immobili, con
l’affidamento all’autorità giurisdizionale dello Stato membro in cui l’immobile
è situato. Ampio spazio agli accordi di scelta del foro che prescindono dal
domicilio delle parti e che hanno priorità in caso di procedimenti paralleli. Il
testo è integrato dal regolamento n. 542/2014 sulle norme da applicare con
riferimento al Tribunale unificato dei brevetti. Marina Castellaneta
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ITALIA OGGI
Il sottosegretario Ferri parla alla Camera: esistono precise indicazioni dal
Viminale
Nozze gay all'estero cancellate
Sab. 10 - Legittima la cancellazione delle nozze gay, celebrate all'estero. A
chiarirlo il ministero della giustizia rispondendo, per bocca del sottosegretario
Cosimo Maria Ferri, ieri mattina, a un'interpellanza urgente bipartisan
firmata da 32 deputati (di Psi, Pd, Sc e Gruppo Misto). È stato, sottolinea
nell'Aula di Montecitorio, «del tutto appropriato» l'annullamento d'ufficio
disposto dai prefetti delle trascrizioni da parte dei sindaci di alcune città
italiane di unioni civili omosessuali.
Nello scorso ottobre, infatti, il titolare del Viminale Angelino Alfano aveva
inoltrato alle autorità prefettizie un «invito formale al ritiro e alla
cancellazione» delle registrazioni dei matrimoni fra persone dello stesso
sesso, avvenuti in altre nazioni, mediante circolare, avvertendo i comuni che,
«in caso di inerzia», si sarebbe proceduto all'abrogazione degli atti
«illegittimamente adottati», di cui nel testo si evidenziava la «inidoneità a
produrre qualsiasi effetto giuridico nell'ordinamento italiano», nel quale,
com'è noto, tali nozze non sono previste (si veda ItaliaOggi dell'8/10/2014). Il
sindaco «è tenuto, ai sensi dell'art. 9 del dpr 396/2000 a uniformarsi alle
istruzioni che vengono impartite dal ministero dell'interno». E, «allo stato»,
prosegue il sottosegretario, non vi sono «i presupposti né per il ritiro della
circolare, né per la cessazione dell'esercizio dei poteri di annullamento dei
prefetti»; inoltre, l'avvio di iniziative normative sulle unioni omosessuali
«non rientra nei programmi del governo».
Un «attento monitoraggio finalizzato anche all'individuazione di eventuali
correttivi» riguarda, invece, prosegue Ferri, gli esiti della riforma della
geografia giudiziaria (decreto legislativo 155/2012) entrata in vigore nel
settembre del 2013. Il provvedimento, che ha posto i sigilli a sedi di tribunali
«minori», sezioni distaccate ed uffici dei giudici di pace (per un ammontare di
circa 1.000 strutture, in tutta Italia), potrebbe dunque subire ulteriori ritocchi
in considerazione «della specificità territoriale e del bacino d'utenza in alcune
realtà». E tenendo conto, fra i fattori che potrebbe concorrere al ripristino
delle funzioni giudiziarie in talune aree del paese, pure «dell'elevato tasso di
criminalità organizzata». Simona D'Alessio
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IL SOLE 24 ORE
Abuso del diritto. Se i dirigenti lavorano fuori Italia
Non è esterovestita l’attività strutturata
Lun. 12 - Non c’è esterovestizione di una banca se viene provato che l’attività
economica svolta all’estero era dotata di una struttura operativa, oltre che di
mezzi e risorse materiali e personali propri. Nella sede di direzione principale
venivano effettivamente svolti gli affari della banca, sia pure con mezzi
telematici, ed esistevano gli uffici per lo svolgimento degli affari. All’estero si
riuniva il consiglio di amministrazione, lavoravano l’amministratore delegato
e gli altri dirigenti, vi era la tenuta della contabilità e nel Paese straniero la
banca versava le relative imposte. A dirlo, sottolineando queste motivazioni, è
la Ctp di Modena nella sentenza 744/1/2014 del 17 novembre 2014
(presidente e relatore Pederiali).
Durante la verifica, avviata in capo ad un istituto bancario italiano
capogruppo, era stata acquisita la documentazione contabile ed extra per
individuare la sede effettiva dell’amministrazione della banca controllata in
un altro Paese, posseduta dalla capogruppo al 100%, con attività di
negoziazione di strumenti finanziari su piazza mondiale. Per i verificatori vi
erano dei presupposti giuridici per attrarre la residenza del soggetto estero sul
territorio italiano. La stessa amministrazione finanziaria, prima di avviare la
verifica fiscale, le aveva attribuito il numero di partita Iva e il codice fiscale:
così la banca, formalmente residente all’estero, era divenuta soggetto passivo
ai sensi dell’articolo 73 del Tuir.
La verifica iniziata prima sulla capogruppo era poi proseguita nei confronti
della controllata, alla presenza di un membro del board o del Cfc (Credit and
Finance Committe) ritenuto effettivo centro di gestione; alla fine il Pvc era
stato notificato al direttore generale della società estera residente
oltreconfine. A nulla è servita anche l’istanza di procedura amichevole
instaurata successivamente ai sensi dell’articolo 24 del trattato delle doppie
imposizioni, prevista dall’accordo bilaterale dei due Paesi. Nel corso
dell’ispezione era emerso che nel periodo fra il 2005 e 2009 la funzione di
direzione e controllo della società estera era riconducibile alla capogruppo,
dove risultava operante il Cfc organo della società estera esercente in concreto
la direzione e il controllo effettivo della società e composto da tre dirigenti
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della banca (di cui due residenti in Italia).
Per l’Agenzia sussistevano indizi precisi e concordanti di esterovestizione: il
Cfc era collegato all’effettivo organo gestionale con lo scopo di esercitare
l’attività quotidiana e la gestione della società e del consiglio di
amministrazione; per alcune operazioni relative a pagamenti o a contratti era
richiesta la firma di un membro del Cfc e non del consiglio di
amministrazione; tutti i membri del Cfc appartenevano alla banca e due di
questi erano residenti in Italia.
Il giudice ha accolto il ricorso della banca estera e ha affermato che il lavoro
veniva svolto parte in Italia e parte oltreconfine. Alla luce del certificato di
residenza rilasciato dal fisco del Paese dove si riuniva il Cda, è stata data
rilevanza significativa ai fini di prova dell’insussistenza di un attendibile
collegamento con l’Italia, tenendo conto che all’estero erano state pagate tutte
le tasse.
A nulla importa che la direzione e il coordinamento avvenissero tramite il Cfc,
organo ritenuto deputato alla gestione di alcuni affari della banca, ma non
all’amministrazione vera e propria della capogruppo. Inoltre, i membri di tale
comitato erano dirigenti della banca italiana, ma non consiglieri di
quest’ultima.
In tema di libertà di stabilimento, dunque, non si configura abuso del diritto
se viene documentato che la costituzione di una società all’estero non crea
artificio finalizzato a eludere la normativa dello Stato interessato.
Giudo Chiametti
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ITALIA OGGI SETTE
La parcella dell'avvocato al centro di una decisione della Corte di cassazione
Onorari, opposizione segnata
Sentenza o ordinanza: conta la forma scelta dai giudici
Lun. 12 - Per quanto riguarda gli onorari che sono dovuti all'avvocato, al fine
di individuare il regime impugnatorio del provvedimento di opposizione al
decreto ingiuntivo (sentenza oppure ordinanza), assume rilevanza la forma
adottata dal giudice. Questo principio hanno sottolineato i giudici della Corte
di cassazione con la sentenza n. 26163, dello scorso 12 dicembre, su un caso in
cui un avvocato notificava a un suo cliente decreto ingiuntivo
immediatamente esecutivo con precetto, emesso dal giudice di pace per un
importo a titolo di onorario e competenze relative all'attività professionale
svolta. Il cliente con atto di citazione si opponeva sostenendo di aver già
provveduto a saldare il conto. Il gdp dichiarava l'improcedibilità
dell'opposizione. Il tribunale dichiarava inammissibile l'appello del cliente,
per avere la sentenza impugnata natura sostanziale di ordinanza, come tale
inappellabile. La Cassazione osserva che già le sezioni unite hanno, con una
sentenza del 2011 (n. 390), affermato il principio di diritto secondo il quale:
«In tema di opposizione a decreto ingiuntivo, per onorari e altre spettanze
professionali dovute dal cliente al proprio difensore, ai fini dell'individuazione
del regime impugnatorio del provvedimento, sentenza oppure ordinanza
legge n. 794 del 1942, ex art. 30, che ha deciso la controversia, assume
rilevanza la forma adottata dal giudice, ove la stessa sia frutto di una
consapevole scelta, che può essere anche implicita e desumibile dalle
modalità con le quali si è in concreto svolto il relativo procedimento». E
inoltre, anche nel caso in cui il patrono si fosse avvalso del procedimento di
ingiunzione, l'opposizione deve svolgersi, obbligatoriamente, nelle forme
dello speciale procedimento ex artt. 29 e 30 legge 794/42. Il provvedimento
conclusivo, a prescindere dalla forma adottata, ha natura sostanziale di
ordinanza soggetta esclusivamente al ricorso per cassazione ex art. 111 e non
all'appello. Tale principio, però, non può trovare applicazione quando la
controversia non abbia a oggetto solo la determinazione della misura del
compenso, ma si estende ad altri oggetti di accertamento e decisione. Maria
Domanico
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ITALIA OGGI
Nuova sentenza della Cassazione sull'autonomia degli enti di previdenza
Casse autonome dal 2007
Riforma delle pensioni solo per il futuro
Sab. 10 - Casse previdenziali «autonome» dal 1° gennaio 2007. È solo da tale
data, infatti, che le riforme previdenziali possono avere efficacia in senso
peggiorativo nel calcolo della pensione ai professionisti. Prima no, perché fino
al 31 dicembre 2006 i professionisti godono di una tutela pensionistica
massima, grazie all'obbligo per le casse di rispettare il principio del pro-rata.
Successivamente invece gli enti hanno piena autonomia: devono «aver
presente» il principio, ma non rispettarlo necessariamente. Lo stabilisce la
Cassazione accogliendo il ricorso della Cassa dei ragionieri contro le pretese
di un professionista a riposo dal 2008 che aveva contestato il calcolo della
pensione, in senso peggiorativo, dopo la riforma del 2002. Tutto legittimo
stabilisce la corte nella sentenza n. 139 di ieri: dal 1° gennaio 2007, il calcolo
della pensione può disattendere il pro-rata anche sulla base di delibere della
cassa approvate in data precedente.
Il principio del pro-rata. La vicenda non è nuova, inserendosi nella scia di un
contenzioso seriale tra i professionisti e la cassa ragionieri. E non è nuovo
nemmeno l'oggetto del contendere, vale a dire la riforma delle pensioni con
cui la cassa ha stretto i rubinetti passando dal sistema retributivo al
contributivo di calcolo delle pensioni, nonché disciplinando il regime
transitorio (due quote: A retributiva e B contributiva) per i professionisti a
cavallo della riforma. Non è nuovo neppure il principio di riferimento: il prorata (art. 12, comma 3, legge n. 335/1995), una sorta di «salvaguardia» per i
professionisti che si trovano a passare da un regime all'altro di calcolo della
pensione. Tale principio garantisce che al professionista vengano confermate
le aspettative (pensionistiche) nutrite nei periodi in cui ha versato i contributi,
precedentemente a riforme peggiorative.
Il «peso» del pro-rata. In questo contenzioso seriale la giurisprudenza è stata
sempre favorevole ai pensionati, sulla base proprio del principio del pro-rata
ritenuto vincolante per le casse. Con la Finanziaria del 2007 (art. 4, comma
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796, legge n. 296/2006) arriva la modifica: il principio del pro-rata ha smesso
di essere vincolante per le casse (tenute solamente ad «averlo presente», cioè
non più a rispettarlo in modo assoluto) e ha «salvato» le delibere di riforma
già emesse dalle casse. Ma la giurisprudenza ha smontato il teorema
legislativo, che evidentemente mirava a sostenere gli sforzi riformatrici delle
casse: ha sempre sostenuto l'inefficacia delle delibere emesse in data
antecedente alla Finanziaria 2007. L'ultimo tassello è arrivato con la legge n.
147/2013 (legge Stabilità 2014), che ha fornito un'interpretazione autentica
della norma della legge n. 296/2006 e disposto che le delibere già emesse
dalle casse sono legittime ed efficaci a patto di essere finalizzate a garantire
l'equilibrio finanziario di lungo termine. La sentenza di ieri, sulla base di tale
ricostruzione, dà piena legittimità alla riforma che la cassa dei ragionieri ha
fatto nel 2002 e 2003 e, conseguentemente, ritiene corretta anche la
liquidazione della pensione con decorrenza 1° dicembre 2008 (poiché
successiva al 1° gennaio 2007).
Notizia buona (per le casse) perché, tra due precedenti, la sentenza si accoda
all'indirizzo favorevole all'autonomia delle casse previdenziali, ossia alla
sentenza n. 24221/2014. Infatti, sempre la cassazione e sempre l'anno scorso
ha pronunciato un'altra sentenza (la n. 17892/2014) in cui ha affermato il
contrario. Ossia che: a) la non applicazione del principio del pro-rata è lecita
solo ed esclusivamente se prevista da delibere adottate dalle casse dopo il 31
dicembre 2006 (cioè dopo la Finanziaria 2007); b) la disposizione della legge
di Stabilità 2014 non ha valenza retroattiva tale da salvare le delibere emesse
dalle casse precedente al 1° gennaio 2014. Daniele Cirioli
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ITALIA OGGI SETTE
La Cassazione non trascura però l'esistenza di orientamenti meno severi in
materia
Appalto senza concessione ko
Lun. 12 - Il contratto di appalto per la costruzione di un immobile senza
concessione edilizia è nullo, avendo un oggetto illecito, per violazione delle
norme imperative in materia urbanistica e non può essere convalidato in virtù
di una concessione posticipata con effetti retroattivi.
Lo ha stabilito la seconda sezione civile della Corte di cassazione con la
sentenza n. 21350, depositata il 9 ottobre 2014.
Nel caso concreto il proprietario di un terreno alluvionato ha concluso un
contratto di appalto per la realizzazione di un fabbricato da adibire a stalla.
L'appaltatore ha realizzato il lavoro commissionato ma, all'atto della richiesta
di pagamento, si è visto eccepire il rifiuto del committente. All'imprenditore
non è rimasto che rivolgersi al giudice ordinario, il quale ha concesso un
decreto ingiuntivo per la somma dei lavori pattuita dai due contraenti. Il
committente si è prontamente opposto al decreto spiegando il perché non
volesse onorare i suoi debiti: da un lato, ha osservato come il contratto di
appalto fosse nullo a cagione della mancanza del permesso di costruire per
realizzare la stalla; dall'altro ha sottolineato al giudice l'inadempimento
dell'appaltatore, reo di avergli consegnato l'opera finita con grande ritardo.
L'opposto si è difeso rimarcando che l'assenza del permesso fosse circostanza
nota fin dall'inizio, e comunque irregolarità sanata con effetto retroattivo
dalla concessione successivamente rilasciata dall'ente; quanto al ritardo nella
consegna, invece, il costruttore ha insistito nel ribadire che questo non poteva
essergli addebitato perché dovuto alle condizioni climatiche che avevano reso
impossibile il rispetto delle tempistiche.
Il tribunale, con sentenza confermata in sede di appello, ha rigettato
l'opposizione del committente. Per entrambi i giudici di merito, infatti,
doveva escludersi la nullità del contratto di appalto, essendo stato accertato
che la concessione edilizia, già richiesta prima dell'inizio dei lavori, era stata
rilasciata posticipatamente, con efficacia retroattiva e con idoneità, anche in
ipotesi di concessione in sanatoria, a determinare l'estinzione del reato di
abuso edilizio, in relazione all'accertamento di conformità e di non contrasto
delle opere in questione con lo strumento urbanistico vigente.
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Il committente, fermo nel non voler onorare il proprio debito, si è rivolto, in
ultima istanza, alla Suprema corte di cassazione cui è stato chiesto
l'annullamento della sentenza della Corte territoriale. Il proprietario ha
insistito nel ribadire la nullità del contratto stipulato finanche in presenza
della concessione retroattiva, stante l'impossibilità di procede alla convalida
di un contratto nullo. Di talché, ha osservato la difesa del costruttore, una
cosa sono gli effetti prodotti dalla concessione sul piano amministrativo e
penale, altro è la validità del contratto a monte.
Gli Ermellini, nel dare ragione al ricorrente, hanno tacciato di erroneità
l'apprezzamento svolto dalla Corte d'appello: la concessione edilizia, infatti,
non può sopperire anche all'invalidità originaria cui va affetto il contratto
d'appalto per l'esecuzione di lavori. La decisione dei giudici di secondo grado,
secondo la Corte, si pone in contrasto con il principio, già in passato
affermato, secondo cui «il contratto di appalto per la costruzione di un
immobile senza concessione edilizia è nullo, ai sensi degli artt. 1346 e 1418
c.c., avendo un oggetto illecito, per violazione delle norme imperative in
materia urbanistica, con la conseguenza che tale nullità, una volta verificatasi,
impedisce sin dall'origine al contratto di produrre gli effetti suoi propri e ne
impedisce anche la convalida ai sensi dell'art. 1423 c.c.».
La Corte non trascura l'esistenza di orientamenti meno severi in materia:
alcune Corti, in particolare, hanno precisato che «l'illiceità del contratto di
appalto è ravvisabile solo ove esso sia, di fatto, eseguito in carenza di
concessione e non pure per il solo fatto che quest'ultima sia rilasciata dopo la
data della stipulazione del contratto, di appalto, ma prima della realizzazione
dell'opera». In questi caso, si osserva, non sarebbe conforme alla «mens
legis» la sanzione di nullità di un contratto il cui adempimento sia stato, per
espressa volontà delle parti, posposto al previo ottenimento della concessione
o autorizzazione richiesta. Nella vicenda in esame, tuttavia, la concessione
edilizia era pervenuta quando i lavori erano stati da tempo eseguiti. Non si
verteva, quindi, nel caso di contratto sospensivamente condizionato, in forza
di presupposizione, al previo ottenimento dell'atto amministrativo, mancante
al momento della relativa stipulazione, bensì in quello di contratto
interamente eseguito cui ha fatto seguito il provvedimento autorizzatorio. Per
questo motivo la Corte ha rigettato il ricorso, per l'effetto affermando la
nullità del contratto e ribadendo, ai fini civilistici, la totale irrilevanza
dell'estinzione dell'illecito penale per abusivismo edilizio. Antonio Ciccia e
Alessio Ubaldi
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Cassazione. Errori nell’iter di licenziamento
Risale in cattedra il prof condannato per sesso con minore
Sab. 10 - Milano. Anche se condannato in maniera definitiva per atti
sessuali con una minore il docente non può essere licenziato. A mancare
è infatti l’indispensabile procedimento disciplinare. Con questa
argomentazione la Cassazione ha confermato il giudizio della Corte d’appello
che, in sintonia con il verdetto di primo grado, aveva annullato la risoluzione
del rapporto di lavoro. Il professore era stato condannato, nel 2003, per il
reato previsto dall’articolo 609 quater del Codice penali, atti sessuali con
minorenne con la concessione però della sospensione condizionale e della non
menzione della pena. Una volta passata in giudicato la sentenza però,
l’amministrazione scolastica, con una nota dell’ottobre 2007 aveva disposto il
licenziamento.
Di fronte all’impugnazione della misura da parte del professore, le pronunce
di merito gli erano entrambe favorevoli, stabilendo l’illegittimità della
decisione del Miur. La risoluzione immediata del rapporto infatti, secondo i
giudici di appello, non poteva avere a fondamento la condanna penale, visto
che, quando erano stati commessi i fatti sanzionati, l’articolo 609 nonies del
Codice penale (sulle pene accessorie e le altre conseguenze penali della
commissione del reato) non prevedeva come conseguenza la misura
accessoria dell’interdizione perpetua da ogni incarico nelle scuole di ogni
ordine e grado, introdotta invece solo nel 2006 con la legge n. 38.
Inoltre, sottolineavano i giudici, la condanna per un reato anche grave, non
poteva legittimare, da sola, la procedura di licenziamento, se non attraverso la
preventiva apertura di un procedimento disciplinare che, nel caso esaminato,
era invece stata assolutamente trascurata. In sovrappiù, si ricordava che la
concessione della sospensione condizionale della pena si estende anche alle
misure accessorie: così, neppure con la versione attuale dell’articolo 609
nonies del Codice penale, l’amministrazione scolastica sarebbe stata
legittimata a intimare il licenziamento senza l’avvio del precedente
procedimento
disciplinare.
Ora, a chiudere il cerchio, la Cassazione conferma l’impianto del verdetto
della Corte d’appello, malgrado il ricorso presentato dal Ministero che aveva
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messo in evidenza come il licenziamento fosse fondato anche su una
valutazione della gravità dei fatti commessi nell’ambito dello svolgimento
dell’attività di insegnamento. Per la sentenza n. 8 della Sezione lavoro,
depositata il 5 gennaio, però, a contare sono i vizi procedurali che rendono
inapplicabile l'interdizione perpetua a fatti commessi a un’altezza di tempo
nella quale questa era esclusa e l’assenza del necessario procedimento
disciplinare.
Elementi questi ultimi sui quali, ricorda la Cassazione, da parte del Ministero
non è arrivata nessuna censura specifica, rendendo quindi di fatto impossibile
una nuova valutazione in sede di legittimità. Giovanni Negri
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Cassazione. Verifica minima sulla consistenza per escludere responsabilità
Fornitori «vigili» sulle lettere d’intento
Dom. 11 - La ricezione della lettera d’intento non esonera il cedente dal
verificarne l’effettiva consistenza. Il fornitore dell’esportatore abituale
non è, infatti, responsabile del mancato addebito dell’imposta se dimostra di
avere esperito una minima indagine sull’apparente veridicità della lettera
d’intento, oltre al mancato coinvolgimento nell’attività fraudolenta del
cessionario. È quanto emerge dalla sentenza 176/2015 della Cassazione. Tali
oneri si aggiungono al controllo telematico a cui è tenuto il fornitore in
seguito alle modifiche introdotte dal Dlgs 175/2014.
I giudici di legittimità ricordano che – in base a un orientamento pressoché
univoco – il regime di non imponibilità scatta con l’emissione della lettera
d’intento da parte dell’esportatore, mentre il cedente, una volta riscontratane
la conformità alle disposizioni di legge, non è tenuto a eseguire alcun altro
controllo, rimanendo a carico di chi emette tale dichiarazione la
responsabilità, anche penale, dell’eventuale falsità (Cassazione 21956/2010).
Tuttavia, la giurisprudenza ha ulteriormente affermato che il cedente deve
anche dimostrare, in caso di dichiarazioni ideologicamente false, l’assenza di
un proprio coinvolgimento nell’attività fraudolenta e di essersi comportato
come un diligente operatore economico.
Pertanto, la responsabilità del fornitore dell’esportatore abituale che ha
emesso una lettera d’intento falsa può essere esclusa se è in grado di
dimostrare di aver compiuto una (seppur) limitata indagine per cercare di
comprendere se tale dichiarazione sia almeno in apparenza veritiera o
fraudolenta (si veda in proposito «Il Sole 24 Ore» del 19 novembre scorso). Di
fatto, il fornitore deve provare di essersi comportato in modo diligente, per
“assicurarsi” di non aver partecipato a una frode. Alle stesse conclusioni è
pervenuta anche la Corte di gisutizia Ue, seppur con una diversa distribuzione
dell’onere probatorio (cause C-80/11 e C-142/11).
La sentenza 176/2015 accoglie il ricorso delle Entrate, e rinviano a un’altra
sezione della Ctr Sicilia, in quanto nel procedimento di appello non erano
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state adeguatamente considerate né la falsità ideologica della dichiarazione
d’intento né la ragionevole consapevolezza di ciò in capo al cedente.
A tale incombenza, ossia la seppur minima attività ispettiva da parte del
fornitore dell’esportatore abituale sulla veridicità della lettera d’intento
ricevuta, si aggiungono anche quelle previste dall’articolo 20 del Dlgs
175/2014. Ora il fornitore dell’esportatore abituale che riceve la lettera
d’intento e la relativa ricevuta è tenuto all’effettuazione del suo riscontro
telematico, ossia al riscontro della corrispondenza tra il documento ricevuto e
quanto trasmesso prima dall’esportatore abituale alle Entrate. Il riscontro si
va a sommare all’onere di riepilogare nella dichiarazione annuale Iva le
operazioni effettuate in regime di non imponibilità nell’anno. Allo stesso
tempo, però, il fornitore non è più esposto alla smisurata sanzione che veniva
in precedenza comminata in caso di dimenticanza di invio della
comunicazione delle lettere d’intento ricevute. Matteo Balzanelli Massimo
Sirri
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IL SOLE 24 ORE
Condominio
Rumore, dai tribunali tutela rafforzata
Lun. 12 - Hanno diritto a far interrompere le immissioni di rumore e a
ottenere il risarcimento del danno (sia patrimoniale che non patrimoniale) i
condomini nei cui appartamenti si propagano rumori provenienti
dall’impianto di riscaldamento condominiale che superano la «normale
tollerabilità». Pertanto non è necessario verificare il rispetto o meno dei limiti
riportati nel Dpcm del 5 dicembre 1997 dedicato alle immissioni sonore
provenienti da impianti interni all’edificio. Lo ha chiarito la Cassazione con la
sentenza 23283 del 31 ottobre 2014.
La Cassazione ricorda che «l’articolo 844 del Codice civile è uno strumento di
tutela che consente di ottenere la cessazione del comportamento lesivo», oltre
al risarcimento del danno conseguente alla lesione del diritto di proprietà
nonché «al risarcimento del danno non patrimoniale ove siano stati lesi i
valori della persona, in particolare, della salute di chi ha il diritto di godere il
bene compromesso dall’emissione». Per la Cassazione non conta la
circostanza che l’impianto di riscaldamento fosse a norma e mantenuto a
regola d’arte «da personale tecnico qualificato».
Quindi, il Dpcm del 5 dicembre 1997 è irrilevante nei rapporti tra privati. Se la
Corte accerta che le immissioni sono intollerabili in base all’articolo 844 del
Codice civile scatta in automatico la responsabilità prevista dall’articolo 2043
del Codice civile e il connesso risarcimento del danno e non serve, pertanto, la
prova di un comportamento doloso o colposo del condominio. Di
conseguenza, per la Cassazione, la normativa di diritto pubblico (cioè il
Dpcm) fissa solo le linee guida generali per la tutela dell’interesse collettivo.
La situazione, in ogni caso, è più complessa di come appare. Infatti, l’articolo
6-ter del decreto legge 208/2008 stabilisce che «nell’accertare la normale
tollerabilità delle immissioni e delle emissioni acustiche, ai sensi dell’articolo
844 del Codice civile, sono fatte salve in ogni caso le disposizioni di legge e i
regolamenti che disciplinano sorgenti e la priorità di un determinato uso». La
formulazione può apparire oscura, ma il suo obiettivo è chiaro: privilegiare la
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normativa in materia acustica, che nel caso in esame sarebbe il Dpcm del
1997, rispetto ai criteri abitualmente impiegati in sede civilistica.
La sentenza 23283 segue altre due pronunce della Cassazione del medesimo
tenore, vale a dire la 2319/2011 e la 939/2011, confermando un orientamento
che elimina le certezze create dal Dl 208/2008. Le due sentenze del 2011, in
realtà, fanno riferimento a cause iniziate prima dell’entrata in vigore del Dl
208/2008; nelle loro motivazioni non citano il Dl e quindi non affrontano
l’apparente incongruenza tra le decisioni e la nuova legge. La conseguenza di
questo “garbuglio” normativo è stata l’incremento della litigiosità sul tema
delle immissioni sonore, poiché il criterio della “tollerabilità” rende nella
pratica intollerabile qualunque rumore appena avvertibile.
Sul tema si attendono ora le nuove disposizioni del Governo, che con la Legge
europea 2013-bis (legge 161/2014) ha ricevuto la delega per adeguarsi alle
regole europee sull’inquinamento acustico, inclusa la semplificazione delle
procedure autorizzative in materia di requisiti acustici passivi degli edifici.
Ezio Rendina
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